I colori del vento di Lua93 (/viewuser.php?uid=99761)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1# ***
Capitolo 3: *** 2# ***
Capitolo 4: *** 3# ***
Capitolo 5: *** 4# ***
Capitolo 6: *** 5# ***
Capitolo 7: *** 6# ***
Capitolo 8: *** 7# ***
Capitolo 9: *** 8# ***
Capitolo 10: *** 9# ***
Capitolo 11: *** 10# ***
Capitolo 12: *** 11# ***
Capitolo 13: *** 12# ***
Capitolo 14: *** 13# ***
Capitolo 15: *** 14# ***
Capitolo 16: *** 15# ***
Capitolo 17: *** 16# ***
Capitolo 1 *** Prefazione ***
Prefazione
Prefazione
Quando
il sole calava all’orizzonte, il buio
avvolgeva
ogni cosa.
Quello che durante il giorno veniva riscaldato dai
torbidi raggi, la notte si trasformava, diventando gelo penetrante e
sconvolgente. Piccoli granelli che formavano interi chilometri di
terrificante
deserto. Tutto scompariva dietro quelle dune innevate di sabbia. E
quando
calava la notte, la luna sembrava l’unica cosa capace di
nascondermi dalle
tenebre. Dipingeva il cielo di un pallido alabastro, e sembrava
così vicina da
poterla sfiorare, accarezzarne le rotondità, i suoi crateri,
il suo essere così
affascinante e influenzante. La luna inseguiva l’infinito,
dietro una coltre di
inaspettati.
Il vento soffiava, tutte le notti. Bussava impetuoso alle
porte degli abitanti, come a voler chiedere riparo anche da se stesso.
Avvolgeva ogni cosa, trascinandola lontano, verso terre sconosciute.
Terre piene di mistero, racconti da mille e una notte,
capaci d’impressionare e suscitare sensazioni mai provate
prima. Quello che si
viveva durante il giorno, si riviveva la notte, sotto forma di incubi
dalle sembianze
di sogni innocenti.
La luna si colorava sempre di un candido rossore, da
prima delicato, come il petalo di una rosa, per poi trasformarsi in
sangue
vivo. E rivedevo in quelle notti i volti di tutti gli uomini, di tutti
i
bambini, che cessavano di vivere durante le ore diurne.
Sentivo scorrere il loro sangue sulla mia pelle, le loro
lacrime mischiate alle mie. Le urla rimbombavano nella mia testa, versi
animaleschi segno di un terribile dolore, di una lenta agonia.
Vedere morire innocenti, riuscendone a salvare sempre di
meno, era il mio lavoro.
Ricucire ferite profonde sui corpi dei soldati, amputare
gambe a bambini che non avevano corso abbastanza, e che purtroppo non
sarebbero
più stati in grado di farlo, era il mio lavoro.
Leggere il dolore e la sofferenza negli occhi delle madri
che perdevano i propri figli e sapere di essere impotenti, era il mio
lavoro.
Cercare di salvare più vite umane possibili, era il mio
lavoro.
Solo questo era il mio lavoro, il mio compito, non mi era
concesso altro.
Innamorarmi del Tenente Edward Cullen, questo non era
affatto un mio dovere.
*Pseudo
autrice*
Cosa ci faccio
qui? Bella domanda
me la sono posta pure io un paio di volte, ma purtroppo per voi
liberarsi di me non sarà molto facile.
Quello che avete
appena letto
è la prefazione di una mia nuova storia, potete ritenervi
però fortunati, perchè sarà composta
solo da 6
capitoli. Quindi non vi ruberò neppure tanto tempo.
Di cosa
parlerà? Bè
non posso di certo anticiparvi tutta la trama, però posso
dirvi
che i nostri protagonisti si trovano nell'Emirato del Kuwait, durante la Seconda
Guerra del Golfo, siamo quindi ai giorni nostri possiamo dire. In
realtà la storia è ambientata nel 2003 e
intercambierà fatti davvero accaduti con fantasia.
Non posso
anticiparvi nulla, se
volete scoprire come si svolgeranno i fatti non vi resta che continuare
a leggere la storia. Il primo capitolo verrà postato tra una
settimana e così sarà per tutti gli altri. Un
appuntamento settimanale. Diciamo che è più una
mia
comodità, se mi stabilisco un giorno in cui devo postare,
è molto più facile che lo rispetti.
Detto questo,
passo e chiudo, dandovi direttamente appuntamento alla prossima
settimana.
Ringraziando
già anticipatamente chi deciderà di seguirmi.
P.s Il nuovo
capitolo di Buskers è in fase di scrittura, per arrivare ci
vorrà la prossima settimana.
Lua93.
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Capitolo 2 *** 1# ***
1#
1
3 Marzo 2003. Base Americana,
distanza da Kuwait City 4 chilometri.
Il
rumore degli
elicotteri che sorvolavano il cielo, era l’unico suono
percepibile nell’arco di chilometri. I raggi del sole
bruciavano
a contatto con la superficie degli abiti leggeri che indossavo, e a
ogni respiro mi sembrava di prendere fuoco.
Era una terra
torbida quella in
cui ci trovavamo, insidiosa e pericolosa. Sembrava nascondere pericoli
dietro ogni duna del deserto, e l’afa sembrava sua alleata.
Ci trovavamo nella
base
americana, distante pochi chilometri dal Kuwait, città
islamica,
poco distante dal Golfo Persiano. Benché il mare si trovasse
a
meno di venti chilometri, il terreno era piuttosto arido e privo di
qualsiasi tipo di vegetazione. Sarei impazzita presto, se non mi
avessero dato subito qualcosa da fare.
Mi trovavo da
più di
trenta minuti nel capanno medico allestito dai soldati Americani, come
base di ricovero per i soldati e i civili feriti durante gli attentati.
C’era un silenzio surreale e nessuno dei presenti
sembrava
avere intenzione di proferire parola.
Eravamo atterrati
da più
di due ore, ma la maggior parte del tempo l’avevamo impiegato
per
arrivare dalla pista di atterraggio alla base militare. Era stato un
viaggio lungo quello sulla Jeep. Più volte fummo costretti a
fermarci e cambiare percorso per confondere le tracce dei pneumatici
sulla strada. Ci era stato detto che non c’era bisogno di
preoccuparsi, che presto avremmo raggiunto la base e allora ambientarci
sarebbe stato facile. Ma non fu affatto così.
Eravamo partiti in
cinque, da
Seattle. Tutti infermieri, eccetto me. Unica dottoressa presente nella
stanza. Aspettavamo con trepida agitazione l’arrivo del
Dottor
Dexter Smith, il chirurgo presente all’interno del campo. Io
sarei stata la sua sola aiutante, l’unica almeno altamente
qualificata da poter reggere lo sforzo fisico e mentale.
Il resto dello
staff medico era composto prevalentemente da infermieri e volontari
della croce rossa.
C’era chi
si trovava
lì per scelta, chi per obbligo, e poi c’ero io che
avevo
deciso di partire solo per completare la mia formazione. Lavorare
direttamente sul campo era molto meglio che fare tanti anni da gavetta.
Non era la scelta più giusta, in effetti ero stata chiamata
pazza più volte, ma raggiungere la zona di guerra e aiutare
i
nostri soldati, mi riempiva di orgoglio. Ero giovane, questo lo sapevo
bene, ma volenterosa, avrei imparato in fretta.
Seduta accanto a
me, c’era
una ragazza dai lunghi capelli dorati, legati in una coda alta, che le
scoprivano il candido collo. Aveva la carnagione chiara, ricoperta di
lentiggini, sembrava troppo delicata per riuscire a resistere in un
posto come quello. Eppure nei suoi occhi brillava una luce di
determinazione che non avevo mai visto prima.
Nessuno sembrava
avere intenzione di alzarsi o muoversi, ci trovavamo tutti seduti
intorno a un tavolo in attesa di direttive.
Ero completamente
sfinita,
eppure non feci neppure un passo in direzione della porta, ma attesi
pazientemente che si aprisse. E quando finalmente accadde, la figura
alta e robusta del Dottor Smith, comparve in tutta la sua fierezza.
Era un uomo
piuttosto avanti con
gli anni, ma con una forza che avrebbe fatto invidia a molti giovani
presenti nel campo. Era stato il mio professore
all’università dal primo semestre fino al giorno
della mia
laurea. Era stato lui a chiedermi di partire. Diceva che i soldati
americani avevano bisogno di un valido sostituto in caso gli fosse
successo qualcosa, così dopo tante parole e altrettante
riflessioni, accettai il suo invito. Avrei completato la
specializzazione e salvato vite umane, cosa potevo volere di
più
dalla vita?
Ma
l’ambizione mi
offuscava la vista, e benché sapessi di essere in una terra
straniera piena di pericoli e nel bel mezzo di una guerra, la paura non
aveva ancora preso a scorrermi nelle vene.
«Buongiorno
ragazzi, e
benvenuti nella base americana del Kuwait.» Disse a gran
voce,
come se avesse paura che non lo potessimo sentire. Tutti ci alzammo in
piedi, salutando il dottore con una stretta di mano. Quando mi
avvicinai a lui mi strinse forte in un abbraccio, «sono
felice di
vederti Isabella.» Mi sussurrò
all’orecchio,
facendomi poi voltare verso gli altri ragazzi.
«Lei
è la mia
assistente, la dottoressa Isabella Swan, laureata da poco in medicina e
chirurgia con il massimo dei voti.» Mi presentò,
facendomi
arrossire.
Quando
finì di presentarci, ci fece accomodare intorno al tavolo,
portando con sé un paio di cartelle cliniche.
«Allora
ragazzi, lo so
bene che il viaggio è stato lungo e stressante, ma qui ogni
secondo è prezioso e perdere tempo è un lusso che
non
possiamo permetterci.» Si sedette capo tavola, sistemandosi
il
camice bianco. Tutti noi l’imitammo, osservando ogni suo
movimento.
Posò le
cartelle cliniche
si poggiò con le braccia sul tavolo, reggendosi sui gomiti.
«Qui non ci troviamo in America, le leggi non valgono quando
si
è in guerra, ma questo non significa che ci si deve
comportare
da animali. Ognuno di noi ha diritto di esporre la propria opinione e
aiutare quanto più possibile gli è concesso,
senza
però, intralciare in alcun modo il lavoro dei
militari.»
Ci disse autoritario, corrugando la fronte, come se stesse pensando.
In quel momento la
porta alle
nostre spalle si spalancò mostrandoci un ombra
dall’aspetto minaccioso, tutti noi ci voltammo incuriositi,
ma
l’unica certezza era che miei occhi avrebbero visto
quell’uomo sempre in maniera diversa rispetto alle altre
persone
presenti.
L’uomo
era un soldato,
probabilmente un ufficiale dato che indossava più medaglie
sul
petto. Era alto, molto alto, con un fisico asciutto ma non
eccessivamente robusto. I muscoli delle braccia e delle gambe erano
fasciati da una divisa militare verde, che ricalcava perfettamente le
forme del suo fisico. Quando i miei occhi misero a fuoco il suo viso,
una strana sensazione si fece spazio dentro di me. Quell’uomo
non
aveva due semplici occhi, ma gemme preziose, di un verde brillante, che
veniva risaltato ancora di più dalla luce potente delle
lampade
al neon. Aveva i capelli di uno strano colore, sembrava biondo scuro,
simile al rame, con ciuffi che parevano ribellarsi a qualsiasi
tentativo di sistemazione.
Non disse nulla, ma
i suoi occhi
si posarono su ognuno di noi, come a volerci esaminare. Quando i nostri
occhi s’incontrarono per la prima volta, fui pervasa da un
brivido violento che percorse tutta la mia spina dorsale.
Così
fui costretta ad abbassare lo sguardo, intimorita.
Il dottore Smith
gli sorrise
amichevolmente, «Tenente, stavo dando il benvenuto al nuovo
staff.» Gli disse facendolo avvicinare.
Più si
avvicinava e più i suoi lineamenti si mostravano ai miei
occhi,
e non vi trovai imperfezione in quel viso stanco. Se da lontano poteva
sembrare un uomo dall’età avanzata a causa della
sua
imponenza, da vicino dimostrava poco più della mia
età.
«Cos’è
successo agli infermieri precedenti?» domandò con
voce
ferma la ragazza bionda. Sembrava esausta ma non aveva alcuna
intenzione di abbandonarsi al sonno.
Il Tenente la
fissò in
silenzio un paio di secondi, poi le rispose facendo tremare ogni cosa
con la sua voce. «Sono morti in un attentato avvenuto cinque
giorni fa.»
I mie occhi si
spalancarono,
«tutti?» domandai con un sussurro, ma il Tenente
sembrò sentirlo, e quando si voltò verso di me,
non
riuscii a fare altro che reggere il suo ammaliante sguardo.
«No, si
sono salvate solo due infermiere.» Mi rispose distogliendo
quasi subito lo sguardo.
Mi passai una mano
sul viso,
costatando di essere leggermente sudata, avevo urgente bisogno di una
doccia. Sapevo di avere un aspetto orribile e impresentabile.
«Ragazzi
non vi fare
prendere dal panico, il Tenente Cullen è un ottimo soldato.
Non
si teme nessun pericolo con lui nelle vicinanze.» Disse in
tono
sarcastico Dexter, cercando di smorzare un po’
l’aria
satura di agitazione.
Il Tenente Cullen
fece un
sorriso sghembo, cambiando completamente espressione. Quando sorrideva
il suo viso sembrava brillare di un'altra luce. Così serio e
autoritario, già sapevo che sarebbero stati rari i suoi
sorrisi.
«Ero
venuto a dirti che
abbiamo un nuovo ferito, questa volta si tratta di un civile.
L’ospedale della città è pieno ormai, e
il Sergente
Hale non se l’è sentita di abbandonarlo al proprio
destino.» Disse il Tenente rivolgendosi al Dottore. Dexter
annuì, sollevando lo sguardo verso di noi.
«Vedete
signori, la noia
non vi assalirà mai qui.» Ci sorrise rassicurante,
«Signorina Swan tu venga insieme a me e il Tenente Edward
Cullen,
gli altri possono benissimo congedarsi. Fuori troverete le
vostre
valigie e un soldato che vi accompagnerà nei
dormitori.»
C’informò allungando verso gli infermieri una
cartella
clinica per ognuno. «Questi da domani saranno i vostri
pazienti,
il vostro compito sarà prendervi cura di loro, la loro vita
è nelle vostre mani.» Gli sorrise, poi con un
gesto del
capo li congedò. In meno di due minuti tutti furono fuori
dalla
stanza, eccetto io, Dexter e il Tenente Edward Cullen.
«Edward
lei è la
mia nuova assistente, la dottoressa Isabella Swan.» Disse il
dottor Smith, presentandomi al Tenente. L’uomo
allungò ma
mano verso di me, e quando ricambiai la stretta, mi resi conto di non
avere neppure un briciolo della forza sia fisica che morale del
Tenente. La sua era una stretta forte, autoritaria, la sua mano
avvolgeva la mia completamente.
«E’
un chirurgo anche lei?» Mi domandò ritraendo la
mano.
Distolsi lo sguardo
dai suoi occhi, facendo un grosso respiro,
«esattamente.»
Mi voltai verso
Dexter
passandomi una mano tra i capelli appiccicati sulla fronte a causa del
troppo caldo, «potrei sapere dove si trova il
bagno?» Gli
domandai imbarazzata.
Dexter
annuì
immediatamente, rendendosi conto solo adesso che ero reduce di un lungo
viaggio, «ma certo Isabella, il bagno si trova proprio dietro
quella porta, » sorrise indicandomela, «io e il
Tenente
l’aspettiamo qui.»
Ricambiai il
sorriso, voltandomi
verso la porta che mi era stata indicata, quando finalmente la chiusi
oltre le mie spalle rilasciai un sonoro respiro. Sembrava impossibile,
eppure sentivo ancora addosso gli occhi chiari del Tenente Cullen.
Mi metteva
soggezione il modo in
cui mi fissava, come se cercasse di scovare qualcosa, forse era una mia
impressione, forse ero solamente troppo stanca per riuscire a mettere
in fila anche solo un pensiero coerente. Eppure il Dottor Smith mi
voleva con lui, al suo fianco, di certo non potevo deluderlo proprio il
primo giorno. Dovevo dare il massimo, da subito.
Mi avvicinai
lentamente al lavello, rimanendo sconvolta quando guardai la mia
immagine riflessa allo specchio.
I capelli erano un
ammasso
uniforme lucidi e appiccicosi, riconobbi tra le ciocche alcuni granelli
di sabbia, che cercai di levare con un po’ d’acqua.
Quando
mi resi conto che solo uno shampoo li avrebbe tolti completamente,
decisi di legarli in una coda alta. Mi sciacquai il viso più
volte, massaggiandomi la nuca con la mano bagnata. Quando riacquistai
un aspetto più dignitoso uscii dal bagno, ritrovandomi
davanti i
due uomini.
Il Dottore Smith ci
fece segno
di avvicinarci alla porta e insieme uscimmo fuori dalla piccola stanza
raggiungendo un lungo corridoio. «In questa camera ci sono
tutti
i medicinali, mentre in quella accanto i macchinari per le
operazioni.» Mi spiegò mostrandomi ogni stanza con
accurata gentilezza. Il tenente Cullen ci seguiva come un ombra,
camminando dietro di noi. Non mi voltai mai a controllare se ci fosse
ancora o se invece, si fosse allontanato, sentivo i suoi occhi
perforarmi la spina dorsale. Ero quindi certa che non ci avesse
lasciati.
«Dov’è
la
sala operatoria?» domandai perplessa a Dexter.
Quest’ultimo
scoppiò in una fragorosa risata, seguito dal Tenente. Io
rimasi
in silenzio, sentendomi improvvisamente una nullità. Era
ovvio
che non c’era una sala operatoria, ci trovavamo in un
accampamento arrangiato. Le persone venivano operate dove capitava,
l’importante era salvarle le loro vite. Nessuno dei pazienti
sarebbe rimasto a lungo nel campo, chi era gravemente ferito sarebbe
stato trasferito poi in una struttura specializzata o il più
delle volte rimpatriato.
Così
fece un sorriso, dandomi della stupida da sola.
«Tranquilla
Isabella, sei
appena arrivata, il caldo gioca brutti scherzi. Adesso andiamo, il tuo
primo paziente ti aspetta.» Mi disse dolcemente il Dottore
Dexter, accompagnandomi in una sala piena di letti vuoti.
«Forse
è meglio se
siete voi, Dexter, a visitare il soldato Browne. La dottoressa mi
sembra piuttosto affaticata.» Disse improvvisamente il
Tenente,
guardandomi.
Ricambia il suo
sguardo,
«è vero sono stanca, ma questo non
influirà sulla
diagnosi. Posso benissimo rimanere in piedi anche tutta la notte se
necessario.» Gli risposi, lanciandogli un occhiataccia.
Il Tenente distolse
lo sguardo,
«ricordatevi queste parole Dottoressa Swan, perché
diventeranno realtà molto presto.»
Il Dottor Smith,
sembrava non
essersi accorto dell’improvviso cambiamento d’aria
avvenuto
nella stanza. Il Tenente Cullen stava deliberatamente offendendo le mie
capacità di Medico, e questo non gliel’avrei mai
permesso.
«E’
il mio lavoro, salvare più vite umane possibili.»
Sibilai mantenendo il contatto visivo tra di noi.
«Una cosa
che ci accomuna
Dottoressa, si dia il caso che questo sia anche il mio di
lavoro.» Mi rispose in tono autoritario, come se gli desse
fastidio che qualcuno si rivolgesse a lui con quel tono.
Evitai di
rispondergli,
voltandomi verso Dexter, «allora, dov’è
il
paziente?» Gli domandai ignorando il Tenente alle mie spalle.
Il Dottor Smith si
voltò
verso Il Tenete Cullen, «portalo qui Edward, e chiamami
l’infermiera Brandon, ci sarà bisogno anche di
lei.»
Gli disse conciso.
Il Tenente
annuì al
Dottore prima di uscire dalla stanza, e proprio quando era sulla sogli
della porta si voltò verso di me, lanciandomi uno sguardo di
sfida.
Dexter fece una
risatina
sommessa, «prevedo grandi battaglie anche dentro la
base.»
Disse guardandomi, «avanti Isabella prendi il primo camice
che
trovi e non dimenticarlo in giro, di questi tempo anche la divisa
sembra scomparire nel nulla.»
Così ebbe inizio il mio primo giorno alla Base.
Eccomi tornata
con il primo capitolo, ringrazio tutte le ragazze che hanno inserito la
storia tra le seguite/preferite e ricordare. Grazie davvero.
Spero che il
capitolo possa piacere, ci vediamo la settimana prossima con il secondo.
Per qualsiasi
dubbio non esitate a contattarmi :)
Lua93
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Capitolo 3 *** 2# ***
2#
Consiglio di
leggere questo capitolo ascoltando questa canzone Room of Angel
2
10 Marzo 2003
Di notte, le dune
del deserto inghiottivano i rumori del giorno, riflettendo sulla
pallida luna
un silenzio quasi irreale.
Dalla finestrella
del mio dormitorio, riuscivo a vederla. Sempre intera, sempre perfetta.
Qui sembravano non
esistere le fasi lunari, ogni notte era sempre la stessa. Incombeva su
di noi,
come una regina silenziosa che avanzava verso il suo popolo.
Se allungavo un dito riuscivo a ricamarne i contorni,
quasi come se fosse a pochi centimetri di distanza. E solo in questa
terra
arida e desolata, il mio pollice riusciva a coprirla completamente.
Sul comodino,
accanto al mio letto, avevo posato una cornice d’argento,
vuota. L’avevo
portata con me, come compagna di viaggio.
Era stata mia
madre a regalarmela, diversi anni prima, quando ancora il mio futuro
era una
macchia monocolore su un’enorme tela bianca.
“Qui dentro
voglio che metta la foto più bella che possiedi, Isabella.
Quella che
rappresenti la tua vita.”
Era una donna
speciale mia madre. Forse con la testa troppo in alto, tra i pianeti e
le
asteroidi. Aveva un suo modo di vedere le cose, diverso da tutti gli
altri, ma
non per questo sbagliato.
Ogni notte, prima
di abbandonarmi al sonno, fissavo la cornice vuota, riflettendo sulla
foto che
avrei voluto metterci. Ma ogni notte, il sonno mi strappava dai
rumorosi
pensieri, prima che riuscissi a decidere.
La verità era che
la mia vita non aveva ancora scattato la giusta foto che meritava di
essere
scelta. E preferivo guardare lo sfondo nero della cornice, piuttosto
che una
foto che non aveva significato.
Credevo di
poterla riempire con tutte le immagini che vedevo durante il giorno.
Perché da
quanto ero lì, non vi era giorno in cui non scoprissi nuove
terrificanti verità,
e non vi erano notti in cui anche con le palpebre abbassate smettessi
di
vedere.
Cercai di
addormentarmi, distogliendo lo sguardo dalla cornice e posandolo invece
sul
letto vuoto accanto al mio.
Era ormai una
settimana che condividevo il mio dormitorio con una ragazza. Si
chiamava Alice
Brandon, era un infermiera della Croce Rossa. Lei aveva passato la
maggior
parte della sua giovane vita a bendare feriti ed amputare gambe.
Alice era una di
quelle ragazze dall’aspetto minuto e fragile, ma dal
carattere esplosivo e
inarrestabile. All’interno del campo lavorava senza mai
fermarsi neppure un
minuto. E durante le trasferte dall’ospedale civile
all’ospedale di campo era
sempre l’unica a voler partire senza che le venisse imposto
di farlo.
Non avevamo parlato
molto durante quella settimana, neppure quando eravamo da sole
all’interno del
dormitorio. Alice non trascorreva mai la notte dentro la stanza, nel
suo letto.
Allungai un
braccio verso il comodino bianco, afferrando la sveglia prima che
potesse
cadere per terra, a causa di un mio movimento brusco e scoordinato.
Segnava le
undici di notte.
Posai un ultima
volta lo sguardo sul letto vuoto accanto al mio e poi sulla cornice,
prima di
abbandonarmi tra le braccia di Morfeo.
Il rumore di una
serratura che veniva aperta mi fece sobbalzare. Spalancai gli occhi,
fissando la
figura che lentamente entrava dentro la stanza.
Mi passai una
mano sul viso, sollevandomi leggermente per poterla vedere meglio.
Alice si era
appena chiusa la porta alle sue spalle, camminando in punta di piedi
per non
svegliarmi. Ma quando i suoi occhi chiari si scontrarono con i miei
scuri e
stanchi, smise di camminare.
«Sei sveglia.»
Bisbigliò lasciando scivolare le scarpe bianche sul
pavimento, accanto al suo
letto.
Annuì
distogliendo lo sguardo dalla sua figura, per poter leggere
l’orario.
«Sono le
cinque.» Mi sussurrò facendo qualche passo verso
il suo letto.
Ignorai le sue
parole e lessi ugualmente l’orario. La sveglia segnava le
cinque e tre minuti.
Ritornai sulla
figura esile di Alice, osservando i suoi movimenti.
«Perché ti
rimetti a letto?» le domandai a bassa voce.
Non c’era nessun
altro nella stanza a parte noi due, eppure entrambe evitavamo di
parlare ad
alta voce. Questo non accadeva solo la notte, ma pure il giorno.
Più che altro era
una mia paura, quella che se avessimo urlato qualcuno ci avrebbe
sentito e non
avrebbe esitato neppure un attimo a spararci.
Era una paura
stupida e irrazionale, ma quando si viveva in un campo colmo di
militari e
fucili anche la cosa più ovvia e scontata diventava dubbiosa.
«Non ho dormito
molto questa notte.» Mi sorrise infilandosi, completamente
vestita, sotto le
coperte.
Mi sollevai dal
letto, mettendomi seduta, «non avete paura di essere
scoperti?» le domandai
afferrando un elastico dal cassetto del comodino, legando i
miei capelli in
una coda alta.
Alice sbadigliò,
«tenere una relazione segreta è difficile, ma
altamente eccitante.»
Ridacchiai
alzandomi dal letto e prendendo il mio borsone.
«Il Tenente
Cullen mi ha visto uscire dal dormitorio di Jasper.»
Bisbigliò lentamente.
Io mi bloccai,
voltandomi immediatamente verso di lei. Alice mi fissava con aria
innocente,
mentre cercava di reprimere una risata.
«Vi ha visto
insieme?» gli domandai avvicinandomi al suo letto, sedendomi
accanto alle sue
gambe.
Alice scosse la
testa, sospirando contro il cuscino, «avevamo già
finito da un pezzo.» Disse
con tono malizioso.
Io sollevai lo
sguardo al soffitto, facendo un grosso respiro, «ti ha detto
qualcosa?» le
chiesi osservandola.
«Voleva sapere
cosa ci facevo nel suo dormitorio.»
«E tu cosa gli
hai risposto?» le domandai incuriosita.
Alice mi sorrise
ammiccando, «che non è l’unico a dormire
in quella stanza e che non ero lì per
lui.»
Mi sollevai dal
suo letto, dandole le spalle. Con passo veloce
e deciso raggiunsi il mio letto e il mio borsone, dove
presi
l’asciugamano e il bagnoschiuma.
«Credi abbia
capito?» le chiesi senza voltarmi.
«Che mi scopo il
Sergente Hale?» domandò e dal suo tono notai una
certa ironia.
Mi voltai verso
di lei, stringendo al petto l’asciugamano,
«più o meno.» Le sorrisi.
Alice scoppiò a
ridere, «io e Jasper ci amiamo e anche se è
severamente vietato avere relazioni
all’interno del campo, soprattutto tra stretti collaboratori,
noi continuiamo a
fare l’amore tutte le notti.» Mi disse risoluta,
socchiudendo gli occhi.
Attesi un paio di
secondi, poi mi allontanai dal letto e raggiunsi la porta.
«Pensi che ci
saranno conseguenze?» le chiesi aprendo la porta.
Alice teneva
ancora gli occhi chiusi quando mi rispose, «sotto
quell’aria da duro il Tenente
Cullen ha un cuore che batte e anche piuttosto velocemente.»
Mi rispose.
La vidi voltarsi
dall’altra parte così chiusi la porta del
dormitorio alle mie spalle,
raggiungendo il bagno riservato alle donne, poco lontano dal mio
dormitorio.
Lasciai che i miei
muscoli si sciogliessero a contato con l’acqua calda della
doccia.
Quello che noi
chiamavamo bagno era in realtà una piccola costruzione in
cemento, che
accoglieva due piccole docce, tre lavandini e un solo water.
Le donne presenti
nel campo erano solo cinque, compresa me. Avevo avuto modo di
conoscerle
durante la cena di accoglienza avvenuta una settimana prima. Dexter me
le aveva
presentate ufficialmente. Tre sarebbero state mie colleghe, tra cui
Alice
Brandon, l’infermiera sopravvissuta all’attentato
in cui il precedente corpo
ospedaliero era morto. Le altre due erano infermiere, tra queste
c’era la
ragazza bionda con le lentiggini che era partita con me
dall’America, si chiamava Jessica.
Le altre donne
erano invece due militari.
Erano rare le
occasioni in cui c’incontravamo in bagno, solitamente
perché io ero sempre la
prima ad alzarmi la mattina presto, raggiungendo le docce per prima.
L’acqua che
bagnava il mio corpo era rugosa, sembrava tagliare la mia pelle al solo
contatto. Non era acqua pulita come poteva esserla quella delle nostre
case in
America. In Islam le condizioni di vita erano piuttosto precarie,
così come lo
erano le condizioni igieniche. Prima di immergermi sotto la doccia, la
lasciavo
scorrere diversi minuti, per liberarla dai granelli di sabbia che
durante la
notte il vento spingeva dentro le cisterne.
Ogni volta era
come se non mi fossi lavata, come se la mia pelle puzzasse ancora di
epidermide
bruciata e sangue. E più strofinavo, più
l’odore di morte si appiccicava sul
mio corpo.
La prima volta
che un paziente morì tra le mie braccia non sono riuscita a
reprimere i
singhiozzi. Così mi sono ritrovata con il volto ricoperto di
lacrime e le
braccia di Alice avvolte intorno al mio corpo in una stretta
rassicurante.
Sarei dovuta
essere forte, ma non ero ancora pronta a questo. E probabilmente non lo
sarei
mai stata.
Ora però, a
distanza di sette giorni, quando un paziente dalle condizioni critiche
si
affidava alle mie cure, sapevo che neanche il massimo sarebbe bastato a
salvargli la vita. E i
loro occhi, anche se chiusi per sempre, li vedevo ancora fissarmi. Non
sarei mai riuscita a smetterla di sentirmi in colpa, ma la guerra non
guardava in faccia nessuno, e chi ero
io per impedire alla morte di compiere il proprio destino?
Non sempre i miei
pazienti sopravvivevano agli interventi, ma quando invece accadeva,
nessuno
poteva togliermi il buon umore. E rivederli sorridere era la gioia
più grande
che avessi mai provato in venticinque anni di vita.
Uscii dalla
doccia avvolta solo da un asciugamano.
Il caldo
asfissiante si appiccicò subito sulla mia pelle, che in meno
di due minuti si
ritrovò completamente asciutta. Mi rivestii velocemente,
indossando la mia
divisa blu, con il camice bianco.
Quando ritornai
nel mio dormitorio per riporre l’asciugamano e il
bagnoschiuma, trovai il letto
di Alice integro, come se nessuno ci avesse dormito. Sollevai lo
sguardo verso
il mio letto, e notai la stessa cosa. Anche le mie lenzuola erano state
sistemate. La stanza era vuota, segno che Alice era già
uscita.
Sorrisi
involontariamente, quella ragazza era davvero speciale.
Quella mattina
non mi presentai in sala mensa. Avevo lo stomaco chiuso e se solo
avessi
provato a riempirlo ero certa, avrei rimesso tutto.
Erano rare le
mattine in cui riuscivo ad ingerire qualcosa. Da quando ero
lì , il mio stomaco
non ne voleva proprio sapere d’ingerire cibo. Così
mi ritrovai sotto di due
chili in solo una settimana.
Camminavo lungo
il campo con passo svelto e deciso, salutando chiunque mi sorridesse o
mi
chiamasse per nome.
Dentro il campo
era come vivere in
una grande famiglia.
Tutti si aiutavano a vicenda e non mi era mai capitato di vedere
qualcuno
litigare. Anche quando si doveva aspettare e rispettare la fila per
poter
telefonare a casa, avendo dentro il campo solo tre cabine telefoniche,
nessuno
era scorbutico o maleducato. Era come se vivere all’interno
dell’inferno avesse
creato una piccola oasi paradisiaca.
Jessica Stanley,
l’infermiera bionda partita con me, gridò il mio
nome, sollevando un braccio
per attirare la mia attenzione.
«Ehi Bella, puoi
dire a Dexter che farò cinque minuti di ritardo?»
Mi urlò dalla finestrella del
suo dormitorio.
Io mi avvicinai
di qualche passo per risponderle, «come mai?»
Jessica mi mostrò
un assorbente, «ospiti indesiderati.» Sorrise.
Io scoppiai a
ridere, «tranquilla ti copro io.»
Mi mimò un grazie
con le labbra, prima di scomparire dentro la stanza.
Ripresi a
camminare sotto il sole cocente, con le mani nelle tasche del camice.
Notai un
ombra poco distante da me, e quando sollevai lo sguardo per capire chi
ci fosse
accanto a me, smisi di respirare. Due intensi occhi verdi mi scrutavano
attentamente.
«Tenente,
buongiorno.» Bisbigliai deglutendo rumorosamente.
Quell’uomo aveva
il potere di destabilizzarmi. Qualsiasi cosa facessi con lui accanto mi
veniva
male, iniziavo a innervosirmi ed ero costretta ad allontanarmi.
«Buongiorno a lei
Dottoressa Swan. Anche oggi non è venuta a fare
colazione!» Mi fece notare,
sostenendo la mia andatura senza troppi problemi.
Mi voltai verso
di lui, sgranando gli occhi per lo stupore, «adesso mi
controlla, Tenente?»
Sibilai elettrizzata e infastidita nello stesso tempo.
Edward scosse la
testa, evitando qualsiasi espressione, «chiunque in questo
campo si è accorto
delle sue malsane abitudini alimentari.»
Ridacchiai
falsamente, «sono un dottore, conosco le
conseguenze.» Gli risposi, costretta a
fermarmi per far passare una Jeep.
Il Tenente mi
imitò, nascondendo le mani dentro le tasche del pantalone
verde militare.
«Non metto in
dubbio le sue buone qualità di medico, ma anche lei
avrà notato che da
quando è arrivata ha perso visibilmente peso.»
Lo fulminai con
lo sguardo, «Tenente esattamente lei che cosa vuole? Non mi
vorrà di certo dire
che si sta preoccupando per la mia saluta.» Gli dissi
digrignando i denti.
Quell’uomo aveva
un modo di porsi con me che mi faceva saltare i nervi.
E la cosa che più
mi infastidiva e che lui si comportava così, solo nei miei
confronti, con tutte
le altre persone presenti nel campo, manteneva si un comportamento
altero e
impenetrabile, ma le rispondeva sempre molto educatamente.
«No.» Rispose
freddo, «non m’interessa la sua salute, ma
quella dei miei soldati si. E se
lei non è nel pieno delle sue forze e capacità,
come crede di poter aiutare gli
altri?» mi domandò inchiodandomi con i suoi
impenetrabili occhi verdi.
Aprii la bocca
come a voler replicare, ma le mie labbra si erano fatte improvvisamente
secche
e dalla mia gola sembrava non voler uscire nessun suono.
«Smettetela di
fare la preziosa Dottoressa, qui ci si deve adeguare. Il suo stomaco
la ringrazierà
anche se lo riempirete di sabbia.» Continuò
duramente.
Mi morsi il
labbro inferiore per evitare di urlargli in faccia. Le mani iniziarono
a
prudere, e venni invasa da un incredibile calore. Avrei tanto voluto
prenderlo
a schiaffi.
«Quando imparerete
che cos’è l’educazione sarà
davvero
troppo tardi, Tenente.» Sibilai allontanandomi da lui senza
neppure salutarlo.
Il Dottore Smith
mi sorrise allegramente, non appena mi vide entrare.
«Isabella, sei
sempre la prima.» Ridacchiò allungandomi una tazza
di caffè bollente. Io lo
ringraziai iniziando a berlo con piccoli sorsi.
«Jessica farà
cinque minuti di ritardo.» Gli dissi posando la tazza sul
tavolo, mentre
prendevo la cartella clinica di John White, il soldato che due giorni
prima era
stato colpito alla gamba sinistro. Era stato operato
d’urgenza, per sua fortuna
il proiettile non aveva intaccato nessun muscolo e avrebbe ripreso a
camminare
senza complicazioni.
«Oggi niente
visite mattutine per te.» Mi disse catturando la mia
attenzione.
«Come mai?»
Chiesi bevendo un altro sorso di caffè.
Dexter si sollevò
dalla sedia, afferrando una borsa a tracolla, «dobbiamo
andare all’ospedale
civile del Kuwait. Due civili sono in gravi condizioni e lì
non hanno più
posto.» Mi spiegò prendendo dalle mie mani la
tazza di caffè, finendo il
contenuto in pochi secondi.
Lo guardai truce,
«come mai dobbiamo?»
«Perché è il
nostro lavoro Isabella, anche se sono civili stranieri e non soldati
americani,
noi abbiamo il dovere-»
Sbuffai
sollevando gli occhi verso il soffitto, «io intendevo
perché devo venire anche
io, mi avete sempre detto che era troppo pericoloso per una novellina
come me.»
Gli spiegai posando la cartella clinica di White sul tavolo.
Dexter scosse la
testa, «oggi ho avuto un’illuminazione e ho detto
“Isabella deve toccare con
mano la realtà fuori da questo campo”.»
Ridacchiò allontanandosi dal tavolo.
«Quindi vengo
pure io?»
«Esatto. Andiamo,
fuori c’è già la Jeep che ci sta
aspettando.»
Lo seguì
controvoglia, ricordandomi solo adesso di Jessica.
«Ma non dobbiamo
aspettare Jessica? Di solito non è lei ad
accompagnarvi?» gli domandai mentre
uscivamo dal campo ospedaliero.
Non appena vidi
chi era presente dentro la Jeep un sonoro sospiro uscii dalla mia bocca
senza
che potessi fare nulla per evitarlo.
«Oggi verrete tu
e Alice con me.» Mi rispose mentre apriva lo sportello
anteriore della Jeep e
prendeva posto accanto al conducente.
Alice mi sorrise
allungando una mano per aiutarmi a salire. Ma invece della sua mano,
dovetti
prendere quella del Tenente Cullen che si era offerto gentilmente
di aiutarmi. Quando gli fui accanto lo ringraziai, ma
come ben immaginavo non ottenni nessuna risposta da parte sua.
Sospirai
lanciando un occhiata d’avvertimento ad Alice. Non ero certa
delle sue parole.
Forse il tenente Edward Cullen il suo cuore l’aveva venduto a
qualche
petroliere arabo.
L’ultima volta
che avevo percorso questa strada, era stata una settimana prima, quando
ancora
la mia pelle profumava di fragole e i miei occhi non si erano
contaminati. A distanza
di sette giorni, mi ero vista la mia vita cambiare.
Il terreno era
sconnesso, pieno di ghiaia che graffiava le ruote della Jeep. Il vento
caldo
trasportava profumi provenienti dalla cittadina, poco distante da noi.
Tenere gli occhi
aperti era quasi impossibile, i granelli di sabbia erano troppo sottili
e fitti
per non infastidire gli occhi. Così tenevo la testa bassa, e
in silenzio
ascoltavo il Dottor Dexter e il tenente Cullen discutere sulle
procedure.
Alice indossava
un paio di occhiali da sole e sembrava piuttosto al suo agio davanti al
Tenente. I due non si erano scambiati nessuna parola, solo qualche
occhiataccia
da parte di lui, ma che non ottenne nessuna risposta. Alice si
voltò verso di
me, catturando la mia attenzione allungandomi un paio di occhiali da
sole.
«Prendi questi.»
Mi sorrise.
La ringraziai,
indossandoli immediatamente.
«La Jeep ci
lascerà proprio davanti l’ingresso
dell’ospedale, ma ci aspetterà sul
retro.»
Disse il Tenente Cullen, rivolgendosi a Dexter, «dovrete
essere veloci, non
avendo nessuna scorta con noi siamo soggetti facili.»
Continuò posando lo
sguardo sulle dune del deserto.
Come me indossava
un paio di occhiali da sole, con le lenti nere. Per mia fortuna era
impossibile
vedere i suoi occhi.
«Non ci saranno
problemi, prenderemo i due civili e torneremo alla base.»
Rispose
immediatamente Dexter, annuendo alla sua stessa affermazione.
Alice nel
frattempo m’indicava la strada, dicendomi che una volta
svoltata quell’ultima
duna, Kuwait sarebbe stata visibile ai nostri occhi.
«Accelerate.»
Sibilò il Tenente, rivolgendosi al soldato che guidava la
Jeep.
Io mi voltai
verso Alice avvicinandomi al suo orecchio, «perché
il Tenente è così nervoso?»
gli domandai sussurrando.
Alice smise di
sorridere, «stavamo percorrendo questa strada, quando la
seconda Jeep
contenente lo staff medico è stata
bombardata.»Bisbigliò passandosi una mano
tra i corti capelli neri.
«In quanti siete
sopravvissuti?»
«Solo in quattro,
io e il dottor Smith eravamo in un'altra Jeep insieme al Tenente.
Quando è
avvenuta l’esplosione, Edward ha ordinato di fare retro
front.» Mi spiegò
sussurrando.
Mi voltai verso
Il Tenente Cullen, osservando il suo viso. Teneva le labbra sigillate,
lo
sguardo fisso davanti a sé. Così duro e freddo,
si era plasmato una solida
corazza intorno al suo corpo, impossibile da valicare.
«Mi dispiace
tanto.» Farfugliai abbassando lo sguardo.
Alice posò una
mano sul mio braccio, «questa è la guerra,
purtroppo.»
Per il resto del
tragitto non proferì più alcuna parola. Lasciai
che i miei occhi si riempissero
di tutte quelle immagini, di tutta quella terra, di quel deserto. La
pelle la
sentivo scottare sotto i raggi solari e il vento era l’unico
rimedio a
quell’insostenibile afa.
«Guarda!» Mi disse
improvvisamente Alice, indicandomi un gruppo di bambini Palestinesi che
ci
correvano incontro.
Inizia a
sorridere, guardandomi intorno.
Le case erano
costruzioni fatte di pietra e calce di un colore giallognolo. Non
possedevano
tetti, ma terrazze rettangolari piene di panni e tendoni. I bambini
sembravano
spensierati o solo ottimi attori.
In lontananza
vidi un gruppo di donne vestite di nero, con indosso lunghi burqa che
m’impedivano di riconoscerne i tratti. Una di loro strinse
più forte il suo bambino
tra le braccia, quando ci vide passare.
Parlavano ad alta
voce, in una lingua a me sconosciuta.
Voltandomi
dall’altra parte vidi due soldati Italiani allontanare un
uomo. Urlavano anche
loro.
Mi strinsi
involontariamente ad Alice, che notando il mio cambiamento,
cercò di
rassicurarmi, sorridendomi allegramente. «Quante cose si
perdono i
telespettatori da casa, vero?» ridacchiò Alice,
passandomi una mano intorno
alla spalla.
Il Tenente Cullen
si voltò verso di noi, i nostri occhi
s’incontrarono, e benché entrambi
nascosti dalle lenti scure, sentii il suo sguardo sciogliere la
plastica nera.
«Siamo quasi
arrivati.» Ci disse con tono fermo.
Alice annuì,
cercando di distrarmi, indicandomi un mercato dove vi erano solo donne,
«dici
che una cosa del genere mi donerebbe?» mi chiese.
Io mi voltai
verso di lei, «intendi il burqa?»
«Si, se ci
fossero di più colori sarebbero più carini non
credi?»
Io la fissai
allibita, «ti priverebbe di tutti i tuoi diritti, se
l’indossassi. Nessuno ti
riconoscerebbe più, e tu diventeresti solo una macchia in
mezzo a tante altre
macchie. Quei vestiti, distruggono l’immagine della
donna.» Sibilai incolore.
Alice mi guardò
dispiaciuta. Stava per dire qualcosa, ma entrambe sobbalzammo quando
sentimmo
il motore della jeep spegnersi.
Il Tenente Cullen
scese dalla Jeep con un piccolo salto, controllando che la zona fosse
tranquilla. Poi fece scendere tutti gli altri.
Quando ci
trovammo dentro l’ospedale, un odore acre e nauseabondo
invase le mie narici.
Levai gli occhiali, guardandomi intorno, cercando di capire da dove
provenisse.
Anche gli altri m’imitarono, posando gli occhiali dentro la
borsa o in tasca.
«Qui non esistono
gli obitori, i cadaveri rimangono dove muoiono fin quando non passa il
sacerdote a benedirli. Affidando la loro anima ad Allah.»
Mi voltai
spaventata, quando sentii la voce profonda del Tenente sussurrarmi
all’orecchio.
«E’ disumano
vivere così.» Controbattei guardando un enorme
fila di donne con in braccio i
loro bambini sanguinanti.
«E’ la guerra.»
Rispose semplicemente, distogliendo lo sguardo.
Eravamo rimasti
solo noi cinque, il soldato che ci aveva condotto fin qui era rimasto
all’esterno, dove ci avrebbe aspettato. Mentre il secondo
militare era sceso con noi.
Il Dottor Smith
si bloccò guardandoci, «i due civili si trovano in
stanze differenti. Uno è in
attesa di essere operato, l’altro è già
passato sotto i bisturi ma richiede
un'altra operazione, che qui purtroppo non sono in grado di
fare.» Disse in
tono duro.
Non l’avevo mai
visto così preoccupato.
Eravamo come
topolini dispersi in un enorme gabbia piena di serpenti.
«Ci conviene
dividerci.» Suggerì Alice, rivolgendosi a Dexter.
Quest’ultimo
annuì, concordando con Alice, «io, Alice e Garrett
andiamo a cercare Abdel Nasser,
l’uomo che deve essere operato.»
Disse inflessibile, guardando prima il soldato Garrett e poi il Tenente.
«Mentre tu
Isabella andrai con Edward
al piano
superiore, il nome del ragazzo è Jaffar Issam, ha quindici
anni. E’ senza un
braccio, sarà facile riconoscerlo.»
Continuò.
Io e il Tenente
annuimmo.
«Tra venti minuti
ci troviamo tutti e cinque nel parcheggio posteriore. Con o senza i due
civili.» Disse duro Edward, sciogliendo le nostre postazioni.
In meno di due
minuti eravamo già al piano superiore a cercare Jaffar.
Senza rendermene
conto, ci ritrovammo uno accanto all’altro, senza che nessuno
proferisse
parola.
Edward Cullen era
un militare. Era un cittadino Americano che aveva deciso di servire il
suo
paese, combattendo. I suoi occhi erano colmi di un passato pieno di
tristezza e
dolore che non potevo neppure lontanamente immaginare.
Non potevo capire il perchè dei suoi moti di rabbia, o i
suoi improvvisi cambiamenti d'umore. Tra tutti gli uomini presenti nel
campo, lui era il più enigmatico e difficile da
interpretare.
«Proviamo a
chiedere a qualche infermiera.» Suggerì indicando
una donna con indosso
l’uniforme da infermiera. Il Tenente però mi
bloccò prima che potessi
avvicinarmi, stringendo la sua mano intorno al mio polso.
Mi voltai verso
di lui, spaventata.
«Non chieda
nulla a nessuno.»
Io lo fissai
allibita, «e come facciamo a trovarlo? Usiamo i super
poteri?» domandai
ironicamente.
Edward mi lanciò
un occhiataccia. «Il ragazzo in questione ha tentato di
salvare un militare
americano durante una sparatoria. I suoi cittadini lo vogliono
morto.»
«Allora perché è
qui? Non è pericoloso?»
Il Tenente
sollevò lo sguardo dai miei occhi, notando una figura che si
stava avvicinando
a noi.
Sobbalzai quando
sentii una voce parlarci. Non era americano, ma neppure arabo.
Lo guardai negli
occhi, era un soldato italiano, che cercava di parlare in inglese.
Edward lo bloccò,
parlandogli in un italiano perfetto.
Ci furono diversi
scambi di battute, in cui l’unica parola che capì
fu il nome di Jaffar. Il
militare c’indicò un lungo corridoio.
Il Tenente lo
congedò in italiano, poi si rivolse a me, «da
questa parte.»
Edward mi strinse
forte la mano, mentre camminavamo con passo spedito lungo il corridoio,
quando
entrammo nella stanza che gli era stata indicata dal cittadino
italiano, non
riuscii a fare altro che chiudere gli occhi.
La stanza era
piena di cadaveri, la maggior parte coperti da lenzuoli bianchi, ma da
molti
lettini penzolavano braccia e gambe dei defunti.
Edward mi lasciò
sulla soglia della porta, sollevando uno ad uno i lenzuoli per guardare
i
corpi. Stava cercando Jaffar.
Lo fissai incredula, osservando i suoi movimenti agili. Ogni
terminazione nervosa del suo corpo irradiava agitazione e tensione. Non
si voltò neppure una volta verso di me. L'unica cosa che io
riuscivo a fare era guardarlo cercare il corpo del ragazzo.
Posai la testa sullo stipide della porta, stringendo le mani a pugno,
così forte da far diventare le nocche bianche.
Quando il Tenente sollevò
l’ultimo lenzuolo, i suoi occhi divennero il riflesso del
dolore. Mi avvicinai
a lui, fissando il corpo senza vita di un ragazzo senza un braccio.
Il Tenente mi
fece voltare, «andiamo via. Subito.» Disse furioso.
In un primo
momento non riuscii a capire il perché di
quell’improvviso moto di rabbia, ma
quando nell’aria iniziò a vibrare il rumore di
colpi d’arma da fuoco, il mio
cuore iniziò a pompare più sangue del necessario.
Le mie gambe
iniziarono a tremare e se non ci fosse stata la presa salda del Tenente
sarei
caduta sul freddo pavimento bianco.
«Sapevano del
nostro arrivo. Maledetti Iracheni!» Disse digrignando i denti.
In meno di un
secondo lo vidi stringere tra le mani la mitragliatrice, mentre faceva
qualche
passo verso la porta.
«Si nasconda e non esca fin quando non glielo dirò
io.» Mi disse
duramente.
Feci come mi
aveva ordinato, accovacciandomi dietro un tavolo pieno di bisturi
sporchi di
sangue. Cercai di non farmi assalire dalla paura e restai in ascolto.
Quando sollevai
lo sguardo, Edward non era più nella stanza.
Improvvisamente
prima che potessi prendere una decisione, sentii rumorosi colpi
provenire da
fuori la stanza. Qualcuno armato era entrato dentro
l’ospedale, con l’intento
di ucciderci.
I miei pensieri
corsero subito a Alice e al Dottor Smith che si trovavano al piano di
sotto. Se
fosse successo qualcosa ad Alice, ero certa, il sergente Hale si
sarebbe
vendicato anche da solo, ma se fosse successo qualcosa a Dexter, tutto
quello
che stavamo facendo in quella terra sarebbe stato inutile.
Involontariamente strinsi forte le braccia intorno alle gambe,
nascondendo il volto tra le ginocchia. L'eco assordante dei proiettili
era come una colata di lava bollente. Ero invasa da un calore estraneo
al mio corpo, avvolta da una bolla di paura che m'impediva di respirare.
Ero circondata da corpi senza vita, e dentro di me, sentivo la mia
anima spezzarsi in due, stramazzando al suolo come un uomo colpito
dalle morte più crudele.
I rumori d’arma
da fuoco cessarono all'improvviso e sentii alcuni passi avvicinarsi.
Il mio cuore
iniziò a battere all’impazzata, sentivo i battiti
rimbombare dentro le
orecchie, risuonarmi fin dentro la testa. Quando sollevai la testa, e
incontrai
gli occhi scuri di un ragazzo con in mano una mitragliatrice, ogni
pensiero
svanì.
Non esisteva
più nessuno.
C'ero solo io e questo ragazzo sconosciuto, dall'aspetto troppo fragile
e dal sorriso deformato.
Non c'era più neppure la mia famiglia
che aspettava una mia telefonata.
La luna, lo sapevo, non
sarebbe stata più di colore alabastro.
La cornice non
sarebbe mai stata riempita.
Il ragazzo mi
urlò qualcosa in arabo, ma per quanto mi sforzassi di capire
non riuscivo a
comprenderlo.
Mi puntò l’arma
sulla fronte, ed era pronto ad uccidermi, senza pensarci troppo.
L’avrebbe fatto
senza neppure sapere il mio nome.
Indossava una maglietta di lino bianca, priva di qualsiasi forma di
protezione. Le mani stringevano il grilletto, ma le braccia sembravano
così sottili che sarebbe bastato poco a spezzarle.
Continuò ad urlarmi contro, fin quando non sentii il
rumore di uno sparò e fui certa di essere morta.
Così chiusi gli occhi, non avrei
mai voluto vedere altro sangue, non se questo fosse stato il mio.
Ma quando non
sentii alcun dolore provenire dal mio corpo, aprii gli occhi,
ritrovandomi il
corpo del ragazzo addosso, e lo sguardo del Tenente Edward Cullen
fissarmi
spaventato.
«Sta bene?» mi
sussurrò.
Non l’avevo mai
sentito parlare con quel tono di voce, così dolce e
preoccupato.
Mi aiutò ad
alzarmi, stringendomi in un abbraccio protettivo.
«Tranquilla, adesso andiamo
via.» Ero ancora completamente sotto
shock, quando non so come, riuscimmo a raggiungere la Jeep.
Il Tenente mi
aiutò ad entrare, e subito il mio corpo venne assalito da
due esili braccia.
Alice era ancora viva, ma il suo viso era completamente sporco di
sangue.
La Jeep mise in
moto e partì senza indugiare, lasciando indietro di noi il
caos.
I miei occhi si
riempirono di lacrime, quando vidi che mancava Dexter.
Buon Pomeriggio ragazze, sono diventata
brava e puntuale, questa cosa sorprende anche me, devo ammetterlo.
Cosa dire di questo capitolo?
Terrificante, non è
cosi? Almeno questo è quello che ho pensato io mentre lo
scrivevo.
Piccole
precisazioni, i campi base dove albergano i militari sono composti da
dormitori e bagni pubblici. Una sola tendopoli dove si mangia e un
ospedale di campo. Quello che descrivo quindi dovrebbe essere
realtà, ma non essendo mai stata in questi luoghi, potrei
benissimo sbagliarmi, quindi prendete le mie descrizioni con le pinze.
Le cabine telefoniche invece, sono certa sono reali, perchè
i militari in guerra non possono usare i cellulari e per telefonare
utilizzano schede speciali. Molte delle descrizioni che faccio sono
frutto di ciò che ho visto in televisione e in numerosi
film. Inoltre il fatto di avere un papà poliziotto, che
conosce molto bene queste cose, mi ha aiutato molto.
Durante la prima Guerra del Golfo, gli Iracheni invasero il Kuwait
è per questo che cito loro durante l'assalto in ospedale.
In realtà il conflitto tra americani e Iracheni è
iniziato il 20 Marzo 2003 con l'invasione dell'Iraq da parte degli
Americani e dagli Inglesi, con contributi minori tra cui anche
l'Italia. Però come avevo già precedentemente
spiegato nel primo capitolo, questa storia intercabia fatti realmente
accaduti a fatti totalmente inventati.
Ho preso la Seconda Guerra del Golfo come ambientazione, ma la mia
storia andrebbe presa anche come riferimento alla corrente guerra in
Libia,
Ciò che io tengo a raccontare non sono i movimenti militari,
ma più specificatamente le persone. Il popolo, come potrebbe
essere vissuta la guerra dai partecipanti.
Isabella Swan è una giovane dottoressa che si ritrova
catapultata in un altro Mondo. Rischierà la sua vita molte
volte, come accade anche nella realtà per tutte le persone
che si trovano in quelle terribili zone.
Un pò per svagare, un pò perchè il
romanticiscmo non guasta mai, ho inserito la storia d'amore tra Edward
e Bella all'interno della storia. La stessa cosa per Alice e Jasper.
