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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo [Stars Are Shining Bright] *** Capitolo 2: *** Rebels, Lovers, Inmates *** Capitolo 3: *** Scoop [Part 1 - I Bet You Look Good on the Dancefloor] *** Capitolo 4: *** Scoop [Part 2 – All That She Wants] ***
Capitolo 1 *** Prologo [Stars Are Shining Bright] ***
Non c’era nulla al mondo che potesse essere paragonato all’emozione di
essere sfiorate da quel treno in corsa
Non
c’era nulla al mondo che potesse essere paragonato all’emozione di essere
sfiorate da quel treno in corsa.
Aprì
gli occhi.
Stranamente,
la sua prima aspettativa fu quella di trovarsi davanti ai suoi occhi grigi che
la fissavano, con il solito, terribile sentimento nello sguardo.
Rimprovero.
Compassione. Rabbia cieca.
Quell’odiosa devozione ricolma d’amore...
Solo
le carrozze arrugginite del treno che sfrecciava accolsero le lacrime che
presero a scenderle lungo le guance.
La
sua vita, era la sua vita a sfrecciarle davanti in quel momento.
Forse, sarebbe stato meglio tenere gli occhi chiusi ancora un po’.
La
sua vita la stava lasciando indietro.
SCOOP
Tutti i Miei Sbagli
Prologo [Stars Are Shining Bright]
(Un
anno prima)
Take me out tonight.
Oh, take me anywhere,
I don't care, I don't care, I don't care.
Driving in your car,
I never, never want to go home,
because I haven't got one.
Oh, I haven't got one.
(The Smiths – There Is a Light That Never Goes Out)
Si dice che le guide a
cui gli uomini fanno riferimento, sin dall’alba dei tempi, nei momenti di
difficoltà siano le stelle.
Queste piccole scintille
nel cielo, in realtà gigantesche sfere infuocate che attendono soltanto
un’esplosione finale, hanno rappresentato figurativamente le divinità di ogni
popolo, volontà superiori che dall’alto giocano a dadi con l’universo. Nei
momenti di smarrimento, una buona conoscenza astronomica riconduceva marinai e
viaggiatori sulla strada di casa.
Quell’anno, nel cielo
sopra New York City, le stelle scomparvero definitivamente.
Persino la luna sembrava
essersi inchinata alla potenza del fascio luminoso che emanava l’insieme dei
grattacieli; ridotta ad una sfera asettica nel firmamento, pochi si
soffermavano a guardarla davvero.
A qualche chilometro dal
confine con New York City, le uniche stelle erano costituite dai fari
dell’automobile che sfrecciava lungo la stradina deserta.
- Dom! Dom! Ma che cazzo fai? -.
L’acuta voce femminile
si unì a quello che era l’unico rumore nel raggio di un buon numero di
chilometri: il fastidioso chiasso della metropoli, per le orecchie dei
passeggeri della macchina, in quel momento era completamente sovrastato dalla
musica che le casse dell’autoradio strillavano.
Hey ho, let’s go! Hey ho,
let’s go!
Il ragazzo appena
chiamato in causa in quel momento era impegnato in una complicata torsione del
busto, con cui stava cercando di passare attraverso i due sedili anteriori per
raggiungere i compagni sul retro. Nessuno dei presenti sembrava particolarmente
entusiasta di quella decisione.
Il sovraffollamento
esagerato dei sedili posteriori era considerato, infatti, un valido motivo per
prendere a calci Dominic e la sua intraprendenza.
- Charlie, cazzo,
rallenta! O questo si ammazza! – Kimberly, graziosa biondina dall’ugola d’ora,
in quel momento strizzata contro il finestrino della Jaguar XF rossa, cercò
nuovamente di attirare l’attenzione della ragazza alla guida.
Il tentativo fu
perfettamente vano: tutti sapevano che ciò che piaceva di meno a Charlie era
perdere tempo.
- Certo che sei
coglione! – il ragazzo di Kimberly, Calvin, che sedeva accanto a lei cercando
un modo per fumare beatamente la propria sigaretta senza uccidere nessuno,
tentò di dare manforte alla propria fidanzata. Purtroppo la sua voce risuonò
ovattata in mezzo a quella confusioni di arti che
s’era creata.
Charlie sorrise,
premendo il tacco alto della scarpa sull’acceleratore. Lo sguardo birichino
gettò un’occhiata veloce allo specchietto retrovisore, per valutare la reale
confusione che regnava nell’auto. Con la coda nell’occhio, vide schiena nuda di
Evie contrarsi fra le braccia dello studente russo che aveva conosciuto
all’università, seduta su questo a cavalcioni.
Evidentemente, lo spazio ristretto non aveva impedito loro di consumare quella liaison composta
di pochi vocaboli cercati su Google.
Richie, stretto fra Kim
e i due amanti, prese a strillare – Dominic, per l’amor del cielo, torna
davanti! – le sue pupille erano ridotte a punte di spillo.
- Avanti, deficiente! –
Charlie allungò una mano per afferrare un lembo della camicia di Dominic,
trascinandolo a sedere sul sedile anteriore del passeggero. Il ragazzo le
rivolse un ghigno storto – Che c’è, Charlie? Hai paura che qualcuno si faccia
male? – certo che aveva paura. Ma non l’avrebbe mai ammesso, e per tutta
risposta schiaccio nuovamente il piede sull’acceleratore.
La Jaguar XF raggiunse
lo stretto e semisconosciuto sbocco per l’autostrada dopo pochi minuti, i quali
furono sufficienti perché tutti dimenticassero i motivi del precedente
fastidio.
Charlie buttò
un’occhiata distratta alle cifre sui quadranti dell’orologio digitale della
macchina, mentre attorno a lei scoppiava nuovamente il terribile, familiare
caos. Mancavano dieci minuti alla mezzanotte, perciò erano perfettamente in
orario. La scorciatoia che aveva preso, ovvero quella stradina piena di buche
che tagliava la zona industriale del New Jersey confinante con NYC, aveva
accorciato di gran lunga il viaggio.
- No, Dom, ma se devi
morire voglio che sia esclusivamente per causa mia, e non per le tue manie
esibizioniste. -.
Li attendeva uno dei
rave party più scandalosi e lunghi di tutti i tempi.
La ragazza fece una
smorfia: almeno, questo era ciò che aveva detto Freddie. Freddie. Charlie non vedeva l’ora di rivederlo.
- Ahia! – lo strillo di
Kimberly per poco non ruppe un timpano a tutti, mentre ad una velocità
preoccupante superavano una serie di tir, unici veicoli presenti nella strada
statale a quell’ora. Calvin la stava guardando con astio, il finestrino aperto
che minacciava di far volare via il cappellino da rapper del ragazzo.
- Non ti azzardare a
toccare alcol! – la ammonì severo. La ragazza si massaggiò il lembo di pelle
che Calvin le aveva pizzicato.
Era paradossale che,
nonostante Calvin fosse uno dei più assidui consumatori di marijuana della loro
vasta compagnia, egli fosse completamente astemio e spronasse con un entusiasmo
un tantino eccesivo la sua fidanzata
ad imitarlo. In quel momento, il ragazzo reggeva in mano una bottiglia di Jack
Daniel’s sbucata da chissà dove, che Kimberly stava cercando di riprendersi.
- Cazzo, a cosa serve
avere vent’anni se poi il tuo ragazzo ti controlla come se fosse tuo padre? –
sbottò questa, senza smettere di tentare di riprendersi la bottiglia.
- Kim, sembra che tu
abbia due anni! – gridò Richie, con
una mano a proteggere il lungo ciuffo di capelli perfettamente liscio,
l’incolumità del quale era seriamente minata dalle
contorsioni della ragazza. Il volume della sua voce superò persino quello
stellare dell’amica.
Il ragazzo russo e Evie,
ormai rimasta seminuda nello spazio angusto che era stato loro concesso, non
sembravano disturbati da tutta quella confusione.
- Dio, che imbranati! –
si lamentò Dominic, come sempre accadeva quando non aveva la possibilità di
essere lui stesso la causa di qualche problema.
Subito dopo Richie
incominciò a lamentarsi del proprio fidanzato, Adam, che da un anno a quella
parte si occupava dell’organizzazione di qualsiasi
party nei dintorni New York a quella parte.
– Non m’importa se deve
alzarsi alle quattro del mattino perché deve guidare fino a Ellis
Island per ricevere il carico illegale di alcolici! Insomma, stiamo insieme da tresettimane
e sembra sia già stufo di me! –.
Kimberly subito si mise
strillargli di rimando qualche parola di conforto, citando come esempio le
mancanze di Calvin come fidanzato. Quest’ultimo, irritato, incominciò a
protestare.
Con una manovra rapida,
Charlie sgusciò in mezzo a due autotreni dalle dimensioni preoccupanti, mentre
attorno a lei le parole e le assurdità dettate dalle parecchie droghe in
circolo nel sangue degli amici aumentavano. Aveva un dannato bisogno di una
sigaretta, e non era in grado di dire se avessero già superato lo sbocco, che
Freddie le aveva indicato per telefono, che li avrebbe portati al luogo del
rave.
Accadde tutto molto
velocemente.
- Oh cazzo! -.
- Ma che diavolo
succede? -.
- Richie, ho le tue
scarpe in bocca! -.
- Qvesto non esserre pvevisto! -.
- Ma che cazzo succede?! -.
Una risata fendette
l’aria, cristallina, insieme al suono poderoso dei numerosi clacson che
suonarono in quel momento. Un camionista vinse persino il sonno dovuto all’ora
tarda per sporgersi dal finestrino e gridare loro un colorito insulto. Charlie
prese a ridere ancora più vigorosamente.
Era stata una manovra
rischiosa, tipica degli attimi di follia in cui il controllo della ragazza
veniva oppresso del suo essere impulsiva. Aveva notato
quel lembo di cemento riservato alle chiamate SOS da lontano, e in pochi
secondi aveva deciso: una sosta, era proprio una sosta che ci voleva. Ma non
con tutta quel blaterare insensato che le intasava le orecchie.
Così aveva fatto stare
zitti tutti.
Aveva mosso il volante
così rapidamente che nessuno si era accorto di ciò che era accaduto se non
quando la berlina si era fermata. Charlie aveva
approfittato dello spazio guadagnato nel sorpassare due tir per sterzare
bruscamente, in una curva ad U che l’aveva portata a fermarsi esattamente nella
banchina.
- Tu sei matta… - una
sola voce si aggiunse al silenzio teso che aveva attanagliato la macchina.
Charlie si chinò un secondo per recuperare il pacchetto di sigarette e
l’accendino abbandonati vicino all’autoradio, prima di alzare gli occhi verso
lo specchietto retrovisore.
Due irriverenti occhi
azzurri la stavano fissando, senza traccia di riferimento.
Un ghignò
comparve sul volto niveo di Charlie: stringendosi al proprio robusto
accompagnatore russo, Evie si lascò scappare una grassa risata.
- E per fortuna, perché
se non lo ero… - cominciò la brunetta, gettando un’occhiata al mondo oltre il
finestrino lucido della Jaguar. La nicotina assunse il controllo dei suoi
polmoni, calmando i confusi ingranaggi del suo cervello.
- … Ci provavo col
cavolo! – gridò esaltata Evie, portandosi una mano alle costole già doloranti
per il troppo ridere. Impossibile non riconoscere il
Capitan Jack Sparrow in quelle parole.
Non si poteva discutere
con Charlie sulle sue sciocche scelte impulsive: quella ragazza era un gatto
che cadeva sempre in piedi, in ogni situazione.
Ed Evie lo sapeva
benissimo.
But she just couldn’t stay,
she
had to break away:
well,
New York City
really has it all.
(Ramones – Sheena Is a Punk
Rocker)
- Deficiente! – lo
scappellotto con il quale Calvin la colpì determinò la rottura del silenzio che
aveva attanagliato i presenti. I rumori opprimenti della
centinaia di motori che li circondavano scomparvero, non appena ognuno si fu
ripreso dallo spavento ed ebbe focalizzato la nuova missione: uccidere Charlie.
- Ahia! – strillò la
ragazza, portando le mani sul punto offeso. Nemmeno quel lieve dolore le
cancellò il sorriso dalla bocca, con cui reggeva la sigaretta appena accesa.
- Charlot, non perdi
occasione di dare prova della tua idiozia!
– commentò con voce strascicata Richie, allungandosi nello spazio fra i due
sedili anteriori per controllare attraverso lo specchietto retrovisore i danni
che la sua capigliatura aveva subito.
- Concordo! – sbraitò
Dominic, facendosi passare la sigaretta dalla brunetta. Se fossero stati appena
più intossicati dalle anfetamine di ciò che già erano, avrebbero persino udito
il martellare dei loro cuori. Calvin abbracciò stretta Kimberly, la quale con
occhi sbarrati ancora non era riuscita a capire ciò che era successo, mentre
Evie cercava di spiegare la situazione all’agitatissimo russo, senza ottenere
risultati soddisfacenti.
Charlie era un gatto che cadeva sempre in piedi.
- La mia idiozia ci ha appena salvati da una
morte orribile: se fossi rimasta senza sigaretta ancora a lungo, probabilmente
mi sarei distratta e avrei causato un serio
incidente stradale! – premendo con un dito il pulsante per abbassare i
finestrini, Charlie commentò tranquillamente i rimproveri degli amici. Una
nuvola di fumo azzurrino si mischiò all’aria notturna newyorkese.
- E poi… - proseguì,
ignorando il gesto con cui Dominic le stava ordinando
di passargli la bramata sigaretta – Non è affatto colpa mia se voi tutti siete
deboli di cuore! -.
Sapeva di aver
sbagliato, ma ammetterlo avrebbe significato andare contro la propria natura.
Stabilire un compromesso con gli altri, imponendo la propria verità con qualche
astuto gioco di parole, era il modo più efficace per guadagnarsi un posto
altolocato nel mondo. E per rimanervi.
- Avanti, sgualdrinella
da quatto soldi! – le rispose Calvin, guardando male
sia la ragazza che Kimberly, che a stento tratteneva una risata davanti ai modi
dell’amica. – O non arriveremo mai a questa cazzo di
festa! – proseguì, ghignando involontariamente, prima di calarsi il cappellino
da rapper sugli occhi.
Non ebbero difficoltà a
trovare il grande casermone di cemento di cui Freddie aveva parlato. Anche se
questo era immerso in un bosco di pioppi di qualche industria produttrice di
carta, la musica che stritolava i suoi muri fu un
guida più che sufficiente. Era curioso, pensò Charlie mentre imboccavano la
strada di ciottoli che li avrebbe condotti a destinazione, che in qualsiasi
osto andassero qualche canzone risuonasse nell’aria ad enfatizzare i secondi
che passavano. La loro vita era una colonna sonora inarrestabile.
- Dio! Non si respirava
più! – non appena la ragazza ebbe spento il motore, tutti si precipitarono
fuori dalla Jaguar. Melodrammatico, Calvin si gettò a carponi
per terra, come in fin di vita. Kimberly lo guardò a metà fra l’ilarità e il
disgusto, richiamandolo a rapporto con un calcio bene assestato sulla natiche.
Charlie appoggiò
lentamente il capo al sedile di pelle. Sospirando, schiacciò con forza il
mozzicone di sigaretta nel posacenere della macchina.
- Fuori. Di. Qui. -.
Si aspettava di essere
completamente ignorata nonostante il tono minaccioso della sua voce. Gli ansiti
impudichi che provenivano dai sedili posteriori erano una prova che da quelle
parti avevano di meglio da fare che stare a sentire gli strambi vaneggiamenti di una povera
matta.
- Ho detto fuori! – Evie
ebbe quasi un infarto quando la portella posteriore della Jaguar si aprì di
scatto. Spalmata com’era fra la pelle dei rivestimenti e i pettorali del
seducente russo, nessuno avrebbe potuto biasimarla per non aver sentito gli
avvertimenti di Charlie. Anche se in realtà l’aveva sentita eccome.
- Non fare la puttanella!
– Yorek, le mani del quale erano strette saldamente
alle natiche della biondina, guardò interrogativo la moretta in piedi prima di
biascicare chissà cosa in russo. Evie annuì, stringendo appena il muscoloso
braccio del ragazzo per rassicurarlo, senza in realtà capire alcunché delle sue
parole. – Lasciaci la macchina! -.
Charlie sorrise
dolcemente.
- Oh, non ci penso
nemmeno. – disse, picchiettandosi la tempia con l’indice. Non aveva dimenticato
le cifre sul conto dell’officina dopo l’ultima vota che aveva lasciato Evie sola con la propria automobile. Passarono esattamente cinque secondi, il tempo
necessario perché si consumasse una battaglia di soli sguardi.
- Vi aiuto a sgomberare
– ghignando, la ragazza si allungò ad afferrare la canotta bianca di Evie e la
maglia dello studente, gettandole con un movimento rapido sul terreno polveroso
che li circondava. Subito si levarono le grida di protesta di entrambi,
smarrendo ogni passione nella notte.
Mentre i due amanti si
rivestivano, Charlie osservò il proprio riflesso sui finestrini della Jaguar,
scandagliandone i difetti. I capelli lunghi fino alle spalle, di uno strano
rossiccio che sfumava in un castano scuro sulle punto
a causa di numerosi residui di tinta, si stavano già arricciando sulle punte in
un mosso per Richie avrebbe definito “insulso
ma molto grunge”. Charlie notò con una smorfia che erano anche un tantino secchi. Si avvicinò al vetro, passando i pollici
sul trucco sbavato degli occhi, creando involontariamente lunghe linee nere
agli angoli cercando di sistemare la matita. Ciò che rimaneva del kajal rendeva
ancora più grandi gli enormi occhi marroni che risaltavano sull’incarnato di un
pallore quasi spettrale.
Annoiata, si chinò per
aggiustare una delle parigine nere, scesa fino alla caviglia a coprire
sgarbatamente le décolletés dello stesso colore, per
poi tirare su con una mossa molto poco fine gli shorts
di jeans a vita alta che aveva indossato su una larga maglia bianca dalle
scritte nere a caratteri cubitali.
“I felt like destroying something
beautiful.”
- Certo che sei proprio
una stronza… - recuperati i vestiti, Evie liquidò il fusto europeo con un mix
d’inglese ed invenzione, osservandolo con una strana malinconia dirigersi verso
l’edificio straripante di vite. Nonostante però Charlie la
stesse aspettando appoggiata alla Jaguar per raggiungere con lei la festa, la
biondina alzò il naso al cielo scuro, superandola sibilandole dietro quelle
parole e ancheggiando in equilibrio precario sui tacchi a spillo. Arrabbiata, e
sicuramente menzognera.
- Yawp! – l’urlo
barbarico di Charlie si perse nell’eco della musica, mentre questa prendeva la
carica per saltare addosso a Evie, di spalle. Allacciando le braccia attorno al
collo dell’amica, si avviluppò al suo corpo con le gambe, facendo perdere l’equilibrio
ad entrambe.
Lo strillo di Evie
minacciò seriamente di procurarle gravi danni ai padiglioni auricolari.
- Cretina! Cretina,
cretina, cretina! Mollami! – mentre la biondina si dimenava, Charlie la
stringeva sempre più forte. I loro corpi sollevarono una nube di polvere dal
terreno arido, rendendo la scena ancora più comica per i malcapitati che ebbero
la sfortuna di assistere a quello spettacolo. Chi riconobbe invece i volti familiare delle due ragazze, semplicemente tirò
dritto crogiolandosi in una risata.
Tipico di Charlie, tipico di Evie.
- Avanti, mollami! – quando finalmente la biondina
riuscì a liberarsi, entrambe erano coperte di polvere, scarmigliate e rosse in
volto, Charlie dalle risate che la scuotevano, Evie dalla vergogna e, suo malgrado,
dall’ilarità. – Muoviti! – dopo essersi ricomposta, si rimise in piedi,
afferrando l’amica per un braccio mentre questa continuava a ridere. – Avanti!
– la biondina non poté fare a meno di unirsi al divertimento di Charlie.
Tenendosi per mano, corsero verso l’entrata affollata del magazzino, ridendo
sotto le loro fortunate stelle invisibili.
Buio. Gente. Caos.
Erano queste le parole
che Charlie usava generalmente per descrivere un rave party di quelle
proporzioni.
Adoravano,
le feste, tutti loro. E quella, come Freddie le aveva promesso al telefono, era
il party del secolo.
- Vado a cercare Yorek!
– le gridò Evie in un orecchio, lasciandole la mano per inoltrarsi nella folla
che saltava, intrappolata in quelle quattro mura di cemento armato che chiudeva
fuori dal mondo quel momento di estrema libertà. Charlie annuì, nonostante
l’amica fosse ormai sparita, inspirando a fondo l’odore di chiuso e di
sfrenatezza che quel posto emanava. Kimberly, Dominic, Richie, Calvin: chissà
dov’era finita tutta la gente con cui era arrivata.
Poco male.
- Troietta! – quello che
a prima vista le sembrò soltanto una sfocata, bassa sagoma di un rosso fiamma le saltò addosso. Charlie traballò
visibilmente, scontrandosi contro un tizio dietro di lei che, gentilmente, la
prese per la vita evitandole una brutta caduta. Prima che la ragazza potesse
voltarsi per ringraziarlo, questo scomparve nella calca di persone.
- Carrie, quanta
anfetamina hai già ciucciato? – domandò cinica la moretta, allacciando le
braccia attorno alla vita della compagna d’università col solo fine di farle il
solletico ai fianchi. Carrie si contorse come una biscia, i capelli ricci e
rossi allo sbaraglio, per poi alzare le braccia al cielo e voltarsi verso la
fonte della musica spacca timpani. – Adoro questa canzone! – gridò.
- Sai dov’è Freddie? –
sporgendosi verso l’amica, cercando di sovrastare la tanto amata da Carrie “Hey Boy, Hey Girl” dei The Chemical
Brothers. Qualcuno, di cui fu impossibile distinguere il volto a causa delle
luci stroboscopiche, le urtò entrambe, facendosi largo con forza fra di loro. Per un attimo, Charlie temette di essere
trasportata via dalla corrente di folla che ballava, ma ritrovò miracolosamente
Carrie dopo poco. Suo malgrado, si dimenticò della
domanda e cominciò a saltare su e giù come una pazza.
L’importanza della fonte
di quella musica elettronica, dura e ritmata ad un volume infernale, era meno
di zero: ogni nota si confondeva nell’aria satura di vita che stavano
respirando, entrando nelle loro vene e piegandole alla propria volontà.
Intrecciando le dita a quelle dell’amica per trovare la sicurezza di un
appiglio in quel vortice, alzò il braccio libero al soffitto nero come il cielo
senza stelle, che in quel momento stava probabilmente ridendo di quella fame di
distruzione.
La cosa che Charlie
adorava di più dei rave party di quel genere era propri il ridursi delle luci a
centinaia di piccoli fasci. In quel momento sulla folla, che riempiva il
casermone tanto da eliminarne in apparenza i confini, pendevano strascichi di
un bianco abbacinante, che scomparivano ad intervalli irregolari. Per pochi
secondi, ogni persona si ritrovava sotto un riflettore che la poneva al centro
della pista da ballo, sotto gli occhi stancati dal buio di tutti i presenti. Un
momento di gloria, che svaniva in
fretta ma che durava abbastanza da concedere la possibilità di gridare, cantare
ed esaltarsi sotto gli occhi di tutti.
Dio,
ci si sentiva così bene. Mentre i
residui degli stupefacenti che a New York aveva preso le provocavano un ultimo,
leggero trip, mani e corpi sconosciuti si scontravano col suo difesi da quella
luce effimera e volubile, che appunto concedeva pochi attimi di vana gloria e
forniva un alibi al buio perché questo compisse la propria magia. Vivevano di
notte, vivevano della notte, ma si nutrivano anche di incontrollabili bugie che
nascondevano attraverso quell’imitazione della luce.
Ballarono per giorni, o
forse solo per un’ora, Charlie e Carrie, incontrando gli occhi di compagni di
facoltà, persone dabbene e noti frequentatori di feste,
tutte persone che puntualmente partecipavano ad incontri del genere e che
comunque non si astenevano dal divertirsi. Non potevi non partecipare alla
movida serale, se vivevi nei dintorni di New York.
- Dov’è Freddie? – quando Charlie rimembrò di aver seguito Carrie
nella pista da ballo proprio per chiederle del loro amico, nulla attorno a loro
era cambiato. Qualcuno, evidentemente improvvisatosi deejay, stava mixando un
pezzo dei Daft Punk. Ci vollero parecchie dosi di fiato e molta voce sprecata
prima che la ragazza recepisse il messaggio.
- Dobbiamo salire! –
strillò quindi in risposta, afferrando ancor più saldamente la mano di Charlie.
La moretta seppe immediatamente la portata titanica dell’impresa che si
accingevano a compiere: uscire indenni da quella confusione.
- Ciao! Ehi! – tutte
parole consumate, pensò Charlie mentre insieme a Carrie tentava di aggirare la
folla, distribuendo ceni di saluto con capo e mani ai volti, più o meno noti,
che nel buio le riconoscevano. Salutare aveva perso il proprio significato nel
numero di volte al giorno in cui una persona usava la parola “Ciao”: in quel
momento, ad esempio, nessuno aveva idea della persona con cui stesse parlando,
ma quell’ignoranza andava lo stesso bene. I fumi dell’euforia le avrebbero comunque
impedito di ricordarsi quel pensiero, perciò con un’alzata di spalle si scrollò
di dosso ogni briciola di ragionevolezza, mentre scorgeva il volto di una
compagna di facoltà fra la folla e le indirizzava un caloroso – Ciao! -.
- Dove hai detto che
dobbiamo andare? – strillò Charlie, dopo che furono passati una manciata di
lunghi minuti da quando avevano intrapreso la ricerca di quei “piani superiori”
di cui la brunetta non sapeva nulla. Per tutta risposta, Carrie la strattonò
per la maglietta, indicando oltre il mare di testa
ondeggianti gli ampi gradini di cemento di una scala incassata fra
alcuni muri pieni di crepe. La ragazza tirò un sospiro di sollievo: cominciava
ad averne abbastanza di dimenarsi come una matta in mezzo a tutte quelle
persone.
- Ehi! Charlie, ehi! Vi
fate uno shot con noi? – da quando si
erano conosciuti, qualche anno prima, Charlie aveva imparato che Dominic aveva
la straordinaria capacità di agire in modo sbagliato sempre al momento
sbagliato.
In quel momento, ad
esempio, stava richiamando l’attenzione delle ragazze con occhi maliziosi, fin
troppo sgranati, ed una bottiglia dall’etichetta illeggibile in mano. A Charlie
ci vollero pochi secondi per notare il lungo tavolo addossato alla parete,
lontano dalla pista da ballo improvvisata, quasi sepolto da quella che sembrava
una fornitura di alcolici di vario genere per un anno.
- Certo, perché no? –
prima che la brunetta potesse dire qualsiasi cosa, Carrie si lanciò in avanti.
Con un sospiro ed un ghigno, Charlie la seguì, ripromettendosi di far presto.
Mezz’ora più tardi, le
due ragazze riuscirono finalmente a giungere ai piani superiori.
Salendo le scale a gattoni.
With the lights out, it’s
less dangerous:
here
we are now, entertain us.
I feel stupid and
contagious:
here
we are now, entertain us.
(Nirvana – Smells Like Teen Spirit)
Freddie spense
l’ennesimo mozzicone di sigaretta sul fondo di un posacenere già pieno,
guardando le persone sedute attorno al tavolino ingombro. La luce soffusa della
stanza e i drappi di nylon, tipici di luoghi in ristrutturazione, che pendevano
dalle pareti conferivano all’ambiente un aspetto inquietante. Le pareti
sembravano tremare, a causa del volume alto della musica che proveniva da
sotto.
- La verità è che stiamo
ritirando le truppe, ma continuiamo a sfruttare ogni centilitro di petrolio su
cui abbiamo messo le mani, con la guerra… - il volto del ragazzo che stava
parlando non gli era familiare, per niente.Nessuna delle facce che lo circondavano lo era. Una ragazza dai lunghi
capelli biondo platino seduta al suo fianco gli passò una canna, che era stata
evidentemente appena accesa. Freddie aspirò una lunga boccata prima di passarla
al proprio vicino.
Si stava annoiando da morire.
Aveva promesso a tutti
che la festa per il suo ritorno sarebbe stata grandiosa, ed
infatti era attorniato da facce sorridenti e occhi a punte di spillo.
Dopo sei mesi in Tibet per imparare le tecniche di meditazione buddhiste, che
aveva poi concluso con una fuga last minute per la Giamaica quando si era reso
conto che la sobrietà e il nirvana non facevano per lui, aveva programmato una
festa trionfale in cui avrebbe potuto sballarsi come un tempo. Un classico rave
party nello stile della periferia newyorkese.
Si stavano davvero
divertendo tutti come pazzi.
Tranne lui.
La musica, nonostante
fosse lontano dalla fonte di essa, stava cercando di ammazzare i suoi neuroni.
Quelle conversazioni su argomenti seri e attuali, che solitamente erano il pane
quotidiano per uno come Freddie, non lo stavano esaltando per nulla. Si trattava
dei soliti aspiranti anticonformisti che ribadivano opinioni già sentite,
magari che avevano letto di sfuggita su qualche stupido blog; tentare la
scalata alla gerarchia sociale della gioventù di New York prevedeva fingere di
essere un disadattato, un ribelle.
