Frammenti

di Leireel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Documento senza titolo

∙Autore: Leireel.
∙Titolo: Frammenti.
∙Personaggi: Albus Silente, Aberforth Silente.
∙Pairing: //
∙Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico.
∙Rating: Verde.
∙Avvertimenti: //
∙Prompt: Uno o più membri dello staff di Hogwarts; "Un uomo è vecchio solo quando i rimpianti in lui, superano i sogni." (A. Einstein); Hogsmeade; Whiskey Incendiario.
∙NdA: Tutte le note che seguono (in ordine sparso) sono solo cavilli che la mia indole pignola mi ha impedito di lasciar perdere; si possono comodamente ignorare, la storia dovrebbe risultare comprensibile anche senza.
Non si sa con esattezza quando Aberforth sia diventato il barista della Testa di Porco; per mia comodità ho supposto iniziasse nel 1956, lo stesso anno in cui Albus diventa Preside di Hogwarts. Delle rivolte dei goblin (che talvolta nelle traduzioni italiane si trasformano misteriosamente in folletti – ho preferito lasciare il termine anglosassone per evitare ambiguità) parla Hermione ne ‘Il prigioniero di Azkaban’; pare che la Testa di Porco ne sia stata il quartier generale. Il nome della capra di Aberforth, Ghiozza, è un omaggio a Ghiozza la capra zozza, che Albus ci dice essere la fiaba preferita del fratello.
La storia partecipa al contest La Coppa delle Case di Only_, ancora senza risultati. Dedicata alle mie compagne di Casa: Payton_, whateverhappened, mazza94, vogue e Joey Potter, nonché a Mia, perché sì.

Frammenti

Capitolo I

Hogsmeade, 25 settembre 1956

Era ancora il crepuscolo; nell’aria della sera si mescolavano confusamente oro, rosso e blu, in mezzo a un vento gelido che sapeva già d’autunno. Se ci fosse già qualche stella, Albus non avrebbe saputo dirlo: il cielo era macchiato di nubi e foschia, tanto che già vedere uno spicchio di luna sembrava quasi una benedizione. Non che ci fosse qualcuno a parte lui, in quelle strade deserte, che fosse interessato a guardarla; era solo un pigro martedì di Settembre, dopotutto, e i pochi avventori si erano già messi al riparo dalla pioggia incombente dietro le porte dei Tre Manici di Scopa.

La Testa di Porco era vuota e grigia come nei suoi ricordi di gioventù, identica a se stessa; Albus era sicuro che un po’ di quella polvere risalisse ancora alle rivolte dei goblin del Seicento. Era bello rivederla, sudicia come nei suoi giorni migliori. Sembrava quasi di ritornare al passato.

«È permesso?»

Aberforth, intento a passare lo strofinaccio sul bancone consunto, lo degnò appena di una mezza occhiata.

«Perché, un no ti ha mai fermato?» borbottò a mezza voce. Albus lo prese bonariamente per un invito a entrare e si fece strada tra le sedie sbilenche, appollaiandosi infine con grazia su uno degli sgabelli al bancone. Di nuovo, Aberforth non ritenne necessario sprecarsi a rivolgergli uno sguardo.

«Così mi offendi, Aberforth. Ho sempre considerato la cortesia uno dei miei pregi maggiori – insieme a saper scegliere i momenti meno opportuni per presentarmi, ovviamente,» replicò Albus sorridendo e porgendogli quella che sembrava una bottiglia di Ogden Stravecchio d’annata. Con quello, se non altro, aveva ottenuto l’attenzione di suo fratello: aveva interrotto la sua opera di pulizia e lo stava osservando interrogativo, in attesa di una qualche spiegazione.

«L’inaugurazione è oggi, giusto?» domandò Albus; poi, senza aspettare la sua risposta, continuò: «E mi pare sia consuetudine portare in dono un piccolo omaggio, per allietare la serata e augurare buoni auspici. Chi sono io per esimermi?»

«Non si può dire che ti manchi l’originalità, di certo. Portare alcolici all’inaugurazione di un pub,» sottolineò Aberforth, riprendendo a passare lo straccio.

