Scoop - Tutti i Miei Sbagli

di Maybe Charlie Knows
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo [Stars Are Shining Bright] ***
Capitolo 2: *** Rebels, Lovers, Inmates ***
Capitolo 3: *** Scoop [Part 1 - I Bet You Look Good on the Dancefloor] ***
Capitolo 4: *** Scoop [Part 2 – All That She Wants] ***



Capitolo 1
*** Prologo [Stars Are Shining Bright] ***


Non c’era nulla al mondo che potesse essere paragonato all’emozione di essere sfiorate da quel treno in corsa

 

 

 

 

 

 

 

Non c’era nulla al mondo che potesse essere paragonato all’emozione di essere sfiorate da quel treno in corsa.

Aprì gli occhi.

Stranamente, la sua prima aspettativa fu quella di trovarsi davanti ai suoi occhi grigi che la fissavano, con il solito, terribile sentimento nello sguardo.

Rimprovero. Compassione. Rabbia cieca.

Quell’odiosa devozione ricolma d’amore...

Solo le carrozze arrugginite del treno che sfrecciava accolsero le lacrime che presero a scenderle lungo le guance.

La sua vita, era la sua vita a sfrecciarle davanti in quel momento.

Forse, sarebbe stato meglio tenere gli occhi chiusi ancora un po’.

La sua vita la stava lasciando indietro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCOOP

Tutti i Miei Sbagli

 

 

 

 

Prologo [Stars Are Shining Bright]

 

 

 

 

 

(Un anno prima)

 

Take me out tonight.
Oh, take me anywhere,
I don't care, I don't care, I don't care.
Driving in your car,
I never, never want to go home,
because I haven't got one.
Oh, I haven't got one.

 

(The Smiths – There Is a Light That Never Goes Out)

 

 

Si dice che le guide a cui gli uomini fanno riferimento, sin dall’alba dei tempi, nei momenti di difficoltà siano le stelle.

Queste piccole scintille nel cielo, in realtà gigantesche sfere infuocate che attendono soltanto un’esplosione finale, hanno rappresentato figurativamente le divinità di ogni popolo, volontà superiori che dall’alto giocano a dadi con l’universo. Nei momenti di smarrimento, una buona conoscenza astronomica riconduceva marinai e viaggiatori sulla strada di casa.

Quell’anno, nel cielo sopra New York City, le stelle scomparvero definitivamente.

Persino la luna sembrava essersi inchinata alla potenza del fascio luminoso che emanava l’insieme dei grattacieli; ridotta ad una sfera asettica nel firmamento, pochi si soffermavano a guardarla davvero.

A qualche chilometro dal confine con New York City, le uniche stelle erano costituite dai fari dell’automobile che sfrecciava lungo la stradina deserta.

- Dom! Dom! Ma che cazzo fai? -.

L’acuta voce femminile si unì a quello che era l’unico rumore nel raggio di un buon numero di chilometri: il fastidioso chiasso della metropoli, per le orecchie dei passeggeri della macchina, in quel momento era completamente sovrastato dalla musica che le casse dell’autoradio strillavano.

Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go!

Il ragazzo appena chiamato in causa in quel momento era impegnato in una complicata torsione del busto, con cui stava cercando di passare attraverso i due sedili anteriori per raggiungere i compagni sul retro. Nessuno dei presenti sembrava particolarmente entusiasta di quella decisione.

Il sovraffollamento esagerato dei sedili posteriori era considerato, infatti, un valido motivo per prendere a calci Dominic e la sua intraprendenza.

- Charlie, cazzo, rallenta! O questo si ammazza! – Kimberly, graziosa biondina dall’ugola d’ora, in quel momento strizzata contro il finestrino della Jaguar XF rossa, cercò nuovamente di attirare l’attenzione della ragazza alla guida.

Il tentativo fu perfettamente vano: tutti sapevano che ciò che piaceva di meno a Charlie era perdere tempo.

- Certo che sei coglione! – il ragazzo di Kimberly, Calvin, che sedeva accanto a lei cercando un modo per fumare beatamente la propria sigaretta senza uccidere nessuno, tentò di dare manforte alla propria fidanzata. Purtroppo la sua voce risuonò ovattata in mezzo a quella confusioni di arti che s’era creata.

Charlie sorrise, premendo il tacco alto della scarpa sull’acceleratore. Lo sguardo birichino gettò un’occhiata veloce allo specchietto retrovisore, per valutare la reale confusione che regnava nell’auto. Con la coda nell’occhio, vide schiena nuda di Evie contrarsi fra le braccia dello studente russo che aveva conosciuto all’università, seduta su questo a cavalcioni. Evidentemente, lo spazio ristretto non aveva impedito loro di consumare quella liaison composta di pochi vocaboli cercati su Google.

Richie, stretto fra Kim e i due amanti, prese a strillare – Dominic, per l’amor del cielo, torna davanti! – le sue pupille erano ridotte a punte di spillo.

- Avanti, deficiente! – Charlie allungò una mano per afferrare un lembo della camicia di Dominic, trascinandolo a sedere sul sedile anteriore del passeggero. Il ragazzo le rivolse un ghigno storto – Che c’è, Charlie? Hai paura che qualcuno si faccia male? – certo che aveva paura. Ma non l’avrebbe mai ammesso, e per tutta risposta schiaccio nuovamente il piede sull’acceleratore.

La Jaguar XF raggiunse lo stretto e semisconosciuto sbocco per l’autostrada dopo pochi minuti, i quali furono sufficienti perché tutti dimenticassero i motivi del precedente fastidio.

Charlie buttò un’occhiata distratta alle cifre sui quadranti dell’orologio digitale della macchina, mentre attorno a lei scoppiava nuovamente il terribile, familiare caos. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte, perciò erano perfettamente in orario. La scorciatoia che aveva preso, ovvero quella stradina piena di buche che tagliava la zona industriale del New Jersey confinante con NYC, aveva accorciato di gran lunga il viaggio.

- No, Dom, ma se devi morire voglio che sia esclusivamente per causa mia, e non per le tue manie esibizioniste. -.

Li attendeva uno dei rave party più scandalosi e lunghi di tutti i tempi.

La ragazza fece una smorfia: almeno, questo era ciò che aveva detto Freddie. Freddie. Charlie non vedeva l’ora di rivederlo.

- Ahia! – lo strillo di Kimberly per poco non ruppe un timpano a tutti, mentre ad una velocità preoccupante superavano una serie di tir, unici veicoli presenti nella strada statale a quell’ora. Calvin la stava guardando con astio, il finestrino aperto che minacciava di far volare via il cappellino da rapper del ragazzo.

- Non ti azzardare a toccare alcol! – la ammonì severo. La ragazza si massaggiò il lembo di pelle che Calvin le aveva pizzicato.

Era paradossale che, nonostante Calvin fosse uno dei più assidui consumatori di marijuana della loro vasta compagnia, egli fosse completamente astemio e spronasse con un entusiasmo un tantino eccesivo la sua fidanzata ad imitarlo. In quel momento, il ragazzo reggeva in mano una bottiglia di Jack Daniel’s sbucata da chissà dove, che Kimberly stava cercando di riprendersi.

- Cazzo, a cosa serve avere vent’anni se poi il tuo ragazzo ti controlla come se fosse tuo padre? – sbottò questa, senza smettere di tentare di riprendersi la bottiglia.

- Kim, sembra che tu abbia due anni! – gridò Richie, con una mano a proteggere il lungo ciuffo di capelli perfettamente liscio, l’incolumità del quale era seriamente minata dalle contorsioni della ragazza. Il volume della sua voce superò persino quello stellare dell’amica.

Il ragazzo russo e Evie, ormai rimasta seminuda nello spazio angusto che era stato loro concesso, non sembravano disturbati da tutta quella confusione.

- Dio, che imbranati! – si lamentò Dominic, come sempre accadeva quando non aveva la possibilità di essere lui stesso la causa di qualche problema.

Subito dopo Richie incominciò a lamentarsi del proprio fidanzato, Adam, che da un anno a quella parte si occupava dell’organizzazione di qualsiasi party nei dintorni New York a quella parte.

– Non m’importa se deve alzarsi alle quattro del mattino perché deve guidare fino a Ellis Island per ricevere il carico illegale di alcolici! Insomma, stiamo insieme da tre settimane e sembra sia già stufo di me! –.

Kimberly subito si mise strillargli di rimando qualche parola di conforto, citando come esempio le mancanze di Calvin come fidanzato. Quest’ultimo, irritato, incominciò a protestare.

Con una manovra rapida, Charlie sgusciò in mezzo a due autotreni dalle dimensioni preoccupanti, mentre attorno a lei le parole e le assurdità dettate dalle parecchie droghe in circolo nel sangue degli amici aumentavano. Aveva un dannato bisogno di una sigaretta, e non era in grado di dire se avessero già superato lo sbocco, che Freddie le aveva indicato per telefono, che li avrebbe portati al luogo del rave.

Accadde tutto molto velocemente.

- Oh cazzo! -.

- Ma che diavolo succede? -.

- Richie, ho le tue scarpe in bocca! -.

- Qvesto non esserre pvevisto! -.

- Ma che cazzo succede?! -.

Una risata fendette l’aria, cristallina, insieme al suono poderoso dei numerosi clacson che suonarono in quel momento. Un camionista vinse persino il sonno dovuto all’ora tarda per sporgersi dal finestrino e gridare loro un colorito insulto. Charlie prese a ridere ancora più vigorosamente.

Era stata una manovra rischiosa, tipica degli attimi di follia in cui il controllo della ragazza veniva oppresso del suo essere impulsiva. Aveva notato quel lembo di cemento riservato alle chiamate SOS da lontano, e in pochi secondi aveva deciso: una sosta, era proprio una sosta che ci voleva. Ma non con tutta quel blaterare insensato che le intasava le orecchie.

Così aveva fatto stare zitti tutti.

Aveva mosso il volante così rapidamente che nessuno si era accorto di ciò che era accaduto se non quando la berlina si era fermata. Charlie aveva approfittato dello spazio guadagnato nel sorpassare due tir per sterzare bruscamente, in una curva ad U che l’aveva portata a fermarsi esattamente nella banchina.

- Tu sei matta… - una sola voce si aggiunse al silenzio teso che aveva attanagliato la macchina. Charlie si chinò un secondo per recuperare il pacchetto di sigarette e l’accendino abbandonati vicino all’autoradio, prima di alzare gli occhi verso lo specchietto retrovisore.

Due irriverenti occhi azzurri la stavano fissando, senza traccia di riferimento.

Un ghignò comparve sul volto niveo di Charlie: stringendosi al proprio robusto accompagnatore russo, Evie si lascò scappare una grassa risata.

- E per fortuna, perché se non lo ero… - cominciò la brunetta, gettando un’occhiata al mondo oltre il finestrino lucido della Jaguar. La nicotina assunse il controllo dei suoi polmoni, calmando i confusi ingranaggi del suo cervello.

- … Ci provavo col cavolo! – gridò esaltata Evie, portandosi una mano alle costole già doloranti per il troppo ridere. Impossibile non riconoscere il Capitan Jack Sparrow in quelle parole.

Non si poteva discutere con Charlie sulle sue sciocche scelte impulsive: quella ragazza era un gatto che cadeva sempre in piedi, in ogni situazione.

Ed Evie lo sapeva benissimo.

 

 

But she just couldn’t stay,

she had to break away:

well, New York City really has it all.

 

(Ramones – Sheena Is a Punk Rocker)

 

 

- Deficiente! – lo scappellotto con il quale Calvin la colpì determinò la rottura del silenzio che aveva attanagliato i presenti. I rumori opprimenti della centinaia di motori che li circondavano scomparvero, non appena ognuno si fu ripreso dallo spavento ed ebbe focalizzato la nuova missione: uccidere Charlie.

- Ahia! – strillò la ragazza, portando le mani sul punto offeso. Nemmeno quel lieve dolore le cancellò il sorriso dalla bocca, con cui reggeva la sigaretta appena accesa.

- Charlot, non perdi occasione di dare prova della tua idiozia! – commentò con voce strascicata Richie, allungandosi nello spazio fra i due sedili anteriori per controllare attraverso lo specchietto retrovisore i danni che la sua capigliatura aveva subito.

- Concordo! – sbraitò Dominic, facendosi passare la sigaretta dalla brunetta. Se fossero stati appena più intossicati dalle anfetamine di ciò che già erano, avrebbero persino udito il martellare dei loro cuori. Calvin abbracciò stretta Kimberly, la quale con occhi sbarrati ancora non era riuscita a capire ciò che era successo, mentre Evie cercava di spiegare la situazione all’agitatissimo russo, senza ottenere risultati soddisfacenti.

Charlie era un gatto che cadeva sempre in piedi.

- La mia idiozia ci ha appena salvati da una morte orribile: se fossi rimasta senza sigaretta ancora a lungo, probabilmente mi sarei distratta e avrei causato un serio incidente stradale! – premendo con un dito il pulsante per abbassare i finestrini, Charlie commentò tranquillamente i rimproveri degli amici. Una nuvola di fumo azzurrino si mischiò all’aria notturna newyorkese.

- E poi… - proseguì, ignorando il gesto con cui Dominic le stava ordinando di passargli la bramata sigaretta – Non è affatto colpa mia se voi tutti siete deboli di cuore! -.

Sapeva di aver sbagliato, ma ammetterlo avrebbe significato andare contro la propria natura. Stabilire un compromesso con gli altri, imponendo la propria verità con qualche astuto gioco di parole, era il modo più efficace per guadagnarsi un posto altolocato nel mondo. E per rimanervi.

- Avanti, sgualdrinella da quatto soldi! – le rispose Calvin, guardando male sia la ragazza che Kimberly, che a stento tratteneva una risata davanti ai modi dell’amica. – O non arriveremo mai a questa cazzo di festa! – proseguì, ghignando involontariamente, prima di calarsi il cappellino da rapper sugli occhi.

Non ebbero difficoltà a trovare il grande casermone di cemento di cui Freddie aveva parlato. Anche se questo era immerso in un bosco di pioppi di qualche industria produttrice di carta, la musica che stritolava i suoi muri fu un guida più che sufficiente. Era curioso, pensò Charlie mentre imboccavano la strada di ciottoli che li avrebbe condotti a destinazione, che in qualsiasi osto andassero qualche canzone risuonasse nell’aria ad enfatizzare i secondi che passavano. La loro vita era una colonna sonora inarrestabile.

- Dio! Non si respirava più! – non appena la ragazza ebbe spento il motore, tutti si precipitarono fuori dalla Jaguar. Melodrammatico, Calvin si gettò a carponi per terra, come in fin di vita. Kimberly lo guardò a metà fra l’ilarità e il disgusto, richiamandolo a rapporto con un calcio bene assestato sulla natiche.

Charlie appoggiò lentamente il capo al sedile di pelle. Sospirando, schiacciò con forza il mozzicone di sigaretta nel posacenere della macchina.

- Fuori. Di. Qui. -.

Si aspettava di essere completamente ignorata nonostante il tono minaccioso della sua voce. Gli ansiti impudichi che provenivano dai sedili posteriori erano una prova che da quelle parti avevano di meglio da fare che stare a sentire gli strambi vaneggiamenti di una povera matta.

- Ho detto fuori! – Evie ebbe quasi un infarto quando la portella posteriore della Jaguar si aprì di scatto. Spalmata com’era fra la pelle dei rivestimenti e i pettorali del seducente russo, nessuno avrebbe potuto biasimarla per non aver sentito gli avvertimenti di Charlie. Anche se in realtà l’aveva sentita eccome.

- Non fare la puttanella! – Yorek, le mani del quale erano strette saldamente alle natiche della biondina, guardò interrogativo la moretta in piedi prima di biascicare chissà cosa in russo. Evie annuì, stringendo appena il muscoloso braccio del ragazzo per rassicurarlo, senza in realtà capire alcunché delle sue parole. – Lasciaci la macchina! -.

Charlie sorrise dolcemente.

- Oh, non ci penso nemmeno. – disse, picchiettandosi la tempia con l’indice. Non aveva dimenticato le cifre sul conto dell’officina dopo l’ultima vota che aveva lasciato Evie sola con la propria automobile. Passarono esattamente cinque secondi, il tempo necessario perché si consumasse una battaglia di soli sguardi.

- Vi aiuto a sgomberare – ghignando, la ragazza si allungò ad afferrare la canotta bianca di Evie e la maglia dello studente, gettandole con un movimento rapido sul terreno polveroso che li circondava. Subito si levarono le grida di protesta di entrambi, smarrendo ogni passione nella notte.

Mentre i due amanti si rivestivano, Charlie osservò il proprio riflesso sui finestrini della Jaguar, scandagliandone i difetti. I capelli lunghi fino alle spalle, di uno strano rossiccio che sfumava in un castano scuro sulle punto a causa di numerosi residui di tinta, si stavano già arricciando sulle punte in un mosso per Richie avrebbe definito “insulso ma molto grunge”. Charlie notò con una smorfia che erano anche un tantino secchi. Si avvicinò al vetro, passando i pollici sul trucco sbavato degli occhi, creando involontariamente lunghe linee nere agli angoli cercando di sistemare la matita. Ciò che rimaneva del kajal rendeva ancora più grandi gli enormi occhi marroni che risaltavano sull’incarnato di un pallore quasi spettrale.

Annoiata, si chinò per aggiustare una delle parigine nere, scesa fino alla caviglia a coprire sgarbatamente le décolletés dello stesso colore, per poi tirare su con una mossa molto poco fine gli shorts di jeans a vita alta che aveva indossato su una larga maglia bianca dalle scritte nere a caratteri cubitali.

“I felt like destroying something beautiful.”

- Certo che sei proprio una stronza… - recuperati i vestiti, Evie liquidò il fusto europeo con un mix d’inglese ed invenzione, osservandolo con una strana malinconia dirigersi verso l’edificio straripante di vite. Nonostante però Charlie la stesse aspettando appoggiata alla Jaguar per raggiungere con lei la festa, la biondina alzò il naso al cielo scuro, superandola sibilandole dietro quelle parole e ancheggiando in equilibrio precario sui tacchi a spillo. Arrabbiata, e sicuramente menzognera.

- Yawp! – l’urlo barbarico di Charlie si perse nell’eco della musica, mentre questa prendeva la carica per saltare addosso a Evie, di spalle. Allacciando le braccia attorno al collo dell’amica, si avviluppò al suo corpo con le gambe, facendo perdere l’equilibrio ad entrambe.

Lo strillo di Evie minacciò seriamente di procurarle gravi danni ai padiglioni auricolari.

- Cretina! Cretina, cretina, cretina! Mollami! – mentre la biondina si dimenava, Charlie la stringeva sempre più forte. I loro corpi sollevarono una nube di polvere dal terreno arido, rendendo la scena ancora più comica per i malcapitati che ebbero la sfortuna di assistere a quello spettacolo. Chi riconobbe invece i volti familiare delle due ragazze, semplicemente tirò dritto crogiolandosi in una risata.

Tipico di Charlie, tipico di Evie.

- Avanti, mollami! – quando finalmente la biondina riuscì a liberarsi, entrambe erano coperte di polvere, scarmigliate e rosse in volto, Charlie dalle risate che la scuotevano, Evie dalla vergogna e, suo malgrado, dall’ilarità. – Muoviti! – dopo essersi ricomposta, si rimise in piedi, afferrando l’amica per un braccio mentre questa continuava a ridere. – Avanti! – la biondina non poté fare a meno di unirsi al divertimento di Charlie. Tenendosi per mano, corsero verso l’entrata affollata del magazzino, ridendo sotto le loro fortunate stelle invisibili.

Buio. Gente. Caos.

Erano queste le parole che Charlie usava generalmente per descrivere un rave party di quelle proporzioni.

Adoravano, le feste, tutti loro. E quella, come Freddie le aveva promesso al telefono, era il party del secolo.

- Vado a cercare Yorek! – le gridò Evie in un orecchio, lasciandole la mano per inoltrarsi nella folla che saltava, intrappolata in quelle quattro mura di cemento armato che chiudeva fuori dal mondo quel momento di estrema libertà. Charlie annuì, nonostante l’amica fosse ormai sparita, inspirando a fondo l’odore di chiuso e di sfrenatezza che quel posto emanava. Kimberly, Dominic, Richie, Calvin: chissà dov’era finita tutta la gente con cui era arrivata.

Poco male.

- Troietta! – quello che a prima vista le sembrò soltanto una sfocata, bassa sagoma di un rosso fiamma le saltò addosso. Charlie traballò visibilmente, scontrandosi contro un tizio dietro di lei che, gentilmente, la prese per la vita evitandole una brutta caduta. Prima che la ragazza potesse voltarsi per ringraziarlo, questo scomparve nella calca di persone.

- Carrie, quanta anfetamina hai già ciucciato? – domandò cinica la moretta, allacciando le braccia attorno alla vita della compagna d’università col solo fine di farle il solletico ai fianchi. Carrie si contorse come una biscia, i capelli ricci e rossi allo sbaraglio, per poi alzare le braccia al cielo e voltarsi verso la fonte della musica spacca timpani. – Adoro questa canzone! – gridò.

- Sai dov’è Freddie? – sporgendosi verso l’amica, cercando di sovrastare la tanto amata da Carrie “Hey Boy, Hey Girl” dei The Chemical Brothers. Qualcuno, di cui fu impossibile distinguere il volto a causa delle luci stroboscopiche, le urtò entrambe, facendosi largo con forza fra di loro. Per un attimo, Charlie temette di essere trasportata via dalla corrente di folla che ballava, ma ritrovò miracolosamente Carrie dopo poco. Suo malgrado, si dimenticò della domanda e cominciò a saltare su e giù come una pazza.

L’importanza della fonte di quella musica elettronica, dura e ritmata ad un volume infernale, era meno di zero: ogni nota si confondeva nell’aria satura di vita che stavano respirando, entrando nelle loro vene e piegandole alla propria volontà. Intrecciando le dita a quelle dell’amica per trovare la sicurezza di un appiglio in quel vortice, alzò il braccio libero al soffitto nero come il cielo senza stelle, che in quel momento stava probabilmente ridendo di quella fame di distruzione.

La cosa che Charlie adorava di più dei rave party di quel genere era propri il ridursi delle luci a centinaia di piccoli fasci. In quel momento sulla folla, che riempiva il casermone tanto da eliminarne in apparenza i confini, pendevano strascichi di un bianco abbacinante, che scomparivano ad intervalli irregolari. Per pochi secondi, ogni persona si ritrovava sotto un riflettore che la poneva al centro della pista da ballo, sotto gli occhi stancati dal buio di tutti i presenti. Un momento di gloria, che svaniva in fretta ma che durava abbastanza da concedere la possibilità di gridare, cantare ed esaltarsi sotto gli occhi di tutti.

Dio, ci si sentiva così bene. Mentre i residui degli stupefacenti che a New York aveva preso le provocavano un ultimo, leggero trip, mani e corpi sconosciuti si scontravano col suo difesi da quella luce effimera e volubile, che appunto concedeva pochi attimi di vana gloria e forniva un alibi al buio perché questo compisse la propria magia. Vivevano di notte, vivevano della notte, ma si nutrivano anche di incontrollabili bugie che nascondevano attraverso quell’imitazione della luce.

Ballarono per giorni, o forse solo per un’ora, Charlie e Carrie, incontrando gli occhi di compagni di facoltà, persone dabbene e noti frequentatori di feste, tutte persone che puntualmente partecipavano ad incontri del genere e che comunque non si astenevano dal divertirsi. Non potevi non partecipare alla movida serale, se vivevi nei dintorni di New York.

- Dov’è Freddie? – quando Charlie rimembrò di aver seguito Carrie nella pista da ballo proprio per chiederle del loro amico, nulla attorno a loro era cambiato. Qualcuno, evidentemente improvvisatosi deejay, stava mixando un pezzo dei Daft Punk. Ci vollero parecchie dosi di fiato e molta voce sprecata prima che la ragazza recepisse il messaggio.

- Dobbiamo salire! – strillò quindi in risposta, afferrando ancor più saldamente la mano di Charlie. La moretta seppe immediatamente la portata titanica dell’impresa che si accingevano a compiere: uscire indenni da quella confusione.

- Ciao! Ehi! – tutte parole consumate, pensò Charlie mentre insieme a Carrie tentava di aggirare la folla, distribuendo ceni di saluto con capo e mani ai volti, più o meno noti, che nel buio le riconoscevano. Salutare aveva perso il proprio significato nel numero di volte al giorno in cui una persona usava la parola “Ciao”: in quel momento, ad esempio, nessuno aveva idea della persona con cui stesse parlando, ma quell’ignoranza andava lo stesso bene. I fumi dell’euforia le avrebbero comunque impedito di ricordarsi quel pensiero, perciò con un’alzata di spalle si scrollò di dosso ogni briciola di ragionevolezza, mentre scorgeva il volto di una compagna di facoltà fra la folla e le indirizzava un caloroso – Ciao! -.

- Dove hai detto che dobbiamo andare? – strillò Charlie, dopo che furono passati una manciata di lunghi minuti da quando avevano intrapreso la ricerca di quei “piani superiori” di cui la brunetta non sapeva nulla. Per tutta risposta, Carrie la strattonò per la maglietta, indicando oltre il mare di testa ondeggianti gli ampi gradini di cemento di una scala incassata fra alcuni muri pieni di crepe. La ragazza tirò un sospiro di sollievo: cominciava ad averne abbastanza di dimenarsi come una matta in mezzo a tutte quelle persone.

- Ehi! Charlie, ehi! Vi fate uno shot con noi? – da quando si erano conosciuti, qualche anno prima, Charlie aveva imparato che Dominic aveva la straordinaria capacità di agire in modo sbagliato sempre al momento sbagliato.

In quel momento, ad esempio, stava richiamando l’attenzione delle ragazze con occhi maliziosi, fin troppo sgranati, ed una bottiglia dall’etichetta illeggibile in mano. A Charlie ci vollero pochi secondi per notare il lungo tavolo addossato alla parete, lontano dalla pista da ballo improvvisata, quasi sepolto da quella che sembrava una fornitura di alcolici di vario genere per un anno.

- Certo, perché no? – prima che la brunetta potesse dire qualsiasi cosa, Carrie si lanciò in avanti. Con un sospiro ed un ghigno, Charlie la seguì, ripromettendosi di far presto.

Mezz’ora più tardi, le due ragazze riuscirono finalmente a giungere ai piani superiori.

Salendo le scale a gattoni.

 

 

With the lights out, it’s less dangerous:

here we are now, entertain us.

I feel stupid and contagious:

here we are now, entertain us.

 

(Nirvana – Smells Like Teen Spirit)

 

 

Freddie spense l’ennesimo mozzicone di sigaretta sul fondo di un posacenere già pieno, guardando le persone sedute attorno al tavolino ingombro. La luce soffusa della stanza e i drappi di nylon, tipici di luoghi in ristrutturazione, che pendevano dalle pareti conferivano all’ambiente un aspetto inquietante. Le pareti sembravano tremare, a causa del volume alto della musica che proveniva da sotto.

- La verità è che stiamo ritirando le truppe, ma continuiamo a sfruttare ogni centilitro di petrolio su cui abbiamo messo le mani, con la guerra… - il volto del ragazzo che stava parlando non gli era familiare, per niente.  Nessuna delle facce che lo circondavano lo era. Una ragazza dai lunghi capelli biondo platino seduta al suo fianco gli passò una canna, che era stata evidentemente appena accesa. Freddie aspirò una lunga boccata prima di passarla al proprio vicino.

Si stava annoiando da morire.

Aveva promesso a tutti che la festa per il suo ritorno sarebbe stata grandiosa, ed infatti era attorniato da facce sorridenti e occhi a punte di spillo. Dopo sei mesi in Tibet per imparare le tecniche di meditazione buddhiste, che aveva poi concluso con una fuga last minute per la Giamaica quando si era reso conto che la sobrietà e il nirvana non facevano per lui, aveva programmato una festa trionfale in cui avrebbe potuto sballarsi come un tempo. Un classico rave party nello stile della periferia newyorkese.

Si stavano davvero divertendo tutti come pazzi.

Tranne lui.

La musica, nonostante fosse lontano dalla fonte di essa, stava cercando di ammazzare i suoi neuroni. Quelle conversazioni su argomenti seri e attuali, che solitamente erano il pane quotidiano per uno come Freddie, non lo stavano esaltando per nulla. Si trattava dei soliti aspiranti anticonformisti che ribadivano opinioni già sentite, magari che avevano letto di sfuggita su qualche stupido blog; tentare la scalata alla gerarchia sociale della gioventù di New York prevedeva fingere di essere un disadattato, un ribelle.