“Bah.”
- Freddie! Oh, perché
sei tu Fredriko? – la bionda seduta al fianco del ragazzo strillò
all’improvviso. Freddie impiegò più tempo del previsto per riconoscere la
figura che era appena saltata sulle sue cosce, rischiando di rompergli un femore
e annebbiandogli la vista dal dolore.
Più tardi, si sarebbe
rimproverato per non aver intuito subito un nome così ovvio.
- Zia Mildred! – Charlie
sorrise d’istinto quando Freddie la salutò con l’antico soprannome con cui
l’aveva contraddistinta. Nonostante i mesi che li avevano visti separati,
sembrava fosse trascorso solo un giorno dall’ultima volta che aveva abbracciato
l’eterno compagno di banco dell’università. Ignorando le occhiatacce di chi la
stava maledicendo per aver distrutto l’atmosfera drammatica della
conversazione, la ragazza affondò le mani fra i lunghi dread scuri di Freddie.
- E questi? Sono una
manifestazione del Bob Marley che c’è in te? – gracchiò, con una voce che suonò
insolita anche al ragazzo che da tanto tempo non la vedeva. Questo storse il
naso quando una zaffata di alito alcolico lo investì in pieno, dandogli la
prova che lo sguardo allucinato di Charlie non era soltanto frutto di un’ordinaria follia.
Alle loro spalle, si udì
un grosso fragore di vetri infranti. Tutti si voltarono a vedere cos’era
accaduto, e prima che Freddie avesse il tempo di rispondere alla domanda
dell’amica, l’intero primo piano del palazzotto godette dello spettacolo della
minigonna pericolosamente alzata di Carrie, stesa sul pavimento al centro di un
mare di cocci di bottiglia.
- Mi sono rotta le
calze! Kimberly! Voglio telefonare a
mia nonna per chiederle di mandarmi una fetta di torta di mele! – La risata
generale che animo il via vai di gente riempì ancora di più la stanza che,
sebbene mancasse della soffocante massa che al piano di sotto ballava sfrenata,
possedeva un’atmosfera di tranquilla psichedelica. Forse era a causa del fumo
che formava nuvole dai colori indefiniti sul soffitto, forse per l’insieme di
suoni così diversi che colpiva i cervelli di ognuno, stare soltanto per qualche
minuto in quel luogo sballava.
Charlie si accorse solo
in quel momento della presenza di Kimberly in un angolo della stanza, troppo
distratta dalle mani di Calvin sul proprio fondoschiena per accorgersi
dell’esilarante richiesta d’aiuto di Carrie. Dopo aver lasciato consumarsi la
propria risata nell’aria, la ragazza afferrò la mano di Freddie, invitandolo ad
alzarsi dallo scomodo divanetto sfondato su cui erano seduti. Non si curò
nemmeno di chiedere scusa alla biondina al loro fianco, che urtò più volte
perdendo l’equilibrio.
Mentre guardava Charlie
farsi spazio fra i presenti, raggiungendo l’amica per darle una mano, Freddie
ebbe uno strano presentimento.
- Chiedile di portarti
altra grappa, non una fottuta torta!
-.
Appunto.
Charlie si lanciò a
terra, proprio dove era concentrata la maggior parte del vetro infranto. Si
levarono immediatamente urla scalmanate.
- Mi sono tagliata il
ginocchio! -.
Un quarto d’ora e
numerose grida più tardi, Freddie, Carrie e Charlie riusciurono ad allontanarsi
dal disastro che la seconda aveva provocato sgusciando fra i vecchi mobili
coperti dal nailon e grovigli di corpi. Lontano dalla conversazione politica
ancora in corso degli sconosciuti, un altro nugolo di divanetti nascondeva un parte dei loro amici.
Evie e il suo bel macho
russo sembravano attenderli già da un pezzo: la ragazza
infatti sedeva a braccia conserte fra i cuscini sfondati, dimostrando
l’assenza delle proprie qualità di attrice cercando di nascondere il proprio
fastidio con scarsi risultati. Il povero Yorek invece stava cercando di
comunicare con il poco inglese che conosceva quanto gli sarebbe piaciuto
tornare a parlarsi con il linguaggio del corpo.
- Oh! Freddie! – la
biondina scattò in piedi sorridente non appena vide l’amico. Il contrasto fra
la pelle lattea di Evie e quella olivastra del ragazzo assorbì tutta la
nostalgia che Charlie aveva approvato in assenza di Freddie. La ragazza si
lasciò cadere sul posto appena liberato da Evie, trascinando Carrie al proprio
fianco.
- Pezzente, sei
tornato!- prima che questo avesse il
tempo di sedersi, Calvin sbucò dal nulla, saltando alle spalle dell’amico.
Entrambi caddero con un tonfo su uno dei divanetti, mentre Kimberly compariva la seguito del fidanzato, esasperata.
Mentre Freddie rievocava
i ricordi dei mesi appena trascorsi, i fumi dell’alcol evaporarono fra le
chiacchiere scherzose di quel gruppetto, in contrasto con l’atmosfera cupa del
luogo. Quando Charlie sentì i propri pensieri farsi pesante, si allungò per
afferrare una bottiglia di vodka abbandonata sul tavolino impolverato.
- Vorrei sapere – chiese
Evie, riprendendosi dal torpore rilassato in cui era piombata – da dove è
sbucato fuori tutto questo alcol! – scoprendo di non avere alcuna risposta da
darle, tutti si limitarono ad annuire pensierosi.
- Hanno fatto una… emh, colletta, dalle parti del Bronx. Almeno,
così mi ha detto Adam! – affermò con un ghigno malizioso Freddie, ricevendo un
cambio un sorriso dai presenti, scatenato dalla consapevolezza che “colletta” era
una parola fin troppo innocente per descrivere il modo in cui erano stati
probabilmente ricavati i soldi.
- Colletta? Io non ho
sborsato nulla! Non lo sapevo! – ovviamente pensò Carrie a distruggere la
battuta sottintesa dal ragazzo.
- Ah, certamente! – dopo
essersi allontanata con disgusto dal divanetto quando Kimberly e Calvin, in
preda ad un’impudica passione, le si erano strusciati
contro, Charlie sfoderò un’espressione maliziosa – Tanto tu non conosci nemmeno
il tuo nome! E, spilorcia come sei, se anche avessi saputo non avrei donato un
cazzo! – in piedi davanti a tutti, svuotò la bottiglia.
- Zitta, puttana. –
Carrie scosse la testa: era abituata al cinismo improvvisato di cui Charlie
spesso faceva sfoggio.
La brunetta chiuse gli
occhi col sorriso sulle labbra, inspirando a fondo l’odore di quel posto e dei
corpi della gente che la circondava. Poi si voltò verso Freddie – Avanti,
vieni! Mi devi un ballo dall’ultima volta. – allungò una mano verso l’amico,
che scosse la testa ridendo.
- Quelli che
ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica, e tu, mia cara, sei
completamente fuori di testa. – con voce solenne, Freddie pronunciò quelle
parole prima di prosciugare le ultime gocce di liquore contenuto nella propria
fiaschetta. Ignorò l’espressione beffarda della ragazza, afferrandole la mano
per alzarsi in piedi.
- Tu e il tuo stupido Nietzsche. – commentò Charlie
con una risata immune alla forza di gravità, tenendo l’amico stretto per un
braccio. – Avanti, cazzoni! – incitò gli altri a seguirli, pur sapendo che
tutti avrebbero concesso un momento d’intimità al legame profondo che possedeva
con Freddie. I due si avviarono attraverso il turbine di persone strafatte
della stanza.
- Charlie, tesoro!
Sei un incanto di dettagli… trash! – erano
quasi arrivati alla rampa di scale quando Charlie fu bloccata da Adam, il
ragazzo di Richie. Il look stravagante composto di ciocche di capelli
multicolor e numerosi piercing fece sorridere la ragazza quasi più del commento
dell’amico al proprio abbigliamento.
- Gran festa, amico. – disse Freddie con un
sorriso, sollevato all’idea che il supplizio del ballo con Charlie era stato
rimandato. Nonostante quel genere di party non fosse proprio il suo genere.
- Oh, andremo avanti per giorni! Ed è tutto per te, dolcezza! – Adam, esaltato dall’idea che
il festeggiato (anzi, il pretesto)
del rave party fosse soddisfatto dell’organizzazione, prese a saltare sul
posto. – Fredriko adora la musica
techno, vero Freddie? – ovviamente Charlie non poté fare a meno di girare il
coltello nella piaga che sapeva essere più dolorosa per l’amico.
“Io detesto questo rumore”.
- Venite! Vi devo assolutamente presentare delle
persone adorabili! – in pochi secondi
la ragazza si ritrovò ad essere trascinata nuovamente in mezzo a quei corridoi
di persone. Fece in tempo solo a voltarsi per afferrare saldamente la mano di
Freddie e portarselo dietro, mentre Adam si perdeva in un soliloquio che
Charlie non avrebbe ascoltato.
Ovviamente, essere trascinati in giro per il piano
superiore da Adam comprese nel pacchetto Richie, che sembrava aver dimenticato
ogni disguido col fidanzato. Ogni nome che i due ragazzi associarono ai volti
delle persone presentate scomparve quasi all’istante dalla mente di Charlie;
era un continuo camminare, sorridere, fingere di udire qualche discorso banale
e poi camminare ancora, alla ricerca di gente tutta uguale e di un ulteriore vita sociale di cui lei non aveva bisogno.
Freddie la seguiva, paziente, ridendo delle smorfie della ragazza quando le
questioni si facevano noiose, o delle battutine sarcastiche con cui spronava
Adam a cambiare aria.
- E loro sono… - Freddie cominciò a dare segni
d’impazienza quando Charlie perse il conto delle facce nuove appena conosciute.
Se infatti prima il ragazzo era stato quasi sollevato
dalla comparsa di Adam, che aveva rallentato l’avanzare della tortura del
ballo, adesso si sentiva al limite della sopportazione. E la propria beffarda
amica non lo stava aiutando per niente.
La ragazza dunque non sentì i nomi che Adam le disse,
troppo occupata a tenere a bada la risata che l’espressione cianotica del moro
le stava suscitando. Lo sguardo che il ragazzo le lanciò fu più che eloquente:
sembrava gridare il ticchettio dell’orologio, mentre il tempo che le aveva
messo a disposizione si esauriva in velocità.
“Hai ancora
cinque minuti.”
Dopodiché l’avrebbe piantata in asso.
Charlie osservò i quattro soggetti che aveva di
fronte, sospirando poi rincuorata. Per lo meno, non si sarebbe persa nulla:
apparivano tutti irrimediabilmente gay.
Il primo aveva spalle ricurve, occhi socchiusi e
una smorfia apatica che strideva brutalmente con l’abbigliamento vivace, dalle
sfumature giallo uovo e magenta. Al suo fianco una massa di capelli mossi
andava a coprire un viso forse carino, ma agitatissimo:
il ragazzo in questione infatti si guardava attorno nervosamente, spostando il
peso del corpo dalle punte dei piedi ai talloni in modo ossessivo, e stringeva
le gambe come se stesse trattenendo un bisogno fisiologico urgente.
Gli altri due erano quasi un’antitesi dei compagni.
Uno continuava a lanciare occhiate maliziose a qualunque oggetto si muovesse
nella stanza, il che la diceva lunga. Quell’atteggiamento era enfatizzato dalle
furtive palpatine che esso riservava al proprio cavallo dei pantaloni.
L’ultimo quasi non s’accorse della voce di Adam,
che s’era abituata a ripetere il nome di Charlie come una macchina ad ogni
essere vivente gli capitasse sotto tiro. Lo sconosciuto fumava una sigaretta,
incurante della possibilità di bruciare con questo uno dei tanti passanti che
si spingevano l’un con l’altro per una fetta d’aria pulita. Ogni tanto, alzava
la mano libera per sistemare la fascetta colorata che aveva attorno al capo.
Mentre il tizio dalla visibile eccitazione
rispondeva con una battutaccia a chissà quale commento di Richie, Charlie prese
a guardare più attentamente quel personaggio: qualcosa, nella direzione degli
occhi di cui non era ancora riuscita a decifrare il colore, sembrava attrarla
più che mai.
Nonostante sapesse che individuare l’oggetto
dell’attenzione del ragazzo era impossibile, in quella folla, la brunetta si
ritrovò a seguire la direzione del suo sguardo. Si alzò istintivamente sulla
punta delle scarpine col tacco alto, per ergersi ancora di più.
In un angolo, dopo un’attenta ricerca, trovò Evie
incollata a Yorek contro un muro remoto: l’immagine durò un istante, prima che
qualcun altro subentrasse ad offuscarle la visuale.
La ragazza non si era curata del fatto che gli
altri avrebbero potuto giudicare strana quella sua
posizione, quei suoi movimenti: si riscosse solo quando Freddie la strattonò
leggermente, curioso e sempre più frustrato. Qualcosa, nell’istintività
dell’azione, richiamò lo sguardo dello sconosciuto.
Charlie alzò il sopracciglio, fissandolo di rimando
senza alcuna intenzione di abbassare gli occhi. Era sicura, anche senza
certezze concrete e motivazioni, che quel ragazzo, fino a qualche secondo
prima, avesse osservato Evie e il suo compagno di giochi da lontano.
E ancora non riusciva a capire di che colore
fossero quegli occhi…
Il ragazzo le sorrise.
- Ci piacerebbe molto rimanere – reagendo ad un
riflesso insensato, Charlie interruppe un discorso del gruppo a cui lei non
aveva mai avuto intenzione di partecipare, ghignando in un’imitazione
volutamente scadente di affabilità – ma Freddie si sta perdendo la maratona
notturna de “Gli Antenati” e questa mancanza potrebbe causargli traumi
psicologici molto gravi. – la sua voce risuonò seria solo in parte, nell’ironia
di quei significati. Nessuno, di primo acchito, fu in grado di risponderle.
Freddie scoppiò invece in una fragorosa risata.
- A proposito, hanno allestito dei bagni da quella
parte. Non vorrei che te la facessi sotto. – la ragazza si sporse in avanti, la
mano sulla bocca nonostante stesse urlando per farsi udire, in un gesto
confidenziale che lasciò di stucco il tipo più nervoso dei quattro. Subito
dopo, afferrò ancora più saldamente Freddie, trascinandolo lontano, nel
tumulto.
Sentiva addosso tutta l’adrenalina che solitamente
provava dopo una presa in giro di quelle proporzioni.
- Richie ti ucciderà
col rossetto – commentò Freddie sghignazzando, quando arrivarono alle
scale. Charlie annuì, mentre la musica riprendeva a fluirle nelle vene. – E
adesso, spariamoci questo cazzo di ballo! -.
****
Era ormai l’alba quando si stufarono di dimenarsi
come matti, e cercarono di trovare sia il resto della truppa, sia un’uscita da
quell’inferno. Inutile dire che l’impresa costò loro una mezz’ora intensa e
sfrenata.
Quando si ritrovarono a ripercorrere il sentiero
polveroso che portava al parcheggio improvvisato, avvertirono nelle ossa la
stanchezza soddisfatta dell’ennesima notte di baldoria ormai sperperata,
buttata in quello che era il loro mondo. Evie e Charlie si cercarono
silenziosamente, nella camminata verso la macchina, come quasi sempre accadeva.
La biondina sentì la mano dell’amica intrecciarsi alla propria, e avvertì ogni
muscolo rilassarsi.
- Qualcuno ha visto Dominic? – chiese flebile
Carrie, barcollando paurosamente. Nell’aria non si levò nemmeno una mosca.
Calvin faticò a reprimere un grosso sbadiglio. –
Guidi tu? – disse, mentre abbracciava Kimberly, la quale era sul punto di
addormentarsi in piedi. La domanda era rivolta implicitamente a Charlie.
Freddie corrugò la fronte quando nessuna risposta
si levò dall’interpellata. Non era un comportamento tipico di lei non riversare
la propria acidità da fine serata sul primo malcapitato disposto a rivolgerle
la parola. Sia il ragazzo che Evie si voltarono a guardare Charlie,
osservandola farsi viola in volto.
Senza che nessuno aggiungesse altro, tutti si
spostarono lontano dalla brunetta, che si piegò in avanti. Ogni veleno
ingurgitato quella notte si riversò in amari fiotti nella bocca della giovane,
finendo sulla terra arida e liberandole il corpo. Sapeva che non avrebbe dovuto
annodare la maglia sopra l’ombelico, in un attimo di furore nella pista da
ballo.
Eppure, nonostante l’attacco di vomito e il mal di
testa di tutti, Charlie non riuscì a non guardare il cielo tingersi di colori
improbabili, delle mille sfumature che componevano la sua vita. Usando
l’immaginazione, vide oltre il fitto degli alberi del bosco che li circondava,
New York sorriderle come una vecchia amica. Le braccia di quella notte appena
passata li lasciò liberi di prepararsi alla prossima avventura, andando ad
accatastarsi alle proprie simili fra i ricordi.
- Stai bene? – la voce di Kimberly non avrebbe
potuto essere più chiara.
C’era una luce che non se ne andava mai.
Stava benissimo.
- Guida tu! – frugando nella borsa, e notando con
sollievo che niente era stato rubato, lanciò le chiavi della propria preziosa
Jaguar a Freddie, che le afferrò con notevole prontezza per essere stato
sveglio tutta la notte a ballare insieme a lei. Charlie si dimenticava sempre
dell’infinita resistenza di Freddie.
E, mentre qualche minuto dopo, il profilo della
beneamata metropoli si delineava all’orizzonte, la ragazza socchiuse gli occhi
pigramente, osservando il sole nascere e il proprio desiderio di vita crescere
con quello, come le era accaduto per tutta la vita.
Le stelle, le sue stelle madrine, non avrebbero
potuto brillare più di così.
Alibi che
attenuano l’oscenità
riflessa intorno alle bottiglie vuote
dai suoi vent’anni opachi e rispettabili:
così si sa che c’è qualcosa che non va.
(Subsonica –
Albascura)
NOTE DELL’AUTRICE
Okay, eccomi qua con una storia tutta nuova. E’ la
prima volta che mi cimento nel campo Originali e, sinceramente, sono un po’
preoccupata: spero vivamente che questa storia vi piacciaJè la rielaborazione di una fic
che in passato avevo scritto su un gruppo musicale, ma che ho deciso di
riscrivere da zero. Si basa su una storia d’amore, però i temi che tratterò
saranno molteplici, e da qui deriva la scelta della sezione Generale al posto
di quella Romantico. Ad ogni capitolo ci saranno dei commenti in questo piccolo
spazio, che potrete anche saltare. Posso essere noiosa! Però vorrei che
leggeste almeno questa piccola introduzione fuori dalla storia.
Prima di tutto, per favore, NON COPIATE! Mi è capitato, girovagando nelle
sezioni da me frequentate, di trovare analogie piuttosto equivoche con le mie
precedenti storie. Non è piacevole vedere che altri, anche solo per un riflesso
condizionato dovuto al ricordo del subconscio, spacciano per proprio il lavoro
su cui si suda e a cui si tiene. Se proprio volete inserire qualche mi frase
nelle vostre fan fiction, chiedetemelo: sarò lusingata e felice di dirvi di sì,
a patto che mi citiate poi adeguatamente. Vi prego, mi è successo già troppe
volte: a questa storia tengo molto, e non voglio che venga copiata.
Dopodiché, chiarisco che Charlie NON è una
trasposizione di me stessa sulla carta: il fatto che noi si condivida il nome
non significa che il nostro carattere, il nostro modo di porsi sia uguale.
Certo, contiene un pezzetto di me, come tutti i miei personaggi, ma non sono
io. Non è lei a prendere il nome da me, ma io da lei, in un certo senso J non sono così egocentrica
da rendermi protagonista di una mia storia.
Il sottotitolo di Scoop è una canzone dei Subsonica molto famosa, chiamata appunto “Tutti i miei sbagli”. Ve la consiglio
caldamente, fra parentesi. La storia si basa infatti
sul suo testo, e su quello d un’altra opera di questa straordinaria band “Albascura”. Ritenevo doveroso
precisarlo.
Questo primo capitolo è stato da me definito
prologo perché ci sono ancora molte cose da spiegare sulle protagoniste: il
rave party è solo un assaggio della reale vita di Charlie ed Evie, che verrà
approfondita in particolare nel prossimo capitolo. In più, contiene le poche
frasi che precedono il titolo, che formano il vero e proprio prologo in medias res.
Veniamo alle citazioni.
“Hey ho, let’s go!” è il mitico ritornello di “Blitzkrieg Bop”
dei Ramones.
Alla fine del primo paragrafo, la frase che Evie e
Charlie si dividono è presa dal film “Pirati
dei Caraibi – Ai Confini del Mondo”, del mitico Capitan
Jack Sparrow. Lo so, non è molto aulica come citazione, ma mi è sempre piaciuto
quel film e calzava a pennello con il dramma comico costituito dalla
situazione.
“I felt like
destroying something beautiful” è invece tratta dal film “Fight Club”, e significa “Avevo voglia
di distruggere qualcosa di bello”. Buon film, ma preferisco il libro.
Allucinante.
Il barbarico yawp di Charlie è un riferimento ai
versi di Walt Whitman “I sound my barbaric yawp over the roofs of the world”, tratto dalla poesia “Canto di me
stesso”.
“Perché sei tu,
Fredriko?”, riferimento molto libero a “Romeo e Giulietta” di
William Shakespeare.
Il fatto che Freddie
chiami Charlie “zia Mildred” verrà spiegato nei
prossimi capitoli.
L’ordinaria follia di
Charlie è invece riferito al film “Un giorno di ordinaria follia”, che
consiglio caldamente a tutti.
La citazione “Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non
sentivano la musica”
è, come giustamente dice Charlie, del buon Friedrich
William Nietzsche.
Il fatto che il ragazzo
sconosciuto che attira tanto l’attenzione di Charlie indossi una fascetta
colorato in testa è un riferimento alla band MGMT, che io adoro.
Infine, “C’era una
luce che non se ne andava mai” è riferita alla canzone dei The Smiths “There
is a light that never goes out”, che apre anche la storia subito dopo le
frasi del piccolo prologo.
E con questo passo e
chiudo! Spero che la storia vi piaccia J
You’ve torn your dress, your face is a
mess,
you can’t get enough, but enough ain’t the test,
you’ve got your transmission and your live wire,
you got your cue line and a handful of ludes,
you wanna be there when they count up the dudes.
(David
Bowie – Rebel Rebel)
Si svegliò completamente soltanto quando qualcosa
di umido iniziò a strusciarsi contro la sua guancia. Nel buio dettato dai suoi
occhi chiusi, cercò di scostarsi da quello strano contatto, ma sorrise.
- Freddie, non ho voglia di una sveltina, sto
uscendo dal coma! – mugugnò.
Quando però la scia umida arrivò alla fronte,
Charlie notò che qualcosa non andava.
- Crêpe!
-
Quando aprì gli occhi, la visione del muso dell’enorme
labrador la accolse al posto del piatto “Buongiorno” che si sarebbe aspettata.
Crêpe
abbaiò, prendendola quasi in giro, prima di scendere con un balzo dal grande
letto a due piazze. Charlie sbuffò, guardandosi attorno un
attimo: la sua stanza era un disordine di idee e cianfrusaglie come al solito.
Sulla parete opposta alla testiera del letto, un enorme poster di Kate Moss in
topless, ma con un velo nuziale in testa, la fissava suadente.
“There
is only one Kate in London” recitava a caratteri cubitali. - Amen – sbuffò
Charlie. Si accorse solo allora del suono metallico e regolare che, prima del
suo cane, aveva disturbato il suo sonno già precario. I quadranti della sveglia
sul comodino alla destra del letto segnavano le 08:30. Digrignando i denti, la
ragazza strattonò le lenzuola fino a coprirsi il viso. La prima lezione della
giornata all’università sarebbe cominciata di lì a mezz’ora, e lei ne aveva
passato soltanto due a dormire.
Crêpe,
che si era accoccolato vicino alla porta, abbaiò ancora.
- Sì, sì! Mi alzo,
cazzo… Stupido sacco di pulci! – imprecò Charlie, prima di fare uno scatto inumano (almeno, per le condizioni in
cui si trovava il suo cervello) per alzarsi, sperando che lo sforzo fisico
lavasse anche solo in parte la patina di sonno che aveva addosso.
Ci vollero alcuni tentativi perché
riuscisse ad alzarsi in piedi. Il pavimento era ingombro di tanti piccoli
oggetti che, con la vista ancora gonfia di stanchezza, non fece altro che
calpestare nel percorso verso la porta. L’arredamento moderno e colorato che
lei stessa aveva scelto per la propria camera da letto incontrò spesso gli
angoli del suo corpo, suscitandole alcune bestemmie a dir poco fantasiose.
Uscì nell’ampio corridoio barcollando, con
Crêpe che trotterellava al suo seguito. Cercando di coordinare
ogni movimento senza sembrare un bradipo, si appoggiò alla porta più vicina a
quella della propria stanza. Da essa non proveniva nient’altro che la calma più
piatta.
Charlie bussò una, due,
tre volte, senza ottenere alcuna risposta. Rammentando a sé stessa il basso
livello della propria pazienza, la ragazza si diresse in bagno.
“Ho
un aspetto orribile”.
Non appena vide il proprio riflesso
nell’elaborato specchio sopra il lavandino, decise che era necessario un
intervento radicale. I capelli erano un groviglio di nodi e necessitavano di
una lavata, il viso era fin troppo simile ad un quadro di Picasso per i suoi
gusti. Non osò nemmeno immaginare in che condizioni fossero i suoi vestiti:
addosso non aveva altro che l’intimo e le calze nere della sera precedente.
Charlie si sedette sul bordo della vasca
idromassaggio, concentrandosi sul taglio al ginocchio nascosto dal bendaggio
improvvisato la scorsa notte; quasi non si ricordava come se l’era procurato.
Fece una smorfia addolorata quando vide la lacerazione della calza destra,
dalla quale aveva strappato la striscia di stoffa: un altro paio di parigine da
buttare. Incominciò a svolgere il tessuto da attorno al ginocchio, stringendo i
denti quando si accorse che questo si era appiccicato alla ferita.
Ascoltando lo sfrigolio dell’acqua
ossigenata che depurava il taglio, la ragazza dedicò qualche carezza a Crêpe,
che pazientemente aveva seguito le operazioni della padrona.
Stupido,
adorabile sacco pulcioso.
- Sei un rompipalle ciccione – disse sorridendo,
prima di soffocare uno sbadiglio. Soddisfatto per la ricompensa alla propria
fedeltà, il cane scomparve oltre la porta del bagno. Charlie sospirò, prima di
alzarsi in piedi ed entrare nella doccia.
- Evie, svegliati! – era passato più di un
anno da quando erano andate a vivere insieme, e quella scena era diventata una
tradizione che si ripeteva dopo ogni nottata brava. Lasciando una pozzanghera
d’acqua bollente sul pavimento, gridò a squarciagola nonostante l’emicrania
fastidiosa, bussando ancora una volta alla camera da letto di Evie.
Nessuna risposta.
Decidendo di far trascorrere i soliti
cinque minuti prima di andare a buttar già dal letto con violenza la
coinquilina, si recò in cucina. L’ampio open space dagli elettrodomestici
all’avanguardia era forse l’unico angolo pulito della casa, e soltanto perché
per la maggior parte del tempo rimaneva inutilizzato. Sistemando il candido
asciugamano che aveva drappeggiato attorno al proprio corpo, Charlie versò
nella prima tazza trovata il contenuto di una caraffa trovata sul ripiano in
marmo bianco, di cui non ricordava nulla.
Caffè freddo, probabilmente del giorno
precedente. Bevendo, la ragazza storse il naso.
Non aveva notato subito il bigliettino
stropicciato che giaceva sul ripiano centrale della cucina. Inzialmente,
l’aveva confuso con la visione linda di quello spazio, con i sensi alterati da
una sonnolenza che, di minuto in minuto, andava crescendo anziché calando. Le
ci vollero parecchie prese di coscienza, dettate da un’immotivata decisione,
per allungarsi ed afferrarlo.
“Mildred,
mi sono fatto dare un passaggio da un amico. Sai che non posso restare a
dormire da te con quell’assassino a piede libero. Ma mi
faccio sentire presto”.
Mentre ogni parola di quel breve messaggio
scorreva sotto i suoi occhi, la risata provocata dai vaghi ricordi della sera
precedente scaldò il suo cuore; sdraiato in un angolo, vicino alle proprie
ciotole, Crêpe alzò il
muso, guaendo la propria perplessità. Charlie si chinò sul cane, stringendo fra
le dita un sacchetto di croccantini aperto: mentre Crêpe
adorava Freddie, il ragazzo era allergico alla vicinanza di qualsiasi animale.
- Evie – aprire la porta della camera
della biondina significava ritrovarsi catapultati in una giungla; nonostante
ogni giorno Dina, la loro donna delle pulizie, cercasse di rassettare alla
meglio quel luogo, nel giro di ventiquattro ore questo tornava sporco come prima
– Evie, so che sei sveglia. -
Il groviglio di lenzuola lasciava
intravvedere la chioma disordinata della ragazza, che si ostinava a non
rispondere all’amica. Un’altra sagoma, molto più massiccia nella penombra
rispetto a Evie, giaceva profondamente addormentata e completamente nuda in
bilico sul bordo del letto.
