Rakta

di Iryael
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** | Capitolo 01 | Lilly e Sik ***
Capitolo 2: *** | Capitolo 02 | Guaio da poco ***
Capitolo 3: *** | Capitolo 03 | Olio di gomito, Cole Shinagan! ***
Capitolo 4: *** | Capitolo 04 | Si profila un colpo complicato ***
Capitolo 5: *** | Capitolo 05 | Frammenti di passato ***
Capitolo 6: *** | Capitolo 06 | A briglia sciolta ***
Capitolo 7: *** | Capitolo 07 | Un tesoro conteso ***
Capitolo 8: *** | Capitolo 08 | Rendez-vous con la Regina ***
Capitolo 9: *** | Capitolo 09 | Due minuti ***
Capitolo 10: *** | Capitolo 10 | Pacco da Albio ***
Capitolo 11: *** | Capitolo 11 | Il fato, creatura curiosa ***
Capitolo 12: *** | Capitolo 12 | Scheletri dissepolti ***
Capitolo 13: *** | Finale | Conseguenze ***
Capitolo 14: *** | Epilogo | Sei mesi dopo ***



Capitolo 1
*** | Capitolo 01 | Lilly e Sik ***


[ 01 ]
Lilly e Sik
11 Aprile 5402-PF
Veldin, Kyzil Plateau
 
Posto di merda, gente di merda, vita di merda.
Lilith Hardeyns, lombax diciottenne, aveva le idee chiare in merito alla sua città. Camminava con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni scuri, senza guardarsi intorno, facendo risuonare gli stivali sul selciato. Ad ogni passo che muoveva le piastrine militari battevano sulla sua canotta bianca e la sacca sulle spalle ondeggiava lievemente, ancora umida.
Ripensò alla sua mattinata scolastica, in cui la professoressa di scienze le aveva dato un quattro per la gioia di farlo, e in cui i suoi coetanei avevano deciso di farle saltare i nervi lanciandole addosso un arsenale di palline di carta, oltre ad annegarle lo zaino nella fontana della scuola.
Idioti. Preghino che riesca sempre a controllarmi, o qualcuno ci lascia qualcosa prima o poi, si disse, stringendo il manico del navaja che portava sempre con sé. Sfiorare il coltello la fece sentire sicura e forte, e in uno slancio di infantilismo lo estrasse e immaginò di affondare la lama nel braccio di Cole Shinagan; per non dire nel suo collo o direttamente nel cuore.
Fosse stata in mezzo a una via appena più trafficata, quel gesto probabilmente avrebbe attirato qualche urlo impaurito, ma in quel vicolo ombroso si avventuravano solo i randagi e non correva alcun rischio.
Dopo averlo fatto rimanere in equilibrio per qualche secondo sulla punta del dito lo lanciò a mezz’aria, lo riafferrò al volo e lo richiuse. Stava per uscire dal vicolo: sarebbe stato imprudente mostrare un coltello sguainato a chicchessia, per di più nei bassifondi.
Non appena la luce del sole la illuminò, rivelò il suo vello biondo striato di nero, gli occhi di un bel verde brillante e una lunga treccia color sangria, che ondeggiava ogni volta che voltava la testa. Quella zona dei bassifondi era la sua seconda casa, eppure ogni volta che ci passava non riusciva a trattenersi dal guardarsi attorno alla ricerca di nuovi particolari, nuove modifiche.
Bar e negozi si affacciavano sulla strada e con le loro insegne invitavano la gente a spendere i propri bolt nei modi più svariati. Un chiaro esempio fu l’insegna al neon del bordello che oltrepassò cento metri dopo, esattamente a metà fra un bar e un cinema.
Passando davanti alla casa del piacere ricordò di quando, sei anni addietro, si era avventurata per la prima volta tra quei quartieri. Gli angoli della bocca si alzarono.
Era stato quella sera che aveva conosciuto Sikşaka. Aveva dodici anni e si era inguaiata con un ubriaco. Quello aveva cercato di violentarla, e lui gliel’aveva impedito. Non c’erano state scene da film, in cui l’eroe le suonava elargendo frasi cazzute. Sikşaka le aveva date e le aveva prese, prima di mettere KO l’ubriaco con una tecnica che aveva rapito la giovane.
 
Oltrepassò anche l’ingresso di quel vicolo e proseguì fino in fondo alla strada, saettando con lo sguardo in ogni direzione. Poi scese una ripida scalinata, che la condusse sotto il livello della strada, davanti a un portone stinto.
La palestra l’accolse con la sua aria fresca e l’odore di parquet tirato a lucido. Era un ambiente largo e molto lungo, illuminato da una serie di plafoniere alle pareti. Quella lunga, alla sua destra, era piena di ogni genere di armi bianche; e al suo centro una nicchia era stata lasciata libera per una scimitarra dal cui manico scendeva un drappo rosso. Quella scimitarra era l’unica arma che Lilith non aveva il permesso di usare: la spada prediletta dal suo maestro, Rakta.
Come al solito rimase incantata a osservarne il profilo, così lucido che ci si sarebbe specchiata anche dall’altro capo della palestra. Rimase in contemplazione per alcuni istanti, poi si costrinse a proseguire.
Un corridoio correva accanto alla sala da allenamento e conduceva agli spogliatoi, ad una piccola segreteria e ad una cucinetta che Sikşaka chiamava infermeria. Sicura che avrebbe trovato il suo maestro a sorseggiare del tè, Lilith si diresse alla cucinetta e vide con aria soddisfatta che aveva ragione.
«Ciao Sik.» borbottò. Lanciò la sacca sulla poltrona all’angolo della stanza e buttò un occhio sul programma olovisivo che l’altro stava guardando.
«Oi, ciao Lilith!» salutò allegramente lui, come faceva sempre. Ormai non si stupiva nemmeno più di vederla arrivare direttamente da scuola, anzi: poteva benissimo ammettere che lui attendeva il suo arrivo con una certa impazienza. La giovane lombax indicò l’oloschermo con un cenno di testa.
«Hai scommesso di nuovo sul turno della DreadZone?» chiese, scettica.
«Eh già. Quei due del Team Darkstar stanno affrontando Ace Hardlight. È una bella sfida.» rispose pacatamente Sikşaka, portando la tazza alle labbra. Poi le indicò il frigorifero. «Ti ho lasciato qualcosa da mangiare, se hai fame.»
«Hn, grazie.»
Aggirò il tavolo in modo da non passare davanti all’olovisore e raggiunse il frigo, che aprì con un gesto secco. Individuò e prese subito la ciotola con l’insalata di riso, che per precauzione era stata chiusa con della pellicola trasparente; poi rovistò tra gli scaffali e guadagnò un cucchiaio, quindi si sedette e cominciò a mangiare guardando lo spettacolo con il suo maestro.
Anche Sikşaka era un lombax, ma aveva più del doppio dei suoi anni. Inoltre, a differenza di lei, il suo vello era color daino con le striature marrone scuro. Gli occhi erano di un caldo color mogano e, sebbene non ancora difettati dall’età, erano sottolineati da due rughe profonde.
Per Lilith quegli occhi erano una truffa, perché la loro espressione standard era tranquilla e paciosa. Invece, quando saliva in pedana, Sikşaka non ne aveva per nessuno. Si trasformava: la sua espressione diventava tagliente e le sue movenze veloci e potenzialmente letali. Non c’era allenamento in cui Lilith non si trovasse a terra con la lama alla gola, e sebbene fossero passati sei anni da quando aveva cominciato a seguire i suoi addestramenti, non pensava nemmeno di potersi paragonare a Sikşaka. Sarebbe stato semplicemente come paragonare un ciottolo a un pianeta.
«Ah, andiamo ragazzi, ho puntato cinquanta bolt su di voi!» incitò il maestro, vedendo come i due concorrenti evitarono fortunosamente una scarica di proiettili. «Non potete morire proprio ora!»
«Per me non ci arrivano in fondo.» commentò Lilith, prima di mettersi in bocca una cucchiaiata del pranzo.
«Oh, non dire così. Se facessero fuori quel pallone gonfiato io ci ricaverei cinquemila bolt. E credimi, non ci sputerei davvero sopra...»
«Nemmeno io, intendiamoci. Però guardali: non sanno per che verso prenderlo.»
La ragazza e indicò lo schermo, dove i due rivendicatori stavano cercando di spingere il campione in un angolo dell’arena.
«Il vero problema è che il tutù arancione di Ace riesce a convertire i danni ricevuti in energia extra per i nanobot. È la più grossa ladrata che si possa commettere, secondo me.»
«Ma anche gli altri due hanno i nanobot, no?»
«Sì, ma è come mettere una spada a due mani con un coltellino multiuso. Non c’è paragone.»
«E tu hai puntato sul coltellino? Quasi incredibile...»
«Era dato bene: se avessi puntato su Ace per poco non ci avrei rimesso, tant’era bassa la sua quota.» spiegò Sikşaka. «E a te com’è andata la mattinata?»
«Di merda come al solito.» rispose la ragazza, imboccandosi di nuovo e guardando l’olovisione.
«Cole ti ha di nuovo dato fastidio?» chiese ancora il maestro, chinandosi a cercare lo sguardo dell’allieva.
«Cole ha dato il via, il resto lo ha fatto la sua cricca. Hanno cominciato sghignazzando del quattro e poi– »
«Quattro? E di cosa stavolta?» volle sapere lui.
«Scienze. La prof dev’essere entrata in menopausa stamani, visto che ha dato quattro a tutti.» spiegò Lilith, stringendosi nelle spalle.
«Hmm...» mugolò Sikşaka con disapprovazione. «Quando conti di recuperarlo?»
«Appena avrà finito di dare quattro al resto della classe, è ovvio.» rispose lei, finendo velocemente il suo pasto. «Grazie del pranzo. Ne avevo bisogno, visto che il mio è andato.»
«Cos’è successo dopo il quattro?»
«È successo che a ricreazione la mia sacca si è inspiegabilmente lanciata dalla finestra per un tuffo nella fontana in cortile.»
«E ovviamente non è stato nessuno, eh?»
«Te l’ho detto, ha fatto tutto da sola.» rispose ironicamente Lilith. «Mi sa che si anima quando non guardo, dovrò stare attenta o potrebbe tentare di strangolarmi con le cinghie...»
«Quindi oltre al pranzo avrai trovato anche tutto il resto rovinato, suppongo.»
«Eh già.» rispose lei. «Senti, non è che mi daresti una mano con matematica? Non ci ho capito una fava.»
«E tuo padre non lo hai avvisato?» domandò Sikşaka, aggirando la domanda della ragazza. Lilith, che stava per andare a riporre la ciotola vuota nel lavandino, trattenne una moto di stizza.
«Non lo sento da più di un mese, quello.» replicò duramente. «Credo che sia nella Via Lattea, da qualche parte verso il centro. E poi, se non si preoccupa lui di ricordarsi che qui ha una figlia, cosa glielo ricordo a fare? Di certo il tempo perso non lo recupera più.»
Il maestro la guardò con una certa amarezza. Lilith viveva con il padre, che faceva il trasportatore e non era mai a casa. In pratica era cresciuta da sola, sfruttando i soldi che suo padre le allungava di tanto in tanto: non c’era da stupirsi che si mostrasse estremamente pratica e poco disposta a parlare del suo genitore.
«Allora, mi aiuti con matematica?» chiese nuovamente lei, tornando rapidamente al discorso precedente. «L’ultima volta gli esercizi andavano bene, anche se la prof ha contestato la tua definizione.»
«Farò del mio meglio.» rispose Sikşaka, riprendendo al volo la sua aria serena. «Sempre analisi di funzioni?»
«Eh già.»
«Te le faremo entrare in testa, vedrai.» asserì con un sorriso. «Il testo si è salvato?»
«L’ho messo ad asciugare quando ho recuperato la sacca. Credo che sia ancora un po’ umido, ma dovrebbe essere leggibile.»
«E...» lo sguardo del maestro fu attirato dall’olovisore, dove Ratchet e la sua compagna sembravano aver finalmente intrappolato Ace Hardlight sul bordo dell’arena. «E dimmi, come hai risposto a Cole?»
«Oh, è stata una zuffa verbale. Quel coglione non ha nemmeno l’inventiva per andare oltre alle sue solite frecciate.» rispose con noncuranza, alzandosi per andare a recuperare la sacca. «La prossima volta potrei tagliargli la coda, così magari mi lascerà in pace una volta per tutte.»
Quella frase attirò uno sguardo di rimprovero da parte di Sikşaka.
«Lilith, l’arte delle lame è da utilizzare a solo scopo difensivo e lo sai.» la ammonì. «Piuttosto, perché non lo denunci?»
«Perché non posso pagarmi l’avvocato.» rispose lei, semplice e schietta. «C’è quello d’ufficio, sì, ma con la voglia di lavorare che hanno quei colletti bianchi come minimo alla fine mi tocca pagare una multa per calunnia alla famiglia del povero Cole. E poi sta’ tranquillo, non l’ho ancora accoltellato.»
«Ci mancherebbe altro!»
«Hn, lo so che finiresti nei guai anche te, che sei il garante del mio porto d’armi.» rispose la ragazza, appoggiando la sacca sul tavolo per tirarne fuori il contenuto. «Principalmente è questo che può ringraziare quel mangiamerda se ha ancora tutti gli arti al loro posto; e comunque non voglio dargli il pretesto per atteggiarsi a vittima.»
Sikşaka annuì.
«Capisco e condivido. È la cosa migliore da fare.»
«Cosa, chinare la testa e subire?» domandò ironicamente Lilith.
«Non dargli il pretesto, scemotta!» la rimbeccò bonariamente il maestro, afferrando il libro di matematica e constatando che era effettivamente ancora umido. «Questo deve prima asciugare, o gli strapperemo le pagine solo per guardarle.» disse.
«Sai che perdita...»
«Lilly! Vuoi una mano o vuoi un altro quattro?»
«Per carità! Di quelli se ne fa sempre a meno!» rispose lei, alzando le mani in segno di resa. «Vado a prendere il ventilatore.»
 
Quando tornò nella cucinetta con l’attrezzo, Sikşaka era in piedi con gli occhi sgranati davanti all’olovisore.
«...ed è incredibile signori quanta energia riesca a sviluppare quella ragazzina! Juanita, che ne pensi?»
«Penso che sia frutto di qualche modifica illegale alle proprie abilità, Dallas. Che finalmente qualcuno sia arrivato a capire come estendere i poteri di un esper? Sarebbe bello saperlo!»
«Giusto, Juanita, ma adesso guarda! Con uno spirito eroico a dir poco stupefacente, Ace Hardlight non si è sottratto alla scarica di fulmini e adesso ne sta approfittando per contrattaccare! Signori, che sfida elettrizzante...»
Il lombax sospirò e tornò a sedersi.
«Stragalassia, ho rischiato di vincere cinquemila bolt!» sospirò, mentre Lilith collegava il ventilatore alla presa elettrica. Poi l’accese e vi mise davanti tutto il contenuto della sacca, cercando di far arieggiare i libri e i quaderni umidi. Dietro di lei, le voci dei commentatori DreadZone andavano avanti con la loro attività denigratoria verso il Team Darkstar e Sikşaka di tanto in tanto rispondeva alle loro insinuazioni palesemente false.
«Sik, hai mai pensato di andare a vederli dal vivo?» domandò la ragazza dopo l’ennesimo commento del maestro.
«Ah ah! Sarebbe un sogno!» ridacchiò lui.
«Potresti farti assumere come commentatore, così non dovresti nemmeno pagare l’ingresso.»
Poi lo schermo si fece silenzioso. Anche Sikşaka trattenne il respiro e Lilith, preoccupata, si voltò per vedere cosa fosse successo.
«...Non è possibile...» biascicò Dallas, mentre la telecamera zumava progressivamente sull’arena e mostrava via via sempre meglio il corpo prono di Ace Hardlight. La sua armatura era spenta, la tuta bruciata in alcuni punti e in volto aveva un’espressione stupita, come se non si aspettasse un finale del genere. «...Chiamate una barella, chiamate i soccorsi, qualcuno faccia qualcosa insomma!»
I due componenti del Team Darkstar vi si avvicinarono con cautela e Ratchet calò il casco, le armi già riposte nell’armatura. La ragazzina lasciò che l’energia elettrica sfrigolasse ancora attorno alle sue mani, e smaterializzò il casco solo dopo qualche secondo. La telecamera passò loro davanti e inquadrò tutto: lo sguardo carico di pietà del lombax, quello d’odio dell’umana e lo stato pietoso del campione, che mormorò poche frasi indistinguibili prima di spirare. Solo allora le scintille smisero di crepitare attorno alle mani della ragazzina, e Ratchet gli chiuse gli occhi.
«È...è terribile...» farfugliò la robot commentatrice, sgomenta. «Ace...il nostro Ace...è morto...»
«E il nostro Sik ha vinto cinquemila bolt.» commentò Lilith, senza pietà. L’altro era a bocca spalancata.
«Ho...davvero, ho vinto...ho vinto!!!» gridò, felice. Saltò in piedi e andò a chiudere Lilith in un abbraccio stritolante. «Haa!!! Ho vinto, ho vinto!!!» esclamò, al settimo cielo. «Ma ci credi? Potrò finalmente rimettere a nuovo la palestra!»
«Ehm...Sik...»
«Molla lì i libri ragazza: oggi non si fa niente e ci godiamo la vincita!» esclamò.
«Ma l’allenamento...l’arte delle lame dice che...» protestò la giovane, sconcertata.
«Ah ah! Lo so cosa dice l’arte, ma non capita tutti i giorni di vincere una somma così!» replicò lui, incrollabile. «Quindi oggi mi rifiuto di aprire la palestra! Se vuoi farti un giro con me sei più che ben accetta, sennò sei libera di fare come vuoi!»
«Almeno dopo dammi una mano con matematica!» protestò Lilith, indicando i libri davanti al ventilatore. «O domani il prof mi mette alla gogna!»
«Ah ah! Va bene, li faremo stasera! Ora andiamo a ritirare il premio!»
* * * * * *
Alla fine l’allegria di Sikşaka contagiò anche Lilith, che smise la sua espressione corrucciata. Dopo aver accreditato la vincita sulla carta del maestro, i due si diressero nel quartiere commerciale. Non trovarono nulla di particolarmente interessante, ma si divertirono lo stesso a girare e commentare tutti gli oggetti che capitarono loro a tiro. Quando venne loro fame andarono a sedersi in un bar sul belvedere e passarono un po’ di tempo parlando dei progressi di Lilith e ricordando la sera in cui si erano incontrati. A quel punto la ragazza sembrò rabbuiarsi, e Sikşaka se ne accorse subito.
«Qualcosa non va?» chiese.
«Cole.» disse semplicemente, spingendo indietro la sedia per alzarsi. Il maestro si voltò e individuò il giovane lombax bruno che aveva placcato al suolo un suo simile e gli intimava di dargli qualcosa. Lilith fece per correre in direzione del suo nemico numero uno, ma Sikşaka la trattenne.
«Lasciami, lo pesterà a sangue!» esclamò lei, indignata. Ma il maestro diniegò con la testa.
«Ricordi? Non dargli pretesti.» le disse. «Fai andare me, e goditi la scena. Avrai un buon argomento con cui prenderlo in giro domani.»
Pur contrariata, la ragazza non si oppose. Scocciata, si risedette e mise i piedi sul tavolo.
«Prego.» disse fra i denti. Sikşaka le rivolse un sorriso gentile.
«Grazie.» E si diresse con tutta calma verso Cole e i suoi due scagnozzi. Il lombax a terra intanto piagnucolava di lasciarlo stare, che lui non aveva vinto niente e non aveva niente da dare loro. A Lilith parve di riconoscere il quindicenne Evenezer “Lucky” Joule. Era uno che ci sapeva fare con le scommesse e i giochi d’azzardo, ed era molto accreditato presso i ragazzi di Kyzil Plateau. Lei ci si era rivolta una volta, aveva giocato dieci bolt e ne aveva vinti cento, salvandosi dalla società elettrica che minacciava di staccarle la corrente se non avesse pagato la bolletta. Peccato che il giovane non fosse un cuor di leone.
Sikşaka raggiunse la cerchia di Cole e vi si intromise.
«Qualcosa non va, ragazzi?» domandò con tutta la sua calma.
«Che cazzo vuoi, vecchio? Torna a bere il tè!» replicò con strafottenza quello dal pelo bianco sporco, che Lilith sapeva chiamarsi Evrard.
Cole cercò di fare girare Lucky di peso, ma il maestro frappose un piede fra i due, tenendo la spalla del quindicenne saldamente inchiodata a terra.
«Non lo farei.» disse. Immediatamente i due scagnozzi gli si pararono davanti e lo spintonarono all’indietro.
«Che cazzo vuoi?!» replicò lo stesso di prima.
«Impedirvi di compiere un’azione sconsiderata.» rispose con calma. «Quel ragazzo continua a dire di non avere niente da darvi, probabilmente non ha nulla davvero.»
«E tu che ne sai?» sbottò il secondo, noto come Naukara. Aveva il pelo grigio topo, su cui la cresta verde fluo spiccava come un faro nella notte. Anche lui come Evrard indossava un paio di occhiali scuri, un dettaglio che secondo loro enfatizzava la loro aura minacciosa. A sentire Lilith, invece, rendeva chiaro che erano due coglioni in coppia.
«Questo stronzo ci ha fregato duecento bolt!»
«Non è vero, siete voi che me li volete rubare!» piagnucolò Lucky.
«Zitto!» lo ammonì Cole, tirandolo dolorosamente per le orecchie. Sikşaka mosse di nuovo un passo avanti e affrontò i due che facevano da scudo.
«È evidente che il ragazzo non ha rubato niente. Lasciatelo in pace.» ordinò.
«Sennò?»
«Sennò vi forzo a farlo.»
I due se la risero di gusto.
«Ci forzi? Vecchio, se non te ne vai ora ti facciamo diventare uno zerbino!» esclamò divertito Evrard, scostando appena la giacca per lasciar intravedere il manico del coltello a farfalla che aveva infilato nella cintura. Rapido come un furetto, Sikşaka lo colpì al petto con il piatto della mano, e il giovane barcollò pericolosamente all’indietro. Subito dopo colpì di taglio il fianco di Naukara, che si piegò e gli offrì il petto scoperto: il maestro non si fece scappare l’occasione e lo allontanò con lo stesso colpo usato sull’altro. Quindi si avvicinò a Cole e Lucky, che nel frattempo si erano rotolati in terra cominciando una sorta di zuffa dove, più che altro, il più giovane cercava di riuscire a scappare. Cole lo aveva bloccato a terra, e Lilith vide Evrard e Naukara riprendersi e sfoderare i coltelli.
Eh no! pensò scattando in piedi, la mano già corrente al navaja nella tasca posteriore. Pochi passi veloci e si frappose fra i due e il maestro, con le orecchie basse e il coltello sguainato nella guardia detta “filippina”.
«Giù le lame, voi!» sbottò rabbiosamente. La mano armata, più bassa di quella che avrebbe dovuto servire come scudo, era pronta a scattare in un affondo, le gambe leggermente flesse pronte a reggere il suo peso negli spostamenti veloci e continui.
«Oooh!» esclamò con meraviglia strafottente Naukara. «Guarda chi si fa sotto...»
«La nostra Lilly vuole farsi del male...» gli fece eco Evrard, compiendo un rapido gioco di destrezza con il balisong per impressionare la ragazza.
«Mettilo via, che non lo sai usare.» commentò lei con sprezzo, flettendo appena le braccia.
Vedendo che Lilith non dava alcun segno di essere intimorita, ma anzi si atteggiava a padrona della situazione, il lombax dal vello chiaro partì all’attacco con un fendente diretto al braccio armato. Era un attacco semplice e basilare, che la ragazza schivò usando il braccio non armato per allontanare la lama. Preso dallo slancio, per Lilith non fu troppo difficile mandare Evrard a rotolare nella polvere, sebbene avesse una stazza ben maggiore rispetto a lei. A quel punto si rivolse a Naukara, e ancora prima che l’altro realizzasse cos’avesse fatto, la ragazza lo aveva costretto a rovesciare all’indietro il braccio fino a far sfiorare la lama del balisong contro il suo stesso collo.
«Lascia il coltello.» ordinò. Dietro di lui, aveva intrecciato un suo piede con quelli dell’avversario, cosicché se non avesse eseguito avrebbe potuto sempre costringerlo a cadere in avanti e causargli una lussazione o una rottura della spalla. Fiutando che la soluzione migliore sarebbe stata lasciar andare l’arma, Naukara aprì lentamente la mano fino a far scivolare il balisong a terra.
Con la coda dell’occhio Lilith vide che Evrard si stava rialzando, e si fece rapida a dare un calcio al coltello a terra per allontanarlo. Il lombax dal pelo bianco sporco non riuscì a fare più di due passi che Cole gli volò addosso, scaraventato da Sikşaka che, poco più in là, era visibilmente insoddisfatto.
«...Senza tecnica e senza cervello. Diamine, Lilith a dodici anni era più forte...quasi mi vergogno per lui.» brontolò a mezza voce, provocatorio. Cole schiumò di rabbia, e vederlo in quella condizione strappò un sorriso a Lilith. Una distrazione di troppo, che Naukara sfruttò per divincolarsi dalla presa della ragazza e ribaltare le posizioni, stando attento a evitare che la lama del navaja lo puntasse. Non riuscì a imitare la mossa che la giovane aveva usato contro di lui poco prima perché non la conosceva, ma riuscì a compensare la sua ignoranza con la stazza fisica. La bloccò stringendola a sé, facendo convergere la lama affilata del navaja sul petto della ragazza, ma prima che potesse fare qualcosa di più incisivo di una battuta spudorata, Lilith pestò il piede destro a terra con forza e menò un calcio all’indietro, conficcando la corta lama a scomparsa dello stivale nella tibia dell’avversario. Per una reazione istintiva Naukara la lasciò andare e si lasciò cadere a terra gridando dal dolore, mentre i preziosissimi pantaloni laceri andavano tingendosi di rosso.
«Ridi adesso, stronzo...» mormorò Lilith, allontanandosi da lui. Poco più in là Cole stava sostenendo Evrard, che dopo tre voli a terra sembrava sulla via di vomitare anche l’anima; mentre di Lucky non c’era più traccia.
Deve aver approfittato del casino per svignarsela, pensò prima di chiudere il coltello. Questo posso metterlo via, tra loro e me c’è Sik.
«Sta’ buono.» ordinò al lombax strillante, chinandosi su di lui. Tra un urlo e un’imprecazione gli sfilò la cintura per stringerla attorno alla coscia, improvvisandola in un laccio emostatico. «Là, pronto per l’ospedale.» commentò alla fine, giusto in tempo perché un’autopattuglia della polizia facesse la sua comparsa nel piazzale. Quando la vettura fu completamente ferma, Lucky uscì dal vicolo in cui si era rifugiato dopo che Sikşaka gli aveva tolto Cole di dosso. Teneva il chatter ancora in mano ed esibiva un piccolo sorriso di rivalsa, indice che ad avvisare la polizia era stato lui. Evrard lo vide e gli lanciò uno sguardo tagliente, mentre la portiera della pattuglia si apriva.
Sikşaka guardò perplesso l’ufficiale rubicondo che scese dalla vettura, Lilith rimase impassibile, inginocchiata a fianco di uno strillante Naukara e Cole si limitò a commentare con un secco «Oh, cazzo.»
 
Quella giornata si sarebbe conclusa in maniera imprevista, constatò il maestro mentre il poliziotto sgranava gli occhi per poi chiamare un’ambulanza via radio.

Ciao a tutti!
Questa volta parto dicendo che i personaggi canonici, se ci saranno, saranno solo di sfondo; quindi non c’è da aspettarsi l’intervento di Ratchet, Clank, Sasha o chi altri del cast dell’Insomniac. Un esempio c’è già stato in questo capitolo, dove Ratchet compare solo per far guadagnare una discreta somma al maestro di spada.
 
L’ambientazione è a Kyzil Plateau, che per noi italiani è l’Altopiano Kyzil. Non mi piaceva la dicitura Altopiano perché non rendeva l’idea della cittadina, così ho mantenuto la versione inglese. Già nel primo videogioco appare come uno scenario povero, un po’ decadente, ed è semplice immaginare che gente circoli nei bar, o per i bassifondi. Ma ha i suoi punti gradevoli anche questa cittadina, così come ha i suoi abitanti onesti. È molto in chiaroscuro, ecco.
 
Detto questo, spero di non aver stordito nessuno con la girandola di luoghi, colori e personaggi comparsa in questo capitolo; ma era necessaria per immergersi nella vita di Lilith.
DarkshielD, spero vivamente di aver reso bene il caratterino del tuo personaggio!
 
Alla prossima!

 

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Capitolo 2
*** | Capitolo 02 | Guaio da poco ***


[ 02 ]
Guaio da poco
Sempre 11 Aprile 5402-PF, ore 18:45
Kyzil Plateau, settore est
 
La vettura li scaricò nel piazzale della centrale di polizia, e solo in quel momento Lilith riacquisì un po’ di vigore.
Il viaggio non era stato particolarmente lungo, ma all’interno della vettura si era sentita stanca di colpo, come se l’aria non bastasse mai. Sikşaka, seduto di fianco a lei, aveva notato quell’affaticamento improvviso ma non aveva potuto fare niente, non avendo idea di cosa stesse succedendo. Cole, Evrard e Lucky erano stati trasportati alla centrale con un’altra volante, che veniva subito dietro la loro.
Il giovane scommettitore incrociò lo sguardo della ragazza e, prima di essere accompagnato all’ingresso per i civili, le mostrò un timido sorriso rassicurante, uno stai tranquilla che Lilith nel suo stordimento recepì solo come un grazie.
Poi Lucky svanì dal suo campo visivo, sostituito dalla divisa blu e azzurra del poliziotto che la trascinò assieme agli altri verso un piccolo ingresso che sapeva di entrata sul retro. L’ingresso riservato ai malviventi.
Una volta dentro, Lilith venne nuovamente oppressa da quello strano senso di fiacchezza. Si guardò intorno, e si accorse con stupore che era l’unica a versare in quello stato.
Cosa succede? Cos’ho che non va?
Presa da queste due domande e assorta dal vano tentativo di mostrarsi in condizioni normali, non si accorse di essere strattonata sotto un metal detector. Sul piazzale del belvedere, prima di essere portati via alla stregua di pericolosi criminali, i poliziotti li avevano perquisiti privandoli dei documenti e delle armi, stivali di Lilith compresi. Evidentemente quel secondo controllo doveva sopperire alle eventuali sviste degli agenti.
Il metal detector suonò al suo passaggio, e quello la riportò con la mente nella stanza. Il “suo” poliziotto la perquisì minuziosamente, privandola delle piastrine che aveva al collo e di uno scarno mazzo di chiavi. Lo sguardo si fece irritato quando l’agente le strappò dal collo le piastrine per gettarle in uno scatolone assieme ai beni degli altri. La giovane vide al suo interno un paio di cinture – tra cui quella di Cole, riconoscibile per la fibbia impreziosita da tre piccoli rubini – assieme a tre mazzi di chiavi e le scarpe di Sikşaka, gettate nello scatolone per via della punta fasciata in carbonox.
Una volta passato quel controllo, i poliziotti che li scortavano li fecero passare alla stanza successiva. La targa sulla porta era ferocemente chiara riguardo alla funzione della stanza: impossibilitazione esper.
L’ambiente non era grandissimo e si presentava con le pareti rivestite di gomma scura. Non aveva nemmeno una finestra e nella penombra appariva simile a un bunker, ma ciò non impedì a Lilith di provare un moto di sollievo: come quando aveva messo piede fuori dalla volante, quel senso di affaticamento che l’aveva attanagliata nella stanza precedente si era come volatilizzato.
All’interno di quella stanza bizzarra c’erano quattro robot, uno per ogni angolo, davanti ai quali furono portati i prigionieri. Ciascun robot passò l’ammanettato davanti a sé con i propri scanner, alla ricerca delle onde emesse da qualunque esper, e quando l’occhio lungo e sottile dell’automa davanti alla ragazza si tinse di verde dopo averla scansionata, la presa del poliziotto sulle sue braccia si fece più stretta e il robot materializzò quello che sembrava un collare rigido. Non appena lo chiuse al collo di Lilith il piccolo generatore simile a una pastiglia si attivò, andando ad accendere gradualmente le serpentine al neon che correvano nei tratti tra il generatore e la chiusura.
«Che diavolo è quest’affare?!» sibilò Lilith, attirando lo sguardo di tutti su di sé. Di nuovo la fiacchezza cercò di impossessarsi della ragazza, mentre l’agente le rivolse a malapena uno sguardo di sufficienza. Intuendo che fosse tutto legato alla sua abilità, la giovane cercò di attivarla, ma non appena provò a modificare la temperatura dell’ambiente due fastidiosi aghi le penetrarono nel collo, pericolosamente vicini alla spina dorsale.
«Ehi!»
«Smetta di richiamare la sua abilità o sarà neutralizzata, signorina.» scandì il robot in tono chiaro, conciso e asettico. Di fronte a tutta quella sicurezza la lombax si bloccò sul posto.
Neutralizzata...morta? fu l’unico pensiero che riuscì a concepire, in preda al gelo più totale. Quasi istantaneamente richiamò la sua abilità e quella debolezza nauseante la avvolse di nuovo come un guanto. L’automa le parve sogghignare, anche se non aveva una bocca, e continuò con una certa soddisfazione.
«Il collare si smagnetizzerà al momento della sua uscita dalla centrale. Se tale uscita sarà fraudolenta, o se tenterà di togliere il congegno con la forza, o se tenterà di usare la sua abilità, il suo sistema nervoso centrale sarà immediatamente neutralizzato.»
Cole, poco distante da Lilith, sghignazzò per l’espressione sempre più spaventata della coetanea, seguito a ruota dal suo scagnozzo. Di fronte a quell’impertinenza Sikşaka lanciò loro un’occhiata ammonitrice, che ricordò a Cole con quanta facilità lo aveva sollevato di peso e mandato a rotolare lontano da Lucky. Il giovane si azzittì, e di conseguenza anche Evrard tacque.
«Tutto chiaro signorina?» domandò il robot.
«Sì...» biascicò la ragazza, quasi con aria assente, di nuovo stordita dal senso di fiacchezza indotto – stavolta lo sapeva – dal collare.
Dopodiché, sotto lo sguardo più vigile del “suo” poliziotto, fu scortata con tutti gli altri direttamente nel ramo delle celle della centrale, dove ciascuno fu lasciato in un cubicolo.
 
«Ehi, Lilly! Ma che collana carina!» schernì Cole non appena furono lasciati soli.
«Fottiti.» rispose seccamente Lilith, seduta sulla brandina, rivolgendogli un’occhiata di fuoco.
«Come ti senti?» domandò Sikşaka, dalla cella a fianco a quella dell’allieva.
«Come una vecchia di ottant’anni.» brontolò lei. «Sfinita, stordita, vuota dentro. Ma è successo solo a me? Anche nella vettura e nella sala del metal detector sembravo l’unica con la vitalità di un bradipo.»
Il maestro di spada rifletté un momento. Era stata l’unica a subire quegli effetti, e tra tutti era l’unica esper presente. C’era una sola cosa in grado di annichilire i poteri esper, dopo la morte e la perdita della coscienza, ed erano le onde tachys. Sapeva che fossero il nemico naturale delle abilità esper, ma non sapeva che dessero quegli effetti collaterali.
«Credo che siano le misure anti-esper.» asserì. «Cerca di resistere, dai. Prima ce la caviamo, prima lo smagnetizzeranno.»
«Già...ma con la velocità che dimostrano ci vorrà una vita! E dire che oggi si doveva festeggiare...»
«Guarda che se non vi foste messi in mezzo ora non saremmo qui.» ammonì Evrard.
«Non ci saremmo messi in mezzo se non aveste deciso di derubare Lucky.» lo rimbeccò la ragazza.
«Eravamo d’accordo.» intervenne Cole.
«Come no! E all’ultimo ti ha fregato, scommetto. Ce l’aveva scritto in faccia...»
«Sai, se quel collare avesse anche una museruola sarebbe perfetto per te: ti ci vorrebbe ventiquattr’ore al giorno. Ora sai che cazziatone mi fanno i miei a causa vostra?!»
«E che vuoi che me ne freghi?» domandò di rimando lei. «Ti serve una lezione, almeno la pianti di andare in giro a fare cazzate.»
«Giuro, hai finito di vivere...» disse Evrard, cupo.
«Basta, tutti e tre!» ordinò Sikşaka. «La cosa più importante è chiudere la questione. Non ci serve scannarci a vicenda, per quanto trovi miserevole il vostro comportamento.»
«Oh, e piantala vecchio!»
«Guarda che il vecchio ti ha fatto decollare, Peter Pan.» pungolò la ragazza.
«Lilith, sei compresa anche tu nei tre.» la zittì il maestro. Lilith bofonchiò tra i denti quella che, a tutti gli effetti, era una rispostaccia, ma non aprì più bocca.
 
