Dè a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe? di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo › Scozia, 1750 ***
Capitolo 2: *** [ Atto I, scena I › Toccata e fuga ] Il ragazzo dal volto di cera ***
Capitolo 3: *** [ Atto I, scena II › Toccata e fuga ] Amleto e Macbeth ***
Capitolo 4: *** [ Atto II, scena I › Sinfonia ] Note di follia e incontri di parole ***
Capitolo 5: *** [ Atto II, scena II › Sinfonia ] Gocce d'inchiostro su cenere nel vento ***
Capitolo 1 *** Prologo › Scozia, 1750 ***
Dè a tha thu_1
[
Prima classificata allo «Yaoi
Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto
da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al
contest «Voglie estive di gustose letture»
indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Ambientzione al
contest «Together with our feeling»
indetto da Misty Eye ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al
contest
«L'amore ai tempi di EFP»
indetto da victoria; e valutato da Lady Viviana ]
[ Prima
classificata e
vincitrice del Premio
Miglior Personaggio Secondario
assegnato ad Henry al contest
«Let's talk
about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!»
indetto da DakotaDeveraux ]
Titolo: Dè
a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe?
Autore: My
Pride
Fandom: Originale ›
Sovrannaturale ›
Nonsense
Tipologia: Racconto
breve suddiviso in atti e scene
Genere: Storico,
Drammatico, Romantico, Malinconico,
Sovrannaturale,
Introspettivo
Avvertimenti:
Vagamente nonsense, Leggermente Slash
Rating:
Giallo / Arancione
Frase scelta: Numero
15
Introduzione: Potete
chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio
delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque
sia stato a farmi
questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio
cammino,
probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato semplicemente dannato
e non me
ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel
tempo, ma ciò che
provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo
scorderò mai:
i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano
palpabili,
quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una
situazione
meravigliosa.
Nota: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come
“Aye”
e “Nay”, che significano rispettivamente
“Sì” e “No” in
italiano, e “Och”, che
è un rafforzativo del “Sì”.
Esse non sono un errore, bensì una scelta personale
dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura. Tenendo
inoltre conto del
luogo in cui la storia è ambientata, esse sono
un’ottima scelta linguistica.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale, ad
eccezion fatta per le creature folkloristiche.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
DÈ
A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE? [1]
Alcuni
dicono che la vita sia una strada a senso unico, un grande binario che
procede
sempre dritto senza svolte significative.
Anch’io
l’avevo pensata così, al
principio, condizionato probabilmente dalla piattezza che mi circondava
e di
cui erano intrise le idee delle persone che solitamente frequentavo.
Prima
della battaglia di Culloden [2],
il mio era stato uno dei più potenti clan di tutta
la Scozia, se
proprio si voleva esagerare: il nostro nome era capace di provocare
mormorii
concitati e di richiamare sguardi sgomenti, incutendo terrore in
chiunque avesse anche solo pensato di pronunciarlo. O
almeno così mi era stato
raccontato. Ero difatti troppo piccolo per ricordare con esattezza quei
particolari, a quel tempo. Capivo ciò che mi succedeva
attorno, certo, ma non
coglievo appieno il significato di ogni singolo gesto o parola. Quelle
che mi
erano rimaste impresse, erano le idee e i pensieri sbagliati
di quella
società ormai in declino, concetti che non ero stato in
grado di scacciare
nemmeno crescendo.
E
così era stato fin quando la
battaglia non aveva portato alla nostra disfatta. Vinto lo scontro, il
governo
britannico sottomise noi tutti e la nostra amata Scozia, privandoci
d’ogni
nostra libertà, dei nostri usi e costumi, togliendo inoltre
qualsiasi autorità
ai capi d’ogni clan. Non c’era libertà
nemmeno nell’indossare il kilt.
Quella
fu una situazione che andò
avanti per anni, durante i quali la salute di mio padre, già
da tempo
cagionevole come quella della mia scomparsa madre,
s’aggravò. Morì ancor prima
di veder abolito il bando precedentemente imposto dai britannici,
lasciando a
me, suo unico erede, una modestissima somma di denaro che non toccai
mai,
nemmeno negli anni avvenire.
Utilizzai
solo quel poco che ero
riuscito a mettere da parte da me per seguire l’esempio di
molti altri
scozzesi: salpare verso le colonie del Nuovo Mondo.
Ma
il mio viaggio, almeno come
l’avevo immaginato io,
non cominciò mai.
Chiamatela volontà divina, chiamatelo
scherzo del destino, ma la notte prima della mia partenza, beh... io
morii.
Sembra assurdo da raccontare, e non vi do assolutamente torto. Se
qualcuno si
presentasse dinanzi a me, blaterando cose del genere, gli riderei in
faccia
senza tante pretese. Eppure è esattamente quello che
è successo. Forse se non
avessi incontrato sulla mia strada quei banditi e il mio cavallo non si
fosse imbizzarrito, disarcionandomi, le
cose
sarebbero anche andate diversamente. Se non avessi
sbattuto la testa
contro le rocce sottostanti, però, con molta
probabilità adesso
non sarei qui a
raccontarvi tutto questo.
Ricordo
fin troppo bene ciò che
accadde, quella notte. Non persi immediatamente conoscenza, anzi,
sentii
distintamente il furente scalpiccio degli zoccoli del mio destriero
sull’erba
umida, i sussurri concitati dei due uomini che mi avevano assalito e il
terrore
nel tono della loro voce, persino il momento in cui corsero via ed
intorno a me
non restò altro che il silenzioso, ma presente, mormorio
della notte.
Vagamente
consapevole che quella
trapunta di stelle che avevo iniziato ad osservare altro non
era che
la volta celeste, ci avevo messo non poco a capire che il
pulsare
che avevo cominciato a sentire nelle orecchie era il sangue che
tamburellava in
esse, seguendo il ritmo sempre più lento del mio cuore e
rendendo ovattato
tutto il resto.
Sarebbe
difficile tentare di
descrivere la bizzarra sensazione che provai nel sentire tutto il mio
essere
morire: vi siete mai ritrovati a svegliarvi di soprassalto durante la
notte, dopo
aver sognato di precipitare nel vuoto, provando quella sgradevole
sensazione di
caduta ancor prima d’aprire gli occhi? Ecco, quel che avevo
vissuto io sarebbe potuto essere comparato a quella stessa
percezione, con
la sola differenza che il mio non era un sogno dal quale mi sarei
svegliato.
E
forse fu proprio per quello che,
quella lontana notte, provai un attaccamento morboso alla vita,
rifiutandomi
d’accettare quel fato senza lottare e
d’incamminarmi su per quella strada a
senso unico che avrebbe segnato la mia morte. La mia vita non doveva
finire lì,
non era ciò che volevo: fra le ombre della notte, con i
richiami dei rapaci che
contrastavano nettamente con il debole pulsare del mio cuore, supplicai
di non
morire. Da chi fu accolta quella mia supplica non lo seppi allora e
temo non lo
saprò mai. Ciò che so per certo è che
sentii solo il dolore lancinante alla
testa serpeggiare finalmente in tutto il mio corpo. Mi fece contrarre i
muscoli
delle braccia e delle gambe, mi serrò la mascella e mi
mozzò quel poco fiato
che mi era rimasto nei polmoni ormai compressi. Nemmeno mi ero reso
conto, in
un primo momento, che i lampi che mi passavano fulminei dinanzi agli
occhi non
provenivano dal cielo, ma dalle fitte provocate dal mio cervello contro
le
pareti del cranio, e che danzavano sulle palpebre che non ricordavo
d’aver
abbassato.
Fu
in quell’istante che smisi di
lottare. Ma un alito gelido come il vento d’inverno,
gorgogliante come un
ruscello, parve capace di farmi restare ancorato a quel mondo,
sollevandomi
dall’abisso in cui ero sprofondato e artigliando la mia
anima. Divenne un
sussurro, una domanda che martellava le pareti del mio cervello e le
mie carni
ancora e ancora, insistentemente, senza darmi scampo o lasciarmi un
attimo di
respiro.
I
miei tentativi per scacciarla
dalla mente furono vani, e mi abbandonai completamente a quel mormorio
che
prometteva più di quanto io stesso avessi mai potuto
sperare. Esattamente non
seppi cosa successe, e forse anche questo sarà un
avvenimento senza risposta
alcuna, ma quando finalmente i miei occhi si riaprirono, fu come se
avessi
trattenuto il fiato fino a quel momento. La gola era riarsa, le labbra
secche,
respirare con regolarità era una fatica enorme. Pensai
d’esser morto, ma la
sensazione che provai nel sentire fra le dita l’erba bagnata
dalla rugiada fu
così reale che piansi, con lo sguardo rivolto a quel cielo
che man mano
diveniva perlaceo. Odori, suoni, persino il sapore del sangue sulle
labbra mi
diede la certezza che ero ancora lì, vivo,
sebbene sentissi in me
qualcosa di diverso che nutriva però la mia speme.
Non
domandatemi cosa fosse quel
qualcosa, non saprei rispondervi tuttora. Potete chiamarmi spettro,
diavolo,
demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non
importa. Chiunque
sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo
incontrassi
sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato
semplicemente
dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso
conto a quel
tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia
nuova esistenza
non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci
e le ombre che
sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era
rivelata una situazione meravigliosa.
Come?
Pensate che io sia un
vampiro? Nay, non so se sia la parola esatta per definirmi, non
chiedetemelo
con quel tono di referenziale timore. Forse lo sono, forse no. Non bevo
sangue,
ma, se qualche volta mi capita di assaggiarlo, il suo sapore non mi
disgusta.
Lo trovo anzi abbastanza piacevole. Evito qualche volta il sole, certo,
ma non
per paura che esso possa ridurmi in cenere.
Se
dovessi scavare nei miei
ricordi, cercando il momento esatto di quella mia alquanto bizzarra
trasformazione, non riuscirei a rammentare nulla di concreto.
Forse
sono davvero una sorta di
demonio, chi può dirlo. Forse quello sprazzo
d’erba su cui fui abbandonato era
un nugolo di presenze malvagie che avevano approfittato della mia
debolezza
d’animo per impossessarsi di me. Per quanto possa saperne,
può anche essere
stato il Demonio stesso ad aver accolto la mia supplica e ad avermi
reso quello
che sono adesso, qualsiasi cosa io sia realmente.
Ma
mai come in quei primi momenti
avevo sentito tutto il mio essere nel pieno delle forze, nel vigore
della
gioventù, con la consapevolezza che sarei potuto andare
ovunque volevo senza
sforzo alcuno. Fu proprio grazie a quei pensieri che decisi
d’intraprendere
quel mio viaggio che era stato così bruscamente interrotto,
ma non per
dirigermi nel Nuovo Mondo, nay, bensì verso quella stessa
nazione che ci aveva
così brutalmente sottomessi: l’Inghilterra.
La
ragione che mi spinse a farlo
non la saprò mai spiegare, così come tante altre
piccole cose che resteranno
per sempre senza risposta, ma sentii una strana forza, una bassa
melodia che
ancora oggi sembra risuonarmi nelle orecchie, che mi incitò
a mettermi in
viaggio verso Londra. Ed
è esattamente qui che ha inizio
la mia storia, la mia vita tramutata in atti che sparisce poi quando si
chiude
il sipario.
[1]
La
traduzione letterale è “Cosa stai ascoltando,
cuore mio?” ed è gaelico
scozzese.
[2]
Battaglia
combattuta il 16 aprile del 1746
nei pressi di Inverness, che vide sconfitti i giacobiti, sostenitori di
“Bonnie
Prince” (Charles Edward Stuart), dalle forze lealiste guidate
da William di
Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo
scontro si concluse in una
disastrosa sconfitta, soprattutto a causa delle scarse innovazioni
belliche di
cui l’esercito scozzese era dotato; gli Highlanders, difatti,
s’ispiravano
ancora a strategie e concetti risalenti al medioevo. La fine della
battaglia
impedì del tutto agli Stuart di riconquistare il trono
inglese, ponendo fine al
sogno della Scozia di rendersi ancora una volta indipendente
dall’Inghilterra.
Dopo
la disfatta furono molti
i prigionieri, sia giacobiti che sostenitori: una stragrande
maggioranza fu
deportata nelle colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti
in
carcere o mandati in esilio.
Per
sottomettere
definitivamente la Scozia, tra l’altro, il governo britannico
ne annientò
costumi e tradizioni, proibendo ai civili scozzesi di indossare il kilt
o di
suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte
dell’esercito inglese. A ciò si aggiunse inoltre
l’abolizione dell’autorità che
i capi avevano sui propri clan.
Il
bando venne abolito solo
nel 1782, periodo in cui l’immagine del mondo celtico andava
pian piano
estendendosi.
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Capitolo 2 *** [ Atto I, scena I › Toccata e fuga ] Il ragazzo dal volto di cera ***
Dè a tha thu_2
ATTO I: TOCCATA E FUGA [1]
{ APRILE
1912 }
SCENA I:
IL RAGAZZO DAL VOLTO DI CERA
Un
brusio basso e sconnesso si levava dalla ressa della locanda in cui mi
trovavo,
dando quel lieve tocco d’allegria in più a quel
posto quasi polveroso che,
altrimenti, sarebbe stato un vero e proprio mortorio.
Con l’arrivo della primavera,
non
era raro vedere luoghi come quello ghermiti di gente che arrivava da
ogni dove.
C’era chi raggiungeva Londra solo per puro piacere personale,
chi per affari da
lungo tempo rimandati, e poi chi, come mille altri signorotti
d’alto rango, per
avere l’occasione d’ammirare o
d’imbarcarsi presto sulla più grande nave mai
costruita fino ad allora [2].
Era una cosa che stupiva e
meravigliava anche me, ad esser sincero, ma la notizia legata a quel
mastodontico esemplare era ben presto passata in secondo piano,
lasciando che
concentrassi altrove le mie attenzioni.
Non che ci fosse poi molto altro
d’eclatante, alla fin fine. Da quando ero partito per
raggiungere Londra erano
passati quasi due secoli, e l’unica cosa che mi aveva
realmente interessato, in
quel lasso di tempo, era stato il caso di un certo Jack lo
squartatore [3].
