Il sigillo maledetto

di Cicciolgeiri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Scopro che rubare una bandiera non è affatto facile ***
Capitolo 2: *** Divento il giardiniere degli dei ***
Capitolo 3: *** Mai mangiare pesante prima di andare a dormire! ***
Capitolo 4: *** Perdo una scommessa ***
Capitolo 5: *** Ho un colloquio con quel grassone di mio fratello ***
Capitolo 6: *** Partecipo ad un party mostruoso ***



Capitolo 1
*** Prologo: Scopro che rubare una bandiera non è affatto facile ***


Attenzione: questa fanfiction è nata da un gioco mio e del mio migliore amico. E' una specie di universo alternativo in cui certe cose non sono mai avvenute e altri avvenimenti hanno avuto risvolti diversi. Tanto per cominciare, il protagonista di questa storia non è Percy Jackson, bensì Steve Johnson, figlio di Zeus. E la Folgore Olimpica è al sicuro sotto al materasso del Divino Giove, mentre è un altro l'oggetto a cui i nostri amici devono dare la caccia ...
Curiosi? Non vi resta che leggere xD
Ps se avete delle domande: CHIEDETE lol
E recensite.
Sul serio.


Riemergendo dal torpore in cui ero caduto, misi faticosamente a fuoco il viso di Grover, che incombeva su di me con un’espressione preoccupata dipinta sul volto.
A dire il vero, più che preoccupato, sembrava che stesse per vomitare da un momento all’altro, ma non appena mi vide aprire gli occhi emise un verso caprino inarticolato e mi gettò le braccia al collo, schiacciandomi come una frittata.
<< STEVE! >>
Io ero talmente rimbambito e sorpreso che non riuscii a dire nulla, a parte gemere in modo pietoso per fargli capire che il mio pancreas non era un cuscino.
Grover mi lasciò subito andare e mi fissò con un misto di apprensione e gioia.
<< Steve! Amico, mi hai fatto prendere un colpo! Sul serio, credevo che tu … insomma … e poi tu sei … io pensavo che … >> si lasciò sfuggire un mezzo singulto.
Io avevo un terribile mal di testa, come se qualcuno l’avesse usata come palla da football, eppure riuscii a mettermi a sedere sulla branda dove mi trovavo e a guardarmi intorno: ero in una sorta di ospedale da campo, sotto un’ampia tenda di tela, e tutto l’ambiente era stipato di lettini identici a quello dove mi trovavo io, solo vuoti. Qua e là c’erano appoggiate … delle armi. Ma non pistole o fucili, erano spade. Spade di varia foggia e dimensione appoggiate lì come se niente fosse.
Mi dissi che era strano. Però era ancora più strano ciò che mi era capitato.
<< Grover, ho fatto un sogno assurdo >> iniziai con voce impastata, quasi che non parlassi da giorni. << C’ero io, e c’eri anche tu … solo che eri uno strano ibrido mezzo uomo e mezzo asino e … >>
<< Capra >> mi corresse Grover.
<< Cosa? >> dissi io.
<< Mezzo capra. Io sono mezzo capra. Conosco satiri che sarebbero capaci di uccidere per un affronto del genere >>.
Come in uno stato di trance, guardai in basso, verso le gambe di Grover, che era seduto sulla brandina accanto a me, solo che non aveva i pantaloni.
Questo sarebbe stato già abbastanza strano di per sé, e anche piuttosto disgustoso, in effetti, ma la cosa davvero incredibile era che le gambe di Grover non c’erano. O meglio, c’erano, ma non erano gambe; erano zampe di capra, ricoperte da ispido pelo marrone scuro e con tanto di zoccoli.
<< E’ tutto vero, Steve >> disse Grover dandomi una sonora pacca sulla spalla. << Tu sei il figlio del Divino Zeus, un minotauro ci ha inseguiti mentre tua madre ci stava portando qui al Campo Mezzosangue in macchina e tu l’hai ucciso, e siamo riusciti ad arrivare qui sani e salvi. Ma tua madre non ce l’ha fatta. Hai dormito per tre giorni di fila >>.
Uno strano ronzio mi riempì le orecchie, una miriade di stelline colorate iniziò a danzare nel mio campo visivo.
<< Tu sei una capra >> fu tutto quello che riuscii a dire, prima di svenire di nuovo.
 
Era una cosa troppo grande per accettarla.
Mia madre non c’era più.
La memoria mi era ritornata e, quando mi risvegliai qualche ora dopo, steso sulla solita brandina con Grover che mi vegliava, rividi chiaramente come in un film l’immagine di mia madre stretta tra le grinfie di quella mucca gigante, che si dimenava e lottava per sopravvivere. E poi era sparita, una nuvola d’oro, un puf e non c’era più.
Mia madre.
<< Mi dispiace tanto, Steve >> mi disse Grover addolorato. << Io avrei dovuto … è stata tutta colpa mia, sono un disastro come Custode >> si mise la testa ricciuta tra le mani.
Io gli assestai una rigida pacca tra le scapole.
<< No >> dissi. << Non è stata colpa di nessuno. Ma lei non è morta, vero? >> deglutii. << Voglio dire, altrimenti dov’è il suo corpo? >>
Grover scosse il capo. << Io non lo so, Steve >> disse. << Non ne ho proprio idea, se devo essere sincero. Ma se c’è uno che può darti una risposta, quello è Chirone >>.
La speranza, per quanto flebile e remota, che mia madre potesse essere ancora viva, mi restituì d’improvviso tutto il mio vigore.
<< Chi? >> esclamai saltando su come una molla.
<< Ti ci porto subito, ne approfitto per farti fare un giro del campo >> disse.
Ed uscimmo dalla grande tenda che fungeva da Infermeria.
Fuori era il caos; era come se qualche fan schizzato di Xena e compagnia bella avesse sbattuto un telefilm sull’antica grecia in un campo estivo. Inimmaginabile.
C’erano tipi in armatura che correvano di qua e di là, ragazzine letali che impugnavano gladi più grandi di loro, tizi nerboruti vestiti da spartani che si arrampicavano su pareti da scalatore rigorosamente in legno; duelli mortali a destra, giavellotti sibilanti a sinistra, ed in mezzo io e Grover che cercavamo di non restarci secchi.
<< Stammi dietro, amico >> mi ordinò Grover zampettando dinoccolato sui suoi arti caprini, << se ci tieni alla testa, ovviamente! >> e afferrò come se niente fosse una freccia che stava per entrargli da un orecchio ed uscirgli dall’altro.
<< Scusa! >> gridò qualcuno in lontananza. Grover levò una mano in aria come per dire di non preoccuparsi.
Io invece mi preoccupavo eccome. Ed ero pure abbastanza terrorizzato.
<< Be’, Steve! >> esclamò Grover. << Tu sei un semidio! Lo sai che cosa vuol dire questo, vero? >>
<< Eh? Penso di sì. Ma non è possibile >> ribattei arrancandogli dietro nel sentiero polveroso.
<< Sì, invece >> disse lui. << Pensaci, Steve! Tu non riesci mai a star fermo, no? >> sfilò di mano la spada ad un ragazzetto che si stava allenando lì vicino.
<< Ehi! >>
Grover lo ignorò e fece mulinare la spada nella mia direzione, tentando un affondo. Io non mi preoccupai nemmeno di star lì a pensare se fosse impazzito o cosa, che i miei piedi si mossero da soli, e schivai la stoccata come se nulla fosse.
Grover ghignò e lanciò nuovamente la spada al tipo, centrandolo con l’elsa dritta in un occhio.
<< Ahia! >>
Io lo fissai, ansimante e sconcertato.
<< Cosa diavolo … >> balbettai. << Come ho fatto? >>
<< Visto? >> disse lui, mentre riprendevamo a camminare. << Tu sei una macchina da guerra, bello mio! Altro che disturbo da deficit dell’attenzione! Sei sempre in movimento, perché i tuoi sensi sono più acuti del normale. Sei più agile, più forte e più veloce di qualsiasi altro ragazzo della tua età! >> esclamò con passione. << E vogliamo parlare della tua dislessia? >> chiese. << Qui tutti lo sono! E vuoi sapere perché? Perché i vostri cervelli >> mi picchiettò sulla testa con le nocche, << sono impostati sul greco antico e sul latino! >>
<< Tu sei pazzo >> dissi io. << Non può essere così >> eppure sapevo che Grover diceva la verità.
Primo, perché aveva un paio di zampe da caprone al posto delle gambe, secondo, e soprattutto per quello, perché io mi ero sempre sentito diverso dal resto dei miei coetanei e questo avrebbe spiegato molte cose. Come, ad esempio, il fatto che avevo ucciso un minotauro che ci dava la caccia.
<< Ehi, Silfide! >> strillò Grover ad un tratto, agitando la mano in direzione dell’arena di scherma: lì alcuni ragazzi armati fino ai denti, sempre in perfetto stile Hercules della Disney, se le stavano dando di santa ragione e la più svelta era una ragazza minuta dai lunghi capelli scuri che faceva roteare la spada come una furia. E non parlo della mia ex prof di matematica!
Al richiamo di Grover, la ragazza si voltò e ci salutò con la mano, poi mise fuorigioco il suo avversario assestandogli una perfida pedata laggiù dove non batte il sole e corse a rotta di collo verso di noi, seguita dalla sua lunga coda di cavallo (non nel senso che aveva la coda, eh. I centauri arrivano dopo, state tranquilli).
<< Ehilà, Uomo Capra >> salutò Grover con un ghigno furbesco, e i due si scambiarono un complesso saluto con le mani degno del Bronx. << Che ci fai da queste parti? >>
<< Ah, ti piacerà! >> assicurò Grover. << Guarda un po’ chi ti ho portato! >> disse con aria soddisfatta, accennando a me col mento.
La ragazza chiamata Silfide mi lanciò un verde sguardo calcolatore, dopodiché mi tese la mano. << Piacere, Silfide Black >>.
<< Steve Johnson >> dissi io, stringendola impacciato.
Lei inarcò un sopracciglio arcuato. << Regolare o Indeterminato? >> chiese con tono professionale.
Io aggrottai la fronte, senza avere la più pallida idea di cosa stesse parlando, quando Grover prese a sghignazzare.
<< Oh, adesso arriva il bello! >> ghignò. << Regolare >> disse.
Silfide rimase impassibile. << E allora perché lo porti da me? Non sono io il capo casa, lo sai >>.
<< Ma non è della tua casa >> la ammonì Grover alzando il dito indice con fare saccente.
<< E allora? >>
<< Indovina >>.
Grover, a quanto pareva, si stava divertendo come un matto, ma né io né Silfide riuscivamo a capire dove volesse andare a parare. E quando qualcuno parla di te e tu non capisci cosa accidenti vuole dire, è il momento in cui devi iniziare a preoccuparti.
<< Se non è della mia casa e non è nemmeno Indeterminato, perché l’hai portato qui? >> esclamò Silfide. << Avevo cose più importanti da fare >> poi si rivolse a me, << senza offesa, eh! Ma stavo per accoppare William Joel, della casa di Efesto, non so se mi spiego! >> fece con aria significativa.
Da come l’aveva detto, m’immaginai quel William Joel della casa di Efesto come una specie di armadio quattro stagioni ambulante.
<< Chi se ne frega di Joel! >> esclamò Grover concitato. << Steve è una celebrità! >>
Silfide alzò un sopracciglio, confusa, poi sgranò gli occhi.
<< Non vorrai mica dire … >> iniziò cauta.
<< Ah ah >> annuì Grover gongolando.
<< Uno dei Tre Pezzi Grossi? >>
<< Esatto! >>
Sul volto di Silfide si stampò un sorriso a trentadue denti, poi si voltò verso di me.
<< Poseidone! >> esclamò, come se stessimo giocando al gioco dei mimi e lei dovesse indovinare cosa stessi mimando.
<< Ehm … >> borbottai io.
<< Acqua >> disse Grover.
Lei sbatté le palpebre, sorpresa.
<< Ade?! >> mi chiese, a metà tra il confuso e il disgustato.
Io non seppi cosa rispondere.
<< Fuochino … >>la incoraggiò Grover.
Silfide trattenne il fiato e sgranò gli occhi, così tanto che sarebbero potuti scivolarle fuori dalle orbite da un momento all’altro.
<< Non … non … >> balbettò. << Non sarai mica il figlio di Zeus? >> chiese tutto d’un fiato.
A quelle parole, nonostante ci fosse un sole da poter friggere le uova sul cofano di un’auto, il cielo fu squarciato da una saetta ed un fragoroso rombo di tuono risuonò per il Campo.
Tutto tacque.
Qualche spada cadde a terra. E anche un ragazzo.
<< FULMINE! >> urlò Grover.
E anche Silfide urlò, dalla gioia e dallo stupore, imprecò in greco antico in un modo che avrebbe fatto venire i conati di vomito a qualsiasi professore rispettabile (dicendo qualcosa che aveva a che fare con le parti basse di un cavallo ed una rapa) e prese a saltellare sul posto come un canguro impazzito.
<< PER IL BOTOX DI AFRODITE, IL FIGLIO DI ZEUS! >> strillò.
Tutti i ragazzi del campo, allora, avevano abbandonato le loro occupazioni e mi stavano fissando come se mi fosse cresciuta una testa in più o qualcosa del genere; chi confabulando furiosamente con i propri vicini, o chi semplicemente con la bocca spalancata e la mandibola a penzoloni, stile “boa-costrictor-che-sta-per-mangiarsi-un-elefante”.
<< Ehm, io ecco … >> borbottai, ma Grover mi afferrò per la collottola e mi trascinò via con sé, tra la folla che adesso faceva ala attorno a noi.
<< Adesso io e questo Pezzo Grosso dobbiamo andare a sbrigare faccende davvero importanti >> disse dandosi delle arie, << ci si vede, Silf >>.
Lei ancora saltellava alle nostre calcagna, elettrizzata, e urlò: << Devi stare per forza in squadra con noi, a Caccia alla Bandiera, ok? Va bene, Steve? >>
<< Io, sì … credo di sì! >> risposi, senza sapere di cosa stesse parlando.
Al che Silfide fece un gesto vittorioso e corse via veloce come il vento, mentre dal resto della folla si levò un ruggito di malcontento che mi fece capire che forse avrei dovuto aspettare a dire di sì, o ci sarebbe stato il pericolo di venire linciato.
Ma Grover continuò a trascinarmi via, finché non entrammo in un boschetto più tranquillo.
<< Sbaglio o c’è qualcosa che dovresti dirmi? >> gli chiesi, divincolandomi dalla sua morsa.
<< Non io >> ribatté, << devo portarti da Chirone, no? Lui ti dirà tutto quello che c’è da sapere >>.
Stavamo risalendo il fianco di una collina e la traversata fu difficile, un po’ per le sterpaglie che ci ostacolavano il cammino, un po’ per il caldo e per la confusione che avevo in testa, ma alla fine uscimmo dalla foresta ed arrivammo in cima, in un punto dal quale si aveva una vista spettacolare della valle e del lago.
Proprio lì, poco distante, sorgeva una maestosa dimora in stile classico che sembrava fatta d’oro, con alte colonne a reggere il tetto aguzzo e varie statue tutt’intorno. Era talmente maestosa che mi tolse il fiato, in più emanava una sorta di energia familiare, un’elettricità che mi faceva pizzicare piacevolmente le dita.
Stavo per avvicinarmi a quella sorta di tempio, quando dalla riva giunsero un acciottolio di zoccoli e dei forti nitriti, e Grover mi diede una pacca sul braccio per spronarmi a guardare giù.
A malincuore staccai lo sguardo da quella casa meravigliosa, ma lo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi era ancor più straordinario: sulla riva trottavano delle creature incredibili. Per metà uomini e per metà cavalli.
<< Centauri! >> esclamai, ripescando quel nome da chissà quale meandro della mia scatola cranica.
<< Proprio così >> assicurò Grover, poi emise un fischio per attirare la loro attenzione e iniziò a scendere a rotta di collo giù per la collina, come solo uno con le zampe da capra avrebbe potuto fare.
Io mi affrettai dietro di lui, ma ci misi comunque molto più tempo.
Il centauro dall’aria più possente, con il corpo di un lipizzano bianco, venne a darci il benvenuto, e mi aiutò a metter piede sulla riva sassosa del lago sano e salvo, sollevandomi con un braccio solo e poggiandomi a terra senza alcuno sforzo, quasi fossi senza peso.
<< Wow, io la rin … >> stavo per ringraziare il signor centauro, quando levai lo sguardo e mi resi di conoscerlo.
Era il signor Brunner. Aveva i capelli scarmigliati, la barba più lunga del solito ed un paio di chiappe da cavallo, ma era senza ombra di dubbio il mio professore di Storia.
<< Lei? >> gracchiai strabiliato. << Professor Brunner?! >>
Grover scoppiò a ridere e anche il centauro mi sorrise amabilmente, proprio come quand’eravamo a scuola.
<< Temo che quello non sia il mio vero nome, Steve >> disse. << Io mi chiamo Chirone e sono il capo del Campo Mezzosangue >>.
<< Non ci credo >> dissi senza fiato. Ma, dopotutto, in quei giorni me ne erano capitate talmente tante, che  scoprire che il mio professore preferito era un cavallo non rientrava neppure tra le più strane.
<< Wow, sta … sta … lei cammina! >> dissi.
Chirone scoppiò a ridere. << E’ così, ragazzo mio. La sedia a rotelle era solo un espediente per nascondere il resto di me >> ed accennò al suo sedere. << Ma tu come stai, Steve? Sono felice di vederti vivo e vegeto >>.
<< Io sto bene >> risposi in fretta. << Sono venuto per chiederle di mia madre. Lei dov’è? >>
Il centauro non parve affatto sorpreso da quella domanda, né la mia schiettezza lo mise a disagio.
<< Il minotauro l’ha portata via >> rispose serio. << Al momento attuale si trova negli Inferi >>.
Inferi. Erano l’aldilà degli antichi greci, no? Che voleva dire? Che mia madre era stata trascinata all’inferno? Che le avevano dato fuoco? Che sarebbe rimasta lì per sempre ad arrostire come un marshmallow?
<< E questo cosa significa? >> sbottai.
<< Ciò significa che tuo zio Ade ha in mente un piano, Steve >> rispose Chirone a sorpresa.
Wow, Ade era mio zio. Detto così la faccenda suonava ancora più strana.
<< Un piano? >> ripetei, scambiando uno sguardo allibito con Grover.
<< Esattamente, io la penso così >> disse Chirone. << E penso anche che Ade abbia ordinato al minotauro di portare via tua madre per proporti uno scambio, o in qualche modo attirarti in una trappola >> mi lanciò un’occhiata scura.
Io non riuscivo a capire. Che cosa avevo fatto ad Ade per spingerlo a rapire mia madre? Non l’avevo neppure mai incontrato! Anzi, a dirla tutta, fino a pochi giorni prima avevo la confortante convinzione che non esistesse affatto. Lui e tutti i suoi compari dell’Olimpo.
<< Ma perché? >> esclamai. << Professor … cioè, Chirone, perché Ade dovrebbe fare una cosa del genere? Che cos’ha contro di me? >>
Chirone inarcò le sopracciglia. << Cos’ha contro di te, ragazzo? Tu sei il figlio di Zeus, il figlio del fratello che l’ha spodestato e l’ha segregato nell’oltretomba, un posto lugubre e terribilmente umido, pessimo per i reumatismi. Ti basta questa come ragione o vuoi l’elenco completo? Perché potrebbe volerci un po’ di tempo! >>
Gemetti.
<< Ok, ho capito. Ma cosa devo fare? Devo scendere nell’oltretomba e riempire di botte qualcuno? In questo caso … >> ma Chirone mi interruppe.
<< Non devi fare proprio niente del genere >> disse. << In effetti, non devi fare niente e basta. Per il momento dovrai limitarti a restare qui, al sicuro. Si può dire che il Divino Zeus non abbia scelto esattamente un gran momento per riconoscerti … >>
Il cielo gorgogliò come la mia pancia quando mangio messicano e Chirone alzò entrambe le mani in segno di scuse.
<< Restare qui? >> dissi io allibito. << Ma mia madre … >>
<< Mettendoti in mezzo peggioreresti solo le cose, Steve >> tagliò corto Chirone, << lascia che sia qualcun altro ad occuparsene. Io stesso coordinerò l’impresa, te lo prometto >>.
<< Ma è MIA MADRE! >> urlai con foga. << Non può pretendere che faccia finta di niente! Oh, sì! Mia madre è all’inferno insieme a mio zio che mi vuole morto, perché dovrei preoccuparmi? >> lo scimmiottai.
Quello era sempre stato il mio problema a scuola, ed era una delle principali ragioni per cui ero stato espulso tante volte: avevo difficoltà a riconoscere l’autorità e a rispettarla, così mi avevano detto.
Ma, dopotutto, le regole sono fatte per essere infrante, dico bene?
<< Primo >> disse Chirone, << Inferi ed inferno non sono la stessa cosa; fossi in te andrei a ripassarmi un po’ di Epica. Secondo: Ade non ricaverebbe alcun vantaggio nell’uccidere tua madre, perché per ricattarti gli serve viva e quindi non le torcerà un capello. Terzo: lo so che è tua madre, ma so anche che tu non sei pronto per un’impresa del genere. Andare e tornare dal regno dell’Ade non è una passeggiata, e in questo Campo ci sono senz’altro persone più qualificate di te per fare una cosa del genere >> aveva parlato così svelto da lasciarmi a bocca aperta e non ebbi il tempo di ribattere. Il centauro approfittò del mio momento d’incertezza per liquidare l’argomento e cambiare discorso. << Grover, perché non vai a preparare la bandiera per la caccia? La partita dovrebbe iniziare tra poco, no? >> disse, rivolgendosi al mio amico.
<< Ma, Chirone … >> fece Grover.
<< Niente ma, sbrigati >> ribatté Chirone autoritario.
E Grover, a malincuore, trottò via per occuparsi di quella certa bandiera, lanciandoci sguardi di rimpianto mentre si allontanava.
<< Ora, Steve >> disse Chirone. Iniziammo a salire lentamente su per la collina e, quando arrivammo in cima, il centauro mi indicò la casa dorata. << Questa è la tua magione, l’ha fatta costruire tuo padre in persona apposta per te, ed è forgiata in puro metallo olimpico >>.
Rimasi piacevolmente colpito: era la prima volta che ricevevo un regalo da mio padre. Ed era anche un bel regalo.
Chirone aprì la porta ed entrammo; dentro la casa era ancora meglio di come l’avevo immaginata.