Il poliziotto rubicondo che li aveva raggiunti per primo al belvedere si fece vedere dopo quasi due ore. Camminò a passi lenti e pesanti fino alla cella di Sikşaka, prima di fermarsi e guardare il prigioniero come fosse un mucchio di sterco.
«Sikşaka Talavara?» domandò, già stufo di quel discorso.
«Sono io.» rispose pacatamente il lombax.
«Vieni, abbiamo da scambiare quattro chiacchiere.»
Sikşaka non si fece chiamare una seconda volta: si alzò e si lasciò scortare fuori dalla cella, attraverso gradinate e corridoi polverosi fino ad una piccola sala completamente scarlatta. Pavimento, pareti, soffitto, arredi. Tutto era rosso.
Dopo aver chiuso la porta, il poliziotto buttò fuori la risata gioviale che aveva trattenuto fino a quel momento e batté una pacca tra le spalle di Sikşaka.
«Beh, Sik, spero che il rosso non ti faccia sempre così schifo.» commentò, mostrando un sorriso sincero.
«Potere, rabbia, negazione, fallimento, vita, forza...rosso è il colore che scatena più istinti in assoluto; l’ideale per intimorire qualcuno. Secondo te perché il drappo di Rakta è rosso?» rispose il maestro di spada, allargando un sorriso in volto.
«Bah, quello è rosso perché piaceva al vecchio Gazda.» asserì con giovialità l’agente. «Qua le mani, ti tolgo i ferri.» aggiunse, armeggiando con la serratura delle manette di Sikşaka fino a farle scattare.
«E così ti hanno promosso, eh, Matej?» domandò il maestro di spada, massaggiandosi i polsi.
«Eh già. Ma di tanto in tanto parto lo stesso per rompere la monotonia della centrale. Non sia mai che un vecchio amico spunti fuori in una noiosa giornata d’aprile!» rispose l’agente, prima di assestare due colpi amichevoli sulla spalla dell’altro. «Oh, accomodati. Non saranno i pouff del grand hotel, ma è sempre meglio che parlare d’in piedi.»
Sikşaka accettò e si sedette su una delle due sedie presenti, che emise uno scricchiolio inquietante.
«Ma...sei sicuro di poterti prendere tutte queste libertà?» domandò, osservando l’altro sedersi. «Non ti diranno niente se riguarderanno le registrazioni?»
«Oh, per favore!» ribatté Matej con convinzione. «Il caso è mio e me la giro come voglio io. E poi, se non fossi certo che non sei una minaccia non ti avrei tolto le manette.» aggiunse. «Piuttosto, mi spieghi che ci faceva il prudente Sik, orgoglio del maestro Gazda per la sua calma perenne, in una rissa tra ragazzini?»
«Diciamo che ho visto dei comportamenti ingiusti e ho pensato di intervenire. Ma in ogni caso mi sono limitato a sbatacchiare un po’ il capobanda. Quel ragazzino che vi ha chiamati dovrebbe avertelo detto: non ho estratto alcuna arma e i miei colpi sono stati tutti a palmo aperto.»
«Sì, beh, il giovane Joule mi ha raccontato a grandi linee come sono andate le cose, e che tu non hai estratto nessuna arma l’ho visto dalle riprese dell’ufficio postale del belvedere.» replicò il poliziotto. «Quello che vorrei sapere è il perché.»
«Eeehh...forse per senso civico. Probabilmente per impedire a Lilith di commettere un errore più grande di lei, non lo so di preciso.» ammise Sikşaka facendo spallucce. Matej rovistò tra i documenti dei prigionieri e mise sotto il naso dell’amico il porto d’armi e la carta d’identità della giovane lombax.
«Parli di lei?» domandò indicando la fototessera attaccata alla carta d’identità. Non ancora abituato alla diversa luminosità della stanza, il maestro di spada avvicinò il viso al documento.
«Già, lei.» confermò dopo qualche secondo passato a decifrare i lineamenti della foto.
«In che senso “volevi impedirle di commettere un errore”?»
«È mia allieva e potrei dire con orgoglio che ha del potenziale; però non ha pazienza, e Cole Shinagan ha la capacità di farle salire la bile in tre nanosecondi. Metti insieme la capacità di usare una lama con la bile alta e..–»
«E ottieni un bel guaio, sì.» convenne il poliziotto, annuendo a sua volta.
«Non mi stupirei affatto se in questo momento si stessero scannando a parole.»
«Alquanto difficile, dal momento che il signor Shinagan è sotto interrogatorio proprio ora.» replicò l’agente indicando il muro alla sua destra. «Un interrogatorio un tantino diverso dal tuo, a dirla tutta, con tutte le formalità del caso. Sai, ci fanno fare il muso più duro se ci capitano dei ragazzetti, perché sperano di intimorirli e spingerli a non fare cazzate.»
«Cole è un piantagrane per natura, dubito che basterà una stanza rossa a fargli entrare in testa le regole del vivere civile.» asserì Sikşaka, schietto. «Anche oggi...voleva derubare quell’altro ragazzino e si è portato dietro i suoi tirapiedi per essere sicuro di farcela. Per cosa, poi? Duecento bolt. Ma ti pare?»
Matej si concesse una risata davanti alla faccia di assoluta incomprensione dell’amico.
«Sacra luna!» esclamò alla fine. «Ancora non sai che funziona così? Non è per il valore in sé dei bolt; è per dimostrare il proprio dominio. È come marchiare il proprio territorio, come dire “qui comando io e non hai diritto di opporti”; e chi si ribella si ritrova tormentato.»
«Perché, funziona ancora alla vecchia maniera? Se il dominante, per così dire, cede una volta allora non ha più diritto di comandare?»
«Sì, è ancora così.» rispose l’agente. «Ricordi?» aggiunse sorridendo. «Vent’anni fa ero moccioso esattamente come quello là. Poi il vecchio Gazda mi ha preso in palestra e mi ha insegnato un po’ di sani princìpi. Dovresti fare lo stesso con lui.»
«Guarda che questo non è come vent’anni fa. Non c’è più il maestro Gazda e non ci sono più io come allievo, che quantomeno ti sopportavo e cercavo di capirti.» ammonì Sikşaka. «Se anche accettassi Cole in palestra, Lilith sicuramente approfitterebbe della situazione per rivalersi dei suoi dispetti.»
«E tu metti anche lei a pulire i pavimenti. Dov’è il problema?» obiettò Matej. «Tutt’al più finiranno per darsi delle bastonate con gli spazzoloni, come facemmo noi due.»
«Loro non sono noi due, che alla fine ci siamo fermati. Si picchierebbero fino a rompere i bastoni; e se Cole dovesse tornare a casa tumefatto cosa spiegherei ai suoi genitori? Che è stata legittima difesa? Che non sono intervenuto perché ero a prendermi un tè?»
«Gli dici esattamente quello che il vecchio Gazda disse ai miei: era tutto parte di un allenamento.» rispose seraficamente il poliziotto, facendo spallucce. «Cosa vuoi che ti ribattano? Il loro cucciolo era in una palestra di arte delle lame: le bastonate e i lividi sono all’ordine del giorno durante gli allenamenti. Oppure hai trovato un modo soft di lavorare?»
«Non esiste un modo soft per prendere delle bastonate, dovresti saperlo meglio di me. Anzi, possiamo concordare che quelle sono il modo soft per avvicinarsi a una lama.» replicò Sikşaka, serio. «Quello che mi frena dall’accettare Cole in palestra non è la possibile denuncia dei signori Shinagan, ma un colpo di testa di Lilith.» ammise infine.
«Paura che lo affetti?»
«Già. Per errore, per rabbia o semplicemente perché le va. Cole, con quegli altri due, ci va sempre giù pesante con lei, ma finora col fatto che perderebbe la possibilità di portare con sé un’arma ha sempre evitato di fare sul serio con loro.» spiegò il maestro di spada.
«Girare con un coltello è così importante, per lei?»
«Già, la fa sentire sicura. Non invincibile, ma le dà la consapevolezza di potersi difendere. Sai anche tu che genere di posto sono i bassifondi.»
Dopo quella risposta Matej si chiuse a pensare. Sbatacchiò la matita sul tavolino al ritmo del’ultima canzone di Courtney Gears e soppesò tutte le informazioni raccolte da quello scambio di frasi.
«Però...» obiettò, incerto, al termine delle sue elucubrazioni. «Cosa dicono i suoi genitori?»
«Ha solo il padre, ed è sempre in giro per le galassie. Faccio io da referente per la famiglia.» rispose Sikşaka.
«E sei sicuro che metterle una lama in mano sia la soluzione migliore?» incalzò Matej. «Deve acquisire anche il controllo, ma non per la paura di qualche conseguenza. Deve acquisire il freno che hai tu e che aveva il vecchio Gazda...lasciarla andare avanti con una semplice paura mi sembra sbagliato. Cosa farai quando supererà la paura di perdere un pezzo di carta?» aggiunse.
«Non so se quello che sto facendo è giusto o sbagliato, ma credi davvero che mettergli davanti il suo peggior rivale possa insegnargli dov’è il limite tra difesa e violenza gratuita?»
I due amici si guardarono dritti negli occhi, mogano contro rosso. Non dissero nulla per qualche istante, e quando Sikşaka sospirò Matej allungò un angolo della bocca verso l’esterno, assumendo un’espressione pensierosa.
«La legge prevede che i mocciosi come loro scontino dei lavori utili presso degli esercizi pubblici.» annunciò, serio e quasi incolore. «E la tua palestra è un esercizio pubblico: potresti sfruttare l’occasione e usare il suo rivale per farle imparare dove sta il limite da non superare.»
Sikşaka alzò gli occhi al cielo con aria sconsolata. Vedendo Matej scendere dalla volante aveva presagito un finale imprevedibile, ma quello sforava da ogni sua immaginazione.
«Quindi non ho proprio scampo.» concluse il maestro di spada. «Quanto vorrei che il maestro fosse qui a darmi un consiglio...»
«Tranquillo, di sicuro è Lassù che sta masticando una foglia di thork e ghigna di noi...»
* * * * * *
Fu solo l’indomani mattina che li rilasciarono, dopo l’arrivo delle ordinanze disciplinari. Come previsto da Matej, gli aggressori di Evenezer “Lucky” Joule sarebbero stati assegnati a lavori utili per tutto il mese seguente, con il capobanda assegnato proprio alla palestra di Sikşaka.
A tale proposito, i genitori di Cole ed Evrard portarono via i loro figli strepitando di accuse oltraggiose e di perdite di tempo, di pene assolutamente ingiuste e di ricorsi. Il padre di Naukara, invece, continuò a sbraitare di come fosse possibile che una pazza delinquente avesse mandato all’ospedale il suo adoratissimo figliolo e fosse rimessa in libertà tanto alla svelta. Gli fu fatto notare, anche davanti ai filmati dell’ufficio postale, di come in realtà le azioni di Lilith fossero attribuibili alla legittima difesa, in quanto aveva estratto l’arma per seconda e per semplice scopo difensivo. Quanto alla lama dello stivale, era stata sfoderata e usata nel momento in cui il povero Naukara le puntava addosso un coltello. E mentre il genitore continuava a cercare di ribaltare le immagini a favore di suo figlio, Lilith entrò nella stanza dopo essersi fatta togliere il collare. Non impiegò molto a comprendere su cosa vertesse il discorso strepitato dal genitore, ma fece finta di nulla e si avvicinò alla reception per riprendere i suoi affetti personali.
Recuperò tutto e si sedette vicino a Sikşaka, intento a rimettersi le scarpe.
«Che colpa ne ho io se suo figlio è un coglione ipertrofico?» borbottò.
«Come ti senti ora? Va un po’ meglio?» volle sapere il maestro, ignorando la polemica.
«Non del tutto, però va meglio.» rispose la ragazza, chiudendosi al collo le sue preziose piastrine e massaggiandosi poi l’articolazione liberata. Matej si avvicinò con una cartellina olografica in mano. Quando fu abbastanza vicino, la porse loro.
«L’ultima bega e siete liberi di andarvene.» disse. Poi vedendo la faccia stanca di Lilith, con gli occhi rossi come se avesse appena finito di piangere, aggiunse: «Prima esperienza con le tachys, signorina?»
La ragazza andò a incontrare lo sguardo del poliziotto.
«Come, scusa?»
«Il collare. È la prima volta che hai un’esperienza del genere?»
«Sì, mai provata certa roba.» rispose, riprendendo ad armeggiare attorno agli stivali.
«Fuori da qui ti sentirai meglio, ma se accetti il consiglio di un esper, quando arrivi a casa mangia qualcosa di dolce. Aiuta a smaltire prima gli effetti delle radiazioni.»
Dopo aver finito di chiudere gli stivali ed aver infilato il suo navaja in tasca, Lilith firmò sulla cartelletta.
«Grazie delle informazioni.» disse. «Vedrò di fare come dici.»
«E cerca di stare lontana da quei tre...»
«Non sono io a cercare quei deficienti.» rispose schiettamente lei. «E quello che vorrei mi girasse alla larga farà coppia fissa con me tutto il mese prossimo. Come faccio a starci lontano?»
Matej le sorrise, e quel sorriso le parve inquietante.
«Alla fine del mese? Parola mia che ti guarderanno con tutt’altra luce negli occhi, Lilith Hardeyns.»

 

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Capitolo 3
*** | Capitolo 03 | Olio di gomito, Cole Shinagan! ***


[ 03 ]
Olio di gomito, Cole Shinagan!
Il giorno seguente, 12 Aprile 5402-PF
Settore ovest, Istituto d’istruzione superiore “A. Shouster”
 
Più immusonita del solito, alla fine delle lezioni Lilith fece in modo di uscire con Cole così da mostrargli la strada, ma trovarono Sikşaka che li attendeva fuori dai cancelli.
Raggiunsero la palestra con tranquillità, per quanto la tensione fra i due giovani fosse palpabile, e la prima cosa che Sikşaka fece una volta arrivati fu quella di condurre i due nella cucina-infermeria, dove il tavolo era già apparecchiato per tre.
«Dunque, innanzitutto mangiamo. Poi ci daremo ai compiti e solo dopo passeremo al resto.» asserì con calma, invitando i due ragazzi a sedersi con un cenno. «Questo è il programma di oggi e sarà anche quello dei prossimi giorni, se funziona.»
«Il solito, in pratica.» commentò Lilith, incrociando le braccia con l’aria profondamente scontenta. Percepiva la presenza di Cole come qualcosa di profondamente sbagliato, quasi fosse un profanatore in un luogo sacro. Lui non avrebbe dovuto essere lì, non avrebbe dovuto respirare l’aria di quella stanza, condividere frasi con loro, intromettersi nella sua vita anche in quel frangente.
«Sì, ma ero convinto che Cole non conoscesse i nostri ritmi di lavoro.» rispose il maestro. «L’avevi già messo al corrente di come passi le giornate qui?»
«Gli ho dato gli avvertimenti di base. I dettagli se li può anche imparare sul campo.»
Cole alzò un sopracciglio, scettico. In effetti, a ricreazione Lilith l’aveva preso da parte.
“Stammi a sentire” gli aveva detto. “Azzardati a toccare Rakta, chiamarmi Lilly o fare una qualunque delle tue stronzate in palestra e come minimo ti spacco le ossa a bastonate. Chiaro?”
Il messaggio era stato chiaro, ma gli aveva inculcato una voglia matta di trasgredire a tutte e tre le voci. E lo avrebbe fatto, poco ma sicuro: un mese era lungo da far passare, e di certo non aveva l’indole remissiva di Evrard. Incrociò lo sguardo indagatore di Sikşaka e annuì con convinzione, confermando le parole della ragazza: nonostante quello che era successo si era ripromesso di andare d’accordo con il maestro – quantomeno di provarci – o quel mese si sarebbe prospettato mostruosamente lungo se fosse rimasto in compagnia di due persone ostili.
«Beh, allora mi risparmio di darglieli io, gli avvertimenti.» mediò l’altro. «Adesso mettiamoci a tavola, immagino abbiate fame. Cole, sei allergico a qualcosa?»
«Oltre alle maniere di Lilly?» domandò sarcasticamente il giovane, osservando il lombax più anziano tirare fuori dal frigorifero tre tegami di plastica colorata. «No, sono sano come un pesce.»
«Ah, mi fa piacere saperlo.» replicò il maestro, servendo il pranzo. «Sono d’accordo con i tuoi genitori perché tu venga direttamente qui dopo le lezioni, e visto che non sono uno chef da Grand Hotel sarebbe un bel problema se avessi delle allergie.»
Cole e Lilith sgranarono gli occhi.
Che cosa? pensarono con aria incredula e Sikşaka, vedendoli per la prima volta d’accordo su qualcosa, mostrò un lieve sorriso soddisfatto.
«Bene ragazzi, buon appetito a tutti.»
 
Dopo aver pranzato in un silenzio rigoroso e carico, dove tutti sembravano aver voglia di dire qualcosa senza però trovare il modo di parlare liberamente, venne la fase dei compiti. Tutte le parole inespresse durante il convivio vennero a galla tra una frase e l’altra del compito di lingue, insulti compresi. Sikşaka si rese conto senza sforzo che quei due di lingue ci capivano poco, ma avrebbero potuto scrivere un’enciclopedia degli insulti in tutte le lingue che volevano, perché quelli li conoscevano, li creavano e se li scambiavano con la stessa abilità degli esper poliglotti.
La vera sfida arrivò con la matematica: Cole sembrava a suo agio tanto quanto Lilith faticava. Impiegò meno della metà del tempo che ci impiegò la ragazza a terminare gli esercizi, e per evitare una guerra sul nascere fu messo a lavare i piatti. Non che quell’attività lo entusiasmasse, anzi, ma se non altro equilibrò l’umore dei due ragazzi, facendo riguadagnare un sorriso Lilith – che non aveva mai visto il suo rivale impegnato in un’ardua battaglia armato di grembiule e guanti di gomma – e mitigando la spacconeria di Cole – che quella roba l’aveva vista fare solo alla domestica, e ogni volta che infilava le mani nell’acqua saponata aveva l’impressione di infilarle nella melma fetida di una palude.
Alla fine dei compiti Lilith batté la testa sul quaderno aperto.
«La matematica è una cosa perfettamente inutile.» decretò con voce lugubre. «Si può sapere che me ne faccio di calcolare derivate in un futuro lavoro?»
«Eddai, vedrai che ti servirà...» intervenne Sikşaka, lieto che quella tortura fosse finita. «Piuttosto...Cole, tu che mi dici?»
«Di cosa?»
Pronunciò quelle parole con un tono carico di disgusto, mentre dopo aver riposto anche l’ultima stoviglia si levava i guanti di gomma gialla. L’altro ignorò il suo tono.
«Del tuo futuro. Cosa vorresti fare?»
«Andrò a giocare nei Boldan Archers, che mi hanno fatto un’offerta imperdibile.» rispose con orgoglio evidente.
«Ma non puoi darti al baseball per tutta la vita.» obiettò Sikşaka. «Io ti auguro di sfondare e rimanere in forze il più a lungo possibile, ma una volta che la tua stella si sarà spenta non hai altre ambizioni? Non hai un piano B?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle e arricciò il labbro inferiore.
«Credo che cercherò di rimanere nel mondo del baseball. Allenare, forse. Non ne ho la più pallida idea.»
«Beh, questa è pur sempre una risposta...»
«Nah, come sguattero è perfetto.»
La frase di Lilith, detta a mezza voce con aria derisoria, pizzicò i nervi a Cole. Lei, osservandolo con la coda dell’occhio – la testa era ancora poggiata sul quaderno – continuò imperterrita: «La flemma dei movimenti, la cura con cui maneggi le stoviglie, il silenzio carico di concentrazione...farai strada di sicuro.»
Il ragazzo la polverizzò con lo sguardo.
«Per lo meno la mia è un’aspirazione.» si difese. «Tu tutt’al più potresti fare l’operaio in catena di montaggio con l’intelligenza microbica che hai.»
«Verrò lo stesso a trovarti nella cucina dove laverai i piatti, sguattero.»
Sikşaka sospirò sonoramente. Erano tre ore scarse che quei due erano lì, e già si sentiva stufo. Si alzò attirando l’attenzione dei due e uscì dalla stanza.
«Sik!» chiamò Lilith, drizzandosi sulla sedia.
«Prendo una boccata d’aria e torno a vedere il finale del match.» rispose laconicamente il maestro dal corridoio. «Continuate pure.»
Negli istanti di silenzio che seguirono Lilith ne approfittò per richiudere libri e quaderni e rimetterli via. Il clima che regnava da ben sei anni in quella cucinetta si era irrimediabilmente incrinato, lo sentiva.
Tutto per colpa di Cole.
«Ma che gli è preso così d’un colpo?» domandò il ragazzo. Lilith, che aveva riconosciuto il tono che compariva agli inizi del malumore, trafisse Cole con lo sguardo.
«Chiudi quella fogna. Si sta incazzando.»
Il giovane lombax sembrò colpito dalla notizia – il vecchio gli aveva dato l’impressione di essere uno che non si arrabbiava mai – e le sue sopracciglia scattarono verso l’alto.
«Ah.»
 
Quasi mezz’ora dopo Sikşaka rientrò nella cucina-infermeria e trovò Cole intento a guardare la televisione e Lilith impegnata a spazzare il pavimento. Nell’aria c’era un silenzio palesemente forzato, rotto solo dal commentatore di una partita di baseball.
«Beh? Niente finale?» domandò.
«Match sospeso.» spiegò appena Lilith. «Ci scusiamo per il disagio.»
Il tono frettoloso e la cadenza delle parole ricordarono terribilmente la speaker della compagnia ferroviaria. Non era mai stata un asso a scusarsi, e quell’agitazione che affiorava appena e lo sguardo che vagava altrove erano indici che le dispiaceva davvero.
Sikşaka stirò impercettibilmente le labbra, avanzò mollemente verso l’allieva e le prese la scopa d’in mano.
«Quindi, se voi siete in tregua, non ti dispiacerà mostrare a Cole dove può trovare gli attrezzi per pulire.» disse. Si voltò per assicurarsi che il ragazzo lo seguisse e proseguì. «Cole passerà il resto del pomeriggio a pulire i locali dietro la palestra, tu ti allenerai con me e alla fine io pulirò le armi e voi due insieme tirerete a lucido il parquet della palestra.»
Il tono con cui aveva parlato era controllato come al solito, tuttavia era chiaro che non fosse una proposta ma un ordine. Nessuno dei due ragazzi osò opporsi, per quanto la faccia di Cole esprimesse tutto il suo disgusto.
Il maestro gli lanciò una lunga occhiata indagatrice e la passò lentamente su Lilith. Forse era successo qualcosa durante la sua uscita o era volata una frase di troppo. Non avrebbe saputo dirlo. Si rimproverò silenziosamente per averli lasciati da soli, ma dopo l’ennesimo scambio di complimenti la tentazione di prendere le loro teste e farle cozzare come noci di cocco era stata così forte che per mantenere il controllo era dovuto uscire a fare un giro dell’isolato.
«Ehm...quindi a che ora sarei libero, più o meno?» domandò Cole.
«Dipende tutto dal tuo olio di gomito, ma se tutto va bene direi per le sette.»
«Cosa? Ma io a quell’ora ho l’allenamento! Non puoi farmi uscire un’ora prima?»
«No.»
La risposta secca giunse come un colpo di frusta per il ragazzo. Sikşaka se ne accorse e cercò di mitigare la durezza usata. «Oggi farai orario pieno. Poi vedremo come risolvere la questione.»
D’improvviso Cole si sentì davvero un problema, qualcosa da accomodare, un peso da sopportare. La frase pronunciata da Sikşaka non aveva inflessioni particolari, eppure diede l’impressione che intendesse dire che i suoi allenamenti fossero un problema aggiuntivo.
«Ah. Certo. Scusa.» balbettò a mezza voce.
Lilith lo trascinò fuori dalla cucina-infermeria e lo condusse in fondo al corridoio, davanti ad una porta più stretta delle altre. Abbassò la maniglia, premette un interruttore sulla destra, e una volta che la luce ebbe illuminato lo scaffale e l’assortimento di scope, spazzole, spugne e detersivi presenti nel ripostiglio, spiegò: «I detersivi in basso vanno bene per i pavimenti, quelli al secondo ripiano sono per il parquet della palestra ma vanno bene anche per pulire le panche degli spogliatoi, e infine tutti gli altri sono per togliere la polvere, lavare i vetri e pulire i bagni. Nel pulire i bagni aggiungi un po’ di candeggina, così igienizzi. Per lavare i pavimenti ci sono gli stracci e gli spazzoloni, per la palestra usiamo i moci, là dietro. Per il resto hai a disposizione le spugne. Oh, dimenticavo: la cucina va pulita con lo sgrassatore nello spruzzino viola, quello lassù.»
Parlò con voce piatta, indicando gli oggetti man mano che ne parlava. «Metti un grembiule, se tieni ai vestiti. E non cominciare dal primo spogliatoio, che mi devo cambiare.»
«Ovviamente. Vuoi anche che ti chiami signora?» domandò ironicamente lui in risposta all’ultima frase.
«Basta che non tocchi Rakta e non fai incazzare Sik. Farlo incazzare è l’ultima cosa che ci serve, a me per l’allenamento e a te per il rapporto giornaliero.»
Sembrava sapere di cosa stesse parlando, quindi Cole optò per non continuare il battibecco. Lei lo considerò come un punto a suo favore.
«Ehi, aspetta: è la seconda volta che mi parli di questa Rakta, ma chi è? Il suo animale da compagnia?»
Lilith si concesse uno sbuffo divertito, prima di trascinarlo a metà del corridoio e indicare il centro della parete con le armi oltre il vetro del tramezzo.
«Quella è Rakta.»
Gli occhi color prato del giovane lombax si posarono sulla scimitarra in bella mostra, scorsero dall’impugnatura alla punta e tornarono indietro seguendo la linea arcuata del filo. Nonostante fosse ad una distanza considerevole, nella lama di metallo chiaro vide il riflesso dei suoi occhi, il vello color carbone e le striature più chiare. L’immagine era così nitida che quella lama sembrava uno specchio sagomato. La guardia era semplice e rigida, l’impugnatura era incordata e al posto del pomolo scendeva un drappo color sangue.
La ragazza lo oltrepassò diretta allo spogliatoio, ridacchiando della faccia incantata dell’altro. Non era la solita risata di scherno: in quel momento lo capiva. Quella bocca mezza spalancata era più chiara di qualunque frase. Rakta sembrava irradiare potere. Se ne accorgeva ogni volta che la guardava, quando un tramestio non meglio definito la prendeva allo stomaco. Lo sentiva più forte quando, su incarico del suo maestro, le lucidava la lama o la portava da qualche parte. Nel momento in cui chiudeva le dita sull’impugnatura sentiva il bisogno di affettare qualcosa, di realizzare un affondo, di mimare un combattimento. Ma Sikşaka le aveva vietato di tentare una qualunque azione bellica, anche solo mimata, con quell’arma in mano. Le aveva spiegato che Rakta non era una scimitarra come tutte le altre, che era una lama che pretendeva il sangue ogni volta che veniva impugnata e che ci volevano una volontà e un controllo ferreo di sé stessi e dei propri impulsi per maneggiarla.
Che fosse l’intenzione del maestro o no, le aveva instillato timore e fascino per quella lama sempre affissa al muro. E le aveva dato la speranza che un giorno fosse sua, se solo avesse trovato la forza e l’equilibrio necessari.
 
Cole si riscosse solo quando si accorse di avere addosso lo sguardo di Sikşaka. Davanti al maestro, chiusa in un keikogi rosso, Lilith attendeva sistemando il nodo alla fascia bianca che aveva in vita. Il ragazzo sparì velocemente in direzione dello sgabuzzino dove c’erano i suoi attrezzi da lavoro.
Okay, si disse appoggiandosi di spalla alla cornice della porta dello sgabuzzino. Osservò con aria torva il monte di detersivi alla sua sinistra e continuò. Lilly è avanti di due punti – mi ha fatto finire a fare la domestica e mi ha zittito prima – e il terreno non è a mio favore. Ci sarà pure un modo per uscirne.
E nel pensare quella cosa intendeva un modo che non consistesse nel chinare la testa e fare le pulizie tutto il mese. Afferrò il primo prodotto che gli capitò sottomano e lesse la sua funzione: antipolvere. Lo rimise a posto e si chinò per afferrare un detersivo per i pavimenti. Decise due cose: quel giorno sarebbe stato al gioco della domestica, e avrebbe cominciato con la pulizia dei pavimenti. Per il giorno dopo ci avrebbe dovuto pensare, ma qualcosa gli sarebbe sicuramente venuto in mente. Raccattò un secchio con gli stracci e uno spazzolone e si mise svogliatamente all’opera. Tre ore dopo, con l’umore più grigio della sua vita, il ragazzo entrò sul piano palestra armato di moci e secchio. Vedendo che gli altri due non avevano ancora finito, poggiò tutto a terra e si sedette a osservarli. I due brandivano dei finti coltelli – Cole li aveva già visti, erano di quelli senza filo e con la lama che sarebbe rientrata nel manico alla minima pressione – e Lilith si era appena lanciata frontalmente contro Sikşaka. Il maestro l’attendeva al centro del parquet, fermo e sicuro come una montagna; accettò l’assalto frontale e rispose distogliendo la lama con il braccio disarmato, intenzionato a far scorrere la lama del finto coltello lungo tutto il torso della ragazza. L’allieva però si aspettava quella risposta e assestò un colpo di taglio con la mano libera alla mano armata del maestro: non riuscì a disarmarlo, per quanto fosse il suo obiettivo, però guadagnò il tempo sufficiente ad allontanarsi e tornare nuovamente all’attacco. Solo che Sikşaka a quel turno non le lasciò l’iniziativa, ma si slanciò in avanti andando a incrociare la lama di Lilith con un sonoro tock! Lama contro lama le colpì il fianco con il taglio della mano, togliendole il respiro, ma si ritrovò anch’egli con il respiro mozzo a causa di un pugno alla bocca dello stomaco, sferrato simultaneamente dalla ragazza. I due si allontanarono di mezzo passo e ripresero a colpirsi e incrociare le lame, creando figure imprevedibili con i movimenti continui delle braccia. Poi Sikşaka finse un attacco che costrinse Lilith a torcersi, le colpì la mascella con il piatto della mano e la atterrò con un successivo colpo alla bocca dello stomaco. L’incontro si concluse con il maestro che, posta la finta lama contro la gola dell’allieva, disse ansimando: «Hai perso.»
«Tanto per cambiare.» rispose la ragazza ansimando quanto l’altro. «L’ultima mossa è stata sleale, però.»
Sikşaka richiuse il suo finto coltello e tese la mano a Lilith. La ragazza, però, anziché rialzarsi aprì le braccia sul pavimento e gli fece gesto di sdraiarsi a fianco. Il maestro scosse più volte la testa, però si sedette a gambe incrociate e spiegò: «In strada non esistono mosse sleali. Un malvivente avrebbe potuto darti un calcio o sfoderare una lama segreta e bucarti la pancia una dozzina di volte mentre eravamo fermi.»
«Quindi cosa dovrei fare in un caso del genere?»
«La priorità è prevenire che sfoderi la lama. In un combattimento vero la cosa migliore sarebbe rompergli la mano, così saresti certa che non può usare trucchi.»
«E come posso fare?»
«Devi giocare con l’ambiente e sfruttarne ogni asperità. Difficilmente un malvivente esperto comincia un incontro col coltello in uno spazio arioso come questo della palestra. Di solito sono quelli armati di pistola a cercare gli spazi aperti, mentre chi lotta con le armi bianche predilige gli spazi più stretti, dove è più facile costringere uno contro il muro e affettarlo.»
«Ah, già, giusto.» rispose lei, immaginando la scena. In una piazza non sarebbe stato affatto immediato spingere chiccheffosse contro un muro, e già sarebbe stato difficile farlo in una strada un po’ ampia come la via maestra dei bassifondi. Ma in un vicolo tra le sporgenze, i bidoni della spazzatura e le impalcature non sarebbe stato difficile riuscirci. Oppure, ragionò, avrebbe dovuto atterrare il suo nemico.
«Riconosco che hai velocizzato ulteriormente i tempi di reazione, e questo è un risultato importante. Tuttavia sei ancora troppo impulsiva nel scegliere la tipologia di attacco, e per questo dovremmo fare degli allenamenti mentali.»
Lilith si alzò d’in terra e si mise a sedere. Allenamenti mentali: si chiese se sarebbero stati uno strazio alla ‘una mano mette la cera, l’altra mano toglie la cera’ come l’ultima volta che li aveva fatti.
Cole non comprese il significato di quella tiritera dall’aria pomposa, e sbuffò. Era sinceramente stufo di stare in quel posto, a giocare alla domestica. Pensò che avrebbero dovuto sbrigarsi, che non vedeva l’ora di finire con quel lavoro inutile e che avrebbe voluto dare fuoco a tutto per pulire in modo definitivo quel tugurio. Sikşaka non gli lesse nei pensieri, ma la faccia del ragazzo – la stessa che vent’anni prima aveva visto su Matej – parlava da sola.
«Direi che a questo punto potete chiudere la giornata pulendo la palestra. Vedo che Cole ha già portato il necessario.»
Lilith, che nelle ore di allenamento si era completamente dimenticata del suo arcirivale, si rabbuiò subito.
«Perché non pulisce lui?» domandò con disappunto.
«Perché ho stabilito che il piano palestra lo pulite insieme; e voi lo pulirete insieme.» replicò il maestro, troncando con decisione ogni protesta sul nascere.
L’allieva andò a procurarsi il proprio mocio arroventando l’aria attorno a sé per la stizza, mentre un fiume di improperi fluì attraverso la sua mente. Cole sentì un’improvvisa vampa di calore scaldarlo davanti mentre la ragazza afferrava con malagrazia lo struscino e il secchio, vampa che si dissolse non appena lei si fu allontanata di pochi passi.
Fu allora che il ragazzo ebbe il primo barlume di idea su come uscire dal ruolo di domestica.
* * * * * *
Ore 19:00
Settore sud, quartiere commerciale
 
L’umana fece atterrare la navetta e, spenti i motori, si guardò intorno con aria accigliata. Il posteggio che aveva scelto era silenzioso ma non vuoto: l’ideale per lei, che non voleva pubblicità del suo arrivo. Abbandonò il posto da pilota e si inoltrò nella stiva, dove si cambiò d’abito prima di scendere: tolse la divisa da ufficiale superiore e la sostituì con un corto abito nero e un coprispalle di pelle chiara. Gli stivali vennero sostituiti e sulla spalla si poggiò una piccola borsa dalla catenella dorata.
A quel punto la donna materializzò l’occorrente e si truccò con calma. Non era sua abitudine, ma in quell’occasione, forse, avrebbe potuto ingannare il contatto sulla sua identità. Aveva mantenuto un profilo basso per molto tempo, e con una storia così anonima alle spalle confidava che il razziatore che andava a incontrare non riconoscesse il comandante Queen, della USS Ferox. A onor del vero il rischio c’era, poiché Dragan era stato uno dei fortunosi ribelli che al tempo della rivolta del Patto Trirazziale sopravvissero ai suoi raid ad Anther City. I fatti risalivano al 5392, ma in quel periodo si era rivelata così crudele che non avrebbe affatto giurato di essere stata dimenticata.
Tutto quel sangue mi ha dato alla testa, pensò. Poco ci mancò che mi rivelassi per quello che sono... e che mandassi a monte secoli di pianificazione.
 
La sua mente tornò indietro di dieci anni. Ripensò alla feroce ricerca dei Toksâme, strutturata per stanare i Guardiani della vecchia generazione. Rivide la strenua difesa degli ex Guardiani del Fuoco e dell’Aria. Ne ricordò l’esilio su un altro piano del multiverso, avvenuto grazie all’attivazione di una macchina blarg dalle insolite potenzialità.
Sorrise ferocemente ripensando a quanto, quel fatto, avesse giovato ai suoi piani.
L’ex Guardiano del Fulmine, emotivamente distrutto dalla perdita dell’Aria, si era ritirato senza più desiderio di combat­tere. Quello dell’Acqua era morto. Quella della Terra era tornata a nascondersi.
All’orizzonte si profilava una nuova battaglia fra forze sovrannaturali e le divinità si sarebbero trovate con le forze decimate dall’inesperienza. Poteva andare meglio?
Sì, se avesse recuperato l’arma preferita di Chaos.
 
Uscì dalla navetta con un sorriso da squalo e si diresse verso i bassifondi. Ad ogni passo il caschetto corvino batteva sul volto, carezzando le guance pallide, mentre gli occhi scuri rimbalzavano da una parte all’altra senza curiosità evidente, ma permettendole di prendere nota di ogni particolare.
Ad esempio, notò che erano poche le persone che giravano da sole. Molte di loro erano armate, ma poche riuscivano a nascondere le fondine davvero a regola d’arte. Per lo più si vedevano armi da taglio – individuò anche un paio di stellette incastrate in un architrave di legno – ma non dubitava che oltre alle lame ci fossero delle armi da fuoco, magari smaterializzate in qualche indumento.
Un paio di adolescenti le passarono di fianco con l’aria piuttosto seccata. Per un istante credette di percepire loro ad­dosso l’aura del suo bersaglio, così si voltò a guardarli. La giovane lombax dovette accorgersene, perché si voltò e le rivolse uno sguardo tagliente prima di riprendere la sua marcia.
La donna rimase a osservare i due giovani ancora per qualche istante, prima di riprendere a camminare verso una piazza intitolata a qualche santone politico.
Non è possibile che due mocciosi siano entrati in contatto con un manufatto sacro, si disse con aria accigliata. Di certo non sono giocattoli per loro. Devo essermi sbagliata.
Raggiunse la piazza e cercò il suo contatto. Non lo vide, così andò a sedersi al tavolino di un bar e ordinò un alcolico forte.
Il razziatore arrivò quando il bicchiere fu vuoto per metà. Si sedette al suo tavolino e ordinò lo stesso alcolico.
«Salve Queen.» esordì con voce profonda. Lei rimase colpita dalla facilità con cui l’aveva riconosciuta, ma non lo diede a vedere.
«Dragan.» rispose, squadrandolo. Il lombax davanti a lei aveva il vello molto scuro, con gli occhi di un brillante castano ramato. Gli abiti comodi nascondevano le sue fattezze fisiche, ma Queen non si sarebbe stupita se si fosse dimostrato più lesto di quanto supponibile.
«Sei in ritardo.» lo ammonì.
«E tu sei un ufficiale della Flotta. Ho preso il tempo che mi serviva per prevenire possibili scherzi.»
Le sopracciglia di Queen scattarono verso l’alto, mentre comprendeva di non essere stata riconosciuta per caso. Dragan mostrò un sorriso sfrontato di denti palesemente finti.
«Un attacco della Regina di Sangue non si dimentica.» spiegò appena. «Mi chiedo ancora se fossero onde soniche o cosa.»
Quelle frasi rimandarono Queen con la mente al 5392. La battaglia per le strade di Anther City infuriava e lei non aveva tempo per capire se quelli che le comparivano davanti fossero ribelli o civili. Nel dubbio uccideva tutti indistintamente, e ciò le era valso il nome di Regina di Sangue.
«E io mi chiedo cosa ci facesse tra i ribelli qualcuno che non è né rilgarien, né blarg, né xarthar. Il Patto Trirazziale comprendeva solo loro, senza favori speciali. Eri un mercenario, forse?»
«Esatto.»
«In tal caso, visto chi erano i tuoi padroni, da me non potevi aspettarti altro che piombo e phaser.»
Stese le labbra in un ghigno inquietante, e il lombax per non dargliela vinta le rispose allo stesso modo. Poi proseguì: «Ma ora io non indosso la divisa e tu non lavori più per il Patto: direi che è lecito parlare d’affari.»
«In ogni caso sono affari che in cambio richiedono parecchia moneta sonante.»
La donna bevve un sorso dal bicchiere per convincersi a soprassedere la rudezza con cui era arrivato al punto.
«Quanto?» domandò.
«Dipende dal lavoro che hai intenzione di farmi fare.»
Queen posò il bicchiere, si sfilò la borsetta dal braccio e la mise sul tavolo, conscia di avere gli occhi della banda di Dragan puntati addosso. Si mosse lentamente, aprendo l’accessorio per estrarre una piccola pochette scura, che depositò sul tavolino prima di richiudere la borsa e riporla in grembo.
«Qui ci sono tutte le informazioni di cui hai bisogno, un chatter in linea diretta con il mio e una carta di credito irrintracciabile con cinquantamila bolt di acconto. Ruba quello per cui ti sto assumendo e riceverai altri cinquantamila bolt alla consegna.»
«Un furto, eh?» domandò sarcasticamente il lombax, accarezzando il suo bicchiere. «Dovrai raddoppiare le cifre, Regina, o non mi muoverò.»
«Centomila non ti bastano per rubare un singolo oggetto da una palestra?» obiettò Queen, prima di finire il suo alcolico.
«Sono io che rischio. Diciamo che duecentomila sono una congrua assicurazione.»
«Voglio che tu mi porti quell’oggetto senza intoppi.» lo interruppe. «Ti darò i centocinquantamila mancanti quando avrò il bottino.»
Dragan bevve un lungo sorso del suo alcolico e osservò impassibile l’umana davanti a lui.
«Direi che l’accordo è siglato, Regina.» disse poggiando il bicchiere. «La ditta di spedizioni Dragan ti contatterà non appena il lavoro sarà concluso.» aggiunse smaterializzando la pochette in un guanto.
«Sarò qui fino a lavoro concluso.» dichiarò lei, assottigliando lo sguardo con aria crudele. «Fallisci e non ti sfonderò solo i denti, stavolta.»

 

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Capitolo 4
*** | Capitolo 04 | Si profila un colpo complicato ***


[ 04 ]
Si profila un colpo complicato
Sei giorni più tardi, 18 Aprile 5402-PF, ore 9:15 circa
Kyzil Plateau, bassifondi
 
Era passata una settimana da quando Queen aveva dato l’incarico a Dragan. L’aria del mattino era particolarmente piacevole, perché non aveva più il freddo della notte e non era ancora rovente. Alcuni mezzi per la pulizia delle strade erano ancora in giro per togliere la polvere del deserto portata dalla pithil, la brezza notturna che soffiava dal basso lungo le pendici dell’altopiano. Le battute roche dei netturbini si alternavano a risate grasse e richiami. Nessuno badava a Dragan che – lombax tra tanti lombax – camminava senza fretta in direzione dei bassifondi.
Vestiva abiti lisi, da operaio notturno, e in preda all’agitazione continuava a torturare il collo della maglia a lupetto che indossava. I suoi pensieri giravano vorticosamente attorno a mille dettagli, e finivano immancabilmente per tornare sulla commissione che gli aveva dato Queen. Il razziatore si maledì per l’ennesima volta per aver accettato il lavoro a scatola chiusa. Se avesse saputo che la vittima sarebbe stata Sikşaka Talavara, non avrebbe accettato. Sarebbe stato meglio ricevere un rimprovero dal suo superiore piuttosto che andare attorno al vespaio che quel lombax rappresentava.
A tale proposito aveva avuto una discussione la sera prima. Gli altri razziatori del gruppo sapevano che quello sarebbe stato un colpo complicato. Ma non a livello tecnico, per quello era più che fattibile e – anzi – addirittura strapagato. Il vero problema era il Patto d’Uscita: Sikşaka conosceva tutti i pezzi da novanta tra i Razziatori di Kyzil Plateau. Partendo da loro la polizia sarebbe potuta arrivare ai pezzi grossi della capitale. Infrangere il patto avrebbe significato scontrarsi con un pericoloso ex commilitone, se non addirittura doverlo eliminare.
Avendo accettato l’incarico, Dragan avrebbe dovuto infrangere quel patto. E ironia della sorte, avrebbe dovuto infrangerlo in nome di un loro ex comune nemico.

 

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Capitolo 5
*** | Capitolo 05 | Frammenti di passato ***


[ 05 ]
Frammenti di passato
Dieci anni prima. 15 novembre 5392-PF
Via Lattea, pianeta Xartha
 
La guerra infuriava da più di un anno. Da una parte la Flotta; dall’altra i fedeli del Patto Trirazziale: blarg, rilgarien e xarthar, coadiuvati dai mercenari che i Razziatori avevano messo a disposizione. Anther City era diventata uno spaventoso teatro di morte, un posto dove erano rimasti solo i cadaveri e i combattenti. I civili che non ne volevano sapere erano fuggiti, e quelli rimasti sostenevano per lo più i cosiddetti ribelli nella loro lotta contro le autorità.
Quel giorno il grosso della battaglia si era combattuto nei settori della periferia nord, tra le acciaierie e le medie industrie. Alcuni centri di stoccaggio del gas erano andati a fuoco e avevano trascinato la zona in un inferno. Quel giorno, in quei settori non si sarebbe formata la brina sull’asfalto divelto, né si sarebbe condensato il fiato uscito dalla bocca dei combattenti.
Queen Hakuro era lì in mezzo. Con la sua carnagione pallida e lo sguardo bramoso inciso negli occhi, la divisa sporca e le armi in pugno, mentre camminava in quell’inferno di fiamme, acciaio e cemento. Ma non c’erano solo lei e il suo drappello, impegnati a stanare i ribelli. In un magazzino risparmiato dalle fiamme, immersi nella semioscurità, c’erano i ribelli pronti ad uscire e dare battaglia. Uno di essi, uno xarthar volpe con una benda scura sull’occhio destro, stava disponendo gli ordini e mano a mano che gli uomini attorno a lui ricevevano le istruzioni, si allontanavano a passo svelto.
Rimasero infine soltanto due lombax. Lo xarthar li guardò con il suo cipiglio deciso, quasi li stesse studiando, e poi disse: «Dragan, Sikşaka, voi ci coprirete coi fucili da cecchino.»
«Ma Lithver!» protestò il giovane maestro di spada. «Siamo più utili in prima linea che nelle retrovie!»
Lo xarthar lo guardò con asprezza.
«So quello che faccio.» sentenziò, aspettandosi che quella frase mettesse a cuccia l’obiezione avanzata da Sikşaka. Ma non fu così. Il giovane maestro di spada si rifiutò di tacere con una spiegazione così vaga e secca, e replicò duramente: «Stai sbagliando.»
Lithver lo guardò come se volesse ucciderlo.
«Ricordati il tuo posto, soldato. Sei qui per stare agli ordini e basta.» lo redarguì. Poi alzò la sua pistola e la puntò al volto di Sikşaka. «Se non ti sta bene puoi anche voltarmi le spalle.»
Il lombax continuò a fissare lo xarthar con determinazione. Sentiva distintamente il peso di Rakta al suo fianco, ma sapeva che non avrebbe avuto il tempo di estrarla. Avvicinò lo stesso una mano all’impugnatura, e l’altro serrò la presa sulla pistola, pronto a tirare il grilletto.
Dragan s’intromise.
«Abbiamo capito, capo.» intervenne, secco e diretto. Prese Sikşaka per un braccio e lo costrinse a voltarsi. «Andiamo sui tetti.»
Lithver abbassò l’arma e grugnì qualcosa, prima di uscire dal caseggiato. Dragan affibbiò un pugno sulla spalla al collega, poi uscì da una porta antincendio verso l’edificio ad ovest. A Sikşaka non rimase che seguirlo, ma per dirigersi verso l’edificio ad est del capanno. Percorse il breve tragitto fino al capanno adiacente ed entrò da una porta d’emergenza con un vetro rotto. Salì le scale grugnendo contro tutta la situazione ed aprì la porta che dava sul tetto con uno spintone. A quel punto la radio sulla sua spalla gracchiò il suo nome con la voce di Dragan. Il lombax premette il pulsante di risposta.
«Ti ascolto.»
«Tu sei fuori come un balcone!» sibilò l’altro. L’arrabbiatura a scoppio ritardato era una sua caratteristica.
«Ho ragione, lo sai.» lo rimbeccò Sikşaka, raggiungendo a schiena china la sua postazione. «Con Rakta posso essere molto più utile.»
«Ti farebbero fuori in due secondi, idiota!»
La luce dell’incendio dava sfumature inquietanti al vello dei lombax, ma essendo molto in alto rispetto alla strada si confondevano bene con l’edificio. Approntarono i loro fucili di precisione e si prepararono. Sikşaka rodeva ancora, ma in fondo era grato a Dragan per averlo fermato.
«E allora grazie.» rispose, avvicinando l’occhio al mirino dell’arma. «Per avermi salvato da una morte da idiota.»
«Figurati. Per fortuna sai essere ragionevole.»
«Con una pistola sotto il mento lo saresti anche tu.»
«Non ci giurare. Ma ti prometto che cercherò di esserlo finché sarò il tuo dire...tto...»
Passò qualche secondo di silenzio teso. Il giovane maestro di spada rimase incollato al mirino, in silenzio, cercando di capire cos’avesse indotto l’altro razziatore a finire la frase con quella sospensione carica d’ansia. Non vide nulla.
«Ehi, cosa succede?» domandò, preoccupato. Il calore lo sferzava da tutte le parti, facendogli venire sete, ma non si azzardò a prendere la borraccetta alla cintura.
«Oh, merda.» mormorò l’altro lombax. «C’è la Regina.»
Siksaka alzò la testa quel tanto che bastava per guardare la strada. Vide un paio di figure in avvicinamento e per distinguerle meglio usò il mirino del fucile. Quando inquadrò l’umana nel mirino emise anch’egli un gemito strozzato.
«Dobbiamo impedirle di raggiungere Lithver.» asserì. Dragan, sull’altro tetto, deglutì a fatica.
«Già. Dobbiamo coprirli.» rispose meccanicamente.
Il maestro di spada fu il primo a reagire. La paura divenne bisogno di difendere il proprio territorio, e la sua determinazione aumentò notevolmente. Il senso del fare la cosa giusta prevalse sulla repulsione per l’arma da fuoco e centrò Queen Hakuro nel mirino.
«Occupati di quello con lei.»
«Ce l’ho.»
Fu allora che la donna alzò la testa e gli sorrise malevola, gelandogli il sangue nelle vene. Nel mentre in cui il proiettile sparato da Dragan trafiggeva un soldato della Flotta alla testa, Sikşaka avvertì che le parti si erano bruscamente invertite. Con un ghigno, sulle labbra della donna si formarono le parole “sei mio”. Lui, predatore fino a quel momento, era appena diventato una preda.
Proprio no! pensò con veemenza, mentre una scarica di adrenalina risaliva lungo la spina dorsale. Con l’occhio al mirino premette il grilletto, e accolse il rinculo dell’arma con sollievo. Ma durò pochi istanti, perché Queen continuò la sua avanzata come se nulla fosse successo. Sikşaka sgranò gli occhi, incredulo.
Le ho sparato! L’ho colpita!
Dragan sparò un secondo colpo, che colpì Queen tra le scapole. La donna cadde in avanti, prima in ginocchio e poi distesa a terra. Tuttavia l’inquietudine non abbandonò il lombax, che cominciò ad udire un fischio. La radio fissata alla spalla gracchiò con la voce di Dragan: «Sik, hai davvero una mira di merda.»
«Ma l’ho colpita!» protestò il mastro di spada.
«Nei tuoi sogni, forse.» lo prese in giro l’altro cecchino. «Me ne devi una, pivello.»
Sikşaka sentì nuovamente il calore degli incendi sulla pelle, e quella volta prese la borraccetta dalla cintura per bere qualche sorso d’acqua. Il fumo cominciava ad invadere anche quell’area, e anche se non aveva ancora intaccato la visuale, si poteva odorare la sua presenza.
Riportò l’occhio al mirino. Scrutò la strada, vide un paio di uomini in divisa e inquadrò il più possente. Si muovevano senza aspettarsi nulla di particolare, quindi il lombax pensò che non avessero prestato caso agli spari. Poggiò il dito sul grilletto.
Sono nemici.
Sparò. Una frazione di secondo dopo vide il soldato cadere a terra, e immaginò la sorpresa nei suoi occhi. Dopodiché fu lui a sgranare gli occhi per la sorpresa. Abbandonò il fucile e si premette le mani sulle orecchie: il fischio leggero era diventato un suono agghiacciante che gli stava perforando i timpani.
Gridò per il dolore, gridò con tutto se stesso. Il suo corpo fu scosso dai tremiti, ma non era lui a tremare. L’edificio gli trasmetteva le vibrazioni. Dapprima sembrava che la struttura avesse i brividi, ma con il passare dei secondi divennero veri e propri scossoni. Il telaio metallico finì col cedere e porzioni del tetto crollarono.
Poco a poco crollò tutto.
 
