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Ed eccomi qui: di nuovo, vi
chiederete voi? Ebbene sì. u.u Alla fine quel primo
Maggio non era solo una data, ma una scusa. ;D
Che dire? Ecco qui una serie di missing moments di RMA che da tempo bazzicavano nella mia
testa e che all’inizio non sapevo nemmeno se pubblicare… Poi mi sono detta:
perché non tormentarli ancora per benino, questi poveri lettori? =D
Allora, giusto per chiarire:
Karen ha sedici anni, Takao, Hilary e Max ne hanno diciotto, Rei ne ha
diciannove, Kai ne ha venti.
E così… Cominciamo? Ma
sì… 3,2,1… Go!
A voi, mie
splendide lettrici.
Perché con il vostro affetto, sostegno, con
la vostra passione, siete state meglio di qualsiasi
maledetta medicina.
E mi avete dimostrato che non solo ce la
posso fare ad essere quella di prima, ma che posso
essere anche molto meglio.
Grazie.
Teenage Dream
You change your mind Like a girl changes clothes
Yeah you, PMS
Like a bitch
I would know
And you over think
Always speak Critically
Hot n Cold – Katy Perry
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Ora sì che era nei guai.
Si
passò una mano sui capelli biondi, ravviandoli nervosamente, e sbuffò, cercando
di calmare il tremore che minacciava di sopraffarla.
Okay,
si trovava a Tokyo e non sapeva una parola di giapponese, era scappata dal
collegio in Francia per approdare lì con la speranza – minima – che la persona
che stesse cercando ci fosse ancora, e non aveva un posto
dove andare.
Ma potevano
essere solo dettagli, quisquilie, inezie, se prese con
il giusto distacco.
Calmati.
Tra quel groviglio di persone,
che parevano sapere esattamente dove andare, che fare, e quale fosse la loro
destinazione, Karen strinse a sé lo zaino, laddove stavano i pochi indumenti
che si era portata, ma soprattutto i documenti e la
carta di credito.
Un taxi,
doveva trovare un taxi.
Camminando dal centro
dell’aeroporto fino alla sua uscita, si accorse che molte persone la stavano
osservando: alta, slanciata, bionda e con gli occhi viola, aveva di certo
colori che non si vedevano tutti i giorni.
Per intraprendere quel viaggio,
poi, aveva indossato un paio di shorts di jeans e un top arancione senza
maniche, ovvero quello che aveva messo quella mattina
al collegio per farsi punire dalla suora di turno, ma a quanto pareva il look
non era stato dei più indovinati per il pudico Giappone, almeno a giudicare
dalle occhiate scandalizzate che le lanciavano le donne giapponesi, tutte
vestite nei loro tailleur o vestitini che non lasciavano intravedere alcunché.
Ma poco
le importava.
In quel momento voleva soltanto
quel dannato taxi. E raggiungere la sede della BBA.
Infatti, uscita dall’aeroporto,
individuò immediatamente il cartello con la scritta che le interessava, e anche
la fila di persone che stavano aspettando la vettura sulla quale salire.
Sospirando, si mise in coda,
tamburellando con il piede ritmicamente sul pavimento. Di taxi, grazie al
cielo, ne arrivavano uno al secondo, quindi quella
fila sarebbe stata smaltita in fretta.
Fu un fruscio a farle tendere le
orecchie: non si voltò neanche. Semplicemente, con un colpo ben assestato, mise
a segno un gancio destro che andò dritto sul mento di qualcuno.
Strinse a sé il suo zaino con
fare protettivo, incrociando le braccia al petto. “Spiacente, amico, ma mi
serve.” cantilenò, in francese.
Il tassista che si era fermato
davanti a lei, la fissava stranito ed anche un po’ agitato, ma la francese
decise di non farvi particolarmente caso.
“Sede della BBA.” ordinò,
scandendo bene le parole in un inglese scolastico ed
infilandosi sulla vettura. “In fretta, per favore.” L’uomo annuì velocemente, quasi
spaventato, partendo in fretta.
Karen sprofondò sui sedili
dell’auto: era assolutamente esausta, ma ancora non poteva permettersi di
abbassare la guardia. Non sapeva dove diamine si
trovasse suo fratello, e andare alla sede centrale di beyblade che c’era lì in
Giappone era l’unico modo per scoprirlo.
Avrebbe lottato con le unghie e
con i denti per affermare il suo diritto di ricostruire una famiglia, diritto
che le era stato negato fin da piccola.
Improvvisamente sentì le palpebre
farsi pesanti, e la testa appoggiarsi al finestrino; sull’aereo non aveva praticamente dormito, l’adrenalina per il gesto avventato
aveva avuto la meglio persino sulle ore di sonno che le spettavano e sul fuso
orario… E, in quel frangente, era esausta.
“Signorina?” il tassista richiamò
la sua attenzione con un inglese stentato. “Saremmo arrivati… Signorina?”
Sussultò immediatamente,
guardandosi intorno: dinnanzi a lei si stagliava un
edificio enorme, pressoché immenso, con su il cartello della BBA. Era davvero
arrivata: dopo ore e ore di viaggio, di patemi di
angosce, di paure, ora, forse, poteva lasciarsi tutto alle spalle.
Porse all’uomo una banconota dal
valore ben maggiore del costo del viaggio, e scese.
Anche dall’interno, la sede della
BBA era esattamente come se la era immaginata: ordinata, organizzata, con uno
stuolo di buttafuori e segretarie pronte per qualsiasi evenienza. Infatti, non
appena entrò, Karen venne squadrata ed osservata per
bene.
“Ti posso aiutare?”
Bingo.
La ragazza alzò lo sguardo su
quella donna in tailleur prugna, con i capelli neri acconciati in una crocchia,
che la fece sentire ancora più inadatta a quel tipo di ambiente.
Sbuffò, digrignando i denti.
“Devo vedere il presidente.” fece, alzando il mento, in un’espressione decisa.
La donna inarcò brevemente le
sopracciglia. “E il tuo appuntamento era fissato per…?”
Karen la guardò di traverso. “Non
avevo nessun appuntamento.” sputò fuori.
“Allora temo sia impossibile. Il presidente è molto impegnato e-”
“Sentimi bene.” la ragazza perse
definitivamente la poca pazienza che le era rimasta. “Sono
arrivata dalla Francia solo per parlare con lui, e non me ne andrò fino a
quando non l’avrò visto, a costo di accamparmi qui. Chiaro?” ruggì, il volto contratto dalla rabbia e dalla stanchezza
insieme.
La donnina giapponese si incupì, girando sui tacchi e andando via.
Karen sbatté ferocemente il suo
zaino su una delle sedie della sala d’aspetto, accomodandosi lì. Sapeva che non
sarebbe stato facile, ma d’altronde lei non era abituata alle cose semplici.; fin da piccola era stata una piccola furia, alla quale le
suore davano sempre le punizioni perché bricconcella.
Era lei che, di nascosto, giocava
a beyblade nel giardino del collegio, divenendo la migliore; era lei che, sempre
di nascosto, fin da quando aveva dodici anni, usciva il venerdì sera per poter vedere Parigi illuminata; era lei che, quando
qualcosa non le andava a genio parlava, senza curarsi di venire castigata con
il digiuno o con l’isolamento.
Ce l’avrebbe
fatta anche stavolta.
Chi la dura la vince.
“Mi scusi?” si svegliò di
soprassalto per l’ennesima volta, e con un gran cerchio alla testa. Decisamente, dormire in una sala d’attesa non era proprio il
sogno della sua vita. “Il presidente la sta aspettando.”
Karen balzò in piedi, sbattendo
gli occhi. Era arrivato il momento. Finalmente.
Seguì la donna lungo un corridoio
bianco che pareva non finire mai, e una volta bussato, un uomo sulla sessantina
seduto dietro una scrivania, le sorrise.
“Salve; tu sei la signorinella
che ha portato una novità nella noiosa giornata di oggi, vero?”
La ragazza lo osservò: il
presidente Daitenji, dietro quel completo nero e quei baffoni grigi pareva un
uomo buono, disposto ad ascoltare e a capire… Avrebbe capito
anche lei?
“Ho bisogno di aiuto.” una sua
caratteristica era il non perdere tempo in inutili quisquilie, andare dritta al
sodo; accavallò le gambe, sentendo l’improvviso
bisogno di una giacca.
L’uomo aggrottò la fronte. “E
come posso aiutarti, bambina?”
Karen prese a frugare dentro il
suo zaino, in cerca dei documenti. “Vorrei che mi dicesse dove si trova mio
fratello: sono arrivata dalla Francia per ritrovarlo.” fece, trapassandolo con
lo sguardo e allungandogli la carta d’identità.
Il presidente trattenne a stento
un’esclamazione di sorpresa quando si rese conto di chi aveva davanti.
“E Takao chiude l’incontro!”
Hilary batté le mani, entusiasta. “Grandi
match, grandi
sfide attendono i Blade Breakers per il prossimo campionato mondiale!” agitandosi
come DJ man, riuscì a far ridere i suoi amici, che la stavano osservando,
curiosi.
Max riprese in mano Draciel,
inarcando un sopracciglio. “Io non ci credo ancora che il prossimo campionato
dovrà essere l’ultimo, per noi.”
Un silenzio tombale scese lungo
il giardino di casa Kinomiya, andandosi ad irradiare
fin dentro i ragazzi, che abbassarono lo sguardo.
Quando, mesi prima, avevano ricevuto la convocazione per il futuro campionato di
bey, avevano avvertito la scossa di adrenalina che caratterizzava ogni
competizione mondiale del loro sport preferito; ma quando avevano letto
l’avvertenza della BBA, secondo la quale, dall’anno successivo, chi avesse
superato i diciotto anni di età non poteva più essere ammesso… Beh, quello era
stato un duro colpo per tutti.
“Coraggio!
Mancano ancora dei mesi, e questo sarà un incentivo a rendere l’ultimo
campionato della vostra vita a dir poco indimenticabile.” Hilary sorrise, cercando di incoraggiarli.
I ragazzi la osservarono, grati:
con la sua simpatia ed energia era sempre riuscita ad
essere una fonte inesauribile di divertimento e di coraggio per loro; quasi non
si ricordavano il primo campionato dove lei non c’era.
Una vita senza di lei che rideva,
incoraggiava, consigliava e, sì, rompeva,
sarebbe stata impensabile.
“Kai!” nonno Jay arrivò ansimante
dal salotto, vestito, come al solito, in tuta da kendo.
“Il presidente Daitenji al telefono per te.”
Il russo inarcò le sopracciglia,
sorpreso: che cosa poteva volere il presidente della BBA, da lui? Sperava davvero
che non fosse per il suo limite d’età, visto che aveva
quasi vent’anni. Ma, d’altro canto, i paletti per
questa noiosa pratica burocratica erano stati applicati dall’associazione dal
prossimo campionato in poi, quindi…
Entrando in casa, afferrò il
telefono, e la voce del presidente lo colpì: imbarazzata, un po’ stupita, come
se ci fosse qualcosa in ballo e non sapesse da che parte prenderla.
Non restava che andare a scoprire
di cosa diamine si trattava.
Non se lo aspettava così, il momento che aveva atteso da tutta una vita.
Karen impallidì vistosamente quando nello studio entrò un giovane alto, dal
portamento determinato e fiero, di bell’aspetto e con due occhi viola
totalmente uguali ai suoi.
L’aveva visto tante volte in tv,
sui giornali, aveva seguito i suoi incontri di bey alla radio… Ma trovarselo
davanti era tutta un’altra cosa.
Le assomigliava.
Non totalmente, ma avevano
qualcosa in comune: la linea dritta del naso, la curva delle guancie, il taglio
e il colore degli occhi. Si assomigliavano, era innegabile.
Sentendo il proprio cuore
implodere mentre il giovane ascoltava Daintenji, non poté fare a meno di
osservarlo, millimetro dopo millimetro.
Kai…
“Non diciamo assurdità.” la voce glaciale del
ragazzo la fece sussultare, facendola riscuotere da
qualsiasi pensiero. “Sono figlio unico, io.”
la frase, detta con astio e rancore, celava una ferita aperta
e non del tutto risanata, Karen lo comprese al volo.
Quando se ne andò, sbattendo la
porta, non si fece intimidire per nulla. Aveva volato per ore, sull’aereo
Parigi-Tokyo, era scappata dal collegio, rischiando grosso. Di certo non si
sarebbe fatta mettere paura da un ragazzo palesemente
troppo spaventato dal suo passato.
Lanciò una breve occhiata al
presidente, dopodiché si lanciò all’inseguimento del ragazzo, che era già
uscito fuori. Non sapeva una parola né di giapponese
né di russo, ma sapeva bene che in questi casi non era la lingua che contava.
“Aspetta!” urlò, raggiungendolo
dopo pochi passi; lo fronteggiò con lo sguardo, trapassandolo con le sue stesse
iridi, e, dalla smorfia che fece il ragazzo, comprese che ne era spaventato
quanto lei. “Mi chiamo Karen. Karen Hiwatari. Controlla tu
stesso.” gli schiaffò in mano i suoi documenti, respirando a fatica, il cuore
che batteva come impazzito.
“Fin dalla nascita sono sempre
stata chiusa in un collegio in Francia, e mi dicevano che facevo parte della
dinastia russa Hiwatari.” si scansò la frangia bionda dagli occhi. “Sono sempre
stata sola, volevo ritrovare la mia famiglia.” aggiunse, cercando di non farsi
venire il magone.
Kai le ficcò i documenti in mano.
“Anch’io sono sempre stato solo, e ho vissuto alla perfezione.” sibilò, scortese,
andandosene.
“Mamma non avrebbe voluto tutto
questo.” sussurrò, alzando gli occhi al cielo, come per fermare le lacrime.
Fu un attimo: il russo si voltò
di scatto, andandole vicino e artigliandole il polso. “Che ne sai tu di mia madre?”
La bionda, con un gesto di
autodifesa ben calibrato lo spinse indietro, digrignando i denti. “Lo so perché
possiedo delle sue foto e anche un filmato di quando era giovane!” si morse le
labbra per non piangere. “Si chiamava Nadezda Sokolova, ma si faceva chiamare Nadja.” fece, estraendo dal portafogli una foto
vecchia di anni che mostrava una bella donna dai capelli biondi che stringeva
un fagottino rosa. Accanto a lei c’era un bambino di circa tre anni. Lui.
Kai sentì il sangue scivolargli
via dalla faccia e il proprio cuore scalpitare ad un
ritmo mai sostenuto. Si appoggiò al muro, chiudendo gli occhi, lentamente.
Nadja. Sua madre. Ed era
totalmente simile alla ragazza che aveva di fronte.
Era incredibile: era sempre stato
un tipo solitario, aveva fatto della solitudine il suo modo di vivere e adesso,
quando meno se lo era aspettato, gli era piombata
addosso una… sorella?
Aprì gli occhi, fissandoli su
quella ragazza che lo guardava preoccupata.
Avrebbero avuto tanto di cui
parlare e moltissimo da recuperare. Ma, in fondo, avere una famiglia, delle
radici, qualcosa a cui poter dire di appartenere… Era
un’esperienza nuova per Kai Hiwatari. Quasi una sfida. E a lui le sfide erano
sempre piaciute.
Ora sapeva cosa provavano gli
animali rari allo zoo: una sensazione pressoché sgradevole.
Non che fosse una ragazza timida
e riservata, anzi; ma tutta quell’attenzione e quegli occhi di fuori nemmeno
fosse una papera a cinque becchi non se la meritava proprio.
In fondo suo fratello l’aveva
solo presentata ai suoi amici.
La prima a riprendersi fu la sola
ragazza del gruppo, una personcina davvero molto carina e gentile, che le parlò
in inglese. “Piacere, mi chiamo Hilary.”
Ecco chi era…
Karen aprì la bocca per dire
qualcosa, ma avvertì all’istante lo sguardo tagliente di suo fratello e la richiuse immediatamente.
Subito dopo il confronto di
fronte la BBA, lei
e Kai erano andati al belvedere, a raccontarsi un po’
di cose della loro vita, e il suo fratellone non si era dimostrato molto
originale.
Dranzer, battere Takao, e Hilary.
Per quelle ore non aveva sentito
altro.
E l’ultima parola era sempre
accompagnata da un luminoso sbrilluccichio d’occhi. Non ci voleva certo Sherlock
Holmes per fare due più due.
“Karen.” rispose, dedicandole un
sorriso. “Scusate, ma non capisco niente di giapponese…”
La brunetta fece spallucce. “Qui
ce la caviamo più o meno tutti con l’inglese. E poi tu
sei francese, se non sbaglio: se ti insegno la mia
lingua che ne diresti di insegnarmi la tua?”
Non poté far altro che annuire, e
lasciarsi sfuggire un altro sorriso. Ora capiva come
mai suo fratello si fosse innamorato pazzamente di quella ragazza: era carina e
gentile, e tra l’altro, non esitava a mettere la gente a proprio agio.
“Mi unisco alle lezioni!” esclamò
il biondino del gruppo, avvicinandosi. “Sono Max.”
“Ovvio, ti univi
anche se non volevi.” chiarì la bruna, scrollando le spalle. “Ci servi
per la pronuncia madrelingua.” si rivolse a Karen, con un tono di chi sta
facendo una confidenza. “Vedi, lui è Americano, ma se la tira in una maniera… Infatti
sa solo l’inglese e nient’altro.” lo disse con tono che faceva intendere la
presa in giro, e ci furono delle risatine generali.
Il biondo si finse offeso e, per
tutta risposta, scompigliò vivacemente i capelli della brunetta, che prese a
ridere della grossa. Karen li osservò, in un misto di stupore e invidia: lei
non aveva mai avuto amici così… Sembravano belle persone.
“Mastico un po’ l’inglese…”
intervenne il moro che, sulla tuta, aveva stampato i segni dello
yin e dello yang. “E il francese lo so già. Ho
imparato a cucinare lì.” le rivolse un sorriso sincero. “Mi chiamo Rei.”
La ragazza gli
sorrise di rimando: pareva che, rotto il ghiaccio la brunetta, tutti si fossero
tranquillizzati.
“Qui sa cucinare solo lui, eh.”
le disse Max, con aria saggia. “Non fidarti mai di lei.”
Vedendo la
giapponese rincorrere l’americano con finta aria sdegnata, Rei e Karen non
poterono far altro che scoppiare a ridere. Pareva che in quel gruppo
vigesse la regola dell’armonia e della risata, e lei aveva tanta voglia di
sentirsi spensierata…
“Non mi convince.” fu a quel
suono che si voltò di scatto, e sbatté gli occhi: davanti a suo fratello stava
il giapponese dai capelli neri, il padrone di casa, e aveva uno sguardo
sospettoso, preoccupato… Nel momento in cui gli occhi di lei
incontrarono quelli di lui, Karen avvertì una strana sensazione, che non seppe
classificare.
Sapeva chi era, certo che lo sapeva: era Takao Kinomiya, il campione del mondo di
beyblade, ma tutto ciò che in quel momento il suo cervello le suggeriva, era di
uccidere con lo sguardo quell’idiota.
Che diamine ha da guardare così?
Incrociò le braccia al petto.
“Qualche problema?” con tono di sfida, squadrò il ragazzo, nel tentativo di
farlo sentire un verme.
Il moro aprì la bocca più volte e
la richiuse, dopodiché scosse la testa. “Sì, ho
qualche problema.” sbottò, come fosse ovvio. “Vieni qui
dal nulla e affermi di essere la sorella di Kai, quando potresti benissimo
essere un’impostore!”
Karen spalancò occhi e bocca.
“Come diamine-”
Kai le si
avvicinò, posandole una mano sul braccio. “Lascia
perdere, adesso-”
La bionda alzò la mano, come
scottata. “No, questa è una cosa tra me e il tuo amichetto, qui.” ruggì. “Sono
arrivata dalla Francia per Kai, volevo ritrovarlo, scusa se è poco.” sobbalzò
quando si sentì afferrare dolcemente gli avambracci: voltandosi, si accorse che
si trattava di Hilary.
“Takao, lei e Kai si assomigliano
tantissimo, non vedi?” la bruna fece un sorriso incoraggiante e diplomatico.
“Io le credo.”
Il giapponese scosse la testa,
emettendo un mugugno. “Kai ha già sofferto abbastanza. Voglio una prova
schiacciante che tu sia sua sorella! E non mi bastano due foto! Potresti averle rubate.”
Karen incassò il colpo, serrando
le mascelle con forza: potevano dirle di tutto, tranne che non fosse una
persona onesta o corretta.
Rubare? Lei?!
Si ritrovò a tremare, e quando dei
brividi le scossero tutto il corpo, si avviò verso il suo zaino, sotto lo
sguardo allibito di tutti.
“Ti sfido,
Kinomiya!” ringhiò. “Così avrai la prova che cerchi!” sfoderò
il suo beyblade, una trottola in metallo viola a strisce blu.
Il giapponese si calcò il
cappello in testa. “Non aspettavo altro.” sibilò, deciso.
Quando lanciarono i loro
beyblade, tutti notarono fin da subito come la francese non scherzasse
affatto: agguerrita e combattiva, nei suoi occhi viola pulsava la luce di
chi voleva vedere Dragoon fuori dal campo a tutti i costi.
Takao si trovò seriamente in
difficoltà quando il bey della ragazza procedette a zig zag molto velocemente,
inchiodando il suo sul bordo campo. Si morse le labbra, pensando che, in
effetti, non si aspettava un’avversaria così battagliera.
“Resisti, Dragoon!”
Karen aggrottò le sopracciglia in
un’espressione furibonda, come se lui avesse appena bestemmiato. “Mai! Fenice bianca!” al suo urlo, sopra le loro teste si sopraelevò una
maestosa fenice che ricordava tanto quella di Kai, eccetto che per il colore.
L’animale sembrò ardere quanto il
fuoco negli occhi della padrona, perché non lasciò il tempo al giovane di fare alcunché: volò in picchiata verso il bit di lui e lo scagliò
fuori dal campo, per poi ritirarsi nel suo bey.
Takao osservò la ragazza,
corrucciando le sopracciglia: l’aveva battuto, eccome se l’aveva battuto; e
aveva anche dimostrato di essere la sorella di Kai, non vi erano dubbi: quella
fenice era praticamente come la sorella di Suzaku.
Era evidente che si era
dimostrato la solita testa calda, ma d’altronde non era una novità: per i suoi
valori, per i suoi amici, perdeva la testa… Non restava altro che fare un passo
indietro, e scusarsi con chi di dovere.
Le andò vicino, porgendole la
mano. “Scusami, è evidente che sei davvero la sorella di Kai.” fece,
sorridendole. “Incontro entusiasmante, sei in gamba.”
Karen afferrò con forza la sua
mano, quasi con gesto di sfida. “Sono
in gamba, anche se non è che ci voglia molto a
batterti.” scompigliandosi i capelli, si scrollò leggermente le spalle, girando
sui tacchi.
“Come sarebbe a dire?” la voce di
Takao si alzò di un’ottava.
“Sarebbe a dire” la bionda gli
andò vicino, pressando l’indice contro il naso del giapponese “Che se la prossima
volta che sfidi una ragazza pensi a batterti
seriamente anziché alla sua misura di reggiseno, potresti anche vincere.”
Una risata generale si alzò dagli
altri, che non riuscirono ad evitarla in alcun modo.
Takao arrossì, diventando del
colore del suo cappellino. “Non è vero!” protestò, arrossendo sempre più, ma,
inspiegabilmente, più protestava, più gli altri ridevano. “Ehi, avete sentito? Non è vero!”
Sedute ad
un tavolino di una delle piazze di Tokyo, Karen sorseggiò volentieri un
aperitivo in compagnia della sua nuova amica: erano andate a fare shopping, al
cinema, in piscina, e in quel frangente si stavano rilassando al bar.
Hilary era una persona
carismatica, affascinante, e lei aveva capito perfettamente come aveva fatto,
in quegli anni, a gestire tante personalità complesse come i Blade Breakers
senza mai scomporsi. Aveva diciotto anni appena compiuti, eppure – se lo
sentiva – sarebbe stata una gran donna, di quelle forti e volitive, che
meritano di avere accanto a sé un grand’uomo.
Tipo suo fratello.
“Takao non è cattivo, ma è un po’
una testa di cazzo.” rise Hilary. “E’ il mio migliore amico, ci conosciamo
dall’asilo, lo conosco come le mie tasche… Può essere
arrogante, avere un ego gigantesco… Ma ha un gran cuore, fidati.”
Karen inarcò un sopracciglio. “Cosa provi per lui?”
La bruna quasi si strozzò con
l’aperitivo per le risate che emise, spaventando la francese. “Amicizia!”
esclamò, come fosse ovvio. “Andiamo, è… E’
Takao!” scosse la testa, ravviandosi i capelli castani con un gesto
inconsapevolmente attraente che attirò lo sguardo di molti ragazzi. “Non potrei
vivere senza di lui, ci conosciamo da quando avevamo tre anni, ma è come fosse mio
fratello.” fece, scrollando le spalle.
“Ho capito.” disse lentamente la
francese, sgranocchiando le noccioline che avevano portato insieme agli
aperitivi. “Di Kai cosa ne pensi?” buttò lì, con aria fintamente casuale.
Hilary sorseggiò il suo drink.
“Bravo ragazzo, malgrado quello che se ne dica. Vado molto d’accordo con lui, e
sono contenta che mi abbia preso in simpatia, non sono tante le persone chepossono vantare
quest’onore.” proclamò, sorridendo.
Non hai capito niente… “Anche con gli altri vai d’accordo.” cambiò
discorso, per nascondere la sua delusione. Aveva sperato di poter fare il cupido
della situazione, ma i tempi non erano evidentemente maturi.
“Sì. Io
e Rei abbiamo un rapporto tipo fratello maggiore- sorellina minore, ce l’abbiamo sempre avuto. Con Max,
invece, siamo amiconi; è una tale dolcezza, quel tipo.” fece, sorridendo.
“Vuoi a tutti molto bene.”
calibrò le parole per vedere se c’era, tra i due qualcuno che poteva essere
considerato rivale di suo fratello.
“Oh, sì. E ti sarebbero piaciute
anche Mao ed Emily, le loro fidanzate! Non sono potute partire con loro, ma
verranno quest’estate, spero avrai l’occasione di conoscerle.”
Karen si rilassò: il cuore della
ragazza pareva essere libero. “Lo spero anch’io. Non ho mai
avuto delle amiche, ma… Mi sto divertendo.” sussurrò.
Hilary le sorrise dolcemente.
“Ehi, io ti sono amica.” fece, schiacciandole l’occhiolino. “Il presidente
Daitenji ha già telefonato al collegio in Francia per deliberare la pratica che
ti permetterà di vivere accanto a tuo fratello fino alla maggiore età. Sei libera. Poi hai noi, hai me.” le strinse la mano, e Karen provò
un senso di sollievo che non aveva mai provato prima.
“Amiche?”
“Certo. Fino a quando non ti
stancherai di me. Sai che sono insopportabile?”
Quando un profumino si sparse per
tutto il giardino, Takao non poté che richiamare Dragoon, anche perchéil suo stomaco stava
decisamente brontolando.
Erano tutti usciti: nonno Jay era
ad un ritiro di samurai, Hilary a casa sua a studiare
– quella secchiona! – Kai e Max al belvedere ad allenarsi, Rei a fare la spesa…
Che diavolo stava succedendo?
Curioso, entrò in casa, seguendo
la scia di profumo, e quello che vide lo lasciò, sconvolto, sulla soglia.
Karen stava cucinando. Ma non era questo il problema.
Perché vedere quella ragazza
alta, con i capelli biondi e ondulati lasciati liberi di ricadere sulla
schiena, vestita con un prendisole arancione che muoveva ritmicamente la testa
a canticchiando una canzone gli faceva serrare lo stomaco?
Hai fame. E’ il tuo stomaco che brontola.
“Cosa prepari?”
incredibile come, quando parlò, la voce gli uscì gracchiante, incerta.
Karen lo guardò inarcando un
sopracciglio. “Qualcosa di sopraffino. Quindi non adatto a
te.” replicò, ghignando.
Una volta si sarebbe indispettito
ed avrebbe pestato i piedi per questa provocazione,
invece Takao notò come, ogni parola della ragazza, gli causasse un brivido che
gli faceva venire voglia di giocare una specie di partita di ping pong verbale
con lei.
“Qual è il tuo indice di
sopraffino, visto che voi francesi non mettete la
carta igienica nei bagni pubblici?”
Karen non smise di fare quello
che stava facendo, ma Takao la vide sorridere, e ciò gli causò un brivido di
eccitazione che fino ad allora aveva provato solo
nelle partite di beyblade.
“Il mio indice di sopraffino è
mangiare con grazia e notare gli sforzi dello chef. Sempre che tu sia capace di
vedere al di là della tua trottola.”
Era una chiara frecciata, l’aveva
capito. Sapeva che non l’aveva perdonato per aver dubitato di lei e per averle
dato dell’impostore e della ladra, ma si era già scusato. Cos’altro
poteva fare? Mettersi in ginocchio e strisciare?
“Sono in grado di vedere al di là del mio bey, quando è il caso.”
“Io non direi.” Karen sghignazzò.
“Altrimenti ti saresti accorto che hai la bottega aperta.”
Con una esclamazione
colorita, Takao si voltò, per constatare che, in effetti, aveva la cerniera dei
pantaloni abbassata: dannata ragazzina, ne sapeva sempre una più del diavolo!
All’aeroporto di Tokyo faceva
freddo, quel giorno di Marzo. Karen si strinse nella sua giacca, pensando che,
esattamente quindici giorni prima, era approdata esattamente da lì e, in quel
momento, si apprestava ad andare a vivere con suo fratello a Mosca. Non stava
più nella pelle.
Quei quindici giorni erano stati
magici: aveva conosciuto meglio Kai, aveva fatto
amicizia con Hilary, che si era rivelata una persona stupenda, e si era
integrata anche nei Blade Breakers – o quasi. Perché non aveva fatto che
battibeccare e prendersi in giro con Takao, per la disperazione degli altri.
Lo sapeva che non era il miglior
comportamento da tenere, ma non poteva farci nulla: quando apriva bocca, lei
doveva ribattere in maniera pungente. Era più forte di lei.
“Buon viaggio, Kai.” Hilary si
avvicinò a suo fratello, salutandolo con un sorriso luminoso. Karen fece del
proprio meglio per non sbuffare: quella ragazza era bravissima per le questioni
altrui, ma per quelle che riguardavano se stessa era una frana.
“Ehi, Kary!” la brunetta la
strinse in un abbraccio. “Noi ci sentiamo, intese?
Dovessimo far spendere una bolletta cosmica alla Neoborg.”
“Esistono le e-mail.” brontolò
Kai, incrociando le braccia al petto.
La francese sorrise: era sicura
che dietro quella frase vi fosse una punta di gelosia: anche lui avrebbe voluto rimanere in contatto con la giapponese.
“Oh, sì, le
e-mail! Come fossero la stessa cosa di una sana
chiacchierata al telefono!” lo rimbrottò Hilary, ridendo.
“Va beh, piuttosto pensa a
studiare…” fece spallucce Takao, come se sentire Karen fosse un affare di
minore importanza.
“Senti chi parla!” tutti
scoppiarono a ridere alla battuta della francese. “Sbaglio o quest’anno sei di
diploma?”
“Fatti gli affari tuoi.” brontolò
il giapponese, lanciandole un’occhiataccia. Possibile che quella biondina
avesse sempre la risposta pronta?!
Giugno era arrivato in un lampo,
tra allenamenti e giornate estenuanti alla sede della Neoborg. Per la sua
bravura era entrata a far parte della squadra, e dal prossimo campionato
avrebbe gareggiato assieme a suo fratello. La cosa la riempiva di onore e di
gioia, ma sapeva anche che avrebbe dovuto battersi per fare del suo meglio. Kai
pretendeva sempre moltissimo dai suoi compagni di squadra, e lei non aveva
minimamente intenzione di deluderlo.
I mesi trascorsi in Russia erano
pressoché volati: aveva conosciuto Yuri, Boris, Serjey, e la fidanzata di Yuri,
Eva, che di tanto in tanto bazzicava intorno per vedere come procedevano gli
allenamenti.
Tutto sommato
erano dei ragazzi simpatici, rispettosi, non molto socievoli, ma bisognava
entrare bene in confidenza per farsi accettare, e lei non aveva avuto alcun
tipo di problema.
Si era sentita spesso con Hilary,
che le aveva raccontato come procedeva la vita in Giappone, si erano scambiate
lettere, e-mail e cartoline, e la loro amicizia si era anche rafforzata. Di
giorno in giorno aveva capito sempre di più come mai quella ragazza, che di
primo acchito poteva parere appiccicosa o inopportuna, fosse così
insostituibile nel cuore di tanti blader che l’avevano conosciuta nei
campionati del mondo e soprattutto nel cuore di suo fratello.
In quel momento lei e Kai avevano
appena recuperato le valigie: li aspettavano tre mesi belli pieni a Tokyo, per
una sorte di rimpatriata con i Blade Breakers, e lei non vedeva l’ora. Hilary
le aveva assicurato che avrebbe potuto conoscere Mao ed Emily, le sue migliori
amiche. Chissà che tipe erano…
“Kai! Karen!”
nella calca di persone che aspettavano i loro cari nella sezione arrivi
dell’aeroporto di Tokyo, una mano si erse, rivelando una chioma color
cioccolato.
La bionda
sorrise largamente, facendo cenno a suo fratello, che annuì. “Hila!” La
francese praticamente le si buttò addosso,
abbracciandola. “Mi sei mancata…” rivelò.
“Anche tu.” sorrise la brunetta.
“Ciao Kai. Takao mi ha mandato a prendervi perché deve
sistemare la casa e nonno Jay gli ha impedito di uscire.” lei e Karen
ridacchiarono. “Andiamo?”
“Ben gli sta! Deve fare il
cenerentolo, altro che roba. Anzi, adesso andiamo a casa sua e gli faccio delle
foto.”
Hilary alzò gli occhi al cielo.
“Ti pareva.”
Mao sospirò ed Emily incrociò le
braccia al petto. Karen le fissava con le sopracciglia inarcate, aspettandosi
una risposta degna di essere chiamata tale: si erano presentate da pochi
giorni, si erano trovate reciprocamente simpatiche, avevano passato delle belle
giornate insieme, fino a quel momento.
Hilary era fuori a cena con un
suo pretendente.
E Karen aveva
posto loro una semplice domanda: come
facciamo a far capire a questa zuccona che lei e mio fratello sono fatti per
stare insieme?
“Io non lo so.” l’americana si
aggiustò gli occhiali. “Certe cose non si dovrebbero capire da soli?”
Mao scosse la testa. “Dipende dai
casi, Em. Talvolta un’imbeccata può essere utile. E stavolta mi sa che lo è. Cioè, Kai è innamorato di lei da anni, e quella
zuccona non se ne accorge.” scosse la testa.
Karen mise le mani sui fianchi.
“Okay, che si fa?”
“Cosa?” Takao sopraggiunse nel
soggiorno di casa sua come una mosca, prendendo immediatamente uno dei biscotti
preparati dalla francese.
“Non sono affari tuoi.” lo
rimbrottò la bionda, scaldandosi; era più forte di lei: ogni volta che lo vedeva prendeva fuoco come un fiammifero, non poteva farci
nulla.
“Invece può aiutarci.” Mao usò il
tono di chi aveva appena avuto un’idea geniale. “Takao, tu sai che Kai è
innamorato di Hilary.” lui annuì con fare ovvio. “Stamattina prima ci ha
chiesto se doveva uscire con questo tizio con cui è stasera, poi… Lo ha chiesto addirittura a Kai.”
Takao per poco non sputò ciò che
stava mangiando. “Cosa?!”
Emily annuì. “Lui ha fatto una
faccia… Ma lei non se ne è accorta proprio. Noi allora
le abbiamo detto che non gliele deve chiedere certe cose, perché… Beh, insomma,
eravamo arrabbiate, e le abbiamo rivelato la verità. E lei… Ci
è scoppiata a ridere in faccia. Non ci ha creduto.”
Takao si fece serio. “Urge una
chiacchierata con la mia migliore amica.”
Karen inarcò un sopracciglio:
dubitava seriamente che quella testa calda sarebbe
potuta essere di una qualsiasi utilità.
Venti giorni passarono in un
lampo, portando con loro una miriade di novità: Emily ruppe il fidanzamento con
Max, per ragioni non a loro note, partendo definitivamente per l’America, tra
pianti e litigate furibonde; lei, Mao e Hilary, di tanto in tanto, uscivano e,
tra pub e discoteche, andavano a divertirsi senza alcun maschio tra i piedi…
Anche se, da qualche settimana a quella parte, sembravano esser diventati i maschietti il problema di Hilary. Era divenuta preoccupata,
irritabile, nervosa, confusa.
Quel giorno erano a fare shopping
per le vie di Tokyo, e Karen non si era sentita mai più leggera e spensierata:
se pensava che solo un anno prima si trovava in
Francia in collegio le venivano i brividi.
“Che ne dici di questo negozio?
Entriamo?” Mao ammiccò verso di lei, indicandole con la testa un negozietto che
mostrava al suo interno un paio di abiti piuttosto
carini e di classe.
Il campionato sarebbe iniziato
tra qualche mese, e loro avrebbero avuto bisogno di rifocillare il loro
guardaroba, mica potevano partire con qualche straccetto messo in croce.
“Oh, per me va bene, per Hilary?”
entrambe si voltarono a sentire il parere della brunetta, ma, con sorpresa, la
trovarono parecchi metri più in là, occupata a parlare al cellulare, con un
sorriso dolce sulle labbra che non le avevano mai visto.
Karen si scambiò un veloce
sguardo con Mao: non sapeva cosa pensare, né cosa sperare, ma dentro di sé
sentiva soltanto una forte voglia che il suo desiderio si avverasse…
“Allora?
Cos’è questo sorriso che fa il giro della faccia?” il tono di
Mao era sospettoso.
“Sai cosa succede alle donne che
volevano sapere troppo?” rispose la brunetta, ghignando.
“Poche storie, Tachibana.” Karen
incrociò le braccia al petto. “Allora?”
“Niente di nuovo.” fece
scrollando le spalle. “Solo… Sto attualmente con tuo
fratello. Tutto qui.” e Karen sentì il proprio cuore esplodere.
You think I'm pretty Without any make-up on You think I'm funny When I tell the punch line wrong I know you get me So I'll let my walls come down, down Before you met me I was a wreck But things were kinda heavy You brought me to life
Teenage
Dream – Katy Perry
*******************
Se c’era una persona che adorava,
era la sua cognatina, come aveva
preso a chiamarla: le aveva fatto una buona impressione fin da subito, e si
erano volute bene sin dal primo istante. Ma una cosa
del genere non avrebbe dovuto proprio fargliela.
Okay, si trovavano a Yuma, in
casa dei PPB All Starz.
Okay, per raggiungere San Diego
ci volevano circa sei ore di auto, non erano contemplati treni o aerei.
Okay, il campionato sarebbe
iniziato tra tre giorni, e tra due ci sarebbe stato il
discorso del presidente.
Prendeva atto di tutte queste
cose.
Ma perché diavolo
Judith Mizuhara doveva avere a disposizione solo tre auto?! Cos’erano, poveri, lì
alla sede americana degli All Starz?
Karen sospirò, squadrando il
gruppo con fare apprensivo: aveva una strana sensazione, e purtroppo i suoi
cattivi presentimenti non sbagliavano mai.
Perché diavolo erano
dovuti approdare a Yuma con due giorni di anticipo?!
Beh, lei ci era andata per
seguire Kai, che ci era andato per vedere Hilary, che ci era andata per la
squadra dei Blade Breakers Revolution.
La squadra giapponese e quella
americana si erano incontrate con due giorni di anticipo per discutere della
clausola dell’età, che sarebbe entrata in vigore dal
campionato prossimo in poi. Avrebbero provato a discuterne con il presidente, avevano detto, ma secondo lei non ne avrebbero cavato un ragno dal buco.
“Va bene, vediamo di organizzare
le auto.” Hilary si guardò intorno con fare pratico, analizzando la situazione
con fare serio e critico.
Karen sentì crescere dentro di sé
un’ansia mista a pressione, e il non sapere a cosa ciò fosse
dovuto la rendeva nervosa, molto, molto nervosa.
“Siamo dodici.” annunciò, dopo un
rapido calcolo.
“Sappiamo contare.” incredibile
come la risposta di quel buono a nulla di Takao
arrivasse sparata ogni volta che apriva bocca. Di recente aveva preso ad
attaccarla anche con più forza del normale, pareva quasi che gli desse fastidio
anche solo il fatto che lei respirasse.
“Non direi, visto che non l’hai
fatto.” rispose a tono, fulminandolo con lo sguardo.
“Basta così.” la voce di Hilary
arrivò tagliente alle orecchie di tutti: in quei giorni a Yuma li aveva
pizzicati più spesso, avvertendoli di smettere con le loro frecciatine, ma dal
suo sguardo pareva proprio arrivata al capolinea.
“Max, tu e la
tua squadra avrete l’auto più grande. Ecco le chiavi.” la voce della
giapponese pareva quella di una generalessa intenta a dare e
distribuire ordini.
“Ci vediamo lì!” trillò
l’americano, afferrando il mazzo di chiavi che la brunetta gli lanciò; dopo
saluti ed auguri di buon viaggio Hilary prese ad
osservare minacciosamente Takao e Karen che sentivano sorgere sempre più in
loro una strana sensazione.
“Io, Kai e gli altri prenderemola
Bmw.” la sua voce aveva il tono di chi non ammetteva
repliche. “Riguardo voi due… Queste sono le chiavi della Rolls Royce.”
Karen spalancò occhi e bocca. “Io
non mi faccio sei ore di tragitto con questo individuo!” sbottò.
“Perché io sono ansioso di
viaggiare con te, forse?!” il tono di Takao era
disgustato.
Hilary incrociò le braccia al
petto in un’espressione impenetrabile. “A me non interessa: noi andiamo, tra tre giorni inizia il torneo. Non vi sono né aerei né
treni per San Diego. L’unica chance è questa auto. Buona fortuna.”
“Continua a guidare così e arriveremo a
campionato finito.” il mugugno di Takao irritò Karen a tal punto da farle
pensare di aprire lo sportello dell’auto per scaraventarlo in piena corsia.
Aveva preso la patente da poco,
in Giappone la si poteva prendere a sedici anni, e
avendole insegnato sia Kai che Hilary a guidare, aveva imparato subito, ed era
stato molto divertente. Non permetteva a quel pallone gonfiato di offenderla.
Irritata, accelerò un poco,
superando due auto di fila, concentrandosi al massimo sulla guida e non
sull’idiota che le stava accanto. Erano partiti da mezz’ora, ed era stata la
seconda mezz’ora più lunga della sua vita.
La prima era quando era scappata
dalla Francia.
Sobbalzò quando udì
all’improvviso il rumore di una canzone giapponese che definire canzone era un eufemismo. Era una sottospecie di nenia
insopportabile, che le impediva di concentrarsi.
“Vuoi spegnere quella roba?”
brontolò, stizzita.
“Rilassati, e guida.” rispose
lui, con le mani dietro la nuca, abbassando il sedile, come se si fosse trovato
sotto l’ombra di una palma.
Karen digrignò i denti, spegnendo
lo stereo con una manata, ma l’effetto durò poco, perché Takao lo accese
immediatamente, una luce di sfida nei suoi occhi azzurri.
La bionda inchiodò derapando
nella corsia d’emergenza, facendo prendere un colpo al giapponese. “Sentimi
bene.” tuonò. “Io non sopporto te e tu non sopporti
me, ma vedi di non disturbarmi mentre sto guidando. Entrambi vogliamo
arrivare vivi al campionato, giusto?”
Takao prima parve senza parole,
poi la fulminò con lo sguardo.
E’ solo un idiota.
“Ma
fanculo, pure la ruota bucata ci mancava!” all’ennesima imprecazione da parte
del giapponese, fu a fatica che Karen si ricordò il quinto comandamento
elargito dalla sua educazione cattolica in merito a non uccidere.
Mancavano ancora un bel po’ di
chilometri, e decisamente, questa San Diego si stava
facendo desiderare: non che lei e Takao avessero parlato tanto, ma più che
battibeccare sul suo modo di guidare, su come sorpassava, su come metteva la
freccia, su come posizionava lo specchietto, sul fatto che le donne al volante
fossero decisamente un pericolo costante… Beh, Karen stava decisamente mettendo tutto sul conto della sua cara cognatina.
Scesa sulla corsia d’emergenza,
prese la ruota di scorta e il triangolo, che piazzò accuratamente dopo aver
messo le quattro frecce d’emergenza, mentre Takao stava ancora in auto,
impettito, a sproloquiare e ad imprecare.
Stupido maschio idiota ed inutile.
A scuola guida le avevano fatto
fare un mini corso su come cambiare la ruota di
scorta, ma si trattava di mesi prima, e le sue reminiscenze si erano andate a
fare benedire allegramente… Inghiottendo parolacce ed imprecazioni che
avrebbero fatto impallidire uno scaricatore di porto, con crick e ruota in
mano, provò inutilmente a far sollevare di qualche centimetro l’auto, ma il suo
sguardo saettò sull’uomo superfluo e vano seduto come un pellerossa a braccia
incrociate sul sedile anteriore dell’auto.
“Vuoi scendere o no?!” sbottò, livida. “Devo sollevare l’auto, con il tuo dolce
peso non ci riesco mica, idiota!” ringhiò.
Takao scese un secondo dopo,
guardandola male. “Voglio proprio vedere.” fece, fissandola a braccia conserte;
quando il crick le scivolò via dalle mani, lui scoppiò a ridere, facendola
alterare di brutto.
“Fallo tu, che dovresti essere
l’uomo della situazione! Dai, voglio proprio vedere!” Karen
gli schiaffò gli attrezzi in mano, guardandolo con aria di sfida.
“Almeno non staremo qui fino
all’era glaciale!” replicò quello, mettendosi al lavoro. La ragazza lo fissò
armeggiare con gli attrezzi… Per poi ridacchiare subito dopo: se, infatti,
Takao Kinomiya era il campione del mondo di bey, non lo era
affatto in fattore bulloni, crick, e ruote… Decisamente no.
“Stavi dicendo?” cinguettò lei,
fissandosi le unghie e inarcando le sopracciglia.
“Sta’
zitta.” borbottò il ragazzo, quasi sudando nel tentativo di fissare la ruota
che, per tutta risposta gli cadde via dalle mani.
“Mi sa che questo campionato si
giocherà senza di noi…” Lui la fulminò con lo sguardo, e fece per dirle
qualcosa, quando un rombo di motore fece sobbalzare
entrambi.
Due ciclomotori della polizia
stradale si erano fermati accanto a loro, vedendo il triangolo di pericolo, e
uno di quei due, togliendosi il casco, rivelò essere piuttosto giovane per
essere un poliziotto. “Bisogno d’aiuto?”
“Per la verità sì…” fece Karen, con un
sorriso. “La gomma deve essere riparata, e né io né
lui riusciamo… Non è che potete esserci d’aiuto?” fece, con un sorriso.
Ma guarda un po’ te… Takao alzò gli occhi al cielo, non capendo
come mai provasse così tanto fastidio all’idea che
grazie ad un sorrisetto smielato quella maledetta francese fosse riuscita a far
riparare in quattro e quattr’otto l’auto.
San Diego, dove diamine sei?
Karen sospirò, prendendo una
birra e della cioccolata da pagare alla cassa di un autogrill dove si erano fermati per ricaricare le energie.
Solo un’ora e mezza di viaggio e
già si sentiva esausta.
Non possono venirmi a pigliare con il jet privato?
Fasciata nei suoi corti jeans,
Karen non si accorse degli sguardi maschili che il suo top senza maniche
attirava, specie se in compagnia di morbidi capelli biondi e rari occhi viola.
Bevve la sua birra
tranquillamente, appoggiata alla Rolls Royce, aspettando il suo compagno di
viaggio che si era cacciato chissà dove ed ignorando i
commenti dei ragazzi in fondo.
“Ehi, bionda!” sghignazzò uno,
avvicinandosi a lei. “Possiamo conoscerci?”
Karen roteò gli occhi: possibile
che i ragazzi non potessero essere più originali?
“Sparisci.”
“Le focose sono le mie
preferite.” ghignò quello, in direzione degli altri, che risero.
“Dai, bambola… Ti va un giro?”
Lei inarcò un sopracciglio e fece
per aprire bocca, ma qualcuno la precedette. “La ragazza è con me.” incredibile
come lo stomaco le si contrasse in una morsa molto
piacevole all’udire quella voce che pareva quasi… irritata? Perché mai, poi?
“Mi è andata male.” ghignò
l’altro, andandosene, tra le risate generali.
Karen si voltò stupita verso
Takao, che ancora fissava i ragazzi in fondo con espressione pressoché omicida.
“Grazie, ma me la stavo cavando da sola.” puntualizzò, seccata.
Lui inarcò un sopracciglio. “Ho
visto.” fece, mettendosi al posto del conducente. “E, se la prossima volta sei
mezza vestita, non ti spara nessuno.”
La francese aggrottò la fronte.
“Come sarebbe a dire?”
“Niente, lasciamo
perdere.” Takao scosse la testa. “Mettiamo in moto e raggiungiamo questa
San Diego del cavolo.”
Raggiunse a tutta velocità il
posto accanto a lui, sbattendo con tale forza la portiera da farlo sobbalzare.
“No, ora mi spieghi!” tuonò. “Tu sei un pregiudizio ambulante, lo sai?!Prima mi dai dell’impostore, poi
della ladra, ora implicitamente della ragazza facile!”
Il giapponese la guardava
sconvolto, basito da quel fiume in piena di parole.
“Ma sai che c’è?
C’è che non ne posso più di sottostare ai tuoi occhi accusatori! Non devo
passare un esame, io! Non ti piaccio?
Ma vaffanculo! Vorrà dire che se ti schifi di condividere
un’auto con un tale obbrobrio di persona, mi farò dare un passaggio da quei
ragazzi tanto simpatici!” le sue urla rimbombarono per tutta l’auto, lasciando
il ragazzo praticamente stravolto: fu per miracolo che
seppe prenderla al volo per un braccio quando aprì la portiera.
“Karen!” sbatté gli occhi, confuso. “Io… Aspetta.”
La francese lo osservò, furente,
con gli occhi viola umidi di lacrime per la rabbia a lungo trattenuta. Takao
all’improvviso si sentì un verme: immaginava che, dal loro primo incontro, lei
non l’avesse ancora perdonato, ma non immaginava assolutamente la pensasse
così.
“Io sono una persona onesta.”
sibilò ancora lei. “Onesta. Non
permetto a nessuno di affermare il contrario. Se ti dicessero che ti batti
slealmente, come la prenderesti?”
Takao non poté far altro che annuire
lentamente: in effetti per lui sarebbe stata un’offesa
mortale. “Senti, io… Mi dispiace. Io e tuo fratello
abbiamo un rapporto particolare, fatto di rivalità ma anche della più sincera
amicizia. Ero preoccupato per lui. Ha sofferto così tanto
nella sua vita… E non ha… Non avete avuto una bella famiglia… Proprio no.” qui
toccò a Karen annuire.
“Per questo volevo vederci
chiaro. Poi sai, io sono… uno zuccone. Sono uno che prima parla e poi pensa,
non ci so fare con le parole, non sono un diplomatico… Quella è Hilary. Sono stato pesante, mi dispiace… Ma non volevo ferirti.” quando
Karen si voltò, mordendosi le labbra, Takao la fece voltare prendendole il
mento tra due dita.
“Sei una blader eccezionale,
capace e davvero leale. Battermi con te è stata scarica di
adrenalina pura.” poi sospirò. “E sinceramente ti dicevo quelle cose dei
vestiti perché… Dannazione, uno non può fare a meno di guardarti!”
Lei inarcò il sopracciglio.
“Kinomiya, mi hai guardato ancora le tette.”
Fossero solo quelle… “No.”
“Sì.”
“Ti ho detto di no!”
“Ho capito,
anche il culo.”
Ma come..? “Sei montata, miss Hiwatari, lo
sai?”
“No, sei tu che sei prevedibile.”
fece lei, scrollando le spalle.
Scambiandosi un’occhiata, si
sorrisero lentamente: entrambi capirono che la loro amicizia, forse, iniziava
in quell’istante.
Incredibile a dirsi, ma Takao
Kinomiya, colui che era stato campione del mondo di
bey da quando aveva tredici anni, era un ottimo conducente.
Rilassato, prudente, sapeva anche
intrattenere una conversazione mentre guidava, cosa che lei preferiva non fare,
perché amava concentrarsi interamente sulla guida.
“Tu e Kai siete molto diversi.”
era passata mezz’ora da quando si erano lasciati l’autogrill alle spalle, e il
clima era totalmente diverso, tra loro.
“Abbiamo due storie differenti,
credo sia quasi… Doveroso.” fece lei, accavallando le gambe.
“No, anche fisicamente.”
sorpassando un’auto, Takao le lanciò una breve occhiata. “Cioè, quando Hilary
me l’ha fatto notare, le ho notate le poche
somiglianze, ma per il resto… Siete disuguali. Prendi gli
occhi, per esempio.”
Lei inarcò entrambe le
sopracciglia. “Proprio quelli li abbiamo spiccicati.” rise.
“Io non credo.” Takao sorrise. “I
tuoi tendono al lilla, con delle screziature ametista… Quelli di Kai sono due
pozze scure… Sembrano riflettere ciò che ha passato nella sua vita.”
Karen dapprima rimase senza
parole, poi scoppiò a ridere. “Ti sei perso negli occhi di mio fratello?” Takao
dapprima corrucciò la fronte, poi si unì alle risate.
“Nah, ho semplicemente fatto il
confronto.”
“Perché?”
Lui arrossì. “Ehm… Così. Per
provare a capirti, credo.”
La francese sentì le sue gote
scottare. “E’ una cosa carina.”
Perché si sentiva così? Era una
cosa strana, troppo: era come se, all’autogrill, caduti tutti i muri tra loro, tra
loro si fosse innalzata un’altra barriera, un po’ più solida… Ma non riusciva a
capire quale e cosa fosse. Era qualcosa di più strano, che la spingeva a
sentirsi a disagio… Ma perché?
“Come hai imparato a giocare a
bey?” cambiò velocemente discorso lui, prima che la tensione potesse portarlo a
dire qualche sciocchezza.
“Al collegio dove stavo era vietato. Io ho imparato per sfida: comprai il mio
per caso, in un mercatino dell’usato, e in breve divenni la più brava.”
“Era dura stare lì?” la domanda
era stupida, lo sapeva, ma non poté fare a meno di porgergliela: quella ragazza
così sottile, pallida, che aveva imparato a cavarsela solo con le sue forze,
con un disperato desiderio di famiglia pareva essere così fragile… Invece
mordeva e graffiava come una leonessa.
“Sì.” disse, in un soffio. “Le
suore erano intransigenti, severissime. Io ero la più ribelle, la più
capricciosa. Per me erano sempre punizioni e castighi, digiuni ed isolamenti.” dal sospiro che ne seguì, Takao capì che non
sarebbe tornata sul discorso.
Il giapponese continuò a guidare
fino alla fine di una galleria, ma fu quando un tram accese le luci abbaglianti
venendo a tutta velocità verso di loro che il sangue si gelò nelle vene di
entrambi.
Con un’abile manovra, riuscì a
portarsi nella corsia d’emergenza, premendo con forza il clacson.
Karen prese a tremare come una
foglia, spalancando gli occhi viola ed impallidendo.
Il giapponese mise entrambe le mani sul volante, tentando di calmarsi,
respirando a grandi boccate: erano vivi, ce l’avevano
fatta: andava tutto bene.
Fu automatico per lui intrecciare
le dita della ragazza con le sue per farle coraggio, e quando Karen alzò lo
sguardo ed incontrò il suo, smise, subito dopo, di
tremare.
Rimase basito quando quella
ragazzina – che poi aveva solo due anni meno di lui – lo abbracciò di slancio,
cingendogli il collo con le mani. E furono strane, le sensazioni che provò: sentire il suo respiro caldo sul collo, le sue forme
premergli contro il corpo, o i suoi capelli che gli accarezzavano il viso era
una sensazione… Strana. Eppure piacevole. Troppo
piacevole.
