Narcissa Malfoy sedeva alla destra di
suo marito, quella
sera; fuori la neve batteva forte sui
vetri delle alte finestre, mentre il
vento scuoteva le
chiome degli alberi, implacabile. L’inverno
imperversava in tutta la Gran
Bretagna, uno dei peggiori
degli ultimi dieci anni. Le temperature
si rifiutavano di risalire al di
sopra dello zero, e la neve
non faceva in tempo a sciogliersi che una
nuova, fitta coltre ricopriva il
terreno bagnato.
Fra le mura di Villa Malfoy gli elfi
domestici lavoravano
sodo per tenere l’inverno al di fuori della
grande magione. I caminetti erano
accesi tutto il giorno,
tutti i giorni, e tenuti sotto controllo nel
caso qualche fiamma si affievolisse.
La casa era una
fortezza che offriva ai suoi abitanti un riparo
dal rigido gelo che infestava il
paese. E se mai un
caminetto si fosse spento, l’elfo responsabile
sapeva che sarebbe stato il nuovo
ornamento del “muro delle teste”.
Anche quella sera nella grande,
lussuosa sala da pranzo
della villa il fuoco ardeva nel caminetto
in marmo, gettando un sinistro
bagliore rossastro sullo
specchio che lo sovrastava, e collaborava a
far luce nella stanza, i cui soffitti
erano troppo alti per
essere perfettamente illuminati dal pesante
lampadario che pendeva basso sulla
tavola.
Lucius Malfoy poggiò le posate sui
bordi del piatto e si
pulì gli angoli della bocca, e rivolse un
sorriso soddisfatto alla moglie, che
rispose educatamente
con un cenno della testa. Una piccola
elfa domestica trotterellò nella
stanza e fece un profondo
inchino, schiarendosi la gola per attirare
l’attenzione dei suoi padroni.
Entrambi si voltarono nella
sua direzione e Narcissa, con voce altera,
ordinò all’elfa di portare via i
piatti.
Con uno schiocco delle piccole dita
dell’elfa i piatti si
smaterializzarono, rimpiazzati da due piccoli
bicchieri colmi di un liquido
ambrato; l’elfa indietreggiò
lentamente e, con un profondo inchino
reverenziale, uscì dalla stanza.
Lucius bevve dal suo bicchiere,
svuotandolo del suo
contenuto con un grande sorso. Narcissa seguì
il movimento del pomo d’Adamo del
marito, e poi posò lo
sguardo sul suo bicchiere, perdendosi nei
suoi pensieri.
“A cosa pensi?” le chiese Lucius,
poggiando il bicchiere sul
tavolo.
Narcissa alzo lo sguardo velocemente
e si stampò un sorriso
sul volto, il più velocemente
possibile. “Nulla d’importante. Non
credo di volerlo,”
aggiunse, spingendo il calice verso suo
marito ed invitandolo a bere al suo
posto con un cenno della
mano.
Lucius la scrutò, cercando di
leggerle dentro, ma dopo un
primo tentativo decise che forse era
solo uno di quei giorni in cui
Narcissa era lontana da lui,
presa dai suoi pensieri e dalle sue
preoccupazioni.
“Ancora la profezia?” le chiese,
chinandosi verso il
bracciolo della sedia e piegando leggermente la
testa.
Narcissa abbassò lo sguardo e strinse
le labbra. “Ti ho
detto che non è niente,” ripeté la donna,
appoggiandosi allo schienale. “Non
insistere.”
Lucius scosse la testa e Narcissa lo
detestò per quanto
riusciva a capirla. Sì, era di nuovo la profezia
che la preoccupava. Non tanto la cosa
in sé, ma il fatto che
Lucius fosse stato messo a capo della
squadra che avrebbe dovuto entrare
nel ministero, ingannare
Potter, costringerlo a prendere la
profezia e consegnarla. Il Signore
Oscuro aveva affidato il
compito a Lucius ed altri due uomini,
entrambi folli e senza scrupoli,
Mangiamorte invasati e così
incredibilmente devoti da prendere per
oro colato tutto quello che usciva da
quella bocca sottile e
serpentesca.
Lucius era diverso, lei lo sapeva.
Lucius aveva ragioni
dietro la sua affiliazione al circolo mortifero;
aveva motivi che andavano al di là
dell’adorazione per
quell’individuo che tutti cercavano di
soddisfare. Lucius cercava di
ristabilire la purezza del
sangue, cercava di agire per ridare ai maghi
ciò che era stato negato loro: la
libertà di essere maghi
senza costrizioni, o Statuti magici che
controllassero ogni loro mossa.
Narcissa aveva però l’impressione che
quella che era
cominciata come una missione sacrosanta si
fosse trasformata in un massacro
senza pilastri, lo sfogo di
un gruppo di repressi sanguinari che in
questo modo giustificavano le loro
scorribande. Il suo
Lucius non era così, e odiava che per volere
del Signore Oscuro si dovesse
mischiare a quegli
squilibrati.
A preoccuparla ancora di più era il
fatto che fossero solo
tre, ad entrare al Ministero. Era sicuro?
Non sarebbe stato meglio mandare un
manipolo più numeroso,
pronto a fronteggiare eventuali
imprevisti? E se gli Auror fossero
stati di guardia, come
già era successo? E se questa volta non
fossero stati così fortunati da
trovare una sola persona, a
guardia della profezia, ma l’intero dannato
Ordine della Fenice? Suo marito era
dotato, ma quali possibilità
avrebbe avuto contro venti Auror
altamente specializzati? Venti contro
tre: una missione
suicida.