Ci trovammo in un ampio salotto arredato di tutto punto in uno stile a metà tra “Acropoli Ateniese” e “Loft a Manhattan”, c’erano vari strumenti sportivi, una tv al plasma col satellitare, delle armi dall’aria affilata, un divano a penisola, un tavolino con delle sedie attorno, un frigorifero col minibar e tutte le cose che uno potrebbe mai desiderare di avere a casa. Era una dimora extra lusso, e al piano di sopra c’era un bagno che era più simile ad una piscina che non ad un gabinetto, e la stanza da letto, che era talmente grande che ci sarebbe voluta una bicicletta per girarla tutta.
Sul cuscino del letto a baldacchino scintillava uno strano oggetto dall’aria metallica.
<< Cos’è? >> chiesi a Chirone indicandolo.
<< Aprilo >> m’invitò lui.
Io mi avvicinai e lo presi in mano e subito avvertii un familiare brivido elettrico corrermi giù lungo la spina dorsale. Guardai il pacchettino: sembrava un semplice involucro di acciaio dalla forma leggermente oblunga simile a quella di una grossa supposta, con degli intarsi greci incisi sopra, ma quando lo svitai tra le due metà apparve un arco voltaico zigzagante che iniziò a sfrigolare e a contorcersi come un wustel sulla brace.
<< Wow! >> dissi io sbalordito, osservando il piccolo fulmine danzarmi tra le mani. << Ma cos’è? >>
<< E’ un frammento della Folgore Olimpica, l’arma più potente dell’intero cosmo. Tuo padre Zeus voleva che l’avessi tu >>.
Riavvitai il tappo del contenitore e l’arco elettrico svanì. Mi girai ancora un po’ il contenitore tra le mani, dopodiché me lo misi in tasca, con cura.
<< Ci starò molto attento >> assicurai, dato che possedere un pezzetto di un fulmine di distruzione di massa mi sembrava una gran bella responsabilità.
<< Non mi aspetto niente di meno da te >> ribatté Chirone con uno scalpiccio di zoccoli. << Comunque sappi che non potresti perderla neppure volendo, perché tornerebbe sempre nella tua tasca. Riconosce il suo padrone >>.
A quelle parole avvertii un lieve tremore provenire dalla tasca dei miei jeans, quasi che la piccola folgore stesse facendo le fusa.
<< Vuole dire che io sono il padrone dei fulmini? >> chiesi stralunato.
Chirone abbozzò uno strano sorriso.
<< Tuo padre lo è >> rispose, << tu potrai diventarlo con tanto allenamento >>.
Quello mi fece venire un’idea.
<< Chirone >> dissi cauto, << se io imparo a padroneggiare la Folgore, potrò andare a salvare mia madre? >>
Il centauro aggrottò la fronte.
<< Non ce la farai mai in così poco tempo >> ribatté.
<< Questa non è una risposta >> gli feci notare.
Chirone aprì la bocca e stava per parlare, ma le sue parole furono soffocate dal suono di un corno da guerra che riecheggiò per tutta la valle.
<< To’, Grover ha già finito con quella bandiera >> disse Chirone allegramente, visibilmente lieto di aver trovato una scusa per cambiare discorso. << Sarà meglio affrettarci, o ti perderai la partita. E non te lo perdoneresti mai, fidati >>.
Così uscimmo dalla mia regale casupola, così bella eppure così estranea, e ci incamminammo nella foresta per tornare al centro del Campo.
<< Mi scusi, signore >> dissi io lungo il tragitto, << ma in cosa consiste questa Caccia alla Bandiera, di preciso? >>
<< Semplice >> disse lui, << ci sono due squadre, quella Rossa e quella Blu. Queste due squadre si sfidano per recuperare la bandiera che è stata nascosta in un punto della foresta e chi la prende per primo, senza riportare danni troppo gravi, si aggiudica la vittoria >>.
Non so perché, ma c’era qualcosa nella frase “danni troppo gravi” che mi metteva a disagio.
<< I membri della squadra vincitrice sono esonerati per due settimane dal turno della mensa >> aggiunse Chirone, notando il mio sguardo turbato, al che io mi ringalluzzii un po’: non volevo di certo finire con una cuffietta in testa a distribuire robaccia alla mensa del Campo. E poi ero appena arrivato, non potevo fare subito la figura dello sfigato, per quello ci sarebbe stato tempo.
Alla fine arrivammo nell’arena al centro del campo, dove sembrava che tutti i ragazzi, armati fino ai denti e con tanto di elmi dal pennacchio colorato in testa, si fossero dati appuntamento.
<< Guerrieri! >> urlò Chirone, che fu salutato da uno scroscio di applausi e grida bellicose. << Prima di iniziare la partita, ho l’onore di presentarvi Stephen Ercole Johnson … figlio di Zeus, nonché nuova recluta del Campo! >> altri applausi, stavolta seguiti dal solito fitto brusio che pareva accompagnarmi dovunque andassi.
<< Chi lo vuole nella sua squadra? >> chiese Chirone.
A quel punto la folla esplose ed una moltitudine di mani saettarono in aria; invece, una ragazza minuta e dall’aria scaltra si fece abilmente largo tra la folla e mi arpionò il gomito ancora prima che me ne accorgessi. Era Silfide Black.
<< Chirone >> disse, << Steve mi ha promesso che avrebbe fatto parte della squadra blu, prima, quando ci siamo incontrati, non è vero? >> mi scrollò con decisione, stringendomi il gomito così forte che avrebbe potuto frantumarlo.
<< Sì, è vero >> balbettai io. << Ehm … Chirone, cosa devo fare? >>
Lui si strinse nelle spalle: << Una promessa è una promessa >> disse. << Allora, è deciso! Steve Johnson, nella squadra blu! >>
La folla di guerrieri si divise tra urla di giubilo e grida di malcontento, ma Chirone non lasciò spazio per le proteste e richiamò quel marasma di gente al silenzio con un solo gesto della mano.
<< Silfide, accompagna Steve in armeria per farlo preparare, dopodiché inizieremo. Fate in fretta >> ci disse.
Io stavo per rispondergli, ma Silfide fu più svelta di me e mi trascinò via verso una casetta di legno poco lontano, correndo così veloce che rischiai di ruzzolare per terra nel vano tentativo di starle alle calcagna.
Spalancò la porta con un calcio e mi spinse dentro: mi ritrovai in un vasto ambiente con rastrelliere alle pareti e lunghe greppie al centro, tutte stracolme di spade, scudi e altri graziosi gingilli del genere.
<< Dài, spicciati! >> mi spronò lei. << Prendi un’armatura della tua misura … ecco, questa potrebbe andare >> mi schiaffò tra le braccia un ammasso di cuoio pesantissimo, e le mie ginocchia cedettero di schianto, facendomi barcollare. << Mettiti l’elmo, così non rischi di spaccarti la zucca >> lo afferrò da uno scaffale lì accanto e me lo infilò in testa in malo modo, col pennacchio blu mezzo floscio che mi solleticava il naso. Poi prese ad aggirarsi nel reparto delle spade con aria critica, massaggiandosi il mento; io intanto provai ad infilarmi l’armatura e, alla fine, anche se era un po’ sbilenca e decisamente troppo pesante, ci riuscii.
<< Sei destro o mancino? >> chiese Silfide.
<< Mancino >> risposi.
Lei prese una spada dalla rastrelliera, un lungo gladio oblungo, lo soppesò con lo sguardo e poi me lo lanciò come se fosse una piuma. Io mi protesi per afferrarlo al volo, convinto che pesasse poco, e invece quell’arnese micidiale sembrava fatto di pietra e mi scivolò di mano, finendomi dritto sull’alluce.
Ululai di dolore, ma Silfide si limitò a lanciarmi un’occhiata obliqua di divertito sdegno e a porgermi uno scudo.
<< Quella spada non è il massimo, ma per la prima volta dovrebbe andare … tieni questo scudo sempre con te, potrebbe salvarti la pelle. Ora andiamo >> e mi precedette fuori dall’Armeria, svelta come un marciatore, nonostante anche lei fosse bardata per la guerra.
Io, dal canto mio, sembravo un pinguino imbottito di sassi, ma cercai comunque di darmi un tono e seguii Silfide di nuovo da Chirone.
<< Pronti? >> esclamò il centauro non appena ci vide arrivare.
Silfide mi fece segno di seguirla ed insieme ci schierammo tra le fila degli altri ragazzi col pennacchio blu, di fronte ai membri della squadra Rossa, che ci lanciavano sguardi fiammeggianti.
<< I capitani da me >> ordinò Chirone frapponendosi tra i due schieramenti. Dalle due squadre si staccarono un ragazzo alto e biondo per la squadra Blu ed una ragazza per la squadra Rossa.
Non appena la vidi il mio cervello s’inceppò: aveva lunghi capelli castani, occhi di un grigio incredibile ed un’espressione decisa stampata sul volto che avrebbe fatto venire la pelle d’oca ad un branco di lupi feroci.
<< Chi è quella? >> sussurrai a Silfide.
<< Annabeth Chase >> rispose in un sibilo. << Figlia di Atena, la migliore stratega del campo. Ti ridurrà a pezzettini, perciò niente occhi dolci, chiaro? >>
<< Chiaro >> ribattei. << Comunque non avevo intenzione di farle gli occhi dolci >>.
Silfide inarcò le sopracciglia e mise su un sorrisetto strafottente che fece gorgogliare di rabbia la mia piccola Folgore.
<< Ah ah. Certo >>.
A quel punto i due capitani si strinsero la mano, stringendo molto di più del necessario, quasi volessero spezzarsi le dita a vicenda, dopodiché Chirone li fece tornare in testa ai rispettivi gruppi e gridò: << BATTAAAAAAAGLIAAAAAAAA! >>
Dalla folla si levò un boato allucinante ed i Blu e i Rossi si fiondarono nella foresta correndo a rotta di collo. Silfide mi afferrò per un braccio appena in tempo e mi scostò dalla traiettoria di un ciccione che stava per passarmi sopra.
<< Vuoi stare attento? >> gracchiò mentre correva.
<< Ci sto provando! >> ansimai in risposta, reggendo il mio pesantissimo gladio con entrambe le mani.
Era tutto molto incasinato, a dire il vero: i membri delle due squadre se le suonavano senza seguire nessuna apparente strategia e tutti correvano a destra e a sinistra alla ricerca di quella maledetta bandiera. Bastava incrociare durante il percorso qualcuno col pennacchio di colore diverso dal tuo che iniziava un duello all’ultimo sangue. Diversi ragazzi stramazzavano al suolo, cosicché presto i membri di entrambi i gruppi si decimarono.
Io stavo combattendo contro due Rossi enormi contemporaneamente; una dei due (una grassona con  spaghetti castani al posto dei capelli) piantò la sua lancia in un albero, laddove un istante prima c’era la mia testa, al che mi resi conto che era una pazza furiosa e cercai poco dignitosamente di darmi alla fuga, ma il suo compare mi bloccò la strada parandosi davanti a me.
<< E così tu sei il figlio di Zeus, eh, mezza calzetta? >> biascicò la tizia con uno sguardo da folle.
<< Senti, sul serio, non ho tempo da perdere con … >> iniziai io, ma quella tentò un affondo con la sua lancia ed io feci appena in tempo a deviarlo torcendo il polso e facendo roteare il gladio. In un modo inspiegabile, per giunta, dato che fino ad un nanosecondo prima riuscivo a malapena a reggerlo.
La tipa parve sorpresa, ma il suo attimo di smarrimento durò solo un istante, perché si riprese subito ed iniziò a bersagliarmi di colpi.
Io li parai quasi tutti col gladio e con lo scudo, altri li schivai, ma non era difficile, perché quella cicciona usava soprattutto la forza bruta e non lavorava minimamente di agilità. Con una piccola capriola  riuscii ad aggirare l’altro energumeno che mi bloccava la strada, cosicché la gigantessa non riuscì a fermare il colpo di lancia in tempo e colpì lui anziché me, facendolo cadere a terra con un grugnito.
<< Be’, ci si vede! >> le urlai mentre me la davo a gambe tra gli alberi.
Alle mie spalle mi giunse il suo urlo furibondo: << Non finisce qui, Steve Johnson! Mi ha sentita? Io, Clarisse, figlia di Ares, ti ridurrò ad una lattina ammaccata non appena mi ricapiti tra le mani! >>
“Ah, certo come no! Forse tra un milione di anni, e con un paio di centinai di chili in meno” mi dissi allegramente. Lo devo ammettere stavo iniziando a prenderci gusto, ma proprio in quel momento passai davanti ad una piccola radura, dove stava succedendo qualcosa. Alle orecchi mi giunse un grido soffocato e qualcuno urlò:
<< Allora, dove l’hai messo, eh? >>
Mi nascosi dietro il tronco di un albero e sporsi appena la testa per vedere cosa stava accadendo, così vidi che un gruppetto di Rossi aveva accerchiato Silfide, ed uno di loro la stava tenendo sollevata da terra stringendola per una caviglia e scrollandola forte, come se volesse rovesciare il contenuto delle sue tasche.
<< Non lo so! >> esclamò lei dimenandosi. << Non so di cosa stai parlando, non ce l’ho io il tuo iPod! >>
<< Sì, invece! >> ribatté l’altro. << Piccola ladruncola che non sei altro, ti ho vista, mentre sgattaiolavi fuori dal mio alloggio! E adesso il mio iPod è sparito! >>
<< L’avrai perso >> rispose Silfide ragionevolmente, utilizzando un tono molto pacato nonostante fosse appesa a testa in giù, << capita, talvolta, sai? Soprattutto quando si è disordinati … >>
A quel punto il tizio che la teneva per la caviglia emise un grido belluino e la lasciò andare con un tonfo, sguainando la spada. Silfide strisciò sulla schiena, cercando di darsela a gambe, ma gli altri Rossi la agguantarono per le spalle e la tennero ferma mentre il tizio che non trovava più l’iPod si avvicinava come un Terminator pronto a colpire.
<< Stavolta me la paghi, Black >> disse digrignando i denti e puntandole la spada alla gola, << giura che questa è l’ultima volta che ti fai la spesa con le mie cose! >>
Ma erano tutti fuori di testa, in quel campo, o cosa? Dovevo aiutare la povera Silfide, o quel tipo gigantesco e senza iPod sarebbe stato capace di ridurla a fettine, lo sapevo. Ma loro erano in troppi e non potevo piombare lì in mezzo menando fendenti a casaccio, mi avrebbero schiacciato. A meno che …
Sentii la il frammento della Folgore Olimpica vibrare nella mia tasca.
Così strisciai cauto tra gli alberi e mi sistemai in una postazione più favorevole, in modo da avere sotto tiro l’energumeno che minacciava Silfide.
Lei, intanto, con l’arma del Rosso puntata addosso e gli altri che la tenevano stretti, si era messa a piagnucolare pietosamente. Ma io la vidi ed un sorriso mi si dipinse sulle labbra.
Piano piano, cautamente, solo come una professionista dei colpi bassi avrebbe potuto fare, aveva fatto passare una mano dietro la schiena, afferrando l’elsa di un  pugnale che le faceva appena capolino dallo stivale. Nessuno se n’era accorto, tranne me.
<< Ti prego >> frignava, mentre i Rossi sghignazzavano stupidamente, ignari. << Ti prego, Marcus non essere così … così … >> sguainò il pugnale svelta come una lucertola e lo conficcò nella mano di uno degli energumeni che la stavano trattenendo, il quale la lasciò andare all’istante urlando di dolore. << Distratto >> sibilò Silfide con un ghigno, atterrando a terra stile Spider-man.
Marcus, quello che la stava minacciando con la spada, non ebbe il tempo di reagire, che Silfide raccolse una manciata di terra e gliela lanciò negli occhi; dopodiché lo disarmò e gli assestò un colpo in fronte che lo mise ko e gli procurò un bel bernoccolo da unicorno, e schivò tutti gli altri tizi della squadra rossa che cercavano di acciuffarla, menando fendenti a destra e a manca con la spada rubata.
<< Torna subito qui, carogna! >> ululò Marcus da per terra. << E voi non state lì impalati, prendetela! >> ma nessuno era svelto quanto Silfide, che spiccò un balzo madornale e si aggrappò al ramo di un albero; da lì prese a roteare come una trottola, riempiendo di calci chiunque avesse l’ardire di avvicinarsi, dopodiché saltò di nuovo a terra e, prodigandosi in un profondo inchino, fece sbattere l’uno contro l’altro due babbei che cercavano di acchiapparla.
<< Grazie mille, sto qui tutta la settimana! >> sghignazzò, e poi corse via ad una velocità incredibile.
Sfrecciandomi accanto mi urlò: << Seguimi, so dov’è la bandiera! >> ed io rimasi un po’ sorpreso, perché pensavo non mi avesse visto, poi però mi ripresi ed ubbidii, prima che i suoi “amichetti” si accorgessero che al party c’ero anch’io.
Ci nascondemmo entrambi in un cespuglio in riva al fiume, acquattandoci per evitare che una pattuglia della squadra nemica ci vedesse.
Lei aveva un po’ di fiatone (mai quanto me, è ovvio), ma stava facendo di tutto per soffocare un attacco di risate e sembrava che essere minacciata da un tipo incavolato armato di spada fosse una cosa all’ordine del giorno per lei.
<< Ma chi erano quelli? >> le chiesi affannato.
<< Intendi i cugini cattivi di King Kong? >> chiese lei divertita. << Figli di Ares a cui non sto simpatica, e anche qualche figlio di Efesto che mi trova antipatica  >> disse. << Mai dar loro fastidio, ok? MAI! >> mi ammonì. << A meno che tu non sappia correre molto veloce, è ovvio >> aggiunse in fretta.
<< Come te? >> sorrisi io.
<< Già, più o meno >> sghignazzò.
<< Ma non hai rubato davvero l’iPod di quel Marcus, vero? >> domandai.
Lei si strinse nelle spalle. << E chi lo sa >> rispose enigmatica. << Rubo talmente tante cose che non riesco mai a tenere il conto. Ma penso di sì, comunque. O magari è stato qualcuno dei miei fratelli >>.
Io rimasi a bocca aperta.
<< Ma … ma di chi sei figlia, scusa? >> ansimai.
<< Hermes >> rispose Silfide inarcando le sopracciglia con fare scaltro, << mi pare ovvio >>.
In effetti, col senno di poi, era piuttosto ovvio.
<< Dài, andiamo a fregargli quella bandiera >> mi spronò la ragazza.
Insieme uscimmo dal cespuglio dove ci eravamo nascosti e lei mi fece cenno di seguirla. Il più silenziosamente possibile sgattaiolammo lungo la riva del fiume e lì, conficcata in cima ad un cumolo di sassi, sventolava uno stendardo color rosso sangue: la bandiera!
Esultando come un idiota, spiccai un balzo verso il fiume, deciso a correre verso la bandiera per acciuffarla, ma improvvisamente qualcosa di sibilante mi passò ad un soffio dal viso ed io mi bloccai; un dolore acuto allo zigomo ed una sensazione di sgocciolio lungo la guancia mi fecero capire che ero stato ferito.
<< Attento, babbeo! >> mi urlò Silfide.
Mi voltai appena in tempo per vedere Annabeth Chase, il capitano della squadra Rossa, prepararsi a colpirmi di nuovo, ma stavolta ero pronto e con il mio gladio parai la sua violenta stoccata.
<< Ehi, ciao! >> dissi stupidamente.
<< Credevi davvero di poter battere me, la figlia di Atena? >> ribatté lei a denti stretti, e colpì di nuovo, stavolta non riuscii a parare e mi disarmò.
La spada volò lontana, nel fiume.
<< Ascolta, ho notato che voialtri prendete questo giochetto un po’ troppo sul serio, ma … >> dissi, facendo un passo indietro e alzando le mani, << non volevo offenderti, credimi! Io non volevo darmi delle arie o cose del genere, è solo che devo prendere quella bandiera! >>
Annabeth mi puntò la spada contro il pomo d’Adamo, come se non avessi parlato, ed io deglutii sonoramente.
<< Ed io invece devo evitare che uno insulso come te prenda quella bandiera! >> sibilò lei. Nonostante fosse mortalmente fuori di testa, e mi avesse dato dell’insulso, caspita se era carina! Rimasi imbambolato a fissare quegli occhi grigi così incredibili.
<< Che ti avevo detto? >> mi urlò Silfide su tutte le furie, mentre dagli alberi sbucavano altri membri della squadra Rossa e anche qualcuno dei nostri. << NIENTE OCCHIONI DOLCI! >>
Io annuii e, prendendo il coraggio a due mani, mi nascosi dietro il mio scudo e colpii forte Annabeth, spingendola a terra; lei atterrò sulla schiena e si rimise subito in piedi, menando un altro colpo che io incassai piantando saldamente le ginocchia a terra.
Intanto attorno a me infuriava la battaglia per la bandiera: nessuno era ancora riuscito a prenderla, perché i Rossi, che a quanto pare dovevano difenderla, impediavano a chiunque di oltrepassare la riva. Il nostro capitano, il ragazzone biondo, combatteva fianco a fianco con Silfide, menando fendenti e calci a destra e a manca, ma neppure loro due riuscirono a sfondare le linee nemiche.
Seppi che toccava a me, che quella era la mia occasione.
Nel momento in cui la spada di Annabeth calava su di me per l’ennesima volta, io mi scansai appena, avvertendo lo spostamento d’aria prodotto dalla lama mentre mi sibilava accanto, e la ragazza non fece in tempo a risollevarla, così l’arma si piantò a terra per pochi preziosi secondi, che mi concessero di bloccarla con lo scudo e, assestando ad Annabeth un calcio poco cavalleresco, di disarmarla.
Il capitano della squadra Rossa cadde a terra con un tonfo e stavolta ci mise un po’ di più per rialzarsi, ma quando ci riuscì aveva la sua stessa spada, impugnata dal sottoscritto, puntata al volto.
Tutto tacque. Entrambe le squadre tenevano gli occhi puntati su di noi.
Annabeth pareva al contempo spaesata e furibonda, ma alla fine mi fece un cenno col capo, come ad accordarmi il fatto che l’avevo battuta lealmente ed io, sempre tenendola sotto tiro, mi diressi lentamente verso la sponda del fiume; lo attraversai di corsa e protesi una mano verso la bandiera.
Quando ne impugnai l’asta e la sollevai sopra la testa, in segno di vittoria, un ruggito di gioia selvaggia si levò dalla squadra Blu.
In un batter d’occhio sentii delle mani afferrarmi e sollevarmi trionfalmente sopra la folla in un tripudio di giubilo.
Non mi era mai capitata una cosa del genere.

