Deserted Me

di Roxe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Transatlanticism ***
Capitolo 2: *** Grey VERSUS Blue ***
Capitolo 3: *** I am Brain ***
Capitolo 4: *** Like water Like breath Like rain ***
Capitolo 5: *** No way back ***
Capitolo 6: *** Capitolo Extra: What the fuck happened here?! ***



Capitolo 1
*** Transatlanticism ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

NB Mi ero fatta tutta una diligente scaletta temporale per le mie storie/scene/scemezze, con l’idea di seguire una progressione cronologica precisa nel metterle nero su bianco. Ma questa qui non ne ha voluto sapere di restare in fila, mi ha rotto le ovaie finché non l’ho scritta.
Secondo la mia sequenza sarebbe stata –figuriamoci- una delle ultime, quindi fate conto che siamo alla quarta serie BBC (che SICURAMENTE faranno), Holmes e Watson vivono insieme già da 8 anni, e nella vita sentimentale di John c’è Mary Morstan da un po’.
È un bel salto, ma che ci volete fare, non sono io che decido. Del resto anche la serie tv mescola discorsi e situazioni assai distanti nella cronologia originale. Per non parlare poi della sequenza temporale nei racconti di Sir Arthur, il quale fa un tale casino saltellando avanti e indietro nel tempo da impicciarsi da solo una lunga serie di volte.
Tutto sommato mi sento molto IC in questo momento.
E poi… come dice il nostro amico Vasco… Le fanfiction son come i fiori, nascon da sole, son come i sogni.
E a noi non resta che scriverle in fretta. Perché poi svaniscono.
E non si ricordano più.

 

 

 

Transatlanticism

 

 

 

Quello era l’ultimo viaggio.

Grazie al cielo.

Girare per Londra in macchina alle sei di pomeriggio era di per se stessa un’iniziativa temeraria, per non dire stupida.

Tentare di attraversarla svariate volte con la macchina carica di valigie, mobili e suppellettili era probabilmente l’idea più imbecille che avevano avuto insieme da quando si erano conosciuti.

Mary Morstan osservò con aria preoccupata la piccola cassettiera posizionata in bilico sul tetto dell’auto, fissata con una corda di fortuna che scorreva attraverso i finestrini aperti degli sportelli posteriori, abbrancando il mobiletto sui fianchi e bloccandone ogni spostamento laterale.
Una tenuta a prova di curva, indubbiamente.
Ma alla prima frenata un po’ decisa quel pezzo d’antiquariato sarebbe sicuramente schizzato in avanti, frantumandosi sul cofano del suo maggiolino e regalandole un viaggio per niente gratis dal carrozziere.
Del resto un camion per i traslochi sarebbe stato esagerato per trasferire le poche cose che John doveva spostare nella casa nuova.
Vivere in affitto ha i suoi svantaggi, ma ti regala l’indubbio vantaggio di dover muovere solo la tua persona e poco altro, quando decidi di andartene.

Qualche valigia, due mobili, e nessun rimpianto.

Di solito.

La giovane donna fece un gran respiro e si voltò a guardare le finestre al primo piano del numero 221B di Baker Street, osservando la fioca luce che filtrava attraverso le tende tirate, ancora troppo debole per competere con il riverbero del sole pomeridiano.
Si passò le mani sui capelli, tirando all’indietro i ciuffi corti e ribelli che le danzavano attorno al viso, sfuggendo alla presa della pinza e dell’esercito di piccole mollette fissate dietro la nuca ad imprigionare i suoi folti riccioli biondi, fermati dietro la testa in una massa casuale eppure perfettamente composta.

Dall’appartamento non proveniva alcun suono.
Da più di un quarto d’ora aspettava che John scendesse dopo aver dato l’ultima occhiata in giro.
Per essere sicuro di non aver dimenticato niente d’importante.

E Mary decise che era abbastanza.

Non ne era sicura.
Non era sicura di niente quel giorno. Ma passare i prossimi quaranta minuti di un freddo pomeriggio di marzo in mezzo alla strada ad osservare i sinistri pencolamenti di una vecchia credenza sul tetto della sua auto iniziava a sembrarle una pessima prospettiva.

Si avviò con passo deciso per le strette scale dell’abitazione, ma la sua andatura rallentò progressivamente sulla seconda rampa, mentre il suo sguardo si allungava con timore al di là dell’ingresso dell’appartamento, cercando d’intravedere segni di vita attraverso la porta aperta.
Le sue dita si strinsero involontariamente attorno alla ringhiera mentre approdava sul pianerottolo, combattendo con il desiderio di abbassare gli occhi, per ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe incontrato il suo sguardo.

Lui era lì.
Immobile al centro della stanza.
Le mani in tasca e le gambe unite, come sull’attenti.

Si guardava intorno con aria smarrita, quasi non sapesse dove posare gli occhi, attratto da ogni angolo della casa dove aveva trascorso la sua vita negli ultimi otto anni.
Mary vide il suo sguardo incastrarsi nella stoffa sbiadita di quella vecchia poltrona logora, inspiegabilmente attratto da un orripilante cuscino decorato con la bandiera inglese che giaceva distratto su una coperta grigia che qualcuno aveva gettato senza garbo sul bracciolo.
Qualche centimetro più in là un piccolo tavolino tondo resisteva a stento alla pressione di una pila interminabile di volumi, affastellati l’uno sull’altro in una composizione verticale che con la sua sola esistenza sfidava coraggiosamente tutte le leggi di gravità conosciute. Il salto verso il caminetto fu quasi doloroso, perché il corpo di John fu percorso da un tremito impercettibile mentre percorreva la mensola sottile, passando in rassegna tutti gli oggetti che incontrava, uno per uno, per poi sostare qualche istante di più sul violino che era stato posato in equilibrio incerto sull’angolo destro, spodestando senza pietà la statuetta nera sepolta riversa sotto di esso, rendendo ancora più precaria la sua stabilità.
Lo sguardo scese lentamente lungo la parete, riservando alla grande poltrona nera solo un’occhiata fugace, per poi percorrere rapidamente il pavimento evitando con cura l’apertura della finestra, e posarsi infine sulla scrivania, fermandosi a lungo ad esaminare ogni foglio, ogni centimetro, ogni granello di polvere in mezzo a quell’incredibile confusione.
Lo schermo del computer portatile emanava un tenue bagliore, irradiato dalle onde ipnotiche dello screensaver che si muovevano sulla sua superficie scura, alternando colori accesi a tinte pastello nella ciclica sequenza dello spettro solare.
Un’occhiata distratta al di là della tenda, nella luce del sole, e poi ancora giù, sul pavimento, in mezzo a cesti e scatoloni sparpagliati alla rinfusa, pieni di libri e vestiti, appunti e provette, affastellati senza un criterio che non fosse unicamente nella testa di colui che li aveva raccolti.
Risalendo sul divano l’attenzione fu catturata dal cellulare abbandonato tra i cuscini, ricoperto da quel sottile strato di pulviscolo che si posa così facilmente sulle superfici lisce, scure e lucide quando non si ha l’accortezza di spostarle o pulirle almeno una volta alla settimana.
Quel telefono doveva essere lì da più di sette giorni.
Forse dieci.
La cosa più difficile fu staccarsi da quell’oggetto, risalire con fatica la spalliera scura, e raggiungere finalmente il capolinea.
Il lungo viaggio degli occhi terminò tra le volute geometriche di una tra le più brutte carte da parati che mente umana abbia concepito in secoli di storia e design, incastrando nuovamente ed inspiegabilmente il suo sguardo in un punto in particolare, che sembrava non presentare niente di diverso dal resto della parete, eppure doveva nascondere dietro quell’orribile motivo un tesoro perduto di valore inestimabile, perché il solo fissarlo riempì lo sguardo di John di una carica di malinconia quasi insopportabile alla vista.

Lei detestava quello sguardo.

Ogni secondo che passava con lui detestava quello sguardo, che da dieci giorni era sempre in agguato, nascosto dietro le pupille scure, pronto a saltar fuori nei momenti più improbabili ed inopportuni.
Lo detestava. E non poteva fare altro.

Non c’era niente che potesse fare per allontanarlo dai suoi occhi.

Rimase ancora qualche istante ferma sulla porta, la spalla appoggiata sullo stipite e la testa reclinata da un lato, respirando con sofferenza l’aria mesta che riempiva ogni angolo di quella stanza invasa dalla luce, eppure così scura.

Si staccò dalla porta e fece un passo. Uno soltanto.
John non sembrò sentirla, voltato di spalle con la testa girata da un lato, lo sguardo fisso su quella parete, a tratti inespressivo, a tratti indecifrabile. A tratti insopportabile.

Mary si avvicinò lentamente alla sua schiena, fissando le sue spalle tese, curve, come gravate di un peso che riuscivano appena a sostenere.
Si fermò proprio dietro di lui, sfiorando con la punta dei piedi i talloni delle sue scarpe. Una perfetta manovra d’accerchiamento da sinistra.
Chiuse gli occhi un istante, prese un respiro silenzioso, e poi posò con dolcezza il mento sulla sua spalla, avvertendo con piacere una leggera vibrazione attraversare il corpo di John a quel contatto.

Lui ruotò subito la testa verso di lei, poggiando la guancia sulla sua fronte, e Mary sentì distintamente la sua schiena sollevarsi e proiettarsi all’indietro, appoggiandosi delicatamente sul suo seno.
Rimase ferma per qualche istante, godendo di quella pressione e di quel sollievo inaspettati, mentre con lo sguardo intraprendeva coraggiosamente lo stesso viaggio che aveva appena fatto lui.

Una breve passeggiata  attraverso il suo mondo.
Disordinato, incomprensibile, complicato.
Pazzesco.

No, non era il suo.

 

- Lui dov’è?

 

Non c’era una vera ragione per fare quella domanda. In quel momento.
Era semplicemente inevitabile.

- Non lo so.

La voce opaca, forzata. Che fece fatica ad uscire dalle labbra.
Non servì molta intuizione per immaginare l’espressione del suo viso in quel momento, anche se non poteva vedere il suo sguardo.

Per fortuna.

- Sono dieci giorni che lo incontro a stento. Esce al mattino ad un’ora assurda, e ritorna la sera ad un’ora anche più assurda.

Mary abbozzò un cenno d’assenso col capo, facendo dondolare adagio l’intera struttura dei loro due corpi appoggiati uno all’altro.

- Non ti ha detto nulla?

- Mh…

Un sorriso amaro comparve sul viso di John. E questa volta lei riuscì a sentirlo anche senza vederlo.

- Quando gli ho detto che andavo a vivere con te… Ha borbottato qualcosa d’incomprensibile sulla nocività estrema delle emozioni, e sui danni che procurano alle facoltà mentali. Credo. Parlava talmente veloce che ho capito una frase su cinque.

- E poi?

- E poi niente. Non ci siamo più scambiati una parola. Sono dieci giorni che non ci parlo, te l’ho detto.

Questo era più che evidente.

Lei chiuse gli occhi, affondando con determinazione il mento nella stoffa della sua camicia, per poter premere con più forza la fronte sulla guancia di John. E alla fine si decise.

- Vuoi aspettare che torni per salutarlo?

Lui trattenne il fiato per qualche istante, e Mary avvertì ogni muscolo del suo collo e delle sue spalle irrigidirsi sotto di lei.

- No… no. Non fa niente. Non tornerà. Lo so com’è fatto. A lui non-…

Ecco qua.
Era chiaro.
Talmente chiaro da far male agli occhi, quando eri costretto a guardare.

- Non importa.

Il tono della sua voce era così avvilito, così desolato da non sembrare nemmeno il suo. E lei fece ciò che poteva.
Tutto quello ch’era in grado di fare per sollevare quel peso.
Allungò le braccia intorno alla sua vita, stringendolo con forza ed attirandolo a sé.
John si lasciò cadere nel suo abbraccio, permettendo per qualche secondo che quel corpo esile e sottile avesse il compito di sorreggere il suo, ben più pesante.
Chiuse gli occhi, avvolgendo nelle sue le piccole mani di Mary strette attorno a lui, e lasciando scorrere la guancia sulla sua fronte con un movimento ritmico e delicato.

Lei assaporò quella carezza il più a lungo possibile, stringendo a sé quell’uomo che stava per trasferirsi permanentemente nella sua vita.

- Hai preso tutto?

John sollevò la testa e si guardò intorno.
Per un’ultima volta.

- Credo… Credo di sì.

- Allora andiamo?

Mary cercò invano di scorgere l’espressione del suo viso così vicino, troppo vicino per poterlo vedere.
Sentì il suo petto espandersi tra le braccia e poi svuotarsi lentamente, fino a restare completamente vuoto.

 

- Sì.

 

Con delicatezza lei lasciò la presa, facendo ricadere le mani lungo i fianchi, e si allontanò di un passo. John si voltò a guardarla con il miglior sorriso che riuscì a farle in quel momento, e si diresse verso la porta passandole a fianco.
Ma una volta giunto sull’ingresso tornò a voltarsi. Tornò a guardarsi intorno.
Ancora una volta con quello sguardo.

E la pazienza finì.

Mary incrociò le braccia, ferma al centro della stanza, fissandolo con aria accigliata.

- Ehi! Non ti stai trasferendo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico!

Lui ricambiò la sua occhiata con stupore, sorpreso da quella voce inaspettatamente dura ed allo stesso tempo tenera, che riuscì a rimproverarlo e tranquillizzarlo nello stesso momento.

- Potrai tornare qui ogni volta che lo vorrai.

In risposta alla sua espressione rassicurante John fece un sorriso triste. Poi abbassò la testa scuotendola leggermente.

- Già.

Infine si girò verso le scale, e s’incamminò a passi lenti attraverso il pianerottolo. Senza più voltarsi indietro.

Lei sospirò debolmente, guardandosi intorno con attenzione nel tentativo di fermare nella memoria almeno l’impressione di quella stanza così vissuta, e così difficile da abbandonare.
Poi si mosse verso l’uscita, spense la luce prima di socchiudere la porta alle sue spalle e si avviò giù per le scale con la testa bassa, il passo deciso, lo sguardo pensieroso fisso sul pavimento.

John si era fermato alla fine della rampa ad aspettarla, e rimase stupito quando la vide rallentare improvvisamente l’andatura fino a bloccarsi qualche gradino sopra di lui, fissandolo con un’espressione totalmente indecifrabile, a metà tra lo sconvolto e l’eccitato.

- Ah… John… Senti! Tu vai avanti ok? Prendi la macchina e porta l’ultimo carico a casa. Io resto qui a controllare se hai lasciato niente e poi… Poi mi sono ricordata che ho delle cose da fare in zona quindi-…

- Ma che stai dicendo?

La guardò un po’ incredulo e un po’ divertito, facendo qualche passo verso di lei.

- Vorresti lasciarmi da solo in una casa mezza vuota a montare mobili e scaffali?

- Lo so, lo so Johnny! Ma è una cosa importante! Ti prego!

Ahi.
Brutto segno quando lo chiamava Johnny.
Mary non usava mai quel vezzeggiativo se non in casi di estrema necessità, quando doveva fare appello a tutte le sue risorse per convincerlo di qualcosa della quale non si sarebbe mai convinto per nessuna ragione al mondo.
Ma quei grandi occhi azzurri che lo fissavano imploranti erano qualcosa alla quale non era in grado di opporre alcuna resistenza degna di questo nome.

- Farò in fretta, te lo prometto.

Parlando con voce morbida lei si portò le mani giunte all’altezza del viso, posandole delicatamente sulle labbra, e chiedendo perdono con gli occhi.
Johnny sospirò, ricambiando con un sorriso dolce e rassegnato quello sguardo al quale era impossibile negare qualunque cosa.

Una facile resa, senza morti né feriti.
Ma il valoroso soldato sconfitto reclamava il suo premio di consolazione.
Salì lentamente i gradini che li separavano, portando il volto a pochi centimetri da quello di Mary e fissando gli occhi nei suoi, mentre le pupille si dilatavano e lo sguardo si faceva più intenso. Più caldo.

- Saprai farti perdonare?

Lei ricambiò quell’occhiata maliziosa con un sorriso divertito.

- Certo.

Così dicendo s’inclinò appena in avanti, stampandogli un bacio delicato sulla punta del naso.
John socchiuse gli occhi, iniziando a ridere sommessamente. Poi li riaprì del tutto, tornando a fissarli in quelli chiari e luminosi fermi a pochi centimetri dai suoi, mentre lei si sfilava di tasca le chiavi della macchina e le metteva tra le sue mani.
Stringendo il metallo tra le dita lui si allontanò si scatto, malvolentieri. Prima di lasciarsi tentare da qualcosa che per qualche ragione quel giorno, in quel posto, gli sembrava inopportuno.

Scese un paio di gradini e poi si fermò, voltandosi ancora a guardarla ed alzando una mano in segno di saluto.

- Allora a dopo!

Lei agitò la mano a sua volta, salutandolo con un sorriso solare.

E John riprese a scendere con passo rapido l’ultima rampa, dirigendosi quasi di corsa verso l’ingresso. Colto improvvisamente da un’inspiegabile fretta, come una frenesia, un desiderio impellente di uscire da lì.

Era quasi arrivato in fondo alla scala quando la voce di Mary lo bloccò.

- John!

Lui si fermò sull’ultimo gradino, alzando lo sguardo verso l’alto e trovandola affacciata alla ringhiera.

- Ti mando un messaggio se faccio tardi ok?

- Va bene. Cerca di non fare tardi però!

Lei gli strizzò l’occhio muovendo le dita.

- Promesso.

Ammiccando a sua volta John lanciò in aria le chiavi con un gesto spavaldo e aspettò che il mazzo ricadesse docilmente nel suo palmo dopo una breve e perfetta parabola verticale. Poi scattò in avanti e sparì nella porta d’ingresso, tirandosi dietro il pesante portone.

