Nel Buio di Keyra93 (/viewuser.php?uid=95676)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Primi incontri ***
Capitolo 2: *** Notte Insonne ***
Capitolo 3: *** La libertà di un'ombra ***
Capitolo 1 *** 1. Primi incontri ***
Nel Buio, 1-Primi incontri
Altra fic sul Fantasmone... sono proprio
originale, eh? Modestamente.
Tre piccoli capitoli per descrivere un
po’ cosa provano Erik e l’allora giovine Madame Giry all’arrivo di lui al
Teatro. Be’, ovviamente mi concentrerò più su di Erik... ma questi sono dettagli!
Scritta principalmente per farmi
perdonare dal Maestro (ho osato dire di preferire l’Erik del libro... non
ripeterò più lo stesso errore xD), alla fine era un’idea carina e sono
contenta. Ma ricevere commenti, idee, critiche, pareri è sempre salutare: siete
i benvenuti!
Detto ciò, enjoy.
NEL BUIO
CAPITOLO 1 -
PRIMI INCONTRI
Sembrava
essere fatto per l’oscurità.
Non era mai stato in quel posto, mai aveva vagato in quei
corridoi bui e apparentemente impenetrabili, eppure non si era mai sentito così
a casa. Sembrava che le ombre volessero accoglierlo, nasconderlo da tutti, da
quella ragazza che lo conduceva sempre più lontano dalla luce, dall’aria
notturna accesa da stelle e lampioni, dal suo passato, presente, futuro, da se
stesso. Da tutto. Mentre lei, la strana ragazza, sembrava diventare ogni
momento più inquieta e spaventata da quel buio, lui si ritrovava sempre più a
suo agio. Nonostante il sacco che portava ancora sulla testa, riusciva a
discernere ciò che lo circondava - lei no, ne era certo - e in ogni angolo
vedeva una scappatoia, una via inesplorata, un nascondiglio. Quel posto, quel
teatro... era affascinante.
Era un ragazzo, così mingherlino poi che lo avrebbero certo
scambiato per un bambino, se qualcuno l’avesse osato guardare... eppure, non
era facile affascinarlo davvero. Certo, ogni cosa nuova esercitava su di lui un
iniziale fascino, quel fascino che ogni mente curiosa e grande come la sua non
poteva non avere per lo sconosciuto; ma presto la cosa perdeva di rilevanza,
perché il ragazzo arrivava a conoscerla in ogni suo dettaglio. E qualcosa che
conosceva raramente poteva rimanere affascinante, per quei suoi occhi così
affamati di novità. Eppure... eppure quel luogo sembrava così bello nel suo
essere buio e nulla, che fu sicuro che avrebbe sempre potuto ritrovare quella
sensazione di sconcerto e ammirazione che cresceva in lui passo dopo passo, in
qualunque momento fosse tornato a visitarlo. La fanciulla invece sembrava così
spaventata... la vedeva agitarsi, guardarsi intorno, sembrava terrorizzata. Di
cosa poi? Credeva forse che qualcuno si aggirasse per quei cunicoli? Era così
sconvolta che Erik non riuscì a reprimere un ghigno di scherno. Per poi
pentirsene subito dopo.
Mi ha salvato la vita.
Ho appena ucciso un uomo, di fronte ai suoi occhi. E mi ha salvato la vita.
Sono davvero un mostro, se rido di lei.
Il ghigno si trasformò immediatamente in una smorfia amara, che
quelle labbra conoscevano fin troppo bene: la smorfia che si era abituato ad
avere in faccia, per evitare la disperazione completa. Era arrivato a
schernirsi da solo, tante volte, per tenere le mani a freno e non attorno al
collo dei suoi aguzzini... o al suo stesso. Aveva subito tutte le loro
angherie, gli sputi, le bastonate, le urla; aveva sopportato tutto, godendo dei
momenti di pace per leccarsi in fretta le ferite e potersi guardare attorno,
ansioso di utilizzare quel genio che chissà chi gli aveva donato. In tutti i
modi aveva cercato di ingannare gli zingari, riuscendo il più delle volte a
rubare loro qualche rara leccornia - tutto
era meglio di ciò che gli somministravano sotto il nome di “pasto” - e a
guadagnarsi qualche attimo di pace, di solitudine, di silenzio. E col tempo il
silenzio si era trasformato in musica... aveva presto scoperto la meraviglia
della propria voce, come gli potesse tenere compagnia nei momenti più oscuri e
disperati, come potesse fargli sembrare di poter volare, di poter essere
libero. E alla fine qualcuno l’aveva sentito: ancora oggi malediva quel momento
in cui non si era trattenuto e aveva cantato quand’era ancora troppo vicino
all’accampamento... quando gli zingari gli comunicarono che sarebbe diventato
il loro personale canarino, da esibire come fosse uno strumento oltre che il
Figlio del Diavolo, aveva preso seriamente in considerazione l’idea di scappare
una volta per tutte; ma, come al solito, era stato zitto e aveva obbedito,
maledicendo ogni persona e divinità che avesse avuto mai a che fare con la sua
vita. Era sempre stato zitto, sempre aveva sopportato, sempre aveva fatto
passare tutto... tranne quella notte. Quella notte aveva ucciso lo zingaro.
E il momento dopo aveva saputo di essere perduto, perché due
occhi terrorizzati lo guardavano dalla fessura della tenda, increduli. La
selvaggia passione e l’orribile soddisfazione causata da quella vita terminata
fra le sue mani si era spenta sul momento, non lasciando che disperazione
dietro di sé: sapeva di non avere più scampo, sapeva che l’avrebbero ucciso. E invece
lei l’aveva salvato. Chissà perché poi, si chiese il magro ragazzo, mentre
interrompeva bruscamente la sua corsa nei bui cunicoli, la ragazza
improvvisamente bloccata e tremante come una foglia.
“Qui sarai al sicuro... non farti vedere, per favore, e non
dire a nessuno che ti ho portato qui...”
La voce le tremava, e continuava a guardarsi intorno, gli
occhi che schizzavano da una parte all’altra di quel buio rischiarato solo
dalla piccola lampada che teneva in mano.