Bah.

- Freddie! Oh, perché sei tu Fredriko? – la bionda seduta al fianco del ragazzo strillò all’improvviso. Freddie impiegò più tempo del previsto per riconoscere la figura che era appena saltata sulle sue cosce, rischiando di rompergli un femore e annebbiandogli la vista dal dolore.

Più tardi, si sarebbe rimproverato per non aver intuito subito un nome così ovvio.

- Zia Mildred! – Charlie sorrise d’istinto quando Freddie la salutò con l’antico soprannome con cui l’aveva contraddistinta. Nonostante i mesi che li avevano visti separati, sembrava fosse trascorso solo un giorno dall’ultima volta che aveva abbracciato l’eterno compagno di banco dell’università. Ignorando le occhiatacce di chi la stava maledicendo per aver distrutto l’atmosfera drammatica della conversazione, la ragazza affondò le mani fra i lunghi dread scuri di Freddie.

- E questi? Sono una manifestazione del Bob Marley che c’è in te? – gracchiò, con una voce che suonò insolita anche al ragazzo che da tanto tempo non la vedeva. Questo storse il naso quando una zaffata di alito alcolico lo investì in pieno, dandogli la prova che lo sguardo allucinato di Charlie non era soltanto frutto di un’ordinaria follia.

Alle loro spalle, si udì un grosso fragore di vetri infranti. Tutti si voltarono a vedere cos’era accaduto, e prima che Freddie avesse il tempo di rispondere alla domanda dell’amica, l’intero primo piano del palazzotto godette dello spettacolo della minigonna pericolosamente alzata di Carrie, stesa sul pavimento al centro di un mare di cocci di bottiglia.

- Mi sono rotta le calze! Kimberly! Voglio telefonare a mia nonna per chiederle di mandarmi una fetta di torta di mele! – La risata generale che animo il via vai di gente riempì ancora di più la stanza che, sebbene mancasse della soffocante massa che al piano di sotto ballava sfrenata, possedeva un’atmosfera di tranquilla psichedelica. Forse era a causa del fumo che formava nuvole dai colori indefiniti sul soffitto, forse per l’insieme di suoni così diversi che colpiva i cervelli di ognuno, stare soltanto per qualche minuto in quel luogo sballava.

Charlie si accorse solo in quel momento della presenza di Kimberly in un angolo della stanza, troppo distratta dalle mani di Calvin sul proprio fondoschiena per accorgersi dell’esilarante richiesta d’aiuto di Carrie. Dopo aver lasciato consumarsi la propria risata nell’aria, la ragazza afferrò la mano di Freddie, invitandolo ad alzarsi dallo scomodo divanetto sfondato su cui erano seduti. Non si curò nemmeno di chiedere scusa alla biondina al loro fianco, che urtò più volte perdendo l’equilibrio.

Mentre guardava Charlie farsi spazio fra i presenti, raggiungendo l’amica per darle una mano, Freddie ebbe uno strano presentimento.

- Chiedile di portarti altra grappa, non una fottuta torta! -.

Appunto.

Charlie si lanciò a terra, proprio dove era concentrata la maggior parte del vetro infranto. Si levarono immediatamente urla scalmanate.

- Mi sono tagliata il ginocchio! -.

Un quarto d’ora e numerose grida più tardi, Freddie, Carrie e Charlie riusciurono ad allontanarsi dal disastro che la seconda aveva provocato sgusciando fra i vecchi mobili coperti dal nailon e grovigli di corpi. Lontano dalla conversazione politica ancora in corso degli sconosciuti, un altro nugolo di divanetti nascondeva un parte dei loro amici.

Evie e il suo bel macho russo sembravano attenderli già da un pezzo: la ragazza infatti sedeva a braccia conserte fra i cuscini sfondati, dimostrando l’assenza delle proprie qualità di attrice cercando di nascondere il proprio fastidio con scarsi risultati. Il povero Yorek invece stava cercando di comunicare con il poco inglese che conosceva quanto gli sarebbe piaciuto tornare a parlarsi con il linguaggio del corpo.

- Oh! Freddie! – la biondina scattò in piedi sorridente non appena vide l’amico. Il contrasto fra la pelle lattea di Evie e quella olivastra del ragazzo assorbì tutta la nostalgia che Charlie aveva approvato in assenza di Freddie. La ragazza si lasciò cadere sul posto appena liberato da Evie, trascinando Carrie al proprio fianco.

- Pezzente, sei tornato!  - prima che questo avesse il tempo di sedersi, Calvin sbucò dal nulla, saltando alle spalle dell’amico. Entrambi caddero con un tonfo su uno dei divanetti, mentre Kimberly compariva la seguito del fidanzato, esasperata.

Mentre Freddie rievocava i ricordi dei mesi appena trascorsi, i fumi dell’alcol evaporarono fra le chiacchiere scherzose di quel gruppetto, in contrasto con l’atmosfera cupa del luogo. Quando Charlie sentì i propri pensieri farsi pesante, si allungò per afferrare una bottiglia di vodka abbandonata sul tavolino impolverato.

- Vorrei sapere – chiese Evie, riprendendosi dal torpore rilassato in cui era piombata – da dove è sbucato fuori tutto questo alcol! – scoprendo di non avere alcuna risposta da darle, tutti si limitarono ad annuire pensierosi.

- Hanno fatto una… emh, colletta, dalle parti del Bronx. Almeno, così mi ha detto Adam! – affermò con un ghigno malizioso Freddie, ricevendo un cambio un sorriso dai presenti, scatenato dalla consapevolezza che “colletta” era una parola fin troppo innocente per descrivere il modo in cui erano stati probabilmente ricavati i soldi.

- Colletta? Io non ho sborsato nulla! Non lo sapevo! – ovviamente pensò Carrie a distruggere la battuta sottintesa dal ragazzo.

- Ah, certamente! – dopo essersi allontanata con disgusto dal divanetto quando Kimberly e Calvin, in preda ad un’impudica passione, le si erano strusciati contro, Charlie sfoderò un’espressione maliziosa – Tanto tu non conosci nemmeno il tuo nome! E, spilorcia come sei, se anche avessi saputo non avrei donato un cazzo! – in piedi davanti a tutti, svuotò la bottiglia.

- Zitta, puttana. – Carrie scosse la testa: era abituata al cinismo improvvisato di cui Charlie spesso faceva sfoggio.

La brunetta chiuse gli occhi col sorriso sulle labbra, inspirando a fondo l’odore di quel posto e dei corpi della gente che la circondava. Poi si voltò verso Freddie – Avanti, vieni! Mi devi un ballo dall’ultima volta. – allungò una mano verso l’amico, che scosse la testa ridendo.

- Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica, e tu, mia cara, sei completamente fuori di testa. – con voce solenne, Freddie pronunciò quelle parole prima di prosciugare le ultime gocce di liquore contenuto nella propria fiaschetta. Ignorò l’espressione beffarda della ragazza, afferrandole la mano per alzarsi in piedi.

- Tu e il tuo stupido Nietzsche. – commentò Charlie con una risata immune alla forza di gravità, tenendo l’amico stretto per un braccio. – Avanti, cazzoni! – incitò gli altri a seguirli, pur sapendo che tutti avrebbero concesso un momento d’intimità al legame profondo che possedeva con Freddie. I due si avviarono attraverso il turbine di persone strafatte della stanza.

- Charlie, tesoro! Sei un incanto di dettagli… trash! – erano quasi arrivati alla rampa di scale quando Charlie fu bloccata da Adam, il ragazzo di Richie. Il look stravagante composto di ciocche di capelli multicolor e numerosi piercing fece sorridere la ragazza quasi più del commento dell’amico al proprio abbigliamento.

- Gran festa, amico. – disse Freddie con un sorriso, sollevato all’idea che il supplizio del ballo con Charlie era stato rimandato. Nonostante quel genere di party non fosse proprio il suo genere.

- Oh, andremo avanti per giorni! Ed è tutto per te, dolcezza! – Adam, esaltato dall’idea che il festeggiato (anzi, il pretesto) del rave party fosse soddisfatto dell’organizzazione, prese a saltare sul posto. – Fredriko adora la musica techno, vero Freddie? – ovviamente Charlie non poté fare a meno di girare il coltello nella piaga che sapeva essere più dolorosa per l’amico.

“Io detesto questo rumore”.

- Venite! Vi devo assolutamente presentare delle persone adorabili! – in pochi secondi la ragazza si ritrovò ad essere trascinata nuovamente in mezzo a quei corridoi di persone. Fece in tempo solo a voltarsi per afferrare saldamente la mano di Freddie e portarselo dietro, mentre Adam si perdeva in un soliloquio che Charlie non avrebbe ascoltato.

Ovviamente, essere trascinati in giro per il piano superiore da Adam comprese nel pacchetto Richie, che sembrava aver dimenticato ogni disguido col fidanzato. Ogni nome che i due ragazzi associarono ai volti delle persone presentate scomparve quasi all’istante dalla mente di Charlie; era un continuo camminare, sorridere, fingere di udire qualche discorso banale e poi camminare ancora, alla ricerca di gente tutta uguale e di un ulteriore vita sociale di cui lei non aveva bisogno. Freddie la seguiva, paziente, ridendo delle smorfie della ragazza quando le questioni si facevano noiose, o delle battutine sarcastiche con cui spronava Adam a cambiare aria.

- E loro sono… - Freddie cominciò a dare segni d’impazienza quando Charlie perse il conto delle facce nuove appena conosciute. Se infatti prima il ragazzo era stato quasi sollevato dalla comparsa di Adam, che aveva rallentato l’avanzare della tortura del ballo, adesso si sentiva al limite della sopportazione. E la propria beffarda amica non lo stava aiutando per niente.

La ragazza dunque non sentì i nomi che Adam le disse, troppo occupata a tenere a bada la risata che l’espressione cianotica del moro le stava suscitando. Lo sguardo che il ragazzo le lanciò fu più che eloquente: sembrava gridare il ticchettio dell’orologio, mentre il tempo che le aveva messo a disposizione si esauriva in velocità.

Hai ancora cinque minuti.

Dopodiché l’avrebbe piantata in asso.

Charlie osservò i quattro soggetti che aveva di fronte, sospirando poi rincuorata. Per lo meno, non si sarebbe persa nulla: apparivano tutti irrimediabilmente gay.

Il primo aveva spalle ricurve, occhi socchiusi e una smorfia apatica che strideva brutalmente con l’abbigliamento vivace, dalle sfumature giallo uovo e magenta. Al suo fianco una massa di capelli mossi andava a coprire un viso forse carino, ma agitatissimo: il ragazzo in questione infatti si guardava attorno nervosamente, spostando il peso del corpo dalle punte dei piedi ai talloni in modo ossessivo, e stringeva le gambe come se stesse trattenendo un bisogno fisiologico urgente.

Gli altri due erano quasi un’antitesi dei compagni. Uno continuava a lanciare occhiate maliziose a qualunque oggetto si muovesse nella stanza, il che la diceva lunga. Quell’atteggiamento era enfatizzato dalle furtive palpatine che esso riservava al proprio cavallo dei pantaloni.

L’ultimo quasi non s’accorse della voce di Adam, che s’era abituata a ripetere il nome di Charlie come una macchina ad ogni essere vivente gli capitasse sotto tiro. Lo sconosciuto fumava una sigaretta, incurante della possibilità di bruciare con questo uno dei tanti passanti che si spingevano l’un con l’altro per una fetta d’aria pulita. Ogni tanto, alzava la mano libera per sistemare la fascetta colorata che aveva attorno al capo.

Mentre il tizio dalla visibile eccitazione rispondeva con una battutaccia a chissà quale commento di Richie, Charlie prese a guardare più attentamente quel personaggio: qualcosa, nella direzione degli occhi di cui non era ancora riuscita a decifrare il colore, sembrava attrarla più che mai.

Nonostante sapesse che individuare l’oggetto dell’attenzione del ragazzo era impossibile, in quella folla, la brunetta si ritrovò a seguire la direzione del suo sguardo. Si alzò istintivamente sulla punta delle scarpine col tacco alto, per ergersi ancora di più.

In un angolo, dopo un’attenta ricerca, trovò Evie incollata a Yorek contro un muro remoto: l’immagine durò un istante, prima che qualcun altro subentrasse ad offuscarle la visuale.

La ragazza non si era curata del fatto che gli altri avrebbero potuto giudicare strana quella sua posizione, quei suoi movimenti: si riscosse solo quando Freddie la strattonò leggermente, curioso e sempre più frustrato. Qualcosa, nell’istintività dell’azione, richiamò lo sguardo dello sconosciuto.

Charlie alzò il sopracciglio, fissandolo di rimando senza alcuna intenzione di abbassare gli occhi. Era sicura, anche senza certezze concrete e motivazioni, che quel ragazzo, fino a qualche secondo prima, avesse osservato Evie e il suo compagno di giochi da lontano.

E ancora non riusciva a capire di che colore fossero quegli occhi…

Il ragazzo le sorrise.

- Ci piacerebbe molto rimanere – reagendo ad un riflesso insensato, Charlie interruppe un discorso del gruppo a cui lei non aveva mai avuto intenzione di partecipare, ghignando in un’imitazione volutamente scadente di affabilità – ma Freddie si sta perdendo la maratona notturna de “Gli Antenati” e questa mancanza potrebbe causargli traumi psicologici molto gravi. – la sua voce risuonò seria solo in parte, nell’ironia di quei significati. Nessuno, di primo acchito, fu in grado di risponderle.

Freddie scoppiò invece in una fragorosa risata.

- A proposito, hanno allestito dei bagni da quella parte. Non vorrei che te la facessi sotto. – la ragazza si sporse in avanti, la mano sulla bocca nonostante stesse urlando per farsi udire, in un gesto confidenziale che lasciò di stucco il tipo più nervoso dei quattro. Subito dopo, afferrò ancora più saldamente Freddie, trascinandolo lontano, nel tumulto.

Sentiva addosso tutta l’adrenalina che solitamente provava dopo una presa in giro di quelle proporzioni.

- Richie ti ucciderà col rossetto – commentò Freddie sghignazzando, quando arrivarono alle scale. Charlie annuì, mentre la musica riprendeva a fluirle nelle vene. – E adesso, spariamoci questo cazzo di ballo! -.

 

****

 

Era ormai l’alba quando si stufarono di dimenarsi come matti, e cercarono di trovare sia il resto della truppa, sia un’uscita da quell’inferno. Inutile dire che l’impresa costò loro una mezz’ora intensa e sfrenata.

Quando si ritrovarono a ripercorrere il sentiero polveroso che portava al parcheggio improvvisato, avvertirono nelle ossa la stanchezza soddisfatta dell’ennesima notte di baldoria ormai sperperata, buttata in quello che era il loro mondo. Evie e Charlie si cercarono silenziosamente, nella camminata verso la macchina, come quasi sempre accadeva. La biondina sentì la mano dell’amica intrecciarsi alla propria, e avvertì ogni muscolo rilassarsi.

- Qualcuno ha visto Dominic? – chiese flebile Carrie, barcollando paurosamente. Nell’aria non si levò nemmeno una mosca.

Calvin faticò a reprimere un grosso sbadiglio. – Guidi tu? – disse, mentre abbracciava Kimberly, la quale era sul punto di addormentarsi in piedi. La domanda era rivolta implicitamente a Charlie.

Freddie corrugò la fronte quando nessuna risposta si levò dall’interpellata. Non era un comportamento tipico di lei non riversare la propria acidità da fine serata sul primo malcapitato disposto a rivolgerle la parola. Sia il ragazzo che Evie si voltarono a guardare Charlie, osservandola farsi viola in volto.

Senza che nessuno aggiungesse altro, tutti si spostarono lontano dalla brunetta, che si piegò in avanti. Ogni veleno ingurgitato quella notte si riversò in amari fiotti nella bocca della giovane, finendo sulla terra arida e liberandole il corpo. Sapeva che non avrebbe dovuto annodare la maglia sopra l’ombelico, in un attimo di furore nella pista da ballo.

Eppure, nonostante l’attacco di vomito e il mal di testa di tutti, Charlie non riuscì a non guardare il cielo tingersi di colori improbabili, delle mille sfumature che componevano la sua vita. Usando l’immaginazione, vide oltre il fitto degli alberi del bosco che li circondava, New York sorriderle come una vecchia amica. Le braccia di quella notte appena passata li lasciò liberi di prepararsi alla prossima avventura, andando ad accatastarsi alle proprie simili fra i ricordi.

- Stai bene? – la voce di Kimberly non avrebbe potuto essere più chiara.

C’era una luce che non se ne andava mai.

Stava benissimo.

- Guida tu! – frugando nella borsa, e notando con sollievo che niente era stato rubato, lanciò le chiavi della propria preziosa Jaguar a Freddie, che le afferrò con notevole prontezza per essere stato sveglio tutta la notte a ballare insieme a lei. Charlie si dimenticava sempre dell’infinita resistenza di Freddie.

E, mentre qualche minuto dopo, il profilo della beneamata metropoli si delineava all’orizzonte, la ragazza socchiuse gli occhi pigramente, osservando il sole nascere e il proprio desiderio di vita crescere con quello, come le era accaduto per tutta la vita.

Le stelle, le sue stelle madrine, non avrebbero potuto brillare più di così.

 

 

Alibi che attenuano l’oscenità
riflessa intorno alle bottiglie vuote
dai suoi vent’anni opachi e rispettabili:
così si sa che c’è qualcosa che non va.

 

(Subsonica – Albascura)

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

Okay, eccomi qua con una storia tutta nuova. E’ la prima volta che mi cimento nel campo Originali e, sinceramente, sono un po’ preoccupata: spero vivamente che questa storia vi piaccia J è la rielaborazione di una fic che in passato avevo scritto su un gruppo musicale, ma che ho deciso di riscrivere da zero. Si basa su una storia d’amore, però i temi che tratterò saranno molteplici, e da qui deriva la scelta della sezione Generale al posto di quella Romantico. Ad ogni capitolo ci saranno dei commenti in questo piccolo spazio, che potrete anche saltare. Posso essere noiosa! Però vorrei che leggeste almeno questa piccola introduzione fuori dalla storia.

Prima di tutto, per favore, NON COPIATE! Mi è capitato, girovagando nelle sezioni da me frequentate, di trovare analogie piuttosto equivoche con le mie precedenti storie. Non è piacevole vedere che altri, anche solo per un riflesso condizionato dovuto al ricordo del subconscio, spacciano per proprio il lavoro su cui si suda e a cui si tiene. Se proprio volete inserire qualche mi frase nelle vostre fan fiction, chiedetemelo: sarò lusingata e felice di dirvi di sì, a patto che mi citiate poi adeguatamente. Vi prego, mi è successo già troppe volte: a questa storia tengo molto, e non voglio che venga copiata.

Dopodiché, chiarisco che Charlie NON è una trasposizione di me stessa sulla carta: il fatto che noi si condivida il nome non significa che il nostro carattere, il nostro modo di porsi sia uguale. Certo, contiene un pezzetto di me, come tutti i miei personaggi, ma non sono io. Non è lei a prendere il nome da me, ma io da lei, in un certo senso J non sono così egocentrica da rendermi protagonista di una mia storia.

Il sottotitolo di Scoop è una canzone dei Subsonica molto famosa, chiamata appunto “Tutti i miei sbagli”. Ve la consiglio caldamente, fra parentesi. La storia si basa infatti sul suo testo, e su quello d un’altra opera di questa straordinaria band “Albascura”. Ritenevo doveroso precisarlo.

Questo primo capitolo è stato da me definito prologo perché ci sono ancora molte cose da spiegare sulle protagoniste: il rave party è solo un assaggio della reale vita di Charlie ed Evie, che verrà approfondita in particolare nel prossimo capitolo. In più, contiene le poche frasi che precedono il titolo, che formano il vero e proprio prologo in medias res.

Veniamo alle citazioni.

Hey ho, let’s go!” è il mitico ritornello di “Blitzkrieg Bop” dei Ramones.

Alla fine del primo paragrafo, la frase che Evie e Charlie si dividono è presa dal film “Pirati dei Caraibi – Ai Confini del Mondo”, del mitico Capitan Jack Sparrow. Lo so, non è molto aulica come citazione, ma mi è sempre piaciuto quel film e calzava a pennello con il dramma comico costituito dalla situazione.

I felt like destroying something beautiful” è invece tratta dal film “Fight Club”, e significa “Avevo voglia di distruggere qualcosa di bello”. Buon film, ma preferisco il libro. Allucinante.

Il barbarico yawp di Charlie è un riferimento ai versi di Walt Whitman “I sound my barbaric yawp over the roofs of the world”, tratto dalla poesia “Canto di me stesso”.

Perché sei tu, Fredriko?”, riferimento molto libero a “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare.

Il fatto che Freddie chiami Charlie “zia Mildred” verrà spiegato nei prossimi capitoli.

L’ordinaria follia di Charlie è invece riferito al film “Un giorno di ordinaria follia”, che consiglio caldamente a tutti.

La citazione “Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica” è, come giustamente dice Charlie, del buon Friedrich William Nietzsche.

Il fatto che il ragazzo sconosciuto che attira tanto l’attenzione di Charlie indossi una fascetta colorato in testa è un riferimento alla band MGMT, che io adoro.

Infine, “C’era una luce che non se ne andava mai” è riferita alla canzone dei The Smiths “There is a light that never goes out”, che apre anche la storia subito dopo le frasi del piccolo prologo.

E con questo passo e chiudo! Spero che la storia vi piaccia J

 

 

Bye!

 

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Capitolo 2
*** Rebels, Lovers, Inmates ***


Scoop

 

 

 

Scoop

Tutti i Miei Sbagli

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1 – Rebels, Lovers, Inmates

 

 

 

 

 

 

 

You’ve torn your dress, your face is a mess,
you can’t get enough, but enough ain’t the test,
you’ve got your transmission and your live wire,
you got your cue line and a handful of ludes,
you wanna be there when they count up the dudes.

 

(David Bowie – Rebel Rebel)

 

 

Si svegliò completamente soltanto quando qualcosa di umido iniziò a strusciarsi contro la sua guancia. Nel buio dettato dai suoi occhi chiusi, cercò di scostarsi da quello strano contatto, ma sorrise.

- Freddie, non ho voglia di una sveltina, sto uscendo dal coma! – mugugnò.

Quando però la scia umida arrivò alla fronte, Charlie notò che qualcosa non andava.

- Crêpe! -

Quando aprì gli occhi, la visione del muso dell’enorme labrador la accolse al posto del piatto “Buongiorno” che si sarebbe aspettata.

Crêpe abbaiò, prendendola quasi in giro, prima di scendere con un balzo dal grande letto a due piazze. Charlie sbuffò, guardandosi attorno un attimo: la sua stanza era un disordine di idee e cianfrusaglie come al solito. Sulla parete opposta alla testiera del letto, un enorme poster di Kate Moss in topless, ma con un velo nuziale in testa, la fissava suadente.

There is only one Kate in London” recitava a caratteri cubitali. - Amen – sbuffò Charlie. Si accorse solo allora del suono metallico e regolare che, prima del suo cane, aveva disturbato il suo sonno già precario. I quadranti della sveglia sul comodino alla destra del letto segnavano le 08:30. Digrignando i denti, la ragazza strattonò le lenzuola fino a coprirsi il viso. La prima lezione della giornata all’università sarebbe cominciata di lì a mezz’ora, e lei ne aveva passato soltanto due a dormire.

Crêpe, che si era accoccolato vicino alla porta, abbaiò ancora.

- Sì, sì! Mi alzo, cazzo… Stupido sacco di pulci! – imprecò Charlie, prima di fare uno scatto inumano (almeno, per le condizioni in cui si trovava il suo cervello) per alzarsi, sperando che lo sforzo fisico lavasse anche solo in parte la patina di sonno che aveva addosso.

Ci vollero alcuni tentativi perché riuscisse ad alzarsi in piedi. Il pavimento era ingombro di tanti piccoli oggetti che, con la vista ancora gonfia di stanchezza, non fece altro che calpestare nel percorso verso la porta. L’arredamento moderno e colorato che lei stessa aveva scelto per la propria camera da letto incontrò spesso gli angoli del suo corpo, suscitandole alcune bestemmie a dir poco fantasiose.

Uscì nell’ampio corridoio barcollando, con Crêpe che trotterellava al suo seguito. Cercando di coordinare ogni movimento senza sembrare un bradipo, si appoggiò alla porta più vicina a quella della propria stanza. Da essa non proveniva nient’altro che la calma più piatta.

Charlie bussò una, due, tre volte, senza ottenere alcuna risposta. Rammentando a sé stessa il basso livello della propria pazienza, la ragazza si diresse in bagno.

Ho un aspetto orribile”.

Non appena vide il proprio riflesso nell’elaborato specchio sopra il lavandino, decise che era necessario un intervento radicale. I capelli erano un groviglio di nodi e necessitavano di una lavata, il viso era fin troppo simile ad un quadro di Picasso per i suoi gusti. Non osò nemmeno immaginare in che condizioni fossero i suoi vestiti: addosso non aveva altro che l’intimo e le calze nere della sera precedente.

Charlie si sedette sul bordo della vasca idromassaggio, concentrandosi sul taglio al ginocchio nascosto dal bendaggio improvvisato la scorsa notte; quasi non si ricordava come se l’era procurato. Fece una smorfia addolorata quando vide la lacerazione della calza destra, dalla quale aveva strappato la striscia di stoffa: un altro paio di parigine da buttare. Incominciò a svolgere il tessuto da attorno al ginocchio, stringendo i denti quando si accorse che questo si era appiccicato alla ferita.

Ascoltando lo sfrigolio dell’acqua ossigenata che depurava il taglio, la ragazza dedicò qualche carezza a Crêpe, che pazientemente aveva seguito le operazioni della padrona.

Stupido, adorabile sacco pulcioso.

- Sei un rompipalle ciccione – disse sorridendo, prima di soffocare uno sbadiglio. Soddisfatto per la ricompensa alla propria fedeltà, il cane scomparve oltre la porta del bagno. Charlie sospirò, prima di alzarsi in piedi ed entrare nella doccia.

- Evie, svegliati! – era passato più di un anno da quando erano andate a vivere insieme, e quella scena era diventata una tradizione che si ripeteva dopo ogni nottata brava. Lasciando una pozzanghera d’acqua bollente sul pavimento, gridò a squarciagola nonostante l’emicrania fastidiosa, bussando ancora una volta alla camera da letto di Evie.

Nessuna risposta.

Decidendo di far trascorrere i soliti cinque minuti prima di andare a buttar già dal letto con violenza la coinquilina, si recò in cucina. L’ampio open space dagli elettrodomestici all’avanguardia era forse l’unico angolo pulito della casa, e soltanto perché per la maggior parte del tempo rimaneva inutilizzato. Sistemando il candido asciugamano che aveva drappeggiato attorno al proprio corpo, Charlie versò nella prima tazza trovata il contenuto di una caraffa trovata sul ripiano in marmo bianco, di cui non ricordava nulla.

Caffè freddo, probabilmente del giorno precedente. Bevendo, la ragazza storse il naso.

Non aveva notato subito il bigliettino stropicciato che giaceva sul ripiano centrale della cucina. Inzialmente, l’aveva confuso con la visione linda di quello spazio, con i sensi alterati da una sonnolenza che, di minuto in minuto, andava crescendo anziché calando. Le ci vollero parecchie prese di coscienza, dettate da un’immotivata decisione, per allungarsi ed afferrarlo.

Mildred, mi sono fatto dare un passaggio da un amico. Sai che non posso restare a dormire da te con quell’assassino a piede libero. Ma mi faccio sentire presto”.

Mentre ogni parola di quel breve messaggio scorreva sotto i suoi occhi, la risata provocata dai vaghi ricordi della sera precedente scaldò il suo cuore; sdraiato in un angolo, vicino alle proprie ciotole, Crêpe alzò il muso, guaendo la propria perplessità. Charlie si chinò sul cane, stringendo fra le dita un sacchetto di croccantini aperto: mentre Crêpe adorava Freddie, il ragazzo era allergico alla vicinanza di qualsiasi animale.

- Evie – aprire la porta della camera della biondina significava ritrovarsi catapultati in una giungla; nonostante ogni giorno Dina, la loro donna delle pulizie, cercasse di rassettare alla meglio quel luogo, nel giro di ventiquattro ore questo tornava sporco come prima – Evie, so che sei sveglia. -

Il groviglio di lenzuola lasciava intravvedere la chioma disordinata della ragazza, che si ostinava a non rispondere all’amica. Un’altra sagoma, molto più massiccia nella penombra rispetto a Evie, giaceva profondamente addormentata e completamente nuda in bilico sul bordo del letto.