«Avevo pensato di portarti una scatola di Api Frizzole, a dire il vero, ma temevo che risultasse un presente gradito solo a me,» si scusò allegramente; poi, con un colpo di bacchetta, fece apparire dal nulla due bicchieri da whisky. Sembrava aspettare che Aberforth aprisse la bottiglia, o almeno fu quella l’interpretazione che diede lui dello sguardo di Albus, paziente e divertito.

«Un preside non dovrebbe dare il buon esempio ai suoi studenti?» sbuffò, ma si chinò ugualmente a prendere un cavatappi da sotto il bancone.

«Oh, ma devo ancora festeggiare l’incarico, sai,» replicò con leggerezza Albus. «E sono sicuro che i ragazzi già sappiano che sono molto più adatto come modello da non seguire,» continuò ridacchiando.

Aberforth si limitò a lanciare un’occhiata scettica al cappello del fratello, viola con piccole stelline gialle che scintillavano e si muovevano allegramente. Ci fu qualche secondo di silenzio mentre versava il Whisky Incendiario nei due bicchieri che oscillavano a mezz’aria davanti ai suoi occhi.

«A ogni modo, Aberforth, trovo che tu abbia scelto un giorno oltremodo curioso per inaugurare il tuo locale,» riprese Albus, guardando con affetto le mura impolverate. «In un banale martedì sera non puoi di certo aspettarti una grande compagnia».

«Forse non ne volevo, di compagnia. Non ho invitato nessuno, io,»  lo rimbeccò Aberforth, ma nella sua voce c’era la minuscola traccia di un sorriso. Prese un lungo sorso e continuò: «E poi non è una vera inaugurazione. Questo posto ha più di quattrocento anni».

«È davvero un peccato, mi sono sempre piaciute le feste. Questa locanda, poi, ha sempre ospitato gente così interessante…»

«Taglia corto, Albus. C’è sicuramente un motivo ben preciso per cui sei qui, e lo sappiamo entrambi, quindi sputa il rospo,» lo interruppe Aberforth, fissandolo per la prima volta negli occhi. Albus sembrò per un attimo sul punto di replicare qualcosa, ma dovette ripensarci, perché la sua espressione da placida si fece meditativa.

«D’accordo,» disse infine ricambiando il suo sguardo. «Avrai sentito parlare di quel mago, Lord Voldemort; ci sono stati un paio di omicidi, giù a Wakefield, e un attentato contro alcuni Babbani a Birmingham. Stiamo organizzando una resistenza, come abbiamo già fatto contro Grindelwald. Ho pensato…»

«Cosa, che vista la mia accorata partecipazione alla prima, mi sarei unito a voi questa volta?» ribatté Aberforth sarcasticamente. «Scordatelo. Non ci tengo a finire ammazzato, te l’ho già detto. E per una volta dovresti tenerti fuori dai guai anche tu».

«Non ti sto chiedendo di partecipare alle nostre missioni, Aberforth – per Merlino, sai che non lo farei! Ma il tuo aiuto potrebbe esserci prezioso anche da qui: un paio di occhi e orecchie in più fanno sempre comodo, e potresti arrivare dove noi non possiamo».

«Inizia sempre così con te, non è così? Un piccolo aiuto qua, niente di pericoloso… com’è che alla fine ci ritroviamo sempre in mezzo a una guerra, eh? Sono morte delle persone la scorsa volta, Albus! Te lo sei già scordato? Ma certo, cosa sono delle vite innocenti in confronto al Bene Superiore

Se Albus fu in qualche modo ferito da quella risposta, non lo diede a vedere; nei suoi occhi azzurri c’era solo ira.

«Delle persone stanno già morendo per colpa di Voldemort! Pensi davvero che potrei starmene qui a guardare, mentre là fuori i suoi seguaci trucidano poveri innocenti? Pensi sul serio che riuscirei a starmene fermo?» replicò con rabbia, alzandosi di scatto. Lo sgabello oscillò in bilico per qualche secondo prima di schiantarsi al suolo con un tonfo secco. Nessuno dei due vi badò, troppo presi a fronteggiarsi.

«Non ti sta obbligando nessuno, Albus! Smettila di comportarti come se il peso del mondo fosse tutto sulle tue spalle!» urlò Aberforth in risposta.