Ma che diamine…
“Se non ci fossi stato tu…” balbettò
la ragazza, mordendosi le labbra. “Ti devo la vita.”
Takao la allontanò da sé, anche
perché questo sentirsi strano lo inquietava a dir poco. “Non dirlo nemmeno per
scherzo. E’ tutto a posto.”
Karen, allora, sorrise. Un
sorriso che gli rimase tatuato nella mente.
“Questa volta stai qui e non mi
fai prendere alcun tipo di spavento.” il tono del ragazzo, che tanto ricordava
una mammina spaventata, divertì Karen a più non posso, infatti
sghignazzò, prendendolo a braccetto.
“Ecco, così sono legata a te,
soddisfatto?”
Lui arrossì. “Mh. Almeno non ti importunerà nessuno.” mugugnò, facendola ridere.
“Mio eroe…” disse, in un tono non
consapevolmente sensuale, rovesciando la testa indietro.
Devo distrarmi.
“Andiamoci a prendere un caffè,
eh? Abbiamo ancora due ore per arrivare a San Diego.”
Karen sbuffò, contrariata, ma lo
seguì: evidentemente le sue speranze erano vane. Almeno non si era scoperta
troppo. Almeno, lo sperava.
Quell’autogrill era strano: c’era
una specie di cameraman che dettava ordini a destra e a sinistra e delle coppie
che si muovevano a tempo di musica.
“Mi scusi, che succede?” chiese
al barista.
Quello scrollò le spalle. “Stanno
montando un videoclip di una band rock emergente, e stanno coinvolgendo le
coppie che si trovano qui.”
Karen ordinò un caffè, aspettando
Takao, che era andato in bagno, ma in breve si trovò coinvolta da quel ritmo così suadente e coinvolgente: le era sempre,
sempre piaciuto ballare.
“Ehi bionda, ti unisci a noi?” le
urlò il regista, da dietro la telecamera.
Karen rimase senza parole: non si
era nemmeno resa conto di star ancheggiando. “I-Io, veramente…” le sarebbe piaciuto
tantissimo, ma lei e Takao avevano il tempo materiale?
“Se ti va, fallo.” sussultò
quando, voltandosi, trovò proprio lui a fissarla, divertito.
“Non abbiamo tempo.” protestò
debolmente. “E… Anzi no. Lo faccio se mi fai da compagno.”
Lui aggrottò la fronte. “Chi ti
dice che io sappia ballare?”
Sghignazzò. “Oh, andiamo: nonno
Jay chi è che ha trascinato ai corsi di tango e liscio
per circuire le vedove?” il moro scoppiò a ridere. “Al confronto cosa vuoi che
sia ballare un po’ di musica rock? O hai paura, forse?”
Maledetta bionda… “E sia, non si dica mai che non accetto una
sfida.” sorridendosi a vicenda, e andando verso il centro della pista, Karen e
Takao non abbandonarono l’una gli occhi dell’altro: quando il regista diede
loro indicazioni circa i movimenti da fare, le seguirono alla lettera.
La musica era coinvolgente e
ritmata, e quando iniziò fu a dir poco travolgente.
Fu come essere sospesi, come
librarsi in aria, come star chiusi in una bolla dove esistevano solo loro due:
sintonia, complicità, sorrisi, ammiccamenti. Faceva tutto
parte del gioco.
Quando Takao la attirò a sé per
una piroetta Karen la eseguì alla perfezione, e
quando, alla fine della canzone, si ritrovarono a poca distanza l’uno alle
labbra dell’altra si osservarono spaesati, consci della tensione sessuale che
stava aleggiando tra loro.
“Stop! Buona!”
Takao sbatté gli occhi,
frastornato: erano trascorsi parecchi secondi dalla piroetta e lui era ancora a
pochi millimetri dalle labbra della francese…
Io sono fuso.
“Dobbiamo andare…” la voce gli
uscì roca, e un brivido gli attraversò la schiena, lo stesso che scosse
l’intero corpo di Karen, che fu solo in grado di annuire.
Arrivarono a San Diego in un’ora
e mezzo anziché in due, tanto Takao aveva premuto forte l’acceleratore; il
viaggio era stato carico di tensione, di parole non dette, di sguardi mentre
l’altro non guardava… Praticamente insostenibile.
Trovarono quasi per miracolo l’hotel dove alloggiavano tutti i campioni che avrebbero
giocato al campionato del mondo, talmente nervosi e agitati.
Posteggiarono inchiodando
bruscamente, e tra loro scese un silenzio imbarazzante.
Karen lo guardò mentre stava
immobile a fissare il vuoto, senza sapere bene che dire o fare: sapeva bene che
il ragazzo si trovava nella sua stessa situazione, che sentiva le sue stesse
emozioni e che era combattuto quanto lei.
Scese dall’auto, cosa che fu
imitata da lui, poco dopo. La bionda si guardò le scarpe per un istante, dopodiché
sfoderò un sorriso tirato. “Grazie per il viaggio, io… Beh, è stato… Sorprendente?”
Lui arrossì in zona orecchie, ma
lo sguardo era terribilmente serio. “Sì, hai… Ragione, suppongo.”
Karen annuì ripetutamente, poi
sorrise ancora, scaricando i bagagli. “Allora ciao?”
“Eh, sì…” Takao sentì un groppo
crescere nella sua gola: non voleva lasciarla andare così, ma non sapeva
nemmeno cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
La francese gli si avvicinò,
abbracciandolo brevemente. “Okay, grazie per il viaggio.” ripeté, cantilenante;
e fu incredibile l’effetto di quel gesto: sembrò risvegliare di colpo tutti gli
ormoni e le sensazioni che avevano provato circa un’ora e mezzo prima.
Takao la fissò, sconcertato.
“Ahem… Prego.” fece, ricambiando la stretta.
Karen lo baciò sulla guancia.
“No, grazie davvero, eh.” sapeva di starsi comportando in maniera ridicola, ma
in quel frangente non era padrona delle sue emozioni,
né dei suoi gesti: era come una marionetta mossa da qualcun altro…
Gli era capitato di ricevere da
parte di Hilary un bacio sulla guancia: ma non gli aveva causato di certo un
rimescolio allo stomaco.
Fu per questo
che Takao artigliò il polso della bionda, avviluppandola contro la Rolls Royce e baciandola in
maniera quasi animalesca: aveva baciato altre ragazze in passato, ma mai
nessuna era riuscita a scatenare in lui queste emozioni così primitive, così istintive.
Fu solo perché la sentì mugugnare
lievemente che recuperò parte della ragione, e si staccò bruscamente da lei.
“I-Io…”
Lo fissò interrogativamente.
“Beh? Non mi pareva di starmi lamentando.”
La guardò con occhi liquidi.“Sei sicura?”
“Kinomiya, tu parli troppo.”
sussurrò lei, prima di buttarglisi addosso.
In camera c’era un tappeto
altissimo, era perlomeno trenta centimetri da terra:
soffice, morbido e pulito: ideale per farci l’amore.
Karen sorrise ancora una volta:
pareva che non fosse in grado di fare altro. Aveva passato le ore più belle di
tutta la sua vita in quella stanza d’hotel, quella
dove erano corsi lei e Takao per baciarsi e per… stare un po’ in pace.
Era stato paradisiaco, bellissimo,
perfetto.
Stesa su un lato, osservava il
ragazzo che aveva di fronte, che le stava accarezzando i capelli.
“La cena si raffredderà.”
sussurrò, quasi pentendosi di spezzare quell’incanto.
“Non importa.” nel momento in cui
lo disse, lui stesso fece tanto d’occhi, e insieme ridacchiarono.
Karen puntellò un gomito sul
tappeto, prendendo il vassoio e mettendolo tra loro. “Okay, Hilary ce l’ha portato e noi adesso mangiamo.”
Lui scoppiò a ridere. “Che faccia
che ha fatto…” entrambi scoppiarono a ridere. “Kai mi
ucciderà: sedurre la sua sorellina…”
Karen inarcò il sopracciglio.
“Veramente più che altro sono io che ti ho violentato.” precisò, facendolo
quasi strozzare con un antipasto.
“Vero.” annuì lui. “Kary…”
“Non dire niente. Non sappiamo cos’è,
questa cosa che ci è successa, ma… E’ okay. E
prendiamoci del tempo per scoprirlo. Senza dirlo a nessuno; se funziona, bene.
Se non funziona, non soffrirà nessuno. Che ne dici?”
Lui parve sollevato. “Ci sto.”
Una cosa di cui potevano disporre
era un comodo idromassaggio in una vasca enorme, in quel grande hotel a cinque
stelle che la BBA,
che aveva organizzato il torneo come ogni anno, aveva
messo loro a disposizione.
Takao si crogiolò in quel turbine
di bolle e sali da bagno, accuratamente preparati da una sensualissima francese
di sua conoscenza che quella sera, dopo una giornata particolarmente faticosa
passata a combattere contro la squadra spagnola, si era presentata in camera
sua avvolta solo da una vestaglia di seta.
La meraviglia
era che aveva pensato proprio a tutto: aveva fatto ordinare dello champagne e
delle fragole, aveva messo su della musica rilassante, e ora stava di fronte a
lui: bellissima e sensuale, con i capelli biondi che le ricadevano finemente
sulle spalle.
“Sei carino
tra le bolle.” ridacchiò, versandosi un po’ di champagne, e brindando con lui.
Takao scrollò le spalle. “Nah,
sei tu che sei ubriaca.” lei scoppiò a ridere, avvicinandoglisi e baciandolo.
Un brusco bussare li interruppe,
facendoli saltare in aria. “Takao? Posso entrare?” era la
voce di Max che, subito dopo, senza aspettare, entrò; Karen non perse tempo: si
tuffò all’interno della vasca: l’acqua era alta e con la complicità delle bolle
si poteva mascherare il tutto.
Il biondo venne verso il bagno, e
assunse un’aria sconvolta quando vide l’amico nell’idromassaggio, ricoperto di
bolle, con la musica di sottofondo… E con tanto di fragole e champagne.
Un’immagine non proprio virile.
“E’ stata una giornataccia.”
provò a giustificarsi il giapponese, annuendo, deciso.
Max rise. “Ero venuto ad
avvertirti che giù c’è la cena, ultimamente la salti spesso, siamo un po’ preoccupati…”
“Va bene, d’accordo, addio, ciao.”
fece sbrigativamente l’altro, cercando di cacciarlo via: Karen non sarebbe
potuta stare a lungo sott’acqua.
Il biondo alzò le mani in segno
di resa. “Okay… Ciao.” fece, uscendo. “Ah, Takao?”
“Eh.”
“Attento. Si
diventa ciechi.” ridacchiò, e uscì.
Karen diede un
colpo alla panchina, in preda alla rabbia più nera: si era fatta fregare
come una pivella, non poteva sopportarlo. Aveva appena disputato un match
contro la smorfiosa della squadra Coreana che l’aveva attirata senza problemi
nelle sue trappole.
Accidenti!
“Calmati.” la voce del fratello
le arrivò come un eco lontano. “Non serve a nulla alterarsi.”
Karen scosse la testa poi si
alzò, correndo verso il camerino: aveva voglia di urlare, di piangere per
quanto era stata umiliata, e di prendere quella blader e di farla a pezzi.
Entrando nella stanza pestò i
piedi, rovesciando il contenuto del suo zaino per terra, dopodiché si calmò,
almeno apparentemente. Si sedette per terra, a gambe incrociate, prendendosi la
testa tra le mani, e sospirò. Restò in quella posizione per minuti e minuti,
fino a quando non sentì dei passi dietro di lei.
Qualcuno le si
era seduto accanto.
“Sei stata grande.”
Non si voltò neanche verso chi
aveva parlato, tuttavia sentì una piacevole sensazione di calore alla base
dello stomaco: quelle parole le avevano fatto piacere.
“Ma ho
perso.”
“Da ogni sconfitta si impara qualcosa. Il beyblade è bello perché non è solo
una trottola. Ti permette di entrare in contatto con dei
pezzi di metallo, di animarli, di viverli. Tu e il tuo bit power siete una cosa
sola, e combattete lealmente. Quando lui accusa il colpo, è come se lo accusassi anche tu.”
parlava con una tale gioia e un sorriso sulle labbra che fu impossibile non
incantarsi a guardarlo.
“Per certi versi, è come litigare
con te.” fece, strizzandole l’occhiolino. “Si deve stare attenti, è pieno
d’insidie, ma… vinco sempre io!”
Karen si finse indignata. “Non
credo proprio!” fece, dandogli addosso, e fingendo di picchiarlo. Takao la
trattenne per gli avambracci e quando furono l’una a pochi centimetri dalle
labbra dell’altro, si fissarono per pochi istanti prima di iniziare a baciarsi.
Dio, io sono innamorata di te…
Rotolarsi per terra fu
automatico, così come sentire il cuore di ognuno battere a ritmi furiosi, ma
quando sentirono dei passi fecero – come al solito –
la prima cosa che venne loro in testa: si nascosero negli armadietti.
“Tua sorella è passata di qui,
Kai.” ghignò Serjey, alludendo alle cose rovesciate per terra.
Kai le osservò, ma non fece una
piega, chiedendosi, invece, dove fosse andata Karen: l’aveva vista veramente arrabbiata
per l’incontro, ma non era il caso di farne una tragedia: ne aveva disputato altri e questo era il primo che perdeva.
Da dentro l’armadietto Takao e
Karen stavano con il fiato sospeso, attenti a respirare il più sommessamente
possibile, per destare meno sospetti possibili. Non
vedevano l’ora che l’intera squadra della Neoborg se ne andasse. Non era molto
comoda quella posizione in cui stavano…
Boris aprì l’armadietto,
aspettandosi di trovarvi le grucce con appesi i suoi pantaloni di ricambio: non
si aspettava mica che una mano glieli porgesse e che Karen, avvinghiata a Takao,
gli facesse segno di star zitto.
Se fosse stato un’altra persona non avrebbe esitato a sobbalzare, facendo girare
anche gli altri. Invece si limitò ad assumere un’aria sorpresa, che durò
qualche secondo, per poi essere cancellata.
“Andiamo a pranzo?” borbottò,
come al suo solito, trascinando con sé i compagni di squadra verso l’uscita
dello spogliatoio.
Karen e Takao sospirarono
impercettibilmente: erano salvi.
“Cioè, facendo il conto ci hanno scoperto Boris e Rei, fin’ora… E non è passato nemmeno
un mese dall’inizio del campionato.” la francese sospirò, sconsolata, avvolta
nell’abbraccio caldo del suo compagno di avventure, colui che, con un solo
battito di ciglia, sapeva procurarle brividi in tutto il corpo e anche farle
arrestare il respiro.
Takao non smise di accarezzarle
la schiena pigramente, inalando il suo profumo. “Ti preoccupi troppo… Secondo
me se continuiamo così va bene. Cioè, è okay. Oddio,
Boris a momenti mi staccava la testa, e Rei abbiamo
dovuto tenerlo a bada, ma entrambi terranno la bocca cucita.”
Karen sospirò, mordendosi
ripetutamente le labbra. Avrebbe tanto voluto dirgli quello che sentiva, ma non
ce la faceva, era troppo complicato. Se poi pensava al solo fatto che fino ad un mese prima era convinta di odiarlo, allora si metteva
a ridere.
Qual è quella frase? Ah, si: puoi dire ad un
uomo ti odio e farci una grandiosa scopata; prova a dirgli ti amo e non lo
rivedrai mai più.*
“Sei preoccupata che lo scopra
tuo fratello?”quando
Takao le carezzò la guancia con l’indice, lei si sentì bruciare la pelle, come
se la scia da lui tracciata fosse fatta di fuoco.
Perché mi fai questo?
“No, io…”
“Non devi, è tutto okay. E poi
anche se lo scopre non fa niente: io e te non siamo niente,
quindi-”
La ragazza voltò la testa di
scatto, fissandolo con tanto d’occhi e facendosi pallida. “Ovvio.” la voce le
uscì tanto metallica quanto roca, e fu un attimo: si alzò dal letto, si rivestì
a tempo record e uscì dalla stanza, incurante sia dei richiami del ragazzo, sia
del fatto che qualcuno avesse potuto vederla.
Takao non ci credeva: era rimasto
solo per una stupida frase buttata lì, a casaccio. “Idiota.”
Rei non aveva
mai visto Takao così furioso sul campo: combatteva contro la squadra americana,
e pareva furibondo, irascibile, assetato quasi di vendetta… Una cosa non da
lui, per niente.
Vinse in un baleno, ma mai i suoi
occhi azzurri erano stati così colmi d’ira. Che fosse accaduto qualcosa con
Karen?
Il cinese si voltò leggermente ad osservare la sorella di Kai, che flirtava amabilmente con
il capitano della squadra coreana, e allora Rei capì ogni cosa.
“Strafogarti non servirà a
fartela riavere.” pronunciò, sibillino, sedendosi accanto al giapponese. Aveva
chiesto al professore di far cambio di posto per il pranzo, e lui aveva
acconsentito.
“Chi la rivuole.” brontolò Takao.
“E chi l’ha mai avuta.”
Rei inarcò
le sopracciglia. “E’ questo il problema?”
Il giapponese sbuffò, scuotendo
la testa. “Senti, non lo so, va bene? So solo che in testa ho una confusione
infernale, senza che ti ci metti pure tu.”
“Se mi dici cosa c’è potrei
aiutarti.”
Takao osservò l’amico, il
compagno di un sacco di avventure che ora gli stava tendendo la mano in
questioni pressoché… sociali. “C’è
che è cominciato per caso. Lei mi stuzzica, mi eccita, ed eravamo d’accordo,
accidenti. Non c’era niente tra di noi e dovevamo vedere come si evolveva la
cosa. Poi io l’altra sera me ne sono uscito – visto che
lei era preoccupata per Kai – che tanto anche se ci avrebbe scoperti noncontava nulla perché non eravamo niente, e
lei che fa? Si incazza!
E ora è lì a fare le moine a quello!” sputò fuori, addentando
rabbiosamente un pezzo di pane.
Rei sospirò.
“Ti è mai venuto in mente che, forse, per lei, la cosa si era già evoluta?”
Takao stette con il resto del
pane a mezz’aria, non capendo la frase, poi arrossì. “Eh?”
“E poi, sinceramente, dire che
non siete niente… Beh, se volevi suicidarti hai scelto
un’ottima strada, amico.” rise il cinese. “Le donne sono piuttosto irascibili
su certi argomenti.”
Takao sbatté gli occhi. “Ma se io… M-Ma se lei…”
Rei ridacchiò.
“Poi toglimi una curiosità: se non siete niente, perché diamine ti incavoli se lei cerca attenzioni altrui? A me pare legittimo.”
“Ma
perché io…!” il giapponese chiuse la bocca di scatto. “Oh. Ah,
grazie Rei.”
Lui rise. “Prego,
amico.”
Eccola lì, abbarbicata al braccio
di quell’idiota di quell’insulsa squadra Coreana. Si
era pure messa in tiro, per uscire con lui: vestitino argentato, leggins neri,
tacchi alti, borsetta coordinata… Fin troppo in tiro. E una
come lei non passava di certo inosservata.
Takao ebbe voglia di ringhiare,
ma si trattenne: quella era una sfida, e lui non solo amava le sfide, ma amava vincerle
lealmente.
Quando, però, la vide cingere il collo di lui, sorridendo, non poté aspettare oltre: si sentì
ardere dentro il fuoco della gelosia, mai provato prima, e fu una sensazione
devastante.
Incredibile quanto quella
ragazzina bionda sapesse scatenare in lui emozioni assurde che mai aveva pensato di sentire.
“Karen!” chiamò il suo nome quasi
di getto, e vide l’altro sobbalzare, ma lei rimanere immobile, quasi sapesse
che li stava osservando: i loro occhi si incrociarono,
i suoi brillavano con aria di sfida, ma lui mantenne uno sguardo serio.
“Dovrei parlarti.” continuò.
“E non potresti aspettare?”
“No, è urgente.” azzurro contro
viola, i loro occhi sprofondarono gli uni negli altri, quasi a voler
intraprendere una lotta all’ultimo sangue per voler determinare il vincitore;
si studiarono, lessero il proprio sguardo, ma alla fine fu la ragazza che
capitolò, arrendendosi.
“Scusami.” biascicò al ragazzo
con cui era uscita. “Ci vediamo domani, okay?” il suo
sguardo era di scuse: avrebbe potuto dirgli di aspettarla, che ci avrebbe messo
un attimo, ma Karen aveva la strana sensazione che il discorso che lei e il
giapponese stavano per intraprendere non avrebbe impiegato un semplice attimo.
“Allora, che vuoi?” sputò fuori,
inviperita, appena svoltarono il corridoio.
Takao fece sprofondare le mani
nelle tasche: incredibile come con il beyblade fosse così bravo da essere un
campione mondiale, e con i sentimenti fosse così inetto da essere un… idiota cosmico. Che diavolo doveva fare
ora? Come diamine doveva dirglielo?
“Voglio che tu smetta di
vederlo.” borbottò.
La bionda strinse gli occhi,
riducendoli a due fessure. “Scusa?”
la sua voce si fece metallica, in un tono che ricordò molto Kai quando gli si diceva
qualcosa che non gli andava molto a genio. “Se non siamo
niente io sono libera di crearmi una vita, chiaro?”
Takao prese fiato, dopodiché la
guardò dritto negli occhi. “Me lo merito, ho violato la regola. Non fare mai nessun progetto che duri più di due giorni,
perché fare dei progetti significa avere delle
aspettative e quando le hai, rimani amaramente deluso.”
Karen lo guardò sbattendo le
palpebre. “Che… Che diavolo significa?”
“Che ti amo, e lo so che non era
programmato, ma ciò non mi impedisce di essere
innamorato di te.”
La francese sentì delle lacrime
pizzicare ai bordi degli occhi, e si voltò, alzando gli occhi
al cielo per farle andare via. “Santo cielo, Kinomiya,
sapessi solo quanto ti… ti detesto,
accidenti!” sbottò, tirando su con il naso. “Che cosa pretendi, dopo tutte
queste cose che mi hai detto?” Takao la fissò: con il naso rosso, le gote
arrossate e i capelli lievemente arruffati la trovava adorabile, specie se se la prendeva con lui. “Che ti dedichi
una poesia? No,
accidenti!” mugugnò, tirando su con il naso. “Ti detesto, ti detesto, ti detesto…” il giapponese rise, e quando la
abbracciò, la ragazza si rilassò, sciogliendosi definitivamente, come
abbandonandosi.
“Io ti amo.” fu sussurrato così
piano che lo udì appena.
Sorrise largamente, sentendosi
bene, in pace, felice. “Touché, mon amour.”
“Ma sei sicuro di volergli
parlare oggi?” Karen si voltò ancora una volta verso Kai, che aveva già preso posto al tavolo della Neoborg, per poi
fissare il suo ragazzo: avrebbe voluto abbracciarlo, o stringergli le mani, ma
non poteva farlo in pubblico. Non ancora.
“Rilassati, Kary.
Andrà tutto bene.” Takao aveva un sorriso sicuro sul volto, e strizzò
l’occhiolino alla sua ragazza, resistendo all’impulso di baciarla. “Tu va’ a sederti, ci penso io.”
“Dov’è una statua di un dio
qualunque quando serve?” borbottò la bionda. “Va bene anche uno pagano.”
Takao se la rise mentre si
dirigeva al tavolo della Neoborg: capiva l’apprensione della francese. In effetti stava per andare a raccontare tutto a suo
fratello, ed entrambi tenevano all’approvazione di Kai. Lei perché era il suo adorato
fratellone, lui perché era il suo compagno di avventure, uno dei suoi più cari
amici. Non sapeva cos’avrebbe fatto se non avesse capito, o se l’avesse presa
male.
Scacciò il pensiero. Lui amava
Karen: questo bastava.
“Ehi, Kai. Dovrei
parlarti.” vide il russo squadrarlo in maniera interrogativa, poi alzarsi
pigramente dalla sedia senza dire una parola.
Tipico di Kai: ormai lo conosceva
come le sue tasche.
La hall dell’hotel all’ora di
cena pareva il posto più adatto per parlare. O anche per fare a botte. Takao si
toccò velocemente la mascella: sperava nella prima alternativa:
non era mai stato uno che ci sapeva fare con le parole, ma sperava Kai non
fosse uno che badava a qualcosa tipo l’onore
di mia sorella o qualcosa di simile.
“Allora?” il russo lo fissò, un’espressione interrogativa sul volto, le braccia
conserte e gli occhi viola simili a quelli della sua Karen.
Ma i suoi sono più chiari, più calorosi, meno oscuri… Non è vero che sono
uguali…
“Mi sono innamorato di tua
sorella, amico.” iniziò, scegliendo di andare dritto al punto: sapeva che Kai
non amava i giri di parole e che era meglio concentrarsi sul nocciolo della
questione.
“All’inizio entrambi pensavamo
fosse solo attrazione, l’abbiamo tenuto nascosto per questo. Ora siamo entrambi
certi dei nostri sentimenti. Vogliamo stare insieme alla luce del sole. Karen
ci tiene alla tua approvazione, e francamente anche io.”
Il russo aggrottò la fronte,
lasciando trapelare un’espressione di pura sorpresa che, tuttavia, durò solo
qualche secondo. “Tu falla soffrire. Io faccio soffrire te. E
non ti piacerà.”
Takao sorrise. “Ricevuto… Cognatino.”
Kai alzò gli occhi al cielo. “Sta’ zitto, prima che mi penta di tutto questo.”
“Vieni qui,
Kai!” Hilary sorrise trascinando il suo ragazzo nella sua stanza, e il russo
aggrottò le sopracciglia quando vi trovò sua sorella e il suo coso – ancora non si era abituato che Takao fosse qualcosa con
sua sorella più che vi litigasse – che bevevano qualcosa sul balcone.
“Che ci fanno loro qui?” chiese,
con voce incolore.
“Oh, quanto sei antipatico!”
sbuffò la giapponese, ravviandosi i lunghi capelli color cioccolata. “Takao e
Karen mi stavano raccontando la loro storia d’amore, è così romantica…”
La bionda inarcò le sopracciglia.
“Ma se è fatta solo di litigate e ses-”
Takao praticamente
le parlò sopra. “Aaaaah! Si, infatti, la mia
dichiarazione d’amore è stata moooolto romantica!” e prese a ridere in maniera
isterica, facendo voltare Kai, irritato.
“Non voglio sapere nulla.”
brontolò, ponendo le braccia conserte.
“Oh, io qualcosa so, che voi non sapete.” rise Hilary.
“Cioè?” Karen sorseggiò il suo
drink appoggiandosi al balcone.
“Giorni fa stavo per contattare il telefono di Takao, ma qualcosa deve aver fatto
interferenza, perché vi ho sentiti parlare… E in una maniera…” scoppiò a ridere e arrossì, coprendosi le guancie con le
mani.
Takao avrebbe voluto sotterrarsi.
“Okay, cambiamo discorso?”
“Ben detto.” mugugnò Kai.
Karen sospirò, mordendosi le
labbra e assumendo un’aria beata che nessuno le aveva mai visto in volto. “Dai,
non brontolare. Io sono così contenta… Vedi, l’anno scorso tutto quello che
desideravo, eri tu. E ti ho raggiunto.” fece, sorridendogli, contenta. “Ma, poi, ho conosciuto la migliore amica che avessi mai potuto
desiderare che, come se non bastasse, è pure diventata mia quasi cognata. Ci crederesti? E’ un
sogno.” Karen ondeggiò verso Hilary, stringendola in un breve abbraccio.
“Ma, adesso, improvvisamente, il
ragazzo più odioso di tutti, quello che non potevo sopportare, quello che avrei
volentieri messo nel tritacarne e fatto fulminare agli dei…”
“Grazie amore, è sempre un
piacere.”
“E’ diventato la persona che ha
rimesso insieme i tasselli della mia esistenza, che mi ha scombussolata,
che mi ha insegnato cosa vuol dire amare.” sorrise largamente, non potendo
impedire ad un singulto di sfuggirle dalle labbra.
“So che è della vita cambiare le
carte in tavola in continuazione, ma potessi esprimere un desiderio, vorrei
restare così per sempre.” la ragazza si morse le labbra, sentendo le lacrime
fare capolino ai suoi occhi ametista. “E’ così sbagliato?”
“No, non è sbagliato.” Kai scosse
la testa.
Hilary le sorrise. “Nessuno può dirci dove saremo tra cinque, dieci o trent’anni, e anch’io,
potessi esprimere un desiderio, congelerei tutto qui, in quest’istante, ma non
si può… Anzi, forse sì.” fece, veleggiando dentro la stanza.
Takao sbatté gli occhi. “Dove
vai?”
La brunetta ricomparve con tra le mani la sua digitale bianca, e sorrise. “Non
possiamo ibernarci qui, ma la cosa migliore di una
fotografia è che non cambia mai, anche quando le persone lo fanno.” fece, sorridendo amaramente. “Vogliamo catturare questo
momento per sempre?” Takao annuì, convinto, abbracciando Karen.
Kai aspettò che Hilary azionasse l’autoscatto per sospirare. “Sei sempre tu che
riesci a farmi fare queste cose…”
“Che cosa vuoi, è il potere
dell’amore…” ribatté, in tono melenso che ebbe il potere di farlo ridere.
Giusto in tempo per essere illuminati dal flash.
Fine.
*frase detta dalla mitica Samantha
Jones in Sex and the City
Ladies, and gentlemen (se ce ne
sono!) non sapete quanto, ma quanto
mi siete mancati! =( Questi giorni lontani da voi mi
sono parsi un secolo! Sono proprio contenta di essere tornata! *.*
Spero che questa shots vi sia
piaciuta, e per la prossima dovrete attendere dieci giorni: ebbene sì. I missing moments si altaleneranno a giorni di dieci giorni
ciascuno, sia per darmi il tempo di correggerli – sono già tutti pronti, ma
necessitano un’ampia revisione – sia per darmi il tempo di finire la prossima
fanfic, che non è nemmeno a metà! T.T
Quindi
noi ci rivediamo Martedì 10 Maggio – Oooh, si torna il Martedì! *.* torniamo
alle origini! –
spero
resterete sintonizzati. ;D
Un bacione schioccoso ad ognuno di voi, spero davvero che questo primo pezzo di
puzzle vi sia piaciuto. *__*
E rieccoci con una nuova shot tutta per voi, un nuovo pezzo di puzzle da
porre nel quadro di RMA
E rieccoci con una nuova shot tutta per voi, un nuovo pezzo di puzzle da porre nel quadro di RMA. Pronti? ;D
Allora, giusto per la cronaca,
qui Mao ha diciassette anni, Rei e Kai diciotto,
Hilary sedici.
Hope u likeit.
=D
A Padme86.
Perché se non ci fosse stata lei, oggi non avrei minimamente
saputo come fare.
Perché resiste stoicamente alle mie ansie, ai miei scleri e ai miei lamenti.
Come faccia, però, è ancora racchiuso in uno dei misteri dell’universo.
Spoiled
Un anno che passa Un anno in salita Che senso divuoto Che brutta ferita Delusa da te, da me, da quello che non c’è statomai
Per tutta la vita – Noemi
****************
L’aeroporto di Dublino era
proprio strapieno di persone: giornalisti, fans,
persone comuni, bladers di alto e medio livello si
confondevano tra loro, parevano essere tutti imbottigliati in un edificio un
po’ troppo piccolo per contenerli tutti.
Dublino. Dublino e il nuovo
campionato del mondo di beyblade.
Mao sospirò, procedendo con le
sue due valigie azzurre.
Hilary ed Emily sarebbero
arrivate solo nel pomeriggio, e fino ad allora, fino a
quando non sarebbe potuta esplodere, era senza dubbio meglio concentrarsi
sull’allenamento in vista del torneo; quell’anno le regole sarebbero state
differenti: ogni squadra doveva avere quattro componenti, che si sarebbero
sfidati uno alla volta, decretando il vincitore.
Per i Baihuzu
avrebbero gareggiato Lai, Gao, lei e, ovviamente,
Rei.
Si morse il labbro superiore: in
quei giorni, non aveva fatto altro che ripensare al fatto che aveva passato
tutta la sua vita in Cina, a Pechino, al villaggio e… Dietro un ragazzo che la
considerava come una sorella.
Sentiva crescere nel suo petto
una sorta di inquietudine, qualcosa di opprimente che
cercava di scacciare con tutte le sue forze, ma che non ne voleva sapere di
andar via: da qualche settimana, con l’avvicinarsi del suo diciassettesimo compleanno
e del campionato, era stata parecchie notti sveglia a meditare circa la sua
vita, ed a fare il punto della situazione, uscendone sconfitta.
La verità era che non sapeva cosa
fare.
“Andiamo?” quando due occhi
ambrati si posero sulla sua figura, non poté fare a meno di distogliere lo
sguardo, o sarebbe arrossita. La verità era che Rei le faceva sempre
quell’effetto, sin da bambina, ma in quel momento ne era come… irritata. Da se
stessa e dalle sue emozioni.
Si limitò a seguire la squadra,
andando verso l’uscita dell’aeroporto; non essere tampinati dai giornalisti fu
davvero dura, perché si infilavano da tutte le parti e
non avevano riserve nel porre domande inopportune o sconcertanti, ma riuscirono
comunque a farla franca e a salire sul taxi che li portò all’hotel che la BBA aveva prenotato come
residenza per i bladers.
Un’elegante signorina alla
reception diede loro la chiave di una stanza, e Mao si
avvicinò, chiedendo, come ogni anno, una tripla riservata, prenotata per tempo:
da quando lei, Emily e Hilary avevano fatto amicizia, ogni anno si facevano
mettere assieme; ne venivano fuori i pigiama party più rumorosi e le chiacchierate
più lunghe avesse mai fatto.
“Ti porto le valigie?”
Sorrise a quel ragazzone di Gao, che la osservava con un sorriso buono.
“Se non ti dispiace.” scrollò le
spalle, indicando il piano superiore dell’hotel.
“Non capirò mai perché mia
sorella debba portarsi il villaggio intero ogni volta.” brontolò Lai, scuotendo
la testa in segno di disapprovazione, facendo ridere gli altri.
“Pensa per te.” lo rimbrottò lei,
andando verso l’ascensore, seguita dall’amico.
L’hotel era,
come sempre, un cinque stelle grandioso; la BBA si manteneva sempre a livelli molto alti e
nessuno dispiaceva la cosa. Premette il secondo tasto, sospirando, e
ravviandosi i capelli.
“Sei triste, Mao?” la domanda che
le rivolse Gao la lasciò completamente spiazzata:
voleva bene a quel gigante che conosceva da una vita, che non pensava ad altro
che al cibo e al beyblade, ma che sapeva
essere davvero tanto dolce…
E in certe situazioni non si aspettava davvero tante cose. Tipo questa.
“No, io… No.” sapeva di non avere
un tono di voce particolarmente convincente, ma gli
sorrise ugualmente, come a fargli capire che non voleva parlarne. “Siamo
arrivati. Grazie per l’aiuto.”
Lui ricambiò il sorriso. “Noi siamo
amici, Mao, e io sono qui ogni volta lo vorrai.”
La ragazza abbassò lo sguardo,
portandosi fuori dall’ascensore.
Lo so, grazie.
“Il viaggio da New York a qui mi ha distrutta!” si lagnò Emily, buttandosi sul letto. “Ho un mal di testa davvero incredibile, mi sembra di essermi
sbronzata.”
Hilary la guardò di traverso. “E
tu non hai nemmeno dovuto cambiare due aerei: per Dublino non c’è un diretto da
Tokyo. Non farmelo ricordare.”
“Anche Julia e Mathilda sono arrivate.” fece Mao, guardando fuori dalla
finestra, con aria pensierosa. “Magari domani potremmo
andare tutte a fare shopping. Ho sentito che questa è molto carina come città.”
Emily annuì lentamente, poi
seppellì la faccia sotto il cuscino. “Sì, ma prima fammi riprendere.”
Hilary sbuffò. “Concordo. Mi
sembra ancora di viaggiare in turbolenza.”
Mao le guardò sorridendo. “Volete
che abbassi le serrande e vi lasci riposare?”
La bruna la fissò inarcando un
sopracciglio. “Mi piacerebbe, ma prima siediti accanto a me e dimmi cos’è
quell’aria afflitta.” Emily, da sdraiata, alzò melodrammaticamente il pollice
verso l’alto.
La cinese cercò di sorridere e,
automaticamente, si sedette sul bordo del letto della sua amica, mordendosi le
labbra. “Brutti pensieri.”
“Di che genere?”
“Mi sono stancata della mia
vita.” buttò fuori tutto d’un fiato, fissando un punto
davanti a sé.
“Bada che mi opporrò al tuo
suicidio.” la frase di Emily, buttata lì a casaccio in tono neutro, fece ridere
le altre due.
“No, intendevo dire che io…” Mao
abbassò lo sguardo ed accavallò le gambe, non sapendo
bene come articolare la frase.
“Non ne posso più: della tribù.
Della Cina. Di Rei. Soprattutto di
Rei. Ho sempre condotto la stessa… Normale, scontata vita: sono sempre stata
Mao, quella innamorata persa di lui, del futuro capo
della tribù della Tigre Bianca, quella che è un’ottima cuoca, quella che,
forse, lo sposerà… Ma ora… Non lo so. E se volessi altro dalla vita? Che ne so…
E se mi innamorassi di un francese? Di un dublinese? E
se decidessi di aprire un ristorante qui? Secondo le regole
non potrei farlo, ma io voglio essere libera di fare quello che voglio!” disse,
tutto d’un fiato. “Non… non credo di aver mai vissuto veramente. Io voglio vivere.”
La pausa che seguì fu un lungo
silenzio, ma la prima che prese la parola fu l’americana che, seppur pallida
per il lungo viaggio le dedicò un sorriso. “Se per ora
non sei felice, credo dovresti fare ciò che ti permetta di esserlo.”
Hilary annuì. “Emily ha ragione.
Chiariamoci: io credo che Rei ti voglia bene, però… Non so, è da vedere. Se tu
ritieni di voler ritrovare la tua libertà, io ti aiuterò. Sarò sempre al tuo
fianco. Sempre.”
Mao le strinse la mano. “Grazie. Vi voglio bene.”
Emily sorrise. “Domani, come
prima cosa, si va a fare shopping anche con Julia e Mathilda. Prima, però, facci riprendere, che diamine!”
Il campionato iniziava ufficialmente
tra due giorni e le ragazze ebbero il tempo di visitare la città, nonostante
gli allenamenti.
Radunate Julia e Mathilda, decisero di andare in giro per la città celtica,
perdendosi tra i vari negozi, le statue, i monumenti e i musei.
Mao dovette fare un gran sforzo per cacciarsi alle spalle le preoccupazioni che
la assillavano, soprattutto perché per gli allenamenti non era stata al top
della forma: stando accanto ai ragazzi, sentire Rei che, con il suo sguardo le
ricordava le cose brutte che pensava, non aveva giovato alla sua prestazione
sportiva, ma quel giorno era determinata a divertirsi.
“Coraggio.” Hilary la prese a
braccetto. “Da oggi comincia qualcosa di nuovo.” fece, schiacciandole
l’occhiolino.
La ragazza annuì, sorridendo, e
seguendo la sua amica: sapeva che non avrebbe scacciato la sua inquietudine con
uno schiocco di dita, ma perlomeno ci avrebbe provato.
“Guardate, questa è la statua di
Molly Malone!” esclamò Mathilda estraendo la
digitale. “E’ praticamente il simbolo di Dublino.”
Julia si fermò a guardare la
statua con aria dubbiosa: raffigurava una bella ragazza in abiti succinti che
spingeva un carretto. “Okay, facciamo una foto?”
“Mettetevi in posa!” sorrise la componente della squadra europea.
“Sì, ma tu poi non ci sarai!”
protestò Emily, corrucciando la fronte.
Mathilda
fece per scrollare le spalle e ribattere, quando udì una voce da dietro le
spalle: “Se volete posso scattarvela io.” a parlare
era stato un ragazzo alto, dai capelli rossicci e gli occhi verdi: aveva un
sorriso aperto e sincero, che splendeva come il sole.
“Ci faresti un favore.” gli
sorrise Hilary.
In breve, tutte presero posto l’una accanto all’altra, vicino la statua, e
ne venne fuori una foto di notevole qualità.
“Che bella.” Emily era ammirata.
“E c’è un sole piuttosto forte, come hai fatto?”
“Sono uno studente all’accademia
di belle arti, nel corso di fotografia.” spiegò il giovane, non smettendo di
sorridere. “Mi chiamo Shane, non sono di Dublino, ci studio: sono di Kilkenny.”
La brunetta aveva l’espressione
di chi aveva appena avuto un’idea geniale. “Io sono Hilary, lei è Emily, lei Mathilda e lei Julia.” fece, escludendone volutamente una.
La cinese sbatté gli occhi. “Ah, e io sono Mao.”
“Siete
tutte straniere.” osservò il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, confuso.
Da dietro, Hilary fece cenno alle
ragazze di stare due passi più indietro rispetto a loro, infatti
la conversazione si concentrò solo su loro due.
“Sì.” rispose Mao, ravviandosi i
capelli. “Io sono cinese, Julia è spagnola, Mathilda è
danese, Hilary è giapponese ed Emily americana.”
Lui sorrise, ma aveva
un’espressione sorpresa. “E’ strano che cinque ragazze di diversa nazionalità
vengano qui, a Dublino… Per caso alloggiate all’University College ofDublin per fomentare la conoscenza dell’inglese?”
Mao gli
sorrise, scuotendo la testa. “No, siamo delle bladers.
Siamo venute a partecipare al campionato del mondo.”
Shane spalancò occhi e bocca.
“No, che figata! Allora quand’è così fatevi offrire
un aperitivo: ho l’onore di conoscere delle campionesse, non capita mica tutti
i giorni.”
Quella giornata fu meravigliosa,
trascorse letteralmente in un lampo: Shane fu una compagnia divertente,
affabile, galante, gentile, e insieme trascorsero delle ore veramente
bellissime, testimoniate dalle numerose foto che scattarono.
Mao sospettò più volte che le sue
amiche stessero tramando di lasciare appositamente lei e il ragazzo da soli, visto che, spesso e volentieri, loro due si ritrovavano a
parlare insieme mentre le altre si eclissavano chissà dove, ma non le
dispiaceva.
L’irlandese era un ragazzo di
ottima compagnia, e trascorrere la giornata con lui era stato quanto di più
piacevole si potesse aspettare.
Erano andati da un punto
all’altro di Dublino, visitando il Trinity College,
passando per il Liffey River, ed
avevano visto anche la
Cattedrale di San Patrick.
Sfortunatamente non vi era stato
tempo, altrimenti Shane aveva detto che le avrebbe portate a visitare la casa
di Joyce e anche il posto dove gli U2 incidevano i primi dischi (e qui sia
Hilary che Julia avevano fatto un salto, da fan
sfegatate della band), ma le avrebbe portate l’indomani.
Però, per quella sera le aveva
invitate al Temple Bar, un famosissimo pub di Dublino dove si scatenava la vita notturna irlandese, e
aveva dato loro appuntamento per le dieci.
“E’ bello vederti così.” quando
Hilary la sorpassò, Mao aggrottò le sopracciglia.
“Così come?”
“Sorridente, finalmente.” la
bruna si fece dare dalla receptionist la chiave della loro stanza. “Shane ha
colpito, eh?”
Mao arrossì. “Beh, è carino…”
Julia sfoderò un sorriso
malizioso. “E’ il tipico maschio irlandese: dolce ma ci sa
fare. Non so se mi spiego…” tutte scoppiarono a
ridere, facendo arrossire la cinese ancora di più.
Mathilda
intervenne per salvare l’amica da ulteriori imbarazzi.
“Mi sa che dobbiamo prepararci per la cena, che poi al pub non possiamo mica
andare a stomaco vuoto…”
Emily sollevò i numerosi
sacchettini che reggeva. “Così passiamo pure dalle nostre camere a depositare
questi: pesano un po’.” le altre sorrisero, ricordandosi dei numerosi
negozietti accuratamente selezionati dal ragazzo in cui avevano fatto, di tanto
in tanto, una sosta.
“Avete svaligiato mezza Dublino?”
Julia inarcò un sopracciglio alla
domanda di Lai, ponendo le braccia conserte. “Non che siano affari tuoi, ma
siamo andati a fare shopping. Non lo sapevi?”
“Hai perso una giornata di
allenamento solo per questo?” borbottò il cinese, in direzione della sorella.
Mao si irrigidì,
scegliendo di passare avanti e di non rispondergli nemmeno, infilandosi
direttamente sull’ascensore, dove fu seguita dalle compagne di stanza.
“Tutto bene? E’ raro che te la prendi per qualcosa che ti dice tuo fratello.” osservò
Emily, fissandola di sottecchi.
La cinese sospirò lentamente. “Sì,
io… Lo so, ho reagito in maniera esagerata.”
Hilary scrollò le spalle. “Non
crucciarti per questo: stai passando un periodo particolare, è più che normale
scattare come una molla alla minima stronzata. Ora posiamo nella stanza le
nostre cose, andiamo a mangiare che stasera ci divertiamo. Soprattutto
tu.” dichiarò, strizzandole l’occhiolino.
Se c’era una cosa a cui era sempre stato abituato fin da bambino, era ad avere
un occhio sopraffino, oltre che un udito fuori dal comune e un intuito eccezionale.
Da membro e futuro capo della
tribù della Tigre Bianca, non era uno sprovveduto: sapeva che qualcosa nella
sua amica era cambiato, e che, probabilmente, era tormentata da diversi
pensieri: erano giorni che il suo animo pareva rodersi, e giorni che sembrava non concentrata sul mondo che la circondava.
Lui, ovviamente, non aveva fatto
pressioni: ci sarebbe sempre stato per lei, esattamente come lei c’era sempre
stata per lui.
Mao, aveva, da sempre, occupato
un posto speciale nel suo cuore: era stata la sua compagna di giochi, erano
cresciuti insieme, ed era stato spontaneo sentir affiorare, nel petto, quel
dolce sentimento che ora sentiva esplodere e cercare
di contenere ogni qualvolta lei gli sorrideva…
Lei era stata colei che si era
dichiarata davanti a tutti durante il primo campionato del mondo di beyblade, dichiarando che lo avrebbe aspettato sempre… E lo
aveva fatto.
Come Penelope aspetta Ulisse che
naviga per raggiungere Itaca, anche lei era rimasta, paziente, presso la tribù,
mai lamentandosi, mai urlandogli contro, ma sempre sorridendogli e andandogli
incontro ogni qualvolta tornava dai suoi viaggi.
E, nonostante tutto questo,
nonostante lui fosse tornato in pianta stabile in Cina da ormai due anni, non
si erano ancora parlati, e non avevano fatto alcun riferimento a quanto era
accaduto quando entrambi avevano tredici anni.
Non sapeva se l’inquietudine di
Mao dipendesse da questo, o vi fossero altri motivi o ragioni, ma una cosa era
certa.
Ci sarò sempre per te, Mao…
Emily fissò compiaciuta
la mise elegante della cinese quella sera: per essere una semplice serata per
le vie di Dublino, Hilary aveva passato un’ora intera a decidere cosa fare
indossare a Mao e come farla truccare, e il risultato era stato più che
sconvolgente.
Un tubino nero metteva in risalto
le forme prorompenti della ragazza, e un trench bianco le sottolineava
candidamente. La bruna, poi, le aveva prestato una borsa Chanel che si intonava alla perfezione e che rendeva ancora più
elegante ed armoniosa la sua figura.
“Wow.” Shane era ammirato. “Sei…
Di un altro pianeta.” il ragazzo non riusciva a smettere di sorridere e fu con
gesto automatico che le porse il braccio. “Ragazze, spero non vi dispiaccia.”
fece, rivolgendosi alle altre.
“Oh, no, no.” Julia, Mathilda, Emily e Hilary lo esclamarono quasi in coro, cercando
di sorridere in maniera spontanea e non da streghe,
come le aveva apostrofate la loro amica cinese minuti
prima.
Nel quartiere di Dublino che
prendeva il nome Temple Bar, vi erano numerosi artisti di strada,
cosa che catturò subito l’attenzione di Julia, estasiata da tutta quella
bravura.
“Oh, l’Hard Rock café!” mugolò Mathilda,
indicandolo. “Shane, ci devi portare assolutamente, domani.”
Lui le sorrise. “Sarà fatto.”
Più avanti le
condusse presso un locale che spiccava per i muri rossi dove, a caratteri
cubitali, stava scritto Temple Bar. “Ecco, il pub che ha dato il nome a tutto il quartiere.” dichiarò, facendole
entrare. “Sapete, Sir Temple era il rettore del Trinity college nel 1600, colui che
ha probabilmente dato il nome al pub e, successivamente, a tutto il quartiere.”
Shane dimostrò di sapere
parecchie cose su Dublino, nonostante ci vivesse da solo un anno: si descrisse
come un curiosone e un amante dei viaggi, dopodiché, ordinate le birre, chiese
loro di illustrargli le curiosità del beyblade.
“Quando inizia il campionato? E’
un vero peccato, ormai i biglietti saranno andati a ruba… Mi sarebbe piaciuto
fare il tifo per voi…”
Mao gli
sorrise. “Mai dire mai.” fece, estraendo un pass. “Piacere di conoscerti,
Giancarlo Bianchi, giornalista italiano de ‘La Repubblica’.” tutti
scoppiarono a ridere.
Shane fissò le altre. “Io amo
questa donna!” e a Mao si strinse il cuore in una morsa di inquietudine.
Le vie irlandesi viste dall’alto
erano meravigliose.
Si strinse nella sua vestaglia,
mordendosi le labbra, quasi potesse impedire ad una
lacrima di solcarle la guancia, inutilmente; un singhiozzo le scivolò via dalle
labbra, prepotente. Si portò le mani alla bocca, nel
tentativo, inutile di calmarsi.
Era sempre stata una ragazza
energica e combattiva, pronta a combattere le sue battaglie: perché in quel
frangente era ridotta uno straccio? Perché non si riconosceva più?
S’irrigidì appena quando sentì
delle braccia circondarle la vita, ma si rilassò subito quando capì che si
trattava della sua migliore amica.
Aveva solo bisogno di una spalla
su cui appoggiarsi e di piangere, piangere fino allo
sfinimento, e magari di urlare, urlare fino a non avere più voce… Ma poi
perché?
“Sfogati.” la voce di Hilary le
arrivò chiara e dritta alle orecchie, in una stilettata che fece
quasi male e le fece abbassare lo sguardo.
Si appoggiò al muro, mordendosi
le labbra. “Perché?”
“Perché non posso vederti così.”
le prese una mano, accarezzandole lievemente il palmo. “Ti voglio bene, e mi
fai soffrire.”
Le sue parole, appena sussurrate,
furono un incentivo per far inumidire gli occhi della cinese. “I-Io… Non ce la
faccio più.” scoppiare a piangere fu automatico, così come essere strette
dall’abbraccio della bruna.
“Stai attraversando un brutto
periodo, ed è normale una crisi d’identità, specie a chi è sempre stata
catalogata dalla gente con una sola etichetta.” la scostò dolcemente da sé,
fissandola dritto negli occhi. “Io so esattamente chi sei: tu sei Mao, sei la
mia migliore amica e io ti adoro.” fece, scoccandole un bacio sulla guancia.
“Se tu decidessi di mollare il beyblade, di sposarti Shane alle Hawaii, di fare un bambino
in provetta, di fare la barbona al supermercato… O di mollare tutto e insieme andare
a fare le ladre sexy alla Thelma
e Louise… Io ti appoggerei.” le schiacciò l’occhiolino.
“Ma
voglio che tu ricordi una cosa, e per quanto dolorosa devo proprio dirtela: non
ha senso voler rinnovare se stessi se la nostra anima rimane accorata al passato.”
le sorrise dolcemente, ravviandole i capelli dietro l’orecchio.
“Buonanotte, ti voglio bene.”
“Dai, vediamo di godercela bene
quest’ultimo giorno di libertà!” trillò Julia, da sopra la piccola torre della
casa di James Joyce.
“Esagerata.” rise Emily, nella
sua direzione, scattandole una foto, per tutta risposta.
Avevano visitato la dimora dello
scrittore dublinese, rimanendo affascinate – soprattutto Hilary, grandissima
lettrice di autori classici come la Austen, Joyce
e le sorelle Bronte – da quel luogo che emanava una storia così
vivida, limpida che pareva esser toccata con mano.
“Hilary è in visibilio.”
sghignazzò Mao, in direzione del ragazzo, che annuì.
“Senti, ti va di scendere
dabbasso?” Shane aveva una nuova luce negli occhi che la ragazza non seppe
interpretare, tuttavia scelse di annuire leggermente: quando le dita del
ragazzo si insinuarono tra le sue, sobbalzò
leggermente, e il pensiero andò a Rei: sarebbe morta se quel gesto lo avesse
fatto lui.
Vicino la casa di Joyce c’era un
grande spiazzo, ideale per parlare, riposarsi, soprattutto se c’era una bella
giornata, come quella che stavano vivendo. Il clima irlandese era capriccioso,
come un po’ in tutto il regno unito: il sole non
durava a lungo, così come non durava a lungo la pioggia.
“Dublino è bella.” soffiò Mao,
affacciandosi a vedere il panorama dal muretto: i suoi capelli si mossero a
ritmo del vento abbracciava l’intera città, ipnotizzando il ragazzo.
“Io credo che sia tu a renderla
tale.” la voce roca di Shane fece aggrovigliare lo stomaco di Mao in un impeto
di… tremore?
Quando lui si avvicinòlei chiuse gli occhi di scatto, con fare
quasi disperato, ma non bastò. Non bastò, perché quando le labbra
di lui furono sulle sue, furono altre labbra quelle che desiderò di
baciare.
E si dette della stupida.
Lai afferròGaleon con fare quasi rabbioso non appena terminò il
suo scontro con Rei. Erano stati tutto il giorno ad allenarsi, come quasi tutti
i bladers, e l’indomani sarebbero cominciati i
campionati. Era preoccupato per sua sorella perché non la vedeva serena, il
campionato era solo la punta dell’iceberg, e poi… Dove diavolo andava ogni
giorno?
“Io starei tranquillo.” fece Gao, con aria pacifica. “Mao sa quello che fa, ed è già
brava per com’è.”
“Sì, lo so.” brontolò. “Ma
vorrei perlomeno sapere cosa le passa per la testa.”
Kiki,
che faceva da riserva, era il più tranquillo di tutti; ponendo le braccia
dietro la testa, si stiracchiò. “Ah, non farla troppo lunga: quando vorrà
parlarcene, noi ci saremo.”
“Ben detto.” approvò il gigante
cinese. “Ora andiamo a cena?”
Mentre il gruppetto rideva e lo
prendeva in giro, nella hall dell’albergo erano appena
rientrate la comitiva di ragazze cosmopolite che, dopo una giornata all’insegna
della Dublino più pura, stavano festeggiando la novità in maniera alquanto
rumorosa, destando l’attenzione delle persone vicine.
“Dai, Shane, rimani a cena!”
chiocciò Julia, tutta un sorriso.
“Infatti, noi ceniamo sempre
tutte e cinque in un tavolo da sei.” spiegò Mathilda.
“E stasera saremo veramente sei.”
“Si festeggia il fidanzamento di
Mao!” esclamò Hilary battendo il cinque a tutte e facendo arrossire i due.
Quello che seguì fu una scena
particolarmente imbarazzante: Lai andò dritto sparato dalla sorella,
artigliandole il braccio con occhi di fuoco. “Mao: cos’è questa storia?”
Hilary si schiaffò una mano sulla
fronte. “Calmati, stavo esagerando.” fece, provando a gettare acqua sul fuoco.
“Mica si sposano o roba simile: tua sorella adesso sta
semplicemente con questo ragazzo.”
La cinese sbuffò. “Grazie Hila, ma ci penso io.” fissò Lai trapassandolo con lo
sguardo. “Che c’è?”
Il fratello incrociò le braccia
al petto. “E’ per questo che hai saltato gli
allenamenti? Per stare con lui?”
Mao inarcò pericolosamente un
sopracciglio. “Anche se fosse?”
Lui serrò la mascella, stringendo
i pugni. “Abbiamo un campionato da disputare, e lo sai. Non
sono ammesse… Distrazioni.”