Evidentemente Yorek, al contrario di
Freddie, aveva deciso di fermarsi a godere degli agi dell’appartamento.
- Anch’io ho dormito due ore, cogliona.
Abbiamo lezione, alzati adesso! – Charlie si avvicinò al letto, scuotendo le
lenzuola nel punto in cui presumeva si trovasse il corpo di Evie.
Un leggero “testa di cazzo” fu l’unica risposta.
Era tempo di ricorrere all’artiglieria
pesante.
- Bello, cucciolone – la brunetta tornò
indietro ad aprire la porta al passaggio di Crêpe,
che entrò scodinzolando allegro. Mentre il labrador annusava l’aria viziata
della stanza, la ragazza gli fece segno di saltare sul letto, battendo le mani
sul materasso. Se c’era una cosa che Evie odiava, erano i peli di cane sparsi
sul posto in cui dormiva. Se c’era una cosa che mandava in visibilio Crêpe
più della carne in scatola, era guadagnarsi uno spazio sui letti delle padrone.
Fu questione di pochi secondi.
- Charlie!
-
- Bravissimo, Crêpe!
– la velocità con la quale Evie si levò a sedere e cercò di togliersi di dosso Crêpe
tradì la finzione del sonno di qualche attimo prima. Charlie rise dell’amor di
pigrizia della coinquilina, mentre Yorek grugniva il proprio disappunto per le
urla isteriche di Evie, che per lui avevano rappresentato una sveglia reale.
- Troia – non appena fu riuscita a far
scendere il cane dal letto, Evie si lasciò cadere all’indietro, sui morbidi
cuscini. Le occhiaie profonde attorno alle iridi azzurre non impietosirono
Charlie, che sapeva di essere ridotta nelle stesse condizioni ma abbastanza
tenace da sopportare un’altra giornata intensa. – Ho perso economia politica
alle 08:00, e ho lezione con Montgomery alle 10:30. Tu oggi non hai
quell’intervento con lo psicologo pluripremiato dal nome impronunciabile da
Buenos Aires? - domandò la brunetta, sedendosi sul bordo del materasso. Non si
preoccupò nemmeno di parlare a voce bassa: Yorek aveva ripreso a russare tanto
forte da far tremare le pareti.
Evie chiuse gli occhi, prendendo a
massaggiarsi le tempie con le dita. Di riflesso, Charlie eseguì il medesimo
gesto: era un movimento che spesso le isolava dal resto del mondo.
- Io odio
la Columbia. -
Mezz’ora dopo, la ragazza attendeva la
biondina con una sigaretta tra le dita e l’ennesima tazza di caffè nell’altra.
I rumori di New York adesso erano sopraffatti da uno stonatissimo Yorek, il
quale stava approfittando del lussuoso bagno della camera di Evie per far
conoscere all’America intera la hit parade russa.
- Non riesco a capire come ha fatto ad
accoppiarti con un gorilla biondo –
commentò con tranquillità Charlie non appena Evie entrò in soggiorno, seduta
sull’enorme divano in pelle nera. Voltandosi per risponderle per le rime, Evie
vide l’amica sfogliare con apparente distrazione una delle riviste di gossip
che affollavano inutilizzate gli eleganti tavolini di vetro sparsi per la
stanza. Si trattenne quindi dal ribattere immediatamente, fiutando il problema.
Charlie aggrottò le sopracciglia, fermando
la corsa delle sue dita su una pagina che la biondina non poteva vedere, ma di
cui sapeva di conoscere già il contenuto.
- Si tratta della legge di sopravvivenza
della specie – soltanto dopo che la vide strappare con studiata indifferenza la
pagina incriminata, Evie si girò ad ammirare il proprio riflesso nello
specchio. Frettolosa, cercò di sistemare la scollatura del corpetto di pizzo
rosa cipria, apparentemente innocente, ma troppo stretto per il suo seno
abbondante. Il lampo di tensione scomparve insieme alla carta appallottolata
del giornale, nel posacenere più vicino.
- Cazzate. E’ maltrattamento nei confronti
delle specie a rischio d’estinzione, costringerle ad accoppiarsi con altre razze…
anche se hai cercato di ricostruire il suo habitat riducendo camera tua ad
un’imitazione delle valli dei monti Urali. – la voce di Charlie non dava segni
di turbamento. La brunetta si alzò, avvicinando la propria figura allo specchio
a quella dell’amica. Evie ridacchiò. – In fondo sei solo
deplorevolmente bionda, ma ancora non meriti l’appellativo di scimmia. –
concluse soddisfatta Charlie, aggiustandosi poi le
pieghe della gonnellina a vita alta che indossava.
- Stupida. – Evie non era una persona loquace:
ogni volta che parlava cercava sempre di andare diretta al punto della
questione, che quasi sempre era rappresentato da un’offesa nei confronti della
migliore amica.
- Basta parlare, Evan. Finirai per
consumarti le corde vocali! – sarcastica, Charlie alzò gli occhi al soffitto,
raccattando un cardigan a righe bianche e blu dal pavimento, che infilò sopra
la canotta bianca. La biondina smise di controllare il proprio aspetto,
voltandosi verso l’amica per cercare di colpirla con un debole pugno. La ragazza
si scansò facilmente, continuando a ridere mentre Evie prendeva un pennarello
indelebile dalla confusione di oggetti sopra uno dei mobili.
C’era un rituale che non se ne sarebbe mai
andato: nel soggiorno moderno, apparentemente anonimo anche se di buon gusto,
un particolare strideva nell’atmosfera tranquilla. La parete alle spalle di uno
dei grandi divani avrebbero dovuto essere dipinta di
un bianco limpido, come tutte le altre. Invece buona parte della sua superficie
era ricoperta da scritte di ogni genere: nomi, disegni più o meno artistici, ma
soprattutto frasi, che arrivavano anche a toccare i punti più alti del muro.
- Everythings
gonna be alright – lesse ad alta voce Evie, dopo averlo scritto in bella
calligrafia su uno dei pochi spiazzi ancora vuoti della parete. Si stava
avvicinando il momento di ridipingere, cosa che le due ragazze avevano
affrontato già diverse volte da quando vivevano a New York. Si sorrisero
complici, sapendo che avrebbero sentito come sempre la nostalgia di ogni
lettera testimone della loro vita.
- Yorek! Yorek, andiamo! – presumendo che
la scimmia caucasica avesse terminato di lavarsi, la biondina afferrò la
propria borsa urlando l’avvertimento, mentre Charlie s’infilava un paio di
scarpe col tacco trovate in giro e contemporaneamente cercava di ricordare dove
fossero i suoi libri. La risposta animalesca di Yorek arrivò qualche momento
dopo, insieme ad alcune grida soffocate che provenivano dal piano di sopra
- Brutta
figlia di … -
Mentre Evie scoppiava in una risata isterica,
Charlie scosse il capo, a metà fra la rassegnazione ed il divertimento.
- Buck. -
She's
rude and neurotic,
she got a fucked up car :
she's a kind of boy.
The way she talk is dirty
and digs politics and rock :
she's a kind of boy.
(The Zen Circus – Punk Lullaby)
Bartholomew Norton sarebbe stato anche
un nome rispettabile, adatto ad un settantenne in giacca e cravatta dai nobili
natali, ma tutti, vedendo, la persona a cui questo era collegato, passavano immediatamente al soprannome molto meno
formale “Buck”.
Il proprietario dell’imponente
palazzina di Greenwich Village era il prototipo del cinquantenne single,
convinto di possedere un fascino e un gusto da ventenne ma considerato da tutti
un latin lover miseramente fallito. La prominente pancia da birra era sempre
avvolta da camicie dai colori improponibili, spesso aperte sul petto villoso, e
a nascondere la calvizie incipiente c’era perennemente un capello da cowboy che nulla centrava con il clima
di New York City.
Ovviamente, la fortuna viene spesso
affidata a gente che si spreca per farla fruttare: Buck era ricco di famiglia,
e quello era il motivo per cui non aveva combinato nulla di serio nella sua
vita. Passava il tempo a tentare di rimorchiare le ragazze che abitavano
l’edificio, lasciandosi aiutare da qualche bustina di polvere particolare che
si divertiva a spacciare di tanto in tanto.
- Buongiorno signor Dawson! –
nell’arioso corridoio del settimo piano, Evie salutò allegramente la figura
dell’arzillo sessantenne. Hendric e Mary Dawson erano lì incarnazione del
cliché americano di coppia matura senza figli. Il signore distinto che
incrociarono, ex finanziere e dal retrogusto di lampade abbronzanti, amava la
compagnia di ragazze molto più giovani e di
bell’aspetto, all’insaputa della mogliettina, che trascorreva il tempo fra
biscotti al cioccolato fatti in casa e country club del New Jersey.
- Buongiorno, Evan. Charlot. –
l’occhiata lievemente maliziosa che Dawson lanciò loro ricordo a Charlie quante
volte lei e la propria coinquilina avevano fatto parte della cerchia di “amichette” dell’uomo. – Cos’è successo a
Buck? – chiese la brunetta, mentre i tre, seguiti da un immusonito Yorek, si
avviavano verso l’ascensore. Le urla proseguivano.
- Credo che l’ultima… emh, compagnia notturna di Bartholomew se ne
sia andata senza dir nulla… dopo avergli sottratto alcuni effetti personali –
solenne e pomposo come sempre. Charlie alzò gli occhi al cielo: l’unica qualità
di quell’uomo stava celata nel suo cavallo dei pantaloni – Piano terra,
signorine? – chiese Dawson, scoccando un’occhiata sospettosa all’imponente mole
dello scimmione russo. Evie annuì educata, Charlie sbuffò sommessamente della
pazienza dell’amica.
Il garage del condominio era forse
l’unico luogo che richiamasse all’indole cafona di Buck. Salutato l’avvenente
vicino, le ragazze si avviarono verso la fedelissima Jaguar parcheggiata vicino
all’uscita sulla strada principale, prontamente seguite da Yorek che non
sembrava intenzionato a spiccicare parola.
- Ma vedremo… Vedremo se non ti
scoverò, maledetta puttanella… - l’inconfondibile voce baritonale che imprecò
in un angolo remoto del garage fu accompagnata da un sonoro clangore, segno che
Charlie interpretò come un nuovo tentativo del padrone di casa di armeggiare
con gli attrezzi da officina. Era noto a tutti gli abitanti della palazzina
che, nonostante fosse evidentemente negato per la trattazione dei motori, Buck
si ostinasse a distruggere i meccanismi delle proprie auto per “attirare
pollastre”.
- Giornata storta, cowboy? – domandò
Charlie ad alta voce, aprendo lo sportello dal lato del guidatore. Evie entrò
nell’auto senza dire nulla, a braccia conserte: evitava di scambiare più di un
flebile saluto con Buck, che considerava uno zotico dalla buona stella.
Ovviamente, la brunetta la pensava allo stesso modo ma il suo istinto di
scherno la attirava verso quella barzelletta d’uomo.
Era un cielo instabile, quello dei
primi giorni di settembre a New York. Oak Street era l’emblema della caotica
metropoli, sogno per qualsiasi turista, quotidiano tormento per gli
automobilisti che la percorrevano. Fasci luminosi di luce solare illuminavano
le vetrine dei negozi e i taxi gialli caratteristici, e le vette degli edifici
patinati lasciavano trasparire solo una minuscola parte della meraviglia del
suggestivo paesaggio urbano.
Evie appoggiò la fronte al finestrino
mentre Charlie dava via al concerto di bestemmie che puntualmente avveniva
quando si rimaneva bloccati nel traffico di Manhattan.
Per percorrere la distanza da Greenwich
Village a Morningside Heights normalmente un’automobile non avrebbe impiegato
più di un quarto d’ora. Aggiungere il traffico al pacchetto però rendeva le due
ragazze perennemente in ritardo per ogni lezione.
– Fai muovere quella carretta, puttana! –
Gli amabili suoni di una
Charlie spazientita si unirono ai versi delle altre centinaia di automobilisti
perennemente incazzati di New York.
C’erano posti che non se ne sarebbero
andati mai.
L’entrata del campus della Columbia
University era forse uno dei luoghi preferiti da Charlie ed Evie. Dopo aver
posteggiato l’auto nel primo angolino disponibile, ovviamente in sosta vietata,
si avviarono verso l’imponente cancello sulla 116th Street, nel
distretto di Brodway. I viali alberati e verdi che conducevano ai centri del
campus non sembravano neanche far parte della giungla di metallo e cemento in
cui si trovavano, oasi di freschezza in una nube di polveri sottili.
La Low Memorial Library rappresentava
invece quell’insieme di cartoline che, durante i viaggi della sua infanzia,
Charlie aveva spedito a sé stessa, e che una volta erano state appese nella sua
cameretta. I posti candidi, esotici ed antichi che erano stati immortalati
sulla carta liscia erano poi stati riposti in una
cassetto lontano, nella vecchia casa, ma l’imponente struttura bianca, con
colonne di un mondo estinto e immense scalinate gremite di nugoli di studenti
multicolori, vivi. Diffondevano nell’aria un vociare allegro.
Evie intravide Richie al centro di un
gruppetto di fashion victims e hipsters, salutandolo con un gesto allegro
della mano che venne ricambiato da un’esclamazione estasiata per il modo in cui
i suoi vestiti si stringevano sul prosperoso seno. Quando Charlie gli si
avvicinò, il ragazzo la squadrò malevolo ma ridente. – Charlie, tesoro, vai a coprire quelle occhiaie
con un correttore o ti faccio deportare in Crimea. –
Era sicuramente arrabbiato per la sera
precedente.
- Ti sei persa un’affascinante
spiegazione sul crack della moneta argentina, ma tranquilla – l’enorme sala
d’ingresso rendeva giustizia alla confusione dell’eterno, nonostante le
biblioteche fossero considerate luogo di culto e di silenzio dagli universitari: mentre Evie si fermava a discutere con
le proprie compagne di corso, trascinandosi dietro Yorek, Charlie avvistò il
gruppetto più vicino all’uscita Ovest del salone – Carrie è qua dalle 8:00 e
sono sicura che non ha capito assolutamente niente! –
Kimberly, con sguardo da martire, indicò la figuretta addossata al muro, a
terra come un mendicante, di Carrie. Profondamente addormentata.
Al fianco della ragazza, senza nessun
riguardo per la situazione in cui si trovava, Calvin era spaparanzato contro il
muro e nascondeva il proprio viso con una mano. – Il mio cervello sta cercando
di uccidermi. – mormorò, passando una mano nella propria massa scomposta di
riccioli rossi.
- Siete pronti per Montgomery? –
Yukiko, una loro compagnia di corso per la quale l’aggettivo logorroica era un eufemismo,
comparve all’improvviso con voce tintinnante. Charlie si trattenne
dall’invocare la grazia di qualsiasi divinità per le proprie tempie massacrate.
– Io devo ancora leggere la prima pagina del nuovo libro di testo, credo che
sia un’ingiustizia che si debba pagare così tanto per sradicare degli alberi in
Amazzonia! Avete sentito che… -
- Non sei più vergine? – domandò con un
sorriso spossato Charlie, interrompendo l’amica. Yukiko la guardò confusa per
un secondo, mentre tutti gli altri ridacchiavano sotto i baffi. Dopo nemmeno un
secondo di silenzio, la ragazza riprese a parlare.
- Non fare caso a Charlie, stamattina
si è svegliata con qualche buco di
troppo. – tutti trasalirono nell’udire la voce di Evie, sbucata dal nulla.
Tutti, conoscendola, ebbero l’impressione che fosse sempre stata lì ad
ascoltarli. – Oh, ma allora sei viva. Pensavo che lo scimmione ti avesse divorato
in una attacco di panico. –
- Non sarai più così acida quando
riceverai il tuo regalo di compleanno! – quando Kimberly affiancò Evie nel
toccare il tasto più dolente di Charlie, questa immediatamente pensò con
disperazione all’unione di bionde che si era appena creata contro di lei. –
Oddio, è vero! Auguri! – Calvin, destato dal torpore dall’improvvisa paura
della vendetta di Charlie, scattò in piedi con la prontezza di un marine.
Carrie, mugugnando, voltò semplicemente loro le spalle. – Non m’invecchiare.
Avrò ventidue anni solo domani, e sono sicura che la mia festa a sorpresa sarà fenomenale. Ma, Ev, non sei un po’ troppo
vecchia per la discoteca? –
La
vipera colpisce ancora.
La biondina brillò dei suoi ventitre
anni con un’espressione furba – Acqua, Charlie. Non indovinerai mai di cosa si tratta! –
- Vado a fumarmi una sigaretta… -
comprendendo quanto sarebbe stato inutile insistere su quell’argomento, Charlie
si avviò verso l’esterno del campus. Yukiko la seguì, il pacchetto di sigaretta
già stretto nella mano destra. Osservare gli alti edifici di mattoni attraverso
la fiammella dell’accendino incendiava anche la sua consapevolezza di essere a
casa. La riscaldava.
Non ce nessun
altro posto come casa propria.
- La faranno al Gilmoure, la mia festa,
non è vero? – domandò a Yukiko con nonchalance, mentre attraversavano i
giardini verso la prossima lezione.
- Sì! Oh… - a dispetto della prima
impressione, si poteva fare affidamento alla parlantina della ragazza: se sia
aveva necessità di scoprire qualcosa in un breve lasso di tempo, bastava
rivolgersi a lei e il gioco era fatto. – Ma tu non avresti dovuto saperlo!
Come…? –
- Yuki, tesoro – la voce di Charlie, che avrebbe dovuto suonare comprensiva
e rassicurante, era una minacciosa parodia di Richie. – Sono due anni che
organizzano una festa a sorpresa per me al Gilmoure. Evie, che ha distrutto i
propri neuroni con la tinta platino, avrebbe potuto
non arrivarci, ma io non sono bionda!
–
L’aula circolare si stava riempiendo
lentamente: ognuno salutava le vecchie compagnie e i nuovi incontri della
scorsa serata. Charlie si guardò intorno, salutando le decine di persone che la
riconoscevano e che le trasmettevano il calore della collettività con pochi,
piccoli gesti. Erano tutti volti impressi nella sua mente, nei ricordi
polverosi ma sempre accoglienti, ma che non sarebbe mai riuscita ad associare
ad un nome.
Yukiko e Charlie presero posto
immediatamente su una delle file centrali, gettando con malagrazia le proprie
borse sulle due sedie più vicine alle proprie. Ormai da due anni quei posti
erano stati marchiati come loro, e quasi sempre le attendevano senza che
nessuno vi girasse attorno. Ora bastava semplicemente attendere che Kimberly
riuscisse a svegliare Carrie.
- Eccoti! Cercavo proprio te – di tanto
in tanto, Charlie si fermava a pensare a quanto, in fin dei conti, la sua vita
sarebbe stata vuota senza il suo seccatore personale. Ma si trattava di pochi
attimi d’ubriachezza, appartenenti a quella che Freddie chiamava “fase da intellettuale quasi intuitivo”:
quasi sempre la ragazza pensava a Dominic come ad un perfetto idiota – E vero
che ieri notte quello sfigato di Freddie è riuscito di nuovo ad infilare la
palla in buca? –
Appunto.
- Tecnicamente è stato stamattina –
ruotando il busto per fissare il bel ragazzo appena sedutosi dietro di lei,
Charlie sospirò rassegnata: in fin dei conti, l’amicizia di un fannullone come
Dominic le piaceva. Semplicemente, avrebbe fatto di tutto per non ammetterlo
mai davanti a lui – Comunque sì, lo sfigato
è riuscito dove tu hai miseramente fallito: ha avuto un’erezione che è stato in
grado di protrarre per più di tre minuti! – Yukiko scoppiò in una risata
sguaiata, così come il gruppetto degli amici di Dominic o le persone che
semplicemente origliavano.
Se c’era una cosa che era risaputa, era
che non si poteva colpire Charlie senza ricevere in cambio un calcio bene
assestato all’inguine.
- Oh, andiamo! Muori dalla voglia di
succhiarmi il cazzo, finta frigida che non sei altro! – come al solito, il
ragazzo fu un esempio di finezza per tutti. Ghignando, scavalcò con un balzo la
fila di sedie che aveva davanti, per prendere il posto al fianco della
brunetta. Charlie scosse la testa, esitando pochi istanti prima di rispondere:
e dire che, per ciò che concerneva l’aspetto fisico, Dominic non era niente
male. Alto, fisico allenato, pelle liscia color dell’ebano, uno dei classici
bellocci abituati alle strage di cuori.
Se solo non si fosse sempre dimostrato
così ingenuo.
- Scusami tanto, Dom, ma la mamma mi ha
insegnato a non mettermi in bocca gli oggetti piccoli! – l’aria seria e
preoccupata di Charlie venne tradita dalla ragazza stessa un attimo dopo aver
parlato, quando scoppiò in un risolino istintivo che diede il via all’ennesimo
scroscio di risate. Suo malgrado, anche Dominic sorrise: era una battuta che da
anni giaceva nel repertorio dell’amica, ma che in un modo o nell’altro,
riscuoteva sempre successo.
- Maledetta – sibilò senza perdere
l’allegria, ignorando lo sguardo incattivito di Charlie quando le passò un
braccio attorno alle spalle.
Una parola composta di sarcasmo, di un
fascino accennato e di cattiva condotta.
Il rettore Terence Jackson della
Columbia University era dello stesso parere di Dominic, nonostante fra le
infinite decine di studenti del suo istituto Jackson avesse segnalato quella
canaglia nella propria lista nera. Mentre osservava di sbieco Charlot Valenti,
non riusciva a trovare un aggettivo più adatto a quella
bambini viziata e troppo cresciuta: la ragazza se ne stava con le gambe
accavallate per mettere in mostra la gonna troppo corta, pur sapendo che la
professionalità del rettore toccava i massimi storici. Inoltre masticava
svogliatamente una gomma americana, a bocca aperta, ignorando completamente le
regole di buona educazione che sicuramente le erano state impartite, con uno
sguardo di sfida negli occhi.
Quello che sempre indossava quando
veniva convocata nell’ufficio di Jackson.
- Credo che tu possa immaginare il
motivo per cui ti ho fatta chiamare, Charlot – la voce pomposa irritò la
ragazza più del dovuto: l’insofferenza che provava per quell’ufficio odorava di
conoscenza e antico, proprio come
quell’uomo insopportabile. Ogni volta la squadrava con sufficienza, ed ogni
volta lei cercava di essere più irritante possibile.
- No. Non lo so. – il suo tono di voce
era ingenuo quanto quello di un assassino, ma
melodioso e mellifluo, il che sottolineava la falsità delle sue parole. Jackson
respirò a fondo, trattenendosi da alzarsi in piedi e tirarle un sonoro ceffone,
come avrebbe fatto che le proprie figlie.
- Charlot, siamo qui per discutere
delle lezioni che, in questo periodo, hai saltato piuttosto frequentemente. –
paziente, l’uomo illustrò una situazione già nota ad entrambi: qualsiasi
studente di quell’università poteva permettersi di saltare qualche corso, poiché
non c’era un obbligo vincolante. Ma Charlie non era una studentessa qualsiasi:
era costantemente monitorata.
- Aaah!
Quello! – fingendosi sorpresa, la ragazza sollevò il dito indice in aria e
sfoderò un’espressione innocente che profumava di corsi di teatro e di decine
di bugie. Jackson aggrottò le sopracciglia, cercando d’ignorare la propria
parte esasperata. – Non c’è da scherzare su queste cose, Charlot. Lo sai il
perché… -
- Lo so, il perché – ribattè,
improvvisamente secca e scontrosa: l’ironia pungente del suo viso si era
tramutata in rabbia quando aveva colto una sfumatura di rimprovero nella voce
del rettore. Questi sospirò nuovamente, più forte perché la ragazza potesse
udirlo, ma prima che potesse prendere la parola Charlie lo interruppe – E se
non provaste tutti a ricordarmelo, forse non
lo ignorerei. – senza nascondere la seccatura che quella conversazione le stava
procurando, la ragazza incrociò le braccia sotto il seno.
- Charlot, non reagire così! – la voce
di Jackson lasciava trasparire l’impazienza di concludere quella conversazione
avendo la meglio su quella viziata. Non sopportava il modo con cui lo squadrava
dall’alto in basso: quella ragazza si sentiva maledettamente superiore, senza un benemerito motivo. – Tuo padre…
-
- So benissimo cosa vuole papà, rettore Jackson – ma era inutile
cercare di parlarle seriamente senza che lei cercasse l’ultima parola. Era un
gatto che cadeva sempre in piedi. – Buona giornata – senza aggiungere
nient’altro, la ragazza raccolse la propria borsa, si alzò e se ne andò
sbattendo la grande porta di legno massiccio. Jackson si coprì la faccia con le
mani, scuotendo il capo: maledetto quel giorno, ventidue anni prima, in cui
aveva accettato di fare da padrino a
quella stronza.
Maledetta.
Una parola che, alla fine, riconduceva
sempre a lei.
I make the fire but I
miss the firefight. I hit the bull's eye every
night:
it's so easy, easy
when everybody's tryin' to please me baby.
(Guns N’Roses – It’s So Easy)
Alla Columbia University, Charlot
Valenti, più che un nome, era una garanzia.
Non era e non sarebbe mai stata la
ragazza più bella del campus: un viso carino, un po’ troppo paffuto forse, un
fisico leggermente a pera come quello di tante altre ragazze, la carnagione
troppo pallida per dare un’idea complessiva di salute nel suo aspetto, il
diastema fra gli incisivi superiori, erano queste le armi di seduzione che
aveva a disposizione. Ma il miscuglio di cipiglio ironico, volto fresco e
roseo, lingua tagliente e camminata sensuale si rivelavano quasi sempre la
puntata migliore su cui scommettere.
La sua popolarità era dovuta alla sua
capacità di farsi amare da tutti, nel bene o nel male: persino le malelingue o i più indifferenti non potevano fare a meno
di sentirsi contagiati dalla sua forte presenza, quasi Charlie fosse
perennemente su un enorme palcoscenico. La facoltà d’economia, così fredda e
razionale, non poteva essere meno adatta al suo nome.
C’era chi sosteneva con invidia che
fosse votata a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, tra party e distruttivi
e dicerie d’ogni genere, solo per ottenere un briciolo di fama in più. La
realtà era che Charlie parteggiava per il Carpe
Diem solo se questo le recava qualche vantaggio, lasciando i propri
programmi ad un caso attentamente studiato. Doveva essere lei l’unica
burattinaia di ogni situazione. Perdere il controllo, perdere tempo, e in
generale perdere erano concetti sconosciuti al suo essere.
Era arrogante, lei stessa lo sosteneva:
rabbrividiva al pensiero di scomparire fra la folla, ma ne allontanava il
pensiero perché si considerava destinata ad emergere, e sosteneva questa teoria
a testa alta. Lasciava che gli insulti ferissero una piccola parte della sua
anima, ma la sua corazza era impenetrabile.
Appariva perfetta, nei
suoi centinaia di difetti brillava sempre di luce propria. Se poi lo
fosse veramente, erano in pochi a saperlo.
La sua immagine era inoltre arricchita
da un passato che parlava solo attraverso vestiti firmati, macchine sportive ed
un attico nel cuore di Greenwich Village: chi aveva provato ad indagare, aveva
ottenuto ben poche informazioni su alcune ville nell’Italia Centrale, per poi
fermarsi lì. Nulla di certo.
Alla gente piace di più chiacchierare
di fatti infondati.
Evan McLair appariva costantemente al
fianco della coinquilina, ma più che un fedele cagnolino, sembrava agire come
una metà della stesso corpo di Charlie. Capelli biondo platino, occhi azzurri vacui di una stupidità
soltanto inscenata, curve voluttuose: a prima vista, chiunque avrebbe potuto
considerarla il prototipo della bionda americana.
Eppure, in quella riservatezza ostinata
che quasi poteva infastidire un estraneo, viveva un animo colto, intellettuale,
che si esprimeva per mezzo dei suoi voti sempre alti e a pochi, lunghi discorsi
che ribaltavano l’opinione di chi aveva la fortuna di ascoltare. Parlava poco,
Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.
Le due agivano perennemente in
simbiosi, diametralmente opposte. Evidentemente attratte l’una dall’altra,
rappresentavano i due poli dello stesso campo magnetico.
Charlie era la fiamma, Evie l’acqua
cheta: insieme davano l’impressione di essere custodi di un importante segreto, che se rivelato avrebbe
scatenato una valanga di proporzioni disastrose. Alle loro spalle, tutti
parlavano, tutti s’interessavano delle faccende che riguardavano loro, oltre
che il loro gruppetto di sbandati. Carrie Ainsworth, che ad ogni festa
abitualmente regalava qualche spogliarello dopo essersi scolata da sola alcune
bottiglie di Tequila; quel poco di buono di Calvin Jones, inglese che, con la
scusa di studiare in un’università prestigiosa, spillava soldi alla benestante
famiglia solo per ingenti quantità di fumo, sempre accompagnato dalla sua
ragazza, Kimberly De Vivo, un visetto d’angelo che si trasformava in pantera
non appena qualcuno riusciva a venderle alcol; Fredriko Winston, un
sempliciotto del Bronx che si spacciava per filosofo, marinando puntualmente
l’università per imbarcarsi in viaggi psichedelici; Dominic Fletcher, l’ennesimo
figlio di papà che giocava a fare il disadattato.