Non
che lodassi i suoi atti, sia ben chiaro. Ma il male insito nella mia
natura
aveva fatto sì che mi incuriosissi al punto di seguire di
nascosto le indagini
della polizia.
Durante il corso di una vita
così
lunga, il
più delle volte ci si
stufava, e occupare il tempo
in quel modo, al
principio, mi era sembrato un ottimo svago. Adesso invece avevo ben
poco da
fare, oltre all’osservare il laborioso operare degli esseri
umani. Spesso
faticavo persino a credere che un tempo ero stato anch’io
come loro, un comune
uomo che svolgeva le proprie mansioni nelle terre del clan per
adempiere ai
compiti d’un futuro Laird [4].
E
probabilmente sarebbe stato così, se non avessimo perso lo
scontro con i
britannici. Avrei occupato il posto di mio padre e avrei vissuto in
Scozia fino
alla fine dei miei giorni, a vegliare sulla nostra gente e sui
territori che ci
spettavano di diritto. C’era anche da dire, però,
che se quella battaglia non
avesse mai avuto luogo, io non mi sarei ritrovato lì, a
distanza di
centosessantasei anni, seduto ad un tavolo di una piccola locanda nel
West End [5]
di
Londra. In un certo modo contorto e perverso, la cosa aveva in fin dei
conti
avuto i suoi vantaggi. “Non tutti i mali vengono per
nuocere”, non si diceva
forse così?
Rincorrendo quei pensieri, mi
ritrovai a far vagare di poco lo sguardo sulla clientela lì
presente. Il
chiacchiericcio era allegro e frettoloso, ma gli argomenti di
discussione erano
ben lontani dal mio interesse. Scostai dunque gli occhi per stornarli
in
direzione d’una cameriera che avanzava a fatica fra i tavoli,
ma che aveva a
sua volta un’aria divertita dipinta in viso. Era accentuata
dal sorriso
presente sulle sue labbra rosee e carnose, e persino gli sguardi che
regalava
ai clienti sembravano dare quell’impressione.
Sbuffai senza poterne fare a meno.
Cosa avessero tutti per essere così allegri proprio non lo
capivo. Mi ritrovai
dunque ad alzarmi e a lasciare qualche spicciolo sul tavolino, pagando
così
quel bicchiere di liquore che avevo ordinato ma che non avevo toccato
per
niente. Mi diressi verso l’uscita a grandi falcate,
ritrovandomi ben
presto nel bel mezzo d’un acquazzone in piena regola. Odiavo
Londra solo per
quel motivo. In quei due secoli l’avevo lasciata
più di una volta per passare
un paio d’anni altrove, sfruttando quella mia
longevità per vedere posti come
Parigi o Amsterdam, ma in nessuna di quelle città mi ero
davvero sentito come a
casa mia. Forse il motivo era che Londra era quanto di più
simile ad Edimburgo
apparisse ai miei occhi. Sentivo nostalgia della Scozia, e questo non
potevo
negarlo, ma non mi sentivo per niente pronto a tornarci.
Mi diedi dell’idiota da
solo per l’essermi perso nuovamente fra i miei più
disparati pensieri,
sistemandomi in dosso il mio pesante giaccone da viaggio e calcandomi
subito
dopo il cilindro in testa, così da potermi avviare sotto
quella pioggia
torrenziale. Incrociavo passanti che
sgattaiolavano svelti per cercare di bagnarsi il meno possibile,
persino coppie
con figli che tentavano di frenare l’entusiasmo dei bambini,
che si divertivano
a giocare nelle pozzanghere create dall’acqua.
Per un lungo periodo di tempo mi
concentrai solo sul suono che le mie scarpe producevano sul lastricato
bagnato,
godendomi al tempo stesso il picchiettare della pioggia che diveniva
man mano
più intenso. Si creò ben presto un vasto via
vai di persone, ancor più frettolose di quanto non fossero
prima. Io camminavo
invece tranquillo, senza preoccuparmi più di tanto delle
gocce che continuavano
a cadere. Mi fermai persino dinanzi ad una vetrina, osservando
distratto le
merci e al tempo stesso il mio vago riflesso.
Ero cambiato così tanto, in
quegl’ultimi due secoli. La prova che ero tutto
fuorché un vampiro l’avevo lì,
esattamente davanti ai miei occhi. Stavo invecchiando. Non come avrebbe
potuto
farlo un essere umano, certo, ma stavo invecchiando. Si riuscivano
già a
scorgere i primissimi cenni dell’età sui
lineamenti del mio viso. Quando avevo
lasciato la Scozia ero poco più d’un ragazzino,
mentre adesso l’ombra che
ricambiava il mio sguardo era quella di un uomo di trentacinque anni o
poco
più. Non ero mai stato bello e non lo ero nemmeno adesso, ma
la corta e ben
curata barba che possedevo nascondeva almeno in parte i lineamenti
troppo
pronunciati del mio viso, facendo così in modo che
l’attenzione non venisse
richiamata dal mio naso un po’ aquilino ma, piuttosto, dai
miei occhi d’un
verde sorprendentemente chiaro. In un modo tutto mio, insomma, avevo
una
bellezza fuori dal comune.
Ma chi avrebbe mai detto,
incontrandomi per caso per strada, che quella maschera che mostravo non
ero
realmente io? Per molti sarei dovuto essere molto più
vecchio di quanto non
apparissi, e dovevo tutto a quella mia strana natura. Probabilmente ero
davvero
una sottospecie di demone, chi poteva dirlo.
Avevo letto molti libri
sull’argomento e, anche se non avevo trovato quasi nulla che
avesse potuto aiutarmi
a comprendere, quella mia ferma convinzione ancora restava. Avevo
difatti
scoperto che la possessione da parte di spiriti maligni non era per
niente
rara, dunque avevo cominciato a studiare per anni quel determinato
caso.
Spaziando fra le varie mitologie e il folklore di diversi popoli, i
miei studi
avevano rivelato l’esistenza di demoni e spiriti, come i
Rakshasa [6]
o gli
Youkai [7],
per
fare un esempio, che avrebbero potuto spiegare almeno in parte
ciò che ero. Che
certe notizie fossero vere o meno, però, poco importava.
Ciò che contava
davvero era l’essere lì, ancora in vita, a godere
delle bellezze del mondo.
Fu proprio a quei miei pensieri
che decisi di riprendere la mia traversata, così da poter
tornare a casa.
Condividevo un appartamentino con un altro uomo, Henry Laurent, che
dieci anni addietro aveva
lasciato la Francia per venire a vivere lì in Inghilterra.
Non gli avevo mai
chiesto il motivo e nemmeno me ne importava, dato che lui non aveva
fatto a sua
volta domande sul mio conto. Ci eravamo conosciuti per caso una sera
fra i
boulevard di Parigi e, tra una chiacchiera e l’altra, appena
aveva saputo del
mio imminente ritorno a Londra aveva insistito affinché lo
portassi con me. A
patto che non mi disturbasse, gli avevo tenuto presente, avrebbe potuto
fare
ciò che più gli aggradava. Era stato un ottimo
espediente per spezzare un po’
la monotonia che mi avvolgeva, ed era da allora che ci trovavamo a
dividere lo
stesso tetto, anche se il più delle volte non rispettava i
patti e lasciava
ovunque i suoi colori. Si auto-definiva un pittore, ma fino a quel
momento non
aveva avuto granché successo. Forse perché, a
parere di molti, i suoi quadri
mancavano di buon gusto. Io li trovavo solo un po’
eccentrici, ma non del tutto
da buttare. Cosa mai poteva essere qualche testa mozzata da un angelo
della
morte, in confronto ai quadri di Caravaggio? [8]
Henry diceva che ero io ad
ispirarlo, il più delle volte. Da quando avevo scoperto la
mia passione per il
piano, dettata forse anche dalla strana melodia che avevo udito e che
mi aveva
spinto fino a Londra, avevo comprato quello stesso strumento per dare
sfogo
alle mie repressioni. E quelle rare volte che lo suonavo, Henry
cominciava a
dipingere quei suoi sanguinosi quadri con lo sguardo perso nel vuoto,
come se
fosse posseduto dal demonio. E su quel particolare dettaglio avrei
avuto
davvero molto da dire. Ma la mia vita non andava oltre
quelle semplici cose, e me ne rammaricavo. Avevo quella che molti
avrebbero
definito immortalità, sebbene la definizione non fosse per
nulla esatta, e non
la sfruttavo per niente come avrei realmente dovuto.
Sentivo però dentro di me una
bizzarra sensazione, come se qualcosa, o per meglio dire qualcuno,
sarebbe ben
presto arrivato a portare scompiglio in quella mia lunga e noiosa vita.
E fu
proprio in quel preciso istante che lo vidi di sfuggita con la coda
dell’occhio, col volto simile a quello d’una
maschera di cera; ma quando mi
voltai del tutto, lui già non c’era più.
[1]
È l’opera per organo più conosciuta di
Bach.
Probabilmente si tratta di uno dei primi brani da lui
composti, visto che si creda sia stata scritta tra il 1703 e il 1707,
esattamente durante il periodo della sua giovinezza.
In questo contesto,
naturalmente, non si intende la sua opera, ma un semplice gioco di
parole tra
la toccata e fuga dei due protagonisti principali.
[2]
Ovviamente,
anche se non viene per niente specificato né al principio
né durante tutta la
storia, la nave a cui si accenna è il Titanic, la nave
britannica della Olympic
Class ultimata nel marzo del 1912 e salpata dal porto di Londra il 10
aprile
dello stesso anno. La storia, dunque, è ambientata parecchi
giorni prima della
fatidica notte in cui la nave affondò.
[3]
Serial Killer che, durante l’autunno del
1888, commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti
distretti.
Prendeva di mira solo le
prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le
sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa. Alla
polizia e ai giornali,
durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano
il caso,
dov’erano molte le persone che cercavano di fornire
informazioni sul serial
killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero
considerate
abbastanza inutili.
[4]
Letteralmente significa “Signore”, deriva
dall’inglese “Lord” ed è
gaelico scozzese.
[5] È
il
principale distretto incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno
dei 32
distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di
città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar
Square, mentre Oxford Street è
una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
[6]
Demoni o spiriti malvagi dell’induismo, molti
dei quali erano esseri umani assai crudeli nella loro precedente
reincarnazione. I Rakshasa sono noti per la loro abitudine di rovinare
le
cerimonie sacre, dissacrare tombe, molestare sacerdoti e possedere
esseri
umani.
Hanno l’abilità di
cambiare aspetto e fare magie, e spesso compaiono in forma di uomini,
cani, e
grandi uccelli. Non sempre, però, appaiono come malvagi -
sebbene il loro
aspetto sia orribile a vedersi - ma, anzi, a volte prendono a ben
volere una
persona, aiutandola e, generalmente, facendola diventare ricca.
[7]
Traducibile
con la parola apparizione, spirito o più semplicemente
demone, gli youkai sono
creature del folklore giapponese.
Spesso rappresentati con
tratti grotteschi e terrificanti, non mancavano però i
demoni con fattezze
umane o animali. I più noti erano i Nekomata (Gatto a due
code evolutosi dal
gatto normale), gli Tsuchigumo (Ragni di terra considerati per
l’appunto
demoni, descritti come esseri giganteschi), gli Inugami (Shikigami
dall’aspetto
di un cane, che una volta generati possono anche diventare indipendenti
e
rivoltarsi al loro creatore) e infine i Kitsune, demoni volpe che
avevano la
capacità di acquisire un aspetto umano e confondersi dunque
fra gli uomini.
Avevano inoltre il
potere di impossessarsi degli esseri umani, di appiccare il fuoco, di
entrare
nei sogni e di creare illusioni spesso indistinguibili dalla
realtà. Proprio
per la loro capacità di possessione, dunque, chiamata
“Kitsunetsuki”,
traducibile ovvero come “Luna di volpe” o simile,
il protagonista crede che
abbiano un qualche legame con la sua posizione attuale.
[8]
Qui si
intendono quadri come, tanto per citarne alcuni, “La testa di
Medusa”,
“Giuditta e Oloferne”, “Salomè
con la testa del Battista” e “Davide e
Golia”.
Ovviamente, il tutto è detto in chiave vagamente ironica da
chi racconta.
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Capitolo 3 *** [ Atto I, scena II › Toccata e fuga ] Amleto e Macbeth ***
Dè a tha thu_3
SCENA II:
AMLETO [1]
E
MACBETH [2]
Era
sparito fra la folla così com’era apparso,
l’ombra d’un pallido fantasma
dissoltosi nella marea di gente che imperversava fra le strade di
Londra.
Pensai quasi d’essermelo
immaginato, cercandolo ancora con lo sguardo sebbene ormai, di lui,
restasse
solo la sua vaga presenza sulle mie retine. Non seppi perché
mi affannai così
tanto nel ritrovarlo, negli attimi che seguirono, ma cominciai a
vagabondare
fra quelle strade sotto quel diluvio, quasi non riuscissi a darmi pace.
L’avevo
visto solo per un attimo, però quell’attimo era
bastato. E continuai a cercarlo
e a cercarlo ancora mentre intorno a me la gente diveniva man mano
più rada,
non capacitandomi al tempo stesso del perché seguissi quello
spettro che avevo
veduto e che a sua volta, per non più d’una
frazione di secondo, aveva rivolto
verso di me il suo sguardo.
Cosa mai avrebbe potuto
significare quella mia ossessione? Avevo trovato un’altra
creatura che
condivideva il mio stesso destino o, forse, volevo soltanto tentare
d’illudere
la mia persona, e dunque quella visione che ai miei occhi era apparsa
così
reale era invece stata solo un parto della mia mente stanca e annoiata?