La guerra è un arma di distruttrice di massa, ma chi lo dice
che da un terreno terremotato non possa nascere un fiore?
La morte del Dottor Dexter sarà un duro colpo per Bella ma
anche per Alice e Edward dato che si conoscevano da tempo. Dal prossimo
capitolo cambierà anche il rapporto tra i due. Ovviamente
sarà graduale, non aspettatevi subito fuoco e fiamme!
Per qualsiasi dubbio o domanda, non esitate a conttatarmi.
Grazie a tutte le mie lettrici. Un bacione.
Lua93.
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Capitolo 4 *** 3# ***
3#
3
10 Marzo 2003
Il campo sembrava
essere invaso dal silenzio. E poco importava che fosse notte e che il
cielo era
costellato da infinite stelle, nessuno riusciva a sollevarlo lo sguardo
da
terra.
Il Sergente Jasper
quando ci aveva visto arrivare, si era bloccato di colpo, posando i
suoi occhi
sulla figura minuta di Alice, che chiedeva aiuto per scendere dalla
Jeep.
Non aveva aspettato
neppure un secondo poi a stringerla tra le sue braccia, lì
davanti a tutti.
Alice era ricoperta
di sangue ma sapevamo entrambe che non era il suo.
Durante il tragitto
nessuno aveva osato proferire parola. Solo il Tenente Cullen aveva
continuato a
borbottare parole sconnesse, ma dall’intensità con
cui gli uscivano dalle
labbra, ero certa che non si trattassero di complimenti. Non che ci
avessi fatto
molto caso in effetti, perché da quanto ci eravamo
allontanati dalla piccola
cittadina, mi ero chiusa in me stessa. Aspettando che tutto svanisse,
come
accadeva negli incubi.
Una volta rientrati
alla base, ci erano corsi tutti incontro, già a conoscenza
della tragedia.
Jessica si
avvicinò
a passo spedito verso di me, mentre tentavo di scendere dalla Jeep
senza
smettere di tremare. Solo le braccia forti del Tenente riuscirono a
calmare i
miei tremori, aiutandomi a camminare.
Non appena le esili
braccia di Jessica mi circondarono le spalle, il Tenente si
allontanò lasciando
che nuovi spasmi mi assalissero.
Quello che accadde
subito riuscivo a ricordarlo a stento.
I ricordi
successivi erano solo un ammasso informe di profumi e parole. Erano
ricordi
amari, che bagnavano la mia mente, invasa dal terrore.
Un unico pensiero
saettò nella mia mente, svelandomi una crude e reale
verità. Nulla sarebbe
stato come prima, non più.
30
Marzo 2003
C’era una
canzone dei Queen, che cantava sempre mia
madre, quando era triste e aveva voglia di piangere. Diceva che in realtà non
importava niente, che nulla
era veramente importante comunque soffiasse il vento.
L’aveva
cantata il giorno
del suo licenziamento, continuando
a ripetere che era così che doveva andare e che certe donne
erano portate solo a fare le mamme, e non lavorare. E lei, era felice
di essere una di quelle.
L’aveva
cantata subito dopo il funerale del nonno, quando
papà si era chiuso nella loro stanza da letto senza dire una
parola,
continuando a ripetermi che andava tutto bene, e che sarebbe
tornato
presto a sorridere.
L’aveva
cantata quando aveva scoperto di aspettare un
bambino, un maschietto che avrebbe reso orgoglioso il suo
papà, vincendo le
partite di baseball con la scuola, e invece si era ritrovata costretta
a
nascondere il dolore dopo aver scoperto di averlo perso,
perché non voleva
farsi vedere debole ai miei occhi. La cantava spesso quando ero una
bambina.
Poi improvvisamente
smise di farlo, quando portai a casa
il mio primo ragazzo, la sera del ballo di fine anno.
Dopo una settimana
dalla festa, mi ero ritrovata con il
cuore spezzato a causa del mio primo fallimento amoroso. Avevo invaso
la stanza
di fazzolettini bagnati e intere confezioni di gelato al pistacchio. E
quando
mia madre mi strinse forte tra le sue braccia, le chiesi
perché avesse smesso
di cantare la sua canzone, e lei mi rispose che era scaduto il suo
tempo. Che
da adesso in poi, sarebbe toccata a me, cantarla.
Levai i guanti in
lattice gettandoli distrattamente nella
ciotola di metallo, sospirando sollevata.
Mi passai una mano
tra i capelli, sciogliendoli dalla
coda che avevo fatto prima di ricucire le ferite di Owen. Il soldato
che solo
due ore prima si era fatto saltare in aria una bomba di carta, durante
l’allenamento.
Alice
uscì dalla stanza subito dopo di me, sorridendomi
complice.
«Dai non
prendertela, è la prima volta che lo mandano in
una zona di guerra. Non c’è neppure da una
settimana.» Cercò di farmi sorridere
Alice.
La guardai di
sottecchi, mentre mi versavo del caffè
fumante dentro la prima tazza che trovai.
«Io
capisco che sia difficile, la tensione, e tutto il
resto,» borbottai sedendomi sopra uno scatolone pieno di
medicinali, «ma come
diamine può un soldato con oltre cinque anni di servizio,
farsi scoppiare una
bomba carta in mano?» domandai ironicamente, facendo
scoppiare a ridere Alice.
«Tu ci
ridi, ringraziamo il cielo che l’abbia gettata
immediatamente, altrimenti a quest’ora avrebbe dovuto
imparare a mangiare la
minestra direttamente dal piatto, come i cane.» Continuai
bevendo il caffè,
amaro e senza zucchero. Già era un miracolo che ci fosse il
caffè, non potevo
di certo pretendere troppo.
Alice si
avvicinò posando una mano sulla mia spalla,
«Se ci pensi Owen potrebbe benissimo essere il nome di un
cane.» Ironizzò.
Sollevai lo sguardo
scuotendo la testa, «la mia era una
battuta.»
«Anche la
mia dottoressa Swan.» Ridacchiò Alice.
Le sorrisi finendo
il mio caffè in silenzio.
Pochi minuti dopo
Jessica fece il suo ingresso nella
stanza, stringendo tra le braccia due enormi cartelle.
«Che roba
è?» le domandò Alice avvicinandosi, per
prenderne una in mano.
Mi sollevai
sbuffando, raggiungendo le due donne.
«Qui
dentro c’è tutto quello che è successo
negli ultimi
venti giorni.» Rispose Jessica a Alice, spostando poi lo
sguardo su di me. «Ho
fatto come mi avevi chiesto. Ho scritto tutti i nomi dei soldati che
sono
entrati e usciti dall’ospedale, le loro operazioni e le loro
visite di routine.
In più ho registrato tutti i medicinali che ci hanno inviato
dagli Sati Uniti.»
Io
annuì, aprendo la cartella contenente tutte le
informazioni sui soldati.
«Com’è
andata l’operazione di Owen?» Mi domandò
Jessica,
gettando un occhiata alla porta dove riposava.
«Per
fortuna nessun nervo è stato intaccato. Durante
l’esplosione si è riuscito a rompere solo tre
dita. Chissà se la prossima volta
riuscirà a fare di meglio.» Risposi sarcastica,
senza sollevare lo sguardo
dalla cartella clinica di John White, il soldato che venti giorni prima
era
stato operato da Dexter.
«Poverino,
i ragazzi non fanno altro che prenderlo in
giro per la sua goffaggine, ci mancava solo questa
figuraccia.» Sospirò
Jessica, allontanandosi dal tavolo.
Annuì
distrattamente, stringendo tra le mani l’ultima
cartella clinica toccata da Dexter. Non riuscivo ancora a credere che
erano
passati solo venti giorni dall’attentato. Cercai con tutte le
mie forze di non
piangere.
«Bella
cos’hai?» Mi domandò Alice posando una
mano sul
mio braccio, «stai tremando.» Sussurrò
fissandomi preoccupata, Jessica si
avvicinò guardandomi allarmata.
«Jessica
vai a controllare Owen.» Bisbigliai incolore.
«Bella
sicura che sia tutto okay?» Mi domandò passandomi
una mano tra i capelli, «sei pallida come un
cadavere.»
«Sto
bene.» Sibilai, sollevando lo sguardo e puntandolo
dritto su di lei, «e adesso fai quello che ti ho detto senza
discutere.»
Continuai fredda, stringendo tra le mani la cartella clinica di John.
Sentivo
lo sguardo sorpreso di Alice addosso, e l’espressione
sbigottita di Jessica che
si trasformava in delusione.
Si
allontanò dalla stanza in silenzio, lasciando me e
Alice da sole.
«Che
diamine ti è preso, si può sapere
Bella?» Mi domandò
stizzita, incrociando le braccia sotto il petto.
L’ignorai,
continuando a sfogliare le cartelle cliniche
dei soldati.
«Bella
sto parlando con te.» Sbottò irritata, passandomi
una mano davanti al viso.
Quando incontrai i
suoi occhi chiari e limpidi, una fitta
mi colpì in pieno stomaco, costringendomi ad abbassare lo
sguardo, per non
cedere al suo, supplichevole.
«Alice
sbaglio o hai delle visite da fare?» le sussurrai
senza voce, richiudendo la prima cartella. Sentii i suoi occhi
osservarvi
mentre riponevo le due cartelle sul secondo ripiano dello scaffale in
metallo,
«Mi
spieghi perché ti vengono quest’improvvisi cambi
d’umore? Non ti ricordavo così
lunatica.» Mi disse avvicinandosi alla porta,
posando la mano sulla maniglia.
Fissai la sua
immagine, osservando i lineamenti delicati
di quel viso così raro da trovare in una zona come
questa. «Non lo
so.»
«Io
invece credo di saperlo.» Mi disse lasciando la
maniglia e facendo qualche passo verso di me.
«Non
credo proprio.» Controbattei lanciandole un
occhiataccia.
Sollevò
un sopracciglio, sorridendomi sorniona, «non
c’è
nulla di cui vergognarsi Bella.»
Non riuscivo a capire dove stesse cercando di portarmi con quelle frasi
sconnesse.
«Alice
te lo giuro, chi ti capisce è bravo.» Le disse
avvicinandomi a lei, e aprendo la porta le feci segno di uscire dalla
stanza,
ritrovandoci così nel piccolo corridoio.
«Possiamo
parlarne se vuoi, credevo fossimo amiche.» Mi
sorrise dolcemente.
Io sollevai gli
occhi verso il soffitto bianco, «Alice
sono solo stanca okay? Non c’è nulla di cui
parlare.» Sbuffai annoiata.
Alice
sollevò le mani in segno di resa, «va bene, la
smetto. Vieni a mensa con me e Jessica questa sera?» mi
domandò speranzosa.
«Non ho
molta fame.» Le risposi in automatico.
Alice scosse la
testa, «da quando hai preso il posto di
Dexter non ti fai più vedere in giro.»
«Io non
ho preso io posto di nessuno.» Farfugliai,
stringendo le mani a pugno.
«Non
volevo dire questo.» Cercò di giustificarsi.
Annuì
automaticamente, cercando di non ricordare. «Ti
credo Alice.»
Alice attese un
paio di secondi, osservandomi
attentamente. Poi non appena vide che avevo ripreso a respirare
regolarmente mi
sorrise, «questa sera ci saranno pollo e patate, da quando
non mangi una buona
coscia di pollo?» mi chiese allegramente.
Mi morsi il labbro
per evitare che le rispondessi
malamente.
Erano giorni che
non toccavo cibo, se non qualche fetta
biscottata. L’unica cosa che riuscivo a inghiottire era il
caffè. Sapevo che
non era molto salutare, ma il mio stomaco continuava a rifiutare
qualsiasi cosa
c’infilassi dentro.
«Va bene,
Alice.» Sussurrai in fine, sperando che si
allontanasse.
Alice mi sorrise
vittoriosa, «ci vediamo tra un oretta.
Mi raccomando non fare tardi. Sai che i ragazzi sono capaci di
divorarsi anche
i piatti per la fame.»
Le sorrisi,
promettendole che non avrei fatto tardi.
Poi ci dividemmo,
imboccando due strade diverse.
Immediatamente
raggiunsi il piccolo bagno riservato al
personale, chiudendomi la porta alle spalle. Quando finalmente mi resi
conto di
essere sola, potei lasciare libere le lacrime, che
m’imploravano di essere
liberate.
Non ero
più la stessa dal giorno in cui Dexter perse la
vita.
Dopo che Alice ci
raccontò come erano andate le cose,
come il dottor Smith avesse fatto di tutto pur di proteggerla da quei
fucili
impazziti. Sia lui che Garrett morirono quel giorno, mentre cercavano
di
sfuggire da quel massacro.
Era un miracolo
quello accaduto a Alice. Riuscii a
sfuggire prima che gli Iracheni si accorgessero di lei. E quando
tentò di
tornare indietro per aiutare Dexter si accorse che era troppo tardi. Il
suo
corpo non aveva più vita, così come quella del
povero Garrett.
Da quel giorno
divenni io il nuovo chirurgo, prendendo
così il comando dell’ospedale di campo.
Da quel giorno la
mia vita non fu più la stessa. E questo
non era causato dalle continue operazioni chirurgiche o dalle
innumerevoli
scelte che ogni giorno ero costretta a prendere.
Da quel giorno
qualcosa cambiò dentro di me. Qualcosa si
era spezzato dentro il mio corpo, e tutto quello che mi sembrava
importante
prima del mio arrivo, ora non lo era più.
La dolce e tenera
Isabella Swan era scomparsa quel
giorno, abbandonata in quella stanza piena di cadaveri. Al suo posto
c’era una
nuova Isabella, che non avrebbe più fissato la luna con
occhi sognanti. Una
nuova ragazza che non avrebbe mai voluto scegliere di vivere la sua
vita così
duramente.
Ma dalle scelte del
passato non si poteva scappare, e ora
ero costretta a viverne le conseguenze.
Di notte, il cielo
del deserto assumeva oscure sfumature,
costellando il cielo di una miriade di stelle dall’aspetto
terribilmente
meraviglioso. L’afa del giorno lasciava spazio al vento
pungente della notte.
Un escursione termica da far accapponare la pelle per quanto fosse
improvvisa.
Camminavo per il
campo militare mentre indossavo il
maglioncino bianco, che consapevolmente avevo portato con me.
Dalla tendopoli
della mensa, provenivano schiamazzi e
risate.
Salutai gentilmente
Clark e Steven i soldati di turno,
prima di entrarvi.
Le luci delle
lampade al neon mi costrinsero ad
assottigliare lo sguardo, nel tentativo di scorgere Alice e Jessica tra
tutti
quei soldati, terribilmente affamati.
In lontananza vidi
una mano sollevarsi in aria e agitarsi
convulsamente. Feci un cenno con la testa ad Alice, facendole capire di
averla
vista.
Sedeva in un
piccolo tavolino infondo alla sala, accanto
a lei c’era il Sergente Jasper, e Jessica che parlavano tra
un boccone e
l’altro.
Li raggiunsi,
sedendomi accanto a Jessica e salutandoli
educatamente.
«Buonasera
dottoressa, come sono andate oggi le visite?»
mi domandò gentilmente il Sergente Hale, mentre stringeva
tra le mani una
coscia di pollo.
Gli sorrisi
educatamente, «bene, grazie.»
Osservai Alice e
Jessica parlottare allegramente, come se
non ci trovassimo in una mensa militare, nel bel mezzo di una guerra,
ma bensì
in un ristorante al sicuro dalle bombe.
«Come sta
Owen?» mi chiese Jasper passandosi il
tovagliolo sulle labbra.
Feci spallucce,
distogliendo lo sguardo.«Si rimetterà
presto, nel giro di due settimana potrà tornare in
servizio.» Gli risposi.
Iniziai a guardarmi
in giro, osservando i volti rilassati
dei soldati che chiacchieravano allegramente, tra un boccone e un
altro.
Alice
catturò la mia attenzione, indicandomi il suo
piatto, «tu non mangi Bella?» mi domandò
con voce gentile e premurosa.
«Oh no,
io sto bene così, grazie.» Le dissi prima che mi
costringesse a prendere qualcosa dal suo piatto.
Ritornai a fissare
i ragazzi quando il rumore di un
piatto posato malamente sul nostro tavolo, catturò la mia
attenzione. Abbassai
immediatamente la testa, ritrovandomi sotto gli occhi un piatto fumante
di
pollo e patate.
Sollevai lo sguardo
imbarazzata, incontrando gli occhi
verdi del Tenente Cullen che mi fissavano remissivi.
Subito dopo si
sedette accanto a Jasper, proprio di
fronte a me.
Iniziò a
mangiare come se nulla fosse, non prima di aver
salutato tutti noi educatamente.
«Grazie
ma non ho molta fame.»Borbottai osservando il mio
piatto.
Edward
sollevò lo sguardo, inarcando un sopracciglio,
«farete un piccolo sforzo.» Mi disse duramente.
Alice ci osservava
silenziosamente, così come Jessica che
non riusciva a fare altro che fissare il corpo del Tenete. Erano poche
le volte
che riuscivamo a vederlo senza la divisa militare.
Quella sera
infossava un pantalone nero e una canotta
bianca che metteva in evidenza le sue spalle larghe. Aveva una
carnagione
chiara, diafana, che s’intonava perfettamente con quelle due
gemme che si
ritrovava al posto degli occhi.
«Mangiate,
per favore.» Mi sussurrò lanciandomi un occhiata
quasi supplichevole, attraverso le sue lunga ciglia.
Silenziosamente
presi la forchetta e il coltello dal
tavolo e iniziai a tagliare il pollo in piccoli pezzi, mangiandolo poco
alla
volta.
Il sorriso
vittorioso del Tenente fu più bello di mille
stelle. E quella sera, per la prima volta da quando mi trovavo
lì, il mio
stomaco non oppose resistenza.
Finito ci cenare,
mi fermai ad aiutare Angela, la donna
che lavorava all’interno della base come cuoca.
Mentre lei lavava
le stoviglie, io sistemavo i tavoli per
la mattina successiva.
C'eravamo
conosciute durante una delle tante visite
mediche che le avevo fatto. Era una ragazza di poco più di
trent’anni. Soffriva
di diabete, così molte volte era costretta a fare continue
visite in ospedale.
Mi resi conto che
saremmo diventate amiche dal nostro
primo incontro, lei era quel genere di persona che rimaneva ad
ascoltare in
silenzio, senza giudicare.
Era una ragazza
molto coraggiosa. Suo marito, Ben, era
morto due anni prima nell’attentato alle Torri Gemelle. Ed
era stata proprio la
morte del marito che l’aveva convinta a partire come
volontaria nelle zone di
guerra.
Angela era una
donna modesta, consapevole dei suoi
limiti. Molto coraggiosa e testarda, ma terribilmente gentile e buona
con
tutti. Lei era una di quelle donne che come mia madre, erano
programmate per
amare, purtroppo però il destino le era stato avverso.
Durante una delle tante
visite mi spiegò che non poteva avere figli, che la natura
con lei era stata
maligna, negandole la gioia più grande che una donna potesse
mai provare, avere
un figlio.
«Sei
gentile ad aiutarmi Bella, ma sono certa sarai
esausta, perché non vai a dormire?» mi
domandò sorridendomi gentilmente.
Scossi la testa
sistemando i cereali sul bancone, «non
sono stanca. Davvero.» Le dissi sollevando gli angoli delle
labbra.
Angela mi
guardò torva non smettendo però di sorridere,
«sei davvero testarda, ma sono felice che tu mi dia una
mano.»
«Lo
faccio volentieri.» Le dissi, portandole gli ultimi
vassoi rimasti sul tavolo.
«Però
sul serio Bella, vai a dormire, altrimenti come
farai domani mattina ad alzarti?» mi domandò
preoccupata.
Io la guardai,
perdendomi nei suoi tratti delicati.
Indossava un paio di occhiali dalle spesse lenti, che le nascondevano
due
splendidi occhi azzurri. «Tanto non riesco mai a
dormire.»
«Hai
paura?» Mi domandò posandomi una mano sul braccio.
Annuì
mordicchiandomi il labbro, «Ma non dei rumori dell'esplosioni
che provengono dal deserto. Io ho paura di non
farcela. Con Dexter era tutto più semplice, lui sapeva
sempre come risolvere i
problemi, io non credo di esserne capace.» Le confessai
torturandomi le mani.
Angela mi sorrise
dolcemente, «ascoltami bene Bella. Se
Dexter ti aveva chiesto di venire qui ad aiutarlo era perché
credeva in te e
nelle tue capacità. Perché era certo che ce
l’avresti fatta, che saresti stata
forte e coraggiosa.» Mi sussurrò passandomi una
mano sui capo, «e ora che
lui non c’è più, ora che tu hai preso
il suo posto come Chirurgo, ci stai
dimostrando che quella di Dexter è stata la scelta
più giusta. Nessun altro
avrebbe avuto il tuo coraggio, Bella. Sei un medico e una donna
straordinaria.»
Mi sorrise stringendomi forte tra le sue braccia.
La ringraziai,
ricambiando l'abbraccio, cercando di catturare
un po’ della sua positività.
«E adesso
vai a dormire, capito? Qui non c’è più
bisogno
di te.» Mi disse imitando il tono duro e severo del Tenente
Cullen. Io scoppiai
in una fragorosa risata.
«Come
desiderate capo.» Ridacchiai, dandole un bacio
veloce sulla guancia, ringraziandola ancora una volta prima di
augurandole la
buona notte.
Uscii dalla mensa
chiudendomi la porta alle spalle,
stringendomi le braccia intorno alle spalle. Quella era davvero una
notte
gelida.
Tutte le luci dei
dormitori erano spente, compresa quella
del Tenente Cullen e del Sergente Hale. In un primo momento pensai che
Alice
fosse nel suo letto, che quella sera non fosse con Jasper, ma quando
vidi il
Tenente Cullen fuori dal suo dormitorio, cambiai opinione.
Edward fissava il
cielo,
sembrava immerso in chissà quali
pensieri.
La sua figura era illuminata dal riflesso pallido e alabastro della
luna, che quella sera sembrava ancora più grande e vicina
del
solito. Mi dava le spalle, eppure anche se girato, potevo immaginare la
sua espressione dura e quei lineamenti dalla bellezza sconvolgente
essere offuscati da un velo perenne di malinconia.
Mi avvicinai a lui
silenziosamente, tanto che quando gli
parlai, lo vidi sobbalzare.
«Dottoressa,
cosa ci fa a quest’ora fuori dal suo
dormitorio?» Mi domandò gettando la sigaretta per
terra, spegnendola
definitivamente con la scarpa.
Osservai i suoi
movimenti silenziosamente, divertita da
quel suo improvviso imbarazzo.
«Non
sapevo che fumasse Tenente.» Gli dissi specchiandomi
nei suoi occhi.
Quegli stessi occhi
che avevano il potere di mandarmi in
confusione senza il minimo sforzo.
«Mi
capita di accendermi una sigaretta quando sono
nervoso.» Mi spiegò distogliendo lo sguardo dal
mio viso.
Inarcai un
sopracciglio divertita, «devo dedurre che
quindi lei è un fumatore dipendente.» Gli dissi
sollevando lo sguardo verso il
cielo, sorridendo, certa che lui mi stesse guardando.
«Molto
divertente dottoressa, non la facevo così
spiritosa.» Mi rispose serio, ma dal suo tono notai una certa
nota ironica.
Feci spallucce
abbassando lo sguardo verso le mie scarpe.
«Alice non è nel nostro dormitorio,
giusto?» gli domandai leggermente
imbarazzata.
«Ho
promesso a Jasper che non avrei detto nulla, anche se
ormai tutti sono al corrente della loro relazione.»
Sollevai lo
sguardo, osservando il suo volto illuminato
dalla tenue luce della luna, «siete molto amici? Lei e il
sergente intendo.»
Annuì
voltandosi verso di me, «sono anni che ci
conosciamo. Abbiamo frequentato la stessa accademia militare.
All’epoca avevamo
solo diciotto anni.» Mi spiegò inflessibile.
Chissà
perché sotto quel cielo così limpido e quel vento
portatore di desideri, vidi un altro uomo, celato dietro
quell’espressione così
rigida.
«Capisco.»
risposi semplicemente.
Rimanemmo entrambi
in silenzio, ascoltando i rumori del
deserto.
«Lei come
sta?» Mi domandò poi, voltandosi di nuovo verso
di me, e inondandomi con il suo sguardo enigmatico.
«Bene.»
Balbettai confusa, non riuscendo a capire il
senso di quella domanda.
Il Tenente scosse
la testa, «Come sta realmente,
dottoressa.» Specificò infilando le mani in tasca.
Aprì la
bocca come a voler rispondergli, ma le parole mi
morirono in gola, quando cercai di parlare.
Come stavo?
Avevo smesso di domandermelo. Non avevo più tempo per
cercare una risposta sincera.
Tutto quello che riuscivo a trovare era perchè lo vedevo
riflesso nello specchio. Fin quando ci sarebbe stata la mia immagine,
fin quando la luce del sole mi avrebbe permesso di vedere, io ci sarei
stata. E quello per il momento poteva bastare, perchè oltre
non
riuscivo ad andare.
«Non volevo sembrarle sgarbato prima in mensa. Ma lei
è
così magra e debole, mi date l’impressione di
essere come un ramoscello davanti
ad un enorme tempesta.» Disse senza mai distogliere i suoi
occhi dai miei.
C’era
qualcosa nelle sue parole che sembravano in eterno
conflitto con quel suo tono sempre freddo e distaccato. Come un
dissidio
interiore che non riuscivo a comprendere e che lui, molto
probabilmente, non
riusciva a risolvere.
«Non sono
così debole come crede, Tenente.» Bisbigliai,
non riuscendo a dire altro.
Edward sorrise
impercettibilmente, «lo so, dottoressa. Lo
so.»
Avrei tanto voluto
ringraziarlo e rimanere con lui a
parlare ancora tutta la notte. Ma il sonno e la stanchezza sembravano
non
essere d’accordo con quella mia decisione.
«E’
stanca, perché non va a letto?»
Annuì,
sistemando una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, «anche lei, sembra stanco.»
Edward
sospirò, «altri dieci minuti e rientro.»
Abbassai la testa
imbarazzata, ricordandomi del perché
lui non fosse nel suo dormitorio.
«Allora
buona notte Tenente.» Bisbigliai guardandolo
negli occhi.
«Notte
dottoressa.» Rispose distogliendo immediatamente
lo sguardo dal mio viso.
Continuava a
sfuggirmi, e non riuscivo a capirne il
motivo.
Gli diedi le spalle
incamminandomi verso il mio
dormitorio, senza mai voltare lo sguardo verso il Tenente. Quella
notte, sotto
un cielo stellato e una luna piena, avvertì qualcosa
cambiare dentro di me.
Qualcosa che si scioglieva e che cercava di liberarsi.
Ma non
riuscì a capire che cosa fosse.
Quella notte il
vento cambiò direzione.
Nothing really
matters,
Nothing really matters to
me,
Any way
the wind blows.
BuonSalve
carissime lettrici e
carissimi lettori. Torno con un nuovo capitolo, molto più
leggero del precedente, ma con questo non voglio dire che sia meno
importante.
Come avete letto, Bella è cambiata, non riesce
più a
essere la ragazza spensierata di un tempo. E come darle torto, si trova
lì da un mese ormai e ne ha passate davvero tante.
C'è stato uno sbalzo temporale, come avete potuto leggere.
Dal
10 Marzo, giorno della morte di Dexter, si è passato al 30
Marzo.
In questi venti giorni, la situazione all'interno del campo
è cambiata, così come Isabella.
Il rapporto con Alice e Jessica si è fatto molto
più
intimo, soprattutto con Alice, ma come avete notato anche voi, Bella
subisce cambi d'umore improvvisamente. E questo accade, non
perchè è pazza, ma semplicemente
perchè è
piena di responsabilità. Ha preso il posto di Dexter, questo
significa doppio lavoro e doppia fatica.
Il rapporto tra Alice e Jasper invece non è cambiato molto,
abbiamo solo trovato un Edward consapevole e quindi rassegnato a questa
nuova verità. Parlando sempre di Edward, in lui avete notato
qualche cambiamento? Io direi di si.
Punto primo, si preoccupa per Bella. Se nello scorso capitolo l'abbiamo
visto distaccato e disinteressato, in questo si vede benissimo quando
la salute della dottoressa Swan sia invece, una sua preoccupazione. Il
loro rapporto non si è ancora surriscaldato, entrambi sono
avvolti dal freddo. E il fatto che ora Bella sia meno, come dire...
dolce, non è certo di aiuto. Ma la morte di Dexter per
quanto
sia stata terribile, è stata un bene per questi due giovani.
Come cosa è orribile da dire, ma dalla sua morte
c'è
stato un avvicinamento tra i due, che presto si scongelerà
completamente.
Vediamo infine l'arrivo di un nuovo personaggio, Angela. Non
sarà un personaggio particolarmente presente,
arriverà
all'occorrenza. Sarà un pò come il saggio del
villaggio,
dando in futuro, ottimi consiglia a Isabella.
Prima che me ne dimentichi, il ritornello che intonava Reneè
e
che possiamo trovare a fine capitolo, è l'ultima strofa di
Bohemian Rhapsody, bellissima canzone dei Queen.
Detto questo, mi sono resa conto che le note che ho scritto sembrano un
papiro, così vi saluto.
Ringrazio chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite e le
ricordate. E chi ha commentato il capitolo precedente.
Un bacione a tutti!
Lua93.
P.s. Lua
non è
allergica alle recensioni, quindi non abbiate paura a lasciarne. Anzi
sarà ben felice di leggere le vostre riflessioni e le vostre
considerazioni.
Per chi segue Buskers avviso che il
capitolo
è ancora in fase di scrittura, quindi sarà
postato tra un
paio di giorni. Grazie a tutte voi per la pazienza :)
|
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Capitolo 5 *** 4# ***
4#
Questa
volta consiglio di leggere il capitolo ascoltando Muse - Symphony Exogenesis Part 3, se dovesse finire prima che
voi aveste terminato il capitolo, ripremete play, non ve ne pentirete!
Vi
chiedo gentilmente di leggere le note a fine capitolo.
Buona lettura.
4
31 Marzo 2003
Sentivo la ghiaia pungermi
sotto i piedi, mentre
camminavo lungo il campo, diretta ai telefoni pubblici.
Quella mattina si
respirava il vento del deserto. Una
brezza leggera che s’insinuava sotto pelle, nello strato
cutaneo più profondo.
Era
il respiro di Dio, che si rilassava dopo la tempesta.
Quella notte non
avevo dormito molto, forse a causa della
conversazione avvenuta con il Tenente, o semplicemente a causa della
tempesta
di sabbia che si era abbattuta su di noi, poche ore dopo il coprifuoco
generale.
Il vento si era
messo a bussare furioso, sbattendo contro
i vetri del nostro dormitorio, impedendomi di prendere sonno. Rimasi
sempre in
uno stato di dormiveglia surreale, dove distinguere il sonno e la
realtà era
pressappoco impossibile. Una cosa però era certa, quella
sera Alice non fece
ritorno. Probabilmente Jasper le aveva impedito di uscire fuori con
quella bufera.
E così
mi sono ritrovata a immaginare come doveva essere,
avere il Tenente nella stessa stanza, quando il cielo era ricoperto di
stelle.
Chissà
se Alice era riuscita a dormire, anche se stretta
tra le braccia di Jasper.
Pensieri che non
avevano alcun filo logico, e che
inspiegabilmente non riuscivo a scacciare dalla mente.
E quando la
tempesta notturna terminò, era già
l’alba, un
nuovo giorno era appena sorto, e i dubbi della notte non potevano
attanagliare
la mia mente durante le ore lavorative, decisi così di
smettere di pensare, per
almeno dodici ore.
Erano
più di dieci giorni che non sentivo casa. Loro non
potevano contattarci, non avendo nessun numero da chiamare, noi invece,
potevamo telefonarli liberamente, utilizzando una scheda telefonica
personale.
Avevo diritto a
cinque ore di telefonate, spendibili in
un mese. Un tempo relativamente troppo lungo quando si avevano a
disposizione
solo pochi minuti per salutare le nostre famiglie.
Raggiunsi i tre
telefoni pubblici messi a disposizione,
erano entrambi occupati. Così mi misi in fila, in attesa del
mio turno.
Guardandomi
intorno, scorsi la figura minuta di Alice
uscire dal bagno femminile, con aria rilassata e riposata. La vidi
accelerare
il passo in direzione della mensa, mentre si sistemava il camice blu da
infermiera.
Il rumore di passi
frettolosi che strisciavano sulla
calda terra, mi fecero voltare, scontrandomi contro due occhi verdi,
irrequieti
e infastiditi.
«Buongiorno
Tenente.» Lo salutai con un leggero sorriso.
Involontariamente
lasciai che i miei occhi esaminassero
la sua intera figura, catturando ogni più piccolo
particolare di quel completo
militare color cammello.
«’Giorno
Dottoressa, come sta?» Mi domandò addolcendo la
sua dura espressione.
Sollevai lo
sguardo, incontrando le sue iridi verdi che
mi fissavano. Erano talmente limpidi i suoi occhi, che riuscivo a
riflettermi
dentro di essi.
«Edward,
perché continuiamo a darci del lei? E’ ormai un
mese che lavoriamo insieme.» Sorrisi cordialmente, ignorando
la sua domanda.
Non riuscivo a
capire il perché, ma c’era qualcosa in
quella sua espressione dura e afflitta che mi rendeva irrequieta e in
un certo senso
spaventata. Come se avessi paura che rifiutasse.
Edward strinse la
mascella, lo vidi mentre cercava di
trattenersi dal dire qualcosa. I suoi occhi si spostarono dai miei,
fissando un
punto lontano oltre le mie spalle.
Non riuscivo a
capire quei suoi improvvisi cambi di
personalità. La notte scorsa mi era sembrato così
gentile e disponibile a una
conoscenza che non si limitasse solo alla sfera lavorativa.
«Se
questo le fa piacere.» Rispose continuando a darmi
del lei.
«Si, mi
piacerebbe molto.» Gli sorrisi, incitandolo a
cambiare atteggiamento.
Uno dei telefoni si
liberò, e il sorrisone allegro del
soldato mi immerse col suo calore. Ci passò accanto
salutando entrambi
educatamente, «sarò papà.»
disse incredulo, continuando a ripeterlo quasi per
auto convincersene.
Edward gli sorrise
dandogli una pacca sulla spalla, «Eh
bravo il nostro Peter, auguri.»
Il ragazzone dagli
occhi azzurri ripeté la stessa frase
diverse volte.
«Come si
chiama tua moglie?» gli domandai colta dalla
sorpresa.
«Charlotte.
Si chiama Charlotte.» Rise, «la mia piccola
Charlotte, lo sapevo io che s’era rotto qualcosa
l’ultima volta. E lei che
continuava a ripetermi che era una mia impressione.»
Scoppiò
a ridere, come se fosse ubriaco. Io lo seguii a
ruota, portandomi una mano sulla bocca per non essere troppo scortese.
«Due mesi
fa, c’è stata la notte più bella della
mia
vita. Quella donna, è un fuoco. Ci credo che-»
Edward
sollevò una mano, facendo segno di tacere.
Peter si
zittì all’istante abbassando la testa, ma senza
smettere di sorridere.
«Abbiamo
capito Peter, adesso però non esagerare con i
commenti, c’è una donna con noi.» Disse
con tono severo.
Peter annuii e
sebbene si sentisse mortificato non
riusciva proprio a smettere di brillare. «Scusami
Dottoressa.»
Sollevai
leggermente gli angoli delle labbra facendo un
gesto con la mano, come a voler scacciare quelle parole.
«Vai
adesso, e mi raccomando, la tua Charlotte, per oggi,
cerca di tenerla fuori dai tuoi pensieri, almeno quando tieni in mano
un arma.»
Disse autoritario Edward, facendo allontanare il soldato.
Lo vedemmo
allontanarsi, poi entrambi ci voltammo verso
la cabina telefonica.
«Ti ho
visto quasi correre per arrivare ai telefoni,
dovrai fare sicuramente una telefonata urgente. Passa avanti, io posso
aspettare.» Gli dissi ritornando a guardarlo.
Scosse la testa,
passandosi una mano tra la chioma
ramata. «Non è così urgente.»
Annuii,
incuriosita. Avrei tanto voluto sapere chi fosse
il destinatario, e perché lui avesse tutta questa fretta di
sentirlo.
Mi resi conto solo
in quel momento, che sebbene fosse
quasi un mese che lavoravo nel campo, e avessi imparato a conoscere
quasi tutti
i ragazzi e le ragazze della base, di Edward sapevo poco e niente.
L’unica
notizia che si era lasciato scappare era stata
quella sulla sua amicizia con Jasper. Probabilmente
quest’ultimo era l’unico a
conoscenza del perché il Tenente Cullen fosse
l’uomo più enigmatico che avessi
mai conosciuto.
«Se io
avessi un fidanzato dall’altra parte dell’oceano
che aspetta una mia telefonata, non lo farei attendere.» Gli
dissi
sorridendogli leggermente imbarazzata.
Edward mi
guardò, senza mostrarmi alcuna emozione.
«Penso
che accadrebbe anche a me, se questa persona
esistesse. Ma non c’è alcuna donna che aspetta di
sentire la mia voce, quindi
Isabella, telefona tranquillamente, io posso aspettare.»
E non so
perché, dopo quelle parole, mi nacque un sorriso
spontaneo, che si disegnò sul mio viso.
Gli sorrisi,
dandogli le spalle per raggiungere il
telefono.
In quel momento
telefonare casa non mi sembrava più tanto
importante. Eppure quell’improvvisa e bizzarra
felicità non m’impedì di
commuovermi, quando sentì la voce di mia madre
dall’altra parte del Mondo,
rispondermi amorevolmente.
Quando riagganciai,
feci un sospiro profondo, scacciando
una lacrima solitaria che involontariamente era sfuggita al mio
controllo. Mi
voltai lentamente, trovando Edward a pochi metri da me, con le braccia
strette
sul petto e gli occhi fissi su di me.
Lo raggiunsi
sorridendogli leggermente, «scusami.»
Il Tenente
corrugò la fronte, incerto, «perché
dovresti
scusarti Isabella, è normale sentirsi così quando
si è lontani da casa. Non
siamo indistruttibili.»
«Che io
non sono indistruttibile è un dato di fatto.»
Lo feci ridere.
«Ma sei
coraggiosa.» Disse addolcendo i suoi lineamenti,
«conosco un sacco di donne, che se fossero state al tuo
posto, si sarebbero
arrese molto prima.»
Abbassai lo sguardo
leggermente imbarazzata. Era la prima
volta che ci davamo entrambi del tu, e sentirlo così vicino,
mi fece sentire
strana.
«Edward
io ti ringrazio.» Borbottai posando la mia mano
sul suo braccio. Un gesto che fece scattare entrambi.
Gli occhi del
Tenente si posarono immediatamente sui
miei, trafiggendomi.
«Per
avermi salvato la vita, tre settimane fa.»
Continuai, osservando la mia mano sul suo braccio. La sua pelle era
calda,
vibrava leggermente.
«Non devi
ringraziarmi, ho semplicemente svolto il mio
compito.» Disse distogliendo lo sguardo dal mio viso,
«chiunque al mio posto
avrebbe fatto la stessa cosa.» Cambiò di nuovo
espressione, ritornando alla sua
solida maschera di cera.
Lo vidi
irrigidirsi, e osservare il telefono dietro le
mie spalle.
Lasciai il suo
braccio, stringendo la mano a pugno dentro
la tasca del camice, «si, hai ragione. E’ stato
solo lavoro, chiunque l’avrebbe
fatto.» Farfugliai, sentendomi in imbarazzo.
Feci per andarmene,
ma la sua mano mi bloccò,
costringendomi gentilmente a fermarmi.
«Isabella.»
Bisbigliò combattuto, serrando la mascella.
Era un groviglio di muscoli tesi e parole che non trovavano via
d’uscita.
Attesi che
continuasse, ma la sua presa si fece sempre
più debole, fino a quando non la sentii più.
Mi allontanai prima
che potesse parlare, imboccando la
strada che mi avrebbe condotto nell’ambulatorio. Mordendomi
forte il labbro
inferiore, durante tutto il cammino, costringendo me stessa a smettere
ancora
una volta di pensare.
1 Aprile 2003
Quella
mattina la mensa era gremita di soldati. Vidi
Angela faticare per riuscire a servire tutti. Volevo avvicinarmi e
aiutarla, ma
due esili braccia mi circondarono la vita impendendomi di correre da
lei.
«Finalmente
hai ripreso a mangiare regolarmente.» Mi
sorrise Alice, indicando il vassoio pieno che reggevo in mano.
«Si, non
potevo continuare a vivere di solo aria.» Le
dissi, mentre ci avvicinavamo all’ultimo tavolo libero.
Jessica era vicino al
bancone, si stava versando un bicchiere di succo d’arancia.
Sedendoci notai che
né Jasper, né Edward erano presenti
in sala.
«Chi stai
cercando?» Mi domandò incuriosita Alice, dando
un morso alla sua brioche.
Scossi la testa,
versando un po’ di latte nel mio caffè,
«nessuno, stavo solo osservando Angela. Oggi è
davvero impossibile servire
tutti questi ragazzi.»
Alice
annuì titubante, «hai ragione, povera donna, tutti
pensano che quello di occuparsi della mensa sia il lavoro minore, ma
non si
rendono conto che è davvero faticoso.»
Stavo per
risponderle, quando Jessica si sedette accanto
a noi, posando il suo vassoio sul tavolo.
«Ragazze
ci sono news.» Sorrise osservandoci.
Io mi voltai verso
Alice, guardandola interrogativa.
«Che io
sappia no.» Affermò quest’ultima
ricambiando il
mio sguardo.
«No, non
c’è nessuna novità.» Dissi
bevendo un sorso del
mio caffè.
Jessica
sollevò lo sguardo verso il soffitto, sbuffando,
«la mia non era una domanda, ma un affermazione.»
Scosse la testa come se non
dovesse sorprendersi del fatto che non avessimo capito.
«E quali
sarebbero queste tue grandi novità?»
Domandò
Alice, facendo una smorfia, «il Presidente ci rimpatria per
cattivo
comportamento?»
Scoppiai a ridere,
beccandomi un occhiataccia da parte di
Jessica.
«Come
siete poco fantasiose ragazze.» Sbuffò, aprendo il
suo yogurt, immergendoci il cucchiaino.
«Allora
diccele, non tenerci sulle spine.» Disse Alice non
finto entusiasmo. Una battuta ironica che Jessica non capì,
perché il suo viso,
improvvisamente s’ illuminò, gli occhi iniziarono
a brillare, eccitandosi, «oggi
avremo visite in ospedale.»
«Tutti i
giorni abbiamo visite in ambulatorio, Jessica,
non è una novità questa.» Presi un
piccolo pezzo di brioche e l’immersi nel
caffè.
«Si, ma
oggi abbiamo un soldato speciale.»
Alice
corrugò la fronte, come se stesse riflettendo.
«E chi
sarebbe?» Domandai pulendomi le labbra con il
tovagliolo.
Alice
sbatté la mano sul tavolo, sorridendoci entusiasta.
«Come ho fatto a dimenticarlo, Jessica ha ragione. Oggi
verranno gli ufficiali
a controllo.»
La fissai in
silenzio, aspettando che continuasse.
«Jasper
me l’aveva detto ieri notte.» Rise leggermente,
mentre le sue guancie ci coloravano di un tiepido rossore,
«Questa mattina il
Tenente e Jasper verranno a controllo da noi.»
«E’
vero che le spalle del Tenente sono così larghe, e le
braccia così forti da riuscire a mandarti in contro circuito
solo guardandolo?» domandò
Jessica, guardando negli occhi la piccola Alice.
Quest’ultima
scoppiò in una fragorosa risata, «non
saprei, è sempre stato Dexter a visitare gli ufficiali. Non
ho mai visto Edward
senza uniforma, ma ti posso assicurare che Jasper ha tutti i punti
giusti per eccitarti.»
Sospirai portandomi
una mano davanti il viso, «Alice!» La
richiamai.
«E’
così che è scoccata la scintilla tra me e Jasper.
Quattro mesi fa, durante una visita di controllo.» Ci disse
ridacchiando,
«Dexter era impegnato con il Tenente, così io
dovetti controllare la pressione
e il battito del Sergente. Vi assicuro ragazze, è stato un
attimo, come se
tutto si fosse bloccato. Era la prima volta che lo vedevo
così esposto, e i
suoi occhi, quel mare azzurro che si ritrova al posto delle iridi,
è stato lo
spettacolo più devastante a cui potessi mai
assistere.» Sorrise con occhi
sognanti.
Jessica si
mordicchiava il labbro, «che incontro
romantico.»
Bevvi
l’ultimo sorso di caffè, riponendo la tazza sul
vassoio. Mi alzai, prendendo anche quello delle altre ragazze, ormai
vuoti.
«Peccato
che oggi ho il giro delle visite, quindi non
potrò assistere a questo meraviglioso spettacolo.»
Disse dispiaciuta Jessica,
alzandosi anche lei.
Alice ci
seguì a ruota, camminando accanto a noi, «Bella
non ti dispiace vero, ma ho promesso a Jasper che sarei stata io a
visitarlo.»
Scossi la testa
posando i tre vassoi sul tavolo,
salutando Angela che ci osservava divertita.
«Quindi
il bel tenebroso Edward, sarà tutto tuo Bella.»
Esordì Jessica, leggermente irritata.
Mi voltai verso di
loro, parlando per la prima volta da
quando avevano intavolato quell’argomento. «Non vi
eccitate troppo ragazze,
sarà anche un bell’uomo, ma non penso proprio sia
tutto quest’essere
sovrannaturale.» Dissi, lasciando entrambe a bocca aperta.
Avevo una strana
sensazione addosso, mentre percorrevo il
lungo corridoio, che mi avrebbe portato nel mio studio.
Davanti alle
ragazze, avevo cercato di non lasciarmi
travolgere da quella notizia. Non era la prima volta che visitassi un
uomo,
anzi da quando mi trovavo qui, il mio lavoro era concentrato
principalmente su uomini. Operazioni, visite di routine, cuciture,
semplici
prelievi. Non era quindi la prima volta che vedessi un uomo senza
divisa. Ma
solo al pensiero di dover visitare Edward, qualcosa dentro di me
scattò,
mandandomi automaticamente in confusione.
Ed era la prima
volta che un uomo mi facesse
quell’effetto.
Dal punto di vista
sessuale, la mia vita non era mai
stata frenetica, ma le mie buone esperienze, le avevo avute. Quindi
sapevo
riconoscere un attrazione fisica da una semplice curiosità.
Quello che mi
trasmetteva il Tenente solo con lo sguardo, era ipnotico,
maledettamente
diretto e violento.
Ma sapevo, o almeno
cercavo di auto convincermi, che quello
di oggi sarebbe stato solo lavoro.
Quando entrai nel
mio ufficio, lo trovai in piedi, di
fronte alla scrivania, con le mani che giocavano con una penna.
«Edward.»
Lo chiamai, facendolo sobbalzare.
«Buongiorno
Isabella.» Mi salutò impassibile.
Mi avvicinai a lui,
cercando di sembrare il più professionale
possibile.
Dio sembravo una
ragazzina alle prime armi.
«Meglio
sbrigarci, Edward ho delle visite da fare.» Gli
dissi dandogli le spalle, avvicinandomi all’attaccapanni per
indossare il camice
bianco.
Sentì il
Tenente muoversi, avvicinandosi.
«Allora
Edward, dovresti sederti sul lettino.» Dissi
assumendo un tono di voce autoritario, c’era una piccola
soddisfazione in
quello che stavo facendo. Per la prima volta da quando ci conoscevamo,
ero io a
prendere il comando.
Lui mi
obbedì, rimanendo in silenzio.
Lo raggiunsi
stringendo in mano il misuratore della
pressione, e lo stetofonendoscopio.
Mi avvicinai a lui,
sorridendogli, «solleva la manica,
così misuriamo la pressione.»
Il tenente
annuì, rigirandosi la manica della divisa. Le
sue mani sembravano nervose, si muovevano frettolose. Sollevai lo
sguardo sul
suo viso, osservando i suoi occhi fissi sul suo braccio.
«Edward,
perché sei nervoso?» Gli domandai, bloccando
quel goffo movimento di mano. Gentilmente gli spostai la mano dal
braccio,
finendo di arrotolare la camicia color sabbia.
Lo sentì
irrigidirsi, quando le mie dita sfiorarono la
sua pelle.
«Non mi
piacciono gli ospedali.» Rispose guardandomi.
Scossi la testa,
sorridendogli, «e io che pensavo tu
avessi paura, che stupida!» Dissi ironica, prendendo il
misuratore, avvolgendo
intorno al suo braccio il manicotto. Sollevai la testa, «non
agitarti Tenente,
altrimenti i valori risulteranno tutti sbagliati.» Gli dissi
sorridendogli.
Lui
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli.
«Stai
fermo, Edward.» Dissi leggermente scocciata,
attendendo che si calmasse. Poi premetti il pulsante rosso che mise in
moto il
macchinario.
Osservai il volto
di Edward, concentrato sul suo braccio.
Strinse forte la mascella, mentre il misuratore iniziava a vibrare.
Seguì
con gli occhi, i tratti di quel viso perfetto. Il
naso dritto e regolare, la mascella perfettamente squadrata. Il taglio
degli
occhi sottile, che nascondeva sotto lunghe ciglia uno sguardo intenso.
I
capelli spettinati e di un colore simile al ramato, ma leggermente
più scuri.
Quando i numeri sul
display di fermarono, abbassai la
testa, leggendo i valori.
«Centoventicinque
su ottanta. Pressione davvero ottima,
Tenente.» Gli dissi sarcastica, cercando di tranquillizzarlo.
Lui
sbuffò, «non c’è bisogno di
trattarmi come un
bambino, non è la prima volta che faccio una visita
medica.» M’informò mentre
liberavo il braccio dal manicotto.
«E allora
perché sei così nervoso?» Chiesi ancora
una volta, riponendo il
macchinario.
«Non lo
so.» Una risposta secca, che mi lasciò con mille
dubbi addosso.
Lo vidi sistemarsi
la manica, iniziando a sbottonare i
primi bottoni della camicia. Sollevò la testa di scatto,
guardandomi interrogativo.
«Devo
toglierla, giusto?»
Annuì,
incapace di distogliere lo sguardo.
Non persi neppure
un suo movimento, e se anche sapevo che
avrei dovuto lasciargli un po’ di privacy, voltandomi
dall’altra parte, lui non
disse nulla, continuò invece a sfilare la camicia, rimanendo
così, solo in
canotta bianca.
«Anche
questa.» Disse levandosela, prima che io potessi
rispondergli.
Quello che videro i
miei occhi, subito dopo quello strano
spogliarello, era davvero qualcosa di straordinario, che se qualcuno me
lo
avesse detto solo qualche ora prima, non ci avrei mai creduto.
Sapevo che Edward
avesse un fisico asciutto e allenato
per la guerra. Ma non potevo minimamente immaginare, che dietro quel
suo
aspetto così maledettamente disordinato e attraente, si
nascondessero due
spalle così. Mi avvicinai lentamente, tracciando con
l’indice il profilo dei
suoi addominali.
Lo vidi sospirare,
mentre stringeva il lenzuolo bianco
del lettino.
Le mie mani
finirono involontariamente sulle sue spalle,
accarezzandole. Sentivo la sua pelle scottare sotto il mio tocco.
Possedeva il
corpo più bello che io avessi mai visto.
Improvvisamente,
come se solo in quel momento fossi
riuscita a rendermi conto di quello che stavo
facendo, allontanai le mani dal suo corpo, arrossendo
imbarazzata.
Presi il
stetofonendoscopio tra le mani, avvicinandolo al
suo petto.
L’indossai,
silenziosamente, accostando la parte
metallica e fredda sul suo petto, facendolo sussultare.
Inizia a muoverlo
verso l’alto, fino a raggiungere il suo
cuore. Batteva così furiosamente, che credetti potesse
uscire dal petto.
«Non
è normale che batta così forte.»
Sussurrai,
preoccupata.
Rimanemmo di nuovo
in silenzio. Lo sentivo chiaro e
forte, iniziando a contare quanti battiti facesse al minuto.
Era troppo veloce.
Alzai lo sguardo
sul volto di Edward, trovandolo intento a
fissarmi intensamente.
La sua mano fu
più veloce della mia e con un solo colpo,
mi liberò dal stetofonendoscopio, facendolo cadere a terra.
L’osservai
incredula, mentre portava entrambe le mani sul mio viso.
Le nostre labbra si
toccarono, scatenando brividi caldi e
eccitanti lungo tutta la mia spina dorsale.
Lo sentì
imprecare, prima di ritornare sulle mie labbra,
con una tale passione da togliermi il fiato. Tanto che dovetti
sorreggermi alle sue
spalle, per evitare di scivolare.
La sua lingua
sfiorò la
mia, riempiendomi con il suo illustre calore. Il suo profumo
m’investì, facendomi annebbiare la vista.
Il mio cuore
batteva furioso, così vicino al suo, da
accavallare i nostri battiti, creandone uno solo.
Le sue mani scesero
lungo i miei fianchi, avvicinandomi
al suo corpo. Le mie, invece, salirono sul suo viso, accarezzandolo,
fino a
raggiungere i capelli, quell’ammasso morbido e setoso che da
sempre avevo desiderato accarezzare.
Stavo bruciando
viva ad ogni suo tocco. Le sue labbra
erano lava incandescente, pronte a incendiarmi al loro passaggio.
Ci staccammo solo
quando entrambi rimanemmo senza fiato,
ma prima che potessi dire o fare qualcosa, lui mi allontanò,
scendendo dal lettino.
Afferrò
la sua camicia, correndo fuori dalla stanza prima
che potessi anche solo rendermene conto.
Portai una mano
sulle labbra, imbambolata, sentendo ancora il sapore di quelle di
Edward.
Buonsalve
carissime, come state?
Sono ritornata, anche se un pò in ritardo. Cosa
posso dirvi se non grazie? Ho letto davvero delle bellissime recensioni
e ringrazio tutte e 10 le anime che l'hanno lasciate, facendomi
sorridere.
Ringrazio inoltre chi ha inserito la storia nelle tre liste, siete
davvero in tanti, e io davvero non me l'aspettavo.
Per quanto riguarda questo capitolo, cosa posso dirvi?
Prima di tutto è stato diviso in due giorni. Se la
situazione dal punto di vista della Guerra è abbastanza
statico, quella all'interno del campo è tutt'altra cosa.
Tra Edward e Bella è davvero scoppiata la scintilla. Quello
che però volevo chiedervi e di non giudicare subito Edward.
Lo sappiamo tutte che è stato un vero idiota a lasciare
Bella dopo averla baciata, ma cercate anche di capirlo, come direbbe la
mia Professoressa di biologia "voglio vedere le vostre cellule
celebrali in azione", quindi su ragazze sforzatevi al massimo per
cercare di capire il perchè di questa sua improvvisa fuga.
Il prossimo capitolo molto probabilmente sarà un Pov Edward,
quindi doppia sorpresa eheh.
Come vi avevo detto all'inizio di questa storia, il capitolo sarebbe
stato di soli 6 capitoli, non vi preoccupata, perchè non vi
lascerei mai a bocca asciutta o insoddisfatti della storia, quindi
anche se il capitolo fosse solo di sei capitoli più
l'epilogo la storia non verrebbe rovinata. Però vorrei che
fosse voi a decidere se volete che la continui, magari allungandola. Le
idee ci sono, ma preferire sapere la vostra opinione.
Un bacione e grazie a tutte le ragazze e ragazzi che recensiranno.
P.S. Il capitolo di Buskers verrà pubblicato tra Domenica e
Lunedì. Mi scuso in anticipo per questo mio enorme ritardo,
ma è un capitolo davvero impegnativo e vorrei che fosse
perfetto, anche se difficilmente ci riuscirò a renderlo
tale, voi mi raccomando non mi abbandonate!
Lua93.
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Capitolo 6 *** 5# ***
5. Capitolo
Come ormai di abitudine, vi
lascio una canzone da poter ascoltare mentre leggete il capitolo: Nine Inch Nails - Leaving Hope
Buona
lettura, ci vediamo a fine capitolo, dove vi ruberò solo due
minuti...
