Shine on, you crazy diamond

di dardeile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Narcissa Malfoy sedeva alla destra di suo marito, quella sera; fuori la neve batteva forte sui

vetri delle alte finestre, mentre il vento scuoteva le chiome degli alberi, implacabile. L’inverno

imperversava in tutta la Gran Bretagna, uno dei peggiori degli ultimi dieci anni. Le temperature

si rifiutavano di risalire al di sopra dello zero, e la neve non faceva in tempo a sciogliersi che una

nuova, fitta coltre ricopriva il terreno bagnato.

 

Fra le mura di Villa Malfoy gli elfi domestici lavoravano sodo per tenere l’inverno al di fuori della

grande magione. I caminetti erano accesi tutto il giorno, tutti i giorni, e tenuti sotto controllo nel

caso qualche fiamma si affievolisse. La casa era una fortezza che offriva ai suoi abitanti un riparo

dal rigido gelo che infestava il paese. E se mai un caminetto si fosse spento, l’elfo responsabile

sapeva che sarebbe stato il nuovo ornamento del “muro delle teste”.

 

Anche quella sera nella grande, lussuosa sala da pranzo della villa il fuoco ardeva nel caminetto

in marmo, gettando un sinistro bagliore rossastro sullo specchio che lo sovrastava, e collaborava a

far luce nella stanza, i cui soffitti erano troppo alti per essere perfettamente illuminati dal pesante

lampadario che pendeva basso sulla tavola.

 

Lucius Malfoy poggiò le posate sui bordi del piatto e si pulì gli angoli della bocca, e rivolse un

sorriso soddisfatto alla moglie, che rispose educatamente con un cenno della testa. Una piccola

elfa domestica trotterellò nella stanza e fece un profondo inchino, schiarendosi la gola per attirare

l’attenzione dei suoi padroni. Entrambi si voltarono nella sua direzione e Narcissa, con voce altera,

ordinò all’elfa di portare via i piatti.

 

Con uno schiocco delle piccole dita dell’elfa i piatti si smaterializzarono, rimpiazzati da due piccoli

bicchieri colmi di un liquido ambrato; l’elfa indietreggiò lentamente e, con un profondo inchino

reverenziale, uscì dalla stanza.

 

Lucius bevve dal suo bicchiere, svuotandolo del suo contenuto con un grande sorso. Narcissa seguì

il movimento del pomo d’Adamo del marito, e poi posò lo sguardo sul suo bicchiere, perdendosi nei

suoi pensieri.

 

“A cosa pensi?” le chiese Lucius, poggiando il bicchiere sul tavolo.

 

Narcissa alzo lo sguardo velocemente e si stampò un sorriso sul volto, il più velocemente

possibile. “Nulla d’importante. Non credo di volerlo,” aggiunse, spingendo il calice verso suo

marito ed invitandolo a bere al suo posto con un cenno della mano.

 

Lucius la scrutò, cercando di leggerle dentro, ma dopo un primo tentativo decise che forse era

solo uno di quei giorni in cui Narcissa era lontana da lui, presa dai suoi pensieri e dalle sue

preoccupazioni.

 

“Ancora la profezia?” le chiese, chinandosi verso il bracciolo della sedia e piegando leggermente la

testa.

 

Narcissa abbassò lo sguardo e strinse le labbra. “Ti ho detto che non è niente,” ripeté la donna,

appoggiandosi allo schienale. “Non insistere.”

 

Lucius scosse la testa e Narcissa lo detestò per quanto riusciva a capirla. Sì, era di nuovo la profezia

che la preoccupava. Non tanto la cosa in sé, ma il fatto che Lucius fosse stato messo a capo della

squadra che avrebbe dovuto entrare nel ministero, ingannare Potter, costringerlo a prendere la

profezia e consegnarla. Il Signore Oscuro aveva affidato il compito a Lucius ed altri due uomini,

entrambi folli e senza scrupoli, Mangiamorte invasati e così incredibilmente devoti da prendere per

oro colato tutto quello che usciva da quella bocca sottile e serpentesca.

 

Lucius era diverso, lei lo sapeva. Lucius aveva ragioni dietro la sua affiliazione al circolo mortifero;

aveva motivi che andavano al di là dell’adorazione per quell’individuo che tutti cercavano di

soddisfare. Lucius cercava di ristabilire la purezza del sangue, cercava di agire per ridare ai maghi

ciò che era stato negato loro: la libertà di essere maghi senza costrizioni, o Statuti magici che

controllassero ogni loro mossa.

 

Narcissa aveva però l’impressione che quella che era cominciata come una missione sacrosanta si

fosse trasformata in un massacro senza pilastri, lo sfogo di un gruppo di repressi sanguinari che in

questo modo giustificavano le loro scorribande. Il suo Lucius non era così, e odiava che per volere

del Signore Oscuro si dovesse mischiare a quegli squilibrati.

 

A preoccuparla ancora di più era il fatto che fossero solo tre, ad entrare al Ministero. Era sicuro?

Non sarebbe stato meglio mandare un manipolo più numeroso, pronto a fronteggiare eventuali

imprevisti? E se gli Auror fossero stati di guardia, come già era successo? E se questa volta non

fossero stati così fortunati da trovare una sola persona, a guardia della profezia, ma l’intero dannato

Ordine della Fenice? Suo marito era dotato, ma quali possibilità avrebbe avuto contro venti Auror

altamente specializzati? Venti contro tre: una missione suicida.

 

“Scusami Lucius, ma continuo a non capire,” esordì Narcissa, fondamentalmente incapace di tenere

il suo disappunto per sé. “Perché tu? Perché proprio tu? Non hai pensato neanche per un secondo

che forse manda te semplicemente perché sei l’unico rimasto? L’unico che è stato abbastanza furbo

da rimanere fuori da Azkaban?”

 

Ma non appena le parole le furono uscite dalla bocce, le rimpianse. Sapeva di aver sbagliato, e

vide il suo errore dipinto sul viso di suo marito, che le schioccò un’occhiataccia, alzandosi così

bruscamente da far cadere la sedia con l’interno delle ginocchia.

 

“Davvero pensi questo? Pensi che sia tanto incapace da non meritare di essere messo a capo di

qualcosa di così importante? Pensi che se tuo cognato fosse stato qua, sarebbe stato al mio posto?”

esclamò, alzando la voce. Narcissa sussultò alla menzione del cognato, ben conscia di quanto suo

marito avesse sofferto di essere infinitamente meno importante di Rodolphus Lestrange agli occhi

di Lord Voldemort. “Dimmi Narcissa, è davvero questo che pensi di tuo marito?”

 

Narcissa continuò a fissarlo, immobile, altera nella sua sedia, le mani elegantemente poggiate sul

proprio grembo, distinta e nobile nell’anima quanto nel sangue. Con un sorriso gelido, si alzò anche

lei, molto più delicatamente, e fece per voltarsi nella direzione opposta, indicando la volontà di

lasciare la stanza, ma Lucius le afferrò il polso e la costrinse a guardarlo ancora negli occhi.

 

“Lasciami immediatamente,” sussurrò Narcissa, e la sua voce non tradì un briciolo di emozione se

non il disgusto per l’esplosione fuori luogo ed esagerata del marito. “Non mi interessa l’importanza

che credi questa missione ti dia all’interno del tuo piccolo club, ma qui rimani lo stesso uomo di

sempre. Nulla cambierà, Lucius. Nulla cambierà mai.”

 

Lucius ritrasse la mano, come scottato, e Narcissa si avviò verso la porta, con passi lunghi e decisi,

la faccia contorta dalla rabbia, con gli occhi sgranati e la bocca che tremava per l’affronto. Spinse

con forza la pesante porta e uscì dalla stanza, sbattendola dietro di sé. Se Lucius voleva illudersi

di essere entrato nelle grazie del Signore Oscuro, lei non sarebbe stata lì ad assecondarlo. Perché

proprio lei, Narcissa, sapeva che solo una persona poteva vantare di tale titolo, e non era certo suo

marito, e nemmeno Rodolphus.

 

Sentì un brivido percorrerle la spina dorsale ed uno spiffero la colse di sorpresa. Qualcuno aveva

lasciato una porta, o una finestra, aperta? Da dove proveniva quella brezza? Perché il fuoco non

scaldava più il grande atrio? Perché all’improvviso faceva così freddo?

 

Girò su se stessa, cercando di individuare la fonte dello spiffero, ma tutte le finestre del gigantesco

atrio erano sigillate come da ordini. Il fuoco nel caminetto, più grande di quello della sala da

pranzo, tremò leggermente e come se una volata di vento si fosse abbattuta su di esso, la fiamma si

spense completamente, lasciando la stanza nel buio più totale.

 

Lei capì immediatamente cosa stava succedendo e abbassò il capo, pronta a ricevere la visita che

quei segni annunciavano. E infatti, dopo soli pochi secondi, nella stanza si Materializzò un’ombra

che Narcissa conosceva perfettamente. Nel buio era impossibile distinguerne bene i tratti, ma il

pallore malato della carnagione dell’uomo sembrò risplendere in piena unione con la neve che si

intravedeva alle sue spalle, oltre i vetri.

 

“Mio Signore,” sussurrò Narcissa, abbassando nuovamente lo sguardo in un atteggiamento

referenziale. “Lucius è nella stanza accanto.”

 

“Non cercavo Lucius,” rispose la voce acuta e gelida di Lord Voldemort. “Cercavo te, Narcissa. Ho

qualcosa da affidarti. Qualcosa di molto importante.”

 

Narcissa osò levare lo sguardo e vide Voldemort che la fissava, intensamente, come se cercasse di

carpire la sua disponibilità dalla scintilla nei suoi occhi. Cosa strana in sé, perché Lord Voldemort

non chiedeva mai la disponibilità di qualcuno; egli ordinava, esigeva, pretendeva.

 

Quindi Narcissa annuì. “Certo, Mio Signore.”

 

Voldemort abbasso lo sguardo e Narcissa notò per la prima volta che qualcosa era sul pavimento,

parzialmente coperto dalla sua vista dalla larga veste nera di Voldemort. Quando si fu accorto che

Narcissa aveva individuato il motivo della sua venuta, Voldemort fece un passo di lato e spostò il mantello drammaticamente, rivelando quello che all’ombra sembrava un ammasso informe di

stracci sporchi.