«Non me ne starò fermo ad attendere che intervenga il Ministero, se è questo che intendi,» replicò freddamente Albus. «Se posso far qualcosa per fermare quell’uomo, allora è mio dovere farlo. Non rimarrò di nuovo ad aspettare che sia troppo tardi».

La risposta di Aberforth non giunse che qualche istante dopo; i sottintesi di quelle frasi sembravano aleggiare nella stanza come macigni sulle loro teste.

«Finirai ammazzato così,» disse infine, piano. L’espressione del fratello si addolcì lievemente.

«Non credo ti sarà così facile liberarti di me,» gli rispose con un sorriso, abbassando la voce. «Tendo ad avere una discreta dose di fortuna in battaglia».

Si era già alzato, il mantello che svolazzava dietro di lui sotto gli spifferi settembrini; gli rivolse un’ultima, lunga occhiata e si voltò per andarsene.

«E va bene, ti aiuterò. Ma non mi muovo da questa locanda, sia chiaro. Anche Ghiozza ha bisogno di me,» borbottò infine Aberforth, quando già la mano di Albus era sul pomello della porta.

«Puoi dirle che non le ruberò tanto di quel tempo che solitamente le dedichi,» replicò l’altro con un sorriso. «Grazie, Aberforth, davvero».

«L’hai sempre vinta tu, alla fine,» sbuffò lui. Il cappello viola con le stelline era già scomparso dietro la porta, ma gli parve di sentire, attutita dalla lontananza, un’ultima risata.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Documento senza titolo

Ed ecco il secondo capitolo; ringrazio le 36 anime che si sono fermate a leggere, e spero che non sia stata una lettura estremamente spiacevole :) Note sul capitolo: Derwent Shimpling è famoso soprattutto per essere sopravvissuto all’ingestione di una Tentacula Velenosa, ed è un personaggio talmente bizzarro da essere l’avventore medio perfetto per la Testa di Porco. Mundungus è stato bandito dalla locanda da Aberforth dopo una lite nel 1975; poiché nessuno sa con esattezza per quale motivo avessero litigato, ho ipotizzato che neanche lo stesso Albus conoscesse i motivi.

Capitolo II

Hogsmeade, 19 dicembre 1975

Nevicava da un po’ di giorni ormai, piccoli fiocchi lanuginosi che morivano prima ancora di toccar terra, dissolvendosi in acqua e fango. Il cielo, anche in quell’ora tarda, aveva la strana sfumatura luminosa e grigia che era propria di quel tempo gelido e infido; in quella notte di tempesta erano rimaste solo le decorazioni di Natale a illuminare un po’ le strade, e a tentare nel frattempo di prendere il posto delle stelle, almeno per quelle ore. Nel suo passaggio frettoloso per le vie di Hogsmeade, Albus quasi non le notò, preso a stringersi nel mantello per combattere il freddo pungente.

«È già orario di chiusura, o posso ancora entrare?»

Stava già ripulendosi le scarpe sullo zerbino – gli parve che diventassero stranamente più lerce – e da quella distanza non riuscì a cogliere del tutto il borbottio di Aberforth; suonava come ‘per te dovrebbe essere sempre orario di chiusura’, ma Albus decise allegramente di aver sentito male, e si avviò per il bancone attraverso il locale deserto.

«È... insolito vedere questo posto così vuoto. Normalmente c’è sempre qualche losco figuro incappucciato in un angolo,» commentò Albus.

«Se vuoi ti chiamo Derwent Shimpling dal piano di sopra, se proprio ti senti solo,» gli rispose ironicamente Aberforth. Tormentava con lo straccio un povero bicchiere, che a ogni passata sembrava acquistare nuovi millimetri di sporco.

«Credo di poter fare a meno di lui per questa sera,» gli sorrise Albus di rimando. «Ho sentito dire che tende a diventare leggermente infiammabile quando viene scosso dal suo sonno, e non ho particolare desiderio di provocarlo».