E … cavolo se era fico, essere un eroe!

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Capitolo 2
*** Divento il giardiniere degli dei ***


mavim
Grazie tante per i complimenti e non c’è neppure bisogno che ti dica che la tua recensione mi ha fatto tantissimo piacere, vero??
LOL
Spero che continuerai a seguire questa fic, perché più i capitoli andranno avanti più mi distaccherò dal film. Ovviamente per alcune cose prenderò molti spunti da esso, ma la storia di Steve è parecchio diversa da quella dei libri o del film, lo scoprirai presto …
xD
Spero che anche questo chappy ti sia sembrato carino e sono contenta che Silfide e Steve ti piacciano xD Piacciono molto anche a me, se devo essere sincera °__°

piccolalettrice
Grazie mille per la tua recensione, che è stata la prima quindi mi ha resa ancora più stra-felice del solito *__* Hai ragione, a primo acchitto questa fic può sembrare una mera scopiazzatura del film (anche, perché, in un certo senso, lo è davvero lol), ma fidati se ti dico che, più le cose andranno avanti, più l trama si differenzierà drasticamente da quella dei libri o dei film, anche per quanto riguarda le storie dei personaggi che siamo abituati a conoscere.
Nei prossimi chappy, Annabeth sarà più agguerrita che mai, te lo prometto, e sono contenta che Silfide e Steve ti abbiano fatto una buona impressione (i figli di Hermes sono sempre i personaggi migliore, xD )
Spero continuerai a seguire questa ff, xxx