 

SBAM

 

Mary rimase in ascolto per svariati secondi. Immobile sui gradini della scala.
Aspettò di sentire il rumore della sua vecchia auto che si metteva in moto, emettendo quel suo familiare borbottio. L’udì ingranare la prima con una robusta grattata, ed uscire dal parcheggio con un paio di manovre, per poi allontanarsi finalmente lungo la strada, a velocità sostenuta, fino a svanire in lontananza perdendosi tra i confusi rumori del traffico cittadino.

Solo allora tirò un lungo sospiro di sollievo, portandosi una mano al petto e rovesciando la testa all’indietro.
Restò in quella posizione per qualche istante, assaporando il silenzio e tentando di calmare il battito del cuore.

Non era abituata a mentire.
Le riusciva uno schifo e detestava farlo, soprattutto con John.
Ma era successo tutto talmente in fretta.
L’idea era affiorata così, senza preavviso, nello spazio di quattro gradini.

Forse c’era.
C’era qualcosa che poteva fare.
Anche se non sapeva bene come farlo.
Ed era terrorizzata.

Lui la terrorizzava.

I suoi occhi grigi, spietati, taglienti come la lama del più affilato dei rasoi, che indovinavano ogni angolo di te semplicemente posandosi sulla tua superficie.
La sua figura alta e nervosa, capace di restare immobile per ore, in attesa, per poi scattare con ferocia sulla preda, affondando i denti nella sua carne e dilaniandola atrocemente senza lasciarle alcuno scampo. Mai.
Le sue dita lunghe e sottili, che tracciavano nell’aria i segni fugaci del suo pensiero, rivelando di lui più di quanto non facessero le sue parole ed i suoi sguardi.
Il suo oscillare grottesco ed imprevedibile tra apatia ed eccitazione, che rendeva impossibile avvicinarlo senza essere pervasi da un soffocante senso di terrore.
La sua voce bassa e densa. Quel suo parlare veloce, oscuro, impenetrabile.
La spaventava a morte.

Il modo in cui John lo guardava la spaventava.

Ma la cosa in assoluto più spaventosa. Per lei.
Era il modo in cui lui guardava John.

Quel giorno, proprio quel giorno, avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altro posto sulla terra piuttosto che su quella scala angusta, a due passi da una stanza nella quale non aveva più il coraggio di entrare.

Ma non aveva altra scelta.

Mary si voltò adagio e risalì la rampa fino al pianerottolo.
Si sedette sull’ultimo gradino.

 

E cominciò ad aspettare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Il titolo della fic è un estratto mirato della frase che Holmes pronuncia nel racconto The Blanched Soldier -uno degli ultimi lavori di Doyle con protagonista Sherlock Holmes- redatto di proprio pugno dallo stesso detective, che nell’incipit del racconto scrive: «The good Watson had at that time deserted me for a wife, the only selfish action which I can recall in our association». Traduzione: «Il buon Watson mi aveva a quel tempo abbandonato per una moglie, l’unico comportamento egoista che riesco a ricordare del nostro sodalizio».
Tra le altre cose questa è la famosa (ed unica) frase responsabile della teoria secondo la quale John avrebbe avuto una seconda moglie dopo Mary. Ma teniamoci l’argomento ‘mogli di Watson’ per un capitolo successivo e concentriamoci invece sulla scelta del titolo.
Anche la frase presa per intero è già di per se stessa più che calzante l’argomento della fic, ma non ho staccato a caso quelle due parole dal resto del discorso.
Separando ‘deserted me’ dal verbo ausiliario, la locuzione cambia radicalmente significato, oltre che ruolo grammaticale, e passa da un ‘mi ha abbandonato’ ad un più intenso e drammatico ‘desolato me’.
Ho sempre trovato il verbo ‘to desert’ molto più forte del suo corrispettivo italiano ‘abbandonare’.
Nella nostra lingua il termine sottolinea esclusivamente la separazione, il distacco non voluto da qualcosa o qualcuno che ci lascia indietro senza che noi lo vogliamo. Nel termine ‘deserted’ invece non c’è solo il rammarico per l’abbandono, ma anche la descrizione implicita dello stato in cui è lasciato l’abbandonato, ovvero in una condizione arida, desolata, priva di vita. Deserta appunto.
I due verbi sono assolutamente equivalenti da un punto di vista del significato, ma trovo che l’inglese abbia una sfumatura più triste ed intensa, che mi è piaciuto sfruttare in questo frangente, per ovvie ragioni.

2. Il titolo di questo primo capitolo è invece copiaincollato pari pari dall’omonima canzone dei Death Cab for Cutie, Transatlanticism.
La scelta è caduta su questa song per tre motivi, primo fra tutti il neologismo in sé, che secondo me rende davvero bene l’atmosfera che volevo dare a questa storia in generale, più che al primo capitolo soltanto (in effetti avrebbe dovuto essere il titolo della fic in toto fino a poco tempo fa). Trovo che il termine transatlanticism riesca a racchiudere efficacemente nella stessa parola il dolore della separazione, il desiderio di colmare la distanza, e l’impossibilità di farlo.
Il secondo motivo è nel testo della canzone stessa, molto bello e del tutto aderente al tema della fic, anche se non l’ho utilizzato (né lo utilizzerò) come parte del narrato.
Il terzo motivo per il quale l’ho scelta vi sarà rivelato solo nel prossimo capitolo. **

3. A scanso d’equivoci sottolineo che Mary Morstan e John Watson non sono ancora sposati nel momento in cui si svolgono i fatti.
Non siamo nell’ 800, dove incontravi una ragazza al mattino, e alla sera le chiedevi di diventare tua moglie…. Nel 2011 una coppia prima di convolare a giuste nozze va a convivere.

PS La prima fic a puntate che ho postato qui era praticamente già scritta quando ho iniziato a caricarla sul sito. In sostanza mi sono limitata solo a dividerla in capitoli.
Questa qui invece è un work in progress, quindi non potrò aggiornare ogni 3 giorni come ho fatto la prima volta.
La scadenza sarà più o meno settimanale, giorno più giorno meno.
Non sono una ‘scrittrice’ molto rapida, leggo e rileggo cento volte (inutilmente XD). Ma io per prima non amo le lungaggini, anche perché mi stufo di stare su una stessa storia per troppo tempo, quindi i coraggiosi che si sono avventurati nella lettura non si preoccupino che gli aggiornamenti arriveranno comunque in tempi umani.

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Capitolo 2
*** Grey VERSUS Blue ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

 

Grey VERSUS Blue

 

 

 

Johnny, I’ll be late.
Don’t wait up for me.

 

Sollevando stancamente il pollice della mano destra Mary premette il tasto invio che lampeggiava impaziente sullo schermo del suo cellulare, allontanando la testa dalla ringhiera nel tentativo di resistere all’intenso desiderio di chiudere le palpebre e permettere al sonno di averla vinta su di lei.

Ormai si stava avvicinando inesorabile il momento in cui avrebbe dovuto ammettere che la sua si stava rivelando la seconda idea più scema della giornata, dopo quella di fare un trasloco alle sei di pomeriggio.

Anzi.
A ben pensarci restare seduta su una scala fino alle tre di notte, nell’attesa di qualcuno che non sapeva nemmeno se sarebbe mai rientrato a casa, era in assoluto  l’idea più cretina dell’intera settimana.
Probabilmente dell’intero anno.

Sbagliato ancora.
L’idea più idiota del secolo era appena scivolata via dalle sue dita, liberandosi nell’etere assieme a quel messaggio inviato a notte fonda, in risposta ai sette di John in cui le domandava dove fosse, se stesse bene, se doveva passare a prenderla o se avesse bisogno di qualcosa.

La parte più infantile di lei era rimasta aggrappata fino all’ultimo alla convinzione che finché non avesse mandato quel messaggio, avrebbe mantenuto la sua promessa.

Ma ormai era tardi anche per quello.
Era giunto il momento in cui si sarebbe finalmente alzata da quel gradino, avrebbe disceso quelle maledette scale e si sarebbe arresa.

Probabilmente aveva ragione fin dall’inizio.
Non c’era niente che lei potesse fare.

Doveva solo continuare a resistere, aspettando che il tempo sbiadisse a poco a poco i colori.

Era talmente presa dai suoi pensieri, ormai prigioniera di quella stanchezza che lentamente la stava conducendo nel limbo che precede il sonno ed attenua i sensi, preparando il corpo alla notte della coscienza, da non avvertire il rumore del portone mentre si apriva.
Non lo sentì richiudersi con un colpo secco.
E non captò i passi rapidi che salivano la scala nella sua direzione.

Ogni suono le giungeva all’orecchio come ovattato. Lontano.
Gli occhi si appannavano, a dispetto del suo estenuante impegno nel tenerli aperti.
Le membra perdevano forza.
Il busto si abbandonava delicatamente sulla ringhiera.

E d’un tratto lui entrò.

Prepotentemente ed inaspettatamente nel suo campo visivo.

Un piede sul primo gradino. La mano stretta sul mancorrente, pronta a far leva per proiettarlo verso l’alto. Il cappotto largo e scuro, completamente slacciato, intento a tracciare un’ampia parabola nell’aria spinto dalla rotazione che il suo corpo aveva appena compiuto.
Gli occhi dapprima socchiusi, contratti. Poi di colpo spalancati. Fissi su quella figura sottile, inattesa, raggomitolata in cima al suo pianerottolo.

 

Sherlock Holmes si bloccò.

 

Inchiodato su quel gradino.
Paralizzato alla vista di quella donna di fronte a lui. Ferma in mezzo alla sua strada. Sulla sua scala.
Di fronte alla sua casa.
Piazzata per traverso nella sua vita.

Lo stupore durò pochi istanti. Poi l’aria tornò a riempire i suoi polmoni, le membra s’irrigidirono con una violenta contrazione e le pupille si strinsero piantandosi su quel volto confuso e disorientato che sembrava uscito in quel momento da uno stato di torpore.

Non appena i loro occhi si scontrarono Mary scattò in piedi. Completamente sveglia.
Attraversata dal suo sguardo come un sottile foglio di carta è attraversato dalla luce, rivelando alla vista tutte le sue più piccole imperfezioni.
Si raddrizzò di colpo sulla schiena in una posa completamente innaturale, unendo le gambe e serrando i piedi l’uno contro l’altro, nel tentativo inconscio di occupare il minor spazio possibile, mentre le mani si aggrappavano alle braccia, quasi a tentare di sostenerle per evitare che le cadessero dalle spalle.
Terrorizzata.

Tutti i discorsi che si era ripetuta mentalmente in quelle nove ore, una volta, due volte, cento volte, seduta sul freddo gradino di quella scala, evaporarono d’improvviso dalla sua testa, dissolti dal violento riflesso di quegli occhi che ora la fissavano con sufficienza. Sdegno.

Rabbia.

 

Rimasero a lungo così.
Immobili.

L’uno di fronte all’altra.

Anche a quella distanza, anche se era quasi un metro più in basso di lei, costretto ad alzare la testa per poterla fissare negli occhi, Mary l’avvertiva chiaramente.
Lo schiacciante senso d’inferiorità che s’infiltrava in ogni muscolo al solo esistere nella sua stessa stanza.
C’era qualcosa in lui. Qualcosa d’indefinibile che si trovava in un punto imprecisato lungo il percorso tra il grigio dei suoi occhi, l’assoluta imprevedibilità dei suoi movimenti, la sua aria annoiata ed attenta e la sua mente straordinaria. Qualcosa che rendeva ogni incontro con lui molto più simile all’accostarsi di un magro pellegrino errante all’altare ricoperto d’oro di una divinità piuttosto che a un incontro tra due esponenti del genere umano.
Non era necessario essere intelligenti per capire quanto incredibile fosse la precisione, la vastità e la velocità del suo pensiero. Il suo genio era fin troppo grande per restare confinato nella sua testa, e così traboccava dagli occhi, diventando il suo sguardo.

Mary non fu capace di sostenerlo a lungo.
Abbassò presto la testa, fissando i disegni sbiaditi tracciati sulla stoffa rossa che foderava i gradini.
E maledicendo la sua stupida, stupida idea.

In quel momento non riusciva a ricordare nemmeno un solo motivo per trovarsi su quella scala.
Non una sola cosa che avessero da dirsi, o da spartire.
Ciò che avevano in comune era piuttosto la ragione per cui lei avrebbe dovuto trovarsi ovunque, tranne che lì.

Sherlock continuò a fissarla, assaporando ferocemente la sua vittoria su quella testa china e confusa.

Lei rimase immobile, aprendo e chiudendo le labbra senza emettere alcun suono.

Quando finalmente la voce uscì fu quasi un sussurro.
Appena percettibile.

 

- B… B-buongiorno.

 

Alle tre di notte.
Beh, era un inizio.

Lui non rispose.

Si mosse di scatto verso di lei.

Mary lo sentì avvicinarsi senza riuscire a sollevare il viso per guardarlo, mentre il cervello scavava in ogni angolo di se stesso alla disperata ricerca di una ragione.
Un motivo che le permettesse d’essere lì senza essere sciocca e inopportuna.

Pronunciò la prima frase che riuscì a trovare.

- Io… Io ho dimenticato una cosa importante nell’appartamento e… non sapevo come entrare per riprenderla, così-…

Lui continuò ad avanzare in silenzio.
Era a tre passi da lei. Due.
Un solo passo.

La superò passandole a fianco, senza rallentare, e si diresse spedito verso  il suo appartamento.

Lei non ebbe modo di sorprendersi. Si girò appena in tempo per vederlo raggiungere la soglia.
Sherlock esitò solo un istante prima di entrare, voltandosi a fissarla con sfacciato disprezzo, mentre spalancava la porta con una leggerissima pressione della mano, rendendo tristemente evidente quanto fosse falsa e stupida la scusa che si era appena inventata.

Poi tornò a darle le spalle ed entrò in casa, senza una parola.

- Ah!... io-…

Lei scattò in avanti, affrettandosi a seguirlo.
Pronta a scusarsi. A spiegarsi. Ad inventarsi qualsiasi altra cosa.
Pronta a…

 

SBAM

 

Qualche istante prima che potesse varcare la soglia dell’appartamento la porta si richiuse a pochi centimetri dal suo viso.
Con un gesto secco.
Deciso.

Inequivocabile.

 

Mary restò immobile di fronte a quel legno scuro, il naso a pochi centimetri di distanza, fissando le venature sottili che trasparivano appena sotto la lucida vernice.
E maledicendo se stessa.

Che diavolo ci faceva lì?

Con lentezza chiuse gli occhi e inclinò la testa in avanti, lasciando che la sua fronte si appoggiasse delicatamente su quella superficie liscia e fredda, mentre cercava dentro di sé le parole ed il coraggio.
Non ne aveva mai avuto molto nella sua vita. Ed ora che si trovava lì, eliminata ancor prima di tentare, non sapeva in che modo provare ancora.

Forse il momento di andarsene era davvero arrivato.

Ma d’un tratto le tornò in mente il volto di John.
Immobile su quella stessa soglia, con le spalle curve e il peso del mondo addosso, mentre la guardava con un sorriso triste.

E la nebbia iniziò a diradarsi.

 

- Mi dispiace.

 

Lo sussurrò a mezza voce, rivolgendosi a quella porta chiusa.

Non era per la sua squallida bugia. Né per il suo agguato.
Non per l’ora assurda, o per quello stupido buongiorno, e nemmeno per la sua sfacciataggine.

Era per qualcosa che in qualche modo aveva sempre percepito chiaramente, al di là di tutto ciò che in questi due mesi Sherlock non le aveva detto. E di tutto ciò che si era trattenuto dal fare.
Non certo per lei.

Fin dal primo momento le era apparso chiaro il suo scomodo ruolo nella vita di quell’uomo.
E più passava il tempo più prendeva forma nella sua mente.
La consapevolezza di spezzare qualcosa di perfetto.

La certezza di macchiarsi di un peccato mortale, senza poter evitare di farlo.
E contemporaneamente alla gravità del suo crimine cresceva in lei la coscienza che non avrebbe mai potuto evitare di commetterlo, senza dover pagare un prezzo troppo alto per se stessa.
Ma di fronte a quella porta chiusa, sbattutale in faccia con disprezzo e rabbia, Mary era consapevole di essere la sola ad avere qualcosa di cui scusarsi.
Qualcosa per cui dover chiedere perdono.

Questa percezione così lucida non scaturiva da una sua particolare intelligenza, o da un’astuzia fuori dal comune. Né tantomeno vi era in lei nessuna traccia di una qualche forma di pensiero deduttivo.
Si trattava semplicemente di quella capacità innata propria a tutte le creature che troppo spesso fanno del cuore il centro del loro mondo, lasciando alla ragione solo un piccolo spazio. E per questo facilmente arrivano là dove la ragione fatica ad arrampicarsi, appesantita dalla zavorra delle sue convinzioni.

Alcuni uomini lo chiamano scioccamente intuito femminile.

Mary inspirò con lentezza, lasciando che l’ossigeno penetrasse ogni fibra del suo corpo.
John la guardava ancora, fermo sulla soglia.

E d’un tratto le fu tutto chiaro.

Sollevò di scatto la testa, fissando decisa lo sguardo su quella porta chiusa.
Prese fiato ancora una volta. Con determinazione.
Poi iniziò a parlare.

- So di essere l’ultima persona al mondo che vorresti vedere oggi, ma c’è qualcosa che devo dirti.

La voce decisa, forte e delicata allo stesso tempo. Abbastanza alta da poter attraversare quel sottile strato di legno, ma non troppo sguaiata da invadere uno spazio non suo.
Posò entrambe le mani sulla porta, quasi a voler entrare in risonanza con la sua superficie e far vibrare più chiaramente le sue parole al di là di quella barriera.

- Io ti prometto…

Espirò profondamente e chiuse gli occhi.
Finalmente pronta.

- Ti prometto che avrò cura di lui.

Un tono fermo e determinato.
Come mai aveva avuto in tutta la sua vita, fino ad oggi.

- Ti prometto che farò ogni sforzo per rendere perfetta la sua vita. Lo proteggerò. Cercherò di non fargli mancare nulla e sarò sempre dalla sua parte. Non lo tradirò mai e non gli mentirò mai più. Sarò onesta con lui e cercherò di evitargli il maggior numero di dispiaceri.