 

Narcissa non capiva cosa fosse tanto importante per un uomo tanto potente. Cos’era? Cosa

nascondeva, quella pila di pezze? Si avvicinò e notò che si muoveva. Respirava. Qualcosa, là

sotto, era vivo e cominciava a dare segni di agitazione. Come se avvertisse il disagio di Narcissa,

Voldemort puntò la temibile bacchetta di fenice verso il caminetto, dove la stessa fiamma che poco

prima era morta tornò ad ardere.

 

Narcissa portò entrambe le mani alla bocca e trasalì, quando vide le gambe e le braccia magrissime

spuntare da sotto quella veste così sporca, e la massa di capelli neri, indomabili che nascondeva il

volto di ciò che il signore Oscuro aveva portato in casa sua.

 

Non aveva bisogno di vederne il volto, avrebbe riconosciuto quella sagoma dappertutto, nonostante

la magrezza eccessiva ed i segni della prigionia.

 

“Bella!” Narcissa esclamò, quasi strillando, gettandosi ai piedi di Voldemort, ma non in uno di quei

gesti adoranti che aveva visto fare a tanti Mangiamorte in passato, e spesso proprio dalla stessa

Bellatrix che ora giaceva in stato di semi-incoscienza sul pavimento bianco. Quel movimento

inconsulto fu una reazione incontrollabile alla vista della sorella, nulla aveva a che fare con l’uomo

che ora assisteva alla scena, impassibile. “Bella,” ripeté Narcissa, afferrando il corpo dalle spalle e

spostandola come una bambola di pezza finché il viso non fu alla luce del camino.

 

Forse un estraneo, chiunque avesse visto Bellatrix Black una volta nel passato, non l’avrebbe

riconosciuta: gli occhi erano chiusi, cerchiati dalle profonde occhiaie scure e da i segni della

mancanza di sonno (e pace), mentre la bocca era socchiusa, con quelle labbra secche e troppo

pallide che mostravano i denti ingialliti dalla tortura che era stata Azkaban.

 

Ma Narcissa non era un’estranea, e nonostante le condizioni di devastazione in cui Bellatrix aveva

vissuto negli ultimi quattordici anni avessero senz’altro segnato la donna, lei l’avrebbe riconosciuta

dappertutto. “Bella,” Narcissa sussurrò di nuovo, avvicinando il viso a quello della sorella e

sentendo il respiro affaticato e le parole strascicate ma incomprensibili che le uscivano dalla bocca.

 

“Narcissa,” Voldemort la chiamò, e lei si voltò senza lasciare andare il corpo della sorella.

Guardò in alto verso l’uomo che le aveva causato tanto dolore, a lei e a tutta la sua famiglia, tanta

disperazione; eppure non riuscì a non provare un moto di gratitudine inspiegabile e improvviso per

averle ridato la sorella che Narcissa credeva di aver perso per sempre.

 

“Come ha fatto ad evadere?” Narcissa chiese, non riuscendo più a trattenere il singhiozzo che la

scuoteva mentre sentiva il corpo freddo della sorella fra le mani, incredibilmente grata di sentirne il

tremore e il respiro.

 

Era qualcosa di incredibile: come se il suo stesso sangue ne avesse avvertito la presenza, sentiva il

suo cuore che pompava più forte, come se la presenza della sorella avesse risvegliato ogni fibra nel

suo corpo in modo così naturale ed involontario che si chiese per un secondo se il sangue fosse in

grado di avvertire la presenza di altro sangue della stessa matrice.

 

“Questo non importa,” Voldemort disse, ed era chiaro che non ammetteva repliche. “Quello che

conta è che ora sono liberi. Tutti.”

 

“Tutti?” Narcissa chiese, la voce tremante. “Liberi?”

 

“I miei Mangiamorte,” Voldemort spiegò. “Ognuno è al sicuro, e questo è il posto più sicuro per lei.

Contavo sul fatto che l’avresti aiutata. Lo farai?”

 

“Ma certo, mio Signore, certo che la aiuterò,” Narcissa disse, tornando a guardare la sorella,

tenendole la testa leggermente sollevata, appoggiata sulle sue gambe. “È mia sorella…” aggiunse,

in poco più di un sussurro.

 

“Rimettila in sesto,” Voldemort disse, autoritario. “Nutrila, lavala, falla riposare. Fa in modo

che domani, quando io e gli altri Mangiamorte torneremo per la riunione, sia la Bellatrix di

sempre. È un ordine, Narcissa. Io ti ho ridato tua sorella…” Narcissa chiuse gli occhi, ascoltando

Voldemort. “… ma tu restituiscimi la mia guerriera.”

 

Sentì un movimento improvviso e veloce alle sue spalle e seppe che il Signore oscuro si era

Smaterializzato. Narcissa non distolse gli occhi dal viso di sua sorella nemmeno per un attimo;

tenendola stretta a sè, allungò una mano sulla guancia di Bellatrix per scostare i capelli e sorrise.

 

“Bella,” chiamò, come cullandola. “Bella.” Ancora e ancora, finché finalmente Bellatrix aprì gli

occhi, giusto due fessure per vedere chi la chiamava, chi la teneva, a chi appartenevano le mani che

le scaldavano dopo i quattordici anni di freddo ad Azkaban.

 

Narcissa, che aveva provato a trattenere le lacrime, si arrese e sorrise alla sorella quando quegli

occhi scuri si posarono sul suo viso. Tra le lacrime, riuscì ad annuire e sussurrarle parole. Le disse

che era al sicuro, che era a casa, che finalmente era libera e che non l’avrebbe lasciata andare.

 

Le labbra di Bellatrix si mossero, impercettibilmente, e Narcissa dovette avvicinarsi ancora di più

per riuscire ad afferrare cosa la sorella stesse cercando di dire.

 

“È tornato,” stava dicendo, con l’unico briciolo di forza che i Dissennatori non erano riusciti a

strapparle. “È tornato a prendermi.”

 

Prima che Narcissa potesse pronunciare qualsiasi risposta, una porta nelle vicinanze si aprì

violentemente. Alzò lo sguardo in tempo per vedere Lucius che usciva dalla sala da pranzo e

camminava, a testa bassa, verso la grande scalinata che portava alle camere da letto.”Lucius,”

mormorò, e lui si voltò nella sua direzione.

 

Narcissa teneva la sorella fra le braccia, sul pavimento, le sorreggeva la testa, le accarezzava i

capelli e le strofinava la pelle delle braccia, cercando di riscaldarla. Lucius rimase impietrito,

immobile davanti a quella scena. Aprì la bocca un paio di volte, senza riuscire a proferir parola,

richiudendola subito dopo.

 

“Narcissa, ma quella…” cominciò, e Narcissa annuì, sorridendo fra le ultime lacrime. “Come…

Quando…”

 

“Il Signore Oscuro l’ha portata qui, Lucius,” Narcissa esclamò. “Lei e tutti gli altri, sono tutti fuori

da Azkaban, Lucius! Li ha liberati tutti!” Tornò a guardare la sorella in modo amorevole. “Sono

tutti liberi.”

 

“Tutti?” C’era qualcosa di strano nella voce di Lucius, panico misto a incertezza. Narcissa tornò

a guardarlo, comprendendo la fonte delle sue preoccupazioni: se finora aveva potuto sperare di

guadagnare un posto privilegiato tra i Mangiamorte, con Rodolphus, Barty Jr e Bellatrix di nuovo

a piede libero non aveva speranza. Di fatto, la presenza della cognata nella sua magione significava

solo una cosa, per Lucius Malfoy: il fallimento.

 

“Aiutami a portarla di sopra,” Narcissa gli ordinò. “Portiamola nella stanza degli ospiti. Dormirà

per quanto ha bisogno, e quando si sveglierà mi prenderò cura di lei.”

 

“Ma Narcissa, hai idea di quanto sia pericoloso? A quest’ora ci saranno Auror sguinzagliati per il

paese! È una ricercata, e il primo posto in cui verranno a cercarla è questo!” Lucius non lo disse

ad alta voce, ma sperava che la trovassero. Sperava che in quel preciso istante uno squadrone di

Auror del Ministero gli piombasse in casa e la riportasse ad Azkaban, dove la sua essenza non

rappresentava una minaccia.

 

“Se verranno lo sapremo, Macnair ci avvertirà!” Narcissa spiegò, cercando di alzarsi sorreggendo

la sorella. “La nasconderemo in cantina, insieme a tutte le altre cose che sei bravissimo a tener

nascoste alle autorità. Ora vieni, aiutami!”

 

Lucius sospirò e si avvicinò alla moglie; senza tante cerimonie prese Bellatrix dalle sue braccia e la

issò sulle sue, come tante volte aveva fatto con Draco quando si addormentava davanti al caminetto.

Guardò la donna fra le sue braccia e si chiese quanto fosse patetico sentirsi minacciato da una donna

più morta che viva.

 

“Portiamola su, avanti,” Narcissa disse, avviandosi verso le scale. Lucius la seguì, su per l’immensa

scalinata, mantenendo lo sguardo fisso sul viso incavato di Bellatrix. Lì, mentre teneva la cognata

fra le braccia, ricordò l’ultima volta che si erano visti.

 

Avevano sentito il bussare frenetico alla grande porta d’ingresso e tutti i presenti si erano

immobilizzati: Lucius, Narcissa, Rodolphus, Rabastan, Barty Jr, Rockwood e Bellatrix. Aspettavano

tutti notizie dal padrone, notizie sulla missione più importante da quando erano stati marchiati.

Una missione che non era stata affidata a loro, una missione che il loro Signore avrebbe dovuto

compiere da solo, quella notte del 31 Ottobre.

 

Lucius e Bellatrix furono i primi a balzare in piedi e corsero attraverso la grande sala da pranzo,

fuori nell’atrio, fino alla porta, come due bambini che corrono ad abbracciare il padre che

torna a casa dopo una giornata di lavoro. Aprirono la porta, entrambi con gli occhi sbarrati

dall’emozione, dalla felicità, pronti a ricevere la notizia della vittoria del loro padrone.

 

Ma fu Dolohov che entrò correndo, senza fiato, urtando entrambi, col terrore negli occhi. La

porta rimase aperta, mentre pian piano gli altri Mangiamorte, e Narcissa, si unirono a loro.

Tutti guardavano Dolohov, che si accasciava sul pavimento lentamente, a gattoni, e respirava

freneticamente, con gli occhi assenti.