“Scusami Lucius, ma continuo a non
capire,” esordì Narcissa,
fondamentalmente incapace di tenere
il suo disappunto per sé. “Perché tu?
Perché proprio tu? Non hai pensato
neanche per
un secondo
che forse manda te semplicemente
perché sei l’unico rimasto?
L’unico che è stato abbastanza furbo
da rimanere fuori da Azkaban?”
Ma non appena le parole le furono
uscite dalla bocce, le
rimpianse. Sapeva di aver sbagliato, e
vide il suo errore dipinto sul viso
di suo marito, che le
schioccò un’occhiataccia, alzandosi così
bruscamente da far cadere la sedia
con l’interno delle
ginocchia.
“Davvero pensi questo? Pensi che sia
tanto incapace da non meritare di
essere messo a capo di
qualcosa di così importante? Pensi
che se tuo cognato fosse
stato qua, sarebbe stato al mio posto?”
esclamò, alzando la voce. Narcissa
sussultò alla menzione
del cognato, ben conscia di quanto suo
marito avesse sofferto di essere
infinitamente meno
importante di Rodolphus Lestrange agli occhi
di Lord Voldemort. “Dimmi Narcissa, è
davvero questo che
pensi di tuo marito?”
Narcissa continuò a fissarlo,
immobile, altera nella sua
sedia, le mani elegantemente poggiate sul
proprio grembo, distinta e nobile
nell’anima quanto nel
sangue. Con un sorriso gelido, si alzò anche
lei, molto più delicatamente, e fece
per voltarsi nella
direzione opposta, indicando la volontà di
lasciare la stanza, ma Lucius le
afferrò il polso e la
costrinse a guardarlo ancora negli occhi.
“Lasciami immediatamente,” sussurrò
Narcissa, e la sua voce
non tradì un briciolo di emozione se
non il disgusto per l’esplosione
fuori luogo ed esagerata
del marito. “Non mi interessa l’importanza
che credi questa missione ti dia
all’interno del tuo piccolo
club, ma qui rimani lo stesso uomo di
sempre. Nulla cambierà, Lucius. Nulla
cambierà mai.”
Lucius ritrasse la mano, come
scottato, e Narcissa si avviò
verso la porta, con passi lunghi e decisi,
la faccia contorta dalla rabbia, con
gli occhi sgranati e la
bocca che tremava per l’affronto. Spinse
con forza la pesante porta e uscì
dalla stanza, sbattendola
dietro di sé. Se Lucius voleva illudersi
di essere entrato nelle grazie del
Signore Oscuro, lei non
sarebbe stata lì ad assecondarlo. Perché
proprio lei, Narcissa, sapeva che
solo una persona poteva
vantare di tale titolo, e non era certo suo
marito, e nemmeno Rodolphus.
Sentì un brivido percorrerle la spina
dorsale ed uno
spiffero la colse di sorpresa. Qualcuno aveva
lasciato una porta, o una finestra,
aperta? Da dove
proveniva quella brezza? Perché il fuoco non
scaldava più il grande atrio? Perché
all’improvviso faceva
così freddo?
Girò su se stessa, cercando di
individuare la fonte dello
spiffero, ma tutte le finestre del gigantesco
atrio erano sigillate come da ordini.
Il fuoco nel
caminetto, più grande di quello della sala da
pranzo, tremò leggermente e come se
una volata di vento si
fosse abbattuta su di esso, la fiamma si
spense completamente, lasciando la
stanza nel buio più totale.
Lei capì immediatamente cosa stava
succedendo e abbassò il
capo, pronta a ricevere la visita che
quei segni annunciavano. E infatti,
dopo soli pochi secondi,
nella stanza si Materializzò un’ombra
che Narcissa conosceva perfettamente.
Nel buio era impossibile
distinguerne bene i tratti, ma il
pallore malato della carnagione
dell’uomo sembrò risplendere
in piena unione con la neve che si
intravedeva alle sue spalle, oltre i
vetri.
“Mio Signore,” sussurrò Narcissa,
abbassando nuovamente lo
sguardo in un atteggiamento
referenziale. “Lucius è nella stanza
accanto.”
“Non cercavo Lucius,” rispose la voce
acuta e gelida di Lord
Voldemort. “Cercavo te, Narcissa. Ho
qualcosa da affidarti. Qualcosa di
molto importante.”
Narcissa osò levare lo sguardo e vide
Voldemort che la
fissava, intensamente, come se cercasse di
carpire la sua disponibilità dalla
scintilla nei suoi occhi.
Cosa strana in sé, perché Lord Voldemort
non chiedeva mai la disponibilità di
qualcuno; egli
ordinava, esigeva, pretendeva.
Quindi Narcissa annuì. “Certo, Mio
Signore.”
Voldemort abbasso lo sguardo e
Narcissa notò per la prima
volta che qualcosa era sul pavimento,
parzialmente coperto dalla sua vista
dalla larga veste nera
di Voldemort. Quando si fu accorto che
Narcissa aveva individuato il motivo
della sua venuta,
Voldemort fece un passo di lato e spostò il mantello drammaticamente,
rivelando
quello che all’ombra sembrava un ammasso informe di
stracci sporchi.
