La Vita Nova

di kenjina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Prologo ***
Capitolo 2: *** 01. Capitolo I ***
Capitolo 3: *** 02. Capitolo II - Parte I ***
Capitolo 4: *** 03. Capitolo II - Parte II ***
Capitolo 5: *** 04. Capitolo III ***
Capitolo 6: *** 05. Capitolo IV ***
Capitolo 7: *** 06. Capitolo V ***
Capitolo 8: *** 07. Capitolo VI ***
Capitolo 9: *** 08. Capitolo VII ***
Capitolo 10: *** 09. Capitolo VIII ***
Capitolo 11: *** 10. Capitolo IX – Parte I ***
Capitolo 12: *** 11. Capitolo IX – Parte II ***
Capitolo 13: *** 12. Capitolo X ***
Capitolo 14: *** 13. Capitolo XI ***
Capitolo 15: *** 14. Capitolo XII ***
Capitolo 16: *** 15. Capitolo XIII ***
Capitolo 17: *** 16. Capitolo XIV ***
Capitolo 18: *** 17. Capitolo XV ***
Capitolo 19: *** 18. Capitolo XVI ***
Capitolo 20: *** 19. Capitolo XVII ***
Capitolo 21: *** 20. Capitolo XVIII ***
Capitolo 22: *** 21. Capitolo XIX ***
Capitolo 23: *** 22. Capitolo XX - Parte I ***
Capitolo 24: *** 23. Capitolo XX - Parte II ***
Capitolo 25: *** 24. Epilogo ***



Capitolo 1
*** 00. Prologo ***


Bonjour

Salve!

Finalmente mi decido a pubblicare questa creaturina su EFP! L'ho scritta l'anno scorso e finita ad inizio anno - manca solo l'epilogo che ancora non ho buttato giù, ma prima o poi verrà fuori! Spero sia di vostro gradimento, sono molto affezionata a questa storia. :) Non vi chiedo clemenza ma voglio sincerità, è un lavoro che ho portato avanti in due anni e ci ho messo l'anima, per qualsiasi cosa, discrepanza, orrore, schifezza... beh, fatemelo sapere.

Durante la pubblicazione de La Vita Nova (titolo che ho gentilmente preso in concessione dal Sommo Poeta Dante!) continuerò a scriverne un'altra (senza pubblicarla, per ora), sempre sul nostro Fantasmone preferito (oltre finire le altre mille mila fanfiction che ho attualmente in corso su questo sito), un po' più contorta di questa e che mi sta facendo dannare et deliziare... Spero di finirla prima della fine del mondo! XD

Prima di augurarvi buona lettura vorrei ringraziare chi conosce già questa cosa, chi mi ha supportato per mesi e chi sta ancora aspettando l'epilogo... Voi sapete! :P

Ci si legge la settimana prossima, con il primo vero capitolo!

Saluti,

Marta.

 

 

 

La Vita Nova.

 

Prologo.

 

La caccia alle streghe era finita da tempo, ma le superstizioni sono sempre state dure a morire.

Nella tradizione popolare le donne con occhi verdi e capelli rossi erano considerate spesso e volentieri delle streghe. Donne capaci di ammaliare, di incantare con un solo sguardo, di creare strani intrugli magici che potevano guarire così come uccidere.

E con quello sguardo ammaliatore, l’espressione di chi la sapeva lunga e quel colore del diavolo che le infiammava il volto, neanche lei era esonerata da quelle stupide credenze. Non passava giorno in cui non ricevesse occhiate scettiche e superstiziose, di persone che temevano anche solo incrociare il suo vivido sguardo per paura che si vendicasse con qualche fattura od incantesimo; le madri non volevano che i propri figli si avvicinassero a lei, mentre si esibiva nei suoi piccoli spettacoli di strada per racimolare qualche soldo e campare come poteva. Chi avrebbe mai voluto avere a che fare con una figlia del diavolo, se non altri suoi pari? Però, com’erano curiosi quegli individui che andavano da lei per comprare i suoi medicinali di erbe balsamiche ed esotiche e a farsi leggere il futuro, sempre scettici quando si trattava di una lettura buia ed oscura, e contenti quando invece gli si prospettava davanti prosperità e felicità. Gli si poteva raccontare di tutto e loro vi avrebbero creduto.

Proprio come ancora credevano alle streghe ed ai fantasmi.

Ma lei non si curava di quello che la gente comune pensava sul suo conto. Non l’aveva mai fatto, ne era sua intenzione iniziare a farsi problemi proprio ora, finché nessuno la obbligava a difendersi. Era nata e cresciuta tra gli zingari, senza una casa fissa, senza l’affetto dei genitori, arrestati e condannati a morte per un’infondata accusa di omicidio, ma tra le cure della sua unica parente che conosceva, la nonna, e in compagnia dei suoi “fratelli”, o così si chiamavano tra di loro gli altri nomadi. Non aveva una città natale, né un compleanno da festeggiare; non aveva un cognome o un riconoscimento familiare, ma solo un soprannome datole dalla sua comunità e che era tutto un programma; non aveva un futuro, ma poteva solo sognarlo; né aveva la speranza di riscattarsi da una vita che ormai le andava stretta ma che doveva tenersi per poter sopravvivere.

«Maman, perché quella signora ha i capelli di quel colore?»

La giovane zingara alzò lo sguardo smeraldino sul bel bimbo che la guardava curiosa, indicandola con un dito e strattonando la mamma per una manica dell’abito, cercando di ottenere la sua attenzione. Gli sorrise dolcemente, senza malizia alcuna. Non era sua intenzione spaventare i bambini che manifestavano tutta quella curiosità nei suoi confronti, ma era ovvio che quella sua espressione veniva sempre mal interpretata dalle madri.

«Vieni, piccolo mio, allontanati. Non guardare mai negli occhi le donne come lei, ricordalo.»

«Perché, Maman?»

«Perché quella è una strega

Una strega... Quella parolina magica che sentiva quando ancora era piccola, quanto timore metteva addosso a chi la pronunciava! Sempre un sottile sussurro che volava via nell’aria insieme al vento, provocando brividi di timore ed apprensione. Che sciocchezze.

La zingara scosse la testa, riportando la sua attenzione sulla borsa sghemba che aveva poggiato per terra con la speranza che qualche anima pia la riempisse di monete. Contò solo qualche franco, che fece in fretta a nascondere in tasca, e ritirò i suoi pochi averi dall’angolino di strada in cui stava sempre: un mazzo di tarocchi, qualche fazzoletto colorato per giochi di illusionismo e il suo tamburello per le danze. Faceva quella vita da sempre, ma in cuor suo sperava di poter compiere il salto, anche nel vuoto, pur di ritirarsi dal mondo della strada. Cosa non avrebbe dato pur di ottenere un lavoro normale come una comune cittadina francese! Peccato, davvero peccato che ogni volta che avesse provato a cercarne uno, anche solo come semplice domestica, l'avessero sempre rifiutata di netto, togliendo fuori la scusa che non avevano bisogno di altro aiuto. Oh sì, erano spaventati da lei; temevano che potesse compiere furti, che potesse sparire con qualche bambino, che potesse sedurre con il suo sguardo il padrone di casa, che potesse addirittura fare qualche incantesimo! Le donne come lei portavano sfortuna e brutti avvenimenti, dicevano.

Sciocchezze ed ancora sciocchezze.

Così doveva continuare con i suoi spettacoletti agli angoli delle strade, con la vana speranza di attirare l'attenzione dei passanti e di guadagnare un po'.

Anche volendo, la giovane non passava inosservata, non solo per il suo particolare colore di capelli e il luccichio sinistro dei suoi occhi, ma anche per la vivacità degli abiti che indossava: viola, verdi, rossi, gialli... tutte tonalità allegre e cangianti, di vestiti trovati tra l’immondizia o abbandonati senza cura dalle domestiche delle dame di Parigi. L’ultimo “acquisto” che aveva fatto era un corpetto smeraldino, come i suoi occhi, che nascondeva in parte una camicia color panna, sboccata e larga, e una gonna che le ricadeva sulle gambe sgonfia, di un blu scuro, con decorazioni e rifiniture gialle. Dove l’aveva trovato? Steso da settimane nella lavanderia a cielo aperto di una casa in periferia. Quale spreco lasciarlo lì tra le intemperie, a rovinarsi al freddo e al vento!

I suoi passi cadenzati e lenti risuonavano sulle strade ciottolate e polverose della città, che pian piano si stava ritirando nelle proprie abitazioni per cenare, chi con sontuosi pasti, tra chiacchiere e risate, chi con un solo pezzo di pane andato a male, nel silenzio e nella desolazione, come lei. Non abitava più nella comunità dei suoi fratelli da un paio d’anni, ormai. Non perché disdegnasse la loro compagnia, anzi: qualche tempo prima passava spesso a trovarli per scambiare qualche chiacchiera e qualche novità, ma non si tratteneva mai troppo. Si era resa conto che, per quanto la rispettassero e provassero per lei un particolare affetto, avevano in ogni caso scetticismo nei suoi confronti. Ebbene sì, anche quella che doveva essere la sua famiglia aveva paura di lei. Buffo, no? Per non parlare delle complicazioni di altra natura che erano sorte col tempo e che al solo ricordo le facevano venire il voltastomaco. Era meglio perderle certe persone, piuttosto che trovarle.

La sua momentanea casa si trovava in periferia, in un mulino diroccato ed abbandonato da tempo. Non era il massimo del confort, ma per lei rappresentava già l’esempio migliore di abitazione. Aveva un cuscino di paglia coperto da alcune lenzuola logore su cui dormire, un mobile sghembo di legno mangiato dai tarli come tavolo e una latrina rudimentale per le sue esigenze. Meglio di così come poteva andare?

A pochi passi dall’allungare la mano sulla porta d’ingresso, la giovane si bloccò immediatamente, capendo che qualcosa non andava. La soglia, infatti, era socchiusa e lei non la lasciava mai aperta. Inoltre sentiva distintamente che il suo gatto, un bel micio nero come la notte che le faceva sempre compagnia, stava facendo le fusa, come se fosse coccolato.

C’era qualcuno lì dentro, qualcuno che probabilmente non doveva esserci.

E lei non voleva ospiti indesiderati.

Tirò fuori un coltello da uno degli stivali e lo impugnò con decisione in mano. Chiunque fosse stato nella sua abitazione non avrebbe fatto in tempo a vederla in viso, perché lo avrebbe colpito prima ancora di poter fare qualcosa.

Era in quelle occasioni che la vera strega che c’era in lei si mostrava in tutto il suo splendore.

 

 

Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui aveva avuto un tetto sicuro sopra la testa?

Giorni?

Settimane?

Mesi?

Neanche lo ricordava. Perché non voleva ricordare. Niente di tutto ciò che era stata la sua vita valeva la pena di essere ricordato. Né quando la propria madre, inorridita dalla sua creatura, l’aveva abbandonato in mano agli zingari; né il giorno del suo primo omicidio, la sua folle ed agognata vendetta sul suo aguzzino che lo picchiava e lo derideva davanti a decine di persone; né quella ragazza mossa da pietà che lo aveva aiutato a scappare e gli aveva trovato rifugio sotto quel teatro maledetto. Lo stesso teatro che aveva dato inizio e fine a tutto. Era cresciuto nascosto alla società, nascosto alla vita, come un reietto, emarginato solo per uno scherzo beffardo della natura. E lui, come a farsi beffe di questo, era diventato un uomo, un uomo geniale a dirla tutta. E lui ne era consapevole, certo: aveva costruito il suo piccolo regno dal nulla, gli aveva dato vita, e aveva dato vita anche al teatro stesso. Perché lui componeva, componeva musica che dir sublime era poco, canzoni superbe ed ammaliatrici che incantavano chiunque le ascoltasse.

Ma lui non esisteva, lui per la società era un fantasma.

Poi era arrivata lei, piccola e graziosa nel suo completino da ballerina, ma con una voce che prometteva già tante speranze. E lui era diventato un angelo, il suo angelo. L’aveva confortata, ingannata forse, ma era grazie a lui che la sua piccola musa era diventata ciò per cui ora era amata: una cantante bravissima e sopraffina. Ma lei era anche troppo ingenua per capire quale sentimento lo spingesse ad insegnarle tutto il suo sapere, a renderla la regina delle sue opere, a starle costantemente dietro per proteggerla. E lui era totalmente accecato dalla passione e dall’amore che provava per lei per rendersi conto che non gli era mai appartenuta, non come desiderava. Aveva ucciso, aveva spaventato, gettato ulteriore fango sul suo nome, rischiato di rovinarle l’esistenza solo perché non accettava che lei amasse un giovane amico d’infanzia, bello e popolare, e non lui, un emarginato sfigurato che viveva all’oscuro da tutti.

Quanto tempo era passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco, insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima.

Aveva lasciato l’Opera, la sua unica vera casa, per l’ignoto. Non poteva più restare lì; per quanto sicuri fossero quei sotterranei con tutte le trappole che vi aveva disseminato, era stato tradito dall’unica persona al mondo che aveva la sua piena fiducia e il suo piccolo mondo era stato profanato e gettato al vento, con odio, con risentimento. Non avrebbe potuto continuare a vivere lì, non con il dolore dei ricordi, sempre vivi ogni qualvolta spostasse lo sguardo in ogni angolo, non con il timore di essere stanato in qualunque momento ed essere condannato a morte.

Ma perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso?

I fantasmi continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro questioni in sospeso...

Forse anche lui ne aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.

Chiuso tra quelle quattro mura sghembe, piene di spifferi, il tanto temuto Fantasma dell’Opera sospirò, abbassando lo sguardo sul gattino nero che gli si era accovacciato sulle gambe, per niente intimorito, anzi. Faceva anche le fusa ad ogni sua carezza!

«Non ti faccio paura?», gli chiese, sarcastico, mentre il micio, dopo averlo guardato con i suoi occhioni gialli, si rotolava sulla schiena, reclamando altre coccole.

Osservò l’ambiente intorno a sé e si rese conto che quel posto era abitato. Una povera anima come lui, forse, povera ed isolata dalla società perché diversa. Non voleva disturbare chiunque fosse il padrone di quel vecchio mulino, ma era l’unico posto che aveva trovato dopo giorni e giorni di vagabondaggio per quelle campagne. Era stanco di girovagare nella speranza di trovare riposo e alloggio, stanco di dover rubare il cibo perché non poteva permettersi di spendere tutti i suoi soldi in un’accogliente locanda, temendo di destare curiosità e di essere riconosciuto. A confronto, preferiva mille volte la vita sotto il teatro, che quella. Lì, almeno, aveva un’identità, aveva una casa, aveva uno scopo, aveva le sue cose, la sua musica.

Ora l’unica cosa che poteva fare era trascinare se stesso affinché non morisse prima del tempo.

 

 

Continua...

 

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Capitolo 2
*** 01. Capitolo I ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo I

 

Non ti faccio paura?

La zingara sentì quelle quattro parole sussurrate nel vuoto, con una nota di incredibile malinconia che per un attimo la fecero desistere dall'attaccare l’estraneo, chiunque esso fosse. Il solo suono di quella voce, profonda e calda, calma ma che stava intimamente gridando, l’aveva bloccata con la mano a metà strada.

Non ti faccio paura?

Chi era quell’uomo che era entrato nella sua casa? E perché quella domanda le sembrava tanto disperata?

Prese un bel respiro e, dimenticando la tristezza di quella voce e tutte le ragioni che potessero esserci dietro, aprì di scatto la porta, che sbatté contro la già precaria parete in legno, facendo tremare tutto. L’uomo in questione era seduto sul suo letto, ma non sembrava tanto sorpreso di trovarsela davanti, né spaventato per il pugnale che si ritrovò puntato contro. Evidentemente l’aveva sentita arrivare; il tintinnio dei tanti bracciali che teneva ai polsi, nel silenzio, risuonavano come campane.

L'estraneo non mosse alcun muscolo, nonostante si sentì premere un coltello sotto la gola, e si limitò a fissarla con occhi vacui, mentre una mano guantata di nero continuava ad accarezzare il suo gatto.

«Chi sei?», gli chiese senza troppe cerimonie, assottigliando gli occhi. Il sole era già calato da un pezzo e non c’erano candele accese per vedere bene chi si trovasse davanti. Riusciva solo a scorgere la sua imponente sagoma accovacciata contro il muro e il bagliore sinistro dei suoi occhi nell’ombra. «Parla, o ti taglio la gola.»

«Se volete non esitate a farlo, mademoiselle. Ora come ora mi fareste solo un favore.»

La ragazza esitò, perplessa. Chi diavolo era quello? Se prima l’adrenalina di dover affrontare un estraneo nella sua casa le aveva provocato batticuore, ora era solo estremamente incuriosita da quell’uomo. Sicuramente sapeva cosa dire e come dirlo per avere tutta l’attenzione su di sé. O per lo meno, con lei c’era riuscito alla perfezione. E il suo tono deciso nel chiederle di ucciderlo non aveva fatto altro che farla fremere di più. Perché un uomo avrebbe dovuto volere una cosa simile da un’estranea? Lei, per quanto avesse vissuto la sua giovane vita in miseria e non certo in felicità, non aveva mai desiderato la morte, anzi. Era convinta che prima o poi la vita le avrebbe dato ciò che le spettava di diritto: un posto normale nella società.

«Chi sei?», ripeté, con più calma.

Le sembrò che l’uomo sorridesse amaramente, prima di risponderle. «Veramente, mademoiselle, non lo so.»

La zingara alzò un sopracciglio. «No?»

«No. In realtà non l’ho mai saputo.», continuò l’uomo, abbassando la voce in un suono roco e debole. «Però le poche persone che hanno avuto a che fare con me mi hanno sempre chiamato Erik, se vi interessa saperlo.»

La giovane rimase immobile, mentre le parole di quell’estraneo le risuonavano in mente. Anche lui senza un nome, anche lui senza famiglia... Aveva provato scetticismo poco prima, ora era solo mossa da un’immensa compassione. Gli era bastato sentire il dolore nella sua voce per capire che fosse sinceramente distrutto.

«Erik.», ripeté, riponendo la sua arma nello stivale, sotto l’occhio vigile dell’altro. «Perché sei qui?»

«Perché non ho dove andare. Non era mia intenzione profanare la vostra casa.» L’uomo si alzò, mentre il gatto, contrariato, emetteva un miagolio soffocato e balzava giù dalle sue gambe, andando a strofinarsi contro quelle della sua padrona. Questa non si fece intimorire dalla stazza dell’uomo, molto più alto e robusto di lei. Un uomo che non voleva più vivere non poteva essere pericoloso.

«Puoi restare, non mi darai fastidio.», gli disse, andando verso un ceppo di legname già arso in precedenza, che accese con un fiammifero, riscaldando ed illuminando il mulino. Quando si voltò a guardarlo alla luce delle fiamme danzanti, la giovane vide un uomo stanco e spossato dalla vita, il volto nascosto per metà da una mezza maschera bianca che gli copriva la parte destra - dove aveva già visto una cosa del genere? - e ricoperto dalla barba di qualche giorno; i capelli erano sporchi e spettinati, neri come il mantello in cui era avvolto; era molto alto e ben piazzato, ma ciò che le mise veramente timore furono i suoi occhi. I suoi occhi erano sconvolgenti. Vi poteva leggere di tutto: in quelle iridi chiare c’erano tristezza, disperazione, pianti di ore che gli avevano solcato profondamente le occhiaie. Doveva aver sofferto molto per essere in quelle condizioni. Pensò che con un po’ più di cura quell’uomo sarebbe potuto essere veramente affascinante. E quei suoi modi galanti nel rivolgersi a lei, una zingara, le fecero supporre che un tempo fosse stato veramente un uomo di classe.

«Non ho molto da mangiare, spero che un po’ di pane e qualche frutto possa bastarti.», disse la ragazza, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Domani andrò a cercare qualcosa in più.»

L’uomo chinò il capo, desolato. «Non dovete disturbarvi così. Me ne andrò all’alba, non voglio crearvi problemi di alcun tipo.»

«A meno che non sia un ricercato dai soldati, non mi creerai alcun problema.» La giovane non si accorse dell’ombra che passò negli occhi del suo ospite e gli indicò l’esterno con un cenno del capo. «Vai a darti una rinfrescata, amico. L’acqua che alimentava questo mulino è fredda, ma almeno pulisce e rinvigorisce.»

Erik annuì, ringraziandola con lo sguardo e uscì al fresco della serata, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandosi sopra. Sospirò pesantemente, maledicendo stesso e la sua vita. Se quella povera e gentile ragazza avesse saputo chi veramente fosse non avrebbe esitato a cacciarlo di malo modo, né a correre per denunciarlo alla gendarmeria. Dal giorno dell’incendio era ufficialmente ricercato come assassino e non poteva permettersi di rovinare un’ulteriore vita innocente solo perché doveva rifugiarsi da qualche parte. Se ne sarebbe andato la mattina dopo, prima che albeggiasse. Le avrebbe lasciato parte del suo denaro che lui non poteva spendere per ringraziarla dell’ospitalità e si sarebbe dileguato nel niente, come sempre.

Come un fantasma.

 

La zingara aveva appena finito di preparare un impacco di erbe mediche per il suo ospite, per dargli sostanza e rinvigorirlo un poco, quando questo apparve sulla soglia dopo la rinfrescata sul fiumiciattolo che scorreva lì. Si era fatto prestare il suo coltello per rasarsi e ora il suo viso appariva più luminoso e decisamente più sensuale. Sapeva riconoscere la vera bellezza e quell’uomo ne era la prova vivente, con i suoi lineamenti decisi e regolari, le labbra carnose ed ipnotizzanti, e quegli occhi... Mai aveva visto occhi come quelli. Solitamente era lei che lasciava interdetto chi la osservava, con il suo sguardo smeraldino e involontariamente sensuale, ma quella volta si rese conto che gli occhi di quell’uomo erano immensamente carichi di emozioni, di qualunque tipo esse fossero; niente a che vedere con i suoi, particolari solo per il loro colore inusuale.

L’unica cosa che la lasciava perplessa era quella mezza maschera che nascondeva metà del suo volto. E ne aveva visto di individui strani durante la sua vita, ma mai uno come lui. Non l’aveva tolta, nemmeno dopo essersi rinfrescato, come se avesse avuto paura a farlo. Non osò chiedere niente in proposito; sapeva come prendere determinati argomenti e poteva solo immaginare che dietro quella maschera l’uomo di nome Erik stesse nascondendo qualcosa. Qualcosa di doloroso, data l’ombra di tristezza che aveva in viso.

«Ti ho preparato una bevanda che ti farà sentire meglio e ti riempirà lo stomaco come dopo un pasto normale.», gli disse, porgendogli una ciotola dal contenuto scuro e non troppo invitante. «Non ha un buon sapore, ma ti farà bene.»

Erik prese posto accanto a lei, prendendo ciò che la giovane gli stava offrendo. «Grazie, mademoiselle. Siete gentile.»

La ragazza, inconsapevolmente, arrossì sotto quello sguardo inconsciamente attraente. Nessuno l’aveva mai guardata così profondamente.

E lui se ne accorse, perché scostò velocemente l’attenzione da lei, concentrandosi sulla sua “medicina”. Quella ragazza lo metteva stranamente a disagio. Non solo per i suoi occhi grandi, dalla forma affilata e dal verde smeraldo delle sue iridi, e neanche per il colore provocante dei suoi capelli, ritirati in una disordinata treccia che lasciava sfuggire numerose ciocche mosse sul viso scarno. Ciò che lo lasciava impacciato erano i suoi modi umili, nonostante avesse capito che non aveva mai ricevuto educazione. Gli dava del tu come ad un vecchio amico, certo, e se avesse saputo con quale rispetto e timore gli altri si rivolgevano a lui, qualche tempo prima, sicuramente avrebbe cambiato tono. Ma, nonostante tutto, l’aveva accolto come un fratello, lui, uno sconosciuto rigettato dalla società. Non gli aveva fatto domande, né sul perché della sua condizione né sulla maschera che portava in viso. E aveva la sgradevole sensazione che quella donna sapesse leggergli la mente, scrutargli gli angoli più reconditi del suo animo nero, ogni volta che lo guardava.

I suoi pensieri furono interrotti dalla testolina del gatto che nuovamente gli si accoccolò tra le gambe, reclamando le carezze di poco prima.

«Gli piaci. Di solito gli ospiti li graffia fino a farli scappare.», disse la giovane, mentre addentava un pezzo di pane. «Potrei esserne gelosa, sappilo.»

Lui sorrise. «Come si chiama?» Quel gattino gli stava simpatico, dopotutto. Quegli occhioni gialli che sembravano sorridere alle sue cure gli mettevano addosso un’immensa tenerezza.

«Dante.», rispose lei, guardando il micio, nero come la notte che stava calando velocemente. «Come il poeta.»

«Conoscete Dante Alighieri?» Erik si pentì subito di quella domanda sciocca appena lo sguardo tagliente di lei lo trafisse come una lama.

«Mi sembri stupito, Erik. Forse una donna come me non può conoscere un po’ di letteratura?»

«Non intendevo questo.», si affrettò a rispondere l’uomo, dispiaciuto. «Non volevo offendervi.»

Lei si alzò, dirigendosi lentamente verso un mobiletto basso accanto al letto di paglia. Ne aprì un’anta e tirò fuori un libro consumato e impolverato, che accarezzò con cura e reverenza, come se fosse uno degli oggetti più preziosi del mondo. «I miei genitori lo comprarono in un mercatino dell’usato, quando ancora non ero nata.», disse, mostrando una vecchia edizione de La Vita Nova, dell’Alighieri. «E’ la loro unica cosa che mi è rimasta.»

Un pungolo di dispiacere colpì il cuore dell’uomo. Lui i suoi genitori neanche li ricordava: un padre mai conosciuto, una madre che non osava nemmeno farsi baciare da lui, inorridita dal suo aspetto mostruoso. «Come morirono?»

Gli occhi della ragazza s’indurirono. «Condannati a morte per l’accusa di un omicidio che non avevano mai commesso.» La giovane ripose il libro con cura dove l’aveva preso e si poggiò con i palmi delle mani sul mobile, reprimendo la rabbia. «No. Non lo uccisero loro, quell’uomo. Non avrebbero mai potuto fare una cosa del genere, non ne avrebbero avuto il motivo. Non erano ben visti, specialmente mamma, perché... Beh, le assomigliavo molto. Ma non sarebbe stata una ragione valida.»

Il suo ospite inclinò il capo, cercando di guardarla meglio, anche se gli dava le spalle. Non voleva portarle alla mente ricordi spiacevoli, ma la curiosità a volte non riusciva proprio a frenarla.

Lei si accorse di quello sguardo che tacitamente le chiedeva di continuare e prese un respiro più profondo degli altri prima di riprendere a parlare. «La gendarmeria doveva trovare dei colpevoli, che lo fossero veramente o meno. Non potevano certo andare in giro a raccontare che il bambino che aveva commesso l’omicidio gli era scappato da sotto il naso.»

La gola di Erik si seccò all’istante, mentre ascoltava inerme quelle parole. «Un... bambino?»

Lei annuì, stringendo i pugni. «Sì, un ragazzino che era stato preso sotto le cure della mia famiglia. Io ero troppo piccola per ricordarmelo, ma me l'hanno sempre descritto come un mostro sfigurato, magro e brutto. Lo deridevano di fronte a tutti per il suo aspetto, e per questo capisco il suo gesto. Anche io avrei fatto la stessa cosa.»

Erik dovette far ricorso a tutto l'autocontrollo di cui disponeva pur di non farsi scappare due lacrime che gli pungevano gli occhi.

«Lo capisco, ma non posso perdonarlo. Anche se non voleva, mi ha rovinato la vita e ha stroncato quella dei miei.», continuò lei, con voce tremante. «Sai, ho fatto una promessa. Se un giorno dovessi scoprire chi è stato, se questo bambino fosse cresciuto e diventato adulto e io lo dovessi trovare... Non esiterò a compiere il mio primo omicidio. Non m’importa se poi farò la stessa loro fine, ma il sapore della vendetta dovrò provarlo, prima o poi, no?» Ed era vero: non aveva mai ucciso nessuno, a differenza di altri suoi compagni che invece collezionavano furti e morti come se niente fosse. Ma era sicura che prima o poi avrebbe trovato il responsabile della rovina della sua vita, della morte dei genitori. Era cresciuta senza sapere cosa volesse dire il calore di un abbraccio materno, o la normale gelosia di un padre; era cresciuta senza l'affetto di chi l'aveva messa al mondo, di chi l'amava veramente per quello che era. Non avrebbe permesso di farla passare liscia a quello che un tempo era solo un bambino e che aveva lavato via, con un solo gesto, le vite dei suoi genitori. Sapeva aspettare, lei. La pazienza e il saper mantenere rancore per anni era uno dei suoi migliori pregi, e chi la conosceva questo lo sapeva bene.

Erik, nel frattempo, non riuscì a risponderle, troppo occupato a convincersi che si trattava solo di una coincidenza, di una curiosissima coincidenza.

Un bambino di appena nove anni... Il volto sfigurato, deriso... Il suo aguzzino... Un cappio stretto intorno al collo... Poi la fuga, le urla, il dolore…

«Va tutto bene?», gli chiese la giovane, sedendosi nuovamente accanto a lui. «Non volevo parlare di cose spiacevoli, non con una persona che mi sembra averne passate di peggio.»

L’uomo nascose a stento un gemito di disappunto e finì di bere la sua bevanda. «Sì, va tutto bene, mademoiselle. Grazie per la vostra ospitalità.»

Lei sorrise, per la prima volta in tutta la serata. Per quanto fosse triste e depresso, quell’uomo era buffo. Nessuno le aveva mai dato del voi in segno così rispettoso, né l’avevano mai chiamata mademoiselle! «Com’è?»

Erik posò la ciotola ormai vuota, corrugando la fronte e non riuscendo a contenere una smorfia. «Un po’ aspra. Ma bevibile.»

«Faceva schifo, lo so.», rise lei, illuminandosi. «Ma vedrai che domani ti sentirai meglio. Ora mangia un po’, altrimenti mi collassi davanti agli occhi.»

Il suo ospite fece come gli aveva detto e lei lo osservò di sottecchi, mentre mangiava con fame un’intera pagnotta e qualche mela matura. Le dispiaceva non potergli offrire altro, ma era tutto quello che possedeva. Una zingara come lei, del resto, non aveva niente se non il minimo indispensabile.

D’altra parte, Erik non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena sentito. C’era solo un’altra prova che avrebbe potuto sfatare le sue paure oppure fargli capire che le sue supposizioni erano purtroppo vere. Non si era mai pentito del suo gesto, anzi. Per lui quello fu un atto dovuto, per fuggire da quella condizione ridicola che Dio gli aveva affibbiato. Ma la consapevolezza di avere davanti una vittima innocente di quello che aveva fatto lo faceva stare male, più di quanto già non stesse.

«Come vi chiamate?», le domandò, lanciandole una fugace occhiata e sperando che non pronunciasse mai quel nome che gli arrivò alla mente come uno sbiadito ricordo.

La giovane sospirò, giocando distrattamente con il ciuffo finale della sua treccia. «Non ho un nome, in realtà. E’ più un appellativo.» Vedendo l’occhiata curiosa che il suo ospite le riservò, decise di rispondergli con un sorriso provocatorio. «Mi chiamano Phénix. La Fenice. Indovina perché?», gli chiese, sorridendo e indicandosi i capelli.

Non poteva sapere, però, che gli occhi di Erik si fecero grandi non per la curiosità di quel nomignolo, ma perché si vide il mondo crollargli addosso, come se già non dovesse portarsi dietro un peso più gravoso di lui. Era lei, dunque, la bambina dai bellissimi occhi smeraldo e dai capelli rossi che quegli zingari amavano chiamare così. Ricordava perfettamente i genitori di quella piccola, così innamorati di lei, così desiderosi di vederla crescere nel migliore dei modi, sebbene non avessero niente da darle; sempre così gentili con lui, senza mai osare un commento di disprezzo nei suoi confronti. Ricordava di come il resto degli zingari soleva guardarli con scetticismo e di come loro, invece, continuavano la loro vita senza problemi. E ricordava quel nome particolare solo per il bizzarro colore dei suoi capelli e la diffidenza che alcuni di loro provavano nei confronti della madre e nei suoi, sebbene fosse ancora solo una bambina di poco meno di due anni.

E lui, lui inconsapevolmente li aveva condannati quei genitori, stroncando qualsiasi programma quella famiglia avesse, solo perché erroneamente loro si trovavano lì in quel momento, solo perché lui era uno scherzo della natura che voleva vendicarsi delle beffe che subiva ogni giorno. In realtà non aveva mai saputo delle conseguenze di quel suo gesto, una volta isolatosi dal mondo. E venirlo a sapere così, proprio da lei era l'ennesimo brutto scherzo che la vita gli stava giocando.

Era lui il bambino che aveva ucciso, quel giorno.

E lei la bambina che aveva reso orfana.

Lei era la sua questione in sospeso.

 

 

 

Continua...

 

 

Elby, carissima! E' un piacere rileggerti! *_* Tranquilla, son sparita anche io, ti capisco quando dici che ci sono cose che prosciugano tempo e forze, quindi non devi scusarti! Ti concederò una seconda possibilità, accordato. ù_ù XD

Ma passiamo alla recensione! *_* Son così contenta che ti piaccia la donzella dai capelli rossi - anche io ho un debole per i capelli di questo colore, o per questo colore a prescindere, ecco! - e ho sempre amato le congetture che tempo fa si facevano sulle donne così (lo so, è una cosa orribile, i roghi e tutto quanto, ma è affascinante!)... Non potevo pensare di creare un altro personaggio alla Christine, altrimenti saremmo punto e a capo! :D E a proposito: non-Erik/Christine for president!

Per quanto riguarda il " ...lo impugnò con decisione in mano" hai ragionissima, mi è scappato! Son quei particolari che effettivamente appesantiscono una frase, grazie per avermelo fatto notare. :)

Questo capitolo come ti è sembrato? L'avevi già letto? *smemorata mode on* Ho deciso di rendere subito di dominio pubblico il mistero della storia (che ovviamente non sarà l'unico, altrimenti che due palline!), perché ho pensato che sarebbe stato interessante che il lettore sapesse, mentre i diretti interessati no. Sadica, lo so, ma mi diverto torturare i personaggi delle mie storie così, capiscimi... Dovrò divertirmi un po' anche io, no? :P

Ti ringrazio per i complimenti e per gli auguri, ricambio gli auguri per il tuo quasi-lavoro-dei-sogni! *-* Ah, l'epilogo è finalmente nato, dopo mesi di travaglio... Era anche ora! Così posso dedicarmi alle altre mille mila cose che ho in pentola, sperando che non brucino.

Ancora grazie, spero di rileggerti presto!

Un saluto a te e a tutti i lettori e/o lettrici!

Marta.

 

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Capitolo 3
*** 02. Capitolo II - Parte I ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo II - parte I

 

Non aveva chiuso occhio quella notte. Non solo perché aveva dovuto dormire per terra, dato che aveva insistito tanto affinché la ragazza dormisse sul suo letto, se così avrebbe potuto chiamarlo, ma perché la scoperta che aveva appena fatto non gli dava pace. Non aveva mai pensato che quel suo folle gesto, quel giorno, non solo avrebbe rovinato la sua esistenza, ma anche quella di altre persone. Se solo la giovane Giry non l’avesse portato via, se solo quella notte la gendarmeria l’avesse trovato, quella ragazza ora avrebbe ancora avuto la sua famiglia, forse; non avrebbe ucciso altre persone; non avrebbe spaventato a morte tutti coloro che abitavano al Palais Garnier; non avrebbe rischiato di rovinare la vita della sua amata Christine, né quella del Visconte.

Non sarebbe diventato ciò per cui tutti lo ricordavano e temevano: il Fantasma dell’Opera.

Guardò la ragazza che dormiva dall’altra parte della stanza, raggomitolata in posizione fetale, con il piccolo Dante accoccolato al suo fianco. Sembrava che il ricordo dei suoi genitori non l’avesse toccata, almeno non durante il sonno. Aveva un’espressione rilassata e distesa, e non riuscì a non pensare che fosse cresciuta bene. Chissà, però, quanto dolore anche lei aveva provato col tempo e quanto ancora ne provava a causa sua. Sempre e solo a causa sua. Non c'era persona che avesse avuto a che fare con lui e che non avesse sofferto per averlo conosciuto. Possibile che riuscisse solo a portare dolore a chi gli stava intorno? Possibile che non potesse vivere una normale vita senza che facesse del male, anche involontariamente?

Sì, sono proprio un mostro.

Un mostro... era così che lo chiamavano, all'Opera. Un mostro, il Figlio del Diavolo. Colui che aveva infestato il Teatro, che continuava a seminare il terrore tra le ballerine e i manager, a minacciare chiunque se non avesse fatto quello che lui comandava.

Aveva ingannato, sedotto, ucciso.

Era un mostro, dentro e fuori. Sentiva ancora vivide le urla di terrore che avevano riempito la platea dell'Opera, quando la sua ingenua Christine gli aveva tolto la maschera davanti a tutti. La maschera che nascondeva la sua deformità, ciò che l'aveva condannato a vivere una vita segregato sotto terra, lontano dal mondo, lontano da tutti. Il regalo peggiore che Dio potesse fare ad un'anima dannata era spettato a lui.

Oh, ricordava lo sguardo di compassione che aveva acquisito la giovane cantante la prima volta che gli aveva visto il volto sfigurato. Compassione... L'ultima cosa che le avrebbe voluto vedere in viso. Non voleva compassione, non voleva la pietà di nessuno! Voleva solo essere accettato per quello che era, amato se non fosse significato chiedere troppo per uno come lui.

Si girò sulla schiena, guardando il soffitto in legno nella penombra. Non sarebbe rimasto lì, non ce la faceva. Sarebbe scappato dal ricordo di Christine, di quella ragazza, da Parigi. Se ce l’avesse fatta avrebbe lasciato anche la Francia, per crearsi una nuova identità, magari in Italia, magari a Venezia. Leggere di quella città galleggiante sull'acqua l'aveva sempre affascinato. Forse lì avrebbe potuto vivere una vita normale, rinascere finalmente, e riscattarsi di tutto il dolore che aveva provato fino all'ora.

Quando si alzò dalla sua posizione per prendere l'uscita e andarsene definitivamente, però, non aveva fatto i conti con il buio e con il fatto che non ricordasse che davanti alla sua strada c'era in mezzo il tavolo. Ci andò a sbattere contro, facendo cadere qualcosa per terra. Maledicendo la sua stoltezza, si voltò verso la ragazza per vedere se l'avesse svegliata. Ed ebbe un tuffo al cuore quando si accorse che i suoi occhioni vispi lo stavano osservando.

«Dove vai?», gli domandò, con la voce impastata dal sonno.

«Via, lontano da qui.», disse, mentre raccoglieva ciò che aveva mandato all'aria. «E' meglio così.»

Phénix si stropicciò gli occhi, assonnata, e si mise a sedere, guardandolo curiosa. «Non è ancora l'alba, Erik.», disse, reprimendo uno sbadiglio. «E poi ti ho detto che non mi crei alcun disturbo. Mettiti a dormire, dai. Domani ne parliamo meglio.»

Erik chinò il capo, chiudendo gli occhi per tranquillizzarsi un poco. Quella donna gli scombussolava tutto il sangue freddo di cui era sempre andato fiero. L'Erik di un tempo le avrebbe detto senza troppi giri di parole di non impicciarsi negli affari suoi, sibilandole che lui avrebbe fatto quello che più gli andava a genio. Ma la ragazza lo spiazzava con la sua gentilezza e nel contempo la sua decisione, per non parlare della consapevolezza di averle rovinato tutto, senza effettivamente volerlo. Se solo avesse saputo

Si voltò di scatto, quasi scottato quando sentì una mano della giovane che prendeva la sua, trascinandolo verso il letto. «Tu ora dormi qui. E non voglio sentire repliche.», gli disse fermamente. «Il tuo gira e rigira per terra non mi ha fatto praticamente chiudere occhio. Dormirò io sul pavimento, ci sono abituata.»

Senza avere la forza mentale di andarle contro, obbedì come un bambino alle raccomandazioni della propria madre, e si distese su letto di paglia. Riuscì a prendere sonno solo dopo parecchio tempo, e i sogni che fece non furono per niente tranquilli, come del resto quelli delle ultime nottate.

Quando si svegliò il giorno dopo il sole era già alto nel cielo da parecchie ore. Si accorse, senza stupirsi più di tanto, che Phénix non c'era. Probabilmente era scesa in città per racimolare qualche soldo e comprare qualcos'altro da mangiare anche per lui. Si guardò intorno e non poté non sorridere quando vide Dante accovacciato sull'uscio della porta, come se fosse di guardia e non gli permettesse di uscire. E infatti, eccolo lì che gli miagolava contro quando lo vide avvicinarsi per andarsene. Sembrava quasi che la giovane gli avesse raccomandato di trattenerlo dentro con tutte le sue forze.

Ma Erik si era ripromesso di lasciare quel posto all'alba ed era già in ritardo con la sua tabella di marcia. Ne avrebbe approfittato in quel momento che lei non c'era e non avrebbe dovuto sopportare quello sguardo che gli gravava addosso come un macigno sulla schiena. Le lasciò, nascosti dentro il mobile dove custodiva gelosamente La Vita Nova, quasi metà dei suoi soldi che, ad essere sinceri, neanche sapeva quanto fossero. I ventimila franchi che i manager del teatro gli avevano dato per anni, ogni mese, li aveva messi meticolosamente da una parte, non curandosi troppo di quanto avesse risparmiato e di quanto avesse speso. Ma erano tanti, su questo non c'erano dubbi.

Purtroppo per lui quando uscì dal mulino se la ritrovò di fronte, più che furibonda.

La ragazza, appena si accorse di lui, sussultò per lo spavento. Ma non lo guardò con gentilezza come la serata precedente, anzi. Sembrava lo volesse uccidere con lo sguardo da un momento all'altro. «Tu. Via da casa mia. Ora.», gli sibilò incollerita, assottigliando gli occhi e facendolo fremere.

Che avesse capito? «Lo stavo già facendo, mademoiselle.»

«E non chiamarmi mademoiselle!», sbottò lei, irata. «Mi sembrava di essere stata chiara ieri. Non ho mai avuto problemi con la giustizia, non ne voglio avere ora!» Erik sospirò, capendo le sue parole. «Non sei stato sincero con me. E non ho intenzione di aiutare il famigerato Fantasma dell'Opera offrendogli riparo in casa mia.»

Quelle parole lo colpirono come mille lame al petto. Cosa poteva aspettarsi? Che non lo avrebbe saputo? Che una volta scoperto avrebbe continuato ad essere gentile con lui? Sciocco. Era odiato da tutti, anche da chi non l'aveva mai visto ma lo conosceva solo per sentito dire. Era ovvio che la ragazza stesse reagendo così, non poteva biasimarla di certo.

Senza guardarla negli occhi, l'uomo le sussurrò un “Grazie” e se ne andò, tra i miagolii di disappunto del piccolo Dante e lo sguardo spaventato di Phénix. Aveva dato ristoro ad un assassino spietato, ricercato ovunque in tutta Parigi. Non poteva permettersi di passare come sua complice, mai. Ecco dove aveva già visto quella maschera: era l'immaginazione dei racconti che giravano su di lui ad averle dato un senso di deja-vu.

Lo guardò sparire tra la campagna, lasciandosi sfuggire un sospiro. Al diavolo la compassione che aveva provato per lui la serata scorsa, al diavolo il sincero dolore che gli aveva letto negli occhi come un libro aperto. Non sarebbe andata a denunciarlo, quello no. Ma non voleva nemmeno avere altro a che fare con lui. Fortuna che aveva sentito i pettegolezzi di due uomini che parlottavano tra di loro, ricordandosi il giorno dell'incendio e la descrizione del Fantasma. Ormai in città non si parlava d’altro dell’incendio di qualche settimana prima.

L'aveva rischiata grossa, accidenti a lei ed alla sua disponibilità.

Rientrò nella sua abitazione diroccata, posando il cibo che aveva comprato al mercato per lui. Poi guardò il gattino, che le si strofinò sulla caviglie. «Vuol dire che oggi mangeremo come due ricconi borghesi, Dante. Contento?»

Il gatto miagolò in risposta e lei gli sorrise, ora più tranquilla.

Quel pomeriggio, Phénix decise di andare a fare visita alla sua unica parente in vita, l'adorata nonna. Aveva bisogno di confidarsi su quanto accaduto, di aprirsi come faceva sempre con lei, sapendo che l'avrebbe capita e le avrebbe detto cosa fare e non fare.

La nonna era una signora ormai ottantenne, ma con la mente e lo spirito di una giovane, che abitava in una vecchia mansarda sopra un locale frequentato da gente di poco buono, in uno dei quartieri desolanti di Parigi. Quella donna aveva una memoria di ferro, capace di ricordare fatti avvenuti anche decine e decine di anni prima, quando lei era ancora nel fior fiore della gioventù; ed era colta, molto colta, per essere una povera zingara veggente. La giovane adorava sentirsi raccontare tante storie antiche e ormai dimenticate: storie di donne speciali come lei, storie di magia ed illusione, sulle vere streghe esistite in passato, su quello che avevano dovuto sopportare, su leggende e miti, avvenimenti misteriosi ed affascinanti, o solo aneddoti sui suoi defunti genitori. Quando era piccola ricordava perfettamente quanti spaventi quella donna le facesse prendere con alcuni di quegli arcani racconti, e quanti incubi dovesse sopportare la notte, quando ci rimuginava sopra. A ripensarci le veniva solo una voglia matta di ridere e di prendersi in giro per l'ingenuità propria di una bambina. Ora sapeva che tutte quelle che credeva favole avevano un fondo di verità e non erano solo storielle campate in aria per far lavorare la mente di una piccola ragazzina ingenua.

Trovò la nonna seduta attorno ad un tavolo circolare, intenta a leggere dei tarocchi nel silenzio totale. I capelli lunghi e grigi erano ritirati in un chignon intrecciato perfettamente e Phénix, per quanto si sforzasse, non ricordava di averla mai vista con un'acconciatura diversa. Le dita delle mani, ricche di anelli in oro e pietre preziose presi chissà dove, si muovevano lentamente sulle carte, mentre lei, con gli occhi chiusi che spuntavano da sotto i ciuffetti di sopracciglia ingrigiti, sembrava pensare e concentrarsi, per captare meglio quello che le stavano tacitamente dicendo.

«Sapevo che saresti venuta, piccola mia

La giovane sussultò appena sentì la voce roca della nonna, ma sorrise accorgendosi che l'aveva riconosciuta, come sempre, senza il bisogno di doverla guardare.

«Disturbo?», le chiese, muovendo qualche passo.

«Neanche ti rispondo, Phénix.», rispose burbera l'altra, aprendo finalmente i suoi occhi neri e scrutandola fino in fondo. «C'è qualcosa che ti turba, ragazza mia. Me ne vuoi parlare?»

Phénix annuì e le raccontò dell'incontro della sera prima, di quanto fosse triste quell'uomo, dell'ospitalità che gli aveva offerto e della scoperta sulla sua vera identità.

La nonna rimase ad ascoltarla ad occhi chiusi, per assimilare meglio quelle parole, senza interromperla. Fu solo quando il racconto della nipote concluse che si decise a riaprire gli occhi e a puntarli sulle carte sotto il suo naso. Ne prese una dal mazzo e la fece vedere alla giovane. «La Torre, mia cara. Sai cosa significa, vero? Cambiamenti, conflitti... Possibili catastrofi.» La giovane ebbe un fremito, mentre ascoltava in silenzio le lente e sussurrate parole della donna. «Stai attenta, Phénix. Vedo nebbia davanti al tuo cammino. Non buttare all'aria tutto. Sono sicura che saprai cosa fare al momento giusto.»

Come sempre le frasi sconclusionate dell'ava avrebbero avuto senso unicamente in futuro; per ora le sembravano solo campate in aria, prive di un reale significato. Ma, tuttavia, ciò che le disse non la scoraggiò. Il solo fatto di essere andata da lei in qualche modo l'aveva aiutata a rincuorarsi ed era convinta che la sua saggezza le avrebbe indicato la via giusta da seguire, come accadeva da anni a quella parte.

«Starò attenta, nonna. Lo sono sempre stata, lo sai.»

La donna si lasciò sfuggire un sorriso e tutte le rughe che le solcavano il vecchio volto si fecero ancora più profonde. «Sì, piccola mia, lo so. Ora va'. Il Cambiamento sta per avvenire e tu devi essere forte e pronta per affrontarlo al meglio.»

 

Come tutte le sere, Phénix si era esibita sulle sponde della Senna con una danza antica e sensuale, lanciando occhiate birichine a tutti i passanti che non potevano fare a meno di osservarla mentre muoveva provocatoriamente i fianchi, o agitava il suo tamburello per darsi il ritmo. Altri invece gettavano occhiate scettiche e disgustate verso la sua direzione, ed acceleravano il passo pur di sorpassarla velocemente.

Purtroppo aveva dovuto abbandonare rapidamente il suo pezzo di strada quando vide un gruppo di soldati puntare dritti verso di lei, intimandole di andarsene.

«Ora non si può neanche intrattenere Parigi con una danza?», aveva chiesto infastidita ad un ufficiale, troppo preso in realtà a bearsi della sua vista, che a prestarle la dovuta attenzione.

«Mi dispiace doverti rovinare la festa, zingara, ma le regole sono regole.», le rispose, con un beffardo ghigno sulle labbra. «Magari potresti intrattenere me, che ne dici?»

Phénix neanche gli rispose e dovette trattenersi pur di non sputargli ai piedi e manifestare tutto il suo disgusto. Detestava quando la consideravano una donna che avrebbe anche venduto il suo corpo pur di guadagnare più soldi. Era vero, non aveva uno stipendio, non un lavoro, non una vera casa... Ma non si sarebbe mai abbassata a tanto. Si rispettava troppo per darsi così al migliore offerente.

Nel tragitto verso il mulino, quella sera, si sentì costantemente osservata e seguita. Parecchie volte si voltò indietro, fermandosi, per osservare meglio che non ci fosse qualcuno appostato in qualche angolo nascosto; ma ogni volta non videva nessuno. Diede la colpa al ricordo di quell'uomo, del fantasma, che la rendeva suscettibile più di quanto già non fosse. In cuor suo temeva che quell'uomo volesse vendicarsi su di lei perché lo aveva cacciato, anche se dall'altra parte non riusciva ad immaginarsi una scena del genere, non dopo aver visto quello sguardo malinconico e vuoto nel suo stesso viso. Le sembrava impossibile che un uomo potente e temuto come lui potesse essersi ridotto ad un povero disgraziato che non sapeva dove andare.

La stradina di campagna era desolata, come sempre. Il sole era già scomparso sull'orizzonte, e il cielo era uno sfoggio incredibile di sfumature rosse ed arancioni. Poteva ben vedere il mulino che si stagliava davanti a se come una sagoma scura, in penombra. Probabilmente, se non fosse stata particolarmente vigile in quel momento, si sarebbe anche lasciata andare a dei commenti sul paesaggio pittoresco che aveva di fronte.

Sentì dei passi lenti e quasi impercettibili dietro di lei, di qualcuno che nonostante stesse cercando di nascondersi alla sua vista non poteva fare a meno di spezzare i ramoscelli e le foglie secche sul terreno. Phénix ebbe un brivido di paura; in quei pochi anni in cui abitava da sola non le era mai capitato di dover far fronte a qualcuno che voleva approfittarsi di lei o che voleva rubarle i suoi pochi averi. Abitare in una comunità era totalmente diverso, e decisamente più sicuro. E lei, quando li aveva lasciati, era ben consapevole di quello che poteva rischiare. Non avrebbe più avuto la sicurezza del gruppo, ma sarebbe stata sola con stessa.

Affrettò il passo, veramente spaventata quando sentì quello del suo inseguitore farsi più forte e veloce, per evitare che scappasse. E si mise a correre più veloce che poté nel vedere che c'era anche un altro uomo, uscito dalla vegetazione, che la stava puntando. Nella foga della corsa perse l'equilibrio su una piccola buca del terreno e rovinò a terra, sbucciandosi i palmi delle mani e sporcandosi i vestiti di terra. Riuscì a tirare un calcio in pieno viso al suo assalitore, che rimase dolorante e stupito per qualche attimo; l'altro, invece, le era piombato addosso, facendola cadere nuovamente e bloccandola con il proprio corpo.

«Cos'è? Non scalci più, bambina?», le sibilò l'uomo, quello che aveva tutta l'aria di essere un disgraziato peggio di lei, sporco e barbuto.

«Lasciami stare, animale!», gridò, cercando di liberarsi senza però combinare niente. Se solo fosse riuscita ad afferrare il suo coltello...

I due la presero di peso, trascinandola con fatica verso il mulino. Il piccolo Dante, vedendo due estranei con la sua padrona, graffiò l'aria con gli artigli, miagolando impaurito.

«Bene, bene, bene, Phénix.», disse l'uomo che l'aveva atterrata. «Vediamo cosa hai qui.»

L'altro, con ancora una mano sul naso sanguinante, colpito dal calcio della giovane, mandò all'aria tutto il contenuto del mobiletto in legno, erbe riposte con cura nei loro cofanetti, unguenti, e altri piccoli oggetti, compreso il suo adorato libro. «E questo cos'è?», chiese perplesso, sfogliandolo distrattamente.

«Niente che uno stupido come te possa capire.», rispose Phénix, che si beccò uno schiaffo in piena regola per aver osato troppo.

«Hai la lingua lunga, bella zingarella. Che ne dici se te la taglio?»

Phénix cercò di divincolarsi, facendo esasperare l'uomo che la teneva stretta.

«Vuoi stare ferma o no?», le gridò, facendole sbattere il capo contro la parete.

Stordita, la ragazza non si rese conto che la testa le stava sanguinando; e men che meno si rese conto che l'altro assalitore aveva trovato qualcosa che neanche lei sapeva di avere.

«Ehi, guarda un po' cosa teneva nascosto questa strega?», disse stupito e allegro, sventolando banconote di alto valore. «Però, ti tratti bene, piccola, per fare questa vita.»

Phénix sbatté le palpebre, confusa. «Quelli... Quelli non sono miei.»

«Ah, no?», le ripeté uno dei due, sarcastico. «Beh, comunque ora sono in mano mia!»

«Non... Sono miei…»

Non riuscì nemmeno a formulare un pensiero logico, che l'ennesimo colpo in testa le fece perdere i sensi.

 

 

 

Continua...

 

Grazie mille a leschatnoir per il commento e per averla aggiunta tra le seguite! Spero che continui a piacerti! :)

Un saluto!

Marta.

 

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Capitolo 4
*** 03. Capitolo II - Parte II ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo II - Parte II

 

Erik non si era allontanato molto, da quando aveva lasciato il mulino di quella zingara. Non perché volesse tornare indietro per spiarla o per farle pagare la poca gentilezza che aveva mostrato una volta scoperta la sua identità. Non voleva spaventarla, tanto meno farle del male. Aveva notato dei movimenti tra i bassi arbusti ed i cespugli della campagna, come se ci fosse qualcuno appostato, in attesa di qualcosa. Si era avvicinato maggiormente alla fonte di quei movimenti, senza un suono, senza un fiato.

Proprio come un fantasma.

E li aveva visti, quei due uomini sporchi, dallo sguardo vispo e per niente amichevole; osservavano il mulino con interesse, parlottando tra di loro a voce bassissima, che essi stessi a stento riuscivano a sentire. Ma aveva capito, anche senza il bisogno di ascoltare i loro discorsi, che quel piccolo rudere con chi ci stava dentro era nei loro prossimi interessi. Phénix abitava sola, indifesa, senza nessuno accanto: un ottimo obiettivo, il loro. Avrebbero approfittato di lei? O si sarebbero limitati a rubare i soldi che le aveva lasciato, senza alzare un dito?

Non poteva permettere che quella ragazza, così gentile ed ospitale con lui, potesse essere oggetto del divertimento e dei giochi di persone come quelle. Non dopo aver scoperto chi fosse, non dopo aver deciso che, per quanto piccolo fosse il suo contributo, l'avrebbe aiutata a sistemarsi.

Era rimasto nascosto dietro un folto cespuglio per tutto il giorno, immobile come una bellissima statua, aspettando che Phénix rientrasse a casa e che quei due balordi si facessero vivi. Uno si era allontanato quando lei aveva lasciato il mulino, prima di pranzo; l'altro era rimasto nei dintorni, senza uscire troppo allo scoperto. Quando l'aveva vista sulla via del ritorno e si era reso conto che quei due la stavano veramente puntando, dovette ricorrere a tutto il sangue freddo di cui disponeva pur di non saltargli addosso e di ammazzarli nel giro di due secondi. Ma aveva fatto male i calcoli, forse: non aveva pensato che la giovane potesse ribellarsi con tanto fervore. Avrebbe dovuto capire che avesse un carattere infuocato, proprio come i suoi capelli.

Un calcio, una piccola fuga, l'altro uomo che le era piombato addosso per bloccarla, trascinata dentro senza che potesse ribellarsi.

Erik prese un bel respiro, prima di uscire dal suo nascondiglio e di avvicinarsi a passi felpati e silenziosi verso il mulino. Aveva tolto fuori il suo lasso, fedele compagno in qualsiasi situazione del genere, e aveva aspettato il momento migliore, guardando da una fessura nel legno. Fu quando vide la ragazza perdere i sensi, che la calma che aveva ostentato fino ad un secondo prima scemò in un istante.

Il Fantasma dell'Opera era tornato, splendente e terribile come non mai.

Con un calcio atterrò la porta, facendo imprecare i due per lo spavento. Fu un duro colpo per loro trovarsi un uomo imponente come lui, spaventoso avvolto nel nero del suo mantello, con quella maschera inquietante che gli conferiva un aspetto ancor più terrificante e quegli occhi ridotti ad una fessura, carichi di una rabbia che ribolliva come la lava di un vulcano.

Il primo brigante che gli fu addosso fu quello che aveva scoperto il denaro, ma non poteva nemmeno immaginare con chi avesse a che fare. Erik gli lanciò la corda del lasso alle gambe e, una volta che questa fece un paio di giri su di esse, la tirò con forza, facendolo cadere prima ancora che potesse raggiungerlo.

L'uomo, nella foga, riuscì a tirare fuori un coltello e provò subito ad usarlo contro il suo aggressore. Il primo colpo andò a vuoto, dato che Erik si accorse all'ultimo momento del pericolo e gli bloccò il polso, spezzandoglielo con un movimento secco della mano.

Non si curò delle grida di dolore dell'individuo riverso a terra, bensì si voltò contro l'altro che aveva osato picchiare Phénix. Le lanciò un'occhiata e la vide a terra, come addormentata.

«Chi diavolo sei, mostro!», esclamò tremante il balordo, alzandosi per fronteggiarlo. «Vuoi divertirti anche tu? Bastava chiederlo!»

Senza una parola di più, Erik ritirò il lasso dalle gambe dell'altro malcapitato, e sorrise al compagno dell'aggressore con un ghigno per niente rassicurante.

«Ehi, amico. Che intenzioni hai? Ce ne andiamo, ok? Ce ne stiamo andando, vero Nicolas?», continuò quello, ora veramente spaventato dall'uomo in nero che si avvicinava a piccoli e lenti passi verso di lui, inesorabile come la morte. «Su, deficiente, alzati che leviamo le tende! Ti lasciamo solo con la tua sgualdrinella, tranquillo!»

Quello fu troppo per lui.

Keep your hands at the level of your eyes!

Con un movimento fluido e talmente veloce che neanche se ne accorse, l'uomo si ritrovò il collo stretto da un cappio micidiale, sdraiato a terra nel vano tentativo di fermare la furia omicida che ora lo stava sovrastando e guardando con l'espressione di un folle. Invano tentò di liberarsi da quella violenta morsa, da quella corda che sempre più gli si stringeva attorno al collo, soffocandolo lentamente. Poi, più nulla.

Erik rimase immobile a guardare la sua vittima – un'altra – che lo guardava con occhi ciechi, ma totalmente spalancati per il terrore della morte.

Purtroppo per lui si accorse troppo tardi dell'altro uomo che, preso il coltello con la mano sana, gli si avventò contro e lo ferì profondamente sul braccio. Erik si morsicò la lingua con forza, pur di non gridare dal dolore, e, accecato dalla rabbia e dall'affronto, lo atterrò con un pugno, che gli fece sbattere violentemente la testa contro un'asse piegata del pavimento in legno. Pochi secondi dopo lo vide sanguinare copiosamente, immobile riverso a terra.