 

“I Potter sono morti,” sussurrò.

 

Grida di giubilo si alzarono dai presenti, persino Lucius e Bellatrix si guardarono e si sorrisero

in preda all’euforia dell’ennesima schiacciante vittoria. Narcissa osservava il marito e la

sorella dall’ombra della stanza. Non esultava: era l’unica ad aver percepito la stranezza nel

comportamento di Dolohov, l’unica ad aver capito che era successo qualcosa. L’espressione del

Mangiamorte non era una di esultanza, era una di terrore.

 

“Lucius,” gridò sopra le urla degli altri, e suo marito si girò per ascoltarla. Lei fece segno con la

testa verso l’uomo che era ancora per terra e non alzava lo sguardo; Dolohov tremava, dalla testa

ai piedi, e il respiro gli si faceva più veloce. Bellatrix si avvicinò e lo guardò dall’alto al basso, il

furore di prima rimpiazzato da un’espressione incerta, più cupa. Narcissa le si avvicinò, le stava

dietro e anche lei guardava verso Dolohov che continuava a contorcersi sul pavimento in preda a

un dolore invisibile, non fisico quanto psicologico.

 

“Dolohov,” Bellatrix mormorò. “Dolohov, cosa è successo? DOLOHOV!” gridò, piegandosi

sull’uomo e afferrandolo per i capelli, costringendolo a girarsi, a guardarla negli occhi. “DOV’E’

IL SIGNORE OSCURO, DOLOHOV!”

 

Ma l’uomo non parlava, riusciva solo a piagnucolare parole sconnesse che non avevano alcun

senso per nessuno dei presenti. Narcissa conosceva la sorella, sapeva che stava per perdere il

controllo, quindi si abbasso e le posò le mani sulle spalle. “Bella, calmati.”

 

“ZITTA!” le urlò Bellatrix, spingendola via e facendola cadere all’indietro. Lucius fece un passo

avanti, per aiutare la moglie, ma Narcissa fu più veloce e scosse la testa: non voleva essere aiutata,

ci era abituata… Dopotutto era sua sorella.

 

Fu dopo che Bellatrix lo scosse che il Mangiamorte ansimante riuscì a guardarla negli occhi,

guardarla davvero, e a sussurrare quelle parole che li avrebbero tormentati per il resto della loro

esistenza. “Il Signore Oscuro è morto.”

 

Ci fu un silenzio incerto, in cui nessuno osò fiatare. Bellatrix lo lasciò andare e si rialzò, e lo stesso

fece anche Narcissa, rimanendo al fianco della sorella. Sapeva cosa stava per succedere.

 

Bellatrix ridacchiò. “Sei uno stupido Dolohov,” disse. “Il Signore Oscuro non può morire! Sarà

senz’altro uno dei suoi trucchi per confondere il Ministero, e gettare panico e scompiglio.”

 

“No Bellatrix!” Dolohov gridò mentre Bellatrix si allontanava, quel ghigno di chi crede di sapere

tutto ancora stampato sul viso. Narcissa si guardò intorno: sua sorella era l’unica a essere

serenamente convinta della vittoria del suo padrone, mentre sui visi di tutti gli altri vi era tutto un

altro racconto. “Bellatrix, ascoltami!” continuava a gridare Dolohov. “Se non mi credi, guarda il

tuo Marchio, folle! GUARDALO!”

 

Bellatrix si voltò di scattò, furente. “Il mio Marchio è perfettamente normale!” gridò.

 

Narcissa spostò lo sguardo sugli altri Mangiamorte che, uno ad uno, si tiravano su la manica

sinistra della veste, e vide il poco colore rimasto nei loro visi sparire completamente. Erano tanti

fantasmi, i seguaci-fantasmi di un uomo sconfitto.

 

“GUARDALO!” ripeté Dolohov, alzando la sua manica e mostrandole il pallido ricordo di quello

che era stato il Marchio Nero, una volta di un nero vivido, ora ridotto a poco più di un ricordo

sbiadito.

 

Gli occhi di Bellatrix si posarono su ciò che restava del Marchio dell’uomo e il ghigno scomparve.

Narcissa la guardava attentamente, e vide qualcosa negli occhi della sorella, un lampo, una

scintilla, il segno inequivocabile di qualcosa che si rompeva: la speranza, la fede, la certezza

dell’incolumità dell’amato padrone. Contro se stessa, si riavvicinò alla sorella, e le si parò

davanti, prendendole il viso bruscamente con la mani, afferrandola per il mento e costringendola a

guardarla.

 

Intorno a loro due gli altri Mangiamorte cominciavano ad agitarsi, e si chiedevano cosa rimaneva

da fare, dove nascondersi, come potesse essere successo. Dolohov dava una spiegazione strana,

raccontava di un Avada Kedavra rimbalzato, di una casa interamente distrutta, di un padrone

scomparso. Mentre intorno a loro dilagava la paura, Narcissa e Bellatrix si guardavano.

 

“Devi scappare,” disse Narcissa. “Prendi Rodolphus, lasciate il paese; saranno qui a breve.

Dovete nascondervi. Germania, Francia, qualsiasi posto, ma lasciate la Gran Bretagna e non

fidatevi di nessuno.”

 

Bellatrix la sentiva, ma non la ascoltava. Le pupille le si dilatavano sempre di più finché

improvvisamente cacciò un urlo, disperato, folle, bestiale, che le ricordò della notte in cui era

morta sua madre ed era stata lei stessa, Narcissa, a urlare così.

 

“No,” esclamò Bellatrix. “NO!”

 

“Bellatrix, dovete andare ORA!” continuava a dire Narcissa, ma Bellatrix oramai era lontana da

lei, lontana da tutto quello che era il presente. E forse, quel qualcosa che aveva visto spezzarsi

nella sorella, insieme alla speranza, era proprio la percezione della realtà.

 

“NO!” gridò ancora Bellatrix, divincolandosi. “DOBBIAMO TROVARLO!”

 

“Non c’è più niente da fare,” sussurrava Dolohov, guardando in basso in modo sconfitto.

 

“CODARDI!” gridava Bellatrix “DOBBIAMO TROVARLO! CERCHIAMO GLI AUROR, LORO

SAPRANNO DOV’E’!”

 

Lucius si fece avanti e cercò di parlarle in modo ragionevole. “Bellatrix, non possiamo rivolgerci

agli Auror, ci staranno cercando. Dovete nascondervi, voi che siete stati così apertamente dalla

parte dell’Oscuro Signore siete più in pericolo degli altri.”

 

Bellatrix si volto verso il cognato, folle e incontrollabile. “NOI, Lucius? NOI! E tu cosa farai? Lo

rinnegherai, lo tradirai? CODARDO, tu come tutti gli altri!” esclamò. Poi si voltò nuovamente, e

raggiunse il marito a grandi passi. “Dobbiamo trovarlo, Rodolphus. Dobbiamo cercarlo, lui si fida

di noi, si aspetta che lo cerchiamo, si aspetta la nostra fedeltà!”

 

Rodolphus si guardò intorno, e lesse il disagio nella maggior parte dei testimoni. Poi incontrò lo

sguardo di suo fratello, che annuì impercettibilmente, e quello di Barty Jr, i cui occhi erano tanto

folli quanto lo erano quelli di Bellatrix.

 

“NO!” urlò Narcissa. “È una condanna, non potete farlo! Proprio voi, sarete i primi sospettati, vi

daranno la caccia come le bestie! Dovete scappare!”

 

“Noi non lo tradiremo, Narcissa,” disse Rodolphus, prendendo Bellatrix per mano.

 

“Bella!” gridò ancora Narcissa. “Sono tua sorella! Te lo ordino!”

 

Bellatrix la guardò e, con sdegno, sputò ai piedi della sorella. “Io non sono sorella di traditrici e

voltagabbana.”

 

Rodolphus si voltò verso Rabastan e Crouch, ordinando di trovarsi a casa dei Paciock, tra gli

Auror più importanti del Ministero. Senz’altro, loro avrebbero saputo, e se anche non avessero

voluto parlare, avrebbero avuto quello che gli spettava.

 

Narcissa e Bellatrix si guardavano, le suppliche negli occhi dell’una, il disprezzo in quelli

dell’altra.

 

Poi, si Smaterializzarono.

 

Era stata l’ultima volta che avevano parlato. L’ultima volta che lei, Narcissa, aveva visto sua

sorella. Non se l’era sentita di assistere al processo, quando aveva saputo che lei, Rodolphus, Rabastan e Crouch erano stati catturati. E poi, avrebbe corso un rischio troppo grande, soprattutto tenuto conto del completo voltafaccia che lei e Lucius avevano osato compiere. Lui, suo marito, era stato presente al processo, se non altro per dimostrare fedeltà al Ministero subito dopo che anche le

accuse che gli pendevano sul capo erano state rigettate. Lei non gli aveva mai chiesto niente, non

gli aveva mai chiesto come Bellatrix avesse affrontato l’udienza, non gli aveva mai chiesto se era

pentita.

 

Non lo aveva chiesto perché conosceva sua sorella, sapeva benissimo che il pentimento non

rientrava nel suo carattere. Bellatrix sarebbe affondata insieme al suo Padrone, piuttosto che

rinnegarlo, tradirlo come tante volte aveva gridato quella sera.

 

Non era mai andata ad Azkaban, non ne aveva mai avuto la forza né il coraggio. In parte perché

Lucius glielo aveva impedito categoricamente, in parte perché sapeva che andando si sarebbe

sottoposta ai peggiori insulti da parte di tutti i prigionieri dell’ala. Tremava al solo pensiero di

quello che le avrebbero gridato se un giorno l’avessero vista camminare davanti alle loro celle. Lei,

la traditrice, la bugiarda, l’infida strega che aveva voltato le spalle ai Mangiamorte, alle persone

che fino a poco tempo prima cenavano nel suo soggiorno, chiacchieravano nelle sue stanze e si

intrattenevano nel suo salotto.

 

Le uniche notizie che aveva ricevuto le aveva lette sui giornali, sulla Gazzetta del Profeta, che

riportavano dell’instabilità crescente della Mangiamorte Bellatrix Lestrange, di come con lo

svolgersi della sentenza i Dissennatori le rubassero l’anima.

