Confession Of a Hot Mess

di SilvychanUchiha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.Prologo.Come gli Smarties ***
Capitolo 2: *** Cap.1 Raggi di sole e statue di cera ***
Capitolo 3: *** Cap.2 Belli e Balli ***
Capitolo 4: *** Cap.3 Come quella di Edward Cullen ***
Capitolo 5: *** Cap.4 Batterie, Buchi e Pagliacci ***
Capitolo 6: *** Cap.5 Come uno dei ragazzi ***
Capitolo 7: *** Barbie e Ken ***
Capitolo 8: *** Cap.8 Come tutte le coppie normali ***
Capitolo 9: *** Cap.9 Hot Mess ***
Capitolo 10: *** Cap.10 Come una pozzanghera ***
Capitolo 11: *** Cap.11 La Regina di cuori ***
Capitolo 12: *** Cap.12 Uno di troppo ***
Capitolo 13: *** Cap.13 Domino ***
Capitolo 14: *** Cap.14 In Quel senso ***



Capitolo 1
*** 1.Prologo.Come gli Smarties ***


PROLOGO

COME GLI SMARTIES

 

27 GIUGNO

 C aro diario,
Ho conosciuto il ragazzo che probabilmente sposerò…peccato che abbia la ragazza e che non sarò mai alla sua altezza!
E peccato anche che sappia solo che si chiama Cameron (lo so, il nome lascia un po’a desiderare, ma non importa: gli darò un soprannome) e che ha 17 anni.  È in vacanza con tre suoi amici, ma nessuno riesce a reggere il confronto: due di loro sono spilungoni e smilzi, entrambi con una chioma biondo-rossiccia e la pelle pallida, senza un filo di muscoli e senza ombra d’ambizione (forse sono parenti), mentre l’altro è bassetto e leggermente tarchiato, ha i capelli castani pettinati in un’orribile frangetta che gli si estende per metà del viso e si aggira per la spiaggia con fare da macho –neanche fosse Robert Pattinson! Devono essere dei tipi estremamente interessanti per suscitare l’attenzione di un tipo come Cameron e spingerlo anche ad andarci in vacanza insieme…
Anche la sua ragazza non è proprio sul suo stesso livello: è alta, ha i capelli molto lisci di un biondo molto poco naturale, gli occhi castani tanto scuri da sembrare piatti, dipinti su quel volto perfetto a forma di cuore, e un fisico da fotomodella mancata. Oddio, ecco perché non fa nemmeno fatica a squadrarmi da capo a piedi: sa che in tutta la spiaggia non ha rivali. Dall’alto della sua perfezione (che non avevo mai notato finché non mi ci ero soffermata) è sicura che il semidio con il quale esce non si sforzerà nemmeno di prendere in considerazione una di noi comuni mortali. Da quando sono arrivati (la settimana dopo di quella in cui siamo arrivate Stella ed io), il fusto -che è anche la cosa più simile a una statua greca che io abbia mai visto- ha contato più vittime della peste e, in nemmeno trenta secondi, tutte le ragazze della spiaggia si sono strainnamorate di lui. Come al solito, grazie a una delle mie figuracce da circo sono riuscita a parlarci. Un giorno, infatti, stavo percorrendo la passerella per andare al bar con Stella, quando all’improvviso lei comincia a ridacchiare e mi dice: “Ti pago il gelato e vado a chiedere il numero a quello nuovo- che poi sarebbe Cameron, che ignorante che è!- se arrivi fino al bar camminando all’indietro”. Da brava credulona quale sono, mi sono girata e, sbeffeggiandola, ho detto alla mia futura ex migliore amica: “Prendi appunto: voglio una coppetta media con cioccolato, stracciatella e panna montata e il numero del bellone scritto sul cucchiaino”. Il problema è che il bellone stava camminando verso la spiaggia e, oltre ad avergli in pratica detto in faccia che mi piaceva, gli sono anche andata addosso! In tre secondi e otto mi sono rigirata verso di lui chiedendogli scusa e sentendo le guance andarmi a fuoco. Molto gentilmente, mentre la sua compagnia mi rideva sfacciatamente in faccia, mi ha detto, con la sua voce da incantatore di serpenti, simile a quelle che si sentono nelle pubblicità delle macchine di lusso, “Di niente”. Troppo imbarazzata per dire anche solo un’altra sillaba, sono partita alla velocità della luce verso il bar, dove sono rimasta finché non sono tornata a casa dalla vergogna. Mentre rimuginavo sull’accaduto e pensavo a quale fosse il modo più doloroso per decapitare la mia amica, riaffioravano alla mia mente le immagini di quel nostro incontro ravvicinato.
Oddio, che emozione! I suoi occhi del colore degli Smarties (non quelli rossi, quelli blu!) erano stati nei miei per circa due secondi- che a me sono sembrati sufficienti per decidere che dovevamo assolutamente sposarci- ed ero riuscita a parlarci! Da quel giorno mi saluta tutte le volte che ci incontriamo e l’ultima volta che io e Stella siamo andate al chiosco della spiaggia a comprare qualcosa da bere ci ha sorriso e si è fermato a parlare per un po’con noi…
A dispetto del suo aspetto altezzoso e presuntuoso, è un ragazzo molto simpatico e dalla battuta pronta ed è anche molto gentile con me…oddio, forse gli piaccio…
Io che piaccio a uno come Cameron? Sì, e i pinguini ballano la Hula con i cocchi e il gonnellino di paglia sulle navi da crociera! Per favore, mi tratta così solo perché dopo il nostro imbranato primo incontro crede che io non abbia tutte le rotelle a posto, ecco perché è gentile! Comunque, non è che la sua compagnia mi dispiaccia e credo che finché uno dei due non tornerà a casa continuerò a passare le mie giornate con lui mooolto volentieri!
Ciao caro diario, adesso scappo…vado a vedere se è arrivata in spiaggia la mia statua preferita!

Con tanto affetto e tanti…oh, vabbè, hai capito!
Ciao ciao
Haylie 

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Capitolo 2
*** Cap.1 Raggi di sole e statue di cera ***


 

Ciao a tutti! Ecco a voi il primo capitolo: io e la mia amica Camilla ringraziamo tutte le persone che hanno letto / recensito / indicate come seguite / indicata come preferite o da ricordare.
Se volete recensire saremmo molto contente.Buona lettura. =D 


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CAPITOLO UNO

RAGGI DI SOLE E STATUE DI CERA

 
Ero al telefono con Stella, la mia migliore amica non che ragazza più carina/popolare/corteggiata della mia oramai ex scuola, quando mio padre mi annunciò che eravamo arrivati. Prima di essere interrotte dall’entusiastico annuncio di Adam –non avevo ancora perso l’abitudine di rivolgermi a lui con il suo nome di battesimo, anche se stavo facendo progressi- Stella mi stava raccontando della sua ultima conquista: si chiamava Publius ed era al quarto anno. Secondo lei era bello come il sole e ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che un ragazzo così perfetto avesse potuto interessarsi a lei. Se la conoscevo davvero bene come pensavo, a questo punto sul suo viso gongolante erano spuntate le sue adorabili fossette, mentre con la mano non occupata dal telefono stava torturando il ciuffo biondo platino proprio sotto il suo orecchio sinistro. Sapeva che stavo ignorando il suo annuncio di proposito, così Adam mi ammonì ripetendomi che eravamo arrivati e che dovevo staccarmi dal telefono. Come se non bastasse, mi trafisse con uno sguardo di ghiaccio e sembrava talmente arrabbiato del fatto che stessi ammazzando la sua euforia, che per un secondo tutta l’autorità che zampillava dai suoi occhi mi fece quasi paura, perciò salutai velocemente e controvoglia Stella e riposi il cellulare in borsa.
“Era ora” mugugnai con una voce che era a metà tra l’annoiato e il furioso, prima di scendere dalla macchina. Era bastata un’occhiata più che rapida alla facciata della casa sulla spiaggia che mi avrebbe ospitata -e che sarebbe anche stata la mia prigione personale- per farmi cambiare totalmente umore e farmi andare in iperventilazione. Non mi intimidiva -in fondo era solo una stupida casa… mi terrorizzava.
Pur essendo a conoscenza che per me trasferirmi dall’altra parte del paese -e, di conseguenza, cambiare completamente vita- per lo più in una casa piena di estranei equivaleva ad essere sepolta viva, mio padre voleva che mi sforzassi ad affrontare tutto quanto con un sorriso sulle labbra.
“Di solito sei una ragazza così solare”, mi aveva ripetuto in una delle numerosissime discussioni che avevamo avuto a riguardo, “non vedo come mai questo possa scombussolarti così tanto. Tira fuori un po’ di quello spirito d’avventura per cui sei famosa! Raggio di sole, coraggio…”
Sì, aveva ragione, ero una tipa solare, sempre aperta a nuove esperienze…
E allora?
Non poteva cavarsela così facilmente, dovevo trovare il modo di fargliela pagare.
Mia madre era appena morta e lui mi aveva strappato dalla mia vita per incollarmi nella sua: un collage che non sarebbe riuscito nemmeno con Photoshop…
Adam ci aveva abbandonate quando avevo appena cinque anni e adesso pretendeva di riallacciare i rapporti come se niente fosse. Mi aveva messa in stand-by, ferma ad aspettare che lui finisse di giocare alla famigliola felice con una sconosciuta.
Aveva abbandonato me per fare da padre ai figli di qualcun altro.
E adesso voleva la sua bambina indietro.
Beh, siamo spiacenti di informarla che la sua bambina non c’è più. È stata rimpiazzata da una “solare” adolescente pericolosamente in collera con il mondo, ma soprattutto con lei.
Scesi dall’auto e mi avvicinai lentamente e con molta cautela alla luminosissima casa sulla spiaggia che da quel giorno in poi sarebbe stata casa mia. Sentii il cuore accelerare all’improvviso e mi resi conto che facevo fatica a respirare, una fatica che non c’entrava nulla con il mio asma, ma che dipendeva totalmente dal mio stato d’animo: sembrava come se anche il mio organismo rifiutasse quel posto, invitandomi con violenza a tornare indietro. Anche se ormai non potevo più tornare indietro…
Adam aprì la porta ed entrai in un grande salone dai colori chiari, uno spazio aperto e arioso, che avrebbe dato a chiunque altro un senso di libertà. Io, invece, stavo soffocando…
Per raggiungere i membri della famiglia che mi stavano aspettando vicino alla cucina inciampai sul primo dei tre scalini di legno che separavano la porta dal resto del pavimento, e a qualcuno scappò un risolino. Fu solo in quel momento che, per me, la loro presenza divenne estremamente reale e concreta: loro c’erano, esistevano davvero, ed erano tutti lì ad aspettare me. Erano sistemati in una posizione fissa, come fossero in posa per una fotografia che qualcuno si stava attardando a scattare, immobili e perfetti come statue di cera.
“Benvenuta a casa, Allie!” esclamò con entusiasmo quella che doveva essere Ava, la mogliettina poco più che quindicenne di mio padre, rompendo le righe.
Avrebbe potuto essere un buon modo per rompere il ghiaccio, peccato che: “Il mio nome è Hailye” tossii, imbarazzatissima. Cominciamo bene. “Comunque, grazie” dissi, sforzandomi di strappare dal mio repertorio il miglior sorriso possibile. Per fortuna ero un’attrice sufficientemente abile.
“Oh, mi dispiace tanto! E dire che tuo padre lo ripete così spesso… Ad ogni modo, io sono Ava, e questi sono Bradin e Nicky” annunciò orgogliosa, indicando due ragazzi che dovevano avere più o meno la mia età e che quasi sicuramente erano gemelli. La mia matrigna indossava un vestitino color malva tagliato all’altezza del ginocchio e aveva raccolto i capelli chiari in uno chignon dal quale erano fuggiti un paio di ciuffi che le ricadevano sulla fronte. Bradin sembrava non essersi indaffarato molto davanti all’armadio quella mattina: aveva un paio di jeans scoloriti ad arte, una maglietta bianca e infradito ai piedi. Anche lui aveva i capelli chiari, sistemati in un caschetto alla moda, e sembrava impaziente di andarsene. Forse aveva qualche impegno. Sicuramente aveva compagni, amici e magari anche una fidanzata ad aspettarlo per andare a fare una passeggiata o per sparlare dei compagni che conoscevano da una vita… Io avrei dovuto cominciare tutto daccapo.
Nicky rimase a fissarmi senza muoversi di un millimetro, con aria di superiorità, come si fissa qualcuno che sta invadendo il tuo spazio e che verrà presto eliminato. Indossava un vestito nero che ne evidenziava l’eccessiva magrezza e portava accessori argentati, soprattutto tra i capelli castani raccolti in un’elaborata coda di cavallo. Aveva messo troppo profumo quella mattina, e anche le palpebre erano troppo marcate dall’eyeliner glitterato, ma tutto sommato aveva un bell’aspetto. Non ero convinta che sarei stata in grado di dire lo stesso del suo carattere…
“Io chiamo Marti, e lui zio Jay” esclamò una deliziosa bimba dagli occhi e capelli scuri, che doveva avere sì e no quattro anni. Fu il primo membro della famiglia con cui ebbi un contatto fisico: molto tranquillamente, infatti, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si alzò dallo sgabello su cui sedeva e corse a circondarmi le gambe con un abbraccio. Nel frattempo si alzò anche un ragazzo altro e muscoloso, con un simpatico caschetto biondo schiarito dal sole e due occhi chiari e limpidi e mi circondò il torace con le sue braccia abbronzate, una stretta forte e confortante allo stesso tempo.
“Ciao Haylie, sono lo zio Jay!” esclamò “Ma per favore, chiamami solo Jay: sentirmi chiamare zio da degli adolescenti mi fa sentire vecchio!”
“Ok” risposi, questa volta con un sorriso sincero.
Fra tutti i presenti nella stanza, Jay e Marti erano le uniche due persone che mi ispiravano fiducia. Beh, Haylie, due su sei rappresentano una buona percentuale…
 
Era ormai tardi, avevo sonno e, francamente, anche una gran voglia di stare un po’ da sola.
Dopo le presentazioni, Jay mi aiutò a scaricare dall’auto i bagagli -che erano ancora accanto alla porta d’ingresso- prima di correre a tavola per la cena. Dopodiché, Bradin e Jay erano usciti, Nicky si era appartata per chattare su Facebook con un ragazzo e Marty si era addormentata sul divano, mentre guardava un cartone animato. Così rimanemmo solo io, Adam e Ava, che tubavano come due dodicenni. Mi sentivo il terzo incomodo, quindi chiesi: “Dov’è la mia camera?”.
Non mi sembrava una domanda così sfrontata da meritare l’occhiataccia che mi schioccò Ava.
Ah, birichina! Hai rovinato il suo momento romantico!
Oddio, se quello era romanticismo… che tristezza!
“Vieni, ti accompagno” replicò mio padre, nel tono meno brusco che riuscì a trovare.
Raccolsi in fretta le mie cose (anche la valigia più pesante), augurai una buona notte ad Ava e lo seguii mentre saliva le scale di legno fino a quello che doveva essere l’ultimo piano.
Fantastico! La soffitta, proprio come Cenerentola…
“Ecco, questa è la tua stanza. Prima era il laboratorio di Ava: è stata più che felice di cedertelo, ma domani ringraziala comunque. Il bagno è al piano di sotto. Ne abbiamo due, ma solo uno ha la doccia –quello vicino alla camera di Jay e Bradin, perciò se al mattino ne hai bisogno ti consiglio di svegliarti dieci minuti prima e impossessartene prima che lo facciano loro. Mmm, cos’altro? Ah, ecco: ti ho preso una macchina –è di seconda mano, ma per il tizio a cui apparteneva era importante quasi come i suoi figli, perciò è in ottime condizioni”, disse sorridendo.
“Se era così importante, perché l’ha venduta?” domandai sovrappensiero.
“Oh, beh… ecco, ha divorziato e ha dovuto sbarazzarsi della macchina per pagare gli alimenti”, replicò. Vedendo la mia occhiata di disappunto, o forse ansioso di tornare dalla sua mogliettina, si affrettò a concludere quella conversazione che sembrava più l’accoglienza riservata agli ospiti degli hotel più scadenti che quella di un padre alla figlia. “Ok, questo è tutto. Ci si vede domani mattina. Ti auguro una buona notte”.
Io no: voglio che la tua notte faccia schifo. Ti auguro tanti incubi e spero che la tua bambolina gonfiabile abbia mal di testa!
 “’Notte”, esclamai con il sorriso più falso che avessi mai dedicato a nessuno in vita mia.
Adam scese le scale e io entrai in camera mia.
Non era male: le pareti erano di un verde acido e raggiante e i mobili erano bianchi. L’armadio ad angolo occupava la parete alla sinistra della porta d’ingresso, al centro della stanza il letto regnava sovrano. Sul muro di fronte al guardaroba correvano tre mensole molto spaziose e vuote, che avrei potuto riempire con la mia roba e la scrivania era addossata alla stessa parete, una finestra a separare le due componenti del mobilio. Minimalista, ma aveva carattere. Finora era l’unica parte della casa dentro la quale non mi ero sentita soffocare.
Comunque aprii la finestra, per scacciare l’odore di chiuso che aleggiava in camera, comprendendo che in realtà era un balcone. Un balcone gigante dal quale potevo raggiungere ogni punto della casa camminando sul cornicione. Fico.
Provai a percorrerne un po’, ma la mia eccitazione svanì veloce così come era venuta, e mi ritrovai in piedi sulla cima del tetto dal quale, stanca com’ero, sarei potuta scivolare senza il minimo sforzo. Così tornai dentro e mi lasciai cadere sulla trapunta leggera rosa a pois gialli che ricopriva il mio letto. E sprofondai nei ricordi.
Com’era diversa la mia vecchia casa –la vera casa mia- da quel rifugio sulla spiaggia: le pareti erano pitturate con i colori più improbabili -celeste, aragosta, caramello, giallo ocra e beige- e le componenti della mobilia erano tutte di legno scuro e massiccio. Mia madre era una tipa molto eccentrica, di carattere. Niente a che fare con questi robot biondi.
Mia madre. Dio, quanto mi mancava.
A novembre le era partito un embolo, all’improvviso, e l’ultima cosa che mi aveva detto era stata: “Per favore, chiama un’ambulanza. Non spaventarti, amore. Non è niente”. Erano arrivati i paramedici a casa, l’avevano caricata sull’ambulanza e l’avevano portata via. Avevo il cervello in tilt, stava succedendo tutto così in fretta. Le stringevo la mano nel percorso verso l’ospedale, per farle capire che non l’avrei abbandonata. Mai.
Era stata ricoverata, perché la sua situazione era instabile, e per un periodo mi ritrovai a campeggiare in una delle sale d’attesa dell’ospedale. Non la lasciavo mai sola- fatta eccezione per le ore di scuola. Passavo i momenti in cui mi permettevano di farle visita a raccontarle di quello che era successo a me e a Stella durante la mattina, a riferirle i piani che avevo fatto per quando sarebbe uscita dall’ospedale, mi sforzavo anche di guardare il telegiornale tutti i giorni per poterla tenere informata. Cercavo di tenere duro: dovevo essere forte, per me e per lei.
“Andrà tutto bene”, mi rassicurò un giovane infermiere un pomeriggio. Ero appena tornata da scuola e stava piovendo fortissimo. Le gocce battevano violente sui vetri della finestra in camera della mamma, ma non abbastanza forte da coprire la voce del medico che mi diceva che le sue condizioni erano peggiorate. Mi aveva avvisata così, senza tanti preamboli e senza nessun riguardo, e io mi limitai ad annuire. Appena se ne andò, però, crollai. Tremavo e singhiozzavo al capezzale di mia madre quando arrivò Jeremy, un paramedico tirocinante, che ignorando la posizione che occupava mi strinse forte finché non mi calmai un po’. “Vedrai che andrà tutto bene, tesoro. Adesso vai a mangiare qualcosa, ci penso io a farle compagnia”, mi disse.
Mia madre era morta il giorno dopo.
Me lo comunicò lo stesso dottore che mi aveva parlato la sera prima, appena tornai da scuola.
Mi sentii malissimo: l’avevo abbandonata quando aveva avuto più bisogno di me.
“Non avresti potuto aiutarla, in nessun modo”, cercò di consolarmi Jeremy. “Hai fatto tutto quello che hai potuto, e sono certo che tua madre non si sia mai sentita sola durante il periodo che ha passato qui. Sono sicuro che abbia sentito la tua presenza fino alla fine”. Mi sorrise, un sorriso teso ma sincero. Non ricordo se o cosa risposi. L’unica cosa che ricordo sono le braccia della mamma di Stella che mi stringevano la vita e le dita della mia amica che mi lisciavano i capelli con fare protettivo. Erano state loro ad aiutarmi con il funerale e tutto il resto: mio padre non si era degnato di lasciare la sua famiglia posticcia nemmeno in quell’orribile occasione. Si era fatto vivo solo telefonicamente. Telefonicamente mi aveva avvisata che la mia custodia era rimbalzata nelle sue mani, telefonicamente mi aveva avvertita che sarei dovuta andare a vivere con lui e telefonicamente mi aveva informata che sarebbe stato un trasferimento prossimo e duraturo.
C’era voluto qualche mese per sistemare tutte le scartoffie dell’affidamento, ma il momento di cambiare vita era arrivato comunque troppo presto.
Avevo le lacrime agli occhi quando decisi di alzarmi dal letto e di sistemare le mie cose, per rendere quella stanza più mia. Tolsi i vestiti dalle valigie e gli accessori dal beauty-case, ma decisi di rinviare la colonizzazione di una mensola del bagno al giorno dopo. Poi mi concentrai sugli oggetti che decoravano la mia vecchia stanza: una cornice di vetro colorato con una foto di me e Stella la sera del ballo di inizio anno, un’altra cornice con una foto che avevamo fatto al mare e una gigantografia di quando a Natale ci eravamo vestite da renne per beneficenza. La lavagnetta di legno su cui avevo raccolto tutte le cartoline che mi aveva inviato la mia amica dai suoi viaggi in posti esotici era rimasta sul fondo dello scatolone, insieme al portafoto di legno che incorniciava me e mia madre, sorridenti e abbronzate subito dopo le vacanze estive. Appoggiai il mio peluche preferito -una pecora dall’aria buffa e imbranata- su una mensola, vicino alla poltroncina azzurra che fungeva da portacellulare, e un vaso di vetro decorato con dei girasoli sulla scrivania.
Mi sentivo un po’ più a casa, con tutta la mia roba a circondarmi.
Poi feci una capatina in bagno, indossai il pigiama e mi infilai sotto le coperte, sperando di riuscire ad addormentarmi in fretta: l’indomani mi aspettava il mio primo giorno di scuola, ed ero convinta che a Santa Monica nessuna ragazza andasse in giro con le occhiaie da stress. 

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Capitolo 3
*** Cap.2 Belli e Balli ***


Ecco il secondo capitolo. Io e Camilla speriamo che vi piaccia.=) Mi raccomando recensite.=)

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CAPITOLO DUE

BELLI E BALLI

 
Ero già sveglia quando l’allarme del cellulare squillò, quella mattina: la mattina del mio primo giorno alla J. F. Kennedy High School di Santa Monica.
Mi alzai in fretta, ricordandomi quello che mi aveva detto Adam riguardo alla doccia, e mi precipitai giù per le scale, accappatoio alla mano. Arrivai giusto in tempo per bloccare Jay sulla porta e convincerlo a farmi fare una doccia veloce. Fortunatamente acconsentì, ma mi aspettò davanti all’ingresso del bagno, per non farsi rubare la posizione guadagnata da Bradin.
Mi lavai velocemente e uscii dal bagno di corsa, per andare sistemare i miei capelli impossibili. In camera, indossai un paio di jeans scuri, una camicetta bianca, Converse gialle ai piedi (le mie preferite) e un bracciale con grosse perle color rosa shocking. Poi mi concentrai sull’acconciatura. Mentre mi vestivo, i capelli si erano in parte asciugati, perciò li pettinai per districare i nodi per poi vaporizzare lo spray anti-crespo –il mio miglior alleato. Alla fine, dopo una veloce passata di piastra sulla frangetta che mi incorniciava il viso, i miei lunghi capelli scuri ondeggiavano con un bell’effetto spettinato al vento che entrava dalla finestra aperta. Il risultato non era affatto male, ad essere sinceri.
Scesi in cucina, trascinandomi dietro lo zaino blu scuro che conteneva le cose essenziali per sopravvivere a scuola, e mi accomodai su uno sgabello vicino alla tavola apparecchiata con ogni ben di Dio: frutta fresca, secca, frittelle, uova strapazzate, pancetta, pane tostato, latte, caffè, succo di frutta e spremuta.
Ok, questo è meglio che a casa.
Ad Albuquerque, mamma usciva di casa prima di me e io facevo colazione con latte e cereali, oppure con un pacco di crackers.
“Buongiorno”, esclamai, fingendo che tutto stesse andando bene –come del resto facevo da un po’ di mesi, ormai.
Ottenni come risposta un grugnito indefinito e di massa. Accidenti, com’è di cattivo umore la gente qui, di mattina presto! Così mi servii da sola e senza proferire parola mi sistemai in un angolo a mangiare le mie uova.
“Cavoli! Mi si è rotta un’unghia!”, sbraitò Nicky all’improvviso, mentre correva in camera per rimediare al danno. A quel punto, la cucina prese vita: Bradin cominciò ad insultare sua sorella, che strillava offese di risposta dal piano di sopra, Marti parlava animatamente con un suo amico immaginario e Jay e mio padre cominciarono a parlare di una gara di surf che si sarebbe tenuta di lì a poco. Ava canticchiava mentre preparava il pranzo a noi ragazzi e mi chiedeva come avessi passato la notte. “Ehm, posso chiederti con cosa stai imbottendo i panini?”, chiesi, terrorizzata.
“Nutella. A tutti piace la Nutella. Inoltre dona molta energia, e a voi ragazzi serve l’energia, per concentrarvi sullo studio e tutto il resto…”, sorrise.
“Non credo che mi aiuterebbe a concentrarmi, anzi. Mi aiuterebbe solo a finire al pronto soccorso. Sono allergica al cacao e mi gonfierei come una mongolfiera…”. Perché mi guardano tutti male?
“Mi dispiace, non lo sapevo”. Ecco un’altra prova di quanto poco io e i miei nuovi coinquilini ci conoscessimo e di quanto quella convivenza fosse sbagliata. “Quindi cosa vuoi nel sandwich? Burro d’arachidi? O preferisci la marmellata?”, domandò la mia matrigna, leggermente indispettita.
“Il burro d’arachidi va benissimo”, risposi. “Grazie mille”, mi affrettai ad aggiungere.
L’allergia faceva parte di me, non era un vizio né un capriccio. Allora perché mi sentivo quasi in colpa per la mia intolleranza?
 
La mia macchina non era ancora arrivata, quindi fu Adam ad accompagnarmi a scuola, quella mattina. Mi scaricò davanti a un grande polo scolastico formato da tre edifici, uno al centro –più grande- e due laterali. Nella palazzina centrale sventolava una bandiera con lo stemma della scuola –un’aquila dalle ali dispiegate, che fantasia…- e una scritta a caratteri cubitali: J. F. Kennedy High School.
Attraversai il prato che circondava la scuola per raggiungere la grande scalinata di cemento bianco che conduceva alla porta a vetri che fungeva da ingresso e, dopo un grande sospiro, entrai. Mi diressi verso la segreteria seguendo le indicazioni sparpagliate per i corridoi, guardandomi intorno con fare attento. Poi realizzai quanto fosse ingiusta la vita: in quella scuola erano tutti bellissimi –o, perlomeno, più belli di me. Non ero solo quella nuova, ma sarei stata anche il brutto anatroccolo del liceo. Le ragazze avevano tutte un fisico asciutto e la pelle imbrunita dal sole, mentre i ragazzi erano tutti alti e atletici, il fisico scolpito da ore e ore di surf e palestra.
In segreteria, un’impiegata –i capelli castani raccolti in una treccia e occhiali alla moda- mi consegnò l’orario, la combinazione dell’armadietto e il regolamento della scuola, a cui diedi un’occhiata veloce mentre mi dirigevo verso l’ala del palazzo in cui si trovava il mio armadietto. È pazzesco: nella pausa pranzo è consentito uscire per andare a pranzare in spiaggia…
“Ciao, io mi chiamo Harry, e sono gay”. Una voce squillante mi risvegliò dai miei pensieri e mi accorsi che un ragazzo, la spalla appoggiata alla parete, mi stava porgendo la mano. Aveva un gran bel fisico, a dire il vero, e un paio di occhi neri e vispi messi in evidenza dal taglio alla moda dei capelli scuri.
“Ehm, io sono Haylie e sono quella nuova”, risposi sorridendo, stringendogli la mano.
“Lo so. È per questo che ho convinto la segretaria a darti un armadietto accanto al mio, perché speravo che almeno quella nuova non mi giudicasse uno sfigato”, disse con convinzione, prima di aggiungere: “So che in Tennessee avete una mentalità più aperta, quindi potresti essere una delle poche persone a scuola a non giudicarmi per i miei orientamenti sessuali”.
“Già, l’ho sentito dire anche io. Però io vengo da Albuquerque, che si trova in New Messico…” precisai dubbiosa, ma allo stesso tempo divertita. Mi piaceva quel ragazzo, e saremmo potuti diventare amici senza sforzo.
“Infatti, New Messico, e io che cosa ho detto? Comunque, hai già adocchiato qualcuno di appetitoso in giro?”, domandò con fare cospiratorio.
“Ho solo notato che nessuno di voi era in vacanza quando il Signore ha distribuito la bellezza…”, mi interruppi e cominciai a ridere seguendo Harry, che si stava spanciando dalle risate.
“Forte. Senti un po’, di che segno sei?”. Non riuscivo a stargli dietro, cambiava discorso troppo velocemente.
“Leone”.
“Leone. Simpatica, sincera, fedele e passionale … mi piace, diventeremo grandi amici. Io sono dei pesci, anche se ho l’ascendente in acquario”, mi informò. Era il caso di dirgli che non avevo capito quasi niente del suo discorso? Forse no.
“Buon per te”, mi limitai a rispondere. “Non è ora di andare in classe?”.
“Ancora no, ma ti accompagno alla prima lezione, così ti presento un po’ la scuola”.
La J. F. Kennedy High School era enorme. All’interno delle sue tre palazzine ospitava un teatro, una palestra, una piscina e tantissime aule e laboratori. In più, all’esterno c’erano un campo da calcio, uno da tennis e uno da basket, oltre allo sconfinato giardino su cui si passava la pausa pranzo, come mi informò Harry.
Mentre scorrazzavamo da una parte all’altra della scuola, incrociai Bradin che camminava a passo spedito verso un gruppo di ragazze pon-pon. Il suo sguardo incrociò il mio per un secondo, per poi tornare a concentrarsi sulle piastrelle chiare del pavimento.
“Ciao, Bradin”, azzardai.
“Ciao, Harry”, fu la sua risposta.
Infame.
“Non ci posso credere, mi ha completamente snobbata!”, esclamai, stupendomi subito dopo di me stessa. Mi conosce sì e no da dieci ore, che cosa mi aspetto da lui? 
“Oh, tesoro. Bradin McGregory è uno dei più fighi della scuola. Io sono stato suo compagno di laboratorio quasi due anni prima di ottenere qualcosa che somigliasse a un saluto, perciò non prendertela, sono certo che più in là nel tempo ti noterà”, cercò di confortarmi il mio nuovo amico.
“Non è come pensi tu. Ecco, io…”, sospirai: dirlo a qualcuno lo avrebbe reso tangibile, una realtà inconfutabile. “Io sono la sorellastra di Bradin”.
“Oh… Allora sì, hai ragione tu: ha il dovere di rivolgerti la parola. Oggi a pranzo ti presento ufficialmente alla cricca”.
“La cricca?”. Credevo che quel termine fosse usato solo nei polizieschi scadenti degli anni ottanta…
“Sì, il mio gruppo, i miei amici o come li vuoi chiamare tu. Adesso ti conviene andare in classe, se non vuoi finire in punizione il primo giorno di scuola… Però sarebbe da duri, ti faresti una buona pubblicità…”, stava già divagando. Lo conoscevo solo da pochi minuti, ma già avevo capito quanto fosse difficile far concentrare Harry per più di due secondi.
“Ok, allora a dopo”.
“Sì, ti vengo a prendere dopo spagnolo. Divertiti, New Mexico!”. Se qualcun altro avesse cominciato a chiamarmi New Mexico sarebbe stata la fine –mia e di Harry, perché lo avrei strangolato.
Le prime tre ore furono facili: francese, letteratura e spagnolo. Ero un asso in tutte e tre le materie. I guai sarebbero venuti nel pomeriggio, dove si erano concentrate biologia, educazione sessuale –che era l’unica materia che avevo in comune con Harry- e matematica. Non eccellevo in nessuna materia scientifica, ma in matematica facevo proprio schifo. Non ero una tipa molto razionale: avevo sempre fatto fatica a capire chi avesse deciso che due più due dovesse fare quattro e perché tutti dessero retta a quel tipo. L’ora di pranzo arrivò in un baleno, e mi trovai a camminare per i corridoi con il mio amico che mi faceva da giuda. “Quella è Zoe Bellenger, una vacca. Ha praticamente fatto fare un giro a tutti, a scuola. Viaggia sempre in coppia con Beth Patterson, sua amica e complice. Insieme, hanno sbucciato più banane di un branco di scimpanzé. Lo vedi quel fusto con i capelli a spazzola? Quello è Sam Wilkinson, campione di basket nonché gorilla brevettato. Louis Cooper è il più secchione dell’istituto, ma non ti farebbe dare una sbirciatina ai compiti neanche se tu gli facessi dare una sbirciatina al tuo bel balconcino. Si dice che sia ancora vergine, nonostante frequenti l’ultimo anno. Secondo me è vero. Insomma, hai visto che scarpe porta? Quale ragazza sana di mente si farebbe mettere le mani addosso da un tizio che ha ai piedi i sandali di suo nonno?…”. Cercavo di stare al passo con Harry, ma non ci riuscivo. Vacche, scimmie, banane, gorilla… Ma di cosa stavamo parlando, di una scuola o di uno zoo?
Arrivammo alla mensa prima del previsto e Harry mi presentò subito alla “cricca”.
“Ragazzi, questa è Haylie, la ragazza nuova”. Mi indicò con un pollice, mentre si sedeva e mi faceva cenno di accomodarmi accanto a lui.
“Ciao, bellezza”, mi salutò un ragazzo troppo abbronzato per essere sexy.
“Ciao”, risposi, imbarazzata a causa del tono malizioso che aveva usato. Nella mia vecchia scuola, i ragazzi non avevano il cervello foderato dagli ormoni…
“A cuccia, Nick. Non provare neanche ad avvicinare le tue manacce al suo bel corpicino”, nel tentativo di aiutarmi, Harry aveva solo aumentato il mio imbarazzo.
“Tutto qui il tuo grande gruppo di amici?”, domandai leggermente innervosita. C’erano solo due persone sedute al tavolo con noi, troppo poche per definirsi una “cricca”. All’appello mancava ancora Bradin e magari anche qualche suo amico carino. Non volevo trovarmi un ragazzo –dopo tutto quello che mi era successo negli ultimi tempi, l’ultima cosa di cui avevo bisogno era un cuore spezzato-, volevo solo mangiare con un bel panorama a rifarmi gli occhi. Non feci in tempo ad aggiungere nient’altro, perché Harry mi prese per mano, facendomi voltare verso l’ingresso mentre mi alzavo. Altri quattro ragazzi stavano venendo verso di noi, sorridendo.
“Gente, vi presento Quella Nuova”, disse loro, quando arrivarono al tavolo.
“Che poi si chiamerebbe Haylie”, precisò Bradin, a voce bassa e con un’espressione strana sul volto.
“Com’è che già la conosci, McGregory?”, domandò Nick con fare scocciato, come se fossi di sua proprietà. “Cos’è, siccome sei il più figo è tua di diritto?”.
Nello stesso istante, io specificai che non ero proprio di nessuno e Bradin che ero la sua sorellastra. E poi, lui non è affatto il più carino. Io preferisco di gran lunga il suo amico…
“Beh, Brad lo conosci già, quindi lui è Bentley e lui è Cameron, ma lo chiamiamo tutti Cam”, mi disse Harry, indicando l’Amico Carino, che aveva anche lui qualcosa di familiare.
“Oh, mio Dio. Non posso crederci”, Cam mi fissava, incredulo. “Tu sei… Oddio, tu eri… È possibile che io ti abbia incontrata quest’estate a San Diego?”, chiese infine. Ecco dove avevo già visto quegli occhioni blu come gli Smarties…
“Oh, cavolo. Cam!”, esclamai.
“Ciao, Bella!”. Ridemmo entrambi, ricordando il nomignolo che mi aveva affibbiato tanto tempo prima, dicendo che rimava con Stella (il nome della mia migliore amica). Poi si abbassò –era sempre molto più alto di me…- e mi stritolò in un abbraccio degno di Braccio di ferro, per quanto era forte. Non era cambiato di una virgola: aveva ancora i soliti capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte e il fisico da urlo.
“Vedo che vi conoscete già”, disse Harry, la voce un po’ stizzita. Forse era arrabbiato perché sapeva che non avrebbe più avuto l’esclusiva su di me.
“Scherzi! Abbiamo praticamente passato le vacanze estive insieme!”, specificò Cam, allentando la presa. “Oh, mio Dio, non posso crederci! Ma tu non abitavi ad Albuquerque?”, mi domandò entusiasta. “Mi sono trasferita!”, risposi, con più foga del dovuto.
Ci sedemmo intorno al tavolo, Harry accanto a me e Cam di fronte. Non smettemmo di parlare nemmeno per un secondo. “Come sta la tua amica? È da tanto che non la vedo…”, chiese mentre affondava i denti nel suo hot dog.
“Stella sta bene, grazie. Le dirò che la saluti, nella prossima e-mail che le scriverò. Non riuscirà mai a credere a questa coincidenza… In effetti, è pazzesco…”.
“Già: di tutte le scuole negli Stati Uniti, è assurdo che ti sia trasferita proprio nella mia!”.
“Infatti! Se fosse un film non ci crederebbe nessuno…”.
Suonò la campanella e annaspai nello zaino in cerca dell’orario.
“Che materia hai, adesso?”, chiese Cam, curioso.
“Ehm, biologia. Aula 37c, con il professor Frost”.
“Non è un professore, è una professoressa”, mi rispose soffocando un risolino.
“Ah, la conosci?”.
“Sì, da tre anni, ormai. È anche la mia professoressa: siamo in classe insieme”.
“Ma dai! Stai scherzando?”.
“No, no scherzo. Dai, vieni. Ti accompagno”. Sogghignava e mi persi nel suo sorriso. Non mi ricordavo che fosse così bello…
Mentre Cam mi guidava per i corridoi, mi porse la domanda fatale: “Come mai sei venuta a vivere qui?”. “Facciamo che te lo dico più in là”. Cercai di risultare sicura e un po’ ammiccante, per nascondere le lacrime che cominciavano a gonfiarmi gli occhi. Fortunatamente funzionò e Cam non mi chiese più nient’altro a riguardo. Forse aveva capito che era qualcosa di serio. Poi mi ricordai un dettaglio. “Aspetta, come mai siamo in classe insieme? Tu sei un anno più grande di me…”.
“Facciamo che te lo dico più tardi”, fu la sua risposta, facendomi il verso. Stavamo ridacchiando quando entrammo in classe. Cam minacciò il suo compagno di laboratorio per fargli cedere il posto a me. Mi sentii un po’ in colpa, però funzionò. La lezione scorse velocemente: la signorina Frost aveva poco polso, ma un grande carisma –ti sentivi attratto dalla sua spiegazione come se fosse una coppa di gelato con le fragole. Poi Cam mi scortò nell’aula di educazione sessuale, altra materia che avevamo in comune, chiacchierando senza sosta.
In classe vidi Bradin che chiacchierava con Nick e Bentley, circondati da un altro gruppetto di amici. Un paio di ragazzi parlavano concitatamente seduti su due banchi vicino alla finestra e un terzo li ascoltava dal cestino dove stava sputacchiando i resti di una gomma masticata. Studiai attentamente la classe: non c’era segno di nessuna ragazza. Oh, mio Dio…
“Forse mi sono dimenticato di dirti che, beh… ecco, sei l’unica ragazza in classe…”, mi spiegò Cam, leggermente imbarazzato.
“Come? L’unica? Vuoi dire che non ce ne sono altre oltre a me?”.
“Sì, l’ultima volta che ho controllato era questo il significato di unica”. Dovevo avere un’espressione folle, perché aggiunse: “Oh, vedrai: sarà divertentissimo. Ti sentirai subito a tuo agio”. In effetti, aveva avuto ragione. Scampate le battutine maliziose fatte dal professor Moore mentre mi presentava al resto della classe –quando mi aveva detto che avrei avuto molte cose interessanti da scoprire…-, nessuno aveva fatto particolarmente caso a me. Forse non gli interessava niente della ragazza nuova. O forse entrare in classe scortata da Cam mi aveva fatto guadagnare punti e rispetto. Non ti illudere Haylie, è sicuramente la prima…
Durante l’ora di matematica cercavo di seguire il ragionamento della signorina Sebastian, quando all’improvviso Cam –seduto nel banco proprio davanti al mio- si voltò, l’espressione speranzosa.
“Che fai sabato sera?”. Mi si fermò il cuore. Avevo aspettato quella richiesta per tutta l’estate, e finalmente era arrivata.
“Oh, beh... credo che andrò a buttare la spazzatura. Sai, è il mio passatempo preferito”. Riuscii a mantenere la voce annoiata e distante, come se mi capitasse tutti i giorni di ricevere inviti per il sabato sera da ragazzi belli quanto Cam.
“Oh, allora… Peccato, perché volevo chiederti se avevi voglia di venire al Ballo di San Valentino… niente di speciale, ma ci andiamo tutti insieme e potrebbe essere divertente”, disse soprappensiero, reggendomi il gioco. “Però se sei occupata… Divertiti con il tuo bidone dell’immondizia”.
“Signor Bale, so che la signorina Wisley ha un aspetto più gradevole del mio, ma le sarei grata se tornasse a concentrarsi sulla lezione”, ci riprese piccata la signorina Sebastian, mettendo bruscamente fine alla conversazione e scatenando un’ondata di risolini sparsi per la classe. Poco dopo, Cam fece atterrare un pezzo di carta accartocciato sul mio banco, in cui aveva scritto, con la sua calligrafia disordinata: Passo a prenderti alle 8!
 