La ragazza inarcò un
sopracciglio. “Io ho una mia vita, ma
probabilmente tu te ne sei dimenticato, te ne dimentichi sempre.” ringhiò. “Io
esco con lui, se ti sta bene okay, altrimenti va’ un
po’ a quel paese.” strinse la mano di Shane con aria di sfida, poi fece un
cenno alle ragazze con la testa. “Venite, andiamo a cenare.”
La stettero a
guardare mentre si allontanava, scortata dalle sue amiche e da quel
ragazzo: sembrava così diversa dalla Mao che erano abituati a conoscere… Era
evidente che in lei stava cambiando qualcosa.
Rei cercò
di tenere a bada la sensazione di furia e gelosia che minacciò di propagarsi
per tutto il suo essere: mai, mai
avrebbe immaginato che quel giorno potesse arrivare.
Aveva letto nello sguardo della
sua amica una rabbia, un furore non indifferente, ma una cosa era certa: non
era amore quello che l’aveva spinta a schierarsi con il ragazzo. Era piuttosto
disperazione, frustrazione,e qualche altra cosa che
non aveva saputo classificare.
Lei non provava nulla per quel
ragazzo.
La sua Mao c’era ancora, non era
cambiata.
Il suo unico cruccio era se
doveva lottare per riprendersela oppure aspettare. Aspettare i suoi tempi, aspettare che questo periodo finisse, un po’ come lei aveva
sempre fatto con lui.
Che devo fare?
Hilary lanciò
il mozzicone di sigaretta lontano, badando bene a non farsi accorgere da
nessuno: aveva iniziato a fumare da pochissimo, e non voleva che nessuno se ne
accorgesse, altrimenti le sentiva già le lamentele: già bastava Takao, di tanto in tanto, a fare le veci di sua madre senza
che ci si mettessero pure le altre…
“Che fai?” sobbalzò quando Mao
uscì fuori sul balcone.
“Niente, pigliavo una boccata
d’aria.” finse un tono quantomeno casuale. “E pensavo che quest’anno è una noia: tutte facce già viste, già conosciute… Tranne la
nuova leva della squadra europea, direi. E’ carino. Quasi quasi…”
La cinese ridacchiò. “Attenta,
che secondo me si è preso una cotta per te, quel povero viennese.”
Hilary scrollò le spalle. “E’
tanto per divertirmi, Mao. Lo sai qual è la mia
filosofia con i ragazzi: usali e poi gettali.”
La cinese sospirò: sapeva bene
che la brunetta aveva avuto numerose relazioni durate
un arco di tempo inferiore al tempo dove una limonata non era intesa come la
bevanda, ma era fatta così: aveva chiarito che non le interessavano le
relazioni. “Forse non hai trovato quello giusto.”
“Quello giusto!” la scimmiottò. “Diamine, ho sedici anni, mi voglio
divertire! Voglio essere baciata, guardata, e tra un po’
vorrò pure scopare, che diamine!” alla faccia scandalizzata della cinese, lei
rispose con una linguaccia.
“Sì, cara mia,
è meglio che ti adegui: sco-pa-re.
Voglio questo, e basta. Sono una ragazza libera e indipendente, l’ultima cosa
che voglio è un ragazzotto che mi dica come devo vivere. Ho sedici anni e tutto
il diritto di divertirmi.”
Mao sbuffò. “Non è così che… Mi
hanno insegnato.”
“Beh, se è per questo neanche a
me, ma le idee vanno soppiantate, cara mia.” fece,
strizzandole l’occhiolino.
La cinese scosse la testa,
appoggiandosi alla ringhiera del balcone. “Non ti interessa
sposarti, avere una famiglia?”
La brunetta inarcò le
sopracciglia. “Sì… Più o meno tra una ventina d’anni.”
fece, scoppiando a ridere. “Ho se-di-ci anni!”
Mao si morse le labbra.
“Probabilmente se anch’io, anni fa, l’avessi pensata come te
non mi sarei trovata in questa situazione adesso…”
Hilary le cinse le spalle con un
braccio. “Ascoltami, okay? Con Shane non è che ti ci
devi sposare o altro; ci stai, vedi come va, e se non ti ci trovi… Lo mol-li. Cos’è che non
è chiaro?”
L’altra sorrise.
“Niente, tu fai proprio tutto facile, Hila…”
Il campionato del mondo iniziò il
giorno dopo, e grazie al pass speciale che Mao aveva procurato a Shane, il
ragazzo poté presenziare agli incontri che videro
combattere quattro delle otto squadre mondiali che presenziavano al campionato.
Il presidente Daintenji
fece il classico discorso d’inizio campionato, e, quando le squadre
si batterono, tra cui quella dei Baihuzu, i tifosi
furono subito pronti ad acclamarli, ed a tifare per il loro preferito.
Mao non giocò, quel giorno,
chiedendo brutalmente di essere sostituita.
Nella sua squadra si respirò
tutta la mattinata un clima orribile: suo fratello non le parlava e gli altri
la fissavano di sottecchi; Rei, poi, sembrava volesse comunicarle con gli occhi
qualcosa che lei voleva fuggire a tutti i costi.
Non le sopportava quelle iridi
ambrate. Non le sopportava e non sopportava nemmeno il calore che le provocavano per tutto il corpo.
Non sopportava che ogni qualvolta
lui si degnava di posare il suo sguardo su di lei, lei dovesse sentirsi così,
come una povera scema.
Perché con lui mi sento così e con Shane no?
La prima mattinata d’incontri si
esaurì presto, e Mao poté dileguarsi per il pranzo: non avrebbe retto ancora a
lungo la presenza dei Baihuzu.
Rei la guardò
andare via con un misto di rabbia e impotenza: il non sapere che cosa doveva fare
stava divenendo una sensazione lacerante, impossibile da sopportare.
Come diavolo posso far fronte a tutto questo?
Fu quando si pose la domanda che
la possibile risposta gli passò accanto. In jeans e canotta rossa.
“Hilary!”
La brunetta si volse verso di lui,
sorridendogli genuinamente. “Ciao Rei. Complimenti per l’incontro: siete stati
mitici!”
Rei ricambiò
il sorriso: voleva bene a quella brunetta conosciuta qualche anno prima in
Giappone che considerava alla stregua di una sorella. Era diventata un must nei campionati, un vero elemento della BBA; tutti le
volevano bene e, se c’era qualche problema si
confidavano con lei. Era divenuta una sorta di psicologa.
“Posso parlarti?”
Hilary annuì. “Pranziamo insieme?
Ho un certo languorino…”
Il cinese inarcò un sopracciglio
prima di sorridere. “La vicinanza con Takao ti ha
fatto male…”
“E’ stato un peccato che tu non abbia
giocato… Domani non so se potrò esserci, sarà allestita la mostra di Andy
Warhol.” Shane stava blaterando da ormai dieci minuti, ma
Mao aveva la testa da tutt’altra parte.
Per la precisione, fissava il
tavolo in fondo alla sala pranzo del ristorante dell’albergo, quello in cui, da
cinque minuti, si erano accomodati Rei e Hilary.
Di che diamine potevano parlare?
Parecchi metri più in là il
cameriere aveva portato ai due ragazzi del fish and chips, sul quale Hilary non si era minimamente risparmiata.
“Scusami, ma ho fame.” fece,
sorridendo. “I campionati mi mettono sempre un certo appetito.”
Rei scosse la testa. “Ti capisco, anche io sono affamato.”
“Allora, dimmi tutto.” esclamò,
con voce allegra, condendo il pesce con una spruzzata di limone.
Il cinese non
seppe da dove cominciare: sapeva bene che aveva scelto la persona giusta per
confidarsi: in fondo Hilary era una ragazza fidata e poteva anche dargli il
consiglio giusto, ma non sapeva proprio come impostare il discorso…
“Non so cosa fare… Con Mao.”
La bruna annuì, accompagnando la
forchetta alla bocca. “In che senso, esattamente?”
“Speravo potessi dirmelo tu.” inarcò
brevemente il sopracciglio lui, inghiottendo un boccone.
Lei sorrise furbescamente. “Ah, no! Io so cosa ha in testa Mao, ma
hai torto se speravi che te lo dicessi.” esclamò, accavallando le gambe.
“Non sai cosa fare… In
che senso? Qual è il tuo bivio esattamente?” sussurrò con fare
accattivante.
Mi ha fregato.
“Shane.” ammise, con un sospiro
che sapeva tanto di sconfitta. “Amo Mao, e la mia colpa è non averglielo mai
dimostrato. Quindi le due strade sono: vado a riprendermela o la aspetto, come
lei tante volte ha fatto con me?”
Hilary roteò gli occhi e
ridacchiò. “Tu e Mao siete proprio due anime gemelle. Vi
auguro veramente che, quando vi ritroverete, non vi lascerete più, perché come
voi ne esistono poche al mondo.” ridacchiò, nascondendo il sorriso dietro una
mano. “Rei, lei non ama Shane. Lui è un diversivo. Deve
soltanto trovare se stessa.”
“Che devo fare?”
La brunetta assottigliò gli
occhi. “Se tu fossi una ragazza che si sente data per scontata, una che per
tutta la vita non ha fatto altro che essere etichettata come quella che aspetta e spera… E ora si è
proprio rotta i coglioni e vuole provare il brivido… Che faresti?”
Rei sorrise, e una luce brillò nei suoi occhi color caramello. “Non aspettavo altro che tu
me lo dicessi.”
Non capiva perché quel giorno si
sentisse quella strana sensazione addosso: era differente dalla solita
inquietudine a cui ormai aveva fatto il callo,
differente da tutte le strane emozioni che provava di solito, era qualcosa che
aleggiava su di lei come un’ombra, che la rendeva ulteriormente nervosa.
E non era perché il clima nella
sua squadra era ormai compromesso, o perché Shane fosse assente. No.
Aveva come una sorta di strano
presentimento.
Si batté contro la squadra
europea quasi rabbiosamente, determinando la sua vittoria in pochi minuti. Non
sopportava quella sensazione, voleva tornare a sedersi in panchina.
“Sei stata brava.”
Fu come una stilettata.
E all’improvviso capì: lui, era
sempre lui, sempre e solo lui il responsabile di tutto.
Mao strinse i pugni, abbassando
lo sguardo, tremando appena. Gli passò accanto senza degnarlo di uno sguardo né
rispondendogli; semplicemente si detestò ulteriormente per il suo cuore che,
furioso, aveva aumentato i battiti.
“Voglio sapere cosa vi siete
detti tu e Rei ieri sera.”
Hilary si fermò con la mano a
mezz’aria, ed Emily emise un gemito. “Strappala tutta, dannazione!” forse non
era stata una buona idea fermarsi con la striscia di ceretta a metà.
La brunetta sorrise, riprendendo il
suo lavoro. “Spiacente, ma lo sai che quando le persone mi parlano non rivelo
mai cosa so. Parlare con me è come parlare con un muro: i muri parlano?”
Mao tremò di rabbia: non ce l’aveva con la giapponese, ma se non le diceva cosa si
erano detti con Rei la sera prima, poteva rischiare di fare una pazzia. “Bene,
questa volta dovrai fare un’eccezione.”
Hilary spalmò dell’intrugliò
appiccicoso sulle gambe di Emily per poi prendere delle altre strisce. “Dimmi
perché.”
Mao scosse la testa come se,
facendolo, un’idea balorda le potesse scivolare via come una mollica da un
tavolo. “Perché sono confusa, ecco perché!” sputò fuori. “Io non so più chi sono, non so chi voglio essere, non ho un’identità…” i suoi
occhi si riempirono di lacrime, che si affettò a scacciare. “E nessuno sembra
farci caso!”
La giapponese sospirò, mettendo
via la ceretta e stendendo sulle gambe dell’amica dell’olio adatto. “Ma io lo
so. Emily lo sa, tutti lo sanno. Ma
sai cosa dovresti fare, realmente
fare, tesoro?” Hilary si asciugò le mani su una salviettina, che poi
appallottolò e buttò nel cestino della carta. “Prendertela con il
responsabile. Altrimenti questa crisi di identità
durerà per tutta la vita, e tu sarai sempre costretta a chiederti con Shane che
ci stai a fare.”
Mao sobbalzò. “Non è vero, io…”
“Tu cosa? Lo ami alla follia?” La
bruna la inchiodò con lo sguardo e l’altra arretrò, mordendosi le labbra.
La cinese, sconfitta, abbassò lo
sguardo. “No.”
“Solo affrontando Rei potrai
gettarti ogni cosa alle spalle e vivere finalmente bene la tua storia con Shane.”
Hilary pose le braccia conserte, e Mao annuì, decisa, uscendo dalla stanza.
Oppure potrai scoprire che la via precedente non era poi così male, ma
si doveva soltanto riscoprire…
Driger
si destreggiò alla perfezione tra lo slalom di ostacoli che vi erano sul campo;
quel pomeriggio, in palestra, c’era un’insolita calma; non che Rei fosse
particolarmente concentrato, ma tanto bastava ad allenarsi, quindi andava bene.
La verità nuda e cruda era che la
sua mente andava sempre, perennemente a Mao.
Quando quella mattina lo aveva
deliberatamente ignorato gli aveva fatto male, non
poteva nasconderlo, ma che poteva fare? Possibile che uno come lui, così deciso
quando si trattava di beyblade, in quel frangente non
sapesse quasi come muoversi?
Era una cosa che non sopportava.
Quando un bey rosa dai bordi
dorati si immise nel campo, dando parecchio filo da
torcere a Driger, sobbalzò: lui conosceva quel beyblade.
“Galux?”
Mao era ancora lì, alla sua
destra, con il caricatore in mano e un’espressione sciupata sul viso. Era
pallida, e le occhiaie che da qualche tempo avevano preso ad
esservi sotto i suoi occhi parevano essersi fatte ancora più marcate.
“Hai smesso di ignorarmi.” nel
suo tono non c’era traccia né di ironia né di
sarcasmo, eppure ciò bastò per irritare la ragazza, che prese fuoco come un
fiammifero.
“Ovvio. In fondo sono solo Mao Cheng, quella che aspetta e spera, l’idiota che sta a lavare i panni mentre tu viaggi intorno al mondo, no? I
miei capricci non potevano durare a lungo.” la sua voce densa di rabbia mista
al tremore delle sue labbra ferirono Rei come se si
fosse trattato di una stilettata.
Sapeva di averle fatto del male,
in quegli anni, ma non avrebbe immaginato così tanto.
“Ma cosa
dici?” fece per avvicinarsi a lei, ma la ragazza indietreggiò, prendendo a
tremare.
“Sta’
lontano da me!” urlò. “Sempre data per scontata, sempre,
sempre stata ad aspettarti… Ma adesso sai che c’è? Che mi sono
scocciata. Mi sono scocciata della tribù, della Cina, ma soprattutto di te. Voglio essere libera,
libera da tutto e da tutti, libera di fare ciò che mi pare.” ringhiò,
fissandolo dritto negli occhi.
Mentre la ragazza si sfogava, Rei
si sentì esattamente come quando si allenava al villaggio e si
immergeva nelle cascate per fortificare il corpo: lì la cascata gli
pioveva addosso, e il peso dell’acqua gli si gettava all’improvviso tutto sulle
spalle, e qui era lo stesso.
Solo che lo provò figuratamente,
e fu una sensazione molto più devastante, anche perché capiva alla perfezione
come si doveva sentire, perché era esattamente come si era sentito lui anni
prima, quando aveva deciso di lasciare la tribù della Trigre
Bianca. Aveva regole ferree, severe, intransigenti, e lui le aveva violate per
andare in viaggio per il mondo, ed era stato additato come traditore.
Mao, per tutti quegli anni era
stata ad aspettarlo, non facendo mai vacillare il suo amore per lui, e per
tutti era stata sempre etichettata come colei che lo avrebbe sempre aspettato:
non avrebbe mai pensato che, un giorno, si sarebbe potuta
stancare.
“…Hai ragione.” la voce gli uscì
come un soffio, ma almeno ciò che disse fu chiaro ed
udibile. “Mi dispiace che tu stia soffrendo, e ti chiedo perdono. Ma io ti amo,
Mao, e questo non posso cambiarlo; la mia unica colpa è stato
non fartelo mai capire, e dirtelo adesso che è troppo tardi.”
La ragazza lo fissò in maniera
neutra, non commentando.
“Sappi solo che non mi arrendo, e
che lotterò per te, perché io credo
in te. Tu sei Mao, la mia Mao, la mia compagna di giochi, la mia migliore
amica, e vorrei che tu fossi anche qualcosa di più. Ma ti aspetterò, ti
aspetterò sempre, dovessi attendere tutta la vita.”
La cinese si voltò di scatto,
mordendosi le labbra ed andando nella direzione
opposta, marciando verso il corridoio, per non fargli vedere le lacrime che,
copiose, avevano cominciato a scendere sulle sue guancie.
I'm spoiled By your love boy No matter how I try to change my mind What's the point it's just a waste of time I'm spoiled by your touch boy The love you give is just too hard to find Don't want to live without you in my life
Spoiled – Joss Stone
******************
Emily sospirò, andando verso
l’amica che, rannicchiata sulla poltrona della stanza, non si muoveva da una
mezz’ora abbondante: sapeva che stava passando un periodo difficile, ma
talvolta non sapeva proprio cosa dirle, come aiutarla.
Hilary sosteneva che era qualcosa
che si sarebbe smossa da sola, ma lei non ce la faceva a stare a guardare. La
giapponese e Mao erano state le prime amiche che aveva avuto, era particolarmente
legata a loro; non voleva che soffrissero.
Emily era sempre stata una
ragazza tutta calcoli e ragionamenti matematici; per lei tutto si limitava al
razionale e al reale, non vi era spazio per altro… Ma quando entravano in gioco
le sue amiche… Tutto ciò si andava a far benedire. E lei non sapeva cosa fare
esattamente; si sentiva inutile.
Si sedette sul bordo del letto
vicino alla poltrona, e sporse la sua mano in direzione della ragazza; Mao lo
notò e le sorrise dolcemente, afferrandola. Stettero così per qualche secondo,
fino a quando qualcuno non bussò alla porta.
L’americana si alzò, sospirando.
Capiva benissimo che, in quel frangente, l’amica non voleva vedere nessuno.
Non appena aprì la porta, però,
la sorpresa fu grande. Rei Kon.
Emily sbatté gli occhi: che
diamine ci faceva lì? Non aveva il buon gusto, perlomeno di lasciarla in pace?
Rei cercò
con lo sguardo Mao nella stanza, dopodiché con un sorriso, le chiese
silenziosamente di venire alla porta. La cinese, irritata, lo fulminò con lo
sguardo, alzandosi malamente dalla poltrona.
“Che cosa vuoi?” sbottò,
fulminandolo con lo sguardo.
Il ragazzo, apparentemente, non
si fece scoraggiare: aveva le braccia dietro la schiena, pareva reggere chissà
cosa e sembrava essersi chiuso in un ostinato mutismo.
Poco dopo, estrasse una pila di
fogli, che fecero inarcare le sopracciglia della ragazza; li mosse
ritmicamente, e su ogni foglio vi era scritto
qualcosa.
Ho delle
confessioni da fare. Altrimenti non mi
sentirò con la coscienza a posto, capisci?
Confessione 1)
La mia
mente e il mio corpo viaggiano molto: ma trovano sempre un modo per arrivare a
te;
Confessione 2)
Ho tanta
paura di perderti, ma tu non sei nemmeno mia;
Confessione 3)
il 99% di me ti ama, ma
l’uno per cento ti biasima per questa situazione;
Confessione 4)
Ti amo
dalla prima volta che ti ho visto. Qualunque essa sia stata.
Mao sentì i suoi occhi inumidirsi
e il suo stomaco aggrovigliarsi. Quanto aveva aspettato quella dichiarazione… Ed
era arrivata in quel momento. Proprio in quel momento.
Si portò una mano agli occhi,
mordendosi le labbra, e singhiozzò: perché doveva essere così difficile?
Rei la stette a
guardare un istante, infine salutò con la mano, andandosene così come
era arrivato, lasciando sole nella stanza le due ragazze.
Emily si voltò a guardare l’amica.
“Lo lasci andare?”
Mao rispose a fatica. “Sì.”
eppure dentro di lei lo sentiva: qualcosa aveva trovato la giusta posizione.
Anche
per quel giorno il campionato finì, dichiarando i suoi vincitori e i suoi
sconfitti. La platea si alzò e si spostò muovendosi a macchia d’olio, dirigendosi,
in massa, verso l’uscita dello stadio: l’ora di pranzo incombeva e, dopo ore passate ad applaudire e a tifare i propri preferiti, un
certo languorino si faceva di certo sentire.
Hilary,
contenta, andò verso l’amica, abbracciandola. “Sei stata fenomenale!”
Mao
le dedicò un sorriso stanco. “Insomma: Galux ha
combattuto così così, ma, poverino non aveva tutti i
torti. Sono io che in questi giorni ho altri pensieri per la testa.”
La
bruna si stiracchiò. “Che ne dici se io e te, al posto
di andare a pranzare al ristorante, andiamo all’italiano qui a qualche
isolato?”
“Sì,
dai.” approvò Mao. “Oggi non c’è Shane e sono pure libera.”
Hilary
dapprima la fissò, poi scoppiò a ridere. “Ma che dici?
Guarda che è il tuo fidanzato, mica un poppante a cui
devi fare da baby sitter!”
Mao
arrossì. “Lo so, è che…” le parole le morirono in gola. “Niente, lascia perdere.”
La
giapponese la prese a braccetto. “Mh, come vuoi.”
L’altra
sospirò e si rivolse alla bruna con fare apocalittico. “Tu credi che dovrei
lasciarlo?”
Entrarono
nella hall di un ristorante italiano che aveva l’aria
di essere molto in, ma, d’altronde, non ve ne erano altri in zona.
Le
ragazze diedero al cameriere il loro soprabito e si accomodarono al tavolo,
fingendo di non notare come l’aspetto pomposo del locale mal si sposasse con il
loro abbigliamento sportivo.
“Accidenti,
che figuraccia!” ridacchiò Hilary. “Ti credo che ci hanno
spostato nel tavolo più in fondo di tutta la sala.”
Mao
parve non farci nemmeno caso. “Rispondi alla mia domanda?”
La
bruna fece per aprire bocca, ma arrivarono i menù, che lei aprì con crescente
entusiasmo. “Guarda che cose buone che ci sono qui, ragazza mia! Adoro la
cucina italiana, è veramente un sacco che non ne mangio. Tu
che prendi?” fu quando l’amica le scoccò un’occhiata assassina che la
giapponese calmò il finto entusiasmo.
“Okay,
non lo so. Devi vedertela tu. Se non ci fosse un certo cinese di mezzo, tu e
Shane… Sareste perfetti. Il punto è che Rei esiste. E non credere che Emily non
mi abbia raccontato di ieri.”
Mao
si passò una mano tra i capelli chiari. “Sono ancora più confusa di ieri. E allo stesso tempo non lo sono.”
Hilary
si accigliò. “Che intendi?”
“Quando
si è presentato da me facendomi quella scenetta alla LoveActually… Mi ha stupito.” lo disse
mordendosi il labbro inferiore, poi sorrise, come se si stesse perdendo nel
ricordo.
La
bruna scrollò le spalle. “Io ce lo vedo, onestamente.
Voglio dire, Rei mi sa di romantico.”
Mao
scosse la testa. “No, voglio dire che… LoveActually è il mio film preferito. Ma
io non pensavo lui lo sapesse.”
La
giapponese assunse un’espressione pensosa. “Io preferisco Il Laureato.”
“In tutti questi anni ho pensato che mi
considerasse soltanto una sorella, o peggio, la sorella
del suo migliore amico… E ora scopro che non è così.” Mao scosse la testa, e
una cascata di capelli chiari si mosse con lei. “Quanto tempo sprecato…”
Hilary
fece spallucce. “Io non ho mai dubitato dei sentimenti di Rei per te. La sua
unica colpa è di non averne mai parlato con te. Ma
come ti parlava, come ti guardava… Era chiaro. Forse chiaro
per tutti tranne che per te.”
La
cinese sospirò. “Insicurezza. Che
brutta parola… Può minare molti rapporti e anche l’equilibrio di molte persone.”
L’altra
annuì lentamente. “Tesoro, cosa farai adesso con Rei e con Shane?”
Mao
pareva essere immersa nei suoi pensieri. “Anche se lui fosse stato l'ultimo
uomo sulla terra,non vorrei mai essermi innamorata di lui. Un attimo di dannata insicurezza,e ho trovato me stessa tra le braccia di un’altra
persona.Non avrei mai dovuto
innamorarmi di lui.”
Hilary
scostò la testa di lato. “Tesoro?”
La
cinese sospirò. “Riflettevo a voce alta.” sbuffò. “Riguardo Shane, mi sa che lo
lascerò. Per Rei… Sono così spaventata…” con le dita tamburellò sul tavolo,
fino a quando la mano di Hilary non coprì la sua, come a farle forza e a dirle
che, si, l’avrebbe superata, questa paura.
“Ecco
qua, principessa: sana e salva.”
Mao
si fermò a fissare i contrasti di luce che le lampade dell’albergo creavano con
i capelli di Shane: da rossi, parevano, in certi punti, essere quasi biondi,
mentre in altri, quasi castani.
Quel
ragazzo era simpatico, spiritoso, di compagnia, con lui le ore passavano in
fretta… Era davvero adorabile: peccato che accanto a lui non sentisse un
brivido quando solo la sfiorava. Niente farfalle nello
stomaco, niente brividi lungo la schiena, niente tremolii alle ginocchia…
Niente di nulla. Era davvero demoralizzante.
“Grazie
per la bella serata.” Mao si sforzò di sorridere, ma, quando, in realtà, era
spaccata a metà: quella sera erano andati in giro per le vie di Dublino, era
stata una serata meravigliosa, e qualsiasi altra ragazza avrebbe visto in Shane
il ragazzo ideale… Ma non lei.
Perché
aveva capito che poteva viaggiare per il mondo, farselo a nuoto, girarlo con la
canoa, con l’aeroplano, con la nave… Ma il pensiero di Rei sarebbe rimasto
sempre con lei. Così come quello dei suoi affetti: suo fratello, tutti i suoi
amici… Non poteva sradicarli dal suo cuore con uno schiocco di dita.
Lei
era Mao Cheng, lo sarebbe stato per sempre, qualunque
strada avrebbe scelto di intraprendere.
Per
quello aveva deciso che quella sarebbe stata l’ultima sera con Shane. Il giorno
dopo avrebbe rotto con lui.
Cos’avrebbe
fatto con Rei era ancora tutto da stabilire. Se ci fosse stata Hilary nella sua
testa, in stile grillo parlante, le avrebbe detto di andarselo a riprendere.
Eh, ma in che modo?
Quando
Shane intrecciò le dita con le sue, Mao si sforzò di sorridere: non era giusto
prenderlo in giro così, lo sapeva, ma d’altro canto non sapeva
proprio che altro fare.
Le labbra di lui arrivarono sulle sue alla velocità della luce
e tutto quello che avvertì fu… Nulla. Un semplice contatto di labbra. Ricambiò
il bacio, passandogli il braccio dietro il collo per qualche secondo ma lo
allontanò da sé subito dopo.
“Okay, ‘notte.” fece, ridacchiando.
Shane
sorrise. “Buonanotte.” le sussurrò all’orecchio, per poi posarle un bacio sul
collo. E ancora una volta, quello che provò fu… il nulla più completo. Una
semplice alitata sul collo.
Eppure
non poté fare a meno di pensare che se l’avesse fatto un’altra persona, a
quell’ora si sarebbe retta a malapena sulle ginocchia.
Vide
Shane varcare la soglia dell’uscita dall’hotel, e sospirò. L’indomani sarebbe
stato un giorno pesantissimo.
“Ci
divertiamo, eh?” sobbalzò a sentire l’ultima voce che si aspettava di sentire
in quel frangente.
Che
diamine ci faceva Rei lì, a quell’ora, nella hall dell’hotel, con le braccia
conserte e con un cipiglio scurissimo sul volto?
Mao
strinse gli occhi. “Ho festeggiato il mio compleanno.” ribatté, gelida. “Il mio
fidanzato se ne è ricordato e mi ha festeggiato.”
Il
ragazzo chiuse per un frangente gli occhi, come a volersi calmare, ma rimase
terribilmente serio: parlò molti secondi dopo, e con un tono di voce
terribilmente severa.
“Mi
dispiace.” sussurrò. “Certe volte sono geloso pensando
che qualcuno possa renderti più felice di
quanto faccia io. Sono le mie insicurezze, credo. Perché so
di non essere il più bello, il più intelligente, o il più divertente ed
emozionante.” poi la inchiodò con lo sguardo, e per la ragazza fu come annegare.
“Ma una cosa la so: non importa quanto a lungo tu possa cercare; non troverai mai
qualcuno che ti ami quanto ti amo io.”
Mao
lo fissò a bocca aperta, sbalordita da quella dichiarazione inaspettata; lo
fissò per un istante, dopodiché si incamminò verso le
scale, come Cenerentola quando si rese conto che era troppo tardi.
Solo,
che a differenza di Cenerentola, non era troppo tardi.
Hilary cominciava ad averne
abbastanza: da quando aveva quattordici anni aveva
acquisito più maturità, più elasticità mentale, insomma, era cresciuta… Ma se
la si metteva alla prova, erano guai.
“Okay, fammi capire.”
Erano le due di notte, e le
ragazze stavano facendo uno dei loro pigiama party;
Erano stati interrotte dall’arrivo di una Mao visibilmente scossa che aveva
iniziato a farneticare sconnessamente.
“Ripeti, ti prego.”
La cinese prese a sciogliersi i
lunghi capelli che teneva raccolti in uno chignon
basso molto elegante, che ricaddero, liberi, sulle sue spalle. “Sono arrivata
nella hall, stavo baciando Shane. Gli ho dato la buonanotte, ed è andato via.”
armeggiò un po’ con la lampo, poi sbuffò. “Qualcuno mi
aiuta?”
Mathilda
intervenne, paziente, ad abbassare la cerniera all’amica. “Ecco fatto.”
“All’improvviso dietro di me
subentra Rei. Fa delle battutine e io gli rispondo a
tono. Lui si dichiara per la terza volta, io capisco che siamo fatti per stare
insieme, lo lascio lì come un allocco e vengo qui
senza dirgli una parola.”
Le ragazze ammutolirono,
visibilmente sconvolte.
“Brava.” Julia spezzò il
silenzio. “Prendi un uomo e trattalo male: così si fa.”
Hilary sbuffò. “Torniamo al
pigiama party, che è meglio.” dentro di sé sentiva crescere un’irritazione
fuori dal comune: quei due avrebbero combinato qualche cavolata, se lo sentiva.
Meglio intervenire subito, o sarebbero stati guai e di quelli belli grossi.
Mandò un sms a Julia, che lettolo,
le rispose con un occhiolino: fortunatamente poteva contare su validi alleati…
“Davvero sei cresciuta in un
circo?” Shane sbatté gli occhi, incredulo, come se la ragazza davanti a lui gli avesse appena rivelato di avere una seconda testa.
“Beh? Qual è il problema, querido? Non ci
credi?” distendendo le lunghe gambe davanti a lui per poi accavallarle, la
madrilena gli lanciò un’occhiata maliziosa, ricambiata da uno sguardo
affascinato: quel giorno Maoera in ritardo, e lei e il ragazzo si
erano incontrati per caso nella hall dell’hotel.
“No, non è questo, è che sei
così…Normale. In realtà avevo
dubitato persino che tutte voi foste delle bladers.
Non mi sembrate in grado di fare grandi cose.”
Ma senti un po’ questo…
Julia inarcò le sopracciglia,
resistendo alla tentazione di dirgliene quattro. “L’apparenza inganna.”commentò, secca. “Piuttosto,
tu e Mao avevate appuntamento qui?”
“Sì; anzi è strano che lei sia in
ritardo, solitamente è così puntuale…”
La spagnola glissò sull’ultima
affermazione del ragazzo. “Il campionato tra un paio di giorni si sposterà a
Berlino… Voi come farete? Voglio dire, Mao è una blader,
è della Cina, tu sei di qui… Credo sia complicato.”
Lui scrollò le spalle. “Lo so,
ma… Non facciamo programmi. Guardiamo in faccia la realtà, Julia: stando
insieme, sia io che lei sapevamo che sarebbe stata una
storiella senza pretese, finita nel giro di poche settimane. Non
mi aspettavo certo di sposarla, no?”
La spagnola esibì un sorriso
irritante. “Ti dispiace scusarmi un attimo?” mollò l’irlandese nell’atrio
dell’hotel e, pochi passi dopo si arrestò, incrociando
le braccia. “Soddisfatte?”
Mao guardava davanti a sé con
occhi disillusi, mentre Hilary sospirò. “Beh?”
La cinese guardò le amiche negli
occhi. “Vado a mettere fine a questa farsa.”
“Dios mio, sarebbe anche ora!”
Emily entrò nella stanza che
condivideva con le sue amiche sentendosi parecchio confusa ma anche contenta:
qualcosa stava accadendo tra lei e Max, anche se non sapeva bene che cosa…
Ridacchiò, pensando alla chiacchierata di un’ora e mezza che avevano fatto
sulle scale, salvo poi accorgersi che stavano intasando il passando per gli
altri clienti dell’hotel e salutarsi.
“Beh?”
A sentire la voce alterata di
Hilary, all’inizio l’americana pensò che ce l’avesse con
lei; solo dopo qualche istante realizzò che la domanda era rivolta ad una Mao
che, acciambellata sulla poltrona come una gatta, pareva non avesse la minima
intenzione di smuoversi. “Hai intenzione di stare lì? Di non
fare nulla?”
“Scusate, qual è il problema?”
Emily posò la borsa, guardando le due interrogativamente.
“Visto che
ho lasciato Shane, secondo Hilary dovrei correre da Rei.”
Passandosi una mano tra i capelli
rossicci, Emilyaggrottò
le sopracciglia. “C’è ancora qualcosa che ti turba?”
“Tutto. E’ come
se-”
“Si caga sotto.” le rimbrottò
contro Hilary-
“Mi pare lecito.” Mao le lanciò
un’occhiataccia che fece stringere i pugni alla giapponese: non poteva
sopportare di sapere i suoi due amici ad un passo dal coronamento del loro
sogno d’amore e mandare tutto all’aria per paura.
Nervosa, uscì dalla stanza,
capendo che se fosse restata lì dentro avrebbe solo litigato con la sua
migliore amica; che ci voleva ad andare da Rei a parlargli? Okay, magari lei
non era la persona più adatta per dirlo, visto che nella sua vita non si era
mai innamorata, ma… Si arrestò quando vide quando vide
l’oggetto dei suoi pensieri.
Rei si trovava
al bar dell’hotel, stava parlando con Kai.
Marciando spedita nella loro
direzione, li raggiunse prima ancora di poter collegare il cervello alla bocca.
“Rei Kon.” sbottò. “Cosa ci fai qui?”
Quello sgranò gli occhi, mentre
il russo inarcò le sopracciglia nella sua direzione come a dire: ‘Uh, sì, mi sa che ce
l’ha con te.’
“Stavo parlando con Kai di Berlino, visto che-”
“Non mi interessa
di cosa stavate parlando!” esclamò la ragazza. “Perché non sei a sistemare le
cose con Mao?”
Si irrigidì
di colpo. “Ho giocato le mie carte, che altro dovrei fare?” sbottò,
incupendosi. “Lei, poi, sta ancora con quel-”
“L’ha lasciato; due giorni fa.”
La faccia del cinese, in quel
frangente, divenne tutta un programma. “Cosa?!”
Hilary incrociò le braccia al
petto. “Santo cielo, quanto mi fate sclerare voi maschi! Rei, non ti insulto
perché sei mio amico e ti adoro, ma… Dannazione, hai in te la tigre bianca solo
quando ti conviene?! E sfoderali, ‘sti
artigli, cazzo! Vuoi qualcosa che, tra parentesi, vuole
anche te? Allunga una mano – molto figuratamente parlando – e prenditela!” tuonò la giapponese.
“Che cosa stai aspettando?!”
Rei era
come intontito: sia per le parole a raffica da parte della sua mica, sia per…
“Hai detto che lei…?”
Hilary lo guardò malissimo. “Se
adesso non vai lì e le fai una dichiarazione degna di James Dean, giuro che la
mia ira funesta si abbatterà su di te.” la ragazza sgranò gli occhi e prese a
saltellare. “Ma sei ancora qui?!Muoviti!”
Rei scosse la testa, e sorrise.
“Con permesso.” e poi le ali si impossessarono dei
suoi piedi, perché volò via alla velocità della luce.
Kai
osservò la giapponese, stando bene attento affinché non si accorgesse del
sorriso di ammirazione che gli era spuntato sulle labbra: che furia, quella Hilary… Alta poco più di un metro e sessanta, ed era
in grado di tenere testa ad una mandria di sportivi grandi e grossi almeno il
doppio di lei.
“Se le cose non vanno come
previsto… Li do in pasto a Takao. Tutti
e due.” Fu qui che non poté impedirsi di sorridere.
Detestava provare quella strana
inquietudine che sentiva alla base dello stomaco: pareva che le sue interiora
si fossero aggrovigliate per uno strano scherzo della natura e che questo
avesse il potere di farla star tesa come una corda di violino.
Hilary era uscita dalla stanza
ormai da un po’, Emily aveva preferito lasciarla da sola, e per quello la
ringraziava… Non aveva voglia di parlare con nessuno, aveva bisogno di stare da
sola: lei, lei stessa e i suoi pensieri.
Sospirando, si alzò dalla
poltrona, passandosi una mano tra i capelli, e sobbalzò quando sentì bussare
con una certa decisione; inarcando le sopracciglia, andò ad aprire, chiedendosi
quale delle sue due compagne di stanza si fosse arrabbiata così
tanto per bussare con così-
Rei. Rei e i suoi occhi; decisi,
furibondi, timorosi, ma anche pieni di aspettativa.
“Che vuoi?”
“Hai lasciato il tuo fidanzato.”
Assunse un’aria ironica. “Beh,
sì.” il suo cuore aveva preso a galoppare ad una
velocità mai provata prima, e i suoi occhi si erano già persi in quelli color
caramello di lui.
“Si dice che il momento buono per
dichiarare il proprio amore ad una persona sia prima
che lo faccia qualcun altro; e io ho corso per arrivare qui proprio perché non
commetto lo stesso errore due volte.”
La ragazza sentì il proprio cuore
implodere, e proprio mentre gli occhi di lui
affondavano nei suoi per quasi non riemergere più, fu la ragione a reclamare la
propria parte, e a gran voce. “Pressata.” gracchiò. “Mi sento pressata.” per
dirlo dovette fare uno sforzo immane, tanta la felicità che le
era esplosa nel cuore, nello stomaco, non arrivando però nella testa,
che reclamava la propria parte. “Ti ho aspettato per anni, sono sempre così
scontata, io… Basta.” esalò, come se stesse riemergendo dopo cinque minuti
ininterrotti di apnea.
“Ti amo, lo sai che ti amo, ma… Vorrei fare qualcosa per me stessa, qualcosa di
più. Invece sono la solita, prevedibile Mao. Un cliché
assurdo.”
Era incredibile come lui non
staccò gli occhi da lei nemmeno per un secondo. “No.” lo disse come fosse la
cosa più naturale del mondo. “Tu sei mia, ed è diverso. Tu sei quella normalità
senza la quale il mondo – il mio
mondo – non potrebbe girare, perché appena te ne sei andata, ho iniziato a
vacillare.” le si avvicinò, e non appena fu tra le sue
braccia, prese a rilassarsi, come se quell’abbraccio fosse stato fatto apposta
per lei. “Non ti lascerò mai più andar via.”
Lei inarcò le sopracciglia con
aria di sfida. “E se io volessi viaggiare proprio come hai fatto tu anni fa? Se
decidessi di trasferirmi alle Hawaii ad intrecciare
ghirlande?”
“Ghirlande siano.”
“Polo nord?”
“Mi sono sempre chiesto come
fossero fatti gli igloo.”
“Equatore?”
“Sarà interessante tentare di
abbronzarsi.”
Fu lì che Mao scoppiò a ridere,
rovesciando la testa indietro. “Mi hai convinta… Solo
una cosa: come mai tutto questo romanticismo?
E’ un po’ sospetto…”
Lui si guardò intorno, poi assunse
un’aria supplichevole. “Se te lo chiede Hilary… Io sono stato all’altezza di
James Dean, okay?”
Fine.
Oooooh:
con Rei e Mao sono letteralmente uscita pazza per farli risultare
come li volevo io, ma alla fine ce l’ho fatta, e tutto questo grazie alla Pad:
ringraziatela tutti perché non so come avrei fatto senza di lei! ç___ç
Spero davvero che anche questo missing moment vi sia piaciuto e
non sia stato banale, idiota, cretino o altro… xD
Noi ci risentiamo Venerdì 20 e…
Cominciate a tremare. Perché sarà la prima parte di un missingmoments bello
tosto; sì: Lexy90, sto guardando proprio te. ;D
Grazie davvero a tutti coloro che hanno recensito, letto la fanfic
più volte, messo tra i preferiti- seguiti- da ricordare. *__*
Warning: la one-shot che state per leggere, innanzitutto, è stata
corretta dalla grande, stramitica Avly, (e, pochi istanti fa, anche dalla cara
Pad che ringrazio =D) che mi ha dato l’okay e assicurato che andava bene –
quindi, almeno per stavolta, nient
Warning: la one-shot che state
per leggere, innanzitutto, è stata corretta dalla grande, stramitica Avly, (e,
pochi istanti fa, anche dalla cara Pad che ringrazio =D) che mi ha dato l’okay
e assicurato che andava bene – quindi, almeno per stavolta, niente paturnie sul
fatto che potrei fare out! xD – poi attenzione, perché questo pezzo di
puzzle è diverso dagli altri, e non solo perché è la prima parte di due, ma
anche perché potrebbe rivelarsi complicato, malinconico, triste, spezza cuore…
Eccetera.
Hiromi ha perso la testa. =D
Giusto per chiarire: ci troviamo nel periodo estivo in
cui i Blade Breakers fanno quella famosa rimpatriata a casa Kinomiya, quindi
Hilary, Emily, Takao e Max hanno 18 anni, Kai ne ha
quasi 20, mentre Mariam ne ha 19… - nella mia testolina bacata è un annetto più
grande… -
So, enjoy sto
gran casino! xD
A Lexy90.
Perché si merita la sua
parte dopo tutte le madonne che le ho tirato.
Perché facciamo tanto le bastarde l’una con l’altra, ma in
realtà, siamo due pezzi di pane – vero?
Toh,
beccati questo.
Withme
Isn't anyone tryin to find me? Won't someone please take me home? It's a damn cold
night Trying to figure out this life Won’t you take me by the
hand take me somewhere new I don’t know who you are but I'm, I'm
with you
I’m with you – Avril
Lavigne
****************
“Beh?
Dove sei stato?”
Un
tempo amava la voce di Emily.
Impazziva
per quella sfumatura da maestrina, per il suo modo di pronunciare la s in modo particolare… Lo attraeva il fatto che lei avesse interessi differenti dai
suoi; così, si diceva, avrebbero avuto tantissimo di cui parlare.
Si
erano messi insieme a sedici anni, al campionato di beyblade che era iniziato a
Dublino, subito dopo Mao e Rei.
Era
successo così, di colpo, in maniera del tutto naturale: all’improvviso si erano
ritrovati a passare insieme molto tempo, sia per gli allenamenti, sia per le
volte che stavano in panchina aspettando il proprio
turno per combattere. Ed erano state molte le volte in cui avevano parlato
molto più di quanto non avessero mai fatto in tutti quegli anni.
Da
parte sua chiederle di uscire era stato molto naturale, così come baciarla e
far coppia con lei.
La
novità era stata presa con molta contentezza da parte di tutti e anche se qualcuno
non aveva mancato di esprimere la propria perplessità circa quella coppia così inusuale, quello che a lui importava davvero, a quel tempo,
era l’approvazione della sua adorata madre: e l’aveva avuta.
Judith
Mizuhara adorava Emily Watson: la conosceva da quando aveva dodici anni ed era
entrata a far parte degli All Starz e non poteva sperare, per il figlio,
fidanzata migliore.
All’americano
tutto sembrò procedere per il meglio.
I
nodi al pettine stavano sopraggiungendo in quel frangente, a distanza di due
anni: da coppia di fidanzatini tutta amore e coccole, ora pareva fosse
subentrata la routine e i modi dell’americana, da adorabili, erano divenuti
seccanti ed irritanti.
Si
era accorto da diverse settimane che i suoi sentimenti per Emily erano cambiati,
ma vi era qualcosa di più profondo che gli impediva di parlarne alla giovane,
qualcosa che mai, nella sua vita aveva pensato di poter provare.
Paura.
Il
peggior appellativo non solo per un blader ma per uno sportivo in generale era quello di codardo. E lui sapeva benissimo di star
comportandosi come tale, ma non riusciva a trovare una scappatoia, qualcosa che
lo aiutasse a comportarsi diversamente.
“Allora?” la ragazza incalzò, incrociando
le braccia al petto, facendolo sbuffare.
“In
giro.”
Un
tempo non avrebbe mai pensato di poter rispondere in maniera così brusca ad una persona: era sempre stato l’immagine della
cordialità, dell’allegria, della contentezza…
Eppure
stava accadendo.
Emily
lo sfiniva.
Lo
sfiniva con le sue continue domande, con il suo tono di voce che prima trovava accattivante ma adesso per lui era solo lamentoso, lo
irritava con la sua aria da maestrina e da saputella che prima lo divertivano
ed ora gli facevano solo girare le scatole.
Non l’amava più.
Era
questa la realtà nuda e cruda. Non l’amava più, eppure
non era in grado di lasciarla.
“Che
cosa vuol dire in giro?” la ragazza
svoltò attorno al tavolo di casa Kinomiya per pararsi di fronte a lui. “Mi ascolti quando parlo?”
Max
sbuffò.
Mia madre non l’avevo lasciata in America o
si è incarnata in questa qui?
Mao
guardò l’amica con la coda nell’occhio: lei, Karen ed Emily erano uscite per il
loro solito drink del Venerdì sera, mentre Hilary non le aveva potute
raggiungere perché aveva preferito dare una chance al suo corteggiatore.
Vedere
l’americana triste non le faceva per nulla piacere: lei e Karen avevano tentato
per tutta la sera di cambiare argomento, di ridere, scherzare, parlando persino
del fatto che dovevano far mettere insieme Hilary e Kai, ma
Emily pareva essere su un altro pianeta. Probabilmente era il caso di
affrontarla una volta per tutte.
La
cinese pose una mano su quella dell’amica, che sobbalzò impercettibilmente. “Ehi. Ti voglio bene.”
Emily
dapprima la fissò spaesata, poi si ritrovò a sospirare. “Sta finendo, lo so.”
Mao
si trovò all’improvviso in difficoltà: non voleva mentirle.
Aveva
sempre pensato che lei e Max costituissero una coppia non ben affiatata, ed era
di per sé meravigliata del fatto che avessero resistito per ben due anni ma
sbatterglielo in faccia avrebbe significato spargere del sale sulle ferite di
una delle sue migliori amiche.
“Qualunque
cosa succeda ti starò accanto, lo sai.” scelse di dire diplomaticamente,
stringendola in un abbraccio breve ma sincero.
L’americana
iniziò a prendersela con il tovagliolo che stringeva tra le mani, torturandolo
e facendolo in mille pezzi.
“Dove
va ogni santo giorno? Perché gioca sempre a beyblade
con gli altri, poi sparisce e tiene il cellulare spento?” si voltò di scatto
fino ad incontrare l’oro degli occhi dell’amica. “E se
avesse un’altra?” l’ultima frase fu detta in un sussurro.
Mao
roteò gli occhi, poi ridacchiò. “Stiamo parlando della stessa
persona? Max non lo farebbe mai.”
Emily
si morse le labbra. “Perché deve fare così male…”
Un Cosmopolitan e un Manhattan vennero soppiantati sotto i loro nasi: Karen si sedette
nuovamente al tavolo, scuotendo la testa bionda. “Quanto ringrazio di essere
single non lo immaginate nemmeno.”
“Prima o poi sbanderai pure tu, cara, e allora saranno
dolori.” assicurò Mao, con un sorriso di avvertimento stampato sulle labbra.
La
francese prese a sorseggiare il suo cocktail, ma rispose all’amica con un
gestaccio facendola scoppiare a ridere.
“Da’ retta a me, Em: single è bello. Si può fare tutto ciò che si vuole: sta a vedere.” si alzò lentamente, con gesti sensuali
accuratamente calibrati che attirarono l’attenzione di metà popolazione
maschile presente all’interno del pub.
Mao
seppellì il viso nell’incavo del collo dell’altra con aria divertita. “Non
posso guardare…”
Karen
fece una vera e propria sfilata e gli sguardi di quasi tutti i maschietti del
locale si concentrarono su quella bionda vaporosa fasciata in un vestitino
azzurro aderente con tanto di decolleté dieci che, arrivata al bancone, prese a
mangiare – o, per meglio dire, a succhiare – con aria languida una delle
fragole che stavano al bancone, scatenando l’ilarità delle amiche che si
trovavano al tavolo e che le sillabarono la parola bastarda.
Draciel
tornò in mano al proprietario immediatamente quando Max lo richiamò; stanco, il
ragazzo emise uno sbadiglio. Quella era stata una giornata pesante per lui,
come lo erano d’altronde un po’ tutte le giornate, a partire
da un po’ di mesi a quella parte.
E
dire che avrebbe dovuto rilassarsi.
Forse
era stato un errore portare con sé Emily per quei mesi a Tokyo; probabilmente,
senza di lei, si sarebbe divertito di più, avrebbe avuto meno pensieri e la
loro storia sarebbe stata un po’ meno incasinata.
E
poi era una rimpatriata con i Blade Breakers, lei cosa c’entrava?
Scocciato,
si incamminò verso casa Kinomiya, sbuffando: al sol
pensiero di sorbirsi un altro interrogatorio da parte della sua ragazza circa
dove fosse stato e perché lo rendeva ancora più stanco e irritabile.
E
dire che lui, di natura, non era per nulla così.
Quando
una ragazza dedita al volantinaggio lo fermò, sorridente, porgendogli un
invito, si ritrovò a sospirare, e dapprima pensò che l’avrebbe gettato al primo
cestino della spazzatura che avesse trovato. Poi, invece, sbatté gli occhi
quando lesse, per caso, di una serata al pub a pochi metri lì vicino: era in
cerca di una scusa, di una qualsiasi scusa, per non
rientrare subito a casa di Takao; una birra sarebbe andata più che bene.
Il
locale era ampio e spazioso, arredato secondo il gusto irlandese e, data l’ora,
vi erano poche persone all’interno: si sarebbe riempito di certo intorno le undici.
Vi
erano un gruppo di amici, tre coppiette e i baristi che si stavano
affaccendando per sistemare un po’ tutta la sala.
Max
avanzò, indeciso se ordinare una birra o anche delle patatine per perdere più
tempo, quando fu bloccato.
Da
una curva.
Sbatté
le palpebre, aguzzando lo sguardo: davanti a lui stava una schiena bianca, la
più sinuosa e sensuale che avesse mai visto; era solo una schiena, eppure
emanava una femminilità, un candore tale che faceva intendere di essere
liscissima al solo tatto. Aveva quasi voglia di allungare la mano e
accarezzarla.
Attaccata
alla schiena stava un collo, con tanto di elegante
chignon nero basso, e l’abito che fasciava il corpo era blu notte.
Di
colpo, Max liberò la mente da ogni pensiero: non esistettero
più Emily, il tornare a casa, il beyblade, la vacanza.
Esisteva
solo quella schiena e la sua proprietaria e, nel momento in cui quella si girò
e gli occhi azzurri di lui incontrarono due pozze smeraldo, il ragazzo seppe
formulare un pensiero contenente soltanto due parole.
Sono fritto.
“Max?”
Non
rispose subito; seppe solo guardare quell’affascinante sconosciuta come un
allocco: chi diamine era quella bellissima ragazza dai capelli neri e gli occhi
verdi, alta perlomeno quanto lui? Non credeva di conoscerla… Se ne sarebbe di
certo ricordato!
“Genio,
ti ricordi di me? Sono Maryam!” la ragazza inclinò la testa di lato. “Gli Scudi
Sacri?”
Il
biondo la fissò sbalordito: come diamine poteva non aver collegato? Ora sì che
ricordava. Quel tono strafottente e gelido, quel viso così bello ma velato di
una tristezza insormontabile… Maryam poteva esser cresciuta in altezza, gli
zigomi potevano essersi fatti più pronunciati, ma certi modi di fare restavano
inalterati.
“Maryam, certo! Come stai?”
La
mora sembrò assumere un’espressione di ghiaccio, ma durò solo un secondo perché
tornò a rivolgergli uno sguardo neutro. “La solita vita… Non ti eri stabilito a
New York?”
Ed
ecco che il pensiero tornò ad Emily, puntuale come un
orologio, e il senso di colpa si insinuò in lui prepotente come sempre.
Si
sforzò di sorridere, tuttavia, e annuì. “Sì, ma sono qui da una settimana per
una rimpatriata con i Blade Breakers.”
Maryam
annuì brevemente. “Forte.” disse soltanto, mantenendo il suo solito sguardo
impenetrabile.
Lui
si guardò attorno, come spaesato: quella ragazza aveva dei modi di fare spicci,
talvolta bruschi, eppure le davano un effetto talmente sensuale ed ipnotico che gli facevano capire che non voleva che la conversazione finisse lì.
“Ehi,
posso offrirti da bere?”
Lei
sorrise, come divertita, incrociando le braccia al petto. “Che fai, ci provi?”
La
frase lo lasciò di stucco. “No, io…”
Il suo
stupore ebbe il potere di farle rovesciare la testa indietro e di farla
scoppiare a ridere, e fu allora che si sentì come quei coniglietti incantati
dai fari dei tram: sapevano di essere perduti, avevano poco tempo per fuggire,
ma non riuscivano comunque a distogliere lo sguardo da tanta luce.
“Stavo
scherzando!” gli rivolse solo uno sguardo e con quello gli fece capire di
avvicinarsi al bancone, laddove anche lei si stava sedendo. “Per me un gin
fizz.” fece, rivolta al barista.
Il
biondo sbatté gli occhi. “Una birra.” disse soltanto. “Allora,
cosa ci fai qui a Tokyo? Non è lontana dal tuo villaggio in Irlanda?”
Quando
vide gli occhi verdi della ragazza incupirsi, capì di aver premuto il tasto
sbagliato. “Sì, lo è.” rispose, con tono brusco.
“Non
sono affari miei…” ammise, con un sorriso di scuse, sorseggiando la sua birra.
Maryam
si morse le labbra, mescolando con la cannuccia il suo drink. “No, non lo
sono.” si voltò verso di lui, e quando gli rivolse un sorriso Max si ritrovò a chiedersi perché un decimo delle emozioni
che stava provando quella sera non le provasse anche con Emily.
“Ti
ho seguito in questi campionati del mondo. Sei stato bravo.”
L’americano
sorrise istintivamente. “Beh, ho fatto del mio meglio e ha vinto il migliore.”
La
ragazza finì di sorseggiare il suo gin fizz e si voltò verso di lui, con una
luce negli occhi. “Ora devo andare, ma mi è venuta un’idea folle.”
Lui
corrucciò le sopracciglia bionde. “Spara.”
“Ti
va di batterti con me, come ai vecchi tempi?”
Entrambi
scoppiarono a ridere simultaneamente, e il suono delle loro risate che si intrecciavano fu strano: era tanto tempo che non era
spensierato come un tempo, era troppo tempo che era preoccupato, che aveva la
testa piena di pensieri. Ridere con lei fu come una medicina.
“Ci
sto!” esclamò, contento e improvvisamente gasato. “Quando? Ora?”
Lei
inclinò la testa di lato, un sorriso divertito si fece largo sul suo volto.
“Dovrai aspettare, cowboy… E’ tempo che io vada.” mugolò, guardandolo di
sottecchi.
L’americano
sentì crescere dentro di lui una delusione a dir poco cocente: non voleva che
se ne andasse. Voleva stare a chiacchierare ancora con lei, voleva la sfida che
gli aveva promesso, voleva… Voleva ancora essere
stupito da lei, voleva ancora provare delle emozioni che non pensava di poter
provare…
“Non fare quella faccia…” Maryam sorrise, divertita,
scendendo dallo sgabello e andando verso l’uscita del locale. “Ci si vede.”