Non lo
sapevo, ma passarono ore ed ore senza che trovassi più
alcuna traccia. Con
molta probabilità, rincorrendo i miei soliti pensieri e
perdendomi nel passato,
avevo involontariamente generato quell’immagine speculare,
lasciando che la
fantasia prendesse momentaneamente il sopravvento sulla
realtà. Ma se era stato davvero così,
perché non riuscivo a togliermi dalla mente quello sguardo
un po’ vacuo, quegl’occhi
d’un azzurro così intenso d’apparire di
ghiaccio come quello d’un husky, e quei
capelli ramati e arruffati che nascondevano il pallido viso? Che sorta
di
maleficio mi aveva fatto, quell’essere, se realmente
esisteva? Più ci pensavo,
più il mio meravigliarmi mi sembrava pura follia. Ma
continuai a farlo anche
quando raggiunsi il palazzo e mi chiusi la porta alle spalle,
liberandomi
distrattamente di giacca e cilindro mentre salivo le scale per
raggiungere il
mio alloggio.
Non appena vi entrai, fui
investito dall’odore della pittura, reso ancor più
intenso dall’aria viziata,
date le finestre che Henry aveva lasciato chiuse. Aprirle
con quella pioggia non era l’ideale, certo, ma mettersi a
dipingere senza farlo era un po’ come
suicidarsi, dati i quantitativi di colore che lui era solito
utilizzare. Diceva,
però, d’esserne ormai assuefatto, e chi ero dunque
io per impedirgli di fare ciò
che voleva? Quello per me non era un problema, anche perché
erano rare
le volte in cui ritornavo a casa. Ero perfettamente a mio agio anche
altrove.
Esattamente come avevo
previsto, trovai Henry dinanzi ad una delle sue tele. Attraversai quel
poco
spazio non ingombrato da tavoli e tavolinetti, attento a dove mettevo i
piedi
per non inciampare in qualche foglio svolazzante o colore. Con il
disastro che
c’era in giro, non mi preoccupai nemmeno del fatto che, con
le mie scarpe
imbrattate, stessi bagnando il pavimento.
«Hai fatto tardi,
stasera», mi
salutò Henry, senza alzare gli occhi azzurri dal suo
dipinto. Intinse invece il
pennello in uno dei colori della tavolozza che reggeva, riprendendo
tranquillo
il proprio operato come se fosse ancora solo.
Poggiai il giaccone su una
delle poche sedie libere, ritrovandomi poi a scoccargli
un’occhiata di scarsa
importanza. «Sono stato impegnato», ribattei,
sentendo appena un suo mezzo
sbuffo ilare.
«Bugiardo»,
replicò difatti,
mescolando il nero e il ciano per stemperarli poi sulla tela, assumendo
un’espressione poco soddisfatta.
Io, però, sbuffai.
«Pensa ai
tuoi quadri, pittore», lo ammonii, lasciando il cilindro dove
capitava. Odiavo
quando Henry si metteva in testa di fare la parte della madre
appiccicosa o
dell’amante geloso, e queste semplici cose sarebbero bastate
per risvegliare
quella natura che mi animava. Lui, pur sapendo ciò che ero -
o, per meglio
dire, sapendo quel poco di cui ero venuto a conoscenza
anch’io -, non si faceva
poi tanti problemi a sfidarmi o a fare in modo che mi arrabbiassi, per
nulla
preoccupato delle conseguenze.
Si vive una volta sola,
diceva, e della sua vita gliene importava ben poco per sua stessa
ammissione. Io,
che ero diventato quell’essere proprio a causa del mio
attaccamento alla vita,
non lo comprendevo. Ma d’altra parte sembravo attendere
proprio il momento in
cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come
la cera
d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa,
senza riuscire
ancora a comprenderne il motivo. Forse quando quel momento sarebbe
arrivato
l’avrei capito, e mi sarebbe anche stata spiegata la
sensazione che provavo
quando lo vedevo davvero all’opera, completamente immerso nel
suo mondo dove
nessuno, me incluso, poteva raggiungerlo. Quelli erano attimi in cui
qualcosa,
dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io
ero lì
ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata.
In quel momento, invece, Henry
non mi trasmetteva quella stessa percezione. Era soltanto un semplice
uomo che
giocava distratto con i suoi colori, senza dipingere ancora nulla di
concreto
com’era solito fare. «Mancanza
d’ispirazione?»
domandai sarcastico quando mi spostai di poco per sbirciare la tela,
vedendolo
abbassare il pennello per poggiarlo sulla tavolozza. Mise su una
sottospecie di
broncio che stonava non poco sul suo viso, poi, aggrottando la fronte e
incurvando le labbra all’ingiù.
Guardò a sua volta la tela
senza proferire ancora parola, come se la stesse contemplando. Era
diversa da
quelle che ero solito vedere, e me ne meravigliai: il tratto base dei
soggetti era chiaro e sottile, quasi nullo, e le pennellate
che componevano la
prima passata di sfondo erano solo linee di colore prive d’un
vero motivo.
Sembrava quasi che fossero state buttate lì a caso, e forse
era davvero così. Si
scorgeva vagamente un viso, in quell’ammasso di colori e
forme, ma era
piuttosto difficile stabilire il sesso del soggetto rappresentato.
«Sacrebleu, je suis un faillite [3]»,
mormorò infine nella sua lingua, abbandonando la tavolozza
su una sedia lì
accanto prima d’afferrare saldamente la tela per lanciarla
con foga sul lato
opposto della stanza. Andò a scontrarsi con la libreria
accostata al muro, e i
pesanti tomi che caddero non furono per niente pochi. Ma Henry non
sembrò
curarsene, alzandosi dallo sgabello che aveva occupato per dirigersi
invece
alla finestra, dove si accostò prima di tirar fuori un
sigaro.
«L’unica cosa di cui
sono
capace è dipingere, mon
amie,
ma se non riesco più a fare nemmeno quello, cosa
potrò mai inventarmi?» quella
sua domanda non sembrò diretta propriamente a me,
giacché non aspettò per
niente una risposta. Si accese invece il sigaro e se lo
portò alle labbra,
concedendosi quell’unico e piccolo piacere.
«Potresti ammazzarmi», continuò poi,
scompigliandosi i capelli. «Sarebbe di sicuro molto
più interessante di questo
mortorio».
Sollevai un
sopracciglio, prendendomi qualche attimo di silenzio, come se stessi
cercando
le parole adatte. C’era un lato di me che non si faceva poi
tutti questi
scrupoli ad uccidere, certo, ma se avessi ammazzato Henry, quali altri
svaghi
avrei avuto? Quel mio fantasma che mi era sembrato di vedere durante il
ritorno? Davvero una bella prospettiva.
Così sbuffai e, scuotendo il
capo, andai a recuperare la tela. «Cercati un altro mostro per farti
ammazzare, pittore», ribattei infine, chinandomi per prendere
anche alcuni
libri caduti. «Io e la morte abbiamo ancora un conto in
sospeso», soggiunsi
sarcastico, vedendolo appena con la coda dell’occhio storcere
il naso prima di
tirare una bella boccata dal suo sigaro. Fra le mani mi
capitò uno dei
tomi che tempo addietro avevo studiato nel tentativo di comprendere la
mia
natura, e mi ritrovai a carezzarne appena il dorso prima
d’alzarmi in piedi,
così da rimettere tutto a posto. «Credi ai
fantasmi, piuttosto?» domandai a
bruciapelo, accostando la tela contro la gamba d’un tavolino.
Henry assunse un’aria
piuttosto perplessa, dando vita ad
una breve risata per nulla divertita.
«Cos’è, uno scherzo?» chiese
in risposta.
«Sto parlando con una sottospecie di demone, mon Dieu»,
ci tenne a ricordarmi, come se poi ce ne fosse davvero
bisogno. «Chiesta da te, la cosa è alquanto
ironica».
Tagliai corto con un gesto
secco della mano, impedendogli di continuare. «Niente
sofismi, gradirei
piuttosto una risposta», insistetti, poiché non
riuscivo ancora a liberarmi
dell’immagine di quell’apparizione.
Però Henry scrollò
semplicemente le spalle, tirando un’altra boccata di fumo.
«Se credo in ciò che
vedo adesso e non sono dunque impazzito, perché non dovrei
credere anche
all’esistenza dei fantasmi? Non mi stupirei nemmeno se da
quella porta entrasse Dracula [4]
in
persona, in questo momento».
Quel suo sarcasmo, nonostante
tutto, mi fece brevemente sorridere. «Temo che tu sia rimasto
troppo a lungo
chiuso in questa stanza, pittore», dissi.
«L’odore di quei colori gioca brutti
scherzi».
«Sei stato tu ad avermelo
chiesto», mi tenne presente, scombinandosi ancora una volta i
corti capelli
castani prima di ravvivarli alla bell’e meglio
all’indietro. «Io mi sono solo
limitato a rispondere. Tu, piuttosto, sei più strano del
solito. E ce ne vuole,
aggiungerei».
Non
risposi, limitandomi solo ad attraversare la stanza per dirigermi verso
il mio
piano, carezzando lievemente il legno massello con cui era stata
lavorata la
parte superiore che nascondeva la cassa. Mi sedetti poi al mio posto,
alzando il
coperchio della tastiera per sfiorare con due dita i tasti bianchi e
neri. «Credo
d’aver intravisto uno spettro», rivelai infine.
«È stato solo un attimo, ma mi
ha guardato dritto negli occhi prima di sparire».
Henry mi fissò per una buona
manciata
di minuti, sorridendo poi lieve. «Oh, mon amie, e di cosa
ti preoccupi?» domandò, lasciandomi un
po’
basito. Ancora mi stupivo di come la vita di quell’essere
umano sembrasse
essersi ormai adattata alle stranezze di quel mio mondo sovrannaturale.
Non ne
era rimasto sconvolto come avevo creduto, bensì mi aveva
semplicemente posto
quella domanda. Forse, dopo dieci anni, quella sua padronanza nel
gestire situazioni
del genere era più che normale, chi poteva dirlo. Possibile
che quello stupito
fossi io che appartenevo a quel mondo e non lui?
«Non era questa la risposta
che
mi aspettavo, se me lo concedi», risposi poi, facendo
scivolare l’indice sulla
tastiera, vedendo di sfuggita Henry sorridere brevemente.
Spense il proprio sigaro nel
posacenere riposto su uno di quei bassi tavolini da the, rivolgendomi
poi un
cenno del capo. «Mon
cher»,
cominciò. «Se permetti, dopo dieci anni che ti
conosco ci sono ben poche cose
che possano riuscire a farmi scappare in preda al panico»,
soggiunse,
allargando di poco il sorriso «e il tuo aver visto uno
spettro non rientra
ancora tra queste, mi spiace».
A quelle sue parole mi
innervosii e, abbattendo con forza entrambe le mani sui tasti del
piano, creai
un suono grottesco e per nulla armonioso che si propagò
intorno a noi come una
lugubre melodia. «Dovresti temere un po’ di
più ciò che non conosci», lo
redarguii, ma lui si limitò ancora una volta a scrollare
semplicemente le spalle,
come se la cosa non lo riguardasse per niente.
«Ho ben altro da fare che
spaventarmi per ogni piccolezza esistente a questo mondo»,
ribatté
semplicemente, accennando poi un inchino nella mia direzione.
«Pardonne moi,
monsieur [5]»,
soggiunse poi, scomparendo nella stanza adiacente per tornare solo
svariati
minuti dopo con un’altra tela immacolata, riponendola sul
treppiedi occupato
poco prima da una sua sventurata compagna.
A quanto sembrava, Henry aveva
intenzione di riprendere il proprio lavoro, e di questo non mi stupivo.
Non
faceva altro che dipingere dalla mattina alla sera, per quel che ne
sapevo, e
forse i pasti che consumava si riducevano appena a del porrige e a del
pane di segale. L’unica
bevanda poteva magari essere del whisky scadente, ma non contavo
nemmeno su
quello. Se non avesse conservato almeno un briciolo di buon senso, si
sarebbe
lasciato morire di stenti e di fame dinanzi a quelle sue dannate tele.
Dopo quella nostra breve
conversazione non parlammo più, perdendoci l’uno
nel silenzio dell’altro. Lui
s’impegnò su quella sua nuova opera, io continuai
a pensare a quel ragazzo
fantasma che avevo intravisto appena, pigiando di tanto in tanto
qualche tasto
dello strumento dinanzi al quale ero seduto. Mi persi ben presto, sia
per mio
diletto sia per non curanza, nell’intonare la Sonata in Re
maggiore [6]
di
Mozart, di cui tempo addietro mi ero innamorato quando mi ero ritrovato
ad
ascoltarla. Lasciai che fossero le sue note a guidare i miei pensieri,
nella
vana speranza che li direzionasse presto altrove.
Era stata un’illusione, mi
ripetevo, forse timoroso che la follia che di tanto in tanto muoveva
Henry
stesse cominciando a divorare anche me. Ma come poteva mai essere che
uno stato
così umano potesse insinuarsi persino in una creatura pari a
un demone quale
ero io? Probabilmente era stata quella stessa trasformazione a rendermi
pazzo,
e gli effetti stavano iniziando a farsi vivi solo ora dopo secoli. Il
mio
pensarci con così tanta intensità ne era la
prova.
Interruppi di scatto la melodia
che avevo cominciato ad intonare e chiusi il coperchio della tastiera,
così
forte che quasi temetti di rompere esso e i tasti sottostanti.
Così facendo fui
capace di richiamare l’attenzione di Henry, che mi
osservò con tanto d’occhi
senza muovere un muscolo.
Lo fulminai con
un’occhiataccia, nervoso per un motivo che solo io conoscevo,
alzandomi poi per
andare a recuperare il mio giaccone. «Non
aspettarmi», dissi semplicemente in
tono secco, imboccando la porta prima di richiudermela con un tonfo
alle
spalle.
Scesi le scale in fretta e
furia, ritrovandomi ben presto nuovamente fra le strade di Londra. Non
pioveva
più forte come prima, fortunatamente, ma una leggera
pioggerellina continuava
insistentemente a scendere, bagnando il lastricato. Anche le grondaie e
i portici
dei palazzi che sorgevano sui lati delle strade gocciolavano
pigramente,
diffondendo nell’aria quel lieve ticchettio che preannunciava
una futura
schiarita.