Promesse sciocche. Banali. Sdolcinate.
Impossibili da mantenere.

E totalmente sincere.

- Ti prometto che farò tutto quello che posso per renderlo felice. Ma…

La voce si fermò nella gola un istante, per permettere al cuore di prendere piena coscienza di ciò che stava per sentire.

- …se lui sarà felice o meno, non dipende solo da me.

Ci volle una grande volontà.
Perché dirlo lo rendeva più reale. E faceva male.

- So quello che rischio a dirtelo. So quello che rischio se lo farai. Però ti prego…

Anche se forse avrebbe perso tutto.
Anche a costo di quel prezzo così alto che non era pronta a pagare.
Era l’unica cosa che poteva fare.

L’ultima.

- …non fingere che non t’importi.

Con tutto il coraggio che aveva.

 

- Tu devi essere sincero con lui.

 

Le ultime parole restarono nell’aria un po’ più a lungo delle altre. Pronunciate con una forza diversa, molto più vicina ad un grido soffocato.

Mary rimase ferma di fronte alla porta, captando il silenzio al di là del muro.
Probabilmente non la stava ascoltando.
Non aveva sentito una sola parola.

Adagio tornò a posare la fronte sul legno, serrando gli occhi con una contrazione dolorosa, e ripetendo quella frase con un filo di voce. Solo a se stessa.

- Devi essere sincero…

 

Accadde in un attimo.

Di colpo perse l’appoggio.
Le dita che fino a qualche istante prima premevano contro quella parete verticale si ritrovarono all’improvviso sospese nel vuoto, proiettate in avanti e pronte a trascinare con sé il resto del corpo, improvvisamente privato del suo sostegno.

Con un rapido scatto di reni riuscì a non perdere l’equilibrio, tirandosi indietro con insospettabile prontezza mentre alzava d’istinto la testa, sollevando lo sguardo oltre quella porta serrata fino ad un istante prima. Ed ora completamente spalancata.

Ebbe appena il tempo di posare gli occhi su quel volto serio, quasi rilassato, che improvvisamente si trovava ad una manciata di centimetri dal suo, tradito solo dal leggero solco che scorreva tra le sopracciglia, segnando appena la sua fronte ampia e chiara, indizio involontario e inopportuno della tensione che l’attraversava.
Una mano stretta sulla maniglia che aveva appena tirato a sé. L’altra posata sullo stipite della porta, ben piantata e tesa a sostenere la sua alta figura.
Lo sguardo fisso su di lei, inaspettatamente privo di qualsiasi espressione.

 

- Io ti odio.

 

Totalmente sincero.

Senza nessuna esitazione.

Mary trattenne il fiato, spalancando gli occhi nei suoi.
E questa volta toccò a lei dover alzare la testa per guardarlo. Pronta a ricadere nel terrore e nella confusione.
Dimenticando ogni cosa.

Ma non fu così.

Senza timore sostenne quello sguardo.
Mentre i suoi grandi occhi blu si riempivano di una dolce tristezza.

 

- Lo so.

 

La bocca si piegò in un timido e mesto sorriso, carico di tutta la compassione che aveva per se stessa, per lui, per John. E per quel lungo giorno in cui qualcosa di perfetto era andato in frantumi.

Mary Morstan sollevò il mento ancora un po’, senza distogliere gli occhi dai suoi.
Decisa a resistere.

E lui continuò a guardarla.

Osservò attentamente l’azzurro intenso delle sue iridi, sottolineato da un’impercettibile alone blu che le faceva spiccare con maggior forza sul bianco della cornea, circondata da ciglia lunghe, appena incurvate, tinte di un nero opaco e discreto.
Erano grandi quegli occhi. Quasi troppo per trovarsi sul suo viso minuto.
Non portava altro trucco se non qualche traccia di un leggero rossetto che un tempo doveva averle ricoperto le labbra sottili, ma ormai resisteva solo sul bordo più esterno a testimonianza del suo vizio di mordicchiarsi la bocca quando era nervosa, raschiando via quel rosa pallido perfettamente adatto alla sua carnagione chiara, sensibile, così facile ad arrossarsi per ogni minima emozione, tipica della popolazione anglosassone.
Gli zigomi accentuati contrastavano con la forma ovale del mento, che meglio si accordava al suo naso garbato ed al suo profilo grazioso, quasi infantile, incorniciato da un’aureola di capelli biondi e folti, faticosamente trattenuti dietro la nuca da un minuzioso lavoro di puntello, prova evidente dei grandi sforzi compiuti dalle sue piccole mani per riuscire ad acconciarli in una massa composta.
Eppure qualche boccolo sfuggiva capricciosamente all’elegante groviglio, danzando nell’aria ad ogni lieve movimento del capo, pronto a sottolinearne le movenze delicate.

Tutto era delicato in lei.
Il suo corpo esile, da ballerina, avvolto in un semplice golf beige con un ampio scollo a V, scolorito dai tanti lavaggi, che esponeva alla vista le scapole dritte e sottili, permettendo appena d’intravedere la canottiera bianca.
Le sue gambe snelle infilate in un paio di jeans attillati, che su qualsiasi altra donna sarebbero apparsi volgari ed ammiccanti, e invece si limitavano a caderle morbidamente addosso, formando mille piccole pieghe all’altezza della vita e delle ginocchia, per terminare  qualche centimetro sopra la caviglia sottile sulla quale erano ancora evidenti i segni del laccio di un’elegante calzatura, certo troppo alta per lei, che doveva averla costretta la sera prima a stringere più del necessario nel tentativo di conservare una parvenza d’equilibrio.
Le scarpe scollate, totalmente prive di tacco, consumate sul tallone e sulla suola esterna a causa della sua abitudine di camminare con il piede un po’ inclinato, quasi incerto, che le donava un’andatura leggera ed ondeggiante.
Le sue dita bianche ed affusolate, intrecciate in una posa composta all’altezza della vita, che raccontavano in ogni piega gli aspetti peggiori del suo lavoro di cameriera.

Era bella.

Non particolarmente bella.
Per niente appariscente. Né provocante. Né in alcun modo sensuale.

Ma era bella.

Straordinariamente rara nella sua semplicità.

Ed era anche intelligente se si trovava lì.
O molto stupida.

E bastarda.

 

Lui la guardava e lo capiva.

Non lo provava. Ma lo capiva.
Il tipo d’attrazione che può suscitare una creatura di quel genere.

Una giovane creatura bionda, piccola, delicata. Che a dispetto della sua apparenza fragile aveva coraggiosamente sostenuto il suo sguardo fino a quel momento, e solo ora rinunciava all’impossibile impresa, reclinando il capo con una grazia composta che tramutava quel gesto di resa in una dichiarazione di guerra.

I suoi riccioli biondi ondeggiarono lievemente attorno al collo mentre s’inclinava con dolcezza, portando adagio il viso verso il basso con un movimento morbido. Dignitoso.
Sorprendete per la sua eleganza.

E così dannatamente, sfacciatamente femminile.

Sherlock Holmes distolse lo sguardo.

Sconfitto.

Alzò gli occhi al cielo e ruotò la testa di lato.
Emettendo un lungo, profondo sospiro.

 

- Non ho nessuna speranza.

 

Le voltò le spalle e si allontanò dalla porta, avanzando a grandi passi nella sala mentre fissava lo sguardo sulla fioca luce di un lampione che attraversava le tende tirate, illuminando con il suo riverbero giallo e stanco l’appartamento altrimenti immerso nel buio.

Poi si fermò.
Esattamente al centro.

- Non posso competere con questo.

Lei sollevò adagio la testa, immergendosi in quell’ambiente scuro. Senz’aria.

Lui era proprio là.
Immobile in mezzo alla stanza. Nello stesso identico punto.
La schiena tesa e le spalle curve. Gravate di un peso che non riuscivano a sostenere.

E nonostante la corporatura slanciata, la testa nera scompigliata sopra le ampie spalle, le gambe lunghe e sottili appena divaricate, le mani abbandonate lungo il corpo, e i mille altri particolari che rendevano la sua figura totalmente differente. Sherlock le parve indistinguibile.
Esattamente uguale in ogni dettaglio.

Identico a John.

 

- Buffo. Stavo pensando la stessa cosa.

 

Mary avvertì il sussulto provocato in lui dalla sua voce, che scosse il suo profilo nella penombra.
L’osservò girarsi lentamente e tornare a fissarla.

I loro occhi si scontrarono ancora una volta. Per l’ultima battaglia.

Una battaglia triste, senza vincitori né vinti, in cui non restava altro da fare che quantificare i danni e tamponare le ferite. Rinunciando a combattere.

La guerra era finita.

E doveva ancora cominciare.

 

- Che cos’avevi dimenticato?

Colta di sorpresa da quella domanda Mary abbassò il viso a terra come per riflesso, confusa da quel tono imprevedibilmente pacato che qualcuno avrebbe persino potuto definire gentile, se non fosse stato il suo. Se non fosse stato rivolto a lei.
Se non fosse stato quel giorno.

Lentamente scosse la testa, vergognandosi in silenzio e per l’ultima volta della sua inutile bugia.

- Niente vero? Hai preso tutto.

Le labbra di Sherlock si schiusero in un sorriso triste, che Mary non potè vedere.
Poi tornò a darle le spalle, lasciando vagare lo sguardo in quella stanza buia di cui riusciva appena a distinguere i vaghi contorni.

 

- Hai preso proprio tutto.

 

Mary alzò la testa per l’ultima volta, osservando la massa scura del suo corpo, scolpito dalla luce radente che ne disegnava il profilo, stagliando la sua figura nell’oscurità vuota e priva di forme che lo circondava, pronta a schiacciarlo sotto il suo peso soffocante.

No.
Mancava ancora una cosa.

La più importante.

 

- Perdonami.

 

Lui non si voltò.

Rimase immobile nel buio, ascoltando il suo respiro.

La sentì indietreggiare lentamente. Attraversare il pianerottolo con passo malfermo.
Scendere i primi gradini con lenta riluttanza.
Uno ad uno.
Trattenendo il rumore dei suoi passi leggeri.

Avanzare ancora.
Con cautela.

Poi più in fretta.
Sempre più in fretta.

Troppo veloce.
Rischiando di cadere.
Inciampare.
Serrare la tre dita il mancorrente per tenersi in piedi.

Rialzarsi.
E cominciare a correre.

Giù per le scale. Senza fiato.
Attraversare l’ingresso.

Raggiungere il portone.
Afferrare la maniglia.
Tirarla con forza.

Uscire in strada.

E respirare.

 

Senza voltarsi indietro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Quale scemo ha osato dire che scrivendo fanfic non ti fai una cultura?
Prima di titolare questo capitolo non avevo idea che esistessero due modi di scrivere ‘grigio’ nella lingua inglese, e che uno fosse più inglese e l’altro più americano. Mi limitavo a considerare ‘gray’ il colore e ‘Grey’ un cognome…
E invece no. In inghilterra il grigio è proprio grey, non gray.
Quindi non venite a dirmi che ho sbagliato a scrivere il titolo (ma figuriamoci... appena io potevo non saperlo). È proprio Grey VS Blue, cioè Grigio contro Azzurro, cioè… Ve lo devo spiegare? Nah.
Mica siete rintronate/i come Watson.

2. In questo secondo capitolo posso chiarire una cosa che avrei dovuto dire nel primo, ma non potevo specificare finché Sherlock non fosse entrato in scena, completando la struttura del racconto.
Qualcuno di voi forse si era chiesto, leggendo il primo cap, come mai non mi fossi sprecata per niente a descrivere le sensazioni di John che lascia la casa in cui ha vissuto con Holmes per ben otto anni della sua vita, per andare a vivere con Mary.
Troppa fatica? Troppi compiti a casa? Troppi capitoli necessari per lo sviluppo della tematica?
No. In realtà è stata una scelta precisa, non una sfatica o una dimenticanza.
Ho deciso volontariamente di raccontare Watson solo dall’esterno, lasciando appena intravedere i suoi sentimenti sotto la superficie delle sue azioni, perché in questa storia non è il soggetto della vicenda, bensì il suo oggetto.
Più precisamente l’oggetto del contendere.
La chiave di volta di questo racconto sta proprio nell’indeterminatezza della posizione di Watson, che si trova in un punto imprecisato lungo la strada trafficata che separa, sia fisicamente che emotivamente, Holmes dalla Morstan.
Per questo motivo per ora è stato sempre e solo visto da fuori, attraverso gli occhi degli altri. L’intento era quello di mostrarlo esattamente come lo vedono i due ‘rivali,’ immedesimando il più possibile chi legge nella condizione di Mary e Sherlock, che credono di capire, pensano d’intuire, ritengono di conoscere, ma in realtà non possono sapere con certezza cosa passi per la testa e per il cuore di Watson.
Esattamente come loro, anche il lettore può solo provare ad intuire dall’esterno cosa prova John e da quale parte sia orientata la sua preferenza. Sempre che ne abbia una.
Questo è importante per l’equilibrio della storia, perché entrare nel merito, trasformando l’oggetto in soggetto, sbilancerebbe la struttura e muoverebbe troppo presto l’ago della bilancia.

3. La descrizione fisica di Mary vista attraverso gli occhi di Holmes è inventata da me in quasi ogni sua parte, com’è ovvio che sia visto il diverso contesto storico/culturale. Ma nonostante la necessità di reinventare praticamente da capo il personaggio ho ripreso quasi alla lettera una parte della descrizione che fa di lei Watson la prima volta che la vede. Per essere precisi ho ‘trasferito’ nella mia descrizione questa frase: «She was a blonde young lady, small, dainty […]» trasformandola in: «Una giovane creatura, bionda, piccola, delicata.»
L’ho fatto per sottolineare che alla fine sia John che Sherlock, seppur da punti di vista e sensazioni direi opposte tra loro, vedono alla fine la stessa cosa, in ogni epoca ed in ogni contesto.

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Capitolo 3
*** I am Brain ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

I am Brain

 

 

Forse avrebbe dovuto chiamarle un taxi.

Alle tre di notte non era certo facile trovare una vettura libera in giro per Londra, ed era sicuro di non aver notato nel raggio di duecento metri la presenza di quel vecchio maggiolino dai sedili logori di un terribile color ruggine così bisognoso quantomeno di un cambio dell’olio e di una revisione ai freni, se non di una doverosa rottamazione.

Quindi era a piedi.
Non aveva un mezzo per poter rientrare a casa sua.

A casa loro.

Pazienza.
Aveva il cellulare dopotutto.

Di lì a poco si sarebbe calmata, avrebbe smesso di correre come un’imbecille in mezzo alla strada, e se lo sarebbe chiamata da sola, il taxi.

E comunque ormai era troppo tardi.

Sherlock Holmes alzò lo sguardo sulle tende tirate di fronte alle finestre del suo appartamento, ascoltando il ritmo sconnesso dei passi di Mary Morstan che si allontanavano rapidamente lungo Baker Street, incerti come quelli di un sonnambulo frettoloso, pronto ad impattare contro il primo ostacolo che gli si fosse parato davanti.

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L’allarme antifurto della macchina maldestramente urtata nella corsa lanciò nell’aria il suo grido d’aiuto inascoltato, coprendo ogni altro rumore.

Sì, era troppo tardi.

Lui abbassò gli occhi a terra, ricacciato con violenza all’interno dell’appartamento da quel suono irritante che lo rendeva sordo e cieco, escludendolo totalmente da qualsiasi cosa stesse succedendo là fuori, nel resto del mondo.
Il suo sguardo restò fisso sul pavimento, evitando accuratamente di spostarsi su qualsiasi forma che emergesse dalla penombra, e concentrandosi soltanto su quell’ululato assordante che ad ogni secondo sembrava crescere di tono e d’intensità, gridando sempre più forte, e salendo sempre più in alto, fino ad infiltrare nel petto l’insopportabile urgenza di fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.

Per farlo smettere.

Di colpo scosse le spalle per scacciare la fastidiosa sensazione d’ansia che quel suono  gli metteva addosso.
Alzò la testa con uno scatto improvviso e si mosse agilmente nel buio, del tutto consapevole dello spazio che lo circondava, dirigendosi a grandi passi verso l’interruttore della luce.
Allungò la mano senza esitazione, protendendosi in avanti con un gesto rapido, insolitamente frettoloso, che proprio per questo mancò il suo obiettivo per un soffio, portandolo qualche centimetro troppo a sinistra.
Quasi sorprese dall’errore commesso le dita si spostarono con sorprendente rapidità, riguadagnando il terreno perduto ed andando a catturare con soddisfazione il pulsante grazie ad un uso sapiente del tatto.

L’indice sentiva già cedere il bottone sotto il polpastrello quando l’urlo cessò di colpo.
Così com’era iniziato.

E la stanza piombò improvvisamente nel più completo silenzio.

Quasi fosse stata mossa da quel rumore e da null’altro la mano di Holmes si bloccò a sua volta, incapace di esercitare la pressione necessaria a far scattare il contatto.
Tutto il suo corpo s’irrigidì per qualche istante, mentre il respiro trattenuto a lungo nei polmoni trovava la via d’uscita, liberandosi in un soffio leggero, e il braccio si staccava con lentezza dal muro, ricadendo morbidamente lungo il fianco.

Non appena le sue dita furono lontane dall’interruttore tutto il suo corpo si rilassò, liberato da quell’impercettibile stato di tensione che lo aveva accompagnato in ogni suo passo verso la parete.
E Sherlock si ritrovò a fissare l’oscurità quasi perfetta che lo circondava.

Sollevato.

 

Non voleva proprio accenderla quella luce.

Fino a quel momento aveva astutamente tergiversato, ma nell’istante in cui la sua mano aveva sfiorato il pulsante era stato costretto ad ammetterlo.

Era entrato in fretta e furia sbattendo la porta, restando immobile con le spalle premute contro quell’uscio chiuso a sopportare discorsi sconclusionati.
Al buio.