 

Ma aveva poi un’anima, quella donna? Narcissa non lo sapeva più. Col passare degli anni,

l’efferata criminale che abitava la cella 34 di Azkaban diveniva sempre più un ricordo, si

allontanava ogni giorno di più dall’essere sua sorella e diveniva invece quella criminale che tutti

temevano quasi quanto avevano temuto Lord Voldemort.

 

Più passavano i giorni, più i ricordi di quando erano bambine venivano rimpiazzati dai racconti

raccapriccianti delle persone che l’avevano conosciuta nella sua veste peggiore: parenti di persone

torturate, uccise dal braccio destro del Signore Oscuro, persone che giuravano fosse il Diavolo

in persona, o che senz’altro doveva almeno avergli venduto l’anima per poter essere così priva di

coscienza.

 

Narcissa non ritrovava la Bellatrix che conosceva in quei resoconti così dettagliati di puro orrore.

Certo, sua sorella non era mai stata una dama da salotto, ma mai nessuno (e certamente neanche

suo padre, che tanto l’aveva elogiata quando era stata marchiata) avrebbe potuto ricollegare la

famigerata assassina alla sua figlia maggiore.

 

E poi l’aveva vista, lì, sul pavimento di casa sua, ai piedi del Signore Oscuro, un corpo troppo

magro e troppo bianco, e tutto quello che aveva pensato in quei terribili anni, tutte quelle volte che

aveva deciso di rinnegarla esattamente come Bellatrix aveva rinnegato lei, erano diventati solo un ricordo.

 

Anche ora, mentre suo marito la trasportava, ancora incosciente, su per le scale, e Narcissa lo

seguiva, non riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi semi-chiusi di Bellatrix, la testa che

dondolava ad ogni gradino, le braccia che cadevano, abbandonate, verso il basso, i capelli così

lunghi che per poco non toccavano il pavimento. Se non fosse stato per la tragicità del momento, le

labbra violacee, le occhiaie, la polvere e la terra che le rovinavano la pelle, avrebbe riso alla scena

di Lucius che la portava in braccio, quasi fosse una principessa, pensando agli anni di puro odio fra i due.

 

Ma non era una scena comica, né romantica. C’era un senso di drammaticità, come se Lucius

trasportasse un cadavere, e Narcissa fu percorsa da un brivido pensando a quanto fossero stati vicini

alla realizzazione di quell’incubo. Vedendo Bellatrix ridotta così, non poteva non pensare che un

unico giorno in più sarebbe bastato a spegnerla per sempre, lì ad Azkaban.

 

Invece era libera, libera grazie al Signore Oscuro che aveva mantenuto la sua promessa. Li aveva

salvati, li aveva salvati tutti e li avrebbe ricompensati per la loro fedeltà, per il loro giuramento di

lealtà eterna. Non le importava, in quegli attimi, del perché, non le interessava sapere se l’avesse

fatto solo perché lei, come gli altri, gli serviva per la profezia, o qualsiasi altra missione avesse

in mente. L’unica cosa che contava era che lei ora era libera, era finalmente da lei, a casa, come era

giusto che fosse.

 

Giunti in cima alle scale, Narcissa corse avanti e aprì le porte della camera da letto più vicina,

quella di Draco. Lucius entrò, attento a non far sbattere la testa di Bellatrix contro lo stipite, e

quando fu al lato del letto ve la adagiò sopra. Narcissa gli rimase al fianco, ed entrambi osservarono

Bellatrix che per un secondo aprì li occhi, guardandoli, prima di richiuderli e far ricadere

leggermente la testa di lato.

 

“Cosa dobbiamo fare?” Narcissa sussurrò.

 

“Lasciamola dormire, per ora,” Lucius rispose, scuotendo la testa. ”Perdonami, ma è la prima

volta che do rifugio ad una fuggitiva di Azkaban, non sono ferrato in materia.” Questo lo aggiunse

in tono sprezzante, facendole pesare la responsabilità che gravava sulle loro spalle, ospitando

Bellatrix. Ma Narcissa non lo ascoltava. Si sedette sul letto al fianco della sorella.

 

“Resterò con lei, stanotte,” spiegò, senza guardarlo. “Nel caso si svegliasse, sono sicura che non

vorrebbe rimanere da sola.”

 

Lucius guardò il profilo della moglie; non la vedeva chiaramente, ma la luce della luna, filtrata dei

vetri delle finestre, gettavano un chiarore sinistro sulla stanza e su di lei, già così pallida di suo.

Poteva vedere la preoccupazione, e allo stesso tempo la soddisfazione di riavere Bellatrix. Si chiese

per un attimo se anche sul suo viso fosse possibile intravedere i sentimenti che provava: timore,

incertezza, intimidazione.

 

Annuì e lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di sé: dovette ammettere che, come sempre era

stato, tra Narcissa e Bellatrix non c’era spazio per altre persone, almeno per quanto riguardava la

prima. Sua sorella veniva prima di tutto, da sempre.

 

Ma per Bellatrix… Non ne era poi così sicuro.

 

Narcissa rimase nella stanza per tutta la notte. Aveva avvicinato la vecchia poltrona al letto, quella

poltrona sulla quale aveva allattato Draco, la poltrona sulla quale raramente Lucius si era seduto per

parlare con il figlio, ed era rimasta su quella poltrona, vigile ed attenta ad ogni minimo movimento

della donna sul letto. A volte Bellatrix si muoveva, poco, e chiaramente con molto sforzo, ma lo

faceva e dalla bocca uscivano sussurri, sospiri, un respiro affannato e doloroso.

 

Dopo qualche ora Narcissa si arrese al sonno, e si appoggiò al bracciolo; non seppe quanto dormì,

ma ad un certo punto fu svegliata bruscamente da un urlo. Sobbalzò sulla poltrona e si guardò

intorno, facendo mente locale, ed immediatamente tornò a rivolgere lo sguardo sul corpo che ora si contorceva sul letto, urlando e inarcando la schiena, stringendo i pugni, le palpebre serrate.

 

“Bella,” esclamò, alzandosi dalla poltrona e sedendosi sul letto. Afferrò la sorella per le spalle,

cercando di bloccarne le convulsioni. “Bella, svegliati, Bella!”

 

I movimenti cessarono e le palpebre si aprirono di scatto; Bellatrix spalancò gli occhi e la guardò,

come se la vedesse per la prima volta, chiaramente ignara della situazione e di come potesse

essere giunta lì, come se gli istanti in cui era stata a malapena cosciente fossero stati dimenticati.

Era immobile, sul letto, nella presa della sorella, ma gli occhi si muovevano da un lato all’altro,

velocemente, come un animale spaventato.

 

“Bella, sei a casa,” Narcissa sussurrò, portando una mano sulla fronte della sorella nel tentativo

di calmarla. Poi le accarezzò una guancia e annuì in modo rassicurante. “Il Signore Oscuro ti ha

portato qui, ricordi? Bella?”

 

Bellatrix deglutì rumorosamente e il respiro si stabilizzò. Dischiuse le labbra, come per dire

qualcosa, ma alla fine decise di tacere. Richiuse gli occhi e Narcissa fece scivolare la sua mano su

quella della sorella, stringendola.

 

Narcissa si accasciò sulla sorella, appoggiando la tempia contro il petto, tanto vicina da sentirne

il cuore battere. Anche Bellatrix strinse la mano della sorella e Narcissa sorrise. “Va tutto bene,”

disse. “Tutto bene.”

 

E la sentì di nuovo, più forte. Quella sensazione di potenza che la vicinanza di Bellatrix, e del suo

sangue, le dava, quella vitalità era come una nuova ragione per vivere quando credeva di essere

condannata alla mediocrità.

 

La aveva odiata, aveva voluto odiarla per non soffrire della sua lontananza, ma ora che era là,

distesa sul letto, in agonia, in preda ai temibili ricordi di Azkaban e di quello che aveva vissuto, la

amava come mai aveva fatto. Riscoprì quel bisogno di sua sorella che aveva perso quando aveva

compiuto diciassette anni, riscoprì il bisogno di averla vicina, il bisogno di parlarle, di litigare con

lei, di dirle che sbagliava, o di complimentarsi con lei per le piccole cose. Aveva bisogno di lei,

e aveva cercato di soffocare questo bisogno per quattordici anni, riuscendoci solo in superficie,

marginalmente, se era bastato vederla per far tornare a galla quei sentimenti così forti.

 

“Dov’è?”

 

Narcissa alzò la testa, sorpresa dalle parole della sorella, anzi semplicemente sorpresa che avesse

parlato.

 

“Intendi dove sei?” le chiese.

 

Bellatrix scosse la testa, tenendo gli occhi chiusi. “Dov’è?” ripeté. La voce era rauca, bassa: con

un brivido Narcissa penso che fosse dovuto a quanto aveva gridato ad Azkaban, fino a sole poche

ore fa. Era l’unica cosa che aveva saputo, della prigionia della sorella: invocava a gran voce il suo

Signore e rideva, rideva come una folle in preda a una crisi. Urlava e rideva.

 

“Chi?” le chiese Narcissa, sperando che non fosse quello che credeva.

 

“Lui,” disse semplicemente Bellatrix. Contemporaneamente sfilò la mano da quella della sorella.

 

Narcissa si mise a sedere dritta, e contemplò la possibilità di non risponderle. Ma sapeva che

avrebbe continuato a chiedere di lui, avrebbe urlato, se necessario. “Sarà qui fra tre giorni,

Bellatrix,” le disse. “Mi ha fatto promettere di rimetterti in sesto. Mi ha fatto promettere di farti

tornare la sua guerriera.”

 

Le labbra di Bellatrix si curvarono in un sorriso. Non un ghigno, come suo solito, un sorriso vero, di

felicità. “È tornato a prendermi, Cissy,” disse, e nuovamente cadde in un profondo sonno, stavolta

senza incubi.

 

Gli incubi, quelli erano stati esorcizzati perché il suo Signore l’aveva voluta al suo fianco.

 

Non ci sarebbero stati incubi.

 

Non più.

[To be continued]

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Capitolo 2
*** 2. ***


“Ho sentito urlare, ieri notte.”

 

Narcissa fu sorpresa dalla voce del marito, la mattina dopo. Era nel grande salone, e sorseggiava

da un calice trasparente. Lo sentì entrare e non si girò per guardarlo. Aspetto che fosse lui ad

avvicinarsi, mettendosi fra lei e il caminetto.