E poi altri criminali, altre persone
poco raccomandabili di cui si attorniavano nell’ombra, come il gestore del loro
lussuoso appartamento, o una combriccola di spacciatori di Harlem a cui ogni
tanto davano una mano. Erano schive, riservate, e tutti i loro affari erano
gestiti con studiata melodrammaticità.
Agli
occhi del mondo, avevano tutto.
- Noi come umani cerchiamo
disperatamente d’identificarci negli altri, anche se, essendo ipocriti,
affermiamo di volerci distinguere. La verità è che ci sentiamo terribilmente
tranquillizzati quando scopriamo quanto in comune abbiamo con gli altri: cadere
nella banalità viene lodato attraverso perifrasi sui giornali e tv. E, visto
che ultimamente va di moda essere ribelli ed alternativi, siamo diventati tutti
il prototipo del disadattato chic che detesta le regole. La rivoluzione sta diventando la maggiore
causa dell’omologazione. –
Evie abbassò il foglio, in aspettativa.
I raggi di sole che entravano dall’enorme porta a vetri che occupava una parete
del soggiorno creano ghirigori di oscurità sulla sua pelle lattea. La
televisione era sintonizzata su un programma che trasmetteva i movimenti della
borsa di Wall Street, ma l’audio era al minimo. Il
rumore che più opprimeva l’aria era il suono dei pedali della cyclette che
lavoravano freneticamente.
- E’ buono – commentò Charlie,
staccando le mani dalle maniglie dell’attrezzo solo per asciugarsi il sudore
dalla fronte con una salvezza – Ma non ti sembra più adatto ad un blog su
Tumblr che ad una tesi di psicologia sulla massa? – un ghigno speculare si
dipinse sul volto di entrambe.
- Ero ispirata – rispose semplicemente
Evie, facendo spallucce. Crêpe sembrò
guaire il proprio assenso, sdraiato placidamente contro il mobile della
televisione. – Tra poco esco – aggiunse, nonostante sapesse che quella era
un’informazione inutile. La reciproca conoscenza dei propri ritmi aveva già
fatto intuire a Charlie che un’uscita pseudo-romantica era nel programma
pomeridiano dei ritmi. E poi, la biondina aveva indossato la tipica canotta
scollata e trasparente da appuntamento.
- Stai andando
a banane? – inutile, si disse Evie,
la coinquilina non si sarebbe mai riuscita a trattenere dallo sparare
battutacce che, pur sapendo la portata della loro idiozia, Charlie trovava
estremamente divertenti. Le gote della ragazza si arrossarono un poco, mentre
la brunetta rideva del suo silenzio. – Devo solo dargli qualche dritta con
l’inglese americano! – sbottò, senza riuscire a bloccare il sorrisetto
divertito che spuntò sulle sue labbra.
- Sì, propria
qualche dritta di lingua! – la risata
di Charlie si fece ancora più sguaiata. – Stai diventando come Dominic! –
commentò fintamente stizzita Evie, cercando di non farsi vedere dall’amica
mentre cercava un pacchetto di preservativi fra i cassetti. Era conscia che la
propria constatazione non aveva scalfito minimamente la corazza dura di
Charlie.
Per un lungo
momento nessuna delle due parlò: la loro convivenza, come anche la loro
amicizia, era costituita per lo più da silenzi, da parole non dette che
fluttuavano sospese fra loro e che a volte faticavano a comprendere. Era un
legame intenso, nato quando avevano rispettivamente quindici e sedici anni, un instabile
giorno di settembre come quello. Londra non era mai sembrata cos
grigia all’indisponente adolescente che era Charlie, eppure…
- Ti prego,
ricordati di usare discrezione per la
festa al Gilmoure! Lo sai perché… - Evie sussultò allo sbottare improvviso
della coinquilina: la scarpa che stava per infilare al piede le cadde di mano.
Quel discorso, così inusuale per l’energia scatenata di Charlie, spuntava
soltanto in prossimità di ogni 4 settembre. Quel discorso poi veniva
puntualmente dimenticato da una distratta Evie, che veniva contagiata
dall’entusiasmo effervescente di Kimberly o Carrie.
- Non ho idea
di cosa tu stia parlando! – all’interno della biondina si potevano nascondere
molte persone, ma di certo non una bugiarda. Ogni suo muscolo facciale si tese
mentre parlava e, nonostante cercasse in tutti i modi di tenere lo sguardo
fisso e intenso in quello di Charlie, i suoi occhi azzurri sfuggirono a quel
contatto per pochi secondi, ma sufficienti. La
brunetta si lasciò scappare un sorrisetto, prima di incominciare a pedalare più
forte.
- Sì, Evie –
per parlare, la ragazza usò il tono condiscendente che solitamente si utilizza
per i malati mentali. – Oh, avanti, ogni anno insisti per rovinarti la sorpresa
– sbottò risentita Evie, afferrando la propria borsa con forza per mostrare
ancora di più l’irritazione che l’essere scoperta le aveva creato. Charlie
scosse la testa, senza commentare, portando la propria attenzione sull’aumento
del prezzo del petrolio a barile.
- Evan Anita McLair,
smettila di sparare cazzate e prendimi una bottiglietta d’acqua prima di
scappare dal tuo fusto primitivo! – strillando senza il benché minimo motivo,
Charlie cercò di mitigare la lieve tensione creatasi, non abbastanza forte da
incrinare il legame che giaceva sotto quei battibecchi quotidiani. Trattenendo
a stento il sorriso davanti ad un comportamento talmente anomalo, Evie si
diresse verso il piano della cucina, afferrando una bottiglietta che quella
mattina Charlie aveva lasciato lì. Poi, con grazia da ballerina, scagliò
l’oggetto contro l’amica, che ridendo non fece in tempo a schivare il dardo.
- E poi sarei
io quella irascibile! – massaggiando il punto della nuca in cui era stata
colpita, la brunetta osservò la coinquilina chiudere la porta d’ingresso dietro
di sé con violenza, in una pessima finzione di rabbia che non sarebbe
sopravvissuta alla serata.
Tipico di Charlie, tipico di Evie.
Una voce poi
giunse da dietro il legno, attutita dalle pareti – E ricordati di portare Crêpe
a fare una passeggiata! –
- Evie, puttana – non si poteva non voler bene a
Crêpe: era tutto ciò che si poteva volere da
un cane da compagnia, giocherellone e tenero. Ma quando si trattava di portarlo
a spasso, occuparsi dei suoi bisogni e tutto il resto, fra le due coinquiline
puntualmente scoppiava una faida. Ed ogni volta la pigrizia imposta di Evie
aveva la meglio sulla maniacale pignoleria che assaliva Charlie nei momenti più
impensati – Non posso oggi pomeriggio, lo sai! Devo… - il suo grido si perse in
una risposta lontana, che proveniva da un punto remoto del corridoio e che
conteneva il nome di Dina, la donna che ogni mattina rassettava il loro
appartamento e si occupava diCrêpe.
Dopo pochi
secondi di silenzio, la ragazza smontò dalla cyclette. Uno dei particolari
della casa di cui andava più fiera era lo splendido balconcino che concedeva
loro una bella vista del paesaggio urbano: asciugandosi il sudore dalla fonte
con una mano, aprì la porta a vetri e si affacciò, guardando sotto. Trascorso
un minuto o poco più, la testa platino di Evie sbucò
all’ingresso della palazzina. Charlie sapeva che l’amica era cosciente di
essere osservata: tre minuti ancora, ed un’auto bianca, apparentemente anonima,
accostò al marciapiede. La biondina vi sparì dentro.
Rassegnata,
Charlie tornò a pedalare, combattendo contro la stanchezza e cercando
contemporaneamente di seguire le notizie al telegiornale. Doveva farsi passare
gli appunti della lezione che si era perduta, ma l’ennesima discussione con il
rettore Jackson la faceva desistere da quel proposito.
“Contrariamente a ciò che la gente può
pensare, le giornate a New York sono una noia mortale. La notte è un altro
discorso, ma i pomeriggi… la scelta è fra un tentativo di jogging all’aperto,
spingendo al suicidio i propri polmoni per le polveri sottili, o le mura
domestiche. Sono tutti troppo stressati per cercare d’imitare un pomeriggio di
shopping da telefilm per adolescenti.”
Il cellulare
prese a squillare in quel momento.
- Zitto Crêpe!
– se aveva creduto che il cane fosse precipitato in uno stato di coma
apparente, si era sbagliata: il labrador incominciò ad abbaiare non appena
l’introduzione di chitarra di “SweetChild O’Mine” si diffuse nella stanza. Charlie sbraitò un
altro paio d’istanti contro il cane prima di rispondere. Non aveva dubbi su chi
avrebbe trovato all’altro capo del telefono.
- Tanto per
sapere, che ore sono dalle tue parti? – cinguettò subito la ragazza, senza
nemmeno un saluto: una risata rauca e stanca le fece intuire che la persona con
cui stava parlando ancora risentiva del jet lag.
Davvero c’erano persone che non sarebbero cambiate mai, neanche di una virgola.
- Vuoi sapere
l’oradi Roma o
di Singapore? – chiese prontamente l’altra voce, mescolandosi a rumori di voci
e passi che non appartenevano alla realtà newyorkese. Gettando un’occhiata al
grande orologio appeso di fianco alla porta d’ingresso, Charlie eseguì qualche
rapido calcolo.
- Cosa ci fai a
Singapore sveglio all’una di notte? – Federico e
Charlot Valenti erano una strana coppia di fratellastri: nonostante avessero
rispettivamente ventisette e ventidue anni, quando si ritrovavano a trascorrere
del tempo insieme regredivano ad uno stato infantile. Le loro conversazioni
erano composte da un punzecchiarsi a vicenda quasi fastidioso per un terzo, e
da centinaia di domande, le risposte delle quali potevano essere scorte
soltanto fra le righe. Avevano entrambi fisicamente preso dal lato paterno:
entrambi avevano capelli folti, bruni, occhi scuri e lineamenti mediterranei.
- Abbiamo
appena firmato un accordo commerciale con quella società russa piena di filiali
in Asia… Te ne avevo parlato. Cosa c’è, te ne sei già dimenticata? – la
rimproverò beffardo. Charlie non poté fare a meno di notare l’utilizzo della
prima persona plurale, nonostante solitamente Federico si occupasse delle
trattative estere da solo. Ma la
ragazza non aveva fretta di chiedere spiegazioni.
- Era una
domanda trabocchetto. – ribattè prontamente, sorridendo come una monella: le
sembrava di essere tornate ad uno di quegli assolati pomeriggio estivi, quando
giocavano e scorrazzavano per il vasto giardino della villetta nei pressi di
Siena. – Oggi ha chiamato lo zio Terry. – alle parole di Federico, Charlie si
irrigidì: ecco le note dolenti.
Prima che la
ragazza potesse ribattere, Federico proseguì: la sua voce si fece più profonda,
più seria. – Lo sai che se fosse per me sarebbe diverso… Hai scelto tu di
seguire questa strada, e quindi devi accettarne le conseguenze… Lo sai perché.
– Charlie rimase in silenzio per qualche istante.
- Papà è lì con
te? – domandò infine con un sospiro, smettendo lentamente di pedalare.
Asciugandosi poi il sudore, smontò dalla cyclette e si avviò, col tipico passo
comodo di chi discute al telefono, verso l’angolo cottura: sapeva di aver
appena posto una domanda inutile, ma
strettamente necessaria.
Dopo un respiro
profondo, senza aggiungere una parola Federico passò il cellulare all’uomo dal
cipiglio che già da un paio di minuti seguiva la conversazione. Appariva molto
più vecchio di ciò che in realtà era: rughe profonde solcavano la ruvida
fronte, e i capelli ingrigiti e radi in perfetta armonia con l’impeccabile
completo grigio.
- Tesoro. – la
voce di Antonio Valenti era calda e confortante, e ogni volta che le capitava
di sentirla anche solo attraverso il metallo Charlie provava un intenso
desiderio di ritornare ragazzina, di ritornare all’odio adolescenziale per un
padre spesso assente ma comunque severo. Ora che era cresciuta e diventata
unico modello di riferimento per sé stessa, la sensazione di solitudine in
quella zona del proprio cervello veniva ripagata con contatti e parole poco
frequenti con Antonio.
- Ciao papà –
rispose, sollevata ma anche rassegnata, con un tono che attendeva una ramanzina
coi fiocchi. Bambina.
- Come stai,
piccola? Va tutto bene a New York? – Antonia sapeva essere un buon padre e un
ottimo aguzzino. Rimandare il momento del rimprovero riempiendo i minuti di tante
piccole domande di circostanza (almeno, così Charlie le vedeva) era una sua
specialità. – Bene. La trattativa si è conclusa per il meglio? – rispose mesta
la ragazza, appoggiando la schiena al frigorifero.
- Così sembra,
ma questi russi sembrano restii ad esporsi più di tanto… Stamattina mi ha
telefonato Terence. Mi ha parlato di te. –
Appunto.
- E ti ha detto
che il corso di statistica economica, così come quello di storia economica ed
economia aziendale sono stati trascurati?
– il sarcasmo esplose rapidamente, come una bomba a mano difettosa. Charlie
sentì il padre sospirare, quasi rassegnato all’irascibilità della figlia. –
Avete chiacchierato di come la condotta mia e dei miei amici sia vergognosa, e…
-
- Charlot –
tuonò Antonio, perdendo la pazienza: nonostante avesse accettato da un pezzo
l’inevitabile indipendenza di una Charlie adulta, non
tollerava che lei gli si rivolgesse con quei toni. Era lui a pagarle affitto,
scuola e droghe, dopotutto. – Nell’ultimo periodo sono state tante le lamentele
di questo tipo. Desidero che questo periodo
cessi all’istante: sono stato chiaro? –
Fu come
trovarselo faccia a faccia, come sentire quegli occhi scuri e profondi
scrutarla e riflettersi in uno sguardo che da lui aveva ereditato: ostinata, la
ragazza fu molto tentata di chiudere lì la conversazione e spegnere il
cellulare, oppure infilare qualche altra parolaccia rivolta al padrino e ad
Antonio. Dopo qualche secondo passato in silenzio, Charlie si limitò a sibilare
– Sì –
Antonio respirò
a fondo, allentandosi il nodo della cravatta – Sei proprio come tua madre, non
vi si può mai appuntare nulla – il riferimento alla genitrice fece irrigidire
Charlie, e allo stesso tempo le suscitò un sorriso con cui schernì sé stessa. –
Me lo dici sempre, papà – tipico commento annoiato di
una figlia in fondo devota.
- Quand’è stata
l’ultima volta che sei andata a trovarla? – quella domanda, diretta e schietta
nella sua tonalità affettuosa, lasciava trasparire una conoscenza della figlia
che non molti potevano vantare. Era proprio questo dettaglio a mettere sempre
in difficoltà la brunetta.
Charlie aprì il
frigorifero, emettendo un suono gutturale per temporeggiare: non era mai
particolarmente in vena di andare a trovare sua madre. E davanti a lei si
stagliava un frigo enorme e quasi vuoto, contenente un paio di vasetti di
yogurt magro, frutta e verdura di stagione e latte di soia: Dina ormai sapeva
che era inutile comprare cibo destinato alla pattumiera.
Arrivò la spia
elettronica del cellulare a salvarla: prima che potesse trovare una buona scusa
con cui cambiare argomento, questo l’avvertì che c’era un’altra chiamata in
attesa.
Freddie.
- Papà, devo
andare. Devo finire di studiare gli appunti di statistica. Ci sentiamo, un bacio! – squillante, non diede tempo al vecchio
genitore di ribattere: con un click portò la conversazione telefonica sul
contatto dell’amico.
- Allora, la
faranno al Gilmoure la tua festa di compleanno? –
- Ovviamente –
dall’altro capo si udivano rumori di trasloco, o comunque di mobili che
venivano spostati: Charlie non pensò neanche di chiedere cosa stesse
succedendo, sicuramente si trattava di qualche strambo progetto di Freddie che
riguardava la sua ispirazione in quanto poeta maledetto di terza classe.
- Non ti
lamentare. Al Gilmoure non siamo mai andati in bianco, Mildred. – Charlie
sbuffò, ridendo poi per evitare di ammettere che comunque Freddie aveva
ragione: il Gilmoure era la loro seconda casa. – Devi smettere di leggere
thriller di seconda categoria, Freddie! – disse poi la ragazza, riferendosi al
buffo ed obsoleto soprannome che le aveva affibbiato. Derivava dall’abitudine
del ragazzo di abbuffarsi di libretti da mercatino ogni volta che una delle sue
storielle d’amore passeggere naufragava: quando, due
anni prima, la loro relazione si era rivelata un fallimento, Charlot aveva
commesso l’errore di farsi vedere in giro con un largo maglione di lana che
aveva ricordato a Freddie la zia del protagonista di un romanzo di Sharon Bolton.
- Zitta.
Stasera comunque ci si trova a casa di Dominic… qualcosa di tranquillo, un paio
di persone e un po’ di Jack Daniels. –
Ciò voleva dire
che era in arrivo un nuovo rave party.
- Non sono
libera prima delle dieci: lo sai il perché… E comunque, non ce la faccio
davvero. Sono ancora distrutta per la festa di ieri… - affermò poco convinta la
ragazza, prima di allungare la mano ed afferrare un barattolo di yogurt mezzo
vuoto. – Eddai, soltanto un calumet della pace! Cosa
ti costa? – in quel momento, Charlie avvertì che al telefono Freddie stava
sorridendo.
C’erano persone che non se ne sarebbero andate mai.
- Okay. Ci
sarò. –
Rebel Rebel, you’ve torn
your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they
know?
Hot tramp, I love you so!
(David
Bowie – RebelRebel)
NOTE
DELL’AUTRICE
Okay, sono
vergognosa: sono in ritardo sulla tabella di marcia per quanto riguarda gli
aggiornamenti. Ma quest’ultimo mese di scuola è stato allucinante, ho
attraversato una crisi seria con la mia ispirazione ed ora sono distrutta.
Anche per questo credo che questo capitolo non sia granché, e che sia noioso e
banale, perciò mi scuso.
Allora, è una
sorta d’introduzione alla vita delle ragazze e, soprattutto, agli altri
personaggi di Scoop: non si parla più della loro routine/casino quotidiano, ma
restano delle incognite sulle famiglie e sulla vita precedente. E’ stato un
capitolo abbastanza tranquillo, l’azione incomincerà con i prossimi.
Adesso le
citazioni.
Il poster di
Kate Moss esiste davvero, fa riferimento al matrimonio reale recentemente
avvenuto, ma la sua presenza in questa storia è puramente casuale.
Everythingsgonna be
alright, canzone del
mitico Bob Marley. L’idea della parete piena di scritte è
ispirata ad Alda Merini, la poetessa nostrana, che nel suo vecchio appartamento
aveva fatto una cosa simile. Almeno, per quel che mi ricordo.
La citazione
sul crack della moneta argentina è liberamente tratta dalla fanfiction della
mia collega IoMe, “There She Goes”.
Andate a leggervela!
Non c’è nessun
altro posto come casa propria, there is no place like home, da “Il mago di Oz”.
“Parlava poco,
Evie, ma quando apriva bocca valeva la pena stare in ascolto.”, riferimento
indiretto a “Lasolitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano e al suo
protagonista Mattia.
“SweetChild O’Mine” è una canzone dei Guns
N’Roses.
“Domanda inutile, ma strettamente necessaria”,
riferimento indiretto a “LaCantatrice Calva” di Ionesco.
La zia Mildred di cui si parla è quella
di Matt ne “Il
risveglio” di Sharon Bolton.
Vi lascio con alcune
fotografie prese da Lookbook, di due ragazze che si
avvicinano in modo speciale all’idea che ho di Evie e Charlie:
Capitolo 3 *** Scoop [Part 1 - I Bet You Look Good on the Dancefloor] ***
Scoop
Scoop
TuttiiMieiSbagli
Capitolo 2 – Scoop [Part 1 – I Bet You Look Good on the Dancefloor]
You look at me,
it’s like you hit me with
lightning.
(Ellie
Goulding – Starry Eyed)
Il Gilmoure era il più grande locale
della 5th Avenue, nota soprattutto per boutique e sedi industriali.
Occupava gli ultimi due piani di uno dei grattacieli più alti, compreso il
tetto di questo, che veniva utilizzato come terrazza nelle sere meno fredde
della metropoli. Gli abitanti dell’Upper East Side si erano ormai abituati al
fracasso che incominciava alle 22:00 e non terminava prima delle 07:00,
nonostante le norme che regolavano la confusione delle discoteche nei distretti
cittadini.
Il Gilmoure era l’omaccione benevolente
che aveva accettato le loro anime come orfanelle smarrite sin dalla loro prima
notte a New York City.
Due anni prima, Charlie aveva fatto la
conoscenza di Freddie proprio nel caldo abbraccio delle mura del Gilmoure, il quale aveva anche assistito alle disastrosi evoluzioni
della breve storia fra i due ragazzi. Sempre al Gilmoure, Evie aveva comprato
due once di fumo da una sottospecie di rapper mancato, che poi avevano scoperto
chiamarsi Calvin Jones.
- Avevo detto discrezione. – il commento acido di Charlie si perse nel suono
martellante di un brano elettro-punk, pompato al massimo dalle innumerevoli
casse del locale. Kimberly, al suo fianco, soffoco un risolino, varcando con
lei la soglia illuminata da neon colorati, mentre alle loro spalle l’ascensore
foderato di specchi si chiudeva.
- Buon compleanno, Charlie. –
La stanza era già sommersa di gente. Il
lungo bancone, adorno di luci violette, era forse l’unica fonte d’illuminazione
concreta, mentre sulla pista da ballo le palle stroboscopiche non presentavano
che ombre e sorrisi della folla danzante. Charlie era certa che al piano
superiore regnasse il medesimo caos.
Un’insegna in lontananza recava scritto
il suo nome a caratteri cubitali.
- Voi, siete tutti matti! – esclamò,
mentre tre figure dai contorni indefiniti le balzavano addosso: nonostante la
bassa statura, per cui spesso in molti la scambiavano per una ragazzina, Carrie
era una vera furia quando si scolava qualche gin di troppo. Immediatamente,
stretta nell’abbraccio dell’amica, Calvin e un ragazzotto che lei non aveva mai
visto, perse l’equilibrio con una risata. I quattro rovinarono sul pavimento,
sotto gli sguardi divertiti dei presenti.
- Buon onomastico! – strillò Carrie, stritolandola in un abbraccio
caloroso mentre erano entrambe stese a terra, ignorando gli orli dei loro
vestiti esageratamente corti che scoprivano più del lecito. Fra le proteste
della festeggiata, che davanti a quelle manifestazioni d’affetto pubbliche
solitamente reagiva con un disperato bisogno d’insulina, la rossa le schiocco
un rumoroso bacio sulla guancia, mentre il dj cambiava rapidamente canzone in
qualcosa dalle cadenze molto più punk rock.
- Signori
e signore, abbia l’onore questa sera di ospitare la festa di compleanno della
nostra più vecchia cliente, Charlot
Vetriolo Valenti! –
Una volta toltasi il peso alcolico di
Carrie di dosso, Charlie si rimise in piedi massaggiandosi pesantemente le
tempie con le dita, e scuotendo di tanto in tanto il capo con fare esasperato –
Quale di voi idioti ha avuto la malsana idea di ingaggiare Dominic come dj? – disse, coprendo il volto appena con la chioma
sciolta di capelli mossi, giusto per nascondere il sorriso. Ma una poderosa
pacca sulla schiena, che una figura sconosciuta la assesto, la costrinse ad
alzare il volto e a cancellare la smorfia dalla bocca, aprendola per respirare.
- Te l’avevo detto, che la tua sorpresa sarebbe stata stupefacente! – la voce di Evie, apparsa
dal nulla al suo fianco insieme a Yorek, il quale aveva tentato di ucciderla,
non aveva nulla di malizioso o ambiguo. Comprendeva la soddisfazione pura di
una persona molto arguta, gli stratagemmi della quale
funzionano sempre alla perfezione. La brunetta si portò le mani al volto,
spalancando la bocca in una sgradevole finzione di stupore, fra le risate
generali di una muta battuta che Evie fu contenta di non aver capito.
Lo scorrere inesorabile del Tempo è
stato cantato, nel corso della storia, dai poeti più illustri, e dibattuto dai
filosofi più acuti, ma nessuno probabilmente carpirà mai la vera essenza di
un’entità capricciosa: mentre ogni minuto di quella notte sembrava scivolare
fra le dita, Charlie non riusciva a spiegarsi come, man mano che le ore
volavano, si sentisse sempre più giovane e libera. Arrivò però il momento in
cui, davanti ad un altro bicchierino di Sambuca vuoto, la ragazza non si chiese
più nulla.
E proprio mentre il tempo sembrava
essersi fatto troppo veloce per vivere a pieno ogni secondo, tutto rallentò. Si
fermò il mondo, perché lei potesse scorgerlo fra la folla.
- Butta giù questo. E’ una ricetta
speciale del barista, offre la casa. – Dominic sorrise, allungando il braccio
dalla postazione da deejay per porgere a Charlie un lungo bicchiere colmo di
uno strano liquido rosastro. Senza farsi pregare, la ragazza inghiottì,
beandosi della sensazione di bruciore a gola e stomaco che giunse poco dopo:
davanti a lei, in piedi per miracolo su una delle grandi casse per la musica,
si stagliava lo spettacolo di oltre cento persone che si dimenavano e si
contorcevano. Se fosse stata appena più sobria, avrebbe riconosciuto “DoeDeer” dei Crystal Castles
come la canzone che stava facendo tremare il locale in quel momento, ma la
concentrazione si riversava quasi interamente sull’equilibrio necessario per
ballare sopra una piattaforma instabile come quella. Al suo fianco, impegnate
in un sensuale ancheggiamento, Yuki e Kim le sorrisero. – Ti stai divertendo? –
strillò quest’ultima. Il sorriso della mora fu più che eloquente.
Non seppe esattamente come fece a
scorgerlo. Si parla di fortuna, di sorte, e subito viene da sorridere davanti al
pensiero che qualcuno stia giocando a dadi con le nostre azioni, ma nei momenti
più impensati è questione di secondi, di un piccolo
gesto dettato dal caso, che cambia le carte in tavola. Quella notte si trattò
proprio di quello.
Charlie scosse i capelli a ritmo di
musica, poi si fermò. Allungò lo sguardo verso i divanetti, dai quali proveniva
il trambusto causato da un rissa fra Carrie,
palesemente ubriaca, ed una biondina dall’aspetto frivolo. Le luci ad
intermittenza giocavano a favore dello spettacolino, rendendolo quasi macabro,
surreale. Le bastò spostare lo sguardo di qualche centimetro.
Freddie era di profilo, ma era
impossibile che la ragazza non lo riconoscesse: la folta chioma di capelli
rasta, raccolti in una fascia colorata e in una serie di elastici, era
inconfondibile. Con in mano il solito bicchiere colmo
di birra scura, chiacchierava amabilmente con un drappello di ragazzi,
sicuramente pendenti dalle sue labbra dopo qualche frase filosofica buttata a
casaccio. C’era solo un ragazzo che, nonostante fosse in mezzo al gruppetto,
non appariva interessato alla conversazione. La ragazza si fermò, strizzando
gli occhi per avere una migliore visibilità in quel falso buio, senza sapere
bene cosa la spingesse a tanta curiosità. La fascetta che circondava il capo
del ragazzo era la stessa che gli aveva visto addosso la
volta precedente, ma i capelli sembravano tagliati di fresco; qualcosa di
diverso nell’aspetto dello sconosciuto c’era. Da quella distanza, Charlie non
riusciva a scorgere molto di lui, solo un bicchiere di liquido fosforescente
nei fasci luminosi del Gilmoure; ma, nell’istante in cui posò lo sguardo sul
ragazzo, fu consapevole che la stava guardando.
Sorrise. Un sorriso reale, istintivo
comparve sulle labbra sottili, dipinte di un bel rosso scuro: smise
immediatamente di ballare, come incantata dal processo di fortuna che si stava
compiendo in lei attraverso quello sconosciuto. Uno qualunque, eppure la
attirava come una calamita: nella sua testa, aiutata dall’oscurità complice
come sempre, si formò l’immagine del sorriso con cui, ne era sicura, il ragazzo
la stava ricambiando. Passarono i secondi, mentre il deejay rapidamente
cambiava canzone. – Ehi! – si riscosse soltanto quando Yuki la afferrò per una
spalla. Charlie si volse di scatto, con un sussultò
spaventato, a guardare l’amica – Devi vomitare? – le chiese quella preoccupata,
ma con la vista annebbiata da tutti i drink che aveva ingurgitato. Lanciando
un’ultima occhiata in direzione del punto in cui era apparso il ragazzo, ora
sfocato, Charlie scosse la testa e si lanciò sul pubblico del Gilmoure, pronta
per gettare la propria anima sopra un fiume di mani.
S’incontrarono qualche ora, o forse
cent’anni dopo, quasi richiamati da un istinto animale, primordiale di caccia
alla preda della nottata.