“No, era meglio quello di prima: al giallo è decisamente il tuo colore”, mi informò Harry, che, nel frattempo, aveva agguantato altri tre vestiti dalla vetrina. Eravamo da “Bernadette”, uno dei posti più economici della città, come mi aveva avvisato il mio amico. Avevo addosso un vestito lungo e stretto, color malva.
“Non lo so, Harry”, dissi con voce incerta. “Siamo a febbraio e devo andare al Ballo di San Valentino, il giallo non è un po’ troppo azzardato? Magari è meglio tenerci su colori più tradizionali…”. Non era la tonalità il vero problema. Il vestito che avevo provato era a dir poco vistoso: aveva una scollatura vertiginosa che conteneva a malapena il mio seno e non arrivava nemmeno a metà coscia. Non è che volessi fare colpo, ma non volevo nemmeno sembrare una spogliarellista… Discutemmo un po’, e dopo circa quarantacinque minuti arrivammo ad un compromesso: comprai un vestito giallo canarino, arricciato sul decolleté e in stile impero che cadeva svolazzante fino al ginocchio, abbinato a sandali senza tacco color oro. Poi trascinai Harry dritto in macchina: era sabato pomeriggio, e mi erano rimaste solo tre ore per farmi una doccia, vestirmi, truccarmi e sistemarmi i capelli.
“Ti passo a prendere io, o hai intenzione di usare la tua macchinina nuova di zecca?”, domandò Harry mentre armeggiava con le manopole dell’aria condizionata dell’auto grigia che mi aveva regalato Adam -quel giorno, a Santa Monica, la temperatura raggiungeva i 25 gradi…
“Mi passa a prendere Cam, o perlomeno è quello che ha detto lunedì”.
“Cam?”, esclamò, soffocando una risata.
“Sì, perché? Qualche problema?”.
“Io no di certo. Ma credo che sarà un problema per Vania Pherdinand”.
“Chi è Vania Pherdinand?”.
“La ragazza di Cam”. Mi si gelò il sangue. Cam aveva una ragazza? E come mai si era dimenticato di dirmelo? Sentii il rumore del clacson della macchina dietro alla mia, spaventata e irritata dalla mia frenata brusca, che mi aiutò a tornare alla realtà.
“Ci sei rimasta male”, constatò Harry. “Perché?”. La domanda era legittima: Cam non mi aveva mai detto di essere in coppia, ma nemmeno il contrario. E sperare che corresse dietro a me era pura follia. “Non ci sono rimasta male, è solo che sarà imbarazzante”. Mi bloccai, per poi riprendere subito: “Insomma, ti immagini che impaccio se ci ritrovassimo in macchina io, lui e Vania? Non mi va di fare da terzo incomodo: adesso lo chiamo e gli dico di non passarmi a prendere”.
“Quanto sei melodrammatica!”. Harry alzò gli occhi al cielo, poi sospirò. “Se ti ha detto che ti passa a prendere fatti passare a prendere. Ci pensi alla faccia di Zoe quando ti vedrà scendere dalla macchina di Cam?”.
“Perché le dovrebbe interessare chi mi accompagna?”.
“Perché lui l’ha mollata due o tre giorni dopo esserci stato a letto –e tre giorni prima del Ballo di Fine Estate, ma lei gli corre ancora dietro. È anche stata a letto con Nick, per farlo ingelosire, ma lui si era già messo con Cassie Williams…”. Allarme rosso! Troppe informazioni, troppe informazioni… Non mi andava di sapere niente della vita così privata di Cam. “Ok, ho capito l’antifona. Adesso muoviamoci, devo prepararmi”, misi fine alla conversazione. Mi sentivo a disagio a parlare delle ex di Cam, dopotutto, ero ancora un po’ cotta di lui, benché sapessi di non avere speranze. A causa della morte della mamma non ci avevo più rimuginato molto, ma passarci tanto tempo insieme mi aveva fatto vedere tante cose belle di Cam che avevo scordato –compreso quanto fossero azzurri i suoi occhioni…
 
Alla fine avevo mandato un messaggio a Cam, subito prima di precipitarmi sotto la doccia, dicendogli che ci saremmo visti direttamente a scuola. Mi preparai con calma e aspettai Harry –che, come al solito, era in ritardo- seduta sul divano, mentre Marti mi presentava il suo amico immaginario. Arrivammo che la pista era già piena di ragazzi e ragazze –bellissime nei loro abiti da sera- che si muovevano a ritmo di musica. La palestra era decorata con palloncini rossi e rosa e da sopra i tavoli padroneggiavano simpatici cupidi di ghiaccio. Stavo armeggiando con uno dei cuoricini di plexiglass che pendevano dal soffitto incastrato nella spallina del vestito quando ci raggiunsero gli amici di Harry. C’erano tutti: Bradin e la sua ragazza –di cui non sapevo ancora il nome, Bentley, qual troglodita di Nick, Scott, Arthur e un altro ragazzo che faceva matematica con me. “Ciao ragazzi, ma quando siete arrivati? Prima sono passato qua davanti e non vi ho visti…”, chiese Bentley, lo sguardo crucciato.
“Harry era in ritardo –come al solito”, risposi con un sorriso. “Siamo arrivati da un paio di minuti”.
“Ok, quindi adesso si balla!”. Harry aveva usato un po’ troppo entusiasmo, ma lo seguimmo tutti comunque. Purtroppo, la mia paura peggiore prese vita. Mentre tutti si scatenavano al ritmo di una vecchia canzone degli Abba, Nick cercava di appiccicarmisi addosso. Uffa…
“Nick, non è un lento, non mi devi abbracciare. Anzi, lasciami aria, ho bisogno di respirare”. Sputai fuori, con la voce più velenosa che potevo. Ma non capiva: continuava a stringermi i fianchi e ad avvicinarsi troppo. “Nick, piantala! Vai a giocare dove ci sono i tombini aperti…”.
“Nick, smettila di darle fastidio, se non vuoi che prenda a calci finché non ti esce il sangue dai capelli…”. Cam –il mio salvatore- era appena arrivato alle mie spalle ed era anche riuscito a far allontanare quel viscido di Nick, che, sbuffando, si stava avvicinando al tavolo del buffet.
“Grazie mille”. Poi gli rivolsi il miglior sorriso mai spuntato sulle mie labbra.
“Di niente”, mi rispose sorridendomi di rimando. “Nick è un problema serio: non riesce a stare lontano a niente che assomigli vagamente a una bambola gonfiabile, figurati se gli capita sottomano una bella ragazza. Quando gironzoliamo per negozi è estremamente imbarazzante: più di una volta ci hanno cacciato perché si era appartato negli spogliatoi con un manichino…”. Non sapevo se la storia fosse vera o inventata, ma mi fece comunque piegare dalle risate. Continuando a ridere, ballammo per qualche altro minuto. “Questo ballo è una noia mortale”, sbuffò Cam un paio di volte. “Hai fame? Io non ho mangiato, ti va di accompagnarmi al Clory ? Fanno degli hamburger da capogiro…”, domandò, la voce leggermente speranzosa.
“Ehm, sì. Però non ho la macchina, sono venuta con Harry…”.
“Non ti preoccupare, poi ti accompagno a casa io”.
“Perfetto. Allora andiamo”.  



 

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Capitolo 4
*** Cap.3 Come quella di Edward Cullen ***


 

Salve a tutti! Questo è il trezo capitolo, speriamo che vi piaccia! Scusate il ritardo ma questo mese è stato piemo di impegni e non abbiamo potuto postare prima. =(
Se volete lasciare una recenzione ci farebbe molto piaciere. =)

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CAPITOLO TRE

COME QUELLA DI EDWARD CULLEN

 
Il Clory era una tavola calda sulla spiaggia, non molto lontano dalla scuola. Una delle cameriere ci fece accomodare in uno dei tavoli disposti sulla veranda, prima di portarci il menù.
“Allora? Che vuoi di buono?”.
“Non lo so, tu cosa mi consigli?”.
“Ah, la cosa migliore in assoluto sono gli hamburger ma, visto che sei una ragazza, sicuramente preferisci una deliziosa insalata senza calorie e senza sapore”. Soffocò, in malo modo, una risatina, prima di piantare gli occhi nei miei.
“Non ho intenzione di ordinare un’insalata”, risposi fingendo indignazione. “Anche se ne avrei bisogno. Ultimamente ho accumulato un paio di chiletti che…”.
“Nah!”, mi interruppe Cam. “Stai benissimo. Perché voi ragazze siete così in fissa con il peso?”.
“Perché voi ragazzi sbavate dietro a quelle con il fisi…”. Abbassai la voce di colpo, per evitare che la cameriera sentisse quello di cui stavamo parlando.
“Io prendo un cheeseburger liscio con patatine e limonata”, ordinò Cam.
“Anche io, ma senza le patatine”, mi affrettai ad aggiungere. Melanie –la cameriera- si allontanò lanciando un’occhiata languida al mio accompagnatore provvisorio.
“Quindi?”.
“Quindi che?”.
“Stavi cominciando ad insultare il genere maschile. Vai avanti”, disse Cam, la voce forzatamente seria.
“Non vi stavo insultando!”, ribadii ridendo. “Stavo solo evidenziando il fatto che siete attratti dalle ragazze che hanno le misure di una modella brasiliana. Tutto qui”, specificai, cercando di imitare la voce che avevano gli opinionisti nei talk-show.  
“È proprio qui che vi sbagliate: non è vero che a noi ragazzi piacciono le tipe scheletriche. Anzi, ci piace avere qualcosa da stringere, oltre le ossa”, controbatté sicuro. Lo presi come riferimento non casuale ai miei fianchi rotondetti e il mio cuore perse un colpo. Proprio come quello di Melanie, che nel frattempo era arrivata con la nostra cena. Sicuramente mi odiava, perché non perse neanche un’occasione per lanciarmi occhiate assassine, mentre ci serviva i cheeseburger. Magari era solo invidiosa, perché lei lavorava mentre io me la spassavo con Cam. Magari pensava perfino che Cam fosse il mio ragazzo. Già, magari
“Se vi serve altro, chiamatemi”, specificò Melanie prima di andarsene. E prima di scagliare un’altra occhiata molto eloquente verso il mio amico. 
“Wow, se si potesse mangiare con gli occhi…”. Non mi resi neanche conto di averlo detto ad alta voce.
“Cosa?”, chiese curioso Cam.
“Niente, niente”.
“No, dimmi. Chi dovrebbe mangiare cosa con gli occhi?”. Per avermi chiesto spiegazioni, sembrava che la situazione gli fosse già abbastanza chiara.
“La cameriera. Ti ha fissato come se ti volesse saltare addosso. Dovresti ringraziarmi, altrimenti ti avrebbe spogliato proprio qui, davanti a tutti”. E a me non sarebbe dispiaciuto…
Scoppiò a ridere, e io con lui.
“Che fine hanno fatto i tipi che erano a San Diego con te?”. Appena ingoiò il boccone che stava masticando, rispose: “Quelli sono i miei cugini”. Mi ci volle molto impegno per non sputare fuori l’acqua che avevo in bocca.
“Cioè, siete parenti?”, chiesi sbalordita. Me ne pentii all’istante: “Voglio dire, non vi assomigliate molto”.
“No, lo so. Me lo dicono tutti”, rispose, leggermente divertito ma tranquillo.
“Ah, ecco”. Ero così in imbarazzo…
“Calmati, non hai detto niente di male”, mi rassicurò.
“No, cioè sì, sono calma”.
“Non è vero”, commentò sorridendo.
“Invece sì”.
“No, sei diventata tutta rossa”. Perfetto: non ero timida, cosa mi era preso?
“Ok, possiamo far finta che non abbia detto niente, per favore?”.
“Come vuoi”. Sghignazzò, poi aggiunse: “Adesso mi dici come mai ti sei trasferita?”. Mi bloccai mentre gli rubavo una patatina dal piatto. “Se non ti va, lascia stare. Possiamo parlare di qualcos’altro”. Ma la verità era che mi andava di raccontargli della mamma.
“Mia madre è morta e io sono dovuta venire a vivere da mio padre”, sussurrai. Distolsi lo sguardo, come facevo sempre.
“Oh, mio Dio. Haylie mi dispiace, io non lo sapevo… Cavoli, Hayl, scusa…”. Era mortificato, riuscivo a leggerglielo in faccia.
“Fa niente, Cam. Non potevi saperlo”, mormorai accennando un sorriso. 
“Sì, ma avrei dovuto immaginare che si trattava di qualcosa di brutto. Sei sempre così evasiva a riguardo…”. Aveva ragione: ero riuscita a tenere nascosto a tutti quell’episodio orribile.
“Come mai non mi hai detto niente? Insomma, capisco che magari potevi sentirti a disagio a dirlo ai ragazzi, ma noi ci conosciamo da parecchio, sapevi che potevi fidarti di me…”. Non era arrabbiato, ma sembrava come se si sentisse deluso, escluso.
“Cosa avrei dovuto dirti, esattamente?”, chiesi.
“Non lo so… Cavoli, deve essere stato terribile, ritrovarsi sbalzati fuori dalla propria vita, in un posto nuovo, con gente sconosciuta senza nessuno con cui sfogarsi…”.
“Abbastanza…”.
“Perché non mi hai detto niente?”, chiese, la voce dolce. Non mi venne in mente nessuna scusa, quindi optai per la verità. “Non volevo che ti sentissi in dovere di frequentarmi… o che lo facessi solo perché ti facevo pena…”. Non cominciai a piangere, ma sentivo le lacrime pungermi gli occhi. Evidentemente le notò anche Cam, che allungò una delle sue mani grandi verso di me per accarezzarmi la guancia con la punta del pollice. Poi avvicinò la sua sedia alla mia e mi abbracciò forte. “Calmati, ok? Mi dispiace, non volevo farti piangere”, mi sussurrò con la voce tenera.
“No, sì, hai ragione: non pensiamoci. Dovremmo divertirci, sta sera”. Tirai su col naso, poi mi sfregai gli occhi per asciugare le lacrime sporche di mascara che avevano cominciato a rigarmi il viso. “Vedi, niente tristezza!”, urlacchiai con voce esageratamente allegra, che fece ridere anche Cam. Continuammo a mangiare in silenzio, ma ridacchiavamo per qualsiasi cosa: Melanie che inciampò rovesciando un bicchiere di succo, una signora che si ribaltò per sbaglio la pizza addosso e due bambini che litigavano per un cubetto di ghiaccio. Raggiungemmo il massimo delle risate quando un pezzo di patatina mi cadde nella scollatura del vestito. Sfortunatamente, Cam ci fece molto caso: “Dio, quanto vorrei essere quella patatina…”. Lo mormorò sottovoce, e io feci finta di non sentirlo, anche se le mie guance mi avrebbero sicuramente tradita. Per evitare ulteriori commenti, cercai di ricominciare a parlare.
“Cam, posso farti una domanda personale?”.
“Sì, ma sappi che se ti rivelo qualche segreto, poi dovrò ucciderti”, disse con voce maliziosa.
“Dov’è Vania?”. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, così mi finsi molto interessata alla fantasia floreale che ricopriva la tovaglia.
“Wow, sei una tipa diretta, eh?”, commentò, forse per spingermi a cambiare discorso. Non funzionò. “Non lo so, probabilmente in giro a slinguazzare con qualche giocatore di basket…”, rispose, la voce dura.
“Ma non stavate insieme?”. Nel mio cuore cominciò ad accendersi un piccolo barlume di speranza.
“Fino a ieri, sì”. Nella sua voce non c’era neanche una traccia di amarezza.
“Ah… Da come lo dici, sembra che lei non abbia contato niente per te…”. Cercai in tutti i modi di evitare la voce da ragazza gelosa, forse senza riuscirci.
“Beh, sai com’è. Alla nostra età, morto un papa se ne fa un altro”. Non mi piacque molto la sua risposta, così deviai il discorso.
“A proposito”, chiesi con fare indagatore. “tu sei un anno più grande di me, vero?”.
“Ho paura a dirlo, ma sì”.
“Allora come mai siamo in classe insieme? Tu dovresti già frequentare l’ultimo anno, non il terzo…”.
“Wow, Mrs. Holmes, ottima intuizione”, commentò con la voce più sexy che avessi mai sentito.
“Ok, tu mi hai detto di tua madre, quindi credo di dovertelo”.
“Non devi, se non vuoi”. L’ultima cosa che desideravo era che Cam si arrabbiasse con me.
“No, te lo dico. Così siamo pari”. Mi fece l’occhiolino, poi riprese: “Due anni fa, mio padre si è ammalato e mia madre doveva assisterlo giornalmente in ospedale. Aveva una malattia strana, non so bene cosa fosse, non me lo hanno mai spiegato”. La voce di Cam si rattristò un po’. “Comunque, non avevano i mezzi giusti per curarlo, qui a Santa Monica, quindi dovevano stare in un ospedale a due ore da qua. E io ho dovuto prendermi cura di mia sorella Viky. Ho saltato un mucchio di lezioni”.
“Hai una sorella? Non lo sapevo”, valutai. In fondo, quante cose non sapevo di lui?
“Sì, ha sette anni ed è la persona più capricciosa che io conosca”.
“E la adori”, gli dissi con un sorriso. “Si vede da come ti si illuminano gli occhi quando ne parli”.
“E la adoro”, chiarì, le labbra distese in un sorriso. “Adesso però, andiamo a fare quattro passi”.
“Ok, ci sto”. Con mia sorpresa, fu Cam a pagare entrambi i cheeseburger, facendomi sentire lusingata e a disagio allo stesso tempo. Uscimmo dal Clory e una folata di vento fresco proveniente dal mare ci colpì in pieno.
“Vuoi la giacca? Hai freddo?”, chiese Cam premuroso.
“No, grazie. Sto bene così”.
“Come vuoi. Cosa vogliamo fare, adesso?”.
“Non lo so. Non sono mai uscita a Santa Monica di sera, cosa fate di bello?”.
“Oh, beh, di solito buttiamo la spazzatura”, rispose facendomi il verso. “No, sul serio. Normalmente stiamo sulla spiaggia a non far niente, oppure ce ne andiamo al Luna Park, che, però, non apre i battenti fino alla fine di marzo”.
“Andiamo in spiaggia, allora”.
 
In spiaggia, ci fermammo a parlare seduti su delle brandine abbandonate vicino agli scogli.
“Posso farti una domanda personale?”.
“Un’altra?”, mi chiese Cam con il sorriso più da svenimento che avessi mai visto.
“No, allora. Niente domande”, risposi calma. “Però raccontami qualcosa di te”.
“Ok, vediamo… Ah, sì: non mi piacciono le melanzane”.
“Idiota!”, esclamai scoppiando a ridere. “Non in quel senso!”.
“Cosa allora?”.
“Non lo so, qualcosa che non sa nessuno”, lentamente, la mia espressione stava tornando seria, come quella di Cam.
“Qualcosa tipo il mio segreto più grande? Oppure la mia taglia di boxer?”.
“Facciamo che preferisco il segreto…”.
“Perché, non ti interessa sapere che taglia ho?”, chiese con fare malizioso.
“No, a dire il vero”.
“Ok… Se lo vuoi sapere, non ho mai detto Ti amo a una ragazza”. Mi guardava serio, studiava ogni mia minima reazione.
“Non ci credo: cioè, non ti sei mai innamorato?”.
“E tu?”.
“Io sì, una volta. Era un cretino e non era neanche sexy, però me ne ero innamorata… Ripensandoci, credo di essermi completamente sbagliata, quindi siamo pari”.
“Quando ci si innamora, non ci si sbaglia mai…”, controbatté serio. Forse anche un po’ abbattuto…
“Però non hai risposto alla mia domanda… insomma, tutte le ragazze con cui sei stato… Non eri innamorato di nessuna di loro?”.
“A dire il vero, no…”.
“Però dicevi loro di amarle. Oppure no?”. Mi sentivo un po’ la Sacra Inquisizione, a massacrarlo con tutte quelle domande. Ma volevo sapere.
“No, non gliel’ho mai detto. Dicevo di volergli bene, ma voler bene non è amare…”.
“Giusto”.
“Ti va un gelato?”, mi domandò cambiando bruscamente discorso.
“Anche? Ma quanto mangi?”, chiesi ridendo.
“Tanto! Lo so, non si vede: ho un fisico da modello australiano…”, commentò pavoneggiandosi per finta. Così ci alzammo, e mentre Cam si girava per dirigersi verso la strada, inciampai in un sasso e gli finii rovinosamente addosso. Che figuraccia…
Mi agguantò per i fianchi, al volo, prima che mi sfracellassi a terra.
“Hei, è la seconda volta che mi finisci praticamente in braccio. L’altra volta è servito per farci conoscere, adesso qual è la tua scusa?”, domandò.
“Sono inciampata!”, esclamai ridendo.
“Sì, che ci credo! Lo so che non riesci a starmi lontana!”, confessò con la voce buffa e maliziosa allo stesso tempo.
“Sì, mi hai beccata!”, scherzai, cercando di mantenere la voce ferma. Infatti, mi aveva beccata sul serio. “Sarà meglio andare, comunque”.
“Già, prima che mi salti addosso!”. Credimi, Cam, non aspetterei nemmeno un secondo!
Ridemmo fragorosamente, poi aggiunse: “Pensi di riuscire a camminare, o hai intenzione di incespicare di nuovo?”.
“Penso di potercela fare, grazie!”, risposi stizzita.
Passeggiammo fino all’auto di Cam, che aveva un’aria familiare…
“Che bella macchina! Mi sembra di averla già vista da qualche parte, però…”.
“Lo so, me lo dicono in molti…”.
“Oh, mio Dio!”, urlavo felice come una bambina in un negozio di caramelle. “È quella di Edward Cullen!”. Quasi saltellavo dalla sorpresa. “Cioè, Cam! Hai la macchina di Edward Cullen!”.
“Non è la macchina di Edward Cullen, è la mia”, commentò paziente, come se avesse sentito quelle parole già un milione di volte. “Comunque, chi se ne frega. Sali, che andiamo”.
“Ok!”, strillai in preda all’euforia. “Oddio, non ci credo! Vado a prendere il gelato con la macchina di Edward Cullen!”. Stringevo l’avambraccio di Cam, forse per capire se stavo sognando.
Arrivammo in gelateria e Cam dovette posarmi una mano sulla bocca per farmi smettere di nominare Edward Cullen. “Adesso noi scendiamo, entriamo in gelateria e tu smetti di parlare di lui. Chiaro?”, chiese alquanto irritato. Annuii, seria. Poi, appena mi liberò dalla sua presa, gli domandai: “Cos’è, sei geloso?”. Avrebbe potuto averne tutte le ragioni del mondo: ero totalmente innamorata di quel vampiro.
“Sì, certo. Andiamo”, replicò ridendo.
 
Mi accompagnò dentro un delizioso locale sulla spiaggia chiamato Ice&Cream e gestito da una gentile signora cicciottella di nome Dalia –come indicava l’etichetta scolorita che aveva appuntata sul grembiule.
“Ciao, Cam!”.
“Ciao, Dalia! Lei è la mia amica Haylie, si è appena trasferita”, la informò sorridendo. Quando sorrideva era sexissimo!
“Ciao, tesoro!”, mi salutò. Sembrava raggiante. “Cosa volete di buono?”.
“Ehm, per me un cono con fragolina di bosco e limone, grazie”.
“Ci vuoi la panna montata?”, chiese persuasiva.
“Ok, tanto ormai la dieta è andata a farsi friggere!”.
“Se hai bisogno della dieta tu…”, commentò gentile. “Cam? Ti preparo il solito, vero?”.
“Mi hai letto nel pensiero!”.
Ci sedemmo in uno dei tavolini in terrazza, uno di fronte all’altra. Mi ci voleva molta concentrazione per evitare di saltargli addosso: vederlo prendere a morsetti il gelato mi mandava completamente fuori di testa.
“Cosa ti piace fare nel tempo libero?”, chiese sinceramente curioso.
“Mmm… leggo e mi piace andare al cinema. Lo adoro, ma mi piace anche guardare la tv. Oltre allo shopping –anche se sono sempre al verde…”. Scoppiò a ridere, poi ricominciò a parlare, cercando di non far cadere il gelato al cioccolato sulla camicia immacolata. “E alla tv cosa guardi?”. Cacchio, era arrivato il momento di confessargli la mia fissazione.
“Oh, beh… Ecco, un po’ di tutto, insomma… Ok, confesso: amo The Vampire Diaries... ”, ammisi arrossendo.
“The Vampire Diaries, Edward Cullen… non ti facevo una che si scioglie dietro ai vampiri, che è innamorata della morte, dei cimiteri e tutto il resto”, commentò con nonchalance.
“Non ho una cotta per la morte, i cimiteri e tutto il resto!”, esclamai indignata.
“Però ti piacciono i vampiri…”. Non era intenzionato a lasciar cadere il discorso.
“Sì, ma solo perché sono romantici, estremamente belli e… gentili. Sì, nel senso che trattano la loro ragazza come se fosse la cosa più speciale al mondo”. Avevo gli occhi fissi nei suoi, in segno di sfida. “Con i ragazzi normali non capita”, sentenziai.
“Perché non ti sei mai imbattuta nel ragazzo giusto. Insomma, sai che intendo”, borbottò combattendo contro il suo cono gelato.
“Ad essere sinceri, no”.
“Sì, in sostanza quello che ha tutti i requisiti della lista, quello che ti fa vedere il mondo rosa e cavolate simili…”.
“Mi stai massacrando l’idea di amore, sai?”, chiesi piccata.
“No, è la verità. Accettalo, Hayl: l’amore è sofferenza”, concluse.
“Detto da uno che non si è mai innamorato, è abbastanza buffa, come cosa. E anche presuntuosa e leggermente arrogante”.
“Io credo di no. Comunque, non vorremo litigare per una cavolata simile, vero?”. Poi si alzò e mi porse la mano. “A che ora hai il coprifuoco?”.
“Dieci e mezza”, risposi rabbiosa.
“Ti sei arrabbiata?”, domandò appena appena preoccupato.
“No. Cioè, sì, ma non con te”.
“E con chi, allora? Siamo solo noi due…”. Il modo in cui disse noi due mi piacque troppo, ma finsi indifferenza.
“Ce l’ho con mio padre: ad Albuquerque avevo il permesso di stare fuori fino alle undici, non capisco perché adesso debba tornare mezz’ora prima”, sbuffai.
“Si preoccupa per te. È normale”.
“Invece no”.
“Hai ragione: Brad può stare in giro fino a mezzanotte nel weekend, perciò…”, mi informò. Continuammo a discutere di Adam per tutto il viaggio di ritorno e arrivati davanti alla porta di casa mi schioccò un bacio sulla guancia prima di augurarmi: “Buonanotte”.
Quando la Volvo sgommò via dal vialetto mi accasciai su uno degli scalini dell’ingresso, con il cuore a mille. 