Quando le vibrazioni e il fischio cessarono, Sikşaka si scoprì disteso sopra un cumulo di macerie. Gli facevano male le orecchie e tutti i denti. L’aria era nettamente più calda di quello che ricordava, ma non c’era ancora traccia delle fiamme. A giudicare dal calore, però, non mancava molto perché il fuoco arrivasse a mangiare anche quel posto.
Chissà che ne è stato di Lithver e gli altri, si chiese. Qualsiasi cosa stessero facendo, di certo non erano più nel punto prefissato.
Voltò la testa giusto in tempo per vedere un’ombra stagliarsi dritta e fiera nel suo campo visivo.
«Hai qualcosa che mi appartiene, lombax.»
Il giovane maestro di spada rotolò giù dal cumulo e cercò di rimettersi in piedi. Gli facevano male tutte le giunture. Rakta era ancora al suo posto: con un arco rapido Sikşaka la sguainò. Non si rese conto che lo sguardo gli si assottigliò, e preso dall’abitudine non prestò caso nemmeno al particolare raffinamento dei sensi.
Queen Hakuro, davanti a lui, sembrò compiaciuta.
«Esatto, proprio quella.»
«Tu dovresti essere morta.» mentre parlava Sikşaka distese mentalmente i muscoli. Era come fare un profondo respiro rilassante, in grado di sciogliere la tensione muscolare e – almeno in parte – anche quella mentale. Era un modo per controllarsi, e il vecchio Gazda gli aveva insegnato che un guerriero dotato di autocontrollo era un guerriero vincente.
«Voglio svelarti un segreto.» rispose la donna, quasi ridendo. «Prima non hai sbagliato mira. Se fossi stata una semplice umana sarei morta già con il tuo proiettile. Al secondo ho dovuto fare un po’ di scena, o non sarei potuta arrivare a te.»
Sikşaka caricò. Pochi passi leggeri e fu addosso a Queen, che per evitare il suo fendente dovette muoversi all’indietro con l’agilità di un felino. Tra le sue mani si formò una lama di energia pura e con quella contrastò il fendente successivo, che arrivò fulmineo e simile al precedente.
«Ma come vedi, io non sono una creatura che conosci.»
Sikşaka indietreggiò di un paio di passi e si chiese che trucco avesse usato. Quella lama non rassomigliava a nessuna che conoscesse. Era lunga e sottile, aggraziata nelle forme. Crepitava come se fosse fatta di elettricità e sembrava composta da un flusso di plasma, ma era resistente come una roccia. Quando Rakta ne incontrava il filo, scaturiva una nota acuta che graffiava i timpani malconci.
Con un unico movimento innaturale la donna bruciò la distanza e cominciò a pressarlo con i fendenti: dall’alto, da destra, di sgualembro e di nuovo dall’alto. Dove lui doveva usare due mani, lei non dimostrava il bisogno di impiegarne più di una.
«Hai del talento, te lo concedo.» disse in una fase di stallo. «Perché non saliamo di livello?»
Lo scontro divenne molto più dinamico. Il peso cominciò a spostarsi da una gamba all’altra sempre più rapidamente, e il tintinnio delle lame venne ad intrecciarsi con calci, ginocchiate e colpi di gomito. Sikşaka non aveva mai combattuto con un avversario di quel calibro, nemmeno quando il suo maestro d’arte delle lame lo impegnava nei combattimenti più veloci e dolorosi.
Gamba contro gomito.
Lama contro lama.
Un calcio deviato.
Una ginocchiata a segno.
Un grido smorzato.
Le lame di nuovo a contatto, i volti vicini.
«Gazda Sherwick è stato davvero un bravo insegnante.» ammise Queen. «Un vero peccato che non sia più tra noi.»
I volti si allontanarono e le lame tintinnarono ancora, riempiendosi di riflessi rossastri. Non ci volle molto prima che i due tornassero in condizione di potersi scambiare una frase.
«Come sai di lui?»
La domanda era cupa, il tono volutamente basso.
«Ho buoni informato–»
La ginocchiata di Sikşaka colse la donna di sorpresa. Il maestro di spada ne approfittò per disimpegnare la lama con un gioco veloce; e prima che Queen riuscisse a contrattaccare il lombax la ferì alla spalla con un movimento dal basso verso l’alto. La lama non incontrò resistenza nel tagliare le carni; dando allo spadaccino l’impressione di avere a che fare con un avversario senz’ossa. Sangue scintillante tinse il filo della lama, mentre la donna smorzò un grido.
Fu allora che Dragan, attirato dal rumore, raggiunse le rovine del capanno. Sikşaka lo intravide con la coda dell’occhio e decise che dovevano scappare. Piantò la lama nel ventre della sua avversaria con ferocia e urgenza, e quando la estrasse lasciò che il corpo cadesse a peso morto all’indietro.
«Sik!»
La chiamata del suo compagno lo costrinse a distogliere lo sguardo dalla donna. Per la prima volta da quando si era ripreso sulle macerie, annusò l’odore acre del fumo che aleggiava nell’area. L’incendio stava arrivando. Sikşaka lo raggiunse camminando a passo svelto. Per qualche ragione, l’istinto gli diceva di non rinfoderare Rakta.
Era quasi di fronte a Dragan quando Queen cacciò un urlo. O meglio, sembrò un urlo per i primi istanti, ma poi divenne un ruggito che costrinse i due lombax in ginocchio, storditi da fitte lancinanti alle tempie. Il giovane maestro di spada, con le mani sulle orecchie sanguinanti, gridò a pieni polmoni, mentre il compagno dovette portarsi una mano alla bocca e soffocare un fiotto di sangue.
La donna si rimise in piedi a fatica. Un filo di fumo lattiginoso fuoriuscì dalla ferita, che non riusciva a rimarginare. Si avvicinò a grandi falcate a i due lombax, e quando fu loro vicina gli riversò addosso un altro di quei terrificanti ruggiti capaci di far scoppiare la testa e distruggere anche i pilastri più solidi. Dragan sentì tutte le ossa vibrare, e alla fine i suoi denti cedettero del tutto provocandogli un dolore straziante che sfociò in una richiesta disperata di fermarsi. Ma la Regina di Sangue in quel momento aveva occhi solo per il giovane maestro di spada. Teneva uno stivale piantato in mezzo alla schiena di Sikşaka e gli stava ruggendo contro parole incomprensibili. Parole che anche senza capirle grondavano odio e minacce in ogni loro sillaba.
Alla fine del suo discorso Queen si chinò e osservò con compiacimento l’espressione sconfitta e stordita del suo avversario.
«Questo, mortale, è quello che succede a chi si mette a giocare coi manufatti divini.»
Scostò con malagrazia la mano di Sikşaka dall’impugnatura incordata di Rakta e la sollevò. Riconobbe la fattura fine di Chaos nelle sottili decorazioni chiare, semplici ma eleganti, che ornavano il dorso. Percepì il quantitativo d’âsa gô-mjä che era stato usato per forgiare l’anima della lama – letale per qualunque creatura che non fosse affine alla dea Chaos. Dichiarò che il suo potere si era enormemente accresciuto, se riusciva ad impugnare un’arma nata apposta per nuocerle al solo tocco.
Le venne da ridere. Erano millenni che non vedeva quella lama, indubbiamente utile ai suoi piani. Poi il sorriso divenne una smorfia e un sottile filo di fumo cominciò a salire dalla mano che impugnava Rakta. Seguì uno sfrigolio di pelle bruciata e la donna dovette spostare la spada da una mano all’altra. Aprì il palmo e osservò imprecando la pelle piagata. Capì che, per quanto accresciuto fosse il suo potere, non era ancora in grado di tenere in mano il manufatto per più di una manciata di secondi.
«Dannazione!»
Presa da un colpo di rabbia violenta, scagliò la lama dritta nella spalla sinistra di Sikşaka, causandogli un ulteriore spasmo di dolore.
«Tieni questa spada, lombax.» ringhiò. «Trattala con il rispetto che merita finché non verrò a riprendermela. Ti do dieci anni. Se al mio arrivo scopro che l’hai venduta, ti ucciderò nel più atroce dei modi.»
Dopo aver sputato quella minaccia voltò le spalle ai due lombax e lasciò il deposito ormai distrutto a passo di carica. I due non si accorsero nemmeno del sospiro che lasciò le loro bocche. Dragan contò fino a venti prima di mettersi carponi e sputare un fiotto di sangue. Non aveva bisogno di uno specchio per sapere che non aveva più neanche un dente, e le gengive sanguinavano assieme ai timpani. Si avvicinò traballando al suo collega e mugolò.
«Togli Rakta...dobbiamo...muoverci...» ansimò Sikşaka. Dragan annuì, e prima di togliere la spada tastò la spalla. Poi, tenendo fermo il braccio leso, tolse la lama con un unico strattone, che costò quasi la coscienza al maestro di spada.
Ci vollero alcuni secondi prima che Sikşaka riuscisse a gestire mentalmente il dolore. Poi, fece alcuni respiri profondi e si sforzò di mettersi in ginocchio. A fatica mise un piede avanti e fece leva per rialzarsi. Il mondo gli girò attorno, ma si impose di arrivare almeno al rifugio più vicino.
«Ce la...fai?» domandò al suo compagno, guardandolo preoccupato. La risposta fu un mugolio con un accenno d’assenso.
 
La guerra era sparita in quel momento. Era passata totalmente sullo sfondo delle preoccupazioni dei lombax. In quel momento l’unica cosa che aveva la priorità era trovare un riparo. L’opzione più auspicabile era un ospedale da campo, ma sapevano entrambi che quello del 196esimo settore era stato distrutto dalla Flotta. Il più vicino era nel 194simo settore; lontano, ma non irraggiungibile. Dopo aver mosso i primi passi incerti, si diressero verso il loro ideale di salvezza.
* * * * * *
Una settimana più tardi, 22 Novembre 5392-PF
Anther City, ospedale da campo del 194esimo settore
(ex medie industrie a carattere energetico)
 
«Pazzesco...e poi come avete fatto?»
Un apprendista infermiere stava disfacendo il bendaggio della spalla di Sikşaka. Non era raro vedere dei quindicenni alle prese con garze e aghi da sutura: i medici non erano sempre disponibili e i feriti arrivavano in continuo. Quel giovane era volenteroso, e ascoltava i racconti di tutti con ammirazione. Si chiamava Sturgis ed era un rilgarien che tossiva in continuazione, ma aveva il dono di fare fasciature robuste. Sikşaka gli sorrise.
«Abbiamo camminato per un po’, ma per non farmi morire dissanguato il mio amico ha dovuto arroventare un ferro e cauterizzare la ferita. Ho delirato fino a stamattina, per cui, onestamente, non so dirti come abbiamo fatto ad arrivare qui. L’ultimo ricordo nitido che ho è quello di un magazzino del 196esimo settore.»
«Ho sentito il medico che ha detto che cose del genere funzionano una volta su tre.» commentò il ragazzo, spalancando leggermente gli occhi sottili prima di cedere all’ennesimo colpo di tosse. «Hai un bel po’ di fortuna. E anche quello che è arrivato qui con te ne ha parecchia. Insomma, gli hanno rimosso le radici dei denti e suturato tutte le gengive. Dev’essere stata una bomba sonica potente, oppure esplosa vicina alla faccia. Anche per quanto riguarda i timpani, avrete bisogno entrambi di una ricostruzione. Il medico ha detto che tu sei più fortunato da questo punto di vista, perché sarà un intervento meno pesante.»
Sikşaka non rispose. La storia della bomba sonica doveva essere venuta fuori da Dragan, e decise che l’avrebbe assecondata. D’altro canto non sarebbe riuscito a spiegare come Queen fosse sopravvissuta ai proiettili, avesse creato dal nulla quell’arma e fosse riuscita a produrre quel suono devastante. Optò per spostare la conversazione.
«Ma in generale come sta? È cosciente?»
«Credo di sì. Dovrei chiedere informazioni più precise a Shihite, però.»
Sturgis arrivò finalmente a scoprire la pelliccia di Sikşaka. Il lombax inspirò a denti stretti quando il ragazzo dovette tirare via le bende a contatto con la pelle, su cui il pus secco e gli strati superiori dell’epidermide formavano ancora una brutta crosta. Il giovane cominciò a ripulire la zona con bende nuove imbevute di qualcosa freddo e gelatinoso, dando al lombax una nuova sensazione di benessere. Ci fu un breve momento in cui si interruppe e diede sfogo ad altri piccoli colpi di tosse. «Qui non ci ricrescerà mai più il pelo, lo sai? Avrai una bella cicatrice di guerra.»
Lo disse con il solito tono ammirato, causando un improvviso incupimento nell’umore di Sikşaka.
«Aspiri a volerne una anche tu?» domandò.
«Scherzi? Significherebbe che non sono un inutile rammollito!»
Sikşaka annuì tristemente, prima di domandare: «Vuoi davvero ritrovarti in fretta in mezzo ad un fuoco incrociato?»
«Noi siamo superiori. Cioè, non in senso arrogante...voglio dire che siamo nel giusto.» la convinzione del ragazzo lasciò ancora più perplesso il lombax. «Il nostro modo di affrontare l’universo va ben al di là della visione miope del parlamento federale. Le nostre possibilità di successo sono alte e il fatto che resistiamo da più di un anno lo dimostra. Non ci abbatteranno mai.» Sturgis non lo sapeva, ma con quella risposta aveva scatenato un terremoto nella convinzione del maestro d’armi. «Comunque, io non avrò mai il permesso di andare in prima linea. Mi hanno trovato un tumore alla pleura, e non so nemmeno se arriverò al mio prossimo compleanno. Ma darò una mano qui finché potrò.» Ebbe di nuovo un colpo di tosse. «Vabbé, parliamo d’altro. Intanto ti rifaccio la fasciatura. Da dove vieni?»
Sikşaka soddisfò tutte le curiosità del ragazzo. Poi, quando se ne andò, il lombax si racchiuse in se stesso per riflettere. Il discorso sulla superiorità gli era sembrato altisonante ma assurdamente vuoto. Eppure lui si era messo con convinzione al servizio di quel discorso. Aveva rischiato la morte ed era in quel lettino per parole come quelle.
L’animo che il ragazzo aveva esternato pronunciandole gli aveva dato l’impressione che fosse qualcosa di tremendamente sbagliato. Il rifiuto di sé per il suo problema, l’ammirazione per la battaglia, l’aspirazione a procurarsi le cicatrici di colpi d’arma da fuoco gli erano parsi sentimenti tanto ingenui quanto falsi.
È tutto un errore.
Paragonò quel ragazzo al se stesso di otto anni prima, smanioso di fare qualcosa alla stessa maniera del giovane rilgarien.
 
Se è tutto un errore, però...perché sono qui?
* * * * * *
Un anno dopo, 18 Ottobre 5393-PF, ore 17:50 circa
Galassia Solana, pianeta Veldin
 
Kyzil Plateau era arroccata al margine estremo di un altopiano, e parte di essa era costruita sulle pianelle che scendevano il versante montuoso. In particolare c’era una cresta affilata e prominente su cui la cittadina si era ampliata, preferendo lasciare la pianura alle serre e ad altre attività. Sul versante volto a sud della cresta erano cresciuti i bassifondi, mentre il versante nord era diventato pian piano una sede di stoccaggio di alcune grandi società.
La zona di stoccaggio appartenente alla Gadgetron era stata abbandonata da anni, ed era troppo vasta perché l’amministrazione cittadina potesse riadattarla in qualche altro modo in breve tempo. Al momento di andarsene, i mezzi della grande compagnia avevano sgomberato le loro pianelle più elevate, ma avevano abbandonato i container più vecchi e malandati, che occupavano una grossa porzione di territorio alle quote più basse.
Proprio tra i container più bassi, dentro una specie di collage metallico, l’élite dei razziatori della città si era radunata per pianificare un colpo alla base militare che la Flotta aveva approntato a una ventina di chilometri da lì. Sikşaka, come al solito, aveva presenziato in veste di consulente di Dragan, ma aveva ascoltato a stento la conversazione. Lo sguardo era fisso sulla mappa al centro del tavolo, ma la mente era altrove.
La guerra tra la Flotta e i ribelli del Patto Trirazziale stava cominciando a declinare, secondo le ultime notizie. A Xartha non veniva dato più di un mese prima della caduta, mentre Rilgar e Orxxon avevano qualche chance in più. Su Veldin non c’era traccia della disputa, anche se una parte delle forze dei Razziatori era ancora sui campi di battaglia a sostenere i ribelli. Dragan e Sikşaka erano tornati nel dicembre dell’anno precedente, ed erano stati promossi entrambi. L’organizzazione aveva innalzato Dragan da capobanda a dirigente delle operazioni cittadine, e quest’ultimo aveva voluto il maestro di spada come consulente personale. Il loro effettivo insediamento si era svolto con l’arrivo dell’anno nuovo, dopo che gli arti lesi furono ricostruiti chirurgicamente. Dopo alcuni scontri iniziali contro bande che non avevano accettato la nomina di Dragan, i traffici avevano assunto un altro ritmo e si erano fatti più invisibili alle autorità. L’economia parallela di Kyzil Plateau aveva cominciato a rifiorire e tutto sembrava andare nel verso giusto.
Tutte le informazioni inerenti alle operazioni di Kyzil Plateau avevano cominciato a passare all’interno della palestra di Gazda Sherwick, che nel frattempo era stata ereditata da Sikşaka. La sera, spesso, arrivavano Dragan e un paio dei suoi uomini a discutere le operazioni sulla base delle ultime notizie.
Quel giorno era stata prefissata una riunione di tutti i capibanda. Quattordici persone avevano raggiunto il container e si erano accomodate attorno al tavolo circolare: i capibanda si erano seduti, mentre gli accompagnatori erano rimasti in piedi dietro i propri protetti, in silenzio, in attesa finché la riunione non fu sciolta. Come sempre, gli ultimi a rimanere nella saletta furono Dragan e Sikşaka.
Il primo fece per lasciare il container a sua volta, ma il maestro d’armi lo fermò con la frase: «Ti devo parlare.»
Dragan capì che era qualcosa di importante per via del tono greve con cui aveva pronunciato le parole, e lo invitò a sedersi.
«Ti ascolto.»
Il maestro di spada aggirò il tavolo e gli si sedette di fronte. Si mosse lentamente, come se ogni singolo passo gli costasse uno sforzo immane. Era pienamente consapevole che con quello che stava per dire andava ad appendersi una scure sulla testa. Tuttavia ci aveva pensato sopra per quasi un anno, e aveva deciso che non era più tempo di aspettare.
Raccolse il coraggio, guardò dritto il collega negli occhi e dichiarò: «Ho deciso di chiudere con te e i Razziatori.»
* * * * * *
Due giorni più tardi, 20 Ottobre 5393-PF, ore 22:30 circa
Ovest di Kyzil Plateau, ex area stoccaggio Gadgetron
 
Il luogo che avevano scelto era lo stesso in cui si erano riuniti due giorni prima. I sei capibanda, con due uomini ciascuno, stavano ascoltando le parole di Dragan, che stava spiegando il motivo di quella riunione.
Sikşaka osservò di sottecchi il suo collega. Due sere prima sembrava averlo convinto con le sue motivazioni, ma agli occhi degli altri capibanda il suo doveva apparire come un tradimento. E se anche due giorni prima Dragan aveva sostenuto che avrebbe fatto quanto in suo potere per risolvere al meglio la questione, non era detto che sarebbe filato tutto liscio. Tanto per cominciare era nell’angolo opposto all’uscita; per cui durante un eventuale scontro avrebbe dovuto attraversare tutto il container prima di guadagnare la porta. Compiere quei venti metri sotto il fuoco incrociato di almeno quattordici persone sarebbe stato impossibile.
Quindi o esco tutto intero o non esco affatto, rifletté.
Prese la parola Belvard, il capobanda della zona est dei bassifondi. Era un cazar abbastanza giovane, con una vistosa giacca di pelle e un’improbabile fila di piercing ad un orecchio. Guardò il maestro di spada con assoluta diffidenza e poi sentenziò: «Non mi interessa cosa ti ha giurato. Le sue promesse non contano niente per me. Voglio sentire da lui cos’ha da dire.» e indicò Sikşaka. Altri tre capibanda annuirono, e Dragan gli fece cenno di rispondere.
«Nell’85 sono entrato a far parte dei Razziatori perché vedevo il parlamento galattico di Solana come un organo iniquo. Pensavo che le azioni dei Razziatori potessero scuoterlo, e facendo parte della vostra organizzazione avrei dato pace al mio desiderio di combattere per ottenere qualcosa di migliore.» asserì con calma. «Ma avevo ventitre anni e mi mancava un po’ di esperienza. Comunque, ho continuato ad eseguire gli ordini credendo di fare qualcosa che alla fine si sarebbe rivelato utile ad un futuro migliore. Poi, un anno e mezzo fa sono andato su Xartha a combattere per i ribelli. Mi stava bene all’inizio, perché vedevo nel sollevamento del Patto Trirazziale il mio stesso astio nei confronti delle autorità galattiche. Ho affrontato molti membri della Flotta, e la maggior parte di essi l’ho passata al filo della mia spada. Ho avuto modo di affrontare tattiche e atteggiamenti diversi, approntati da ufficiali più o meno esperti e più o meno duri. Finché non mi sono scontrato con Queen Hakuro, a voi forse più nota con il nome di Regina di Sangue. Quel mostro mi ha spedito all’ospedale, e lì ho avuto modo di cominciare a riflettere.» osservò uno per uno tutti i capibanda, lasciando Dragan per ultimo. Era certo che anche lui avesse appena ricordato i fatti di quel giorno, o non avrebbe scorto la paura nei suoi occhi. «La mia conclusione è stata che entrare nei Razziatori è stato un errore. Gli obiettivi dell’organizzazione non coincidono con i miei, pertanto ho deciso di abbandonarla.»
«Come se ti fosse possibile.» replicò aspramente Nekai, l’unica donna presente in sala. La kerwaniana dominava sui quartieri benestanti, e come al solito indossava un elegante tailleur nero. «Nessuno con la tua posizione abbandona l’organizzazione per una motivazione tanto cretina.»
«Le mie idee non coincidono più con le vostre, per quale motivo dovrei rischiare ulteriormente la vita per difenderle?» replicò a sua volta Sikşaka.
«E per quale motivo, di grazia, le idee hanno smesso di coincidere dopo otto anni?» domandò Koliachek, il più anziano in sala. Era uno xarthar pantera dagli occhi sottili e penetranti, con la capacità di giudizio più lungimirante di tutti i presenti.
«Ho provato a guardare le operazioni da un punto di vista più asettico possibile. E l’unico messaggio che viene fuori dalla raffica di distruzione che portiamo è che dove passiamo non ci sarà un domani.»
«Esatto. Per il nemico non ci dev’essere un domani.»
«Ma chi è esattamente il nemico, per voi?» provocò il maestro di spada. «La Flotta come istituzione? Non direi. Qualche suo membro? Probabile, dopotutto nutriamo tutti dei sentimenti. Il Sindaco? A lui pensano i colleghi della capitale, e comunque non ha mai fatto nulla per ostacolarci. E che dire della Polizia? Sapete anche voi che non interviene. Quindi... contro chi ci stiamo scagliando?»
«Perfetto, abbiamo un pivello in crisi d’identità.» commentò sarcasticamente un altro dei capibanda. Era un lombax di mezz’età con il vello candido e gli occhi grigio acciaio, carichi di disprezzo.
«Io trovo invece che siano domande sensate, Albio.» affermò Koliachek, accarezzandosi il mento. Posò uno sguardo carico di aspettativa su Sikşaka e proseguì: «Dimmi ragazzo, hai trovato una risposta?»
«È proprio quella che mi fa desiderare di ritornare sui miei passi.»
Sostenne lo sguardo di Koliachek sillaba dopo sillaba, senza dimostrare turbamento. Lo xarthar soppesò la risposta e la unì alle considerazioni fatte durante le spiegazioni. Alla fine arricciò le labbra e annuì con fare abbastanza convinto.
«Ti ho inquadrato, Sikşaka Talavara. Sei uno di quelli che segue i propri princìpi fino alla fine.» e si volse verso Dragan. «Per me un accordo è possibile.»
Il lombax annuì, ma altri non presero bene le parole dell’anziano. Nekai si mostrò stupita e si fece pensierosa, mentre Belvard e Albio si indignarono della decisione e protestarono sonoramente. Gli altri due – Winsen, un kerwaniano tarchiato che dominava sull’area ai confini di quella di Nekai, e il successore di Dragan sull’area ovest dei bassifondi, un lombax biondo di nome Yanko – rimasero in silenzio. Winsen sembrava più che altro annoiato; mentre Yanko non mostrava alcuno stato d’animo. Dragan si chiese se non avessero già deciso in merito, per rimanere in un silenzio così riservato.
«E chi ci dice che una volta fuori dal giro non ci tradisca tutti?» osservò Belvard.
«Questo potresti farlo tu.» asserì tranquillamente Winsen. «Del resto la faccenda di Reisshin lo conferma.»
«Cos’hai detto?!»
«Sto dicendo che sono d’accordo con Koliachek.» spiegò il kerwaniano. «Conosco Talavara a sufficienza da poter dire che terrà la bocca chiusa.»
Dragan annuì e segnò mentalmente: tre a favore. Ne manca solo uno. Guardò istintivamente Yanko, sperando che lo supportasse.
Dopotutto anche lui lo conosce.
«Continuo a non essere d’accordo.» dichiarò Nekai.
«Non esiste possibilità.» le fece eco Albio.
«E tu non hai niente da dire, Yanko?» domandò Belvard con veemenza. Il lombax biondo alzò uno sguardo pigro sul coetaneo e asserì: «Se il capo ci ha chiamati per decidere, significa che lui per primo si fida. E io mi fido del suo giudizio.»
«Sei un cane leccaculo, l’ho sempre saputo.» borbottò Albio.
«Ma tu cosa ne pensi?» domandò ancora il cazar. Yanko sbuffò sonoramente.
«Penso che sia uno spreco di tempo stare qui a pensarci ancora. Siamo in quattro ad essere favorevoli e in tre ad essere contrari. Se nessuno si rimangia la parola possiamo anche procedere, per quel che mi riguarda.»
Dragan provò una specie di moto d’orgoglio per la risposta che il suo erede aveva servito al vicino, e sorrise sommessamente.
«Tre di voi più me a favore.» dichiarò. Si voltò a guardare Sikşaka e aggiunse: «Avrai l’onore di un Patto d’Uscita, ritieniti fortunato.»
Il maestro d’armi si limitò ad invertire l’incrocio delle braccia e a dire: «Non avrete di che pentirvi.»
 
Meno di un’ora dopo uscirono tutti dal container. Sikşaka fu fatto uscire per primo, davanti alle guardie del corpo. I capibanda sarebbero usciti per ultimi.
Il maestro di spada esalò un impercettibile sospiro di sollievo: se non altro, era uscito intero dal container. Poi ripensò alle condizioni: sarebbe stato tenuto costantemente d’occhio, non avrebbe dovuto traslocare né avere contatti di alcun tipo con le forze dell’ordine e non sarebbe dovuto uscire da Kyzil Plateau. Violare uno solo dei termini sarebbe equivalso all’eliminazione, ma la contropartita era una vita pacifica.
Quello che volevo, no? Ad ogni modo, almeno nel primo periodo mi conviene evitare le zone di Nekai, Belvard e Albio. Visto quanto gli piaccio mi farebbero sparare a vista.
Si incamminò verso l’ingresso della zona di stoccaggio, senza voltarsi o cambiare espressione quando le vetture dei vari capibanda lo sorpassarono.
Immaginò che ricominciare da dove aveva interrotto otto anni prima sarebbe stato difficile con quelle restrizioni: gran parte delle sue conoscenze si era trasferita altrove o si era arruolata. Tuttavia non gli sarebbe nemmeno dispiaciuto condurre una vita solitaria, almeno all’inizio. Avrebbe avuto modo di riavvicinarsi passo per passo ad una vita normale.
L’ultima vettura sfanalò e si fermò al suo fianco. Il finestrino calò e Sikşaka si trovò davanti lo sguardo intelligente di Dragan.
«Vorrei parlarti da pari un’ultima volta. Sali, ti riporto alla palestra.»
Il maestro di spada annuì e la portiera fu aperta. Una volta salito a bordo, il mezzo ripartì. I cumuli di terra e le sagome dei vecchi container bombati assomigliavano a strani mostri nella luce della luna, e il movimento veloce delle nuvole suggeriva che di lì a poco avrebbe cominciato a spirare la pithil. Dentro la vettura c’era il silenzio assoluto.
Oltrepassarono almeno tre lampioni prima che Dragan prendesse la parola.
«Non so dirti se ti ritengo un cretino o meno.» asserì quando esordì. «Però dammi retta ed evita i quartieri di quei tre.»
«Ci avevo già pensato, non temere.»
«Sul serio Sik, cosa c’è che non va?» volle sapere il lombax. «Sei voluto uscire dal giro e ti ho accontentato nel modo più legale che ho. Ma non capisco proprio.»
Il maestro d’armi si prese qualche secondo per decidere se era il caso di dirgli la verità o meno. Non aveva mentito nel raccontare tutta l’altra storia, nel container; tuttavia era considerabile una mezza verità. Si disse che di Dragan poteva ancora fidarsi, e si convinse a vuotare tutto il sacco.
«Mi ci ha fatto riflettere un ragazzo ad Anther City. Le sue convinzioni erano parole vuote, rese credibili solo dal suo affanno per renderle vere. Tra me e me l’ho rimproverato, poi mi sono reso conto che la mia vita era come quelle parole. E allora ho cominciato a pensare di girare pagina.»
«Continuo a non capirti, ma fa lo stesso. Cosa farai adesso?»
«Non ne ho idea. Ma suppongo che un lavoro come operaio mi andrebbe bene per i primi tempi. Poi potrei riaprire la palestra.»
«Col fisico che ti ritrovi vai a insegnare, no?» buttò lì Dragan. «Oltretutto, ora che la spalla è tornata completamente abile puoi farlo.»
«È un’altra possibilità.» e si massaggiò la spalla. Per un momento ripensò alla sensazione di dolore che aveva provato mentre l’altro la cauterizzava. Gli parve di sentire ancora quel bruciore lancinante e si decise ad andare avanti. «Comunque la palestra mi piacerebbe riaprirla, non sia mai che riesca a riacquistare e insegnare un po’ di valori, come alternativa allo sfacelo proposto da voi.»
«Quindi mi farai da rivale?» domandò scetticamente il razziatore.
«Ad essere obiettivi non credo proprio.» rispose Sikşaka, occhieggiando lo scenario cittadino al di fuori del vetro. «Prima devo riscattare me stesso. Poi, forse, un giorno...se riuscirò ad impedire anche a una sola persona di fare i miei errori potrò ritenermi soddisfatto.»
«Se sta bene a te...buona fortuna.»
Il maestro di spada lo squadrò. «Lo sai che non te l’augurerò, vero?»
«Otto anni che ti parlo e non l’hai mai fatto.» e si concesse una risata. «Comunque spero di non vederti mai più. Altrimenti...»
Sikşaka alzò la mano con un gesto deciso. E il tono con cui parlò successivamente fu tanto grave da mettere Dragan sul chi vive. «Io non infrangerò il Patto, lo sai. Ma mi terrò le spalle coperte: se sarete voi a romperlo, nessuno ne uscirà illeso.»
Gli lanciò un’ultima occhiata fredda e decisa, prima di ribadire: «Nessuno, ricordatelo bene.»

 

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Capitolo 6
*** | Capitolo 06 | A briglia sciolta ***


[ 06 ]
A briglia sciolta
Presente. Sempre 18 aprile 5402-PF, ore 9:30 circa
Kyzil plateau, bassifondi
 
Dragan stirò le labbra in un sorriso amaro. Se ripensava ad Anther City non poteva fare a meno di ricordare l’odore del plasma e del fumo. Se ripensava al giorno in cui Sikşaka aveva voltato loro le spalle, invece, non poteva fare a meno di provare un senso di fallimento.
Quell’idiota sarebbe diventato un pezzo grosso, se non se ne fosse andato.
Quel pensiero non fece altro che procurargli un grumo di sensazioni negative.
La Regina, poi, ha cercato proprio me. Voleva che fossi io a occuparmi della faccenda, e questo mi fa chiedere se è il destino ad essere marcio o se è lei che è un mostro.
Ripensò alle informazioni contenute nella pochette. Il bersaglio della donna era Rakta, nientemeno. Ma per quale motivo è tornata a cercare quella spada dopo tanto tempo? Per puntiglio?
Il razziatore scosse la testa: quello non lo riguardava. Ragionare andava bene, ma troppe domande spesso portavano alla fossa.
Raggiunse la porta stinta, perso tra i pensieri, e trovarsi davanti al cartello scrostato gli strappò l’ennesimo sorriso vuoto. Era stato lì che avevano discusso tante volte, di piani o per svago, spesso di fronte ad una birra. Quel posto, odoroso di parquet e sudore, era stato un rifugio tante di quelle sere che entrarci gli causò una fitta di nostalgia.
Accese il disturbatore e si fece largo nell’ingresso. Andò diretto fino alla cucina-infermeria, dove trovò il suo bersaglio. Notò che, prima del suo arrivo, Sikşaka era stato intento a studiare su un vecchio libro di scuola. In quel momento lo fissava come fosse un fantasma.
«Ciao Sik.»
Il maestro d’armi avvertì un peso scivolargli nello stomaco. Allontanò appena la sedia dal tavolo e domandò con aria guardinga: «Cosa fai qui?»
L’altro alzò le spalle con ovvietà e rispose: «Mah, sai com’è. Ho visto per caso l’insegna sulla porta e mi è venuta nostalgia di una bevuta insieme.» poi indicò il libro e sorrise. «Ti prepari per la sessione pomeridiana di compiti?»
Sikşaka rifletté rapidamente: di sicuro il suo ex collega era armato; mentre per lui le armi più vicine erano i coltelli da cucina. Non guardò il contenitore sul lavello per non tradirsi.
«Sei troppo teso. Sono qui solo per parlare.»
«Anche l’altra volta. Peccato che dietro di te ci fosse un plotone con le armi spianate.»
Si alzò in piedi per precauzione. Se l’altro avesse accennato ad armarsi, avrebbe potuto reagire più prontamente.
«È vero, quella volta Belvard mi ha fregato.» ammise con calma Dragan. «Ma posso giurarti che ora sono qui per onorare vecchi debiti.»
«Fai alla svelta. Non sei il benvenuto.»
Riconobbe che l’altro era pronto a reagire al minimo cenno. L’aveva visto troppe volte con le orecchie abbassate per non saper riconoscere quando fosse sul chi vive.
Il razziatore sospirò profondamente, poi scandì: «E va bene. Anzitutto, sono venuto a dirti che il patto è rotto.»
Sikşaka sgranò gli occhi, sorpreso. La coda frustò l’aria mentre, con tono basso, rispondeva: «Non puoi parlare sul serio. Non ho infranto alcuna restrizione.»
«Tecnicamente sei in combutta con la polizia, Sik. Questo infrange eccome gli accordi.»
«Non ho il tipo di contatto che disturba voialtri.»
Il razziatore alzò la mano, zittendolo. Poi andò avanti: «Comunque stai buono, il patto l’abbiamo rotto noi. È arrivata una commessa che ti riguarda...» e si strinse nelle spalle. «Sai come funziona.»
Il maestro d’armi si sentì raggelare. Niente patto comportava niente protezione; mentre essere al centro di una commessa equivaleva a dipingersi un bersaglio fra le scapole. Le probabilità di fare una brutta fine erano appena aumentate in maniera esponenziale.
Dragan sorrise con aria enigmatica.
«Comunque, te l’ho detto: sono qui per onorare dei debiti. Dunque ti chiedo: perché stasera non ti fai una cena fuori? È tanto che non ti concedi una serata con la tua allieva.»
Sikşaka lo guardò con aria diffidente. Appoggiò le mani sullo schienale della sedia, sforzandosi di non stringere la presa. La coda sferzò l’aria con un nuovo colpo di frusta.
«E se preferissi cenare a casa?»
Dragan fece un respiro appena più profondo.
«Sai che verresti ucciso.» disse. «E io avrei rischiato l’accusa di tradimento per niente. Sarebbe scomodo per entrambi, non trovi?»
«Cosa volete da me?»
«Non posso dirtelo. Però ti stimo troppo per credere che continui a pensare da idiota suicida come dieci anni fa. Seguirai il mio consiglio.»
L’allusione sollevò una nebulosa di sensazioni miste nell’animo del maestro di spada, che tuttavia non poté fare a meno di incurvare appena le labbra verso l’alto.
«Chissà, potrei deluderti ancora. Dopotutto non credo che tu abbia ancora capito perché ho abbandonato la causa. Certe cose rimangono sempre le stesse.»
Il razziatore comprese che l’unica speranza di farlo ragionare con le buone era sparita nel momento in cui Belvard l’aveva ingannato, due anni addietro. Sikşaka non aveva dimenticato, nonostante i suoi sforzi per riparare, e in quel momento non gli avrebbe dato retta nemmeno se lo avesse scongiurato in ginocchio.
Gli dispiacque sfoderare il muso duro, ma non vide altra soluzione.
«Non farmi mettere in mezzo la ragazza. Tu stasera uscirai da questo posto.»
Come previsto, la minaccia sortì l’effetto voluto. Per contro, anche Sikşaka mise il muso duro.
«Non ti allargare, Dragan. Questa faccenda rimane fra me e te.»
«Deliravi dalla febbre l’ultima volta che mi hai protetto, ad Anther City. Eppure hai imbracciato quell’accidenti di spada e ti sei mosso come un demonio. Perciò farò quanto serve per tenerti in vita, socio, e se per allontanarti da qui dovrò tagliare la gola a qualcuno allora non mi farò problemi.»
Il maestro di spada non dubitava di quelle parole. Avrebbe potuto scommettere la vita che quella sera qualcuno avrebbe sorvegliato a vista lui e Lilith, dopo quella minaccia.
Dragan sentì che era il momento di dargli la spallata finale: «Pensi che Albio si farà tutti i miei scrupoli verso uno scricciolo bellicoso?» scosse la testa. «Eppure sai di che pasta è fatto.»
Sikşaka alzò le mani in segno di resa.
«Complimenti.» sputò con disprezzo. «Hai vinto.»
Dragan mostrò un sorriso. «Solo perché conosco il mio avversario.» rispose allegramente. «Mi raccomando per stasera, allora. Se vuoi posso consigliarti un posto carino.»
Sikşaka digrignò i denti.
«Sparisci.»
Il razziatore mostrò un cenno di saluto e lasciò la palestra sotto lo sguardo vigile del maestro di spada. Il sorriso mutò pian piano in una linea piatta; poi s’incurvò nell’altro senso.
Scusa socio, pensò con amarezza. Avevo sperato in un incontro pacifico.
* * * * * *
Ore 10:35
Settore ovest, istituto d’istruzione superiore “A. Shouster”
 
Chiunque fosse presente nel bagno dell’ultimo piano si defilò alla velocità della luce. Lilith, livida per la rabbia, sbatté violentemente Cole contro il muro e, senza dargli il tempo di reagire, gli torse il braccio dietro la schiena per tenerlo fermo.
«Adesso vuoti il sacco.» ringhiò, scontenta di non poter andare oltre. Se gli avesse anche solo lussato la spalla, per lei si sarebbe prospettato un altro soggiorno alla centrale di polizia.
«E su cosa?» domandò lui, con un tono che voleva essere beffardo ma che risultò forzato.
«Tu, le tue moine e il rapporto tra me e Sik.»
Cole la sfidò con un sorrisetto. «Scusa?»
Lilith aumentò la torsione del braccio, strappandogli un gemito.
«Non fingere, merda. So quando trami.»
In effetti, nell’ultima settimana Cole si era dimostrato molto pentito. Aveva lavorato alacremente e aveva cominciato ad avvicinarsi a Sikşaka con alcune domande mirate sull’arte delle lame, mandando Lilith sul chi vive a tempo di record. Il maestro di spada, secondo lei, aveva scambiato le sue azioni per buona volontà; e nella sua visione dei fatti ciò era inaccettabile, perché avrebbe finito con il corrodere ogni legame che c’era tra loro.
«E cosa dovrei tramare?» chiese innocentemente Cole. «Non c’è bisogno di grandi escamotage per dimostrare che sei violenta, Lilly. Guardaci e smentisci, se puoi. Hai fatto tutto tu.»
La ragazza sentì il formicolio del combattimento avvamparle in fondo al cranio e si impose di fermarsi. Si ricordò che altrimenti l’avrebbe attesa un soggiorno con il collare tachys e si trattenne.
«Non ti riduco la spalla in briciole solo perché ti farei un favore.» ringhiò. «Ma se continui con la messinscena, giuro che t’ammazzo.»
Il ragazzo roteò platealmente gli occhi e sbuffò.
«Hai finito di fare l’incazzata? Non sto cercando di portarti via l’amante.»
Al ché Cole ebbe la certezza che sarebbe stato accoltellato lì, contro il muro del bagno delle ragazze. Lo sguardo della lombax non prometteva altro. Gli parve persino di vederla tremare per la furia trattenuta a stento.
«Tu non sai proprio niente.» asserì invece, sputando disprezzo ad ogni parola. «Tu e la tua vita dorata del cazzo. Smettila con la farsa.»
In sottofondo si udì la campanella che segnava la fine dell’intervallo. Un sottile ghigno comparve sul volto di Cole.
«Spiacente Lilly, il tempo per le suppliche è scaduto.» annunciò. «Adesso fai la brava e lasciami andare.»
Lilith lo lasciò andare con uno strattone, prima di fargli del male davvero. «Va’ a farti fottere.» ringhiò. «E poi non dire che non te la sei cercata.»
 