Infilarsi nei bagni del Gilmoure era
sempre un’impresa: il primo gesto dopo essere entrati nel locale solitamente
era quello di attaccarsi alla bottiglia, perciò salire le scale per il secondo
piano e poi trovare il buio e nascosto corridoio non era certo facile,
traballando e colpendo gente in continuazione. Dopo essersi chiusa in uno dei
cubicoli per un quarto d’ora, scaricando la vescica e attendendo che la nausea
da alcol si attenuasse, Charlie uscì barcollando sui tacchi a spillo. La coppia
che poco prima aveva urtato era ancora appartata contro la parete rivestita di
soffice tappezzeria rossa, ma per il resto il corridoio era deserto. La ragazza
afferrò l’orlo del proprio vestito, anche questo rosso, nascondendo per quanto
possibile le cosce coperte soltanto da un paio di sottili parigine nere, ma
chinandosi perse l’equilibrio: appoggiò la schiena al muro per non finire a
gambe all’aria, per poi lasciarsi scivolare a terra. Chiuse gli occhi, godendo
dell’aria viziata e del clima di nichilismo
che vi aleggiava. Qualcuno, in un punto remoto della sala, gridò.
Un’ombra comparve dall’altra estremità
del corridoio, inciampando nel gradino d’entrata che da sempre tradiva gli
ignari avventori. Una bestemmia uscì dalla bocca ancora protetta da un velo di
oscurità: Charlie aprì gli occhi, posandoli sull’alto ragazzo che avanzava con
passi misurati verso i bagni, una mano appoggiata alla parete probabilmente per
mantenersi in piedi. Quando il viso dello sconosciuto incontrò il fascio di
luce di una delle lampadine del corridoio, la ragazza poté osservarlo bene.
Era proprio la stessa persona del rave
party organizzato per il ritorno di Freddie, il ragazzo che lei aveva beccato a
fissare Evie e Yorek; senza la stramba compagnia di amici dalla quale era stato
circondato in quell’occasione, aveva un’aria un po’ meno svampita nonostante
gli scotch che doveva essersi scolato. La giacca nera e i pantaloni in pelle
aderenti gli conferivano un aspetto da rockstar tenebrosa, non troppo piazzato,
e anche se sicuramente aveva tagliato i capelli in quei giorni, sul capo aveva
una zazzera spettinata di un castano scuro, comune. Nel complesso era di
bell’aspetto, anche se forse la luce del sole avrebbe rivelato un orrore dove
l’alcol e il buio dipingevano la bellezza.
In quel momento, Charlie decise di
rimettersi in piedi: con gran fatica, appoggiò i palmi delle mani alla parete
dietro di sé, facendo leva per rialzarsi. I tacchi alti non aiutavano, ma
barcollante riuscì ad issarsi e a riacquistare una postura decente: se anche il
ragazzo non l’aveva notata in precedenza, la confusione nella sua testa la
rendeva abbastanza audace per tentare un approccio
brutale, senza pretese. Non intendeva rimanere sola quella notte.
Ma non appena furono entrambi sotto lo
stesso getto di luce, Charlie seppe che non ci sarebbe stato bisogno di
presentazioni: un sorrisetto malizioso, quasi beffardo aleggiava sul volto
dello sconosciuto e nei suoi occhi. La ragazza li fissò, cercando di capirne il
colore, trovandovi semplicemente la stessa domanda che da un po’ albergava
nella sua di mente. “Io e te, tesoro: che ne dici?”. Non ci fu nemmeno bisogno
che Charlie gli bloccasse la strada con il finto attacco di tosse da rigetto
che aveva programmato: qualunque cosa lo stesse
portando nei bagni del Gilmoure, qualunque cosa la stesse portando fuori di lì,
questa era già stata rimossa da ogni pensiero.
Fu lui il primo a parlare, con la voce
rauca di chi ha buttato via la propria gola sulle strofe di una canzone. – E
così tu sei Charlie. – scandì lentamente ogni sillaba mentre le squadrava
l’espressione del viso, affermandosi la propria posizione di vantaggio grazie
ad una conoscenza del nome di cui la brunetta non godeva. – L’amichetta di
Freddie. – Charlie notò con la coda nell’occhio il giovane mettersi le mani in
tasca, rilassando la schiena per assumere una posa che trasudava sicurezza. La
frecciatina per niente velata gli provocò un moto di soddisfazione che allargò
il ghigno, provandone uno di riflesso sul volto della ragazza. Attorno a loro,
i contorni del mondo erano sfocati e privi di qualsiasi importanza.
En
garde.
- E tu sei l’amichetto di Adam. – il
ragazzo poté scorgere un piacere quasi sadico nel modo in cui Charlie rispose
alla sua battuta: negli occhi scuri brillava già la vittoria. Lo sconosciuto
aggrottò le sopracciglia, accusando visibilmente il colpo come qualcosa di poco
influente sull’esito di quella battaglia. Si squadrarono, pronti ad un nuovo
assalto, nonostante brillasse nei loro occhi la consapevolezza che entrambi
avrebbero portato a casa un premio quella sera.
- Touché. –
con una scrollata di spalle, egli trasformò il ghignò
malizioso in un sorrisetto sardonico, che rese finalmente giustizia al suo
fascino sciupato, proprio come quello di un musicista tormentato. Charlie
inarcò le sopracciglia, appoggiando le mani sui fianchi fasciati di seta in una
posa studiata, attendendo di conoscere i risvolti di quell’interessante
faccenda. – Suppongo quindi di non avere bisogno di presentazioni. – sfrontato,
lo sconosciuto tornò ad attaccare con una frase apparentemente innocua. Da
qualche parte, nella sala di fianco, qualcuno urlò la propria gioia quando il
deejay propose un remix di “Rock N’Roll” dei Led Zeppelin. Di fronte, la
ragazza aveva un bivio. “In fondo, sei furbo, eh?” pensò, fissando intensamente
quegli occhi di cui non riusciva ancora a distinguere il colore: conoscere il
suo nome implicava il vantaggio di poter collegare la sua faccia a persone,
luoghi, fatti che, nel caso fosse successo qualcosa di sgradevole alla giovane,
avrebbero potuto aiutarla a fare una personale giustizia; ma l’anonimato
garantiva qualcosa di puramente passeggero, qualcosa che poi avrebbe
dimenticato in un delirio alcolico e che non avrebbe poi necessitato di
spiegazioni. Garantiva libertà assoluta in quella notte di sfrenatezza.
Carpe
Diem, ma solo se le recava vantaggio.
In quel momento, Charlie decise che ad
ogni modo non le sarebbe importato più nulla all’alba.
- Mi basterà farmi offrire qualcosa da
bere. – passandosi le mani fra la folta chioma di capelli già scompigliati, la
ragazza seppe di aver fatto centro. Sul viso del giovane si leggeva una
soddisfazione quasi sfacciata, che lasciava bene intendere come sarebbe finita
quella serata. – Ma quale onore, con la festeggiata addirittura. – commentò in
risposta, per poi farle un giocoso occhiolino sotto le luci al neon. Subito
dopo, con un ampio gesto del braccio, si fece da parte, sgombrando il
corridoio. – Dopo di lei. – si avventurarono così nella sala superiore del
Gilmoure.
Per una legge non scritta inventata da
chissà chi, mentre la sala inferiore era quella in cui in genere si scatenava
la vera e propria festa, quella superiore era il luogo di ritrovo per gli
intellettuali, per chi voleva ballare in tranquillità, e per le coppiette che
si appartavano. La stanza relativamente meno buia e caotica rispetto alla
gemella: la pista da ballo era gremita di gente che, ridendo e bevendo, si
riposava prima di fare ritorno al piano inferiore, mentre un deejay teneva viva
l’atmosfera in modo informale. Il bancone era lungo, una copia identica
dell’altro, ma i baristi che vi lavoravano erano meno indaffarati e
chiacchieravano amabilmente con i clienti.
Ovviamente però, la sala era comunque
affollata: non appena i due uscirono, due ragazze salutarono Charlie, augurandole
barcollanti su costose Manolo un buon compleanno. La
ragazza, che era sicura di non aver mai visto prima le due, ringraziò affabile
per poi afferrare per un avambraccio lo sconosciuto, rimastole dietro; prese
poi un profondo respiro, prima d’inoltrarsi nella marea di persone diretta
all’altro capo della stanza. Ovunque si girasse, sotto luci soffuse scorgeva
sorrisi amichevoli e la tipica voglia di divertimento che animava il suo
spirito. Non si volse neanche un secondo a osservare le reazioni del suo
accompagnatore, ma quasi subito sentì sfilarsi dalla sua presa l’avambraccio
dalla muscolatura nervosa, scattante. In un primo momento non ci fece caso, il
ragazzo era perfettamente capace di tenere il suo passo senza essere guidato;
poi, comprese che non si stava sottraendo al suo tocco: una mano grande, dalle
dita lunghe e appena callose, cercò la sua, per stringerla con una forza quasi
bruta, virile. Il primo istinto le dettò di sottrarsi a quel contatto
dall’intimità che, seppur minima, sempre aveva spaventato
la brunetta. Poi una sensazione di calore si sprigionò nel suo corpo, facendo
comparire ancora una volta il sorriso sul suo volto: era il tocco di un amante,
quello.
- Allora, cosa prende la ragazza più in
vista di New York stasera? – chiese, senza nascondere la presa in giro nella
voce, accomodandosi su uno degli alti e futuristici sgabelli del locale.
Charlie accavallò le gambe, consapevole che l’orlo del
suo vestito lasciava poco all’immaginazione. – Facciamo due vodka lemon secche? – retorica, diede l’ordine a Pablito, nome
d’arte del fidato barista Pablo Gonzales: con quel gesto, prese con la forza in
mano le redini della serata. Dovette capirlo anche lo sconosciuto, perché un
ghigno di palese sfida si dipinse sulle labbra circondate da un lieve strato di
barba ispida. – E dimmi, come mai la regina della festa non si sta scatenando
in mezzo ai propri sudditi? Troppo
stagediving fa male alla circolazione?–
le disse in un orecchio, per superare il forte rumore delle casse musicali.
Charlie non volse subito lo sguardo su di lui, mordendosi il labbro inferiore
con gli incisivi imperfetti. Ignorando il riferimento velenoso al suo status di
regina del castello, la domanda era scontata, quasi banale: negli occhi chiari
e poco definiti trovò poi la domanda di cui sospettava.
“Mi stavi cercando, non è vero?”. “Se
speri che ti dica che ti stavo cercando, ti sbagli di grosso”.
- Invece in quel bagno si stava
scatenando una festa che neanche t’immagini. Un tizio stava vendendo roba
esportata dall’Iran, e una ragazza sotto effetto si era messa a ballare nuda
nel water. Io sono uscita per una boccata d’aria, e sono stata trascinata via
da uno sconosciuto. – parlò con serenità, come se quella palese frottola forse
in realtà una quotidiana verità, senza togliere lo sguardo dagli occhi del
ragazzo. Si fissarono in silenzio per un secondo, poi entrambi scoppiarono a
ridere. – No, in realtà sono uscita per controllare che nel mio regno non si
scatenasse l’anarchia: non voglio che i miei sudditi si ribellino. – continuò,
recuperando una serietà che perse dopo aver bevuto tutto d’un sorso il primo
bicchiere. - Che bontà d’animo, che magnanimità! – la prese in giro, mentre
faceva segno a Pablito di servire altri due drink. Passarono i minuti a
prendersi in giro e a sfiorarsi con le ginocchia, e quando anche l’ultimo giro
di vodka fu svuotato ancora Charlie non sapeva dire di che colore fossero gli
occhi di quel magnetico sconosciuto. Di una cosa era sicura però: le carezza
dei pantaloni di pelle sulle sue finissime calze equivaleva a più di mille
battute.
- Non so chi sei. Non è un’informazione rilevante,
visto che non ho mai visto la metà dei presenti. – biascicò quando l’alcol
ricominciò ad annebbiarle la mente, e ad allentare i freni della sua già scarsa
dignità. Nonostante gli stesse sussurrando
all’orecchio quelle parole, poteva scommettere che lo sconosciuto stesse
sorridendo. – Ma scommetto che ti muovi bene sulla pista da ballo. Alza il
culo, e stai attento a non inciampare quando sverrò ai tuoi piedi. – come un’adolescente
smaliziata, Charlie ammiccò e con un salto cercò un equilibrio che già da tempo
aveva perso. Pervaso dalla consapevolezza di avere in pugno la serata, il
ragazzo la seguì.
Stop making the eyes
at me, I’ll stop making the eyes at you,
and what it is that surprises me is that I don’t really want you too.
And your shoulders are frozen (cold as the night),
oh, but you’re an explosion (you’re dynamite).
Your name isn’t Rio, but I don’t care for sand
and lighting the fuse might result in a bang, b-b-bang, go!
(Arctic Monkeys –
Bet You Look Good on the Dancefloor)
Aveva appena mosso i primi passi verso il centro
della gremita pista da ballo, quando notò qualcosa che subito rovinò il bel
programma nella sua mente. Mentre si sforzava di non rompere i tacchi delle
costose scarpe oscillando qua e là, vide l’espressione preoccupata di Evie
emergere dalle scale laterali che scendevano al primo piano. Di norma,
l’avrebbe ignorata, si sarebbe nascosta alla svelta fra la miriade di corpi
senza nome e avrebbe concluso in bellezza con l’amichetto di turno,
ma Charlie conosceva quel volto: quando Evie aveva un brutto presentimento, che poteva essere
dettata da un rissa fra ubriachi quanto da un granello di polvere su un
divanetto, era impossibile che la serata prendesse una buona piega. E la
brunetta sapeva che, se l’amica aveva un brutto
presentimento, l’avrebbe trovata anche se fosse
scappata in una remota isola della Polinesia. E l’avrebbe tediata per tutta la
notte.
- Aspetta un secondo! Vieni con me! – strillò,
afferrando brutalmente per l’avambraccio lo sconosciuto, ignaro della
catastrofe a cui stavano andando incontro: il ragazzo le rivolse uno sguardo
sorpreso, quasi deluso, per poi seguirla docilmente. Evie la scorse quasi
subito, facendosi largo fra la folla a suon di gomitate.
- Houston, abbiamo un problema. – esordì subito,
afferrando saldamente Charlie per una spalla, come se dalla propria espressione
preoccupata non si potesse intuire la presunta gravità della situazione. La
brunetta si sforzò di rimanere seria e di non rispondere male all’amica,
aspettando di ascoltarla. – Che accade, sergente? – chiese, senza essere in
grado di reprimere del tutto la nota di beffa. Quella mancanza le costò
un’occhiataccia di fuoco da parte dell’amica, ma
Charlie sapeva di non poterci fare nulla: Evie si considerava una persona
estremamente sensibili alle variazioni e ai cambiamenti improvvisi, e qualsiasi
scusa era buona per trovare un ostacolo, una cospirazione o qualsiasi altra
meschinità. Giusto il mese prima aveva fatto evacuare la festa di addio al
nubilato di un’aspirante attrice di Brodway, dopo essersi trovata non si sa
come nell’impianto caldaie dell’albergo che ospitava l’evento con un tizio
sconosciuto, ed aver visto uscire fumo da dietro gli ingranaggi di uno dei
macchinari. Successivamente, si era scoperto che in realtà il fumo era dovuto
al guardiano della hall, che approfittava del turno di pausa per godersi della
sana e meritata cannabis. Normalmente, Evie si sarebbe unita allo sfortunato
lavoratore, ma in quell’occasione era entrato in scena il presentimento.
- Stavo comprando un balconcino fiorito giù, dall’amico di Freddie che lavora nel West
Side. – cominciò a spiegare, lanciando occhiate circospette al ragazzo che si
dondolava sui talloni con impazienza dietro Charlie – E ho visto Skipper, che
stava vendendo roba a due ragazzine che neanche dimostravano quindici anni. Non
mi fido. – quando Evie fece quel nome, anche la brunetta però non poté fare a
meno di preoccuparsi: tutti conoscevano Skipper come un omaccione nerboruto, i
neuroni del quale erano stati mandati in fumo dai
succhi voodoo che preparava insieme al proprio coinquilino. Era noto poi che lo
spacciatore avesse l’innata capacità di attirare i poliziotti dei servizi
antidroga, mandando in fumo qualsiasi festa. – Ho un brutto presentimento. – concluse, ammiccando come per sottolineare
una sorta d’intesa sul quadro della situazione.
Ma Charlie, dopo l’iniziale momento di panico, non
era affatto preoccupata: due ragazzine che prendevano acido non era un fattore
preoccupante. In una città come New York City, dove il divieto di bere sotto i
ventun’anni era largamente beffato, casi del genere capitavano ogni giorno e
l’occhio pigro di vigilanti e baristi solitamente non vedeva più in là di un
buon compenso in denaro. Skipper era finito dentro una o due volte, mai nulla
di serio, e comunque era un volto noto per i poliziotti che spesso le ragazze
della loro compagnia ammaliavano con promesse invitanti e palpatine provocanti.
– Beh, lasciagli fare l’unico lavoro con cui riuscirà a pagare l’affitto, Evie.
– rispose noncurante, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata allo
sconosciuto dietro di lei, che appariva sempre più scocciato. Quando Evie aprì
la bocca per ribattere, subito la interruppe – Avanti, Evie! Stai tranquilla!
Non succederà proprio un bel niente, per il semplice fatto che non sta
succedendo nulla di straordinario… Se proprio ti senti così in pericolo, corri
ad una cabina telefonica e dì che Jerry il Mafioso è appena stato avvistato dall’altra
parte della città, così tutti i poliziotti si catapulteranno nel Queens e
vivremo felici e contenti! – sorrise in un modo teatralmente innocente, facendo
spallucce.
Evie, nel profondo del suo cuore, la mandò a quel
paese. Bastava notare le occhiate che Charlie e quel bellimbusto dietro di lei
si lanciavano di continuo per comprendere i programmi della brunetta per la
serata; era sufficiente un po’ di testosterone nell’aria per fare in modo che
quella cinica, irritante ed emancipata ragazza non vedesse più altro, accecata
dal bisogno di mescolare i propri liquidi a quelli del maschione di turno.
“Beh, ma anche tu…” Evie mise a zittire la propria coscienza con uno sbuffo
infastidito, sostituendola con la presenza sempre più opprimente del brutto presentimento. – Oh, Evie,
andiamo! Non puoi seriamente spaventarti per Skipper! Rilassati, fumati il
cannone che hai appena comprato e trovati qualcuno con cui pomiciare… dove hai
lasciato il buon Yorek? – quando poi l’amica le posò una mano sulla spalla, fu
il colmo. A Evie sembrava di essere la malata mentale fuggita dal reparto
psichiatrico di turno, e lo spilungone dietro Charlie la doveva pensare allo
stesso modo. L’espressione del suo viso lo lasciava intendere. La biondina gli
stava lanciando occhiate malevole quando questo alzò il braccio, salutando in
direzione di qualcosa che subito le due si volsero a guardare.
Evie non poteva certo riconoscere i tre individui
che si stavano facendo largo fra la folla, dopo aver salito le scale dal piano
inferiore. Charlie sì: scrutando attentamente in mezzo al mare di invitati,
notò in primo luogo l’arrapato di turno, quello che, la sera del rave party di
Freddie, non aveva smesso per un secondo di lanciare occhiate di fuoco a chiunque. Dietro, lo seguivano lo
strambo con la vescica debole e l’ameba, agghindata stavolta di uno smoking
arancione con bordi in contrasto neri.
“ Neanche fosse Halloween.”
“E’ arrivato il circo in città o cosa?” si chiese
sarcastica Evie, evidentemente infastidita dal fatto che i tre avessero offerto
una scusa all’amica per non prestare attenzione al presentimento; Charlie le dedicò soltanto una lieve alzata di
spalle, prima di alzarsi sulla punta delle scarpe già pericolosamente alte,
sussurrando all’orecchio del suo bello sconosciuto – Chi sono? – con voce
suadente, indugiando volontariamente sul lobo. Prima che il ragazzo le
rivolgesse un affabile sorriso, Charlie fece in tempo a notare il modo
sarcastico con cui questo alzò gli occhi al soffitto, scostandosi appena dalla
sua stretta sensuale – Fanno parte della mia band. – tipico, pensò stizzita la brunetta, di un esemplare di maschio indie alternativo della
periferia newyorkese, suonare in un complesso. Poche volte era successo che il
suo atteggiamento da gatta morta
facesse buchi nell’acqua: incrociò le braccia sotto al seno, infastidita.
- Bene, bene. – non appena i tre ragazzi li ebbero
raggiunti, Charlie non esitò a prendere in mano le redini di una conversazione
destinata a durare poco: sotto lo sguardo attonito di tutti, senza dar tempo a
nessuno di presentarsi, incrociò le braccia sotto il senso e cominciò a
parlare. – Che quadretto emozionante! Sono certa che diventeremo tutti amici!
Comunque… - allungò il braccio per afferrare Evie per una spalla, trascinandola
al proprio fianco contro la sua volontà. – Evie, questi sono… emh, Alfredo,
Gianni ed Ermenegildo! – tutti inarcarono le sopracciglia di fronte agli
inusuali nomi: sorridendo fintamente candida, la brunetta lanciò Evie addosso
all’ameba dallo smoking arancione, senza badare alle proteste di lei.
- M… m… - sembrava che il tipo nervosetto, quello
dalla vescica piccola, avesse la lingua annodata: i quattro ragazzi erano senza
parole.
- Adoro questa canzone! – strillò poi, con un fare
deciso che si rifletteva nei suoi occhi dal trucco sbavato, che non davano
possibilità di scelta al suo spilungone. Lo sconosciuto lanciò un’occhiata ai
propri amici, visibilmente scioccati, poi alzò le spalle e donò a Charlie
un’occhiata che risolse la situazione: in pochi secondi, le loro mani furono
nuovamente allacciati e i loro corpi catapultati nella folla che danzava.
Non aveva la più pallida idea di quale fosse quella
canzone: nel cuore caldo della stanza iniziò a respirare un’aria nuova,
adrenalinica, che le fece perdere il normale utilizzo dei cinque sensi. Sapeva
cosa stava per accadere, al contempo però non riusciva a badare a nulla che non
fossero le braccia di quello sconosciuto, quel nessuno, avvolte attorno al suo corpo, che con sensuale discrezione
le accarezzavano la schiena in un modo che faceva scomparire la barriera di
stoffa del vestito. Istintivamente, si strinsero mentre ondeggiavano su quelle
note violente, aggressive, in un esotico gioco di scambi e tocchi. Charlie gli
allacciò le braccia al collo, appoggiando il mento
alla sua spalla per chiudere gli occhi e godere appieno di quel momento; il
momento in cui si compiva il salto nel vuoto necessario per possedere l’anima
di una persona per una notte, una soltanto, per poi buttarla nel cestino della
spazzatura insieme a tutti gli altri ricordi.
Non memorizzò il momento preciso in cui le loro
bocche si trovarono, non l’aveva mai fatto con nessuno e non aveva intenzione
di cominciare in quel momento: l’unica cosa che si fissò nella sua mente fu il
testo della canzone che gli altoparlanti suonarono in quel momento. Le parole
grintose ma forse un pelo scontate di “My Sharona” s’insinuarono fra le loro
bocche che si rincorrevano e si conoscevano, suggellando il loro muto patto di
non parlarsi. Quella non sarebbe stata una canzone d’amore.
Sì, si muoveva veramente bene sulla pista da ballo.
Non fu difficile dimenticare tutto quanto,
dimenticarsi del presentimento di
Evie, o degli amici della band: l’unico contatto con la realtà che la risvegliò
da quella fase trascendentale che l’insieme degli elementi le provocava fu la
sensazione di qualcosa di freddo e dura fra le scapole. Neanche si era resa
conto che, con piccoli passi, avevano raggiunto la rampa di scale che portava
alla terrazza del Gilmoure, facendosi largo tra la folla senza interrompere il
gioco delle loro lingue, le loro carezze, la loro stessa danza. Si sentì
semplicemente spingere contro il corrimano, intrappolata nel corpo smilzo ed
alto di quello sconosciuto che aveva saputo intrappolarla anche con uno sguardo
fra la folla. La scomodità della schiena piegata all’indietro contro il ferro,
sotto l’impeto dei baci del ragazzo, non era nulla rispetto alla sensazione
straordinaria che si provava attraverso questi. Fu chiaro ad entrambi che
dovevano salire: in un barlume di lucidità, Charlie si chiese come avrebbero
fatto, davanti ai gradini dell’elegante scala a chiocciola. Poi, si disse che
anche cadere non avrebbe cambiato nulla. Stavano già precipitando.
Ci misero secoli per arrivare senza farsi realmente
del male, barcollanti per il fervore e per l’alcol, ma alla fine lo sconosciuto
le aprì la porta che portava alla terrazza.
Era un luogo che Charlot aveva adorato s’in dal primo istante: sembrava che tutta New York City
s’inchinasse ai suoi piedi, sfiorando quelle stelle invisibile che sempre le
portavano fortuna. Manhattan era un’immensa distesa di tetti e luci e insegne,
la vita brulicava dalle strade e l’identità di ogni persona spariva in quei
cumuli di cemento che avevano piegato il mondo. Esistevano solo le persone che
avevano la fortuna di trovarsi al Gilmoure, a ridere e a bruciarsi nell’alcol,
anche con gli uragani, al riparo sotto la leggera tettoia che copriva i lunghi
tavoli illuminati da lampadine multicolori. Tutto il parapetto in cemento
armato era circondato da divanetti lunghi e morbidi, arancioni.
Quella sera di settembre una brezza fresca animava
l’aria ricca di smog della metropoli. Un gruppetto di ragazzi sedeva per terra
al centro della struttura, in cerchio, discutendo di politica estera mentre
ochette attillate massaggiavano loro le spalle e cercavano di raggranellare i
soldi per un altro drink. L’odore tipico di fumo straniero aleggiava sotto la
tettoia. Sepolta nell’ombra, una coppia si dava da fare senza curarsi della
presenza di altri.
Nessuno si curò di loro mentre si avviavano verso
l’angolo fuori dalla protezione della tettoia, afferrando i vestiti dell’altro
come per strapparli lì, con New York davanti. Evidentemente più a proprio agio
in quell’ambiente del ragazzo, Charlie lo fece indietreggiare con dolce
fermezza fino a farlo sedere su uno dei soffici divanetti, guidandolo anche con
gli sguardi che di sottecchi gli lanciava prima di tornare sulla sua bocca. Non
sarebbero stati interrotti, questo lo sapevano: al Gilmoure, l’edonismo libero
era un culto a cui tutti portavano un rispetto quasi religioso.
Gli si sedette sopra a cavalcioni,
lasciando che il vestito si alzasse praticamente fino a scoprirle i glutei.
Subito furono le mani del ragazzo a proteggere quella nudità. Si trasformarono
in un groviglio di arti e sospiri che nessun altro avrebbe udito, sotto tutti i
rumori della città. Mentre le dita del ragazzo scendevano frenetiche ad
accarezzarle le cosce, quelle di Charlie già saggiavano la consistenza delle pelle dell’addome e del ventre, intrufolatesi sotto la
sua maglia. Una muscolatura nervosa, non evidente ma tonica, quella dello
sconosciuto. Non passò molto tempo prima che la ragazza cercasse la cerniera
dei pantaloni del moretto, solleticando con tocchi esperti l’erezione
prominente di quest’ultimo: un gemito roco gli sfuggì dopo quel gesto, ed egli
riuscì a soffocarlo solo piantando i denti nella pelle morbida della spalla
scoperta di Charlie.
Non appena avvertì le dita del ragazzo scostarle le
mutandine da sotto il vestito ed avanzare irruenti tocchi nei suoi punti più
sensibili, Charlie miagolò soddisfatta, donando soltanto una frase spezzata ad
una sicurezza a cui da tempo aveva rinunciato. – Hai…? – non aggiunse altro, il
suo copro parlò per lei: le tasche vuote del ragazzo lasciavano immaginare che
i preservativi fossero rimasti in un cassetto, lontani da quel mondo fatto di
rischi. E Charlie non commentò, ma si strusciò ancora più profondamente contro
lo sconosciuto: era rischioso, era da incoscienti, ma la ragazza era abituata a
salti nel vuoto peggiori. La pillola che ogni mese ingoiava insieme ad una Diet Coke era più che sufficiente, al
diavolo tutte quei bei discorsi moralisti sul sesso sicuro: un virus
letale non era la prospettiva peggiore nella sua vita di eccessi.
Furono minuti intensi, veloci, minuti in cui lei
gli conficcò le unghie nella schiena non tanto per la passione, quanto per
imprimere il proprio marchio su un semplice oggetto di scena in quel dramma
comico che era la sua vita. Il suo palcoscenico era costellato di amori furtivi
e volubili, di anni bruciati e di silenzi che nei suoi pensieri evitava come la
peste: una drammaturgia che assumeva contorni assurdi e surreali, e che al
tempo stesso sapeva di una realtà che molti spacciavano per finzione. E dire
che Shakespeare non le stava neanche simpatico.