 

Narcissa annuì. “È stata una nottata particolare, per lei,” disse. “Brutti sogni, penso. Residui di

Azkaban… e dei Dissennatori. Però poi si è calmata ed è riuscita a dormire tranquillamente. Di

fatto, dorme ancora ora, e penso ne avrà per tutta la giornata.”

 

Evitò di parlare della breve conversazione che avevano avuto; sapeva quello che Lucius avrebbe

Detto: che Bellatrix non era lì per lei, che era lì per Voldemort, perché a lui serviva. Ma non voleva

sentirselo dire.

 

“Narcissa, non possiamo ignorare il pericolo di tenerla in casa,” Lucius disse, lentamente. “Le

probabilità di ricevere una visita in mattinata sono altissime. Anzi, a dir la verità sono sinceramente

sorpreso che non siano ancora arrivati.”

 

“La nasconderò, se dovessero venire,” Narcissa disse, ripetendo quello che aveva detto la notte

prima, quando il marito aveva dato voce alle stesse perplessità. “Ho un esercito di elfi domestici

che fanno tutto quello che gli dico, la legheranno in cantina se dovesse opporre resistenza, ma

l’importante è che non la portino via.”

 

“Narcissa, il tuo amore per tua sorella ti rende cieca,” Lucius disse. “Pensavo avessi capito che tipo

di persona è.”

 

Narcissa lo guardò, il fuoco negli occhi. “Non dirmi cosa so e cosa non so,” sibilò. “È mia sorella.”

 

Era ironico come, ogni volta che parlava di Bellatrix, l’unica cosa che riuscisse a dire fosse che era

sua sorella. Come se questo bastasse a giustificare gli atteggiamenti di Bellatrix, come se essere sua

sorella la autorizzasse ad essere ciò che era. Ma in realtà lo diceva più per ricordarlo a se stessa. Era sua sorella, e aveva degli obblighi nei suoi confronti. Non importa quanto crudele, immorale fosse; Bellatrix era sua sorella prima ancora di essere un’assassina.

 

Lucius sbuffò e scosse la testa, sentendosi impotente di fronte all’incantesimo di Bellatrix sulla

moglie. Non l’avrebbe mai capito… Ma lui non aveva fratelli, né sorelle. Probabilmente per quello

gli sembrava così folle; era sicuro, in fondo, che Narcissa avrebbe sacrificato persino se stessa per

amore della sorella.

 

Lucius infilò la mano nel vaso che era sul caminetto, afferrò un pugno di Metropolvere e la buttò

nel caminetto, partendo con un’ultima, glaciale occhiata alla moglie. Narcissa guardò in alto,

cercando di ricacciare dentro la rabbia che suo marito era oramai solito procurarle. Non poteva

essere arrabbiata, doveva essere lucida.

 

Per Bella.

 

Mentre pensava a sua sorella, arrivò un colpo dalla porta. Si voltò di scatto, guardando in direzione

dell’ingresso. Altri colpi, insistenti, più forti. E poi la voce che aveva temuto di sentire. “Lucius

Malfoy, apri la porta! Per orine del Ministero”

 

Il Ministero, pensò, allarmata. Poggiò il calice sul tavolo e si guardò intorno. “Ganeth!” sibilò,

imperiosa. “GANETH!” Si sentì un crac e la piccola elfa domestica si materializzò nella stanza,

inchinandosi profondamente.

 

“La Padrona ha ch-“

 

“GANETH! Veloce, Sali nella stanza di Draco, prendi la donna che sta dormendo e portala nella

cantina! Cercherà di opporre resistenza, ma non farci caso! Usa la forza se necessario, insonorizza

la stanza, urlerà e cercherà di colpirti. Non ha la bacchetta, non è pericolosa. Non troppo, almeno,”

aggiunse, aggrottando le sopracciglia. “Veloce! ORA!”

 

L’elfa si smaterializzò e Narcissa corse nell’ingresso. Fuori, gli Auror del Ministero continuavano

a bussare e minacciavano di buttare giù la porta. Narcissa deglutì e si portò una ciocca di capelli

dietro l’orecchio prima di aprire la porta con grazia.

 

Un gruppo di persone entrarono correndo nella villa, e lei li seguì con sguardo scandalizzato mentre

si spargevano in ogni direzione.

 

“Narcissa Malfoy, sono Kingsley Shacklebolt, e abbiamo l’autorizzazione del Ministero di

perquisire casa sua riguardo la fuga di Bellatrix Lestrange. Se ha qualcosa da dichiarare, le

consiglio di farlo subito e di collaborare con il Ministero, in vista di una eventuale condanna per

aver dato rifugio ad un fuggitivo dell’ala di massima sicurezza delle prigione magica di Azkaban.”

 

Narcissa inarcò le sopracciglia. “Siete liberi di perquisire la mia dimora,” disse, con scherno. “Non

troverete niente fuori dall’ordinario, a parte un paio di elfi domestici altamente inetti.”

 

Kingsley la osservò prima di annuire ed entrare, avviandosi a seguito dei suoi uomini. Narcissa

chiuse la porta e rimase con la mano sulla maniglia in ottone per qualche secondo, facendosi

coraggio. Poi si voltò, e il suo viso non tradiva la minima preoccupazione.

 

Gli Auror perquisirono ogni angolo del maniero, e viste le dimensioni impiegarono quasi tre ore

prima di ritrovarsi tutti nell’ingresso, con facce confuse; erano stati sicuri di trovarla là, glielo si

leggeva in faccia.

 

“Dunque?” chiese, sprezzante. “Non avete trovato nessun Mangiamorte nascosto sotto il mio letto?”

 

“Signora Malfoy, sua sorella…”

 

“Non ho sorelle,” disse, improvvisandosi dura e implacabile. “Non più.”

 

Gli Auror si guardarono e, con espressioni sconfitte, uscirono uno ad uno dalla villa, mormorando

scuse all’indirizzo di Narcissa e del marito. Shacklebolt fu l’ultimo, e prima che Narcissa potesse

chiudere la porta dietro di lui le rivolse poche parole di avvertimento. Le ricordò la pericolosità

di Bellatrix Lestrange, la esortò a contattare l’Ufficio Auror se si fosse presentata a casa sua, e

le ricordò di non sottovalutarla perché la donna era, a suo dire, “senza controllo e senza anima,

oramai più bestia che umana”.

 

Non appena la porta si fu richiusa, nella stanza riecheggiò un sonoro crac, e la piccola elfa riapparve, tenendo Bellatrix per il polso. Non appena furono Materializzati, lasciò andare il polso della strega e corse a nascondersi dietro la colonna più vicina. Bellatrix le urlava contro improperi, anche se in realtà erano solo parole senza un nesso logico.

 

“Bellatrix,” Narcissa sussurrò, avvicinandosi alla sorella e prendendola per la vita, impedendole di

rincorrere l’elfa. “Calmati, ha agito per mio ordine. Il Ministero è stato qui, ti cercavano. Dovevo

fare qualcosa, dovevo proteggerti!”

 

Bellatrix si dimenava, gli occhi folli fissi sull’elfa che tremava. Grugniva, ansimava, come un cane

da caccia che avvista la sua preda.

 

“BELLATRIX!” urlò Narcissa, e questo sembrò riscuotere la donna dalla trance omicida in cui

era caduta. Smise di dibattersi e pian piano si accasciò al suolo, in ginocchio. Non era ancora

abbastanza forte per certi slanci di vivacità, il suo corpo non poteva sopportarlo. Aveva il respiro

affannoso e le palpebre pesanti.

 

Narcissa la accompagnò nella discesa verso il suolo, tenendola stretta alla vita, e anche lei si

inginocchiò. Le pose una mano sulla nuca e spinse la faccia della sorella nell’incavo del suo collo,

tenendola stretta a sé. “Calmati,” diceva, come un mantra. “Calmati. Calmati.”

 

E Bellatrix si calmò, lasciandosi stringere dalla sorella, pur sbarrando gli occhi e guardandosi

intorno come già aveva fatto l’altra sera, spaesata, quasi spaventata, come se non riconoscesse

niente.

 

“Cissy,” sibilava. “Dov’è?”

 

“Due giorni, Bella,” rispose Narcissa, sapendo già a cosa, o meglio a chi si riferiva la sorella. “Due

giorni e sarà qui.”

 

“È tornato a prendermi, Cissy.”

 

“Sì, è tornato a prenderti Bella, come hai sempre saputo,” le diceva Narcissa, sapendo oramai che

era l’unico modo per calmarla. La conosceva. La conosceva bene. “Avanti, torniamo di sopra.

Potrai lavarti, e mangiare. E sarai pronta per l’arrivo del Signore Oscuro.”

 

Bellatrix sorrise.

 

“Sì.”

 

*

 

Bellatrix parlava poco, oramai. Narcissa non poté fare a meno di notarlo mentre sedeva sul bordo

dell’antica vasca da bagno e passava la spugna sulla schiena della sorella. Anche ora, nella vasca,

era raggomitolata, con le gambe strette al petto, gli occhi fissi di fronte a sé, ed un sorrisetto

inquietante che appariva e scompariva, a seconda dei pensieri che le passavano per la testa. Narcissa

sapeva che quando sorrideva, era perché pensava a Voldemort, a come l’avesse salvata e a quando

avrebbe finalmente potuto riprendere il suo posto nel circolo dei Mangiamorte.

 

Decise che non avrebbe parlato nemmeno lei, e che sarebbero state in silenzio entrambe e condiviso

quelle giornate così come Bellatrix le voleva. Strofinava la spugna sulla schiena ossuta della

sorella, e le si spezzava il cuore ogni volta che scopriva un nuovo livido, un graffio, ferite che

probabilmente si era inferta da sola durante la prigionia.

 

Lasciò cadere la spugna e sollevò la sua bacchetta, mormorando, “Aguamenti”. Un getto d‘acqua

fuoriuscì dalla punta, gentile, tiepido, e Narcissa lo passò sui capelli di Bellatrix, che al tocco

dell’acqua si appiattirono contro la nuca e la schiena della donna.

 

“Voglio la mia bacchetta,” disse Bellatrix.

 

Narcissa, spiazzata, si guardò intorno, come se si aspettasse di vederla là, sul lavandino. Poi ricordò.