Evidentemente Yorek, al contrario di Freddie, aveva deciso di fermarsi a godere degli agi dell’appartamento.

- Anch’io ho dormito due ore, cogliona. Abbiamo lezione, alzati adesso! – Charlie si avvicinò al letto, scuotendo le lenzuola nel punto in cui presumeva si trovasse il corpo di Evie.

Un leggero “testa di cazzo” fu l’unica risposta.

Era tempo di ricorrere all’artiglieria pesante.

- Bello, cucciolone – la brunetta tornò indietro ad aprire la porta al passaggio di Crêpe, che entrò scodinzolando allegro. Mentre il labrador annusava l’aria viziata della stanza, la ragazza gli fece segno di saltare sul letto, battendo le mani sul materasso. Se c’era una cosa che Evie odiava, erano i peli di cane sparsi sul posto in cui dormiva. Se c’era una cosa che mandava in visibilio Crêpe più della carne in scatola, era guadagnarsi uno spazio sui letti delle padrone. Fu questione di pochi secondi.

- Charlie! -

- Bravissimo, Crêpe! – la velocità con la quale Evie si levò a sedere e cercò di togliersi di dosso Crêpe tradì la finzione del sonno di qualche attimo prima. Charlie rise dell’amor di pigrizia della coinquilina, mentre Yorek grugniva il proprio disappunto per le urla isteriche di Evie, che per lui avevano rappresentato una sveglia reale.

- Troia – non appena fu riuscita a far scendere il cane dal letto, Evie si lasciò cadere all’indietro, sui morbidi cuscini. Le occhiaie profonde attorno alle iridi azzurre non impietosirono Charlie, che sapeva di essere ridotta nelle stesse condizioni ma abbastanza tenace da sopportare un’altra giornata intensa. – Ho perso economia politica alle 08:00, e ho lezione con Montgomery alle 10:30. Tu oggi non hai quell’intervento con lo psicologo pluripremiato dal nome impronunciabile da Buenos Aires? - domandò la brunetta, sedendosi sul bordo del materasso. Non si preoccupò nemmeno di parlare a voce bassa: Yorek aveva ripreso a russare tanto forte da far tremare le pareti.

Evie chiuse gli occhi, prendendo a massaggiarsi le tempie con le dita. Di riflesso, Charlie eseguì il medesimo gesto: era un movimento che spesso le isolava dal resto del mondo.

- Io odio la Columbia. -

Mezz’ora dopo, la ragazza attendeva la biondina con una sigaretta tra le dita e l’ennesima tazza di caffè nell’altra. I rumori di New York adesso erano sopraffatti da uno stonatissimo Yorek, il quale stava approfittando del lussuoso bagno della camera di Evie per far conoscere all’America intera la hit parade russa.

- Non riesco a capire come ha fatto ad accoppiarti con un gorilla biondo – commentò con tranquillità Charlie non appena Evie entrò in soggiorno, seduta sull’enorme divano in pelle nera. Voltandosi per risponderle per le rime, Evie vide l’amica sfogliare con apparente distrazione una delle riviste di gossip che affollavano inutilizzate gli eleganti tavolini di vetro sparsi per la stanza. Si trattenne quindi dal ribattere immediatamente, fiutando il problema.

Charlie aggrottò le sopracciglia, fermando la corsa delle sue dita su una pagina che la biondina non poteva vedere, ma di cui sapeva di conoscere già il contenuto.

- Si tratta della legge di sopravvivenza della specie – soltanto dopo che la vide strappare con studiata indifferenza la pagina incriminata, Evie si girò ad ammirare il proprio riflesso nello specchio. Frettolosa, cercò di sistemare la scollatura del corpetto di pizzo rosa cipria, apparentemente innocente, ma troppo stretto per il suo seno abbondante. Il lampo di tensione scomparve insieme alla carta appallottolata del giornale, nel posacenere più vicino.

- Cazzate. E’ maltrattamento nei confronti delle specie a rischio d’estinzione, costringerle ad accoppiarsi con altre razze… anche se hai cercato di ricostruire il suo habitat riducendo camera tua ad un’imitazione delle valli dei monti Urali. – la voce di Charlie non dava segni di turbamento. La brunetta si alzò, avvicinando la propria figura allo specchio a quella dell’amica. Evie ridacchiò. – In fondo sei solo deplorevolmente bionda, ma ancora non meriti l’appellativo di scimmia. – concluse soddisfatta Charlie, aggiustandosi poi le pieghe della gonnellina a vita alta che indossava.

- Stupida. – Evie non era una persona loquace: ogni volta che parlava cercava sempre di andare diretta al punto della questione, che quasi sempre era rappresentato da un’offesa nei confronti della migliore amica.

- Basta parlare, Evan. Finirai per consumarti le corde vocali! – sarcastica, Charlie alzò gli occhi al soffitto, raccattando un cardigan a righe bianche e blu dal pavimento, che infilò sopra la canotta bianca. La biondina smise di controllare il proprio aspetto, voltandosi verso l’amica per cercare di colpirla con un debole pugno. La ragazza si scansò facilmente, continuando a ridere mentre Evie prendeva un pennarello indelebile dalla confusione di oggetti sopra uno dei mobili.

C’era un rituale che non se ne sarebbe mai andato: nel soggiorno moderno, apparentemente anonimo anche se di buon gusto, un particolare strideva nell’atmosfera tranquilla. La parete alle spalle di uno dei grandi divani avrebbero dovuto essere dipinta di un bianco limpido, come tutte le altre. Invece buona parte della sua superficie era ricoperta da scritte di ogni genere: nomi, disegni più o meno artistici, ma soprattutto frasi, che arrivavano anche a toccare i punti più alti del muro.

- Everythings gonna be alright – lesse ad alta voce Evie, dopo averlo scritto in bella calligrafia su uno dei pochi spiazzi ancora vuoti della parete. Si stava avvicinando il momento di ridipingere, cosa che le due ragazze avevano affrontato già diverse volte da quando vivevano a New York. Si sorrisero complici, sapendo che avrebbero sentito come sempre la nostalgia di ogni lettera testimone della loro vita.

- Yorek! Yorek, andiamo! – presumendo che la scimmia caucasica avesse terminato di lavarsi, la biondina afferrò la propria borsa urlando l’avvertimento, mentre Charlie s’infilava un paio di scarpe col tacco trovate in giro e contemporaneamente cercava di ricordare dove fossero i suoi libri. La risposta animalesca di Yorek arrivò qualche momento dopo, insieme ad alcune grida soffocate che provenivano dal piano di sopra

- Brutta figlia di … -

Mentre Evie scoppiava in una risata isterica, Charlie scosse il capo, a metà fra la rassegnazione ed il divertimento.

- Buck. -

 

 

She's rude and neurotic,
she got a fucked up car :
she's a kind of boy.
The way she talk is dirty
and digs politics and rock :
she's a kind of boy.

(The Zen Circus – Punk Lullaby)

 

 

Bartholomew Norton sarebbe stato anche un nome rispettabile, adatto ad un settantenne in giacca e cravatta dai nobili natali, ma tutti, vedendo, la persona a cui questo era collegato, passavano immediatamente al soprannome molto meno formale “Buck”.

Il proprietario dell’imponente palazzina di Greenwich Village era il prototipo del cinquantenne single, convinto di possedere un fascino e un gusto da ventenne ma considerato da tutti un latin lover miseramente fallito. La prominente pancia da birra era sempre avvolta da camicie dai colori improponibili, spesso aperte sul petto villoso, e a nascondere la calvizie incipiente c’era perennemente un capello da cowboy che nulla centrava con il clima di New York City.

Ovviamente, la fortuna viene spesso affidata a gente che si spreca per farla fruttare: Buck era ricco di famiglia, e quello era il motivo per cui non aveva combinato nulla di serio nella sua vita. Passava il tempo a tentare di rimorchiare le ragazze che abitavano l’edificio, lasciandosi aiutare da qualche bustina di polvere particolare che si divertiva a spacciare di tanto in tanto.

- Buongiorno signor Dawson! – nell’arioso corridoio del settimo piano, Evie salutò allegramente la figura dell’arzillo sessantenne. Hendric e Mary Dawson erano lì incarnazione del cliché americano di coppia matura senza figli. Il signore distinto che incrociarono, ex finanziere e dal retrogusto di lampade abbronzanti, amava la compagnia di ragazze molto più giovani e di bell’aspetto, all’insaputa della mogliettina, che trascorreva il tempo fra biscotti al cioccolato fatti in casa e country club del New Jersey.

- Buongiorno, Evan. Charlot. – l’occhiata lievemente maliziosa che Dawson lanciò loro ricordo a Charlie quante volte lei e la propria coinquilina avevano fatto parte della cerchia di “amichette” dell’uomo. – Cos’è successo a Buck? – chiese la brunetta, mentre i tre, seguiti da un immusonito Yorek, si avviavano verso l’ascensore. Le urla proseguivano.

- Credo che l’ultima… emh, compagnia notturna di Bartholomew se ne sia andata senza dir nulla… dopo avergli sottratto alcuni effetti personali – solenne e pomposo come sempre. Charlie alzò gli occhi al cielo: l’unica qualità di quell’uomo stava celata nel suo cavallo dei pantaloni – Piano terra, signorine? – chiese Dawson, scoccando un’occhiata sospettosa all’imponente mole dello scimmione russo. Evie annuì educata, Charlie sbuffò sommessamente della pazienza dell’amica.

Il garage del condominio era forse l’unico luogo che richiamasse all’indole cafona di Buck. Salutato l’avvenente vicino, le ragazze si avviarono verso la fedelissima Jaguar parcheggiata vicino all’uscita sulla strada principale, prontamente seguite da Yorek che non sembrava intenzionato a spiccicare parola.

- Ma vedremo… Vedremo se non ti scoverò, maledetta puttanella… - l’inconfondibile voce baritonale che imprecò in un angolo remoto del garage fu accompagnata da un sonoro clangore, segno che Charlie interpretò come un nuovo tentativo del padrone di casa di armeggiare con gli attrezzi da officina. Era noto a tutti gli abitanti della palazzina che, nonostante fosse evidentemente negato per la trattazione dei motori, Buck si ostinasse a distruggere i meccanismi delle proprie auto per “attirare pollastre”.

- Giornata storta, cowboy? – domandò Charlie ad alta voce, aprendo lo sportello dal lato del guidatore. Evie entrò nell’auto senza dire nulla, a braccia conserte: evitava di scambiare più di un flebile saluto con Buck, che considerava uno zotico dalla buona stella. Ovviamente, la brunetta la pensava allo stesso modo ma il suo istinto di scherno la attirava verso quella barzelletta d’uomo.

Era un cielo instabile, quello dei primi giorni di settembre a New York. Oak Street era l’emblema della caotica metropoli, sogno per qualsiasi turista, quotidiano tormento per gli automobilisti che la percorrevano. Fasci luminosi di luce solare illuminavano le vetrine dei negozi e i taxi gialli caratteristici, e le vette degli edifici patinati lasciavano trasparire solo una minuscola parte della meraviglia del suggestivo paesaggio urbano.

Evie appoggiò la fronte al finestrino mentre Charlie dava via al concerto di bestemmie che puntualmente avveniva quando si rimaneva bloccati nel traffico di Manhattan.

Per percorrere la distanza da Greenwich Village a Morningside Heights normalmente un’automobile non avrebbe impiegato più di un quarto d’ora. Aggiungere il traffico al pacchetto però rendeva le due ragazze perennemente in ritardo per ogni lezione.

– Fai muovere quella carretta, puttana! –

Gli amabili suoni di una Charlie spazientita si unirono ai versi delle altre centinaia di automobilisti perennemente incazzati di New York.

C’erano posti che non se ne sarebbero andati mai.

L’entrata del campus della Columbia University era forse uno dei luoghi preferiti da Charlie ed Evie. Dopo aver posteggiato l’auto nel primo angolino disponibile, ovviamente in sosta vietata, si avviarono verso l’imponente cancello sulla 116th Street, nel distretto di Brodway. I viali alberati e verdi che conducevano ai centri del campus non sembravano neanche far parte della giungla di metallo e cemento in cui si trovavano, oasi di freschezza in una nube di polveri sottili.

La Low Memorial Library rappresentava invece quell’insieme di cartoline che, durante i viaggi della sua infanzia, Charlie aveva spedito a sé stessa, e che una volta erano state appese nella sua cameretta. I posti candidi, esotici ed antichi che erano stati immortalati sulla carta liscia erano poi stati riposti in una cassetto lontano, nella vecchia casa, ma l’imponente struttura bianca, con colonne di un mondo estinto e immense scalinate gremite di nugoli di studenti multicolori, vivi. Diffondevano nell’aria un vociare allegro.

Evie intravide Richie al centro di un gruppetto di fashion victims e hipsters, salutandolo con un gesto allegro della mano che venne ricambiato da un’esclamazione estasiata per il modo in cui i suoi vestiti si stringevano sul prosperoso seno. Quando Charlie gli si avvicinò, il ragazzo la squadrò malevolo ma ridente. – Charlie, tesoro, vai a coprire quelle occhiaie con un correttore o ti faccio deportare in Crimea. –

Era sicuramente arrabbiato per la sera precedente.

- Ti sei persa un’affascinante spiegazione sul crack della moneta argentina, ma tranquilla – l’enorme sala d’ingresso rendeva giustizia alla confusione dell’eterno, nonostante le biblioteche fossero considerate luogo di culto e di silenzio dagli universitari: mentre Evie si fermava a discutere con le proprie compagne di corso, trascinandosi dietro Yorek, Charlie avvistò il gruppetto più vicino all’uscita Ovest del salone – Carrie è qua dalle 8:00 e sono sicura che non ha capito assolutamente niente! – Kimberly, con sguardo da martire, indicò la figuretta addossata al muro, a terra come un mendicante, di Carrie. Profondamente addormentata.

Al fianco della ragazza, senza nessun riguardo per la situazione in cui si trovava, Calvin era spaparanzato contro il muro e nascondeva il proprio viso con una mano. – Il mio cervello sta cercando di uccidermi. – mormorò, passando una mano nella propria massa scomposta di riccioli rossi.

- Siete pronti per Montgomery? – Yukiko, una loro compagnia di corso per la quale l’aggettivo logorroica era un eufemismo, comparve all’improvviso con voce tintinnante. Charlie si trattenne dall’invocare la grazia di qualsiasi divinità per le proprie tempie massacrate. – Io devo ancora leggere la prima pagina del nuovo libro di testo, credo che sia un’ingiustizia che si debba pagare così tanto per sradicare degli alberi in Amazzonia! Avete sentito che… -

- Non sei più vergine? – domandò con un sorriso spossato Charlie, interrompendo l’amica. Yukiko la guardò confusa per un secondo, mentre tutti gli altri ridacchiavano sotto i baffi. Dopo nemmeno un secondo di silenzio, la ragazza riprese a parlare.

- Non fare caso a Charlie, stamattina si è svegliata con qualche buco di troppo. – tutti trasalirono nell’udire la voce di Evie, sbucata dal nulla. Tutti, conoscendola, ebbero l’impressione che fosse sempre stata lì ad ascoltarli. – Oh, ma allora sei viva. Pensavo che lo scimmione ti avesse divorato in una attacco di panico. –

- Non sarai più così acida quando riceverai il tuo regalo di compleanno! – quando Kimberly affiancò Evie nel toccare il tasto più dolente di Charlie, questa immediatamente pensò con disperazione all’unione di bionde che si era appena creata contro di lei. – Oddio, è vero! Auguri! – Calvin, destato dal torpore dall’improvvisa paura della vendetta di Charlie, scattò in piedi con la prontezza di un marine. Carrie, mugugnando, voltò semplicemente loro le spalle. – Non m’invecchiare. Avrò ventidue anni solo domani, e sono sicura che la mia festa a sorpresa sarà fenomenale. Ma, Ev, non sei un po’ troppo vecchia per la discoteca? –

La vipera colpisce ancora.

La biondina brillò dei suoi ventitre anni con un’espressione furba – Acqua, Charlie. Non indovinerai mai di cosa si tratta! –

- Vado a fumarmi una sigaretta… - comprendendo quanto sarebbe stato inutile insistere su quell’argomento, Charlie si avviò verso l’esterno del campus. Yukiko la seguì, il pacchetto di sigaretta già stretto nella mano destra. Osservare gli alti edifici di mattoni attraverso la fiammella dell’accendino incendiava anche la sua consapevolezza di essere a casa. La riscaldava.

Non ce nessun altro posto come casa propria.

- La faranno al Gilmoure, la mia festa, non è vero? – domandò a Yukiko con nonchalance, mentre attraversavano i giardini verso la prossima lezione.

- Sì! Oh… - a dispetto della prima impressione, si poteva fare affidamento alla parlantina della ragazza: se sia aveva necessità di scoprire qualcosa in un breve lasso di tempo, bastava rivolgersi a lei e il gioco era fatto. – Ma tu non avresti dovuto saperlo! Come…? –

- Yuki, tesoro – la voce di Charlie, che avrebbe dovuto suonare comprensiva e rassicurante, era una minacciosa parodia di Richie. – Sono due anni che organizzano una festa a sorpresa per me al Gilmoure. Evie, che ha distrutto i propri neuroni con la tinta platino, avrebbe potuto non arrivarci, ma io non sono bionda! –

L’aula circolare si stava riempiendo lentamente: ognuno salutava le vecchie compagnie e i nuovi incontri della scorsa serata. Charlie si guardò intorno, salutando le decine di persone che la riconoscevano e che le trasmettevano il calore della collettività con pochi, piccoli gesti. Erano tutti volti impressi nella sua mente, nei ricordi polverosi ma sempre accoglienti, ma che non sarebbe mai riuscita ad associare ad un nome.

Yukiko e Charlie presero posto immediatamente su una delle file centrali, gettando con malagrazia le proprie borse sulle due sedie più vicine alle proprie. Ormai da due anni quei posti erano stati marchiati come loro, e quasi sempre le attendevano senza che nessuno vi girasse attorno. Ora bastava semplicemente attendere che Kimberly riuscisse a svegliare Carrie.

- Eccoti! Cercavo proprio te – di tanto in tanto, Charlie si fermava a pensare a quanto, in fin dei conti, la sua vita sarebbe stata vuota senza il suo seccatore personale. Ma si trattava di pochi attimi d’ubriachezza, appartenenti a quella che Freddie chiamava “fase da intellettuale quasi intuitivo”: quasi sempre la ragazza pensava a Dominic come ad un perfetto idiota – E vero che ieri notte quello sfigato di Freddie è riuscito di nuovo ad infilare la palla in buca? –

Appunto.

- Tecnicamente è stato stamattina – ruotando il busto per fissare il bel ragazzo appena sedutosi dietro di lei, Charlie sospirò rassegnata: in fin dei conti, l’amicizia di un fannullone come Dominic le piaceva. Semplicemente, avrebbe fatto di tutto per non ammetterlo mai davanti a lui – Comunque sì, lo sfigato è riuscito dove tu hai miseramente fallito: ha avuto un’erezione che è stato in grado di protrarre per più di tre minuti! – Yukiko scoppiò in una risata sguaiata, così come il gruppetto degli amici di Dominic o le persone che semplicemente origliavano.

Se c’era una cosa che era risaputa, era che non si poteva colpire Charlie senza ricevere in cambio un calcio bene assestato all’inguine.

- Oh, andiamo! Muori dalla voglia di succhiarmi il cazzo, finta frigida che non sei altro! – come al solito, il ragazzo fu un esempio di finezza per tutti. Ghignando, scavalcò con un balzo la fila di sedie che aveva davanti, per prendere il posto al fianco della brunetta. Charlie scosse la testa, esitando pochi istanti prima di rispondere: e dire che, per ciò che concerneva l’aspetto fisico, Dominic non era niente male. Alto, fisico allenato, pelle liscia color dell’ebano, uno dei classici bellocci abituati alle strage di cuori.

Se solo non si fosse sempre dimostrato così ingenuo.

- Scusami tanto, Dom, ma la mamma mi ha insegnato a non mettermi in bocca gli oggetti piccoli! – l’aria seria e preoccupata di Charlie venne tradita dalla ragazza stessa un attimo dopo aver parlato, quando scoppiò in un risolino istintivo che diede il via all’ennesimo scroscio di risate. Suo malgrado, anche Dominic sorrise: era una battuta che da anni giaceva nel repertorio dell’amica, ma che in un modo o nell’altro, riscuoteva sempre successo.

- Maledetta – sibilò senza perdere l’allegria, ignorando lo sguardo incattivito di Charlie quando le passò un braccio attorno alle spalle.

Una parola composta di sarcasmo, di un fascino accennato e di cattiva condotta.

Il rettore Terence Jackson della Columbia University era dello stesso parere di Dominic, nonostante fra le infinite decine di studenti del suo istituto Jackson avesse segnalato quella canaglia nella propria lista nera. Mentre osservava di sbieco Charlot Valenti, non riusciva a trovare un aggettivo più adatto a quella bambini viziata e troppo cresciuta: la ragazza se ne stava con le gambe accavallate per mettere in mostra la gonna troppo corta, pur sapendo che la professionalità del rettore toccava i massimi storici. Inoltre masticava svogliatamente una gomma americana, a bocca aperta, ignorando completamente le regole di buona educazione che sicuramente le erano state impartite, con uno sguardo di sfida negli occhi.

Quello che sempre indossava quando veniva convocata nell’ufficio di Jackson.

- Credo che tu possa immaginare il motivo per cui ti ho fatta chiamare, Charlot – la voce pomposa irritò la ragazza più del dovuto: l’insofferenza che provava per quell’ufficio odorava di conoscenza e antico, proprio come quell’uomo insopportabile. Ogni volta la squadrava con sufficienza, ed ogni volta lei cercava di essere più irritante possibile.

- No. Non lo so. – il suo tono di voce era ingenuo quanto quello di un assassino, ma melodioso e mellifluo, il che sottolineava la falsità delle sue parole. Jackson respirò a fondo, trattenendosi da alzarsi in piedi e tirarle un sonoro ceffone, come avrebbe fatto che le proprie figlie.

- Charlot, siamo qui per discutere delle lezioni che, in questo periodo, hai saltato piuttosto frequentemente. – paziente, l’uomo illustrò una situazione già nota ad entrambi: qualsiasi studente di quell’università poteva permettersi di saltare qualche corso, poiché non c’era un obbligo vincolante. Ma Charlie non era una studentessa qualsiasi: era costantemente monitorata.

- Aaah! Quello! – fingendosi sorpresa, la ragazza sollevò il dito indice in aria e sfoderò un’espressione innocente che profumava di corsi di teatro e di decine di bugie. Jackson aggrottò le sopracciglia, cercando d’ignorare la propria parte esasperata. – Non c’è da scherzare su queste cose, Charlot. Lo sai il perché… -

- Lo so, il perché – ribattè, improvvisamente secca e scontrosa: l’ironia pungente del suo viso si era tramutata in rabbia quando aveva colto una sfumatura di rimprovero nella voce del rettore. Questi sospirò nuovamente, più forte perché la ragazza potesse udirlo, ma prima che potesse prendere la parola Charlie lo interruppe – E se non provaste tutti a ricordarmelo, forse non lo ignorerei. – senza nascondere la seccatura che quella conversazione le stava procurando, la ragazza incrociò le braccia sotto il seno.

- Charlot, non reagire così! – la voce di Jackson lasciava trasparire l’impazienza di concludere quella conversazione avendo la meglio su quella viziata. Non sopportava il modo con cui lo squadrava dall’alto in basso: quella ragazza si sentiva maledettamente superiore, senza un benemerito motivo. – Tuo padre… -

- So benissimo cosa vuole papà, rettore Jackson – ma era inutile cercare di parlarle seriamente senza che lei cercasse l’ultima parola. Era un gatto che cadeva sempre in piedi. – Buona giornata – senza aggiungere nient’altro, la ragazza raccolse la propria borsa, si alzò e se ne andò sbattendo la grande porta di legno massiccio. Jackson si coprì la faccia con le mani, scuotendo il capo: maledetto quel giorno, ventidue anni prima, in cui aveva accettato di fare da padrino a quella stronza.

Maledetta.

Una parola che, alla fine, riconduceva sempre a lei.

 

 

I make the fire
but I
miss the firefight.
I hit the b
ull's eye every night:

it's so easy, easy
when everybody's tryin' to please me baby.

 

(Guns N’Roses – It’s So Easy)

 

 

Alla Columbia University, Charlot Valenti, più che un nome, era una garanzia.

Non era e non sarebbe mai stata la ragazza più bella del campus: un viso carino, un po’ troppo paffuto forse, un fisico leggermente a pera come quello di tante altre ragazze, la carnagione troppo pallida per dare un’idea complessiva di salute nel suo aspetto, il diastema fra gli incisivi superiori, erano queste le armi di seduzione che aveva a disposizione. Ma il miscuglio di cipiglio ironico, volto fresco e roseo, lingua tagliente e camminata sensuale si rivelavano quasi sempre la puntata migliore su cui scommettere.

La sua popolarità era dovuta alla sua capacità di farsi amare da tutti, nel bene o nel male: persino le malelingue o i più indifferenti non potevano fare a meno di sentirsi contagiati dalla sua forte presenza, quasi Charlie fosse perennemente su un enorme palcoscenico. La facoltà d’economia, così fredda e razionale, non poteva essere meno adatta al suo nome.

C’era chi sosteneva con invidia che fosse votata a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, tra party e distruttivi e dicerie d’ogni genere, solo per ottenere un briciolo di fama in più. La realtà era che Charlie parteggiava per il Carpe Diem solo se questo le recava qualche vantaggio, lasciando i propri programmi ad un caso attentamente studiato. Doveva essere lei l’unica burattinaia di ogni situazione. Perdere il controllo, perdere tempo, e in generale perdere erano concetti sconosciuti al suo essere.

Era arrogante, lei stessa lo sosteneva: rabbrividiva al pensiero di scomparire fra la folla, ma ne allontanava il pensiero perché si considerava destinata ad emergere, e sosteneva questa teoria a testa alta. Lasciava che gli insulti ferissero una piccola parte della sua anima, ma la sua corazza era impenetrabile.

Appariva perfetta, nei suoi centinaia di difetti brillava sempre di luce propria. Se poi lo fosse veramente, erano in pochi a saperlo.

La sua immagine era inoltre arricchita da un passato che parlava solo attraverso vestiti firmati, macchine sportive ed un attico nel cuore di Greenwich Village: chi aveva provato ad indagare, aveva ottenuto ben poche informazioni su alcune ville nell’Italia Centrale, per poi fermarsi lì. Nulla di certo.

Alla gente piace di più chiacchierare di fatti infondati.

Evan McLair appariva costantemente al fianco della coinquilina, ma più che un fedele cagnolino, sembrava agire come una metà della stesso corpo di Charlie. Capelli biondo platino, occhi azzurri vacui di una stupidità soltanto inscenata, curve voluttuose: a prima vista, chiunque avrebbe potuto considerarla il prototipo della bionda americana.

Eppure, in quella riservatezza ostinata che quasi poteva infastidire un estraneo, viveva un animo colto, intellettuale, che si esprimeva per mezzo dei suoi voti sempre alti e a pochi, lunghi discorsi che ribaltavano l’opinione di chi aveva la fortuna di ascoltare. Parlava poco, Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.

Le due agivano perennemente in simbiosi, diametralmente opposte. Evidentemente attratte l’una dall’altra, rappresentavano i due poli dello stesso campo magnetico.

Charlie era la fiamma, Evie l’acqua cheta: insieme davano l’impressione di essere custodi di un importante segreto, che se rivelato avrebbe scatenato una valanga di proporzioni disastrose. Alle loro spalle, tutti parlavano, tutti s’interessavano delle faccende che riguardavano loro, oltre che il loro gruppetto di sbandati. Carrie Ainsworth, che ad ogni festa abitualmente regalava qualche spogliarello dopo essersi scolata da sola alcune bottiglie di Tequila; quel poco di buono di Calvin Jones, inglese che, con la scusa di studiare in un’università prestigiosa, spillava soldi alla benestante famiglia solo per ingenti quantità di fumo, sempre accompagnato dalla sua ragazza, Kimberly De Vivo, un visetto d’angelo che si trasformava in pantera non appena qualcuno riusciva a venderle alcol; Fredriko Winston, un sempliciotto del Bronx che si spacciava per filosofo, marinando puntualmente l’università per imbarcarsi in viaggi psichedelici; Dominic Fletcher, l’ennesimo figlio di papà che giocava a fare il disadattato.