E quando, superata la scossa elettrica irradiata
dal basso ventre in tutto il corpo nel momento dell’orgasmo, anche il ragazzo
raggiunse il piacere fra le sue braccia, Charlot gli strinse la
braccia attorno al collo con passione ambigua: come il cappio dell’impiccato,
segnava la fine di ogni contatto con quello sconosciuto. Ancora prima che il
loro superficiale rapporto fosse giunto al termine, egli si era trasformato in
passato, e la brunetta si era proiettata in avanti, con nuovi progetti in mente
e nuovi affetti da ricercare. Sorrise, appoggiando una guancia contro la sua
nuca, ascoltando il suo respiro affannoso avviarsi lentamente verso una nuova
calma, avendo sfogato di ogni istinto. Sotto di loro, New York irradiava una luce
brillante, artificiosa, l’unico riflettore di cui la ragazza aveva bisogno. Andavatuttobene.
Oh, there ain't no
love, no Montagues or Capulets,
are just banging tunes and DJ sets and... dirtydancefloors, and
dreams of naughtiness!
Well, I bet that you look good on the dancefloor,
I don't know if you're looking for romance or,
I don't know what you're looking for.
(Arctic Monkeys – Bet You Look Good on the Dancefloor)
Evan McLair,
al piano di sotto, non si stava divertendo per niente. Al contrario della sua
coinquilina, aitanti sconosciuti e fisicità spinta erano molto lontani dalla
dimensione in cui si trovava in quel momento il suo pensiero. Certo, avrebbe
preferito di gran lunga dimenticare tutto e spassarsela come sempre: ma non le
riusciva d’ignorare il presentimento.
Sedeva su
uno dei divanetti della sala, un bicchiere di colmo di gin tonic che la
guardava attraente dal tavolino di cristallo che aveva davanti, le braccia
incrociate sotto il seno. Aveva ordinato da bere tanto per passare il tempo,
non avrebbe ritrovato la voglia di sballarsi finché i suoi dubbi sulla
“sicurezza” i quella festa non se ne sarebbero andati.
D’altro canto però, le persone da cui era attorniata le stavano facendo provare
un irrefrenabile voglia di seppellirsi nell’alcolismo.
La mano foresta parcheggiata sulla sua coscia era un ottimo motivo di suicidio.
- Sul
serio, dolcezza, parlo di amore libero, parlo di emozione e wow! Hai due tette
da favola. – quando Charlie l’aveva piantata in asso per andare a succhiare via
la faccia al belloccio di turno, Evie era rimasta intrappolata nella bizzarra
compagnia di questo. Il tizio dall’ormone scattante, che si era presentato come
Eddie “The Tune” Turner, da quando se n’erano andati i piccioncini decantava le
lodi del suo seno e aveva tentato più volte di baciarla, mancando la mira a
causa dei fumi dell’alcol e finendo disteso sulle sue ginocchia. Alla sua
destra, invece, Vescica Debole accennava di tanto in tanto qualche sillaba,
sputacchiando un po’, senza mai riuscire a terminare la frase. Smoking
Arancione stava semplicemente zitto, in un angolo.
- V-vuoi q-qualcos’a-altro da b-bere? – le chiese Vescica,
mentre disgustata spostava la mano di The Tune dalla propria coscia. Nonostante
il riccio fosse stato gentile nei suoi confronti, gli scoccò un’occhiataccia degli di un assassino armato di mitra. Aveva ancora il
bicchiere pieno e lui le poneva una domanda del genere, ridicolo.
Ma non rispose: si era rifugiata in un freddo silenzio che sperava scongiurasse
i futuri tentativi di approccio dei tre.
Proprio non
capiva perché Charlie dovesse essere così egoista, a volte. “Non sto facendo un
dramma per nulla, è una questione seria.” pensò risoluta, stringendo le labbra.
In cuor suo sapeva di stare un po’ esagerando, ma questo non dava il diritto
all’amica di lasciarla in compagnia di bifolchi e sfigati, ignorando ogni
avvertimento per andare a spassarsela con il primo che passava.
“Hai organizzato tu la sua festa. Lei non si sente responsabile.” la sua
coscienza la stava tormentando con pensieri controversi: era come dialogare con
una persona tremendamente irritante, poco importava che si trattasse di lei
stessa. – Insomma, parlo di emozione, di amore da favola e di tette
libere… - continuò a biascicare lo sconosciuto, accasciandosi contro di lei.
Quando le appoggiò la testa sulla spalla, come se si stesse assopendo, Evie non
riuscì a trattenere un verso di ribrezzo: non era così che aveva immaginato
quella serata.
- D-dai, basta E-Eddie! – Vescica
Debole tentò un debole pugno contro lo stomaco dell’amico, allungandosi oltre
la ragazza. Purtroppo però, aveva calcolato male le distanze, perciò il suo
colpo andò a vuoto senza che il mascalzone sentisse nulla; in compenso,
perdendo l’equilibrio a causa di quello sbilanciamento, Vescica appoggiò con
pesantezza il gomito sulla coscia scoperta di Evie. – Ahia cazzo! – esclamò la
bionda, nonostante il dolore non fosse eccessivo. Era talmente irritata da aver
reagito come ad una provocazione per quell’errore innocente del ragazzo. – Ma
sei deficiente? – strillò, senza riuscire ad evitare che alcune persone si
voltassero in sua direzione, confuse. Vescica si ritrasse, come un cagnolino
bastonato.
Li avrebbe
mollati volentieri, e in futuro avrebbe negato qualsiasi contatto con quei
tipi. Non perché fossero particolari sfigati, anzi, oggettivamente non li
avrebbe considerati cattivi e banali a priori: sembrano persone stravaganti, ma
tutto sommato simpatiche. Ma era la situazione che aveva fatto precipitare
qualsiasi tipo di comunicazione: Evie non era interessata minimamente a loro,
ma solo a tenerseli stretti perché rappresentavano l’unico contatto con Charlie
in quel momento. Il suo spilungone sarebbe tornato a riprendersi la propria
combriccola di squinternati, oppure Charlie sarebbe passata da lei per
recuperare le chiavi della macchina dalla sua borsa. Era questione di attimi,
in cui doveva convivere con quelli e
il presentimento.
Fu proprio
dopo aver formulato quell’ultimo pensiero che Evie scorse qualcosa di
particolarmente importante: uno dei ragazzi che di tanto in tanto avevano
intravisto all’università si trovava a poca distanza da loro. In realtà,
l’aveva incontrato anche prima, ma non l’aveva di certo riconosciuta: la
socializzazione a livello costruttivo non era negli interessi principali della
festa. La biondina strinse gli occhi, osservandolo alla ricerca del dettaglio sbagliato che aveva attirato la sua
attenzione. Poi sussultò.
Al fianco
dell’universitario c’erano Skipper e Baz, uno dei tanti agganci dello
spacciatore per procurarsi roba importata dall’Oriente. Immediatamente, il presentimento tornò ad essere uno spillo
appuntito che tentava di perforarle lo stomaco. Nonostante avesse in passato
fatto affari con quella gentaglia, non le piaceva l’enorme profitto che stavano
ricavando dalla festa di Charlie: stavano vendendo tanta, troppa roba. Roba che
dovevano aver comprato a poco prezzo, visto che nessuno di loro possedeva una
grande quantità di denaro. Roba tagliata male quindi, o poco sicura. In poche
parole insomma, cibo per poliziotti.
Ed Evie non voleva grane: né lei né Charlie si potevano permettere di essere
collegate a faccende del genere.
Poi, come
un’apparizione, venne la conferma al suo presentimento,
ciò che fece scattare il campanello di allarme rosso nella sua testa: un uomo,
sulla trentina circa, si aggirava attorno ai due spacciatori, recitando bene la
parte di uno strafatto qualunque, uno fra i tanti invitati per caso. Evie
strinse gli occhi: nessuno ancora l’aveva riconosciuto
tranne lei, anche se Skipper e Baz avrebbero dovuto scattare sull’attenti alla
sola vista dell’uomo. Questi si faceva chiamare Davis, ma la ragazza non sapeva
quale fosse il suo vero nome: tutto ciò che sapeva era che tre mesi prima era
stato lui a far mettere dentro una certa Clarissa Zarkovskaja, che in una
serata aveva distribuito quasi un chilo di coca per chissà quante centinaia di
dollari. Ad una delle loro feste. Evie sapeva che stavano tenendo d’occhio il
loro giro e gli eventi da loro organizzati.
- Alzati, su. – in un attimo, prese la decisione:
diede una pacca sulla spalla di Vescica con rabbia, fissandolo con decisione.
In qualche modo, avrebbe trovato Charlie e se la sarebbero svignata.
Sulla terrazza del Gilmoure invece era in corso la
discussione del secolo: il gruppetto di intellettuali chic dediti all’erba che
aveva preso posto al centro del posto stava discutendo animatamente della crisi
economica che stava attanagliando l’America. Uno degli schieramenti in quel
momento stava difendendo a spada tratta il presidente Obama, mentre una pipa
nella quale era stato mischiato tabacco a fumo veniva fatta girare di bocca in
bocca.
L’imprecazione
che si levò alta nel cielo nero della metropoli non interruppe né sconvolse la
conversazione: il linguaggio di Charlot Valenti non era dei più fini, e questo
era risaputo. Specie se questa scopriva di dover tornare a casa con qualche
altro danno ai vestiti. – Merda! Mi sono sporcata! – di cosa esattamente si
fosse insudiciato l’abitino rosso della ragazza, questo lei non lo chiarì. Ma
la grande macchia che aveva sul ventre lasciava poco all’immaginazione.
Cercando di rimediare al danno, Charlie incominciò a sfregare la mano sulla
stoffa, senza grandi risultati: intanto, seduto sui divanetti, lo sconosciuto
che era con lei cercava di rimettersi a posto in fretta il cavallo dei
pantaloni. Trattenendosi dallo sghignazzare.
- Tu… -
quando fu sicuro di riuscire a contenere le risate, il ragazzo abbozzò un
principio di discorso: si rialzò in piedi, avvicinandosi a Charlie; ancora
impegnata a cercare di pulire il proprio vestito, questa gli lanciò un’occhiata
truce. – Tu prendi la… - egli fece un ampio gesto con la mano, ed indossò
un’espressione che doveva essere esemplificativa. Come un adolescente, sembrava
spaventato dal pronunciare parole collegate al sesso e alla prevenzione. “Tanto
grande, quanto piccolo il cervellino” pensò Charlie, con un velo di amarezza.
- Non ti preoccupare,cocco,
la mia vagina è sicura. – rispose, sorridendogli con un velo di sarcasmo in
viso. Tentò un ultima volta di mitigare il danno sulla stoffa causato da quei
dieci minuti di sesso, poi decise di lasciare perdere con uno sbuffo
infastidito. Appoggiò le mani sui fianchi, guardando il ragazzo. – Hai una
sigaretta? – domandò poi, pur sapendo che la risposta sarebbe stata negativa.
Aveva già sondato le tasche del ragazzo, alle ricerca
di preservativi. – Non fumo. – lo sconosciuto alzò le mani come se fosse stato
sotto tiro dalle pistole della polizia. Charlie inarcò le sopracciglia, di
fronte a quell’atteggiamento quasi difensivo: forse aveva pensato che, visto il
rancore per la macchia sul vestito, senza nicotina ella gli sarebbe saltata
addosso per sbranarlo.
- Però mi
sembra che i tuoi amici lì abbiano da fumare in abbondanza. – aggiunse il
ragazzo in fretta, per poi sorridere sghembo, dando per scontato che la ragazza
conoscesse tutti gli invitati alla
propria festa di compleanno. Charlie lanciò un’occhiata frettolosa al gruppetto
di aspiranti new-hippie che stazionava al centro del terrazzo, cercando di
riconoscerne qualcuno: quando ebbe la sensazione che fra loro vi fosse anche il
cugino di una delle ex ragazze di Freddie, allora prese per mano lo
sconosciuto, più con la decisione della dominatrice che con reale affetto.
- La colpa
è di una finanza speculativa che ha prodotto generi di basso valore con
miliardi di dollari, che possono essere ritenuti sprecati. Il governo non ha
saputo gestire i privati, quando invece il sistema bancario dovrebbe essere
strettamente controllato dall’economia di Stato… - la ragazza che stava
parlando, con i capelli rasati ai lati ed uno smoking elegante addosso, dava
l’impressione di poter porre fine alla crisi soltanto vendendo uno degli anelli
d’oro che portava alle dita. Quando si fermò per prendere una boccata di fumo
dalla pipa, Charlie s’inginocchiò a lato di uno dei presenti, un omaccione
nerboruto dal volto minaccioso.
Il ragazzo
osservò con attenzione ogni passo dell’opera di convincimento, le sopracciglia
inarcate in un’espressione di perplessità sfacciata. Charlie, languida, avvicinò la bocca all’orecchio del tipaccio,
sussurrando qualcosa che scatenò la sua potente risata baritonale. Dopo aver
aspettato qualche secondo perché l’omaccione frenasse la propria ilarità, la
ragazza si avvicinò ancora, con fare sensuale. Qualche secondo più tardi, in
mano stringeva due lunghe sigarette, ed in volto non accennava a nascondere le
tracce della soddisfazione. “Col sesso ottiene tutto, questa tizia.” pensò, notando
anche che Charlie aveva bellamente ignorato la sua scelta di non fumare. Tanto
peggio: in fondo, una sigarette non gli avrebbe
guastato l’anima.
- Adesso
non diamo la colpa all’intero governo del tracollo finanziario. Ricordati che
Obama è stato eletto presidente in un momento in cui già sussisteva una
profonda crisi, solo che i media v’insistevano medio. Probabilmente le sue
azioni dovevano essere pianificate meglio, ma non è giusto far ricadere
l’intera colpa sul suo governo: è un’azione mediatica atta a screditarlo. –
nessuno si sarebbe aspettato che Charlie s’intromettesse nella discussione: rialzatasi
in piedi, sorrise al proprio pubblico prima di fare scattare l’accendino
sgraffignato al suo amico nerboruto, per poi passarlo insieme alla sigaretta
ancora intatta allo sconosciuto con il quale ci aveva dato dentro sui
divanetti.
Girò sui tacchi quasi subito, mentre sul gruppo ancora regnava un
silenzio: non avrebbe ascoltato le risposte, le domande e le accuse di nessuno,
preferendo coccolarsi nell’idea di aver effettuato una sfavillante uscita di
scena. – Sono d’accordo. – sentì una delle voci alle proprie spalle esprimere
il proprio giudizio ad alta voce, e ciò le fece intuire di aver ottenuto quanto
desiderato. Qualcun altro avrebbe difeso ciò che aveva detto, si sarebbero
messi tutti a discutere di nuovo, e la sua frase sarebbe semplicemente rimasta
impressa nelle loro menti senza che nessuno la contestasse realmente. Mentre
riportava la sigaretta alle labbra, un nuovo sorriso le nacque involto, insieme
alla consapevolezza di avere ancora una volta affermato il suo ruolo di
capobranco.
Come alle
scuole elementari, dove la leader sceglieva per prima la bambola con cui
giocare; come alle superiori, dove chi comandava era in grado di screditare chi
le piaceva di meno, e decideva il programma di ogni giorno; come in un ufficio
di Wall Street, dove chi s’imponeva era il primo ad
arrivare in alto. Imporre le proprie idee, senza lasciare scampo agli altri,
era l’unico modo per sopravvivere insieme alla scelta di fare ciò che più
aggrada, a dispetto di cosa vogliono gli altri.
-
Complimenti. – quasi si spaventò quando la voce del ragazzo senza nome la
raggiunse. Si era quasi dimenticata di lui, di ciò che c’era stato prima della
sua plateale affermazione in quel piccolo gruppetto di finti intellettuali. Si
voltò a guardarlo, sempre sorridendo, ma con freddezza: l’aveva seguita lontano
dal centro del terrazzo, dal lato opposto rispetto al punto in cui avevano
consumato le loro voglie. Sul suo viso recava un’espressione serafica, che
nascondeva un’ironia che punse l’orgoglio della ragazza. Ma fra le dita stringeva
la sigaretta che gli aveva passato.
- Vuoi
aggiungere anche la tua opinione alla discussione? – domandò Charlie,
mantenendo un’espressione di assoluta tranquillità in viso, spostando lo
sguardo sullo spettacolare panorama di cui poteva usufruire. Aveva la netta
impressione che quell’inizio di conversazione non avrebbe portato a nulla di
buono. – Oh, no. Sono certo che il tuo intervento sia bastato per sollevare un
polverone. – la risposta del ragazzo la lasciò di stucco. Non che si aspettasse
qualcosa di particolare, ma di certo non aveva pensato potesse esordire con un
attacco diretto nei suoi confronti. Perché, dal tono di voce dello sconosciuto,
si poteva intuire la battaglia che stava per avere inizio.
En garde.
- Non
capisco ciò che intendi dire. – assunse un atteggiamento da finta tonta, anche
se l’emozione rabbiosa e combattiva che si leggeva nei suoi occhi si
allontanava parecchio da quella frase. Notò con ira crescente che il ragazzo si
stava trattenendo dallo scoppiare a ridere. – Scusami, ma la parte della
paladina di Obama non ti si addice proprio! – parlava come se la conoscesse da
una vita, e la parte peggiore era che ci aveva azzeccato in pieno. Charlie non
era democratica, sapeva soltanto di non essere assolutamente repubblicana. La
presa sul filtro della sigaretta d’un tratto divenne molto più forte del
necessario. – Commento molto arguto, basato su solide fondamenta. – commentò,
palesemente sarcastica, alzando gli occhi al soffitto di un nero pece, buio.
- Oh, non
te la prendere, reginetta del ballo, se qualcuno non la pensa come te. – c’era
un’arroganza sfacciata e ostentata con orgoglio nelle sue parole. La ragazza lo
guardò allibita per una risposta simile: quello che doveva essere il passatempo
di una mezzoretta si stava tramutando in un intralcio alla serata. Charlie non
era il tipo da porgere l’altra guancia, per niente rose e fiori in situazioni
che minacciavano la stabilità della sua supremazia. Botanicamente parlando, era
più una pianta carnivora.
- Io
m’interesso dello scambio di opinioni che non siano basate su dieci minuti di
sesso. – ribatté, stizzita ed intenzionata a non dare neanche una piccolissima
soddisfazione a quel tamarro di periferia. Dentro di lei, una rabbia enorme
stava nascendo, insieme al desiderio di scaraventare quel sempliciotto
qualunque giù dal grattacielo del Gilmoure: ma non era così che si vinceva, non
lasciandosi trasportare dagli impulsi primitivi; un vincente da
l’impressione di essere una persona ragionevole, difficile da scalfire.
Esserlo veramente in realtà non conta molto.
- Infatti mi baso su ciò che hai detto, e sulle mie personali
considerazioni che con te non centrano nulla. – adesso anche lo sconosciuto
sembrava sul punto d’innervosirsi seriamente: il suo tono di voce s’era alzato,
lievemente ma abbastanza da far aumentare anche il livello della tensione fra
loro. Nonostante avesse dichiarato di non fumare, le boccate con le quali stava
consumando la sigarette si stavano facendo sempre più
frenetiche. – Obama si è lasciato sfuggire la situazione
di mano: ha creduto che riempiendo la gente di false promesse gli americani
potessero diventare un popolo di lavoratori onesti. Ma questo è il Paese delle
opportunità solo per chi sa come fregare gli altri, e i suoi vanagloriosi
ideali non fermeranno la crisi economica. – Charlie si sforzò per non fargli
intendere di essere rimasta a bocca aperta.
- Obama si
è impegnato più di tutti per rendere gli Stati Uniti una civiltà migliore, che
viene denigrata alle spalle dalle nuove superpotenze orientali. Rappresenta la
svolta, e l’unica cosa che non gli permette di cambiare realmente questo mondo
sono gli ottusi, falsi moralisti che si rifiutano di dargli fiducia. – Con un
gesto rapido, la ragazza si avvicinò al parapetto della terrazza e sul cemento
grigio spense la sigaretta, ormai ridotta ad un inutile mozzicone bollente. Udì
i passi dello sconosciuto che si avvicinavano alla sua schiena, per compiere le
sue medesime azioni. – Non si producono soldi con l’impegno. – insieme, lasciarono cadere i loro mozziconi già,
perché la strada di New York inghiottisse il momento in cui avevano deciso di
fare la reciproca conoscenza. – Nemmeno con lo scredito. – in pochi secondi, Charlie seppe cosa fare.
- Charlie!
– un nuovo ululato disturbò il gruppetto radunato al centro della terrazza, ora
immerso in un’impegnata discussione sul riciclaggio. I presenti scoccarono una
veloce occhiataccia a quella Barbie parlante di Evan McLair, una persona con
cui non avevano mai parlato e che avevano visto soltanto su Facebook, ma che
godeva di molteplici reputazioni contrastanti. La ragazza aveva appena fatto il
proprio ingresso dalla porta collegata alla scala a chiocciola, con al seguito quelli che sembravano le sue conquiste della
serata.
Charlie
ringraziò quella misteriosa presenza che controllava l’universo, l’esistenza
della quale continuava a negare a voce, per aver dato alla luce una migliore
amica dotata di tempismo perfetto. Voltandosi a sorridere all’amica però, la
brunetta poté constatare che ancora qualcosa non quadrava: il presentimento era vivo e vegeto nei suoi
occhi cerulei, e non sotto sei piedi di come etilico come aveva sperato. Quando
Evie la raggiunse, caracollando sui tacchi, per afferrarle una spalla con la
mano, non riuscì a reprimere un sospiro rassegnato. – Che..?
-
- C’è
Davis, Charlie. Scoppierà un casino bello grosso, me lo sento! – a Charlie
bastò quel nome per farle rizzare i capelli: nessuno che frequentasse i loro
giri, e che avesse la prudenza di tenersi informato per non finire al fresco,
conosceva la leggenda di Davis il Terribile Agente in Borghese. – Quello che ha
fatto arrestare la Zarkovskaja?
– domandò, sbiancando clamorosamente. Un rapido sguardo rivolto al proprio
sconosciuto le fece intuire che era argomento noto per quella compagnia, anche
se Ormone Scattante dava l’impressione di non ricordare nemmeno il proprio nome
in quel momento. – Ne sei sicura? – domanda inutile: quando entrava in scena il
presentimento, Evie acquistava una
singolare abilità di separare il bene
dal male. Il motivo era semplice:
avrebbero perso molto più della vita con una loro bravata sui giornali
nazionali. Non c’era tempo da perdere.
-
Andiamocene. – nessuna delle due pensò neanche per un secondo di fermarsi un
minuto di più per avvertire Kimberly, Freddie e il resto della compagnia.
Dovevano sbrigarsi, e se qualcuno rimaneva incastrato in qualche affare più
grande e rognoso di loro, non erano certo affari di
Evie e Charlie: una cauzione era semplice da pagare, anche se salata; un titolo
sulla prima pagina del New York Times era una gatta molto più grossa da pelare.
– A-aspettate, d-dateci u-u-un p-passaggio! – Vescica Debole sembrava disperato
come un bambino dimenticato all’uscita dell’asilo, mentre Ameba reggeva a
fatica Ormone Scattante. Il primo dei tre scattò in avanti con stupefacente
prontezza, bloccando il passo di Evie che già si dirigeva verso l’uscita.
- Sì, sì,
stasera faccio da taxi, ma muovetevi, o vi lascio con le palle nella merda! –
sbraitò Charlie, sul punto di mollare un sonoro ceffone a quel pivellino che si
era permesso di intralciare Evie. Prima l’aitante erede di Richard Nixon, poi un
infante di circa vent’anni. – Non fate così tanto casino, cretini,
o ci sarà un’evacuazione di massa che ci catapulterà tutti in un mare di cacca!
– sibillò Evie, afferrando con una forza sorprendente per uno scricciolo come
lei Vescica Debole ed Ameba, per poi trascinarli tutti verso le scale del
Gilmoure. Charlie e l’altro ragazzo si affrettarono a seguirli, imprecando
sottovoce: nessuno di loro si sarebbe reso conto del reale pericolo scampato
fino a quando non sarebbero stati lontani, al sicuro.
Poi
accadde.
- Ma che
diavolo succede? – improvvisamente, Charlie si fermò, senza pensare al ragazzo
che la stava seguendo. Mentre questo quasi inciampava per non colpirla
arrivandole addosso e facendole del male, la ragazza si guardò attorno: alla
nuca permaneva lo strano formicolio che l’attanagliava quando qualcuno la
osservava da distante. Con la coda nell’occhio infatti,
aveva avvistato qualcosa. Qualcosa
che l’aveva bloccata, impedendole di proseguire la propria fuga senza aver
controllato: un’inquietante sensazione le pervase lo stomaco, mischiandosi
all’adrenalina causata dalla notizia della presenza di Davis. Qualcosa di losco, di abbagliante.
Ma cosa?
- Charlie!
Non è il momento di essere lunatica, okay? Muoviti,
puttana! – il fine richiamo di Evie la riportò alla realtà, o almeno
parzialmente sul piano di fuga dal Gilmoure che andava
effettuato. Non si scansò al tocco dello sconosciuto, che prendendola per mano
la condusse verso la scala a chiocciola, soltanto perché buona parte dei suoi
pensieri erano ancora fissi su ciò che pochi attimi prima l’aveva sconvolta.
Bisognava pensare a raccattare i soprabiti, la borsa, le chiavi della macchina
che aveva parcheggiato poco distante dall’ingresso… bisognava pensare ad un
mucchio di cose, ma per una ragione che ancora faticava a capire il tempo si
era fermato al momento in cui aveva capito che qualcosa non stava funzionando oltre a tutto. Bisognava pensare a…
-
Aspettatemi fuori, devo fare una cosa! Cinque minuti! – erano ormai arrivati,
dopo aver attraversato quegli oceani di folla e parole vuote che erano le due
sale del Gilmoure, all’ascensore che li avrebbe portati fuori da quell’incubo.
Ma sarebbe stato troppo semplice: banale ed increscioso, sorse un problema.
Charlie si volse a fissare con rabbia malcelata il controverso sconosciuto, che
le rivolse un rapido sorriso sghembo prima di lasciarle la mano e tornare
indietro, verso la pista da ballo. “Hai ballato veramente molto bene, stasera.”
un pensiero, un flash improvviso, abbagliante come era stato ciò che l’aveva
spinta a bloccarsi sulla terrazza. Velocità. – Che gli prende? – Evie pose la
domanda senza sapere di aver innescato i complessi meccanismi del cervello
dell’amica, che già delineavano una nuova prospettiva per il futuro prossimo. –
Nulla… Vedrai. – tutti stavano aspettando lei.
E nessuno
si sarebbe perso lo spettacolo.
La notte che
sorride ha denti fragili
per tutti i calci che l’aspettano.
Generalmente lei non dà la confidenza a tutti quelli che si atteggiano troppo.
(Subsonica –
Albascura)
NOTE DELL’AUTRICE
D’accordo, non mi dilungherò troppo con
commentini vari, sarò più spiccia e tecnica. Spero solo di non essere caduta in
cliché banali e di non avervi annoiato! Sono in ritardo, lo so:
spero che spendere più tempo del previsto su questo capitolo abbia alzato la
qualità di questa mia buffonata.
“Io e te, tesoro:
che ne dici?”, ovvero “You and me, babe: howabout
it?” è un verso della canzone Romeo
and Juliet dei Dire Straits.
“En
garde” è un’espressione comunemente usata nella
scherma, deriva dal francese e significa “In guardia”.
“Scommetto che ti muovi bene sulla
pista da ballo”, ovvero “I bet that you look good on the
dancefloor” è un riferimento all’omonima canzone degli ArcticMonkeys.
“Houston, abbiamo un problema” celebre
frase dello sbarco sulla Luna del ’69, dell’equipaggio dell’Apollo 13.
“E’ arrivato il circo in città o
cosa?”, ovvero “Has the circus come
to town or what?” di Mini McGuinness,
dalla serie TV Skins.
La frase di Shakespeare a cui si riferisce Charlie è la celeberrima “La vita non è che
un'ombra che cammina; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio. È un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e di rumore,
senza alcun significato”.
“Botanicamente parlando, era più una
pianta carnivora.” è una frase ispirata al film Basta che Funzioni,
di Woody Allen.
Preciso inoltre che niente di ciò che
riguarda la discussione su Obama e sulla crisi economica è stato scritto a
scopo di lucro o per propaganda. Le opinioni dei miei personaggi NON sono le
mie, e ciò che è narrato è a puro scopo d’intrattenimento.
Capitolo 4 *** Scoop [Part 2 – All That She Wants] ***
Scoop
Tutti i miei sbagli
Capitolo 3 – Scoop [Part 2 – All That She Wants]
Non ho voglia di
andare d’accordo,
ho voglia di
andare. D’accordo?
Di andare.
D’accordo?
(Caparezza – Ti
Sorrido Mentre Affogo)
Ai piedi dell’imponente sede del Gilmoure
soffiava una brezza gelida, che faceva accapponare la pelle: nessuno si
spiegava come facesse a superare le barriere di tonnellate di costruzioni e
grattacieli che si protraevano per chilometri sul suolo di New York City. Sta
di fatto che non appena mise un piede fuori dalla lussureggiante entrata
dall’edificio, Evan maledisse la propria pessima abitudine di vestire
quadratini di stoffa che a stento contenevano le sue curve procaci. Mettendo da
parte il buon gusto perché la propria pelle scoperta splendesse nella notte,
aveva forse attirato su di sé le ire bigotte di un qualche dio maligno e
bigotto? Onestamente, gli unici momenti in cui le importava di ciò erano quelli
in cui si costringeva a non pensare all’ultima delle proprie malefatte, o presentimenti. Ed ogni volta, c’era
sempre Charlie a distrarla con qualche idiozia.