Non c’era alcun bisogno di accendere la luce per sentire quelle sciocchezze.
Bastava chiudere gli occhi e rovesciare la testa all’indietro, ascoltando quella voce timida e determinata che filtrava attraverso il legno, a pochi centimetri dalla sua schiena.

E non serviva accendere la luce per ritrovare la maniglia e spalancare nuovamente la porta.

Anzi doveva ringraziare la sua brillante idea di tenerla spenta se lei era rimasta sulla soglia, senza avere il coraggio di entrare, respinta da quelle tenebre ostili che avvolgevano lui e tutto ciò che lo circondava in una massa sfocata e indistinta.

Ma adesso non aveva più scuse.

Ora ch’era rimasto solo, nella quiete più assoluta, senza nessun testimone e nessuna valida ragione.
Doveva ammetterlo.

Che non voleva guardare.

I suoi occhi si dilatarono nell’oscurità, nutrendosi di quel buio rassicurante che copriva ogni cosa, nascondendo alla vista tutte le forme e risparmiandogli la fatica di arginare ancora una volta quella nuova, indefinibile sensazione d’insofferenza che provava entrando lì dentro.
Da circa dieci giorni.

C’era un fastidio, come un formicolio nel suo stomaco, o nel suo sterno, o forse in mezzo alle sue costole, che  lo perseguitava da allora.
Un disturbo seccante, che lo irritava al punto da suscitare in lui l’incontrollabile impulso di saltar giù dal letto alle sei di mattina e scappare fuori, per strada, iniziando a girovagare lungo le vie di Londra alla ricerca del miglior punto d’osservazione per scannerizzare ogni esemplare di razza umana che attraversava ignaro il suo campo visivo, rivelando al suo sguardo attento ogni più piccolo particolare della sua banale esistenza.

Non era stato difficile per lui individuare il luogo perfetto.

Comodamente appoggiato sugli ampi gradini della fontana di bronzo che dominava la piazza, stagliando nel cielo il suo angelo con le ali spiegate, Holmes sedeva immobile al centro di Piccadilly Circus, ed osservava per ore l’umanità nelle sue infinite varianti.

Un flusso incessante che non si arrestava mai.
La gente spuntava da ogni angolo, camminava, rallentava, aspettava, chiacchierava, attraversava, entrava ed usciva senza sosta, ad ogni ora del giorno e della notte, animando lo spazio di mille voci e rumori.

Qualcuno procedeva a testa bassa, fissando il suolo ed avanzando in linea retta. Altri si muovevano a coppie o in gruppo, più lentamente, interagendo tra loro con un tono ed un volume spesso incuranti di raggiungere orecchie alle quali non erano destinati.
Quasi nessuno faceva caso a ciò che lo circondava. Ognuno attraversava la vita immerso nel suo mondo, passando accanto a quello degli altri stando ben attento a rispettare una rigorosa quanto convenzionale distanza di sicurezza.

Ma quella distanza non contava nulla per Holmes.
Lui penetrava così facilmente la scorza sottile di quei mondi da sentirsi quasi aggredito dalle mille esistenze che gli scorrevano davanti, balzando con prepotenza all’occhio della sua mente.

Immerso in quella folla di colori e parole posava lo sguardo ora su uno ora sull’altro individuo che transitava alla portata del suo sguardo, delineando la sua natura con pungente precisione.

Un impiegato di banca col vizio del gioco sostava a fianco di una quattordicenne iperattiva che ostentava il suo pessimo rapporto con la madre dondolando la testa al ritmo della musica sparata direttamente sui suoi timpani da due microscopici auricolari.
Una coppia di turisti italiani sfogava le sue frustrazioni matrimoniali sulla cartina di Londra che tentava di ripiegare goffamente, lanciando a turno occhiate di disgusto al caffè americano sorseggiato dal loro occasionale vicino di marciapiede, intento a comporre con una mano sola un messaggio di scuse per il netto ritardo ad una delle sue quattro fidanzate.
L’infelice madre di tre gemelli malediceva il giorno in cui aveva varcato la soglia di quella clinica di fecondazione artificiale, mescolando con malcelata frustrazione tre porzioni di latte in polvere dentro un thermos ricoperto di fiori e farfalle.
Un gruppo eterogeneo e chiassoso di adolescenti  eccitati sedeva al suo fianco, agitandosi nel tentativo di smaltire l’adrenalina residua dopo la fuga da scuola, mentre la femmina alfa, fasciata in una corta minigonna rossa, parlava con voce squillante e  sguaiata di compiti in classe e d’amore.

Niente di tutto questo era realmente interessante.
Ma il semplice processo d’elaborazione era sufficiente a raggiungere il suo obiettivo.

Qualsiasi cosa andava bene pur di mantenere in attività il cervello.
Un numero di giri non certo esaltante, ma sufficiente a tenere acceso il motore e impedire che si spegnesse, smettendo di pensare.

Ed iniziando a provare.

 

Sherlock ascolta… io e Mary…

 

Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.

Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

Era un’emersione lenta e faticosa, perché non esisteva probabilmente sull’intero pianeta un intreccio di fili così tesi e robusti come quelli che imprigionavano e delimitavano il suo cervello, proteggendolo da tutto ciò che non cadeva sotto il suo diretto controllo, e finendo per schiacciare ogni intruso molesto contro le pareti del cranio, senza lasciargli alcuno spazio vitale.

Solo così la macchina era perfetta.

Ed era davvero perfetta.

Non c’era niente che potesse deviare, danneggiare o rallentare i processi della mente. Tutto poteva essere calcolato con feroce precisione, lasciando all’errore un intervallo talmente esiguo da potersi circoscrivere nell’ordine di cifre infinitesimali.

Nessun fastidioso granello di sabbia s’incastrava nel meccanismo, impedendo la sua naturale e rapidissima rotazione.

Nessuna interferenza era possibile.

 

…avremmo deciso di andare a vivere insieme, quindi…

 

Scontato.

Dal primo momento in cui Watson aveva appoggiato gli occhi su quella testa bionda e quelle iridi azzurre lo aveva capito con una chiarezza disarmante.
Che sarebbe andata a finire così.

La parte razionale di Sherlock, che poi era la quasi totalità di lui, si era anche fermata ad osservare il bizzarro fenomeno con occhio scientifico.
Sudorazione eccessiva, respiro affannoso, comportamenti idioti, alterazione del sonno e dell’appetito.
Una quantità incalcolabile di sospiri.

Questo era quello che la gente definiva un colpo di fulmine, probabilmente.

Il soffocante senso di fastidio che aveva provato osservandoli. Quello non era stato preso in considerazione.
Non rientrava nei parametri e non contribuiva in nessun modo alla comprensione dell’evento.
Semmai costituiva un noioso effetto collaterale, da stritolare con forza tra le ganasce della logica.

Eppure, nonostante tutto l’autocontrollo di cui era capace, che definire totale era oltremodo riduttivo,
vedere lo sguardo di John fisso fuori dalla finestra, incollato sulla figura esile che si allontanava a passo rapido e leggero lungo il marciapiede, aveva provocato in lui una sensazione impossibile da decifrare con i soli dati in suo possesso, che vista da un occhio esterno ed obiettivo sarebbe risultata spaventosamente simile al terrore.

Da allora aspettava solo il giorno in cui lo avrebbe detto.

 

…mi trasferirò tra dieci giorni.

 

E quel giorno era arrivato.

Esattamente come aveva previsto.
Tutto secondo copione. Noioso come la stragrande maggioranza degli eventi che caratterizzano la normale vita di un normale essere umano. Prevedibile in ogni sua parte.

Ma quel seccante formicolio no.
Non l’aveva messo nel conto.

Era qualcosa d’inatteso, che si agitava dentro di lui ignorando uno dopo l’altro i severi avvertimenti della ragione.

Non sapeva cosa fosse. E stranamente non voleva saperlo.
Lo sentiva emergere da un luogo a lui sconosciuto all’interno di se stesso, aggirando con astuzia le fitte e robuste difese che lo separavano dalla coscienza.
Ed ogni volta si avvicinava un po’ di più, costringendolo a moltiplicare i suoi sforzi per ricacciarlo indietro.
Là da dove era venuto.

Ma poi la sera tornava a casa e sentiva ancora il suo odore. Vedeva le sue cose sparse in giro. La sua giacca buttata sulla poltrona e le stoviglie ancora sporche nel lavandino. Il computer acceso sulla sua pagina web. L’eco dei suoi passi al piano di sopra.

Avvertiva la sua presenza.

E aspettava il giorno in cui sarebbe entrato lì dentro e non l’avrebbe più sentita.

Scoprendosi incapace di guardare.

 

John si alzava la mattina all’alba per cercare d’incontrarlo. Di parlargli.
Tentava di bloccarlo sulla porta con gli occhi impastati dal sonno e la voce rauca, soffocata dagli umori della notte ancora incastrati nella gola.

Ma Sherlock gli sfuggiva ogni volta.
Scivolava fuori dalla sua stanza con un balzo lesto ed inquieto, attraversava a grandi passi la cucina e spariva giù per le scale senza lasciargli il tempo di aprire bocca, per poi sgattaiolare a notte fonda attraverso l’ingresso con la medesima rapidità, tornando a chiudersi in camera. Sordo ad ogni richiamo.

Non voleva incontrarlo.
Non voleva parlargli.
Non voleva sentire la sua voce.

Quella voce incerta, sfrontatamente velata di dolore, che urtava con un gesto spietato e inatteso le pareti della psiche, allentando lo spazio tra un filo e l’altro ed aprendo la strada all’avanzata del nemico.

Una voce dalla quale era necessario stare lontani.
Per difendersi.
Per non perdere posizioni. Per mantenere l’equilibrio.

Per poter conservare il controllo.

 

… Non scappare! Volevo chiederti… Hai bisogno che ti trovi un altro coinquilino?…

 

Oh sì.
Gli sarebbe mancata la straordinaria idiozia delle sue domande.
Quella sua rara dote di non capire mai un accidente di niente, anche quando la soluzione era ignobilmente ovvia.

 

               E allora vai via.
                             Vattene.

 

Sherlock... aspetta!

 

                            No.

                                    VATTENE.

                 Fa’ quello che hai deciso di fare.

            Non temporeggiare ancora.
                             Esci da questa maledetta casa e poi fine a questa atroce agonia.

 

Oggi.
Dopo dieci lunghi giorni. E dieci brevissime notti.
Quell’insopportabile attesa era finita.

La creatura bionda che l’attendeva accucciata sul pianerottolo ne costituiva la prova più evidente e sfacciata.

Se n’era andato.

Non c’era più traccia di lui.

E Sherlock Holmes invece era esattamente là, nell'ultimo posto al mondo in cui avrebbe voluto essere, fermo di fronte alla parete di quella stanza buia, con lo sguardo fisso sul pavimento e le pupille dilatate che iniziavano lentamente ad abituarsi alla penombra.
Incapace di alzare gli occhi.

Non voleva proprio guardarla, quella stanza traboccante di cose.
Eppure completamente vuota.

Restava immobile con la testa china, le braccia distese lungo i fianchi e le spalle curve. Inghiottito da qualcosa che per quei dieci giorni era riuscito in qualche modo a tenere a bada, e che ormai non era più in grado di dominare.

Qualcosa a cui si rifiutava di dare un nome.

Perché forse non l’aveva.
E se l’aveva. Beh.

Lui non voleva saperlo.

 

Ma gli argini erano rotti.
Il cervello girava a vuoto improvvisamente privo di qualsiasi appiglio, come una potente macchina da corsa che squarcia l’aria col suo rombo assordante, alzando i giri del motore fino a diffondere intorno a sé un acre odore di bruciato, senza aver ingranato alcuna marcia.
E mentre quel fragore infernale continuava a crescere all’interno delle sue orecchie, un familiare senso d’oppressione affiorò a tradimento in mezzo al petto, per la prima volta completamente slegato dal suo incessante bisogno di mantenere sotto sforzo la sua mostruosa corteccia cerebrale.

Era sempre lui.
Quel consueto ed insopportabile senso di vuoto che lo assaliva quando la noia sotterrava la sua esistenza sotto la cappa grigia e pesante dell’inerzia. Sempre con la stessa ferocia, e la stessa impeccabile puntualità.
Identico ogni volta.

Ma non quella volta.

Era lo stesso vuoto. E non lo era.
Come se avesse le medesime dimensioni ma si trovasse in un’altra parte del corpo, molto lontano dal cervello.
Eppure agiva allo stesso modo, provocando in lui la medesima urgenza di riempirlo.
A qualunque costo.

Non si era mai sentito così. E si era sempre sentito così.
Sopraffatto da quella sensazione antica eppure del tutto nuova, che per la prima volta non sapeva controllare.
Ed alla quale non c’era rimedio.

O forse sì.

 

Sherlock alzò di scatto la testa, come risvegliandosi da un lungo sonno.

I suoi occhi si mossero rapidamente nel buio, ormai del tutto assuefatti alla penombra, avventurandosi senza timore in mezzo alla stanza ed iniziando ad esplorare con minuzia ogni superficie.
La luce pallida che filtrava attraverso le finestre era ormai più che sufficiente alle sue pupille dilatate per distinguere le forme che sfilavano sotto il suo sguardo attento, impegnato nella ricerca di un oggetto preciso tra i mille che si affollavano in ogni angolo della stanza, tutti indistintamente grigi.

Prima d’ogni altra cosa guardò sul caminetto.
Era lì che lo teneva di solito, incastrato tra il muro e quella lugubre statuetta nera. Ma la sagoma inconfondibile del suo violino torreggiava trionfante sui resti dell’antico reperto, schiacciandolo senza pietà con la sua massa ingombrante che resisteva sospesa da giorni in quel precario equilibrio.
La mascella s’irrigidì mentre lo sguardo correva lungo lo sbalzo in pietra, constatando con malcelata stizza l’assenza di ciò che stava cercando tra gli oggetti appoggiati confusamente su quel bordo sottile.
La sua attenzione si spostò rapidamente sulla poltrona nera, esplorando tra i cuscini per scovare un rigonfiamento sospetto o anche solo un segno della presenza di un intruso scivolato inavvertitamente tra le cuciture.
Ma non riuscì a vedere niente.

Scrollò il capo con impazienza, distogliendo lo sguardo.

Da qualche parte nel suo cervello un’eco lontana cercava di ricordargli quanto fosse scarsamente logico e razionale tentare di trovare qualcosa in una stanza completamente immersa nel buio.

 

Ma l’opzione di accendere la luce non era contemplata.

 

Con un movimenti secco del collo ruotò la testa verso la finestra, tentando di scorgere quella forma conosciuta tra i mucchi di fogli e libri che affollavano la scrivania, formando una barriera di carta impenetrabile alla vista.

Niente.

Allora girò su se stesso, serrando le gambe tra loro con uno scatto deciso, e fissando la sagoma scura del divano nel tentativo d’individuare qualcos’altro sulla sua superficie oltre il cellulare e il giaccone nero buttato di traverso sul bracciolo.

Niente.

Lo sguardo passò sul tavolino. Ricoperto di cartacce e vestiti.

Niente.

Sul mobile accanto alla porta.

Niente.

Si allungò persino sul tavolo della cucina, per non lasciare nulla d’intentato.

Niente.

 

Lui e la sua fottutissima mania di spostargli le cose.

Dove cazzo aveva messo il suo astuccio in pelle?

 

Di colpo fece un passo in avanti.
Afferrò il vecchio cuscino con la bandiera britannica e la coperta grigia posati sulla poltrona al suo fianco e li sollevò verso l’alto con un gesto nervoso.
Restò immobile per qualche istante, con le braccia alzate e le dita strette su quella stoffa ruvida, fissando con sguardo vitreo il sedile vuoto sotto di lui.

Niente neanche lì.

 

Poi accadde tutto velocemente.
In una manciata d’istanti.

Si mosse senza preavviso. Mostrando una velocità di cui non sapeva d’essere capace.
Abbassò bruscamente le braccia e gettò tutto a terra. Con rabbia.
                                                                                                           Stonf

Con la stessa rabbia avanzò verso la libreria, affondando le mani tra un volume e l’altro e tirandoli fuori dagli scaffali a gruppi di cinque o sei con uno strattone rapido e brutale, lasciandoli cadere a terra con un tonfo sordo.
                                                  SbaM              ThUd
                                                                             ThuMp

Uno scarto di lato.
E un brusco manrovescio sulla pila interminabile di libri che giaceva in equilibrio precario sul tavolino laterale, che rovinò a terra disperdendo il suo pesante ed instabile fardello di fronte al camino con un orribile fracasso.

                                                                                  CRASH

Il respiro accelerato. Affannoso.
I pugni chiusi, le unghie conficcate nella carne,  le labbra serrate, deformate dalla collera.
Si voltò con un movimento sguaiato ed impetuoso, talmente esasperato da fargli quasi perdere l’equilibrio, e si diresse a grandi passi verso la scrivania, calpestando senza esitazione i volumi rovesciati a terra sotto di lui.
Con rabbia.

                                      SBAM

Entrambe le mani, a palmo aperto. Sbattute sul tavolo e poi infilate tra i fogli e le carte. Alzando, spostando, accartocciando. Freneticamente. Senza controllo.
Su e giù in mezzo a quello scompiglio.

Con rabbia.

Non c’era.
Non era neanche lì.

Non era da nessuna parte.

 

Poi scattò.
Di colpo in avanti.
Il busto allungato sul tavolo. Le spalle in rotazione ed i piedi divaricati, inchiodati a terra per sostenere meglio l’impatto.

Con un gesto di sorprendente violenza spazzò via tutto quello che si trovava sul piano di legno, rovesciandolo a terra con un ampio e furioso movimento delle braccia, mentre dalla sua gola usciva il rantolo soffocato e feroce di una belva ferita.

- grrraaaaaaAAAAHH!

La massa informe e pesante degli oggetti che ingombravano la scrivania, i libri, i bicchieri, le penne, il computer, la lampada, le provette, tutto si sparse ai suoi piedi, impattando al suolo con uno schianto assordante.
E i fogli volarono per aria, avvolgendolo in un caos bianco ed impazzito, che volteggiò attorno alla sua testa disegnando nell’aria infiniti movimenti bizzarri, per poi ricadere lentamente verso il basso, sparpagliandosi alla rinfusa sul pavimento. Accanto ai pezzi del suo cuore.