 
 

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Capitolo 5
*** Cap.4 Batterie, Buchi e Pagliacci ***


CAPITOLO QUATTRO
BATTERIE, BUCHI E PAGLIACCI
Ecco il quarto capitolo,spero che vi piaccia e fateci sapere cosa ne pensate. =)
 
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CAPITOLO QUATTRO

BATTERIE, BUCHI E PAGLIACCI

Mi svegliai tremendamente in ritardo, quel giovedì mattina. Avevo passato la notte tra strani incubi e periodo di insonnia e quando finalmente avevo preso sonno era quasi ora di alzarsi. Dopo la doccia, mi precipitai al piano di sotto per fare colazione, e andai a sbattere contro mio padre.
“Stai un po’ attenta! Non si corre giù dalle scale così…”, mi rimproverò. Buongiorno anche a te…
“Scusa, sono in ritardo”. Mi sistemai i capelli leggermente arruffati dall’urto, poi aggiunsi: “Comunque, buongiorno…”. Nessuno si degnò di rispondere. O meglio, nessuno a parte Jay, Marti e Cam.
Un momento, Cam?
“Cam? Che ci fai qua?”, chiesi mettendomi nel piatto un po’ di uova e del bacon.
“Colazione”. Mi sorrise e mi si bloccò il respiro: non ero abituata a vedere tutto quel ben di Dio la mattina presto…
“Sì, siamo ben contenti di ospitare gli amici di Brad e Nicky per colazione”, si inserì Ava, la voce melliflua. “Ti ho preparato il pranzo, Haylie: va bene un sandwich al tacchino con insalata?”, domandò con la voce più gentile del mondo. Ruffiana. Sapevo che si stava comportando così solo per fare colpo su Cam.
“Certo, ti ringrazio”. Cercai di finire in fretta la colazione, per arrivare presto a scuola e far copiare gli esercizi di spagnolo a Bentley. “Io vado”, dissi alzandomi. “Devo controllare dei compiti e voglio arrivare con un po’ di vantaggio”, mi giustificai.
“Chi se ne frega”, sibilò velenosissima Nicky, che era seduta di fronte a Cam. Se lo stava mangiando con gli occhi e lui si comportava come se lei non esistesse.
Questo ragazzo mi piace sempre di più…
“Potresti accompagnare Marti all’asilo?”. Mi bloccai mentre le stavo baciando la guancia e fulminai mentalmente Adam.
“Ma ho fretta, non può farlo Bradin?”.
“Io devo passare a prendere Arianne, quindi te lo scordi”. Bastardo. Quale fratello lascerebbe a piedi la sorellina per spassarsela con la fidanzata? Ok, Haylie, non rispondere…
“Nicky?”, ribattei leggermente infastidita.
“Va a scuola con Simon, e io e tuo padre dobbiamo scappare al lavoro”, replicò piccata Ava.
Dalla faccia che aveva, capii che neanche Jay avrebbe potuto aiutarmi.
“Mi dispiace, sono già in ritardo”, si scusò, sinceramente dispiaciuto.
Sbuffai teatralmente, poi raccolsi lo zaino e mi avviai verso la porta. “Forza Marti, andiamo”, borbottai arrabbiata. Non salutai nessuno, e nessuno mi salutò. Solo Cam mi fece un cenno con la mano.
 
“E dai, cavolo! Dai, dai, dai… Uffa! Che infame che sei!”. Cercavo di mettere in moto la macchina da più di cinque minuti, ma non sembrava voler dare segni di vita.
“Haylie, non ti arrabbiare…”, mi implorò Marti, dal seggiolino sistemato alla bell’e meglio sul sedile posteriore.
“Non mi arrabbio, tesoro. Però siamo in ritardo”, le spiegai usando il tono più gentile che riuscii a trovare.
“C’è qualche problema, da queste parti?”, chiese sorridente Cam, infilando la testa nel finestrino.
“Secondo te?”. Avevo la voce sarcastica e infastidita, e Cam scoppiò in una ristata.
“Se non parte è sicuramente la batteria: scendi ti do un passaggio io. E oggi pomeriggio passo a darle un’occhiata”. Poi si allontanò dallo sportello, per farmi scendere. La rabbia e il risentimento sparirono in un secondo, lasciando spazio a pensieri poco casti che avevano per protagonista il mio chauffeur improvvisato.
“Dobbiamo dare un passaggio a Marti”, gli ricordai.
“No, lasciamola per strada”, mi disse con fare volutamente cospiratorio, facendomi l’occhiolino. “Può fare l’autostop”, continuò, battendo il pugno sul cofano prima di avviarsi verso la Volvo. Marti si precipitò fuori dalla macchina e si attaccò alle gambe di Cam, implorante. “No, non voglio fare l’autostop. Ti prego, non mi lasciare per strada!”.
“Sentiamo, se io ti accompagno tu cosa mi dai in cambio?”, le chiese, prendendola in braccio.
“Mmm, posso regalarti il mio orsetto, il signor Baffo. Però promettimi che non gli fai mangiare gli Smarties rossi, gli fanno la bua al pancino”, gli propose seria. Scoppiai a ridere, non per prenderla in giro, ma perché mi faceva tenerezza.
“No, non voglio il signor Baffo, puoi tenertelo”, controbatté Cam, continuando la messa in scena. “Però voglio uno dei tuoi biscotti, e un bacino”, la ricattò. Marti sorrise e si allungo verso la sua guancia, dove stampò un bacio veloce e sonoro.
“Ok, adesso possiamo andare”, specificò il mio amico, prima di scaricare Marti sul sedile posteriore della sua macchina.
 
Le ore di scuola furono molto lunghe, quel giorno, e più di una volta rischiai di addormentarmi sul banco. Durante la lezione di educazione sessuale –mentre il prof. Moore ci insegnava a mettere i preservativi a delle banane e tre quarti della classe faceva battute pornografiche che mi riguardavano- Cam fece atterrare sul mio banco un aeroplanino di carta.
Allora è un vizio…
Me lo rigirai tra le mani –avevo già sistemato la banana, perciò potevo distrarmi-, confusa sul significato di quel pezzo di carta. Mi girai verso il suo banco e Cam mi fece cenno con le mani di smontare l’aeroplano, che conteneva un messaggio scritto in fretta dalla sua calligrafia orribile –riuscivo a malapena a distinguere le vocali dalle consonanti!-:
Poi ti do un passaggio, devo farti una proposta indecente!
 
““Allora, questa proposta?”. Ero seduta sul sedile accanto a quello di Cam, i piedi puntati sul cruscotto e le dita a scartabellare con le manopole della radio. “Uh, questa canzone è fighissima!”, esclamai alzando il volume quando cominciò il ritornello di Paparazzi, di Lady Gaga.
“Ma se è vecchissima!”.
“Però è figa… La proposta, Cam. Non ti distrarre”. Cercavo di nascondere l’impazienza, ma mi rendevo conto da sola che era una battaglia persa in partenza.
“Sì, La Proposta”, disse in tono grave. “Guarda che non voglio chiederti di sposarmi, quindi frena l’entusiasmo, bellezza”.
“Sono solo curiosa… Anche perché risponderei di no”, mentii.
“Bugiarda, lo so che mi sogni tutte le notti”, mi prese in giro.
“Ti vuoi sbrigare con questa idea? Non ho tempo da perdere, io”, gli feci notare piccata. In realtà cercavo solo di mascherare l’agitazione: era vero che sognavo Cam quasi tutte le notti, e se mi avesse chiesto di sposarlo non avrei di certo rifiutato! O perlomeno avrei approfittato della luna di miele molto volentieri…
“Volevo chiederti se ti andava di venire al cinema, sabato sera. Non è un appuntamento, è che un tipo che conosco dalle elementari è riuscito a invitare la tipa che gli piace tipo da una vita, quindi mi ha chiesto una mano…”.
“E, tipo”, lo sbeffeggiai. “Di che tipo di aiuto ha bisogno? Non ha mai avuto tipo un appuntamento?”.
“No, infatti. Il problema è proprio quello”. Eravamo arrivati a casa, nel frattempo, e Cam aveva inchiodato i suoi occhi –quegli occhioni azzurri come gli Smarties- nei miei, e il mio cervello era in panne. Avrei acconsentito anche se mi avesse chiesto di scalare l’Everest in infradito.
“Non ha mai invitato fuori una ragazza e ha paura di mandare tutto a rotoli”.
“E il nostro compito sarebbe…?”, chiesi persa.
“Controllare e suggerire”, rispose sintetico.
“Quindi io dovrei uscire con te –lo so che non è un appuntamento, l’ho capito”, specificai togliendogli le parole di bocca. “Per fare da esempio a un tuo amico e alla sua ragazza?”.
“In pratica, si”. Sorrise ammiccante. “Ma giuro che terrò le mani a posto!”.
“Oh, se la metti così…”, dissi con voce sicura. “Adesso mi controlli la macchina, per favore?”.
Ci mise non più di venti minuti a ricaricare la batteria della mia povera auto –collegandola con dei cavetti al generatore della sua- ma vederlo mezzo sporco d’olio e leggermente sudato –in aggiunta alla maglietta attillata e il fisico da stupro- mi fece completamente sciogliere, tanto che dovetti andare a prendere qualcosa da mangiare per distrarmi e riacquistare un po’ di buon senso.
 
Arrivati davanti al cinema, quel sabato sera –dopo che Cam mi era passato a prendere-, non potei trattenermi dallo sbirciare dal finestrino il cartellone del film che avevamo in programma di vedere.
“The Hole?”, chiesi scettica – e anche un po’ nel panico.
“Sì”.
“Perché?”.
“Perché è un horror”. Era evidente che per lui il motivo della scelta fosse ovvio. Peccato che a me sfuggisse…
“E allora? È anche passato, avrà tre anni!”. Ricordavo che Stella aveva cercato di trascinarmi al cinema per vederlo, qualche tempo prima. Ovviamente mi ero opposta in modo poco pacifico.
“Uh, quanto sei stupida, a volte”, mi disse, prima di sorridere. Stupida? Chi, io che avevo voti altissimi in tutte le materie –matematica esclusa? Gli lanciai uno sguardo che avrebbe potuto incenerirlo sul posto, che notò divertito. “Sei comunque adorabile”, si affrettò a ritrattare.
“Così va meglio”. Ridemmo entrambi del mio tono assassino, poi continuò, mentre faceva manovra nel parcheggio dietro al cinema. “Gli horror fanno paura, e se Abby ha paura si stringerà a Nelson perché la protegga. E, senza neanche accorgersi, gli si spalmerà addosso. Comunque di anni ne ha due, e sta sere lo ripropongono non so per quale motivo, visto che non è nemmeno un gran che”.
Non ebbi il tempo per commentare in nessun modo la sua spiegazione, perché il cellulare di Cam prese a vibrare rumoroso sul cruscotto.
“Pronto… Davanti al cinema, siamo arrivati… Sì, aspettala lì, non ti muovere… Di già? Ok, a dopo”. Ovviamente sentii solo metà della conversazione, ma non fu difficile immaginare il resto.
“Il tuo amico è nervoso?”, domandai, sforzandomi di essere più comprensiva possibile. La situazione, però, era un po’ assurda: quale diciottenne non aveva ancora mai avuto un appuntamento? E soprattutto, era perché era eccessivamente timido o perché era uno sgorbio? Insomma, a volte noi ragazze sappiamo essere molto più superficiali e spietate dei ragazzi.
“Sì… Ha detto che ha già le mani sudate”. Cominciammo a camminare e qualche ragazzo che incrociammo lanciò qualche battuta non proprio cortese sul mio conto. Cam mi cinse le spalle con un braccio, protettivo e… possessivo? Non ci feci molto caso, comunque. Nel periodo che avevo passato a Santa Monica mi ero abituata a vedere Cam come un amico e niente più –anche se alcune notti me lo immaginavo sdraiato sul mio letto in situazioni compromettenti-, soprattutto dopo aver osservato il comportamento che aveva con le ragazze. Era il tipico ragazzo figo, consapevole del suo fascino e che vedeva le ragazze con cui stava come un giochino da usare per divertirsi un paio di sere, niente più. Un Womanizer, per dirla alla Britney Spears.
E io non volevo di certo perderlo per un po’ di sesso –anche se sapevo che sarebbe stato del gran buon sesso…
Così mi ero adeguata al ruolo che involontariamente mi aveva affibbiato, quello dell’amica del cuore. Anche se avrei preferito essere la sua amica di letto…
Oddio, ma cosa mi sono ridotta a dire?!
Insomma, la cotta per Cam era passata, ma mi attizzava ancora da morire.
Entrati nel cinema, salutammo Nelson, che ci aspettava vicino alla biglietteria. Era un tipo normale, tutto sommato. Certo, vicino a Cam stonava, ma preso da solo era passabile: capelli scuri, occhi chiari, alto e smilzo. Niente di paragonabile alla statua greca che era il suo amico, però.
“Abby è già arrivata?”. Cam mi stava ancora abbracciando, e Nelson avrebbe sicuramente frainteso, perciò mi offrii di andare a comprare i biglietti, ma l’amico del mio amico (che cosa rigirata!) mi bloccò.
“Mi state già facendo un grosso favore, ai biglietti ci penso io”.
“Grazie”. Arrossii fino alla punta dei capelli, ma lo lasciai fare.
Quando anche Abby arrivò, ci sistemammo in sala: io e Cam ci sedemmo due file dietro di loro, e quando Abby chiese spiegazioni Cam si giustificò dicendo che voleva privacy. Quasi scoppiai, dalle risate.
Privacy? Con me? Pff!
Il film cominciò e la prima manciata di minuti fu veramente pietosa: due fratelli si trasferiscono nel paesino sperduto dove lavora la mamma e conoscono la vicina carina, biondina e sciocchina. Aprono una botola da cui escono oggetti o mostri che rispecchiano le loro paure e mentre mi giravo verso destra per evitare di vedere il pupazzetto di un clown assatanato vidi Cam fare strani gesti.
“Che cacchio fai?”, gli chiesi quando notai che teneva entrambi i pollici sollevati in segno di approvazione.
“Guarda, guarda, guarda! Abby ha paura e si sta avvicinando pericolosamente a Nelson!”.
Quell’imbranato del suo amico si voltò verso di noi, nel panico, e Cam mi cinse le spalle con un braccio.
“Che fai? Guarda che non ho paura”. Accidenti al mio orgoglio: il film faceva quasi ridere da quanto era assurdo, ma i clown mi terrorizzavano e ogni volta che saltava fuori quel maledetto pupazzetto saltavo sulla poltrona.
“Suggerisco”. Ma bravo, invece di evitare che io muoia d’infarto, pensa alla vita amorosa di quell’idiota di Nelson!
Vidi Nelson abbracciare, in imbarazzo e goffamente, la sua ragazza, poi girarsi di nuovo verso di noi. Cam sollevò il pollice della mano libera, poi mi prese il mento con la stessa mano e lo avvicinò alla sua spalla, per farmi affondare il viso nel suo collo. Nelson fece lo stesso, ma in modo molto meno spigliato, e per un secondo Abby rimase rigida, per poi sciogliersi appena capite le sue intenzioni. Quel cavolo di pagliaccio era sempre in agguato, quindi decisi di osare un po’ –per evitare altri colpi tremendi al mio già provato cuoricino. Mi avvicinai ancora di più a Cam e lo abbracciai con un braccio solo.
“Hai paura?”, mi soffiò nell’orecchio, quasi dolcemente.
“No, però mi accoccolo lo stesso”. Ero troppo presuntuosa per ammettere che un film così assurdo mi stesse facendo tremare come una foglia, quindi preferii sembrare smielata che spaventata.
“Ok”. Non disse altro, si limitò a stringermi ancora più stretta.
 
Quando finalmente la pellicola finì, salutammo Nelson –che avrebbe accompagnato Abby a casa- e ci avviammo verso la Volvo. Ero agitata e inquieta e camminavo qualche passo prima di Cam.
“Sei arrabbiata?”. Perché non capiva mai niente?
“No”, sputai.
“Allora cos’hai?”.
“Niente. Niente, Cam, non ho niente. Lascia perdere”.
“Non posso, sei arrabbiata”. Nel frattempo mi aveva raggiunta e afferrata per un braccio, facendomi voltare verso di lui.
“Non sono arrabbiata, uffa. Mannaggia a te, al pagliaccio e al buco!”.
“Allora sei spaventata!”, mi prese in giro.
“No”. Mi aveva scoperta e il mio piano consisteva nel negare fino alla morte. “Adesso andiamo?”.
“Hai paura dei pagliacci?”. Possibile che la sua voce fosse dolce anziché canzonatoria?
“Assolutamente no!”. Ma avevo risposto troppo velocemente e con troppa enfasi per essere credibile. Infatti: “Sì, sì. Come no, certo”. Lo disse più per chiudere la questione che per altro. D’altronde sapeva che ero testarda come un mulo e che non gliel’avrei data vinta, forse non aveva semplicemente voglia di discutere.

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Capitolo 6
*** Cap.5 Come uno dei ragazzi ***


Ciao a tutti avete passato buone vacanze? Spero di si! =) Comunque scusate per il ritardo ed ecco il quinto capitolo,Spero che vi piaccia e mi raccomando recensite! =)

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CAPITOLO CINQUE

COME UNO DEI RAGAZZI

 
“Dio, che figo! Ma chi è?”. Io e Harry eravamo sdraiati sulla spiaggia a oziare perdendo tempo a sparlare della gente che passeggiava sul bagnasciuga mentre Cam, Bradin, Bentley e gli altri ci stavano dando dentro con il surf.
“Il nuovo bagnino. È appena arrivato in città, ma non è gay… Non è giusto, i bei ragazzi o sono occupati o sono etero”.
“E tu la chiami sfortuna?”, chiesi esterrefatta senza staccare gli occhi dal ragazzo di cui stavamo parlando.
“Hayl, stai sbavando. Fai schifo, trattieniti”, mi riprese, facendo finta di asciugarmi gli angoli della bocca.
“Non è colpa mia! È il caldo che mi fa delirare…”.
“Allora se hai tanto caldo”, esclamò come fosse la battuta di un melodramma, “Andiamo a farci un bagnetto”, mi propose.
“Io preferirei farmi il bagnino…”. Ma l’avevo detto veramente ad alta voce?
“Haylie!”, mi riprese, scandalizzato. Evidentemente, sì. Ormai il danno era fatto, quindi mi alzai di scatto, lasciando Harry a bocca aperta.
“Dove vai?”.
“A fare conoscenza. Noi nuovi arrivati ci dobbiamo coalizzare…”. Mi afferrò per un polso e mi trattenne dal correre tra le braccia del bagnino.
“Tu non sei un nuovo arrivo, sei qui da febbraio”, mi fece notare.
“E allora? È passato appena un mese, che vuoi che sia?”. Non riuscì a fermarmi, questa volta. Mi avvicinai con passo sicuro alla mia preda, per poi esordire con un bel “Ciao”.
“Ciao” mi rispose. Bella voce, bassa e sexy.
“Mi chiamo Haylie”. Gli porsi la mano, e lui la strinse, sorridendo timido.
“Michael”. Mmm, come uno dei miei ex: brutta coincidenza.
“Sei nuovo qui, vero?”.
“Si”. Ma perché mi rispondeva come se stesse scrivendo un telegramma? Di solito il mio sorrisone fa sempre colpo…
“Anche io. Cioè, sono arrivata a febbraio, ma la differenza di fuso ha smesso di darmi fastidio soltanto ieri!”. Ridacchiai, ma non mi seguì.
“Allora, ti piace molto la spiaggia, eh?”, chiesi retorica giocherellando con i capelli. “Si vede dall’abbronzatura, farebbe invidia al surfista più accanito…”. Ovviamente stavo mentendo: aveva la carnagione troppo imbrunita per i miei gusti, e oltretutto era anche evidente che fosse frutto di ore e ore di lampade UV. “Da dove vieni?”.
“Long Beach”.
“Ah, in pratica da dietro l’angolo!”.
“Già. Tu?”.
“Albuquerque”.
“Fico”.
“Insomma”. Uffa: possibile che non riuscisse a mettere due parole in fila!
“Scusa, ma non riesco a smettere di fissare il tuo ragazzo: ci sta guardando proprio male”, mugugnò indicando con il pollice qualcuno alle sue spalle. Diedi un’occhiata e mi affrettai a spiegargli la situazione. “No, non ti preoccupare: non è il mio ragazzo, è solo un amico”. Non sembrava convinto, quindi aggiunsi: “È anche gay!”. Di solito non mi andava di raccontare così i fatti di Harry, ma le circostanze lo richiedevano e anche lui doveva sacrificarsi per la squadra, ogni tanto.
“Ah, ok”. Le mie speranze di avere un colloquio decente morirono in fretta come erano nate.
“Che ti piace fare nel tempo libero?”. Domanda a trabocchetto: per rispondere avrebbe dovuto per forza usare più di due parole…
“Surf”. Ok, forse mi sbagliavo…
“Davvero? Anche a me!”, mentii spudoratamente.
“Sul serio? Strano, per una che viene dal New Mexico…”. Cioè, l’unica volta che decideva di fare un briciolo di conversazione usava la sua bella bocca per insultarmi?
“Infatti! È che mi ha stregato, adesso che ho cominciato non riesco a smettere…”.
“Allora possiamo farlo insieme, qualche volta”. Adesso sì che ci capiamo, bel pezzo di bagnino…
“Certo! Mi piacerebbe molto!”.
“Si… ti lascio il mio numero, fammi uno squillo quando sei libera”. Scrissi una serie di cifre in fretta sul palmo della mano destra, poi tornai al mio asciugamano.
“Come è andata la missione aggancio?”, chiese Harry, sollevando appena la testa dal numero di Cosmopolitan che stava leggendo. Nel frattempo i ragazzi erano usciti dall’acqua e Cam si era comodamente sistemato sul mio asciugamano, lasciando un piccolo spazio anche per Brad. Non risposi alla domanda di Harry, mi limitai a mostrare orgogliosa il recapito di Michael e a sorridere fiera.
“Sei tremenda!”, commentò.
“Cos’è?”, domandò Cam. Mi prese il polso per leggere a voce alta, poi mi guardò dubbioso.
“Il numero del bagnino nuovo… E non sono tremenda, sono solo tenace”, risposi a entrambi.
“E te l’ha scritto sulla mano? Che elegante…”, commentò acido Brad. Voleva fare il duro, ma sotto sotto era affezionato a me, forse anche un po’ geloso, proprio come se fosse veramente mio fratello. Avevamo legato molto, io e lui, e non perdeva occasione di dimostrarmi –anche se non se ne rendeva conto- che in fondo mi voleva bene.
“L’ho scritto da sola”. Gli feci la linguaccia e lui volse lo sguardo verso Cam, che sotto voce gli ricordò che ero mancina. Mi sedetti sulle gambe del mio fratellastro, che mi strinse bagnandomi tutta la schiena e buona parte dei capelli.
“E quand’è che vi incontrerete, tu e il bellone?”, chiese Bentley, facendo un cenno verso Michael con la testa, sgocciolando sui miei occhiali da sole.
“Quando sono libera, devo farmi viva io”.
“Mi spieghi come hai fatto?”. Harry era ancora incredulo.
“Impara, Larsen: mai sottovalutare Haylie May Wisley!”.
“Che cosa vorrebbe essere, una minaccia?”.
“Vedi un po’ tu”.
“No, Hayl, sul serio. Come hai fatto? È arrivato da quattro giorni e non aveva ancora mai rivolto la parola a nessuno, figuriamoci se si era procurato appuntamenti”. Questa volta era stato Cam a parlare.
“Infatti è stata una faticaccia, ma è bastato dirgli che adoro surfare e si è aperto come un bocciolo”. Cam e Bradin scoppiarono a ridere, Bentley si trattenne a stento e Harry sputò il succo che stava bevendo.
“Tu cosa? Ma se repelli ogni tipo di sport!”, esclamò Brad, continuando a sghignazzare.
“E allora? Lui non deve mica saperlo!”.
“Scusa, Hayl, ma quando vi incontrerete per fare surf e tu non ne sarai assolutamente capace cosa gli racconterai?”, domandò Bentley.
“Ed è qui che entrate in gioco voi”, risposi sicura e persuasiva allo stesso tempo, indicandoli uno a uno con l’indice.
“Hai in mente un piano?”, chiese Brad.
“Certo che si!”. Certo che no! Stavo improvvisando e non stavo andando nemmeno tanto male…
“Voi mi insegnerete tutto sul surf, e quando sarò pronta chiamerò Michael e lo stupirò con le mie doti da surfista provetta”. Li squadrai tutti quanti, e tutti quanti trovarono una scusa per defilarsi.
“Io e lo sport abbiamo litigato anni fa”, dichiarò Harry.
“Scusa, Hayl, ma è una missione suicida e io non ci sto”, sghignazzò Brad.
“Mi dispiace, ma sono occupato”.
“Ma non sai neanche quando voglio farlo!”.
“Fa niente, io sarò occupato”, disse Bentley.
“Sono allergico al sudore delle femmine”. Nick il maniaco, sempre il solito.
“Devo far compagnia a mia nonna”. Scott.
“Io devo lavarle la dentiera!”. Arthur. 
A quel punto, mi rimaneva poco da scegliere, così puntai gli occhi verso l’unico che ancora non mi aveva rifilato nessuna scusa. “Cam! Posso considerarti disponibile?”.
Sembrava titubante, come se gli dispiacesse darmi buca ma non fosse nemmeno disposto a perder tempo con me, così assunsi la mia espressione da cerbiatta e lo pregai. “Per favore…”.
“Ok, ma decido io dove e quando”, si arrese.
“Andata. Ci vediamo da me domani alle tre”.
“Hayl?”.
“Cosa?”. Forse si era accorto che avevo scelto io il posto e l’ora, di nuovo.
“Per fare surf serve il mare. A casa tua non c’è il mare”, mi fece notare.
“Giusto. Allora domani qui alle tre”.
“Se lo faremo qui il bagnino ci vedrà…”. Afferrai il cellulare e cominciai a muovere le dita velocissime sulla tastiera.
“No, domani non lavora, nel weekend torna sempre a Long Beach”, dissi leggendo la risposta di Michael al mio messaggio civettuolo. “Ah, ha detto che gli dispiace”.
“Ok, domani pomeriggio allora”.
 
“Ti avevo detto di portare una maglietta”; mi rimproverò Cam quel pomeriggio appena mi vide con addosso il mio prendisole nuovo.
“Non è vero”.
“Sì, ti ho mandato un messaggio sta mattina”.
“E io non l’ho letto. Ho il costume, sotto, non è sufficiente?”, chiesi scocciata.
“Sì, se vogliamo che tutta la spiaggia veda il tuo balconcino”.
“Ma…”. Non mi lasciò finire, si sfilò la maglietta e me la porse. “Ah, quindi vogliamo che tutta la spiaggia veda i tuoi, di pettorali. Ho capito, Mr. Esibizionista”, aggiunsi piccata.
Non mi rispose ma scoppiò a ridere, prima di cominciare la lezione. “Allora, questa è la tavola”, disse lasciandola cadere sulla sabbia bagnata. “Guardami, per favore”, mi riprese.
Alzai la testa dal nodo che stavo facendo alla maglia di Cam –mi arrivava a metà coscia e, bagnata, mi avrebbe quasi impedito di camminare: “Lo so cos’è una tavola, passiamo all’azione, per favore”.
“Ok, sali”.
“Dove?”.
“Sulla tavola. Dove, sennò?”. La indicò con un gesto accennato della mano e mi porse l’altra per incoraggiarmi. Mi sistemai al centro dell’asse e incrociai le braccia al petto: “Fatto. Adesso?”.
“Adesso ti faccio vedere come devi posizionarti quando ti dirò di alzarti, in acqua”. Poi prese a spostarmi ogni singolo muscolo del corpo, ordinandomi di rimanere immobile.
“Sei sicuro che vada bene, fa malissimo”, mi lamentai.
“Lo so”, mi rispose, leggermente compiaciuto. Lo fulminai con un’occhiataccia e feci un sospirone per sciogliere un po’ la tensione.
“Ok, adesso rilassati e prova a rifarlo da sola”. Ci provai un paio di volte: la prima ebbe come unico risultato di far piegare Cam in due dalle risate, mentre la seconda mi fece guadagnare qualche complimento. “Impari in fretta, ti deve proprio piacere quel tipo. Pronta per andare in acqua?”.
Scrutai per un secondo il mare che si abbatteva sul bagnasciuga in modo non proprio tranquillo.
“Ma oggi ci sono tante onde, non possiamo riprovare domani?”. Non è che avessi paura dell’acqua, ma non mi faceva nemmeno sentire troppo tranquilla. E Cam lo sapeva maglio di me.
“Haylie dobbiamo fare surf, e per fare surf servono le onde”. Mi strinse una spalla e mi rassicurò: “Dai, ci sono io. Giuro che se affogherai farò in modo che tu soffra il meno possibile”.
“Bell’incoraggiamento”, sbuffai ridacchiando.
Mi agganciò la tavola alla caviglia –spiegandomi che il laccio in gergo si chiamava Leash- ed entrammo in acqua mano nella mano. Alla prima mini onda che mi si presentò davanti quasi caddi e Cam dovette sostenermi con il braccio che già mi stava stringendo la vita. Ad ogni modo, cascai rovinosamente sulla sabbia dopo l’onda successiva –che mi arrivava più su dei fianchi.
“Devi saltare quando arriva l’onda, altrimenti ti butta giù”, mi spiegò.
“E non potevi dirmelo prima che finissi col sedere a terra?!”.
“Sì, ma sarebbe stato meno comico!”. Che bastardo.
“Ma bravo, divertiti alle mie spalle! Sappi che se morirò, il mio fantasma ti perseguiterà a vita, e ti taglierà i capelli nel sonno!”. Cominciò a ridere e mi aiutò a rialzarmi, prima di farmi salire sulla tavola che mi teneva ferma. Ci misi una vita, ma alla fine ci riuscii.
“Ok, adesso sdraiati prona, possibilmente da sola”. Era una chiara allusione a tutte le volte in cui aveva dovuto aiutarmi a fare cose semplicissime, quel pomeriggio.
“Eh, Bellone, parla un po’ come mangi. Cosa cavolo vuol dire prona?”.
“A pancia in giù, Haylie. A pancia in giù”. Obbedii. “Ora, nuota”.
“Solo con le braccia, ho le gambe sulla tavola”.
“Brava, la mia piccola Einstein!”, mi sbeffeggiò. Gli feci la linguaccia e cominciai a muovermi.
“Hayl?”.
“Cosa vuoi, adesso?”.
“Devi nuotare verso le onde, non verso riva…”, mi spiegò, scandendo le parole.
“Ah”. Sbuffò, poi girò la tavola di peso.
Ricominciai a muovermi e Cam mi incitò ad alzarmi alla prima onda decente che si presentò.
“Dai, dai, dai. Tirati su!”. Ci provai, ma fu un tentativo mancato: appena mi ero sistemata in ginocchio l’onda mi investì in pieno e mi trascinò giù con sé. “Devi essere più veloce, sennò cadrai e basta”, mi rimproverò.
“La fai facile, tu. Io non ho mica la tartaruga ninja che hai tu al posto della pancia!”.
“Lo prendo per un complimento”, disse con un ghigno. Lo era, in effetti.
Ci provai un’altra decina di volte, senza riuscirci in nessun modo. Le avevamo provate tutte: a rimanere in ginocchio per velocizzare la salita, ad aspettare l’onda in piedi con Cam che mi teneva ferma la tavola… avevamo anche provato a salirci entrambi con Cam che mi tirava praticamente su senza che io dovessi fare niente, ma fallii.
 
Un’ora dopo mi accasciai sul bagnasciuga della spiaggia di Santa Monica, distrutta.
“Mai più!”, esclamai mentre mi slacciavo quel maledetto Leash dalla caviglia.
“Ma non era la tua passione?”, mi prese in giro.
“Appunto, lo era!”.
“Adesso come la mettiamo con il bagnino?”. Da come lo disse non sembrava dispiaciuto del fatto che lasciassi perdere Michael, ma forse ero talmente stanca da immaginarmi tutto.
“Chi se ne frega! Non vale tutto questo dolore!”.
“Meglio così”. Meglio così? Che gliene fregava a lui del bagnino? A meno che…
 “Cam, non sarai mica geloso?”, chiesi sarcastica, socchiudendo gli occhi. Vidi la sorpresa passare attraverso i suoi occhi –probabilmente sperava che non avessi sentito il suo commentino-, seguita subito da un attimo di confusione, prima di rivolgermi lo sguardo sicuro e leggermente spavaldo che lo caratterizzava. “Ma va. Di chi poi, scusa?”.
“Come di chi? Di me con il bagnino, cretino!”. Mi congratulai con me stessa per il tono per niente inquieto –e totalmente falso- che riuscii a usare.
“Ma per favore. Lo dicevo così per dire, sarebbe come essere geloso di Brad o di Bentley. Insomma, non fosse per le tette, a volte potresti tranquillamente passare per uno di noi ragazzi…”.
“Ok, ok. Frena. Un semplice no bastava”- anche se poi io non gli avrei creduto, supportata dalle occhiate che delle volte mi lanciava quando pensava che non me ne accorgessi. Come la settimana prima al centro commerciale, quando mi stava aiutando a scegliere il vestito per la festa di compleanno di Harry: appena uscita dal camerino –mentre ancora mi aggiustavo le ruches che ornavano la scollatura- mi guardò come se mi volesse mangiare. “Comunque non ti credo”.
“Va bene, continua a farti queste pippe mentali, ma poi non ti lamentare di niente, tesoro”, mi rispose.
“Lamentarmi di cosa? Non mi sto mica innamorando di te!”. Ok, era una mezza bugia, ma non glielo avrei mai detto in faccia.
Anche perché io non lo amavo.
Gli volevo molto, molto bene, ma non lo amavo. Anche se averlo come fidanzato non mi sarebbe dispiaciuto. Come forse a ogni altro esponente del genere femminile, del resto: era intelligente, simpatico, brillante, gentile, tanto, tanto sexy, dolcissimo sotto la corazza da fighetto che indossava costantemente e bello da paura.
“Ti sono venuti gli esercizi di matematica?”, gli domandai per cambiare discorso.
“Sì, erano facili. Perché, a te no?”. La mia occhiataccia di sottecchi gli bastò come risposta. “Dio, Hayl, come sei ignorante in matematica!”, commentò alzando gli occhi al cielo.
“Non è vero!”, mentii per non dargliela vinta.
“Ah, no? Allora spiegami che cos’è una disequazione fratta”, chiese calmo, incrociando le braccia al petto.
“Una disequazione fratta è… una …disequazione… che… è anche fratta!”, risposi incrociando le braccia a mia volta, guardandolo negli occhi. In quei meravigliosi occhi azzurri.
Mi rise spudoratamente in faccia, prima di domandarmi quale fosse l’ultima cosa che avevo seriamente capito. Di matematica, si intende.
Ci pensai un po’ su, prima di replicare. “Beh, le tabelline le so… Anche se quella del sette mi da qualche problema…”. Ridemmo entrambi della mia ignoranza, poi Cam decise di rischiararmi la giornata con un bel: “Dai, andiamo. Ti do una mano a studiare”. Ovvero: avrei copiato i suoi, di esercizi.
Grazie tante Cam!   



Spazio autrici:
Questo era il quinto capitolo, io e Camilla ci scusiamo per il ritardo ma abbiamo avuto dei problemi con la connessione a internet, comunque speriamo che vi sia piaciuto! =) 
Speriamo di ritrovarvi nel prossimo capitolo: Barbie e Ken!  
Un GRAZIE DI CUORE a tutti quelli che ci stanno seguendo.
Arrivederci alla prossima=)
Kiss Kiss
Camy e Silvi

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Capitolo 7
*** Barbie e Ken ***


Ciao a tutti e scusate il ritardo, questo è il nuovo capitolo speriamo che vi piaccia!