“Perché?”
Lei lo guardò stupefatta, e per un attimo il terrore sembrò
sparire dal suo volto. Il ragazzo riconobbe in quegli occhi lo stesso stupore
che fin troppa gente provava al sentire la sua voce... una voce d’angelo in un
corpo da diavolo, come lo schernivano i suoi aguzzini. O per meglio dire,
ex-aguzzini.
“Perché... perché non dovresti essere qui, insomma! E io non
ho il permesso di far entrare sconosciuti e dovrai rubare da mangiare alle
cucine e io non voglio...“
“Perché mi hai aiutato?” Disse lui piano, cercando di essere
il più gentile possibile. Probabilmente non ci riuscì: la vide tentennare e
distogliere lo sguardo, mentre si dondolava per un attimo sulle gambe.
Ovviamente, aveva paura di lui...
“Perché... non mi sembrava giusto, è chiaro. Sei solo un
ragazzino, e ti trattavano come un fenomeno da baraccone, o peggio come... come
un...”
“Mostro.” Completò lui. La ragazza non lo guardò, ma scosse
piano la testa; sembrava tutt’a un tratto triste.
“Mi dispiace.” sussurrò piano, e questa volta fu lui a
stupirsi. Le dispiaceva? E di cosa? L’aveva salvato! Doveva essere lui a
dispiacersi, dispiacersi che lei l’avesse visto, che si fosse messa in pericolo
per un demonio come lui. Non ne valeva la pena, lo sapeva bene... del resto,
prima o poi sarebbe dovuto scappare via, e qualcun altro l’avrebbe reso il suo
personale mostriciattolo da mostrare in giro per il mondo a guadagnare... ebbe
un moto di rabbia al pensiero che non avrebbe mai potuto godere di quella
libertà, quella normalità che tutti
davano così per scontata. E che lui non aveva mai conosciuto.
“Be’, come ti chiami?”
Lui la guardò perplesso, due paia d’occhi che si studiavano
a vicenda nell’oscurità. Sembrava interessata a lui... eppure vedeva l’ombra
della paura che non lasciava il suo sguardo.
“Erik.”
“Io sono Eloise... piacere” disse lei, tendendogli una mano
incerta. Lui spostò lo sguardo su quella mano che gli veniva offerta,
apparentemente così semplice e chiara. C’era forse un trabocchetto? L’aveva
ingannato e portato in un’altra trappola? Perché sembrava fidarsi di lui,
quando lo aveva appena visto uccidere un
uomo? Cercò di non pensarci, per non vomitare, e passò lo sguardo dalla
mano agli occhi di lei. Sembrava sorridergli, incoraggiante... e
improvvisamente il giovane fu preso da un’idea. Le strinse la mano in silenzio,
e quando lei la ritirò, spostando lo sguardo all’intorno nervosamente, lui prese
a parlare piano ma con chiarezza.
“Questo posto mi piace. Ho deciso che voglio rimanere qui...
l’oscurità è più accogliente dei fuochi degli zingari.” Lei ora lo guardava in
silenzio, gli occhi ancora vagamente spaventati ma ora attenti. “Non avrò
bisogno di molto, non sono abituato a mangiare troppo. Adesso esplorerò ancora
questo luogo, ma mi sembra pericoloso... tu torna pure a casa tua. Non ho più
bisogno di te.” Si voltò, volgendole le spalle, e cominciò ad addentrarsi più
in fondo, ormai certo che sarebbe scappata via di corsa. E quando sentì la mano
di lei sulla sua spalla, le afferrò il polso con velocità impressionante,
l’altra mano pronta a colpire; ma si fermò immediatamente, vedendo lo sguardo
preoccupato e insieme categorico della giovane.
“Avrai bisogno di una mano. Vediamoci domani... ti porterò
qualcosa da mangiare e da bere...”
“Non senti questo rumore anche tu?” Lei lo guardò smarrita,
e lui continuò, sbuffando leggermente e lasciandole il polso. Muovendo
vagamente la mano verso la posizione opposta a quella da dove erano venuti, “da
quella parte c’è dell’acqua,” disse, “quindi non preoccuparti per il bere. Per
un po’ mi accontenterò di quella, per il futuro mi arrangerò da solo. Non sono
solo un mostro, sono anche un mostro geniale!” Terminò la frase con un accento
amaro, un piccolo ghigno sulle labbra; labbra che lei non poteva vedere... e
non poteva che esserne contenta, rifletté lui.
“Ma magari non è pulita, magari non...”
“Credi sul serio che l’acqua degli zingari lo fosse?” Lei
abbassò lo sguardo, imbarazzata, mentre lui tornava a voltarle le spalle.
“Torna a casa, ti dico.”
“Questa è la mia casa.”
Questa volta si girò lui, dopo qualche attimo di silenzio,
guardandola stranito.
“Abiti... in un teatro?”
“Sì,” rispose lei sommessamente, “sono un’apprendista
ballerina, e torno dai miei genitori solo nei finesettimana. Oggi è martedì,
quindi potremo vederci tutti i giorni ancora per almeno tre giorni...” Al
silenzio di lui, Eloise rispose con un debole sorriso. “Spero che ti possa
trovare bene qui...”
“Anche se ne dubiti,” terminò lui la frase ancora una volta.
Lei annuì, di nuovo il flebile sorriso sulle labbra, e lui continuò a guardarla
fisso per qualche momento di silenzio. Ancora non si spiegava perché lo
aiutasse... esisteva davvero la compassione, l’amore per il prossimo, che aveva
sentito predicati da un frate in una strada? O finiva tutto come aveva creduto
fino a quel momento - sotto un cumulo di botte senza alcun sorriso di
compatimento, proprio come quel frate, che aveva provato a convertire alla sua
religione alcuni zingari ubriachi? Sembrava che quella giovane ragazza volesse
dimostrargli che sì, esisteva qualcosa di diverso dell’odio e del rancore
insensati che tutti gli esseri umani avevano provato nei suoi confronti, fin
dalla nascita... Mia madre per prima.
“Be’ allora... ciao.”