                                             CRASH

 

Ora davvero non l’aveva più.

 

Con un calcio spietato scaraventò ciò che restava del computer portatile verso la finestra, guardandolo infrangersi contro la parete e precipitare a terra, sbriciolato in mille minuscoli frammenti.
                                                                                                   cRacK

Indietreggiò a tentoni. Barcollando.

Si voltò di scatto ed iniziò a percorrere la stanza a grandi passi.
La bocca spalancata ingurgitava aria con un ritmo secco ed irregolare. Le braccia distese e le lunghe dita ripiegate come artigli roteavano disordinatamente per conservare l’equilibrio del corpo durante i suoi movimenti scomposti.

Girava in tondo come una bestia in gabbia.
Ruotando la testa da ogni lato, mentre gli occhi dilatati si aggiravano a casaccio nel buio, contemplando senza vederlo quel macello di oggetti rotti e sparsi a terra per tutto l’appartamento.
Totalmente fuori controllo.

 

D’improvviso ci fu un lampo.

Una luce intensa attraversò il suo cervello. Abbagliandolo.
E Sherlock Holmes si bloccò.

Al centro esatto della stanza.

Chiuse gli occhi.
Reso cieco da quel bagliore.
Le membra si rilassarono di colpo e le mani ricaddero lungo i fianchi, come private della loro energia. Mentre una voce delicata ma ferma emergeva dalla memoria, ricordandogli cosa doveva fare.

Con un balzo fulmineo saltò sul tavolino di fronte al divano.
Atterrò nel piccolo spazio che lo separava dal sedile e si chinò in avanti.
In un attimo le dita si strinsero intorno al cellulare abbandonato tra i cuscini, sollevandolo e portandolo rapidamente all’altezza del volto.

Lo spesso strato di polvere che lo ricopriva splendeva in controluce con un riflesso iridescente.

Di scatto portò l’apparecchio vicino alle labbra.

                                    ffffffffffhhhhh

Con un soffio deciso spazzò via dalla superficie lucida la patina del tempo, liberando una piccola nube di pulviscolo che si disperse nell’aria danzando intorno al suo viso.
Un lesto sfregamento contro il bavero della giacca terminò l’operazione di pulizia.

Il suo pollice scattò nervosamente sul tasto d’accensione, sorpreso e irritato di non ricevere alcun segno di vita dall’apparecchio schiacciato contro il palmo della mano, stretto tra le dita ben più del necessario.

Non  si accendeva.

Certo che non si accendeva.
Era buttato lì da dieci giorni, la batteria doveva essersi scaricata una settimana fa.

Il caricatore.

Lo aveva intravisto rovinare a terra assieme al resto della scrivania.

Con un altro balzo fu sul pavimento. Inginocchiato tra le carte ed i vetri.
La mano libera afferrò il lungo filo nero che spuntava sotto la lampada frantumata, tirandolo con forza verso l’alto e liberando la matassa ingarbugliata dalla sua prigione di macerie.

Trovato.

Scattò in piedi.
Il telefono in una mano e il caricatore nell’altra, guardandosi intorno alla ricerca di una presa.

Non riusciva a ricordare dove fosse.
In cucina forse.

O sotto la scrivania.

Era difficile persino per lui.
Anzi.

Era difficile soprattutto per lui concentrarsi in quello stato d’agitazione, dopo dieci giorni che dormiva tre ore a notte e mangiava a stento. Come un perfetto idiota.
Con un gesto goffo si asciugò il sudore dalla fronte, tentando senza successo di controllare i sospiri affannosi che uscivano ininterrottamente dalle sue labbra, uno dietro l’altro.

Alla fine la vide. Nonostante il buio.
Bianca e sporca, occupata da un’antica quanto inutile ciabatta, a pochi centimetri di distanza dal caminetto.

In un paio di falcate fu di fronte al muro.

Sradicare l’inutile prolunga ed inserire l’alimentatore nella presa fu semplice.
Non lo fu altrettanto riuscire ad infilare la minuscola spina dell’alimentazione nella presa del telefono.

Le dita malferme e frementi si stringevano attorno al cavo, incapaci di fissare lo spinotto.
E lui non riusciva a far altro che sbattere ripetutamente il piccolo spuntone metallico contro la scorza di plastica attorno al minuscolo foro, ricoprendola di segni e graffi.
Come un ubriaco.

Si bloccò all’improvviso, abbassando le braccia.
Chiuse gli occhi. Inspirò a fondo.

 

Calma.

 

Espirò.
Li riaprì.
E provò di nuovo.
Con mani finalmente salde.

Entrò al primo colpo.

Aveva ragione.
Come sempre del resto.

Non c’era davvero niente che potesse alterare in modo così devastante le facoltà mentali come l’emozione.

 

Il telefono si accese subito.
Holmes osservò con impazienza lo schermo illuminarsi e mostrare il suo inutile messaggio di benvenuto.
Si abbassò di scatto sulla poltrona nera. Sedendo sul bordo.
Le gambe piegate sotto il corpo, il busto proteso in avanti ed entrambe le mani aggrappate al cellulare.

Menu principale.
Messaggi.
Componi messaggio.

Iniziò a digitare con una rapidità impressionante.
Le sue agili dita battevano freneticamente sulla superficie del telefono, spostandosi da un tasto all’altro con un ritmo precipitoso, accompagnato dagli scatti ugualmente rapidi dei suoi occhi.

                          Tic tIc tiC tic TIc tIC TIC tIc Tic tic tIC TiC Tic tIc

Il chiarore intenso sprigionato dal piccolo schermo illuminava il suo viso assorto e concentrato con una delicata luce bianca, stagliando il suo profilo nella penombra.

Compose il messaggio tutto d’un fiato.
Senza fermarsi un istante.

Trattenendo il respiro dalla prima all’ultima lettera.

 

Fatto.

 

Sullo schermo comparve il tasto invio.

E di colpo tutta l’aria trattenuta nei polmoni venne espulsa fuori con violenza.
Assieme alla tensione.
Al caos.
Alla follia.

Ed alla rabbia.

Sherlock Holmes si raddrizzò sulla poltrona.
Restando immobile nel buio. Circondato dalle rovine del suo mondo sparpagliate per tutta la stanza.
Lo sguardo fisso su quello schermo bianco. Il volto privo di qualsiasi espressione. Le labbra dischiuse ed il respiro leggermente accelerato, ma profondo e regolare.

Le pupille contratte, ferite dal bagliore che s’irradiava dalle sue mani avvolte attorno al vetro ed alla plastica, scosse da un tremito impercettibile.

Il pollice si sollevò lentamente, fermandosi a qualche millimetro da quel tasto.
Senza riuscire a premerlo.

Il cervello gli comandava di muoversi. Ma lui non obbediva.

 

Continuava a fissare quelle lettere nere incise nella luce.

 

Che scintillavano debolmente.

                                     Davanti ai suoi occhi.

 

 

A friend told me to be honest with you.
So… here it goes.
I'm thankful for every day of these years spent with you.
For everything we shared. Every chance I had to grow.
I'll keep the best of them with me wherever you will go.
This isn't what I want, but I'll take the high road.
Maybe it's because I don't want to walk around angry.
Or maybe it's because I finally understand.

There are things we don't want to happen, but have to accept.
Things we don't want to know, but have to learn.

And people we can't live without,

 

but have to let go.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Sono quasi del tutto certa che esista in questa sezione un’altra fic intitolata I am brain.
Ricordo benissimo di averla vista, ma purtroppo quando sono andata a ricercarla non l’ho più trovata…
In ogni caso mi scuso con l’autrice per aver bissato la sua idea. >< Ho tentato in tutti i modi di pensare ad un titolo diverso che rendesse altrettanto bene, ma non sono riuscita a scovare niente di nemmeno lontanamente efficace come questa frase, che di per se stessa rappresenta un po’ il sunto estremo degli intenti di Arthur Conan Doyle riguardo il suo personaggio.
Per quel che ricordo dell’altra fic la frase era usata nel suo reale ed originale significato, mentre nel mio caso è usata per contrasto, quindi spero di non aver ‘sovrapposto’ troppo le due idee.
Anyway!
I am brain è l’estratto di una frase di Holmes («I am brain, Watson. The rest of me is a mere appendix») tratta dal breve racconto The Mazarin Stone, uno degli unici due testi di Doyle raccontato in terza persona e non direttamente dal dottore, perché progettato per il teatro, per il quale sarà poi realmente adattato con il titolo The Crown Diamond: An Evening With Mr Sherlock Holmes.
La scelta spero sia chiara.
Il ‘contrasto’ di cui parlavo qualche riga sopra consiste nel fatto che il titolo identifica Holmes con il suo cervello attraverso la definizione che lui dà di se stesso, mentre il capitolo parla in realtà di quel ‘resto’ che cervello non è, che nel titolo non c’è, ma che in lui esiste nonostante tutto. E che qualche volta –qualche rara, rarissima volta- smette di essere una mera appendice.
Di fatto questo è un tentativo di mettere Holmes alle prese con il suo lato irrazionale.
Lo so è stato un tentativo quantomeno temerario… **;;  Anche perché questo suo ‘lato’ è per lo più inesistente…
Ma proprio perché salta fuori così raramente ho notato che riesce a coglierlo del tutto impreparato le poche volte che emerge dagli abissi dell’ipotalamo.
Nel caso specifico della mia fic proprio l’essere cervello di Sherlock gl’impedisce di contestualizzare correttamente le emozioni, al punto da farlo soccombere goffamente al suo NON essere solo cervello ma uomo dotato di tutta una serie di altri organi annessi, che a suo modo si scopre geloso, arrabbiato, abbandonato, e…

2. Scommetto che in questo preciso momento starete pensando: Ma guarda questa furbetta che si schernisce dicendo che non sa l’inglese di qui e non lo capisce di là, e poi ti tira fuori questo popò di messaggino semi poetico…
Vi avverto da ora e per sempre… se vedete un bel testo inglese con frasi lunghe e compiute nelle mie fic, state sicure/i al 100% che è una citazione letterale o quasi di un testo già esistente.
In questo caso il messaggio di Holmes è la trasposizione leggermente rimaneggiata (segnalare eventuali errori pliz) del finale dell’epi 02 della sesta stagione di Criminal Minds, in onda attualmente su FOXCRIME.
Essendo la serie ancora inedita dalla tv in chiaro italiana non specifico niente per evitare spoiler importanti. Chi l’ha già vista riconoscerà sicuramente la scena ed il contesto.
Vi metto qui di seguito la mia personale traduzione, che per inciso in certi punti è piuttosto differente dall’adattamento italiano, il quale come al solito se ne va abbastanza per i casi suoi rispetto al testo originale.

 Un’amica mi ha detto di essere sincero con te.
Quindi… ecco qua.
Sono grato per ogni giorno di questi anni che ho trascorso assieme a te.
 Per tutto quello che abbiamo condiviso. Tutte le occasioni che ho avuto di crescere.
Terrò con me tutti i ricordi migliori ovunque tu andrai.
Questo non è ciò che voglio, ma mi comporterò da persona corretta.
Forse perché non voglio consumarmi nella rabbia.
O forse perché ho finalmente capito.

Ci sono cose che non vogliamo che accadano, ma che dobbiamo accettare.
Cose che non vogliamo sapere, ma che dobbiamo imparare.

E persone senza le quali non possiamo vivere,

 

ma che dobbiamo lasciar andare.

 

3. I sentimenti letti come un fastidioso granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio perfetto della logica non sono un parto della mia corteccia bensì una citazione (l’ennesima) da Sir Arthur.
Si tratta di un estratto del discorso di Watson sui ‘sentimenti’ di Holmes per Irene Adler -l’unica donna che sia mai riuscita a batterlo- che costituisce l’incipit del racconto Uno scandalo in Boemia.
In quel caso il dottore descrive chiaramente l’altissimo interesse che l’amico prova per la donna, ma esclude categoricamente che Sherlock sia innamorato di lei, paragonando il sentimento dell’amore appunto ad un granello di sabbia assolutamente deleterio al funzionamento di quella perfetta macchina da deduzione che è il suo coinquilino. Quindi…
Chi vuole intendere… in tenda! /\

Tra l’altro mi ero scurdata di dirlo nel primo capitolo, ma anche il discorso di Sherlock riferito per bocca di John sull’estrema dannosità dei sentimenti che interferiscono con il ragionamento logico (qui ribadito nel finale) è Made By Conan. Si tratta infatti di una citazione rimaneggiata e riassunta della vera risposta che dà Holmes a Watson -rifiutando di congratularsi con lui- quando quest’ultimo gli comunica la sua intenzione di prendere in moglie Mary Morstan e di trasferirsi a vivere con lei alla fine del racconto Il segno dei Quattro.

C’è infine un’altra citazione, più velata e più complicata da individuare, che però preferirei non rivelare, perché implica la trattazione di un tema imponente che ora come ora, in questa storia, non volevo affrontare ma solo sfiorare appena con la punta delle dita.
Quindi chi la vede la vede (perché si vede, se sai certe cose, e l’ho scritto in nota proprio per questo, per rassicurare chi la vede che ci ha visto giusto), ma mi raccomando… shhhhhhh!
Sarà il nostro segreto. **
Tanto vi assicuro che è ininfluente ai fini della storia. Anzi direi che è quasi dannoso capirla.
Ma io non resisto alle citazioni, accidenti a me! ><

4. Dovevo dirlo nelle note del secondo capitolo, come annunciato nelle note del primo, ma è scivolato nelle note del terzo causa prolungamento imprevisto di questa fic che doveva avere solo due cap e per ora è più che raddoppiata.
Per ora…
Il TERZO motivo per cui ho scelto la song Transatlanticism come titolo iniziale e come colonna sonora della storia sta proprio nel finale qui di sopra narrato.
È un motivo un po’ ‘registico’ -del tipo vorrei girare telefilm ma mi manca la telecamera- quindi provate a seguirmi con l’immaginazione.
Dovreste visualizzare la scena finale, in cui Holmes è fermo nella penombra della stanza, incapace di decidersi a spedire quel messaggio. E mentre lo guardate dovete sentire il pezzo finale di questa canzone, che inizia circa dal minuto 6:20 (eh sì è lunghetta).
Lo dovete immaginare lì, seduto al buio, in quella stanza distrutta, lo sguardo fisso sullo schermo, il dito sul pulsante, mentre la musica ripete ossessivamente in un crescendo di chitarra elettrica e batteria… So come ooonnn... Come ooooon….
Come oooooonn!

Lentissimo zoom all’indietro.
Dissolvenza in nero.
Titoli di coda.

 

 

Questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere…
Perché era il cuore della fic, il motivo per cui l’ho scritta, e quello per cui ha saltato la fila.
Accostare Holmes alle emozioni è sempre pericoloso e complesso.
Il rischio di scivolare lontano da lui è altissimo, ed è necessario pensare ad ogni frase.
Non so se sono riuscita nel mio intento, perché ‘tenere’ è difficile quando si descrive quello che alla fine è un momento di confusione e di panico, seppur vissuto da un essere controllato e razionale come Sherlock.
Spero che nonostante il caos, l’emozione, la rabbia, e i sentimenti, lui sia rimasto da qualche parte tra le mie righe.

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Capitolo 4
*** Like water Like breath Like rain ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Mi scuso per il ritardo nel postare il capitolo. >< Ho avuto una settimana alquanto movimentata e la stesura si è rivelata più lunga di quel che pensavo.
Spero che non capiti più.

 

 

 

Like water Like breath Like rain

 

 

 

La chiave penetrò nella toppa con un fruscio metallico.

Mary fece scorrere con cautela il sottile pezzo d’acciaio all’interno della fessura, adagiandolo delicatamente sul fondo nel tentativo di attutire il rumore dello scatto.

Di fatto non c’era nessuna possibilità che quel lievissimo suono arrivasse più in là di qualche metro oltre la soglia.
Nessuno avrebbe potuto avvertire il sussurro di  quei dentelli disordinati che s’incastravano perfettamente nella sagoma del cilindro, a meno che non si trovasse dall’altra parte dell’ingresso, fermo di fronte alla porta, con le braccia incrociate ed il volto appena alterato da una timida espressione di rimprovero.

Niente più di quello.
Solo un sorriso rassegnato, privo della benché minima sfumatura d’irritazione.

La serratura scattò con un colpo secco, cogliendola di sorpresa.

Una sola mandata.

Il suo braccio fu attraversato da un leggero tremore mentre sentiva cedere il pesante portellone sotto la pressione della mano, ancora stretta attorno alla chiave.
E lei non osò alzare lo sguardo mentre l’uscio si schiudeva davanti ai suoi occhi, lasciando entrare nell’abitazione l’intensa luce del mattino.

Già sentiva risuonarle nelle orecchie quella voce preoccupata e dolce allo stesso tempo, che le chiedeva dove fosse stata, confessandole quanto l’aveva fatta stare in pensiero, senza tradire nell’intonazione neanche la più piccola traccia di collera.

John non era tipo d’arrabbiarsi.
Non con lei.

E Mary odiava quel suo modo di perdonarle ogni cosa. Ogni volta.
Accettando sempre tutto quello che faceva senza condizioni. Senza esitazione. Senza pretese.

Come se non si aspettasse niente.
Niente di più che un’intera notte a scriverle messaggi senza risposta. Solo in quella casa vuota, in mezzo ai calcinacci e alla sporcizia, camminando sugli enormi teli impermeabili stesi su ogni pavimento di quelle stanze ancora da imbiancare, sommerse da cataste di mobili abbandonati sulle pareti, costretto a sopportare quel nauseante odore di colla e vernice che impregnava ogni muro.