Narcissa non capiva cosa fosse tanto
importante per un uomo
tanto potente. Cos’era? Cosa
nascondeva, quella pila di pezze? Si
avvicinò e notò che si
muoveva. Respirava. Qualcosa, là
sotto, era vivo e cominciava a dare
segni di agitazione.
Come se avvertisse il disagio di Narcissa,
Voldemort puntò la temibile bacchetta
di fenice verso il
caminetto, dove la stessa fiamma che poco
prima era morta tornò ad ardere.
Narcissa portò entrambe le mani alla
bocca e trasalì, quando
vide le gambe e le braccia magrissime
spuntare da sotto quella veste così
sporca, e la massa di
capelli neri, indomabili che nascondeva il
volto di ciò che il signore Oscuro
aveva portato in casa
sua.
Non aveva bisogno di vederne il
volto, avrebbe riconosciuto
quella sagoma dappertutto, nonostante
la magrezza eccessiva ed i segni
della prigionia.
“Bella!” Narcissa esclamò, quasi
strillando, gettandosi ai
piedi di Voldemort, ma non in uno di quei
gesti adoranti che aveva visto fare a
tanti Mangiamorte in
passato, e spesso proprio dalla stessa
Bellatrix che ora giaceva in stato di
semi-incoscienza sul
pavimento bianco. Quel movimento
inconsulto fu una reazione
incontrollabile alla vista della
sorella, nulla aveva a che fare con l’uomo
che ora assisteva alla scena,
impassibile. “Bella,” ripeté
Narcissa, afferrando il corpo dalle spalle e
spostandola come una bambola di pezza
finché il viso non fu
alla luce del camino.
Forse un estraneo, chiunque avesse
visto Bellatrix Black una
volta nel passato, non l’avrebbe
riconosciuta: gli occhi erano chiusi,
cerchiati dalle
profonde occhiaie scure e da i segni della
mancanza di sonno (e pace), mentre la
bocca era socchiusa,
con quelle labbra secche e troppo
pallide che mostravano i denti
ingialliti dalla tortura che
era stata Azkaban.
Ma Narcissa non era un’estranea, e
nonostante le condizioni
di devastazione in cui Bellatrix aveva
vissuto negli ultimi quattordici anni
avessero senz’altro
segnato la donna, lei l’avrebbe riconosciuta
dappertutto. “Bella,” Narcissa
sussurrò di nuovo,
avvicinando il viso a quello della sorella e
sentendo il respiro affaticato e le
parole strascicate ma
incomprensibili che le uscivano dalla bocca.
“Narcissa,” Voldemort la chiamò, e
lei si voltò senza
lasciare andare il corpo della sorella.
Guardò in alto verso l’uomo che le
aveva causato tanto
dolore, a lei e a tutta la sua famiglia, tanta
disperazione; eppure non riuscì a non
provare un moto di
gratitudine inspiegabile e improvviso per
averle ridato la sorella che Narcissa
credeva di aver perso
per sempre.
“Come ha fatto ad evadere?” Narcissa
chiese, non riuscendo
più a trattenere il singhiozzo che la
scuoteva mentre sentiva il corpo
freddo della sorella fra le
mani, incredibilmente grata di sentirne il
tremore e il respiro.
Era qualcosa di incredibile: come se
il suo stesso sangue ne
avesse avvertito la presenza, sentiva il
suo cuore che pompava più forte, come
se la presenza della
sorella avesse risvegliato ogni fibra nel
suo corpo in modo così naturale ed
involontario che si
chiese per un secondo se il sangue fosse in
grado di avvertire la presenza di
altro sangue della stessa
matrice.
“Questo non importa,” Voldemort
disse, ed era chiaro che non
ammetteva repliche. “Quello che
conta è che ora sono liberi. Tutti.”
“Tutti?” Narcissa chiese, la voce
tremante. “Liberi?”
“I miei Mangiamorte,” Voldemort
spiegò. “Ognuno è al sicuro,
e questo è il posto più sicuro per lei.
Contavo sul fatto che l’avresti
aiutata. Lo farai?”
“Ma certo, mio Signore, certo che la
aiuterò,” Narcissa
disse, tornando a guardare la sorella,
tenendole la testa leggermente
sollevata, appoggiata sulle
sue gambe. “È mia sorella…” aggiunse,
in poco più di un sussurro.
“Rimettila in sesto,” Voldemort
disse, autoritario.
“Nutrila, lavala, falla riposare. Fa in modo
che domani, quando io e gli altri
Mangiamorte torneremo per
la riunione, sia la Bellatrix di
sempre. È un ordine, Narcissa. Io ti
ho ridato tua sorella…”
Narcissa chiuse gli occhi, ascoltando
Voldemort. “… ma tu restituiscimi la
mia guerriera.”
Sentì un movimento improvviso e
veloce alle sue spalle e
seppe che il Signore oscuro si era
Smaterializzato. Narcissa non
distolse gli occhi dal viso di
sua sorella nemmeno per un attimo;
tenendola stretta a sè, allungò una
mano sulla guancia di
Bellatrix per scostare i capelli e sorrise.
“Bella,” chiamò, come cullandola.
“Bella.” Ancora e ancora,
finché finalmente Bellatrix aprì gli
occhi, giusto due fessure per vedere
chi la chiamava, chi la
teneva, a chi appartenevano le mani che
le scaldavano dopo i quattordici anni
di freddo ad Azkaban.