Max
si voltò di scatto verso di lei. “Ehi, ma quando?”
La
ragazza non si voltò neanche: alzò semplicemente la mano in segno di saluto, e
aprì la porta del locale. “Chi cerca trova…”
La
sua voce suadente si impresse nella mente del ragazzo
come marchiata a fuoco e improvvisamente una nuova consapevolezza riscosse
l’animo dell’americano: era iniziato un nuovo, pericoloso, eccitante gioco.
E
lui aveva tutta l’intenzione di giocarlo.
“Dove
vai?” la voce stupita di Takao diede voce ai pensieri
di tutti: era quasi ora di cena, Rei era ai fornelli, le ragazze stavano
apparecchiando ed Emily si era voltata di scatto verso di lui con
un’espressione ferita tale da metterlo in crisi.
Max
indugiò un istante, passando in rassegna i volti di ciascuno: erano tutti in
attesa di una sua risposta, qualcosa che suonasse plausibile.
Per
un solo istante fu tentato di mandare tutto al diavolo e di restare per far
contenti tutti, per far contenta Emily… Ma poi il suo
pensiero andò alla ragazza della sera prima, alle emozioni che aveva provato
con un semplice sguardo e qualcosa si accese in lui. Qualcosa che lo spinse a
mentire.
“Alla
BBA. Lì i pc hanno un sofisticatissimo sistema per parlare con la webcam, e io e papà volevamo provarlo.”
Emily
inarcò le sopracciglia. “A quest’ora?”
Max
scrollò le spalle. “Fuso orario.” le ricordò, scrollando le spalle.
La
ragazza non disse alcunché, semplicemente si voltò,
riprendendo ad apparecchiare; lui prese il gesto come un lasciapassare e disse
ad i suoi amici che sarebbe tornato presto. Non curandosi delle loro occhiate
perplesse né delle sopracciglia inarcate, andò verso una meta sconosciuta.
Aveva
una misteriosa mora da trovare.
Non l’avrebbe riconosciuta se non ci avesse fatto
attenzione: il look di quella ragazza cambiava di giorno in giorno: vestita con
una semplice blusa bianca e un paio di jeans, con i capelli neri legati in una
lunga treccia, aveva un abbigliamento che sapeva molto di anni 60, ma su di lei
stava d’incanto. Addosso a lei
sarebbe stato d’incanto qualsiasi cosa.
“Ti
ho trovata.”
Alzò
i suoi occhi color smeraldo lentamente e lui sentì un groppo salirgli su per la
gola, mentre un sorriso ironico le si disegnava sulle
labbra.
“Ce
ne hai messo di tempo.”
Max
sorrise, scuotendo la testa, mordendosi la lingua per non dirle che l’aveva
cercata dappertutto – sede della BBA, campo sportivo, belvedere, praticamente mezza città, - fino a quando non gli era venuto
in mente quel posto.
Tutto
per trovarla; spronato dall’adrenalina dei ricordi, dal pensiero di quella
ragazza che tornava nella sua mente come un boomerang, aveva percorso un bel
po’ di strada a piedi.
“Quattro
anni fa qui c’era l’edificio dove fummo intrappolati.”
Maryam
annuì. “Qui stesso io ti sfidai, qui stesso tu mi salvasti la vita.”
Lui
sorrise. “Ma tu dichiarasti che non saremmo mai potuti
essere amici.”
La
mora inarcò le sopracciglia. “Perché, ora lo siamo?” il suono che le uscì fu
sensuale, accostato ad un sorriso malizioso che fece
girare la testa al ragazzo.
“In
guardia.” dichiarò poi, cambiando atteggiamento e sfoderando il beyblade: Max
non aspettò altro per tirar fuori Draciel.
Fu
incredibile come si sorrisero insieme, complici, e come si ritrovarono a
contare insieme i secondi che li separavano dal lancio.
Ricordava
alla perfezione come Squalo e Draciel avessero collaborato alla perfezione,
anni prima, per aiutarsi a vicenda ad uscire da
quell’edificio che li aveva visti prigionieri: era stato come se quei due
animali sacri che appartenevano entrambi all’acqua, si fossero trovati
reciprocamente simpatici, al contrario dei loro padroni.
In
quel frangente si stavano battendo senza esclusione di colpi, con l’entusiasmo
che caratterizzava qualsiasi blader che si rispettasse.
Max
si sentiva su di giri, a dir poco gasato, e dentro di sé convenne che era da tempo che non provava quelle emozioni: da quando cupi
pensieri avevano preso a vorticargli in testa persino il beyblade era divenuto
parte di una routine per lui.
Invece,
in quel momento, combattere con Maryam era… Quanto di più bello ed appassionante ci potesse essere; si stava divertendo, non
avrebbe voluto essere in nessun’altro posto al mondo.
E,
dal sorriso che aveva la sua avversaria, poteva giurare che era la stessa cosa
anche per lei.
“Sei
migliorato.” la mora gli rivolse un sorriso stanco: la battaglia si era
protratta ormai da un po’ e cominciavano ad essere
abbastanza spossati.
“Anche
tu.” L’americano ricambiò il sorriso, ugualmente affaticato.
“Ma ti batterò ugualmente!” ribatté, sembrando ritrovare
l’energia. “Squalo: morso degli abissi!”
Max
sorrise. “Schivalo, Draciel!” i beyblade si rincorsero per un po’, dandosi del
filo da torcere a vicenda e complicandosi il percorso l’un l’altro, fino a
quando, ad un certo punto, i due ragazzi non si
guardarono negli occhi.
Quando
l’azzurro dell’americano incontrò il verde dell’irlandese, capirono di aver avuto
la stessa idea.
Squalo
e Draciel avanzarono l’uno verso l’altro a velocità
elevatissime, sollevando un polverone non indifferente che dovette addirittura
far riparare con le mani gli occhi dei loro padroni.
Al
termine della tempesta di polvere sollevata entrambi non poterono trattenere
un’esclamazione di stupore: si erano fermati entrambi i beyblade, ed a una distanza perfettamente uguale.
Max
fissò la ragazza, non trattenendo un sorriso. “Beh, bello scontro.” fece,
porgendole la mano.
Maryam
alzò gli occhi al cielo, stringendogliela. “Hai avuto solo fortuna.” poi
sospirò, prendendo a sdraiarsi per terra, sul prato, come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
Il
ragazzo la guardò incuriosito, pensando che per com’era vestita
sarebbe parsa proprio un’autentica figlia dei fiori.
Sedersi
accanto a lei fu un desiderio bruciante che non poté reprimere, così come
imprimere nella mente ogni singolo lineamento del viso.
Non ho mai visto una ragazza più bella…
“Non
mi piace essere osservata.”
Alle sue parole si sentì arrossire lievemente: era stato
colto in flagrante come un bambino con le mani dentro il vasetto di marmellata:
esisteva forse qualcosa di più patetico?
Scuotendo
la testa, si sdraiò sull’erba, cercando di non pensare a quello che avrebbe
dovuto affrontare al ritorno a casa Kinomiya: in quel momento era con lei e se
lo voleva godere tutto. “Grazie.” decise di dire, con un sorriso stampato sulle
labbra.
La
vide inarcare un sopracciglio. “Per cosa?”
“Era da un po’ che non mi divertivo a giocare a bey. Mi hai fatto riscoprire cosa significa il brivido di
questo sport… Stava diventando routine.” le dedicò un sorriso genuino che le
fece abbassare lo sguardo ed indurire i lineamenti,
anche se non capì il perché.
La
vide puntellare i gomiti sull’erba, fissarlo duramente negli occhi: quelle
pozze di smeraldo parevano essere divenute così profonde da inghiottirlo come
buchi neri nel cosmo.
Quando
si ritrovò le sue labbra calde sulle sue sgranò gli
occhi: che diamine stava succedendo? Un attimo prima stava parlando e un attimo
dopo lei lo baciava a dir poco rabbiosamente?
Che cosa..?
Baciava bene, Maryam: sembrava che in tutta la sua vita
non avesse fatto altro: muoveva quelle labbra carnose sulle sue in maniera
perfettamente sincronizzata e, contemporaneamente, tuffava una mano tra i suoi
capelli biondi, e con l’altra disegnava dei cerchi immaginari sul suo petto.
Okay, qua finisce male.
La
respinse con molto tatto e delicatezza, malgrado sciogliersi
da lei gli costasse molta fatica.
La
vide guardarlo con degli occhi che, per un istante, gli parvero tristissimi,
per poi tornare ad ostentare la loro solita glaciale
freddezza.
“Beh?”
la voce meccanica di lei indicava che non aveva previsto di essere interrotta.
Scosse
la testa. “Non mi pare giusto.”
La
ragazza roteò gli occhi, dopodiché si sciolse la treccia con un solo, semplice,
sensuale gesto che ebbe il potere di ipnotizzarlo. “Io ho dei problemi. Tu hai
dei problemi. Io conosco un metodo che permette di dimenticare tutto per
qualche ora.”
Non seppe dove trovò la forza di collegare il cervello alla
bocca per parlare, ma ce la fece. “L’alcool?”
La
fece ridere di una risata gutturale, sexy. “No.” Si sedette a
cavalcioni su di lui, prendendo a scompigliargli i capelli. “Il cerchio
alla testa che poi da è una seccatura, convieni?”
fece, con una smorfia.
Si
avvicinò al suo orecchio, e il suo respiro su di lui fu una delle cose più eccitanti che avesse mai provato. “Tu e
io. Niente complicazioni.” sussurrò, lambendogli il collo con
il suo sussurro.
Quando
poi scese a baciarglielo, mai più di allora Max capì di essere perduto.
Non
pensò ad Emily, né ai suoi amici o parenti.
Capì
di essere perduto perché quella specie di strega che aveva incontrato
nuovamente solo il giorno prima lo aveva irretito, gli doveva aver fatto un
sortilegio, una specie di magia…Qualcosa che non avrebbe saputo come definire…
Che
diamine era quel ricambiare il bacio in maniera così appassionata? Non poteva
portare altro che guai. Guai molto eccitanti, ma pur
sempre guai.
Si svegliò a dir poco intontito,
con il cinguettio degli uccellini e il chiarore del sole: da che ricordava non
si era mai svegliato così.
Si sentiva come se un treno in
corsa l’avesse investito, come se qualcuno avesse usato la sua testa come
tamburo, e poi aveva freddo…
Dove diamine mi trovo?
Focalizzò il luogo, e per poco
non gli venne un colpo quando i ricordi della sera prima gli piovvero addosso
come dardi.
Maryam. La sfida a bey. Il
tentativo di chiacchierata. Il bacio improvviso. E…Il resto.
Oh, no. Oh, no, no, no.
Sentì la sua gola seccarsi, ed i suoi pensieri andarono immediatamente ad Emily: come
aveva potuto farle questo? Va bene, non l’amava più,
non c’era più un dialogo e tutto il resto, ma da lì a tradirla ce ne passava…
Un mostro. Un essere ripugnante. Ecco cosa sono.
Si voltò istintivamente alla sua
destra, in cerca della ragazza con cui aveva passato la notte, per trovare…Un
foglietto con un sassolino sopra per tenerlo fermo.
Max sbatté gli occhi: di Maryam
non c’era traccia, era evidentemente da solo. Quella ragazza lo stupiva ogni
secondo di più.
Dopo essersi vestito
si incamminò verso casa di Takao. Non sapeva proprio cosa avrebbe detto agli
amici e alla sua ragazza, sapeva solo che quella volta era nei guai.
E tutto per una sensuale strega
dagli occhi verdi.
Ricorda, cowboy: niente
complicazioni.
M,
“Dove diamine sei stato?!” l’urlo dell’americana
era più che giustificato: in quei giorni si era allontanato sempre per qualche
ora, ma mai, mai tutta la notte.
Emily aveva delle occhiaie
spaventose, i capelli rossicci le ricadevano scompigliati sulle spalle e i suoi
occhi parevano starlo scannerizzando millimetro dopo millimetro.
Max inghiottì a vuoto: la sua
ragazza – come tutte le esponenti del genere femminile del resto,
ma Emily in maniera particolare – aveva un sesto senso sopraffino, e
l’idea di essere scoperto in maniera indegna non lo attirava per niente, ma non
gli andava nemmeno di mentirle.
Che diamine devo fare?
“Em, i-io…Mi dispiace.” esalò, scuotendo
la testa, e pregando che gli venisse in mente qualcosa il
prima possibile. “S-Sono andato a-alla sede della BBA ma-”
“Max!
Stai bene? Sei pallidissimo, sembri uscito da un frullatore.”
l’intervento tempestivo di Hilary gli fece pensare l’impensabile:
improvvisamente capì che mentire era l’unica soluzione per districarsi da
quell’impiccio.
“No, è che la sede della BBA era
chiusa, allora sono andato in un pub, ma la birra che mi hannodato doveva essere piuttosto forte perché mi
sono risvegliato stamattina che avevo dormito sul bancone.”
Emily era furente, livida; Hilary
invece inarcò le sopracciglia. “Sei andato per caso in quel locale irlandese?”
lui annuì. “Ah beh, lì sì che ci vanno pesante con gli alcolici.” fece la
giapponese, scrollando le spalle.
“Siamo stati in pensiero.”
aggiunse, con un’occhiata severa.
Lui abbassò lo sguardo e quando
gli tornarono in mente i flashback della notte vissuta, si sentì doppiamente un
mostro. “Lo so, mi dispiace.”
Hilary gli rivolse un sorriso e
se ne andò, ma Emily rimase lì, con le braccia conserte e l’espressione arcigna
che gli fecero intendere che non se la sarebbe cavata
così a buon mercato.
Se fosse stato un altro giorno –
un altro in cui la notte non aveva fatto altro che andarsi a prendere una birra
e stop – l’avrebbe mandata a quel paese e basta.
Ma lì la
questione era pesante, forte, faceva doppiamente male: lui era un traditore. Un
doppiogiochista. Un essere schifoso.
Come poteva guardarla ancora
negli occhi?
“Voglio sapere perché ogni sera te
ne vai.” ringhiò lei, sistemandosi con una mano i suoi tondi occhiali da vista.
Max non poté non pensare ai primi
tempi, in cui li aveva trovati terribilmente sexy e da maestrina. L’aveva presa
in giro tante volte, chiamandola miss
Harry Potter, facendola incavolare come una belva, per poi dirle che lei
era molto più eccitante di Harry Potter.
Tutte cose che non pensava più.
“Siamo sempre
appiccicati, Em, sempre insieme. Penso sia legittimo se mi prendo
qualche ora per me. Tu vai con le tue amiche, io sto per
conto mio.” lo disse a tratti guardandola negli occhi, perché lo pensava sul
serio, a tratti sfuggendole, perché i sensi di colpa lo tormentavano come
fantasmi.
“Appunto.
Io sto con le mie amiche. Tu potresti essere con
chiunque.” azzardò lei, sfidandolo con lo sguardo.
Max serrò la mascella. “Sei
pazza.” fece,superandola
e andando verso l’interno della casa.
In realtà, la ragazza non poteva
sapere di averci preso alla perfezione.
Rincontrare il suo amico Patrick
dopo sei anni fu assurdo: non si rivedevano da tantissimo tempo, erano entrambi
bladers e fidanzati da un tempo considerevole – anche se lui parlava molto più
volentieri della sua ragazza, e, da quanto aveva capito, la sua relazione
procedeva a gonfie vele.Attualmente frequentava Harvard, ed era in Giappone solo per
una vacanza di piacere.
“E’ pazzesco, amico.” notò infatti l’altro americano. “Non ci rivedevamo da quando
avevamo dodici anni e adesso guardaci: piccolo il mondo… Non ci becchiamo a New
York, veniamo a Tokyo… Ed eccoci qua.”
Max annuì. “Ben detto.” si erano
incontrati per caso al belvedere e si erano riconosciuti immediatamente: da
bravi bladers si erano immediatamente sfidati – aveva vinto Max – poi avevano
fatto una passeggiata, parlando del più e del meno.
“Non mi vuoi proprio parlare di
questa Emily, eh?” l’occhiata che gli lanciò Patrick fece fare a al biondo una considerevole smorfia.
“Non l’ho già fatto?” scrollò le
spalle, annoiato, cercando di nascondere l’irritazione: non erano mica due
femminucce che spettegolavano, perché diamine lo stava punzecchiando?
L’altro se la rise. “Scusa: è solo che sono abituato a vedere un altro lato di te.
Un tempo avresti parlato ininterrottamente, parlando dei cambiamenti nella tua
vita da sei anni a questa parte, mentre adesso… Devi essere veramente cambiato.”
Quel discorso ebbe il potere di
far deprimere il biondo fino all’inverosimile: appariva davvero così diverso?
Va bene, magari dentro aveva un tumulto di sentimenti contrastanti, ma cercava
di fingere di essere quello di sempre.
“Max?” L’altro lo richiamò,
inarcando le sopracciglia. “Sai come sono fatto: sparo le mie cazzate
direttamente, senza preoccuparmi di nulla. Non ti rivedo da anni e subito dico
quello che penso.”
Fece un sorriso amaro. “E’ un po’
una caratteristica di noi americani, no?”
Patrick scrollò le spalle. “Seh,
è vero.” e qui cacciò una risata. “Se ne vuoi parlare…”
Ne fu tentato: a furia di tenersi
tutto dentro stava scoppiando, e poi lui, purtroppo, non l’avrebbe rivisto
tanto presto… Magari avrebbe potuto confidarsi…
“Tra me ed Emily è crisi netta.
Da mesi.” sputò fuori, sospirando. “Ma non capisco
perché non mi decido a lasciarla, dovrebbe essere semplice… Anzi, non lo è.”
“Tua madre.” lo sguardo
canzonatorio dell’amico lo fece imbestialire.
“Ehi, guarda che non è semplice
avere una madre all’interno della propria squadra di bey, che per di più
conosce da anni la tua fidanzata e che è sempre pronta a giudicare quello che
fai!” saltò su, come pungolato.
L’altro alzò gli occhi al cielo
con fare sarcastico. “Sai cos’ho sempre pensato? Che
tu fossi troppo attaccato alle gonne di tua madre e negli anni questa cosa non
è diminuita, a quanto vedo. Peccato che questo fattore faccia di te un codardo.”
La voglia di dargli un pugno si
fece bruciante, così come quella di mandarlo affanculo; lo frenò solo la
consapevolezza che, purtroppo, aveva ragione.
“Max, devi lasciarla prima di
commettere qualche cazzata.” il suo tono di voce era perentorio, ma quando il
biondo cambiò espressione lui si schiaffò una mano in
faccia. “Okay, l’hai già commessa.”
“Ho incontrato
dopo anni una vecchia conoscenza. Ci siamo visti due volte e…” la voce
gli morì in gola al ricordo di lei. “Praticamente è stata lei a saltarmi addosso e prima che me
ne potessi rendere conto ero già senza vestiti.” lo sguardo si perse nel vuoto
automaticamente pensando alla sua pelle setosa, ai suoi occhi verdi, al calore
del suo corpo, alle emozioni provate in sua presenza. “Lei è così…” scosse la
testa.
“Va bene, sarò chiaro: lascia
Emily. Non merita tutto questo.” annuì, lo sguardo basso. “E poi potrai
dedicarti a tutte le ragazze che vuoi, ma non così. Non così.”
Si passò una mano tra i capelli,
tentando di sorridere. “Grazie…”
“E di che?” l’amico gli schiacciò
l’occhiolino. “Auguri per tutto, amico. Ah, e una cosa: non innamorarti di
questa ragazza.”
Si ritrovò a sbattere gli occhi
cerulei. “Di Emily?”
Patrick roteò lo sguardo. “Ma no: di questa ragazza che ti sei fatto. Non la cercare
più, non la vedere più. Già ne parli come se ne fossi abbastanza perso.”
Max scosse la testa. “Ma no… E’ affascinante ma… Lontana mille miglia da me.”
Siamo due mondi diversi.
“Buon per te. Io vado, è quasi
ora di cena e la mia ragazza mi scanna se arrivo tardi.” rise. “Buona fortuna,
amico. Spero di rivederti presto.”
Il biondo
sorrise. “Lo spero anch’io. Ciao.”
Guardandolo andare, Max si sentì
con un peso in meno sullo stomaco: gli aveva fatto di certo bene confidarsi con
lui, in quei giorni stava impazzendo a tenersi tutto dentro e ora che sapeva qual
era la cosa giusta da fare. Però, non si sentiva di
certo più sollevato.
Lasciare Emily.
Sua madre ne avrebbe fatto un
casino, ne era certo. L’avrebbe chiamato per dirgli se fosse impazzito, lo
avrebbe tempestato di lettere, e-mail, telefonate, avrebbe sguinzagliato suo
padre per fargli dire che non c’era ragazza al mondo migliore di Emily Watson
per uno con la testa tra le nuvole come lui.
Ma
forse, pensarci ora, faceva solo più male di quanto in realtà avrebbe
fatto.
Si incamminò
velocemente verso casa Kinomiya: da dove si trovava distava all’incirca venti
minuti a piedi, ma sarebbe arrivato comunque in tempo per la cena.
Quel giorno era Venerdì, le
ragazze sarebbero state fuori dai piedi, visto che era
per loro consuetudine andare a mangiare fuori e andare nei locali a divertirsi,
quindi non aveva fretta.
Nei pressi del lago, fu una
figura esile ad incuriosirlo. Era una donna, ma non
avrebbe saputo dire di che età, visto che era di
spalle.
Aveva un cappello di paglia che
teneva con le mani, un vestito di un rosa particolare bordato d’oro. Pareva
appena uscita da Via col vento…
Sulle prime, Max si aspettò di
scorgere un fotografo, nei dintorni: non era normale per qualcuno vestirsi
ancora così… Poi si voltò, e rimase sbigottito.
Quegli occhi. Quei capelli.
Quella pelle.
Non è possibile…
Fu incredibile come
all’improvviso smise di camminare per rimanere a fissarla, nemmeno fosse un
quadro del Louvre.
Stupidamente pensò che, da quella
sera in cui si erano incontrati al pub l’aveva vista
in tre mise diverse e in tutte e tre stava divinamente.
Ma lei sarebbe stata bene pure
con addosso un sacco della spazzatura.
“Ehi, cowboy.” il suo tono di
voce non era né troppo basso né troppo alto, ma bastò a fargli avvertire un
crampo allo stomaco che giudicò assurdamente piacevole.
Dannazione a te, maledetta strega!
“Maryam.” perché in sua presenza
la voce doveva uscirgli incerta o comunque, insicura? Fissò i suoi vestiti:
certo che, accanto a Vivien Leigh e Olivia de Havilland, non avrebbe di certo
sfigurato.
“E’ una bella giornata.” fece
lei, osservando dolcemente il sole che con i suoi raggi si posò candidamente
sulla sua pelle chiara, come a volerla abbracciare. Gli occhi verdi della
ragazza in quel frangente, da verdi diventarono quasi dorati, e lui non poté
che perdersi nella loro contemplazione.
“Guarda, c’è un’altalena.”
esclamò all’improvviso, indicando il parco poco lontano, dove i bambini, nel
pomeriggio si andavano a divertire. Il suo sguardo si fece malinconico.
“Andiamo?” e, senza aspettare risposta, prese a correre verso la meta indicata
poco prima, tenendosi il cappello con la mano, davanti al ragazzo, sbigottito.
Dev’essere una candid camera…
L’americano si ritrovò, tuttavia,
senza sapere come né perché, a seguirla, chiedendosi chi fosse la ragazza che aveva davanti: era l’acida componente degli Scudi Sacri, la femme fatale, o…
Maryam si sedette sull’altalena,
dandosi la spinta per andare su e giù, e un sorriso
triste si fece largo sulle sue labbra.
I suoi capelli sembravano danzare
a ritmo del vento, così come il vestito pareva fare tutt’uno con l’altalena, in
un turbine di colori e di profumi.
La femme fatale, l’acida o la bambina? Chi sei tu?
Ad un
certo punto si fermò, e la ragazza scese: Max non seppe dire se ciò che vide ai
lati dei suoi occhi erano effettivamente lacrime, certo era che per un
frangente gli era parso di aver visto due gemme trasparenti ai lati dei suoi
occhi verdi, ma dopo un istante non c’erano già più e il ragazzo rimase con il
dubbio di un’allucinazione o meno.
“Guarda che puoi provare anche
tu.”
La fissò con tanto d’occhi.
“Io?” Non credeva di aver capito
bene.
“Si,
cowboy, proprio tu.” lo spinse verso l’altalena, e poi artigliò le sue mani
contro le catene che la reggevano. “E’ magica. Per tutti i minuti che ti sorregge, sorregge anche i tuoi
pensieri.” fece, annuendo solennemente.
Sorrise. “Mi sa che sono troppo
pesante per un’altalena per bambini.”
Maryam si avvicinò a lui. “Non
hai fiducia, eh?”
Lo fissò insolente, e per un
attimo rivide la componente acida degli Scudi Sacri,
cosa che lo fece confondere ancora di più. Perché tutto quel travestimento?
Perché quei vestiti così diversi? Perché quella tristezza così profonda che
sembrava divorarla da sottopelle? Chi era in realtà Maryam?
Fu quando lei arricciò
improvvisamente il naso, tornando ad ostentare
un’espressione buffa da bambina – un’espressione adorabile – che sentì dentro
di lui crollare qualcosa.
E fu lui a baciarla. La baciò
voracemente, disperatamente, e sentire contro di sé quelle labbra morbide fu come sentire una colata di lava rompere le dighe, gli
argini. Baciare Maryam era diverso da baciare
qualsiasi altra ragazza. Lei era unica, era speciale, e rischiava di fargli
perdere il controllo.
Cosa che avvenne. Per la seconda
volta.
Aveva ancora la testa confusa e
una girandola di emozioni che gli erano scoppiate in corpo quando sentì un
fruscio accanto a sé.
La ragazza stava sistemandosi il
vestito per indossarlo di nuovo e rivestirsi velocemente: Max sbatté gli occhi.
Okay, magari quella volta avevano
superato loro stessi – farlo nella casetta di plastica dove in genere giocano i bambini aveva un ché di eccitante e scabroso
insieme – ma non poteva aspettare cinque minuti prima di fuggire come una
lepre?
“Guarda che puoi restare.”
Alla frase del ragazzo, lei
ridacchiò. “Non voglio sapere cosa accadrà se dopo cena delle famiglie sopraggiungono e ci trovano qui.”
Scoppiò a ridere, e quella frase
lo convinse che, in effetti, la ragazza aveva ragione da vendere: era estate –
piena estate – e non era totalmente impossibile che
delle famiglie potessero decidere, dopocena, di andare a prendere un dessert
fuori e quindi al parco o giù di lì.
“Saremo denunciati per
sfruttamento improprio del suolo pubblico.”
Maryam fece un sorriso obliquo
che lui giudicò molto sexy. “Non è che sia improprio… Solo che gli altri non
sfruttano il suolo come si dovrebbe.” chiuse la zip
del vestito con una manata, e si rimise il cappello con una certa dignità.
“Mi spieghi come mai ogni volta scegli mise differenti?”
L’americano l’aveva chiesto con
un sorriso, ma lo sguardo della ragazza si freddò all’istante. “Non sono fatti
tuoi.” usò un tono di voce gelido che gli fece accapponare la pelle.
Uscì dalla casetta velocemente e,
quando la vide saltare sull’albero, a Max sembrò di essere tornato indietro di
anni, quando quella ragazza costituiva un mistero continuo.
Poi fuggi, ti vesti, mi confondi non sai dirmi quando torni e piangi, non
rispondi, sparisci e ogni quattro mesi torni Sei pazza di me come io
lo son di te
Sono già solo – Modà
************
“Secondo me dovresti smetterla di
assillarlo.” Hilary affrontò di petto la situazione con l’amica, decidendo di
dire la sua. Sapeva che era pericoloso – Emily si sarebbe
anche potuta offendere – ma non voleva semplicemente stare a guardarla
soffrire.
“Quindi secondo te lo assillo?!” tombola, si era offesa.
Emily e Max avevano litigato
un’altra volta, ma non era una novità: non facevano altro. Solo che, stavolta,
Hilary non voleva rimanere a guardare e aveva deciso di dire cosa realmente
pensasse.
“Non fai altro che chiedergli
dove sia, con chi è, perché non rimanga… Em, lo chiami tremila volte!” alzò gli
occhi al cielo. “Lo sai come sono fatti gli uomini: se si sentono soffocati scappano!”
L’americana ridusse gli occhi a
due fessure. “Quindi sarebbe colpa mia.”
Okay, certe situazioni me le cerco. “Dico solo che potresti…
Allentare la presa, ecco.”
“Ma che
ne sai tu?” sbottò l’altra. “Che ne sai tu, che non sai
nemmeno cosa sia una relazione? Sai solo cosa vuol dire baciare i ragazzi e
strusciarcisi contro! Lo sai cosa vuol dire, invece, una sana e solida
relazione?! No! E’ sacrificio, compromesso!”
Hilary strinse i pugni. “Forse io
sono quella che si struscia contro ai ragazzi, ma
cercavo solo di darti un consiglio proprio perché so quello che li spaventa di
più: sentirsi pressati. E mi pare che sia quello che stai facendo tu, o sbaglio?” e con
un’occhiataccia, andò via.
Una giornata di allenamento con
Draciel era proprio quello che gli ci voleva: la sede
della BBA era l’ideale – oltre al belvedere e al parco – dove allenarsi, perché
c’erano tutti i macchinari e i dispositivi per migliorarsi in maniera perfetta.
Era stato lì una giornata intera,
aveva fatto delle pause solo quando si era sentito veramente stanco, i suoi
unici compagni erano stati dei ragazzi che non conosceva e aveva detto dove andava soltanto a Takao.
Emily avrebbe sbraitato come al solito, ma tanto…
Quella era stata una giornata di
allenamento intensivo. Era stato ore con Draciel ad
allenarsi, a sudare, a cercare di migliorare le tecniche, le disposizioni, a
provare a migliorarsi per il campionato… Ma nonostante tutto non si era potuto
impedire di pensare a lei.
Perché?
Non gli era
mai capitato, nemmeno i primi tempi di fidanzamento con Emily, ne era sicuro.
Che diamine gli stava succedendo?
Dopo quella volta al parco giochi
ne erano susseguite altre, sempre e comunque dettate dalla sua volontà, e
questo suonava strano: Maryam era un’entità viaggiante, una creatura strana,
come una fata oscura che aveva il compito di rapire i suoi pensieri con uno
sguardo e restituirli poche volte nel corso della giornata.
Gli capitava tra capo e coda, lo
ammaliava con un gesto o con una parola, e lui era bello e fritto.
E perdeva il controllo.
Quello che voleva capire era:
perché? Perché gli capitava di perdere il controllo con lei?
Per i suoi serici capelli neri?
Per i suoi occhi verdi da cerbiatta? A causa del suo corpo modellato con il
centimetro? O forse era per quel suo carattere trasformista che non riusciva a
capire ancora molto bene?
Non si capiva. Non capiva come
mai dinnanzi a quella creatura che pareva provenire da
un altro mondo le sue volontà, la sua forza di intendere e di volere, venisse
azzerata.
Sospirando, si diresse verso
l’infermeria: aveva un gran mal di testa e avrebbe voluto qualcosa per i lividi
causati dal troppo allenamento. Forse non era stata una buona idea concentrare
tutto in quelle ore…
Spalancò la porta, dove stava
appeso il cartello verde con una croce bianca ma, quando vide ciò che vide,
pensò definitivamente di essersi fottuto il cervello:
non era possibile che ciò che stava davanti ai suoi occhi fosse vero.
“L’infermiera non c’è.” e,
invece, era vero.
Con i suoi capelli neri, con gli
occhi verdi bordati di eyeliner, vestita con un abito che lasciava poco
all’immaginazione, Maryam era lì, appoggiata alla scrivania, e lo fissava con
un sorriso malizioso che faceva intendere cose per le quali.
“E ci sei tu?” inarcò le
sopracciglia, cercando di assumere un tono distaccato che bene o male gli
riuscì, e quando la vide avanzare verso di lui il suo profumo gli diede alla
testa.
Maryam lo baciò senza aspettare
oltre, chiudendo la porta con due fermate e buttandoglisi addosso come se lui
fosse il solo scoglio per dimenticarsi qualsiasi cosa: ma era sempre così.
Quelle poche ore che
trascorrevano insieme le trascorrevano non di certo
parlando, ma il fattore che lo sconcertava era la passione, la disperazione che
ci metteva la ragazza.
Come se questo fosse l’unico modo
che conoscesse per dimenticare, per avere quel po’ di pace che le spettava…
Ma
perché?
Provò a scostarsi un attimo da
lei, respingendola dolcemente. “Ehi, aspetta…” sussurrò, tentando di
accarezzarle i capelli: gli occhi verdi di lei erano appannati, quasi liquidi.
“Che succede?”
La sua espressione si fece di
fuoco. “Non parlare.” la voce della ragazza era roca, bassa, ardente. “Non
parlare.” ripeté, prima di scendere a baciargli il collo, cosa che gli fece
perdere il controllo.
Sentiva che c’era qualcosa di
diverso in quello scontro tra Draciel e Dragoon ma non riusciva davvero a
capire cosa: Takao gli aveva chiesto di battersi con lui come al solito, quel giorno, con un sorriso aperto e sincero, e
lui aveva accettato con una scrollata di spalle, pensando che, forse, un po’
del suo sport preferito non potesse che fargli bene.
Casa Kinomiya era pressoché
deserta – cosa abbastanza inusuale per quel periodo –
eccezione fatta per nonno Jay e per Kai, che si stava allenando dall’altra
parte del giardino; tutti gli altri erano fuori, usciti.
Emily era in giro con le sue
amiche, e di questo era contento: meno si vedevano e meglio stava. Erano come
calamite che avevano acquisito lo stesso polo: più si avvicinavano, più
rischiavano di respingersi.
Draciel uscì fuori
dal campo di gioco, facendo inarcare al biondo un sopracciglio: non si era
accorto di essersi distratto…
Si voltò ad
osservare il suo beyblade rotolare fuori per poi fermarsi, come una marionetta
a cui avevano tagliato i fili.
Che immagine triste. E patetica.
“Max.” Il giapponese richiamò
Dragoon velocemente, fissandolo con le braccia conserte. “Sono
tuo amico e un tempo non lo avresti dimenticato!” protestò vivacemente.
Quella frase,
buttata lì, apparentemente senza senso, servì a far risvegliare un certo
orgoglio nell’americano: sapeva quello che Takao voleva dirgli: che era dalla
sua parte. Che di lui poteva fidarsi. Che gli voleva bene. Che non era
da lui trattare il bey in questo modo.
Sorrise. “Lo so. Grazie.”
Il giapponese alzò gli occhi al
cielo. “Svegliati, dannazione!” sbottò. “Qualsiasi cosa tu abbia, non puoi
combattere così: tra pochi mesi c’è il campionato. L’ultimo!”
Non è un campionato il fulcro dei miei
pensieri, ora…
Quando lo pensò, si sorprese di
se stesso: se non teneva al campionato a che diavolo
poteva tenere? Qual era, allora, il centro delle sue priorità?
Si tolse da lui con la grazia di
sempre e con il fiatone che caratterizzava i loro ménage: anche quella volta,
si erano incontrati in un posto alquanto improbabile – il bagno di un bar
dell’altra parte di Tokyo, dove praticamente Max non
andava mai.
Quel giorno aveva deciso di
esplorare la parte della città che non conosceva, per vedere quartieri nuovi,
facce nuove… E in chi si era imbattuto?
Si era già rivestita, come al solito.
L’aveva trovata nell’ingresso del
bagno del bar; come al solito erano bastate due
battute, un ammiccamento, e la passione era esplosa: travolgente, assurda,
bestiale. Mai avrebbe pensato di farlo contro il muro di un edificio pubblico,
con tutti i clienti che potevano sentire.
Si sistemò alla rinfusa, cercando
di sistemarsi i capelli biondi che, in quel frangente,
dovevano mostrare tutto quello che, fino in quel momento, aveva fatto: quella
ragazza era un demonio, una strega, un essere di un altro mondo che era stato
inviato per confondere le sue idee già vacillanti.
Quando si trovava in sua presenza non riusciva mai a pensare lucidamente, si
incantava semplicemente a guardarla e a rimuginare sulle poche frasi che diceva.
Ma questa volta non voglio che se ne vada così.
“Ti offro qualcosa.” non era una
domanda e calibrò attentamente il tono di voce affinché risultasse
più gentile e dolce possibile, ma quando vide lo sguardo di lei tutte le sue
speranze morirono in un istante.
“Non ti disturbare.” sbottò,
alzando gli occhi al cielo e rivolgendogli uno sguardo beffardo, sistemandosi
la coda: quel giorno vestiva in maniera etnica, con un caftano arancione con i
bordi dorati e dei grandi orecchini a cerchi d’oro; pareva dovesse partire da un momenti all’altro per l’Egitto.
Max strinse le labbra: sapeva
quanto fosse testarda e quanto il suo caratteraccio si
spingesse in là, ma era determinato ad abbattere la barriera che aveva
innalzato. “Non è un disturbo: l’ho deciso io.”
Lei lo fulminò con lo sguardo,
incrociando le braccia al petto. “Okay, stammi bene a
sentire: noi non mangiamo insieme.
Noi non beviamo drink insieme. Noi non dormiamo insieme. Noi facciamo
sesso. Sesso,
è chiaro? Non vedo perché debba esserci qualcosa di sentimentale in tutto ciò.
E’ come giocare a beyblade. Giochiamo e chi si è visto
si è visto.” sbottò, livida, aprendo la porta del bagno. “Hasta luego, cowboy.”
Il perché ci tenesse a
distruggere quella corazza, quella cortina che chiudeva la ragazza dentro il
suo mondo, proprio non lo capiva.
Più passava del tempo con lei,
più ne era ammaliato, assuefatto, affascinato come mai lo era stato in vita
sua. Desiderava soltanto ottenere la sua fiducia, sfondare quel muro che lei
aveva innalzato contro il mondo e capire cosa pensasse, cosa bazzicasse dentro
la sua testa, il perché di tanti suoi atteggiamenti.
Quella ragazza era un vero
mistero, un brivido continuo, un rebus assurdo che più provava a risolvere più si intricava…
Perché mi sto intestardendo con lei?
Sospirò: in quel periodo, al
posto di risolvere i loro problemi, lui ed Emily si evitavano come fossero
semplicemente schifati l’uno dall’altra, e questo, al posto di portare una
serenità a casa Kinomiya aveva portato ulteriore
tensione.
Lui a casa di Takao non c’era
quasi mai, e quando c’era subiva gli sguardi
penetranti dei suoi amici o quelli accusatori della sua ragazza.
Sapeva di starsi comportando in
maniera sbagliata, ma era come entrato in un circolo vizioso
che non sapeva più come gestire.
Sbadigliò: quella notte aveva
dormito poco e niente; aveva pensato a Maryam tutto il tempo, i suoi pensieri
si erano mischiati ad Emily e quello era il risultato…
Doveva essere parecchio stanco,
perché non si accorse di un beyblade blu che gli sfrecciava accanto.
“Attento.” spalancò gli occhi:
Kai era a metri di distanza da lui e lo fissava con uno sguardo neutro che solo
lui poteva avere, ma che tradiva la domanda implicita possibile che tu non ti sia reso conto nemmeno di Dranzer?
“Ehm… Scusami.” balbettò
l’americano, sbattendo gli occhi e mettendosi di lato: Dranzer continuò ad
allenarsi per diversi minuti, sfrecciando da un punto all’altro del giardino e
Max lo fissò, lo sguardo perso nel vuoto.
Sentiva crescere dentro di sé
un’inquietudine fuori dal comune, qualcosa che nella sua vita spensierata e
allegra non aveva provato mai, si sentiva come se lo stessero schiacciando, ma…
Perché?
“Kai, tu… Perché la aspetti
ancora?” mise in moto la bocca prima del cervello e quando si ritrovò lo
sguardo penetrante del russo su di sé, si pentì amaramente della domanda fatta.
“Scusa!” esclamò, sgranando gli occhi. “Non…Non ci ho pensato!” fece, mettendo le
mani avanti. “Fa’ finta che non ti abbia chiesto nulla.”
L’altro inarcò le sopracciglia.
“Ti stai riferendo a Hilary.” il suo tono di voce era neutro ma i suoi occhi si
fecero profondi, tradivano un mare d’ametista in cui era possibile sprofondare.
Lì c’era passione, ardore, inquietudine, dolore… Amore. C’era tutta la pazienza di un ragazzo che si era accorto
anni prima di essere stracotto dell’unica ragazza di
cui si era fatto amico, e che aveva aspettato per anni: l’aveva vista avere
vari flirt, dichiarare che non si sarebbe mai fidanzata né sposata, baciare
tizi anche sotto i suoi occhi… Tutto per la speranza che un giorno, forse,
sarebbe stata sua.
“Sì.” Max non sapeva cosa fare:
tutti nel gruppo sapevano che era innamorato di Hilary
da anni, ma mai aveva preso il discorso con lui direttamente. Si aspettava di
essere mandato a quel paese, invece…
“I sentimenti quando sono genuini
sanno aspettare.” con una scrollata di spalle, il blaider russo richiamò
Dranzer, che ritornò tra le mani del suo padrone. “Fa male, fa
soffrire, sanguini dentro, ma… Fa parte del pacchetto.”
“E’ un po’ un tutto compreso.” Max annuì. “Come… Come
hai capito di essertene innamorato?”
Quando vide il russo sorridere,
aggrottò le sopracciglia. “Ammetterlo è sempre una sorta di sconfitta. Ma
intanto vedi lei abbracciata ad un altro e ti prende
la voglia di prendere quell’idiota a pugni. E non riesci a
capire che ti succede.”
L’americano sentì la sua gola
seccarsi. “Per caso succede quando… Lei ti sorprende
qualunque cosa faccia e ti senti…Come rimescolato? O quando è un chiodo
fisso che non riesci a non pensare? O quando…”
Kai lo fermò con un semplice
gesto della mano; aveva un sorriso divertito e le sopracciglia inarcate. “Sì.”
A quel punto Max si chiese se per
caso stesse ancora respirando: si sentiva come se un grosso peso fosse tolto
dal suo stomaco. Ma all’improvviso, un altro più grande ne prese
il posto… Cosa voleva dire, quella chiacchierata? Che lui forse era…
Innamorato di lei.
Inghiottì a vuoto, chiudendo per
un istante gli occhi, e l’unica cosa che riuscì a vedere furono
degli occhi verdi che lo fissavano ironici, come a dirgli che se sperava che
avrebbe avuto vita facile, si sbagliava di grosso.
“Non puoi stare con il piede in
due scarpe.” le parole di Kai lo riscossero e lo sorpresero: come diamine
faceva a sapere che…?
Il russo lo fissò profondamente,
prima di girarsi e andare via.
Max sospirò. “Grazie.” esclamò,
nella sua direzione; lo vide alzare una mano in gesto di noncuranza, poi girare
l’angolo.
Rompere con Emily.
Essendo in estate, la spiaggia di
Tokyo si ritrovava ad essere perennemente affollata a
tutte le ore del giorno e del pomeriggio.
Max amava la gente: non gli
dispiaceva confondersi, sentire le risate, il chiasso, ed essere contagiato
dall’allegria tipica della stagione.
Ma non
in quel periodo.
Voleva stare per conto suo, non
sentire nulla, stare lontano dalle occhiate delle persone e discostarsi da
tutto e da tutti. Andava raramente in spiaggia, ma quel giorno, lo sentiva,
sarebbe stata una buona idea.
Aveva giustamente scelto la sera
per andarci e, steso sul bagnasciuga, osservava le onde infrangersi. E pensava.
La vita non era mai come la si programmava.
Non aveva programmato di smettere
di amare Emily, ma era successo.
Non aveva programmato di
incontrare lei nuovamente, ma era
accaduto.
Non aveva programmato di
innamorarsi di Maryam, ma era successo.
Che casino…
Non appena avrebbe incontrato Emily avrebbe messo fine alla loro storia: l’aveva tirata
anche troppo per le lunghe e aveva fatto male. Lei non meritava di soffrire e
lui… Beh, lui si era comportato anche troppo da bastardo.
“Allora mi segui.” incredibile
come si voltasse e saltasse letteralmente in aria al suono di quella voce: zero
trucco, capelli lasciati liberi di ricadere sulle spalle, costume intero, occhiaie ben visibili al pallore di quella pelle che aveva
tante volte accarezzato, baciato, toccato… Maryam era lì, davanti a lui, con il
solito sorriso sarcastico stampato sulle labbra pallide.
Non la vedeva da giorni… Ed era
ancora più magra dell’ultima volta.
Inarcò le sopracciglia.
“Tecnicamente saresti tu a seguire me, visto che, ogni
volta, io mi trovo in un posto e tu arrivi sempre dopo.”
La vide fare una smorfia
divertita. “Chiamala casualità.” fece, scrollando le spalle. “Destino…” ora la sua voce era maliziosa
e il suo sguardo famelico, come quello di un lupo che ha trovato la sua preda;
con un cenno del capo gli fece segno di seguirla e fu naturale per lui andarle
dietro, una volta toltosi la maglietta, rimanendo in costume.
In acqua la sua figura si muoveva
in maniera ancora più aggraziata che sulla terraferma: pareva la sirena che
aveva scambiato la coda per un paio di gambe al prezzo della voce, della fiaba
di Andersen. Quando si distese in mare, i suoi capelli galleggiarono e si
distesero tutt’intorno, come a formare un’aureola nera.
Affascinato.
Qualunque cosa facesse, qualunque
cosa dicesse, ne era affascinato. Ma
non era più tempo di farsi mettere da parte, di essere trattato come una
valvola di sfogo: voleva di più.
Voleva far parte della sua vita, voleva che lei
condividesse cosa la faceva stare così male… Perché era evidente: lei stava male.
“Sei dimagrita.” constatò, preoccupato: il diametro delle sue braccia si era
visibilmente ridotto, così come quello delle gambe.
“Non farmi la paternale.” con un
tuffo all’indietro, la vide fare una capriola con la massima agilità, per poi
ricomparire in superficie, vicino a lui. “Non ti impicciare.”
soffiò, guardandolo dritto negli occhi.
Con il viso bagnato e alla luce
del tramonto, i suoi occhi verdi risaltavano ancora di più; parevano due pozze
di smeraldo: smeraldo puro, splendente, triste,
disperato.
Non resistette: la baciò, e fu un
bacio diverso da quelli che si erano dati fino ad allora;
tanto carico di desiderio, quanto di amore e di consapevolezza. E di
disperazione. Max la stava baciando con tutto l’amore che aveva scoperto di
sentire e anche con tutto il turbamento che stava provando.
Ma come era
iniziato quel bacio finì, e anche all’improvviso: sciogliersi da quella bolla
dove esistevano solo loro due fu difficile, praticamente impossibile, e servì
una grande forza di volontà ma lo doveva fare.
Quando poi si specchiò in quegli
occhi che stava imparando a conoscere, pressoché confusi e smarriti, sospirò. “Mi impiccio perché ci tengo.” la voce gli uscì impastata,
roca, ma andava acquistando sicurezza ad ogni sillaba. “Ci tengo a te e non mi
piace vederti così. Non mi piace vederti in questo stato, non mi piace che mi
tratti come una pallina antistress: basta.”
Quando la indossò, la maglietta
si appiccicò alla sua pelle, ma non importava: l’unica cosa che importava fu quando vide, con la coda nell’occhio, Maryam
ancora in mare, attonita, che si portava una mano alla bocca.
Forse non era stato tutto
inutile.
Sbadigliò: un nuovo giorno era
appena iniziato, e lei doveva soltanto decidere come trascorrerlo.
Ecco uno dei tanti vantaggi
dell’essere una viaggiatrice solitaria: poter decidere tutto da sola, senza
nessuno che facesse pressioni, senza nessuno che rompesse, senza nessun tipo di
fiato sul collo.
Lei. Solo lei e basta.
Conosceva Tokyo da un po’ di anni, ma ora che l’aveva riscoperta l’aveva decisamente
vista sotto un altro punto di vista… Anche completamente nuovo.
Un lieve bussare al portone di
quella casa abbandonata la fece stranire: chi mai poteva essere? Attenta e
guardinga, si avvicinò all’ingresso dell’abitazione con passetti
felini molto misurati, che poi rilasciò quando capì che dall’altra parte
non c’era nessuno.
Una piccola scatolina di cartone.
Maryam vi si accucciò dinnanzi, aprendola con una mano, e spalancò occhi e bocca
quando il suo contenuto fu rivelato.
La fascia rossa che metteva tra i
capelli quando aveva quindici anni: l’aveva usata per bendare il braccio di Max
dopo che erano rimasti rinchiusi in quell’edificio e lui si era quasi rotto un
braccio per salvarla.
Cowboy…
“Dov’è Emily?”
Quando lo chiese a Hilary la ragazza si voltò, la fronte aggrottata. “Dovrebbe essere con
Karen e Mao… Io sono rimasta qui a studiare.”
Max annuì brevemente. “Non appena
la vedi, dille che le devo parlare.” fece, con un tono di voce che non
ammetteva repliche; uscì da casa Kinomiya, decidendo di andare a casa sua: suo
padre, ormai, abitava a New York con sua madre e casa
Mizuhara era libera, sarebbe stato il luogo ideale per riflettere e stare un
po’ in pace.
Il tragitto fu abbastanza
tranquillo, quello che non si aspettava fu di trovare la porta di casa sua
socchiusa.
Aggrottò la fronte: avrebbe dovuto essere chiusa già da mesi e mesi, che ci
faceva lasciata così?
“E’ aperto.”
Non è possibile…
E invece lo era:
lingerie di Vittoria’s Secret, i lunghi capelli neri che le ricadevano sulla
schiena in sensuali onde morbide, una giarrettiera da cui non riusciva a
staccare gli occhi… Lei era lì. La rappresentazione dei suoi
sogni e dei suoi incubi, tutto concentrato in un'unica persona.
“Questa è violazione di
domicilio, lo sai?”
La ragazza scrollò le spalle.
“Non ho nemmeno dovuto forzare la serratura…”
Max sospirò, arrendendosi. “Che
ci fai, qui?” le scoccò un’occhiata in tralice, andando verso il frigo e versandosi
dell’acqua, sedendosi poi sulla sedia.
Maryam scrollò le spalle.
“Passavo di qui ed ero dell’idea che venirti a trovare avrebbe giovato ad entrambi.”
Il suo maledetto sarcasmo fu come
un ago infuocato tra le carni del ragazzo: trangugiò l’acqua in un sorso, per
poi pararsi di fronte a lei in uno sguardo di fuoco. “Non sono il tuo
antistress.” sibilò, socchiudendo gli occhi.
La vide atteggiare le labbra in
un broncio stizzito e sbuffare. “Io non la metterei da questo punto di vista…”
sussurrò, umettandosi lentamente le labbra con gesti misurati. “Ci… Facciamo un
favore.” sussurrò, avvicinandosi a
lui e lambendogli il collo con il fiato, cosa che gli causò uno scompenso
ormonale non da poco.
Calmati: distraiti. Pensa ad altro.
“Maryam, no.” ci volle non poca
forza di volontà per respingerla e fissarla duramente, senza ammettere
repliche.
La ragazza ridusse gli occhi a
due fessure. “Se volevi rompere, bastava che lo dicevi.
Non c’era bisogno di tutta questa sceneggiata!” il suo ringhio si sparse per
tutta la casa; si stava arrabbiando talmente da divenire
rossa sulle gote e da tremare.
Max stette bene attento a non
staccare gli occhi dai suoi. “Che succede? Perché ogni
volta che ti vedo sei sempre più magra? Dove sono gli
altri componenti della tua squadra? Perché-”
La mora lo interruppe con un
sibilo. “Non ti permettere mai più.” lo disse con una rabbia tale da farlo
rabbrividire. “Prima mi respingi e poi ti interessi
della mia vita privata; fatti un po’ di cazzi tuoi, capito, biondo? Non-”
Non finì la frase: un paio di
labbra si artigliarono alle sue, impedendole di
proseguire qualsiasi insulto.
E successe come sempre: poche
scene, poche sequenze. Loro che venivano contagiati da
una passione febbrile sempre maggiore, che non potevano e sapevano trattenersi,
che si amavano lasciandosi addosso la loro tachicardia e nulla di più.
“Mi lasci andare?”
“Mh?”
La ragazza ridacchiò, nascondendo
il viso per terra: era da almeno mezz’ora che avevano finito di fare l’amore,
ed era almeno mezz’ora che lui la teneva ancorata a sé come se non la volesse
far andare via, eppure ora si era riposata, era tempo che se ne andasse…
“Max, mi devo vestire!” sbottò,
divertita.
Il biondo scosse la testa,
scoccando un bacio sulla nuca della ragazza che lo osservò meravigliata: perché
tutta quella dolcezza? Che diamine voleva dimostrare?
“Non devi andare da nessuna
parte.” fece, sicuro. “Puoi restare.”
Maryam si voltò di scatto. “Qual
è il trucco?” chiese, sospettosa.
L’americano le baciò nuovamente
la bocca, dopodiché la artigliò per i polsi. “Resta qui,
Mary. Non resti mai…” la ragazza pose la testa sul suo petto,
e lasciò che lui le accarezzasse lentamente i capelli.
“Sei bella…” era da tempo che non riceveva quelle attenzioni, quelle coccole,
e non poteva dire nemmeno che le dispiacessero, anzi; lui era dolcissimo, era
gentilissimo... E a lei quelle attenzioni provocavano strane sensazioni…
“Hai mai pensato al suicidio?”
glielo disse di getto, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre lui le carezzava
i capelli. E fu un attimo: la sua mano si immobilizzò,
il suo respiro si bloccò, il suo colorito si fece pallido.
“Che cosa?!” lo sentì sbottare.
Sorrise tristemente. “Niente, era
solo… Un’idea.”
Ma
l’americano non era dello stesso avviso: la prese, scrollandola per le spalle e
la guardò fisso negli occhi. “Che cos’è questa storia?”
Lei fece spallucce. “Niente,
nulla… Semplicemente quando sono giù di morale e non ho nessuno a cui appoggiarmi, penso che potrei farlo.” disse, senza
battere ciglio, come se stesse parlando di andare a fare la spesa dato che
mancava il pane.
“Non lo dire
nemmeno per scherzo: Maryam, io ti amo. Se solo tu lo volessi, potrei
essere io la persona a cui ti potresti appoggiare, se
solo tu me ne dessi la possibilità-” fu bloccato da un dito indice all’altezza
delle labbra, e da un breve bacio sulla bocca che lo zittì.
La mora sorrise di un sorriso
obliquo, fece un gesto con la mano, come a voler scacciare una mosca. “Sta’ calmo, cowboy, era per dire.” fece, alzandosi e
cominciando a prendere i vestiti: se li rimise il più lentamente possibile,
sotto gli occhi attoniti del ragazzo, dopodiché aspettò ancora un po’ prima di
chiudersi la porta alle spalle.
“Io non do il mio cuore a
nessuno: ma se sei abbastanza coraggioso puoi sempre
provare a rubarlo.” una risata e fu via… Via come il vento.
Emily Watson non era una stupida.
Aveva capito che la sua storia
d’amore con Max non filava, e da un pezzo; aveva semplicemente una
caratteristica: era ostinata. Quando
si stendeva delle fette di prosciutto sugli occhi,
nemmeno se si svolgeva la terza guerra mondiale si poteva per farle capire che
era un atteggiamento sbagliato. Era l’atteggiamento del rifiuto.
Ma quel
giorno – dopo due di essersi preparata psicologicamente – e dopo che Hilary le
aveva riferito che Max l’aveva cercata, non poteva più rimandare la sua
chiacchierata con il suo – in quel momento – fidanzato.
Si erano incontrati di comune
accordo al luna park di Tokyo, un posto ritenuto neutro, e stavano camminando
in silenzio da una decina di minuti senza che nessuno dei due si decidesse ad
aprire bocca.
“Allora, Hilary aveva detto che
mi volevi parlare.” provò a dire, sistemandosi gli occhiali con un gesto che
tradiva il nervosismo che stava provando.