Pov Edward
2 Marzo 2003
Il
tramonto aveva colori più vividi in questo cielo,
concentrato in
un unico immenso manto infuocato,che incendiava il deserto.
Attraverso
la finestrella del mio ufficio, riuscivo a scorgere gli ultimi raggi
del sole, che cercavano di scappare dalle tenebre, infilandosi negli
angoli più nascosti, quasi nel tentativo di seppellirsi
nella
sabbia, confondersi con essa. L’aria era calda, satura
dell’incessante odore di polvere da sparo, sempre presente
nel
campo.
Peter
O’Shea, uno dei primi soldati ad essere stato trasferito,
continuava a fischiettare, intonando una triste melodia,
mentre
riordinava vecchie mappe geografiche e piante del territorio.
«Mi
manca Charlotte.» Sbottò improvvisamente,
chiudendo il
cassetto dell’armadietto con un certo nervosismo.
Distolsi
lo
sguardo dai fascicoli che mi erano stati consegnati quel pomeriggio,
noiose scartoffie riguardanti i soldati arrivati da poco.
«Voglio
vederla, voglio sfiorarla, voglio amarla.»
Farfugliò voltandosi verso di me.
«Ti
ho
concesso il permesso di tornare da lei solo due mesi fa, non posso
accontentare ogni tuo capriccio.» Gli sorrisi, sollevandomi
dalla
sedia.
Peter
annuì controvoglia, «lo so Edward, solo che non
è
facile stare così lontani dalla persona che si
ama.»
«Posso
capirti.»
«Lei
come si chiama?» Mi domandò incuriosito.
Io
scoppiai a ridere, «Kay.»
«Bionda
o bruna?»
«Chiara»
«Occhi?»
«Scuri.»
«Oh,
quanti anni ha?»
Feci
un calcolo veloce, «cinque.»
Peter
mi
guardò sbalordito, ma prima che potesse farmi qualche altra
domanda, lo misi a tacere, dandogli la risposta definitiva.
«E’
un labrador, Peter.»
Lui
scoppiò a ridere, sollevato. «Pensavo avessi una
bambina.»
Scossi
la
testa dandogli una pacca sulla spalla, «E’ lei la
mia
bambina. Quando sono in missione è mia madre che se ne
occupa.»
«Come
vedi posso capirti benissimo, adesso basta però, vai con gli
altri e cerca di non pensare troppo a tua moglie, io devo raggiungere
il Dexter.» Gli dissi, mentre mi allontanavo
dall’ufficio.
«Ci
proverò, tu vai, che qui chiudo io, capo.» Mi
urlò alle spalle, chiaramente ancora divertito.
Quando
mi
chiusi la porta della caserma alle spalle, il sole era calato da
diversi minuti ormai, lasciando che l'oscurità inghiottisse
ogni
cosa, riempiendo il campo di un inquietante silenzio.
Era
difficile gestire la situazione all'interno della base, i ragazzi
sembravano non essere mai pronti. Ed erano rari i momenti in cui
riuscivo a distrarli, cercando di liberargli la mente.
Dovevo
continuare a spronarli, cercando di riuscire a convincerli a resistere,
a continuare a lottare per la nostra Patria, per i nostri stessi
cittadini, ma soprattutto per la propria vita. La verità era
difficile d'accettare, soprattutto quando dovevo mentirgli, dicendo
loro che questa era anche una nostra guerra.
Mi
trovavo
nello stato del Kuwait da più di sei mesi ormai. Il mio
compito,
come quello dei miei soldati, era mantenere l'ordine pubblico
all'interno delle cittadine limitrofe alla base, addestrare la polizia
locale, garantire l'arrivo e la distribuzione degli aiuti umanitari, ma
soprattutto proteggere i civili, anche se di un altra religione, anche
se diversi da noi.
Era
quello
il compito più difficile, proteggere persone che non
volevano
essere protette. Difendere donne che non volevano essere difese.
Sarebbe
stata una bugia dire che tutto aveva avuto inizio solo da un conflitto
d'interesse che riguardava più il predominio dei giacimenti
petroliferi, che il controllo totale di queste terre. Gli Stati Uniti
non si sarebbero arresi facilmente, così come i Pakistani
che
non avevano alcuna intenzione di abbandonare la propria terra in mano
al nemico.
Passai
accanto al mio dormitorio, lanciando un occhiata alla luce accesa
proveniente dalla finestrella. In tutto questo Inferno, c'era qualcuno
che era riuscito a trovare un pezzo di Paradiso. Quella di Jasper e
Alice era diventata un'abitudine, pericolosa per entrambi, ma Jasper
era il mio migliore amico da tanti anni ormai, per lui avrei fatto
qualsiasi cosa. Avrei continuato a fingere fin quando mi sarebbe stato
concesso.
Raggiunsi
velocemente l’ambulatorio, salutando cortesemente Kristen,
l’unica infermiera, insieme ad Alice, sopravvissuta
all’attentato, mentre usciva dalla porta principale, con in
mano
diverse cartelle cliniche.
«Buonasera,
Tenente.» Mi sorrise, leggermente imbarazzata.
Ignorai
lo
sguardo malizioso lanciatomi subito dopo avermi salutato. Sapevo di non
essere indifferente alle donne, e fin quando si era un ragazzo, non vi
era cosa più bella che sapere di essere desiderato, e
riuscire a
conquistare più donne possibile, per vantarsene con gli
amici.
Ma l’età dei giochi era finita da un pezzo. Ero
diventato
uomo. Un uomo che aveva scelto come futuro, un campo di combattimento.
Per svolgere il mio lavoro, trasformavo la rabbia verso il passato in
qualcosa di produttivo per il mio Paese.
Entrai
all’interno dell’edificio, raggiungendo velocemente
l’ufficio di Dexter.
Un
uomo e un medico eccezionale, nonché mio buon amico.
«Edward,
pensavo non venissi più.» Ridacchiò
quest’ultimo, sollevandosi dalla sedia, mentre afferrava da
uno
scaffale una cartella rossa.
«Ho
avuto un piccolo problemino con uno dei miei ragazzi, voleva tornare da
sua moglie.»
Sorrise,
«come biasimarlo, questo posto è un
inferno.»
Annuii,
ritrovandomi d’accordo con lui. Poi come ormai
d’abitudine,
mi sedetti di fronte a lui, incrociando le braccia al petto.
«Avanti
dimmi tutto.»
Lesse
velocemente il nome scritto sulla cartella rossa, allungandomela,
«questa sera non ti annoierò promesso, niente
partite a
scacchi.» Ridacchiò guardandomi, «volevo
solo farti
vedere il curriculum della Dottoressa Swan.»
«Quando
arriverà?» Domandai aprendo la cartellina e
sfogliando le prime pagine.
Dexter
si
rilassò sullo schienale della sedia, «domani,
insieme a
gli altri cinque ragazzi che mi aiuteranno in ospedale.»
Annuii,
assimilando più informazioni possibili sulla nuova arrivata.
Si
era laureata da meno di un anno con il massimo dei voti, scegliendo
l’azione sul campo come specializzazione. Aveva poco
più
di venticinque anni.
«Mi
dispiace così tanto per i miei ragazzi, erano
così
giovani. La guerra si sta portando via gli uomini migliori,
bisognerebbe smettere di ucciderci a vicenda.»
Sospirò
passandosi una mano tra i capelli brizzolati.
«Se
cerchi sul dizionario la parola utopia, troverai come esempio la pace.
Quindi non sorprenderti se ti dico che sarà impossibile
eliminare la guerra.»
Stavo
per
chiudere il fascicolo, quando mi accorsi, di aver saltato una pagina,
contenente un immagine. Ritornai indietro, concentrandomi sulla foto
stampata, che ritraeva una ragazza.
«Hai
proprio ragione Edward.» Sospirò Dexter.
«E’
lei?» Domandai, puntando l’indice sulla fotografia.
Dexter
si
allungò leggermente verso di me, in modo da poter osservare
la
fotografia. «Si è lei. Piuttosto giovane penserai,
ma
fidati di me, se ti dico che come lei non ce ne sono in giro. Ha
carattere, voglia di imparare e coraggio da vendere, ma soprattutto sa
come gestire situazioni difficili. Se non ne fossi stato convinto non
l’avrei mai portata qui, come mia assistente.»
Dexter
continuò a parlare a proposito delle sue qualità
come
medico e della sua brillante tesi che l’aveva portata ad
ottenere
come risultato finale il massimo punteggio nel suo corso. Ma i miei
pensieri vorticarono sconnessi solo in direzione del suo viso.
Possedeva due grandi occhi color nocciola, incastonati dentro un viso
pallido a forma di cuore, incorniciato da un infinità di
capelli
castani, che ricadevano sinuosamente sulle sue spalle. Le labbra tirate
in un mezzo sorriso, sembrava quasi che si stesse trattenendo dal
farlo.
Una
scarica elettrica invase il mio corpo.
«Edward
mi stai ascoltando?»
Sollevai
gli occhi, ritornando alla realtà. Dexter mi fissava con un
sorrisetto divertito sul volto.
«Oh
credo di aver capito. Vedrai allora come rimarrai incantato quando la
vedrai dal vivo.» Lanciò un occhiata maliziosa in
direzione della fotografia.
Senza
guardare chiusi la cartella della dottoressa Swan, sollevandomi dalla
sedia.
«Mi
sembra abbastanza preparata, ovviamente non nego che sono leggermente
titubante, dato la sua giovane età, ma mi fido di te,
Dexter.» Dissi tutto in un fiato, ignorando la sua precedente
battuta.
Il
mio amico annuì, riprendendosi la cartella,
«ottimo, sono certo lavorerete bene insieme.»
Distolsi
lo
sguardo, fissando il muro oltre le spalle di Dexter, mentre una strana
sensazione si fece spazio dentro il mio corpo.
1 Aprile 2003
Non ero riuscito a
guardarla, mentre andavo via.
Ero fuggito da lei,
come un vigliacco che scappa di fronte al suo avversario incapace di
affrontarlo.
Camminavo con lo
sguardo rivolto
verso il terreno arido e caldo di quella maledetta terra. Sentivo come
fuoco sulle mia labbra, il sapore di quel bacio, e tra le mani, lungo i
sottilissimi nervi che componevano le mie dita, il formicolio della
rabbia e del desiderio che provavo per quella donna. Tanto
potente e sconvolgente, quanto sbagliato.
Mi allontanai
dall’ospedale, furioso con me stesso, per essere stato troppo
debole di fronte a quegli occhi tentatori. E se c’era una
cosa
che detestavo, era proprio quella di non riuscire a controllarmi.
La mia mente
ripercorreva
nitidamente ogni mio gesto, ogni mio tentativo di allontanarla da me,
ma qualsiasi mio sforzo, qualsiasi segnale cercassi di lanciarle, lei
non riusciva a scorgerlo. Così, quando me l’ero
ritrovata
talmente vicina da sentirmi assuefatto dal suo profumo, voglioso di
quelle labbra a forma di rosa, non ero riuscito a resistere alla
tentazione di possederle quelle stesse labbra.
Ed essere pelle
contro pelle, sentirla come creta sotto le mie mani, mentre si lasciava
andare a quel mio gesto sconsiderato.
Cristo controllati
Edward, ti stai comportando come un maledetto moccioso.
Indossai la
camicia, richiudendo tutti i bottoni.
I raggi caldi del
sole
s'infrangevano sulla mia pelle sudata, mentre cercavo un pò
di
riparo tra le ombre all'interno del campo.
Quando raggiunsi la
caserma, vidi i miei uomini irrigidirsi e guardarmi meravigliati.
«Sull’attenti.»
Ruggii, osservando i ragazzi muoversi velocemente, per cercare di
formare una fila dritta e composta.
«Edward
calmati, non siamo
più negli anni quaranta.» Sbottò John,
allontanandosi dagli altri soldati. Lo fissai esterrefatto, mentre
raggiungeva la sua postazione accanto alla radio.
«Scusami?»
Domandai
ironicamente, «forse dalle tue parti, nel Wisconsin, non ti
hanno
mai insegnato il rispetto per un tuo superiore, non è
così White?» Ringhiai, facendolo sobbalzare.
John si
sollevò dalla sedia, «che diamine ti prende
Edward, non ti sei mai comportato così?»
Osservai il resto
dei ragazzi
fissarmi in attesa di una mia qualche reazione. Mi passai una mano tra
i capelli, «Non alzare la voce ragazzino, hai visto la
metà delle cose che ho visto io. Non sai nulla della guerra
e
dei soldati che vi combattono.» Dissi trattenendomi dal
colpirlo
con un pugno.
John si
pietrificò, fissandomi spaventato.
«Edward,
calmati per favore.» S’intromise Peter, osservando
sia me, che John.
Feci un respiro
profondo,
avvicinandomi alla porta del mio ufficio, quando la voce stridula di
Peter catturò la mia attenzione, «vuoi
parlarne?»
«E cosa
dovrei dirvi, che
siete una razza d’incompetenti? Frignoni e
privilegiati?»
Domandai con una certa nota sarcastica, che li fece incupire
maggiormente.
Peter mi
guardò di
traverso, «non ti riconosco più.»
Sospirò,
voltandosi verso gli altri ragazzi. Stavo per controbattere, quando la
voce pacata di Jasper catturò la nostra attenzione.
«Che sta
succedendo qui?»
I miei occhi
incontrarono quelli
di Jasper, leggermente preoccupato. Non era difficile intuire che
c’era qualcosa che non andava.
Lo vidi corrugare
la fronte, pensieroso.
«Ragazzi
raggiungete le
vostre postazioni, oggi il deserto è più
silenzioso del
solito, e questo non è mai un bene.» Disse Jasper,
risoluto.
Ignorai il suo
sguardo arrabbiato mentre raggiungevo il mio ufficio.
Quando vi entrai,
mi avvicinai
alla finestrella che dava sul retro del campo, osservando
l’infinità di sabbia che conteneva quella terra.
Così difficile scorgere la fine, che chiunque sarebbe
impazzito
al solo pensiero di rimanerne imprigionati.
Sentii lo scatto
secco della
porta che si chiudeva e i passi frettolosi del mio migliore amico,
riecheggiare in tutta la stanza.
«Edward,
sei per caso impazzito?» Mi chiese leggermente sconvolto.
Mi voltai verso di
lui, facendogli segno di stare zitto, ma lui, ovviamente, non mi diede
retta.
«Ti
sembra il modo di
trattare i ragazzi? Con tutto quello che stanno passando?»
Continuò imperterrito, mantenendo un tono di voce
inflessibile e
aspro.
Sbattei una mano
sulla
scrivania, facendolo sobbalzare, «dannazione Jasper, so
perfettamente quello che stanno provando i miei uomini.»
Jasper
sospirò, «sii più umano con loro
Edward, non sono delle macchine.»
Annuii, rendendomi
conto di aver esagerato con John.
«Edward,
siamo amici da
più di dieci anni, e ogni volta che penso di sapere come sei
fatto, ecco che un nuovo lato di te emerge, scombussolando
tutto.»
Sollevai lo sguardo
sui suoi occhi azzurri, «che vuoi dire?»
«Che
diamine è successo in ospedale?» Mi
domandò laconico, aspettando una mia risposta.
«Ovviamente
nulla.»
Sollevò
lo sguardo verso il soffitto. «Ovviamente nulla.»
Ripeté imitandomi.
Lo fissai torvo,
desiderando che
se ne andasse. Ma ovviamente, lui non colse il messaggio,
perché
lo vidi avvicinarsi, fino a sedersi sulla sedia di fronte la scrivania.
«Dato che
tu non hai
voglia di parlare con me, mi toccherà fare il mio solito
monologo, non è così?» Mi chiese
divertito,
stringendo le braccia sul petto.
Lo fissai,
sedendomi sulla sedia.
«Una
volta terminata la
mia visita medica, sono passato nell’ufficio della dottoressa
Swan, per vedere se anche tu avessi concluso.»
Iniziò con
tono pacato, «ma tu non c’eri.»
Aspettai che
continuasse, sapevo
dove voleva arrivare, lo conoscevo da troppo tempo ormai. Riuscivo
benissimo ad anticipare le sue mosse, cosa che lui, non era mai stato
in grado di fare, con me. Tra i due, ero sempre stato io quello
più imprevedibile.
«Stavo
per andare via
quando all’improvviso mi sono accorto che c’era
qualcosa
che non andava.» Smise di sorridere, «Isabella
sembrava
sconvolta. Era pallida come un cadavere, così mi sono
precipitato da lei, preoccupato che non si sentisse bene.»
M’irrigidii
riuscendo a immaginare perfettamente la situazione in cui si era
ritrovato Jasper.
«Le ho
chiesto se stava
bene e se avesse bisogno di qualcosa, ma lei non mi ha risposto,
sembrava sotto shock.» Disse leggermente preoccupato,
«adesso io mi domando, che cazzo hai combinato Edward
Cullen?» Mi chiese alzando leggermente il tono, in maniera
del
tutto inusuale, puntandomi uno sguardo omicida.
Serrai la mascella,
cercando di calmarmi.
«Edward
che cosa hai fatto a quella povera ragazza?»
Continuò leggermente irritato.
Lo fissai stizzito,
«non è successo nulla.»
«Non
mi è
sembrato sai, perché non avevo mai visto Isabella
così
pallida e sconvolta. Conosco quella donna da più di un mese,
Alice non fa che parlarmi di lei e di quanto sotto quel suo aspetto
forte si nascondi una ragazza fragile.» Sospirò
grattandosi il mento, «indubbiamente, Edward, credo che
Isabella
non sia un soggetto facile, ma devi capire che quella ragazza si
è vista morire il suo professore. L’uomo che
l’ha
praticamente accompagnata durante tutta la sua formazione come
medico.»
«Dexter
era mio amico Jasper, non dimenticare che anche io ho
sofferto.» Sibilai.
Il mio migliore
amico annuì, «sto solo cercando di spiegarti che
dovresti comportarti meglio con Isabella.»
«Ma che
ne sai tu eh? Tu
che parli e non conosci la reale situazione, dovresti solo stare
zitto.» Lo zittii, sbattendo la mano sul legno della
scrivania,
«dannazione Jasper lo so che quella ragazza è
fragile. Ma
non riesci proprio a capire che sto cercando in tutti i modi di non
lasciarmi travolgere da lei.» Sbottai improvvisamente,
sollevandomi dalla sedia e portando entrambe le mani sulla testa.
«L’ho
baciata, ecco
cosa è successo.» Confessai infine, osservando un
sorrisetto compiaciuto spuntare sulle labbra di Jasper.
«Avanti
Edward, raccontami cos’è successo in quella
stanza.»
Ritornai seduto
sulla sedia,
fissando il mio migliore amico, cominciando a raccontargli ogni cosa.
Dal mio nervosismo al suo tono gentile, fino ad arrivare al momento in
cui ho sentito le sue mani accarezzare la mia pelle e la perdita del
mio autocontrollo, che si sgretolava come un muro di cartongesso
colpito da un tornado. «Così l’ho
baciata,
scollegando il cervello.» Conclusi passandomi nuovamente una
mano
tra i capelli.
Jasper
annuì, assimilando
tutte quelle nuove informazioni. Lo guardai, sperando che almeno lui
potesse trovare una soluzione a quel mio enorme problema, che prendeva
il nome di Isabella Swan.
«Questa
ragazza ti ha letteralmente sconvolto, non era mai successo prima che
perdessi il controllo.»
«Lo
so.» Borbottai preoccupato.
Il mio migliore
amico sorrise, «perché sei scappato via dopo
averla baciata?»
Raddrizzai le
spalle,
irrigidendomi, «perché se fossi rimasto un altro
solo
minuto con lei, non sarei riuscito ad andarmene, senza aver prima
commesso qualche sciocchezza.»
Scosse la testa,
contrariato, «non hai risposto alla mia domanda
Edward.»
«Jasper,
possibile che non
capisci? Eppure anche tu ci sei passato con Alice. Solo che io non
posso lasciare che il desiderio che provo per quella donna diventi un
problema per me, ma soprattutto per i soldati. Non riuscirei a
concentrarmi con lei nelle vicinanze.» Gli spiegai, cercando
di
calmarmi.
«Quando i
miei occhi,
hanno incontrato i suoi per la prima volta, ho sentito come una fitta
colpirmi lo stomaco. L’avevo capito subito che dovevo starle
lontano, per non lasciare che il mio autocontrollo crollasse. Ma ogni
mio tentativo sembrava inutile, perché lei continuava ad
abbassare le mie difese, continuava a guardarmi con quei suoi enormi
occhi capaci di far crollare il mondo.» Dissi lasciandomi
andare,
«e quando oggi me la sono ritrovata così vicino,
non sono
riuscito a fermarmi.» continuai affannosamente, «la
desidero Jasper, ma non posso averla.» Sospirai lasciandomi
andare sullo schienale della sedia.
Il mio migliore
amico mi guardò con uno strano luccichio negli occhi,
«chi ti dice che non puoi averla?»
Scossi la testa,
risoluto,
«non ci provare Jasper, non riuscirai a farmi cambiare idea.
E’ troppo pericoloso, sia per me che per lei.»
«Io mi
sono lasciato andare con Alice.» Sorrise ammiccando.
«Sappiamo
entrambi che non
è possibile avere relazioni all’interno della
base, ma per
te, che sei il mio migliore amico ho chiuso un occhio.»
«Fai la
stessa cosa con Isabella.»
«Non
posso.»
Jasper scosse la
testa,
«come vuoi Edward, solo spiegami, cosa pensi di fare adesso?
L’ignorerai o le parlerai?» mi domandò
incuriosito.
La sua domanda mi
lasciò
spiazzato. Non avevo ancora pensato a questo. Ero troppo sconvolto per
riuscire a prendere una decisione, ma sapevo che qualsiasi scelta avrei
preso, mi avrebbe reso infelice. Il mio compito era quello di
proteggere i miei uomini, e tutte le persone che lavoravano alla base.
Ci trovavamo in una terra che non era la nostra, circondati da nemici
pronti ad attaccare. Una donna avrebbe alterato ogni mia decisione, sia
fuori che dentro il letto. Non potevo permettermi di abbassare la
guardia, l’avrei allontanata da me a qualsiasi costo.
Non ero
più lo stesso da quanto Isabella aveva messo piede nella
base.
«Non lo
so.» Sospirai.
Jasper si
alzò dalla
sedia, guardandomi dall’alto, «pensaci Edward,
perché ti sei infilato in un bel problema, e questa volta
essere
un tenente non ti servirà a nulla. Non puoi prevedere cosa
accadrà.» Mi disse prima di andarsene, chiudendosi
la
porta alle spalle.
Mi sentivo
impotente, per la prima volta, non sapevo come comportarmi.
Alzandomi dalla
sedia e
voltandomi verso la finestra, mi accorsi di una figura minuta che
camminava frettolosamente lungo il campo.
La riconobbi
immediatamente, senza il bisogno di vederla in volto.
Isabella sembrava
preoccupata,
si dirigeva con passo spedito lungo la mensa, stringendosi addosso il
camice bianco. Sembrava così fragile, così
bisognosa di
un abbraccio, che subito mi maledissi per aver ceduto a
quell’insensato desiderio che provo per lei. Innaturale e
sbagliato, privo di logica e senso morale. Dovevo disfarmene
immediatamente, prima di perdere completamente il senno della ragione.
Mi voltai
pensieroso, cercando di pensare lucidamente a una soluzione.
C’era
solo una cosa che
potevo fare. Qualcosa di cui non sarei mai andato fiero, sarebbe stata
una mossa falsa e vigliacca, ma mi avrebbe permesso di ritornare alla
normalità.
Con passo spedito
mi avvicinai alla porta, abbassando la maniglia quasi con rabbia.
«John.»
Gridai, catturando immediatamente la sua attenzione. Il ragazzo si
voltò fissandomi preoccupato.
«Ditemi
Tenente.»Disse educatamente, probabilmente ancora scosso
dalla nostra ultima conversazione.
Il soldato si
alzò in piedi, aspettando che continuassi.
L’osservai
corrugando la
fronte, continuando a ripetere che quello che stavo per fare era la
scelta giusta, «devi farmi un favore.»
BuonSalve, miei
carissimi lettrici e lettori, come state?
Sono
più che sicura
che questo capitolo vi abbia lasciato con più domande
rispetto
alla volta precedente. Sinceramente, ho avuto un periodo abbastanza
negativo, anzi se dovessi descriverlo direi, tragico. Dal quale sono
riuscita ad uscirne viva, ma non del tutto.
Sicuramente
come me, avrete
notato che in questo capitolo c'è qualcosa che non quadra,
anche
a me non convince molto, sarà che ancora non sono uscita
completamente dalla crisi che mi ha portato, tra le altre cose, anche
al blocco dello scrittore. Anche se definirmi una scrittrice
è
una parolona, solo che non riuscivo più a scrivere,
così
quando mi sono sbloccata questo è stato il risultato. Non
eccezionale, devo dire, però meglio di niente no?
Quindi vi
chiedo perdono, promettendovi che il prossimo capitolo sarà
sicuramente meglio.
Ma adesso
andiamo un pò con ordine.
La prima parte
è un
flashback, credo che l'abbiate capito tutti dalla data. Infatti
è il ricordo che ha Edward della sera prima dell'arrivo di
Bella. Quando Dexter gli parla della sua nuova assistente. Non so se
riuscite a scorgere il leggero cambiamento tra l'Edward prima
dell'arrivo di Bella e dell'Edward dopo l'arrivo di Bella.
Effettivamente è difficile, ma c'è.
Poi si ritorna
al tempo
della storia, al momento in cui si è allontanato
dall'ospedale e
ha raggiunto il suo ufficio. Dove, cercherà, una soluzione
al
problema "Bella".
Cosa
avrà in mente il tenente Cullen?
Vi dico solo
che ci sarà un colpo di scena, non indifferente.
Non aggiungo
altro.
Solo non lasciatevi subito travolgere dall'amore. Perchè
quello
che prova Edward nei confronti di Bella è solo attrazione
fisica, per il momento xD
Detto
questo
ringrazio tutti i voi per l'enorme pazienza che state dimostrando nei
miei confronti. Prometto di tornare alla carica il più
presto
possibile, nel frattempo perdonatemi ancora per questo capitolo -.-
Un bacione.
Lua93.
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Capitolo 7 *** 6# ***
6#
6
1
Aprile 2003
I raggi
caldi del
sole, filtravano attraverso la piccola finestrella del mio studio,
illuminando
le pareti bianche.
Lentamente mi sollevai dal lettino, sul quale mi ero seduta,
e ancora scossa dall’accaduto, sistemai lo
stetofonendoscopio, che avevo
utilizzato per ascoltare il battito cardiaco di Edward.
Sistemai il
lenzuolo bianco stropicciato del lettino, senza accorgermi di una
figura alta
alle mie spalle.
Mi voltai
spaventata, facendo un grosso respiro di sollievo nel vedere il volto
di Jasper.
«Scusami
Isabella,
non volevo spaventarti.» Mi parlò lentamente,
fissandomi.
Sollevai la mano
destra, facendo un gesto frettoloso, come se volessi scacciare le sue
parole,
«tranquillo, è stata colpa mia, non ti avevo
sentito arrivare.»
Jasper sorrise
leggermente, «vedo che Edward è già
andato via.»
M’immobilizzai,
voltando il volto da un’altra parte, in modo che non potesse
vedermi. «Si, la
sua salute è eccellente, non c’è voluto
molto.» Farfugliai, avvicinandomi alla
scrivania.
«Tutto bene
Isabella, mi sembri un po’ agitata, è successo
qualcosa?» Mi domandò troppo
apprensivo.
Gli risposi senza
voltarmi, «sto bene, davvero.»
«Il Tenente
vi ha
forse detto qualcosa di sconveniente?» Mi chiese con finta
innocenza.
Mi voltai verso di
lui, «il Tenente è stato molto professionale e
distaccato, come giusto che sia.»
Risposi falsamente, utilizzando il suo stesso tono di voce.
Jasper
annuì,
rimanendo in silenzio, i suoi occhi si spostarono dietro le mie spalle,
sembrava quasi preoccupato. «Mi aveva detto di aspettarlo
fuori dal tuo
ufficio, in modo da tornare insieme in caserma.»
Deglutii passandomi
una mano tra i capelli, «se ne sarà
dimenticato.»
Il sopracciglio
alzato e l’espressione beffarda che comparvero sul volto di
Jasper mi fecero
capire che questo era impossibile. «Lui non si dimentica mai
nulla.»
«Che cosa
stai
cercando di dirmi?» Gli chiesi mettendomi sulla difensiva.
Il sorriso
amichevole di Jasper allentò la tensione dei miei muscoli,
ma nei suoi occhi
leggevo tutt’altro che curiosità, «nulla
Isabella. Solo vorrei cercare di
capire il vostro comportamento.»
«Il mio
comportamento?»
Il Sergente
annuì,
«non solo il tuo, con vostro intendo anche
l’atteggiamento di Edward.» Rispose
risoluto.
L’osservai
leggermente in imbarazzo, «Jasper parla chiaro, non comprendo
le tue strategie
militari.»
«Quale
strategia
Isabella? Stavo solo cercando di capire cos'è accaduto
dentro questa stanza.»
«Ho visitato
il
Tenente, poi lui è andato via.»
Scosse la testa,
«sembravi sconvolta quando sono entrato, e ancora adesso, hai
gli occhi lucidi,
Isabella posso sapere cos’è successo?»
Feci un respiro
profondo prima di rispondergli, «se credi di conoscere
così bene il Tenente,
perché non vai a chiederlo direttamente a lui. Avrai la
conferma di ciò che
ti ho detto, qui non è successo nulla.» Risposi
quasi di digrignando i denti.
Avrei fatto ad Alice una bella ramanzina a proposito del suo fidanzato.
Questo
suo atteggiamento non riuscivo a decifrarlo, perché
insistere così tanto?
«Buona
idea.»
Ridacchiò, salutandomi cortesemente prima di uscire dal mio
ufficio.
Quando finalmente
fui sola, mi lasciai scivolare sulla sedia, facendo un grosso respiro,
per
calmarmi.
«Non
posso visitarla in queste condizioni.» Sbottai
contrariata.
Alice si
voltò a fissarmi, come me, cercava di trovare
una soluzione, ma entrambe trovavamo difficile, tradurre le parole di
quella
donna.
«Se non
mi lasci visitare tua figlia, non posso aiutarla,
mi capisci?» Quasi strillai, sovrapponendo le mie parole, a
quelle arabe che la
sconosciuta mi stava gettando addosso da quasi dieci minuti.
«Peter
dannazione, cosa sta dicendo?» Domandò esasperata
Alice, voltandosi verso il soldato che l’aveva condotta in
ospedale.
Ci trovavamo dentro
il piccolo ambulatorio, dove le
pareti rifrangevano le urla disperate di quella povera madre, che
cercava
forsennatamente di farsi capire.
«Non ne
ho la più pallida idea.» Rispose Peter,
imbambolato.
La donna stringeva
una bambina di pochi mesi tra le
braccia, avvolta da solo una coperta azzurra di lino, che lasciava
intravedere
il volto piccolo e sofferente della neonata. Gli occhi della bambina
erano
chiusi, sembrava quasi che dormisse, ma dalla sua boccuccia
continuavano a
uscire gemiti disperati.
«Dobbiamo
sedare la madre.»
Alice si
voltò verso di me, sorpresa. Le lanciai
un’occhiata
veloce, facendole intendere che la mia non era né una
domanda né una
costatazione, ma un ordine ben preciso.
Cercai di calmare
la donna, allungando la mano verso la
bambina, in modo che potessi prenderla tra le braccia, ma la madre
spinse via
le mie braccia, urlandomi qualcosa nella sua lingua.
«Non la
porto da nessuna parte, devo solo visitarla.» Le
dissi lentamente, sperando che lei potesse capirmi, e magari,
ascoltarmi.
Alice nel frattempo
preparò la siringa, spostando gli
occhi prima su di me, poi sulla donna. Le annuii silenziosamente,
«non fartene
accorgere, sistemati dietro le sue spalle.» Le dissi senza
mai distogliere lo
sguardo dalla donna, in questo modo poteva pensare che stavo parlando
con lei.
Alice fece
esattamente come le dissi, avvicinando l’ago
alla donna.
Gli occhi scuri
dell’iraniana erano rossi e colmi di
lacrime. Continuava a muoversi troppo velocemente, per Alice sarebbe
stato
impossibile sedarla. Così mi avvicinai a lei, osservando la
tunica nera che
indossava, e che lasciava scoperto solo gli occhi.
«Peter io
prendo la bambina, tu cerca di farla stare
ferma.»
Il soldato
annuì, «sarebbe tutto molto più
semplice se
parlassimo l’arabo.»
«E’
una lingua che conosci?» Gli domandai stizzita,
voltandomi verso di lui.
Gli occhi chiari di
Peter mi fissarono sconcertati, non
rispose alla mia provocazione, ma si sistemo dietro di me, pronto a
bloccare la
donna non appena avessi preso la bambina.
Feci un grosso
respiro.
«Signora
mi dia la sua bambina, non lo vede che sta male,
piange disperatamente.»Tentai di parlarle un'altra volta, con
scarsi risultati,
così, dopo aver dato un cenno di assenso ad Alice, mi
avventai sulla donna,
strappandole la bambina dalle braccia.
La donna
lanciò un urlo di terrore, e nel tentativo di
riprendersi la bambina, mi spinse via con rabbia. Barcollai nel
tentativo di
trovare un appoggio, e prima che potessi ritrovarmi a terra con la
piccola, mi
aggrappai allo schienale della sedia, riuscendo ad arrestare la mia
caduta.
Nel frattempo Peter
l’aveva immobilizzata e Alice era
riuscita a sedarla.
La donna
continuò a dimenarsi per altri dieci secondi,
poi chiuse gli occhi, addormentandosi.
Peter e Alice si
voltarono contemporaneamente verso di me. Io
abbassai lo sguardo sulla bambina che reggevo in braccio, i suoi gemiti
rimbombavano nelle mie orecchie. Riuscivo a sentire la pelle calda
della
neonata attraverso la leggera coperta che l’avvolgeva.
«Prima
pretende che l’aiutiamo, poi ci proibisce di
visitare la figlia.» Borbottò Alice, voltandosi
verso la donna, sdraiata sul
lettino.
Accarezzai la
fronte bollente della bambina, «Alice, mi
servono degli antibiotici immediatamente. Potrebbe non farcela, ha
difficoltà a
respirare e il suo battito è troppo debole.»
Alice si
allontanò immediatamente dalla donna, uscendo
dalla stanza, quasi correndo.
Peter
sollevò lo sguardo, «che
cos’ha?»
Rimasi in silenzio, posando la mano sulla fronte della neonata, per poi
scendere sul suo petto. Sentivo il suo cuore battere furiosamente,
troppo velocemente perchè potesse essere considerato
normale. I respiri della piccola erano alternati, si spezzavano prima
che potesse acquistare nuova aria dall'esterno.
«Non
ne sono sicura, ma credo sia tubercolosi.» Risposi
allontanando la bambina dalla stanza, e con lei in braccio, raggiunsi
Alice,
con i battiti del cuore che mi rimbombavano fin dentro i timpani.
Non
appena fui certa che la neonata era fuori pericolo,
la lasciai sotto la sorveglianza di Alice.
La visitai accuratamente, facendole diverse volte gli stessi esami, ma
gli esiti erano chiari, la piccola era malata di tubercolosi polmonare.
I sintomi erano abbastanza chiari, febbre, prividi, perdita di peso e
uno strano pallore che stonava con la carnagione scura della neonata.
Sapevo che non c'era molto tempo, prima che la malattia potesse
diventare contagiosa.
Così con passo veloce, e molto preoccupata
mi allontanai dall’ospedale, quasi correndo
all’interno della base.
Passando di fronte
la caserma dei soldati, una strana
stretta allo stomaco m’impedii di respirare.
Non avevo avuto
neppure il tempo di metabolizzare
l’accaduto, che subito Edward era fuggito via, allontanandosi
sia da me sia da
ogni responsabilità di quel gesto. In quel momento, se non
fosse che c’era una
bambina che stava lottando contro la morte, sarei andata da lui.
Rimanevano solo due
ore, prima che la donna si svegliasse,
richiamando l’attenzione su di se e sulla sua bambina. Non
sapevo con esattezza da quanto tempo la
malattia fosse in incubazione e quanto fosse scoppiata, ma in quel
frangente le
possibilità di contagio erano davvero molto alte.
L’unica soluzione era quella
di parlare con la madre, chiedendole da quale villaggio provenisse e
inseguito
farle una visita specializzata per accertarmi che anche lei non
l’avesse
contratta.
Raggiunsi
frettolosamente la mensa, che lentamente
iniziava a popolarsi di soldati. Inizia ad agitarmi, cercando con lo
sguardo
Angela. E non appena la vidi, intenta a servire uno dei soldati, corsi
verso di
lei.
«Bella!»
Esclamò Angela sorpresa.
Con non troppa
facilità cercai di regolarizzare il
respiro, reggendomi al tavolo sul quale si trovavano i piatti. Uno dei
soldati
ci raggiunse, fissandomi preoccupato.
«Dottoressa,
stai bene?» Mi domandò posando una mano
sulla mia spalla.
Annuii
distrattamente, sollevando lo sguardo su Angela,
«mi serve il tuo aiuto.» Biascicai, tra un respiro
e un altro.
Ricordavo di una conversazione avvenuta con Angela, nella quale mi
raccontava di un corso d'arabo che aveva frequentato in America prima
di partire, diversi anni prima.
«Che cosa
è successo?» Mi domandò posando il
mestolo.
«Una
donna araba è venuta in ospedale questa mattina,
è stato Peter a portarla
da noi.» Iniziai, afferrando il bicchiere colmo
d’acqua che il soldato mi aveva gentilmente offerto.
Bevvii tutto in un
sorso, rischiando quasi di affogarmi.
«Aveva una bambina con se, per riuscire a visitarla abbiamo
dovuto sedare la
madre, sembrava indemoniata. Comunque sia, la neonata è
malata di tubercolosi
polmonare, da diversi giorni.»
Angela
corrugò la fronte non riuscendo a capire.
«C’è
una neonata malata di tubercolosi nel campo?»
Domandò il soldato agitandosi.
Annuii ancora una
volta, senza voltarmi verso di lui, ma
tenendo lo sguardo immobile sul volto di Angela, «la madre si
sveglierà tra
poco, e noi abbiamo bisogno di porgli alcune domande. Tu sei
l’unica che
conosce l’arabo qui dentro.»
Angela scosse la
testa, «Bella ho fatto solo un corso,
tra l’altro nemmeno concluso, potrei imbrogliarmi e sbagliare
a tradurre.»
Borbottò contrariata.
«Tubercolosi.»
Continuò a ripetere il soldato, come se
fosse una cantilena.
Intorno a noi si
era cristallizzato uno strano silenzio,
tutti quanti si voltarono per cercare di capire cosa stesse succedendo.
«Angela
non importa, è sempre meglio di niente. Non
capisci, se non parliamo con la madre, non solo rischiamo la morte
della
bambina, ma potrebbero esserci complicazioni molto più gravi
di quante immagini.»
«Che cosa
intendi dire?» Mi chiese titubante.
Voltandomi mi
accorsi che tutti gli occhi erano puntati
su di me. Deglutii, prima di rispondere, «Non sappiamo ancora
se anche la madre
può essere infetta e se sia stata proprio lei a trasmettere
la malattia alla
neonata. Questo significa che l’intero villaggio dal quale
proviene la donna
potrebbe essere a rischio.»
«Se si
viene infettati quanto tempo occorre prima che
si possa contagiare?» Mi domandò perplesso il
soldato, fissandomi terrorizzato.
Mi voltai verso di
lui, «non appena la malattia è attiva ci vogliono
circa due settimane prima che si possa trasmettere.»
Angela
sospirò, «va bene, prima che le cose peggiorino,
è
meglio prevenire.»
Le sorrisi,
ringraziandola.
«Dobbiamo
avvisare immediatamente il Tenente.» Disse
improvvisamente il soldato che fino ad ora era rimasto in silenzio,
dietro di
noi.
Mi voltai verso di
lui, «perché?»
«Ci sono
due persone malate di tubercolosi all’interno
del campo, prima che esplodi il contagio, dobbiamo
allontanarle.» Mi rispose
risoluto.
Lo fissai in
cagnesco, «devo prima fare tutte le dovute
visite mediche e inseguito le allontaneremo dall’ospedale per
portarle in una
sede specializzata.»
Il soldato che mi
aveva allungato il suo bicchiere
d’acqua ritornò attivo, fissando prima il suo
collega e poi me, «sono solo due
maledette straniere arabe, allontaniamole prima che infettino anche
noi.»
«Sono due
esseri umani dannazione, e quella che rischia
la vita è solo una neonata, lo capisci?»Ruggii,
facendolo indietreggiare, «non
osare mai più dire una cosa del genere.»
Angela mi
afferrò per il braccio, trascinandomi fuori
dalla mensa.
«Avviseranno
Edward dell’accaduto.» Mi disse mentre ci
dirigevamo con passo svelto verso l’ospedale del campo.
Grugnii
contrariata, «per quel che mi riguarda il Tenente
Edward Cullen potrebbe benissimo andare
all’Inferno.»
La donna si
chiamava Jannah, da quando si era risvegliata
e Angela le aveva parlato, non aveva fatto altro che pronunciare il
nome della
sua bambina, evitando di rispondere alle nostre domande. Avevamo
scoperto
troppo poco, a stento eravamo riuscite a sapere il suo nome e quello
della
neonata, ma non voleva dirci altro. Adesso che aveva visto sua figlia
smettere
di piangere, aveva smesso di urlare anche lei.
«Deve
dirti da quanto tempo la bambina era in quelle
condizioni, ma soprattutto da quale villaggio provengono.»
Angela
cercò di tradurre come meglio poteva le mie
domande, ma Jannah continuava a scuotere la testa e a ripetere il nome
di sua
figlia.
«Nadira
non guarirà se lei non risponde alle nostre
domande.» Sospirai, sedendomi accanto alla donna.
Angela
ripeté le mie stesse parole nella sua lingua, poi
mi fissò, aspettandosi dell’altro.
«Sua
figlia è molto malata Jannah, potrebbe non
sopravvivere. Ha bisogno di cure che qui non siamo in grado di darle,
deve
essere trasferita al più presto.»
La donna
ascoltò le mie parole, poi si voltò verso
Angela, ascoltandole nella sua lingua. I suoi occhi scuri si fecero
rossi e una
lacrima rimase imprigionata nel suo burqa.
Poi, dopo minuti
che parvero ore, iniziò a parlare,
lentamente, in modo che Angela potesse capirla.
«Dice che
è scappata dal suo villaggio, perché il marito
non voleva che Nadira venisse curata.» Disse Angela,
rabbrividendo nel
pronunciare quelle parole.
Io mi voltai verso
Jannah che continuava a parlare, mentre
si torturava le pieghe del suo vestito.
«E’
la prima bambina che ha avuto, dopo cinque figli
maschi. Il marito avrebbe voluto liberarsi della neonata molto tempo
prima, ma
aveva acconsentito a lasciarla crescere con la madre, convinto che
potesse
essere poi utile per qualche scambio.»
Mi voltai verso
Angela sorpresa e terrorizzata nello
stesso tempo, «scambio?»
Angela
annuì tristemente, «intende matrimonio,
Bella.»
Jannah riprese a
parlare, mentre la sua voce tremava.
Rimasi in silenzio distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.
L’unica parte del
suo corpo scoperta dal burqa, ma anche l’unica che lasciava
libera la sua anima
e la sua infinita tristezza.
«Quando
il marito ha scoperto della bambina, era
intenzionato a lasciarla morire, ma Jannah è scappata,
correndo per diverse ore
per il deserto, consapevole del pericolo che si stava lasciando alle
spalle.»
Feci segno ad
Angela di proseguire, mentre osservavo
Alice somministrare un’altra piccola dose di antibiotici a
Nadira.
«Non si
era resa conto di essere così vicina al confine,
e si spaventò molto nel vedere il nostro campo, ma
l’amore per la sua bambina
era più forte della paura della morte, così corse
verso di noi.
«Dice di
aver avuto paura di essere sparata, perchè i soldati
iniziarono ad urlargli contro, ma lei non capiva le loro parole.
Così si buttò a terra, nascondendo la bambina tra
le sue braccia. Poi un soldato si è avvicinato e ha visto
che tra le braccia reggeva una neonata, così ha urlato
qualcosa agli altri militari, in modo da abbassare le armi. Ha detto
che non potendo sollevare lo sguardo per vederlo in volto, non
può dire quale soldato si fosse avvicinato, ma ricorda il
suo profumo, ed era lo stesso che sentiva quando eravamo nel tuo
ufficio. Comunque sia, il soldato ha cercato
di tranquillizzarla, senza puntargli nessuna arma addosso, e di questo
ne è
grata.» Continuò bloccandosi.
Parlava di Peter.
Non doveva essere
facile per Angela, interpretare una
lingua così difficile.
«Chiede
scusa per il suo comportamento, non voleva
reagire in quel modo, ma aveva troppa paura per la sua bambina. Adesso
vi
ringrazia.» Concluse Angela, singhiozzando.
Allungai una mano
verso Jannah, sperando che lei potesse
stringerla, ma la sua cultura le impediva qualsiasi contatto esterno.
Un nodo
alla gola m’invase, mozzandomi il respiro.
«Dille
che è al sicuro adesso, ma che dobbiamo sapere da
dove proviene e se anche lei è infetta.» Dissi
rivolgendomi ad Angela.
Quest’ultima
annuii, traducendo quello che avevo appena
detto, a Jannah.
La donna attese in
silenzio, sospirando e scuotendo
ancora una volta la testa.
«Dille
che non abbiamo nessuna intenzione di riportarla
da suo marito, ma che quello che le ho chiesto è necessario
per salvare la sua
bambina.» Provai ancora, sperando con tutta me stessa che
potesse cambiare
idea.
Aspettando una sua
risposta mi avvicinai alla porta della
camera della neonata, dove eravamo state costrette a metterla per
isolarla
dagli altri soldati.
Alice
uscì dalla porta, levandosi la mascherina e i
guanti in lattice.
«Ha
ancora la febbre molto alta, Bella non credo che noi
possiamo fare molto.» Mi disse combattuta, gettando i guanti
nel cestino
accanto alla porta.
«Dobbiamo
trasportarla in un centro qualificato.»
Alice si
voltò verso di me, dispiaciuta, «e se la
portassimo all’ospedale di Kuwait City?»
Scossi la testa
voltandomi verso Jannah, «non possiamo, è
scappata dal suo villaggio, abbandonando il marito, se la lasciamo
sola, l’uomo
tornerà a prendersela.»
«Il
marito sa che si trova in questa base?»
«Non
credo.» Le risposi, posandole una mano sul braccio,
e sorridendole per rassicurarla.
Ritornai da Angela
e Jannah, fissando entrambe le donne
negli occhi, «allora Angela?»
«Ha detto
che non possiamo sapere da dove proviene,
perché ha paura che noi la riportiamo dal marito,
però ha risposto alla tua
seconda domanda, dicendo che nessun altro nella sua famiglia ha avuto
gli
stessi sintomi di Nadira, e che sono
sette giorni che la neonata è in queste
condizioni.» M’informò sedendosi
accanto a Jannah, che nel frattempo aveva ripreso a piangere.
Abbraccia Angela,
stringendola forte, «sei stata fantastica,
conosci l’arabo davvero molto bene.»
«Credo
sia questione di forza di volontà, da dopo la
morte di Ben, mi sono buttata a capo fitto in questo lavoro.»
Mi disse
tristemente, nominando il defunto marito.
«Sei una
donna eccezionale.» Le sorrisi fiera di averla
nella mia squadra.
Angela
ridacchiò, cercando di smorzare un po’ la
situazione, «cosa pensi di fare adesso?»
Feci spallucce,
«farò una visita alla madre per
accertarmi che anche lei non sia contagiata, poi vedremo.»
Alice si
avvicinò fissandomi, «posso visitarla io Jannah,
così da non lasciare sola la bambina.»
Le sorrisi,
«va bene.»
Angela si
voltò verso Jannah, informandola delle nostre
intenzioni. Dopo un attimo d’incertezza, si decise a seguire
Alice, ma solo dopo
che Angela fu costretta a prometterle che sarebbe tornata presto da
Nadira.
Una volta sole,
posai la testa sulla spalla di Angela,
socchiudendo gli occhi, incapace di pensare.
«Dov’è
la dottoressa?»
Una voce roca e
infuriata rimbombò nella mia mente, facendomi
aprire gli occhi spaventata.
Non mi ricordavo di
essermi addormentata, così quando mi
sollevai dalla sedia, dovetti sorreggermi al muro per evitare di
cadere, presa
da un improvviso capogiro.
Mi avvicinai alla
porta di Nadira, osservandola
dall’esterno.
La piccola sembrava
dormire tranquillamente, agitandosi
di tanto in tanto, ma aveva smesso di piangere. Voltandomi vidi che non
c’era
nessuno come me, ma il suono di passi frettolosi mi fece intendere che
non lo
sarei stata ancora per molto.
La prima persona
che vidi fu Angela, che trovò subito i
miei occhi. La fissai con aria interrogativa, perdendomi in
quell’oceano scuro
colmo di una tristezza che non riuscivo a concepire, forse
perché ce n’era
troppa in un corpo così piccolo.
Non appena lei si
spostò vidi l’uniforme color cammello
di Jasper, e i capelli ramati di Edward. Quando quest’ultimo
sollevò lo sguardo
dal freddo pavimento e incontrò i miei occhi, strinse forte
i pugni, avendo
presso a poco la mia stessa reazione.
«Dottoressa,
puoi spiegarmi che diamine sta succedendo?»
Mi domandò con finto buonismo il Tenente, fissandomi
adirato. Per lo meno, non
aveva ripreso a darmi del lei.
Feci spallucce,
sedendomi con nonchalance sulla sedia
dov’ero seduta prima del loro arrivo.
«Sto
svolgendo semplicemente il mio lavoro.»
Lui
sospirò, passandosi una mano tra i capelli
scompigliati, proprio lì, dove solo quella mattina le mie
dita avevano giocato.
«Cos’è
questa storia di una donna araba e della sua
bambina malata?» Mi domandò senza distogliere i
suoi occhi dai miei.
«Questa
mattina Peter ha condotto in ospedale una donna e
una bambina, proprio come hai detto tu. La bambina è malata,
ed io me ne sto
prendendo cura.» Gli risposi con astio.
Lui fece un passo
verso di me, guardandomi in cagnesco.
Poi si voltò verso Jasper e Angela, «lasciateci
soli.»
In un primo momento
entrambi rimasero immobili, ma dopo
una seconda occhiata da parte di Edward si allontanarono, fissandomi
con aria
colpevole.
Una volta soli, mi
sollevai dalla sedia, avvicinandomi
alla porta di Nadira, dando le spalle a Edward.
«Dobbiamo
parlare.» Disse dopo più di un minuto di
silenzio.
Gli risposi senza
voltarmi, «la bambina ha solo pochi
mesi, è malata di tubercolosi polmonare da una settimana,
restano solo altri
sette giorni prima che la malattia inizi a diventare pericolosamente
contagiosa.» Parlai velocemente, posando il palmo della mano
sulla maniglia,
consapevole che non sarei entrata nella stanza.
«Non
possono stare dentro la base.» Disse lapidario.
Mi voltai verso di
lui, scontrandomi con due gemme penetranti e terribilmente
affascinanti, «non la lascerò morire.»
Controbattei, stringendo le mani a pugno.
Edward scosse la
testa, imprecando a bassa voce.
«Il
marito di Jannah vuole uccidere la piccola, e questo
io non posso permetterlo, se tu le lascerai andare io andrò
con loro.»
Sentenziai mantenendo un’auto controllo che non credevo di
poter reggere, non
di fronte a lui, soprattutto non così vicino a lui.
Edward
inarcò un sopracciglio, «oh non essere
melodrammatica Isabella, cos’hai, istinto materno nei
confronti della bambina?
O è solo un dispetto che vuoi farmi?» Mi domando
sprezzante, avvicinandosi.
Sgranai gli occhi,
incredula, «un dispetto per cosa
Edward, sentiamo.»
Lui mi diede le
spalle, iniziando a camminare avanti e
indietro, «forse per quello che accaduto questa
mattina.»
Indignata e anche
abbastanza delusa mi voltai verso
Nadira, «perché cosa è successo questa
mattina?» gli domandai mentendogli.
«Ci siamo
baciati.» Rispose rassegnato, perdendo un po’
di quella freddezza che tanto lo caratterizzava.
Deglutii sollevando
gli occhi verso il soffitto, «tu mi
hai baciato.»
Mi sentii afferrare
per un braccio, e fui costretta a
voltarmi e a scontrarmi contro il suo sguardo inferocito.
«Non mi
sembrava che tu ti stessi ribellando.»
Mi liberai dalla
sua stretta, stizzita, «questa potevi
risparmiartela.»
«Comunque
sia hai ragione, questa mattina non è successo
nulla, è stato solo un momento di debolezza, che non si
ripeterà.» Disse
risoluto, e le sue parole furono dette con così tanta
determinazione da farmi
intendere che sarebbe stato realmente così. E se una parte
di me, si sentiva sollevata,
l’altra stava sprofondando.
«Bene,
chiuso l’argomento.» Sbottai.
«Bene.»
Ripeté lui, questa volta avvicinandosi alla
parete a vetro che ci separava dalla piccola Nadira. «Non
possono comunque
rimanere Isabella, se qualcuno dovesse venire a sapere che nascondiamo
una
fuggitiva, come pensi reagiranno i cittadini del suo paese, ma
soprattutto suo
marito?»
Mi voltai verso di
lui, «non possiamo portarla a casa, un
uomo che vuole uccidere la propria figlia non merita niente,
soprattutto amore
e compassione.»
Edward fece una
smorfia, «da queste parti nessuno ragiona
come te.»
«Sarà,
ma la bambina adesso non può muoversi.» Risposi
giocando
sulle mie competenze per raggiungere il mio obiettivo.
«E io non
posso di certo tenerla qui dentro, con i miei
soldati. Che cosa pensi che succederà se solo uno dei miei
uomini dovesse
contrarre la tubercolosi?» Mi chiese con un sorriso beffardo.
Lo guardai cercando
di non inveirgli contro, possibile
che dentro un corpo così bello si nascondesse un uomo
così freddo e senza
scrupoli?
«Non
accadrà.»
Inarcò
un sopracciglio, «ne sei certa?»
«Edward,
per favore.» Mi voltai verso di lui, stanca di
lottare, stanca di continuare a fingere questo disinteresse. Sentivo le
lacrime
pungermi gli angoli degli occhi, pronte a liberarsi, se solo non avessi
mantenuto un minimo di autocontrollo.
Lo vidi stringere i
pugni, e lottare contro se stesso.
Era combattuto, e nei suoi occhi, potevo leggere tutto il disappunto e
la
voglia di risolvere alla svelta questa situazione.
«Cosa
pensi avrebbe fatto Dexter?» Gli domandai, posando
la mano sul vetro, «secondo te, l’avrebbe
abbandonata?» continuai sentendo la
mia voce sempre più lontana.
Edward scosse la
testa, «la madre è infetta?»
In quello stesso
momento la figura minuta di Alice attirò
la nostra attenzione, seguito da Jannah, che camminava con la testa
bassa. «No,
Jannah sta bene.» Rispose Alice, al mio posto.
Le sorrisi,
mimandole un grazie con le labbra, poi mi
voltai verso Edward.
«Sarai la
mia rovina Isabella.» Borbottò più a se
stesso
che a me.
I suoi occhi erano
fissi sulla figura di Jannah, poi con
mia grande sorpresa le parlò nella sua lingua. Sia io che
Alice ci voltammo
verso il Tenente, entrambe sorprese.
Jannah scosse la
testa.
«Cosa le
hai detto?» Gli chiesi preoccupata.
Edward
ignorò la mia domanda e continuò a parlare a
Jannah, ma senza ottenere risposta, continuava a scuotere la testa,
senza
sollevare mai lo sguardo.
«Non
può rimanere qui Isabella, ci sono troppo uomini
presenti nel campo, non lo vedi, non può neppure rispondere
alle mie domande. E' una religione troppo diversa, una vita troppo
distante dalla tua. Rassegnati, per favore.»