Narcissa, che aveva provato a
trattenere le lacrime, si
arrese e sorrise alla sorella quando quegli
occhi scuri si posarono sul suo viso.
Tra le lacrime, riuscì
ad annuire e sussurrarle parole. Le disse
che era al sicuro, che era a casa,
che finalmente era libera
e che non l’avrebbe lasciata andare.
Le labbra di Bellatrix si mossero,
impercettibilmente, e
Narcissa dovette avvicinarsi ancora di più
per riuscire ad afferrare cosa la
sorella stesse cercando di
dire.
“È tornato,” stava dicendo, con
l’unico briciolo di forza
che i Dissennatori non erano riusciti a
strapparle. “È tornato a prendermi.”
Prima che Narcissa potesse
pronunciare qualsiasi risposta,
una porta nelle vicinanze si aprì
violentemente. Alzò lo sguardo in
tempo per vedere Lucius
che usciva dalla sala da pranzo e
camminava, a testa bassa, verso la
grande scalinata che
portava alle camere da letto.”Lucius,”
mormorò, e lui si voltò nella sua
direzione.
Narcissa teneva la sorella fra le
braccia, sul pavimento, le
sorreggeva la testa, le accarezzava i
capelli e le strofinava la pelle
delle braccia, cercando di
riscaldarla. Lucius rimase impietrito,
immobile davanti a quella scena. Aprì
la bocca un paio di
volte, senza riuscire a proferir parola,
richiudendola subito dopo.
“Narcissa, ma quella…” cominciò, e
Narcissa annuì,
sorridendo fra le ultime lacrime. “Come…
Quando…”
“Il Signore Oscuro l’ha portata qui,
Lucius,” Narcissa
esclamò. “Lei e tutti gli altri, sono tutti fuori
da Azkaban, Lucius! Li ha liberati
tutti!” Tornò a guardare
la sorella in modo amorevole. “Sono
tutti liberi.”
“Tutti?” C’era qualcosa di strano
nella voce di Lucius,
panico misto a incertezza. Narcissa tornò
a guardarlo, comprendendo la fonte
delle sue preoccupazioni:
se finora aveva potuto sperare di
guadagnare un posto privilegiato tra
i Mangiamorte, con
Rodolphus, Barty Jr e Bellatrix di nuovo
a piede libero non aveva speranza. Di
fatto, la presenza
della cognata nella sua magione significava
solo una cosa, per Lucius Malfoy: il
fallimento.
“Aiutami a portarla di sopra,”
Narcissa gli ordinò.
“Portiamola nella stanza degli ospiti. Dormirà
per quanto ha bisogno, e quando si
sveglierà mi prenderò
cura di lei.”
“Ma Narcissa, hai idea di quanto sia
pericoloso? A quest’ora
ci saranno Auror sguinzagliati per il
paese! È una ricercata, e il primo
posto in cui verranno a
cercarla è questo!” Lucius non lo disse
ad alta voce, ma sperava che la
trovassero. Sperava che in
quel preciso istante uno squadrone di
Auror del Ministero gli piombasse in
casa e la riportasse ad
Azkaban, dove la sua essenza non
rappresentava una minaccia.
“Se verranno lo sapremo, Macnair ci
avvertirà!” Narcissa
spiegò, cercando di alzarsi sorreggendo
la sorella. “La nasconderemo in
cantina, insieme a tutte le
altre cose che sei bravissimo a tener
nascoste alle autorità. Ora vieni,
aiutami!”
Lucius sospirò e si avvicinò alla
moglie; senza tante
cerimonie prese Bellatrix dalle sue braccia e la
issò sulle sue, come tante volte
aveva fatto con Draco
quando si addormentava davanti al caminetto.
Guardò la donna fra le sue braccia e
si chiese quanto fosse
patetico sentirsi minacciato da una donna
più morta che viva.
“Portiamola su, avanti,” Narcissa
disse, avviandosi verso le
scale. Lucius la seguì, su per l’immensa
scalinata, mantenendo lo sguardo
fisso sul viso incavato di
Bellatrix. Lì, mentre teneva la cognata
fra le braccia, ricordò l’ultima
volta che si erano visti.
Avevano
sentito il
bussare frenetico alla grande porta d’ingresso e tutti i presenti si
erano
immobilizzati:
Lucius,
Narcissa, Rodolphus, Rabastan, Barty Jr, Rockwood e Bellatrix.
Aspettavano
tutti
notizie dal
padrone, notizie sulla missione più importante da quando erano stati
marchiati.
Una missione
che non
era stata affidata a loro, una missione che il loro Signore avrebbe
dovuto
compiere da
solo,
quella notte del 31 Ottobre.
Lucius e
Bellatrix
furono i primi a balzare in piedi e corsero attraverso la grande sala
da
pranzo,
fuori
nell’atrio, fino
alla porta, come due bambini che corrono ad abbracciare il padre che
torna a casa
dopo una
giornata di lavoro. Aprirono la porta, entrambi con gli occhi sbarrati
dall’emozione,
dalla
felicità, pronti a ricevere la notizia della vittoria del loro padrone.
Ma fu
Dolohov che
entrò correndo, senza fiato, urtando entrambi, col terrore negli occhi.
La
porta rimase
aperta,
mentre pian piano gli altri Mangiamorte, e Narcissa, si unirono a loro.