Probabilmente la bacchetta le era stata tolta al momento dell’incarcerazione, e quante possibilità vi

erano che non l’avessero spezzata in due, bruciata, nel tentativo di cancellare gli orrori che quella

bacchetta aveva compiuto?

 

“Io non ho la tua bacchetta, Bella,” spiegò Narcissa, continuando a passare la sua sui capelli della

sorella. “Penso che l’abbiano distrutta.”

 

Bellatrix abbassò lo sguardo. “Pensi che potrò averne un’altra?”

 

“Certo,” esclamò Narcissa, sorridendo. “Sono sicura che troveremo un modo. Non puoi certo uscire

di casa e marciare da Olivander, ma possiamo architettare qualcosa. Avrai una nuova bacchetta.”

 

Bellatrix annuì e si strinse le spalle. “Ho freddo.”

 

“Va bene, dai, dammi la mano ed esci dalla vasca.” Narcissa porse la mano alla sorella, che si

alzò e barcollò un attimo prima di trovare la stabilità sulle proprie gambe. Poi, un piede alla volta,

riuscì a scavalcare il bordo della vasca e Narcissa le avvolse un grande asciugamano bianco intorno

alle spalle. “Sei così magra, Bella,” aggiunse in poco più che un sussurro, con la voce piena di

preoccupazione.

 

Bellatrix alzò lo sguardo e, con un sorrisino quasi complice, sussurrò: “Invidiosa?”

 

Narcissa rise.

 

“Mio Dio, Narcissa!” disse Bellatrix entrando nella camera dove Narcissa si stava preparando per

il grande giorno. “Sei sicura di non essere malata? Sei magra da far spavento.”

 

Narcissa si voltò per afferrare il vestito bianco ed il velo. Lanciò un’occhiata alla

sorella. “Invidiosa?”

 

Scacciò via i ricordi, alla stessa velocità di come erano arrivati, e mise un braccio intorno alla vita

di Bellatrix, guidandola fuori dal bagno, nella camera da letto adiacente. Arrivate al letto, la fece

sedere e, una volta completamente asciutta, Bellatrix si stese nuovamente, stavolta appoggiando

la testa contro la testiera, in modo da essere quasi seduta. Narcissa si sedette accanto a lei e

gridò: “Ganeth, il vassoio!”

 

L’elfa si Materializzò nella stanza, portando un vassoio con mani tremanti; lanciò un’occhiata

impaurita a Bellatrix, e Narcissa sbuffò, alzandosi e prendendo il vassoio dalla piccola creatura

terrorizzata. “Sparisci,” le disse.

 

Rimasero nuovamente sole. Narcissa tornò a sedersi affianco a Bellatrix e poso il vassoio tra di loro.

Bellatrix analizzò tutto quello che c’era, come se dovesse riabituarsi anche al cibo. Pane, zuppa,

uva, cioccolata, e almeno tre bicchieri, colmi di liquidi diversi. Non sapeva neanche lei cosa fare.

 

Narcissa prese il cucchiaio e lo affondò nel primo piatto, quello che conteneva la zuppa, e la guardò,

avvicinandoglielo alla bocca. Bellatrix la guardò per un tempo infinito, prima di socchiudere la

bocca e accettare di essere imboccata.

 

Tra un cucchiaio e l’altro, Bellatrix aggrottò la fronte. “Che fine ha fatto quell’elfo stupido? Dobby,

così si chiamava?”

 

Narcissa sospirò stancamente. “Abbiamo dovuto rimpiazzarlo.”

 

Muro delle teste?” disse Bellatrix, con un ghigno.

 

Narcissa scosse la testa. “Non esattamente,” spiegò. “Lucius ha dovuto liberarlo.”

 

Stava per imboccarla nuovamente, quando lo sguardo le cadde sull’avambraccio sinistro, dove il

Marchio Nero spiccava contro il bianco dell’asciugamano che la avvolgeva. Abbassò la mano e lo

fissò. Bellatrix seguì lo sguardo della sorella, ed anche lei guardò il proprio braccio marchiato. Era

tornato vivo, splendente, così come l’uomo che l’aveva impresso sulla sua pelle venti anni prima.

 

“Non ricordo bene cosa sia successo,” cominciò Bellatrix, catturando l’attenzione di Narcissa dal

Marchio. “Ero lì, nella cella, in una specie di limbo. E poi c’è stato un rumore forte, e ho aperto gli

occhi. Non c’erano più muri, non c’erano più celle. Potevo vedere gli altri carcerati per la prima

volta, e potevo vedere il mare che circondava Azkaban. Mi ci è voluto un po’ per capire che il muro

esterno era stato fatto saltare in aria. Vedevo gli altri che si Smaterializzavano, e ci ho provato

anche io ma…”

 

“Eri troppo debole,” finì Narcissa per lei, ricordando le condizioni in cui si trovava quando il

Signore Oscuro l’aveva portata a casa.

 

“Poi l’ho visto. Era lì, davanti a me. Sentivo delle urla, vedevo luci di incantesimi da tutte le parti.

Lui mi ha presa, mi ha sollevata da terra e ci siamo Smaterializzati. Poi… non ricordo più niente

fino a stanotte, quando mi sono svegliata qui, e tu eri vicino a me.”

 

“Il Signore Oscuro ha pensato che saresti stata al sicuro, qua,” Narcissa spiegò.

 

“Come fate ad essere vivi?” chiese Bellatrix, e gli occhi le si fecero minacciosi. “L’avete tradito.

L’avete rinnegato. Ho sentito tutte le fandonie che Lucius ha raccontato al Ministero per evitare

Azkaban, e la mia domanda è… Come fate ad essere ancora vivi?”

 

Narcissa lasciò il cucchiaio sul bordo del piatto e guardò un punto fisso alla sua sinistra.

Sapeva che questo momento sarebbe arrivato, il momento in cui le avrebbe rinfacciato di aver

tradito Voldemort, il momento in cui, da invasata qual era, avrebbe gridato quanto fosse stata

doppiogiochista e bugiarda mentre lei, Bellatrix Lestrange, aveva sopportato anni ed anni di

prigionia pur di non tradire lui, o la sua causa.

 

“Avevo un figlio, Bella,” disse Narcissa. “Un figlio che sarebbe cresciuto senza un padre e una

madre, se avessimo fatto quello che tu e Rodolphus avete fatto.”

 

“Ma avrebbe potuto essere orgoglioso dei suoi genitori,” sibilò Bellatrix, socchiudendo gli

occhi. “Mentre ora, come può guardarvi in faccia sapendo che avete tradito?”

 

Narcissa non rispose.

 

“Vattene,” mormorò Bellatrix.

 

Narcissa inspirò profondamente prima di provare a dire qualcosa, ma la sorella la anticipò. “Ho

detto di andartene.” Si fissarono per molto tempo, l’una cercando di capire l’altra: Bellatrix cercava

di comprendere perché la sorella avesse compiuto un tale atto di tradimento, mentre Narcissa

cercava di capire se fosse tutto perduto, se per colpa di quel Marchio che sua sorella adorava così

tanto anche le loro vite fossero state travolte e distrutte.

 

Si alzò e si allontanò da Bellatrix; giunta alla porta si voltò e scosse la testa. “Non è la tua guerra,

Bellatrix.”

 

Un lampo attraversò gli occhi della sorella. “È la mia guerra, la nostra guerra. Tu sei solo troppo

codarda per combattere.”

 

“Bella, sei pazza! Ti sei fatta marchiare!” gridava Narcissa, quella notte di venti anni

prima. “Perché l’hai fatto?”

 

“Perché sono una Black, devo difendere l’onore del sangue puro!” aveva ribattuto Bellatrix

fissando il suo marchio come ipnotizzata. “È quello che la gente si aspetta da me!”

 

“No, Bella! Quello che la gente si aspetta da noi è che siamo le mogli e le madri perfette, che

educhiamo i nostri figli secondo i valori puri della famiglia Black! Non si aspettano di vederci

scendere in battaglia! Siamo donne!”

 

“E solo perché sono una donna non dovrei combattere?” gridò Bellatrix. “Dovrei stare a casa,

come fai tu? Io non sono te! Io ci sarò, sarò al fianco del Signore Oscuro, sarò la più fedele dei

suoi seguaci perché io solo credo a ciò che dice in modo incondizionato! Io sola lo capisco, io sola

capisco la missione punitiva che ci è stata affidata!”

 

“Morirai, Bellatrix!”

 

“Se è quello che il destino ha in serbo per me, sia! Almeno sarò morta per una causa in cui credo,

assieme all’uomo che mi ha dato una ragione per vivere!”

 

Fuori dalla camera, Narcissa rimase a rimuginare su quel Marchio che sua sorella aveva accettato

con tanto orgoglio; a come la loro vita fosse cambiata da quando lei, Lucius e gli altri gradualmente

erano stati marchiati, uno dopo l’altro, come bestie che vanno di loro spontanea volontà al macello.

Suicidio era l’unica cosa che Narcissa riusciva a pensare ormai di quella missione, suicidio e

masochismo.

 

*

 

Narcissa non vide Bellatrix per i restanti due giorni; in parte perché la sorella si rifiutava di uscire

dalla camera e di respirare la stessa aria di Lucius, quel viscido bugiardo, e in parte perché Narcissa

stessa era troppo orgogliosa per accettare ciò che Bellatrix le diceva ogni volta che i loro sguardi si

incrociavano.

 

Aveva pensato, sperato, che sarebbe stato più facile, che Azkaban avesse domato Bellatrix, ed

invece aveva avuto l’effetto contrario. Il cambiamento era graduale ma rapido, e la Bellatrix esausta

e debole che era piombata in casa sua veniva rimpiazzata minuto dopo minuto da una donna che

Azkaban aveva reso schiva e intoccabile.

 

Si incrociavano solo di sfuggita, quelle rare volte che Bellatrix lasciava la stanza ed usciva nel

giardino sul retro. Conoscendola, Narcissa poteva capire il malessere che solcava l’anima già nera

della sorella: non era mai stata una reclusa, non aveva mai amato le costrizioni, e per di più, dopo

gli anni trascorsi in una piccola cella ad Azkaban, poteva capire la voglia di libertà, la voglia di

uscire da quelle quattro mura e respirare aria che non fosse contaminata dal respiro gelido dei

Dissennatori.