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CAPITOLO SEI
BARBIE E KEN

 
Arrivammo a casa mia e ci catapultammo sul retro, per farci una doccia al volo. Se fossimo entrati in soggiorno pieni di sabbia, probabilmente Ava ci avrebbe scuoiati e si sarebbe fatta una bella giacca con la nostra pelle. Era assurdo, lo so. Anzi, era lei a essere assurda. Nonostante vivesse praticamente sulla spiaggia, usciva dai gangheri ogni volta che vedeva anche un solo, minuscolo e insignificante granello di sabbia in terra. Era un po’ fissata con l’ordine, la pulizia e cavolate simili, ecco. Secondo me soffriva di un disturbo ossessivo compulsivo, come la professoressa rossa di Glee, ma non mi ero mai azzardata a chiedere niente, anche se morivo dalla voglia di farlo. Ero maledettamente curiosa, cosa che, assieme alla mia totale mancanza di tatto, mi aveva messa più volte in situazioni spinose. Ci mancava solo che la Barbie mi impiccasse con un laccio delle sue scarpe firmate per aver anche solo provato a insinuare che non fosse assolutamente perfetta…
“Cam, tesoro, ti sei dato al volontariato?”. Che accidenti voleva Nicky? E soprattutto, perché quando aveva detto volontariato aveva accennato a me con la testa? Voleva forse fare l’acida? Bene, allora…
“Nicky, perché non vai a fare un giretto dove passa il treno?”.
“Come siamo acide! Cos’è, è un po’ che non si monta?”. Che… baldracca!
“Ma sta un po’ zitta, che a te non ti montano neanche i cavalli!”. La vidi gonfiare furiosa le guance rosse per l’imbarazzo, prima di uscirsene con un: “Umpf, sappi che te la farò pagare!”.
Se ne andò così, lasciandoci in balia delle risate fragorose di Cam.
“Non ti facevo così pungente”, mi confessò, trattenendo a stento i sogghigni.
“Già, ci sono un sacco di cose di me che non conosci”.
“Ah, sì? Tipo?”.
“Tipo che di notte, solo quando c’è la luna piena, riesco a parlare con i lampioni e quando si sta per avvicinare il solstizio d’estate ho incontri di Boxe con le mucche…”. Ovviamente ridemmo ancora più forte grazie alla mia deficienza. Modestamente…
“Dai, vatti a cambiare e dì ai tuoi che vieni da me”.
“Agli ordini, capo”. Entrai in casa, urlando con molta grazia un “Io vado a studiare da Cam. Ci vediamo sta sera” che non ottenne nessuna risposta.
Ottimo, ero sola. Lasciai sul tavolo della sala da pranzo un post-it verde, su cui avevo scritto il mio messaggio e l’ora in cui sarei tornata, e andai a prendere i libri di cui avevo bisogno. Mi diedi anche una sistemata ai capelli, poi mi cambiai tre volte d’abito –possibile che nel mio armadio non ci fosse niente che si abbinasse alle mie ballerine nuove? Cosa avevo in testa quando le avevo comprate, pop corn?- prima di sentire la porta spalancarsi.
“Che cacchio fai? Credevo che fossi svenuta o chissà cosa, è mezz’ora che ti aspetto”, mi domandò Cam, parlando più con il mio seno che i miei occhi. Sì, perché poiché il signorino era entrato senza bussare, non avevo fatto in tempo a coprirmi mentre mi cambiavo per l’ennesima volta e adesso mi ritrovavo davanti a lui in slip e reggiseno. Abbastanza imbarazzate, come cosa. Soprattutto perché sembrava che a lui non dispiacesse per niente.
“Mi stavo vestendo. Non ti hanno insegnato a bussare?”.
“Sì, scusa, ti aspetto fuori. Muoviti”, bisbigliò chiudendosi la porta alle spalle.
Alla fine mi infilai un paio di bermuda di jeans e la prima maglietta che trovai. Buttai i libri in una sacca che avevo evitato di rimettere a posto l’ultima volta che l’avevo usata e mi precipitai fuori. Mancai di poco il bel faccino di Cam, che sembrava imbarazzato e disorientato.
“Già fatto?”, mi chiese.
“Sì, avevi detto che mi dovevo sbrigare… Che hai?”. Sembrava incredibilmente impacciato ed evitava di guardarmi in faccia, come un bambino che veniva beccato dalla mamma a fare la marachella. 
“No, niente. Andiamo?”.
“Andiamo”.
 
Era la prima volta che andavo a casa di Cam e francamente non sapevo cosa aspettarmi. Sapevo che era ricco e che viveva con la sua famiglia in una tenuta nella “campagna” di Santa Monica, ma la mia conoscenza in merito si fermava lì. Tutte le volte che dovevamo incontrarci per qualsiasi motivo era lui a venire da me, oppure ci vedevamo in spiaggia, o al McDonald’s con gli altri, o da Ice&Cream….
“Eccoci”, esclamò Cam, imboccando il vialetto semi-nascosto dal verde che portava a una delle ville più grandi che avessi mai visto –non che fossi un’esperta in materia, a dire il vero.
Oh. Mio. Dio.
Oltre alla cancellata a dir poco enorme si estendeva un prato smisurato, di un verde che avrebbe fatto invidia al miglior Parco Nazionale, spezzato da un vialetto di ciottoli rosati. Nell’angolo più remoto notai –per la mia gioia- due alberi che avevano il compito di reggere un’amaca molto spaziosa, e il mio cervellino bacato cominciò a macchinare pensieri perversi su di me e il ragazzo biondo che mi sedeva accanto avvinghiati a fare qualcosa degno dei peggiori film a luci rosse, su quell’amaca…
Il portico che correva lungo tutto l’edificio mi ricordava vagamente quello dei templi giapponesi e il terrazzo sul tetto faceva tanto “villa di James Bond che deve far atterrate l’elicottero da un momento all’altro”.
Scendemmo dall’auto e Cam mi mostrò la piscina sul retro (!), prima di farmi entrare e di descrivermi il primo piano di quella che mi ricordai essere casa sua. Ma quanto capperino era ricco?
“Qui c’è la cucina”, mi disse, indicando con un gesto del braccio un ampio spazio alla mia destra, “E qui il salotto”. Io, più che salotto, l’avrei definito salone. Ero sicura che quel coso fosse più grande della mia stanza, di quella di Brad e anche di quella di Adam e Ava messe insieme.
“Poi ci sono anche un bagno e uno sgabuzzino, ma vorrei evitare di fare vedere i cessi e la spazzatura a prima vota che entri in casa”, disse sogghignando.
Poi mi fece salire una rampa di scale e mi ritrovai al piano superiore, dove mi “presentò” il bagno principale, la camera dei suoi, di sua sorella, degli ospiti, una stanza dei giochi e la sua.
“Beh, che fai, resti qui? È in disordine, ma ti assicuro che non morde, entra pure”. Mi ero bloccata –non so nemmeno io perché- sulla soglia della porta ed ero andata in iperventilazione, così mi esortò a entrare, poggiandomi una mano sulla schiena. Assecondai il suo gesto e mi diressi verso il centro di quella stanza luminosa. “Ti do il benvenuto nel mio mondo”, mi disse sorridendo raggiante. “Devo avvisarti che sei la seconda persona che entra qui, ma la prima è stata mia madre, che comunque viene solo per mettere un po’ d’ordine, quindi…”. La prima? E quando si incontrava con Brad –e sapevo che lo faceva, più di una volta avevo coperto il mio quasi - fratello quando non rientrava a casa entro il coprifuoco per finire quelle interminabili partite di calcio alla Play- dove lo portava? E le sue ragazze? Si accontentavano tutte di spassarsela in macchina?
“Ehm…”, mi uscì.
“Cosa?”.
“No, niente”. Scossi la testa e mi trattenni per meno di un secondo. “Ok, posso chiederti una cosa?”.
“Ti adoro quando fai così, sai?”, mi informò ridendo.
“Così come?”. Finsi indignazione, ma avevo il cuore a mille.
 “Quando cerchi di farti gli affari tuoi, ma non ce la fai perché sei troppo curiosa. Hai un’espressione buffa…”. Mi sorrise, un sorriso lontano dai ghigni maliziosi che riservava alle sue “prede”. “Dimmi pure, Stellina mia”, mi incitò. Da quando mi chiamava così? E da quando ero sua? Decisi di non chiedere spiegazioni, magari era solo un nomignolo affettuoso o qualcosa del genere. E comunque avevo cose più urgenti da sapere.
“Quando viene Brad o gli altri o…”. Dovetti mandare giù il groppone amaro che mi si era formato in gola prima di continuare. “O qualcuna delle tue amiche, dove li porti?”.
Fece spallucce. “Da un’altra parte. Perlomeno Brad. La Playstation è nella mia vecchia stanza dei giochi, perciò i nostri interminabili tornei di calcio virtuale hanno come scenario montagne di peluches e un trenino elettrico”. 
“Ah, si? E le Barbie che fanno da cheerleader no?”.
“No, quelle le tengo sotto il letto, ne sono troppo geloso”, disse imitando il tono del tipo del Signore degli Anelli che ha da fare con il suo tessoro –e che non ho un’idea di come si chiami!
“E le altre Barbie? Quelle che ti sbatti?”, mi uscì con un tono per niente tranquillo e distaccato –per niente da solo amica, in pratica. Mi pentii del tono, ma non della domanda.
Ok, forse appena un pochino…
“Perché ti interessa così tanto?”. Ah, aveva notato anche lui l’intonazione, eh?
Quella era proprio la domanda da un milione di dollari. Perché mi interessava sapere dove si intratteneva con le signorine che gli tenevano compagnia nei weekend –sempre che le tipe che la danno via come se non fosse nemmeno loro si chiamino così?
Lo sapevo benissimo perché, il problema è che non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa.
Non mi andava che il mio organo pensante si illudesse di potermi prendere in giro definendomi gelosa.
Anche perché non lo ero.
No, Haylie, e sei anche una mucca tibetana…
Zitto, cervello di merda!
Io non ero gelosa di Cam, è solo che l’idea che baciasse e stringesse altre ragazze faceva intoppare quella piccola parte di me che ragionava in modo razionale, ecco tutto.
Non l’avrei mai ammesso, comunque. Neanche sotto tortura.
Io e Cam eravamo amici. Punto.
“Curiosità”, annaspai alla fine. Gli occhi di Cam si ridussero a due fessure e rimase a scrutarmi per un minuto buono prima di pronunciare un “Ok” che mi fece capire che non se l’era bevuta.
“Sì… Io mi faccio un po’ i fatti tuoi, eh?”, gorgogliai in completo imbarazzo.
La stanza di Cam era un casino, perfino peggiore della mia. Spaziosa e luminosa, certo, ma anche un casino. C’erano vestiti disseminati ovunque: sul divanetto di pelle nera, sulla sedia della scrivania d’alluminio, sul tappeto azzurro semi-nascosto dal letto a una piazza e mezzo… e il pavimento chiaro che attorniava la Tv era ricoperto di DVD e riviste di sport.
“Wow”, commentai osservando i titoli dei periodici. “E i giornaletti porno dove li tieni?”, chiesi maliziosa, voltandomi verso di lui e affilando la vista.
“Guarda un po’ dentro l’armadio…”. Alzò il sopracciglio in modo molto eloquente, anche se sapevo che mi stava prendendo in giro. “Ho anche le manette e un altro po’ di giocattoli, se vuoi divertirti un po’…”. Mi sorrise malizioso, e decisi di non abbassare lo sguardo per non dargli la soddisfazione di mettermi in imbarazzo –anche se stavo bluffando.
“Grazie, me ne ricorderò appena troverò qualcuno con cui spassarmela”.
“Beh, in tal caso sappi che io sono disponibile 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana”. Sentii le guance andarmi a fuoco, ma riuscii comunque a rispondergli a tono. “Se ti annoi tanto allora dovresti controllare nella tua collezione di Barbie, sono sicura che troverai qualcosa che ti è congeniale e che ha voglia di farsi quattro salti”.
“Ma la Barbie che voglio è proprio quella che manca alla raccolta… È una outsider, e riesce sempre e comunque a sfuggirmi…”, mi sorrise beffardo. L’aria nella stanza divenne improvvisamente torrida e tesa, irrespirabile, perché sapevamo entrambi a chi si stesse riferendo: ero io quella che gli sfuggiva sempre, l’unica Barbie che mancava alla sua “collezione”.
Brad aveva accennato, una volta, all’attrazione che Cam provava nei miei confronti, ma non gli avevo creduto. Avevo potuto constatare con i miei stessi occhi quanto, certe volte, Cam provocasse certe ragazze solo per provocare me, ma avevo finto di non notarlo. Adesso che me lo aveva praticamente confessato era imbarazzante e agghiacciante allo stesso tempo. E se Cam avesse portato avanti una menzogna e la storia dell’amicizia fosse stata solo una messinscena per farmi arrivare dove voleva? Se avesse finto di volermi bene solo per infilarsi meglio nel mio letto?
Ma no, Cam non lo farebbe mai…
“Beh, desolata ma quella Barbie ha già giurato di spassarsela solo con Ken…”.
“E chi glielo dice che vale la pena aspettare Ken? Magari Blaine(*) è altrettanto divertente…”. La sua espressione si era indurita, diventando una maschera ironica e provocatoria.
“Però, te ne intendi di giochi da bambina, eh?”. Più che prenderlo in giro, volevo cercare di cambiare argomento, perché il mio cuore era a rischio esplosione.
Adoravo Cam, sul serio. Ma quando faceva così mi mandava in bestia.
Non volevo fare sesso con lui, e lo sapeva, perché scherzando glielo avevo detto tante volte.
Cioè, io ci avrei fatto volentieri bunga bunga, ma avrebbe significato diventare una ragazza da aggiungere alla sua Lista delle Scopate, e un nome da cancellare dalla mia Lista degli Amici.
E Cam era troppo importante.
Perciò dovevo solo tener duro finché la fissa per me non gli fosse passata –anche se, in cuor mio, speravo non succedesse mai.
 Fortunatamente, il mio tentativo di dirottare la conversazione verso cieli più sereni funzionò.
“Già, è il vantaggio di avere una sorella minore”. Il ghigno maligno che tanto detestavo era sparito dal suo bel viso e i lineamenti erano di nuovo rilassati. “Studiamo?”.
“Sì. Dove hai il quaderno?”. Cominciai a rovistare nello zaino –attaccato alla maniglia della porta a vetri da cui si intravedeva il mare- come se fosse roba mia.
“Lì non lo troverai. Dovrebbe essere da qualche parte sotto il letto…”.
“Con le Barbie?”. L’allusione al discorso precedente –che stavo facendo i salti mortali per dimenticare- fu totalmente spontanea e in intenzionale.
“Già”. Mi sorrise raggiante. Bene, era tornato il mio Cam, quello dolce e allegro. “Ma non sperare di copiare i miei esercizi, bellezza”.
“Ma come? Io non sono capace…”. Occhi da cerbiatta: modalità on.
“E allora ti insegno a farli. Non potrai copiare a vita”.
“E chi te l’ha detto?”.
“Nessuno”. Mi sorrise sarcastico, prima di riprendere. “Ma come farai quando non ci sarò più io?”.
“Troverò un modo”. Finsi di pensarci su un po’, prima di uscirmene con una cavolata delle mie.
“Magari metterò in esposizione le mie grazie”, commentai con fare distratto.
“Ah, farai vedere le tette per copiare un paio di equazioni? Dai, prova. Tanto per vedere se funziona”.
“Scemo!”, urlacchiai colpendolo alla spalla e scoppiando a ridere.
 
Quando la madre di Cam si affacciò alla porta per avvisarci che era pronta la cena saltai sulla sedia.
“Cosa c’è?”. L’espressione di Cam era seriamente curiosa.
“È tardissimo, devo tornare a casa”. Cominciai a raccogliere le mie cose e a cacciarle in malo modo nella borsa.
“Ma non abbiamo finito…”. Cam aveva ragione, eravamo –o meglio, ero- ancora in alto, altissimo mare con la matematica.  Avevamo passato le ultime due ore tra numeri, radici e lacrime di isteria –mie, non di Cam- e, nonostante il mio amico se la cavasse bene come insegnante, avevo capito quasi niente di quello che mi aveva spiegato.
“Se ti va puoi fermarti a cena qui, così poi potete continuare”. La madre di Cam doveva essere una persona veramente dolce, visto il tono cordiale che aveva usato per invitare una semi-sconosciuta a scroccarle la cena.
“No, non è necessario, grazie. Magari un’altra volta”.
“Lo so cosa stai pensando”. Bravo Cam, peccato che io non sappia a cosa tu ti stia riferendo…
“E non sarà un disturbo averti a tavola con noi, vero mamma?”.
“No, certo che no. Tesoro”, esclamò riferendosi a me, “non preoccuparti di dar fastidio, o di essere di troppo. Dove c’è da mangiare per quattro c’è anche per cinque… Poi ho fatto il pollo, che è la mia specialità. A meno che tu non sia vegetariana. In tal caso posso prepararti una torta di spinaci e patate…”.
“No, non ce n’è bisogno. Il pollo andrà benissimo, grazie”, mi arresi.
“Perfetto. Arriviamo tra un minuto, mamma”. La signora Bale ci sorrise prima di tornare di sotto e Cam finì di correggermi l’esercizio che avevo fatto prima di accompagnarmi in bagno per lavare le mani. “La mamma è un’ottima cuoca, lontana anni luce dalle schifezze vegetariano-macrobiotiche di Ava, te lo assicuro!”, mi rassicurò.
“Ah, hai provato anche tu la sua nouvelle cuisine…”.
“Bleah. Volevo dire già”. Scoppiammo a ridere e stavamo ancora sghignazzando quando arrivammo in sala da pranzo.
 
 
 * Blaine è il surfista con cui Barbie ha avuto un breve flirt durante la pausa di riflessione presa con Ken (Biografia di Barbie, Wikipedia).  

Note finali 
Scusate ancore per il ritardo=) Comunque io e Camilla speriamo che questo capitolo vi piaccia!
Mi raccomando recensite!=)

 

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Capitolo 8
*** Cap.8 Come tutte le coppie normali ***


Ciao a tutti,questo è il nuovo capitolo, spero che vi piaccia vivamente e mi raccomando recensite, per noi è molto importante sapere un vostro parere =)

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CAPITOLO OTTO
COME TUTTE LE COPPIE NORMALI

 

“Ahia! Merda, Harry, datti una calmata!”.
“Scusa… Tieni, mordi l’asciugamano”. Mi passò con mano sicura il telo azzurro su cui era stato seduto fino a un istante prima. “Devo imparare a fare la ceretta, sennò addio lavoro estivo nel centro estetico della zia. Quindi fammi il favore e sopporta in silenzio, eh?”.
“Ma che schifo!”.
“Cosa?”. Harry si fermò a scrutarmi con l’asticella ricoperta di cera bollente profumata alla vaniglia a mezz’aria, pronta a sgocciolare sul mio letto e a rovinare definitivamente la coperta a scacchi.
“Devo mordere l’asciugamano che fino a un secondo fa era sotto il tuo culo!”.
“Alzati e prenditene un altro”, mi ordinò indicando con la testa la pila di asciugamani che gli aveva prestato sua zia Nadine. Mi alzai controvoglia saltellando in equilibrio sulla gamba sinistra e ne acchiappai uno verde salvia. Spazientito, Harry si alzò di scatto e mi riportò sul letto di peso. Mi sganciò come fossi una bomba e quasi caddi in terra, facendo sghignazzare il bastardo. Stella, che aveva assistito alla scena dalla web-cam, ci regalò un’altra delle sue risate squillanti, prima di chiedermi come andassero le cose con Cam.
“N e enso?”, domanda con l’asciugamano in bocca, pronta ad un altro strappo violento di Harry.
“Eh?”, trillò Stella.
“In che senso”, tradusse Harry spalmandomi un po’ di cera sull’interno coscia. Se qualcuno fosse entrato all’improvviso nella mia stanza e non avesse saputo delle tendenze sessuali del mio amico avrebbe sicuramente frainteso. In effetti, la posizione in cui eravamo non era delle migliori…
“Uff! Come in che senso, Hayl! State insieme, tu e quel benedetto figone o no?!”.
“Oooo! Iamo olo alici!”. Altra espressione dubbiosa di Stella, altro chiarimento di Harry.
“La bugiarda ha detto che sono solo amici”, specificò con voce annoiata. “Ma non è assolutamente vero! Dovresti vedere come si guardano: sembrano due piccioncini in calore. Cam vorrebbe farsela allo sfinimento... Auh!”, si lamentò quando gli colpii la spalla con un pugno.
“Sul serio? E allora che aspetti? Sono sicura che a letto sia grande… In tutti i sensi!”, sghignazzò tra sé della sua battutina porno del giorno.
“Prima o poi crolleranno. Aspetto con ansia il giorno in cui sentirò dire che Cam l’ha scaraventata sul bancone da lavoro a biologia e ci hanno dato dentro davanti alla classe…”. Lo fulminai con lo sguardo, ma sembrò non recepire il messaggio. Mentre Stella scoppiava in una risata, il mio cellulare prese a vibrare sul comodino.
“Assami l tellulae”, borbottai. Harry agguantò il mio telefono –subito dopo aver tolto di mezzo la cera dalla coscia- e sbirciò lo schermo.
“Eccolo! È lui! Stella, è Cam!”:
“Che carino! Vorrà sapere come è andata la tortu… la ceretta”.
“Oppure vuole sentire la tua voce per dimenticare gli strilli della biondina di ieri sera. Com’è che si chiamava? Giudith?”. Levai l’asciugamano dalla bocca e avvicinai il telefono all’orecchio.
“Adesso taci!”, gli intimai.
“Oppure Gwyneth? Comunque io lo vedo come un segno che gli sei mancata anche durante la scopatina del venerdì sera…”.
“Gran segnale! Vuol dire che sei sempre nei suoi pensieri!”. Ma perché Stella continuava a dar retta al mio amico scemo?
“Zitti!”. Pigiai il tasto verde. “Pronto?!”.
“Stellina! Ciao, sono io”, esclamò la voce di Cam dall’altra parte del ricevitore.
“Ciao, Chicco!”. Lottai con la mano libera e i piedi per impedire a Harry di urlare qualcosa di stupido, anche se continuò a farmi il verso perché avevo chiamato Cam “Chicco”.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, mi informò Cam. Harry, che aveva origliato, riferì a Stella l’ultima frase e lei non tardò a uscirsene con un “Oh, che dolce! Si è stancato di sfogarsi in bagno coi giornaletti e vuole sfruttare la compagnia di Haylie!”.
“Adesso basta!”, sbuffai piuttosto rabbiosa.
“Che ho detto?”, chiese Cam confuso.
“No, tu niente”:
“Allora con chi ce l’hai?”.
“Con questi due idioti!”, sbuffai.
“Ma chi?”. Il tono di Cam stava diventando impaziente.
“Harry mi sta facendo la ceretta e Stella è collegata con la web-cam”, chiarii.
“Ah… Sì, comunque puoi darmi una mano più tardi?”.
“Credo di sì… Che devo fare?”.
“Shopping” fu la sua lapidaria risposta.
“Ottimo”.
“Con me…”. Harry, che aveva evidentemente perso un pezzo di conversazione, chiese a Cam che cosa dovessi fare con lui con un tono troppo furbetto e malizioso perché non arrivasse anche alle orecchie di Cam.
“Sesso! Che ti frega?”. L’attenzione di Cam fu rivolta a Harry un secondino solo, prima di tornare a concentrarsi su di me. “Allora?”.
“Certo, ci sto. Però…”. Pausa imbarazzante. “Ok, devo dirtelo: sono quasi al verde”.
“No problem”, replicò tranquillo.
“Invece si che è un problem… Comunque qual è lo scopo, sta volta? Hai puntato la commessa di un negozio di intimo e devo spacciarmi per tua cugina così tu ci puoi provare?”. In fondo, era già successo una volta.
“No, domani sarà il compleanno di mia mamma e mi sono dimenticato il regalo. Ci vediamo tra mezz’ora al centro commerciale?”.
“Sicuro”.
“Dillo anche a Brad. Oh, e domani vi aspetto alla festa, ci saranno un po’ di parenti vari e senza di voi sarebbe uno strazio…”.
“Ma Cam…”. Ok, dopo quella volta delle ripetizioni era ricapitato che andassi a casa di Cam, ma in quel caso ci sarebbe stata tutta la famiglia e sarebbe stato imbarazzante. Tanto.
“Non fare storie. A dopo!”. E riattaccò.
 
“Ma la volete smettere! Non siamo fidanzati, né niente di simile, quindi basta preparativi per le nozze, chiaro?”, urlai esasperata una decina di minuti dopo. Era evidente che quei due si erano stancati della vita e volevano morire presto, molto presto.
“Guardala! Diventa irritabile e nervosa e cerca di negare allo sfinimento: è cotta marcia! Harry, ragazzo mio, non hai più speranze: Cam è diventato proprietà privata”. Ma Stella zitta mai?
“Ok, ora basta. Ciao, Stella e in bocca al lupo per le gare di Cheerleading”.
“Mi raccomando, vedi il verso di saltargli addosso almeno questa volta!”. Sbuffai chiudendo la chat, perché altrimenti avrei oltrepassato lo schermo e l’avrei strangolata.
“Non. Una. Parola”, intimai a Harry, lo sguardo di ghiaccio. Lui fece il gesto di cucirsi la bocca.
“Vado a darmi una sistemata, tu metti a posto e continua con il regime del mutismo. Chiaro?”.
“Mi confonderai con un monaco tibetano, Grande Capo!”. Sorrisi mentre mi dirigevo verso il bagno.
Una mezz’ora dopo ero pronta. Brad era da Arianne e aveva la mia macchina -dato che la sua era dal meccanico e teoricamente io non sarei dovuta uscire-, quindi dovetti scroccare un passaggio a Harry. Era stranamente silenzioso mentre metteva in moto, e non era da lui.
“Hayl, a parte gli scherzi, lo sai che quello che ha detto Stella è vero, giusto?”. Ecco. Aveva appena aperto bocca e già mi aveva fatto saltare i nervi. Mai svegliare il can che dorme, neanche solo col pensiero…
“In che senso?”.
“È chiaro come i capelli di Elle Davis che voi due non siete amici. Non solo, per lo meno”.
“Te l’ho già detto: non siamo amici di letto…”, sbuffai. Era la seicentesima volta che imboccavamo quel discorso, e ancora il concetto non gli era entrato in quella testolina bacata che si ritrovava.
“Mm-mm, ancora? Credi che sia cretino? Ok, non rispondere!”, mi intimò puntandomi contro l’indice. Alzai le mani in segno di resa e incassai la testa nelle spalle, come un’eretica di fronte all’Inquisizione. “Non è da Cam comportarsi solo da amico con una ragazza… di solito quello fa parte dei preliminari”.
Rimasi un attimo bloccata, incerta sull’effetto che avrebbe potuto avere la frase che inevitabilmente mi scappò un secondo dopo. “Così lo fai sembrare disgustoso…”.
“Vedi che lo difendi? Cosa c’è di non disgustoso in un ragazzo che ha come unico scopo nella vita scoparsi più ragazze possibili?”.
“È giovane, ha gli ormoni in subbuglio…”.
“Lo sai che tiene un quaderno su cui appunta nome, cognome e voto della malcapitata di turno?”.
“Ah… Ok, non è la cosa più carina del mondo, ma… E poi scusa, un secondo fa mi stavi quasi forzando ad infilarmi nel suo letto il prima possibile e adesso mi dici così?”. Va bene, frase stupida. Ma sul serio, non sapevo cosa dire, mi aveva spiazzata. Era una cosa così squallida…
Così… non da Cam, ecco.
“Ti sto solo dicendo di chiarire le cose”.
“Chiarire cosa? Non stiamo insieme, non siamo scopamici e Cam può fare quello che gli pare, cazzo!”.
“Perché ti innervosisci? Stai calma. Respira. Non mi collassare in macchina, ti prego”, mi implorò. Diedi un’occhiata di sfuggita allo specchietto: in effetti, avevo le guance rossissime e il respiro irregolare, chiari segnali di come la pensassi in realtà sull’argomento.
“Vi piacete, a vicenda”, e calcò la mano –anzi, la voce- su quelle ultime paroline. “Dovete solo parlarne e decidervi a mettervi insieme, come tutte le coppie normali”. La voce di Harry si era addolcita parecchio, forse perché sapeva quanto fossi suscettibile su quel fronte.
“È solo che ho paura. Non voglio essere solo un altro nome su quel quaderno…”. Sguardo basso, guance in fiamme e voce sussurrata: fu così che confessai a Harry il mio incubo peggiore. Non lo avevo mai detto a nessuno, anche se probabilmente lui c’era già arrivato.
“Lo so, e io non voglio che tu soffra… È per questo che dovete decidervi a chiarire questa situazione…”. A volte, la profondità di Harry raggiungeva picchi spaventosi. Il vero problema era che erano come la paghetta: arrivavano solo una volta al mese…
“Va beh, alza il volume che ‘sta canzone spacca!”. Cominciammo a cantare Teenage Dream a squarcia gola e –per mia fortuna- lasciammo cadere il discorso.
 
“Dove eravate finiti, sono venti minuti che vi aspetto!”, ci diede il benvenuto Cam quando finalmente, dopo una fila pazzesca di semafori rossi, arrivammo davanti al centro commerciale.
“Ciao, eh!”, gli ringhiai contro stizzita.
“Ciao, Hayl”. Si avvicinò per baciarmi la guancia e Harry si schiarì la voce.
 “Ma ciao, Cam! Sì, anche io sono contento di vederti. No, non ti preoccupare, tutto ok”. Ma quanto era permaloso Harry da uno a cento? Tremila!
“Ciao, Harry”, si sforzò Cam, chinando la testa verso di lui. “Come mai qui?”.
“Ho accompagnato la tua ragazza. Adesso vi lascio soli, così puoi fartela in santa pace visto che lei non vede l’ora…”. Calò un silenzio profondo, imbarazzante. Strafottutissima merda!
“Harry”, lo rimproverai sottovoce. “Che cosa cazzo dici?”. La mia voce era acido puro.
“Niente…”. La sua, di voce, era finta come una banconota da sette dollari. “Vabbè, ci si vede, eh!”.
E fu così che Harry Larsen, infido traditore non che –per mia sfortuna- uno dei miei migliori amici si eclissò dall’entrata del centro commerciale di Santa Monica, in quel caldo giorno di marzo.
Io e Cam passammo due minuti buoni a guardarci attorno e a fare commentini sul tempo, prima di deciderci ad entrare. Era strana, la nostra situazione: eravamo amici, e assieme stavamo benissimo. Non avevamo bisogno di etichette, perché sapevamo alla perfezione cosa c’era tra noi e quali limiti era meglio non superare. Ma quando il nostro equilibrio “di coppia” veniva messo in dubbio da altri, allora il peso dei nostri veri sentimenti ci opprimeva come una cappa di fumo denso.
E quali erano i nostri sentimenti? Beh, probabilmente la cotta enorme che avevo avuto per Cam covava ancora sotto la cenere, pronta a prendere fuoco e a carbonizzarmi cuore e anima in un colpo solo. Innamorarsi di Cameron Bale era esattamente come giocare con il fuoco e prima o poi io mi sarei bruciata, di sicuro.
E Cam… Beh, Cam voleva sesso, punto.
Sentivamo cose troppo diverse, volevamo cose troppo diverse. Io ero innamorata (più o meno) di lui, lui era attratto (quanto bastava) da me. Io volevo tutto di lui, lui, in un certo senso, voleva solo il mio corpo. Certo, non è che mi frequentasse solo per quello, ma visto che andavo bene per scopare ma non abbastanza da essere la sua ragazza, il fatto che si ricordasse la data del mio compleanno o il mio piatto preferito non faceva molta differenza …
“Haylie? Mi stai ascoltando?”. Cam stava sventolando una delle sue mani grandi davanti ai miei occhi, segno che mi ero incantata a fissare il vuoto, come al solito.
“Non ho capito una sillaba, se vogliamo essere sinceri…”, ammisi senza perdere la grinta.
“Da dove cominciamo? Pensavo di fare un salto in quel negozio dove vendono gli aggeggi per la cucina e cose così…”.
“Ma sei matto? Vuoi regalare alla donna che ti ha dato la vita uno scolapasta?”. Scossi la testa, fintamente indignata. “Non ho parole…”.
“OK, grande Guru dello shopping. Altre idee?”.
“Un bel vestito. Tua madre sarà già depressa perché si sta avvicinando pericolosamente agli Anta, ha bisogno di qualcosa per tirarsi su!”, dichiarai. Poi mi diressi a passo svelto verso la vetrina di un negozio che poteva fare al caso nostro, prima di entrare senza nemmeno badare se Cam mi avesse seguita oppure no. Facemmo provare a una commessa più o meno della stessa taglia di Norah una miriade di abiti, tutti scelti da me, visto che Cam non aveva un minimo di gusto in fatto di moda da donna.
Alla fine optammo per una gonna a vita alta color prugna e una camicetta color panna, che avrebbero messo in risalto il decolleté di Norah e il suo vitino di vespa, e visto che Cam aveva soldi da buttare, le comprammo anche le scarpe abbinate.
Poi passammo alla parte realmente divertente. Restammo chiusi in una di quelle cabine per le foto tessera una ventina di minuti, tanto che qualche bambino alla fine ci rimproverò arrabbiato, prima di rinchiuderci al bar, con un paio di milk-shake in mano. Lì passammo il tempo a ridere come cretini per ogni cosa, dalla cameriera un po’ imbranata alla coppia di vecchietti vagamente allupati. Alla fine prendemmo l’autobus per tornate a casa, visto che quel genio di Cam si era fatto accompagnare in macchina da sua madre, quel pomeriggio. Quando mi accomodai sulle sue gambe per sfruttare al meglio l’unico posto libero rimasto, sentii un paio di ragazze sedute qualche sedile dietro al nostro borbottare su quanto fossi fortunata ad avere un ragazzo così sexy, e insultare i loro poveri fidanzati momentaneamente assenti visto che mancavano di cavalleria e di sex-appeal. Durante il tragitto fecero anche qualche commento molto più che sconcio su me e Cam –ma soprattutto su Cam- che non ripeterò di sicuro, e che mi fecero innervosire tanto da costringermi a scendere due fermate prima della mia con la scusa accampata all’ultimo che avevo assolutamente bisogno di un gelato da Ice&Cream. Lasciai Cam, vagamente rattristato –magari si era solo accorto che gli stavo mentendo, in balia delle due arpie, che, ci avrei scommesso le chiappe, non avrebbero perso nemmeno un secondo per provarci con lui.
 
Alla fine la festa di Norah non fu così disastrosa.
C’erano un sacco di palloncini e di festoni colorati, a dare il benvenuto alla primavera e ai quarant’anni della madre di Cam, e un buffet da capogiro. Incontrai la nonna di Cam, una donnetta paffutella e con i capelli tinti di un colore improponibile, che era una forza della natura, sempre a chiacchierare e con la battuta pronta. I parenti acquisiti dalla parte del padre di Cam, però, erano presuntuosi e un po’ sofisticati. Anche la loro era una famiglia allargata e al fratello del signor Bale e sua figlia Zara, adesso si erano aggiunte anche Eva e sua madre Magdah, zia posticcia di Cam che cercava a tutti i costi di appioppare sua figlia (ventiquattrenne biondina e vagamente scialba) al mio amico. Non mancarono occasione di far pesare quanti zeri avesse il loro conto in banca o quante volte l’anno potevano permettersi di andare in vacanza. Anche la famiglia di Cam era ricca, ma né lui né tantomeno i suoi lo avevano mai fatto pesare.
Passai il pomeriggio insieme a Cam e Brad a fare da Baby-sitter ai cuginetti dodicenni di Cam, che tradotto significava che io tenevo i punti mentre loro due (maturi liceali) li sfidavano alla Play. Poi venni rapita dalla nonna del mio amico, che mi chiese una mano con il buffet mentre Viky mi tormentava perché le mettessi lo smalto, più tardi, lamentandosi che “il suo fratellone non lo faceva mai”. Non mi fermai un attimo e, quando alle sei io e Brad ci avviammo verso casa, ero esausta.
 