Con il respiro affannato, Erik si lasciò cadere per terra, cercando di riprendersi un poco. La ferita al braccio stava perdendo molto sangue – ed era stato fortunato che quel coltello non avesse colpito il fianco, che era il vero obiettivo dell'uomo – ma non gli importava. Ciò che gli faceva più male, ora, era vedere cosa avesse appena fatto. Aveva nuovamente ucciso, con una ferocia e un'impassibilità tale che lui stesso rabbrividì al solo pensiero.

Solo per difenderla, solo per difenderla...

Chiuse gli occhi e sospirò profondamente, prima di riaprirli, alzarsi e portare via di peso i cadaveri di quei due stolti, per nasconderli da qualche parte nella campagna. Quando tornò nel mulino, si avvicinò a Phénix e si accorse che anche lei era ferita, in fronte. La prese in braccio e la adagiò sul letto di paglia, con delicatezza. Dante la raggiunse subito, accoccolandosi accanto a lei per starle vicino.

In tutta la sua vita, non aveva mai dovuto curare le ferite di qualcun altro, e cercando tra le erbe medicinali e gli unguenti che la ragazza aveva si trovò spiazzato, rendendosi conto che non aveva la più pallida idea su cosa potesse usare per disinfettarle la ferita. Aveva letto numerosi libri di medicina, quando era un ragazzo, ma niente sull'uso di erbe come quelle. Fortuna che trovò un vasetto in vetro contenente una pomata di aloe e, con cura, gliene spalmò una noce sulla ferita in fronte e sulle mani sbucciate.

Quella fu l'occasione per osservarla bene senza metterla a disagio, come la notte precedente. La fronte era alta, coperta solo da qualche ciuffo ribelle, rosso come il fuoco, che scappava alla treccia; quegli occhi verde smeraldo, che ora erano chiusi, avevano una graffiante forma affilata, contornati da lunghe ciglia ramate; le labbra erano socchiuse, carnose e sanguigne, e poco sopra spuntava un nasino impertinente, delizioso. Di fisico non era altissima, anzi: era almeno una ventina di centimetri più bassa di lui; ed era magra, tremendamente magra che temeva potesse spezzarsi da un momento all'altro, per lo stile di vita che aveva fatto fino a quel momento.

Erik si stupì non poco nel scoprirsi così intento a studiarla. Non poteva biasimarsi, certo: era bella, su quello non poteva azzardarsi a dire il contrario. Ma il solo fatto di formulare un pensiero del genere lo mise in forte disagio.

Christine...

Perché? Perché non poteva semplicemente dimenticarla? Perché si sentiva in colpa per aver formulato un pensiero che considerava oggettivo?

Lei non era sua, non era mai stata sua. Eppure lui aveva sperato, fino all'ultimo: era convinto che con quell'opera sensuale e provocante la sua dolce musa gli si sarebbe finalmente abbandonata, rinnegando quel damerino del Visconte e scegliendo lui, che l’amava fino alla follia.

E invece no, niente di quello che aveva sperato ed immaginato era andato così, neanche in minima parte. Sarebbe mai riuscito a dimenticare tutto quel dolore? Sarebbe mai riuscito a dimenticare quella voce soave, quegli occhi castani e grandi, innocenti come quelli di una bambina?

Christine I love you...

Distolse lo sguardo bagnato dalle lacrime dalla giovane zingara e strinse forte i pugni, per cercare di darsi una calmata. Si era ripromesso che sarebbe diventato una statua di ghiaccio, insensibile ai sentimenti, insensibile al dolore... Eppure non ci riusciva, neanche con tutta la sua buona forza di volontà.

Per fortuna che i mugolii di dolore di Phénix, che lentamente si stava risvegliando, lo richiamarono al presente. Si asciugò velocemente gli occhi e concentrò tutta la sua attenzione sulla ragazza.

Phénix corrugò la fronte per il dolore, quando iniziò a rendersi conto che la testa le pulsava malamente. Alzò debolmente un braccio, per portarsi una mano alla fronte, ma si bloccò subito quando sentì l'odore dell'aloe profumarle le narici. Fu solo allora che si accorse di una presenza, seduta al suo fianco sul letto di paglia. Se ne avesse avuto le forze sarebbe saltata dallo spavento, nel ritrovarselo a fianco, così vicino; e lui capì il suo stato d'animo solo guardandola negli occhi.

«Tu... Cosa ci fai…», provò a dire, a fatica.

«Non sforzatevi, siete debole.» Erik la spinse delicatamente contro il letto, quando questa fece per mettersi a sedere.

«Dove sono... Quei due…» Un brivido le percorse la schiena vedendo l'occhiata eloquente che l'uomo le riservò. E capì tutto quando vide, per terra, una macchia scura di sangue che bagnava il legno del pavimento. «Oddio…», mugolò, nascondendosi il viso tra le mani. «Li hai uccisi…»

«Sì, solo per difesa.», tagliò corto lui, deciso nel non volerci pensare più.

«Tu non sai chi sono... Chi erano…», disse debolmente, tremando.

«Due che non meritavano di continuare a vivere, mademoiselle Phénix.»

La zingara si passò le mani sul viso, guardando con aria persa il soffitto. «Mi hanno... Ecco, loro mi hanno…»

Erik le coprì la bocca con una mano guantata di pelle nera, intimandole il silenzio. «Basta domande, siete stanca. Comunque no, sono arrivato prima.»

La giovane si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Grazie.»

Lui non rispose, intento a coccolare il gattino. «Quando vi sarete ripresa me ne andrò, state tranquilla.», la rassicurò, senza guardarla. «Piuttosto, dovreste tornare dai vostri compagni, se volete evitare altre situazioni di questo genere. Io non ci sarò sempre.»

Phénix, a quelle parole, si crucciò, girandosi su un fianco e rannicchiandosi su stessa. «Non posso. Mi avevano avvertito che se li avessi lasciati, poi, non sarei potuta tornare indietro. E' una legge.»

«E allora è una legge stupida.», ribatté Erik, alzando lo sguardo su di lei.

«E quei due…», continuò imperterrita lei. «Quei due erano i cugini di uno degli uomini più influenti del nostro gruppo. Non immagini quanto potente sia. Non posso tornare da loro, ora.»

«Allora converrete con me che qui non siete al sicuro. Quanti sanno che abitate qui?»

Lo sguardo della ragazza gli fece capire la risposta. Il pericolo c'era, e anche parecchio, a quanto pareva. I soldati, poi, avrebbero anche potuto accusarla di omicidio…

Come i suoi genitori, sempre a causa sua…

No, non poteva permetterlo. Non doveva accadere di nuovo. L'avrebbe presa sotto la sua protezione, e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea.

Prese un bel respiro profondo, guardandola intensamente e facendole capire che non avrebbe ascoltato alcuna obiezione. «Credo che sarebbe meglio se voi veniste con me, una volta ripresa. Vi porterò al sicuro.»

Phénix credette di aver sentito male. Andare con lui? Era ammattito? «Non ci penso nemmeno. Ti ringrazio per l'offerta, ma so badare a me stessa.» La ragazza si pentì subito di aver detto quelle parole, quando gli lesse un'espressione sarcastica, ma risentita, in viso.

«Mi fa piacere sentirvelo dire, mademoiselle. Devo dedurre che l'incidente di prima me lo son sognato?»

Phénix si morse un labbro, conscia di essere in torto marcio. Come si sarebbe potuta difendere in quelle condizioni? Se non fosse stato per lui, quella sera... Non voleva nemmeno pensarci. Ma lei non avrebbe seguito un assassino, non lo avrebbe fatto! Sarebbe scappata, avrebbe cercato di difendersi da possibili accuse, ma non avrebbe dato la sua vita nelle mani di un folle, anche se questo stesso folle l'aveva salvata. «Non verrò con te, punto e basta. Non puoi obbligarmi.», disse a denti stretti, mettendosi a sedere sul letto e vedendo tutto intorno a se girare vorticosamente. Venne spinta nuovamente contro il letto, questa volta con più decisione, e gli rifilò un'occhiataccia gelida in cambio.

«Statemi bene a sentire, Phénix: non amo ripetermi su questioni che considero già chiuse e vi sarei grato se la smetteste di fare la bambina capricciosa. Non vi si addice.», le mormorò seriamente Erik, facendola arrossire per l'affronto.

Gli avrebbe voluto gridare dietro di non permettersi mai più di rivolgersi a lei con quel tono, di non osare nemmeno pensare di dettare regole e obbligarla a fare ciò che più gli piaceva... Ma non ne ebbe la forza fisica, dato che il dolore alla fronte tornò a pulsarle forte. E poi, come avrebbe potuto ribattere a quelle parole pronunciate così duramente? A quello sguardo duro e severo che sembrava schiacciarla con forza?

«Ora, ascoltatemi.», riprese il Fantasma, con un tono più calmo e apparentemente comprensivo. «So che avete paura di me, non posso biasimarvi. Ma credetemi sulla parola di uomo d'onore che sono, che non ho intenzione di portarvi guai. Voglio solo aiutarvi.»

Phénix non si lasciò abbindolare da tutte quelle belle parole. Voleva studiarlo ancora un po'. «Non mi serve il tuo aiuto. E non mi servono nemmeno i soldi che mi hai lasciato.»

L'uomo tentò a stento di reprimere la rabbia che stava affiorando in lui, contro quella ragazzina priva di gratitudine per l'aiuto che le aveva dato e che le stava offrendo. Possibile che dovesse rispondergli in modo così maleducato? Possibile che non capisse che fosse sincero?

Si alzò di scatto da dove era seduto, stringendo i pugni. Era questo, dunque, l'effetto che faceva? Timore e diffidenza in chiunque incontrasse? Perché nessuno si accorgeva del suo dolore? Della sua voglia di ricominciare nuovamente? Perché nessuno vedeva l'uomo dietro il mostro?

Fear can turn to love - you'll learn to see, to find the man behind the monster...

«E' troppo chiedervi di darmi fiducia?», le domandò, stanco. «Una volta, una volta sola: almeno voi, potete darmi fiducia?»

Sentì lo sguardo della giovane contro la schiena, ma non osò voltarsi per guardarla in viso. Temeva quello che avrebbe potuto vedere: paura, sgomento... Peggio ancora: pietà.

«Ti sei mai domandato perché nessuno si fidi di te?», gli chiese Phénix, mettendosi nuovamente a sedere, questa volta con lentezza, per non muoversi troppo bruscamente e avere altri cali visivi. «E' vero, non ti conosco e posso dire che ieri sei stato una brava persona che ho aiutato con piacere. Secondo te perché ora che so chi tu sia provo solo diffidenza?»

Erik sospirò, conscio che le parole della zingara erano tristemente vere. Tutti, anche chi non lo conosceva direttamente o non aveva avuto a che fare con lui, lo temevano; poteva fargliene una colpa? Certo che no. Non poteva sperare che neanche lei potesse aver paura di lui, e lei non voleva avere problemi con la giustizia; del resto, molti avrebbero trovato quasi ovvio che il Figlio del Diavolo si fosse rivolto ad una strega.

Phénix strinse gli occhi, studiandolo bene. Sentiva di potersi fidare di quell'uomo: era sincero, in quel momento, glielo poteva leggere perfettamente in quegli occhi ora verdi, ora grigi; lo sguardo di chi aveva sofferto tanto, di chi aveva visto troppo dalla vita, di chi invece non avrebbe voluto vedere. Ma aveva paura, una folle paura che accettando il suo aiuto qualcosa potesse andare storta.

«Sentiamo, dove vorresti portarmi al sicuro?», gli chiese, temporeggiando.

Erik riuscì a nascondere un sospiro, capendo che la giovane stava lentamente cedendo. «Da una persona che deve farsi perdonare il suo comportamento scorretto nei miei confronti.»

La giovane inclinò il capo, curiosa. «Perché?»

«Ha tradito la mia fiducia nel momento in cui avevo maggior bisogno di lei. E' sufficiente?» Mosse qualche passo verso di lei. «Allora?»

Phénix si strinse nelle spalle. «Un'ultima cosa vorrei sapere da te: perché vuoi aiutarmi così tanto? Neanche ci conosciamo.»

Erik si lasciò sfuggire un amaro sorriso. Cosa avrebbe potuto dirle? Che voleva rimediare a ciò che aveva fatto in passato? Bel modo sarebbe stato per guadagnarsi la sua fiducia! «Perché se non posso trovare pace io, non vedo perché non possiate voi. Siete stata gentile con me ieri, l'unica persona che non mi abbia cacciato come un animale. E io ho i mezzi per aiutarvi. E' una buona ragione?»

Phénix si arrese, sospirando. «D'accordo, ti seguirò. Però a due condizioni.» Erik incrociò le braccia, curioso di sapere. «Mi darai del tu come faccio io con te. Mi sembra ridicolo che utilizzi tutta questa galanteria per una poveraccia come me.», iniziò ad elencare contando con le dita. «E ti farai curare quel braccio, sanguina in modo spaventoso.», concluse, alzandosi con lenta debolezza per recuperare i medicinali alle erbe.

Erik gioì intimamente per quella piccola vittoria ed acconsentì a farsi medicare la ferita. Non si preoccupò delle mani sapienti della giovane che gli massaggiavano il braccio, né del fatto che fosse con mezza camicia aperta per facilitarle l'operazione, lasciando scoperto un petto scolpito e quasi del tutto privo di peluria. Era troppo occupato a pensare ad un modo per aiutarla a dovere, per curarsene.

Lei, invece, se ne preoccupò, eccome: il fisico di quell'uomo era pressoché perfetto, tranne per il fatto che fosse un po' sciupato per il poco cibo che aveva mangiato in quegli ultimi tempi.

«Erik…», sussurrò Phénix, facendogli alzare lo sguardo su di lei. «Grazie per tutto.»

Rimase particolarmente colpito dalla serietà e dal riconoscimento con cui lo guardò: nessuno l'aveva mai ringraziato. Si lasciò andare ad un timido sorriso, il primo che le regalò, e lei sperò che non fosse nemmeno l'ultimo, perché mai aveva visto il volto di un uomo diventare così dolce ed innocente come quello di un bambino, per un semplice gesto come quello.

«Ecco, così dovrebbe cicatrizzarsi velocemente e non dovrebbe darti troppo fastidio.», gli comunicò, coprendogli il braccio con un ultimo giro di rozza benda.

«Grazie, Phénix.» Erik si ricoprì con la camicia logora e la giacca, lasciando il mantello piegato ai piedi del letto. «Ora, se non ti dispiace, ti preparerei qualcosa da mangiare.»

Phénix stava per ribattere, ma l'occhiata autoritaria dell'uomo la fece desistere. Accidenti, metteva i brividi quando la guardava così!

Dante le si accoccolò sulle gambe, reclamando cibo con un miagolio affamato. «Shh, ora si mangia.», gli sussurrò, accarezzandogli la testolina pelosa. Alzò lo sguardo sull'uomo che era intento a mettere insieme un po' di frutta con qualche pomodoro tagliato a spicchi, con pane e acqua, e non poté fare a meno di sorridere. «Posso farti una domanda?», gli chiese.

Lui la guardò un attimo, poi riprese ciò che si era offerto di fare. «Dipende dalla domanda.»

Phénix ci pensò su un po', prima di parlare. «Se ti senti tanto in colpa per quello che è successo all'Opera, perché non finanzi i lavori di restauro con i soldi che hai, anzi che aiutare una zingara come me?»

Erik alzò un sopracciglio. «E cosa ti fa pensare che io mi senta in colpa?»

La giovane lo guardò bonaria. «E' palese, te lo leggo negli occhi.»

Lui non rispose subito, preferendo lasciar passare qualche secondo di silenzio. «Il fatto che sono un ricercato ti suggerisce qualcosa?»

«Potresti incaricare qualcuno.», gli rispose prontamente lei, facendolo sospirare.

«Non credere che non ci abbia già pensato.»

«Quindi

Erik si mise le mani sui fianchi, guardandola quasi esasperato. «Tu fai troppe domande.»

«Posso pensarci io, se la cosa non ti preoccupa.», continuò lei, impertinente.

«Mi ascolti quando parlo?»

Phénix gli lanciò un'occhiata birichina, sorridendo maliziosa.

Ed Erik pensò che avrebbe fatto bene a controllare la sua pazienza, altrimenti avrebbe fatto qualcosa di sconsiderato contro quella giovane: quel sorriso e quell'espressione di chi la sapeva lunga erano in grado di spiazzarlo ed irritarlo nel giro di pochi istanti, e lui questo non poteva accettarlo. Così come non poteva accettare che una perfetta sconosciuta gli leggesse in faccia tutto il suo dolore.

Le ficcò in mano la sua cena e prese il piccolo Dante in braccio, occupandosi di lui pur di non doverla guardare.

Cenarono in silenzio, ognuno intento a ragionare su quello che era successo e stava succedendo. Entrambi erano coscienti che le loro vite stavano prendendo una svolta proprio quella notte. Tutto sarebbe cambiato, niente come prima.

Phénix ripensò alle parole profetiche della nonna.

Il Cambiamento sta per avvenire e tu devi essere forte e pronta per affrontarlo al meglio.

Sì, lei era pronta per affrontarlo, ne era sicura.

 

Quella stessa notte Erik disse alla giovane zingara di prendere i suoi effetti, gatto compreso, e di prepararsi all'eminente trasloco.

«Hai carta e penna?», le chiese.

Lei lo guardò stralunata, scuotendo la testa. «No, non ho cose di questo genere.»

Erik sospirò. «Allora dovrò andare a procurarmele. Aspettami qui.»

Sparì velocemente nella notte, lasciandola sola. Non poté nascondere un certo timore, ora che lui se n'era andato, seppur per poco tempo. O così le aveva fatto intendere. Si strinse contro la parete in legno del mulino, abbracciando e cercando compagnia nel piccolo Dante.

Quell'uomo era strano e imprevedibile, ma la sicurezza che provava in sua compagnia era indescrivibile; così come era indescrivibile il timore di ricevere nuove visite ora che era ancora più indifesa di prima.

Erik tornò parecchio tempo dopo, con una lettera sigillata da un teschio di cera lacca rossa, che metteva i brividi.

«Darai questa lettera alla persona dalla quale sto per portarti; c'è scritto tutto quello che deve sapere.»

Phénix annuì, prendendo la lettera e guardando il sigillo. «Ma... Questo era necessario?»

L'angolo sinistro del labbro dell'uomo si piegò in un sorriso di scherno, incredibilmente seducente. «Diciamo che in certe occasioni si è rivelato un ottimo modo per persuadere.»

Fu così che sotto la luce della luna, la condusse al luogo che lui considerava più sicuro per lei. Compagni della notte, scivolarono silenziosamente lungo i viali e le stradine deserte di Parigi.

Erik si muoveva sicuro, invisibile così avvolto nel suo mantello scuro: Phénix pensò più volte che sembrasse veramente un fantasma. Ogni tanto si voltava per assicurarsi che lo stesse seguendo, o per controllare di non essere sotto lo sguardo curioso di qualche indesiderato. Sembrava pienamente a suo agio nel muoversi furtivo, tra le ombre, come se lui stesso ne facesse parte. Ma per un uomo che era cresciuto e aveva vissuto nelle tenebre, quelle strade buie non avevano niente da invidiare ai cunicoli dell'Opera.

La portò in Cité d'Antin, proprio nei pressi del Teatro, dove i palazzi erano ben curati ed eleganti, promettendo sontuosità al loro interno, come ben facevano capire soltanto guardandoli da fuori. Phénix si sentì elettrizzata all'idea di entrare in uno di quei palazzi: non vi aveva mai messo piede.

«La porta è quella.», Erik le indicò con lo sguardo un portone di legno massiccio, a cui si accedeva tramite un paio di gradini. «Dalle subito la lettera, capirà.»

Phénix lo guardò con apprensione. «E tu?»

«Io?», Erik sorrise tristemente. «Continuerò a nascondermi come ho sempre fatto.»

Sparì poco dopo, lasciandolo nuovamente sola, nel freddo della notte, quella volta per davvero. Chissà se l'avrebbe più rivisto?

Si strinse nelle spalle, accarezzando distrattamente Dante, accovacciato tra le sue braccia e riscaldato dal suo scialle viola, che le copriva anche il capo. Tirò fuori dalla sacca la lettera che Erik aveva scritto per assicurarle alloggio e la guardò curiosa. Chissà cosa c'era scritto?

Si avvicinò alla porta, ma prima di bussare, rimase in silenzio, immobile con una mano bloccata a metà strada. E se l'avessero cacciata? I suoi capelli ed i suoi occhi non erano certo un valido biglietto da visita, non lo erano mai stati. Cosa avrebbe fatto in quell'eventualità?

Scacciò quei pensieri con decisione; odiava essere insicura, era una delle sue peggiori paure. Batté con forza il pugno contro la porta in legno, sperando che qualcuno là dentro le aprisse. Il cuore le martellava in petto come impazzito all'idea di quello che stava per succedere: una porta verso il cambiamento. Ma purtroppo quell'edificio stava dormendo così come i suoi abitanti, dato che neanche dopo tanti colpi si era fatta vedere anima viva.

Aveva già perso le speranze, quando una tenue luce tremula illuminò la finestra accanto alla porta.

E lei sperò vivamente che la persona dietro quelle mura l'accogliesse senza cacciarla; avrebbe fatto di tutto, allora, pur di aiutare Erik a vivere una nuova vita e a vederlo sorridere ancora.

 

 

 

Continua...

 

Grazie mille, leschatnoir! Questo capitolo è un po' più lungo, spero sia stato di tuo gradimento! ;)

Un saluto!

Marta.

 

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Capitolo 5
*** 04. Capitolo III ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo III

 

Quella notte, così come tante altre dal giorno dell'incendio, si svegliò nel bel mezzo di un incubo. Nonostante fossero passate settimane da quel giorno infausto, ancora non riusciva ad addormentarsi senza pensare a quegli occhi acquamarina che la guardavano delusi ed esausti, dello stesso uomo a cui anni prima aveva salvato la vita e che si era visto voltare le spalle nel momento del bisogno da lei, l'unica persona in grado di comprenderlo e di aiutarlo sempre e comunque. Avrebbe potuto ucciderla per quel gesto, avrebbe potuto schiacciarla e fargliela pagare cara; ma sapeva benissimo che la sua più grande punizione, il suo più grande peso da portare avanti era il suo sguardo carico di tristezza e di rassegnato dolore. Ancora lo vedeva davanti a sé, con la schiena ricurva, un'espressione persa, occhiaie solcate dai lunghi e silenziosi pianti.

L'aveva tradito, ma non senza rammarico. Era in pericolo lui, la sua vita, il suo mondo. Ma era in pericolo anche quella che per lei era la sua seconda figlia e, anche se sapeva perfettamente che lui non avrebbe mai potuto farle fisicamente del male, non avrebbe permesso che le rovinasse l'esistenza per un suo capriccio dettato dalla passione e dalla rabbia. Si era resa conto troppo tardi di aver compiuto una sciocchezza mostrando la strada al Visconte per raggiungere il suo regno, portandogli direttamente la vista dell'uomo che voleva rubargli la donna amata e che avrebbe dovuto e voluto uccidere quella notte stessa, accecato dalla gelosia. E lei sapeva anche che aveva messo in pericolo la vita del giovane stesso, lasciandolo in balia dei trabocchetti seminati ovunque in quei cunicoli bui ed umidi, in balia delle sue mani assassine. Non si sarebbe mai perdonata ciò che aveva fatto.

Claire Louise Giry si rigirò nuovamente sul letto, guardando il soffitto e cercando di ascoltare meglio. Le era parso di sentire qualcuno che bussava veementemente contro il portone d'ingresso, ma pensò che fosse solo una sua suggestione. Ma quando sentì nuovamente quei colpi secchi e sordi, decise di alzarsi e di accendere una candela, per andare a controllare chi, a quell'ora della notte, osasse disturbare la quiete della sua casa.

Scese le scale in legno, cercando di fare il meno rumore possibile, e scostò la tenda alla finestra, guardando fuori. Vide una giovane ragazza avvolta in uno scialle, che stringeva qualcosa al petto nascosta alla sua vista: indossava una gonna rovinata, lunga fino a terra, e quindi probabilmente molto sporca per aver pulito tutte le strade di Parigi che aveva attraversato, e notò numerosi braccialetti tintinnanti ai suoi polsi magri.

“Una zingara.”, pensò, decidendo che l'avrebbe cacciata senza una parola di più.

Ma non fece in tempo a muovere un passo che la ragazza si accorse di lei e piombò davanti alla finestra, appiccicando al vetro una lettera.

E la donna credette di svenire appena i suoi occhi si posarono sul teschio rosso che sigillava la busta.

Quello era il suo simbolo.

Quella lettera era di Erik.

 

Quando Phénix vide il volto di quella donna dietro la finestra credette di aver ricevuto la mano dal cielo. Non ci aveva pensato più di tanto a mostrarle la busta e non capì per quale motivo la signora sbiancò, nel vederla. Probabilmente, pensò, aveva a che fare con le capacità persuasive di cui le aveva parlato Erik.

La donna che le aprì era quanto meno affascinante: il volto maturo ma che conservava ancora la sua bellezza giovanile, uno sguardo severo e ora stupito per quello che aveva appena visto, le labbra sottili semiaperte, come per voler parlare da un momento all'altro, una lunghissima treccia che ricadeva stancamente su una spalla; indossava una camicia da notte scura e reggeva una candela nella mano destra.

«Madame…», Phénix chinò il capo, imbarazzata. Era la prima volta in vita sua che non sapeva cosa dire e come dirlo. Non aveva mai avuto a che fare con persone importanti e quella donna aveva tutta l'aria di essere parecchio benestante, il tanto giusto per metterla a disagio. Inoltre le costava ammetterlo, ma il fatto di essere davanti a lei, nel mezzo della notte, dopo averla sicuramente svegliata per chiederle aiuto e alloggio, la imbarazzava terribilmente.

Senza sapere se aggiungere altro, si limitò a porgerle la busta, aspettando il verdetto finale.

La donna sembrò impallidire ancora una volta nel leggere la grafia di Erik, e la zingara si chiese se l'uomo non l'avesse minacciata, pur di trovarle una casa sicura. Guardò distrattamente la lettera, mentre la rimetteva all'interno della busta. Poi, le si rivolse con un timido sorriso. «Prego, accomodati, mia cara.»

Phénix si sentì esplodere di gioia nel constatare che aveva accettato ad accoglierla. E il sorriso della donna non fece altro che tranquillizzarla ancora di più.

Mosse qualche passo all'interno dell'abitazione e quello che vide fu per lei incredibile, sebbene ignorasse il fatto che quella casa, in confronto ad altre, non era niente di particolare: il salotto era accogliente, con alcuni divani in pelle scamosciata che si chiudevano intorno ad un caminetto spento; il pavimento era in cotto, coperto di tanto in tanto da splendidi e grandi tappeti persiani dalle decorazioni più disparate; alla sua destra c'era una scala in legno che portava ai piani superiori, mentre di fronte a lei un corridoio buio portava alle camere dei servizi.

«Madame, mi dispiace di averti... di avervi svegliata e di crearvi disturbo... Non era mia intenzione. Ma a quanto pare Erik sa essere molto convincente.» Abbassò lo sguardo, temendo che i suoi occhi smeraldini ed affilati come quelli di un felino potessero turbare la donna.

Questa si accorse subito di quanto fosse in imbarazzo e cercò di metterla a suo agio prendendole la sacca e sistemandola in un angolo. Phénix non si fece ripetere due volte l'offerta di accomodarsi e prese posto in una delle comode poltrone presenti, stringendosi al petto il piccolo gattino nero, che altrimenti avrebbe iniziato a curiosare qua e là.

«Prima di tutto sentiti libera di darmi del tu, se ti vien meglio.», le disse, sedendosi di fronte a lei. «E non preoccuparti, non sarà un problema ospitarti per qualche tempo: la mansarda non sarà il massimo della comodità, ma è abbastanza spaziosa.»

Phénix si sentì sciogliere quando si rese conto che il tono di quella donna era cordiale e caldo, a discapito dell'aria distaccata che aveva notato all'inizio. «Grazie, Madame…?»

«Giry. Mi chiamo Claire Louise Giry. E tu Phénix se non sbaglio.» La zingara annuì, abbassando nuovamente lo sguardo. «Posso sapere il perché di questo nome? E' curioso.»

Phénix si scoprì il capo dallo scialle, mostrandole i suoi capelli. «Deriva da questi. E' un soprannome che mi diede la mia comunità quando si accorse del colore dei miei capelli. Spero non sia un problema.»

Madame Giry alzò un sopracciglio, perplessa. «Stai pure tranquilla, mia cara. Non sono così sciocca e superstiziosa da credere a certe sciocchezze.»

E due. Era la seconda persona che, nel giro di un paio di giorni, non aveva provato scetticismo nei confronti della particolare pigmentazione dei suoi capelli. Avrebbe dovuto preoccuparsi?

«Erik mi ha scritto cosa è successo questa notte... Stai meglio?»

Phénix si portò una mano alla fronte. «Questa fa parecchio male, ma per il resto sto bene.»

Il volto della Giry si distese in un sorriso. «Vado a prepararti un bagno caldo, così ti rinfranchi un po'.»

E infatti Phénix non trovò niente di più rilassante dell'acqua bollente che le rinvigorì le membra. Mai aveva fatto un bagno così rilassante... Era quello, dunque, uno dei tanti piaceri di vivere una vita normale, in una casa vera?

Madame Giry le fece trovare una camicia da notte e qualche abito per il giorno dopo: erano profumati di lavanda, erano puliti. Le sembrava di vivere come una principessa!

Si vestì quasi con devozione, per paura di rovinare il tessuto di seta della vestaglia, e scese al piano di sotto, raggiungendo la donna. Le aveva preparato una tazza di thè caldo con qualche biscotto e l'avvertì che la sua camera era pronta. L'accompagnò alla sua stanza, reggendo un vassoio, e Phénix si ritrovò in mansarda, per la quale si accedeva tramite una scala a chiocciola; la camera, nonostante fosse più bassa del resto della casa, dava un senso di calore e familiarità, con le pareti in legno ricoperte da carta da parati color panna, un letto posizionato contro la parete sinistra, un comodino al suo fianco e una cassapanca ai suoi piedi; l'unica finestra presente era circolare e non troppo piccola, e da quella Phénix poteva intravedere l'imponente sagoma dell'Opera.

«Riposati e non metterti problemi di orario. Se domani mattina non mi troverai in casa puoi rivolgerti alla donna di servizio, io e mia figlia torneremo per l'ora di pranzo.»

«Avete una figlia?», le chiese Phénix, facendola sorridere.

«Sì, Meg. Credo sia più piccola di te, ma andrete d'accordo.»

La zingara annuì, ringraziandola più volte, finché non rimase sola, a guardarsi intorno come una bambina curiosa. Si sedette sul morbido materasso coperto da un piumone che aveva tutta l'aria di essere caldissimo e scoppiò a ridere, la prima volta dopo un tempo indefinibile, quando Dante le saltò addosso, sbucando da sotto il letto.

«Ma dov'eri finito, eh?», gli chiese, ridendo contenta. Si fece cadere tra i cuscini, chiudendo gli occhi e rendendosi conto che quella era la prima volta in vita sua in cui si sentiva veramente felice, veramente realizzata. Forse la conquista del suo posto nella società stava pian piano giungendo.

Si addormentò, con un solo pensiero nella mente.

Grazie Erik.

 

La mattina seguente Phénix si svegliò che era praticamente mezzodì. Non ricordava di aver mai dormito così tanto e soprattutto così tranquillamente. Le sembrava di essere in un bellissimo sogno da cui non si sarebbe mai voluta svegliare.

Abbassò lo sguardo e accarezzò la testolina di Dante, placidamente addormentato sui suoi stivali, che, non appena aprì gli occhi gialli e ancora assonnati, le agitò una zampetta, come a volerla salutare per il buongiorno.

Phénix si alzò, avvicinandosi alla finestra e guardando il cielo azzurro di quella mattinata. Lo sguardo le cadde sul tetto dell'Opera e non poté fare a meno di chiedersi dove fosse l'uomo che l'aveva salvata. Era al sicuro? Sarebbe tornato?

Con quelle domande in testa, la giovane zingara andò a rinfrescarsi il viso e, indossati gli abiti lasciati la sera precedente da Madame Giry (un vestitino di lana pesante per coprirla dal freddo di un delizioso color celeste che metteva in risalto il colore dei suoi capelli), scese ai piani inferiori, sperando di trovare qualcuno.

Sentì parecchio trambusto provenire dalla cucina e, incuriosita, si avvicinò. Quello che vide per poco non la fece strozzare dalle risate: c'era una donnona bassa e parecchio robusta, vestita con un abito grigio e un grembiule bianco e con tanto di copri capo a panettone, intenta ad armeggiare con quello che sembrava arrosto di pollo; peccato che fosse completamente annerito e bruciacchiato, così come i suoi abiti chiari.

«Serve una mano?», domandò Phénix, facendosi avanti.

Ci mancò poco che la donna mandasse all'aria il vassoio che reggeva mestamente in mano. «Madre de Dios! Nessuno ve ha insegnato che si bussa, señorita?», esclamò indispettita la donna, con un fortissimo accento spagnolo.

Phénix arrossì per la brutta figura. «Mi scusi, non... Non volevo spaventarla.»

La donna la guardò bonaria, soffermandosi forse un po' troppo sui suoi capelli e sui suoi occhi. «La Señora mi aveva detto che eravate stanca. Ma non pensavo così tanto! Ve stavo dando per morta, señorita.»

La zingara sorrise, passandosi una mano sul collo. «Dopo una dormita come la mia posso star sveglia per giorni interi, ora.»

«Comunque, me chiamo Rosalinda Blanco e lavoro sotto la  Señora Giry da quindici anni.», le disse, porgendole una mano dopo essersela pulita alla bell'e meglio sul grembiule.

«Io sono Phénix.», la giovane ricambio titubante la stretta di mano. «Non conosco il mio vero nome.»

«No es un problema, Phénix, giusto?»

Annuì, ora più tranquilla e rilassata dai modi amichevoli della domestica. Aveva un viso simpatico, tondo e rosso, e Phénix capì subito, guardandola nei suoi occhi scuri, piccoli ed incassati, che era una brava persona.

«Allora, volete darme una mano? Spazzate qui intorno, ho fatto un disastro! ¡Maldecido horno!»

Un po' burbera, ma una brava persona, concluse Phénix, sorridendo.

Come promesso, Madame Giry e la figlia tornarono per l'ora di pranzo. La donna non fu molto contenta di trovarsi il pollo carbonizzato, ma si limitò ad un'occhiata mista tra il seccato e il divertito alla povera Rosalinda. «E tu? Non mi risulta che ti abbia ospitata per pulirmi la casa.»

Questa si mise a ridere, poggiando su una parete la scopa. «Oh, Madame, non mi sembra il caso che rimanga con le mani in mano... Non ho esperienza, ma ci terrei ad aiutare, se possibile.»

Claire Giry la guardò bonaria, scuotendo la testa. «Avevo pensato bene ad inquadrarti come una ragazza testarda, mia cara.», le disse, inclinando il capo. «Comunque, ti presento mia figlia, Meg. Meg, lei è... Sophie, la ragazza di cui ti ho parlato oggi.» La zingara la guardò perplessa per quel nome che non era il suo, ma non obiettò.

Si fece avanti una graziosa giovinetta dai lunghi capelli biondi e un visino delizioso, che le sorrise gentile e s'inchinò elegantemente. Indossava un abito particolare, agli occhi, di Phénix, sul rosa sbiadito e tutto a fronzoli: sembrava uscita da uno spettacolo.

«Meg fa parte del corpo di ballo che dirigo a teatro, anche se difatti il teatro ora è chiuso.», le spiegò Madame Giry, accarezzando distrattamente i capelli della figlia. «Continuo a dare lezioni di danza in una casa ristrutturata qua vicino, magari un giorno puoi venire anche tu.»

«Mi farebbe piacere, Madame. Amo ballare.», acconsentì la giovane, guadagnandosi un'occhiata interessata dalla donna. Se solo Erik le avesse detto che Madame Giry era la direttrice del corpo di ballo dell'Opera! Oh, ballare era la sua vita!

«Bene, Rosalinda, il pranzo si può recuperare?», domandò la donna alla domestica.

Questa abbassò le spalle, tristemente. «Me dispiace, Señora, ma quel forno ha fatto più in fretta del solito, oggi!»

Madame Giry agitò una mano con fare noncurante. «Non fa niente, mangeremo qualcos'altro. Ora, Sophie, se non ti dispiace vorrei parlarti.», disse, guardandola con serietà.

Capendo già l'argomento della discussione, Phénix la seguì docilmente fino allo studio, al piano superiore. Madame Giry la fece accomodare su un'accogliente poltroncina, mentre lei si limitò a rimanere in piedi, vicino alla finestra. Phénix, per l'ennesima volta, si ritrovò a contemplare quella nuova stanza, tra libri, mobili di legno finemente lavorati, e ritratti di famiglia.

«Allora, mia cara. Dormito bene?»

La ragazza annuì, sorridendole gioviale. «Non so quanto possa valere, ma vi ringrazio ancora, Madame

«Non è me che devi ringraziare, lo sai bene.» Madame Giry estrasse la lettera di Erik da un cassetto e prese il secondo foglio di cui era composta. Sembrava veramente lunga, chissà cosa tutto conteneva? «Erik mi ha dato direttive ben precise su cosa fare o no con te. Prima fra tutte non vuole “assolutamente che lasci la casa da sola e in piena notte. Se dovesse capitare che esca durante il giorno, falle indossare un copricapo che le nasconda i capelli. Sarà meno riconoscibile. Quando la presenterai a qualcuno dì che si chiamerà Sophie Rembrant, o quello che preferisce. Il suo nome può essere pericoloso.” E poi continua: “Inoltre esigo che venga trattata come una persona di famiglia e che le trovi un lavoro sicuro, in modo tale che non ti pesi sulle spalle. Ho grandi progetti per lei, ma dovrai fare esattamente quello che dico.»

Phénix trattenne il fiato sentendo quelle parole decise e dure, come se fosse lui stesso a pronunciarle con il suo tono autoritario e che non ammetteva repliche. «Progetti?», chiese perplessa più a sé stessa che alla donna.

«Non so cosa stia programmando, ma dev'essere qualcosa di importante, altrimenti non sarebbe stato così esigente.»

L'idea che quell'uomo le stesse gestendo il suo futuro la infastidiva e l'elettrizzava nel contempo. Che aveva in mente? «Devo preoccuparmi?»

Madame Giry sospirò. «Non credo. O meglio, spero che ciò che è successo all'Opera l'abbia aiutato a darsi una calmata con le sue decisioni.»

Quelle parole non ebbero l'effetto di tranquillizzarla, anzi: le spedirono un brivido con i fiocchi per tutto il corpo.

«Comunque, mi ha scritto che si farà vivo appena lo riterrà opportuno. Sempre che non mi ammazzino prima. In quel caso non preoccupatevi di aprirmi una porta, attraverserò i muri. Anche se lo faccio da tutta una vita.” Ah, ho sempre odiato il suo sarcasmo.»

Phénix non riuscì a nascondere un sorriso, per quanto macabra fosse quella frase. Erik era proprio strano. Sì, era l'aggettivo giusto. Strano. Era devastato dalla tristezza, era suscettibile a livelli inimmaginabili, sapeva essere gentile e l'attimo dopo la rabbia in persona, era autoritario e detestava che venissero messe in discussione le sue decisioni... Ma era più che sicura che in quei due giorni le avesse mostrato solo una piccola parte di sé.

Il bello (o il brutto?) di lui doveva ancora arrivare.

 

Quel pomeriggio Phénix ebbe molto tempo per chiacchierare con la piccola Meg. Era una ragazza semplice ed umile, parecchio schietta, come parlavano i suoi occhi vispi e chiari, ed intelligente. Era così sveglia che molto probabilmente aveva capito che dietro il suo arrivo c'era il fantomatico Fantasma. Evidentemente quella mattina aveva cercato in tutti i modi di strappare qualche parola di troppo alla madre, ma lei, irremovibile, non aveva fatto trapelare niente.

Phénix, d'altro canto, non fece nulla per farle comprendere il vero stato di cose, preferendo proteggere Erik. Si sentì a disagio, però, nel rendersi conto che la cultura della biondina era decisamente più alta della sua: lei non sapeva leggere, non sapeva scrivere, non aveva avuto educazione, né aveva frequentato scuole di alcun tipo. Si sentiva veramente fuori luogo.

Ma, nonostante tutto, Meg non la mise in difficoltà, e principalmente le parlò della sua passione per la danza e si interessò di quella della giovane zingara, curiosa di sapere e di vederla all'opera.

«Anzi, la prossima volta verrai con me alle prove!», le stava dicendo entusiasta. «Così ti presento a tutti, compresa la mia migliore amica, Christine. Anche lei è stata una ballerina, ma grazie al Fantasma è diventata una cantante superlativa... Oh, dovresti sentirla, Sophie!»

La zingara sbatté velocemente le palpebre. «Grazie al Fantasma?»

Meg annuì, pronta a raccontarle l'intera storia. E lei non vedeva sinceramente l'ora di ascoltarla.

«Christine è rimasta orfana del padre quando era ancora una bambina e lui le raccontava sempre di un angelo che l'avrebbe protetta quando lui non ci sarebbe stato più. Quando Christine arrivò all'Opera il Fantasma si accorse subito di lei e volle prenderla sotto la sua custodia e la sua guida, dicendo che lui era il suo Angelo, l'Angelo della Musica. E' lui che le ha insegnato a cantare così divinamente. Ed è lui che ha fatto di tutto, compreso spaventare i manager e noi tutti con missive, affinché Christine fosse la prima donna del Teatro. Poi lui le si è mostrato e ovviamente non era un Angelo, ma un uomo. Un uomo pronto a tutto pur di farla trionfare e pur di averla con se. L'amava così tanto da compiere follie una dopo l'altra; uccise, la rapì, fece mettere in scena l'ultima opera del teatro, scritta proprio da lui... Non nego che la passione di quell'uomo per Christine mi abbia sempre lasciata sgomenta. E se lui è ancora vivo, sono sicura che stia ancora pensando a lei... L'ha lasciata andare solo per amore, e io la trovo la cosa più romantica che un uomo possa fare.»

Phénix ascoltava senza parole, pensando a quale devozione e disperato amore Erik si fosse lasciato andare. Aveva immaginato che la sua determinazione nel voler fare qualcosa di specifico era talmente forte che era pronto a tutto pur di portare a termine i suoi ideali. Ma mai avrebbe creduto che uno come lui, per il poco che lo conosceva, potesse anche arrendersi davanti ad un no. Difficilmente riusciva ad immaginarlo.

«Sai, Maman lo conosce da quando erano piccoli... Lei lo…»

«Basta così, Meg.» La voce autoritaria di Madame Giry fece sussultare entrambe, in particolare la giovane ballerina, che divenne rossa come i capelli di Phénix.

«Pardon, Maman.», mormorò la biondina, abbassando il capo.

Phénix osservò la scena perplessa e curiosa: perché la donna aveva bloccato così bruscamente la figlia? C'era qualcosa che non avrebbe dovuto sentire? Qualcosa che non doveva sapere?

«Meg, vai a prepararti. Siamo ospiti a cena da mia sorella.», continuò Madame Giry, mentre la figlia annuiva e spariva a cambiarsi. «Sophie, vuoi venire anche tu?»

La zingara scosse la testa, sorridendo. «Oh, non credo sia il caso. Rimarrò a fare compagnia a Rosalinda, non è un problema.»

Con un cenno del capo, Claire Louise acconsentì, congedandosi dalla giovane e andando verso la sua camera per prepararsi anch'essa. L'aveva rischiata grossa quella volta. Accidenti alla lingua lunga di sua figlia! Se le avesse raccontato di come aveva conosciuto Erik, Phénix non ci avrebbe messo molto a fare due più due e capire tutto il collegamento tra lui e la morte dei suoi genitori. Non doveva succedere, nel modo più assoluto.

Mi raccomando, Claire, te lo ripeto ancora una volta: quella ragazza non deve mai venire a conoscenza del mio passato e di come mi hai fatto fuggire dal suo gruppo. Se dovesse fare qualche domanda in proposito inventati qualcosa, so che in queste cose sei molto brava.

Te lo chiedo per favore, in segno della nostra vecchia amicizia.

Erik.

 

 

 

Continua...

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Capitolo 6
*** 05. Capitolo IV ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo IV

 

Il sistema fognario di Parigi era stato inaugurato dopo lunghi anni di lavori incessanti dopo la prima metà dell'Ottocento. Prima di quel periodo, infatti, la città non aveva ancora un sistema adeguato che la rendesse pulita e igienica, e le persone, soprattutto nei quartieri bassi, erano costrette a vivere nell'immondizia e a respirare un'aria impregnata di sporco e odori sgradevoli. Fortuna volle che Georges Eugène Haussmann, più comunemente conosciuto come il Barone Haussmann, con il suo arrivo provvidenziale nell'amministrazione come Prefetto del dipartimento della Senna, oltre i tantissimi e bellissimi boulevard, fece aumentare la rete fognaria di 600 km, aggiungendo anche altri cunicoli per il deposito dei primi cavi elettrici per l'illuminazione della città.

E proprio in uno di questi cunicoli, all'asciutto e al riparo da possibili problemi, stava uno degli accampamenti di zingari più importante della zona.

«Cosa vuol dire che sono due giorni che manca?», sbottò l'uomo, un individuo abbastanza robusto di stazza e dall'aria decisamente poco amichevole.

«Vuol dire che non è tornata al mulino, Lucas.», rispose l'altro, un ometto magrolino e alto. «Deve essere scappata di notte, perché è sparita nel nulla e nessuno se n’è accorto.»

Tale Lucas si passò una mano tra i lunghi capelli neri, irritato fino all'inverosimile. «E dimmi, razza di imbecille, do da mangiare a te e agli altri per farvi scappare sotto il naso chi vi ho ordinato di tenere sotto controllo?»

David si mise una mano sul petto, sinceramente dispiaciuto, e temendo l'ira del suo superiore. «No, Lucas, ma…»

«Niente “ma”!», gridò, sbattendo un pugno sul tavolo che aveva affianco. Per poco non lo ruppe, dato il forte colpo che gli diede e la già precaria stabilità del legno mangiato dai tarli. «Non voglio sentire stupide scusanti! Se non siete capaci di stare dietro ad una ragazzina sola allora siete proprio la vergogna della nostra famiglia!»

«Lucas, lei non era sola.», s'intromise un altro zingaro, che catturò subito l'attenzione dell'uomo.

«Ah, no? E con chi era la bella Phénix?»

«Nicolas, quando è tornato l'altra mattina dall'appostamento, ha parlato di un uomo vestito di nero e con una maschera in viso. Non sappiamo altro.»

Lucas assottigliò gli occhi, mentre assimilava quella notizia inaspettata. «Un uomo vestito di nero e una maschera in viso? Interessante.», ghignò. «A proposito di Nicolas e Victor, che fine hanno fatto quei due? Sono spariti anche loro con la bella zingarella?»

I presenti si lanciarono occhiate terrorizzate, non sapendo bene come prendere la discussione per ridurre, quanto possibile, la reazione dell’uomo.

«Ecco, Lucas…», si fece avanti un terzo zingaro, di nome Faust. «Li abbiamo... Li abbiamo trovati nei pressi del mulino.»

L'uomo fece passare qualche secondo prima di capire bene le parole dell'altro. «Come?»

«Li abbiamo trovati... Morti... Sì, vedi... Qualcuno li ha uccisi…»

Lucas non continuò nemmeno ad ascoltare il resto del discorso. Solo una parola continuava a girargli in testa: morti. Morti... Nicolas e Victor morti... I suoi cugini... Coloro che considerava come fratelli... Morti? No, non poteva essere, non doveva essere così!

Si alzò dalla sua sedia con impeto, facendola crollare dietro di sé dalla foga, e prese per il bavero Faust, che tremò nel vedergli quell'espressione diabolica e folle in viso. «Come sarebbe a dire morti?! Quando diamine pensavate di dirmelo?!»

«Lu-Lucas, calmati, noi non…»

«Calmati? Calmati?!», gridò, completamente fuori di senno, mollando la presa al collo di Faust e tirandogli una pugnalata al ventre che gli mozzò il fiato. «Io sono calmissimo, non vedi?»

Con gli occhi sgranati dalla paura e dal dolore, Faust abbassò lo sguardo sul ventre, dove un rivolo di sangue stava iniziando a sporcargli la già sudicia camicia. Gli altri a stento repressero un gemito soffocato per lo stupore e il terrore della rabbia del loro capo, ma nessuno osò fiatare. Quando Lucas arrivava a tanto era proprio fuori di sé. Ed era pericoloso, tremendamente pericoloso contraddirlo in qualsiasi modo.

Col respiro affannato per l'impeto del gesto e per la rabbia, Lucas lasciò cadere l'uomo per terra, ancora vivo ma spaventatissimo e dolorante. Victor e Nicolas erano morti... Perché? Li aveva incaricati di sorvegliare la ragazza e di spaventarla un po', non era niente di così pericoloso! Che accidenti era successo?

«Bene, miei cari amici.», esordì, camminando lentamente per tutta la lunghezza della stanza, uno dei tanti buchi ricavati sotto terra da un vecchio passaggio delle fogne. Il loro regno indiscusso. «Abbiamo un problema. I miei poveri cugini sono stati uccisi e Phénix è scomparsa, magari con l'uomo misterioso avvolto di nero.» Tutti lo seguivano silenziosamente, mentre parlava a voce alta e con tono autoritario, quasi dimentico dello scatto d'ira di poco prima. Era questo l’aspetto che maggiormente spaventava chiunque avesse a che fare con lui: era pazzo, letteralmente. «E sono quasi sicuro che non sia stata lei ad ucciderli. Non ne ha le forze. Quindi, deduco che l'assassino sia qualcun altro.» Guardò uno ad uno tutti i presenti, serio come non mai. «Esigo che troviate questo pezzente e me lo portiate vivo. Gli farò vedere cosa significa mettersi contro di me. E voglio che ritroviate Phénix. Non fatele del male, al massimo spaventatela un po'. Saprò io come gestirla ed ammaestrarla. Non mi scapperà più, non questa volta.»

Il ghignò sinistro che gli increspò le labbra bastò a far capire che faceva sul serio e che non ci sarebbe andato leggero, non quella volta.

 

Erano passati tre giorni dal giorno in cui aveva lasciato la sua “casa” per prendere la via dell'ignoto, guidata dall'uomo più temuto e più ricercato di tutta Parigi. Eppure, nonostante la rocambolesca fuga, Phénix era felice di quella scelta. Casa Giry era veramente accogliente e si sentiva giorno dopo giorno una di famiglia. Vedeva poco Madame Giry e Meg, sempre fuori con il corpo di ballo, ma la compagnia di Rosalinda, o Rosette, come aveva iniziato a chiamarla, era quella che più la divertiva e la rendeva allegra: quella donna, per quanto burbera fosse e non facesse troppi giri di parole per dirle le cose, era comicissima con i suoi modi di fare spesso impacciati, ma di chi si ostinava a fare le cose per bene; e adorava sentirle raccontare della Spagna e della vita che faceva lì. Le raccontò che era stata sposata, ma che la suocera, odiandola dal profondo del cuore, aveva fatto di tutto pur di farla allontanare; Phénix per poco rischiò di rimanerci secca dalle risate quando le raccontò di tutte le piccole vendette personali contro quella donna racchia e maledetta, come continuava a chiamarla lei.

In quei tre giorni, però, non aveva ricevuto nessuna notizia da Erik. Era sicura che stesse bene e che probabilmente stesse architettando qualcosa, ma l'idea che non si fosse ancora fatto sentire la preoccupava un poco. Non immaginava dove avrebbe potuto trovare rifugio, se non nella sua vecchia casa sotto l'Opéra; ma anche quella possibilità era totalmente da scartare, dato che sicuramente quei sotterranei erano perennemente sotto controllo dalla milizia e non credeva, dopo il racconto di Meg, che volesse tornarvi, con tutti i ricordi che quel posto aveva.

Chissà quanto doveva aver sofferto, per aver lasciato andare la donna amata tra le braccia di un altro... Non sapeva se lei, al posto suo, sarebbe riuscita a fare lo stesso. O forse ragionava così perché non aveva mai provato cosa volesse dire amare con tutta stessa qualcuno, a tal punto di sacrificarsi per il suo bene. L'unica relazione che ebbe, e che non la vedeva per niente consenziente, era con l'uomo più potente del gruppo di zingari dove era nata e cresciuta, Lucas. Odiava il suo ghigno, odiava i suoi occhi avidi su di lei, odiava il fatto che volesse programmarle la vita a suo modo e piacimento, neanche fosse la sua bambolina di pezza. Oh, se l'era presa parecchio quando gli aveva comunicato la sua volontà di lasciare il gruppo, e anche quella di lasciare lui. Non l'aveva mai visto così arrabbiato e frustrato come un cane bastonato. Sapeva che così facendo si stava creando un nemico, e anche pericoloso, ma la sua libertà valeva molto di più per farsi intimorire da qualche minaccia. All'inizio non le aveva lasciato neanche il tempo per respirare, tanto le teneva il fiato sul collo. Poi, vedendo che lei non accennava a voler tornare indietro, aveva iniziato a far cadere la cosa. Peccato che Phénix si era accorta che spesso e volentieri c'erano i suoi scagnozzi nei paraggi, che la tenevano sempre e costantemente sotto controllo. Era più che sicura che Lucas stesse temporeggiando per riprendersela una volta per tutte.

Ma ora, con la sola compagnia del piccolo Dante, nella sua stanza, Phénix non volle pensare a cosa avrebbe fatto o non fatto Lucas, se l’avesse dimenticata oppure no. Guardò ammirata l'imponente sagoma del teatro, mentre questo assumeva svariati colori rossastri per via del tramonto. Da quando non doveva più pensare a guadagnarsi il pane per le strade di Parigi, riusciva anche a gustarsi le più piccole cose che la vita le offriva: non si era mai resa conto di quanto bello fosse guardare le stelle, senza pensieri di sorta; oppure di quanto bello fosse aiutare Rosalinda a preparare il pranzo e la cena, per quanto avesse ancora molto da imparare…

«Oh madre de Dios! Te avevo detto di pulire solo tre manciate de noci! Quelle saranno almeno el doppio!»

Phénix le aveva sorriso innocentemente, mettendosi in bocca un paio di nocciole. «Ma così il dolce esce più buono…»

La donnona, allora, l'aveva guardata bonaria e si era arresa, sbuffando. «Sei peggio de un coccio. E non guardarme con quegli occhi, che va a finire che me siento anche in colpa!»

Phénix si mise a ridacchiare da sola a quel pensiero. Quante gliene stava facendo passare a quella povera donna! Per non parlare dei trucchi di magia che aveva imparato da quando era ancora una bambina e le faceva sparire da sotto il naso le sue cose per fargliele riapparire nei posti più improbabili... Pensandoci bene a volte si comportava veramente da streghetta.

Intenta a godersi il paesaggio esterno, fu solo un movimento nella strada sotto di lei che la distolse dai suoi pensieri, facendole abbassare lo sguardo. Assottigliò gli occhi verdi per cercare di capire meglio chi o cosa fosse quell'ombra nera che ora si muoveva furtiva e veloce, strisciando contro le pareti dell'edificio frontale, ora si fermava, nascosta, per evitare di essere notata. Non ne era sicura, ma quello che vide fluttuare sinuoso nell'aria le sembrò un mantello.

La sua curiosità aumentò quando vide la stessa ombra attraversare velocemente il vicolo, per sparire subito dopo da qualche parte nello stesso palazzo della famiglia Giry.

Phénix rimase per un attimo interdetta, non ricordandosi di altre entrate all'abitazione al di fuori del portone principale. Rimase in silenzio, in attesa ed in ascolto, ma lì, al quarto piano in un sottotetto, non poteva certo sperare di sentire qualcosa.

Si tolse le scarpe, silenziosamente, e, scalza, scese lentamente i gradini delle scale, cercando di non far cigolare le assi di legno. Non era mai stato un problema per lei origliare senza essere notata: quante volte l'aveva fatto per ascoltare i discorsi di Lucas e dei suoi uomini!

Arrivò al piano terra senza incontrare anima viva; neanche in cucina c'era l'ombra di Rosalinda, neanche una luce accesa. Probabilmente da un momento all'altro sarebbe tornata dalle ultime spese prima dell'imbrunire.

Rimase immobile in mezzo al salotto, cercando nel buio un qualche punto in cui poteva esserci una porta per uno scantinato, o qualche camera non troppo in vista che le era sfuggita. Mise le mani in avanti, per evitare di urtare mobili o altri oggetti in una casa che ancora non conosceva così bene, per camminarci al buio senza fare danni, e avanzò qualche passo. Fu solo quando sentì delle voci lontane all'altezza del sottoscala, che capì che la  porta nascosta doveva essere proprio lì. Si avvicinò con cautela, tastando la superficie liscia della tappezzeria della parete per trovare qualche discrepanza nel muro; chiuse anche gli occhi, per sentire meglio ogni possibile differenza, finché non la trovò. Sorrise vittoriosa e riuscì ad aprirla leggermente con una leggera spinta verso l'interno; rimase in ascolto, non volendo avanzare oltre per paura di essere scoperta. Non sarebbe stato certo molto carino da parte sua essere trovata mentre origliava fatti che evidentemente non le interessavano.

«Sei sicuro che non ti abbia visto nessuno?», sentì la voce di Madame Giry, preoccupata e anche indispettita. «Non dovresti andartene in giro quando il sole è ancora in cielo.»

La risata sarcastica di un uomo le solleticò le orecchie, e capì subito di chi si trattasse. «Non sono così sprovveduto, Claire. Credi che trascorrere tutta una vita nelle ombre non ti faccia diventare come loro? E poi, sono o non sono un Fantasma?»

Phénix avrebbe giurato che la donna, in quel momento, stesse roteando gli occhi al cielo, esasperata, e si lasciò sfuggire un sorrisino divertito.

«Non saresti dovuto venire, Erik. E' pericoloso. Ho incontrato dei soldati oggi che…»

«La ragazza come sta? Si trova bene?»

«Erik, non cambiare argomento, detesto quando fai così!»

«Tu ora rispondimi, poi parleremo d'altro.»

La donna sospirò pesantemente. «Sì, sta bene, anche se ogni tanto mi capita di vederla strana. Forse perché non è abituata a vivere circondata da quattro mura sicure e non si trova a suo agio.»

«Imparerà. Non rimarrà ancora per molto qui. Presto verranno a scoprire che ospiti una zingara, probabilmente accusata di duplice omicidio... Devo trovarle una sistemazione più sicura.»

«Hai già un'idea?»

Phénix non sentì risposta: probabilmente Erik aveva risposto con un cenno del capo o con uno dei suoi sorrisini eloquenti. Purtroppo per lei, però, non riuscì a sentire il continuo del discorso, dato che il rumore della porta d'ingresso che si apriva lentamente la fece sobbalzare di colpo, facendole sbattere la porticina dal quale stava origliando la discussione. Imprecando a denti stretti, risalì le scale velocemente in punta di piedi, sperando di non essere vista né sentita. Ma era più che sicura che i due, là sotto, l'avessero scoperta alla grande.

«Señora Giry! Soy tornata! Ho trovato delle arance fresche y buenas!»

Phénix si chiuse in camera proprio quando Rosalinda stava dando il bando dei suoi acquisti, e si poggiò alla porta con una mano sul cuore. Accidenti, se l'era vista brutta!

Come se non bastasse, per tutta la durata della cena sentì lo sguardo pungente di Madame Giry addosso che, era evidente, aveva capito tutto al volo. Fortuna sua che riusciva bene o male a nascondere quello che le passava per la mente e si comportò molto spontaneamente con tutti, come se niente fosse successo. Era una ragazza maledettamente curiosa e sapeva benissimo che questa sua caratteristica prima o poi le avrebbe portato solo guai.

Quella notte si ritirò in camera molto presto, decisa a non dover restare nella stessa stanza con la donna per non dover rischiare di fare altre figuracce.