Rientrare in classe non fu un prosieguo piacevole. La professoressa di matematica non gradì il loro ritardo e li fulminò con lo sguardo.
«Hardeyns e Shinagan! Di nuovo fuori orario!» gracchiò.
«È solo un minuto, prof! Stavamo parlando della sua lezione!» mentì Cole.
«Allora venite alla lavagna!» replicò l’insegnante, cogliendo la palla al balzo. «Magari due esercizi vi chiariranno le idee sull’argomento e sull’orario. E ovviamente il voto farà media.»
Lilith roteò gli occhi e si avvicinò alla lavagna sperando di farcela. Cole la seguì masticando una maledizione. Quando i loro sguardi si incrociarono, una volta vicini all’odiata cattedra, volarono nuovamente scintille.
È solo colpa tua, pensarono entrambi. Me la pagherai.
La professoressa li ignorò per pochi secondi, mentre si destreggiava tra le pagine alla ricerca di un esercizio.
«Dunque, direi che può cominciare la signorina Hardeyns.» sentenziò con la sua voce stridula. Niente di nuovo: era risaputo che quella donna andava sempre in ordine alfabetico nelle interrogazioni. La donna mise il libro aperto sul bordo della cattedra e le indicò una funzione. «Copia questa e comincia ad analizzarla, forza.»
Lilith osservò ciò che puntava il dito adunco dell’insegnante. Dando un’occhiata al testo, pregò che un fulmine entrasse dalla finestra per uccidere la professoressa.
Sappi che t’odio anch’io, stronza.
Cominciò a lavorare piano, come suo solito. Aveva difficoltà a ritrovarsi tra tutti quei numeri, come se cominciare a risolvere un esercizio la costringesse ad entrare in un labirinto grande e complesso. La professoressa lo sapeva bene e si era rassegnata alla sua lentezza, sebbene di tanto in tanto non disdegnasse frecciate acide.
La donna la fece arrivare più o meno a metà dell’esercizio, poi la fermò e la mandò a posto per far proseguire Cole. Il ragazzo, al contrario di Lilith, riuscì a portare a termine l’esercizio in molto meno tempo.
«A posto anche te.» dichiarò la professoressa con aria insoddisfatta. «Hardeyns, ti do un sei per pietà. Shinagan, sette.»
Lilith sgranò gli occhi, sorpresa. Quel “per pietà” le dava fastidio, ma tutto sommato l’idea di non dover riparare ad un’altra insufficienza la sollevava. Si limitò ad annuire e segnò la sufficienza sul diario. Le pagine, dopo il bagno della settimana prima, scricchiolarono sotto la penna; dopodiché, una volta messo il diario a posto, scrisse un messaggino che inviò a Sikşaka.
 
Interrogata a sorpresa di mate.
Ho preso 6! =D
 
Non si aspettò una risposta: il suo maestro preferiva parlare a voce. Soddisfatta per la scampata insufficienza tornò a seguire la lezione.
O almeno ci provò. Quando gettò uno sguardo sul cortile, dopo qualche minuto di spiegazione piatta, vide una sagoma familiare galleggiare nella fontana davanti all’ingresso. Allarmata, guardò sotto il banco e si accorse che le mancava lo zaino; mentre alle sue orecchie giunse una ghignata che conosceva. Allora spiò dietro le spalle, laddove si sedevano Cole e i suoi scagnozzi, e vide Evrard sghignazzare. Immaginò che ci fosse stato un accordo tra lui e Cole, qualcosa del genere “colpisci mentre guarda me”, ma l’occhiata perplessa del lombax color torba le fece capire che era stata una sua iniziativa.
Quel bastardo!
Spinse rumorosamente la sedia indietro s’incamminò a passo marziale verso la porta dall’aula.
La professoressa non mancò di notarla: seguì i primi passi intrecciando le dita ossute delle mani, dopodiché domandò acidamente: «Hardeyns, dove ti credi di andare?»
La domanda spazientita fece fermare la ragazza sulla porta. Sostenne con durezza lo sguardo arcigno dell’insegnante; poi indicò la finestra e disse: «Il mio zaino è nella fontana. Vado a riprenderlo, poi mi fermo in palestra per asciugare i libri.»
La professoressa la squadrò malamente, prima di andare ad accertarsi della veridicità delle sue parole. Lilith non attese di ricevere il permesso per uscire, ma prima di lasciare l’aula lanciò uno sguardo minaccioso in direzione di Evrard, che ancora sghignazzava dietro il libro di matematica. Per un istante desiderò che la sua abilità esper mutasse, diventando qualcosa di più offensivo. Se fosse stata un’idrocinetica, ad esempio, avrebbe potuto ripagare il suo compagno di classe secondo il proverbio “occhio per occhio, dente per dente”.
Sarebbe splendido affogarlo, si disse, prima di costringersi a tornare con i piedi per terra. Avrebbe potuto fantasticarci sopra per millenni, ma nulla avrebbe cambiato l’abilità con cui era nata. Il medico che l’aveva diagnosticata, quand’era ancora un fagotto che gattonava, aveva stabilito a chiare lettere che si trattava di alterazione termica. Difatti la sua specialità era l’alterazione della temperatura di un oggetto o dell’ambiente circostante: utile per asciugare i libri, ma inutile per farla pagare ad Evrard.
 
La ragazza scese velocemente le scale che dal terzo piano la portarono fino all’atrio. Una volta fuori recuperò la cartella dalla fontana, che per sua fortuna non era tanto grande da doverci entrare per raggiungere lo zaino. Le bastò sporsi in avanti e lo trascinò fuori, dove cominciò a scolare l’acqua. La ragazza si guardò bene dall’aprirlo subito e guardare al suo interno, sapendo che avrebbe cominciato ad imprecare, quindi si diresse sul retro della scuola, dove c’era la palestra. L’acqua che scolava dallo zaino, che pendeva mollemente dalla sua mano, disegnò una linea arzigogolata sul terreno. Vedendola, Lilith sentì di essere come la sua cartella: umiliata e sballottata qua e là da una vita indifferente nei suoi confronti. Il solo pensiero la riempì di una rabbia profonda, che la spinse a stringere i denti talmente forte da farli scricchiolare.
Entrò nell’atrio degli spogliatoi e si diresse a passo marziale dentro quello più lontano, che raramente veniva usato. Attirò lo sguardo del bidello di stanza nella palestra, ma non ricevette alcuna domanda. Il blarg alzò pigramente la testa e prese nota dell’ingresso della studentessa, prima di riprendere a compilare le parole crociate.
Una volta chiusa la porta dello spogliatoio, la ragazza dispose i vari libri e quaderni sulle panche, facendo attenzione a non strapparli mentre li metteva in fila sotto i phon. Dalla carta proveniva un fastidioso odore di cloro, mentre sotto le panche si vennero a formare delle piccole pozze. La ragazza osservò le copertine dai colori annacquati e immaginò che, nonostante le sue attenzioni, al momento di rivendere i libri le avrebbero dato meno di quanto le spettasse a causa delle loro condizioni. Allora la rabbia esplose in un’onda violenta della sua abilità: la temperatura nella stanza aumentò vertiginosamente in pochissimo tempo, quasi come se il deserto fosse penetrato prepotentemente al suo interno.
Quando la temperatura fu così alta da togliere il respiro, la ragazza accese i phon uno dopo l’altro e attese finché non ebbe l’impressione di non respirare affatto a causa del calore. A quel punto, senza estraniarsi dalla sua abilità, si sdraiò su una panca e lasciò che il caldo la annichilisse; attendendo con ansia che la sensazione di pigrizia e stanchezza la cogliesse. Non era la prima volta che le accadeva di annichilirsi volontariamente per non sfogarsi su qualcuno in carne ed ossa. Quando fu certa di non essere nociva per niente e per nessuno, lasciò che i pensieri vagassero e portassero con loro tutta la frustrazione che covava da tempo.
Rimase in quella condizione finché il bidello non entrò all’improvviso. Quando spalancò la porta fu schiaffeggiato da una vampa d’aria calda che lo costrinse a indietreggiare; mentre Lilith, per lo spavento, si mise a sedere di scatto. Quando il blarg si riprese e si trovò davanti allo sguardo arrabbiato della lombax, il suo «Ragazzina, che cazzo fai?!» perse quasi ogni sfumatura di minaccia. Lilith sapeva di spaventarlo, anche se non sapeva il motivo.
«Un idiota mi ha tuffato lo zaino nella fontana.» spiegò cupamente, passandosi una mano sulla fronte per togliere il sudore. «Sono venuta ad asciugare i libri.»
Il bidello si disse che doveva essere completamente matta. C’erano almeno cinquanta gradi nella stanza e la ragazza era un bagno di sudore, ma se non fosse stato per lui avrebbe continuato in quel modo fino a farsi venire un malore. La guardò spegnere i phon, poi si fece forza, mise su il muso duro e disse: «Avanti, fila a casa. La campanella è suonata un quarto d’ora fa!»
Lilith accolse la notizia con indifferenza. Rimise i libri ormai asciutti nello zaino e se ne andò.
Posto di merda, gente di merda, vita di merda. Non vedo l’ora di andarmene.
 
Dopo aver abituato nuovamente il fisico all’aria esterna, nettamente più fresca di quella che lei aveva creato nello spogliatoio, attraversò di corsa le vie che portavano al settore nord. Sapeva che non avrebbe incontrato nessuno che le avrebbe proposto di fermarsi a mangiare insieme, ma prese lo stesso le vie meno battute dai suoi coetanei per arrivare a casa. Si fermò solo quando fu davanti ad una piccola abitazione, alta e stretta come tutte quelle vicine. La vecchia cassetta delle lettere, che dominava su un cortiletto arido, segnava a lettere stinte: “Hardeyns e Schwitt”, ma il secondo nome era stato cancellato con due rigacci. Da ché la ragazza aveva memoria, era sempre stato così.
Prima di entrare nella piccola abitazione recuperò alcune bollette dalla cassetta delle lettere, e una volta in casa le lanciò sul tavolo della cucina con l’intenzione di guardarle quella sera stessa.
Spero di avere abbastanza soldi. Il vecchio è in ritardo col pagamento, pensò salendo le scale che portavano alle camere. Quando entrò in camera sua, depositò lo zaino ai piedi del letto e aprì le ante dell’armadio, alla ricerca di un cambio d’abiti.
Che mi metto adesso?
Guardò i ripiani pieni di magliette e pantaloni ripiegati. Pensò che da qualche parte aveva una gonna, e la cosa la fece sorridere. L’ennesimo regalo sbagliato di suo padre.
Tirò fuori le prime cose che le capitarono a tiro e le lanciò sul letto, dov’erano già pronti il libro e il quaderno di scienze.
Dopo essersi cambiata le venne in mente di andare nella camera del genitore. Era tanto che non ci entrava: farlo, ogni volta, le provocava un misto tra la repulsione e il senso di vuoto. Quella volta non fu diversa dalle altre. Non sapeva spiegarsi nemmeno lei perché fosse voluta entrare in quella camera.
Lasciò la stanza alla svelta, appuntandosi di dare una spazzata in terra quanto prima perché la polvere cominciava a vedersi.
Tornò al piano di sotto e aprì il frigorifero. Non aveva il tempo materiale per farsi un pranzo completo, quindi si accontentò di riscaldare una fetta di carne della sera prima nel tempo in cui si preparava un po’ di verdura. Dopo aver mangiato abbandonò le stoviglie nel lavandino, si lavò i denti e uscì per andare da Sikşaka.
Non era passata più di mezz’ora da quand’era tornata da scuola.
* * * * * *
Ore 14:15 circa
Bassifondi ovest, Palestra Talavara
 
Sikşaka accolse Lilith con un abbraccio, non appena la ragazza entrò nella cucina-infermeria. La ragazza inizialmente rimase rigida, poi si concesse di abbracciare il maestro a sua volta. L’orrendo timore di vederlo allontanarsi sgusciò via all’improvviso, gettandola in uno stato di benessere che provava raramente. Rimase in silenzio per qualche secondo, in cui al benessere puro e semplice si unì il sospetto.
«Che succede?» mormorò contro la spalla, stringendo un poco la presa. Sikşaka la lasciò fare, e le passò una mano fra i capelli. Per un istante desiderò confidarle la verità ma, per non essere troppo imprudente, ricacciò in profondità il suo desiderio.
«Sei troppo tesa.» mentì. «Non hai bisogno di essere così rigida qui dentro, lo sai.»
In realtà cercava solo di calmare il suo senso d’inquietudine. Mentre le carezzava la testa dovette ricordarsi con chi aveva a che fare e, di conseguenza, cosa non poteva permettersi. Visto che la commissione affidata ai Razziatori lo riguardava – e conoscendo il modo in cui Dragan operava – non dubitava che ci fosse qualcuno appostato ad ascoltare ciò che si stavano dicendo.
Lilith, ignorando cosa stesse succedendo, prese per buona la risposta del suo maestro.
«Sono stufa, Sik...voglio andare via da questo posto di merda.» disse piano, quasi stesse pregando. «Sono stanca di essere additata, di sopportare galletti e galline, di essere sempre scontenta. Voglio una vita, una vita vera, non questo schifo.»
Non era la prima volta che la ragazza si lamentava della sua vita, ma non lo aveva mai fatto attribuendole delle tinte così disperate.
«Lilly...lo so che quello che hai non è l’esistenza perfetta. Quella, purtroppo, è riservata a poche e spesso immeritevoli persone; ma devi sapere che, se non ti piace, non sei costretta a subirla.»
Non si accorse di quanto a fondo avesse colpito finché Lilith non alzò di scatto la testa e si guardò attorno, spaesata. Dopo averle fatto cenno di sedersi, il maestro di spada sorrise pacatamente.
«Non ti sto prendendo in giro. Se non vuoi subirla, combattila. Cambiala, forgiala, temprala con le tue mani. È solo una questione di scelte.»
La ragazza annuì, convinta di aver capito.
Si disse che, se tutto dipendeva dalle sue scelte, allora negli ultimi anni ne aveva compiuta una serie rovinosa, a cominciare dalla scelta del liceo. Un errore che, da solo, aveva contribuito al 50 percento della sua scontentezza negli ultimi quattro anni, con i suoi stereotipi e gli status quo.
Sikşaka si passò i polpastrelli sulla fronte e guardò il vuoto per qualche istante, assorto. Pensò velocemente ad un modo per spiegarle il concetto di “scegliere bene”, che sapeva essere quanto di più condizionato dall’esperienza esistesse.
«So che per me parlare è facile, dato che ci sono già passato. Però voglio che tu sappia che so quanto sia difficile scegliere bene alla tua età. Forse è la cosa più difficile che c’è.» disse infine, riportando le mani sul tavolino. «Quindi ti spetta qualcuno che ti aiuti, qualcuno che tu ritieni meritevole di questa carica sulla base di un criterio che tu, e sottolineo soltanto tu, hai il diritto di stabilire.»
Le labbra di Lilith si storsero obliquamente in una smorfia scettica. Si diede dell’idiota per aver palesato tanta mollezza, quindi rimise in piedi la sua corazza e domandò nervosamente: «Ti stai offrendo volontario, per caso?»
Sikşaka trattenne il respiro un momento più a lungo del solito, prima di rispondere: «Scusa Lilly, ho commesso errori per cui non basterebbe una vita per riparare. Non credo di essere la persona adatta.»
Per la ragazza quelle parole chiusero ogni questione. Si sforzò di non dimostrarsi impressionata mentre rispondeva sarcasticamente: «Ah, ecco, volevo ben dire.»
A tradire ciò che provava, sotto il tavolino, le mani si torcevano e combattevano tra loro con una serie di prese più o meno forti, come unica manifestazione del disagio e dell’amarezza che provava. Quando le rimise sul pianale, con la pelle arrossata ben nascosta dalla pelliccia, le fermò una sopra l’altra e disse: «Bene, quindi cos’hai da offrirmi oggi?»
Sikşaka accettò di buon grado il cambio di discorso. Si sfregò le mani e mostrò un convincente sorriso complice.
«Domanda interessante. Ti dico subito che è una sorpresa, ma sono sicuro che troverai soddisfacente quello che ho pensato.»
Lilith si limitò ad annuire. Qualunque allenamento immaginasse, non vedeva altro che l’occasione per seppellire l’insoddisfazione sotto un monte di fatica.
* * * * * *
Ore 15:00 circa
 
Il pomeriggio cominciò con il solito battibecco: da una parte, Sikşaka chiedeva che Lilith e Cole s’impegnassero a studiare per un’ora; dall’altra i due non avevano né la voglia né l’umore per mettersi con la testa sui libri. Nonostante l’indisposizione, tuttavia, i due capitolarono sotto le insistenze del maestro di spada. Nulla di diverso dal solito.
L’ora successiva passò sotto un silenzio gravoso, durante il quale gli appunti di scienze divennero il fulcro di ogni attenzione; dopodiché ci fu una mezz’ora di breve interrogazione. Sikşaka si assicurò che i ragazzi avessero effettivamente assimilato l’argomento, dopodiché si alzò simulando soddisfazione.
«Va bene, possiamo parlare dell’allenamento.» asserì, portandosi una mano dietro la schiena. «Oggi parteciperà anche Cole.»
Il ragazzo si ringalluzzì di colpo, sentendo che il suo arruffianamento cominciava a dare i primi frutti. Lilith, invece, si sentì come se la terra sotto i piedi avesse dato una forte scossa.
«Non vorrai...davvero...»
Passò lo sguardo da Sikşaka a Cole più di una volta, non riuscendo a finire la frase. Si chiese se fosse quella la sorpresa.
«Chissà, magari imparo più alla svelta di te.»
Quello fu troppo per i nervi di Lilith. Assestò un calcio al ragazzo, affondandogli il calcagno poco sotto il ginocchio affinché non potesse scappare. Saltò il tavolo e gli piombò addosso, gettando a terra lui e la sedia. Il ragazzo, volto ancora al ginocchio dolorante, si ritrovò schiena a terra a tentare di fermare una Lilith furiosa seduta sul suo stomaco. Per un attimo, quando le afferrò i polsi, si illuse di poterci riuscire; ma lei si disfece della presa con uno strattone e gli assestò un pugno in pieno mento. Urla si sovrapposero ad altre urla, udibili persino dalla strada. Per dividerli Sikşaka dovette afferrare Lilith sotto le ascelle e tirarla indietro di peso, a braccia immobilizzate, intimando a entrambi di calmarsi.
Cole si rimise in piedi ansimando e si massaggiò la mascella. Osservò Lilith, che stava ancora strillando che doveva essere liberata, e guardò di sottecchi Sikşaka, che non accennava a lasciarla andare e intimava di stare calmi.
«Calmarsi? D-dovrebbe essere sedata e portata al manicomio!»
La ragazza vomitò una fila di insulti, ma il maestro non cedette. Con uno sguardo spazientito fece capire a Cole di stare zitto.
«Vai in palestra.»
«Ma...»
«Sparisci!» ringhiò.
Una volta che Cole se ne fu andato, Lilith smise gradualmente di dimenarsi e gridare vendetta. Ci vollero dieci minuti buoni perché Sikşaka fosse certo che, una volta lasciata, lei non avrebbe cercato di uccidere il suo coetaneo. Allora la lasciò libera, ma mantenne comunque il passo sbarrato alla porta della cucina.
«Chi ho davanti, Lilly o Hulk?»
«Io lo ammazzo.»
Conoscendola, Sikşaka non dubitò di quelle parole. Era determinata, arrabbiata e motivata.
«Lilly dominati, per favore.»
«Non ci arriva in fondo al mese. Non sulle sue gambe, quanto meno.»
«Lilly, per favore...»
«Prendo due piccioni con una fava: mi vendico e me ne vado.»
«Lilly!» esclamò il maestro di spada. «Ma ti ascolti?»
«Oh sì. E so che non me ne pentirei.»
«Stai farneticando! Per la miseria, capisco che sia irritante, ma ammazzarlo! Vorresti vivere da esiliata per il resto della tua vita, col timore che la gente venga a sapere che sei stata tu? Vorresti passare la vita a nasconderti dalle forze dell’ordine? Vale davvero la pena di farlo per lui?!»
«Sveglia Sik! Lui mi ha tagliato fuori dal mondo! Lui mi ha relegato in questa specie di non esistenza! Lui ogni giorno porta i miei nervi fino all’esaurimento! E per cosa? Perché io sono l’unica che gli dice di no!»
Con uno scatto repentino calciò una sedia, mandandola a ruzzolare malamente. «Proprio non capisci quanto sia frustrante?! E secondo te dovrei stare a guardare in silenzio?! Dovrei piegarmi alle voglie di un rampollo viziato solo perché ha un cazzo di padre ricco che gli para sempre il culo?!»
Sikşaka sostenne lo sguardo esasperato della giovane, poi si rese conto che calmarla urlandole contro non avrebbe funzionato. Fece un respiro profondo e rilassò le spalle.
«Lilly.»
Lasciò la frase in sospeso per qualche istante, in modo che il sangue defluisse dal cervello dell’allieva; poi disse: «Non devi piegarti, ma non puoi fare quello che vorresti.»
Bloccò la risposta della ragazza sul nascere. Alzò una mano con fare risoluto e aggiunse: «Non nel modo che vorresti. Cerca di capirlo.»
Passarono altri secondi. Lilith respirava pesantemente e fissava il maestro con chiara indecisione se inserirlo nella categoria “amico” o “nemico”. Alla fine disse: «Convincimi.»
Sikşaka trattenne un sospiro di sollievo. Se gli dava la possibilità di spiegarsi, c’erano buone possibilità di impedirle di partire a testa bassa.
«Immagina di aver appena ammazzato Cole. Immagina che sia steso a terra, morto, davanti a te. Cosa faresti?»
«Oltre a ridere di gusto?»
Il maestro sentì una replica dura salirgli sulla punta di lingua. Aveva sperimentato sulla sua pelle quanto fosse dura smaltire il primo omicidio; tuttavia non riprese la ragazza solo perché avrebbe reso ancora più difficile la situazione.
«Mettendo anche che tu riuscissi a ridere dopo averlo fatto.» concesse a denti stretti.
«Beh, me ne andrei.»
«Dove?»
Lilith alzò le spalle. «Un posto vale l’altro.»
«Non con un assassinio sulla coscienza, Lilly.» la corresse Sikşaka. «Dove andresti?»
«Non so...comincerei con Kerwan, forse.» buttò lì la ragazza.
Sikşaka annuì con aria scettica. «La tua foto circolerà. Tre trilioni di persone vedranno la tua faccia sugli schermi di annuncio dei ricercati. Tre trilioni di possibili accusatori. Cosa farai?»
«Suppongo che andrei via.»
«Dove?»
«Non so...un posto deserto.»
«Con che mezzi?»
Lilith si bloccò. Stava per dire “mezzi pubblici”, quando le venne in mente che la sua sarebbe stata una faccia nota.
«Non lo so. Credo che me ne procurerei uno.»
Lo sguardo di Sikşaka s’indurì. «Certo, aggiungendo il reato di furto a quello di omicidio. Non crederai di poter usare la tua carta di credito una volta che sarai ricercata, spero.»
«Per quel che c’è sopra...» commentò sarcasticamente. «E comunque, dato che sarei già condannata all’ergastolo, che differenza mi farebbe metterci qualche anno per furto, ammesso che mi prendano?»
«E da quando tu sai come rubare una navicella o un qualunque altro mezzo?» incalzò il maestro. «Ma ancora prima: da quando tu sai guidare quei mezzi?»
«Saprò adattarmi.»
Sikşaka strinse i pugni. Quel discorso gli era dolorosamente familiare. Vent’anni prima era stato lui a pronunciarlo con parole simili. All’epoca Matej non l’aveva fermato e lui aveva finito per pentirsi della sua scelta.
Non avrebbe ripetuto l’errore, si disse con determinazione.
«E che vita ti aspetta?» domandò, sempre più serio. Lilith rimase in silenzio, a pensare. Con un gesto istintivo strinse le piastrine, come se fosse in attesa di una risposta da loro.
Trascorsero molti secondi. Nessuno dei due smise mai di guardare l’altro negli occhi. Alla fine arrivò un momento in cui la ragazza smise di stringere convulsamente le piastrine e Sikşaka intuì che si era data una risposta. «Sono sicuro che non è quella di cui parlavi prima.»
«Già, forse ammazzarlo non sarebbe una scelta buona.» convenne amaramente.
Il maestro le mostrò un sorriso di comprensione. «Qualche volta le scelte giuste non collimano coi propri desideri. Però alla fine pagano sempre.»
«Sempre?» Lilith alzò uno sopracciglio, scettica.
Sikşaka annuì. «Sempre. E adesso, se vuoi sederti, vado a chiamare Cole.»
Le orecchie della ragazza si abbassarono. Sikşaka riconobbe che era ancora pronta a scattare addosso al ragazzo e si affrettò ad aggiungere: «No, ferma, aspetta. È per l’allenamento. Cole ha una sua utilità, che tu ci creda o no. E poi vi devo spiegare in cosa consiste, e non voglio metterci ore perché siete in due stanze divise.»
 
Quando Sikşaka tornò indietro con Cole, qualche minuto più tardi, Lilith era seduta al tavolino. Pigiava una guancia sul pugno e guardava il vuoto con aria assorta. Il maestro lanciò un’occhiata al ragazzo per assicurarsi che non fosse in procinto di provocare un’altra reazione violenta, ma Cole rimase zitto. Si andò a sedere a lato della ragazza e attese.
Sikşaka studiò i due giovani e poi cominciò a parlare. «Bene, riprendiamo da “Cole parteciperà all’allenamento”.»
Controllò di nuovo le reazioni dei due. Non c’erano segni di violenza imminente, così andò avanti: «Sarà una cosa semplice. Siccome lui è nuovo a queste attività, vediamo di introdurcelo nella maniera più appropriata. Pertanto l’allenamento sarà fatto da riprese più corte; direi di dieci minuti intervallate da stacchi di cinque. Cole, durante le riprese tu dovrai semplicemente fuggire. Lilly, tu sarai totalmente disarmata e il tuo compito sarà semplicemente atterrare Cole. Ogni volta che Cole finirà a terra conterò dieci secondi: se per la fine del conteggio lui sarà ancora a terra, verrà assegnato un punto a Lilith. Se invece sarà riuscito a scappare, il punto andrà a Cole. A fine giornata vedremo chi avrà totalizzato più punti.»
Lilith si sentì invadere da un senso di calma e determinazione. Si disse che, tutto sommato, nel suo mare di sfighe lei era fortunata: quello in cui il ragazzo era voluto entrare con i suoi arruffianamenti era un campo in cui lei si allenava da sei anni. Non ne sarebbe uscito illeso nemmeno sotto protezione divina.
Cole, invece, sentì montare l’agitazione. Si disse che doveva essere uno scherzo, perché il risultato era già scritto. Guardando la faccia di Sikşaka, però, capì che sarebbe stato tutto vero: si sarebbe trovato di nuovo davanti alla furia selvaggia della ragazza.
«Hai lavorato sodo per avere un’occasione, no?» domandò candidamente il maestro, leggendo la preoccupazione sul suo volto. «Eccola qui. Non avrai modo migliore per capire queste tecniche se non praticandole in prima persona; poi potrai decidere se continuare a strusciare pavimenti o no.»
«Ma..–»
«La prima volta è sempre alla bell’e meglio. Se non sai, puoi solo imparare.» al ché guardò l’orologio e cambiò espressione. «Oggi niente riscaldamento perché siamo in ritardo; adesso andate a cambiarvi. Cole, il tuo keikogi è nello spogliatoio.»
«Il cosa?»
«La divisa.» rispose Lilith, secca. «Rossa, comoda e capace di annegarti nel sudore.»
Il ragazzo alzò un sopracciglio. Da quello che aveva visto nei giorni prima quella divisa non sembrava così scomoda.
«Non ti preoccupare, sarai troppo occupato a salvare la pelliccia per accorgertene.»
L’espressione con cui la ragazza accompagnò la frase non fece altro che aumentare l’inquietudine di Cole.
* * * * * *
Ore 17:00 circa
 
Sikşaka si disse che era il momento della verità. Con quella specie di allenamento avrebbe valutato i limiti dei due ragazzi e visto se il ragionamento cui aveva sottoposto Lilith aveva sortito effetto.
Fece guizzare lo sguardo sulle armi affastellate alle pareti. Coltelli, spade, lance, picche, tridenti. Le carezzò tutte con lo sguardo, fino ad arrivare al drappo color sangue di Rakta. Seguire il filo ricurvo della scimitarra fu fin troppo facile; così come desiderare di impugnarla.
Controllo, Sik. – si corresse – O dovrai pagare il tributo.
Quando distolse gli occhi dalla scimitarra vide che Lilith e Cole erano uno davanti all’altra, in piena guerra verbale.
Per la miseria! Ma è possibile che non possa distrarmi un secondo?!
Si schiarì la voce con un colpo di tosse, riportando silenzio all’istante.
«Qualcosa delle spiegazioni non è chiaro?» domandò. «Non voglio morti sul mio parquet.»
Non ci furono obiezioni. Il maestro si allontanò di qualche passo e, guardato l’orologio sulla parete, diede il segnale di partenza.
La prima azione fu così veloce che Cole non ebbe modo di reagire. Al segnale Lilith scattò in avanti, lo agganciò per il collo e lo fece cadere all’indietro. Il ragazzo cascò a terra strillando per la sorpresa. Non ebbe il tempo di girarsi che si trovò Lilith seduta sulla pancia, che lo bloccava coi polsi a terra. I dieci secondi passarono senza che nemmeno se ne rendesse conto. Il primo punto andò a Lilith.
«Stamattina ti ho avvisato.» mormorò prima di lasciarlo andare.
La seconda azione si svolse identica alla prima, eccezion fatta per lo scambio di battute.
«Ti piace la vittoria facile, eh?»
«Magari mammina ti accoglie sotto la gonna, se piangi abbastanza forte.»
Sikşaka fece finta di non sentirli. Si limitò a contare i secondi e tenere il tempo; per mascherare i pensieri volti da tutt’altra parte.
Doveva ammettere che rivedere Dragan aveva scatenato delle ripercussioni che non si aspettava. Sentirlo nominare Anther City gli aveva causato fitte di dolore. Sentirsi chiamare socio, come ai tempi in cui lavorava per i Razziatori, lo aveva disorientato. Cedere al suo ricatto, poi, lo aveva svilito.
Ma quella, si disse, era una faccenda che dovevano risolvere tra loro. Cedere a un ricatto non sarebbe stato un prezzo troppo alto da pagare, finché avesse mantenuto la vicenda tra loro.
 
La prima ripresa finì con uno schiacciante 12 a 0 per Lilith. Cole era riuscito ad allungare la durata delle azioni, ma non a cambiarne l’esito.
Il ragazzo accolse i cinque minuti di stacco come una manna dal cielo. L’esercitazione era appena cominciata e già sentiva le articolazioni acciaccate dai colpi. Rimase sdraiato sul parquet, preda del caldo, con la semplice voglia che finisse presto. Roba che, di solito, lo prendeva verso la fine dei suoi allenamenti abituali. Immaginò la faccia del suo allenatore calargli sopra e gridare che era un vergognoso smidollato, quando di fianco a lui comparve Sikşaka. Seduto in equilibrio sulle punte dei piedi, il maestro lasciò una bottiglietta d’acqua vicino alla sua testa.
«Senti dolore da qualche parte?» domandò.
«Domani sarò coperto di lividi.»
«È vero. Ma è anche una cosa normale: devi solo imparare a cadere.»
Cole cercò di incrociarne lo sguardo. «Qualche suggerimento?»
«In generale è uno solo.» alzò un dito dal pugno chiuso. «Mai offrire spigoli al pavimento.»
«Oh, beh, facile.» ironizzò il ragazzo. «Qualcosa di più specifico non ce l’hai?»
«Se cadi all’indietro, cerca di rotolare. Tieni la testa contro una spalla, così non correrai il rischio di battere la nuca.»
«Rotolare?»
«Proprio così. Sentiti una palla, Cole. Accompagnati verso il pavimento e picchiaci con tutta la schiena, così da distribuire l’urto su una superficie più ampia e senza spigoli. Ti farai meno male.»
Cole guardò il soffitto per qualche istante, dopodiché si tirò a sedere e approfittò della bottiglietta portatagli dal maestro. Bevve avidamente, sentendo il contrasto tra il liquido fresco e il caldo che provava. Alla fine si passò la manica sulla faccia, per pulirsi.
«E con la belva come faccio?» domandò.
«Oh, questo è compito tuo scoprirlo.» rispose allegramente lui. «È lo scopo del tuo allenamento.»
 
Due ore più tardi, quando Sikşaka decretò la fine dell’allenamento, i due ragazzi si lasciarono cadere sul pavimento, distesi e ansimanti.
Distrutto ma soddisfatto, Cole si mise a croce per godere del pavimento fresco.
«Due punti, Lilly.» disse tra un respiro e l’altro. «Non ti puoi vantare.»
«Idiota, ne ho fatti ottantatré.» replicò lei, scura di voce ma soddisfatta a sua volta. «Hai fatto due punti perché te li ho regalati.»
«Ma se paragoniamo l’esperienza, ho praticamente fatto un miracolo.»
«Stronzate. Quando hai portato le ginocchia al petto sei rimasto con le palle scoperte. Non parli in farsetto grazie alle regole della palestra.»
Sikşaka, udita la frase, trattenne un risolino. Subito dopo, però, riportò lo sguardo su Rakta e sentì montare l’agitazione.

 

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Capitolo 7
*** | Capitolo 07 | Un tesoro conteso ***


[ 07 ]
Un tesoro conteso
Il giorno seguente, 19 aprile 5402-PF, ore 2:20
Settore nord, casa Hardeyns
 
Sikşaka si rigirò nel letto per la milionesima volta.
Chiuso nella camera del padre di Lilith, ogni volta che provava ad addormentarsi, Dragan e i suoi discorsi arrivavano a tormentarlo.
Vedere il razziatore sulla soglia gli aveva dato un brivido. Gli aveva ricordato cosa significasse provare una scarica di adrenalina. E il suo discorso gli aveva nuovamente messo addosso l’inquietudine della preda. Lo aveva riportato ai tempi di Anther City, quando la Regina di Sangue li braccava da vicino.
Si rigirò ancora una volta. Dalla finestra filtrava la luce di un lampione. Lo specchio, seppur ricoperto da un leggero strato di polvere, gli rimandò l’immagine di una sagoma in continuo movimento.
Si mise pancia all’aria per non sbottare contro se stesso. Quasi in automatico, la mente tornò di nuovo sulle poche cose che sapeva.
Niente patto. Una commessa. Un debito da onorare.
Per l’ennesima volta si chiese cosa potesse ricavare da quei tre pezzi.
Il patto si è rotto perché è arrivato l’incarico.
Era logico.
Ma Dragan non era propenso a svolgerlo.
Doveva essere così, altrimenti non lo avrebbe avvisato.
La domanda regina, però, rimaneva: cosa vogliono da me?
Arrotolò le lenzuola in fondo al letto, portò le mani sotto la nuca e rinunciò al sonno.
Ripensando al discorso di Dragan, ricordò che il razziatore aveva menzionato Anther City.
“Deliravi dalla febbre l’ultima volta che mi hai protetto, ad Anther City. Eppure hai imbracciato quell’accidenti di spada e ti sei mosso come un demonio.”
Si domandò se fosse stato un semplice ricordo o se avesse contenuto un messaggio.
Il momento che gli aveva indicato era preciso. E anche l’episodio cui si riferiva non era mai sbiadito dalla memoria.
Fu allora che intuì cosa cercassero da lui.
Balzò giù dal letto e si vestì rapidamente, strappando i vestiti dalla sedia.
Era talmente ovvio!
Sgattaiolò al pian terreno, infilò velocemente le scarpe e sparì oltre la soglia, sbattendo la porta per l’agitazione.
Forse non l’ha trovata.
Sperò che fosse così. Rakta racchiudeva tutta la sua vita, nel bene e nel male. Era ciò che rappresentava i valori del vecchio Gazda e ciò che gli ricordava gli orrori che aveva commesso; ma era anche il simbolo della palestra con cui era tornato nel mondo della legalità.
Potevano sottrargli tutti i suoi beni, ma non quella spada. Se lo avessero fatto, li avrebbe fatti pentire amaramente.
* * * * * *
Ore 2:30 circa
Ovest di Kyzil Plateau, ex area stoccaggio Gadgetron
 
Dragan, che sentiva un senso di disagio, cercò rifugio nel cielo stellato. Le rade nuvole si muovevano rapidamente, segno che stava arrivando la pithil. Presto il vento che spirava dal basso avrebbe portato in città la polvere del deserto, e allora non si sarebbe scorto altro che una cortina marrone.
«Qualche problema, capo?» gracchiò l’auricolare.
Dragan per riflesso portò una mano al gadget. «Nessuno, Rylon. Continua a stare al tuo posto.»
«Sì signore.»
Il razziatore entrò nel container e si concentrò sull’incontro, così da mettere a tacere le sensazioni negative che lo tormentavano da quando aveva derubato la palestra.
Il vecchio container graffitato era il luogo prefisso. Stretto e lungo, non aveva più nessuno dei portelloni. Due vecchi neon gettavano una luce pallida al suo interno, facendolo sembrare un seminterrato sporco. Dragan lo aveva proposto perché Queen non avrebbe avuto modo di piazzare eventuali cecchini. C’erano due soli posti dove i tiratori scelti avrebbero potuto piazzarsi, e lui aveva dato ordine di presidiarli entrambi.
La Regina di Sangue arrivò poco dopo, entrando dall’ingresso di fronte. Chiusa nel trench, con la camminata decisa e l’espressione altera, irradiava un senso di freddo.
Dragan attese che si fermasse. Sentì che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in ciò che stava per succedere. Per qualche ragione, si sentì impadronire da un senso di riluttanza; come se avesse saputo che la spada non doveva finire in mano a lei.
La donna lo scrutò. «Qualche ripensamento?»
Mentì. «Affatto.»
«Bene.»
Sfilò la borsetta dalla spalla e ne estrasse una carta di credito. Dragan materializzò una custodia rigida, lunga e stretta. Queen si umettò le labbra, pregustando il momento in cui avrebbe stretto in mano la preziosa reliquia. Il razziatore colse la sua impazienza e decise di non tirarla troppo per le lunghe.
«Jada.» chiamò.
Una xarthar emerse dall’ingresso dietro di lui e, con gesti lenti e precisi, fece levitare i due oggetti, scambiandoli di posto. La donna osservò la custodia avvicinarsi e posarsi delicatamente fra le sue mani. La xarthar si ritirò fino all’ingresso.
«Telecinesi.» riconobbe Queen. «Ti fidi così poco?»
«Di te non mi fido per niente
Un attimo dopo, la stessa xarthar che aveva fatto levitare gli oggetti, si avvicinò a Dragan con un palmare nero. L’umana capì che avrebbe controllato la carta e ammirò la diffidenza del razziatore.
«In tal caso...» mise a terra la custodia e fece scattare i gancetti. L’interno, imbottito con vestiti alla rinfusa, rivelò la lama curva e lucente di Rakta.
Un sorriso malsano increspò le labbra di Queen. Riusciva a sentirlo. Percepiva forte e chiaro il potere irradiato dalla scimitarra. Lo stesso potere che, ere prima, l’aveva quasi uccisa.
Lo stesso potere con cui, molto presto, avrebbe posto fine alla vita del suo divino genitore.
* * * * * *
Ore 2:40 circa
Bassifondi ovest, palestra Talavara
 
Sikşaka fece un giro di ricognizione intorno al basso edificio, prima di avvicinarsi alle scalette.
Scese i gradini verso il portone con la cura di chi si aspetta una bomba sotto i piedi; come se il ladro fosse lui e quella non fosse casa sua.
L’ingresso presentava segni di forzatura. La serratura meccanica era stata trapanata e il quadro di quella digitale era stato divelto dal muro.
Estrasse un chatter d’in tasca e cercò il numero di Matej in rubrica. Fece partire la chiamata.
A giudicare dalla risposta, il poliziotto era di turno.
«Matej? Sono Sik.»
Immaginò l’altro lanciare un’occhiata rapida all’orologio.
«Cos’è successo?»
«Sono all’ingresso di casa. Qualcuno lo ha forzato.»
«Ladri?»
«Credo di sì.»
«Vedo se posso mandarti qualcuno...»
«Se avessi voluto qualcuno avrei chiamato la centrale.» lo interruppe. «Ho chiamato te perché mi fido solo di te, a questo punto. Ho vecchi scheletri da disseppellire e, credimi, il furto è la punta di un iceberg.»
Lo sentì sospirare. Era certo di aver attirato la sua attenzione.
«...Guarda, per le mani ho un tizio spinoso. Mi serve mezz’ora. Tu, intanto, aguzza l’udito. Se credi che non ci sia più nessuno all’interno, cerca di capire se ti hanno rubato qualcosa. Se senti rumori, o non te la senti, resta dove sei.»
«Ricevuto. A dopo.»
Chiuse la chiamata e rimise il telefono in tasca. Comunque fosse andata; alla fine di quella nottata Matej avrebbe avuto tanto di quel materiale sui Razziatori di Kyzil Plateau da meritarsi una doppia promozione.
 