Tutti
guardavano
Dolohov, che si accasciava sul pavimento lentamente, a gattoni, e
respirava
freneticamente,
con
gli occhi assenti.
“I Potter
sono morti,”
sussurrò.
Grida di
giubilo si
alzarono dai presenti, persino Lucius e Bellatrix si guardarono e si
sorrisero
in preda
all’euforia
dell’ennesima schiacciante vittoria. Narcissa osservava il marito e la
sorella
dall’ombra
della stanza. Non esultava: era l’unica ad aver percepito la stranezza
nel
comportamento
di
Dolohov, l’unica ad aver capito che era successo qualcosa.
L’espressione del
Mangiamorte
non era
una di esultanza, era una di terrore.
“Lucius,”
gridò sopra
le urla degli altri, e suo marito si girò per ascoltarla. Lei fece
segno con la
testa verso
l’uomo che
era ancora per terra e non alzava lo sguardo; Dolohov tremava, dalla
testa
ai piedi, e
il respiro
gli si faceva più veloce. Bellatrix si avvicinò e lo guardò dall’alto
al basso,
il
furore di
prima
rimpiazzato da un’espressione incerta, più cupa. Narcissa le si
avvicinò, le
stava
dietro e
anche lei
guardava verso Dolohov che continuava a contorcersi sul pavimento in
preda a
un dolore
invisibile,
non fisico quanto psicologico.
“Dolohov,”
Bellatrix
mormorò. “Dolohov, cosa è successo? DOLOHOV!” gridò, piegandosi
sull’uomo e
afferrandolo per i capelli, costringendolo a girarsi, a guardarla negli
occhi.
“DOV’E’
IL SIGNORE
OSCURO,
DOLOHOV!”
Ma l’uomo
non parlava,
riusciva solo a piagnucolare parole sconnesse che non avevano alcun
senso per
nessuno dei
presenti. Narcissa conosceva la sorella, sapeva che stava per perdere il
controllo,
quindi si
abbasso e le posò le mani sulle spalle. “Bella, calmati.”
“ZITTA!” le
urlò
Bellatrix, spingendola via e facendola cadere all’indietro. Lucius fece
un
passo
avanti, per
aiutare la
moglie, ma Narcissa fu più veloce e scosse la testa: non voleva essere
aiutata,
ci era
abituata…
Dopotutto era sua sorella.
Fu dopo che
Bellatrix
lo scosse che il Mangiamorte ansimante riuscì a guardarla negli occhi,
guardarla
davvero, e a
sussurrare quelle parole che li avrebbero tormentati per il resto della
loro
esistenza.
“Il Signore
Oscuro è morto.”
Ci fu un
silenzio
incerto, in cui nessuno osò fiatare. Bellatrix lo lasciò andare e si
rialzò, e
lo stesso
fece anche
Narcissa,
rimanendo al fianco della sorella. Sapeva cosa stava per succedere.
Bellatrix
ridacchiò.
“Sei uno stupido Dolohov,” disse. “Il Signore Oscuro non può morire!
Sarà
senz’altro
uno dei
suoi trucchi per confondere il Ministero, e gettare panico e
scompiglio.”
“No
Bellatrix!”
Dolohov gridò mentre Bellatrix si allontanava, quel ghigno di chi crede
di
sapere
tutto ancora
stampato
sul viso. Narcissa si guardò intorno: sua sorella era l’unica a essere
serenamente
convinta
della vittoria del suo padrone, mentre sui visi di tutti gli altri vi
era tutto
un
altro
racconto.
“Bellatrix, ascoltami!” continuava a gridare Dolohov. “Se non mi credi,
guarda
il
tuo Marchio,
folle!
GUARDALO!”
Bellatrix si
voltò di
scattò, furente. “Il mio Marchio è perfettamente normale!” gridò.
Narcissa
spostò lo
sguardo sugli altri Mangiamorte che, uno ad uno, si tiravano su la
manica
sinistra
della veste,
e vide il poco colore rimasto nei loro visi sparire completamente.
Erano tanti
fantasmi, i
seguaci-fantasmi di un uomo sconfitto.
“GUARDALO!”
ripeté
Dolohov, alzando la sua manica e mostrandole il pallido ricordo di
quello
che era
stato il
Marchio Nero, una volta di un nero vivido, ora ridotto a poco più di un
ricordo
sbiadito.
Gli occhi di
Bellatrix
si posarono su ciò che restava del Marchio dell’uomo e il ghigno
scomparve.
Narcissa la
guardava
attentamente, e vide qualcosa negli occhi della sorella, un lampo, una
scintilla,
il segno
inequivocabile di qualcosa che si rompeva: la speranza, la fede, la
certezza
dell’incolumità
dell’amato padrone. Contro se stessa, si riavvicinò alla sorella, e le
si parò
davanti,
prendendole
il viso bruscamente con la mani, afferrandola per il mento e
costringendola a
guardarla.
Intorno a
loro due gli
altri Mangiamorte cominciavano ad agitarsi, e si chiedevano cosa
rimaneva
da fare,
dove
nascondersi, come potesse essere successo. Dolohov dava una spiegazione
strana,
raccontava
di un Avada
Kedavra rimbalzato, di una casa interamente distrutta, di un padrone
scomparso.
Mentre
intorno a loro dilagava la paura, Narcissa e Bellatrix si guardavano.