Borbottò cercando di
arrampicarsi sui doveri morali e religiosi di Jannah.
Gli lanciai
un’occhiataccia, passandomi una mano tra i
capelli, «dormirà nel mio dormitorio.»
Alice
sollevò gli occhi verso il soffitto.
«Isabella
qui non siamo in America, nella tua bella
casetta a organizzare un pigiama party.» Mi fece notare
Edward.
Avrei tanto voluto
voltarmi verso il suo bel faccino e
mollargli uno schiaffo, per tutto quello che mi stava facendo passare.
La guerra mi stava
portando finita, ed io non ero forte
come lui, non avevo i suoi muscoli o la sua preparazione. Io ero solo
una
dottoressa, con un coraggio che presto si sarebbe trasformato in paura,
e
l’incredibile desiderio di evadere da una realtà
troppo crudele.
«Ho
capito Tenente.» Sussurrai, mordendomi il labbro
inferiore, «ubbidiremo ai tuoi ordini.»
Edward sembrava
sorpreso, quasi come se non si aspettasse
una mia resa.
«Bene,
chiamerò personalmente il capo reparto di malattie
infettive dell’ospedale, a Kuwait City, abbiamo
già collaborato una volta
insieme, non sarà difficile far trasferire la
neonata.»
Sentii le forze
mancarmi, e l’aria nella stanza
dimezzarsi.
«La madre
potrà partire con lei, ma quello che accadrà
dopo che avranno lasciato questa base, non è più
affare mio.» Disse con un tono
di voce piegato, come se quelle parole gli costassero molto
più di quanto
volesse lasciare intendere.
Una lacrima
solitaria sfuggii al mio controllo. Edward mi
fissò in silenzio, senza distogliere l’attenzione
dal mio viso.
«Bene,
sono i tuoi ordini questi e noi obbediremo, adesso però
glielo dirai tu a Jannah, perché io le avevo promesso che
l’avremmo difesa.»Borbottai
voltandomi dall’altra parte.
Lo sentii
pronunciare un debole si, prima di uscire dalla
stanza, facendosi seguire da Alice e Jannah.
Una volta sola mi
lasciai scivolare sul pavimento, mentre
salate lacrime rigavano il mio volto stanco.
Quella
stessa sera, solo dopo che Jannah e Nadira furono
messe su un’ambulanza per essere trasportate a Kuwait City,
io uscii dall’ospedale.
Le urla disperate
di Jannah che cercava di ribellarsi
dalle mani dei soldati che le intimavano di salire a bordo, non sarei
mai
riuscita a dimenticarle. I suoi occhi scuri trovarono i miei, colmi di
una
delusione che, anche se di una lingua diversa aveva lo stesso
significato. La
fiducia che mi aveva concesso quella mattina si era trasformata in
rabbia e
delusione. Iniziò a inveire anche contro di me, ma chiesi ad
Angela di non
tradurmi le sue parole, perché sarebbero state davvero
impossibili poi da dimenticare.
Ancora una volta
avevo perso, non ero riuscita a salvarle.
Jannah sarebbe
stata costretta a tornare da suo marito, che
ero certa, l’avrebbe punita anche con la sua stessa vita.
Mentre le sorti della
piccola Nadira erano incerte, anche se non era difficile immaginare
cosa le
sarebbe successo. Era troppo piccola per lottare, troppo piccola per
sopravvivere.
Come potevo
guardare il cielo quella sera, sapendo che
presto si sarebbe popolato di due stelle che, tutto meritavano
tranne brillare solitarie in quella notte scura?
BuonSalve ragazze e
ragazzi, che strano vedermi qui a quest'ora, vero? Però ho
preferito postare adesso, piuttosto che farvi aspettare un altro
giorno. Ero già abbastanza in ritardo.
Prima di parlare di questo capitolo, ci tenevo a ringraziare le 13
persone che hanno recensito il capitolo precedente, davvero grazie
mille. In oltre, ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la
storia nelle tre liste, davvero siete in molti, non mi aspettavo un
tale successo per questa storia. Ma mi sono dovuta ricredere, davvero
grazie.
Come forse avrete capito in questi giorni sono stata a Londra, ed
è per questo che non ho potuto postare il capitolo, ma
adesso che sono tornata sarò molto più presente.
Contente? In questo momento v'immagino con le vostre facce infrante per
il capitolo. Però non disperate perchè da come
avrete notato, la storia non finisce qui.
Esatto non durerà solo sei capitoli, perchè
altrimenti questo sarebbe stato l'ultimo.
Così preparatevi perchè accadranno moltissime
cose, prima che la storia si possa considerare conclusa.
Detto questo passo al capitolo: Allora, cosa dire. Per prima cosa, qui
non si capisce ancora cos'ha combinato Edward, però con
quello che è successo potreste fare delle supposizioni,
diciamo che Bella gli ha facilitato molto il compito.
Qualcuno con le sue supposizioni si è un pò
avvicinato, ma nessuno è riuscito a capire cos'ha fatto
realmente Edward, meglio così, no? Sarà davvero
una sorpresa, quello che scoprirete nel prossimo capitolo.
In questo capitolo vediamo che entrano in scena due personaggi molto
importanti Jannah e Nadira. Se pensate che possa aver offeso in un
qualche modo la curtura di questa donna per favore fatemelo sapere. Io
credo di essere stata il più reale possibile, le
difficoltà e i problemi di queste donne che tentano di
ribellarsi alla volontà del marito o famigliari sono davvero
molte. In questa storia, Bella si sentirà in dovere di
aiutarle. E in tutto questo che ruolo ha il Tenente Cullen?
è davvero il cinico e insensibile uomo che Isabella pensa
che sia?
Voi che l'avete visto anche in una veste passata, qual è
stata la vostra impressione su Edward?
Detto questo però vi saluto, altrimenti con questo papiro,
rischio davvero di rivelarvi troppo.
Un bacione a tutte.
P.S Oggi c'è stato il quizzone per chi deve sostenere
l'esame di maturità. Voglio augurarvi in bocca al lupo a
tutti voi per l'orale. Avanti ragazzi, gli scrittri sono passati, ora
manca l'ultima prova e poi libertà xD
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Capitolo 8 *** 7# ***
Come
sempre sono in ritardo, ma questa volta ho davvero esagerato facendovi
aspettare più di un mese. Mi scuso anticipatamente con tutti
voi, e spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo un
pò più lungo del solito. Io vi consiglio di
ascoltarlo con questa canzone:
Sigur Ros - Glosoli
7
«Per favore, potresti ripetermi le motivazioni che mi hanno
spinto ad accettare?»
La figura minuta di
Angela veniva coperta completamente dalla notte, nascondendomi
così il suo volto. In silenzio mi avvicinai verso di lei,
sdraiata da diversi minuti sul mio letto.
«Salveremo
due persone innocenti.» Le risposi meccanicamente, mentre
afferravo frettolosamente la torcia da dentro il comodino. «E
dopo averlo fatto, ti sentirai molto meglio.»
Angela si
sollevò a sedere, allungandomi le batterie di ricambio, in
caso si dovessero scaricare quelle dentro la pila. Bofonchiai un
grazie, mentre continuavo a riempire il borsone.
«E’
una follia.» Sospirò alzandosi dal letto.
«Lo so,
ma non posso fare finta di nulla.»
Gli occhi scuri di
Angela saettarono velocemente sui miei, trafiggendomi. «Sappi
che ho accettato di venire con te, solo perché non voglio
che vada in giro per il deserto da sola.»
Le sorrisi,
«ammettilo, anche a te eccita da morire disubbidire agli
ordini del Tenente.»
Angela mi
fissò truce, «oh non penso proprio. Dimmi un
po’ la verità Isabella, tra te e Edward
c’è stato qualcosa vero? Non dirmi di no,
perché non ci credo.»
Mi voltai
dall’altra parte, con la scusa di osservare strani movimenti
provenire dal campo. Ma fuori dalla finestrella del mio dormitorio,
sembrava tutto estremamente tranquillo. La notte inghiottiva ogni cosa,
divorando famelicamente ogni piccolo spiraglio di luce.
«Sai
perché lo chiamano “il quarto
vuoto”?» Le chiesi, evitando di rispondere alla sua
domanda. Sapeva di costa stessi parlando. Era con quel nome che veniva
chiamato il deserto che ci circondava.
Angela non rispose
immediatamente, ma quando lo fece, dopo quasi due minuti, il sangue mi
sembrò congelarsi nelle vene.
«Dicono
che venga chiamato così per le sue dimensioni, ma io ho
sempre creduto che si trattasse di una scusa, un diversivo.»
Mi voltai verso di
lei, «un diversivo?»
Angela
annuì, avvicinandosi con passi lenti verso di me,
«il deserto non è altro che un territorio vuoto.
Un pezzo di Mondo dove non ci può essere vita, ma solo
solitudine, desolazione. Si dice che gli stessi beduini abbiano paura
ad attraversare questo deserto. E’ vuoto perché
non si riempie mai.»
Il rumore del vento
che bussava sui vetri della finestra mi fece sobbalzare.
«Abbiamo la mappa, vedrai non ci perderemo.»
Un sorriso
intrinseco di tristezza si dipinse sul suo volto stanco, «non
capisci, non è il deserto che mi terrorizza Bella, ma
ciò che ci aspetta una volta arrivati in città.
Dovremo muoverci come fantasmi, entrare di soffiato dentro
l’ospedale e portare via Jannah e Nadira senza farci
scoprire.»
«Pensi
sia impossibile?» Le domandai afferrando il borsone
contenente qualche medicinale e diverso materiale utile per il breve
viaggio.
Angela fece
spallucce, «probabilmente avremmo più
possibilità di sopravvivere se ci perdessimo nel
deserto.»
Mi voltai verso di
lei, prima di aprire la porta del dormitorio, «allora non
venire, riuscirò a cavarmela anche senza di te.»
Angela scosse la
testa, ridacchiando, «non lascerò a te tutto il
divertimento.» Poi mi superò, estraendo dalla
tasca dei pantaloni le chiavi della Jeep, facendole tintinnare.
«Allora, vogliamo andare?» Mi sorrise vincitrice.
Annuii
raggiungendola velocemente, senza fare il minimo rumore.
L’aria
fredda della notte mi colpì in pieno viso. Strinsi forte gli
occhi nel tentativo di proteggermi dai granelli di sabbia che il vento
sollevava fastidiosamente. Angela mi allungò la mano che io
afferrai prontamente in modo da seguirla.
Avevamo progettato
quel salvataggio abbastanza velocemente, forse da incoscienti, ma non
avrei cambiato idea per nessun motivo al Mondo. Angela e Alice si erano
subito offerte di aiutarmi, anche se con qualche ripensamento quando
poi si resero conto che le mie intenzioni erano serie. Il piano sarebbe
stato abbastanza semplice. Alice ci avrebbe procurato le chiavi di una
delle Jeep parcheggiate fuori il campo, in modo da non svegliare i
militari con le luci degli abbaglianti, e nel frattempo tenere il
Sergente e il Tenente occupati per le prossime ore. Distrarre Jasper
non sarebbe stato difficile per lei, in fin dei conti, era quello che
faceva tutte le notti. Il vero problema sarebbe stato Edward, ma
chissà come lei era riuscito a bloccarlo nel suo ufficio con
la scusa di dovergli parlare. Mentre io e Angela avremmo raggiunto
Kuwait City per poi entrare dentro l’ospedale e riprenderci
Jannah e Nadira, portandole al sicuro in un accampamento italiano, poco
distanze dalla città.
Angela aveva
lavorato diversi mesi in quell’accampamento, conosceva molto
bene Aro Volturi il chirurgo che si occupava dell’ospedale
del campo. Mettersi in contatto con lui non fu affatto semplice, ma
Angela sembrava avere sempre la soluzione ad ogni problema.
Lì la donna e la bambina sarebbero state al sicuro, almeno
fin quando le acque all’interno del nostro campo non si
sarebbero calmate, in seguito mi sarei occupata personalmente del loro
trasferimento in una base più sicura. Il tutto venne
organizzato nel giro di un paio d’oro. Era da poco passata
l’una di notte, quando io e Angela uscimmo dal mio
dormitorio, raggiungendo frettolosamente la Jeep.
La ghiaia scivolava
sotto le suole delle nostre scarpe, emettendo uno strano rumore, come
se non fossimo le sole a correre in quella notte gelida. Ma voltandomi
non trovai altro che buio e ombre silenziose di capanni allestiti
frettolosamente per le provviste. Il silenzio del deserto riempiva gli
spazi vuoti, circondandoci minacciosamente. Quando raggiungemmo la
Jeep, mi sedetti al posto di guida, aspettando che Angela chiudesse lo
sportello accanto a me.
«Pericoloso
è a dir poco.» Borbottò, mentre
estraeva dal borsone la mappa che avremmo dovuto seguire.
Ridacchiai,
inserendo le chiavi e attesi qualche secondo prima di mettere in moto.
«Cosa
stai aspettando? Avanti Bella parti, e cerca di essere il
più veloce possibile.»
Obbedii
silenziosamente, accendendo il motore della macchina con le mani che mi
tremavano. Un rumore secco e repentino mi fece intendere che la Jeep
era pronta, così affondando il piede nella frizione e
spostando la marci sulla prima, mi lasciai andare ad un gridolino di
felicità, quando abbandonata la frizione premetti il piede
sull’acceleratore, lasciandomi alle spalle il nostro campo
militare.
Sentivo la sabbia
del deserto scorrere sotto le ruote della Jeep, mentre accendevo gli
anabbaglianti per raggiungere il più velocemente la strada.
«Hai mai
guidato una Jeep, Bella?» Mi domandò Angela con
entrambe le mani che stringevano la cintura di sicurezza.
Le sorrisi,
«A diciassette anni guidavo un Pick Up.»
«Non
è la stessa cosa.» Borbottò Angela, nel
tentativo di rimanere ferma, «cerca di non sbandare e rimani
sulla strada principale.»
Feci come mi disse,
e nel giro di qualche secondo la Jeep sembrò rilassarsi
sotto le mie mani, procedendo con più
tranquillità lungo la strada buia.
Mi sporsi per
osservare le dune del deserto illuminate dal chiarore della luna. Il
colore alabastro del nostro satellite illuminava la sabbia, che
sembrava brillare sotto di esso.
«Sei
sempre stata così?» Mi domandò
improvvisamente Angela, mentre sembrava perdersi come me, nel
meraviglioso panorama che ci circondava.
«Così
come? Impulsiva?»
Lei scosse la
testa, sorridendomi, «altruista.»
Feci spallucce
ritornando con lo sguardo sulla strada, «ho sempre pensato
che salvare gli altri mi avrebbe aiutato a salvare me.»
«Salvarti
da cosa?»
«Da
ciò che sono realmente. Ossia una ragazza terribilmente
spaventata dalla vita. Vivo con gli occhi chiusi, perché ho
paura di rimanere delusa da ciò che mi circonda se dovessi
aprirli.» Le spiegai, stringendo forte le mani sul volante.
Angela
corrugò la fronte, pensierosa, «sinceramente non
riesco ancora a capire cosa ti ha spinto a raggiungere queste
terre.»
Ridacchiai cercando
di alleggerire la tensione, «vuoi sapere la
verità? Non lo so neppure io. In America la mia vita
è sempre stata piuttosto piatta e monotona, come se ci
mancasse qualcosa. Salvare vite umane mi fa sentire bene, mi riempie di
orgoglio, e mi fa credere soprattutto di essere importante per
qualcuno.»
Angela
allungò la mano fino a sfiorare il mio braccio, che
accarezzò lievemente, per non deconcentrarmi dalla guida.
«Sei
così giovane e così bella, che questa tua scelta
di vita ti fa onore.»
Mi morsi il labbro
inferiore, «voglio una vita che mi faccia sentire fiera di me
e di ciò che sono. Sai a volte vorrei tanto essere come
te.»
Angela
scoppiò a ridere, portandosi un indice sul petto,
«come me? E perché mai?»
«Perché
hai tutto ciò che a me manca.»
«Ti
sbagli Bella, io se potessi tornerei indietro. Sarei stata capace di
salvare solo Ben, infischiandomene di tutti gli altri innocenti che si
trovavano dentro le torri Gemelle quel maledetto 11 Settembre. E avrei
vissuto con lui, senza interessarmi degli altri. Perché sono
un essere egoista Bella, sono una donna che se avesse potuto scegliere,
non avrebbe mai permesso alla sua vita di imboccare questa
strada.»
Mi voltai verso di
lei, «ma tu non sei così.»
«Ora non
lo sono, ma prima ero egoista e vigliacca. La morte
dell’unica persona che abbia mai amato in tutta la mia vita,
mi ha fatto aprire gli occhi, forse è stato un bene in fin
dei conti.» Sospirò, rilassandosi sullo schienale
del sedile. «Tenevo gli occhi chiusi, proprio come te, e poi
un bel giorno, sono stata costretta ad aprirli.»
«Mi
dispiace tanto.» Le sussurrai tornando con lo sguardo sulla
strada.
«Sono
passati due anni, quante cose sono successe da quel giorno.»
Sorrise con le labbra, ma negli occhi vi era dipinta la tristezza
più dolorosa che avessi mai visto.
Stavo per
controbattere, quando mi accorsi che non eravamo sole, lungo la strada.
Istintivamente accelerai, beccandomi un occhiataccia da parte di Angela.
«Ci
stanno seguendo.» Le spiegai, affondando per quanto fosse
possibile, il piede nell’acceleratore.
Angela
iniziò ad agitarsi, si voltò cercando di scorgere
che tipo di macchina ci stesse seguendo.
«Si sta
avvicinando.»
«Chi
pensi che sia?» le chiesi spaventata, mentre cercavo di
calmarmi. Iniziai a respirare lentamente, cercando di non decelerare.
Angela
afferrò lo zaino che aveva sotto i piedi, estraendone una
pistola che avevamo portato con noi, per sicurezza.
«Ho
paura.» Ammisi voltandomi verso di lei.
I suoi occhi erano
gonfi e rossi, sembrava sul punto di scoppiare in un attacco isterico.
«Tu non fermarti per nessuna ragione al Mondo, anche se
questi dovessero spararci contro.» Mi disse cercando di
calmare il tremolio della sua voce.
Riuscii solo ad
annuire, mentre mi passavo una mano sul viso, imperlato di sudore.
Le luci si fecero
più intense, segno che la macchina si stava avvicinando. Non
appena mi resi conto che non era una sola, la Jeep che ci stava
seguendo, lanciai un urlo di terrore.
«Sono
due.» Disse semplicemente Angela, zittendosi immediatamente.
«E adesso
cosa facciamo?»
Silenzio.
«Angela
rispondimi dannazione, vedo le luci della città in
lontananza, ma non so cosa fare.» Le dissi urlando, cercando
di risvegliarla dal trans in cui era scivolata.
Con la mano cercai
di attivare il segnale radio che collegava tutte le Jeep del campo,
sperando che qualcuno potesse sentirci. Ma non appena premetti il tasto
giusto, la voce del Tenente Cullen mi raggiunse come un tuono nel petto.
Lo sentii
distintamente mentre parlava con qualcuno, ma non appena ebbi la
certezza che chi ci stava seguendo non era altro che lui con gli altri
soldati, il mio cuore perse diversi battiti. Se una parte di me era
sollevata da quella rivelazione, l’altra era terrorizzata
all’idea di doverlo fronteggiare sotto quel cielo stellato.
Rallentai
istintivamente, frenando bruscamente quando le forze mi vennero a
mancare. Angela lasciò scivolare la pistola dalle mani,
voltandosi verso il finestrino.
«Come
hanno fatto a trovarci?» Mi chiese sollevata.
Le lanciai
un’occhiataccia, «per favore non dirmi che sei
stata tu.» feci per scendere dalla Jeep quando lei mi
bloccò.
«Non
giungere a conclusioni affrettate, il Tenente non è un
novellino, evidentemente Alice non è riuscita nel suo
intento.» Mi disse quasi come se volesse rimproverarmi per
aver pensato male.
Strinsi forte le
mani intorno al volante, e attesi in silenzio che lo sportello venisse
aperto, per ritrovarmi il volto furente del Tenente a pochi centimetri
dal mio.
Ma non accadde
nulla, così dopo diversi minuti, Angela scese dalla Jeep,
portando le mani sugli occhi, come se stesse cercando di scorgere il
volto dei passeggeri delle Jeep che ci seguivano. In meno di dieci
secondi però, dalla prima Jeep scesero il Tenente Cullen e
il Sergente, seguiti da Peter e John.
Vidi Jasper
raggiungere Angela e stringerla in un plaid scuro, per poi portarla
dentro la loro Jeep. Nell’oscurità della notte,
vidi la figura fiera e distinta di Edward raggiungermi, con passo
veloce. Non appena mi fu accanto, aprì lo sportello del
guidatore, ritrovandomi così, i suoi bellissimo occhi chiari
addosso. Occhi che sapevano di fuoco ardente, lava incandescente che
bruciava come impazzita. Erano due gemme inferocite, ma anche
terribilmente spaventate.
Non appena mi vide
la sua espressione divenne meno feroce, ma i suoi occhi continuavano a
bruciare di rabbia.
«Tu sei
completamente impazzita.» Mi disse facendomi scendere con uno
strattone dalla Jeep. Quando toccai terra con i piedi, per la troppa
foga da lui usata, scivolai sulla sabbia, ma prima che potessi toccare
davvero quel terreno freddo, le braccia di Edward mi afferrarono,
stringendomi in una morsa tra il protettivo e l’infuriato.
«Come
diamine ti è saltato in mente di prendere una delle mie Jeep
e scappare nel pieno della notte? Per fare cosa poi? Disubbidire ad un
mio ordine.» Sembrava un altro uomo sotto quella luna che
sapeva di veleno. I capelli perennemente scompigliati, sembravano
più sconvolti del solito. Benché inferocito, il
suo viso era incorniciato da una bellezza troppo intensa per un solo
essere umano.
«Sali
immediatamente sulla Jeep, faremo i conti una volta tornati al
campo.»
Feci esattamente
tutto ciò che mi disse, e non appena lo vidi salire sulla
Jeep e mettere in moto, mi lasciai sprofondare sul sedile, dove poco
prima era seduta Angela.
Gli lanciai un
occhiata furtiva, giusto quel tanto che bastava per scattare una
fotografia virtuale di quella scena. Teneva lo sguardo fisso davanti a
se, le mani strette sul volante, lo stringeva talmente forte che le
nocche delle dita si fecero bianche.
«Tu sei
pazza.»
Feci un grosso
respiro prima di parlargli, «come sei riuscito a
scoprici?»
Lui si
voltò di scattò verso di me, trafiggendomi con
quei due smeraldi che si ritrovava al posto degli occhi.
«Pensi davvero che io sia talmente stupido da non rendermi
conto di ciò che accade intorno a me? Di ciò che
accade all’interno del mio campo?» Urlò
inferocito. Non l’avevo mai visto così arrabbiato
e spaventato.
«Tu non
ti rendi conto di ciò che ho passato negli ultimi trenta
minuti. Avevo il terrore che vi fosse successo qualcosa.»
Disse, questa volta, senza alzare la voce, negli occhi leggevo tutta la
sincerità di quelle parole.
In quello stesso
momento, vidi le luci del campo accese, e tutti i soldati che ci
attendevano lungo il cancello d’ingresso. Socchiusi gli occhi
quando la luce dei fari delle altre Jeep ci affiancarono.
Non appena il
motore si spense, Edward afferrò il borsone da sotto le mie
gambe, portandoselo in spalla, poi mi ordinò di scendere.
Non appena toccai
terra, due esili braccia mi abbracciarono spaventate.
«Mi
dispiace tanto Bella, ma ho avuto troppa paura per voi.»
Alice cercò di scusarsi con me, ma io continuai a ripeterle
che andava tutto bene, e che non ero arrabbiata con lei.
Rimasi immobile di
fronte a tutti gli sguardi delusi degli altri soldati, quando la voce
severa di Edward risvegliò tutti quanti.
«Come
potete vedere sia la dottoressa Swan che Angela Weber stanno bene, non
c’è alcun motivo per cui dovete rimanere alzati a
quest’ora della notte. Chi è di turno torni nelle
proprie postazioni, gli altri vadano a letto.» Detto
ciò tutti si allontanarono, continuando però a
lanciarmi occhiata.
Edward si
avvicinò a me, allungandomi il borsone, «domani
mattina alle otto presentati puntuale nel mio ufficio.»
Lo fissai
sbigottita, «perché attendere, se devi cacciarmi
fallo subito.»
«Non
esagerare dottoressa, in questo momento non sono nel pieno delle mie
facoltà mentali.» Mi disse digrignando i denti.
«Come
vuoi Tenente.» Bisbigliai allontanandomi da lui, seguita da
Angela e Alice.
Peter ci
accompagnò personalmente nei nostri dormitori, come se
avessimo bisogno di una guardia.
Quando richiusi la
porta del dormitorio alle mie spalle, mi voltai verso Alice, che mi
fissava preoccupata.
«Tranquilla,
non sono arrabbiata con te.» Le sorrisi, cercando di
rassicurarla.
Poi senza aspettare
alcuna risposta, m’infilai nel letto, lasciando scivolare le
scarpe sul pavimento, ero talmente esausta ed agitata che crollai non
appena posai la testa sul cuscino.
Il mattino
seguente, mi risvegliai con un forte mal di testa, dovuto probabilmente
alla posizione scomoda che avevo assunto poco prima di addormentarmi.
Mi svegliai prima del solito, a causa dell’agitazione,
infatti intorno a me c’era ancora buio. Non era
l’oscurità della notte, ma più un
chiarore lontano che cercava di farsi spazio. Sollevandomi mi accorsi
di non aver neppure più il giubbotto, ma che probabilmente
era stata Alice a levarmelo durante la notte, perché io non
ricordavo di averlo fatto.
Silenziosamente
raggiunsi il borsone che la sera prima avevo riempito prima di tentare
quell’assurdo salvataggio, e con estrema lentezza lo svuotai,
racimolando un po’ di tempo. Era ancora molto presto.
Passai quasi
un’intera ora a sistemare prima il borsone e poi la valigia
che conteneva i miei vestiti, per poi uscire dal dormitorio per
raggiungere i bagni femminili.
Feci una doccia
veloce, sciacquandomi da tutta la sabbia che il mio corpo aveva
appiccicato sulla pelle la sera prima. Quando uscii dal bagno, mi
accorsi di una figura piegata sul water.
«Alice
è tutto okay?» Le chiesi avvicinandomi.
Vedendo che non
rispondeva, le posai una mano sulla fronte, raccogliendole i capelli
per evitare che si sporcassero.
«Non sei
costretta ad assistere.» Borbottò china sulla
tazza, con un braccio cercò di allontanarmi, ma io non mi
mossi, e attesi che finisse per aiutarla a sollevarsi.
Dopo che si fu
sciacquata e lavata i denti, le passai un asciugamano
«Grazie.»
Mi sorrise flebilmente, il volto ancora completamente bianco.
Mi accorsi solo
allora che ero ancora bagnata e che indossavo l’accappatoio,
così facendola sedere sul pavimento
le dissi di non muoversi. Corsi nello spogliatoio dove avevo
lasciato i vestiti puliti e mi cambiai velocemente, voltandomi di tanto
in tanto per controllarla. Quando ebbi finito, tornai da lei.
«Stai
bene?» le domandai, aiutandola a rimettersi in piedi.
Alice mi sorrise,
annuendo, «adesso sto molto meglio, ieri sera credo di aver
mangiato qualcosa che mi ha fatto male.»
«Vuoi
fare una visita?»
Lei scosse la
testa, «non c’è bisogno, sono
un’infermiera riconosco i sintomi di
un’intossicazione alimentare.» Ridacchiò
mostrandomi una fila di denti piccoli e perfetti.
«Sai che
non te l’ho chiesto per mettere in dubbio le tue
capacità, ma solo perché sono preoccupata per
te.»
«E’
solo un po’ di nausea.» Sorrise,
«passerà presto.»
Mi sporsi per
abbracciarla e lei si tuffò immediatamente tra le mie
braccia. «Scusami se ieri sera ti sono sembrata scorbutica,
ma ero troppo arrabbiata per parlare.» Farfugliai tra i suoi
capelli.
Alice si
allontanò di poco, guardandomi negli occhi,
«tranquilla, l’avevo capito. Solo non voglio
litigare con te, quindi ti darò prima la mia versione dei
fatti. Non che non mi fidi di Edward, ma ultimamente non è
più lo stesso.» Disse più a se stessa
che a me.
«E quale
sarebbe la verità?» Le domandai portandomi
entrambe le braccia sui fianchi.
Alice
abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata,
«mentre voi vi allontanavate dal campo, io ero riuscita a
distrarre Edward, ma qualcosa deve essere andato storto,
perché lui ha capito immediatamente che c’era
qualcosa che non andava. E io sono così pessima nella
recitazione.» Ammise afflitta, «non sono proprio
riuscita a mentirgli, così quando gli ho rivelato le vostre
vere intenzione, si è trasformato in una specie di segugio.
Era irriconoscibile.»
Distolsi lo sguardo
dai suoi occhi, fissando un punto lontano del pavimento bianco.
«Ciò
che più mi fa sentire in colpa è il fatto di non
essere stata in grado di aiutarvi.» Aggiunse tristemente.
Con un sorriso
sincero le dissi che non doveva affatto prendersela con se stessa, e
che forse se non ci avessero fermate, molto probabilmente saremmo morte.
«Non
saprei, mi sembravi così determinata ieri, nessuno sarebbe
riuscito a fermarti.» Rifletté pensierosa.
Con un alzata di
spalle posi fine a quella ambigua conversazione, così dopo
averla riaccompagnata nel dormitorio, le concedetti la mattinata libera.
Una volta pronta,
m’incamminai con passo deciso verso l’ufficio del
Tenente.
Il sorriso allegro
di Peter mi rassicurò, e stringendomi in un abbraccio un
po’ impacciato mi condusse davanti la porta
dell’ufficio di Edward.
«Grazie
Peter, ne avevo proprio bisogno.» Lo ringraziai con un
sorriso.
Il soldato rise,
una risata allegra e spensierata, sembrava quasi appartenere ad un
altro Mondo, distante anni luce da dove mi trovavo io in quel momento.
Ma infondo, come poteva essere altrimenti, aveva da poco scoperto di
aspettare un bambino con la sua compagna, Charlotte. Anche se si
trovava in una zona di guerra, non poteva evitare di sorridere, dopo
aver scoperto una notizia così bella.
«Sicura
di non voler fare prima colazione?» Mi chiese per la terza
volta.
Gli lanciai un
occhiataccia, «Non cominciare a fare il papà
ansioso proprio con me.»
Lui
scoppiò in una fragorosa risata, e sollevando entrambe le
mani verso il soffitto si scusò.
«Adesso
sarà meglio che vada.» Borbottai indicando la
porta in legno. Peter annuì, mimandomi un in bocca al lupo.
Gli sorrisi per l’ultima volta, prima di bussare
energicamente sull’uscio.
La voce pacata e
profonda di Edward, mi risvegliò da uno strano torpore che
per tutta la notte aveva avvolto il mio corpo. Non appena entrai nel
suo ufficio, lo vidi sollevare la testa da dei documenti, fissandomi
con i suoi intensi occhi verdi.
«Alla
buon ora.» Commentò facendomi cenno di avvicinarmi
e sedermi sulla sedia di fronte alla scrivania.
«Scusa il
ritardo, ma Alice questa mattina si è sentita poco
bene.» Confessai sedendomi.
L’espressione
dura di Edward cambiò, trasformandosi in preoccupazione,
«qualcosa di grave?»Mi domandò
corrugando la fronte.
Subito scossi la
testa, «semplice intossicazione alimentare.»
«Spero
tu, le abbia dato il resto della giornata libera.» Mi
punzecchiò inarcando un sopracciglio.
Evitai di
controbattere, annuendo semplicemente.
Ci fu un minuto di
silenzio, nel quale non facemmo altro che fissarci negli occhi. E ci
furono brividi, che mi scavarono sotto la pelle, raggiungendo
l’intera spina dorsale. Forse erano i suoi occhi o
semplicemente il fatto che avevo provato il sapore delle sue labbra
sulle mie, qualsiasi cosa fosse, era terribilmente frustante,
perché mi rendeva debole, come se mi trovassi nuda, priva di
difese davanti ai suoi occhi.
Lo vidi sistemarsi
più comodamente sulla sedia, portando entrambe le mani
dietro la nuca, «sai che per quello che hai fatto ieri,
meriteresti il rimpatrio?» Mi domandò con fin
troppa calma.
«Lo
so.»
«Tecnicamente
è quello che dovrei fare, ma sai perché non lo
farò?» Mi chiese con un lieve sorriso.
Scossi la testa,
osservando il suo repentino cambiamento d’umore.
«Perché
per quanto io disapprovi ogni tua decisione, e per quanto io possa
detestare l’idea di avere una ragazzina che disubbidisce ai
miei ordini, non sarò io a mandarti a casa. Ma sarai tu
stessa
a chiedermi di farti partire.» Sorrise senza ironia.
Lo guardai
esterrefatta, «non verrò mai da te a implorarti di
licenziarmi.» Gli dissi gelida.
Edward
posò entrambe le mani sulla scrivania e con un gesto
improvviso si avvicinò al mio viso, osservandomi di
sottecchi, «ne sei proprio sicura?»
«Ovvio, e
per favore Tenente, non chiamarmi più ragazzina, sicuramente
abbiamo la stessa età.» Gli dissi sbuffando.
Lui rimase in
silenzio, lanciandomi un’occhiataccia.
«Mi
spieghi qual erano i tuoi piani Isabella?»
Che strano
sentirgli pronunciare il mio nome. Un’altra scarica invase il
mio corpo, questa volta fu qualcosa di più intenso e
profondo.
«Volevo
andare a riprendere Nadira e la madre.» Gli risposi con una
certa indifferenza, che lo fece incupire ancora di più.
Corrugò
la fronte, pensieroso, «Per portarle dove?»
«All’accampamento
di Aro Volturi.»
«Ovvio,
dove altro avreste potute portarle, se non dagli italiani? Ma davvero
credete che la loro sia solo una missione di pace?» Mi chiese
sornione, ma qualcosa mi fece intendere che la sua era solo una domanda
retorica, «perché sei così cieca, come
fai a non accorgerti del Mondo che ti circonda?»
Non riuscivo a
capire cosa stesse cercando di dirmi, «spiegati
meglio.»
Lui
sbuffò e sollevandosi dalla sedia, fece il giro della
scrivania, posizionandosi oltre le mie spalle, poi con una calma
disarmante scese con le labbra sul mio collo, avvicinandosi
all’orecchio, «perché hai
così poca fiducia in me?» Mi domandò
con un sussurrò impercettibile.
Deglutii in attesa
che continuasse.
«Davvero
pensi che io sia così insensibile da non aver già
pensato alla protezione di Jannah e Nadira?»
Questa volta mi
voltai verso di lui, trovandomi il suo volto a pochi centimetri dal
mio, «cosa vuoi dire?»
Lui scosse la
testa, sorridendomi dolcemente. Ed era questo suo soffrire di diverse
personalità che mi faceva impazzire ogni secondo, ogni
minuto, ogni dannatissimo momento che passavo in quel campo.
«Non sono
più a Kuwait City, sono state trasferite entrambe questa
mattina.»
Lo fissai
incredula, «vuoi dire che tu avevi già in mente di
allontanarle dal loro villaggio?»
Edward
annuì, «ovviamente ho dovuto prima chiedere il
permesso, che stranamente mi è stato subito accordato. In
questo momento un’ambulanza le sta trasportando in una base
inglese che si occupa solo di donne e bambini.»
Non appena sentii
quelle parole, un nodo stretto nella gola m’impedii di
parlare, e sentii come qualcosa che scoppiava nel petto, forse
felicità, forse, semplicemente gratitudine.
«Se solo
tu fossi stata meno impulsiva.» Borbottò
contrariato, «ne saresti stata informata questa mattina
stessa.»
Mi voltai verso di
lui, imbarazzata, «ho messo a repentaglio la mia vita e
quella di Angela per un’incomprensione.»
Edward
annuì, avvicinandosi di nuovo alla mia sedia, e abbassandosi
alla mia altezza, mi fissò dritto negli occhi,
«adesso capisci perché ero così
infuriato?» Mi chiese cercando di non alzare il tono di voce,
«dopo che Alice si è lasciata scappare qualche
parola, ho subito capito le tue intenzioni. Ero così
infuriato con te Isabella che solo al pensiero mi viene da vomitare. Ho
avuto paura lo capisci?»
Sospirai abbassando
la testa per nascondermi dai suoi occhi.
«Se ti
fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonato.»
Farfugliò a bassa voce allontanandosi da me.
«Mi
dispiace Edward, ma se tra noi ci fosse un po’ più
dialogo, forse non sarebbe successo nulla.» Gli dissi
alzandomi dalla sedia.
Edward scosse la
testa, «tu sei troppo testarda, certe cose proprio non riesci
a capirle.»
Feci diversi passi
verso di lui, raggiungendolo, «e allora spiegamele queste
cose.» Sussurrai costringendolo a guardarmi negli occhi.
Eravamo di nuovo
troppo vicini, come due mine pronte ad esplodere. Lo vidi smettere di
respirare e cercare con tutte le sue forze di evitare di sfiorarmi.
«Sei
troppo stupida, certe cose non puoi capirle.» Disse infine,
voltandosi dall’altra parte. Ancora una volta,
l’Edward cinico aveva vinto sull’Edward altruista.
Ma qual’era la sua vera faccia?
«Non ti
permetto di parlarmi in questo modo.»
Lui si
voltò furioso, «e io non ti permetto di
comportarti come se fossi l’unica persona in questo campo.
Non esisti solo tu, lo capisci? Ho altre vite da salvare.»
Disse sbattendo la mano sulla scrivania.
Sobbalzai presa
alla sprovvista, «il tuo problema e che non riesci a
gestirmi, ammettilo il mio comportamento ti fa impazzire.» Lo
punzecchiai, affermando solo la verità.
Edward si
voltò verso di me, inondandomi con il suo sguardo.
«Ti tratterò come uno dei miei innumerevoli
problemi, e come con tutti gli altri problemi che ho avuto a che fare,
troverò una soluzione.» Ammise con un mezzo
sorriso.
Feci spallucce,
«non ti libererai di me tanto facilmente.»
Scosse la testa,
ridacchiando leggermente, «vedremo dottoressa
Swan.» Disse, mentre mi apriva la porta del suo ufficio.
Lo superai senza
neppure salutarlo, ma voltandomi verso di lui, gli sorrisi, come a
voler riconfermare la mia presenza all’interno del campo. Lui
chiuse la porta alle sue spalle, questa volta senza dire nulla.
Quella stessa sera,
in sala mensa raccontai ad Angela della conversazione avvenuta con
Edward quella mattina. Lei mi ascoltò in silenzio, senza mai
interrompermi e solo dopo aver ascoltato il racconto, si decise ad
aprire bocca.
«Lo
dicevo io, che tra te e il Tenente c’era
qualcosa.»
La fissai
sconvolta, «ma cosa diamine stai blaterando, smettila di dire
scemenze Angela, piuttosto cosa pensi che farà?»
le domandai, mentre davo un morso al pezzo di pane che mi era rimasto.
«Non
saprei, essendo un militare, utilizzerà qualche strategia
altamente complicata per il tuo cervellino.» Mi sorrise
divertita.
«Mi stai
prendendo in giro?» Le domandai improvvisamente imbarazzata.
Lei
scoppiò a ridere, «vedrai Bella, non
farà assolutamente nulla. E’ un uomo troppo
intelligente e poi figurati se avrà il tempo di pensare a
come vendicarsi di te, con tutto quello che ha da fare qui
dentro.» Mi sorrise, rassicurandomi.
«Speriamo.»
Sospirai, voltandomi dall’altra parte, «poso il
vassoio e vado a salutare Alice, è da questa mattina che non
la vedo.» Dissi, incamminandomi verso il ripiano della cucina
dove i soldati avevano lasciato tutti gli altri vassoi, poi raggiunsi
Alice, stringendola in un abbraccio non appena la vidi.
«Ehi come
mai tutto questo calore? Non sto morendo Bella.» Mi disse
sorridendomi.
Ridacchiai,
«come ti senti?»
«Molto
meglio.» Mi rispose e sembrava essere sincera.
«Almeno
voi riuscite ad essere allegre, io sono un fascio di nervi.»
Jessica ci passò accanto, sedendosi sulla sedia con fare
teatrale.
Alice la
fissò incuriosita, «questa volta cosa ti
è successo?»
Jessica scosse la
testa, agitando la mano in aria, «a me personalmente nulla.
Ma da domani le cose cambieranno.»
Mi voltai verso
Alice, fissandola interrogativa, poi mi rivolsi a Jessica,
«cosa intendi dire?»
Jessica mi
guardò disgustata, «oddio davvero non sai
nulla?»
«Avanti
Jessica, illuminaci con uno dei tuoi soliti pettegolezzi.»
Disse Alice sbruffando.
«Nessun
pettegolezzo questa volta, ma solo la pura e semplice
verità. Da domani avremo un nuovo militare che
gironzolerà nel campo.» Disse accavallando le
gambe.
«Non
sapevo dovessero arrivare nuovi ragazzi.» Borbottai cercando
di capire a chi si stesse riferendo.
«Infatti
non arriverà nessun novellino, ma un vero e proprio esperto
di guerra.» c’informò Jessica.
Alice
corrugò la fronte, «e chi sarebbe?»
Jessica si
sollevò dalla sedia, osservandoci dal basso verso
l’altro, con un sorrisetto divertito sul volto,
«avete mai sentito parlare del Sergente Black?»
In un primo momento
quel nome non mi fece tornare nulla in mente, ma non potevo dire la
stessa cosa di Alice, era sbiancata improvvisamente.
«Il
Sergente Jacob Black è stato mandato qui dal Generale in
persona, per controllare che tutto venga svolto a dovere.»
Continuò Jessica.
Mi voltai verso
Alice, «è una specie di supervisore?»
«E’
come un controllore Bella, lo spediscono dove c’è
bisogno. Solitamente non viene mai mandato se prima non
c’è stata una soffiata.» Mi
spiegò sedendosi sulla sedia.
«Vuoi
dire che qualcuno ha chiamato il Generale Winchester, chiedendogli di
mandare nella nostra base un supervisore?»
Entrambe le donne
annuirono.
«Quando
è stato chiamato?» Domandai mordicchiandomi il
labbro inferiore.
Jessica
sembrò rifletterci su, «qualche giorno
fa.» Disse infine.
«Chi
è stato a chiedere il suo intervento?» Chiesi,
sentendomi le forze mancare.
«Il
Tenente Edward Cullen in persona.» Mi rispose Jessica,
fissandomi preoccupata. «Tutto okay?»
Scossi la testa,
sedendomi sulla sedia per evitare di cadere a terra in seguito ad un
violento capo giro, «no, non è okay per
nulla.»
Edward aveva fatto
la sua mossa, e questo, prima che io e Angela cercassimo di salvare
Nadira e Jannah, questo significava solo una cosa, ossia che lui voleva
liberarsi di me, probabilmente subito dopo esserci baciati.
Buonsalve a
tutti quanti!
Colpo di scena, ammettetelo non ve l'aspettavate. E invece è
proprio lui signori e signore, Jacob Black! qunate di voi avevano
ipotizzato in un suo arrivo? Quante di voi vorrebbero rispedirlo a
calci da dove è venuto? Eh lo so, quest'ultima cosa la
vorrei fare anche io, essendo una Team Edward, ma purtroppo per voi, in
questa storia il bel Black avrà il suo bel ruolo xD
Vi chieso scusa ancora una volta per l'enorme ritardo. Potrei
giustificarmi dicendo che sono appena tornata dalle vacanze, prima sono
stata a Londra, poi in Sicilia. Insomma è stato un mese
piuttosto movimentato, in cui è andato tutto un
pò più a rilento, mi riferisco al mondo di Efp.
Mi scuso anticipatamente per gli errori che potreste trovare, non ho
avuto il tempo di rileggere il capitolo! Ma lo farò presto.
Non so ancora quando riuscirò a pubblicare il prossimo
capitolo, spero comunque i primi di Agosto.
Vi lascio alle vostre riflessioni, un bacione a tutte voi! xD
Lua93.
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Capitolo 9 *** 8# ***
8#
Facciamo
così, adesso voi vi leggete il capitolo, magari con questa
canzone di sottofondo, poi dopo, leggerete le mie scuse per la
prolungata assenza.
Dustin O'Halloran -
Opus 55
8
3 Aprile 2003
Aprii gli
occhi di scatto.
Il buio
aveva avvolto ogni cosa, persino l’ossigeno presente nella
stanza. Il mio corpo
era rimasto imprigionato tra le lenzuola, addossate come una seconda
pelle.
Cercai così di liberarmi da quella trappola fastidiosamente
sudaticcia e bollente. Non mi
resi conto di essere sveglia fin quando non trovai davanti ai miei
occhi il
volto rilassato e sereno di Alice, completamente immersa nel mondo
onirico
della notte. Il suo respiro era basso, un rumore appena accentuato, il
mio,
invece, non riusciva a riprendersi.
Quella
notte feci un incubo, o almeno, credetti di farlo, dal momento che
quando mi
svegliai non ricordai nulla, se non la sensazione sgradevole e
inquietante di
un gran vuoto dentro il petto.
Mi alzai
cercando di fare il meno rumore possibile, per non disturbare Alice, e
acciuffando malamente il mio borsone, mi avvicinai alla porta.
«Dove
stai
andando?» La voce addormentata di Alice mi fece sobbalzare,
prendendomi di
sorpresa.
Quando mi
voltai versi di le, la trovai con le mani sul viso. I suoi capelli
erano un
ammasso confuso e disordinato, scuri come il buio che avvolgeva il
Mondo, neri
come il deserto.
«A fare
una doccia.» Risposi bisbigliando. Benché entrambe
fossimo sveglie, avevo la
sensazione che se avessi parlato ad alta voce, il campo si sarebbe
rianimato.
Sarebbe stato un risveglio violento e obbligatorio, lo stesso a cui ero
stata
sottoposta involontariamente quella mattina. Uno dei risveglio peggiori
che
avevo avuto da quando mi trovavo nel Kuwait.
Alice si
mise a sedere, sbattendo più volte le palpebre,
«che ore sono?»
«Le
cinque.»
«E’
ancora
presto.» Mi fece notare, voltandosi verso l’unica
finestrella del nostro
dormitorio.
Posai il
borsone sul pavimento, facendo qualche passo verso di lei,
«non ho dormito
molto bene questa notte.»
Alice
sorrise teneramente, «lo so.»
«Ho fatto
troppo rumore?» le domandai con un gemito strozzato.
«Un
po’.»
Rispose, stringendosi le coperte al petto, «ti ho sentito
parlare.» Aggiunse
flebilmente,
La fissai
interrogativa, perdendomi nei tratti delicati del suo volto.
Ultimamente il suo
viso appariva senza luce, sempre stanco e sofferente.
«Cos’ho detto?»
«Continuavi
a ripetere il nome del Tenente.»
Strinsi le
mani a pugno, ringraziai l’oscurità per la
protezione che mi stava regalando dagli
sguardi indagatori di Alice.
«Credo di
aver fatto un incubo.» Dissi.
«C’è
qualcosa di cui vorresti parlarmi?»Mi domandò
sistemandosi più comodamente sul
materasso.
I primi
bagliori dell’alba cominciarono a riempire la stanza.
«No.»
Risposi
velocemente, ritornando verso la porta,
«C’è forse qualcosa che dovresti
dirmi?» le chiesi abbassandomi per riprendere il borsone,
senza però mai
distogliere l’attenzione dai suoi occhi.
«No.»
Ribatté prontamente, regalandomi un sorriso tirato.
«Bene.»
Borbottai
abbassando la maniglia, facendo scattare la serratura.
Sentii
Alice sospirare prima di chiudermi la porta alle spalle.
«Stiamo
combattendo una guerra che non ci appartiene.» John
sbatté una mano sul tavolo
bianco della mensa, facendo ribaltare il bicchiere contenente
dell’acqua.
Peter gli
bloccò il pugno, prima che colpisse ancora una volta quella
superficie liscia e
poco resistente, «amico non ti riscaldare troppo.»
Il soldato
sbuffò liberandosi dalla stretta possente del compagno,
lanciandogli uno
sguardo minaccioso, «non ci provare Peter, non tentare di
calmarmi. Come puoi
chiedermi di stare calmo, sapendo cosa succederà
oggi?» Continuò fissandolo.
Osservai
la scena, seduta a qualche metro di distanza. C’era qualcosa
di strano
nell’aria quella mattina, e non si trattava del solito odore
di terra bruciata
e sangue. Quella mattina il deserto mi era apparso un ammasso di fuoco
giallo.
Il vento soffiava ferocemente, innalzando nuvoloni di polvere.
C’erano tutti i
presupposti per un cattivo presagio.
«Si
tratta
del Sergente Black?» Domandai interrogativa a Jessica,
intenta a finirsi il suo
yogurt.
La ragazza
sollevò lo sguardo, «come dici?»
Sbuffai,
spazientita, «I soldati sono tutti irrequieti, soprattutto
John.» Le feci
notare, indicando il loro tavolo.
«Non
penso.» Rispose semplicemente, abbassando nuovamente gli
occhi verso la sua
colazione.
Con le
mani cominciai a sbriciolare la brioche, che avevo preso poco prima,
osservando
attentamente la scena che si stava presentando davanti ai miei occhi.
Intorno al
tavolo di Peter e John si erano riuniti altri due soldati, chinati
l’uno
sull’altro, i loro sguardi erano duri, freddi, non lasciavano
trasparire alcuna
emozione.
«La
nostra
missione in queste terre non ha alcun significato non è
così? Siamo solo le
marionette del Governo.» Sibilò risoluto John.
Uno dei
soldati sembrò riscaldarsi, «Noi siamo qui per
servire la nostra Nazione.»
«Garrett
dannazione ragiona, eri con il Dottor Smith quando è morto.
Come puoi non avere
alcun dubbio sull’autenticità del nostro
compito?» John sembrava incredulo.
«Non
parlare di cose che non sai, non ci provare. Tu non puoi neanche
lontanamente
immaginare cosa ho provato quel giorno. Se sono vivo è solo
grazie a Dio.»
Sospirò Garrett abbassando gli occhi.
Il respiro
mi si mozzò in gola, al ricordo di quel duro momento. Per
giorni interi non
avevo fatto altro che pensare a come io avessi vissuto quella tragedia,
ignorando chiunque era con me quel giorno. Non ero stata la sola a
soffrire.
«C’è
chi
questo non può dirlo.» Disse John provocandolo. I
due si fissarono in cagnesco
per un tempo che mi parve infinito.
«Basta
così, state esagerando entrambi. La guerra porta sempre
disperazione e vittime,
cerchiamo solo di non peggiorare la situazione.» Peter
sembrava aver preso il
controllo della situazione, prima che degenerasse. I suoi occhi scuri
erano
fissi in quelli di John. «Ho una moglie che in grembo cresce
mio figlio. Come
te voglio tornare a casa sano e salvo.» Continuò
questa volta non riuscendo a
mascherare la tristezza.
«Sembrerei
una femminuccia se vi dicessi che sono terrorizzato?» Chiese
il quarto soldato
che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
I ragazzi
si guardarono negli occhi, scoppiando poi in una fragorosa risata.
«Tranquillo
Paul, non lo diremo a nessuno.» Rise Peter.
La
tensione sembrava essersi allentata, ma c’era qualcosa negli
occhi di tutti i
soldati, che ancora non riuscivo a decifrare.
Jessica
finì il suo yogurt, passandosi un tovagliolo sulle labbra.
«Non sei
curiosa di conoscere il Sergente Black? Si dice che sia molto giovane e
avvenente.» Sorrise maliziosamente.
Scossi la
testa, alzandomi dalla sedia.
«E adesso
che cosa ho detto di male?» Mi domandò la rossa
alle mie spalle, quando ormai
mi ero già mi ero allontanata dalla mensa.
Alice non
si era presentata in ospedale.
Quando ero
andata via quella mattina, dal nostro dormitorio, l’avevo
lasciata nel suo
letto, certa di rivederla al mio ritorno, ma mi ero sbagliata. La
stanza era
vuota e il suo letto disfatto. Pensai che si fosse allontanata dal
dormitorio
per fare colazione ma quando raggiunsi la sala mensa non la trovai
neppure lì.
In ospedale l’infermiera di turno mi disse che quella mattina
non era passata a
ritirare le cartelli cliniche dei suoi pazienti, così
toccò a Jessica fare il
giro di Alice, contro la sua volontà, ovviamente.
Inizialmente non ci feci
molto caso, cominciai a pensarci solo dopo più di quattro
ore di assenza.
Inizia a
preoccuparmi quando perlustrando il campo alla ricerca di Alice, notai
che non
era la sola a mancare, ma che anche Jasper quella mattina non si era
ancora
visto in caserma.
La forte
tentazione di chiedere spiegazioni al Tenente, era diventata quasi una
necessità. Io e Alice avevamo legato in maniera particolare,
con lei riuscivo a
essere me stessa, mi sentivo come se fossi ancora in America quando
c’era lei
vicino a me. Sapevamo entrambe di nasconderci particolari
più o meno
imbarazzanti, ma questo non ci aveva mai impedito di essere delle buone
amiche.
Quando si vive tra la disperazione ci si aggrappa a qualsiasi illusione
pur di
non affogare.
Cominciai
a chiedere ai soldati se l’avessero vista, ma nessuno sapeva
che fine avesse
fatto.
Mi avvicinai alla sala comune, spalancando le porte in un colpo solo, incurante
di chi si potesse trovare all’interno della mensa.
«Angela?
Ci sei?» La chiamai, alzando leggermente il mio tono di
voce.
Un rantolo
basso e sofferente mi rispose da dietro il ripiano della cucina. Senza
pensare
corsi vero quel lamento, ritrovandomi il corpo di Angela in ginocchio
sul pavimento.
«Oh ciao
Bella, non ti avevo visto.» Mi salutò con una
smorfia, abbassandosi subito
dopo.
La fissai
interrogativa, «che cosa stai cercando?» le chiesi
inginocchiandomi per
raggiungere la sua stessa altezza.
«La mia
fede.» Sbottò allungando la mano sotto il tavolo
di metallo. «l’avevo tolta per
pulire il piano di cottura di questa odiosa mensa.»
Piagnucolo voltando la
testa dall’altra parte della stanza. «Neppure
cinque minuti che già l’avevo
persa.»
Sollevandomi
da quella scomoda posizione, mi avvicinai al piano di cottura ancora
ricoperto
di sapone. Mi voltai verso Angela sorridendola comprensiva,
«c’è qualcosa che
non va?»
«Se non
tropo la fede entro due minuti incendio questo posto.»
Ridacchiai
a bassa voce, non l’avevo mai vista così
arrabbiata e minacciosa.
«Angela
la
tua fede è esattamente dove l’hai
lasciata.»
«Cosa
intendi?» Mi domandò mettendosi in piedi.
Con un sorriso
sincero le indicai l'anello, immobile sul ripiano più alto
della cucina. Gli
occhi di Angela s’illuminarono e
l’afferrò immediatamente, indossandolo con
premura. «Sto impazzendo.» Disse infine, sollevando
gli occhi verso il
soffitto.
Aspettai
qualche secondo prima di farmi prendere completamente dal panico.
Angela era l’unica
che sapeva come calmarmi.
«Hai per
caso visto Alice?» Le chiesi speranzosa.
«No,
perché?»
«Non
è
venuta a lavoro questa mattina.» Sospirai massaggiandomi le
tempie con entrambe
le mani. Il clima afoso del mese di Aprile mi procurava una forte
emicrania. A
casa non ne avevo mai sofferto, ma le temperature nel Medio Oriente
erano
completamente diverse dalle nostre.
Angela
prese in mano una spugna e riprese a pulire la cucina, questa volta con
la fede
al dito, «stamattina non è venuta neppure qui, ma
com’è possibile che tu non l’abbia
vista? Non dormite nella stessa camera?»