Lui si limitò a continuare a fissarla, quel sacco che gli
copriva l’orribile volto a nascondergli anche la metà sana, la metà umana. Eloise
alla fine si girò, allontanandosi, tornando a casa... nella parte vivibile e
piena di luce del teatro.
“Eloise,” la chiamò piano. Lei si voltò a guardarlo,
incuriosita.
“Grazie.”
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Capitolo 2 *** Notte Insonne ***
Nel Buio, 2
NEL BUIO
CAPITOLO
2 - NOTTE INSONNE
Se ripenso a quegli
occhi, mi passa ogni voglia di dormire...
La giovane Eloise Giry tornò a girarsi, insonne, nel letto.
Erano un paio d’ore ormai che il suo corpo sembrava rifiutarsi di prendere
sonno, quasi volesse costringere la sua mente a direzionare tutti i propri
pensieri su di un unico argomento: Erik. Il ragazzo che lei aveva salvato, il
ragazzo sfigurato, il ragazzo così distante e serio da sembrare un adulto, e
così intuitivo e istintivo da sembrare un folle; il ragazzo che aveva ucciso un
uomo davanti ai suoi occhi.
I primi giorni aveva cercato in tutti i modi di mettere a
tacere quella coscienza che sembrava non volerle dare pace: si era limitata ad
aiutarlo col cibo, a chiedergli come stesse, a cercare di sorridergli
nonostante il timore che non riusciva a smettere di provare per lui. Forse un
giorno ci sarebbe riuscita... ma adesso era decisamente troppo presto. Si era
limitata a fare il possibile per lui, costringendosi però a pensare ad altro, a
concentrarsi sulla salute di lui invece che sulla propria preoccupazione per il
fatto in sé: stava aiutando un assassino! E non appena la sua mente sfiorò quel pensiero, tornò a
pensare che forse era stato tutto un errore, che forse avrebbe dovuto lasciare
quel folle lì dov’era, per essere catturato dalla polizia che fin troppo presto
aveva cominciato a cercarli... eppure sembrava la sua coscienza stessa ad
assicurarle di aver fatto la cosa giusta, un attimo dopo. Si strinse la testa
tra le mani, premendo le dita sulla fronte, quasi a voler cancellare con le sue
stesse mani tutti quei pensieri che la tormentavano.
Ripensò ai conati di vomito che aveva avuto al ricordo di
quegli occhi fuori dalle orbite, di quello sguardo terrorizzato, e
dell’espressione seria, composta, di Erik. Così composta... come poteva
rimarsene tranquillo pur sapendo di aver ucciso un uomo? Pur avendoli visti anche
lui, quegli occhi morenti e terrorizzati? Eppure non le era sembrato così
sconvolto, non le era sembrato disperato e addolorato, o schifato di se
stesso... le era sembrato solo... distaccato. Come se non fosse stato niente di
male. Che non fosse stato il suo primo assassinio? Ma non era possibile, era
così giovane... eppure era così tranquillo! O lo sembrava soltanto?
Forse, rifletté, forse gli zingari l’hanno trattato così
male che lo considerava un suo diritto. Forse li ha visti uccidersi a vicenda,
o picchiarsi, e lo ritiene la cosa giusta da fare. O forse semplicemente non
vuole mostrarmi il suo dolore. L’ultima opzione le sembrò la più probabile:
viste le penose condizioni del suo corpo, viste le sue ferite e cicatrici,
certamente aveva ricevuto un simile trattamento da molto tempo. Forse da tutta
la vita. E del resto, non aveva visto lei stessa quel mostro del suo aguzzino
bastonarlo e frustarlo, solo per il divertimento degli altri mostri che
assistevano allo spettacolo? Non li aveva forse visti ridere sguaiatamente di
fronte a quell’orrore, quell’orribile calvario per un ragazzo così giovane? Si
ritrovò gli occhi umidi al pensiero di tutte le sofferenze che Erik doveva aver
provato: cosa poteva aver fatto di male, per meritarsi un simile trattamento? E
quell’atto così terribile, quell’uccidere il suo aguzzino, non era forse
ragionevole, visto come gli avevano insegnato che si trattava il prossimo? Cosa
ci si poteva aspettare da un povero ragazzo trattato a quel modo?
Eppure il suo sguardo, quei suoi occhi capaci di essere così
intensi e penetranti, non potevano non spaventarla. Poteva compatirlo, soffrire
per lui, e non avrebbe mai smesso di cercare di aiutarlo; poteva addirittura
volergli bene - e del resto quasi lo faceva già, perché desiderava vederlo
riprendersi, farsi una vita normale... ma non poteva smettere di temerlo, anche
se poco. Non poteva dimenticare quel suo sguardo apparentemente così
distaccato, che pure a volte mostrava una tale tristezza... ma era capace di
tutto! L’aveva visto scattare per frasi apparentemente innocenti, o farsi
improvvisamente silenzioso e pensieroso, o raccontarle qualcosa che aveva
osservato nei suoi viaggi, anche se questi casi erano stati rarissimi. Le aveva
raccontato poco, e malvolentieri, di qualche città francese, ma ella aveva ben
capito che aveva viaggiato anche più in là. Forse col tempo si sarebbe aperto
di più con lei, le avrebbe raccontato di più... o forse no. Come potrei saperlo?, si chiese mentre
affondava la faccia nel cuscino del suo letto. Era proprio quella sua capacità
di dimostrare mille emozioni diverse a spaventare a tal modo la ragazza: un
ragazzo di quell’età che potesse provare una rabbia come quella che a volte gli
era balenata negli occhi, e capace di apparire, solo pochi attimi dopo, del
tutto tranquillo e distante, non era forse terrificante? Sembrava al di fuori
di ogni realtà che Eloise avesse mai conosciuto. Non aveva mai visto degli
occhi capaci di tante emozioni differenti, tutte così profonde da farle
sembrare eterne, che sparivano invece nel giro di pochissimo tempo.