Il fatto che fossi riuscito a rubare la bandiera aveva fatto andare tutto il Campo in fibrillazione; essendo figlio di Zeus, attorno a me si erano create molte (troppe) aspettative e, acciuffando quel quadratino di stoffa rosso, era come se mi fossi dimostrato all’altezza di tutte le fantasticherie dei miei compagni campeggiatori, che mi vedevano come una sorta di celebrità.
Naturalmente non tutti: i figli di Ares mi lanciavano occhiate omicide ogni volta che passavo loro a tiro e pensavo di non stare troppo simpatico neppure ai figli di Atena, soprattutto alla loro capogruppo.
Ed era davvero un peccato, perché Annabeth era … be’, era un fenomeno.
Non solo era bellissima e intelligente, ma era anche la migliore stratega del campo, una tosta insomma. E il fatto che io fossi stato così sfacciatamente fortunato da batterla proprio non le andava giù.
<< Le passerà >> mi assicurò Grover a colazione, la mattina dopo la partita di Caccia alla Bandiera. I ragazzi mangiavano sotto un grande padiglione in cima alla collina più alta ed il mio amico satiro si era seduto accanto a me, dato che io ero l’unico occupante del mio tavolo. Zeus non aveva altri figli.
A giudicare dalla folla che c’era tutt’intorno, invece, il resto dell’Olimpo doveva darsi un bel daffare coi mortali: Efesto era praticamente pieno, da Ares c’era qualcuno che mangiava in piedi e per Hermes avevano dovuto addirittura affiancare due tavoli per farci entrare tutti.
Visto che avevo fatto guadagnare a tutta la squadra Blu l’esonero di due settimane per il servizio mensa, c’erano alcuni che mi veneravano ed altri che avrebbero venduto la nonna ad Ade pur di mettermi le mani addosso, tipo Clarisse, l’enorme figlia di Ares che aveva tentato di scotennarmi il giorno prima, e che adesso serviva ravanelli lessi al banco della mensa, con tanto di retina per capelli in testa.
Una visione raccapricciante ed esilarante al tempo stesso, ma più che altro preoccupante, poiché Clarisse mi fissava con la stessa intensità di un toro da rodeo con una spina conficcata in una chiappa e aveva spezzato già due mestoli da cucina tenendomi gli occhi addosso; mi dissi che si stava allenando in vista del giorno in cui quella stessa sorte sarebbe toccata al mio collo.
<< Non ne sono tanto sicuro >> ribattei ingurgitando il mio latte e cereali, << Clarisse vuole uccidermi. E nemmeno Annabeth mi sembra una che dimentica in fretta >>.
Le lanciai un’occhiata: stava seduta con gli altri figli di Atena ad un lungo tavolo un po’ più in là e pareva rigida come se avesse ingoiato un manico di scopa. Ero pronto a scommettere che non aveva chiuso occhio, proprio come me, anche se per motivi diversi.
<< Annabeth è una brava ragazza, è in gamba. E poi le piaci >> disse Grover con un sorrisetto.
Io mi strozzai con quello che avevo in bocca e per poco non feci la doccia al satiro.
<< Eh? >> gracchiai quando riuscii a riprendere fiato.
<< Sì >> mi assicurò lui, << insomma tu sei un degno avversario, e poi, diciamocelo, sei belloccio >> a quelle parole sbattei più volte le palpebre, incredulo. << Fidati, alle ragazze piacciono quelli che suscitano in loro sentimenti contrastanti >> Grover fece le virgolette con le dita e mi strizzò l’occhio con fare cameratesco, come per dire che lui la sapeva lunga in fatto di donne.
<< Sarà >> mugugnai io poco convinto. Brandire una spada contro qualcuno non mi sembrava esattamente il modo per fargli capire che provavi interesse nei suoi confronti. Non un interesse amoroso, perlomeno.
Proprio in quel momento al tavolo di Zeus venne a sedersi Silfide.
<< Ciao, Steve! >> mi salutò allegramente, con un largo sorriso.
<< Ehi >> borbottai al suo indirizzo, troppo depresso per fingere di non esserlo.
<< Ciao, Silf! >> esclamò Grover a voce un po’ più alta del necessario.
<< Sì >> biascicò lei degnandolo appena di uno sguardo, per poi tornare a dedicarsi a me. << Che ti prende, biondo? >> esclamò scompigliandomi i capelli. << I festeggiamenti in tuo onore non sono durati abbastanza? O pensavi che sarebbe stato tutto rose e viole? >>.
<< Si dice “rose e fiori” >> la corresse Grover, risentito. Pareva offeso dalla sua totale mancanza di attenzione nei suoi confronti.
Ah. Quella sottospecie di somaro poteva anche darsi tutte le arie che voleva, ma in fatto di ragazze era una frana quasi quanto me! Gli lanciai un’occhiata di traverso che lui ignorò accuratamente.
<< E’ uguale >> lo liquidò Silfide agitando una mano, poi si rivolse a me. << Sei triste perché Annabeth Occhioni da Cerbiatto Chase non ti calcola, vero? >> mi rifilò una gomitata tra le costole. << Eh, bellimbusto? >>
<< Sta zitta >> mugugnai di malavoglia. << Non è per quello, sai che me ne importa >> mentii spudoratamente, al che toccò a Grover rifilarmi un’occhiataccia. << E’ solo che sono un po’ stanco. Sai, confuso, più che altro. E’ successo tutto così in fretta … >>
Silfide annuì con fare comprensivo, e sembrava stesse per dire qualcosa di saggio, poi invece esclamò:
<< Ehi, Luke mi ha detto che oggi dobbiamo andare a fare visita agli altari dei nostri genitori, nella foresta. Io mi porto le tenaglie >> ghignò malvagiamente.
<< Eh? >> commentai io. Luke Castellan era il capitano della squadra Blu, capo casa dei ragazzi di Hermes, nonché tipo piuttosto ganzo, se devo essere sincero. L’avevo conosciuto la sera prima durante la cena in mio onore e avevo notato che praticamente tutte le attenzioni femminili del Campo erano rivolte a lui.
Grover disse, con la voce di un’ottava più alta del solito: << Tu ci vai con Luke? >>
Silfide si strinse nelle spalle.
<< Boh! >> disse. << E’ mio fratello, no? Tecnicamente io dovrei andarci con tutti loro >> rispose.
Grover si mordicchiò il labbro.
<< E … e se invece vieni con noi? >> propose, indicando sé stesso e me. << Insomma, io accompagno Steve, perché lui è l’unico figlio di Zeus, e poi non sa nemmeno dov’è il suo altare … >>
<< … o tantomeno cosa sia >> aggiunsi acidamente, ma il satiro mi ignorò.
<< E poi tu sei svelta, ti puoi fare una corsetta e andare a rendere omaggio ad Hermes quando ti pare, no? >> concluse speranzoso.
Silfide parve sorpresa e si grattò la testa, pensierosa.
<< Ok >> disse alla fine, << se proprio ci tieni … >>
Grover emise un sospiro di sollievo ben udibile che tentò prontamente di camuffare in un colpo di tosse, ma con scarsi risultati.
<< Volete spiegarmi cosa sta succedendo? >> sbottai io. Odiavo sentirmi escluso. << Che cosa sarebbero questi calzari nella foresta? >>
<< Altari, babbuino! >> esclamò Silfide, tirandomi in fronte una crosta di pane col burro, che io non riuscii a schivare. << Sono dei templi, sai luoghi di culto, eretti nel bosco per i nostri genitori. Una volta ogni tanto tutti noi dobbiamo farci una scampagnata nel bosco per rendere loro grazie >> simulò un conato di vomito. << Sai che noia … ecco perché mi porto le tenaglie! >> aggiunse perfidamente, ritrovando subito il buon umore.
<< Non puoi farlo >> disse Grover serio. << Hermes e gli altri dei si arrabbierebbero come ippopotami con l’ernia, lo sai >>.
Lei fece schioccare la lingua con strafottenza. << Tzé, sai quanto me ne importa! >> ribatté.
Io, che stavo cercando di togliermi il burro dai capelli col risultato di impiastricciarmi ancora di più, chiesi: << Cosa vuoi farci, con delle tenaglie? >>
<< Sopra ogni altare c’è la statua della divinità a cui è stato dedicato >> spiegò Silfide. << La statua di Hermes è senza mutande, quindi ha praticamente i gioielli esposti a qualunque tipo di intemperie >> ammiccò furbescamente, << e di tenaglie >>.
Io la guardai stralunato.
<< Mi stai dicendo che vuoi castrare la statua di tuo padre? >> dissi.
Lei sghignazzò. << E’ tipico di lui mettersi in mostra. E’ un esibizionista, come tutti gli dei. Sarà divertente! Sai quante risate ci faremo! >> tamburellò con i palmi delle mani sul tavolo, ritmando “ We will rock you” dei Queen.
Io non ero tanto sicuro che Hermes avrebbe trovato la distruzione dei suoi attributi così spassosa, ma dato che non me ne importava poi tanto, lasciai che fosse Grover a tentare di dissuadere Silfide dai suoi progetti di demolizione. I due passarono il quarto d’ora successivo a battibeccare furiosamente, finché il suono del corno da guerra non ci richiamò tutti a più importanti occupazioni.
Abbandonammo il padiglione della mensa e ci dirigemmo verso l’arena a valle, dove Chirone ci stava aspettando per dare inizio alla spedizione nel bosco.
<< Ragazzi, in seguito ad alcune notizie di cui mi è giunta voce di recente >> iniziò il centauro non appena ci fummo tutti raccolti attorno a lui, << ho deciso di organizzare una visita agli altari degli Dei per ottenere la loro protezione >>.
Mi venne in mente mia madre: forse Chirone voleva ingraziarsi gli abitanti dell’Olimpo per tentare l’impresa di salvarla protetto dai loro favori.
<< Ade ha un suo altare? >> chiesi a Grover in un sussurro.
<< Sì >> rispose lui a mezza bocca, << è ai piedi della collina a Nord, quella dove c’è anche l’altare di tuo padre, ma non ci va mai nessuno. Perché? >>
<< Niente >> dissi io. Ma in realtà avevo un piano, o meglio: volevo fare una cosa.
Dopo qualche raccomandazione e dopo averci fatto prometter che nessuno di noi avrebbe in alcun modo tentato di danneggiare gli altari (<< Perché mi fissa? >> sibilò Silfide sorpresa ), Chirone ci lasciò andare per la nostra strada.
Io, Grover e Silfide ci addentrammo nel bosco, diretti all’altare di Zeus che, disse Grover, era il più lontano.
E ti pareva.
Mentre arrancavamo nel bosco, una ghenga di ragazzi chiassosi ci raggiunse; alla loro testa c’era Luke Castellan con un sorriso sbilenco dipinto sul volto affilato.
Alla sua vista Grover si irrigidì.
<< Ciao, ragazzi >> ci salutò. << Silf, che fai? >> le chiese. << Noi andiamo alla collina Ovest, da Hermes, vieni con noi? >>
<< Vi raggiungo dopo >> rispose lei. << Devo fare da guida a Steve >> mi indicò con un cenno del capo.
<< Già >> assicurai io, un po’ impacciato, perché mi sentivo addosso gli occhi di tutti i figli di Hermes; ed erano gli occhi luccicanti di una combriccola di spilungoni che parevano morire dalla voglia di frugarmi nelle tasche o infilarmi un petardo nelle mutande. O forse prima l’uno e poi l’altro.
Luke inarcò le sopracciglia con fare comprensivo.
<< Oh, ok >> disse. << Ma, Grover … non te ne puoi occupare tu? Dopotutto sei tu il suo Custode >>.
Grover, dal canto suo, sembrava pietrificato. Se prima avevo avuto solo l’impressione che tra lui e Luke non corresse buon sangue, adesso ne avevo la certezza: il mio amico satiro aveva nocche e mascella serrate ed un lieve tremore che non riusciva a controllare gli agitava il codino da capra.
<< Sì, sono io >> rispose a denti stretti. << Ma Silfide si è offerta di aiutarmi. Dovrai fare a meno di lei per un po’, Luke >> ridusse gli occhi ad un paio di fessure di pura malevolenza caprina.
Luke inarcò un sopracciglio; Silfide le alzò tutt’e due, allibita.
<< Ehi, hai mangiato pesante? >> gli chiese. << Sembra che tu stia per fartela addosso >>.
<< O per riempire di pugni qualcuno >> disse Luke con un sorrisetto enigmatico.
Io mi schiarii la gola.
Quell’imbarazzante silenzio fu rotto da un rumore di cespugli smossi; io, Grover e i figli di Hermes ci voltammo nella direzione da cui proveniva il suono e scorgemmo emergere dalla vegetazione Clarisse, della casa di Ares, ed un altro ragazzo dai capelli ramati che non conoscevo.
<< Guarda, guarda >> cantilenò Clarisse sfoderando la zagaglia, << borsaioli, una pecora e un parafulmine >> ci schernì. Il ragazzo dai capelli rossi ghignò in un modo che non si addiceva affatto al suo bel volto e che lo fece somigliare orribilmente ad un maiale malefico.
<< Cacc-larisse >> ribatté Luke, facendo correre, con studiata disinvoltura, la mano all’elsa del suo pugnale. << E un figlio del Pollo. Com’è che ti chiami? >> finse di pensarci su.
<< Credo che il suo nome abbia qualcosa a che fare con Troia … >> suggerì Silfide sogghignando, mentre anche lei afferrava l’arma che portava appesa alla cintura. << Oh, sì! Elena >>.
Risate generali.
<< Mi chiamo Eleno! >> ribatté il ragazzo con rabbia. << E, tu, piedi di fata, prova di nuovo ad insultare mio padre e giuro che sarà l’ultima cosa che farai >>.
Luke sfoderò il pugnale: << Fammi vedere, Elena! >> lo pungolò.
Il ragazzo si lanciò in avanti con la daga sguainata, mugghiando come un toro, pronto ad avventarsi su Luke, che però lo schivò senza difficoltà e gli fece lo sgambetto; Eleno inciampò e finì troppo vicino a Silfide, che gli assestò un calcio e lo rilanciò a Luke.
I due continuarono a passarselo così per un po’, quasi fosse soltanto una pallina da tennis antipatica, finché Clarisse non decise d’intervenire.
Si gettò su di me facendo roteare sopra la testa la sua lancia, io mi abbassai appena in tempo per schivarla, ma il colpo giunse a Grover che venne ferito di striscio al volto.
<< Ehi! Ma dico, sei impazzita? >> le urlai io. Ero pronto a difendere a spada tratta (nel vero senso della parola) il mio migliore amico, ma non ce ne fu affatto bisogno: Grover spiccò un balzo facendo guizzare gli zoccoli e, belando furiosamente, si avventò contro la figlia di Ares, con la quale ingaggiò una specie di incontro di wrestling per strapparle di mano la lancia.
<< Brutta balena che non sei altro, non lo sai quanto vale questa faccia? >> le urlò contro, indicandosi da solo. << Ci ho messo mesi per farmi crescere il pizzetto, prova a radermi a tradimento un’altra volta e sappi che non risponderò delle mie azioni! >>
Clarisse cercò di divincolarsi. << Togliti di dosso, montone! >> grugnì, poi gli rifilò un gran calcio che lo fece volare indietro e si rimise in piedi.
Stavolta scattai al fianco di Grover e lo aiutai a rimettersi sugli zoccoli, dopodiché sguainai il mio gladio e iniziammo a fronteggiarla fianco a fianco; intanto Silfide, Luke e gli altri ragazzi di Hermes avevano smesso di giocare a ping pong con Eleno, ma in compenso l’avevano issato su un albero a testa in giù e lo stavano punzecchiando con le loro spade.
<< Clarisse! >> piagnucolò il figlio di Apollo, dimenandosi come un salame impazzito. << Mi avevi detto … ahi! … che sarebbe stato facile batterli! Che così sarei … smettila, ahi … potuto entrare nel fan club di Ares! Aiutami … ahio … AIUTO! >>
<< Chiudi il becco! >> gli intimò Clarisse, mentre cercava di tenere testa a me e a Grover.
<< Clarisse, che volevi fare, eh? >> le chiesi tra una stoccata e un’altra.
<< Te l’ho detto, Johnson! >> ribatté lei, tentando un affondo che fu prontamente deviato da un colpo di zoccolo di Grover. << Ti faccio a polpette e ti servo a mensa! >> e mi colpì forte con la sua lancia ad una spalla.
Io barcollai all’indietro, ma qualcuno mi acchiappò al volo e mi rimise in carreggiata: mi voltai appena in tempo per vedere Annabeth: bellissima, fatale e con la spada sguainata.
Rimasi di stucco.
<< La retina non ti dona! >> disse a Clarisse, disarmandola con un solo movimento del polso.
La figlia di Ares rimase sorpresa quanto me; cercò di battere la ritirata, ma da dietro, a circondarla, giunsero Luke e Silfide. Era in trappola.
<< Perché, esiste davvero qualcosa che le doni? >> la schernì Silfide. << A parte il grugno da maiale, intendo >>.
Clarisse scoprì i denti ed emise una sorta di grugnito d’avvertimento, davvero simile a quello di un maiale.
<< Non è leale, in cinque contro una >> biascicò con rabbia.
<< E’ stato leale seguire loro ed attaccarli alle spalle mentre stavano dirigendosi agli altari per rendere grazie? >> chiese Annabeth freddamente, fissandola con due grigie lame di ghiaccio al posto degli occhi.
Se avesse guardato me così, mi sarei messo a frignare.
Clarisse sbuffò. << Fatti gli affari tuoi, Chase. Ho un conto in sospeso con il figlio di Zeus. E adesso anche con tutti gli altri >> aggiunse minacciosa.
<< Tremo come una foglia >> disse Luke reprimendo uno sbadiglio.
<< Anch’io ho un conto in sospeso con Steve >> ribatté Annabeth. Sentirle pronunciare il mio nome mi mandò in fibrillazione, ma continuai a tenere sotto tiro Clarisse, spinto da chissà quale primordiale istinto di conservazione. << Ma non per questo gli ho teso un agguato. In verità tutta la squadra Rossa vorrebbe regolare i conti con lui, ma oggi è un giorno di tregua. Non avresti dovuto farlo: arrenditi o ne pagherai le conseguenze >>.
<< Non venire a farmi la ramanzina! >> abbaiò Clarisse, ma non sembrava più tanto minacciosa: doveva essersi resa improvvisamente conto di essere circondata da cinque persone armate di spade, pugnali e zoccoli e di non star loro esattamente simpatica.
<< Tregua >> accordò di malumore. << Me ne vado, a patto che tiriate giù da lì Eleno >> ed accennò al poveretto che penzolava dall’albero.
Se devo essere sincero, io mi ero dimenticato di lui; comunque sia, i figli di Hermes lo tirarono giù, e il ragazzetto corse via barcollando, senza degnare Clarisse di uno sguardo.
<< Bene, ora sloggia anche tu, prima che cambiamo idea >> le intimò Luke, agitando un pugnale in direzione della foresta per farla avviare.
Clarisse sputò nella sua direzione, ad un soffio dalla sua scarpa, poi ci fulminò tutti quanti con un’occhiata dardeggiante di odio allo stato puro, e se ne andò, scomparendo tra gli alberi come un’orsa in armatura.
Lo ammetto: se fosse dipeso da me, le sarei corso dietro e gliele avrei date di santa ragione, ma non mi sembrava leale attaccarla alle spalle, tantomeno dopo che ci eravamo accordati per una tregua.
Lei non si meritava tanta lealtà, eppure le parole di Annabeth mi avevano davvero ispirato, così rimasi al mio posto.
<< Grazie >> dissi, rivolgendomi alla figlia di Atena. << Se non fosse stato per te, probabilmente Clarisse mi avrebbe spedito in Infermeria in una tabacchiera >>.
Lei abbozzò un sorriso.
<< Di niente. Ora siamo pari, presumo. Ma sappi che non sarò così gentile, quando ci rincontreremo sul campo di battaglia >>.
Mi pareva giusto, così annuii, sentendomi invadere da una strana sensazione di calore e sollievo.
<< Che ne dite se proseguiamo verso l’altare di Zeus tutti insieme? >> propose Luke, rinfoderando i suoi pugnali da lancio. << Sarà, ma io di Clarisse proprio non mi fido >>.
<< Mi sembra un’ottima idea >> accordò Silfide, poi si voltò verso la figlia di Atena. << Annabeth? >>
Lei annuì. << D’accordo, basta che ci sbrighiamo >>.
Così, Silfide e Luke congedarono il resto della loro casa e si accodarono a me, Annabeth (cioè, proprio ANNABETH) e Grover, che non sembrava esattamente al settimo cielo, e tuttavia decise di camuffare la vera ragione del suo malumore (una ragione alta, aitante e bionda di nome Luke) facendo finta che il taglio procuratogli da Clarisse fosse parecchio doloroso.
Il tragitto nella foresta non ci preservò altre sorprese e ben presto iniziammo a chiacchierare del più e del meno.
<< Se non faceste tutti parte della squadra avversaria, direi che ve la cavate piuttosto bene nel combattimento >> disse Annabeth.
<< Non essere orgogliosa, capitano >> la rimbrottò Silfide amichevolmente, << lo sappiamo che ti sei divertita! >> esclamò, dandole una pacca sulla spalla.
<< Che cosa può esserci di più divertente di Clarisse il grizzly e di Elena di Troia messe insieme? >> sghignazzò Luke.
Tutti, eccetto Grover, scoppiammo a ridere; il satiro mi rifilò una gomitata tra le costole per farmi smettere ed io mi zitti all’istante, intercettando la sua occhiata omicida.
Io e quel caprone dovevamo farci quattro chiacchiere in solitaria, e al più presto, ma al momento ero troppo elettrizzato per avere Annabeth che trotterellava tranquillamente al mio fianco, senza tenermi puntata una spada alla gola, e rideva con me e non di me.
Fu fantastico.
Ci stavamo godendo talmente tanto quell’escursione nel bosco, che fu quasi un peccato raggiungere l’altare di Zeus: esso si trovava sulla collina più alta del Campo Mezzosangue, in una posizione dalla quale incombeva su qualsiasi altra costruzione nel raggio di miglia e miglia in modo molto maestoso. Il simulacro consisteva in un’imponente tavola di marmo candido con su incise delle iscrizione in greco ed in latino che non mi diedi neppure la pena di leggere, e sopra il blocco di marmo era stata eretta la statua di un uomo alto e possente, con un lunga tunica che gli arrivava fino ai piedi, una rigogliosa barba scarmigliata da un vento di tempesta ed una folgore nella mano sinistra.
Sembrava mi fissasse con quei suoi ciechi occhi di marmo. Quello era mio padre.
<< Wow, ti somiglia >> commentò Silfide, facendo correre lo sguardo da me alla statua.
Era vero, ma non sapevo cosa dire, così mi limitai a stringermi nelle spalle e a chiedere:
<< Come faccio ad onorare il suo altare? >>
<< Puoi offrirgli un tributo >> rispose Annabeth, e quando mi rivolse la parola il mio stomaco si annodò peggio di un pitone, << sai: cibo, armi o qualche oggetto speciale. Oppure puoi fare un voto, e se lo rispetterai lui accoglierà la tua richiesta >>.
Forse non era una domanda molto appropriata, ma proprio non seppi trattenermi e le chiesi: << Tu hai mai fatto un voto a tua madre? >>
<< Una volta >> rispose lapidaria.
Luke, Grover e Silfide si scambiarono uno sguardo che non riuscii a decifrare.
<< Ed ha funzionato? >> insistetti.
<< Più o meno >> gli occhi di Annabeth si persero in lontananza, giù per la collina, verso le placide acque del lago.
Poi si riscosse all’improvviso.
<< E’ meglio che vada >> disse, << non vorrei rimanere troppo indietro … a quest’ora, gli altri della mia casa avranno già reso omaggio ad Atena >> e, detto questo, corse via, senza neppure salutare.
Io mi voltai a guardare Grover, Silfide e Luke ed allargai le braccia, come a dire: “ ma che cavolo le è preso?”
I tre si scambiarono nuovamente quello sguardo carico di tensione.
<< Ho detto qualcosa di sbagliato? >> domandai. << Coraggio, sputate il rospo >>.
<< Ehm … >> mugugnò Silfide. Luke si passò una mano dietro il collo, a disagio.
Grover si lasciò sfuggire un lieve belato.
<< Ne approfitto per fare una visita all’altare di Pan >> annunciò fingendo disinvoltura, << è … è proprio qui vicino >> si schiarì la gola, << ad un paio di miglia >> aggiunse sottovoce. Dopodiché anche lui girò sui tacchi (pardon, zoccoli) e sparì tra gli alberi.
Io e i figli di Hermes eravamo rimasti soli.
<< Anche voi volete piantarmi in asso? >> chiesi acidamente.
<< Sì >> rispose Luke.
<< Be’, hai bisogno di calma e tranquillità, no? >> aggiunse Silfide. << E’ una cosa molto zen … inspira … espira … inspira … espira … >>
<< Ooooom >> fece Luke unendo le punte degli indici con quelle dei pollici. << Ooooom … andiamocene, svelta … ooooom >>.
E pure loro si diedero alla macchia, dapprima arretrando lentamente con la scusa di fare i maestri di yoga, poi correndo a tutta birra.
Sospirai e mi voltai a guardare il volto della statua di Zeus: era bianco ed impassibile. Severo, perfino; e mi scrutava da sotto le sopracciglia cespugliose.
<< Be’ … >> iniziai, un po’ impacciato. << Ehm … Salve, padre >> mi chiesi se suonassi abbastanza rispettoso. << E’ la prima volta che ci parliamo, eh? >> ridacchiai stupidamente. La statua non si mosse. << Già >>.
Rimasi lì a ciondolare senza sapere cosa fare di preciso, poi decisi di seguire il consiglio di Annabeth e di fare un voto a Zeus; così mi inginocchiai e sistemai sull’altare il mio gladio, come pegno per mio padre.
<< Ti offro in dono la mia unica arma, padre >> annunciai, sentendomi di colpo molto ispirato. << E’ la sola che io abbia usato in questo Campo per difendermi, e grazie ad essa ho vinto la prova di ieri. Spero che per te sia abbastanza >> feci una pausa, alla ricerca delle parole giuste.
<< Divino Zeus >> dissi alla fine, << ti chiedo aiuto ed invoco la tua protezione, ma non per me: vorrei che tu proteggessi la mamma. La donna che hai amato. Spero che tu tenga ancora a lei, almeno abbastanza per non farla uccidere da Ade >> serrai la mandibola, lottando contro il fastidioso pizzicorino che aveva iniziato a tormentarmi gli occhi.
<< In cambio, ti assicuro che … >> mi resi conto, allora, di non sapere cosa mio padre volesse da me. << Farò tutto ciò che tu riterrai opportuno per me. Qualsiasi cosa, sul serio! Ma ti prego, fai che la mamma sia salva >> mi alzai di nuovo in piedi e lanciai un ultimo sguardo alla statua di mio padre.
Dopodiché, senza il mio gladio, aggirai l’altare di Zeus e inizia a scendere la ripida collina, diretto all’altare del mio zio preferito: Ade.
Quando vi arrivai, mi ritrovai davanti uno spettacolo piuttosto desolante: il simulacro del dio degli inferi era praticamente uguale a quello di mio padre, con l’unica differenza che era scolpito nel marmo nero, decadente e grigiastro, macchiato dall’umidità e da chissà cos’altro, ed ogni singolo centimetro di pietra era ricoperto da un fitto groviglio di piante rampicanti che nascondeva completamente la statua del dio alla vista.
<< Non ti si fila nessuno, eh? >> mormorai, dinnanzi a quella vista così deprimente.
Ade mi diede l’idea di uno che faceva il cattivo per attirare l’attenzione, di qualcuno sempre escluso dai suoi parenti, che se la spassavano sull’Olimpo, mentre lui era costretto in un putrido buco pieno zeppo di morti puzzolenti.
Se non avesse rapito mia madre, mi avrebbe fatto quasi pena.
<< Voglio farti un servizietto, Divino Ade >> annunciai, frugandomi nella tasca. << Non so perché ce l’hai con me, ma sappi che non mi piegherò mai ai tuoi voleri. Ridammi mia madre sana e salva, dopodiché sbrigateli da solo i tuoi problemi con tuo fratello: io non voglio averci niente a che fare, ok? >> aggrottai la fronte e lanciai uno sguardo truce in direzione di quelli che dovevano essere gli occhi della statua, ma non potei esserne sicuro, perché erano ricoperti dall’erica.
Sfilai dalla tasca dei pantaloni il contenitore del frammento di Folgore Olimpica, e lo aprii.
Il piccolo fulmine prese a danzarmi allegramente tra le mani, come se fosse felice di rivedermi.
<< Ci siamo, sorella >> dissi, rivolto alla saetta. << Distruggi le erbacce che infestano l’altare di Ade >> le ordinai.
Mi sembrava stupido mettermi a parlare con un fulmine, eppure una parte di me mi diceva che era esattamente ciò che dovevo fare. E, infatti, quando parlai, le parole mi uscirono di bocca in greco antico.
Rimasi colpito.
All’inizio non accadde nulla, ma poi la Folgore ebbe un fremito e, con un rombo di tuono, si avventò sull’altare di Ade come una gatto selvatico.
Le erbacce presero fuoco, esplosero e si dissolsero in coriandoli di luce sfrigolanti. Io mi affrettai a riavvitare il contenitore, sorpreso da tanta potenza.
Adesso potevo vedere bene l’altare di Ade, che scintillava di una strana luce crepuscolare: il padrone degli inferi somigliava in modo sorprendente a suo fratello Zeus, eppure sembrava molto più vecchio e stanco e, anche la sua controparte statuaria, aveva profonde occhiaie che gli incorniciavano gli occhi malevoli e incavati.
<< Credo che così possa andare >> soggiunsi, infilando di nuovo il contenitore della folgore nella tasca dei pantaloni. << Con me basta parlare, per risolvere un problema, voglio che tu lo sappia. Ma sappi anche questo >> aggiunsi, cercando di sembrare più minaccioso possibile, << torci un solo capello a mia mamma, e giuro che scendo all’inferno, o dove cavolo abiti, e ti prendo a calci nelle Olimpiche chiappe, sono stato chiaro? >>
E, detto questo, girai sui tacchi e risalii su per la collina, molto soddisfatto per le mie doti da giardiniere.
 
 
 

 

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Capitolo 3
*** Mai mangiare pesante prima di andare a dormire! ***


mavim
Grazie mille per i complimenti, sono contentissima che questa fic ti emozioni *__*
Silfide è una canaglietta LOL ma, è proprio per questo che il suo papà è fiero di lei, anche se voleva castrarlo U.U Ovviamente tutti noi sappiamo che Clarisse sia una bulla antipatica, ecco perché cercherò sempre di fargliele dare di santa ragione dai nostri eroi ;D
Eheheheheh … Steve è stracotto della nostra Annabeth, e sono felice che ti piacciano come coppia ^^
E’ vero, i nostri semidei hanno un segreto da nascondere … ma non posso rivelare nulla o non ci sarebbe gusto nel continuare a leggere xD
Grazie mille per questa fantastica recensione, spero che anche questo chappy sarà di tuo gusto °.°


piccolalettrice
LOL
Hai ragione xD Vabbé, dai … diciamo che mi sono presa una licenza poetica sulle chiappe di Ade
°__°
Oddio, detto così suona malissimo LOL
Comunque, grazie mille come al solito per tutti i tuoi complimenti … che mi fanno sempre troppo piacere, dato che adoro la tua ff su PJ
L’ho già letta tutta, ma voglio lasciarti una recensione ad ogni capitolo, ecco perché me la sto prendendo un po’ più comoda xD
Purtroppo non posso spoilerarti il segreto di Annabet U_U Ti toglierebbe tutta la sorpresa e noi non vogliamo che succeda, vero? *domanda retorica*
LOL – mi fa piacere che Silfide stia avendo tanto successo … se devo essere sincera, è lei il mio personaggio preferito all’interno di questa ficcy! Vorrei tanto trovare personaggi come lei nei libri che leggo, ma pare che tutti gli scrittori siano convinti che una ragazza non possa essere simpatica e discola … MASCHILISTI! *li picchia con un caduceo*
NGHNHGH Steve è un romanticone, vero? E anche Groveruccio, in fondo, lo è … anche se si da’ sempre tante arie >:D


L’aria era pesante, quasi irrespirabile. Nuvolette sulfuree aleggiavano tutt’intorno, mentre una figura alta e ammantata di nero si faceva strada nella nebbia con un incedere lento e strascicato.

Non mi resi subito conto di ciò che stava succedendo.
Sentivo la gola in fiamme, il petto pesante come se avessi Clarisse seduta addosso e sudavo freddo, scosso da violenti tremiti.

Il mantello si gonfiava e aleggiava attorno alla misteriosa figura, nonostante l’assenza di vento. Attorno a lui c’erano solo rovine di nuda roccia e desolazione per chilometri e chilometri. In quel luogo nessuno mettevo più piede da secoli e tutto, dall’ultima volta, si era raggrinzito e sgretolato, come un pezzo di carta lasciato a mollo nell’acqua.