Spinse leggermente la porta e scivolò nell’ingresso. Tutto sembrava normale. Ma gli bastò accendere le luci del corridoio per capire che l’intera palestra era stata messa a soqquadro. Da una parte le stanze avevano le porte scardinate; dall’altra il parquet era stato trafitto con quasi tutte le lame che, fino a quel pomeriggio, erano affastellate alla parete.
Entrò in palestra e sentì la rabbia montargli nel profondo. Volevano derubarlo, no? Che bisogno c’era di sfasciargli la casa?
Lanciò uno sguardo al soffitto. Se le stanze al piano di sopra erano come quelle del piano di sotto...
Non ci voglio pensare.
Aggirò le lame conficcate nel parquet e raggiunse il muro spoglio; ormai punteggiato solo dai sostegni. Come aveva immaginato la scimitarra era sparita. Con essa erano sparite diverse altre cose: coltelli, qualche daga, un paio di machete e una lancia. Oggetti di medio valore, che l’assicurazione gli avrebbe sicuramente rifuso.
In quel momento la sua preoccupazione era un’altra.
Afferrata una spada pesante dal pavimento, il maestro cominciò a menare fendenti sul muro, proprio dove stava affastellata la sua arma prediletta. Dopo qualche colpo il cartongesso cominciò a sbriciolarsi e schizzare via. Sikşaka continuò ad abbattere la lama sulla crepa creata, finché non riuscì ad aprire un buco.
Allargarlo non richiese moltissimo tempo. Lavorò con foga, finché non fu grande abbastanza da mostrare per intero una valigia lunga e stretta. Il lombax la estrasse dall’intercapedine e la depose in terra. Quando l’aprì, accolse con sollievo l’ondata di potere che gli carezzò il vello. Rakta era lì, affilata come sempre.
Dragan aveva rubato un falso.
* * * * * *
Contemporaneamente (ore 2:40 circa)
Ovest di Kyzil Plateau, ex area stoccaggio Gadgetron
 
Queen chiuse la mano sull’incordatura dell’elsa. Tremava per l’emozione, mentre la sollevava.
Sentiva solo un filo di disagio a tenerla in mano, ma del do­lore che l’aveva piegata in quel magazzino di Anther City non c’era più traccia.
Il razziatore, tutto sommato, si considerò soddisfatto. Gli era dispiaciuto depistare le indagini mettendo sottosopra la casa del suo vecchio amico ma, per fortuna, i sottoposti non s’erano fatti i suoi scrupoli.
Normalmente sarebbe rimasto a gongolare ancora un po’; tuttavia, conoscendo l’imprevedibilità della donna davanti a sé, decise di andarsene prima che spuntassero fuori delle complicazioni.
«Da questo momento non è più affar nostro, Regina.» dichiarò. «A mai più rivederci.»
Volse le spalle all’umana, lasciandola alle sue celebrazioni.
Queen annuì distrattamente. Poi, però, qualcosa attivò i suoi sensi ancestrali. Non sentiva fievole l’aura di Rakta perché lei era diventata più forte di essa; la sentiva fievole perché era innaturalmente debole.
«Che cosa significa?» borbottò. «La sua aura è anomala.»
Dragan continuò ad allontanarsi. Poteva quasi sentire lo sguardo in tralice che gravava sulla sua schiena, ma decise di ignorarlo.
«Mortale, rispondi!»
Il razziatore si limitò ad allargare le braccia. «E io che ne so. La spada è quella senza dubbio.»
Fu allora che l’aura della scimitarra si affievolì e scomparve.
La sorpresa di Queen durò qualche istante; poi, non appena realizzò di essere stata ingannata, fu soppiantata dalla rabbia.
«Questa non è Rakta, inutile creatura!»
Scagliò la spada come fosse un coltello. Dragan non fece in tempo a fronteggiare di nuovo la donna che la xarthar che l’accompagnava strozzò un urlo e crollò al suolo. La spada l’aveva trapassata da parte a parte.
In una frazione di secondo Queen gli fu addosso. Lo afferrò per le spalle e lo sbilanciò all’indietro. Dragan si ritrovò a terra, con le mani della donna strette attorno al collo.
«Dove si trova?»
Il razziatore annaspò, mentre cercava con tutte le forze di svellere le dita della donna.
«Dimmi dove!» gridò, stringendo ancora la presa.
Un paio di proiettili fischiarono attraverso il container. I cecchini di Dragan, visto il mutamento di situazione, si erano attivati.
Queen non rimase inerte alla loro offensiva. Se avessero accidentalmente ucciso il loro capo, per lei ritrovare la reliquia sarebbe stato più difficile.
Alzò una mano e ringhiò: «Sâjji, ëmmo-xôkide ï d’je-pîki!»[1]
Due spesse pareti di roccia s’innalzarono davanti alle entrate del container. Dragan quasi non se ne accorse.
Approfittando del momento, riuscì a sbilanciare la donna e rotolare su un lato. Quando fu lui ad esserle seduto sul ventre, le scaricò un pugno in faccia.
Queen guaì e, per riflesso, portò le mani al viso. Il razziatore non si fermò e le scaricò addosso altri pugni: in faccia, sul torso, al ventre...dove la donna non riusciva a coprirsi lui colpiva. Picchiava con l’intento di farle più male possibile, per paura che tornasse fuori la furia di poco prima.
Queen, confusa dalla reazione di Dragan, subì il suo attacco. Dopodiché lo afferrò per i polsi e lo stordì con un ruggito disumano.
Il razziatore sentì di nuovo tutte le ossa vibrare. Come in quel magazzino di Anther City, una fitta di dolore serpeggiò tra le tempie. I timpani artificiali sfrigolarono, i denti si ribellarono ai loro incavi.
Una paura profonda s’impossessò di lui, e la donna lo capì guardandolo negli occhi. Allora, approfittando del momento, infierì. I suoi occhi scintillarono, mentre la voce s’incrinò fin quasi a sdoppiarsi, come poco prima.
«Lîë lâkka ëf nêä jâ-ksâffa, äso. Fôlj-nê ömpôsi.»[2] ordinò. Il potere sgorgò attraverso le parole e investì il razziatore, infiltrandosi nella sua testa come un fluido nefasto. Dragan sentì il cervello annegare ad ogni sillaba, e un attimo dopo si alzò di dosso a Queen. Lei, soddisfatta, si rimise in piedi.
«Mâm kê nuädisi.»[3]
Il lombax rimase fermo in piedi, con le gambe leggermente storte e le braccia pendenti lungo i fianchi.
«Opîlla pênne pâdi lê ksâdo Rakta.»[4]
Prima che se ne rendesse conto, Dragan rispose: «Non lo so. In palestra c’era solo quella.» e indicò la scimitarra che spuntava dalla schiena della xarthar.
«Quindi è possibile che quella vera ce l’abbia il tuo amico.»
L’altro annuì. «È possibile, sì. Ci è molto legato.»
Queen soppesò la risposta e sputò in terra, sibilando maledizioni a Chaos e i suoi seguaci. Poi lanciò un’occhiata rabbiosa al lombax. «E allora perché non hai guardato meglio?!»
«Non credevo che–»
«Non importa.» lo interruppe lei. «Avevi l’ordine di portarmi quella spada e non l’hai fatto. Ricordi cosa ti avevo promesso, vero?»
«Hai detto che non mi avresti sfondato solo i denti.»
La voce atona del lombax le fece dipanare un sorriso crudele sul volto.
«Infatti. Ci vuole una punizione più adatta al tuo fallimento. Una punizione con cui, poi, sarò certa che non sbaglierai mai più.»
Dragan non rispose. La donna si avvicinò al cadavere della xarthar e svelse la scimitarra. Osservò il filo lucente e trattenne la rabbia.
Gabbata da un falso. Un falso con l’aura di Rakta, ma pur sempre un falso. Poteva immaginare Chaos che sghignazzava nel Piano Sacro.
Sii maledetta, Toksâme. Ma sottrarrò la tua arma, puoi scommetterci! La sottrarrò e mi disferò di mio padre, poi imbraccerò la sua adorata Amsu e mi disferò anche di te!
Osservò Dragan con sufficienza e gli porse l’elsa incordata.
«Kô-feöke fô cê-cufôsi.»[5] ordinò. «Pagherai la tua colpa.»
Dragan allungò le mani e afferrò la scimitarra. Provò istintivamente paura, ma non seppe spiegarsi perché. Guardò la donna quasi alla ricerca di un motivo, ma distolse lo sguardo quando lei incrociò le braccia con fare spazientito. L’ordine era arrivato e lui doveva solamente eseguirlo. Tanto più che era un ordine estremamente semplice. Volse la punta della spada verso di sé, la poggiò contro la sua gola e fece forza.
Queen sorrise compiaciuta e gli rese il controllo di sé nel momento in cui il sangue prese a zampillare.
Così non fosse stato, non avrebbe sofferto come le piaceva.
 
Vederlo dibattersi per i suoi ultimi istanti e sapere che lo aveva fatto per eseguire il suo volere la eccitò, la fece ridere, la spinse a desiderarne ancora.
Erano anni che non si concedeva un po’ di divertimento in quel modo, e cominciava a sentirne il bisogno.
Annusò l’odore caratteristico del sangue e andò ad inginocchiarsi a fianco a Dragan. La testa, posata in una pozza di sangue, era reclinata all’indietro in modo innaturale. Lo sguardo vitreo era quello di chi era stato soffocato. La bocca era l’unico elemento che mostrava il suo stupore: spalancata a metà, quasi in procinto di cacciare un urlo. E la punta della spada giaceva a pochi centimetri da essa, intinta nel sangue come un pennino macabro.
«Bravo mortale, ti sei comportato proprio bene, sai?» disse Queen, picchiettandogli una mano sulla testa. «Adesso, però, devo avere quella spada. Prendo in prestito i cecchini che hai sparso e andrò a fare una visita all’erede di Gazda Sherwick. Non ti dispiace, vero?»
Gli regalò un ultimo sorriso folle; dopodiché si teletrasportò sopra il container. Non dovette estendere molto i propri sensi per percepire quattro anime. Allora aprì le braccia al cielo, chiuse gli occhi e salmodiò: «Jâm êf takîsi pîf Pêä D’ji Jsîö, êä äspema d’ji jafâsa d’ji quë kîm-ôsama pê üjjêpisne, öpîlla nê lêöma zipîfe. Ömeni nêl-sipîmke, dakôkide ö quïlko zêcfeö pedêmo ï lî-uëkine mîffo nêö nellêämi.»[6]
La voce, intrisa del potere più antico e forte dell’universo, cavalcò la brezza che preannunciava la pithil e si insinuò nelle orecchie e negli animi dei razziatori appostati. Sapendo che di lì a poco sarebbero andati da lei, Queen scese dal container e attese.
Arrivarono a coppie, a pochi secondi gli uni dagli altri. Tre uomini e una donna, tutti con gli occhi annebbiati dall’incantesimo.
«Bene, mortali, statemi vicini. Ci teletrasporteremo dritti dritti a casa del nostro obiettivo. È un maestro di spada che ha una scimitarra con un drappo rosso. Aiutatemi ad averla e forse vi lascerò liberi.»
«Sì signora.»
La risposta fu impersonale, ma a Queen non interessava. Attese che tutti e quattro fossero abbastanza vicini, alzò una mano al cielo e invocò le parole di teletrasporto.
* * * * * *
Ore 2:55 circa
Bassifondi ovest, palestra Talavara
 
Sikşaka udì il portone aprirsi e si convinse che fosse arrivato Matej. La coda rivelò un moto di sollievo, mentre pensava a una frase bonaria con cui accoglierlo. Lo avrebbe invitato a sedersi vicino a lui, che fino a quel momento aveva cercato di meditare per calmarsi, e gli avrebbe raccontato tutti i perché e i percome.
Ma, quando intravide la figura in corridoio, sentì il mondo fermarsi.
Fece in tempo a rialzarsi e stringere più forte l’elsa di Rakta, che la donna comparve sulla porta, altera nelle movenze e dall’espressione arrabbiata.
Si fronteggiarono da una parte all’altra della sala.
«Sai cosa voglio. Rendimi la spada, inutile mortale.»
Sikşaka descrisse due ampi archi con le braccia.
«Sono tutte in terra, guarda. Serviti e vattene.»
Queen lo indicò.
«Non dire cazzate. Sai che mi riferisco a Rakta.»
«È l’unica cosa che non puoi avere.»
Fine delle trattative. Sarebbero arrivati allo scontro, e il parquet trafitto dalle armi sarebbe stato un pericoloso campo di battaglia.
Queen flesse le gambe e richiamò la sua lama d’energia. Crepitava come fosse fatta d’elettricità e sembrava composta da plasma, ma Sikşaka sapeva che era resistente come roccia.
L’aveva già affrontata ad Anther City, ma, di nuovo, non poté fare a meno di esserne incuriosito. Ciò nonostante, bandì la curiosità dalla mente e si preparò ad attaccare.
Se voglio vincere – sopravvivere, corresse l’istinto – devo puntare tutto sull’attacco.

[1|⇑] Rocce, innalzatevi e chiudete!
 
[2|⇑] Sei sotto il mio controllo, ora. Lasciami andare.
 
[3|⇑] Non ti muovere.
 
[4|⇑] Adesso dimmi dove si trova Rakta.
 
[5|⇑] Tagliati la giugulare.
 
[6|⇑] Con il potere del Dio Che Crea, io ordino che coloro che qui tentarono di uccidermi, adesso mi siano fedeli. Anime miscredenti, votatevi a questa figlia divina e seguitemi nella mia missione.

 

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Capitolo 8
*** | Capitolo 08 | Rendez-vous con la Regina ***


[ 08 ]
Rendez-vous con la Regina
Sempre 19 aprile 5402-PF, ore 2:30
Settore nord, casa Hardeyns
 
Fu un colpo a svegliare Lilith.
Giunse alle sue orecchie come un cupo clunk e il sonno lo trasformò nello stridio della tagliola che scatta. Le punte metalliche azzannarono la sua gamba e le strapparono un urlo.
La ragazza si svegliò di soprassalto. Una fitta al polpaccio la fece piegare su se stessa, gemendo a denti stretti. Portò le mani allo stinco e impiegò qualche istante a realizzare che non aveva il piede in una tagliola, ma bisogno di un massaggio che riavviasse la circolazione.
Si lasciò ricadere sul materasso e si allungò verso il comodino, dove teneva una pomata utile.
«Fottuto crampo.» borbottò. «Ci mancavi solo tu a scassare le palle.»
 
Venti minuti dopo, con le mani impiastrate di gel e la gamba in via di ripresa, zampettò fino al bagno. Lo specchio alla parete le rimandò l’immagine di una persona in disordine: capelli scarmigliati, una spallina della camicia da notte caduta, broncio.
«Oh, ma che meraviglia di donna. Una bomba sexy in camicia da notte.» ironizzò. «Il tocco da maestro sono sicuramente i capelli a puttane. Anzi no, le occhiaie. Faccio tanto regina della notte. Anzi no. Ecco a voi la regina degli incubi, Lilith Hardeyns!»
Immerse le mani sotto il getto del lavandino e l’acqua assunse sfumature azzurrognole. Si guardò di nuovo allo specchio. «No, la regina degli incubi è Crysis. Beh, si fottano lei e gli incubi, io volevo dormire
In proposito, le tornò alla mente che aveva un ospite che dormiva nella stanza di fronte. Sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca.
Oh cazzo!
Attraversò il corridoio in punta di piedi, rivolgendo a sé stessa gli insulti più creativi cui riuscisse a pensare. Pregò che Sikşaka non si fosse accorto di nulla, mentre la sua mano abbassava la maniglia della porta. Fai che dorma fai che dorma fai che dorma...
La preghiera si fece più intensa nel momento in cui fece capolino con la testa nella camera.
Fai che dorma fai che...eh?
La stanza era vuota, il letto sfatto.
Ecco, l’ho svegliato.
Era inutile continuare a rimanere nella penombra. Accese tutte le luci, fece dietrofront e scese fino al piano inferiore.
«Sik? Mi dispiace se ti ho...»
Si zittì.
Era tutto quieto. Né cucina, né salotto né ingresso mostravano segni di abitazione. Attraversò tutti gli ambienti per scrupolo, ma del suo maestro non c’era traccia.
Alla fine del percorso, dopo aver raggiunto l’ingresso ed essere tornata nel salotto, si guardò un’ultima volta attorno e portò le mani sui fianchi. «Vuoi vedere che è andato a scom­mettere di nuovo in qualche giro clandestino?» borbottò.
D’un tratto l’idea non le parve così improbabile.
Piccata, si avviò verso la propria camera a grandi passi. «Lilly fai la brava, Lilly non esplodere, Lilly non puoi cedere a certi vizi...Pazzo scriteriato, e poi dice a me
Fece pochi passi – giusto quelli necessari ad arrivare al va­no scale – prima di fermarsi a causa di un dettaglio fuori posto. Ai piedi delle scale, aperto al suolo, c’era il portafogli di Sikşaka.
Lo raccolse e lo fissò con espressione perplessa.
«Ennò, se questo è qui, col cazzo che scommette.»
Rifilò un’occhiata torva all’involucro di pelle e si strinse nelle spalle. «Beh, è abbastanza grande da venire a riprenderselo con le sue gambe.»
Tornò in salotto e lo depose sul tavolo, lì dove doveva esserci il mazzo di chiavi. Che però non c’era.
«Eh?» Lilith osservò stralunata il mobile, come aspettandosi che il mazzo di chiavi ricomparisse all’improvviso.
Sikşaka era uscito con le chiavi, ma senza portafogli. Non aveva senso.
Certo – si disse – poteva essergli caduto senza che se ne accorgesse. E poi, nel mazzo di chiavi c’era una copia di quelle per entrare in casa Hardeyns.
«Sì sì, è uscito a scommettere ma ha perso il portafogli.» concluse. «Cazzo, ma non poteva dirmelo? “Lilly, stanotte esco a scommettere. Se ti svegli e non mi vedi è per quello.” Mica è difficile! E invece no. ‘Fanculo anche a lui.»
 
Osservò il portafogli.
Il giro di Marras era il più vicino. Si scommetteva su tutto ed era relativamente sicuro.
Relativamente. Solo se si ha la grana, suggerì la coscienza.
 
Osservò il portafogli, sempre più torva.
Non è un principiante, se la caverebbe lo stesso, pensò. Magari convincerà quelli del giro a dargli il tempo di portare loro i soldi...
Aahhh, ma chi voglio prendere in giro? Lo sanno tutti che o li paghi subito o torni a casa messo male, se torni a casa.
 
Torse le labbra verso il basso, terribilmente indecisa. E se non fosse tornato affatto per colpa di quella svista?
La prospettiva le infuse un senso di angoscia. Non lo avrebbe sopportato, n’era certa.
Si portò le mani tra i capelli e si morse il labbro. Era infastidita dal comportamento del suo maestro, ma la prospettiva di non avere nemmeno una persona amica in tutta Kyzil Plateau la impauriva.
Nel momento in cui si decise, scattò verso la propria camera e i vestiti che aveva abbandonato sulla scrivania.
«Dopo questa, domani lo picchio assieme a Cole.» ringhiò allo specchio, mentre legava i capelli. «E che cazzo, non può farmi fare la balia.»
* * * * * *
Ore 2:55 circa
Bassifondi ovest, palestra Talavara
 
Sikşaka ebbe a malapena il tempo di alzare Rakta, che la lama avversaria calò.
L’istante dopo, con le spade impegnate, affondò il ginocchio nel bassoventre di Queen. La donna crollò a terra gemendo, la lama d’energia si disfece. Era l’occasione perfetta per trafiggerla, ma il razziatore – quello sopravvissuto al suo primo attacco – materializzò un’arma.
Il lombax lo vide con la coda dell’occhio. Nel tempo in cui l’altro arrivò a posare il dito sul grilletto, scagliò la spada con un movimento sinuoso.
Il razziatore s’irrigidì e stramazzò, lo sguardo dilatato e il sangue che zampillava dal pomo d’adamo, là dove Rakta era penetrata.
Sikşaka lo guardò cadere e udì il suo ultimo sussurro, prima che il fisico lo costringesse a prendere coscienza del suo pesante affaticamento, dei tagli che bruciavano e delle contusioni sparse ovunque.
In fondo alla propria mente, quasi fosse un istinto, balenò l’imperativo di riprendersi la scimitarra. Ne aveva bisogno.
Questa lama è uno scherzo del cielo. – gli aveva detto Gazda, una volta. – Finché la tieni in mano è il più potente degli anestetici e la migliore delle droghe stimolanti.
Poco più in là, con un ringhio animale, Queen si puntellò sui gomiti. Fu il senso d’allarme a mettere le ali ai movimenti di Sikşaka, che raggiunse la sua vittima e svelse Rakta. Lo fece tanto in fretta che il taglio, alla fine, più che uno sgozzo rassomigliò ad una decapitazione.
Strinse più saldamente le dita intorno all’incordatura, sentì che la spada pulsava a ritmo con le sue ferite. Un istante dopo il dolore fisico svanì e tutti i sensi si fecero più sottili: l’ennesima riprova di quanto la definizione del suo maestro fosse azzeccata.
Poco più in là, con gli occhi fiammeggianti per la rabbia, Queen si rialzò. Ringhiò poche parole e la spada lucente tornò a vibrare fra le sue mani.
Sfilarono entrambi una seconda lama dal pavimento, poi si scagliarono uno contro l’altra. La Regina portò un fendente di traverso dal basso, le lame si scontrarono e Sikşaka dovette spingere verso terra con tutte le sue forze per impedire che l’avversaria lo sventrasse.
La seconda lama di Queen, quella di pura energia, compì un arco dall’alto. Sikşaka scartò appena in tempo per evitare la decapitazione; scavalcò il cadavere sgozzato e si portò nuovamente a distanza di sicurezza.
La Regina non gli diede tregua e lanciò contro di lui la lama raccolta. Sikşaka usò uno dei suoi bracciali per proteggersi: la lama cambiò docilmente direzione e conficcò l’intera punta nel muro. Nel tempo in cui si diffuse l’eco della nota metallica, la donna troneggiò nuovamente su di lui, pronta a calare la lama d’energia.
Il fendente arrivò dall’alto. Il lombax incrociò le spade sopra la testa e lo parò a fatica. Sentì i muscoli irrigidirsi, vide le proprie armi avvicinarsi al volto e capì che così non ce l’avrebbe fatta.
Fece forza sulle spalle: i muscoli gemettero, ma riuscì a far ruotare tutte e tre le lame verso terra. Queen si trovò spiazzata e rimase scoperta per un istante di troppo. Sikşaka si sbilanciò in avanti e affondò la scimitarra. La punta affilata strappò il tessuto e penetrò sotto il costato dell’avversaria. L’âsa gô-mjä le ustionò le carni e diffuse i suoi incantesimi velenosi.
Sul volto di Queen dolore e stupore si diffusero con la stessa intensità. Gli occhi si sbarrarono, la bocca si spalancò senza emettere suono. La Regina gemette, il respiro mozzato dall’azione ustionante di Rakta, e si piegò fino ad aggrapparsi al suo avversario.
Appoggiata al petto del maestro di spada, i pensieri annasparono in un’unica direzione: non era possibile. Non in quel momento, non a un soffio dal suo ambizioso traguardo.
Non per mano di un comune mortale.
In quel momento, flebile e accelerato, percepì il battito del cuore del suo nemico; proprio mentre alle narici saliva l’odore acre della carne bruciata.
Odiò la sensazione d’impotenza che l’azzannava con famelica crudeltà. E odiò Sikşaka, che era la causa dello stato in cui versava. Cos’avrebbe detto suo padre, vedendola fiaccata da un mortale privo di qualunque potere?
L’odio si tramutò in una furia senza precedenti. Sebbene col fiato corto, trovò la forza di guardare Sikşaka dritto negli occhi e ringhiare una parola di comando. L’altro, ignaro di ciò che aveva appena detto, anziché mettersi al riparo svelse Rakta con uno strattone che lasciò boccheggiante la donna. Poi, d’un tratto, un dolore che non aveva mai provato lo paralizzò. Prima sentì i polmoni svuotarsi di colpo, poi ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse strappato la spina dorsale a mani nude. Si sentì spezzare e l’istante dopo le forze svanirono.
Fu solo per l’inerzia del movimento se si accasciò a sua volta contro il torso di Queen anziché a terra. E fu per la propria debolezza se Queen venne tirata a peso morto in ginocchio; gesto che le fece tossire sangue.
Con l’ultimo briciolo di volontà Sikşaka reclinò il capo per capire cosa lo avesse prostrato tanto brutalmente. Vide una lama seghettata spuntare sotto il costato, i dentini screziati di sangue.
Riconobbe il coltello; era parte di un set che aveva acquistato pochi mesi prima. Immaginò che la Regina li avesse attirati tutti e tre.
Fu l’ultima cosa di cui ebbe coscienza; poi Queen se lo scrollò di dosso e il mondo per lui si ridusse a sensazioni evanescenti.
 
Passarono molti secondi di mugolii e bestemmie prima che la donna riuscisse a trovare la forza per muoversi. Il sapore del sangue le infestava il palato, ma in quel momento era la sua ultima preoccupazione.
Era figlia di Shine, per lei l’âsa gô-mjä era il peggiore dei veleni. E Rakta non solo possedeva l’anima di quel particolare metallo, ma Chaos stessa l’aveva intrisa di una moltitudine di incantesimi al fine di uccidere Shine e tutta la sua progenie.
Âsa sâlla. Mi serve dell’âsa sâlla.
Ne sentiva un bisogno disperato.
Allungò una mano e, al suo ordine, si materializzò un sacchettino pieno di monete. Lo rovesciò in fretta, con la mano tremante per lo sforzo. I dischetti tintinnarono a contatto con il pavimento. Alcuni rotolarono via secondo traiettorie traballanti, mentre la maggior parte si ammonticchiò rilucendo di riflessi bronzei.
La donna avvicinò alcuni dischetti e li infilò nello squarcio purulento lasciato da Rakta. I muscoli, tesi per il dolore, si sciolsero grazie agli effetti benevoli delle monete, che si attivarono a contatto con la carne.
Queen sentì scivolare via la magia imposta da Chaos. Ad ogni respiro le forze tornarono un poco di più.
Chiuse gli occhi e si disse: Va tutto bene. Sto guarendo. Ho trovato Rakta. È mia. A breve la pianterò in gola a Shine.
Quell’ultimo pensiero le fece storcere la bocca. L’obiettivo era vicino, ma c’era un problema da superare.
Tra i molti incantesimi che Chaos aveva posto sulla sua arma c’era un vincolo: nessuno al di fuori della dea, durante una battaglia, avrebbe potuto condizionare la mente del portatore della spada.
Queen si era risposta che se fosse riuscita a impugnarla lei, dal momento che il suo fine coincideva con quello della dea, allora i suoi problemi sarebbero stati risolti. Perché mai Chaos avrebbe dovuto fermarla? Non avrebbe dovuto bypassare nessun incantesimo e avrebbe raggiunto lo scopo. Però, nonostante avesse passato gli ultimi millenni a rafforzare il proprio potere (e gli ultimi dieci anni a praticare esercizi tanto antichi quanto duri), per lei toccare l’âsa gô-mjä rimaneva impossibile. Dunque rimanevano due strade: rinunciare alla spada o cercare un portatore.
Il suo piano non poteva prescindere dalla scimitarra. C’erano due sole armi che potevano uccidere il dio con un solo colpo: Rakta e la spada personale di Chaos. Dato che l’arma della dea era fuori portata, Rakta era l’unica scelta disponibile.
Dunque ci voleva un portatore che lavorasse per lei.
Ma il portatore di Rakta, sguainata la scimitarra, poteva essere condizionato solo da Chaos, che era la sua nemica naturale e di sicuro non si sarebbe fatta problemi a decapitarla alla prima occasione buona.
Era indubbiamente un problema.
* * * * * *
Contemporaneamente (ore 3:00 circa)
Bassifondi ovest, dintorni della palestra
 
Matej era vicino allo sbocco del vicolo quando, nel silenzio della cittadina dormiente, una stretta energica lo tirò contro il muro.
Un sussurro: «Fermo!»
Il poliziotto piantò il gomito nel fianco dell’aggressore, svicolò dalla presa e gli puntò il bracciale a led in faccia, pronto ad aggredirlo al primo cenno di ostilità.
Non ce ne fu bisogno: l’altro si riparò il volto dietro le braccia, le mani aperte e vuote. Matej provò la sensazione di avere a che fare con una figura familiare.
«Pezzo d’imbecille! Ti salvo la coda e tu mi tronchi due costole?!»
La parlata lo illuminò sull’identità del suo misterioso assalitore: era l’allieva di Sikşaka. Matej spense il dispositivo e abbassò le braccia.
«Cosa fai in giro a quest’ora?» sussurrò a sua volta. «Qui nascosta per di più!»
Lilith si strofinò gli occhi con un gesto nervoso. «Ma cazzo, sono stata io a chiamare! Ve l’ho detto che ero qui!»
Il poliziotto rimase disorientato. La ragazza, ancora accecata dai led, non se ne accorse e proseguì con la sua sfuriata: «E tu arrivi dopo un’ora e manco mi dai retta! Mica vi prendevo per il culo quando dicevo che ci sono due tizi coi mitra davanti al portone!»
Matej s’irrigidì. «Come?»
Lilith sbuffò. «Ho chiamato un botto di tempo fa, porca puttana! Cosa vi ci vuole per scendere dal settore est? Una bomba?»
Il poliziotto intuì che alla centrale avessero preso le parole della ragazza per uno scherzo. La prova era che non aveva ricevuto nessuna comunicazione in merito.
«Va’ piano, signorina.» intimò. «Non mi manda la centrale. E adesso spiega.»
Lilith strinse un pugno e lo morse. Matej la osservò con una certa preoccupazione, ma se non avesse fatto così probabilmente avrebbe cominciato a urlare.
«Senti.» ringhiò alla fine. «Sik è venuto a dormire da me, poi nel cuore della notte è uscito. Mi ha svegliato senza accorgersene. Ho pensato che fosse al giro di Marras, e visto che aveva perso il portafogli ho pensato di portarglielo. Ma non c’era, e allora ho pensato di andare al giro di Ktel, ma passando di qui ho sentito...beh, lo senti anche tu il casino.»
Matej tese l’orecchio. Era vero: non c’era completo silenzio. Si poteva sentire un tintinnio irregolare di sottofondo, ma ci voleva un orecchio allenato. Non era propriamente un casino.
Lilith proseguì: «Ho provato ad avvicinarmi, ma davanti al portone ci sono in due, coi mitra. Mi sono nascosta qui. So una sega di chi sono, ma non sono soli. Dentro alla palestra qualcuno sta combattendo con le lame e uno dei contendenti è Sik, su questo ci scommetto.»
L’altro assimilò velocemente le informazioni. Si guardò intorno con circospezione: l’istinto di controllare se le informazioni corrispondevano al vero era forte, e non poteva sapere se ci fosse qualcun altro nascosto nei vicoli intorno.
«Solo due persone di guardia?» domandò. «Sei sicura?»
Lilith indicò la scala d’emergenza che pendeva alle sue spalle. «Ho fatto il giro dai tetti. Non ho visto nessun altro.»
Matej le rivolse un’occhiata scettica. «Hai la certezza di una strumentazione specifica?»
La ragazza lo fulminò con lo sguardo. «Ti sembra che ho gli occhi a infrarossi? Smetti di dire stronzate!»
Poi fu come se il suo cervello ingranasse la marcia, perché accelerò: «Cazzo cazzo cazzo! Cosa facciamo???»
A giudicare dal tono era davvero vicina a una crisi isterica. Per un istante Matej la immaginò mettersi le mani nei capelli e cominciare a urlare, vanificando gli sforzi precedenti.
L’afferrò per le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi. I lampioni erano spenti, ma la luce lunare era sufficiente allo scopo.
«Ascolta: andrà tutto bene. Tutto bene, okay?» modulò la voce perché suonasse rassicurante. Aspettò che la ragazza annuisse e andò avanti: «Adesso vado a controllare. Torno subito. Tu stai nascosta qui. E chiama la polizia.»
La trovata sembrò avere effetto. Lilith riacquisì un po’ di calma. «L’ho già fatto. Pensano che sia uno scherzo.» borbottò delusa.
«Insisti. Digli che sono qui e che è un ordine mio.» La stretta si fece più robusta. «Mi raccomando.»
L’istante dopo si rese invisibile.
La faccia di Lilith si dipinse di sorpresa mentre di Matej rimaneva solo una sagoma appena accennata nella pithil.
* * * * * *
Alcuni colpi di pistola interruppero il suo ragionamento. Provennero dall’esterno e furono ammorbiditi dalle pareti, ma suonarono lo stesso come un allarme.
La Regina estese le percezioni e seppe che i razziatori di guardia erano stati neutralizzati. Due persone all’esterno stavano per entrare.
Passò in rassegna le opzioni a sua disposizione. Fuga, combattimento, finta. Provò a muoversi, ma una fitta lancinante la riportò distesa al suolo.
Rivide le opzioni: l’unica possibile, finché la guarigione non fosse terminata, era fingersi morta. E lei rimase immobile, fronte a terra, mano infilata fra il pavimento e la ferita, muscoli sciolti. Non era salubre per l’orgoglio ma non aveva scelta.
«SIK!»
L’urlo giunse mentre chiudeva gli occhi. Nel profondo, essere considerata dopo il suo avversario la infastidì.
* * * * * *
Matej corse dentro la sala d’allenamento quando l’urlo di Lilith lo raggiunse.
Aveva appena confermato la chiamata della ragazza, quando lo spettacolo della palestra devastata si presentò davanti ai suoi occhi.
L’odore forte del sangue impregnava l’aria. Il parquet era scheggiato, le armi sparse ovunque. Una lama affondava nella parete. I cadaveri disseminati al suolo lo lasciarono basito.
Si attaccò alla ricetrasmittente ed elencò concitatamente una serie di codici. Dalla centrale arrivò la conferma di soccorso e un’altra gracchiata incomprensibile, cui il lombax non diede credito.
“Ladri?” “Credo di sì.”
No, non erano ladri. – pensò – Non si sarebbero persi a combattere ad armi pari con lui.
 
«Dove sono i soccorsi?!»
Il ringhio di Lilith lo riportò alla realtà.
Aveva le pupille dilatate e i peli ritti, come un’animale con le spalle al muro.
«Due minuti.» rispose il poliziotto.
«Col cazzo che li abbiamo!» urlò. «Sta morendo!»
 
“Credimi, il furto è la punta di un iceberg.”
Il poliziotto si morse il labbro mentre si inginocchiava a fianco al suo amico. Era vero: non li avevano due minuti. Ma non poteva farci nulla.

 

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Capitolo 9
*** | Capitolo 09 | Due minuti ***


[ 09 ]
Due minuti
Un tocco piuttosto ruvido scostò il colletto della camicia. Queen riconobbe due dita posarsi sotto la curva della mascella, alla ricerca del battito cardiaco. Il mortale, evidentemente, stava cercando di riconoscere se fosse viva o morta.
Illuso. Noi Tsa-gêke non dipendiamo dal sangue.
«...morta anche lei.» lo sentì sussurrare.
Povero mortale idiota.
 
Lo lasciò perdere – ai suoi sensi lui era insulso, sozzura senza nerbo – e tornò a concentrarsi su Lilith.
Anche se non riusciva a vederla, sapeva di averla già incontrata: la percezione era la stessa di qualche giorno prima, quando aveva vagato per i bassifondi verso il primo incontro con Dragan.
In quel momento si spiegò come mai avesse avvertito l’aura di Rakta su di lei: era la stessa che permeava il luogo. Era lampante che la giovane frequentasse la palestra; così come, a giudicare dalla forza con cui l’aura della scimitarra l’era attaccata addosso, che lo facesse da lungo tempo.
Ma era altresì ovvio che la lombax non fosse mai entrata in contatto con la scimitarra vera. L’aura che la circondava non aveva la stessa natura di quella che caratterizzava i Portatori. Era più blanda, quasi slavata, passiva.
Rakta marcava l’anima del suo Portatore, ma nell’anima di quella ragazza non v’era traccia dei suoi effetti. C’era invece la paura, che l’attraversava come un chiodo, dritta e dolorosa fino al cuore dell’anima. E c’era il bisogno urgente di fare qualcosa, tenuto a malapena a bada dal timore di commettere un errore irreparabile. Più all’interno c’erano speranze e frustrazioni, in cui le seconde dominavano grazie a una selva di ricordi spietati; e infine, al centro dell’anima, là dove arrivava il chiodo della paura, pulsava la rabbia.
Oh, quella rabbia!, gioì Queen.
Così profonda, così cieca, così disperata.
La giovane lombax avrebbe fatto qualunque cosa pur di cancellare la sua paura. Qualunque cosa, con una volontà più forte dell’acciaio.
 
Queen distolse l’attenzione per riflettere.
Quella ragazza era una tela bianca che già odorava di vernice; una tela che doveva essere sua a qualunque costo.
Fu allora che ebbe l’idea.
* * * * * *
Non spostarlo, aveva detto Matej. Non muoverlo, o peggiorerà soltanto.
Il parquet scheggiato le graffiava le ginocchia, ma Lilith non lo sentiva. Teneva gli occhi fissi sul suo maestro, sui tre manici che spuntavano dalla schiena come faraglioni.
Aveva urlato e scalciato fino a un attimo prima, quando il poliziotto aveva pronunciato quelle parole.
Con una sola frase l’aveva zittita, svuotata di tutta l’isteria, riportata coi piedi per terra. Aveva realizzato appieno le condizioni di Sikşaka solamente in quel momento, e allora la paura le aveva stretto le viscere.
Aveva sgranato gli occhi, aveva supplicato con lo sguardo il poliziotto affinché le dicesse qualcosa di rassicurante, ma aveva ricevuto indietro solo silenzio. Silenzio e il distogliersi di uno sguardo carico di pietà.
Si era sentita mancare.
Peggio di così...peggio c’è...
Non riuscì a finire la frase. Un’ora prima era solo uno spauracchio; in quel momento era tangibile: sarebbe rimasta sola. Portò lo sguardo su Sikşaka e, cercando di mettere a tacere il proprio timore, gli strinse delicatamente una mano. Era calda. Calda e morbida, come quella di chi dorme profondamente.
E, in effetti, sembrava proprio che dormisse. Riverso al suolo in maniera scomposta, come dopo la sbronza epocale dell’anno precedente. All’epoca lo aveva svegliato con una secchiata d’acqua fredda, dopo averlo trascinato in cucina, e poi lo aveva costretto ad ingollare mezzo litro di caffè.
Sentì le lacrime pungerle gli occhi. Si era fatta così tante risate, a raccontarglielo dopo.
Si morse il labbro. Matej, da qualche parte alle sue spalle, sputava ordini alla ricetrasmittente, ma lei non lo ascoltava. Sentiva di dover fare qualcosa di utile, e allo stesso tempo sentiva il bisogno di scavare una buca dove rannicchiarsi e piangere.
Perché sapeva che Sikşaka non era nel pieno di un pisolino dopo sbronza, e l’assenza della sirena dell’ambulanza era angosciante.
Sapeva ch’era ad un soffio dallo spirare, e l’idea che se ne andasse l’atterriva perché rimanere soli, a Kyzil Pateau, era una maledizione. Vivere in una cittadina mediocre di un pianeta marginale, con la mentalità di un paesino e la legge che vigeva all’acqua di rose, era improponibile senza il supporto di qualcuno. Giorno dopo giorno diventava sempre più una condanna, un soffocamento dalla quale i giri criminali promettevano di far uscire.
Evitare che lei cadesse in uno di questi giri era uno dei fini per cui Sikşaka l’aveva invitata alla sua palestra; glielo aveva detto chiaro e tondo qualche tempo prima. Si era dato da fare per lei, e lei non poteva ricambiarlo nel momento in cui lui aveva più bisogno.
Chiuse gli occhi e li strinse forte per trattenere le lacrime. Si sentiva un verme.
«Dove cazzo sono i soccorsi?» domandò.
Non ricevette risposta, e quando si voltò verso il poliziotto egli, che non si era accorto della domanda, uscì dalla palestra.
Per Lilith fu come ricevere un altro schiaffone.
Alla paura si aggiunse la rabbia.
Perché ci mettono così tanto?! È perché non siamo nei quartieri altolocati?!, ruggì nella sua mente.
Digrignò i denti. Non era possibile che non ci fosse nient’altro da fare oltre ad aspettare. Anche perché – era evidente dal silenzio della strada – i soccorsi s’erano fermati a farsi un drink.
Alla rabbia si aggiunse la determinazione.
Si guardò intorno: se l’ordine pubblico non l’aiutava, avrebbe fatto da sola. Doveva solo trovare un modo, e farlo alla svelta.
 
Fu allora che una puntura di spillo le attraversò il cranio.
«È così, piccolina: non si fidano della chiamata. Perdono tempo a verificarla.» disse una voce femminile.
Lilith si portò una mano laddove aveva sentito pizzicare, gli occhi sgranati per la sorpresa.
«No, non senti le voci. Telepatia, piuttosto.»
La ragazza si guardò intorno, ruotando la testa a scatti. Chi le stava parlando?
«Oh, non perdere tempo a cercarmi. Se ti dicessi che puoi salvarlo tu, il tuo caro maestro?»
Il cuore di Lilith fece una capriola.
«E come?»
«Lo vedi quel sacchettino di pelle con le monete? Userai quello.»
Individuò subito il sacchettino. Anche quello era sdraiato sul parquet, e il suo contenuto si rovesciava tra le schegge.
«Ce ne sono tante simili all’oro rosso: prendine tre. E poi cercane tre simili all’oro bianco.»
Lilith fece come l’era stato detto, anche se non capiva come quegli oggetti avrebbero potuto salvare una vita.
È una follia! – gridò la sua coscienza. – Sono monete! E manco sai chi ti sta parlando! Fidati delle autorità, per una stramaledetta volta!
Quando le ebbe in mano, le fissò con occhi lucidi.
«Adesso accoppiale, una bianca con una rossa. Poi rimettigli Rakta in mano. Fai che la stringa.»
La ragazza eseguì senza fiatare.
«Fatto.» dichiarò alla fine.
«Adesso la parte più spinosa: togli i coltelli e metti una coppia di monete in ciascuna ferita. Gli incantesimi si attiveranno da soli per il portatore di Rakta.»
Lilith sgranò gli occhi.
Incantesimi.
«Stai...stai scherzando...» soffiò.
Queen percepì il crollo delle sue convinzioni e capì di aver commesso un passo falso. Ma non aveva il tempo per rimediare con qualche bugia, né possedeva le forze per rialzarsi e avviare lei stessa il processo curativo. Perciò smise di interpretare l’insegnante compassionevole e si fece dura.
«Senti: o fai come ti dico e lo salvi, o continui a tremare e muore. Scegli in fretta; gli restano trenta secondi scarsi.»
Furono le parole giuste per mandare Lilith nel caos.
Mi fido? Non mi fido?
(Come si fa a saperlo?)
Istinto o ragione?
(L’istinto è l’unico senso di cui valga la pena di fidarsi, lo sai. A meno che non ti proponga cose assurde, però!)
E se ha ragione la voce?
(Ma se non ce l’ha sarai la sua assassina.)
Sì ma...
(Ucciderai l’unica persona per cui rovesceresti l’inferno.)
È davvero così poco il tempo?
(Il tempo è tiranno, te l’hanno mai detto?)
E se davvero è così poco…galassia, lo sto sprecando! Ma cosa posso fare? Cosa? A chi lo chiedo?
(No, cazzo! Lilith Hardeyns, tu hai un orgoglio! Non puoi aspettare sempre che vengano a imboccarti!)
E se la storia degli incantesimi è vera?
(Da quando credi nella magia?)
È illogica, ma se davvero la voce non ha mentito?
(E perché dovrebbe dirti la verità qualcuno che manco si fa vedere?)
Se ho davvero il potere di salvargli la vita?
(Cerrtooo...)
 