In un moto di stizza per quelle continue domande, che sapeva
essere senza speranza di risposta, spinse la testa sotto quel cuscino che ormai
da ore martoriava, quel morbido cuscino nel suo letto, nella sua camera, della
sua casa. Una lacrima bagnò finalmente le lenzuola che coprivano il materasso,
al pensiero che Erik non avesse una casa. Niente casa, niente genitori, niente
fratelli... non una mamma che lo abbracciasse... quanto tempo aveva vissuto con
quegli orribili zingari? Da quanto tempo non riceveva un abbraccio o un
sorriso? Sembrava sempre così interdetto, quando lei gli sorrideva... Eloise si
chiese, improvvisamente, come dovesse essere vederlo ridere. Effettivamente,
poteva ben chiedersi come dovesse essere vedere il suo volto in una di quelle
mille espressioni che sapeva avere: non l’aveva mai visto senza quel sacco se
non quando il suo aguzzino gli aveva sollevato la testa di fronte ai testimoni di
quel macabro spettacolo. E il povero ragazzo non poteva certo avere un’espressione
tranquilla, in quella situazione... un’altra lacrima bagnò il lenzuolo, al
ricordo di come Erik arrancava per riprendere quel misero sacco usato a mo’ di
maschera, e si raggomitolava su se stesso, quel suo pupazzo tra le mani
sporche...
E chissà adesso cosa faceva, chissà se lui si ricordava di
lei, ogni tanto, mentre lei non riusciva a toglierselo dalla testa, non
riusciva a dormire. Chissà se le era grato davvero. Lui sembrava sempre
distante e desideroso di stare da solo, questo sì, però l’aveva ringraziata. Un’unica
volta, e sembrava che ci avesse pensato a lungo prima di dirle quella parola; però
gliel’aveva detta.
Per l’ennesima volta, Eloise si chiese cos’avrebbe fatto
lui, tutto solo, nei sotterranei di un teatro. Dalla decisione che aveva preso
- quella di rimanere lì - sembrava che avesse una qualche idea da mettere in
atto. Ma certamente lei, che dopotutto non era davvero sua amica e non passava
molto tempo insieme a lui, non poteva sapere se avesse sul serio qualcosa in
mente. Forse voleva costruirsi una casa, lì sotto... del resto non poteva
vivere come i topi, sulle pietre. Sicuramente avrebbe avuto bisogno di cose
come un letto, dei vestiti, un tavolo... una cucina, forse? Insomma, più ci
pensava più le sembrava tutto assurdo. Credeva che avrebbe potuto continuare
per sempre a rubare dal teatro?
Per sempre? Restò
perplessa del suo stesso pensiero. Sarebbe rimasto lì per sempre?
Mentre quella domanda sembrava lasciare un’eco nella sua
testa, rimise il cuscino sotto il capo, e rimase per qualche attimo a fissare
il soffitto, lo sguardo perso, lontano dalle assi di legno che troneggiavano su
di lei. Solo dopo lunghi minuti chiuse gli occhi e, congiungendo le mani al
petto, recitò una preghiera: pregò che Dio potesse aiutare Erik, quel povero
ragazzo che sembrava l’essere più solitario al mondo, che potesse aiutarlo a
trovare qualcosa per cui valesse la pena vivere... per cui valesse la pena
riprendersi dai momenti orribili che aveva vissuto fino ad allora. Riaprì gli
occhi, quasi cercando un segno divino nel legno oscuro sopra di lei, per poi
lentamente richiuderli, sospirando profondamente.
Girandosi per l’ultima volta e trovando finalmente una
posizione comoda, o per lo meno più di quanto non fosse tenere la testa sotto
il cuscino, Eloise emise un altro lungo sospiro, stanca per quegli incessanti
pensieri che la tormentavano e per tutta la pressione a cui si era sottoposta
per questa storia. Strinse leggermente le palpebre all’idea che, da quando lo
aveva incontrato per la prima volta, non aveva cessato un attimo di pensare a
lui... o per lo meno, di ricordare la sua presenza, solo pochi piani sotto di
lei. L’unica cosa confortante a cui poteva pensare era che lui, grazie al
Cielo, era capacissimo di rimanere nascosto: così almeno lei non doveva
preoccuparsi di non farlo scoprire, perché in questo era bravissimo. Sprofondò
un altro po’ nel cuscino, mentre i pressanti quesiti che l’avevano disturbata
fino a quel momento sembravano scomparire nel buio circostante, non lasciando
altro che una debole scia di preoccupazione attorno a lei. Di una cosa sola era
certa, dopo tutte quelle innumerevoli domande: se lui avesse avuto bisogno di
aiuto, di un’amica, di una complice, di un silenzio o di un sorriso, lei ci
sarebbe stata. Per sempre.
***
Ed ecco qui
il secondo capitolo... molto breve, lo so, ma anche se Madame Giry mi piace non
ho molta voglia di scrivere di lei... anche se, lo ammetto, ritengo questo
scorcio dei suoi pensieri carino. Non la vedo come una perenne donna d’acciaio,
e infatti qui è tormentata. Certo, Erik è stato maltrattato terribilmente, ma
parliamoci chiaro: l’ha visto mentre uccideva un uomo. Non è proprio così
immediato, pensare bene di lui, temo... e comunque dal film ho notato che la
Giry ha paura del Master, anche se per lei lui è completamente demitizzato:
semplicemente sa chi è e cosa è capace di fare. Ringrazio chiunque abbia anche
solo letto :) al prossimo, e ultimo, capitolo. Su Erik, of course ;)
Key
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Capitolo 3 *** La libertà di un'ombra ***
Nel Buio, 3
NEL
BUIO
CAPITOLO 3 - LA LIBERTÀ DI UN’OMBRA
Alzò la
testa, tremante, dopo quello che sperava fosse l’ultimo conato di vomito; con
le mani malferme cercò di pulirsi la bocca, mentre l’ennesima lacrima scendeva,
lacrima per lo schifo che provava, per il puzzo, per l’orribile sensazione che non
lo abbandonava da giorni; cercò in tutti i modi di non pensare di nuovo a
quegli occhi terrorizzati, che sporgevano
sempre più, che non si erano riempiti di lacrime come si era aspettato
ma erano rimasti fino all’ultimo a guardarlo allucinati: si prese la testa sporca
tra le mani, luride anche loro, cercando di chiudere la mente ai ricordi del
collo, della barba, di quei capelli sudati sotto le dita, delle vene del collo
che cedevano sotto la sua stretta implacabile... ricominciò a vomitare,
appoggiandosi al pavimento e scivolando su quella pietra ormai ricoperta da ciò
che doveva essere stato il suo cibo, quello che aveva rubato nel teatro. Ma ormai
non vomitava più cibo, e vide solo liquidi uscire dalla sua gola bruciante:
imprecò a denti stretti, contro se stesso e contro quelle memorie che
sembravano non dargli pace, cercando di trattenersi dall’urlare.