I primi giorni di quella settimana di scuola furono terrificanti, e mi trovavo ad essere sempre tesa, con i nervi a fior di pelle. Tra quella merdaccia della prof. di matematica che aveva deciso che torturarmi e mortificarmi sarebbero diventate la sua missione di vita, i test di biologia e spagnolo concentrati tra le ore del martedì e quello di francese il mercoledì, ero talmente intrattabile che anche i ragazzi decisero di lasciarmi in pace, visto che, a detta loro, “avevo le mie cose”.
In più, il mercoledì sera, invece di concentrarmi su quei dannatissimi esercizi di algebra che non mi sarebbero tornati nemmeno se avessi imparato a piangere in cirillico, dovetti occuparmi della cena per tutti, visto che Ava avrebbe dovuto tenere una lezione extra di yoga, quel giorno.
E fu per quello che sbottai quando la Bambolotta gonfiabile figlia di quella Bambolona gonfiabile di sua madre –alias Nicky osò offendere la mia pizza, accuratamente scartata e scaldata in forno.
“Che schifo, io non mangio questa roba. È piena di grassi”, gracchiò stizzita quando portai in tavola la cena. “Poi, per forza Haylie tremoli tutta!”. Perché doveva sempre con il finire per insultarmi?
“Almeno io il grasso non ce l’ho tutto bloccato nel cervello”, sibilai spazientita, con un tono alla Samara di The Ring. “E se non ti piace, la prossima volta alzi il tuo bel culetto rinsecchito e, invece di chattare con quello sfigato del tuo ragazzo, vieni e ti prepari qualcosa da mangiare, claro?”. E con quella frase, scatenai l’inferno.
“Haylie, chiedi subito scusa a tua sorella!”. Ok, i casi erano due: o Adam era cretino, o era cretino! Era stata lei a iniziare con gli insulti, e quella che doveva scusarsi ero io?
“No, alt: primo, quella”, e sputai quel quella con tutto il disprezzo del mondo “non è mia sorella, secondo, io non chiedo scusa proprio a nessuno!”.
“Per fortuna: ci pensi che trauma a crescere con una come te tra i piedi?”.
“Ma senti chi parla! Evidentemente il meglio se l’è accaparrato tutto Brad, lasciandoti tutti i neuroni marci…”.
“Vipera”.
“Megera!”. Nicky non rispose.
“Vedi, avevo ragione: non sai nemmeno che vuol dire”, sogghignai soddisfatta.
“Certo che lo so: è sicuramente un sinonimo di Haylie”.
“Oca anoressica”.
“Vacca”.
“Perfida sciacquetta invidiosa!”.
“Ragazze, basta!”. Il tentativo di mio padre di intromettersi nella discussione fece desistere la strega dal lanciarmi qualche altro insulto. Si accucciò buona e tranquilla sul suo sgabello e aspettò pazientemente che mi prendessi tutta la colpa della litigata.
“Haylie, non credi di aver esagerato un po’?”. Il tono di Adam non ammetteva repliche: l’unica risposta che avrebbe accettato sarebbero state scuse verso l’arpia, chiaramente l’unica vittima sacrificale dell’accaduto.
“Ha iniziato lei!”.
“Sembri una bambina dell’asilo. Cresci un po’!”.
“Ma, sarà che la tua fuga ha fatto fermare il tempo a quando te ne sei andato”. Momento perfetto per rinfacciargli una buona dose di sensi di colpa.  
“Smetti di fare la melodrammatica, ti conosco. So che stai recitando, che non sei realmente così. Sono tuo padre…”.
“Sai cosa? Odio come te ne stai seduto pensando di sapere che sono”. Gli puntai l’indice al petto, imbestialita. “Mettiamo le cose in chiaro: una volta mi conoscevi. E ti ricordi cosa è successo dopo?”. Pausa drammatica. “Sai, la bimbetta sempre allegra che ti gironzolava attorno spensierata se ne è andata, proprio come hai fatto tu”. Ero fierissima di me e dell’indifferenza con cui avevo pronunciato quelle parole.
“Senti, ragazzina insolente, se c’è una ragione per cui me ne sono andato, è per liberarmi. Ero intrappolato, non riuscivo a respirare. Tu e tua madre mi stavate rovinando la vita, avevo tutto il diritto di riprendermela”. Ok, quando è troppo è troppo.
Scattai dallo sgabello come se qualcuno mi avesse dato un pizzicotto fortissimo sul sedere e mi precipitai su per le scale, dritta in camera. Sentii una sedia strisciare sul parquet chiaro, stridendo, e pochi secondi dopo Bradin urlare: “Ma che razza di uomo sei?”. Sbattei la porta un momento prima cheBrad mi raggiungesse. Poi mi lanciai di peso sul letto e afferrai il cuscino.
“Hayl, mi fai entrare?”. La voce di Brad era puro miele, e sarebbe stato grandioso se avessi potuto sfogarmi con lui. Ma non riuscivo ad andare ad aprire.
Non volevo particolarmente bene ad Adam e di solito non mi interessavano le sue opinioni ma quelle parole mi avevano ferita nel profondo. Era sempre mio padre, cazzo!
“Puffa, lo so che stai male e che non vuoi parlare con nessuno, comunque mi trovi qui davanti”. Aveva usato il nomignolo che mi aveva affibbiato, il che mi strappò un sorriso debole. Sentii la stoffa dei suoi vestiti strisciare di peso contro la porta fino a raggiungere il pavimento, dove probabilmente si sedette.   
Non piansi e non mi disperai, Adam non meritava le mie lacrime. Tuttavia, non trovavo la forza di alzarmi e di tornare di sotto, per dimostrargli quanto poco le sue parole mi avessero ferita. Non era vero, mi avevano colpita eccome, ma l’ultima cosa che volevo era dimostrarglielo.
Quasi un’ora dopo, Brad si alzò per andare agli allenamenti di Boxe, lasciandomi sola.
Non pensai nemmeno un secondo a quello che feci. Mi precipitai alla porta, la aprii in un lampo e cominciai a scendere le scale, saltando tre gradini alla volta. Arrivata di sotto, agguantai le chiavi dell’auto e senza salutare nessuno –ci mancava solo quello, vista la situazione- mi diressi verso l’ingresso.
“Dove vuoi andare a quest’ora?”. Certo che Adam era proprio un coglione…
“Dove cazzo mi pare!”, gli ringhiai contro. Troppo teatrale?
Marciai verso la macchina talmente in fretta che, quando alla fine mi accomodai al posto di guida, i muscoli dei polpacci mi pulsavano, ma non mi importava. Volevo solo arrivare alla mia destinazione il prima possibile. Già in macchina cominciai a sentire gli occhi pizzicarmi: lo sapevo, cazzo. Era tutta colpa delle lacrime meschine che ero riuscita a trattenere grazie all’orgoglio ma che, lontana da tutto e da tutti, facevo fatica a bloccare.
Dovevo avere una faccia davvero sconvolta, perché quando il mio angelo personale aprì la porta di casa, quella sera, la sua espressione passò da serena a distrutta.
“Haylie, cos’è successo?”.    
 
 

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Capitolo 9
*** Cap.9 Hot Mess ***


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Questo è il nuovo capitolo, scusate per l'enorme ritardo, io e camilla speriamo che vi piaccia! Mi raccomando recensite, per noi è importante conscere il vostro parere.Grazie mille a che userà due minuti del suo tempo  per recensire questa storia. =)

CAPITOLO NOVE
HOT MESS
 

Cam era bellissimo quella sera, con gli occhiali, i pantaloni della tuta e la maglietta stropicciata.
Era in piedi di fronte a me, con la mano ancora sulla maniglia della porta, evidentemente sorpreso dal mio arrivo.
Singhiozzai. “Lo so che avevi detto che dovevi studiare, perché sei rimasto indietro e non volevi nessuno tra i piedi, però posso entrare? Giuro che mi metto buona buona sul divano e ti lascio in pace”, mugugnai un po’ a fatica, perché la voce mi tremava da matti.
“Certo, vieni”. Si spostò dalla porta, quel tanto che bastava per farmi sgusciare dentro. “Mi spieghi cosa è successo, per favore?”.
“Eravamo a cena, e Nicky si è messa a insultare la mia pizza, così le ho detto che poteva farsela da sola e abbiamo iniziato a insultarci, poi si è intromesso Adam, ci ha fatto smettere e mi ha detto di chiederle scusa e io gli ho detto “Non ci penso proprio” e poi mi ha detto che sembravo una bimba e che dovevo crescere e abbiamo iniziato a urlare e lui ha detto che se n’è andato perché io e mamma gli avevamo rovinato la vita…”. Più che un chiarimento, sembrava la confessione di una ragazzina delle elementari che è stata sgridata dalla maestra, visto il mio tono piagnucoloso e infantile. Non avevo nemmeno ripreso fiato, veramente non ero nemmeno sicura di avergli dato una spiegazione minimamente comprensibile. Era come se le parole spingessero per venire fuori tutte nello stesso momento, causandomi una specie di vomito di frasi illogiche e sconnesse. Comunque Cam capì, e mentre continuavo a frignare mi strinse forte per calmarmi. Mi accompagnò fino al divano, dove aveva lasciato il libro e il quaderno degli appunti aperti e mi fece sedere.
“Ti va un po’ d’acqua?”. Annuii. Mi sorrise paziente. “Torno subito”. E sparì in cucina.
Mi raggomitolai con le braccia strette al petto, sicura che altrimenti il vortice che avevo al posto del petto mi avrebbe inghiottita. Neanche un minuto dopo, Cam mi porse un bicchiere e si accomodò accanto a me, cingendomi le spalle con un braccio. Mi esaminò mentre bevevo, poi, quando ebbi finito, mi chiese premuroso: “Come stai? Va un po’ meglio?”. Ci ragionai un po’ su.
Come stavo? Non riuscivo a spiegare neanche a me stessa la risposta, figuriamoci se sarei stata in grado di farlo con Cam. Pensavo che non mi importasse niente di Adam né tantomeno sella sua approvazione o del suo affetto, ma evidentemente era una bugia: tenevo a lui più di quanto credessi.
Mi strinsi nelle spalle e provai a chiarire. “Non lo so”. Cam intrecciò le sue dita alle mie, e mi scappò un sorrisetto. “Sono solo delusa, forse. Cioè, non è che mi aspettassi qualcosa di diverso da lui”. Tirai su col naso. “Se mi avesse voluto bene sarebbe rimasto a vivere con me e la mamma”. Singhiozzai di nuovo, e Cam mi si avvicinò ancora di più. “Ma ci ha lasciate, quindi sapevo già come la pensasse”. Mi bloccai un attimo e Cam mi spronò. “Ma…”.
“Ma è una cosa diversa”. Sentivo le lacrime ricominciare a spingere per uscire, ancora pochi secondi e sarei scoppiata. “Insomma, come fa un padre a dire alla propria figlia che gli ha rovinato la vita?”. Ripresi a piangere, forte. Tanto forte che i singhiozzi quasi mi impedivano di riprendere fiato. “Mi fa schifo stare qui, la mia vita è diventata una tragedia. Voglio tornare ad Albuquerque e stare con i miei amici”. Non pensai minimamente al fatto che avrebbe anche potuto offendersi. “Voglio la mia camera, le mie cose, i miei professori, che erano meno scazzati di quelli che sono qui e la mia vicina di casa che mi preparava i biscotti al burro più buoni del mondo…”. Restai in silenzio un secondo solo.
“Voglio la mia mamma”, singhiozzai a bassa voce. 
Cam mi tirò a sedere su di lui, e, stringendomi tra le braccia, posò il mento sulla mia testa. Poi prese a cullarmi, avanti e indietro, inesorabilmente, finché il mio respiro non tornò regolare. Solo allora si decise a parlare. “Secondo me ti vuole bene, ma è impacciato, non sa come comportarsi. Dagli tempo”. Non poteva essere sano.
“Ma fai sul serio?”. Era un’accusa la mia, un po’ come se avessi voluto dirgli: “Ehi, ma da che parte stai?”. Tardò qualche minuto a rispondere. Intanto io, che mi sentivo vagamente ferita nel profondo, cercai di scostarmi da lui più volte, ma la sua presa salda sui fianchi non me lo permise.
“Ok, no. È uno stronzo imperdonabile”. Mi sorrise e mi sentii un po’ meglio. Mi asciugò una lacrima –scesa solitaria e muta- con il pollice, prima di continuare. “Ma guarda il lato positivo: hai un sacco di amici che ti vogliono bene… E tra poco più di un anno sarai maggiorenne e potrai andare a vivere da qualche altra parte”, concluse in tono un po’ più allegro. Risi, e lui fece lo stesso di rimando.
“Brava, sorridi. Sei molto più carina quando lo fai”. Fece scorrere le mani un po’ più su, verso la vita, e mi strinse forte. “Hai fame? Stavo per preparare il mio piatto forte: pane e marmellata. Posso tentarti?”, chiese malizioso.
“Per questa volta…”. Mi feci scivolare giù dalle sue gambe per farlo andare in cucina e mi riaccomodai subito dopo sul divano di pelle morbida, più serena. “Posso accendere la Tv?”, urlai tirando su col naso. La testa di Cam sbucò fuori dalla porta scorrevole della cucina.
“Avevi detto che saresti stata buona buona, ma evidentemente sei una bugiarda nata, dovrei saperlo ormai”, mi rispose scuotendo la testa e prendendomi in giro. Agguantai il telecomando e cominciai a fare zapping.
Soap opera? No, troppo melodrammatica. Avevo bisogno di qualcosa per tirarmi su. Meglio un po’ di cartoni animati. Non ne trovai in nessun canale, quindi continuai la mia ricerca. Documentario? Nah. Chissà a cosa mi servirà mai nella vita conoscere il ciclo riproduttivo delle meduse rosse… Provai a interessarmi a un quiz a premi, ma non conoscevo nessuna delle risposte e la cosa mi demoralizzò ancora di più, quindi, appena beccai una puntata di Zack e Cody al Grand Hotel decisi di interrompere la ricerca.
“Wow, che programma colto”, mi prese in giro Cam, tornando dalla cucina con un paio di panini su un piatto bianco.
“Pensavo che fossi caduto nel lavello. Sei in assoluto la persona più lenta del mondo a preparare pane e marmellata”, mi lamentai con il mio solito tono insolente.
“Ah, ah, ah. Ma che spiritosa”, mi rimbeccò Cam. “Non trovavo il burro…”.
“Di solito sta nel frigo, sai?”.
“Ok, mi stai dando sui nervi”. Sul serio? Perché la sua espressione diceva tutto il contrario. “Mangia e zitta, ok?”.
“Va bene…”. Afferrai il sandwich più piccolo e tolsi le scarpe, per accoccolarmi meglio sul divano. Per un po’ mangiammo in silenzio, poi, durante una pausa pubblicità, lo schermo rimase nero per qualche secondo più del solito e riuscii a vedere la mia immagine riflessa. Avevo i capelli arruffati, le guance rosse e il mascara colato giù per le guance.
“Dio, sono un casino!”, esclamai scioccata, turbandomi leggermente. Cam si accorse subito del mio cambio d’umore, perché scostò il piatto che ci separava e strinse le braccia attorno al mio petto. “Vieni qua”. Mi baciò i capelli. “Sei in assoluto il casino più sexy che io abbia mai visto”.
 
“Delle volte mi sento così a disagio, come se non mi appartenesse nemmeno la mia pelle”, confessai qualche minuto dopo, mentre ci sistemavamo meglio sul divano, Cam per studiare, io per guardarlo mentre lo faceva. “Mi sento frustrata per tutto… Potrei benissimo urlare senza nessun motivo. Così, di punto in bianco…”.
Cam, penna in mano e libro di trigonometria appoggiato sulle gambe incrociate, inchiodò gli occhi nei miei e alzò un sopraciglio, un po’ scettico.
 “Che c’è?”. Mi scappò quasi un sorrisino, era troppo buffo con quell’espressione.
“Niente. È che non pensavo ti sentissi così…”. Non aveva finito, glielo leggevo in faccia. Distolse lo sguardo.
“Cam?”.
“Mmm?”. Mi guardò di nuovo. Gli feci un cenno con la testa, per incitarlo ad andare avanti.
“Niente, Hayl. È solo che… beh, non pensavo di essere così totalmente inutile, nella tua vita”. Alzò le spalle, impercettibilmente nervoso. Si sentiva esposto, forse. Vulnerabile. In fondo, cos’era stata quella? Una confessione? Una dichiarazione? Non era importante. L’importante era che, qualunque cosa fosse, aveva fatto aumentare il ritmo del mio cuore da pazzi, tanto che adesso batteva veloce e rumoroso come la batteria di un gruppo rock.
“No, Cam. Non è vero”. Ero stata tranquilla e risoluta: tutto l’opposto di come mi sentivo, insomma.  “Non sei inutile. Anzi, a me piace da morire stare con te”. Ma cosa stavo facendo? Se fossi andata avanti così, avrei firmato la mia condanna a morte, già me lo sentivo…
Però era ora che Cam sapesse la verità.
“Non devo lavorare sodo per impressionare nessuno, perché conosci tutti i miei difetti…”. Mi feci un po’ più vicina a lui –ancora immobile nella posizione di prima- e gli agguantai un braccio, abbracciandolo contro il mio petto. “Potrei tranquillamente piangere davanti a te, perché so per certo che tu mi abbracceresti fino a farmi smettere. Oppure so di poter ridere da matti, come una posseduta, perché tu rideresti con me fino alle lacrime. E poi è splendido come qualche volta non abbiamo niente da dire, ma solo stare insieme è abbastanza…”. Gli strofinai il naso contro il bicipite, sul quale spuntò un accenno di pelle d’oca. Ma cosa...?
“Ti… voglio bene, Hayl”. Inconsciamente, mi pentii di non aver raccontato la versione integrale della mia confessione, quella che finiva con: “Ehi, visto che ti amo, ti va se ci mettiamo insieme?”, ma non mi importava. Sapevo che per Cam ero molto più importante io delle cortesi signorine che si scopava, e tanto mi bastava. E poi, ehi, aveva detto di volermi bene, pur non essendo sotto tortura né niente di simile. Per quanto ne sapevo, non era mai successo. Cioè, non che lo facesse sinceramente, per lo meno. E si vedeva che era sincero, con le guance in fiamme e lo sguardo sfuggente. Ma come faceva a essere così caruccio e figo da stupro contemporaneamente? 
“Io di più, Cam”. Ed ero onesta. Feci passare qualche altro minuto, nel quale Cam riprese a controllare gli esercizi, senza staccarmi dal suo braccio. “Sei il mio migliore amico…”.
Bum.
Ok, avevo sganciato la bomba, adesso dovevo solo aspettare che il mio cuore andasse in frantumi. No, cazzo che non era il mio migliore amico. O meglio, era chiaro che lo fosse, ma io non volevo che fosse solo quello.
Esiste una regola strana, per la quale i ragazzi credono che se una ragazza è loro amica e non gliela da entro un determinato periodo di tempo, allora non potrà mai esser altro. Vedono le relazioni come fossero un valore assoluto (le ripetizioni di Cam stavano dando i loro frutti, finalmente!): una ragazza può essere loro amica e non la loro amante oppure la loro amante ma non loro amica. Non volevo essere categorica, ma tutti i ragazzi che avevo conosciuto erano così, senza vie di mezzo. Che erano, invece, esattamente quello che volevo io da Cam.
Era evidente che le nostre opinioni erano come due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai. E dicendogli che era mio amico mi stavo autoeliminando dal gioco.
Autogol.
Cam, non vorrò mai niente di più dell’amicizia da te, quindi continua pure a guardarti intorno, gli avevo detto in pratica.
Aspettò qualche minuto per rispondere, durante i quali tirai su col naso un paio di volte. Poi, quando finalmente si mosse, non disse niente. Si limitò a lasciarmi un bacio leggero sui capelli, per poi riprendere in mano gli esercizi.
Non parlammo più, e alla fine mi ritrovai a sonnecchiare con la testa appoggiata alla bell’e meglio su un ginocchio di Cam. A un certo punto lo sentii chiudere il libro e il quaderno, sistemare tutte le penne nell’astuccio e posare tutto sul tavolinetto basso che stava al centro della stanza. Si stirò la schiena, piano, cercando di non svegliarmi, poi affondò nella spalliera del divano e cominciò a far passare le dita sulla mia nuca, che aveva scoperto spostandomi tutti i capelli su una spalla. La punta delle sue dita calde scorreva lenta ma decisa dalla cervice alle prime vertebre che spuntavano alla base del collo. Mi rilassai tanto da saltare come un’invasata quando sentii il telefono vibrarmi in tasca. Era un messaggio di Brad.
Dove 6? Sn tt a letto, se torni adss non ti faranno storie. Dopo che 6 andata, Jay e Adam sono quasi arrivati alle mani. Adam ha dtt k domani t chiede scusa… T aspetto alzato, fai in fretta.
“È Brad, ha detto che è meglio se torno a casa”, mugugnai contro la gamba di Cam.
Feci per alzarmi. “Aspetta, ti accompagno”.
“No, vai pure a letto. Ci vediamo domani a scuola”.
“Haylie”, mi rimproverò.
“Ho la macchina e non sono sconvolta fino al punto da buttarmi in mare o scemate del genere, quindi tranquillo, vado da sola”. Mi scrutò per qualche secondo, prima di lasciarmi andare.
“Però venerdì sera sei prenotata”, mi avvisò.
“Non credo di dover annullare nessun impegno gravoso, per tua fortuna”, ironizzai. “Cosa facciamo?”.
“Andiamo a cena: tu, io e nessun altro”. Calcò un po’ la mano su quel nessun altro, ma non gli diedi importanza. “Alle sette e mezza al Bernard’s Boudoir. Vediamoci lì, prima ho da fare. Se tardo, dì al proprietario che sei con me, ti fa entrare sicuro”.
“Ricevuto, capo”. Lo salutai portando due dita alla fronte, ma non era in aria di idiozie e mi accompagnò alla porta. Prima di lasciarmi andare, poi, mi abbracciò di nuovo, tenendomi stretta per parecchi secondi, durante i quali riuscii a borbottare qualche scusa per la mia entrata in scena a dir poco teatrale.
Arrivai a casa un quarto d’ora dopo, guidando tranquilla per le strade deserte delle dieci e trenta. La casa, di solito luminosa e quasi sfacciata, decisamente in contrasto con la natura che la circondava, al buio si adattava perfettamente allo scenario, assumendo un aspetto protetto e rassicurante.
Brad mi aspettava alzato ma in pigiama, stravaccato sul divano.
“Mi dispiace, avevo bisogno di uscire di qui…”.
“Fa niente. Stai meglio?”, mugugnò in uno sbadiglio.
“Adesso sì. Fila a letto, sembri uno zombie!”, lo presi in giro.
“Non hai idea di quanto sia stanco…”.
“Oh, sì, invece. Dai, muoviti”, lo rimproverai, indicando con il mento il corridoio che conduceva alla sua stanza.
“’Notte, puffa”.
“’Notte”.
 
Il venerdì camminavo per i corridoi con Harry alle calcagna.
“Ma ti ha detto che è un appuntamento?”.
“No. Ha detto che andiamo a cena. Punto”.
“Allora perché mi hai detto di avere un appuntamento con Cam?”. Gli diedi un pugno sul braccio per fargli abbassare la voce: Zoe Bellenger e Beth Patterson stavano passando accanto a noi e avevano le orecchie ritte, pronte a captare qualsiasi accenno di pettegolezzo e a trasformarlo in una notizia megagalattica da rifilare a tutta la scuola, insegnanti compresi.
“Io non ti ho mai detto di avere un appuntamento. Ti ho detto solo che uscivamo a cena”, borbottai tra i denti.
“Che è avere un appuntamento”.
“No, invece. Io e te facciamo cose ben più da fidanzati”, gli ricordai.
“Tipo?”.
“Tipo usciamo sempre, e sottolineo sempre, insieme, dormiamo nello stesso letto e una volta mi hai anche visto le tette…”.
“Non abbiamo dormito nello steso letto, ci siamo appisolati sull’amaca…”.
“Che è dormire insieme, comunque”, lo interruppi facendogli il verso.
“Ok, ma se non è un appuntamento, perché non vuole terzi incomodi?”.
“E io che ne so, chiedilo a lui!”, sbottai. Quella conversazione mi stava togliendo qualsiasi accenno di pazienza.
“Mah, secondo me c’è qualcosa sotto…”.
“Sì, andiamo a pranzo, adesso?”.
“E vabbè… Ma sappi che vi scoprirò!”. Se Harry era felice, non gli avrei certo rovinato la festa insistendo sul fatto che non c’era proprio niente da scoprire…
 
Mi preparai con calma, durante il pomeriggio e alle sette e trentuno ero parcheggiata davanti all’ingresso del Bernard’s. Non mi ero messa troppo in tiro, avevo solo indossato un paio di jeans attilati, una maglietta bianca monospalla con qualche lustrino e le mie adorate ballerine verdi, abbinate alla borsa. Stava cominciando a salirmi un po’ d’agitazione, dovuta soprattutto ai discorsi senza senso di Harry sull’appuntamento e tutto il resto. Quante volte c’eravamo incontrati, da soli, io e Cam? Migliaia. E non era successo niente, sotto quella luce. Questa non sarebbe di certo stata diversa.
Sette e trentacinque, nessun segno di Cam. Provai a chiamarlo, ma il cellulare squillava a vuoto.
Magari sta guidando e non può rispondere…
Feci un altro tentativo alle sette e quaranta, ma niente. Entrai.
Appena aprii la porta, un odore fortissimo di nachos, formaggio e peperoncino mi invase: ristorante messicano, c’era da aspettarselo. La cucina messicana era la preferita di Cam, e lui era il solito egoista.
Qualche secondo dopo mi si avvicinò un ometto basso e tarchiato, con un paio di baffoni enormi.
“Ehi”, mi chiamò, puntandomi contro l’indice con fare quasi minaccioso. Mi guardai intorno un po’ circospetta, sperando –invano- che stesse parlando con un’altra persona. Ingoiai una badilata di saliva. Ma in che razza di posto ero capitata? “Ehi”, ripeté. “Tu devi essere l’amica di Cam”.
Tirai un sospiro di sollievo e allargai le labbra nel migliore dei sorrisi, ricambiando quello che mi stava porgendo lui. “Sì, sono io”.
“Mi ha detto che saresti arrivata. Vieni, ti accompagno al tavolo”.
“Grazie”, sussurrai mentre lo seguivo.
“Mi aveva detto che eri carina, ma dal vivo sei decisamente meglio che in descrizione”, annunciò. Sentii le guance andarmi a fuoco, ma sorrisi comunque.
“Allie, giusto?”.
“Ehm, no… Haylie”.
“Mi dispiace, sono una frana con i nomi”, si scusò. Mi accomodai sulla panca e appoggiai la borsa sul davanzale della finestra alla mia sinistra. “Ma non dimentico mai una faccia”, mi informò.
“Buon per lei…”, mi congratulai totalmente in imbarazzo.
“Allora, vuoi che ti porti qualcosa da mangiare, intanto?”. Tirò fuori il blocchetto delle ordinazioni.
“No, grazie, aspetto. Cam dovrebbe arrivare a momenti…”.
“Ok, a dopo”. Gli rifilai un altro sorriso.
Otto meno dieci e di Cam nemmeno l’ombra. Cominciai a guardarmi intorno spazientita e irritata. C’era un cameriere carino che passava di continuo –e di proposito- accanto al mio tavolo, anche se doveva servire quello dall’altra parte della stanza, il che mi rese orgogliosa e raggiante. Per il resto, il locale era carino: piccolo, caldo e accogliente. Niente di che, tutto sommato.
Alle otto in punto arrivò il Cameriere Carino che mi distrasse dal messaggio minatorio che stavo scrivendo a Cam.
“Pronta per ordinare?”.
“Ah… Dovrebbe arrivare un mio amico, magari aspetto un altro po’”. Non riuscii a nascondere del tutto l’astio.
“Mmm… Mi dispiace, tesoro, ma mezz’ora di ritardo è un chiaro segno…”.
“Non è così in ritardo, ero molto in anticipo io”, mentii, più a me stessa che al cameriere.
“Wow, dev’essere la copia di David Beckham se può permettersi di dare buca a una come te…”, commentò, prima di infilare il blocchetto nella tasca del grembiule e avviarsi verso l’uscita, per farsi una sigaretta.
Alle otto e dieci avevo chiamato Cam più o meno diciotto volte, e lui non aveva mai risposto. Irritata e nervosa, cominciavo a sospettare che il Cameriere avesse ragione, così mi diedi un limite: se entro le otto e mezza non fosse arrivato, poteva stare certo che alla prima buona occasione gli avrei fracassato le ginocchia.
Avevo programmato tutto: il discorso, i gesti, le pause drammatiche e il tempo in cui gli avrei frantumato le gambe. L’unica cosa che non avevo nemmeno voluto considerare era il fatto che, alla fine, Cam non si sarebbe presentato. E quando, alle otto e trentadue, mi ritrovai a controllate l’ora da sola, mi sentii da schifo. Ero ferita, umiliata, arrabbiata e indispettita.
Il Cameriere aveva avuto ragione: Cam mi aveva dato buca.
 
 
 

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Capitolo 10
*** Cap.10 Come una pozzanghera ***


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Questo è il nuovo capitolo, assicuratevi di leggere il capitolo precedente dato che è il secondo aggiornamento che faccio questa sera. Mi raccoando recensite. Grazie mille a chi lo farà.=)
CAPITOLO DIECI
COME UNA POZZANGHERA
 

Prima di decidermi ad andarmene dovetti raccogliere tutto il mio orgoglio e la mia dignità, uniche armi che mi erano rimaste contro le lacrime.
Ok, Cam mi aveva tirato un bidone, e allora? Era capitato a migliaia di persone almeno una volta nella vita, si vede che era arrivato il mio turno… oh, ma chi cazzo voglio prendere in giro?
Con il cuore squarciato, mi alzai cercando di mantenere gesti lenti e misurati, per evitare di far esplodere la tragedia greca che sarei stata benissimo in grado di mettere in scena. Mi aveva presa in giro, abbacinata e abbandonata e io c’ero cascata proprio come una dodicenne innamorata alle prese con la sua prima cotta. Ero stata stupida. Stupida a pensare che Cam avesse anche solo potuto provare qualcosa di diverso dall’attrazione fisica, stupida ad aver dato retta alle parole di Harry –che avevano sicuramente influito sulle mie aspettative per la serata- e stupida a confidare così tanto in un ragazzo che anche in precedenza si era dimostrato profondo come una pozzanghera. Uffa! Uscii dal ristorante con passo deciso, digrignando i denti per trattenermi dall’insultare anche l’asfalto, e mi diressi svelta alla mia auto. Una volta dentro, accesi la radio e mi diressi verso casa. Avevo optato per la via del “mi ha dato buca, e allora? Io continuo ad essere la persona più fica della terra, e se non se n’è accorto è lui il coglione, mica io”, anche se non era affatto così che mi sentivo. Cominciavo a sospettare che Cam soffrisse davvero di disturbi della personalità multipla.
Un secondo si comportava da migliore amico/ragazzo quasi totalmente innamorato e il secondo dopo era lo scopatore seriale con il cervello di un regista di film porno in piena fase creativa. Bambino e uomo, angelo e demone, monaco e criminale… Cam non aveva mai mezze misure, ed era destabilizzante.
Visto cosa succede ad innamorarsi così in fretta?, mi dissi. 
E, soprattutto, di uno psicopatico?,aggiunsi e la parte più stizzita di me.
Delle volte, provare qualcosa per Cam era così faticoso ed esasperante da farmi quasi desiderare di poter cancellare dalla memoria la sua presenza, che ne so, magari con una leggera amnesia o una bella martellata in piena fronte...
Anche se, in quel momento, la martellata avrei voluto tirarla a lui. All’altezza del cavallo dei pantaloni, però. Sarebbe stato l’unico metodo per scrollarmi di dosso tutto il nervosismo che mi scorreva nelle vene.
A casa trovai Jay e marti alle prese con una cena ben poco invitante: pop corn, orsetti gommosi, coca cola e Smarties. Smarties azzurri, come gli occhi dell’idiota.
“Ehi, già di ritorno?”, mi salutò Jay.
“Haylie!”. Marti mi corse incontro, ma probabilmente riuscì a intuire il mio umore nero e all’ultimo secondo cambiò direzione, puntando verso il telecomando che si trovava proprio sullo sgabello dietro di me.
“È successo qualcosa?”. La voce di Jay era leggermente esitante: sapevano che quando ero tesa era meglio girami alla larga. Una leonessa ferita –per di più nell’orgoglio- poteva essere l’animale più pericoloso dell’intera foresta…
“Cam ha deciso di non venire”, sputai velenosa come un serpente.
“Oh… Mi dispiace”. Gli occhi di Jay erano accesi di curiosità, ma si trattenne dal chiedere qualsiasi informazione aggiuntiva. Poi Marti, ignorando il mio comportamento da vipera di poco prima, mi si avvicinò e mi offrì la ciotola con gli orsacchiotti, in segno di pace. “Vuoi guardare La Principessa e il Ranocchio con noi?”. Sbuffai, ma alla fine cedetti. “Ok, ma io mi siedo tutta sola sulla poltrona!”.
“No, io vado sulla poltrona”, urlò Marti cercando di raggiungerla per prima.
“Mi dispiace, signorine ma credo che per questa sera il trono sarà mio”, annunciò Jay, dando il via a un battibecco ancora più rumoroso e allegro.
 