“Guardiamo il lato positivo della cosa.”, si disse, mentre indossava la veste da camera. “Erik è ancora vivo e sembra in forze. E vuole ancora aiutarmi, anche se il tono che ha usato sul mio futuro non mi è piaciuto tanto…

Guardò al piccolo Dante che le sbadigliò assonnato, avvicinandosi alle sue gambe. «Tu pensi che sia una buona idea essere in mano sua?», gli chiese, non aspettandosi certo una risposta da un gatto.

«Se lo ritieni giusto o meno fammi sapere.»

Phénix riuscì a non lanciare un urlo di spavento e di stupore grazie al solo fatto che in quegli anni aveva imparato a nascondere bene le sue emozioni, altrimenti avrebbe fatto un gran macello. Si voltò e vide la sagoma scura di un uomo, nascosto contro la parete in ombra della stanza.

«Erik…», soffiò, mettendosi una mano sul cuore per cercare di placarlo.

«Ti ho spaventata?», le domandò, muovendo qualche passo e mostrandosi alla tenue luce dell'unica candela presente. Per quanto l'illuminazione fosse scarsa, la giovane riuscì comunque a notare un certo cambiamento nell'aspetto di Erik: i capelli erano ora lucenti e tirati ordinatamente indietro, niente a che vedere con quelli arruffati e sporchi di qualche giorni prima; ugualmente il mantello nero che gli avvolgeva le spalle era pulito e profumato, così come gli abiti eleganti che s'intravvedevano e il foulard che gli copriva il collo. Sembrava un signorone dell'alta aristocrazia parigina.

Phénix sospirò, leggermente infastidita dall'improvvisa comparsa. «Cosa te lo fa pensare?» Guardò l'uomo sorridere lievemente compiaciuto e si ritrovò a sospirare quando lui schioccò la lingua, mentre la osservava curioso.

«Era interessante la discussione, vero

Phénix abbassò lo sguardo, colpita ed affondata. «Che intenzioni hai con me? Non sono disposta a fare tutto quello che vuoi, sia chiaro.»

«Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda, Mademoiselle. Non è educato.», le disse canzonatorio, avvicinandosi ancora un poco. «Comunque se vuoi buttarti tra le braccia dei soldati o dei tuoi amici fai pure; però fammelo sapere prima, non ho tempo da perdere.»

«Se aiutarmi lo consideri una perdita di tempo allora vai pure e lasciami in pace. Nessuno ti ha chiesto niente.» La giovane si pentì subito del tono stizzito che aveva usato non appena lo vide stringere la mascella e i pugni, in un moto di stizza: non voleva essere né troppo dura né poco riconoscente, ma non voleva nemmeno che le programmasse il futuro a suo piacimento, senza che lei potesse opporsi.

«Nessuno ti ha insegnato che dovresti mostrare almeno un poco di riconoscimento verso chi ti dà aiuto?», le chiese arrabbiato, riuscendo a stento a trattenersi dal stringerle il collo tra una mano per l'offesa.

«Chi avrebbe dovuto insegnarmelo è morto prima che potesse farlo.»

Erik si morse il labbro, mentre tutta la rabbia sfumava via come in un soffio.

«Non fraintendermi, apprezzo molto quello che stai facendo per me, Erik. Ma io voglio essere libera, libera da vincoli, libera dalle pianificazioni altrui. Secondo te perché ho lasciato la mia comunità? Perché volevo essere libera. E l'idea di aver trovato un altro uomo che vuole decidere per me non mi piace.» L'espressione di Phénix si addolcì un po', distendendosi in un sorriso. «Perché non mi dici che cosa stavi pensando? La prenderei diversamente.»

Erik sospirò pesantemente, incrociando le braccia. «Sei una persona dannatamente difficile da domare anche per me, lo sai?»

«Infatti nessuno mi ha mai domata.»

Per un attimo lo sguardo di malizia e furbizia che vide in quegli occhi smeraldini e sottili lo lasciarono senza parole, e capì perfettamente cosa volesse dire con quelle parole. Era orgogliosa e tenace, proprio come lui. «Strega…», sussurrò, piegando il labbro in un sorriso.

«Sì, me lo dicono in molti.» Phénix gli agitò le mani sotto il naso, sorridendo birichina. «Attento a non provocare la mia ira o posso farti qualche sortilegio!»

Le mani guantate di lui le bloccarono i polsi con gentilezza, ma decise nel contempo. «E tu attenta a non provocare me... So essere letale anche io.» Le fece abbassare le braccia lungo i fianchi e indugiò un poco sulle piccole mani della ragazza, che poteva sentire ben poco sotto la pelle dei guanti.

Sono calde, vero?

Gliele lasciò subito dopo, come scottato. Perché ora gli erano venute in mente quelle di Christine, gelide e tremanti quella fatidica notte dell'incidente?

«Erik?», lo richiamò la giovane zingara, mentre lui si voltava infastidito.

«Voglio farti lavorare nel mio nuovo teatro. E' questo che voglio.»

Le parole di Erik le rimbombarono in testa per qualche secondo di troppo. «Il tuo nuovo cosa?!»

«Curioso: è la stessa reazione che ha avuto anche Claire.», le confessò in un sorriso che aveva un qualcosa di divertito. «Ho intenzione di riaprire il mio nuovo teatro. Mi ci vorrà tempo e denaro, ma fortunatamente ho entrambi, quindi non sarà un problema.»

«E come pensi di fare?», gli chiese, rendendosi conto di quello che le stava dicendo. Lui era un ricercato, come poteva solo pensare di aprirsi un teatro in piena libertà, pur avendone il potere monetario?

«Mi aiuterà Claire... e tu. Del resto ti eri già offerta per darmi aiuto, ricordi?», la osservò un poco, per guardare le sue reazioni, poi continuò. «Ho intenzione di finanziare i lavori di ristrutturazione dell'Opéra. Per quanto conservi brutti ricordi in quel posto, non posso fare a meno di starvi lontano... Firmin e André saranno ben felici che qualcuno li solleverà dalla bancarotta. E vista la situazione non credo faranno troppe domande.»

«Anche se avevo detto il contrario, pensandoci bene non penso che sia una buona idea. Credi che a nessuno verrà da chiedersi chi sia questo buon uomo che spende il suo patrimonio all'Opéra senza neanche farsi vedere? Perché così dovrai fare, se non vuoi essere arrestato.»

«Erik Duval è un compositore ed un uomo molto impegnato. Viaggia molto, ama la solitudine…» Il Fantasma le sorrise, calmo. «Tranquilla, Phénix, apprezzo la tua apprensione, ma non farei nulla che mi metterebbe in pericolo. Non ora che ho trovato una ragione per andare avanti.»

«Che sarebbe?» Phénix si sentì avvampare quando capì l'occhiata eloquente che le riservò. «Perché tutto questo?», gli chiese con un filo di voce. «Non bastava che mi lasciassi un po' dei tuoi soldi?»

«No.», le rispose semplicemente lui. «Un giorno capirai, ma non sarà oggi.» L'uomo si avvicinò alla finestra della camera, spostando leggermente la tendina e guardando la strada deserta. Ora sapeva cosa fare, lo aveva chiaro e limpido in mente. Proprio come gli aveva letto nel pensiero lei, qualche giorno prima, avrebbe riportato ai vecchi splendori il Teatro dell'Opera di Parigi, avrebbe rimediato al disastro che lui stesso aveva combinato e avrebbe riversato nuovamente il suo genio nella musica e in tutte le sue forme. E per fare questo aveva bisogno di lei, la sua nuova musa. Quella ragazza, inconsapevolmente, gli aveva dato una nuova spinta, l'ultima che avrebbe avuto dalla vita. Non sapeva se così facendo l'avrebbe mai perdonato, ma voleva tentare: avrebbe scritto una nuova opera e lei vi avrebbe ballato. L'avrebbe impregnata di dolore, di stanchezza, di pietà, così tanta da far piangere i suoi spettatori dall'inizio alla fine dello spettacolo. Avrebbe fatto capire a tutti cosa significhi vivere da emarginato, vivere passivamente guardando il mondo in un angolino, senza nessuno al proprio fianco se non la musica, unica compagna di vita.

E avrebbe fatto capire anche a Phénix che quello che aveva fatto era stato dettato solo ed unicamente dalla disperazione. Forse avrebbe capito, forse l'avrebbe perdonato.

Sì, avrebbe scritto l'opera della sua vita. E non sarebbe stato un fittizio trionfo prima ed un disastro dopo, come il Don Juan Triumphant, no.

Sarebbe stato unicamente un trionfo. Il suo trionfo, prima della fine di tutto.

Ne era sicuro.

 

 

 

Continua...

 

Tornata dal mio splendido soggiorno a Parigi! *.* Voglio tornarci! ;__;

Prima di lasciarvi vorrei ringraziare le poche anime pie che hanno aggiunto La Vita Nova tra preferiti e seguite, grazie mille! Alla settimana prossima! ;)

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Capitolo 7
*** 06. Capitolo V ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo V

 

Madame Giry lo sa?

Certo, è stata la prima a venire a conoscenza delle mie intenzioni.

E?

E come sempre non si è sbilanciata più di tanto. Sa bene che il suo parere per me è molto importante, ma sa anche che se decido una cosa così deve essere, e neanche lei può farmi cambiare idea.

Poi sarei io quella difficile da domare...

 

Phénix, rannicchiata su uno dei divani davanti al caminetto acceso, stava ripensando alla discussione della notte prima, perplessa ed incuriosita. Ancora non era riuscita a capire cosa stesse passando nella mente contorta di quell'uomo così misterioso che l'aveva praticamente tolta dalla strada senza che lei gli avesse chiesto niente. Le stava nascondendo qualcosa, era palese. E Madame Giry molto probabilmente sapeva molto su di lui che a lei invece non era dato conoscere; altrimenti non si sarebbe spiegata la sua reazione nel bloccare tanto repentinamente il racconto di Meg sul fantomatico Fantasma dell'Opera. Ma cosa le stavano nascondendo? Odiava dover essere messa all'oscuro di ciò che la circondava. Lei aveva riposto la fiducia in loro, perché non potevano ricambiarla con la stessa moneta?

Gonfiò le guance indispettita, completamente dimentica di Rosalinda che le stava parlando.

«Me stai sentiendo o sto hablando da sola come siempre

Phénix abbassò lo sguardo, stringendosi nelle spalle, colta in fallo. «Scusami Rosette, è che ho tanti pensieri per la testa…»

«Beh, chica, almeno abbi el buon senso de dirme: “Stai zitta!” se non vuoi darme ascolto.», sbottò la donna, incrociando le braccia al petto come una bimba indispettita.

Sconsolata per la brutta figura, anche se Rosette come sempre la ingigantiva più del dovuto, Phénix si alzò dal suo divano e si sedette accanto alla domestica imbronciata, che stava facendo di tutto pur di non prestarle attenzione. «Sei offesa?»

«Ah! Non credere de essere così importante da offenderme se non me ascolti, ragazzina.», borbottò l'altra, un po' rossa in viso. Era fin troppo evidente che la burbera Rosette avesse trovato in lei una buona confidente, con cui poteva parlare apertamente e sfogarsi su qualunque cosa. Ed era altrettanto evidente, per quanto lei provasse a nasconderlo, che si preoccupasse per la giovane, ed il fatto che questa fosse persa nei suoi pensieri senza spiegarle il motivo di tanta apprensione un po' la infastidiva un po' la rendeva triste.

«Oh, ho capito che cosa hai, Rosette!», esclamò Phénix, dopo un'attenta occhiata di studio. «Sei gelosa dei miei pensieri!»

Per poco la donna non si strozzò con la sua stessa saliva e divenne più rossa delle fiamme che danzavano nel caminetto acceso. «Ma... Siéntela! Quando mai soy gelosa dei tuoi pensieri, pazza!» La ragazza le lanciò un'occhiata eloquente e Rosette maledì quegli occhi verdi che sembravano volerle leggerle l'animo. «Sei proprio una strega, tu.»

Phénix si mise a ridere divertita, nonostante quell'appellativo solitamente usato in modo dispregiativo.

«E allora, se può sapere che tieni da essere così?»

«Niente di così importante... Sto solo pensando a cosa ne sarà di me tra qualche anno.» Anche se non erano quelli i pensieri che più l'affliggevano, la sua non era propriamente una bugia. Aveva sempre vissuto alla giornata, vedendo il futuro come qualcosa di nebbioso, che solo sua nonna era in grado di decifrare, bene o male. Ma in quei giorni non poteva far altro se non riflettere su cosa sarebbe successo. Avrebbe seguito i consigli di Erik? Avrebbe lavorato per lui in un teatro? Non sarebbe più stata una zingara che chiedeva l'elemosina per qualche misero spettacolo di strada? E Lucas e gli altri? Come sarebbero stati i loro rapporti?

«Pensare al futuro è la cosa più inutile y stancante. Credime, non farte problemi de alcun tipo, o ne arriveranno altri.»

Phénix sorrise alla donna e le si accoccolò su una spalla, facendola sussultare impacciata. «Sai, Rosette, sei una brava persona, anche se fai di tutto pur di non mostrarlo. Grazie.»

La domestica sospirò profondamente, conscia che non sarebbe mai riuscita a nascondere niente delle sue emozioni a quella stramba ragazzina. «Y tu sei troppo sveglia per i miei gusti, chica

Dante, che stava allegramente giocando con i fili del tappeto, miagolò affamato, catturando la loro attenzione. Subito Phénix lo prese tra le braccia, accarezzandogli la testolina pelosa.

«Quel gatto non me piace.»

«Perché?»

«Es negro!»

Phénix scoppiò a ridere per quelle stupide credenze sulla sfortuna che avrebbero dovuto portare i gatti neri, continuando ad accarezzare il suo gatto. «Mia cara Rosette, se fossero i gatti a scegliere o meno la nostra fortuna sarebbe tutto diverso.»

In quel momento giunse Meg dal piano superiore, affaticata per la fretta nello scendere velocemente le scale, in cui aveva anche rischiato di rompersi l'osso del collo se fosse caduta. «Sophie, corri, siamo in ritardo! Tremendo ritardo!», esclamò, prendendola per un polso e trascinandola via. «Scusateci, Rosalinda, ma se non arriviamo in orario Maman si arrabbierà!»

Phénix non fece in tempo neanche a vedere una mano della donna che si muoveva noncurante, che era già nella stanza della ballerina, con quest'ultima che stava mandando all'aria mezzo armadio per cercarle un abito da farle indossare.

«Scusa, Meg, ma... In ritardo per cosa?»

«Per le prove, no?», rispose la biondina, con un'espressione di meravigliata ovvietà. «Maman mi ha raccomandato di portarti con me, questo pomeriggio. E detesta i ritardi. Su, tieni questo!»

La zingara si vide davanti un abito in lana sul verde, proprio come il colore dei suoi occhi, a maniche lunghe ma sboccate con pizzi finemente lavorati, la gonna lunga fino ai piedi e molto leggera, nonostante la pesantezza del tessuto, e un decolté che rimaneva scoperto il tanto giusto per far lavorare l'immaginazione. Si vestì velocemente, dato che l'agitazione di Meg le fece temere questa fantomatica ira di Madame Giry per i ritardi, e docilmente si fece guidare al palazzo dove il corpo di ballo continuava le sue lezioni dopo l'incendio.

Questo non era molto lontano dall'Opera ed era un delizioso edificio abbastanza recente, all'angolo di un incrocio, e si sviluppava per cinque piani che, come da norma in quegli anni, tendevano a diminuire di altezza man mano che si saliva. Quello che interessava loro si trovava al secondo ed era formato sostanzialmente da un unico salone rivestito di un pregiatissimo parquet, tirato a lucido, delle volte alte e finemente dipinte, grandi finestre che illuminavano perfettamente l'ambiente, rischiarato ancor di più da pareti chiare. Inoltre c'era un grande specchio che ricopriva un intero lato della stanza e permetteva alle ballerine di guardarsi all'opera mentre danzavano.

Madame Giry, intenta a dare le prime direttive di quella lezione, si accorse subito delle due nuove arrivate e le guardò severamente. «Siete in ritardo.»

Meg si tolse velocemente il soprabito, esortando anche Phénix a fare lo stesso, e lo posò su una poltrona libera. «Scusa, Maman.»

Claire Louise guardò prima la figlia, poi Phénix, troppo intenta ad osservare incuriosita tutte le ballerine che provavano il loro pezzo per accorgersi di lei. «Meg, unisciti alle altre, su.»

Phénix si strinse nelle spalle, tremendamente a disagio. Non le erano sfuggiti certi sguardi incuriositi e perplessi che molte di quelle ragazzine le avevano lanciato appena aveva messo piede in quella sala. E lei odiava essere al centro delle discussioni e dei pensieri degli altri, soprattutto se sapeva che l'argomento principale era sempre lo stesso.

«Phénix, va tutto bene?», le domandò premurosa Madame Giry, facendola risvegliare da quel momento di trance.

«No, per niente.», sussurrò lei, guardando intensamente una ragazzina dai lucenti capelli neri ritirati in un chignon, che non aveva fatto altro se non fissarla con astio e mormorare qualche cosa alla sua vicina. Non la conosceva ma già non le stava simpatica. E lei aveva un sesto senso per quelle cose, non si sbagliava mai. Bastava una sola occhiata e capiva alla perfezione con che genere di persona avrebbe avuto a che fare. Sapeva già che quella ragazzina le avrebbe dato parecchie grane.

La donna si accorse subito che molte delle sue allieve erano più interessate alla zingarella che a quello che in realtà avrebbero dovuto fare, e non ci impiegò molto a dare una strigliata con i fiocchi a tutte. «Insomma, state danzando o siete venute qui per pettegolare?» E le ballerine, come da copione, tornarono ritte e composte a fare il loro lavoro, rosse per il rimprovero. «Scusale, una cosa che devi sapere di questo ambiente è che i pettegolezzi sono all'ordine del giorno. Quindi non impensierirti troppo su quello che possono dire.»

Phénix scosse la testa. «Non è di quello che possono dire che mi preoccupo. Non mi è mai importato il parere degli altri.»

Claire le sorrise per distendere un po' la situazione. «Per ora rimani a guardare come lavoriamo, poi vorrei vederti ballare.»

La giovane zingara si sedette in un angolo, incantata nonostante tutto dalla sintonia che quelle ragazze avevano nel muoversi, nel seguire il ritmo che Madame Giry impartiva loro o quello della musica che dolcemente fluiva da un pianoforte suonato con bravura da un vecchio ometto e un violino suonato da un ragazzo. Provò a cercare con lo sguardo una ragazza che somigliasse alla descrizione di Meg, la famosa Christine Daaé che aveva fatto innamorare Erik. Ce n'erano alcune con i capelli boccolosi e castani, molto graziose effettivamente, ma non seppe dire se tra loro ci fosse anche lei. Era proprio curiosa di conoscere questa giovane che gli aveva rapito il cuore da farlo diventare folle nelle sue azioni. Evidentemente l'amore era un sentimento così forte che poteva facilmente sfociare nella pazzia.

«No, no e no. Così non andiamo bene.», fece con un cipiglio Madame Giry, avvicinandosi ad una biondina riccioluta. «Questa schiena deve stare dritta, non curva. E tu, Julienne, prima del salto conta tre passi, quante volte dovrò dirtelo?»

La lezione proseguì così per ben due orette buone, tra rimproveri e musica vari, e Phénix si divertì parecchio nel vedere con quanta cura e grazia le ballerine fluttuassero sul parquet. Certo era che lei così non sarebbe mai riuscita a ballare! Troppi movimenti costretti, troppe regole da seguire... No, la musica e il ritmo dovevano entrare in sintonia con lei stessa, doveva lasciarsi abbandonare a loro, farli fluire con la naturalità di un ruscello sul pendio. Cos'erano tutti quei passi, quei movimenti che a volte le parevano così rigidi? Sembravano tante marionette!

«Sophie, mia cara.», esordì Claire, sorridendole gioviale, mentre tutte le ragazze si facevano da parte per lasciare la sala libera per lei. Era ovvio che nessuna si sarebbe persa la performance di quella strana giovane. «Ti va di mostrarci un po' cosa sai fare?»

La zingarella annuì e si alzò dal suo posto, togliendosi le scarpe per rimanere a piedi nudi e non rovinare il pavimento con i tacchi. Si avvicinò ai due musicisti presenti e gli mormorò qualcosa, incuriosendo un po' tutti. Che intenzioni aveva?

L'uomo anziano divenne paonazzo in un istante, mentre il giovane violinista si limitò a sorriderle divertito.

E fu solo lui ad iniziare a suonare una melodia sensuale e lenta come quella di un tango. Phénix non aveva cavaliere per ballarlo in coppia, ma non ci mise molto a trovarlo, quando uno dei giovani ballerini presenti, incantato dalle sue movenze, si fece avanti porgendole una mano per iniziare la danza. [immaginatevi una musica stile El tango de Roxanne, di Moulin Rouge. NdA]

I loro corpi si unirono in un passo, aderendo con sensualità. Una mano di lui teneva stretta quella di lei, mentre l'altra scivolava con lentezza lungo la curva sinuosa dei suoi fianchi, per poi fermarsi dietro la schiena. Mossero i primi passi all'unisono, seguendo il ritmo sensuale del violino come se entrambi fossero diventati un unico corpo, fino ad un lieve distacco per una giravolta, che si concluse con un abbraccio schiena contro petto. I loro visi erano distesi in un'espressione di pura estasi, finché non si ritrovarono nuovamente faccia a faccia. Phénix gli girò intorno, senza staccare lo sguardo verde da lui, muovendosi lenta e felina come un gatto. Poi arrivò nuovamente lui, che l'attirò a sé quasi con disperata violenza, sollevandole una gamba e accarezzandola languido. Le fece fare un leggero caschè, accompagnandola con un movimento lento e circolare, per riportarla in posizione eretta di fronte a lui. Ballarono nuovamente seguendo i passi base, ora lenti, ora veloci.

I presenti erano muti e strabiliati da quel ballo tanto sensuale quanto perfetto. Quei due sembravano nati per ballare insieme, con un'intesa da far invidia.

Tra giravolte, prese in aria e movimenti fluidi, la danza finì in un ultimo caschè, tra il silenzio generale. Solo Meg, entusiasta, osò battere le mani, seguita a ruota poi dalle altre ballerine, meno convinte perché gelose.

Il ballerino, che le si presentò come Étienne, le fece un galante baciamano, ringraziandola e complimentandosi con lei.

«Splendida, veramente splendida.», le disse Madame Giry, posandole una mano sulla spalla.

Phénix le sorrise, intimamente soddisfatta per la bella figura. Ma non le sfuggì qualche sussurro delle altre ballerine, che non stavano facendo altro che additarla e mormorare parole come “volgare”, “sembra proprio una strega”, “e quei capelli rossi... portano male!”. Lasciò perdere i pettegolezzi di quelle ragazzine e si unì alle sue due salvatrici, non dopo aver recuperato le scarpe.

Queste erano in compagnia di una giovane ragazza veramente graziosa, dai lunghi capelli castani e boccolosi, ritirati all'indietro per non ostacolarle la danza.

«Sophie, sei stata incantevole!», esclamò Meg, appendendosi al suo braccio e facendola sorridere compiaciuta. «Ti presento Christine, ti ho parlato di lei, ricordi? Christine, lei è Sophie Rembrant.»

Le due si salutarono con un sorriso, ma la cantante fu la prima ad abbassare lo sguardo, come in imbarazzo. Phénix non seppe spiegarsi se il suo fosse disagio per i colore vispo dei suoi capelli e dei suoi occhi o per il fatto che fosse rimasta imbarazzata da quello che aveva appena visto. In ogni caso, fu comunque contenta di fare la sua conoscenza. Aveva capito subito, solo guardandola in quegli occhi grandi ed innocenti, del perché Erik se ne fosse innamorato pazzamente: bella, semplice, umile ed educata. Quella che poteva considerarsi una vera brava ragazza.

«Meg mi ha detto che canti.», le disse, facendola sussultare. Era curiosa di vedere quale reazione avrebbe avuto al pensiero del suo Angelo della Musica.

«Sì ho... Ho cantato, ma non so se tornerò a farlo.», rispose timidamente l'altra.

«Perché no?»

Christine abbassò nuovamente lo sguardo. «Perché ho perduto il mio maestro.»

Phénix rimase in silenzio, osservandola bene. Sì, lei lo amava, lo vedeva benissimo. Ma purtroppo non nel modo in cui Erik aveva sperato. «Oh... Mi dispiace.»

Il viso della ballerina si distese forzatamente, stringendosi nelle spalle. «Evidentemente non era destino che io proseguissi con il canto.»

«Il destino non esiste. Ognuno è artefice della propria vita, nessun altro. Se vuoi continuare puoi sceglierlo solo tu.» Phénix le sorrise dolcemente, come una madre alla figlia. Le piaceva quella ragazza, anche se forse era un po' troppo acerba per l'età che aveva. Dopo quello che Meg le aveva raccontato su ciò che aveva passato, credeva che avrebbe trovato una persona molto più forte d'animo e matura. Doveva ancora crescere, era palese.

«Christine, tu e il Visconte rimarrete a cena da noi oggi?», le domandò Meg, intromettendosi un attimo nel discorso.

«Volentieri, ma Raoul ha già preso un impegno e mi ha chiesto di accompagnarlo.», disse la giovane, dispiaciuta.

Claire Louise Giry le accarezzò i capelli, con fare materno. «Oh, non preoccuparti, bambina mia. Sarà per la prossima volta.»

«E' stato un piacere conoscerti, Christine.», le disse Phénix, prendendole una mano ed osservandone il palmo con attenzione. «Hai una lunga vita davanti a te, non sprecarla.»

Christine arrossì lievemente sotto quello sguardo che sembrava leggerle anche i più reconditi angoli dell'animo. Era incredibile come quella ragazza, sebbene la conoscesse da pochi minuti, sembrava capirla alla perfezione. «Anche per me è stato un piacere, Sophie. Spero di rincontrarti.»

«Sicuramente.»

Madame Giry, seguita dalla figlia e dalla sua ospite, così, lasciarono la sala per rientrare alla loro dimora, senza accorgersi di un paio di occhi che avevano seguito l'intera lezione, nascosto dietro il grande specchio.

 

 

 

 

Continua...

 

Carissima Keyra, certo che era rivolto anche a te! (; Tranquilla se non hai recensito, l'importante per me è sapere che c'è qualche coraggiosa/o che prosegue nella lettura! :D Hai detto benissimo, le cose si complicheranno... non so se in maniera deliziosa, ma si complicheranno! XD Son felice che sia Phénix e Rosalinda ti piacciano, anzi: son felicissima! *-* Inserire nuovi personaggi comporta sempre un po' di timori, e sapere che siano coerenti e interessanti è sempre un piacere! Ne approfitto per farti e farvi sapere che non saranno le sole new entries... Comparirà anche qualcun altro (Etienne in questo capitolo ne è l'esempio), se poi serviranno a complicare ulteriormente le cose o a semplificarle... Questo non è dato saperlo. ù_ù XD

Per la domanda su Christine questo capitolo è stato un po' una risposta non voluta :'D Su chi canterà nella nuova opera di Erik... Lo scoprirai solo vivendo. (; Anche se l'idea di far tornare la Carlotta sarebbe divertente! XD Spero che l'esibizione della zingarella sia stata di tuo gradimento... Ho pensato che una donna come lei, che desta scandalo solo a guardarla, volesse mettere subito le cose in chiaro con quella musica e quella danza: lei non è e non sarà come le altre ballerine. :)

Concludo ringraziandoti per gli splendidi complimenti!

Al prossimo aggiornamento,

Marta. :)

 

 

 

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Capitolo 8
*** 07. Capitolo VI ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo VI

 

Caldo.

Tanto caldo.

Ecco cosa sentiva da quando aveva lasciato il palazzo, anche al solo pensiero di quella danza. Neanche durante il Don Juan Triumphant si era sentito così eccitato. E sì che quella canzone era erotismo allo stato puro e rappresentava esattamente quelli che erano i suoi sentimenti per l'amata Christine, ma guardare Phénix danzare con così tanta sensualità l'aveva semplicemente sconvolto.

Sì, sconvolto era la parola esatta.

Se non l'avesse conosciuta e non avesse saputo che quei due non si erano mai incontrati prima d'allora, avrebbe detto senza dubbi che erano amanti e che la loro passionalità e la loro complicità era trapelata in maniera fin troppo evidente durante quel tango. Il tempo sembrava essersi arrestato mentre tratteneva il fiato nel seguire i movimenti della giovane zingara, mentre si perdeva a guardare i suoi occhi smeraldini che fissavano con malizia e sensualità quelli del suo compagno, o i lineamenti dolci del suo corpo che pareva nato solo per quel ballo.

Era malefica proprio come una strega, sì. Altrimenti non si sarebbe spiegato del perché non fosse riuscito a toglierle gli occhi di dosso, nascosto dietro quello specchio, o del perché non riusciva a pensare ad altro se non immaginarsi al posto del ballerino.

Non era riuscito nemmeno a pensare alla sua Christine quando questa aveva scambiato due parole con la rossa. Così come non era riuscito a collegare il cervello alle orecchie per sentire cosa si stessero dicendo.

O stava ammattendo lui, il che era probabile, o quella zingarella gli aveva fatto un sortilegio, non c'era altra spiegazione.

Prese un respiro profondo, cercando di darsi una calmata, e portò tutta la sua attenzione – o presunta tale, dato lo stato d'animo che aveva – alla donna che aveva di fronte e che aveva perfettamente capito che in quel momento stava facendo di tutto fuorché ascoltarla.

«Erik, posso sapere che ti prende?», chiese esasperata Louise Giry, incrociando le braccia e lanciandogli un'occhiata affilata.

«Niente, non è niente.», borbottò lui, alzandosi dalla sedia su cui stava e iniziando a camminare avanti e indietro per tutta la lunghezza della cantina. Si passò stancamente una mano tra i capelli per riordinare le idee, poi puntò i suoi splendidi occhi acquamarina sulla direttrice del balletto. «Cosa stavamo dicendo?»

«I manager dell'Opéra.»

«Sì, sì, bene.» Sì schiarì la gola, portandosi un pugno davanti alle labbra per educazione. «Andrai da loro dopodomani e gli spiegherai un po' la situazione. Non penso che faranno storie, è quello che in realtà stanno aspettando da settimane.»

«Sei consapevole che quei due, quando verranno a conoscenza del fatto che sei ancora vivo, mi possono crollare per infarto davanti agli occhi?»

«A questo proposito gli porterai un anticipo sui tempi, così potranno ragionare a mente lucida. Sempre che ne abbiano mai avuta una.»

«Erik…», lo rimproverò bonariamente lei.

«Che c'è? Non posso manifestare la mia simpatia per quei due imbecilli?»

Louise sospirò, scuotendo mestamente la testa, mentre lui le si fermava a pochi passi di distanza. «E se dovessero rifiutare?»

«Accetteranno.»

«Non puoi esserne sicuro.»

«Invece lo sono.», sbottò irritato, assumendo quello sguardo tanto freddo quanto terribile. «Deve andare così.»

«Se Firmin e André non dovessero accettare…», proseguì imperterrita la donna, facendogli contrarre la mascella contrariato. «…Hai per caso pensato ad un piano per togliermi dai pasticci nel caso andassero a denunciarmi?»

«Non lo faranno.»

«Erik, per l'amor del cielo!», esclamò Claire, alzandosi con veemenza e fronteggiandolo. «È mai possibile che quello che dici e progetti non possa avere i suoi pro e i suoi contro? O ti sei dimenticato di come sia andata a finire l'ultima volta?» Si pentì immediatamente delle sue parole non appena vide lo sguardo dell'uomo diventare un mare in tempesta. «Perdonami, non volevo dirlo.»

«Ma l'hai detto, Claire Louise, l'hai detto!» Erik sbatté un pugno guantato di nero sulla parete di pietra della stanza, respirando velocemente per la rabbia. Quanto era dolorosa e crudele la verità…

«Quello che intendo dire è che devi pensare anche alla possibilità che non vada esattamente tutto secondo i tuoi piani. Ne hai avuto le prove, Erik, e per quanto questo possa essere doloroso dovresti imparare dai tuoi sbagli.» La donna gli si avvicinò senza paura, posandogli una mano sul braccio teso verso il muro. «Non pensare che ti dica certe cose per cattiveria. Lo sai bene che voglio il meglio per te e mi piangerebbe il cuore se ti trovassi nuovamente in quello stato pietoso.»

Erik chiuse gli occhi, cercando di pensare a tutto tranne che a quei giorni funesti dopo l'incendio. Mai aveva sofferto così tanto, mai aveva versato tutte quelle lacrime. E non era colpa né di Christine, né di quel damerino, né di nessun altro. Era solo ed esclusivamente colpa sua. Era stato lui l'artefice di tutto, lui l'aveva indotta ad una scelta più grande di lei, lui l'aveva fatta scappare. E tutto quello perché? Perché era fortemente convinto che tutto sarebbe andato alla perfezione, liscio come l'olio. Non aveva considerato un atto stupido come quello di Christine di togliergli la maschera davanti a tutti, né il fatto che Claire stessa avrebbe mostrato la via al Visconte per raggiungere la sua casa. E mai aveva lontanamente preso in considerazione una risposta negativa da parte della giovane cantante.

I risultati, alla fine, si erano visti perfettamente.

«Nel malaugurato caso dovessero rifiutarsi... Io sarò lì a fargli cambiare idea. E non voglio sentire discussioni.»

La donna sospirò indispettita, conscia che non sarebbe riuscita a farlo ragionare. Quando si metteva qualcosa in testa, quell'uomo era più duro di un diamante. «Solo una cosa, Erik. Stai attento.»

Lui ricambiò la sua preoccupazione con un solo sguardo serioso e fece per andarsene, avvicinandosi alla porticina di servizio che dava sul giardinetto retrostante, proprio sotto la cucina.

«Non vuoi parlarle?»

Erik fremette all'idea di trovarsi Phénix di fronte mentre era ancora pervaso da quello strano senso di calore in tutto il corpo. No, non avrebbe retto, ne era sicuro. Per quanto fosse un uomo dai sani principi era e restava pur sempre un uomo. «Verrò a parlarle quando avrò qualcosa da dirle, e non è oggi. Buona notte, Louise.»

«Buona notte, amico mio.»

 

Phénix sapeva che quella notte Erik era andato a trovare Madame Giry. L'aveva visto entrare furtivamente  dalla porta di servizio della cantina sul cortile, proprio lo stesso lato su cui si affacciava la finestra di camera sua. E così com'era arrivato, furtivo e nascosto come un'ombra, ugualmente se n'era andato.

Le dispiacque il fatto che non avesse voluto incontrarla; gli avrebbe voluto raccontare di quello che era successo quel pomeriggio, del ballerino gentile, delle occhiate sbieche che le altre ragazze le avevano lanciato, dei complimenti di Madame Giry, che non sembrava proprio una donna tanto disposta ad elargirne in grande quantità... E invece non si era fatto vedere. Magari aveva qualche affare da portare a compimento, ma provare a capirlo, delle volte, risultava difficile anche per lei.

Fu quando si accorse che in realtà non si era allontanato dal palazzo, immobile come una statua appeso a mezz'aria su una grata nel muro, mentre evidentemente aspettava il passaggio di qualcuno, che decise di seguirlo. Phénix scavalcò il suo gattino che dormiva placidamente accucciato in un cuscino, ed uscì dalla sua camera, scendendo i gradini a piedi scalzi per non fare rumore. Sperò vivamente di non incontrare nessuno durante la sua piccola scappatella. Si diresse verso la cucina, dove uscì sul retro del palazzo, e camminò verso il cancello che chiudeva il cortile interno dalla strada. Erik, nel frattempo, era già sparito.

Si guardò intorno nel tentativo di scorgerlo mentre sgusciava via, ma riuscì solo ad intravedere il suo mantello che spariva dietro un angolo, tra la foschia della notte. Sempre a piedi scalzi, per non far risuonare la suola sul ciottolato, prese a correre nella direzione in cui si era infilato. Non sapeva esattamente perché lo stesse facendo, né aveva pensato alle possibili conseguenze se lui o qualcun altro di sua conoscenza l'avessero scoperta. Continuò a seguirlo fino ad un vicolo stretto e buio, deserto, che puntava direttamente alla grande mole dell'Opéra. Peccato che non vide l'uomo da nessuna parte. Dov'era andato?

Quasi non riuscì a finire di formulare il pensiero che si ritrovò spalle al muro, con una grande mano che premeva violentemente contro la sua gola, nel chiaro intento di strozzarla o di spezzarle l'esile collo con un colpo secco.

Fortuna volle che Erik si accorse in tempo di chi avesse tra le mani, altrimenti non riusciva a pensare a cosa sarebbe potuto succedere. «Cosa stavi facendo?», scandì bene la domanda, mollando la presa dalla sua gola.

Phénix tossì un po' e cercò di riprendersi dallo spavento. «Facevo due passi, è vietato?»

«E guarda caso questi passi ti hanno portata a seguirmi.»

«Volevo scambiare due parole con te... È così grave?», sbuffò la zingara, facendogli letteralmente perdere un battito. Che si fosse accorta di lui quel pomeriggio?

«Cosa hai di così importante da dirmi?»

Phénix assottigliò gli occhi, avvicinandosi di un passo all'uomo che la sovrastava per altezza e robustezza. «Si può sapere che ti prende? Da quando sei diventato così freddo e antipatico? Ora non posso neanche avere la voglia di farmi due chiacchiere?»

Erik si sentì spogliato da quello sguardo offeso che pesava come un macigno sulla schiena. Non voleva essere sgarbato, ma l'idea che qualcuno, per di più una donna, avesse voglia di parlare con lui, lui!, lo metteva solo ed esclusivamente a disagio. Non era mai stato bravo a comportarsi normalmente con le altre persone, dato che gli unici rapporti normali, se così poteva definirli, che aveva avuto con il mondo erano quelli con Claire. E ora c'era quella ragazzina impertinente che lo stava mettendo in soggezione con una facilità disarmante. Quasi si vergognava di stesso per non riuscire a prendere in mano la situazione.

«Non credo di essere la persona più adatta con cui scambiare due parole.», borbottò, sviando lo sguardo verso la traversa illuminata che aveva appena lasciato.

«Ah no? Beh, scusami allora se ti consideravo un amico!»

Erik non ebbe il tempo di ragionare bene su quello che aveva appena sentito, perché nel giro di due secondi si ritrovò a sigillare la bocca della ragazza con una mano e a trascinarla velocemente contro una porta, appiattendosi contro di lei. «Zitta.», le sibilò in un orecchio, mentre i passi cadenzati di un gruppo di soldati diventavano sempre più udibili.

Phénix cercò di voltare il viso per guardare quel gruppo di uomini che proprio in quel momento stavano passando davanti al vicolo. Uno di loro stava proprio dicendo agli altri di aver sentito qualcosa provenire dalla loro direzione e che sarebbe andato a controllare. Non ci impiegò molto a togliere la mano di Erik dalle sue labbra, per lasciarle libere di cercare quelle dell'uomo che la stava stringendo per proteggere entrambi.

Erik credette di perdere i sensi quando sentì quella bocca infuocata premere contro la sua con una voluttà e una passione che mai avrebbe creduto potesse esistere. Incapace di muovere un solo muscolo, si lasciò baciare ed accarezzare come una bambola nelle mani di una bambina intraprendente. La stessa bambina che, contro le sue labbra, gli mormorò decisa di assecondarla. Fu così che le sue mani scivolarono ormai senza rendersene conto lungo i fianchi di lei, libere poi di salire e scendere sulla sua schiena, mentre si lasciava trasportare da un bacio che di casto aveva veramente poco. Sarà stato il ricordo di quel ballo, o semplicemente l'idea di avere una donna tra le braccia, ma si sentì sconvolgere da un desiderio così intenso quanto doloroso che mai aveva provato.

Phénix portò una mano sulla maschera di lui, per levarla via nel caso il soldato fosse passato avanti, e si staccò un attimo da quelle labbra carnose per riprendere fiato.

«Ehi, voi due! Non l'avete una casa?», esclamò il soldato, fermandosi a pochi metri da loro, dopo essersi accorto che si trattava solo di una coppia di amanti.

Erik nascose il volto nell'incavo del collo della zingara, e lei guardò l'altro con un'espressione maliziosa e birichina. «Ci piace l'avventura, monsieur.»

Il soldato scoppiò a ridere, scuotendo la testa e tornando indietro dai suoi colleghi. «Ah, sono solo due che amoreggiano!»

Phénix tirò un sospiro di sollievo quando il gruppo si allontanò definitivamente e si voltò a guardare Erik, ancora con la fronte poggiata sulla sua spalla. «Scusami, ma dovevamo passare inosservati.»

Gran bel modo di passare inosservati, pensò l'uomo, mentre prendeva un respiro profondo, alzando poi lo sguardo sulla giovane. «Certo... Hai... fatto bene.» Non gli sembrava tanto presa da quello che era appena successo, anzi. Del resto, aveva agito solo per proteggere entrambi. Per cosa, altrimenti? Era solo lui che non riusciva più a ragionare lucidamente e non poteva certo sperare di farlo, non se sentiva ancora sulle sue labbra il sapore di lei, non se non riusciva ad allontanarsi dal suo corpo, ancora incollato alla porta dietro la sua schiena.

«Va tutto bene?», gli chiese, piegando incuriosita il capo.

«Sì, sì.», fece lapidario lui, sviando lo sguardo per evitare che gli leggesse in faccia l'imbarazzo che stava provando. «Tornatene a casa, è pericoloso qui fuori.»

«Ma finché ci sarai tu con me sarò al sicuro.», ribatté la zingara. «E poi ti sei già dimenticato del fatto che avevo voglia di scambiare due chiacchiere?»

«Sei noiosa e petulante.» Si mise a camminare, senza guardarla. «Muoviti, non ti aspetto.»

Phénix sorrise sotto i baffi e allungò il passo per non perdere la sua guida. Non sapeva spiegarsi bene il motivo – o meglio, poteva solo immaginarlo – ma le sembrava che fosse diventato tutto d'un colpo un bambino dopo la marachella. Era a disagio, tremendamente a disagio: il fatto che guardasse ovunque tranne lei ne era la conferma. Forse quel bacio era tanto inaspettato quanto... nuovo? Stando al racconto di Meg, Erik aveva amato solo Christine e non le sembrava certo uno di quegli uomini che cercavano la compagnia di altre donne per consolarsi delle pene amorose. Probabilmente non aveva mai baciato una donna in vita sua che non fosse la sua musa, sempre che avesse mai baciato anche lei.

L'unica cosa che trovò problematico, e anche parecchio a dirla tutta, era il fatto che baciare quelle labbra le era piaciuto. Oh, se l'era piaciuto! Tremanti all'inizio, timide poi, e totalmente passionali alla fine. Poteva ancora sentirle fremere contro le sue, alla ricerca disperata di un loro contatto più intimo.

Entrambi completamente persi nei loro pensieri, arrivarono in silenzio all'Opéra, passando da Rue du Scribe. Erik, dopo essersi assicurato che non ci fossero occhi indiscreti a guardare, la prese per un polso e la trascinò verso una grata-finestra, che aprì con una chiave che teneva in tasca. Si ritrovarono, così, in una sorta di cappella votiva, un tempo illuminata dalle candele per la Madonna, ora totalmente al buio. Sempre tenendola per un polso, per paura che lo perdesse di vista in tutta quell'oscurità, la guidò per numerosi corridoi, alcuni in vista, altri totalmente nascosti, tanto che Phénix si chiese come facesse a muoversi così a suo agio al buio e a ricordarsi esattamente i punti in cui doveva armeggiare con qualche leva invisibile. La ammonì spesso di stare attenta a dove metteva i piedi, per evitare di cadere nelle numerose trappole seminate ovunque in quei sotterranei, e di mantenere sempre una mano sopra il livello degli occhi; e lei vide bene di appendersi al suo mantello per cercare di seguire una traiettoria quanto meno sicura. Non voleva certo sparire nel nulla in qualche botola!

Arrivarono finalmente in una zona più illuminata, grazie ad alcune sporadiche torce ancora accese, e proseguirono fino ad un “porticciolo”, dove c'era attraccata una gondola di piccole dimensioni, finemente intagliata nel legno e con i sedili riccamente coperti da cuscini bordeaux.

Phénix non poteva credere ai suoi occhi: non pensava certo che ci fosse un lago sotterraneo in quel posto.

«Sali.», fece Erik, porgendole una mano per aiutarla.

Phénix dovette mordersi la lingua per non sbottare contro i monosillabi che aveva preso l'abitudine di pronunciare. Non che fosse un uomo loquace, quello l'aveva capito da sola, ma non pensava certo che un semplice bacio potesse scioccarlo a tal punto da fargli perdere l'uso della parola.

Fu quando si perse a contemplare quel posto magico fatto di canali che si snodavano a perdita d'occhio, di archi e sculture scolpite nella roccia nuda, che non pensò ad altro. Erik remava lentamente, in piedi dietro di lei, e non poté fare a meno di frenare un sorriso, nonostante tutto. Era orgoglioso di quello che era riuscito a costruire e vedere lo stupore negli occhi della ragazza, soprattutto quando davanti a loro si aprì la vista della sua casa, poteva solo essere il culmine del suo compiacimento.

Phénix non aveva mai visto un posto simile. Se da piccola le avessero letto storie per bambini, avrebbe sicuramente detto che quello era un luogo proveniente direttamente dalle favole. Il lago terminava contro una lingua di terra ampia abbastanza da contenere tavoli, mobili, specchi coperti da drappi rossi e sedie; c'era una nicchia rialzata, poi, dove un organo tirato a lucido faceva bella mostra di sé, come se tutta quella grotta convergesse in lui come il nucleo principale. Ed era proprio così, dato che la musica era l'essenza che aveva fatto crescere quel genio che era Erik. Sulla destra, infine, dopo aver salito qualche gradino, si arrivava ad un'altra nicchia, che conteneva un bellissimo letto a forma di cigno, coperto da lenzuola di raso cremisi. Tutto l'ambiente pareva ancor più surreale dalla nebbiolina di vapore che saliva dall'acqua tiepida del lago e dalle decine e decine di candele che l'illuminavano tremolanti.

«Questo posto è... incredibile.», mormorò la ragazza, mentre Erik scendeva dalla barca e poggiava il lungo bastone contro una parete.

L'aiutò a raggiungerlo a riva, poi si allontanò verso una sedia, dove si tolse con grazia il mantello e lo piegò con cura quasi maniacale. Lanciò un'occhiata alla zingarella, completamente persa a guardarsi intorno per prestargli attenzione.

«Hai fatto tutto questo... da solo?»

«Sì. Questo posto, in origine faceva parte di un complesso di catacombe... Io gli ho solo dato una sistemata.»

«Solo? Erik, ti rendi conto che è splendido qui giù?», esclamò lei, curiosando ovunque. Spartiti, appunti, disegni... Poteva trovare di tutto tra quei tavoli disordinati, che raccontavano di una vita in piena attività, instancabile.

«Sì, soprattutto se passi i tuoi giorni in totale solitudine. Lo trovi ancora splendido?», replicò amaramente Erik, prendendo distrattamente uno spartito tra le mani.

Phénix lo guardò, ora completamente attenta. «Perché? Spiegami, perché hai vissuto la tua vita qui? Solo?»

La gola dell'uomo divenne secca di colpo, mentre si rendeva conto che doveva stare molto attento a quello che le avrebbe raccontato.

«È per via di quella maschera che indossi?», continuò imperterrita lei, inconsapevole di aver centrato la questione.

Erik riuscì a rimanere serio ed impassibile solo per il suo incredibile autocontrollo. «La maschera non c'entra.»

«E allora perché nascondi il tuo viso? Perché così risulti più spaventoso e temibile per rendere onore al soprannome che ti hanno dato? O per un gusto puramente estetico?»

L'uomo strinse i pugni in un moto di stizza. «Parli senza sapere.»

«E allora spiegami come stanno le cose!», esclamò, allargando le braccia esasperata. «Perché hai vissuto sempre qui? Volevi nasconderti da qualcosa? Da qualcuno? Spiegamelo!»

«Non sono fatti che ti riguardano.», sibilò, lanciandole un'occhiata che era tutto un programma. Non voleva sentire altro, nient'altro che avesse a che fare con lui. Ma forse ancora non aveva imparato che se c'era una cosa che Phénix sapeva fare bene era insistere, sempre e comunque, finché non otteneva ciò che cercava. Da quel punto di vista era maledettamente uguale a lui.

«Oh, bene, ora non mi riguarda la tua vita. Ti ho raccontato di me, del mio passato... Perché ora non posso conoscere quello dell'uomo che mi ha salvata

«Perché niente di quello che è stato il mio passato vale la pena di ricordare.», mormorò con un filo di voce. «A volte mi domando se non sia il caso di dimenticare anche il presente.»

Phénix si sentì stringere il cuore sentendo quelle parole pronunciate con così tanto dolore e vedendo quegli occhi acquamarina diventare lucidi per la commozione. «Non volevo riportarti alla mente brutti ricordi, Erik. Voglio solo farti capire che puoi sempre parlare con me. Pensavo ti avrebbe fatto bene sfogarti un po'.»

Senza quasi rendersene conto, Erik allungò una mano al viso di lei, per accarezzarla riconoscente. «Apprezzo molto quello che mi offri, Phénix. Ma il ricordo, per me, è un brutto male.»

La sua mano venne raggiunta da una della ragazza, che gliela strinse con forza. «Non voglio obbligarti a parlare, ma sappi che quando vuoi io sarò pronta ad ascoltarti. Voglio poter fare qualcosa per aiutarti, Erik. D'accordo?»

Lui annuì debolmente, il cuore che gli scoppiava immensamente di gioia per aver trovato una persona così pura e gentile con uno come lui. Si sentiva quasi un verme nel ripensare a quello che inconsapevolmente le aveva fatto. Chissà come avrebbe reagito se avesse scoperto chi fosse veramente? Avrebbe continuato ad essere così buona con lui, o l'avrebbe trattato alla stregua di un mostro, come il resto delle persone?

«Posso farti una domanda?», gli chiese, facendolo sospirare.

«Dipende dalla domanda.»

Phénix abbassò lo sguardo, osservandosi distrattamente le punte dei piedi. «Sai, non ne ho mai avuto la possibilità e mi piacerebbe... Ecco, mi piacerebbe essere come Meg, che sa così tante cose, che sa... Leggere, e scrivere. Tu potresti insegnarmi, vero Erik?»

Lui corrugò la fronte, perplesso per la richiesta. «Io?»

«Vedi altre persone qui?», esclamò lei, gonfiando le guance per l’imbarazzo.

Dopo averci pensato un po', la sua espressione divenne più rilassata, quasi divertita. «Bene, ma sappi che sono un insegnante molto intransigente. Iniziamo subito?»

Lei si lasciò andare ad un bel sorriso. «D'accordo, Maestro.»

 

 

 

Continua...

 

Come sempre ringrazio Francesca per il commento, gentilissima! *-* Ti spiego, ora, la "rigidezza"delle ballerine: è una descrizione dal punto di vista di Phénix, una zingara che non ha mai avuto la possibilità di vedere delle ballerine d'opera all'opera (scusa il gioco di parole xD), una donna che ha sempre creduto che dovesse essere la musica a dettare i movimenti, e non viceversa. Forse non l'ho spiegato bene, ma è il fatto che le ragazze mettessero avanti prima la tecnica e poca passione, secondo lei, a dettare questa "rigidezza e forzatura". Per  me le ballerine d'opera sono angeli, altro che forzate! :D Spero di essere stata chiara. :)

Ah! Son contenta ti stia drogando con quella canzone, è splendida! *o*

A presto! :)

 

Grazie mille anche a aliena, Keyra93 e leschatnoir per le seguite, e tra le preferite sempre Keyra93, masked_lady e sydney bristow. Grazie! <3

Al prossimo aggiornamento! ;)

 



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Capitolo 9
*** 08. Capitolo VII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo VII

 

Raoul de Chagny posò la tazza di caffè che stava sorseggiando, concentrandosi sul giornale che aveva in mano. La stampa, dal giorno in cui aveva messo in vendita l'Opéra, non aveva fatto altro che scrivere articoli ridicoli su possibili acquirenti e ipotesi su cosa fosse successo veramente quella notte infausta. Si stava sinceramente stancando di tutti quei pettegolezzi sulla sua vita e su quella della sua futura moglie, Christine, e per quanto il suo fosse un nome importante, non era bastato a far tacere tutte quelle chiacchiere.

“Il Visconte de Chagny avvistato con i due manager del Teatro dell'Opera Populaire, in compagnia della bella Christine Daaé. Sta nascendo un nuovo accordo?”

Sbuffò rassegnato, voltando pagina. Ora non poteva neanche avere un incontro di piacere con quelli che erano stati i direttori del suo teatro, inammissibile.

Fu il titolo che lesse poche pagine dopo ad incuriosirlo. “Trovati i cadaveri di due uomini ancora da identificare nelle campagne della periferia. Ignoto l'assassino.”

L'articolo, non troppo lungo, proseguiva così:

“Son stati trovati nascosti nella selva alle porte di Parigi. Uno presentava evidenti segni di strangolamento, l'altro una profonda ferita sulla testa, il cranio rotto. L'omicidio, avvenuto con probabilità pochi giorni fa, si è consumato in un vecchio mulino, date le tracce di sangue che vi son state ritrovate. L'ispettore a capo di questo caso, Monsieur Perret, presuppone che è molto probabile che in quel luogo abitasse qualcuno, uno zingaro forse, date le evidenti tracce di vita sparse ovunque.

Numerose domande sorgono spontanee, senza però una risposta: chi erano quei due uomini? Perché son stati uccisi e poi nascosti? Chi li ha uccisi? E chi viveva in quel mulino diroccato? Conosceva i due?

Le tracce che son state ritrovate nei dintorni raccontano di una colluttazione a poche decine di metri dal mulino; oltre le impronte dei due cadaveri, son state trovate anche quelle di una donna, dato la misura molto piccola della suola e la presenza di tacchi, e anche quelle molto più grandi di una quarta persona, un uomo probabilmente di grossa stazza. Forse sono dell'assassino? ...

«Avete letto anche voi?»

Raoul alzò gli occhi dal quotidiano, guardando l'uomo che era comparso in salotto. «Sì, ma come sempre la stampa non è soddisfatta se non ci scrive sopra un romanzo.»

L'uomo, di nome Jacques, sorrise. «Cugino, siete un po' troppo ossessionato dai giornalisti, mi pare di capire.»

«Se seguissero ogni vostra mossa nelle vane speranze di trovare una qualsiasi novità, come vi sentireste?», sbottò Raoul, irritato.

«Lusingato, direi.», fece Jacques Faucon, dopo una piccola pausa di riflessione. «Vorrebbe dire che sono una persona in vista.»

Raoul non fece niente per nascondere una smorfia di disappunto a quella dimostrazione palese di egocentrismo. Faucon era un suo lontano cugino, un medico che non vedeva da anni e che, a dirla tutta, avrebbe preferito continuare a non vedere. Ma era comparso nuovamente per questioni prettamente finanziarie (non sia mai che fosse passato per un saluto), e lui avrebbe dovuto sopportarlo per qualche settimana - o almeno, sperava si trattasse solo di poche settimane.

«In ogni caso, quel duplice omicidio è curioso, non trovate?», proseguì Faucon, sedendosi su una poltrona libera.

«Se ne sentono tutti i giorni di avvenimenti funesti come questi, soprattutto se si parla della periferia. Non vedo dove sia la novità.»

«Oh, beh, nelle campagne in cui abito io certe cose neanche si sentono.», disse l'altro, accavallando le gambe e passandosi distrattamente due dita sui baffi. «Certo, è poi ovvio che voi avete avuto a che fare più di me con gli assassini. Sarete così abituato, immagino, che la notizia non vi sconvolge.»

Raoul abbassò spazientito il giornale, sgualcendolo per la poca grazia che usò. «Gradirei che non si menzioni di quegli avvenimenti, cugino. E' acqua passata e non voglio più pensare a quell'uomo, se di uomo si possa parlare.» Si alzò innervosito, recuperando il suo cappello. «Con permesso, scendo in città.»

Lo abbandonò nel salotto a rigirarsi i baffi curati tra le dita, mentre lui si dirigeva a grandi passi alla carrozza che lo avrebbe portato dalla sua Christine. Accidenti a quel disgraziato, erano giorni che non pensava a quel mostro del Fantasma dell'Opera e a tutto quello che aveva fatto e stava per fare, e quell'arrogante gliel'aveva riportato alla mente come niente. Ogni volta, ogni maledettissima volta che il suo pensiero arrivava agli avvenimenti di qualche settimana prima, diventava un unico fascio di nervi, cosa alquanto strana data la sua indole pacifica e tranquilla. Per non parlare di quando notava lo sguardo perso di Christine, evidentemente ancora troppo scioccata da quello che le era successo per riprendersi ed andare avanti come se niente fosse accaduto.

Ma era tutto passato, finalmente. Ora potevano vivere una vita felice, insieme. Lei avrebbe potuto continuare a ballare e a cantare, proprio come aveva deciso, infischiandosene dell'opinione comune che disprezzava la loro unione. Non importava se lei non era socialmente alla sua “altezza”; amava Christine per farle del male, amava il suo sorriso, amava i suoi occhi grandi ed ingenui come quelli di una bambina, amava la sua voce... Forse l'unica cosa giusta e buona che il Fantasma aveva fatto in tutti quegli anni era stato insegnarle l'arte del canto. Senza la sua guida, in effetti, non sarebbe arrivata a quei livelli.

E forse non sarebbe successo niente di tutto questo...

La carrozza si fermò davanti all'ingresso di casa Giry, dove sapeva di poter trovare la sua fidanzata. Bussò due volte, aspettando che qualcuno aprisse la porta; ed infatti ecco la solita Rosalinda, più rossa del solito in viso per un'evidente corsa, che lo faceva accomodare in salotto.

«Le segnore sono in cucina, seguiteme, prego.»

Le trovò tutte sedute intorno al tavolo in legno con una tazza di qualche tisana profumata, calda e fumante, in mano. Non aveva mai sentito quell'odore, prima di allora.

«Buongiorno, signore.», fece gentile, togliendosi il cappello e sorridendo alle donne.

«Raoul!», lo salutò Christine, allungandogli una mano per farlo avvicinare.

«Salve, Monsieur. Come state?», chiese Madame Giry, inchinandosi leggermente in segno di saluto, cosa che fece anche la figlia.

«Direi bene, grazie mille. A parte un leggero mal di testa. Monsieur Faucon non è il massimo della compagnia, capitemi.», disse, facendo sorridere le presenti. Si accorse solo in un secondo momento della quarta presenza femminile, in quella stanza, solo quando alzò lo sguardo verso i fornelli.

Phénix si voltò in quel momento, con una padella di acqua bollente in mano e che mise velocemente sul tavolo, per non ustionarsi.

«Raoul, ti presento Sophie Rembrant, futura ballerina del nostro corpo di ballo, immagino.», fece gioiosa Christine, sorridendo alla ragazza.

Il Visconte rimase un po' sorpreso nel vedere occhi di quel colore così intenso e capelli rosso fuoco: sembrava finta, tanto era particolare. «Piacere di fare la vostra conoscenza, mademoiselle Rembrant.», le disse, chinandosi.

Goffamente, anche lei ricambiò il gesto, non ancora ben abituata a tutti quei convenevoli ridicoli, a suo parere. «Piacere mio, signore. Christine mi ha parlato molto di voi.»

«Spero ne abbia parlato bene, allora.», scherzò lui. «Anche lei di voi. Mi ha detto che siete un'ottima ballerina.» In effetti Christine gli aveva parlato di questa nuova ragazza spuntata dal nulla e che ora abitava in casa Giry. Ma non aveva ben capito da quale rapporto di parentela fosse legata con la donna. Sempre che ne avesse mai avuto uno, dato che non si somigliavano minimamente.

«Sì, ne stavamo proprio parlando ora.», disse Meg, entusiasta. «Dovreste vederla ballare, Monsieur!»

Phénix riuscì a non arrossire non senza qualche difficoltà, sviando la discussione con altro. «Gradite un po' di the al ginseng, signore?»

Raoul lanciò un'occhiata curiosa alla tazza della fidanzata. «Com'è?»

«Oh, è buono.», annuì lei, porgendoglielo per farglielo assaggiare.

«Il ginseng è un'erba che aiuta lo spirito ed il corpo a rinvigorirsi. E' un ottimo toccasana.», spiegò Phénix.

«Sì, un toccasana che me puzza la casa, chica!», sbraitò Rosalinda, dal salotto dove stava spolverando, e facendo ridere tutti.