La porta si spalancò lentamente, aprendosi sull’ampio corridoio d’ingresso. Vuoto.
Lei sollevò finalmente lo sguardo, avanzando con passo esitante, mentre la luce del sole alle sue spalle disegnava la sua ombra sulla plastica e sulla polvere.
Quando il suo piede destro si scontrò con una piega dispettosa del rivestimento, costringendola a spostare tutto il peso del corpo sul lato sinistro, una smorfia di dolore piegò le sue labbra verso il basso mentre la sua mano scattava d’istinto all’altezza del bacino, coprendole il fianco che celava un vistoso ematoma sotto la stoffa dei jeans.

 

Stava correndo senza guardare.
Gli occhi fissi su un asfalto che non vedeva.

L’urto con la macchina era stato violento e inaspettato, tanto da farla quasi cadere a terra, sbilanciata dall’improvviso cambio di traiettoria provocato dall’impatto.

Tutto il resto era confuso nella sua memoria.
Ricordava distintamente solo quell’ululato assordante che aveva squarciato l’aria senza preavviso. Penetrando nella gola, nelle orecchie, nei polmoni. Rendendo perfetto il suo stato di panico e confusione.

Non era fuggita.
Si era gettata d’istinto su quella creatura urlante per impedirle di lanciare il suo richiamo, che annullava ogni pensiero e attirava l’attenzione del mondo su di lei.

Doveva fermarla.

Sentiva ancora la maniglia scattare inaspettatamente, e la portiera aprirsi, mentre quel frastuono sempre più acuto le squassava il petto, percorrendo il suo corpo come una scarica elettrica, ed iniettando nelle sue vene un’incontrollabile terrore.
Poi vedeva quell’abitacolo scuro, ordinato, sul cruscotto quei mille pulsanti. E le sue dita che spostavano ogni leva, toccavano ogni tasto, muovevano ogni rotella alla ricerca del magico meccanismo che potesse restituire alla notte la sua quiete.

Avvertiva le sue mani premute contro le orecchie, ad occhi chiusi.
E quel boato che saliva e saliva ancora. S’insinuava nel cervello. Penetrava sempre più a fondo.
Rifiutandosi di smettere.

 

Poi di colpo il silenzio.

 

Il palmo posato su un volante sconosciuto. La schiena appoggiata su quel sedile di pelle, col cuore impazzito nel petto che sembrava volerle schizzare fuori dalla gola. Assordata dall’eco di quel suono  che le rimbombava ancora nella testa.
Non sapeva quanto tempo era rimasta così. Immobile senza pensare a niente. Ascoltando il suo respiro affannoso e quel sibilo. E nient’altro.

Poi ricordava la sua mano stretta attorno al cellulare, dentro la sua tasca.

Ricordava il suo desiderio di tornare a casa. Da John.
L’immagine confusa di un taxi che le attraversava la mente.
Un numero composto con furia, e il segnale di libero che si ripeteva una, due, tre volte a vuoto. Infine il consueto click. E una voce pacata e stanca, dall’altra parte della cornetta.

- London police emergency. Posso aiutarla?

Ricordava anche quello sgomento improvviso, il dito di scatto sul pulsante di chiusura della chiamata, e lo schermo bianco che lampeggiava tra le sue mani.

 

CALL
999

connection closed

 

Oh accidenti.

A quel punto i ricordi si facevano ancora più confusi ed annebbiati.
Sentiva solo la stanchezza prendere possesso di lei, mentre il buio l’avvolgeva lentamente, e la sua testa si posava su quel volante che odorava di nuovo e di tabacco. Come un sigaro toscano.

Poi era arrivata la luce.
E con lei il risveglio in quella macchina non sua, mentre il sole iniziava a scaldare l’aria, spuntando dai tetti delle case e immergendo Baker Street in una tiepida atmosfera.
Nuovamente il panico, più controllato.
Finalmente il numero giusto e poi quel taxi malandato e quell’autista scontroso, che le lanciava strane occhiate dallo specchietto retrovisore.

Immagini confuse ed irrilevanti, che svanivano dalla memoria ad ogni passo che faceva all’interno della casa, accostando con delicatezza la porta dietro di sé.

 

- Sono tornata.

 

Appena un sospiro.
Anche più leggero del suono della chiave che girava nella serratura. Impercettibile.

Mary avanzò lungo il corridoio, percorrendo il sudicio telo di plastica che proteggeva il parquet di noce chiaro, installato da appena una settimana.

L’abitazione era immersa nella calma, e lei procedeva senza produrre il più piccolo suono, calpestando con cautela quello spesso strato di polvere che ad ogni passo depositava un velo opaco sulle sue ballerine scure.
D’un tratto avvertì un tonfo sordo provenire dal piano di sopra, direttamente sulla sua testa. Dove si trovava la loro camera da letto.

Doveva essere già sveglio.

Presto sarebbe sceso per la scala in fondo al disimpegno e l’avrebbe guardata con un dolce sorriso.
Senza rimproverarle nulla.

Mary fece un altro passo in avanti, e il suo sguardo fu improvvisamente catturato dalla luce intensa che proveniva dalla camera affacciata sulla sinistra del corridoio, ancora priva di porta, che un giorno abbastanza lontano nel tempo sarebbe diventata il loro soggiorno.

Era la stanza più grande e bella della casa. Il motivo per cui si erano decisi a prendere quella e nessun’altra, innamorandosene al primo sguardo.
Un grande vano di quasi venti metri quadri, di forma perfettamente quadrata, con un alto soffitto e due enormi e luminose finestre esposte a est, che al mattino facevano entrare un chiarore talmente intenso  da graffiare gli occhi, immergendo l’ambiente in un’atmosfera irreale.

Lei si affacciò nella luce, stringendo le palpebre per proteggersi da quello splendore, pronta a sopportare il peso di quel vuoto.
Di quel nulla che aveva da offrire, paragonato alla confusione, alla varietà, alla follia, alla ricchezza da cui era fuggita correndo, senza guardare. E che nonostante tutto era ancora nei suoi occhi, impressa come una ferita sulla retina.

Non c’era altro in questa casa, a parte calcinacci, barattoli di vernice, odore di nuovo e grandi camere riempite di niente.
Tutto quello che poteva aspettarsi da lei.
Tutto ciò che aveva da offrirgli.

Era una stanza vuota. Immersa nella luce.

 

Ma quando i suoi occhi si furono finalmente abituati al riverbero, iniziando ad intravedere i contorni delle pareti ed il legno scuro del pavimento, Mary vide che non lo era più.

Lungo il muro era comparsa una mensola azzurra, che attraversava il locale da un estremo all’altro, flettendosi leggermente al centro a causa dell’eccessiva lunghezza.
Nonostante i numerosi segni di matita tracciati nel tentativo di calcolare l’altezza nel modo corretto, l’estremità sinistra era vistosamente più alta della destra, ed il piano scorreva sbilenco verso l’apertura della finestra, disegnando un’incerta linea obliqua.
Sull’intonaco steso di fresco campeggiavano una serie di fori sbreccati, ai quali corrispondevano con precisione millimetrica tanti piccoli mucchietti di polvere sparsi sul pavimento in diligente fila indiana.

Un tentativo chiaramente fallimentare d’arredamento in solitaria.

Doveva aver passato tutta la serata a montarla, quella mensola.

E sotto quello scaffale storto e incurvato, appoggiata al centro esatto della parete crivellata di colpi, c’era quella piccola cassettiera malconcia, che aveva fatto il suo ultimo viaggio fissata sul tetto della sua auto, e ora giaceva accostata al muro, con una zeppa di fortuna piazzata sotto la gamba posteriore per mantenerla in piano sul pavimento sconnesso, inondata da quella luce violenta che ne esaltava ogni ammaccatura.

Facendo scorrere lo sguardo nei solchi profondi che marcavano la superficie di quel vecchio legno il volto di Mary si schiuse in un sorriso, mentre lasciava che il vago residuo d’angoscia ancora arrotolato attorno al suo petto evaporasse a poco a poco nella contemplazione di quel miracolo.

 

Un piccolo mobile sporco, che riempiva l’intera stanza.

 

E il cellulare di John posato su di esso, ancora acceso.

 

                           Bip Bip

 

D’un tratto il telefono iniziò a vibrare, emettendo due squilli ravvicinati.
Il display s’illuminò, lampeggiando per qualche istante ad intervalli regolari, per poi tornare a spegnersi.

Era arrivato un messaggio.

Mary trattenne il respiro avvertendo quel trillo, e il suo cuore perse un battito.
Gli occhi furono calamitati da quel piccolo apparecchio scuro, mentre una misteriosa agitazione s’impadroniva di lei.
Senza nessuna ragione.

Eppure c’era stato qualcosa in quel suono, in quella scossa improvvisa, in quello schermo ad un tratto bianco e poi nuovamente nero. Che le aveva trasmesso una strana sensazione di pericolo.

Come un presentimento.

E la sua voce suonò forte e incalzante, arrivando alle labbra prima che il pensiero potesse trattenerla.

 

- JOHN! MESSAGGIO!

 

Un altro tonfo ben più distinto del primo fu la risposta al suo richiamo, seguito da una serie di passi affrettati che risuonarono sopra la sua testa, attraversando il pavimento e allontanandosi verso l’imbocco della scala.
Mentre lo sentiva scendere precipitosamente la prima rampa lei indietreggiò fino a raggiungere la soglia, sporgendo la testa nel corridoio per vederlo approdare sul piccolo pianerottolo, con indosso soltanto una T-shirt bianca spiegazzata e quei suoi eterni jeans infilati di fretta, senza cintura, con l’ultimo bottone ancora slacciato.
La luce che filtrava attraverso la piccola finestra alle sue spalle attraversava i suoi capelli arruffati, disegnandogli attorno al viso una sorta di scomposta aureola luminosa.
Non appena i suoi occhi scorsero l’esile figura bionda che spuntava dal soggiorno lui sollevò la testa di scatto, fissando lo sguardo nel suo.

E Mary smise di respirare nel momento esatto in cui si scontrò col suo volto, spalancando gli occhi.

 

- Ma sei impazzita?!

 

Una voce inaspettatamente furente raggiunse le sue orecchie mentre osservava con stupore le sopracciglia di John aggrottarsi e la sua mascella contrarsi in una smorfia di collera intensa e genuina che dal viso si espandeva in tutto il corpo, tendendo i muscoli del collo e del torace in una posa aggressiva.

Era arrabbiato.

                                     Bip

Il cellulare reclamava attenzione, ricordando il suo messaggio in entrata non ancora letto.

Ma lei non si voltò a guardarlo, incapace di staccare gli occhi da quella figura minacciosa che avanzava verso di lei a grandi passi, scendendo gli ultimi gradini e percorrendo il corridoio con falcate decise.

- Dove sei stata tutta la notte?!

Si fermò di fronte a lei, mentre il suo sguardo si riempiva lentamente d’apprensione e di sollievo, senza perdere neanche un po’ della sua collera.

- Mi hai fatto preoccupare da morire!

 

Era davvero arrabbiato.

 

Mary sorrise. E gli occhi s’inumidirono.
Le palpebre si strinsero tentando di trattenere le lacrime, che non erano di gioia.
E non erano di dolore.

Ma erano la somma di tutta la tensione. La sofferenza. E la paura. Che per una quantità incalcolabile di ore avevano stritolato il suo corpo e la sua mente, imprigionandoli in una morsa asfissiante. Ma ora allentavano finalmente la presa, sconfitte da quello sguardo furioso ch’era soltanto per lei.
E non serviva nient’altro.

Ricacciò indietro quelle lacrime, emettendo un lieve sospiro.

Ora nulla poteva più spaventarla.

 

                                               Bip

 

- Leggi il messaggio.

John non si voltò. Incurante delle sue parole e di quel richiamo insistente aggrottò ancora di più le sopracciglia ed incrociò le braccia con un gesto nervoso.

- Non cercare di cambiare discorso!

Non era così.
Mary lo toccò delicatamente su un braccio, spingendolo all’interno della stanza senza smettere di fissarlo.

- Leggilo.

Lui ricambiò il suo sguardo con stupore, interdetto da quel volto sorridente e sereno che senza curarsi della sua collera gl’indicava con un delicato cenno del capo il telefono abbandonato sulla cassettiera dalla sera prima, alle tre di notte, quando aveva ricevuto quel vago e tardivo segno di vita.

Con passo incerto si avviò verso il mobile, spostando finalmente l’attenzione sull’apparecchio che giaceva su un angolo del piccolo piano di legno.

- Non capisco cosa-…

- Leggi.

La fissò ancora, emettendo un sospiro seccato. Poi prese il telefono in mano con uno strattone.

- Lo leggo, lo leggo! Ma non credere di cavartela così sai?

Cliccò distrattamente sul tasto di apertura, continuando a guardare Mary negli occhi con aria di rimprovero.

Senza nemmeno leggere il mittente.

 

Abbassò infine uno sguardo imbronciato sul messaggio.

- Poi mi spiegherai cosa-…

 

La voce gli morì in gola.

E John smise improvvisamente di respirare.

Mary vide distintamente il suo corpo irrigidirsi. Come colpito da una sferzata violenta.
Inaspettata.

Talmente potente da incurvargli la schiena.

La bocca si aprì di scatto, senza emettere alcun suono.
Le dita si annodarono attorno al telefono, chiudendosi in un intreccio serrato.

Gli occhi spalancati. Incollati su quel piccolo schermo luminoso. Bevevano quella luce accecante che rifletteva un’immagine dalla quale sembravano non potersi più staccare.

E le braccia iniziarono a tremare. Percorse da un fremito incontrollabile.

Un terremoto.
Che partendo dalle mani si espandeva in tutto il corpo.
Mentre lui restava paralizzato.
Affogato in quella luce che feriva gli occhi.

E impediva di guardare.

 

Lei prese fiato. Senza distogliere lo sguardo.

Se lo aspettava.

Conosceva il rischio che stava correndo.
Fin dall’inizio.

Aveva risvegliato la bestia dal suo sonno, l’aveva spinta proprio là dove non voleva che andasse, ed ora non le restava che assaggiare l’amaro frutto di tutti i suoi sforzi.
Non poteva fare altro che osservare quelle zanne affilate che affondavano finalmente nella sua preda, per non lasciare più la presa.

Era preparata.

Eppure sentiva il pavimento mancarle sotto i piedi, ed il petto accartocciarsi su se stesso con un lacerante stridore, mentre guardava impotente le migliaia di chilometri che si accumulavano tra lei e John. Fermo ad un paio di metri di distanza.
E ogni secondo più lontano.

Era giunto il momento di pagare il prezzo della sua follia.

 

- Cosa dice?

 

Non la sentiva.

Non doveva averla sentita.
Perché rimase immobile con gli occhi sbarrati, continuando a trattenere il respiro.

Poi d’un tratto si riscosse, l’aria uscì di colpo dai suoi polmoni, mentre un imprevedibile sorriso spuntava sulle sue labbra, distendendo il suo volto contratto in un’espressione divertita.
E la sua voce suonò calda e leggera, percorsa da una sottile eccitazione, mentre scandiva quel messaggio lentamente, assaporando le parole ad una ad una.

 

- Dice: «Vieni subito se puoi. Se non puoi vieni lo stesso. S. H.»

 

Alzò adagio la testa, guardandola con quel sorriso in faccia, che si allargava sempre di più, a dispetto dei suoi sforzi di trattenerlo, evitare di renderlo troppo sfrontato. Sfacciatamente intriso di felicità.

Un sorriso che faceva male.  Ed era bellissimo.

- Che accidenti vuol dire!

John scosse la testa, aggrottando leggermente la fronte, mentre tornava a fissare quel display imprigionato tra le dita come un tesoro fragile e prezioso, che per nessuna ragione al mondo avrebbe lasciato cadere.

Mary si coprì gli occhi con le mani, iniziando a ridere.

Non era ciò che si aspettava.
Ma in qualche modo aveva funzionato.

In una strana, imprevedibile maniera. C’era riuscita.

A cancellare quello sguardo.

­
Lentamente abbassò le braccia, e prese un grande respiro, raccogliendo tutto il coraggio che aveva per poter guardare ancora il suo volto. Dal quale era completamente sparita ogni traccia di collera. E di malinconia.

Restò ferma sulla soglia ancora qualche istante. Fissando lo splendido sorriso dell’uomo che amava.
Felice per lui, e disperata per se stessa.
Ma di una disperazione dolce, non troppo dolorosa.

Che poteva sopportare.

Scoprendosi in grado di sostenere quegli occhi pieni d’ebbrezza, incapaci di trattenere una gioia ch’era sparita dal suo viso da dieci giorni esatti.
E adesso era tornata.

Intensa e crudele.

 

Mary sorrise ancora.

Perché non poteva fare altro.
Perché in fondo era esattamente quello che voleva.

Vederlo di nuovo così.

 

Si staccò lentamente dalla porta, entrando nel sole che inondava la stanza e fermandosi al suo fianco. Appoggiandosi a lui delicatamente, spalla contro spalla, e sporgendo la testa in avanti verso lo schermo sul quale lampeggiavano le laconiche parole di Sherlock Holmes.

 

- Non sai leggere John!

                                      Le donne lo sanno.
                                             C’è poco da fare.

Mary alzò la testa di scatto e sventolò l’indice sotto il suo naso con aria di rimprovero, posandolo poi sul display proprio all’inizio della frase.

- Non vedi? C’è scritto «

                                                         Lo sanno da sempre.

John seguì istintivamente il suo dito, tentando stupidamente di trovare nella frase la lettera da lei pronunciata.
L’unghia sottile scorse adagio sulla seconda riga, e Mary socchiuse gli occhi, fingendo di sforzare la vista come un esperto archeologo intento a decifrare l’antico codice di una civiltà estinta da millenni.

- …Poi c’è un «need»

- Mary…
                                               
                     Lo sanno comunque per prime.

Pronunciò il suo nome con tono acuto e infantile, mentre alzava gli occhi al cielo con una risatina incerta, tentando inutilmente d’impedire che sulle sue guance affiorasse il lieve rossore tipico dell’imbarazzo. E della speranza.

- …Guarda qui in fondo! Leggi bene, è proprio «you»!

 

                                                   E quelle che sanno spiegarti l’amore.