Ma
perché poi? Era libero adesso, o no? Libero!
“Libero!” urlò al buio che lo circondava,
con le ultime forze che gli rimanevano. Tornò a coprirsi il volto con le mani:
non gli importava che fossero ormai coperte di bile, non gli importava degli
occhi e della pelle brucianti, voleva solo dimenticare.
“Libero,
libero, libero...”
Si
rannicchiò completamente, come forse aveva fatto nel ventre di quella
disgraziata madre che qualche dio gli aveva donato, e cominciò a dondolarsi
avanti e indietro, stringendosi le mani al viso, le dita che sembravano voler
strappare quel volto di mostro, sporche di vomito, terra, polvere, lacrime...
lacrime che non volevano smettere di scendere, e che anzi continuavano ad
aumentare, incessanti, scuotendolo in singhiozzi disperati. L’abitudine di una
vita lo spingeva a sussurrare, a piangere piano, a trattenere i singhiozzi che
lo facevano sussultare, ma il bisogno sempre più impellente di sfogarsi
sembrava farsi ogni secondo più forte. Pianse, sempre più forte, senza curarsi
di ciò che lo circondava: per una volta, solo il nulla. Non c’era nessuno a
giudicarlo, nessuno ad additarlo, a urlargli contro, a picchiarlo, nessuno; era
libero...
Libero e
condannato a ricordare quegli occhi per sempre.
Pianse
per quelle che gli parvero ore. Ogni singhiozzo sembrava indebolirlo, privarlo
di quel poco di energia che gli era rimasta, eppure quelle lacrime parevano
avere sul serio il potere di farlo sfogare, e insieme ai contenuti dello
stomaco che giacevano sul pavimento di pietra con quelle lacrime lui sembrava
svuotarsi di tutto ciò che sentiva: dolore, orrore, schifo, schifo per se
stesso e per ciò che era diventato. E odio, odio profondo per quegli uomini che
lo avevano reso tale, che lo avevano costretto a tramutarsi in un mostro, in un
assassino. Strano a dirsi, sua madre era l’unica che non riusciva a
disprezzare: dentro di sé aveva l’intima coscienza di essere lui stesso la
causa di tutto, la causa del dolore e dell’abbandono e dell’odio. Lei si
aspettava un bambino... e si era ritrovata un mostro.
Tremando
i singhiozzi si fecero più radi, più distanziati. Ormai allo stremo delle
forze, cercò di prolungare il più possibile il suo pianto liberatore, di stare
il più possibile lì a dondolarsi, nel buio e nella solitudine; si era ritrovato
molto spesso a maledirla, quella solitudine, ma in questo caso non poteva che
esserne grato. Il buio, il silenzio e il nulla circostante sembravano
abbracciarlo e nasconderlo da tutti e da tutto, e questo nascondiglio era tutto
ciò che Erik cercava. Non era forse quella la libertà? Il potersi dire
finalmente libero da ogni sguardo, da
ogni critica o giudizio?
Un
lungo, tremulo sospiro spense i suoi singhiozzi nel silenzio circostante.
Rimase ancora un po’ rannicchiato su se stesso, quasi cercasse di ricavare un
po’ di calore da quella posizione, quasi che le sue braccia strette attorno
alle gambe magre potessero proteggerlo da un pericolo esterno; se l’aspettava quasi,
dentro di sé, di essere colpito da qualcuno, di essere punito per aver pianto troppo
e aver disturbato i suoi aguzzini. Ma non venne nessun colpo. Era solo.
“Libero...”
Appoggiò
lentamente la fronte sulle ginocchia, sentendo le ossa scomode e spigolose.
Rimase in quella posizione, immobile come le pietre che lo circondavano, per
lunghi minuti che sembravano protendersi nell’eternità; solo all’ultimo chiuse
gli occhi, stringendo un po’ di più il proprio corpo tra le braccia, quasi a
voler assicurarsi di essere ancora lì, di non essere più prigioniero di un
circo e dei suoi macabri ricordi. Poi, lentamente ma con decisione, si sciolse
dal suo stanco abbraccio, e provò ad alzarsi. Numerosi tentativi andarono a
vuoto, facendolo scivolare sul pavimento umido e sporco, e facendogli battere i
gomiti scarni su quella pietra spietata; ma alla fine riuscì ad alzarsi,
tremante sulle gambe malferme, ma deciso a non rimanere un minuto di più di
fronte all’amaro spettacolo della sua bile rovesciata per terra. Cercò pesantemente
l’appoggio della parete, e lo trovò solo all’ultimo, un attimo prima che
cadesse di nuovo: rimase qualche secondo fermo, boccheggiante e impaurito, poi
si costrinse a raddrizzarsi e, tenendo un braccio contro il muro, ad
allontanarsi da quel posto. La sua marcia indegna durò per forse un’ora, ogni
muscolo del corpo che si lamentava sempre di più per quell’assurdo sforzo, gli
occhi che si annebbiavano e che sfregava con rabbia, la pelle puzzolente che
glieli faceva pungere di lacrime. Ma non si fermò, non voleva permetterselo:
solo quando raggiunse i piani dov’erano le sceneggiature abbandonate per gli
spettacoli più vecchi, si concesse qualche respiro di riposo. Con uno sguardo
sempre più stanco adocchiò quelle antiche attrezzature, finché non trovò ciò
che cercava: era un vecchio, polveroso e tarmato sipario. Doveva essere lì da
anni, vista la quantità di polvere che lo ricopriva, e il colore opaco e smunto
che aveva assunto: probabilmente un tempo un rosso sgargiante, ora nient’altro
che l’ombra di esso. E doveva essere stato intero, senza quel lungo squarcio
che si apriva lungo di esso.