 

Ma Bellatrix non poteva uscire, non poteva vivere secondo i suoi istinti, non con il Ministero della

Magia impegnato in una caccia all’uomo come poche se n’erano viste dalla caduta del Signore

Oscuro. A volte sembrava quasi che poco importasse loro della fuga degli altri Mangiamorte, che

l’unica che volessero, l’unica che temessero, fosse Bellatrix Lestrange.

 

Come biasimarli, d’altronde? Bellatrix era sempre stata la più pericolosa fra tutti. Il Signore Oscuro

aveva riposto in lei ciò che di più simile alla fiducia ci fosse al mondo, e l’aveva presa come

sua discepola; le aveva insegnato tutto, l’aveva resa una macchina da guerra senza coscienza, ne

aveva coltivato la mente, l’aveva contorta e distorta, l’aveva resa così simile a lui che spesso gli

altri Mangiamorte faticavano a discernere dove finisse Lord Voldemort e dove iniziasse Bellatrix

Lestrange.

 

Narcissa aveva assistito a questo processo, impotente. Aveva visto la sorella cambiare di giorno

in giorno, aveva visto come con ogni lezione che il suo maestro le impartiva perdeva un po’ di se

stessa e si avvicinava a quell’essere immondo che il mondo temeva. Narcissa aveva visto la sorella

imparare a comandare, torturare, uccidere: ogni maledizione che infliggeva le gonfiava il cuore

d’orgoglio, mentre raccapricciava Narcissa.

 

Erano state così simili, fino all’arrivo di Voldemort. Da quel giorno, il giorno in cui Tom Riddle

aveva assunto quella nuova, spietata Mangiamorte, Bellatrix Black era morta, soppiantata da una

copia carbone del Signore Oscuro.

 

L’unica cosa che non era riuscito a domare, e questo Narcissa lo sapeva bene, era la folle passione

con cui Bellatrix portava avanti i suoi compiti. Lui che l’avrebbe voluta fredda e calcolatrice, si era

invece trovato tra le mani un’assassina mossa da qualcosa che lui non riusciva a capire, che non era

mai riuscito a capire. Solo sua sorella poteva sapere l’intima origine dell’efferatezza della sorella, e

non era solo l’odio per i Babbani, o qualsiasi cosa minacciasse la purezza del suo sangue.

 

C’era il fuoco, dentro Bellatrix. Un fuoco che ardeva e non si spegneva mai, che bruciava così caldo

da scottare chiunque le si avvicinasse. Era il fuoco di una passione incalcolabile; passione per il

suo Signore, passione per la causa, passione per il dolore e la tortura. Questa era la differenza fra

Lord Voldemort e Bellatrix Lestrange. Mentre lui aveva smesso di trarre piacere dalle urla di dolore

delle sue vittime, o forse non l’aveva mai fatto, Bellatrix continuava ad essere pervasa da un torpore

immane.

 

Erano state così simili, Bellatrix e Narcissa. E sembrava ironico che l’unica cosa che non fosse

cambiata nell’una, fosse stata la cosa dalla quale l’altra era dovuta scappare per proteggersi dalla

follia che la circondava. Narcissa, che una volta era stata appassionata, era stata percorsa dal furore,

dall’ardore, aveva chiuso tutti quei sentimenti in un’anticamera della sua anima, perché solo con il

distacco sarebbe riuscita a non morire di ciò che era diventata la sua vita.

 

Un marito Mangiamorte, una sorella disconosciuta ed un’altra rinchiusa ad Azkaban per anni, un

figlio troppo incline a seguire le orme del padre ed una vita sottosopra, lontana da quell’allegro,

sontuoso sfarzo a cui era stata abituata.

 

Aveva rifuggito la passione per non cadere nel baratro della disperazione che, lo sapeva, aspettava

dietro l’angolo, attendendo solo che lei le desse un’occasione per entrare e buttare all’aria i suoi

castelli di sabbia.

 

“Come sta tua sorella?” chiese Lucius, la sera del terzo giorno, scuotendola dai pensieri che le si

accavallavano nella testa. “Sono due giorni che non litighiamo per colpa sua, comincia quasi a

mancarmi.”

 

Narcissa colse l’ironia e sbuffò. “Diciamo che al momento non siamo in rapporti idilliaci,” spiegò,

giocherellando con la carne nel suo piatto senza mangiarla. “Spero tu non ti sia dimenticato che per

lei siamo alla stregua dei Weasley, al momento. Traditori,” aggiunse, sputando la parola come se

fosse veleno.

 

Lucius sghignazzò, scuotendo la testa. “Eppure il Signore Oscuro ha affidato a me la missione, io

devo recuperare la profezia. Non lei.”

 

“Questo è da vedere.”

 

Entrambi alzarono lo sguardo in tempo per vedere Bellatrix entrare, a passo di guerra, nella sala da

pranzo. Narcissa pensò subito che doveva aver rovistato in cantina, tra le cose di famiglia, perché

indossava un lungo abito nero che le era appartenuto in passato. Vederla così era allo stesso tempo

un sollievo ed un colpo al cuore, per Narcissa: da un lato era sollevata perché sua sorella stava

bene, glielo si leggeva in faccia, mentre dall’altro la riportava ad un passato in cui temeva per la

sua incolumità ogni volta che la vedeva uscire di casa, spaventata per quello a cui la sorella andava

incontro.

 

Bellatrix sedette all’altro capo del tavolo, opposta a Lucius, tanto lontana da loro quanto fisicamente

possibile. Sembrava una presa di posizione, una cosciente opposizione a Lucius, un tentativo

di ristabilirsi come personalità dominante nella casa. Si sedette senza un briciolo di grazia e,

sprezzante, sollevò le gambe e le poggiò sul tavolo, la testa chinata da un lato, lo sguardo fisso su

cognato.

 

“Bellatrix,” disse Lucius, con finta cortesia. “È un piacere vederti in piedi… Senza delirare,

intendo.”

 

Bellatrix strinse le palpebre alla frecciata di Lucius, ma lasciò correre e si rivolse invece a

Narcissa. “Quando arriverà il Signore Oscuro?” le chiese.

 

“Le riunioni si svolgono dopo cena, Bella,” le rispose Narcissa, cercando di ignorare gli

atteggiamenti volutamente provocatori della sorella.

 

“Sei sicura di essere in grado di tornare a servire il Signore Oscuro?” si intromise Lucius. “Non

vorrei che il tuo stato mentale corrompesse le nostre missioni.”

 

“O forse hai solo paura che ti soffi il comando.”

 

Lucius sorrise. “Dubito che il Signore Oscuro affiderebbe una missione così importante ad una

persona instabile come te, Bella,” disse, inarcando un sopracciglio.

 

Bellatrix sospirò e si rivolse nuovamente alla sorella. “Di che missione stiamo parlando, ad ogni

modo?” chiese, evitando lo scontro diretto con Lucius. “Tortura? Omicidio?”

 

“Nulla di tutto ciò,” tornò a parlare Lucius, come se non ritenesse Narcissa all’altezza di parlare

dei piani di Lord Voldemort. “Ma non sta a noi parlartene. Deciderà lui se… fidarsi di te, con certe

informazioni.”

 

“La profezia,” disse Narcissa, dal nulla.

 

Lucius si voltò verso di lei, di scatto, incredulo. Bellatrix spostò lo sguardo sulla sorella lentamente,

ne scrutò il viso e poi sorrise.

 

“Narcissa!” la rimproverò il marito, ma lei non lo ascoltava.

 

“Il Signore Oscuro vuole recuperare la profezia, teme di aver tralasciato qualcosa,” spiegò Narcissa,

rivolta verso la sorella, il cui sorriso si allargava sempre di più man mano che la sorella parlava e

l’espressione di oltraggio sul viso di Lucius diventava più scura. “Vuole che i suoi Mangiamorte

entrino al Ministero e recuperino la profezia,” concluse, abbassando lo sguardo.

 

Lucius stava per parlare, quando le candele nel mezzo del tavolo si spensero, come se una raffica

di vento si fosse abbattuta su di loro. Bellatrix si alzò, con uno scatto, e le sue pupille si dilatarono.

Sapeva cosa stava per succedere. Anche Lucius balzò in piedi, e con un movimento della bacchetta

fece svanire tutto ciò che aveva occupato il tavolo; si avvicinò a Narcissa, piegandosi leggermente,

e le sussurrò ad un orecchio: “Io e te facciamo i conti dopo.”

 

Tutti e tre si allontanarono dal tavolo, contro il muro, e in men che non si dica una serie di figure

incappucciate si Materializzarono nella stanza. Narcissa ne contò venti, in totale: dieci persone in

più rispetto all’ultima riunione. I Mangiamorte evasi da Azkaban.

 

Uno di loro si staccò dal gruppetto appena apparso e si diresse verso di loro. Mosse la bacchetta

verso la maschera, che si dissolse, rivelando il volto di Rodolphus Lestrange. L’uomo si avvicinò e

si fermo di fronte a Bellatrix, chinando la testa leggermente.

 

Ella gli sorrise, complice. “Quattordici anni, Rodolphus,” disse, porgendogli la mano, che lui prese

con cavalleria e sfiorò appena con le labbra.

 

“Quattordici anni,” ripeté lui, ricambiando il sorriso.

 

Poi si voltò verso Lucius e Narcissa e con un cenno della testa salutò entrambi, cortesemente. Tante

cose si potevano dire, di Rodolphus Lestrange, tranne che fosse sgarbato. Celava il suo disdegno

con maestria.

 

Poi Narcissa notò il tremito che percorse le persone attorno a lei, e vide la mano di Rodolphus

volare verso il proprio avambraccio sinistro. Avvertì il respiro di Bellatrix farsi più veloce, e prima

che potesse muoversi o dire niente, una figura più alta di tutte le altre si Materializzò nel centro

della stanza.

 

Ci fu silenzio, tutti gli occhi fissi su Lord Voldemort, che si guardava attorno compiaciuto; poi, si

fermò sul gruppetto vicino al muro, precisamente su Bellatrix e Rodolphus. Sollevò le braccia verso

di loro. “Rodolphus,” disse. “Bellatrix. Finalmente il mio esercito è completo.”

 

Bellatrix si staccò dal muro e corse verso il suo Signore, buttandosi ai suoi piedi. “Mio Signore,

siamo ai vostri ordini come sempre è stato. Siamo pronti a servirvi, a morire per voi. Una sola

parola, e agiremo.”