«Accetterò di buon grado, grazie.», fece Raoul, prendendo posto accanto a Christine. «Allora, vi vedremo all'opera, un giorno?»

Phénix, dopo avergli versato il the, si poggiò al mobile della cucina, giocando distrattamente con la sua consueta treccia sfatta, e fece spallucce. «Non saprei, signore. Ho molte cose da imparare, ancora.»

«Non è questo il problema, mia cara.», si mise in mezzo Madame Giry, lanciandole un'occhiata. «Il talento lo hai, devi solo affinare la tecnica e sarai perfetta.»

«Qualche teatro, anche fuori Parigi, vi ha chiamate?», s'informò Raoul, dato che la compagnia ormai era ferma dal giorno dell'incidente.

«No, ancora niente.», fece Claire, in un sospiro.

«Non c'è stata neanche un'offerta per la ristrutturazione?»

Madame Giry sorseggiò un po' della sua tisana. «Per ora niente, no.»

«Immaginavo... Ho parlato con Monsieur Firmin e Monsieur André proprio l'altro giorno ed erano più depressi che mai.», disse Raoul, sinceramente dispiaciuto. «Pensavo che mettendolo in vendita avremo risolto tutto. Forse dovrei abbassare il costo di partenza dell'asta.»

«Prima o poi arriverà qualcuno. Sono fiduciosa.»

Phénix guardò la donna, conscia che quel qualcuno era un uomo di loro conoscenza. E di conoscenza anche di Raoul. Chissà come avrebbe reagito il Visconte scoprendo una cosa del genere?

Chiacchierarono amabilmente per un'altra mezzora buona, finché i fidanzati d'oro dovettero lasciare la loro compagnia. Prima di andarsene, però, Raoul le invitò a cena quella sera, deciso a non sentire scusanti.

«Vi verrà a prendere la carrozza alle otto. Oh, mi dispiace, ma Faucon non sarà presente.», le avvertì divertito. «Buona giornata, signore!», esclamò, inchinandosi gentile, mentre Christine, decisamente più umile, salutò le tre con un gesto della una mano.

Appena Rosalinda chiuse il portone d'ingresso, Madame Giry guardò Phénix seriamente. «Potresti seguirmi? Dovrei parlarti.»

Phénix capì subito il motivo. Sapeva che era stata da Erik, era evidente. Con un sospiro profondo annuì, incassando la testa sulle spalle e preparandosi ad una bella ramanzina su quanto fosse pericoloso uscire di notte, nella sua situazione.

 

Quella notte era passata troppo, decisamente troppo velocemente. Se n'era reso conto quando Phénix, con aria assonnata, gli aveva chiesto di accompagnarla fuori dalla sua dimora, per tornare a casa prima del sorgere del sole. Avevano trascorso l'intera nottata davanti ad un libro, per lui molto caro, Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo. Le aveva insegnato le cose basilari per iniziare a leggere e lei aveva dato subito segni di apprendimento solo dopo poco tempo. Quella ragazza riusciva a stupirlo in ogni situazione, quando meno se lo aspettava. Non poteva certo dire che stare con lei significasse monotonia assicurata. Era schietta e piacevole, aveva voglia di imparare come una bambina che si interessa per la prima volta alla vita, e soprattutto lo trattava come un uomo. Era gentile e disponibile, si preoccupava per lui...

Ah, se solo avesse saputo...

Cacciò con forza quei pensieri, concentrandosi sullo spartito che aveva di fronte, la penna inchiostrata a mezz'aria, pronta a scrivere un altro dei suoi futuri capolavori. Domani sarebbe stato il grande giorno: Claire avrebbe fatto convocare quei due imbecilli dei manager dell'Opera proprio lì, al teatro mezzo distrutto, in modo tale che lui potesse intervenire qualora ce ne fosse stato il bisogno. Preferiva non farsi vedere, ma sapeva anche che quei due avrebbero potuto portargli noie, ed era il caso di mettere subito le cose in chiaro.

Ormai non vedeva l'ora di tornare a lavorare per il suo teatro, finalmente suo a tutti gli effetti. Sarebbero venuti da tutta la Francia pur di assistere ad un solo spettacolo, tanto era sicuro che l'avrebbe reso popolare e splendido. Inoltre sperava vivamente che la Giudicelli, dopo quello che era successo, avesse deciso di cambiare aria per le sue performance da rospo; non che non potesse farla fuori ugualmente, ma preferiva non dover ricominciare a spaventarla come era solito fare, anche se lo trovava molto più divertente e stimolante che licenziarla in tronco. Al suo posto avrebbe cantato lei, la sua piccola Christine, colei che ancora considerava il suo Angelo, nonostante i precedenti. Quella preziosa ragazza aveva ancora così tanto da imparare che non voleva veder sprecato il suo talento per colpa sua. No, le avrebbe offerto nuovamente i suoi servigi di Maestro e avrebbe avuto, così, il modo di farsi perdonare.

Non sapeva se avrebbe retto alla tentazione di portarla via con sé, ma voleva almeno provarci. Se ci fosse riuscito, allora, avrebbe voluto dire che era totalmente guarito da quell'amore soffocante che ancora provava per lei.

“Sai, ho conosciuto Christine, questa mattina.”

Aveva grugnito qualcosa d'incomprensibile, ma la zingara aveva proseguito.

“Meg mi aveva raccontato di lei... e di te.”

“Quella ragazzina parla troppo, per i miei gusti.”

L'ami ancora?”

Steccò totalmente una melodia che stava suonando all'organo, del tutto stupito da quella domanda improvvisa e dal fatto che il suo cuore non smetteva di battere così velocemente da fargli girare la testa.

“Allora? La ami ancora, non è così?”

Guardò distrattamente i tasti ingialliti del suo strumento prediletto, chiudendo poi gli occhi per cercare un po' di calma. “No.”

Phénix gli si avvicinò, prendendogli il mento tra due dita e costringendolo a guardarla negli occhi. “Erik, puoi mentire a qualcun altro, ma non a me. So quando una persona mi dice la verità o meno. E tu non me la stai dicendo.”

Si sentì pungere gli occhi dalle lacrime salate che stavano premendo per uscire, ma resistette ancora un po'.

Detestava mostrarsi debole davanti al prossimo.

Detestava quelle pozze smeraldine, detestava quello sguardo di chi la sapeva lunga.

E ancora di più detestava il fatto che lei avesse ragione.

Stava mentendo.

Spudoratamente.

Stava mentendo a stesso, e sapeva bene che tentare di reprimere quel sentimento così forte, forse, sarebbe stato più pericoloso che ammetterlo.

“Sì, l'amo, l'amo ancora con tutto me stesso.”

Non capì il motivo per cui Phénix gli sorrise, ma le fu tacitamente grato per averlo messo a nudo così semplicemente.

“Non è nascondendoti e nascondendo quello che provi che ti salverai, Erik.”, gli aveva infatti detto, con una dolcezza tale che non meritava. Quella ragazza lo capiva fin troppo bene e forse non era abituato ad una situazione del genere; ma ora che l'aveva trovata non riusciva neanche a farne a meno.

Phénix, Phénix... Sì, era proprio una streghetta, non c'era altro da dire. Sembrava conoscerlo meglio di stesso, il che quasi lo spaventava. Ma non poteva neanche odiarla, quello no. Si stava affezionando a lei, era palese; nel giro di poco tempo era riuscita a rubargli il cuore.

Un'amica.

Ora aveva un'amica. L'unica, dopo Claire.

Doveva assolutamente aiutarla a costruirsi una nuova vita, per ringraziarla di quanto stesse inconsciamente facendo per lui e per farsi perdonare del passato. Si era messa totalmente nelle sue mani, fidandosi di lui quando lo conosceva solo per sentito dire (il che avrebbe dovuto farla scappare a gambe levate). E per ricambiarla le avrebbe dato un lavoro sicuro e protezione. Nessuno si sarebbe più avvicinato a lei con cattive intenzioni. Non finché ci sarebbe stato lui a proteggerla.

“Non dovrei continuare ad amarla…” le aveva mormorato, abbassando lo sguardo.

Phénix prese posto accanto a lui, nel largo sgabello su cui sedeva. “Se questo ti fa soffrire no, non dovresti. Ma non puoi neanche frenarti.”

“Aiutami a dimenticarla... Da solo non riesco. Mi sento impotente.”

Una supplica. Disperata, sussurrata in un tacito grido di dolore.

Phénix gli prese una mano grande tra le sue, e gli si rivolse nuovamente con lo stesso sorriso caldo e confortante di poco prima. “Farò tutto quello che è in mio potere, Erik. Non per niente mi chiamano strega, magari per una volta tanto una magia mi potrebbe riuscire.

 

 

 

Continua...

 

Ebbene, signori e signore, questo capitolo è schifosamente corto e con poco contenuto, me ne rendo conto... ma mi serviva per introdurre il caro rompis... ehm, gentilissimo cugino del Visconte. Spero non vi abbia annoiato troppo!

Keyra83: ciao carissima! Di nuovo grazie per il tuo puntuale commento, è un piacere leggerti! Ebbene sì, ognuna di noi sente il disperato bisogno di vedere il Maestro all'opera in quanto tale... È un pozzo di conoscenza, diciamocelo! (Oltre che vogliamo vederlo accasato e con tanti bei pargoli al seguito, ma questa è un'altra storia xD) Comunque tranquilla, nessun cambiamento di rating... gli verrà un infarto prima, credo. ò_ò XD Hai ragione, Phénix è intraprendente e non sarà certo Erik a farla cambiare, anzi! E come hai detto tu il passato non può rimanere nascosto per sempre... quindi prima o poi arriverà la tempesta - e io godo nel frattempo, da brava autrice sadica! M'inchino io alla tua gentilezza, Francesca! Al prossimo capitolo! (:

sydney bristow: oh, che piacere! *-* Una nuova fan! *saltella allegra per la stanza* Piacere di fare la tua conoscenza! (Anche se sapere che sei andata a Londra mi fa rodere parecchio XD Com'è? Bella, vero? *_*) Anyway! Conosco Sierra Boggess ed è bellissima, oltre che una cantante bravissima, ma per lo meno io non immagino la mia Phénix come lei (anche se effettivamente gli occhi affilati ce li ha eccome!). È che non voglio rovinare l'immagine che ognuna di voi si è fatta della mia Creatura, altrimenti posterei un banner che avevo fatto per farvi vedere come io l'ho immaginata nel momento in cui l'ho plasmata. (: Comunque! Son contenta che ti piaccia tanto questo delirio, è veramente appagante sapere che c'è qualcuno che legge e apprezza ciò che scrivo! Per quanto riguarda Christine... Credo che prima di uccidere lei vi verrà voglia di far fuori qualcun altro... Ma mi tappo la bocca o rischio di spifferare tutto prima della fine! XD

 

Alla prossima, ladies!

 





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Capitolo 10
*** 09. Capitolo VIII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo VIII

 

Non entrava all'Opera da quando era avvenuto l'incidente che l'aveva mezzo distrutta e che aveva portato con sé un morto e numerosi feriti. L'imponente stazza del Teatro non le era mai sembrata così minacciosa, così come l'interno, desolante e triste. La soggezione che provò nel sentire i suoi passi riecheggiare nel silenzio di intere settimane le fece avere il brutto presentimento che quello che stava per fare non fosse giusto, e soprattutto sicuro. Non era convinta di ciò che Erik avesse intenzione di realizzare: non solo si stava esponendo pericolosamente, ma temeva potesse compiere nuovamente qualche sciocchezza nei confronti di Christine, di Raoul, dei manager...  di tutti. Non lo riteneva uno stupido, ma era ben consapevole che, per quando preparasse i suoi piani con dettagli maniacali, non sempre questi andavano per il verso giusto, e lui, quando ciò accadeva, aveva sempre dato di matto. Aveva provato in tutte le salse a fargli capire quale pericolo stesse correndo, mettendosi allo scoperto così. Niente, non era servito a niente. Aveva solo sibilato una frase che non le era piaciuta niente. “Il Fantasma è morto, presto lo saprà tutta Parigi.

E, inoltre, ora c'era anche Phénix, quella giovane che gli stava tanto a cuore solo perché si sentiva responsabile della morte dei suoi genitori. Le piaceva quella ragazza dallo sguardo schietto e malizioso, ma sperava vivamente che non lo portasse a soffrire nuovamente. Erik, per quanto amasse ancora Christine, era e rimaneva pur sempre un uomo che di certo non poteva non accorgersi di lei e reprimere i suoi più pericolosi desideri.

Prese un bel respiro e si diresse all'ex-ufficio dei due manager, dove si erano dati appuntamento. Quando bussò alla porta non ottenne risposta e, nel frattempo che aspettava, decise di fare due passi per riportarsi alla mente le immagini di quel teatro caduto in rovina, un tempo splendente. I muri, una volta dorati e lucenti, ora erano scuri per la cenere ed il fuoco, così come le volte, le decorazioni e la statuaria. Quando giunse alla platea lo spettacolo che le si presentò davanti le strinse il cuore: i sedili rossi erano stati completamente mangiati dalle fiamme e ora ne rimaneva solo il ricordo di un misero scheletro di ferro; vide il palco, completamente distrutto, e lì, tra pezzi di legno carbonizzati e la polvere, giaceva la carcassa del candeliere, crollato sulla platea spaventosamente. Ancora ricordava il suono sinistro delle fiamme che velocemente avvolgevano qualsiasi cosa, le urla spaventate e disperate degli spettatori e di chi era dietro le quinte... Ricordava lui, la sua espressione delusa ed arrabbiata per essersi reso conto di avere le spalle al muro. Aveva giocato la sua ultima carta, in un gesto di disperata follia, che l'aveva solo rovinato, ancora di più.

Fu quando sentì risuonare i passi affrettati di due persone che decise di tornare al luogo dell'incontro. Vide Firmin e André camminare velocemente, tra borbottii e piagnucolii nel ripensare alla fortuna che avevano perso in quell'incendio, mentre si guardavano intorno con circospezione, temendo che da un momento all'altro sbucasse fuori il Fantasma. Sarà stato per uno strano senso di deja-vu  o per altro, ma era da quando avevano rimesso piede all'Opera che sentivano gli occhi di qualcuno addosso.

Fecero un bel balzo dalla paura quando Madame Giry apparve loro silenziosa, avvolta nel suo consueto abito nero.

«Ma-Madame! Siete voi...!», balbettò André, il più suscettibile tra i due.

«E chi altri, se no?», tentò di sdrammatizzare Firmin, con un sorriso tirato.

La donna li salutò cortesemente, seguendoli nel loro ufficio.

No, non sarebbe stato per niente facile convincerli.

Si accomodarono nell'ufficio, una delle poche stanze rimaste miracolosamente quasi illese dall'incendio. Anche se, dal disordine in cui gravitava, si sarebbe detto che ci avessero scoppiato una granata.

«Come state, Madame? La vostra graziosa figlia?», domandò gentile Firmin, con un sorriso da orecchio ad orecchio.

«Stiamo bene, grazie. Voi? Avete trovato qualche acquirente?»

André balbettò qualcosa, scuotendo il capo. «Nessuno, Madame. Nessuno! Le nostre casse sono in rosso e dobbiamo ancora risarcire più della metà degli spettatori! Rovinati, siamo rovinati!»

Claire Louise Giry si accarezzò distrattamente la lunga treccia che le cadeva stanca su una spalla. «A questo proposito, Messieurs, avrei una possibile soluzione.»

Gli occhi dei due impresari brillarono di luce propria a quelle parole. «Di cosa si tratta, Madame?», domandò Firmin, mal celando la sua emozione.

La donna, prima di parlare, prese un bel respiro per auto incoraggiarsi. «Conosco qualcuno che vorrebbe pagare tutti i danni, i risarcimenti e comprare il Teatro.»

«Veramente?!», chiese esaltato André, scattando in piedi.

«E di grazia, di chi si tratta?», azzardò Firmin, anch'esso contento per la bella novella.

Claire cercò di ponderare al meglio le sue parole, onde evitare qualsiasi brutta reazione; anche se era ben consapevole che non l'avrebbero presa bene per niente a prescindere dal modo in cui avrebbe parlato. «È un uomo che vuole rimediare ai danni che ha commesso in passato. Spera vivamente che voi possiate capire ed accettare la sua generosa offerta.», disse, tirando fuori un paio di buste dalla sua borsa, contenenti l'anticipo di cui aveva parlato Erik.

Passò qualche secondo prima che i due iniziassero ad assimilare la cosa.

«C-Come, prego?», chiese timidamente André, studiando attentamente la donna. Sperava di aver mal interpretato le sue parole.

Non rendetemi la cosa ancor più difficile, pensò lei, sospirando nuovamente. «Avete capito bene, Monsieur. Mi ha chiesto essere una sorta di mediatrice tra voi e lui.»

André, colpito da un tremendo calo di pressione, dovette sedersi, per evitare di crollare a terra, senza forza; Firmin, invece, la guardava con gli occhi spalancati per lo stupore e il timore di un ritorno al passato tanto temuto quanto aspettato.

«Madame, volete dirci che quel... quell'uomo è ancora vivo? Che vuole ancora perseguitarci?», domandò sconvolto Firmin.

Lei annuì, conscia che se Erik stesse ascoltando la conversazione, sicuramente si stava trattenendo per non uscire allo scoperto e fargli passare ogni dubbio su cosa fare.

«Mon Dieu, Madame!», esclamò André, passandosi un fazzoletto sulla fronte madida di sudore per lo shock. «State scherzando, mi auguro! Se credete veramente che rimarremo zitti a farci soggiogare nuovamente da quel pazzo allora potete anche morire di vecchiaia, nell'attesa!»

Firmin diede man forte al suo collega, con un'espressione seria, ma fin troppo preoccupata. «Madame, se volete un consiglio, liberatevi di lui prima che vi faccia del male. Anzi, vi accompagniamo noi stessi alla polizia, per denunciare la situazione.»

Madame Giry strinse convulsamente i pugni sulla stoffa della sua gonna, cercando di trovare le parole più adatte per farli ragionare. «Signori, con tutto rispetto, ma so badare a me stessa e conosco l'uomo di cui stiamo parlando.», disse lentamente, guardando prima uno poi l'altro. «Posso giurare su mia figlia, che è la cosa più cara che abbia al mondo, che ha buone intenzioni, questa volta.»

«No, no e no!», strillò come una vecchia bisbetica André, sull'orlo di una crisi di nervi. «Madame, se voi state difendendo un assassino ed un folle saremo costretti a denunciare anche voi! Non costringeteci a fare qualcosa che non vorremmo fare.»

«Oh, su questo non c'è problema. Non lo farete.», fece una voce profonda e bassa, alle loro spalle.

I due manager sobbalzarono sulle loro sedie nel sentire quel suono terribile quanto affascinante. Quando si voltarono, lo videro poggiato alla parete, vestito di tutto punto con una delle sue consuete giacche lunghe e nere, così come erano neri i pantaloni e le scarpe lucide, gilet sul beige che mostrava il colletto ancora più chiaro della camicia, e sopra un foulard ben annodato sul collo, anch'esso scuro e finemente ricamato. Il bianco della mezza maschera risaltava in maniera sinistra, per i gusti dei due manager, che mai avevano visto due occhi più taglienti e gelidi dei suoi.

«Mi sembrava di capire che fino a due minuti fa stavate piangendo miseria, signori.», continuò Erik, piegando il capo su un lato, con fare quasi curioso. «Ed ora rifiutate una così generosa offerta? Un comportamento inopportuno da parte vostra.»

I direttori del Teatro non ebbero la forza di aprire bocca, limitandosi a fissare il nuovo arrivato completamente immobili.

«Allora, avete perso l'uso della parola? D'accordo che sono conosciuto come un fantasma e non mi aspettavo certo un benvenuto caloroso, ma degnatevi almeno di chiudere quelle bocche. Siete ridicoli.»

«Erik...», lo rimproverò bonariamente Louise, spazientita.

La voce della donna sembrò ricordare ai due di non essere soli con quel mostro e parve che ritrovarono un po' del loro controllo - se mai ne avessero avuto uno.

«Monsieur...», bofonchiò Firmin, non sapendo bene nemmeno lui cosa dire.

Erik alzò un sopracciglio, aspettando che continuasse, ma non ottenne altro se non una serie indistinta di borbottii. «Cosa non avete capito di voglio-comprare-il-teatro?», chiese, cercando di non perdere la calma. Quei due riuscivano perfettamente a farlo innervosire in meno di due secondi.

«A-abbiamo capito tutto, Monsieur, ma…», iniziò André, tamponandosi febbrilmente la fronte, sempre più lucida. «Voi non fate mai... mai niente per niente.»

Le labbra carnose dell'uomo si piegarono in un sorrisino cinico. «Molto bene, vedo che iniziate a capire.», si staccò dalla parete, iniziando a camminare lentamente per tutta la lunghezza della stanza, mani giunte dietro la schiena, sotto lo sguardo attentissimo ad ogni suo movimento dei due impresari e quello preoccupato di Claire Giry. «Come avrete già sentito, voglio risarcire tutti i danni che io stesso ho causato. Sia ben chiaro, non lo faccio per voi due. Fosse per me sareste già belli che in rovina.», disse duramente, fulminandoli con lo sguardo. «Non siete mai stati molto consenzienti quando vi chiedevo gentilmente un favore, quindi non dovete meravigliarvi se ho agito di conseguenza.»

Firmin deglutì a fatica, quando Erik si fermò a pochi passi da lui. Dalla notte di Capodanno, non lo aveva mai avuto così vicino e la cosa lo spaventava non poco.

«Ma ho ragioni ben più importanti per quello che ho intenzione di fare, e se permettete le mie questioni le tengo per me. Ora.», proseguì Erik, riprendendo a camminare, lento e felino. «Quello che voglio da voi è che accettiate la mia offerta senza compiere alcun gesto... azzardato, mi capite? Vorrei evitare spiacevoli inconvenienti come in passato. Voi dovrete occuparvi solo della parte finanziaria del Teatro, io penserò al resto. Tutto chiaro fin qui?»

I due annuirono tremanti, senza però obiettare. Anche volendo, sotto quello sguardo, non ne avrebbero avuto la forza.

«Bene, se farete esattamente quello che vi dico sarà un guadagno per entrambi, oltre che in primo luogo per me.», disse Erik, guardando ora Claire come a dirle “Visto? Te l'avevo detto che non avrebbero fatto storie!. «Ingaggiate una compagnia per il restauro dell'edificio e ditemi quanti ancora devono ricevere il risarcimento; provvederò subito a pagare. Come vedete, i ventimila franchi che ricevevo ogni mese son serviti a qualcosa.», aggiunse, con un sorrisino di scherno, mentre i due lo assecondavano, non troppo convinti. «Ve lo ripeto, signori: non fate niente che non sia un mio volere, vi sto avvertendo. Non sono poi così cambiato in poche settimane. Anzi, da questo punto di vista non credo cambierò mai.»

Firmin e André annuirono vigorosamente, capendo l'antifona. Temevano quell'uomo come nessun altro: li aveva terrorizzati, li aveva mandati in rovina... Eppure ora stava risollevando in gioco le sorti del Teatro... del suo Teatro. Erano ben consapevoli che l'Opera era sempre tacitamente appartenuta a lui e che il fatto che ora stesse offrendo i suoi soldi per averla fosse solo una circostanza “burocratica”. Cosa avrebbero dovuto fare? Assecondarlo e guadagnarci, senza opporre resistenza alcuna, oppure andare a denunciare tutto alla polizia e liberarsi finalmente di lui?

Nessuno si libera dei fantasmi.

«Monsieur, perdonate la domanda sciocca, ma...», azzardò Firmin, quasi con riverenza e timidezza. «La gente che vorrà sapere chi è colui che ha comprato l'Opera... Ecco, mi chiedevo, come dovremmo comportarci?»

Erik gioì intimamente: stavano accettando e lui non avrebbe dovuto compiere gesti sciocchi per convincerli. «Direte che sono una persona molto riservata e che non trascorre molto tempo a Parigi. Direte che sono un compositore che ama la musica più della sua stessa vita e direte che mi chiamo Erik Duval. Mi sembra ovvio che non dovrete fare più alcuna menzione al Fantasma dell'Opera. Del resto, se farete ciò che dico non ci sarà più bisogno di un fantasma, giusto?»

«Sì, signore.», disse Firmin convinto, tirando una gomitata al suo compare affinché dicesse la stessa cosa.

«Molto bene, siamo d'accordo allora.», disse Erik, avvicinandosi alla porta. «Per qualsiasi problema rivolgetevi a Madame. Per le altre questioni sarò io a cercarvi, quindi non scomodatevi e state al vostro posto. Buona giornata, signori.» Se ne andò subito dopo, lasciandoli sgomenti e pallidi come un lenzuolo.

Sembravano aver visto veramente un fantasma.

 

I giorni successivi alla notizia non si parlò d'altro se non del misterioso personaggio che aveva deciso di finanziare nuovamente il Teatro dell'Opera Populaire di Parigi ed accollarsi tutte le spese del caso. Nessuno conosceva l'identità di quell'uomo, nessuno che l'avesse visto, nessuno che sapesse molto di più se non le solite chiacchiere della gente. C'era chi parlava di un ricco aristocratico venuto dall'Italia, chi invece diceva fosse un Parigino particolarmente benestante, altri ancora andavano in giro a raccontare che ci fosse un imbroglio dietro l'asta del teatro per cui era stato comprato dalle sovrintendenze del comune per renderlo un museo.

Ma verità o menzogna, poco importava alla popolazione di Parigi dell'alta borghesia, che finalmente poteva sperare in una prossima riapertura del loro teatro prediletto, sebbene il ricordo del devastante incendio fosse ancora ben vivo nei ricordi di chi era presente quella sera.

Raoul de Chagny, ovviamente, fu tra i primi a ricevere la bella novella dai manager, che lo tenevano costantemente aggiornato sulle loro (dis)avventure, e fu ben contento di trovarli finalmente allegri e contenti, anche se le occhiate che i due si lanciavano di tanto in tanto non lo convincevano molto. Ma di questo si preoccupò veramente poco, dato che conosceva che tipo di persone fossero Firmin e André, ed era arrivato alla conclusione che tanto normali, in fondo, non lo fossero. Inoltre era super indaffarato nel programmare alla perfezione il suo imminente matrimonio - imminente per così dire, dato che si sarebbe celebrato da lì a sette mesi, tra preparativi e quant'altro.

D'altro canto, Christine quando ebbe la notizia della riapertura del teatro, così come il resto del corpo di ballo, fu ben felice di tornare all'Opera, anche se quel posto le portava alla memoria troppi ricordi belli quanto spiacevoli. Non aveva ancora dimenticato quell'uomo che l'aveva segnata, che l'aveva messa di fronte ad una scelta decisamente più grande di lei, che le aveva donato il suo cuore senza giri di sorta e che l'aveva lasciata sgomenta anche dopo settimane. Chissà come stava? E se si fosse ucciso per il troppo dolore? Non l'avrebbe retto, no. Un altro peso così gravoso sulle spalle non sarebbe riuscita a sopportarlo.

Christine I love you...

«Smettila di pensare ancora a lui, ormai fa parte del passato.», si disse, arrossendo subito dopo per essersi resa conto di aver parlato da sola e di aver destato le attenzioni delle altre ballerine.

«Hai detto qualcosa?», chiese Meg, guardando incuriosita l'amica.

«Oh, no, no!», fece lei, agitando le mani in segno di diniego.

«Scusate se vi disturbo, ragazze.», disse una voce gentile alle loro spalle. Étienne, il ragazzo che aveva ballato con Phénix qualche giorno prima, le guardava sorridente come sempre. «Mi chiedevo, la vostra amica... Quella dai capelli rossi... Sophie, giusto? Sapete se verrà più? È qualche giorno che manca.»

Meg sbarrò gli occhi, entusiasta che Étienne stesse chiedendo di lei. L'aveva capito subito che quel ragazzo era rimasto incantato dalla sua amica! «Sì, verrà ancora.»

«Veramente?», domandò contento.

Meg annuì. «Credo che entrerà nel corpo di ballo. Maman è soddisfatta delle sue performance.»

«Oh, come biasimarla.», sospirò lui, ripensando al loro ballo. «Grazie mille, mi avete tolto un pensiero dalla mente, Meg!»

Appena Étienne si allontanò, la biondina si mise a ridacchiare, eccitata. «Hai visto, Christine? Étienne si è innamorato di Sophie!»

La giovane cantante sorrise, ripensando a quella particolare ragazza che aveva conosciuto e che le sarebbe piaciuto conoscere ancora meglio. Sembrava avere tante cose da raccontarle dalla vita, sebbene fosse ancora molto giovane. «Son felice per Étienne, è un bravo ragazzo.»

«Sì, vero, vero. Oltre che parecchio carino.», continuò Meg, guardando il ballerino mentre provava alcuni passi di danza. Ed era vero: era un bel giovane alto e snello, i muscoli segnati dalla lunga attività fisica, un viso gentile e asciutto, capelli non troppo lunghi e castani scuri, così come i suoi occhi sempre allegri e sorridenti. Chissà se la ragazza ne sarebbe stata lusingata? Doveva assolutamente raccontarglielo!

«Quella strega dai capelli rossi entrerà nel corpo di ballo?», chiese meravigliata una ballerina, che a Meg non stava tanto a genio, a dirla tutta.

«Sophie non è una strega.», ribatté, offesa per l'amica. «E sì, ballerà con noi. Ti crea qualche problema, Françoise?»

La ragazza alzò un sopracciglio sottile, con fare altezzoso. «Sì che me lo crea. Danzo da quando son piccola e ho dovuto fare sacrifici per guadagnarmi questo posto e se permetti non mi piace che l'ultima arrivata, per di più senza modi e volgare, possa passarmi avanti così facilmente.», disse tagliente, assottigliando gli occhi già affilati di per sé. «Ah già, scusami. Parlo con quella che è la figlia della direttrice del balletto... Cosa puoi saperne tu del sudore per far parte di questo teatro?»

Christine frenò l'amica da qualsiasi azione sconsiderata bloccandola per un braccio e facendole capire che lei era lì, vicino a lei.

«Françoise, faresti bene a dosare le tue parole.», fece una voce fredda alle sue spalle, che la impalò sul posto. Madame Giry la guardava severa e altera, parecchio infastidita per quelle insinuazioni. Non le era mai piaciuta quella ragazzina viziata e che credeva di essere la migliore su tutte. Ancora, dopo tutti quegli anni, non aveva imparato ad abbassare le penne.

«Sì, Madame. Torno al mio lavoro.», biascicò velocemente e livida di rabbia la ballerina, a testa china.

«Brava. Così magari vedi se riesci a concludere il tuo pezzo senza sbagliare.»

Meg e Christine trattennero a stento le risate, dato che l'occhiata della donna non prometteva niente di buono.

«La cosa vale anche per voi due. Su, filate a ballare!» Claire si lasciò sfuggire un sospiro e scosse la testa mestamente. Sperava che Françoise non facesse niente di sciocco per spaventare Phénix - per lo meno, credere di riuscirci - o che non le stesse troppo dietro per farle compiere qualche gesto azzardato, conoscendo l'impeto della ragazza; anche perché a quel punto non avrebbe toccato solo la zingarella, ma il suo stesso protettore si sarebbe sentito chiamato in causa.

Ed era l'ultima cosa che voleva: una ballerina con una trave in testa durate le prove.

 

 

 

Continua...

 

Ma buon salve a tutti! Oggi son troppo svogliata per scrivere qualcosa di sensato - non che solitamente lo faccia, ma questa ultima settimana è stata uno strazio, e non è ancora finita!

Prima di passare ai commenti, vorrei pubblicizzare un contest che ho indetto con la mia socia GiulyRedRose sul nostro bel Fantasmone, giusto perché questa sezione ci sembra in apnea (ed effettivamente lo è, tranne per poche anime pie che scrivono qui). The Phantom of the Opera - Contest. Partecipate numerosi! *O*

Keyra83: carissima! Non farti strane idee, io aggiorno questa regolarmente perché è scritta da un anno, altrimenti stavi fresca! XD Concordo, Jacques è antipatico, tutto suo cugino! Chissà che diavolo combinerà, ora. Mah! Comunque no, sei solo tu che si aspetta che qualcosa nasca tra Erik e Phénix, sìsì. Fidati. :'D Effettivamente Erik è ancora troppo ferito dall'accaduto con Christine, da far pensare che non voglia nemmeno sentir parlare di lei, ma non dimentichiamoci che prima di innamorarsi lui era il suo Maestro, che vedeva in lei le potenzialità per diventare la prima donna. Almeno, questo è quello che penso io... e che mi serve, poi, per il resto della storia! Ahah XD Alla prossima! (:

sydney bristow: ma ciau! Posso dirti che mi hai scioccata? Voglio dire, l'idea di Raoul con Phénix... ehm, posso dire con sicurezza che non mi è mai passata per la mente una cosa simile, tengo a rassicurare tutti! XD Anche perché Phénix è appena corsa in bagno a rigettare il panettone del '91, povera ragazza. >_> Comunque! Grazie mille, cara! Sempre troppo buona *_* Al prossimo capitolo! (:

Elby: ri-salve! È sempre un onore sapere che leggi le mie scempiaggini! *_* Apprezzo il tuo coraggio, davvero. (': E son ancor più contenta che ti piaccia l'imbastitura della trama, e dire che all'inizio mi sembrava un'idiozia! :D Spero ti piaceranno anche i prossimi capitoli, quando vuoi son qui ;) Grazie mille! :)

 

Alla prossima, ladies!

 





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Capitolo 11
*** 10. Capitolo IX – Parte I ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo IX – Parte I

 

Era passata più di una settimana dall'inizio dei lavori, e due da quando Erik aveva avuto l'incontro di lavoro con i manager. Aveva stipulato un contratto, in modo tale che fosse tutto in regola, e il risarcimento venne pagato come promesso, per la gioia di tutti coloro che ricevettero finalmente la loro somma di denaro. Firmin ed André non avevano più avuto la piacevole occasione di parlare con il nuovo padrone dell'Opera - non che la cosa gli dispiacesse, ecco - ricevendo solo le consuete missive che Erik adorava tanto scrivere, in cui elencava dettagliatamente cosa fare e non fare.

Neanche Phénix ebbe la possibilità di incontrarlo, dopo quella notte, se non solo un'altra volta la sera successiva, per la sua lezione di lettura e scrittura. Le era sembrato eccitato all'idea di essere riuscito nel primo passo del suo grande piano e lei non poteva che essere contenta per lui. Mai gli aveva visto quella luce di euforia brillargli negli occhi, ora così vivi e più intensi di prima, che tanto l'avevano lasciata interdetta. E mai aveva conosciuto un uomo che fosse talmente devoto a qualcosa di immateriale come la musica da dare sé stesso e tutti i giorni della sua vita per essa.

Poi era sparito nel nulla, proprio come un fantasma. Solo Madame Giry sembrava l'unica tranquilla, nonostante non si fosse più fatto vivo. Era sicura che fosse molto impegnato a ricoprire il ruolo che aveva acquisito e che stesse lavorando giorno e notte per pianificare tutto al meglio. E la donna non si sbagliava di certo, Erik era un uomo che aveva una cura dei dettagli quasi maniacale e che, quand'era invischiato in progetti così importanti, non voleva farsi distrarre da niente e nessuno. Per questo aveva sconsigliato alla giovane Phénix di andare a trovarlo, se non avesse voluto essere cacciata via di malo modo.

Nel frattempo, Phénix era ufficialmente entrata a far parte del corpo di ballo del teatro dell'Opera, sotto gli sguardi contenti e fieri di Meg, Christine ed Étienne - completamente perso per lei - e quelli infastiditi della maggior parte delle altre ballerine, in particolare di Françoise. Phénix aveva del talento, su quello nessuno aveva dubbi, ma aveva molto da imparare per raggiungere almeno metà della grazia e dell'eleganza che era tipica di una ballerina di prima fila. E non era certo una delle allieve più brave che Claire Louise Giry avesse mai avuto, dato che i pezzi che le chiedeva di eseguire venivano puntualmente conclusi con la giovane che seguiva la musica senza curarsi delle sue direttive, tra le risate di tutti.

Ma Erik non si era dimenticato di lei, della sua nuova protetta. Quando aveva un attimo di tempo libero si recava sempre ad assistere alle prove e alle lezioni, nascosto dietro il grande specchio della sala da ballo. Non gli era sfuggito il fatto che Phénix si lasciasse andare un po' troppo traviata dalla musica, non senza farlo sorridere spesso e volentieri; così come si era accorto delle antipatie che stavano nascendo nei suoi confronti - cosa che avrebbe dovuto fermare, se fossero degenerate - e del particolare interesse per la zingara suscitato in quel giovane ballerino di nome Étienne, che per un certo verso gli ricordava la fastidiosa figura di Raoul de Chagny:  sempre sorridente, sempre sguardo perso verso l'oggetto dei suoi desideri, sempre gentile e sempre dannatamente bello.

Bello, cosa che lui non era.

Tu sei un mostro!

«Sophie, potrei farti una domanda?»

Erik, che in quel momento stava per lasciare il suo nascondiglio, si fermò un attimo, per seguire la scena. Étienne si era avvicinato alla giovane, come ogni sera dopo la fine delle prove, per congratularsi con lei per i suoi progressi. Ma c'era qualcosa di diverso, quella volta, nello sguardo del ragazzo, l'aveva capito subito.

Così come l'aveva capito Phénix stessa, a cui non era passato inosservato il fascino che il ragazzo subiva, soprattutto dopo averne avuto la conferma da Meg. «Certo, Étienne, dimmi.»

Il ballerino si passò una mano dietro il collo, imbarazzato. «Ecco, mi chiedevo... ti andrebbe di rimanere ancora un po' per provare un pezzo a due? O hai altri impegni?»

Phénix arrossì a quella proposta, lanciando qualche occhiata per cercare lo sguardo di qualcuno di sua conoscenza. Peccato che trovò solo Meg che, dietro il ragazzo, le sorrideva come una povera pazza e non le era per niente d'aiuto. «Non saprei se Madame Giry sia d’accordo...»

«Oh, per questo non c'è problema, ho già chiesto le chiavi del palazzo.», confessò in un sorriso lui.

La giovane zingara si sentì le farfalle nello stomaco nel vedere quello sguardo così sincero ed innamorato. Ah, com'era carino!

«Sophie, andiamo?», chiese Madame Giry, facendo voltare i due e imprecare sommessamente Meg.

Phénix guardò interrogativa la donna, che fece scivolare lo sguardo prima su di lei poi su Étienne. Infine, come fulminata, schioccò la lingua, avendo capito la situazione. «Étienne, se mi avessi detto che doveva restare anche lei ti avrei avvisato che Sophie oggi non può trattenersi.»

Il giovane abbassò le spalle, sconfitto, mentre Phénix corrugava la fronte. «Perché?»

«Ti sei dimenticata della cena dal Visconte?»

Phénix sospirò, quando le venne in mente dell'ennesimo invito da parte di Raoul e Christine a cenare con loro. Maledicendo l’eccessiva gentilezza del Visconte, guardò dispiaciuta Étienne, rendendosi conto che sì, sarebbe rimasta volentieri con lui a ballare e a chiacchierare. Lo trovava adorabile e la lusingava il fatto che fosse attratto da lei. Inoltre era un bravo ballerino e avrebbe potuto insegnarle tanto. «Mi dispiace, Étienne, facciamo per la prossima volta?»

Lui, dopo un sospiro, annuì sorridendole. «D'accordo, ma tieniti libera. Buona serata, signore.»

Erik, dietro il suo nascondiglio, si stupì non poco nel rendersi conto che stringeva i pugni talmente forte da farsi quasi male. Fu solo quando Phénix seguì le altre tre donne per andare via, lasciando il ragazzo solo a guardarla sparire dietro l'angolo, che decise di rilassare un po' tutti i muscoli del corpo, che poco prima erano tesi come una corda di violino.

Solo una domanda gli frullò in testa per tutto il resto della serata: che diavolo gli era successo?

 

La villa della famiglia de Chagny, una bella abitazione ben curata parecchio eclettica: aveva elementi classicheggianti che si fondevano con altri prettamente barocchi, in un trionfo di forme e curve che, solo dall'esterno, preannunciavano saloni maestosi e vivacizzati dalla numerosa statuaria dei bassorilievi e delle decorazioni.

Per quanto non fosse la prima volta, Phénix si ritrovò ad ammirare estasiata quello spettacolo che le si presentava davanti, non concependo come potesse esistere così tanto sfarzo e a poche miglia da lì gente come lei moriva di fame. La vita era ingiusta, e anche tanto.

Il maggiordomo, un uomo basso e paffuto, dalle gote sempre arrossate come se avesse appena finito di bere una buona bottiglia di liquore, le accolse gioviale e cortese come il suo solito, accompagnandole al salone e facendole accomodare in uno dei tanti comodi e morbidi divani.

Il visconte arrivò poco dopo con il suo immancabile sorriso gentile, bellissimo in un elegante completo blu notte. Accanto a lui seguiva un uomo alto e magro, dai baffi curati e scuri ed un paio d'occhi che si puntarono subito sulla zingara.

«Buona sera, signore! E' un piacere rivedervi qui.» Si chinò in segno di saluto, mentre l'uomo accanto a lui tossicchiava per avere attenzione. «Oggi ho anche il piacere di presentarvi Monsieur Jacques David Faucon, il mio lontano cugino di cui vi parlai.»

Faucon fece qualche passo avanti, baciando galantemente le mani alle tre donne, ma soffermandosi un po' troppo, per i gusti di tutti, sulla bella Phénix. «Enchanté, mademoiselle…?»

«Sophie Rembrant, signore.»

«Rembrant? Non siete di qui, vero?»

«No, sono di…» Phénix lanciò un'occhiata di aiuto a Madame Giry, accanto a lei. «Di Marsiglia.»

Marsiglia... Aveva tanto sentito parlare di quella cittadina sul mare... Chissà se era così bella come se la immaginava?

«Oh, e cosa vi porta qui a Parigi?»

La sua protettrice intervenne, prontamente. «Mademoiselle è la figlia di un mercante, un mio lontano parente. Resterà ospite da noi per qualche tempo, per provare ad intraprendere la carriera di ballerina. Dovreste vederla, sembra un angelo.»

Jacques Faucon guardò incuriosito la bella zingarella, non potendo nascondere un sorriso interessato. «Immagino, se danza bene quanto è graziosa.»

Phénix non si sentì lusingata da quel complimento, dato che quell'uomo le piaceva veramente poco. Ma si sforzò di sorridere compiaciuta, raddrizzandosi la schiena in postura eretta e sicura. Ora aveva anche un “passato” da reggere! Figlia di un mercante... suonava bene, in fondo.

«Christine ci raggiungerà a momenti.», annunciò il padrone di casa. «E dovrebbero raggiungerci tra pochi istanti anche monsieur Firmin e monsieur André. Ho voluto invitare anche loro per brindare al misterioso acquirente dell'Opera e al loro salvataggio dalla bancarotta.»

«Oh, mi piacerebbe proprio conoscere quest'uomo.», disse Faucon, poggiando un gomito sul bracciolo della poltrona su cui si era seduto. «Nessuno sa chi sia?»

Raoul scrollò le spalle. «Non ho la più pallida idea. Magari più tardi riusciremo a scoprire qualcosa su di lui dai due direttori.»

Phénix e madame Giry si scambiarono un'occhiata veloce, ma non dissero niente in proposito. Non volevano destare attenzioni inutili e pericolose.

Pochi minuti dopo li raggiunsero anche Christine, splendida in un abito rosato e bianco, e i due direttori del teatro, più allegri del solito, ma anche più strani agli occhi di tutti. Non che fossero stati mai normali, certo. Dopo una sana chiacchierata sull'ultima battuta di caccia del Visconte con il cugino, il gruppo si spostò in sala da pranzo, dove li attendeva una tavolata imbandita di tutto punto, segno di una cena che sarebbe stata superba.

«Ebbene, signori. Vorrei brindare alla prossima riapertura dell'Opera Populaire di Parigi, che tanto ha dato alla città ed alla Francia e che presto tornerà a splendere come un tempo. All'Opera e ai due direttori qui presenti!», fece Raoul, alzando un bicchiere di vino rosso, per poi portarselo alle labbra, imitato dagli altri ospiti.

Firmin e André si guardarono euforici, forse un po' troppo. «Oh, grazie, grazie Visconte. Siamo lieti di tutto ciò!»

«Dalla catastrofe alla buona novella!», proseguì André, ridendo allegramente.

«Dunque, ci sono novità su questo acquirente di cui nessuno sa nulla?», domandò Jacques Faucon, posando il suo bicchiere sul tavolo e asciugandosi lentamente le labbra con il tovagliolo che teneva sulle gambe.

I due direttori risero nervosamente, suscitando parecchie perplessità e curiosità. «Oh, è un uomo molto riservato.», iniziò Firmin, dato che il compagno non accennava ad aprire bocca sulla questione. «Non ama che si chiacchieri troppo di lui. Ma è un buon intenditore di musica. Oh, compone anche, sapete? Credo che qualche sua opera si sentirà tra un Faust e un’Aida*, molto probabilmente.»

«Davvero? Un uomo senza dubbio di alto livello artistico, allora.», commentò Raoul, interessato. «Mi piacerebbe veramente fare la sua conoscenza.»

«Non credo sia possibile.», lo interruppe un po' troppo brutalmente André, mentre Richard Firmin per poco non si strozzava con la sua stessa saliva. «Monsieur non è di Parigi e si ferma qui solo per poche ore, per poi ripartire via, chissà dove. E' un uomo molto occupato.»

«E questo monsieur ha un nome, di grazia?», chiese Faucon.

I due si guardarono un attimo. «Duval. Erik Duval, o così ha detto di chiamarsi.»

«Erik Duval, dunque? Che personaggio strano.», commentò l'altro. «Non trovate anche voi, cugino?»

«Sì, decisamente. Da come ne parlate, signori, sembra quasi si tratti di un fantasma! C'è, ma non si fa vedere.»

Non sapeva, il povero Visconte, che quelle parole furono per i due uomini un bel tuffo al cuore, dato che divennero pallidi come un lenzuolo candido.

«Monsieurs, va tutto bene?», domandò la bella Christine, che fu l'unica, oltre a Madame Giry ed alla sua protetta, ad accorgersi del piccolo momento di mancamento dei due uomini.

«Oh, sì, sì, mademoiselle. Va tutto bene, benissimo! Ah ah!»

L'allegra cena fu interrotta dall'inviato di un gendarme, che irruppe nella sala con il fiatone, scusandosi mille volte per aver interrotto la serata con inchini vari ed eventuali.

«Ditemi, Gilbert, è successo qualcosa?», s'informò subito il Visconte, andandogli incontro, sotto lo sguardo dei presenti, che osservavano la scena curiosi e un po' agitati.

«Visconte, abbiamo fatto una scoperta! Una scoperta sensazionale!», esclamò l'uomo, agitando il cappello in una mano. «Il Fantasma dell'Opera... l'abbiamo trovato!»

Il gelo calò all'istante nell'intera sala, spedendo brividi di paura ed eccitazione a tutti, a seconda dei loro pensieri. Madame Giry, che inizialmente si era alzata come tutti gli altri, ricadde senza forze sulla sua sedia, incredula e terrorizzata all'idea che avessero trovato veramente Erik. Idem per Christine, che nel sentire quel nome per poco perse i sensi, e fu prontamente sorretta dall'amica Meg e dal signor Faucon, che sedeva lì vicino. Firmin ed André rimasero immobili come stoccafissi, le bocche spalancate per la meraviglia ed il timore, la fronte imperlata di sudore.

L'unica persona che sembrò non curarsi di quella notizia era Phénix, che però più di tutti era preoccupata e spaventata. Nessuno avrebbe potuto leggerle negli occhi la paura che stava provando in quel momento, nessuno avrebbe potuto capire cosa si stesse agitando dentro di lei, se non ascoltandole il battito del suo cuore, impazzito. Cosa significava che l'avevano trovato? Erik non poteva essere trovato, era impossibile! Era lui che trovava gli altri, non viceversa! Non poteva aver commesso qualche passo falso, non era da lui.

«L'avete trovato?», chiese Raoul, con la gola secca per l'emozione.

«Sì, monsieur! Abbiamo trovato il suo cadavere!»

A quelle parole Christine non resse più davvero e perse in sensi, cadendo tra le braccia di Faucon a peso morto, mentre Meg soffocava un gridolino di apprensione.

«Christine!» Raoul corse dalla sua fidanzata, sventolandole un fazzoletto sul viso e prendendola in braccio, per portarla in un luogo più arieggiato e farla riprendere. «Chiamate un medico, presto!»

«Cugino, il medico della situazione sono io.», disse pacatamente Faucon, alzando gli occhi al cielo e seguendo il Visconte al piano superiore della villa.

Madame Giry era ancora seduta, lo sguardo perso nel vuoto, tacitamente disperata. No, non era possibile. Erik non poteva essere morto, non doveva neanche pensarlo. Gliel'aveva detto, ripetuto fino alla nausea, che quello che stava facendo era pericoloso... gliel'aveva detto... A stento sentì la mano di sua figlia che, con tenerezza, le accarezzò la schiena, ma si impose un po' di calma per ascoltare lucidamente il discorso tra i due direttori e Gilbert.

«Siete sicuri che sia lui?», domandò febbrilmente André, prendendo per le spalle e scuotendolo come un giocattolo.

«S-sì, monsieur. Un operaio si è attardato a lavorare, questa sera, e ha trovato il suo corpo senza vita nel secondo sottopalco. Era impiccato. Non siete felici?»

«Come fate ad esserne certi?», continuò Firmin, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Beh, il suo viso era deformato per metà, proprio come l'uomo che tutti abbiamo visto il giorno dell'incendio.»

I due direttori si lasciarono sfuggire un gemito di dolore, misto all'euforia. Si erano finalmente liberati di quel mostro, ma quel mostro stesso li stava risollevando dalla crisi economica! E che aveva fatto? Si era tolto la vita! Come avrebbero fatto ora, senza di lui e le sue finanze? Rovinati, doppiamente rovinati!

Intanto Phénix, ancora immobile nel suo posto, si ritrovò a stringere convulsamente la tovaglia sotto le sue dita. Non riusciva a ragionare, non riusciva neanche minimamente a pensare ad una cosa simile. Erik morto... il viso deformato... era quello che si ostinava a nascondere sotto la maschera? Per un attimo, in tutta quella confusione, le venne alla mente quel bambino malato e sfigurato che aveva “ucciso” i suoi genitori... Quanto dolore aveva passato anche lui come il bambino, in tutta la sua triste vita?

Provò a prendere un bel respiro per trovare un po' di calma, ma ci riuscì poco e niente. Sarebbe voluta correre all'Opera, alla casa sul lago per vedere se veramente fosse morto, anche se era evidente che il contrario fosse impossibile. Ma non poteva, il teatro sarebbe stato pieno come un uovo di giornalisti e soldati. L'avrebbero vista sicuramente.

Oh, Erik...

Non aveva mai pianto in vita sua, se non al pensiero dei suoi poveri genitori... ma quella volta niente poté fare per fermare le lacrime che le bagnarono le guance.

 

 

*Mi perdonerete sicuramente una svista voluta, dato che la prima dell’Aida venne messa in scena al Cairo alla fine del 1871... Ma io amo l’Aida, dovevo inserirla in qualche modo. :D

 

 

 

Continua...

 

Buona domenica a tutte voi, mie adoratissime lettrici! E lettori, se ve n’è qualcuno! (: Prima di passare ai vostri commenti, vorrei ricordarvi del contest che ho indetto con la mia socia GiulyRedRose sul nostro bel Fantasmone, The Phantom of the Opera - Contest, che ora è ufficialmente aperto! Partecipate numerosi, mi raccomando! *O*

Grazie mille a tutti coloro che seguono questa cosa! *vi abbraccia tutti virtualmente*

sydney bristow: salve! Prima di tutto ti ringrazio per esserti iscritta al contest, io e Giulia non vediamo l’ora di leggere cosa hai prodotto! *_* Comunque, noto con preoccupazione (o devo esserne felice?) i tuoi istinti da killer nei confronti di chiunque si avvicini a Phénix… la donzella ringrazia per il sostegno! XD Grazie mille, al prossimo aggiornamento! (:

Elby: oh *_* Ma che splendido commento! Ora mi commuovo, sul serio! ;_; Ammetto di essere una sostenitrice del “complichiamo le cose e, se scorre un po’ di sangue, è anche meglio!”, ma come hai detto tu Erik merita un lieto fine... Chissà che diavolo succederà! :D E ammetto anche che l’idea di Phénix e Christine che si tirano i capelli dietro le quinte mi ha solleticato l’immaginazione, fantastico! XD Ah, son contentissima che qualcuno apprezzi Rosalinda! Io adoro quella donna, anche se son di parte, vabbè. :’D Grazie, grazie mille per tutto! *_* E se riesci davvero a trovare il tempo per partecipare al contest, beh… son pronta a colarti una statua in oro seduta stante! *-* Speriamo che partecipino in molti, quello mio e di Giulia vuole essere un input per riscoprire questa splendida e drammatica storia!

 

Alla prossima, ladies!

 





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Capitolo 12
*** 11. Capitolo IX – Parte II ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo IX – Parte II

 

 

Era notte fonda, una notte disgraziata, fredda e sferzante per il vento gelido che veniva da nord. Erano passate solo poche ore dalla scoperta del cadavere del famigerato Fantasma dell'Opera, e solo chi non aveva interessi con lui e chi era più che felice della notizia era riuscito a prendere sonno tranquillamente. Christine si era ripresa dal momento di mancamento, ma era pallida come un cadavere. Il fidanzato sapeva che la sua reazione era dovuta al fatto che fosse ancora intimamente legata a quell'uomo che l'aveva stregata, e la cosa lo infastidì non poco. Ma ormai quel mostro era morto definitivamente; non avrebbe più attentato alla loro felicità e lui poteva solo tirare un sospiro di sollievo.

Madame Giry, quella notte, rimase seduta al buio nel salotto di casa sua, in silenzio, a rimuginare su quello che era stata la sua vita dopo aver conosciuto quel bambino disperato e storpio, diventato poi un uomo dalle mille sorprese, pericoloso e buono nello stesso tempo. Quello stesso uomo che ora non c'era più. Era per quel motivo che in quegli ultimi giorni non si era più fatto vedere? Cosa era successo di così grave da spingerlo ad uccidersi? Perché si era dato la morte? Perché?

Trasalì sulla poltrona quando sentì i passi nudi di qualcuno che scendeva le scale velocemente, non curante di fare rumore e svegliare gli abitanti della casa.

«Phénix?», domandò, quando riconobbe la sagoma della ragazza, rischiarata dalla poca luce della luna che penetrava tra le pesanti tende.

«Non provate a fermarmi, Claire. Per favore.», sussurrò la zingara, sgusciando via verso la cucina, per poi sparire in giardino. Madame Giry sospirò, pregando Dio che almeno non succedesse niente a lei.

Phénix correva, correva a perdifiato verso la mole dell'Opera, scura ed imponente in quella nottata gelida e lugubre. Sembrava che anche il cielo avesse saputo della morte di suo figlio, l'Angelo della Musica, e che a modo suo stesse piangendo per la sua perdita. In cuor suo la ragazza sapeva che quello che stava facendo era pericoloso e che non avrebbe trovato niente, se non un desolante silenzio a conferma di quello che aveva sentito. Ma non poteva restare con le mani in mano, non ci sarebbe riuscita. Voleva sbollire il suo dolore, gridarlo al teatro vuoto, maledire quell'uomo che era stato così insensibile e stupido da uccidersi proprio quando stava per rinascere... L'aveva abbandonata, aveva abbandonato tutti... E non glielo avrebbe mai perdonato.

Non curandosi di poter essere vista, Phénix corse in Rue du Scribe, cercando di forzare quelle grate in ferro, che sfortunatamente erano chiuse a chiave. Respirando affannosamente, batté i pugni contro il freddo muro dell'Opera, arrabbiata come non mai. Alzò lo sguardo verso il cielo plumbeo, che aveva iniziato a piovere, come a farsi beffe di lei. Sembrava che stesse veramente piangendo.

«Sei lì, vero? Sei su qualche stella, vero Erik?», mormorò, lasciandosi andare a terra, rabbrividendo tra un singhiozzo e l'altro. «Sei su qualche stella... Insieme a lui, insieme a loro...», continuò, stringendosi lo scialle sulle spalle. «Che tu sia maledetto... Mi hai lasciata sola... Io... mi fidavo di te...»

Rimase raggomitolata in terra per quelle che le sembrarono ore, ma che in realtà erano solo pochi minuti. La pioggia era aumentata, inzuppandola completamente come un pulcino appena nato, e qualche lampo illuminò a giorno la notte. I brividi di freddo si fecero sentire sempre di più, e molto spesso si ritrovò a starnutire e tossire. Fu solo il rumore metallico di una serratura che saltava che la fece svegliare da quel pianto senza freni. Con gli occhi gonfi e rossi, guardò la grata che chiudeva l'unica via al mondo sotterraneo del teatro, e si accorse con stupore che era aperta.

«Erik...», soffiò al vento, speranzosa. Scavalcò velocemente la bassa finestra e si ritrovò nella cappella, illuminata solo da poche candele. Chi le aveva accese?

«Erik!», gridò, tastando i muri come impazzita, nella vana speranza di trovare una porta nascosta che potesse condurla a lui, o alla sua dimora. «Erik...»

«Perché piangi?», fece una voce bassa e calda, accompagnata subito dopo da un tuono che svegliò mezza Parigi. Phénix si voltò, cercando il proprietario di quella Voce che aveva imparato a conoscere bene. Ma non lo vide, da nessuna parte. Sembrava essere dietro di lei, accanto a lei... Ma era sola, tristemente sola in quella cappella. E lei stava delirando, non c'era altra spiegazione.

«Sei tu? Sei un angelo?»

La Voce rise sommessamente, spedendole un brivido lungo la schiena. «Non sono mai stato un angelo, Phénix.»

La ragazza s'immobilizzò un attimo quando sentì un soffio sul collo e la sensazione di un mantello che si muoveva per la corrente d'aria fredda che aveva appena attraversato la cappella. Quando si voltò a stento riuscì a reprimere un grido di stupore, nel ritrovarsi Erik vestito di tutto punto a pochi passi da lei.

«Che c'è? Hai visto un fantasma?», le domandò sarcastico, incrociando le braccia sul petto.

Phénix, le mani giunte sulle labbra per evitare che gridasse, riprese a respirare con più regolarità. «Sei tu? O sei... un sogno?», mormorò lei rocamente.

«No, purtroppo son reale. Perché piangi?», domandò l'uomo ancora una volta.

Tutto d'un tratto Phénix divenne rossa per la rabbia e per l'imbarazzo di essere stata scoperta in quello stato di totale indifesa. Che domande erano quelle? «Tu sei pazzo, pazzo!», gli gridò, facendogli sgranare leggermente gli occhi. «Mi chiedi perché piango? Ma che domande mi fai, disgraziato!»

Erik si trovò letteralmente preso alla sprovvista quando la ragazza gli si gettò contro, tirandogli pugni al petto e piangendo come una bambina.

«Ti credevo morto... tutti ti credevamo morto!», proseguì Phénix, diminuendo i pugni contro l'uomo, sempre più deboli. Era pallidissima, in volto. «Sei impazzito del tutto! Ero terrorizzata all'idea che ti fossi ucciso veramente! ...E mi chiedi perché piango?»

Erik chiuse gli occhi per trattenere lacrime di commozione nel sentire quelle parole pronunciate con tanto dolore, come se quella giovane ragazza, scossa dai singhiozzi e dai brividi lì, tra le sue braccia, fosse realmente spaventata all'idea di perderlo. «Phénix... Volevo solo proteggermi. Devo proteggermi. In realtà, l’idea era proprio quella.»

La zingara alzò uno sguardo furente verso l'altro. «Allora vedi di tenermi informata la prossima volta che dovrai simulare la tua morte.»

La strinse tra le braccia così forte da lasciarla senza respiro. Le aveva fatto male, ne era pienamente consapevole ora. Ma mai avrebbe pensato che qualcuno potesse disperarsi così tanto per la sua possibile scomparsa. Credeva anzi che molti, se non tutti, avrebbero gioito alla notizia.

«Sei uno stupido se credi che a nessuno importi di te.», proseguì la ragazza, stringendo tra le mani la stoffa del suo mantello. «Non solo io, ma anche Madame Giry e Christine son state male.»