Si sistemò un po’ meglio sullo sgabello sbilenco, rassettandosi la tunica blu elettrico, prima di continuare discorsivo: «Ho sentito che il povero Mundungus è incappato nella tua ira funesta. Ho avuto modo di incontrarlo stamattina, e devo dirti che aveva davvero un’aria contrita. Anche se può aver influito il fatto che si trovasse davanti una squadra di creditori decisi ad avere giustizia, suppongo,» aggiunse allegro.

«Povero un corno,» mugugnò Aberforth accanendosi contro il bicchiere, che da parte sua non sembrava avere un’aria particolarmente felice. «Quella schifosa carogna meriterebbe di marcire ad Azkaban per il resto dei suoi giorni».

Non c’era più traccia di ironia e sarcasmo nella sua voce; il suo tono si era fatto brusco, rabbioso, quasi violento.

«Suvvia, Aberforth,» lo rabbonì il fratello con aria leggermente stupita, «non essere così severo. C’è sicuramente di peggio a questo mondo…»

«Aveva in mano il suo medaglione, Albus,» ringhiò. «Il medaglione che Ariana aveva al collo quando è morta. E lo toccava, quel bastardo ladro di tombe, se lo rigirava tra le sue manacce lerce! L’avrei ammazzato, quello schifoso figlio di…»

«È solo un medaglione,» lo interruppe Albus pacato. C’era una nuova tristezza nei suoi occhi, grave, posata. «Non la riporterà indietro».

«Lo so da me che non la riporterà indietro! È troppo chiedere che sia lasciata in pace, almeno da morta

La voce di Aberforth si era spezzata sulle ultime sillabe; aveva uno sguardo che Albus poche volte gli aveva visto addosso. Pensava di averlo dimenticato, anche: era lo stesso che aveva avuto durante il funerale di Ariana - furioso, distrutto.

«Non sto dicendo questo, e lo sai. Ma non è un motivo sufficiente per voler uccidere una persona,» replicò Albus con fermezza. «Per quanto infime e spregevoli le sue azioni possano essere, non valgono la sua vita. Dovresti saperlo bene».

«Certo, a te che ne importa? Non ti curavi di Ariana da viva, figuriamoci da morta!» sputò Aberforth con astio.

Negli occhi di Albus passò un lungo lampo di dolore, simile al riaprirsi di vecchie ferite mai cicatrizzate.

«Sai che non è vero. La amavo con tutto me stesso, lo sai,» disse, con una nota accorata che suonava quasi come una supplica.

«Oh, sì, la amavi così tanto da abbandonarla a se stessa per tutta l’estate! Proprio un grande amore, il tuo!» ribatté Aberforth sarcastico. «Ma certo, chi se ne importa della sorella storpia! Noi non eravamo abbastanza per il grande Albus Silente, non è così? Molto meglio dimenticarsi di averla, una famiglia!»

«Come puoi anche solo pensarlo? Siete sempre stati la cosa più importante, per me!» esclamò Albus.

«Come non crederci?» rispose Aberforth con una risata amara. «Mamma e io badavamo ad Ariana e tu pensavi solo a organizzare viaggi in giro per il mondo con i tuoi amichetti… Chi avrebbe mai dubitato della tua devozione

Albus parve quasi piegarsi su se stesso al suono di quelle parole, accartocciato come un foglio di giornale; aveva le spalle più curve e stanche, e sembrava improvvisamente vecchio, vulnerabile.

«Immagino che certi rancori siano duri a morire,» mormorò dopo qualche istante, più rivolto a se stesso che al fratello, per poi continuare con tono fermo: «Avevi ragione sin dall’inizio, non dovrei essere qui. È preferibile che vada».

Raccattò cappello e mantello con un unico movimento fluido della bacchetta; non rivolse neanche uno sguardo ad Aberforth, limitandosi a uscire a testa china, senza fare rumore. Quel silenzio grave che si era formato tra loro sembrò permanere anche dopo che Albus se ne fu andato, propagandosi nell’aria come una pestilenza. Il peso di tutte le parole che si erano detti – quelle parole che Aberforth stesso aveva vomitato addosso al fratello con la consapevolezza e il piacere di far male – pareva essersi posato sul suo petto, soffocandolo.