L’ora era ormai tarda, dunque
erano poche le persone che ancora si attardavano fra le vie. Decisi di
spostarmi allora verso l’East End [7],
dove
avrei di sicuro potuto godere di qualche attimo di distrazione. Era
esattamente
quel che mi ci voleva, dopo tutte le reminiscenze che avevano affollato
i miei
pensieri per tutto il giorno. Avevo bisogno di uno svago, di un
qualunque
divertimento, di forviare magari qualche giovane mente come si
confaceva alla
mia natura stessa. Così facendo, forse, avrei anche potuto
dimenticare il reale
motivo che mi aveva spinto ad uscire.
Vagai fra quelle strade e quei
vicoli avvolto nel mio soprabito, silenzioso e rapido come
un’ombra,
evanescente io stesso come uno spettro. Quelle poche persone che
incrociavo - per lo più prostitute con i loro clienti, e ad
una certa distanza
il protettore che li seguiva -, sembravano non badare a me o non
vedermi
nemmeno, quasi fossi realmente inconsistente come la notte che ci
avvolgeva.
Non arrivai mai dove mi ero
prefissato, però, e la ragione non fu il mio perdermi fra i
miei pensieri,
stavolta: avevo udito quella stessa melodia che sembrava aver guidato i
miei
passi verso la città di Londra duecento anni or sono.
E seppur avessi cominciato
ormai a pensare che anch’essa fosse soltanto un parto della
mia mente,
probabilmente una rimembranza delle canzoni che mia madre, prima di
morire,
soleva cantarmi quand’ero bambino per conciliare il mio
sonno, avevo
semplicemente deciso di seguirla verso luoghi sconosciuti, perdendomi
nelle
note basse e cariche d’attesa prodotte da quello strumento
che, forse, in
realtà non esisteva.
[1] È
un’opera in 5 atti di William Shakespeare,
rivista da Ambroise Thomas con il nome di Hamlet e rappresentata
all’Opéra de
Paris il 9 marzo del 1868.
La tragedia assume un
carattere romantico: il suo senso iniziale viene stravolto, Amleto
perde la sua
solita e tagliente ironia, i cortigiani spariscono, il ruolo di Polonio
non
esiste, Gertrude sa del crimine e ne è persino complice. Il
dramma si restringe
sulla tensione al cuore del personaggio di Amleto, mentre i suoi
aspetti
bizzarri sono cancellati.
Nel corso del capitolo si
capirà vagamente la scelta del titolo.
[2]
Uno tra i più conosciuti drammi di Shakespeare,
nonché la tragedia più breve.
Modello della brama di potere
e dei suoi pericoli, tale opera è stata riadattata e
rappresentata
frequentemente nel corso dei secoli.
Per la trama Shakespeare si
ispirò liberamente al resoconto storico del re Macbeth di
Scozia di Raphael
Holinshed e quello del filosofo scozzese Hector Boece.
Ci sono molte superstizioni
fondate sulla credenza che il dramma sia in qualche modo maledetto e
molti attori non vogliono menzionarne ad alta voce il titolo,
riferendosi ad
esso come “Il dramma scozzese”.
Nel corso del capitolo si
capirà vagamente la scelta del titolo.
[3]
La
traduzione sarebbe “Accidenti, sono un fallito (O
fallimento)” ed è
naturalmente francese.
[4]
Nome del
protagonista di un romanzo gotico dalle atmosfere cupe e minacciose che
riprende il mito del vampiro, scritto nel 1897 dall’irlandese
Bram Stoker, che
si ispirò alla figura di Vlad III, principe di Valacchia.
[5]
La
traduzione sarebbe “Mi scusi, signore” ed
è naturalmente francese.
Potrebbe essere letto, a seconda di come lo si interpreta, anche come
“Mi
perdoni” o “Chiedo scusa”.
[6]
Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è
la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante
e concludersi con un Presto.
[7]
Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per
tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un
posto in cui
stare.
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è
fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti
come
quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato,
gangsters
come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile
dalla tenacia
britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che
nell’East End si
concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito,
con tutti i
problemi che ciò comporta.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 4 *** [ Atto II, scena I › Sinfonia ] Note di follia e incontri di parole ***
Dè a tha thu_4
ATTO II: SINFONIA [1]
{
APRILE 1912 }
SCENA I: NOTE
DI FOLLIA E INCONTRI DI PAROLE
Era
la terza o quarta notte che passavo all’addiaccio, fermo su
quel vecchio porto
sulle rive del Tamigi.
Quando calava il sole sentivo
pullulare quella zona di presenze, come se fosse un ritrovo per chi,
come me,
sembrava essersi perso fra i sussurri della notte. Non erano solo gli
uomini a
ritrovarsi in quel luogo, il più delle volte, ma persino
creature inquiete che
fino a quel momento non avevo mai avvertito.
I loro respiri mi solleticavano
il viso non appena socchiudevo gli occhi, le loro bocche gelide mi
sfioravano
con delicatezza, sussurrandomi all’orecchio parole che io non
comprendevo.
Quando alzavo le palpebre sembravano poi sparire nel nulla, lasciando
solo
nell’aria un’eco simile ad una risata cristallina.
Ed era proprio in momenti come
quelli che temevo d’esser ormai impazzito, lasciando
però che quelle stesse
voci continuassero senza che facessi nulla per scacciarle. Alcune erano
dolci e
malinconiche, quasi portassero con sé il dolore della mia
terra natia; altre
ancora risuonavano invece aspre e dure, e mi rimproveravano per cose
che,
almeno per quanto ricordassi, non avevo mai fatto. Vecchie nenie
cantate nella
mia lingua sommergevano poi tali voci, lasciando che trovassi nel sonno
quel
poco riposo che mi concedevo.
Avevo ormai ripreso a
viaggiare, diretto Dio solo sapeva dove. E ad esser sincero, affidare
quel mio
peregrinare all’Onnipotente dopo quanto mi era successo, dopo
quel che ero
diventato, mi sembrava quasi assurdo. Ma forse, giacché la
mia, in vita, era
stata una famiglia fortemente religiosa, non avevo potuto fare a meno
di
conservare quel frammento di fede insito nella mia persona. Non ci
speravo poi
molto, ma pensarci, arrivati ormai a quel punto, a cosa sarebbe
servito?
Assolutamente a nulla. E mi imposi dunque di smetterla
con certi pensieri, incamminandomi in silenzio fra quelle vie buie e
solitarie
in cui mi ero ritrovato. Il Big Ben [2],
che da
dove mi trovavo riuscivo a scorgere scostando soltanto di poco lo
sguardo verso
sinistra, segnava sul suo immenso quadrante un quarto a mezzanotte. Si
avvicinava l’ora in cui le mie compagne voci cominciavano a
manifestarsi, e non
sapevo se esserne lieto o meno. Forse erano reali, forse no, ma se lo
erano,
avrei dovuto iniziare a far davvero attenzione.
In quei secoli avevo imparato
che creature come me, dunque pressoché immortali, erano
piuttosto
volubili, a lungo andare. Bastava pensare ai vampiri, ad esempio: non
ne avevo
mai incontrato uno, però avevo sentito che in quanto a
volubilità erano i
peggiori. Imbattermi sfortunatamente sul cammino di in uno di loro,
dunque, era
davvero l’ultima cosa che volevo.
Intorno a me regnava però una
strana quiete, forse più bizzarra di quanto non mi fosse mai
sembrata fino ad
allora. E fu proprio in quel mentre che, abituato a star continuamente
in giro
senza dipendere da niente e nessuno, ricordai di non aver avvisato
Henry della
mia decisione d’allontanarmi ancora. Non che avrebbe poi
fatto tanto caso alla
mia mancanza, probabilmente; impegnato com’era con i suoi
quadri, forse avrebbe
cominciato a rendersi conto della mia assenza solo dopo
l’aver sentito quella
stanzetta silenziosa per troppo tempo. Non contavo di star via a lungo,
ma non
si poteva mai sapere.
Quel mio peregrinare mi
condusse ai confini della città, e fui
indeciso se lasciarla o
meno. Avrei lasciato alle spalle tutti quegli strani fantasmi che mi
perseguitavano, ma sapevo che mi sarei
pentito di averlo
fatto. Dove sarei potuto andare, poi? Mi era sempre piaciuta
l’Europa,
non lo mettevo in dubbio, e visitare Vienna per spostarmi verso
l’Italia e visitarne Firenze
non era una così cattiva idea. C’era qualcosa che
continuava a
bloccarmi, però, non permettendomi di compiere un altro
passo.
Cos’era quella strana
sensazione che aveva cominciato a fluire nel mio corpo, simile a fuoco
vivo
nelle mie vene? Non lo comprendevo, ma ciò di cui ero certo
era che aveva di
sicuro a che fare con la città alle mie spalle. Ritornai
allora sui miei passi,
venendo ben presto investito da un vento gelido di cui non capii la
provenienza. Più che un vero e proprio vento, era molto
più simile ad un
mormorio nella notte, rassomigliante alle voci che per giorni non
avevano fatto
altro che accompagnarmi, ma molto più lieve, quasi come un
suono che in realtà
non era tale, una confusione di colori e forme e di tasti bianchi e
neri.
Or dunque, mi venne da
pensare che avessi raggiunto il mio limite. Era follia, pura e semplice
follia,
e se l’avessi raccontato, così come avrei potuto
raccontare la mia stessa vita,
nessuno mi avrebbe mai creduto. Non l’avrei fatto nemmeno io.
Quella era
un’assurdità e tale doveva restare, se le avessi
dato spago non avrebbe fatto
altro che tormentarmi per l’eternità dei miei
giorni.
Scossi la testa e cercai di
scacciarla, sentendomi seguito da piedi invisibili e deboli fruscii.
Continuai
sulla mia strada senza voltarmi indietro, attraversando un piccolo
ponte di
pietra per ritrovarmi sull’altra sponda della
città, in modo da potermi
dirigere verso il confine sud del quartiere Mayfair, a Piccadilly. I
passi divennero più rapidi e
scattanti mano a mano che ci avvicinavamo a case e negozi,
finché, stufo, non
decisi di fermarmi io stesso e di voltarmi di scatto, lanciando un
grido
esasperato e gutturale che nemmeno io avevo mai sentito provenire dal
fondo
della mia gola. I rumori cessarono del tutto, ma qualcosa privo di
consistenza
mi strisciò sulla pelle, viscido come un serpente, e storsi
il naso con fare
disgustato prima di cercare di togliermelo di dosso. Com’era
prevedibile, però,
non trovai assolutamente nulla.
Andai avanti così per giorni
e
giorni, pensando quasi d’accettare quella mia follia come un
chiaro segno del
destino. La morte non era riuscita ad avermi con sé, dunque
cercava in tutti i
modi di farmi impazzire per spingermi magari al suicidio. E, aye, io
quasi ci
avevo pensato. Ma quale folle, dopo esser scampato per secoli dalla
nera
signora con la falce, avrebbe mai fatto ciò? Per quanto
quelle voci mi spingessero
più e più volte su quella stessa strada, la
natura di quell’essere che si era
insidiato in me, e che mi aveva inoltre reso ciò che ero,
riusciva a salvarmi
sempre per un soffio da quell’orripilante baratro.
Mi trascinai quasi
faticosamente verso i quartieri alti di Londra, alzando soltanto di
poco lo
sguardo verso il cielo: sebbene non piovesse, il tempo era uggioso, ed
erano
molte le nubi che solcavano quel manto ormai cinereo sopra di noi.
Erano
pressappoco le due del pomeriggio di un plumbeo sette aprile, e la
gente che
passeggiava o che si trovava semplicemente a guardare le vetrine dei
più
svariati negozi, appariva serena come sempre, ignara del terrore che si
celava
ogni notte negli anfratti bui. E mentre il mio sguardo vagava
stanco fra quei mille volti, e il mio stomaco sembrava reclamare a gran
voce
pietanze che giorni addietro non avrei mai creduto di poter
assaggiare [3],
gli
occhi mi caddero sul viso di quel qualcuno che aveva continuato ad
affollare i
miei pensieri per tutto quel tempo.
Forse sgranai gli occhi, non ne
fui sicuro, ma sentii un qualcosa stringermi dolorosamente il cuore
alla sua
vista. Era perso nel contemplare una vetrina di balocchi, con un vago
sorriso
dipinto sulle piccole labbra rosee. Non poteva avere più di
sedici o
diciassette anni, adesso che riuscivo a vederlo meglio, e aveva persino
perso
quell’aspetto etereo con cui lo ricordavo. Ma sapevo che era
lui, non c’era
alcun dubbio: quello sguardo un po’ perso, come se si
trovasse sempre in un
mondo tutto suo, e quei capelli rossi, spesso tipici della maggior
parte di noi
scozzesi, avrei potuto riconoscerli fra mille. Non sapevo il
perché, non
comprendevo come mai il vederlo aveva provocato quella bizzarra
sensazione che
sentivo ormai nel petto e in tutto il mio essere, come se dentro di me
accrescesse
una strana sorta d’ansia che mai, fino a quel momento, avevo
avvertito.
Non riflettei neanche, quando
feci i primi passi verso di lui. Era quasi come se il mio stesso corpo
si
muovesse senza che gli imponessi di farlo, e di questa cosa non me ne
capacitavo
affatto. Ero quasi ad una spanna da lui quando infine si
voltò, alzando il viso
verso il mio per potermi osservare attentamente negli occhi. Non era
alto più
di un metro e cinquantacinque, probabilmente, il che lo rendeva ancor
più
bambino di quanto non sembrasse.
Mi squadrò a lungo, in
silenzio, sbattendo solo di tanto in tanto le palpebre per umettare gli
occhi.
Sembrava quasi che intorno a noi non ci fosse più nessuno,
mentre ci fissavamo
immobili dinanzi a quella vetrina. Sentivo che il tempo si sarebbe
potuto
fermare in quello stesso istante, lasciando così che
vagassimo entrambi in un
limbo che non avrebbe avuto nome. Infine lui parlò, con una
voce
così bassa e roca che sembrava non aprisse bocca da
parecchio tempo. «È venuto
a prendermi?» mi domandò, ma io mi limitai solo a
fissarlo basito e muto, non
comprendendo il senso di quel suo strano quesito.