Annuii,
sedendomi sul mobiletto di metallo, proprio accanto a lei,
«si ed è proprio per
questo che non riesco a darmi pace. Questa mattina mi era sembrata
più stanca
del solito, così l’ho lasciata riposare senza
metterle fretta, ma quando sono
ritornata dal bagno, lei non era in camera. Ho pensato che fosse venuta
qui ma
raggiungendo la mensa non l’ho trovata.» Le spiegai
giocherellando con l’elastico
con cui solitamente in ospedale legavo i miei lunghi capelli.
Angela
sospirò, «dove pensi possa essere?»
«Con
Jasper, dato che questa mattina non ho visto neppure lui.»
Risposi risoluta.
«Se
è per
questo, io non ho neppure visto il Tenente, oggi.»
Controbatté lei, sollevando
lo sguardo verso di me.
«Angela
che cosa sta succedendo?» le domandai preoccupata,
«questa mattina i soldati
erano agitati, parlavano in maniera confusa e sembravano spaventati.
E’ per il
Sergente Black?» Continuai sperando di trovare nelle parole
di Angela una
risposta capace di sciogliere tutti i miei dubbi.
«Aspetta,
che cos’hai detto?» I suoi occhi scuri divennero
una lastra di ghiaccio,
il viso assunse un’espressione dura che mai le avevo visto
rivolgermi.
«E’
l'arrivo del Sergente Black la causa di tutto questo
turbamento?» Ripetei perplessa.
Angela
scosse la testa, lasciando la spugna sul piano ancora completamente
zuppa di
schiuma e con una certa fretta si allungò verso lo
strofinaccio accanto alla
mia gamba, afferrandolo con rabbia. «Hai detto che i soldati
erano parecchio
turbati.» Disse asciugandosi le mani.
Annuii non
riuscendo a capire.
«Vieni,
dobbiamo andare immediatamente dal Tenente, devi chiedergli
spiegazioni.»
«Che
cosa?»
Le domandai scendendo dal mobile, «perché dovrei
farlo?»
«Se
è vero
che i ragazzi erano spaventati, significa che sta per succedere
qualcosa di
pericoloso, e noi come membri attivi di questo campo abbiamo tutto il
diritto
di saperlo.»
«Sapere
cosa?»
Angela si
voltò, guardandomi stizzita, «è quello
che devi scoprire.»
«Perché
lo
dovrei fare io? Non puoi parlarci tu con il Tenente?» Le
chiesi innervosendomi
per tutta quella situazione.
«Sei tu
la
Dottoressa, io sono solo una volontaria.» Rispose, questa
volta addolcendosi.
Controvoglia
mi ritrovai costretta a seguirla. Ci ritrovammo in meno di due minuti
lungo l’accampamento,
stranamente silenzioso.
Il vento
pizzicava sulla pelle, trasportando con sé, granuli di
sabbia rossa rubata dal
deserto.
Angela
camminava con passo spedito, gli occhi fissi davanti a sé,
con un’espressione
intraducibile sul volto. Solo una volta l’avevo vista
così preoccupata, la sera
in cui tentammo di allontanarci dal campo per salvare Jannah e Nadira.
Io la
seguivo titubante, mille brividi mi attraversavano lo strato
più profondo dell’epidermide.
C’era sempre una parte di me che non riusciva a resistere
davanti agli occhi
chiari e profondi del Tenente, e quella parte sarebbe stata la mia
rovina, perché
in sua presenza perdevo ogni capacità di difendermi.
«Che cosa
sta succedendo?» Domandò più a se
stessa che a me, Angela. Si era fermata improvvisamente,
quando eravamo ormai giunti davanti la caserma.
Incuriosita
sollevai lo sguardo da terra, trovandomi davanti una Jeep
diversa da
quelle usate nella nostra base.
All’interno
vi erano due soldati, entrambi con la pelle scura e il capo nascosto da
grossi caschi colo cammello. Indossavano due divise dello stesso
colore, e benché si
trovassero al sicuro dentro la macchina, tutti e due tenevano tra le
mani un’arma.
«Quelli
chi sono?» Le chiesi, avvicinandomi.
Angela
scosse la testa, non sapendo cosa rispondere.
Improvvisamente
la grande porta della caserma si aprì, e ne uscirono due
uomini. Il
primo era leggermente del secondo, ma entrambi avevano un atteggiamento
fiero e distaccato.
Non appena
si spostarono dalla penombra riuscii a scorgere i tratti lineari del
Tenente
Cullen, notando come la sua pelle fosse molto più chiara del
secondo uomo, di
qualche centimetro più alto di lui.
Involontariamente
mi avvicinai, incuriosita.
Quando
riuscii a scorgere con chiarezza anche il secondo uomo ne rimasi
sorpresa. Si
trattava di un ragazzo, forse un mio coetaneo. La
sua pelle era di una
tonalità color ruggine, simile a quella degli Indiani
D’America . I tratti del
suo viso erano regolari con zigomi sporgenti e il mento un po'
arrotondato come
quello di un bambino. I suoi occhi, invece, erano scuri e
impenetrabili, mentre
il suo viso veniva incorniciato da capelli neri molto lucidi.
Fisicamente
sembrava molto più robusto di Edward. Le sue spalle erano
larghe e i muscoli
del suo corpo si distinguevano anche attraverso la divisa. Così
diversi eppure così simili.
Non
mi ci volle molto per capire che si trattasse del Sergente Black.
«E’
lui, vero?» domandai ad Angela, conoscendo già la
risposta. Lei infatti si
limitò semplicemente ad annuire.
«Cosa
devo fare?»
«Vai
da loro.» Mi rispose, con un sorriso
tirato.
Controvoglia
mi ritrovai d’accordo con lei,
non potevo nascondermi ancora a lungo. Se era vero che il Sergente
Black era
stato chiamato per controllare la mia efficienza, avevo tutto il
diritto di
chiedere spiegazioni al Tenente. Così, presa da un attacco
di rabbia riuscii a
raggiungere i due uomini, davanti la caserma.
Quando
Edward mi vide, cambiò espressione,
lasciando trasparire chiaramente una certa sorpresa nel vedermi proprio
davanti
a lui. Io, cercai di essere il più professionale possibile,
avvicinandomi verso
di loro con fierezza.
«Buongiorno
Tenente.» Dissi educatamente,
puntando i miei occhi dritti in quelli di Edward.
«Buongiorno
Dottoressa.» Rispose malamente,
serrando la mascella.
Il
Sergente Black mi osservò incuriosito,
non riuscendo però a mascherare un sorriso sul suo volto.
Dovevo ammettere che
non era un uomo che passava di certo inosservato. Benché
fosse completamente
diverso dal Tenente. Non avrei saputo dire che dei due fosse il
più
interessante, non in quel momento. Ma quando sprofondando nuovamente
negli
occhi chiari di Edward, capii che
c’era sempre una prima
scelta.
«Buongiorno,
sono il Sergente Jacob Black,
il nuovo supervisore della base.» Si presentò il
ragazzo, allungandomi la
mano.
Ricambiai
la stretta, sentendo la sua pelle
bruciare a contatto con la mia.
«E’
un piacere fare la sua conoscenza. Io
sono la Dottoressa Isabella Swan.» Sorrisi.
Era davvero molto
giovane.
Fui
la prima a sciogliere le nostre mani,
ritrovandomi gli occhi incandescenti di Edward sul mio viso.
«Come mai non si
trova all’interno dell’ospedale del
campo?» Mi domandò Il Sergente Black.
Rimasi
qualche secondo incantata davanti a
quell’oceano nero che erano i suoi occhi. Neri come il
petrolio presente
in quelle terre.
«Avevo
bisogno di parlare con il Tenente
Cullen.» Risposi, voltandomi verso Edward.
Quest’ultimo
non mi sembrò molto sorpreso,
anzi sorrise lievemente, mostrandomi ancora una volta quel suo lato
sconosciuto
e misterioso del suo carattere, «dimmi Isabella,
c’è qualcosa che volevi
chiedermi?» mi chiese mellifluo.
Si,
volevo semplicemente chiederti perché mi hai baciato,
perché
l’hai fatto?Ho le labbra in fiamme da quando sono entrate in
contatto con le
tue.
Sospirai,
«volevo parlarle dei ragazzi,
questa mattina mi sono sembrati diversi dal solito.»
«Cosa
intendi dire?» Mi chiese.
«Erano
agitati, preoccupati. Soprattutto
John.» Risposi sincera, come se fossimo solo io e lui. Solo
noi e il nostro
rapporto ambiguo e turbolento. Che cosa eravamo? Che cosa saremmo
diventati?
«Bella.»
Sospirò frustato. Fu la prima
volta che lo sentii pronunciare il mio soprannome. I suoi occhi erano
diventati
un manto infuocato pronto ad esplodere. La sua voce riempiva i
silenzi, ma non le incomprensioni.
«La
Dottoressa non sa nulla?» Domandò
intromettendosi il Sergente Black.
«No.»
Grugnì Edward, voltandosi verso il
Sergente.
«Sapere
cosa?» Chiesi ignorando la reazione
del Tenente.
Black
mi fissò attentamente prima di
rispondermi, «questa sera le forze americane attaccheranno
l’aeroporto di
Baghdad.»
Il
sangue mi si gelò nelle vene, «un
attacco diretto alla capitale, perché?»
Questa
volta fu Edward a rispondermi, le
mani serrate a pugno, l’espressione più fredda e
lontana che gli avessi mai
visto sul suo volto perfetto, «perché la guerra
è appena cominciata.»
«Mi
dispiace Dottoressa, ma vedrà che qui
siamo al sicuro.» Cercò di consolarmi il Sergente.
Quando
mi voltai verso di lui, mi sentii
invadere il corpo da una furia estranea, «nessuno si salva in
guerra.»
«Comunque
sia, questo è un momento cruciale
per l’esercito americano, tutto deve funzionare alla
perfezione. E io sono qui
proprio per questo.» Concluse, voltandosi verso
l’accampamento.
Io
e Edward ci fissammo in silenzio, ma i
nostri occhi erano così carichi di parole che non fu
necessario parlare per
venirne a conoscenza.
«Questo
accampamento è una perfetta catena
di montaggio, tutti lavoriamo per dare il massimo.» Dissi
rivolgendomi al nuovo
arrivato, senza però allontanare gli occhi da quelli di
Edward.
«Meglio
così Dottoressa.» Sorrise e sembrò
sincero.
Mi
voltai verso il Sergente, «chiamatemi
Isabella. In tempi così bui non c’è
alcun bisogno di creare altri muri.»
Il
Sergente sollevò gli angoli delle
labbra, mostrando una schiera di denti bianchi e perfetti, «E
così sia,
Isabella.»
Non
mi voltai per osservare la reazione
di Edward, ma non potei mai dimenticare il rantolo che ne
seguì subito dopo.
Quella
sera, quando rientrai nel mio
dormitorio, dopo aver passato il resto della giornata in ospedale. Mi
ritrovai
il corpo minuto di Alice, seduto sul suo letto, con lo sguardo fisso
sulla
porta d’ingresso, come se mi stesse aspettando.
«Alice,
ma dov’eri finita, ti ho cercato
tutto il giorno.» Dissi preoccupata, avvicinandomi al suo
letto, «è arrivato il
Sergente Black, domani visiterà l’ospedale.
Dobbiamo mostrarci tutti forti e
coraggiosi, siamo una squadra solida, e non dobbiamo lasciarci
abbattere da un
attacco così subdolo da parte del Tenente.»
Continuai, ma Alice sembrava non
ascoltarmi.
I
suoi occhi mi fissavano terrorizzati e le
sue mani stringevano convulsamente il lenzuolo, all’altezza
del petto.
«Alice,
che cos’hai?» Le chiesi
accarezzandole il braccio.
«Sono
incinta.» Rispose flebilmente, «sono
incinta.» Ripeté quasi per auto convincersene.
BuonSalve a
tutte voi, non so neppure come cominciare. E' davvero tantissimo tempo
che non aggiorno I Colori del Vento. Esattamente è dal 2
Agosto, quasi due mesi. Inaccettabile, me ne rendo conto da sola. E a
mia difesa vi posso dire che non si è mai trattata di
mancata voglia di scrivere, ma solo mancanza di tempo. Infatti
l'ispirazione c'è sempre stata, il tempo un pò
meno.
Non vi posso promettere che il prossimo aggiornamento avverà
in tempi brevi, perchè vi direi una bugia, ma forse
riuscirò a postare ogni settimana, magari la Domenica. La
causa principale è la scuola, mi rendo conto che come scusa
risulterà un pò banale, ma essendo all'ultimo
anno, mi piacerebbe molto non rimanere indietro in nessuna materia - si
eccetto matematica che continua ad essere un enorme buco nero
persistente - tengo a precisare che io, essendo una ragazza pigra e
fedele al Divanesimo, dove come mia massima esponente si trova Sabrina
Ferilli, vi dico che cercherò di svegliarmi un pò
ed essere più veloce con gli aggiornamenti. Metteteci in
conto però una cosa molto importante, ossia la Patente,
ebbesi si, avendo superato l'esame teorico lo scorso Agosto,
avrò l'esame pratico i primi di Ottobre. Sono un pericolo
pubblico, avviso chiunque di stare ad una distanza di minimo diciotto
metri da me e dalla mia Artura (macchinina bianca che non si sa come,
si accende ancora).
Ricapitoliamo quindi: Scusate, scusate, scusate, scusate, scusate
(immaginate la mia vocina come quella del cricetino di Pintus) Non
odiatemi per questo - lo so è una cosa davvero triste,
diciotto anni, anzi diciannove tra cinque mesi e ancora si diverte con
queste battute- io al posto vostro mi odierei, ma vi prego, ancora una
volta, di non ascoltarmi.
Chiuso il paragrafo melodramma, apriamo quello più
importante ossia la spiegazione di questo capitolo.
Come avete letto l'inizio non è dei più allegri,
difatti la bella Dottoressa ha avuto un incubo, inutile dirvi che il
protagonista era quel gran pezzo di gnocco di Edward. La nostra cara
Bellina è rimasta piuttosto turbata dal bacio scambiato con
quel gran pezzo di manzo. Come darle torto? Il problema principale
è che in questa storia non c'è tempo per
piangersi addosso, per capire chi ha torto e chi ha ragione. In questa
storia ognuno agisce per autodifesa o nel caso di Edward per
autolesionismo. Come infatti vediamo più in là
con l'arrivo del Sergente Jacob Black, AVVISO: Tutte le lupacchiote
saranno felice di sapere che in questa storia Jacob avrà un
ruolo davvero molto importante e che quindi non ci sarà
alcun pericolo di eliminazione per godimento da parte della
sottoscritta. 2AVVISO: Essendo la sottoscritta Team Edward, non vi
promette però che ci sarà un lieto fine fiabesco
per il lupacchiotto. 3AVVISO: In questa storia Edward non
rimarrà impassibile agli avvenimenti, come invece fa
l'Edward della zia Meyer. Si che Bella preferisce quest'ultimo al lupo,
ma se mai dovesse succedere qualcosa, sappiate che Edward
allungherà le mani!
Okay si direi che ho anche anticipato troppo.
Nel prossimo capitolo molte cose vi saranno più chiare. Come
per esempio la gravidanza di Alice, anche se non era difficile da
immaginare, dato che con Jasper ci davano dentro di santa ragione tutte
le benedettissime sere eheh!
La cosa più importante di questo capitolo è
l'avvenimento storico, difatti, nella notte del 3 Aprile 2003 le forze
statunitensi appartenenti alla 3^ divisione di fanteria attaccarono
l'aeroporto di Baghdad.
Da quel momento ci furono veri attacchi e scontri aperti tra americani
e Iracheni.
I prossimi capitoli tratteranno infatti di questa lunga e difficile
settimana.
Mi sembra di aver detto tutto, lascio a voi la parola adesso!
Un bacione a tutti!
Lua93.
P.S: Grazie a tutti quelli che hanno aggiunto questa storia nelle tre
liste, siete davvero in tantissimi.
Come sono tantissime le persone che mi hanno aggiuto tra gli autori
preferiti *_* Me emozionatissima!
|
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Capitolo 10 *** 9# ***
9#
Questo
è il mio regalo di Natale per voi. Credo, e posso dirlo con
certezza, di essere tornata.
Aesthesys - I Am Free, That Is Why I'm Lost.
9
Alice
accarezzava delicatamente il suo ventre ancora
piatto, fissando un punto indistinto oltre le mie spalle. Teneva gli
occhi
aperti ma sembrava non vedere. La luce soffusa emessa dal lampadario
dava forma
ai contorni, rendendo ogni dettaglio, all’infuori di quella
mano,
insignificante.
«Incinta.» Ripetei ad alta voce, cercando di
cogliere un
altro significato, qualcosa che doveva essermi sfuggito mentre Alice mi
confessava il suo segreto. «Tu sei incinta.»
«Io sono incinta.» Confermò senza
inclinazione di voce,
il suo bel volto era pallido, sotto gli occhi grosse ombre violacee
contrastavano il colorito adamantino della sua pelle. Sembrava non
riuscire a
fare altro che sfiorarsi il ventre, al ritmo di una melodia ancora
acerba.
Mi sedetti accanto a lei, «stai bene?»
Alice annuì, «quando mi sono sentita male, ieri
mattina,
credevo si trattasse davvero solo di un’intossicazione
alimentare.» Iniziò a
parlare lentamente, come se ogni parola che fuoriusciva dalle sue
labbra le
costasse una gran fatica. «per tutto il giorno non ho fatto
altro che riposare,
come mi avevi consigliato tu, ricordi?»
Sussurrai un debole si, accarezzandole i capelli, per
tranquillizzarla.
«E’ successo tutto così
velocemente.» Borbottò mordicchiandosi
il labbro inferiore, «un attimo prima stavo cercando un
pacchetto di fazzoletti
e l’attimo dopo mi sono ritrovata gli assorbenti in
mano.» Si fermò, voltandosi
verso di me, «non mi era mai successo prima, voglio dire, per
noi ragazze
mantenere il conto è naturale, eppure qualcosa dentro il mio
cervello deve
essersi inceppato, perché quando ho controllato sul
calendario, il mio ultimo
ciclo, risaliva a due mesi prima.» I suoi occhi cercarono i
miei, ed era uno
sguardo così spaventato, sembrava essersi persa.
«Come ho fatto a non
accorgermene, io che sono sempre così precisa.»
Piagnucolò arrabbiata.
«In questi due mesi non hai mai avuto nausee?» Le
domandai ancora scossa.
Sembrò esitare prima di rispondere, «non ricordo.
Voglio
dire, sono sopravvissuta a due attentati, questo non avrà
messo a repentaglio
la vita del bambino? In seguito a traumi così pesanti non si
dovrebbe avere un
aborto? Insomma, ho seguito interi corsi di medicina dove tutti i
libri, tutti
i manuali e tutte le pazienti raccontavano le stesse cose. Quando
cavolo
avvengono gli aborti spontanei?» Mi chiese agitandosi,
iniziò a torturarsi i
capelli con la mano libera.
«Alice, calmati per favore.»
«E se il bambino fosse malato? Come faccio a saperlo, qui
non abbiamo i mezzi per controllare.» I suoi occhi si fecero
lucidi, la voce le
tremava, «e se morisse?»
«Prima di tutto cerchiamo di non farci prendere dal
panico. Otto settimane non sono poi così tante, e se fino ad
ora non hai avuto
problemi di nessun genere significa che il bambino sta bene. Non tutte
le donne
perdono il feto, a causa di un incidente. Il rischio è molto
alto, ma ti posso
assicurare che la medicina non è una scienza esatta. Io sono
certa solo di una
cosa, che tu e il tuo bambino siete ancora vivi, dopo tutto quello che
avete
passato.» Sorrisi, stringendola in un abbraccio.
La mia amica sembrò tranquillizzarsi, così prima
che le
venisse un nuovo attacco di panico, l’aiutai a infilarsi
sotto le coperte,
rimanendole accanto.
«Domani mattina faremo un’ecografia, va
bene?»
Alice annuì, stringendomi la mano, «ho
paura.» Ammise,
«sono terrorizzata. Mi sento come se fossi paralizzata, non
riesco a muovermi,
non riesco a respirare, sento questo esserino che mi cresce dentro e
anche se
sembra impossibile una parte di me, lo sapeva già di non
essere più sola, che
qualcosa in me era cambiato.» Una lacrima rigò
via, scivolando lungo la sua
piccola guancia, fino a bagnare il cuscino. «Ho
così tante domande da fare, ma
ho troppa paura delle risposte. Aspettare un bambino in un posto come
questo,
sapere di essere in costante pericolo. Solo adesso mi rendo conto
dell’enorme
sbaglio che ho commesso passando tutte le notti con Jasper.»
«Questo esserino è il frutto del vostro amore, e
non
osare mai più pensare una cosa del genere,
capito?» Cercai di sembrare severa,
ma dentro di me mi sentivo spezzata.
Alice sorrise, «l’ha detto anche lui
sai?»
«Jasper?» Chiesi leggermente confusa.
«Si. Appena ho scoperto di essere incinta, sono corsa da
lui, meritava di sapere la verità prima di chiunque altro.
Quello che porto
qui,» sospirò indicandosi la pancia, «ha
la priorità su tutto.»
«Hai fatto bene.»
«Non dire così, ho
sbagliato in così tante cose.»
«Alice, non ci pensare, vedrai che troveremo una
soluzione.» La rassicurai.
«E’ quello che ha detto anche Jasper, ha ripetuto
le tue
esatte parole. E quando gli ho accennato a un possibile aborto, lui si
è
arrabbiato, non mi avrebbe mai permesso di farlo. Ed io ero
così felice di
sapere che anche lui, come me, non avrebbe mai voluto separarsene.
Così quando
gli ho confessato di volerlo questo bambino, lui mi ha detto che mi
amava.»
Sorrise, e il suo volto divenne la cosa più luminosa
presente nella stanza.
«Su questo non c’erano dubbi.»
«Ma adesso dimmi, come possiamo farcela? Jasper deve
combattere questa guerra e io devo soccorrere i feriti, non posso
stare a poltrire tutto il giorno, mentre fuori da
queste pareti avviene un massacro.» Ancora una volta la
tristezza ebbe il
sopravvento e tutti i progressi conseguiti fino a quel momento
precipitarono.
«Non ti preoccupate, vedrai che insieme ce la
faremo.»
«Posso fidarmi di te?» Mi domandò
improvvisamente,
puntando i suoi occhi nei miei.
Non credo di aver risposto nulla, eppure lei si sollevò
sui gomiti e mi abbracciò, capendo i miei silenzi.
«Vi proteggerò a costo della mia vita.»
Le promisi,
ricambiando l’abbraccio.
Alice ridacchiò, «sai, sembra che tu e Jasper
viaggiate
sulla stessa lunghezza d’onda, anche lui ha usato queste
parole, prima che
andassi via.»
«Questo perché è la verità.
Vedrai che riusciremo a
cavarcela, senza che il Sergente Black ne venga a
conoscenza.» La
tranquillizzai, cercando di auto convincere anche me.
Quell’uomo avrebbe
scavato a fondo dentro ognuno di noi, ma avrei tentato in tutti i modi
di
proteggere la piccola Alice.
«Rimane solo un problema.» Sussurrò
mentre m’infilavo
sotto le coperte del mio piccolo letto. «Cosa diremo al
Tenente?»
«Di lui dovrebbe occuparsi Jasper.» Le risposi
strofinando il viso sul cuscino. La mia voce uscii ovattata e
confusionaria,
segno che la stanchezza stava prendendo il sopravvento.
«Quel fifone non vuole dirgli niente.» Si
lagnò.
Sbuffai infastidita, non avevo ancora ben chiaro le idee
di Alice, ma un campanello d’allarme iniziò a
suonare nella mia testa dopo
quell’affermazione. «Stai forse cercando di dirmi
qualcosa?» Le domandai
spazientita.
Nell’oscurità della stanza sentii la risposta come
una
supplica, «solo tu puoi aiutarci.»
«Perché dovrei dirgliela io la verità?
Jasper è il suo
migliore amico e tu lo conosci da più tempo di
me.» Affermai, sapendo benissimo
che il mio discorso non faceva una piega.
«Bella, ancora non l’hai capito?» Alice
sembrò divertita.
«Capito cosa?»
«Di tutte le persone presenti in questo accampamento, tu
sei l’unica capace di affrontarlo. Lui si sente intimorito da
te. Sei come una
specie di droga per lui. Per quanto vorrebbe tenerti alla larga, ha
bisogno di
te.»
Le parole mi morirono in gola, ritornando indietro.
Potevo allontanarlo da me quanto volevo, quanto potevo, ma lui avrebbe
sempre
trovato il modo per riacciuffarmi. Alice aveva ragione, eravamo
diventati
dipendenti l’uno dell’altra.
Sospirai. «Lo farò.»
Morfeo calò su di noi, dopo quell’ultima promessa.
Fu nel cuore della notte che li sentii.
Non erano esplosioni, quelle erano impossibili da udire.
Ma i fasci di luce che provenivano dall’orizzonte, avevano
superato i confini,
giungendo fino a noi. Quanyo fosse la verità e quanto solo
un incubo, non
riuscii a capirlo, perché non riuscii a fare altro che
smettere di respirare,
mentre fasci di luce colpivano il cielo e il rumore degli elicotteri
perforava
il silenzio della notte. In quella terra piatta, la sabbia era
portatrice di
parole, di sangue, di paura mai affrontate.
Voltandomi verso Alice, la fissai dormire placida, il
respiro regolare e i capelli sparsi su tutto il cuscino. Ripensai alle
sue
parole, alle sue lacrime,ma soprattutto alla creatura che cresceva
dentro il
suo esile corpo. Avevano concepito l’amore in un campo
minato, forse c’era
ancora speranza, forse il sole poteva sorgere ancora sulle terre di
Allah. Ma
cosa avremmo dovuto aspettarci una volta aperti gli occhi, quelli della
coscienza?
Rimasi sveglia ad ascoltare i rumori della notte,
fissando quella sottile luce che filtrava dalla finestra. Le parole di
Edward
mi risuonavano in testa come una litania. La tensione dei soldati,
l’ansia di
Angela, l’arrivo del Sergente. Sapevo di dover essere forte,
ma da sola non ne
sarei mai stata capace. Per quanto mi era difficile ammetterlo, avevo
bisogno
di Edward, e per qualche assurda ragione, sapevo che anche lui aveva
bisogno di
me.
Quando il sole sorse sul deserto, Alice ed io ci alzammo,
preparandoci per la nuova giornata.
Rispetto alla sera precedente, sembrava più rilassata, e
quelle ore di sonno le avevano fatto acquistare nuova energia. Anche il
suo
corpo sembrava stare meglio. La sua pelle era tornata a brillare e
qualcosa nei
suoi occhi mi diede speranza.
«Anche se non posso mangiare nulla prima
dell’ecografia,
tu dovresti fare colazione.» Mi sorrise, cingendomi il
braccio intorno al
fianco mentre c’incamminavamo verso la mensa.
Ridacchiai, «prenderemo qualcosa per dopo, non possiamo
lasciare a digiuno il fagiolino.»
Alice si fece tutta rossa, sistemandosi il camice bianco
imbarazzata, «che strano parlare di lui, non so come, ma tu
riesci a fare
sembrare tutto così reale e vicino.»
«E questo è un male?» Le domandai
pensierosa.
Un gruppo di soldati ci passò accanto, dirigendosi con
passo spedito e con stomaco affamato verso la mensa.
«No, non direi un male. Più che altro direi che
è
strano.» Rispose con sincerità.
Corrugai la fronte, continuando a non capire, «credo che
la gravidanza ti abbia dato al cervello.» Borbottai
leggermente infastidita,
mentre Alice rideva, in un attimo di spensieratezza.
Un’ombra scura avvolse i nostri passi, facendoci
sobbalzare spaventate. E prima ancora che capissimo di chi si
trattasse, il
Sergente Black si era già materializzato davanti a noi, con
un sorriso
smagliante e due occhi neri che sembravano pozzi di petrolio.
«Scusate, non avrei voluto spaventarvi.» Disse
dispiaciuto, bloccandoci la strada.
Cercai di sdrammatizzare, rispondendogli che non ci
eravamo affatto spaventata.
Il Sergente ridacchiò, «comunque buongiorno
Dottoressa,
stavo interrompendo qualcosa?» Ci domandò
guardando prima me, poi Alice.
«Affatto.» rispose quest’ultima,
allungando una mano
verso di lui, «Io sono Alice Brandon, una delle tante
infermiere.» Si presentò
con un sorriso tirato, stringendo la mano dell’uomo.
Jacob sembrò non rendersi conto della sottile ironia
utilizzata da Alice, o comunque, se si fosse accorto di qualcosa non lo
diede a
vedere. «Piacere di conoscerla, io sono il Sergente Jacob
Black.» E come se nulla fosse, si mise accanto a
me,
camminando al nostro fianco.
«Posso unirmi a voi?» Ci chiese con allegria.
«Noi stavamo andando a mangiare qualcosa prima di
iniziare.»Risposi osservandolo. C’era qualcosa in
lui, che mi tranquillizzava.
Era come trovarsi in presenza di qualcosa di familiare. Sprigionava
calma,
tranquillità. Non era affatto una spiacevole compagnia.
Annuì,«anche io.»
Un finto sorriso si era disegnato sul volto di Alice,
sapevo quanto si sentisse in disagio. Era come trovarsi davanti al
proprio
rapinatore dopo essere state derubate. Jacob era il nemico, quello che
avrebbe
messo in pericolo la relazione di Alice e di Jasper, ma soprattutto,
sarebbe
risultato un problema per il bambino, se fosse venuto a conoscenza
della sua
esistenza.
Lui però sembrò perso in un altro mondo. Non
aveva
affatto l’aria di ufficiale tenebroso o pericoloso. Mi
sembrava più un bambino
in mezzo a tanti soldati adulti. Forse erano i suoi occhi,
così innocenti o il
suo volto infantile. Qualsiasi cosa fosse, m’incuriosiva.
«Per quanto tempo ti fermerai con noi?» Gli
domandai,
voltandomi verso di lui.
«Tanta fretta di liberarti di me?»
Ammiccò scherzando.
Ovviamente avvampai, come poche volte mi era capitato, se
non in presenza del Tenente. Pensavo fosse l’unico capace di
farmi provare quel
genere d’imbarazzo.
«Certo che no, solo curiosità.»
Farfugliai distogliendo
lo sguardo dai suoi occhi.
Jacob rise, «credo una settimana. Devo solo accertarmi
che sia tutto in regola.»
«Lo è.» S’intromise Alice con
astio.
Cercai ancora una volta di risollevare la situazione,
rivolgendomi al Sergente, «Alice ha ragione, siamo davvero
un’ottima squadra.»
«Ne sono convinto.» Disse, aprendo la porta della
mensa,
facendoci entrare per prima. «Prego
signorine.»
«Grazie.»
«Si, molto gentile.» Borbottò Alice,
osservandosi
intorno. «Senti Bella, io vado a prendermi un
caffè e vado in ospedale, non ho
molta voglia di stare qui.» Mi disse osservando i movimenti
gentili del
Sergente che ci aspettava vicino al bancone, «ci vediamo
lì.»
«Va bene.» Sorrisi intenzionata a tornare da Jacob,
quando la mano di Alice mi bloccò. «Tranquilla,
tra meno di dieci minuti sarò
da te.» Le sorrisi.
«Non si tratta di questo.» Sbuffò
inviperita, «si tratta
del Sergente. Non mi fido di lui, lo vedo come ti guarda.»
Scoppiai in una fragorosa risata, «ma di che cosa stai
parlando? La gravidanza ti ha reso per caso paranoica?» le
chiesi abbassando il
tono della voce.
«Ti sto solo mettendo in guardia, certe cose si capiscono
subito.»
Inarcai un sopracciglio, indispettita, «certe
cose?»
«Non ti rendi conto che ti sta facendo la corte?»
Mi
chiese stupita. Entrambe ci voltammo verso il Sergente, ci dava le
spalle e
sembrava molto preso dalla conversazione che stava intrattenendo
con Peter.
«Sei paranoica.»
Alice mi lanciò un occhiataccia, «e tu troppo
ingenua. Ci
penserà Edward a farlo stare buono.»
Adesso era io quella stizzita, «adesso vai, prima che
cambi idea. Ci vediamo tra poco.» La salutai, dandole le
spalle. Quella ragazza
mi avrebbe fatto perdere il senno.
Con passo spedito raggiunsi Jacob che reggeva in mano due
vassoi stracolmi. Mi sorrise imbarazzato, «non sapendo cosa
ti potesse piacere,
ho preso un po’ di tutto.»
«Hai fatto bene, questa mattina ho una fame da
lupi.»
Ridacchiò, «sono felice di averti conosciuta,
solitamente
sono tutti un po’ resti ad avvicinarsi quando
lavoro.» Mi disse con sincerità.
Ci sedemmo in uno dei pochi tavoli liberi, in fondo alla
sala.
«Probabilmente perché hanno paura delle tue
decisioni.»
Sollevai gli angoli delle labbra, zuccherando il caffè.
Jacob sembrò essere d’accordo con me,
«se devo essere
sincero, sono molto scrupoloso e preciso quando si tratta di lavoro,
forse è per
questo che non vado tanto a genio.»
Feci spallucce, «anche io mi sono sentita un pesce fuor
d’acqua appena arrivata alla base.» Ammisi,
aprendomi più del necessario.
«Il Tenente mi ha raccontato la tua storia, e anche se
non conosco la tua versione dei fatti, voglio che tu sappia che non ti
giudicherei mai.» Lo disse come se fosse la
verità. I suoi occhi divennero un
lago scuro in cui specchiarsi, profondi e sinceri. Ma fino a quale
punto della
mia storia, Edward era arrivato?
Cercai di sembrare il meno nervosa possibile, anche se
sapevo perfettamente di essere pessima come bugiarda. «Oh,
stai parlando
dell’attentato all’ospedale?» Chiesi con
finta innocenza.
Il Sergente annuì, «esattamente, il Tenente
è stato molto
riservato, e se devo essere sincero mi ha incuriosito. In seguito
all’incidente, non deve essere stata facile.»
Tentai di decifrare le sue parole,ma c’era sempre
qualcosa che non riuscivo a comprendere fino in fondo.
«Il Tenente non vi ha raccontato
nient’altro?»
«No, perché?» Domandò
fissandomi.
Feci spallucce, evitando di guardarlo negli occhi. Se lui
era stato chiamato per farmi tornare in America in seguito
all’errore commesso
l’altra notte, perché Edward non gli aveva
raccontato della mia fuga?
Tentai di non darci troppo peso, sicuramente aveva
qualcos’altro in mente. Eppure una piccola parte di me, si
sentii traboccare di
gratitudine nei suoi confronti.
«Guarda, è arrivato il Tenente.»
Sollevai il viso, scontrandomi con due gemme dall’altra
parte della sala. I suoi occhi erano fissi sul nostro tavolo e non
appena i
nostri sguardi s’incontrarono, lui si voltò
dall’altra parte, con un
espressione inesprimibile sul volto.
«Sembra sempre di cattivo umore, assomiglia molto al
Generale Winchester, anche lui è così freddo e
distaccato.» Disse, bevendo con
calma il suo caffè.
Cercai di non badarci, ma sapevo benissimo che
l’espressione delusa dipinta sul suo volto, non sarei
riuscita a levarmela
dalla mente molto facilmente.
Alice aveva imparato a trafiggere con i suoi silenzi. A
volte si perdeva nella contemplazione di un attimo fino a renderlo
surreale e
subito dopo, riusciva a farti precipitare senza spingere.
Quando rientrai dalla mensa, la trovai seduta sulla sedia
dietro la mia scrivania, con entrambe le mani sul ventre. Fissava la
porta, in
attesa che questa venisse aperta, e anche dopo che vi entrai, lei
rimase in
silenzio a osservarla.
«Sei pronta per l’ecografia?» le
domandai, facendole
segno di seguirmi.
Alice si alzò e obbediente raggiunse con me la sala dei
macchinari, fortunatamente vuota.
«Dove hai lasciato il tuo migliore amico?» mi
chiese con
sarcasmo mentre si sdraiava sul lettino accanto alla macchina.
«Jacob non è il mio migliore amico.» Le
risposi,
sollevandole la maglietta. Le versai un po’ di gel sul
ventre, avvicinando la
sonda.
Alice sollevò gli occhi al cielo, «in questo
momento sono
troppo ansiosa, ti riprenderò quando mi sarò
ripresa.»
Ridacchiai, «certo, adesso che ne dici di dare
un’occhiata?» Le domandai, indicandole lo schermo.
La vidi cambiare espressione nel momento esatto in cui i
suoi occhi si posarono sul piccolo. Non era altro che un fagiolino
ancora in
formazione. «E’ all’incirca due
centimetri.» Sussurrai, ruotando la sonda, poi
alzai il volume dell’apparecchio e in meno di due secondi la
stanza si riempì
di un nuovo suono.
«O mio Dio, è il suo cuore!» Alice
urlò emozionata, non
riuscendo a trattenere una lacrima.
Sorrisi di riflesso, osservando il piccolo.
«Come puoi vedere tu stessa, sta benissimo.» La
rassicurai, lasciandole ascoltare ancora un altro po’ il
cuore del suo bambino.
Alice rideva e piangeva contemporaneamente, sembrava al
settimo cielo, «non riesco a crederci, sento il suo
cuoricino, vedo il mio
piccolo. Sono così felice. Lui sta bene.»
«Adesso gli facciamo fare un bel sorriso, per la foto da
mostrare al papà.» Ridacchiai, stampando le
immagini e i risultati della
visita.
Con ancora le lacrime agli occhi, Alice si rivestì,
stringendomi in un caloroso abbraccio. «Grazie.»
«Non devi ringraziarmi.» Dissi allungandole le foto
del
piccolo, «queste non farle vedere a nessuno se non a Jasper,
mi raccomando.»
Sorrise di riflesso, accarezzandosi la pancia, «vedrai
amore, il tuo papà sarà felicissimo di sapere che
stai bene.»
«Il problema sarà nascondere la pancia, per un
altro mese
possiamo stare tranquille, in caso diremo che sei
ingrassata.» Cercai di
sdrammatizzare, mentre ritornavamo nel mio ufficio.
Alice sembrò essere d’accordo con me,
«non potremo
nasconderci a lungo.»
«Non dovrai farlo per molto. Quando Jacob sarà
andato
via, tu potrai tornare in America senza correre rischi. In questo modo
anche la
carriera di Jasper sarà al sicuro.» Riflettei ad
alta voce, cercando di
tranquillizzarla. L’unico problema era il Tenente, se tutto
fosse andato
secondo i miei piani non ci sarebbero state complicazioni, ma essendo
Edward
una mina vagante, non potevo averne certezza.
«Voglio che Jasper ritorni in America con me, non
farò
nascere mio figlio senza il padre.» Disse convinta, il suo
essere così testarda
non ci avrebbe aiutato in futuro.
«Per il momento pensiamo solo a non farti scoprire,
okay?»
«Va bene.»
Annuii sollevata, «e adesso meglio rimettersi a lavoro,
prima che qualcuno si accorga della nostra prolungata
assenza.»
Avevo trascorso l’intera giornata a sistemare le pratiche
e riorganizzare i turni in ospedale, in modo da rendere il lavoro di
Alice meno
faticoso. Le avevo riservato solo i turni diurni, prendendo il suo
posto in
quelli notturni.
In ospedale non ci furono operazioni quel giorno, ma non
per questo il lavoro era risultato meno duro. Ultimamente il numero dei
pazienti era salito vertiginosamente, soprattutto da quando non vi
erano più
solo soldati americani ma anche abitanti del luogo. La situazione
sembrò
peggiorare verso sera, quando ci arrivarono le prime notizie da
Baghdad.
L’aeroporto era stato conquistato senza troppe
difficoltà e perdite, e questo
con grande gioia da parte dei militari del nostro campo, che non furono
chiamati per prestare soccorso.
Purtroppo però i feriti arrivarono con gli elicotteri nel
giro di qualche ora, cercando di smistarli in più ospedali
da campo. Da noi ne
arrivarono due privi di vita, e per quanto cercassi di essere forte, di
fronte
a un corpo esamine non riuscivo ancora a darmi pace.
Fu per quel motivo che decisi di rimanere in ospedale
tutta la notte, vegliando sugli altri feriti. Non avrei accettato altre
morti,
non se avrei potuto fare qualcosa per evitarlo.
Rimasi sveglia fino alle tre del mattino, controllando
costantemente la loro salute, e solo dopo essermi accertata delle loro
condizioni ritornai nel mio ufficio.
La stanza si trovava nella semi oscurità, ricoperta da un
silenzio surreale. In quel momento sentii addosso tutto il peso delle
mie
responsabilità. Per quanto tempo saremmo riuscite a
mantenere il segreto?
Ciò che più mi preoccupava era la reazione di
Edward, lui
era così imprevedibile. Era da quella mattina che non lo
vedevo, e per quanto
continuassi a ripetermi di disprezzarlo, avevo bisogno dei suoi occhi,
anche
solo per un secondo. Erano gli unici capaci di rassicurarmi, forse
perché pieni
di quel dolore sordo a cui non riusciva a dare un nome, forse
perché ricoperti
di quella patina di magia che ero riuscita a portargli via quando le
sue labbra avevano sfiorato le mie. E Dio, come mi mancava quel calore.
Così immersa nel buio dei miei pensieri, con la mente
già
persa nel mondo onirico non mi resi conto di una figura in piedi
accanto alla
porta. Ero certa di stare sognando, eppure due occhi come quelli non si
potevano dimenticare in una notte. Erano verdi. Intensi, in fiamme.
Sentii la
sua presenza accanto a me, il suo corpo vicino al mio. Ma ero sempre
più
convinta che fosse tutto frutto della mia immaginazione, della mia
mente sempre
meno lucida e stanca.
Solo la mattina seguente, quando mi risvegliai con un
plaid sulle spalle, mi resi conto che non si era trattato di un sogno.
Ebbene
si, sono tornata!
Appena postato
questo capitolo rimuoverò l'Annuncio.
Che ne dite vi
può andare bene come regalo di Natale? A me il vecchio Santa
ne ha fatto uno bellissimo, mi ha ridato la voglia di scrivere questa
storia, e non sia detto che non accadrà anche per Buskers.
Per il momento
eccomi qui, con il nuovo capitolo. Commenti? Vi ricordavate dove
eravamo rimasti?
Tra Bella e
Jacob succederà qualcosa? Come la prenderà
Edward? E Alice?
Troppe
domande, e le risposte le troverete solo leggendo!
Posterò
regolarmente tutti i Venerdì, compreso il 30 Dicembre!
Colgo
l'occasione per augurare a tutti voi un Felice Natale, mi raccomando
mangiate, giocate a tombola e state con le persone che amate!
Lua93.
P.s.
Se voleste lasciarmi un commentino ne sarei davvero felice :D
|
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Capitolo 11 *** 10# ***
10#
Sono in anticipo, lo so.
Solo che domani non ce l'avrei fatta a postare, così ho
preferito farlo
oggi, con calma.
La canzone che vi
suggerisco richiama molto i
sentimenti di Isabella. Birdy ~ Terrible Love.
Origiariamente la canzone era dei The
National, ma
io, sinceramente, adoro troppo questa versione.
Ringrazio i 21
angeli che hanno recensito lo scorso capitolo. Questo capitolo lo
dedico a voi.
Buona lettura.
10
La testa pulsava dolorosamente
a
causa della scomoda posizione assunta durante la notte. E per quanto la
presenza del plaid mi avesse aiutato a combattere il freddo, i muscoli
delle
spalle e del collo erano doloranti. Cercai di sistemare la
criniera
indomabile che avevano formato i miei capelli, districandoli con le
dita, ma il
risultato sembrava non migliorare, così sapendo di non avere
tempo per tornare
in camera, decisi di legarli in una coda alta, nascondendo dietro le
orecchie i
ciuffi più ribelli. Andai nel piccolo bagno
dell’ospedale prima di tornare dai
ragazzi, dove sciacquai il viso, passando più volte
l’acqua fredda sulla nuca,
cercando di alleviare il dolore.
Quella mattina ero un fascio di nervi, mi
sentivo disorientata, e qualsiasi spiegazione cercassi di dare al gesto
di
Edward, questa non riusciva a soddisfare i miei dubbi.
juTentai
di non pensarci ma per
quanto provavo ad estraniarmi, mentre controllavo la salute dei tre
militari
feriti, la mia mente andava involontariamente al ricordo di quella
notte. Il
lavoro era la mia priorità, non avrei dovuto pensare ad
altro, focalizzai così
la mia attenzione solo sul ragazzo sdraiato sul lettino bianco.
Con
impazienza attesi il suo
risveglio, essendo l’ultimo rimasto sotto gli effetti della
morfina, nella
speranza che si riprendesse presto. Per come era arrivato la sera
prima,
sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito a riaprire gli occhi. Erano
in
momenti come questi in cui mi sentivo impotente, quando sapevo che
l’unica cosa
da fare era aspettare.
Improvvisamente
la porta della
stanza si spalancò, facendomi
sobbalzare.
«Scusa
non volevo spaventarti.»
Borbottò imbarazzata Angela, guardandosi intorno.
«Il Tenente mi ha chiesto di
portarti qualcosa di caldo.» Aggiunse allungandomi un
contenitore di plastica
con dentro del caffè.
I suoi
grandi occhi mi
osservarono con apprensione, «sei rimasta qui tutta la
notte?» mi chiese
posando poi, la sua attenzione sul soldato completamente fasciato.
«Si.»
Le risposi sorseggiando il
liquido caldo. «Edward sapeva che ero qui.» Ammisi
giocherellando con il
coperchio in plastica del termometro.
La sua
piccola mano si accosto a
quella grande e scura del ragazzo, accarezzandogli il dorso con le
dita, «come
vorrei che tutto questo non fosse necessario.»
Sospirò con amarezza. I suoi
occhi divennero lucidi e in quel momento tentò di mascherare
la tristezza con
un falso sorriso, «è’ passato a
trovarti?» mi domandò fissandomi.
«Questa
notte è venuto in
ospedale.» Risposi, prima si alzarmi dalla sedia per gettare
il bicchiere.
«Ecco
perché sapeva dove ti avrei
trovato.» Sorrise, passandosi la mano tra i capelli corti e
ricci, «Cos’è
successo?»
«Nulla,
cosa pensi sia successo?»
Borbottai imbarazzata, «mi ha portato una coperta e poi
è andato via.»
Angela
assentì, «e tu?»
«Io
dormivo.»
«Oh.»
La fissai
torva, «Perché quel
sorrisetto sulle labbra?»
«Perché
anche se sono passati
tanti anni, non riesco proprio a smettere di sognare. Cosa vuoi farci,
sono una
romantica io, vecchio stampo. Roba che a voi giovani manca.»
Mi rispose
allungando la mano verso la mia, stringendola forte, «senti
Bella, anche se
continui a negarlo, tra di voi c’è qualcosa. Si
vede, si percepisce. Sono
scariche elettriche che riempiono l’aria che vi
circonda.»
Liberai la
mano dalla sua
stretta, alzandomi, «senti Angela, smettila di dire
cretinate, okay?»
«Non
sono affatto cretinate, e lo
sai anche tu. Non è la prima volta che ti riserva queste
attenzioni.» Mi fece
notare, sistemando la sedia sulla quale era seduta.
«Angela
per favore.» La
supplicai, nascondendomi dai suoi occhi indagatori.
La sentii
sbuffare, mentre si
avvicinava, «io lo dico per te, credi che non mi sia accorta
degli sguardi che
vi siete lanciati ieri mattina, quando eri con il Sergente
Black?» Chiese
sarcastica, «lui era geloso.»
«Ti
sbagli.» Sbraitai facendola
sobbalzare. Sentivo le guancie accaldate, così come il resto
del corpo,
«Smettila, non voglio ascoltare le tue false supposizioni. E
comunque, se anche
fosse vero, questo non ti riguarderebbe.» Sbottai arrabbiata.
Angela
sembrò delusa, «hai
ragione, non è affare mio.» Disse mortificata.
«Senti
mi dispiace, okay? E che
sono esausta, questa notte ho dormito malissimo.» Borbottai
cercando di
arrabattare delle scuse quanto meno decenti. Non avrei voluto
aggredirla, non
era nella mia natura alzare la voce con le persone, ma da quando mi
trovavo
alla base, il mio carattere sembrava aver assunto sfumature nuove,
inaspettate,
anche per me. Non ero la Bella che conoscevo, quella euforica e sempre
pronta
ad aiutare gli altri.
Angela
sembrò capire, perché si
avvicinò lentamente, stringendomi in un tenero
abbraccio.«Tranquilla, so che è
difficile, non preoccuparti.»
«E
che non ci riesco.» Sbottai
trattenendo a stento le lacrime, «sono così
stanca. Sapevo che sarebbe stata
dura, ma non così.»
«Sfogati
tesoro, non ti tenere
tutto dentro.» Sussurrò accarezzandomi i capelli.
Mi
aggrappai alle sue braccia
come se fossero ancore di salvezza, nascondendo il viso
nell’incavo del suo
collo. E lì, tra le sue esili braccia, lasciai che tutti i
nodi annodati dentro
di me si sciogliessero, buttando fuori tutte quelle lacrime represse e
quelle
paure che conservavo dentro da troppo tempo.
«Tutti
noi vorremmo tornare a casa.
Anche io sono esausta e in confronto a te non faccio assolutamente
nulla,
quindi non scusarti, non sentirti neppure in imbarazzo. Nessuno qui
è
invincibile.» Mi sussurrò dolcemente.
«Ci
mancava solo il Sergente.»
Ammisi stizzita, asciugandomi con il dorso della mano le ultime lacrime.
Angela mi
sorrise, «Se il Tenente
ancora non gli ha riferito nulla significa che non ha intenzione di
raccontargli tutta la verità.»
«E
allora perché l’ha convocato?»
La mia
amica fece spallucce, «non
saprei.»
«Quell’uomo
è indescrivibile,
come vorrei poter essere nella sua bella testolina per capire le sue
intenzioni.» Bofonchiai frustrata.
Angela
ridacchiò, abbracciandomi
un’altra volta. «Non preoccuparti di quello che ha
in testa lui, preoccupati
piuttosto di quello che passa per la testa al Sergente, sarebbe saggio
tenerlo
d’occhio.» Disse assumendo un atteggiamento serio e
preoccupato.
«Lo
farò.» Promisi,
accompagnandola alla porta. «Grazie.» Le sussurrai
con gratitudine,
sorridendole.
«Quando
vuoi sai dove trovarmi.
Se c’è qualcosa che ti preoccupa, qualsiasi cosa,
io ci sono.»
«Lo
so.» Ammisi, pur sapendo che
non le avrei mai raccontato del bacio o del segreto di Alice.
Sorrise.«A
dopo.»
«Ciao.»
In
quell’istante le palpebre del
soldato si sollevarono, riempiendo la stanza di luce blu, dello stesso
colore
dei suoi occhi.
Mi
avvicinai al suo letto,
controllando il battito del suo cuore. «Ben
svegliato.» Sorrisi ottimista.
Nella
tarda mattinata, Jessica
venne a cercarmi, chiedendomi di raggiungere il mio ufficio, dove il
Sergente
Black mi stava aspettando. In un primo momento pensai che si fosse
sbagliata,
che tra tutte le persone che potevo aspettarmi lui era
l’ultima, essendo
arrivato da poco. Ma quando entrai nella stanza e lo vidi seduto dietro
la mia
scrivania, con un fascicolo in mano, con su scritto il mio nome, un
enorme
groppo in gola m’impedii persino di salutarlo.
«Buongiorno
Bella, come stai?» Mi
domandò quest’ultimo, con il tono allegro di
sempre. La sua divisa era
impeccabile, sembrava disegnata appositamente per lui. Seguiva
perfettamente le
forme sinuose del suo corpo, aderendo ai muscoli delle braccia e del
petto,
come una seconda pelle. Mi sorrise, indicandomi con la mano la sedia
vuota
davanti alla scrivania. «Prego siediti.»
«Teoricamente
siete seduto sulla
mia sedia.» Gli feci notare, rimanendo in piedi.
Jacob
ridacchiò, assentendo la
mia ultima battuta, «hai ragione,
purtroppo però, per il momento tu ti siederai davanti a
me.»
Lo fissai
interrogativa,«perché?»
«Dovrei
farti un paio di domande,
nulla d’importante. Si tratta solo di un
controllo.» Mi spiegò aprendo il
fascicolo.
Sospirando
mi ritrovai ad
assecondarlo, sedendomi sulla sedia.
«Allora,
Bella.» Sollevò il viso,
fissandomi, «parlami un po’ di te.»
«Come
scusa?» Chiesi confusa,
«non dovremmo parlare di lavoro?»
Jacob
scoppiò in una fragorosa
risata, socchiudendo gli occhi. Io lo fissavo sempre più
incuriosita, se si
trattava di uno scherzo non era affatto divertente.
«Intendevo
dire, parlami di te
come medico.» Chiarì, passandosi una mano tra i
capelli corti.
«Tutto
quello che devi sapere su
di me è scritto in quel fascicolo.» Ero un fascio
di nervi. Non sapevo bene che
cosa dire, soprattutto perché non conoscevo le sue
intenzioni. «C’è qualcosa di
poco chiaro all’interno del mio curriculum?»
«Assolutamente
no. Ed è per
questo che mi sorge qualche dubbio.» Ammise sempre con quel
suo tono
spensierato che poco si accostava all’atteggiamento che
avrebbe dovuto assumere
come ufficiale.
«Continuo
a non capire.»
Confessai con una risatina isterica.
«Senti
Bella, io non sono qui per
metterti nei casini, dico sul serio.» Sorrise alzandosi,
«tu sembri davvero un
ottimo medico, stai facendo un lavoro eccellente all’interno
della base e anche
fuori, voglio dire, hai una preparazione esemplare.» Disse
avvicinandosi.
Rimasi
seduta, imbarazzata dopo
tutti quei complimenti. «Però?»
Sussurrai sollevando la testa per poterlo
guardare negli occhi.
Jacob
sospirò, «però ho la netta
sensazione che mi stai nascondendo qualcosa. Ti sei specializzata da
poco
eppure sei stata chiamata in guerra senza un minimo di
esitazione.»
«Pensi
sia una raccomandata?»
Domandai sbigottita, «Il Dottor Smith mi ha seguito per tutta
la durata della
specializzazione, chiedendo lui stesso il mio aiuto in queste
terre.»
«Era
un tuo professore?» Mi
chiese posando le mani sul sedile della sedia. Irrigidii le spalle,
rimanendo
immobile.
«Si.»
Sussurrai debolmente.
Jacob
sembrò soddisfatto da
quella risposta, eppure rimase stabile dietro di me. «Bene, e
una volta
arrivata qui, voglio dire, dopo la morte del tuo professore, come sei
riuscita
ad andare avanti?»
«Con
preparazione e forza di
volontà. Non sarei tornata indietro lasciando la base senza
un medico.» Risposi
sincera.
«Saresti
stata presto sostituita
se solo avessi voluto rientrare. Ti è stata data la
possibilità di scegliere?»
«Ho
rifiutato il rientro in
America.» Risposi lapidaria.
Avvertii
il calore delle sue mane
sulle mie spalle, «stai tremando.» Mi fece notare
sfiorandomi.
Istintivamente
mi sollevai,
fronteggiandolo, «è tutto?»
«Per
il momento si.» Sorrise,
allontanandosi per riprendersi il mio fascicolo, «non
preoccuparti, non voglio che
tu ti senta in soggezione quando ti faccio queste domande. Si tratta
solo di
lavoro, stupide precauzioni. Lo so che il tuo lavoro qui è
eccellente, cosa
potresti mai aver commesso, giusto?» Ridacchiò.
Annuii,
incapace di rispondergli.
«Bene.»
Sorrise, avvicinandosi
alla porta, «è il turno delle infermiere
adesso.» Disse cercando di
sdrammatizzare la situazione, rendendosi conto del mio atteggiamento
distaccato.
Cercai di sorridergli, nascondendo le mie insicurezze dietro quel
gesto. Stava
per uscire, quando si voltò improvvisamente verso di me,
«sai, la foto sul tuo
curriculum è davvero molto bella.» Ammise uscendo
di scena prima che potessi
rispondergli.