Max annuì lentamente e sospirò prima
di iniziare a parlare. “Sai anche tu che non abbiamo passato un periodo tutto
rose e fiori; siamo molto diversi: troppo.”
Lei si morse le labbra. “Sì, ma
se ci arrendiamo non va!” sbottò, prendendogli le mani
tra le sue e baciandolo. “Io ti amo,e quando c’è
questo le cose si possono aggiustare!”
Fu allora che si sentì un verme
completo: l’aveva tradita e non aveva scusanti. Era un mostro.
“Em, io mi sono innamorato di
un’altra.” lo disse guardandola negli occhi, e quando la vide sgranare occhi e bocca sentì una morsa gelida artigliargli lo
stomaco, non poté impedirlo. “Mi dispiace.” provò ad aggiungere, ben sapendo
quanto a poco sarebbe servito.
“T-Ti dispiace?!”
quando la voce della ragazza assunse una nota stridula, capì che erano arrivati
al punto di non ritorno: stavano per iniziare recriminazioni, rimpianti,
insulti e litigi, tutte cose tipiche di una storia alla deriva. “Come fai a
dire che ti dispiace?”
Sospirò, stanco. “Em…”
“No! Tu ti sbarazzi di due anni insieme senza
neanche muovere un dito, senza nemmeno provare a salvare la nostra storia,
perché tanto non ti è mai importata, accidenti!” la ragazza era furibonda,
pareva fosse in pieno esorcismo. “Ero io che mi preoccupavo di te, ero
io che badavo a te, ero io che-”
“Em, amo un’altra.” per arrestare il flusso corrente delle parole della
sua quasi ex le dovette parlare di sopra, tanto era furibonda. “Non è stato
perché tu non fossi speciale, o meno bella, o che so io; è stato solo perché il
tempo per noi… E’ finito.” la fissò dritto negli occhi e quando l’azzurro
limpido dei suoi si specchiò nel marrone di quelli dell’americana, lei abbassò
lo sguardo.
“Probabilmente.” fece la ragazza,
la voce rauca. “Ma ferisce lo stesso.”
Guardare la sua ormai ex andare
via con le lacrime agli occhi fu molto più arduo di quanto avesse mai potuto
immaginare; lo trattenne la sola consapevolezza che finalmente, dopo tante
cazzate, aveva fatto una cosa giusta.
Non seppe per quanto tempo rimase
lì impalato, dinnanzi il tunnel dell’amore del luna
park di Tokyo, ma quando vide qualcosa di rosso affacciarsi al suo sguardo,
subito aguzzò la vista, sbattendo gli occhi.
La fascia rossa di Maryam.
La stessa che aveva fatto
recapitare la mattina scorsa a casa sua; la stessa che lei quel giorno di
diversi anni prima si era tolta e con cui gli aveva fasciato il braccio.
E ora era lì, legata ad un lampione proprio di fronte a lui.
Poteva essere una coincidenza;
una stupida coincidenza. Poteva.
Peccato che lui non credesse alle
coincidenze e che in quel momento stesse sentendo il cuore martellargli forte
nel petto e salirgli fino all’altezza della gola.
Trovarla, dovevatrovarla.
Passò in rassegna tutti i posti
che gli vennero in mente: bar, pub, belvedere, parco giochi, stradine, andò
persino a casa Kinomiya, dove un ostinato Takao cercò di insistere per farlo
rimanere, ma evidentemente non c’era alcuna traccia di lei, lì.
Dove sei?
E poi gli venne in mente:
l’ultimo posto, forse perché il più banale, il più scontato, ma doveva provare
anche lì…
Sentiva il cuore martellargli nel
petto ad ogni passo, sentiva l’ansia esplodergli dentro ogni secondo che
passava, e non sapeva nemmeno come mai.
Poteva essere un sesto senso o
magari soltanto una superstizione…
Quando arrivò dietro casa sua e
trovò il portone chiuso, non ci pensò due volte a farsi sentire. “Maryam! Maryam!”
Doveva capire se era lì dentro, e
doveva capirlo immediatamente: si buttò giù di lato dalla parte bassa della
vetrata e quando vide di sfuggita una chioma mora riversa per terra, non volle
approfondire oltre: semplicemente si concentrò sul portone e lo abboffò di spallate, di così tante spallate, che fu presto
buttato giù.
E poi lei.
E poi lei per terra, con il viso
cinereo, con i polsi candidi tagliati, da cui sgorgava copioso del sangue… E
lui non poté fare a meno di tremare. Tremare e inginocchiarsi.
“Aiuto…” sussurrò, ed era un
sussurro implorato, implorato come una preghiera, perché il ragazzo non sapeva
a che santo rivolgersi. “Qualcuno la aiuti…”
Continua.
Vi prego di rimettervi gli occhi nelle orbite, e di posare:
fucili, mitragliatrici, pistole, machete, laser, mazze
chiodate, bazooka, coltelli e ogni arma che potrebbe essere usata contro la
sottoscritta.
Abbiate fiducia, okay?
Manca ancora un atto, santo cielo! u.u
Se questa prima parte vi ha lasciati attoniti e a dir poco sconvolti va bene: le spiegazioni sono nella seconda parte.
Ovviamente, nelle recensioni accetto ogni tipo di critica e di bandierina rossa
– o è arancione? – non abbiate remore nel farmi notare le cose che non vanno!
A Lunedì 30 con la seconda parte.
=D
Un bacione,
Hiromi
P.s. = Per ogni minaccia che
vorrete inviare alla sottoscritta, non usate gli MP di efp: ormai sono fuori
moda. xDla
Hiromi è su face book, iscrittasi sotto l’appellativo di
Faith Hiromi. u___u
Perché se non ci fosse stata
lei, questa ‘Maxeide’ per ora starebbe marcendo nei meandri del mio pc,
abbandonata.
Perché è una santa.
Perché mi sopporta e ancora non mi ha insultata,
non si sa come.
E, -
at last but not the least – perché la adoro.
Scontato,
no?
Withme
Trouble is her only friend and he's back again Makes her body older than it really is And she says it's high time she went away No ones got much to say in this town Trouble is the only way is down, down, down
Carry you home – James
Blunt
*********************
Non
ricordava di aver mai vissuto tre giorni così frenetici e pieni di terrore, di
aver mai provato così tanta paura in vita sua come quando aveva visto, in quell’orribile
sequenza di secondi la ragazza riversa per terra con due tagli sulle braccia.
Era
stato come un incubo che si avverava, come toccare con mano la realizzazione
delle sue paure più profonde ma, allo stesso tempo, il suo amore per lei.
Perché
solo quando aveva rischiato di perderla aveva capito quanto l’amasse.
E
poi era successo di tutto: Emily aveva fatto i bagagli ed era tornata in
America con il primo volo da Tokyo, i suoi amici avevano praticamente perso le
sue tracce e lui era stato tutto il giorno in ospedale a vegliare su di lei…
Lei che, legata a quei tubicini e a quel letto, era come legata ancora
all’esile filo della vita.
Aveva
già ricevuto cinque chiamate da parte di sua madre: Judy Mizuhara non aveva
accolto proprio con i salti di gioia la notizia della sua rottura con Emily, ma
se lo aspettava; lei era fatta così, non era mai cambiata. Aveva sempre creduto
di conoscere quale fosse effettivamente il meglio per lui, e lui aveva sempre
accettato le decisioni prese da sua madre. Fino ad allora.
Se
Judy credeva che, per l’ennesima volta, si sarebbe piegato docilmente al suo
volere, aveva fatto un grosso buco nell’acqua. Enorme.
Maryam
si era svegliata due volte in quei tre giorni: aveva balbettato qualcosa di
sconnesso, come se stesse delirando, e poi si era rimessa a dormire. I medici
sostenevano che era normale, che rientrava assolutamente nella routine e che
avrebbe fatto meglio ad andare a casa a farsi una bella dormita… Ma come
faceva? Come, con lei in quelle condizioni?
Voleva
conoscere tutto di lei: dal suo colore preferito alla sua taglia di vestiti, al
che cosa l’aveva portata in Giappone lontana dal suo villaggio, da Ozuma e gli
altri. Voleva sapere come mai si vestiva ogni volta in modo diverso, perché
aveva quello sguardo triste e… E anche perché l’aveva fatto, dannazione! Ne
aveva il diritto.
“Scusa?”
alzò lo sguardo verso una dottoressa mora sulla cinquantina. “Sai quanti anni
ha la ragazza?” fece, reggendo in mano una cartella clinica.
Max
sospirò: non sapeva con precisione la data di nascita, sapeva soltanto che
aveva un anno più di lui…
“Diciannove,
ma non mi chieda alcuna data.”
La
donna fece una smorfia. “I tagli si stanno
rimarginando bene, il problema è che riprende conoscenza solo per pochi minuti.” dichiarò, scrollando le spalle. “Ad ogni modo, tempo
due o tre giorni, se si sveglia definitivamente potremmo dimetterla.”
Max
annuì, guardando oltre la vetrata da cui si vedeva la ragazza riposare sul
lettino. “Posso vederla?”
“Sì,
ma per poco: l’orario delle visite è quasi terminato e tu hai bisogno di una
bella dormita.” fece, scoccandogli un’occhiata severa.
Il
biondo sorrise, entrando nella stanza: in quei giorni aveva visto Maryam tante
volte e l’aveva sempre osservata dormire, notando come i suoi lineamenti
fossero rilassati, come si addolcissero, come sembrasse quasi un’altra persona
e non la mordace irlandese in fuga da se stessa.
Anche
quella volta dormiva, con i capelli neri raccolti in una morbida treccia, i
lineamenti dolci e rilassati, e un sorriso sulle labbra.
I
medici avevano detto di parlarle, di tanto in tanto, anche per provare a
ristabilire un contatto tra la realtà effettiva e quella onirica; in tal modo,
secondo loro, si sarebbe svegliata prima. E Max le parlava cercando di
raccontarle qualcosa, anche delle cavolate.
Questa
volta però non poté non gioire vedendo il suo sorriso. “Ridi, eh? Ma che
spavento mi hai fatto pigliare, Mary… Lo so, lo so, ti ho già rimproverato per
questo: ma ancora non hai visto nulla. Quando ti sveglierai allora sì che ti
farò una bella ramanzina.” sbuffò, aggrottando le sopracciglia. “Ma cosa ti
ridi? Sono geloso, con me non hai mai sorriso così!” la osservò un attimo e,
pensando che era proprio bella, fece un giro attorno al letto.
“Io
ti amo, Maryam. Anche se non lo vuoi sentire questo non cambia, e quando ti ho
visto lì per terra, più morta che viva, ho visto l’inferno.” sussurrò,
abbassando lo sguardo e lottando per scacciare quelle immagini dalla mente.
“Sei un mistero, sei un rebus, ma riuscirò a risolverti.” dichiarò, con un
sorriso.
“Ora
vado, l’orario delle visite è quasi terminato, ma tornerò; tornerò sempre.” carezzandole delicatamente il
volto; sentì la sua pelle delicata sotto il suo tocco, e sorrise.
Voltandosi,
si incamminò verso casa con il cuore un po’ più leggero, ma non accorgendosi di
un paio di occhi smeraldo che si erano spalancati sul mondo e lo fissavano in
maniera decisa.
“Beh,
eccoti qua!”
L’americano
alzò gli occhi al cielo all’esclamazione di Takao: sapeva che il suo amico non
lo vedeva da un paio di giorni ed era preoccupato, ma questa cosa di fare la
mamma chioccia era impagabile da parte sua.
“Sì,
sono qui.” con un sorriso, Max si versò del caffè.
Il
giapponese scosse la testa. “Ma dove eri andato a finire? Lo sai che ero
preoccupato?”
Finisce Emily e comincia lui…Povero me.
“So
badare a me stesso, ma ti ringrazio per l’interessamento.” commentò, con un
sorriso: sapeva che Takao non si comportava così per cattiveria o perché voleva
impicciarsi, ma semplicemente perché era davvero preoccupato. “Novità?”
“Kai
e Hilary si sono messi insieme.” brontolò il moro. “E tu intanto dov’eri?”
L’americano
quasi non si strozzò con il caffè. “Che cosa?!”
sbottò, facendo tanto d’occhi. “Ma quando?”
La
notizia gli giungeva nuova e graditissima: sapeva che il suo amico moscovita
aveva una cotta per la loro mascotte da anni; se si erano messi insieme, le
cose dovevano essersi smosse molto più di quanto aveva creduto.
Ma io dove sono stato?
“Il
giorno stesso in cui Emily è partita: a proposito, perché vi siete lasciati?”
quando lui non rispose, il volto di Takao si fece scuro. “Noi siamo amici: un
tempo ti confidavi con me.”
Lui
per un attimo non seppe davvero cosa replicare: sapeva che aveva ragione,
altroché se aveva ragione, ma c’era qualcosa – qualcosa che non riusciva a definire
– che gli impediva di parlare dei suoi problemi.
Eppure,
come aveva detto lui, un tempo lo avrebbe fatto. Ma la realtà era che un tempo
era una persona diversa: il tempo lo aveva cambiato, le situazioni lo avevano
cambiato. Maryam stessa lo aveva cambiato.
“Io
mi fido di te.” replicò lentamente. “E’ che la situazione è parecchio
complicata e… Sto provando a non farmela sfuggire dalle mani.”
L’altro
inarcò le sopracciglia. “Uno non può far tutto da solo: scoppia.”
Tipico
di Takao: arrivare dritto al punto e risentirsi se qualcosa toccava l’ambito
amicizia. Capiva che si sentiva messo da parte o considerato non importante, ma
non era una sua questione. “Hai ragione ma vedi, io mi sono innamorato di
un’altra. Per questo ho lasciato Emily. E la questione è talmente complicata
che prima ci devo capire io.”
“Amore.” brontolò il giapponese. “Non ti
posso aiutare, non me ne intendo.” fece, con una smorfia.
Max
sospirò. “Lei è così…Strana. E’ come
se fosse più persone in una, non riesco a capirla. Non riesco a d inquadrarla:
è la ragazza aggressiva e mordace, è la femme fatale o è la bambina? Non lo
so.”
Vedere
Takao con entrambe le sopracciglia inarcate fu comico. “Ti ha mai preso il
sospetto che possa soffrire di personalità multipla?”
Il
biondo ridacchiò. “Si vede che non sei mai stato innamorato, ma capita a tutti
prima o poi.”
Il
giapponese scosse la testa. “Non credo: sono troppo preso dal beyblade.”
Max
esibì un’espressione scettica. “Ma se lo diceva pure Kai.”
“Merda.”
Takao lo fissò con tanto d’occhi per poi scuotere la testa. “E in questi giorni
sei stato da lei?”
L’americano
evitò accuratamente di accennare al tentativo di suicidio e scelse di calibrare
attentamente le parole. “Sì, sono stato in ospedale… E’ stata poco bene e la
sono andato a trovare.”
“Ne
vale la pena?” aveva un’espressione scettica, le sopracciglia inarcate.
“Perdere tutto questo tempo, intendo… Non sai nemmeno se ricambia.”
Lui
sospirò, sorridendo in maniera amara. “No, non lo so se ricambia. Però… Ne vale
la pena. Lei ne vale la pena.”
Takao
dapprima lo fissò, stupito, poi scosse la testa. “Sei proprio perso.”
“Di
brutto, amico. Di brutto.”
Max
cercò di contare fino a dieci prima di rispondere a quell’infermiera; già la
giornata non era cominciata nel migliore dei modi: aveva scoperto di aver
dormito quindici ore filate, poi ricevuto due chiamate da parte di sua madre e,
infine, quando si era recato all’ospedale per andare a trovare Maryam,
un’infermiera abbastanza confusa, dapprima non aveva capito chi stesse cercando,
poi aveva insistito per dire che la ragazza era stata dimessa.
“Senta,
non è possibile.” sibilò, cercando di restare calmo. “La ragazza era qui fino a
ieri, e praticamente non aveva minimamente ripreso conoscenza.”
L’infermiera
scosse la testa. “No si è svegliata, l’abbiamo tenuta qui qualche ora e poi,
visto che le ferite erano ben rimarginate, l’abbiamo dimessa.”
Max
non sapeva se urlare o battere i piedi per terra per la troppa rabbia. “Voi
avete dimesso una ragazza che ha tentato il suicidio… Quattro giorni fa?!”
La
persona di fronte a lui si ritrovò ad essere senza parole. “La ragazza ha
insistito, diceva di sentirsi bene, ha detto di voler ritornare dalla sua
famiglia…”
Per
l’americano fu un colpo sparato all’improvviso: non sapeva dove fosse il
villaggio di Maryam, sapeva soltanto che era in Irlanda, anche se dove,
esattamente, non ne aveva idea. Sarebbe stato come cercare un ago in un
pagliaio.
Ma, in fondo, se ha deciso di tornare da
Ozuma, Jesse e gli altri…Chi sono io per impedirlo?
Lui adorava sua madre e avrebbe fatto davvero di tutto per
lei o per suo padre, ma in quel periodo Judy Mizuhara stava superando ogni
limite.
“E’ la ragazza giusta per te, ti dico! Una madre, certe
cose, le sente!” Max lasciò il cellulare sul tavolo di casa Kinomiya, non
sprecandosi nemmeno più ad ascoltarla: sarebbe stato tutto inutile. “Emily è
così carina, ha la testa così sulle spalle, un futuro così brillante! E’ quella
che ci vuole per te che hai la testa tra le nuvole, lo so: sei mio figlio!”
Prendendo il telefonino tra le mani, si propose di mettere
fine a quel supplizio in modo più indolore possibile. “Mamma, io ti voglio
bene. Ti adoro. Ma semplicemente non amo più Emily. Sono cose che succedono.”
“Stammi bene a sentire!” tuonò Judy, furibonda. “Questo è
l’ultimo campionato che disputerai, e io non ho intenzione di perdere solo per
degli stupidi malumori nella mia squadra. Quindi, o risolvi la questione con
Emily, oppure puoi trovare anche un altro team!” detto questo, riattaccò,
lasciandolo basito.
Perfetto, ci
mancava solo questo: la ciliegina sulla torta…
Prendendosi la testa tra le mani, si sedette sullo sgabello
girevole della cucina di casa Kinomiya, e alzò appena lo sguardo quando sentì
qualcuno schiarirsi la voce. “Scusa?”
“Takao, dimmi.” non poté impedirsi di sospirare: in quel
periodo gliene stavano capitando proprio di tutti i colori.
“Non ho potuto non sentire la conversazione e… Beh, un
posto nella squadra giapponese ce l’hai, male che ti vada.”
Sorrise. “Grazie amico.”
Che Hilary fosse la macchietta del gruppo era una cosa già
risaputa; quello che Max non sapeva o che, forse, aveva dimenticato, era quanto
la ragazza fosse brava a dare consigli.
In un pomeriggio in cui l’aveva beccato triste e
malinconico, era riuscita a cavargli dalla bocca cose che nemmeno Takao aveva
potuto. E, in breve, si era messa in testa di fare qualcosa per lui.
“Ehi, biondo.” Max sorrise non appena udì la voce della
giapponese: si sedette accanto a lui con un balzo, e gli rivolse un sorrisone. “How are you?”
“The same as usual.”
commentò, con un sorriso malinconico. “Tu?
Come procede diritto privato?”
La vide fare una smorfia. “Diciamo che procede: una cosa è
certa. Non ho intenzione di arrendermi.”
Max sorrise: si capiva perfettamente come mai perfino uno
gelido e chiuso come Kai fosse capitolato dinnanzi a Hilary; non era una
ragazza bella come una fata – era bella, certo, ma ve ne erano di molto più
belle –e non aveva nemmeno un carattere
mite e zuccheroso, anzi.
Però… Però era una ragazza vera, genuina, che si faceva in
quattro per gli amici, dall’intelligenza sopraffina che metteva al servizio
degli altri. Kai non aveva potuto fare a
meno di capitolare.
“Perché sorridi?” Hilary accavallò le gambe. “A cosa stavi
pensando?”
Sospirò. “Voi donne siete la rovina di noi maschietti. Ma
che incantesimo ci fate?”
La ragazza rise, alzando le mani in segno di resa.
“Nessuno, giuro. Siete voi che siete fin troppo sensibili al nostro immenso
fascino.” in breve tornò seria, rivolgendogli un sorriso. “Si sistemerà tutto.
E io farò il possibile per aiutarti.”
Le rivolse un’occhiata scettica. “Ne hai il potere?”
“A costo di spaccarmi il sedere in otto, biondo.” sibilò
scherzosamente, abbracciandolo. “Detesto vederti così e farò di tutto per
risolvere questa situazione: te lo prometto.”
Si rilassò, stretto nell’abbraccio confortante dell’amica.
“Ti ringrazio Hil, ma non ti devi preoccupare: capita di innamorarsi e di non
essere ricambiato. Lei è semplicemente troppo per me. Troppo tutto. Troppo
bella, troppo complicata, e accanto a lei mi sento troppo in difetto.”
dichiarò, sorridendo amaramente.
La ragazza lo baciò fraternamente sulla fronte, sorridendo.
“Non ho mai avuto la chance di conoscere Maryam, è sempre stata una persona
riservata, non ha mai legato con nessuno. Ma se tu dici che si comportava così,
qualcosa dietro deve esserci e non puoi permetterti di arrenderti. Per ora vedi
un po’ di concentrarti sul torneo… Poi si vedrà che cosa escogiteremo, okay?”
“Sorpreso?”
Max non sapeva cosa dire: ad Agosto inoltrato, dopo
l’estate più brutta della sua vita, l’ultima cosa che si aspettava era una mano
tesa dall’ultima persona sulla faccia della terra, quella che più di tutte
aveva fatto – involontariamente - soffrire: la sua ex.
Emily lo aveva chiamato quella mattina presto e sembrava
serena: erano settimane che non si sentivano, pareva l’incarnazione della
tranquillità, a differenza di lui.
“Beh… Sì.” ammise, grattandosi la nuca.
La udì sospirare all’altro capo del telefono. “Intendiamoci:
per parecchi giorni il tuo nome è stato proibito, ce l’ho avuta con te da
morire e se avessi potuto ti avrei strangolato… Ma ora è acqua passata.”
Dopo sei settimane?
“Sto con Michael.” proseguì la ragazza, in un tono così
sereno come non l’aveva mai sentita.
“Ho parlato con tua madre e… Max? Vorrei che tu tornassi a
far parte degli All Starz. Non c’è davvero problema, né per me né per Michael.
E tua madre – gliel’ho detto – non deve sentirsi imbarazzata. E nemmeno tu. Che
cosa dici?”
Il biondo sospirò: tutta questa caterva di informazioni non
se l’aspettava, come non si aspettava che la sua ex gli tendesse
improvvisamente una mano. “Beh, io…”
“Dì di sì!” L’americana stava sicuramente sorridendo. “Ti
rivogliamo in squadra: ti ho già prenotato un volo per la settimana prossima, non puoi rifiutare.”
Ridacchiò. “Io… D’accordo. Grazie. Grazie di tutto, Em.”
Il campionato del mondo quell’anno prevedeva la prima tappa
a San Diego, città della California: per concentrarsi, Max si era dovuto
mettere in carreggiata molto duramente, allenandosi tantissimo con la squadra,
ma ce l’aveva fatta.
Alla fine Judy Mizuhara si era arresa alla volontà dei
ragazzi e lei stessa aveva ammesso che, da quando stava con Michael, Emily era
più rilassata e in squadra si respirava un’aria migliore.
“Ehi, a posto?” la sua ex gli sorrise porgendogli una
bottiglietta d’acqua: incredibile come, da quando si fosse fidanzata con
Michael, fosse tutta un sorriso.
Non che gli dispiacesse, ma ciò non faceva che fargli
pensare a Maryam. Anche lui voleva sorridere così, essere allegro, spensierato,
concentrarsi senza riserve sul beyblade e non avere quel peso che gli opprimeva
il petto come un macigno. E invece…
“Eh.” provò a sorridere, ma ciò che ne uscì fu una smorfia.
Emily si sistemò gli occhiali da vista, e aggrottò le
sopracciglia. “Senti, dopodomani inizia il campionato… Io vorrei che tutti i
componenti della squadra fossero belli pimpanti, non dei cadaveri… E non mi
aspettavo di dirlo proprio a te!”
Max sospirò. “Lo so, sono irriconoscibile.” ammise, alzando
gli occhi al cielo. “Non posso farci molto.”
“Devi amarla molto.” disse piano la ragazza, mordendosi le
labbra; fino ad allora non avevano mai toccato l’argomento, ma sentiva di non
poteva più tacere. E quando lo sentì sbuffare, capì di aver centrato il punto.
“Ehi, cos’è questo mortorio?” Michael, un sorriso stampato
sulle labbra, sorrise ad entrambi, avendo appena finito di allenarsi.
“Niente, stavamo parlando.” il biondo sospirò, tentando un
tono casuale.
“Per ora nella sala arrivi dell’hotel c’è un po’ un casino:
c’è una squadra in più e a quanto pare il presidente non aveva dato
disposizioni per ospitarla…” Michael sorseggiò l’acqua, poi scrollò le spalle.
“Il che è strano, la BBA
è così organizzata!”
Emily aggrottò le sopracciglia. “Ma che squadra è?”
“Gli Scudi Sacri.” rispose il suo ragazzo, che poi si voltò
verso il biondo, confuso. “Max, aspetta, dove corri?!”
Non poteva crederci: gli Scudi Sacri avrebbero gareggiato
al torneo, l’avrebbe rivista dopo nove settimane…
Max sentì il suo cuore fare delle capriole assurde nel
petto e, mentre correva, a stento vide Hilary e Kai passeggiare per l’hotel, tanto
che, quando travolse l’amica, era talmente con il pensiero rivolto ad una certa
ragazza dai capelli scuri come la notte e dagli occhi verdi come smeraldi, che
non le chiese nemmeno scusa.
Trovare la camera della squadra non fu semplice: l’hotel
aveva le sue regole in merito alla privacy, e un’acida signorina alla reception
non volle proprio saperne di riferirgli l’informazione che tanto bramava di
sapere.
“Quando i clienti firmano la clausola per questo diritto
noi lo rispettiamo, signor Mizuhara!” stava strillacchiando, offesa. “Il nostro
è un hotel serio.”
Max si sentiva sui carboni ardenti: era stato senza vedere
Maryam ben nove settimane e quattro giorni, non sarebbe stata certo quella
donna a fermarlo. “Sì, sì, lei ha ragione, e… Può prendere la chiave della mia
stanza?” fece sbrigativamente; gli era venuta in mente un’idea: era vecchia,
vecchissima, ma funzionava sempre…
Ancora offesa, la signorina borbottò un cenno d’assenso e
si voltò per vedere in che stanza si trovasse lui e per cercare la chiave;
l’americano fu rapidissimo: prese il modulo e lesse Scudi Sacri, suite 20, quinto piano; dopodiché rimise il foglio al
suo posto, assumendo un’espressione angelica.
“Ecco qui.”
“La ringrazio.” prendendo ciò che gli porgeva sparì dalla
sua visuale, dirigendosi freneticamente verso gli ascensori: il quinto piano
gli parve anche fin troppo vasto e la suite posta fin troppo in là, per i suoi
gusti.
Quando si ritrovò davanti la porta, sentì una tachicardia
allucinante e dovette concentrarsi per bussare e ricordarsi le parole che le
avrebbe detto una volta che l’avrebbe avuta davanti.
Quando però si affacciò davanti a lui un Ozuma piuttosto
accigliato, come a chiedergli cosa volesse, capì subito che chi cercava non si
trovava lì.
“Maryam.” sussurrò, sospirando ed abbassando lo sguardo.
Il capo della squadra celtica incrociò le braccia al petto,
inarcando le sopracciglia. “Maryam non fa più parte della nostra squadra, è
stata sostituita.”
Spalancò occhi e bocca, sentendo il battito del cuore
arrivargli fin nelle orecchie: qualcosa non andava. “Che le è successo?”
Gli occhi di Ozuma erano impenetrabili. “Fisicamente nulla,
si trova al villaggio…”
“Dove? Dov’è?” nemmeno di era reso conto di stare alzando
la voce fino a quando un sorrisetto non si estese sulle labbra dell’Irlandese.
“Non spetta a me dirti alcunché, custode della tartaruga
nera… Ma vedo che il tuo interesse è serio; trovarla non ti sarà facile, dovrai
capire la differenza tra una persona che non si trova e una che non vuole farsi
trovare… Ma chissà che tu non ci riesca.”
Max spalancò occhi e bocca. “Ma che cosa..?!” e una porta
fu chiusa dritta sul suo naso.
Quando ricevette una manata sulla spalla sgranò gli occhi,
notando che si trattava di Hilary: nonostante fosse una ventina di centimetri
più bassa di lui, lo stava fissando con il fuoco negli occhi, le mani sui
fianchi e una determinazione tale da metterlo in crisi.
“Allora, hai ancora intenzione di fare così?” sputò fuori,
mettendo le braccia conserte.
Max aggrottò le sopracciglia. “Così come?”
“Maximilian Benjamin Mizuhara! Non ti riconosco più,
davvero! Passi qualche settimana, ma ora basta, stai superando ogni, ogni limite!” il biondo sgranò gli
occhi: in quel momento l’amica gli sembrava davvero sua madre.
“Capisco che tu sia innamorato, che tu non sappia cosa
fare, che lei ti manchi: capisco tutto,
ma riprenditi, figlio mio!”
L’americano sospirò, rimanendo a fissarla senza dire
alcunché: fu dopo qualche minuto che abbassò lo sguardo. “Gli Scudi Sacri sono
qui, gareggiano, ma lei… Non c’è.”
Hilary accavallò le gambe, sbuffando. “Hai chiesto di lei?”
Lui annuì. “Secondo te che vuol dire che… Devo capire la
differenza tra una persona che non si trova e una che non vuole farsi trovare?”
Hilary assunse un’espressione comicissima. “Che frase del
cazzo… Senti: rompi loro i coglioni fino a quando non potranno più vederti, fai
loro capire con chi hanno a che fare… Hai intenzione di arrenderti e di
rimanere qui come un vegetale o di andarti a prenderti le risposte che ti
spettano?”
Max sorrise: gli ci voleva proprio quella lavata di capo:
Hilary gli aveva saputo trasmettere un’energia non indifferente. “Ti voglio
bene.” le sussurrò, chinandosi a baciarle la guancia.
La bruna sorrise in maniera furbastra. “Dimmelo quando ti
muoverai.” fece, schiacciandogli l’occhiolino.
“Jesse!” il fratello di Maryam si voltò, curioso, verso di
lui, e Max riprese fiato: non incontrava qualcuno della squadra Irlandese da
giorni e quando, in quell’istante, aveva visto il fratello della ragazza di cui
era innamorato non aveva esitato un istante a richiamarlo ed a raggiungerlo.
Hilary aveva ragione: doveva prendere il toro per le corna
e doveva farlo subito: non c’era un solo istante da perdere.
“Dov’è Maryam?” l’altro lo fissò dritto negli occhi, quegli
occhi così simili a quelli di una certa ragazza, e Max si sentì pervadere dai
ricordi.
Jesse sospirò: era serio, terribilmente serio. “Ozuma mi
aveva detto che la stavi cercando, custode… Anche se non mi è chiaro il motivo,
posso vedere dai tuoi occhi che ci tieni a lei, è palese…” sospirò, scuotendo
la testa.
“Maryam non è più la stessa, ha passato e vissuto tante
cose, ormai è perduta. Per un villaggio come il mio è considerata una da cui
tenersi alla larga…” i pugni stretti, gli occhi colmi di dolore, Jesse parlava
con un tono di voce di chi ormai si è rassegnato all’evidenza. “Un miracolo la può salvare e credimi, la mia adorata
sorella è sempre tra le mie preghiere.”
Max era basito, si sentiva come se qualcuno avesse passato
un carro sopra la sua testa. “Ma… Ma cosa le è successo?”
L’altro stette in silenzio per molti secondi, evidentemente
preso dai flashback, poi fece per parlare, ma venne interrotto dal vocione di
Dunga che, nervoso, si intromise nel discorso. “Non vedo cosa ti possa
interessare!” sputò fuori. “Lascia stare Maryam, non la rivedrai mai più!”
Sentì una rabbia enorme scorrergli tra le vene, ma,
malgrado tutto, la trattenne. “E’ tutto da vedere.” sibilò. “Farò tutto ciò che
è in mio potere per ritrovarla.”
Dunga lo fissò con pietà. “Come no.”
In quell’istante non pensò: si giocò spontaneamente il
tutto per tutto. “Ti lanciò una sfida: se al prossimo round batterò uno di voi,
mi direte dove si trova il vostro villaggio.”
“Devi essere veramente innamorato, allora.” tutti si
voltarono alla voce di Ozuma, che veniva verso di loro con il viso neutro e le
braccia incrociate. “E sia: se vinci tu, vinci le coordinate… Ma se perdi,
perdi la tartaruga nera.”
“Ci sto.”
“Sei un pazzo!” Hilary saltò su come una molla,
improvvisamente accaldata: aveva un’inquietante voglia di nicotina, le cose
stavano improvvisamente prendendo una piega assurda per tutti…
Prima c’era Kai che le sequestrava i libri, poi Takao che
si metteva a non mangiare portandosi a letto chissà chi, e infine Max che si
giocava la tartaruga nera solo per ritrovare Maryam.
Entro la fine di
questo torneo io morirò, lo so…
“Avevi detto che mi dovevo muovere e mi sono mosso.”
replicò l’americano, calmissimo, continuando ad esercitarsi: aveva sbirciato sul
tabellone, e lo scontro tra la sua squadra e quella irlandese sarebbe stata
prevista per la settimana prossima, sempre se avesse battuto il team croato.
La bruna scosse la testa. “Se non altro vedi di esercitarti
e di battere gli Scudi Sacri: devo saperlo per dove devo prenotare un volo:
l’Irlanda ha aeroporti ovunque, mica solo a Dublino!”
“Caspita, Max, che grinta!” Emily gli batté il cinque,
sorridendogli. “Complimenti anche a te, Rick!”
“E a me?” Michael fece un sorriso a trentadue denti,
scostandosi il cappellino che la sua ragazza gli calcò sulla fronte prima di
baciarlo.
“Siamo riusciti a battere i croati, tra pochi giorni ci
scontreremo con gli irlandesi.” Max era serissimo. “Sarò chiaro: ho una sfida
con loro, non posso perdere; quindi avrò bisogno di tutto il vostro sostegno.”
Emily inarcò le sopracciglia. “Non fare cavolate.”
Lui sospirò. “Devo giocarmi il tutto per tutto.” il suo
sguardo era deciso.
I suoi compagni di squadra lo fissarono come se non
sapessero cosa dirgli, dopodiché Rick scrollò le spalle. “Si deve sempre fare
così, per le cose a cui si tiene davvero.” proferì, dopodiché si incamminò
verso la panchina.
Michael gli sorrise in maniera incoraggiante. “Tranquillo,
amico: vincerai e noi con te.” e con queste parole, si sentì subito meglio.
Dire che quel giorno era agitato sarebbe stato un
eufemismo: si sentiva talmente con i nervi a pezzi da non sentire nemmeno cosa
diceva la gente attorno a sé. Non ricordava di essere mai stato così nervoso
per un incontro, ma non ricordava nemmeno di essersi mai giocato sentimenti e
sport tutto in una volta sola come avrebbe fatto quella volta.
Rick stava combattendo contro Dunga, e tra quei due
bestioni era di certo una sfida assurda: Max non sentiva nemmeno le urla del
pubblico o le cose che Emily diceva a sua madre; era troppo, troppo nervoso.
Quando l’incontro si concluse in parità, avvertì una mano
gelata artigliargli le viscere: ora si che era nei casini. Tutto per un paio di
occhi verde smeraldo, ma… Il gioco valeva la candela, lo sentiva.
Si alzò ostentando uno sguardo deciso, mentre dall’altra
parte del campo scendeva Ozuma con dei lineamenti rilassati come se stesse
andando a fare una passeggiata.
DJ man li presentò e lui, mentre il presentatore parlava
mostrando il campo da gioco, dovette fare mente locale, trovando qualcosa che
lo aiutasse a concentrarsi. E lo trovò.
Dall’altro lato dello stadio c’era Hilary che reggeva un
cartellone con su scritto fammi prenotare
questi biglietti; non appena la vide, non poté fare a meno di sorridere: la
giapponese era una titana, un uragano, una vera amica, le doveva moltissimo.
E prenotiamo questi
biglietti…
Lanciò Draciel decisissimo: i due beyblade si scontrarono
senza esclusione di colpi, in un campo da gioco talvolta bucherellato, talvolta
in cui spuntavano dei chiodi.
Avendo un’ottima difesa, l’americano puntava principalmente
su essa, ma non quella volta: era tutto diverso, c’erano in ballo troppe cose
e, quando Draciel si ritrovò a bordo campo spinto dall’altro bey, Max non esitò
a dare ordine di sfruttare l’imminente arrivo di un chiodo come base lancio per
rientrare a centro campo, mossa che lasciò tutti a bocca aperta.
“Sei determinato, custode.” Ozuma cominciava ad essere
stanco. “Ma sei sicuro che ne valga la pena? Sei sicuro che lei voglia essere
ritrovata?”
L’americano serrò le mascelle. “Non rimpiango nulla di
quello che sto facendo, per Maryam farei anche di più!”
Vedendo quanto furore, quanta determinazione bruciava negli
occhi dell’altro, il capo degli Scudi Sacri corrucciò le sopracciglia. “Perché
vuoi trovarla?”
“Perché voglio sapere cosa c’è sotto la sua pelle, sotto quell’infinita
tristezza; perché voglio essere per lei quello che lei è per me. Perché la
amo.”
E fu così che con un solo, lungo, deciso colpo, Draciel
mise fuori combattimento l’altro bey, lanciandolo fuori campo.
Ozuma sorrise e, incurante di DJ man che proclamava il
vincitore, fece cenno al biondo di seguirlo nella parte più riparata dello
stadio.
“Hai meritato questa vittoria, sei una persona che cerca
con il cuore non solo con gli occhi. E per questo, chissà che non compierai un
miracolo…”
Max si incupì. “Ma posso sapere che cos’ha? E dove si
trova?”
“Dovrà dirtelo lei, se vorrà… Riguardo dove si trova…
Abbeyrath è un villaggio a duecento chilometri a nord da Sligo.”
Max annuì e fece per andarsene. “Grazie.”
“Aspetta: dì che ti abbiamo mandato noi o non sarai il
benvenuto; specie se chiederai di Maryam.”
“Bene, fantastico.” Hilary schioccò le labbra, sporgendosi
verso Emily. “Nel ventunesimo secolo esistono ancora villaggi simili? Bah.”
L’americana rise, armeggiando con il portatile. “Non dirlo
a Mao o potrebbe offendersi; oh ecco, il prossimo volo è domani.”
“Prenota.” fece sbrigativamente Max, finendo di preparare
una piccola valigia. “Biglietto di sola andata; poi ti richiamiamo per il
ritorno.”
“Già prenota.” fece eco Hilary, assumendo un’aria alquanto
pensierosa. “Che tempo fa in Irlanda? Più freddo di qui, vero?”
Max prese a fissarla interrogativamente. “Vieni pure tu?”
La bruna mise le mani sui fianchi. “Ovvio, dolcezza:
pensavi che avrei lasciato a te tutto il divertimento?”
“Che bella Dublino, peccato che sia praticamente dall’altra
parte dell’Irlanda…” sospirò Hilary, mettendo il broncio. “Lo so che non siamo
qui per un viaggio di piacere, ma questi posti mi ricordano il campionato in
cui Mao e Rei si sono finalmente messi insieme… A te no?”
Max le sorrise: lo sapeva che stava cercando di sollevargli
il morale e che tanto non serviva a nulla mettere il broncio e deprimersi –
avevano due ore di viaggio prima di raggiungere Abbeyrath – ma proprio non ce
la faceva.
Non pensava ad altri che a lei, a quello che le avrebbe detto, e ogni volta si faceva mille
flash diversi su come avrebbe affrontato la situazione per il semplice fatto
che non sapeva come affrontarla.
Avrebbe voluto stringerla a sé e baciarla, ma anche darle
un sonoro schiaffone e urlarle contro che mai nessuno, nessuno gli aveva fatto prendere così tanti grattacapi non sarebbe
stato poi tanto male.
“Ehi.” Hilary gli strinse la mano e gli sorrise dolcemente.
“Fa’ finta che io sia lei: sfogati.” fece, con uno sguardo deciso.
Max si voltò a fissarla: si trovavano sul bus che li
avrebbe condotti a Maugheramond, una piccola cittadina a nord di Sligo, a dieci
minuti dal villaggio degli Scudi Sacri, dopodiché avrebbero dovuto proseguire e
non sapevano come.
Già sull’aereo dalla California a New York e poi da New
York a Dublino – con conseguente treno da Dublino a Sligo – era stato un fascio
di nervi, per non parlare in quel frangente: si rendeva conto che mancavano
solo poche ore a rivederla e non sapeva quale sarebbe stata la sua reazione.
“Se mi sfogassi su di te fingendo che tu fossi lei…Non so
davvero se ti piglierei a sberle o se ti abbraccerei, Hil.”
La bruna sospirò. “Ti ha fatto male, lo so.”
Max si voltò a fissare l’immenso panorama irlandese: era
tutto un brulicare di piante, alberi, natura… Non per nulla chiamavano
l’Irlanda il diamante verde.
Come i suoi occhi…
“Vorrei solo dirle che è un’egoista. Una dannata egoista. E
che per lei ho fatto cose che mai, mai nella mia vita mi sarei sognato di
fare…” sospirò, e Hilary lo vide assumere un’espressione disperata.
“Guardami: ho mollato la mia fidanzata ufficiale, l’ho tradita, ho messo a rischio la mia
partecipazione all’ultimo campionato del mondo perché mia madre si è incazzata
come una iena… Ho messo a repentaglio la custodia del mio bit, preso due aerei,
un treno, due autobus… Tutto per una ragazza che con un sorriso è capace di
spalancarmi le porte sul paradiso e con la battutina successiva mi fa andare
dritto all’inferno!” sbottò, passandosi una mano tra i capelli.
“Che sfigato, eh?”
Hilary sorrise dolcemente, dopodiché scosse la testa. “No.
Sei innamorato; innamorato come mai lo eri stato. Maryam sarà pure una dannata
egoista – anche se non sappiamo perché si è comportata così – ma una cosa
gliela devo riconoscere: ha avuto il merito di prenderti per le spalle e di
farti maturare in una maniera incredibile.” annuì, convinta.
“Confronta il te stesso di sei mesi fa con il te stesso di
ora: sei un uomo. E, comunque vada,
lei ha comunque fatto di te un uomo.”
Fece una smorfia. “N-Non voglio pensarci a come andrà… Non
voglio proprio pensarci.”
Hilary sospirò, e con la testa si appoggiò alla sua spalla.
“Ti sosterrò in qualsiasi caso: ti voglio bene.” sussurrò, stringendogli la
mano. Max si rilassò all’istante,
concedendosi un breve pisolino.
I don't want this moment To ever end Where everything's nothing, without you I wait here forever just to, To see you smile Cause it's true I am
nothing without you
With me – Sum 41
*****************
Approdare ad Abbeyrath non fu
semplice: l’autobus li lasciò in una cittadina a dieci minuti da lì, e
dovettero pagare profumatamente un uomo per accompagnarli con un taxi alquanto
malconcio e provato, fino alle porte del villaggio celtico.
Hilary iniziò ad indossare una
tunica marrone sopra i vestiti occidentali che portava, e così fece Max, che
iniziava a sentirsi sempre più affaticato.
Abbeyrath era un villaggio che
pareva essersi fermato ai secoli precedenti: le donne giravano con tuniche
enormi e sformate, ma avevano sguardi profondi e vispi, e i bambini giocavano
per le strade con i beyblade. Gli uomini invece facevano mestieri come il
calzolaio, il fabbro, il vasaio… Lavori antichi, che a New York sarebbero stati
giudicati come sorpassati.
“Mi aspetto che da un momento
all’altro esca fuori Pocahontas.” sussurrò Hilary, camminando accanto a Max; si
sentiva addosso gli sguardi della gente e la cosa le dava parecchio fastidio,
ma era decisa a sopportare.
“Secondo te a chi dobbiamo
rivolgerci?”
L’Americano non aveva dubbi.
“All’autorità.”
La bruna sospirò. “E come
facciamo a trovarla?” le abitazioni, tutte modeste, parevano essere tutte le
stesse… Sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio.
Il biondo si diresse dritto
sparato verso un gruppo di ragazzini che giocavano a beyblade; vedendolo,
quelli lo fissarono curiosi ma non smisero. “Scusate, sapete dirmi dove si
trova il vostro capo villaggio?”
Un bambino riprese il suo bey
velocemente ed annuì, facendogli cenno di seguirlo. “E’ lì, l’ultima abitazione
in fondo… Ma dovrai avere un’ottima ragione per richiedere di vederlo,
straniero. L’anziano capo non è uno che vuole essere disturbato per cose
futili.”
Max annuì lentamente. “Ce l’ho;
grazie.” il bambino sorrise ed andò via, lasciando lui e Hilary da soli di
fronte la fatidica abitazione.
La bruna si morse le labbra.
“Okay, ci siamo: si entra?” gli pose una mano sulla spalla, cercando di
infondergli coraggio.Lui annuì deciso,
ed insieme entrarono.
Fu quando la porta si aprì in
maniera alquanto sinistra che entrambi sobbalzarono; si fissarono qualche
secondo, incerti, poi annuirono ed entrarono.
“Permesso?” Hilary si guardava
intorno, cercando di capire se vi fosse qualcuno. “Siamo qui per un motivo
abbastanza urgente, siamo arrivati dalla California…” sospirò; nell’abitazione
pareva non esserci nessuno; era semplicemente una stanza in penombra con un
tavolino e nient’altro.
Max si sedette accanto al
tavolino scrollando le spalle. “Io non mi schiodo.” fece, deciso. “Ho dovuto
affrontare quello che so io per approdare qui, e prima o poi il capo di
Abbeyrath mi riceverà.”
Hilary gli si sedette accanto.
“Okay, aspettiamo.”
Max la osservò appoggiarsi al
muro e alzare pazientemente gli occhi al cielo, iniziando a canticchiare una
delle canzoni degli U2, il suo gruppo preferito; l’americano la riconobbe: era walk on, una delle canzoni più famose,
ed era certo che quell’uragano della sua amica la stesse intonando come
messaggio subliminale per invitarlo a non cedere.
Le sorrise, e scambiandosi con le
uno sguardo d’intesa, cominciarono a cantare insieme, uniti da quel sentimento
d’amicizia che li aveva spinti ad attraversare mezzo mondo insieme.
“Grazie.” sussurrò, infine. “Chi
te l’ha fatto fare di venire qui? Sopportare tutte queste cose che, in fondo,
toccavano solo a me? Grazie Hila.”
La bruna assunse l’espressione di
chi la sapeva lunga. “Me l’ha fatto fare la consapevolezza che, senza di me, ti
saresti perso.” dopo averlo detto, scoppiò in una breve risatina. “Dai, Maxie,
ne verremo a capo.” annuì, convinta.
Il biondo sospirò, dopodiché si
voltò ancora verso di lei. “Kai non ha obbiettato quando gli hai annunciato che
saresti partita con me?”
Hilary rise al ricordo. “Nah! E
poi che doveva dire? Non so stare ferma e lui lo sa: o venivo qui con te o
studiavo, e tra le due ha preferito questa opzione.”
L’americano rise. “Lo farai
impazzire.”
“Ma se senza di me è praticamente
perso!” entrambi risero, arrivando a perdersi ciascuno nei propri pensieri e
facendo calare il silenzio più assoluto.
“Gli Scudi Sacri hanno detto che
dobbiamo dire che ci hanno mandato loro o saranno guai… Soprattutto se
chiederemo di lei.”
Hilary alzò lo sguardo, inarcando
le sopracciglia. “Che diamine avrà combinato Maryam è un mistero… Immagino non
lo sapremo fino a quando qualcuno non ce lo dirà.”
Max sospirò, fissando l’orologio.
“Intanto ormai siamo qui da un bel po’: dove sarà questo capo?”
La bruna scrollò le spalle in un
gesto del tutto rilassato. “Rilassati, dolcezza: non abbiamo niente da fare e
nemmeno un posto dove andare e, se proprio vuoi saperlo, a me tutto questo non
convince per nulla…”
L’americano corrucciò le
sopracciglia. “Cosa intendi dire?”
Hilary sorrise di un sorriso
furbastro. “La porta che si apre, il bimbo che fugge a gambe levate… E perché nella
casa dell’autorità più importante di tutto il villaggio non c’è anima viva
nemmeno a fargli da guardia?” fece, con le sopracciglia inarcate. “Nah, per me non solo ci stanno mettendo alla prova,
ma sapevano pure del nostro arrivo. E ti dirò di più: per ora ci stanno anche
spiando.” fece, sicura, mettendosi a gambe incrociate.
Max aveva i brividi. “Diamine, se
è come dici tu, dovrebbero assumerti all’FBI o alla CIA, altro che un banale
avvocato…”
La bruna sorrise, schiarendosi la
voce per poi parlare con un tono più alto. “Volevo solo dire alla persona
dietro quella porta che può scegliere se venire fuori ora o più tardi, per noi
va benissimo come vuole lei, siamo a sua disposizione! Vorremmo solo
risparmiare tempo, ma se preferisce noisiamo qui.”
Max la fissò con tanto d’occhi,
come a chiederle che stesse farneticando e vi furono trenta pieni secondi di
silenzio, dopodiché si sentì qualcosa scricchiolare e una porta che il biondo
non aveva notato fu aperta lentamente, rivelando un uomo anziano con indosso un
saio grigio e dei sandali dello stesso colore: pareva avere tante rughe quanti
i suoi anni, e lui pareva avere davvero tanti, tanti anni.
Il biondo fissò sconvolto prima
lui, poi la sua amica che aveva un sorriso soddisfatto, infine badò bene a ricomporsi,
anche se una vocina nella sua testa gli disse che non era ancora finita.
“Salve, lei deve essere il capo
villaggio: piacere di conoscerla.” Hilary si inchinò in un usanza prettamente
giapponese. “Mi chiamo Hilary, lui è Max e siamo arrivati dalla California, ci
hanno mandati gli Scudi Sacri e s-” s’interruppe all’improvviso. “Credo che
dovresti continuare tu.” fece, nella direzione del suo amico.
Lui la fissò sgranando gli occhi,
come fosse confuso, poi annuì lentamente.
Eccolo lì, il momento che aveva
atteso da un bel po’: chiedere della ragazza che lo stava tormentando, ma come?
Improvvisamente gli mancarono le parole e tutti i discorsi che aveva immaginato
di fare gli sembrarono banali e privi si senso.
Si basò semplicemente sulla
verità: sulla pura e semplice verità.
“Mi chiamo Max Mizuhara e… Sono
innamorato; forse a lei non interesserà, ma io la prego di ascoltarmi: c’è una
persona che ho rincontrato mesi fa che mi ha cambiato la vita; mi ha fatto
ammattire, dannare, mi ha mandato al manicomio e con il suo ultimo gesto – un
tentato suicidio – mi ha quasi fatto impazzire dal dolore per poi
improvvisamente sparire. Non sapevo dove si trovasse Abbeyrath e per convincere
gli Scudi Sacri a dirmelo ho dovuto sfidarli, mettendo in palio il mio bit
power, cosa che prima mai avrei
pensato di fare. Ora sono qui e… La prego, ho bisogno di trovarla.”
L’uomo aveva ascoltato in
silenzio, lasciandolo sfogare fino a quando l’americano non tacque
definitivamente; fu allora che mostrò un’espressione rilassata e portò le mani
al mento. “Come detto dalla signorina tutto fuoco qui accanto a te” Hilary
sorrise “Sapevo del vostro arrivo, custode della tartaruga nera; certe cose non
possono passare inosservate.” l’uomo sospirò, facendo una smorfia.
“Ad Abbeyrath sono sacre le
creature dei bit power così come i sentimenti puri come quello che provi,
giovane custode. Il tuo animo è mondo, si vede da tutto ciò che hai fatto per
tentare di raggiungere chi ami, da cosa hai messo in palio: a nessun blader
verrebbe mai in mente di giocarsi il proprio bit senza una ragione più che
specifica, e tu mi hai sorpreso, custode. Ma ho il dovere di avvisarti: chi
cerchi è considerata una perduta, una da cui tenersi alla larga… Ha infranto
troppe regole, scappando dal villaggio in pieno disonore per poi tornare mesi
fa con la coda tra le gambe.” lo fissò attentamente, serio. “Se vuoi farò
chiamare Maryam, la sorella di Jesse, ma sei ancora in tempo per ripensarci.”
Le parole dell’uomo colpirono
Hilary molto profondamente: aveva parlato al suo amico con rispetto, come se,
come custode, costituisse una figura importante, ma lei era sicura che il capo
avesse rispetto per lui soprattutto per come aveva affrontato le prove poste
fin’ora.
“Non ho bisogno di ripensarci.”
Max era serio. “Ho attraversato mezzo mondo per rivederla, voglio delle
risposte, ho il diritto di averle; non me ne andrò di qui fino a che non le
avrò parlato.”
L’uomo annuì lentamente. “E sia.”
dopodiché sparì dietro la porta da cui era arrivato.
Hilary si alzò in piedi a
guardare l’amico, sfoderando un sorriso. “Sono orgogliosa di te, sul serio.”
Fece, abbracciandolo brevemente.
“Sai che a due passi da questo
villaggio c’è una cittadina che si avvicina di più al nostro secolo?” fece,
cambiando completamente discorso.
Lui aggrottò la fronte. “Che
c’entra, adesso?”
Lei rise. “Vado a prenotare una
stanzetta in un bed and breakfast.” gli scoccò un bacio sulla guancia. “E’
tempo che tu rimanga da solo, Maxie. Io non c’entro più.”
Quando all’età di sedici anni suo
figlio aveva annunciato di star frequentando Emily Watson, la sua pupilla,
Judith Mizuhara era stata a dir poco entusiasta: le era parso di essere tornata
ragazzina a quando, proprio all’età di sedici anni, aveva conosciuto Taro, suo
marito.
Dare la sua approvazione era
stato qualcosa di spontaneo: era convinta che per suo figlio –che lei adorava! – ci volesse una ragazza
come Emily: testa sulle spalle, inquadrata, intelligente, assennata, che lo
indirizzasse sulla retta via… Insomma, a suo parere quei due, insieme, erano
più che perfetti!
Quando invece, dopo una vacanza a
Tokyo, Emily era tornata a New York in lacrime, annunciando la rottura, Judy
l’aveva presa come un capriccio di suo figlio e, anche contro il parere di suo
marito, le aveva provate tutte: telefonate, lettere, e-mail, ricatti,
imprecazioni… Ma nulla era servito: Max, a quanto si diceva, si era
perdutamente innamorato di un’altra – anche se chi fosse costituiva un mistero!
– e quando, dopo qualche settimana, Emily era stata prontamente consolata da
Michael, allora Judy aveva definitivamente perso le speranze, tanto più che la
sua pupilla aveva parlato a favore dell’ex e di riammetterlo in squadra.
In quei giorni di campionato,
però, era in pensiero: non vedeva suo figlio da un po’, ed Emily pareva
pensierosa, quasi aspettasse qualcosa…
“Tra tre giorni ci sarà lo
scontro con i Bahiuzu” cominciò la dottoressa, mostrando lo schieramento.
“Pensavo di agire in questa maniera: Rick contro Lai, Max contro Rei, tu,
Emily, sarai contro Mao e infine-
La ragazza la interruppe, sulle
spine. “Dottoressa, riguardo suo figlio, mi sa che dovremmo schierare la
riserva.” fece, mordendosi le labbra.
Judy le rivolse uno sguardo
confuso. “Perché? Cos’ha?”
“Fisicamente niente.” cominciò,
sgranando gli occhi, quasi non sapesse come dirlo. “Il fatto è… Che… E’ in
Irlanda.”
Fu allora che Judith Mizuhara
esplose definitivamente. “Che cosa?!”
Stette diversi minuti da solo
nell’abitazione del capo villaggio, non sapendo che fare e nemmeno se si
fossero dimenticati di lui, fino a quando non fu una donna ad entrare e a
comunicargli, in un inglese un po’ raffazzonato, che doveva seguirla.