E poi altri criminali, altre persone poco raccomandabili di cui si attorniavano nell’ombra, come il gestore del loro lussuoso appartamento, o una combriccola di spacciatori di Harlem a cui ogni tanto davano una mano. Erano schive, riservate, e tutti i loro affari erano gestiti con studiata melodrammaticità.

Agli occhi del mondo, avevano tutto.

- Noi come umani cerchiamo disperatamente d’identificarci negli altri, anche se, essendo ipocriti, affermiamo di volerci distinguere. La verità è che ci sentiamo terribilmente tranquillizzati quando scopriamo quanto in comune abbiamo con gli altri: cadere nella banalità viene lodato attraverso perifrasi sui giornali e tv. E, visto che ultimamente va di moda essere ribelli ed alternativi, siamo diventati tutti il prototipo del disadattato chic che detesta le regole. La rivoluzione sta diventando la maggiore causa dell’omologazione. –

Evie abbassò il foglio, in aspettativa. I raggi di sole che entravano dall’enorme porta a vetri che occupava una parete del soggiorno creano ghirigori di oscurità sulla sua pelle lattea. La televisione era sintonizzata su un programma che trasmetteva i movimenti della borsa di Wall Street, ma l’audio era al minimo. Il rumore che più opprimeva l’aria era il suono dei pedali della cyclette che lavoravano freneticamente.

- E’ buono – commentò Charlie, staccando le mani dalle maniglie dell’attrezzo solo per asciugarsi il sudore dalla fronte con una salvezza – Ma non ti sembra più adatto ad un blog su Tumblr che ad una tesi di psicologia sulla massa? – un ghigno speculare si dipinse sul volto di entrambe.

- Ero ispirata – rispose semplicemente Evie, facendo spallucce. Crêpe sembrò guaire il proprio assenso, sdraiato placidamente contro il mobile della televisione. – Tra poco esco – aggiunse, nonostante sapesse che quella era un’informazione inutile. La reciproca conoscenza dei propri ritmi aveva già fatto intuire a Charlie che un’uscita pseudo-romantica era nel programma pomeridiano dei ritmi. E poi, la biondina aveva indossato la tipica canotta scollata e trasparente da appuntamento.

- Stai andando a banane? – inutile, si disse Evie, la coinquilina non si sarebbe mai riuscita a trattenere dallo sparare battutacce che, pur sapendo la portata della loro idiozia, Charlie trovava estremamente divertenti. Le gote della ragazza si arrossarono un poco, mentre la brunetta rideva del suo silenzio. – Devo solo dargli qualche dritta con l’inglese americano! – sbottò, senza riuscire a bloccare il sorrisetto divertito che spuntò sulle sue labbra.

- Sì, propria qualche dritta di lingua! – la risata di Charlie si fece ancora più sguaiata. – Stai diventando come Dominic! – commentò fintamente stizzita Evie, cercando di non farsi vedere dall’amica mentre cercava un pacchetto di preservativi fra i cassetti. Era conscia che la propria constatazione non aveva scalfito minimamente la corazza dura di Charlie.

Per un lungo momento nessuna delle due parlò: la loro convivenza, come anche la loro amicizia, era costituita per lo più da silenzi, da parole non dette che fluttuavano sospese fra loro e che a volte faticavano a comprendere. Era un legame intenso, nato quando avevano rispettivamente quindici e sedici anni, un instabile giorno di settembre come quello. Londra non era mai sembrata cos grigia all’indisponente adolescente che era Charlie, eppure…

- Ti prego, ricordati di usare discrezione per la festa al Gilmoure! Lo sai perché… - Evie sussultò allo sbottare improvviso della coinquilina: la scarpa che stava per infilare al piede le cadde di mano. Quel discorso, così inusuale per l’energia scatenata di Charlie, spuntava soltanto in prossimità di ogni 4 settembre. Quel discorso poi veniva puntualmente dimenticato da una distratta Evie, che veniva contagiata dall’entusiasmo effervescente di Kimberly o Carrie.

- Non ho idea di cosa tu stia parlando! – all’interno della biondina si potevano nascondere molte persone, ma di certo non una bugiarda. Ogni suo muscolo facciale si tese mentre parlava e, nonostante cercasse in tutti i modi di tenere lo sguardo fisso e intenso in quello di Charlie, i suoi occhi azzurri sfuggirono a quel contatto per pochi secondi, ma sufficienti. La brunetta si lasciò scappare un sorrisetto, prima di incominciare a pedalare più forte.

- Sì, Evie – per parlare, la ragazza usò il tono condiscendente che solitamente si utilizza per i malati mentali. – Oh, avanti, ogni anno insisti per rovinarti la sorpresa – sbottò risentita Evie, afferrando la propria borsa con forza per mostrare ancora di più l’irritazione che l’essere scoperta le aveva creato. Charlie scosse la testa, senza commentare, portando la propria attenzione sull’aumento del prezzo del petrolio a barile.

- Evan Anita McLair, smettila di sparare cazzate e prendimi una bottiglietta d’acqua prima di scappare dal tuo fusto primitivo! – strillando senza il benché minimo motivo, Charlie cercò di mitigare la lieve tensione creatasi, non abbastanza forte da incrinare il legame che giaceva sotto quei battibecchi quotidiani. Trattenendo a stento il sorriso davanti ad un comportamento talmente anomalo, Evie si diresse verso il piano della cucina, afferrando una bottiglietta che quella mattina Charlie aveva lasciato lì. Poi, con grazia da ballerina, scagliò l’oggetto contro l’amica, che ridendo non fece in tempo a schivare il dardo.

- E poi sarei io quella irascibile! – massaggiando il punto della nuca in cui era stata colpita, la brunetta osservò la coinquilina chiudere la porta d’ingresso dietro di sé con violenza, in una pessima finzione di rabbia che non sarebbe sopravvissuta alla serata.

Tipico di Charlie, tipico di Evie.

Una voce poi giunse da dietro il legno, attutita dalle pareti – E ricordati di portare Crêpe a fare una passeggiata! –

- Evie, puttana – non si poteva non voler bene a Crêpe: era tutto ciò che si poteva volere da un cane da compagnia, giocherellone e tenero. Ma quando si trattava di portarlo a spasso, occuparsi dei suoi bisogni e tutto il resto, fra le due coinquiline puntualmente scoppiava una faida. Ed ogni volta la pigrizia imposta di Evie aveva la meglio sulla maniacale pignoleria che assaliva Charlie nei momenti più impensati – Non posso oggi pomeriggio, lo sai! Devo… - il suo grido si perse in una risposta lontana, che proveniva da un punto remoto del corridoio e che conteneva il nome di Dina, la donna che ogni mattina rassettava il loro appartamento e si occupava di  Crêpe.

Dopo pochi secondi di silenzio, la ragazza smontò dalla cyclette. Uno dei particolari della casa di cui andava più fiera era lo splendido balconcino che concedeva loro una bella vista del paesaggio urbano: asciugandosi il sudore dalla fonte con una mano, aprì la porta a vetri e si affacciò, guardando sotto. Trascorso un minuto o poco più, la testa platino di Evie sbucò all’ingresso della palazzina. Charlie sapeva che l’amica era cosciente di essere osservata: tre minuti ancora, ed un’auto bianca, apparentemente anonima, accostò al marciapiede. La biondina vi sparì dentro.

Rassegnata, Charlie tornò a pedalare, combattendo contro la stanchezza e cercando contemporaneamente di seguire le notizie al telegiornale. Doveva farsi passare gli appunti della lezione che si era perduta, ma l’ennesima discussione con il rettore Jackson la faceva desistere da quel proposito.

Contrariamente a ciò che la gente può pensare, le giornate a New York sono una noia mortale. La notte è un altro discorso, ma i pomeriggi… la scelta è fra un tentativo di jogging all’aperto, spingendo al suicidio i propri polmoni per le polveri sottili, o le mura domestiche. Sono tutti troppo stressati per cercare d’imitare un pomeriggio di shopping da telefilm per adolescenti.

Il cellulare prese a squillare in quel momento.

- Zitto Crêpe! – se aveva creduto che il cane fosse precipitato in uno stato di coma apparente, si era sbagliata: il labrador incominciò ad abbaiare non appena l’introduzione di chitarra di “Sweet Child O’Mine” si diffuse nella stanza. Charlie sbraitò un altro paio d’istanti contro il cane prima di rispondere. Non aveva dubbi su chi avrebbe trovato all’altro capo del telefono.

- Tanto per sapere, che ore sono dalle tue parti? – cinguettò subito la ragazza, senza nemmeno un saluto: una risata rauca e stanca le fece intuire che la persona con cui stava parlando ancora risentiva del jet lag. Davvero c’erano persone che non sarebbero cambiate mai, neanche di una virgola.

- Vuoi sapere l’ora  di Roma o di Singapore? – chiese prontamente l’altra voce, mescolandosi a rumori di voci e passi che non appartenevano alla realtà newyorkese. Gettando un’occhiata al grande orologio appeso di fianco alla porta d’ingresso, Charlie eseguì qualche rapido calcolo.

- Cosa ci fai a Singapore sveglio all’una di notte? – Federico e Charlot Valenti erano una strana coppia di fratellastri: nonostante avessero rispettivamente ventisette e ventidue anni, quando si ritrovavano a trascorrere del tempo insieme regredivano ad uno stato infantile. Le loro conversazioni erano composte da un punzecchiarsi a vicenda quasi fastidioso per un terzo, e da centinaia di domande, le risposte delle quali potevano essere scorte soltanto fra le righe. Avevano entrambi fisicamente preso dal lato paterno: entrambi avevano capelli folti, bruni, occhi scuri e lineamenti mediterranei.

- Abbiamo appena firmato un accordo commerciale con quella società russa piena di filiali in Asia… Te ne avevo parlato. Cosa c’è, te ne sei già dimenticata? – la rimproverò beffardo. Charlie non poté fare a meno di notare l’utilizzo della prima persona plurale, nonostante solitamente Federico si occupasse delle trattative estere da solo. Ma la ragazza non aveva fretta di chiedere spiegazioni.

- Era una domanda trabocchetto. – ribattè prontamente, sorridendo come una monella: le sembrava di essere tornate ad uno di quegli assolati pomeriggio estivi, quando giocavano e scorrazzavano per il vasto giardino della villetta nei pressi di Siena. – Oggi ha chiamato lo zio Terry. – alle parole di Federico, Charlie si irrigidì: ecco le note dolenti.

Prima che la ragazza potesse ribattere, Federico proseguì: la sua voce si fece più profonda, più seria. – Lo sai che se fosse per me sarebbe diverso… Hai scelto tu di seguire questa strada, e quindi devi accettarne le conseguenze… Lo sai perché. – Charlie rimase in silenzio per qualche istante.

- Papà è lì con te? – domandò infine con un sospiro, smettendo lentamente di pedalare. Asciugandosi poi il sudore, smontò dalla cyclette e si avviò, col tipico passo comodo di chi discute al telefono, verso l’angolo cottura: sapeva di aver appena posto una domanda inutile, ma strettamente necessaria.

Dopo un respiro profondo, senza aggiungere una parola Federico passò il cellulare all’uomo dal cipiglio che già da un paio di minuti seguiva la conversazione. Appariva molto più vecchio di ciò che in realtà era: rughe profonde solcavano la ruvida fronte, e i capelli ingrigiti e radi in perfetta armonia con l’impeccabile completo grigio.

- Tesoro. – la voce di Antonio Valenti era calda e confortante, e ogni volta che le capitava di sentirla anche solo attraverso il metallo Charlie provava un intenso desiderio di ritornare ragazzina, di ritornare all’odio adolescenziale per un padre spesso assente ma comunque severo. Ora che era cresciuta e diventata unico modello di riferimento per sé stessa, la sensazione di solitudine in quella zona del proprio cervello veniva ripagata con contatti e parole poco frequenti con Antonio.

- Ciao papà – rispose, sollevata ma anche rassegnata, con un tono che attendeva una ramanzina coi fiocchi. Bambina.

- Come stai, piccola? Va tutto bene a New York? – Antonia sapeva essere un buon padre e un ottimo aguzzino. Rimandare il momento del rimprovero riempiendo i minuti di tante piccole domande di circostanza (almeno, così Charlie le vedeva) era una sua specialità. – Bene. La trattativa si è conclusa per il meglio? – rispose mesta la ragazza, appoggiando la schiena al frigorifero.

- Così sembra, ma questi russi sembrano restii ad esporsi più di tanto… Stamattina mi ha telefonato Terence. Mi ha parlato di te. –

Appunto.

- E ti ha detto che il corso di statistica economica, così come quello di storia economica ed economia aziendale sono stati trascurati? – il sarcasmo esplose rapidamente, come una bomba a mano difettosa. Charlie sentì il padre sospirare, quasi rassegnato all’irascibilità della figlia. – Avete chiacchierato di come la condotta mia e dei miei amici sia vergognosa, e… -

- Charlot – tuonò Antonio, perdendo la pazienza: nonostante avesse accettato da un pezzo l’inevitabile indipendenza di una Charlie adulta, non tollerava che lei gli si rivolgesse con quei toni. Era lui a pagarle affitto, scuola e droghe, dopotutto. – Nell’ultimo periodo sono state tante le lamentele di questo tipo. Desidero che questo periodo cessi all’istante: sono stato chiaro? –

Fu come trovarselo faccia a faccia, come sentire quegli occhi scuri e profondi scrutarla e riflettersi in uno sguardo che da lui aveva ereditato: ostinata, la ragazza fu molto tentata di chiudere lì la conversazione e spegnere il cellulare, oppure infilare qualche altra parolaccia rivolta al padrino e ad Antonio. Dopo qualche secondo passato in silenzio, Charlie si limitò a sibilare – Sì

Antonio respirò a fondo, allentandosi il nodo della cravatta – Sei proprio come tua madre, non vi si può mai appuntare nulla – il riferimento alla genitrice fece irrigidire Charlie, e allo stesso tempo le suscitò un sorriso con cui schernì sé stessa. – Me lo dici sempre, papà – tipico commento annoiato di una figlia in fondo devota.

- Quand’è stata l’ultima volta che sei andata a trovarla? – quella domanda, diretta e schietta nella sua tonalità affettuosa, lasciava trasparire una conoscenza della figlia che non molti potevano vantare. Era proprio questo dettaglio a mettere sempre in difficoltà la brunetta.

Charlie aprì il frigorifero, emettendo un suono gutturale per temporeggiare: non era mai particolarmente in vena di andare a trovare sua madre. E davanti a lei si stagliava un frigo enorme e quasi vuoto, contenente un paio di vasetti di yogurt magro, frutta e verdura di stagione e latte di soia: Dina ormai sapeva che era inutile comprare cibo destinato alla pattumiera.

Arrivò la spia elettronica del cellulare a salvarla: prima che potesse trovare una buona scusa con cui cambiare argomento, questo l’avvertì che c’era un’altra chiamata in attesa.

Freddie.

- Papà, devo andare. Devo finire di studiare gli appunti di statistica. Ci sentiamo, un bacio! – squillante, non diede tempo al vecchio genitore di ribattere: con un click portò la conversazione telefonica sul contatto dell’amico.

- Allora, la faranno al Gilmoure la tua festa di compleanno? –

- Ovviamente – dall’altro capo si udivano rumori di trasloco, o comunque di mobili che venivano spostati: Charlie non pensò neanche di chiedere cosa stesse succedendo, sicuramente si trattava di qualche strambo progetto di Freddie che riguardava la sua ispirazione in quanto poeta maledetto di terza classe.

- Non ti lamentare. Al Gilmoure non siamo mai andati in bianco, Mildred. – Charlie sbuffò, ridendo poi per evitare di ammettere che comunque Freddie aveva ragione: il Gilmoure era la loro seconda casa. – Devi smettere di leggere thriller di seconda categoria, Freddie! – disse poi la ragazza, riferendosi al buffo ed obsoleto soprannome che le aveva affibbiato. Derivava dall’abitudine del ragazzo di abbuffarsi di libretti da mercatino ogni volta che una delle sue storielle d’amore passeggere naufragava: quando, due anni prima, la loro relazione si era rivelata un fallimento, Charlot aveva commesso l’errore di farsi vedere in giro con un largo maglione di lana che aveva ricordato a Freddie la zia del protagonista di un romanzo di Sharon Bolton.

- Zitta. Stasera comunque ci si trova a casa di Dominic… qualcosa di tranquillo, un paio di persone e un po’ di Jack Daniels. –

Ciò voleva dire che era in arrivo un nuovo rave party.

- Non sono libera prima delle dieci: lo sai il perché… E comunque, non ce la faccio davvero. Sono ancora distrutta per la festa di ieri… - affermò poco convinta la ragazza, prima di allungare la mano ed afferrare un barattolo di yogurt mezzo vuoto. – Eddai, soltanto un calumet della pace! Cosa ti costa? – in quel momento, Charlie avvertì che al telefono Freddie stava sorridendo.

C’erano persone che non se ne sarebbero andate mai.

- Okay. Ci sarò. –

 

 

Rebel Rebel, you’ve torn your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they know?
Hot tramp, I love you so!

 

(David Bowie – Rebel Rebel)                                                           

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

Okay, sono vergognosa: sono in ritardo sulla tabella di marcia per quanto riguarda gli aggiornamenti. Ma quest’ultimo mese di scuola è stato allucinante, ho attraversato una crisi seria con la mia ispirazione ed ora sono distrutta. Anche per questo credo che questo capitolo non sia granché, e che sia noioso e banale, perciò mi scuso.

Allora, è una sorta d’introduzione alla vita delle ragazze e, soprattutto, agli altri personaggi di Scoop: non si parla più della loro routine/casino quotidiano, ma restano delle incognite sulle famiglie e sulla vita precedente. E’ stato un capitolo abbastanza tranquillo, l’azione incomincerà con i prossimi.

Adesso le citazioni.

Il poster di Kate Moss esiste davvero, fa riferimento al matrimonio reale recentemente avvenuto, ma la sua presenza in questa storia è puramente casuale.

Everythings gonna be alright, canzone del mitico Bob Marley. L’idea della parete piena di scritte è ispirata ad Alda Merini, la poetessa nostrana, che nel suo vecchio appartamento aveva fatto una cosa simile. Almeno, per quel che mi ricordo.

La citazione sul crack della moneta argentina è liberamente tratta dalla fanfiction della mia collega IoMe, “There She Goes”. Andate a leggervela!

Non c’è nessun altro posto come casa propria, there is no place like home, da “Il mago di Oz”.

Parlava poco, Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.”, riferimento indiretto a “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano e al suo protagonista Mattia.

Sweet Child O’Mine” è una canzone dei Guns N’Roses.

“Domanda inutile, ma strettamente necessaria”, riferimento indiretto a “La Cantatrice Calva” di Ionesco.

La zia Mildred di cui si parla è quella di Matt neIl risveglio” di Sharon Bolton.

Vi lascio con alcune fotografie prese da Lookbook, di due ragazze che si avvicinano in modo speciale all’idea che ho di Evie e Charlie:

 

Charlot Valenti, 2011

 

Evan McLair, 2011

 

 

 

Bye!

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Scoop [Part 1 - I Bet You Look Good on the Dancefloor] ***


Scoop

 

 

 

Scoop

Tutti i Miei Sbagli

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 2 – Scoop [Part 1 – I Bet You Look Good on the Dancefloor]

 

 

 

 

 

 

 

 

You look at me,

it’s like you hit me with lightning.

 

(Ellie Goulding – Starry Eyed)

 

 

Il Gilmoure era il più grande locale della 5th Avenue, nota soprattutto per boutique e sedi industriali. Occupava gli ultimi due piani di uno dei grattacieli più alti, compreso il tetto di questo, che veniva utilizzato come terrazza nelle sere meno fredde della metropoli. Gli abitanti dell’Upper East Side si erano ormai abituati al fracasso che incominciava alle 22:00 e non terminava prima delle 07:00, nonostante le norme che regolavano la confusione delle discoteche nei distretti cittadini.

Il Gilmoure era l’omaccione benevolente che aveva accettato le loro anime come orfanelle smarrite sin dalla loro prima notte a New York City.

Due anni prima, Charlie aveva fatto la conoscenza di Freddie proprio nel caldo abbraccio delle mura del Gilmoure, il quale aveva anche assistito alle disastrosi evoluzioni della breve storia fra i due ragazzi. Sempre al Gilmoure, Evie aveva comprato due once di fumo da una sottospecie di rapper mancato, che poi avevano scoperto chiamarsi Calvin Jones.

- Avevo detto discrezione. – il commento acido di Charlie si perse nel suono martellante di un brano elettro-punk, pompato al massimo dalle innumerevoli casse del locale. Kimberly, al suo fianco, soffoco un risolino, varcando con lei la soglia illuminata da neon colorati, mentre alle loro spalle l’ascensore foderato di specchi si chiudeva.

- Buon compleanno, Charlie. –

La stanza era già sommersa di gente. Il lungo bancone, adorno di luci violette, era forse l’unica fonte d’illuminazione concreta, mentre sulla pista da ballo le palle stroboscopiche non presentavano che ombre e sorrisi della folla danzante. Charlie era certa che al piano superiore regnasse il medesimo caos.

Un’insegna in lontananza recava scritto il suo nome a caratteri cubitali.

- Voi, siete tutti matti! – esclamò, mentre tre figure dai contorni indefiniti le balzavano addosso: nonostante la bassa statura, per cui spesso in molti la scambiavano per una ragazzina, Carrie era una vera furia quando si scolava qualche gin di troppo. Immediatamente, stretta nell’abbraccio dell’amica, Calvin e un ragazzotto che lei non aveva mai visto, perse l’equilibrio con una risata. I quattro rovinarono sul pavimento, sotto gli sguardi divertiti dei presenti.

- Buon onomastico! – strillò Carrie, stritolandola in un abbraccio caloroso mentre erano entrambe stese a terra, ignorando gli orli dei loro vestiti esageratamente corti che scoprivano più del lecito. Fra le proteste della festeggiata, che davanti a quelle manifestazioni d’affetto pubbliche solitamente reagiva con un disperato bisogno d’insulina, la rossa le schiocco un rumoroso bacio sulla guancia, mentre il dj cambiava rapidamente canzone in qualcosa dalle cadenze molto più punk rock.

- Signori e signore, abbia l’onore questa sera di ospitare la festa di compleanno della nostra più vecchia cliente, Charlot Vetriolo Valenti!

Una volta toltasi il peso alcolico di Carrie di dosso, Charlie si rimise in piedi massaggiandosi pesantemente le tempie con le dita, e scuotendo di tanto in tanto il capo con fare esasperato – Quale di voi idioti ha avuto la malsana idea di ingaggiare Dominic come dj? – disse, coprendo il volto appena con la chioma sciolta di capelli mossi, giusto per nascondere il sorriso. Ma una poderosa pacca sulla schiena, che una figura sconosciuta la assesto, la costrinse ad alzare il volto e a cancellare la smorfia dalla bocca, aprendola per respirare.

- Te l’avevo detto, che la tua sorpresa sarebbe stata stupefacente! – la voce di Evie, apparsa dal nulla al suo fianco insieme a Yorek, il quale aveva tentato di ucciderla, non aveva nulla di malizioso o ambiguo. Comprendeva la soddisfazione pura di una persona molto arguta, gli stratagemmi della quale funzionano sempre alla perfezione. La brunetta si portò le mani al volto, spalancando la bocca in una sgradevole finzione di stupore, fra le risate generali di una muta battuta che Evie fu contenta di non aver capito.

Lo scorrere inesorabile del Tempo è stato cantato, nel corso della storia, dai poeti più illustri, e dibattuto dai filosofi più acuti, ma nessuno probabilmente carpirà mai la vera essenza di un’entità capricciosa: mentre ogni minuto di quella notte sembrava scivolare fra le dita, Charlie non riusciva a spiegarsi come, man mano che le ore volavano, si sentisse sempre più giovane e libera. Arrivò però il momento in cui, davanti ad un altro bicchierino di Sambuca vuoto, la ragazza non si chiese più nulla.

E proprio mentre il tempo sembrava essersi fatto troppo veloce per vivere a pieno ogni secondo, tutto rallentò. Si fermò il mondo, perché lei potesse scorgerlo fra la folla.

- Butta giù questo. E’ una ricetta speciale del barista, offre la casa. – Dominic sorrise, allungando il braccio dalla postazione da deejay per porgere a Charlie un lungo bicchiere colmo di uno strano liquido rosastro. Senza farsi pregare, la ragazza inghiottì, beandosi della sensazione di bruciore a gola e stomaco che giunse poco dopo: davanti a lei, in piedi per miracolo su una delle grandi casse per la musica, si stagliava lo spettacolo di oltre cento persone che si dimenavano e si contorcevano. Se fosse stata appena più sobria, avrebbe riconosciuto “Doe Deer” dei Crystal Castles come la canzone che stava facendo tremare il locale in quel momento, ma la concentrazione si riversava quasi interamente sull’equilibrio necessario per ballare sopra una piattaforma instabile come quella. Al suo fianco, impegnate in un sensuale ancheggiamento, Yuki e Kim le sorrisero. – Ti stai divertendo? – strillò quest’ultima. Il sorriso della mora fu più che eloquente.

Non seppe esattamente come fece a scorgerlo. Si parla di fortuna, di sorte, e subito viene da sorridere davanti al pensiero che qualcuno stia giocando a dadi con le nostre azioni, ma nei momenti più impensati è questione di secondi, di un piccolo gesto dettato dal caso, che cambia le carte in tavola. Quella notte si trattò proprio di quello.

Charlie scosse i capelli a ritmo di musica, poi si fermò. Allungò lo sguardo verso i divanetti, dai quali proveniva il trambusto causato da un rissa fra Carrie, palesemente ubriaca, ed una biondina dall’aspetto frivolo. Le luci ad intermittenza giocavano a favore dello spettacolino, rendendolo quasi macabro, surreale. Le bastò spostare lo sguardo di qualche centimetro.

Freddie era di profilo, ma era impossibile che la ragazza non lo riconoscesse: la folta chioma di capelli rasta, raccolti in una fascia colorata e in una serie di elastici, era inconfondibile. Con in mano il solito bicchiere colmo di birra scura, chiacchierava amabilmente con un drappello di ragazzi, sicuramente pendenti dalle sue labbra dopo qualche frase filosofica buttata a casaccio. C’era solo un ragazzo che, nonostante fosse in mezzo al gruppetto, non appariva interessato alla conversazione. La ragazza si fermò, strizzando gli occhi per avere una migliore visibilità in quel falso buio, senza sapere bene cosa la spingesse a tanta curiosità. La fascetta che circondava il capo del ragazzo era la stessa che gli aveva visto addosso la volta precedente, ma i capelli sembravano tagliati di fresco; qualcosa di diverso nell’aspetto dello sconosciuto c’era. Da quella distanza, Charlie non riusciva a scorgere molto di lui, solo un bicchiere di liquido fosforescente nei fasci luminosi del Gilmoure; ma, nell’istante in cui posò lo sguardo sul ragazzo, fu consapevole che la stava guardando.

Sorrise. Un sorriso reale, istintivo comparve sulle labbra sottili, dipinte di un bel rosso scuro: smise immediatamente di ballare, come incantata dal processo di fortuna che si stava compiendo in lei attraverso quello sconosciuto. Uno qualunque, eppure la attirava come una calamita: nella sua testa, aiutata dall’oscurità complice come sempre, si formò l’immagine del sorriso con cui, ne era sicura, il ragazzo la stava ricambiando. Passarono i secondi, mentre il deejay rapidamente cambiava canzone. – Ehi! – si riscosse soltanto quando Yuki la afferrò per una spalla. Charlie si volse di scatto, con un sussultò spaventato, a guardare l’amica – Devi vomitare? – le chiese quella preoccupata, ma con la vista annebbiata da tutti i drink che aveva ingurgitato. Lanciando un’ultima occhiata in direzione del punto in cui era apparso il ragazzo, ora sfocato, Charlie scosse la testa e si lanciò sul pubblico del Gilmoure, pronta per gettare la propria anima sopra un fiume di mani.

S’incontrarono qualche ora, o forse cent’anni dopo, quasi richiamati da un istinto animale, primordiale di caccia alla preda della nottata.