Impiegai
diversi minuti prima di
riuscire a riprendermi. Solitamente non cedevo mai così
facilmente, o almeno
credevo. Con Edward ero sempre riuscita ad assumere un atteggiamento
forte,
cinico, capace di reggere qualsiasi parola. Ma con Jacob, era stato
completamente
diverso. Lui era l’esatto opposto. Con i suoi modi gentili
riusciva a portarti
direttamente dove desiderava, riuscendo a spingere il mio inconscio
nella
direzione da lui prescelta. Probabilmente la paura di essere scoperta
mi aveva
reso più debole o quanto meno pragmatica, perché
con lui mi era impossibile
fingere o nascondere le mie sensazioni. Questo non fece altro che
accrescere
l’inquietudine, che già albergava dentro di me, da
quando aveva messo piede
all’interno dell’accampamento. Forse sia Angela che
Alice avevano ragione sul
conto di Jacob, le sue intenzioni potevano andare ben oltre la semplice
curiosità. Le sue domande mi erano sempre troppo dirette,
come se tutte le
parole dette la mattina precedente fossero cadute nel dimenticatoio, e
le
confessioni fatte lasciate andare.
Quali
fossero le sue vere
intenzioni non ero ancora riuscita a capirlo, ma avrei tentato in tutti
i modi
di proteggere la mia carriera, il mio lavoro e il segreto che Alice
cresceva
dentro. Era proprio per tutti questi motivi che avevo abbandonato
l’ospedale
durante l’ora di pranzo, per raggiungere l’ufficio
di Edward, dove sapevo si
sarebbe rifugiato mentre i soldati accorrevano nella mensa.
Quando
entrai nella caserma, vi
era solo John, vicino ai monitor con indosso una cuffia, probabilmente
in
collegamento con gli accampamenti vicini.
Sollevai
la mano salutandolo
gentilmente, mentre mi dirigevo con passo spedito
nell’ufficio di Edward. John
ricambiò con un sorriso, riprendendo a parlare al microfono.
Feci un
respiro profondo, prima
di bussare leggermente alla porta. Ci vollero diversi secondi prima che
rispondesse accordandomi l’accesso. Per quanto avrei voluto
evitare
quell’incontro, una parte di me, forse la più
determinata, desiderava
ardentemente perdersi negli occhi chiari del Tenente. E quando
ciò accadde,
quando i nostri occhi s’incontrarono, percepii un notevole
aumento di
temperatura all’interno del mio corpo. Ultimamente mi
accadeva spesso in sua
compagnia.
«Isabella?»
Domandò inarcando un
sopracciglio, sembrava notoriamente sorpreso di vedermi.
Sollevai
leggermente gli angoli
delle labbra, avvicinandomi alla scrivania, «Tenente
disturbo?» chiesi
mantenendo un atteggiamento distaccato, per quanto la sua vicinanza me
lo
permettesse.
Lui scosse
la testa, facendo aderire
la schiena allo schienale della sedia, «è successo
qualcosa?»
«Il
Sergente Black questa mattina
è venuto a farmi visita,» risposi fissandolo,
«mi ha fatto qualche domanda.»
Edward
sembrò non battere ciglio,
come se le mie parole non avessero avuto alcun significato, quasi come
se non
gli avessi parlato. «E’ il suo lavoro, Isabella.
Lui è stato chiamato proprio
per questo. Farà domande a tutti noi, è toccato
anche a me.» Disse portandosi
le braccia al petto.
Annuii
impercettibilmente, «c’è
qualche problema alla base?»
«Perché
mi chiedi questo?»
Domandò perplesso.
«Non
si risponde a una domanda
con un’altra domanda.» Risposi laconica, sedendomi
sulla sedia di fronte alla
scrivania.
Il Tenente
sembrò rilassarsi,
perché vidi i muscoli del collo e delle spalle allentarsi,
«hai ragione, a
volte sono un vero maleducato.» Disse sarcastico.
«Avanti
Edward, smettiamola con
questi inconvenievoli, lo sappiamo entrambi il perché della
sua presenza.»
Sbottai infastidita dal suo atteggiamento.
I suoi
occhi si accesero di una
nuova luce e sul suo pallido volto comparve un ghigno divertito,
«se lo sai,
perché sei venuta a domandarmelo.»
«Perché
voglio sentirtelo dire.»
Confessai stringendo le mani a pugno, «dimmelo.»
Continuai senza mai distogliere
lo sguardo, «dimmi che la mia presenza in questa base
t’innervosisce, che
vorresti solo rispedirmi a casa. Dimmi che hai convocato il Sergente
solo per
fargli scoprire l’errore dell’altra
notte.»
Edward
rimase immobile,
ascoltando attentamente le mie parole. Ancora una volta rimase calmo e
rilassato, mentre mi fissava in silenzio.
«Dimmelo.»
Sbraitai iniziando a
respirare con affanno.
Con un
gesto rapido si sollevò
dalla sedia, facendomi sobbalzare quando me lo ritrovai alle spalle,
come era
accaduto quella mattina con Jacob.
Lo sentii
avvicinarsi posando
entrambe le mani sui braccioli della sedia, impedendomi qualsiasi
movimento.
«Perché vuoi sentirtelo dire?» Mi
domandò chinandosi all’altezza del mio viso.
Avvertivo distintamente il suo profumo, muschio e sabbia. Intenso,
profondo,
lentamente si conficcava nella mia pelle, penetrandomi.
«Solo
così saprò quanto mi odi.»
Risposi con un bisbiglio del tutto inudibile.
Edward si
avvicinò all’orecchio,
sfiorandolo con le labbra, «è questo quello che
vuoi? Vuoi sentirti dire che ti
detesto? Vuoi sentirti dire quanto disapprovo la tua presenza nella mia
base?»
Mi domandò languido, stringendo le mani sui braccioli,
«quanto vorrei che tu
non ci avessi mai messo piede qui dentro?»
«E’
per questo che hai chiamato
Jacob.» Sussurrai senza fiato.
Lui
ringhiò infastidito, «si, è
per questo che ho richiesto l’intervento del Sergente Black,
perché voglio che
tu vada via da qui. Che tu t’allontana il più
possibile da me.»
Mi voltai
di scatto, ritrovandomi
il suo viso a pochi centimetri dal mio, «e allora
perché non gli hai detto
della mia fuga? Del mio tentativo di salvare quelle due donne
eh?» Domandai perdendomi
nell’oceano verde dei suoi occhi. Socchiuse leggermente le
labbra, come a voler
dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola.
La presa
sulla sedia si fece
sempre più debole, fino a scomparire del tutto. E con la
stessa disarmante
lentezza si allontanò da me, indietreggiando di qualche
passo.
Tentai di
riprendere il controllo
della situazione, cercando più aria di quanto i mie polmoni
ne potessero
contenere. Avrei preso fuoco da un momento all’altro se lui
non avesse smesso
di guardarmi in quel modo. Non riuscivo a respirare con quegli occhi.
«Perché
non l’hai fatto?»
Domandai nuovamente, «rispondimi.» Lo scongiurai
alzandomi dalla sedia.
Edward
sembrò pietrificarsi e
ancora una volta rimase in silenzio.
«Se
è vero che mi odi, perché non
hai detto a Jacob di quella sera, ho disubbidito ai tuoi ordini, devi
punirmi.»
Dissi con un filo di voce avvicinandomi.
Era
così alto.
«Puniscimi.»
Feci un
altro passo, ritrovandomi
così vicina a lui da poterlo sfiorare con un minimo
movimento. Edward mi
fissava senza parlare.
«Perché
non l’hai detto a Jacob?»
Improvvisamente
avvertii due mani
stringermi con forza i polsi, e gli occhi di Edward brillarono di
rabbia.
«Sergente Black, dannazione, lui è il Sergente
Black.» Sbottò spintonandomi, ma
senza mai lasciarmi andare.
Lo fissai
per nulla intimorita,
fronteggiandolo, «avanti Edward, rispondi.»
«Vuoi
sapere la verità Bella?»
Domandò senza dolcezza, «vuoi davvero sapere
perché non gli ho detto nulla?»
Annuii,
sentendo il suo respiro
sulle labbra.
«Perché
sono stato un pazzo. Sono
stato un folle a permetterti di farti avvicinare. E tu questo non lo
capisci?
Proprio non ci riesci? Eh?» Mi chiese con un mezzo sorriso,
che tutto sembrava
tranne felice. «Non capisci che ogni minuto che passo in tua
compagnia è un
pezzetto di razionalità che va scemando?»
«Io
capisco solo che tu sei stato
un pazzo, hai detto bene.» Dissi con disprezzo, avvertendo il
cuore battere
all’impazzata, certa che potesse sentirlo anche lui.
«Non hai pensato neppure
per un solo secondo alle conseguenze. Davvero credevi che si trattasse
solo di
me? Non sei neppure riuscito a capire come sono fatta che
già ti ostini ad
odiarmi.»
Edward
serrò la mascella,
aspettando che continuassi.
«C’è
qualcosa di molto più
importante da nascondere adesso.»
«Se
si tratta del bacio che c’è
stato tra di noi ti posso assicurare che non-» Non attesi
neppure che finisse
la frase, quello che conservavo dentro non poteva più essere
trattenuto.
«Alice
è incinta.» Ammisi
smettendo di lottare, «è incinta.»
Ripetei amareggiata.
In quel
momento i suoi occhi
divennero una maschera dietro la quale s’intravedeva solo il
nulla. Abbandonò
la presa sui miei polsi, indietreggiando.
«Ora
capisci cosa significa? Il
tuo migliore amico è nei guai e se qualcuno lo
scoprisse…» Farfugliai
distogliendo lo sguardo, «se Jacob lo venisse a sapere,
sarebbe la fine.»
«Alice
è incinta?» Mi domandò con
voce spezzata, non l’avevo mai visto così pallido.
«Di
otto settimane.» Risposi
laconica.
Lo vidi
stringere forte i pugni,
colpendo il muro con violenza. Inconsciamente indietreggiai, poi,
però, la
parte razionale del mio essere, mi costrinse ad avvicinarmi,
preoccupata
soprattutto nel momento in cui vidi il suo bel viso deformarsi per il
dolore.
«Stai
fermo idiota, così ti fai
male.» Gridai, afferrando la sua mano tra le mie,
così piccole in confronto.
Controllai attentamente che non si fosse rotto nulla, mentre lui
continuava a
ripetere frasi senza senso.
«Senti,
adesso non importa,
dobbiamo solo non farlo scoprire a nessuno.» Dissi
arrabbiata, non riuscendo a
lasciare la sua mano. «Dobbiamo mantenere il
segreto.» Farfugliai.
Edward mi
fissò intensamente,
«non mi sono fatto nulla.»
«Lo
so.» Sospirai, certa che la
sua mano fosse perfettamente integra.
Le sue
labbra si avvicinarono
pericolosamente alle mie, «e allora perché
continui a stringerla?»
Mi domandò incatenando i suoi occhi ai miei.
Scossi la
testa,«non lo so.» Ammisi sosprirando.
Così chiusi inconsciamente gli occhi.
Lo
avvertii indistintamente
mentre si avvicinava, mentre il ricordo del nostro ultimo bacio si
faceva
strada tra tutti gli altri ricordi. Avevo smesso di combatterlo. Avevo
smesso
di pensare.
Il rumore
della maniglia che
veniva abbassata ci fece allontanare repentinamente, prima che qualcuno
ci
potesse vedere.
Una chioma
dorata spuntò dalla
porta, mentre due occhi azzurri ci fissavano incuriositi.
«Disturbo?»
Domandò Jasper prima
di entrare.
Edward
teneva ancora la mano a
mezz’aria, «no, entra pure.» Rispose con
calma, recuperando il suo abituale
controllo. Dal canto mio, invece, sapevo di essere totalmente
inaffidabile, così,
prima che Jasper potesse capire qualcosa, mi allontanai, scusandomi con
entrambi, prima di uscire.
Che Jasper fosse da Edward per
raccontargli la verità era poco probabile, ma sicuramente
Edward gli avrebbe
chiesto spiegazioni.
Ma se lui non fosse entrato, se Jasper non ci avesse
interrotti, fino a che punto ci saremmo spinti? Tentai con tutte le mie
forze
di non pensarci, respirando a pieni polmoni l’aria fuori
dalla caserma.
Buonasera
a tutti voi,
se siete riusciti ad arrivare fino a qui, può significare
una
sola cosa, ovvero che il capitolo non è riuscito a farvi
addormentare xD
Sinceramente, adoro scrivere di Edward e Bella e del loro rapporto
così complicato ed introverso. Spero di essere riuscita a
trasmettervi i loro sentimenti, anche se mi rendo conto, che sono
piuttosto contorti, sopratutto quelli del tenebroso Tenente.
Ma
andando per ordine,
notiamo che Bella finalmente è riuscita a sfogarsi, prima
d'impazzire completamente. E anche se non ha potuto raccontare la
verità ad Angela, questa ha compreso le sue
difficoltà e
il suo dolore. Quante volte anche noi, nella vita quotidiana ci
sentiamo così? Quante volte vorremmo dire tutto quello che
sentiamo dentro e non possiamo? Ma anche se non ci riusciamo, le
lacrime escono ugualmente e chissà perché
c'è
sempre qualcuno, vicino o lontano, che riesce a comprendere il nostro
malessere senza spiegazioni. Per quanto mi riguarda, ho avuto la
fortuna d'incontrarla una persona così. E spero con tutto il
cuore di non perderla, perché è davvero speciale.
Dopo questa confessione alla Beautiful, torniamo alla storia. Il
Sergente ha iniziato il suo interrogatorio, dobbiamo sempre ricordarci
il motivo della sua presenza, ossia quella di supervisionare il lavoro
di tutti gli addetti alla base, militari, medici, infermieri. Tutti. E
oggi è toccata alla nostra Dottoressa. Che abbia capito
qualcosa
mi sembra difficile, ma non si può mai sapere.
Sinceramente credo che Edward abbia lasciato trapelare molto. Non
credete anche voi? Da adesso in avanti non si scherza più, i
due
dovranno parlare seriamente, perchè la miccia ormai
è
accesa e la bomba rischia di scoppiare da un momento all'altro, (a
buoni intenditori poche parole *_*)
Per tutti quelli preoccupati per un possibile avvicinamento tra Bella e
Jake dico, "state sereni". Ricordate che sono una team Edward a tutti
gli effetti ù.ù
Il prossimo capitolo sarà scoppiettante, avviso e
verrà postato il 5 Gennaio. Anticipo di un giorno essendo
Venerdì 6 l'epifania =)
Allora, come sono andate le feste? Vi siete divertiti? Avete mangiato?
Cosa vi hanno regalato di bello? A me qualche soldino ^_^ e un buono
sconto da spendere in libreria *_*
Prima di lasciarvi andare voglio ringraziarvi per il caloroso
bentornata che mi avete dato, le vostre recensioni erano tutte
bellissime. Grazie grazie grazie,
Colgo l'occasione per augurarvi un felice anno nuovo, con la speranza
che sia migliore di questo 2011.
Speriamo che questo 2012 sia speciale, e che nel caso dei futuri
maturanti, come me, ci riservi tanta fortuna xD
Lua93.
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Capitolo 12 *** 11# ***
11#
Per il nuovo anno vi lascio
un capitolo tutto dedicato al bel Tenente.
Sarà
un Pov Edward e vi consiglio di stare molto attenti, perché
sarà un
capitolo pieno di rivelazioni. Ho lanciato diversi segnali e indizi.
Come sempre vi lascio una
canzone:
Andrew Belle - In My Veins
Good read.
11
Pov
Edward
I capelli
color mogano furono l'ultima cosa che vidi di lei prima che si
chiudesse la porta
alle spalle. Li aveva legati in una coda alta che le risaltava la linea
sinuosa
del collo e il colore candido della pelle. Era uscita eppure sentivo
ancora il
suo profumo nella stanza, mi entrava dentro, lentamente fino a
risucchiarmi,
fino a rendermi incapace di desiderare altro.
Per qualche
secondo rimasi impietrito, tentando di riacquistare un po’ di
lucidità per
affrontare Jasper. Quello che Isabella mi aveva confessato andava ben
oltre un
semplice segreto, era decisamente un problema, uno di quelli difficili
d’affrontare.
Non riuscivo mai a concentrarmi abbastanza quando si trattava di
questioni
personali, ne avevo avuto la prova proprio con lei. In capace di
gestire i miei
sentimenti, di tenere a bada le mie emozioni.
Jasper mi
fissava immobile davanti la porta, le sue mani sfioravano continuamente
il
tessuto leggero della divisa in un gesto nervoso e spazientito.
«Come mai
Bella era qui?» Mi domandò spezzando il silenzio
creatosi intorno a noi.
Feci
spallucce ritornando composto dietro la scrivania,
«discussioni come al
solito.»
«Non mi
sembravate proprio sul punto di discutere.» Disse sarcastico,
mentre si sedeva
sulla sedia usata poco prima da Isabella.
Inarcai un
sopracciglio, «non credi di stare un po’
esagerando, non mi sembri nelle
condizioni adatte per sfottere.»
«Che cosa
intendi dire?»
L’espressione
sul suo viso mutò drasticamente, mostrandomi
un’insicurezza ben percepibile dal
tremolio lieve della sua voce.
«Isabella mi
ha detto la verità.» Risposi senza girarci troppo
intorno. Il problema si era
presentato, l’unica soluzione possibile era quella di tentare
di risolverlo
coinvolgendo il resto dell’accampamento il meno possibile.
Jasper
abbassò gli occhi, stringendo le mani a pugno sulle sue
gambe, «quindi lo sai.»
Annuii,
«perché non sei venuto tu a dirmelo?»
«Perché
so
come sei fatto, e sicuramente mi avresti urlato contro.»
Rispose con sincerità.
Era
visibilmente innervosito da quella situazione, e piuttosto imbarazzato.
«Effettivamente è proprio ciò che
vorrei fare, oltre darti un pugno sul viso.»
«Me lo
meriterei.» Ammise sospirando.
«Almeno ne
sei consapevole. Il problema comunque rimane.» Gli feci
notare.
Gli occhi di
Jasper s’illuminarono di una strana luce, fissandomi con
avversione. «Non credo
che mio figlio sarà mai un problema.» Disse
irrigidendosi, «anche se questo è
il tuo accampamento e noi dobbiamo sottostare ai tuoi ordini, non ti
permetto
di parlare di lui come se fosse un errore.»
Lo fissai
esterrefatto, «Jasper hai messo incita una donna mentre siamo
in guerra, cosa
dovrei dirti? Vorresti che ti facessi i complimenti, ti stringessi la
mano e ti
aiutassi a montare la culla?»Domandai con finta ironia,
«non so se ti sei reso
conto della gravità della situazione.» Aggiunsi
avvilito.
In otto anni
di amicizia, non avrei mai creduto di poterlo dire o anche solo
pensare. Ma
Jasper si era rivelato per quello che era, un vero sprovveduto. E
purtroppo non
era il solo. Per quanto detestassi ammetterlo sapevo che quella
situazione era
stata causata anche da un mio errore. Se non gli avessi permesso di
frequentarsi, di trascorrere tutte le notti sotto lo stesso tetto,
probabilmente tutto questo non sarebbe successo.
«Cazzo
Edward, certo che me ne sono accorto. Credi che non lo
sappia?» Chiese alzando
la voce, «ho sbagliato, questo lo so anch’io. Ma
ormai è successo e di certo
non obbligherò Alice ad abortire solo per un tuo
capriccio.»
«Non si
tratterebbe di un capriccio, ma di una necessità.»
«Non
ucciderò
mio figlio.» Ringhiò con rabbia.
«Dannazione
Jasper, davvero mi credi capace di un gesto così meschino?
Non te lo chiederei
mai, anche se si trattasse dell’unica soluzione per salvarti
il culo.» Sbraitai
sbattendo il palmo della mano sul legno duro e freddo del tavolo.
«Sono tuo
amico da troppo tempo, cosa credi che per me sia facile gestire questa
situazione senza farmi sopraffare dai sentimenti?»
«Aspetta,
quindi tu non vuoi che Alice abortisca?» Mi
domandò leggermente perplesso.
«Certo che
no
idiota.» Borbottai guardandolo, «che razza di amico
sarei se ti chiedessi di
fare una cosa del genere?»
Vedevo ancora
ancora gli occhi di Jannah quando abbassavo le palpebre. Lo sguardo
terrorizzato di una madre che sapeva di stare perdendo la propria
bambina. Inerme,
mentre osservava da dietro lo specchio la morte che accarezzava il
volto
pallido e piccolo di sua figlia, troppo debole per combattere. Se
avessi
permesso alla morte di portarsi via il figlio che Alice cresceva in
grembo, non
sarei più riuscito a guardarla negli occhi. Avrei ucciso una
donna oltre che un
bambino. Avrei spezzato due vite.
«Voglio bene
ad Alice, cosa credi? Ero con lei in entrambi gli attentati, so come la
paura
s’impossessa di lei, come sia difficile continuare a guardare
i suoi occhi,
come continua a tremare.» Aggiunsi passandomi la mano destra
tra i capelli.
Jasper
strinse gli occhi, «non voglio lasciarla andare.»
Digrignò i denti portando
entrambi le mani sulla testa, in un gesto disperato, «cosa ci
posso fare se mi
sono innamorato?»
«Non puoi
fare nulla.» Sussurrai abbassando lo sguardo, «non
sei stato tu a deciderlo.»
«Amo quella
donna più della mia vita, e sapere di averla messa in
pericolo mi terrorizzata.
Sapere di essere la causa delle sue paure, non mi fa respirare. Che
razza di
uomo sono?» Gli occhi di Jasper si fecero lucidi.
L’ultima
volta che l’avevo visto in quello stato fu al funerale di sua
madre, morta
cinque anni prima in un incidente stradale. Quando si era rifiutato di
venire
perché non riusciva ad accettarlo. Quando si
ubriacò fino a trasformarsi in un
fantoccio alla mercé della disperazione.
Lo costrinsi
ad andare, rimanendo al suo fianco per tutta la durata della funzione,
che
ancora puzzava di alcool.
Tremava, come
quel giorno.
«Che razza
di
padre potrò mai essere?» Continuò
sputando con rabbia quelle parole.
Mi sollevai
in piedi, avvicinandomi a lui, «sarai un padre eccezionale.
Tuo figlio sarà
orgoglioso di te, come lo è Alice, come lo sono io, come lo
è l’America intera.
Sei un soldato Jasper, hai affrontato la morte.» Dissi
posandogli la mano sulla
spalla, «io ti starò accanto anche questa volta.
Per quanto continui a
comportarti da idiota.» Aggiunsi con un mezzo sorriso.
Jasper si
sollevò, «che razza di bastardo che
sei.» Sbottò ricambiando il sorriso.
«Non ti
aspetterai un abbraccio spero.» Borbottai arretrando di
qualche passo.
Il mio amico
scosse la testa, «posso solo dirti grazie.»
I suoi occhi
chiari, ancora rossi per quel momento di debolezza, mi fissavano pieni
di
gratitudine, mentre tentava di riacquistare un po’ di
contegno.
«Isabella mi
ha
detto che è di otto settimane.» Dissi, cercando
conferma.
Lui annuì.
«Alice mi ha mostrato l’ecografia che ha fatto con
lei due giorni fa.» Le sue
labbra si aprirono in un sorriso, «diventerò
padre.»
«Idiota lo
sei
già, è un primato che hai raggiunto anni
fa.» Lo schernii, reclamando quella
spensieratezza che aveva caratterizzato i miei primi anni di
addestramento in
America, quando con i compagni di corso ci chiudevamo intere notti nei
bar a
bere birra e fumare sigarette, alla ricerca di qualche bella ragazza. I
momenti
spensierati di una gioventù passata troppo in fretta.
«Ha parlato
il frigido.» Mi canzonò Jasper, ammiccando.
Lo fissai
interdetto, «come?»
«Hai capito
benissimo. Non ti ricordavo mica così sai? Eri sempre
così attento e passionale
con le donne, mai le avresti trattate come stai trattando in questi
mesi
Isabella.» Rispose con sincerità.
«Io
sarò
stato pure un incosciente con Alice, ma tu, non sei da meno. Tratti
Bella come
l’ultima delle donne. Quando ti renderai conto che questo tuo
atteggiamento non
fa altro che spingerla a odiarti?»
«E’
quello
che voglio.» Risposi laconico, abbandonando
l’euforia dei ricordi.
Jasper
ridacchiò, divertito, «non sei altro che un
masochista.» Poi pur sapendo che le
sue parole mi avrebbero scalfito, proseguì imperterrito,
«continui a nascondere
i tuoi sentimenti, li spingi dentro con forza, e poi vedrai come
emozione dopo
emozione scoppierai, Edward.»
Serrai la
mascella, trovando improvvisamente interessante il pavimento di legno
del mio
ufficio. «Non credo che questi siano affari tuoi.»
«Ti sbagli.
La tua idea brillante ti si è rivoltata contro. Non solo con
l’arrivo del
Sergente Black hai complicato maggiormente la situazione con Bella ma
hai
persino appeso un cappio intorno al mio collo.»
Controbatté risoluto, con la
solita calma.
«Se avessi
saputo di Alice in tempo, quel bastardo non sarebbe di certo
qui.»
«Ovviamente,
esattamente come se avessi saputo che si sarebbe interessato alla
dottoressa,
giusto?» Domandò retorico inarcando un
sopracciglio. «Io e Alice forse ce la
potremmo cavare, infondo dovremmo resistere solo un paio di giorni, poi
lui
sarà andato via, ma sicuro che lo farà da
solo?» Aggiunse interrogativo.
Digrignai i
denti, infastidito, «tu preoccupati della pancia di Alice,
fino a quanto
rimarrà piatta e innocente non ci saranno problemi, ma non
appena si noterà il
cambiamento fisico, sarà costretta ad andare via.»
Una ruga
contrariata comparve sulla sua fronte, «e con quale
scusa?»
«A tempo
debito mi farò venire un’idea, per il momento
cerca di non spargere la voce.»
Sospirò
rassegnato, «e tu cerca di andare a riprendertela, cosa credi
che non si sia
capito? Bella non ti è per nulla indifferente.»
«Non
commetterò il tuo stesso sbaglio.» Annunciai
dandogli le spalle per ritornare
dietro la mia scrivania.
Solo quando
rialzai lo sguardo su di lui, si decise a controbattere. «Per
quanto ti
piacerebbe.» Sorrise provocatorio, con una certa malizia.
«Scusami ma
tu non sei di turno a quest’ora?»
Colse al volo
il mio stato d’animo e il desiderio di rimanere da solo,
così con un ultimo
tentativo cercò di riportare la conversazione sulla
dottoressa, ma notando la
mia caparbietà si arrese definitivamente.
Prima di
aprire la porta, si voltò un’ultima volta,
fissandomi con un’espressione dura
che poco si accostava a quel volto sempre sorridente e spensierato,
«Il
Sergente Black ha iniziato il suo interrogatorio, se davvero vuoi
sentirti
meglio, evita di fargli scoprire l’errore commesso da
Bella.» Mi disse
autoritario, «agisci sempre d’impulso quando si
tratta d’interessi personali, è
per questo che l’hai convocato, non è
così?»
Annuii
rassegnato, continuare a negare il mio interesse per quella donna
sarebbe stato
da stupidi, era palesemente ovvio che non mi fosse indifferente. Per
quanto
detestassi provare quei sentimenti per Isabella. Lei che era sempre
così
determinata da togliermi il fiato, a cosa valevano le mie medaglie e
gli onori
ricevuti, se con lei le mie capacità erano inutili?
«Allora
cerca
di difenderla Edward.» Continuò portando la mano
sulla maniglia, «gli occhi del
Sergente Black si sono soffermati un po’ troppo su di
lei.» Concluse
chiudendosi la porta alle sue spalle. Spiazzandomi, esattamente
com’era solito
fare Isabella.
Sotto il
crepuscolo del Kuwait, la terra arida e sabbiosa si apriva in piccole
spaccature sotto la suola delle scarpe, assumendo increspature e
modifiche ad
ogni passo. Sotto le mie scarpe avvertivo il calore di quella terra
assimilato
durante il giorno.
John mi
camminava accanto, riassumendomi gli avvenimenti di quella giornata,
con una
certa tensione. Il suo passo era lento, camminava controvoglia, come
spinto da
una forza sconosciuta. Se bene più basso di me di qualche
centimetro, la sua
stazza fisica era nettamente superiore alla mia. Era rigido e le sue
parole
misurate.
«L’attacco
in
aeroporto è riuscito perfettamente, così come
quello alle mura della città di
Baghdad.» Mi disse fissando un punto indefinito davanti a se.
Annuii,
«secondo il Generale entro quanto riusciranno ad
assediarla?»
«Un paio di
giorni al massimo, gli inglesi sono meticolosi non amano lasciare le
cose a
metà.» Mi rispose grattandosi il mento,
«cosa pensa di fare Tenente?»
«Attenderò
nuovi ordini dal Generale, sicuramente avrà bisogno di
uomini.»
John
sussultò,
«saremo chiamati a partecipare?»
«Probabile.»
Risposi conciso.
Le sue labbra
si piegarono in una smorfia contrariata, ma il suo buon senso gli
impedì di
controbattere.
Ci stavamo
dirigendo alla mensa, quando il Sergente Black richiamò
entrambi, facendoci
voltare.
L’uomo ci
raggiunse con grandi falcate, sistemandosi la divisa,
«Buonasera Tenente.»
Salutò con educazione, «Soldato.»
Continuò rivolgendosi a John.
«Buonasera
Sergente.» Ricambiammo.
Lo fissai con
attenzione, notando un sorrisetto soddisfatto disegnato sulle labbra.
«Tenente,
prima della cena, dovrei parlarle.» Mi disse autoritario,
lanciando un’occhiata
al ragazzo che mi stava accanto. Quest’ultimo
salutò entrambi educatamente,
portandosi la mano dritta sulla fronte, prima di dargli il consenso per
allontanarsi.
«Potete
parlare adesso.» Dissi austero, stringendo le mani a pugno.
In quel momento
avrei preferito non ritrovarmelo davanti. Le parole di Jasper
continuavano a
risuonarmi in testa.
Gli occhi del Sergente
Black si sono
soffermati un po’ troppo su di lei.
Parlava di
Isabella, anche Jasper come me, aveva notato qualcosa di strano in lui.
Il modo
in cui la guardava, il modo in cui pronunciava il suo nome, non
facevano altro
che accrescere l’irritazione che provavo nei suoi confronti.
«Tenente,
volevo solo congratularmi con lei. In questi due giorni non ho potuto
fare a
meno di notare quanto questo campo sia rispettoso ed efficace.
Sicuramente le
si deve rendere merito.» Sorrise mellifluo.
Lo fissai
leggermente spiazzato, «dovere.»
«Oh sono
certo che non è solo questo. I soldati lavorano sodo e sono
sempre pronti a
intervenire in caso di necessità. Lo stesso ospedale da
campo grazie alla
preparatissima dottoressa, sembra non avere difetti.»
Continuò, accentuando un
sorriso nel nominare Isabella.
Rimasi in
silenzio, fissandolo con astio.
«Devo dire
che sono rimasto piacevolmente sorpreso quando ho appreso la notizia
che lei
non è l’unico a parlare arabo.»
«Come?»
Domandai inarcando un sopracciglio.
Non riuscivo
a capire dove volesse arrivare con quell’arringa.
«Sul
curriculum di Angela Weber c’era scritto che parlava arabo,
così durante le mie
solite domande di routine rivolte al personale, ho soddisfatto una mia
piccola
curiosità.» Mi rispose sollevando gli occhi verso
un cielo che cominciava a
imbrunire.
«Cosa volete
dire?»
«Nulla
Tenente, sono solo molto compiaciuto, sicuramente sarà stata
molto utile la sua
conoscenza.» Rispose, «il campo è uno
dei migliori che abbia visionato.»
Riprese lusinghiero con un sorrisetto divertito sul volto scuro,
«complimenti.»
Aggiunse allungandomi la mano che strinsi prontamente.
«Come le ho
già detto, è il mio lavoro.»
Lui
ridacchiò, «certamente Tenente. Adesso
però, andrei a cenare, oggi è stata una
giornata faticosa per tutti.» Salutò
incamminandosi verso la mensa, senza
girarsi.
Sollevai la
testa, fissando il cielo stellato del deserto. E sotto quello stesso
cielo
maledissi il giorno n cui chiesi l’intervento di un
supervisore all’interno
della base.
Ero stato
impulsivo. Speravo di riuscire a liberarmi di Isabella senza troppe
difficoltà,
eppure ogni volta che lei si presentava davanti a me, tutti i buoni
propositi
sparivano nel nulla.
Come quella
mattina, quando le nostre labbra erano talmente vicine da poter sentire
il
sapore dell’altro. Desideravo assaggiarle ancora. Una sola
volta non mi era
bastata.
Non avrei
commesso lo stesso errore di Jasper, ma non avrei neppure permesso al
Sergente
Black di portarmela via. Ero stato uno stupido, e l’avevo
capito quando, forse,
era troppo tardi.
La mattina
del 6 Aprile mentre un
reparto corazzato
Usa penetrò a Baghdad, alcuni dei miei soldati si
preparavano a raggiungere i
compagni nella città, equipaggiando due Jeep.
I
raggi caldi del sole scivolavano sulle
loro fronti umide, mentre si guardavano intorno con occhi spaventati.
«Appena
potrò, vi raggiungerò.» Dissi a
Peter mentre l’accompagnavo sulla prima Jeep.
Il
ragazzo sorrise, «il suo posto è qui
Edward, sarò io a fare ritorno, lo devo alla mia
Charlotte.»
Portai
una mano sulla sua spalla, «bravo,
torna per tua moglie.»
«Non
lascerò mio figlio senza un padre.»
Promise sedendosi sul sedile anteriore, «andiamo a salvare il
culo ai nostri
compagni, ragazzi!» Incitò gli altri soldati che
animati dal coraggio
dell’amico, risposero con un urlo alle sue parole.
Peter
ridacchiò, visibilmente teso, «a
presto.»
«Non
fate scemenze ragazzi, ricordate gli
allenamenti, siete uomini capaci di tutto. Tornate indietro
possibilmente con
le vostre gambe.» Dissi loro, salutandoli per
l’ultima volta prima che le
macchine partissero.
Le Jeep sgommarono sulla
sabbia, lasciando
le orme degli pneumatici sulla terra. Rimasi a fissare le due macchine
in
lontananza fin quando non divennero puntini minuscoli
nell’immensità del
deserto.
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Capitolo 13 *** 12# ***
Buona Domenica a tutti. Vi chiedo scusa per il leggero ritardo, ma con
l'inizio delle attività scolastiche il tempo libero a mia
disposizione si è dimezzato.
Per motivi di comodità posterò tutte le
Domeniche.
Ora vi lascio alla lettura del capitolo, con questa triste canzone in
sottofondo: Red - Hymn For The Missing
Buona lettura.
12
6 Aprile 2003
Non avevo
dormito molto quella notte. Un po’ perché Alice si
era sentita poco bene e
sentirla lamentarsi, mentre si rigirava nel letto, non mi aveva
permesso di
riposare, un po’ perché quella notte il cielo
sembrava più scuro del solito e mi
sentivo come dentro un buco nero. La luna non si vedeva neppure dalla
finestrella della camera, ed era qualcosa che mi lasciava sempre un
po’
atterrita. Vederla mi faceva sentire più vicina alla vita e
un po’ più lontana
dall’inferno.
Così non mi
sorpresi più di tanto, quando durante le prime luci
dell’alba, raggiunti i
bagni, scorsi un riflesso pallido allo specchio. Sul viso due grandi
ombre
scure cerchiavano i miei occhi mentre le labbra secche e screpolate
spiccavano
in mezzo al biancore della mia pelle. Avevo da diverso tempo assunto
l’aspetto
di uno zombi. Inguardabile, impresentabile.
Quella
mattina decisi di prendermi cura un po’ del mio corpo, che
avevo trascurato un
po’ troppo ultimamente. Iniziai dalla doccia, rimanendo sotto
il getto
dell’acqua fin quando i primi tremolii dovuti al freddo
s’impossessarono della
mia pelle. Impiegai diversi minuti nel tentativo di districare i
capelli e
liberarli dai mille nodi che si erano venuti a formare. E solo dopo
aver
assunto un colorito più umano e asciugato i capelli con un
vecchio phon da
viaggio, mi decisi a fare ritorno nel dormitorio.
Il rombo di
un motore, catturò la mia attenzione, facendomi,
involontariamente, cambiare
destinazione. Camminavo con passo lento verso l’ingresso al
campo, dove in
lontananza ero riuscita a distinguere due Jeep e diversi soldati. I
raggi del
sole anche se appena sorto, riscaldavano la mia pelle, e la sensazione
di
freschezza lasciata dalla doccia, rendevano piacevole il contrasto di
quell’aria secca sul mio corpo.
Prima di
poter raggiungere l’ingresso, vidi partire le due Jeep e con
loro gli occhi dei
ragazzi che vi erano dentro. Rallentai l’andatura quando mi
accorsi della
presenza di Edward davanti a me. Mi dava le spalle,
l’attenzione rivolta alle
due macchine, era quindi poco probabile che si fosse accorto della mia
presenza. Sospirai leggermente titubante sul da farsi.
Mi persi a
osservare come la sua perfezione apparisse irraggiungibile persino di
spalle.
Indossava la solita uniforme verde, che fasciava perfettamente i
muscoli delle
sue spalle, le linee sinuose delle sue braccia, le sue mani si
muovevano a
rallentatore, si aprivano e si chiudevano a pugno ritmicamente. Una
brezza
leggera scompigliava i suoi capelli ramati, facendoli apparire un
ammasso
informe intorno alla sua austera figura.
Quando gli
fui abbastanza vicina da poter sentire il suo profumo, qualcosa si
sciolse in
me. Il ricordo di un bacio e l’avvicinarsi di un altro,
interrotto bruscamente
prima di poter essere soddisfatto.
«Dove sono
diretti?» La mia voce fu un sussurro leggero nella
tranquillità del mattino.
Edward si voltò sorpreso verso di me, puntandomi i suoi
grandi occhi versi
addosso.
«Baghdad.»
Rispose lanciandomi una lunga occhiata prima di voltarsi nuovamente
verso
l’orizzonte.
Il deserto
riusciva a mettermi sempre una certa agitazione dentro.
L’ignoto che portava
dietro di sé lasciava sempre atterriti.
Sussultai.
«La città è stata presa?»
Chiesi non riuscendo a mascherare l’orrore.
Edward
annuì,
senza voltarsi.
«I ribelli
non si arrenderanno così facilmente, si
opporranno.» Dissi più a me stessa che
a lui, «i soldati saranno costretti a difendersi aprendo il
fuoco.» I miei
occhi cercarono i suoi, «e molti di loro
moriranno.» Sospirai cercando qualcosa
dentro quel mare in tempesta. Una scintilla, uno spiraglio, qualsiasi
cosa
sarebbe stata sufficiente. Avevo bisogno del calore dei suoi occhi. Mi
sarei
accontentata anche solo della consapevolezza, qualsiasi cosa pur di
farli
sembrare vivi.
«Siamo qui
per questo.» Disse quasi con ovvietà,
«non è così?» Mi
domandò voltandosi
improvvisamente verso di me.
«Non per
farci uccidere.»
«Serviamo
semplicemente il nostro Paese.» Ribatté con un
sorriso triste.
La mia mano
era così vicina alla sua, che tutte le mie difese sarebbero
crollate da un
momento all’altro. Percepivo il suo calore, le vibrazioni
tese del suo corpo
che tentava di nascondere dietro tremori inesistenti.
«Anche
Dexter
rispondeva sempre così, “serviamo il nostro
Paese”. E guarda com’è finita, lui
è morto.» Digrignai, dandogli le spalle.
Edward mi
seguì in silenzio, mentre raggiungevamo i dormitori.
«Una volta
mi
hai detto che nessuno di noi è indistruttibile. Nonostante
ciò tu cerchi
continuamente di uccidermi.» Borbottai, fissando senza alcun
interesse il modo
in cui le scarpe spostavano la sabbia.
I muscoli di
Edward si tesero, il suo corpo s’irrigidì, ma non
proferì parola.
Sospirai,
«quando ieri mi hai detto quelle cose, le pensavi
realmente?» Gli chiesi inumidendo
le labbra.
Teneva le
mani in tasca, la sua camminata era sicura, agile, non
lasciò passare molto
tempo prima di darmi una risposta. «Si.»
Annuii,
«forse dovremmo parlare. Voglio dire, non è
normale il nostro atteggiamento.
Siamo persone adulte, forse dovremmo discutere di quello che ci
è successo.»
Annaspai in cerca di aria. Sentivo i suoi occhi sul mio viso, ma non
riuscivo a
sollevare lo sguardo. «Il bacio e tutto il resto.»
Terminai, fermandomi proprio
davanti al mio dormitorio. Lui si arrestò contemporaneamente.
«E se io non
avessi nulla da dire?» Mi domandò con voce bassa e
dannatamente seducente.
Sollevai la
testa, scontrandomi contro la sua espressione tormentata.
«Non ti crederei.»
Si avvicinò
lentamente, sovrastandomi con il suo corpo. Involontariamente
indietreggiai
fino a ritrovarmi con la schiena sulla porta.
«E se
invece,
avessi qualcosa da dirti?»
Deglutii
fissando le sue labbra, troppo vicine alle mie, «ti
ascolterei.»
Le sue
braccia si sollevarono, fino a posarsi con i palmi aperti delle mani
sulla
porta, accanto alle mie spalle.
«Perché
mi
hai baciato?» Chiesi perdendomi nella linea morbida del suo
collo, osservando
il pomo d’Adamo sollevarsi ritmicamente.
Rimasi
immobile mentre le sue labbra si avvicinavano pericolosamente al mio
viso.
«Perché continui a torturarmi?»
«Io-»
Lui
m’interruppe. «Tu sei una fonte inesauribile di
guai, una continua tentazione,
un tormento. E’ così difficile da capire
Bella?» Sussultai, sentendolo
pronunciare il mio soprannome. «Odio le tue domande,
perché sono sempre così
dirette.»
«Ed io odio
il modo in cui mi guardi, perché mi fai sentire sempre
debole.» Riuscii a dire,
scostandolo di qualche centimetro.
Fece uno
strano sorriso, sollevando solo un angolo delle labbra,
«Davvero mi odi?»
Chiese dolcemente.
Volevo
rispondergli, sul serio, ho tentato, ma qualcosa in gola
m’impediva di parlare.
Così rimasi in silenzio, persa nella contemplazione di quel
volto sempre più
simile a quello di un diavolo sotto mentite spoglie.
Lui fece per
avvicinarsi nuovamente, ma il movimento brusco della porta che si
apriva dietro
di noi, mi fece indietreggiare, fino a farmi scontrare contro il corpo
esile di
Alice.
«Bella?»
Edward si
ricompose, indietreggiando velocemente. «Buona giornata
dottoressa.» Sorrise
maliziosamente, «Alice.»
Quest’ultima
lo fissò interdetta ma Edward non gli diede neppure il tempo
di controbattere
che già si era voltato, dando le spalle a entrambe.
Il mio respiro
era affannato, il cuore tremava nel petto.
«Bella?»
Mi
chiamò nuovamente Alice. Mi costrinse a voltarmi,
«adesso tu mi racconti
tutto.» Sbottò spingendomi di nuovo dentro la
stanza. Mi ordinò di sedermi sul
letto, mentre lei chiudeva la porta. «E quando dico tutto,
intendo dire che non
voglio tralasciato neppure un particolare.» Mi disse
autoritaria. E dal
luccichio che aveva negli occhi, mi resi conto che la sua
curiosità non si
sarebbe saziata così facilmente.
Aveva
ancora
gli occhi rossi, le labbra bianche come la pelle e una voce che si
sentiva solo
nel silenzio. Con una mano si accarezzava il ventre, fissandomi
indispettita.
«Senti
Alice,
sul serio, non c’è nulla da dire.» Dissi
lamentandomi, giocando con una ciocca
dei capelli più lunga delle altre.
Sollevò un
sopracciglio, «eravate praticamente appiccicati
l’uno sull’altra.»
«Mi stava
raccontando della partenza dei ragazzi.» Tentai di
giustificare il comportamento
del tenente, senza alcun risultato. I suoi occhi mi scrutavano senza
tregua.
«Non ti
credo
Bella, mi dispiace.» Disse sospirando, «io ti ho
raccontato di questo bambino.
Ti ho confidato un segreto. Pensavo che la nostra amicizia fosse
speciale, ma
evidentemente mi sbagliavo.» Aggiunse rammaricata,
continuando ad accarezzarsi
la pancia.
Mi sentivo
persa, demotivata. Avrei dovuto raccontarle la verità, lei
avrebbe mantenuto il
segreto ed io mi sarei sentita più leggera. Eppure
c’era qualcosa che mi
bloccava le parole in gola.
«Non
è così.»
Biascicai leggermente imbarazzata, «sai che ti voglio
bene.»
Sorrise,
«allora dimmi la verità. Conosco quello sguardo,
hai paura e lo capisco, ma sai
che di me ti puoi fidare.»
«E che
è
tutto troppo complicato.»
«Tu
provaci.»
«Ci
vorrà
tempo.»
«Da qui non
si muove nessuno.» Ridacchiò abbassando gli occhi
verso il suo ventre, «noi ti
ascolteremo.» Mormorò con dolcezza, riuscendo a
sciogliere il nodo che
m’impediva di parlare. Così iniziai
dall’inizio, dal principio di tutto, senza
omettere alcun particolare, bacio compreso. E le espressioni sul suo
viso
mutarono a ogni mia parola, i suoi sussurri erano seguiti da sobbalzi e
strane
esclamazioni, mentre gli raccontavo di come le nostre labbra erano
entrate in
contatto. Fino a quella mattina, quando le nostre difese erano crollate
dinanzi
alla realtà dei sentimenti che provavamo. Forse troppo
violenti, forse
semplicemente impossibili da soddisfare. Ma il desiderio che provavo
per lui
era reale, palpabile, troppo lontano per poterlo avere ma abbastanza
vicino da
sentirne il calore. Edward era presente in ogni mia parola, il suo viso
era
impresso nella mia mente come un fotogramma. Scalpitava, desideroso di
più
attenzione, di un contatto più profondo, di una smania
troppo accecante e
violenta da poter essere domata solo con le parole.
Avevo bisogno
di pelle. Del suo corpo. Di quegli occhi che m’incendiavano
il volto ogni qual
volta, si posavano su di me. E senza che me ne accorgessi mi ritrovai
in
lacrime, con le mani strette in quelle di Alice nel tentativo di porre
fine a
tutta quell’incessante tempesta.
La mia amica
mi fissava intenerita, cercando di apparire rilassata, ma
l’ombra scura del suo
volto suonò come campanello d’allarme nella mia
testa.
«Lo so,
è patetico.»
Borbottai asciugando le lacrime con la manica della camicia,
«con tutto quello
che stai passando, ci mancavano le mie lacrime.»
Alice mi
diede un buffetto sul braccio, lanciandomi un’occhiataccia,
«non dire
assurdità. Io sto bene.»
«Vorrei
avere
anche io tutto questo coraggio. Tu e Angela mi avete dimostrato
più volte la
vostra grande forza di volontà, mentre
io…» Ansimai tentando di acquistare un
po’ di lucidità, «io sono finita con
l’innamorarmi dell’uomo più cinico ed
enigmatico del pianeta.» Dissi cupa, «ho perso in
partenza. Chi vuoi che possa
aiutare in queste condizioni? Non sono neppure in grado di prendermi
cura di me
stessa, guardami sono un ferrovecchio. Ogni volta che
l’incontro, ogni
dannatissima volta perdo un pezzo di me. Sono rimasta vuota,
incompleta. Mi ha
preso tutto.»
Alice mi
strinse in un abbraccio, «io aspetto un bambino Bella. Chi
è messa peggio?» Mi
domandò con ironia, cercando di risollevarmi il morale.
Sorrisi
ricambiando l’abbraccio, «ultimamente non faccio
altro che piangere. Che fine
ha fatto la Bella combattiva di qualche settimana fa?»
«Sarà
scomparsa insieme al mio ciclo mestruale.» Rispose Alice,
scoppiando poi in una
fragorosa risata, che coinvolse anche me.
Ridevo e
piangevo, senza riuscire a capire quando smettevo uno e iniziavo
l’altro. Mi ci
vollero diversi minuti prima di riuscire a riprendermi definitivamente,
cercando di apparire il più normale possibile.
Dovevo essere
inguardabile. Occhi gonfi e rossi dal pianto. Peggio di una notte
insonne.
«Sai io
l’avevo immaginato. Qualcosa sarebbe successo alla fine, lui
non mi sembra del
tutto indifferente.» Mi disse sorridendomi.
Annuii, «la
sua è solo attrazione fisica.»
«Dici?»
Mi
domandò dubbiosa, «non penso sai. Non guarda
nessuno come guarda te.»
La fissai
interdetta, non riuscendo a capire, «perché come
mi guarda?»
Alice fece
spallucce, «hai presente quando sai di non avere
più alcuna possibilità? Quando
ti rendi conto che ormai è tutto finito, che persino il
sangue nelle vene si è
prosciugato?» I suoi occhi chiari brillarono, «lui
ti guarda come un moribondo
guarda la sua medicina. Come se fossi l’ultima sacca, del suo
stesso sangue, rimasta
per la trasfusione.»
Tremai,
precipitando in un limbo.
Alice si
sedette nuovamente sul letto, chiudendo gli occhi. «Ho ancora
mal di testa.»
Borbottò massaggiandosi con i polpastrelli le tempie.
«Questa
notte
hai dormito pochissimo, so che quello che sto per dirti non ti
farà piacere, ma
credo che tu debba prendere in seria considerazione l’idea di
tornare a casa. «
Le dissi quasi autoritaria. Vederla così pallida e indifesa
mi rendeva nervosa,
sapevo di poter fare poco, l’unica cura era il riposo
assoluto.
«Non posso
Bella, di certo non vi abbandonerò proprio
adesso.» Sbottò leggermente
infastidita.
«Il primo
trimestre è quello più pericoloso, sia per te sia
per il bambino.» Le ricordai
avvicinandomi, «qui ce la caveremo benissimo. Non appena
Jacob sarà tornato dal
Generale, tu prenderai il primo aereo per tornare in America. E questo
è un
ordine.»
«E
Jasper?»
Mi domandò sussurrando.
Le sorrisi
apprensiva, «starà bene.»
«Non
andrò da
nessuna parte senza di lui.» Disse stringendo il lenzuolo
bianco tra le mani.
Era così
testarda, eppure così dannatamente coraggiosa. «Va
bene, ma adesso che ne
diresti di riposare?»
Alice mi
fissò perplessa, «sono quasi le otto, dobbiamo
andare in ospedale.»
«Ti sbagli,
io andrò in ospedale. Tu rimani qui e rilassati, ti
porterò qualcosa da mettere
sotto i denti dalla mensa.» Le sorrisi, indossando il camice
bianco che avevo
lasciato ai piedi del letto la notte precedente. Non riuscivo a
lasciarlo,
persino fuori dall’ospedale. Era come uno scudo protettivo.
Alice mi
guardava con riconoscenza, «grazie.»
«Grazie a
te.» Sollevai gli angoli delle labbra, «grazie di
cuore.» Le dissi mentre
s’infilava nel letto, nel frattempo mi avvicinai alla porta,
uscendo dal
dormitorio silenziosamente. Ero stata sincera. L’avrei
ringraziata all’infinito
se fosse stato possibile. Alice mi aveva fatto aprire gli occhi. Grazie
a lei
ero riuscita ad attribuire finalmente un nome a quella sensazione che
provavo
nei confronti del tenente. Irrazionale e illogico amore.
La
mensa quella mattina era piuttosto
silenziosa. Quando arrivai, la trovai quasi deserta, vi erano solo tre
soldati,
tra cui Garrett. I suoi occhi erano chini sul tavolo, mentre le sue
mani
sbriciolavano una ciambella. Sembrava avvolto in una bolla isolata dal
resto
del gruppo. Non parlava, non si muoveva. Passandogli accanto, per
raggiungere
Angela, gli domandai se stesse bene.
«Sono solo
preoccupato, sa, sarei dovuto partire anch’io questa mattina,
ma il tenente ha
preferito mandare solo Peter.» Mi rispose con un sorriso
triste.
Posai una
mano sulla sua spalla, «vedrai che andrà tutto
bene.»
«Non so.
Peter non è un novellino, ma quando si hanno troppi pensieri
in testa lavorare
diventa più complicato. E sa bene anche lei, che nel nostro
lavoro si deve
essere concentrati, sempre.» I suoi occhi scuri brillavano
sotto le lampade al
neon.
Tentai di
tranquillizzarlo, ma sapevo che sarebbe stato del tutto inutile.
«Sono qui da
sette mesi.» Disse improvvisamente, attirando
l’attenzione anche degli altri
due militari, che si voltarono verso di lui. «Peter ed io
siamo arrivati
insieme al tenente e al sergente. Dal nulla abbiamo costruito
quest’accampamento, con l’aiuto di soldati
inglesi.» Continuò guardandomi, «ne
abbiamo passate davvero tante, rischiando più volte la vita.
Ma ovunque
andassimo eravamo insieme, sapevamo di poter contare l’uno
sull’altro. La
nostra carcassa non sarebbe mai rimasta nel deserto.»
Tentò di sorridere, ma
sul suo viso comparve una smorfia troppo rammaricata perché
potesse essere
scambiata per un vero sorriso. «Ora Peter è
lì fuori e io sono qui. Non potrò
difenderlo e questo mi fa una gran rabbia, perché essere
padre è la cosa più
incredibile. Vedere nascere il frutto del proprio amore, assistere a
quel
piccolo miracolo.» Ridacchiò, perso nei meandri
della sua memoria. Lo lasciai
continuare, immaginando però, che lui questa gioia doveva
averla provata. Garrett
portava una fede d’oro all’anulare sinistro, e
sorrisi, immaginando con quanta
dolcezza la famiglia aspettasse il suo ritorno.
«Peter ha
tutto il diritto di vivere. Come tutti qui, per questo odio sentirmi
così. So
che in caso di difficoltà, se Dio se lo portasse via prima
del tempo, io mi
sentirei responsabile. Non sarà solo Charlotte a uscirne
distrutta.» Disse
rammaricato.
Gli altri
ragazzi annuirono, fissandolo in silenzio.
«Si, ma
vedrai che andrà tutto bene.» Ammisi con
sincerità. «Peter farà di tutto pur di
tornare sano e salvo, ha la pelle dura, e poi ama troppo la vita per
lasciarsi
sopraffare dalla guerra.» Sorrisi, «e ama la sua
Charlotte, per questo farà di
tutto pur di tornare a casa, prima del parto.» Conclusi
convinta di ogni parola
uscita dalle mie labbra.
Garrett
sembrò assimilare lentamente il significato del mio strano
discorso, ma ne uscì
con un sorriso, e una nuova luce negli occhi. «Ha ragione
dottoressa.» Dissi
con entusiasmo, «Peter O’Shea farà il
culo a tutti i pakistani.»
Scoppiamo a
ridere, attirando l’attenzione di Angela, che ci fissava da
dietro il bancone
con aria interrogativa.
«Il vostro
arrivo qui è stato una manna dal cielo.»
Sussurrò Garrett, fissandomi, «sono
poche le donne con il vostro coraggio.»
Strinsi forte
le mani a pugno dentro le maniche della divisa, nascondendo i miei
occhi
lucidi. «Vorrei che fosse così.»
«Lo
è
dottoressa. Solo che c’è troppa luce per poterlo
vedere.» Sorrise sollevandosi.
Con voce autoritaria richiamò i suoi compagni, avvicinandosi
all’uscita.
Io li
osservai andarsene con ancora le mani nelle tasche e il cuore che
batteva
troppo velocemente.
Angela mi si
avvicinò, il suo bel viso era illuminato dalla luce
artificiale delle
lampadine. Aveva i capelli legati in una coda nascosti sotto una
cuffietta
verde.
«Sei stata
brava sai? Hai risollevato l’animo di
quell’uomo.» Si congratulò,
sorridendomi.
Ma un ombra scura nei suoi occhi, mi lasciò interdetta.
Sembrava come se si
stesse sforzando di apparire rilassata.