Lo condusse in un’altra
abitazione, più distante ma luminosa, e quando vide un paio di occhi verdi che
conosceva bene, sentì il proprio cuore implodere.
“Tu!” Maryam, da seduta, scattò
in piedi, come un belva feroce. “Che ci fai, tu qui?”
“Placa il tuo furore.” con queste
semplici parole il capo villaggio sembrò mettere fine alla tempra della
ragazza, che si sedette pur continuando a fissare l’americano come se volesse
ucciderlo.
Max non riusciva a staccarle gli
occhi di dosso: lunghi capelli neri come il cielo nella notte, gli occhi verdi
che parevano solo due macchie di colore sul viso cinereo, il corpo ancora più
magro e sottile dell’ultima volta… La ragazza era il fantasma di se stessa.
“Custode” l’anziano con un gesto
lo invitò ad accomodarsi. “Ecco, come da te richiesto, la ragazza. Ti auguro di
ricevere le risposte che hai a lungo bramato.” e, con un cenno, sparì.
Max si voltò verso di lei
studiando la sua espressione: pareva sulle spine, come se volesse trovarsi
dappertutto tranne che lì e cercasse in qualche modo una via di fuga… Ma per
quanto la cercasse non riuscisse a trovarla.
“Ciao.” disse infine piano e la
voce gli uscì incerta, straordinariamente insicura. “Come stai?” strano come
avesse immaginato da mesi quel momento e gli fossero uscite frasi di una
banalità assurda.
Maryam lo trucidò con lo sguardo.
“Non sono fatti tuoi.” sibilò, velenosa come un serpente. “Che ci fai, qui? Che
vuoi?” ringhiò, alzandosi e fissandolo come se fosse il peggior essere umano
sulla faccia del pianeta.
Max cercò di mantenere la calma.
“Risposte.” fece, serrando le mascelle. “Come stanno i tagli sul braccio?”
senza volerlo, senza averlo premeditato, aveva usato un tono ironico che la
fece innervosire, e parecchio.
“Non sono fatti tuoi, e ora
tornatene da dove sei venuto!” Maryam glielo urlò contro con una rabbia e
un’impetuosità tale che ebbero il potere di fargli fare crack.
Un crack brutale al suo
autocontrollo.
Max esplose, ed esplose definitivamente, riversandole contro –
meritatamente – tutto lo stress, tutta la rabbia che aveva dentro e di cui lei
era responsabile.
“Sono fatti miei, invece!” urlò e man mano che lo faceva, sentiva la
rabbia crescere e diminuire allo stesso tempo. “Hai idea di quello che ho
passato? Di quello che mi hai fatto passare?! Prima di te avevo delle certezze,
dannazione, sei passata come un uragano nella mia vita… Mi hai sconvolto, hai abbattuto
tutte le mie regole! Mi hai portato a tradire la mia fidanzata, a mettere in
forse il mio posto in squadra, ad avere una crisi di identità, a mettere a
repentaglio la custodia del mio bit… Ho preso due aerei, un treno, due bus… E
un dannato taxi che mi è costato una fortuna, accidenti! Tutto per venire qui,
per vedere come stai, per vedere se sei viva, per dirti che sei una grandissima
stronza, un’egoista, che quanto ti penso vorrei tanto non averti mai
incontrato, che sei una dannata infantile, una viziata…” la sua voce si spense
all’improvviso, e serrò le mascelle.
“E che ti amo, ti amo disperatamente.”
concluse, stringendo i pugni. “Non provi nulla per me, lo so, è chiaro; ma
almeno vorrei sapere il perché del tuo comportamento di quest’estate.”
Maryam era rimasta di sasso:
immobile, con il fiato corto, pareva aver appena assistito a qualcosa di
assurdo, di inconcepibile.
E fu ad un tratto che, con una
smorfia che le deformò il viso, fece un passo indietro, assumendo un’aria
spaventata, quasi terrorizzata. “Va’ via…” sussurrò, e se non fosse stato per
il labiale, il ragazzo non avrebbe capito minimamente cosa aveva appena detto.
“Va’ via!” urlò, con un tono e degli occhi che tradivano una misteriosa
disperazione.
Lui si sentì spezzare in due di netto
con sole quelle parole: il fiato corto, gli occhi ridotti a due fessure…
Max strinse i pugni, ricordandosi
a malapena come si stava in piedi. “Nessuno.” sibilò. “Nessuno mi ha mai ferito
e fatto tanto male quanto te, ora.” la guardò un’ultima volta alzando lo
sguardo con rabbia. “Ti auguro felicità e salute.” ringhiò, andandosene.
Ma sapeva più di vaffanculo, quello.
Mao cercò di stiracchiarsi come
meglio poté: quel giorno avrebbe gareggiato per terza e voleva essere al
massimo delle sue forze; voleva dimostrare che era una blader più che forte.
Lai stava combattendo contro Rick
in un incontro molto avvincente e anche se entrambi gli avversari stavano
dimostrando segni di stanchezza per una gara che si protraeva da oltre
mezz’ora, la cinese non riuscì a trattenere un sorriso: suo fratello era
migliorato tantissimo negli ultimi anni, e sicuramente il fatto che quello
sarebbe stato l’ultimo campionato del mondo a cui avrebbero partecipato giocava
il suo ruolo come fattore psicologico.
“Pronto per l’incontro?” la
ragazza si avvicinò a Rei, che fissava il suo amico disputare la gara.
Il ragazzo dagli occhi color
caramello le sorrise dolcemente, e si ritrovò ad annuire. “Sono sicuro che
hanno schierato Max per il prossimo turno e la cosa è una scarica di pura
adrenalina: sono certo che entrambi daremo il meglio di noi stessi per quello
che sarà l’ultimo incontro ufficiale tra noi.”
Mao annuì, facendo scivolare
dolcemente le sue dita tra quelle di lui. “Buona fortuna.” Rei la fissò
intensamente negli occhi, e si sorrisero, complici, intrecciando maggiormente
la mano.
Quando diversi minuti più tardi
DJ man annunciò la vittoria della squadra americana per pochi secondi di
vantaggio, Rei si affrettò a scendere in campo carico di adrenalina,
aspettandosi di vedere da un momento all’altro il suo amico americano scendere
dall’altra parte del campo.
Quando però vide Eddy, la riserva
dei PPB All Starz prepararsi a combattere, sgranò gli occhi preso in
contropiede: dove diamine era Max? Perché avevano schierato la riserva?
“Attenzione! Per la squadra
americana è stato effettuato un cambio!” annunciò il presentatore. “Eddy al
posto di Max!” l’annuncio generò un brusio non indifferente. “Che la sfida
inizi!”
Mao corrucciò la fronte,
chiedendosi se la misteriosa scomparsa di Max non avesse a che fare con la
scomparsa di Hilary, ma una cosa era certa: prima o poi si sarebbe saputo.
Hilary sobbalzò bruscamente
quando Max entrò nella stanza del Bed and Breakfast come una furia, sbattendo
la porta così forte da farla sobbalzare: il suo viso era una maschera di
rabbia, non l’aveva mai visto così adirato… E quello poteva voler dire solo una
cosa: l’incontro con Maryam non era andato esattamente come previsto.
“Si parte.” annunciò bruscamente,
prendendo la valigia. “Chiama Emily e dille di prenotare dei biglietti per il
ritorno.” sedendosi sul letto, fissò davanti a sé come se negli occhi avesse
incorporato un fucile o una mitragliatrice.
Hilary richiuse Le onde di Virginia Woolf e gli andò
accanto. “Per ora a San Diego stanno disputando degli incontri, Emily non ti
risponderebbe.”
“Allora mandale un sms, così dopo
lo legge.” ribatté, buttandosi sul letto a fissare il soffitto.
La bruna schioccò le labbra.
“Come vuoi.” rispose, fingendo di armeggiare con il cellulare. “Okay, fatto.”
si stese accanto a lui nella sua stessa posizione e per diversi minuti nessuno
dei due disse alcunché.
“Voi donne siete proprio
stronze.” buttò lì, poi, sbuffando.
“Stronzissime.” confermò la
giapponese, annuendo, convinta.
“Non vi si capisce.” continuò,
nello stesso tono.
“No, no.” confermò lei, dandogli
corda.
“E siete cattive.”
“Molto, moltissimo.”
“E subdole. E manipolatrici. E
bastarde. E infami. E delle streghe. E…” la voce gli morì in gola,
spezzandoglisi all’improvviso; si alzò, mettendosi semi seduto, con lei che lo
guardava, ma non riusciva a ricambiare lo sguardo.
“Max.” Hilary parlò piano.
“Basta.”
Fu a quel punto che, quando la
bruna spalancò le braccia, lui vi si gettò come fossero un’ancora di salvezza,
appoggiandosi alle spalle di lei come se non avesse quasi bisogno di altro.
Restarono in quella posizione per
diverso tempo, fino a quando non fu lui stesso a raccontarle che cosa era
avvenuto poche ore prima.
Hilary sospirò irritata,
ascoltando il racconto dell’amico: non sapeva come mai quella ragazza si stesse
comportando in quella maniera, sapeva solo che era ora di andarci a fare una
bella chiacchieratina.
Da donna a donna.
Maryam fece cadere la cenere
della sigaretta, incurante degli sguardi ironici o stizziti di quelli che
dovevano essere i suoi compaesani.
Detestava Abbeyrath; detestava
l’Irlanda; detestava quella gente.
Aspirò una lunga boccata,
tentando di estraniarsi dalla realtà, come al solito.
Se vi erano degli dei, quei
preziosi dei in cui credeva la gente del villaggio, allora dovevano averla
maledetta dalla nascita, prendendola misteriosamente in antipatia. Perché non
era possibile che una persona dovesse soffrire così tanto da sentir dilaniare
il proprio cuore come fosse stato sbranato.
“Non era così difficile trovarti,
alla fine.”alzò gli occhi di scatto e corrucciò la fronte, trovandosi davanti
una ragazza bruna che le ricordava qualcuno: braccia incrociate, sguardo
penetrante, sembrava avercela proprio con lei.
Non era del villaggio, eppure era
sicura di averla già vista da qualche parte: ma dove?
“Chi sei?” sibilò, non smettendo
di stringere tra le dita la sua sigaretta e, anzi, portandosela alla
bocca.“Che vuoi?”
La ragazza scrollò le spalle con
aria incurante, poi si sedette proprio accanto a lei, sotto il suo sguardo
attonito: ma che faceva? Nessuno lì le si avvicinava per più di tre metri!
Ormai era considerata quella da cui stare alla larga!
Lei invece non solo si sedette
accanto a lei come nulla fosse, ma tirò pure fuori una sigaretta, che si accese
sotto i suoi occhi curiosi e attenti.
“Ti dispiace?” fece “Ti faccio
compagnia.” spiegò, con una scrollata di spalle.
Maryam la osservò, attenta, come
un lupo osserva la sua preda. “Che vuoi?” ripeté, gelida.
La bruna si voltò verso di lei,
buttando fuori il fumo dalla bocca, poi le sorrise. “Ti ricordi di me? Ci siamo
viste un paio di anni fa: mi chiamo Hilary Tachibana, sono la mascotte dei
Blade Breakers.” le stava sorridendo in una maniera del tutto genuina e spontanea,
ma l’irlandese non riuscì a ricambiare il sorriso.
“Sei con lui.” disse soltanto
irrigidendosi e i suoi occhi verdi stonarono con i suoi lineamenti duri: erano
tristi, pieni di dolore.
“Sì.” lei annuì, facendo cadere
la cenere dalla sigaretta ed aspirandone un’altra boccata. “Conosco Max da anni,
e ti posso confermare che è il ragazzo più leale, dolce, divertente, buffo e
buono che io abbia mai conosciuto. Questi mesi, per lui, sono stati-”
“Se lo conosci tanto bene mi
domando perché non ti ci sia fidanzata tu!” sputò fuori Maryam. “Anzi no,
magari state già insieme, visto che aveva già una ragazza quando ci vedevamo
non credo si sia fatto scrupoli a-” un forte bruciore alla guancia fermò la sua
cattiveria; la mano di Hilary l’aveva colpita così forte da farle voltare la
testa dall’altra parte.
“Non ti permettere.” ringhiò la
giapponese. “Max è la persona più buona che io conosca, nonché la più leale: non avrebbe mai, mai tradito Emily. Se lo ha fatto è
perché sei entrata nella sua vita come un ciclone, spazzando via ogni sua
certezza e lasciando solo il fortissimo sentimento che prova per te, che lo ha
spinto a commettere follie!” esclamò,
piena di pathos. “Se tu non provi nulla per lui, okay; ma è davvero scorretto
il modo in cui ti stai comportando!”
Si fronteggiarono per qualche
istante, occhi negli occhi, entrambe con delle espressioni dure e pronte a non
mollare, fino a quando non fu Maryam a portarsi una mano alla bocca e a
scoppiare a piangere, lasciando l’altra attonita.
Non sapeva che fare, aveva la
sensazione che quella non fosse la classica ragazza che piangeva ogni due per tre,
poi il fatto che non fossero in confidenza non l’aiutava molto…
Sospirò leggermente, sedendosi ed
invitandola dolcemente a fare lo stesso: aveva la netta sensazione che quella
ragazza avesse bisogno di un po’ di dolcezza, oltre che di una buona amica…
“Sai” cominciò, schiarendosi la
voce “Mi ricordi un po’ il mio ragazzo: lui è così duro, arcigno, non si sfoga
facilmente, e io gli ricordo sempre che uno, a tenersi tutto dentro, alla lunga
esplode. Non siamo macchine, siamo essere umani che abbiamo bisogno l’uno
dell’altro.” le sorrise, porgendole un fazzoletto. “Il mio fidanzato lo chiamo
Brontolo… Peccato che al femminile non suoni bene, ma Brontola non ti starebbe
male…” la vide accennare un sorriso, ed esultò interiormente.
“So che c’è di sicuro una
spiegazione per il tuo comportamento e non ti chiedo di dirmela, ti chiedo
semplicemente di andare da Max ed essere onesta con lui. Direi che se lo
merita; o no?”
A sentire il suo nome, gli occhi
dell’altra si riempirono nuovamente di lacrime, e nascose il viso nel
fazzoletto. “Maryam?”
“N-Non posso… Non riesco…”
singhiozzò.
Hilary sospirò e capì ciò di cui
l’irlandese aveva bisogno: essere confortata; la abbracciò, stringendola a sé.
All’iniziò la sentì irrigidirsi, per poi sciogliersi definitivamente.
“Qualunque cosa sia, non ci sono cose che non si possono risolvere.”
Maryam si sciolse dall’abbraccio
e la fissò con occhi imploranti. “Questa è impossibile…”
Hilary corrucciò le sopracciglia.
“Se posso darti un consiglio sono a tua disposizione.” fece, ostentando un
sorriso.
L’altra la fissò come se non
sapesse che fare, dopodiché cominciò a raccontare, perdendosi nei flashback e
nei ricordi dolorosi; la giapponese – che talvolta per parlare era davvero la
numero uno – si rivelò essere un’ottima ascoltatrice e fu pronta ad
abbracciarla quando vi furono nuove lacrime.
Quando la mora finì di parlare,
Hilary si morse le labbra in agitazione: la situazione era spinosa, era
difficile, era complicata, ma doveva esserci una soluzione…
“Non perdiamo la testa.” fece,
come a voler convincere prima se stessa. “Innanzitutto sono assolutamente
sicura del fatto che devi parlare con Max a
prescindere.” fece, decisa.
Maryam strinse le labbra. “Tranne
dell’ultima parte.”
Hilary fece tanto d’occhi. “Soprattutto dell’ultima parte!”
“Non voglio… Condannarlo, o che lui lo faccia perché costretto!” si ribellò lei.
“Non è giusto, non lo permetterò!”
La giapponese le prese le mani tra
le sue come a volerla calmare. “Ehi: lui ti
ama, per te ha sopportato l’inferno.
Sono sicura che questa, a confronto, sia una bazzecola.”
Maryam si morse le labbra. “Forse
hai ragione…” non era ancora tanto convinta, però.
In un’altra condizione, Max
avrebbe notato delle piccole cose: tipo che Hilary gli aveva detto che usciva
per andare a bere un caffè ed invece era fuori da più di due ore, oppure che il
fantomatico sms che l’amica aveva inviato ad Emily non aveva ricevuto alcuna
risposta.
Il perché non lo notava, era
tutto racchiuso nella spiegazione di una bella ragazza dagli occhi verdi e i
capelli neri.
Steso sul letto a pancia in su,
Max non riusciva a smettere di pensarci: non ricordava di essersi mai sentito
così; un insieme di sensazioni che avrebbe tanto voluto cancellare o stapparsi
di dosso per non provare tutto quello.
La porta si aprì lentamente:
Hilary era arrivata.
Sospirò; non dovevano fare altro
che attendere i biglietti di ritorno, dopodiché tutto quello che voleva era
lasciare per sempre l’Irlanda.
Per quanto lo riguardava doveva
sparire dalla cartina, da qualsiasi mappamondo avrebbe avuto davanti in futuro.
Non voleva mai più sentirla nominare.
“Iniziamo a preparare le
valigie?” fece, alzandosi dal letto. “Tanto credo sia questione di ore…” fece,
sospirando e voltandosi verso la sua amica.
Restò basito: davanti a lui non
c’era affatto Hilary, ma una ragazza un po’ più alta della bruna, dai capelli
più scuri e gli occhi più chiari; colei che era diventata il suo sogno e il suo
incubo: Maryam.
Non seppe spiccicare parola, troppo sorpreso per dire alcunché… Fu un miracolo
se riuscì a sbattere gli occhi.
“Ah, è questione di ore, eh?” la
voce della ragazza era tagliente come al solito; la vide mettere le braccia
conserte, ostentare un’espressione arcigna. “Tipico dei maschi: tutti uguali. Vi fanno con lo stampino,
cazzo! Siete come delle case: possono cambiare i pilastri, il tetto, i
mattoni…Ma la base, oh, quella è sempre fottutamente
uguale!” fece, rabbiosa, avvicinandosi minacciosamente a lui. “Fate gli
stronzi voi e va tutto bene, voi siete autorizzati
a fare i bastardi! Noi dobbiamo stare a guardare! Vi facciamo ballare un po’
noi… E siamo delle poco di buono!”
Max strinse i pugni. “Non puoi
dire esattamente che mi hai fatto ballare
un po’ quando con te ho visto i sorci verdi, e lo sai!”
“Beh, mi chiedo chi te lo ha
chiesto di restare, avresti semplicemente potuto mandarmi a quel paese!”
“Idiota io che non l’ho fatto!”
sbraitò, digrignando i denti. “Ma non preoccuparti, mi rifaccio subito!”
“Touché!” ribatté, ironica, per
poi girare sui tacchi ed andare verso la porta; Max strinse i denti, voltandosi
e serrando i pugni, ma quando sentì i passi di lei fermarsi, fu un attimo: i
loro sguardi si incrociarono e da rabbiosi divennero profondamente famelici,
quasi affamati.
Con poche falcate si raggiunsero,
finendo l’una tra le braccia dell’altro… E il bacio che ne scaturì fu pieno di
passione repressa, contenne tutti quei mesi di mancanza che avevano dovuto
passare l’uno lontano dall’altra… E il tempo, in quella stanza, divenne nullo.
Hilary vide Maryam entrare nella
stanza e chiudersi la porta alle spalle, poi sospirò, incrociando le dita:
sperava davvero che tutto si fosse risolto nell’arco di quei minuti… Prese
Ragione e Sentimento, cercando una poltrona, nella hall del Bed and Breakfast
per iniziare a leggere, ma sobbalzò quando avvertì la vibrazione del suo
cellulare e si illuminò tutta. Era Kai.
Certo che tu per farti
sentire…
Scoppiò a ridere… In quei giorni
aveva spesso pensato a Kai, ma a causa di tutte le cose che erano successe non
aveva minimamente avuto tempo nemmeno per una telefonata.
Perché, ti manco, Brontolo?
L’sms seguente fu più eloquente
di mille parole: …
Esultò, cominciando con il suo
sport preferito: prenderlo in giro; era qualcosa che le veniva naturale come
respirare.
Eddai, cuore di panna, non ti
abbattere: torno presto! *_*
NON
mi chiamare cuore di panna!
Hilary ridacchiò, ma smise quando
sentì delle urla al piano di sopra: era il caso di intervenire?
Allora chiamo così l’Irlandese
figo che ho conosciuto: sai che ha i capelli rossi e gli occhi azzurri? *.*
Come Ron Weasley!
Io ce li ho viola…
Ma chi se ne frega! Lui ha i
capelli rossi! ROSSI! Massì, credo che ci farò un pensierino.
E io?
Hilary ci pensò un po’ su: Tu
mi servi per il sesso, chiaro.
Per un lasso di tempo pari a due
o tre minuti non ricevette risposta ma quando l’sms arrivò e lo aprì, restò
senza fiato: Mi manchi, Hilary…
Quando dal piano di sopra
provenne un gemito lungo e alquanto inequivocabile, la bruna inorridì,
schifata: balzò in piedi, scattando verso la stanza della padrona del Bed and
Breakfast.
“Signora, vorrei andare nella
libreria della città, non è che mi sa dire dov’è?” quella estrasse la cartina,
ma Hilary scosse violentemente la testa. “No, la prego, sono negata con
l’orientamento: sia buona, mi ci accompagni.” Quella esitò un momento, poi
annuì, sospirando.
E con questo mi devi un favore gigantesco, Max…
Come stordito, l’americano cercò
di reprimere il sentimento di inquietudine che minacciava di farsi strada in lui:
teneva Maryam tra le braccia, era lì con lui, ma per quanto sarebbe durato?
Le accarezzò la schiena
lentamente, sentendola rabbrividire, e gli venne spontaneo baciarle il collo e
le spalle.
Se avesse
potuto, avrebbe voluto non pensare, ma non ne era capace: in quel momento nella
sua mente i pensieri si stavano mescolando come tornadi, trafiggendo la sua
tranquillità come proiettili.
Non osava più chiedere nulla,
sapeva che non gli sarebbe stata data risposta, così come sapeva che quella
ragazza, bella come una fata che lo aveva stregato in un solo istante quella
sera al pub, non sarebbe mai stata sua.
La sentì sospirare e girarsi: per
un momento si irrigidì, pronto a vederla rivestirsi e a fuggire via, come
sempre.
Invece si voltò verso di lui,
abbracciandosi le ginocchia. “Hilary dice che ti devo parlare.” cominciò,
mordendosi le labbra. “Ma non so quanto sia giusto.” fece, con un filo di voce.
“Ormai ho perso la concezione di giusto e sbagliato, di ciò che mi spetta e di
cosa no.”
Max sbatté gli occhi. “Q-Quando
hai parlato con Hilary?”
Lei sospirò. “E’ stata lei a
venirmi a cercare, a convincermi.” sorrise leggermente. “E’ un’ottima amica, ti
adora.” lui annuì. “Sostiene che debba dirti tutto, ma…” strinse le labbra,
iniziando a tremare. “Non è giusto, la soluzione non è giusta in entrambi i
casi!” sbottò, livida.
Max le pose una mano sulla
spalla. “Ehi. Fa’ giudicare a me.” fece, piano.
La ragazza cercò di regolarizzare
il respiro, e guardò fisso davanti a sé. “Detesto Abbeyrath.” disse poi,
mordendosi le labbra. “E’ un villaggio antico, retrogrado, ha regole assurde…
Tre anni fa venne un viaggiatore, un pittore francese. Io avevo appena sedici
anni, tutti dicevano che ne dimostravo di più e che ero la più bella del
villaggio.
Lui di anni ne aveva ventidue, di
sicuro sapeva come andava il mondo… E anche come adescare stupide ragazzine
convinte che tutti fossero innamorati di loro.” fece, ironica e sarcastica.
“Mi corteggiò per mesi, fino a
quando non cedetti, euforica per questo primo amore. Ma ad Abbeyrath non è
ammesso che la gente del villaggio sia fidanzata con gente straniera senza
essere sposata; ma io, da ribelle quale sono, me ne fregavo altamente; lo
incontravo di nascosto, certa che sarebbe stata questione di tempo e che
avremmo presto a viaggiare insieme.” fece una risata sardonica.
“Quando gli annunciai di
aspettare un bambino, cominciò ad urlare.” ricordò, la voce spezzata. “Disse
che poteva pure non essere suo, che non sapeva cosa farsene…” chiuse gli occhi
e quando li riaprì in quel verde bruciò tutto il dolore del mondo. “Scappai da
qui: nel villaggio una ragazza madre è una vergogna per se stessa e per la sua
famiglia, e io volevo soltanto ricominciare. Andai a Dublino, cominciai a
lavorare, ma lo stipendio non riusciva a pagare l’affitto…” si morse le labbra,
tremando. “A volte ho persino dovuto rubare
per mangiare, e alla fine il padrone di casa mi sbatté pure fuori.” fece,
passandosi una mano tra i capelli.
“Partorii con un anticipo di
quattro mesi; Meg era così piccola…” Soffiò, persa nel ricordo. “Non ce la
fece, la mia piccolina non ce la fece… E pensare che io ero pronta a spostare
le montagne per lei…” si coprì gli occhi con le mani e un singhiozzo le
fuoriuscì dalle labbra.
Max era sconvolto da quel
racconto; miliardi di flashback riguardanti gli ultimi mesi presero a
tempestargli la mente: ora molte cose si spiegavano; la sua infinita tristezza,
quando gli aveva chiesto del suicidio... Il tentato suicidio stesso.
“Fuggii da lì in preda alla
disperazione e viaggiai tantissimo: Oslo, Parigi, Monaco… In un anno girai
mezza Europa, per approdare in America e poi in Giappone senza nemmeno sapere
perché. Volevo vedere gente e al contempo star da sola, volevo non pensare,
volevo essere nei panni di gente diversa… Cambiare sempre mise mi faceva stare
bene, smettere di essere Maryam, la ragazza che proveniva da uno stupido
villaggio dell’Irlanda, era qualcosa di inebriante, anche se solo per qualche
ora. ” fece, mordendosi le labbra.
“Subito dopo l’ospedale, però,
fuggii a Kyoto, e fu per caso che ritrovai mio fratello. Jesse mi supplicò di
tornare qui, mi disse che ci avrebbe pensato lui a me, che avevo bisogno di
riposo… E accettai.” concluse, con un filo di voce.
Sospirò, passandosi lentamente
una mano tra i capelli e si morse le labbra tremando, come se quello che
dovesse dire fosse ancora più difficile. “Quando ti ho incontrato” proseguì
“Era solo qualcosa per non pensare a me; qualche ora di estraniamento da me
stessa che mi regalavi. E invece… Con la tua dolcezza, le tue attenzioni… Più
ti mostravi premuroso, più mi innamoravo di te, e non potevo sopportarlo.” si
prese la testa tra le mani, cercando di frenare il suo tremore. “Il mio cuore
non può essere spezzato un’altra volta, non
deve…”
Con gli occhi sgranati, fu come
librarsi in aria all’improvviso: e subito, tutto quel peso che lo aveva
oppresso sparì magicamente dal petto, conferendogli la più pura felicità.
“Maryam.” soffiò, facendole alzare lo sguardo. “T-Tu?” lei sbuffò, e annuì come
se ammettesse una scomoda verità, il che lo fece ridacchiare e, subito dopo,
baciarla fino a farle mancare il respiro.
“Cosa ho fatto per te non l’ho
fatto per nessun’altra persona al mondo… Quanto mi sei mancata in questi mesi…
Dio, non ci voglio pensare: il fatto è che non voglio che tu mi debba più
mancare, ti voglio vicino a me, voglio dividere la mia vita con te…” lei inarcò
le sopracciglia. “Vorrai sposarmi, in futuro?”
“Hai sempre queste sparate
assurde?” replicò divertita lei, vedendo che le aveva preso la mano sinistra.
“No.” rispose, con un sorriso
enorme sul volto. “Sei tu che mi fai questo effetto. Ma io dico che è così: se
è la persona giusta lo sai, lo senti. Guarda me: ti sono venuto a prendere
all’altro capo del mondo, ora figurati se ti mollo!”
Maryam scoppio a ridere. “Sei
completamente pazzo!”
“Però ti piace, eh?”
Lei scrollò le spalle. “Non ci si
annoia.”
“Ma non mi hai risposto.”
puntualizzò.
“Max, è una questione complicata:
sono destinata a restare in questo villaggio per sempre. O ci si sposa tra
compaesani, o ci si sposa e si va via. Non si può lasciare il villaggio da
nubili, tranne che per missioni ordinate direttamente dal capo.”
Lui si morse le labbra, poi
ostentò un sorriso. “E che problema c’è?”
Julia, Mao, Emily, Mathilda e
Karen ascoltarono Hilary che concluse il racconto in modo magistrale: lei, Max
e Maryam erano tornati dall’Irlanda il giorno prima e, subito dopo aver
riposato, gli amici avevano subito voluto sapere cosa c’era stato dietro tutto
quel mistero durato mesi e mesi.
Takao sgranò gli occhi. “Cioè…Sul
serio eri pronto a sposarla?!”
Max scrollò le spalle, come fosse
stato del tutto normale. “Sì, perché?”
“Sei un pazzo.” replicò il giapponese, scuotendo la testa e beccandosi
un’occhiataccia da parte di Karen, che fu bene attenta a non farsi vedere da
nessuno.
“Meno male che c’era Hilary.”
Maryam sospirò, rilassata. “Se non avesse ricordato lei a questo testone
avventato che carica ricopre, avrebbe commesso una follia.”
La bruna ridacchiò. “Come uno dei
custodi, Max ricopre una carica importante per il villaggio di Abbeyrath, non è
mica il primo che passa! Così, quando siamo andati dal capo villaggio, ha
subito dato il suo consenso a condizione che si sposassero il prima possibile;
ogni anno Jesse andrà a controllare la sorella fino a quando non si sarà
accasata.”
“Il fiato sul collo.” fece Rei,
facendo scoppiare tutti a ridere.
“Ma dai, è una storia così
romantica!” Mao aveva gli occhi luminosi come stelle.
“Sì, è vero!” anche Mathilda non
era da meno.
Max si voltò verso Maryam,
scostandole una ciocca di capelli e ponendogliela dietro l’orecchio. “Io non la
definirei romantica; direi semplicemente incredibile. Perché è incredibile ciò
che le persone fanno per amore, ma è ancora più incredibile cosa l’amore fa
alle persone.”
Lei sorrise, e per la prima volta
dopo tanto tempo, i suoi occhi si illuminarono come i diamanti che erano. “Sono
d’accordo.”
Fine.
La Hiromi – sebbene sia
spaesata, con gli occhi gonfi, mal di gola, mezza influenzata – a rapporto!
Mon Dieu, e anche questa coppia è
fatta.
Soddisfatti? Rimborsati?
Mi raccomando, fatemi sapere,
anche perché in questi giorni non avete scuse: la scuola è finita! =P
Che altro dire? Ci vediamo
Giovedì 9 Giugno con un altro primo atto di due di un’altra oneshot.
E chissà di chi si parlerà…
Hilly89, sto guardando te! ;D
Anyway, fatevi sentire: ci tengo
ai vostri pareri! >.<
Perché le
dichiarazioni d’amore e le proposte di matrimonio non si scordano mai.
Perché mi adora e io adoro lei (Lord compreso!)
Perché è una
pervertita: proprio come me!
Wonderwall
There are many things that I
wouldlike to say to you but I don't know how Because maybe You're gonna be the one
that saves me ? And after all You're my wonderwall
Wonderwall – Oasis
*******************
Essendo uno degli aeroporti di
una delle città maggiori del mondo, quello di Mosca
era sempre strapieno, colmo di gente che andava e veniva, simbolo di persone
che si ritrovavano o che si lasciavano per poco tempo, un po’ come quel giorno.
In compagnia della famiglia da
poco riunita, la ragazza camminava su e giù per la sala d’attesa, aspettando le
persone che, da un momento all’altro, sarebbero spuntate fuori dalla porta scorrevole
con su la scritta arrivals.
Tentò di calmarsi pensando che,
in effetti, vista dall’esterno, la situazione poteva parere comica: c’era lei
che, a furia di girare in tondo, stava quasi scavando una buca lì intorno - in modalità cane che marca il proprio territorio – c’era sua
sorella che pareva un’indiana pellerossa in attesa dell’ardua sentenza, suo
padre che era andato placidamente a prendere un caffè al bar – ma tanto quello
non si smuoveva nemmeno se gli cascava un meteorite a due centimetri di
distanza...! – e, infine, sua madre che sbraitava contro qualcuno di non ben
definito al telefono.
“Non bianco, non panna, non avorio: viola, okay?” la sua voce aveva un ché di
isterico che avrebbe intimidito chiunque ma, a quanto pareva, l’interlocutore doveva
essere qualcuno che amava il brivido dell’avventura. “Non voglio colori che
ricordino nemmeno lontanamente il bianco: santo cielo,
ho due figlie!”
Sorrise brevemente all’ultima
sparata della donna, per poi tornare a concentrarsi sulle persone che uscivano
da quella dannata porta scorrevole: i passeggeri del volo Londra-Mosca
erano atterrati da più di un quarto d’ora, era solo
questione di istanti…
Ma dove diamine sono?
Sospirò, alzando gli occhi al
cielo: era destino che ogni volta che si trovava lì le dovesse sembrare di
aspettare giorni e non una manciata di minuti.
“Non è che
se fai così arrivano prima.”
Eccola lì, la
neo campionessa del mondo: da quando il torneo di beyblade
era terminato, e lei era tornata a casa, festeggiata con tutti gli onori,
rompeva le palle ancora di più.
“Ah, sta’
un po’ zitta.” sbottò, sbuffando, mettendo le braccia conserte.
Era Giugno inoltrato, a Mosca vi erano una ventina di gradi e la neve aveva iniziato a
sciogliersi da poco – sì, proprio quella neve che in Russia permaneva fino a
Maggio inoltrato: per quanto si sforzasse non si sarebbe mai, mai abituata!
Un urlo lancinante le fece alzare
lo sguardo di scatto: sorrise largamente, correndo a zigzag verso due ragazze della sua età ed abbracciandole di slancio.
“Charlie’sAngels, siamo forti, siamo belle, siamo amiche per la
pelle!” le loro voci si unirono in un coro allegro e scanzonato, e furono molte
le persone che si fermarono a guardarle.
“Dov’è, dov’è la campionessa?”
Sam si guardò intorno, socchiudendo gli occhi verdi. “Per colpa sua mi sono
fatta maledire da mio padre, tifando Russia per tutto il campionato!”
“Eccola lì.” Daphne
prese a braccetto le amiche, finalmente serena: avevano passato un mese intero
a pianificare il loro arrivo a Mosca e, finalmente, era divenuto realtà: sarebbero
state con lei venti giorni, e sarebbe stato un periodo
puramente distruttivo.
“Nad!”
Samantha sgranò gli occhi non appena vide la gemella della sua migliore amica:
se Daphne aveva delle extension
che le stavano benissimo e che acuivano la sua femminilità, Nadja
si era tagliata i capelli ancora più corti, in un carré liscio appena sotto
l’orecchio che le sfilava il viso.
“Ragazze.” la moscovita le salutò
con un sorriso riservato ma sincero, salvo poi venire subito stretta dalla
bionda in un abbraccio che le fece girare la testa.
“Sei stata mitica: quando alla
finalissima hai battuto Carlos Fernandéz in tutti e
tre i set, mi sono messa a correre per tutta la casa urlando io conosco quella ragazza!” non appena Liz
lo disse, tutte scoppiarono a ridere.
“Ah, non le fate più complimenti
o si monterà la testa!” Daphne mostrò la lingua con
fare scherzoso.
“Quella sei tu, non lei!” la
rimbeccò Sam.
“E me? Non mi
salutate?”
Eccola lì: trentasette anni,
fisico da paura, serici capelli castani che le incorniciavano il viso, Hilary Tachibana presto in Hiwatari era
magnifica stretta nel suo soprabito Chanel.
“Come stai?” Sam era tutta un
sorriso. “Mia madre ti fa gli auguri e ti manda un regalo; appena siamo in un
posto più comodo lo prendo.”
La donna rise. “Ringrazia tua
madre e dille che non c’era bisogno di preoccuparsi; Liz,
tutto bene?”
La bionda ridacchiò. “Sto solo
pensando che mancano dieci giorni: dieci!”
Hilary rise e Daphne
batté le mani, contenta come una bambina il giorno di natale.
“Mamma ha fatto impazzire tutti con i preparativi per le nozze: ormai è quasi
tutto pronto.”
Liz
scosse la testa. “Io non ci credo che la donna irraggiungibile, quella a cui al sol sentire la parola matrimonio veniva una crisi isterica… Si sposa!”
“Ora sì che sono tranquillo.”
Le ragazze fecero tanto d’occhi
quando si videro comparire davanti un uomo che, per
eleganza ed imponenza, avrebbe potuto essere tranquillamente un divo del
cinema: alto, elegante, di bell’aspetto, non aveva niente da invidiare rispetto
ad un modello.
Fu uno choc quando lo videro
andare verso Hilary e posizionarlesi accanto.
“Liz,
Sam…” Daphne trattenne a stento un sorriso alla vista
delle loro facce. “Vi presento KaiHiwatari: mio padre.”
La bionda e la rossa si
scambiarono un’occhiata nel silenzio più assoluto, dopodiché Liz mise le mani sui fianchi, con espressione omicida.
“Okay, perché tu devi avere un
padre così, e il mio deve essere pelato?”
Aggrottò le sopracciglia,
fissando l’abito che stava provando: un semplice – elegante,
ma semplice – abito avorio non firmato, abbinato a delle altrettanto
semplici decolleté tacco sette.
In qualità di
damigella assieme a Sam – Daphne e Nadja sarebbero state le damigelle d’onore – si aspettava
da Hilary qualcosa di un po’ più sontuoso e non…
“Ti piace?” alla domanda della
donna, la bionda arrossì: per carità, era bello, ma
niente a che vedere con l’ultima creazione di Karl Lagerfeld che pensava la donna avrebbe
scelto.
“E’… Molto minimalista.” ammise.
“Capisco la filosofia del non strafare, ma...”
Hilary sorrise: conosceva le
migliori amiche di sua figlia da quando avevano quattro anni, sapeva cosa stava
pensando la ragazza. “Sarà un matrimonio celebrato al comune,
non in chiesa. Mi conosci,Liz:
non amo le sontuosità pacchiane, ma le cose con gusto e stile. La sala, vedrai, non sarà mica spoglia e triste: è pur sempre il
mio matrimonio!” aggiunse, vedendo la sua faccia scandalizzata.
A quel punto Sam uscì dal
camerino, rivelando un abito identico all’amica. “Mi piace.” dichiarò, facendo
una piccola piroetta. “Per una volta non sembro una meringa glassata.”
La donna ridacchiò brevemente.
“Gli abiti di Daphne e Nadja
sono così, ma color oro, e hanno un girocollo con un fiore sulla destra.”
“Scusami,
Hilary, ma… Avorio per le damigelle?”
Liz aggrottò le sopracciglia. “Ciò che si avvicina
anche solo lontanamente al bianco spetta alla sposa, non a-”
Quella ridacchiò, bloccandola. “Io
ho capovolto le cose: voi avorio; le gemelle oro. Io… In viola.”
Gli occhi della bionda
raggiunsero le dimensioni di due palline da tennis, e Sam prese a ridacchiare.
“Viola!”
“Oh, non guardarmi così: non è
mica un viola purpureo tipo rockettaro. E’ un viola molto
bello… Più sul lilla.” annuì, compiaciuta. “Sono sempre stata contro la
stronzata dell’abito bianco.”
“E hai deciso di far vestire le
damigelle in questo modo per sconvolgere gli schemi, geniale.”
osservò Sam, rimirandosi allo specchio, compiaciuta. “Mh,
mi sa che l’abito ha bisogno di essere accorciato di due centimetri.”
Quella aguzzò la vista. “Hai
ragione…”
La sarta sopraggiunse due minuti
dopo, prendendo le misure e dicendo alla presto-sposa, in un russo fluente, che
una delle gemelle avrebbe voluto farsi aggiungere una decorazione sul vestito.
“Daphne,
che c’è?” la donna si costrinse a mantenere la calma: girava come una trottola
da diciotto ore, e la stanchezza cominciava a farsi sentire, per non parlare
dello stress che aveva cominciato a far capolino in lei da giorni.
“Niente, ho solo pensato che
magari con un fiocco o un fiore in più avrei potuto distinguermi da lei.”
rispose, con aria innocente.
Sua madre sospirò stancamente.
“No; ci penseranno i tuoi capelli a farti distinguere da Nadja.
Le damigelle d’onore hanno sempre abiti uguali, e questo è quanto.”
Liz
inarcò un sopracciglio. “Per niente stanca, eh?”
“Vuoi che ci pensi io?”
Maryam
fissò l’amica, scettica: capelli scompigliati, occhiaie, sguardo stanco… No,
Hilary Tachibana – tra nove giorni in Hiwatari – non era esattamente in uno stato che si poteva
definire rilassato.
“Faccio da sola.” rispose quindi,
continuando a cullare il piccolo Jason, il nuovo arrivato di casa Mizuhara.
“Sicura? Sei lì
da un’ora e mezza, e-”
“Hilary.” il suo tono era
irremovibile. “Vai a farti una bella dormita.”
Dapprima la fissò sconvolta, poi
sospirò. “Oh, Mary, ma tu come diamine hai fatto ad
organizzare tutto questo, allora?”
Lei scrollò le spalle, non
smettendo di cullare il figlio, un frugoletto di undici mesi. “Non l’ho fatto.”
rispose, tranquilla. “Ci hai pensato tu per me; ricordi?”
Si perse nel ricordo di sei anni
prima, quando Max e Maryam avevano deciso di sposarsi
a Londra e, in effetti, era stata proprio lei ad
organizzare tutto: banchetto, fiori, invitati – non che ne avessero molti,
allora: con il gruppo diviso si erano ridotti a poco meno di cento persone – e
tutto quello che seguiva. Ma perché questo le sembrava
molto più difficile e complicato?
“Le cose sono sempre molto più
semplici quando non sono le nostre.” fece Maryam,
quasi leggendole nel pensiero e ponendo Jason nella culla. “Se no perché
esisterebbero quelli che, per professione, organizzano queste cose?”
Hilary ridacchiò. “Oh, Mary, sei
un guru!” sorrise, abbracciandola.
“Lo so: altrimenti perché mi
avresti scelta come testimone?”
La bruna
sorrise, continuando a stringerla forte: scegliere lei e Max come
testimoni era stato qualcosa di istintivo e assolutamente doveroso: erano stati
la sua famiglia, il suo rifugio, la sua ancora di salvezza per anni e anni.
Quello era il minimo.
Un rumore di passi le fece voltare entrambe: Karen entrò in cucina, con tanto di
pancione all’ottavo mese e sorriso stanco.
Entrambe le donne stettero bene
attente a non trattarla come un vaso di porcellana: stava affrontando una
gravidanza difficile, non avrebbe nemmeno dovuto presenziare
al matrimonio del fratello in Russia, se lo aveva fatto era perché ci teneva
troppo, e perché aveva sentito di potercela fare.
Guardandola, Hilary non poté fare
a meno di ricordarsi quante lacrime, quanta sofferenza, quante parole non dette
c’erano state tra lei e Takao circa un anno prima,
quando avevano perso il loro primo bambino… Era stato anche per questo motivo
che lei e Kai avevano deciso di rimandare il loro
matrimonio ad un periodo più consono e tranquillo per
tutti…
Entrare in una stanza e trovare
Karen per terra, in lacrime, che stringeva un orsacchiotto di peluche e singhiozzava…
Lo ricordava ancora: non aveva potuto far altro che sdraiarsi con lei e
prendere le mani tra le sue, fino a quando non era stata lei stessa, ore dopo,
a decidere di rialzarsi, tremante.
E con Takao…
Lo aveva trovato vestito in tuta da kendo, nel garage di casa sua… E lì si era
sentita catapultare a venticinque anni prima, quando nonno Jay svegliava lui
con le bastonate e si complimentava con lei per l’agilità.
Lo aveva visto fendere l’aria a
colpi di spada e, poco dopo, lo aveva sfidato, con patetiche reminescenze che
aveva da ragazza; quando gli aveva fatto volare via la spada di legno, era
stato allora che aveva visto delle lacrime ai lati degli occhi; lo aveva
abbracciato, abbracciato forte, ed erano crollati
entrambi, in ginocchio, così, come dei ragazzi, come fratelli.
Quella era stata la prima crisi dei
coniugi Kinomiya, che si erano visti allontanarsi
sempre di più, per poi ritrovarsi per un banale litigio, come al loro solito.
“Ciao, avevo voglia di una tazza
di camomilla, vi disturbo?” con un sorriso spontaneo, la bionda prese a sedersi
su una sedia, aiutata da Hilary.
Maryam
si mosse subito. “Te la preparo. ”
La bruna accarezzò molto
delicatamente il pancione della quasi cognate,
sorridendole. “Stai bene, Kary? Oggi hai dormito
tutto il giorno…”
Lei sbadigliò. “Mi sa che deve
aver confuso il giorno con la notte, perché è da un paio di minuti che si è
svegliato, tirando calci a più non posso…Mi fa dormire solo di giorno; è
inutile che Takao si preoccupi, va tutto bene.”
Il marito della francese era
molto, troppo apprensivo con lei, e veniva puntualmente
mandato a quel paese, ma di certo la brutta esperienza che avevano passato non
aveva contribuito ad essere d’aiuto.
“Ah, non star lì a crucciarti,
sai che è uno zuccone, ancora una manciata di
settimane e basta.” fece, schiacciandole l’occhiolino.
Karen roteò gli occhi. “Se non
uccido il tuo amico prima.” puntualizzò.
Hilary le rivolse uno sguardo
divertito. “Perché quando combina qualcosa è sempre
amico mio?”
Maryam
pose una tazza fumante davanti la futura mamma, poi si
sedette. “Per la stessa ragione secondo la quale i figli quando
combinano qualcosa di buono sono miei, e quando mi fanno dannare sono figli di
Max.” le donne sghignazzarono.
Hilary si perse in un sorriso,
soffocando, però, uno sbadiglio. “Interessante teoria.”
Karen sorseggiò la camomilla,
lanciandole uno sguardo. “Sei stanca morta… Come
procedono i preparativi?”
“Mh,
ormai mancano le ultime cose… E non so perché, ma aspetto solo che un fulmine
si abbatta sulla mia testa.” rise con fare nervoso. “Mi sembra tutto troppo
perfetto… Certo, tranne Kai che ancora non ha scelto
i testimoni, ma va bene così.” fece, sarcasticamente.
Le donne si fissarono. “E’
arrivato fino a questo punto e ancora niente?” la sorella del russo era
incredula. “Io pensavo che, ora come ora, avesse scelto Rei visto
cheTakao non ne sapeva nulla.”
“No, lo conosci; è molto preciso
e non è mai indeciso, il che mi sconvolge…” ammise. “Però
non sa chi scegliere tra Takao e Rei: entrambi gli
sono stati molto vicini in questi anni, e un po’ lo capisco… Teme che uno dei
due ci possa rimanere male… Vuol ponderare bene la scelta.” proferì. “Invece
per me, non c’è stata storia: quando si è parlato di testimoni
la mia mente è volata subito a Max e Maryam.” la mora
annuì, scrollando le spalle e facendo ridere le due donne.
“Cambiando discorso, è normale
non riuscire a dormire, o fare incubi, oppure arrabbiarsi per niente? Non ho
nemmeno il ciclo…”
Le due si fissarono. “Ansia da
matrimonio.”
Lei sbuffò, grave. “Mi aspetto
che lui scappi con la testimone, o con la mia migliore amica, o-” la interruppe
la risata squillante di Karen – che scoppiò letteralmente a ridere rovesciando
indietro la testa – e le sopracciglia inarcate di Maryam,
che si sopraelevarono talmente da finirle tra i capelli, facendole assumere un’aria
talmente minacciosa da farla zittire all’istante.
“La tua testimone sarei io.”
chiarì. “E la tua migliore amica è Mao. Sai bene di chi stai parlando? Altro? Tipo le tue damigelle d’onore, che sono le tue figlie?” Karen rise nuovamente.
“Ragazze, so di essere ridicola,
ma non mi era mai capitato di farmi così tante paranoie…”
“Tipico.” la bionda finì di
sorseggiare la camomilla e sorrise. “Tranquilla, mia quasi cognatina:
è normalissimo. Poi, prendi esempio da mio fratello: è uno tutto d’un pezzo,
non si scompone… Sono sicura che sta puntando dritto
al gran giorno senza farsi inutile flash.”
“Sto sudando.”
Rei era
il migliore amico di KaiHiwatari
da oltre vent’anni, e lo conosceva come le sue tasche.
Già il solo aver ammesso una
parziale difficoltà costituiva un passo avanti, per quel testone orgoglioso.
Gli voleva bene, e sapeva quanto
fosse felice da un anno a quella parte quando, per quella che doveva essere una
normale vacanza a Parigi da Takao e Karen, era
partita sua figlia Nadja, ed era tornata la sua
gemella.
Da allora il suo mondo si era
sconvolto, rimescolato, ed erano rientrate a far parte della sua vita persone
che aveva pensato di non vedere mai più.
Sapeva quanto fosse felice da
quando stava nuovamente con Hilary, e questa volta era un rapporto costruito su
basi solide, resistenti; il fatto poi, di vederlo nervoso per il matrimonio
imminente, beh, era un qualcosa di assurdo e assolutamente divertente insieme.
Ma dov’è la telecamera, quando serve?
“Per qualche ragione in particolare?”
chiese, facendo lo gnorri, e beccando un’occhiataccia a cui
rispose con un sorrisetto.
Si trovavano dalla sarta per
l’ennesima prova smoking, e Kai si fissava allo
specchio sbuffando ogni due per tre come fosse sulle spine: non era difficile
capire cosa lo stesse tormentando.
“Non va.” sbottò, mandando al
diavolo, con un ringhio, il tutto.
Rei era
quasi divertito: non avrebbe mai pensato di vederlo in quello stato. “Cosa,
esattamente?”
Kai
fece una smorfia, allentandosi la cravatta, e guardandosi allo specchio, storse
il naso. “Tutto.” sbuffò. “Questa roba da pinguino, tutta questa cosa che
stiamo organizzando… Ogni cosa.”
Il cinese annuì. “Fosse per te manderesti tutto affanculo,
andresti a prendere Hilary, e la sposeresti in questo momento senza inutili
fronzoli.”
Il moscovita lo fissò, poi annuì.
“Sì, esatto.”
Rei alzò
gli occhi al cielo, sorridendo. “Eh, sono un mago, io.” sorrise.
“Il matrimonio è un passo
importante, e ho sempre creduto vada fatto con la persona con cui ti senti di
condividere le gioie e le difficoltà della vita, proprio perché è quella che
meglio ti capisce, ti supporta e, talvolta, sopporta.”
Lui annuì. “Sì, anch’io la penso
così.”
“Non credere che quando mi sono sposato io non abbia avuto paura. Certo,
conoscevo Mao da una vita, ma ero terrorizzato: mi chiedevo se il nostro
rapporto sarebbe cambiato, se lei avesse smesso i panni della ragazza che
conoscevo per indossare quelli di casalinga disperata…” ridacchiò. “La
routine fa paura; tranquillizza, talvolta, ma la si teme.”
“Se Hilary scappasse un’altra volta non ce la farei.” confessò Kai.
“Se mi abbandonasse sull’altare. Lei fin da ragazzina è stata sempre contraria
al matrimonio, cosa-”
“Il voler dare maggiore stabilità
a voi, al vostro rapporto.” lo interruppe Rei. “Il fatto che
ti ama. Sono motivi sufficienti a farle cambiare idea: non scapperà.” Il moscovita abbozzò un sorriso.
“E’ lo stesso motivo
per cui, anni fa, hai seguito qui Mao?” chiese, tornando serio: era una
domanda che, in tanti anni, non gli aveva mai posto, e che lasciò Rei sorpreso.
“Sì.” rispose l’altro, dopo
alcuni secondi di riflessione.
“Adoro la mia patria, ma mi è
presto piaciuta Mosca; e poi, subito dopo che Hilary se ne andò, Mao si
catapultò qui, e si innamorò letteralmente di Nadja, te lo ricordi: sai com’è fatta, quando si mette in
testa una cosa non si ferma neanche se la preghi in ginocchio, e poi secondo le
regole della tribù aveva bisogno di qualcuno che le stesse accanto. A me
piaceva qui, quindi cedetti il posto di capo villaggio a Lai – tanto mi era
sempre stato stretto come ruolo – e le proposi di sposarmi.”
Kai si
sentì colpito da quel racconto: fino ad allora Hilary
l’aveva implicitamente preso in giro per il fatto di essere così confuso per
non saper chi scegliere tra Takao e Rei come
testimone, ma con il racconto di quel momento non aveva più dubbi.
Entrambi erano stati fondamentali
negli ultimi anni, i migliori amici che avesse mai
potuto desiderare, ma non aveva mai considerato il trasferimento di Rei e Mao
dalla loro ottica.
“Mi faresti da testimone?”
Ecco: lo conosceva come le sue
tasche, e poi faceva o diceva qualcosa che lo spiazzava completamente: Rei
inarcò le sopracciglia per poi ridere, piano; sapeva che era la sua maniera di
ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lui in quegli anni, quindi
non gli restava che sorridere e annuire.
“Certo, amico.”
Sbuffando, indossò la vestaglia
sopra il pigiama, mettendosi a leggere qualcosa dei classici che aveva amato
sempre fin da ragazza: quella sera ci voleva qualcosa di leggero, nulla di
troppo impegnativo tipo Dostoevsky; la Austen
sarebbe andata benissimo con il mal di testa che aveva.
Arrivò a stento alla trentesima
pagina, quando la porta si spalancò, facendole alzare lo sguardo. “Ehi.”
Incredibile come si trovasse a Mosca da un anno e soffrisse ancora
maledettamente il suo clima freddo, secco e gelido, mentre Kai
in quella stagione – estate – girasse per casa in maniche corte.
“Ciao, uomo caliente.” fece,
modulando la voce, rendendola bassa e sensuale.
“Amo queste prese in giro.”
ribatté lui, inarcando un sopracciglio e prendendo a cambiarsi per mettersi a
dormire.
Hilary gettò via il libro con un gesto deciso, e uno sguardo
malizioso si fece largo sul suo viso. “Sai cosa dice Mao?”
“Sentiamo.”
“Che tecnicamente questa sarebbe l’ultima sera a nostra
disposizione, dopodiché da domani scatta il meno
sette.” fece, seria.
Kai inarcò le sopracciglia.
“Cioè?”
“I quasi sposi non devono vedersi
sette giorni prima del matrimonio: porta sfortuna.”
Lui sbuffò pesantemente. “Già non
ci vediamo mai.” la fissò con le sopracciglia aggrottate. “Da quando sei
superstiziosa?”
Hilary sorrise in maniera birichina, dopodiché accavallò le gambe in maniera
teatralmente sensuale. “Non lo sono: teoricamente
ho capito che è una cosa per portar bene; praticamente
è per fare astinenza una settimana e saltarsi addosso per benino la prima notte
della luna di miele.”
Lui la fissò scettico. “Non
occorre: ti salto benissimo addosso in qualsiasi
circostanza.”
Lei inclinò il viso. “Amore, come
sei tenero… Ma da domani dormirò nell’altra stanza.” Kai
imprecò tra sé e sé contro le stupide credenze femminili, facendola ridacchiare.
“Beh, se vuoi puoi sempre saltarmi addosso ora.” lui
le lanciò un’occhiataccia, e Hilary scrollò le spalle, ostentando
un’espressione contrita e dispiaciuta. “Beh, peccato,
davvero, perché-”
Un bacio famelico la fece
smettere di parlare: le aveva artigliato i polsi e l’aveva stretta a sé,
facendole provare un brivido, una scarica di desiderio irrefrenabile.
Ricambiò il bacio con entusiasmo,
prendendo a tuffare la mano nei suoi capelli, e fu naturale rovesciare indietro
la testa e lasciarsi sfuggire un gemito quando prese a
baciarle il collo come solo lui sapeva fare-
“Mamma, dove- ODDIO!!”