«Mi dispiace,» borbottò Aberforth troppo tardi, quando ormai non c’erano più orecchie disposte ad ascoltarlo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


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Innanzitutto ringrazio ancora tutti quelli che si sono fermati a leggere; questo è l'ultimo capitolo prima dell'epilogo finale :) Il camuffamento di Dung è ripreso dalla descrizione che ne fa la Rowling ne ‘L’Ordine della Fenice’; il nome della capra, Belarda, è opera di quella mente geniale di Alexluna, che non ringrazierò mai abbastanza per l’aiuto che mi ha dato. Le capre hanno un’aspettativa di vita di circa dieci anni, quindici al massimo; non era plausibile, quindi, che continuasse ad avere sempre la stessa – e mettere sempre lo stesso nome a capre diverse mi è parso incredibilmente triste.

Capitolo III

Hogsmeade, 7 giugno 1997

Non erano che le nove: l’aria, tiepida e dolce, gli solleticava la barba e smuoveva i fiori dai rami, facendoli cadere come una nevicata fuori stagione. Gli ultimi riverberi del crepuscolo si infrangevano con solennità contro la superficie del Lago Nero: quelle fiamme dorate portavano con loro cento anni di ricordi, e Albus si ritrovò a sorridere tra sé. L’inverno era finito.

Si diresse con lentezza verso la Testa di Porco, godendosi il clima quasi estivo; fischiettava tra sé un motivetto allegro, tanto da attirare gli sguardi dei pochi avventori rimasti quando si decise a varcare la soglia della locanda, semi deserta a quell’ora. Una strega con un grosso porro sul naso e avvolta da veli e lustrini di dubbia provenienza scelse proprio quel momento per uscire di soppiatto, urtandolo malamente. Albus ridacchiò al pensiero di essere stato appena alleggerito di una buona manciata di galeoni da parte di un Mundungus Fletcher camuffato non molto sapientemente; neanche l’occhiata infastidita che Aberforth gli rivolse sembrò rovinare il suo buonumore, forse perché il fratello sembrava nascondere più sollievo che ostilità.

«Spero di non disturbare,» esordì in tono quieto. Aberforth, quasi imbarazzato, si limitò a un brusco cenno del capo.

Sedersi sul solito sgabello malandato gli diede quasi l’impressione di essere di nuovo a casa. Le loro liti sembravano così distanti, in quel momento.

«Uhm… Qual buon vento?» domandò Aberforth, con un’espressione concentrata che tradiva i suoi sforzi di non mostrarsi burbero come suo solito. Albus sorrise al pensiero che magari anche lui aveva sentito la sua mancanza.

«Oh, avevo solo voglia di fare due chiacchiere, sai,» gli rispose in tono leggero. «E poi, con una bella giornata come questa rimanere chiusi in casa è quasi un sacrilegio, non trovi?»

Aveva agitato in aria la mano sinistra come a supportare la sua ipotesi. Aberforth non aveva risposto, limitandosi a guardarlo inespressivo.

«A ogni modo,» riprese Albus, affabile, «devo dire che ti trovo davvero in ottima forma. E oso sperare che anche Belarda stia bene?»

«Sta bene, sì,» rispose Aberforth con un cenno del capo. «Anche… anche tu sei in forma,» concluse con leggero imbarazzo, spolverando con più insistenza il bancone tarlato.

«Oh, è davvero gentile da parte tua, ma so di essere diventato orribilmente vecchio,» gli disse sorridendo e scrollando le spalle con noncuranza. «Non che mi lamenti. L’ultima volta che ho dato un’occhiata alle figurine delle Cioccorane, dimostravo almeno due anni in meno,» concluse allegramente.

Con un colpo di bacchetta fece apparire due bicchieri colmi di un liquido dal vago aspetto perlaceo; non fu abbastanza lesto, però, a ritrarre la mano carbonizzata prima che Aberforth la vedesse.

«Che diamine hai fatto alla mano?» esclamò lasciando cadere lo strofinaccio. Quasi colto in flagrante, Albus la nascose velocemente dietro la manica ampia del mantello.

«Nulla di particolarmente grave o importante,» minimizzò. «Una gran bella storia, però: devi ricordarmi di raccontartela, qualche volta».

«Perché non adesso?»