Si guardò le mani alla ricerca di quel potere, sconvolta dall’idea di poter fare qualcosa e atterrita dal pensiero che fosse qualcosa di improponibile. Si accorse che stava tremando. Non riusciva a tener ferme le mani; tremolavano tanto da far tintinnare le monete.
 
Però...se davvero avessi la possibilità di salvarlo e la stessi buttando?
(Andiamo, guarda in faccia la realtà! Non sei un dottore, non sai manco come si chiamano i tuoi organi interni!)
È meglio la coscienza o la misteriosa voce telepatica?
(Risposta scontata, ti pare? Ovvio che dovresti preferire me, la tua coscienza!)
E poi è la voce di chi? Perché è qui? Perché non si presenta a farlo lei il gioco di incantesimi? Incantesimi, stragalassia!
(Ecco, ora sì che ragioniamo...)
Perché devo scegliere tra due cose impossibili? L’ambulanza non scenderà mai, e la magia non esiste! Perché non mi viene concessa almeno UNA opzione fattibile?!
(Scelte difficili e merda in faccia qualunque strada tu prenda. Benvenuta nel mondo dei grandi, dolcezza.)
 
Tese le orecchie in un ultimo, disperato tentativo di udire le sirene dell’ambulanza ma niente, le rispose solo il silenzio. E allora la paura di rimanere da sola scelse per lei.
Era una follia, era vero. Ma era il momento delle decisioni, e quel salto nel buio era molto più allettante della solitudine certa.
«Lo faccio. Lo faccio, lo faccio, ce la faccio!»
Afferrò ed estrasse il primo pugnale che la mano ancora tremolava. La lama venne via con uno strap raccapricciante, portando con sé qualche grumo di carne. Per un istante il corpo si sollevò assieme al coltello, quasi come se il lombax avesse avuto uno spasimo. A Lilith parve di sentire la voce di Sikşaka strozzare un singhiozzo e subito dopo – come se quello non avesse martoriato a sufficienza la sua fermezza – vide un fiotto di sangue segure la punta del coltello, quasi a rincorrerlo per impedirgli di lasciare il corpo.
La sicurezza della ragazza si fece piccola sotto le urla della coscienza, che gridava quanto fosse idiota a seguire il consiglio di qualcuno che forse manco esisteva. Si morse il labbro così forte da sentire il sapore del sangue sulla punta della lingua, ma non vi badò. Le importava che Sikşaka stava per morire e una voce di donna le aveva chiesto di avviare degli incantesimi curativi, e lei stava esaudendo quella richiesta assurda con il petto così compresso dalla paura e dal dubbio da parere prossimo alla frantumazione.
Non aveva mai pregato, Lilith, non aveva mai creduto che esistessero divinità o altri esseri superiori; ma in quel momento avrebbe dato un braccio perché uno di essi esistesse e risolvesse la situazione con uno schiocco di dita.
Queen, percepito quel desiderio così disperato, sentì un brivido lungo la schiena.
Oh, ma i Toksâme esistono. – avrebbe voluto dirle. – Ce n’è un universo pieno, di divinità. Peccato che siano la rovina del multiverso.
 
Intanto Lilith fece forza sulle dita tremolanti e infilò la prima coppia di monete nel crepaccio lasciato dalla lama.
Una zaffata emerse dalla ferita e la costrinse a storcere il naso, ma non si ritrasse. Per quanto la vista del sangue che fluiva dal corpo del suo maestro la sconvolgesse, non si allontanò. Anzi, si affrettò ad affondare più in profondità le monete, pregando che funzionasse davvero.
Fu esaudita.
Non seppe spiegare come o sulla base di quale principio, ma non aveva ancora ritratto i polpastrelli quando sentì la stessa sensazione che provava quando lucidava Rakta. Percepì sulle mani quella specie di elettricità statica che le drizzava il pelo, assieme al tramestio alla bocca dello stomaco. Guardò la spada, poi le monete nella ferita e le sue dita sporche di sangue. Non aveva parole per descriverlo, ma sentiva che qualcosa di giusto stava succedendo.
Cacciò sbrigativamente le lacrime, afferrò il secondo pugnale con più decisione e ripeté il gesto compiuto poco prima. Dopo il terzo ed ultimo coltello, quando il vello sulle sue mani era ormai incrostato di sangue fino al polso, tornò a stringere dolcemente la mano di Sikşaka, osservandone i lineamenti con un misto di ansia e aspettativa dipinto sul volto. Avrebbe funzionato. Doveva.
«Funzionerà, Sik, vedrai.» sussurrò.
«Funzionerà, giovane mortale.» la rassicurò Queen. «L’ho visto accadere troppe volte per non poterlo garantire.»
Lilith alzò il capo e si guardò nuovamente intorno. La palestra era sfasciata, neanche ci fosse passata una tempesta.
«Puoi dirmi chi sei?» domandò. «Se si salva, lo devo a te. Voglio almeno sapere il tuo nome.»
Queen percepì che le difese della giovane si abbassarono totalmente, sia nella mente che nell’anima. Sogghignò. Era il momento che aspettava.
«Oh, mi conoscerai presto, non temere.» disse, sibillina. «Per il momento ti basti sapere che sono un’emanazione di Shine, Toksâme di quest’universo. E che tu, mia giovane e coraggiosa mortale, sei stata scelta da me per far parte di un gioco tanto antico quanto spietato.»
La ragazza corrucciò le sopracciglia. Non aveva compreso la prima parte, ma la seconda l’aveva inquietata. Senza accorgersene, strinse più forte la mano del suo maestro.
«Cosa vuoi dire?»
«Non ti preoccupare, per questa partita i pezzi si stanno ancora schierando. Capirai tra qualche anno.»
La voce della lombax si fece più dura. «No, fammi capire adesso. Ti devo un favore, è vero, ma non mi farai fare questo “gioco” senza dirmi un cazzo di niente.»
Queen, riversa sul pavimento, digrignò i denti. Non sopportava i mortali insolenti, non lo aveva mai fatto in passato e non li avrebbe tollerati in futuro.
«Taci!» e scaricò un ruggito direttamente nella testa di Lilith.
Tra le tempie, quello che cominciò con un urlo divenne una colata incandescente di sofferenza. La ragazza sentì i pensieri esplodere, diventando schegge che si conficcavano dolorosamente nel cervello.
Lampi rossi e neri striarono ciò che guardava, squarciando la capacità di vedere come grossi artigli avrebbero fatto con una tela. La ragazza serrò gli occhi e si portò le mani alla testa, urlando e gemendo per quella tortura sbucata dal nulla. Si agitò e si scosse, ma niente, andò avanti finché non si ritrovò prostrata, con la fronte che toccava la maglia insanguinata di Sikşaka.
Finì in un lampo, così com’era cominciata. Nella testa di Lilith rimase solo l’eco di quel ruggito spaventoso. Le orecchie ronzavano, la forza per pensare era ridotta a zero.
Queen accolse il risultato con soddisfazione, prima di proseguire. Raccolse il Potere e ne intrise le parole. Non le pronunciò ad alta voce per non farsi scoprire; le mimò con le labbra e le trasmise con la telepatia.
«Fô kuö dafâmko ï fô neö dafâmko.» [1]
Le parole scivolarono senza difficoltà nella mente di Lilith, trovando un terreno sconvolto, ma fertile. Pur non avendo mai udito quel dialetto, la lombax ne comprese lo stesso il significato e, per reazione istintiva, si portò in difesa. Che significava?
La tua volontà è la mia volontà.
Le parole echeggiarono nella mente e si insinuarono in ogni dove.
La mia volontà è la sua. Sono uguali. Vogliamo la stessa cosa.
Ecco, così suonava più comprensibile. Era una cosa nuova, affascinante. Ed era bella. Scaldava l’anima sapere di non essere la sola a volere qualcosa, anche se lei non sapeva ancora bene cosa.
Magari lei ha capito cosa vorrei. Dopotutto vogliamo la stessa cosa.
In fondo lei voleva salvare Sik quando anche l’altra voleva salvarlo. Forse un’opportunità la meritava.
Queen percepì le difese abbassarsi e s’insinuò prepotentemente.
«Pô öpîlla kû dedsôë tîs pêl-succîsi ë Toksâme pê quïlka ümedîslâ. Losôë öf nêä zeömja pusômki fô cuïsso ksô mâë ï fâsa, losôë ëf gsô-jeä d’ji jôfiso ëf jâfta öf nêä äspêmi.» [2]
Lilith percepì una strana energia insinuarsi tra i pensieri. Era così diversa da quella emanata da Rakta, eppure era così simile. Non si preoccupò di combatterla, la lasciò andare oltre, scavare dentro di lei e riempirla con quella nota di forza e mistero.
Si concentrò sulle parole. La sua parte nel gioco sarebbe stata di natura bellica, quindi. Suonava interessante.
Ma come posso...?
«Tîs quîlka ljâta ottsimpîsoë jâni panemôsi Rakta. Jâ-kêmuïsoë ö lkupeösi fô öski pîffi fôni jâm Sikşaka Talavara ï mâm ô-jîkkisoë ö-ksâ noïlksa d’ji tê ëmlîcme fâ üla pîffi ösnê gêö-d’ji. Ëf panêmeä ï fô üla pê Rakta losômma fô kûö ümêjo tsê-sêko zê-d’ji, ö likkîngsi, ïmksisôë öffo Accademia della Flotta pê Metropolis.» [3]
L’Accademia, ma certo!
L’Accademia e le lezioni di Sik! Con quelle insieme sarebbe diventata temibile!
«Dâcfeä d’ji kû kê ëljsêdo öf jâsla Soldati ï kê ëntïcme ö lutîsosi gsêffo-kinîmki cfê ilône. Mâm kê fôlj-sôë fûlem-ôsi pôf lû-jîlla; jâ-kêmuïsoë ö fodasôsi jâm ospâsi ï pipêxe-mî. Öf kîsnemi pîf quöska ömma, quömpa losôë ümo ïjjîffi-xô, jamjassîsoë tîs imksôsi lûffa USS Ferox. I tâë losôë lâfa ïp iljfuledonîmki öë neïe äspême, mâm mî öjjikkisôë ö-ksê, minnîma pô King â pô Chaos êm tislâmo.» [4]
Queen sapeva di porre un vincolo azzardato a vietarle di seguire la parola di Chaos, ma non le importò. Se doveva manipolarla, lo avrebbe fatto fino in fondo.
Lilith annuì. Sullo sfondo, la coscienza diceva cose assurde come “l’Accademia è fuori discussione, ricordi il dialogo con Sik?”
Ancora una volta, la coscienza venne ignorata. Era la voce a dominare nella mente di Lilith. Con quel tono fermo le aveva aperto uno scenario cui lei non aveva pensato a dovere.
Uno scenario che le piaceva e l’allettava. Sì, si sarebbe adoperata per raggiungerlo.
La mia volontà è la sua volontà.
* * * * * *
La pithil portava sabbia senza sosta, tingendo pian piano gli angoli della cittadina. Se l’ingresso alla palestra non fosse stato riparato, Matej sarebbe diventato un pupazzo di sabbia.
Non che gli importasse. Era arrabbiato, in quel momento.
Quando aveva sentito il centralino dell’ospedale che, alla radio, gli chiedeva di dare nuovamente il suo indirizzo, Matej era dovuto uscire dalla palestra per non sbottare davanti a Lilith.
«Come sarebbe “si sono persi”?» ringhiò alla radio. «Siete l’ospedale, sacra luna! Le vostre ambulanze dovrebbero andare a curvatura, e invece si perdono per le vie di Kyzil Plateau, un buco di cittadina!»
Non stette ad ascoltare la risposta. Sebbene fosse suo dovere farlo, sapeva che gli avrebbe provocato un inutile scatto d’ira. A quel punto, o l’ambulanza si teletrasportava, o per Sikşaka non ci sarebbe stata speranza.
E mentre la radio gracchiava il battibecco tra la centralinista e l’autista, il poliziotto si sedette sul gradino davanti all’ingresso e si prese il capo tra le mani.
Udì Lilith gridare e immaginò che stesse piangendo.
Si morse il labbro. Con che parole avrebbe potuto rassicurarla? Con che ottimismo poteva aspettarsi che lei acquisisse fiducia nell’ordine pubblico se quello si dimostrava totalmente inefficiente?
 
Poi, finalmente, si udirono delle sirene.
Matej alzò la testa di scatto, riconoscendo il suono all’istante. La Polizia.
Pochi secondi dopo una vettura contrassegnata si fermò davanti all’ingresso della palestra e due colleghi uscirono all’aria fresca della notte.
«Era ora!» sbottò Matej. «Quanto vi ci è voluto?!»
I nuovi arrivati non ebbero il coraggio di dirgli la verità, ossia che era parso tutto uno scherzo finché non li aveva contattati lui di persona.
Entrarono tutti e tre nella palestra, trovando Lilith china sul suo maestro. Quando si voltò a guardarli, dietro il velo delle lacrime bruciava un terribile rancore.
«Signorina...» disse il più alto dei due, contrito.
La ragazza riconobbe la voce. Era la stessa che le aveva riso in faccia, quando aveva telefonato.
«Sparisci.» ordinò, caustica. «Sei inutile.»
«Ehi!» rimproverò l’altro. «Non è il caso di essere irrispettosi!»
Riconobbe anche la sua voce. Era quello che faceva battutine di sfondo alla telefonata.
Per un istante fu tentata di prendere Rakta e farli a pezzi, ma tutto quello che fece fu mettersi in piedi e fronteggiarli.
«Il mio rispetto te lo devi guadagnare, stronzo.» ringhiò. «Serve un’ambulanza. Quindi, o tu e il tuo compare ne portate una qui, o potete andarvene.»
Matej diede uno sguardo al corpo sdraiato a terra, e solo allora si accorse che era diverso da come lo aveva lasciato. Mosse un passo in avanti. Lilith lo vide con la coda dell’occhio e non gradì.
«Indietro, tutti voi.» ammonì. Allargò i piedi e flesse leggermente le gambe. «Gli unici che farò avvicinare a Sik saranno dei dottori.»
Matej fu l’unico a non prendere quella minaccia per una smargiassata.
«Che ragazzina pericolosa...» commentò invece il più basso, che alle orecchie di Lilith suonò orribilmente canzonatorio.
«Decisamente.» convenne il collega. «Matej, non ci avevi parlato di un soggetto disturbato.»
Lilith sentì l’energia di Rakta pizzicarle la schiena. Sembrò dire: Raccoglimi!
Ed era più che disposta a farlo. Ma non aveva certezze che la spada non servisse al funzionamento di quelle strane monete, per cui la lasciò al suo posto. Piegò le braccia, invece, e portò le mani all’altezza delle spalle. Non le strinse a pugno – non subito, almeno. Lasciò che i poliziotti intuissero che le sue dita fossero incrostate di sangue. Lasciò che sommassero quel dettaglio ai capelli spettinati ed alle occhiaie, così che pensassero che fosse una squilibrata.
Godette del loro sgomento nell’istante in cui realizzarono che non stava fingendo.
Poi partì a testa bassa, desiderosa solo di sfogare la sua frustrazione sulle autorità che, ancora una volta, l’avevano tradita e derisa.

[1|⇑] La tua volontà è la mia volontà.
 
[2|⇑] Da adesso tu vivrai per distruggere i Toksâme di questo universo. Sarai al mio fianco durante la guerra tra noi e loro, sarai il braccio che calerà il colpo al mio ordine.
 
[3|⇑] Per questo scopo apprenderai come dominare Rakta. Continuerai a studiare l’arte delle lame con Sikşaka Talavara e non accetterai altro maestro che t’insegni l’uso delle armi bianche. Il dominio e l’uso di Rakta saranno la tua unica priorità finché, a settembre, entrerai all’Accademia della Flotta di Metropolis.
 
[4|⇑] Voglio che tu ti iscriva al corso Soldati e t’impegni a superare brillantemente gli esami. Non ti lascerai lusingare dal successo; continuerai a lavorare con ardore e dedizione. Al termine del quarto anno, quando sarai un’eccellenza, concorrerai per entrare sulla USS Ferox. E poi sarai solo ed esclusivamente ai miei ordini, non ne accetterai altri, nemmeno da King o da Chaos in persona.

 

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Capitolo 10
*** | Capitolo 10 | Pacco da Albio ***


[ 10 ]
Pacco da Albio
Sempre 19 Aprile 5402-PF, ore 8:45
Settore ovest
 
Villa Marau era la più bella dell’intero settore, lo sapeva chiunque. Sorgeva su un piccolo terrapieno, non a caso detto “il piedistallo”, che la metteva in mostra come un’opera d’arte.
Si diceva che fosse uno degli edifici più vecchi di Kyzil Plateau, e come tale era stato valorizzato culturalmente.
Fu davanti al suo cancello che l’hovercar scura parcheggiò. Ne uscirono due lombax in giacca e cravatta: il primo, riconoscibile dal vello biondo, aveva l’aria scarmigliata della carenza di sonno; mentre il secondo, dal pelo color torba, era impeccabile.
Si fermarono un istante ad osservare la facciata maestosa, cercando con gli occhi una finestra precisa tra quelle che punteggiavano l’edificio.
Il primo a rinunciare fu Yanko, che si voltò con fare sbrigativo verso il suo accompagnatore. «È sicuro che lo troveremo qui, signor Shinagan?»
«Ci aspetta nel suo ufficio.» replicò l’altro, asciutto, raddrizzando con noncuranza la spilla dell’ordine degli avvocati.
Il biondo storse la bocca.
«Voleva bene a Dragan. Sarà una mazzata.»
 
L’attrattiva principale di villa Marau, assieme al giardino ricco di palme esotiche, era la pinacoteca; che però a quell’ora era ancora chiusa. Fu una fortuna per i due, che non dovettero curarsi di mascherare la fretta con cui attraversarono il giardino e i primi due piani della villa. Al terzo, coi passi ovattati dalla moquette, raggiunsero finalmente il loro obiettivo: l’ufficio del curatore.
E lì, oltre la soglia finemente intarsiata, trovarono Koliachek.
L’anziano xarthar, come li vide, si alzò in piedi e strinse loro la mano.
«Prego, accomodatevi.» disse, indicando con un cenno del poltroncine davanti alla scrivania. «Abbiate pazienza se non ho nulla da offrirvi, ma il mio fisico non sopporta più neanche il caffè...»
«Non preoccuparti, non fa nulla.» replicò Yanko. «Tanto più che la situazione è d’emergenza.»
«Dovevo immaginarlo nel momento in cui Cary mi ha telefonato, suppongo.» asserì la pantera, sedendosi di nuovo sulla poltrona. «Ditemi tutto.»
Il lombax dal vello biondo si schiarì la gola.
«Si tratta di Dragan.» esordì. «I miei l’hanno trovato morto poco prima dell’alba.»
Osservò lo xarthar per decifrare la sua reazione, ma tutto ciò che Koliachek gli offrì fu un’espressione più cupa e una forte stretta del bracciolo sinistro. Allora proseguì: «Una settimana fa ha accettato un lavoro dalla Regina di Sangue. Me ne ha parlato solo ieri sera, perché se le cose fossero degenerate potessimo tamponare in qualche modo.»
«E sono degenerate.» indovinò la pantera.
«In maniera imprevedibile.» confermò l’altro.
Lo xarthar strinse le labbra, mentre un peso invisibile scendeva sul fondo dello stomaco.
Dragan non era nuovo a quel comportamento. – ragionò. – Più di una volta si è confidato all’ultimo, ma mai per comande così mal promettenti. Chissà che razza di bordello ha accettato.
«Parlatemi di questo lavoro.» disse, intrecciando le dita con fare paziente. «E, per cortesia, spiegatemi perché le faccende della nuova guardia dovrebbero tangere un vecchio razziatore in pensione.»
I due lombax si scambiarono una rapida occhiata. Dopodiché Yanko rispose: «Perché il lavoro era ai danni di Sikşaka Talavara.»
Il nome causò un vuoto tra i pensieri di Koliachek. Ecco spuntare un’altra reliquia del passato. La situazione non migliorava affatto.
«Dragan doveva derubarlo di un’arma, e portarla alla vecchia area Gadgetron per il pagamento.» andò avanti l’altro. «Il fatto è che poi è morto con quella spada in gola.»
Koliachek si pinzò il naso con le dita.
«Queen Hakuro e quel Talavara nello stesso contesto promettevano solo guai.» disse. «Mi stupisce che abbia accettato una comanda simile.»
«“Se porta potere e soldi, si accetta.”» citò Cary. «Probabilmente ha ricordato le parole di Blackeye.»
«Se anche fosse, doveva immaginare che avrebbe sollevato un polverone. Questa sua leggerezza mi sconcerta.»
«Sì, è stata una mossa azzardata.» concordò l’avvocato. «Tuttavia ora il signor Koss è passato a miglior vita, e noi ci ritroviamo con una bella patata bollente.»
«Senza dubbio.» commentò Yanko, mormorando tra sé.
«Da quel che so è un maestro con le armi da taglio.» disse ancora l’avvocato. «Potrebbe essere stato lui a infliggergli la ferita mortale, ma potrebbe essere stata anche la signora Hakuro. Non lo sappiamo. Siamo venuti qui per appurare i fatti, giacché il controllo e la supervisione del signor Talavara era affidato a lei.»
«Ho smesso di controllarlo nel ’98, lo sapete...»
Fece per raccontare la sua bugia ancora una volta, ma si fermò subito. Era evidente dalle loro espressioni ferme che loro sapevano. «Oh, immagino che la mia scusa non regga più.» capitolò.
Yanko denegò. «Regge egregiamente. Dragan me l’ha confidato ieri sera, sennò non l’avrei mai sospettato.»
«Chi altri lo sa?»
Intervenne Cary: «Nessuno, glielo assicuro. Eravamo solo noi tre.»
Lo xarthar annuì. «M’incuriosiva il modo in cui aveva mutato i suoi princìpi dopo la guerra. Mi sono accollato l’incombenza della sorveglianza e ho finito per appassionarmi alla sua vita come a una telenovela.»
«E noi ringraziamo la sua curiosità.» replicò l’avvocato. «Se ha le registrazioni di stanotte saremo in grado di capire meglio cos’è successo.»
«E potremo decidere con chiarezza su chi scagliarci e come reagire.» intervenne Yanko.
Koliachek annuì. Dopodiché aprì un cassetto della pesante scrivania e tirò fuori una scheda SD.
«Questo è quello che ho.» disse, facendo scivolare la tessera sul pianale intarsiato. «Andate nell’ufficio adiacente e inseritela nel computer. Il programma si avvierà in automatico.»
Yanko l’afferrò e si affrettò a ringraziare. Dopodiché si sbrigò a raggiungere l’ufficio indicato.
Cary lo seguì, ma con più calma. Quando fu sulla porta ebbe un ripensamento e si voltò. Lo xarthar era ancora seduto, ma davanti a lui era comparsa una cartella di documenti intestati alla pinacoteca.
«Lei non è curioso, signor Koliachek?» domandò.
La pantera distolse l’attenzione dalle carte e sorrise.
«Preferisco le commedie ai film d’azione, signor Shinagan. Di quella ne ho avuta fin troppa in vita; per questo non seguo più vicende di tale genere.»
Cary annuì.
«In tal caso: grazie per averci ricevuti.»
Koliachek sorrise. «È stato un piacere.»
 
Un paio d’ore più tardi, i due lombax uscirono dalla villa chiacchierando fitto fitto.
«...Non possiamo prevenire che si sappia.» stava dicendo Cary. «Sarebbe materialmente impossibile. Meglio controllare le informazioni in circolo, piuttosto.»
Yanko annuì, pienamente d’accordo con lui.
«Convocherò un’assemblea urgente.» affermò. «E che il cielo ci aiuti a tenere buoni Albio e Belvard.»
* * * * * *
Ore 11:30
Settore nord, Green Cricri Pub
 
La telefonata ruppe l’atmosfera nella sala da biliardo. Albio, intento a tirare un colpo di rinterzo, prese male il suono del telefono e accolse peggio le parole che Yanko gli riferì.
Il capo è morto. Riunione urgente da me.
Ripensò alle parole origliate quasi per caso la sera precedente, dopo che Dragan aveva sciolto la riunione, e strinse con forza la stecca.
«Che succede?» domandò la voce annoiata di Paige. Appoggiata al muro, la tuttofare di Albio stava ingessando il girello di cuoio sulla punta della sua stecca, facendo luccicare le unghie smaltate di verde.
Il lombax la guardò con aria torva.
«Prendi la tua roba e vai da Julian.» ordinò, secco. «Voglio un bel pacco regalo da consegnare oggi stesso.»
L’umana smise di muovere il gessetto e alzò le sopracciglia, sorpresa.
«Non ce la farà per oggi.» replicò, scuotendo la grande massa di ricci castani.
«Vai da lui e minaccialo, se serve.» insisté, infastidito dall’obiezione. «Fai che metta questa consegna in cima alla lista delle priorità.»
«Ma Julian è lento come un bradipo morto!» sbottò lei. «Posso minacciarlo finché vuoi, ma col cazzo che te la farà entro oggi!»
«MUOVITI!» esplose. «Ti darò istruzioni sulla consegna più tardi.»
La donna desiderò con forza di spaccargli la stecca in testa, ma si costrinse a posarla sul panno del biliardo e uscire. Per compensare la mancanza d’azione prese a borbottare insulti sconnessi.
Il capobanda la guardò uscire. Dietro lo sguardo irritato, la mente era occupata dalle parole origliate.
L’ho minacciato di passare ad Albio l’ordine di attaccare la sua unica allieva se non avesse accettato. Non avrei voluto, ma in caso contrario me lo troverei fra i piedi. Fortuna che tiene a quello scricciolo!
«Lo sapevo che quel traditore andava ucciso il giorno in cui ci ha mollato.» brontolò. «Yanko e Dragan l’hanno protetto, e adesso guarda in che merda siamo.»
«Capo, stai di nuovo parlando da solo...» l’avvertì la voce giovane e svogliata del ragazzo che, svaccato sul divanetto nell’angolo, giocava con una VG portatile e sembrava non avere occhi per altro.
Albio non prese bene la sua nota.
«Taci, Paion. Vedi di contribuire, piuttosto.» rimbeccò, secco.
L’umano – unica altra persona presente nella sala da biliardo – impiegò qualche secondo a distogliere l’attenzione dalla console.
«Credo che tu debba delle scuse alla sorellona. Lo sai che fracasserà il mio cranio per sbollirsi.»
«Questi sono cazzi tuoi.»
«Almeno mi dici per cosa mi devo sacrificare?»
«Perché Talavara è un bastardo.» rispose l’altro, infilandosi la giacca. «E intorno ai bastardi ci vuole terra bruciata, prima di colpirli.»
Paion roteò gli occhi e pensò uno svogliato Ci risiamo. Pochi istanti più tardi Albio lasciò la sala: la porta sbatté e nell’aria rimase solo la musica a 16 bit della console.
* * * * * *
Ore 12:15
Bassifondi ovest, residenza di Yanko
 
Il loft aveva ricevuto poche volte tutti i capibanda insieme. Prima con Dragan, poi con Yanko, il numero di assemblee generali era rimasto sulla punta delle dita.
L’eccezione di quel giorno non si era presentata con le migliori cause, né stava procedendo nel migliore dei modi.
Come previsto dal padrone di casa, i capibanda del settore nord e dell’area orientale dei bassifondi non presero bene la dipartita di Dragan. Ciò che non aveva previsto, però, era la lotta che si sviluppò subito dopo per accaparrarsi il posto vacante.
«Signori...SIGNORI!» tuonò alla fine Cary Shinagan, quando tutti furono in piedi, urlanti e accaniti. «Vi invito a tornare alle vostre corde. Non è né il luogo né il momento per simili atteggiamenti. La situazione richiede fermezza e velocità: il nemico è un membro della Flotta, vi ricordo, e potrebbe approfittare del nostro disorientamento per metterci all’angolo uno per uno.»
L’immagine paventata dalle sue parole riuscì a cambiare l’aria nella stanza. Uno ad uno i capibanda parvero rinsavire, e ciò fu chiaro soprattutto dal modo in cui si posero successivamente.
«Giusto; dobbiamo essere coesi.» asserì la figura tarchiata di Winsen.
«Però, se davvero è un tranello organizzato ad hoc dalla Flotta, non riusciremo a levarci le scarpe con le nostre sole forze.» obiettò l’elegantissima Nekai. «Dovremmo chiedere aiuto ai colleghi di Asteroid City.»
«Cazzate. La bega è nostra e ce la smazziamo noi.» replicò Belvard, stizzito dalle affermazioni dei due kerwaniani. Batté con decisione l’indice sul tavolo e propose: «Troviamo quella donna e uccidiamola; così saremo in pari con la Flotta.»
Ma le parole del cazar, per quanto attraenti, suscitarono reazioni avverse.
«Queen Hakuro è tutto fuorché un avversario contro cui dire alla leggera “lo prendo e lo uccido”.» fece notare Winsen. «Al di là che è un banale Comandante, ti ricordi le informazioni che abbiamo su di lei?»
«E comunque a quest’ora avrà già riferito la riuscita del piano.» convenne Nekai. «Agire da teste calde non ci aiuterebbe.»
«Suggerisco di mettere ai voti l’idea di Nekai.» asserì Yanko. «Alzi la mano chi tra noi è favorevole a chiedere aiuto ai colleghi di Asteroid City.»
Solo le mani di Belvard rimasero abbassate.
«Cinque contro uno; è deciso.» dichiarò il biondo. «M’incarico di contattare i colleghi.»
«Dissento.»
Quella parola fece sì che l’attenzione dei presenti si focalizzasse sulla figura slanciata della xarthar seduta di fronte a Belvard. La sua voce pacata, ma dal tono fermo, aveva tutti i connotati di quella di Koliachek, che della giovane pantera era il padre.
«Con tutto il rispetto, ritengo che dovrebbe essere il signor Shinagan a contattare chi di dovere.» spiegò. «L’avvocato gode della fiducia di tutti, e tra noi è l’unico davvero al di sopra delle parti. La sua comunicazione non avvantaggerà né recherà danno ad alcuno di noi.»
Lo sguardo grigio del lombax incrociò quello dorato della giovane, che incalzò: «Forse erro?»
«Affatto.» ammise Cary a denti stretti. «La sua asserzione è corretta.»
«Quindi lo fai tu.» decretò Belvard in tono sbrigativo. «Ciò non toglie che per me state facendo un errore. Cercare i vicini ci porterà solo rogne.»
«Non è chiedere aiuto la merda.» lo corresse Albio. «La vera merda è lasciare le cose a metà.»
Scambiò uno sguardo in cagnesco con tutti, prima di spiegare: «Stiamo qui a discutere di cazzate e di Queen Hakuro, ma non guardate l’altra parte della storia: il capo doveva derubare Talavara. Proprio quello che nel ’93 abbiamo lasciato andare, già.»
Yanko e Cary si lanciarono un’occhiata.
Come fa a sapere? – si chiesero a vicenda, in silenzio, cercando di dissimulare l’allarme dietro una posa rilassata.
«Per me anche lui è colpevole. Torna fuori dopo dieci anni e guardate che casino succede.» incalzò Albio, prima di annunciare la sua conclusione: «La mia verità è che Talavara si è fatto filo-Flotta e si è accordato con quella donna per fottere il capo.»
«Ma non avrebbe avuto motivo per farlo. Non dopo tutto questo tempo.» asserì Winsen.
«Senza contare che non ci sono stati movimenti sospetti.» rincarò Yanko. «Per me corri troppo.»
«Era culo e camicia con la polizia! Tutte le sere andava in centrale!» sbottò l’albino. Poi, a voce più bassa, aggiunse: «Vuoi farci credere che non lo sapevi, Yanko? Sarebbe piuttosto grave...»
«N’era al corrente.» s’intromise Cary. «Ma aveva ragione di non ritenerla una minaccia: mio figlio Cole di recente ha commesso una sciocchezza. È solo un caso che l’abbiano assegnato a prestare servizio presso quell’uomo. Talavara si recava in centrale per le dichiarazioni e la firma.»
Ci fu un borbottio di disapprovazione. Albio allargò le braccia e sfidò direttamente il padrone di casa: «Allora spiegami cos’è successo.»
«Non lo so, ma per certo la Regina e Talavara non erano in combutta. Tant’è vero che si sono ammazzati a vicenda.»
L’albino fece per ribattere, ma Yanko l’anticipò con un gesto stizzito e aggiunse: «Come vi ho detto: ci sono filmati a testimonianza di ciò che dico. E spero vivamente che tu non stia cercando di farmi passare per demente.»
Albio serrò i denti con fare rabbioso.
«Sto cercando di farti notare una verità che non ti piace, socio.» e passò uno sguardo sui presenti. «Una verità che non piace a nessuno in questa stanza.»
«Una verità assurda quanto irrilevante, ora.» replicò il biondo. «Talavara è in fin di vita; non è per certo una minaccia. Queen Hakuro è sopravvissuta, invece, ed è la priorità su cui concentrarsi.»
Bel ragionamento di merda. – pensò ostinatamente Albio, ritirandosi in silenzio. – Vorrà dire che me ne occuperò io.
* * * * * *
Ore 14:45
Settore est, centrale di polizia
 
Lilith socchiuse gli occhi e sbadigliò sonoramente.
Grigio. Intorno a lei c’era solo cemento grezzo.
Si mise a sedere e raddrizzò la schiena, facendola scricchiolare. Poi portò le mani al collo, che era anchilosato al limite del blocco. Sotto i palmi, la zigrinatura sottile del metallo le fece il solletico.
Uh? – si domandò, spaesata.
Tastò meglio la trama che ricorreva sulla striscia metallica e individuò una specie di serpentina. E capì.
Il collo era dolorante perché il collare tachys le aveva impedito di muoversi bene. La schiena era incriccata perché la brandina era troppo rigida. E il cemento grezzo che la circondava era quello della cella in cui l’avevano sbattuta dopo il tafferuglio al belvedere.
Era di nuovo dentro. E se era di nuovo in centrale...
Un nodo le strinse lo stomaco. Per riflesso si portò una mano alla bocca, troppo piena di saliva.
Merda.
Cominciò a deglutire, ma ogni volta la saliva tornava a sommergere la lingua. Allora provò a fare in un altro modo.
Stai buona. – si disse – Lo stomaco è vuoto. Non puoi vomitare. Stai buona.
Rimase così: leggermente china in avanti, con la mano davanti alla bocca e le orecchie basse, a ripetersi quelle frasi finché l’ondata di nausea si placò. Ciò che rimase fu il senso di debolezza portato dalle onde tachys.
«Oh porca troia...» gemette, sdraiandosi di nuovo sulla brandina. «Crepi tra le fiamme chi ha trovato il modo di incanalare quella merda.»
Rimase giù per un po’ di tempo, dicendosi ch’era solo questione di abitudine, che di lì a poco si sarebbe sentita meglio. Ma dopo poco provò a tacere, e scoprì che delle sue parole non gliene fregava niente.
‘Fanculo. Tanto non mi ci posso abituare. – concluse, gonfiando la guancia d’aria. – Ma perché cazzo sono di nuovo qui???
«Ehi!» gridò. «C’è qualcuno???»
Dall’esterno non arrivarono rumori.
«Oh, perfetto.» Incrociò le braccia e indossò un cipiglio che prometteva battaglia. «Le mie tasse vanno a riempire le tasche di quattro stronzi che manco lavorano. Davvero perfetto
 
Ci volle quasi un’ora prima che qualcuno scendesse nel ramo delle celle. E, quando Matej mise piede nel seminterrato, capì di aver sbagliato tempismo.
«DOVE CAZZO ERI FINITO?!» fu l’accoglienza della ragazza.
«A farmi curare.» rispose con pazienza. Dopodiché le mostrò la mano sinistra, avvolta da un grosso strato di gesso che la rendeva più goffa. «Stanotte mi hai slogato un polso.»
Lilith grugnì un mezzo insulto.
«Dovevi lasciarmi arrivare a quei due, allora.» sputò.
«Certo, così ora saresti dentro per omicidio.» replicò lui, prima di aprire la porta della cella. «Dai, vieni nel mio ufficio. Dobbiamo parlare.»
 
La ragazza non era mai entrata nell’ufficio di Matej, ma – quando lo fece – la prima impressione fu che lui ci vivesse.
E lo suggeriva la coperta raffazzonata sul divano, assieme alla scatola del cibo d’asporto nel cestino della spazzatura. E poi c’erano fogli ovunque, nel più completo disordine. La scrivania era imbarcata, tant’era la mole cartacea sopra di essa. Dietro la pila più bassa faceva capolino lo schermo del computer, ma era adornato con diversi post-it e la ragazza lo riconobbe per quel che era solo dopo che il poliziotto ebbe spostato un po’ di quegli incartamenti.
«Sai niente di Sik?» domandò, incerta, prima di prendere la pila di fogli sulla sedia e spostarla sul divano.
Matej non rispose subito. Si chinò per accendere il pc e, in quei brevi istanti, l’ansia – a malapena mascherata dallo scazzo – mandò Lilith in apnea.
Poi, quando riemerse, il monitor emise un brutto ronzio. Aggiustarlo richiese preziosi secondi, che a lei parvero infiniti. Ma alla fine, dopo quella che aveva tutta l’aria di essere l’eternità, arrivò la risposta.
«L’hanno trasferito al Nohu Hospital. È vivo, ma non lascerà Asteroid City per un pezzo.»
Il fiato lasciò rumorosamente il corpo della ragazza, che si ritrovò con le spalle abbassate senza rendersene conto.
Si guardò le mani, ancora sporche di sangue secco, e si ritrovò a sorridere.
«Non lo vogliono manco all’altro mondo...»
Matej staccò gli occhi dal monitor per lanciarle un’occhiata ammonitrice, un silenzioso “cosa vai dicendo?”, ma quando la vide s’intenerì e sorrise a sua volta.
«Forse sanno che qualcuno tiene ad averlo di qua.» suggerì.
«Chi lo sa.» rispose lei, intrecciando le dita, mentre un macigno invisibile evaporava dallo stomaco. «Ma Asteroid City è a un’ora di volo. Meglio averlo lì che all’altro mondo.»
«Poco ma sicuro.»
«E poi gliene devo cantare quattro, cazzo, ci si aspettano coglionate da me! Non da lui, che ha cinquant’anni per gamba!»
Il poliziotto dissimulò la sua contrarietà dietro un colpo di tosse. Non voleva dirglielo, ma era un coetaneo di Sikşaka, e quel commento sull’età lo aveva punto leggermente sul vivo.
«Perché posso andare a trovarlo, vero?» domandò lei, con una vena di ammonizione nella voce.
«Temo che, al momento, lo possano visitare solo i medici.» rispose lui. «Ma ti avviserò quando sarà possibile andarlo a trovare.»
Lilith alzò un sopracciglio, scettica.
«Diciamo di sì.» commentò, improvvisamente acida, prima di cambiare discorso: «Cos’è che volevi sapere?»
Matej non replicò: che Lilith non vedesse il corpo di polizia così di buon occhio gli era noto. Perciò si limitò ad accogliere di buon grado il cambio d’argomento.
«Sul serio sei uscita a cercare Sikşaka?» chiese.
«Suona incredibile, eh? Una ragazzetta che esce a cercare un adulto grande e vaccinato, e non il contrario.» ironizzò, prima di tornare seria. «Però sì. Sono uscita a cercarlo.»
«Perché?»
«Perché quell’idiota di tanto in tanto va a piazzare qualche scommessa. Ma se vai a piazzare scommesse senza soldi quelli come minimo ti gambizzano. Sik ha lasciato il portafogli a casa; ho pensato di portarglielo prima che le cose andassero a puttane.»
«“A casa”?»
«La mia. Ieri sera è venuto a dormire da me perché i vicini dovevano fare dei lavori. Poi, nel cuore della notte, è uscito. Non lo so il perché. Mi ha svegliato, ho trovato il suo portafogli in fondo alle scale e ho pensato che stesse andando a scommettere. E sono uscita anch’io.»
«E poi?»
«E poi non era al giro di Marras. Visto che l’unico altro che frequenta è quello di Ktel, mi sono diretta lì, però... davanti alla palestra c’era casino. E c’erano i due coi mitra. Ho avuto paura e mi sono nascosta dove mi hai trovato. Ho chiamato Sik, ma il telefono era spento. E allora ho chiamato la polizia, ma non mi hanno creduto. Ho richiamato e poi, dopo una vita, sei arrivato te.»
«Hmm.»
Il poliziotto digitò qualcosa al computer, prima di asserire: «Non mi risultano lavori in corso né pubblici né privati. Sei sicura?»
Lilith si sentì piccare. Poteva capire che quello fosse il suo lavoro, ma non le andava che la credesse una bugiarda.
«Mi ha parlato proprio di lavori.» rispose, contrariata. «Magari è qualcuno che non ha fatto i permessi.»
«Può essere.» concesse lui. «In ogni caso: sappiamo entrambi che Sik era dentro quella palestra. Chi pensi che fossero i tizi contro cui si è scontrato?»
La ragazza fece spallucce.
«Boh.»
«“Boh” non è una risposta.» ammonì lui.
«Non cambia che non lo so.» replicò lei, quasi per sfida.
«Sicura? Non ti è mai capitato di sentire qualcosa, o di vederli in giro per caso...?»
Lilith denegò.
«Per me potrebbero essere ladri occasionali come assassini mercenari. Sono i bassifondi, dopotutto.»
Il poliziotto annuì e prese a massaggiarsi una tempia.
Era vero anche quello. Erano i bassifondi: nei loro anfratti si trovavano tutte le estrazioni sociali, dalla classe media ai più disagiati.
«Però...» andò avanti lei, riaccendendo in lui una speranza.
«Cos’hai ricordato?»
«Non so se può aiutare davvero, ma ieri era agitato.»
Matej avvertì che quell’informazione, informe e apparentemente inutile, avrebbe potuto nascondere ben altro. Forse valeva la pena indagare.
«“Agitato” in che senso?»
«Aveva la testa da un’altra parte.» spiegò. «Ho piazzato un paio di colpi scorretti a Cole e lui manco se n’è accorto – roba che non è mai successa.»
«E si è comportato in maniera diversa?» incalzò. «Oltre al non prestare attenzione a quel che facevate tu e Cole, intendo.»
Lilith corrucciò le labbra e fece mente locale.
«Gli ho dovuto ricordare io di chiudere a due mandate il portone, quando siamo usciti per andare a casa mia. E poi... a un certo punto si è guardato intorno, un po’ come se avesse captato qualcosa che non andava. Ho pensato che magari qualche imbecille ci stava puntando per derubarci, ma non è stato così. Gli ho chiesto che succedeva e mi ha risposto che non si ricordava se aveva chiuso il lucernario.»
«E tu ci hai creduto?»
Lilith fece spallucce.
«Perché non avrei dovuto? Era talmente svagato che ci stava. Gli ho detto che stava diventando schifosamente vecchio ed è finita lì.»
«Ed è tornato indietro a controllare?»
«Siamo tornati indietro.» affermò Lilith. «E il lucernario era aperto. L’ha chiuso e ce ne siamo andati via.»
Di nuovo, Matej si chiuse nel silenzio.
Mise insieme il racconto della ragazza, la telefonata sibillina di Sikşaka e i pochi elementi che aveva raccolto fino a quel momento. Alla fine sospirò con l’aria più stanca di quanto avrebbe voluto.
Non quadra niente.
I due che aveva arrestato sostenevano di non ricordare nulla; i due che erano morti dentro la palestra non erano stati identificati e del cadavere della donna non c’era più traccia. Quando aveva portato via Lilith, dopo il tafferuglio in cui lei gli aveva slogato il polso, c’era ancora. Ma all’arrivo del coroner non c’era più.
Aveva sperato che la ragazza potesse gettare un minimo di luce sulla faccenda, ma le sue aspettative erano state deluse.
«Tutto bene?» domandò Lilith.
«No, affatto.» replicò lui, asciutto, prima di alzarsi. «Aspettami qui, ti do un modulo da firmare e poi ti accompagno a casa.»
* * * * * *
Ore 17:00
Settore nord, casa Hardeyns
 
Lilith aprì la portiera della vettura con un biglietto da visita in mano.
«Contattami se ti dovesse venire in mente qualcosa.» aveva appena detto Matej, rimettendo nel taschino il portafogli. «Va bene qualunque cosa.»
La ragazza annuì con aria pensierosa.
Vedendola tentennante, il poliziotto chiese: «Cosa c’è che non va?»
«Credi...» cominciò a voce bassa. «Oh, adesso dico la cazzata del secolo.» e gli piantò lo sguardo negli occhi. «Credi che Sik se l’aspettasse?»
L’altro abbassò gli occhi sulla pedaliera.
«Non posso escluderlo.» mormorò. «Anche se non mi piace come idea.»
Lilith annuì di nuovo.
«Non piace manco a me...uh?»
Matej si voltò di scatto, credendo che avesse ricordato qualche nuovo dettaglio. Ma l’attenzione della ragazza era puntata sul vialetto.
«E quell’affare da dove arriva, adesso?» borbottò.
Il poliziotto si allungò per vedere meglio. Proprio davanti all’ingresso c’era una scatola di legno. Non era tanto grande, né prometteva di essere pesante. Era fasciata col nastro arancione delle ditte di spedizioni.
La ragazza si voltò verso di lui con un cipiglio scocciato.
«Puoi aspettare un momento?» gli domandò. «Controllo che non sia uno scherzo di quei dementi che mi tampinano a scuola.»
Matej le fece cenno di andare. Scornato, la osservò raggiungere il pacco con pochi passi. Poi abbassò gli occhi sulla pedaliera e sbuffò.
Lilith si fermò ad esaminare il pacco a due passi di distanza. Non la convinceva. Non aspettava spedizioni, e l’idea che fosse una sorpresa architettata dal padre la riempiva di disagio.
Osservando meglio – pur senza avvicinarsi; di quello non ne voleva proprio sapere – si accorse che sulla scatola non c’era il mittente. Quel dettaglio fomentò l’idea che il regalo improvviso fosse del padre: già in passato aveva ricevuto pacchi senza mittente, e si erano rivelati tutti “da parte di papà”.
Oppure è davvero da quella terna di idioti, che in questo modo sperano che non sospetti di loro. – si disse, pensando a Cole, Evrard e Naukara.
Bah, vediamo. – si disse ancora. Ma non mosse un muscolo che la scatola esplose.
 