Si staccarono
l’uno dall’altra come se avessero preso una scarica elettrica ad altissimo
voltaggio e, con tanto d’occhi, fissarono la porta dove una Daphne
palesemente sconvolta li stava guardando come se avesse visto svolgersi
l’apocalisse sotto i suoi occhi.
“Stavamo…” Hilary iniziò
gracchiando, cercando lo sguardo di Kai. “Pulendo.”
“Parlando.”
Si fissarono basiti, come a
chiedere l’uno implicitamente all’altra che razza di cazzata avesse appena
sparato.
“Oh, andiamo: parlando?” la voce della donna era
talmente isterica da risultare stridula. “Ti sembra
possa sembrare plausibile dire che stavamo parlando?
Che mi stavi facendo, una gastroscopia?!”
“Pulendo è
meglio, eh? Certo, c’è il sinonimo, ma è meglio che
non lo dica ad alta voce.” ribatté lui, piccato.
Fu a quel punto che Daphne esplose: “VI
STAVATE ACCOPPIANDO! VI
STAVATE ACCOPPIANDO E… E A ME SI E’ BLOCCATA LA CRESCITA!”
“Che diamine sta succedendo qui?”
Nadja arrivò due secondi dopo, e la scena che le si presentò davanti le fece incrociare le braccia al petto
e scuotere la testa, nonché desiderare di non essersi mai intromessa: c’era sua
madre con i capelli scompigliati e le labbra gonfie (e una parvenza di
succhiotto sul lato destro del collo), suo padre con i capelli altrettanto
scompigliati e l’aria di una persona scocciata, e per finire, sua sorella che
pareva avesse appena visto babbo natale in perizoma.
“Okay, non voglio saperlo.” fece poi, alzando le mani in segno di resa.
Daphne
si voltò a fissarla con tanto d’occhi. “M-Ma tu… Ma
loro…”
Lei sbuffò. “Oh, andiamo: cosa
credevi facessero qui, insieme?”
“Che diamine ne so!” esplose
l’altra. “Ogni figlio vorrebbe credere alla storia della cicogna o del cavolo!”
La moscovita roteò gli occhi.
“Certo.” disse, spingendola via. “L’analista per i prossimi vent’anni è a
carico vostro.” fece, rivolgendosi ai genitori, dopodiché si chiuse la porta
alle spalle.
Kai e
Hilary dapprima si fissarono, poi la donna scoppiò a ridere, sollevata e
divertita allo stesso tempo, e lui la fissò, scuotendo la testa e concedendosi
un sorriso.
“Che famiglia di pazzi.”
Daisy fece una piroetta molto
elegante atterrando, con un saltello, sul gradino inferiore della scala e
finendo direttamente tra le braccia del suo papà, che se la coccolò tutta,
abbracciandola e sbaciucchiandola.
Maryam
scosse lievemente la testa nell’osservare la scena, sempre reggendo ago e filo:
quando, in famiglia c’erano momenti come quelli, non restava altro che
goderseli tutti.
“Daisy, vieni qui,
devo sistemarti il vestito.” Sorrise, richiamandola all’ordine; la bambina non
smise di reggersi al collo del papà, affondando il visetto nell’incavo della
sua spalla.
“Dai, mammina, basta provare
vestitini…” piagnucolò, strizzando gli occhioni.
Maryam
sospirò: in quei giorni, tra andare da parrucchieri, sarte e compagnia bella,
era più esaurita che mai, e sua figlia non aveva torto, ma… Era per una buona
causa. “D’accordo, ma almeno vieni qui, e poi ti vai a
cambiare, okay?”
Max baciò la fronte a sua figlia,
che gli rivolse un sorrisone. “Dai, principessa: fai come dice la mamma e poi
papà ti porta a nanna e ti racconta la favoletta, va
bene?” lei annuì freneticamente, andando di buona lena
verso Maryam e lasciando che la donna prendesse le
misure per gli ultimi punti e modifiche.
“Andiamo?” quando la sua bambina
lo guardò con degli occhi verdi tanto simili a quelli che, da anni, lo
stregavano, non seppe far altro che annuire.
Donne… Croce e delizia…
Maryam
li osservò andar via con un mezzo sorriso stampato in faccia, pensando a quanto
fosse fortunata, dopodiché prese il vestitino di sua figlia e cominciò a
lavorarci su, in modo da finirlo entro quella sera e togliersi definitivamente
il pensiero.
Qualche secondo dopo venne interrotta da Daphne che
entrò nella stanza con il piccolo Jason in braccio che pareva lamentarsi a gran
voce. “Ehi, qui credo ci voglia la pappa.”
La donna controllò l’ora,
dopodiché annuì, iniziando a preparare i vasetti di omogeneizzato. “Sì, hai
proprio ragione.”
Daphne
non smise di cullare il piccolino, ma si guardò intorno. “Stai preparando il
vestito per Daisy?”
“Sì, e sono a buon punto, devo
solo finire le ultime cose.” Maryam si fece passare
suo figlio, e iniziò a dargli la pappetta. “Grazie
per avermi aiutato con lui, oggi.”
Lei scrollò le spalle. “Quando
vuoi.”
“Ah, ma… In questi giorni ho
visto un sacco di mazzi di fiori finiti nella spazzatura.” Fece, aggrottando le
sopracciglia. “Anche Hilary non ne sapeva niente, ed è strano…”
Daphne
impallidì vistosamente, serrando le labbra. “Non ne so
nulla.” Biascicò. Dopodiché, uscì.
Mao sfogliò molto attentamente i
grossi cataloghi – così voluminosi che avrebbero potuto
essere scambiati tranquillamente per enciclopedie o dizionari –assieme alle gemelle: per il gran giorno era
tutto pronto, solo una cosa mancava; qualcosa di molto, molto importante… L’addio al nubilato.
“Lui.” Daphne sorrise, indicando un
giovanotto biondo, palestrato e con la mascella squadrata.
La cineseannuì. “Devono essere due; questo lo teniamo in
considerazione. Altre proposte?”
Nadja
sbuffò per la centesima volta. “E’ necessaria questa cavolata dello
spogliarellista?”
“Stai
scherzando, vero? Gli ultimi giorni da nubile di
mamma… Certo che è necessario!” replicò la gemella, continuando a cercare,
interessata.
“Ma è
una cosa fittizia, assolutamente inutile, una pagliacciata! Praticamente
è come se fosse già sposata! Ha papà, ha noi… E’ una
grande-”
“Chepalle!” Daphne la guardò male, chiudendoil volume discatto. “E’ una cosa
per stare insieme, per divertirsi tra donne, e bere qualche cocktail.”
Nadja
arricciò il naso, incrociando le braccia. “A me sembra infantile e
assolutamente deleterio.”
L’altra perse le staffe. “Solo
perché tu non ti sai divertire non significa che debbano essere tutti come te.”
replicò, con tono tagliente.
Mao fece per intervenire, ma era
ormai troppo tardi: Nadja aveva gli occhi
fiammeggianti. “Ah, dimenticavo che sto parlando con la signorina li-bacio-e-poi-li-butto,
non importa se sono membri della squadra di beyblade
della sorella e ne usciranno a pezzi.”
Daphne
incassò il colpo serrando la mascella. “Per favore, DimitrijIvanov se ne fa una al
giorno, io gli ho solo dato una piccola lezione.” fece, cercando di
minimizzare.
Ma la
sorella spalancò occhi e bocca con aria indignata. “Avevamo la finale contro la Spagna! Per colpa tua
abbiamo perso il primo round!”
“Colpa mia?! Non è colpa mia se Ivanov è uno smidollato che non sa dividere sentimenti e
sport: lo sanno tutti che gli emotivi non possono essere anche sportivi!”
Lo sguardo di Nadja
era quasi disgustato. “Sei qualcosa di allucinante.”
“Perché?
Perché ti ho permesso di vincere e di portare la Russiaad
essere la numero uno al mondo? Non sei contenta?” ringhiò, la
voce impastata dalle lacrime. “Ora sei tu l’eroina, la più acclamata.”
fece, andandosene e sbattendo la porta.
“M-Mi dispiace, io…” Mao si portò
le mani alla tempia, scuotendo la testa. “Stavamo parlando e all’improvviso eccole
che se ne dicevano di tutti i colori. Ero lì che le guardavo sconvolta… E non
sapevo cosa dire loro…”
Hilary fissò la sua migliore
amica e si prese la testa tra le mani: i preparativi di un matrimonio erano
allucinanti e qualsiasi coppia che gli sopravvivesse meritava davvero di stare
insieme per la vita.
“Bene: ci mancavano solo loro.”
sbottò, gelida. “Non ce l’ho con te, è solo che…Ho
bisogno di sostegno, non di altri pensieri in testa…” fece, sbuffando.
“Me ne rendo conto.” Mao sospirò.
“Io non sapevo nemmeno per che diamine litigassero. Sono passate dal
divertimento, agli ultimi mondiali, a Daphne che se ne è andata sbattendo la porta dichiarando che era Nadja la più acclamata.”
“Ecco.” Hilary si passò
stancamente una mano tra i capelli, poi sbuffò. “So quello che è accaduto tra
loro mesi fa ai mondiali, ma non pensavo…” si morse le labbra. “Ne parlerò con Liz e Sam, vediamo cosa ne pensano loro.”
“Per caso ad
entrambe piaceva il figlio di Yuri?” provò Mao,
aggrottando la fronte.
Hilary scosse la testa. “No, è
che Daphne ha preso da me riguardo la
mia ottica di vedere gli uomini. Ricordi com’ero io alla sua età, a sedici
anni?”
Lei inarcò
le sopracciglia.“Se è per questo ricordo com’eri anche
fino all’anno scorso.”
Ridacchiò.“Va beh.” ammise. “Comunque,
ha totalmente preso da me, e dopo
aver stregato mezza Londra, ci ha provato con il figlio di Yuri.
Durante il campionato.”
Mao ridacchiò. “Povero Dimitrij.” storse la bocca, pensierosa, poi annuì. “Ma sai cosa? Non li vedo assolutamente male
insieme.”
“Che rimanga tra noi, anch’io la
penso come te; Dimitrij, sotto quell’aria da duro, mi
sembra un tenerone, meno spigoloso rispetto al padre.
Daphne
potrebbe rivitalizzarlo.”
“Però non ne vuole sapere, eh?”
Mao si ricordava com’era stata Hilary a sedici anni, e se la figlia aveva preso
da lei, allora stavano a posto.
“No, c’è
stato un flirt, qualche bacio e l’ha scaricato; esattamente come facevo io alla
sua età. Il punto è che, in base alle cose che mi hai raccontato tu, e a quello
che so io, Nadjadev’essere
furiosa perché ai tempi, fu proprio a causa di questo giochetto che lui perse
il primo round della finale.”
La cinese scrollò le spalle. “Non
è mica colpa di Daphne: sarà lui un po’ più… Sensibile e-”
“Lei lo scaricò
dieci minuti prima che giocasse.”
“Ti offendi se ti dico che tua
figlia è proprio un po’ stronzetta?”
Hilary prese a ridere. “Nah, con tanti lo sono stata anche io;
bisogna perfezionare la tecnica e capire chi merita e chi no.” fece,
sospirando.
“Da una parte è comprensibile che
Nadja se la sia presa quando Daphne
le ha rimbrottato contro il fatto di non sapersi divertire, e che sia esplosa
per il fattore della finale, troppo a lungo taciuto; dall’altra…Non so, una parte di
me si aspettava che Daphne si sentisse trascurata: abbiamo
sempre festeggiato Nadja – lei è la campionessa, la
studentessa modello – mentre Daph… Ha un grande senso
dell’umorismo, scherza su se stessa, sui suoi brutti voti, ad esempio, ma
spesso ci si dimentica che anche lei avrebbe bisogno di un complimento, ogni
tanto.” sospirò profondamente, prendendosi la testa tra le mani.
“Merda, che madre sono? Io adoro la mia Daphne, è
stata la mia sola ragione di vita per quattordici anni, e… Il fatto di aver
ritrovato io Nadja e Kai
lei, ha fatto decidere a me e a lui di non avere altri figli. Abbiamo fin
troppo tempo da recuperare con le gemelle, troppe lacune da colmare… Un altro
figlio sarebbe un torto – l’ennesimo – che faremmo loro.”
Mao si morse le labbra, non
sapendo esattamente cosa dirle. “Effettivamente credo tu abbia ragione sul
fatto del terzo bambino.” cominciò, qualche secondo
dopo. “Ma… Pensaci: sei ancora giovane, hai
trentasette anni, e le gemelle ne hanno sedici, tra un po’ andranno al college,
costruiranno una vita tutta loro… Io non penso che tra due o tre anni la
prenderebbero male, un’eventuale nascita di un fratellino o di una sorellina.”
Hilary ammutolì: non ci aveva
pensato. Quando lei e Kai ne avevano parlato, si
erano limitati a pensare agli anni a loro vicini, non pensando minimamente a
quando Nadja e Daphne li
avrebbero lasciati per andare all’università.
“Oddio, non lo so, mi metti in difficoltà.” ridacchiò, storcendo il naso. “Sai che
da un lato mi piacerebbe e dall’altro, al sol pensare a ricominciare da capo
con pannolini, pappette e levatacce alle due di
notte, mi viene da urlare?” non appena lo disse scoppiò a ridere, seguita
dall’amica.
“Ci credo: i bambini sono
bellissimi, ma fanno impazzire.” proferì, pensando ai suoi e alla fatica che
aveva fatto. “Però dai: perché non lo fai? Dai, dai! Lo voglio proprio vedere una piccola versione tua e di Kai!” e rise, prendendola in giro. “Un maschietto,
stavolta!”
Hilary la fissò male, poi le
rivolse un sorriso vendicativo. “Lo faccio solo se lo fai
anche tu con me! Come due ottime migliori amiche.”
Mao le dedicò un gestaccio che la
fece scoppiare a ridere, poi si riprese. “Anzi no, sai cosa? Li facciamo, e
facciamo partorire i nostri carissimi mariti!”
Hilary si illuminò.
“Ci sto!” e si schiacciarono il cinque come avevano
sempre fatto sin da quando, all’età di quattordici anni, si erano conosciute.
Stesa sul divano a sgranocchiare
degli ottimi biscotti al cioccolato, Karen aspettava che qualcuno le venisse a fare
un po’ di compagnia: erano tutti al lavoro, usciti per impegni vari – prova
abito, ultimi compromessi con il pasticciere, chi con le amiche – e lei era lì,
come al soliti stesa su un qualcosa di morbido a
mangiare.
Per qual bambino era ingrassata dodici chili, ma non li rimpiangeva affatto.
Ne sarebbe ingrassata altri venti, se fosse stato necessario.
Un calcio la fece sobbalzare, e
sbuffò. “Ehi, tu: so che sei lì, quindi ciao, io sono mamma, ma non farmi
male.” per tutta risposta, ci fu un altro calcio. “Ma
sei monello!” facendo leva sui gomiti, la francese osservò la sua pancia,
perfettamente rotonda. “Certo che lo sei, sei figlio
di tuo padre! Spero solo tu non mi faccia impazzire come lui
o, davvero, sarò nei guai!” abbassò la voce, per poi prendere a sussurrare.
“Ma come dobbiamo chiamarti,mh?
Sei un maschietto, sei sano come un pesciolino… E non abbiamo un nome da darti.
Io un’idea ce l’avrei, ma non la dico, no, no…” si
accarezzò il pancione con la mano, disegnando forme a caso con le dita, fino a
quando non ricevette un altro calcio in risposta. “Ah, lo sapevo che sei monello!”
“Sì, ma dare la
colpa a me non è ingiusto?”
Karen si volse verso l’ingresso,
e sorrise vedendo il marito: era stato tutto il giorno fuori, trascinato da suo
fratello per gli impegni del matrimonio – ora erano a meno sei giorni e
l’intera villa Hiwatari circolava nell’agitazione più
completa! – e vederlo a quell’ora le faceva uno strano effetto.
“Mah, non saprei, visto che il
signorino, qui, è tutto il suo papà.” rispose, facendogli la linguaccia.
Takao
la raggiunse in pochi passi, sedendosi di fianco a lei, e inarcando le
sopracciglia alla vista dei biscotti. “Citrattiamobene…”
“Ovvio.” concordò, prendendone
uno e smezzandolo, per offrigliene una parte. “A lui
piacciono.”
L’uomo mangiò la sua parte con
gusto, poi annuì quasi compiaciuto. “Anche a me.”
“E’ assodato: ti assomiglia, e io sono fregata.”
Prese a ridere. “Cosa ti fa
pensare che assomigli a me?” chiese, con un sorrisetto stampato sul volto.
Karen roteò gli occhi. “Praticamente è uguale a te: impossibile, irritante, ama
farmi arrabbiare, adora mangiare e dormire-” delle labbra sfiorarono
delicatamente le sue in un bacio casto e dolcissimo, come avessero paura di
farle male ma, allo stesso tempo, avessero disperatamente voglia di stabilire
un contatto con lei.
Il bacio finì pochi secondi dopo,
e fu lui stesso a staccarsi. “Ti ho fatto male?” le chiese, apprensivo.
Karen roteò gli occhi, sbuffando.
“Oh, sta’ zitto! Se lui fosse già sgusciato fuori, ti
avrei fatto vedere cosa avrei voglia di farti in questo momento, signor Kinomiya… Sai che gli ormoni di una donna incinta sono il
doppio di quelli di una donna normale?”
Lui le diede un altro breve
bacio. “Interessante… Ma se ne parla tra uno o due mesi. Mi farebbe un po’
senso con il terzo incomodo. Non è esattamente il ménage a trois
che ogni uomo sogna.”
Karen scoppiò a ridere. “Immagino
di no.” arricciando il naso e sporgendosi lievemente, gli fece capire di aver
voglia di un altro bacio, e fu subito accontentata.
“Ma tra un paio di settimane non
mi scappi, bello mio. Passino i primi giorni, mi
rimetterò in forma non appena potrò e… Voglio una tata e una baby-sitter:
subito dopo il primo o il secondo mese ce ne andiamo in
vacanza anche per un solo weekend!”
Takao
sghignazzò: ecco uno dei motivi per cui amava Karen; il suo
essere libera, imprevedibile, così fuori dagli schemi, erano cose che
insieme costituivano un mix unico e letale per lui.
Nessuna neo
mamma avrebbe proposto al marito di assumere degli aiuti per non perdere
la loro complicità, per tener viva la passione, che aveva da sempre
caratterizzato il loro rapporto.
Stavano per diventare genitori,
ma questo non significava che avrebbero dovuto smettere di essere amici,
amanti, sposi, marito e moglie.
“Va benissimo, amore.” rispose,
baciandola ancora, e sorridendo contro le sue labbra.
Liz
fece tanto d’occhi quando guardò Sam in segno di richiesta d’aiuto
ma, per tutta risposta, la rossa scrollò le spalle. Erano due giorni che Daphne e Nadjasi
ignoravano, fingendo l’una che l’altra non ci fosse.
Avevano sperato che si
chiarissero da sole, e non era accaduto. Avevano sperato facessero finta di
nulla, e avevano fatto finta di nulla nel modo
sbagliato. Avevano provato a parlare loro per far smuovere la situazione, ed
era stato peggio che andar di notte… E si erano ridotte a non sapere più dove
sbattere la testa.
In quel momento Daphne si stava preparando per uscire con Alexander, un compagno
di scuola due corsi più avanti, e stava decidendo cosa mettere, ma aveva
un’espressione truce per il semplice fatto che Nadja,
anche lei nella stessa stanza, con un libro in mano, la fissava di sottecchi
con uno sguardo sarcastico e disgustato insieme.
“Tra due giorni c’è l’addio al
nubilato: come ci dobbiamo vestire?” Sam provò con un argomento che considerò
neutro, ed entrambe le gemelle si voltarono verso di lei.
“Non è una festa a tema, saremo
in un ristorante prenotato da zia Mao, ma è abbastanza elegante.” le rispose Daphne. “Credo che indosserò il mio vestito viola con il
fiocco sul davanti, quello che ho messo a Londra per uscire con JakeDaniels.”
“Allora peccato sia una festa tra
donne.” sibilò Nadja. “No, aspetta… Magari ai tavoli
vicini qualcuno lo trovi.”
Liz e
Sam fecero tanto d’occhi, mentre Daphne diveniva
rossa per la troppa rabbia. “C’è chi può e chi non può…
Si dice così, giusto?”
“Probabile.” ribatté lentamente
la moscovita. “Dipende dal grado di morale insito in chi può.”
Lo sguardo di Daphne
era gelido come mai lo era stato in tutta una vita. “Non preoccuparti per me:
io vado oltre la morale, come Nietzsche. Sono un’oltredonna.”
Una volta udite queste parole, Nadja la fulminò con lo sguardo, chiuse il libro, e uscì
dalla stanza.
Essere il dirigente della
palestra più famosa di Mosca e dintorni – nonché,
probabilmente, dell’intera Russia – era, talvolta, un vero stress; comportava
avere a che fare con onori e oneri, rogne, noie, persone che volevano sapere che
fare per qualsiasi cosa, e raramente si era lasciati in pace per più di una
manciata di minuti.
Quel giorno, quando, dopo esser
riuscito a rintracciare il tecnico per risolvere un problema di una sala
d’allenamento, ricevette un sms da parte della sua fidanzata ufficiale che lo invitava – cioè gli ordinava – a
connettersi via chat, aggrottò le sopracciglia.
Hilary sapeva quanto detestasse
la tecnologia ed evitasse di usarla, - certo non era una schiappa proprio come
lei, anzi, se la cavava, ma il rifiuto rimaneva comunque – quindi doveva
esservi un’ottima ragione per un invito
così perentorio.
Impiegò qualche secondo a
connettersi, e quando Hilary lo contattò, andò subito
al sodo. Fortunatamente.
Mi
serve un’idea per far fare pace alle gemelle. è.é
Kai
sospirò; sapeva che le sue figlie avevano litigato, ma la cosa non lo
preoccupava più di tanto. Avevano sedici anni, si volevano palesemente bene,
secondo lui sarebbe stato risolto tutto in qualche giorno.
Lasciale
stare e non ti immischiare.
La risposta giunse poco dopo: Hiwatari, col cazzo che non mi preoccupo! Liz e Sam mi hanno riferito che la situazione è anche
peggiorata! Manca poco che vengano alle mani!
Sospirò: eccola, la solita
distruttiva. possibile che dovesse sempre ingigantire
le cose?
Che
vorresti fare? Sgridarle e metterle in punizione come avessero due anni?
…Sei impossibile.
Sulle sue labbra apparve un
sorrisetto trionfante.
No.
Ho ragione, è diverso.
Ti
ci ho mai mandato affanculo?!D=
Scosse la testa, sbuffando. Touché; ora posso andare? Ho una palestra da
portare avanti.
Tutto
qui? Non ci vediamo da giorni, dormo in un’altra stanza, siamo lontani… Potrei
essere benissimo con il mio boytoy in questo
istante...!è.e
Non sapeva se ridere o prendersi
a testate: possibile che lei, sa sempre, gli facesse questo effetto? Era una
persona che si trovava a proprio agio nella seriosità, nella freddezza… Il
calore, la risata, gli abbracci e i loro derivati gli avevano sempre fatto
storcere il naso.
Poi era arrivata lei e con tante
risate, allegria e spontaneità era riuscita a buttare
giù parte del muro che si era costruito, entrando nel suo mondo. Era riuscito a
farlo ridere, e non solo una volta: innumerevoli.
ma lei era così: lei era Hilary, lei era il suo
miracolo.
…Certo.
Guarda
che a momenti ho la stessa età di Demi Moore! Sai quanto mi ci vuole a trovarmi
un Ashton?!U_U
Chi?
Va
beh, parlare di cronaca rosa Hollywoodyana con te è
come parlare di astrofisica con Takao. T___T
Temo
di si.
Ne
parlerò al mio boy toy.u.u
In quel momento bussarono alla
porta e, una volta aver dato il permesso di entrare in
russo, una segretaria annunciò l’arrivo di una coppia proveniente da una
provincia piuttosto lontana intenzionata ad iscrivere i loro figli.
Ciao.
Ciao,
antipatico. =P
Inarcando le sopracciglia e con
un sorriso lievemente accennato sulle labbra, Kai si
riscosse, prima di dedicarsi al suo lavoro, come sempre.
Con i capelli rossi come suo
padre e gli occhi verdi come sua madre, DimitrijIvanov era ben diverso da Yuri:
certo, come lui era freddo, duro, spigoloso, non dava facilmente confidenza… Ma
sua madre gli aveva insegnato il valore dell’amicizia, della lealtà, delle
emozioni.
Dai il tuo cuore solo a chi merita.
Come primogenito di Yuri e Tanya, aveva dovuto essere
all’altezza delle aspettative di suo padre e non
sempre era stata una cosa semplice. Fortunatamente, era riuscito a guadagnarsi
il ruolo di capitano nella squadra che avrebbe rappresentato la Russia ai mondiali, e
allora si era promesso che niente avrebbe interferito con i suoi propositi.
Peccato che quando si sentiva dire in giro la frase fatta mai dire mai, non fosse esattamente una cazzata; perché qualcosa aveva interferito con i suoi piani,
qualcosa mandato direttamente dal demonio per farlo impazzire. Anzi no: qualcuno.
Aveva commesso l’errore di
pensare che DaphneHiwatari
fosse uguale a tutte le ragazze che, fino ad allora,
avesse incontrato: era bella, si interessava alla moda, e sbatteva le ciglia
ripetutamente.
Ragazze così era
semplice abbordarle, semplice sedurle, semplice farle cadere ai suoi piedi per
poi sbarazzarsene quando aveva ottenuto quello che voleva.
Peccato che avesse scoperto che
la gemella di Nadja fosse molto più di tutte le
altre: erano usciti insieme per metà campionato e, più
si succedevano le uscite, più restava colpito dal mix di quella ragazza:
grintosa, spiritosa, energica, vitale, esuberante, gioiosa…Del tutto diversa da
lui.
Ma, quando ad
un certo punto stava iniziando a scoprire anche un altro lato –quello nascosto, malinconico, profondo,
triste – lei l’aveva scaricato di getto, come scottata, fulminata… Spaventata.
E la cosa ironica era che aveva
utilizzato le stesse modalità che generalmente
utilizzava lui per mollare le ragazzine: poche, gelide parole e via, via come
l’aria.
Peccato fosse accaduto una manciata di minuti prima del round della finale, che
aveva perso.
E ora si ritrovava, a tre mesi di
distanza, a pensarla ancora, a fissare Nadja come
fosse lei e a sospirare come una patetica femminuccia.
Tutto per un’inglesina
che lo aveva giocato fregandolo al suo stesso gioco.
Dai il tuo cuore solo a chi merita.
“Potresti sempre fregartene e
uscire con qualcun’altra.” A volte Andreij dava
consigli scontati.
Dimitrij
incrociò le braccia. “Risolverei il problema?”
“Si chiama Chiodo schiaccia chiodo, il successo è assicurato al sessanta per
cento. Il rischio esiste.”
Il rosso fece una smorfia. “Sono
già uscito con altre, e non ho visto alcun risultato.”
Andreij
non smise di sorridere in maniera sarcastica. “Lei ti ha respinto, è per questo che adesso sei interessato: è una cosa
carnale.”
Dimitrij
aveva solo diciassette anni, ma non era del tutto immaturo; aveva capito che
quando pensava a Daphne – oltre ai soliti pensieri – ci pensava in una
maniera completamente diversa rispetto al solito, assolutamente differente e
molto distante da quello che intendeva l’amico.
“Non so.” borbottò. “So solo che
se lei pensa che non mi debba spiegazioni, si sbaglia di grosso.”
Dai il tuo cuore solo a chi merita… E se te lo rubano?
Daphnesi incantò a guardare il vuoto, cosa che, in quei giorni, le
accadeva piuttosto spesso. Avrebbe dovuto andare dal
parrucchiere a scegliere un’acconciatura per il gran giorno, ma non le andava:
si sentiva piuttosto apatica, e non era da lei.
Liz e
Sam erano in camera a parlare con Nadja, e lei aveva
preferito rifugiarsi in sala da pranzo, cosa che, lo sapeva, generalmente
faceva la sua gemella.
Imbronciata, apatica e
malinconica, stava tutto tranne che bene. Aveva solo voglia di una bella dose
di shopping, o di una festa con musica sparata a palla, all’interno della quale
avrebbe potuto confondersi e ballare, ballare fino a
quando i piedi non avrebbero protestato, innalzati sui tacchi tredici che aveva
intenzione di indossare.
“Daphy!”
Daisy entrò nella stanza sorridendo, e alla sedicenne venne
subito da ridere vedendo quella bambina di cinque anni e mezzo, tutta allegra,
trotterellare verso di lei con due codini biondi che facevano su e giù e il
sorriso gioioso aperto e sincero.
“Ehi, Daisy.” sorridendole, cercò
di mostrarsi allegra, abbracciandosela tutta.
“Oggi io e mammina andiamo a fare i capelli: io mi devo fare bella bella.”
disse solennemente la bambina, sorridendole e mostrando i denti davanti
mancanti.
“Brava!” Daphne
sorrise, dandole un bacio sulla fronte. “Mi raccomando: bella bellissima,
però!”
In quel momento nella stanza
entrò Maryam, che lanciò un’occhiata severa alla
figlia. “Ti ho detto di non correre qui: è grande, se poi non so dove sei, come
si fa?”
“Ma c’era
Daphy…” protestò la bambina, aggrottando le
sopracciglia bionde con aria contrita.
“Tutta suo padre.” la donna alzò
gli occhi al cielo, per poi prendere dal pensile della cucina una merendina,
che diede alla figlia. “Hilary sta praticamente
esaurendo con questo matrimonio.” iniziò, sedendosi accanto alla nipote.
“Sembra che l’universo giri attorno a
questo evento.”
Daphne
le sorrise. “E’ giusto così: ricordi quanto abbiamo
faticato per far sì che accadesse? Ora che è successo sono
contenta.”
La donna le lanciò un’occhiata
ironica. “Sì, proprio contenta. Una pasqua.” fece, inarcando
le sopracciglia. “Hai la stessa faccia di quando scopristi di dover fare gli esami di terza media.”
Daphne
ridacchiò. “Io sono contenta per mamma e papà. E’ che ci sono
altri… Fattori in mezzo.”
Maryam
stette lì, immobile; da sempre era stata la confidente di sua nipote, la spalla
su cui contare, la psicologa, il parere più maturo su cui fare affidamento, la
perla di saggezza a cui attingere… Non poteva credere
che ci fosse qualcosa che la ragazza non le potesse dire.
“Zia, io non ce la faccio più.”
quando la ragazza alzò lo sguardo, fissandola con le lacrime agli occhi, Maryam capì che effettivamente, qualcosa non andava. “Non
so che mi sta succedendo.”
“Ti ascolto.” le rispose
semplicemente, avvicinandosi e guardandola dritta negli occhi.
Liz e
Sam decisero di andare a fare una passeggiata nell’area circostante quando
Hilary bussò alla porta della stanza di Nadja: era
appena tornata da uno dei suoi immensi giri e, tempo un’ora, avrebbe dovuto
riprendere, tanto per cambiare.
“Posso?”
Nadja
aveva i-pod e cuffie ad altro volume, la musica rock la si percepiva distintamente anche da lì; Hilary conosceva
il fastidio che si provava quando si era immersi nella musica e qualcuno veniva
a rompere, ma aveva assolutamente bisogno di parlarle.
“Nadja?”
andandole vicino e facendole ombra, la ragazza si accorse di lei, e si tolse le cuffie, spegnendo l’i-pod.
“Mi dispiace, ho bussato… Forse non mi hai sentita.”
la vide scrollare le spalle, come a dire che non importava. “Posso sedermi?”
chiese, indicando il letto, e la figlia le fece posto senza dire una parola.
Hilary dapprima stette in
silenzio una manciata di secondi, dopodiché pensò
divertita che buon sangue non mentiva: le sembrava di aver a che fare con Kai, in quel momento. “Da quando è iniziata questa storia
del matrimonio, in questa casa si corre e basta.” iniziò. “Ho bisogno di
riposarmi, respirare, di rilassarmi… Possibilmente assieme alle mie bambine.”
si accoccolò con la testa sulla sua spalla, aspettando che lei dicesse
qualcosa, ma nulla. “Nad, se qualcosa non ti va giù è okay.” puntualizzò. “Tirala fuori e ne discuteremo.”
La ragazza la fulminò con lo
sguardo. “Sei venuta qui per girarci attorno e per
costringermi a far pace con Daphne?”
Okay: territorio minato.
“Non è che se ciò accadesse mi impiccherei per il dispiacere, ma no.” rispose
lentamente. “Una delle cose che tuo padre mi ha insegnato sin da quando ci
siamo conosciuti, è ad andare dritto al sodo nei discorsi, quindi fidati.”
fece, guardandola dritto negli occhi. “Sono qui perché, sapendo che sia tu che Daphne avete qualcosa di cui siete insoddisfatte, vorrei
provare a sbrogliare la situazione.” sospirò, ravviandosi i capelli.
“Mi aspettavo che tua sorella prima o poi manifestasse questa forma di… Gelosia nei tuoi
confronti.” sbuffò. “Ma cosa possiamo pretendere?
Riempiamo di complimenti te e lasciamo perdere lei.”
“Questo non è
che sia un buon motivo per farsi tutti quelli che incontra.” sibilò con
voce tagliente.
Hilary alzò gli occhi al cielo.
“Dio, qualche bacio non è la fine del mondo! E poi, al posto di pensare alla
finale – che poi è stata pure vinta – perché non pensi
a quello che può esserci sotto?”
Nadja
la fissò di sottecchi. “Cioè?” chiese, con fare scettico.
“Ho motivo di pensare che tra tua
sorella e Dimitrij possa esserci stato un po’ più di
un flirt, prontamente stroncato da Daphne.”
La moscovita era perplessa e scettica insieme. “E perché mai l’avrebbe-”
“Ma per
lo stesso motivo per il quale io, l’anno scorso, sono fuggita a Londra per
qualche giorno, no?” fece, come fosse ovvio. “Ricorda,
tesoro: la paura fa fare un sacco di stronzate, alle persone.”
Quando Karen entrò, Takao e Max stavano cercando di mettersi in contatto con il
locale di strip-tease più in voga di Mosca: lanciata un’occhiata perplessa ai
due, ridacchiò quando riuscì a sbirciare il biglietto da visita dal quale
stavano attingendo per il numero.
Una volta che il biondo riuscì a
confermare il tutto per la sera dopo, la francese si sedette su una delle
poltrone del salotto, sorridendo, sarcastica. “Addio al celibato, eh? E bravi…”
Il marito inarcò sarcasticamente
le sopracciglia. “Non fare così, tanto lo sanno tutti che avete organizzato
anche voi qualcosa per Hilary.”
Max aggrottò la fronte. “E il
fatto che non si sappia esattamente cosa mi spaventa a dir poco…”
La Hiwatari appoggiò pigramente i piedi su
un pouf, poi sbadigliò. “Ah, non statevi a crucciare;
nessuno si farà male.” poi le sue labbra si curvarono in un sorrisetto
malefico. “Almeno spero.”
Takao
scosse la testa. “No, no, eh.” fece, deciso. “Ci saranno minorenni, donne
sposate, donne sposate e incinte… Non scherziamo.”
Karen si sporse a prendere un
cioccolatino con aria noncurante. “E chi scherza.”
Max la fissò con tanto d’occhi.
“Non avrete mica intenzione di strusciarvi al palo, bere o fare quelle cose lì
che si vedono nei film, vero?!”
Lei sbuffò. “Riguardo bere, io
non lo posso fare; non so ciò che intendi per quello che si vede nei film, e a strusciarsi al palo ci penserà lo
spogliarellista.”
Takao
assunse un’espressione quasi ferita. “Avete lo spogliarellista?!”
Karen lo fissò con aria scettica.
“Non mi farete credere che voi non ne avrete!”
Gli uomini si fissarono con tanto
d’occhi, come in cerca d’aiuto per dir qualcosa che suonasse convincente.
“Una.”
“Mezza.”
La bionda rise. “Sì, anche noi ne
abbiamo uno e mezzo.”
Takao
sospirò, capendo che, per l’ennesima volta, era stato fregato. “Senti, ma ti va
davvero di andarci? Al di là di
tutto, sarà una serata in cui, a parte la cena, starete in piedi, o sbaglio?”
La moglie gli rivolse un
sorrisetto vispo. “Sì, sbagli. Staremo sedute tutto il tempo: dobbiamo dare i
regali pornografici a Hilary, lasciare che gli spogliarellisti ci facciano delle
avances, e tante altre cose che non posso dire perché vi verrebbe un attacco di
cuore..!”
Max cominciava a sentire caldo.
“Io non credo che di qui a domani sopravvivrò.”
Riprendendo il suo bey in mano, Nadja sospirò, cercando di scacciar via le parole di sua
madre dalla mente, e di nuovo maledisse il suo orgoglio che le impediva di
andare dalla gemella a chiedere spiegazioni.
Erano passati mesi dalla fine del
campionato, e c’era qualcosa in lei che le impediva di perdonarla per la scelta
di sedurre proprio il capitano della sua squadra, e di lasciarlo una manciata di minuti prima del round decisivo, che avrebbe
potuto compromettere l’esito della finale. A parer suo era stata una cosa del
tutto infantile.
“Secondo me questa cosa è cresciuta talmente tanto in te da divenire
enorme ed esplodere in una volta sola” le aveva detto Sam poche ore prima. “Se
ci pensi, ti accorgerai che non è poi così grave: in fondo avete vinto, la Russia è campione del mondo
di bey grazie a te; ma tua sorella sta male, e non sappiamo cos’ha. E questo mi spaventa.”
Era vero: tutto quello che aveva
detto Sam era vero. Ma lei
non riusciva a metterlo fuori. Non riusciva ad accettarlo.
Maledetto orgoglio.
Un rumore di porta la fece
saltare in aria, e quando si vide davanti i capelli
rossi di DimitrijIvanov,
aggrottò la fronte: eccola lì, la risposta a tutte le sue domande.
Il ragazzo fece per uscire, ma
lei lo fermò. “Ho finito di allenarmi.”
Quando si trovarono
l’uno accanto all’altra, si squadrarono per diversi secondi, come due leoni
dominanti nello stesso territorio pronti a vedere chi sarebbe stato il nuovo
capo.
“Cos’è successo
tra te e mia sorella, questo Aprile?”
Lui si irrigidì
per poi tornare ad indossare la maschera neutra di sempre. “Quello che hai
visto.”
“E cos’avrei
visto?” Nadja inclinò la testa, studiando ogni sua
minima espressione facciale.
“Due persone che uscivano
insieme?” ora il tono di lui era sarcastico e
strafottente.
La ragazza incrociò le braccia.
“Che si sono lasciate per…?”
Dire che la fissò male era un
eufemismo: Dimitrij la gelò con lo sguardo, ma venne abbondantemente ricambiato. “Se non lo sai tu, Hiwatari…” sibilò. “E’ finito l’interrogatorio? Non credevo
potessi diventare pettegola…”
Nadja
inarcò freddamente le sopracciglia. “Stavo cercando di ricostruire cosa possa
esservi alla base dell’inquietudine di mia sorella, ma, evidentemente, non si
tratta di te.”
Fece per andarsene, ma fu
bloccata dalle sue parole. “Non l’ha detto esplicitamente, ma
credo si sentisse bloccata dalla sua stessa personalità. Una sera era
triste e la mattina dopo mi ha scaricato.” Lei lo
fissò un attimo, gli rivolse un cenno, e andò via.
Continua…
Ed eccoci qua con una sorta di
epilogo di RMA: avete visto? Daphne e Nadja sono tornate! *___* Non so a voi, ma a me sono
mancate tanto! *rotola*
Per chi si aspettava di leggere
come fosse nata la KxH rispondo… “Shame on you!” e.eDovreste
saperlo: nell’ottavo capitolo di RussieMonAmour si spiega
perfettamente. u.u
Anyway,
io spero che questa prima particina vi sia piaciuta, io mi sono sentita come
tornata a casa quando l’ho scritta… *sospira, beata*
Ci vediamo giorno
diciannove per l’ultimo appuntamento con i missing!
(Lily92, sto guardando te!)
Perché il suo
affetto e il suo entusiasmo riescono sempre a farmi sorridere ed emozionare.
Perché è una
dolcezza, e le dolcezze… Meritano altra dolcezza!
♥
Wonderwall
Beautiful dawn Lights up the shore for me. There is nothing else in the world, I'd rather wake up and see (with you). Beautiful dawn I'm just chasing time again. Thought
I would die a lonely man,
inendless night
High – James Blunt
************
All’apparenza poteva sembrare
stesse studiando, e da un certo punto di vista era proprio così: circondata da Cosmopolitan, Vogue, Elle e Harpeer’s
Bazar, Daphne stava facendo il punto della situazione
per le sfilate primavera- estate di quell’anno:
solitamente le piaceva capire cosa si sarebbe usato nella futura stagione e che
cosa gli stilisti avevano deciso fosse in
e cosa out.
Accavallò le gambe, socchiudendo
gli occhi e concentrandosi su un vestito in particolare che giudicò
assolutamente divino. Era incredibile come perdersi tra abiti e accessori le
facesse dimenticare ogni cosa.
Shopping Therapy.
“Ehi, tesoro, ti disturbo?”
Alzando gli occhi, sorrise quando
si accorse che nella stanza era appena entrata sua madre. “No, per niente.”
Scrollò le spalle, sbuffando. “Karl Lagerfield è un
mito: credo che mi stia per venire un accidente a furia di vedere tanta roba.”
Hilary allungò lo sguardo per poi
strabuzzare gli occhi. “Tentatrice.” Sibilò scherzosamente, chiudendo di scatto
la rivista.
“Senti, volevo parlarti un
attimo.” La donna si sedette accanto a lei, e le accarezzò distrattamente i
capelli. “Mao mi ha riferito della litigata furibonda che è avvenuta tra te e
tua sorella, e so bene che sono affari vostri, ma non posso fare a meno di
dirti alcune cose.”
Daphne
serrò la mascella. “Mamma-”
Lei la bloccò con un gesto. “No,
ascoltami: io apprezzo che tu abbia preso da me l’amore per la moda, la
vitalità, l’ironia, il calore… Mi piace molto.” Sorrise, circondandole le
spalle con un braccio. “Con due ghiaccioloni in casa
ho bisogno di man forte e, credimi, se non ci fossi tu
sarei persa.”
La ragazza, conoscendola bene ed avendo capito dove volesse andare a parare non poté
assolutamente evitare una smorfia. “Mamma.”
“Forse con questo matrimonio in
casa ultimamente ti ho trascurata troppo e la cosa non
mi piace.” continuò imperterrita, storcendo il naso. “Tu lo sai che ti adoro,
non è così?”
Sospirò, fissando un punto oltre
a lei. “Sì, lo so, ma-”
“Non dubitarne mai. Ti amo nel modo più completo che possa esserci, come solo una madre
può fare, e non dimenticare che è solo grazie a te che in questi anni non sono
impazzita.” chiarì, scostandole una ciocca castana dalla fronte. “Probabilmente
è normale che ti ritrovi a storcere il naso nei confronti di tua sorella: non
saprei, io sono stata figlia unica, ed è una cosa nuova per me. Ma anche se Nadja fosse un genio
assoluto, tu sei la mia Daphne, e ti fai amare per
quello che sei. Un’impareggiabile macchietta.” fece,
strizzandole l’occhio.
“E non solo in famiglia…” fece,
maliziosa.
La ragazza arrossì, per poi
irrigidirsi. “Non so di cosa tu stia parlando.”
“Dai, un tempo con me ti
confidavi: conosco il tuo primo amore, il tuo primo bacio, il tuo primo giro in
moto, il tuo primo appuntamento…” elencò, con voce volutamente lamentosa. “Ora
è tutto finito? Addio alla mamma?” fece, melodrammaticamente.
Daphne
scosse la testa, con l’accenno di un sorriso sulle labbra. “No, è che… E’
complicato.”
Sbuffò pesantemente, per poi
posare la mano sulla spalla di sua figlia in maniera solenne. “Okay: mi piace il fatto che mi assomigli, ma… Non va mica tanto bene
che mi assomigli anche in quel lato di carattere che avevo fino allo scorso
anno. Lo chiamiamo il lato
Golightly?” fece, cercando di buttarla sul ridere.
“Te lo dice una che si è redenta: la paura porta a fare le peggiori cazzate.”
L’altra serrò i denti. “Tu non
sai nulla di me e Dimitrij.”
“Perché non me lo racconti,
allora?”
Quella scosse la testa. “Siamo Daphne e Dimitrij, okay? Non siamo i Kai
e Hilary del nuovo millennio. Solo Daphne
e Dimitrij. Sbagliati per giunta. Io non
voglio stare con lui. Non
voglio, punto.”
Hilary annuì lentamente. “Se lo
dici tu sarà vero.”
“Io voglio divertirmi! Voglio
uscire con le amiche, passeggiare, fare shopping, incontrare qualche bel
ragazzo e flirtarci… Non essere intrappolata.”
Oddio, sono io a sedici anni… Qualcuno mi aiuti!
“Tesoro… Ti capisco benissimo: i
sentimenti, quando forti, fanno paura. Ti chiedo soltanto di pensarci e di non
commettere azioni di cui, in seguito, potresti pentirti.”
Mao sorrise osservando sua nipote
in abito da damigella: assomigliando da morire a Hilary, era una bella ragazza,
lo era sempre stata.
Con le labbra piene, il naso
dritto, gli zigomi niente affatto pronunciati o spigolosi, il viso ovale e la
carnagione di un bel colorito misto tra il porcellana
e l’ambra, di suo padre aveva preso soltanto il taglio e il colore degli occhi,
oltre che un bel po’ del carattere.
Stretta in quel vestito che – a
suo parere – le stava benissimo, Nadjapareva, però, essere di tutt’altro avviso: si osservava allo
specchio come volesse fulminarsi o far accadere un cataclisma, e la cosa non
era per nulla incoraggiante.
“Stai cercando di trasformarlo in
una tuta con la forza del pensiero?” provò a scherzare, incrociando le braccia
al petto.
Lei sbuffò, ravviandosi i corti
capelli castani dietro l’orecchio. “No, sto soltanto notando quanto io sia
ridicola.”
La donna inarcò le sopracciglia.
“Io non credo.” ribatté, osservandola attentamente. “E’ uno stile diverso dal
tuo, ma stai benissimo. Perché dovresti essere ridicola?”
Un altro sbuffo – l’ennesimo – venne cacciato dalle labbra della moscovita, che pareva
essere sui carboni ardenti. “Non mi sento a mio agio, io…” si osservò da
dietro, per poi scuotere la testa. “Ci vuole fascino…Ed eleganza! Io non possiedo né l’uno né l’altro.” borbottò, facendosi scura in
volto. “Mi sento una foca a camminare sui tacchi.”
Mao prese a ridacchiare. “Tesoro,
ti assicuro che la stragrande maggioranza delle ragazze si sente esattamente
come hai detto tu quando deve camminarci.”
“E allora perché diavolo lo fanno?! Non possono usare le sneakers?
Sono così comode!”
“Le sneakers
fanno a pugni con un abito da sera.” Nadja fece una
smorfia. “Sei bellissima, non sei ridicola – affatto. Hai classe, charme, fascino ed eleganza.”
La ragazza la fissò in tralice.
“Ti sei confusa con Daphne.” borbottò. “Lei è quella
che sta bene qualsiasi cosa indossi, io sono quella che per parere decente deve
passare una mattina tra estetista e parrucchiere.” sibilò, roteando gli occhi e
dirigendosi a cambiarsi d’abito. “E, onestamente, la cosa mi scoccia. Preferisco fare altro.”
Mao la osservò mentre si cambiava
con gesti nervosi: sapeva che alla sua età quei complessi erano più che
normali, e non sapeva cosa dirle per convincerla del fatto che fosse splendida
così com’era, e che non c’era affatto bisogno che
invidiasse la gemella, perché lei era bella esattamente così.
Una parte di
lei si convinse che, esattamente come chiunque altro, l’avrebbe capito con
il passare del tempo e non appena fosse sopraggiunta un altro po’ di maturità e
consapevolezza, ma un’altra voleva disperatamente riuscire a convincerla. Ma come?
“Tu invidi tua sorella e tua sorella invidia te: non è strano?” fece, abbozzando un
sorriso.
“Sì, abbastanza ironica come
cosa.” infilandosi i jeans, e sbuffando Nadja rimise
il vestito a posto, e inarcò le sopracciglia quando intravide un post-it con la
scrittura della gemella: ricordare a
Marina di registrare Overboard!
Mao incrociò le braccia,
sospirando. “Secondo me dovreste parlarne. Affrontarvi. Confrontarvi. Non
supererete questi ostacoli e le vostre paure, i vostri complessi se prima non
vi confrontate faccia a faccia. Il
punto è: hai il fegato per farlo?”
Negli occhi viola della ragazza
arse lo spirito di una campionessa di bey, di una sportiva. “Certo che ce l’ho!” ribatté, indignata.
La donna mise le mani sui
fianchi. “Non ti resta altro da fare che dimostrarlo.”
Eh, fosse facile…
Quando Maryam
entrò in salotto Hilary stava finendo di contare le risposte agli inviti per il
matrimonio; le si sedette accanto e le porse una
tazzina di caffè nel silenzio più assoluto, guardandola mentre si dannava a
contare – e ad imprecare - sottovoce.
“Centotrentacinque
persone.”sospirò infine, appuntandoselo su un post-it giallo; prese la tazzina
e bevve il caffè in silenzio, per poi voltarsi. “Centotrentacinque persone
ridotte all’osso, ci credi?”
L’altra annuì. “Sia tu che Kai siete persone che avete fatto
strada: pur non avendo parenti, avete comunque contatti importanti che avrete
dovuto invitare per forza, più gli amici stretti.”
“Esatto.” sbuffò. “Se ci
allargavamo trecento o quattrocento invitati li raggiungevamo sicuramente.”
“Pronta per stasera?” Maryam cambiò discorso, vedendo che l’amica era stressata
come non mai.
“Sì, direi di sì: devo solo
comunicare al ristorante il numero esatto degli invitati, anche se dovrei far
sapere loro le disposizioni dei tavoli, e-”
“Hilary.” Maryam
la interruppe di getto. “Ci penso io. Va’ a
cambiarti.”
“Ma per le
disposizione come-”
“Le comunicheremo domani.”
rispose quella, decisa. “E ora va’.”
Quando suonò il telefono sbuffò rumorosamente – la quantità di telefonate
ricevute in quel periodo in casa Hiwatari era pari a
quelle che dovevano esserci regolarmente alla Casa Bianca di Washington – ma si
affrettò a rispondere. “Sì?”
“Lo smoking che dovrò indossare è
marrone.” era la voce di Kai.
Lei impallidì. “Nero! Assolutamente nero. Nero come il pugno
che darò alla sarta!”
Si sentì ridacchiare. “Rilassati,
è nero. Stavo scherzando.”
Hilary si sgonfiò come un
palloncino: sospirò, chiudendo gli occhi, poi tamburellò con le dita sul piano
del mobile antico su cui aveva posato il telefono. “KaiHiwatari.” sibilò, piano. “Se non sai scherzare, ti
prego: non farlo. Soprattutto con me in queste condizioni.”
Si sentì una pausa. “Perché? Come stai?” il tono era distratto.
“Distrutta. Stanca. Spossata. Fai
un po’ tu.”
“Capito.” rispose, con voce
casuale. “Ti aiuta se ti dico che ho prenotato il viaggio di nozze?”
Lei sospirò a lungo e a fondo: un
altro mal di testa era in arrivo. “Per favore, dimmi che si tratta di un posto
bello e rilassante.”
“Sì: il polo nord.”
Hilary schioccò le labbra, poi
ridacchiò piano. “Dovrei preoccuparmi, con tutta questa voglia di scherzare?
Chi sei tu, e che ne hai fatto del mio futuro marito?”
“Se tu sei depressa e io mi trovo lontano, dovrò pur risollevarti il morale in
qualche modo.” lo disse con un tono talmente neutro e apatico da farla
scoppiare a ridere.
“Non vedo l’ora che tutto questo
finisca: spero di rilassarmi un po’ stasera.”
“Ma non
troppo.”
Hilary sorrise. “Senti chi parla:
so che gli altri hanno prenotato un privéé in un bel
localino non esattamente castissimo…”
Lo udì sbuffare. “Locale di strip-tease:
scontatissimo.” disse, sbrigativo, come se non fosse minimamente interessato.
“Il fatto, invece, che non so cosa farete voi mi preoccupa…”
“Ah, non chiederlo a me: hanno
scelto tutto loro, e di tutto quello che mi capiterà
sarò solo una povera vittima.” dichiarò, con fare innocente.
“Immagino…” borbottò lui. “E le
bambine?”
“Se ti riferisci ai figli di Maryam o di Tanya, li molleranno
alle baby sitter, se ti riferisci alle nostre, di bambine… Verranno con noi.”
All’altro capo vi fu un pauroso
momento di silenzio. “Non è un ambiente adatto a loro.”
Hilary rise. “Hanno sedici anni! Sapessi cosa facevo io, alla loro età!”
Ci fu un grugnito. “Lo so perfettamente cosa facevi tu alla loro
età: è per questo che mi preoccupo.”
Roteò gli occhi, mettendosi le
mani sui fianchi ma non smettendo di sorridere. “Sedici anni… L’età dei viennesi…” mugugnò, per poi scoppiare a
ridere.
Lui borbottò qualcosa di non
perfettamente comprensibile che suonò come l’inutilità di certi europei idioti,
per poi decidere di cambiare definitivamente discorso. “E se litigano?”
Lei sospirò. “E’ un rischio che
si deve correre.”
“Non vedere la sposa una
settimana prima del matrimonio…” Max fece una smorfia. “Che idiozia.”
“Non dirlo a me.” brontolò Kai, parcheggiando nei pressi di una strada a lui
sconosciuta. “E’ qui?”
“Quello, amico!” Takao scese dalla vettura assieme a Rei, indicandogli uno
degli edifici della via, con una scritta a caratteri cubitali di per sé molto
elettrizzante.
Perché il paradiso dei sensi la diceva già lunga.
Kai si
voltò verso loro, non attendendo nemmeno che Yuri e
gli altri parcheggiassero per lanciargli un’occhiataccia in tralice. “Chi ha
deciso tutto questo?”
Rei indicò
gli altri due, e Max indicò Takao, che si guardò
intorno, smarrito. “Eh?”
“Ci avrei scommesso.” scuotendo
la testa come a prepararsi ad un crudele destino,
sbuffò, contrariato al massimo.
“Ma dai,
è il tuo addio al celibato! La tua ultima notte da single!” il
giapponese era euforico. “Sei autorizzato a ballare con le
spogliarelliste, a farti strusciare addosso i loro
corpi, a-”
“Basta così.” ora il russo era
nauseato. “Ricordo bene il tuo addio
al celibato, e ti sei talmente ubriacato che hai avuto bisogno di un giorno per
riprenderti.”
“Sì…” il giapponese assunse
un’aria sognante. “Che cosa fantastica che è stata…”
“Se Karen lo sapesse
ti staccherebbe la testa.” osservò Rei, lanciandogli un’occhiata di pura pietà.
“Nah,
si è divertita anche lei, ne sono sicuro.” scrollando
le spalle, Takao accennò un sorrisetto. “Le donne
fanno tanto le santarelline, poi però hanno pensieri
sconci tanto quanto e anche più di noi. La differenza è che loro hanno classe,
e sanno nasconderlo per benino.”
“Vero, sono diaboliche.” Max
rise.
“Allora, questo locale?” Yuri li raggiunse assieme agli altri, rivolse loro uno
sguardo interrogativo per poi fissare l’edificio con aria prima scettica poi
divertita. “Kai, mi meraviglio di te… Anni che ti
conosco e non avrei mai immaginato che tutto questo fosse il tuo genere…”
“Sta’
zitto.” brontolò il diretto interessato, entrando di filato nel locale, come a
volersi togliere un pensiero. Gli altri risero a vedere la sua faccia da
condannato a morte.
Max scosse la testa. “Eh, sì:
quando un uomo si converte alla famiglia, non c’è strip-tease che tenga.”
All’ennesima risata, Hilary
nascose il viso tra le mani, sentendo le guancie arrossarsi per il vino e per
il calore proveniente da quel ristorante.