Infilarsi nei bagni del Gilmoure era sempre un’impresa: il primo gesto dopo essere entrati nel locale solitamente era quello di attaccarsi alla bottiglia, perciò salire le scale per il secondo piano e poi trovare il buio e nascosto corridoio non era certo facile, traballando e colpendo gente in continuazione. Dopo essersi chiusa in uno dei cubicoli per un quarto d’ora, scaricando la vescica e attendendo che la nausea da alcol si attenuasse, Charlie uscì barcollando sui tacchi a spillo. La coppia che poco prima aveva urtato era ancora appartata contro la parete rivestita di soffice tappezzeria rossa, ma per il resto il corridoio era deserto. La ragazza afferrò l’orlo del proprio vestito, anche questo rosso, nascondendo per quanto possibile le cosce coperte soltanto da un paio di sottili parigine nere, ma chinandosi perse l’equilibrio: appoggiò la schiena al muro per non finire a gambe all’aria, per poi lasciarsi scivolare a terra. Chiuse gli occhi, godendo dell’aria viziata e del clima di nichilismo che vi aleggiava. Qualcuno, in un punto remoto della sala, gridò.

Un’ombra comparve dall’altra estremità del corridoio, inciampando nel gradino d’entrata che da sempre tradiva gli ignari avventori. Una bestemmia uscì dalla bocca ancora protetta da un velo di oscurità: Charlie aprì gli occhi, posandoli sull’alto ragazzo che avanzava con passi misurati verso i bagni, una mano appoggiata alla parete probabilmente per mantenersi in piedi. Quando il viso dello sconosciuto incontrò il fascio di luce di una delle lampadine del corridoio, la ragazza poté osservarlo bene.

Era proprio la stessa persona del rave party organizzato per il ritorno di Freddie, il ragazzo che lei aveva beccato a fissare Evie e Yorek; senza la stramba compagnia di amici dalla quale era stato circondato in quell’occasione, aveva un’aria un po’ meno svampita nonostante gli scotch che doveva essersi scolato. La giacca nera e i pantaloni in pelle aderenti gli conferivano un aspetto da rockstar tenebrosa, non troppo piazzato, e anche se sicuramente aveva tagliato i capelli in quei giorni, sul capo aveva una zazzera spettinata di un castano scuro, comune. Nel complesso era di bell’aspetto, anche se forse la luce del sole avrebbe rivelato un orrore dove l’alcol e il buio dipingevano la bellezza.

In quel momento, Charlie decise di rimettersi in piedi: con gran fatica, appoggiò i palmi delle mani alla parete dietro di sé, facendo leva per rialzarsi. I tacchi alti non aiutavano, ma barcollante riuscì ad issarsi e a riacquistare una postura decente: se anche il ragazzo non l’aveva notata in precedenza, la confusione nella sua testa la rendeva abbastanza audace per tentare un approccio brutale, senza pretese. Non intendeva rimanere sola quella notte.

Ma non appena furono entrambi sotto lo stesso getto di luce, Charlie seppe che non ci sarebbe stato bisogno di presentazioni: un sorrisetto malizioso, quasi beffardo aleggiava sul volto dello sconosciuto e nei suoi occhi. La ragazza li fissò, cercando di capirne il colore, trovandovi semplicemente la stessa domanda che da un po’ albergava nella sua di mente. “Io e te, tesoro: che ne dici?”. Non ci fu nemmeno bisogno che Charlie gli bloccasse la strada con il finto attacco di tosse da rigetto che aveva programmato: qualunque cosa lo stesse portando nei bagni del Gilmoure, qualunque cosa la stesse portando fuori di lì, questa era già stata rimossa da ogni pensiero.

Fu lui il primo a parlare, con la voce rauca di chi ha buttato via la propria gola sulle strofe di una canzone. – E così tu sei Charlie. – scandì lentamente ogni sillaba mentre le squadrava l’espressione del viso, affermandosi la propria posizione di vantaggio grazie ad una conoscenza del nome di cui la brunetta non godeva. – L’amichetta di Freddie. – Charlie notò con la coda nell’occhio il giovane mettersi le mani in tasca, rilassando la schiena per assumere una posa che trasudava sicurezza. La frecciatina per niente velata gli provocò un moto di soddisfazione che allargò il ghigno, provandone uno di riflesso sul volto della ragazza. Attorno a loro, i contorni del mondo erano sfocati e privi di qualsiasi importanza.

En garde.

- E tu sei l’amichetto di Adam. – il ragazzo poté scorgere un piacere quasi sadico nel modo in cui Charlie rispose alla sua battuta: negli occhi scuri brillava già la vittoria. Lo sconosciuto aggrottò le sopracciglia, accusando visibilmente il colpo come qualcosa di poco influente sull’esito di quella battaglia. Si squadrarono, pronti ad un nuovo assalto, nonostante brillasse nei loro occhi la consapevolezza che entrambi avrebbero portato a casa un premio quella sera.

- Touché. – con una scrollata di spalle, egli trasformò il ghignò malizioso in un sorrisetto sardonico, che rese finalmente giustizia al suo fascino sciupato, proprio come quello di un musicista tormentato. Charlie inarcò le sopracciglia, appoggiando le mani sui fianchi fasciati di seta in una posa studiata, attendendo di conoscere i risvolti di quell’interessante faccenda. – Suppongo quindi di non avere bisogno di presentazioni. – sfrontato, lo sconosciuto tornò ad attaccare con una frase apparentemente innocua. Da qualche parte, nella sala di fianco, qualcuno urlò la propria gioia quando il deejay propose un remix di “Rock N’Roll” dei Led Zeppelin. Di fronte, la ragazza aveva un bivio. “In fondo, sei furbo, eh?” pensò, fissando intensamente quegli occhi di cui non riusciva ancora a distinguere il colore: conoscere il suo nome implicava il vantaggio di poter collegare la sua faccia a persone, luoghi, fatti che, nel caso fosse successo qualcosa di sgradevole alla giovane, avrebbero potuto aiutarla a fare una personale giustizia; ma l’anonimato garantiva qualcosa di puramente passeggero, qualcosa che poi avrebbe dimenticato in un delirio alcolico e che non avrebbe poi necessitato di spiegazioni. Garantiva libertà assoluta in quella notte di sfrenatezza.

Carpe Diem, ma solo se le recava vantaggio.

In quel momento, Charlie decise che ad ogni modo non le sarebbe importato più nulla all’alba.

- Mi basterà farmi offrire qualcosa da bere. – passandosi le mani fra la folta chioma di capelli già scompigliati, la ragazza seppe di aver fatto centro. Sul viso del giovane si leggeva una soddisfazione quasi sfacciata, che lasciava bene intendere come sarebbe finita quella serata. – Ma quale onore, con la festeggiata addirittura. – commentò in risposta, per poi farle un giocoso occhiolino sotto le luci al neon. Subito dopo, con un ampio gesto del braccio, si fece da parte, sgombrando il corridoio. – Dopo di lei. – si avventurarono così nella sala superiore del Gilmoure.

Per una legge non scritta inventata da chissà chi, mentre la sala inferiore era quella in cui in genere si scatenava la vera e propria festa, quella superiore era il luogo di ritrovo per gli intellettuali, per chi voleva ballare in tranquillità, e per le coppiette che si appartavano. La stanza relativamente meno buia e caotica rispetto alla gemella: la pista da ballo era gremita di gente che, ridendo e bevendo, si riposava prima di fare ritorno al piano inferiore, mentre un deejay teneva viva l’atmosfera in modo informale. Il bancone era lungo, una copia identica dell’altro, ma i baristi che vi lavoravano erano meno indaffarati e chiacchieravano amabilmente con i clienti.

Ovviamente però, la sala era comunque affollata: non appena i due uscirono, due ragazze salutarono Charlie, augurandole barcollanti su costose Manolo un buon compleanno. La ragazza, che era sicura di non aver mai visto prima le due, ringraziò affabile per poi afferrare per un avambraccio lo sconosciuto, rimastole dietro; prese poi un profondo respiro, prima d’inoltrarsi nella marea di persone diretta all’altro capo della stanza. Ovunque si girasse, sotto luci soffuse scorgeva sorrisi amichevoli e la tipica voglia di divertimento che animava il suo spirito. Non si volse neanche un secondo a osservare le reazioni del suo accompagnatore, ma quasi subito sentì sfilarsi dalla sua presa l’avambraccio dalla muscolatura nervosa, scattante. In un primo momento non ci fece caso, il ragazzo era perfettamente capace di tenere il suo passo senza essere guidato; poi, comprese che non si stava sottraendo al suo tocco: una mano grande, dalle dita lunghe e appena callose, cercò la sua, per stringerla con una forza quasi bruta, virile. Il primo istinto le dettò di sottrarsi a quel contatto dall’intimità che, seppur minima, sempre aveva spaventato la brunetta. Poi una sensazione di calore si sprigionò nel suo corpo, facendo comparire ancora una volta il sorriso sul suo volto: era il tocco di un amante, quello.

- Allora, cosa prende la ragazza più in vista di New York stasera? – chiese, senza nascondere la presa in giro nella voce, accomodandosi su uno degli alti e futuristici sgabelli del locale. Charlie accavallò le gambe, consapevole che l’orlo del suo vestito lasciava poco all’immaginazione. – Facciamo due vodka lemon secche? – retorica, diede l’ordine a Pablito, nome d’arte del fidato barista Pablo Gonzales: con quel gesto, prese con la forza in mano le redini della serata. Dovette capirlo anche lo sconosciuto, perché un ghigno di palese sfida si dipinse sulle labbra circondate da un lieve strato di barba ispida. – E dimmi, come mai la regina della festa non si sta scatenando in mezzo ai propri sudditi? Troppo stagediving fa male alla circolazione?  – le disse in un orecchio, per superare il forte rumore delle casse musicali. Charlie non volse subito lo sguardo su di lui, mordendosi il labbro inferiore con gli incisivi imperfetti. Ignorando il riferimento velenoso al suo status di regina del castello, la domanda era scontata, quasi banale: negli occhi chiari e poco definiti trovò poi la domanda di cui sospettava.

“Mi stavi cercando, non è vero?”. “Se speri che ti dica che ti stavo cercando, ti sbagli di grosso”.

- Invece in quel bagno si stava scatenando una festa che neanche t’immagini. Un tizio stava vendendo roba esportata dall’Iran, e una ragazza sotto effetto si era messa a ballare nuda nel water. Io sono uscita per una boccata d’aria, e sono stata trascinata via da uno sconosciuto. – parlò con serenità, come se quella palese frottola forse in realtà una quotidiana verità, senza togliere lo sguardo dagli occhi del ragazzo. Si fissarono in silenzio per un secondo, poi entrambi scoppiarono a ridere. – No, in realtà sono uscita per controllare che nel mio regno non si scatenasse l’anarchia: non voglio che i miei sudditi si ribellino. – continuò, recuperando una serietà che perse dopo aver bevuto tutto d’un sorso il primo bicchiere. - Che bontà d’animo, che magnanimità! – la prese in giro, mentre faceva segno a Pablito di servire altri due drink. Passarono i minuti a prendersi in giro e a sfiorarsi con le ginocchia, e quando anche l’ultimo giro di vodka fu svuotato ancora Charlie non sapeva dire di che colore fossero gli occhi di quel magnetico sconosciuto. Di una cosa era sicura però: le carezza dei pantaloni di pelle sulle sue finissime calze equivaleva a più di mille battute.

- Non so chi sei. Non è un’informazione rilevante, visto che non ho mai visto la metà dei presenti. – biascicò quando l’alcol ricominciò ad annebbiarle la mente, e ad allentare i freni della sua già scarsa dignità. Nonostante gli stesse sussurrando all’orecchio quelle parole, poteva scommettere che lo sconosciuto stesse sorridendo. – Ma scommetto che ti muovi bene sulla pista da ballo. Alza il culo, e stai attento a non inciampare quando sverrò ai tuoi piedi. – come un’adolescente smaliziata, Charlie ammiccò e con un salto cercò un equilibrio che già da tempo aveva perso. Pervaso dalla consapevolezza di avere in pugno la serata, il ragazzo la seguì.

 

Stop making the eyes at me, I’ll stop making the eyes at you,
and what it is that surprises me is that I don’t really want you too.
And your shoulders are frozen (cold as the night),
oh, but you’re an explosion (you’re dynamite).
Your name isn’t Rio, but I don’t care for sand
and lighting the fuse might result in a bang, b-b-bang, go!

(Arctic Monkeys – Bet You Look Good on the Dancefloor)

 

Aveva appena mosso i primi passi verso il centro della gremita pista da ballo, quando notò qualcosa che subito rovinò il bel programma nella sua mente. Mentre si sforzava di non rompere i tacchi delle costose scarpe oscillando qua e là, vide l’espressione preoccupata di Evie emergere dalle scale laterali che scendevano al primo piano. Di norma, l’avrebbe ignorata, si sarebbe nascosta alla svelta fra la miriade di corpi senza nome e avrebbe concluso in bellezza con l’amichetto di turno, ma Charlie conosceva quel volto: quando Evie aveva un brutto presentimento, che poteva essere dettata da un rissa fra ubriachi quanto da un granello di polvere su un divanetto, era impossibile che la serata prendesse una buona piega. E la brunetta sapeva che, se l’amica aveva un brutto presentimento, l’avrebbe trovata anche se fosse scappata in una remota isola della Polinesia. E l’avrebbe tediata per tutta la notte.

- Aspetta un secondo! Vieni con me! – strillò, afferrando brutalmente per l’avambraccio lo sconosciuto, ignaro della catastrofe a cui stavano andando incontro: il ragazzo le rivolse uno sguardo sorpreso, quasi deluso, per poi seguirla docilmente. Evie la scorse quasi subito, facendosi largo fra la folla a suon di gomitate.

- Houston, abbiamo un problema. – esordì subito, afferrando saldamente Charlie per una spalla, come se dalla propria espressione preoccupata non si potesse intuire la presunta gravità della situazione. La brunetta si sforzò di rimanere seria e di non rispondere male all’amica, aspettando di ascoltarla. – Che accade, sergente? – chiese, senza essere in grado di reprimere del tutto la nota di beffa. Quella mancanza le costò un’occhiataccia di fuoco da parte dell’amica, ma Charlie sapeva di non poterci fare nulla: Evie si considerava una persona estremamente sensibili alle variazioni e ai cambiamenti improvvisi, e qualsiasi scusa era buona per trovare un ostacolo, una cospirazione o qualsiasi altra meschinità. Giusto il mese prima aveva fatto evacuare la festa di addio al nubilato di un’aspirante attrice di Brodway, dopo essersi trovata non si sa come nell’impianto caldaie dell’albergo che ospitava l’evento con un tizio sconosciuto, ed aver visto uscire fumo da dietro gli ingranaggi di uno dei macchinari. Successivamente, si era scoperto che in realtà il fumo era dovuto al guardiano della hall, che approfittava del turno di pausa per godersi della sana e meritata cannabis. Normalmente, Evie si sarebbe unita allo sfortunato lavoratore, ma in quell’occasione era entrato in scena il presentimento.

- Stavo comprando un balconcino fiorito giù, dall’amico di Freddie che lavora nel West Side. – cominciò a spiegare, lanciando occhiate circospette al ragazzo che si dondolava sui talloni con impazienza dietro Charlie – E ho visto Skipper, che stava vendendo roba a due ragazzine che neanche dimostravano quindici anni. Non mi fido. – quando Evie fece quel nome, anche la brunetta però non poté fare a meno di preoccuparsi: tutti conoscevano Skipper come un omaccione nerboruto, i neuroni del quale erano stati mandati in fumo dai succhi voodoo che preparava insieme al proprio coinquilino. Era noto poi che lo spacciatore avesse l’innata capacità di attirare i poliziotti dei servizi antidroga, mandando in fumo qualsiasi festa. – Ho un brutto presentimento. – concluse, ammiccando come per sottolineare una sorta d’intesa sul quadro della situazione.

Ma Charlie, dopo l’iniziale momento di panico, non era affatto preoccupata: due ragazzine che prendevano acido non era un fattore preoccupante. In una città come New York City, dove il divieto di bere sotto i ventun’anni era largamente beffato, casi del genere capitavano ogni giorno e l’occhio pigro di vigilanti e baristi solitamente non vedeva più in là di un buon compenso in denaro. Skipper era finito dentro una o due volte, mai nulla di serio, e comunque era un volto noto per i poliziotti che spesso le ragazze della loro compagnia ammaliavano con promesse invitanti e palpatine provocanti. – Beh, lasciagli fare l’unico lavoro con cui riuscirà a pagare l’affitto, Evie. – rispose noncurante, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata allo sconosciuto dietro di lei, che appariva sempre più scocciato. Quando Evie aprì la bocca per ribattere, subito la interruppe – Avanti, Evie! Stai tranquilla! Non succederà proprio un bel niente, per il semplice fatto che non sta succedendo nulla di straordinario… Se proprio ti senti così in pericolo, corri ad una cabina telefonica e dì che Jerry il Mafioso è appena stato avvistato dall’altra parte della città, così tutti i poliziotti si catapulteranno nel Queens e vivremo felici e contenti! – sorrise in un modo teatralmente innocente, facendo spallucce.

Evie, nel profondo del suo cuore, la mandò a quel paese. Bastava notare le occhiate che Charlie e quel bellimbusto dietro di lei si lanciavano di continuo per comprendere i programmi della brunetta per la serata; era sufficiente un po’ di testosterone nell’aria per fare in modo che quella cinica, irritante ed emancipata ragazza non vedesse più altro, accecata dal bisogno di mescolare i propri liquidi a quelli del maschione di turno. “Beh, ma anche tu…” Evie mise a zittire la propria coscienza con uno sbuffo infastidito, sostituendola con la presenza sempre più opprimente del brutto presentimento. – Oh, Evie, andiamo! Non puoi seriamente spaventarti per Skipper! Rilassati, fumati il cannone che hai appena comprato e trovati qualcuno con cui pomiciare… dove hai lasciato il buon Yorek? – quando poi l’amica le posò una mano sulla spalla, fu il colmo. A Evie sembrava di essere la malata mentale fuggita dal reparto psichiatrico di turno, e lo spilungone dietro Charlie la doveva pensare allo stesso modo. L’espressione del suo viso lo lasciava intendere. La biondina gli stava lanciando occhiate malevole quando questo alzò il braccio, salutando in direzione di qualcosa che subito le due si volsero a guardare.

Evie non poteva certo riconoscere i tre individui che si stavano facendo largo fra la folla, dopo aver salito le scale dal piano inferiore. Charlie sì: scrutando attentamente in mezzo al mare di invitati, notò in primo luogo l’arrapato di turno, quello che, la sera del rave party di Freddie, non aveva smesso per un secondo di lanciare occhiate di fuoco a chiunque. Dietro, lo seguivano lo strambo con la vescica debole e l’ameba, agghindata stavolta di uno smoking arancione con bordi in contrasto neri.

“ Neanche fosse Halloween.”

“E’ arrivato il circo in città o cosa?” si chiese sarcastica Evie, evidentemente infastidita dal fatto che i tre avessero offerto una scusa all’amica per non prestare attenzione al presentimento; Charlie le dedicò soltanto una lieve alzata di spalle, prima di alzarsi sulla punta delle scarpe già pericolosamente alte, sussurrando all’orecchio del suo bello sconosciuto – Chi sono? – con voce suadente, indugiando volontariamente sul lobo. Prima che il ragazzo le rivolgesse un affabile sorriso, Charlie fece in tempo a notare il modo sarcastico con cui questo alzò gli occhi al soffitto, scostandosi appena dalla sua stretta sensuale – Fanno parte della mia band. – tipico, pensò stizzita la brunetta, di un esemplare di maschio indie alternativo della periferia newyorkese, suonare in un complesso. Poche volte era successo che il suo atteggiamento da gatta morta facesse buchi nell’acqua: incrociò le braccia sotto al seno, infastidita.

- Bene, bene. – non appena i tre ragazzi li ebbero raggiunti, Charlie non esitò a prendere in mano le redini di una conversazione destinata a durare poco: sotto lo sguardo attonito di tutti, senza dar tempo a nessuno di presentarsi, incrociò le braccia sotto il senso e cominciò a parlare. – Che quadretto emozionante! Sono certa che diventeremo tutti amici! Comunque… - allungò il braccio per afferrare Evie per una spalla, trascinandola al proprio fianco contro la sua volontà. – Evie, questi sono… emh, Alfredo, Gianni ed Ermenegildo! – tutti inarcarono le sopracciglia di fronte agli inusuali nomi: sorridendo fintamente candida, la brunetta lanciò Evie addosso all’ameba dallo smoking arancione, senza badare alle proteste di lei.

- M… m… - sembrava che il tipo nervosetto, quello dalla vescica piccola, avesse la lingua annodata: i quattro ragazzi erano senza parole.

- Adoro questa canzone! – strillò poi, con un fare deciso che si rifletteva nei suoi occhi dal trucco sbavato, che non davano possibilità di scelta al suo spilungone. Lo sconosciuto lanciò un’occhiata ai propri amici, visibilmente scioccati, poi alzò le spalle e donò a Charlie un’occhiata che risolse la situazione: in pochi secondi, le loro mani furono nuovamente allacciati e i loro corpi catapultati nella folla che danzava.

Non aveva la più pallida idea di quale fosse quella canzone: nel cuore caldo della stanza iniziò a respirare un’aria nuova, adrenalinica, che le fece perdere il normale utilizzo dei cinque sensi. Sapeva cosa stava per accadere, al contempo però non riusciva a badare a nulla che non fossero le braccia di quello sconosciuto, quel nessuno, avvolte attorno al suo corpo, che con sensuale discrezione le accarezzavano la schiena in un modo che faceva scomparire la barriera di stoffa del vestito. Istintivamente, si strinsero mentre ondeggiavano su quelle note violente, aggressive, in un esotico gioco di scambi e tocchi. Charlie gli allacciò le braccia al collo, appoggiando il mento alla sua spalla per chiudere gli occhi e godere appieno di quel momento; il momento in cui si compiva il salto nel vuoto necessario per possedere l’anima di una persona per una notte, una soltanto, per poi buttarla nel cestino della spazzatura insieme a tutti gli altri ricordi.

Non memorizzò il momento preciso in cui le loro bocche si trovarono, non l’aveva mai fatto con nessuno e non aveva intenzione di cominciare in quel momento: l’unica cosa che si fissò nella sua mente fu il testo della canzone che gli altoparlanti suonarono in quel momento. Le parole grintose ma forse un pelo scontate di “My Sharona” s’insinuarono fra le loro bocche che si rincorrevano e si conoscevano, suggellando il loro muto patto di non parlarsi. Quella non sarebbe stata una canzone d’amore.

Sì, si muoveva veramente bene sulla pista da ballo.

Non fu difficile dimenticare tutto quanto, dimenticarsi del presentimento di Evie, o degli amici della band: l’unico contatto con la realtà che la risvegliò da quella fase trascendentale che l’insieme degli elementi le provocava fu la sensazione di qualcosa di freddo e dura fra le scapole. Neanche si era resa conto che, con piccoli passi, avevano raggiunto la rampa di scale che portava alla terrazza del Gilmoure, facendosi largo tra la folla senza interrompere il gioco delle loro lingue, le loro carezze, la loro stessa danza. Si sentì semplicemente spingere contro il corrimano, intrappolata nel corpo smilzo ed alto di quello sconosciuto che aveva saputo intrappolarla anche con uno sguardo fra la folla. La scomodità della schiena piegata all’indietro contro il ferro, sotto l’impeto dei baci del ragazzo, non era nulla rispetto alla sensazione straordinaria che si provava attraverso questi. Fu chiaro ad entrambi che dovevano salire: in un barlume di lucidità, Charlie si chiese come avrebbero fatto, davanti ai gradini dell’elegante scala a chiocciola. Poi, si disse che anche cadere non avrebbe cambiato nulla. Stavano già precipitando.

Ci misero secoli per arrivare senza farsi realmente del male, barcollanti per il fervore e per l’alcol, ma alla fine lo sconosciuto le aprì la porta che portava alla terrazza.

Era un luogo che Charlot aveva adorato s’in dal primo istante: sembrava che tutta New York City s’inchinasse ai suoi piedi, sfiorando quelle stelle invisibile che sempre le portavano fortuna. Manhattan era un’immensa distesa di tetti e luci e insegne, la vita brulicava dalle strade e l’identità di ogni persona spariva in quei cumuli di cemento che avevano piegato il mondo. Esistevano solo le persone che avevano la fortuna di trovarsi al Gilmoure, a ridere e a bruciarsi nell’alcol, anche con gli uragani, al riparo sotto la leggera tettoia che copriva i lunghi tavoli illuminati da lampadine multicolori. Tutto il parapetto in cemento armato era circondato da divanetti lunghi e morbidi, arancioni.

Quella sera di settembre una brezza fresca animava l’aria ricca di smog della metropoli. Un gruppetto di ragazzi sedeva per terra al centro della struttura, in cerchio, discutendo di politica estera mentre ochette attillate massaggiavano loro le spalle e cercavano di raggranellare i soldi per un altro drink. L’odore tipico di fumo straniero aleggiava sotto la tettoia. Sepolta nell’ombra, una coppia si dava da fare senza curarsi della presenza di altri.

Nessuno si curò di loro mentre si avviavano verso l’angolo fuori dalla protezione della tettoia, afferrando i vestiti dell’altro come per strapparli lì, con New York davanti. Evidentemente più a proprio agio in quell’ambiente del ragazzo, Charlie lo fece indietreggiare con dolce fermezza fino a farlo sedere su uno dei soffici divanetti, guidandolo anche con gli sguardi che di sottecchi gli lanciava prima di tornare sulla sua bocca. Non sarebbero stati interrotti, questo lo sapevano: al Gilmoure, l’edonismo libero era un culto a cui tutti portavano un rispetto quasi religioso.

Gli si sedette sopra a cavalcioni, lasciando che il vestito si alzasse praticamente fino a scoprirle i glutei. Subito furono le mani del ragazzo a proteggere quella nudità. Si trasformarono in un groviglio di arti e sospiri che nessun altro avrebbe udito, sotto tutti i rumori della città. Mentre le dita del ragazzo scendevano frenetiche ad accarezzarle le cosce, quelle di Charlie già saggiavano la consistenza delle pelle dell’addome e del ventre, intrufolatesi sotto la sua maglia. Una muscolatura nervosa, non evidente ma tonica, quella dello sconosciuto. Non passò molto tempo prima che la ragazza cercasse la cerniera dei pantaloni del moretto, solleticando con tocchi esperti l’erezione prominente di quest’ultimo: un gemito roco gli sfuggì dopo quel gesto, ed egli riuscì a soffocarlo solo piantando i denti nella pelle morbida della spalla scoperta di Charlie.

Non appena avvertì le dita del ragazzo scostarle le mutandine da sotto il vestito ed avanzare irruenti tocchi nei suoi punti più sensibili, Charlie miagolò soddisfatta, donando soltanto una frase spezzata ad una sicurezza a cui da tempo aveva rinunciato. – Hai…? – non aggiunse altro, il suo copro parlò per lei: le tasche vuote del ragazzo lasciavano immaginare che i preservativi fossero rimasti in un cassetto, lontani da quel mondo fatto di rischi. E Charlie non commentò, ma si strusciò ancora più profondamente contro lo sconosciuto: era rischioso, era da incoscienti, ma la ragazza era abituata a salti nel vuoto peggiori. La pillola che ogni mese ingoiava insieme ad una Diet Coke era più che sufficiente, al diavolo tutte quei bei discorsi moralisti sul sesso sicuro: un virus letale non era la prospettiva peggiore nella sua vita di eccessi.

Furono minuti intensi, veloci, minuti in cui lei gli conficcò le unghie nella schiena non tanto per la passione, quanto per imprimere il proprio marchio su un semplice oggetto di scena in quel dramma comico che era la sua vita. Il suo palcoscenico era costellato di amori furtivi e volubili, di anni bruciati e di silenzi che nei suoi pensieri evitava come la peste: una drammaturgia che assumeva contorni assurdi e surreali, e che al tempo stesso sapeva di una realtà che molti spacciavano per finzione. E dire che Shakespeare non le stava neanche simpatico.

E quando, superata la scossa elettrica irradiata dal basso ventre in tutto il corpo nel momento dell’orgasmo, anche il ragazzo raggiunse il piacere fra le sue braccia, Charlot gli strinse la braccia attorno al collo con passione ambigua: come il cappio dell’impiccato, segnava la fine di ogni contatto con quello sconosciuto. Ancora prima che il loro superficiale rapporto fosse giunto al termine, egli si era trasformato in passato, e la brunetta si era proiettata in avanti, con nuovi progetti in mente e nuovi affetti da ricercare. Sorrise, appoggiando una guancia contro la sua nuca, ascoltando il suo respiro affannoso avviarsi lentamente verso una nuova calma, avendo sfogato di ogni istinto. Sotto di loro, New York irradiava una luce brillante, artificiosa, l’unico riflettore di cui la ragazza aveva bisogno. Andava tutto bene.