Erik,
con tutta la cautela di cui i suoi muscoli esausti erano capaci, si avvicinò
alla tenda che giaceva sul pavimento, piena di pieghe e sporcizia, certamente tana
di chissà quanti animali. Chiuse gli occhi e per un attimo pensò a quanto in
basso era arrivato per sopravvivere: farsi salvare da una ragazza sconosciuta,
nascondersi in un teatro, rubare da mangiare, dormire coi topi su un pezzo di
stoffa divorato da chissà quanti insetti... uccidere un uomo... riaprì gli
occhi e tornò a fissare quel vecchio velluto che sembrava invitarlo
ironicamente tra le sue pieghe ombrose e sporche, e con molta meno cura di
quanto aveva progettato, vi si lasciò cadere sopra. Un’enorme vampata di
polvere nascose tutto ciò che lo circondava, riempiendo l’aria e minacciando di
soffocarlo e accecarlo, se non avesse chiuso bocca e occhi in tempo; e i
numerosi rumori e squittii indignati che si levarono, seguiti da ticchettii di
chissà quante unghie su quei pavimenti, non lasciarono dubbi sulla presenza di
topi e ratti in quello che adesso gli faceva da letto. Non appena furono
passati troppi secondi per trattenere ancora il fiato, aprì leggermente le
labbra e inspirò piano, ignorando lo stimolo a tossire violentemente che gli
dava tutta quella polvere.
“Tra
tarme e ratti, polvere e topi, eccolo lì, il piccolo Erik...”, cominciò a
canticchiare piano non appena essa si fu diradata, cercando di ironizzare
ancora un po’ sulla sua situazione per non tornare a piangere. No, non voleva
ricominciare a farlo: si era sfogato, aveva urlato e singhiozzato e tremato
abbastanza per una vita intera; adesso doveva riposarsi, anche se tra tarme e
ratti, e doveva sul serio cominciare a vivere. E sarebbe stata una vita
grandiosa! Avrebbe dimostrato al mondo intero, a quel dio che sembrava usarlo
come barzelletta personale, a quella ragazza che l’aveva aiutato, a se stesso, che lui poteva farcela, che
poteva essere libero e vivere davvero nonostante tutto. Avrebbe dimostrato a se
stesso di non fare schifo, di non essere indegno di vivere, di non essere un
mostro.
“E coi
topi e coi mostri, egli viveva, eppure l’unico, che mostro non era,” continuò a
canticchiare piano, cercando di convincersi di quelle parole vane e disperate
quanto insensate e stupide. Smise di usare le parole, e si fece cullare dalla
sua stessa voce con una lieve ninna nanna, anche se ben sapeva che già tante
volte non aveva funzionato: innumerevoli notti aveva cercato di auto indursi ad
addormentarsi, per sparire per qualche ora da quel mondo in cui non voleva
vivere; aveva concluso, dopo chissà quanti vani tentativi, che c’era bisogno di
qualcun altro... che lui aveva
bisogno di qualcun altro... anche per quella stupidaggine. Le note gli si spensero
in gola, mentre stringeva gli occhi che gli pungevano per la polvere. O erano
lacrime?
Sospirò
profondamente, schiarendosi la mente e rilassando le palpebre sugli occhi; e
piano, nel silenzio tornato sovrano in quel nulla, riuscì a prendere sonno,
avvolto da polvere e velluto.
*
La prima
sensazione che ebbe fu quella di sollievo: aveva dormito pochissimo negli
ultimi giorni, e sempre sulla dura pietra. Al confronto, quello su cui giaceva
adesso era ben paragonabile alle soffici nuvole che sembravano ospitare gli
uccelli lassù nel cielo. Con le dita prese ad accarezzare lievemente quella
superficie, che cedeva piano alle sue mani, piegandosi e stirandosi; prima di
ricordarsi di dove fosse, un lieve sorriso gli distese il volto per quella
semplice e dolce sensazione. Poi, con calma, quasi fossero dei diligenti
soldati che marciassero davanti al proprio generale, i ricordi tornarono ai
suoi occhi ancora chiusi, chiari come se non si fosse appena svegliato: la
polvere, i ratti, il sipario abbandonato, la marcia nel buio, i singhiozzi, il
vomito, il suo omicidio. E la fame, che sembrava minacciarlo di non dargli la
forza di rialzarsi da quel soffice letto.
Tolse le
mani dalla superficie vellutata e cominciò a stropicciarsi il viso, smettendo
fin troppo presto: erano sporche e puzzolenti come non mai. Eppure avevo mangiato così poco, prima di
ieri, si disse amaramente, mentre schiariva del tutto la vista sbattendo
gli occhi e si tirava faticosamente a sedere. Riconobbe le stesse sceneggiature
abbandonate della notte prima, quando le aveva viste appannate da un pesante
velo di stanchezza; adesso il velo s’era fatto più leggero, ma ancora la
visuale non sembrava chiara. La cosa gli sembrò strana, perché i suoi occhi non
avevano mai avuto problemi a discernere ciò che lo circondava nell’oscurità, ma
fin troppo presto Erik prese coscienza dei crampi che sembravano divorargli lo
stomaco e che, evidentemente, ci tenevano ad indebolire tutto il resto del suo
corpo. Con una smorfia, pensò che avrebbe preferito continuare a dormire e
passare dal sonno alla morte, silenziosamente, su quell’accogliente casa di
topi, per sparire da quel mondo senza che nessuno se ne accorgesse; poi per un
attimo pensò che forse la ragazza, Eloise, se ne sarebbe accorta, dopo tutto.
L’aveva aiutato, gli aveva insegnato gli orari del personale dell’Opera per
fargli capire come e quando si sarebbe potuto muovere tra quegli innumerevoli
corridoi, gli aveva mostrato il Teatro di
sopra... e gli aveva salvato la vita.