«...Christine? Lei...»

«È svenuta. Per colpa dei tuoi scherzi.»

Erik si morsicò le labbra, emozionato. Oh, la sua piccola Christine... Allora nonostante tutto gli voleva bene, in fondo.

«Ma posso ancora capire che non volessi che lei sapesse, che anzi credesse che fossi morto davvero. Ma io e Madame Giry? Ci hai tenute all'oscuro di tutto.»

Ogni parola, ogni singola parola che Phénix gli diceva lo trafiggeva al petto dolorosamente; parole pronunciate con durezza e rabbia, con preoccupazione e rammarico. Doveva farla smettere, doveva zittirla, altrimenti non avrebbe retto veramente. «Perdonami, Phénix. Non avrei dovuto, ora lo so.»

Perdono.

Aveva chiesto perdono per la prima volta in vita sua, quando era sempre stato convinto che sarebbe dovuto essere il mondo intero a porgergli le sue più umili scuse.

Phénix sorrise di nascosto, stringendosi a lui ancora un po'. Trovava le sue braccia il suo luogo naturale dove sarebbe voluta rimanere in eterno. Erano così grandi e calde, così rassicuranti, così... belle, semplicemente. «Bene, ora che i sensi di colpa hanno fatto il loro effetto, posso anche perdonarti.» Rise tra le lacrime quando si accorse dello sguardo dell'altro, misto di perplessità e rabbia per la sua sfacciataggine. Fortuna che Erik fosse ancora vivo...

«Insolente strega che non sei altra! Scappa o saranno guai.», la minacciò con un sorriso che non prometteva niente di buono. Ed infatti la bella zingarella vide bene a correre via dalla cappella, ridendo come una bambina mentre cercava di lasciarsi indietro il suo inseguitore. Lo sentiva a pochi passi da lei, poi spariva in qualche apertura nascosta, per poi ricomparirle di fronte, bloccandole la fuga.

«Trovata.»

Phénix lanciò un urlo per lo spavento, poi riprese la sua folle corsa, continuando a ridere divertita. Tra un sottopalco e l'altro, tra travi e funi di varia natura, la ragazza riuscì a sfuggirgli senza neanche sapere come, e si fermò un attimo, per riprendere fiato. Era un'impressione o ultimamente si sentiva più debole del solito?

Lui, intanto, era sparito. Il teatro, a quell'ora della notte, quando era completamente deserto era inquietante. Soprattutto se si aveva qualcuno alle calcagna come Erik.

«Dove sei?», chiese la giovane, respirando velocemente e tendendo le orecchie. Un fruscio, poi più niente. «Erik, non farmi spaventare ancora.»

Si sentì cingere la vita da due forti mani, e gridò impaurita, col cuore che le scoppiava per l'adrenalina.

«Presa.», le soffiò in un orecchio Erik, che mai si era divertito così tanto in compagnia di qualcuno. Ad essere sinceri, non aveva mai pensato che sarebbe potuto accadere.

«Ho perso altri venti anni di vita per colpa tua.», borbottò Phénix, rilassandosi tra le sue braccia e poggiando il capo all'indietro, sul suo ampio petto. Sì, si stava veramente bene tra le sue braccia... E la sua voce, la sua voce era musica per le orecchie. «Son così contenta che tu sia ancora vivo.»

Erik sorrise, depositandole un leggero bacio tra la sua chioma indiavolata.

Rimasero in quella posizione per minuti interi, immobili, una completamente persa contro di lui, l'altro troppo occupato a respirare il profumo dei suoi capelli per pensare di muoversi. Se qualcuno li avesse visti avrebbe pensato certamente ad una splendida statua, scolpita in un dolce momento che immortalava per sempre la gioia di due innamorati. Loro non erano innamorati, ma erano felici di essersi trovati. Piaceva ad entrambi la loro compagnia e ormai nessuno dei due ne avrebbe potuto fare a meno.

«È meglio che torni a casa.», disse Erik, sciogliendo il loro abbraccio. «Non saresti dovuta venire. È pericoloso.»

«Per rimanere sveglia tutta la notte senza sapere cosa ti fosse successo? Stai tranquillo, l'intera Parigi dormiva quando sono uscita.»

«Parigi dorme, ma le ombre no. Quelle son sempre deste, Phénix. Se ti dovesse succedere qualcosa...»

«Non c'era nessuno, te lo ripeto.», ribatté convinta la ragazza, mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo teneramente. «Se mi avesse visto qualcuno di mia conoscenza non sarei neanche arrivata fin qui, credimi. Mi avrebbero presa prima.»

Erik si lasciò sfuggire un sospiro profondo, constatando per l'ennesima volta che quella ragazzina era quasi più testarda di lui, quando si metteva d'impegno. Il pensiero, però, lo fece sorridere. «Torna a casa. Sei stanca e infreddolita.» Si tolse il mantello e glielo gettò sulle spalle, coprendole anche la testa con il cappuccio.

«Ci rivedremo presto, d'accordo?», domandò Phénix, stringendosi in quella stoffa nera come la notte, impregnata del suo profumo. «Non sparire più come hai fatto in questi giorni.»

L'uomo annuì in un lieve sorriso e le fece cenno di seguirla, conducendola alla cappella.

Quando Phénix uscì dal teatro notò che non pioveva più. Dunque, anche il cielo aveva saputo che suo figlio era ancora vivo.

 

 

Gentili signori,

Immagino vi sia giunta notizia della mia dipartita per aver ritrovato il mio cadavere impiccato nel secondo sottopalco. Ebbene, sono morto ma la mia anima, purtroppo, non mi da pace e non posso riposarmi neanche dopo la vita... Dio dev'essere proprio arrabbiato con me per punirmi così ancora! Sicché mi rincresce informarvi che il Fantasma è tornato, ma questa volta nel vero senso della parola.

Suvvia, chiudete quelle bocche da pesci lessi e riprendete colorito al viso. Perdonate l'ironia macabra, ma non conosco altri modi per divertirmi, capite. È palese che quella fosse solo una messinscena per togliere qualsiasi dubbio sulla mia morte, così  potrò lavorare con più tranquillità, dato che sono “morto”. Il cadavere che è stato ritrovato apparteneva ad un uomo senza casa né famiglia, che stava morendo nelle vicinanze del teatro; io gli ho solo dato una mano per non soffrire ulteriormente. Se vi state chiedendo come ho completato l'opera, ecco... mi son preso la libertà di ustionargli metà volto. Non è stato piacevole, credetemi, ma purtroppo un uomo che deve difendersi deve pur compiere gesti simili. Evidentemente son l'unico mostro al mondo con metà del viso storpiato. Ironico, no?

Ora, andate a gioire e a festeggiare che il vostro nuovo patrono non vi ha abbandonato e non siete caduti nuovamente in rovina; ma tenetevi lucidi, per quanto questo possa essere nelle vostre facoltà, perché presto riceverete un'altra missiva su come dovranno procedere i lavori di restauro e su come gli operai non dovranno avvicinarsi non più in basso del terzo sottopalco. Lì sotto me ne occuperò io la notte.

Rimango, signori, vostro umile servo,

Il Fantasma dell’Opera.

 

I due direttori rilessero tre volte quella lettera, che mai sembrò così bella ed aspettata come quella, da parte di quel mostro - ironia macabra a parte. L'idea che fosse morto li aveva mandati nuovamente nello sconforto totale, tanto che la notte precedente avevano dovuto fingere un malore affinché nessuno sospettasse il collegamento con il Fantasma. Ma ora che avevano scoperto che si trattava tutto di una farsa, potevano finalmente tirare un sospiro di sollievo - sebbene l'idea che avesse dovuto bruciare un cadavere li raccapricciava parecchio. Quell'uomo aveva un senso dell'umorismo decisamente orripilante, come aveva ben scritto, ma saperlo vivo e vegeto li tranquillizzava non poco. Uno spavento come quello poteva anche starci, per così dire.

«Hai visto, Richard? Siamo salvi! Salvi!», esclamò contento André, agitando al vento quella lettera scritta in inchiostro rosso come il sangue.

«Sto seriamente pensando di andare a bermi qualcosa, proprio come ci ha consigliato. Mi ci vuole un bicchierino per riprendermi da ieri!», fece Firmin, tamburellando una mano sul tavolo, per poi alzarsi tutto pimpante dalla poltrona. «Vediamo un attimo come proseguono i lavori nella platea, diamo due direttive sui sottopalchi finché non riceveremo l'altra lettera e andiamo a berci qualcosa.»

Il compare annuì allegro e lo seguì parlottando su qualsiasi cosa gli venisse in mente, ridendo e scherzando come se fossero a tre metri da terra per la felicità. E lo erano, eccome.

 

 

 

Continua...

 

 

Prima di passare ai ringraziamenti vorrei scusarmi per il lieve ritardo dell'aggiornamento (mi son semplicemente dimenticata, con tutte le cose che ho da fare mi capita .__.) e per la cortezza di questo capitolo: l'ho riveduto parecchie volte e, nonostante non mi soddisfi totalmente, non son riuscita a migliorarlo. Spero non faccia così schifo.

sydney bristow: carissima! Come avevi previsto (e com'era facilmente intuibile) il cadavere non era di Erik... una forzatura? Dopo un anno dalla scrittura sì, mi sembra una forzatura, ma non ho avuto il cuore di cambiare le cose, dato che era essenziale che ci fosse la prova tangibile della sua morte. Come sempre ringrazio, insieme a Phénix, per i complimenti! Troppo buona! :*

Elby: ahahaha credo di sì, l'avrai! XD Prima di tutto son sempre più contenta che i momenti Phénix-Rosalinda ti piacciano, a me ha divertito tantissimo scriverli! Per quanto riguarda le tue obiezioni, giustissime tra l'altro, vediamo di risponderti: per il ballo della zingara hai perfettamente ragione, ha ballato troppo bene, ma tieni conto che il suo modo di muoversi e le sue non-regole nella danza non la mettono al di sopra delle ballerine di fila, anzi! Phénix avrà molto da imparare, e Madame Giry avrà molto su cui lavorare, eccome. :D Sull'incontro tra Christine e Phénix posso dirti che Erik stesso aveva deciso di farla entrare nel corpo di ballo, indi per cui non avrebbe dovuto temere niente; anche perché stando al musical Christine non sa niente del passato del Fantasma - tranne Raoul, lui sa, e quindi potrebbe averglielo raccontato, ma ho pensato che, per evitare di dare altri dispiaceri alla donna amata, abbia sorvolato la questione. Pensandoci bene Madame Giry dovrebbe guardarsi dalla lingua lunga della figlia, piuttosto che da quella di Christine (se ricordi aveva rischiato che le spifferasse tutto, qualche capitolo fa). Mi rendo conto che forse queste spiegazioni avrei dovuto darle durante la narrazione e che quindi venga mal interpretata la mancanza, chiedo venia! Inoltre colgo l'occasione per ringraziarti di aver trovato il tempo di partecipare al contest, io e la mia socia siamo felicissime! Siete già in otto a partecipare! *_* A presto! :)

 Keyra93: leggo del sarcasmo tra le righe, lol. Spero che questo capitolo abbia chiarito le cose :° Ho pensato cosa avrebbe pensato (scusa il doppione!) la Giry con una notizia simile e perché no? Erik avrebbe potuto anche togliersi la vita in un momento di sconforto. Sì sa che la mente di quest'uomo sia particolarmente labile! Etienne, povero ragazzo, presto diventerà un morto che cammina se non sposta i suoi interessi verso altri lidi, l'hai detto! :/ XD A presto! :)



Alla prossima, ladies!

 





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Capitolo 13
*** 12. Capitolo X ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo X

 

 

I giorni seguenti furono molto concentrati per tutti, operai, direttori e fantasmi vari. I lavori di ristrutturazione del teatro proseguivano speditamente per un duro ordine “dall'alto”, come spiegavano sempre i due manager ogni qualvolta qualcuno glielo chiedesse. Erik, infatti, aveva ordinato che si proseguisse con la massima celerità, onde evitare ritardi di alcun tipo e avere una riapertura il più prossima possibile. E non ci fu solo quella richiesta, sia ben chiaro. Da quando era diventato a tutti gli effetti l'unico ed indiscusso padrone dell'Opéra, i due direttori non avevano avuto un momento di pace. Per paura che qualcosa andasse storto, o perché Erik impartiva direttive a destra e a manca, Firmin e André si ritrovarono parecchie volte a lavorare fino a tardi, a saltare pranzi e pause per controllare che ogni minimo dettaglio fosse al suo posto. Non avevano mai avuto un padrone così esigente, ma nonostante quello che gli aveva fatto passare, erano ben consapevoli che tutto quel sudore sarebbe servito a qualcosa, tra non molto. Inoltre Erik aveva dato il via anche ai provini per il nuovo cast di cantanti che avrebbe messo in scena le prossime opere durante la nuova stagione; dopo le consuete lezioni di danza nell'edificio provvisorio a poche centinaia di metri dal teatro, lui rimaneva nascosto dietro il grande specchio e ascoltava gli attori che si esibivano in determinati atti delle opere più difficoltose. Che fosse un uomo esigente, Firmin ed André l'avevano capito da molto tempo, ma vedere con che poco cuore rifiutasse cantanti che, a parere loro, erano superlativi li lasciava sgomenti. L'unica cantante che non ebbe bisogno di provini fu Christine Daaé, cosa per altro prevedibile, dal loro punto di vista, anche se non osarono commentare in proposito.

Erik aveva bisogno di prendersi un po' più di tempo per preparare la sua ricomparsa davanti alla sua musa, e avrebbe dovuto farlo da solo, senza occhi ed orecchie indiscreti. L'occasione gli si presentò dopo i consueti provini, grazie all'aiuto di Phénix, a cui aveva confidato il suo desiderio di rimanere solo con la ragazza.

La giovane zingara l'aveva convinta ad andare a teatro, quando ormai non c'era già più nessun operaio in giro.

«Ma è pericoloso! E se ci trovasse qualcuno?», chiese Christine in apprensione, mentre Phénix entrava dalla grata che dava sulla cappella.

«Stai tranquilla, non c'è nessuno a quest'ora. L'Opéra è uno spettacolo quando è vuota!»

«Ci sei venuta altre volte?», le domandò incuriosita la ragazza.

L'altra si morsicò la lingua, dovendo stare attenta a quello che diceva. «Solo una volta, qualche notte fa. Non riuscivo a dormire e quando son passata qui vicino mi son accorta che quella finestra era aperta.», disse con un sorrisino birichino la zingara, facendo sospirare l'altra.

«Ho una strana sensazione, Sophie. Non credo dovremo essere qui.»

«Fidati di me, Christine.» La rossa le prese una mano, sorridendole ora per rassicurarla. «Non c'è niente di sbagliato se per una volta ci divertiamo un po', no? La maschera della ragazza perfetta non si addice a nessuna di noi.»

La trascinò verso le quinte, tra stanze e stanzine, corridoi e scale, facendole rivivere ogni singolo momento della sua vita dentro quel teatro. Le sovvenne in mente la prima volta che vi aveva messo piede, piccola e timida; il primo incontro con Meg e sua madre, la sua seconda famiglia; la prima volta che aveva sentito la Voce dell'Angelo della Musica; la scoperta che quell'angelo era solo un uomo folle, innamorato della musica così come di lei; l'incontro con Raoul e quella notte sul tetto... Per arrivare al giorno di Capodanno, e alla messa in scena del Don Giovanni Trionfante e tutto quello che seguì poi.

Quando arrivarono all'immensa platea, Christine restò senza fiato. Nonostante fosse un vero e proprio cantiere, quel posto conservava ancora tutto il suo splendore e tutta la soggezione che le faceva provare ogni volta che guardava quella volta decorata - ora annerita dalle fiamme - quella vastità di poltroncine rosse che non c'erano più, ma che poteva chiaramente vedere davanti ai suoi occhi castani, che immaginavano come quelli di una bambina.

«Quanto mi è mancato tutto questo...», sussurrò, accarezzando distrattamente il legno del ponte mezzo distrutto, una delle poche testimonianze rimaste dell'ultima opera recitata prima dell'incendio.

Phénix sorrise nell'ombra, mentre era china sul bordo del palco, a giocare con una delle fiammelle danzanti dei lumicini presenti. «Sai perché mettono queste candele? Non c'è nessuno, a parte noi.»

Christine si riprese dai propri pensieri, avvicinandosi alla zingara. «È un'usanza che è nata parecchi anni fa, a causa delle solite superstizioni. Accendono anche una sola luce perché così son sicuri di tenere lontano i... i fantasmi. Dicono che se le luci si spengono e il teatro, soprattutto la scena, rimangono al buio i fantasmi che vi saliranno porteranno sfortuna.»

«Ah, odio le superstizioni. Sono sciocche... come quando vengono a dirmi che uso la magia nera solo per via del colore dei miei capelli.», esclamò amaramente Phénix, spegnendo con due dita una delle candele presenti. «I fantasmi non esistono.», decretò, alzandosi.

«No, non esistono.», ripeté Christine, sospirando profondamente.

Phénix tornò dietro le quinte velocemente, sperando di sfuggire alla vista della ragazza. Christine si alzò subito, chiedendole di aspettarla, e seguì la risata divertita dell'altra. Si ritrovò sola in mezzo ad un corridoio buio, che la fece rabbrividire. Sentì il fruscio di una veste dietro di sé, ma quando si voltò non vide nessuno.

«Sophie, dove sei?», chiese a voce alta, muovendo qualche passo e guardandosi intorno.

«Sono qui! Vieni, ho trovato qualcosa!»

«Qui dove?»

«Non so, è una stanza tra le altre!»

Christine sospirò ancora una volta, appuntandosi nella mente che mai più avrebbe dato retta a quella folle, se si fosse trattato di gironzolare da sole nel teatro deserto, in piena notte. Trovò una stanza con la porta semi aperta e pensò che Phénix fosse lì, dato che vedeva chiaramente la luce tremula di una candela. Era il suo camerino. Quando vi mise piede la chiamò ancora una volta, ma fu costretta a fermarsi in mezzo alla stanza quando vide cosa ci fosse accanto alla candela, sul tavolo: una rosa rossa, listata a lutto con un nastrino di seta nero sul gambo, privo di spine.

Si dovette poggiare alla prima cosa che trovò, per evitare di cadere sulle ginocchia, senza forze. Quella rosa, quel nastrino... Non poteva trattarsi di lui... Era morto, era diventato... un fantasma, ormai.

“Sciocca, i fantasmi non esistono.”, si ripeté per rassicurarsi, mentre continuava a fissare con sguardo perso la rosa. Doveva uscire da quel posto, non avrebbe retto un secondo di più, lo sapeva. Ma non fece quasi in tempo a concludere il pensiero, che una voce iniziò a cantare dolcemente, invadendo la stanza, invadendole l'anima, accarezzandola come un paio di mani guantate di nero. Quella voce... era la sua Voce!

«Wandering child,

So lost, so helpless

Yearning for my guidance.»

Trattenne il fiato, gli occhi sbarrati verso il buio, cercando una figura che non trovava, che non sapeva se volesse vedere veramente, ma che l'attirava a sé come una calamita, come sempre. «Angelo?», domandò, con la gola secca per l'emozione. «Siete voi?»

Erik, nascosto dietro lo specchio, sorrise, cercando di placare il battito impazzito del suo cuore. «Sì, bambina mia. Sono io, il tuo... angelo.»

La ragazza non riuscì a fermare le lacrime di commozione, e cadde a terra, incapace di reggersi in piedi. Non poteva crederci, mai avrebbe pensato alla possibilità di risentirlo, mai avrebbe pensato che si sarebbe sentita così felice e leggera alla sola possibilità. «Ma voi... voi siete morto

«Lo vorresti, Christine?», domandò la Voce, facendole scuotere veementemente il capo.

«Oh, no, Angelo mio, no! È stato un dolore atroce quello che ho provato quando ho saputo che eravate morto... E ora sento la vostra voce! Sto sognando, forse?»

«Se questo è un sogno, mia dolce Christine, non voglio svegliarmi più.», mormorò Erik, prendendo un bel respiro, prima di mostrarsi a lei.

La ragazza rimase immobile com'era, guardandolo con gli occhioni spalancati per lo stupore e lo spavento, per la gioia ed il terrore che fosse tutto frutto della sua fervida immaginazione. Ma lui era lì, a pochi passi da lei, che la guardava innamorato e sereno, come se fosse la persona più felice sulla faccia della terra solo perché poteva guardarla dopo tanto tempo, ancora una volta.

Erik le si avvicinò con calma, porgendole una mano per farla rialzare.

E lei non capì più nulla quando si specchiò nuovamente in quegli occhi chiari, carichi di passione e tristezza, che tanto l'avevano lasciata sgomenta in passato e che l'avevano affascinata, portandola al punto di non ritorno. Quegli stessi occhi che ora le sorridevano lucidi per la commozione. Portava la consueta mezza maschera bianca che gli aveva visto al loro primo incontro, come se ancora avesse paura a mostrarsi a lei senza quella protezione.

Accettò la mano che le porgeva e fu scossa da una scarica di brividi quando sentì la sua presa forte contro la pelle. Si ritrovarono vicini, un solo passo si metteva tra i loro corpi, immobili. «Angelo mio, allora non sei un sogno.», mormorò sorridendo tra le lacrime, allungando la mano libera verso la guancia dell'altro, che accarezzò quasi con il timore che potesse svanire da un momento all'altro.

Erik chiuse gli occhi, imponendosi un po' di calma. Dio, era inconcepibile che, dopo tutto il dolore che aveva sofferto, potesse ancora provare un sentimento così forte per lei. Ma doveva fermarlo, doveva bloccare qualsiasi cosa prima che fosse tardi. La vista dell'anello di fidanzamento di Christine - evidentemente un altro, dato che il primo lo conservava gelosamente lui - fu un buon motivo per ragionarci sopra. «Erik. Chiamami Erik, Christine. Forse mi hai già sentito nominare come Monsieur Duval.», disse con fatica, prendendole la mano sulla guancia ed allontanandola dal suo viso.

«Voi... avete comprato il teatro?»

Lui annuì lentamente, gustandosi l'espressione di stupore che le si dipinse in volto. «Ora è finalmente mio a tutti gli effetti.» Notando che la ragazza era incapace di proferir parola, Erik proseguì. «Voglio rimediare ai miei sbagli, voglio poter sbiadire il tremendo ricordo che Parigi e questo teatro hanno di me. Non mi pento di quello che ho fatto, ma son ben consapevole di essere stato un mostro.»

«Non dite così, Erik.» Lui rabbrividì, sentendo il suo nome pronunciato per la prima volta dalla sua amata. «È vero, avete compiuto atti terribili, e ho temuto di odiarvi alla fine. Ma mi avete dimostrato che siete tutto fuorché un mostro, se mi avete lasciata libera di fuggire da voi.»

«Dopo tutto quello che ti ho fatto...» Erik le si inginocchiò davanti, tenendole le mani tra le sue grandi, e baciandogliele con disperazione. «Potrai mai perdonarmi, Christine?»

«L'ho già fatto.», mormorò dolcemente lei, chinandosi e depositandogli un leggero bacio sulla fronte, libera dalla maschera. Con lentezza, provò a sfilargliela via, decisa a guardare nuovamente il vero volto del suo Maestro, ma Erik le bloccò il polso prima ancora che potesse sfiorarla.

«Ti prego, mon Ange, non lo sopporterei ancora una volta. »

«Non mi pare di essere mai scappata inorridita per il vostro aspetto, Erik. Neanche l'ultima volta.»

«Ma sei comunque andata via, Christine.», sussurrò. L'uomo chiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo e lasciando la presa sul suo esile polso. La maschera scivolò a terra con un tonfo sordo, mentre il suo cuore prendeva il galoppo. Credeva che se non lo avesse fermato in tempo, Christine avrebbe sentito indistintamente ogni suo battito rimbombargli nel petto. Rabbrividì quando l'aria fresca gli accarezzò la guancia piagata, rossa e gonfia, ed egli voltò il capo quando a quel tocco lieve si sostituirono le dita affusolate della giovane cantante, per niente spaventata dal suo aspetto. «Christine...»

La ragazza si morse un labbro, rendendosi conto di cosa stesse realmente facendo, in quale situazione compromettente si trovasse. Si sentiva in pace con stessa, lì con lui, ma al tempo stesso tremendamente in colpa al pensiero di Raoul, che aveva rischiato la sua vita pur di liberarla da quell'uomo. «Tornerete a darmi lezioni di canto, Maestro?»

Erik sorrise, stringendole la mano sul viso sfigurato. «Sono qui per chiederti questo, bambina mia.»

«Posso fidarmi di voi?»

Quella domanda gli fece più male di quanto Christine potesse immaginare, ma Erik tentò di non darlo a vedere. «Non ho intenzione di fare del male a te, tanto meno al tuo fidanzato. Vi ho lasciati liberi, non tornerò a tormentare la vostra vita.»

La giovane cantante non seppe se provare gioia o meno nel capire che il suo Angelo non l'amava più come una volta. Era felice perché, nonostante lui in quel momento sembrasse più emozionato di lei, quella frase aveva messo in luce il fatto che si fosse liberato da un peso gravoso; d'altro canto sapere che non l'amava più pungeva in modo fastidiosissimo il suo lato femminile. «Son felice di sentirvelo dire.»

Phénix, nascosta dietro un angolo della stanza, decise di non voler ascoltare altro di quell'incontro e tornò in silenzio da dove era venuta, così che Christine credesse che non si fosse accorta di niente. Ma lei aveva sentito, aveva visto... E non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di lui, senza la maschera, ai piedi di lei, supplicante ed innamorato. Si fermò contro una parete in legno, leggermente bruciata, e chiuse gli occhi, per calmarsi un po'. Non avrebbe sopportato quella vista neanche per altri due secondi.

E non riusciva a capire il perché.

Quando Christine tornò da lei, dopo qualche minuto, era raggiante e sorridente come mai l'aveva vista. «Dov'eri finita?», le chiese, alzando lo sguardo da un vecchio abito di scena del Faust che si era messa contro il petto per provarlo.

La cantante arrossì, ma nella penombra l'altra non se ne accorse. «Son rimasta a curiosare nel mio camerino... I ricordi son tanti...»

«E quella?», chiese Phénix, guardando la rosa rossa che teneva in mano.

Christine la rigirò tra le mani, sorridendo timidamente. «Sai, Sophie, forse i fantasmi non esistono. Ma gli angeli sì, loro esistono.»

 

 

 

Continua...

 

 

Buon pomeriggio a tutti! Nonostante siano passati mesi e mesi da quando ho scritto questo capitolo, continua a non soddisfarmi pienamente, oltre al fatto che è anche più corto del precedente... Forse perché mi infastidisce aver descritto un Erik ancora troppo coinvolto da Christine, o forse è il come l'ho descritto... Non mi piace, quindi se mi direte che fa letteralmente schifo avete pienamente ragione. ;___;

Ringrazio tantissimo i tre angioletti che, puntuali, recensiscono sempre ogni capitolo: sydney bristow, Elby e Keyra93, siete dolcissime e simpaticissime! Son veramente felice che vi piaccia l'idea di un rapporto che nasca prima dall'amicizia, d'altronde l'Erik che immagino io è ancora troppo preso da Christine per innamorarsi perdutamente della prima donna che incontra - immagino si sia capito da questo pessimo capitolo!

Perdonatemi se non rispondo a tutte e tre, ma son stanca e mezzo influenzata! ;_; Ci sentiamo la settimana prossima, spero di stare meglio! (;

Alla prossima, un abbraccio e buon fine settimana!

 





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Capitolo 14
*** 13. Capitolo XI ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XI

 

 

La notizia che quella mattina lesse sul giornale non le piacque per niente.

“Nuovi indizi preziosi sul caso dei due zingari assassinati nel mulino.”, diceva il titolo a lettere cubitali.

“Sono passate settimane dal giorno del ritrovamento dei due cadaveri nel mulino diroccato alla periferia della città.

Ebbene, uno zingaro, che per comodità chiameremo signor X, dato che non ha rilasciato nominativo, ha denunciato alla gendarmeria di conoscere chi abitava quell'edificio diroccato.

«Ci abitava una donna, Phénix si chiama. La Fenice.», racconta. «È una zingara come me ed è riconoscibile subito perché ha i capelli rossi come il fuoco dell’Inferno e gli occhi son verdi, così verdi da sembrare due gemme di smeraldi. Lei abitava lì da sola, poi è sparita. La stavo cercando perché è una mia cara amica, ma sono settimane ormai che si son perse le sue tracce. Sono preoccupato.»

Ma non è tutto. Oltre all'identità della ragazza si è aggiunto un particolare molto interessante, che potrebbe essere la svolta del caso. «Uno dei due uomini che son stati uccisi, quella mattina, aveva detto di aver visto un uomo ammantato di nero in sua compagnia, molto alto e ben piazzato. Forse è stato lui ad ucciderli?»

Alla domanda «Perché quei due erano lì? Forse per spiarla?», il signor X ha risposto così: «Eravamo preoccupati per lei. Tutta la nostra comunità è in apprensione per la piccola Phénix. Temiamo che qualcuno l'abbia rapita o peggio ancora...»

Il mistero si infittisce, ma questi nuovi indizi forse aiuteranno la gendarmeria a compiere il loro lavoro ed a trovare il colpevole una volta per tutte. Nel frattempo, invitiamo tutta la popolazione di Parigi e delle zone vicine ad avvisare le forze dell'ordine qualora dovessero vedere la ragazza descritta sopra. Magari lei saprà rispondere a tutte le domande su quello che è successo.

Madame Giry alzò lo sguardo dall'articolo di giornale, per guardare Phénix, bianca come un cencio.

«Mi arresteranno?», domandò rocamente.

L'altra sospirò pesantemente. «No, se non ti trovano. Spero solo che nessuno colleghi quella descrizione con te. Comunque sia tu non sei accusata di omicidio, mi sembra di capire. Stanno cercando l'uomo vestito di nero. Ma se prendono te, è ovvio che arriveranno a lui.»

«Non parlerò, se dovesse capitare. Posso anche dire che quell'uomo si è inventato tutto.»

«Phénix, non è così semplice mentire alla polizia.»

«Beh, so essere una persona convincente, Claire Giry. E non ho intenzione di tradire Erik per salvare me. Per chi mi avete presa?»

La donna sorrise di fronte alla determinazione della giovane. Erik aveva ragione: era testarda, e in quel caso poteva solo essere un bene. Ma conosceva i metodi poco ortodossi dei soldati, anche la persona armata delle più buone intenzioni di non parlare alla fine avrebbe ceduto.

«C'è solo una cosa che mi preoccupa sul serio.», mormorò Phénix, rannicchiandosi sulla sedia e accarezzando la testolina del piccolo Dante. «Lucas, il cugino di quei due, è probabile che si stia muovendo per cercarmi. Quell'uomo è pericoloso... Ed è l'unica persona al mondo che mi spaventa veramente.»

Claire le si avvicinò, passandole una mano sulle spalle. «Non ti troverà, vedrai. Quando Erik verrà a sapere cosa sta accadendo farà di tutto per proteggerti.»

«È proprio questo che mi spaventa. Lucas non mi farebbe mai del male, ma so cosa potrebbe fare se si trovasse un ostacolo come Erik sulla strada. Non voglio che gli succeda niente a causa mia. E non voglio che anche voi passiate guai.»

«Bambina mia, Erik ha dovuto risolvere problemi ben più grossi di questo. Vedrai, non si metterà in pericolo, stai tranquilla. Quanto a me e alla mia famiglia, non saresti qui se avessi avuto paura delle conseguenze.»

«Lo spero.», sussurrò la ragazza, in un sorriso di circostanza. «Non me lo perdonerei mai.»

Madame Giry la coccolò come se fosse sua figlia, poi decise di cambiare discorso, per non farla pensare eccessivamente a quella brutta situazione. «Sai, mi son accorta di un certo interesse di Étienne nei tuoi confronti.», buttò lì, mentre ripiegava il giornale con cura.

Phénix arrossì peggio dei suoi capelli ed abbassò lo sguardo sulle punte dei piedi. «Voi dite?»

«Oh, sì. So riconoscere uno sguardo innamorato da una semplice amicizia.»

«È così gentile e carino, con me...», disse con un sorriso sognante. «Ma ho paura che soffra.»

Madame Giry alzò un sopracciglio, perplessa. «Perché dici così?»

L'altra rispose scrollando le spalle. «Perché sento che andrà a finire così, se mai dovesse iniziare. Lo sto prendendo in giro, facendogli credere che sono una persona invece che un'altra.»

«Quello è il minimo, Phénix. Lo stai facendo per proteggerti, solo per quello. O c'è dell'altro?»

La zingara si morsicò un labbro, impacciata. «Ecco, non è solo per quello... È complicato...»

«Me ne vuoi parlare?»

Phénix si sentì andare a fuoco, anche più di poco prima. Mai si era sentita così al pensiero di un uomo. Mai aveva desiderato così tanto potergli stare accanto, felice come non lo era mai stata, anche solo per scambiare due chiacchiere.

Peccato che cadde nello sconforto più totale quando si rese conto che non era Étienne l'uomo in questione.

«No, non è così importante, davvero.», si sforzò di sorridere la giovane, agitando noncurante una mano. «È che non sono molto brava in questo genere di situazioni.»

«D'accordo. Però non esitare se vuoi parlare, va bene?»

Phénix annuì riconoscente, ma non aggiunse altro. Aveva altri problemi per la testa per ammettere a voce alta quello che in quei giorni si stava muovendo dentro di lei e parlarle apertamente... di lui.

In quel momento Meg fece la sua comparsa in cucina, osservando curiosa l'espressione crucciata delle due donne. «Cosa è successo?»

Claire sorrise, scuotendo il capo. «Niente, piccola mia. Hai bisogno di qualcosa?»

«Veramente avrei bisogno di qualcuno. Sophie, mi accompagneresti dal sarto? Dovrei far aggiustare quest'abito.» Mostrò il vestito che teneva tra le braccia, di color vinaccio e molto raffinato. Aveva un piccolo strappo nell'attaccatura del braccio, ma niente di irreparabile. O almeno, lei sperava così, dato che si trattava del suo abito preferito.

«Si è rotto? Fammi vedere.»

Meg lo porse alla madre, indicandole il punto in cui si era scucito. «Lo stavo infilando e crack! Si è rotto!»

«Non è che stai ingrassando?», le chiese bonaria la madre. «Dovrò dire a Rosalinda di preparare meno dolci.»

«Maman!», esclamò indispettita l'altra, facendo ridere le due donne.

«Comunque non è il caso che vada dal sarto per un buco del genere. Te lo sistemerò io più tardi.»

Meg sbuffò, vedendosi in fumo il suo piano per distrarsi un po' con la sua nuova amica. Aveva in mente di passare un po' di tempo tra donne, per chiacchierare, per confidarsi un poco... Le piaceva quella ragazza. «Ma, Maman...»

«Niente “ma”, Meg. Se possiamo risparmiare qualche soldo non vedo perché non farlo.»

«D'accordo.», borbottò la biondina incassando la testa sulle spalle. Lanciò un'occhiata di scuse all'altra ragazza e ritornò in camera mestamente.

Quando fu sicura che la figlia si fosse allontanata, Claire chiuse la porta per non farsi sentire. «Volevo chiederti, com'è andata l'altra notte?»

Phénix cadde dalle nuvole, non capendo inizialmente a cosa si stesse riferendo. «L'altra notte?»

«Mi pare di ricordare che Erik volesse incontrare Christine... È andato tutto bene?»

Lei annuì, cercando invano di placare il battito del suo cuore e di apparire più tranquilla di quando non fosse. «Sì, è andato tutto bene... O almeno credo, non son stata ad origliare. Non mi sembrava il caso.» Mentì senza arrossire, ma purtroppo per lei Madame Giry non le credette. Sarà stata anche una brava attrice, la gitana, ma lei non veniva facilmente raggirata dalle sue abilità.

«Non so perché ma mi riesce difficile non pensare al contrario.» La guardò con eloquenza, mentre ripensava a quando l'aveva scoperta mentre ascoltava la sua discussione con Erik.

«Per chi mi avete presa? Per una spia?», esclamò indignata la zingara, facendola ridere.

«No, solo per una ragazza molto, troppo curiosa.»

Phénix voltò lo sguardo altrove, cercando di non pensare a quella notte. Le si era stretto il cuore vedendolo ridotto così, ad un cagnolino che si donava completamente nelle mani della giovane, che scodinzolava ad ogni minimo gesto di affetto, che acconsentiva addirittura a rimanere smascherato davanti a lei. Aveva paura che Erik cadesse nuovamente nella ragnatela dell'amore per Christine e non voleva che soffrisse ulteriormente. Ed il fatto che non sapesse neanche lei da dove iniziare per aiutarlo a dimenticarla la infastidiva come non mai. Cosa avrebbe potuto fare, del resto, se lui d'ora in avanti fosse tornato a cantare con lei, a parlare e ad instaurare un rapporto così forte che neanche il dolore aveva spezzato?

Si sentiva inadeguata e... inconsapevolmente gelosa. Tremendamente gelosa. Vedere quale legame ci fosse ancora tra loro le aveva fatto capire quanto tenesse a lui, anche più di quello che aveva sempre pensato. Ma lei, in fondo, cos'era se non solo un'amica? Non doveva essere felice per lui, se lui piangeva dalla gioia per aver ritrovato la donna amata?

Forse era lei quella che aveva bisogno di aiuto, prima che rischiasse di perdere completamente la testa.

 

La notizia che Christine Daaé sarebbe tornata a calcare le scene dell'Opera come nuovo soprano fece il giro di Parigi nel giro di pochi giorni. Nessuno poteva dimenticarsi della sua splendida voce, potente e soave come il canto di una sirena, e molti accolsero con gioia questa novità. Raoul stesso fu ben lieto di sapere che la sua fidanzata avrebbe ripreso ciò che aveva tristemente fermato. Amava sentirla cantare e non vedeva l'ora di poterla nuovamente applaudire come la vera Diva del teatro. Non gli importava di cosa avrebbe potuto dire l'alta società sul suo conto - molti, infatti, non gli avevano ancora perdonato di essersi fatto incantare da una semplice ballerina di prima fila e successivamente cantante - ma non gli era mai importato del pensiero altrui, né aveva intenzione alcuna di iniziare a dargli adito proprio ora.

Nessuno aveva ancora avuto l'onore e la possibilità di conoscere il fantomatico Erik Duval di cui tutti parlavano, ma di cui si sapeva poco e niente. Ma chiunque egli fosse, Raoul de Chagny gli sarebbe stato grato per sempre per aver pensato alla bravura della fidanzata come motivo di trionfo dell'Opera. Sicuramente sapeva riconoscere le vere stelle da quelle che passavano per tali solo perché non c'era altra scelta. Il Fantasma dell'Opera era finalmente morto - anche se ancora non era andato a constatare che si trattasse veramente di lui - ma di una cosa era certo: era stato grazie a lui che ora Christine aveva acquistato quel ruolo. Poteva solo essergliene grato, ma solo ed esclusivamente per quello. Il ricordo di quella corda che gli aveva stretto al collo, mesi prima, premeva fino a soffocarlo la notte.

«Oh, cugino, avete letto le ultime notizie su quei due zingari che avevano ucciso qualche settimana fa?», gli domandò Faucon, mentre sellava il suo cavallo.

Raoul scosse il capo. «No, oggi non ho ancora letto il giornale. Ci sono novità?»

«Qualcuno ha descritto chi abitava nel mulino.»

«Ah sì?», chiese poco interessato l'altro, salendo in groppa al suo destriero.

«Mi venga un colpo, Raoul, ma sembra la descrizione di mademoiselle Rembrant!»

A quelle parole il Visconte tese le orecchie. «Mademoiselle Rembrant? Perché?»

«Questa persona che ha parlato descrive una zingara - Phénix si chiama - dai capelli rossi come il fuoco, occhi verdi come smeraldi... Quante donne avete incontrato in vita che rispondono a queste caratteristiche?»

Raoul guardò stranito il cugino, ridendo poi divertito. «Suvvia, non mi volete far credere che pensiate che mademoiselle sia quella zingara?»

Jacques storse le labbra, indispettito. «Non vedo perché dobbiate ridere delle mie supposizioni. Sto solo facendo notare che si somigliano parecchio. E se leggeste quell'articolo ve ne convincereste anche voi.»

«Il mondo è pieno di donne con occhi verdi e capelli rossi, cugino. Credetemi, so riconoscere una persona sincera da una falsa. E vi posso assicurare che mademoiselle non è una zingara, tanto meno si chiama Phénix.» Il Visconte agitò le briglie e il suo cavallo iniziò a muoversi, seguito poi da quello del cugino, entrambi diretti ad una nuova battuta di caccia.

«Ah, quello zingaro parla anche di un uomo con un mantello nero che era in compagnia della ragazza. Che ne pensate?»

«Che è la polizia a dover fare le indagini, non noi.», rispose indifferente Raoul. Chissà, magari accidentalmente poteva anche sparargli un pallettone in mezzo alla fronte e toglierselo dai piedi una volta per tutte...

«Suvvia, sto solo cercando di fare conversazione!», disse esasperato il cugino, allargando le braccia.

«E io vi sto prendendo in giro, Jacques!»

L'altro agitò una mano, scoraggiato. «Ah, forse avete ragione. Del resto che posso saperne io? Sono solo un medico.»

Il Visconte scosse il capo, tra il divertito e lo sconcertato, ma divenne serio d'improvviso. «A proposito, non vi ho ancora ringraziato a dovere per aver soccorso Christine, la scorsa notte. Vi devo un favore.»

Faucon scrollò le spalle. «Ho fatto solo il mio dovere. E piacere, se si tratta della fidanzata di mio cugino. Non dovete ringraziarmi.»

Raoul abbozzò un sorriso, nel rendersi conto che quell'uomo era pieno di sé, ma nonostante la sua arroganza e la sua boria, gli sembrava si stesse imbarazzando. «Chi arriva ultimo dovrà tornare a casa a piedi!», esclamò il Visconte, spronando il suo destriero e lasciando l'altro per un momento a bocca aperta.

«È increscioso che non mi aspettiate!», gridò Faucon offeso, seguendolo al trotto per non perdere.

Del resto, odiava perdere.

 

 

 

Continua...

 

 

E dopo un po' di ritardo nell'aggiornare - spero mi perdonerete, son veramente piena di cose da fare, studiare e presentare fino al collo - rieccomi qui! E infatti mi tocca scappare praticamente subito a studiare - qualcuno sa dove posso trovare qualche ora in più da aggiungere alle consuete 24? ;_;

Ringrazio infinitamente sydney bristow e Keyra93, è bello leggervi in ogni capitolo! *_* Per rispondere a qualche dubbio ammetto che scrivere parti dei testi del musical non sia un'idea originalissima, ma era un motivetto che secondo me ben si sposava con lo smarrimento di Christine in quel momento... anche perché non sono solita inserire canzoni nel mezzo dei miei racconti - a meno che non lo voglia la situazione, come qualcuno che canta, ecco xD - quindi cerco sempre di evitarlo. :D

E grazie anche a tutti coloro che hanno aggiunto questa Cosa tra i preferiti, tra le seguite e quelle da ricordare!

Spero di avere il tempo per aggiornare la settimana prossima, anche se dubito altamente. Nel caso ci vediamo quella dopo. Buon fine settimana! (;

 

ps: ne approfitto per ricordare a chi partecipa al The Phantom of the Opera Contest che avete ancora tempo fino al primo Dicembre per consegnare le vostre creazioni! Se avete bisogno della proroga chiedete pure! :)

 

 





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Capitolo 15
*** 14. Capitolo XII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XII

 

 

Tieniti sveglia questa notte, verrò a trovarti. Erik.

La grafia era ordinata ed elegante come sempre, del suo consueto color cremisi che molto spesso serviva a mettere in soggezione i destinatari delle sue missive. Sarebbe andato a trovarla e lei era lì, sveglia ad aspettarlo, senza saper bene il motivo della sua visita. Probabilmente aveva saputo della testimonianza su di lei e voleva metterla personalmente in guardia da ogni pericolo. Forse aveva in mente qualche piano per metterla a riparo? Era difficile cercare di capire cosa passasse per quella mente geniale.

Accarezzò la testolina di un assonnato Dante, che aprì leggermente gli occhi, sbadigliò con un miagolio e poi si rimise a sonnecchiare, come se niente fosse. Phénix rilesse il biglietto che Madame Giry le aveva fatto avere quel pomeriggio, dopo la lezione di ballo, e sorrise felice, forse anche troppo, alla sola idea di rivederlo. Ogni istante che trascorreva insieme a lui era oro colato per lei e, nonostante tutti gli sforzi, le risultava inutile opporsi alle emozioni che provava in sua compagnia. Si sentiva protetta e voluta bene. Una sensazione che non saggiava da tempo.

Quando, dopo la mezzanotte, lo vide comparire sul davanzale della finestra, a parecchi metri di altezza dalla strada, per poco non le venne un colpo. Corse velocemente verso di lui, aprendola il vetro in fretta, nel timore che potesse perdere l'equilibrio e cadere ancor prima di entrare.

«Ma sei impazzito?», esclamò a voce bassa, per non svegliare nessuno, e porgendogli le mani per aiutarlo.

Erik entrò nella camera della soffitta con un agile balzo e si limitò a sorridere sarcastico. «Che non ci sono tanto con la testa mi pareva l'avessi capito da tempo

Phénix gli fece una smorfia, incrociando indispettita le braccia. «Potevi entrare dalla porta, come tutti i comuni mortali. Non sarebbe stato un problema per te, immagino.»

«Ricorda, Phénix, io non uso le porte, io attraverso i muri.»

Lei roteò gli occhi, davvero preoccupata che potesse perdere l'equilibrio e cadere dal quarto piano della mansarda. Con che coraggio, poi, si metteva a scherzare? «A cosa devo la visita? Hai letto la notizia sul giornale?»

Il corpo dell'uomo divenne subito un fascio di nervi. «Sì, Claire mi ha procurato l'articolo, e converrai con me che la situazione non sia delle migliori. Molti potrebbero ricollegare la zingara a te.»

«Non si sbaglierebbero di certo.», commentò amaramente lei.

«Non preoccuparti, finché ci sarò io a proteggerti non potrà succedere niente che non sia nelle nostre aspettative.», le disse dolcemente.

Phénix sorrise e riuscì per un pelo a scacciare l'impulso di arrossire e di abbracciarlo. Non era il caso, si ripeté mentalmente.

«Tuttavia non son venuto qui per parlare di questo. Non stanotte, almeno.»

La ragazza lo guardò curiosa, mentre un sogghigno per niente promettente gli increspava le belle labbra. «Ah, no? Non mi dire che avevi una voglia disperata di vedermi?»

Erik si lasciò sfuggire una risatina divertita, scuotendo il capo. Le prese con gentilezza una mano, guidandola giù per la casa addormentata, verso il giardino sulla cucina.

«Che intenzioni hai?», chiese sempre più perplessa, quando si trovarono sotto il cielo stellato. Ma un dito guantato le si posò sulle labbra, intimandole il silenzio. Erik le coprì il capo con il foulard che le girava intorno al collo, poi la riprese per mano, portandola tra le strade deserte di Parigi senza dire una parola. Phénix, come una bambola nelle sue mani, lo seguì senza chiedere altro, dato che aveva ben capito che non sarebbe riuscita a scoprire niente di quello che gli stava frullando in mente, se non una volta arrivati a destinazione.

E la loro destinazione fu l'Opera, silenziosa e tenebrosa come l'aveva lasciata l'ultima volta. Solo che ora non c'era Christine a farlo piangere di gioia. C'era solo lei con lui, e anche se non era commosso per il fatto di averla affianco, ecco... Sembrava per lo meno felice di essere in sua compagnia. Altrimenti non si sarebbe scomodato per andare a prenderla, no?

«Voglio mostrarti una cosa.», le sussurrò, mentre birichino la conduceva per le scale a chiocciola che portavano in alto, sempre più in alto. Arrivarono ad una porta chiusa con un passante in ferro, che Erik non ci mise molto a far saltare con pochi e sapienti gesti. Fu così che si ritrovarono sul tetto del Teatro, che dominava l'intera Parigi dormiente. C'era più fresco lassù, ma Phénix non se ne curò. Era letteralmente incantata. Mai aveva potuto ammirare la città dall'alto, mai di notte. Parigi era magica e misteriosa, proprio come magico e misterioso era l'uomo che aveva accanto.

«È splendida.», mormorò, avvicinandosi alla balaustra, accanto ad una delle grandi statue presenti.

Erik sorrise e le strinse una mano, per avere la sua attenzione. «Ora, guarda il cielo. Vedi quella stella?»

Phénix alzò il naso all'insù e cercò di seguire la direzione che le indicava il dito di Erik.

«Si chiama Phénix. Delle volte salgo quassù e osservo il cielo, ma quella stella ancora non l'avevo notata. Ho voluto darle il tuo nome.»

Gli occhi della ragazza si spalancarono per lo stupore e per qualche istante non riuscì a spiccicare parola. «Erik... dici sul serio?»

«Ti sembro uno che scherza?», le disse canzonatorio, facendola arrossire. «Sei una stella, Phénix, una stella che ha illuminato il mio cammino quando mi stavo perdendo.», le confessò seriamente.

«Oh, Erik! Accidenti a te, mi fai piangere!», esclamò commossa, abbracciandolo forte, senza parole.

«Ti faccio notare che non è un crimine.», disse, accarezzandole il capo.

«È che... È la cosa più bella che qualcuno mi abbia mai detto, Erik. Grazie.»

Lui sorrise, guardando la volta stellata. «Sai, qualcuno qualche secolo fa mi ha rubato il nome. Ho letto da qualche parte che esiste una costellazione visibile solo nel sud del mondo, e si chiama la Costellazione della Fenice. Curioso, vero?»

«Oh, son importante, allora!», scherzò la zingara, asciugandosi gli occhi dalle lacrime.

«Sì, lo sei davvero.»

Phénix abbassò lo sguardo, a disagio. «Erik, non so perché tu stia facendo tutto questo per me, ma non riesco a pensare a nulla di tanto importante da fare per ricambiare. Non ho niente da darti, per farlo.»

«Non ti sto aiutando per ricevere qualcosa in cambio, stupida.», la rimproverò con tono duro. «Al massimo dovrai sopportarmi per qualche tempo.»

«Anche tutta la vita, se necessario.» Phénix si nascose contro il suo petto, per nascondere un forte imbarazzo per quella frase che in realtà aveva pensato, ma era evidente avesse pronunciato a voce un po' troppo alta.

Erik, d'altro canto, rimase imbambolato, mentre il significato di quelle parole gli rimbalzava in mente da una parte all'altra, accelerando il battito del suo cuore. Tutta la vita? Con lei al suo fianco?

Non illudermi anche tu, pensò, stringendola dolcemente tra le braccia. Non voleva innamorarsi ancora, non voleva ripercorrere gli stessi errori, non voleva ricadere in quella ragnatela chiamata amore, perché era sicuro che non sarebbe riuscito a liberarsi una seconda volta.

«Sai cosa mi piacerebbe, ora?», chiese Phénix, sorridendo di nascosto nel sentire il battito veloce del cuore di Erik.

«Sì?»

«Sentirti cantare.»

Erik sorrise, facendo scivolare la mano sinistra lungo la schiena della ragazza, mentre l'altra si univa a quella di lei. «Mi concedete l'onore di un ballo, in cambio?»

«Con piacere, monsieur.», annuì lei, improvvisando un goffo inchino.

Ballarono sulle note di una musica inesistente, cullati solo dalla voce di Erik che cantava seducente una canzone che lei non aveva mai sentito, ma di cui si era innamorata subito. Era incredibile quanto la voce di quell'uomo fosse ammaliante e calda; un dono che copriva totalmente la bruttezza del suo viso piagato, come a farsi beffe del fatto che non è la bellezza esteriore a rendere un uomo affascinante e bello.

Ma lei l'aveva capito da parecchio tempo, ormai. Non aveva provato disgusto od orrore alla vista del suo viso deformato, ma solo un groppo alla bocca dello stomaco per aver formulato un unico pensiero che l'aveva lasciata spaventata. Lo trovava bellissimo, così bello da farle male. E non solo per il suo aspetto prestante, per i suoi splendidi occhi, o per le sue spalle larghe... La sua bellezza andava ben oltre il fisico - che, se ne rendeva conto ogni volta che lo guardava, a discapito di ciò che si ostinava a pensare lui, la faceva rabbrividire con la sola presenza - ma aveva un qualcosa di magnetico nei suoi modi affabili e raffinati, nella sua immensa cultura che era impensabile per un uomo che aveva vissuto all'ombra del mondo, nella sua aura di mistero che si portava dietro ad ogni passo, ad ogni sguardo... Lui e la sua irrefrenabile passione per la musica, la sua splendida voce, il suo entusiasmo nel comporre... Adorava vedere quel luccichio di eccitazione negli occhi quando parlava o pensava ai suoi prossimi progetti per il suo teatro.

Fu quando si accorse che Erik la stava osservando da qualche secondo che si risvegliò dai suoi pericolosi ragionamenti.

Oh, avrebbe pagato oro pur di sapere cosa le stesse frullando per la testa in quel momento! Poter carpire almeno un piccolo frammento dei suoi pensieri, sapere se fosse contenta di essere con lui, o se fosse voluta essere in compagnia di qualcun altro, magari di quel bel ballerino che le faceva la corte.

«Phénix, sei felice qui con me?», le domandò, interrompendo per un attimo la loro danza ed il suo canto. La ragazza, in risposta, gli sorrise candidamente. Forse non le aveva mai visto un'espressione così tranquilla e beata. O forse lo stava solo sognando?

«Non immagini neanche quanta paura abbia che tutto questo possa finire, Erik.», sussurrò Phénix, mentre un'altra lacrima le sfuggiva lungo una guancia. «Ogni giorno mi chiedo se non sia tutto frutto della mia immaginazione, mi chiedo come sia possibile che sia capitato a me, proprio a me! Poi vedo Madame Giry, Meg, Rosette... e te. E capisco che è tutto vero, ed è bellissimo sapere che ho persone così splendide che son pronte ad aiutarmi e a rendermi felice come nessuno aveva mai fatto!»

Erik le asciugò le lacrime con i pollici, indugiando un po' troppo sul suo viso minuto.

Sei bellissima.

Avrebbe tanto voluto dirglielo. Ma non ci riuscì. Perse completamente l'uso della parola quando si rese conto che le sue labbra si stavano spaventosamente avvicinando a quelle della ragazza. Neanche riusciva a fermarsi, ad imporsi un po' di controllo, tanto la sua mente l'aveva abbandonato, lasciando spazio solo all'istinto. Ricordava ancora il sapore delle sue labbra dalla prima ed ultima volta che si erano baciati, in quel vicolo, per sfuggire alle attenzioni dei soldati. Come sarebbe stato baciarle nuovamente, per davvero?

Riuscì solo a sfiorarle in una carezza, perché fu costretto ad aprire di scatto gli occhi quando Phénix fu colpita dall'ennesimo forte attacco di tosse, che Erik aveva notato da tempo la colpiva sempre più spesso. E, guardandola meglio, la trovava più pallida e sciupata del solito. Eppure ora viveva in una casa confortevole e mangiava, anche parecchio da quando Claire gli raccontava. Allora cos'era quell'aspetto e quella tosse? Si stava per caso ammalando?

«Scusami.»

La sentì mormorare così piano che a sento riuscì a capirla. Sospirò pesantemente, pensando che stava per commettere una sciocchezza, se non ci avesse pensato lei a rimediare alla cosa. «No, perdonami tu, Phénix. È che...»

«No, non dire niente.», lo bloccò prontamente alzando le mani all'altezza del suo viso. «Stavamo per fare una sciocchezza e la tosse l'ha evitato. Del resto tu... tu ami Christine, vero

«Sì, io... amo Christine...», annuì Erik, che però apparve meno convinto di quanto non volesse mostrarsi.

«Ecco.» Phénix deglutì a fatica, cercando disperatamente di pensare a tutto fuorché a quello che stava per succedere solo pochi istanti prima.

Erik la guardò stranito, come se fosse in trance, su di un altro pianeta. La stava per baciare. Dio, stava per baciare Phénix! Ma che gli era saltato in mente? Era forse impazzito del tutto? Lei era la figlia di quei due poveracci che erano morti per colpa sua, era la ragazza che aveva deciso di aiutare, era diventata la sua amica, la migliore dopo Claire... Voleva rovinare tutto e perdere ciò che aveva duramente conquistato? E poi, lui era ancora follemente innamorato di Christine, la sua piccola Christine! E la stava per tradire... inammissibile da parte sua una debolezza del genere.

Ma veramente l'ami ancora come un tempo?

«Erik?»

Allora perché non riusciva a capacitarsi del fatto che avrebbe voluto tenerla saldamente a sé e baciarla con forza, se avesse opposto resistenza? Aveva sentito l'impulso imbarazzante di sentirla vicina, ancora di più, voleva baciarla con tutto l'ardore di cui era capace, voleva stringerla a sé e non farla andare via mai più, voleva... amarla, lì, in quel preciso istante. Non capiva cosa gli fosse successo quella notte, ma era ovvio che quella ragazzina l'avesse stregato. Altrimenti non si sarebbe comportato certo in quel modo indecoroso.

«Erik, tutto come prima, vero?»

«Sì, sì. Tutto come prima.», disse, senza pensarci troppo e sorridendole, non molto sicuro. «Tutto come prima.» Prese un bel respiro, cercando di calmarsi un poco e facendole un cenno col capo. «Vieni, ti riporto a casa. Stai tremando.»

Phénix annuì, senza aggiungere altro, mentre si stringeva nelle spalle. Anche perché, in tutta sincerità, non avrebbe saputo che dire.

 

 

 

Continua...

 

 

Oh perbacco! Ho talmente la testa tra le nuvole che mi ero scordata di aggiornare! °_°

Potrete perdonarmi? ;_; Sto esaurendo lentamente, il che non è un bene, data la mia già precaria sanità mentale. Per recuperare il perduto e farmi perdonare pubblicherò anche il capitolo successivo, spero apprezziate. *O*

A presto!

Marta.

 





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Capitolo 16
*** 15. Capitolo XIII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XIII

 

 

Françoise Lafayette era bella, su quello nessuno poteva permettersi di ribattere. Era bella e lei lo sapeva. Ed era anche una brava ballerina, come se non bastasse. E sapeva bene anche questo. Danzava da quando aveva imparato a stare sulle sue gambe ed era sempre stata seguita dagli insegnanti migliori, dato che la sua famiglia poteva permetterselo. Quando poi avevano aperto le audizioni al Teatro dell'Opera di Parigi aveva fatto i salti mortali pur di parteciparvi, nonostante i genitori non fossero molto convinti della sua decisione. Avevano ben altri progetti per la loro unica figlia ma, come spesso accade, preferirono vederla felice che dover sopportare una scelta imposta da altri. Era questo, infatti, uno dei suoi migliori difetti: era imperativa e tutto doveva andare secondo ciò che lei decideva; nessun altro aveva il diritto di scegliere per lei, se non lei stessa. Da qui all'arroganza pura il passo fu veramente corto. Non era certo la ragazza più amata tra il resto del corpo di ballo, anzi; ma a lei bastava che venisse rispettata e che nessuno le mettesse i piedi in testa o le passasse avanti. Lei era la migliore, e su questo non voleva discutere.

Ma già da quando le scene furono tutte per Christine Daaé, quella ballerina diventata soprano dal nulla, Françoise iniziò a nutrire un profondo senso di rabbia e frustrazione, che traboccò quando aveva infine fatto la sua misteriosa comparsa quella strega di Sophie Rembrant, che gliela raccontava giusta quanto un pugno in un occhio. Non le piaceva quella ragazza. Non le piaceva perché piaceva a tutti. Chi era e come si permetteva di oscurarla così, di colpo? Non sapeva neanche ballare decentemente ed era già entrata a far parte a tutti gli effetti del corpo di ballo! Non solo: era la cocca di Madame Giry, amica di tutti e l'oggetto del desiderio di Étienne, il ragazzo più carino dell'intero corpo di ballo maschile. Tutto ciò non poteva sopportarlo la bella Françoise, abituata a ben altro fin da quando era piccola, e per questo quando lesse l'articolo che aveva fatto il giro di Parigi le sue supposizioni negative su quella ragazza aumentarono a vista d'occhio. Lo diceva, lei, che quella strega nascondeva qualcosa: era strana, misteriosa e comparsa dal nulla. La intimoriva, con quegli occhi felini che sembravano scrutarle l'anima e odiava gli scherzetti che si divertiva a fare usando trucchi di magia tra una lezione e l'altra. Se il Fantasma dell'Opera fosse stato ancora vivo avrebbe detto che era sua figlia, o peggio ancora l'amante!