Cercai di muovermi, ma non ci riuscii; qualcosa mi bloccava al suolo, una strana forza mi stava trascinando attraverso un banco di nebbia grigia, tra immense colonne in rovina e templi profanati.
Era un posto terribile, ogni granello di sabbia sembrava urlare la sua sofferenza, ed ogni fibra del mio corpo voleva disperatamente andar via di lì. Ma non potevo.

Ade, il dio degli inferi, si sfilò il cappuccio, rivelando una zazzera di capelli ricciuti sale e pepe ed un volto pallido e incavato. Si fermò al centro di un ampio spiazzo di pietra e levò una mano in aria: a quel gesto, la nebbia si diradò all’istante.
Sul pavimento crepato e scolorito dal tempo, faceva bella mostra di sé un enorme e complicatissimo simbolo, un pinnacolo i cui sinuosi arabeschi si rincorrevano per tutto il perimetro del luogo.

Riconobbi il mio divino zio all’istante, perché il giorno prima ne avevo visto la statua da vicino. Ma che diavolo stava facendo lì? E, soprattutto, dov’era?

Ade iniziò a misurare a grandi falcate il sigillo inciso nel pavimento ed i suoi passi risuonarono sinistramente tutt’intorno, perdendosi nella caligine che aveva fatto ala attorno a lui.
Il dio sfoderò una spada nera come l’ala di un corvo, ricurva quanto il ramo di un albero rinsecchito ed il suo urlo riecheggiò in modo spaventoso.
<< EEEEEEERIIIIIIS! >> invocò.
Poi abbassò la spada e la conficcò nel pavimento; al tocco della lama, un pezzo di sigillo, quello tracciato con colori più scuri e foschi rispetto agli altri due, che erano uno giallo ed uno azzurro, si frantumò, si spezzò e saltò in aria, esplodendo in mille schegge di fumo nero.

Il terremoto! Il terremoto! Quel posto era scosso sin dalle fondamenta, stava crollando tutto!
Mi dissi che ci sarei rimasto secco di sicuro, che qualcosa mi sarebbe piombato addosso e mi avrebbe spiaccicato come un moscerino su un parabrezza … e invece non successe nulla del genere: i detriti mi passavano attraverso senza sfiorarmi davvero, intangibili, come se fossi un fantasma o, semplicemente, non appartenessi a quel luogo.

La terra si squarciò, laddove prima c’era il sigillo nero si aprì una crepa, un’immensa voragine che avrebbe potuto inghiottire tutto da un momento all’altro. Lapilli di lava fuoriuscivano da essa, lingue di fuoco si protendevano in aria come mani pronte ad afferrare qualunque cosa …
Poi, Ade levò una mano, silenzioso. E tutto cessò.
<< Eris >> chiamò, stavolta come se stesse salutando una vecchia amica.
Dalla voragine si levò una nuvola di fumo nero, che si arrampicò in volute serpentine sino a sfiorare dolcemente il volto di Ade.

Ma sbaglio, o quella specie di miasma ci stava provando con Ade? Strizzai gli occhi per vederci meglio e, d’improvviso, mi ritrovai ad osservare la scena più da vicino e, in qualche modo, tutto mi apparve più vivido, come se un velo sottile fosse scomparso.
Tentai di muovere un passo, ma ancora non ci riuscivo.

<< Ade >> gorgogliò una voce femminile calda e suadente.
Il fumo assunse una forma più definita, disegnò le morbide curve di un corpo di donna, e, alla fine, la dea apparve, emergendo dalle ombre con un sorriso malefico dipinto sul volto meraviglioso e gli occhi gialli scintillanti come gemme.

Se avessi avuto la bocca, avrei urlato. Era la donna più bella che avessi mai visto, eppure c’era qualcosa di spaventoso e tremendamente sbagliato in lei.
Però mi sentivo come un semplice soffio di vento, senza arti, né facoltà di movimento, e dovetti rimanere lì impalato a guardare la scena.

<< Quanto tempo, Eris! >> la salutò Ade con gli occhi che scintillavano. << Sono passati secoli dall’ultima volta che ci siamo visti >>.
<< Millenni >> lo corresse lei con un broncio vezzoso. << Due, per l’esattezza >> un lampo rosso le balenò in volto.
<< Suvvia, Eris … >>la rabbonì Ade, << non ce l’avrai ancora con me per quel terribile malinteso della Guerra di Troia! >>
Eris gli girò attorno, divertendosi a dissolversi in morbide volute di fumo per poi riapparirgli sempre più vicina. Ad un soffio dal suo volto sibilò:
<< Sei stato tu a rinchiudermi sottoterra, nelle fiamme del Tartaro. Tu ed i tuoi fratelli, Zeus e Poseidone, avete voluto punirmi per aver scatenato quella Guerra. Ho passato quasi tremila anni sigillata, imprigionata, privata dei miei poteri >> gli graffiò lo zigomo con una lunga unghia scarlatta, simile a l’artiglio di una fiera, ma la ferità si rimarginò ancora prima di aprirsi.

La faccenda si faceva interessante. Non avevo idea del perché o di come stessi assistendo a quella conversazione, ma ero convinto che stesse davvero avendo luogo. Così aguzzai le orecchie, anche se non me le sentivo, deciso a non perdermi neppure una battuta.

<< Eris, sublime creatura >>disse Ade, fingendo risentimento, << pensi davvero che io volessi punirti? Punirti per avere portato nel mio regno così tante anime di caduti morti in battaglia? No! >> esclamò, scuotendo il capo, << mai e poi mai avrei voluto farlo! Io avrei sempre voluto ringraziarti, Eris, mia adorata, RINGRAZIARTI per essere stata l’artefice di un così ingente massacro! >> la fissò con gli occhi spalancati, infervorato. << Loro mi hanno costretto! Sono stati i miei fratelli a costringermi ad apporti il Sigillo Maledetto, perché senza tutti e tre i nostri poteri messi insieme, esso non avrebbe avuto alcun effetto! Ma io ti chiedo scusa, Eris, regina del caos, e oggi imploro il tuo perdono >>.
<< Non è nella mia natura, il perdonare >> ribatté la dea. << Io mi crogiolo nella sofferenza e nel rancore, mi nutro della pena e del dispetto. La gelosia e l’invidia sono il mio pane. Perché mai dovrei concederti il mio perdono, Ade? Perché non dovrei distruggerti, dopo ciò che mi hai fatto? >>

Già, perché? Ero teso come una corda di violino, avevo paura che la visione si spezzasse da un momento all’altro, e pregai chiunque mi venisse in mente affinché Ade rispondesse in fretta.

Ade sorrise malvagiamente, in un modo che fece tornare alla mente di Eris il perché l’avesse sempre trovato così attraente.
<< Perché voglio proporti una vendetta ben più grande, di quella che potresti ottenere distruggendo me solo. Immagina di poter spazzare via l’Olimpo intero, di dare alle fiamme ogni trono e di prosciugare del suo potere ogni divinità >>.
Eris assaporò quell’idea, succosa come una mela d’estate, ed un brivido di piacere le corse giù lungo la schiena.
<< Immagino, Ade. Sarei capace di fare tutto ciò che hai detto in un solo giorno, in un’ora, forse >> sussurrò deliziata.
<< Insieme, noi due, possiamo! >> esclamò Ade. << Aiutami a rapire tutti gli dei, Eris, ed io ti libererò dal Sigillo e ti restituirò tutti i tuoi poteri. Aiutami ad annientarli uno dopo l’altro, e insieme regneremo incontrastati su ogni cosa e su ogni essere! >>

Sentii qualcosa scattarmi nel cervello e, all’improvviso, avvertii nuovamente di possedere delle dita, dei piedi, un naso, una bocca … riacquistavo consapevolezza del mio corpo, ma la visione si faceva sempre più sfumata e confusa, come se la guardassi da dietro un vetro appannato.

Eris accarezzò i capelli di Ade.
<< Tu parli bene, Ade >> bisbigliò vicinissima al suo viso, << ma chi mi garantisce che non mi tradirai un’altra volta? >>
<< Accetti il mio patto? >> chiese lui prendendole il volto tra le mani. << Accetta, e ti scioglierò dalle tue catene, restituendoti parte dei poteri che il mio Sigillo ti aveva precluso, permettendoti di compiere la missione >>.
<< Giura che poi sarò liberà >> sibilò lei ad un soffio dalle sue labbra, << e che l’Olimpo sarà nostro >>.
<< Lo giuro >> sussurrò Ade.
E poi si baciarono.

A quel punto mi svegliai di soprassalto, urlando come un pazzo furioso, e balzai a sedere sul mo letto, le lenzuola aggrovigliate attorno come il bozzolo di un ragno, più sudato di un centauro che ha fatto la maratona.
<< AHHHHHHHHHHHHH! >> gridai.
Udii uno scalpiccio di zoccoli provenire dalla stanza accanto, poi Grover fece irruzione in camera mia con addosso solo il suo manto caprino.
<< Steve! >> esclamò spaventato, correndomi incontro. << Steve cosa sta succedendo? >>
Io cercai di calmarmi, ma il cuore mi batteva a mille all’ora.
Balzai giù dal letto, incapace di star fermo, ed iniziai a misurare la stanza a grandi passi, sotto lo sguardo preoccupato di Grover.
<< Ho fatto un sogno … >> iniziai affannato, << ma non era proprio un sogno … io so che ciò che ho visto stava accadendo davvero, capisci? O magari è già accaduto e non ne sapevamo niente! >> deglutii a fatica. << Ho avuto una visione, Grover! >>
Lui sussultò.
<< Cos’hai visto? >> chiese subito.
<< C’erano Ade e … e una dea … loro … lei è uscita da una specie di timbro … no, no, no! Non timbro, da un sigillo, ecco! Mio padre, Poseidone ed Ade l’avevano rinchiusa lì dopo la Guerra di Troia, perché era stato per colpa sua se era scoppiata, ma adesso Ade l’ha liberata e vogliono rapire tutti gli dei! Li vogliono uccidere per diventare i padroni dell’Olimpo! >>
Avevo urlato per tutto il tempo, a squarciagola, come se stessi parlando a Grover dal Connecticut, e lui era rimasto zitto ad ascoltare, ansante e con gli occhi fuori dalle orbite. 
<< Steve >> boccheggiò in preda al panico, << Steve, tu hai visto Eris ed Ade allearsi! >> disse. Sembrava sconvolto quasi quanto me. << Corri, dobbiamo dirlo a Chirone! >>
E, detto questo, nonostante fossimo entrambi alquanto … ehm … svestiti, mi afferrò per un braccio e mi trascinò fuori dal mio alloggio, dove avevamo deciso di stare insieme in modo che il mio Custode potesse avermi sempre sotto controllo; e mai decisione si rivelò più azzeccata!
Insieme corremmo in mezzo al bosco silenzioso, illuminato fiocamente dalle prime luci dell’alba, e ci facemmo strada per il Campo, deserto a quell’ora così impensabile, senza incontrare anima viva.
L’alloggio di Chirone era poco oltre il padiglione della mensa e, non appena lo raggiungemmo, io e Grover ci mettemmo a bussare alla porticina di legno così forte che avremmo potuto sfondarla a suon di pugni, se il padrone di casa non fosse giunto ad aprirci, assonnato e con la coda scarmigliata.
<< Steve! Grover! >> esclamò guardando prima me, poi lui. << Che cosa succede? >>
Io ed il satiro ci fiondammo dentro senza neppure aspettare un invito, praticamente travolgendo Chirone, e incominciammo a parlare tutti e due all’unisono, strillando come arpie con la raucedine.
<< Ade ha risvegliato una pazza con le unghie rosse … >>
<< … vogliono distruggere gli dei dell’Olimpo … >>
<< … stava crollando tutto, ma ad un certo punto Ade ha fatto fermare il terremoto … >>
<< … sono certo che è successo davvero … >>
<< … stavano pomiciando! >>
<< SILENZIO! >> urlò Chirone.
Grover ed io ci zittimmo all’istante.
<< Adesso mi farete la cortesia di parlare uno per volta e di smetterla di sbraitare, dato che sono le quattro del mattino! >> ci ammonì il centauro severamente. << Steve, comincia tu >>.
Io gli raccontai per filo e per segno della mia visione, di ciò che avevo visto e sentito, del Sigillo Maledetto, di Eris e del terribile piano di Ade.
Quando terminai di parlare, Chirone restò in silenzio per un istante che parve interminabile, dopodiché disse l’ultima cosa che mi sarei mai aspettato al mondo:
<< Molto bene >>.
Io e Grover rimanemmo di stucco.
<< Perdonami, Chirone >> iniziò quest’ultimo, << forse hai sonno e sei ancora mezzo rincitrullito, ma non penso tu ti sia reso conto della gravità … >> ma il centauro lo interruppe.
<< Ti sbagli, Grover >> disse con calma, << sono perfettamente conscio che ciò che ha visto Steve sia terribilmente grave, ma per il suo bene entrambi dovrete fare finta di niente >>.
Ecco che c’eravamo di nuovo: per Chirone la soluzione più adatta ad ogni problema sembrava essere quella che mia mamma chiamava “la tattica dello struzzo”, ossia quella di nascondere la testa sotto la sabbia nei momenti di difficoltà.
<< Ma, Chirone! Potrebbe scoppiare il putiferio da un momento all’altro! >> sbottai fuori di me. << Noi dobbiamo intervenire immediatamente, o l’Olimpo verrà distrutto, capisci? Gli dei verranno uccisi tutti! >>
Chirone lasciò che mi sfogassi e dessi fiato ai polmoni quanto volevo; quando, alla fine, smisi di strepitare come una scimmia urlatrice, lui parlò.
<< E’ mia intenzione partire immediatamente alla volta dell’Olimpo per chiedere udienza a tuo padre Zeus >> mi disse. << Per il tuo bene, e per quello di tutto il Campo Mezzosangue, ti dico di tenere segreta la tua visione, Steve. Se siamo fortunati, Ade non si è ancora accorto che tu l’hai visto e dobbiamo sfruttare la sua ignoranza a nostro vantaggio, finché possiamo >> iniziò ad aggirarsi per il suo alloggio, raccogliendo tutte le cose utili che gli passavano sotto tiro: alla fine, si vestì in giacca e cravatta e recuperò la sua carrozzella, sulla quale si sedette nascondendo la parte da cavallo, e tornando ad assumere la forma del professor Brunner che io avevo conosciuto.
<< E’ perfettamente inutile dirvi di restare assolutamente entro i confini del Campo, dato che mi pare una cosa piuttosto ovvia da parte vostra >> ci ammonì. << Promettetemi che baderete a voi stessi, mentre sarò via, e che non farete nulla di avventato >>.
<< D’accordo, Chirone >> acconsentì Grover, ma io rimasi zitto.
Il centauro mi lanciò una di quelle sue occhiate penetranti che riuscivano a metterti sottosopra peggio di una scatoletta di fagioli avariata.
<< Va bene >> mugugnai alla fine, di pessimo umore.
Chirone annuì, soddisfatto, e si avviò fuori dal suo alloggio spingendo la sedia a rotelle.
<< Non mancherò per molto >> ci assicurò, << mentre sarò via, sarà il signor D a badare a voi >> a quelle parole, Grover ebbe un fremito e Chirone disse: << Tu hai già avuto modo di conoscerlo, vero, Grover? >>
<< S-sì, signore >> balbettò lui.
<< Ora, ai ragazzi che vi faranno alcun genere di domanda … voi non dite nulla. Non rispondete. Scappate via a gambe levate, piuttosto di lasciarvi sfuggire qualsiasi cosa riguardo a questa faccenda, intesi? >>
<< Sì >> assicurammo all’unisono.
<< Ma, Chirone >> gli feci notare io, << gli altri ragazzi potrebbero insospettirsi, vedendo che non ci sei! >>
<< Farò in modo che la voce che sono andato sull’Olimpo per organizzare la prossima gita del Campo circoli in giro >> disse. << Voi non sapete niente, non avete visto niente e stamattina vi siete svegliati terribilmente tardi >> ci indicò la porta. << Andate, svelti!  E fate in modo che non vi veda nessuno! >>
Ci cacciò fuori dal suo alloggio e noi ripercorremmo la strada verso la mia casa a ritroso, mentre lui si inerpicava giù per la collina in carrozzella, verso il suo autista Argo, che lo attendeva vicino all’uscita del campo.
Chirone gli sussurrò qualcosa concitatamente, dopodiché quello corse a preparare la macchina e, in un attimo, sgommarono alla volta dell’Empire State Building, in cima al quale stava l’Olimpo.
Ma per quanto, ancora? Se Ade ed Eris fossero riusciti nel loro intento sarebbe scomparso tutto e che fine avremmo fatto noi del Campo?
Mi costrinsi a non pensarci, ma rimettersi a letto, e soprattutto restarci, dopo tutta quell’adrenalina non fu affatto una passeggiata.
Neanche Grover riusciva a riprendere sonno, così restammo fino alle nove e mezza del mattino a fare congetture strampalate su ciò che era capitato, inventandoci le teorie più assurde; alla fine, però, non reggemmo più e decidemmo di scendere per fare colazione.
Neppure quello fu facile: camminare in mezzo agli altri ragazzi facendo finta di niente fu praticamente una tortura. Sentivo le budella attorcigliarsi ad ogni mio passo, e ad ogni istante che passava avevo paura che potesse succedere qualcosa, qualsiasi cosa. Era come avere una bomba ad orologeria innescata nelle mutande: sapevo che sarebbe esplosa, ma non sapevo quando.
Grover ed io prendemmo posto al tavolo di Zeus, che era già apparecchiato di tutto punto, e nessuno, nell’allegra confusione della colazione, fece caso a noi.
Sporgendosi verso di me con la scusa di passarmi la marmellata, il satiro chiese:
<< Secondo te, perché pensi che hai avuto questa visione? >>
<< Non ne ho idea >> sussurrai io in risposta, << ma forse potrebbe avere qualcosa a che fare col fatto che ho reso omaggio all’altare di Ade, ieri >>.
Grover sgranò gli occhi e lasciò cadere il cucchiaio a terra, che emise un tintinnio molto teatrale.
<< Cosa? >> gracchiò. << Che cosa hai fatto? >>
Io mi sorpresi di quella reazione; il giorno prima, quando ero andato al simulacro di Ade, non mi era sembrata un’idea poi tanto malvagia e non credevo che avesse potuto avere alcuna ripercussione.
<< Perché l’hai fatto? >> insisté Grover.
<< Pensavo che, se avesse capito che io non sono come mio padre, avrebbe lasciato andare mia madre >> rivelai, << credevo che così facendo sarebbe stato più semplice trovare un modo civile per risolvere la situazione … >> balbettai, sentendomi improvvisamente un idiota.
Grover si passò una mano sul volto, frustrato e nervoso, e domandò: << E cos’hai fatto, esattamente, per “rendergli omaggio” >> fece le virgolette con le dita in modo parecchio acido.
<< Ho tolto qualche erbaccia dalla sua statua >> risposi io scrollando le spalle, << cioè, non mi sembra poi … >> stavo per dire che non mi sembrava poi così grave, ma Grover mi interruppe con un urlo furioso che fece zittire tutta la mensa.
<< TU HAI FATTO COSA? >> ululò, balzando in piedi con tanta veemenza che per poco non ribaltò la sedia.
Non volava una mosca: gli occhi di tutti erano puntati su di noi.
Una palla di sterpi rotolò in lontananza, stile film western.
Grover, ansimante, si guardò attorno, rendendosi conto di avere usato un tono di voce davvero troppo alto e così, fingendosi piacevolmente sorpreso, disse: << Wow! Davvero hai comprato quel videogioco fichissimo, Steve? >> ridacchiò nervosamente. << Non vedo l’ora di provarlo! >> e si risedette, sprofondando con la faccia nella sua colazione.
Ci fu ancora un istante di silenzio, in cui tutti probabilmente pensarono che Grover fosse impazzito, dopodiché i semidei riattaccarono a parlare come se nulla fosse.
Quando fu sicuro che nessuno ci stesse più ascoltando, Grover abbandonò il suo pane integrale con burro di arachidi e sibilò concitato, sputacchiando saliva dappertutto:
<< Steve, non hai idea di quello che hai fatto! Quelle piante servivano per bloccare l’influenza di Ade all’interno del Campo! Come diavolo hai fatto a distruggerle? Provenivano direttamente dal Giardino delle Esperidi! >>
Io mi sentii mancare e, se non avessi avuto la sedia sotto il sedere, probabilmente sarei crollato a terra come un sacco di patate.
<< Col mio frammento di Folgore Olimpica >> gemetti.
Grover si diede una manata sulla fronte.
<< Ascolta >> mi disse, << ora io recupero qualche satiro discreto ed un paio di ninfe, d’accordo? Tu va’ in giro e procurati qualche libro sulle piante magiche, ci incontriamo all’altare di Ade tra un’ora! >>
Fece per alzarsi, ma io lo bloccai afferrandolo per un braccio.
<< Aspetta! >> esclamai. << Che cosa sta succedendo, Grover? Che significa che quelle piante bloccavano l’influenza di Ade? >>
<< Vuol dire che grazie a loro, Ade non poteva avere contatti con nessuno qui dentro >> spiegò lui, << che ad ogni sua influenza mortale era precluso l’accesso al Campo Mezzosangue. Ma adesso, nel caso in cui se ne rendesse conto, potrebbe perfino provare ad inviarci qualche mostro >>.
Deglutii a fatica: l’avevo combinata grossa.
<< Dici che avrei dovuto dirlo a Chirone? >> chiesi agitato.
Grover scosse il capo.
<< Oh, no >> rispose, << ti avrebbe ucciso, poi fatto a pezzettini e gettato le tue ceneri nel tartaro >> e, detto questo, zampettò via a massima velocità.
<< Ricorda, Steve! >> mi urlò, picchiettando con l’indice sull’orologio che aveva al polso. << Tra un’ora! >>
E sparì veloce nel bosco.
Io rimasi impietrito al mio tavolo: mi sentivo come se i figli di Ares avessero giocato a palla prigioniera con il mio intestino tenue. Ma perché nessuno mi aveva avvertito? Perché mio padre non mi aveva strillato nelle orecchie di non farlo?
Andiamo, lui era Zeus! Si sarebbe anche potuto degnare di darmi una piccola dritta, dopo tutto quel rituale che gli avevo fatto.
Qualcosa del tipo: << Ehi, figliolo: non pulire l’altare di tuo zio, o vi accopperà tutti! Stai in gamba, eh! >>
Mi passai una mano tra i capelli, senza avere idea di cosa fare: dove avrei potuto procurarmi un libro sulle piante magiche?
Poi, all’improvviso, mi venne in mente un’idea.
Lanciai uno sguardo verso il tavolo dei figli di Atena; scorsi molti occhi grigi, ma non quelli di Annabeth.
Lei non c’era: probabilmente si era svegliata presto, aveva già fatto colazione e adesso era da qualche parte ad allenarsi in vista della prossima Caccia.
Mi alzai dal mio tavolo ed abbandonai il padiglione della mensa, ignorando Clarisse che gridò qualche insulto al mio passaggio, diretto all’arena di tiro con l’arco.
Annabeth non era nemmeno lì e, per cercarla, rischiai pure di beccarmi una freccia in mezzo agli occhi.
Allora corsi a perdifiato, fino all’arena di lancio del giavellotto, poi a quella di salto con l’asta ed infine a quella di scherma, che era la più distante.
Lei era lì e combatteva come un’amazzone, i lunghi capelli scuri mossi dal vento, tenendo testa a quattro avversari contemporaneamente.
A guardarla così, mi sembrava impossibile che io, proprio io, fossi riuscito a batterla. Non poteva essere successo sul serio.
Mi riscossi dall’annebbiamento in cui il mio cervello precipitava ogni volta che posavo gli occhi su Annabeth, e corsi giù verso il centro dell’arena, saltellando da un sedile di pietra all’altro in un modo che avrebbe fatto invidia a Grover.
<< Annabeth! >> la chiamai a gran voce. << ANNABETH! >>
Lei si distrasse per un attimo e si voltò verso di me con aria sorpresa, così uno dei suoi avversari tentò di sfruttare quel momento per attaccarla a tradimento; ma Annabeth schivò la sua stoccata senza il minimo sforzo, lo disarmò con una complicata torsione del polso e lo mandò a gambe all’aria con un calcio nel petto. Quello finì addosso agli altri avversari e fece strike, facendoli schiantare tutti a terra.
Annabeth piantò con rabbia la spada a terra, come un obelisco, e si voltò per fronteggiarmi, furibonda.
<< Non te l’ha mai detto nessuno di non urlare il nome di qualcuno mentre sta duellando con la spada? >> mi chiese bruscamente, gli occhi grigi che mandavano bagliori bellicosi, piantandomi un indice nel petto.
Io arretrai di un passo e alzai le mani in segno di resa.
<< No, in effetti no >> risposi. << Senti, Annabeth: lo so che sono una frana e non ne faccio mai una giusta, ma è successa una cosa gravissima e tu sei l’unica persona che può aiutarmi! >> dissi concitato.
La rabbia parve defluire dal volto di Annabeth, che mi fissò con la fronte aggrottata, all’erta.
<< Che cosa vuoi dire? >> domandò sospettosa.
Io la presi per un braccio (lo ammetto, sfruttai quella situazione a mio vantaggio … ma ehi! Quante altre volte nella vita mi sarebbe potuto capitare di sfiorarla senza rischiare di finire con una mano mozzata?) e la trascinai lontano dall’arena; mentre camminavamo a passo svelto le spiegai delle piante magiche che avevo distrutto, convinto di ingraziarmi Ade, ma non le dissi nulla riguardo al sogno.
<< CHE COSA HAI FATTO?! >> mi urlò in un orecchio, divincolandosi dalla mia presa. Aveva avuto esattamente la stessa reazione di Grover ed io mi sentii un verme.
<< Ehi, lo so che è stato stupido, ma … >> iniziai.
<< E’ stato stupido? >> ripeté lei mettendosi le mani sui fianchi, sarcastica. << Sai cosa significa “eufemismo”, Johnson? >> mi chiese. Io annuii, sentendomi sperduto come un bimbetto delle elementari che viene sgridato dalla sua maestra preferita. << Be’ >> proruppe Annabeth, << questo è un eufemismo! Ciò che hai fatto non è stato solo stupido, è stato semplicemente DA IDIOTI SENZA CERVELLO! Ti rendi conto che potresti farci ammazzare tutti quanti? Che cosa ti è passato per la testa, perché non ci hai parlato di questa tua brillante idea, avremmo potuto … >>
<< Be’, sai com’è >> la interruppi io, << ve la siete data tutti quanti a gambe senza degnarvi nemmeno di spiegarmi il motivo! >> esclamai arrabbiato. << Tu sei stata la prima! Se fossi rimasta, avresti potuto … >> stavolta fu lei ad interrompermi.
<< Non dirmi cosa avrei o non avrei dovuto fare! >> gridò rabbiosamente, rossa in volto. << Tu non mi conosci, hai capito, Steve? Non sai niente di me! Niente! >> scandì bene le lettere come se avesse a che fare con un povero mentecatto.
Be’, forse lo ero. Anzi, no: lo ero di sicuro.
Restammo lì, ansanti ed arrabbiati, uno di fronte all’altra per un tempo indefinito; con i pugni serrati e gli sguardi caparbiamente puntati in due direzioni diverse.
Fui io a parlare per primo.
<< Mi dispiace >> dissi in fretta, ma sinceramente.
Annabeth alzò lo sguardo ed i nostri occhi s’incontrarono.
<< Sono stato un deficiente >> mugugnai.
Lei annuì.
<< Lo penso anch’io >> disse, << ma non c’è tempo da perdere. Hai fatto bene a chiedere a me: ho un mucchio di libri utili nel mio alloggio >> ed iniziò a farmi strada verso la parte del campo dove si trovavano gli alloggi dei figli di Atena. << Seguimi! >> ordinò.
Dopo aver attraversato il Campo di corsa, giungemmo in vista di una serie di casette proprio nei pressi del poligono di lancio del giavellotto; la casa più grande, che si trovava al centro di tutte le altre, era quella di Annabeth, che era la capogruppo.
Aprì la porta ed entrammo dentro; mi ci volle qualche secondo per abituarmi all’oscurità, ma una volta che i miei occhi furono in grado di vedere, mi parve di essere finito dentro una biblioteca.
Le pareti erano letteralmente tappezzate di scaffali carichi di libri di ogni foggia e dimensione, alcuni grandi e dall’aria polverosa, altri più simili a manuali moderni, tipo “Come dimagrire in dieci mosse” o, “Diventa un leader nato e afferma la tua personalità”. Pensavo che, a causa della mia dislessia, non sarei stato capace di decifrare i titoli che spiccavano sui dorsi dei volumi e invece le lettere non si mossero quando vi posai sopra lo sguardo, perché erano tutte in greco antico o latino.
Rimasi sbalordito, mentre Annabeth si muoveva senza esitazione tra tutti quei tomi.
<< Piante magiche, hai detto? >> mi chiese. Era una domanda retorica, perché un istante dopo si arrampicò su uno degli scaffali e prese un grosso libro di giardinaggio Olimpico scritto in latino.
<< Andiamo >> ordinò, marciando impettita fuori dal suo alloggio col libro tra le braccia.
Io mi affrettai a seguirla, colpito.
Attraversammo la foresta di buona lena, affrettandoci verso la collina Nord, e per tutto il tragitto il mio stomaco non fece che brontolare, sia per l’ansia, ma anche per il fatto di trovarmi da solo con Annabeth.
Lo ammetto: non era affatto un buon momento per essere stucchevoli e lei non era di certo una ragazza sdolcinata, eppure non potevo fare a meno di lanciarle qualche sguardo, di tanto in tanto, mentre procedevamo fianco a fianco nella fitta vegetazione.
Giungemmo alla collina Nord mezz’ora dopo; normalmente sarei stato stanco morto, ma ero talmente spaventato che, nonostante avessi i piedi che pulsavano furiosamente, non me ne diedi pena e mi scapicollai insieme ad Annabeth verso l’altare di Ade, aggirando alla svelta quello di mio padre.
Lì, ad attenderci, trovai Grover, insieme ad un gruppetto di satiri che non conoscevo, ad un paio di ninfe dall’aria nervosa  … e a Silfide.
<< Che ci fa lei qui? >> esclamammo all’unisono; io rivolto a Silfide, lui rivolto ad Annabeth.
<< Annabeth ha un libro sul giardinaggio Olimpico >> spiegai io.
<< Silfide ha dei semi di edera del Giardino delle Esperidi >> disse lui.
<< … e tu l’hai combinata grossa! >> esclamò una delle ninfe, accennando a me con aria severa. << Prima ci sbrighiamo, meglio sarà! >>
<< D’accordo >> disse Annabeth con decisione. << Silfide >> disse poi, << fammi vedere quei tuoi semi, devo confrontarli con le immagini del mio libro >>.
Silfide si frugò nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori un sacchettino di tela dall’aria molto rubata; non mi veniva in mente nessun luogo, al Campo, dove poter trovare i semi di una pianta del genere … chissà dove li aveva sgraffignati?
<< Eccoli qui, capo >> fece Silfide, porgendole il sacchetto.
Annabeth lo apri e ne scrutò l’interno con aria critica; dopodiché iniziò a sfogliare velocemente le pagine del suo tomo in cerca di qualcosa.
<< Trovata >> annunciò alla fine, indicandoci il disegno di una pianta tutta attorcigliata attorno ad uno scrigno. << L’edera del Giardino delle Esperidi viene usata per bloccare sorgenti magiche ed incantesimi >> lesse svelta. << E questi sono i suoi semi >> picchiettò con la punta dell’indice su un’altra illustrazione, che raffigurava un piccolo bulbo di colore rosso acceso.
Silfide estrasse uno dei semi dal suo sacchetto e lo mise in controluce come per appurarne l’autenticità: era scarlatto come il sangue e pulsava leggermente, come un minuscolo cuore, in un modo che mi diede la nausea.
<< Pare proprio Edera Olimpica >> disse Silfide alla fine, porgendo ad uno dei satiri il piccolo seme. << Che cosa dice quel tuo librone? >> chiese ad Annabeth.
<< Qui dice che basta piantare i bulbi ai piedi di ciò che si desidera l’Edera ricopra ed ordinarle di crescere >> lesse lei, << ma solo uno spiritello della natura può farlo >>.
Grover indicò con il pollice le due ninfe.
<< Loro sono qui apposta >> dichiarò.
<< Svelti, allora, prima che ci veda qualcuno >> dissi io.
Ci mettemmo in ginocchio attorno al simulacro di Ade, tutti molto tesi, ed iniziammo a scavare a mani nude nella terra in modo da ottenere delle piccole buche in cui piantare i semi dell’Edera Olimpica.
Nonostante lavorare sentendosi lo sguardo mortifero della statua di Ade piantato sulla nuca non fosse esattamente rilassante, alla fine posizionammo i bulbi laddove avevamo scavato, poi riempimmo di nuovo le buche con la terra e Annabeth indicò le parole da recitare alle ninfe, che presero il libro ed iniziarono a cantare una sorta di nenia lugubre che a me parve più adatta per piangere la morte di un criceto, che non per far crescere delle piante.
Eppure, al suono della voce delle due creature, sottili tralci di Edera spuntarono dal suolo e si andarono ad attorcigliare attorno alla statua di Ade come serpentelli.
Più le ninfe cantavano, più i rami della pianta divennero spessi e famelici, ricoprendo in un batter d’occhio tutto il simulacro.
Quando il rito si concluse, l’altare di Ade aveva pressappoco lo stesso aspetto di prima che io mi dessi al giardinaggio e tutti emettemmo un sospiro di sollievo generale.
<< Be’ >> disse Grover, << se siamo fortunati nessuno se ne accorgerà >>.
<< Già >> assicurò uno dei suoi amici satiri, << ma, Steve: vedi di non fare mai più una cosa del genere, d’accordo? O andremo di filato a dirlo a Chirone >>.
<< D’accordo, ragazzi >> assicurai io, avvampando, << siete stati molto gentili ad aiutarci. Vi ringrazio >>.
Ma i satiri e le ninfe ci congedarono schioccando la lingua ed emettendo mugugni di disapprovazione, sparendo nel fitto della foresta senza neppure salutare.
Io mi massaggiai il collo, terribilmente a disagio.
<< Siamo sicuri che non andranno a spifferare tutto in giro? >> chiese Silfide a Grover.
<< Non preoccuparti >> le assicurò lui, crollando a sedere per terra, esausto. << Mi fido di loro, non diranno niente a nessuno >>.
A quelle parole anche io, Silfide ed Annabeth, stanchi ma sollevati, ci mettemmo seduti accanto a Grover con le spalle appoggiate al simulacro di Ade (ormai di nuovo imboscato a dovere).
<< Be’ >> dissi io, << almeno niente mostri, no? >>
<< Steve >> mi minacciò Silfide, lanciandomi uno sguardo omicida, << sta’ zitto, o giuro che ti uso per affilare la spada >>.
Se solo avessi saputo quanto mi sbagliavo ...  