Tipo quella di trascinarsi al proprio
seguito quei finti artisti ricoperti da abiti da quattro soldi e strane idee
sulla giustizia dalla parte dei poveri.
- Smettila di lamentarti, cervello in
aspettativa! O giuro che ti rispedisco a Babbo Natale nel pacchetto in cui ti
ha consegnata quando eri una neonata: ti accartoccio e ballo sui francobolli. –
Charlie diventava fantasiosa negli insulti in due sole occasioni: quando si sentiva
sotto pressione, o quando era particolarmente contenta. Ed in entrambi i casi
c’era da preoccuparsi, soprattutto se i due stati d’animo combaciavano in un
unico momento. Come quella sera, ad esempio. Sgambettavano oltre l’uscita,
ignorando con fermezza la pelle d’oca alle gambe parzialmente nude, Evie decise
di rispondere all’amica con un semplice sbuffare infastidito e fastidioso, o
almeno così voleva essere: in realtà, Charlie non fece neanche caso
all’irritato suono dell’amica. Ormai, era entrata nel pieno modus operandi di
chi cerca di ignorare tutto e tutti, soprattutto le occhiate interrogative di
chi la conosceva e la stava osservando abbandonare il proprio party di
compleanno prima del quindicesimo brindisi, cosa che solitamente non accadeva mai.
La Jaguar li attendeva, nella sua
sfolgorante e miracolosamente intatta bellezza, tre vicoli più i là del
grattacielo del Gilmoure: Charlie si avvicinò all’automobile con un forte
melodramma a disegnare la sua espressione, buttandosi praticamente addosso al
cofano rosso fiammante, a braccia aperte, e sussurrandole – Ti sono mancata,
piccina? Certo che ti sono mancata! -. I presenti la fissarono senza sapere se
essere divertiti o sconcertati da quel gesto, finché Evie, grugnendo in modo
quasi animalesco, non si affrettò a frugare nella propria borsetta, estraendone
le chiavi d’accensione. Con voluta malagrazia, la biondina le lanciò a Charlie,
che con i riflessi di un bradipo ubriaco le prese al volo solo per lasciarle
cadere a terra e barcollare all’indietro: davanti a quella scena, Vescica ed
Arrapato inorridirono al pensiero di quella ragazza alla guida della Jaguar che
li avrebbe trasportati. Ma allo sguardo feroce di Evie si affrettarono a salire
sui sedili posteriori. Ameba seguì impassibile l’esempio dei due compagni,
apparentemente indifferente a ciò che lo circondava.
- Vediamo di farne valere la pena, eh?
Altrimenti resto qui e mi faccio arrestare. – era evidente come Evie stesse
parlando esclusivamente a Charlie, fingendo che le tre persone dietro non
esistessero. Il suo tono era altamente infastidito ed annoiato, ma la brunetta
seppe immediatamente che l’amica era segretamente contenta di essere stata
ascoltata. – Oh, non ti preoccupare… I nostri amici qui sanno come rendere
felici delle donne! – rispose con noncuranza Charlie, appoggiando il tacco
sull’acceleratore con decisione, bloccando le porte e dando gas al motore. I
suoi pensieri andarono al focoso conservatore che la stava probabilmente
aspettando all’entrata del Gilmoure. Gli ci voleva giusto un po’ d’aria fresca,
perché quel suo cervellino imbalsamato si rendesse conto che era meglio
cambiare partito prima di dare contro a lei.
- Ehi! – la scusa le si presentò svoltato
l’angolo, quando s’infilarono nella strada principale per saettare lontano da
una possibile esecuzione di masso da parte del lungo braccio della legge.
Stranamente per la sua natura calcolatrice, Charlie non aveva tenuto in conto
d’includere qualcuno dei fedeli amici che le avevano organizzato la festa: se
fossero finiti in prigione dopo una retata, avrebbe pagato loro la cauzione e
sarebbero tornati tutti ad essere una grande famiglia di tossici felici. Ora
però, una Carrie ferma sul ciglio del marciapiede, col braccio alzato per
richiamare la sua attenzione, le offriva la possibilità di aggiungere al
mattino nascente un pizzico di brio
in più. – Te la senti di diventare fortunata, bella? – Evie sorrise rassegnata
allo scricciolo dai capelli rossi che Charlie cercò di abbordare, come con una prostituta di Los Angeles. – Facciamo
novanta dollari per cinque notti? – La ragazza sul marciapiede si sporse verso
il finestrino ammiccante, mettendo in bella mostra una borsetta che pareva sul
punto di esplodere tanto era piena. Non lasciava spazio ai dubbi, come il
linguaggio segreto che ella aveva adottato.
- Salta su. – Charlie le sorrise,
indicandole i sedili posteriori con un cenno del capo. I tre ragazzi
osservarono le espressioni delle donne attraverso i finestrini superiori. –
Ehi, ma così non c’è spazio per… - la debole protesta di Vescica venne
soffocata quasi subito dal lancio con cui Carrie s’infilò nell’apertura del
finestrino posteriore abbassato. La brunetta, che stava per sbloccare la
portella per lasciare che l’amica entrasse, rise di gusto nel vedere il
miscuglio d’arti e grida che si venne a creare dove prima c’erano stati i corpi
dei tre ragazzi. Anche la risata di Evie, suo malgrado, si disperse nell’aria,
segno che nonostante tutto era soddisfatta di questo piano alternativo contro
il presentimento.
Perché Carrie aveva portato con sé un’altra
persona: la montagna di muscoli e pelle che si avvicinò al finestrino
anteriore, intenzionato a salutare Charlie e a godere di un minimo riflesso di
quell’indefinita luce che la ragazza emanava. Una vecchia conoscenza. A Charlie
furono sufficienti poche parole casuali, in un ordine strettamente calcolato,
per aggiungere una nuova marionetta
allo spettacolo.
Poi, sorridendo alla notte sul punto di
terminare, Charlie diede di nuovo gas alla Jaguar.
Lo individuò subito, circondato da un
gruppetto di future sedicenni che evidentemente non erano riuscite ad imbucarsi
alla sua festa; distribuiva sorrisi e piccole battutine come una qualsiasi star
da tappeto rosso. Evidentemente, in quel momento si sentiva un grand’uomo. Le
bastarono due colpi di clacson fastidiosi per attirare la sua attenzione, e
qualche occhiata delusa da tutte quelle ragazzine. Lentamente abbassò il
finestrino scuro.
Accadde che, nella foga di fare amicizia
con i nuovi abitanti del suo psichedelico mondo, Carrie rovesciò una bustina
con qualche centigrammo di anfetamine sul sedile posteriore, dal quale si
levarono subito le sue strida confuse. Charlie poté solo immaginare il panico
creatosi fra quei tre poveri disgraziati, eccetto Ameba forse. Era per questo
che adorava Carrie: nella sua incredibile incongruenza, in ogni cosa che faceva
possedeva un tempismo perfetto. La bruna lanciò un’occhiata ad Evie, che
ghignando si allungò per far scattare i blocchi agli sportelli.
Il sorriso arrogante dello sconosciuto
iniziò a titubare non appena gli occhi di Charlie incontrarono i suoi.
- Ma che cazzo…? – Stupore esci dalla bocca
del ragazzo non appena posò, invano, le dita sulla maniglia della porta
posteriore dell’auto.
- Informiamo i signori passeggeri che il
loro volo sta per partire. – Queste parole, insieme alla risata sguaiata che le
seguì, furono l’unica maniera in cui Evie espresse la propria approvazione,
grottescamente rispetto a quanto era abituata a mostrare di sé proprio per
sottolineare la presa in giro nascosta in quella sceneggiata.
- Salve, spilungone. Un bianco conservatore
arrogante come te non può certo voler avere nulla a che fare con un aereo di
linea come questo. – Impudente, Charlie appoggiò i gomiti al bordo del
finestrino abbassato, allungandosi verso la propria vittima e mettendo in
evidenza l’incavo fra i seni che spuntava dalla scollatura. - Io credo che
dell’aria fresca ti darà una schiarita alle idee; intanto, puoi dimostrarti più
che caritatevole nei confronti di quei relitti alla società per cui, un giorno,
approverai un mandato di deportazione. – Quando, dopo una prima fase di smarrimento,
il ragazzo iniziò ad intuire in parte quanto aveva in mente Charlie, digrignò i
denti come un animale; per quanto volesse apparire minaccioso però, la moretta
era fin troppo abituata a scavare dentro alle persone in un battito di ciglia.
“Dov’è
la tua sicurezza?”
- Lurida put… - Charlie gli posò senza
alcuna delicatezza una manina sulla bocca con uno scatto, proprio mentre lo
sconosciuto per apostrofarlo con un epiteto in apparenza decisamente consono.
Egli scostò malamente il suo braccio, afferrandola per il polso con rabbia ma
ammutolendo: sul volto della ragazza non sembrava esserci alcuna paura.
- Aha! Risparmia le finezze per le prossime
elezioni. C’è qui un amico a cui farebbe piacere un po’ di compagnia: sono
sicura che scoprirete di avere molti punti in comune da toccare in un’amabile
conversazione. – Cattiveria pura veniva stillata da quella lingua biforcuta; ed
essa però si contrappose l’energia con cui cercò di liberarsi dalla stretta del
ragazzo, che cercando di decifrare quelle parole malevole era rimasto immobile,
ma non aveva certo mollato. – Apri questa cazzo di porta, stronza! – Sbraitò il
giovane, strattonandola poi verso di sé con vigore, nel tentativo di farla
cadere dal finestrino.
Fu in quel momento che Evie, con una risata
acuta e tintinnante, surreale, allungò velocemente il piede davanti al sedile
del guidatore, e in un gesto di scelleratezza premette con l’alto tacco della
scarpetta l’acceleratore. Qualcuno gridò all’esterno, mentre la vettura veniva
sbalzata in avanti: a Charlie parve che ogni elemento, in quei pochi istanti
d’azione, si confondesse con l’altro, in un viaggio psichedelico di contorni
indistinti e ossa doloranti. Eppure, seppe all’istante che successivamente
avrebbe ricordato ogni singolo dettaglio, e sorrise mentre la stretta delle
dita attorno al proprio polso si affievoliva. Ricordava sempre, anche se per
qualche strana ragione dimenticava il significato
di tutto quel nichilismo insensato.
Non appena senti il polso libero,
istintivamente Charlie scattò ad afferrare il volante avanti a sé, riprendendo
il controllo dei pedali e sterzando bruscamente, infilandosi nel traffico
newyorkese con una manovra pericolosa. Un’auto fu costretta a frenare con un
sonoro stridio di gomme sull’asfalto, evitando per un pelo di schiantarsi
contro la Jaguar rossa che, sgommando a tutto gas, schizzò lontano dal Gilmoure
ad una velocità improponibile in pieno centro. Solo quando la ragazza lanciò
un’occhiata ad uno degli specchietti retrovisori si accorse dell’espressione
terrorizzata che stava distorcendo i suoi lineamenti. E allora sorrise, ripetendosi che tutto faceva
parte del gioco.
Lo sconosciuto, come vide prima che il
marciapiede del Gilmoure diventasse un ricordo nelle strade luminose della
metropoli, barcollò qualche istante prima di capitombolare a terra,
probabilmente sconvolto. Non doveva mancare molto prima che Max lo andasse a
trovare. Tutto procedeva.
E mentre l’auto iniziava una corsa folle e
senza meta, Evie rise di gusto, probabilmente respirando davvero per la prima
volta dall’inizio della serata.
- M-ma
s-sei im-imp-pazzita?! -
Colui che aveva parlato era Vescica. Anzi,
sarebbe più corretto definire colui che
le aveva quasi spaccato un timpano con una voce da usignolo reduce da un
tetè-a-tetè con una bottiglia di rum. Charlie si trattenne dal frenare
bruscamente solo per quel rigido autocontrollo che s’imponeva in ogni
situazione, e che anche se in quel momento era molto labile mai l’abbandonava.
Il signorino, dopo essersi evidentemente
liberato dalla morsa assassina di Carrie, si era sporto verso i sedili
anteriori, aggrappandosi ad essi con le braccia come se fossero l’unico
contatto rimasto con una realtà migliore.
Dagli specchietti retrovisori, Charlie riuscì a distinguere la chioma rossa
della tossica amica coprire il volto di Arrapato: poteva essere un giochino
perverso, come un tentativo della ragazza allucinata di staccare la testa al
povero malcapitato. A Charlie non interessava. Portò lo sguardo invece su ciò
che poteva scorgere del viso di Vescica, continuando a guidare a caso per le
strade di New York.
Non che fosse proprio un bel vedere. Era
palesemente sconvolto: aveva due occhi marroni spalancati, quasi come lo
sguardo di uno strano animale notturno, i capelli ricci scompigliati in una
parodia di un cespuglio di rovi, e la fronte madida di sudore. “Beh”, pensò,
“non è colpa mia se è debole di cuore.”
Non
era mai colpa sua, in fondo.
- Cosa c’è, micetto? – Domandò annoiata e
sarcastica Evie, senza spostare lo sguardo dalle ombre degli edifici che
scorrevano rapide oltre il suo finestrino. Per un attimo, il ragazzo riccioluto
sembrò pentirsi di protestato, boccheggiando senza però proferir parola. Poi
però, ridestandosi, partì a tutta carica.
- B-beh, c-co-ome s-se non c-ci fo-fos-se
n-nulla d-di m-ma-le! – Non l’evidente balbuzie di Vescica a stupire Charlie,
ma la semplicità di quelle parole rispetto agli insulti e alle volgarità senza
fondo che si era aspettata in confronto. Non frenò la corsa, ma iniziò ad ascoltare seriamente, senza cercare
alcun contatto visivo.
Suscitava un effetto simile a quello dei
fenomeni da baraccone nei circhi d’inizio Novecento: Charlie non riusciva a
staccare gli occhi di dosso da quello spettacolo grottesco che era Vescica, il
suo balbettare sconnesso e la sua genuina mancanza di controllo sulle proprie
emozioni. La ragazza si sentiva affascinata, e al contempo provava una strana
vergogna, come se stesse davvero commettendo
qualcosa di sporco.
E, dopo una vita di disordini, era
incredibilmente violenta un’emozione
di quel genere. Immediatamente, seppe che Evie non stava guardando.
- Mitch, hai detto… - Sorrise beffarda,
approfittando della pausa allibita del giovane per introdursi con un tono di
scherno palese, iperbolico. La bionda intervenne quasi subito dopo di lei: -
Stai tranquillo, micetto. Il tuo amico sta bene. –
Evie centrò in pieno il bersaglio:
nonostante la solita assenza delle quota minima di vocaboli necessari ad
avviare una conversazione, il suo tono piatto e distaccato, e forse proprio per
questo più pungente del ghiaccio, le garantì il totale silenzio da parte di
Vescica. Questi non solo ammutolì, parve addirittura calmarsi. La bonaccia, il pericolo in mare dettato
dalla totale assenza di vento, era l’effetto collaterale più temibile della
personalità di quella bambola bionda.
Le ragazze ripresero quindi il controllo
dei loro ospiti. Gli squittii incoerenti di Carrie tornarono ad essere l’unico
evento degno di nota dai sedili posteriori.
- Piuttosto, dovremmo chiamare. – Mentre l’auto proseguiva la sua folle corse, Evie
spostò l’attenzione su un particolare di fondamentale importanza della serata,
mantenendo l’espressione apatica di cui sempre si avvaleva. Charlie invece non
nascose minimamente di essere appena caduta dalle nuvole, ma il suo
disorientamento durò pochi istanti: come al solito, Evie la chiamava a rapporto
quando la fame di distruzione della brunetta aveva la meglio sulla furbizia.
- Pensaci tu. – Sapeva benissimo cosa Evie
intendeva: qualcuno doveva telefonare a Pablo per informarsi sulla situazione
del Gilmoure; gli eventuali sviluppi della vicenda dettati dalla presenza
dell’agente in borghese erano strettamente connessi alla stabilità di ciò che
più era caro a Charlie e ad Evie: la discrezione
della loro vita spericolata. Con un sospiro quindi, la biondina infilò una mano
nella propria borsa, alla ricerca del cellulare come richiesto dall’amica.
Intanto quest’ultima imboccò, per la prima volta dopo la fuga dal Gilmoure, una
strada verso una metà.
Ci misero quasi un quarto d’ora.
L’agglomerato dei prefabbricati nei quali
si erano infilati con la Jaguar era noto alla malavita della metropoli col
semplice nome di Milo’s, “Da Milo”.
Fra quegli edifici si celava un enorme garage dentro al quale si compivano
autentici miracoli della meccanica automobilistica internazionale, che però
solo pochi portafogli fortunati avevano il diritto e l’onore di visionare. Il
famigerato Milo era un ometto gracilino, pelato e coperto di tatuaggi
dall’oscenità più o meno legale. In quel momento della mattina, il soggetto in
questione era intento a lavorare duramente alla fiancata di una Land Rover
palesemente modificata, o “ristrutturata”,
come lui stesso diceva; del resto, da Milo la notte non era abbastanza per
smettere di lavorare: una cricca di selezionati artisti ed ingegneri circolava
in quello che era il più grande mercato nero delle auto di New York.
- Scendete. – Charlie parcheggiò l’auto
davanti al portellone di uno dei garage più sporchi esistenti. Prese la chiave
e pronunciò quell’unica parola, prima di uscire nella buio e poco rassicurante
piazzola di cemento, seguita poco dopo da Evie che agguantò anche le borse.
I ragazzi rimasero dov’erano.
Carrie invece arrancò fuori, ridacchiando
come una matta ma probabilmente già più lucida di quanto non fosse alla
partenza dal Gilmoure. Aprì lo sportello della macchina e con alcune goffe
mosse scavalcò il corpo di Ameba per poi caracollare sull’asfalto, di fronte ad
una sorridente Charlot. Evie invece già armeggiava col cellulare, intenta a
chiamare un numero ancora ignoto.
- Se volete, io vi lascio anche qui. –
intuendo la perplessità e l’astio di Vescica e compari, la brunetta si sporse
per poter parlare meglio con loro.
- Tu sei fuori di testa. – Per la prima
volta, Arrapato espresse la propria opinione con una serietà che cancellò del
tutto la sua espressione da pedofilo, evitando che Vescica proclamasse ancora
il proprio sconcerto con una serie interminabile di consonanti e sputacchi.
Charlot scosse la testa, chiudendo il portellone.
- Devo far lavare via le anfetamine che
Carrie ha spazzato sui sedili posteriori. – Spiegò, allontanandosi di qualche
passo e continuando a fissare i tre ragazzi beffarda. Loro la guardavano con
occhi e bocche spalancate, ancora incapaci di rendersi conto delle proporzioni
del casino in cui si erano ficcati. – Le opzioni sono due: o avete voglia di
farvi massacrare dagli amici che fra poco mi faranno questo favore, oppure
avete voglia di rischiare che qualche poliziotto curioso scopra il deposito
illegale di Milo, e vi sbatta dentro. – Era impossibile capire se fosse
atterrita dalla prospettiva, oppure solo divertita.
Qualche metro più in là, Evie iniziò ad
alzare la voce contro un disgraziato sconosciuto.
Nathan Reed, Edward Turner e Alex Schneider
decisero che era meglio non fare più domande e uscire infetta da quel
macchinone infernale. Charlie sorrise.
Adorava
vincere.
- Dove ci portate, ragazzi? –
So if you are in sight and the day is right,
she's a hunter, you're the fox:
the gentle voice that talks to you
won't talk forever.
It is a night for passion,
but the morning means goodbye.
Beware of what is flashing in her eyes:
she's going to get you.
(Ace of Base – All That She Wants)
Per raggiungere l’appartamentino nella
palazzina del Lower East Side ci volle poco più di un’ora, a piedi per le
strade di Manhattan. Il quartiere non era lontano dai prefabbricati Milo’s, ma era difficile procedere con
tre scimmioni, una tossica che non la smetteva di ridere per qualsiasi cosa
vedesse per strada e un’Evie al telefono con Pablo.
A farle strada era stato un cupo Vescica,
che aveva anche detto di chiamarsi Nate. Informazione
del tutto superflua.
Il povero ragazzo aveva pensato che, se
proprio dovevano concludere la serata con quelle strampalate, almeno avrebbero
dovuto farlo in un luogo parzialmente sicuro, dove Mitch potesse anche
raggiungerli. Il bilocale dove conviveva con gli altri tre era parso qui come
un’ancora di salvezza.
- Carino. – fu la prima parola di Charlie
quando fecero il loro ingresso in un cucinino disordinato, al terzo piano di un
edificio lindo e anonimo. Nonostante la ragazza sembrasse sincera, Nate non
riuscì a crederle; si limitò a lanciare le chiavi su un tavolino sepolto da
giornali e lattine di birra, prima di voltarsi verso i propri ospiti, rosso in
volto.
- Ewh. – vedendo il naso di Evie
arricciarsi nell’immediato istante in cui entrò nell’appartamento, Nate
distolse lo sguardo e sbuffo; la biondina fu seguita dalla tipetta che aveva
tentato di violentarli tutti in macchina, che subito si aprì in un grande
sorrisone, squadrando l’ambiente con gli occhi semicoperti dalla pesante frangetta
scarlatta, spettinata. – Dove devo dormire io? – cinguettò allegramente, prima
di saltellare in precario equilibrio fra i mobili, quasi fosse abituata ad
ambientarsi in fretta in uno spazio estraneo.
- Bene, principesse. Benvenute nella dimora
Kennedy, speriamo il viaggio sia stato confortevole e la sistemazione di vostro
gradimento. Gradite qualcosa per concludere la serata? – dopo l’attimo di shock
che sembrava aver colpito i neuroni lesi di Arrapato, ecco la ripresa di
controllo da parte degli ormoni del corpo del giovanotto; Charlie si volse a
squadrarlo, inarcando un sopracciglio, divertita anche se sospettosa in un
ambiente sconosciuto, in cui poteva essere svantaggiata. Da perfetta attrice,
lasciò che il ragazzo proseguisse con la pomposa presentazione di quel buco. –
Eddie, per servirti. – egli fece qualche passo avanti, prendendole un polso per
eseguire un baciamano decisamente poco galante, ma accompagnato da un sensuale
ghigno.
Evidentemente, non era così fuori di testa.
A volte, la stessa Charlie era sorpresa di
come potesse farla franca in qualsiasi contesto, a dispetto di come
l’organizzazione precisa di cui avrebbe voluto avvalersi le sfuggiva dalle
mani. Era in queste determinate occasioni che sentiva di avere il controllo
totale sul mondo, in un tripudio di supponenza che la faceva sentire
dannatamente bene.
Un istante dopo, il suo sguardo fu attratto
dalla sagoma di Ameba, o Alex, come le era stato presentato, che silenzioso
strisciò attraverso il bancone della cucina e s’infilò in una porticina scura,
sbattendosela alle spalle e scomparendo dalla loro vista così come era
arrivato.
Curioso.
- Non badare a lui, è un funambolo
dell’anima, un introspettivo, a quest’ora della notte ha bisogno di connettersi
al suo bambino interiore. – a quanto pare, Alex l’Ameba non era l’unica poeta
maledetto mancato, in questi cinque metri quadri scarsi che costituivano la
loro casa. E, dagli sguardi che le lanciava e dal modo in cui il suo pollice le
accarezzava il polso suadente, sembrava che quell’Eddie fosse determinato a
concludere in bellezza una nottata deludente. Charlot sorrise.
Sarebbe stato giusto farsi l’amico di quell’idiota? Perdiana, no. Sarebbe stato fantastico.
Magari, poteva divertirsi ancora un po’,
con quegli idioti. Quella notte era ancora sua: una perfetta festa di
compleanno.
- N-n-non f-fare l-lo s-sce-e-mo, E-eddie.
– borbottò Nate, lanciandosi sul divano-letto piazzato in un angolino di quella
stanzetta infernale, scrutando a braccia conserte la rossa svampita che
sembrava intenzionata a rompere tutti gli oggetti che le capitavano in mano nel
minor tempo possibile. Poi, lanciò un’occhiata a Evie attraverso il casco di
capelli ricciuti, arrossendo poi. – P-puoi se-sede-erti, s-sai? –
corrucciandosi ancora di più, il ragazzo sembrava voler sprofondare nei meandri
del divano.
- No. – Evie non si degnò nemmeno di alzare
lo sguardo. Quando voleva, sapeva essere molto snob, e inoltre era ancora
incollata al proprio palmare, sul quale muoveva freneticamente le dita in un
messaggio che pareva interminabile. Charlie sbuffò: ancora non aveva finito di
contattare gli altri.
- Dove tenete la bamba? –
Quando anche Carrie riemerse dalla
profondità del proprio essere e di una credenzina piuttosto lercia, la brunetta
decise di tagliare la corda col proprio nuovo principe azzurro.
- Ehi, conosco un giochino simpatico da
fare. – Improvvisamente, sentì una voce sussurrarle all’orecchio una proposta
che immediatamente la fece sorridere: la prospettiva di passare un’ora con un
tizio dalla personalità evidentemente schizofrenica, in uno squallido
appartamento, la sensazione di essere inattaccabile e onnipotente, erano inebrianti, se unite al fatto che
quell’altro stronzetto forse sarebbe tornata a casuccia dai suoi amichetti e
avrebbe trovato lei. – Servono due persone simpatiche e spigliate e un affare
che tengo in camera mia. – E poi, quell’Eddie “The Tune” Turner sembrava
proprio il tipo d’uomo col quale non ci si annoia, nel bene e nel male.
- Oh, è una Nikon? – Lo squittio eccitato
di Evie fu come un’esplosione nella stanza. Era raro vederla scomporsi per
qualcosa, ma il gioiellino che, nel marciume generale, aveva attirato la sua
attenzione meritava quell’eccesso. Senza chiedere nulla, la bionda prese in
mano la macchina fotografica, che sembrava d’ultima generazione e decisamente
troppo costosa per quel posto. – Posso vedere! -.
- D-DAMMI!
– ma prima che avesse il tempo di fare qualsiasi altra cosa, Nate la Vescica si
allungò verso di lei con la forza di un cannone, strappandole di mano la Nikon
e portandosela al petto scarno come se fosse stata la sua ultima ancora di
salvezza per il baratro.
Calò un silenzio di gelo.
- Dio, che maleducato. – Evie sembrava
appena scalfitta dall’accaduto, mentre il ragazzo ancora tremava, rosso di
rabbia e dell’imbarazzo suscitato dal fatto di avere gli occhi di tutti
addosso. Ma, non appena la ragazza prese post sul divanetto sfondato, fu chiaro
che non si sarebbe schiodata di lì fino a nuovo ordine, per fumare una
sigaretta dopo l’altra.
Charlie guardò Eddie con rinnovata impazienza.
– Allora, quand’è che mi porti lontano da qui? –
***
Mitch Anderson camminava per una stradina
laterale di Manhattan, veloce, a capo chino e zoppicante. Aveva ricevuto un
brutto calcio sullo stinco che ora lo stava facendo avanzare a rilento, ma la
rabbia che covava in corpo era più forte del dolore fisico e, soprattutto, era
abbinata al disperato bisogno di disinfettarsi al meglio.
I newyorkesi notturni non avevano degnato
di uno sguardo le ecchimosi sul viso, l’occhio nero, e vestiti stropicciati e
sporchi e i graffi sulle braccia: New York era una città per solitari e
menefreghisti. Ma le ferite bruciavano, e anche parecchio. Mitch sputò in un
tombino un grumo di saliva, lieto perlomeno di non sentire il gusto metallico
del sangue in bocca.
Sarebbe potuta andargli peggio.
Ma
Dio, quanto stava odiando quella nottata.
La montagna di muscoli e pelle che l’aveva
fermato fuori dal Gilmoure, un attimo dopo che quella stronza viziata rapisse i
suoi amici e lo lasciasse di sasso, si chiamava Aaron Kustor, ma era conosciuto
come The Iron Lad. Il soprannome era un omaggio a Margareth Thatcher, l’idolo
del omaccione inglese dall’aspetto brutale e dall’omosessualità rassicurante
per coloro che si ritrovavano indifesi contro la cattiveria di certa gente. Era
noto frequentatore di pub per drag queens, e vantava di aver avuto nella
propria vita di quarantenne numerosi partner, fra i quali Sir Elton John.
E fra questi ex fidanzati, ce n’era uno
storico nella cricca di frequentatori del Gilmoure di cui Mitch aveva fatto la
malaugurata conoscenza qualche settimana prima. Richie aveva collezionato una
serie infinita di boyfriends prima d’innamorarsi perdutamente di Adam e
perseguire l’obiettivo di convolare a giuste nozze con quel meraviglioso
connubio di stile e fascino hipster. Fra i poveri sfortunati che avevano dovuto
farsi da parte, c’era anche The Lad, che da allora aveva covato un profondo
rancore per ogni ragazzo si chiamasse Adam o per qualsiasi bambinetto indie
vagasse per le stesse feste che lui frequentava.
E di sicuro quella troia l’aveva saputo fin dall’inizio.