KA-BOOM!!!
L’onda d’urto fece tremare la vettura. Il primo istinto di Matej fu quello di guardare oltre la portiera aperta: Lilith compì una parabola in aria, come se avesse ricevuto un pugno dal basso. Atterrò male, di schiena, e ruzzolò inerte.
Il poliziotto si scaraventò fuori dalla vettura e l’aggirò. Raggiunse la ragazza, distesa scompostamente a metà del vialetto, e s’inginocchiò al suo fianco per valutare se fosse ancora viva.
Respira! – constatò con sollievo, sentendo un refolo d’aria calda uscire dalla sua bocca semi aperta.
Si attaccò alla radio sulla spalla. «Qui agente Zimmler! 10-89, c’è un ferito! Ripeto: ho un 10-89 con un ferito! Mandate subito i soccorsi!»
La radio gracchiò per un istante prima che una voce graffiata rispondesse: «Ricevuto, agente Zimmler. Soccorsi in arrivo. Ripeto: soccorsi in arrivo.»
Matej lasciò perdere la radio. Lilith era letteralmente rivestita di schegge, e in alcuni punti l’ondata di calore le aveva bruciato vello e vestiti, mettendo in mostra chiazze di pelle o pelo a seconda del punto colpito.
Quando il poliziotto alzò lo sguardo si rese conto che la scatola era come evaporata. Al suo posto era rimasto un cerchio scuro di terra bruciata.
Dentro di lui, mentre attendeva che arrivassero i medici si annidò la certezza che la sua indagine si fosse appena complicata.

 

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Capitolo 11
*** | Capitolo 11 | Il fato, creatura curiosa ***


[ 11 ]
Il fato, creatura curiosa
Kyzil Plateau, settore sud, parcheggio
 
Quando Queen tornò lucida, la prima cosa che notò fu il buio che aleggiava nella navetta.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso. L’ultima cosa di cui era sicura erano le parole di teletrasporto che aveva usato per allontanarsi dalla palestra.
La seconda cosa di cui si accorse fu di sentirsi bene. Troppo, a ben pensarci.
Presa dal dubbio si portò una mano sul ventre, lì dove la ferita pulsava. Sotto le dita la crosta era spessa, la pelle gonfia e dolente; ma era indubbio: la guarigione era più avanti di quello che avrebbe dovuto essere.
Si tirò a sedere, seppur compiendo uno sforzo notevole, e tese le percezioni. Nella cabina di pilotaggio c’era un faro di energia avversa, estremamente simile a quella di Chaos, e così forte da procurarle un moto di nausea.
Quell’aura.
C’era una sola persona in tutto l’universo che poteva sfoggiarla, e non avrebbe dovuto essere lì.
 
Le luci si accesero e, quasi come se l’avesse chiamato, King si materializzò sull’ingresso dell’alloggio. Con la figura slanciata e i capelli nivei che la donna aveva sempre odiato, e quegli occhi color ambra che sapevano cogliere fin troppo di quello che lo circondava.
«Non ti sforzare, stolta. Dovresti essere più cauta con qualcosa che, nonostante tutto, può ancora ucciderti.» le disse avvicinandosi. Le parole, poco più che sussurrate, erano sporcate dal lieve accento esotico di chi parlava l'Idioma.
Queen gli scoccò un’occhiata al vetriolo.
«Non farmi la ramanzina, Figlio di Chaos.» ammonì, secca. «Dimmi perché sei qui. Non cercavi Dravec su Gorn?»
«Visto com’eri ridotta, un “grazie” mi farebbe piacere.»
«Visto che dovresti essere dall’altra parte dell’universo, vorrei sapere perché sei qui. Che c’è, vuoi fare il principe azzurro?»
King storse la bocca. Di tanti ruoli, il principe azzurro proprio no. Non con il suo nemico naturale.
«Dravec non c’era.» spiegò gelidamente, materializzando una sedia con un gesto svogliato della mano. «Sono qui» e si sedette con pacata eleganza «solo perché ho avvertito la vibrazione di Amsu.»
Scese un breve silenzio.
Queen, sotto gli occhi indagatori di lui, si fece più pallida. Tentò di drizzare la schiena, ma una fitta al ventre la costrinse a tornare china.
«Amsu?» soffiò, basita, premendo una mano sulla crosta. «Com’è possibile? L’hai distrutta nella nostra ultima battaglia.»
King non seppe dire con certezza se stesse mentendo. C’era una possibilità concreta, magari mascherata ad hoc dal dolore del taglio. Decise di andarci cauto.
«Lo credevo anch’io.» rispose. «Col quantitativo di incantesimi che infusi in Rakta prima di calare il colpo; quell’arma dovrebbe essere ancora a pezzi. Ma la sua aura era in quel posto, ed era molto recente.»
Ciò significava, per quanto surreale, che qualcuno l’avesse raccolta e riparata. Qualcuno che comprendesse le potenzialità dell’arma, conoscesse l’ubicazione esatta e possedesse l’abilità necessaria a ripararla.
«Non esistono più mastri ferrai in grado di fare quel che insinui. L’ultimo è morto prima che Aluka Limblidor ci sfuggisse, ti ricordo. L’unico che potrebbe averlo fatto è Shine.» concluse Queen.
King annuì. «Lo pensavo anch’io. Ecco perché, se davvero i Toksâme stanno radunando le loro dilette, ci serve un piano d’emergenza.»
Ci fu un secondo istante di silenzio; ma stavolta Queen lo ruppe scoppiando in una risata dai toni acuti. King la fissò, scornato, e ciò non fece altro che aumentare il tono della risata.
Attese con pazienza che la donna finisse, prima di obiettare freddamente: «È evidente che non comprendi cosa ciò comporta.»
«Sbagli: le comprendo eccome.» replicò lei, con un sorriso un po’ folle in volto. «Ma anziché piangere alla mia gonna, goditi la loro debolezza. Sono davvero messi male, se non possono più forgiare altre armi. Probabilmente la forza del loro culto è talmente esile che non riescono più neanche a manifestarsi.»
«Forse hai ragione.» le concesse. «Ma sbagli a prendere questo fatto così alla leggera.»
«Tu pensi troppo.»
«E tu troppo poco. Ecco perché, quando sono arrivato, ho dovuto evocarti e curarti.»
Lo disse per provocarla, e ci riuscì alla perfezione. Era risaputo che, per la figlia di Shine, non poteva esserci umiliazione peggiore che essere guarita dal figlio di Chaos. Sbattergliela in faccia in quel modo l’avrebbe fatta arrabbiare: proprio quello che voleva per ripagarla delle risate.
La donna, infatti, lo fissò prima disorientata, poi livida di rabbia.
«Tu possa finire tra le mani di Kranu, maledetto!» sbottò. «Io mi sono tratta da quel luogo! Io mi sono trasportata qui e curata!»
King denegò con aria decisa.
«Non so dove fossi, ma di certo non eri qui.» la corresse. «E forse ti sei curata prima di perdere del tutto le forze, ma Rakta ti ha procurato dei danni da non sottovalutare. Se non avessi spremuto le mie conoscenze e tutto l’âsa che avevo con me, a quest’ora forse ci saresti tu fra le mani di Kranu. Perciò ti sarei grato se non ridessi delle mie preoccupazioni, dal momento che – sostanzialmente – sei viva grazie ad esse!»
Terminò di parlare con un tono nettamente più alto di quello iniziale e, a quel punto, inspirò lentamente per calmarsi. Stava perdendo la pazienza, e la cosa non andava affatto bene. Queen, conoscendo quanto fosse delicato quel momento, rimase ad aspettare in silenzio.
Quando King ebbe ritrovato la calma, spiegò: «L’unico motivo per il quale non siamo già sulla Ferox è che non sapevo se qui avessi finito.»
Finito? – si chiese la donna, facendo mente locale. No che non aveva finito: aveva condizionato la portatrice, ma c’erano ancora tutti coloro che l’avevano vista da manipolare. Anzi, era d’obbligo farlo quanto prima, affinché non si muovessero sgraditi effetti collaterali.
E quello portava ad una domanda: quanto tempo era passato?
 
«Dimmi data e ora.» ordinò, sovrappensiero.
L’uomo non gradì l’ordine, ma soprassedette.
«È il 20 Aprile e sono le prime ore del mattino.»
Queen fece rapidamente i conti. Erano passate all’incirca ventiquattr’ore, quindi.
Davvero un sacco di tempo, accidenti!
«Sia maledetto quel lombax...» imprecò a denti stretti, tirando i piedi giù dalla branda.
King la guardò con aria stupita: non riteneva che fosse già in grado di muoversi così fluidamente (per quanto fluidamente rimanesse una definizione grossa).
«Devo finire il lavoro.» grugnì a mo’ di spiegazione, prima di allungare la mano con fare imperioso. «Dammi la scarsella.»
L’uomo si limitò a indicarle una mensola alle sue spalle, sulla quale faceva mostra di sé il sacchettino pieno d’âsa.
Queen, capito che non avrebbe ubbidito al suo ordine, ingoiò un po’ d’orgoglio e riformulò la frase.
«Per favore, dammi la scarsella.»
E lui, con quel sorriso che lei tanto odiava, l’accontentò.
Quando il sacchettino fu tra le sue mani, la donna lo svuotò sulle sue gambe con un gesto spazientito.
«Che devi fare?» domandò King, mentre lei divideva grossolanamente l’âsa gô-mjä dall’âsa cê-ffa rimettendo nel sacchettino le monete dai bagliori biancastri.
«A questo punto e in queste condizioni, mi limiterò a cambiare qualche ricordo e spargere ordini.»
«...a quanti mortali?» incalzò l’uomo, vedendola accumulare un considerevole quantitativo di monete.
Queen gli scoccò un’altra occhiataccia, prima di borbottare in risposta: «Inizialmente avevo pensato a tutta la popolazione, ma ora non è possibile. Perciò saranno sei persone chiave: i due razziatori che sono sopravvissuti, Sikşaka Talavara, Matej Zimler e poi anche i due poliziotti che sono arrivati nel mentre e mi hanno visto stesa lì in terra. E poi mi servirà un po’ d’âsa extra per rafforzare gli ordini impressi nella portatrice di Rakta.»
King annuì con aria interessata.
Ha optato per una portatrice, eh? Immagino che non possiamo cambiare del tutto la nostra natura, nonostante ci sforziamo di essere più resistenti...
 
«Hai intenzione di portarla con noi?» domandò, incuriosito.
«Chi?»
«La portatrice.»
Queen scosse appena la testa.
«Troppo giovane e troppo inesperta, ma ha il potenziale giusto.» asserì. «Ho disposto che vada all’Accademia e intanto si alleni con l’attuale utilizzatore. Ha la determinazione che serve: tra quattro anni salirà a bordo della Ferox.»
«Lo sai che la Ferox accetta solo esper.» la redarguì l’uomo.
«È una termoalterante. Un potere che ritengo inutile, ma è sufficiente perché salga a bordo. E poi... è una persona speciale.»
Mostrò un sorriso beffardo e rivelò: «È l’allieva dell’allievo prediletto di Gazda Sherwick. Non è delizioso il fato a volte?»
King inarcò le sopracciglia per la sorpresa. L’allieva dell’allievo dell’ex Guardiano del Fuoco sarebbe stata la portatrice ai loro ordini?
, – si disse. – Il fato è una creatura quanto meno curiosa.

Uh, il fato, questa cosa strana! =D
 
E così vi ho riempito la testa con un po' di nomi nuovi, eh? Dravec, Amsu, Aluka Limblidor... sì, sono una persona dispettosa quando mi ci metto.
Mi piacerebbe che, almeno i primi due, li conosceste già, ma ho l'impressione che nessuno si sia mai filato il fantastico glossario che io linko all'inizio di ogni capitolo XD
Pertanto complimenti a chi già li conosce, sennò vi invito - se voleste togliervi la curiosità - a consultare la parte IV, perché Dravec e Amsu le trovate lì. Sennò, se siete pigri e non avete voglia, potete sempre aspettare che facciano la loro comparsa all'interno della saga =)
Quanto ad Aluka... Beh. Vi dico solo di tenere questo nome a mente perché avrà in un futuro non meglio specificato un ruolo abbastanza importante.
 
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito la storia fin qui e vi saluto.
Alla prossima!
 
Iryael

 

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Capitolo 12
*** | Capitolo 12 | Scheletri dissepolti ***


[ 12 ]
Scheletri dissepolti
10 Maggio 5402-PF, ore 10:45
Asteroid City, 12simo settore, Nohu Hospital
 
Matej camminava per il corridoio del terzo piano. Nonostante le gambe corte, si muoveva con insolita velocità, in preda all’impazienza.
Sikşaka si era svegliato. Dopo venti giorni di incoscienza.
Il fatto che si stesse riprendendo senza particolari problemi aveva del miracoloso, e il poliziotto – che non aveva perdonato la gaffe dei paramedici di Kyzil Plateau – voleva tastare con mano la veridicità delle informazioni avute dall’ospedale.
Non era il lato fisico a destargli dubbi, ma quello mentale. Si era informato sulle conseguenze di una scarsa ossigenazione cerebrale, e che l’amico se la fosse cavata così liscia gli suonava strano. Per fortuna la sua verifica avrebbe colto due piccioni con una fava: c’erano tante, troppe domande che ancora non avevano trovato una risposta, e lui voleva risolverle tutte.
 
Raggiunse la sua camera e, ormai per abitudine, rivolse un saluto all’agente a guardia della porta. Lo slademan, di cui Matej sapeva solo ch’era agli ordini della Terza Caserma, rispose come sempre con un cenno freddo.
Sempre per abitudine, il lombax gettò lo sguardo attraverso la vetrata della porta. Subito gli occhi corsero alla capsula nell’angolo in fondo, ma la trovarono vuota, con gli schermi spenti e la matassa di tubicini secca.
Allora guardò dall’altra parte.
Sikşaka era nel letto di fronte alla macchina, e in quel momento sedeva grazie allo schienale reclinabile. In grembo aveva un giornale aperto, ma guardava fuori dalla finestra. Nel vedergli quell’espressione persa le parole del dottore tornarono prepotentemente alla ribalta nella mente del poliziotto.
“Potrebbe avere delle amnesie. Arrivi gradualmente al punto e non lo metta in una condizione di stress.”
Quando il dottore le aveva pronunciate Matej aveva deciso di fregarsene sistematicamente. Tuttavia, trovandosi di fronte a quello spettacolo, capì di non poterlo fare.
Lo slademan, vedendolo fermarsi così bruscamente, s’insospettì.
«Ci sono problemi?» domandò; la voce resa gracchiante dal lungo silenzio sostenuto fino a quel momento.
«Hai mai passato una giornata lavorativa che non ne avesse?» replicò aspramente Matej, continuando a osservare l’amico oltre il vetro.
C’erano stati quindici anni di vuoto prima di ritrovare Sikşaka sul belvedere. Si augurò che il salto temporale non rappresentasse un trauma ed entrò nella stanza.
 
Lo sbuffo pneumatico della porta che si apriva distolse Sikşaka dai suoi pensieri. Si voltò a vedere chi fosse e, riconosciuto l’amico, si sentì piacevolmente sorpreso.
«Ehilà, na’ram. Ce l’hai fatta a uscire da quella capsula, eh?» domandò Matej, sedendosi vicino a lui. A Sikşaka scappò una risata.
«Na’ram, addirittura! Non mi chiamavi così neanche quando Gazda gestiva la palestra...» disse, divertito.
«Vedila come un omaggio a quel vecchio rompicoglioni.» replicò lui, facendo spallucce. «Siamo quanto rimane della sua scuola, e tu sei pur sempre il mio collega più esperto. A certe cose ci teneva.»
«Oh, sì.» riconobbe l’altro, che cominciò a contare sulla mano: «I titoli, il tè, la thork...»
«...il suo vestito amaranto...» aggiunse il poliziotto.
Si scambiarono un’occhiata complice e, un istante dopo, si ritrovarono a sghignazzare.
«Ricordi quando glielo abbiamo bruciato?» domandò Matej.
Sikşaka si passò una mano sugli occhi.
«Oh, sì...Aveva gli occhi fuori dalle orbite! E dire che cercavo solo di levarti quella canna d’in mano...»
«Era una sigaretta! Aromatizzare il tabacco andava di moda!» replicò Matej, offeso. «E poi non avevo colpa se il vecchio ungeva i vestiti con quel coso
«Lascia perdere il fango della signora Limblidor. Sai anche tu che Gazda aveva problemi di cute.»
Il poliziotto alzò un sopracciglio, scettico. «Ma figurati, era sanissimo.»
Sikşaka incrociò le braccia. «Comunque non ci credo che rifiuti ancora di ammettere che tiravi canne.»
«Perché non le erano
Scese un breve silenzio, durante il quale si scambiarono un’occhiata. Non più in cagnesco, come ai tempi in cui erano allievi di Gazda, ma con lo stesso spirito di contrapposizione.
Matej decise di andare oltre e tentare il salto. La sua espressione si fece più seria e quello fu un preavviso chiaro che la parte piacevole fosse finita.
Sikşaka sentì un peso scivolargli dentro. Non seppe spiegarsi il perché; così come non aveva saputo spiegarsi il bisogno impellente di parlare con Matej.
Da quando aveva ripreso a ragionare lucidamente aveva passato tutto il tempo a ricordarsi che doveva farlo, eppure – in quel momento, proprio quando stava per agire – non poté impedirsi di provare una vertigine. Un tempo l’avrebbe chiamata “adrenalina da combattimento”, ma in quel momento la riconobbe per ciò che era: paura.
Era la paura che attanagliava le viscere prima della discesa sull’ottovolante, ed era la stessa che prendeva il costato nel momento di fare ammenda per qualcosa. Leggera, pungente, fastidiosa.
Fu quella paura meschina a trasformare in un’eternità i pochi secondi in cui Matej cercò una formula adatta a introdurre il discorso.
Il poliziotto si arrovellò in quei pochi istanti, prima di cedere e optare per la più spontanea delle domande.
«Sai perché sono qui, vero?»
Il maestro di spada avvertì ch’era cominciata la discesa. Qualunque motivazione si nascondesse dietro il bisogno di parlargli, la discussione aveva preso il via. Però quella domanda era troppo vaga per aiutarlo a focalizzare l’obiettivo.
«Posso immaginarlo. Ma ho le idee ancora un po’ confuse, purtroppo.» ammise.
E Matej, capendo che l’altro necessitava di chiarezza, perse ogni intento di girare intorno alle domande.
«Vorrei che mi parlassi dell’altra notte.» scandì.
Il maestro di spada si prese il mento e fissò il vuoto con aria corrucciata. Era ancora un tema troppo vago per la sua memoria. Matej intuì problemi e si affrettò a tamponare:
«Mi hai telefonato dicendo che dovevo raggiungerti alla palestra, ricordi?»
Sikşaka, sempre con aria pensierosa, spronò la memoria a rovistare tra gli ultimi fatti. Gli aveva telefonato. In effetti rammentava di aver fatto una telefonata, ma non a chi. E ne ricordava solo alcuni stralci.
«Ti ho parlato...» iniziò, incerto, prima che una frase particolare gli echeggiasse tra i ricordi. «...ti ho parlato di vecchi scheletri, per caso?»
«Sì!» affermò l’altro di getto, sentendo svanire i problemi. «Mi hai detto che hai delle vecchie magagne da dissotterrare.»
Sikşaka si mostrò sorpreso.
«Oh.»
Abbassò lo sguardo. C’era solo una cosa che rispondeva alla descrizione dell’amico.
Dunque avevo proprio deciso di tirarli tutti a fondo. – si disse, prima che il perché tornasse impetuosamente a galla e tutto, dall’espressione alla postura, indicasse risentimento. – Beh, il patto l’hanno rotto loro.
Il poliziotto gli posò la mano sul braccio.
«Sik?»
Il maestro di spada si riscosse e notò il gesso al polso del suo amico.
«Che hai combinato? Qualche malvivente?» domandò di getto.
L’altro ritirò la mano e si massaggiò l’arto leso.
«Se vuoi definirla così...» borbottò. «La tua allieva, intendo.»
Sikşaka rimase a bocca aperta.
«È stata Lilly?» domandò, sbalestrato.
«Davvero una deliziosa signorina. Affabile, sorridente, elegante...»
Il maestro di spada ridacchiò.
«Sì, non è un asso di buone maniere, ma non è cattiva.»
«Non è cattiva? Sacra luna, picchia come un fabbro! Ho dovuto stenderla col taser!»
Scese il silenzio.
Stenderla col taser.
Sikşaka si rifiutò di credere che Lilith avesse alzato le mani su un poliziotto. Eppure i fatti parlavano diversamente.
«Non...non ne vado particolarmente fiero.» ammise l’agente, decidendo di prevenire le domande. «Era in preda al dolore; quegli imbecilli di Seri e Brutter l’hanno provocata e...ha perso il controllo. Ho provato a fermarla, ma la velocità con cui mi ha lussato il polso mi ha mandato in crisi, e se avesse raggiunto i miei colleghi avrebbe fatto un macello. Sono... sì, sono andato in crisi. E ho fatto la prima cosa che mi è sembrata buona. Prima che raccattasse una lama e commettesse uno di quei famosi errori più grandi di lei.»
«Non ti critico mica.» lo rassicurò il maestro di spada. «Però non capisco. “Raccattasse una lama”?»
Sentì un nuovo peso annidarsi nello stomaco. Aveva una brutta sensazione – e non era solo la voglia di fare una ramanzina lunga e dettagliata alla sua pupilla. Sapeva di avere venti giorni di vuoto e ricordava a sprazzi di aver combattuto contro un manipolo di razziatori, prima di risvegliarsi in ospedale. Ma non ricordava che in palestra ci fosse anche Lilith. Anzi, ricordava di aver cominciato lo scontro da solo.
Che fosse arrivata in seguito?
Oppure quello era un episodio successivo, isolato, riferito a un momento in cui qualcuno le aveva fatto girare le palle?
 
Si passò una mano sugli occhi e Matej comprese di aver commesso un errore.
Parlargli di Lilith era stato di sicuro un passo falso. Ma – d’altra parte – se non l’avesse fatto lui, era lecito pensare che l’avrebbe fatto lei, chissà in che modo.
«Senti, facciamo una cosa: andiamo in ordine.» propose.
L’altro annuì e lui, sollevato, chiese: «Ti sei ricordato cosa volevi dirmi quella sera?»
Sikşaka annuì di nuovo e rispose con un tono cupo: «Accendi il registratore.»
Poi, subito dopo, come se avesse ricordato qualcosa, aggiunse di getto: «O hai uno di quegli estrattori mnemonici..?»
Le spalle del poliziotto caddero.
«Ma cosa vai...» cominciò, incredulo. Aveva riflettuto a lungo sul significato della sua telefonata, ma quello era un esito totalmente imprevisto.
«Oh, ma certo che non ce l’ho!» esclamò, sdegnato. «Mi ci vuole l’autorizzazione per portare uno di quegli affari, e poi i medici hanno detto che la tua memoria è inaffidabile. Se anche ce l’avessi sarebbe inutile accenderlo, perché non sei considerato attendibile. In pratica sono qui quasi a titolo informale.»
Breve silenzio.
«Ah.»
Sikşaka portò lo sguardo altrove, in difficoltà. Non voleva narrare la sua storia più e più volte. La considerava una vergogna.
Si sforzò di trovare un lato positivo: se Matej era lì in veste quasi informale, forse poteva essere una specie di prova generale prima di andare in commissariato. Non una confessione, quindi, ma una confidenza.
Sì, riconobbe, quello riusciva a rendere meno difficile esprimersi.
«Okay.» capitolò, prima di dire in un sol fiato: «Quella sera ti volevo consegnare le prove contro i pezzi grossi dei Razziatori della città.»
Matej sgranò gli occhi.
«Tu cosa?»
Sikşaka riportò lo sguardo fuori dalla finestra.
«Lo sai che ero uno di loro. Ne abbiamo ampiamente discusso prima che tu partissi per l’accademia di polizia.»
«Tu a quell’epoca parlavi di entrarci!» esclamò l’altro. «Credevo di averti dissuaso!»
Sikşaka denegò.
«Ho provato a starne fuori, ma... lo sai anche tu com’eravamo messi nell’84. La crisi economica, il lavoro che non c’era, la morte di Gazda... ho retto fino a capodanno, poi mi sono unito a loro.»
Il tempo di respirare, poi Sikşaka aggiunse sottovoce: «In questo modo ho potuto continuare ad arrivare a fine mese... almeno all’inizio.»
Matej abbassò lo sguardo. La ricordava bene la crisi, ma non credeva che avrebbe portato ad un cambiamento simile. Lo scalmanato Matej Zimmler nella polizia e il pacato Sikşaka Talavara tra le file dei Razziatori. Era beffardo.
«È durata fino al ’93, poi ho mollato.» andò avanti l’altro. «Ma in quel frattempo sono stato il più vicino a Dragan Koss, dagli esordi fino al vertice.»
La sedia di Matej era tutt’altro che distante dal lettino, ma il poliziotto l’avvicinò ancora di più e si chinò in avanti.
«Parli del boss cittadino?»
Sikşaka annuì.
«Ho lavorato con lui e per lui per otto anni, prima di capire che i Razziatori non corrispondevano alla mia idea di “rivoluzione” contro un sistema che non funziona. Ma c’è voluta Anther City per farmi capire che stavo sbagliando.»
Gli occhi di Matej si fecero tondi per la sorpresa.
«Oh, sì, non guardarmi così.» lo riprese Sikşaka. «Sono stato ad Anther City per conto loro, a combattere, nel ’92. Ne sono uscito con una cicatrice sulla spalla e i timpani ricostruiti. Vivo per fortuna, la maggior parte delle volte, ma lasciamo perdere. Dopo quella, ho passato l’anno successivo a meditare e raccogliere prove, finché ho deciso di voltargli le spalle. E devo ammettere di esserne uscito in maniera indolore, tutto sommato. Mi hanno concesso un patto d’uscita. Niente allontanamenti dalla città, niente traslochi, niente contatti con la Polizia, niente fatti eclatanti. Accettai e ricominciai da zero, lavorando in una scuola elementare come maestro di ginnastica – lavoro che faccio tutt’ora, se controlli. Ho riaperto la palestra praticamente solo per Lilith. Però mi sono tenuto le spalle coperte, con Dragan e i suoi. Ho ancora una copia di tutti i documenti che avevo maneggiato dopo il rientro da Anther City. E sono quelli che ti volevo consegnare, quella sera. Fatture, attestati, video, foto di registri contabili del periodo tra l’85 e il ’93.»
Un tesoro, in pratica, riconobbe Matej, deglutendo rumorosamente.
«Ma...perché consegnarli? Perché ora?»
«Perché li ho minacciati.» ripose, con una naturalezza che prese in contropiede il poliziotto. «Vedi: se avessi rotto io il patto, mi sarei trovato un plotone d’esecuzione in casa, questo era stato messo in chiaro la sera che me ne andai. Ma nessuno aveva detto cosa sarebbe successo in caso contrario. Così, l’ultima volta che parlai da razziatore con Dragan, gli promisi che in quel caso nessuno sarebbe uscito indenne. Io mi sarei costituito e loro sarebbero affondati con me.»
«E sono stati loro a rompere il patto? Venti giorni fa?»
Sikşaka annuì.
«Però Dragan è venuto ad avvisarmi. Mi ha detto che avevano ricevuto una commissione e dovevano fare un colpo in casa mia. Se mi avessero trovato in casa – ed è sicuro che sarebbe successo – nove su dieci sarei morto. Magari tirando qualcuno dei loro con me, ma sarei morto. Mi sono rivolto a Lilith perché mi ospitasse per quella notte. Le ho mentito sul perché, per non rivelarle che sono stato tutto quello da cui ho cercato di tenerla lontana finora. Poi, però, ho capito che volevano Rakta e sono tornato a casa.»
«È stato allora che mi hai telefonato?» domandò Matej.
«Prima di entrare, sì.»
«Ma sei un idiota! Ti avevo detto di aspettarmi! Perché hai rischiato tanto?»
L’altro si sentì punto nel profondo.
«Perché Rakta è preziosa.» replicò, piccato, spingendosi in avanti per affrontare meglio quello sguardo accusatorio. Però una fitta alla schiena mandò in pezzi il suo intento, costringendolo a tornare contro lo schienale con una smorfia di dolore.
Fece un respiro, come gli avevano insegnato i medici, dopodiché spiegò in tono duro: «Al di là dell’enorme valore economico: quella spada è tutta la mia storia, nel bene e nel male. In un certo senso è “me”. Non potevo venderla; così come non potevo lasciare che me la portassero via.»
«Però c’erano due versioni di Rakta in palestra.» incalzò il poliziotto.
Sikşaka annuì.
«Esiste una copia, sì. L’ho fatta fare dopo Anther City e l’ho messa in bella mostra. Quella vera era in una custodia all’interno del muro.»
L’altro rimase a bocca aperta, totalmente spiazzato.
«L’avevi murata?» domandò, basito. «Sacra luna! Il vecchio ti spellerebbe vivo!»
Sikşaka guardò altrove e si massaggiò nervosamente le mani.
«Eee... insomma, dovevo prendere qualche precauzione...» borbottò.
«E la banca non ti piaceva come opzione?» domandò il poliziotto, sinceramente divertito.
«Le filiali bancarie sono gestite da Koliachek e Nekai. Tanto valeva impacchettarla e spedirla a Dragan.» borbottò ancora il maestro di spada, facendo tornare serio il poliziotto. «E poi lo sai anche tu che Rakta emette qualcosa. Una copia non avrà mai quell’effetto.»
«Sì, è vero.» ammise Matej. «Quindi la tua soluzione è stata murarla?»
«Speravo che, col tempo, la copia s’impregnasse di quel qualcosa e ingannasse eventuali ladri.» rivelò Sikşaka, con un lieve sorriso amaro. «Sono certo che avrebbe funzionato, se solo fossi arrivato dieci minuti dopo. Ricordo che al mio arrivo c’era disordine, ma Rakta era ancora lì. Ho pensato di portarla via, ma appena ho tirato fuori quella vera è arrivato Dragan a reclamarla. Puoi immaginare che cosa gli ho risposto.»
«E così è cominciato lo scontro?»
«Sì. Però lo svolgimento non lo ricordo quasi per niente.»
 
Matej si fece silenzioso per qualche istante.
«Hai ucciso Koss e i suoi.» disse poi, a voce più bassa. «Tutti tagli netti alla gola.»
Sikşaka socchiuse appena la bocca, incredulo.
Alla gola?
Abbassò lo sguardo sulle mani. Aveva sempre ritenuto che tagliare la gola fosse da vigliacchi. Dovevano averlo messo bene all’angolo per costringerlo a una mossa del genere.
Matej continuò in tono preoccupato: «E la sua congrega non ha preso bene l’esito dello scontro. Il giorno dopo è stato recapitato un pacco bomba alla signorina Hardeyns.»
Sikşaka riportò di scatto l’attenzione sull’amico. Leggendogli l’allarme in faccia, Matej s’affrettò ad aggiungere: «Sta bene; l’ordigno è esploso fuori tempo. Era stato prodotto di fretta, per sua fortuna. Ma il fatto che abbiano colpito lei è significativo.»
«E dov’è ora?»
«In un rifugio sicuro. Stai tranquillo, con me non corre alcun rischio.»
Per nulla rassicurato, il maestro di spada si chiuse nel silenzio. C’era qualcosa che mancava, lo sentiva. Doveva sforzarsi. Dragan era andato ad avvisarlo: possibile che quello che servisse fosse nella parte di conversazione che non ricordava?
Si massaggiò le tempie sotto lo sguardo perplesso di Matej, e d’improvviso, come schegge impazzite, alcune parole rimbalzarono tra i pensieri.
 
«Pensi che Albio si farà tutti i miei scrupoli verso uno scricciolo bellicoso?»
 
Il nome del capobanda accese una lampadina. Uno dopo l’altro i pensieri si misero in ordine su binari invisibili, e tutto gli parve così chiaro da essere certo.
L’aveva previsto. – si disse. E poi, subito dopo – No, non “previsto”. L’aveva “disposto”.
Si rese conto che Dragan aveva menzionato i vecchi tempi per confonderlo e farlo allontanare da casa; mentre lui aveva inteso (e anche sperato) che proprio per il loro passato i fatti non seguissero l’iter standard.
Sono stato un idiota.
 
Matej, lì vicino, attese che l’amico riprendesse a parlare. Tuttavia, vedendolo schiaffarsi una mano in faccia, sentì chiaro e tondo che qualcosa avesse preso la piega sbagliata. Allungò una mano, pronto a dirgli che non poteva prevederlo, ma la ritirò subito dopo. L’altro aveva scoperto il volto, serrato la mascella, stretto i pugni. La sua espressione era così fredda che il poliziotto stentò a riconoscerlo.
 
Mi ha fregato.
Nel momento in cui Sikşaka lo realizzò appieno, qualcosa dentro di lui si spezzò definitivamente. L’equilibrio che aveva ritrovato con fatica si rovesciò in un istante, travolto dal desiderio di rivalsa.
Si voltò verso Matej con uno sguardo che parlava da solo.
«Lascia perdere tutto il resto.» ordinò allungando una mano, il palmo aperto in segno di richiesta. «Dammi carta e penna. E chiama un infermiere: servirà da testimone.»
 
Dieci minuti dopo il poliziotto reggeva un foglio tra le mani. Lo sguardo scorreva le righe, mentre la voce scandiva chiaramente quanto riportava.
«Io sottoscritto Sikşaka Talavara, nato a e dati anagrafici, proprietario dell’immobile bla bla bla... delego il qui presente Matej Zimmler, nato a e dati anagrafici, ad effettuare opera di abbattimento del muro divisorio tra gli spogliatoi della palestra di cui sopra. Firmato...»
Dopo aver letto, Matej guardò un’ultima volta l’amico.
«Così gli dichiarerai guerra in tutto e per tutto. Ne sei proprio sicuro?»
Sikşaka annuì. «E già che ci sei fammi un favore: quando arresti Albio digli che gli va di grazia. Se mi potessi muovere come vorrei, farei molti più danni della Polizia.»
* * * * * *
Ore 16:24
Kyzil Plateau, Bassifondi ovest, palestra Talavara
 
Lo spogliatoio era pieno di polvere e calcinacci. Le panche erano state spostate grossolanamente, e del muro che lo separava dalla stanza attigua era rimasta solo la metà superiore.
Sikşaka non aveva mentito: dentro al muro c’era una ventiquattr’ore dall’aria consunta. Pelle nera, bottoni color rame: vedendola, Matej si era ragionevolmente convinto che provenisse dal corredo di Gazda.
Congedò la squadra chiamata per l’abbattimento e, una volta da solo, aprì il contenitore. Dentro, riparati da alcuni strati di millebolle, c’erano tre hard disk.
Per un istante non ci credette. Dopodiché si affrettò a smaterializzare loro e la valigetta e corse in centrale, dove una squadra di colleghi della finanziaria era già pronta a processare le informazioni.
La macchina della legge si mise ufficialmente in moto.

 

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Capitolo 13
*** | Finale | Conseguenze ***


[ Finale ]
Conseguenze
Cinque giorni più tardi, 15 Maggio 5402-PF, ore 9:45
Asteroid City, 12simo settore, Nohu Hospital
 
Uno sbuffo pneumatico.
Lo sguardo di Sikşaka corse alla porta. Era strano che la guardia non bussasse: era un segnale convenuto, una specie di “ehi, tranquillo, entra un amico”.
Rispondendo all’istinto, nel tempo in cui il battente scorreva, buttò giù le gambe. Lo sguardo si appuntò sull’uscio, il respiro si fece forzato. Chiunque fosse non lo avrebbe colto totalmente impreparato.
L’anta, con un unico impercettibile gemito, finì di aprirsi.
 
«Ehilà, na’ram! Vai da qualche parte?»
Sulla porta, allegro come un raggio di sole, c’era Matej.
Alla sua vista, l’ansia che l’aveva stretto svanì come neve al sole. Al suo posto, pungolante, si fece largo un bisogno tanto vecchio quanto abituale: quello di prenderlo da parte e sviolinargli una ramanzina.
«“Dove vado”?» domandò in tono bellicoso. «Ero pronto a prenderti a schiaffi! Se stessi un po’ meglio probabilmente ti avrei attaccato io per primo!» protestò. «Possibile che tu ancora non abbia imparato la base del vivere civile? Si bussa, per la miseria!»
«Eeeehh, suvvia... Lo sai che non sono abituato.» minimizzò l’altro, mentre la porta si richiudeva sbuffando. «E comunque sono un po’ di fretta.»
Poco dopo, seduto di fianco al lettino, disse: «Anzitutto devo comunicarti che abbiamo trovato il materiale.»
Sikşaka accennò con un dito al comodino, su cui poggiava il quotidiano del giorno. «Lo immaginavo.» borbottò, prima di cambiare argomento. «Avete già preso qualcuno di rilievo?»
Matej scosse la testa. «Però la finanziaria si muoverà a breve.»
Sikşaka gli scoccò un’occhiataccia. «“A breve” vi lascerà con un pugno di mosche.»
«Sì, ma io sono bassa manovalanza. Oggi faccio addirittura il postino.» replicò, prima di tendergli una lettera appena materializzata.
Sikşaka la prese e se la rigirò tra le mani. Sul fronte, sotto lo stemma della polizia, c’era il suo nome. La carta color avorio, però, era spessa e ruvida. Era decisamente troppo ricca per arrivare da Kyzil Plateau.
«Che cos’è?» domandò.
Matej fece spallucce. «Un regalo? Una scappatoia? Non lo so. Però il capo della finanziaria me l’ha data di persona.»
Dopo quelle parole Sikşaka fu certo che la busta non arrivasse dalla piccola centrale scalcinata della sua cittadina.
Strappò il bordo a lato e sfilò il foglio al suo interno. Di nuovo: carta pregiata, ripiegata con cura. Curiosità e timore si fusero nello strano desiderio di leggerla e, allo stesso tempo, rimetterla nella busta.
Represse quel mix di emozioni, trovandolo oltremodo infantile, e spiegò la lettera. Quando i suoi occhi si posarono sull’intestazione, le sopracciglia si avvicinarono tanto da disegnare una ruga verticale in mezzo alla fronte.
“Egregio signor Talavara”?
Scorse il resto delle righe con attenzione, facendosi via via più perplesso. Al termine della lettura alzò la testa e, confuso, domandò: «Che cosa significa?»
Il poliziotto materializzò altre due buste, identiche in tutto e per tutto a quella che gli aveva consegnato. Su una c’era il nome di Lilith e sull’altra, già brutalmente squarciata, si leggeva “Agente M. Zimmler”.
«Programma di protezione testimoni.» scandì con un sorriso leggermente tirato. «Significa che, per un po’, io te e quell’adorabile furia saremo una famiglia.»
 