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Capitolo 4
*** Perdo una scommessa ***


 

Dopo avere avuto quella strana visione su Ade ed Eris, le mie emozioni al riguardo avevano incominciato ad essere contrastanti: se da una parte avrei voluto vedere che cosa quei due stavano pianificando (e ringraziavo la Pay Tv Olimpica che avevo in testa di avermi fatto assistere ai loro malvagi piani di conquista in diretta satellitare), dall’altra avevo paura di andare a dormire e temevo sempre che potesse succedere qualcosa di brutto.
Sapevo che la visione era stata causata dal fatto che avevo estirpato le erbacce dall’altare di quello psicopatico di mio zio, eppure nel mio petto si era annidata una sgradevole sensazione di precarietà che  proprio non voleva andar via. Era come avere tutti i sensi costantemente all’erta, temendo che un nemico sconosciuto e invisibile potesse sbucare fuori dal nulla da un momento all’altro e fare chissà cosa.
Inoltre, le parole che Chirone aveva pronunciato prima di andare via, continuavano a rimbombarmi nelle orecchie come un’eco fastidiosa: ai ragazzi che vi faranno alcun genere di domanda … voi non dite nulla. Non rispondete. Scappate via a gambe levate, piuttosto di lasciarvi sfuggire qualsiasi cosa riguardo a questa faccenda.
Come sempre, quel centauro liquidava tutto troppo alla svelta.
Mantenere il segreto con Annabeth e Silfide fu un vero incubo, perché le ragazze avevano il brutto vizio di lanciarsi in lunghe congetture su che cosa stesse davvero facendo Chirone sull’Olimpo (visto che, più i giorni passavano, più quella scusa diventava flebile) e chiedevano a noi opinioni sull’argomento, suscitando in me e Grover i bisogni più disparati: tra i quali l’impellente necessità di allenarsi nel tiro con l’arco o di scappare al bagno.
<< Secondo voi che cosa starà tramando davvero, quel ronzino? >> chiese per l’ennesima volta Silfide, un lunedì, all’ora di pranzo.
Io, Grover, lei ed Annabeth avevamo preso l’abitudine di sederci tutti quanti al tavolo di Zeus (<< Per non farti stare da solo >> mi aveva detto bruscamente quest’ultima la prima volta che aveva deciso di prendere posto accanto a me, facendomi strozzare con le mie patatine fritte) e, a quelle parole, a Grover andò di traverso la lattina di Diet Coke che stava sgranocchiando.
Io fui costretto a dargli una poderosa manata fra le scapole per non farcelo rimanere secco, altrimenti penso che, se fosse schiattato, qualcuno avrebbe notato che aveva qualcosa da nascondere.
<< Eh? >> riuscì a dire dopo che ebbe ripreso fiato. << Ma la vuoi smettere con questa storia? Insomma, affari suoi, no? >>
Gli assestai un calcio ad una zampa da sotto al tavolo, per fargli capire di abbassare i toni.
Silfide si accigliò.
<< Be’, scusa tanto >> mormorò, << capra >> aggiunse in un sibilo ben udibile.
Grover le fece la linguaccia.
<< Silfide ha ragione >> disse Annabeth servendosi un’altra porzione di roastbeef. << Ormai è da giorni che Chirone manca. Sono convinta che ci sia sotto qualcosa >>.
<< Già, ma cosa? >> chiese Silfide, addentando famelicamente una cotoletta. << Tu che ne dici, Steve? >>
<< Mhh? >> mugugnai io, facendo finta di non aver prestato attenzione al discorso. << Come, scusa? >>
Annabeth e Silfide si scambiarono uno sguardo da femmine (uno di quelli che, anche se non capisci cosa vuol dire, riesce comunque a farti venire i brividi), poi la figlia di Hermes sbuffò irritata.
<< Ma si può sapere che vi prende a voi due? >> sbottò, brandendo minacciosamente la forchetta all’indirizzo mio e di Grover. << Ogni volta che nominiamo Chirone, voi fate gli scemi! >>
Io e il mio amico satiro ci scambiammo uno sguardo da maschi (uno di quelli che vorresti fosse furtivo e misterioso, carico di significati reconditi … ma che ti riesce solo tipo la faccia di un pesce lesso) e poi iniziammo a farfugliare frasi sconclusionate.
<< Cioè, noi … >>
<< Io, non … >>
<< Voglio dire, non è che … >>
<< Be’, ecco … >>
Silfide alzò un sopracciglio con aria di disgustata sufficienza; Annabeth increspò le labbra in maniera alquanto aggressiva.
<< Dobbiamo andare ad allenarci a scherma! >> farfugliò Grover in fretta e furia, alzandosi velocemente.
<< Eh, già! Dobbiamo proprio! >> rincarai io, impacciato, imitandolo immediatamente.
E ci precipitammo lontano dal padiglione della mensa, lui al galoppo, io al trotto.
Quando raggiungemmo l’Armeria, Grover emise un acuto fischio di sollievo e si asciugò il sudore dalla fronte.
<< Wow >> ansimò, << c’è mancato poco >>.
<< E’ vero >> dissi io, combattendo contro il fiatone, << ma dobbiamo smetterla di sembrare così sospetti, o capiranno che abbiamo qualcosa da nascondere! >>
Grover mi fissò ed inarcò le sopracciglia. << Tzè! >> esclamò amaramente. << Pensi davvero che non l’abbiano capito? >> mi chiese. << Quelle sapevano che avevamo qualcosa da nascondere, ancora prima che ce ne accorgessimo noi, fidati! >> si picchiettò l’indice su una tempia con gli occhi sgranati ed un’aria vagamente folle. << Loro sanno tutto >>.
Rabbrividii.
Poi, dato che avevo regalato il mio gladio a Zeus, decisi che era arrivato il momento di trovarmi un’altra spada.
Grover mi aiutò a cercarne una adatta e, alla fine, scelse per me un’arma lunga e arcuata, con l’impugnatura fatta d’osso.
<< E’ una Makhaira, una spada greca ad un solo taglio ricurvo >> spiegò porgendomela. << E’ fatta apposta per i mancini, dovrebbe piacerti >> mi strizzò l’occhio.
Io me la passai velocemente da una mano all’altra, poi la feci roteare svelto davanti a me; la lama ad artiglio sferzò l’aria con un sibilo serpentino.
<< Forte >> conclusi soddisfatto, appendendomela alla cintola. Poi mi rivolsi a Grover: << Che ne dici se ci alleniamo per davvero? >>
Lui annuì allegramente.
<< Ok >> rispose, << è da secoli che non mi sgranchisco! >>
Ed insieme ci avviammo fuori dall’Armeria, giù nell’arena.
Incredibile, ma vero: Annabeth e Silfide stavano lì ad aspettarci con aria severa, impugnando le loro spade.
<< Se vi battiamo, ci dite cosa sta succedendo >> esclamò Silfide non appena fummo abbastanza vicini, << quanto ci scommetti che ti faccio a pezzi, Capretta? >> fece l’occhiolino a Grover e lui si lasciò sfuggire un belato poco dignitoso.
<< No >> dissi io, deciso.
<< Questo vuol dire che sai cosa sta succedendo, Steve >> constatò Annabeth freddamente.
Io sospirai, giocherellando con l’elsa nodosa della mia nuova Makhaira: avrei tanto voluto dire loro tutto quanto. Non ero mai stato uno molto incline ai segreti, se capite cosa intendo. Ma, ovviamente, essendo il figlio del mitologico dio Zeus, erano qualcosa con cui avevo dovuto per forza imparare a convivere.
Ero combattuto. Da una parte pensavo: perché non dovrei rivelare una cosa del genere alle mie migliori amiche? Cioè: alla mia migliore amica e alla ragazza per cui avevo una cotta tremenda.
Insomma, che cosa poteva esserci di male?
Poi, però, l’altra parte di me (quella che parlava come Chirone) mi diceva: è per il loro bene. E’ una cosa troppo grande per rivelarla, neanche tu avresti dovuto saperla. Se Annabeth e Silfide ne entrassero a conoscenza sarebbero in pericolo almeno quanto te.
E anche la mia parte da centauro responsabile aveva ragione, perciò non sapevo proprio cosa fare.
Scambiai un’occhiata con Grover, che sembrava indeciso sul da farsi almeno quanto me.
<< Allora, ci state? >> ripeté Silfide, giostrandosi abilmente con la sua spada e facendosela ruotare sopra la testa e dietro la schiena, passandosela da una mano all’altra. << O avete troppa paura? >>
Mentre noi stavamo lì impalati in mezzo all’arena, sugli spalti si era incominciata a raccogliere gente: al Campo ogni occasione era buona per malmenarsi e non c’era niente di meglio che assistere ad un bel duello sanguinoso, per rilassarsi dopo pranzo e passare un po’ il tempo.
Io non risposi, ma poggiai una mano sull’elsa della mia spada, pronto a sfoderarla.
<< Il figlio di Zeus >> urlò Annabeth rivolta ai ragazzi sugli spalti, << si rifiuta di duellare! >>
Dalla folla si levarono cori di parolacce e di “buuuuuuh”.
Annabeth si girò verso di me, e chiese a bassa voce: << Vuoi fare la figura del coniglio? >>
So che è da matti, ma … era terribilmente carina persino quando mi metteva con le spalle al muro con qualche sordido trucco da stratega figlia d’Atena.
Mi lasciai sfuggire un sorriso.
<< Mai >> risposi.
Lei parve soddisfatta e ricambiò in un modo che mi fece aggrovigliare lo stomaco, quasi avessi ingoiato una biscia.
<< Bene >> disse, sempre tenendo un tono di voce abbastanza basso, perché solo noi potessimo udirla, << se vi battiamo, voi ci direte che cos’è andato a fare Chirone in realtà e soprattutto perché diavolo voi lo sapete >> ci fulminò con uno gelido sguardo grigio che avrebbe fatto arrossire un iceberg.
<< Dovrete spiattellare tutto, insomma >> rincarò Silfide gongolando, << perciò preparatevi a cantare come gallinelle, perché vi spenneremo >>.
<< Non ne sarei così sicura, se fossi in te, Silf >> ribatté Grover, improvvisamente molto agguerrito, sfoderando la sua spada con un rumore metallico. << Ok >> sentenziò poi, << io contro PiediPiumati Black; tu, Steve, contro Annabeth. E che vincano i migliori >>.
<< Lo faremo >> sibilò Silfide, ammiccando maliziosamente, e puntò la spada dritta davanti a sé, verso il satiro.
Io e Annabeth ci scambiammo uno sguardo a metà tra il divertito e il bellicoso, dopodiché anche noi ci puntammo le armi addosso.
Un brivido di eccitazione pre-duello mi corse giù lungo la spina dorsale; la Folgore, che tenevo gelosamente custodita nella tasca anteriore dei miei jeans, emise un suono gorgogliante simile ad un ruggito d’avvertimento.
E poi partimmo.
Fu Annabeth a colpire per prima, avventandosi su di me facendo mulinare la spada ad un soffio dal mio naso. Io la schivai appena in tempo, balzando indietro, poi parai una sua stoccata e le nostre lame si incrociarono sotto la luce del sole, producendo un riflesso abbagliante.
Accanto a noi, Silfide stava bersagliando di colpi Grover, attaccandolo con una serie di stoccate e affondi dai lati; era talmente svelta che Grover doveva indietreggiare per riuscire a pararli tutti, oppure contorcersi come uno che balla la danza del ventre, mentre lei rimaneva dritta al suo posto, roteando la spada alla velocità della luce.
Annabeth fece una mezza piroetta su sé stessa, facendo mulinare i lunghi capelli castani, e mi attaccò lateralmente colpendomi ad un braccio.
Grugnendo dal dolore, mi spostai appena in tempo per schivare un altro poderoso colpo, poi tentai un affondo che lei riuscì a deviare, ma che andò comunque a segno, ferendola lievemente ad una spalla.
<< Sei migliorato dall’ultima volta >> mi urlò Annabeth, mentre fraseggiavamo con le lame a ritmo serrato, producendo un continuo clangore metallico.
<< Tu invece sei ancora troppo brava! >> esclamai, parando un suo colpo.
Il piatto della sua spada cozzò contro la parte ricurva della mia Makhaira ed io ne approfittai per cercare di disarmarla, facendo scorrere il filo della lama della mia arma fino all’elsa della sua (generando lo stesso insopportabile rumore delle unghie sulla lavagna) e torcendo repentinamente il polso.
Annabeth non mollò la sua spada, ma per non farsela sfuggire di mano fu costretta a ruotare su sé stessa e mi finì tra le braccia, la sua schiena contro il mio petto. Fui investito dal profumo dei suoi capelli e, completamente rincitrullito, persi secondi preziosi: esattamente gli istanti che le bastarono per assestarmi una sonora gomitata alla bocca dello stomaco e farmi barcollare all’indietro, il respiro mozzato.
Mi puntò di nuovo la spada alla gola, più agguerrita che mai.
Io la deviai con un colpo della mia arma e riprendemmo a duellare eseguendo una serie di parate e affondi a velocità vertiginosa: pareva impossibile persino a me che riuscissi a sostenere quel ritmo!
Ma, ogni volta che combattevo, era come se il mio corpo venisse invaso da una strana energia, una forza che prescindeva da me e che mi rendeva più abile.
Era mio padre.
Nel frattempo, Grover e Siflide si erano lanciati in una specie di balletto per schivare i rispettivi colpi e lei stava canticchiando come se niente fosse: “Telephone” di Lady Gaga. 
<< Sorry, I cannot hear you, I’m kinda busy. K-kinda busy, K-kinda busy. Sorry, I cannot hear you, I’m kinda busy>>.
<< Silfide, ma sei scema? >> le urlò Grover allargando le braccia sconcertato e smettendo di duellare per un attimo.
Lei scoppiò a ridere e gli assestò un calcio in pieno petto che lo mandò zampe all’aria; Grover cercò di rialzarsi, ma Silfide lo schiacciò a terra piazzandogli un piede sul collo. Il satiro emise un belato strozzato e menò un fendente alla cieca, ma Silfide lo deviò con un poderoso colpo di spada e lo disarmò, facendo volare lontana la sua arma.
Grover alzò le mani in segno di resa e lei si lanciò in un moonwalk sfrenato, suscitando il ruggito entusiasta della folla sugli spalti, e riprese a cantare:
<< Stop duellin’, stop duellin’, I don’t wanna hurt you anymore! I left my sword and my heart on the dance floor. Eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh… Stop duelin’ with me! Eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh, eh… I’m busy! >>
Era uno spettacolo talmente sorprendente che anche io mi distrassi dal mio duello con Annabeth, col risultato che, senza neppure accorgermene, mi ritrovai steso nella polvere come Grover, senza spada e con la lama di Annabeth puntata ad un millimetro dalla fronte.
Fissai gli occhi grigi della figlia di Atena, ansimante e confuso. Mi aveva stracciato!
<< Non vale! >> urlò Grover, rimettendosi sugli zoccoli. << Lei mi ha distratto! >> additò Silfide con un indice accusatore.
Quella, per tutta risposta, fece schioccare le dita ad un soffio dal suo volto. << Perdente! >> sentenziò in modo molto teatrale; poi si voltò di scatto per ricevere gli applausi degli spettatori sulle gradinate e si premurò di sbattere la lunga coda di cavallo in faccia a Grover, che sputacchiò irritato.
Annabeth, invece, mi porse la mano e mi aiutò ad alzarmi.
<< Tutto ok? >> mi chiese divertita.
<< Adesso siamo due a uno >> le feci notare io un po’ impacciato.
<< Già >> acconsentì lei scrollando le spalle. << Ti rifarai la prossima volta, figlio di Zeus. Forse >> aggiunse, ammiccando lievemente.
Ridacchiai, dandole una lieve spinta.
Dopo che la folla ebbe finito di acclamare le vincitrici (e dopo che qualcuno ebbe urlato a squarciagola a Silfide di andare a fare i provini per America’s got talent), io e Grover fummo costretti a tenere fede alla nostra promessa; così, con la coda fra le gambe, (io metaforicamente, lui proprio nel vero senso della parola) ci dirigemmo all’alloggio di Silfide, che era il più vicino.
Le capanne dei figli di Hermes si trovavano al limitare del bosco; la più grande, al centro, doveva essere per forza quella di Luke, che era il capogruppo, mentre quella di Silfide era un po’ più isolata rispetto alle altre, in una posizione strategicamente discreta.
<< Tecnicamente io avrei dovuto dividere l’alloggio con qualcun altro >> ci spiegò mentre faceva strada, << ma Luke mi ha concesso un po’ più di privacy >> ammiccò furbescamente, << sapete, per la mia attività >>.
<< Molto carino da parte sua >> constatò Grover acidamente, senza nemmeno preoccuparsi di camuffare il suo tono sarcastico.
Lì per lì mi chiesi cosa Silfide intendesse con “attività”. Poi, quando aprì la porta della sua capanna e ci fece accomodare dentro, capii ciò che voleva dire.
Avete presente una sala giochi? Ecco, aggiungeteci un negozio di elettronica, uno di cd, un’armeria, qualche cassa di Coca-Cola accatastata sul pavimento ed otterrete l’alloggio di Silfide.
Rimasi di stucco, ma ovviamente fui l’unico, perché Grover ed Annabeth sapevano bene che Silfide gestisse il più importante nodo di smercio di tutto il Campo.
Mi guardai attorno affascinato, osservando il flipper anni Cinquanta che stava in un angolo, i dischi in vinile meticolosamente impilati sugli scaffali, i videogiochi sparatutto che avevo sempre sognato di possedere che sembravano invitarmi a giocare con loro dalla loro postazione nella vetrinetta da negozio …
<< Wow! >> commentai alla fine. << Questo posto è … fico >> non c’era altro modo per descriverlo.
Silfide scrollò le spalle con fare compiaciuto e accese un impianto HI FI di ultima generazione con un telecomando: le note di “Somebody to love” dei Queen riempirono la stanza.
<< Ma dove l’hai presa tutta questa roba? >> chiesi, prendendo in mano una barretta dietetica con delle scritte in Greco antico: Snack Olimpico, c’era stampato sopra, un morso e avrai le ali ai piedi.
Poi mi resi conto che la risposta era piuttosto ovvia.
<< In giro … >> rispose Silfide con un gesto vago della mano, stravaccandosi su una poltroncina gonfiabile. << Sai, Hermes non è solo il dio dei viaggi. E’ anche il protettore delle spie … e dei ladri >>. Poi prese da un tavolinetto lì accanto delle patatine e me le porse come se nulla fosse: << Vuoi? >>
<< Mi stai dicendo >>iniziai io spalancando gli occhi (mentre Grover si serviva a piene mani al posto mio), << che le hai rubate? Ogni cosa che c’è qua dentro >> allusi con i pollici a tutto ciò che ci circondava, << l’hai rubata? >>
Ero sconvolto.
Silfide sorrise sorniona e si strinse nelle spalle. << Rubate >> ripeté sprezzante. << Rubare è una parola grossa, non ti pare? Io direi piuttosto … prese in prestito all’insaputa del proprietario >>.
Grover, che stava giocando a lanciare in aria le patatine e a mangiarle al volo, scoppiò a ridere; Annabeth alzò gli occhi al cielo e a me mancò poco che mi cascassero le braccia.
<< Insomma, dai! >> sbottò Silfide notando la mia faccia. << Una ragazza dovrà pur arrabattarsi un po’, per campare! Io sfrutto solo le mie doti naturali >>.
<< … e con questo vuole dire che si diverte a derubare chiunque sia abbastanza sprovveduto da starle troppo vicino >> disse Annabeth con aria vagamente severa.
Silfide non trovò nulla da ribattere su quell’affermazione, invece mi indicò una sedia a forma di uovo e fece segno cha potevo accomodarmi.
<< Allora >> annunciò quando mi fui seduto, << dato che avete perso la scommessa … Grover, piantala di lanciare in giro quelle patatine o giuro che uso le tue chiappe come straccio e ti faccio lustrare il pavimento da cima a fondo! >> Grover smise immediatamente di giocare con le patatine e crollò a sedere sul divanetto accanto ad Annabeth. << Molto bene >> proseguì Silfide, << come stavo dicendo, dal momento che avete perso la scommessa, adesso dovete dirci tutto ciò che sapete sul segreto di Chirone >>.
<< E non cercate di andare al gabinetto, stavolta! >> ci ammonì Annabeth. << Sputate il rospo! >>
Io e Grover ci scambiammo uno sguardo rassegnato, poi io presi a raccontare. Parlai a lungo, spiegando alle ragazze della mia visione, del terribile piano di Ade ed Eris, di come Chirone fosse partito alla volta dell’Olimpo per cercare di risolvere la situazione con Zeus in persona …
Alla fine del mio monologo, ci fu un attimo di silenzio carico di tensione.
Poi Silfide esclamò: << E perché cavolo non ce l’avete detto subito? Noi siamo amici! Se non possiamo fidarci l’uno dell’altro, allora chi … >> ma Grover la interruppe.
<< Non è che non ve l’abbiamo detto perché non ci fidiamo di voi! >> sbottò. << E’ solo che è pericoloso, capite? Essere a conoscenza una cosa del genere ci potrebbe mettere tutti quanti in guai seri! >>
<< Più seri di restare nell’ignoranza? >> gli fece notare Annabeth freddamente.
Lui non rispose.
<< Non dovete dirlo a nessuno, comunque, sono stato chiaro? >> sillabai concitato.
<< Ma certo! >> rispose Silfide. << Per chi ci hai prese, scusa? >>
<< Tuo padre è il dio delle spie >> la rimbrottò Grover.
<< … ed il tuo didietro somiglia allo scovolino di un water >> ribatté lei, << ma solo perché hai le chiappe da capra, io non ti ho mai discriminato! >>
<< Piantatela >> tagliò corto Annabeth, così categorica che i due si zittirono all’istante, fissandola allibiti. Poi si rivolse a me: << Cos’hai intenzione di fare, Steve? >>
<< In che senso? >> chiesi io, confuso.
<< Non vorrai per caso restartene qui con le mani in mano, vero? >> esclamò con ovvietà. << Non dopo aver sentito che quei due vogliono distruggere l’Olimpo e i suoi abitanti! >>
<< Be’, io veramente … >> mormorai.
In effetti odiavo essere bloccato dentro al Campo, anche perché mia madre era ancora tenuta prigioniera da Ade, ma d’altro canto non ero per niente un esperto di imprese e non avevo in mente nessun piano specifico; a parte quello di fare una capatina negli inferi e di malmenare il padrone di casa, ovviamente, ma mi rendevo perfettamente conto che quello non poteva essere definito “piano”.
<< … non ci ho ancora pensato, ecco >> conclusi in fretta.
<< Io sì, invece >> disse Annabeth amaramente.
Grover e Silfide la guardarono con apprensione, come se avessero paura che potesse fare qualcosa di sconsiderato.
<< Cosa vuoi dire? >> le domandai.
La figlia di Atena emise un sospiro profondo.
<< E’ da anni che vivo in questo Campo, Steve >> spiegò, << è da anni che ci allenano e continuano a ripeterci che un giorno saremo costretti ad usare le nostre abilità per qualcosa di davvero importante. Io sono cresciuta impugnando una spada. Non è stato facile, ma non me ne lamento, perché so che è così che deve essere >> non capivo dove volesse andare a parare. << Mi sono allenata sin da quando ero poco più di una bambina, in vista del giorno in cui avrei dovuto affrontare la mia impresa. Ma l’unica impresa che avrei dovuto compiere, quella più importante di tutte, non sono riuscita a portarla a termine >> quella strana ombra tornò ad oscurarle il viso, simile ad una nuvola che passa davanti al sole in un giorno d’estate; e poi scomparve, veloce com’era venuta, lasciando il posto ad uno sguardo duro e freddo.
Silfide si morse il labbro e Grover si agitò sul divanetto con uno scalpiccio di zoccoli.
Io rimasi in silenzio, aspettando che Annabeth continuasse.
<< Non permetterò che accada di nuovo >> disse stringendo i pugni, decisa. << Voglio uscire nel mondo, Steve. Noi dobbiamo farlo, perché non possiamo permettere che i nostri genitori vengano uccisi >>.
Aveva ragione.
Io, Silfide e Grover ci scambiammo uno sguardo e fui sicuro che lo stessimo pensando tutti.
<< Cosa facciamo? >> chiese allora la figlia di Hermes. << Non credevo sarebbe mai arrivato il giorno in cui tu >> indicò Annabeth, << avresti tentato di convincere me >> si posò una mano sul petto << ad infrangere le regole >>.
La figlia di Atena alzò lo sguardo e sorrise lievemente, ma i suoi occhi dardeggiavano in un modo che mi fece venire un groppo in gola, proprio come quando ti rimane qualcosa di traverso.
<< Io dico >> iniziò lentamente << che è arrivato il momento, per noi, di fare vedere di che pasta siamo fatti >> mi lanciò uno sguardo.
<< Ci sto >> esclamai senza pensarci due volte. << Insieme salveremo l’Olimpo … >>
<< … e prenderemo a schiaffi qualche dio megalomane! >> completò Grover allegramente.
Tutti e quattro allungammo una mano davanti a noi, mettendola una sopra quella dell’altro.
Quello era il nostro patto; e, in quel momento, circondato dai migliori amici che avessi mai avuto, mi sentii davvero invincibile come un eroe, pronto a fare tutto, e mi dissi che avrei salvato mia madre, mio padre e persino l’Olimpo.
Ma, come di solito uno impara a sue spese: tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.