«Oh, non voglio rovinare questa piacevole serata con racconti tanto macabri. Ci sarà un tempo e un luogo anche per questo, presumo,» sorrise. I bicchieri oscillavano ancora in bilico davanti alle loro teste, in attesa. Albus ne afferrò uno, temporeggiando mentre sorseggiava lentamente.

«Ah, l’Acquaviola! Niente di paragonabile a un buon Whisky Incendiario durante una fredda notte invernale, ma nella stagione estiva ha sicuramente i suoi pregi,» disse rigirandosi il bicchiere tra le mani. «Non bevi, Aber? Ero convinto ti sarebbe risultata gradita».

«Prima, magari. Sai, vedo di continuo persone che vomitano l’anima per un goccio di troppo, e credimi, non aiuta a rendere l’alcool più affascinante,» replicò ironicamente Aberforth, posando il bicchiere, che continuava a ondeggiare giocosamente a mezz’aria, sul bancone.

«Capisco. Mi premurerò di portarti un dono più gradito la prossima volta,» disse Albus. «Peccato, però; ricordo con vivo piacere le serate che abbiamo passato insieme, anche con la sola compagnia di un buon idromele. Ritengo rendessero molto più sopportabile la mia persona, non è così?» continuò, divertito.

Non attese che Aberforth rispondesse; si era fatto d’improvviso più malinconico e nostalgico, quasi avesse ricordato solo in quel momento un fatto piacevole e non volesse allontanarsene.

«Sono stati dei bei momenti. Ah, non sarebbe male poter ritornare a quegli anni, non è vero?» sospirò Albus, fissando lo sguardo in un punto imprecisato del muro. «Dicono che si diventi veramente vecchi solo quando rimangono più rimpianti che sogni. Di tempo, dopotutto, ne è passato fin troppo…»

«Baggianate,» borbottò Aberforth, interrompendo il flusso di pensieri del fratello. «Uno è vecchio quando non riesce neanche a ricordarsi come si chiama, o come si apre una porta».

Albus rise. «Non hai tutti i torti. In fin dei conti, posso a ben ragione considerarmi più che fortunato».

Rimase a guardarlo per qualche secondo, quasi stupito di come fossero riusciti a mandare avanti quella serata senza alcun litigio. C’era da chiedersi anche come avessero fatto a sopravvivere a quei rancori e rimorsi che sembravano sempre aspettarli al varco, pronti a divorarli a un loro passo falso.

Forse era meglio non tirare troppo la corda.

«Credo sia opportuno che mi ritiri,» annunciò. «Ho un’intera scuola ad aspettarmi, e non credo sia saggio farla attendere a lungo. Sa diventare parecchio gelosa, sai,» sorrise.

Aberforth lo guardò alzarsi con una strana sensazione, come se ci fosse ancora molto di cui dovessero parlare.

«Puoi… puoi rimanere, se ti va. Tanto questi qui,» e fece un cenno col capo per indicare i pochi clienti seduti a un tavolo, «non mi lasceranno in pace prima di qualche ora. Uno in più non fa differenza».

Albus sorrise a quei tentativi maldestri di dimostrarsi distaccato. Non si erano parlati per più di vent’anni – era stato come rimanere di nuovo orfano, o vedersi amputare un arto.

Era perfettamente da lui, d’altronde, rimandare ogni riappacificazione fino a quando non fosse stato troppo tardi.

«Ti ringrazio, ma credo dovrò declinare il tuo invito per questa volta; ricordo di aver promesso a Severus che l’avrei incontrato nel mio ufficio, stasera, e sebbene trovi discretamente piacevole l’espressione seccata che sfoggia quando sono in ritardo, non vorrei abusare troppo della sua pazienza. Ritengo di doverlo incontrare…» si fermò a guardare l’orologio da taschino, «sì, esattamente mezz’ora fa. Ti auguro una buona notte, Aberforth,» disse allegramente Albus prima di allontanarsi.

Giunto sulla soglia, si girò a osservarlo per un’ultima volta: sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma dovette ripensarci, perché si limitò a sorridere e fare un cenno con la mano.