Non mi sarei mai aspettato che
il vederlo mi avrebbe rimescolato l’animo in quel modo, dando
vita ad un
sentimento di cui mi vergognavo persino a pronunciare il nome. In quei
giorni
in cui mi ero ritrovato a pensare a lui, a quello stesso ragazzino che
avevo
ormai dinanzi ai miei occhi, avevo cercato di trovare una qualche
spiegazione
razionale a quella mia ossessione, non riuscendoci. E nemmeno adesso ci
riuscivo, se dovevo proprio essere sincero, e la cosa iniziava a
spaventarmi un
po’. Spaventava me,
una creatura che in teoria sarebbe dovuta nascere
proprio con lo scopo di terrorizzare gli incauti.
Ritrovarmi dunque vicino a lui,
così tanto che potevo benissimo scorgere la spruzzata di
lentiggini sul suo
viso da bambino, mi faceva quasi sentire... male. Era quella la parola
adatta
da utilizzare, in quel momento?
Rincorrendo quei pensieri ebbi
finalmente il coraggio di rispondergli con un’altra domanda,
resistendo
all’impulso di leccarmi le labbra nel sentire il fresco e
giovane odore che
sembrava provenire da lui. «E per portarti poi dove, mo
gille [4]?»
Stavolta fu lui a prendersi
qualche attimo per rispondermi, raschiandosi persino di poco il labbro
inferiore con i denti. E, Dio, ai miei occhi apparve così
fragile e indifeso!
Era come un piccolo bocciolo che tardava ancora a mostrare i suoi
petali al
mondo.
Infine, dopo aver incurvato di
poco le spalle ed essersi ficcato entrambe le mani nelle tasche, quasi
l’avessi
rimproverato anziché porgergli un semplice quesito,
abbassò di poco lo sguardo
per evitare di fissarmi ancora negli occhi. E di quel distacco me ne
rammaricai. «Al Foundling [5],
signore», mormorò a mezza voce, quasi sperasse che
non lo sentissi. Ma l’avevo
udito eccome, e quelle sue parole mi fecero aggrottare di poco le
sopracciglia.
Senza nemmeno pensarci troppo
mi chinai verso di lui e mi puntellai sui calcagni, in modo da poter
quasi
essere alla sua altezza. Perché l’avessi fatto non
lo compresi, così come non
capii il mio allungare una mano verso di lui per sfiorargli il viso,
sentendolo
tremare appena. «Vivi lì?» gli chiesi
ancora, e, dopo aver fatto un piccolo
passo indietro, lui si limitò semplicemente a scuotere il
capo.
Non alzò lo sguardo e non
ricambiò il mio, come se avesse paura che io potessi fargli
qualcosa. E come
dargli torto? Ero un estraneo, e lui era poco più
d’un ragazzino che con molta
probabilità aveva davvero quattordici o quindici anni. Che
cosa ci faceva,
allora, tutto solo per le strade di Londra? Ma di certo non erano
affari miei,
quelli.
«Perché dovrei
portarti al
Foundling, allora?» domandai infine, forse persino un
po’ incuriosito,
squadrandolo dall’alto in basso non appena mi rialzai in
piedi.
Di quel ragazzo non comprendevo
parecchie cose, ma c’era un qualcosa, fra i meandri della mia
anima oscura, che
mi spingeva a pazientare e ad attendere che fosse lui stesso a
dissimulare le
mie curiosità e i miei dubbi, come se fra noi potesse
esserci un patto silenzioso
e mai stipulato che imponeva l’uno di parlare con
l’altro. Avrebbe difatti potuto scappare
via e non l’avrei biasimato, data la sua giovane
età. Anch’io, quand’ero un
ragazzino, diffidavo degli estranei che mi si avvicinavano. E anche a
maggior
ragione, visti i tempi che correvano.
Il mio interlocutore si gettò
delle occhiate a destra e a manca, quasi non volesse rispondere,
avvicinandosi
poi ancor più alla vetrina per poggiarvi sopra le mani.
Osservò distrattamente
l’interno, concentrato probabilmente come me su quel brusio
circostante che
faceva quasi da sottofondo.
Passarono altri minuti di
silenzio, attimi durante i quali fummo affiancati da un bambino
accompagnato
dalla propria madre. Chiacchierarono animatamente fra loro mentre
davano degli
sguardi alla merce, finché non si decisero finalmente ad
entrare nel negozio.
Il mio piccolo amico li seguì con lo sguardo, allontanandosi
poi con
un’espressione mesta prima di sistemarsi la giacca logora che
indossava. Era di
una o due taglie più grande, e ricadeva a nascondergli
praticamente metà cosce,
fasciate da un semplicissimo pantalone scuro che, ne ero sicuro,
riscaldava ben
poco durante le fredde notti.
Giacché non si era ancora
deciso a rispondermi, come se stesse guadagnando in qualche modo tempo,
mi
ritrovai a chinarmi un po’ a mezzo busto verso di lui.
«Non hai un posto dove
andare, mo gille?» gli chiesi ancora. «Una casa, un
luogo dove io possa
accompagnarti?»
Sebbene si fosse ritrovato ad
osservarmi ancora una volta in silenzio, perso in chissà
quali pensieri
interiori, alla fine scosse il capo, facendo persino brevemente
spallucce. «Poco
tempo fa abitavo con altri ragazzi in una piccola baracca nei pressi
del porto, signore»,
mi informò. «Molti sono stati decimati dalla
febbre, altri sono scappati o si
sono diretti proprio al Foundling».
«Sei scappato anche tu,
dunque?»
domandai con fare ovvio e senza troppi giri di parole, guadagnandoci un
rapido
annuire.
«Avevo paura a restar
lì da
solo la notte, signore», soggiunse un po’
spaventato. «Gli altri ragazzini non
mi credevano, ma da quelle parti risuonano le voci dei
morti».
Risuonano le voci dei
morti.
Ripetei quelle parole più e più volte, nella mia
mente, cominciando a pensare
che quelle basse nenie che avevo udito per giorni, non fossero tutte
frutto
della mia immaginazione. Se dunque esistevano davvero, non ero stato
affatto
l’unico a sentirle. Però non mi sarei mai
aspettato che ci riuscisse un piccolo
umano come quello che avevo dinanzi.
Mi puntellai ancora verso di
lui, squadrandolo con attenzione in quegl’occhi un
po’ sbiaditi, molto simili a
quelli d’un cieco. Fu solo allora che mi accorsi che in essi
c’era qualcosa di
strano, e non era affatto il loro colore particolare. Era un qualcosa
che non
comprendevo, ma che, presto o tardi, mi sarebbe forse stato svelato. O
almeno
sembravo sperarci. «Dovrei portare anche te al Foundling, mo
gille», cominciai,
nonostante io stesso non fossi così sicuro delle parole che
stavo pronunciando.
«È
lì che dovrebbero stare i bambini
senza famiglia».
Contro ogni mia aspettativa si
aggrappò alla mia giacca, costringendomi a drizzarmi per non
perdere
l’equilibrio a causa di quel suo scatto improvviso verso di
me. «La prego,
signore, non mi accompagni lì»,
supplicò.
Lo guardai con la fronte
aggrottata, se dal turbamento o dalla preoccupazione era difficile a
dirsi.
Quello scricciolo sembrava non volerne proprio sapere, dato il modo in
cui si
impuntava. «Quanti anni hai, mo gille?» mi ritrovai
a chiedere di punto in
bianco, e nonostante lo sconcerto che gli si dipinse in viso per quel
cambio
repentino di discorso, alzò gli occhi per fissarmi
intensamente prima di
rispondermi.
«Dodici alla fine di questo
mese, signore».
Fui io a sconcertarmi, questa
volta. Quella creatura che avevo dinanzi, e a cui avevo erroneamente
dato qualche
anno in più, era soltanto un bambino. Un bambino per il
quale io, senza
rendermene conto io stesso, avevo cominciato a provare quella sorta di
bizzarro
sentimento prima ancora che lo conoscessi.
E forse fu proprio per quello
che alla fine scossi il capo e gli allontanai delicatamente le mani
dalla mia
giacca, rilassando il viso. «Un motivo in più per
non lasciarti per strada,
allora».
Adesso che avevo scoperto che
era soltanto un semplice ragazzino, non sembravo più
così ossessionato da lui e
dai fantasmi come lo ero stato al principio. Volevo solo che restasse
al
sicuro, lontano dalle creature oscure che popolavano il mondo e dai
pericoli
che quella città racchiudeva nel suo vaso di Pandora fino al
calar del sole,
momento in cui veniva inevitabilmente scoperchiato.
Quello che stavo osservando era
un bambino, lasciare che lo accogliessero al Foundling Hospital come
altri
trovatelli era la cosa più giusta da fare. Allora
perché quel qualcosa, in cuor
mio, continuava ad agitarsi senza remore come un leone in gabbia? Che
non fossi
predisposto per buone
azioni come quella, e il mio spirito stesse
cercando di ricordarmelo insistentemente? Nay, se fosse stato soltanto
quello
non avrei di sicuro perso tutto quel tempo. C’era ben altro
con cui avrei
dovuto fare i conti, ma non avevo la benché minima
intenzione di capire cosa,
questa volta. Mai come in quel momento, desiderai solo restare
all’oscuro di
tutto come durante la mia vita mortale e tornarmene a casa.
Guardai dunque quel bambino
mentre intorno a me il brusio della folla continuava, ogni volto da
esso
composta diveniva soltanto una macchia sbiadita che si perdeva fra
mille altre
ancora. C’eravamo solo io e quel ragazzino, per il momento.
Nessun altro.
Dopo attimi che apparvero
interminabili, mi ritrovai ad aprire di poco la bocca, dando vita a
parole
sommesse e quasi indecifrabili. «Dirigiti al Foundling a tua
volta, mo gille. Non
vi è nulla fra le strade, per te».
E non attesi nemmeno che
potesse rispondermi, accennando un saluto con il capo prima di dargli
le spalle
e incamminarmi per la mia strada. Che razza di creatura abbandonerebbe
un
bambino senza prestargli il soccorso adeguato, penserete voi. Ebbene,
io vi
risponderei: una creatura come me. Non avevo nessun obbligo nei suoi
confronti,
men che mai volevo
averne. Essendo solo un essere umano, e non uno spettro come avevo
erroneamente
creduto quando l’avevo visto da lontano la prima volta,
volevo che restasse il
più lontano possibile da me e dal mio mondo. E, forse, ad
impormelo era proprio
quella bizzarra sensazione che avevo cominciato ad avvertire nei suoi
confronti, e che solo in rarissime occasioni avevo provato. Come quando
avevo
veduto le meraviglie di Parigi, tanto per dirne una. Ma mai mi era
successo con
un essere umano. E questo mi turbava.
Sperai che quel
ragazzino mi ascoltasse, che comprendendo la sua posizione andasse a
cercare
asilo in quel luogo, e nemmeno mi voltai per accertarmi che fosse
scomparso in
quella direzione. Sentii solo i suoi piccoli passi mescolati con quelli
della
miriade di altre genti, il suo cuore che pompava sfrenatamente e che
sembrava
battere furente contro le pareti della gabbia toracica. Potei persino
avvertire
il flusso del sangue nelle sue vene, e il comprimersi dei polmoni ad
ogni suo
respiro. Sembrava che fosse qui, vicinissimo, nel mio stesso essere,
quasi
fossimo un’entità sola.
Fu soltanto a quel punto che mi
voltai, vedendolo farsi largo fra la folla per venirmi in contro. Ne
rimasi
ancor più esterrefatto, non comprendendo le ragioni che
spingessero quel bambino
a seguirmi con tutta quell’ossessione. Quando mi fu
abbastanza vicino
da poterlo squadrare dall’alto in basso, lo fissai quasi con
distacco, come se
quel modo di fare potesse aiutarmi ad allontanarmi davvero da lui, dal
suo
sguardo e dal suo cuore. «Cosa credi di fare, mo
gille?»
Lui mi guardò, e mai come in
quel momento l’espressione che si dipinse sul suo viso mi
sembrò quella d’un
uomo che, nel corso della sua vita, aveva vissuto esperienze terribili.
«Vengo
con voi ovunque voi andiate, signore».
Mi accigliai. «Te lo
proibisco»,
ribattei subito, stornando lo sguardo e riprendendo ad incamminarmi
senza più
dargli peso. Quella mia originale ombra, però, a dispetto di
ciò che io stesso
avevo pensato, non si perse d’animo e continuò a
seguirmi, qualsiasi strada o
vicolo mi trovassi a percorrere. Aveva cominciato quasi ad
innervosirmi. Se era
davvero così, dunque, per quale motivo non l’avevo
ancora scacciata,
spaventandola come avrei dovuto? La ragione era semplice, ma la mia
mente si
rifiutava d’accettarla. Continuai difatti ad eludere
quelle poche parole che non facevano altro che martoriarmi,
affacciandosi
insistentemente nella mia mente come se facessero pressione
affinché io le
ascoltassi. Scuotevo, però, di continuo il capo, tentando
vanamente di
scacciarle mentre avvertivo i passi di quel ragazzino sempre
più vicini. Me lo
ritrovai quasi al mio fianco quando rallentai, avendo intravisto con la
coda
dell’occhio l’appartamento che dividevo con Henry,
il pittore.
Raccolsi tutta la calma e la
buona volontà di cui non avrei più disposto di
lì a breve, sentendo
distintamente il cuore di quel bambino perdere un battito quando voltai
appena
lo sguardo per fronteggiarlo. «Le nostre strade devono
dividersi qui, mo gille
beag [6]»,
gli
dissi freddamente, sperando forse che quel mio tono di voce lo
invogliasse ad
indietreggiare e fuggire.
Fece sì un passo indietro, ma
dopo essersi portato entrambi le mani strette a pugno
all’altezza del cuore,
scosse il capo. E io sospirai, non comprendendo.