«Credi veramente che Sophie possa avere a che fare con la zingara di cui si parla tanto?», chiese una sua compagna, mentre tornavano ognuna nella propria casa.

«Non mi meraviglierei certo se dovessi scoprire che sia veramente così.», fece Françoise, togliendosi un ciuffo corvino dalla fronte. «Non ha modi ed è ignorante su parecchie cose, come se fosse cresciuta in mezzo alla strada.»

«A te sta antipatica perché nonostante tutto ha del talento.», affermò un'altra facendo andare su tutte le furie la bella Françoise.

«Talento? E voi chiamate talento la volgarità con cui si muove?»

«Andiamo, Fran, non farla tanto lunga. Ormai è entrata nelle grazie di Madame Giry e dobbiamo tenercela. Prova almeno a non creare tensioni, o non riusciremo più a ballare decentemente nemmeno noi.», l'ammonì Alice, la più grande tra il gruppetto, che ancora aveva un certo charme nei confronti dell'altra.

Françoise le riservò un'occhiata risentita e preferì non aggiungere altro, per il momento. Camminarono per qualche altro minuto, poi una di loro le salutò velocemente, sgattaiolando in un vicolo da un bel ragazzotto che aveva tutta l'aria di un contadino.

«Ah, guardatela!», «Beata lei...», furono i sospiri di alcune, mentre la guardavano sparire con il fidanzato segreto.

«Quanto vorrei avere anche io il mio fidanzato!», fece sognante Ginette, mettendosi le mani sulle guance.

«Non capisco questa smania che avete di crescere troppo in fretta, voi.», borbottò Alice, alzando un sopracciglio.

Françoise sorrise maliziosa. «Se tu sei vecchia non è colpa nostra.»

«Non è questione di vecchiaia, tesoro mio. È questione di mentalità diversa.», ribatté l'altra, ormai stanca da tempo delle sue continue provocazioni.

«Stai dicendo che siamo frivole solo perché sogniamo l'amore?»

«Quello non è amore. Non sappiamo neanche se lo troveremo l'amore, un giorno.»

Françoise alzò le spalle, non troppo preoccupata. «Io so solo che il mio “amore” sarà il nuovo patrono dell'Opera. Monsieur Erik Duval, mi ispira come nome. E poi sembra un uomo misterioso ed affascinante...»

«E cosa ti fa pensare che si innamorerà proprio di te, se mai dovessi incontrarlo?» Alice alzò le braccia al cielo, fingendosi arresa. «Scusami, Fran, tu sei la migliore e la più bella, quasi lo dimenticavo.»

Alcune ridacchiarono sommessamente, mentre la diretta interessata si mise a borbottare e a fumare rabbia come una teiera.

Tutte intente ad occuparsi dei fatti propri, le ballerine rimaste fecero un bel salto dallo spavento quando un uomo, non certo di raccomandabile aspetto, le fermò di colpo, sorridendo cercando di mostrarsi galante e gentile. «Perdonate la mia intrusione, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare il vostro discorso, prima, su una ragazza che somiglierebbe alla zingara ricercata dai soldati.»

A quelle parole Françoise drizzò le orecchi, improvvisamente attenta. «Cosa volete sapere?»

«Ecco, come potete immaginare sono un povero disgraziato e la ragazza in questione, la buona Phénix, è mia cugina. Sono molto preoccupato per la sua scomparsa e qualunque notizia che possa aiutarmi a ritrovarla per me è di fondamentale importanza.»

Alice strattonò la ragazza per una manica, intimandole di proseguire senza badare a quello strano individuo, ma Françoise non volle muoversi. «Non so se stiamo parlando della stessa persona, monsieur, dato che la ragazza che conosco io si fa chiamare Sophie Rembrant. Però, per cancellare ogni dubbio, posso portarvi da lei e verificare insieme.»

Gli occhi dell'uomo guizzarono all'istante di una strana luce euforica. «Sarebbe veramente molto gentile da parte vostra, signorina?»

«Lafayette. Françoise Lafayette, monsieur. Se volete seguirmi.»

«Fran! Che stai facendo?», sibilò Alice, bloccandola per un polso.

«Aiuto un pover'uomo. E tolgo una mia curiosità.», disse in un sorriso cinico la ragazza. «Non aspettatemi, ci vediamo domani a lezione.»

Alice richiamò l'amica parecchie volte, ma quella sembrava non sentire, mentre si allontanava seguita da quell'uomo che non le piaceva nemmeno un po'. Come sempre, se quella ragazzina non faceva di testa sua non era contenta. «Ah, al diavolo. Che faccia quello che vuole, non sono sua madre.»

 

Phénix ed Étienne stavano ballando da una mezzora buona nella sala da ballo deserta. La lezione era finita, ma come spesso stava accadendo in quei giorni, i due rimanevano a provare ancora per qualche tempo, oppure chiacchieravano a ruota libera, come due vecchi amici.

Phénix adorava la compagnia del ragazzo, che era sempre così gentile e timido, a volte, ma che non nascondeva un evidente interesse nei suoi confronti. Nonostante questo ancora non aveva osato farsi avanti, e lei ne era ben sollevata. Non che Étienne non le piacesse, anzi; ma non se la sentiva, in quel momento, di pensare a lui come qualcosa di più di un amico. Non dopo quello che stava per succedere un paio di notti fa sul tetto dell'Opera. Sì, non era accaduto niente di male, ma ci era mancato veramente poco che lei ed Erik si baciassero sotto il cielo stellato di Parigi. Al solo pensiero le volavano le farfalle nello stomaco, accidenti a lui!

«Sophie, va tutto bene?», si preoccupò Étienne, guardandola bene. «Ultimamente sembri su un altro pianeta. Oltre che essere spaventosamente pallida. Ma stai mangiando?»

La ragazza lo guardò come scesa dalle nuvole. «Sì che sto mangiando! È solo che sono un po' stanca, forse...» In effetti Étienne aveva ragione: era stanca, molto stanca. Ma non potevano certo essere le lezioni di ballo a farla stancare così, non c'era il tanto. Probabilmente era quella tosse odiosa che la debilitava e il freddo di quelle settimane di aprile - quell'anno la primavera sembrava non voler arrivare – non la stava aiutando di certo.

Un rumore al piano di sotto li fece scattare in piedi, chiedendosi chi fosse a quell'ora. Impossibile che fosse una ballerina o Madame Giry: la porta era chiusa dall'interno e loro avevano l'unico mazzo di chiavi.

Étienne le fece cenno di stare indietro, e lentamente mosse qualche passo verso la porta che dava sull'andito e sulle scale. Phénix, invece, si avvicinò alla finestra che dava sulla strada e rimase immobile mentre guardava chi stava cercando di entrare nell'appartamento adibito a scuola di danza.

«Étienne, vieni, presto!», esclamò prendendolo per mano, e portandolo via da quella sala.

«Che c'è, Sophie? Hai visto qualcuno?»

Lei non rispose, portandolo in uno stanzino adibito a piccolo magazzino, sperando che ci fosse qualche altra via d'uscita. Niente.

«Sophie? Che sta succedendo?»

«Ti spiegherò tutto più tardi, ora tu stai qui e non fiatare. Fidati di me.», gli disse imperativa, riacquistando la sua espressione seria e decisa, di quando ancora doveva difendersi dai pericoli della strada. Étienne non osò ribattere davanti a quegli occhi sottili e penetranti, sebbene stesse morendo dalla curiosità di sapere. Ma con quel tono che non ammetteva repliche dovette rimandare tutto ad un altro momento.

Phénix chiuse la porta dello stanzino e si avvicinò alla scala, sbirciando verso il basso. Si guardò velocemente intorno per cercare qualche oggetto utile per salutare l'ospite indesiderato e trovò solo un leggero appendiabiti in legno che poteva fare al caso suo. Si posizionò contro la parete della sala da ballo, con le luci spente, proprio accanto alla porta, ed attese, trattenendo il respiro per evitare di tossire in quel momento.

Sentì indistintamente il rumore della porta che veniva aperta con forza e il click della serratura che saltava.

E così alla fine l'avevano trovata...

I passi pesanti dell'uomo che salivano frettolosamente le scale le fece aumentare spaventosamente il battito cardiaco. Si fece forza stringendo convulsamente il legno della sua “arma” e, quando l'uomo fu ad altezza giusta, uscì allo scoperto, colpendolo all'addome con una spinta. L'uomo, per lo stupore ed il dolore, imprecò a denti stretti, piegato in due per terra.

Ma prima di dargli il colpo di grazia, Phénix fu costretta a fermarsi non appena si accorse della seconda figura presente: una Françoise che la guardava inorridita e spaventata.

«Tu...», balbettò più volte la bella ballerina, indicandola con un dito. «Strega... Sei una strega!»

«No, Françoise, aspetta!»

«Sei una strega, l'ho sempre detto io!», gridò spaventata, guardando l'uomo dolorante sul pavimento, che nel frattempo aveva estratto un coltello da una tasca sulla cintura.

Stava per alzare il braccio e far finta di colpirla, giusto per spaventarla come aveva raccomandato Lucas, ma un'ombra saltò fuori dal nulla e un cappio gli si arrotolò intorno al collo, facendogli mancare l'aria.

«Erik...», soffiò incredula Phénix, lasciando cadere l'appendiabiti.

«Scappa, portati via il ragazzo e quell'impertinente di ballerina. Qui ci penso io.»

«Erik, non lo vorrai...»

«Ho detto di andartene!», tuonò Erik, con occhi di brace e l'espressione di un folle in viso.

Étienne comparve in quel momento dal suo nascondiglio, incredulo per quello che i suoi occhi chiari stavano vedendo. Non fu tanto l'uomo che aveva un cappio intorno al collo a lasciarlo sgomento, quando quello che gli stava sopra, completamente ammantato di nero e il viso spaventoso coperto da mezza maschera bianca. «Il Fantasma dell'Opera!», soffiò impietrito in mezzo al corridoio, mentre Françoise gridava terrorizzata e scappava via, con un diavolo per capello.

Erik alzò lo sguardo furente verso il giovanotto che, se non fosse stato per Phénix che lo trascinò a forza fuori dal palazzo, sarebbe rimasto impalato lì, a guardare quella furia omicida che credeva morta e seppellita da settimane.

Con le mani strette ancora sul cappio mortale, guardò i due giovani allontanarsi velocemente, senza dire una parola. Al ballerino che aveva osato chiamarlo “Fantasma” davanti agli altri due ospiti indesiderati avrebbe pensato più tardi. Guardò lo zingaro sotto di lui, che a stento provava ad opporre resistenza: la poca aria che gli entrava nei polmoni era del tutto insufficiente per dargliene la forza.

Erik non voleva ucciderlo; l’idea di farlo, inspiegabilmente, gli rivoltava lo stomaco. Voleva solo interrogarlo un po' e dargli qualche piccola dritta su come avrebbe dovuto comportarsi in futuro, se non voleva rischiare di ritrovarsi un altro cappio intorno al collo spezzato. Non sarebbe stato clemente per due volte consecutive, non era nella sua indole.

L'uomo aveva paura, una maledetta paura di morire. Ma per un attimo dimenticò tutto per concentrarsi sugli occhi del Fantasma. Agghiaccianti in quel momento, ma soprattutto infinitamente tristi. Dove li aveva già visti?

«Chi sei?», gli sibilò Erik, allentando di poco la presa sul suo collo per permettergli di parlare. «Rispondimi con sincerità e ti risparmio la vita. Mi sembra uno scambio ragionevole.» L'uomo gli sputò in viso, facendolo infuriare del tutto. Continuando di quel passo non sapeva se avrebbe resistito alla tentazione di ucciderlo seduta stante. Gli fece sbattere malamente la testa contro il legno del pavimento, stordendolo. «Ho chiesto. Chi. Sei.»

«D-Davìd... Mi chiamo così...»

«Bene, Davìd, che cosa pensavi di fare con mademoiselle?»

«Fatti miei.» Sentì la stretta intorno al collo farsi sempre più insopportabile e strabuzzò gli occhi, disperatamente.

«Non farmi perdere la pazienza, non so quanto ti convenga.», disse pacatamente Erik, non nascondendo però un certo nervosismo.

«Lui vuole solo riportarla a casa...», sussurrò soffocato lo zingaro.

«Lui chi?»

«Lucas... Il suo uomo

Erik rimase talmente stupito da quell'inaspettata risposta, che abbassò per pochi secondi la guardia. Phénix era la donna di quello sporco animale? Perché diavolo non gliel'aveva detto prima?

Ma quel momento di esitazione gli costò caro, perché Davìd riuscì a liberarsi il collo dal cappio il tanto giusto per tornare a respirare regolarmente, e con una mano tirò via la maschera che gli copriva il viso storpio.

Sì, ecco dove l'aveva già visto. Quel viso di mostro non avrebbe potuto dimenticarlo facilmente.

Erik assottigliò gli occhi, accecato dalla rabbia per quel gesto. «Dimmi, ora che mi hai visto sei soddisfatto? Ti faccio paura?»

David ghignò, spintonandolo via con forza e balzando in piedi prima che lui potesse acciuffarlo per la manica della giacca logora. «Macchè. Mi hai sempre e solo fatto ribrezzo, Erik, il Figlio del Diavolo. Ma mai paura!»

Erik rimase imbambolato a quelle parole, mentre lo zingaro scappava via a salvarsi la pelle ed a riferire tutto quello che aveva scoperto quella sera.

 

 

Continua...

 

Come promesso, per farmi perdonare, eccovi anche il quindicesimo capitolo! A presto! :)

 

 





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Capitolo 17
*** 16. Capitolo XIV ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XIV

 

 

«È una zingara, vi dico!», strillò per l'ennesima volta Françoise alle amiche. «L'ho vista con i miei occhi! E improvvisamente è uscito fuori un uomo vestito di nero con una maschera in viso e ha aggredito quel signore che ha chiesto di lei!»

«Una maschera?», ripeté Alice, alzando un sopracciglio perplessa. «E magari quello era il Fantasma che è tornato sulla terra per continuare a perseguitarci?»

«Non sei simpatica, sappilo. Per quanto ne so quello potrebbe essere veramente il Fantasma dell'Opera! Io ho ragione e se non mi darete ascolto succederà qualcosa di veramente brutto, me lo sento.»

Alice roteò gli occhi esasperata, mentre il resto delle ballerine, si accorse, erano terrorizzate dal racconto della loro amica. Era incredibile quanto suscettibili fossero quelle ragazzine. L'unica che non sembrava per niente spaventata era Meg, e ringraziò il cielo che ci fossero ragazze mature come lei in giro per Parigi, altrimenti avrebbe veramente preferito sbattersi la testa contro il  solido muro del teatro per la disperazione. Era vero, Sophie era strana, parecchio strana; ma ci voleva molta immaginazione per pensare che fosse una zingara scappata dalla scena di un delitto.

«Fran, fatti dare un consiglio da buona amica: lascia perdere le fantasie e fai quello per cui sei nata. Non occuparti di faccende che non ti riguardano e che sono più grandi del tuo ego. Se anche Sophie fosse la zingara di cui parli che problemi ci sarebbero? Non ha ucciso nessuno, mi pare di aver capito. Forse vuole solo farsi una vita migliore.»

«Che non abbia ucciso nessuno non puoi saperlo. E comunque», disse con veemenza Françoise. «Comunque si dice che fosse in compagnia di un uomo vestito di nero, proprio come quello che ho visto io ieri!»

«Da quando in qua solo un uomo può vestirsi di nero per essere riconosciuto così facilmente come il Fantasma dell'Opera?», domandò Madame Giry, comparendo in quel momento.

Le ballerine arrossirono, tornando ai loro posti per proseguire le prove. Solo Françoise rimase dov'era. «Dicono che fosse mascherato, proprio come…»

«Ragazza mia, chiunque può indossare una maschera, qualsiasi folle che vuole imitarlo, per esempio. O per vezzo, o per qualsiasi altro assurdo motivo. Il Fantasma dell'Opera è morto, lasciamolo riposare in pace.» Claire la guardò intensamente, schioccandole un'occhiata severa. «Torna al lavoro, è meglio. Non c'è motivo che ti preoccupi della buona fede di Sophie, posso garantirtelo.»

«Certo, potete garantirmelo. Ma non mi fido di una donna che aveva rapporti con il Fantasma dell'Opera.», disse la ballerina, lasciandola di stucco.

In quel momento arrivò Phénix, accompagnata da un Étienne ancora un po' stravolto, ma in buona salute.

«Oh, eccolo! Lui sì che può confermare quanto ho detto!», esclamò Françoise, raggiungendo in due aggraziati saltelli il ragazzo. «Étienne, dì alle altre che non sto inventando niente, su! Cosa è successo ieri sera?»

Il ballerino scese dalle nuvole, non capendo. «Cosa è successo ieri sera?», ripeté, confuso.

Françoise assottigliò gli occhi, ora veramente arrabbiata. «Stai cercando di difenderla?», sibilò, indicando la ragazza in questione con l'indice.

«Difendermi da che cosa?», domandò questa, sorridendole candidamente con un'espressione più che innocente.

Madame Giry la guardò con eloquenza, scrollando il capo con fare rassegnato. Quella ragazza era incredibilmente sfacciata. Chissà con quale metodo aveva convinto Étienne a non aprire bocca su ciò che era successo la sera prima? O forse c'era di mezzo la mano di Erik? Non voleva pensarci, tra quei due non sapeva più dove girare la testa.

La lezione di ballo si concluse alle sette come sempre e Françoise, che non aveva fatto altro se non osservare i due con aria sospettosa ed innervosita, prese le sue cose per tornare a casa senza aspettare nessuno, fin troppo indispettita per gli avvenimenti di quelle ultime ore. Odiava non essere ascoltata, tanto meno creduta. Aveva avuto ragione fin dall'inizio su quella strega! Sarebbe presto andata dalla gendarmeria a denunciare il fatto, dato che nessuno le credeva; così finalmente si sarebbe chiarito tutto quel mistero e tutti avrebbero capito che non andava a raccontare in giro menzogne solo per screditare qualcuno.

Borbottando tra sé e sé e pensando a qualcosa per far valere le sue idee, non fece caso alla sensazione di essere osservata che provò finché non mise piede in casa. Troppo occupata a rimuginare, neanche salutò la madre, che premurosa le chiedeva com'era andata la lezione quella sera. La donna sospirò sconsolata quando la figlia si chiuse in camera sbattendo la porta, al piano superiore, ormai abituata al suo caratterino particolare.

«Fran, mia cara, è successo qualcosa?», le domandò, avvicinandosi alla porta. Non ottenne risposta e la chiamò ancora, preoccupata. «Françoise? Apri la porta!»

La voce della figlia le arrivò ovattata, quasi tremula. «Non è successo niente, state tranquilla. Vorrei restare sola, ora.»

La donna sospirò ancora una volta, guardando la porta in legno davanti ai suoi occhi. «D'accordo, ma chére, come vuoi tu.»

Françoise, impietrita in mezzo alla stanza, non riusciva neanche a respirare. La finestra era spalancata, permettendo ad un venticello fresco di sferzarle il viso ed il corpo tremante.

Provate solo a far capire un minimo la mia presenza e vi uccido.

Il potere di quelle parole avevano avuto lo stesso effetto di una doccia gelida. Mai aveva avuto così tanta paura in vita sua.

La mano guantata dell'uomo, che poco prima le tappava la bocca per impedirle di gridare, scivolò via dal suo collo, ma era pronta a qualsiasi evenienza.

«Bene, vedo che siete una persona ragionevole, mademoiselle.», disse Erik, muovendo qualche passo senza distogliere l'attenzione dalla ragazza, troppo scioccata e spaventata per provare ad opporre resistenza. «Ho notato, non senza un certo disappunto, che non amate molto la presenza di mademoiselle Sophie... o Phénix, se preferite chiamarla così.» Un sorrisino di scherno si fece largo dietro la maschera nera che gli copriva interamente il volto, illuminandogli di un luccichio sinistro gli occhi acquamarina.

«Allora è così...», sussurrò Françoise, rabbrividendo.

«Facciamo un patto, io e voi.», esordì Erik, fermandosi davanti alla ragazza e congiungendo le mani dietro la schiena. «Io non vi farò del male se voi vivrete la vostra vita come se io e mademoiselle non esistessimo. Che ne dite?»

«E difendere lei e voi?»

Lo sguardo dell'uomo s'indurì. «Mi pare che abbiate la vostra ricompensa, in cambio. O la vostra vita non ha importanza rispetto alla verità?»

Françoise impallidì sentendo quel tono duro e che non ammetteva alcuna replica. Quell'uomo non stava scherzando, non l'aveva mai fatto neanche negli anni passati. Che avrebbe potuto fare, lei, per ribellarsi?

Niente, le suggeriva una voce dentro di sé.

Ma lei non si era mai arresa, mai neanche davanti alle difficoltà più grandi. Sapeva di poter fare sempre il meglio di quello richiesto, sapeva che avrebbe sempre dato il massimo in tutto. Lei sapeva, sapeva che il Fantasma dell'Opera era vivo e più pericoloso di prima. Sapeva che stava proteggendo una zingara, che probabilmente aveva a che fare con un duplice omicidio. E sapeva che questa stessa zingara era ricercata anche dai suoi stessi compagni. Tutto quello, forse, poteva solo giocare in suo favore.

«La mia vita è la cosa più importante che ho, Monsieur le Fantôme

Erik non riuscì a nascondere un moto di stizza, stringendo i denti nel sentirsi chiamare così. Ma se quello era l'unico modo per avere un po' di rispetto, allora avrebbe dovuto sopportare nuovamente quell'appellativo. E dire che aveva persino inscenato la sua morte, mentre ora compariva quella bisbetica, rischiando di rovinare tutto!

Le si avvicinò lentamente, chinandosi sul suo viso, parlandole in un sussurro all'orecchio. «State ben attenta a dove mettete i vostri preziosi piedi, mademoiselle. Potreste cadere e farvi male.»

Quelle ultime parole suonarono come una minaccia alle orecchie di Françoise.

Ed era veramente quello l'intento di Erik. Se voleva finire di terrorizzarla ci era riuscito alla perfezione.

 

Ascoltarla cantare era ogni volta una tortura e una delizia. Non solo gli era sempre piaciuta la sua splendida voce che lo abbracciava con le sue note calde e potenti, ma ogni volta era una continua sorpresa rendersi conto di quanta strada avesse fatto la sua piccola allieva e musa nel giro di pochi anni. C'erano soprani che dovevano allenarsi anni, anni ed anni prima di arrivare a quei livelli di sublimità, ma lei sembrava aver bruciato ogni tappa ci fosse prima.

«Basta così, per oggi. Sei andata divinamente, Christine. Come sempre, del resto.» Era da un paio d'ore che provavano quell'aria, Pur ti riveggo, mia dolce Aida, atto terzo dell'Opera di Verdi, con cui aveva intenzione di aprire la stagione lirica quell'autunno; ma il tempo era volato così velocemente che quasi nessuno dei due se n'era accorto. La musica era il loro ossigeno, la linfa vitale che li manteneva in vita.

«Quando continueremo?», domandò Christine, chiudendo lo spartito e restituendolo al legittimo proprietario.

«Domani, sempre alla stessa ora. Qualcuno ti ha mai chiesto dove vai?»

La ragazza si strinse nelle spalle. «Madame Valeriuos ultimamente è molto stanca e quando esco di casa lei dorme già. Temo che si stia ammalando.»

Erik si alzò dallo sgabello, sgranchendosi le gambe indolenzite. «Son soddisfatto che stia facendo ottimi progressi e che abbia accettato la mia proposta. Non avrei mai più pensato di aver ancora una volta la possibilità di cantare con te e sentirtelo fare.»

Christine sorrise, contenta per quello che aveva tutta l'aria di un complimento con i fiocchi. «Vi sono grata, Erik. Vedervi così desideroso di fare per il vostro teatro è una gioia per gli occhi ed il cuore.»

«Non è me che devi ringraziare, bambina mia.», disse dolcemente, al ricordo della zingarella dai capelli rossi. «Non avrei avuto la forza di riprendere in mano la mia vita se non fosse stato per una persona.»

«Chi?», domandò curiosa lei.

Erik esitò qualche istante, incerto se rivelare la verità al suo angelo o meno. La vera identità di Phénix la riteneva salva, dopo aver regolato i conti con quella ballerina altezzosa e pericolosa, anche se non sapeva se potesse realmente fidarsi di lei; ma non voleva tenere la cantante all'oscuro, così come non voleva mettere in pericolo Phénix. L'unica cosa che non aveva messo in conto era che quel Davìd potesse riconoscere in lui l'Erik bambino. Quella scoperta era stata una vera e propria doccia fredda.

«Se non volete dirmelo non è un problema, davvero.», azzardò con un sorriso Christine, sebbene stesse morendo dalla voglia di sapere.

Erik si avvicinò con lentezza al banchetto in legno ricoperto di fogli e plichi, soffermando la sua attenzione sull'unica rosa che, col suo colore rosso acceso, quasi stonava in tutto quel disordine. «È la mia Salvezza, Christine.», esordì, prendendola in mano e accarezzandone distrattamente i petali freschi. «È la scintilla che ha riacceso in me il fuoco della musica, colei che inconsciamente ha aiutato un povero mendicante a tornare a trionfare. E non ha chiesto niente in cambio, ha solo dato. Mai nessuno mi aveva offerto così tanto senza volere una ricompensa.»

Christine non riuscì a distogliere lo sguardo da quello così profondo e colmo di gratitudine dell'uomo. Non credeva di avergli mai visto un'espressione così prima di allora. Sembrava veramente felice e lei si ritrovò a dover asciugare le lacrime con la manica dell'abito.

«Ma io l'ho aiutata, Christine, l'ho voluta ringraziare a dovere.», disse entusiasta, con un sorriso così caldo che la fece vacillare sulle sue gambe. «Oh, se sapessi cosa ha dovuto passare a causa mia quella povera anima. Il mio lato mostruoso non mi abbandona mai, Christine. Ma vedrai, ho in serbo per lei tante di quelle sorprese che l'aiuteranno, anche se non sarò in grado di restituirle ciò che le ho tolto.»

La cantante non capì cosa Erik le stesse raccontando, ma poteva percepire quanto dolore e quanto entusiasmo si celassero dietro quelle parole, dietro quel viso ora triste, ora completamente disteso, perso in chissà quale piacevole pensiero.

«È... bellissimo, Erik, davvero.»

L'uomo le sorrise, guardando poi la rosa che ancora continuava ad accarezzare come faceva con il piccolo Dante. «Sì, è davvero troppo bello per me. Non dovrei meritarlo.»

Christine gli si avvicinò, posando le sue piccole mani su quelle grandi di lui. «Avete sofferto tanto, Erik, ma non per questo voi non potete provare la felicità che ognuno ha diritto di avere. Voi a maggior ragione.»

«Dimmi, Christine: tu sei felice?»

Lei non rispose subito, ponderando al meglio la domanda e quella che sarebbe dovuta essere la sua risposta. Se avesse risposto affermativamente lui si sarebbe potuto offendere, poiché aveva trovato la gioia con un altro uomo; se, viceversa, avesse detto di no, allora si sarebbe arrabbiato, perché le aveva permesso di abbandonarlo per finire tra le braccia di un uomo che non la meritava. Eppure scelse la verità, seppur dolorosa per lui; ma voleva essere sincera, finalmente. «Sì, immensamente.»

Erik sospirò profondamente, conscio di essere giunto ad una conclusione che mai avrebbe pensato di raggiungere. «Ho sempre pensato che quel damerino non sarebbe stato in grado nemmeno di badare a se stesso, figurarsi di amare te almeno metà di quanto ti ho amata io. Ma se mi giuri che mi son sempre sbagliato, allora, solo allora potrò essere libero definitivamente.»

Christine notò subito il fatto che avesse usato “ti ho amata” e non “ti ami ancora”. E per quanto quello la lasciò sgomenta, ormai abituata al forte sentimento che lui provava nei suoi confronti, poco a poco si tranquillizzò, ora finalmente contenta.

«Giuro sull'amore per mio padre, per Raoul e per voi che mai sono stata così felice.»

Erik sorrise, prendendo un altro bel respiro, ora più tranquillo. «Sai, bambina mia, una volta ho chiesto, anzi pregato la mia Salvezza di aiutarmi a dimenticarti. È un pensiero orribile, in effetti, ma è l'unico modo che conosco per stare in pace con te e con la mia anima.»

«E la vostra Salvezza vi ha aiutato davvero?»

Erik chinò il capo sulla rosa, che le porse con gentilezza. Una rosa non più listata a lutto, ma immacolata come appena colta. «È riuscita a fare quello che io non ho mai provato neanche a pensare.»

Christine, per la prima volta dopo mesi, si sentì veramente sollevata. Un po' per vanità, un po' per egoismo, non avrebbe mai pensato che Erik sarebbe riuscito a dimenticarla e a non amarla più come un tempo; ma quella notizia fu come una mano dal cielo e lei fu grata a chiunque fosse questa misteriosa persona per averlo aiutato.

 

 

Continua...

 

 

Chiedo perdono per l'immenso ritardo, visto che questa storia è scritta da una vita e devo semplicemente rivederla e correggere alcuni passi, ma gennaio è stato un mese infernale, e i prossimi si prospettano molto simili, indi per cui il tempo a mia disposizione è diminuito drasticamente. Spero che ci sia ancora qualcuno, là fuori, a leggere questa cosa!

A presto, si spera.

Marta.

 

 





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Capitolo 18
*** 17. Capitolo XV ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XV

 

 

Era più di una settimana che Erik non si faceva vedere, e lei stava iniziando a spazientirsi. Gli aveva fatto promettere di non sparire più come l'ultima volta, di tenerla informata su qualsiasi follia gli venisse in mente, ma a quanto pareva sapeva mantenere la parola data come un bugiardo. Sparito nel nulla, ecco tutto.

«Dios, la smetti de sbuffare? Me innervosisci!», sbottò Rosalinda, mettendosi le mani sui fianchi, parecchio seccata. «Sto cercando de concentrarme, se non te ne fossi accorta!»

Phénix spostò lo sguardo sul libro di ricette che la domestica aveva aperto sul tavolo e che continuava a leggere da qualche minuto con la fronte corrugata. «Cosa devi preparare?»

«Una torta alle mandorle. La señorita Meg fa follie quando la mangia.»

«Ti serve una mano o posso uscire per un po'?»

Rosalinda la guardò perplessa, scuotendo il capo. «E dov'è che vuoi andare a quest'ora? Sta già facendo buio.»

Phénix si alzò dalla sua sedia e si buttò in testa uno scialle a frange colorate. «Voglio solo respirare un po' di aria fresca, tutto qui. Non tarderò, tranquilla.»

«Me raccomando, stai attenta.»

La ragazza neanche le rispose, limitandosi ad annuire e ad uscire di casa, sperando che Madame Giry non si accorgesse di nulla. Se c'era una cosa che, infatti, le era proibito fare era proprio uscire dopo il tramonto. Una delle tante regole dettate da Erik ma che lei, in quel momento, voleva solo mettere sotto i piedi in segno di ripicca nei suoi confronti. Non sarebbe accaduto niente quella sera se per una volta decideva di andare a trovare la nonna. Erano settimane che non passava a trovarla, non aveva neanche avuto la possibilità di farle sapere la sua nuova sistemazione.

Fuori l'aria era frizzante, ma non pungente come qualche giorno prima. Aprile non era mai stato un mese soleggiato e neanche quell'anno si stava smentendo. Si strinse nel suo cappotto di lana, un tempo di Claire, e si diresse verso il quartiere di periferia dove abitava la nonna. Non era certo l'ambiente migliore da frequentare, ma era convinta di non avere niente da temere. Non aveva mai avuto nemici, di conseguenza nessuno avrebbe dovuto alzare un dito su di lei.

Tranne quei due che han fatto fine brutta, ricordi Phénix?

Accelerò il passo quando attraversò un vicolo deserto e buio, dall'altra parte del quale si trovava la mansarda in cui era diretta. L'abitazione era desolata come sempre, tranne per la luce tremula di una candela che proveniva dall'ultimo piano. Forse l'avrebbe trovata ancora sveglia, si disse.

Bussò tre volte quando si trovò di fronte alla logora porta in legno, mangiata dai tarli e parecchio sghemba; dopo qualche istante sentì dei passi lenti e pesanti che si avvicinavano, e subito dopo una voce burbera e roca, che chiedeva: «Chi è?»

«Nonna, sono io, Phénix.»

Un gemito eccitato provenne dalla stanza e, poco dopo, la donnina aprì la porta, abbracciando la nipote adottiva. «Bambina mia, ma ti sembra modo di sparire?»

Phénix si morse un labbro nel pensare a qualcuno di conoscenza che ormai ci aveva preso l'abitudine, ma si sforzò di non pensarci e di concentrarsi unicamente sulla donna davanti a lei. «Scusami, è che son successe talmente tante cose...»

La donna sorrise ed il suo viso s'illuminò tra le decine di rughe che le solcavano la pelle. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, raccontami.»

Phénix si accomodò al tavolo, mentre la nonna le preparava una tisana calda. «Non saprei da dove iniziare...»

«Inizia dalla fine: è il modo migliore per rimettere insieme tutti i pezzi del rompicapo.»

La ragazza annuì, rimescolando le idee. «Non sono più una zingara. O meglio,», si affrettò a dire appena si accorse dell'occhiata perplessa e un po' infastidita dell'altra. «Non lo sono nel senso proprio del termine. Non abito più al mulino, ma in una casa. Una casa vera, nonna!»

«Una casa?»

Phénix annuì, entusiasta. «Sì, proprio una casa! Di quelle belle, eleganti, nel centro aristocratico della città! Oh nonna, dovresti vedere come son fatte dentro!»

«Hai per caso fatto fortuna sposandoti un ricco?»

«No, no! È successo tutto così, all'improvviso... ricordi l'uomo di cui ti avevo parlato l'ultima volta?»

«Sì, il Fantasma dell'Opera.»

«È stato lui ad aiutarmi.», disse con più dolcezza, sorridendo. «Mi ha servito il suo aiuto senza che io gli chiedessi niente. Il Cambiamento è avvenuto, nonna, e io son stata pronta ad affrontarlo, hai visto?»

La donna rimase in silenzio, respirando rumorosamente. «Niente in cambio?»

«Niente. Oh, dovresti conoscerlo, nonna! È l'uomo più incredibile che abbia mai conosciuto, anche se delle volte è insopportabile. Te ne innamoreresti anche tu!»

«E tu? Ne sei innamorata, non è così?»

Phénix ammutolì di colpo, arrossendo peggio dei suoi capelli. «Io... non saprei. Ci sono molto affezionata e farei qualunque cosa pur di renderlo felice. È amore, questo?»

La nonna controllò l'acqua nella teiera, poi si voltò a guardarla nuovamente. «Phénix, non farti ingannare dalle buone maniere. Spesso colui che si presenta gentile d'animo è più furfante di chi invece lo ammette.»

«Erik non è falso.», replicò duramente la giovane. «È sincero e lo capiresti anche tu se lo guardassi negli occhi.»

«Erik? Hai detto che si chiama così?», domandò d'improvviso la donna, curiosa.

«Sì, Erik. Perché?»

L'altra rimase in silenzio, rimuginando per conto proprio. «No, non è niente.», disse poi con un sorriso. «Le mie orecchie non funzionano bene come una volta.» Versò l'acqua calda in una ciotola, in cui mischiò una polvere di qualche erba. «E dimmi, cosa fai ora?»

Gli occhi di Phénix si accesero d'entusiasmo. «Ballo per il teatro, sempre grazie a lui.»

«Bene, bene. Son veramente contenta per te, piccola mia. Ma stai attenta: Lucas non ti lascerà andare per molto, lo sai.»

 

"Stai scappando, mia dolce Phénix?

Scappa, scappa per ora.

Sei libera di fare quello che vuoi.

Ma non andrai molto lontano, tu mi appartieni.

Siamo indissolubilmente legati, io e te.

Tu mi appartieni, e lo sai bene."

 

«Sì, purtroppo lo so.», sospirò la rossa, abbassando lo sguardo sulla tisana fumante e stringendosi nelle spalle ai ricordi. «Lo so.»

 

 

Scioccato.

Ecco come si sentiva.

Scioccato dalla sconcertante scoperta che aveva fatto pochi giorni prima: non amava più Christine. O meglio, l'amava ancora, certo, ma non più con quella morbosa passione che l'aveva portato in rovina. No, non l'amava più così disperatamente, e la situazione gli sembrava così strana da apparirgli anche ridicola. Come doveva reagire a quella novità? Rallegrarsene o disperarsi per aver perso uno dei suoi pochi punti fermi nella vita? Agganciarsi all'amore per la sua musa gli era servito ad andare avanti, ad avere un valido motivo per continuare la sua opera, la sua vita. Quella stessa vita che, nonostante la sconfitta, aveva deciso di non buttare via con un cappio solo perché ancora aggrappato a quell'amore viscerale e doloroso che gli aveva riempito le giornate.

E ora sentiva, lo sentiva che si stava allontanando da lei come mai avrebbe pensato. La figura di Christine non era mai stata così lontana, svaniva a poco a poco, sbiadendo in un mare di nebbia, mentre al suo posto si delineava la sagoma di una figura ancora troppo misteriosa per capir bene di chi si trattasse. Poteva solo tirare ad indovinare, e la risposta a quel rompicapo lo spaventava.

La sua questione in sospeso.

Ancora non riusciva ad interpretare bene tutto quel dedalo di emozioni che ogni volta provava quando era con lei o semplicemente la pensava, ma percepiva perfettamente quanto pericoloso fosse. Doveva sopprimere tutto prima che fosse tardi, prima che quella situazione potesse sfociare in qualcosa di più che lo terrorizzava e gli faceva mancare il respiro. La paura di essere soggiogato nuovamente dall'amore, proprio ora che se ne stava liberando pian piano, era troppa anche per lui; non voleva ricadere in quel labirinto che riusciva a disorientarlo, non voleva sentire il proprio cuore fermarsi per paura di essere nuovamente rifiutato per il suo aspetto.

Era per questo che aveva deciso di starle lontano per qualche tempo, sperando che tutto sarebbe passato grazie alla distanza. Ma era andato totalmente fuori strada, quella volta: starle lontano faceva accrescere in lui l'irrefrenabile desiderio di vederla, di sentire il suono della sua voce, di poter guardare ancora in quegli occhi smeraldini che tanto l'avevano messo in soggezione, ma di cui ormai non poteva fare più a meno.

La musica che fragorosa s'infrangeva contro le pareti di pietra della sua casa sotterranea s'interruppe brutalmente, quasi a voler sottolineare il suo disappunto che sovrastò tutto quel magma di pensieri pericolosi. Si passò la manica della camicia bianca sulla fronte imperlata di sudore per l'impegno e rimase immobile, seduto davanti al suo organo per minuti interi. Suonava ormai da ore ininterrotte, aveva anche perso il senso del tempo ormai. Ma la musica era la sua unica amica, l'unica confidente su cui poteva fare cieco affidamento senza essere mai tradito. Gli toglieva le energie, alla fine delle ore passate a suonare, ma contemporaneamente lo rinvigoriva nell'animo, dandogli la forza che gli mancava.

Quando decise di alzarsi, fu l'ennesimo brutto colpo della giornata. Guardandosi intorno si rese conto di quanto desolante fosse la sua casa: per quanto l'avesse arricchita con un arredamento raffinato ed aristocratico, per quanto calore e magia potesse regalare la vista di quel lago sotterraneo, a lui ora appariva solo come una caverna, triste e deserta. Solo la sua musica e la sua voce potevano darle vita. Ma mancava un ingrediente che non aveva tenuto in conto prima di allora: la compagnia di qualcuno. Era sempre vissuto isolato dal mondo, i contatti sociali per lui erano il nulla totale; solo Claire era stata, e lo era ancora, l'unica persona degna di parlare con lui, e successivamente Christine. Ma cosa poteva saperne lui del vero significato della compagnia? Niente.

Ed ora che l'aveva scoperto si rendeva sempre più conto di quanto solo fosse stato fino a quel momento. Le lunghe chiacchierate con Phénix ed il calore del piccolo Dante erano due novità che si erano trasformate in consuetudine, e di cui ne sentiva fortemente la mancanza.

Perché non posso semplicemente essere libero di vivere normalmente?

Odiava non saper dare risposta a quella domanda che molti avrebbero trovato scontata e sciocca. Lui non poteva essere libero, non ne aveva il diritto.

Si passò stancamente una mano sul viso, togliendosi la mezza maschera che perennemente glielo nascondeva. Mosse qualche passo verso i grandi specchi rotti coperti dai drappi cremisi in velluto, che fece scivolare via, per potersi riflettere sulla superficie lucida. L'immagine distorta che lo specchio rotto gli restituì non fu poi tanto diversa da come sarebbe stata se fosse stato integro. Il suo stesso viso, del resto, era distorto.

Tra tutte le persone del mondo... perché hai scelto proprio me, Signore?

I suoi pensieri furono improvvisamente interrotti da un suono metallico che proveniva dal ventre del teatro, di una qualche trappola che era scattata. Rimase in silenzio, aspettando di sentire qualcos'altro; poi il gelo totale.

«Stupida!», ringhiò a denti stretti, infilandosi in uno dei tanti corridoi nascosti e correndo verso il grido soffocato che era riuscito a percepire in tutto quel silenzio. «Phénix, parlami!», gridò freneticamente, nel tentativo di capire in quale delle decine di trappole fosse caduta. Che diavolo le era saltato in mente?

La voce della ragazza gli giunse alle orecchie flebile e lontana, ma si rese subito conto di averla proprio sotto i suoi piedi.

Il signore delle botole.

Mostro, era solo ed esclusivamente un mostro!

Tirò una leva nascosta posta dietro una delle pietre umide della parete, e immediatamente la botola si aprì. Afferrò brutalmente una torcia quasi del tutto consumata e cercò di illuminare il piccolo antro in cui stava Phénix, impigliata in una serie di corde.

«Tieni sempre una mano sopra gli occhi, eh? Ora capisco che intendevi dire.», borbottò, cercando di liberarsi e tossendo per la polvere e per qualcos'altro.

«Ferma, o le corde continueranno a stringersi.»

Erik, avendo riacquistato il suo sangue freddo nel vedere che tutto sommato la ragazza stava bene, iniziò a sciogliere sapientemente quella matassa di cappi e corde, fremendo di rabbia e di qualcos'altro ogni qualvolta la guardasse negli occhi o la sfiorasse involontariamente. Dire che stava ardendo come un tizzone appena tolto dal camino non rendeva bene l'idea. E tutto per quel maledettissimo mancato bacio, ne era sicuro.

Appena finì il lavoro, le porse una mano per farla alzare e lei gli si gettò tra le braccia, ancora troppo spaventata per la brutta sorpresa.

«Stolta, ti ho sempre detto che è pericoloso aggirarti qui sotto se non ci sono io con te.», le mormorò, stringendola forte per paura di perderla. Era incredibile quanto un gesto semplice come un abbraccio potesse rinvigorirlo come l'acqua per uno disidratato.

La sentì accoccolarsi meglio contro il suo petto, praticamente nudo dato che la camicia bianca che indossava era una di quelle che tanto adorava, dal colletto aperto e svolazzante.

«Dovevo vederti.»

«Perché?», domandò allarmato, temendo che ci fossero brutte novità.

Phénix alzò lo sguardo su di lui, sospirando. «Ci deve essere un motivo?» Rise quando lo vide imbarazzato, nel tentare di dire qualcosa, anche se quel qualcosa stentava a venir fuori. «Sai, Erik, stai decisamente meglio così, senza maschera.»

Il sangue gli si gelò nelle vene, rendendosi conto solo allora di non aver indossato la sua protezione, troppo preso dal salvataggio della ragazza per ricordarsene. Voltò il capo per nasconderle, almeno un poco, la vista di quell'orrore e chiuse gli occhi, maledicendosi per la stoltezza della dimenticanza, ripetendosi che era ancora troppo presto per mostrarsi a lei, che sarebbe scappata via impaurita, che...

«Erik, se non te ne fossi accorto io sono ancora qui, e non ho intenzione di andarmene.», gli sussurrò, accarezzandogli il viso che tanto odiava.

Aprì le palpebre lentamente, come se si fosse appena svegliato cercasse invano di riportare alla memoria le immagini di un bel sogno, temendo che potessero svanire nel nulla. Ma lei, invece, era sempre lì, tra le sue braccia, che lo guardava con i suoi occhioni verdi e rassicuranti. «Non ti faccio paura?», le chiese con un filo di voce.

Phénix sorrise, alzandosi sulle punte e baciandogli con tenerezza la guancia piagata. «Non potrei mai avere paura di un Angelo.»

Con le lacrime agli occhi, Erik la strinse tra le braccia, alzandola quasi da terra per la troppa foga. «Oh, Phénix, Phénix! Dimmi, dimmi che non sei un sogno e che sei qui con me, ora!»

«Sì, ma se continui a stringermi così forte non so per quanto possa ancora rimanere!», scherzò lei, nonostante non avesse alcuna voglia di staccarsi da quel calore che era il corpo dell'uomo.

«Perdonami, non volevo farti male.», disse subito lui, allentando la presa e facendo scivolare  le sue mani fino a farle intrecciare con quelle di lei.

Sotto quello sguardo penetrante e profondo quanto un oceano, Phénix non poté non trovarsi in soggezione, e preferì abbassare il capo per sviare l'attenzione da quegli occhi acquamarina... e da quelle labbra tentatrici. «Che fine avevi fatto?»

Erik sospirò pesantemente, cercando una scusa plausibile da darle. «Componevo.»

«Componevi?», chiese lei perplessa.

«Sì. Quando comincio a scrivere musica niente ha più valore intorno a me. Perdo completamente il senso del tempo.», spiegò, cercando di essere convincente. Non che stesse raccontando totalmente frottole, ma era ben ovvio che quella volta la musica non aveva niente a che vedere con la questione.

«Capisco... e potresti farmi ascoltare qualcosa?»

«No, ancora no. Ci devo lavorare sopra.» Erik s'intenerì al viso imbronciato di lei, ma riuscì a strapparle un sorriso subito dopo. «In cambio posso suonarti qualcos'altro, se ti fa piacere.»

Gli occhi di lei s'illuminarono subito, ed Erik fu ben felice di poterla allietare con la sua musica. Sempre tenendola per mano la condusse al suo giaciglio e si accomodò davanti all'organo. «Questa che sto per suonare è un'opera scritta da un compositore del secolo scorso, Johann Sebastian Bach, e s'intitola Toccata e Fuga. Perdonami se commetterò qualche errore, è molto complessa.» Aggiunse poi, con falsa modestia, dato che sapeva per certo che non avrebbe sbagliato una nota.

Phénix non rispose, accomodandosi sullo sgabello accanto a lui. «Disturbo qui?»

E come potresti?, avrebbe voluto dirle. «No, tranquilla.»

Quando le dita di Erik si posarono sui primi tasti dello strumento, Phénix temette che le pareti sopra la sua testa sarebbero crollate per la potenza di quei suoni gravi che fuoriuscirono dalle canne dell'organo. La composizione che sentì fu un continuo crescendo di toni  potentissimi, poi calmi, poi veloci così tanto che a stento riusciva a seguire i movimenti delle mani dell'uomo sulla tastiera, poi ancora lente, lentissime. Guardarlo mentre suonava quella musica sublime che sembrava uscire dalla pietra per insinuarsi affondo nella sua anima fu indicibile. Concentratissimo sul suo lavoro sembrava che fosse veramente estraniato dal mondo, come se lei non esistesse più e fosse solo, lui con la sua adorata musica. Si chinava sulla tastiera, come a volerle sussurrare parole confortanti, si dondolava a seconda dell'andatura delle note, gli occhi chiusi per assaporare meglio ogni nota, le sue mani che saltavano da una parte all'altra per andare a pizzicare i tasti con bravura e superbia... Era indescrivibile a parole quello che vide e quello che provò.

La musica terminò con un'unica nota grave, che risuonò per tutta la caverna anche dopo parecchi secondi dopo che Erik aveva staccato le dita dai tasti.

Phénix non riuscì a proferir parola, troppo inebetita per la bravura e la maestria che risiedeva tutta in un solo uomo. «Erik, io... sono senza parole.»

«Il che è un bene o un male?», chiese sarcastico, incrociando le braccia.

«Non so cosa tu sia, se veramente umano o no, ma... quello che ho sentito ora può provenire solo da un angelo, non da un semplice uomo.», gli disse semplicemente, sorridendogli poi. Gli prese una mano, studiandone il palmo con attenzione e passando delicatamente un dito sulle linee che glielo segnavano. «Vedi questa piccola linea? È la linea del destino. Ti dice in che modo la tua vita verrà influita a seconda di com'è.» Erik non parlò, cercando di frenare i brividi che lo percorrevano ogni qualvolta il polpastrello di lei lo sfiorava. «La tua è piccola, parte solo dalla linea della testa...  E sai cosa vuol dire?»

Lui scosse la testa, con l'aria incuriosita di un bambino.

«Vuol dire che otterrai grandi risultati nel tuo campo. Sarai un compositore famoso in tutta Parigi e chissà, magari in tutta la Francia.», gli spiegò, sorridendo. Poi guardò ancora la sua mano. «Oh, è anche molto sottile...»

«Quindi

«Ecco, significa che hai una particolare predisposizione a subire duri colpi dalla sorte.»

«Non è una novità.», commentò amaramente lui.

Phénix gli strinse la mano, dolcemente. «Ma non è detto che sarà così per sempre.»

«Quelle che dicono?», le chiese, indicando con un cenno del capo il palmo della sua mano.

La ragazza abbassò lo sguardo, studiando ancora i movimenti delle curve. «Oh, questa è bella! È la linea della salute e dice che sei instabile di umore e di carattere capriccioso! Direi che ha azzeccato.», disse pensierosa, facendogli alzare un sopracciglio.

«Spiritosa.» Phénix scoppiò a ridere divertita, e anche lui si lasciò andare ad un sorriso. «E così sai leggere il futuro.»

«Sono una strega io, ricordatelo.», ammiccò strizzando un occhio.

«E dimmi, cosa sto per fare ora?»

Phénix arrossì indecentemente quando lo vide avvicinarsi ancora di più. Stai per baciarmi?, gli avrebbe voluto chiedere. , sarebbe dovuta essere la risposta.

E invece no, niente di tutto quello che nel giro di due secondi era riuscita ad immaginare. Erik, con un sorrisino birichino, l'aveva presa in braccio, sollevata dal sedile e portata dentro il lago, con il chiaro intento di farle fare un bel bagno.

«Non pensarci nemmeno, Erik!», esclamò lei, aggrappandosi al suo collo. «Non so nuotare!»

Lui si fermò, l'acqua all'altezza delle ginocchia, e la guardò curioso. «No? Pazienza, avevo comunque intenzione di affogarti.»

«Disgraziato che non sei altro! Mettimi immediatamente giù!», strillò lei, tra il divertito e la reale paura che la buttasse dentro veramente.

Ma lui non le fece niente che potesse farla arrabbiare. La mise giù, facendole bagnare solo l'orlo dell'abito e le scarpe, poi le circondò la vita con un braccio, mentre l'altra mano cercava la sua.

Fu quando lui iniziò a cantare, che Phénix si sentì leggera come una piuma.

 

 

Continua...

 

 

Torno dopo un mese circa, è stato l'Inferno ma è praticamente finita! E tra nove giorni parto per Siviglia per tre mesi in tirocinio! Spero solo di non sparire definitivamente! :D

Ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questo racconto e chi invece ha iniziato da poco! Spero possiate perdonare questa scribacchina degenere che aggiorna una volta ogni morte di Papa. :)

Un saluto a tutti!

Marta.

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Capitolo 19
*** 18. Capitolo XVI ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XVI

 

 

Felice, ecco come si sentiva. Una sensazione che raramente aveva provato, che in tutta sincerità non pensava neanche che avrebbe mai capito cosa significasse. E invece eccola lì, la felicità, a portata di mano come non lo era mai stata. I lavori a Teatro avanzavano velocemente, sotto i suoi precisi ordini che i due manager non rifiutarono di far seguire alla lettera, e che d'altra parte non potevano lamentarsi, dato che l'Opéra stava risorgendo dalle ceneri più bella e maestosa di prima. E ogni giorno che passava, Erik si rendeva conto che la sua malattia per Christine svaniva a poco a poco, grazie alla sua piccola Phénix, quella ragazza che era piombata nella sua vita come una scintilla che aveva riacceso in lui la fiamma viva della passione per la musica, e gli aveva insegnato cosa volesse dire altruismo. Lui non si era mai preoccupato degli altri, troppo occupato a prendersi cura di stesso per difendersi dal mondo... ma dopo tutto quello che era successo, aveva capito che non poteva chiudere ulteriormente gli occhi trovandosi di fronte l'ennesima vittima delle sue crudeltà.

Ma se da una parte era contento di come stavano andando le cose, dall'altra aveva una tremenda paura che tutto potesse svanire da un momento all'altro. Del resto, cosa poteva sperare lui? Che andasse tutto per il verso giusto, finalmente? Certo che no. Lui non era nato giusto, figurarsi se almeno la sua vita potesse esserlo, un giorno.

«Che cosa stai combinando, Erik?», chiese Claire con apprensione, incrociando le braccia.

«Che cosa sto combinando?», ripeté l'uomo, non capendo inizialmente a cosa alludesse.

«Non ti ho mai visto così... felice.», gli disse cauta, abbozzando un sorriso.

Erik rimase calmo, nonostante la mascella contratta parlasse di altro. «Non posso esserlo, Claire? Dimmi, mi è vietato?»

«No, non fraintendermi. Lo sai bene che quello che voglio per te è il meglio.», si affrettò a dire la donna, con un sorriso. «È proprio per questo che non voglio che ti illuda prima che tutto sia finito. Non commettere ancora lo stesso sbaglio.»

«Ho già avuto modo di dirti che non lo rifarò!», esclamò ora arrabbiato l'uomo, sovrastandola in tutta la sua altezza. Ma lei non mosse un muscolo, per niente spaventata. «Perché non posso semplicemente sperare, Claire? Quanti uomini nella vita hanno sbagliato e hanno ripreso in mano tutto, azzardando a volte, ma vincendo alla fine? Dimmi che nessuno l'ha mai fatto e allora sarò doppiamente soddisfatto.»

Lei non rispose, lasciandosi andare ad un sospiro.

«Credi in me, per favore.», mormorò Erik, prendendola per le spalle e guardandola con affetto, senza più quel lampo di rabbia di qualche secondo prima. «Lo farai?»

«Ho sempre creduto in te, Erik. Lo sai.» Si morse un labbro prima di parlare, conscia di quello che avrebbe detto. «Ho capito che ti piace quella ragazza, te lo leggo negli occhi. Però ricordati che Phénix non è a conoscenza di quello che le stai nascondendo. Diglielo ora, spiegale che hai avuto paura all'inizio, spiegale tutto. Ma fallo ora, o più passerà il tempo, più sarà troppo tardi e perderai la sua fiducia.»

Il groppo che sentì alla bocca dello stomaco non lo abbandonò per giorni interi, soprattutto ogni qualvolta incontrava la ragazza e non riusciva a parlarle apertamente. Lei l'aveva capito che qualcosa non andava, era ovvio, lo capiva sempre al volo. Ma non osò chiedere niente, conscia che sarebbe stato lui a cercarla per confidarsi.

Phénix quei giorni non mancava mai di partecipare alle lezioni di ballo tutte le sere, nonostante la tosse si stesse facendo più insistente, anziché diminuire. E nonostante la premura di Erik, Madame Giry, della figliola e di tutti coloro che l'avevano a cuore, lei non volle sentir parlare di medici. Confidava nelle sue tisane, perché doveva farsi visitare da un estraneo?

Ma a volte la cocciutaggine è anche presagio di disfatte, come spesso accade.

«Devi farti controllare da un medico.», ripeté  con calma e per l'ennesima volta Claire, togliendole il panno bagnato dalla fronte.

«Non è niente, vi dico! È solo un po' di febbre.», sbuffò l'altra, girandosi su un fianco e coprendosi fino sopra le spalle per il freddo. Era sudata e investita dai brividi. Stava tremendamente male.

Peccato che Erik si fosse accorto da tempo del suo stato fisico e aveva premuto affinché Claire la facesse controllare, anche usando la forza se necessario. Lui sì che si preoccupava per lei, forse anche troppo.

Ed era arrivato il giorno in cui svenne davanti agli occhi terrorizzati di Rosalinda, che gridò per tutta la casa che la ragazza si sentiva male, ed invocando la Madre de Dios per proteggerla.

«Sophie, perché non fai come dice Maman?», chiese Meg, seduta sul bordo del letto. «Solo una visita, per vedere cosa puoi prendere per guarire.»

«Passerà.», borbottò la zingara, nascondendosi la testa col cuscino.

«Oh, potremo chiedere a monsieur Faucon, il cugino del Visconte.», continuò imperterrita madame Giry, facendo roteare gli occhi alla rossa. «È un medico, se non erro.»

«Sì, hai ragione, Maman! Vado subito ad chiedere a Rosalinda di informare monsieur de Chagny.», balzò dal letto la piccola Meg, sparendo due secondi dopo.

«Grazie, eh.», fu la frecciatina sarcastica di Phénix.

Madame Giry si mise le braccia sui fianchi. «Lo stiamo facendo per te, mia cara.» Bagnò il panno in una tinozza d'acqua fredda e le levò il cuscino dalla testa, per rimetterglielo in fronte e raffreddarla un poco. «Scotti e la febbre non sembra voler diminuire. Può essere pericoloso.»

«Non voglio rimanere ferma in un letto!»

«E invece lo farai, se non vuoi collassare nuovamente.», le disse con calma, spintonandola lentamente contro il letto, dato che la giovane si era messa a sedere, con il chiaro intento di alzarsi. «Per fortuna Erik si è mosso per farmi notare la tua salute! Se avessi aspettato te...»

«Devo ricordarmi di strangolarlo.»

«No, devi semplicemente ringraziarlo.»

Phénix si accucciò in posizione fetale, assumendo un'espressione infantile. «Devo dirgli così tanti "grazie" che ormai ho perso il conto.»

L'altra donna sorrise, inchinandosi vicino a lei. «Erik si è affezionato a te, bambina mia. Ormai farebbe qualsiasi follia pur di vederti felice. Ti vuole bene, lo sai.»

«Mi vuole bene...», ripeté, chiudendo gli occhi per immaginarlo meglio. Non riusciva a pensare ad altro ormai. Lo sguardo furente di quando Davìd l'aveva scovata, e quell'espressione diabolica in viso per la rabbia... era spaventoso, così adirato. Ma l'affascinava anche per quello. E quando i suoi occhi acquamarina risplendevano calmi come un lago, il suo sorriso dolce, il calore delle sue braccia? Era incredibile come sapeva accendersi come un fuoco e raffreddarsi subito dopo con una facilità disarmante, rendendolo lunatico e adorabile nel contempo. Neanche il suo aspetto scoperto da poco, senza quella maschera a coprirgli il volto, l'aveva disgustata, anzi. Se possibile vederlo così le aveva fatto completamente perdere la testa. Era dolce e indifeso, senza quell'oggetto che gli conferiva quell'aria misteriosa e sinistra, veramente troppo tenero per i suoi gusti. Quale strano sortilegio le aveva fatto per ammaliarla così? Era lei la strega della situazione, non lui!

Ma ora era arrivato quello strano male a sfiancarla, sperava vivamente che passasse tutto in fretta pur di rivederlo.

Monsieur Faucon giunse in casa qualche ora dopo, portandosi dietro una valigetta in pelle piena di arnesi e medicine di soccorso.

Phénix sentiva di non andare a genio a quell'uomo, ma si sforzò in tutti i modi di essere gentile e disponibile, per non attirare altra attenzione su di sé. Ne aveva abbastanza delle insinuazioni sul suo conto da parte di Françoise, non voleva che anche Faucon ci mettesse del suo.

«Bonjour, mademoiselle Rembrant.», esordì cortese il medico, mentre s'inchinava lievemente in segno di saluto.

«Buongiorno a voi, monsieur.», rispose lei, mettendosi a sedere. Vide con la coda dell'occhio madame Giry che si accostava ai piedi del letto, per intervenire in caso di necessità, e gliene fu tacitamente grata.