Feci
spallucce, «tra le tante cose»
«Continui a
ripetere che sei debole, poco coraggiosa, eppure siamo in molti a
doverti
ringraziare.» Disse mentre ci avvicinavamo al bancone. I
piatti erano quasi
vuoti, vi erano rimaste solo qualche ciambellina. Le chiesi se potesse
mettermele in un piatto e lei lo fece senza chiedermi nulla.
«Bella.»
Mi
chiamò prima che uscissi, mi voltai verso di lei, scorgendo
una strana luce
negli occhi.
«Che
succede?» le domandai preoccupata.
Angela fece
un grosso respiro prima di rispondermi, «ieri sono stata
interrogata dal
sergente Black.» Mormorò con voce fioca,
«e lui sa.» Uno strano brivido mi
pervase la spina dorsale, «sa tutto Bella. Sa della nostra
fuga.»
Strinsi forte
la busta tra le mani, fissando Angela terrorizzata, «come fa
a saperlo?»
«Sul mio
curriculum c’è scritto che parlo arabo,
così lui mi ha fatto qualche domanda,
incuriosito. E alla fine, non so come, siamo finiti a parlare di Jannah
e
Nadira.» Farfugliò, con gli occhi rossi e le mani
tremolanti, «alla fine è
riuscito a scoprirlo.»
«Come?»
Domandai incolore.
Angela
abbassò gli occhi, «mi ha minacciata.»
Lascia la
colazione su uno dei tanti tavoli di plastica, avvicinandomi
frettolosamente
verso la mia amica, ormai completamente sommersa dalle lacrime.
«Quando
avevi
intenzione di dirmelo?»
«Mi dispiace
tanto.»
«Ti ha
minacciata? Cosa ti ha detto?» Chiesi forse con troppa foga.
Le sue mani
si arpionarono sulle mie braccia, «sapeva che nascondevamo
qualcosa in questa
base. Alcuni documenti erano incompleti.» Borbottò
con affanno.
«Angela devi
andare dal tenente a raccontargli la
verità.»Provai a respirare regolarmente,
ma qualcosa m’impediva di farlo. L’aria
all’interno della mensa era diventa
improvvisamente troppo pesante e irrespirabile.
«Non posso
mi
ha proibito di farlo.»
Sbarrai gli
occhi, sconvolta, «lui… che cosa?»
La feci
sedere sulla prima sedia, prendendole un bicchiere d’acqua.
«Tranquilla,
non è colpa tua. Prima o poi l’avrebbe scoperto in
un modo o nell’altro.»
Cercai di controllare il mio tono di voce, ma nascondere il nervosismo
era
impossibile. «Se il tenente aveva intenzione di cacciarmi
dalla base, alla fine
l’avrebbe detto lui stesso al sergente, no?»
Angela scosse
la testa, posando il bicchiere vuoto sul tavolo. «Ti sbagli.
Edward non aveva
alcuna intenzione di farlo sapere al sergente. So che potrà
sembrarti assurdo,
ma credo che lui l’abbia chiamato per
qualcos’altro, forse per interessi
personali.» Mi rispose tremolante.
La fissai
sorpresa, «come fai ad esserne così
sicura?»
«E’
stato il
sergente a farmi aprire gli occhi. Dopo averlo scoperto, mi ha
obbligato a
tenere la bocca chiusa e di non dire nulla a nessuno, soprattutto al
tenente.»
Rimasi
paralizzata di fronte a quella verità.
I pensieri
erano troppi, la testa cominciava a farmi male. Edward stesso mi aveva
detto
che Jacob era stato chiamato per me, eppure una volta arrivato alla
base non
gli ha raccontato nulla. Che avesse cambiato idea?
Cercai di
capirci qualcosa, ma Angela continuava a ripetermi scusa ed io non
riuscivo più
neppure a respirare.
«Bella stai
attenta, il sergente ha qualcosa in mente.»
Borbottò mettendomi in guardia.
Annuii, avevo
intuito anch’io qualcosa. Il sergente durante la nostra
ultima chiacchierata si
era lasciato trasportare un po’ troppo, arrivando a toccare
punti personali.
«Non essere
in pena per me. Ci penserò io a risolvere questa
situazione.» Le dissi
rassicurandola. Le chiesi di stare tranquilla per un po’ e di
non pensare a
nulla, era troppo scossa. L’abbracciai forte, continuando a
ripeterle che non
era colpa sua. Poi con la colazione di Alice in una mano e il mio
caffè nero
nell’altra, raggiunsi il mio dormitorio, dove trovai la mia
amica immersa nel
mondo dei sogni. Senza svegliarla le lasciai le ciambelle accanto al
letto, sul
comodino che divideva i nostri letti, assicurandomi che stesse bene.
Ero ancora
scossa a causa di quell’inaspettata rivelazione, ma avevo
deciso di comportarmi
come se nulla fosse, come se non sapessi niente. Così mi
allontanai, per
raggiungere l’ospedale da campo. E il sole quel giorno era
più caldo e vicino
del solito. I suoi raggi erano violenti quella mattina, mi colpivano
sulla
pelle come lame intenzionate a ferirmi. Persino la terra bruciava sotto
i miei
piedi, per questo quando raggiunsi l’ospedale, la lieve
oscurità del corridoio
mi permise di riprendere fiato.
Bevvi
velocemente il mio caffè, iniziando con le visite. Senza
Alice che controllasse
e cambiasse le flebo ai pazienti, il mio lavoro si era moltiplicato.
Eppure non
mi lamentai. Quella ragazza era riuscita a entrare nel mio cuore, come
tutti in
quel campo. Ed era proprio per questo motivo, per l’affetto
che provavo per
loro, che avrei fatto qualsiasi cosa per difenderli.
Jessica mi
aiutò con alcuni documenti e per la maggior parte della
mattinata tenni la
testa occupata, cercando di scacciare via tutti quei pericolosi
pensieri che mi
opprimevano.
Ero un
chirurgo dopo tutto, mantenere i nervi saldi e il sangue freddo era una
mia
specialità.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, credo di averci lasciato un
pò di me stessa dentro. Ormai le carte si sono svelate,
senza però rivelare i reali piani di Jacob, non che siano,
alla fine, così difficili da intuire.
Tengo a precisare che Alice sta bene, il bambino non è in
pericolo di vita. Però date le sue condizioni e il luogo in
cui si trova, è normale stare male. Alice è un
infermiera, passa la maggior parte del suo tempo in ospedale, a curare
pazienti e aiutare Bella. Crescere un bambino e sopportare tutte quelle
ore di lavoro, senza riposare non è affatto salutare, per
questo Isabella cerca di darle una mano, per quel che può.
Per quanto riguarda Peter vi dico solo che non sono così
sadica, ma neppure un anigioletto. Siamo pur sempre in guerra.
Per concludere, senza lasciare troppi spoiler vi dirò
semplicemente che molto probabilmente Angela non rimarrà con
le mani in mano :D A buon intenditori poche parole.
Ah si, bè... stavo dimenticando la cosa più
importante. Credo sia scontato ripeterlo, però male non
farà sicuramente. Bella si è arresa al tenente.
Ormai sarà difficile controllarsi, perciò
preparatevi, perché i prossimi capitoli incendieranno il
deserto.
Un bacione a tutti.
Lua93.
P.S. Lo scorso capitolo ha ricevuto poche recensioni, mi rendo conto di
non essere l'unica a non avere tempo, però mi piacerebbe
molto leggere le vostre opinioni, quindi non esitiate a lasciarmi anche
due paroline xD
Ultima cosa e poi prometto di sparire. Qualche tempo fa ho scritto una
shot originale, se vi va, venite a darci un occhiata: Gli occhi rimangono.
|
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Capitolo 14 *** 13# ***
13#
Buonasera a tutti, con
un pò di ritardo riesco a postare il capitolo.
Non dirò
nulla, non troverete nessuna nota alla fine, voglio
lasciarvi così fino alla prossima settimana. Sadica dite?
Leggete prima il capitolo ^^
Avviso che il capitolo potrebbe turbare, anche se mi sono mantenuta
molto con il rating. La storia è tutto frutto della mia
immaginazione, eccetto ovviamente per la guerra in Iraq. Tratto di
tematiche che fortunatamente non hanno mai fatto parte della mia vita,
per questo se credete che possa sembrare troppo o che la storia rischia
di diventare inverosimile, non esitiate a contattarmi.
Buona lettura: Massive Attack - Teardrop
Questo
capitolo è dedicato a te Ariii
un bacione.
B.
13
«Sei sicura
di non volere nulla?» Mi domandò apprensiva
Jessica, fissandomi da dietro la
porta del mio ufficio. «Non puoi andare avanti solo bevendo
caffè». Continuò
facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli. Era diventato un vizio il
suo. Non
riusciva a smettere di toccarli, di pettinarli con le dita delle mani.
Nervosismo, tensione, troppi stati d’animi diversi per poter
scoprire quale
fosse la causa della sua costante agitazione. Jessica aveva gli zigomi
troppo
sporgenti e quando sorrideva le guancie si sollevavano formando due
piccole
collinette sotto gli occhi. Le sue labbra si aprivano e si chiudevano
ritmicamente continuando a parlare. Sorrideva, si toccava i capelli.
Seduta sulla
sedia in plastica scura dietro la mia scrivania, avevo deciso di
smetterla di
ascoltarla, almeno fin quando non mi avesse lasciato rispondere ad una
delle
sue domande.
«Sto bene
così». Provai a liquidarla, sollevandomi per
raggiungerla, «vai a mettere
qualcosa dentro lo stomaco, io rimarrò qui», le
dissi posando una mano sul suo
braccio.
Ostentò un
cipiglio insoddisfatta, «sei proprio sicura di non volere
nulla?»
«Si Jessica,
perché non porti con te anche Kristen? Sicuramente Angela vi
avrà conservato
qualcosa dall’ora di pranzo» le risposi con un
mezzo sorriso.
La rossa
sembrò esitare, così tentai di
rasserenarla, «mangerò
qualcosa questa sera.»
«Sei troppo
testarda,» sbottò arrendendosi, «guarda
che l’ho capito che non vuoi uscire
dall’ospedale». Disse improvvisamente, sorridendomi.
La fissai
accigliata, passandomi una mano tra i lunghi capelli, «che
cosa stai dicendo
Jessica?»
«Ma si, tu
mi
nascondi qualcosa». Continuò ignorando la mia
domanda, «sono già diversi giorni
che Alice non si presenta o se lo fa, si trattiene al massimo due
ore». Parlò
lentamente, come a voler dare conferma alle sue stesse parole,
«e tu hai preso
il suo posto, facendo anche i suoi turni».
«Te
l’ho
detto l’altro giorno. Alice sta poco bene, si è
trattato di un’intossicazione
alimentare davvero forte ed è per questo che le ho
consigliato di stare a riposo».
La bloccai, prima che le sue supposizioni potessero diventare un
problema.
Sembrò non
essere molto convinta, così continuò, ignorando
beatamente i miei tentativi di
sviare il discorso. «Questo lo capisco», ammise
contrariata, «quello che non
comprendo è il tuo comportamento».
«Che vuoi
dire?» Le domandai incrociando le braccia sotto il seno.
Jessica mi
fissò attentamente, studiando la mia espressione perplessa.
«Forse è solo una
mia impressione, ma è da un paio di giorni che ti comporti
in modo strano, per
non parlare di oggi. Non sei mai uscita dall’ospedale,
persino quando il
Sergente Black ti ha chiesto di essere ricevuto nel tuo ufficio,
l’hai liquidato chiedendomi di dirgli che avevi troppo lavoro
da sbrigare». Le
sue parole erano
dirette, taglienti, arrivavano dritte al punto, senza girarci intorno.
E dietro
quel sorriso sempre dipinto sulle labbra e quei capelli dalle mille
sfumature
del rosso, si nascondeva un cervello tutt’altro che
eccentrico e smemorato.
«Non avevo
tempo
da perdere in chiacchiere». Sbottai leggermente inalterata.
«Ci sono persone
all’interno di questo edificio che necessitano della mia
completa attenzione».
Jessica
sembrò sorprendersi, sicuramente non si aspettava una
reazione del genere da
parte mia. «Hai ragione», si scusò
abbassando lo sguardo, leggermente
mortificata, «non avrei dovuto farti pressione, a volte
dimentico che non sono
l’unica qui dentro che rischia
d’impazzire». Cercò di farmi sorridere,
ma ero
ancora troppo scossa per riuscire a farlo.
Sapevo che le
sue parole non erano del tutto false. Mi stavo realmente nascondendo,
ma non da
Jacob. Volevo solo estraniarmi quel tanto che bastava per non crollare.
Dopo
tutte le parole dette e ascoltate quella mattina, il rischio che
precipitassi
dentro i miei stessi tormenti e le mie stesse paure, era davvero
elevato.
«Non
preoccuparti». Dissi semplicemente, accompagnando Jessica
lungo il corridoio,
appena fuori il mio piccolo ufficio.
«Vado a
chiamare Kristen, a dopo Bella».
Annuii,
osservandola scomparire lungo il corridoio stretto e poco illuminato.
Da una delle
due finestrelle che si trovavano nel mio ufficio, una volta tornata
dentro,
scorsi le ombre delle due donne che si allontanavano
dall’ospedale, perdendosi
nella luce ancora calda della sera. Il cielo aveva assunto sfumature
color
porpora, mentre il sole calava lentamente verso ovest.
Era stata un
giornata estenuante, per tutta la
mattinata non avevo fatto altro che passare dal letto di un paziente a
un
altro. Jessica e Kristen erano le uniche due infermiere, insieme ad
Alice, che
lavoravano con me all’interno dell’ospedale. E
anche loro, come me, si
ritrovarono con il doppio del lavoro a causa dell’assenza di
Alice.
Mancanza
più
che giustificata, e per evitare che le due mi facessero troppe domande,
come
era accaduto poco prima con Jessica, avevo inventato la scusa di
un’intossicazione alimentare. Bugia poco credibile, dato che
persino Jessica,
solitamente sempre troppo distratta, si era posta qualche domanda.
Dopo la
partenza del Sergente Black avrei chiesto a Edward di rispedire Alice
in
America, con la scusa di un ordine superiore, in modo da non destare
troppi
sospetti all’interno della base. Nascondere un segreto
così grande era
diventato faticoso, soprattutto a causa della presenza del supervisore.
Proprio
quest’ultimo, era venuto a cercarmi nella tarda mattinata,
con la scusa di
dover completare il mio interrogatorio. Non ero ancora pronta per
affrontarlo.
Le parole di Angela mi vorticavano in testa, e per quanto desiderassi
non
crederle, queste non volevano abbandonarmi.
Eppure il suo
sorriso aperto e giocoso, i suoi occhi scuri e profondi, erano riusciti
ad
ingannare la mia mente. Ero persino giunta alla conclusione che il suo
arrivo
alla base non era stato poi così dannoso, almeno fin quanto
la verità di Alice
non era venuta a galla.
Che il
Sergente avesse minacciato Angela era ancora qualcosa di cui a stento
riuscivo
a capacitarmene. Ero ancora troppo scossa da quelle rivelazioni
così improvvise
che mi era difficile comprendere quale fosse il suo scopo finale. Avevo
smesso
di domandarmi il perché Edward l’avesse chiamato,
ormai era ovvio che la
risposta ero io. C’era un filo invisibile che ci collegava,
un legame fisico
che non ci permetteva di stare troppo lontani l’uno
dall’altra. E la tensione
di quella mattina, si sarebbe trasformata in qualcos’altro se
solo Alice non
avesse aperto la porta.
Troppi
pensieri. Troppe domande. Non sarei riuscita neppure a respirare con
tutto
quello che mi vorticava per la testa.
Decisi così
di fare un ultimo giro di controllo, prima di lasciare
l’ospedale nelle mani di
Kristen, per il turno notturno.
Le stanze
erano piuttosto silenziose, tanto che preoccupata per la salute dei due
pazienti,
arrivati il giorno prima dall’ospedale civile, mi accertai
che le loro funzioni vitali fossero regolari. Solitamente
erano le infermiere ad occuparsene, ma essendo la sola in ospedale,
decisi di
fare l’ultimo giro di controllo, per accertarmi personalmente
della loro
salute.
L’ospedale
da
campo non era molto grande, poteva ospitare al massimo dieci pazienti.
Ma la
maggior parte dei letti erano vuoti. Le uniche stanze occupate erano
quelle
riservate ai civili delle città vicine, ragazzi esuli o
uomini abbastanza
coraggiosi da sfidare il loro paese pur di raggiungere la tanto
agognata
libertà.
Libertà che
non sarebbe mai arrivata se raggiunta attraverso le armi, e
l’unico sfogo che
avrebbe trovato, sarebbe stato nella morte.
Era passato
così tanto tempo dall’ultima volta che avevo
respirato aria pulita che ormai i
miei polmoni erano pieni di disinfettanti e odori provenienti dal
deserto. La
mia vita era cambiata radicalmente dal mio arrivo alla base. Poco
più di un
mese fa, ero semplicemente una ragazzina pronta a raggiungere i suoi
obbiettivi,
come qualsiasi neo specializzata. Ora, a distanza di così
tanto tempo, quello
che osservavo tutte le mattine riflesso allo specchio, era
l’immagine di una
donna logorata dalla stanchezza e dal peso che era costretta a portare
sulle
proprie spalle. Quella donna ero io, eppure non riuscivo a
riconoscermi. Che
fine avevo fatto? Come era possibile cambiare così tanto
senza rendersene
conto?
Il deserto
aveva risucchiato anche le mie aspettative future. Non mi aspettavo
più nulla
ormai, dopo un’esperienza così non avrei mai
potuto pretendere qualcosa in più.
Eppure quel qualcosa era arrivato come un tornado, colpendomi in pieno
petto.
Una tempesta che prendeva il nome del bel tenente, che ormai, da giorni
aveva
catturato il mio cuore. Forse era accaduto il primo giorno, forse
quando mi aveva salvato la vita, o forse, quando le nostre labbra si
erano
incontrate, e
staccandosi, si era rotto qualcosa anche dentro di me. Qualcosa che
solo il suo
corpo avrebbe potuto restituirmi. Inutile negarlo, tra tutta quella
sofferenza,
in mezzo a tutta quella disperazione, era nato qualcosa di diverso,
qualcosa
che ci avrebbe portati entrambi verso l’autodistruzione.
Nella
semioscurità del corridoio, illuminato debolmente da due
lunghi lampadari al neon,
mi avvicinai alla porta del mio ufficio, per concludere le ultime
pratiche
della giornata e raggiungere Alice nel dormitorio.
Un rumore
leggero che proveniva da dentro la stanza mi fece sussultare. Tenevo
ancora la
mano sulla maniglia, quando questa venne aperta completamente,
mostrandomi il
volto scuro del Sergente Black.
Sussultai
spaventata, «cavolo», ansimai con una mano sul
cuore.
Jacob
ridacchiò, portandosi una mano dietro la nuca,
«non volevo spaventarti».
Non risposi,
rimanendo dietro la porta, i suoi occhi trovarono i miei, e con un
sorriso
sincero si spostò per farmi entrare.
«Mi hai
preso
alla sprovvista, non credevo ci fosse qualcuno», confessai,
avvicinandomi alla
scrivania, dandogli le spalle, «pensavo di essere
sola».
«E che
questa
mattina sono venuto per parlarti, ma mi hanno detto che eri troppo
occupata». Lo
sentii rispondere, ma non trovavo il coraggio di voltarmi. Guardarlo
negli
occhi, parlare con lui, dopo aver scoperto quello che aveva fatto, mi
risultava
un impresa impossibile.
«Mi dispiace
molto, ma sono stata troppo impegnata», ripetei le sue stesse
parole,
afferrando alcuni fogli sul tavolo per metterli dentro una cartella
vuota.
Avvertii il
suo profumo, e il calore della sua pelle dietro la schiena.
«Immagino
che
salvare vite umane sia impegnativo,» sussurrò
avvicinandosi al mio viso, «a
volte dimentico che al posto di armi tra le mani, voi dottori reggete i
bisturi.» Ridacchiò.
Rimasi
immobile, avvertendo la sua presenza accanto a me. «Cerchiamo
di fare il nostro
meglio, impegnandoci al massimo». Farfugliai con un filo di
voce.
Il tocco
caldo e leggero della sua mano sulla mia spalla, mi fece
rabbrividire.
Mi voltai lentamente, incontrando i suoi occhi scuri.
«Posso
immaginare», sollevò gli angoli delle labbra,
«sei stanca». Constatò,
sfiorandomi le guancie con le dita della mano, che dalla spalla era
salita
sul mio viso.
Lo fissai
sorpresa, «come mai sei qui?»
Lui si
allontanò di qualche centimetro, abbassando entrambe le
mani, «volevo parlarti
di una cosa abbastanza delicata.»
«Cosa?»
Chiesi con il cuore in gola.
Sapeva della
mia fuga, del mio sbaglio e del rischio a cui avevo sottoposto Angela e
il
resto dell’accampamento. Se avesse voluto denunciarmi
l’avrebbe già fatto la
sera stessa, ma non erano quelle le sue intenzioni.
«Siediti
Bella».Mi ordinò con dolcezza, indicandomi la
sedia di fronte la scrivania. Per
qualche secondo rimasi immobile, poi obbedii.
Lui si posò
con tutto il corpo sul tavolo, fissandomi leggermente divertito.
«Mi stai
facendo preoccupare», ammisi con un risolino nervoso,
«avanti parla». Lo
supplicai, stringendo le mani a pugno sotto la sedia.
Il suo bel
viso divenne una maschera nera, improvvisamente seria e autoritaria.
Per una
frazione di secondo rividi Edward in quel cambiamento d’umore
così repentino, e
qualcosa scattò dentro di me.
«Sai
è una storia piuttosto interessante»
Ridacchiò, muovendosi in direzione della porta. Lo seguii
con lo sguardo e
quando lo vidi avvicinarsi alla serratura, sgranai gli occhi.
«Che stai
facendo?» Gli domandai ansiosa, mettendomi in piedi.
Jacob fece
due giri di chiave, poi sfilandola dalla serratura se
l’infilò in tasca. «Così
nessuno ci disturberà», rispose mellifluo,
«perché non ti riaccomodi?»
Indietreggiai
vedendolo avvicinarsi.
«Avanti non
ti mangio mica, voglio solo parlarti». Cercò di
sdrammatizzare, sulle sue
labbra il sorriso non era mai scomparso, ma i suoi occhi
improvvisamente neri,
mi destabilizzarono.
«Di
cosa?»
Domandai assecondandolo. Se avessi perso tempo ascoltandolo, Kristen
sarebbe
arrivata quanto prima per iniziare il suo turno, passando come
d’abitudine nel
mio ufficio.
La luce era
ancora accesa, dall’esterno qualcuno sicuramente
l’avrebbe notato.
Le mani di
Jacob iniziarono ad agitarsi, muovendosi davanti al suo viso,
«sai, non mi era
mai capitato prima. Voglio dire, come supervisore sono sempre stato
attento e
scrupoloso e se c’era qualcosa che non andava me ne rendevo
conto subito»,
sorrise, «e invece questa volta sono stato
fregato». Mi ordinò nuovamente di sedermi
sulla sedia e questa volta fui costretta ad assecondarlo senza
ripensamenti.
Iniziai a
temere che Kristen non sarebbe mai arrivata. Alle nostre spalle il
cielo
divenne nero.
«Non
capisco». Ammisi sospirando, «da chi saresti stato
fregato?»
«Ma da te
ovviamente». Rispose come se fosse ovvio. Si portò
entrambe le mani sulla
camicia militare, slacciando i primi bottoni.
Tremai e non
per il freddo. Le mie mani istintivamente si strinsero intorno
al petto,
mentre seguivo i suoi movimenti.
«In un primo
momento ho pensato che una ragazza come te, non avrebbe mai potuto
compiere una
cattiva azione. Perché ammettiamolo Bella, io sono stato
chiamato dal Tenente
per te». Disse sprezzante, camminandomi intorno.
«Continuo a
non capire».
Lui scosse la
testa, avvicinandosi pericolosamente al mio viso, «no, non ci
provare, con me
quell’espressione da cucciolo bastonato non
funziona». Ridacchiò accarezzandomi
i capelli, istintivamente mi allontanai, mettendomi in piedi.
«Mi stai
spaventando, per favore apri la porta e fammi uscire». Gli
chiesi con un filo
di voce, cercai di essere autoritaria, ma vederlo così alto
e muscoloso davanti
a me, così possente e nettamente in vantaggio, mi
destabilizzò.
Jacob scosse
la testa, mettendosi davanti la porta, «non posso,
è da questa mattina che ti
cerco, e ora che finalmente riesco a stare da solo con te, ti dovrei
lasciare
volare via?» La sua domanda retorica seguito da un sorriso
mellifluo mi
costrinse ad ammettere che qualsiasi cosa avesse fatto, dentro quella
stanza, io
ne sarei uscita sconfitta.
«Cosa vuoi
da
me?» Gli domandai passandomi una mano tra i capelli.
«Vorrei
farti
notare che non sei proprio nella posizione giusta per poterti
permettere questo
atteggiamento. Per favore stai zitta e ascoltami». Cordiale e
spietato, non mi
lasciò altra scelta che assecondarlo.
«Bene»,
disse
una volta che mi sedetti nuovamente, «allora, vediamo se
riesco a farti capire
quello che voglio dirti senza troppe parole».
«Vedi Bella,
quando ti ho visto la prima volta ho pensato che una creatura come te
non
avrebbe mai potuto commettere nulla, con i tuoi atteggiamenti sfrontati
nei
confronti del tenente, ho capito immediatamente che tra di voi non
scorreva
buon sangue. Ed è stato proprio quel nostro primo incontro,
che mi ha fatto
capire il perché del mio arrivo qui. Il tenente aveva
chiesto al Generale un
supervisore, senza dare spiegazione, e anche durante il nostro primo
colloquio
non mi aveva dato alcun chiarimento. Desiderava solo che qualcuno
vigilasse la
base e controllasse che tutto fosse in regola». Le sue parole
erano misurate, a
volte si fermava nel bel mezzo del racconto cercando le parole adatte
per
descriverlo. Io rimasi in silenzio, ascoltandolo senza interromperlo.
Sapevo dove
voleva arrivare.
«Così
dopo
averti conosciuto, e visto il modo in cui guardavi il tenente, ho
capito che
tra di voi era successo qualcosa. Ho iniziato a fare domande, come ogni
bravo
controllore, non scoprendo però nulla
d’incriminante. Sembrava tutto in regola.
Piuttosto bizzarro, non trovi?» Afferrò la sedia
oltre la scrivania, quella
dove ero solita sedermi, trascinandola davanti alla mia. Poi con calma
si
accomodò davanti a me.
«Ho pensato
che ci doveva essere sotto qualcosa, perché nessun
comandante avrebbe lasciato
supervisionare volontariamente la sua nave senza essere certo che
questa fosse
immacolata» Disse, e la sua metafora era fin troppo diretta
per poter essere
fraintesa.
«Quando ho
scoperto che la dolce Angela Weber, responsabile della mensa, parlava
arabo, mi
sono subito incuriosito, e facendole qualche domanda è
spuntata fuori la
verità», sorrise, avvicinandosi maggiormente, le
nostre ginocchia si sfioravano
e il suo respiro s’infrangeva sul mio viso. «Sono
stato costretto persino a
minacciarla per arrivare fino a te. Sinceramente però, non
capisco una cosa,»
sospirò frustato, «perché sono stato
chiamato qui se non volevate che si
scoprisse la verità?»
Scossi la
testa, «non lo so».
Jacob
digrignò i denti, «ma si che lo sai,»
sbottò innervosendosi, «ma dato che ti
scoccia dirlo ad alta voce, sarò io a farlo».
Sputò con rabbia quell’ultima
parola, allungando una mano verso la mia gamba.
Feci per
allontanarla, ma la sua mano strinse con forza la mia, costringendomi a
stare
ferma. Gemetti per il dolore, ma non lasciai uscire una sola parola
dalle mie
labbra.
«Ho
ipotizzato una mia teoria, vediamo un po’ se sono riuscito ad
avvicinarmi alla
realtà», disse ridacchiando, «il bel
tenente si è preso una sbandata per te,
così per cercare di non cadere in tentazione ha richiesto al
Generale
Winchester un supervisore. Ovviamente, Edward non se
l’è sentita di tradirti, perché
altrimenti il suo cuore non l’avrebbe mai
perdonato,» spiegò divertito,
«così
non mi ha raccontato nulla. Forse sperava che lo scoprissi senza il suo
aiuto,o
molto probabilmente, sapeva che se lui avesse raccontato tutta la
verità,
quella che ci sarebbe andata di mezzo non saresti stata solo tu.
Perché
ammettiamolo Bella, scappare in piena notte da un accampamento
militare, non è
stata un’idea brillante. Per fare cosa poi? Salvare due
irachene. Che cosa
stupida». Disse sollevando gli occhi al cielo, «il
fatto e che se Edward ti
avesse denunciato quello stesso giorno, il suo curriculum sarebbe
rimasto
intatto, ma nascondendoti ha aggravato la situazione. Per questo non
capisco
perché mi ha chiamato. Voglio dire, adesso che ho scoperto
tutta la verità,
potrei denunciarvi entrambi, mi domando come mai non ha pensato a
questo
piccolo particolare». Sospirò pensieroso, cercando
nei miei occhi una risposta.
«Non posso
sapere cosa passa per la mente del tenente, io so solo di aver
sbagliato e di
questo me ne sono resa conto immediatamente. Per vigliaccheria non ho
raccontato niente, ma se questo significa mettere nei guai anche
Edward, allora
le cose cambiano». Gli dissi con sicurezza. Non avevo mai
pensato a
quest’eventualità, credevo che a poterci rimettere
sarei stata solo io, ma
anche Edward si trovava nei guai per aver mentito. Se davvero sapeva a
cosa
andava incontro perché si è esposto
così pericolosamente?
«Vedo che
anche tu sei interessata al tenente. Mi domandò
perché sono qui allora. Credo
che Cullen si è lasciato scivolare la situazione dalle mani.
Peccato che non
abbia messo in conto una cosa.» Sorrise con cattiveria.
Lo fissai
interdetta, «che cosa?»
«Il tuo
fascino non ha colpito solo lui, sai?»
«Che cosa
vuoi dire?» Gli domandai stringendo le mani.
Jacob si
alzò
dalla sedia, costringendomi a seguirlo. Le sue mani furono da prima
sulle mie
spalle, poi sempre più vicine al mio viso.
«Pensavo di riuscirti a conquistare
senza troppe difficoltà, ma quando questa mattina ti ho
visto con il tenente,
ho capito che c’era solo una cosa che ti avrebbe resa
mia». Mi confessò
all’orecchio, strofinando il suo naso lungo il mio collo.
Provai ad
allontanarlo, ma la sua stretta era diventata di ferro.
«C’è
solo una
cosa che puoi fare per salvare il tenente». Con una mano mi
scostò i capelli,
mentre con le labbra aveva iniziato a depositarmi piccoli baci dalla
clavicola
fino al lobo dell’orecchio.
Cercai di
liberarmi, ma qualsiasi mio movimento non faceva altro che
indispettirlo
ulteriormente.
«Se non vuoi
che denunci il tenente Cullen al generale, dovresti lasciarti andare
sai?» Lo
sentii sorridere sulla mia pelle.
Portai le
mani sul suo petto desiderosa di allontanarlo il più
possibile, «lasciami». Sussurrai
con affanno.
Lui scosse la
testa, «non così in fretta», le sue mani
finirono sui miei fianchi e con una
spinta mi portò sulla scrivania. Sbattei la schiena contro
il
legno duro del tavolo,
gemendo per il dolore. Jacob si approfittò di quel momento
di debolezza per
avventarsi sulle mie labbra con rabbia. Le sue mani iniziarono ad
accarezzarmi
tutto il corpo, nel tentativo di spogliarmi dal camice bianco.
Inizia a
dimenarmi, mordendogli il labbro inferiore con i denti. Sentii
qualcosa di
caldo e bagnato scivolare sulla mia bocca, e l’odore acre del
sangue investii
le mie narici.
Jacob si
allontanò dal mio viso, controllando la gravità
del morso.
«Sei proprio
una strega sai?»Sorrise avvicinandosi nuovamente,
«forse non ti è ben chiaro la
situazione.» Disse sollevando la mano destra, non mi resi
conto delle sue
intenzioni fino a quando non sentii la mia guancia bruciare sotto il
palmo
della sua mano.
Il dolore fu
talmente intenso che non riuscii a impedire alle lacrime di scivolare
via dai
miei occhi.
«Così
impari». Sbottò catturando i mie polsi,
« e adesso, vogliamo o no, salvare il
tenente da un brutto guaio in cui sicuramente si caccerà se
non assecondi i
miei desideri?» Il suo tono era gentile, ma la durezza delle
sue parole non
fecero altro che demotivarmi. Era troppo forte, qualsiasi movimento da
parte del mio
corpo veniva anticipato dal suo.
«Sei uno
stronzo. Pensavo fossi una persona seria, ma a quanto vedo sei solo uno
squallido bastardo.» Strillai, cercando di non lasciarmi
sopraffare.
Lui rise,
sfilandomi con non poca facilità il camice,
«smettila di dimenarti tanto».
«Ti
denuncerò
Jacob. Le violenze sessuali battono qualsiasi altra cosa, lo
sai?» Urlai tra le
lacrime.
Il Sergente
sembrò non ascoltarmi, troppo impegnato nel tentativo
di denudarmi.
Contro la mia volontà mi spinse sulla scrivania,
sovrastandomi con il suo
corpo. Continuai a divincolarmi, a strillare. Sentivo le sue mani
scivolare
sotto la camicetta lillà che indossavo. Il contatto diretto
con la sua pelle
fredda mi fece rabbrividire. Sfilò le mani da sotto la
camicia e iniziò a farle
vagare sul mio petto, fino a raggiungere i primi bottoni, che strappo
con
rabbia. Gridai spaventata, provando a liberare le gambe dalla sua
stretta, ma
sembrava tutto inutile. Entrambi troppo presi dalla lotta, non ci
accorgemmo del
rumore assordante emesso dalla porta mentre si spalancava.
Avevo smesso
di respirare, ero come caduta in uno stato di trans dove tutto mi
appariva
sfocato. Persino quando non sentii più il corpo di Jacob sul
mio, mi ci vollero
diversi secondi per mettere a fuoco la situazione.
Sollevandomi
mi accorsi di una terza presenza nella stanza.
Un sospiro di
sollievo uscii dalle mie labbra quando mi resi conto che si trattava di
Edward.
Il suo viso era una maschera di cera, teneva le labbra serrate e la
mascella
contratta. I suoi occhi chiari erano fissi in quelli di Jacob, sembrava
fuori
di sé dalla rabbia, perché continuava a colpirlo
ripetutamente sul viso, senza
mai smettere di guardarlo.
Jacob cercò
di difendersi, portandosi le braccia sulla faccia per proteggersi, ma i
pugni
di Edward erano veloci e imprevedibili, iniziarono a colpirlo ovunque,
costringendolo ad arretrare, fino a farlo cadere a terra.
«Toccala e
ti
ammazzo». Urlò avventandosi nuovamente sul suo
corpo. Se non si fosse fermato,
l’avrebbe ucciso, «è mia. Lei
è mia». Ringhiò.
Scesi
barcollando dalla scrivania, avvicinandomi verso i due uomini. Provai a
catturare l’attenzione di Edward, ma lui era troppo preso a
infliggere dolore
al corpo agonizzato di Jacob, per accorgersi di me.
«Basta».
Sussurrai debolmente, «E’ a terra Edward,
basta».
Avvolsi le
braccia intorno al suo corpo, pregandolo di stare fermo, di calmarsi.
Mi dava
le spalle nascondendomi il suo viso, ma
sapevo che doveva essere irriconoscibile.
Si era
scagliato su di noi, senza dare a Jacob il tempo di rendersi conto del
suo
arrivo.
Lo sentii
irrigidirsi non appena le mie braccia lo circondarono. Si
voltò verso di me
lentamente, fissandomi terrorizzato.
I tratti del
suo viso si addolcirono non appena i nostri occhi
s’incontrarono, con le
braccia mi avvolse in un abbraccio, stringendomi forte.
«Mai
più»,
sussurrò con la voce che gli tremava. Sentivo il battito del
suo cuore sempre
più accelerato, «non ti lascerò mai
più».
Ricambiai la
stretta, non riuscendo a trattenere le lacrime.
«Come sapevi
che eravamo qui?» Gli domandai sul suo petto, non riuscendo
ad allontanarmi da
lui.
Edward
sospirò, «è stata Angela. Non vedendoti
arrivare per l’ora di cena senza le
altre ragazze si è preoccupata. E’ corsa da me,
raccontandomi la verità». Mi
rispose, scostandosi di qualche centimetro. I suoi occhi scivolarono
sul mio
corpo, la camicetta leggermente strappata lasciava intravedere i ricami
del mio
reggiseno.
«Dio Bella
è
tutta colpa mia», disse tormentato, accarezzandomi la guancia
gonfia.
«Perdonami ti prego».
Scossi la
testa, «non è colpa tua». Farfugliai,
«ne parliamo con calma, adesso
occupiamoci di Jacob». Gli dissi, costringendolo a voltarsi.
Il Sergente era
sdraiato a terra, si sollevò con difficoltà,
fissando il tenete con rabbia ma
anche con tanto terrore.
«Lurido
figlio di puttana» Strillò portandosi entrambe le
mani sul viso tumefatto, «te
la farò pagare».
«Non ci
provare neppure Black. Hai provato a violentarla, sai cosa significa?
Che se ti
rispedisco dal Generale che ancora respiri è da considerare
un miracolo». La
voce di Edward era fredda, lontana, così diversa dal tono
che aveva usato poco
prima con me. I muscoli delle sue braccia tremavano, segno che la
rabbia stava
tornando a sopraffarlo. L’arrivo di Jasper e di altri due
soldati, lo costrinsero a
trattenersi.
Edward
spiegò
la situazione al Sergente, che immediatamente portò via
Jacob, trascinandolo
probabilmente nel suo ufficio.
Solo dopo
essere rimasti soli, potei lasciarmi andare tra le sue braccia.
«Grazie,
grazie, grazie». Continuavo a ripetere tra i singhiozzi.
Edward si abbassò per
prendere il camice bianco da terra, avvolgendomelo intorno alle spalle,
con
dolcezza.
«Sono
qui».
Sussurrò accarezzandomi con delicatezza il viso,
«non ti lascio».
|
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Capitolo 15 *** 14# ***
14#
Buona
Domenica a tutti, chiedo scusa per il mancato appuntamento della scorsa
settimana ma, come avevo annunciato sulla mia pagina facebook, la
mancanza di tempo mi ha impedito di postare. Per chi non lo sapesse
sulla mia Home potrete trovare tutte la pagina con l'indirizzo, dove
lascio spoiler e avvisi riguardanti le mie storie. Per qualsiasi cosa
potrete trovarmi qui: Lua93 Facebook
Detto questo, passiamo
al capitolo. Lo troverete un pò più breve
rispetto ai capitoli precedenti, ma sono certa che non vi
deluderà. E' un capitolo di passaggio oserei dire doveroso.
Canzone:
Thriving Ivory - Flowers for a ghost Buona lettura ^^
14
Stavo
seduta sul lettino verde dell’infermeria,
osservando i movimenti rapidi e impacciati di Edward nel tentativo di
trovare
del ghiaccio secco per il mio viso. Sentivo la guancia ancora in
fiamme,
avvertendo un fastidioso gonfiore sotto la tempia,
all’altezza dell’occhio.
Jasper e John avevano
portato Jacob in caserma, in attesa
che il tenente rientrasse nel suo ufficio. Non sapevo quanti danni i
pugni di
Edward avessero inflitto sul suo corpo, ma dalla quantità di
sangue che aveva
perso, ero certa che non avrebbe riacquistato molto facilmente un
aspetto
dignitoso.
Tentai di sollevare le
labbra in un sorriso compiaciuto,
ma una scossa elettrica mi pervase la zona lesa, impedendomi di muovere
anche
solo un muscolo.
Edward
esultò quando finalmente riuscì a trovare una
busta con del ghiaccio dentro il congelatore. Con un sorriso impacciato
si
avvicinò, posando delicatamente il ghiaccio sul mio viso.
«Ahi»,
non riuscii a trattenere un lamento. Per quanto
quel contatto freddo mi avrebbe impedito di diventare una mongolfiera,
avrei
preferito qualcosa di più confortevole.
Il tenente
ridacchiò, sedendosi accanto a me. «Non ti
facevo così delicata». Mi disse cercando di
scaricare un po’ la tensione, ma i
tratti del suo viso erano ancora troppo tesi. I miei occhi erano
allacciati ai
suoi, completamente immersi in quel prato irlandese, che quasi non mi
accorsi
della sua mano che, lentamente, era salita ad accarezzare il mio viso,
occupando
il posto del ghiaccio.
«Hai
l’incredibile capacità di finire nei casini come
nessun altro», disse flebilmente, sfiorando la pelle umida a
causa del
ghiaccio, «solo che questa volta ci sei andata davvero troppo
vicino al
pericolo». Concluse con un sospiro.
Evitai di muovere la
mano che tenevo vicina alla sua, per
quanto desiderassi il contatto caldo con la sua pelle. Mi sarebbero
bastate le
sue dita sul mio viso per l’eternità.
Feci spallucce,
nascondendomi dai suoi occhi, «il
sergente Black ha sempre mantenuto un atteggiamento rigoroso nei miei
confronti».
Edward mi costrinse a
sollevare il viso, fino a perdermi
nella dolce profondità del suo sguardo. «E non ti
sei mai accorta dei suoi
occhi? Di come ti guardasse?» Mi domandò con una
dolcezza nuova per me. Non
aveva mai usato quel tono di voce, neppure una volta da quando
l’avevo
conosciuto.
Non riuscii a
rispondergli, così feci semplicemente di
non con la testa.
«Credi che
invece io, non l’abbia notato? Gli uomini
queste cose le vedono subito. Il modo in cui ha posato gli occhi su di
te la
prima volta che ti ha visto. Come avrebbe voluto mangiarti»,
digrignò i denti,
deglutendo rumorosamente, «se Angela fosse venuta da me dieci
minuti dopo, se
questa sera fossi arrivato in ritardo, non me lo sarei mai
perdonato». Ammise
frustato facendo scivolare la mano sul mio collo.
Socchiusi gli occhi,
rabbrividendo, «ma non è successo»,
aggiunsi debolmente.
«Non diresti
così se ti fossi vista allo specchio».
Borbottò contrariato, sbuffando leggermente infastidito.
Lo fissai sgomenta,
«sono davvero così inguardabile?»
domandai sussultando.
«Hai il viso
gonfio e un’ombra violacea sotto
l’occhio»,
mi rispose infastidito, portando nuovamente il ghiaccio sul mio viso,
«ti sei
almeno accorta dei segni che hai sul polso?»
«Non era
così forte la sua presa, non ho sentito dolore».
Risposi imbarazzata, abbassando lo sguardo sulle braccia. Lentamente
sollevai
le maniche del camice, scoprendo dei segni scuri all’altezza
del polso,
nettamente in contrasto con il colore pallido della mia pelle. Non
riuscii a
trattenere un sussulto, sorpresa.
«Ora capisci
perché vorrei trasformare il sergente Black
in una scatola di fiammiferi?» Mi domandò a pochi
centimetri dal mio viso.
Sorrisi debolmente,
«non l’avresti mai fatto». Sussurrai
con sicurezza.
«Se non
fosse stato per te, non si sarebbe più rialzato
dal pavimento». Ammise cautamente, «io…
avrei voluto ucciderlo. Non si mettono
le mani addosso a una donna contro la sua volontà, non si
costringe a farle
fare qualcosa senza il suo consenso», respirava con affanno,
la sua voce era un
mormorio basso e rauco, «nessuno deve toccarti».
Sussultai sorpresa,
non riuscendo a distogliere lo
sguardo dalle sue labbra, piene e imbronciate in una smorfia di
disapprovazione, «hai detto delle cose prima»,
cominciai a parlare con la voce
che mi tremava. Edward adagiò un indice sulle mie labbra
impedendomi di
continuare.
«Non qui e
non adesso», mi disse dolcemente, «devo prima
parlare con il sergente Black». Si allontanò dal
mio viso, mettendosi in piedi.
Con pazienza attese che anch’io scendessi dal lettino,
affiancandolo mentre ci
allontanavamo dalla stanza. Il suo braccio era sceso intorno alla mia
vita,
sorreggendomi e stringendomi a sé. Il mio viso era a pochi
centimetri dal suo
petto, avvertivo il suo respiro irregolare sotto la cassa toracica.
«Ti
accompagno nel tuo dormitorio», mi spiegò una
volta
usciti dall’ospedale, «non hai alcuna fretta, ma ho
bisogno di te per
affrontare Black». Confessò stringendo la presa
intorno alla mia vita.
Le sfumature argentate
della luna riflettevano una
flebile luce sul volto pallido del tenente.
«Non credo
che sia una buona idea», bofonchiai, «mi sentirei
in imbarazzo davanti a lui».
Edward
rallentò il passo in prossimità del dormitorio,
«non sarai sola, ci sarò io con te».
«Che cosa
hai intenzione di fare?»
Lui fece spallucce. Ci
fermammo davanti la porta,
guardandoci. «Devo ascoltare anche la sua versione dei fatti,
anche se le sue
intenzioni erano inequivocabili. Non voglio perdere il controllo, non
di nuovo,
almeno», mi rispose sospirando, «per questo che ho
bisogno di te. Non te lo
chiederei se potessi, lo sai».
Sembrava visibilmente
imbarazzato, le sue mani giocavano
con il bordo della mia camicia.
«Va
bene».
«Vorrei
sbrigare questa faccenda il prima possibile».
Disse irrigidendosi.
Annuii stanca, ma
d’accordo con lui. «Dammi dieci minuti,
il tempo di cambiarmi. Non sopporto più questi
vestiti». Ammisi abbassando gli
occhi.
Sentivo ancora
l’odore forte di Jacob sulla pelle, e
per quanto desiderassi farlo sparire, sapevo che sarebbe rimasto a
lungo su di me,
anche dopo. Certe sensazioni, non sarebbero sparire così
facilmente.
«Ti
aspetto». Rispose semplicemente, lasciando che mi
allontanassi da lui.
Una volta dentro il
dormitorio, con la porta chiusa e
lontano dai suoi occhi, mi lasciai andare, liberando un nuovo pianto,
questa
volta più intenso. Alice mi fu subito accanto,
stringendomi in un abbraccio
familiare e protettivo. Non so come facesse a saperlo, chi le avesse
raccontato
l’accaduto e quanto la voce si fosse sparsa nel campo, ma
sapere di non doverlo
raccontare ad alta voce, mi aiutò a riprendermi.
Alice mi
aiutò a cambiarmi, porgendomi un pantalone
pulito e una maglia maniche corte da poter indossare. Vedendo i segni
sul polso
mi strinse dolcemente, facendomi sentire la sua presenza accanto a me.
«Sei sicura
di non voler fare una doccia?» mi chiese
mentre legavo i capelli.
Scossi la testa
indossando un maglioncino leggero sopra
la maglietta, «sto bene così». Risposi.
«Va bene
tesoro, vuoi che venga con voi?»
«Non
c’è alcun bisogno, non ti devi
preoccupare», mi
avvicinai alla porta, posando la mano sulla maniglia,
«è stata Angela a dirtelo?» le
domandai incuriosita, prima di aprirla.
Alice annuii,
«ero al tavolo con Jasper e Edward, stavamo
parlando del piccolo», mi rispose sedendosi sul letto,
«è arrivata da noi
livida in volto. Mi dispiace così tanto».
«Non devi
esserlo, io sto bene. Edward è stato in gamba».
Cercai di rassicurarla, mostrandole uno dei miei sorrisi migliori. Il
ghiaccio
aveva fatto effetto.
«Ti ha
salvata». Sussurrò con gli occhi lucidi.
Annuii con il cuore in
gola, «si, mi ha salvata».
«Fai
piano dannazione, mi stai facendo male».
Jessica
sbuffò, gettando il cotone sporco di sangue nel
cestino, cercando di non rispondere al Sergente. I suoi movimenti erano
cauti,
leggeri. Le era stato chiesto di pulire e disinfettare le ferite
inferte da
Edward a Jacob. E contro la sua volontà si era ritrovata
costretta a obbedire.
Edward lo fissava
incolore, in piedi davanti la sua
scrivania, le braccia incrociate sul petto.
«Come mai
anche lei qui, preoccupata per me?» Jacob si
voltò verso di me, sorridendomi sfacciatamente, per quando
gli fosse possibile.
Il labbro inferiore era gonfio e spaccato all’angolo, mentre
un grosso livido
gli aveva gonfiato l’occhio sinistro in maniera innaturale.
Jessica lo ripulì
facendo attenzione a non fargli male, ma quando passava il
disinfettante sulle
zone lese sorrideva compiaciuta davanti ai suoi lamenti.
«Black non
costringermi a romperti anche il setto
nasale». Proruppe Edward, guardandolo con odio.
Jacob alzò
le mani, in segno di resa.
Quando Jessica
terminò, il volto di Jacob era meno peggio
di quanto credessi. Nettamente più gonfio del normale, ma
per sua fortuna si
sarebbe ripreso in un paio di settimane, ritornando come nuovo.
«Dovrei
ringraziarti? Ma per favore, ho il volto
tumefatto a causa tua». Sbottò stringendo le mani
a pugno. La sedia sotto di
lui tremò.
Edward mi si
avvicinò repentinamente, costringendomi a
voltare il viso verso il sergente. «E’ quello che
tu hai fatto a lei, come lo
chiami?»
Sollevai gli occhi,
incontrando quelli di Edward. Le sue
mani di nuovo delicate, lasciarono il mio viso, posandosi sulla spalla.
«Jessica
puoi andare». Sospirò rivolgendosi
all’infermiera. Quest’ultima si
allontanò lanciandomi un’occhiata dispiaciuta.
Nella stanza regnava
un silenzio pesante e imbarazzante.
Edward e Jacob si fissavano in cagnesco, mentre io e Jasper li
osservavamo
preoccupati.
«Allora,
scommetto che ti starai chiedendo perché l’ho
fatto, giusto?» Domandò divertito Jacob.
«Meno
strafottenza Black», s’intromise Jasper, in piedi
dietro di lui.
Mi sentivo in
imbarazzo, sola con tre uomini in una
stanza troppo piccola. Sapevo che né Edward né
Jasper mi avrebbero mai fatto
del male, ma il mio inconscio tremava al pensiero di potermi ritrovare
nuovamente in una situazione analoga a quella con Jacob.
«Parliamoci
chiaro Jacob, sei in un mare di guai». Lo
avvisò Edward avvicinandosi alla sua sedia.
Il sergente
sollevò un sopracciglio, divertito, «che
coincidenza, anche tu».
«Non credevo
di averti concesso il permesso di darmi del
tu».
«Sarai anche
un mio superiore, ma le mani addosso non me
le ha mai messe nessuno. Ammetto di aver un po’ esagerato con
la dottoressa ma,
mi sarei fermato. Non avevo intenzione di farle del male».
Disse fissando
Edward negli occhi. Teneva la mascella contratta, indispettito. Potevo
vedere
le sue cellule celebrali in azione, mentre elaborava un piano per
liberarsi da
quell’impiccio fastidioso.
«Non mi
sembrava», controbatté Edward con fin troppa
calma, «quando sono entrato nella stanza, non ricordo di aver
visto alcun
coinvolgimento da parte della dottoressa. Non era un gioco il
tuo».
Jacob sorrise,
«non ti aspetterai delle scuse». Disse
voltandosi verso di me.
«Non mi
aspetto proprio niente da te». Bofonchiai
guardandolo.
Edward
sbuffò,«senti Jacob, smettila con questi
giochetti.
La tua situazione è già abbastanza complicata.
Adesso, se non vuoi beccarti una
denuncia da parte di Bella, ti conviene collaborare.» Disse
serio.
«Cosa dovrei
fare esattamente?» domandò Jacob,
sistemandosi più comodamente sulla sedia.
«So che sei
a conoscenza di ciò che ha fatto Isabella, ma
ti avviso sin da ora che non servirà a nulla»,
sorrise compiaciuto, «non è
affatto vero che non ho registrato l’azione della dottoressa,
come avrai
sicuramente pensato, semplicemente ho fatto in modo di nascondere i
documenti.
Sono stato io a chiedere un supervisore, anticipando una possibile
mossa da
parte del generale. Questo avrebbe messo in buona luce il mio campo e
il mio
lavoro, prima che qualche dubbio potesse insorgere nella mente del
generale
Winchester», parlava lentamente, fissando Jacob leggermente
sollevato, «quindi
come puoi vedere, non ho mai avuto intenzione di mettere a rischio la
carriera
della dottoressa». Ammise infine.
Lo fissai interdetta,
non riuscendo a seguire il suo
discorso. Davvero non aveva chiesto l’intervento di un
supervisore a causa mia?
O era tutta una scusa inventata per Jacob?
«Spiegati
meglio».
«Tranquillo
Black, farò in modo che le mie parole possano
essere comprese da una mente limitata come la tua,» sorrise e
Jasper ridacchiò.
«Hai davvero
documentato la fuga di Bella?»
«Ovviamente,
non potevo correre il rischio di essere
richiamato dal generale, ne andava del mio orgoglio. Sarebbe stato
molto più
semplice ammettere di aver ricevuto un supervisore poco
attento». Spiegò
camminando avanti e indietro.
«Quindi hai
bleffato?» Gli domandò Jacob, nero di rabbia.
Edward scosse la
testa, «affatto, semplicemente, come
ogni buon giocatore, ho giocato bene le mie carte» gli
rispose, «come vedi, non
ti servirà giocarti questo jolly con il generale, non
riusciresti a dimostrare
il contrario».
«Quindi,
cosa farai?» Gli chiese digrignando i denti.
Jasper mi
lanciò un’occhiata divertita, come a volermi
consigliare di stare attenta. Incuriosita, osservai Edward, mentre mi
si
avvicinava.
«Ti
denuncerò, ti ricordo che hai minacciato una mia
collaboratrice e tentato di violentare una dottoressa per scopi
personali».
Le sue parole erano
misurate, fredde, distaccate. Se non
lo conoscessi, avrei pensato che il tenente non possedeva alcun cuore,
ma
avendolo sentito battere dentro il petto, sapevo che
dietro quella facciata si nascondeva tanta insicurezza.
«Fammi
capire bene, sono nella merda?» domandò Jacob
questa volta senza ironia.
Edward
annuì, «adesso, mi piacerebbe sentirti chiederle
scusa». Gli disse autoritario. Jacob si voltò
verso di me, fissandomi.
«Non voglio
sentirle Jacob, quindi evita di aprire
bocca», l'anticipai prima che potesse dire qualcosa. Edward
si voltò verso di
me, visibilmente incuriosito.
La testa mi girava
vorticosamente, «non voglio ascoltare
le tue patetiche scuse, false e meschine come te» sputai con
rabbia quelle
parole, stringendo le mani intorno ai fianchi. «Desidero solo
sapere perché
io».
«Questa
è semplice,» mi rispose fissandomi, «ti
basta
guardare negli occhi del tenente Cullen per conoscere la
risposta».
Edward
s’irrigidì, «che vuoi dire
Black?»
«Tu la
desideri, non è così?»
ridacchiò buttando indietro
la testa, «e poi quello nella merda sarei io? Ti sbagli di
grosso Edward, posso
chiamarti così?» Riusciva a farmi paura.
«Vorresti farla tua, come avrei voluto
io, solo che c’è un etica di comportamento che
t’impedisce di farlo. Non sono
ammesse relazioni all’interno delle basi militari, e tu
questo lo sai
benissimo. Per questo hai richiesto un supervisore, perché
desideravi
allontanare Isabella dalla base per proteggere il tuo già
basso autocontrollo.»
Le sue mani avevano preso a lisciarsi il pantalone, sporco di terra.
Jasper dietro di lui
divenne una statua. Sapeva di essere
in pericolo, Jacob ci avrebbe avuto in pugno se avesse saputo tutta la
verità.
Ed era stato un bene non far venire Alice, altrimenti qualcosa sarebbe
uscito
allo scoperto.