«Perché ti ostini così?»
domandai,
senza ottener stavolta risposta alcuna. Quel ragazzino si limitava
soltanto a
fissarmi, ad osservarmi con quell’espressione un
po’ confusa e quasi persa nel
vuoto, esattamente come al prima volta che l’avevo visto. Nel
profondo dei suoi
occhi si leggeva un’infanzia tutt’altro che facile,
e proprio per quel motivo
avrebbe dovuto diffidare almeno un po’ degli estranei. Invece
mi aveva seguito
fin lì, fino alla mia dimora, e non sembrava intenzionato ad
andarsene. E quel
che era peggio era che io, nel profondo, non volevo lo facesse.
Forse ciò che mi spinse a
voltarmi del tutto verso di lui, e a fare qualche passo nella sua
direzione, fu
proprio quello strano sentimento che, nella mia mente, stava
cominciando a
compararsi con la stessa sensazione che provavo nel veder dipingere
Henry.
Forse in quel bambino c’era qualcosa che non attraeva me,
bensì la bestia annidata
nelle viscere, e che voleva disperatamente metter fine a tutta quella
follia.
E nel chinarmi un po’ verso di
lui per poterlo fissare negli occhi, capii che il solo modo che avevo
per
sbarazzarmi di lui era ucciderlo, ma non ero intenzionato a farlo. Non
ancora,
almeno. «Come ti chiami, mo gille?» chiesi,
stupendo ancora una volta me stesso
e lui.
Quel mio bizzarro amico
ritrovò, però, ben presto il sorriso, e quel
sorriso così innocente e
bambinesco fu capace di rendermi inquieto ma... sereno. Qual spaventoso
ossimoro. «William, signore», mi rispose infine,
guardandomi con quei suoi
grandi occhi azzurri.
Mi accostai a lui e mi scostai
un po’ il giaccone, così da poter coprire anche il
suo corpicino. Era così
basso e minuto che avrei potuto persino nasconderlo benissimo.
«Allora vieni
con me, William», pronunciare il suo nome mi parve
così strano che cominciai ad
incamminarmi come se quello potesse distrarmi, spronandolo a seguirmi.
«C’è
qualcuno che voglio farti conoscere».
In molti si chiederanno
perché
mai, dopo tanti sotterfugi, avessi infine deciso di portare con me quel
bambino, ne sono certo. La verità è che ero e
sono tuttora un egoista. Volevo
tenerlo lontano dal mio mondo, ma allo stesso tempo non volevo che, in
quel
modo, potesse allontanarsi da me.
A quel tempo lo consideravo una preda
piccola e appetitosa, un tesoro prezioso che andava custodito
gelosamente
finché non fosse arrivato il momento di mostrarlo al mondo.
Ancora non potevo saperlo, ma
avrei rubato giorno per giorno un pezzettino della sua anima e della
sua
purezza, sporcandola poco a poco, conducendolo sempre più
dinanzi allo spartito
d’una sinfonia che avremmo suonato fino alla fine dei nostri
giorni. Non fu
dunque con quei pensieri che lo portai in quel misero appartamento che
puzzava
di chiuso e trementina, ma, almeno al principio, l’avevo
fatto credendo che in
quel modo avrei placato le sensazioni che imperversavano nel mio animo.
Ricordo ancora come se fosse
ieri l’espressione che si dipinse sul volto di Henry nel
vedermi tornare con
quello scricciolo avvinghiato al tessuto dei miei pantaloni, mentre gli
occhi
azzurri vagavano curiosi tutt’intorno come per catturare
qualsiasi particolare.
Mi sembra ancora di vedere il
luccichio in quegli stessi occhi quando s’erano soffermati
sul mio piano,
facendo sì che il loro possessore corresse nella sua
direzione sotto lo sguardo
ancora sconcertato di Henry, che aveva voltato il capo verso di me per
cercar
risposte.
E cosa avevo mai fatto, io? Mi
ero semplicemente limitato a stringermi di poco nelle spalle, alzando
una mano
per zittirlo prima ancora che potesse porgermi qualsiasi domanda. Forse
fu la
prima volta che lo vidi davvero umano,
chi potrebbe dirlo. Nemmeno
quando mi aveva incontrato e aveva in seguito scoperto
quant’anni in realtà
avessi, aveva mai avuto un’espressione simile. E, aye, non mi
vergognavo per
niente nel dire che in un primo momento mi aveva terribilmente
eccitato. Aveva
risvegliato il predatore che era assopito in me, e che gli aveva
rivolto
un’occhiata sardonica prima d’avvicinarsi a quel
piccolo tesoro che si era
arrampicato sullo sgabello.
«Lei suona il piano,
signore?»
una domanda semplice e chiara, limpida proprio come l’essere
che l’aveva posta.
E in risposta soltanto un breve cenno del capo, mentre la creatura
dentro di me
si dimenava e si dibatteva, tentando di liberarsi, comparendo nel mondo
per un
breve attimo sottoforma d’un sorriso.
[1]
Con questo titolo si intende la nona sinfonia in
Re minore di Beethoven.
Venne completata nel 1824 e,
nell’ultimo movimento, include persino una parte
dell’ode An die Freude, l’Inno
alla gioia di Friedrich Schiller.
La sinfonia è una delle opere
più note di tutta la musica classica ed è
considerata uno dei più grandi
capolavori di Beethoven, che l’ha composta quando si era
ritrovato completamente
sordo.
[2]
Anche se è
il nome della campana principale del Grande Orologio di Westminster,
viene
chiamata in questo modo l’intera torre
dell’orologio, costruita in stile gotico
(Particolare corrente architettonica nata in Francia e diffusasi poi in
tutta
Europa) e alta oltre 96 metri.
[3]
In questo
passaggio non si intende ovviamente del cibo umano, come si potrebbe
erroneamente pensare, bensì piuttosto del sangue o delle
anime.
Essendo difatti il
protagonista una sottospecie di demone, l’associazione
risulterebbe fin troppo
facile da fare.
[4]
Letteralmente
significa “Ragazzo mio” ed è gaelico
scozzese.
[5] Ricovero
fondato nel 1739 come ospizio per bambini
poveri o trovatelli, poveri o meno abbietti.
I primi bambini vennero ammessi al Foundling Hospital
il 25 marzo 1741, in una casa temporanea dislocata a Hatton Garden. In
un
primo momento ai genitori che abbandonavano qui i figli
perché non potevano
mantenerli, veniva semplicemente richiesto di lasciare al collo dei
bambini un
segno di riconoscimento tramite una piccola collana a ciondolo. Il
ricovero era
dotato di personale anche medico-assistenziale per la prevenzione o la
cura di
malattie.
Attivo nell’ospedale era anche il servizio musicale,
che originariamente veniva portato avanti unicamente dai bambini
ciechi, ma
divenne famoso per la generosità di George Frideric Handel,
che sovente si
impegnò gratuitamente ad eseguire il suo Messiah presso
l’ospedale.
[6]
Letteralmente
significa “Mio piccolo ragazzo” ed è
gaelico scozzese.
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 5 *** [ Atto II, scena II › Sinfonia ] Gocce d'inchiostro su cenere nel vento ***
Dè a tha thu_5
SCENA II:
GOCCE D’INCHIOSTRO SU CENERE NEL VENTO
Non capii esattamente nemmeno io come tutto fosse
iniziato, oppure quando avessero
cominciato a susseguirsi poi giorni, mesi, anni.
Avevo veduto quel piccolo fiore
iniziare a sbocciare dinanzi ai miei occhi, e il momento in cui sarebbe
stato
raccolto aveva cominciato a farsi sempre più vicino. Durante
quei mesi che
aveva passato in nostra compagnia, William aveva legato parecchio con
Henry, il
quale,
dopo essersi finalmente abituato a quella sua strana presenza, aveva di
poco
messo da parte pennelli e tele per insegnargli ciò che
sapeva della vita e del
mondo. Gli aveva parlato delle bellezze di Parigi, dei boulevard che di
primo
mattino odoravano di pane appena sfornato, persino della grandezza
della Torre
Eiffel e di come da lassù le luci della città
risplendessero, simili a tanti
piccoli diamanti, al calar della sera.
Non erano poi state rare le volte
in cui, quando tornavo dai miei lunghi e solitari viaggi, trovavo
quello stesso
Henry intento a leggergli testi in francese - che spesso William non
capiva - o
vecchie favole, quasi fosse un padre premuroso che accudiva il figlio.
Quel
lato di lui non l’avevo mai visto e mai avrei creduto
esistesse, sebbene lo
conoscessi ormai da lunghi anni. Tornava ad essere se stesso solo
quando sentiva
avvicinarsi l’ora di dipingere. E quando essa scoccava nel
suo orologio
interno, scacciava rapidamente William e gli imponeva di cercarsi
qualcos’altro
da fare, tornando ben presto a lavorare su quelle vecchie tele. Quel
suo modo
di fare, però, non faceva altro che incuriosire quel
ragazzino, che gli si
avvicinava di soppiatto per spiare il suo operato.
Più e più volte
l’aveva
pregato
d’insegnargli anche quello e, nonostante i tentennamenti
iniziali, Henry aveva
infine ceduto. Gli aveva mostrato come impastare i colori, come
stenderli poi
sulla tela per creare uno sfondo di base, spiegandogli in seguito come
avrebbe
dovuto impostare i soggetti da rappresentare, ottenendo però
risultati
tutt’altro che soddisfacenti. Erano state molte di
più le tele impiastricciate
da William che quelle dipinte da Henry nell’ultimo periodo.
Ciò in cui quel nostro
piccolo amico
eccedeva era la musica. Se ci rifletto adesso, forse, posso comprendere
fin
troppo bene il motivo per cui cominciava a suonare non appena gliene si
presentava
l’occasione. La sua vita, fino al momento del
nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti
di quello
strumento. Nessuna sfumatura, nel corso dei suoi dodici anni, soltanto
una vita
bianca e nera. Una vita bianca e nera che fino ad allora gli era
bastata e che
aveva poi cominciato ad andargli stretta, non lasciando però
che la passione
per il piano si spegnesse a poco a poco come era accaduto per tutto il
resto.
L’avevo trovato seduto dinanzi
al
piano, un giorno, esattamente come quando l’avevo portato
lì per la prima
volta. Aveva cominciato a pigiare su quei tasti un po’ alla
rinfusa e, non
capendo cosa stesse facendo, al principio avevo persino temuto che
potesse
scordarmelo. Invece aveva in seguito iniziato a dar vita ad una melodia
quasi
indefinita, mai sentita fino ad allora, e non aveva smesso
finché non mi aveva
visto con la coda dell’occhio, spaventandosi.
Quelle sue scuse frettolose mi
avevano fatto sorridere. Si era strofinato gli occhi, rossi
probabilmente per la mancanza di sonno o altro, ed era sceso dallo
sgabello,
pronto a sgattaiolare via in fretta. Io l’avevo fermato,
avvicinandomi e
invitandolo ad accomodarsi ancora una volta. E nel sentirlo
così vicino,
battito contro battito, mi aveva colto una sensazione di quiete e pace
che mai,
dal momento in cui ero rinato
in tale forma, mi aveva avvolto.
Sotto il suo sguardo
incantato, avevo poi cominciato a suonare come non avevo mai fatto,
probabilmente perché, in cuor mio, ero sempre stato un
esibizionista
ammaliatore e volevo che da quella mia esibizione ne restasse
esterrefatto.
Oltre ad Henry, però, fino a quel momento nessun altro aveva
mai avuto il
privilegio di sentirmi suonare. C’erano stati sì
momenti in cui da giovane
avevo intrattenuto mio padre con la cornamusa, ma quei tempi erano
ormai un
ricordo che andava pian piano svanendo.
Avevo dunque trovato strano il mio
aver un pubblico così giovane, da poco entrato nei primi
anni della pubertà.
Bastava che muovessi anche soltanto di poco le mani e lui le seguiva
con lo
sguardo, quasi rapito, intonando di tanto in tanto qualche bassa
melodia
sfruttando le vibrazioni delle corde vocali. Ne era uscita una musica
senza
alcun senso, in realtà, ma nessuno di noi due, quel giorno,
aveva aperto bocca per
farlo notare all’altro.
Forse ciò che mi fa ancora
ridere
è il fatto che fosse ormai divenuto quasi un rituale per
entrambi. Quando la
sera ritornavo nell’appartamento mi si presentava dinanzi
agli occhi sempre la
stessa scena: Henry seduto sul proprio sgabello, intento a dipingere
con una
concentrazione tale che sembrava fuori dal mondo, e William al piano
che lo
intratteneva con la sua musica, come un tempo facevo io, esercitandosi
persino
nella Sonata in Sol maggiore [1].
Non
appena si accorgevano della mia presenza si voltavano entrambi a
guardarmi, e
quello che era ormai diventato il mio piccolo tesoro mi sorrideva e,
scendendo
dallo sgabello, mi correva in contro, afferrandomi una mano per
portarmi al
piano lui stesso.
Era una delle poche libertà
che
gli concedevo, quella. Sapevo quanto amasse sentirmi suonare, quasi
più di
quanto non adorasse vedere Henry dipingere. Fino a quel momento non
aveva mai
visto un quadro, o almeno così ci aveva raccontato. Aveva
solo qualche vago
ricordo di quella musica particolare che di tanto in tanto si dilettava
a
suonare, ma non rammentava da dove essa provenisse.
Anche chiedergli della sua
famiglia non aveva portato a nessun passo avanti. Sapeva soltanto che i
suoi
genitori erano entrambi morti a causa di una malattia genetica, ma non
aveva
idea di quanto tempo avesse passato per strada. Guardando i calli sulle
sue
dita si poteva pressoché dedurre che, fin da piccolo, aveva
compiuto in nero
qualche lavoro manuale, però era difficile capire quando
avesse realmente iniziato.
Molto probabilmente la figura più vicina ad un padre che
aveva avuto in
quegl’ultimi anni, era stato un certo Beaver, uno dei ragazzi
che avevano
occupato con lui la catapecchia in cui aveva vissuto fino a quel
momento. Ci
aveva raccontato che era stato questo Beaver a provvedere a loro,
pensando lui
stesso a rubare del cibo per farli mangiare. A portarlo via era stata
la
malattia, e lui e gli altri bambini erano rimasti nuovamente soli.