«Dunque, quali sono i sintomi?», chiese Faucon, tirando fuori lo stetoscopio, oggetto che Phénix non aveva mai visto e che, in un primo momento, la spiazzò non poco.

«Solo un po' di tosse ogni tanto, niente di che.» Madame Giry le lanciò un'occhiata eloquente, rimproverandola. «E tanta stanchezza, anche.»

Faucon annuì, assimilando la cosa. «Dovrei chiedervi di scoprirvi il torace, mademoiselle.»

Phénix guardò allarmata l'altra donna, che le sorrise per rassicurarla. Riluttante, la rossa si spogliò della parte superiore della camicia da notte, arrossendo peggio dei suoi capelli quando l'uomo avvicinò lo stetoscopio sul petto, per sentirle i polmoni.

«Ora respirate con la bocca, profondamente. Bene, continuate finché non vi dico di smettere.»

Phénix si sentì un po' ridicola, a pensarci bene, ma evidentemente serviva affinché la visita andasse a buon fine. Lei, del resto, non aveva mai avuto il piacere di farsi controllare da un medico.

«Da quanto tempo è iniziata la tosse?»

«Non saprei...» La ragazza si strinse nelle spalle, pensando. «Più di un mese, ma non così frequentemente.»

«E non siete mai andata a farvi controllare?», esclamò indispettito Faucon, mettendosi dritto sulla schiena.

Phénix balbettò un innocente no, pensando che nessun medico l'avrebbe voluta visitare qualche mese prima.

«Aprite bene la bocca, ora.» Faucon le poggiò sulla lingua una stecchetta di legno e le controllò la gola per qualche secondo. Poi le batté sulla schiena due dita, scuotendo il capo. «Potete coprirvi ora.»

Phénix obbedì subito, decisa a porre fine a quella situazione alquanto imbarazzante. Nessun estraneo l'aveva mai vista mezza nuda!

«Mademoiselle, sarò onesto con voi.», disse il medico, ritirando i suoi strumenti di lavoro. «Noto con disappunto che siete molto magra e pallida; per non parlare delle condizioni in cui versano i vostri polmoni. Avete mai tossito sangue?»

Claire trasalì a quella domanda e strinse convulsamente i pugni contro la stoffa del suo abito scuro, temendo la conclusione di quel discorso.

«No, mai...»

«La cosa fa ben sperare, allora, ma Mademoiselle Rembrant... non posso dirlo con certezza, ma avete tutti i sintomi della tubercolosi polmonare. Forse la conoscerete con il nome di tisi.»

«Oh Dio...», mormorò Claire, poggiandosi contro il muro, spiazzata.

La ragazza non aprì bocca, non capendo esattamente la gravità della situazione.

«Purtroppo ancora non si conoscono rimedi efficaci per curare questa malattia.», proseguì il medico, schiarendosi la voce. «Ma alcuni studiosi stanno cercando di trovare una soluzione.»

«State dicendo che... non posso essere curata?», chiese a gola secca Phénix, per la prima volta in vita sua spaventata all’idea di morire.

«Sto dicendo che la tubercolosi è una brutta bestia, ma faremo il possibile per aiutarvi.» Faucon si voltò verso madame Giry. «Madame, pregherei voi e la vostra famiglia di coprirvi le vie respiratorie con qualcosa se doveste stare a stretto contatto con mademoiselle, anche se non è detto che verrete contagiate, vedo che voi non avete sintomi.», disse scrivendo qualcosa in un foglio. «E comprate questa medicina. Aiuta a rallentare la corsa della malattia.»

Claire annuì, guardando preoccupata la giovane, immobile sul suo letto.

«Mi raccomando, mangiate sano e soprattutto molto, anche se non ne sentite lo stimolo, o vi indebolirete ancora di più.», continuò l'uomo, continuando a scrivere. «E prendete regolarmente questo antibiotico, per ora è il massimo che posso fare. Oh, è ovvio che dovrete starvene al caldo, siamo d'accordo?»

Phénix annuì, ricambiando la stretta di mano che il medico le porse, e guardò la sua schiena che spariva dietro la porta. Rimase inebetita per qualche minuto, incapace di muovere un solo muscolo. Aveva paura, una tremendissima paura. Paura di ammalarsi gravemente, di non poter dare la svolta decisiva alla sua vita, finalmente cambiata, di non poter più vedere l'uomo di cui si era innamorata - ebbene, ormai non poteva più negarlo. Perché proprio ora che tutto stava andando per il meglio doveva sgretolarsi in un istante davanti ai suoi occhi? Si sentiva impotente ed arrabbiata con chiunque fosse stato l'artefice di tutto. E che questo si chiamasse Dio o Belzebù, non le importava.

Quella notte non chiuse occhio, neanche dopo le parole rassicuranti che madame Giry le disse per farla tranquillizzare almeno un po'. Riacquistò un po' di vitalità solo quando si accorse che qualcuno di sua conoscenza bussava alla finestra di camera sua.

Erik non fece neanche in tempo ad entrare che Phénix gli si era già buttata tra le braccia, piangendo nervosamente. La strinse forte contro di sé, soffrendo ad ogni nuovo singhiozzo della ragazza, come se fosse stato lui l'ammalato disperato.

«Ho paura... Erik, ho paura...»

«Shh, bambina mia. Ci sono qui io, ora.», le sussurrò dolcemente in un orecchio, cullandola con lentezza nel suo abbraccio.

Come risvegliata, Phénix sgranò gli occhi e balzò indietro, con le mani sulla bocca. «Erik, non dovresti essere qui! Potrei contagiarti! Il dottore ha detto che...»

Erik non sentì niente di quello che la ragazza aveva iniziato a blaterare. L'unico modo che conosceva in quel momento per zittirla una buona volta era uno ed uno solo. E sortì l'effetto desiderato immediatamente.

Le sue labbra le ricordava esattamente così, morbide e carnose. Con la differenza che fu lui a farle tremare sotto le sue carezze, ad indugiare con lentezza prima che lei iniziasse a ricambiare quel bacio infuocato con il suo stesso ardore. Fu come ritornare a bere dopo giorni e giorni, e si sentì morire di felicità quando Phénix si strinse di più contro il suo torace, fremendo al tocco delle sue mani che percorrevano audacemente la schiena. Da troppo tempo avevano agognato quel momento, da troppo tempo avevano nascosto i loro desideri per non rischiare di rovinare tutto.

Un bacio ha lo stesso magico potere di far dimenticare qualsiasi cosa che non sia la persona che si ha tra le braccia. Ed entrambi si dimenticarono di chi fossero, degli ultimi avvenimenti, della notizia sulla malattia di lei... niente in quel momento aveva più importanza di quelle dolci carezze che si stavano scambiando, e che avevano la stessa forza di una promessa indissolubile.

Non ti lascerò mai, qualunque cosa accada.

Phénix pianse a quelle parole sussurrate. Lo strinse forte, temendo che sparisse da un momento all'altro, sperando che quell'abbraccio servisse a scacciare chiunque volesse portarla via dal mondo, lontana da lui e dalla sua musica, proprio quando era tornata a vivere, quando era rinata e aveva scoperto cosa significasse avere qualcuno da amare...

«Erik, non voglio morire.», gli mormorò contro le sue labbra. «È già quasi successo anni fa, non voglio morire.»

Non comprese appieno le sue parole, ma non ci pensò sopra molto. «Non morirai, mon ange. Non ora che ti ho trovata

«Rimani con me. Ti prego.»

Erik abbassò lo sguardo sul suo viso rigato dalle lacrime e glielo asciugò con i pollici. Baciò ancora una volta le sue labbra arrossate per quella dolce tortura e sorrise.

Phénix pensò che fosse di una bellezza sconvolgente con quell'espressione di beata felicità che gli si era dipinta in viso. Poteva il volto di un uomo che non sorrideva da una vita ritornare quello di un bambino felice e spensierato?

«Mi prometti che non piangerai più?»

La ragazza annuì, sorridendo tra le lacrime. Lo prese per mano e lo fece sdraiare accanto a sé, lasciandosi avvolgere dal suo caldo abbraccio che la strinse possessivamente, quasi come se stentasse a credere che lei era lì, con lui, come se avesse paura che potesse svanire ed essere solo frutto di un suo splendido sogno.

Gli tolse con delicatezza la maschera che gli copriva la consueta metà destra, facendogli chiudere gli occhi, come se ancora temesse una qualche reazione da parte sua. Ma Phénix gli sorrideva e pensò che non ci fosse sensazione più bella di quella del sentirsi osservato senza suscitare pietà o peggio ancora orrore.

«Grazie di tutto, Erik.», gli sussurrò, accoccolandosi meglio tra le sue braccia ed inspirando a fondo il suo profumo che tanto adorava.

Lui, in risposta, si chinò su di lei per baciarla ancora, e ancora una volta, come se quel gesto potesse essere l’unico in grado di dargli forza.

 

 

 

Continua...

 

 

A meno che la mia testa mi faccia dimenticare tutto, ho deciso di aggiornare più speditamente questi ultimi capitoli che mancano (sei, compreso l'epilogo), perché presto avrò poco tempo libero, immagino, e ho in programma di scrivere qualche altra storiella, quindi non vorrei ritardare ulteriormente quelle che ho già in cantiere. :)

Un saluto a tutti!

Marta.

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Capitolo 20
*** 19. Capitolo XVII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XVII

 

 

Madame Giry chiuse con lentezza la porta della camera di Phénix, dopo aver controllato che stesse bene. Era tutto il pomeriggio che dormiva, del resto, e doveva assicurarsi che non fosse morta nel frattempo senza che se ne accorgesse. Scese le scale, diretta verso la cucina, dove trovò Rosalinda intenta a preparare un dolce calorico per la loro ospite.

«Perdonateme, señora, se non vi ho chiesto el permesso, ma la chica è debole, come sapete.»

«Non preoccupatevi, Rosalinda, ve l'avrei chiesto comunque.», fece la donna, prendendo posto su una sedia e guardando le sapienti mani della domestica che mescolavano la futura torta.

«Come sta la chica?», chiese l'altra, continuando ad impastare, le guance piene e rosse per l'impegno.

«Oh, credo bene. Monsieur Faucon mi ha detto che si tratta solo di una leggera polmonite che passerà presto, se continuerà a prendere le medicine. Ormai il peggio è alle spalle.»

«Meno male, sono così in pena!»

Claire sorrise, pensando a quello che era stato l'ennesimo piano di Erik. Secondo lui se Phénix avesse scoperto di essere gravemente malata, avrebbe seguito docilmente le cure; viceversa avrebbe continuato a fare di testa sua, aggravando la situazione per davvero. Faucon era stato avvertito della testardaggine della zingara e, seppur riluttante all'inizio, aveva acconsentito a reggere il gioco. Sperava solo che Phénix non venisse a sapere anche quella verità, altrimenti sarebbero stati guai per tutti. Giocare col fuoco, del resto, non è mai stato saggio, lo sapevano entrambi bene.

L'altra cosa che la preoccupava, poi, era quello che era sicuramente successo qualche notte prima. Sapeva che Erik era stato da lei la sera della scoperta della "malattia" e quelle successive, ma non sapeva se esserne felice o meno. La situazione stava pian piano degenerando e temeva che tutti i nodi, prima o poi, sarebbero venuti al pettine. Non voleva che Erik stesse male ancora una volta, quello sarebbe stato il colpo di grazia ad una vita che aveva già sofferto troppo in passato; così come non voleva perdere quella cara ragazza che aveva imparato ad amare come una figlia.

«Oh, señora, c'è il Monsieur che vi aspetta.»

Claire alzò lo sguardo verso la domestica, che sapeva bene del rapporto con Erik e del fatto che avrebbe dovuto tenere a freno la lingua. «Grazie, Rosalinda, grazie di tutto.»

La donna fece spallucce. «Finché non me tocca, io non parlo.»

Erik la stava aspettando nella cantina, avvolto completamente nel suo mantello nero. «C'è un problema.», esordì l'uomo, prima ancora che l'altra potesse aprire bocca.

«Se ti riferisci al fatto che è ancora presto per andare in giro per Parigi senza essere riconosciuto, sono perfettamente d'accordo con te.»

«Non è quello di cui voglio parlare.» Il tono di Erik era duro, non senza una venatura di preoccupazione nella voce, che la fece tremare. «Ho visto Lucas gironzolare intorno alla tua casa.»

«Lucas? Intendi il figlio di quello zingaro?»

Erik annuì, tirando un pugno all'innocente tavolo in legno che per sua sfortuna gli era accanto. «E se me la dovesse portare via?»

Claire lo guardò severamente. «Sapevi bene come sarebbe potuta andare a finire questa storia. Non è tanto il fatto che possano portartela via, quanto il fatto che la ragazza scopra quello che le hai sempre tenuto nascosto. Credo che sia peggio avere il suo odio che non averla per niente, non trovi?»

Erik si sedette, le mani tra i capelli in un moto di disperazione. «Ho paura di aver sbagliato tutto, Claire. Ho paura di perdere quello che ho guadagnato con fatica, ancora una volta.»

Il fatto che Erik le stesse confidando così apertamente le sue paure la fece rabbrividire. Non ricordava che l'avesse mai fatto con così tanta disperazione e pregò Dio o chi per lui che tutto potesse risolversi per il meglio. Un Erik le cui difese crollavano così platealmente era anche un Erik pericoloso. «Dammi retta, amico mio. Parlale con tutta la sincerità di cui disponi. Dille che volevi proteggerla e che presto le avresti spiegato cosa accadde quando ancora era piccola. Sei una persona buona e anche lei lo è; son sicura che capirà.»

La porta della cantina venne sbattuta con forza e Phénix si mostrò ai due, con le lacrime agli occhi e uno sguardo che più furente di così non poteva essere. «Cosa dovrei capire? Che mi avete mentito entrambi?»

Erik non riuscì a far altro se non sbarrare gli occhi, atterrito, mentre Madame Giry tratteneva il respiro.

Quando si gioca troppo col fuoco...

«Credevate che non lo avrei scoperto, prima o poi? Che non avrei ricollegato quel bambino a te, Erik? Mi credevi tanto stupida?!» Phénix piangeva, piangeva disperatamente, mentre a stento riusciva a parlare tra un singhiozzo e l'altro.

...prima o poi ci si scotta.

«Phénix, per favore...»

«Voi non osate parlare, Claire! Non osate!», gridò la zingara, coprendosi il viso con le mani. Quando Erik sentì su di sé quegli occhi verdi ridotti ad una fessura, che proprio le scorse notti l'avevano guardato con dolcezza, provò l'irrefrenabile desiderio di morire. «Sei tu il bambino... tu mi hai mentito, Erik. Io... io mi fidavo di te... ti ho dato la mia vita...» La ragazza strinse i pugni, ferendosi con le proprie unghie. «Sai cosa abbia significato per me... dare la mia vita ad uno sconosciuto?»

Erik riuscì ad alzarsi lentamente, come se qualcuno bloccasse i suoi movimenti e gli impedisse qualsiasi gesto. «Phénix... perdonami, io...»

«No.», disse risoluta lei, alzando una mano per farlo tacere e cercando invano di frenare le lacrime. «Mi hai mentito e dovrei ucciderti, Erik. Lo ricordi, vero? Ho promesso... l'ho promesso a loro.»

Erik allargò le braccia, aspettando. «Lo so. E non mi tirerò indietro, se è questo che vuoi.»

La ragazza si morsicò un labbro per non riprendere a piangere. «Se solo me l'avessi detto... se solo ti fossi fidato di me...» Respirò profondamente, per placare il pianto, per poco che servisse. «E dire che io...», mormorò, chinando il capo.

«Phénix...»

«No, no! Ti odio, Erik! Vai all'Inferno!», esclamò, correndo via.

Lui non resistette più e cadde sulle ginocchia, incapace di reagire, incapace di rincorrerla per fermarla. Si sentì svuotato di tutte le forze, fisiche e mentali. Avrebbe voluto bloccarla per spiegarle tutto, per dirle che aveva avuto paura di confessarle la verità all’inizio, che si era affezionato a lei troppo in fretta per rischiare di rovinare tutto, che l'amava per farla soffrire.

Ma non fece niente. Si comportò come il peggior codardo del mondo e si odiò ancora di più.

All'Inferno ci sono già, Phénix. Ci sono già.

 

E dire che io...

La ragazza correva per le strade di Parigi, lontano da quella casa, lontano da quella vita che aveva scoperto da poco, ma che si era rivelata solo una mera illusione. Non poteva credere che a mentirle fosse stato proprio lui, l'uomo di cui si era fidata di più in tutta la sua vita; non poteva credere che fosse stata così stolta da non collegare quello stesso uomo con il bambino dal viso deforme. Bugiardo, era solo un maledetto bugiardo!

E dire che io mi sono innamorata di te...

Soffocò un grido di dolore mentre continuava a correre, diretta verso l'abitazione della nonna. Non si curò delle persone che avrebbe potuto incontrare, che avrebbero potuto riconoscerla come la zingara dai capelli rossi. Ora come ora non poteva importarle nulla.

Quando la nonna la vide in quello stato capì cosa fosse successo. Sapeva che sarebbe andata a finire così, lei sapeva sempre tutto.

«Quindi tu... avevi capito.», mormorò Phénix, una volta che il pianto le passò, davanti ad una tazza calda di the.

«Mi dispiace, piccola mia. Ma non ne ero sicura. Quando mi nominasti Erik mi venne in mente quel bambino, si chiamava proprio così. E aveva il viso deformato, proprio come lui. Ma non potevo dirtelo senza sicurezze. E non volevo rovinare il tuo bel momento di felicità.»

«Capisco... ma ha pensato bene lui di rovinare tutto.» Si asciugò le guance con il palmo delle mani, prima di parlare ancora. «Posso rimanere qui per qualche tempo? Ho intenzione di lasciare Parigi... ormai ho capito che questa città non fa per me.»

La nonna la guardò bonaria. «Puoi restare quanto tempo ti pare, sciocca.»

«Grazie.», sussurrò in un sorriso tirato.

«E dimmi, dove hai intenzione di andare?»

Phénix non fece in tempo a rispondere, che qualcuno dalle mani pesanti bussò con forza alla porta sgangherata di legno. Guardò con paura verso l'ingresso, temendo che Erik l'avesse seguita e che ora la volesse portare via con la forza.

«Chi è là?», chiese a gran voce la nonna, attendendo risposta.

«Sono io, Lucas. Fammi entrare, vecchia.»

Phénix sbarrò gli occhi, e pensò che forse avrebbe provato più sollievo nel rivedere Erik che quell'uomo.

«Cosa vuoi?», continuò la nonna, non aprendo la porta.

«Sai bene cosa voglio. C'è Phénix in casa, vero? Non farmi perdere tempo. O preferisci che butti giù il muro?»

Phénix guardò la nonna e acconsentì con lo sguardo a farlo entrare. Vederlo dopo tutto quel tempo non fece altro che spaventarla ancora di più. Lo sguardo da folle e da gran mascalzone non gli era scomparso, anzi; il ghigno che gli spuntò sulle labbra appena la vide lo fece sembrare ancora più malevolo.

«Salve Phénix. Tutto bene? Mi sembri scossa.», esordì, quasi allegro di vederla in quello stato.

«Puoi anche andartene, Lucas. Non ho intenzione di seguirti.»

«No? Peccato, speravo di non usare le maniere forti, mia cara. Sai quanto tengo a te.»

«Oh, immagino. Ci tieni così tanto da farmi picchiare dai tuoi cugini, vero?»

Lucas assottigliò gli occhi. «Non ho mai ordinato che ti venisse torto un capello, ingrata! Mai!»

Scrollando le spalle, Phénix voltò il viso, senza una parola. Era un uomo di parola, lo sapeva, ma non aveva alcuna intenzione di dargli ascolto, non in quel pessimo momento.

«Che sei venuto a fare?», chiese burbera la nonna, a cui non era mai piaciuto quell'uomo.

«Stai zitta, vecchia. Non sono qui per te.»

«Abbi almeno un po' di rispetto nei confronti di mia nonna!», esclamò Phénix, alzandosi e piantandosi sotto il suo naso, i pugni stretti per la rabbia e la stizza.

Lucas sorrise perfido, inchinandosi in segno di scuse. «Perdonami, mia cara, ma divento parecchio suscettibile quando vengo incolpato di fatti che non sono mai accaduti.»

«Perché sei qui?», domandò stancamente la ragazza, incrociando le braccia.

«Perché sono venuto ad aiutarti nel momento del bisogno. Voglio darti una mano a vendicare i tuoi genitori, i miei cugini e... mio padre.»

Phénix non capì, corrugando la fronte. «Tuo padre?»

«Chi credi che fosse l'uomo che quel mostro uccise quando eri ancora una mocciosa di due anni?», tuonò Lucas, facendola arretrare di qualche passo.

Lei sgranò gli occhi, interdetta. «Non me l’hai mai detto...»

«A quanto pare nemmeno lui te ne ha parlato.», ribatté, secco. Poi, con un sorriso sbilenco, aggiunse: «Ah, già. Non ti ha detto parecchie cose.»

Fu in quel momento che tutto le fu chiaro. Il perché Lucas odiasse tanto il Figlio del Diavolo, perché fosse cresciuto con quel brutto carattere vendicativo e cattivo, perché continuasse a maledire quell'uomo che lei non aveva mai visto ma che sembrava veramente il diavolo in persona. Erik, quel giorno, non aveva mandato alla morte solo i suoi genitori, ma anche il padre dell'uomo che ora le stava di fronte. Ma, a differenza di quello che Lucas potesse pensare, lei non provò pena per la sua situazione, bensì ne fu sollevata. Perché se da una parte non riusciva a perdonargli il fatto di non averle detto la verità, ora che sapeva che Erik era stato usato come il burattino di turno da parte di suo padre e da parte di Lucas stesso, era più imbestialita che mai.

«Quel mostro sfigurato avrebbe dovuto essere più che felice di essere d'aiuto al nostro circo! Sai quanti soldi ci ha portato? E lui che ha fatto? Ha ucciso chi gli stava dando il pane. Ti sembra giusto, Phénix?»

«E a te sembra giusto che per vivere si debba deridere chi è meno fortunato di te?»

Lui divenne serio tutto d'un tratto. «Lo stai difendendo, per caso?»

«Mi fai schifo, Lucas.»

Lo schiaffo che ricevette dopo fu talmente forte da farle girare la testa. Stordita, non capì subito cosa accadde dopo; ma fu sufficiente sentire un gemito soffocato di dolore da parte della nonna e il tonfo sordo di quando cadde senza vita a terra, a farla tornare lucida. «Nonna!», gridò, precipitandosi verso l'anziana donna, ferita all'addome da una pugnalata. «Nonna, resisti, ti prego... non lasciarmi anche tu...»

Lucas le arrivò dietro, prendendola per la collottola e alzandola da terra. «Mai provare a colpirmi alle spalle.», le disse, perfido. «Inoltre sbaglio o avevo un conto in sospeso con quella vecchia?»

Phénix si morse il labbro inferiore appena si accorse dello sguardo dell’altro, ma cercò di ribellarsi e di non pensare al passato. Non poteva permettersi debolezze, non in quel momento. «Lasciami!», gridò con tutte le sue forze, provando a divincolarsi dalle grinfie di quell'uomo troppo forte per lei.

Lucas le bloccò i polsi dietro la schiena e la fece cadere all'indietro contro il materasso logoro della stanza. «Ora tu fai quello che ti dico, chiaro?», le sussurrò ad un orecchio, facendola rabbrividire per la paura quando si accorse della lama sporca di sangue che le puntava alla gola. «Chiaro

Phénix dovette annuire, vedendosi al momento senza via di fuga.

«Brava, bambina.», disse soddisfatto, dandole un bacio sulle labbra che la fece gemere dal disappunto. «Sai, ho in mente tanti progetti, ora che sei di nuovo con me. Non vedo l'ora di metterli in atto. Prima di tutto fare fuori quell'assassino. E dire che pensavo fosse già morto!»

Con il pugnale tenuto saldamente contro la sua schiena, Lucas le ordinò di alzarsi e di camminare. Phénix si vide costretta ad obbedire, non riuscendo però a staccare lo sguardo dal corpo esanime della nonna. Quando uscirono dal vecchio edificio la luna venne oscurata da delle nuvole nere, cosa che non le piacque. Sapeva interpretare il comportamento del cielo, proprio come sapeva capire un uomo guardandolo negli occhi. Quel cielo terso non le faceva presagire niente di buono.

«Dante!», esclamò tutto d’un tratto la zingara, facendo trasalire l’uomo che aveva al fianco.

«Che?», chiese scocciato Lucas.

«Dante, il mio gatto! L’ho lasciato a casa Giry...»

L’uomo la guardò perplesso. «Non credere che sia così stupido da lasciarti andare a riprenderlo da sola.»

«Non intendo scappare, Lucas. A che scopo?», chiese più a stessa che a lui. Non aveva più niente, scappare sarebbe servito solo a peggiorare le cose.

«Brava, piccola streghetta. Ti troverei comunque, anche se riuscissi a scapparmi.», le sussurrò. «Dato che sei così docile ti accompagno a recuperare quella palla di pelo nera che ti piace portarti dietro. Anche se ammetto che non mi sia mai stato simpatico.»

Phénix fece una smorfia, guardandolo sbieca. «Se è per questo neanche tu gli stai a genio.»

«Lo sospettavo.»

Camminarono in silenzio attraverso le vie deserte di Parigi. Phénix sperò ardentemente di non vedere ombre ammantate sparire dietro qualche vicolo; non avrebbe retto oltre.

«Ora, bambina, fai la brava.» Lucas le girò un braccio intorno alla vita e l’avvicinò al suo corpo una volta arrivati davanti alla lussuosa porta in legno in Cité d'Antin.

Phénix, prima di bussare, prese un bel respiro e le venne in mente quella stessa notte in cui tutto era cambiato, quando era ancora una ragazza perduta che aveva trovato nel suo cammino una luce da seguire. Quella luce che l’aveva tradita, spegnendosi proprio ora che ne aveva più bisogno.

«Ah, dì una sola parola che sei con me contro la tua volontà o fai qualcosa per fuggire... e io agirò di conseguenza, intesi?» Phénix si vide costretta ad annuire e lui sorrise soddisfatto. «Vedo che sei ragionevole come sempre.»

Fece appena in tempo a finire la frase, mentre la ragazza bussava, che una Claire Giry sconvolta aprì loro la porta. Stava per sciogliersi in un sorriso alla vista della fanciulla, ma tutto morì istantaneamente appena la vide accompagnata da quell’uomo che, per quanto affascinante fosse, non prometteva niente di buono.

«Sono venuta a riprendermi le mie cose.», disse con un tono freddo e pungente la zingara, sorpassandola senza uno sguardo in più, seguita da Lucas che, invece, non le tolse gli occhi di dosso, con quello sguardo da impertinente che si ritrovava in stampato in viso.

«Gran bella casa! Quasi quasi è meglio dei sotterranei delle fogne, non trovi mia cara?», chiese Lucas, curiosando in giro, mentre Phénix saliva le scale verso la soffitta.

Claire guardò preoccupata e stizzita l’uomo, che invece sembrava perfettamente a suo agio. E così era quello il ragazzo che aveva perso il padre, lo stesso che insieme al genitore si prendeva beffe di Erik quando ancora era un bambino.

«Lui dov’è?»

La donna trasalì, ma cercò come sempre di non darlo a vedere, nascondendo il suo stato d'animo tormentato in una maschera d'impassibilità. «Di chi parlate?»

Lucas piegò il labbro in un sorrisino cinico, poggiandosi contro il muro e guardandola intensamente. «Lo sai di chi sto parlando, donna.»

«No, non lo so. E se anche lo sapessi me lo terrei per me.» Claire strinse le labbra in un cipiglio severo e risoluto per cui tanto era rispettata e conosciuta. Non avrebbe venduto Erik a quell’uomo, tanto meno si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da un disgraziato come quello che aveva di fronte.

«Mi piacciono le persone coraggiose e che difendono i propri amici, davvero.», disse Lucas, serio. «Credo che siano degne del mio rispetto. Ma vedi, ci sono situazioni in cui è meglio mettere da parte il proprio coraggio e i propri sani e stupidi principi. Questo è uno di quelli, signora mia. Ora...», continuò, parlando ora con un po’ più di arroganza e muovendo qualche passo verso di lei. «Dov’è l’uomo che ha rovinato la mia vita e quella di Phénix?»

«Se non siete sordo, monsieur, vi ho appena detto che non lo so.»

«Non ti credo.» Lucas la studiò per qualche secondo, irritato. Poi sorrise, o meglio ghignò. «Tu sai qualcosa, donna. E io lo scoprirò.»

Phénix scese in quel momento, con la sua borsa sghemba ed il piccolo Dante tra le braccia, che per poco non saltò addosso all’uomo per graffiarlo. Con Erik non faceva così...

«Lo troverò, farò in modo di trovarlo.», fece Lucas a Claire, che tremò. «Diteglielo anche. Ovunque egli sia. Andiamo, Phénix.»

«Sophie! Che succede?»

La rossa si immobilizzò all’istante, terrorizzata nel sentire la voce preoccupata di Meg.

Torna in camera, ti prego.

Lucas guardò la ragazza senza celare un certo interesse e le sorrise cortese. «Sophie, hai detto?»

«Meg, non mi chiamo Sophie. Ora vattene a dormire.», sbottò Phénix, maledicendo tutta quella situazione e scusandosi mentalmente per il tono sgarbato e freddo che le stava rivolgendo. Ma non voleva che Lucas capisse il loro legame di amicizia e ne approfittasse per qualche sua stupida idea. Non se lo sarebbe mai perdonato.

«Sophie...»

«Meg, per l’amor del cielo, tornatene in camera!», esclamò Claire, facendo sobbalzare tutti per l’improvvisa alzata di voce. La ballerina guardò per un’ultima volta l’amica e corse su per le scale, intimorita.

Lucas fu l’ultimo ad uscire dalla casa e, con un goffo e provocatorio inchino, disse: «Bella casa e bella figlia. Arrivederci, signora!»

Claire si accasciò senza forze contro il divano, subito soccorsa dalla figlia, che non aveva mai abbandonato un istante della discussione di poco prima. «Maman, tutto bene?»

«Sì, Meg, è solo un calo di pressione... Sto bene.»

«Maman, che è successo? Chi era quell’uomo con Sophie?»

«Non lo so, piccola mia

«Maman! Non ti sembra il caso di smetterla di nascondermi tutto?», chiese con troppa enfasi la ragazza, sentendo subito il pensante sguardo della madre premerle contro. «Voglio sapere chi in realtà sia la donna che abbiamo avuto in casa per mesi! Perché è andata via?», aggiunse, ora con un po’ più di tristezza.

«Per colpa mia.», dissero all’unisono la madre ed Erik, quest’ultimo comparso in quel momento dal nulla, il che fece sbiancare in un batter di ciglia la giovane ballerina.

«Erik!» Claire scattò in piedi nel vederlo ancora lì. Al suo fianco Meg tratteneva il respiro nel rendersi conto di quanto vicino fosse quell’uomo così pericoloso e che tutti credevano morto.

«Maman...», mormorò. La madre le strinse una mano per rassicurarla e poco a poco si rilassò, non fosse che la vista di quell’anima tormentata che ora si era seduta sul divano, le mani tra i capelli, le fece capire che in quel momento il Fantasma era tutto tranne che pericoloso. Non aveva mai visto uno sguardo così triste e perso.

Claire si sedette accanto a lui, ma non osò sfiorarlo. Vedeva benissimo quanto Erik stesse trattenendo le lacrime della disperazione, non voleva che crollasse definitivamente.

«L’ho perduta, Claire. Perduta per sempre.», disse con un filo di voce, tanto che la donna faticò a sentirlo.

«Niente è perduto se non si prova a riprenderselo, Monsieur.», azzardò timidamente Meg, facendo alzare uno sguardo stupito ad entrambi.

Erik scosse il capo. «No, mi è stata data una seconda possibilità da questa vita maledetta, ed io non l’ho saputa usare. O forse è solo uno scherzo della vita stessa che si prende gioco di me, ancora una volta.»

Il cuore di Meg si strinse per un incredibile senso di tenerezza e pietà per quell’uomo che non aveva fatto altro se non seminare il terrore per anni nel suo teatro. Aveva amato la sua migliore amica con una devozione tale da portarlo alla follia; aveva ucciso, aveva distrutto la sua stessa casa. Ora sembrava più disperato di prima, ma non aveva più quella scintilla che l’aveva trasformato in un folle assassino, viceversa sembrava così abbattuto da non avere più forze per combattere. Era semplicemente un uomo che aveva perso.

«Voi l’amate?», chiese Meg, avvicinandosi di qualche passo e inchinandosi davanti a lui. Si sentì spogliata quando lo sguardo umido dell’uomo si alzava su di lei.

Erik sorrise amaramente, quasi a farsi beffe di stesso. «Mi ha affidato la sua vita, sapendo chi fossi... Morirei per lei. Ma ora non serve più. Sono morto nel momento in cui se n’è andata via da me.»

 

 

 

Continua...

 

 

Ahi ahi, le cose si mettono male!
Un saluto da Siviglia, amici e amiche mie! ;)

Marta.

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Capitolo 21
*** 20. Capitolo XVIII ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XVIII

 

 

Phénix pensò che non fosse umano piangere tante lacrime. Nemmeno credeva di averne così tante in corpo. Si strinse le gambe al petto e un brivido di freddo la fece tremare. Era chiusa in un vecchio e piccolo magazzino nel ventre di Parigi, un tempo la sua camera che divideva con altre zingare. Ma ora era sola, a piangersi addosso e a maledire chiunque le avesse affibbiato quella vita schifosa in cui era imprigionata. Era ben consapevole che prima o poi Lucas sarebbe ricomparso, soprattutto dopo quello che era successo qualche anno prima, ma non avrebbe mai immaginato che potesse accadere in quel modo; non avrebbe mai immaginato che Erik le avesse potuto mentire su una verità così importante per lei. Si era fidata ciecamente di lui, non le aveva mai dato un’occasione per pensare il contrario; eppure l’aveva ingannata, aveva abilmente nascosto il suo passato e toccato raramente quel tasto dolente per evitare di lasciarsi sfuggire qualsiasi cosa potesse compromettere la sua menzogna.

Claire Louise Giry aveva sempre detto che lei fosse una maledettissima curiosa, con il vizio di ascoltare i discorsi altrui. Ma aveva fatto bene quella notte ad alzarsi dal suo letto per sentire il discorso tra la donna e Rosette sul suo stato di salute. Anche su quello le avevano mentito. Quando poi la domestica aveva nominato il Monsieur la curiosità era diventata irrefrenabile e non aveva impiegato molto a collegare tutti i pezzi di un puzzle che improvvisamente si erano fatti chiarissimi ai suoi occhi. Il suo volto deturpato era lo stesso di quel bambino di nove anni che aveva ucciso il padre di Lucas; quello stesso omicidio che aveva causato la pena di morte ai suoi innocenti genitori. Ancora stentava a crederci.

Possibile che tutto quello che avevano condiviso insieme fosse solo una bugia? Che fosse solo un meschino metodo per rabbonirla in vista della scoperta della verità? Un modo come un altro per rinfacciarle tutto l’aiuto che le aveva dato in cambio del suo perdono? No, non l’avrebbe mai perdonato. Mai.

Un rumore di passi affrettati le fece alzare il capo dalle ginocchia e rimase in attesa di sentire altro. Anche il piccolo Dante si svegliò dal suo sonnellino, drizzando le orecchie in ascolto. Forse Lucas era tornato per scambiare due parole dopo tutto quel tempo?

Non sentì altro, se non il ticchettio di qualche goccia che scivolava giù dalle pareti umide. Phénix si asciugò gli occhi con i palmi delle mani e si alzò silenziosa, aiutata anche dal fatto che fosse scalza contro la pietra fredda del pavimento. Scostò la logora tenda che fungeva da porta e guardò il lungo corridoio buio e fresco di uno dei tanti sotterranei che faceva parte del sistema fognario parigino. Nessuno, non c’era anima viva.

O quasi.

«Ma-mademoiselle...», sussurrò una voce alquanto spaventata.

Phénix si voltò di scatto verso la provenienza del suono e strinse gli occhi verdi, ancora velati dalle lacrime. Decisamente quello non era né Lucas né qualcun altro della sua compagnia, dato che nessuno si sarebbe rivolto a lei con quel tono cordiale, seppur tremolante.

«Chi è là?», chiese in un bisbiglio, continuando a controllarsi intorno per avvistare qualsiasi pericolo.

«Sono qui, mademoiselle Rembrant.»

Phénix guardò alla sua sinistra, verso un cunicolo buio, stretto e puzzolente in cui riuscì ad intravedere la sagoma di un uomo. «Faucon! Che ci fate qui?», chiese precipitosa, raggiungendolo e spingendolo ancora più nel buio. «Qualcuno potrebbe trovarvi.»

Jacques Faucon non era mai stato un uomo molto coraggioso, ma aveva in comune con la zingara un’incredibile curiosità. Già da quando aveva letto sul giornale la notizia di quel duplice omicidio si era incuriosito alla faccenda; quando poi si era messo in testa che la zingara dai capelli rossi potesse essere la Sophie ospite da Madame Giry niente l’aveva fermato dal continuare ad indagare per conto suo. Quella sera stava andando a trovare la giovane per assicurarsi che stesse prendendo le medicine che le aveva prescritto, ma quando l’aveva vista insieme a quell’uomo poco raccomandabile il cuore gli era balzato in gola per l’adrenalina. Aveva ragione, era lei la zingara! Non ci aveva pensato su troppo quando aveva deciso di seguirli per capire cosa stesse succedendo. E ora si trovava lì, invischiato in un bel pasticcio per un uomo d’alta classe come lui e che si teneva ben lontano dai guai.

«Mademoiselle, volete spiegarmi che succede?», chiese con il suo solito tono saccente che tanto la mandava in bestia.

«Non sono fatti vostri. E ora andatevene.», tagliò corto lei. «Non voglio più vedervi qui, è chiaro?»

Faucon fece per ribattere ma i passi pesanti di qualcuno che si stava avvicinando lo zittirono immediatamente. Phénix lo spintonò via e senza fare rumore si poggiò contro il muro in pietra. Quando Lucas la vide incrociò le braccia al petto, avvicinandosi con circospezione.

«Stai ancora piangendo, mia piccola strega?», le chiese, fermandosi davanti a lei, pochi passi li separavano.

«Non ti interessa.» Voltò il viso da un’altra parte, ma lui la costrinse a guardarlo.

«Sì che mi interessa, Phénix. Sei la mia donna, io mi preoccupo per te.» Le accarezzò con gentilezza una guancia ancora bagnata dalle lacrime, che asciugò via subito. Phénix pensò che quell’uomo sarebbe potuto diventare veramente colui che avrebbe avuto al suo fianco per tutta la vita se solo non fosse cresciuto con tutto quel risentimento in corpo. Perché in fondo Lucas non era mai stato cattivo con lei, ma sapeva bene cosa significasse mettergli i bastoni tra le ruote. La nonna che ancora giaceva sopra il suo sangue era un ottimo esempio.

«Vieni, parliamo un po’ del nostro comune amico, così cerchiamo di studiare un modo per fargliela pagare.», le disse con un ghigno che secondo lui avrebbe dovuto rassicurarla. L’effetto che sortì, invece, fu quello di farla tremare. Perché, ora che ci pensava, l’idea di uccidere quell’uomo che le aveva mentito sulla cosa per lei più importante le sembrava solo una follia? Ora che conosceva l’identità del bambino che aveva cercato per più di venti anni non pensava che ucciderlo per vendicarsi sarebbe stata una mossa saggia. Anche perché, pur volendo, non ne avrebbe avuto la forza. Sì, Erik aveva taciuto, aveva capito e non aveva mai parlato, ma era anche un uomo che aveva patito troppe sofferenze per una vita sola, e lei... lei si era affezionata così tanto a lui che non sarebbe riuscita neanche a torcergli un capello. E la consapevolezza dell’esistenza di questo ascendente potente che Erik aveva su di lei la spaventava a morte, quasi quanto l’idea di saperlo morto.

Tuttavia fu costretta a seguire quell’uomo che detestava con tutte le sue forze e si appuntò mentalmente di stare attenta a quello che avrebbe detto. Non poteva rischiare di farsi sfuggire qualche particolare importante sul conto di Erik che avrebbe potuto metterlo in pericolo. Perché per quanto Erik fosse il Fantasma dell’Opera sapeva bene quanto Lucas si sarebbe intestardito pur di farla pagare all’uomo che aveva ucciso suo padre.

 

Erano giorni che non si muoveva da lì. Seduto davanti al suo organo, con lo sguardo vacuo e perso di chi non aveva altre ragioni per andare avanti, di chi non sapeva dove sbattere la testa per riprendere in mano la propria vita. Guardava i tasti ingialliti del maestoso strumento, ma non li vedeva. I suoi occhi erano appannati, le sue orecchie ovattate sentivano solo le grida di quella giovane a cui aveva spezzato il cuore...

Ti odio, Erik! Vai all’Inferno!, gli aveva gridato, con così tanto dolore che gli mancava il respiro al solo pensiero. Non aveva più forze, né fisiche né morali, non un unico motivo valido per andare avanti. Lei se n’era andata e non l’avrebbe voluto più vedere. Anzi, desiderava vederlo morto.

Ma lui era già morto.

Lui era un fantasma.

Si mise le mani tra i capelli spettinati e poggiò i gomiti sui tasti dell’organo, che lanciò un suono sordo e profondo che risuonò per tutta la grotta. Non era possibile, no... Era un incubo, un bruttissimo incubo. Perché non poteva credere che proprio nel momento in cui stava tutto andando alla perfezione la vita avesse voluto giocargli l’ennesimo scherzo. Aveva trovato qualcuno da proteggere, da amare, qualcuno per cui avrebbe fatto di tutto pur di renderlo felice... qualcuno che lo apprezzava per quello che realmente era.

Phénix...

Era talmente fuori dal mondo che non sentì neanche i leggeri passi di ballerina che si muovevano verso di lui, con cautela e timore.

«Erik...» Christine gli si avvicinò con le mani chiuse in un pugno per la rabbia e la tristezza. Non poteva sopportare di vederlo in quello stato, non dopo quello che già lei gli aveva fatto passare. «Erik... mi sentite?» Gli posò una mano sulla spalla, ma lui non si mosse. Non sembrava né sentirla né vederla. «Erik, per favore, reagite...» Lo scrollò lievemente e solo allora lui sembrò risvegliarsi da quello stato di shock in cui riversava da un paio di giorni.

Si voltò a guardarla con lentezza e Christine si coprì le labbra con le mani nel vedere quegli occhi così carichi di tristezza.

«Christine...», sussurrò con voce roca, di chi non parlava da tempo. «Cosa... Cosa fai qui?»

Lei represse un singhiozzo di commozione e gli accarezzò il braccio che poco prima aveva scosso. «Sono preoccupata per voi. Tutti lo siamo.»

Erik sembrò interessarsi solo allora della sua presenza. Aggrottò entrambe le sopracciglia. «Tutti?»

«Sì, io, Madame Giry, Meg... Claire mi ha raccontato tutto. Mi dispiace.» Christine si mordicchiò nervosamente il labbro quando lui abbassò lo sguardo e sorrise mestamente. Non aveva mai visto un sorriso più spento e finto di quello.

«Non essere in pena per me, angelo mio. Non ne vale la pena.»

«Oh, Erik! Non dite stupidaggini!», esclamò la ragazza, rossa in viso per la frustrazione. «È lei la Salvezza di cui mi parlaste tempo fa, vero?»

«Christine, torna dal tuo fidanzato. Non c’è niente che tu possa fare per me.»

«È lei, vero?», continuò imperterrita.

Erik sospirò profondamente, voltando lo sguardo verso l’acqua che brillava per effetto delle candele accese e consumate, ed annuì con lentezza.

«Allora andate a riprendervela.»

Lui la guardò con occhi stupiti per il tono duro e deciso che sembrava non appartenerle. Andare a riprenderla? Con quale diritto? «Non posso, io... non posso

«Per l’amor di Dio, non siete voi l’uomo che ha mandato a fuoco il suo stesso teatro per conquistare la donna che amava?», strillò Christine, ormai le lacrime che scendevano senza sosta lungo le guance arrossate. «Se è vero che è grazie a Soph... Phénix che avete ricominciato a vivere, se è vero che l’amate... allora dimostratelo.»

Lui scosse la testa, impercettibilmente. «Perché lo fai?»

Christine si lasciò andare ad un sorriso. «Perché vi voglio bene e se ci fosse qualcosa che potrei fare per vedervi felice non esiterei un attimo.»

Erik deglutì a fatica, ma non riuscì a dire niente, dato che qualcuno si stava avvicinando a gran fretta alla sua dimora. Scattò in piedi appena Claire sbucò trafelata e con uno sguardo terrorizzato che mai le aveva visto in viso.

«Claire...»

«Meg... Meg, l’hanno presa!»

Christine trattenne il fiato, gli occhi sbarrati per l’apprensione, mentre Erik, al suo fianco s’irrigidì di colpo. «Chi?»

«Lui, Lucas.», soffiò Louise, prima di accasciarsi sul pavimento di pietra, per un calo di pressione. Erik si precipitò a soccorrerla, prendendola in braccio e portandola sul suo letto. Christine, intanto, aveva raccolto in un contenitore un po’ di acqua e ci aveva bagnato un pezzo del suo abito, che aveva prontamente strappato.

Erik tornò con una fialetta di liquore, che usò per bagnarle le labbra e per farglielo annusare. Claire riprese coscienza solo una decina di minuti dopo, completamente sudata.

«Erik, non... non andare da lui.», sussurrò, preoccupata. «È una trappola, è solo un modo per prenderti.»

«Non mi interessa, Claire. So difendermi.»

Christine alzò lo sguardo su quell’uomo che aveva riacquistato in così poco tempo la sicurezza e l’autorità di cui andava fiero e tremò al pensiero dei suoi metodi difensivi.

«Erik, non capisci... Ti vuole morto, Faucon l’ha sentito.», continuò la donna.

«Chi?»

Christine la guardò senza capire. «Monsieur Faucon? Dove l’ha sentito? Come?»

«Li ha seguiti, qualche giorno fa e sa anche come tornare al loro accampamento.», spiegò la donna, prendendo un bel respiro e chiudendo gli occhi per un lieve giramento di testa. «Per questo ti dico di non andare, Erik. Raoul e i soldati si stanno già preparando per l’incursione, lascia fare a loro.»

«No.», fu la secca risposta dell’uomo, che non voleva sentire ragioni. «Tua figlia è in pericolo per causa mia, sempre e solo per questo. Non permetterò a Lucas né a nessun altro di farle del male.»

«Erik, per favore...»

«Claire Louise Giry, non voglio ripetermi. Ora ti riporto di sopra così ti farai medicare. Christine, tu seguimi.» Erik prese nuovamente in braccio la donna e si incamminò con una certa fretta e attenzione per i cunicoli dell’Opera, finché non sbucò nel camerino in cui si era mostrato, per la prima volta, alla sua musa.

«Erik, promettetemi che starete attento.», lo supplicò Christine, fermandolo prima che potesse sparire nuovamente.

Lui esitò qualche secondo, il cuore che gli batteva veloce più per l’adrenalina e la rabbia che per altro. Quella sarebbe stata l’occasione buona per far pagare anche al caro Lucas tutti gli anni di soprusi che aveva dovuto sopportare.

 

“Ehi, mostriciattolo!”, gridò un bambino dai capelli scuri e lasciati andare sopra le spalle, lo sguardo strafottente e un sorrisino cinico sulle labbra. “Che stai facendo con quell’arnese?”

L’altro bambino, smunto e col capo coperto da un sacco bucato in prossimità degli occhi, si strinse al petto il suo giocattolo preferito: una scimmietta con i cembali tutta consumata e sporca.

“Oh, stai pensando che persino quella scimmia è più bella di te?”, continuò a deriderlo quello, strappandogliela di mano e guardandola con disgusto. La lanciò lontano, tra le risate degli altri bambini.

“C’è solo un problema, mostriciattolo.”, gli disse, con un tono di voce più basso e serio. S’inchinò verso di lui, afferrando la stoffa del copricapo e tirandola via; il viso deturpato del bambino fece ridere ed esclamare tutti i presenti e fu lesto a coprirsi il viso con le mani sudice.

“È proprio questo il tuo problema. Tu non sarai mai bello. Tu sei un mostro.”

 

Erik strinse gli occhi a quel pensiero, ma tornò a guardare la ragazza spaventata di fronte a sé e sorrise mestamente. «Non posso prometterti niente, mon ange.»

Christine si lasciò cadere sul pavimento, non distogliendo lo sguardo dal grande specchio in cui Erik sparì subito dopo. Aveva paura, paura che non tornasse più, paura che proprio quando l’aveva visto splendere di una nuova gioia questa potesse spegnersi di colpo e farlo precipitare nuovamente nelle tenebre. Non poteva permetterlo... non se lo meritava.

«La salverà, me lo sento.», sussurrò Claire, sdraiata con un braccio sulla fronte.

«Non ne dubito, Madame.», fu la risposta della giovane cantante, che si strinse le gambe al petto come per cercare conforto. «È per la sua incolumità che mi preoccupo.»

 

 

Quando l’aveva vista raggomitolata contro le gambe in uno stanzino, dietro una grata arrugginita di ferro, per un attimo credette di esserselo sognato. Ma gli occhi di Meg, velati di lacrime, quel visino sempre pulito e sorridente ora smunto e pallido più del dovuto la riportarono alla realtà.

«Meg! Meg, mi dispiace!», esclamò Phénix, appendendosi alle sbarre e tendendole una mano che subito la ragazza strinse con forza. Era gelida.

La ballerina strinse le labbra, cercando di non singhiozzare, e la guardo con occhi supplicanti. «Sophie, portami via.»

La voce flebile più simile ad un lamento le strinsero il cuore, così come il fatto che l’avesse chiamata con il suo falso nome. «Te lo prometto, ti tirerò fuori di qui. Te lo prometto, Meg.»

La biondina chinò il capo e poggiò la fronte contro le sbarre, lasciandosi andare all’ennesimo pianto isterico che in quelle ultime ventiquattro ore l’aveva sfiancata.

Phénix strinse le mani contro il ferro umido e si sentì muovere da una rabbia che mai avrebbe pensato di provare dopo la delusione di Erik. Corse da Lucas, furibonda, e quando lo trovò intento a discutere con Faust, l’uomo che aveva ferito in un impeto di rabbia pochi mesi prima, e qualche altro suo compagno dall’aria poco raccomandabile.

«Tu, ti odio! Ti odio!», gridò, correndogli contro e scaricandogli una serie di pugni sul petto che su di lui ebbero l’effetto di carezze.

«Oh, non ne dubitavo, Phénix.», rispose lui divertito, con il solito ghigno malevolo stampato sulle labbra. «Hai trovato la tua amichetta?»

«Lascia stare Meg, mostro! Lei non c’entra niente!», continuò Phénix, mentre i suoi polsi venivano immediatamente bloccati dalle mani forti e ferme dell’uomo.

«Come mi hai chiamato?»

Phénix, gli occhi rossi per le lacrime, gli sputò in viso. «Mostro, mostro!»

Lucas strinse i denti per la stizza e lo schiaffo che le tirò sulla guancia ebbe il potere di farle perdere l’equilibrio, spedendola direttamente per terra. «Non. Osare. Mai. Più. Sono stato sufficientemente chiaro?»

La ragazza serrò i pugni, sbattendoli contro la pietra del pavimento. Perché Meg? Perché non l’aveva lasciata fuori da quella storia in cui non ci azzeccava niente? Maledetto il giorno in cui aveva incontrato Erik, maledetto!

Lucas la strattonò per un braccio e la costrinse a rialzarsi. «Si dia il caso, mia piccola strega dalla lingua lunga, che la graziosa biondina l’ho presa in prestito per qualche giorno. Se il nostro amico Erik si comporterà bene potrà tornare libera al pascolo, altrimenti... Beh, lascio a te l’immaginazione.»

«Sfiorala anche con il solo sguardo e giuro che ti uccido.»

Il silenzio tombale che era calato nell’intera stanza venne interrotto dallo scrosciare fragoroso delle risate dei presenti, Lucas compreso. «Grande prova di coraggio, tesoro. Ma non devi dimostrare niente a nessuno qui.», le disse duramente. «Ora tornatene da brava nel tuo buco, e non uscirne finché non te lo dico io.» Fece un cenno del capo a due uomini che, dopo aver annuito, le si avvicinarono per prenderla di peso ed allontanarla, tra le sue esclamazioni contrariate.

Lucas si passò una mano tra i capelli sporchi e lunghi e sbuffò con fare divertito. «Quanti grattacapi mi da, quella ragazzina insolente.»

Faust si poggiò contro il muro, incrociando le braccia. «Ancora non capisco perché ti ostini tanto ad averla.»

«Per principio, amico mio. Solo principio.» L’uomo strinse gli occhi, riportando alla mente ciò che si erano promessi qualche anno prima. «Sarebbe dovuta essere la mia compagna, per sempre. E sai benissimo quanto io odio che qualcuno non mantenga la parola data. Soprattutto se è una donna.»

Ed era vero, lui era un uomo di parola. Se faceva una promessa l’avrebbe mantenuta, su quello non si poteva discutere. E quando questo non avveniva da parte di terzi lui si arrabbiava, e anche tanto. Sarebbe potuto arrivare anche ad uccidere, per la sua contrarietà. Ma Phénix era una donna, aveva dei sani principi anche da quel punto di vista. Non le avrebbe fatto del male, così come non avrebbe sfiorato la ballerina bionda che aveva requisito la sera prima. Erano donne ed in quanto tali meritavano rispetto. Ma era anche ben consapevole dei suoi limiti di pazienza, quindi non avrebbe potuto escludere un prossimo momento di follia anche nei loro confronti. Lo schiaffo che aveva dato a Phénix solo pochi minuti prima era solo un assaggio.

 

 

 

Continua...

 

 

Più morta che altro dal caldo, vi saluto tutti! ;)

Marta.

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Capitolo 22
*** 21. Capitolo XIX ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XIX

 

 

Erik ricordava alla perfezione quei passaggi umidi e bui che scorrevano sotto le strade di Parigi. Li ricordava così bene che sembrava fossero passati solo un paio di giorni dall’ultima volta che li aveva percorsi e non più di venti anni. Ricordi vividi di momenti che sarebbe stato meglio dimenticare affiorarono alla sua mente, irritandolo più del dovuto. Memorie di un’infanzia che nessun bambino avrebbe dovuto vivere, ma che lui invece aveva dovuto sopportare per un brutto scherzo della vita.

Si guardò le spalle, rendendosi conto di qualcuno che silenziosamente gli stava dietro, senza farsi notare. Loro sapevano che era lì, era esattamente quello che volevano. Quando tornò a guardare davanti a sé una figura gli si parò davanti, con le braccia incrociate sul petto. Non riuscì a capire di chi si trattasse, perché l’unica fiaccola accesa si stava per consumare tremolante, impedendogli di studiare i lineamenti dell’altro.

«Vieni, Erik. Il padrone di casa ti sta aspettando.» La voce di Faust echeggiò per tutto il lugubre corridoio ed Erik strinse i denti e i pugni per la rabbia. Di lì a poco si sarebbe nuovamente trovato faccia a faccia con il figlio dell’uomo che si era preso gioco di lui da piccolo, usandolo come mera attrazione per i passanti, deridendolo, picchiandolo. Ma lui non era più un bambino indifeso, succube delle loro prese in giro; no, lui era cresciuto, era diventato un uomo dalla grande personalità, un genio... e un uomo che sapeva difendersi. Un assassino, il tanto temuto Fantasma dell’Opera.

Portò una mano all’elsa a forma di teschio della sua spada lucente, che pendeva lungo un fianco nascosta dal mantello, e seguì l’uomo che gli faceva strada, continuando a lanciare occhiate di circospezione intorno. Si ritrovarono in quello che un tempo doveva essere un vecchio magazzino, ora il punto principale del rifugio di quella banda di zingari.

Lo vide alzarsi dalla sedia sbilenca, dietro un tavolo consumato dai tarli, ed allargare le braccia in segno di saluto. Guardandolo attentamente si accorse con stizza che il ghigno di derisione che gli aveva sempre visto in faccia non era ancora sparito. Avrebbe presto rimediato alla questione. Ora doveva solo far liberare Meg Giry, quella era la cosa che più gli premeva.

«Guarda, guarda chi è venuto a farci visita! Mostriciattolo, qual buon vento ti porta qui? Sentivi forse la nostra mancanza?», chiese Lucas, avvicinandosi di qualche passo a lui, anche se vide bene di mantenere una certa distanza di sicurezza, soprattutto quando si accorse dello sguardo infuocato dell’altro.

«Lasciala andare.»           

Il suono profondo e imponente della voce Erik gelò per un attimo il sangue nelle vene dei presenti; Lucas stesso rimase impressionato da quel tono che non ammetteva repliche, lo stesso tono di chi era abituato ad impartire ordini da una vita. Era evidente che il bambino impaurito ed assoggettato di un tempo era sparito per lasciar spazio ad un uomo che aveva pieno controllo di sé stesso.

«Però, sei cresciuto.», commentò lo zingaro, piegando il capo verso una spalla, incuriosito. «E hai anche buon gusto, la maschera che usi per coprire quella schifezza che hai in viso è un gran bell’oggetto.»

Erik non rispose alle sue provocazioni, sapeva benissimo che genere di uomo si trovasse davanti. Voleva rimanere lucido fino al momento in cui l’avrebbe ucciso, quel maledetto. «Lascia andare la ragazza.», ripeté con calma.

«Quale delle due? La biondina o quella a cui hai involontariamente fatto uccidere i genitori?», chiese con cattiva strafottenza, che fece rabbrividire di rabbia l’altro. «Sai, Phénix ti odia. Me l’ha detto lei giusto l’altro giorno. Devi essere stato molto cattivo con lei... Lo sai che le donne non si fanno soffrire?» Lucas scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «No, certo che no. Tu non hai avuto nessuna madre né padre che potessero dirtelo, tanto meno una donna che ti insegnasse le buone maniere.»

Erik fu lesto ad estrarre la spada e premergliela al collo, ma altrettanto fulmineo fu Lucas, che gli puntò una pistola in mezzo alla fronte. Gli uomini presenti, intanto, erano sul chi vive, pronti per ogni evenienza.

«Ti piace la mia pistola? L’ho fregata ad un giovane soldato che camminava da solo in piena notte. Non c’è più la gendarmeria di una volta, non sei d’accordo con me?»

Erik strinse gli occhi guardando la canna dell’arma a pochi centimetri dal suo viso, poi spostò lo sguardo verso l’uomo che lo minacciava e che lui stesso minacciava.

«Getta la spada, amico.», gli consigliò Lucas. «Anche perché non so cosa ti convenga con una pistola in fronte. Gettala e possiamo iniziare a ragionare insieme sulla bella biondina.»

L’immagine di Meg che danzava lieta e felice, del suo sorriso, dei suoi cipigli severi che acquisiva con Christine quando questa faceva qualcosa di sbagliato e così simile alla donna che gli aveva salvato la vita quando ancora era un bambino, lo portò a far cadere di mano la spada lucente, che finendo per terra emise un suono metallico sordo, che rimbombò per tutta la stanza. Il teschio, nell’elsa, sembrava ridere derisorio e molti dei compagni di Lucas lo guardarono con timore, come cattivo presagio.

«Molto bene, Erik. Ora vai verso quella parete, qualcuno provvederà a tenerti fermo.», continuò Lucas, sempre puntandogli contro la pistola.

Due uomini si fecero avanti e, nonostante il brivido di paura che provarono nel sentire quello sguardo carico d’odio del prigioniero, gli ammanettarono i polsi su un anello di ferro sopra la sua testa e, una volta che si assicurarono che non potesse più muoversi, gli sputarono contro.

«Portate qui la nostra ragazza.», ordinò Lucas ai due, abbassando ora la pistola. Raccolse la spada che giaceva in terra e, avvicinandosi lentamente, gli sfilò la maschera con la punta dell’arma, ferendogli la carne già martoriata di suo. «Patetico. Se credi che una maschera ed un nome come il Fantasma possano incutere paura. Tu sei e rimarrai un mostro sfigurato.»