 

 

Oh, there ain't no love, no Montagues or Capulets,
are just banging tunes and DJ sets and...
dirty dancefloors, and dreams of naughtiness!
Well, I bet that you look good on the dancefloor,
I don't know if you're looking for romance or,
I don't know what you're looking for.

 

(Arctic Monkeys – Bet You Look Good on the Dancefloor)

 

 

Evan McLair, al piano di sotto, non si stava divertendo per niente. Al contrario della sua coinquilina, aitanti sconosciuti e fisicità spinta erano molto lontani dalla dimensione in cui si trovava in quel momento il suo pensiero. Certo, avrebbe preferito di gran lunga dimenticare tutto e spassarsela come sempre: ma non le riusciva d’ignorare il presentimento.

Sedeva su uno dei divanetti della sala, un bicchiere di colmo di gin tonic che la guardava attraente dal tavolino di cristallo che aveva davanti, le braccia incrociate sotto il seno. Aveva ordinato da bere tanto per passare il tempo, non avrebbe ritrovato la voglia di sballarsi finché i suoi dubbi sulla “sicurezza” i quella festa non se ne sarebbero andati. D’altro canto però, le persone da cui era attorniata le stavano facendo provare un irrefrenabile voglia di seppellirsi nell’alcolismo. La mano foresta parcheggiata sulla sua coscia era un ottimo motivo di suicidio.

- Sul serio, dolcezza, parlo di amore libero, parlo di emozione e wow! Hai due tette da favola. – quando Charlie l’aveva piantata in asso per andare a succhiare via la faccia al belloccio di turno, Evie era rimasta intrappolata nella bizzarra compagnia di questo. Il tizio dall’ormone scattante, che si era presentato come Eddie “The Tune” Turner, da quando se n’erano andati i piccioncini decantava le lodi del suo seno e aveva tentato più volte di baciarla, mancando la mira a causa dei fumi dell’alcol e finendo disteso sulle sue ginocchia. Alla sua destra, invece, Vescica Debole accennava di tanto in tanto qualche sillaba, sputacchiando un po’, senza mai riuscire a terminare la frase. Smoking Arancione stava semplicemente zitto, in un angolo.

- V-vuoi q-qualcos’a-altro da b-bere? – le chiese Vescica, mentre disgustata spostava la mano di The Tune dalla propria coscia. Nonostante il riccio fosse stato gentile nei suoi confronti, gli scoccò un’occhiataccia degli di un assassino armato di mitra. Aveva ancora il bicchiere pieno e lui le poneva una domanda del genere, ridicolo. Ma non rispose: si era rifugiata in un freddo silenzio che sperava scongiurasse i futuri tentativi di approccio dei tre.

Proprio non capiva perché Charlie dovesse essere così egoista, a volte. “Non sto facendo un dramma per nulla, è una questione seria.” pensò risoluta, stringendo le labbra. In cuor suo sapeva di stare un po’ esagerando, ma questo non dava il diritto all’amica di lasciarla in compagnia di bifolchi e sfigati, ignorando ogni avvertimento per andare a spassarsela con il primo che passava.

“Hai organizzato tu la sua festa. Lei non si sente responsabile.” la sua coscienza la stava tormentando con pensieri controversi: era come dialogare con una persona tremendamente irritante, poco importava che si trattasse di lei stessa. – Insomma, parlo di emozione, di amore da favola e di tette libere… - continuò a biascicare lo sconosciuto, accasciandosi contro di lei. Quando le appoggiò la testa sulla spalla, come se si stesse assopendo, Evie non riuscì a trattenere un verso di ribrezzo: non era così che aveva immaginato quella serata.

- D-dai, basta E-Eddie! – Vescica Debole tentò un debole pugno contro lo stomaco dell’amico, allungandosi oltre la ragazza. Purtroppo però, aveva calcolato male le distanze, perciò il suo colpo andò a vuoto senza che il mascalzone sentisse nulla; in compenso, perdendo l’equilibrio a causa di quello sbilanciamento, Vescica appoggiò con pesantezza il gomito sulla coscia scoperta di Evie. – Ahia cazzo! – esclamò la bionda, nonostante il dolore non fosse eccessivo. Era talmente irritata da aver reagito come ad una provocazione per quell’errore innocente del ragazzo. – Ma sei deficiente? – strillò, senza riuscire ad evitare che alcune persone si voltassero in sua direzione, confuse. Vescica si ritrasse, come un cagnolino bastonato.

Li avrebbe mollati volentieri, e in futuro avrebbe negato qualsiasi contatto con quei tipi. Non perché fossero particolari sfigati, anzi, oggettivamente non li avrebbe considerati cattivi e banali a priori: sembrano persone stravaganti, ma tutto sommato simpatiche. Ma era la situazione che aveva fatto precipitare qualsiasi tipo di comunicazione: Evie non era interessata minimamente a loro, ma solo a tenerseli stretti perché rappresentavano l’unico contatto con Charlie in quel momento. Il suo spilungone sarebbe tornato a riprendersi la propria combriccola di squinternati, oppure Charlie sarebbe passata da lei per recuperare le chiavi della macchina dalla sua borsa. Era questione di attimi, in cui doveva convivere con quelli e il presentimento.

Fu proprio dopo aver formulato quell’ultimo pensiero che Evie scorse qualcosa di particolarmente importante: uno dei ragazzi che di tanto in tanto avevano intravisto all’università si trovava a poca distanza da loro. In realtà, l’aveva incontrato anche prima, ma non l’aveva di certo riconosciuta: la socializzazione a livello costruttivo non era negli interessi principali della festa. La biondina strinse gli occhi, osservandolo alla ricerca del dettaglio sbagliato che aveva attirato la sua attenzione. Poi sussultò.

Al fianco dell’universitario c’erano Skipper e Baz, uno dei tanti agganci dello spacciatore per procurarsi roba importata dall’Oriente. Immediatamente, il presentimento tornò ad essere uno spillo appuntito che tentava di perforarle lo stomaco. Nonostante avesse in passato fatto affari con quella gentaglia, non le piaceva l’enorme profitto che stavano ricavando dalla festa di Charlie: stavano vendendo tanta, troppa roba. Roba che dovevano aver comprato a poco prezzo, visto che nessuno di loro possedeva una grande quantità di denaro. Roba tagliata male quindi, o poco sicura. In poche parole insomma, cibo per poliziotti. Ed Evie non voleva grane: né lei né Charlie si potevano permettere di essere collegate a faccende del genere.

Poi, come un’apparizione, venne la conferma al suo presentimento, ciò che fece scattare il campanello di allarme rosso nella sua testa: un uomo, sulla trentina circa, si aggirava attorno ai due spacciatori, recitando bene la parte di uno strafatto qualunque, uno fra i tanti invitati per caso. Evie strinse gli occhi: nessuno ancora l’aveva riconosciuto tranne lei, anche se Skipper e Baz avrebbero dovuto scattare sull’attenti alla sola vista dell’uomo. Questi si faceva chiamare Davis, ma la ragazza non sapeva quale fosse il suo vero nome: tutto ciò che sapeva era che tre mesi prima era stato lui a far mettere dentro una certa Clarissa Zarkovskaja, che in una serata aveva distribuito quasi un chilo di coca per chissà quante centinaia di dollari. Ad una delle loro feste. Evie sapeva che stavano tenendo d’occhio il loro giro e gli eventi da loro organizzati.

- Alzati, su. – in un attimo, prese la decisione: diede una pacca sulla spalla di Vescica con rabbia, fissandolo con decisione. In qualche modo, avrebbe trovato Charlie e se la sarebbero svignata.

Sulla terrazza del Gilmoure invece era in corso la discussione del secolo: il gruppetto di intellettuali chic dediti all’erba che aveva preso posto al centro del posto stava discutendo animatamente della crisi economica che stava attanagliando l’America. Uno degli schieramenti in quel momento stava difendendo a spada tratta il presidente Obama, mentre una pipa nella quale era stato mischiato tabacco a fumo veniva fatta girare di bocca in bocca.

L’imprecazione che si levò alta nel cielo nero della metropoli non interruppe né sconvolse la conversazione: il linguaggio di Charlot Valenti non era dei più fini, e questo era risaputo. Specie se questa scopriva di dover tornare a casa con qualche altro danno ai vestiti. – Merda! Mi sono sporcata! – di cosa esattamente si fosse insudiciato l’abitino rosso della ragazza, questo lei non lo chiarì. Ma la grande macchia che aveva sul ventre lasciava poco all’immaginazione. Cercando di rimediare al danno, Charlie incominciò a sfregare la mano sulla stoffa, senza grandi risultati: intanto, seduto sui divanetti, lo sconosciuto che era con lei cercava di rimettersi a posto in fretta il cavallo dei pantaloni. Trattenendosi dallo sghignazzare.

- Tu… - quando fu sicuro di riuscire a contenere le risate, il ragazzo abbozzò un principio di discorso: si rialzò in piedi, avvicinandosi a Charlie; ancora impegnata a cercare di pulire il proprio vestito, questa gli lanciò un’occhiata truce. – Tu prendi la… - egli fece un ampio gesto con la mano, ed indossò un’espressione che doveva essere esemplificativa. Come un adolescente, sembrava spaventato dal pronunciare parole collegate al sesso e alla prevenzione. “Tanto grande, quanto piccolo il cervellino” pensò Charlie, con un velo di amarezza.

- Non ti preoccupare, cocco, la mia vagina è sicura. – rispose, sorridendogli con un velo di sarcasmo in viso. Tentò un ultima volta di mitigare il danno sulla stoffa causato da quei dieci minuti di sesso, poi decise di lasciare perdere con uno sbuffo infastidito. Appoggiò le mani sui fianchi, guardando il ragazzo. – Hai una sigaretta? – domandò poi, pur sapendo che la risposta sarebbe stata negativa. Aveva già sondato le tasche del ragazzo, alle ricerca di preservativi. – Non fumo. – lo sconosciuto alzò le mani come se fosse stato sotto tiro dalle pistole della polizia. Charlie inarcò le sopracciglia, di fronte a quell’atteggiamento quasi difensivo: forse aveva pensato che, visto il rancore per la macchia sul vestito, senza nicotina ella gli sarebbe saltata addosso per sbranarlo.

- Però mi sembra che i tuoi amici lì abbiano da fumare in abbondanza. – aggiunse il ragazzo in fretta, per poi sorridere sghembo, dando per scontato che la ragazza conoscesse tutti gli invitati alla propria festa di compleanno. Charlie lanciò un’occhiata frettolosa al gruppetto di aspiranti new-hippie che stazionava al centro del terrazzo, cercando di riconoscerne qualcuno: quando ebbe la sensazione che fra loro vi fosse anche il cugino di una delle ex ragazze di Freddie, allora prese per mano lo sconosciuto, più con la decisione della dominatrice che con reale affetto.

- La colpa è di una finanza speculativa che ha prodotto generi di basso valore con miliardi di dollari, che possono essere ritenuti sprecati. Il governo non ha saputo gestire i privati, quando invece il sistema bancario dovrebbe essere strettamente controllato dall’economia di Stato… - la ragazza che stava parlando, con i capelli rasati ai lati ed uno smoking elegante addosso, dava l’impressione di poter porre fine alla crisi soltanto vendendo uno degli anelli d’oro che portava alle dita. Quando si fermò per prendere una boccata di fumo dalla pipa, Charlie s’inginocchiò a lato di uno dei presenti, un omaccione nerboruto dal volto minaccioso.

Il ragazzo osservò con attenzione ogni passo dell’opera di convincimento, le sopracciglia inarcate in un’espressione di perplessità sfacciata. Charlie, languida, avvicinò la bocca all’orecchio del tipaccio, sussurrando qualcosa che scatenò la sua potente risata baritonale. Dopo aver aspettato qualche secondo perché l’omaccione frenasse la propria ilarità, la ragazza si avvicinò ancora, con fare sensuale. Qualche secondo più tardi, in mano stringeva due lunghe sigarette, ed in volto non accennava a nascondere le tracce della soddisfazione. “Col sesso ottiene tutto, questa tizia.” pensò, notando anche che Charlie aveva bellamente ignorato la sua scelta di non fumare. Tanto peggio: in fondo, una sigarette non gli avrebbe guastato l’anima.

- Adesso non diamo la colpa all’intero governo del tracollo finanziario. Ricordati che Obama è stato eletto presidente in un momento in cui già sussisteva una profonda crisi, solo che i media v’insistevano medio. Probabilmente le sue azioni dovevano essere pianificate meglio, ma non è giusto far ricadere l’intera colpa sul suo governo: è un’azione mediatica atta a screditarlo. – nessuno si sarebbe aspettato che Charlie s’intromettesse nella discussione: rialzatasi in piedi, sorrise al proprio pubblico prima di fare scattare l’accendino sgraffignato al suo amico nerboruto, per poi passarlo insieme alla sigaretta ancora intatta allo sconosciuto con il quale ci aveva dato dentro sui divanetti.

Girò sui tacchi quasi subito, mentre sul gruppo ancora regnava un silenzio: non avrebbe ascoltato le risposte, le domande e le accuse di nessuno, preferendo coccolarsi nell’idea di aver effettuato una sfavillante uscita di scena. – Sono d’accordo. – sentì una delle voci alle proprie spalle esprimere il proprio giudizio ad alta voce, e ciò le fece intuire di aver ottenuto quanto desiderato. Qualcun altro avrebbe difeso ciò che aveva detto, si sarebbero messi tutti a discutere di nuovo, e la sua frase sarebbe semplicemente rimasta impressa nelle loro menti senza che nessuno la contestasse realmente. Mentre riportava la sigaretta alle labbra, un nuovo sorriso le nacque involto, insieme alla consapevolezza di avere ancora una volta affermato il suo ruolo di capobranco.

Come alle scuole elementari, dove la leader sceglieva per prima la bambola con cui giocare; come alle superiori, dove chi comandava era in grado di screditare chi le piaceva di meno, e decideva il programma di ogni giorno; come in un ufficio di Wall Street, dove chi s’imponeva era il primo ad arrivare in alto. Imporre le proprie idee, senza lasciare scampo agli altri, era l’unico modo per sopravvivere insieme alla scelta di fare ciò che più aggrada, a dispetto di cosa vogliono gli altri.

- Complimenti. – quasi si spaventò quando la voce del ragazzo senza nome la raggiunse. Si era quasi dimenticata di lui, di ciò che c’era stato prima della sua plateale affermazione in quel piccolo gruppetto di finti intellettuali. Si voltò a guardarlo, sempre sorridendo, ma con freddezza: l’aveva seguita lontano dal centro del terrazzo, dal lato opposto rispetto al punto in cui avevano consumato le loro voglie. Sul suo viso recava un’espressione serafica, che nascondeva un’ironia che punse l’orgoglio della ragazza. Ma fra le dita stringeva la sigaretta che gli aveva passato.

- Vuoi aggiungere anche la tua opinione alla discussione? – domandò Charlie, mantenendo un’espressione di assoluta tranquillità in viso, spostando lo sguardo sullo spettacolare panorama di cui poteva usufruire. Aveva la netta impressione che quell’inizio di conversazione non avrebbe portato a nulla di buono. – Oh, no. Sono certo che il tuo intervento sia bastato per sollevare un polverone. – la risposta del ragazzo la lasciò di stucco. Non che si aspettasse qualcosa di particolare, ma di certo non aveva pensato potesse esordire con un attacco diretto nei suoi confronti. Perché, dal tono di voce dello sconosciuto, si poteva intuire la battaglia che stava per avere inizio.

En garde.

- Non capisco ciò che intendi dire. – assunse un atteggiamento da finta tonta, anche se l’emozione rabbiosa e combattiva che si leggeva nei suoi occhi si allontanava parecchio da quella frase. Notò con ira crescente che il ragazzo si stava trattenendo dallo scoppiare a ridere. – Scusami, ma la parte della paladina di Obama non ti si addice proprio! – parlava come se la conoscesse da una vita, e la parte peggiore era che ci aveva azzeccato in pieno. Charlie non era democratica, sapeva soltanto di non essere assolutamente repubblicana. La presa sul filtro della sigaretta d’un tratto divenne molto più forte del necessario. – Commento molto arguto, basato su solide fondamenta. – commentò, palesemente sarcastica, alzando gli occhi al soffitto di un nero pece, buio.

- Oh, non te la prendere, reginetta del ballo, se qualcuno non la pensa come te. – c’era un’arroganza sfacciata e ostentata con orgoglio nelle sue parole. La ragazza lo guardò allibita per una risposta simile: quello che doveva essere il passatempo di una mezzoretta si stava tramutando in un intralcio alla serata. Charlie non era il tipo da porgere l’altra guancia, per niente rose e fiori in situazioni che minacciavano la stabilità della sua supremazia. Botanicamente parlando, era più una pianta carnivora.

- Io m’interesso dello scambio di opinioni che non siano basate su dieci minuti di sesso. – ribatté, stizzita ed intenzionata a non dare neanche una piccolissima soddisfazione a quel tamarro di periferia. Dentro di lei, una rabbia enorme stava nascendo, insieme al desiderio di scaraventare quel sempliciotto qualunque giù dal grattacielo del Gilmoure: ma non era così che si vinceva, non lasciandosi trasportare dagli impulsi primitivi; un vincente da l’impressione di essere una persona ragionevole, difficile da scalfire. Esserlo veramente in realtà non conta molto.

- Infatti mi baso su ciò che hai detto, e sulle mie personali considerazioni che con te non centrano nulla. – adesso anche lo sconosciuto sembrava sul punto d’innervosirsi seriamente: il suo tono di voce s’era alzato, lievemente ma abbastanza da far aumentare anche il livello della tensione fra loro. Nonostante avesse dichiarato di non fumare, le boccate con le quali stava consumando la sigarette si stavano facendo sempre più frenetiche. – Obama si è lasciato sfuggire la situazione di mano: ha creduto che riempiendo la gente di false promesse gli americani potessero diventare un popolo di lavoratori onesti. Ma questo è il Paese delle opportunità solo per chi sa come fregare gli altri, e i suoi vanagloriosi ideali non fermeranno la crisi economica. – Charlie si sforzò per non fargli intendere di essere rimasta a bocca aperta.

- Obama si è impegnato più di tutti per rendere gli Stati Uniti una civiltà migliore, che viene denigrata alle spalle dalle nuove superpotenze orientali. Rappresenta la svolta, e l’unica cosa che non gli permette di cambiare realmente questo mondo sono gli ottusi, falsi moralisti che si rifiutano di dargli fiducia. – Con un gesto rapido, la ragazza si avvicinò al parapetto della terrazza e sul cemento grigio spense la sigaretta, ormai ridotta ad un inutile mozzicone bollente. Udì i passi dello sconosciuto che si avvicinavano alla sua schiena, per compiere le sue medesime azioni. – Non si producono soldi con l’impegno. – insieme, lasciarono cadere i loro mozziconi già, perché la strada di New York inghiottisse il momento in cui avevano deciso di fare la reciproca conoscenza. – Nemmeno con lo scredito. – in pochi secondi, Charlie seppe cosa fare.

“Stupido conservatore conformista.” “Progressista ipocrita.”

Si doveva sbarazzare di quel tipo.

- Charlie! – un nuovo ululato disturbò il gruppetto radunato al centro della terrazza, ora immerso in un’impegnata discussione sul riciclaggio. I presenti scoccarono una veloce occhiataccia a quella Barbie parlante di Evan McLair, una persona con cui non avevano mai parlato e che avevano visto soltanto su Facebook, ma che godeva di molteplici reputazioni contrastanti. La ragazza aveva appena fatto il proprio ingresso dalla porta collegata alla scala a chiocciola, con al seguito quelli che sembravano le sue conquiste della serata.

Charlie ringraziò quella misteriosa presenza che controllava l’universo, l’esistenza della quale continuava a negare a voce, per aver dato alla luce una migliore amica dotata di tempismo perfetto. Voltandosi a sorridere all’amica però, la brunetta poté constatare che ancora qualcosa non quadrava: il presentimento era vivo e vegeto nei suoi occhi cerulei, e non sotto sei piedi di come etilico come aveva sperato. Quando Evie la raggiunse, caracollando sui tacchi, per afferrarle una spalla con la mano, non riuscì a reprimere un sospiro rassegnato. – Che..? -

- C’è Davis, Charlie. Scoppierà un casino bello grosso, me lo sento! – a Charlie bastò quel nome per farle rizzare i capelli: nessuno che frequentasse i loro giri, e che avesse la prudenza di tenersi informato per non finire al fresco, conosceva la leggenda di Davis il Terribile Agente in Borghese. – Quello che ha fatto arrestare la Zarkovskaja? – domandò, sbiancando clamorosamente. Un rapido sguardo rivolto al proprio sconosciuto le fece intuire che era argomento noto per quella compagnia, anche se Ormone Scattante dava l’impressione di non ricordare nemmeno il proprio nome in quel momento. – Ne sei sicura? – domanda inutile: quando entrava in scena il presentimento, Evie acquistava una singolare abilità di separare il bene dal male. Il motivo era semplice: avrebbero perso molto più della vita con una loro bravata sui giornali nazionali. Non c’era tempo da perdere.

- Andiamocene. – nessuna delle due pensò neanche per un secondo di fermarsi un minuto di più per avvertire Kimberly, Freddie e il resto della compagnia. Dovevano sbrigarsi, e se qualcuno rimaneva incastrato in qualche affare più grande e rognoso di loro, non erano certo affari di Evie e Charlie: una cauzione era semplice da pagare, anche se salata; un titolo sulla prima pagina del New York Times era una gatta molto più grossa da pelare. – A-aspettate, d-dateci u-u-un p-passaggio! – Vescica Debole sembrava disperato come un bambino dimenticato all’uscita dell’asilo, mentre Ameba reggeva a fatica Ormone Scattante. Il primo dei tre scattò in avanti con stupefacente prontezza, bloccando il passo di Evie che già si dirigeva verso l’uscita.

- Sì, sì, stasera faccio da taxi, ma muovetevi, o vi lascio con le palle nella merda! – sbraitò Charlie, sul punto di mollare un sonoro ceffone a quel pivellino che si era permesso di intralciare Evie. Prima l’aitante erede di Richard Nixon, poi un infante di circa vent’anni. – Non fate così tanto casino, cretini, o ci sarà un’evacuazione di massa che ci catapulterà tutti in un mare di cacca! – sibillò Evie, afferrando con una forza sorprendente per uno scricciolo come lei Vescica Debole ed Ameba, per poi trascinarli tutti verso le scale del Gilmoure. Charlie e l’altro ragazzo si affrettarono a seguirli, imprecando sottovoce: nessuno di loro si sarebbe reso conto del reale pericolo scampato fino a quando non sarebbero stati lontani, al sicuro.

Poi accadde.

- Ma che diavolo succede? – improvvisamente, Charlie si fermò, senza pensare al ragazzo che la stava seguendo. Mentre questo quasi inciampava per non colpirla arrivandole addosso e facendole del male, la ragazza si guardò attorno: alla nuca permaneva lo strano formicolio che l’attanagliava quando qualcuno la osservava da distante. Con la coda nell’occhio infatti, aveva avvistato qualcosa. Qualcosa che l’aveva bloccata, impedendole di proseguire la propria fuga senza aver controllato: un’inquietante sensazione le pervase lo stomaco, mischiandosi all’adrenalina causata dalla notizia della presenza di Davis. Qualcosa di losco, di abbagliante. Ma cosa?

- Charlie! Non è il momento di essere lunatica, okay? Muoviti, puttana! – il fine richiamo di Evie la riportò alla realtà, o almeno parzialmente sul piano di fuga dal Gilmoure che andava effettuato. Non si scansò al tocco dello sconosciuto, che prendendola per mano la condusse verso la scala a chiocciola, soltanto perché buona parte dei suoi pensieri erano ancora fissi su ciò che pochi attimi prima l’aveva sconvolta. Bisognava pensare a raccattare i soprabiti, la borsa, le chiavi della macchina che aveva parcheggiato poco distante dall’ingresso… bisognava pensare ad un mucchio di cose, ma per una ragione che ancora faticava a capire il tempo si era fermato al momento in cui aveva capito che qualcosa non stava funzionando oltre a tutto. Bisognava pensare a…

- Aspettatemi fuori, devo fare una cosa! Cinque minuti! – erano ormai arrivati, dopo aver attraversato quegli oceani di folla e parole vuote che erano le due sale del Gilmoure, all’ascensore che li avrebbe portati fuori da quell’incubo. Ma sarebbe stato troppo semplice: banale ed increscioso, sorse un problema. Charlie si volse a fissare con rabbia malcelata il controverso sconosciuto, che le rivolse un rapido sorriso sghembo prima di lasciarle la mano e tornare indietro, verso la pista da ballo. “Hai ballato veramente molto bene, stasera.” un pensiero, un flash improvviso, abbagliante come era stato ciò che l’aveva spinta a bloccarsi sulla terrazza. Velocità. – Che gli prende? – Evie pose la domanda senza sapere di aver innescato i complessi meccanismi del cervello dell’amica, che già delineavano una nuova prospettiva per il futuro prossimo. – Nulla… Vedrai. – tutti stavano aspettando lei.

E nessuno si sarebbe perso lo spettacolo.

 

 

La notte che sorride ha denti fragili
per tutti i calci che l’aspettano.
Generalmente lei non dà la confidenza
a tutti quelli che si atteggiano troppo.

(Subsonica – Albascura)

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

D’accordo, non mi dilungherò troppo con commentini vari, sarò più spiccia e tecnica. Spero solo di non essere caduta in cliché banali e di non avervi annoiato! Sono in ritardo, lo so: spero che spendere più tempo del previsto su questo capitolo abbia alzato la qualità di questa mia buffonata.

“Io e te, tesoro: che ne dici?”, ovvero “You and me, babe: how about it?” è un verso della canzone Romeo and Juliet dei Dire Straits.

En garde” è un’espressione comunemente usata nella scherma, deriva dal francese e significa “In guardia”.

“Scommetto che ti muovi bene sulla pista da ballo”, ovvero “I bet that you look good on the dancefloor” è un riferimento all’omonima canzone degli Arctic Monkeys.

“Houston, abbiamo un problema” celebre frase dello sbarco sulla Luna del ’69, dell’equipaggio dell’Apollo 13.

“E’ arrivato il circo in città o cosa?”, ovvero “Has the circus come to town or what?” di Mini McGuinness, dalla serie TV Skins.

La frase di Shakespeare a cui si riferisce Charlie è la celeberrima “La vita non è che un'ombra che cammina; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio. È un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e di rumore, senza alcun significato”.

“Botanicamente parlando, era più una pianta carnivora.” è una frase ispirata al film Basta che Funzioni, di Woody Allen.

Preciso inoltre che niente di ciò che riguarda la discussione su Obama e sulla crisi economica è stato scritto a scopo di lucro o per propaganda. Le opinioni dei miei personaggi NON sono le mie, e ciò che è narrato è a puro scopo d’intrattenimento.

 

 

 

Bye!

 

 





 

 

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Capitolo 4
*** Scoop [Part 2 – All That She Wants] ***


 

 

 

Scoop

Tutti i miei sbagli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 3 – Scoop [Part 2 – All That She Wants]

 

 

 

 

 

 

 

 

Non ho voglia di andare d’accordo,

ho voglia di andare. D’accordo?

Di andare. D’accordo?

 

(Caparezza – Ti Sorrido Mentre Affogo)

 

 

Ai piedi dell’imponente sede del Gilmoure soffiava una brezza gelida, che faceva accapponare la pelle: nessuno si spiegava come facesse a superare le barriere di tonnellate di costruzioni e grattacieli che si protraevano per chilometri sul suolo di New York City. Sta di fatto che non appena mise un piede fuori dalla lussureggiante entrata dall’edificio, Evan maledisse la propria pessima abitudine di vestire quadratini di stoffa che a stento contenevano le sue curve procaci. Mettendo da parte il buon gusto perché la propria pelle scoperta splendesse nella notte, aveva forse attirato su di sé le ire bigotte di un qualche dio maligno e bigotto? Onestamente, gli unici momenti in cui le importava di ciò erano quelli in cui si costringeva a non pensare all’ultima delle proprie malefatte, o presentimenti. Ed ogni volta, c’era sempre Charlie a distrarla con qualche idiozia.