Mi presi tutto il weekend per metabolizzare la batosta e decisi di non rispondere né alle chiamate né ai messaggini che facevano illuminare il cellulare in continuazione quei due giorni –da quando ero così ricercata?-, soprattutto quelli di Cam. Il lunedì a scuola, però, lo scontro fu inevitabile.
“Ehi, ti si è rotto il telefono per caso?”. Ero ancora voltata con la schiena verso di lui, una mano sull’imposta dell’armadietto e l’altra stretta a pugno lungo il braccio, quando mi raggiunse e mi aggredì.
“Potrei tranquillamente farti la stessa domanda”. Voce ferma e tagliente, tono deciso. Non mi girai, fu lui ad avvicinarsi ancora di più, stringendo la mano sul battente, un paio di centimetri al massimo sopra la mia. Dovetti trattenere con tutta la forza che avevo l’impulso di arrivargli una sportellata in piena faccia, che lo avrebbe sfigurato rovinosamente. Poi appoggiò la mano sinistra sul mio fianco.
“Si può sapere che hai?”. Il tono di Cam si era addolcito parecchio, il che mi fece sperare che avesse capito che non si trattava solo di sindrome premestruale. E che ce l’avevo con lui. Per colpa sua.
“Secondo te?”.
“Mmm, vediamo. Secondo me hai solo paura che la Sebastian ti interroghi, visto che sicuramente non hai capito il coefficiente angolare…”. Ancora non lo vedevo, ma la sua voce tradiva il suo solito ghigno cazzuto che doveva essergli spuntato sul viso.
“Invece no”, sibilai voltandomi verso di lui, attenta a non sfiorarlo: il minimo strofinamento anche solo tra la stoffa della sua maglietta e quella della mia mi avrebbe fatto dimenticare che ero estremamente arrabbiata con lui.
“Il coefficiente angolare l’ho capito benissimo”. Ok, magari benissimo era un’esagerazione… “Ne ho avuto tanto di tempo per ripassare. Venerdì sera. Al ristorante. Mentre ti aspettavo”. Quando mi hai dato buca, avrei voluto aggiungere.
La sua espressione passò al vaglio una decina di stati d’animo in tre secondi, andando dal sorpreso al colpevole, all’afflitto.
“Cazzo, l’appuntamento…”.
“Non era un appuntamento”, ci tenni a specificare, puntando gli occhi nei suoi che, messi sotto accusa, non riuscivano a sostenere lo sguardo.
“Vabbè, quello che era… Mi dispiace, Hayl, io…”.
“Non mi interessa, non lo voglio sapere!”, urlai, attirando l’attenzione di un paio di ragazzette del primo anno. “Non voglio sapere come hai passato la serata, quello che mi importa è che adesso so di non potermi fidare di te”.
“Ma cosa cavolo dici? Ti ho mai presa in giro, ti ho mai raccontato balle?”. Era incredibile, si stava alterando. Lui! Come se la bugiarda traditrice fossi io…
“Sì”, risposi sprezzante.
“E quando?”.
“Quando mi hai detto di aspettarti al ristorante, venerdì sera”.
“Ok, a parte venerdì –e, tra l’altro, ho una giustificazione più che valida- è mai successo?”.
Alzai gli occhi al cielo, scocciata perché rispondere affermativamente –cosa che volevo fare da morire- sarebbe stato mentire. Sbuffai. “No”.
“Ecco, vedi?”.
“Sì, sì… e che scusa hai per l’altra sera?”.
“Viky aveva la febbre, mi ha chiesto di leggerle una favola e mi sono addormentato insieme a lei”.
“Avevi sonno alle sette di venerdì sera?”, gli chiesi dubbiosa.
“Sì, perché dopo scuola ho avuto un doppio allenamento”.
“E non hai sentito suonare il cellulare nemmeno una volta?”.
“No, l’avevo messo in vibrazione, per non disturbare Viky…”. Lo scrutai qualche secondo.
“Mmm… Vabbè, ci credo”, decretai alla fine. “Come sta tua sorella adesso?”.
“Meglio, per fortuna. Andiamo a lezione?”. Annuii, chiudendo l’armadietto forse con troppa foga.
 
Più tardi, a lezione di educazione sessuale, il signor Moore ci divise a coppie e ci assegnò una ricerca che avremmo dovuto finire a casa per il giorno dopo. Disgraziatamente finii in coppia con Harry, quindi dissi addio al bellissimo voto che avrei ottenuto se al posto suo ci fosse stato Cam e rassegnata spostai lo sgabello accanto al suo.
“Che argomento abbiamo?”.
“Harry!”.
“Cosa?”.
“Il prof l’ha ripetuto un centinaio di volte! Cosa fai quando sei in classe, pensi agli gnu?”.
Mi fissò per qualche secondo con aria sospettosa. “Cosa?” ripeté poi, scuotendo la testa.
“Niente, era una cavolata. Sulla riproduzione, la ricerca è sulla riproduzione umana”.
“Semplice: pisello più patata uguale pasticcio di verdure!”.
“Ma che diavolo…”.
“Niente, era una cavolata”, mi scimmiottò. “Allora, come è andato lo scontro finale all’ultimo insulto?”.
“Non ci siamo mica insultati! Abbiamo chiarito, punto”. Cominciai a scartabellare con il libro, cercando per lo meno il capitolo sulla riproduzione.
“Quindi adesso siete di nuovo…”. Si bloccò, e vedere Harry boccheggiare senza parole fu una soddisfazione unica, perché era un avvenimento estremamente raro.
“Cosa siete, di grazia?”.
“Amici, Harry, amici. Hai presente?”.
“Mmm, certo che gliel’hai perdonata in fretta”, commentò distratto.
“C’era poco da perdonare, era a casa con la sorella”, ribattei piccata. Poi distolsi lo sguardo e mi concentrai su Cam, in coppia con Bentley, e notai che più che pensare alla ricerca se la stavano ridendo di gusto per chissà quale motivo.
“Ma non dovevate uscire venerdì?”. La domanda di Harry mi fece scattare la testa verso di lui, come una posseduta.
“Sì, infatti. Perché?”.
“Perché, a quello che so, Viky si è ammalata sabato…”.
Strinsi gli occhi, che diventarono due fessure veramente strette. “E chi ti ha detto quello che sai?”. Il mio tono poteva tranquillamente far concorrenza a quello di Sherlock Holmes.
“Bentley, che l’ha saputo da Brad che ha chiamato Cam, che sabato non è uscito per stare in casa con Viky…”.
Mi uscì un secco “Ah” stizzito e furioso, che spinse Harry a riprendersi.
“Cioè, sicuramente stava già male dal giorno prima, è evidente che…”. Non me la raccontava giusta, per niente. Ero certa che Harry sapesse molto di più di quello che mi stava dicendo. E sapevo anche che quello di cui era a conoscenza non mi sarebbe piaciuto.
“Parla”, lo rimproverai, la voce ferma e risoluta.
“Ok, mi dispiace dirtelo, ma Cam ti ha raccontato una balla”.
“Questo l’avevo capito, capitan Ovvio. Vai avanti”. Stavo perdendo il controllo, sentivo il cervello macchinare pensieri omicidi e il fumo uscirmi dalle orecchie.
“Venerdì sera Cam ha fatto un giro con Madison Cole…”. Il modo con cui disse “fatto un giro” mi fece immaginare le peggio cose.
“Fammi indovinare. Il giro era sul sedile posteriore della sua auto, giusto?”. La mia voce era calma, come il silenzio e la quiete che di solito precedono un temporale. O un uragano.
Annuì. Che schifo. Cam mi aveva mentito. Mi aveva detto di essere rimasto a casa con Viky a leggerle le favole, invece era stato in giro a scopare con Madison Cole.
Mi sistemai meglio sulla sedia e la mano di Harry si precipitò a bloccarmi il braccio. Che carino, credeva che mi alzassi per andare a dirne quattro a Cam.
No. Non erano quelli i miei piani. Gliel’avrei fatta pagare, certo, ma la vendetta è un piatto che si gusta freddo, quindi avrei aspettato ancora un po’.
 
Alla fine delle lezioni, quel giorno, scattai dal banco come se qualcuno mi avesse dato un pizzicotto fortissimo sul sedere e, dritta e veloce come una furia, mi diressi verso l’uscita principale.
Fuori, vidi l’Idiota/Stronzo/Traditore/Bugiardo ridere e scherzare con Brad e gli altri ragazzi, prima dell’allenamento. Sorrisi tra me e me, di un sorriso molesto che non prometteva proprio niente di buono. Mi avvicinai a passo spedito, e quando fui a qualche metro da loro sentii Cam chiamarmi.
“Hayl! Andiamo a prendere un frullato prima dell’allenamento, vieni?”.
Come risposta, gli mollai un ceffone in piena faccia. “Non prendermi per il culo mai più!”, gli abbaiai contro. Poi, con petto in fuori e pancia in dentro, mi girai e mi diressi verso la mia adorata Toyota. Mentre marciavo, passai al vaglio ogni singolo secondo della scena appena girata.
Ero stata bravissima.
Avevo mantenuto la voce ferma e decisa, incatenato gli occhi nei suoi e non avevo detto né fatto qualcosa che potesse farmi passare per un’isterica ancora più grande di quello che già di mio mi sentivo. L’adrenalina stava cominciando ad allontanarsi dal mio corpo, però, lasciandomi in balia dei sensi di colpa. L’avevo umiliato. Magari lo avevo anche ferito…
Cazzo, anche lui ha ferito me! 1-1: palla al centro.
Avevo avvertito tutto: lo schianto deciso della mia carne contro la sua, il suo sguardo confuso, il rossore che gli attanagliava le guance…
Forse ero stata esagerata, troppo avventata e impulsiva, ma sapere che mi aveva mentito mi aveva fatto un male cane. E quello era l’unico modo che avevo trovato per restituirgli il favore.
 
 
 
CAM’S P.O.V
 
“Ma che cazzo le è preso?”. Fu Scott a dare voce ai miei pensieri. Che cazzo le era preso?
“Boh, valle a capire le donne!”. Nick raccolse il borsone e se lo caricò in spalla. “Andiamo?”.
“Sì, ci stanno guardando tutti. Decisamente imbarazzante”. Scott imitò Nick e si avviarono verso il campo. Anche gli altri fecero lo stesso, quindi l’unica soluzione che avevo era seguirli. Rimasi indietro con Harry, che sembrava sulle spine. Per un po’ camminammo in silenzio, poi all’improvviso saltò su con: “Cam, devo dirti una cosa”.
“Dai”. Assecondai il mio monosillabo scazzato con un leggero cenno della testa.
“So perché Haylie ha… insomma, perché ha fatto quello che ha fatto”.
“Mi ha preso a schiaffi, Harry”, sputai innervosito. “Lo puoi dire, non è una parolaccia”.
“Ha scoperto che le hai dato buca…”.
Alzai l’indice per contraddirlo. “Non le ho dato buca!”. Non intenzionalmente, per lo meno.
“Ah, davvero? E quindi come lo chiami tu quello che hai fatto venerdì? Le hai detto di aspettarti al ristorante poi non ti presenti? Alla tua migliore amica? E per fare cosa, poi? Non si fa, mio caro”, mi rimproverò come di solito faceva mia nonna. Non risposi. In teoria, né lui né tantomeno Haylie sapevano quello che avevo fatto sul serio quella sera. Oppure no?
 “Harry, cosa è successo venerdì sera?”. Feci appello alla sua vena da pettegolo, sperando di capire qualcosa di più di quella conversazione ingarbugliata.
“Lo sanno tutti che tu e Madison ci avete dato dentro di brutto”.
“No, non lo sanno tutti”. Io l’avevo detto solo a Scott e Bentley, quindi come facevano a saperlo tutti? “Anzi, definisci tutti”. Incrociai le braccia scocciato. Mi sarei dovuto sbrigare, altrimenti sarei arrivato in ritardo e il coach mi avrebbe fatto il culo a pois, ma non me ne fregava niente.
“Beh, io, ovviamente, poi i tuoi amici, credo. Sicuramente tutte le compagne oche di Madison, che l’avranno detto a altre ochette…”.
“L’hai detto anche a Haylie?”. Deglutii a forza, lo stomaco incastrato in un nodo gigante.
“Certo che no! Non le ho mica detto che mentre ti aspettava al ristorante”, e fu così carino da ripetermelo di nuovo, tanto per rigirare il coltello nella piaga, “Tu eri in un parcheggio a due isolati da lì a fare cose degne di una videoteca porno con Madison Cole!”.
“Senti, smettila di fare il grillo parlante. Ho sbagliato, ok? Avrei dovuto mandarle un messaggio, lo so, ma ormai è andata così”. Aprii la porta dello spogliatoio con una spallata. “Vuoi guardare mentre mi spoglio o te ne vai?”.
“Magari mi faccio mia zia, ma i bugiardi neanche morto”. Girò la schiena e se ne andò senza dire nient’altro.
 
Il fischietto del coach mi svegliò dalla trans in cui ero caduto.
“Bale! Mia nonna farebbe un lavoro migliore! Cos’è, ti sei spompato troppo nel weekend?”. Mi si avvicinò furioso e senza nemmeno aspettare una risposta ricominciò. “Facciamo che per oggi vai a cercare le palle che hai perso, eh? Ci vediamo domani, se il ciclo non ti indispone troppo, ok?”.
Rassegnato, incassai il colpo e andai a farmi la doccia. Era un allenatore splendido, ma in campo la competitività gli chiudeva la vena e il cervello non riusciva ad ossigenare, quindi rimproveri del genere non erano niente di nuovo. E poi, aveva ragione. Stavo facendo pena, e non perché stessi pensando a qualcuna delle cose paranormali che avevo fatto con Madison, ma perché non sapevo se scusarmi oppure no con Haylie.
Magari devo mandarle un messaggio…
“Oh, ma che cazzo hai fatto?”.
“Niente, Ben. Sono stanco”, mentii.
“Bugiardo”. Perché Brad aveva più intuito della Signora in Giallo? “C’entra Haylie?”.
Mi accartocciai sulla panca, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa abbassata, e confessai tutto.
“Sì”.
“Lo sapevo. Allora?”.
“Venerdì dovevo uscire con lei, ma sono uscito con Madison. Poi le ho detto che non mi ero presentato perché Viky stava male, ma non so come ha scoperto che era una cazzata e… Vabbè, il resto lo sapete”.
Volevo andarmene di lì, perciò mi alzai e comincia a raccattare le cose nel borsone, quando sentii Bradin spingermi contro il muro. “Sei uno stronzo! Te l’avevo detto di non fare l’imbecille”. Afferrò il colletto della mia maglia e mi sbatté contro la parete. Non picchiai la testa per un pelo.
“Ma che cazzo fai?”, gli ringhiai contro. Era furente: gli occhi selvaggi sembravano volermi squartare.
“Ti avevo detto di non fare l’imbecille” ripeté. “Di non farla soffrire…”. Mi spinse di nuovo contro il muro. “Invece l’hai trattata come fai con tutte le altre!”, concluse, e mi sferrò un pugno in pieno viso, le stessa guancia già arrossata dal colpo di Haylie. Non avevo parole per ribattere, aveva ragione. Forse la sua reazione era stata eccessiva e esagerata, ma non potevo biasimarlo: avevo ferito sua sorella, era giusto che me la facesse pagare.
Non mi guardò in faccia prima di andarsene, raccolse il borsone e spalancò la porta con una spallata, senza salutare. Ero ferito, più nell’orgoglio che altro, ma avevo rimasto un briciolo di dignità che mi spinse a tornare alla panca con movimenti lenti e controllati, all’apparenza indifferenti, e a riprendere a cambiarmi, come se non fosse successo niente. Mi spogliai, raccattai l’asciugamano e mi feci la doccia, poi mi vestii e salutai tutti, prima di uscire. Una volta in macchina, decisi che avevo bisogno di sfogami, per sciogliere tutto il marasma che avevo dentro e chiamai Madison.
“Ciao, piccolo”.
“Che hai da fare?”. Ero stato brusco e maleducato, ma non me ne fregava niente.
“Niente di importante, perché?”.
“Ottimo, ti passo a prendere tra dieci minuti. Dì ai tuoi di non aspettarti in piedi”.
 
 
HAYLIE’S P.O.V.
Erano passati due giorni dalla mia sfuriata con Cam. Non ci eravamo parlati, guardati né cercati a scuola e ci eravamo ignorati quando per caso ci eravamo incrociati nel salotto di casa mia.
Il giovedì, però, era semplicemente troppo. Non ce la facevo più a non prendere in considerazione quello che fino a qualche giorno prima era il mio migliore amico, così decisi di fare il primo passo. Al diavolo orgoglio, dignità e figura, quel giorno dovevo senza meno parlare con Cam.
Aspettai la fine delle lezioni per farlo, così che avremmo avuto più tempo per chiarire e meno orecchie ad infilarsi negli affari nostri. Alle cinque, dopo l’allenamento, non sapevo se fosse presentabile o meno, ma non mi importava. Ero nervosa, irritabile e impaziente… il mix perfetto per chiarire con Cam, insomma. Cam, che quel pomeriggio si era legato allo spogliatoio, visto che lo stavo aspettando da quaranta minuti, molto più del suo quarto d’ora famoso.
Alla dine, scollegato il cervello, decisi di entrare nello spogliatoio e controllare, spinta da non so quale demone. Appena entrai,  la puzza di calzini sporchi e sudore mi attanagliò lo stomaco, ma non mi feci abbattere e continuai imperterrita nella mia missione. Notai che il borsone di Cam era ancora afflosciato nei pressi di quello che doveva essere il suo armadietto. Ottimo, mi dissi, allora non è sgusciato via dai tubi di scarico… 
Sentii l’acqua scrosciare nelle docce e capii che era quella la mia meta. Infatti, intenti a cazzeggiare con ancora lo shampoo tra i capelli, c’erano Cam e un paio di suoi compagni di squadra.
Uno degli amici schiarì la gola, ammiccando a me con la testa.
“Ehm, Cam?”, gli fece l’altro.
“Che…”, chiese, e girò testa e torace nella mia direzione. Rimasi un attimo imbambolata a fissare le goccioline che scivolavano, lente e inesorabili, sui suoi addominali perfetti, fino a scendere un po’ più giù…
Destabilizzante.
“Hayl!”.
“Ehi”.
“Ehi”, mi fece eco.
“Volevo chiederti scusa”, mormorai, nello stesso istante in cui lui se ne uscì con “Mi dispiace”.
Scoppiammo a ridere e contagiammo anche gli amici di Cam, evidentemente combattuti tra la voglia di lasciarci soli e quella di farsi i fatti nostri.
“No, sul serio… forse mi sono fatta prendere un po’ la mano…”.
“Un po’? Mi hai schiaffeggiato davanti tutta la scuola!”, mi rimproverò.
“Non è che non te lo fossi meritato, eh”. Mi morsi il labbro seguendo la scia di un’altra gocciolina. “Però potevo scegliere un altro modo per fartela pagare, è vero…”.
“Concordo”.
“Mi stai sfottendo? Guarda che lo stronzo alfa sei tu!”. Nel frattempo si era sciacquato via un po’ di shampoo dai capelli, e la schiuma delineò per un secondo i lineamenti del suo corpo perfetto…
“Ok, te lo concedo. È che pensavo che non sapendo di Madison…”.
“Invece no”, lo interruppi. “Non è stata una genialata…”.
“Lo so, e mi dispiace”. Sentirglielo dire mi piaceva più del lecito, ma avevo un discorso da portare avanti, quindi niente distrazioni.
“Non mi devi raccontare merdacce, solo per indorare la pillola, sono una tua amica…”.
“La mia migliore amica”, specificò, puntandomi il dito contro e schizzandomi un po’.
“Ok, la tua migliore amica. Ma non mi devi raccontare balle per uscire con le ragazze, sei liberissimo di farlo”.
“Ok”. Era sollevato, raggiante e bellissimo. Soprattutto bellissimo.
“Così come io sono libera di uscire con qualsiasi ragazzo io voglia”. La sua espressione era diventata dura, fredda e tesa, l’opposto di come era un secondo prima della mia precisazione. Perché?
“Quindi… siamo a posto, no?”.
“Sì, certo. Tutto ok”. Era tornato improvvisamente allegro. Mah, vallo a capire…
“Bene”. Sorrisi.
“Bene”. Mi sorrise.
“Sì…”. Abbassai lo sguardo e presi a fissare il mio piede sinistro, che aveva iniziato a tamburellare inconsciamente sulle mattonelle umide. Poi rialzai lo sguardo verso quello di Cam.
“Ok, ehm… Ti abbraccerei, adesso, ma…sei un po’ nudo, perciò…”, bofonchiai imbarazzata, le mani che non riuscivano a stare ferme.
“Ci vediamo domani a scuola, allora”.
“No, ti aspetto fuori”. Cam mi fissò interrogativo. “Ho bisogno di un passaggio”, spiegai con un sorriso. Poi mi allontanai e mi diressi a passo spedito verso la porta.
Un quarto d’ora dopo ne uscì anche Cam, con i capelli ancora umidi e spettinati come al solito.
“Pronta?”, chiese, cingendomi le spalle con un braccio e lasciandomi un bacio tra i capelli.
“Mmm”, mugugnai, quasi in trance.
“Andiamo”. Per un po’ continuammo a camminare verso la sua Volvo, abbracciati e in silenzio, poi decisi di mostrarmi disinvolta –molto più di quanto in realtà fossi- verso la novità di Cam in coppia.
“Allora… Madison, eh?”.
“Già”.
“Com’è?”.
“Carina”.
Mi finsi indignata. “Più di me?”.
“Ma certo che no!”, mi rassicurò, pizzicandomi un fianco. “Appena un po’ più magra, forse…”.
Gli tirai una gomitata. “Oh, ma come ti permetti?”.
Mi rise spudoratamente in faccia, e non smise finché non scesi dalla sua auto, davanti casa mia.
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Cap.11 La Regina di cuori ***



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Questo è il nuovo capitolo. Mi raccoando recensite. Grazie mille a chi lo farà.=)

CAPITOLO UNDICI

LA REGINA DI CUORI

 
“Ragazzi, questa è Madison”, ci salutò Cam quel martedì a mensa, prima di sedersi di fronte a me e di invitare la ragazza di fianco a lui a sedersi sull’unica sedia libera: quella proprio accanto alla mia. Che sfiga…
Un coro di “Ciao” si alzò e si spense in meno di dieci secondi, il che mi diede la speranza che anche i ragazzi la disprezzassero quanto facevo io. Ero ingiusta, forse, perché l’unica cosa che sapevo di lei era che faceva la cheerleader e che l’aveva data a tutta la popolazione maschile della scuola e anche a qualche esponente di quella femminile, ma non me ne importava niente.
Con un gesto calcolato al massimo, spostò con un paio di dita il ciuffo di capelli biondo platino che le era ricaduto sugli occhi, prima di porgermi la mano.
“Madison”. Riluttante, decisi di fare l’educata e di rispondere al saluto. Se è importante per Cam, mi dissi, -e doveva esserlo, perché altrimenti sarebbe rimasta solo un nome affiancato da un numero sul suo tristemente famoso quadernino- allora non devo rovinare le cose. Intanto, il tavolo si era immobilizzato: sembrava che tutti fossero pronti per una mia sfuriata o qualcosa del genere, dato che era stato per lei che io e Cam avevamo litigato.
“Haylie”, e le strinsi leggermente le dita. Harry, vagamente scocciato –forse sperava in un incontro di lotta libera tra me e la bionda- catturò la mia attenzione di nuovo, sciogliendo la tensione che aleggiava sul nostro tavolo. Tutti aspettavano ansiosi la mia reazione, e il fatto che non avessi accennato in nessun modo a fargliela pagare per come si era comportata sembrava deluderli.
In fondo, non potevo condannare una zoccola per essersi comportata da zoccola…
“Oggi andiamo al centro commerciale, giusto Hayl?”.
“Eh?”. Io e Harry non avevamo fatto nessun piano per il pomeriggio, quindi di cosa cavolo stava parlando?
“Allora, Brad? Hai risolto quel problemino… a sud equatore?”. Madison aveva smesso di fissare allibita l’hot dog che avevo scelto per pranzo e prese a scrutare –con un’aria maliziosa e da stronzetta- mio fratello. Crucciai appena la fronte: cosa diamine intendeva?
Nessuno si prese la briga di rispondere.
“Si, dai, il problemino…”, e indicò il tavolo con l’indice. “Se vuoi posso presentarti un paio di mie amiche che…”.
“Ok, ok”, la interruppe Cam. “Ehi, ho una splendida idea: perché tu e Haylie non passate un po’ di tempo insieme, oggi?”. Entrambe lo guardammo, sbigottite, perché entrambe sapevamo che sarebbe stato peggio di una zuffa tra ghepardi.
Nello stesso istante in cui io gli ricordavo che dovevo andare a fare shopping con Harry, lei –da brava leccamuli(*) quale era- gli rivolse un sorrisone e esclamò un “Sì, certo: che idea fantastica, orsetto mio”. 
“Ma…”.
“Sì, oggi io e McKenna, la mia amica, la conosci? Avevamo intenzione di darci alla pazza gioia con un po’ di sane compere”, mi interruppe, “Sei dei nostri?”.
La mai risposta sarebbe stata: “Cazzo no!”, ma Cam mi stava fissando con i suoi occhioni dolci, pregandomi in silenzio di accettare quel segno di tregua, così acconsentii di malavoglia.
Se è per Cam devo resistere, mi dissi.
 “Perfetto, aspettaci davanti all’uscita subito dopo scuola!”.
Non ascoltai una sola parola dei discorsi che seguirono il teatrino di Madison, mi limitai a finire il mio hot dog pensando ad una scusa plausibile per non andare, il pomeriggio. Ma quando Cam mi passò un tovagliolo su cui aveva scritto quanto mi fosse grato per provare a fare amicizia con la sua ragazza, abbandonai il mio piano. Senso di colpa del cazzo!
 
Alle cinque e mezza, eravamo al centro commerciale da non più di quaranta minuti, ma Madison e le sue amiche –McKenna, Ginnifer e Roslynn- erano già sommerse dalle borse. Che ovviamente mi avevano appioppato. Sicuramente chiunque stesse assistendo alla scenetta avrebbe notato il fumo rosso che sentivo uscire dalle mie orecchie, ma tutto sommato –smorfie e battutine a parte- ero riuscita a mantenere un comportamento neutrale. Quando sentii il cellulare vibrarmi in tasca, lasciai cadere di botto tutte le borse delle stronzette. Ops…
“Dove sei?”. Era Bradin.
“Mi prendi per il culo? Lo sai dove sono…”.
“Sì, ma da che parte del centro commerciale sei, esattamente?”.
“Reparto scarpe, da più di un quarto d’ora…”. Sbuffai.
“Bene. Ci vediamo in pizzeria tra dieci minuti”. E riattaccò, senza nemmeno aspettare che le parole mi arrivassero al cervello. Qualunque cosa pur di mettere fine a questa tortura, mormorai tra me e me. Lanciai un’occhiata a Ginnifer, che si stava specchiando tutta sola mentre le altre tessevano le lodi delle caviglie così perfette di Madison –come fanno un paio di caviglie ad essere perfette? Boh- e le mimai qualche parola di scuse, prima di abbandonare i loro acquisti e uscire dal negozio.
Che sfacchinassero da sole!
“Eccoti”, esclamò Harry vedendomi entrare.
“Perché siete qui?”. Aspettai per meno di un secondo la risposta, poi decisi che non me ne importava poi più di tanto. “Vabbè, mi avete salvato. Tante grazie”.
“Hayl, io e Brad abbiamo un piano!”. L’espressione di Harry non mi piaceva per niente, era il mix perfetto tra il sorriso di Jack Nicholson ne Il silenzio degli innocenti e quello di Katy Perry nel video di California Girls…
“Sì, il piano Boicottiamo La Baldracca”. Ok, da Harry potevo anche aspettarmelo, speravo che almeno Bradin fosse abbastanza sano di mente da non fare certe cose.
“Abbiamo unito le nostre paghette e racimolato qualche dollaro dai ragazzi, e adesso ti faremo diventare una strafiga, sorellina”. Mi sbagliavo, erano entrambi da rinchiudere.
“Cosa?”.
“Ti prestiamo un po’ di soldi per comprare qualche vestito ultra sexy, ovvio!”. Ma Harry aveva proprio la testa bacata!
“Ma perché?”. Mi sentivo un’idiota totale.
“Vogliamo fargliela pagare, e abbiamo bisogno del tuo aiuto”. In quel periodo, c’erano troppe persone che volevano farla pagare per qualcosa a qualcuno, forse era contagioso…
“Ma perché?”, insistei.
“Io la odio, e anche Harry, Arthur e Scott… anche Nick la odierebbe, se non avesse una terza di reggiseno”.
“E perché la odiate?”.
“Perché, perché, perché… La vuoi smettere di fare domande?”.
“Harry!”, lo riprese Brad. “Per ragioni diverse… Harry dice che è una stronza di plastica, e di me va in giro a dire che sono ancora vergine”, borbottò in imbarazzo, soprattutto per l’ultima parte.
“Ma è vero!”, urlò Harry, alzando le braccia al cielo.
“Lo so, ma non dovrebbe dirlo a cani e porci, ok?”. O. Mio. Dio. Sovraccarico di informazioni, sentivo il cervello pronto a scoppiare. Brad era vergine? Ecco a cosa si riferiva Madison a pranzo.
“Allora, Hayl. Ci stai?”.
“Ma perché proprio io? Insomma, non puoi chiederlo ad Arianne, o qualcosa del genere?”.
“Arianne è una tipa timida, non lo farebbe mai. Poi, ehi, chissà, magari ci scappa anche di far capitolare Cam, una volta per tutte”. Era ufficiale: Harry era da internare. Però potevo farlo, come favore a Brad, ovvio. Infondo non avrei perso nulla a vestirmi un po’ meglio del solito, visto che i soldi non erano nemmeno miei. I ragazzi aspettavano la mia risposta come se da quella dipendesse il futuro del mondo, perciò quando sibilai “Ok, ci sto” quasi saltarono dalla sedia.
“Si va al reparto donne sexy, allora?”.
“Harry, quel reparto non esiste…”, gli fece notare Brad.
“Oh, vedrai, dopo il passaggio di Haylie, esisterà eccome”.
 
Tutto sommato il pomeriggio passò estremamente in fretta, tra spese pazze e compere assurde –metà delle quali mi facevano vergognare solo al pensiero di dover veramente indossare.
“Hai visto come ci ha guardato quella commessa?”, sghignazzò Harry, succhiando un po’ della granita al lampone che aveva appena comprato.
“Dio, deve aver pensato chissà cosa quando ti abbiamo passato il vestito rosso!”.
“Per forza, sembravo una prostituta minorenne!”. Avvampai ripensando all’abito di pelle –non più lungo di un baby doll- che quei due incoscienti mi avevano fatto provare e all’espressione della povera assistente che era rimasta allibita. “Avrà pensato che stessimo architettando qualche giochetto sessuale a tre o cose simili…”.
“Però ti stava bene”, commentò Harry, sfacciato come al solito.
“Ma dove? Mi usciva la cellulite da tutte le parti!”.
“Non hai la cellulite…”, mi rassicurò Brad. “E ti assicuro che non ho guardato più di quanto un fratello possa fare, parola di scout!”.
“Ci credo, ci credo”, mormorai disattenta.
“Ti stava da Dio, puffa”. Harry diede un’occhiata al parcheggio. “È arrivata mia mamma, ci si vede domani. Mi raccomando, strafiga, chiaro?”.
“Sì, sì, sì… lo so!”, sbuffai. Restammo un paio di secondi così, a fissare il vuoto, poi Brad mi afferrò il braccio e mi trascinò dietro i bidoni della spazzatura.
“Cosa accidenti fai?!”.
“Zitta”. Non era da lui usare imperativi e toni così bruschi, perciò mi preoccupai. “C’è Madison…”, mi spiegò qualche momento dopo.
In effetti, seguendo la traiettoria del suo sguardo notai immediatamente la Crudelia De Mon dei poveracci, seguita da quelle tre sfigate che facevano finta di esserle amiche.
“Che vuoi farci, me l’ha chiesto Cam”, la sentii brontolare da lontano, in risposta alla domanda di Roslynn. “E per lui farei di tutto, visto quello che ottengo in cambio…”. Lasciò l’allusione a metà, ma la pronunciò con un tono talmente squallido che mi fece salire la bile fino alle tonsille.
Solo in quel momento realizzai quanto in realtà avrebbe potuto essere utile il piano architettato da quei due pazzi. “Brad”, dichiarai con lo sguardo fisso. “Diamo inizio al piano”.
 
Mi imposi di respirare profondamente un paio di volte –magari anche tre- prima di uscire dalla macchina, la mattina seguente.
Indossare quel vestito nero, scollato sulla schiena e decisamente corto per i miei standard, era stato facile, e anche guardarmi allo specchio lo era stato, da sola in camera mia.
Adesso, pronta a entrare a scuola, mi mancava l’aria. Ma cosa mi era preso? Quella non ero io, io mi vergognavo ad andare a scuola con la gonna, figuriamoci vestita in quel modo, così provocante e… alla Madison.
“Oh, smettila con le paranoie, sei una gran gnocca, fossi un ragazzo ti scoperei tutta!”.
Sorrisi ripensando alle parole di Stella, che la sera prima aveva passato un paio d’ore in chat a elogiare il piano di Harry e a rassicurarmi. Poi mi convinsi.
Agguantai la borsa –il mio povero, vecchio e comodissimo zaino era troppo sciatto per continuare a farmi compagnia, così aveva detto il mio amico scemo- e con nonchalance mi diressi con passo sicuro verso la scuola.
“Ah, sei arrivata!”. Harry mi baciò una guancia. “Sei bellissima , puffa. Mi raccomando, il percorso: armadietto di Cam, classe, classe, classe, mensa –e mi raccomando la mensa!-, classe, classe, classe, chiaro?”.
“Credo di sì, lo faccio tutti i giorni da più di un mese, ormai”.
“Non sei nella posizione per fare la sarcastica. Ci metto un attimo a recuperare il vestito rosso”, mi minacciò, puntandomi contro l’indice. “Adesso vai”, mi ordinò, dandomi una pacca sul sedere prima di allontanarsi e urlare “Ehi, avete visto quant’è figa la mia amica?”.
Scossi la testa, imbarazzata da morire, poi ripresi a camminare verso l’ala della scuola dove si trovava l’armadietto di Cam. Mi notò subito, appena misi piede nel corridoio, forse per i fischi d’approvazione che mi riservarono un paio di ragazzi già allupati di prima mattina, o forse perché in effetti il cambio di look non mi stava male.
“Buongiorno, Cam”, soffiai tranquilla.
“Hayl!”. Mi raggiunse, portandosi appresso una felpa che usò per coprirmi tutto lo scoperto che avevo addosso. “Copriti, che fa freddo! Non hai freddo? È pieno di spifferi qui, non so come fai a non avere freddo…”, sentenziò nervoso. Capii che la temperatura era l’ultima cosa a cui stesse realmente pensando e sorrisi tra me e me.
Era così facile attirare l’attenzione di Cam, con un po’ di pelle in bella mostra…
“No. Anzi, a essere sinceri mi sento proprio bollente, sta mattina”. COOOSA? E quella frase da dove era uscita? No, perché di sicuro non potevo essere stata io a pronunciarla.
Nemmeno Cam mi rispose, probabilmente sconvolto quanto me da quell’assurda affermazione. Lo piantai lì, comunque, a pochi passi dal suo armadietto, mentre con la camminata decisa e tipica di chi è sicuro di se –anche se la mia era pura finzione- mi avvicinai all’aula di storia americana.
 