 

Narcissa guardò la sorella, prostrata davanti a Lord Voldemort.

 

Non c’era speranza.

 

*

 

La riunione non fu un festeggiamento, come tutti si aspettavano; i Mangiamorte liberati, con l’unica

eccezione di Bellatrix e Rodolphus, non ottennero che un cenno da parte del Signore Oscuro prima

che egli si lanciasse in una acceso resoconto del suo ultimo piano.

 

Bellatrix fremeva, nel suo posto nel circolo; era evidente che aveva aspettato qualcosa per tutta la

durata dell’incontro, qualcosa che arrivò solo poco prima che il Signore Oscuro si congedasse.

 

“Bellatrix,” aveva detto. “Accompagnerai Lucius al Ministero, quando i tempi saranno maturi. So di

poter confidare nella tua meticolosità.”

 

Narcissa aveva spostato lo sguardo sul marito, immediatamente, e gli aveva letto in faccia la

delusione, la realizzazione di ciò che aveva temuto. Lo aveva visto abbassare il capo e fissare il

pavimento, ed aveva sentito il mormorio che aveva percorso il circolo.

 

Il Signore Oscuro aveva congedato tutti i Mangiamorte, che si erano smaterializzati uno ad uno.

Anche Rodolphus, dopo un inchino ed un cenno del capo verso Bellatrix, aveva lasciato Villa

Malfoy. Il Signore Oscuro non si era mai trattenuto più del necessario, ma Narcissa notò che quel

giorno attese finché l’ultimo Mangiamorte fosse sparito; finché nella stanza rimasero solo lei,

Lucius, Bellatrix e Lord Voldemort.

 

“Mio Signore…” tentò di dire Lucius, ma il Signore Oscuro sollevò una mano mettendolo a tacere.

 

“Lucius, puoi andare.”

 

Malfoy fu sicuramente stupito dall’affermazione del Signore, non tanto per il fatto che nessuno

aveva mai dato ordini in casa sua, quanto per ciò che significava. Gli occhi di Bellatrix, infatti,

si erano illuminati. Lucius, ancora una volta, sentì il rossore salirgli alle guance, e con un goffo

inchino si voltò per lasciare la stanza. Fece un cenno a Narcissa, che annuì e fece per seguirlo,

quando la voce altisonante di Lord Voldemort la fermò.

 

“Resta, Narcissa.”

 

Ella rimase pietrificata, perché mai il Signore Oscuro le aveva concesso alcun privilegio, se non

quello di assistere alle riunioni nonostante non fosse una Mangiamorte. Ed ora che Bellatrix era

tornata, Voldemort la voleva presente.

 

Narcissa si voltò verso Voldemort e abbassò la testa, ubbidendo. Lucius scrutò la moglie e la

cognata, poi con un ulteriore inchino lasciò la stanza, chiudendo la pesante porta di quercia dietro di

sé.

 

Rimasero in tre, nella stanza, silenziosi. Il silenzio di Narcissa era di disagio, mentre quello di

Bellatrix era trepidante ed eccitato. Lord Voldemort spostava lo sguardo da Bellatrix a Narcissa,

con il ghigno di chi sa qualcosa che gli altri non sanno.

 

“Ho sempre avuto una grande stima per la famiglia Black,” disse, rompendo il silenzio. “Conobbi

vostro padre quando ero solo un ragazzo. Era un mago degno e di valore. Posso dire con certezza di

essere onorato di essere alla presenza delle ultime discendenti della casata Black.”

 

Bellatrix tornò a chinare il capo e a biascicare ringraziamenti e lodi dell’uomo, ma Narcissa

si limitò a guardarlo. Sapeva che non gli interessava davvero, sapeva che l’unica cosa che gli

interessava era avere un fidato seguito su cui contare per non sporcarsi le mani.

 

“Narcissa, voglio ringraziarti,” disse, quasi ignorando Bellatrix. “Ti ho dato un compito, giorni

fa, e da quello che vedo l’hai portato a termine perfettamente.” Spostò lo sguardo su Bellatrix

nuovamente, soddisfatto, come un compratore che analizzi il suo nuovo acquisto.

 

Narcissa annuì, senza trovare parole che si addicessero alla situazione.

 

“Ma forse avrò bisogno di una piccola prova…” aggiunse Lord Voldemort, il ghigno si allargò

sul suo viso, diventando a tratti crudele. “Bellatrix, oggi ti ho affidato una missione assolutamente

fondamentale per la riuscita dei miei piani. Ma ho bisogno di avere la certezza che tu sia

all’altezza.”

 

“Sono la vostra umile serva, mio Signore, tutto quello che volete che io faccia, sarò più che onorata

di portarlo a termine,” disse Bellatrix.

 

Voldemort sorrise e con un movimento circolare della mano ci fu un sonoro pop!, ed una figura si

materializzò, legata mani e piedi da un Incantesimo potente.

 

“Riconoscete il nostro ospite?”

 

“No, mio Signore,” rispose Narcissa, a voce bassa. Anche Bellatrix scosse la testa, ma c’era

qualcosa nei suoi occhi, come se sapesse già cosa il suo Signore le avrebbe chiesto.

 

“Questo è perché è un Babbano,” continuò Voldemort, posando lo sguardo sull’uomo

addormentato. “Un indegno, inutile Babbano la cui unica colpa è stata camminare lungo il sentiero

sbagliato nel momento sbagliato.”

 

Narcissa distolse lo sguardo. Tanto era il suo sdegno per i Babbani ed i traditori del loro sangue, ma

l’omicidio e la tortura erano qualcosa a cui non si sarebbe mai abituata.

 

“Bellatrix, ho qualcosa che ti appartiene,” sussurrò il Signore Oscuro, attirando l’attenzione di

Narcissa nuovamente, che lo guardò incuriosita, chiedendosi cosa mai potesse avere ancora. Aveva

già tutto, di sua sorella: il cuore, l’anima, la vita intera.

 

Narcissa non potè fare a meno di essere estremamente sorpresa quando vide la mano bianca

scivolare fuori dal mantello, serrata attorno a quelle che sembrava…

 

“La mia bacchetta!” esclamò Bellatrix. “Mio Signore, come avete fatto…. Come… Dove…”

 

“Non fare domande, Bellatrix,” disse Voldemort, porgendo l’arma alla donna, che tese una mano

tremante e strinse il pugno attorno al manico. Contemporaneamente, dalla punta sprizzarono

scintille rosse, in segno di riconoscimento.

 

La bacchetta di Bellatrix Lestrange era pronta a servirla, di nuovo.

 

Bellatrix sorrise e si inumidì le labbra, stringendo il pugno ancora di più intorno alla sua bacchetta.

 

“Mio Signore, è troppo presto,” intervenne Narcissa, facendo un passo avanti, intuendo cosa stava

per succedere. “È ancora debole e provata, mia sorella non può…”

 

“TACI.”

 

Era stata Bellatrix a parlare, senza distogliere lo sguardo dalla preda. Narcissa spalancò gli occhi e

aprì la bocca per controbattere, ma nulla sembrò essere abbastanza convincente per combattere le

convinzioni radicate della sorella.

 

“Uccidilo, Bellatrix.”

 

Bellatrix sollevò la bacchetta e rimase ferma per qualche secondo, pregustando quello che tanto le

era mancato nei suoi anni di detenzione. Poi, come una frusta, abbassò la bacchetta e pronunciò le

due parole mortifere ad alta voce, chiaramente, scandendole quasi con affetto.

 

“Avada Kedavra!”

 

Un lampo di luce verde scaturì dalla punta della bacchetta e l’uomo cadde a peso morto sul

pavimento della stanza; l’incantesimo che lo teneva immobile si sciolse con la maledizione, ed

egli cadde scomposto, ed i suoi arti formarono angoli innaturali. Narcissa sobbalzò e fece un passo

indietro, portando la mano davanti alla bocca.

 

Ma il suo stupore ebbe vita breve quando notò che Bellatrix si accasciava al suolo e la bacchetta le

scivolava dalle mani. Corse verso di lei e la sorresse poco prima che potesse toccare completamente

il suolo. Era cosciente, ma la maledizione aveva provato notevolmente quella poca energia che era

in lei. Respirava affannosamente; eppure aveva un’espressione di totale appagamento dipinta in

volto.

 

Lord Voldemort guardò le due sorelle e scosse la testa.

 

“Mi aspetto di più, per quando andrai al Ministero,” disse. “Molto di più.”

 

Il Signore Oscuro si smaterializzò senza ulteriori spiegazioni, e Narcissa sollevò lo sguardo sul

punto che aveva occupato fino a pochi secondi prima, stringendo le palpebre con risentimento.

 

“Sei una stupida,” sussurrò a Bellatrix che, con difficoltà, lottava per liberarsi dalla presa della

sorella e sorreggersi sulle sue gambe. Narcissa la lasciò e si limitò a guardarla mentre cercava, con

gli occhi chiusi, di riacquistare le forze che la maledizione le aveva rubato.

 

Bellatrix rise. “Sono mille volte più intelligente di te, e questo mi basta.”

 

Narcissa strinse le labbra e, con un movimento veloce ed inaspettato, si voltò e si allontanò dalla

sorella, spalancando la porta e lasciando la stanza. Era già a metà della scalinata quando sentì il

rumore affrettato dei passi che provenivano dalle sue spalle. Si fermò e si voltò, con una mano sul

corrimano di marmo.

 

Bellatrix la guardava dal basso, nel mezzo dell’immenso ingresso, la testa inclinata e un sorriso

amaro sul volto.

 

“Perché non mi sbatti fuori?” le gridò contro, sprezzante. “Perché non mi consegni al Ministero?

Perché continui a sopportare tutto quanto? Sei una codarda, Narcissa. Una donna senza spina

dorsale, hai perso tutto quello che i Black ti avevano insegnato!”

 

“Sei mia sorella,” disse Narcissa. “E sarebbe molto più facile buttarti fuori. Ma ho scelto di aiutarti.

E che tu lo creda o no, richiede molto più coraggio che non arrendersi senza fare almeno un

tentativo.”

 

Era sua sorella, sì. Bellatrix era sua sorella, lo sarebbe sempre stata.

 

Eppure, salendo le scale, con lo sguardo infuocato di Bellatrix che le perforava la schiena, si chiese

se Bellatrix la considerasse ancora parte della sua famiglia.

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