Tipo quella di trascinarsi al proprio seguito quei finti artisti ricoperti da abiti da quattro soldi e strane idee sulla giustizia dalla parte dei poveri.

- Smettila di lamentarti, cervello in aspettativa! O giuro che ti rispedisco a Babbo Natale nel pacchetto in cui ti ha consegnata quando eri una neonata: ti accartoccio e ballo sui francobolli. – Charlie diventava fantasiosa negli insulti in due sole occasioni: quando si sentiva sotto pressione, o quando era particolarmente contenta. Ed in entrambi i casi c’era da preoccuparsi, soprattutto se i due stati d’animo combaciavano in un unico momento. Come quella sera, ad esempio. Sgambettavano oltre l’uscita, ignorando con fermezza la pelle d’oca alle gambe parzialmente nude, Evie decise di rispondere all’amica con un semplice sbuffare infastidito e fastidioso, o almeno così voleva essere: in realtà, Charlie non fece neanche caso all’irritato suono dell’amica. Ormai, era entrata nel pieno modus operandi di chi cerca di ignorare tutto e tutti, soprattutto le occhiate interrogative di chi la conosceva e la stava osservando abbandonare il proprio party di compleanno prima del quindicesimo brindisi, cosa che solitamente non accadeva mai.

La Jaguar li attendeva, nella sua sfolgorante e miracolosamente intatta bellezza, tre vicoli più i là del grattacielo del Gilmoure: Charlie si avvicinò all’automobile con un forte melodramma a disegnare la sua espressione, buttandosi praticamente addosso al cofano rosso fiammante, a braccia aperte, e sussurrandole – Ti sono mancata, piccina? Certo che ti sono mancata! -. I presenti la fissarono senza sapere se essere divertiti o sconcertati da quel gesto, finché Evie, grugnendo in modo quasi animalesco, non si affrettò a frugare nella propria borsetta, estraendone le chiavi d’accensione. Con voluta malagrazia, la biondina le lanciò a Charlie, che con i riflessi di un bradipo ubriaco le prese al volo solo per lasciarle cadere a terra e barcollare all’indietro: davanti a quella scena, Vescica ed Arrapato inorridirono al pensiero di quella ragazza alla guida della Jaguar che li avrebbe trasportati. Ma allo sguardo feroce di Evie si affrettarono a salire sui sedili posteriori. Ameba seguì impassibile l’esempio dei due compagni, apparentemente indifferente a ciò che lo circondava.

- Vediamo di farne valere la pena, eh? Altrimenti resto qui e mi faccio arrestare. – era evidente come Evie stesse parlando esclusivamente a Charlie, fingendo che le tre persone dietro non esistessero. Il suo tono era altamente infastidito ed annoiato, ma la brunetta seppe immediatamente che l’amica era segretamente contenta di essere stata ascoltata. – Oh, non ti preoccupare… I nostri amici qui sanno come rendere felici delle donne! – rispose con noncuranza Charlie, appoggiando il tacco sull’acceleratore con decisione, bloccando le porte e dando gas al motore. I suoi pensieri andarono al focoso conservatore che la stava probabilmente aspettando all’entrata del Gilmoure. Gli ci voleva giusto un po’ d’aria fresca, perché quel suo cervellino imbalsamato si rendesse conto che era meglio cambiare partito prima di dare contro a lei.

- Ehi! – la scusa le si presentò svoltato l’angolo, quando s’infilarono nella strada principale per saettare lontano da una possibile esecuzione di masso da parte del lungo braccio della legge. Stranamente per la sua natura calcolatrice, Charlie non aveva tenuto in conto d’includere qualcuno dei fedeli amici che le avevano organizzato la festa: se fossero finiti in prigione dopo una retata, avrebbe pagato loro la cauzione e sarebbero tornati tutti ad essere una grande famiglia di tossici felici. Ora però, una Carrie ferma sul ciglio del marciapiede, col braccio alzato per richiamare la sua attenzione, le offriva la possibilità di aggiungere al mattino nascente un pizzico di brio in più. – Te la senti di diventare fortunata, bella? – Evie sorrise rassegnata allo scricciolo dai capelli rossi che Charlie cercò di abbordare, come con una prostituta di Los Angeles. – Facciamo novanta dollari per cinque notti? – La ragazza sul marciapiede si sporse verso il finestrino ammiccante, mettendo in bella mostra una borsetta che pareva sul punto di esplodere tanto era piena. Non lasciava spazio ai dubbi, come il linguaggio segreto che ella aveva adottato.

- Salta su. – Charlie le sorrise, indicandole i sedili posteriori con un cenno del capo. I tre ragazzi osservarono le espressioni delle donne attraverso i finestrini superiori. – Ehi, ma così non c’è spazio per… - la debole protesta di Vescica venne soffocata quasi subito dal lancio con cui Carrie s’infilò nell’apertura del finestrino posteriore abbassato. La brunetta, che stava per sbloccare la portella per lasciare che l’amica entrasse, rise di gusto nel vedere il miscuglio d’arti e grida che si venne a creare dove prima c’erano stati i corpi dei tre ragazzi. Anche la risata di Evie, suo malgrado, si disperse nell’aria, segno che nonostante tutto era soddisfatta di questo piano alternativo contro il presentimento.

Perché Carrie aveva portato con sé un’altra persona: la montagna di muscoli e pelle che si avvicinò al finestrino anteriore, intenzionato a salutare Charlie e a godere di un minimo riflesso di quell’indefinita luce che la ragazza emanava. Una vecchia conoscenza. A Charlie furono sufficienti poche parole casuali, in un ordine strettamente calcolato, per aggiungere una nuova marionetta allo spettacolo.

Poi, sorridendo alla notte sul punto di terminare, Charlie diede di nuovo gas alla Jaguar.

Lo individuò subito, circondato da un gruppetto di future sedicenni che evidentemente non erano riuscite ad imbucarsi alla sua festa; distribuiva sorrisi e piccole battutine come una qualsiasi star da tappeto rosso. Evidentemente, in quel momento si sentiva un grand’uomo. Le bastarono due colpi di clacson fastidiosi per attirare la sua attenzione, e qualche occhiata delusa da tutte quelle ragazzine. Lentamente abbassò il finestrino scuro.

Accadde che, nella foga di fare amicizia con i nuovi abitanti del suo psichedelico mondo, Carrie rovesciò una bustina con qualche centigrammo di anfetamine sul sedile posteriore, dal quale si levarono subito le sue strida confuse. Charlie poté solo immaginare il panico creatosi fra quei tre poveri disgraziati, eccetto Ameba forse. Era per questo che adorava Carrie: nella sua incredibile incongruenza, in ogni cosa che faceva possedeva un tempismo perfetto. La bruna lanciò un’occhiata ad Evie, che ghignando si allungò per far scattare i blocchi agli sportelli.

Il sorriso arrogante dello sconosciuto iniziò a titubare non appena gli occhi di Charlie incontrarono i suoi.

- Ma che cazzo…? – Stupore esci dalla bocca del ragazzo non appena posò, invano, le dita sulla maniglia della porta posteriore dell’auto.

- Informiamo i signori passeggeri che il loro volo sta per partire. – Queste parole, insieme alla risata sguaiata che le seguì, furono l’unica maniera in cui Evie espresse la propria approvazione, grottescamente rispetto a quanto era abituata a mostrare di sé proprio per sottolineare la presa in giro nascosta in quella sceneggiata.

- Salve, spilungone. Un bianco conservatore arrogante come te non può certo voler avere nulla a che fare con un aereo di linea come questo. – Impudente, Charlie appoggiò i gomiti al bordo del finestrino abbassato, allungandosi verso la propria vittima e mettendo in evidenza l’incavo fra i seni che spuntava dalla scollatura. - Io credo che dell’aria fresca ti darà una schiarita alle idee; intanto, puoi dimostrarti più che caritatevole nei confronti di quei relitti alla società per cui, un giorno, approverai un mandato di deportazione. – Quando, dopo una prima fase di smarrimento, il ragazzo iniziò ad intuire in parte quanto aveva in mente Charlie, digrignò i denti come un animale; per quanto volesse apparire minaccioso però, la moretta era fin troppo abituata a scavare dentro alle persone in un battito di ciglia.

Dov’è la tua sicurezza?

- Lurida put… - Charlie gli posò senza alcuna delicatezza una manina sulla bocca con uno scatto, proprio mentre lo sconosciuto per apostrofarlo con un epiteto in apparenza decisamente consono. Egli scostò malamente il suo braccio, afferrandola per il polso con rabbia ma ammutolendo: sul volto della ragazza non sembrava esserci alcuna paura.

- Aha! Risparmia le finezze per le prossime elezioni. C’è qui un amico a cui farebbe piacere un po’ di compagnia: sono sicura che scoprirete di avere molti punti in comune da toccare in un’amabile conversazione. – Cattiveria pura veniva stillata da quella lingua biforcuta; ed essa però si contrappose l’energia con cui cercò di liberarsi dalla stretta del ragazzo, che cercando di decifrare quelle parole malevole era rimasto immobile, ma non aveva certo mollato. – Apri questa cazzo di porta, stronza! – Sbraitò il giovane, strattonandola poi verso di sé con vigore, nel tentativo di farla cadere dal finestrino.

Fu in quel momento che Evie, con una risata acuta e tintinnante, surreale, allungò velocemente il piede davanti al sedile del guidatore, e in un gesto di scelleratezza premette con l’alto tacco della scarpetta l’acceleratore. Qualcuno gridò all’esterno, mentre la vettura veniva sbalzata in avanti: a Charlie parve che ogni elemento, in quei pochi istanti d’azione, si confondesse con l’altro, in un viaggio psichedelico di contorni indistinti e ossa doloranti. Eppure, seppe all’istante che successivamente avrebbe ricordato ogni singolo dettaglio, e sorrise mentre la stretta delle dita attorno al proprio polso si affievoliva. Ricordava sempre, anche se per qualche strana ragione dimenticava il significato di tutto quel nichilismo insensato.

Non appena senti il polso libero, istintivamente Charlie scattò ad afferrare il volante avanti a sé, riprendendo il controllo dei pedali e sterzando bruscamente, infilandosi nel traffico newyorkese con una manovra pericolosa. Un’auto fu costretta a frenare con un sonoro stridio di gomme sull’asfalto, evitando per un pelo di schiantarsi contro la Jaguar rossa che, sgommando a tutto gas, schizzò lontano dal Gilmoure ad una velocità improponibile in pieno centro. Solo quando la ragazza lanciò un’occhiata ad uno degli specchietti retrovisori si accorse dell’espressione terrorizzata che stava distorcendo i suoi lineamenti. E allora sorrise, ripetendosi che tutto faceva parte del gioco.

Lo sconosciuto, come vide prima che il marciapiede del Gilmoure diventasse un ricordo nelle strade luminose della metropoli, barcollò qualche istante prima di capitombolare a terra, probabilmente sconvolto. Non doveva mancare molto prima che Max lo andasse a trovare. Tutto procedeva.

E mentre l’auto iniziava una corsa folle e senza meta, Evie rise di gusto, probabilmente respirando davvero per la prima volta dall’inizio della serata.

- M-ma s-sei im-imp-pazzita?! -

Colui che aveva parlato era Vescica. Anzi, sarebbe più corretto definire colui che le aveva quasi spaccato un timpano con una voce da usignolo reduce da un tetè-a-tetè con una bottiglia di rum. Charlie si trattenne dal frenare bruscamente solo per quel rigido autocontrollo che s’imponeva in ogni situazione, e che anche se in quel momento era molto labile mai l’abbandonava.

Il signorino, dopo essersi evidentemente liberato dalla morsa assassina di Carrie, si era sporto verso i sedili anteriori, aggrappandosi ad essi con le braccia come se fossero l’unico contatto rimasto con una realtà migliore. Dagli specchietti retrovisori, Charlie riuscì a distinguere la chioma rossa della tossica amica coprire il volto di Arrapato: poteva essere un giochino perverso, come un tentativo della ragazza allucinata di staccare la testa al povero malcapitato. A Charlie non interessava. Portò lo sguardo invece su ciò che poteva scorgere del viso di Vescica, continuando a guidare a caso per le strade di New York.

Non che fosse proprio un bel vedere. Era palesemente sconvolto: aveva due occhi marroni spalancati, quasi come lo sguardo di uno strano animale notturno, i capelli ricci scompigliati in una parodia di un cespuglio di rovi, e la fronte madida di sudore. “Beh”, pensò, “non è colpa mia se è debole di cuore.”

Non era mai colpa sua, in fondo.

- Cosa c’è, micetto? – Domandò annoiata e sarcastica Evie, senza spostare lo sguardo dalle ombre degli edifici che scorrevano rapide oltre il suo finestrino. Per un attimo, il ragazzo riccioluto sembrò pentirsi di protestato, boccheggiando senza però proferir parola. Poi però, ridestandosi, partì a tutta carica.

- B-beh, c-co-ome s-se non c-ci fo-fos-se n-nulla d-di m-ma-le! – Non l’evidente balbuzie di Vescica a stupire Charlie, ma la semplicità di quelle parole rispetto agli insulti e alle volgarità senza fondo che si era aspettata in confronto. Non frenò la corsa, ma iniziò ad ascoltare seriamente, senza cercare alcun contatto visivo.

- A-avete l-lasciato M-Mitch i-in-indietro! I-in q-quel p-p-posto d-do-ve c’e-e-era… s-stava… insomma! –

Suscitava un effetto simile a quello dei fenomeni da baraccone nei circhi d’inizio Novecento: Charlie non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quello spettacolo grottesco che era Vescica, il suo balbettare sconnesso e la sua genuina mancanza di controllo sulle proprie emozioni. La ragazza si sentiva affascinata, e al contempo provava una strana vergogna, come se stesse davvero commettendo qualcosa di sporco.

E, dopo una vita di disordini, era incredibilmente violenta un’emozione di quel genere. Immediatamente, seppe che Evie non stava guardando.

- Mitch, hai detto… - Sorrise beffarda, approfittando della pausa allibita del giovane per introdursi con un tono di scherno palese, iperbolico. La bionda intervenne quasi subito dopo di lei: - Stai tranquillo, micetto. Il tuo amico sta bene. –

Evie centrò in pieno il bersaglio: nonostante la solita assenza delle quota minima di vocaboli necessari ad avviare una conversazione, il suo tono piatto e distaccato, e forse proprio per questo più pungente del ghiaccio, le garantì il totale silenzio da parte di Vescica. Questi non solo ammutolì, parve addirittura calmarsi. La bonaccia, il pericolo in mare dettato dalla totale assenza di vento, era l’effetto collaterale più temibile della personalità di quella bambola bionda.

Le ragazze ripresero quindi il controllo dei loro ospiti. Gli squittii incoerenti di Carrie tornarono ad essere l’unico evento degno di nota dai sedili posteriori.

- Piuttosto, dovremmo chiamare. – Mentre l’auto proseguiva la sua folle corse, Evie spostò l’attenzione su un particolare di fondamentale importanza della serata, mantenendo l’espressione apatica di cui sempre si avvaleva. Charlie invece non nascose minimamente di essere appena caduta dalle nuvole, ma il suo disorientamento durò pochi istanti: come al solito, Evie la chiamava a rapporto quando la fame di distruzione della brunetta aveva la meglio sulla furbizia.

- Pensaci tu. – Sapeva benissimo cosa Evie intendeva: qualcuno doveva telefonare a Pablo per informarsi sulla situazione del Gilmoure; gli eventuali sviluppi della vicenda dettati dalla presenza dell’agente in borghese erano strettamente connessi alla stabilità di ciò che più era caro a Charlie e ad Evie: la discrezione della loro vita spericolata. Con un sospiro quindi, la biondina infilò una mano nella propria borsa, alla ricerca del cellulare come richiesto dall’amica. Intanto quest’ultima imboccò, per la prima volta dopo la fuga dal Gilmoure, una strada verso una metà.

Ci misero quasi un quarto d’ora.

L’agglomerato dei prefabbricati nei quali si erano infilati con la Jaguar era noto alla malavita della metropoli col semplice nome di Milo’s, “Da Milo”. Fra quegli edifici si celava un enorme garage dentro al quale si compivano autentici miracoli della meccanica automobilistica internazionale, che però solo pochi portafogli fortunati avevano il diritto e l’onore di visionare. Il famigerato Milo era un ometto gracilino, pelato e coperto di tatuaggi dall’oscenità più o meno legale. In quel momento della mattina, il soggetto in questione era intento a lavorare duramente alla fiancata di una Land Rover palesemente modificata, o “ristrutturata”, come lui stesso diceva; del resto, da Milo la notte non era abbastanza per smettere di lavorare: una cricca di selezionati artisti ed ingegneri circolava in quello che era il più grande mercato nero delle auto di New York.

- Scendete. – Charlie parcheggiò l’auto davanti al portellone di uno dei garage più sporchi esistenti. Prese la chiave e pronunciò quell’unica parola, prima di uscire nella buio e poco rassicurante piazzola di cemento, seguita poco dopo da Evie che agguantò anche le borse.

I ragazzi rimasero dov’erano.

Carrie invece arrancò fuori, ridacchiando come una matta ma probabilmente già più lucida di quanto non fosse alla partenza dal Gilmoure. Aprì lo sportello della macchina e con alcune goffe mosse scavalcò il corpo di Ameba per poi caracollare sull’asfalto, di fronte ad una sorridente Charlot. Evie invece già armeggiava col cellulare, intenta a chiamare un numero ancora ignoto.

- Se volete, io vi lascio anche qui. – intuendo la perplessità e l’astio di Vescica e compari, la brunetta si sporse per poter parlare meglio con loro.

- Tu sei fuori di testa. – Per la prima volta, Arrapato espresse la propria opinione con una serietà che cancellò del tutto la sua espressione da pedofilo, evitando che Vescica proclamasse ancora il proprio sconcerto con una serie interminabile di consonanti e sputacchi. Charlot scosse la testa, chiudendo il portellone.

- Devo far lavare via le anfetamine che Carrie ha spazzato sui sedili posteriori. – Spiegò, allontanandosi di qualche passo e continuando a fissare i tre ragazzi beffarda. Loro la guardavano con occhi e bocche spalancate, ancora incapaci di rendersi conto delle proporzioni del casino in cui si erano ficcati. – Le opzioni sono due: o avete voglia di farvi massacrare dagli amici che fra poco mi faranno questo favore, oppure avete voglia di rischiare che qualche poliziotto curioso scopra il deposito illegale di Milo, e vi sbatta dentro. – Era impossibile capire se fosse atterrita dalla prospettiva, oppure solo divertita.

Qualche metro più in là, Evie iniziò ad alzare la voce contro un disgraziato sconosciuto.

Nathan Reed, Edward Turner e Alex Schneider decisero che era meglio non fare più domande e uscire infetta da quel macchinone infernale. Charlie sorrise.

Adorava vincere.

- Dove ci portate, ragazzi? –

 

 

So if you are in sight and the day is right,

she's a hunter, you're the fox:

the gentle voice that talks to you

won't talk forever.

It is a night for passion,

but the morning means goodbye.

Beware of what is flashing in her eyes:

she's going to get you.

 

(Ace of Base – All That She Wants)

 

 

Per raggiungere l’appartamentino nella palazzina del Lower East Side ci volle poco più di un’ora, a piedi per le strade di Manhattan. Il quartiere non era lontano dai prefabbricati Milo’s, ma era difficile procedere con tre scimmioni, una tossica che non la smetteva di ridere per qualsiasi cosa vedesse per strada e un’Evie al telefono con Pablo.

A farle strada era stato un cupo Vescica, che aveva anche detto di chiamarsi Nate. Informazione del tutto superflua.

Il povero ragazzo aveva pensato che, se proprio dovevano concludere la serata con quelle strampalate, almeno avrebbero dovuto farlo in un luogo parzialmente sicuro, dove Mitch potesse anche raggiungerli. Il bilocale dove conviveva con gli altri tre era parso qui come un’ancora di salvezza.

- Carino. – fu la prima parola di Charlie quando fecero il loro ingresso in un cucinino disordinato, al terzo piano di un edificio lindo e anonimo. Nonostante la ragazza sembrasse sincera, Nate non riuscì a crederle; si limitò a lanciare le chiavi su un tavolino sepolto da giornali e lattine di birra, prima di voltarsi verso i propri ospiti, rosso in volto.

- Ewh. – vedendo il naso di Evie arricciarsi nell’immediato istante in cui entrò nell’appartamento, Nate distolse lo sguardo e sbuffo; la biondina fu seguita dalla tipetta che aveva tentato di violentarli tutti in macchina, che subito si aprì in un grande sorrisone, squadrando l’ambiente con gli occhi semicoperti dalla pesante frangetta scarlatta, spettinata. – Dove devo dormire io? – cinguettò allegramente, prima di saltellare in precario equilibrio fra i mobili, quasi fosse abituata ad ambientarsi in fretta in uno spazio estraneo.

- Bene, principesse. Benvenute nella dimora Kennedy, speriamo il viaggio sia stato confortevole e la sistemazione di vostro gradimento. Gradite qualcosa per concludere la serata? – dopo l’attimo di shock che sembrava aver colpito i neuroni lesi di Arrapato, ecco la ripresa di controllo da parte degli ormoni del corpo del giovanotto; Charlie si volse a squadrarlo, inarcando un sopracciglio, divertita anche se sospettosa in un ambiente sconosciuto, in cui poteva essere svantaggiata. Da perfetta attrice, lasciò che il ragazzo proseguisse con la pomposa presentazione di quel buco. – Eddie, per servirti. – egli fece qualche passo avanti, prendendole un polso per eseguire un baciamano decisamente poco galante, ma accompagnato da un sensuale ghigno.

Evidentemente, non era così fuori di testa.

A volte, la stessa Charlie era sorpresa di come potesse farla franca in qualsiasi contesto, a dispetto di come l’organizzazione precisa di cui avrebbe voluto avvalersi le sfuggiva dalle mani. Era in queste determinate occasioni che sentiva di avere il controllo totale sul mondo, in un tripudio di supponenza che la faceva sentire dannatamente bene.

Un istante dopo, il suo sguardo fu attratto dalla sagoma di Ameba, o Alex, come le era stato presentato, che silenzioso strisciò attraverso il bancone della cucina e s’infilò in una porticina scura, sbattendosela alle spalle e scomparendo dalla loro vista così come era arrivato.

Curioso.

- Non badare a lui, è un funambolo dell’anima, un introspettivo, a quest’ora della notte ha bisogno di connettersi al suo bambino interiore. – a quanto pare, Alex l’Ameba non era l’unica poeta maledetto mancato, in questi cinque metri quadri scarsi che costituivano la loro casa. E, dagli sguardi che le lanciava e dal modo in cui il suo pollice le accarezzava il polso suadente, sembrava che quell’Eddie fosse determinato a concludere in bellezza una nottata deludente. Charlot sorrise.

Sarebbe stato giusto farsi l’amico di quell’idiota? Perdiana, no. Sarebbe stato fantastico.

Magari, poteva divertirsi ancora un po’, con quegli idioti. Quella notte era ancora sua: una perfetta festa di compleanno.

- N-n-non f-fare l-lo s-sce-e-mo, E-eddie. – borbottò Nate, lanciandosi sul divano-letto piazzato in un angolino di quella stanzetta infernale, scrutando a braccia conserte la rossa svampita che sembrava intenzionata a rompere tutti gli oggetti che le capitavano in mano nel minor tempo possibile. Poi, lanciò un’occhiata a Evie attraverso il casco di capelli ricciuti, arrossendo poi. – P-puoi se-sede-erti, s-sai? – corrucciandosi ancora di più, il ragazzo sembrava voler sprofondare nei meandri del divano.

- No. – Evie non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo. Quando voleva, sapeva essere molto snob, e inoltre era ancora incollata al proprio palmare, sul quale muoveva freneticamente le dita in un messaggio che pareva interminabile. Charlie sbuffò: ancora non aveva finito di contattare gli altri.

- Dove tenete la bamba? –

Quando anche Carrie riemerse dalla profondità del proprio essere e di una credenzina piuttosto lercia, la brunetta decise di tagliare la corda col proprio nuovo principe azzurro.

- Ehi, conosco un giochino simpatico da fare. – Improvvisamente, sentì una voce sussurrarle all’orecchio una proposta che immediatamente la fece sorridere: la prospettiva di passare un’ora con un tizio dalla personalità evidentemente schizofrenica, in uno squallido appartamento, la sensazione di essere inattaccabile e onnipotente, erano inebrianti, se unite al fatto che quell’altro stronzetto forse sarebbe tornata a casuccia dai suoi amichetti e avrebbe trovato lei. – Servono due persone simpatiche e spigliate e un affare che tengo in camera mia. – E poi, quell’Eddie “The Tune” Turner sembrava proprio il tipo d’uomo col quale non ci si annoia, nel bene e nel male.

- Oh, è una Nikon? – Lo squittio eccitato di Evie fu come un’esplosione nella stanza. Era raro vederla scomporsi per qualcosa, ma il gioiellino che, nel marciume generale, aveva attirato la sua attenzione meritava quell’eccesso. Senza chiedere nulla, la bionda prese in mano la macchina fotografica, che sembrava d’ultima generazione e decisamente troppo costosa per quel posto. – Posso vedere! -.

- D-DAMMI! – ma prima che avesse il tempo di fare qualsiasi altra cosa, Nate la Vescica si allungò verso di lei con la forza di un cannone, strappandole di mano la Nikon e portandosela al petto scarno come se fosse stata la sua ultima ancora di salvezza per il baratro.

Calò un silenzio di gelo.

- Dio, che maleducato. – Evie sembrava appena scalfitta dall’accaduto, mentre il ragazzo ancora tremava, rosso di rabbia e dell’imbarazzo suscitato dal fatto di avere gli occhi di tutti addosso. Ma, non appena la ragazza prese post sul divanetto sfondato, fu chiaro che non si sarebbe schiodata di lì fino a nuovo ordine, per fumare una sigaretta dopo l’altra.

Charlie guardò Eddie con rinnovata impazienza. – Allora, quand’è che mi porti lontano da qui? –

 

***

 

Mitch Anderson camminava per una stradina laterale di Manhattan, veloce, a capo chino e zoppicante. Aveva ricevuto un brutto calcio sullo stinco che ora lo stava facendo avanzare a rilento, ma la rabbia che covava in corpo era più forte del dolore fisico e, soprattutto, era abbinata al disperato bisogno di disinfettarsi al meglio.

I newyorkesi notturni non avevano degnato di uno sguardo le ecchimosi sul viso, l’occhio nero, e vestiti stropicciati e sporchi e i graffi sulle braccia: New York era una città per solitari e menefreghisti. Ma le ferite bruciavano, e anche parecchio. Mitch sputò in un tombino un grumo di saliva, lieto perlomeno di non sentire il gusto metallico del sangue in bocca.

Sarebbe potuta andargli peggio.

Ma Dio, quanto stava odiando quella nottata.

La montagna di muscoli e pelle che l’aveva fermato fuori dal Gilmoure, un attimo dopo che quella stronza viziata rapisse i suoi amici e lo lasciasse di sasso, si chiamava Aaron Kustor, ma era conosciuto come The Iron Lad. Il soprannome era un omaggio a Margareth Thatcher, l’idolo del omaccione inglese dall’aspetto brutale e dall’omosessualità rassicurante per coloro che si ritrovavano indifesi contro la cattiveria di certa gente. Era noto frequentatore di pub per drag queens, e vantava di aver avuto nella propria vita di quarantenne numerosi partner, fra i quali Sir Elton John.

E fra questi ex fidanzati, ce n’era uno storico nella cricca di frequentatori del Gilmoure di cui Mitch aveva fatto la malaugurata conoscenza qualche settimana prima. Richie aveva collezionato una serie infinita di boyfriends prima d’innamorarsi perdutamente di Adam e perseguire l’obiettivo di convolare a giuste nozze con quel meraviglioso connubio di stile e fascino hipster. Fra i poveri sfortunati che avevano dovuto farsi da parte, c’era anche The Lad, che da allora aveva covato un profondo rancore per ogni ragazzo si chiamasse Adam o per qualsiasi bambinetto indie vagasse per le stesse feste che lui frequentava.

E di sicuro quella troia l’aveva saputo fin dall’inizio.

Mitch non era tipo da feste del genere. Non si trovava mai a proprio agio fra figli di papà che fingevano di essere disadattati, e in locali come il Gilmoure. Aveva sempre avuto l’impressione, nelle occasioni in cui aveva frequentato la movida newyorkese che contava, di essere intriso a propria volta di quell’ipocrisia per niente raffinata e decisamente fastidiosa che si portavano appresso.