All’ora di pranzo, sentivo gli occhi di tutti i ragazzi che incontravo sulla mia via puntati addosso, come un branco di mastini che fissano una bisteccona succulenta.
Feci finta di ignorarli, disobbedendo a Harry che mi aveva calorosamente suggerito di ammiccare qua e là, tanto per enfatizzare il mio ruolo, e occupai un tavolo abbastanza grande per me e i ragazzi.
“Ma buongiorno!”, mi salutò Nick quando lui e gli altri arrivarono, viscido come la colla di pesce.
“Ma piantala!”. Brad gli diede un colpo di gomito.
“A cosa dobbiamo questo… cambiamento?”, chiese Bentley, evidentemente elettrizzato dalla situazione.
“Lo sai”, e Brad calcò la voce sul verbo, ammiccando al piano a cui anche Bentley aveva preso parte, donandomi parte dei suoi soldi.
“Madison!”, esclamò Harry quando la vide avvicinarsi al tavolo, arpionata al braccio di Cam. “Allora? Che te ne pare?”, le domandò piegando la testa nella mia direzione.
“Cos’è successo?”. Era incredula, con le pupille dilatate e la mascella cadente.
“Avevo voglia di cambiare…”. E di fartela vedere, brutta pezza di…
“Già. Oggi la nostra Haylie è raggiante, vero Cam?”. Certo che Harry era proprio un bastardo, quando voleva…
Cam annuì appena, continuando a farmi una radiografia integrale, arrossendo e facendomi arrossire. “Splendida proprio”, commentò poi, attento a non farsi sentire dalla sua ragazza.
Restammo un attimo occhi negli occhi, senza battere ciglio. Il suo sguardo era così intenso e affamato da farmi sentire esposta come se fossi completamente nuda.
Non puoi, Santo Piripillo*, non puoi guardarmi così e pretendere che non ti trascini in bagno per stuprarti, però!
“Mangiamo?”. Il mio tentativo di darmi un contegno era stato pietoso. Probabilmente tutti si erano accorti di quello che era appena successo, e fingere indifferenza girando le spalle a Cam e addentando il mio pezzo di pizza era completamente inutile.
Per un po’ il silenzio regnò sovrano, poi Madison rovinò tutto aprendo quella fogna che aveva al posto della bocca. “Oh, sapete la novità? Io e Cam ci siamo dati un nome!”.
“Ce l’avevate già, un nome, ve l’hanno dato i vostri genitori…”, le fece il verso Harry.
“No, intendevo un nome di coppia!”.
“E quale sarebbe?”.
“Camadison!”.
“Oh, ma che carino!”, esclamò Ginnifer seriamente convinta di quello che stava dicendo, e Harry fece una smorfia dritta nella mia direzione. Ridacchiai.
“Anche io e Lloyd ne abbiamo uno: Roslloyd!”. Risi ancora più forte dopo l’affermazione di Roslynn.
“Per fortuna che McKenna non sta con Donald Trump, altrimenti avremmo un bel McDonald a scuola”, mi uscì, forse un po’ troppo forte. Feci una pessima figura, ma in compenso feci ridere tutti, tranne il la combriccola di Madison.
“Beh, tu te ne devi intendere di fast food… che taglia hai, una quaranta?”.
“Quarantadue, come il doppio dei neuroni che ti ritrovi”.
“È veramente un peccato che non riusciremo a vederti infilare una trentotto prima di passare a miglior vita…”.
“Puoi sempre guardare su dall’inferno e vedere che ti mostro il dito, però…”.
“Balena”.
“Non ti rispondo nemmeno, non ne vale la pena”.
“Ragazze, basta”. Per fortuna Bentley aveva un animo da pacifista, altrimenti saremmo finite a tirarci i capelli. “Piuttosto, chi mi fa copiare gli esercizi di spagnolo?”. Domanda retorica: tutti sapevano che ero io la sua pusher per quanto riguardava lo spagnolo.
“Che palle”, mormorai passandogli il quaderno. Mi rivolse un sorriso a trentadue denti e un’occhiata non proprio discreta alla scollatura “Grazie, dolcezza”.
“Chiamami di nuovo dolcezza e ti ci schiaccio le palle, con il quaderno”.
 
 
 
 
 
 
 
*Sono entrambe citazioni di Schreck.
 
 
 
 
Ragazze, mi prostro ai vostri piedi chiedendovi umilmente perdono per l’immenso ritardo.
Purtroppo ho avuto gravi problemi in famiglia che si sono risolti nel peggiore dei modi possibili, e non ero nella forma adatta per mettermi davanti al computer e cercare di scrivere qualcosa che fosse degno delle cose splendide che vi meritate.
Mi dispiace di avervi lasciato aspettare un tempo assurdo per un capitolo che –secondo me- è inconcludente e non porta la storia da nessuna parte… Insomma, un capitolo che fa schifo!
Spero comunque che non vi venga voglia di venirmi a cercare con una mazza da baseball come regalino per i miei denti!
Best Wishes, Mil.

 
 
 

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Capitolo 12
*** Cap.12 Uno di troppo ***



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CAPITOLO DODICI
UNO DI TROPPO
 

CAM’S P.O.V.
 
Avevo un botto di schiuma negli occhi, che bruciava da  impazzire, eppure nemmeno il fatto di essere momentaneamente cieco mi impediva di ripensare all’ora di pranzo.
Non me l’aspettavo da Haylie, nemmeno un po’. Chi avrebbe mai detto che nascondesse un lato così vendicativo e provocatorio? E soprattutto, chi l’avrebbe mai detto che tirata a lucido sarebbe apparsa così provocante e sexy?
“Oh, ma avete visto che gnocca che è Haylie? ”. Ecco, Nick non si smentiva mai. Nemmeno io, a dire la verità. “Mi era venuta una voglia di sc…”.
“Ok, abbiamo capito!”, lo interruppi.
“Perché, tu non hai fatto nemmeno un pensiero indecente?”. Io? Certo che sì! Mi capitava di farne anche prima che esprimesse tutto il suo potenziale, figuriamoci adesso…
“No”, mentii. “Io ho Madison e mi basta”.
“Sé, vabbè…”.
“Secondo me Haylie è addirittura più carina”.
“Sei suo fratello, Brad, sei obbligato a pensarle, certe cose”, gli feci notare. Anche se ero d’accordo.
“No, no”, s’intromise Bentley. “Secondo me ha ragione”.
“Sì, ma lo sappiamo tutti che sei cotto marcio”, lo canzonò Nick. “Quindi non fai testo”.
“Di chi?”.
“Come di chi, Cam!”. Nick mi squadrò shoccato per qualche secondo. “Di Haylie, no?”.
“Ancora?”.
“Oh, non sono mica come te, io!”, mi riprese Ben. Merda. Pensavo che gli fosse passata, invece le moriva ancora dietro. Non era per niente una bella notizia…
“Facciamo una votazione”, suggerì Nick.
“Cosa?”. Non ero lento, è che facevo fatica a stare dietro a quell’idiota la maggior parte del tempo.
“Mettiamola ai voti. Sfida all’ultimo sangue tra Hayl e Madison…”.
“Non ho capito…”.
“Per ogni parte del corpo diamo un voto…”. Solo Nick poteva avere certe idee, comunque…
“Ok, ci sto!”.
“Anche io”.
“Io pure”.
“Cam?”.
“Non lo so, Ben. È una cosa stupida…”.
“Senti senti chi si tira indietro…”.
“Piantala di fare il cazzone, Nick”.
“E dai, perché non vuoi farlo?”. Eh… perché? Perché non volevo fare un confronto, perché avevo paura di preferire Hayl, ecco perché.
Sbuffai sonoramente. “Sì, ci sto”.
“Ok, allora”, disse Nick. “Cominciamo…”. Si fermò un attimo a pensare. “Dalle tette!”.
“Sei il solito maniaco!”, lo accusò Bentley, insaponandosi i capelli.
“Nah… Io propongo un otto per Madison”.
“Non mi piace sentirti dare un voto alle tette della mia ragazza…”.
“O Signore! Non fare il geloso tanto lo sai che gliele ho guardate…”.
“A Haylie io darei un nove, però”, commentò Scott, forse per calmare le acque.
“Anche io!”, gli risposero Arthur e Bentley.
“Cam che dici?”, mi provocò Ben.
“Mah, io preferisco quelle di Madison…”, mentii. Se non altro, perché le sue non avevano appeso il cartello GUARDARE MA NON TOCCARE.
“Quindi vince Haylie quattro a due. Prossimo argomento: culo”. Un coro di Haylie! si alzò nelle docce, rimbombandomi nelle orecchie. Ormai avevamo finito tutti di fare la doccia, ma eravamo presi dal giochino che aveva ideato Nick.
“Mi sembra chiaro il risultato”, parlottò Scott.
“Sì”, fece spiccio Nick. “Passiamo alle gambe?”. In quella categoria fu Madison a spopolare, ottenendo cinque voti su sei: solo Brad votò per Haylie, per solidarietà fraterna più che altro.
“E gli occhi?”.
“Dio, Ben!”, lo riprese Scott. “Sei il solito romantico! Chi vuoi che li abbia guardati gli occhi?”.
“Io”, feci spavaldo. Mi risero tutti spudoratamente in faccia.
“Ceeeerto…”, mi sfotterono un po’ tutti quanti. In effetti, l’avevo sparata un po’ grossa. Non guardavo bene gli occhi di una ragazza dalla terza media, quando scoprii che guardare altre cose era più divertente… Eppure avevo perfettamente in mente la sfumatura verdognola che addolciva gli occhi scuri di Haylie.
“Io proporrei un sei politico, in fondo nessuno li ha veramente visti…” fece Arthur. Non ero per niente d’accordo: gli occhi di Haylie meritavano almeno un nove, ma per evitare ulteriori rotture me ne rimasi zitto, ridacchiando insieme agli altri alle cavolate che sparavamo.
 
 
 
HAYLIE’S P.O.V.
 
Ero in biblioteca da un paio d’ore, per cercare di finire quella stramaledettissima ricerca di storia sulle prime colonie inglesi in territorio americano.
“Ehi, ciao!”. Aspettai di aver finito di scrivere la parola Massachusetts –cosa che richiedeva sempre un po’ troppa attenzione da parte mia- prima di alzare gli occhi verso la figura che si era fermata di fonte al mio tavolo. Era un ragazzo, questo l’avevo capito dalla voce. Dovevo solo capire di che ragazzo si trattasse. Alto, fisico asciutto ma che traspariva dalla polo un po’ troppo attillata, occhi scuri e una massa informe di riccioli castani a incorniciare quel viso furbetto che si ritrovava.
“Ciao”.
“Sono Gareth”, mi informò, puntandosi un dito al petto appena un po’ in imbarazzo.
“Lo so”. Sorrisi e aspettai che collegasse. “Stesso corso di storia”, gli ricordai un secondo dopo.
“Sì, certo. Lo so”, replicò. Passammo qualche momento in silenzio. “Come sei messa con la ricerca?”.
Indicai il computer ultra moderno -che poteva tranquillamente essere il nipote di sesto grado del portatile che avevo a casa- e risposi: “Quasi finita. È un po’ un work in progress… Tu?”.
“Di merda… Cioè, malissimo!”, cercò di correggersi.
“No, no, tranquillo: anche io dico merda, qualche volta”. Ridacchiammo un po’, poi indicò la sedia vuota accanto alla mia. “Posso?”. Tolsi lo zaino –che, almeno di pomeriggio, riusciva a scampare al radar di Harry- e lo poggiai in terra. Si accomodò e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, sfregandosi le mani nervoso. “Senti, Haylie”, mi chiamò. Decisi allora che forse era ora di girarmi completamente verso di lui e dedicargli tutta la mia attenzione.
“Lo so che non ci conosciamo molto, e ti prego non prendermi come un maniaco, ma ti va se qualche volta ci vediamo?”. Una padellata dritta in faccia mi avrebbe stupito di meno. Gareth era il solito tipo che sbavava dietro alle cheerleaders e alle ochette stile Madison, quindi perché mai dovrebbe aver voluto uscire con me? Magari aveva preso una botta in testa e aveva deciso che le secchione rifatte erano diventate la sua passione. O magari era stato rapito dagli alieni che gli avevano riformattato il cervello, o chissà cosa. Non avevo comunque nessun buon motivo ad impedirmi di uscire con lui, quindi decisi di accettare. Una boccata d’aria fresca –metaforicamente parlando- mi avrebbe fatto solo che bene, in fondo.
“Ok”.
“Ok?”.
“Ok”, ripetei. Cominciamo bene…
“Ok…ok?”.
“Ok, Gareth: mi va di uscire con te”.
“Bene! Quando?”. S’infilò le mani nelle tasche dei jeans scuri.
“Dimmelo tu”. Scrollai appena le spalle: in quel momento la mia agenda era più vuota del mio portafogli.
“Sabato? Possiamo uscire verso le sette e andare a mangiare qualcosa… Ti piace il cinese?”.
“Sì, certo. Va bene”. Oddio, gli involtini primavera non mi facevano impazzire, ma per una sera non sarei morta. E poi c’erano sempre gli spaghetti alla cantonese, no?
“Ci vediamo sabato, allora”.
“D’accordo”. Mi sorrise, forse un po’ in imbarazzo.
 
Lunedì. Ora di pranzo.
“Toh, guarda cosa ha portato il vento!”, mi salutò Madison.
“Toh”, le feci il verso. “Guarda cosa ha portato il gatto!”. Mi sedetti accanto a Nick, non perché volessi, ma perché da lì riuscivo a vedere e a fare la cretina con Gareth.
Era stato l’appuntamento ideale, quello del sabato. Mi era passato a prendere, mi aveva aperto la portiera, offerto la cena e avevamo anche fatto un giretto in centro, prima che mi riaccompagnasse a casa. Il tutto senza nemmeno sfiorarmi con un dito. Era evidente che volesse fare colpo.
“Hayl, come è andata sabato?”. Harry mi distrasse dalla smorfia un po’ ammiccante che stavo dedicando a Gareth, che mi sorrideva furbetto.
“Bene”.
“Cos’è successo sabato?”, chiese Cam, rimanendo con la bottiglietta d’acqua a mezz’aria.
“Sono uscita”, risposi, cercando di rimanere indifferente. “Con Gareth”, specificai qualche secondo dopo. L’acqua che stava bevendo Cam finì in un secondo spiattellata in faccia a Madison, che urlò come un’isterica, prima di alzarsi e uscire dalla sala mensa.
“Ma lui è un maniaco!”.
“No, invece”.
“Hayl, credimi, lo conosco da una vita. Gareth Alexander è un malato di sesso”.
“Esattamente come te”, lo accusai. “Eppure io e te usciamo insieme di continuo!”.
“Io non sono un malato di sesso!”. Era diventato rosso come un peperone. “E poi noi due siamo amici, quindi è un altro discorso!”, liquidò la faccenda con quelle stupidissime parole. “Gareth vuole solo portarti a letto”.
“Ma se non mi ha nemmeno sfiorata! Smetti di fare il geloso possessivo, e fammi uscire con chi mi pare”. Un lampo di rabbia attraversò i suoi occhi e un muscolo gli guizzò sulla mascella.
“Va bene, fai di testa tua come al solito”. Mi puntò l’indice contro il petto. “Ma non venire a piangere da me quando succederà l’inevitabile, quando quella sottospecie d’individuo ti farà soffrire”. E se ne andò, lasciando tutti di stucco.
“E chi ti cerca!”, gli urlai dietro, più per ridarmi un tono che altro. Mi era passata la fame, ero nervosa e avevo voglia di andare a casa di filato, senza ricordarmi che il pomeriggio mi sarei dovuta vedere con Gareth.
 
“Posso chiederti una cosa?”.
“Certo, Gareth”. Gli scansai dagli occhi una ciocca di capelli che la brezza marina gli faceva ricadere sul viso in continuazione, quel giovedì. Già, giovedì.
Era passata quasi una settimana da quando io e Cam avevamo litigato di nuovo per una cavolata. Quasi una settimana senza il mio migliore amico. Quasi una settimana in cui era venuto fuori che Cam e Madison l’avevano fatto anche nello sgabuzzino del bidello, quello vicino all’aula dove frequentavo spagnolo.
“C’è qualcosa tra te e Cam?”.
“No”. Distolsi lo sguardo. “Cioè, è uno dei miei migliori amici, ma…”.
“Ma?”. Prese ad accarezzarmi la punta dei capelli, sfiorando –non so quanto inavvertitamente- di tanto in tanto la bretella del reggiseno, in bella vista sotto il top senza spalline.
Ma sono innamorata di lui. Dovetti sforzarmi moltissimo per evitare di dar voce ai miei pensieri. Stavo cercando di disintossicarmi da lui e dalla sua presenza, ora che lui era fidanzato e anche io.
Più o meno, insomma… Sì, io e Gareth ci vedevamo spesso ed era capitato che ci sedessimo vicini durante l’ora di storia o che pranzassimo insieme, ma... lui non… insomma, era…
È che lui non è Cam, mi spiegò la mia coscienza. Faticavo a crederci ed era stressante da morire trovarsi in quella situazione, ma non riuscivo a non fare confronti tra i due. E alla fine era sempre il mio amico a uscirne vincitore. Dovevo dimenticarmelo: lui voleva fare sesso e aveva trovato Madison per soddisfare i suoi istinti, io volevo trovare un ragazzo che non mi considerasse solo un bel corpo, quindi era evidente che non eravamo fatti per stare insieme.
“Abbiamo litigato”.
“Beh, non posso dire che mi dispiaccia, non credo sia il presidente del mio fanclub”, confessò sorridendomi sottile. “Spero solo che non sia colpa mia…”.
“No, certo che no”, mentii. Era tutta colpa sua, in realtà, ma non potevo mica dirglielo…
Mi sorrise, prima di sporgersi vero le mie labbra e premerle contro le sue. All’inizio fu dolce e delicato, come sempre durante i pochi baci che ci eravamo scambiati. Poi cominciò a essere più passionale. Dischiuse le labbra e fece scivolare la lingua sulla mia, accarezzandola lievemente mentre le sue mani mi scivolavano lente e inesorabili lungo il torace, fermandosi sui fianchi. Le sue labbra lasciavano scie di saliva lungo il collo, nel momento in cui cominciava a alzare la stoffa del top per sfiorare la mia schiena nuda. Mi spinse leggermente per farmi sdraiare sulla sabbia sotto di lui, mentre con le braccia cercava di allargarmi impercettibilmente le gambe, fortunatamente ancora fasciate dai jeans. Si accasciò pesantemente sul mio corpo, cercando di slacciarmi anche la zip.
“Gareth”, sussurrai.
“Dimmi, piccola”, mormorò. Aveva frainteso. Io volevo che ci fermassimo: non era un gemito di piacere, il mio, ma di protesta. Annaspai con le braccia, tentando di togliermelo di dosso, ma non demordeva.
“Gareth, fermati”. Non mi ascoltò. Solo quando riuscii a mordergli forte un labbro si scostò e si sdraiò accanto a me, con il fiato corto e visibilmente eccitato.
“Quando dico basta, deve essere basta!”, ringhiai, sistemandomi e mettendomi a sedere con le gambe incrociate.
“Io non volevo farti niente, è solo che stiamo insieme da un po’…”.
“Da una settimana, Gareth”, gli ricordai. Cinque giorni, pensai tra me. “E una settimana non è un po’…”.
“Ma io pensavo avessimo raggiunto una certa… intimità”. Nel frattempo si era tirato su, e mi stava guardando negli occhi.
“In una settimana non si raggiunge l’intimità…”.
“E allora quando?”.
“Non lo so, Gareth, non ho una data di scadenza, non succede niente ad aspettare un altro po’…”.
“Non è che non la dai a me perché ti stai già divertendo con il tuo amichetto?”.
“Ma quale amichetto?! A parte il fatto che abbiamo litigato, e poi non sono mica una delle sue puttanelle, io!”. Ci riflettei un secondo. “Anzi, non sono la puttanella proprio di nessuno, nemmeno la tua!”.
“Senti, mi dispiace”, e dagli occhi sembrava veramente sincero. “È che mi piaci veramente tanto, sotto tutti i punti di vista, e a diciassette anni è difficile tenere a bada gli ormoni…”. Faccia da cucciolo: modalità on. “Non volevo darti fastidio, giuro”.
Sospirai, esausta.       
“Ok ti credo, ma portami a casa adesso, sono stanca”  
Quando arrivammo davanti casa mia, ebbe anche il coraggio di chiedermi il bacetto d’arrivederci, e glielo concessi. Tuttavia, mi limitai ad appoggiare lievissimamente le labbra sulle sue: ero ancora stra-incazzata con lui, e non volevo che si facesse strane idee.
 
Il giorno dopo, a scuola, ero uno straccio. L’asma era una malattia relativamente tranquilla, ma quella notte avevo avuto una crisi abbastanza grave e non avevo chiuso occhio per ore, tossendo e faticando a respirare. Per quello mi sballottavo da una parte all’altra della scuola senza prestare molta attenzione a niente e nessuno. Non avevo ancora incrociato nemmeno Gareth, che quella mattina sembrava essersi eclissato.
“Ehi”.
“Ehi”. La mia risposta al saluto di Cam sembrava più un grugnito che una vera sequenza di lettere, ma poco importava.
“Ancora arrabbiata?”. Mi stava evidentemente sfottendo, divertendosi più del dovuto a tastare le mie emozioni e a decifrare il mio umore, quindi decisi di non dargli la soddisfazione e di mentire.
“No, perché dovrei?”.
“Mi sembri irritata…”. Stava ancora sorridendo, in quel modo aperto e sincero che mi aveva sempre fatto impazzire.
“No”.
“Allora perché non sorridi? Tu sorridi sempre…”. Sì, ma non guardarmi con quella faccina che è praticamente un invito a stuprarti, però…
“Sono stanca”.
“Come mai?”.
“Non ho dormito molto, sta notte”.
“Brutti sogni?”, mi chiese, il tono parecchio addolcito.
“Asma”. Rimase per un attimo serio, poi mi circondò il braccio con le dita e mi trascinò per qualche metro, fino ad arrivare a grande albero sempreverde che spopolava all’ingresso del liceo. Si accomodò per bene sotto l’ombra creata dalle fronde, poi si batté un paio di volte la mano sulla coscia, come per invitarmi ad accomodarmici sopra. “Cos’è, un armistizio?”, domandai, sforzandomi di nascondere il sorrisetto che stava spuntando –bastardo- sulle mie labbra, smascherando l’arrendevolezza che provavo nei suoi confronti.
“Sì, qualcosa del genere”. Mi guardai un attimo in giro, incerta sul da farsi e fantasticando sulle dicerie che sarebbero derivate dal gesto gentile di Cam, senza dire niente. “Allora, vieni o no?”.
Il sorriso ammiccante di Cam mi fece dimenticare dove fossimo, le malelingue, il fatto che fosse fidanzato –e che anche io avevo trovato Gareth- e che ero ancora arrabbiata con lui. I miei piedi si trascinarono verso di lui quasi in automatico, come spinti da una forza esterna che annullava completamente il controllo della mia mente sul corpo, e in un secondo mi ritrovai inginocchiata accanto al corpo caldo di Cam, sotto quell’albero così alto. Sospettavo che quella forza derivasse direttamente dal mio amico, ma, codarda com’ero, mi limitavo a fingere che non fosse così.
Impacciata come un pulcino appena sbucato dall’uovo, appoggiai lievemente la testa sopra la gamba di Cam, che incrociò la sinistra sotto la destra per farmi stare più comoda. Chiusi gli occhi e mi abbandonai completamente alle sue dita che scorrevano dolci lungo l’attaccatura dei miei capelli. Era uno dei gesti più dolci e meno maliziosi che Cam mi avesse mai riservato, eppure sulle mie braccia spuntò un accenno di pelle d’oca e sentivo strane – e pericolose- scariche elettriche percorrermi tutta la spina dorsale, neanche fossi eccitata.
Restammo così qualche minuto, prima che il silenzio che si era creato tra noi venisse interrotto da un fastidioso starnazzare, come quello delle oche.
“Eccoti: è dalla prima ora che ti cerco!”.
“Shh, Madison! Non vedi che Haylie si è appisolata? Abbassa la voce”, fu il saluto perentorio di Cam a quella che in teoria era la sua innamorata.
“Perché fai così?”.
“Così come?”.
“Sembra quasi che te ne importi qualcosa, quando entrambi sappiamo che non è vero”. La voce di Madison si affievolì appena sul finire della frase, come se dentro di se non fosse sicura di quanta verità si nascondesse nelle sue parole.
“Perché è mia amica, e me ne importa eccome”. Il mio cuore prese a martellare così forte che per un secondo ebbi una paura fottuta che anche Cam e Madison riuscissero a sentirlo, ma dopo qualche istante –quando il bum bum era tornato abbastanza regolare- decisi di aprire gli occhi, svegliandomi dal mio falso sonnellino. Sbattei le palpebre cinque o sei volte, tirandomi su a sedere e fingendo ingenuità.
“Ciao Madison”.
“Ma non ce l’hai un ragazzo, tu?”.
“Madison!”. Il tentativo di Cam di mettere fine al nostro battibecco fu totalmente inutile, come al solito.
“Madison un corno, Cam!”.
“Ok, forse è meglio se vado”. Mi alzai, e farlo impiegò tutta la forza d’animo che possedevo, perché il mio cervello –e il mio cuore- mi ordinavano di rimanere esattamente dove ero.
“Ecco, brava!”.
“Hayl, no”.
“Fa niente, non sono poi così stanca, adesso”.
“Sì, ma non devi andartene per forza… Io non voglio che te ne vada”. Faticava a guardarmi in faccia mentre mi diceva quelle cose, forse per l’imbarazzo di essere davanti alla sua ragazza, forse per l’imbarazzo di proferirle ad alta voce.
Scossi il capo, sorridendo appena. “C’è un detto, sai. Mia nonna ma lo ripete sempre: in due si sa bene, in tre uno è di troppo. E io sono decisamente di troppo”. Raccolsi la mia borsa, me la misi in spalla e mi girai in direzione della porta d’ingresso. “Ci si becca in giro”, li salutai, prima di andarmene definitivamente.
 
 
 
 
 
Allora, ragazze…
Prima di tutto, vorrei chiarire una cosa: questa storia è stata scritta a tre mani e mezzo da me (Mil) e dalla mia amica Silvia. Purtroppo, fino a pochissimi mesi fa non avevo accesso alla connessione internet, quindi anche se la storia è scritta principalmente da me è pubblicata sull’account di Efp di Silvia. Quindi no, non l’ho rubata!
Poi… Haylie si è fidanzata!!! Cosa ne pensate? Vi è venuta un po’ di voglia di prendermi a sassate, vero? Non dite di no… ;-)
E Cam?  È geloso? Oppure è solo attratto fisicamente da Hayl e vuole mantenere il primato sulla preda? Bah, chi vivrà vedrà…
Ok, non ditelo a nessuno, ma vi faccio una piccola confessione: presto le cose tra i due si scalderanno, e non poco… Ma io non vi ho detto niente!
Eh… beh, niente. Mi scuso (come al solito) per il ritardo, ma i miei professori hanno battuto la testa e pensano di avere davanti un branco di tonni da ammaestrare (??) e non una classe di alunni che hanno una vita! Non avete idea di quanto sia stanca…
Spero di aggiornare presto, intanto voi fatevi sentire!
Kisses, Mil.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Cap.13 Domino ***


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CAPITOLO TREDICI
DOMINO
 

 

“Ma come fai a non capire?”. Cam mi stava veramente facendo perdere la pazienza. Era venuto a casa mia, un paio d’ore prima, implorandomi quasi in ginocchio di dargli una mano con i nuovi argomenti di biologia. Da quando la signora Wilson si era ritirata da scuola a causa di quel pancione enorme che si ritrovava, un mese prima, e dal quale era sbucata fuori una bellissima bimba paffuta da appena due giorni, il rendimento scolastico di Cam in quella materia stavano colando a picco come il Titanic. Il supplente, il signor Montoya, aveva un fastidiosissimo accento spagnolo che intralciava di parecchio la comprensione di qualsiasi cosa dicesse per chiunque –come Cam- non aveva un gran rapporto con la lingua. Quella buon’anima del mio amico, quindi, non riusciva a seguire nemmeno una spiegazione in classe, e si rifugiava da me appena possibile, per chiedere aiuto nell’unica materia in cui io ero appena più brava di lui.

“Non fare la saputella, devo ricordarti quanto ci hai messo tu ad imparare a semplificare le disequazioni fratte?”, mi sfidò con un ghigno. Un ghigno molto provocante.

“Me lo ricordo, stronzo”. E chi poteva dimenticarsi le tre intere settimane di esercizi inutili e impossibili che mi erano serviti? Gli dedicai una bella linguaccia, prima di tornare a concentrarmi sul libro. “Allora, dimmi cos’è che non ti è chiaro”.

“I caratteri della riproduzione sessuata”.
Scoppiai in una risata talmente forte che dovetti arrancare fino al frigo e agguantare qualcosa da bere prima di stramazzare in terra senza fiato.
“Cazzo ridi?”.
Tu che non capisci la riproduzione sessuata?”, altra scia di risate. “Paranormale!”.
“Ah-ah... Molto divertente, davvero”. Cam fingeva di essere arrabbiato, ma il suo cipiglio tradiva il sorrisetto che gli stava spuntando sulle labbra.
“Scusa… ok, facciamo i seri”.
“Sarà che ci riesci”.
“Oh! Ma come ti permetti?”. Finsi indignazione, in realtà scherzare con lui così vicino mi stava mandando a fuoco.
“Mi insegni questa cazzo di riproduzione o te lo devo dire in un’altra lingua?”.
“Come sei aggressivo! E no, nessun’altra lingua: non ne sai nemmeno una”.
Mi fece la linguaccia e aprì il libro a pagina 354.
“Allora”, cominciai. “Ci sono due tipi di caratteri: dominante e recessivo. Un carattere dominate è quello che risulta nella prima generazione filiale, un carattere recessivo è quello che scompare”.
“Quindi?”.
“Quindi cosa?”.
“Quindi, se un carattere dominante è il colore degli occhi, qual è  il recessivo che corrisponde?”.
“No: il carattere è il colore degli occhi. Il dominante è il marrone, il recessivo è l’azzurro”. Notai che fissava perso lo schema che aveva davanti a sé. “Hai capito?”.
“Puoi farmi un esempio?”
“Allora…”. Annaspai un pochino in cerca di qualcosa che fosse abbastanza chiaro. “Se io e te facessimo un figlio, questo avrebbe il 75% di possibilità di avere gli occhi marroni –o comunque scuri, perché lo scuro è dominante- e solo il 25% delle possibilità di avere gli occhi chiari –perché chiaro è un carattere recessivo”.
“Cos’è, una proposta?”, mi chiese malizioso, con un ghigno appena spuntato su quelle labbra così… così.
“Sarebbe una disgrazia, altroché”.
“Preferiresti fare un figlio con Gareth, giusto”.
“Cam”, lo ammonii.
Alzò le mani, come a dichiararsi innocente davanti a un giudice in tribunale. “Ho detto solo che se dovessi fare un figlio, sarebbe più giusto farlo con lui che con me, nient’altro”.
“A parte il fatto che a sedici anni e mezzo non è giusto in sé fare un bambino, perché sei un bambino… Poi non…”. Abbassai lo sguardo, incerta e insicura, e prontamente la punta del suo indice mi costrinse a rialzare gli occhi all’altezza dei suoi.
“Cosa c’è?”.
“Non è meglio se continuiamo con la biologia? Siamo abbastanza indietro e non voglio fare notte sul libro…”. Il mio tentativo di cambiare discorso fu talmente patetico che se avessi potuto mi sarei presa a schiaffi da sola.
“Perché vuoi cambiare discorso?”.
“Non mi va di parlarne”.
“Non ti va in generale, o non ti va di parlarne con me?”. Era ingiusto: sapeva che non volevo parlargli della mia vita privata –era difficile raccontare quello che facevamo io e il mio ragazzo alla persona di cui ero innamorata. Anche perché non c’era niente di che da menzionare.
Le cose tra me e Gareth non andavano propriamente bene.
Innanzitutto, non ci vedevamo poi così spesso, e quelle poche volte che eravamo insieme lui pensava solo a fare amicizia con il mio reggiseno, o a infilarmi le mani in posti indicibili.
Secondo, quando non era intenzionato a molestarmi, le nostre conversazioni erano brevi e intervallate da inutili e inappropriati insulti su Cam. Fatto che il novanta percento delle volte si concludeva con una bella litigata.
Stavo cominciando a pensare che Cam avesse ragione, e che Gareth fosse interessato solo al mio corpo, non a me.
Sospettando del mio silenzio, Cam appoggiò la sua mano grande sulla mia coscia e mi si avvicinò. “Hayl, è un cretino… Non… non è che ti ha fatto del male?”, si allarmò, probabilmente cambiando all’ultimo quello che voleva dire. Non aspettò nemmeno che rispondessi, continuò con il suo fiume di domande senza senso. “Ti ha costretto a fare qualcosa? Ti ha minacciata? Ti ha ricattata?”.
Provai ad aprire bocca, ma non mi fece fiatare. “Hayl, se ti ha fatto qualcosa devi dirmelo, e giuro che lo faccio diventare una signora”. La fantasia di Cam non aveva fine, ma se da una parte tutta quella possessività mi infastidiva, dall’altra mi lusingava.
“Senti, apprezzo il fatto che ti preoccupi per me, ma…”.
“Ma un cazzo, Hayl! Cerchi sempre di sviare il discorso quando ti chiedo qualcosa, mi viene da pensare che le mie supposizioni siano vere, considerata la bassezza del soggetto”. Era evidente che si stava arrabbiando, con il sopracciglio crucciato e la mascella serrata.
“Cerco di cambiare discorso solo perché non mi va di parlare di queste cose con te, perché hai sempre da criticare, e mi fai sentire una povera ragazzina idiota, perché continuo a perdere tempo con lui mentre è così evidente che io ti…”. Alt, alt, alt! Ok che mi ero alterata e che urlargli contro mi era venuto spontaneo, come unico sollievo alla frustrazione che mi stava montando dentro, ma arrivare quasi al punto di confessargli la verità –cioè che ero perdutamente e irrimediabilmente innamorata di lui- era assolutamente da evitare!
“Tu mi cosa?”. Non riuscii a decifrare la sua espressione, ma il tono che usò fu tagliente come la lama di un coltello.
“Niente”.
“Non raccontarmi cazzate. Tu mi…”.
“In questo momento ti strangolerei molto volentieri, non fosse che poi dovrei sprecare tutta la vita in prigione per un cretino come te!”.
“Non ha senso”.
“Cosa?”.
“Quello che hai detto. Non ha un minimo senso”.
“Sì, invece. Mi hai fatta innervosire e mi è venuta voglia di saltarti al collo”, conclusi ostentando spavalderia.
“Oh, povera. Per fortuna che il tuo adorato Gareth non ti fa mai innervosire, che caro ragazzo! Peccato che, ops, non ti si fila più, ultimamente!”, mi aggredì, alzandosi in piedi e facendomi sentire un granello di polvere confrontata al suo corpo. Sentivo lacrime di nervoso e stizza inumidirmi gli occhi, ma le ricacciai indietro tirando su col naso.
“Io non ho mai nemmeno accennato niente sulle tue ragazze, quindi come ti permetti di venire qui e spergiurare su Gareth? Cosa ne sai di lui? Lo conosci?”.
“No, però conosco te. So che ti piace essere trattata come una principessa, e per lui sei solo una delle tante di passaggio nel suo letto”. Era incredibile, sembrava che l’asino stesse dando dell’orecchione alla lepre.
“Magari puoi anche avere ragione, Cam. Però la gente cambia”. Non ero tanto illusa da crederlo veramente, ma in quel momento a parlare era l’orgoglio, la voglia di non cedere per prima e di non dargli ragione.
Sorrise beffardo –e bellissimo, come solo un angelo dannato poteva essere. “Come sei ingenua, Hayl. Gareth non è il tipo che cambia, tantomeno potrebbe cambiare per te”.
Le sue parole mi ferirono, sentivo il cuore battere all’impazzata e ogni pulsazione faceva male come  se una marea di lamette mi si stessero infilzando nella carne.
“Sai, Cam, forse siamo noi due insieme a non avere senso”. Vidi un lampo di delusione mista a dolore attraversargli gli occhi, quei bellissimi occhi azzurri che mi stavano scrutando con disprezzo, come si guarda una gomma da masticare schiacciata sulla suola delle proprie scarpe nuove.
Raccattò in fretta le sue cose ancora sparse sul tavolo, testimoni dell’ennesima litigata tra noi, e se ne andò senza nemmeno degnarmi di un altro sguardo. Quando sentii sbattere la porta con violenza fu come se anche qualcosa dentro di me avesse colpito una parete di duro, freddo marmo rompendosi in mille pezzi. Scoppiai a piangere senza nemmeno accorgermene. Erano lacrime di nervoso, le mie. Di stizza, di delusione per la piega che il rapporto tra me e Cam aveva preso, di orgoglio ferito. Di paura. Perché temevo che se avessi continuato a litigare con Cam, alla lunga si sarebbe stancato di me e l’avrei perso. E senza di lui, cosa mi rimaneva?
 