Fermo a fissare la porta ormai chiusa, Aberforth si sentì improvvisamente molto più vecchio e solo.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


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Ed ecco l'epilogo. Ringrazio tutti i lettori silenziosi che mi hanno accompagnato lungo questa storia, e Bellis, che ha commentato con parole così gentili lo scorso capitolo. Spero sia una degna conclusione. Note finali: la foto dell’epilogo non è una mia invenzione: ho ripreso la descrizione della foto contenuta nel libro di Rita Skeeter, Vita e Menzogne di Albus Silente. Ho immaginato che fosse proprio dalla tomba di Silente che Rita la rubasse per poterla inserire nel suo nuovo reportage.

Epilogo

Rive del lago di Hogwarts, 24 giugno 1997

Con ogni probabilità la si poteva definire una mattinata piacevole. Il sole, ancora basso, sembrava essersi impigliato tra i rami della foresta proibita; i suoi raggi obliqui colpivano solo a tratti il lago, così da farlo sembrare uno strano mosaico di oro e blu. La tomba bianca splendeva, maestosa.

Aberforth si avvicinò lentamente. Stringeva tra le mani quello che sembrava un vecchio foglio spiegazzato, e aveva tutta l’aria di non voler essere lì. Alle sette del mattino, i suoi erano gli unici passi che si udivano sul selciato impolverato; priva del chiacchiericcio di studenti e insegnanti, Hogwarts pareva addormentata – o morta, forse.

«Scommetto che quel tuo amico Doge direbbe che Hogwarts se n’è andata con te,» sbuffò Aberforth appena giunto davanti alla tomba. «Quante sciocchezze. A settembre tornerà tutto come prima e non se ne ricorderà più nessuno, vedrai».

Rimase in silenzio per qualche istante, fermo ad ascoltare il fruscio dei rami in lontananza. Sembrava cercare le parole più adatte da rivolgergli – o forse, semplicemente, cercava di adattarsi al silenzio.

C’erano dei fiori, posati sul marmo; gigli e orchidee che oscillavano, come in bilico. Si confondevano quasi col bianco della tomba, tanto che solo gli steli risaltavano vividi. Aberforth si chiese chi avesse mai pensato che quei fiori smorti potessero essere adatti a suo fratello. Era più tipo da tulipani multicolore o da chelidonie, lui. O di qualsiasi altro fiore appariscente, insomma.

«Non sono neanche riuscito a salutarti,» mormorò, lo sguardo basso. «Mi ci gioco la locanda che già lo sapevi, quel giorno, quando ti sei presentato all’improvviso. Hai avuto la tua bella uscita di scena, eh? Una morte banale non si addice di certo al grande Albus Silente».

Si fermò di nuovo, quasi rimpiangendo il tono duro delle ultime parole. Era sempre stato così, tra di loro: mai un confronto civile in cui non finissero per scagliare addosso all’altro tutti i rancori passati – mai una chiacchierata che non nascondesse rimorsi. Anche adesso che Albus non c’era più continuavano a seguire i vecchi schemi.

«Ricordi quello che hai detto l’ultima volta, a proposito dei rimpianti e dell’essere vecchi?» fece una pausa, continuando a fissare quel mazzo di fiori scolorito. «Erano davvero delle baggianate. Altro che non sapere il proprio nome; uno è vecchio quando non c’è più nessuno che si ricorda come si chiami, o di che colore avesse i capelli da ragazzo».

Si rigirò tra le mani il pezzo di carta che prima aveva stretto con tanta forza: era una fotografia sbiadita, dai toni seppiati, coi bordi consunti e anneriti. Ritraeva la famiglia Silente pochi mesi dopo la nascita di Ariana: dietro l’atteggiamento austero che sfoggiavano, si riusciva a scorgere la felicità di una famiglia non ancora spezzata e distrutta dagli eventi. Aberforth si soffermò per qualche momento sul volto di Ariana, stretta tra le braccia di Albus.

«Mi avete abbandonato tutti, alla fine. Non è rimasto più nessuno che si ricordi di me,» mormorò rivolto alla tomba.

Posò con lentezza la foto sotto il mazzo di fiori, riservandogli un’ultima occhiata prima di ridiscendere il pendio. Dal ritratto, l’immagine scolorita di Albus Silente lo guardò allontanarsi con un sorriso triste sul volto.

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