Forse era
anche per quel motivo che molti avevano deciso di andare al Foundling,
chi
poteva dirlo. Su questo punto, William non era stato mai abbastanza
chiaro.
La malattia, però, a dispetto
di
ciò che noi tutti avevamo creduto, non aveva risparmiato
neanche lui. Quel
bagliore morente, che sempre più di frequente gli vedevo
negli occhi, ne era la
prova tangibile. Spesso, sempre più spesso, sembrava
sforzarsi nel mettere a
fuoco oggetti e persone, e a nulla era servito munirlo di un paio
d’occhiali.
Solo in seguito scoprimmo che quel suo problema era legato ad una
malattia
della vista [2],
ma a quel tempo non c’era alcun modo per curarla. Ai giorni
nostri basterebbe
intervenire chirurgicamente per sostituire il cristallino, ma, nel
novecento,
chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? Io non conoscevo nulla
di
medicina, e anche sapendo almeno le basi non avrei comunque potuto far
nulla
per far sì che la vista di William migliorasse.
Io ed Henry potevamo soltanto
assistere impotenti all’avanzamento progressivo di quella
malattia che lo
privava, giorno dopo giorno, del senso visivo. Se ci fossimo realmente
trovati
tutti e tre in questo ventunesimo secolo, nel piccolo appartamento
a St.
Louis che utilizzo quelle rare volte in cui, come adesso, mi ritrovo a
mettere
nero su bianco le esperienza vissute in tutti quegl’anni,
probabilmente il mio
William non avrebbe sofferto in quel modo.
Aveva perso quasi del tutto la
vista all’età di diciassette anni. Compiva sforzi
sempre maggiori, e nemmeno il
mio decidere di portarlo in giro per il mondo era servito a qualcosa.
Volevo che
vedesse le bellezze delle città europee prima che non
potesse più farlo, ma
nonostante la felicità iniziale che gli si dipingeva in viso
quando si
ritrovava a vedere cose come la Chiesa di S. Mattia [3]
a
Budapest, la Oude Kerk [4]
di
Amsterdam o l’interno del Louvre [5]
a Parigi
e i suoi meravigliosi quadri, nulla poteva nascondere ad entrambi la
realtà
della situazione. Ma lui aveva affrontato quel suo destino a testa
alta, senza
smettere un solo istante di vivere e sorridere.
Se ci ripenso adesso, non
l’avevo
mai sentito lamentarsi. Mai una volta che avesse fatto una qualche
scenata, che
avesse pianto disperatamente o imprecato contro una qualsiasi
invisibile
presenza. Niente. Semplicemente, aveva accettato il fatto che sarebbe
diventato
cieco e che, con molta probabilità, la malattia che
l’aveva privato dei suoi
genitori avrebbe portato via anche lui. Non sapeva quando sarebbe
accaduto e
nemmeno gli interessava, quel che aveva fatto era stato solo continuare
a
godersi ogni singolo giorno o attimo che si susseguiva, uscendo sempre
più
spesso e volentieri e riuscendo persino a portarsi dietro Henry, che da
quanto
ricordassi non aveva visto la luce per anni.
Quel pittore stravagante non era
stato per niente contento della decisione di William, ma
l’aveva assecondato
soltanto in onore di quell’affetto che aveva cominciato a
provare per lui. E in
fin dei conti lo comprendevo. Avevamo visto quel bambino crescere,
diventare
quasi un uomo, maturare dinanzi ai nostri occhi. Ma quella
spensieratezza e
quell’innocenza che l’avevano sempre caratterizzato
non era mai scomparsa,
anzi, sembrava persino essersi rafforzata.
E c’erano momenti in cui lo
guardavo da lontano, mentre se ne stava semplicemente seduto sul
pavimento tra
fogli e scatoloni a leggere, o quando ci ritrovavamo ad uscire tutti e
tre
insieme per dirigersi al Victoria Park [6],
dove
si accomodava accanto ad Henry e l’osservava dipingere quei
nuovi soggetti che
richiamavano spesso l’attenzione di molti. Era rapito dal
modo in cui
rappresentava su tela l’enormità degli spazi verdi
presenti in quel parco, o
quando si concentrava sui laghetti e sulle piccole onde create a pelo
d’acqua
dalle folaghe. E io lo vedevo lì, seduto vicino al pittore,
un esserino entrato
nella nostra vita senza nessuna ragione, ma che sembrava aver portato
un po’
d’equilibrio nella vita di entrambi. C’erano
momenti, però, in cui metà della mia
anima non riusciva a sopportare la sua vicinanza, ed era proprio in
quelle
occasioni che mi allontanavo per giorni e giorni da loro, cercando
conforto per
quel mio cuore maledetto.
Fu proprio durante quei periodi
che uccisi il primo essere umano e ne assaporai il sangue. Era stato un
furfante e un uomo di poco conto, in realtà, ma il privarlo
della vita innescò
in me una reazione spaventosa. La bestia aveva cominciato a ribollire e
a
chiedere sempre di più, godendo del sapore malvagio che
possedeva l’anima di
quello sventurato. Ma la mia ragione, quella parte umana che era morta
in
quello sprazzo d’erba in mezzo al nulla delle Highland secoli
prima, aveva
cercato in tutti i modi di ricacciarla indietro. E non ero tornato a
casa
finché non ci ero realmente riuscito. Avevo passato giorni
d’inferno,
attimi in cui sentivo il cuore battere forte e vedevo le vene dei polsi
pulsare
contro la pelle sottile, ed ero sempre stato più che sicuro
che, se mi fossi
visto allo specchio, l’immagine che quell’oggetto
avrebbe riflesso non sarebbe
stata quella a cui ero sempre stato abituato. Se sono qui a raccontare
tutto
questo, lo devo solo alla mia forza di volontà, che mi aveva
fatto ricordare chi
ero stato e non cos’ero diventato.
La paura che ciò potesse
succedere
ancora, però, al principio si era insinuata nel mio animo.
Spesso, quando
vedevo William in compagnia di Henry, dentro di me montava una rabbia
così
cieca che mi ci voleva tutto il mio autocontrollo per ritornare in me.
A quel tempo non potevo sapere che
quella sorta di gelosia era dovuta al sentimento che, nel mio essere,
avevo
cominciato a nutrire per William. Dirlo adesso ad alta voce non mi fa
più lo
stesso effetto che mi faceva durante quei giorni, ma, anche a causa
della
mentalità dell’epoca, per me era stato
più che difficile da accettare. Non
potevo credere che io potessi provare sentimenti simili per un
ragazzino. E non
soltanto per il semplice fatto che, in fin dei conti, ero un mostro. Lo
trovavo deplorevole, immorale, oltremodo controproducente, e il solo
pensare che quei miei pensieri
e
sentimenti potessero sporcare un’anima candida come la sua,
mi mandavano
letteralmente in bestia.
Se fosse stato l’animo di
qualcun
altro... non mi sarei fatto problemi, lo ammetto. In fondo, che senso
avrebbe
avuto? Adesso che comprendo cosa sono davvero, me ne importa
relativamente
poco. Avrei potuto anche contaminare ogni singola anima delle persone
che
abitavano a Londra, ma non la sua. La sua doveva restare immutata e
così era
stato, fino al giorno in cui si era spento per sempre e ci aveva
lasciati
entrambi.
Ricordo perfettamente
quegl’ultimi
anni, quei momenti in cui, durante la notte, ci sedevamo in un angolo
impolverato della stanza e, con il solo ausilio d’una lampada
ad olio,
illuminavamo quel piccolo rifugio e cominciavamo a leggere, aiutando
anche
William a farlo quando la vista gli si stancava troppo. Oppure quando,
mentre
Henry dipingeva come suo solito, noi due occupavamo il nostro posto,
dinanzi al
piano, e io gli guidavo le mani sui tasti giusti finché non
ne imparava le
posizioni, cosicché potesse suonare liberamente pur non
potendo vedere alla
perfezione. Imparò ben presto ad improvvisare la Sonata
anche ad occhi chiusi
sebbene il risultato fosse tutt’altro che soddisfacente,
visto il modo in cui
suonava di solito. Eppure non per questo si perdeva d’animo,
insistendo ancora
e ancora finché non crollava quasi mezzo addormentato sulla
tastiera. E a quel
punto era Henry a metterlo a letto, augurando frettolosamente la
buonanotte
anche a me prima di coricarsi a sua volta. Ma io non dormivo. Io
vegliavo su
quel mio piccolo tesoro che dormiva placidamente, stanco ma felice. Il
viso
bambinesco e spettrale con cui l’avevo conosciuto aveva
lasciato spazio ai
futuri lineamenti d’un uomo, ma nessuno di noi tre, a quel
tempo, avrebbe mai
potuto sapere che non lo sarebbe mai diventato.
A volte, quando lo sentivo parlare
con Henry mentre io accordavo il piano, si ritrovava a chiedergli come
mai non
avesse ancora famiglia, ricevendo sempre la solita risposta.
«Non fa per me», diceva Henry,
e quello io non lo contestavo affatto. Come padre se l’era
cavata bene, non lo
negavo, ma non ce lo vedevo proprio ad occuparsi a tempo pieno
d’una famiglia
tutta sua. E William non insisteva oltre, fantasticando però
su come sarebbe
stato l’aver moglie e figli, lasciando dentro di me una
bizzarra sensazione
d’amarezza. Quando poi era Henry a rigirargli la domanda,
chiedendogli se lui
avesse voluto metter su famiglia, William rispondeva che aveva
già tutto e che dunque
non gli interessava. La verità era che sapeva che avrebbe
solo fatto soffrire
la donna che avrebbe sposato in futuro, lasciandola da sola troppo
prematuramente. Era un ragazzino e già ragionava come un
uomo, in alcuni
momenti. Quella, però, era una cosa che mi rendeva
orgoglioso
di lui, e che non
faceva altro che rafforzare ciò che avevo già
cominciato a provare anni
addietro.
Forse quella mia convinzione fu
intensificata anche da William stesso, persino oggi non saprei darmi
nessuna
risposta. Ma quella lontana sera la ricordo ancora, ed è
tuttora il ricordo più
prezioso che ho di lui.
Avendo cominciato a dipingere
per strada, Henry era stato subito notato da un grande stimatore
d’arte
dell’epoca, il cui nome in questo momento mi sfugge. Era
stato dunque invitato
a presenziare al sontuoso banchetto che l’uomo avrebbe tenuto
nei pressi della
sua residenza, lasciando me e William da soli in casa nonostante la
riluttanza
che l’aveva animato. Non se la sentiva di andarci, infatti,
ma non perché
temesse un possibile pubblico. Essendo peggiorato, William aveva
cominciato a
vedere unicamente le sagome di cose e persone, e la febbre che aveva
contratto
a causa del freddo non aveva giovato. Si era convinto solo dopo molte
insistente del malato in questione, che lo aveva rassicurato come solo
lui
sapeva fare. C’ero io con lui, aveva detto, e ciò
aveva fatto sì che Henry si
decidesse.
Ore dopo avevo controllato che
William si fosse addormentato, e avevo cominciato a suonare da solo
come ormai
non facevo da tanto, chiudendo persino gli occhi per aiutare la
concentrazione.
E mi ero letteralmente estraniato dal mondo, giacché non
avevo nemmeno
avvertito l’arrivo di William poco tempo dopo. Non aveva
fatto nessun rumore e
mi si era avvicinato, restando semplicemente immobile fino a quando non
mi ero
reso conto della sua presenza.
Non avevo smesso di suonare, ma
avevo soltanto lanciato un’occhiata nella sua direzione prima
di tornare a
fissare distrattamente dinanzi a me. «Cosa stai ascoltando,
mo chridhe [7]?»
gli
avevo chiesto in tono scherzoso, avendo intravisto nei suoi occhi
ormai
opachi un baluginio di serenità. E lui, socchiudendo le
palpebre
e sorridendomi, mi si era avvicinato per prendere posto al mio fianco,
stando
attento ad ogni singolo passo che faceva.
«La tua
musica», aveva sussurrato
poi. «È allegra e
vivace, ma fra le note nasconde
anche tristezza e malinconia».
Quelle sue deduzioni mi avevano
fatto sorridere a mia volta, a dir poco compiaciuto.
«È una
vecchia canzone
del mio paese natale», gli avevo confessato. «Fino
a questo momento, non l’avevo
mai suonata con uno strumento del genere».
«È
bella», una constatazione
semplice e chiara, pura e cristallina come l’acqua
d’un ruscello delle
Highland. «Mi piacerebbe vedere la tua casa, un
giorno».
Ma sapevamo entrambi che quel
suo desiderio non si sarebbe mai realizzato. Anche se
l’avessi portato in
Scozia, quella Scozia che non visitavo da secoli, lui non sarebbe mai
riuscito
a vederne le bellezze, ad accarezzare con gli occhi le brughiere e le
lowlands.
«Ti ci porterò, mo
gille».
Quelle erano false speranze, lo sapevamo bene, ma avevo lo stesso
continuato a
parlare. «Ti sveglierai tutte le mattine con il canto della
pernice bianca,
che si poserà sul davanzale della tua finestra; verrai
accarezzato dal piacevole vento che si innalza dalle brughiere,
sentendone la frescura sulla pelle,
e vedrai
quegli stessi luoghi sprizzare vita e colori, uno spettacolo che lascia
senza
fiato ogni nuova estate; ci dirigeremo sui gran piani, lungo la costa
occidentale dove ogni zona pullula di rododendri e azalee, e ti
mostrerò le
macchie di felci e i cespugli di ginestre, spiegandoti le loro
proprietà; ti porterò nei
boschi, così che tu
possa osservare i pini e i larici più alti e robusti che tu
abbia mai visto, e
andremo a caccia di lepri e volpi, di cervi rossi e di galli cedroni, e
ti farò
sentire il buon profumo degl’iris selvatici. I miei occhi
saranno i tuoi occhi,
e assaporerai quella libertà che solo nelle Highland
è possibile trovare».