“Devi
scappare,” disse
Narcissa. “Prendi Rodolphus, lasciate il paese; saranno qui a breve.
Dovete
nascondervi.
Germania, Francia, qualsiasi posto, ma lasciate la Gran Bretagna e non
fidatevi di
nessuno.”
Bellatrix la
sentiva,
ma non la ascoltava. Le pupille le si dilatavano sempre di più finché
improvvisamente
cacciò
un urlo, disperato, folle, bestiale, che le ricordò della notte in cui
era
morta sua
madre ed era
stata lei stessa, Narcissa, a urlare così.
“No,”
esclamò
Bellatrix. “NO!”
“Bellatrix,
dovete
andare ORA!” continuava a dire Narcissa, ma Bellatrix oramai era
lontana da
lei, lontana
da tutto
quello che era il presente. E forse, quel qualcosa che aveva visto
spezzarsi
nella
sorella, insieme
alla speranza, era proprio la percezione della realtà.
“NO!” gridò
ancora
Bellatrix, divincolandosi. “DOBBIAMO TROVARLO!”
“Non c’è più
niente da
fare,” sussurrava Dolohov, guardando in basso in modo sconfitto.
“CODARDI!”
gridava
Bellatrix “DOBBIAMO TROVARLO! CERCHIAMO GLI AUROR, LORO
SAPRANNO
DOV’E’!”
Lucius si
fece avanti
e cercò di parlarle in modo ragionevole. “Bellatrix, non possiamo
rivolgerci
agli Auror,
ci
staranno cercando. Dovete nascondervi, voi che siete stati così
apertamente
dalla
parte
dell’Oscuro
Signore siete più in pericolo degli altri.”
Bellatrix si
volto
verso il cognato, folle e incontrollabile. “NOI, Lucius? NOI! E tu cosa
farai?
Lo
rinnegherai,
lo
tradirai? CODARDO, tu come tutti gli altri!” esclamò. Poi si voltò
nuovamente,
e
raggiunse il
marito a
grandi passi. “Dobbiamo trovarlo, Rodolphus. Dobbiamo cercarlo, lui si
fida
di noi, si
aspetta che
lo cerchiamo, si aspetta la nostra fedeltà!”
Rodolphus si
guardò
intorno, e lesse il disagio nella maggior parte dei testimoni. Poi
incontrò lo
sguardo di
suo
fratello, che annuì impercettibilmente, e quello di Barty Jr, i cui
occhi erano
tanto
folli quanto
lo erano
quelli di Bellatrix.
“NO!” urlò
Narcissa.
“È una condanna, non potete farlo! Proprio voi, sarete i primi
sospettati, vi
daranno la
caccia come
le bestie! Dovete scappare!”
“Noi non lo
tradiremo,
Narcissa,” disse Rodolphus, prendendo Bellatrix per mano.
“Bella!”
gridò ancora
Narcissa. “Sono tua sorella! Te lo ordino!”
Bellatrix la
guardò e,
con sdegno, sputò ai piedi della sorella. “Io non sono sorella di
traditrici e
voltagabbana.”
Rodolphus si
voltò
verso Rabastan e Crouch, ordinando di trovarsi a casa dei Paciock, tra
gli
Auror più
importanti
del Ministero. Senz’altro, loro avrebbero saputo, e se anche non
avessero
voluto
parlare,
avrebbero avuto quello che gli spettava.
Narcissa e
Bellatrix
si guardavano, le suppliche negli occhi dell’una, il disprezzo in quelli
dell’altra.
Poi, si
Smaterializzarono.
Era stata l’ultima volta che avevano
parlato. L’ultima volta
che lei, Narcissa, aveva visto sua
sorella. Non se l’era sentita di
assistere al processo,
quando aveva saputo che lei, Rodolphus, Rabastan e Crouch erano stati
catturati. E poi, avrebbe corso un rischio troppo grande, soprattutto
tenuto conto
del completo voltafaccia che lei e Lucius avevano osato compiere. Lui,
suo
marito, era stato presente al processo, se non altro per dimostrare
fedeltà al
Ministero subito dopo che anche le
accuse che gli pendevano sul capo
erano state rigettate. Lei
non gli aveva mai chiesto niente, non
gli aveva mai chiesto come Bellatrix
avesse affrontato
l’udienza, non gli aveva mai chiesto se era
pentita.
Non lo aveva chiesto perché conosceva
sua sorella, sapeva
benissimo che il pentimento non
rientrava nel suo carattere.
Bellatrix sarebbe affondata
insieme al suo Padrone, piuttosto che
rinnegarlo, tradirlo
come tante volte aveva gridato quella sera.
Non era mai andata ad Azkaban, non ne
aveva mai avuto la
forza né il coraggio. In parte perché
Lucius glielo aveva impedito
categoricamente, in parte
perché sapeva che andando si sarebbe
sottoposta ai peggiori insulti da
parte di tutti i
prigionieri dell’ala. Tremava al solo pensiero di
quello che le avrebbero gridato se un
giorno l’avessero
vista camminare davanti alle loro celle. Lei,
la traditrice, la bugiarda, l’infida
strega che aveva
voltato le spalle ai Mangiamorte, alle persone
che fino a poco tempo prima cenavano
nel suo soggiorno,
chiacchieravano nelle sue stanze e si
intrattenevano nel suo salotto.