Era in compagnia di altre dieci
donne – incluse le sue figlie, Liz e Sam – e poteva
giurare che quella fosse una di quelle serate da ricordare per tutta una vita.
Vestita con un elegante abito
verde acqua – Marc Jacobs era il suo dio! – era
giunta in compagnia delle gemelle e delle loro amiche al ristorante, per essere
accolta dalle altre donne con una manciata di
coriandoli, nemmeno fosse il suo compleanno.
“Eccola, la futura sfigata!” aveva esclamato Karen, e tutte erano scoppiate a
ridere.
Aveva salutato, si erano
accomodate, ed era partita una serata scoppiettante, fatta di risate, battute,
musica di sottofondo e prese in giro sulla vita coniugale.
L’unica cosa che le dava un certo
pensiero era vedere Daphne e Nadja
sedute ai poli opposti della tavolata, ma cercava di non pensarci.
“Credimi, Hilary: dietro una
donna stressata… Ci sono un marito e dei figli!” fece Tanya, la moglie di Yuri, una
simpatica donna due anni più grande di lei, dotata di un fervente senso
dell’umorismo.
“Ah, me ne sono accorta!”
ridacchiò insieme alle altre per poi alzare il
bicchiere in aria. “Ai figli. E ai mariti.”
Karen inarcò un sopracciglio,
scrollando le spalle e alzando il suo bicchiere colmo di coca cola. “E ai
mariti più infantili dei figli stessi?”
Tanya
batté un pugno sul tavolo. “Perbacco, soprattutto
a loro!”
“KujM*¹!”
esclamarono donne e ragazze, per poi bere.
Dire che era a disagio sarebbe
stato un eufemismo: star seduto nel privéé e guardare
tutte quelle ragazze che si strusciavano contro il palo o che, vestite con poco
o nulla, si apprestavano a servire ai tavoli, era più imbarazzante che altro, per un uomo di quasi quarant’anni.
“Era proprio necessario, tutto
questo?” sbottò, in direzione degli altri che parevano molto più a loro agio di
lui.
Rei sorrise, sornione. “Io te
l’avevo detto che questo non era posto per lui.” fece, rivolgendosi a Takao, intento a trangugiare un cocktail spaparanzato sul
divano.
“Dai, cognato:
rilassati e goditi la festa: vedi che spettacolo attorno a te?”
Max scosse la testa. “E’ inutile:
un familyaddict lo è e tale
resta.” fece, scrollando le spalle. “Guardiamoci: da campioni del mondo a…
Sposati, con famiglia, lavoro e responsabilità. E io
che a diciotto anni immaginavo per me una vita completamente diversa.”
Tutti ammutolirono, pensando a
quanto le parole dell’americano fossero vere: avevano avuto un’adolescenza
incredibile, scandita da intensi allenamenti, tornei emozionanti, amicizie
solide che non si erano mai perse nel tempo… Chi l’avrebbe mai detto che quei
ragazzi, quei bladers con tanta voglia di vincere ma
anche di divertirsi sarebbero diventati degli uomini con la testa sulle spalle,
con un lavoro degno di questo nome, e per di più con delle famiglie a cui badare?
“E’ automatico.” Rei scrollò le spalle. “Passa il tempo e ti accorgi che sei
cresciuto, che il mondo cambia, le persone attorno a te pure…”
“E non puoi fare più il cazzone.” Takao finì di bere il
drink, e gli altri ridacchiarono.
“Ti senti pronto a formare una
famiglia, e al sol pensarci ti viene in mente l’unica ragazza che ti abbia mai
scombussolato.”
Vedere Kai
sorridere alle parole di Max fu assurdo ma insieme naturale.”E per questo te la
sposi, perché non puoi più farne a meno.”
Yuri e
gli altri, che li avevano ascoltati, si scambiarono uno sguardo, per poi
inarcare le sopracciglia. “Beh, un brindisi a noi povere vittime di queste
donne che ci irretiscono con le loro arti femminili!”
Dei bicchieri si alzarono per
quello che fu considerato un brindisi perfetto. “E, adesso, se non vi dispiace…
Spostiamo la festa.” Rei sorrise come il gatto che ha mangiato il topo.
“Ehi, sai quanto ho faticato per ottenere questo privéé?”
protestò Takao.
“Fidati, ciò che ho in mente ti
piacerà molto di più.”
“Bastarde, siete delle bastarde!” Hilary scoppiò a ridere quando le amiche le
tolsero la benda: l’avevano portata in un pub piccolo ma carino che quella sera
era stato prenotato solo per loro, e due spogliarellisti molto sensuali stavano
ammiccando verso lei in maniera… Scandalosa.
Le altre risero, e tanto, quando
lo spogliarellista dai capelli color giallo sabbia la
prese per mani, portandola al centro della pista per farle fare una piroetta, e
le risate non furono normali.
“Io morirò stasera…” fece Maryam, solitamente non troppo incline al ridere, ma che in
quel frangente aveva le lacrime agli occhi.
Quando dallo stereo uscì la
canzone Gimme! Gimme! Gimme! degliAbba, le donne lanciarono un urlo per poi fiondarsi al
centro del locale, escluse Karen – per ovvie ragioni – e Nadja
che, pur essendo divertita, non amava per nulla ballare.
“Non vai?” Karen batté il ritmo
con un piede, accontentandosi di guardare le altre.
“Ho mai ballato?” le rispose la
nipote di rimando, accavallando le gambe.
La bionda si voltò a guardarla, e
sorrise. “Sei molto bella vestita così. Dovresti indossare più spesso abiti del genere.” fece, riferendosi
al vestito nero accollato sul davanti e scollato sulla schiena che Nadja indossava quella sera.
La ragazza storse il naso. “Mi
trovo meglio in tuta che così, onestamente.”
Risero entrambe quando videro Hilary
venir presa di scatto in braccio da entrambi gli
spogliarellisti e, quando fecero per baciarla sulle guancie, fu Daphne ad illuminare la scena con il flash di una foto.
“Simboleggia la fine del tuo
periodo d’oro!” esclamò, facendo ridere tutte.
“Perché non fai pace con lei?”
quando sua zia glielo chiese, Nadja arrossì. “La
guardi come se aspettassi qualcosa… Ma cosa?”
“Non lo so.” ammise, dopo
svariati secondi di silenzio.
Karen si morse le labbra. “A
volte chiedere scusa non significa che tu abbia torto e l’altro
ragione. Significa che quell’altra persona è molto più importante del
tuo dannatissimo orgoglio.”
Nadja
rimase in silenzio svariati secondi. “Sì, ma… E’ così difficile.”
La donna annuì. “Lo so: noi Hiwatari abbiamo questa parola scritta nel dna.”
La ragazza sospirò, mordendosi le
labbra. “E’ vero.” sospirò, annuendo.
“Ora scusami, vado a prendere una
boccata d’aria.” alzandosi e prendendo il trench, uscì fuori
dal locale, per respirare quell’aria fredda e pungente tipica di Mosca.
Sua zia ci aveva preso:
l’orgoglio era la cosa che la fregava, e lei odiava farsi fregare,
soprattutto da se stessa. Stringendo i pugni fino a conficcarsi le unghie nella
carne, sospirò, decidendo di rientrare per parlare con Daphne.
Sarebbe stato semplice, non doveva far altro che andare da lei e chiedere di
parlarle; semplice, semplice come bere un bicchiere
d’acqua.
Fu un rumore a farla sobbalzare:
quando vide due occhi uguali ai suoi fissarla, spaventati, sgranò i suoi.
Questa davvero non se l’aspettava: cosa ci faceva lei lì?
Okay, è il momento: nessuno vi guarda, è davanti a te… Parla!
“Io sono convinta di avere
ragione!” sbottò invece Daphne, stringendo le labbra,
con occhi contriti; Nadja aggrottò le sopracciglia. “Però non me ne frega niente. Che vada affanculo come ti diverti tu, come mi diverto io, e-” le
sue labbra iniziarono a tremare. “DimitrijIvanov e tutto il resto. Non mi importa: sei mia sorella, e io ti voglio bene e… Diamine,
come mi sei mancata!” eruppe, scoppiando definitivamente a piangere.
Nadja sorrise leggermente,
avvicinandosi a lei e ponendole timidamente una mano sulla spalla.
“Anche tu… Sì, insomma…” Ma non finì la frase, perché venne
abbracciata di slancio dalla gemella e le servirono uno o due istanti per
completare l’abbraccio.
Quando, trenta secondi dopo, il
tempo passava e loro erano ancora lì, fu lei stessa a schiarirsi la voce.
“Dobbiamo stare così ancora per molto?”
L’altra sbuffò. “Da domani un’ora
di abbracci al giorno, così ti abitui.”
La moscovita alzò gli occhi al
cielo, ma sorrise. Sì, mi sei proprio
mancata. “Mi sa che dobbiamo chiarire delle cose.” fece, tornando seria.
L’altra si irrigidì.
“Non c’è nulla da chiarire. Tutto quello che ho detto
l’ho detto per rabbia e-”
“No.” incrociando le braccia al
petto, fu categorica. “Okay, dimentica quello che ti ho detto io, la storia
della finale e varie cazzate. Partiamo da noi.” il discorso non
era semplice, ma doveva, doveva farlo.
Peccato non sapesse che cosa dire.
Si fissarono per qualche istante,
con il cuore che batteva all’impazzata, tremanti, e poi si decise a scrollare
le spalle. “Io… Io mi vesto male.”
La gemella la fissò sbattendo gli
occhi. “Eh?”
Quella annuì, decisa. “Cosa credi, che mi diverta, a non avere gusto?” sbottò.
“Sono cresciuta con papà, e non è stata mica una passeggiata!” fece, storcendo
il naso. “Niente da togliergli, ovvio, ma… Ogni volta che vieni a trovarmi in palestra,
tu sopraggiungi e lasci come una scia… Noi dovremmo essere gemelle, uguali nel
corpo e nel viso, e invece praticamente non lo siamo! Non lo siamo perché i ragazzi non mi guardano sbavando come fanno
quando passi tu!” la fissò, in tralice. “La smetti di ridere?”
MaDaphne non ci riusciva: si era portata una mano alla bocca
e stava ridendo come non faceva da un paio di settimane. “Questo… Per dirmi che
cosa?”
Nadja
sbuffò, incrociando le braccia. “Che io potrò pure essere brava a scuola e una
campionessa di beyblade… Ma sei tu che, dovunque vai,
resti nel cuore della gente. Non io.”
Quella si ritrovò a ridere. “Oh-ho! Un complesso l’uno.” l’altra roteò
gli occhi. “No, sul serio, è divertente sentire che pensi questo di me.
E poi non sarei così sicura del fatto che non ti fai amare.”
Inarcando le sopracciglia, la
moscovita pose la domanda solo con l’espressione facciale.
“Beh… Se ti dico AndreijSokolov che mi rispondi?”
Vedere Nadja
arrossire fu qualcosa di entusiasmante; talmente, si
pentì di non essersi portata dietro la digitale. “Di farti gli affari tuoi.” la
londinese scoppiò nuovamente a ridere. “E se io ti dico DimitrijIvanov?”
Se Daphne
ammutoliva, generalmente c’era qualcosa che non andava, un po’ come in quel
frangente, quando si morse le labbra restando senza fiato per un bel po’ di
tempo. “Ti dico che era un gioco.” soffiò.
Soppesando bene le sue parole,
strinse le labbra, attenta. “E poi?”
“Poi è diventato una droga.”
fece, nervosamente, come se non potesse credere di poterlo
ammettere. “Mi capiva così bene… Decifrava ogni mia espressione, anche quella
che tentavo di nascondere… E la cosa pazzesca era che, pur avendo un carattere
non proprio alla mano… Io ci sapevo fare con lui. Sapevo comprenderlo, farlo
sfogare…”
Nadja
era sbalordita. “Ma chi? Iceman?!”
“Sì… Lo facevo ridere, diceva che
lo sorprendevo… Ma ero arrivata a non dormirci la notte, non sapevo che fare.”
rivelò, passandosi una mano tra i capelli. “Poi quando, un giorno,
all’apparenza tutta allegra, dopo aver parlato con te, riuscì a capire la mia
inquietudine più profonda…” Nadja la vide impallidire
e rabbrividire. “Non so come classificare i sentimenti che provavo quando ero
con lui, ma ero terrorizzata.”
La domanda venne spontanea.
“Perché?”
Daphnele si rivolse con tanto d’occhi. “Non lo so! La mia testa mi
diceva soltanto di andare lontano più che potevo, e io
l’ho fatto! Una persona che ti… Decifra così… Non è normale!”
Nadja
sospirò, mordendosi le labbra e cercando le parole giuste. “Le persone fanno
tante cazzate quando hanno paura: le ha fatte mamma, e ora le stai facendo tu, ma è sempre la solita storia.”
Quella sgranò occhi e bocca. “Ma
che stai dicendo?!”
“Che la tua paura non ha senso, Daph.”
Alla fine, l’idea di Rei si era
rivelata geniale, molto più di quella di Takao:
utilizzare la palestra per rievocare per una sera i vecchi tempi, era quanto di
più bello si potesse mai desiderare e, beyblade alla
mano, stavano tutti provando a battersi l’uno contro l’altro, come vent’anni
prima.
Lo stereo scandiva i secondi,
l’adrenalina era alle stelle, e loro si sentivano tutti tornati indietro di
anni, a quando, da adolescenti, si battevano l’uno
contro l’altro, talvolta anche a rischio della propria salute.
In quell’istante in campo vi
erano Max e Rei, memori del fatto che, anni prima, all’ultimo campionato,
l’americano non si era presentato per andare ad
inseguire una certa irlandese che poi non era divenuta altri che sua moglie.
“Ti sfido, mi devi la nostra
ultima battaglia!” gli aveva detto il cinese, con un sorriso sghembo.
“Con piacere!” gli aveva risposto
subito il biondo.
E così, sulle note dei DashboardConfessional, si erano
battuti rievocando il passato e lanciando i loro beyblade
con la grinta e passione che li aveva sempre
caratterizzati.
Il beyblade
era un amore che non era mai sfiorito in loro, talmente che al momento di
scegliere un lavoro, avevano optato per qualcosa di
inerente al loro sport più amato.
Fondando l’ABA a Londra – una
specie di BBA americana con sede Londinese – Max si assicurava di organizzare i
tornei mondiali in combutta con le altre associazioni sparse per il globo, tra
cui c’era anche quella parigina in cui lavorava Takao,
in cui, essendo arruolato per viaggiare spesso e per contattare
sponsor per la società, si occupava anche si stare a contatto con i giovani per
reclutarne di nuovi, un po’ quello che a suo tempo aveva fatto suo fratello.
Pregettando quella scuola di beyblade a Mosca, Kai aveva dato
la possibilità a migliaia di ragazzi di apprendere lo sport, nonché
a Rei, Mao e Yuri di insegnare a bambini di varie
fasce d’età l’amore e la tecnica di questo sport, tutto concentrato in un’unica
soluzione.
Quando la partita finì con una
vittoria da parte di Rei, fu Takao che si avvicinò al
festeggiato con un sorrisetto. “Tu e io. Partitona.”
Quello inarcò un sopracciglio.
“Ho mai rifiutato una sfida?”
Ci furono nuove risate quando
Hilary scartò il regalo di Tanya e ne tirò fuori un completino che definire pornografico sarebbe stato un
complimento: di pizzo nero, molto sgambato e alquanto indecente, pareva
immettibile.
“Uuuuuuh!”
esclamarono tutte, battendo furiosamente le mani, e scattando diverse foto con
le digitali ad una festeggiata decisamente
imbarazzata.
Aveva già scartato tre regali un
po’ assurdi, e quello non era da meno: c’erano stati un libro con una copertina
che la diceva già molto lunga, un vibratore – e qui tutte si erano scompisciate
“Non ne ha bisogno!” aveva esclamato Karen, e giù risate – e una giarrettiera
bianca (“La si deve togliere con i denti!” aveva
raccomandato una Liz visibilmente ubriaca, e tutte
nuovamente a ridere.)
Ma
quando Mao e Maryam le portarono un pacco enorme
bucato come l’oblò della lavatrice, Hilary sgranò gli occhi. “Oh, cielo e
adesso cosa diamine-”
“Ah, lo scoprirai.” Maryam incrociò le braccia al petto. “Infila la mano e
scopri quello che c’è dentro.”
Inutile dire che si scatenarono
per l’ennesima volta risatine, fischi, e applausi delle dieci donne che
facevano per cento. Hilary arrossì e le guardò male, ma quando, all’interno del
pacco, sentì qualcosa di strano, non ce la fece: le vennero i crampi allo
stomaco e si piegò in due, tante le risate.
“Allora?” incalzò Karen. Nessuno
aveva smesso un solo secondo di
ridere. C’erano tutte che si stavano tenendo letteralmente la pancia a causa
delle troppe risate.
“Boh.” la brunetta le guardò con
aria implorante non sapendo che dire. “E’… Duro?”
qui le risate arrivarono alle stelle, e ci fu Daphne
che fu costretta ad appoggiarsi a Nadja per evitare
di cadere.
“E’ rettangolare, sembra un
vasetto…” provò ancora. “Ma non so che diamine possa
essere.” quando lo tirò fuori, fece una smorfia, mandando affanculo
le amiche. “Siete delle maniache pazze pervertite!” strillò, rossa in volto.
“Okay, che altro c’è?” chiese
Mao, scuotendo la testa, sorridendo.
Hilary provò a concentrarsi, poi
rise. “Nooooo, non posso dirlo.” coprendosi la bocca
con le mani, scosse la testa. “Che diamine può essere una cosa che è stretta,
lunga e dura?”
“Io ce l’avrei
una mezza idea!” alle parole di Tanya nell’aria
volteggiarono nuove risate e, quando Hilary estrasse l’oggetto incriminato,
fece un gestaccio.
“Ma per piacere!” ululò, per poi
ridere: gli altri oggetti furono un paio di manette (“Ma vi sembra che io sia
il tipo?!”) e un frustino (“Okay, mi arrendo:
probabilmente devo averne la faccia!”) e subito dopo i regali fu il tempo degli
spogliarellisti che ballarono dinnanzi la festeggiata, e tutte si divertirono a
prenderla in giro “Vai Hila: sculaccialo!” facendola
ridere e arrossire.
Max rimase perplesso quando, alle
undici del mattino, trovò sua moglie che dormiva ancora. Daisy e Jason erano
con la tata assunta da Hilary per quei pochi giorni,
quindi niente di cui preoccuparsi, tranne che… Perché Maryam,
che solitamente era così mattiniera, ronfava come fosse mezzanotte?
Si avvicinò al letto, sedendosi
sul bordo, e con un gesto delicato, le scostò i capelli dal viso, baciandole il
collo: sorrise quando la sentì mugugnare, e passò il pollice sul suo profilo,
come a volerne ripassare i lineamenti che in realtà sapeva
a memoria.
“Pietà, sono tornata alle
quattro, stanotte.” borbottò la donna.
Lui inarcò le sopracciglia. “Ah, ecco perché la popolazione femminile di questa casa è ancora
addormentata! Io e Takao ci
stavamo preoccupando.” sghignazzò. “Va bene, buon riposo; poi mi
racconti.” fece, baciandola nuovamente per poi uscire dalla stanza. Sorrise
quando udì un mugugno di lei in risposta, e andò via.
In sala da pranzo trovò Hilary,
con tanto di occhiaie e capelli scompigliati, che beveva una tisana, e Daphne, nelle stesse condizioni. “E’ stato tanto
distruttivo?” non poté evitare di chiedere, divertito.
La ragazza alzò brevemente lo
sguardo. “Non puoi nemmeno immaginare.” fece, con una smorfia comica. “Peccato
che stanotte Liz non mi abbia fatto dormire
completamente.”
Hilary si passò stancamente una
mano sul viso. “Come sta, ora?”
“Mi sa che dormirà tutto il
giorno. Ha trascorso praticamente tutta la notte a
vomitare.”
La donna fece una smorfia. “Se lo
sa la signora Cooper sono morta: io che permetto a sua
figlia di ubriacarsi.” fece, scuotendo la testa. “Che madre degenere.”
“Eri la festeggiata, non potevi
mica badare a lei.” obbiettò la figlia. “Poi di base eravamo tutte, tutte brille. Tanya
ha persino dovuto chiamare un taxi perché non poteva mettersi alla guida!”
Max ascoltava a metà tra
divertito e sorpreso. “E brave… Avete proprio spaccato, ieri notte!”
“Perché, voi no?” chiese Daphne, addentando un plumcake.
Max ridacchiò, sedendosi accanto
alla nipote. “Guarda, abbiamo tentato, ma tuo padre talvolta è così noioso che rifiuta anche occasioni d’oro tipo l’addio al celibato.” al
viso interrogativo delle due continuò: “In effetti un locale di strip-tease non
era proprio il genere di Kai, infatti poi abbiamo
cambiato posto.”
Hilary storse il naso. “Queste
sono cose più tue e di Takao…”
“Lo so. ma alla fine, trasferirci tutti in palestra per una mega
sfida come ai vecchi tempi che si è protratta fino alle tre… E’ stato molto
meglio.” fece, con un sorriso soddisfatto.
La donna sorrise largamente.
“Chissà come dev’essere stato emozionante!”
“Puoi dirlo, mi è parso di essere
tornato a vent’anni fa.”
Hilary esibì un’espressione
corrucciata. “Che cattivi, proprio per l’addio al celibato! Avrei voluto
esserci e tifare per voi come ai vecchi tempi!”
Daphne
aggrottò le sopracciglia. “Perché non organizzate una rimpatriata? Magari non
ora, tra qualche mese… E invitate i bladers che avete
conosciuto.”
Hilary e Max si schiacciarono il
cinque. “Da fare. Assolutamente.” decretò la donna, entusiasta,
per poi ricordarsi qualcosa e sbuffare. “A proposito di cose da fare
assolutamente… Chi è che mi aiuta ad organizzare i
posti per il ristorante?”
Subito dopo essere andati dall’hairstylist e aver deciso la
pettinatura, Nadja si fece lasciare in palestra:
aveva una voglia immensa di esercitarsi a beyblade, e
scaricare un po’ di adrenalina. Mancavano due giorni al matrimonio, e i
preparativi si erano fatti ancora più ferventi, anche se ormai era tutto pronto
e si trattava solo di sistemare le ultime cose.
Fece per entrare nella sala
quattro ad allenarsi – era quella con i dispositivi lancio
più complicati – ma venne bloccata da una voce; anzi, da due.
“Non lo so, cazzo, non lo so!” sbottò la voce di DimitrijIvanov: parlava a denti stretti, pareva confuso e
amareggiato, e Nadja fece per andar via, ma la
seconda frase la spinse a restare. “Le mando sms e non risponde, la chiamo e…
Figurati. Le ho pure mandato dei fiori!”
“Tu?!”
la voce di Andrej Sokolov, in squadra con lei e
miglior amico di Ivanov, ebbe il potere di farle
trattenere il respiro.
“Sì, cazzo! Con delle scuse nel
caso l’avessi ferita o chissà che altro…! DaphneHiwatari mi manderà al manicomio con un biglietto di sola
andata!”
Fu quella frase che la spinse ad entrare, facendo sobbalzare i due ragazzi: con piglio
deciso li squadrò, incrociando le braccia. “Cosa provi
per mia sorella?” chiese, fissandolo dritto negli occhi.
Quelli verdi di Dimitrijsi indurirono. “Non sono
affari tuoi.” le ringhiò contro.
“Peccato: ho delle informazioni
che potrebbero esserti utili, ma che non dirò nemmeno morta se non mi dici perché stai tormentando Daphne.”
Quello vide rosso. “Io non la tormento.” sibilò, la voce una lama di ghiaccio. “Lei… Lei è…” con un pugno
affondato nel materasso appoggiato al muro, e i denti serrati, Dimitrij chiuse gli occhi per poi riaprirli lentamente.
“Lei mi è entrata in testa e non ne vuole uscire. E’ lei che mi sta tormentando,
e non so nemmeno perché; sento il bisogno di parlare con lei e non posso…
Perché non mi vuole vedere!”
Andreij
lo fissava, divertito. “Tutto questo si chiama sentire la mancanza, amico. Per te sarà un
concetto nuovo, ma…”
Nadja
sorrise, ma Dimitrij lo freddò con lo sguardo. “Sta’ zitto. Non so che fare: sono uscito con altre ragazze e
non è servito; mi sono imposto di non pensarla e non ci riesco… Che devo fare?”
Scosse la testa. “Tu e mia
sorella sarete pure i poli opposti tipo nord e sud, ma una cosa in comune ce l’avete: siete testardi
da morire. La cosa che vi tormenta è sotto gli occhi di tutti e voi la negate
perché vi fa piacere.”
“Hiwatari,
se sei venuta qui per fare la maestrina…”
Lei roteò gli occhi. “Mia sorella
è nel tuo stesso stato; quello stato che voi non
riuscite a definire, e da cui vorrebbe fuggire, ma che io vedo chiaramente.”
Andreij
sbuffò, lasciando sprofondare le mani nelle tasche. “Amico, sarai bravo con i
bey e la matematica, ma per queste cose sei proprio negato…”
Quello parve lì lì per perdere la pazienza. “Giochiamo ancora agli
indovinelli?”
Nadja e
Andreij si scambiarono uno sguardo che la diceva lunga,
infine la ragazza sospirò. “Va bene: ecco la storia dal punto di vista di Daphne.”
Hilary posò con cura il suo abito
da sposa – finalmente pronto! –dentro l’armadio, poi sospirò: anche
quella era stata una giornata stressante, volata via tra decisioni, persone che
premevano per avere acconti, o per suggerirle delle idee e tanto altro ancora.
Si sedette sul letto, sbuffando;
per quella settimana, che grazie al cielo si stava concludendo,
stava dormendo in una delle stanze degli ospiti, ed era più difficile di quanto
pensasse. Era sempre stata uno spirito libero e indipendente, una ragazza
diversa dalle altre, che non amava i legami e tutto ciò che poteva minacciare
la sua libertà, ma… Kai era qualcosa di diverso.
Conducevano vite diverse,
separate, lui con la scuola di bey che lo impegnava tutto il giorno, e lei con
il nuovo studio che aveva aperto da pochi mesi… Ma si ritrovavano
la sera quando, stanchi morti, lei si accoccolava tra le braccia di lui e tutto
lo stress, la tensione del giorno pareva sfumare come nebbia.
Con un sorriso appena accennato,
prese un post it: scrivergli sopra Я скучаюпотебе…*²
fu automatico, così come appenderlo nella sua stanza, sopra la testata del suo
letto, in modo che lo vedesse subito non appena rientrato.
Uscì da lì prima che il profumo di lui
le potesse dare alla testa, ma inarcò le sopracciglia non appena vide Takao gironzolare per quel corridoio. “Hai perso qualcosa?”
“Sì, la cucina.”
Lei scoppiò a ridere; lo prese a braccetto, conducendolo
verso l’incrocio con il corridoio più avanti. “Vuoi farmi credere che dopo tutte la vacanze che hai trascorso qui, ancora non ti sai
orientare?”
Lui aprì il frigo, estraendo una torta. “Ho mai avuto un
buon senso dell’orientamento?”
“In effetti no.” Hilary accavallò
le gambe. “Com’è stato l’altra sera, tornare adolescente?”
Lui le rivolse un sorriso che raggiunse gli occhi.
“Fantastico. Assolutamente fantastico. Una sensazione
impossibile da spiegare.”
La donna sorrise. “Di tanto in tanto ci penso: tutta la
gente conosciuta, i tornei, le sfide… Gli amici lasciati per strada…” scosse la
testa, facendo una smorfia. “E’ qualcosa che non posso credere di aver
condiviso con voi.”
Lui le sorrise. “E’ stato qualcosa che comprendeva non solo
lo sport: si trattava di passione, di amicizia, di lealtà, di sentimenti… E’
come se fosse qualcosa di più grande di noi.”
Lei annuì. “Ma ci pensi che ci conosciamo dalla scuola
materna, io e te? E mi hai dovuto
sopportare anche lì, nello sport!” risero insieme. “Come hai fatto?”
Quello scrollò melodrammaticamente le spalle. “Eh, sono un
santo, io.”
Per qualche strana ragione, Hilary si ritrovò ad arrossire,
dopodiché schioccò le labbra. “Okay, mi sa che ho rimandato abbastanza: ti devo
parlare.” lui la fissò, attento.
“Mmm… Noi ci conosciamo da oltre
trent’anni e… Dio, io davvero non saprei immaginare la mia vita senza di te. Ti
voglio bene, per me sei come un fratello, e…” sospirò, come sulle spine,
infine, intrecciò le sue dita con quelle di lui. “Non è che
ti faresti la navata con me, dopodomani?”
Takao sorrise, ricambiando la
stretta delle dita. “Gli amici condividono tutto, anche le navate, no?”
scoppiarono a ridere entrambi, e quando la donna lo abbracciò, lui ricambiò
immediatamente, beandosi di quella sorella mancata alla quale voleva un bene
dell’anima.
Sam e Liz si fissarono,
attendendo il momento buono per darsela a gambe: il matrimonio era solo
l’indomani e, per sfuggire all’ansia, avevano convinto Daphne
a portarle in giro per negozi. la ragazza si era
mostrata entusiasta dell’idea, e in quel momento, in un camerino, stava
provando un vestito Gucci.
In ansia per la realizzazione del piano che avevano ideato solo la sera prima con Nadja,
scattarono sull’attenti quando videro avanzare verso di loro un bel ragazzo, un
po’ più grande di loro, dai lineamenti decisi e i capelli rossi. Nel massimo
silenzio, gli indicarono il camerino, e sparirono per intercettare Nadja che, assieme ad un altro ragazzo dai capelli scuri e
gli occhi color ghiaccio, si era nascosta dietro uno scaffale.
“Andreij, loro sono Liz e Sam; Liz, Sam, lui è Andreij.” fece sbrigativamente. Ci fu un cenno del ragazzo
con le altre due, e poi tutti si concentrarono sulla scena.
“Come sto?” uscendo dal
camerino e facendo una piroetta, Daphne sorrise: il
vestito era a strisce bianche sul pezzo di sopra, per poi sfociare in un blu
deciso nella gonna: si era già vista, e non stava per niente male, ma aspettava
il giudizio delle sue amiche.
Si chinò ad aggiustare i tacchi, gettando i capelli indietro,
ma quando si specchiò perse il colore del volto. “E tu
che ci fai, qui?”
“La stessa cosa che ci facevano i
miei sms, le mie lettere, i miei fiori.” rispose lui, fissandola dritto negli
occhi.
Daphne si morse le labbra. “Proprio
non capisci il significato della parola finito, eh?”
Lui inarcò freddamente un sopracciglio. “Mi hai scaricato
dicendo non può continuare, basta;
poi sei fuggita via. Esigo delle spiegazioni.” quando lei
ammutolì, lui si ritrovò a sogghignare. “Non ci sono… E perché non ci
sono?”
“Forse ho capito che non mi piacevi.” disse tutto d’un fiato lei. “Che il nostro rapporto non poteva continuare:
siamo troppo-”
“Diversi?” il tono da lui usato era quasi ironico. “Che
scoperta. Eppure tu eri quella che capiva le mie emozioni all’istante, e così
facevo io. Ho capito che stavi male persino da un sms, una volta.”
Lei abbassò lo sguardo. “Io sapevo ciò che cercavo, ed era divertimento; non so nemmeno
classificare cosa sei per me.”
Lui sorrise, divertito. “Non lo sapevo neanche io, fino a
quando tua sorella non mi ha detto che sei uscita con NicolaijPetrovic.”
Lei arrossì. “E allora?”
Lui roteò gli occhi, come se non avesse colto qualcosa che
era ovvio. “Conosci AnyaJusupova?”
Sbuffò. “Quell’idiota montata: suo padre è uno degli
sponsor della scuola di bey del mio.”
Dimitrij annuì. “E’ carina… E’ stato
interessante uscire con lei; certo, l’ho scaricata dopo essermela portata a
letto, ma è una tale rompipalle…”
Daphne si sentì invadere da una
rabbia pungente che la colse del tutto impreparata: immaginarsi quell’oca della
Jusupova con Dimitrij,
magari mentre si rotolavano sul letto, era qualcosa di assolutamente-
“Bene.” il suo fu uno sputo, più che una parola. “Ti
suggerisco anche Tamara Vodianova, per completare la
collezione.” ringhiò, furiosa. “Visto che ho scoperto
che tipe ti piacciono.” fece, andando verso la parte opposta della boutique.
“Non mi suggerisci proprio nessuno.” prendendola per il
polso, Dimitrij la fissò, deciso. “Anya è soltanto servita a farmi capire che chiodo scaccia chiodo,
con me, non funziona.” sbuffò. “Quando hai in testa una persona, non c’è molto
da fare.”
Daphne rimase fulminata: aveva visto
migliaia di commedie romantiche, sentito tante dichiarazioni, e più volte i
ragazzi le si erano proposti, ma mai nessuno era
riuscito a farla sentire così.
Ginocchia tremanti, cuore galoppante verso chissà che meta
e rossore improvviso, si sentiva come avesse la febbre, ma guardando gli occhi
verdi di lui, all’apparenza duri e freddi, ma che dentro erano ansiosi di
conoscere una risposta, fece la sola cosa che l’istinto le suggeriva di fare:
gli buttò le braccia al collo e lo baciò, dicendogli con quel gesto tutte le
cose che non si sentiva pronta a dire con le parole.
Due scaffali dopo, Liz e Sam si
schiacciarono il cinque, esultando, e Nadja sospirò: ce l’aveva fatta, finalmente ce l’aveva fatta. Si scambiò
un’occhiata trionfante con Andreij, e sorrise.
Hilary e Karen batterono le mani al racconto di Nadja, facendo completamente arrossire Daphne,
mentre Maryam si limitò a sorridere, contenta per la
nipote.
“Aveste visto, erano così
carini!” esclamò Liz, accavallando le gambe.
“Oh, tesoro, sono così felice per
te.” la bruna sorrise largamente cercando di dimenticare l’agitazione per il
matrimonio.
La ragazza divenne di un colorito tendente al rosso
mattone. “Per favore domani non mettetemi in imbarazzo…” pigolò.
“Se sei fortunata sarai solo
chiamata con lui a ballare un lento al centro della pista.” osservò Maryam, scrollando le spalle e facendo ridere tutte.
Daphne scosse categoricamente la
testa. “Niente lenti, niente foto, niente di niente.”
Intervenne prontamente Nadja per
salvarla, accingendosi a cambiare discorso. “Piuttosto a che ora ci dobbiamo
svegliare domani?”
L’espressione di Hilary tradì la sua agitazione. “Alle
sette, visto che le parrucchiere saranno qui alle otto
e le estetiste alle nove.” respirò a fondo. “Spero solo di non morire d’infarto
durante la notte.”
“Sei sopravvissuta ai preparativi, sopravvivrai
anche al gran giorno.” fece Maryam, pratica.
Daphne si alzò in piedi fissando le
amiche e la gemella. “Che ne dite di andare a nanna?”
Le altre fecero per aprire bocca, ma
Hilary si intromise nel discorso. “Mi sembra un’ottima idea: di filato, senza
intermezzi né pigiama party, su!” quelle sbuffarono per augurare velocemente la
buonanotte, e sparire dalla sala da pranzo.
A quel punto Karen si voltò verso la quasi cognata,
sorridendo. “Sul serio, come ti senti?”
La bruna sprofondò nella sedia, tesa. “Come un parafulmine,
come in attesa di una sfiga qualsiasi.”
“Mh, dodici ore al matrimonio: il
momento più critico.” sorrise Maryam.
Hilary si volse verso la mora. “Mi vuoi far credere che
anche tu sei stata tesa?”
“Certo che sì.” sorpresa come fosse ovvio, l’irlandese
sbatté gli occhi. “Quando fu, al tempo stesso mi sentivo patetica, perché sia
tu che lui avevate già fatto così tanto per me, ma…
Ricordo di aver pensato, la sera prima del matrimonio, che Max avrebbe fatto
meglio a sposare una persona come te, piuttosto che una come me che-”
“Oddio, ma allora è legittimo mettersi a pensare
stronzate!” esclamò Hilary, battendo le mani. “Davvero hai pensato queste
emerite cazzate?!”
Maryam sgranò gli occhi per poi
sorridere. “Sì, ero così nervosa, nonostante lo conoscessi da anni-”
“Ah, non dirlo a me.” fece Karen, sbuffando. “La vigilia
del mio matrimonio mi sono messa in testa che non amavo Takao,
che avevo ancora un mondo da vedere, e miliardi di uomini da conoscere. Se non
ci fosse stata Mao accanto a me, per la paura avrei mandato tutto a quel paese.”
“Chi è che manda tutto a quel paese?” fece la nominata,
uscendo dalla cucina con una torta di pan di spagna e
panna tra le mani.
“Stiamo parlando della paura pre-nozze.”
spiegò Karen, puntando gli occhi sul dolce.
Mao rise, ponendo la torta sul tavolo e prendendo a
tagliarla; per quella sera villa Hiwatari era abitata
tutta al femminile – esclusi i bambini che già dormivano – invece i maschi si
erano trasferiti tutti a casa Kon.
“Ah, è un must.” fece la cinese.
“Tu come stai, Hila?”
“Bah, non male: ho soltanto
voglia di chiudermi in un bagno e vomitare. Oltre a
questo fattore, niente di che.” tutte risero.
“Tesoro, andrà tutto bene.” le assicurò Mao. “E adesso
distraiamoci con questa torta, vediamo un po’ com’è venuta fuori e scordiamoci
le preoccupazioni, okay?”
Max, Takao e Rei si guardarono,
perplessi, come a chiedersi implicitamente se per caso uno di loro stesse
capendo la scena che si srotolava davanti ai loro occhi: in
effetti vedere Kai sprofondato sul divano, con
gli occhi sbarrati, non era una cosa che si vedeva proprio tutti i giorni… Lo
avevano chiamato già più volte, tentando di attirare la sua attenzione, ma
nulla: era come sordo.
Avevano passato una serata a ridere e a scherzare come al solito, e tra le leccornie preparate dal cinese e le
battute degli altri due, le ore erano passate veloci, tra risate e ricordi, ma
in quel frangente… Era bastato qualche istante di silenzio per far cadere il
futuro sposo in uno stato di trance in cui non l’avevano mai visto, e più lo
chiamavano, più pareva sordo a qualsiasi cosa.
Facendo un cenno agli altri due, Rei li mandò nelle altre
stanze, con la scusa di ricontrollare le ultime cose. “Secondo te dovrei
preparare un discorso per domani?” chiese ingenuamente, come se nulla fosse.
Per tutta risposta Kai si alzò, come se non volesse
nemmeno pensarci. “Se te la stai facendo sotto, è del tutto nella norma.”
esclamò, un sorrisetto sul volto.
“Non è affatto così.” ribatté,
voltandosi di scatto.
“Ah, no, uomo di
ghiaccio?” Rei aveva le sopracciglia ironicamente inarcate. “Che hai,
allora?” il russo non rispose. “Kai, domani sarà una
giornata assurda, ed è pressoché normale sentirsi strani, nervosi, agitati…”
“Ti sbagli.” fece lui, scrollando le spalle.
Rei roteò gli occhi. “Okay, mi
sbaglio.”
Per qualche secondo si fronteggiarono,
il russo tutto impettito, fermo nella sua posizione, il cinese tranquillo di
fronte a lui, come in attesa di qualcosa.
“Se stessi sbagliando?” lo chiese all’improvviso, facendo
inarcare le sopracciglia all’altro. “Io sono una testa di cazzo, lei è una
donna in gamba, poi non ho un passato così-”
Trattenendosi per non ridergli in faccia, Rei cercò di fare
il punto della situazione. “Hilary è donna in gamba: lo è sempre stata, e lo
sarà sempre. E non credo non si sia resa conto con chi
si stia sposando, quindi lascia perdere. E lascia stare anche il tuo passato e
robe simili, okay? Avete dei sentimenti in comune, due
figlie. Direi che è sufficiente.”
Kai abbozzò un sorriso. “Si è
sempre fatta rispettare… Fin dal primo momento in cui l’ho conosciuta.”
sospirò. “Messo al tappeto da una trenta centimetri
più bassa di me.”
Rei prese a ridacchiare. “Non me ne parlare: non mi ricordo
quando ho conosciuto Mao per il semplice fatto che lei c’è sempre stata… E la
spuntava sempre, in qualunque situazione.”
Il russo scosse la testa. “Mi avessero detto che avrei
avuto ben tre donne, nella mia vita…” alzò gli occhi al cielo. “Fregato, sono
fregato.”
L’altro ridacchiò. “Ah, donne: croce e delizia. Ma come potremmo fare senza?”
“Veloce, veloce!”
“Muoviti, muoviti!” il gran giorno
era arrivato, e a villa Hiwatari pareva essere
scoppiata una bomba: le parrucchiere sarebbero state lì tra pochi minuti, e
tutte le donne si stavano preparando con i loro abiti, ma il tutto pareva
essere un’impresa titanica.
“Rika, devi metterti i collant!”
Mao inseguì sua figlia, che pareva di gran lunga
intenzionata ad andare alla cerimonia con l’abito e le gambe nude nonostante il
freddo che caratterizzava Mosca.
“Ma oggi c’è caldo! Non lo
vedi che sole?” sbuffò la bambina di nove anni.
“Mammaaaaaaa, io non lo metto il farfallino! Stringe!” piagnucolò
Lee, pestando i piedi.
Vedendo la donna in difficoltà, Daphne
intervenne all’istante, entrando nella stanza e sistemandosi gli orecchini. “Perché non vuoi metterlo? Pensavo fossi
grande, ma evidentemente sei piccolo…” fece, con fare altezzoso.
Il bambino si incupì. “Io sono grande, è che questo stringe.”
borbottò, contrariato.
La ragazza guardò il farfallino, poi lo regolò in maniera
più lenta. “Va meglio?” il bambino annuì. “Ehi, zia, guarda che bell’ometto abbiamo qui!”
Mao, che stava ancora discutendo con Rika,
si volse un attimo. “Sei bellissimo, tesoro.”
Daphne si rivolse alla ragazzina.
“Ti consiglio di mettere in collant: sono così
in con
l’abito che-”
“E’ successa una catastrofe!” tutti si voltarono verso chi
aveva parlato: capelli raccolti in una coda, vestaglia, occhiaie… La sposa era
lì di fronte a loro con l’aria di chi aveva appena visto un fantasma. “Ho un
brufolo, cazzo! Un brufolo gigantesco!”
“Oddio, dove?” Daphne si lanciò
verso la madre, e Mao era indecisa se mandarle a quel paese o partecipare al
loro dolore. “Caspita, è enorme…”
La cinese si avvicinò. “Vediamo questa mostruosità…” ma non
ebbe bisogno di avvicinarsi ulteriormente, perché era lì: spiccava sul mento di
Hilary, brillante come una lampada, enorme, bruttissimo. “Classico: tanto
stress e il giorno incriminato… Puff!”
La bruna sembrava disperata. “Grazie al cacchio, ci sono
io, però, qui con ‘sta roba schifosa.” piagnucolò.
“Che merda! Nelle foto, nel filmino, dappertutto con ‘sto
coso appresso…”
“Okay, calmati.” Daphne esaminò
il viso della madre attentamente. “Chiederemo all’estetista di fare la miglior
base che le sia mai capitata di fare. E di mettere tanto, tanto, tanto fissatore.”
“Mamma! Sono
arrivate le parrucchiere!” esclamò Nadja, dall’ingresso.
“Coraggio, si va.” alla frase di Mao, tutti annuirono.
In casa Kon erano solo in
quattro, ma quella mattina parevano essere più imbranati
del solito: persino Rei e Kai, che solitamente erano
le spalle su cui appoggiarsi, in quel frangente parevano avessero perso tutti i
loro neuroni in un solo colpo.
Infatti, quando venne il barbiere per acconciare lo sposo e
i testimoni, vide soltanto la scena patetica che c’era in quel frangente in
casa Kon: il russo che tentava di allacciarsi la
cravatta, il cinese che pareva essere in cerca di qualcosa assieme
all’americano, e il giapponeseche, ancora in pigiama, tentava di
ricordarsi i passi per procedere alla navata.
“Ehm… Signor Hiwatari, il tempo
stringe… Dovrei occuparmi di lei, oltre che dei suoi amici.” si decise a dire,
accigliato, dopo una manciata di secondi.
Kai borbottò una sequela di imprecazioni, mollò la cravatta sul divano e sbuffò.
“Certo.”
Mentre lo sposo veniva acconciato
a dovere, Takao, disperato, andava in cerca del suo
smoking, tentando di ricordare dove diavolo l’avesse messo: quello di Kai era accanto a quello di Rei, quello di Max era nella
stanza di Lee… E il suo?
Okay, calma: l’ho
portato da villa Hiwatari a qui, ieri?
Quando con orrore si rese conto che non se lo ricordava, si
precipitò al telefono, facendo in fretta e furia il numero di Karen. “Ehi,
amore, ciao.” fece, incerto. “C’è un piccolo problema, ma niente di che… Non è che il mio smoking è lì?”
“Te lo sei portato, zucca vuota.” borbottò la moglie.
“L’hai perso?”
“Chi, io? Ma nooooo…”fece, cominciando a
pensare a dove diamine potesse essere. “Va bene, ci vediamo
tra qualche ora. Ciao, amore, ciao.” e, senza darle
possibilità di replica, chiuse la comunicazione.
Dove diavolo poteva essersi cacciato? Non restava che
chiederlo agli altri…
Quando vide Max e rei girovagare per casa come disperati,
si accigliò. “E’ successo qualcosa?”
“Dicci che hai preso tu le fedi!” sussurrò il biondo, e
quando vide l’altro sgranare gli occhi sbuffò, imprecando. “Le stiamo cercando
dappertutto, e non si trovano, non si trovano per
niente!”
“Kai darà di matto.” osservò Takao, deglutendo a vuoto e immaginando la reazione
dell’amico. “Ma è possibile di debba perdere tutto oggi?!”
piagnucolò. “Non trovo nemmeno il mio smoking, cazzo!”
Gli altri due si accigliarono. “L’hai caricato in macchina,
lo ricordo.” osservò Rei. “Ma poi dove l’hai messo?”
“Non so, guarda, non me lo ricordo proprio.” sbuffò il
giapponese. “E ho girato tutta la casa!”
“Hai controllato tutti gli armadi, tutte le stanze?” Quello
annuì. “Proviamo allora a ricostruire il percorso sia delle fedi che dello smoking, e salteranno fuori.” suggerì Max; sia Rei
che Takao annuirono.
Il giapponese fu tentato di cercare ancora una volta in
giro per casa ma, consapevole che la prima tappa del suo maledetto abito era
l’auto, prese le chiavi e scese in garage. La BMW di Rei era sgombra, e fu soltanto per
pigrizia che aprì il portabagagli, già pronto a tornar su a cercare… Quando
vide l’oggetto incriminato. Restò di sale, per poi rilasciare un sospiro,
sollevato.
“Missione
compiuta!” annunciò agli amici, non appena li vide.
“Non è che per caso c’era anche altro?” chiese nervosamente
Max; Takao scosse la testa, dispiaciuto, poi andò
nell’altra stanza a cambiarsi.
Max e
Rei si fissarono: avevano cercato dappertutto, in ogni angolo della casa, sotto
ogni tappeto, ma pareva tutto inutile…
“Avanti
un altro.” annunciò il barbiere, quando Kai si alzò
dalla postazione: gli uomini si fissarono e con un cenno Rei fece capire a Max
di andare, che ci avrebbe pensato lui a sbrogliare la situazione.
“Ehm, Kai…” iniziò, attirando la sua attenzione. “C’è un
problema.” fece, sospirando, non sapendo minimamente come continuare: in
quell’istante squillò il telefono. “Ehm, scusa; sì?”
“Ehi,
sono io.” fece la voce di sua moglie. “Volevo solo dirti che Lee ha preso le
fedi per esercitarsi meglio nel suo ruolo da paggetto.” ridacchiò. “Quindi non preoccupatevi inutilmente, okay?”
Rei spalancò occhi e bocca, dopodiché sospirò a lungo. “Certo
amore, ovvio.” la salutò non sapendo se ridere o sbattere la testa al muro, e
chiuse la conversazione.
Kai lo fissò,
sospettoso. “Stavi dicendo?”
Scosse
la testa. “Niente… Non hai ancora messo la cravatta: ti aiuto con il nodo?”
“Sono le dieci meno cinque: capisco che la sposa
debba arrivare il ritardo, ma-” Nadja
entrò velocemente nella stanza in cui la parrucchiera e l’estetista stavano
avendo a che fare con sua madre e quando Hilary si voltò verso di lei, rimase
senza fiato. “Sei… Bellissima, mamma.”
Hilary
le lanciò uno sguardo emozionato. “Sono così nervosa, non puoi nemmeno
immaginare quanto vorrei urlare…” la moscovita stava per risponderle che
sarebbe andato tutto bene, ma fu la voce di Maryam a
bloccarla:
“E’ arrivata la limousine!” annunciò dal piano
inferiore, e si fissarono: la sposa era senza dubbio pronta, si poteva andare.
Erano le dieci meno un quarto quando la grande macchina
approdò nei pressi del municipio dove si sarebbe tenuto il matrimonio. Maryam si sistemò l’abito e scese dalla macchina, andando a
prendere il posto come testimone della sposa.
Daphne e Nadja, invece, si posero vicino l’inizio della navata,
pronte a sfilare come damigelle accanto a Liz e Sam.
Quando tutto fu pronto, fu Daisy che cominciò a
percorrere la navata, cospargendo petali di rosa lungo il tragitto, lentamente.
Poi sfilò
Daphne, Nadja e subito dopo
Liz e Sam, graziosissime nei
loro abiti color avorio, percorrendo la navata con i loro bouquet di fresie, e
si andarono a sedere nei primi posti, trepidanti. Le labbra di Mao tremarono vistosamente quando Hilary fece il suo ingresso al braccio di
Takao. E Karen poté giurare di aver
visto Kai trattenere il respiro, alla vista di Hilary.
Tutti gli invitati ammutolirono quando videro la
sposa che percorreva, radiosa, la navata. Nel momento in cui Takao diede un bacio sulla guancia alla migliore amica e le
dita di Hilary si intrecciarono con quelle di Kai, tutti si sedettero.
La cerimonia incominciò, e Nadja
e Daphne si strinsero le mani a vicenda, come a voler
condividere insieme quel momento.
Fu quando Lee portò le fedi e Hilary prese quella
di suo marito, che Mao scoppiò definitivamente in lacrime, commossa. Le
promesse furono altrettanto piene di sentimento e commoventi, e non appena
finirono, le labbra degli sposi si
incontrarono in un bacio che fece scoppiare tutta la sala in un
fragoroso applauso.
Mentre gli sposi venivano
riempiti di riso e complimenti, a Daphne si affiancò
un Dimitrij che all’apparenza aveva un’espressione
neutra, come al solito.
“Sai
che sei sexy in abito da giorno?” ironizzò la ragazza, con un sorriso.
“Non
lo avrei indossato per nessun’altra, Hiwatari.”
borbottò lui.
“Mmm… la prendo per una dichiarazione d’amore spassionata.”
ridacchiò, sporgendosi per baciargli brevemente le labbra.
Nadja,
in bilico sui suoi tacchi alti sette centimetri, ondeggiò pericolosamente, ma venne sostenuta al volo da Andreij,
che la prese brevemente per mano, causandole uno sconvolgimento interiore.
Lo ringraziò con un sorriso e
insieme andarono verso Daphne e Dimitrij
che stavano punzecchiandosi amabilmente su qualcosa: era incredibile vedere il
giovane Ivanov ridere, ma da quando stava con sua sorella non faceva altro.
“Gran bella cerimonia.” Andreij fece sprofondare le mani nelle tasche, emettendo un
sospiro soddisfatto.
“Aspetta di vedere il
ricevimento.” Ribatté Daphne, facendo ridacchiare
tutti. “Oh, Nad: ti sei ricordata di dire a Marina di
registrare Overboard,
non è vero? Sì che lo posso guardare su youtube, ma
in televisione è tutta un’altra roba!”
Nadja alzò
gli occhi al cielo. “Sì, sì, sì, che palle! Sono giorni che
rompi con questa serie televisiva, voglio proprio vedere che diamine ha di
speciale.” borbottò; la gemella fece per ribattere prontamente, ma lei colse il
richiamo dei suoi che, molti metri più in là, stavano facendo le famose foto.
“Dobbiamo andare.” Sbuffò. “Il fotografo.”
Daphne
scosse la testa e, abbandonando la mano del suo ragazzo per dirigersi verso i
suoi genitori, si ritrovò a prendere a braccetto la sorella, un gran sorriso ad illuminarle il volto.
Quella era stata una giornata
importante, ogni secondo era stato scandito da qualcosa di fondamentale che era
accaduto e, in quel frangente sentiva quanto fosse fortunata.
La sua era stata una vita strana, inusuale, piena di colore, amore ma soprattutto di rumore.
C’era rumore quando passava i
pomeriggi a giocare con Daisy ad insegnare al cagnolone a riportare il legnetto indietro; c’era rumore
quando con sua zia Mariam prendeva in giro Max per la
sua abitudine di cospargere ogni cosa di maionese; c’era rumore quando parlava,
ballava, rideva con sua madre, che era stata e continuava ad essere la colonna
portante della sua vita, la sua roccia, il suo pilastro.
E ora continuava ad esserci, questo rumore. Continuava ad
esserci quando faceva solletico a Nadja; quando si
rinchiudevano nella loro stanza a confidarsi delle cose; quando lei si
lamentava per i troppi abbracci. O quando ne sbuffava suo padre – anche se, si
vedeva, ne era segretamente contento – o quando lei gli ricopriva la guancia di
baci, di prima mattina.
Il bello era che c’era anche in
quel frangente, Daphne lo udì distintamente, ma lo udì.
Quando si accostò ai suoi
genitori – emozionati, sorridenti, semplicemente felici – e il fotografo disse loro come
impostarsi, la ragazza sorrise.
Faceva parte della sua vita, non
avrebbe potuto essere altrimenti.
Stretta nell’abbraccio di sua
madre sorrise emozionata dinnanzi all’obbiettivo, e
mentre il flash l’abbagliava, capì più cose: quell’udire più cuori battere allo
stesso ritmo era qualcosa di sublime, di fantastico, di magico. Un cuore prende
a battere per l'eco delle cose che ha nelle
persone.
E l’eco di Daphne era
assolutamente, completamente, irrevocabilmente
sublime.
Una
cosa non da poco.
Fine.
*¹:
alla salute
*²: mi
manchi
Soddisfatti?
Rimborsati?
Onestamente,
spero nella prima, anche perché questa è davvero, davvero la fine di RMA etsimilia; questo vuol dire niente più Daphne,
niente più Nadja, Karen o tutti gli altri personaggi
che RussieMonAmour ha generato. ç.ç
…
Okay,
cerchiamo di guardare avanti. *lo
dice soprattutto per se stessa*
Sapete che è iniziata l’estate,
le vacanze, eccetera eccetera?
Mi scuso con chi in questo
periodo starà sostenendo degli esami, e dopo questa mia ultima affermazione
vorrebbe farmelo crescere per poi castrarmi, ma sono troppo contenta – per
alcuni aspetti.
In fondo, per il fattore esami io
ho già dato. u.u
Tranquilli: l’anno prossimo
ripiglierò il ritmo e ci sarà la vostra vendetta, okay?
However,
visto che è iniziata la cosiddetta bella stagione, io
mi ritiro verso lande desolate.
A scrivere.
Ho in mente un paio di progetti
da sganciare come bombe da Settembre in poi. Quindi,
credetemi, è opportuno che io mi ritiri. (Opportuno… Dipende dai punti di vista. xD)
Prima, però, lasciate che io vi dica
una cosa: noi ci vediamo qui, su efp Martedì 6
Settembre con un’altra mia creazione.
Ci sarete?
Io spero di sì.
Ringrazio tutti coloro che hanno messo la storia tra i preferiti, in da ricordare, tra le seguite, i timidoni che hanno solo letto, e coloro che hanno
recensito: I love yahall!
E, dopo aver fatto tutte le
comunicazioni di servizio, vi lascio.