Ma avrebbe dato qualsiasi cosa per suonare in un posto come il Gilmoure.

New York era una città spietata con chi proveniva dalla provincia americana, dagli stati retrogradi del Sud U.S.A. o più semplicemente con chi non era in grado di ambientarsi in fretta e cambiare in fretta, adattandosi ai ritmi di quell’isola che era un mondo a sé stante. L’industria musicale aveva un gerarchia solida che ammetteva un artista su mille di quelli con una storia tragica o comunque interessante alle spalle. Quella newyorkese, poi, era particolarmente snob: se a Los Angeles manager e dirigenti si facevano vedere volentieri a feste ed eventi in compagnia di ragazzino di vent’anni più giovani, gli uomini d’affari di NYC rifuggivano la grossolanità e preferivano sobri cocktails nei loro alti grattacieli, lontano dalla spazzatura urbana.

A New York, i veri agganci per gli artisti emergenti erano i giovani come loro. Giovani ricchi, giovani annoiati disposti a mettere buone parole con genitori o conoscenti pur di soddisfare il proprio bisogno di svago e poter scrivere su Twitter di essere stati promotori del successo di un indie rock band, come quelle che andavano tanto di moda in quel periodo.

Giovani con soldi da spendere e sicurezza da acquistare.

Charlot Valenti non era un nome come tanti altri in quella città raffinata e impaziente; apparteneva ad una cricca di ragazzini incapaci ma potenti, e consapevoli di esserlo. Era una delle star della Columbia, con quella capacità di essere presente un po’ ovunque ma restare invisibile, inafferrabile. Avevano saputo della sua festa di compleanno in ritardo: gli anni scorsi erano stati invitati da un giro di passaparola incredibile, ma non erano mai riusciti a partecipare.

Troppo insicuri.

Quell’anno erano andati con la missione di fare colpo su qualcuno di quegli ipocriti.

Ma dovevano sapere che le troppe aspettative generavano solo amarezza. Mitch, invece di affascinare, era rimasto affascinato, da un serpente che con le proprie spire aveva avvolto la sua razionalità. Nessuno saprà mai. Generalmente, una regola taciuta era non fare nulla di proibito con possibili datori di lavoro. La virtù porta rimpianti.

Aveva perso di vista l’obiettivo quando lei gli si era parata davanti, carina come tante, carismatica come poche. Insomma, suadente.

Eppure gli avevano detto che quella ragazza era una stronza con tanto di patente, una calcolatrice, una manipolatrice. Aveva pensato che finché si limitava ad una bevuta e una scopata gratuita, poteva cavarsela con poco; anzi, forse avrebbe addirittura potuto approfittarsene, per il bene della band naturalmente. Ma quella Charlot aveva trovato il modo di non lasciarsi fregare e di fregarlo, rigirando una situazione banale, quasi fastidiosa, a proprio favore.

E farlo pestare per una miserabile insubordinazione.

Mitch ancora non riusciva a rendersi perfettamente conto di dove si trovasse. Ricordava che The Iron Lad gli si era avvicinato proprio mentre la macchina rossa schizzava via: aveva urlato “Sei tu, Adam?” prima di tirargli il primo cazzotto. Nessuna delle troiette che l’avevano riconosciuto e osannato alla porta del Gilmoure era corsa in suo aiuto. Solo qualche urletto, prima di correre ai ripari.

Aaron l’aveva poi trascinato nel vicolo più vicino, quasi immune ai suoi tentativi di difendersi o di scappare. Chi li aveva avvistati, si era girato dall’altra parte. L’aveva pestato per almeno un quarto d’ora, prima di gettarsi a terra in ginocchio, per poi piangere come un bambino. Un bambino intrappolato in una montagna di muscoli e pelle nera.

Sarebbe potuta andargli peggio, davvero, ma finché Aaron non se n’era andato, apparentemente dimentico di lui, non era stato in grado di alzarsi.

Dopo attimi interminabili, si era ripulito alla meglio e aveva riacquistato un minimo di senso dell’orientamento, ricordando dove si trovasse. Si era rialzato a fatica, trovandosi indifferente alla musica rimbombante che proveniva dal grattacielo, in confronto al pulsante dolore sordo che avvertiva su tagli, ematomi, e un orgoglio ferito. Non aveva dubbi che si trattasse di uno stratagemma di quella Charlie.

Ed era con questi pensieri a corrodergli il cervello che aveva ritrovato la via di casa, a piedi, mentre attorno a lui la città di risvegliava davvero, e non per tuffarsi in pub e discoteche. Avrebbe anche visto un barlume di alba, se non fosse stato per gli ammassi di cemento e vetro che gli oscuravano la vista. Non sapeva quali e quante vie aveva percorso, ma poco a poco aveva riacquistato un minimo di confidenza con l’atto di camminare e nella vista. Aveva iniziato a riconoscere i nomi delle vie, la struttura degli edifici che lo circondavano. Aveva iniziato a smaltire la sbornia

Aveva iniziato ad arrabbiarsi di nuovo, come una bestia.

- Vi siete divertiti, stronzi? Dove cazzo siete andati?! – spalancò la porta evidentemente convinto che in quella casa i suoi amici fossero tornati, e che fossero soli.

Il guaio di Mitch, pensò Nate, era che quelle non rare volte in cui si sentiva sicuro di sé fino all’inverosimile, per lui erano fatali.

- Ciao! Come ti chiami? – La visione di Nate rannicchiato sul divano, e due ragazze stese a pancia in giù in quel pezzettino di pavimento rimasto libero da mobilio e scartoffie, fu il saluto che giunse a Mitch come un colpo di pistola. Il ragazzo posò lo sguardo sulla rossa sconosciuta che, pacifica, gli sorrideva da sopra un gioco di tavolo di cui non ricordava la provenienza, o l’esistenza semplicemente. Sembrava beatamente ignara di qualsiasi male nell’universo, ma aveva un’espressione vuota sul viso sorridente.

La chioma bionda dell’altra ragazza, quella che gli dava le spalle, non accennava nemmeno a farsi vedere in faccia. – Tocca a te, Carrie. – La sentì borbottare annoiata.

In pochi istanti, Nate gli fu addosso. Mitch riuscì a vederlo in faccia per poco, prima che i folti capelli tornassero a coprirgli il viso: aveva gli occhi sbarrati e la pelle rossa e sudato. Era palese che stesse avendo uno di quegli attacchi di panico che erano soliti delle situazioni su cui non aveva il controllo, ovvero quasi tutte; anche se stavolta Mitch non riusciva a non dargli ragione.

- M-M-Mi-itch, n-non s-so c-che f-f-fare, q-que-este n-non v-v-voglio-ono anda-a-arsen-ne e-e n-non s-sape-evo che t-ti a-ave-evano f-fatto m-ma E-Eddie d-dice d-di r-rilas-sa-sa-sarsi, c-che v-vole-evano s-solo f-farti u-u-uno sche-sche-sche… - quando Nate giunse al punto in cui non fu più in grado di smuoversi dall’ultima sillaba pronunciata, Mitch lo afferrò per il bavero della camicia, scuotendolo in modo molto forte e decisamente rude. Un gesto necessario, se voleva che l’amico non proseguisse come un disco rotto.

- Nate! Nate! Basta. – Sibilò, non curandosi più delle due ragazze sul pavimento e concentrandosi sull’amico. Il braccio sinistro gli doleva terribilmente, ma continuò a tenere salda la presa sui vestiti del ragazzo che aveva di fronte, avvertendo i muscoli di questo tremare convulsamente. – Dai, amico, stavo scherzando anch’io, non sono incazzato. –

Eccome, se era incazzato. Non ce l’aveva solo con quella sgualdrina, ma anche con quei tre disgraziati, che se n’erano andati con lei.

Nate si accorse subito della bugia, infatti. Come sempre quando l’ira prendeva il sopravvento su di lui, Mitch aveva le vene del collo che pulsavano in maniera inquietante, fronte e naso rosso e sopracciglia aggrottate in un’espressione arcigna che gli faceva guadagnare vent’anni in più di quanti ne aveva. Ciononostante, Nate si calmò quasi subito; non smise di tremare, ma chiuse la bocca e impedì al flusso di parole di prendere la forma di un’apologia senza senso. Iniziò a respirare più a fondo.

- C-che ca-caz-zo t-ti è s-suc-cesso? – poi irruppe in un irato strillo, un acuto degno di una femminuccia, come l’avrebbe definito Eddie se non fosse stato occupato a fare dell’altro. Si vergognò immediatamente, ma la preoccupazione per le botte che gonfiavano la pelle dell’amico gli fece scordare in pochi secondi l’imbarazzo. Come scottato, Mitch lasciò la presa dagli abiti dell’amico, arricciando il naso in una smorfia che voleva essere da duro.

Ma davanti alla quale Charlot Valenti sarebbe scoppiata a ridere. Amareggiato, Nate la definì da pallone gonfiato. – E’ solo qualche graffio, vecchio. Tu piuttosto, che hai combinato? – La conferma la ebbe con questa risposta, pronunciata a denti stretti dall’offeso Mitch. – Te ne sei andato con quelle sgualdrine, eh? Pensavo che almeno tu non ti saresti fatto fregare. – ostentando un orgoglio incrollabile, ecco come l’amico lo stava affrontando. Nate non si considerava affatto fortunato nel dovergli dire che la possibilità di rifarsi dall’umiliazione stava nell’altra stanza a sollazzarsi con quello scemo di Eddie.

- Chi si è fatto fregare? –

Non fu Nate a rispondere. Una voce femminile vagamente bassa, con una punta fastidiosa di noia in ogni accento e sillaba, pronunciò quella domanda palesemente retorica prima che il ragazzo avesse il tempo di balbettare qualsiasi cosa.

Nel riconoscere Evan McLair, la ragazza del presentimento, quella che si era fatta beffe di lui senza bisogno di parole sul sedile del passeggero della Jaguar XF, Mitch fece quasi un infarto.

La ragazza gli sorrise, sfoderando la smorfia di chi, dopo aver annusato un odore pessimo, incolpa educatamente il vicino dello sgradevole misfatto. Le iridi cerulee brillarono, prima di tornare alla solita noia.

- Lei è qui?! – ridandogli le spalle per poter effettuare il proprio lancio di dadi e proseguire il gioco con Carrie, Evie alzò gli occhi al soffitto grigiastro, trattenendosi a stento dallo sbuffare sonoramente. Quel tipo sembrava uscito da un film d’azione di quart’ordine. Era un pallone gonfiato, e Charlie l’aveva capito. Se l’era mangiato come spuntino.

Anche Nate aveva formulato questo pensiero. Guardo di straforo la biondina, prima di posare nuovamente lo sguardo su Mitch, che sembrava sul punto di esplodere. L’orgoglio era il punto forte e allo stesso tempo debole di Mitch, e quella Charlot Valenti gliel’aveva fatta grossa.

Il punto era che quella brunetta sembrava il genere di persona abituata a fare a pezzi l’orgoglio della gente, e Mitch, con quel suo istinto naturale del leader e la sua sicurezza, ancora non aveva capito che, anche se la guerra non era sicuramente finita, quella primissima battaglia l’aveva vinta la ragazza.

- E’ d-di l-là, c-con E-Eddie. –

E lo guardò partire come un toro verso la porta della camera da letto.

 

 

But how was I to know

that she'd been shuffled before?

Said she'd never had a Royal Flush,

but I should have known

that all the cards were comin'

from the bottom of the pack.

And if I'd known what she was dealin' out

I'd have dealt it back.

 

( AC/DC – The Jack)

 

 

Li trovò seduti proprio sul suo letto. Il narghilè comprato in un mercatino dell’usato in un lontano viaggio a Seattle era in bilico a dividere i loro colpi, e il fumo che appestava la stanza li circondava, trovando sbocco solo da una finestrella aperta quasi per dispetto. Mitch non seppe dire se reputasse una sfortuna o una benedizione non averli colti in pieno fattaccio.

Comunque, si erano impegnati per rendere la situazione fraintendibile.

Charlot, seduta a gambe incrociate sulla trapunta consunta, era in semplice biancheria, e aveva in mano il bocchino del narghilè, un’espressione di soddisfazione sul viso e la bocca di Eddie sul collo latteo. Il ragazzo sembrava essersi fumato tutte le scorte di cannabis che avevano risparmiato in quei mesi, e ostentava la sensazione di pace col mondo che doveva provare in quel momento. E nessuno di quei due disgraziati mutò espressione quando lo videro entrare con la forza di un tuono, arrabbiato. In un angolo, su un materasso ad acqua, giaceva la sagome di Alex, che dava loro la schiena e pareva totalmente indifferente alla situazione e alle persone presenti.

- Sei ancora qui. – era entrato nella stanza con l’intenzione di spaccare il mondo a suon di urla e parolacce, ma di fronte all’immagine di Charlie, che di nuovo appariva peccaminosa e disinibita, si era pietrificato in una smorfia di disgusto che arrivava anche ai pugni, serrati.

Eddie volse lo sguardo su di lui, e il sorriso beato vacillò vistosamente: i suoi occhi, arrossati dal fumo, si posarono sulla faccia in frantumi dell’amico, spalancandosi pericolosamente. – Ma che cazzo, Mitch! – l’intelligente commento venne sputato un attimo dopo. E forse, fu proprio quello il segnale che scatenò l’inferno.

- Eddie, esci da questa cazzo di stanza, ORA! – il sibilo assomigliava a quello di un serpente inferocito e molto pericoloso, in procinto di attaccare la propria preda. Eddie rimase imbambolato a fissare l’amico per qualche istante, ma in si fece ripetere due volte l’avvertimento: l’erezione era scemata e l’effetto della cannabis pure, sostituiti da una paura bestiale di essere picchiato a sangue dal proprio coinquilino. Charlie non era più così affascinante, di fronte a quella prospettiva. Afferrò la propria t-shirt in velocità, passando accanto a Mitch come un fulmine per timore che l’amico, ripensandoci, decidesse di non risparmiarlo e gonfiarlo di botte seduta stante.

Charlie rimase a guardare mentre il bel ragazzo con il quale si era divertita per un numero interminabile di minuti se la svignava, accavallando le gambe e attendendo che l’altro giocattolino della serata si facesse sentire in tutta la propria potenza. Squadrò Mitch da capo a piedi, senza però provare alcun divertimento, anzi, vestendosi di una serietà che non aveva niente a che fare con la nudità della sua pelle. Una protezione per l’anima: aveva l’impressione che non si sarebbe sottratta ad un confronto diretto con qualche giochetto per dilettarsi.

Meglio così. Gli avrebbe dato un’altra lezione.

- Ti sei divertita? – l’ironia con cui le pose la domanda era crudele e violenta, una combinazione di diverse emozioni anche contrastanti, ma intense. Charlie osservò le sopracciglia scure inarcarsi sul viso espressivo del ragazzo, il petto gonfiarsi di un nuovo respiro. Aprì la bocca per sospirare, ed appoggiò un gomito sul ginocchio, mettendosi comoda. – Certo, tu evidentemente ti diverti così. – la ragazza arricciò un labbro, sentendo una vaga nausea provocata da quelle parole. Pretendeva di trattarla come se la conoscesse.

- Vorrei ucciderti, in questo momento. Dico sul serio, vorrei ammazzarti! Cazzo! – Charlie non faticava a crederci: non trattene un piccolo sussulto di spavento, quando Mitch calciò con forza una sedie di legno dall’aspetto malconcio, mandandola a sbattere contro il muro. Ma riacquistò immediatamente la calma, rassicurata da quell’atteggiamento. Orgoglioso, per lei il ragazzo pensava che quell’atteggiamento da maschio dominante ferito ma di certo non morto potesse riscattarlo dall’umiliazione; ai suoi occhi però, stava confermando sempre più di essere un qualunque marmocchio in attesa di una sculacciata.

In realtà, Charlot Valenti era empatica fino a dove voleva arrivare lei, e se lo avesse capito avrebbe anche intuito che Mitch non si stava affatto difendendo, e soprattutto che non stava pensando.

- Credi di poter trattare la gente come una merda solo perché un bel macchinone e degli amichetti servizievoli ti fanno sentire la regina del mondo?! Dio, sei proprio la stronza di cui tutti parlano. – per un attimo poi, Mitch, smise di camminare avanti e indietro come una fiera in gabbia, puntandole l’indice contro. – E non prenderla come un complimento, perché non sei una regina di ghiaccio col mondo ai propri piedi, sei solo uno schifo di persona. Disposta a cadere in basso per dimostrare agli altri di poterli manipolare! –

Charlot lo lasciò sfogare, ascoltando il suo discorso dapprima affascinata, poi decisamente annoiata ed infine infastidita. Un primo istinto le impose di alzarsi in piedi e reclamare delle scuse, visto che quel disgraziato sembrava ancora non aver capito con chi avesse a che fare. Ma s’impose un forte autocontrollo: Mitch non meritava tanto spreco di energie, no?

E poi, non sarebbe stato affatto coerente. Per quanto gli altri sparlassero, c’erano dei valori tutti personali dietro quell’atteggiamento.

- Hai finito? – chiese poi, quasi interrompendolo dopo l’ennesima valanga d’insulti, sforzandosi per mantenere un naturale sorriso falso fino al midollo ed un tono tranquillo nella voce strafottente. Mitch si volse a guardarla con astio di scatto, quasi facendosi male tanto improvviso fu il movimento. – Sono davvero molto colpita,  parole degne del miglior avvocato, o politico, o quant’altro. – il sarcasmo col quale parlò, e quale si portò la mano sul cuore delicata e velenosa, fu l’ennesima puntura di spillo per il ragazzo.

- Ma ti rendi conto di quello che fai?! – Mitch spalancò le braccia, gridando. Il sorriso di Charlie non fece altro che allargarsi. – Molto più di quello che credi tu. – egli non faticò a realizzare che la ragazza stava parlando seriamente; fu un autentico tuffo al cuore, rendersi conto che credeva fermamente in ciò che aveva fatto.

– Seriamente, perché sei ancora qui a parlarmi? Credi di ottenere qualcosa con questi tuoi insulti sparati a caso, con questa tua rabbia? Ti umili da solo, cocco. Darmi della stronza, della troia, dell’atea fasulla, della comunista o quello che vuoi non ti aiuterà a riguadagnare la dignità. Anzi, ogni secondo che passa ne perdi un altro pezzettino. – Crudele, Charlie fece segno di piccolezza con pollice ed indice, in un disegno che ben poco aveva di dignitoso e che forse per questo era più che adatto. Le parole affluivano dal cervello alla bocca senza sforzo, studiate nell’arco di due secondi da brava improvvisatrice. Era una vera goduria sapere che lui stava ascoltando ogni parola, e che credeva che lei avesse assimilato facilmente la scenata. Alex, addormentato o forse solo indifferente, giaceva ancora sulla schiena.

- Hai addirittura sbattuta fuori dalla camera il tuo amico. Andiamo, se ne avessi avuto l’opportunità, avresti fatto esattamente come lui. Hai fatto di peggio, se così possiamo dire, al Gilmoure. Non sprecare altro fiato. –

Poi tutto accade nel giro di pochi secondi.

Charlot si ritrovò schiacciata contro il materasso dal peso di un corpo non così estraneo ormai. I polsi le dolevano, perché si trovava sotto la morsa di mani brutali che li stavano stritolando, trattenendole le braccia sopra la testa. Contro il viso poteva sentire l’infrangersi di un respiro pesante, rabbioso come quello di un animale selvaggio: il viso di Mitch era dove era stato fino a qualche ora prima, separato dal suo da pochi centimetri di vuoto che sembravano non esistere quando la ragazza posava gli occhi su quelli di lui.

Grigi e tempestosi.

- Non giocare col fuoco, ragazzina. Potrai comandare a bacchetta tutti i manichini della tua università per ricconi, ma IO non sono come loro e non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo. – in quel momento, Charlot pensò che davvero l’avrebbe uccisa con le proprie stesse mani; aveva una carica d’ira che la opprimeva contro la superficie del letto più della forza di gravità sui loro corpi. Il viso del ragazzo era una maschera di rabbia, e quel che era peggio era che questa non era ancora esplosa: si stava trattenendo quel tanto che bastava per non perdere completamente il controllo.

Per la prima volta in quella sera, Charlie ebbe paura. E, poteva scommetterci, lui lo sapeva.

- Chiedi scusa. – poi arrivarono quelle due parole. Erano più pesanti del cemento armato, più del corpo della ragazza che fra le braccia di quello sconosciuto (perché altri non era che uno sconosciuto) si sentiva pesante, oppressa da ogni propria azione. – Fallo. – quegli occhi grigi ora avevano perso la loro cattiveria: erano soltanto duri, violenti come quell’abbraccio.

Per tutta risposta, la ragazza allungò il collo per toccargli la punta del naso con la lingua, languida e rapida.

Le dita attorno ai polsi si strinsero ancora di più; Charlie non credeva fosse possibile trovare un peso più insostenibile di quella leggerezza, la leggerezza con cui l’aveva trattato per tutta la sera, e il modo in cui lui glielo stava rinfacciando. – Chiedi scusa o, giuro, non sarò responsabile delle mie azioni. – La durezza era stata di nuovo sostituita con la rabbia. Bene.

- Avanti, fallo. – il tono era quello di una gatta che faceva le fusa, ma non riuscì a nascondere il tremore di quella tensione.

Pesantezza, leggerezza.

- Sai che non mi cambierebbe un bel niente. –

Mitch per un attimo fu davvero tentato di prenderla di nuovo lì, poco importava se nella stanza c’era Alex e in cucina tutti gli altri. Voleva strapparle i vestiti di dosso senza sensualità, e possederla pretendendo le sue scuse come gemiti, dimostrarle di non potersi fare gabbare. Ma il sorriso che trovò su quelle labbra carnose gli dimostrò che lei non aspettava altro, da lui: non vedeva l’ora di vederlo cedere alla rabbia, di divertirsi un altro poco e poi andarsene con la prova sul proprio corpo di aver lasciato un segno indelebile su di lui.

- Vai al diavolo. –

Rotolò su un fianco senza la minima delicatezza, mettendosi poi a sedere sul bordo del letto e passandosi le mani fra i capelli in un gesto di pura esasperazione. Charlot rimase per un attimo a fissare il soffitto muffito, senza riuscire a godere di quell’improvvisa leggerezza ritrovata, che viva con gli occhi sgranati e le braccia ancora alzate come lui le aveva messe.

Si sentiva indispettita? Sì. Perché aveva creduto che lui si sarebbe allontanato dalle sue braccia solo dopo averle dato conferma di ogni certezza. Ma ora Mitch attendeva che lei si rivestisse e se ne andasse, portandosi dietro la propria cricca di amichette e il proprio essere leggero e pesante allo stesso tempo. Non pretendeva più nulla da lei, e nemmeno la sua rabbia reclamava le scuse per cui per poco non le aveva mosso violenza.

Aspettava solo che levasse le tende.

Si alzò in piedi arricciando il nasino, dando volutamente la schiena al ragazzo per sottolineare il dispetto che provava per Mitch. Afferrò poi con violenza le proprie scarpe col tacco, buttate a terra in precedenza, riversando su di loro la propria collera per seppellire in un angolo della testa la sensazione terribile di stare agendo come una vera immatura. Il solo campanello d’allarme del genere in tutta la sera.

Mitch osservò quella ragazza che era stata in grado di scatenare l’inferno per qualche ora e, al contrario di ciò che si aspettava, non la trovò affatto perfetta. Era piuttosto alta, anche se in confronto a lui era uno scricciolo, ma non si poteva dire che fosse magrissima: le gambe il sedere erano generosi, anche se i fianchi erano stretti e non sembrava esserci l’ombra di pancia. Dal reggiseno invece non faceva capolino granché, se non un leggera imbottitura che le donava una prima. E col trucco sbavato e i capelli scompigliati sembrava aver bisogno di una bella dormita.

E quando si accorse che la stava fissando, Charlie non poté nascondere un vago senso di disagio, una vulnerabilità che colpi i suoi occhi con rapidità ma con dolore. Mascherò subito e bene quell’emozione indefinita, ma Mitch fece in tempo ad accorgersene, assorbendo quella visione come un boccone amaro mentre lei si rinfilava il vestito rosso. Il ragazzo si rese conto che tutto ciò che lei voleva era sembrare perfetta e sfruttare questa sembianza, ma esserlo realmente era tutta un’altra storia.

Almeno, avrebbe ricordato un’immagine di lei che fosse vera.

Evie guardò l’orologio digitale appeso in un angolo, prima di posare lo sguardo su The Tune, che da quando era stato cacciato dalla camera da letto sembrava intenzionata a far sapere al mondo la situazione insoddisfacente nei suoi pantaloni, facendo a gara di urla con due piccioncini di un appartamento nello stesso palazzo.

Si stava annoiando da morire: non sopportava quelle trovate di Charlie, perché spesso e volentieri l’amica non le lasciava altra opportunità oltre a seguirla verso i posti più bassi e disgustosi di New York. Charlie era anche più snob di lei, ma si adattava più velocemente, ed Evie associava all’arroganza aristocratica un certo disagio nel trovarsi in mezzo a gente che non l’avrebbe mai capita, nemmeno con tutta la buona volontà e il tempo del mondo.

Come quei tizi.

- T-ti p-pia-ace l-la m-musica? – Nate, o Vescica, cercava di fare conversazione da quando lei e Carrie avevano finito la partita ad un gioco dal nome impronunciabile, con ovvia vittoria di Evie. Si vedeva che nemmeno a lui andava bene aver per casa tre perfette sconosciute che l’aveva trascinato in un’avventura delirante, e per nulla gradita. Era nervoso, e scattava ad ogni loro movimento: cercava di tenere in piedi qualche parola giusto per non sentirsi ancora più a disagio.

- Non particolarmente. – rispose annoiata, appoggiando il mento alla mano e continuando a guardare Carrie che cercava di capire cosa stesse dicendo Eddie, il quale blaterava di un narghilè e di due paia di gambe che non l’avrebbero atteso più. Poi, la porta si aprì.

Charlie attraversò con lunghe falcate quella sorta di cucinino per sfigati, facendole cenno frettolosamente di alzarsi dal divano letto. – Andiamocene. – aveva aspettato tutta la sera di sentirsi dire quelle parole, eppure Evie aveva l’impressione che ci fosse un suono sbagliato in quella voce, che avrebbe dovuto essere armoniosa e calda di una vittoria. Invece, sembrava proprio che Charlot avesse appena preso picche, un’opzione non contemplabile nella normalità delle cose.

Istintivamente, Evie sorrise: ne avrebbe sentite di belle, una volta tornata a casa. Poco importava che domani ci fossero le lezioni, che ancora non sapevano cosa fosse successo al Gilmoure, che domani fosse semplicemente un altro giorno, pieno di cosa da sbrigare e persone da rassicurare. Prese Carrie per mano, e senza una parola uscì da quell’appartamento di matti.

In fondo, quel domani di cui parlava era già finito da quattro ore.

Tutto quello che lei avrebbe voluto, sarebbe stata una nuova alba.

 

 

All that she wants is another baby,

she's gone tomorrow.

 

(Ace of Base – All That She Wants)

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

Un grande ritorno, dopo praticamente otto mesi di assenza da EFP (circa, non ho tenuto il conto preciso). La mia ispirazione ha fatto cilecca, però alla fine non mi ha impedito di pensare di nuovo a Charlie e ai poveri quattro nuovi arrivati nella storia.

Spero, come sempre, di non essere stata scontata, noiosa, o poco credibile nella storia. Smetto di cianciare, vi lascio le citazioni.

Non so se fra gli amanti di Sir Elton John ci si anche un certo The Lad, ma questo è un personaggio creato da me, e in quanto tale ne detengo i diritti, come di tutti gli altri personaggi originali della storia.

Nessuno saprà mai.” e “La virtù porta rimpianti.” sono versi della canzone Serpente dei Subsonica.

Atea fasulla.”, omaggio a quella capra di V.S.

Trovare un peso più insostenibile di quella leggerezza.” e quanto di simile segue, da L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera.

E poi basta. Caspiterina, così poche citazioni? Ebbene sì.

 

Vi lascio alcune foto prese da Lookbook, la mia idea di come dovrebbero essere i miei quattro disgraziati.

 

Mitch Anderson, 2011.

 

Nathan Reed, 2011.

 

Edward Turner, 2011.

 

Alex Schneider, 2011.

 

 

Bye folks.

 

 

 

 

 

 

 

 

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