Le uniche notizie che aveva ricevuto
le aveva lette sui
giornali, sulla Gazzetta del Profeta, che
riportavano dell’instabilità
crescente della Mangiamorte
Bellatrix Lestrange, di come con lo
svolgersi della sentenza i
Dissennatori le rubassero
l’anima.
Ma aveva poi
un’anima,
quella donna? Narcissa non lo sapeva più. Col passare degli
anni,
l’efferata criminale che abitava la
cella 34 di Azkaban
diveniva sempre più un ricordo, si
allontanava ogni giorno di più
dall’essere sua sorella e
diveniva invece quella criminale che tutti
temevano quasi quanto avevano temuto
Lord Voldemort.
Più passavano i giorni, più i ricordi
di quando erano
bambine venivano rimpiazzati dai racconti
raccapriccianti delle persone che
l’avevano conosciuta nella
sua veste peggiore: parenti di persone
torturate, uccise dal braccio destro
del Signore Oscuro,
persone che giuravano fosse il Diavolo
in persona, o che senz’altro doveva
almeno avergli venduto
l’anima per poter essere così priva di
coscienza.
Narcissa non ritrovava la Bellatrix
che conosceva in quei
resoconti così dettagliati di puro orrore.
Certo, sua sorella non era mai stata
una dama da salotto, ma
mai nessuno (e certamente neanche
suo padre, che tanto l’aveva elogiata
quando era stata
marchiata) avrebbe potuto ricollegare la
famigerata assassina alla sua figlia
maggiore.
E poi l’aveva vista, lì, sul
pavimento di casa sua, ai piedi
del Signore Oscuro, un corpo troppo
magro e troppo bianco, e tutto quello
che aveva pensato in
quei terribili anni, tutte quelle volte che
aveva deciso di rinnegarla
esattamente come Bellatrix aveva
rinnegato lei, erano diventati solo un ricordo.
Anche ora, mentre suo marito la
trasportava, ancora
incosciente, su per le scale, e Narcissa lo
seguiva, non riusciva a distogliere
lo sguardo dagli occhi
semi-chiusi di Bellatrix, la testa che
dondolava ad ogni gradino, le braccia
che cadevano,
abbandonate, verso il basso, i capelli così
lunghi che per poco non toccavano il
pavimento. Se non fosse
stato per la tragicità del momento, le
labbra violacee, le occhiaie, la
polvere e la terra che le
rovinavano la pelle, avrebbe riso alla scena
di Lucius che la portava in braccio,
quasi fosse una
principessa, pensando agli anni di puro odio fra i due.
Ma non era una scena comica, né
romantica. C’era un senso di
drammaticità, come se Lucius
trasportasse un cadavere, e Narcissa
fu percorsa da un
brivido pensando a quanto fossero stati vicini
alla realizzazione di quell’incubo.
Vedendo Bellatrix
ridotta così, non poteva non pensare che un
unico giorno in più sarebbe bastato a
spegnerla per sempre,
lì ad Azkaban.
Invece era libera, libera grazie al
Signore Oscuro che aveva
mantenuto la sua promessa. Li aveva
salvati, li aveva salvati tutti e li
avrebbe ricompensati
per la loro fedeltà, per il loro giuramento di
lealtà eterna. Non le importava, in
quegli attimi, del
perché, non le interessava sapere se l’avesse
fatto solo perché lei, come gli
altri, gli serviva per la
profezia, o qualsiasi altra missione avesse
in mente. L’unica cosa che contava
era che lei ora era
libera, era finalmente da lei, a casa, come era
giusto che fosse.
Giunti in cima alle scale, Narcissa
corse avanti e aprì le
porte della camera da letto più vicina,
quella di Draco. Lucius entrò,
attento a non far sbattere la
testa di Bellatrix contro lo stipite, e
quando fu al lato del letto ve la
adagiò sopra. Narcissa gli
rimase al fianco, ed entrambi osservarono
Bellatrix che per un secondo aprì li
occhi, guardandoli,
prima di richiuderli e far ricadere
leggermente la testa di lato.
“Cosa dobbiamo fare?” Narcissa
sussurrò.
“Lasciamola dormire, per ora,” Lucius
rispose, scuotendo la
testa. ”Perdonami, ma è la prima
volta che do rifugio ad una fuggitiva
di Azkaban, non sono
ferrato in materia.” Questo lo aggiunse
in tono sprezzante, facendole pesare
la responsabilità che
gravava sulle loro spalle, ospitando
Bellatrix. Ma Narcissa non lo
ascoltava. Si sedette sul
letto al fianco della sorella.
“Resterò con lei, stanotte,” spiegò,
senza guardarlo. “Nel
caso si svegliasse, sono sicura che non
vorrebbe rimanere da sola.”
Lucius guardò il profilo della
moglie; non la vedeva
chiaramente, ma la luce della luna, filtrata dei
vetri delle finestre, gettavano un
chiarore sinistro sulla
stanza e su di lei, già così pallida di suo.
Poteva vedere la preoccupazione, e
allo stesso tempo la
soddisfazione di riavere Bellatrix. Si chiese
per un attimo se anche sul suo viso
fosse possibile
intravedere i sentimenti che provava: timore,
incertezza, intimidazione.
Annuì e lasciò la stanza, chiudendo
la porta dietro di sé:
dovette ammettere che, come sempre era
stato, tra Narcissa e Bellatrix non
c’era spazio per altre
persone, almeno per quanto riguardava la
prima. Sua sorella veniva prima di
tutto, da sempre.