Il tempo per piagnucolare non fu molto, comunque, perché nemmeno dieci minuti dopo Brad varcò il portoncino di casa, con una strana espressione stampata in viso.
“Perché Cam stava prendendo a calci tutti e sette i nani da giardino di Ava? E perché tu stai piangendo?”.
Tirai su col naso, passandomi le mani sotto gli occhi per darmi un tono e asciugare le lacrime. “Non sto piangendo”.
“Sì, certo. Cos’è successo?”.
“Cam è un cazzone!”.
“Lo sospettavo. Cosa ha fatto, ‘sta volta?”.
“Lui mi fa sempre sentire una bambinetta! Una ragazzina! E sai perché?” e m’infuriai. Cominciai a strillare come una posseduta, come se fosse tutta colpa di Brad e urlargli contro servisse a fare uscire quel pezzettino di demone che mi tormentava. “Perché è quello che sono, per lui: una poppante piagnucolosa e asessuata, con la quale va bene sfogarsi e andare al cinema, ma che poi si accantona per la tettona con le gambe già aperte di turno!”.
“Ehi, ehi, calmati”. Brad si avvicinò a me con le mani alzate, come di fa di solito con la polizia, e quella somiglianza, anziché farmi ridere, mi fece uscire dai gangheri ancora di più.
“No che non mi calmo! Cazzo, ha una minima idea di come ci si sente a non essere mai il primo? Ad avere sempre qualcuno che è più importante di te, per cui vale la pena più di te, che è migliore di te? Te lo dico io: fa schifo!”.
“Hayl, non credo che Cam abbia detto questo…”.
“Sì, invece! Ha detto che Gareth non cambierebbe mai per me, il che tradotto significa: ‘Ehi, smetti di provare a trasformarti, a migliorare, tanto non ne vali la pena’!”. Brad, che nel frattempo si era accomodato sul divanetto al centro del salone, mi fece segno di avvicinarmi a lui, ma lo ignorai.
Sospirò. “Vieni qui, per favore”.
“No, voglio stare in piedi!”.
“Per favore, vieni qui”, ripeté con la pacatezza che lo contraddistingueva. Sbuffai, gonfiando le guance come una rana, ma lo accontentai.
“Raccontami cosa è successo, precisamente”.
Iniziai a riferire dello studio, della biologia, di quel discorso assurdo sui figli che Cam aveva tirato fuori e della litigata che ne era scaturita, sorvolando sul fatto che avevo quasi rivelato al mio migliore amico –se potevo ancora definirlo così- di essere innamorata di lui.
“C’è solo una spiegazione al comportamento di Cam”, mi spiegò poi, accarezzandomi distrattamente il braccio destro.
“È un idiota?”.
“No, Hayl, pensaci: ha cominciato a comportarsi così da quando hai iniziato a uscire con Gareth…”.
“Non è vero!”, lo interruppi. “Anche prima litigavamo. Spesso”, gli feci notare.
“Sì, ma per cosa bisticciavate, prima?”.
“Boh, cose stupide… Non lo so, non mi viene in mente niente, adesso”.
“Te lo dico io: cazzate”. Si mosse sul divano, fino a ritrovarsi seduto con le gambe incrociate e completamente girato verso di me. “Eravate insopportabili: avevate da rimbeccarvi su tutto, ma erano scaramucce innocenti, da amici…”. Si bloccò, sbuffò secco e continuò. “Ok, voglio essere sincero. Voi due non siete mai stati amici, non solo, per lo meno –e non provare nemmeno ad interrompermi o a contraddirmi-, ma tutto sommato andavate d’amore e d’accordo. Adesso, da quando vi siete, come dire… ehm, accoppiati? tu sei perlomeno sopportabile… Un po’ irritabile, forse –e questo fa sorgere tante domande, visto che di solito quando uno si fidanza vede tutto rosa, è sempre allegro e cazzate simili-, ma tutto sommato accettabile. Cam è diventato una bestiaccia. E non c’entra Madison…”.
“E se non c’entra lei, con chi ce l’ha, allora?”.
“Con se stesso”. Scoppiai a ridere, una risatina isterica e amara. “Impossibile!”.
“Te lo giuro, me l’ha detto ieri!”. Lo squadrai con una delle peggiori occhiatacce che potessi sfoggiare, scettica al massimo e sicura che mi stesse prendendo in giro.
“Ok, no. Non me l’ha detto, ti ho mentito. Però lo dimostra”.
“Sé, bumme!”.
“Hayl, è tormentato…”.
“Evidentemente non riesce a venire come si deve, o a far urlare Madison come se stesse per morire, e gli tira il culo per questo!”.
Scosse la testa, fissando gli occhi nei miei. “No, Hayl. È arrabbiato perché ha quello che vuole –più o meno- ma non quello di cui ha bisogno”.
Anche lui con quella frase?! Non l’avevo mai capita, e mi innervosiva: se uno aveva quello che desiderava, come poteva sentire ancora la mancanza di qualcosa? Insomma, a me succedeva sempre di cercare quello di cui avevo bisogno… Come poteva essere il contrario?
“Mi spieghi cosa vuol dire questa espressione?”.
“Cam voleva Madison, se l’è presa, ma adesso si sta accorgendo di non essere comunque contento e sai perché?”. Negai con un cenno appena abbozzato del capo, continuando a fissarlo negli occhi.
“Perché lui non voleva una ragazza… Anzi no: voleva una ragazza, ma non aveva bisogno di una ragazza qualsiasi…”.
Mi stava confondendo, e stavo fraintendendo, cominciando a pensare che quella ragazza ‘non qualsiasi’ fossi io e illudendomi che Cam potesse ricambiare quello che sentivo io nei suoi confronti. “Brad, parlaci chiaro: usa nomi e cognomi”.
“Vuoi nomi e cognomi? Ok, ti accontento. Cameron Nathan Bale si è reso conto di cercare una ragazza e oh, c’èra Madison Rihann Cole proprio lì, già mezza nuda e pronta all’uso e lui se l’è presa”. Aspettò un secondo, prima di andare avanti e morii di paura: paura perché qualsiasi cosa avrebbe detto, sarebbe stato un durissimo colpo al cuore, per me.
“Ma la verità è che c’è una ragazza, qui dentro questa stanza, che è stata fatta apposta per lui e lui l’ha capito. L’unico problema è che è un pochino più complicata da gestire rispetto alle sue solite compagnie, motivo per cui ha paura di sbagliare e combinare qualche disastro. Il ché lo porta a non agire e cercare di mantenere la situazione sotto controllo, evitando il minimo cambiamento. Ma la ragazza in questione ha deciso di non voler più aspettare ferma che Cam capisca cosa deve fare per conquistare il suo cuore –che a parer mio gli appartiene già- e si è fidanzata. Ora, bisogna comprendere l’incazzatura del nostro caro eroe: lui vuole lei, e lei gli è scivolata via da sotto le mani!”.
“Ma lui è il primo ad aver trovato la ragazza, quindi…”.
“Sì, ma l’amore è una cosa nuova, per lui. Cerca di capirlo”.
“Ma perché lo difendete tutti?! Sembra che la cattiva di turno sia io, quando invece lui se la spassa allegramente con Madison, e io son qui a piangere per lui!”.
“Quindi ammetti di essere innamorata di Cam…”. Lo fissai per qualche secondo, immobile, incerta se confessare o continuare a insabbiare qualcosa che, probabilmente, avevano già capito tutti. Optai per la prima opzione, senza pensare a quali avrebbero potuto essere le conseguenze del mio gesto folle.
“Ok, si, va bene. Sono innamorata di Cam. Se ti azzardi anche solo a farti sfuggire una sillaba riguardo a questo ti castro!”.
“Va bene, calmati tigre!”.
“Solo che, cliché, lui ha la ragazza…”.
“Hayl, non sono sposati, la gente si lascia…”.
“Sì, ma intanto siamo come il domino: io muoio per lui, lui muore per un’altra”.
“Dammi retta, gli importa di te molto più di quanto entrambi abbiate realizzato”. Si soffermò per un secondo a fissare il cuscino del divano, poi senza alzare lo sguardo, ma assumendo un’espressione buffissima aggiunse: “Sennò ti avrebbe già scopata, a dirla schietta”. Sorrisi, pensando che sicuramente aveva ragione- riguardo alla faccenda del sesso.
“Il che ci porta a me: ho bisogno di un consiglio”. E io avevo bisogno di qualcosa che mi distraesse, e l’unica alternativa che avevo a parlare con Brad era studiare, perciò…
“Dai, cosa vuoi?”.
“Io e Arianne nn ftt d so”, borbottò, affievolendo la voce a mano a mano che le parole gli uscivano di bocca.
“Che?”.
“Io e Arianne non ncr tt ss”.
“Ma cosa hai fumato?”
“Io e Arianne non abbiamo ancora fatto sesso!”, confessò tutto d’un fiato, rosso come un pesce palla. Rimasi paralizzata per un secondo. Quei due stavano insieme da quasi un anno, da quello che sapevo, e ancora non avevano avuto, come dire, rapporti intimi? E cosa aspettavano, la fatina dei denti per chiederle il permesso? Poi ebbi un flash: qualche tempo prima Harry aveva detto che Madison ce l’aveva su con Brad perché lui era ancora vergine…
Mi lasciai fuggire un “Ah” poco felice, a essere sinceri. “Che consiglio ti serviva?”, aggiunsi poi, titubante e in imbarazzo.
“Io voglio farlo”. Evitai di farmi sfuggire di bocca il coro di “Alleluja!” che invase la mia mente, optando per un mezzo sorriso che probabilmente sembrava più l’espressione di qualcuno che sta avendo una colica renale.
“Bene”, commentai poi.
“Solo che… non so come si fa”.
“Oh, mio Dio. Brad, siamo nella stessa classe di educazione sessuale, non dirmi che non ti è servito a niente… Poi dovresti chiederli a Cam, consigli di qual genere, è sicuramente più informato di me, lui”, cominciai a blaterale.
“No, cretina! Non nel senso tecnico”.
“E allora cosa?”.
“Non so… come dirglielo, se anche a lei vada bene, non so niente!”.
“Prova a parlarci, magari funziona”, mi scappò, con un tono a metà tra il comprensivo e il sarcastico.
“E cosa dovrei dirle, secondo te? ‘Arianne, ho voglia di fare l’amore con te’?”. Mi sciolsi un attimo: probabilmente Brad era l’unico ragazzo che aveva capito la differenza tra are sesso e fare l’amore, senza ancora aver provato nessuna delle due cose.
“Esattamente, sì”.
“No!”, s’indignò quasi.
“Perché? È una cosa bellissima da dire e da sentirsi dire, e magari lei è dello stesso avviso, solo che si vergogna a dirtelo. Come siete messi a… sì, insomma, a…”, e feci un gesto con le mani che, non so perché, la mia testa mi diceva che rappresentasse una qualche specie di preliminare, o cose simili.
“Petting?”, chiese, sogghignando. In effetti, al novanta per cento dovevo avere le guance e il resto del viso rosa shocking.
“Sì, quello”.
Brad rimase in silenzio per un po’, e io non seppi se interpretarlo come una bella cosa o come una catastrofe. Magari ero stata troppo diretta e sfacciata, l’avevo messo a disagio e lui si era, conseguentemente, chiuso a riccio.
“Bene, direi. Non facciamo altro quando stiamo insieme in quel senso, quindi ormai siamo collaudati e, ti dirò, anche bravini”.
“Ok. Però  non ti basta più”.
“Esatto”. 
“Devi parlarci, Brad. È una cosa naturale e siete innamorati, quindi non c’è niente di sbagliato a volersi amare anche in senso fisico”, ragionai, la voce simile a quella di quei dottori che consigliano questo o quel dentifricio nelle pubblicità in Tv. “Ricordati però che è un a questione di fiducia, e per noi ragazze è sempre qualcosa di speciale, anche se non lo ammettiamo… Insomma, il ragazzo con cui lo facciamo deve entrarci dentro… E non solo meccanicamente, vi stiamo permettendo di conoscere una parte di noi completamente nascosta, di occuparci per un po’. Quindi devi necessariamente farle sentire in ogni momento che la ami, e che è proprio con lei che vuoi stare”.
“Ok, non lo farò mai!”.
“Cosa?! Perché?”.
“Io già sono agitato, tu con tutti questi discorsi mi hai messo su ancora più ansia!”.
“Devi stare tranquillo, invece, e tranquillizzare anche lei. Se siete pronti…”. Conclusi la frase con un’alzata di spalle, che stava a dire: “Se siete pronti, il gioco è fatto”. Sperai per un attimo che Brad non fraintendesse. Fortunatamente capì. “Ok, allora mi butto”.
“Sì”. Lo vedevo ancora un po’ impacciato all’idea, ma forse era normale. Decisi comunque di abbracciarlo, per dargli quel tantino di coraggio in più che gli ci sarebbe voluto.
Mi strinse le braccia attorno al petto, e mi lasciò un bacio leggerissimo sulla fronte. “Grazie, guru”.
“No, eh!”.
“Cosa?”.
“Puffetta e Nana posso anche accettarli, ma Guru proprio no!”.
Fece una risatina non troppo convinta, poi si alzò. “Vado a chiamare Arianne”. Mi sorrise ammiccante. “Ho una cosina da dirle…”.
“Vai”, lo salutai. Mentre stava quasi per entrare in camera, però, lo fermai. “Brad, aspetta”.
Lui si girò e prese a fissarmi dubbioso. “Mi raccomando il preservativo…”, gli ricordai, con un’espressione grave, come se avessi ricevuto una notizia terribile.
Per tutta risposta, alzò il dito medio della mano destra in mia direzione, mentre apriva la porta, sghignazzando.
 

 
 
 
Eccolo!
Il capitolo della storia che fin ora più mi repelle è finalmente arrivato! Non so cosa dirvi, come al solito sono in ritardo… Mi sento molto in colpa, vi lascio sempre aspettare e aspettare per dei capitoli che non assomigliano nemmeno a quello che in realtà vorrei scrivere, ma mi escono così.
Spero che almeno una frasetta di queste poche pagine vi sia piaciuta, e sia riuscita a convincervi a leggere anche tutto il resto.
Cosa ne pensate? Delle continue litigate tra i nostri cari Hayl e Cam, intendo. Da cosa nascono? E dove li porteranno? Mah…
Il capitolo 14 è già in produzione, quindi non dovrebbe metterci così tanto ad arrivare. Nel frattempo, vi lascio un mini anticipo del prossimo capitolo, così tanto per…

“Alla fine è successo davvero.
Mi sono innamorato di Haylie.”

 
Mah, frase pesante e importante, eh? Chi mai la pronuncerà? Beh, continuate a leggere!
Alla prossima!
Best Wishes, Mil.

 
 

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Capitolo 14
*** Cap.14 In Quel senso ***


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Ecco il nuovo capitolo, spero che vi piaccia. Un Grazie a coloro che seguino la storia  e anche a coloro che spenderanno un minuto del loro tempo per lasciare un proprio parere.
CAPITOLO QUATTORDICI
IN QUEL SENSO
 

 
Allora, i casi erano due: o un bradipo mi aveva morso sul collo durante la notte, passandomi le sue caratteristiche genetiche –vedi Peter Parker e il ragno- oppure ero sempre stata così pigra e lenta come quella mattina e non me ne ero mai accorta. La sveglia aveva suonato come tutti i sabati alle 9, ma mi ero rigirata e stiracchiata per altri trenta minuti, rallentando così tutta la mia tabella di marcia mattutina. Mi ritrovai, in sintesi, con in mano latte e cereali alle dieci e trenta, molto più tardi di quello a cui ero abituata.
A pranzo non avrei avuto fame, di sicuro.
Ava mi avrebbe uccisa, di sicuro.
Era convinta che mangiare tutti assieme almeno nel weekend ci avrebbe uniti e resi una famiglia. Povera illusa. Io e la mamma eravamo una famiglia, eppure non mangiavamo mai insieme, se non la domenica. Io e la famiglia di mio padre mangiavamo assieme il sabato e la domenica, eppure non li sentivo più vicini a me di quanto non lo fosse Obama.
Mentre cercavo della frutta da mangiare assieme a quelli che la mia matrigna definiva cerali, ma che per il resto del mondo sarebbero pezzetti di compensato, sentii la porta aprirsi e richiudersi in fretta. Cercai di alzare la testa in modo furtivo, senza farmi beccare, ma sbattei contro la parte superiore del mobile e non riuscii a trattenere una fila di paroline poco adatte alla bocca di una signora, facendomi beccare.
Alzai la testa verso la persona che aveva appena varcato la soglia di casa, e mi illuminai.
Brad si aggirava furtivo per la cucina, con le mani nella tasca della felpa e il cappuccio calato sui capelli. Era sicuramente di ritorno da casa di Arianne, dove aveva passato la notte e dove –speravo- si era divertito parecchio…
“Ehi, tu! Come è andata?”, lo salutai, maliziosa e cameratesca.
Fece finta di non capire a cosa mi stessi riferendo, ma quando intercettò la mia occhiata smise di opporre resistenza e si sciolse in un sorriso.
“Bene. Insomma, almeno credo”.
“Cos’hai combinato?”.
“No, niente. È andata alla grande”. Ma si capiva che non era tranquillo.
“Brad, vieni qui”, lo obbligai, la voce ferma.
Eseguì senza fare troppe storie e si appoggiò sul divano. “Cosa c’è, Hayl? Sono stanco…”.
“Raccontami”.
“Tutto?”.
“Sì… Anzi no, i dettagli più intimi tienili per te!”, ritrattai, sentendo le guance andarmi a fuoco. Per quanto fossimo in confidenza, pensare a Brad in certe situazioni e… al suo coso non era proprio tranquillizzante, ecco.
Ridacchiò tranquillo, prima di riassumere in poche parole l’esperienza. Mi raccontò che ne avevano parlato, e avevano deciso di fare subito un tentativo, perché Arianne era impaziente di provare esattamente quanto lo era lui. Era andata bene, nel complesso –eliminati l’inevitabile imbarazzo da prima volta e il fatto che fossero entrambi abbastanza impacciati- e alla fine si erano addormentati abbracciati, sudati e appagati sul letto di Arianne.
“Scusa, ma non riesco proprio a capire dove sta il problema…”, dichiarai alla fine, dopo averci ragionato su per un po’.
“Ho paura che… possa lasciarmi, adesso che ha avuto tutto da me”. Si fermò un secondo, e non so come capii che non aveva finito di parlare, quindi mi tappai la bocca in attesa che continuasse. “Insomma, io la amo, e non le vedo nemmeno più le altre ragazze, come se non esistessero neanche. Magari, invece, lei si è stancata di me, di stare con un ragazzino asessuato e imbranato…”.
“A parte il fatto che gli avvenimenti di sta notte dimostrano che non sei affatto asessuato. Poi Brad, parliamoci chiaro: se Arianne non ti amasse, non sarebbe rimasta insieme a te tutto questo tempo. Se il suo unico scopo fosse stato il sesso, non avrebbe aspettato quasi un anno per averlo, ti avrebbe mollato –probabilmente per Cam- molto tempo fa… Scusa la franchezza, ma per me l’idea di voi due che non state insieme è assolutamente assurda e innaturale, non la vedo diversamente”.
Sorrise di un sorriso strano: era come se non volesse farmi notare quanto le mie parole gli fossero piaciute, quanto lo avessero lusingato. E io che pensavo di essere stata troppo brusca. Mah, va a capire.
“E tu?”, mi chiese.
“Io cosa?”.
“Hai fatto pace con Cam?”.
“No, perché dovrei? È stata colpa sua, quindi tocca a lui farsi avanti”. Mi ammonì con un occhiata buia, che stonava sul suo viso sempre allegro. “Cosa vuoi? Perché fai quella faccia?”.
“Chiamalo”, mi esortò, porgendomi addirittura il proprio cellulare.
“No!”.
“Smetti di fare la bambina capricciosa, e chiama Cam!”.
“Perché? Non posso sempre fare tutto io! Ha sbagliato e adesso paga, stop. Se mi vuole mi cerca, sennò pace”.
“Hayl, devi cercare di capirlo, per lui è…”.
“Smettila!”. Mi allontanai di qualche passo, con le braccia al cielo e le mani che gesticolavano forsennate. “Smettila, ok!?”. Non volevo ascoltarlo, non volevo sentirlo spalleggiare Cam ancora una volta.
“Ma perché, quando ti parliamo di Cam, ti chiudi a riccio?”, urlò quasi, esasperato dalla mia ostinazione.
“Brad, non ne voglio parlare. È una cosa tra me e lui, e voi non riuscite a capire… Continuate a dire che io gli piaccio e altre cretinate, ma così non fate altro che confondermi, perché il suo comportamento mi dice tutto il contrario e ci rimango male. Mi piacerebbe potervi dare retta e vivere con la convinzione che piaccio a lui esattamente come lui piace a me, ma non è così. Quindi per favore, basta con questo discorso”.  Mi sedetti, sconfitta e amareggiata, su uno degli sgabelli vicino al lavello e presi a mangiare i miei cereali in silenzio. Forse ero stata un po’ brusca e mi dispiaceva per questo, sul serio, ma non avrei ritrattato le mie parole. Brad mi osservò qualche secondo, prima di girarsi e dirigersi verso la sua stanza, mormorando qualcosa che non riuscii a capire.  
 
 

Cam’s P.O.V. 


Perché? Perché Haylie doveva essere sempre così cieca e… stupida! Come faceva a non accorgersi di quando Gareth fosse bugiardo? A me non permetteva nemmeno una piccolissima balla, e da lui si faceva prendere in giro proprio come una ragazzina idiota! Mi dispiaceva pensare quelle cose di Hayl, mi faceva male, ma non c’era alternativa. Una parte di me, quella meno nobile e più irrazionale, era arrivata a pensare che agisse così solo per darmi fastidio, per farmi dispetto. Ma non poteva essere così. Haylie non era così. Lei… era la faccia della verità, non mentiva mai. E per me, lei era tutto. Ce l’avevo sempre in testa, io…
“Cam!”.
“Era ora! Sono venti minuti che ti aspetto”. Bentley mi aveva chiamato quella mattina, chiedendomi di incontrarci per parlare. L’aveva detto con un tono così grave, che quasi avevo pensato dovesse dirmi di essere incinto… “Allora, che mi devi dire?”.
Lo sentii farfugliare qualche frase, ma non capii nulla, quindi gli chiesi di ripetere. Il secondo tentativo non fu migliore, ma almeno qualche consonante riuscii ad afferrarla.
“Ben, ti prego, parla. Forte e chiaro”.
“Alla fine è successo, ok?!”, sputò fuori di corsa, come se temesse che facendo pause tra una parola e l’altra il coraggio sarebbe scemato, facendolo tornare ai mormorii.
“Cosa?”.
“Mi sono innamorato di Haylie”. Se fosse arrivato un Teletubbie e mi avesse dato una martellata nel naso sarei stato meno sorpreso. Se mi fosse caduto un albero in testa, sarei stato meglio. Volevo scomparire, allontanarmi da quel posto e da Ben, senza però dovermi spostare di una virgola.
“E siamo qui per questo?”, chiesi, distogliendo lo sguardo e puntandolo su una macchina parcheggiata poco più in là.
“Si”.
“Perché?”. Perché adesso, perché lui, perché proprio lei
Ben alzò le spalle. “Volevo solo dirtelo. So che avete un rapporto speciale e non volevo… intromettermi, ecco”. Non sapevo cosa rispondere, eppure sapevo che Ben stava aspettando una reazione, possibilmente positiva e accondiscendente.
“Posso… posso provare, Cam?”. Cosa potevo rispondere? Si, prego, fai pure? Assolutamente no? Cosa? Cosa dovevo fare? Dovevo trovare un diversivo, qualcosa che salvasse la situazione e me.
“Ma lei sta con Gareth”, gli ricordai.
“Lo so”. Fece un sorrisino idiota, da fighetto, e mi venne voglia di strozzarlo. “Ma si lasceranno, prima o poi, no?”. Annuii, per niente convinto. Ero sicuro anche io che quei due non potessero durare ancora a lungo –Gareth era troppo stronzo per Hayl, troppo amante del divertimento, troppo arrogante, troppo bugiardo, troppo… simile a me. Nemmeno io e Hayl saremmo mai potuti stare insieme. Lei era una principessa, io ero l’orco. Si meritava un bel principe, non un mostro verde che l’avrebbe costretta a vivere in una palude e a mangiare vermi cavati dal tronco di un albero. Forse Ben sarebbe stato all’altezza, forse non sarebbe sembrato così coglione mentre, con una calzamaglia azzurra, la sarebbe passata a prendere a scuola sul suo cavallo bianco...
Forse dovevo… lasciarla andare.
Annuii. “Non farla soffrire”, mi curai di ricordargli, prima di incamminarmi verso la macchina, stordito dalla profondità dei miei pensieri stessi. Qualche secondo dopo il cellulare prese a vibrarmi in tasca. “Brad!”, risposi, ingoiando un groppone grosso come casa mia.
“Hai fatto pace con Haylie?”. Andava subito al sodo, eh.
“No”, e non avevo intenzione di farlo. Mi aveva ferito, pensare che non volesse confidarsi con me mi faceva credere che non si fidasse più di me, che non fossimo più amici. E io avevo bisogno di lei.
“Chiamala, allora. Adesso”.
“Non lo so”.
“Come no? Non hai capito che…”.
“Brad”, lo interruppi. “Come… cosa si prova quando si è innamorati?”. La mia domanda stupì anche me, ma era esattamente quello che avevo bisogno di sapere.
Lo sentii ridacchiare, lo stronzo, ma poi mi rispose. “È una cosa strana. Ti attanaglia lo stomaco. Hai solo lei in mente, sempre e solo lei. Non riesci a mangiare, non riesci a dormire, sei felice come una Pasqua quando ce l’hai intorno e quasi scoppi quando ti sorride felice. Perché sai che è per te che è felice…”. Si interruppe, notando che avevo smesso anche di respirare. Tutto, dentro di me, si era fermato, solo l’organo pompante sangue martellava nel petto, inarrestabile. La felicità, i sorrisi stupidi, l’insonnia, lo stomaco in panne… Ce li avevo, ce li avevo tutti!  
Possibile che mi stessi affezionando a Haylie, ma in quel senso?
 
Il mattino dopo mi alzai con un mal di testa allucinante. Non avevo dormito molto, le parole di Brad mi frullavano in testa e mi pungolavano, fastidiose come un calabrone che si diverte  a pungerti sempre nello stesso punto.
E poi avevo lei in mente. Sempre e solo lei.
Un’oretta dopo avevo appuntamento con Madison, ma non ne avevo voglia. Volevo andare da Haylie, scusarmi, e vedere il broncio che sicuramente mi avrebbe tenuto per i primi dieci minuti, prima di saltarmi al collo ridacchiando e dicendomi che mi voleva bene. Volevo, ma non potevo. Perché lei non era la mia ragazza e io non ero il suo ragazzo, e come amici dovevamo essere in grado di gestire un paio di giorni di distanza senza uscire di testa. Cosa che a lei, tra l’altro, stava riuscendo particolarmente bene. Nessuna chiamata, nessun messaggio, ergo: nessuna intenzione di armistizio. E io ero stanco di fare la prima mossa.
Mentre fissavo il mio riflesso allo specchio, intento a radermi senza tagliarmi, decisi che le cose potevano anche sistemarsi da sole, dovevo solo lasciarle correre. Aspettare un po’, far sbollire la rabbia e ritornare ad essere quelli di prima. Semplice. Fin troppo, forse. Ma mi sarei attenuto al piano, questa volta l’avevo deciso.
 
Se c’era una cosa che non mi era mai piaciuta era l’appiccicaticcio che rimaneva sulla guancia dopo che la ragazza di turno vi stampava sopra un bacio, con le labbra coperte di una quantità di lucidalabbra tale da potersi considerare fornitura a vita. Per questo, dopo che Madison mi riservò quel tipo di saluto, passai due minuti buoni a sfregarmi via tutta quella poltiglia dalla faccia. Attività che richiese un’attenzione tale da rendermi distratto.
“Allora Cam?”. Cosa mi aveva chiesto?
“Puoi… puoi ripetere?”.
“Ma cos’hai?”. Mi sbraitò contro. “È snervante, sembra di stare con una pietra!”.
“Mi ero distratto…”.
“Non parlo di adesso, ok? Sembra quasi che a te non importi più niente di me!”.
“Ma…”.
“No, eh! No! Non provarci nemmeno a scusarti! Io sono la tua ragazza, e pretendo una considerazione migliore”.
“Madison, che cavolo dici? Mi sembrava fosse chiaro che non era niente di serio. Anzi, no, doveva esserlo perché l’hai stabilito tu”, le ricordai.
“Si, ma…”.
“Ma cosa, Mad? Non siamo una coppia innamorata, siamo solo due che si piacciono e stanno insieme perché è più comodo che doversi tutte le volte cercare e mettere d’accordo: sappiamo già che quando io vorrò te, tu ci sarai e vice versa. Tutto qui, chiuso. Quindi non fare scenate”.
Mi squadrò seria e delusa, e per un attimo mi sentii quasi in colpa: era vero, stavamo insieme per quello, ma ero comunque stato troppo esplicito e duro, forse.
“E se io mi stessi innamorando?”. Quella provocazione così esplicita mi bloccò e mi lasciò interdetto.
“Fai sul serio?”.
“Forse”.
“Cazzo, Mad! Niente forse: fai sul serio sì o no?!”.
“Non lo so, ok?”. Non lo so? Non lo so, aveva detto?
La situazione era assolutamente da chiarire: per me, le parole ‘amore’ e ‘Madison’ non erano affatto da associare. Io non la volevo in quel senso. E se era quello che voleva lei, allora non c’era storia, bisognava chiudere.
“Senti, facciamo un discorso serio: tu vuoi una storia seria sì o no?”.
“Mi piaci, ok, è innegabile. Come è innegabile che c’è una grandissima attrazione fisica tra noi. Quindi perché no?”.
“Perché io non sento quello che senti tu! Io… voglio esser libero, voglio andare dove mi pare, con chi mi pare e quando mi pare! Non voglio costrizioni, niente legami, niente catene. Voglio solo spassarmela. Non è quello che vuoi tu? Allora mi dispiace, ma tra noi non può funzionare”.
“Ascoltami, è evidente che hai qualche problema che ti tormenta e che te la stai prendendo con me per sfogarti. Ma lo accetto, ok? A tutti capitano momenti no. Sono certa che tra qualche giorno tornerà tutto alla grande…”.
“No! No, invece!”, la interruppi, stringendole le spalle –un po’ troppo forte, forse.
“Io voglio solo aiutarti, Cam”, mi spiegò calma, guardandomi come un povero cucciolo abbandonato.
“Invece io non so se voglio vederti ancora”, borbottai, abbassando le mani e infilandomele nelle tasche dei jeans. Rimasi lì, immobile, ancora qualche minuto, tempo in cui nessuno di noi due disse più nulla.
C’erano troppe cose in sospeso, non ce la facevo più a gestirle. Ed ero scoppiato.
Non ero più sicuro di me, non lo ero più di niente. Davvero volevo ancora continuare a vedere Madison? Per cosa? Per una scopata? Potevo tranquillamente scaricarla e continuare ad avere la fila di ragazze pronte a farmi infilare nelle loro mutande. Tanto era quello che volevo… no?
 
 

Haylie’s P.O.V.

 
Lo squillo acuto del cellulare mi fece saltare dal divano. Perché mai Gareth avrebbe dovuto cercarmi nel bel mezzo del suo allenamento quotidiano? Poi lessi il nome del destinatario del messaggio e mi si gelò il sangue nelle vene. Nonlochiamare. Che era il nuovo nome sotto il quale avevo salvato il numero di Cam. L’sms era di una brevità disarmante: ‘Ho bisogno di chiederti scusa. Passo a prenderti tra 10 minuti.’
Non sapevo cosa pensare. Era la parola ‘bisogno’ a confondermi di più. Come se non parlare con me lo facesse stare male. Come se fossi necessaria affinché lui fosse felice. Purtroppo, però, avevo la certezza quasi matematica che non potesse essere così. Il perché non riuscivo a spiegarmelo, era il cervello a dirmelo, e io avevo l’obbligo di ascoltarlo più che mai.
Quando suonò alla porta avevo le mani che mi tremavano.
“Ciao”, soffiò piano, come a non voler disturbare l’animale inferocito che dovevo sembrargli.
“Sei uno stronzo! Idiota, cretino e deficiente. E stronzo”.
Mi sorrise. “L’hai già detto”.
“Perché sei doppiamente stronzo, per questo l’ho detto due volte!”.
“Mi dispiace. Devo dirlo due volte per farmi perdonare?”.
“No. Devi solo spiegarmi perché delle volte sei così odiosamente testardo”, ribattei, incrociando le braccia al petto.
“Beh, devo sempre vedermela con una piccoletta con la testa più dura delle pareti di casa mia… A star con lo zoppo s’impara a zoppicare”. Ammiccò nella mia direzione, e io feci la finta tonta.
“No, dai… Madison non è poi così tanto testarda…”.
“Ah-ah, come siamo simpatiche oggi pomeriggio”.
“Vero? Mi sono alzata dal divano col piede giusto”.
“Andiamo?”.
“Prendo la borsa”.
 
 
 
 
Ok, anche questa volta sono in ritardo peggio della Trenitalia…
A mia discolpa posso dire che è stata colpa del lavoro, della scuola e della scuola guida (si, ottenere un rettangolino di carta rosa non è mai stato così difficile –e non è ancora la fine!).
In realtà, però, l’unica cosa che posso fare è chiedervi ancora scusa, scusa, scusa.
Spero che il prossimo capitolo non ci metta così tanto ad arrivare.
Tuttavia non ve lo prometto, sono stanca di deludervi ogni volta.
 
Alles Gutes, Mil.

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