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Capitolo 5
*** Ho un colloquio con quel grassone di mio fratello ***


Quando Chirone aveva detto che il signor D avrebbe gestito il Campo in sua assenza, non avevo poi dato tanto peso a quell’affermazione.
Insomma, certo: “Signor D” era un nome strano perfino per qualcuno che dirigeva un campo estivo per semidei; e non era neppure tanto autoritario, dato che ricordava il soprannome di un dj, però … ehi!
Avevo appena visto Ade ed Eris sbaciucchiarsi appassionatamente dopo aver giurato di ammazzare tutti gli dei uno per uno: ero troppo sconvolto per farci caso!
Iniziai a ricredermi riguardo alla faccenda più in là, a sette giorni esatti dalla partenza di Chirone, quando il famigerato signor D decise di degnarci con la sua augusta presenza e, soprattutto, quando Grover e tutti gli altri satiri incominciarono a mostrare i primi segni di cedimento emotivo.
Quel fatidico giorno, c’era un grande via vai di zoccoli e chiappe caprine in movimento: chi si affaccendava a riparare il tetto di una capanna (che magari era sfondato dai tempi in cui Ercole frequentava il Campo e nessuno se n’era mai preoccupato), chi trasportava fiori da usare per abbellire i vari padiglioni, chi lucidava le armi, chi correva qua e là senza una meta precisa, blaterando frasi sconclusionate e tormentando i suoi amici …
Ecco, quello era Grover.
Grover sapeva essere molto noioso, quando voleva, ma io non ricordavo di averlo mai visto in quello stato: era patetico e non faceva che frignare ed emettere belati di pura disperazione mentre ci facevamo strada lungo l’affollatissima via principale del Campo.
<< Non sono pronto! Non sono pronto! >> gemette mettendosi le mani nei capelli, per poi ritirarle come se avesse preso la scossa. << Ecco, guarda! >> mi urlò con uno sguardo da pazzo, indicandosi la testa.
Io non vedevo nulla di anormale, a parte dei ricci che avrebbero avuto bisogno di una bella strigliata.
 << Ehm … hai cambiato shampoo? >> gli chiesi cauto.
Lui emise un rantolo strozzato che mi fece accapponare la pelle.
<< NO! NO! NO! >> mugolò in preda alla più nera disperazione. << Le corna! >>
<< Quali corna? >> chiesi io allibito.
<< Ecco, appunto! >> esclamò Grover alzando le braccia al cielo. << NIENTE CORNA! >>  urlò rivolto ad un cumulonembo.
<< Uhm … >> borbottai io, senza avere la più pallida idea di cosa dire per consolarlo.
Fortunatamente, puntuale come al solito, in mio soccorso giunse Silfide.
<< Perché strilli come un’arpia con le adenoidi? >> gli chiese allegramente, affiancandosi a noi.
Grover tirò sonoramente su col naso, abbattuto.
<< Oggi arriva il signor D >> spiegò con tono lugubre, << ed io non ho nemmeno uno straccio di corno >>.
Silfide mise su un sorrisetto enigmatico. << Il signor D? >> ripeté con uno strano luccichio negli occhi.
Stando al Campo, avevo imparato che quando gli occhi di un figlio di Hermes dardeggiavano in quel modo, voleva dire che aveva qualcosa in mente e, di conseguenza, che era meglio girare al largo, se non volevi finire nei pasticci.
Dal tono con cui pronunciò quel nome, capii che Silfide conosceva il misterioso signor D e che, con ogni probabilità, non si stavano esattamente simpatici.
Grover annuì, col labbro inferiore che tremolava leggermente.
<< Mhhh … vieni qui, vediamo com’è la situazione >> la ragazza gli afferrò la testa senza troppi complimenti e la scrutò con aria critica. << No, è vero >> disse alla fine. << Niente corna >>.
Grover emise un belato così lugubre che mi fece tenerezza.
Da come quel certo signor D riusciva a mandarlo in paranoia senza neppure avere ancora messo piede nel Campo, mi dissi che doveva essere un tipo davvero duro; forse era uno di quegli infervorati fan di Ares che facevano sgobbare tutto il giorno e affettavano il pane a colpi di sciabola …
Ma non mi sembrava comunque una cosa così terribile: dopotutto, neppure Chirone scherzava in fatto di allenamenti intensivi, anche se il pane, lui, lo tagliava normalmente.
<< Si può sapere chi è questo signor D? >> chiesi.
Grover fece un gesto vago con la mano, come a voler scacciare un moscerino.
<< Diglielo tu >> gorgogliò in modo pietoso rivolto a Silfide, che gli stava dando garbate pacche sulla schiena per consolarlo.
<< Il signor D è un dio >> mi spiegò la ragazza, << il dio del vino, per essere esatti: Dioniso! >> io sgranai gli occhi. << Solo che si fa chiamare signor D, perché il suo paparino, che poi sarebbe anche il tuo, l’ha messo in punizione per avere avuto una tresca con una certa mortale … sai, è una famosa, ma se ti dicessi chi è non mi crederesti … e quindi è costretto a badare al Campo ogni volta che gli è richiesto >>.
Io annuii con fare comprensivo, ma in verità continuavo a non capire.
<< Sì, be’ … il dio del vino … >> mormorai.<< E’ terribile. Scommetto che ci farà fare festini a base di alcolici tutte le sere >> scherzai, << una vera disgrazia >>.
Grover mi assestò un poderoso pugno su un braccio, piagnucolando qualcosa d’incomprensibile; poi fece nuovamente cenno a Silfide di parlare.
<< Steve, in Epica sei proprio una capra >> mi rimbrottò lei. Grover la fulminò con un’occhiataccia, dimenticandosi per un attimo di essere disperato. << Non lo sai che Dionisio è il padrone dei satiri? >> mi chiese lei, spalancando gli occhi con aria significativa. << Ogni volta che viene qui, pretende che tutti i Custodi gli facciano da lecchini … li tratta come schiavetti! Fai questo, fai quelloportami una limonata, fammi aria col ventaglio … >> lo scimmiottò.
<< … fammi un massaggio ai piedi! >> aggiunse Grover arrabbiato.
Io e Silfide emettemmo un verso disgustato.
<< Bleha! >>
<< Già >> confermò lui. << Mi sono dovuto strofinare le mani col bicarbonato Olimpico per due settimane, per far andare via del tutto quell’odore schifoso! >> si lagnò.
Silfide gli accarezzò il braccio con condiscendenza. << Coraggio, non ci pensare. Vedrai che troveremo una soluzione >> lo rassicurò.
Non avevo mai visto Silfide fare così la premurosa con qualcuno.
Le lanciai uno sguardo divertito e lei alzò un sopracciglio, minacciosa. Allora mi schiarii la voce e mi premurai di guardare da un’altra parte, facendo finta di nulla.
<< Voi non capite! >> esclamò Grover lamentoso. << Io sono l’unico satiro tra i Custodi del mio anno a non avere le corna! >> spiegò. << Ed il signor D se la prende sempre con noi Ritardatari, come ci chiama lui, facendoci fare i lavori più disparati e affibbiandoci tutte le mansioni più umilianti che uno possa fare. Mi farà sgobbare come un mulo, ma quel che è peggio è che, se le corna non mi crescono entro quest’anno, non potrò mai prendere il diploma di Custode di Primo Grado, rimarrò per sempre un’Apprendista! >> si coprì il volto con le mani.
Io e Silfide ci scambiammo uno sguardo preoccupato; poi lei prese a mordicchiarsi il labbro, pensierosa.
<< Ho un’idea >> sentenziò alla fine, scrollando energicamente la spalla di Grover per attirare la sua attenzione.
<< Cosa? >> chiese lui speranzoso.
<< Te le faremo costruire, delle corna! >> esclamò decisa, colpendosi il palmo della mano con un pugno. << Delle belle corna da satiro come si deve! >>
<< E come? >> domandò Grover a bocca aperta.
<< Conosco un figlio di Efesto, Axel Rodriguez, che mi deve un favore >> spiegò Silfide parlando in fretta. << Quello maneggia il martello come se fosse una racchetta da tennis! Gli chiediamo di fabbricarti un paio di corna realistiche e poi te le piazziamo in testa! Vedrai, non se ne accorgerà nessuno >> assicurò, afferrandolo per il gomito e trascinandolo via con sé.
<< Ma … aspetta, Silf … sei sicura che … >> balbettò Grover, ma lei continuava ad avanzare imperterrita.
Io alzai una mano in segno di saluto, ignorando le lamentele del mio amico satiro, e proseguii per la mia strada.
Nel poligono di tiro con l’arco scorsi Luke e Annabeth che si stavano allenando fianco a fianco ed il mio stomaco fece un paio di capriole. Improvvisamente, compresi alla perfezione come dovesse sentirsi Grover ogni volta che Luke spuntava fuori.
<< Ragazzi! >> urlai a squarciagola, sbracciandomi come un matto.
Loro due si voltarono a guardarmi, Luke aveva ancora l’arco teso e la freccia incoccata e senza volerlo gli partì un colpo.
La freccia fendette l’aria con un sibilo, dritta verso la mia fronte, ed io non ebbi nemmeno il tempo di avere paura.
Chiusi gli occhi istintivamente, dicendomi che mi era toccata una morte davvero idiota …
E invece non morii.
<< Oh miei dei, Steve! >> urlò Luke venendomi incontro. << Mi dispiace tantissimo, io non … >> poi si zittì di colpo.
Io mi decisi ad aprire le palpebre e vidi la punta della freccia fluttuare ad un soffio dalla punta del mio naso, così vicina che per inquadrarla dovetti incrociare gli occhi.
<< Steve! >> esclamò Annabeth trafelata, correndo verso di me. Poi anche lei vide la freccia galleggiante ballonzolarmi ad un millimetro dalla faccia e rimase a bocca aperta.
<< Ma come … cosa … >> balbettò.
Neanche io riuscivo a spiegarmelo. Allungai cauto una mano verso la freccia e sentii contro la mia pelle il soffio gentile di un vento tiepido. Accarezzai quell’aria come il manto di un animale invisibile, poi la freccia ebbe un fremito instabile e mi cadde nel palmo della mano.
<< Wow >> commentò Luke, fissandola.
Era incredibile: ero appena stato salvato da un soffio di vento.
<< Io … non capisco >> farfugliai incredulo, << era come se quella strana brezza avesse avvolto la freccia,fermandola >>.
<< Sono i tuoi poteri, Steve >> disse Annabeth emozionata. << Zeus è il signore dei cieli, ciò vuol dire che comanda anche i venti. Hai appena usato i tuoi poteri! >>
Rimasi piacevolmente sorpreso. Anche perché, se non fossi riuscito a fermare quella freccia, mi avrebbe spaccato la testa a metà come un melone.
Mi voltai verso Luke.
<< Sono terribilmente dispiaciuto >> si scusò di nuovo, sinceramente. << Non … non mi è mai successa una cosa del genere, sul serio! Se penso che stavo per … >> non riuscì a terminare la frase. << Tuo padre mi avrebbe fatto a pezzi >> rabbrividì.
<< Già >> assicurò Annabeth, mettendosi l’arco a tracolla, << fortunatamente Steve non controlla solo l’elettricità >> mi sorrise.
Io scoppiai a ridere come un idiota, brandendo la freccia a mo' di scettro.
Sicuro! Ero pure in grado di governare gli spifferi! In un lampo di gioia mi resi conto che non avrei mai più avuto bisogno dell’aria condizionata in vita mia.
<< E’ fantastico! >> esclamai, ed assestai a Luke, che era il più vicino, una poderosa pacca sul braccio.
Lui si massaggiò il punto in cui l’avevo colpito e mi lanciò uno sguardo turbato, probabilmente chiedendosi se fossi diventato matto.
<< Sei sicuro di stare bene? >> mi chiese.
<< Mai stato meglio >> risposi io allegramente, consegnandogli la freccia che avevo in mano.
In realtà ero felice, perché mi ero reso conto di essere forte: se ero riuscito a salvare me stesso, cosa avrebbe potuto impedirmi di salvare mia madre?
Durante tutto l’allenamento con Annabeth e Luke, la mia mente non fece altro che lavorare per elaborare un piano d’azione.
Non sapevo neppure dove fosse l’ingresso dell’Ade e mi rendevo perfettamente conto che portare via la mamma da lì, non sarebbe stato per niente facile, ma mi dicevo che, forse, se per allora avessi imparato ad usare almeno decentemente fulmini, venti e quant’altro, avrei potuto farcela.
E poi non ero da solo: i miei tre migliori amici si erano offerti di venire con me. Avrei potuto anche partire in quello stesso momento: restare al Campo a nascondersi come poppanti, non solo ci faceva perdere tempo prezioso, ma era anche perfettamente inutile, perché sapevo che, non appena Ade sarebbe diventato abbastanza forte, avrebbe sfondato le nostre difese con la stessa facilità con cui si frantuma un bicchiere di vetro.
Eppure c’era qualcosa che mi bloccava: Chirone aveva detto che, secondo lui, il piano di Ade era quello di propormi una specie di accordo, ecco perché aveva preso mia madre.
Che genere di accordo? Cosa c’entravo io con i suoi piani di conquista?
Quel pensiero, unito al fatto di sapere che cosa avessero in mente lui e la sua complice Eris, riusciva sempre a farmi venire la pelle d’oca.
Cosa voleva da me?
<< Steve, ma mi stai ascoltando? >> mi urlò Annabeth ad un certo punto, facendomi sobbalzare.
<< Uhm … che cosa hai detto? >> blaterai.
<< E’ arrivato! >> esclamò Annabeth indicando un punto alle sue spalle, oltre i bersagli del tiro con l’arco.
<< Chi? >> chiesi io.
<< Il signor D! >> risposero Luke ed Annabeth in coro.
<< Corri >> disse lei, dandomi una spinta mentre mi superava alla svelta, << dobbiamo andare ad accoglierlo! >>
Io mi affrettai a seguirli, ma ben presto io ed Annabeth ci ritrovammo a correre affiancati, con Luke che ci precedeva di numerose falcate, troppo veloce perché potessimo tenere il suo passo.
Al Campo c’era, se è possibile, ancora più agitazione del solito: tutti quanti avevano abbandonato le loro consuete attività e si stavano dirigendo a frotte verso l’ingresso del Campo, giù per la collina dove c’era anche l’alloggio, ora vuoto, di Chirone.
Dalla nostra postazione, saltellando sulle punte dei piedi per riuscire a scorgere qualcosa oltre alle teste di tutta quella gente, avvistammo l’automobile nera guidata da Argo l’autista risalire lungo la strada che portava al Campo.
Luke sgusciò abilmente tra la folla e ci fece segno di seguirlo ed io e Annabeth non ce lo facemmo ripetere due volte.
Alla fine giungemmo proprio al margine più esterno del Campo, ad un passo dall’Arco con le scritte greche, quello davanti al quale avevo affrontato il minotauro la sera del mio arrivo lì.
I capigruppo, compresi Annabeth e Luke, coordinarono la folla, gridando ordini e istruzioni a destra e a sinistra, e facendo disporre tutti in fila lungo i due lati del sentiero.
<< State pronti con l’applauso non appena scenderà dalla macchina! >> si premurò di ripetere Luke, rivolgendosi alla folla. << Voglio sentirvi strillare come ragazzine isteriche ad un concerto dei Jonas Brothers! >>
A quelle parole, la maggior parte della componente femminile del Campo, ebbe un attacco di risatine davvero insulso.
Ridacchiai scuotendo il capo, mentre mi sistemavo diligentemente lungo il bordo ovest del sentiero, ritrovandomi accanto Grover.
<< Steve! >> esclamò.
<< Grover! >> dissi io, ed il mio sguardo corse subito all’attaccatura dei suoi capelli, dove facevano bella mostra di sé un paio di piccole corna luccicanti, dall’aria estremamente genuina.
<< Wow! >> constatai colpito. << Sembrano proprio vere! >> aggiunsi a voce bassa.
Grover gongolò soddisfatto e Silfide apparve, sporgendo la testa da oltre la sua spalla.
<< Carine, eh? >> chiese ammiccando scaltramente. << Gli donano! >>
<< Già >> acconsentii io, massaggiandomi il mento con una mano con aria pensosa, << ti danno un non so che di maturo … >>
Grover le sfiorò con le punte delle dita con una sorta di timore reverenziale. << E’ vero >> sospirò emozionato, << sono bellissimo >>.
<< Non esagerare, caprone! >> lo rimbrottò Silfide dandogli una leggera spinta.
Scoppiammo a ridere tutti e tre, ma ad un tratto i capogruppo ci intimarono di tacere ed il silenzio più assoluto scese sulla folla, come se fossero stati tutti congelati.
Annabeth sgusciò tra me e Grover e si premette un dito sulle labbra con aria vagamente isterica. Io annuii con forza, come a dire che avevo la bocca cucita.
A quel punto l’automobile nera fece il suo ingresso oltre l’Arco del Campo ed iniziò a procedere lentamente lungo il sentiero polveroso, gli pneumatici che scricchiolavano al contatto con la ghiaia, sfilando in mezzo alle due ali di folla.
Quando la macchina mi passò davanti, il mio viso si specchiò sul finestrino dal vetro oscurato, che si abbassò, lasciandomi scorgere per la prima volta il famigerato signor D.
Vi dico subito che fu piuttosto deludente: Dioniso era un tipo sulla quarantina, rotondo come una palla da bowling e quasi completamente calvo. Indossava un paio di bermuda sformati color kaki ed una camicia hawaiana con motivi floreali di un fuxia così acceso da ferire gli occhi.
Il signor D si abbassò gli occhiali da sole lungo il naso, mi lanciò uno sguardo incomprensibile da dietro le lenti scure, dopodiché fece segno ad Argo di ripartire, ed il finestrino tornò ad alzarsi, nero e imperscrutabile.
La macchina ci superò e si fermò nella piazzola ai piedi della collina. Argo scese ed aprì diligentemente lo sportello al signor D, che smontò in maniera assai poco agile.
Non appena il suo piede tozzo e calzante una ciabatta infradito da mare si poggiò a terra, la folla esplose in un boato spacca timpani e tutti applaudirono selvaggiamente, o si misero a fischiare come falchi affamati.
<< Grazie, grazie >> tagliò corto il signor D, agitando in aria le manine tozze per far tacere tutto quel baccano, annoiato. << Vi ringrazio tutti per il vostro caloroso benvenuto, ma soprattutto ringrazio i vari capigruppo per avervi ricordato di applaudire >> si mise in testa gli occhiali da sole e schioccò le dita con fare imperioso, indicando il cofano dell’auto. << I miei bagagli >> disse.
Argo accorse e diversi satiri si staccarono dalla folla, Grover compreso. Sembrava che il signor D si fosse portato dietro tutto l’Olimpo e mi dissi che quell’automobile dovesse essere in qualche modo incantata, perché era fisicamente impossibile che tutta quella roba entrasse in un comune portabagagli: non sarebbe bastato neppure un container!
Più valige venivano scaricate, più ne facevano capolino dal bagagliaio; alla fine, carichi come somari, quei poveretti di Argo, Grover e degli altri satiri, si inerpicarono su per la collina, trasportando circa una decina di valige e bagagli vari a testa.
<< Molto bene >> annunciò il signor D con quella sua vocetta ronzante e tediosa. Mi accorsi che mi stava davvero antipatico. << Adesso mi ritirerò nel mio alloggiò, sperando che il centauro mio sottoposto non l’abbia trasformato in una stalla >> le sue labbra sottili si incurvarono appena in un sorrisetto sgradevole. << Steve Johnson, voglio vederti tra un’ora esatta >> e, detto questo, anche lui salì su per la collina, scortato da un gruppetto di obbedienti satiri.
<< Ma cosa … >> mormorai stralunato, mentre la gente attorno a noi rompeva le righe di malumore, borbottando insulti contro Dioniso.
<< Ti conviene andare >> mi consigliò Silfide, mentre lei, Annabeth ed io, facevamo la strada a ritroso. << Sarà anche insopportabile, ma magari ha qualcosa di importante da dirti. Forse un messaggio da parte di tuo padre … >> ipotizzò.
<< Lo penso anch’io >> disse Annabeth, << poi ovviamente, verrai a farci rapporto, intesi? >> mi fulminò con quella sua occhiata grigia che riusciva sempre a far ballare la samba alle mie budella.
<< Intesi >> assicurai.
Un’ora dopo, pettinato e profumato, stavo camminando verso l’alloggio di Chirone, dove il signor D mi stava aspettando.
Non sapevo perché, ma mi sentivo abbastanza nervoso e la mia mano stringeva convulsamente il contenitore della Folgore che tenevo in tasca: avvertire quel brivido elettrico così familiare mi rilassava sempre.
Presi un respiro profondo e bussai alla porta.
Da dietro si udì un lieve calpestio di zoccoli, poi Grover venne ad aprirmi.
<< Grover >> esclamai io allibito, << cosa ci fai … >>
<< Signor Johnson >> mi salutò lui ad alta voce, prodigandosi in un profondo inchino. Poi, alzando appena le testa, mi sibilò: << Stai al gioco >>.
Io annuii impercettibilmente, cogliendo al volo.
<< Prego, si accomodi >> disse allora Grover. << L’Augusto signor D la sta aspettando >>.
" Augusto? " mimai con le labbra, senza emettere alcun suono, mentre lui mi faceva entrare.
Grover si strinse nelle spalle con rassegnazione, come per dire che non poteva farci niente.
Ero entrato solo una volta nell’alloggio di Chirone e, in tutta onestà, non è che mi fossi messo ad osservarlo con particolare attenzione, tuttavia mi ricordavo che fosse arredato in modo essenziale e spartano, ma Spartano nel vero senso della parola, perché sembrava la tenda da campo di un antico generale greco: con rastrelliere di armi appese alle pareti, antichi strumenti ginnici e varie pitture raffiguranti creature della mitologia classica.
Adesso, invece, era diventato un Club anni Settanta. Mentre Grover mi faceva strada tra puff e lucine stroboscopiche, mi chiesi come diavolo Dioniso fosse riuscito a cambiare l’arredamento in modo così drastico ed in così poco tempo.
Poi mi ricordai che, nonostante fosse parecchio in sovrappeso, era comunque un dio e smisi di arrovellarmi il cervello.
Grover scostò una tendina di plastica fluorescente e mi fece entrare in una stanzetta ovale illuminata dalle luci soffuse di una moltitudine di lampade da tavolo, di quelle colorate con dentro lo bolle di cera che fanno su e giù in un modo che ti concilia il sonno. Ricordavo che, a casa mia, ne avevo una verde sul comodino.
<< Il signor Johnson è qui, come avevate richiesto, mio signore >> annunciò Grover in un modo così ossequioso che mi sentii male per lui.
Dal grande puff al centro della stanza emerse a fatica la figura grassoccia di Dioniso.
<< Bene, Undergood >> lo congedò freddamente, << puoi andare >>.
<< Sì, mio signore. Certo, mio signore >> belò obbedientemente il satiro, zampettando via senza neppure preoccuparsi di far notare a quel grassone che aveva sbagliato a pronunciare il suo nome.
Sentii montare dentro di me la rabbia ancora prima che quell’idiota aprisse bocca; poi, quando iniziò a parlare e quella vocina strascicata riempì la stanza, dovetti davvero fare uno sforzo di volontà per non piombargli addosso e usarlo come punching ball.
<< E così tu sei Steve >> disse con aria vagamente meno annoiata del solito. << Ho sentito molto parlare di te. Dopotutto, sei uno dei pochi errori di mio padre >> mi dedicò un sorrisetto a metà tra il mellifluo e il rabbioso.
Io serrai la mandibola e i pugni, così forte che le nocche mi diventarono bianche.
<< Prego, accomodati >> mi invitò, indicando con un gesto della mano le varie poltroncine fiorate sparse per la stanza.
Io rimasi immobile.
<< No, grazie >> sillabai, senza preoccuparmi di smussare il mio tono minaccioso. << Preferisco stare in piedi >>.
Il signor D si strinse nelle spalle.
<< Come vuoi tu >> tagliò corto, per poi servirsi un flute di champagne versandolo da una bottiglia lì accanto. << Sappi che neanche tu mi vai troppo a genio, Johnson >> mi comunicò, sorseggiando pigramente la sua bevanda. << Ma mio padre pensa inspiegabilmente che tu sia molto importante >> alzò gli occhi al cielo. << Gli passerà presto, ne sono sicuro: come è capitato per tutti gli altri. E’ solo che all’inizio vi trova … interessanti, presumo. O forse carini. L’importante è che restiate al vostro posto e non vi mettiate strane idee in testa >> mi lanciò uno sguardo ambiguo da oltre il bicchiere.
Io capii che stava parlando dei figli mezzosangue di Zeus e quindi anche di me. Ma si sbagliava di grosso, se pensava di potermi paragonare ad un cagnolino o ad un criceto, per il quale mio padre avrebbe presto perso interesse.
<< Se non sbaglio, divino Dioniso >> iniziai io, mentre la Folgore vibrava violentemente dalla mia tasca, simile ad un cellulare, << anche voi siete figlio di Zeus e di una mortale. Volete forse dire che nostro padre ha perso interesse anche per voi? >>
Con mio sommo piacere, quel pallone di lardo gonfiato si strozzò col suo champagne. Dalla stanza accanto, sopraggiunse alla svelta una ragazza satiro molto carina che si premurò di dargli una manata tra le scapole parecchio più forte del necessario.
Lui, sempre tossicchiando, le fece segno di smetterla, al che la ragazza si inchinò profondamente e, prima di andarsene, mi fece discretamente il segno di ok col pollice in su.
Io sorrisi appena.
<< Vedo che, nonostante tu sia qui da poco, la celebrità ti ha già dato alla testa! >> gracchiò il signor D quando riuscì a riprendere fiato. Poi fece un respiro profondo, cercando di ridarsi un contegno, e proseguì: << Mio padre, vuole farti sapere che ha ricevuto il messaggio di Chirone, che al momento attuale si trova in un posto che tu sicuramente neanche conoscerai, a recuperare un certo manufatto >> fece una pausa carica di astio. << Mi ha detto di riferirti che, naturalmente, la situazione è grave, ma non vuole che tu faccia nulla di avventato. Nessuno vuole che tu schiatti, Steve >> mi sorrise in un modo orribile.
Ma io ero troppo impegnato a rimuginare su quanto aveva appena detto, per farci caso: mio padre non voleva che facessi nulla di avventato … che sapesse dei miei piani di salvataggio?
Qualcosa mi diceva di sì: forse il fatto che fosse Zeus, padre di tutti gli dei, e che stesse sempre a scrutarci dall’alto armato di saetta, pronto a bruciarci le chiappe con qualche fulmine bene assestato nel caso avessimo sgarrato.
Ma se avessi disubbidito, partendo per portare in salvo la mamma, lui che avrebbe fatto?
<< Cos’ha intenzione di fare? >> chiesi a Dioniso, scordandomi dei convenevoli. << Avrà pure un piano in mente, no? O vuole lasciare ad Ade campo libero? >>
Il signor D sospirò con aria di insopportabile superiorità.
<< Solo perché Ade vuole fare qualcosa, Johnson, non significa che possa farla >> spiegò, come se avesse a che fare con un moccioso dell’asilo.
Io mi infiammai.
<< Ma lui si è alleato con Eris! >> esclamai con rabbia. << Io l’ho visto, l’ho visto frantumare il Sigillo che la teneva prigioniera, ho ascoltato tutto il loro piano per filo e per segno! Quei due sono troppo forti, messi insieme! Troppo forti e troppo arrabbiati per essere ignorati! >>
Il signor D si versò un altro po’ di champagne, tranquillo come se stessimo parlando del tempo.
<< Sei troppo giovane e troppo, come dire … mortale per afferrare certe cose, Johnson. D’altro canto nessuno pretende che tu capisca >> mi sorrise con sufficienza. << Tuttavia, mio padre pare particolarmente intrigato da te e se tu dovessi rimetterci le penne facendo l’eroe penso che lui ci rimarrebbe piuttosto male >> bevve un sorso dal suo bicchiere. << Non così tanto, ovviamente, ma sarebbe comunque uno strazio. Ecco perché ho intenzione di starti col fiato sul collo >> aggiunse, facendomi sussultare dalla sorpresa. << Non pensare nemmeno di muovere un solo passo fuori da questo Campo, senza che io lo sappia ancora prima di te >> mi intimò. << Sono stato chiaro? >>
<< Cristallino >> sibilai.
Lui si scolò lo champagne rimasto, soddisfatto.
<< Molto bene. Puoi andare >> mi congedò, agitando una delle sue manine tozze. << Chi è il tuo Custode? >>
<< Grover Underwood >> risposi.
<< Oh, sì: Undergood >> disse lui con aria annoiata. << Undergood! >> urlò. << Vieni qui! >>
Grover si precipitò nella stanza al galoppo, scostando le tendine di plastica in malo modo.
<< Sì, mio signore? >>
<< Dato che ti sono spuntate le corna >> disse Dioniso, << ti nomino babysitter ufficiale del signor Johnson, qui. Sarai i miei occhi e le mie orecchie, dovrai riferirmi tutto ciò che di interessante ha da dire >> lanciò a me e a Grover uno sguardo di malvagio compiacimento.
Grover si voltò a guardarmi, sconvolto e addolorato, ma io gli feci cenno che andava tutto bene.
<< Sì, mio signore >> rispose allora. << Come comandate, mio signore >>.
Il signor D annuì e si stiracchiò, emettendo un sonoro sbadiglio.
<< Ora sloggiate, tutti e due >> ci intimò, << e Johnson: se vengo a sapere che hai in mente qualcosa, qualsiasi cosa >> ridusse gli occhi a fessure, << giuro che ti pentirai di esserti messo contro di me, mi hai sentito? >>
<< Sì, divino signor D >> risposi.
Se solo quel grassone avesse saputo che io avevo problemi a rispettare le autorità …