Alzandosi
in piedi si allontanò da quel finto letto e prese la via che aveva visto tre
giorni prima per raggiungere i piani superiori. Un ghigno amaro gli deformò le
labbra, pensando a tutte le qualità di quel corpo deforme: resistenza alla fame
e al dolore, senso d’orientamento, grande intuito, un’intelligenza fuori dal
comune... quanti aspetti positivi aveva lui? Solo la voce avrebbe potuto
renderlo un dio di fronte agli altri uomini, rifletté corrugando la fronte e
aumentando il passo; eppure, eccolo lì, a vomitare anche l’anima per il ricordo
di due occhi, a vagare nel buio per la fame. Se davvero ci fosse stato un dio,
di certo doveva aver deciso di sprecare quei talenti... o meglio, di darglieli
solo per fargli credere di essere un uomo davvero, e non un mostro, e per farsi
una bella risata non appena se ne fosse accorto.
“Grazie
mille dello sforzo, Signore, ma non
lo trovo divertente,” sibilò a denti stretti all’aria silenziosa circostante.
Se si aspettava una risposta, non la ricevette.
Continuò
a rimuginare sulla sua triste esistenza, mentre raggiungeva la sala in cui le
ballerine pranzavano i giorni delle prove. Dopo essersi brevemente assicurato
che nessuno lo guardasse, entrò nella cucina e con immenso sollievo si lavò le
mani orribilmente puzzolenti, così come le braccia e il viso. Dopodiché,
finalmente pulito o quasi, si diresse stancamente verso la dispensa, e poté
tornare ad avere uno stomaco silenzioso e che non protestasse in continuazione:
sebbene non si riempì la pancia, mangiò abbastanza per non sentirsi troppo
debole da tornare nel buio di sotto. Rimpiangendo di dover lasciare quelle
stanze così confortanti, sparì silenziosamente com’era comparso, e tornò a
scendere le innumerevoli scale che l’avrebbero portato al suo amato nulla. A
quel nulla che lui osava chiamare libertà.
Si fermò solo quando raggiunse quello strano lago sotterraneo che, aveva
scoperto, aveva un’acqua ancora più sporca di quella che gli propinavano gli
zingari: rimase fermo a lungo a fissarla, mentre la sua mente creava per lui
immagini fantastiche di un’acqua pulita, limpida, che riflettesse la sua
immagine...
L’immagine
era quella di un bambino normale, vestito con abiti normali, né troppo ricchi
né troppo poveri, con le guance chiare e gli occhi allegri. Sorrideva contento
della sua figura nell’acqua, e chiamava la mamma a vedere anche lei la
meraviglia dell’acqua: poteva vedere riflessi gli alberi, le panchine del
parco, il sorriso felice della madre. Mentre lei lo guardava con i suoi
splendidi occhi verdi, lui si avvicinava sempre di più all’acqua, incerto se
toccarla o meno. Un anatroccolo allora gli si avvicinava, e si faceva
accarezzare, facendolo stupire di quanto potessero essere morbide le sue piume;
e le risa divertite della madre lo spingevano a scoppiare a ridere anche lui, e
ridevano insieme, e l’anatroccolo scappava via, spaventato. Allora la madre lo
spingeva avanti, a toccare l’acqua: lui si avvicinava alla superficie,
leggermente increspata ma che tornava normale, e gli restituita un volto
normale, completo... e allungava la mano e toccava quell’acqua fresca, pulita,
mentre la mamma lo accarezzava sulla testa, scompigliandogli i capelli e
dicendogli parole affettuose...
L’acqua
gelida risvegliò Erik dal suo sogno, e lui si ritrovò a guardare un lago nero,
che non rifletteva nulla se non il buio circostante, il buio e il nulla. Una
lacrima cadde su quell’acqua scura, scivolando dalla sua guancia e mischiandosi
a quel nero, e lui diede un pugno al lago, quasi a cercare di scacciare quei
sogni ad occhi aperti che non facevano altro che lacerargli il cuore, un cuore
vuoto di qualsiasi affetto. Si maledisse a denti stretti per quelle sue vane
immaginazioni, che non potevano che rendere ancora più amara la sua orribile
realtà, e per assicurarsi di svegliarsi del tutto e tenere corpo e mente
occupati, si tuffò completamente nell’acqua fredda: i suoi vestiti laceri
sembrarono per un attimo volergli fluttuare attorno, come se stesse volando, ma
presto non furono altro che oggetti freddi e appiccicosi, che rendevano
impossibile alla sua pelle conservare un minimo di calore. Cominciò a nuotare
velocemente, per non pensare al freddo e riscaldarsi un po’ con la sua fatica,
e si concentrò sul pensiero di voler scoprire cosa ci fosse dall’altra parte
del lago, deciso a non farsi prendere da nessuna fantasia. Intorno a sé
riusciva a discernere vecchie pareti squadrate, da cui pendevano centinaia di
ragnatele e tra le quali non sembrava esserci
nessuna fonte di luce: doveva ringraziare i suoi occhi così particolari
per il fatto che riuscisse davvero a vedere qualcosa. Si ritrovò in una specie
di corridoio, in cui le pareti erano più ravvicinate, e dopo di esso si aprì un
grande slargo, ai due lati del quale sembravano ergersi delle enormi colonne.
Erik si fermò qualche secondo nell’acqua, guardandole meglio: dopo poco tempo
riuscì a vederle bene, e si rese conto che non erano affatto colonne, ma due colossali
statue di uomini che tenevano il soffitto sulla schiena. Affascinato da una
tale costruzione, si rese conto di avere davanti a sé una grata a impedirgli il
passaggio. Ma ormai era troppo incuriosito per tornare indietro: s’immerse
completamente, e un sorriso soddisfatto gli sollevò gli angoli della bocca al
vedere che la grata non continuava fino al fondo. La sorpassò e uscì
velocemente dall’altra parte, prendendo aria con forza e sentendo i capelli
gocciolanti e ghiacciati contro il viso. Mentre cercava di non pensare a quanto
si dovesse essere sporcato in quella nuotata di pochi minuti, scoprì presto che
il fondo si avvicinava sempre di più, e in pochi secondi si ritrovò a camminare
con le sole gambe bagnate dall’acqua, increspata dall’arrivo di quell’insolito
visitatore. Si fermò quando solo i piedi erano bagnati dalle gentili e gelide onde
del lago, e i suoi occhi esplorarono in lungo e in largo il nuovo ambiente in
cui si trovava.