Gli avevo visto spuntare un
nuovo luminoso sorriso sulle labbra, a quelle mie parole, e nonostante
l’espressione sul suo viso fosse apparsa triste e spaesata,
era stato con
quello stesso sorriso che si era voltato a guardarmi con quei suoi
occhi ormai
privi di luce.
«Fammi innamorare di questo
tuo
mondo, Seumas», mi aveva proposto, pronunciando il mio
nome per la prima
volta e con voce ferma e melodiosa. «Fammi innamorare del tuo
mondo, della tua
casa, di tutte quelle bellezze a cui hai appena accennato. Fammi
innamorare
della tua musica».
Fammi
innamorare della tua
musica. Quali pretenziose parole. Ma erano state proprio
quelle a farmi
capire quale fosse stato, tempo addietro, il sentimento che mi aveva
spinto a
tenerlo con me anziché cacciarlo. Probabilmente,
però, se l’avessi fatto, non
avrei sofferto in quel modo non appena ci lasciò.
Si era spento del tutto a soli
diciannove anni. Aveva tenuto duro finché aveva potuto,
continuando a dar vita
a quella musica assurda e geniale che era stata la sua vita fino a quel
momento, ballando su di essa quel che restava dei suoi anni e
assaporando la
felicità fin dove gli era stato concesso.
Ma era soltanto un essere umano, e
il suo orologio interno si era fermato del tutto. Non avevo fatto
nemmeno in
tempo a realizzare quel suo ultimo desiderio, quello di portarlo nella
mia
bella e amata Scozia. In un primo momento non ero quasi riuscito a
crederci, in
realtà. Sembrava che mi rifiutassi di assimilare quella
notizia,
quell’avvenimento che aveva accartocciato il nostro piccolo e
idilliaco mondo.
Se io non avevo accettato il
concetto della sua morte, Henry era stato letteralmente distrutto dal
dolore.
Aveva cresciuto quel ragazzo come un figlio, accudendolo nei lunghi
mesi in cui
io partivo per i miei viaggi, e il rendersi conto che ormai non
c’era più aveva
intaccato quel poco equilibrio mentale che gli era rimasto. Il dolore
l’aveva
reso folle, e non passarono molti anni prima che, forse stanco di
vivere con
quella pazzia in corpo - che non gli permetteva neanche più
d’esprimere la sua
arte, la sola cosa che avesse mai fatto -, si togliesse la vita. Ed io,
nuovamente solo, non ero riuscito a restare un attimo di più
in
quell’appartamento pregno di ricordi.
Avevo solo voluto provare a
dimenticare, in seguito. Quando nella mia mente tornavano a
riaffacciarsi
prepotentemente quei momenti vissuti come un comune essere umano, la
metà più
debole della mia anima cadeva in pezzi. In realtà parecchie
cose le ho
volutamente dimenticate per non soffrire, anche se ammetto che questa
è una
cosa che è servita a ben poco. I ricordi più
dolorosi e tristi sono rimasti, proprio
come quello legato al mio ritorno a casa, ad esempio.
Non avevo dimenticato neanche per
un istante la promessa che avevo fatto al mio William. Prima che il
destino ce
lo strappasse così violentemente via, rubando
quell’anima che con tanta fatica
avevo coltivato negli anni, gli avevo promesso che l’avrei
portato alla mia
casa, in Scozia. E anche se così non era stato, ero comunque
partito dopo
secoli di lontananza per tener fede a quel patto.
La sensazione che provai nel
rivederla è tuttora impossibile da definire. Nonostante
fosse
passato tutto quel tempo,
erano ben poche le cose che erano cambiate davvero: volgendo lo sguardo
a quel
cielo azzurro che sovrastava le Highland, avvolte nella quiete come
secoli or
soro, si potevano vedere le pernici e gli altri uccelli che si
libravano liberi
in volo, sempre più su fra quelle nuvole soffici e bianche
mentre si lasciavano andare ai loro canti e stridii; bastava poi
abbassare le palpebre e, figurandosi quelle meravigliose lande nella
mente, respirare a fondo per sentire i mille odori
della
brughiera, e udire i richiami degli animali che popolavano i dintorni.
Uno
spettacolo magico che mai avrei pensato di rivedere ancora, e che avrei
tanto
desiderato poter vedere con lui, con William, il pallido fantasma da
cui
ero stato ammaliato.
«Siamo a casa, mo
chridhe», avevo
sussurrato al vento, sentendolo carezzarmi le guance con dita
leggere e delicate velate di tristezza.
«Siamo a casa».
E da quel momento in poi, seppur
separati dal tempo e dalla morte, lo saremmo stati davvero.
DÈ
A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE?
FINE
[1]
Venne composta tra l’estate e
l’autunno
del
1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in
Re maggiore,
anch’essa si suddivide in tre tempi.
[2]
La malattia a cui si fa riferimento è la cataratta.
Consiste nell’opacizzazione del cristallino, che conduce alla
progressiva
perdita della vista. È
più frequente con
l’avanzare dell’età, ma ci sono anche
casi di cataratta in età più giovane.
I sintomi sono generalmente
caratterizzati da un offuscamento visivo globale, ma il disturbo della
vista è
tanto più evidente quanto più estesa e
più intensa è l’opacizzazione del
cristallino.
La cataratta totale rende
praticamente ciechi ed è necessario intervenire
chirurgicamente, sostituendo il
cristallino opacizzato con una lente artificiale intra-oculare,
posizionata
dietro all’iride. In passato erano stati commercializzati
colliri destinati a
rallentare il processo di opacizzazione del cristallino, ma tali
prodotti nel
tempo non hanno dimostrato una reale efficacia clinica.
[3]
Si erge sulla piazza della Santissima Trinità, e
nonostante si chiamata con il nome dell’apostolo Mattia,
l’edificio è dedicato
alla Madonna.
Fu costruita tra il 1255 e il
1269 per la volontà del re Béla IV
d’Ungheria. Nel 1541 venne trasformata in
una moschea dai turchi, per poi passare ai gesuiti. Nel 1873 e il 1896
fu
oggetto di restauri da parte dell’architetto Frigyes Schulek,
che la ricostruì
parzialmente in stile neogotico.
E’ uno degli edifici più
interessanti della città di Budapest e patrimonio artistico
e turistico della
città.
[4]
In olandese
significa “Vecchia chiesa”, ed è
l’edificio parrocchiale più vecchio di
Amsterdam.
Fu consacrata nel 1306
dal vescovo di Utrecht, e le sue fondamenta vennero gettate su un
cumulo
artificiale, ritenuto il terreno più solido in quella
provincia paludosa.
Il disegno originale dell’edificio
era audace e la chiesa era in piedi da solo mezzo secolo quando vennero
fatte
le prime modifiche, le navate laterali vennero allungate e avvolte
attorno al
coro a semicerchio, così da sostenerne la struttura.
Non molto dopo l’inizio del
XV secolo alla chiesa vennero aggiunti i transetti nord e sud, creando
la
pianta a croce. Il lavoro su questi rinnovamenti venne completato nel
1460,
anche se è probabile che l’avanzamento venne
interrotto dai grandi incendi che
colpirono la città nel 1421 e nel 1452.
[5] È
uno dei più
celebri musei del mondo, e come se non bastasse la vera origine del
termine
Louvre è dibattuta.
Il palazzo che ospita il museo fu originariamente
costruito durante la dinastia dei Capetingi, sotto il regno di Filippo
II, e
attualmente la collezione del museo comprende alcune delle
più famose opere
d’arte del mondo, come la “Gioconda” e la
“Vergine delle Rocce” di Leonardo da
Vinci, “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis
David, “La Libertà che
guida il popolo” di Eugène Delacroix, la
“Venere di Milo” e la “Nike” di
Samotracia.
[6]
Situato
nella zona dell’East End, è uno dei parchi
comunali della città di Londra.
Il parco fu aperto al
pubblico nel 1845. Questo grande parco è simile a
Regent’s Park ed è
considerato da alcuni come il miglior parco dell’East End.
È attraversato su
due lati da canali: il Regent's Canal e l’Hertford Union
Canal.
In esso sono rimasti pezzi
del vecchio London Bridge, demolito nel 1831, posti accanto
all’Hackney Wick,
monumento celebrativo della Seconda guerra mondiale.
[7]
Letteralmente significa “Cuore mio” ed è
gaelico
scozzese. Si tratta inoltre di un ovvio richiamo
al titolo che fa da completo perno al racconto.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa storia ha
partecipato al contest indetto da Ale2 e ThePhantomAgony,
“Citazioni
di Alessandro Baricco”, e si
è stranamente classificata prima.
Viene quasi da chiedersi come
diavolo sia venuta fuori una roba del genere, in verità.
Ebbene, non ne ho la
più
pallida idea nemmeno io, se devo essere sincera.
Potrei dire che quando ho
letto la frase che ho scelto e che ho seminato un po’ ovunque
nella storia, tipo
in questo passaggio “La
sua vita, fino al momento del nostro incontro, non
aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento.
[...]
come era accaduto per tutto il resto” o in
questo “Aveva
tenuto duro
finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica
assurda e geniale [...]
assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso”,
ho avuto una
sorta di visione, ma sarebbe quasi come mentire. Non lo so affatto come
questa
storia sia stata stesa. Diciamo più che altro che
quando ho aperto il foglio Word, le parole sono scivolate da sole e
hanno preso vita propria,
sarebbe di
sicuro la versione più giusta. Riserva in sé un
pizzico
di me - come ogni mia storia, ma questa ne ha un po' di più
-, e
devo dire di essermi particolarmente affezionata a tutto il background.
Ammettiamolo: non tutti
i personaggi mostrati sembrano sani di mente... specialmente il
protagonista
principale, che non si capisce esattamente cosa sia. Avevo in mente una
spiegazione abbastanza illogica per spiegare la sua natura, dunque ho
voluto
giocare più sulle spiegazioni avvenute nelle note
anziché tentare di darne una
piuttosto incoerente io. Possiamo piuttosto prenderlo
come una sorta di cadavere posseduto da un demone, e dunque ancora in
grado di
muoversi, o come un hanyou. Per fare un esempio, basti
pensare a come sia nato Naraku di Inuyasha, sebbene a quei tempi si
pensasse
che la possessione demoniaca non fosse rara.
Avrei voluto dare una
spiegazione migliore, ma non c’è un vero e proprio
modo per spiegare la nascita
contorta di questo protagonista, di cui viene rivelato il nome soltanto
verso
la fine della storia. Se ci si fa caso, però, viene
vagamente accennata la sua natura, precisamente in questo pezzo
“Ma
d’altra
parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si
sarebbe
spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una
candela. Era come se
aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne
il
motivo. [...] Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui,
fremeva,
premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad
osservare, pronto a
ghermirla non appena si fosse liberata”. Nella
mia mente contorta, mentre
procedevo con la stesura, mi aveva in qualche modo ricordato quando
Sebastian
di Kuroshitsuji attende di gustare l’anima di Ciel. Dunque,
per l’appunto, può
essere considerato una sorta di demone.
Spero che in un qualche contorto modo vi sia piaciuta, vi lascio al
commento della giudice:
GIUDIZIO
Grammatica,
sintassi e stile: Credo mi troverai
estremamente breve nei miei commenti, ma come dire, mi hai preso
talmente tanto che non riuscirei ad essere prolissa nemmeno volendolo.
Non ho trovato errori, la storia è scorrevole, forse
soltanto
la lunghezza dopo un po’ può stancare il lettore,
ma letta in capitoli
separati e non tutta in una volta, credo dia tutt’altro
effetto. Non so
commentare, mi è sembrato tutto molto appropriato, dalla
scelta del
lessico, ai tempi che hai voluto dare alla vicenda. Forse
l’unico
appunto, da farmi meritare un ‘senti chi parla’
è l’uso delle virgole,
che in qualche caso mi sembrava errato, ma essendo anche io confusa su
questo tema non mi sento di farlo valere come errore.
Voto: 9,5
Originalità: Qui potrei
scrivere un tema, ma non lo farò, tutta la fan fiction per
me
è
originale, dai personaggi, alle interazioni che hai creato tra di loro,
dall’attenzione incredibile che hai dato a tutti i
riferimenti che hai
messo, all’atmosfera forse un po’ gotica del tutto,
alla vicenda
stessa. Non riesco a commentare con parole più positive,
anche la
relazione che hai fatto instaurare tra i due protagonisti,
così velata,
è decisamente perfetta.
Voto: 9
Personaggi: Adorati tutti dal primo all’ultimo.
Dal protagonista ed il suo
cambiamento in una soprannaturalità che non conosce ma che
è costretto
a vivere, al pittore in cerca d’ispirazione che poi con il
piccolo
William finisce per diventare paterno e si lascia coinvolgere in una
maniera inaspettata e totalizzante. E poi William, mi ha davvero
coinvolto in una maniera inaspettata, è semplice ed ingenuo
come vuole
la sua età, però riesce a capire cose che nemmeno
i due improvvisati
genitori capiscono, soprattutto direi ‘ti strappa
l’amore dal cuore’.
Un’originale è terribile quando si tratta di
caratterizzare personaggi,
perché non si ha mai la certezza di quello che il lettore
percepirà, io
dico che è stato un lavoro che ha fatto entrare i tuoi
personaggi
dritti nella mia testa.
Voto: 9,5
Uso
della citazione: Ammetto
che su questo campo ho dovuto rileggere la fan fiction ed i tuoi
commenti più volte per riuscire a capire come
l’avevi inserita. Poi ho
avuto l’illuminazione e devo dire che è stato un
modo molto elegante
per inserire una citazione estremamente complessa.
Anche qui mi ritrovo a parlare poco, forse avrei enfatizzato
ancora di più i passaggi in cui risulta chiara
l’ispirazione dovuta
alla frase scelta, ma è un commento personale, quindi
assolutamente da
prendere come un’annotazione.
Voto: 8,5
Totale: 36, 5
Spero alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
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