 

John tornò ad abbassare lo sguardo verso di lei, dandole una spallata scherzosa, non abbastanza forte da staccarla da lui ma abbastanza da costringerla ad alzare la testa.

- Molto spiritosa!

Lei ricambiò lo spintone con tutta la forza che aveva, avvertendo la resistenza del suo corpo che inizialmente cedette alla pressione per ricadere poi sulla sua spalla riguadagnando la posizione perduta.
Infine alzò gli occhi nei suoi. Fissando con dolcezza quelle guance arrossate e ascoltando quel respiro veloce.
Impaziente.

 

- Che aspetti?

                              O provano almeno a strappartelo fuori.

- Ah… io-…

Una voce incerta, tradita dalla frenesia che si era impossessata del suo corpo, e che cercava maldestramente di controllare.
Ma Mary lo sentiva chiaramente. Fremere addosso a lei.

 

- Vai.

 

                E fanno più male.

 

Lui la guardò incredulo.

- Ma… È ancora tutto da montare qui…

- Non preoccuparti! Adesso tocca a me litigare un po’ da sola con qualche mensola!

Mentre parlava si staccò dal suo fianco ed avanzò a grandi passi nella stanza, fermandosi di fronte alla finestra che affacciava sul giardino.
Chiuse gli occhi e lasciò che il tepore di quella giornata luminosa le scaldasse il viso. Poi allargò le braccia di scatto e fece due rapidi giri su se stessa, assaporando per qualche istante quella vertigine.
Senza perdere l’equilibrio.

Alla fine del secondo giro tornò a voltarsi verso di lui, fissandolo con aria allegra, senza abbassare le braccia.

- Darò un ballo mentre sei via! Guarda quando spazio!

D’un tratto aggrottò la fronte, facendosi improvvisamente seria.

- Non voglio vederti fino a stasera!

Ma John rimase fermo accanto al muro, fissandola a bocca aperta con un’espressione titubante. Incapace di muoversi.

E Mary iniziò a sentirsi davvero stufa di dover fare sempre tutto da sola.

Si diresse verso di lui a testa bassa, lo afferrò per le spalle e lo costrinse a voltarsi, spingendolo energicamente fuori dalla stanza.
Il peso morto si lasciò trascinare docilmente fino al portone, senza opporre la minima resistenza, mentre depositava nella tasca posteriore dei jeans il suo prezioso, preziosissimo tesoro.

Una volta davanti all’ingresso lei lasciò la presa, tirandogli una sonora pacca sulla schiena.

- Ciao Ciao John!

Era ora di finirla.

Senza aspettare alcuna risposta tentò di allontanarsi a passo svelto lungo il corridoio.

Ma lui fu più veloce.

Si girò di scatto e l’afferrò per un polso.
L’attirò a sé con forza mentre le sue braccia si avvinghiavano attorno a quella vita sottile. E la bocca fu di colpo sulla sua.
In un attimo i piedi non toccarono più terra, le labbra affondarono in quelle di John e il suo sapore le entrò in gola.
Sentiva le sue mani stringersi intorno ai fianchi, premendoli contro i suoi, comprimendo senza saperlo
quel livido che pulsava sotto la stoffa. Ma Mary non sentì alcun dolore mentre restava sospesa sul suo petto. Appoggiata al battito frenetico del suo cuore.
Allungò le braccia oltre le sue spalle e lo afferrò a sua volta. Affondando le unghie nella sua schiena, sul suo collo, tra quei capelli arruffati. Lo strinse mentre accarezzava la sua lingua e percepiva il suo sangue pulsare nelle vene ad una velocità affannosa. Sotto di lei. Addosso a lei.

Solo per lei.

 

                       Va bene.

             Va bene così.

 

Di colpo tirò indietro la testa, osservando con un brivido di piacere il volto di John sporgersi in avanti alla ricerca del contatto perduto, per poi aprire gli occhi contrariato.
Lei lo guardò con aria maliziosa, mentre lo sentiva allentare leggermente la presa, lasciandola scivolare contro il suo corpo fino a farle toccare nuovamente terra. Prigioniera tra le sue braccia.

Mary si adagiò nella sua stretta.
Ancora qualche istante.

Un altro po’ di quel calore.

Poi appoggiò le mani sul suo petto e lo spinse via.
Con una forza inconsueta.

 

- Fila!

 

John barcollò all’indietro, colto impreparato da quella mossa improvvisa.
La fissò sorpreso per poi ricambiare il suo sorriso divertito, portandosi la mano tesa vicino alla fronte in un teatrale saluto militaresco.

- Agli ordini mia signora!

Girò sui tacchi come un perfetto soldato, afferrò la maniglia e la tirò a sé, facendo un passo fuori dalla porta e sparendo nel sole mattutino di quella splendida giornata di Marzo.

 

Mary non si mosse.
Continuò a fissare il portone chiuso, portando adagio entrambe le mani sul fianco, a coprire quel dolore che aveva ripreso a pulsare.
E faceva sempre più male.

Chiuse gli occhi, chinando mestamente la testa. Mentre un desolato sorriso compariva su suo volto.

Alla fine non aveva voluto saperlo, dove era stata tutta la notte.

 

John si fermò sul marciapiede, a qualche passo dalla porta. E alzò una mano davanti agli occhi, per ripararli dai raggi del sole.

Si guardò intorno, cercando di ritrovare l’orientamento in quel luogo sconosciuto, mentre i suoi occhi percorrevano impazienti entrambi i lati della strada, saltando qua e là febbrilmente alla ricerca di qualcosa di familiare, un qualsiasi punto di riferimento che lo aiutasse a ricordare dove aveva parcheggiato il maggiolino la sera prima.

 

Presto.

 

L’aria era fresca, nonostante tutto. Ma lui non l’avvertiva.
Il suo corpo accaldato era percorso da un fremito leggero. Le braccia scoperte oscillavano attorno ai fianchi, incapaci di controllare il tremore. Il respiro accelerato alzava ed abbassava ad un ritmo irregolare il suo petto coperto solo da un sottile strato di cotone bianco.
Il cervello pulsava ad una velocità vertiginosa. Ed il cuore con lui.

Finalmente lo vide. Il vecchio catorcio.
Stretto tra un furgone bianco ed una piccola macchina italiana, di quelle che andavano tanto di moda in quel periodo.

Presto.

La sua mano s’insinuò di scatto nella tasca afferrando le chiavi con una forza spropositata. E l’acciaio penetrò nel palmo della mano lasciando il suo solco nella carne, mentre John camminava precipitosamente lungo il marciapiede, dirigendosi verso l’auto.

Arrivò davanti alla portiera e tirò fuori la chiave, cercando d’infilarla nella serratura.

Presto.

Ma la sua mano tremava, le sue dita perdevano la presa. E lui continuava a sbattere quella lama metallica contro la toppa cilindrica senza riuscire a centrare il foro, ricoprendola di graffi.

 

Fanculo.

 

Allontanò la mano dallo sportello.
Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro.

Poi alzò la testa e si guardò intorno.
Che distanza poteva esserci tra Little Titchfield Street e Baker Street?
Ottocento, novecento metri?

Dopotutto girare per Londra in macchina alle otto di mattina era di per sé stessa un’iniziativa temeraria.
Per non dire stupida.

John si staccò dalla portiera.

Alzò la testa oltre le case, il traffico e la folla. Puntando lo sguardo in un’unica direzione.

                               
                                                      E iniziò a correre.

 

 

 

C’è una donna che balla in una stanza vuota.
Ruota su se stessa fino a farsi girare la testa, aspettando il ritorno di un uomo che ama.

           E sa che sarà una lunga attesa.

 

C’è un dio affacciato alla finestra, che spinge il suo sguardo ansioso al di là del mare, aspettando che arrivi un uomo a raccogliere i pezzi del suo cuore dal pavimento.

                            E sa che dovrà farselo bastare.

 

C’è un uomo che corre a perdifiato per la strada, attraversando a piedi l’Atlantico nel disperato tentativo di ricucire i due pezzi stracciati della sua anima.

 

                                                                 E sa che non ci riuscirà.

 

 

 

                                                                          Le donne lo sanno
             
                                                            Che niente è perduto

 

 

            Che il cielo è leggero però non è vuoto

 

 

                                                  Le donne lo sanno

                                

 

 

                                                                        Le donne l’han sempre saputo

 

 

 

 

   
   

 

 

 

Note:
1. Il titolo di questo capitolo è un estratto della song di Leann Rimes titolata -per l’appoint- I need you.
Postponendo suddetto estratto alla ‘traduzione’ di Mary del messaggio/citazione di Holmes (che in nota 2 spiegherò più approfonditamente) si ricava un’intera frase della canzone, che sarebbe I need you like water, like breath, like rain, ovvero Io ho bisogno di te come dell’acqua, come di respirare, come della pioggia.
Un po’ tanto (troppo) *carie* romantica e smielosa per i miei gusti, ma l’ho scelta -oltre che per il significato, ovviamente- anche per conferire un tono iperbolico al tentativo di Mary di far capire a quello zuccone di John ciò che ormai solo lui non riesce ad afferrare.
I need you l’ho lasciato in inglese anche nei dialoghi perché suona cento volte meglio dell’italico ho bisogno di te… :/  Il verbo italiano non solo in realtà non è un verbo ma una locuzione verbale -ergo una creatura grammaticale farraginosa  e composita- ma è pure intransitivo, e quindi blocca il bisogno sul soggetto, costringendoci ad aggiungere preposizioni fastidiose al complemento oggetto per legarlo alla frase. L’inglese è transitivo e semplice. Ed in più ha anche un bel suono.
Ai nid iu.
È un modo più bello, preciso e musicale di descrivere lo stesso sentimento.

2. «Come at once if convenient. If inconvenient come all the same. S. H.»
Questo è il telegramma originale che Holmes spedisce a Watson all’inizio del racconto The Creeping man –una delle ultime avventure scritte da Doyle sul suo consulting detective preferito prima di farlo ritirare nel Sussex- per richiamarlo a Baker Street dopo la sua famosa ‘desertion for a wife’.
Io mi sono limitata a riprendere alla lettera il testo del telegramma, trasformandolo in un messaggino.
In realtà i due eventi da me accostati (il matrimonio di John e Mary con relativo trasloco e il telegramma di Holmes) nella cronologia canon sono lontanissimi del tempo e nient’affatto collegati. Infatti il primo evento si svolge nel 1888, mentre il telegramma è datato 1903, dopo che Watson ha vissuto con la moglie Mary almeno fino al 1894, è tornato a vivere al 221B (N.B. su ESPRESSA richiesta di Sherlock, il quale vi ricordo non ha mai avuto in vita sua un altro… ‘coinquilino’ a parte John, e pur di riaverlo in casa arriva addirittura a rilevare in segreto il suo studio medico per eliminare ogni ostacolo al suo ritorno a Baker Street. Res ipsa loquitur …) per poi andarsene nuovamente proprio nel 1903.
Watson di fatto ‘abbandona’ Holmes per andare a vivere con una donna ben DUE volte -brutto stronso…**- e il telegramma ricade appunto nel secondo periodo di allontanamento a causa dell’(eventuale) seconda moglie. (la conta delle mogli di Watson è assai complessa, e me la riservo per le note finali).
Io mi sono qui limitata ad accorpare le due volte, ‘trasferendo’ il telegramma dal secondo trasloco al primo. 
Per inciso…
Non vi è dubbio alcuno che anche nel racconto di Doyle il telegramma di Sherlock Holmes avesse la stessa identica traduzione che propone Mary. E in quel caso riesce ad arrivarci persino Watson.

3. As always. Ve lo scrivo nero su bianco perché mi spiacerebbe se non si capisse.
La citazione letterale del telegramma di Holmes è stata volutamente messa a confronto con un messaggio di tutt’altra intensità ed empatia, per certi versi completamente fuori dalle corde di Sherlock. Ma è proprio l’esistenza di questo primo messaggio mai spedito che getta una luce del tutto diversa sul secondo.
Il senso di questo secondo messaggio, se messo a confronto col primo, è che Holmes ha deciso di NON comportarsi da persona corretta e di NON lasciare andare John.
In sostanza ciò che noi non vediamo è Sherlock che cancella quel testo che di fatto, pur dichiarando in qualche modo i suoi ‘sentimenti’ per lui, liberava Watson dal loro legame, sostituendolo con un messaggio in cui lo reclama perentoriamente vicino a sé.
Se poi inquadriamo temporalmente la questione ci rendiamo conto che Holmes è stato dalle tre di notte alle otto di mattina a tentare di mandare quel messaggio.
Magari ne ha scritti cento, via via sempre meno espliciti, fino ad arrivare all’ultimo. Oppure è rimasto a fissare il primo per ore, provando a mandarlo senza riuscirci, per poi cancellarlo e sostituirlo solo alla fine.
Qualunque sia stata la strada che ha portato il primo messaggio a trasformarsi nel secondo, è stata lunga e faticosa.

4. Spero che si sia capito il paragone tra le due diverse ‘stanze’ che vengono messe a confronto in questo capitolo: La stanza di Holmes è strapiena di cose, ricca e complicata, stimolante in ogni suo angolo. Ma buia.
La stanza di Mary è vuota, ha solo pareti bianche e alti soffitti, ma è luminosa, ed è in quella stanza vuota che John ha messo il suo mobile, riempiendola.
In questa storia i luoghi raccontano più delle parole, perché tecnicamente stiamo parlando di un trasloco, non va mai dimenticato. John sta cambiando CASA.
Per questo parte della simbologia è imperniata sul confronto tra le due abitazioni. Quella di Holmes è stracolma di oggetti, eppure ora è vuota. Quella di Mary al contrario è tecnicamente vuota, ma basta una vecchia cassettiera per riempirla completamente.
Le due stanze sono una metafora locativa di Mary Mostan e Sherlock Holmes. Sono i due luoghi, opposti tra loro e così differenti, tra i quali Watson si divide. E John non sa, non può e non vuole scegliere tra i due, perché ha bisogno di entrambi.

5. Qualcuno di voi forse si starà chiedendo qual’è l’antifurto per auto che fa partire la sirena lasciando aperte le portiere della macchina… ** Il nemico contro cui si è battuta Mary in realtà non è un vero e proprio antifurto quanto piuttosto un sensore volumetrico, che i maniaci del graffietto possono installare all’esterno delle loro preziose autovetture in modo che la macchina lanci un grido disperato d’aiuto ogni volta che la solita vecchia rintronata tenta di parcheggiare rimbalzando sul suo cofano.
Questi sensori si limitano a rilevare presenze moleste o urti alla vettura, ma non offrono nessuna reale protezione ai tentativi di furto. A parte la sirena, ovviamente.

6. Le frasi in corsivo che compaiono un po’ a giro per la fic, chiudendo il capitolo, fanno parte del testo della canzone Le donne lo sanno di Ligabue.

7. Il 999 è in Inghilterra l’equivalente del nostro 118 e del 911 statunitense. 
Ho lasciato in inglese la frase d’attacco del centralinista, perché in Italia si limitano ad un laconico «118», mentre in Inghilterra (e in America) si sdilinquiscono in questa formula, che tradotta in italiano si trasformerebbe in qualcosa d’orribile tipo «emergenza della polizia londinese».

8. Little Titchfield Street –dove ho piazzato la casa di John e Mary- è una parallela di Mortimer Street, la strada su cui si affacciava realmente il giardino sul retro dei Watson secondo il canone.
La via in questione dista da Baker Street all’incirca un chilometro in linea d’aria. Sono due strade relativamente vicine, tanto che il fresco sposino John all’inizio del racconto Uno scandalo in Boemia finirà per passare ‘casualmente’ davanti al 221B una sera rientrando da una visita privata, imbattendosi così in uno dei clienti di Holmes.

9. La piccola macchina italiana che va tanto di moda in questo periodo parcheggiata accanto al maggiolino di Mary è ovviamente una FIAT 500. ** Avevate dubbi?

 

Nota extra per Watson:
Go Johnny, go! Io tifo per te! Due al prezzo di uno!
Si fa così! Rossetto e cioccolato. Che non mangiarli sarebbe un peccato… ** (cit. Ornella Vanoni)

Johnny be good... **

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Capitolo 5
*** No way back ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Mi dispiace molto di avervi fatto aspettare tanto per quest’ultimo capitolo. Purtroppo come spero avrete letto nell’intro modificata ad hoc un’improbabile febbre d’Aprile mi ha allettata per un’intera settimana, e non ho potuto lavorare alla storia come avevo programmato.
Mi scuso ancora per la lunga attesa, avendo fatto quest’esperienza d’aggiornamento estemporaneo piuttosto fallimentare penso che tornerò al vecchio metodo: prima scrivi (quasi) tutto, poi posti.
In compenso ora posso davvero promettervi con una certezza del 100% che non aggiornerò più in ritardo questa storia.
(Come sono spiritosa **)

 

 

 

No way back

 

 

 

La vetrina dello Speedy’s esponeva il suo cartello LOokiNg foR MaId da ormai un mese, senza riscuotere particolare successo.
La pessima calligrafia orgogliosamente sfoggiata in quelle tre parole costituiva un forte deterrente persino in quel periodo di crisi. E la paga era comunque una vera schifezza. Come il caffè.

Il foglio spiegazzato salutava ogni avventore del bar dondolando avanti e indietro con indolenza, e mettendo così a dura prova la resistenza del vecchio scotch incollato al vetro, che sfidava coraggiosamente l’usura del tempo senza dare il minimo segno di cedimento.

Il marciapiede era stato spazzato di fresco, come dimostrava la totale assenza di foglie secche solitamente distribuite in ordine sparso sul lastricato in quella stagione.
Speedy non la sapeva proprio caricare la caffettiera, però ci teneva ad accogliere i suoi clienti presentando un ingresso decoroso. Il che ricadeva inevitabilmente a vantaggio della signora Hudson, la quale sfruttava gratuitamente l’ossessione per la pulizia del padrone del locale calpestando ogni giorno un suolo impeccabile.