Si
trattava di un vasto prolungamento della caverna, diviso in più zone: le pareti
non erano lineari, ma sembravano formare tante stanze diverse, alcune più
piccole, altre più grandi e spaziose. Anche il soffitto variava di altezza a
seconda delle “stanze”, avvicinandosi o allontanandosi di più dal suolo e
rendendo quindi gli ambienti più o meno spaziosi. Erik rimase fermo a lungo,
mentre i suoi occhi scivolavano su quelle pareti di pietra nuda e irregolare, e
si fermavano infine sullo spazio più grande. La sua fantasia riprese a
lavorare, ma questa volta immagini oscure come la notte che lo circondava
andarono formandosi davanti ai suoi occhi: mentre essi scandagliavano quel
buio, guardando con intenso fascino ogni più piccolo anfratto, poteva vedere
dei candelabri illuminare quell’oscurità, un letto che l’avrebbe accolto quando
fosse stato stanco, un tavolo dove avrebbe potuto studiare e leggere in ogni
momento, statue e ornamenti a riempire i vuoti, a gettare ombre cupe sul
pavimento illuminato dalle candele... ma quando il suo sguardo giunse al
centro, nello spazio più grande, non vide nulla se non il nero di quella
caverna. Insieme alle immagini nella sua mente si erano andate formando nuove
note sconosciute e meravigliose, di strumenti ancora ignoti o sentiti di
sfuggita, ma nell’attimo in cui i suoi occhi si posavano sul vuoto della stanza
centrale la musica cessò, in un infinito attimo di silenzio; e allora una nota
bassa, potente come mai aveva immaginato, riempiva del suo suono grave tutta
l’aria buia, e sembrava spegnere le candele e accendere una luce più oscura e
bassa di ogni altra, riuscendo a scavare nel profondo dell’animo del suo stesso
creatore e innalzandolo lungo delle lisce canne dorate: un organo, ecco cosa
troneggiava al centro di quell’ala della grotta! Un magnifico, maestoso organo
che attirava i suoi occhi affamati di meraviglie e il suo cuore colmo di
musica, un organo come quello da lui visto in una chiesa, con le sue tastiere e
le infinite serie di tasti bianchi e neri, che come tasselli di un puzzle a due
colori si sarebbero uniti, sotto le sue dita, a formare tutti i colori della
sua musica!
Cadde in
ginocchio davanti alla sua stessa fantasia, l’animo colmo di immagini e suoni
che parevano mozzargli il fiato quant’erano sublimi e pesanti, dotate del
potere di farlo sollevare nell’aria e di schiacciarlo a terra allo stesso
momento. Quello non sarebbe più stato un covo di ratti e ragni, ma la sua casa:
ci sarebbe stata la sua mano d’artista a distribuire colori e oggetti, a
impastare il buio con le luci di poche ma essenziali candele, a sopraffare quel
silenzio travolgente con note sconosciute a qualsiasi altro essere umano. La
sua voce e il suo genio, le sue mani e le sue scelte avrebbero reso una reggia
quella caverna, e lui avrebbe dimostrato alla ragazza, a quel dio che si
divertiva con i suoi patetici sforzi, avrebbe dimostrato a se stesso, che la sua vita poteva essere degna d’essere vissuta, e
che non aveva bisogno di nessun altro per renderla tale.
Si
rialzò, e un’espressione solenne rese quel suo volto sfigurato quasi regale:
quel luogo era suo, e lui e solo lui l’avrebbe reso degno di qualsiasi essere
umano. Da quel momento in poi, la sua musica l’avrebbe sorretto, e sarebbe
stata la sua unica amica, amata e
amante, l’unico appoggio sul quale
sentirsi sicuro: finalmente, si era reso conto che in quell’antro sublime
sarebbe stato al sicuro, e la sua sarebbe stata la vita di un genio; ma che se
anche avesse fatto un solo passo al di fuori di esso, la sua vita era destinata
ad essere quella di un mostro, che si nasconde nel buio e nella notte... la
vita di un’ombra.
***
Ed eccoci al terzo ed ultimo capitolo.
Io sta storia l’ho scritta solo per una scena... e mi son venuti fuori tre
capitoli, e la scena è stata relegata agli ultimi due-tre paragrafi dell’ultimo
capitolo... bah xD ma sono contenta di averla scritta. La scena con cui si apre
questo capitolo è terribile - anzi, nella
mia mente era terribile, tanto che mentre la scrivevo mi son venute le
lacrime agli occhi... però non sono riuscita a scriverla bene come avrei
voluto, come me l’ero immaginata. È un peccato, ma siamo qui per imparare :)
anche la scena in cui lui immagina un’altra vita, con la mamma nel parco, mi ha
fatto venire le lacrime agli occhi e non mi è venuta fuori bene... forse le ho
descritte troppo poco e/o male, non saprei. Tu, Lettore, che ne dici? In ogni
caso, anche se non mi è venuta affatto bene come avrei voluto mentre la
scrivevo, non fa schifo. Quindi meglio di niente!
Un paio di precisazioni: nel film Erik non guarda lo zingaro negli occhi,
mentre lo uccide. Però faceva figo e quindi ho scritto così u_u. Secondo, nel
film si vede bene (mentre cantano Down Once More/Track Down This Murderer) che
l’acqua del lago vicino alla grata è bassa, ci si può camminare. Anche questo è
stato ignorato perché faceva figo il piccolo Erik nuotante u_u e poi magari all’inizio
l’acqua era più alta... e lui negli anni l’ha fatta abbassare... del resto è un
genio.
Grazie mille della lettura :) un inchino a te che leggi, più profondo se
recensisci (:P).
Key
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