Ma per Bellatrix… Non ne era poi così
sicuro.
Narcissa rimase nella stanza per
tutta la notte. Aveva
avvicinato la vecchia poltrona al letto, quella
poltrona sulla quale aveva allattato
Draco, la poltrona
sulla quale raramente Lucius si era seduto per
parlare con il figlio, ed era rimasta
su quella poltrona,
vigile ed attenta ad ogni minimo movimento
della donna sul letto. A volte
Bellatrix si muoveva, poco, e
chiaramente con molto sforzo, ma lo
faceva e dalla bocca uscivano
sussurri, sospiri, un respiro
affannato e doloroso.
Dopo qualche ora Narcissa si arrese
al sonno, e si appoggiò
al bracciolo; non seppe quanto dormì,
ma ad un certo punto fu svegliata
bruscamente da un urlo.
Sobbalzò sulla poltrona e si guardò
intorno, facendo mente locale, ed
immediatamente tornò a
rivolgere lo sguardo sul corpo che ora si contorceva sul letto, urlando
e
inarcando la schiena, stringendo i pugni, le palpebre serrate.
“Bella,” esclamò, alzandosi dalla
poltrona e sedendosi sul
letto. Afferrò la sorella per le spalle,
cercando di bloccarne le convulsioni.
“Bella, svegliati,
Bella!”
I movimenti cessarono e le palpebre
si aprirono di scatto;
Bellatrix spalancò gli occhi e la guardò,
come se la vedesse per la prima
volta, chiaramente ignara
della situazione e di come potesse
essere giunta lì, come se gli istanti
in cui era stata a
malapena cosciente fossero stati dimenticati.
Era immobile, sul letto, nella presa
della sorella, ma gli
occhi si muovevano da un lato all’altro,
velocemente, come un animale
spaventato.
“Bella, sei a casa,” Narcissa
sussurrò, portando una mano
sulla fronte della sorella nel tentativo
di calmarla. Poi le accarezzò una
guancia e annuì in modo
rassicurante. “Il Signore Oscuro ti ha
portato qui, ricordi? Bella?”
Bellatrix deglutì rumorosamente e il
respiro si stabilizzò.
Dischiuse le labbra, come per dire
qualcosa, ma alla fine decise di
tacere. Richiuse gli occhi
e Narcissa fece scivolare la sua mano su
quella della sorella, stringendola.
Narcissa si accasciò sulla sorella,
appoggiando la tempia
contro il petto, tanto vicina da sentirne
il cuore battere. Anche Bellatrix
strinse la mano della
sorella e Narcissa sorrise. “Va tutto bene,”
disse. “Tutto bene.”
E la sentì di nuovo, più forte.
Quella sensazione di potenza
che la vicinanza di Bellatrix, e del suo
sangue, le dava, quella vitalità era
come una nuova ragione
per vivere quando credeva di essere
condannata alla mediocrità.
La aveva odiata, aveva voluto odiarla
per non soffrire della
sua lontananza, ma ora che era là,
distesa sul letto, in agonia, in
preda ai temibili ricordi
di Azkaban e di quello che aveva vissuto, la
amava come mai aveva fatto. Riscoprì
quel bisogno di sua
sorella che aveva perso quando aveva
compiuto diciassette anni, riscoprì
il bisogno di averla
vicina, il bisogno di parlarle, di litigare con
lei, di dirle che sbagliava, o di
complimentarsi con lei per
le piccole cose. Aveva bisogno di lei,
e aveva cercato di soffocare questo
bisogno per quattordici
anni, riuscendoci solo in superficie,
marginalmente, se era bastato vederla
per far tornare a
galla quei sentimenti così forti.
“Dov’è?”
Narcissa alzò la testa, sorpresa
dalle parole della sorella,
anzi semplicemente sorpresa che avesse
parlato.
“Intendi dove sei?” le chiese.
Bellatrix scosse la testa, tenendo
gli occhi chiusi.
“Dov’è?” ripeté. La voce era rauca, bassa: con
un brivido Narcissa penso che fosse
dovuto a quanto aveva
gridato ad Azkaban, fino a sole poche
ore fa. Era l’unica cosa che aveva
saputo, della prigionia
della sorella: invocava a gran voce il suo
Signore e rideva, rideva come una
folle in preda a una
crisi. Urlava e rideva.
“Chi?” le chiese Narcissa, sperando
che non fosse quello che
credeva.
“Lui,” disse semplicemente Bellatrix.
Contemporaneamente
sfilò la mano da quella della sorella.
Narcissa si mise a sedere dritta, e
contemplò la possibilità
di non risponderle. Ma sapeva che
avrebbe continuato a chiedere di lui,
avrebbe urlato, se
necessario. “Sarà qui fra tre giorni,
Bellatrix,” le disse. “Mi ha fatto
promettere di rimetterti
in sesto. Mi ha fatto promettere di farti
tornare la sua guerriera.”
Le labbra di Bellatrix si curvarono
in un sorriso. Non un
ghigno, come suo solito, un sorriso vero, di
felicità. “È tornato a prendermi,
Cissy,” disse, e
nuovamente cadde in un profondo sonno, stavolta
senza incubi.
Gli incubi, quelli erano stati
esorcizzati perché il suo
Signore l’aveva voluta al suo fianco.
Non ci sarebbero stati incubi.
Non più.
[To be continued] |