Mitch non era tipo da feste del genere. Non
si trovava mai a proprio agio fra figli di papà che fingevano di essere
disadattati, e in locali come il Gilmoure. Aveva sempre avuto l’impressione,
nelle occasioni in cui aveva frequentato la movida newyorkese che contava, di essere intriso a propria
volta di quell’ipocrisia per niente raffinata e decisamente fastidiosa che si
portavano appresso.
Ma avrebbe dato qualsiasi cosa per suonare in un posto come il Gilmoure.
New York era una città spietata con chi
proveniva dalla provincia americana, dagli stati retrogradi del Sud U.S.A. o più semplicemente con chi non era in
grado di ambientarsi in fretta e cambiare
in fretta, adattandosi ai ritmi di quell’isola che era un mondo a sé
stante. L’industria musicale aveva un gerarchia solida che ammetteva un artista
su mille di quelli con una storia tragica o comunque interessante alle spalle.
Quella newyorkese, poi, era particolarmente snob: se a Los Angeles manager e
dirigenti si facevano vedere volentieri a feste ed eventi in compagnia di
ragazzino di vent’anni più giovani, gli uomini d’affari di NYC rifuggivano la
grossolanità e preferivano sobri cocktails nei loro alti grattacieli, lontano
dalla spazzatura urbana.
A New York, i veri agganci per gli artisti
emergenti erano i giovani come loro. Giovani ricchi, giovani annoiati disposti
a mettere buone parole con genitori o conoscenti pur di soddisfare il proprio
bisogno di svago e poter scrivere su Twitter di essere stati promotori del
successo di un indie rock band, come quelle che andavano tanto di moda in quel
periodo.
Giovani
con soldi da spendere e sicurezza da acquistare.
Charlot Valenti non era un nome come tanti
altri in quella città raffinata e impaziente; apparteneva ad una cricca di
ragazzini incapaci ma potenti, e consapevoli di esserlo. Era una delle star
della Columbia, con quella capacità di essere presente un po’ ovunque ma
restare invisibile, inafferrabile. Avevano saputo della sua festa di compleanno
in ritardo: gli anni scorsi erano stati invitati da un giro di passaparola
incredibile, ma non erano mai riusciti a partecipare.
Troppo
insicuri.
Quell’anno erano andati con la missione di
fare colpo su qualcuno di quegli ipocriti.
Ma dovevano sapere che le troppe
aspettative generavano solo amarezza. Mitch, invece di affascinare, era rimasto
affascinato, da un serpente che con le proprie spire aveva avvolto la sua
razionalità. Nessuno saprà mai.
Generalmente, una regola taciuta era non fare nulla di proibito con possibili
datori di lavoro. La virtù porta
rimpianti.
Aveva perso di vista l’obiettivo quando lei
gli si era parata davanti, carina come tante, carismatica come poche. Insomma,
suadente.
Eppure gli avevano detto che quella ragazza
era una stronza con tanto di patente, una calcolatrice, una manipolatrice. Aveva pensato che finché
si limitava ad una bevuta e una scopata gratuita, poteva cavarsela con poco;
anzi, forse avrebbe addirittura potuto approfittarsene, per il bene della band
naturalmente. Ma quella Charlot aveva trovato il modo di non lasciarsi fregare
e di fregarlo, rigirando una situazione banale, quasi fastidiosa, a proprio
favore.
E farlo pestare per una miserabile
insubordinazione.
Mitch ancora non riusciva a rendersi
perfettamente conto di dove si trovasse. Ricordava che The Iron Lad gli si era
avvicinato proprio mentre la macchina rossa schizzava via: aveva urlato “Sei
tu, Adam?” prima di tirargli il primo cazzotto. Nessuna delle troiette che
l’avevano riconosciuto e osannato alla porta del Gilmoure era corsa in suo
aiuto. Solo qualche urletto, prima di correre ai ripari.
Aaron l’aveva poi trascinato nel vicolo più
vicino, quasi immune ai suoi tentativi di difendersi o di scappare. Chi li
aveva avvistati, si era girato dall’altra parte. L’aveva pestato per almeno un
quarto d’ora, prima di gettarsi a terra in ginocchio, per poi piangere come un
bambino. Un bambino intrappolato in una
montagna di muscoli e pelle nera.
Sarebbe potuta andargli peggio, davvero, ma
finché Aaron non se n’era andato, apparentemente dimentico di lui, non era
stato in grado di alzarsi.
Dopo attimi interminabili, si era ripulito
alla meglio e aveva riacquistato un minimo di senso dell’orientamento,
ricordando dove si trovasse. Si era rialzato a fatica, trovandosi indifferente
alla musica rimbombante che proveniva dal grattacielo, in confronto al pulsante
dolore sordo che avvertiva su tagli, ematomi, e un orgoglio ferito. Non aveva
dubbi che si trattasse di uno stratagemma di quella Charlie.
Ed era con questi pensieri a corrodergli il
cervello che aveva ritrovato la via di casa, a piedi, mentre attorno a lui la
città di risvegliava davvero, e non per tuffarsi in pub e discoteche. Avrebbe
anche visto un barlume di alba, se non fosse stato per gli ammassi di cemento e
vetro che gli oscuravano la vista. Non sapeva quali e quante vie aveva
percorso, ma poco a poco aveva riacquistato un minimo di confidenza con l’atto
di camminare e nella vista. Aveva iniziato a riconoscere i nomi delle vie, la
struttura degli edifici che lo circondavano. Aveva iniziato a smaltire la
sbornia
Aveva
iniziato ad arrabbiarsi di nuovo, come una bestia.
- Vi siete divertiti, stronzi? Dove cazzo
siete andati?! – spalancò la porta evidentemente convinto che in quella casa i
suoi amici fossero tornati, e che fossero soli.
Il guaio di Mitch, pensò Nate, era che
quelle non rare volte in cui si sentiva sicuro di sé fino all’inverosimile, per
lui erano fatali.
- Ciao! Come ti chiami? – La visione di
Nate rannicchiato sul divano, e due ragazze stese a pancia in giù in quel
pezzettino di pavimento rimasto libero da mobilio e scartoffie, fu il saluto
che giunse a Mitch come un colpo di pistola. Il ragazzo posò lo sguardo sulla
rossa sconosciuta che, pacifica, gli sorrideva da sopra un gioco di tavolo di
cui non ricordava la provenienza, o l’esistenza semplicemente. Sembrava
beatamente ignara di qualsiasi male nell’universo, ma aveva un’espressione vuota sul viso sorridente.
La chioma bionda dell’altra ragazza, quella
che gli dava le spalle, non accennava nemmeno a farsi vedere in faccia. – Tocca
a te, Carrie. – La sentì borbottare annoiata.
In pochi istanti, Nate gli fu addosso.
Mitch riuscì a vederlo in faccia per poco, prima che i folti capelli tornassero
a coprirgli il viso: aveva gli occhi sbarrati e la pelle rossa e sudato. Era
palese che stesse avendo uno di quegli attacchi di panico che erano soliti
delle situazioni su cui non aveva il controllo, ovvero quasi tutte; anche se stavolta Mitch non riusciva a non dargli
ragione.
- M-M-Mi-itch, n-non s-so c-che f-f-fare,
q-que-este n-non v-v-voglio-ono anda-a-arsen-ne e-e n-non s-sape-evo che t-ti
a-ave-evano f-fatto m-ma E-Eddie d-dice d-di r-rilas-sa-sa-sarsi, c-che
v-vole-evano s-solo f-farti u-u-uno sche-sche-sche… - quando Nate giunse al
punto in cui non fu più in grado di smuoversi dall’ultima sillaba pronunciata,
Mitch lo afferrò per il bavero della camicia, scuotendolo in modo molto forte e
decisamente rude. Un gesto necessario, se voleva che l’amico non proseguisse
come un disco rotto.
- Nate! Nate!
Basta. – Sibilò, non curandosi più delle due ragazze sul pavimento e
concentrandosi sull’amico. Il braccio sinistro gli doleva terribilmente, ma
continuò a tenere salda la presa sui vestiti del ragazzo che aveva di fronte,
avvertendo i muscoli di questo tremare convulsamente. – Dai, amico, stavo
scherzando anch’io, non sono incazzato. –
Eccome, se era incazzato. Non ce l’aveva
solo con quella sgualdrina, ma anche con quei tre disgraziati, che se n’erano
andati con lei.
Nate si accorse subito della bugia, infatti.
Come sempre quando l’ira prendeva il sopravvento su di lui, Mitch aveva le vene
del collo che pulsavano in maniera inquietante, fronte e naso rosso e
sopracciglia aggrottate in un’espressione arcigna che gli faceva guadagnare
vent’anni in più di quanti ne aveva. Ciononostante, Nate si calmò quasi subito;
non smise di tremare, ma chiuse la bocca e impedì al flusso di parole di
prendere la forma di un’apologia senza senso. Iniziò a respirare più a fondo.
- C-che
ca-caz-zo t-ti è s-suc-cesso? – poi irruppe in un irato strillo, un acuto
degno di una femminuccia, come l’avrebbe definito Eddie se non fosse stato
occupato a fare dell’altro. Si vergognò immediatamente, ma la preoccupazione
per le botte che gonfiavano la pelle dell’amico gli fece scordare in pochi
secondi l’imbarazzo. Come scottato, Mitch lasciò la presa dagli abiti
dell’amico, arricciando il naso in una smorfia che voleva essere da duro.
Ma
davanti alla quale Charlot Valenti sarebbe scoppiata a ridere. Amareggiato, Nate
la definì da pallone gonfiato. – E’ solo qualche graffio, vecchio. Tu
piuttosto, che hai combinato? – La conferma la ebbe con questa risposta,
pronunciata a denti stretti dall’offeso Mitch. – Te ne sei andato con quelle
sgualdrine, eh? Pensavo che almeno tu non ti saresti fatto fregare. –
ostentando un orgoglio incrollabile, ecco come l’amico lo stava affrontando.
Nate non si considerava affatto fortunato nel dovergli dire che la possibilità
di rifarsi dall’umiliazione stava nell’altra stanza a sollazzarsi con quello
scemo di Eddie.
- Chi
si è fatto fregare? –
Non fu Nate a rispondere. Una voce
femminile vagamente bassa, con una punta fastidiosa di noia in ogni accento e
sillaba, pronunciò quella domanda palesemente retorica prima che il ragazzo
avesse il tempo di balbettare qualsiasi cosa.
Nel riconoscere Evan McLair, la ragazza del
presentimento, quella che si era
fatta beffe di lui senza bisogno di parole sul sedile del passeggero della
Jaguar XF, Mitch fece quasi un infarto.
La ragazza gli sorrise, sfoderando la
smorfia di chi, dopo aver annusato un odore pessimo, incolpa educatamente il
vicino dello sgradevole misfatto. Le iridi cerulee brillarono, prima di tornare
alla solita noia.
- Lei è qui?! – ridandogli le spalle per
poter effettuare il proprio lancio di dadi e proseguire il gioco con Carrie,
Evie alzò gli occhi al soffitto grigiastro, trattenendosi a stento dallo
sbuffare sonoramente. Quel tipo sembrava uscito da un film d’azione di
quart’ordine. Era un pallone gonfiato, e Charlie l’aveva capito. Se l’era mangiato come spuntino.
Anche Nate aveva formulato questo pensiero.
Guardo di straforo la biondina, prima di posare nuovamente lo sguardo su Mitch,
che sembrava sul punto di esplodere. L’orgoglio era il punto forte e allo
stesso tempo debole di Mitch, e quella Charlot Valenti gliel’aveva fatta
grossa.
Il punto era che quella brunetta sembrava
il genere di persona abituata a fare a pezzi l’orgoglio della gente, e Mitch,
con quel suo istinto naturale del leader e la sua sicurezza, ancora non aveva capito che, anche se la
guerra non era sicuramente finita, quella primissima battaglia l’aveva vinta la
ragazza.
- E’ d-di l-là, c-con E-Eddie. –
E lo guardò partire come un toro verso la
porta della camera da letto.
But how was I to know
that she'd been shuffled before?
Said she'd never had a Royal Flush,
but I should have known
that all the cards were comin'
from the bottom of the pack.
And if I'd known what she was dealin' out
I'd have dealt it back.
( AC/DC – The Jack)
Li trovò seduti proprio sul suo letto. Il
narghilè comprato in un mercatino dell’usato in un lontano viaggio a Seattle
era in bilico a dividere i loro colpi, e il fumo che appestava la stanza li
circondava, trovando sbocco solo da una finestrella aperta quasi per dispetto.
Mitch non seppe dire se reputasse una sfortuna o una benedizione non averli
colti in pieno fattaccio.
Comunque, si erano impegnati per rendere la
situazione fraintendibile.
Charlot, seduta a gambe incrociate sulla
trapunta consunta, era in semplice biancheria, e aveva in mano il bocchino del
narghilè, un’espressione di soddisfazione sul viso e la bocca di Eddie sul
collo latteo. Il ragazzo sembrava essersi fumato tutte le scorte di cannabis
che avevano risparmiato in quei mesi, e ostentava la sensazione di pace col
mondo che doveva provare in quel momento. E nessuno di quei due disgraziati
mutò espressione quando lo videro entrare con la forza di un tuono, arrabbiato.
In un angolo, su un materasso ad acqua, giaceva la sagome di Alex, che dava
loro la schiena e pareva totalmente indifferente alla situazione e alle persone
presenti.
- Sei ancora qui. – era entrato nella
stanza con l’intenzione di spaccare il mondo a suon di urla e parolacce, ma di
fronte all’immagine di Charlie, che di nuovo appariva peccaminosa e disinibita,
si era pietrificato in una smorfia di disgusto che arrivava anche ai pugni,
serrati.
Eddie volse lo sguardo su di lui, e il
sorriso beato vacillò vistosamente: i suoi occhi, arrossati dal fumo, si
posarono sulla faccia in frantumi dell’amico, spalancandosi pericolosamente. –
Ma che cazzo, Mitch! – l’intelligente commento venne sputato un attimo dopo. E
forse, fu proprio quello il segnale che scatenò l’inferno.
- Eddie, esci da questa cazzo di stanza, ORA! – il sibilo assomigliava a
quello di un serpente inferocito e molto pericoloso, in procinto di attaccare
la propria preda. Eddie rimase imbambolato a fissare l’amico per qualche
istante, ma in si fece ripetere due volte l’avvertimento: l’erezione era
scemata e l’effetto della cannabis pure, sostituiti da una paura bestiale di essere
picchiato a sangue dal proprio coinquilino. Charlie non era più così
affascinante, di fronte a quella prospettiva. Afferrò la propria t-shirt in
velocità, passando accanto a Mitch come un fulmine per timore che l’amico,
ripensandoci, decidesse di non risparmiarlo e gonfiarlo di botte seduta stante.
Charlie rimase a guardare mentre il bel
ragazzo con il quale si era divertita per un numero interminabile di minuti se
la svignava, accavallando le gambe e attendendo che l’altro giocattolino della serata si facesse
sentire in tutta la propria potenza. Squadrò Mitch da capo a piedi, senza però
provare alcun divertimento, anzi, vestendosi di una serietà che non aveva
niente a che fare con la nudità della sua pelle. Una protezione per l’anima:
aveva l’impressione che non si sarebbe sottratta ad un confronto diretto con
qualche giochetto per dilettarsi.
Meglio
così.
Gli avrebbe dato un’altra lezione.
- Ti sei divertita? – l’ironia con cui le
pose la domanda era crudele e violenta, una combinazione di diverse emozioni
anche contrastanti, ma intense. Charlie osservò le sopracciglia scure inarcarsi
sul viso espressivo del ragazzo, il petto gonfiarsi di un nuovo respiro. Aprì
la bocca per sospirare, ed appoggiò un gomito sul ginocchio, mettendosi comoda.
– Certo, tu evidentemente ti diverti così. – la ragazza arricciò un labbro,
sentendo una vaga nausea provocata da quelle parole. Pretendeva di trattarla come se la conoscesse.
- Vorrei ucciderti, in questo momento. Dico
sul serio, vorrei ammazzarti! Cazzo!
– Charlie non faticava a crederci: non trattene un piccolo sussulto di
spavento, quando Mitch calciò con forza una sedie di legno dall’aspetto
malconcio, mandandola a sbattere contro il muro. Ma riacquistò immediatamente
la calma, rassicurata da
quell’atteggiamento. Orgoglioso, per lei il ragazzo pensava che
quell’atteggiamento da maschio dominante ferito ma di certo non morto potesse
riscattarlo dall’umiliazione; ai suoi occhi però, stava confermando sempre più
di essere un qualunque marmocchio in attesa di una sculacciata.
In realtà, Charlot Valenti era empatica
fino a dove voleva arrivare lei, e se lo avesse capito avrebbe anche intuito
che Mitch non si stava affatto difendendo, e soprattutto che non stava pensando.
- Credi di poter trattare la gente come una
merda solo perché un bel macchinone e degli amichetti servizievoli ti fanno
sentire la regina del mondo?! Dio, sei proprio la stronza di cui tutti parlano.
– per un attimo poi, Mitch, smise di camminare avanti e indietro come una fiera
in gabbia, puntandole l’indice contro. – E non
prenderla come un complimento, perché non sei una regina di ghiaccio col mondo
ai propri piedi, sei solo uno schifo di persona. Disposta a cadere in basso per
dimostrare agli altri di poterli manipolare! –
Charlot lo lasciò sfogare, ascoltando il
suo discorso dapprima affascinata, poi decisamente annoiata ed infine
infastidita. Un primo istinto le impose di alzarsi in piedi e reclamare delle
scuse, visto che quel disgraziato sembrava ancora non aver capito con chi
avesse a che fare. Ma s’impose un forte autocontrollo: Mitch non meritava tanto
spreco di energie, no?
E
poi, non sarebbe stato affatto coerente. Per quanto gli altri sparlassero, c’erano
dei valori tutti personali dietro quell’atteggiamento.
- Hai finito? – chiese poi, quasi interrompendolo
dopo l’ennesima valanga d’insulti, sforzandosi per mantenere un naturale
sorriso falso fino al midollo ed un tono tranquillo nella voce strafottente. Mitch
si volse a guardarla con astio di scatto, quasi facendosi male tanto improvviso
fu il movimento. – Sono davvero molto colpita, parole degne del miglior avvocato, o politico,
o quant’altro. – il sarcasmo col quale parlò, e quale si portò la mano sul
cuore delicata e velenosa, fu l’ennesima puntura di spillo per il ragazzo.
- Ma ti rendi conto di quello che fai?! –
Mitch spalancò le braccia, gridando. Il sorriso di Charlie non fece altro che
allargarsi. – Molto più di quello che credi tu. – egli non faticò a realizzare
che la ragazza stava parlando seriamente; fu un autentico tuffo al cuore, rendersi
conto che credeva fermamente in ciò che aveva fatto.
– Seriamente, perché sei ancora qui a
parlarmi? Credi di ottenere qualcosa con questi tuoi insulti sparati a caso,
con questa tua rabbia? Ti umili da
solo, cocco. Darmi della stronza, della troia, dell’atea fasulla, della
comunista o quello che vuoi non ti aiuterà a riguadagnare la dignità. Anzi,
ogni secondo che passa ne perdi un altro pezzettino. – Crudele, Charlie fece
segno di piccolezza con pollice ed indice, in un disegno che ben poco aveva di
dignitoso e che forse per questo era più che adatto. Le parole affluivano dal
cervello alla bocca senza sforzo, studiate nell’arco di due secondi da brava
improvvisatrice. Era una vera goduria sapere che lui stava ascoltando ogni
parola, e che credeva che lei avesse assimilato facilmente la scenata. Alex,
addormentato o forse solo indifferente, giaceva ancora sulla schiena.
- Hai addirittura sbattuta fuori dalla
camera il tuo amico. Andiamo, se ne avessi avuto l’opportunità, avresti fatto
esattamente come lui. Hai fatto di peggio, se così possiamo dire, al Gilmoure.
Non sprecare altro fiato. –
Poi tutto accade nel giro di pochi secondi.
Charlot si ritrovò schiacciata contro il
materasso dal peso di un corpo non così estraneo ormai. I polsi le dolevano, perché
si trovava sotto la morsa di mani brutali che li stavano stritolando,
trattenendole le braccia sopra la testa. Contro il viso poteva sentire
l’infrangersi di un respiro pesante, rabbioso come quello di un animale
selvaggio: il viso di Mitch era dove era stato fino a qualche ora prima,
separato dal suo da pochi centimetri di vuoto che sembravano non esistere
quando la ragazza posava gli occhi su quelli di lui.
Grigi
e tempestosi.
- Non giocare col fuoco, ragazzina. Potrai comandare a bacchetta
tutti i manichini della tua università per ricconi, ma IO non sono come loro e
non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo. – in quel momento, Charlot
pensò che davvero l’avrebbe uccisa con le proprie stesse mani; aveva una carica
d’ira che la opprimeva contro la superficie del letto più della forza di
gravità sui loro corpi. Il viso del ragazzo era una maschera di rabbia, e quel
che era peggio era che questa non era ancora esplosa: si stava trattenendo quel
tanto che bastava per non perdere completamente il controllo.
Per la prima volta in quella sera, Charlie
ebbe paura. E, poteva scommetterci, lui lo sapeva.
- Chiedi scusa. – poi arrivarono quelle due
parole. Erano più pesanti del cemento armato, più del corpo della ragazza che
fra le braccia di quello sconosciuto (perché altri non era che uno sconosciuto)
si sentiva pesante, oppressa da ogni propria azione. – Fallo. – quegli occhi
grigi ora avevano perso la loro cattiveria: erano soltanto duri, violenti come
quell’abbraccio.
Per tutta risposta, la ragazza allungò il
collo per toccargli la punta del naso con la lingua, languida e rapida.
Le dita attorno ai polsi si strinsero
ancora di più; Charlie non credeva fosse possibile trovare un peso più
insostenibile di quella leggerezza,
la leggerezza con cui l’aveva trattato per tutta la sera, e il modo in cui lui
glielo stava rinfacciando. – Chiedi scusa o, giuro, non sarò responsabile delle
mie azioni. – La durezza era stata di nuovo sostituita con la rabbia. Bene.
- Avanti, fallo. – il tono era quello di
una gatta che faceva le fusa, ma non riuscì a nascondere il tremore di quella
tensione.
Pesantezza,
leggerezza.
- Sai che non mi cambierebbe un bel niente.
–
Mitch per un attimo fu davvero tentato di
prenderla di nuovo lì, poco importava se nella stanza c’era Alex e in cucina
tutti gli altri. Voleva strapparle i vestiti di dosso senza sensualità, e
possederla pretendendo le sue scuse come gemiti, dimostrarle di non potersi
fare gabbare. Ma il sorriso che trovò su quelle labbra carnose gli dimostrò che
lei non aspettava altro, da lui: non vedeva l’ora di vederlo cedere alla
rabbia, di divertirsi un altro poco e poi andarsene con la prova sul proprio
corpo di aver lasciato un segno indelebile su di lui.
- Vai al diavolo. –
Rotolò su un fianco senza la minima
delicatezza, mettendosi poi a sedere sul bordo del letto e passandosi le mani
fra i capelli in un gesto di pura esasperazione. Charlot rimase per un attimo a
fissare il soffitto muffito, senza riuscire a godere di quell’improvvisa leggerezza ritrovata, che viva con gli
occhi sgranati e le braccia ancora alzate come lui le aveva messe.
Si sentiva indispettita? Sì. Perché aveva
creduto che lui si sarebbe allontanato dalle sue braccia solo dopo averle dato
conferma di ogni certezza. Ma ora Mitch attendeva che lei si rivestisse e se ne
andasse, portandosi dietro la propria cricca di amichette e il proprio essere leggero e pesante allo stesso tempo. Non pretendeva più nulla da lei, e
nemmeno la sua rabbia reclamava le scuse per cui per poco non le aveva mosso
violenza.
Aspettava
solo
che levasse le tende.
Si alzò in piedi arricciando il nasino,
dando volutamente la schiena al ragazzo per sottolineare il dispetto che
provava per Mitch. Afferrò poi con violenza le proprie scarpe col tacco,
buttate a terra in precedenza, riversando su di loro la propria collera per
seppellire in un angolo della testa la sensazione terribile di stare agendo
come una vera immatura. Il solo
campanello d’allarme del genere in tutta la sera.
Mitch osservò quella ragazza che era stata
in grado di scatenare l’inferno per qualche ora e, al contrario di ciò che si
aspettava, non la trovò affatto perfetta.
Era piuttosto alta, anche se in confronto a lui era uno scricciolo, ma non si
poteva dire che fosse magrissima: le gambe il sedere erano generosi, anche se i
fianchi erano stretti e non sembrava esserci l’ombra di pancia. Dal reggiseno
invece non faceva capolino granché, se non un leggera imbottitura che le donava
una prima. E col trucco sbavato e i capelli scompigliati sembrava aver bisogno
di una bella dormita.
E quando si accorse che la stava fissando,
Charlie non poté nascondere un vago senso di disagio, una vulnerabilità che
colpi i suoi occhi con rapidità ma con dolore. Mascherò subito e bene
quell’emozione indefinita, ma Mitch fece in tempo ad accorgersene, assorbendo
quella visione come un boccone amaro mentre lei si rinfilava il vestito rosso.
Il ragazzo si rese conto che tutto ciò che lei voleva era sembrare perfetta e
sfruttare questa sembianza, ma esserlo realmente era tutta un’altra storia.
Almeno, avrebbe ricordato un’immagine di
lei che fosse vera.
Evie guardò l’orologio digitale appeso in
un angolo, prima di posare lo sguardo su The Tune, che da quando era stato
cacciato dalla camera da letto sembrava intenzionata a far sapere al mondo la situazione
insoddisfacente nei suoi pantaloni, facendo a gara di urla con due piccioncini
di un appartamento nello stesso palazzo.
Si stava annoiando da morire: non sopportava quelle trovate di Charlie, perché spesso e
volentieri l’amica non le lasciava altra opportunità oltre a seguirla verso i
posti più bassi e disgustosi di New York. Charlie era anche più snob di lei, ma
si adattava più velocemente, ed Evie associava all’arroganza aristocratica un
certo disagio nel trovarsi in mezzo a gente che non l’avrebbe mai capita,
nemmeno con tutta la buona volontà e il tempo del mondo.
Come
quei tizi.
- T-ti p-pia-ace l-la m-musica? – Nate, o
Vescica, cercava di fare conversazione da quando lei e Carrie avevano finito la
partita ad un gioco dal nome impronunciabile, con ovvia vittoria di Evie. Si
vedeva che nemmeno a lui andava bene aver per casa tre perfette sconosciute che
l’aveva trascinato in un’avventura delirante, e per nulla gradita. Era nervoso,
e scattava ad ogni loro movimento: cercava di tenere in piedi qualche parola
giusto per non sentirsi ancora più a disagio.
- Non particolarmente. – rispose annoiata,
appoggiando il mento alla mano e continuando a guardare Carrie che cercava di
capire cosa stesse dicendo Eddie, il quale blaterava di un narghilè e di due
paia di gambe che non l’avrebbero atteso più. Poi, la porta si aprì.
Charlie attraversò con lunghe falcate
quella sorta di cucinino per sfigati, facendole cenno frettolosamente di
alzarsi dal divano letto. – Andiamocene. – aveva aspettato tutta la sera di
sentirsi dire quelle parole, eppure Evie aveva l’impressione che ci fosse un
suono sbagliato in quella voce, che avrebbe dovuto essere armoniosa e calda di
una vittoria. Invece, sembrava proprio che Charlot avesse appena preso picche,
un’opzione non contemplabile nella normalità delle cose.
Istintivamente, Evie sorrise: ne avrebbe
sentite di belle, una volta tornata a casa. Poco importava che domani ci
fossero le lezioni, che ancora non sapevano cosa fosse successo al Gilmoure,
che domani fosse semplicemente un altro giorno, pieno di cosa da sbrigare e
persone da rassicurare. Prese Carrie per mano, e senza una parola uscì da
quell’appartamento di matti.
In
fondo, quel domani di cui parlava era già finito da quattro ore.
Tutto quello che lei avrebbe voluto, sarebbe
stata una nuova alba.
All that she wants is another baby,
she's
gone tomorrow.
(Ace of Base – All That She Wants)
NOTE DELL’AUTRICE
Un grande ritorno, dopo praticamente otto
mesi di assenza da EFP (circa, non ho tenuto il conto preciso). La mia
ispirazione ha fatto cilecca, però alla fine non mi ha impedito di pensare di
nuovo a Charlie e ai poveri quattro nuovi arrivati nella storia.
Spero, come sempre, di non essere stata
scontata, noiosa, o poco credibile nella storia. Smetto di cianciare, vi lascio
le citazioni.
Non so se fra gli amanti di Sir Elton John
ci si anche un certo The Lad, ma questo è un personaggio creato da me, e in
quanto tale ne detengo i diritti,
come di tutti gli altri personaggi originali della storia.
“Nessuno
saprà mai.” e “La virtù porta
rimpianti.” sono versi della canzone Serpente
dei Subsonica.
“Atea
fasulla.”, omaggio a quella capra di V.S.
“Trovare
un peso più insostenibile di quella leggerezza.” e quanto di simile segue,
da L’insostenibile leggerezza dell’essere,
di Milan Kundera.
E poi basta. Caspiterina, così poche
citazioni? Ebbene sì.
Vi lascio alcune foto prese da Lookbook, la
mia idea di come dovrebbero essere i miei quattro disgraziati.