Scese il silenzio.
Sikşaka portò le mani alla fronte e massaggiò le tempie. Una, due, tre volte, cercando di capire. Lui era un reo confesso e la polizia lo metteva sotto protezione, come una vittima. Non aveva senso.
Si trattenne dall’adocchiare le guardie fuori dalla porta, riportò le mani in grembo e, imponendosi la calma, domandò: «Cosa significa esattamente “saremo una famiglia”?»
Matej si sistemò meglio sulla sedia, cercando nel frattempo le parole più adatte.
«Me lo sono chiesto anch’io...» iniziò, incerto. «Ma da quel che ho capito è in senso letterale. Padre, padre, figlia. Con uno zio annesso.»
Sikşaka sgranò gli occhi.
Lo stava prendendo in giro, si disse.
Vedendogli quell’espressione sbalestrata, a metà fra la sorpresa e lo scorno, l’agente non riuscì a trattenere un sorriso sghembo.
«Già, ho fatto anch’io quella faccia lì quando me l’hanno detto. E per poco non ho tamponato quello davanti.»
«Non ha senso...» borbottò il maestro di spada. «Davvero: credevo che sarei stato considerato un criminale; che sarei finito in carcere e finita lì. Invece mi aspetta...cosa, di preciso?»
Matej percepì la sua confusione e si sentì dispiaciuto. Cercò le parole migliori per schiarirgli la visuale, e – arrivandogli subito – spiegò di getto: «L’hai detto tu stesso: eri uno di loro, al passato. Di sicuro dovrai scontare una pena, ma ci sono due attenuanti forti: prima di tutto, nel caso presente, sei una vittima. Tecnicamente tu, cittadino qualunque, ti sei difeso dall’aggressione di un criminale riconosciuto. E poi, in secondo luogo, sei un collaboratore. Questi due fattori ti mettono in una condizione molto particolare. Probabilmente dovrai scontare qualche anno di libertà vigilata, è vero, ma altrettanto probabilmente questo coinciderà con il periodo di protezione. Nessun carcere è sicuro per te, considerando cos’è successo.»
Sikşaka non rispose. Al contrario incrociò le braccia, pensieroso. Passarla quasi totalmente liscia: sembrava troppo bello per essere vero.
«Comunque: adesso ti lascio un chatter.» proseguì Matej. «Così ti faccio sapere quando ne so di più.»
 
Dieci minuti dopo il poliziotto uscì dalla stanza, diretto a Kyzil Plateau. Quando la sua schiena scomparve oltre la porta, Siksaka gettò uno sguardo al comodino, sul giornale squadernato. La prima pagina recitava: CROLLA IL SISTEMA DI KYZIL PLATEAU. QUINDICI ARRESTI NELLA NOTTE.
Sotto il titolo campeggiava una foto enorme con i volti degli arrestati. Guardandola, le sue spalle s’incurvarono sotto un peso invisibile.
Fare da padre a Lilith.
Un mese prima le aveva detto che lei aveva il diritto di avere qualcuno che l’aiutasse a compiere le sue scelte, ma quando lei gli aveva chiesto se lui fosse stato disponibile, aveva rifiutato. E in quel momento, anche se solo su carta, doveva assumere quel ruolo. Si sentiva un ipocrita.
Ma non era finita lì, perché doveva fare da padre a Lilith assieme a Matej.
Se la prima parte lo faceva sentire ipocrita, la seconda lo scoraggiava. Matej era indubbiamente più calmo rispetto all’84, ma alla base c’era un carattere volubile come quello di Lilith. Per cui poteva aspettarsi tutto e il contrario di tutto: da un tran tran tranquillo a un campo di battaglia domestico a (forse peggio ancora) una sorta di alleanza tra quei due.
Pensando all’ultimo scenario, a Sikşaka scappò un gemito impercettibile. Sarebbe stato un futuro terrificante, quello.
Non che gli altri fossero meglio, a ben pensarci. Scavando in profondità fra le sue ragioni, emergeva che qualunque futuro, in realtà, sarebbe stato terribile.
Anzi no: non terribile ma insopportabile. Non voleva che qualcun altro pagasse per le sue scelte, ma ben tre persone – indipendentemente dai suoi desideri – erano già coinvolte. Ecco perché, a confronto, avrebbe preferito il carcere. Quanto meno, là dentro, sarebbe stato a tu per tu con il suo avversario.
E quella era una situazione che l’Ardito avrebbe saputo gestire.
* * * * * *
Ore 11:20
Nascondiglio di Lilith
 
«Cioè, no, fammi capire: d’ora in poi sarò la figlia di due omo
Lilith, avvolta da una nuvola di capelli scarmigliati, sedeva a gambe incrociate sulla poltrona. Sulla camicia da notte giaceva la lettera color avorio, causa del broncio sulla sua faccia. Di fronte a lei, su un’altra poltrona, sedeva Matej, per nulla turbato.
«Dimentichi zio Steds.»
«Fotte sega di “zio Steds”! Che cazzo di lampadina s’è accesa in quelle teste piene di merda?»
«Puoi sempre vederla nel suo aspetto reale: sarai la finta figlia di un ex razziatore e un poliziotto, che a sua volta ha un finto fratello poliziotto.»
«Che è un’idea imbecille. Dimmi te se devo ridurre la mia vita alla trama di una sitcom!»
Matej non riuscì a trattenere un sorriso sghembo. Gli piaceva la descrizione usata dalla ragazza.
«È vero. Ma la procedura è chiara su questo punto. Come giustifichiamo un nucleo simile? Non possiamo certo dire di essere sangue dello stesso sangue. L’unico tratto comune è la nostra razza. Per il resto..–»
«Sì, me l’hai detto.» lo fermò lei, svogliata. «Siamo tutti diversi, non potete cambiare Steds e non si può cambiare te. Non c’è un’altra soluzione che funziona.» ripeté. Poi incrociò le braccia e sbuffò. Si sentiva stanca. Si sentiva incerta, confusa, arrabbiata. E l’unica persona con cui voleva sfogarsi le era preclusa da quasi un mese.
Decise che protestare non sarebbe servito a nulla. Se avesse lasciato perdere almeno quel frangente, forse, si sarebbe sentita un po’ meglio.
Sciolse le braccia conserte, spostò i capelli dalla faccia e sospirò: «Senti, lascia perdere. Dimmi solo quando si parte.»
 
Matej le scoccò un’occhiata indagatrice. La terza, da quando era entrato.
La prima gliel’aveva lanciata quando aveva aperto la porta della sua camera e l’aveva trovata dormiente, con la sveglia che proiettava le ore 11:00 sul soffitto.
La seconda gliel’aveva scoccata pochi minuti dopo, quand’era diventato ovvio che quella mattina la luna fosse storta. L’agente Steds si era sporto in cucina per avvisare che sarebbe uscito a fare la spesa e lei gli aveva risposto con parole al vetriolo.
E poi quell’uscita. Dopo la fase acida, quella arrendevole.
Era quasi un mese che la vedeva praticamente tutti i giorni e, anche se non poteva dire di conoscerla da una vita, aveva capito abbastanza da giudicare anomala quella serie di comportamenti. Soprattutto il modo in cui si era rivoltata alla sua guardia del corpo.
Denzel Steds era stato scelto perché, tra i candidati, era quello col carattere più compatibile. E la scelta si era rivelata buona oltre ogni aspettativa: il giovane si era adattato perfettamente ai suoi modi burberi. Non la punzecchiava e lei, di risposta, si dimostrava rispettosa e quieta. Fino a quella mattina, almeno, quando l’aveva scorticato a parole per la frase “esco a fare la spesa”.
Decisamente, quel giorno c’era qualcosa che non andava.
Sapendo che gli approcci larghi raramente piacevano alla ragazza, si appoggiò coi gomiti sulle ginocchia e scandì senza giri di parole: «Cos’è successo? Non t’ho mai visto così nervosa.»
Nelle iridi di Lilith passò un lampo.
«Non t’interessa.» ripose a denti stretti.
«Se Denzel è coinvolto mi riguarda eccome.»
«Steds ha detto la cosa sbagliata al momento sbagliato. Lascia perdere, sono incazzata per fatti miei.»
«E cosa mai può averti fatto sbalestrare in questo modo, qui, in questa situazione?»
 
Lilith serrò le labbra. Si sentiva una funambola, in bilico sul vuoto. Fidarsi o non fidarsi? Aprirsi o trattenersi?
Era stato lui a farle passare quelle due orribili notti in cella, in balia delle onde tachys. Era stato lui a stenderla con un taser, la notte del casino in palestra, impedendole così di ottenere una giustizia soddisfacente. Eppure era stato lui, sempre quella notte, a non riderle in faccia quando gli aveva descritto la situazione. Ed era sempre lui a farle visita, quanto meno a giorni alterni, per tenerla aggiornata e farle un po’ di compagnia.
I fatti, sulla bilancia, si equilibravano perfettamente, per cui Matej non era né oggettivamente meritevole né oggettivamente immeritevole di sapere. Ciò significava che, raccontandogli cos’era successo, si sarebbe presa un rischio.
E quando lo saprà starà dalla parte di mio padre. Come tutti. Come sempre. – concluse.
Però c’era un però.
Lui aveva fiutato che qualcosa non andava per il verso giusto. Ed era qualcosa che riguardava gli sviluppi prossimi venturi della sua vita. E lui era un poliziotto – il che non era necessariamente un lato vantaggioso, ma era uno dei due agenti (se non addirittura quattro) con cui avrebbe dovuto convivere per qualche tempo.
A ben pensarci il suo cruccio doveva essere un altro, perché quello non lasciava più la questione sul piano “glielo dico / glielo nascondo”, ma la portava direttamente sul “quando glielo dico”.
 
La rabbia la invase come una vampa di calore. Strinse i denti per non imprecare a voce alta, altrimenti gliene sarebbe uscita una sfilza tale da suscitare invidia a uno scaricatore di porto.
Forza Lilly, meglio tu ora che qualcun altro poi. – tentò di convincersi, riuscendo però solo a creare un senso di dovere molto vago.
Lanciò un’occhiata furibonda a Matej, che – ancora chino in attesa delle sue parole – le apparve come una vecchia comare impicciona. Il vago senso di dovere si prosciugò all’istante. Per rispondergli Lilith dovette letteralmente fare violenza a se stessa.
«Ho parlato con mio padre. Una litigata. Pesa.» borbottò tra i denti.
Matej si fece più attento.
 
Dopo l’esplosione del pacco bomba, la polizia aveva contattato Aaron Hardeyns per informarlo dell’accaduto e dell’andamento. Da quel momento in poi, la prima volta che Lilith aveva potuto contattarlo a sua volta era stata il giorno del suo trasferimento al rifugio. Voleva solo chiarire meglio quello che i poliziotti gli avevano raccontato, voleva rassicurarlo e avere una sana chiacchierata chilometrica per sfogarsi. Purtroppo, però, il dialogo sin da subito si era trasformato in una serie di accuse: era ignorante, era stupida, era deficiente, era una disgrazia, era coinvolta coi criminali, era una criminale lei stessa, era solo una fonte di preoccupazioni, era la causa di mansioni perse e – quindi – dei mancati introiti che lui avrebbe dovuto sopportare. Lilith non era riuscita a concludere una singola frase senza essere interrotta. L’agente Steds l’aveva vista piegarsi su sé stessa un poco alla volta, e quando infine la chiamata si era conclusa l’aveva vista raggiungere la camera con la testa china e le movenze di un robot.
Dopo un’iniziale fase depressiva, durata qualche giorno, secondo i rapporti del collega la ragazza aveva parlato col padre altre tre volte, sempre per telefono. Nessuna delle chiamate era andata a buon fine (citando il poliziotto) «a causa di un’accentuata manifestazione di aggressività da parte della ragazza.»
E poi quella, l’ultima. Per la fatica che aveva fatto a sputare quelle poche parole, poco ma sicuro, non era stata più tranquilla delle precedenti.
 
«È di nuovo per..?»
La ragazza gli scoccò un’occhiataccia.
Sì, sempre per quello! – avrebbe voluto gridargli. – Ma fatti i cazzi tuoi che non sai niente di come sto! Non sai un cazzo della mia vita, del buco che ho dentro il petto, di come vorrei prendere a schiaffi quel genitore coglione che ho! Sta’ zitto e fa’ il tuo lavoro, e basta!
«Se vuoi parlarne...» si offrì lui, lasciando intendere il seguito. Gli occhi di Lilith lampeggiarono.
«No.»
Al poliziotto bastò la durezza del tono. Capì che la ragazza necessitava di tempo. Ci rifletté rapidamente e decise di averlo: di certo, qualunque cosa fosse, non poteva interferire con il trasferimento.
«D’accordo.» capitolò pacatamente.
Lilith fu colpita dall’assenza di delusione nella sua voce. Significava ch’era sinceramente partecipe...e lei l’aveva allontanato. Si morse un labbro e desiderò sparire in un buco.
* * * * * *
Era quasi mezzogiorno quando, dopo aver comunicato le novità all’agente Steds, Matej prese le sue cose e uscì dall’appartamento.
Stava per chiudere il portone quando la voce di Lilith lo raggiunse.
«Aspetta!»
L’anta fece dietro front e la faccia tondeggiante del lombax fece capolino.
Lilith, ferma in mezzo al corridoio, aveva l’espressione di chi aveva compiuto una scelta sofferta. In effetti – questo Matej non lo sapeva – la ragazza aveva appena concluso uno dei suoi dialoghi interiori. Era stata una decisione tutto sommato difficile, una dimostrazione forzata di una fiducia che non possedeva.
«Gli ho detto che voglio iscrivermi all’Accademia.» spiegò, coi pugni chiusi attorno della camicia da notte e le dita che torturavano la stoffa. «A mio padre, intendo. Gli ho detto che voglio diventare un soldato della Flotta.»
Matej sentì le dita sulla maniglia farsi di pietra. Sentì i pensieri farsi di ghiaccio e il battito accelerare.
Non ci credeva. Quella era la replica della sua vita.
Fece per rispondere, ma sentì la gola secca.
«E...» schiarì la voce per darsi un tono. «È stato per questo che avete litigato?»
La ragazza annuì. Il poliziotto si umettò brevemente e labbra, prima di rientrare in casa. Certe cose non si potevano dire con un portone aperto.
«Ne sei sicura?» domandò, fissandola negli occhi. «È una scelta ponderata bene o è dettata da questi litigi?»
La ragazza alzò il mento con fare orgoglioso. La sua convinzione non era mai stata ferrea come in quel momento. Perciò sostenne il suo sguardo e rispose: «Mio padre – quel maledetto coglione – ha solo messo la parola fine a un pensiero durato un mese.»
Il poliziotto annuì. «Allora vedrò cosa si può fare.»
Dopodiché, colto da un’idea improvvisa, frugò nella tasca e tirò fuori il suo chatter. Armeggiò qualche istante col retro, mise una sim in tasca e porse il resto alla ragazza.
«Prendilo.» disse. «E poi chiama l’utente col mio nome. È Sik.»
Lilith guardò il poliziotto con diffidenza. Cos’era quella, pietà?
«Ho avuto anch’io problemi col mio vecchio.» spiegò lui. «Sik, ai tempi, è stato una spalla insostituibile. Sono sicuro che ascolterà anche te.»
Lilith afferrò il vecchio modello e lo strinse con delicatezza. Passò lo sguardo dall’oggetto al suo proprietario e sentì la diffidenza svanire, soppiantata da un misto melmoso di imbarazzo e gratitudine.
«Gr-grazie...» balbettò, ai limiti del sussurro. «Ma tu?»
Matej fece spallucce. «Me ne daranno un altro.»
Dopodiché, con la scusa ch’era veramente tardi, lasciò la casa.
Non era certo di aver fatto la scelta più sensata. Era in trasferta e si era privato del mezzo di comunicazione: il suo superiore l’avrebbe mangiato vivo, poco ma sicuro. Tuttavia era sicuro di aver appena compiuto una buona azione.
Forse, per il morale della sua nuova protetta, la migliore possibile.
* * * * * *
Ore 14:45
Kyzil Plateau, settore centrale, studio legale Shinagan
 
Cary mostrava la sua solita faccia sicura, ma in realtà sentiva il fiato sul collo. Aveva preso contatto con i superiori ad Asteroid City, aveva organizzato incontri, presieduto alle riunioni, smistato gli ordini.
Nel suo studio, in quel momento, osservava le pratiche che lo riguardavano. Le aveva fatte ratificare per prudenza quando Dragan l’aveva assunto e mai come in quel momento fu felice della sua scelta. Perché il nemico era la Flotta, e con quella non si poteva scherzare molto.
Se mai un ufficiale avesse bussato alla sua porta, avrebbe trovato un uomo che aveva divorziato e rinunciato alla custodia del figlio anni prima. E, se mai avesse fatto presente che il resto della sua famiglia aveva vissuto sempre lì, lui avrebbe dimostrato senza alcun problema come il conto in banca della moglie fosse cronicamente in rosso e quanto lui fosse stato buono nel trasformare de facto il suo divorzio in una separazione.
Una volta slegato dalla moglie – che poteva tranquillamente affermare di non essere a conoscenza dei traffici del marito – rimaneva solo una questione da chiudere per rendere completa la farsa, e riguardava Cole.
 
Il ragazzo sedeva dall’altra parte della scrivania. Era raro che suo padre lo convocasse nello studio, e la telefonata che aveva ricevuto a scuola non gli aveva dato elementi per fare congetture. Perciò attendeva qualcosa, senza sapere bene cosa.
Pensò che l’argomento potesse nascondersi nel plico di fogli che suo padre stava leggendo. Poi, adocchiata la cartellina sottostante, pensò che quella dovesse essere una pratica di lavoro.
Pensò che la scuola potesse aver chiamato e recriminato per quel gabinetto che Evrard aveva lanciato dalla finestra, dritto sulla macchina del vicepreside. Però lui in quella storia non c’entrava nemmeno di striscio. Aveva ghignato, quello sì, ma non aveva preso parte all’operazione.
Pensò che dovesse essere qualcosa d’importante, anche se non riusciva a focalizzare cosa potesse essere.
Poi suo padre, finalmente, posò il plico e svelò il mistero.
«Ho ricevuto una comunicazione da Silver City. Gli Archers hanno revocato la borsa di studio in seguito alla tua bravata.»
Il giovane lombax avvertì un tuffo al petto. La sua carriera sportiva si era stroncata ancor prima di cominciare.
«Ma è stata meno di un cagata!» protestò. «Insomma, lo sai! È stato poco più di uno scherzo!»
Le sue parole non fecero presa su Cary, che proseguì come se non avesse detto nulla: «Ora come ora gli unici che non hanno ritirato la proposta sono i Kerwan 88/Knights. Se accetti, sono disposti a pagarti la retta all’università di Metropolis, purché tu segua un corso compatibile con gli allenamenti.»
Cole si rabbuiò. I Knights non erano la prima scelta. A dire il vero il loro scout non gli era piaciuto neanche un po’, con le sue parole secche e il suo tono saccente.
«Ho tempo per pensarci?» domandò.
Suo padre guardò l’orologio. «Dieci minuti. Lo scout mi telefonerà alle tre.»
E questo lo chiama “avere tempo”???
Cary lesse la frase nel suo sguardo. «La vita è anche prendere le decisioni senza poterci pensare adeguatamente. O accetti il rischio o lo rifuggi. Sta a te deciderlo.»
Cole incrociò le braccia. Conosceva quel discorso parola per parola, ormai. Però i Knights non erano la sua prima scelta. I suoi idoli erano i Boldan Archers, e avrebbe fatto carte false per far parte della loro squadra juniores.
Peccato che la possibilità fosse sfumata perché Lucky aveva chiamato la polizia, quella sera. Non si sarebbe giocato il suo futuro se lui (e Lilly e quel vecchio maledetto) non si fossero uniti per rovinarglielo.
Però – si disse – forse c’era modo per arrivarci con un’altra strada. Se avesse fatto carriera, infatti, avrebbe potuto pur sempre approdare da loro come professionista. Ecco, quella era una prospettiva che gli piaceva. Sarebbe entrato in quella squadra, che a loro piacesse o meno!
«Digli che accetto.» borbottò.
Cary annuì e mostrò un sorriso soddisfatto. «Bravo il mio ragazzo.»
 
Se tutto fosse andato come sperava, Cole e la madre sarebbero partiti presto per Kerwan. E, con la guerra con la Flotta che incombeva, il fatto che i suoi familiari non gli fossero tra i piedi non era altro che un vantaggio.

Un parto. Podalico. Plurigemellare. Ecco cos’è stato questo capitolo. Perché Lilly e Sik sono in fase Seghe Mentali. Perché Lilly ha problemi col suo vecchio e Sik non vuole farle da papà (e oggettivamente io autrice non lo biasimo). Perché tutti hanno le idee confuse da Queen e ho finito per confondermi anch’io durante la stesura del capitolo. E perché Cole si deve togliere da Veldin. Cole che, in questo capitolo, è diventato una spina nel piede anche per me perché non sapevo bene come piazzarlo.
Hah!
In ogni caso, eccoci qui. Dopo ben 6 versioni e 64 ore di lavoro solo su quest’ultima, ecco il capitolo. Spero che non abbia deluso (o, nel caso, non troppo).
Annuncio: osservate bene in fondo al tunnel e vedrete una luce. Il prossimo capitolo, infatti, sarà l’epilogo.
 
Alla prossima!

 

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Capitolo 14
*** | Epilogo | Sei mesi dopo ***


[ Epilogo ]
Sei mesi dopo
13 Novembre 5402-PF, ore 18:45
Metropolis, 88esimo settore
 
Stracazzo! Ci mancavano anche gli idioti! – pensò Lilith per l’ennesima volta. Sbatté il portone con troppa energia: l’eco del colpo si riflesse in tutto l’appartamen­to. «Sono a casa» borbottò cupamente, tirando dritta verso la sua camera.
«Ma che allegria travolgente!» la prese in giro Matej, vedendola passare così di fretta.
La ragazza comparve in salotto pochi secondi più tardi, con un broncio da fare invidia a Brontolo. Trovò Matej e Sikşaka davanti a un documentario sulle Foreste Arcobaleno di Rylat. Il poliziotto stringeva saldamente il telecomando e l’altro teneva in mano una tazza di tè fumante. Entrambi avevano gli occhi fissi su di lei.
«Cos’è successo?» domandò Sikşaka.
«E Denzel?» gli fece eco Matej. Lilith si sedette sul divano in fronte a loro e incrociò le braccia.
«Steds sta arrivando. Mi ha fatto scendere a un metro dal portone ed è andato a parcheggiare.» Poi si rivolse al papà numero due: «All’ora buca di oggi sono andata a sbirciare l’esercitazione di Difesa di quelli del quarto anno. E indovina un po’? Ho trovato una xarthar. Era svenuta in fondo a una rampa di scale.»
«L’hai segnalata, vero?»
«L’ho portata direttamente in infermeria» replicò seccamente. «C’era un tizio rosso che non finiva più di fare domande. M’ha fatto girare i coglioni.»
Sikşaka le lanciò una lunga occhiata sospettosa. «Non l’hai picchiato, vero?»
«Certo che no, cazzo! Mica sono così suonata!» sbottò lei. «Però m’ha fatto girare le palle. Grande grosso e mollo come un fico; cosa voleva che sapessi?! Perché non è andato a chiedere a quelli del quarto anno?!»
«Avrà pensato che tu avessi assistito alla scena» obiettò Matej.
«Sono una primina! E i campi addestramento sono sigillati durante le esercitazioni! Come cazzo fa a non saperlo?»
Gli altri due si scoccarono una breve occhiata dubbiosa.
«Scusa un attimo: se il campo era sigillato...» cominciò Sikşaka.
«Tu come sei entrata?» finì Matej.
Lilith alzò gli occhi al cielo e grugnì una parola di sconforto.
«Sentite, non ho infranto nessuna regola» mise in chiaro, guardandoli alternativamente. «Quando l’esercitazione sta per finire tolgono i sigilli e si può entrare. Ci dicono all’ingresso quali sono le zone sicure, e da lì magari si riesce a beccare una simulazione di combattimento. Io sono solo andata dove mi hanno detto.»
«E c’era la studentessa» concluse il poliziotto.
«Già» rispose, mogia. «Era ridotta uno schifo; sembrava che se le fosse fatte tutte, le rampe di scale, rotolando come una palla sgonfia.»
«E l’hai portata tu in infermeria? Cioè: te la sei caricata in spalla?»
«Certo che no!» sbottò, fissando il lombax grigio con la faccia schifata. «Ho usato un raggio trattore!»
Matej si trattenne dal fare gesti plateali, ma alle volte Lilith si rivelava davvero troppo drastica. «Dovevi chiamare i barellieri!» rimproverò, esasperato.
«E aspettare che si perdessero anche loro? No grazie: sai come la penso.»
Matej chiuse la bocca all’istante. Quindi lei sapeva.
Sì, Lilith sapeva. Lo aveva origliato per caso, ma non intendeva rinfacciarglielo in maniera così secca: dopotutto, se lei ora andava all’Accademia, era anche merito suo. Suo padre non si sarebbe convinto se Matej non si fosse preso tutte le responsabilità. Per questo si morse la lingua. L’unico rumore che rimase nei secondi successivi fu la voce dello speaker olovisivo. Poi, a sorpresa, nell’aria si diffuse il trillo acuto del campanello: la scusa ottimale per chiudere la conversazione e abbandonare il tavolino. La ragazza scattò in piedi e sparì in corridoio borbottando parole incomprensibili.
«Come l’ha saputo? Era riservato! Se gliel’ha detto Denzel...» sussurrò Matej.
«Nah, Denzel non c’entra. Sei tu che la sottovaluti» sentenziò Sikşaka, senza neanche guardarlo.
«E tu che cazzo ci fai qui?!?»
L’esclamazione di Lilith ruppe la loro conversazione. I due finti padri s’intesero con un’occhiata: Sikşaka si spostò silenziosamente in cucina, in un punto in cui non sarebbe stato visibile dalla porta del salotto; mentre Matej si recò nell’ingresso.
E il suo pensiero ricalcò esattamente le parole di Lilith.
* * * * * *
Il posteggio, a Metropolis, era un’arte raffinata. O almeno così pensava Denzel Steds mentre l’ascensore si fermava al sedicesimo piano. Ne uscì tutto soddisfatto, pregustando di accaparrarsi il megaschermo in salotto e godersi la partita dei Kerwan 88/Knights.
Quasi come un presagio, il chatter sparò a tutto volume il loro inno. La suoneria – tutt’altro che professionale, come tendeva a ripetergli il “fratello” – era quella che aveva assegnato alle chiamate della sua presunta famiglia, perciò rispose senza nemmeno guardare lo schermo.
«Sono qui fuori.» disse. «Fra due secondi entro.»
«No, tu sta’ lì.» lo rimbeccò la voce baritonale di Matej.
L’espressione del lombax si fece sorpresa per un istante, poi si appiattì di colpo. «Non starai per dirmi che devo tornare al supermercato, spero.»
Il portone si aprì di uno spiraglio e il suo collega uscì in punta di piedi, rifilandogli un’occhiata fosca. «Abbiamo un problema» sussurrò.
«Cosa vuoi dire?» sussurrò a sua volta Denzel. L’altro lo afferrò per un braccio e lo trascinò nell’ascensore, pigiando un tasto a caso sulla pulsantiera. Le porte si chiusero e solo quando la macchina prese a salire l’altro gli rispose.
«Cole Shinagan è seduto sul nostro divano.»
«Chi?»
«Il figlio di Cary Shinagan, consulente personale di Dragan Koss, è ora seduto sul divano del nostro salotto» sillabò.
Denzel si accigliò immediatamente. «E cosa ci fa lui qui?»
«Pare che abbia sbagliato campanello» Matej incrociò le braccia, incapace di credere a un simile colpo di sfortuna. «Al momento lo abbiamo praticamente sequestrato, ma capisci che dobbiamo fare qualcosa per salvare la copertura.»
«Oh, sì, sicuro!»
«Non puoi creare un meccanismo per cui si dimentichi di noi, una volta uscito?»
L’altro si lasciò sfuggire una risata. «Ehi, sono telepate, mica ho la bacchetta magica!» Poi gli venne un’idea: «Però una cosa posso farla.»
Il collega lo invitò con un cenno della testa a spiegarsi meglio.
«Posso nascondere il ricordo. Non farglielo dimenticare, ma rendergli molto difficile richiamarlo.»
«E sarebbe un nascondiglio permanente?»
L’altro scosse la testa. «La possibilità che prima o poi torni a galla c’è sempre» ammise. «Però posso fare in modo di ridurla al minimo. La memoria a lungo termine è praticamente un labirinto, sai.»
Il poliziotto dal pelo grigio, per un istante, immaginò file e file di scaffali altissimi pieni di palle colorate, una per ricordo. Poi si disse che sicuramente non era così e batté una pacca sul braccio al collega, contento che – per una volta – l’intoppo si fosse risolto alla svelta. «Occhio a non perderti, allora.»
* * * * * *
Lilith si sentiva ribollire dentro. Prima la xarthar svenuta, poi il medico assillante, infine Cole. Era ovvio che qualche forza soprannaturale ce l’avesse con lei.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era arrivata quasi subito. Sorprendentemente a farla cadere era stato Sikşaka, non Cole. Le aveva chiesto di servire del tè freddo, e lei – all’idea di servire il piccolo bastardo – aveva mandato agli inferi tutti i buoni propositi. Si era rifugiata in camera, svelta come la polvere, e che loro si arrangiassero.
 
Sikşaka, sentendo sbattere la porta della camera, si era fatto i complimenti per la riuscita dell’operazione. Se aveva appreso qualcosa dal periodo di allenamenti forzati era che insieme quei due erano pericolosi tanto quanto divisi erano gestibili. Infatti, a riprova della sua teoria, in quel momento Cole chiacchierava senza la minima traccia di nervosismo o strafottenza. Anzi.
«Insomma» stava dicendo, piuttosto accorato «Quando abbiamo sentito della bomba non ci è sembrato vero... Naukara è pure andato a vedere...»
«Come va la gamba, a proposito?» domandò Sikşaka. Il lombax color torba lo guardò con espressione confusa. «Gli è guarita bene?» domandò il maestro di spada.
«Ah, quello! Sì, è guarito secoli fa. Fa ancora un po’ di riabilitazione, ma corre come prima. L’hanno preso nei Veldin Flashes.»
Un tesserato della scuola calcio planetaria. Mica male, pensò l’adulto, guardandosi bene dal dirlo ad alta voce.
«E tu? Studi qui?»
«Oh, sì! Studio e frequento gli allenamenti dei Knights. Uno dei loro scout è venuto a vedermi a inizio anno e gli sono piaciuto.»
Sikşaka sorrise. Al nome della squadra la faccia di Denzel gli era balenata subito in mente. «Un mio amico è tifoso dei Knights. Mi dispiace che non sia qui, altrimenti potreste discutere un bel po’.»
«Ah, che peccato!» commentò il ragazzo, sinceramente deluso. «Il coach dice che il parere dei tifosi è importante.»
Andarono avanti così finché Matej rientrò in casa. Il rumore della serratura ruppe il discorso, e quando il lombax comparve in salotto il ragazzo lo squadrò intensamente.
Aveva la sensazione di averlo già conosciuto, anche se non ricordava dove. Denzel, che stava lavorando all’interno della sua mente, lo riferì a Matej. Il poliziotto ne approfittò subito.
«Matej Dianc» mentì, tendendo la mano. «Sono il padrone di casa.»
«È un piacere. Cole Shinagan.» rispose, alzandosi per stringergli la mano. Quando si risedettero, nella testa di Cole la spia del “t’ho già visto” era spenta.
«Sei il ragazzo di Lilith?»
«Che? No! Non esiste una persona compatibile con lei!» Fortuna che aveva finito il tè, altrimenti si sarebbe strozzato per lo schifo. Coppia con la pazza? Che incubo!
Sikşaka non provò nemmeno a nascondere un sorriso. Per fare coppia con Lilith, in effetti, bisognava essere molto forti o molto accomodanti. Oppure entrambe le cose, e possibilmente in quantità industriali.
«Diciamo che il qui presente è più il tipo che si diverte alle spalle di Lilith.»
«Oh... oh!» Matej finse di aver capito solo allora. «Immagino che corra come una lippa, allora» e si chinò appena verso il ragazzo, con aria complice. «Ho visto come si allenano questi due: fidati, hai fatto bene a non farti prendere.»
Cole si voltò di scatto verso Sikşaka.
«Fanno arte delle lame qui vicino?»
Denzel, nella mente del ragazzo, percepì che la curiosità sincera di Cole sarebbe diventata insidiosa ed estese le sue facoltà per avvisare Sikşaka di mentire. E lui eseguì.
«Non proprio, ma se si tollerano cinquanta minuti di mezzi si trovano buone palestre» disse. Non capiva la necessità del suo presunto cognato, ma si fidò lo stesso.
Matej pensò di spostare il discorso altrove. «Una noia ben ricompensata, direi. Con quelle lezioni extra la piccolina fa dei figuroni all’Accademia!»
Le orecchie di Cole ebbero un fremito. Fissò Sikşaka con puro sconcerto. «Nella Flotta? Lilith?»
«Già.»
«Ma come vi è venuto in mente? Cioè... è da pazzi! È indisciplinata, violenta e lenta di comprendonio!»
«Oh, sì, in effetti è indisciplinata» convenne il maestro di spada.
«Eccome!» fece eco Matej.
«Ma i Boldan Archers ti hanno scartato per lo stesso motivo, che io sappia» andò avanti Sikşaka, pugnalandolo con un’occhiata significativa. «In tutta onestà il tuo lancio è impreciso, la battuta sempre in ritardo e l’home run lento. Non credi di essere nelle sue stesse condizioni?»
«Io sono qui per raggiungerli, i Boldan Archers. Farò capire loro che hanno commesso un errore a scartarmi. Mi serve solo tempo.»
«E lo stesso vale per Lilith» replicò Sikşaka. «Stessa situazione, contesti diversi.»
«Vedremo.»
«Vedremo» gli fece eco la ragazza, comparendo sulla soglia in quel momento. Se le occhiate avessero potuto uccidere, Cole sarebbe finito all’obitorio. La ragazza fece qualche passo nella stanza; studiò la tenuta elegante del suo coetaneo e provò insieme irritazione e disgusto. «Sai che ti dico? Spari sentenze sentendoti un dio, ma fra quattro anni mendicherai soldi al suo adorato papino, mentre io avrò un lavoro e una posizione. E allora la strafottenza te l’attaccherai al culo.»
«Se non altro qualcuno da chiamare papino io ce l’ho.» replicò lui, acido.
La ragazza non raccolse la provocazione. Fece spallucce e si appoggiò a braccia larghe alla spalliera dietro Sikşaka e Matej. L’aria intorno a lei era rovente. Cole era troppo distante per percepirla, ma per qualche motivo non riusciva a non pensare all’unico allenamento che avevano fatto insieme, a quando lei aveva saltato il tavolino per malmenarlo con una ferocia che rasentava lo stato berserk.
Lilith, ignara di avergli scolpito nel cuore un nuovo concetto di paura, continuò a fissarlo torva da dietro i due adulti, con le mani sempre più strette sullo schienale e le orecchie basse per l’irritazione.
«Sarò a prova d’imbecille, Shinagan. Il mio obiettivo è la USS Ferox; il tuo è dare mazzate a una pallina. Io sono qui perché volevo venire all’Accademia; tu perché non sai leggere il nome sul campanello. Sei seduto in casa mia, sul mio divano, ad abusare della mia pazienza... per parlare di cosa, esattamente?»
«Parlo di quello che voglio, Hardeyns. Mica mi serve il tuo permesso.»
«Non abbiamo il tempo, prima ancora che la voglia, di sorbirci le tue puttanate.» Portò eloquentemente il pugno sopra la spalla, il pollice che indicava l’ingresso. «Adesso levati dai coglioni, e a mai più rivederci.»
* * * * * *
«Lilith... non pensi di aver esagerato?» domandò Matej.
«No, per nulla.»
Cole se n’era andato da poco e la ragazza lo aveva rimpiazzato sul divano davanti agli adulti. Sembrava quasi una gatta gelosa del suo territorio: seduta a gambe incrociate nello stesso punto dove si era seduto il suo coetaneo, con la coda che frustava incessantemente l’aria e lo sguardo imbronciato.
«Stavi per scattare» continuò il poliziotto, implacabile. La ragazza incrociò le braccia.
«Non è vero.»
«Ci hai fatto la sauna, tant’eri scazzata!»
Le orecchie di Lilith guizzarono per la sorpresa. Ci fu un attimo di silenzio, occupato da un furioso rimprovero interno alla mente della ragazza. L’umore, dopo, si fece ancora più plumbeo.
«Saperlo lì a fare il figo mi ha mandato il sangue al cervello» ammise a denti stretti. «Comunque volevo solo mandarlo via.»
«La tua faccia diceva “ora ti scanno”.»
«La pianti col terzo grado? Rompeva il cazzo anche a te, per la cronaca.» Altro attimo di silenzio. Poi con fare dimesso, come se provasse un’improvvisa vergogna, borbottò: «È vero: ci ho pensato, ma sarebbe stata un’idea con pessime conseguenze. Grazie ma no grazie.»
Il dialogo andò avanti ancora per un po’, ma Sikşaka perse il filo in quel preciso istante.
Ci ho pensato ma...grazie ma no grazie. Quella parte era significativa, considerando la personalità di Lilith. Voleva dire che aveva pensato di picchiare Cole, ma aveva scelto di usare le parole. Voleva dire che in quei pochi mesi era maturata molto più di quanto desse a vedere.
Sì, ha ancora degli atteggiamenti infantili... e il brutto rapporto con suo padre non aiuta... ma se questo è il suo livello di controllo allora ha fatto dei passi da gigante. Stasera farò caso alle sue mosse, in palestra. Se dopo oggi non esplode per la frustrazione allora potrei considerare seriamente di darle Rakta in custodia.
Lanciò un’occhiata alla sua allieva, poi all’orologio. Era conscio del rischio che avrebbero corso affidando la scimitarra alla ragazza. Era conscio di tutti i rischi comportati sia per lei che per gli altri. Eppure ai suoi occhi era un’idea valida.
Dubito che la cassaforte che abbiamo sia una sfida per i ladri, ma l’Accademia sarebbe un altro paio di maniche. Dopo il disastro su Marcadia i controlli si sono fatti ferrei: sarebbero ideali. E se Lilly riuscisse a portarla con criterio sarebbe buono. Magari comincio a istruirla con la spada smussata, e se reagisse bene un giorno potrei proporle di custodire la scimitarra vera...
* * * * * *
Stesso momento
Poco distante dall’orbita di Veldin, USS Ferox, ponte blu
 
L’alloggio del comandante era silenzioso. La luce soffusa dei neon dava alla stanza l’opacità delle grotte di ghiaccio hovenee, e medesimo era il calore offerto dagli arredi. Unica concessione ai toni caldi era il grande specchio di fronte alla branda: un arco a sesto acuto di bronzo dai bordi così ben cesellati da parere incorniciato da fiori veri.
Queen Hakuro non lo aveva scelto per il gusto artistico, ma per la sua funzione. Era uno degli Âd’je Linivê, forgiato eoni addietro col sangue dei toksâme e coi metalli a loro sacri. Serviva a guardare laddove si desiderava e Queen riusciva a passarci ore davanti. Sfilava il drappo grigio dalla cornice, ordinava la destinazione e sedeva sulla branda, a guardare con attenzione.
L’immagine in quel momento era quella del salotto di casa Dianc, a Metropolis. L’umana aveva seguito l’andare della discussione per qualche tempo e, proprio quando aveva pensato che non portasse a nulla di nuovo, l’idea di Sikşaka aveva sbriciolato ogni convinzione.
«Zôffa!» ordinò, senza rendersi conto del tono di voce. «Zôffa, naskôfi. Uggepêlje ôf kuä timleïsa.»[1]
Ma la faccia di Sikşaka non cambiò espressione. Queen si rese conto dell’inutilità di parlare l’Idioma senza contatto diretto, e a denti stretti affibbiò un pugno al materasso. «Chaos maledetta! Per una volta che un mortale ha una buona idea io non posso condizionarlo!»
Si sentì rodere dall’urgenza di fare qualcosa. Valutò l’idea di aprire un portale e raggiungerlo, ma si disse che condizionarlo non sarebbe servito a molto: Lilith lo era abbastanza per entrambi. Eppure, mentre si diceva che la ragazza non si sarebbe fatta mancare l’occasione di mettere le mani sulla preziosa spada, non poté evitare il dubbio. Sarebbe stato sufficiente il suo lavoro a Kyzil Plateau? Rakta – concepita e forgiata per abbattere Shine e i suoi alleati – si sarebbe affiliata ad una mente plasmata dal nemico?
 
Lanciò un’occhiataccia alla scena nello specchio.
Sarebbe stata una scommessa. E, con Amsu e Dravec e le altre armi divine in gioco, sarebbe stata una scommessa pesante.
Tutto per tutto, vincere o perdere, vivere o morire.
Puntò minacciosamente il dito contro lo specchio, contro l’immagine della famiglia Dianc, il suo azzardato e prezioso investimento.
«Non deludetemi, mortali. Non deludetemi

[1|⇑] Fallo, mortale. Ubbidisci al tuo pensiero.

Che dire: è fatta; ce l’ho fatta, è finita. Lilith prosegue la sua vita brutalmente inconscia del lavaggio del cervello che le ha fatto Queen, e si appresta con tutta la sua determinazione a diventare un membro della nave della Regina. La rivedremo presto in azione? “Presto” è decisamente un parolone, ma ho in mente qualche ideuzza. La rivedremo di sicuro, giacché è parte della macrotrama, ma non so dirvi di preciso quando.
 
Frattanto mi appello al vostro buon cuore e domando recensioni, perché un feedback (positivo o negativo che sia) è sempre motivo di miglioramento. Anche se in questo periodo non ho pubblicato, in realtà mi sono data da fare: ho letto libri sulla scrittura, ho letto diversi romanzi in diversi stili, ho cercato di apprendere e migliorare. Tuttavia la cartina al tornasole dei miei sforzi siete voi lettori, pertanto mi appello al vostro parere.
 
Alla prossima!
Iryael

 

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