Erik distolse lo sguardo dall’uomo solo quando si accorse della figura femminile che entrò nella stanza e perse un battito quando vide Phénix sgranare gli occhi per lo stupore; era più sciupata del solito e aveva gli occhi rossi, gonfi per i lunghi e numerosi pianti. Diavolo, quanto gli era mancato anche solo poterla vedere da lontano!

«Erik...» Phénix si portò le mani alle labbra, sgomenta. Mai avrebbe pensato di rivederlo in quello stato, legato ed impossibilitato a muoversi. Lui, che invece non esitava un secondo ad uccidere se veniva messa in pericolo la sua vita o quella dei suoi pochi cari, lui che aveva seminato il terrore per anni in un teatro, lui che aveva avuto il potere di stregarla con i suoi modi autoritari ed eleganti, ma mai rudi.

«Sai Phénix, ci ho pensato parecchio in questi ultimi giorni.», esordì Lucas, ottenendo l’attenzione di entrambi. «Pensavo... Quest’uomo qui, o meglio, questo che dovrebbe essere un uomo, ha ucciso mio padre senza pietà. Non basta, per causa sua i tuoi genitori sono morti quando ancora avevi due anni. Se non fosse mai vissuto, se non avesse avuto l’aspetto di un mostro tutto questo non sarebbe successo.»

«Nessuno ti ha mai dato il permesso di giocare con la vita di un altro.», sibilò Erik, ora completamente furibondo.

«Taci! Non è con te che sto parlando, feccia!», gridò Lucas, tirandogli il calcio della pistola in viso e facendolo sanguinare copiosamente dal naso.

Phénix, dietro lo zingaro, si dovette mordere un labbro per evitarsi di gridare. No, non poteva permettere che lo ammazzasse, lei... lei era innamorata di lui, anche se le aveva mentito per tutto quel tempo!

Non smise di guardarlo neanche quando Lucas riprese a parlare.

«Mi chiedevo, dovrò farlo io o lo lascio a lei? In fondo lui ha strangolato mio padre.» Lucas corrugò la fronte, pensieroso. «Poi mi son detto: in realtà la piccola Phénix è stata privata di tutto, e non basta... le ha nascosto la verità!»

Erik socchiuse le labbra come per voler dire qualcosa, ma non fiatò. Si limitò a fissare gli occhi verdi della ragazza con dolore e risentimento.

«Sei sempre stata decisa, Phénix. Hai sempre mantenuto le tue promesse e per questo hai tutto il mio rispetto. Ora non deludermi: uccidilo.»

Phénix distolse di scatto lo sguardo dall’uomo sanguinante per guardare con orrore la pistola che Lucas, deciso, le stava porgendo.

«Uccidilo, Phénix.»

Impiegò qualche secondo prima di rendersi conto che quell’uomo stava dicendo sul serio. E in quel momento tutto il peso di quella terribile situazione si fece sentire come un macigno sulle spalle, che le impediva di muoversi, di ragionare a mente lucida. Riusciva solo a tremare sotto quello sforzo immane, tremare e piangere incontrollabilmente.

Il metallo della pistola era tiepido, riscaldato dalle dita di Lucas che fino a poco prima la stringeva tra le mani, ma lei rabbrividì come se avesse toccato del ghiaccio. Improvvisamente tutto divenne offuscato, tutto tranne la sagoma di quella povera anima appesa per i polsi, con il capo chino di chi si rassegnava alla sua fine.

Erik, abbandonandosi alla realtà, chiuse gli occhi quando la vide prendere l’arma tra le mani, riluttante, non avendo il coraggio di sostenere lo sguardo di una donna distrutta da tutte quelle novità, la stessa donna per cui provava l’immenso e tremendo sentimento per il quale si era maledetto in passato, la stessa donna che gli aveva detto di odiarlo e che presto avrebbe posto fine alle sue sofferenze.

Le mani che tremanti reggevano la pistola si sollevarono con lentezza verso di lui, mentre un dito cercava il grilletto.

Una lieve pressione e tutto sarebbe finito.

Per sempre.

Ma lo sparo non arrivò, non ancora.

Erik riaprì gli occhi solo quando si rese conto che la donna stava indugiando un po’ troppo per i suoi gusti. O forse era solo un modo per torturarlo lentamente, lasciandolo ai suoi rimorsi e ai ricordi di una vita funesta che, veloci, gli passavano davanti agli occhi?

Ma quando Erik capì le vere intenzioni della ragazza, lei aveva già spostato la pistola contro Lucas e non poté fare niente per fermarla.

Quella stupida!

«Che stai facendo, Phénix?», le chiese pacatamente Lucas, alzando un sopracciglio.

La zingara deglutì a fatica prima di parlare. «Ti ricordi cosa mi dicevi, anni fa? “Figli del vento, siamo i figli del vento.” Dimmi, Lucas, hai mai provato a fermare il vento?*»

L’uomo strinse gli occhi, ripetendo la domanda di prima. «Che stai facendo, sciocca?»

«Quello che avrei voluto fare da tempo

Il vento non si può fermare. Prova a fermarmi, ora.

«Abbassa la pistola, ragazzina.», le ordinò con incredibile calma l’uomo. Conosceva bene la ragazza per sapere che non gli avrebbe sparato. Non ne avrebbe avuto il coraggio.

«Tu lascia andare Meg ed io abbasserò la pistola.»

Lucas esitò un attimo, poi fece un cenno d’intesa a Faust, che aveva già la mano pronta sulla sua arma da fuoco. Questo sparì subito dopo, e Lucas tornò a guardare Phénix. Scoppiò a ridere due secondi dopo. «Non giocare, streghetta. Potresti farti male!»

«A te che importa?», chiese, stringendo convulsamente l’arma tra le mani. «Non mi pare che tu ci abbia pensato due volte a farmi del male.»

«Non ho mai alzato un dito su di te, maledetta ingrata!», esclamò furente Lucas. «E Dio solo sa quanto avrei voluto!»

«Non sono le percosse o le violazioni al mio corpo gli unici modi per procurarmi dolore, Lucas.», sibilò, gli occhi verdi che ribollivano di rabbia. «Mi hai sempre trattata come se fossi il tuo bamboccio, come se io avessi dovuto sottostare ai tuoi voleri. E io, troppo impaurita all’epoca, ti seguivo, perché ti temevo. Mi hai lasciata andare solo perché gli altri avevano iniziato a temere me, una strega secondo le loro stupide teorie!»

«Sei sempre stata innocua, Phénix. Non è il colore dei capelli a fare una persona.»

«Mi hai fatta seguire, se non fosse stato per Erik Dio solo sa cosa quei due disgraziati dei tuoi cugini mi avrebbero fatto.» Vide Lucas contrarre la mascella per il disappunto nel sentire nominare Victor e Nicolas, ma lei non vi prestò attenzione. «Hai ucciso mia nonna e con lei una parte di me. Hai messo in mezzo una ragazza che non c'entrava niente con questa storia solo per arrivare ai tuoi scopi... E non meno importante, non mi sembra che tu abbia fatto qualcosa per far scagionare i miei genitori per l’uccisione di tuo padre. Sapevi benissimo che loro non ne avrebbero avuto i motivi e nemmeno la forza. Non posso chiudere ancora un occhio.»

«Quel mostro ha ucciso mio padre!», tuonò Lucas, muovendo un passo verso la rossa. «Secondo te avevo anche la voglia di aiutare una mocciosa come te quando mio padre si ritrovava con un cappio al collo?!»

«E tuo padre non era da meno!», ribatté lei, con le lacrime agli occhi. «Se ci fossi stato tu al suo posto, che avresti fatto?»

Erik strinse i pugni per la avvilimento nel rendersi conto ancora una volta che quella donna lo stava difendendo, nonostante sapesse. Ma fu quello che sentì dopo che lo lasciò più sgomento di quanto già non fosse.

Tu hai ucciso nostro figlio. Te ne sei dimenticata, forse?

Alzò lo sguardo verso Phénix, gli occhi sbarrati mentre si rendeva conto che quella domanda era fondata. La vide morsicarsi il labbro inferiore, le lacrime che continuavano a sgorgare ormai senza freni sul suo viso scarno.

Figlio? Avevano avuto... un figlio?

Phénix singhiozzò rumorosamente, stringendo convulsamente la pistola tra le mani. «Hai mai pensato... Anche solo lontanamente... Che una ragazzina come me non poteva avere un figlio?», gli chiese, ormai senza forze.

«Era il nostro bambino quello che portavi in grembo, per Dio!», gridò l’uomo. «E tu hai permesso a quella vecchia di ucciderlo prima ancora che nascesse!»

«A stento mi reggevo in piedi, come avrei potuto farlo nascere?!», ribatté lei, distrutta dal ricordo. «Pensi che non avrei voluto vederlo crescere?»

Lucas sospirò rumorosamente, passandosi una mano sul viso imperlato di sudore. Erik, nel frattempo, a stento riusciva a credere alle sue orecchie.

«Ti ho amata, maledetta sciocca... E ti avrei amata anche dopo quello che è successo, se solo non mi avessi abbandonato. Quest’idea ti ha mai sfiorato quella bella testolina che ti ritrovi?», le chiese il gitano, più dolcemente.

Phénix socchiuse le labbra per rispondere, ma il grido disperato di Meg e il suono di uno sparo le fece voltare il viso verso la direzione del frastuono e Lucas ne approfittò per coglierla alla sprovvista e rubarle la pistola dalle mani, tirandole un colpo e facendola rovinare a terra. Il ghigno gli comparve nuovamente in viso e puntò l’arma verso Erik, avvicinando il dito al grilletto. «Mi son sbagliato sul tuo conto, mia piccola streghetta. Vuol dire che lo ucciderò io per entrambi. Con te facciamo i conti dopo.»

Il suono sordo di due colpi risuonò per l’intero ex-magazzino, facendo trattenere il fiato a tutti i presenti. Phénix sbarrò gli occhi umidi per le lacrime e provò a gridare, ma niente fuoriuscì dalla sua gola.

Ma la pallottola non colpì Erik, per lo meno non quella del primo sparo, che era partito da un Raoul de Chagny freddo e deciso, mentre a farne le spese maggiori fu Lucas, che cadde a terra reggendosi il petto, insanguinato. Voltò lo sguardo terrorizzato e vacuo verso Phénix, che piangeva a pochi passi da lui; poi cadde sul pavimento sporco e umido, senza muoversi più.

Raoul, accompagnato da alcuni soldati, ordinò di arrestare tutti gli altri zingari e si avvicinò al corpo senza vita dell’uomo a cui aveva appena sparato. Poi sollevò gli occhi verso colui che solo un anno prima aveva cercato di strangolarlo e di portargli via la donna amata. Se non fosse stato per Phénix che gli si era avvicinata in lacrime per controllare la ferita che aveva sul fianco, provocata da un colpo accidentale di Lucas, l’avrebbe finito lui stesso.

«Erik... Erik ti prego, guardami.»

Lui scosse la testa, stanco. «Non posso...»

Phénix gli prese il viso tra le mani e lo costrinse ad alzarlo. «Guardami.»

Lui aprì debolmente gli occhi e cercò di mettere a fuoco la figura china su di lui. Non aveva mai provato un dolore fisico come quel bruciare tremendo dovuto ad un’arma da fuoco, ma tutto sembrò svanire quando incontrò lo sguardo umido per le lacrime di Phénix. Non sentì la sua voce che lo chiamava, non sentì la ragazza gridare a Raoul affinché lo portasse da Faucon o da qualcuno che potesse medicarlo celermente.

Perse i sensi prima.

Phénix si alzò e corse incontro a Raoul, sconvolto dall’espressione terrorizzata della ragazza. «Vi prego, vi supplico, salvatelo!», gridò, afferrandolo per il bavero della giacca e scuotendolo con disperazione. «Morirà se qualcuno non lo curerà in tempo!»

Il Visconte lanciò un’occhiata al suo acerrimo nemico che ora era immobile e piegato su stesso, mentre la macchia rossa di sangue sul fianco si allargava sempre di più. «Morirà comunque. È un assassino e finirà al patibolo questa settimana stessa.»

«No, no, no!» Phénix strinse con forza e rabbia la stoffa del suo cappotto. Avrebbe anche potuto ucciderlo in quel momento. «È venuto qui per salvare Meg! Se non fosse stato per lui chissà cosa sarebbe successo!», esclamò tra le lacrime ed i singhiozzi la zingara. Poggiò disperata la fronte contro il petto dell’uomo, mentre lentamente perdeva ogni forza. «Per favore, ve lo chiedo per favore

La ballerina comparve in quel momento, accompagnata da un soldato ed avvolta in una coperta che avevano trovato da qualche parte, scossa ma viva e senza ferite. Raoul la guardò a lungo prima di prendere una decisione e di spostare lo sguardo su quell’uomo che, nonostante avesse ucciso, nonostante tutti i guai che gli aveva causato, si era rivelato il salvatore della piccola Meg e anche della sua Christine. L’aveva lasciata andare, sebbene l’avesse amata con una passione ed una follia che ancora stentava ad immaginare. Inoltre non poteva sopportare il peso dello sguardo di quella ragazza distrutta dal dolore, perché aveva capito quale sentimento la legasse a quell’uomo. Se lui avesse perso Christine era più che sicuro che avrebbe dato via la vita pur di salvarla.

La sua stessa Christine che prima di uscire di casa, quella mattina, lo aveva pregato di non fargli del male...

Ti prego, Raoul, ti scongiuro. Se è vero che mi ami salva anche lui! Fallo in nome del nostro amore.

«D'accordo, vi accontenterò.» Phénix sollevò lo sguardo stupito ed insieme riconoscente su di lui, facendolo sospirare. «Ma non posso assicurarvi la sua salvezza da un processo.»

«Grazie, grazie!», gioì tra le lacrime la ragazza, che gli si appese al collo per abbracciarlo.

Raoul fece chiamare urgentemente il cugino, che era rimasto tutto il tempo nascosto dietro un angolo per paura di essere coinvolto, e con l’aiuto di alcuni soldati portarono il corpo di Erik fuori da quei cunicoli bui ed umidi, diretti alla villa del Visconte stesso per dargli le prime cure e togliergli il proiettile dal fianco.

Phénix guardò la carrozza andare via veloce, poi cadde in ginocchio, piangendo tutte le lacrime che le erano rimaste. Quando Claire Louise Giry la trovò in quello stato non riuscì a non versare anche lei una lacrima e pregò Dio che Erik si salvasse e donasse un po’ di tranquillità a quelle due anime che per troppo tempo avevano vissuto nell’angoscia.

 

 

 

Continua...

 

 

Ammetto che la facilità con cui Erik si abbassa a gettare la spada ha lasciato sgomenta anche me, ma ho pensato che fosse un uomo senza più niente da perdere, che sperava così facendo di poter salvare almeno Meg... spero vi sia piaciuto anche questo capitolo! ;)

A presto!

Marta.

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Capitolo 23
*** 22. Capitolo XX - Parte I ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XX - Parte I

 

 

Rosette bussò alla porta, ma non aspettò che qualcuno le desse il permesso di entrare. Sapeva bene che la ragazza non stava dormendo, ed infatti la trovò accanto alla finestra, immobile come l’aveva lasciata solo un’ora prima, il piccolo Dante placidamente addormentato sul suo grembo. «Te ho portato un po’ di the caldo, chica

Phénix si voltò a guardarla come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno e le sorrise debolmente. «Grazie, Rosette, sei un angelo.»

Le guance paffute della donna s’imporporarono velocemente, facendo sorridere più apertamente la zingara. «Sai, me dispiace per quello che è successo. Al Monsieur e tutto quanto.»

«Dispiace anche a me e spero che tutto possa sistemarsi per il meglio.» Phénix si scaldò le mani con la tazza fumante che la domestica le porse e abbassò lo sguardo. «Forse se me ne andassi davvero eviterei di portare i miei soliti guai.»

«Andare? Non scherzare, pazza! E dove vorresti andare, dimme!», borbottò la donna, contrariata. Vedere quella ragazzina andarsene ancora una volta era l’ultima cosa che avrebbe voluto.

«Non so, pensavo su al nord, lungo la costa. Sai, non ho mai visto il mare.»

«E tornare ad essere una vagabonda? Non farme ridere, chica.»

Phénix poggiò il capo contro la parete e guardò tristemente la sagoma dell’Opera. «Gli ho gridato di odiarlo... con che coraggio potrei rimanere qui? Se solo non l’avessi mai incontrato...»

«Non dire sciocchezze, Phénix.», l’ammonì la voce di madame Giry che entrò in quel momento, con una busta in mano che entrambe conoscevano bene. «Come stai?», le chiese, mentre ringraziava con lo sguardo Rosette che lasciava la stanza.

Quella si strinse nelle spalle. «Mi sento vuota.»

Claire strinse le labbra, preoccupata. «E fisicamente? Hai continuato a prendere la medicina che monsieur Faucon ti aveva prescritto?»

Phénix annuì. «Mi è passato completamente tutto. Non avevo niente di grave, vero?»

«È così, ma credimi, Erik, io e Faucon abbiamo agito in buona fede. Lui sapeva che non avresti accettato a farti visitare se non fosse stato niente di grave.»

«Come sempre lui ha la soluzione a tutto.», commentò la zingara, con un amaro sorriso. «C’è altro che dovrei sapere e che mi avete tenuto nascosto?»

La ragazza, vedendo che la donna non accennava a rispondere, guardò insistentemente la lettera in cui spiccava ancora il teschio nella ceralacca rossa e Claire se ne accorse, perché gliela porse. «Mi sembra che sia giunto il momento che tu la legga. Un po’ tardi, in effetti, ma è un tuo diritto. Qui c’è scritto tutto quello che devi sapere.»

Phénix rabbrividì al contatto con la carta ruvida ed ingiallita. La rigirò tra le mani, indecisa e nel contempo curiosa di leggerla, anche se sapeva benissimo cosa potesse contenere.

«Comunque monsieur Faucon dice che si riprenderà presto, grazie al cielo.», continuò Claire. «In questa settimana è riuscito anche ad alzarsi, nonostante il medico gliel’avesse vietato.» La donna sorrise, al solo pensiero. «Ora ti lascio alla lettura, se hai bisogno chiamami.»

La ragazza posò la tazza di the e aprì con una certa impazienza la lettera, scoprendo quattro fogli scritti da una grafia elegante e regolare. Fortuna sua che Erik le aveva dato lezioni e che, nonostante qualche tentennamento, riuscisse a leggere, altrimenti avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di qualcuno. Iniziò a scorrere gli occhi tra quelle parole che le riportarono alla mente la dolcezza e la potenza di quella voce che l’aveva ammaliata dal primo momento e che avrebbe voluto sentire ancora una volta, almeno per un addio.

Claire, amica mia,

torno ad inquietare la tua vita dopo settimane di silenzi, dopo settimane di freddo. Ma non lo faccio per me, questa volta non chiederò il tuo aiuto per nascondermi o per consegnare qualche missiva. Vorrei solo che facessi un favore ad un tuo vecchio amico che vorrebbe perdonarti per la tua mancanza di lucidità e sono più che sicuro che accetterai, dopo aver letto queste righe.

È successo un fatto che mi ha sconvolto, che ha riacceso in me i sensi di colpa ma anche una tremenda voglia di ricominciare daccapo, per rimediare ai miei errori. Forse tu non ricordi, o forse lo ignori proprio, che qualche giorno dopo il nostro primo incontro vennero giustiziati due zingari per l’omicidio del mio aguzzino. Ebbene, quei due erano genitori di una bambina splendida, le uniche due persone che non avevano mai osato alzare le mani contro di me o insultarmi per il mio aspetto. Forse perché anche la loro bambina era in qualche modo diversa… Capelli rossi come il fuoco, due occhi verde smeraldo così grandi ed intensi che ancora ricordo la prima volta che li vidi. Questa piccola creatura è cresciuta orfana, per causa mia, e guarda tu se il fato non doveva giocarmi l’ultimo scherzo, l’ho incontrata proprio ieri. Mi ha offerto il suo aiuto, il suo cibo ed il suo letto senza pormi domande scomode e io, quando mi ha raccontato dei suoi genitori, non ho avuto il coraggio di dirle chi fossi in realtà. Avevo davanti l’ennesima persona a cui avevo rovinato la vita e che per giunta mi aveva trattato come se fossi un uomo normale.

Questa mattina, però, è rientrata nel suo umile mulino proprio quando io stavo per lasciarlo e mi ha ordinato di andare via, perché aveva scoperto chi fossi... Il Fantasma dell’Opera. Non saprei dirti se mi abbia fatto più male sapere che mi stesse respingendo solo perché mi conosceva per sentito dire o per il fatto che la verità più importante non l’avesse ancora scoperta. Fatto sta che mi sono allontanato da lei, ma evidentemente qualcosa mi tratteneva ancora. Ho notato due uomini che la stavano spiando e son rimasto nascosto tutto il giorno, aspettando che succedesse qualcosa.

Quando la ragazza è tornata al mulino, questa sera, l’hanno aggredita e io non son riuscito a rimanere con le mani in mano. Sì, Claire, li ho uccisi, entrambi. Se non l’avessi fatto avrebbero anche potuto violarla, o tornare il giorno dopo armati delle più pessime intenzioni.

Ora sono qui, a scriverti, perché la ragazza ha accettato il mio aiuto, nonostante all’inizio fosse restia, e ti chiedo, Claire, ti chiedo di ospitarla in casa tua per qualche tempo. Si chiama Phénix e capirai bene il perché di questo nome. È sola e ora rischia di essere invischiata in una situazione più grande di lei, con l’omicidio di quei due disgraziati. Mi pare superfluo dirti che non devi raccontarle niente del nostro incontro, né della storia sui suoi genitori.

Ti do qualche piccola dritta per evitare possibili problemi: non voglio assolutamente che lasci la casa da sola e in piena notte. Se dovesse capitare che esca durante il giorno, falle indossare un copricapo che le nasconda i capelli. Sarà meno riconoscibile. Quando la presenterai a qualcuno dì che si chiamerà Sophie Rembrant, o quello che preferisce. Il suo nome può essere pericoloso. Inoltre esigo che venga trattata come una persona di famiglia e che le trovi un lavoro sicuro, in modo tale che non ti pesi sulle spalle.

Ho grandi progetti per lei, ma dovrai fare esattamente quello che dico. Ho intenzione di finanziare il restauro del mio Teatro per rimediare al mio errore e voglio mettere su un’ottima orchestra che possa essere all’altezza dei miei desideri. Voglio scrivere un’opera, Claire, l’opera della mia vita, l’opera che racconterà a tutti chi sono stato, il mio dolore, la loro ipocrisia. E voglio che Phénix vi partecipi come colei che mi ha salvato. So che quello che sto per dirti ti lascerà sgomenta, ma non voglio assolutamente che tu ti intrometta nei miei progetti. Dovrai promettermelo, amica mia.

Perché dopo la fine della mia opera, “La Vita Nova”, io non ci sarò più. Lascerò tutto a te e a lei, e a chi dimostrerà la caparbietà per continuare il mio lavoro con il massimo impegno. Sì, Claire, la fine della mia opera coinciderà con la mia morte. E non voglio sentire repliche, perché non cambierò idea. Sarò felice di andarmene sapendo che ho rimediato ai miei sbagli, che la ragazza avrà una vita degna di essere tale e che tu con tua figlia non siate più in pericolo per causa mia.

Mi farò sentire appena possibile, sempre che non mi ammazzino prima. In quel caso non preoccupatevi di aprirmi una porta, attraverserò i muri. Anche se lo faccio da tutta una vita.

Mi raccomando, Claire, te lo ripeto ancora una volta: quella ragazza non deve mai venire a conoscenza del mio passato e di come mi hai fatto fuggire dal suo gruppo. Se dovesse fare qualche domanda in proposito inventati qualcosa, so che in queste cose sei molto brava.

Te lo chiedo per favore, in segno della nostra vecchia amicizia.

Erik.

Quando Phénix finì di leggere era letteralmente senza fiato. E non solo per il dolore che trasudava da ogni singola parola, ma per le intenzioni di Erik, quelle che non le aveva mai riferito, perché si trattava di una sorpresa. Si sarebbe ucciso, ecco qual era la sorpresa!

Si precipitò fuori dalla sua camera e raggiunse Madame Giry in quella di Meg, tremando al solo pensiero di quello che Erik avrebbe potuto fare. «Voi sapevate le sue intenzioni e non lo avete mai fermato?», chiese sbalordita e impaurita, mentre la donna sospirava.

«Piccola mia, conosci bene il caratteraccio di Erik e sai meglio di me che quando decide una cosa è difficile che cambi idea.», le rispose con calma, sebbene Phénix notò una nota di tristezza nella sua voce. «Non credere che non gli abbia parlato della questione, che non abbia provato a farlo ragionare. Ma non ci sono santi che reggano davanti alla sua ottusità!»

Phénix si morse un labbro, stringendo ancora la lettera tra le mani. «E se avesse cambiato idea? Magari non vi ha detto niente.» Sciocca, perché avrebbe dovuto cambiare idea? Per lei, forse? Le aveva promesso di non lasciarla mai, qualsiasi cosa fosse accaduta, eppure ora non poteva più esserne sicura, non dopo quello che era successo.

«So cosa stai pensando, Phénix, e credo che un mese fa fosse del tutto convinto che desiderare la morte fosse l’ultimo dei suoi pensieri. Ora spetta a te riportarlo sulla via giusta, solo a te.» Claire le sorrise ma si sorprese non poco quando la ragazza le finì tra le braccia, includendo in quell’intimo gesto anche Meg che rideva sollevata per la ritrovata amica.

«Grazie, grazie davvero di tutto.», mormorò con voce soffocata la zingara, mentre la donna le accarezzava maternamente i capelli rossi.

«Non devi ringraziarmi, bambina mia. Ho sempre desiderato un’altra figlia da proteggere.»

 

Quello stesso giorno Phénix ricevette la visita di Raoul de Chagny, appena tornato dall’ufficio della Gendarmerie. Si accomodarono in cucina, davanti ad una tazza di ginseng caldo di cui il Visconte si era innamorato fin da subito, e rimasero in silenzio per qualche istante. Non avevano mai parlato faccia a faccia da soli, neanche dopo tutto quello che era successo.

Fu lui a prendere parola per primo, non sapendo bene da dove cominciare. «Immagino che sappiate che mio cugino sta facendo un lavoro eccellente con... con lui

Phénix annuì, lasciandosi andare ad un sorriso. «Non finirò mai di ringraziare entrambi.» E costringerò anche Erik a ringraziarvi, quando avrò sistemato tutto, concluse mentalmente, ottimista.

Raoul si schiarì la voce, sentendosi a disagio. «Non dovete ringraziarmi... in realtà non so neanche il motivo per cui lo sto facendo, ma suppongo sia la cosa giusta da fare.»

Lei annuì. «Lo è, Raoul. Erik non è un uomo cattivo, tutto quello che ha fatto in passato è stato dettato dalle circostanze. Anche voi, se vi foste trovato nella sua stessa situazione, avreste fatto lo stesso.»

«Non saprei, non saprei davvero. È una vita che non ho mai preso in considerazione, la sua, perché mi è sempre sembrata surreale. Ma probabilmente parlo perché non so di cosa stia parlando.»

Phénix allungò una mano sul tavolo, per raggiungere quella del Visconte. «Non siate confuso, Raoul. Se non volete dargli la libertà, lasciate almeno che lasci Parigi.»

«A questo proposito, Sophie... o Phénix, come vi dovrei chiamare?», domandò il giovane, abbozzando un sorriso.

«Il mio nome non ha importanza. In realtà non ne ho mai avuto uno vero, posso continuare così per un altro po’.»

«Bene, oggi sono stato alla Gendarmerie, per... dare un’identità a quell’uomo. Erik.»

Phénix trattenne il fiato, sapendo che il suo futuro e soprattutto quello di Erik sarebbe dipeso dalle parole del Visconte.

«Ufficialmente il Fantasma è morto impiccato, quindi in teoria non ci sarebbero problemi. Ma il volto di... Erik…» Pronunciò quel nome con fatica, come se stentasse ancora a credere che l’uomo che per anni aveva seminato il terrore nel Teatro dell’Opera avesse un corpo e un’identità e che ci fosse davvero qualcuno pronto a tutto per la sua salvezza. «Quello difficilmente si scorda. Alcuni soldati che erano presenti la sera dell’incendio non hanno potuto fare a meno di riconoscerlo. Inoltre una ballerina, una certa Lafayette, ha deposto una dichiarazione contro di lui, dicendo che l’ha minacciata, anche se poi ha ritirato tutto non so bene per quale motivo... credo fosse spaventata.»

Phénix strinse la stoffa dell’abito con forza, il cuore le batteva furiosamente nel petto. «E... quindi?»

«Quindi ho dovuto fare i salti mortali, Sophie. Ho richiesto l’aiuto di mio cugino per spiegare ai soldati che quella particolare malformazione del viso è più diffusa di quanto si pensi.»

«E vi hanno creduto?»

«Non troppo, a dire la verità. Ma nessuno ha mai avuto il coraggio di controbattere alla parola di un de Chagny.», concluse, non senza una punta di orgoglio.

La ragazza sembrò rilassarsi sulla sedia, ma non cantò vittoria troppo presto. Sapeva bene che avrebbe potuto gioire solo quando tutta quell’assurda situazione sarebbe finita definitivamente.

«Erik non sarà processato, se è questo che vi preoccupa, perché la deposizione di mademoiselle Giry è stata di vitale importanza, da questo punto di vista. Tuttavia consiglio ad entrambi di stare lontano dalle scene per qualche mese, il tanto giusto per calmare le acque.»

Phénix si sciolse in un pianto liberatorio, ridendo e singhiozzando contemporaneamente, troppo, veramente troppo felice per sembrarle vero. Erik era salvo, non solo fisicamente, ma anche dalle possibili accuse per i reati precedenti. Era salvo e libero, era tutto ciò che aveva desiderato. «Raoul, grazie, grazie! Davvero, non so cosa devo fare per ringraziarvi! Siete una persona splendida, voi e vostro cugino.», gli disse con enfasi, ancora piangendo.

Il ragazzo ora sorrise apertamente, commosso da quella dimostrazione di affetto e, soprattutto, per quella di amore nei confronti di quello che un tempo era un mostro. Non gli avrebbe mai perdonato quello che aveva fatto in passato, certo, ma era sicuro che con Sophie, o Phénix o come si chiamava quella ragazza, sarebbe stato un uomo migliore. «Posso farvi una domanda?»

Phénix annuì, asciugandosi gli occhi con l’orlo del suo abito. «Certo, tutto quello che volete.»

«Se è vero che tenete a quell’uomo così tanto, perché in questi giorni non siete mai venuta a trovarlo?»

La ragazza s’irrigidì in un attimo e Raoul capì di aver toccato una nota dolente. «Abbiamo avuto un... diverbio, qualche settimana fa. Una cosa spiacevole.»

«Qualcosa di irreparabile?»

«Spero di no. Lui ha taciuto su un avvenimento per me molto importante, io non ho saputo apprezzare il suo gesto e soprattutto capirne i motivi. Abbiamo sbagliato entrambi.»

Raoul si alzò dalla sedia e la guardò con indecisione. «Ho la carrozza qui fuori che mi aspetta. Volete venire con me?»

Lei annuì, raggiante. L’idea di rivederlo l’elettrizzava e la spaventava nel contempo, ma non le importava. Voleva solo vedere con i suoi occhi che stava bene e dirgli che ora era un uomo libero, che non avrebbe avuto motivo di porre fine alla sua vita. Il resto sarebbe venuto da sé.

La villa dei de Chagny era esattamente come la ricordava, imponente ed elegante come l’ultima volta. Il domestico dalle gote arrossate e paffute li accolse gentile e prese in custodia il cappotto della ragazza, che seguì immediatamente Raoul per la grande scalinata che portava al primo piano. Videro Christine uscire da una stanza e richiudersi la porta alle spalle, con un sospiro, ma appena si accorse del suo fidanzato e della presenza al suo fianco sorrise candidamente, andando loro incontro. «Oh, che sorpresa vederti qui, Sophie! …O Phénix?»

La zingara quella volta scoppiò a ridere nel vedere la confusione che aveva creato per due semplici nomi, e agitò una mano noncurante. «Potrei vederlo?»

Christine annuì, indicandole la porta che aveva appena chiuso. «È parecchio suscettibile in questi ultimi giorni. Ci manca poco che Faucon lo leghi al letto per farlo stare fermo e per impedirgli di fare qualche sciocchezza.»

«Qualche sciocchezza?!», strillò nervosa Phénix, tesa come una corda di violino. «Legatelo davvero, allora!»

La soprano e il suo fidanzato risero.

«Tranquilla, gli ho appena dato un calmante che spegnerà qualsiasi sua intenzione bellicosa.», le confessò, sorridendo. «Piuttosto, dovresti cambiargli le bende quando sarà più calmo, io non ne ho più le forze.»

Phénix sentì qualcosa contorcerle lo stomaco all’idea che la ragazza avesse avuto la possibilità di vederlo praticamente mezzo nudo e che avesse potuto sfiorarlo come lei non si era mai azzardata: forse era gelosia, forse erano i sensi di colpa per non esserci stata lei al posto di Christine, al fianco dell’uomo che amava. Ma dimenticò tutto nel momento in cui aprì la porta e i suoi occhi incontrarono quelli di Erik, più stupiti e spaventati di lei.

Era bello, bello da toglierle il respiro, nonostante fosse ancora un po’ ammaccato e leggermente sciupato per il poco cibo che aveva voluto mangiare. Ma era lì, vivo, e stava bene, grazie al cielo.

 

 

 

Continua...

 

 

Siamo agli sgoccioli ormai! Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, infine ci sarà l'epilogo. *asciuga una lacrimuccia*

A presto! :)

Marta.

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Capitolo 24
*** 23. Capitolo XX - Parte II ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo XX - Parte II

 

 

Guardò Christine richiudersi la porta alle spalle e sorrise, intimamente divertito. Sapeva di essere intrattabile in quei giorni e sapeva anche che non avrebbe dovuto prendersela con quell’angelo di donna che, con una pazienza infinita, ingoiava il rospo e cercava in tutti i modi di tranquillizzarlo e di obbligarlo a mangiare e a farsi medicare. In un certo senso, però, considerava quella strana situazione una rivincita su quel damerino del Visconte, che si vedeva sottratta la fidanzata per ore intere anziché trascorrere del tempo con lui. Quanto buono era il sapore della vendetta!

Erik se ne stava seduto sul letto, con la schiena contro la testiera in legno a rigirarsi tra le dita la maschera bianca che Christine gli aveva sequestrato e nascosto in un cassetto del comodino mentre dormiva, ma lui, ovviamente, l’aveva trovata subito. Alzò lo sguardo dal suo nuovo passatempo quando la porta si aprì ancora una volta, ma al posto dei boccoli castani della cantante trovò una testa rossa che lui conosceva bene. Rimase a fissarla immobile, come se stentasse a credere che lei fosse lì, per lui. Non era possibile, del resto. Lei lo odiava, non era venuta a trovarlo neanche una volta nel corso della sua degenza. Perché sarebbe dovuta comparire proprio in quel momento?

«Erik...»

Il suono della sua voce, quella voce che aveva sognato di risentire ogni notte e ogni giorno, ebbe il potere di togliergli tutte le forze che gli erano lentamente tornate. Ogni possibile pensiero sul farla finita svanì nello stesso istante in cui lei gli si gettò tra le braccia, facendolo gemere dal dolore, sebbene poco gli importasse ora che lei era tornata. Inspirò profondamente il profumo di quei capelli indiavolati e lasciò cadere la maschera dalle mani, per ricambiare quell’abbraccio tanto agognato che sapeva di agrodolce. Le era mancata Dio solo, o chi per lui, sapeva quanto e glielo fece capire stringendola più che poteva, senza curarsi delle sue ferite che lentamente guarivano. Non gli importava altro che lei.

«Erik, ho avuto così tanta paura di perderti.», gli disse con la voce soffocata dalla stoffa della camicia da notte di lui e da un principio di pianto.

«Sono qui, mon ange, sono qui.», le sussurrò in un orecchio, facendola rabbrividire.

«Mi dispiace, Erik, mi dispiace tanto! Non sarei dovuta scappare quel giorno, magari non sarebbe successo niente!»

«No, Phénix, ti prego, non parlare come se la colpa di tutto fosse tua.» Le accarezzò i capelli ritirati nella consueta treccia e le baciò il capo, cullandola tra le braccia. «Avrei dovuto dirti tutto dall’inizio, anche se non so a quest’ora dove saremmo andati a finire. Probabilmente mi avresti odiato davvero.»

«Erik, non potrei mai odiarti, non ne sarei capace.» Phénix si scostò il tanto giusto per guardarlo negli occhi e gli accarezzò la guancia piagata, facendolo sospirare. «Non lo pensavo veramente quando te l’ho detto. Ma capiscimi, ero arrabbiata e delusa...»

«Lo so... e non basterebbero cento anni per cancellare i miei sensi di colpa, Phénix.»

La ragazza lo zittì con un bacio disperato ed urgente, come se tutta la sua vita fosse dipesa da quel gesto. Erik non impiegò troppo tempo a ricambiare, stringendola contro il suo petto e baciando quelle labbra che erano state l’inizio della sua dolce rovina e, ne era sicuro, sarebbero state anche la fine.

«Ti amo così tanto da far male, bambina mia.», le sussurrò contro la bocca, provocandole l’ennesimo tuffo al cuore della giornata. «Sei arrivata come una tempesta, mi hai stordito e soggiogato, Phénix. E sono talmente innamorato di te che potrei morire come un’onda quando manca il vento.»

«Non mi lascerai mai, Erik?», gli chiese, con le lacrime agli occhi. «Neanche dopo “La Vita Nova”?»

Lui s’irrigidì subito, spaesato. «Come lo sai?»

«Madame Giry mi ha fatto leggere la tua lettera.»

Erik fece una smorfia. «Quella donna... deve ancora imparare a comportarsi.»

Phénix strinse gli occhi verdi, puntandoli in quelli acquamarina di lui. «Non dare le colpe a lei! Quando avevi intenzione di dirmelo?»

«Diciamo che contavo sull’effetto sorpresa a fine spettacolo...»

«Erik!», strillò lei, mettendosi a sedere e distanziandosi da lui. «Non azzardarti più a pensare una cosa orribile come quella! Sono troppo innamorata di te per perderti.»

«Dillo ancora.», mormorò, accarezzandole il mento con un dito.

Lei raggiunse la sua mano con la propria e se la portò contro una guancia, sorridendo. «Ti amo, Erik.»

«Sei tu la mia nuova vita, Phénix.» L’attirò a sé senza troppe cerimonie e la baciò ancora con desiderio, per rendersi conto che lei era lì e lo amava, per imprimersi al meglio quella piacevolissima sensazione che aveva il terrore di perdere ancora una volta.

Le fece spazio in quel letto troppo grande per ospitare una sola persona e Phénix si accoccolò meglio contro di lui, ricordandosi solo in quel momento della sua ferita sul fianco.

«Erik, scusami! Ti ho fatto male?», chiese preoccupata, indicando le bende.

Scosse il capo, avvicinandosela contro e baciandole la fronte. «Non è niente, sto guarendo ormai.»

Phénix alzò il capo, poggiato contro la sua spalla, e rimase a fissarlo in silenzio, con un delizioso sorriso sulle labbra.

Erik si sentì spogliato da quello sguardo, come sempre accadeva, non ancora abituato ad essere osservato senza la protezione della maschera. «A cosa pensi?»

«Penso che sei bellissimo

«Sì, un bellissimo relitto.», borbottò, sarcastico.

«Ora non fare il narcisista, sai benissimo che è così e non te lo ripeterò ancora una volta solo per compiacerti.»

Erik scoppiò in una sana risata, come non faceva da tempo, e a lui si unì anche la ragazza, che in realtà sarebbe voluta apparire più seria di quanto non fosse, ma venne contagiata dal buon umore del compagno. Era così bello vederlo ridere come un bambino!

Vennero interrotti da qualcuno che bussò alla porta, così Phénix fece appena in tempo a mettersi seduta sul letto che Faucon entrò in camera, seguito da Raoul. Il medico salutò entrambi con cordialità, soffermando la sua attenzione sulle mani ancora intrecciate dei due. «Mademoiselle, sono contento di rivedervi in forma.»

«Grazie, anche io son felice che non vi sia accaduto niente di male.» La ragazza gli sorrise apertamente e tirò una gomitata all’uomo sdraiato sul letto, continuando a sorridere. «E vorremmo entrambi ringraziare sia voi che Raoul per quello che avete fatto e che state facendo.»

Erik si lamentò per il colpo, soprattutto avendo capito cosa quella pestifera gli stava intimando di fare. Alzò gli occhi al cielo e si lasciò sfuggire uno sbuffo. «Sì, bel lavoro.», disse tra i denti.

«Erik...»

Faucon non fece molto caso ai modi burberi di quell’uomo che non conosceva per poterlo giudicare come faceva il cugino, che, invece, corrugò la fronte contrariato. «Mi fa piacere vedere quanto sia immensa la vostra gratitudine per avervi salvato la vita.»

«A me non fa piacere sapere che ho messo la mia vita in mano ad un ragazzino come te.», ringhiò, lanciando un’occhiataccia a Phénix che lo guardava arrabbiata.

La ragazza si voltò verso il Visconte, agitando le mani. «Perdonatelo, a volte è più delicato un masso di lui

«Vedo.», borbottò Raoul, passandosi una mano tra i capelli. «Allora vi farà meno piacere sapere che è grazie a me che siete un uomo libero.»

«Come se avessi avuto il bisogno del tuo aiuto, per questo.»

«Erik!», esclamò la ragazza, mettendosi le mani sui fianchi.

Lui alzò le sopracciglia, facendo finta di non capire. «Phénix, guarda che ho capito che conosci il mio nome.»

La zingara chiuse gli occhi, prendendo un bel respiro profondo e contando fino a dieci per non scoppiare. Sorrideva come un bambino, si comportava come un bambino. Perfetto.

«Forse avrei fatto meglio ad ucciderlo, quel giorno.», bofonchiò Raoul, mentre se ne andava.

«Sono sempre disposto ad un duello, ragazzino!»

«Vi ricordo che l’ultima volta che abbiamo duellato non ero io quello in terra con una spada puntata contro.»

«Maledetto insolente...»

Faucon, nel frattempo, fece scivolare lo sguardo dai due uomini alla ragazza dall’altra parte del letto, e iniziò seriamente a preoccuparsi per la sua salute: quei respiri profondi che stava prendendo da qualche secondo non promettevano niente di buono. Forse avrebbe fatto bene a dare una dose di tranquillanti un po’ a tutti, quel chiasso stava iniziando a fargli venire un mal di testa con i fiocchi.

 

Erik venne lasciato andare quasi due settimane dopo, per sua gioia e per quella del padrone di casa. Se non fosse stato per le amorevoli cure di Christine e le visite di Phénix avrebbe preferito andare in gattabuia, pur di dover avere a che fare con il Visconte. Tornò alla sua Dimora sul lago, nonostante Christine gliel’avesse caldamente sconsigliato; dopo tutto il caos che era successo qualche soldato avrebbe anche potuto arrischiare una visita sotto il Teatro, ma Erik, su quel punto, rimase irremovibile. Non avrebbe lasciato la sua casa, non nel momento più delicato di tutta la sua esistenza: doveva controllare che i lavori di restauro stessero procedendo nel migliore dei modi, doveva essere il supervisore che avrebbe scelto ogni singolo componente della nuova orchestra, ogni cantante, ogni attore. No, l’idea di vivere in un luogo che non fosse l’Opera neanche l’aveva presa in considerazione, per lo meno non per il momento.

Respirò a fondo l’aria umida che impregnava la grotta per la sua lunga assenza e, accese un po’ di candele, tornò a sedersi al suo organo ed accarezzò con riverenza quei tasti ingialliti che aveva premuto così tante volte nel corso degli anni. Era incredibile come un paio di settimane potessero essere così pesanti da trascorrere senza il suono grave di quello strumento che lui amava come se si fosse trattato di pane quotidiano.

La musica s’infranse fragorosa contro la pietra nuda e continuò per ore intere prima che Erik decidesse di smettere. Suonare la sua musica fu il penultimo gradino di una scala ripida e quasi infinita e poté finalmente dire di essere arrivato al culmine della salita. Mancava solo un’ultima cosa prima di sentirsi totalmente realizzato: la Prima dell’Opera. Sarebbe stato un successo, già immaginava gli spettatori in piedi sulla platea e sui palchetti, commossi fino alle lacrime, mentre lui gonfiava il petto, orgoglioso. Era già tutto scritto nella sua mente, doveva solo tramutarlo in realtà, pensò con un sorriso.

«Neanche settimane di fermo hanno saputo intaccare la tua bravura, eh?»

Erik si voltò di scatto nel sentire l’eco di quella voce che riusciva a scaldargli il cuore ogni volta e rimase fermo a guardarla, come se fosse una visione. «Da quanto sei qui?»

Phénix fece spallucce, avvicinandosi piano alla sua postazione regale. «Non so... il tempo non passa mai quando arrivo qui. Soprattutto se tu stai suonando.», aggiunse, sorridendogli.

Erik allungò una mano per cercare quella della ragazza, e l’attirò a sé, tra le sue gambe, per imprigionarla in un caldo abbraccio. «Sei tornata, alla fine.»

«E dove sarei dovuta andare?»

«Non saprei... lontano da me, magari.»

«Erik...» Gli accarezzò la guancia libera dalla mezza maschera, che fece volare via subito dopo infastidita, e avvicinò le labbra a quella pelle martoriata che lui disprezzava tanto ma che lei amava, perché era il segno di un uomo unico, unico al mondo. Un po’ egoisticamente, forse, ringraziò Dio o chi per lui per aver messo al mondo una creatura così, perché altrimenti Erik non sarebbe diventato l’uomo che era: geniale, passionale, dolce, malinconico, ma nonostante tutto forte. Era un’alchimia vivente, e lei lo amava per questo. Perché era diverso.

Erik chiuse gli occhi, stringendo la presa sui suoi fianchi e tra i suoi capelli, godendosi fino in fondo i brividi che quegli innocenti baci gli stavano provocando. Poteva una sola donna avere questo potere su di lui? Poteva una sola donna scombussolargli l’anima ed il corpo con la sua sola presenza?

Le loro labbra s’incontrarono in un bacio rovente ancora una volta e, dopo settimane, mesi, anni, i pensieri, di qualsiasi tipo fossero, vennero lasciati lontani, chiusi da qualche parte. Niente li avrebbe disturbati, quella notte, non un ricordo, non il passato. C’erano solo loro ed il presente in quella grotta che ora sembrava troppo calda per i gusti di entrambi.

Phénix si allontanò un poco, per contemplarlo come non faceva da tempo. Lo guardò chiudere gli occhi e sorridere finalmente sereno, come un bambino. Lo prese per mano, tirandolo gentilmente verso di sé per intimargli di alzarsi e seguirla.

E lui sì che la seguì, docile e totalmente rapito da quella donna che l’aveva stregato dal primo momento in cui aveva incontrato quegli occhi verdi. Catturò ancora le sue labbra tra le proprie, quasi fosse l’ossigeno che lo teneva in vita. La prese in braccio, portandola nella nicchia che ospitava il fastoso letto a forma di cigno e la fece sdraiare sulle lenzuola rosse come il sangue, rosse come la libidine. Lui la seguì subito dopo, sdraiandosi accanto a lei e chinandosi a baciarla ovunque l’abito lo permettesse, sulle guance, sulla gola, sul decolté. Quando alzò lo sguardo per guardarla trattenne il respiro: la vide con le labbra dischiuse per reclamare quanto più ossigeno possibile, gli occhi chiusi e il capo piegato contro il cuscino, per permettergli di baciarla meglio. Era incantevole.

«Erik...»

Dio, quanto gli piaceva il suo nome sulle sue labbra. Quelle stesse labbra che riprese a baciare con infinita dolcezza, per gustarle meglio, per imprimersi ogni singolo istante di quel momento che avrebbe voluto continuasse in eterno.

Phénix gli passò le mani tra i capelli, facendole scivolare poi su quel viso martoriato, ma ora illuminato da un’espressione di contentezza ed incredulità che mai avrebbe pensato di vedergli. Le sue dita sottili scesero verso l’ampio petto dell’uomo, coperto solo da una camicia color panna, di quelle che lui amava tanto indossare nei suoi momenti di solitudine. Slacciò gli unici tre bottoni che la tenevano chiusa e la fece cadere da qualche parte giù dal letto. Aveva sempre e solo potuto immaginare il corpo di Erik sotto quegli abiti eleganti che lo facevano sembrare ancora più imponente; ma ora, poter vedere e sfiorare quelle spalle larghe, quelle braccia che tante volte l’avevano stretta con forza, quel torace che l’aveva accolta come un cuscino quando era giù di morale... ora si sentiva mancare.

Erik abbassò lo sguardo, quasi imbarazzato, verso il corpetto che le stringeva la vita già troppo sottile di per sé e giocò con uno dei tanti fiocchetti. Tornò a guardarla, le labbra socchiuse a volerle dire qualcosa.

Phénix sorrise e gli baciò dolcemente la punta del naso. «Cosa ti preoccupa, Erik?»

Lui si chinò sulle sue spalle, nascondendovi il capo. «Ho paura che tutto questo possa finire.»

«Non pensare, Erik. Ti prego, non pensare ora.», lo supplicò, stringendolo contro di sé con necessità. «Non pensiamo al domani.»

Erik sospirò profondamente e quando iniziò a baciarle il collo metà dei fiocchi del corpetto erano già stati sciolti. Le accarezzò languidamente un fianco, fino a fermarsi rovente sulla coscia. Un istante dopo il vestito della ragazza giaceva per terra, accanto alla sua camicia.

Phénix si morsicò un labbro quando Erik si distese completamente su di lei, una volta che anche i suoi pantaloni vennero gettati via. Lo guardò intensamente in quegli splendidi occhi acquamarina, ora completamente velati dalla cieca passione che stava conoscendo, e lo abbracciò, reclamando ancora una volta il suo posto tra quelle braccia calde.

Erik le baciò la guancia arrossata e, sussurrandole in un orecchio quanto l’amasse, unì i loro corpi con una spinta decisa ed urgente. Non riusciva ad immaginare che una persona, per di più lui, potesse provare una tale felicità e un tale senso di completezza. Credeva che sarebbe scoppiato dalla gioia in quel preciso istante. Iniziò a muoversi su di lei con desiderio, baciandola e facendo intrecciare le loro mani, mentre i loro sospiri di piacere si perdevano per tutta la grotta, unica testimone di quell’amore nato con lentezza, di nascosto, ma ora talmente travolgente che se l’avessero represso sarebbero impazziti entrambi.

Raggiunsero l’apice del piacere una tra le braccia dell’altro e così rimasero per qualche altro istante, a guardarsi negli occhi, ad accarezzarsi e scambiarsi dolci e languidi baci.

«Dio, cosa mi hai fatto...», le sussurrò, stringendosi a lei. «Dimmi la verità, si tratta di qualche sortilegio...»

«Ebbene sì, mi hai scoperta.», rispose lei, scoppiando a ridere quando lo vide ghignare, divertito.

Poi una mano di Erik le scivolò lungo il fianco per fermarsi sul suo ventre, e rabbrividì nel rendersi conto di cosa quel gesto volesse dire. «Tu... vuoi sapere, vero?», gli domandò, raggiungendo la mano di lui con la propria. «Ne hai diritto.»

Erik si morsicò un labbro. «Non sei obbligata a farlo. È parte del passato.»

«No, non per me. Io lo volevo veramente quel figlio, anche se avesse significato crescerlo da sola.» Gli accarezzò il viso, la parte martoriata, e gli baciò le labbra, dolcemente. «Ma il mio corpo non avrebbe retto e io ho sempre avuto una paura dannata della morte, lo sai.»

«Hai interrotto la gravidanza...»

Lei annuì, gli occhi lucidi per il ricordo di quei giorni. «Non mi perdonerò mai per quello che ho fatto.», sussurrò, contro le sue labbra. «Amami, Erik, amami ancora e lava via ogni brutto pensiero, ora.», lo pregò, stringendosi al suo corpo. «Se mai un giorno capiterà ancora so che ci sarai tu accanto a me, e a nostro figlio.»

La baciò con rinnovata passione, incapace di contenere la gioia e il desiderio che quella piccola donna era in grado di provocargli. Lui e lei, insieme, con dei figli, una famiglia... Era un pensiero così splendido per essere vero che a stento riusciva a capacitarsene. Forse anche lui avrebbe finalmente avuto una vita normale?

Si amarono per tutta la notte, mai sazi dei loro sospiri, dei loro baci, delle loro unioni.

Il Fantasma e la Strega ormai erano lontani, per lasciar spazio ad un uomo, una donna ed il loro amore.

 

 

 

Continua...

 

 

Alla prossima settimana con l'epilogo!

Marta.

 

PS: vi ricordo che potete trovarmi su il mio account di Facebook che utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E ora è arrivato anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! Lo potete trovare qui. :)

 

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Capitolo 25
*** 24. Epilogo ***


Bonjour

La Vita Nova.

 

Epilogo.

 

 

Il sipario rosso e pesante calò sulla scena, mentre la musica terminava e gli applausi iniziavano a spargersi per tutto il teatro, fragorosi come un temporale. Il pubblico si alzò in piedi, commosso e ancora percosso dai brividi che quella rappresentazione struggente e drammatica aveva suscitato. Era stata lunga, quattro ore di spettacolo, diviso in tre atti, ma il tempo era volato, per tutti. Per il pubblico, per i musicisti, per i ballerini e gli attori.

Christine, che aveva assistito dal palco numero 5 all'intera opera seduta al fianco del suo neo-sposo Raoul, si asciugò le lacrime che, calde, le bagnavano le guance. Avrebbe dovuto essere lei a cantare nella sua parte, ma la sua gravidanza avanzata non le aveva permesso di farle prendere parte. Non avrebbe mai creduto che Erik sarebbe stato in grado di superare il suo stesso genio con quel suo ultimo lavoro. Vi aveva inserito tutto il dolore che aveva provato durante la sua vita, il dolore di un bambino che non era stato accettato dagli altri, tanto meno dai suoi genitori; vi aveva messo l'amore per la musica e l'arte, per lei, per la sua voce; poi il disastro il giorno dell'incendio - era riuscito anche a riprodurre la caduta dal lampadario, tanto che molti degli spettatori avevano lanciato urla di paura - la perdita del suo amore e la disperazione.

Quando era entrata in scena la zingara, nel ruolo di stessa, i toni dell'opera erano cambiati, diventando più caldi, più dolci. La giovane era la Fenice che aveva riacceso il fuoco in lui, che gli aveva ridato una possibilità e la voglia di guardare avanti, nonostante le avversità. Ed era proprio quel terzo atto il simbolo de La Vita Nova. Con lei, Erik aveva iniziato una nuova vita e Christine si sentì felice di saperlo finalmente in pace con stesso e con una donna come lei al suo fianco.

Il bacio finale tra i due amanti fu la conclusione di un sensuale ballo della zingara, un tango molto simile a quello che aveva ballato con Étienne - sembravano passati decenni dal giorno! - mentre Erik cantava del loro amore, con la sua consueta splendida voce.

Gli applausi non sembravano diminuire quando il sipario si riaprì sulla scena e tutti gli attori e i ballerini s'inchinarono al pubblico. Erik, che teneva fermamente per mano la sua Phénix, chiuse gli occhi, godendosi quel momento di gloria. Non avrebbe mai pensato che un intero teatro avrebbe potuto acclamarlo di persona, senza additarlo e senza provare orrore per lui. Era passato del tempo dall'ultima volta che aveva cantato su quel palco, ma nessuno avrebbe mai dimenticato la sua voce e la sua sensualità. Nonostante questo, forse per l'assenza della gendarmeria, forse per il troppo entusiasmo della riapertura del teatro, nessuno badò alla sua vera identità, nascosto dietro una maschera di scena - o forse tutti avevano taciuto per non rovinare la serata. Per loro lui era monsieur Duval, il nuovo proprietario dell'Opéra, nonché il miglior tenore che avessero mai sentito.

Phénix, bellissima nel suo abito gitano, i capelli rossi lasciati sciolti, tranne per qualche piccola treccia chiusa da anellini colorati, sorrise, orgogliosa del suo uomo, ma anche compiaciuta della sua esibizione.

Tutto era un vero trionfo, ed era del suo Erik.

Gli spettatori iniziarono a lanciare fiori, rose soprattutto, e Erik s'inchinò per raccoglierne una e donarla alla sua donna, che l'accettò volentieri. Poi applaudì lui stesso all'orchestra, agli altri attori e ai ballerini, tra cui figurava un bravissimo Étienne. L'ultimo sguardo fu per il suo palco prediletto, dove Raoul applaudiva con ardore insieme alla sua sposa, ancora in lacrime. E quello sguardo, Erik, glielo doveva al Visconte, nonostante gli attriti del passato. Aveva fatto carte false - letteralmente - per dare loro un'identità fittizia, contattando persone poco raccomandabili per i documenti e usando molto bene le sue doti discorsive con l'anagrafe. Ora non erano più due persone senza un nome, ma finalmente esistevano. Sophie Rembrant e Erik Duval, una donna e il suo uomo.

Il sipario calò nuovamente, ma gli applausi continuarono per parecchio ancora.

Phénix si appese al collo di Erik, stringendolo forte. «Sono fiera di te.»

Lui la baciò ancora, sorridendo. «Consideralo un regalo di nozze, mon amour

Meg, che li stava osservando così come tutti gli altri, dovette voltare loro le spalle, per evitare che qualcuno la vedesse piangere, commossa. Étienne, al suo fianco, le strinse una mano, sorridendo. «Bisognerà ringraziare quell'uomo, è la prima volta che ti vedo così fragile, Meg!», scherzò, abbracciandola. Lei gli fece una smorfia, ricambiando il gesto e sorridendo anch'essa.

Françoise, d'altra parte, stava osservando l'intera scena da dietro le quinte, un disonore per lei non poter partecipare a quella gioia. Il brutto incidente che aveva avuto le era costato la carriera di danzatrice - Una disgrazia! aveva esclamato il signor Duval, con uno strano tono sarcastico. Del resto lei lo sospettava che quell'orribile imprevisto tanto imprevisto non lo fosse. Ma evidentemente nessuno tra i ballerini ne aveva sentito la mancanza e lei era passata al reparto sartoria, tanto per non tornare a casa ed essere quindi un peso per la sua famiglia.

«Splendido, splendido!», gridarono in coro i due manager dell'Opéra, che di certo non si aspettavano un tale successo dopo il disastro di qualche mese prima, e festeggiavano a modo loro, con un bicchiere di champagne e abbracciando chiunque incontrassero - meglio se fossero due ballerine di fila quelle che tenevano per un fianco.

Quel giorno Parigi imparò cosa volesse dire vivere una non-vita come quella del Fantasma e molti di coloro che ebbero il permesso andarono a congratularsi con lo scrittore dell'opera che li aveva commossi. Erik non nascose un certo disagio nel sentire quelle stesse persone che l'avevano rifiutato complimentarsi con lui ed esprimere tutta l'angoscia che avevano provato nell'assistere a quello spettacolo. "Una visione del Fantasma che non avevo mai neanche immaginato di considerare!", era la frase che più sentì quella sera. Fu la presenza di Phénix, che gli stringeva forte la mano, a dargli la forza per discorrere con loro - fortuna che nessuno osò chiedergli di sfilarsi la maschera che indossava.

I festeggiamenti durarono a lungo, ma il sipario si chiuse solo quando Erik e Phénix si ritrovarono sdraiati tra le lenzuola rosse, proprio come quello stesso tendaggio che copriva la scena.

La Vita Nova stava solo iniziando.

 

 

Continua...

 

 

Lacrimuccia finale, immancabile quando termino una storia.

Spero che questo racconto vi sia piaciuto, come è piaciuto a me scriverlo, un paio di anni fa.

Ringrazio tutti, ma proprio tutti coloro che l'hanno seguito capitolo per capitolo: chi ha recensito, chi lo ha inserito tra preferiti, seguite e ricordate, o chi ha semplicemente letto in silenzio. Grazie di cuore!

Questo saluto non è un addio, tornerò nuovamente a scrivere sul Fantasma, che mi regala giorno dopo giorno nuovi spunti e nuove idee. Spero di ritrovarvi tutti e magari di più, in futuro. :)

Un abbraccio virtuale a tutti!

Marta.

 

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