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Capitolo 6
*** Partecipo ad un party mostruoso ***


Mi svegliai con una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
“ Sto per vomitare “ mi dissi, così scesi dal letto e corsi in bagno. Rimasi in piedi a fissare la tazza per un tempo indefinito. Quando alla fine constatai che non c’era pericolo che la cena mi scappasse fuori di bocca, decisi di andare a fare una camminata.
Mi vestii in fretta e scesi giù per le scale; mi aspettavo di trovare Grover spalmato sul divano come la maionese, ma non sentivo il suo russare da motosega e, quando arrivai in soggiorno, vidi che effettivamente lui non c’era.
Il signor D doveva averlo trattenuto fino a tardi per fargli fare chissà cosa; l’immagine di Grover vestito da cameriera francese mi balenò in mente e per poco non mi fece ritornare le forze di stomaco.
Uscii fuori e attraversai la foresta di buona lena, le mani in tasca a sfiorare la superficie fredda e dura del contenitore della Folgore.
Era piuttosto presto, ma in giro per il Campo c’era già qualche mattiniero: qualcuno mi salutava ed io rispondevo loro distrattamente, con un grugnito o un cenno della mano.
Mi sentivo strano, come se avessi le budella annodate.
Feci un rapido elenco mentale di ciò che avevo mangiato la sera prima, ma nulla di quello che mi veniva in mente avrebbe potuto produrre un simile effetto: al Campo si mangiava sempre in modo schifosamente salutare, non ci si poteva sentire male neppure volendo.
E allora perché avevo lo stomaco aggrovigliato come un calzino?
Giunsi al limitare del bosco, verso gli alloggi di Hermes, e mi dissi che forse Silfide era sveglia: almeno avrei avuto qualcuno con cui chiacchierare.
Mi feci strada tra le varie casette e quando arrivai davanti alla sua, sentii provenire da essa uno strano rumore, come il motore ingolfato di una motocicletta. Aguzzando le orecchie, mi chiesi che cosa mai potesse produrre un simile suono, così decisi di entrare.
Aprii la porta lentamente e fui investito da quella specie di grugnito gutturale. Mi guardai attorno in mezzo al caos che regnava nell’alloggio di Silfide e, alla fine, i miei occhi si posarono sul letto: lì c’era spaparanzato Grover, la testa che penzolava giù dal cuscino, e la bocca spalancata con un rivolo di bava che scendeva giù da un angolo.
<< Ma cosa … >> borbottai, mentre Grover ronfava beatamente come un trattore.
Dalla stanza accanto fece capolino Silfide.
<< Steve! >> bisbigliò sorpresa. << Che cosa ci fai qui? >> mi fece segno di seguirla ed io la raggiunsi velocemente, tenendomi a distanza di sicurezza da Grover, temendo che il suo russare potesse travolgermi come un tornado.
<< Ero venuto per fare quattro chiacchiere >> le spiegai a bassa voce, mentre lei mi faceva accomodare ad un tavolino e mi piazzava davanti un bicchierone di succo d’arancia. << La porta era aperta e così sono entrato >>.
Si sedette di fronte a me e anche lei si versò un po’ di succo, che scolò tutto in una volta rovesciando la testa all’indietro.
<< Ok >> disse, appoggiando il bicchiere sul tavolo. << Parliamo, allora >>.
<< Perché Grover è steso nel tuo letto e russa come un’idra col mal di gola? >> chiesi a bruciapelo.
Lei si passò una mano sulla faccia ed emise un gemito strozzato.
<< Ieri il signor D l’ha fatto trottare sodo >> spiegò, << così, quando finalmente l’ha lasciato andare a dormire, lui si è incamminato verso casa tua, ma è caduto lungo disteso sul sentiero di fronte al padiglione della mensa. Si è addormentato. Io lo stavo tenendo d’occhio e così l’ho portato qui, perché il vostro alloggio è troppo lontano per trascinare una capra tutta da sola fin laggiù. E poi, se l’avessero trovato per terra a ronfare, Dioniso non gliel’avrebbe mai perdonata >>  aggiunse con aria risentita..
<< Ho capito >> dissi, sturandomi un orecchio con l’indice: di là sembrava che stessero esplodendo delle bombe atomiche. << Certo che russa, eh? >> constatai.
Silfide annuì con aria lugubre a affogò i suoi dispiaceri nel succo d’arancia, versandosene un altro po’.
 Io il mio non l’avevo ancora sfiorato, ma solo a guardarlo mi dissi che non ce l’avrei mai fatta a mandarlo giù, o avrei rischiato di inaugurare il tavolino di Silfide con la cena della sera prima.
Lei parve notare che non mi sentivo esattamente in forma e, aggrottando la fronte, mi chiese: << C’è qualcosa che non va, Steve? >>
Io scrollai le spalle.
<< Mi sento strano >> risposi vago.
Silfide alzò un sopracciglio.
<< Strano nel senso di: “Ehi, mi sento un po’ giù di corda” >> iniziò sospettosa, << o strano come: “MORIREMO TUTTI!” ? >>
Non ci avevo ancora pensato, a dire il vero. Eppure, adesso che me lo faceva notare, forse il mio malessere poteva avere qualcosa a che fare con questioni che prescindevano dalle troppe sostanze caloriche ingurgitate.
Che fosse successo qualcosa sull’Olimpo?
<< Mhhh … >> mugugnai cupo. << Una via di mezzo >>.
<< Oh, ok >> disse lei, sarcastica, << ora sì che sono più tranquilla >> mi lanciò un’occhiataccia verde malva.
Io sbuffai.
<< Se anche ci fossero problemi, perché io dovrei saperlo? >> chiesi. << Insomma, abbiamo fatto ricrescere quelle stupide piante, no? Non dovrei avere più niente a che fare con Ade … >> lasciai la frase in sospeso, attenendo la sua risposta.
Silfide si accigliò appena.
<< Questo proprio non lo so >> disse sincera, << hai ragione: non dovresti. Ma per certe cose uno non può essere mai del tutto sicuro, dico bene? Vedere tuo zio che bacia una uscita dal pavimento e giura di ammazzare tutti i tuoi parenti è tra queste >>.
Sospirai profondamente. Aveva ragione: non potevo esserne certo. Forse quel fastidio era effettivamente dovuto a qualcosa che stava andando storto, o magari stavo solo diventando paranoico.
<< Vorrei che Chirone fosse qui >> buttai lì alla fine, << lui saprebbe di sicuro cosa fare >>.
Silfide stava per dire qualcosa, quando, dalla stanza accanto, provenne un urlo terrorizzato.
<< Il bimbo si è svegliato >> sibilò Silfide con un ghigno, << resta qui, Steve >> disse, poi si alzò e andò di là.
Io mi sporsi dalla sedia per guardare cosa stesse accadendo e vidi che Grover si era svegliato e si guardava intorno con aria sconvolta, il lenzuolo tirato fin sotto al mento. Quando vide arrivare Silfide cacciò un altro urlaccio e per poco non cadde giù dal letto.
<< SILFIDE! >> esclamò sbigottito. << Cosa … io … che ci faccio qui? >>
Silfide si appoggiò allo stipite della porta con fare provocante e sbatté le lunghe ciglia.
<< Oh, Grover. Davvero non ti ricordi? >> domandò vezzosa, lanciandogli uno sguardo di fuoco. << Stanotte sembravi un toro … ma che dico un toro? Un carro armato! >>
Grover si lasciò sfuggire un belato strozzato, gli occhi fuori dalle orbite.
<< Vuoi … vuoi dire … >> balbettò sconclusionato, << … che … che tu ed io … stanotte … abbiamo … >> non riuscì a terminare la frase.
Dal canto mio, in cucina, stavo cercando di morire dalle risate nel modo più silenzioso possibile.
Silfide perse all’improvviso tutta la sua aria seducente.
<< No >> gracchiò stentorea. << Parlavo del modo in cui hai russato! Non mi hai fatto chiudere occhio tutta la notte! Ma per tutti i bermuda di Poseidone, che hai ingoiato una marmitta rotta, da piccolo?! >>
E scoppiò a ridere sonoramente, troppo forte per udire il suono del cuore di Grover che si spezzava; poi mi fece segno che potevo uscire allo scoperto.
<< Dai, vieni, Steve >> disse, << prima che il tuo amico ricominci a ruggire, cioè russare … >>
Io li raggiunsi ridacchiando, mentre il satiro sbuffò e scese giù dal letto, borbottando qualcosa riguardo a certi scherzi stupidi.
<< Ciao, Grover >> lo salutai.
<< Ehi >> disse lui.
Silfide afferrò una maglietta della maratona di New York che giaceva appallottolata sul giradischi e la lanciò a Grover, che la prese al volo.
<< Dai, vestiti >> disse, mentre lui se la infilava svelto << ho un’idea per aiutarti, Steve >>.
E, detto questo, ci precedette fuori dal suo alloggio; io e Grover ci affrettammo a seguirla, perché sapevamo che, se non ci fossimo sbrigati, ci avrebbe seminati in poche falcate e, mentre le trotterellavamo dietro, lui mi chiese:
<< Aiutarti a fare cosa? >>
<< A dire il vero non lo so neanch’io >> risposi incerto.
<< Non volevi parlare con Chirone? >> mi urlò Silfide, spazientita dalla mia mancanza di acume. << Un modo c’è >>.
<< Perché vuoi parlare con Chirone? >> insistette Grover.
<< Ma io non voglio parlare con Chirone! >> ribattei, fermandomi di botto.
Anche Grover e Silfide si arrestarono, fissandomi.
<< Dovrei raccontargli che ho dato fuoco a quell’edera Olimpica >> proseguii concitato << e sinceramente non ci tengo a farmi pestare da un centauro, ok? >>
<< Ma Chirone è andato a parlare con tuo padre, Steve! >> mi fece notare Grover. << L’avrà già saputo! E poi, anche se fosse, meglio dirglielo quand’è lontano, piuttosto che quando sei a portata di zoccoli, no? >>
Silfide annuì calorosamente.
<< Concordo >> disse.
Io sbuffai. Però, in fondo, avevano ragione e comunque Chirone era l’unico a cui potessi chiedere un consiglio.
<< D’accordo >> acconsentii alla fine. << Ma che dobbiamo fare? >>
<< Seguimi >> tagliò corto Silfide, e riprese a camminare svelta.
Io e Grover ci lanciammo uno sguardo e la imitammo.
Attraversammo mezzo campo, fino ad arrivare all’edificio dei bagni: un blocco di pietra grigia al margine settentrionale del bosco che conteneva i cubicoli dei maschi e, più in là, quelli delle femmine.
 Ci fermammo ad un angolo e Silfide afferrò un tubo di gomma verde che giaceva per terra, dopodiché aprì il rubinetto ed il tubo prese vita come un serpente ubriaco, schizzando acqua di qua e di là.
Io e Grover iniziammo a saltellare per evitare di farci inzuppare, poi però Silfide puntò il tubo da un’altra parte e diminuì la potenza dell’acqua.
<< Ok >> disse, frugandosi in una tasca. Ne estrasse una lucente moneta d’oro, grande quanto tutto il suo palmo.
<< Dracme >> esclamò Grover. << Vuoi usare l’iPhone? >>
<< Certo >> rispose lei, poi si rivolse a me, che come al solito non avevo capito un fico secco. << Esiste una dea chiamata Iride che lavora con mio padre ed ha messo su un servizio di telecomunicazione davvero efficiente: basta gettare una dracma nell’acqua e dire ad alta voce il nome della persona con cui vuoi parlare. Potrebbe essere utile anche in altre situazioni >> disse e mi porse la pesante dracma.
Poi otturò il tubo con il pollice, in modo che il getto d’acqua uscisse fuori nebulizzato e comparisse il riflesso dell’arcobaleno.
<< Vai! >> esclamò.
Io gettai la moneta contro le goccioline sospese a mezz’aria e quella roteò alta nel cielo, brillando alla luce del sole; ma quando incontrò l’iridescente muro d’acqua, ne fu inghiottita e sparì.
<< Chirone! >> urlai.
Per un attimo non successe nulla e per poco non pensai che Silfide avesse voluto farmi uno scherzo; poi l’acqua divenne una specie di schermo televisivo e, davanti a noi, apparve la tremolante immagine di Chirone il centauro. Era come guardarlo da dietro un acquario, ma non c’era alcuno dubbio: era proprio lui e sembrava anche piuttosto occupato.
Si trovava in un posto pieno di rocce aguzze, una sorta di caverna in cui aleggiava una misteriosa nebbia verdognola ed era circondato da scorpioni giganti, che facevano guizzare i loro mortali pungiglioni producendo ringhi rabbiosi.
Quando ci vide non parve eccessivamente sorpreso e si limitò ad assestare una sonora pedata allo scorpione più vicino prima di chiederci, con lo stesso tono tranquillo che avrebbe usato se fosse stato in spiaggia a prendere il sole:
<< Ragazzi, tutto bene? >>
Io non riuscii a rispondere, tanto era lo shock di trovarmi davanti quei cosi giganti e arrabbiati.
<< Steve ti vuole parlare >> disse Grover. << Steve, parla! >> e mi diede una gomitata.
Io ritrovai l’uso della lingua.
<< Ehm, sì … ti volevo dire una cosa, ma mi sembri un po’ affaccendato, perciò … >>
Chirone afferrò due scorpioni per il pungiglione e li legò insieme facendo un fiocco, dopodiché li lanciò via.
<< No, ma figurati! Normale amministrazione! >> buttò lì senza scomporsi. << Dimmi tutto, ragazzo >>.
Io deglutii sonoramente, non sapendo se dovevo essere più terrorizzato da tutti quegli scorpioni giganti e schifosi o dal fatto che stavo per rivelare a Chirone qualcosa che mi sarebbe costato un meraviglioso tatuaggio a forma di ferro di cavallo sul sedere, non appena fosse tornato.
Silfide mi assestò un doloroso pizzicotto sul braccio, al che mi convinsi a parlare: raccontai a Chirone della mia disavventura da pollice verde tutto d’un fiato, fissando un punto indefinito della caverna buia oltre il didietro del centauro, i pugni serrati.
Quando terminai il mio racconto, mi aspettavo che Chirone si sarebbe messo ad urlare come un matto, oppure che avrebbe tentato di superare la nebbiolina dell’i-Phone e di strozzarmi a mani nude; invece si limitò a guardarmi fisso con un’espressione vivace come quella di statua greca. Perfino gli scorpioni mi stavano fissando: uno di loro scosse impercettibilmente l’orribile capoccione scintillante con aria di disapprovazione.
<< Be’, questo spiega molte cose >> sentenziò Chirone, dopodiché si voltò di scatto e riprese a duellare contro quegli insettoni mutanti. << C’è altro? >>
Se possibile, la sua freddezza mi ferì ancora di più di quanto non avrebbe fatto una sua mazzata in testa; sembrava … sembrava deluso.
<< Chirone >> tentai, mentre la nuvoletta dell’i-Phone iniziava a farsi opaca, << io non lo sapevo, non ne avevo idea! Non puoi … cioè, non puoi essere arrabbiato! >> mi infervorai.
Grover, accanto a me, emise un lieve fischio d’avvertimento.
Chirone spedì in orbita un paio di scorpioni assestando loro una poderosa pedata, poi tornò a guardarmi.
<< Avevo detto chiaro e tondo di non toccare gli altari in alcun modo, Steve! >> mi sgridò. << Né di danneggiarli! E tu hai fatto entrambe le cose, hai disubbidito ai miei ordini! Sarebbe bello che tu mi prestasti attenzione una volta tanto, ragazzo, perché si da’ il caso che io ne sappia un tantino più di te, anche se tu sei convinto del contrario! >> esclamò.
<< Ma io lo faccio! >> ribattei adirato. << Io ti presto attenzione! Restare qui con le mani in mano mentre mia mamma viene tenuta prigioniera nell’Ade da un pazzo represso, come lo chiami?! >> mi sentivo così arrabbiato con tutto e con tutti che come avessi fatto, solo un attimo prima, ad esprimere il desiderio di parlare con quel centauro mi sembrava davvero una cosa fuori dal mondo. Perché non capiva? Perché continuava a trattarmi come un idiota dell’asilo?
<< So cha hai fegato, Steve, lo sappiamo tutti. E so anche che tu non vuoi farti bello agli occhi di nessuno e che il tuo desiderio di agire ti corrode, ma so anche che se tu tentassi l’impresa, non sopravvivresti! >> tagliò corto, brusco, atterrando l’ultimo scorpione sedendocisi sopra; che brutta morte, schiacciato dalle chiappone di un centauro.
Io ansimavo di rabbia e non sapevo cosa dire; ero così furioso che non mi sarei sorpreso se le orecchie avesse cominciato a fumarmi come una locomotiva.
Chirone ignorò il mio sguardo minaccioso e si rivolse a Grover.
<< Conto su di te >> gli disse, << per tenere Steve al sicuro sino al mio rientro al Campo. Ho quasi finito quaggiù, ormai, e quando ritornerò avrò qualcosa di molto interessante da mostrarvi, perciò vi converrà rimanere dove siete, se volete sapere di cosa si tratta >> annunciò.
Quella notizia per poco non mi fece svampare la rabbia di essere trattato come un poppante bisognoso di una baby-sitter da un tipo con il didietro da ronzino.
<< Ma, Chirone, dove sei adesso, di preciso? >> chiesi curioso, riducendo gli occhi a fessure per aguzzare lo sguardo.
Ma ormai il tempo che avevamo a disposizione per la chiamata era finito e la nuvoletta d’acqua iridescente stava diventando sempre più nebbiosa; i contorni di Chirone e della caverna si sfocavano e sbiadivano come quelli di un disegno ad acquerelli lasciato a mollo nell’acqua.
<< Non posso dirlo >> riecheggiò la voce del centauro, mentre la linea cadeva. << E’ top-secret >> e, detto questo, la visione sparì ed io, Silfide e Grover ci ritrovammo a fissare uno spruzzo d’acqua nebulizzata  e i muri scrostati dei gabinetti dei maschi.
<< Be’, è stato illuminante >> commentò Grover.
Silfide chiuse il tubo dell’acqua.
<< Io non ci ho capito niente >> commentò. << E ci ho pure rimesso una dracma >> posò il suo sguardo verde su di me.  << Che ne dici? >> domandò.
Anche Grover si voltò a guardarmi; entrambi mi fissando con lo stesso sguardo che di tanto in tanto dedicavano ad Annabeth, quasi che la mia testa potesse esplodere da un momento all’altro.
Mi accigliai.
<< Be’, non è andata poi così male >> commentai, quasi sincero. << Dopotutto non mi ha nemmeno fatto a pezzettini, no? >>
Però, in fondo, molto in fondo, una minuscola parte di me aveva desiderato che Chirone si mostrasse un po’ più comprensivo, tanto per cambiare, e che non mi desse addosso accusandomi di qualcosa che io non avevo fatto di proposito.
Ma possibile che nessuno si rendesse conto di quanto era dura per me? Con mia madre che era sparita per colpa mia ed io che avevo scoperto di essere figlio di Mr. Fulmini&Saette?
Mi sentivo uno schifo, ecco la verità: tutto andava per il verso storto ed io non potevo farci niente.
In più, a nessuno sembrava importare particolarmente che Ade ed Eris stessero per fare fuori l’Olimpo al completo.
Non gli importava? Be’, peggio per loro! Per me, ciò che più contava, era salvare mia madre e per il resto quegli idioti degli dei erano liberi di farsi ammazzare da chi preferivano.
La giornata proseguì in maniera relativamente tranquilla: tra allenamenti, duelli ed una battaglia di gavettoni riempiti di pupù di pegaso; tutto questo, inframmezzato dalle poste che le spie che il signor D aveva mandato a tenermi d’occhio continuavano a tendermi.
Avrebbe potuto anche scegliere qualcuno di un po’ più discreto, tanto per cominciare; qualche ragazzo di Hermes, magari, perché quei satiri che mi aveva sguinzagliato appresso erano davvero imbranati ed io, Grover, Silfide ed Annabeth non ci avevamo messo molto a capire che era stato il nostro amato Capo Campo a mandarli.
Nonostante le apparenze era uno di parola: mi aveva fatto spiare per tutto il giorno ed eravamo stati fortunati a chiamare Chirone oscenamente presto per gli standard di Dionisio, quella mattina, altrimenti ci avrebbe colto in flagrante.
Mi sentivo lo sguardo fastidioso del satiro spione del signor D puntato addosso, mentre mi ripulivo dalla cacca di cavallo quella sera, in riva al lago.
<< Ci sta ancora alle calcagna? >> domandò Silfide frizionando con forza la sua armatura puzzolente col bicarbonato Olimpico; i gavettoni di cacca di cavallo volante non avevano risparmiato nessuno, quel giorno.
<< Già >> commentò Annabeth senza voltarsi, seduta sulla riva con aria straordinariamente rigida. << E’ nascosto proprio lì dietro, in quel cespuglio di more. Non c’è da sorprendersi. Basterà non comportarsi in modo sospetto >>.
<< Non davanti a lui, almeno >> aggiunsi io burbero, dato che essere ricoperto di sterco di pegaso dalla testa ai piedi peggiorava sensibilmente il mio umore già pessimo.
Annabeth annuì e mi rivolse un gran sorriso a tradimento.
Io ricambiai con una complice strizzatina d’occhi.
<< Pensi che una gara di schizzi sia sospetta? >> domandò Grover, che sguazzava nelle placide acque del lago, rivolto a Silfide.
La ragazza alzò gli occhi al cielo.
<< Ti prego, Grover! >> esclamò seccata. << Siamo coperti di cacca! >> ma poi si voltò di scatto e incominciò a bersagliarlo di schizzi poderosi, agitando le braccia in acqua.
Ovviamente non aveva alcuna speranza contro Grover, che dimenando i suoi zoccoli da capra come se stesse pedalando riusciva a sollevare onde niente male, ma era divertente guardarli, così io ed Annabeth iniziammo a fare il tifo da riva, strillando e ridendo a gran voce.
Ad un certo punto, avvistammo qualcuno che trotterellava verso di noi con un’ostentata andatura sculettante; Grover si bloccò a guardare la figura nel bel mezzo di un super attacco schizzante e Silfide approfittò di quel suo momento di distrazione per spingerlo sott’acqua.
Intanto la tipa che ci stava venendo incontro si era fatta abbastanza vicina ed io riuscii a distinguere il volto mozzafiato (e anche un altro paio di cosette altrettanto impressionanti) di Silena Beauregard, la capogruppo dei figli di Afrodite: una stangona bionda con le gambe più lunghe che avessi mai visto ed un paio di sfarfallanti occhi azzurri, che tutti definivano essere “la ragazza più sexy del campo”. Ovviamente per me non lo era, ma non si poteva certo dire che non fosse bellissima.
Silena si fermò accanto a me e ad Annabeth con un sorrisone a trentadue denti che pareva più simile ad una paresi facciale, se devo essere sincero.
<< Ciao, Steve >> mi salutò con voce miagolante, giocando con una ciocca della sua chioma ossigenata. << Annabeth >> aggiunse freddamente, scoccando alla figlia di Atena  quella che mi parve un’occhiataccia di sdegno.
<< Silena >> commentò gelida quest’ultima, come se si stessero rammentando i nomi a vicenda.
<< Come va, Steve? >> proseguì Silena, tornando a rivolgersi a me col suo tono zuccheroso.
Intanto, alle sue spalle, Silfide fingeva di vomitare in modo molto plateale e Grover era immerso in acqua fino al mento, a disagio.
<< Ehm … bene >> bofonchiai io. Forse, se non fossi stato così di malumore, parlare con una così mi avrebbe fatto piacere; cioè, era davvero bella e tutto il resto, ma in quel momento starmene lì seduto in pace con Annabeth a guardare Grover e Silfide che facevano gli scemi era davvero tutto ciò che potessi desiderare ed ero quasi infastidito dalla sua presenza estranea. E poi somigliava in modo inquietante ad una Barbie guerriera, non so se mi spiego.
<< E tu? >> aggiunsi, dato che la Barbie-Xena continuava a fissarmi sorridendo spasmodicamente.
<< Oh, tutto ok >> buttò lì, come se fossi stato io ad attaccare bottone e lei si trovasse lì per caso. << Ascolta, Steve … non so se lo sai, ma >> emise una risatina talmente acuta che mi trapanò i timpani << stasera il signor D ha deciso di dare un bacchetto dei suoi, sai: una specie di festa, ecco. E … mi chiedevo se tu … se tu ci andavi >> sbatté freneticamente le lunghe ciglia come se le fosse finito un moscerino nell’occhio.
Io guardai Annabeth, che era talmente rigida da sembrare avesse ingoiato una scopa, e una sorta di calda soddisfazione mi invase il petto: aveva decisamente l’aria infastidita e … be’ … gelosa.
<< Sì che ci vado >> risposi, tornando a guardare Silena.
Annabeth si voltò di scatto verso di me.
Il sorrisone della figlia di Afrodite si allargò.
<< E con chi? >> chiese.
<< Con Annabeth >> risposi tranquillamente.
Lei e Silena sgranarono gli occhi: quest’ultima scioccata, l’altra piacevolmente sorpresa.
<< Oh >> commentò Silena, guardando me ed Annabeth come se fossimo una gomma da masticare che le era rimasta attaccata sotto alle scarpette di Gucci. << Certo, dovevo immaginarlo. Be’ ci si vede >> ma restò immobile a fissarmi, come se si aspettasse che mi gettassi ai suoi piedi implorando perdono o cose del genere.
<< Sì, ci si vede >> dissi solo.
Silena pareva davvero contrariata, ma girò sui tacchi e fece dietrofront, sparendo lungo la riva del lago e lasciandoci di nuovo soli.
<< E così ci andiamo insieme, eh? >> commentò Annabeth non appena la figlia di Afrodite fu sparita all’orizzonte. << Avresti anche potuto avvertirmi prima, sai? >> sapevo che voleva suonare severa, ma sembrava solo divertita. << Come fai a sapere che voglio andare alla festa con te? >>
<< Be’, ma tu vuoi, no? >> mi affrettai a chiedere.
<< Certo, ma … >> farfugliò lei.
<< Allora è deciso >> conclusi con una scrollata di spalle.
Non sapevo da dove venisse tutta quella sicurezza improvvisa, ma mi piaceva ed evidentemente anche ad Annabeth, perché mi sorrise allegramente, piegandosi di lato per darmi una spintarella.
<< Allora voi ci andate? >> chiese Grover, lanciando un’occhiata speranzosa a Silfide mentre uscivano dall’acqua. << Chissà se i satiri sono invitati … probabilmente potremo solo fare da camerieri e distribuire asciugamani in bagno, conoscendo il signor D >> aggiunse tristemente.
<< Non se ne parla! >> esclamai io. << Tu sei il mio Custode, ricordi? E mi scorterai alla festa in veste di Custode e quindi di invitato. Niente lavori umilianti per stasera >> aggiunsi deciso.
Grover mi sorrise dandomi una pacca sul braccio.
<< Be’, grazie, amico! >> disse allegramente. Poi, schiarendosi la voce con nonchalance, chiese a Silfide in quello che voleva essere un tono disinteressato: << E tu … ehm … ci … cioè, vuoi andarci? >>
La figlia di Hermes sorrise con aria furbetta.
<< Oh, sì. L’ultima volta che sono stata a New York ho rubato un vestito niente male: non vedo l’ora di mettermelo! >> disse.
Io, Grover ed Annabeth scoppiammo a ridere, poi, tutti e quattro insieme, abbandonammo la riva sassosa del lago e ci dirigemmo ai nostri alloggi per prepararci.
Io e Grover tornammo a casa e ci preparammo in fretta, indossando per la prima volta dopo settimane dei vestiti che non comprendessero una corazza ed un elmo per fare pandan; mi pettinai i capelli col gel, sparandoli in alto come se mio padre mi avesse fulminato in un modo che fece sbellicare dalle risate Grover che, però, dal canto suo, ruppe tre pettini e cinque spazzole per districare la jungla che aveva in testa e sulle chiappe.
<< Giuro che non toccherò mai più questa spazzola in vita mia >> annunciai io, accennando alla spazzola aggrovigliata da peli di capra che giaceva abbandonata sulla tavolozza del water, la stessa che il mio amico satiro aveva usato per pettinare parti di lui delle quali non fremevo di fare la conoscenza.
Quando uscimmo, profumati, pettinati ed anche abbastanza fichi, devo essere sincero, scoprimmo che le ninfe avevano disseminato la foresta di lumicini e striscioni e che la strada principale del campo somigliava molto al percorso che porta ad una discoteca: c’erano ghirlande e luci dappertutto, tutti ridevano e scherzavano e in aria aleggiavano le note di una famosa canzone di Rihanna che sembrava fatta apposta per ballare e scatenarsi.
<< Dove sono Silfide ed Annabeth? >> domandò Grover guardandosi intorno, mentre la folla ci sospingeva verso il padiglione della mensa, che era stato trasformato in una vera e propria sala da ballo: i grandi tavoli degli dei erano spariti, sostituiti da tavolinetti più piccoli carichi di spuntini, bevande e stuzzichini vari; dal soffitto pendeva una palla da discoteca sfaccettata che faceva molto anni Settanta e al centro dell’ambiente c’era una pista da ballo di quelle che si illuminano quando ci passi sopra. Era tutto fantastico, devo ammetterlo, anche se il fatto che la festa fosse stata organizzata da Dionisio e la strano sensazione che non mi abbandonava da quella mattina non mi rendevano del tutto tranquillo.
Comunque sia ero determinato a godermi la serata, perciò decisi di non badarci.
<< Non saprei >> risposi, servendomi del punch nel bicchiere e volgendo lo sguardo intorno a mia volta. << Sai com’è: le ragazze ci mettono sempre un sacco a prepararsi … >>
Passarono dieci minuti abbondanti, durante i quali io e Grover spizzicammo stuzzichini da ogni tavolo e vassoio, poi qualcuno mi bussò sulla spalla ed io mi girai di scatto.
<< Ehilà! >> mi salutò Silfide allegramente, battendo il piede a terra a tempo di musica. << Carino come hanno organizzato, no? >>
Io e Grover avevamo la bocca talmente spalancata che penso avremmo potuto ingoiare Clarisse tutta intera e fidatevi se vi dico che Clarisse era davvero enorme.
<< Wow >> riuscii a dire solamente, fissando Silfide con tanto d’occhi.
<< Sei bellissima! >> farfugliò subito Grover, come se avesse paura che potessi dirlo prima di lui.
Silfide sorrise radiosa e scrollò le spalle con noncuranza.
<< Be’, si fa quel che si può >> buttò lì, ma le sue gote si erano tinte di un rosa acceso.
Normalmente, con Silfide,uno era sempre così occupato a badare che non ti frugasse nelle tasche che non mi ero mai soffermato a guardare quanto fosse bella in realtà, ma quella sera era semplicemente favolosa: indossava un tubino nero aderente e sobrio e scarpe nere col tacco; i suoi occhi verdi parevano più luminosi del solito ed i lunghi capelli di un castano luminoso erano sciolti e vaporosi e le ricadevano graziosamente sulle spalle e sulla schiena.
<< Sai dov’è Annabeth, Silf? >> domandai io, mentre Grover aveva ancora l’aria di uno che ha ricevuto una botta in testa.
<< Dovrebbe arrivare tra poco >> rispose lei, << doveva ancora scegliere quale vestito mettersi, quando sono passata da casa sua >> disse scuotendo lievemente la testa. << Sai, è da quando … >> stava per dire qualcosa, ma si bloccò a metà frase << be’, è da un po’ che non partecipa ad occasioni mondane >> concluse come se nulla fosse.
Silfide stava per lasciarsi scappare qualcosa sul misterioso passato di Annabeth ed io ero risoluto ad indagare per estorcerle qualche informazione, quando la persona che Grover amava di meno sulla faccia della Terra sopraggiunse alle nostre spalle e ci interruppe.
<< Per le emorroidi di Efesto, Black! >> esclamò Luke Castellan, affascinante come non mai nel suo giubbotto di pelle da motociclista e in un paio di jeans Levis stracciati a regola d’arte, strappando qualche protesta scandalizzata ad un paio di ragazzi di Efesto che passavano di lì. << Sei uno schianto! >> teneva in mano un bicchiere di Coca e lo alzò all’indirizzo di Silfide come per dedicarle un brindisi, inarcando le sopracciglia con l’indefinibile aura di chi è molto fico e sa perfettamente di esserlo.
<< Anche tu non sei male, Castellan >> rispose Silfide con fare sbarazzino, strizzandogli l’occhio. Accanto a me, sentii le nocche contratte di Grover gemere pericolosamente e lo afferrai saldamente per un gomito cercando di non dare troppo nell’occhio.
<< Posso portarmela via un attimo? >> chiese Luke rivolto a me e a Grover, accennando a Silfide col bicchiere di Coca-Cola. << A te non dispiace, vero, Grover? Tanto con quelle zampe non puoi ballare, no? >> non pareva che volesse fare l’antipatico, eppure l’effetto sortito fu esattamente il contrario.
Grover mugugnò qualcosa d’incomprensibile e tuttavia minaccioso, ma né Luke né Silfide ci fecero caso e sparirono tra la folla a braccetto, diretti alla pista da ballo che si illuminava.
<< Io … lo … quel … brutto … così male … verme … una bella lezione … viscido … lo prendo a cazzotti … biondo … >> Grover ringhiava frasi sconclusionate e aveva accartocciato la lattina di the freddo alla pesca che teneva in mano, stringendone i resti contorti e grondanti con fare omicida, probabilmente desiderando che la lattina si trasformasse nella testa di Luke.
Io tentai di farlo calmare.
<< Andiamo, amico >> lo consolai, << insomma, sono fratelli, no? Cosa vuoi che accada? E’ solo un … un ballo tra parenti! >> buttai lì facendo un gesto vago con la mano.
Grover mi scoccò un’occhiata inceneritrice.
<< Tu ti rendi conto, vero, che la metà degli dei dell’Olimpo è frutto di quello che tu chiami un ballo tra parenti?! >> sibilò. << E ti rendi anche conto, sì, di essere lo zio di Annabeth?! >>
Rimasi per un attimo in un attonito silenzio e sbattei le palpebre un paio di volte, tentando di metabolizzare l’informazione.
<< Va’ da lei, allora, corri! >> lo spronai subito dopo, concitato. Quella storia di Annabeth aveva sortito un certo effetto.
Grover abbozzò un sorriso acido e zampettò svelto tra la folla, dalla quale fu subito inghiottito.
Io rimasi solo davanti al tavolo degli stuzzichini salati e mi servii una manciata di patatine, sovrappensiero.
Fu allora che la vidi; oltre il padiglione, che risaliva la collina in equilibrio precario sulle scarpette scarlatte, avvolta in uno splendido abito bordò con uno scialle di tulle dello stesso colore attorno alle spalle, gli occhi metallici brillanti come stelle, i capelli legati in un elegante chignon.
Era Annabeth, ma era talmente bella che, se possibile, mi lasciò ancor più senza fiato del solito.
Abbandonai le patatine sul tavolo e fluttuai verso di lei, incurante di quelli che urtavo o spingevo di lato; c’era solo Annabeth nel mio campo visivo, vedevo solo lei, e, quando la raggiunsi, feci una cosa che avevo visto fare nei film e che sapevo per certo fare colpo sulle ragazze: le presi gentilmente la mano, mi chinai e la baciai sfiorandola appena con le labbra.
<< Sei bellissima, Annabeth >> le dissi, incrociando il suo sguardo luminoso.
Lei mi sorrise, imbarazzata e felice al tempo stesso; si era messa il rossetto.
<< Grazie, Steve. Anche tu >> rispose, poi si schiarì nervosamente la voce, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. << Wow, il baciamano. Che galante >> aggiunse, ridacchiando in modo adorabile.
Io le offrii il braccio come aveva fatto Luke con Silfide e lei lo afferrò, piacevolmente colpita, così risalimmo insieme la collina fino al padiglione-discoteca; Annabeth si appoggiava a me e, di tanto in tanto, sbandava da un lato, stritolandomi il gomito per non cadere a terra.
<< Scusa >> borbottò a disagio, aggrappandosi al tavolo delle bevande come ad un’ancora di salvezza. << Sono queste scarpe alte, sai … non ci sono tanto abituata >> abbozzò un sorrisetto di scuse.
Non avevo mai visto Annabeth così a disagio; di solito era così fredda e distaccata da fare invidia ad un ghiacciolo. Inoltre era sempre la migliore ed eccelleva in qualunque cosa facesse. Ma vederla così, quella sera, vestita benissimo e un po’ impacciata, me la fece piacere ancora di più.
<< Non fa niente >> le dissi, porgendole la mano. << Puoi usarmi come appoggio, per stasera, non me la prenderò se ruzzoleremo a terra >>.
Lei ridacchiò.
<< Speriamo solo che non accada >> rispose, prendendomi la mano. << Sarebbe davvero imbarazzante >>.
Insieme ci dirigemmo alla pista da ballo: in quel momento stavano suonando Animal di Kesha, così ci mettemmo a ballare; Annabeth si muoveva bene persino su quei trampoli.
Le luci stroboscopiche mi facevano vedere tutto a scatti e non si capiva niente per quanta confusione c’era, ma io guardavo Annabeth e mi stavo divertendo un mondo. Ridevamo senza una ragione specifica, ma la musica era talmente sparata a palla che non riuscivamo neppure ad udire il suono delle nostre voci, e ballavamo scatenandoci come pazzi.
Da qualche parte più in là sulla pista avvistai Silfide e Luke che volteggiavano con tanto entusiasmo da aver creato il vuoto attorno a loro. Del povero Grover non c’era traccia.
Poi la musica cambiò.
<< Questa qui è una richiesta >> annunciò il dj, un satiro coi capelli rasta ed un cappello da giamaicano in testa,  trafficando con dei disconi in vinile << ed è dedicata a tutti gli innamorati qui fuori. Pomiciate con discrezione, piccioncini >> mise un su un disco dall’aria particolarmente polverosa e le note di un lento si diffusero per tutto il padiglione, suscitando reazioni miste: alcuni sbuffarono e si diressero ai tavoli per mangiare, lamentandosi, mentre altri non persero tempo ad avvinghiarsi come piovre al proprio partner.
Conoscevo quella canzone: era la colonna sonora di Ghost, il film preferito di mia madre, e lei l’ascoltava sempre.
Lanciai uno sguardo preoccupato ad Annabeth, che dondolava lievemente sul posto a ritmo di musica mordicchiandosi le labbra.
Cosa dovevo fare? Si aspettava che la invitassi a ballare un lento con me? Dovevo invitarla? Oppure non voleva?
Piombai all’improvviso nel panico.
Annabeth mi sorrise, inarcando appena le sopracciglia.
<< Allora? >> chiese.
<< Ehm … allora cosa? >>feci io.
<< Non mi inviti a ballare? >>
Il mio cuore perse svariati colpi ed io boccheggiai, sentendomi davvero uno sfigato.
<< Io … cer … sì … sicu … io … tu ed io … ballare … >> balbettai.
Annabeth alzò gli occhi al cielo, poi mi afferrò il braccio e se lo passò attorno alle spalle, mi prese la mano ed iniziammo a seguire la musica senza neppure che me ne accorgessi.
<< Se non lo fai tu, lo faccio io >> mi disse lei con un sorrisetto. << Stiamo già ballando, visto? >>.
Io ridacchiai, improvvisamente molto più rilassato. Era così vicina che potevo contare la pagliuzze nei suoi occhi e le lentiggini sul suo naso, non che ne avesse molte.
<< Già. Balliamo lentamente >> buttai lì con un sorriso scemo.
Intorno a noi qualche ragazza aveva già posato la testa sulla spalla o sul petto del loro compagno e a qualche ragazzo era già scivolata una mano un po’ più giù del necessario.
Vidi Grover bussare sulla spalla di Luke e spingerlo di lato senza degnarlo di uno sguardo; poi afferrò Silfide in vita e le fece fare una piroetta che le mozzò il fiato, facendola piombare tra le sue braccia.
Io ad Annabeth ridacchiammo.
Poi lei fece una cosa che non mi sarei mai aspettato, che mi colse del tutto alla sprovvista e mi spiazzò, ma che al tempo stesso mi rese l’adolescente più felice del mondo: appoggiò il capo nell’incavo del mio collo e mi abbracciò.
Io ricambiai subito, il cuore che mi batteva a mille, un sorriso ebete che mi spuntava sul volto e ringraziai gli dei che Annabeth non potesse vedere che razza di faccia da scemo avessi messo su; rimanemmo a ballare piano piano stretti insieme fino alla fine della canzone.
E fu l’esperienza più romantica e meravigliosa della mia vita.
Quando la melodia terminò, Annabeth sciolse l’abbraccio e mi guardò negli occhi.
Se fossi stato un altro l’avrei baciata subito, senza esitazioni, ma purtroppo ero io, Steve Johnson, l’essere più imbranato del pianeta, e non lo feci, non ne ebbi la forza.
Se solo avessi saputo che un’occasione del genere non mi sarebbe più capitata tanto facilmente …
Ma allora non ne avevo idea e lasciai che Annabeth si separasse da me; lentamente, ma la lasciai andare.
Rimanemmo uno di fronte all’altra, sorridenti e imbarazzati, senza sapere cosa dire; poi un urlo agghiacciante giunse a toglierci d’impaccio.
<< CI ATTACCANO! >> urlò un satiro, trafelato, galoppando verso di noi dalla foresta, gli abiti mezzi stracciati. << I MOSTRI CI ATTACCANO! >>
Tutti gli sguardi erano puntati nella sua direzioni, tutti tacevano.
Dietro al satiro, emergendo dal bosco, spuntarono enormi serpenti  striscianti che si contorcevano nell’ombra, segugi infernali lanciati al galoppo con le zanne lunghe come sciabole scoperte e grondanti di bava e, levandosi dagli alberi bui della foresta come orribili pipistrelli giganti, un nugolo di arpie che strillavano come coyote.
<< Siamo spacciati >> commentò Annabeth. Io le presi istintivamente la mano.
Poi fu il caos.

 

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