«Quando
però, hai capito che il tuo folle gesto avrebbe
danneggiato la sua carriera, hai cambiato idea, nascondendo le carte.
Ma ormai
era troppo tardi, io ero già arrivato. Così hai
pensato bene di assumere un
atteggiamento freddo e distaccato nei miei riguardi, rispondendo
evasivamente
alle mie domande», spiegò guardando prima il
tenente, poi me. «ma tranquillo,
anche la dottoressa non era riuscita a capire quanto il suo fascino
aveva
conquistato anche me. E sai, quando io desidero qualcosa faccio di
tutto per
ottenerlo». Sorrise sadico.
«Da bambino
dovevi avere un sacco di amichetti,»l’interruppe
Edward, con sicurezza.
Jacob
ridacchiò, «me la sono cavata».
«ll tuo
discorso non fa una piega, e molto probabilmente
avrai anche ragione, ma sai qual è la cosa davvero
divertente?» gli chiese
Edward, con una domanda retorica, «questo non cambia la
situazione. Le tue sono
solo supposizioni senza fondamento, quello che ho io, invece, sono
fatti
concreti».
Jacob rimase in
silenzio, sapendo che Edward aveva
ragione.
«Quindi?»
Domandò esausto.
«Tu sparirai
alle prime luci dell’alba, i miei uomini ti
accompagneranno dal generale che, verrà informato
personalmente dal
sottoscritto in una lunga telefonata. Non ti farai mai più
vedere, non creerai
più problemi. Sparirai dalle nostre vite».
«Sei un
bastardo Cullen». Jacob chiuse gli occhi cercando
di calmarsi.
Edward scosse la
testa, voltandosi verso di me, «ti
sbagli, sto semplicemente proteggendo qualcuno a cui tengo
molto».
Il tenente mantenne la
sua promessa. Verso le cinque del
mattino il sergente Black, accompagnato da tre militari della base,
salì su una
Jeep, per fare ritorno all’ambasciata americana, dove ad
attenderlo ci sarebbe
stato il generale Winchester, già a conoscenza
dell’accaduto.
I miei occhi lo videro
allontanarsi, sparendo tra le dune
del deserto. E in quel momento qualcosa si sciolse dentro di me, e una
nuova
consapevolezza si fece strada nella mia mente.
Nulla sarebbe stato
più come prima.
«Posso farti
una domanda?» I miei occhi cercarono quelli
di Edward, trovandoli già intenti a fissarmi.
Lui annuì,
rimanendo in silenzio.
«Hai
inventato tutto sul momento?»
«No, non mi
piace rischiare. Avevo chiesto qualche
informazione in più sul conto del sergente Black ancora
prima del suo arrivo, e
le informazioni sul suo conto non erano molto rassicuranti, per questo,
una
volta giunto alla base, non gli ho raccontato la verità e ho
nascosto i
documenti». Mi spiegò con sicurezza.
«Non ti
fidavi di lui?» Ero confusa, non riuscivo a
capire le sue parole.
Edward sorrise
comprensivo, «non proprio. Il sergente
Black ha un passato militare poco professionale, che chissà
come aveva saputo
tenere segreto. Purtroppo per lui, io ho dei buoni
investigatori». Rispose
fissandomi. «Ho tentato di rimediare a un mio stesso
errore».
«Lui era qui
per me?» Domandai deglutendo.
Edward
annuì, «si».
«Non mi
darai nessun’altra spiegazione?»
«Non
adesso». Mi rispose con un sorrisetto divertito.
Sbuffai, «se
non adesso quando?» gli chiesi spazientita.
Ma lui mi aveva già voltato le spalle, e dandomi la giornata
libera, era rientrato
in caserma, visibilmente più tranquillo.
Non
l’avrebbe mai ammesso ma quelle spiegazioni non sarebbero
arrivate tanto facilmente.
Jacob è davvero
andato via? La risposta è si, il sergente non si
farà vedere per un pò.
Edward come abbiamo potuto leggere qualche capitolo fa, aveva
chiaramente ammesso che Jacob era stato chiamato per Isabella,
ovviamente a quest'ultima non lo confesserà mai apertamente,
ma solo attraverso lunghi e misteriosi giri di parole. E' un uomo
troppo orgoglioso, ma oltre questo piccolo difetto, ha anche tanti
pregi. Uno di questi è proprio il controllo. Nel Pov Edward
ho omesso volontariamente di scrivere dell'indagine che aveva fatto
fare sul sergente Black, ma sappiate che Edward non gli avrebbe mai
permesso di farsi mettere i piedi in faccia. Il passato turbolento di
Jacob non verrà raccontato, non in questa storia almeno, ma
sappiate che non è affatto un santo come ci aveva fatto
credere durante il nostro primo incontro. E' per questo motivo che
Edward ha nascosto i documenti e cercato di proteggere Isabella. Edward
ha cercato di rimediare a un suo stesso errore, sapeva di
aver sbagliato nel richiedere un supervisore, pentendosi immediatamente
del suo gesto. Ma ormai il danno era fatto, doveva rimediare in qualche
modo. Ovviamente lui non avrebbe mai potuto immaginare che Jacob
potesse arrivare a tanto, tentare di violentare la dottoressa. Quindi
alla fine abbiamo scoperto che mentre Jacob architettava un piano
contro il tenente per avere Isabella, Edward ne creava uno tutto suo
per proteggere la dottoressa. Insomma quella all'oscuro di tutto era
Isabella che si è ritrovata in mezzo a due fuochi.
Fortunatamente la situazione si è risolta nei migliori dei
modi, ora non ci resta che leggere di loro due. Riusciranno mai a
parlare questi due idioti?
Nel prossimo capitolo ci sarà la tanto attesa svolta. E che
svolta (a buon intenditore poche parole xD)
Per farmi perdonare per la lunga attesa, ho deciso di lasciarvi un
piccolo spoiler del prossimo capitolo ^^
Auguro a tutti voi una splendida settimana e per chi come me, non ha
ancora visto neppure un fiocco di neve (forse sono l'unica in tutta
italia) auguro che il cielo regali pure a noi una spruzzatina di magia
bianca **
Spoiler:
«E se io non
volessi? Se lo desiderassi anche io?» Gli
chiesi avvertendo una fitta al basso ventre. I nostri corpi erano
così vicini
da innescare una reazione troppo pericolosa per poter essere ignorata.
Edward
sgranò gli occhi, stringendo le labbra. Stava
combattendo un diverbio interiore, lo potevo capire
dall’espressioni che
assumeva il suo viso. Lentamente, avevo imparato a conoscerlo.
«Cosa
succederebbe se ti chiedessi di baciarmi?» Domandai
allacciando le braccia intorno al suo collo.
Rimase sorpreso da
quella richiesta ma, qualcosa nei suoi
occhi, forse il luccichio che avevano assunto o il colore liquefatto,
mi fecero
capire che anche lui, come me, non desiderava altro.
«Non
ti permetterei più di uscire da questa stanza». Mi
rispose dopo un tempo che mi parve un'eternità, posando le
labbra calde e
morbide sulle mie.
|
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Capitolo 16 *** 15# ***
15. Capitolo
Buona Domenica, siamo
già al 12 Febbraio, ma sono l'unica a vedere i giorni
passare così velocemente? Io sono rimasta ancora alle
vacanze di Natale, qui tra poco arriviamo a Pasqua xD
Finalmente anche da me
è arrivata la neve *_* Bianca, fredda e perfetta , ha chiuso
le scuole per due giorni, regalo fantastico da parte del cielo
ù.ù
Comunque sia,
tralasciamo queste riflessioni del tutto fuori luogo e dedichiamoci al
capitolo. Avviso che è quello che stavamo aspettando da
tanto tempo, sia voi che io ù.ù
Non so bene quello che
ho scritto, mi sono lasciata trasportare molto e poiché il
raiting scelto è l'arancione, mi sono mantenuta molto nel
limite. Se lo doveste trovare incompleto non prendetevela con la
sottoscritta, è la prima volta che descrivo una scena
"rossa" xD
Non sarà
l'ultima però, sono certa che ci prenderò la mano
eheh.
Vi lascio alla lettura
del capitolo, grazie a tutti voi, siete i lettori migliori del mondo ^^
Blue Foundation - Eyes On Fire consiglio
di ascoltarla più volte durante la lettura in caso dovesse
terminare prima della fine xD
15
7 Aprile 2003
«Bentornata», il sorriso allegro di Alice mi diede
il
benvenuto nel dormitorio, mentre chiudevo la porta. «Ho visto
la jeep partire,
è davvero tutto finito?»
Annuii gettandomi di
peso sul letto, «si e sono esausta»,
ammisi chiudendo gli occhi.
Sentii Alice
ridacchiare, «dovresti riposare, sono più di
ventiquattro ore che non dormi».
«Edward mi
ha dato la giornata libera, pensi di potercela
fare da sola?» le domandai sistemandomi più
comodamente sul materasso.
«Certo,
Jessica e Kristen mi daranno una mano».
Sbadigliai,
strusciando la faccia sul cuscino, «solo un
paio di ore, poi vi raggiungo».
Alice rise a bassa
voce, «dormi testona».
Poco dopo avvertii la
porta chiudersi mentre scivolavo
tra le braccia di Morfeo.
Quando aprii gli
occhi, la stanza era avvolta da una
fastidiosa luminosità. Il sole era alto in cielo, irradiava
ogni cosa sotto di
esso. Le lenzuola intorno al mio corpo sudato divennero fastidiose,
graffiavano
sulla pelle. Mi sollevai lentamente, fisicamente sana, mentalmente
persa.
Avevo bisogno di una
doccia per levarmi quell’odore
nauseante dal mio corpo. Così raccolsi il borsone da sotto
il letto, portandolo
direttamente con me verso i bagni.
Il silenzioso era
opprimente, il campo sembrava essere
stato avvolto da una bolla, proteggendolo dai rumori esterni. Ero
sollevata, mi
sentivo finalmente libera di un peso. La partenza di Jacob era stata
una
liberazione, potevamo finalmente smettere di fingere e Alice sarebbe
potuta
tornare a casa.
Chiusi gli occhi sotto
il getto caldo dell’acqua,
lasciando che il vapore avvolgesse il mio corpo. Mi sciacquai
più volte,
insaponando tutto il mio corpo. Non mi resi conto di aver finito
l’interno
flacone fin quando non uscì più nulla.
Una volta fuori dalla
doccia, mi sentii finalmente pulita,
non c’era più Jacob sulla mia pelle.
Verso mezzogiorno
raggiunsi la mensa, trovando tutti i
tavoli occupati dai soldati. Quando entrai, si voltarono verso di me,
qualcuno
sorrideva, qualcuno mi fissava preoccupato, ma tutti si girarono
dall’altra
parte, e seguendo i loro occhi, trovai il tenente infondo alla stanza,
seduto
con Jasper.
Quando i nostri occhi
s’incontrarono, lo vidi accennare
un sorriso, abbassando nuovamente lo sguardo.
Volevo raggiungere il
suo tavolo, ma due braccia mi
avvolsero, stringendomi affettuosamente.
«Bella mi
dispiace così tanto» Angela tremava tra le mie
braccia, la sua voce era un sussurro leggero.
La strinsi,
ricambiando il suo abbraccio, «ti devo
ringraziare, se non fosse stato per te, non sarebbe andata a finire
così».
Sorrise, fissandomi
con gli occhi lucidi, «sono felice di
vederti stare bene. Hai messo qualcosa sul viso?» mi
domandò apprensiva.
Annuii, sfiorandomi la
guancia, «il lieve gonfiore
dovrebbe sparire in meno di dodici ore». Le risposi.
Sembrò
sollevata, «bene, perché da come ti aveva
descritta Alice, dovevi essere peggio di una mongolfiera»,
disse facendomi
ridere, «invece rimani sempre bellissima».
Arrossii,
«Alice esagera sempre».
«Avrai fame,
vieni ci sono le lasagne», disse prendendomi
per mano, portandomi in cucina.
«Lasagne?»
«Scongelate».
Ridacchiò porgendomi una grande porzione.
Mi sedetti
sull’isola della cucina, iniziando a mangiare
con gusto. Angela mi fissava sbalordita, evidentemente non aveva ancora
capito
fino a che punto potevo arrivare a stomaco vuoto.
«Lo sanno
tutti?» Chiesi mandando giù il boccone con un
sorso d’acqua.
Angela
annuì, «si è sparsa la voce, ma il
tenente ha
fatto ben intendere che non voleva sentirne parlare. Ha chiesto ai suoi
soldati
di fare finta di nulla e di non disturbarti»
La fissai sorpresa,
«oh».
«Eh
già, adesso mangia prima che si raffreddi».
Aggiunse
con un sorrisetto malizioso.
«Forse
dovrei andare di là», ipotizzai, ripensando alle
sue parole.
Ridacchiò,
«forse dovresti».
Scesi dal tavolo,
portando il piatto con me. Angela
rimase in cucina sistemando le stoviglie sporche, osservandomi mentre
mi
allontanavo.
Quando ritornai dai
ragazzi, i tavoli pieni si erano
dimezzati. Controllai il tavolo, dove era seduto Edward, e sorrisi nel
trovarlo
occupato.
Li raggiunsi
velocemente, sedendomi accanto ad Alice.
«Ehi, ben
arrivata, credevo che Angela ti avesse rapito».
Sorrise, finendo la sua porzione di pasta.
Edward
inarcò un sopracciglio scettico, «non credo che
solo quella ti riempirà lo stomaco», disse
indicando il mio piatto.
«Mi
basterà», risposi facendo spallucce.
Jasper
lanciò un’occhiata divertita ad Alice, sul tavolo
le loro mani si sfiorarono, di tanto in tanto. Lui non le levava mai
gli occhi
da dosso, in un modo o nell’altro le faceva sentire sempre la
sua presenza.
«Prendi il
mio stufato», Alice sollevò gli angoli delle
labbra, «io sono piena».
«Devi
mangiare Alice, non ci sei più solo tu, ricordi?»
Quello di Jasper fu un debole sussurro, mentre le guancie di Alice
s’imporporarono
di un timido rossore.
«Jasper ha
ragione», intervenne Edward allungandomi il
suo piatto, «Bella mangerà il mio».
Disse sollevando lo sguardo su di me.
Sotto quegli occhi
chiari non potei fare altro che
obbedire, riempiendomi lo stomaco con quella prelibatezza.
«Sono
felice». Disse improvvisamente Alice, cogliendoci
di sorpresa. «Finalmente quel vile è andato via,
ora possiamo riprendere a
respirare». Spiegò stringendo la mano di Jasper.
Edward si
voltò verso l’amico, «ora può
tornare a casa».
Jasper
annuì, sotto lo sguardo interrogativo di Alice.
«Aspettate
un attimo, cos’è questa storia? Jasper lo sai
che non andrò da nessuna parte senza di te». Disse
irrigidendosi, «se io andrò
via, tu mi seguirai, chiaro?»
«Non
è così semplice Alice, io non ho ancora terminato
il
mio anno, non posso rientrare». Le spiegò cercando
di non agitarla.
Le sue parole
però sembrarono ottenere l’effetto
contrario, Alice sbuffò infastidita, voltandosi verso di me.
«Bella per favore,
potresti spiegare a quest’idiota che, né io
né suo figlio, torneremo a casa
senza di lui?»
Jasper mi
lanciò un’occhiata disperata, sotto lo sguardo
spazientito di Edward.
«Mi dispiace
Alice, ma questa volta devi obbedire. Non
puoi rimanere qui in queste condizioni». Le risposi bevendo
un sorso d’acqua.
Il mio stomaco aveva smesso di brontolare, erano altre, adesso, le
preoccupazioni.
«Non potete
obbligarmi». Disse cocciuta.
«Adesso
basta così», Edward catturò la nostra
attenzione
sbattendo leggermente la mano sul tavolo, «Alice non puoi
rimanere, mi
dispiace. Non sei attiva al cento per cento, ed io ho bisogno di
collaboratori
pronti a qualsiasi ora del giorno e della notte». Le disse
incrociando le
braccia sul petto. «Isabella non può fare anche il
tuo lavoro. Per questo
motivo, fra tre giorni tornerai in America. Un aereo americano
partirà con i
soldati in congedo e tu andrai con loro, fine della storia».
«E Jasper?
Non voglio che mio figlio cresca senza un
padre». Borbottò con gli occhi lucidi.
Il sergente le strinse
il braccio intorno alle spalle,
attirandola sul suo petto. «Tornerò a casa il
prima possibile», le sussurrò
dolcemente.
«Ti prometto
che lo farò tornare prima del parto». Disse
Edward, il sorriso che ne seguii, sciolse tutti i miei dubbi.
«Promesso?»
Sussurrai fissandolo.
Lui si
voltò verso di me. Occhi negli occhi, «io mantengo
sempre le mie promesse, Bella».
Quando ritornammo alle
nostre abituali mansioni, capii che
era arrivato il tempo, per me e Edward, di parlare, e questa volta non
gli
avrei permesso di tirarsi indietro.
Il cielo quella sera
aveva assunto sfumature rossastre,
mentre il sole tramontava alle mie spalle. L’aria era calda,
la sabbia sembrava
più gialla del solito sotto gli ultimi raggi del sole.
Non totalmente
cosciente di ciò che stavo facendo,
bussai alla porta del dormitorio di
Edward, e senza dargli il tempo di rispondere, entrai, ritrovandomelo
davanti
mezzo nudo, solo con un pantalone addosso. Probabilmente era tornato da
poco dalla
doccia, perché i suoi capelli erano ancora bagnati. Si stava
vestendo, quando
voltandosi i nostri sguardi s’incontrarono.
«Credevo
fossi Jasper», disse leggermente imbarazzato,
indossando la prima maglietta che gli capitò sotto mano.
L’osservai incurante
di fronte alle sue parole, perdendomi nella linee sinuose delle sue
spalle
larghe. Arrossi abbassando lo sguardo quando voltandosi, mi
scoprì intenta a
fissarlo.
«Avrei
dovuto aspettare prima di entrare, scusami».
Bisbigliai trovando improvvisamente
interessante il pavimento.
Edward non rispose
immediatamente, rimase in silenzio per
diversi secondi, e quando lo fece, quando mi parlò,
improvvisante fu come se le
altre voci non avessero alcun significato, non avessero più
alcun suono. C’era
solo lui.
«Credimi
quando ti dico che sono altri i motivi per cui
dovresti scusarti».
Sollevai la testa,
incuriosita, «non credo di aver capito
cosa vuoi dire».
Lui sorrise
leggermente, «nulla. Piuttosto, come mai sei
qui?» Mi domandò incrociando le braccia sul petto.
Tentai di rimanere
lucida di fronte alla sua figura così
austera e sicura, desiderai mostrarmi forte e sicura di me, ma davanti
ai suoi
occhi, precipitavo.
«Non abbiamo
tutta la notte, Jasper arriverà a momenti»,
mi avvisò visibilmente divertito. Non ero ancora riuscita a
capire come potesse
assumere quell’atteggiamento così freddo e
distaccato pur utilizzando quel tono
di voce.
Scossi la testa,
«non arriverà».
Edward
sussultò sorpreso, «perché?»
«E’
con Alice, non credo però che rimarrà con lei
tutta
la notte». Risposi riflettendoci. Quella di Alice era stata
una richiesta
piuttosto semplice, desiderava solo passare un po’ di tempo
con il padre del
suo futuro bambino, prima di tornare a casa.
«E tu sei
qui per avvisarmi di questo?» Mi chiese Edward
con tono sarcastico.
«Anche, ma
non solo.»
Edward si sedette sul
letto, fissandomi. «Okay, allora
cos’altro devi dirmi?»
Feci un grosso
respiro, «volevo parlare con te.»
«Sono
qui.»
«Esatto,
è proprio per questo che sono venuta da te. Io
sono confusa», borbottai sistemandomi una ciocca di capelli
scivolata da dietro
l’orecchio, «il tuo “sono qui”
mi confonde, tu mi confondi». Precisai
fissandolo. «Edward, credo sia arrivato il momento di parlare
e farlo sul
serio.» Dissi tutto in un fiato, «hai detto delle
cose nel mio ufficio, quando
mi hai salvata da Jacob», sussultammo entrambi dopo quelle
parole. Lo vidi
stringere le mani suo copriletto, stropicciando la stoffa leggera.
«E io vorrei
sapere solo se ci credevi sul serio in quello che hai detto».
«In ogni
singola parola». Disse lapidario sollevando gli
occhi su di me, «sarebbe inutile negarlo adesso,
giusto?» chiese retorico, le
sue labbra si sollevarono in un sorriso, «sarebbe da
stupidi».
Annuii semplicemente,
attendendo che continuasse.
«Non mentivo
quando ho detto che ci tenevo a te, quando
ho detto che nessuno doveva toccarti», fece un respiro
profondo sollevandosi
dal letto, «nessuno a parte me». Disse
avvicinandosi.
Avvertii il battito
del mio cuore accelerare dentro il
petto, mentre le sue mani salivano sul mio viso, da prima insicura e
tremolanti,
poi sempre con più sicurezza si adagiarono intorno al mio
collo, sino
all’attaccatura dei capelli dietro la nuca.
«Quando hai
detto che ero tua», sussurrai fissando le sue
labbra sottili e dannatamente troppo vicine alle mie,
«cosa-»
«Cosa
significava?» Mi domandò interrompendomi.
Assentii, lasciando
immobili le mie braccia lungo i
fianchi, il mio corpo reagiva a ogni suo tocco invisibile, tremavo a
causa
della sua vicinanza.
Edward posò
la fronte contro la mia, «significa»,
precisò
con un sussurro, «che mi sono arreso. E’ da quando
hai messo piede in questa
base che combatto contro l’impulso di farti mia. Capisci
quello che voglio
dire?» Ridacchiò smorzando un po’ la
tensione che si era creata tra i nostri
corpi, «quando ti ho baciato, ho dovuto usare tutta la forza
che avevo per
allontanarmi da te».
Istintivamente portai
entrambe le mani sulle sue braccia,
«tu mi volevi».
«Io ti
voglio, è diverso». Mi corresse,
«l’aveva capito
persino il sergente Black».
Una delle sue mani
raggiunse il mio viso, accarezzandomi
la guancia, non più gonfia, colpita da Jacob, «mi
dispiace».
«Smettila di
dire che ti dispiace, sono qui e sto bene».
Ringhiai spazientita. Tutte quelle parole non facevano altro che
confondermi.
«Dovrei
allontanarmi», mi sussurrò all’orecchio,
ma la
sua presa non fece altro che aumentare intorno al mio corpo, in
contraddizione
con le sue parole, «dimmi di lasciarti e giuro che lo
farò».
«E se io non
volessi? Se lo desiderassi anch’io?» Gli
chiesi avvertendo una fitta al basso ventre. I nostri corpi erano
così vicini
da innescare una reazione troppo pericolosa per poter essere ignorata.
Edward
sgranò gli occhi, stringendo le labbra. Stava
combattendo un diverbio interiore, lo potevo capire dalle espressioni
che aveva
assunto il suo viso. Lentamente, avevo imparato a conoscerlo.
«Cosa
succederebbe se ti chiedessi di baciarmi?» Gli
domandai allacciando le braccia intorno al suo collo.
Rimase sorpreso da
quella richiesta ma qualcosa nei suoi
occhi, forse il luccichio che avevano assunto o il colore liquefatto,
mi fecero
capire che anche lui, come me, non desiderava altro.
«Non ti
permetterei più di uscire da questa stanza». Mi
rispose dopo un tempo che mi parve un’eternità,
posando le labbra calde e
morbide sulle mie.
Fu un bacio lento, un
riscoprire insieme le vecchie
sensazioni, approfondendone le sfumature. Le sue mani stringevano il
mio viso
in una morsa d’acciaio, impedendomi d’allontanarmi.
Non avevo paura di lui,
come avrei potuto? La sua pelle contro la mia era come fuoco, lava
incandescente
che incendiava tutto lungo il suo passaggio. Desideravo approfondire
quel
contatto, così portai le mani sui suoi capelli ramati,
completamente asciutti, percependoli
setosi al tatto, esattamente come ricordavo dall’ultima volta
che li avevo
sfiorati.
Provai ad allontanarmi
lentamente, per quanto Edward me
lo permettesse, le sue labbra continuavano a cercare le mie, a bagnarmi
la
bocca con i suoi baci.
«Fai
l’amore con me», farfugliai senza fiato.
Lui mi
fissò
intensamente, «non posso», sussurrò
allontanandosi di qualche centimetro.
«Si
invece», controbattei stringendo le mani intorno alla
sua maglia, «smettila di pensare, fallo e basta».
«Ti assicuro
che se fossi stato a mente lucida non ti
avrei neppure baciato», sussurrò spostando il suo
sguardo dal mio viso.
Strinsi la presa sul
suo corpo, «non m’importa. Io ho
bisogno di te».
«Sono
qui».
«No, non lo
sei. Io ho bisogno di sentirti, per favore»,
lo supplicai. Le gambe si fecero molli, incapaci di gestire il peso del
mio
corpo. Mi aggrappai alle sue braccia, avvicinando nuovamente il mio
viso al
suo. «Non mi vuoi?»
Gli occhi di Edward
brillarono di una nuova luce, «è
proprio perché ti desidero troppo che non posso
farlo». Rispose ringhiando.
Ci fissammo in
silenzio, nella semi oscurità della
camera. Il profumo del bagnoschiuma sulla sua pelle richiamava le mie
labbra.
«Fai l’amore con me». Gli sussurrai
nuovamente all’orecchio. Se quella sera
fossi andata via, se quella sera lui mi avesse rifiutato, sarei
crollata.
Edward gemette quando le mie labbra sfiorarono il suo collo. E
stringendo il
mio corpo in un abbraccio stritolante e possessivo, capii che si era
arreso.
Le sue mani
arpionarono i miei fianchi, costringendomi a
seguirlo sul letto. Mi fece scivolare sopra di lui, continuando a
baciarmi
senza il bisogno di respirare. Le sue mani erano così
delicate mentre sfiorava
ogni centimetro del mio corpo, da sembrare irreali, mentre assaporava
con le
labbra tutto il profilo del mio viso, fino a scendere sul collo. I suoi
gesti
erano cauti e leggeri, come se avesse il timore di spezzarmi. Mi
sembrava quasi
impossibile credere che quelle mani appartenessero al tenente. Lui che
con i
suoi gesti rapidi e le sue espressioni ciniche non aveva fatto altro
che
tenermi alla larga. Sembrava un altro uomo, benché la
passione che sprigionava
in quel momento, non fosse altro che un pallido riflesso, di quella
tenuta
nascosta la prima volta che mi aveva baciato.
Mi aggrappai alle sue
spalle, cercando un appiglio. Con
le braccia mi avvolse la vita mettendosi seduto, senza allontanarmi dal
suo
corpo. Mi separai dalle sue labbra controvoglia, cercando di
riacciuffarle.
Edward sorrise,
«sei impaziente e bellissima».
Nascosi il volto
nell’incavo del suo collo, facendo
scivolare le mani sul suo petto.
«Non ti
allontanare ti prego, guardami Isabella. Hai
sempre avuto ragione tu, ho bisogno di te».
Sussurrò accarezzandomi con
infinita lentezza la schiena, disegnando cerchi immaginari sulle
vertebre.
Obbedii perdendomi dentro quelle gemme liquide.
Trovai il bordo della
maglietta nera che indossava,
cercando di sollevargliela, ma solo con il suo aiuto riuscii a
levargliela
completamente.
Alzai il viso,
osservando il suo petto nudo. La mia
memoria non gli rendeva affatto giustizia. Con le dita accarezzai da
prima le
spalle larghe per poi scendere sul suo petto, dove vi era una piccola
voglia
color caramello. Mi chinai, baciandogliela con infinita dolcezza,
riprendendo
poi il cammino delle mie mani sui pettorali, alternando le carezze ai
baci.
Edward
sospirò lasciando che proseguissi con la mia
esplorazione, prima di catturare le mie labbra tra le sue. Afferrandomi
per i
fianchi mi fece scivolare sotto il suo corpo, sfilandomi la maglietta.
I nostri
occhi non si persero mai di vista, neppure quando mi ritrovai di fronte
a lui,
solo con il reggiseno. Attese pazientemente che io acconsentissi prima
di
riprendere a spogliarmi, osservando accuratamente il tutto il mio corpo.
«Sei la cosa
più bella che abbia mai visto»,
sussurrò
mentre mi sfilava l’intimo, «non perderò
il controllo, te lo prometto, posso
fermarmi». La sua voce rauca mi fece tremare dal desiderio.
«Ci sei tu
sul mio corpo, nessun altro. Non ho paura di
te». Respirai affannosamente stringendo
il lenzuolo quando Edward scese con le labbra sul mio corpo.
Ti voglio, non ti
fermare.
Da prima baci lenti e
delicati dietro l’orecchio, poi
sempre più impazienti e bagnati sul petto.
Con impazienza
l’aiutai a liberarsi dei suoi vestiti,
rimanendo senza parole di fronte al suo corpo nudo. Iniziai a
percorrere con le
dita i muscoli delle braccia, fino a raggiungere la sua mano, che
strinsi
forte, con coraggio, ma anche con tanta paura. Non era affatto la mia
prima
volta, eppure i suoi gesti, i suoi movimenti, mi trasmettevano
sensazioni mai
provate prima.
«Quando mi
guardi così, io non riesco a respirare.»
Ammisi strofinando la punta del naso sul suo petto. Edward strinse
forte la mia
mano, portandosela sulle labbra.
«Ti
desidero.» La sua voce bassa e roca mi fece
rabbrividire. Osservai indistintamente le sue mani scivolare lungo la
mia
pancia piatta, fino a raggiungere il punto più delicato del
corpo.
Avvicinai le mie
labbra alle sue, cercando un altro
bacio. Questa volta più intenso e profondo. Le sue dita mi
portarono in
paradiso, muovendosi abilmente dentro di me, e solo quando fui
completamente
pronta mi fece sua, continuando ad accarezzarmi e a venerarmi. E ogni
spinta
era un pezzetto di cielo che si disintegrava, sentivo la pelle bruciare
sotto
le sue mani, mentre mi portava a raggiungere le più alte
vette del piacere. Strinsi
le mani intorno al lenzuolo bianco, cercando di trattenere i gemiti di
piacere.
Edward respirava affannosamente sul mio viso, continuando a rubarmi
baci. Sarei
potuta morire in quel momento che nulla avrebbe avuto sapore
più dolce di lui.
Era la congiunzione perfetta di un’eclisse nel deserto. Era
lui dentro di me ed
io dentro di lui, due corpi pieni dell’altro, ma non era
abbastanza, avrei
voluto di più, chiesi di più. E Edward mi diede
tutto se stesso.
Raggiunsi il culmine
aggrappandomi alle sue spalle,
mentre lui accompagnava gli ultimi movimenti prima di raggiungermi. E
fu
calore, fuoco che incendiava le pareti interne della mia anima. Solo
dopo
diversi minuti riuscii a riprendermi, rendendomi conto di
ciò che era appena
accaduto.
Edward uscii
delicatamente, respirando affannosamente.
Poi mi strinse forte tra le sue braccia baciandomi la testa, mentre
respirava
il mio profumo.
«Sei
ossigeno puro Isabella Swan.» Sospirò continuando
ad
accarezzarmi. Mi lasciò fare quando posai
l’orecchio sul suo cuore, ascoltando
i suoi battiti.
«Non ti
avrei mai creduto capace di tutta questa
gentilezza, ti ho sempre visto così freddo e
distante». Gli confessai dopo che
esserci ripresi.
«Era un
atteggiamento che mi hai portato ad assumere tu,
anche se inconsapevolmente.» Ammise coprendo i nostri corpi
intrecciati con il
lenzuolo.
Sollevai il viso,
incontrando i suoi occhi, più lucidi
del solito, «davvero?»
Le sue labbra si
aprirono in un sorriso sghembo che mi
fece tremare tutta, «era un modo per tenerti lontana. Sin
dalla prima volta che
ti ho visto sapevo che non sarei riuscito a resisterti».
«Anch’io
ti ho voluto dal primo istante». Sorrisi.
«L’arrivo
del Sergente Black, devo ammettere che è stato
un colpo basso.» Borbottò fissando il letto vuoto
di Jasper, alla sua destra.
«Ero convinto di poter gestire quello che provavo, e
invece.» Sospirò affranto,
«la gelosia mi ha sopraffatto».
«Sei stato
bravo», gli dissi, osservando il suo profilo regolare.
La linea del naso perfettamente dritta, la mascella squadrata e quelle
labbra
gonfie per tutti i baci ricevuti. «sei un ottimo soldato
Edward».
«Non
più da quanto ci sei tu». Mi confessò
intrecciando
le sue dita alle mie. «Non è un offesa,
è solo una constatazione. Se ci fosse
stata un’altra donna al tuo posto, probabilmente Jacob non ci
avrebbe neppure
provato, ma in quella stanza c’eri tu e io-»
«Tu sei
arrivato e mi hai salvato», sollevai gli angoli
delle labbra, «non è la prima volta che lo
fai».
Mi diede un bacio
leggero sulla fronte ancora sudata,
«dovere».
Rimanemmo in silenzio,
osservando l’oscurità della notte
entrare attraverso la piccola finestrella.
«E adesso
che si fa?» Gli domandai temendo un suo rifiuto.
Edward, al contrario,
mi strinse più forte sul suo petto,
«non ti lascio Bella. Questa notte sei con me, domani si
vedrà».
E qui direi che possiamo ufficilamente dire che il bel tenente si
è arreso alla dottoressa ù.ù
"Sei ossigeno puro" vi dovrebbe ricordare Gray's Anatomy, non me ne
vogliate, l'ho trovata perfetta per quel momento tutto loro.
A Domenica prossima, buon inizio settimana.
Lua93.
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Capitolo 17 *** 16# ***
Dopo più
diun mese, riesco a postare il nuovo capitolo. Prima di lasciarvelo
leggere però, vorrei dirvi alcune cose.
Questo mese, è stato uno dei più difficili.
Quando si perde una persona cara, tutto sembra non avere più
alcun significato e ci si chiede che senso ha continuare. Non voglio
assolutamente tediarvi con i miei problemi o con le mie preoccupazioni.
Quindi abbandono qui il campo personale, lasciandolo tale. Solo avrete
notato che non ho più il mio account facebook e che alcune
storie sono state eliminate dal mio account Efp. Su questo punto non ho
molto da dire, solo che attraversando una certa fase dove tutto mi
sembrava sbagliato, ingiusto, dove qualsiasi cosa facessi mi sembrava
vuota, ho pensato che liberarmi di Efp e delle mie storie mi avrebbe
fatto sentire meglio. Non eliminerò assolutamente
nè I colori del vento, nè Busker (che non so
ancora quando riprenderò), nè The butterfly
effect, su questo potete stare tranquille.
Per quanto riguarda I colori del vento, non ho alcun capitolo pronto,
quindi dovrete avere un pò di pazienza, spero comunque di
non farvi più aspettare così tanto. Detto questo
vi lascio al capitolo, spero possiate perdonarmi. Grazie di cuore a
tutte voi. Questo capitolo lo voglio dedicare a tutte le lettrici che
non hanno mai smesso di sperare in un mio ritorno.
Nessun accompagnamento musicale, questa volta lascio scegliere a voi.
Lua93.
16
8
Aprile 2003
Il
respiro
regolare di Edward s’infrangeva sui miei capelli, mentre un
suo braccio intorno
alla mia vita mi attirava più vicino al suo corpo. Le luci
dell’alba
scivolavano sul vetro della finestra, disegnando strane ombre sul
pavimento
grigio. Per tutta la notte, le braccia di Edward erano rimane arpionate
sui
miei fianchi, non permettendomi di allontanarmi dal suo corpo neppure
per un
secondo. Mi aveva stretta a sé, fin quanto la stanchezza non
aveva preso il
sopravvento, e assopendomi avevo avvertito il calore della sua labbra
sul mio
viso.
Jasper non
era rientrato nel dormitorio, così Edward mi aveva obbligato
a rimanere con lui,
almeno, fino all’alba. E ora che, il suo profumo era
diventato parte della mia
pelle, il sole faceva la sua comparsa all’orizzonte. Non ero
ancora pronta ad
abbandonarlo,
lasciare le sue forti braccia per ritornare nella vita reale, fuori da
quelle
quattro mura che avevano assistito alla nostra unione.
Sollevai la
testa dal suo petto, osservando il suo volto rilassato. Le palpebre
chiuse,
come sipario di un sogno, le labbra leggermente socchiuse ancora gonfie
per i
troppi baci. Feci scivolare le sue braccia dal mio corpo, posandole sul
materasso. Scattai una fotografia immaginaria di quel momento.
L’immagine di
Edward quella mattina sarebbe rimasta per sempre nei miei ricordi,
così come le
sensazioni provate durante la notte. Avevo toccato il paradiso tra le
sue
braccia, mentre intorno a noi il deserto ci separava dalle porte
dell’inferno.
Mi rivestii
velocemente, senza fare troppo rumore. I nostri abiti erano sparsi un
po’
ovunque, e ridacchiai nel ritrovare la mia maglietta sul letto intatto
del
Sergente. Stavo per infilare le scarpe quando mi sentii osservata.
Sollevai la
testa, incontrando gli occhi chiari di Edward che mi scrutavano
assonnati.
«Dove stai
andando?» Mi domandò sussurrando, la voce ancora
impastata dal sonno.
Mi avvicinai,
accarezzando con la mano la sua guancia, «è
l’alba», risposi con un sorriso.
Prima che
potessi allontanare la mano dal suo viso, Edward l’afferro e
attirandomi verso
il suo corpo mi fece cadere nuovamente sul letto.
«Non mi
sembrava di averti dato il permesso», disse mettendosi
seduto. Le sue braccia
mi avvolsero i fianchi e sollevandomi mi fece sedere sulle sue gambe.
Data la
scomoda posizione, allungai le mie intorno al suo bacino.
Sospirai
incrociando le braccia dietro il suo collo, «lo sai meglio di
me che devo
andare».
Sorrise
avvicinando le sue labbra alle mie, «stavi andando via senza
neppure avvisarmi».
Borbottò contrariato, accarezzando con la mano il mio viso.
«Non volevo
svegliarti», mi giustificai accorciando la breve distanza che
ci separava,
facendo congiungere le nostre labbra. Edward approfondì il
bacio, chiedendo
accesso alla mia bocca con la sua lingua. Portai le mani su i suoi
capelli
scompigliati, sfiorando la sua intimità con la mia. Edward
ringhiò e per
punizione mi morse il labbro inferiore.
«Ahi»
mi
lamentai accarezzando con la lingua il punto dolente.
Lui sorrise
compiaciuto, «così impari a provocarmi».
«Non ti
stavo
provocando», dissi tracciando con l’indice della
mano i tratti del suo viso.
Edward
inarcò
un sopracciglio, «davvero?»
«Se avessi
voluto provocarti, avrei fatto questo», dissi maliziosamente
facendolo sdraiare
sul letto. Rimasi seduta sul suo bacino, dondolandomi leggermente,
chinandomi poi per baciargli il patto.
«Non male
dottoressa», gemette assecondando i mie movimenti,
«ma non sei ancora ai miei
livelli». Aggiunse con un sorriso sghembo capace di mandarmi
in tilt il
cervello. In pochi secondi capovolse le posizioni, schiacciandomi con
il suo
corpo al materasso, con i gomiti si reggeva per non pesarmi troppo.
L’osservai
ammaliata, seguendo il percorso intrapreso dalle sue labbra lungo tutto
il mio
collo. Infilò una mano sotto la maglietta, accarezzandomi il
ventre piatto.
«Edward»,
gemetti stringendo i suoi capelli.
Rise e senza
darmi il tempo di controbattere mi sfilò la maglia, cercando
i gancetti del
reggiseno sulla schiena.
«Secondo me
sei troppo vestita», disse sfilandomi il reggiseno. Mi
accarezzò lentamente il
petto fino a raggiungere i miei seni. Mi morsi il labbro per non
lasciarmi
sfuggire un nuovo sospiro di piacere.
«Non abbiamo
tempo», farfugliai aiutando le sue mani a sfilarmi il jeans.
Edward
sollevò la testa, guardandomi con desiderio, «ieri
sera è stato tutto così
affrettato che non mi sono reso conto di non aver usato la
protezione».
Mi allungai
per baciarlo e lui mi lasciò fare, godendosi il calore del
mio corpo nudo sotto
il suo.
«Prendo la
pillola», gli risposi prendendo fiato.
Sembrò
sollevato e senza aggiungere altre parole, entrò nuovamente
in me, per la
seconda volta. E per la seconda volta mi sentii persa. Le sue spinte
erano
lunghe e lente, mi avvolgevano completamente, inondandomi di illustre
piacere. Con
le mani accarezzava
tutto il mio corpo, stringendomi. Le sue spinte si fecero sempre
più veloci,
sempre più profonde. Pensai di stare impazzendo, mi
manteneva in bilico senza
permettermi di scoppiare.
«Per
favore»,
gemetti mordendogli la spalla.
Sentii Edward
ridacchiare, «per favore cosa?» si stava prendendo
gioco di me, la sua voce
divertita rimbombò nella mia testa.
Spinsi il
bacio contro il suo, e lo sentii ringhiare, imprecando sotto voce. Lo
feci
un'altra volta e continuai a farlo fin quando al limite mi
portò al culmine del
piacere, seguita immediatamente da lui.
Sconvolta
rimasi senza fiato, il corpo che ancora tremava.
Edward mi
baciò a lungo, riempiendomi il viso, il collo e i seni di
baci.
«Adesso puoi
andare», disse con un sorriso soddisfatto.
Gli diedi un
pugno sulla spalla, «idiota». Borbottai alzandomi.
Abbracciandomi
mi strinse nuovamente avvolgendomi questa volta completamente,
«deve rimanere
un segreto».
«Lo
so»,
dissi rassicurandolo, baciandolo dolcemente. Poi entrambi iniziammo a
vestirci
sotto lo sguardo divertito dell’altro.
«Dimmi una
cosa, finirà?» Gli chiesi sedendomi sul letto una
volta vestita. Lui stava
ancora abbottonando la camicia, quando mi rispose.
«Io non
voglio che finisca, e tu?» Domandò leggermente
imbarazzato. Mi chiesi che fine
avesse fatto il tenente Cullen e chi fosse quell’uomo che mi
fissava
spaventato.
Scossi la
testa, «neppure io». Ammisi e lui sorrise.
Sarebbe stato
sempre così tra di noi, mi avrebbe mostrato il suo vero
sorriso solo quando
saremmo rimasti soli. Mi avrebbe potut0 amare completamente solo dentro
quella
stanza?
Quando uscii
dal suo dormitorio, stando attenta a non farmi vedere da nessuno,
raggiunsi
direttamente la mensa, ritrovandola quasi piena.
Angela dietro
il bancone stava servendo il caffè ai soldati di turno,
ridendo e scherzando
con loro. La raggiunsi, facendomi riempire una tazza.
«Ti trovo
particolarmente bella questa mattina». Sorrise Angela,
versandomi il caffè.
Feci
spallucce prendendo una brioche, «ho dormito bene».
«Si
vede»,
concordò, «sembri felice, è forse
successo qualcosa?» mi domandò con aria
indagatrice.
Scossi la
testa, bevendo un sorso di caffè, «sai dopo tutto
quello che è successo con
Jacob, questa notte mi è sembrato di riprendere a respirare,
se capisci quello
che voglio dire».
«Sicura di
aver solo respirato?» mi chiese con un sorrisetto malizioso,
intimorita da quel
suo tono di voce mi ritrovai ad annuire cercando di capire.
Ridacchiò,
«carina quella macchia rossa sul collo».
Provai a
nascondere la prova incriminante con i capelli, sotto il suo sguardo
divertito,
sperai con tutto il cuore che non mi chiedesse nulla e per mia fortuna
fu
quello che fece. Mi sorrise semplicemente dicendomi che
l’amore mi stava bene.
«L’amore
fa
bene a tutti».
«Si, ma a te
dona particolarmente».
Mi voltai
cercando un tavolino libero per poter fare colazione in
tranquillità. I ragazzi
quella mattina erano piuttosto silenziosi, meno ansiosi rispetto ai
giorni
precedenti.
Non avevo
chiesto ancora informazioni su Baghdad, temendo in
una risposta negativa.
Con Peter avevo legato particolarmente, dal giorno in cui aveva portato
in
ospedale la piccola Nadira. Era cambiate così tante cose nel
frattempo. Il
tempo pareva essersi cristallizzato, non esisteva più alcun
orologio capace di
gestire le ore che scorrevano all’interno della base. Tutto
intorno a noi
sembrava eterno, e i giorni che trascorrevamo in compagnia della paura,
sembravano non avere fine. Non esisteva più alcun tempo
esteriore, la teoria di
Bergson in quelle
terra non aveva alcun significato. Un giorno composto di sole
ventiquattro ore
poteva durare il doppio, così come tutto poteva durare un
solo secondo.
Un tocco
leggero sulla spalla, mi fece sobbalzare, distraendomi dai miei
pensieri.
«Buongiorno,»
mi sorrise Alice, sedendosi, «a cosa stavi pensando
così intensamente?» mi
domandò dando un morso al suo cornetto riscaldato.
«Al
tempo».
«Al
tempo?»
Annuii
giocherellando con la tazza ormai vuota, «hai presente la
teoria di Bergson?»
«La
distinzione tra il tempo interiore e quello esteriore?»
Chiese confusa,
passandosi una mano tra i corti capelli.
«Esattamente,
pensavo semplicemente che in queste terre questa teoria non vale poi
molto,
giusto?»
«Concordo,
pensa, sono incinta da soli due mesi e già mi sento come se
dovessi partorire
da un giorno all’altro». Rispose facendomi ridere.
Aveva questo
modo di fare Alice che, riusciva sempre a farti stare bene, in un modo
o
nell’altro.
«Ti sentirai
molto meglio quando tornerai a casa», le dissi per
tranquillizzarla, ma
qualcosa nelle mie parole sembrarono ferirla, perché il suo
bel sorriso si
spense. «Alice, è tutto okay?»
«Vorrei
rimanere qui, è possibile?» mi chiese ignorando la
mia domanda. I suoi grandi
occhi chiari erano fissi nei miei, un velo trasparente le copriva la
naturale
luminosità.
Scossi la
testa, «tesoro lo sai che non si può»,
cercai di spiegarle i motivi di quella
difficile decisione, ma lei sembrava non volermi ascoltare.
«Guarda che
se rimani qui, diventa tutto più complicato, e io non sto
parlando solo della
guerra. Sai cosa significherebbe per Jasper veder nascere il proprio
bambino in
questa terra desolata?» Allungai la mano per stringere forte
la sua, «lo so che
sei terrorizzata. Lo so che non vorresti lasciarlo solo, che lo ami
come non
credevi possibile e che lasciarlo significherebbe lasciare anche un
pezzo di te
qui con lui. Ma tu devi essere forte, per entrambi. Devi essere
coraggiosa per
la splendida creatura che porti in grembo», sospirai,
sperando che le mie
parole potessero calmarla in qualche modo.
«E se lui
non
dovesse tornare, se lui suo figlio non potesse vederlo mai
più?» la sua voce
era un sussurro lontano, qualcuno si voltò incuriosito nella
nostra direzione.
La costrinsi
ad alzarsi e a seguirmi fuori dalla mensa. All’esterno le
temperature erano
notevolmente cresciute, il sole era già alto in cielo e i
suoi raggi caldi
bruciavano sulla pelle.
Ritornammo
nel nostro dormitorio, dove trovai entrambi i nostri letti disfatti.
Alice mi
spiegò che Jasper non aveva voluto dormire con lei,
perché temeva di darle
fastidio dato le dimensioni dei materassi. Voleva che il suo bambino
riposasse
bene. Sorrisi stringendola in un abbraccio.
«E secondo
te, un uomo così, non farebbe di tutto per tornare a
casa?» Le domandai in un
sussurro.
Alice mi
fissava disorientata, poi finalmente riuscii a convincerla, e
aiutandola con il
borsone, iniziammo a rimettere dentro tutti i suoi vestiti.
«Tu mi
prometti che starai attenta?»
Annuii,
«certamente».
«Va bene, mi
hai convinta. Però c’è una cosa che
devi assolutamente dirmi», disse e questa
volta sulle sue labbra nacque un pericolosissimo sorrisetto malizioso.
Ridacchiai
sedendomi sul letto, «sai che non ti dirò neppure
una parola, vero?»
Mise il
broncio, cercando con i suoi occhi di intenerirmi, ma io ero
irremovibile.
«Okay non
chiederò nulla, però qual cosina me la devi
dire», mi fissò con aria
indagatrice avvicinandosi,
«quante
volte?»
Sbuffai
sollevando gli occhi verso il soffitto bianco,
«due».
«Ce ne
saranno altre?» Mi chiese inarcando un sopracciglio.
«Spero
proprio di si».
Quel giorni
rimasi in ospedale più del previsto, cercando di terminare
alcune pratiche che
avrei dovuto consegnare a Edward il giorno dopo. Il brutto
dell’ospedale da
campo stava proprio nelle scartoffie. Mentre negli ospedali in America
dei
documenti se ne occupava l’amministrazione, qui ero costretta
a fare anche il
loro lavoro. Le cartelle erano rimaste incomplete a causa di Jacob. Mi
ero
perse più di un giorni di lavoro e ora dovevo recuperare.
Kristen e Jessica
erano tornate nei loro dormitori, con me era rimasta solo Alice, che
contro la
mia volontà mi aveva chiesto di poter lasciare il lavoro
solo qualche ora prima
di partire.
Il suo aereo
sarebbe partito tra soli due giorni e lei non voleva assolutamente
rimanere con
le mani in mano durante quelle quarantotto ore.
Non avevo
ancora visto Edward, non sapevo come si sarebbe comportato in pubblico,
probabilmente mi avrebbe ignorato come al solito, per non destare
sospetti.
Alice passò
dal mio ufficio trascinandosi dietro un carrello pieno di lenzuola
sporche, mi sollevai
dalla sedia con l’intento di aiutarla, ma un enorme boato
bloccò entrambe.
Raggiunsi
Alice lungo il corridoio, cercando di capire l’origine di
quel rumore.
«Che
cos’è
stato?» Mi domandò voltandosi dall’altra
parte del corridoio.
Scossi la
testa, «sembrava provenire dall’esterno».
«Un attacco
alla base?» la sua voce si spezzò mentre
pronunciava quelle parole.
«Non
credo».
Lasciammo il
carrello dentro il mio ufficio e chiudendo la porta a chiave, uscimmo
dall’ospedale da campo, cercando di capire cosa fosse
successo.
Nell’aria
fresca della sera, vicino all’ingresso della base vi era un
carro armato, due
uomini stavano parlando con Edward, Jasper era dietro di loro.
Ordinai a
Alice di rientrare dentro l’ospedale, per non lasciare i
pazienti da soli, promettendole
che l’avrei raggiunta immediatamente.
I soldati si
radunarono intorno al carro armato, alcuni spaventati, altri
incuriositi.
Garrett mi raggiunse con due grandi falcate mentre raggiungevo il
Tenente.
«Che cosa
è
successo?» Chiesi spaventata.
Garrett
aumentò il passo, «si tratta di Baghdad».
«Di cosa
stai
parlando?»
Il soldato si
fermò in mezzo al campo, si guardò intorno
preoccupato, poi avvicinandosi al
mio viso abbassò la voce, «lei non sa nulla
dottoressa, okay?»
Annuii, non
riuscendo a muovere neppure un muscolo. La sensazione che qualcosa di
brutto
fosse accaduto aveva avvolto il mio corpo in una bolla.
«Oggi alcune
truppe inglesi hanno occupato Bassora, contemporaneamente a Baghdad un
carro armato ha colpito
l’hotel
Palestine, dove alloggiavano alcuni giornalisti», mi
spiegò cercando di non
farsi vedere dagli altri soldati.
Lo bloccai
per un braccio prima che potesse allontanarsi, «cosa
c’entra tutto questo con
la nostra base?» La mia voce uscì più
isterica di quanto volessi.
Garrett
sbuffò,
liberandosi gentilmente dalla mia misera stretta, «significa
che la situazione
in città sta peggiorando, gli inglesi hanno bisogno di un
aiuto americano più
massiccio. Si deve fermare la rivolta prima che la situazione
peggiori».
Sapevo che
non mi avrebbe detto nient’altro, così decisi di
raggiungere direttamente
Edward, per chiedere informazioni più dettagliate, ma quando
mi ritrovai a
pochi metri da lui, i suoi occhi verdi riflettevano solo rabbia. Stava
parlando
con i suoi soldati e riuscii a capire solo qualche parola. Il carro
armato era
ripartito, innalzando un enorme nube di sabbia. Jasper
ordinò ai soldati di
prepararsi, nel giro di ventiquattrore avrebbero dovuto smantellare
tutto. Il
sangue mi si gelò nelle vene, e l’agitazione
iniziò a prendere il sopravvento.
Tenni lo
sguardo fisso sul volto di Edward, non si era ancora accorto di me. Le
sue mani
si torturavano i capelli, la sua voce però era ferma. Il suo
abituale
autocontrollo riuscì a calmare i ragazzi che, obbedirono ai
suoi ordini senza
controbattere. Quando rimase solo, sollevò la testa e fu in
quel momento che i
nostri occhi s’incontrarono. Lo raggiunsi cercando di
ignorare il tremolio
delle mie gambe.
Edward mi
afferrò poco gentilmente costringendomi a seguirlo, lontano
da occhi indiscreti.
«Che sta
succedendo?» Gli chiesi cercando di mantenere la sua stessa
velocità, «perché
dovete smantellare il campo? Intendi tutto l’accampamento,
anche l’ospedale?»
Mi trascinò
dietro un dormitorio, guardandosi intorno, poi, senza darmi il tempo di
controbattere, mi ritrovai le sue labbra umide sulle mie. Fu un bacio
violento,
i suoi denti torturarono le mie labbra, la sua bocca mi riempiva
completamente. Le sue mani
si strinsero intorno ai miei fianchi, stringendomi in un abbraccio
soffocante.
Mi permise di riprendere fiato solo per qualche secondi, prima di
ritornare
prepotentemente sulle mie labbra. Strinsi le mani intorno alle sue
spalle,
cercando un appiglio per non cadere. Le sue mani, invece, salirono sui
miei capelli,
trattenendomi la testa ben salda contro la sua. Fu uno di quei baci che
non
avrei mai pensato di provare, totalizzante, completo. Le sue labbra si
muovevano decise sulle mie. Lo capii solo dopo che si fu allontanano
che, quel
bacio, era stato la sua valvola di sfogo.
Entrambi
cercammo di riprendere fiato, i nostri sguardi si cercavano, intimoriti.
«Hanno
bisogno di me e dei miei ragazzi a Baghdad, questo accampamento
verrà
smantellato» mi spiegò ancora ansante,
accarezzandomi il viso, «tu e il resto
della tua equipe tornerete in America, insieme agli altri
volontari».
Mi
pietrificai, cercando di rielaborare le sue parole, strinsi
convulsamente le
mie mani sulle sue.
«Questo
significa che ti devo lasciare?»
Lui annuì,
voltando la testa per controllare che nessuno ci avesse visto.
«Partirete
domani all’ora di pranzo, la situazione in città
è più grave di quanto
pensassimo».
«Edward,
cosa
accadrà?» Gli domandai appoggiando il capo al suo
petto, ascoltando il battito
del suo cuore. Una nuova consapevolezza si era fatta strada in me. Ora
potevo
capire il sentimento che provava Alice nel dover lasciare il proprio
uomo nel
bel mezzo dell’inferno. Non sarei riuscita a sopportarlo. Non
ne sarei stata in grado.
«Non lo
so»,
disse stringendo la presa sul mio corpo, «non lo
so».
Non rimase a
lungo insieme a me, nel giro di qualche minuto mi aveva di nuovo
abbandonato, dovendo
occuparsi di tutta la trasferta, mi disse comunque, di raggiungerlo nel
suo dormitorio
quella sera. Prima di andarsene mi baciò nuovamente,
dolcemente, senza foga. I
suoi occhi potevano nascondere al mondo intero le sue paure, ma non ai
miei,
non dopo quello che avevamo condiviso. Non dopo aver capito di amarci.
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