Il 221B pagava in cambio solo il piccolo prezzo di un ingresso un po’ angusto, separato dalla vetrina del bar unicamente da una sottile striscia d’intonaco bianco.

John si fermò di fronte al portone, posando la sua enorme valigia a terra.

Quel familiare, stretto portone nero, con su inchiodati quei tre vistosi numeri d’ottone ormai ossidati che campeggiavano sulla vernice nera. E quella B, un po’ più piccola, fissata da due viti trasversali proprio accanto a quel leggero graffio ch’era sempre stato lì da che aveva memoria, e probabilmente sarebbe rimasto lì per sempre, ad eterno ricordo di chissà quale evento di un lontano passato.

Alla ringhiera del seminterrato mancava sempre un ferro. Il secondo dal muro.

Come mancava ieri. E l’altro ieri.
E come sarebbe mancato anche domani.

Vedeva quello spazio vuoto ogni giorno, da tanto tempo.
Non viveva più lì da quasi due anni. Ma gli capitava ancora di passargli accanto anche sei, sette volte in una sola giornata, senza neanche degnarlo di uno sguardo.

Eppure adesso Watson fissava quel foro nella sequenza ordinata di sbarre con la sorpresa di chi torna in un luogo impresso da tempo solo nella memoria, e si stupisce di ritrovarlo esattamente come l’aveva lasciato, incredulo che gli anni non abbiano scalfito neanche il più piccolo particolare della realtà durante la sua lunga assenza.

Un involontario sospiro uscì dalle sue labbra mentre distoglieva gli occhi con una mossa nervosa, tentando di scrollarsi di dosso quel ridicolo senso di nostalgia. E John sollevò il viso, scontrandosi con la fitta coltre di nubi che inghiottiva l’orizzonte, troppo densa per poter essere trafitta dalla timida luce di quel mattino d’autunno, avvolgendo Londra nella sua consueta atmosfera plumbea.

Prometteva di piovere.

E in Inghilterra quando il cielo ti fa questa promessa quasi sempre la mantiene.

Solo uno sciocco avrebbe potuto sperare nel sole fissando quelle nuvole scure in cui l’aria continuava ad addensarsi, pronta a precipitare sulla terra goccia dopo goccia.
Infilando le mani nelle ampie tasche del giaccone Watson si strinse nelle spalle, rabbrividendo davanti all’umido presagio che incombeva sopra di lui ed emettendo un altro meccanico sospiro.

D’un tratto fu colto da una strana sensazione, come un formicolio. E si voltò automaticamente verso sinistra. Per istinto.

 

Così lo vide.

 

Procedeva rapidamente nella sua direzione. La testa alta e lo sguardo all’apparenza perso nel nulla.

La sua lunga figura si stagliava tra gli occasionali abitanti del marciapiede, spiccando senza sforzo in mezzo a quel miscuglio di variegata normalità.
Il cappotto nero, eternamente slacciato, ondeggiava dietro di lui ad ogni falcata, producendosi in una ritmica ed ampia oscillazione.
Avanzava con quel suo consueto portamento da dominatore, attraversando la vita degli altri senza rallentare. Perchè tutti gli cedevano naturalmente il passo ogni volta che la collisione sembrava inevitabile.

Il mondo era suo.
E non sapeva che farsene.

Lo attraversava di fretta, apparentemente incurante di ciò che lo circondava. Incamerando ad ogni battito di ciglia tutti i più insignificanti dettagli dell’esistenza per poi masticarli distrattamente e gettarli via, ai piedi dell’enorme catasta delle cose inutili da sapere.
Mentre quell’enorme massa d’informazioni involontarie gli scivolava addosso lui continuava a camminare in linea retta, perfettamente al centro del lastricato, mettendo un piede davanti all’altro ad un ritmo incalzante. Senza nessuna variazione.

Finché non lo vide.

In piedi di fronte al 221B, con le mani in tasca e la schiena inutilmente rigida, eternamente sull’attenti, che lo osservava da lontano con quel suo sorriso appena accennato.

Nell’istante in cui incontrò lo sguardo di John la sua andatura rallentò sensibilmente.
Le spalle scattarono all’indietro, spostando il suo baricentro fino a modificare l’assetto del suo equilibrio, e costringendolo ad avanzare per qualche metro con movimenti incerti e malfermi, quasi esitanti, per poi tornare ad accelerare improvvisamente, senza più recuperare la sua algida compostezza, procedendo con un passo ora frettoloso e impaziente. Pericolosamente vicino alla corsa.

Watson scorse appena il vistoso sorriso che affiorava su quel volto lontano, distratto da quegli occhi di colpo immobili ed attenti, fermi nei suoi, ancora troppo distanti perché potesse scorgere la rapida dilatazione delle loro pupille.

Ma non serviva.
Nel momento in cui i loro sguardi si erano toccati Sherlock era arrivato lì, di fronte a lui. Ed i metri che ancora li separavano non erano altro che una sciocca formalità delle leggi del tempo e dello spazio, che si ostinano a non voler tenere conto della realtà.
Ogni passo in più era un peso in meno, anche se l’aria sembrava svanire assieme alla distanza, portando l’ossigeno via con sé, e costringendo il petto ad alzarsi ed abbassarsi con una frequenza serrata, ingoiando con sempre maggior disappunto respiri vuoti che non bastavano più.
Forse proprio l’improvvisa mancanza di fiato affollò nella testa di Watson tante immagini di quella stessa scena, e quell’assurdo senso di nostalgia tornò a posarsi addosso senza un vero perché, facendone emergere una tra tutte. La più remota e la più chiara nella memoria, stampata a fuoco sulla fragile superficie della mente. Come ogni prima volta.
Così lontana e così diversa.
Eppure così vicina.

E così simile.

Finalmente la percezione tornò a coincidere con la realtà, e Holmes si fermò ad un passo da lui, appena un po’ più vicino del normale. Più di quanto non fosse solito fare. Proteso in avanti in un modo strano, come a voler annullare la maggior quantità possibile di spazio neutro tra loro evitando d’invadere il suo. Senza aver smesso un solo momento di guardarlo.
E di sorridere.

John sollevò la testa per non perdere quel contatto, e gli uscì dalla bocca una frase antica.

 

- Buongiorno Mister Holmes.

 

Sherlock aggrottò appena le sopracciglia, per un attimo sorpreso.

Poi ricambiò quello sguardo con espressione divertita. E la sua voce suonò pacata, intrisa della calma appropriata ad una risposta ovvia e naturale. Anche se sotto la superficie della parola covava come una vibrazione sommersa, perfettamente trattenuta ma comunque percettibile.

- Sherlock, prego.

Il sorriso di John si allargò sensibilmente, trasformando i suoi occhi scuri in due sottili fessure.

- D’accordo. Sherlock.

Pronunciò adagio quel nome, scandendo ogni sillaba come chi  per imparare un termine difficile appena sentito lo ripete ad alta voce, tentando d’imprimere nella mente quel suono curioso e sconosciuto. Senza smettere di scambiare con lui lo stesso sguardo, sostenendo a fatica quel bagliore particolarmente acceso, intriso di complicità.
E di qualcos’altro.
Un fremito sfuggente e sotterraneo che scorreva dietro l’iride, impossibile da afferrare.

Alla fine Watson abbassò gli occhi con un sospiro.
Nessuno riusciva a sostenerlo troppo a lungo.
Nemmeno lui.

Neanche dopo tutto questo tempo.

Alla perdita di quel contatto Sherlock scosse la testa con un movimento leggero, manifestando apertamente il fastidio di quella nuova distanza che si era creata tra loro.
Con una rapida mossa si protese in avanti, allungandosi oltre la spalla di John e fissando con ostentata curiosità la grossa valigia marrone posata sul marciapiede a qualche passo dalla vetrina dello Speedy’s, accanto ad una piccola cassettiera malmessa che faceva la sua magra figura in mezzo alla via, mettendo in mostra le ormai troppe cicatrici che il tempo le aveva inferto nella sua lunga e fedele esistenza al fianco di John.

- È tutta qui la sua roba, dottore?

Watson sollevò nuovamente la testa, scuotendola energicamente.

- Oh no! Ho portato con me solo lo stretto indispensabile. Il resto arriverà con un camion dei traslochi tra… Mmmh…

Una breve pausa per sollevare la manica della giacca scoprendo l’orologio appena un istante e poi guardare la fila ordinata di macchine che invadeva la strada, guadagnando con fatica ogni singolo centimetro d’asfalto, senza manifestare alcun cenno d’impazienza.

- …Un’oretta buona direi, a giudicare dal traffico.

Indugiò qualche attimo su quella carovana d’esseri umani in viaggio verso la loro vita, che si ripeteva uguale a sé stessa ogni mattina, senza variazioni.
Poi si voltò di scatto, unendo le mani dietro la schiena ed inarcandosi in una posa buffa, mentre puntava deciso lo sguardo sulle due finestre al primo piano del 221B di Basket Street.

 

- È un posto di prima scelta questo!

 

La voce squillante, a stento trattenuta. Che tentava di smorzare il riso suonando il più naturale possibile.

- Già.

Holmes seppe controllare assai meglio il tono della sua laconica risposta mentre si girava a sua volta, accomodandosi nella stessa identica posizione, e fissando anche lui con sguardo solenne quelle grandi tende accostate.
Due statue goffe col naso all’insù, ferme a qualche passo dal portone.
L’una di fianco all’altra.

- Dovrà costarle un patrimonio viverci.

- Neanche troppo. Sono amico di lunga data della proprietaria, che mi fa da tempo un prezzo di favore.

John non riuscì più ad evitarsi di sorridere.

- Oh che fortuna. È amico anche del marito?

Si voltò giusto un secondo.
Appena il tempo necessario per riuscire a catturare il labbro di Sherlock che per un solo istante sfuggiva al suo controllo, increspandosi in un ghigno subito ripreso e trattenuto.

- No… Di lui non molto.

Ma Watson perse comunque la sfida, costretto ad abbassare la testa coprendosi la bocca con una mano per nascondere l’accesso di riso che affiorava inarrestabile dal petto.
Chiuse gli occhi un momento, tornando poi ad incrociare le braccia dietro la schiena e ad alzare il viso, ricacciando in gola la risata con un ultimo sforzo.

Con la coda dell’occhio vide Holmes dondolare cautamente il busto avanti e indietro, lasciando scivolare tra i denti una voce oziosa, condita da un pizzico di rimprovero e di saccenza.

- Lo sostengo da tempo del resto, che i matrimoni sono una pessima idea come principio.

Senza staccare gli occhi dalle nuvole scure che si riflettevano sul vetro delle finestre qualche metro sopra la sua testa continuò a dondolarsi con oscillazioni sempre più ampie, del tutto incurante delle occhiate che quell’insolito movimento attirava su di lui. Fino a quando non si fermò di colpo, con la schiena talmente inarcata all’indietro da rendere ardua la comprensione di come riuscisse a rimanere in equilibrio senza vacillare.
Da quella posizione esagerata, in qualche modo impacciata, continuò a parlare con tono improvvisamente pacato. E insolitamente basso.

- Un mio lontano conoscente si sta separando dalla moglie in questo periodo, ed è stato buttato fuori casa senza troppi complimenti. Io glielo avevo pur detto -e ripetuto- ch’era veramente pessima quella sua cocciuta idea di sposarsi. Ma non mi ha voluto dare retta. Dopo tutti questi anni ancora non è riuscito a rassegnarsi all’evidente quanto inevitabile dato di fatto che io ho sempre ragione.

Mentre quel fiume di parole gli attraversava la testa John la scosse debolmente, lasciando che il sorriso sulle sue labbra prendesse una piega amara.
E il suo volto si abbassò adagio. Le braccia ricaddero senza forza lungo i fianchi.
Gli occhi scivolarono a terra. Tra le pietre. Incastrandosi sulla punta dei piedi. Ormai completamente privi dell’ilarità che tentavano solo pochi istanti prima di trattenere.

Sherlock non si voltò a guardarlo, ma non potè risparmiarsi di vedere.
Quelle spalle incurvate e quel capo chino, sconfitto dal peso che gli aveva appena gettato addosso, ostentando la sua sciocca ragione con il gesto infantile e rabbioso del bambino che esibisce boriosamente una sicurezza che non ha nel disperato tentativo di convincere se stesso.

E invece lo sapeva.
Di avere torto.

Forse lo aveva detto proprio per questo. Per poter sentire quel dolore, e non dimenticarlo neanche in quel momento.
Aveva dovuto toccare con mano quanto fosse forte ancora la pressione che esercitavano quelle zanne affilate sulla loro preda. Nella segreta speranza che avessero allentato almeno un po’ la presa.

Ma si era sbagliato.

 

- Condividere la vita con qualcuno non è mai facile.

 

Nessuna traccia d’ironia nelle composte parole di John, pronunciate con voce sommessa.

Non serviva guardare.
Non voleva guardare.
E la distanza continuava ad aumentare vertiginosamente, tornando ad essere metri, e chilometri. In una manciata d’istanti.
Holmes raddrizzò il busto di scatto, mantenendo la testa alta e gli occhi fissi sulle curve di quell’inferriata fiorita che tante volte aveva guardato senza sentire il bisogno vedere, mentre il suo cervello tentata d’individuare senza successo anche solo un grammo di verità nella frase che aveva appena sentito.

- Ah davvero?...

Non gli era mai sembrato difficile.
Nemmeno una volta.

Sentì le spalle di John sollevarsi lentamente, la sua testa alzarsi e fissarsi ancora là, su quei vetri chiusi che riflettevano il cielo. Le mani tornarono ad intrecciarsi dietro la schiena, e dalla bocca uscì un profondo sospiro.

 

- Non ci crederà, ma una volta ho diviso l’appartamento con un tizio che teneva teste mozzate nel frigo.

 

Improvvisamente di nuovo vicino.
Ad un solo passo da lui.
E Sherlock si voltò di colpo, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati, sfoggiando l’espressione più scandalizzata che avesse mai attraversato il suo viso. Così eccessivamente carica di sorpresa e disgusto da risultare perfettamente credibile.

- Oh mio dio, è una cosa abominevole! Non posso credere che esistano persone del genere!

John scoppiò finalmente a ridere. Senza trattenersi.
Si girò a guardarlo scuotendo la testa e fissando gli occhi in quelli saturi di un orrore quasi perfettamente genuino di Holmes, che si portò con un gesto enfatico le mani giunte all’altezza del mento, stringendo le labbra e parlando con voce forse appena troppo grave per suonare sincera.

- Non si può mai sapere con chi saremo costretti a convivere nella vita.

E Watson continuava a ridere, senza più riuscire a fermarsi.
Si passò le mani tra i capelli chiudendo gli occhi. Immerso in quella risata genuina che gli usciva dritta dal cuore, spazzando via ogni ombra.

Poi alzò nuovamente la testa e la scosse. Con una forza insolita. Tornando a fissare su Sherlock uno sguardo risoluto, nuovamente divertito.

- A proposito! Il mio nome è John Watson, piacere di conoscerla.

Nel pronunciare quella frase allungò la mano verso Holmes, replicando quel gesto lontano che per la prima volta li aveva visti insieme, proprio lì davanti, pronti a condividere la vita senza sapere nulla l’uno dell’altro, per una banale questione d’affitto.

Sherlock fissò quelle dita protese verso di lui, a pochi centimetri dal suo petto.
E non esitò un solo istante ad afferrarle.

Strinse quel palmo soltanto un momento. E non si fermò.

Con un gesto veloce ruotò il polso verso l’esterno, portando il dorso della mano di John verso l’alto e sollevandolo con la stessa rapidità, senza dargli il tempo di capire le sue intenzioni.

E prima che potesse accadere le labbra furono su quelle dita.
Premute. Schiacciate contro la sua pelle.

Nessuna distanza.

Senza osare respirare. Ad occhi chiusi.
Assaggiando quel sapore nuovo e familiare.
Avvertendo sulla bocca il fremito che attraversava quella mano serrata nella sua. Intrappolata in una stretta troppo forte, esasperata dal terrore di poter perdere un’altra volta la presa.

Qualche istante ancora.
Prima d’allontanarla. Faticosamente.
Aumentando di nuovo la distanza.

Per evitare di trasformare quel contatto in qualcosa d’indefinibile.
E irragionevole.

Sherlock riprese fiato, liberando la gola.
La mano di John a pochi centimetri dalla sua bocca, incastrata in quel laccio che continuava a stringere. E a stringere. Fin quasi a stritolarla.
Poi aprì gli occhi, fissandoli in quelli sorpresi di Watson,  che lo guardava con aria incerta e divertita, ritrovando sul fondo delle sue iridi grigie il fremito che prima non era riuscito ad afferrare, ma adesso emergeva in superficie con una chiarezza tagliente.

Una gioia feroce.

Spaventosa nella sua intensità.
Come solo le rare emozioni che attraversavano i suoi occhi sapevano essere.

E le labbra di Sherlock si schiusero in un violento sorriso.

 

- Incantato.

 

John rise ancora.
Con un tono forte. Trasparente.
Guardando quel viso traboccante d’esultanza ed ironia. Assaporando il benessere di respirare quell’aria. Ricambiare quel sorriso. Sentire quelle lunghe dita strette attorno alle sue, che sembravano non volerlo lasciar andare.
Mai più.

E tornare finalmente a casa dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

 

Il familiare suono dello scrocco della serratura li spinse a voltarsi, spostando i loro sguardi sul portone che si stava schiudendo di fronte a loro un gemito, lasciando che una piccola figura vestita di viola sporgesse la sua testolina rossa e ben acconciata fuori dall’ingresso, fissando i suoi occhi allegri prima su Holmes, poi sulle loro mani strette l’una nell’altra, e infine su Watson, mentre la sua bocca sottile si allargava in un raggiante sorriso.

- John!

La signora Hudson non ci pensò nemmeno un secondo.
Si lanciò in avanti a braccia aperte afferrando Watson per le spalle ed attirandolo a sé.

- Signora Hudson!

John si lasciò andare in quell’abbraccio inatteso, divincolandosi a fatica dalla presa di Holmes per poter sostenere con entrambe le mani il fragile corpo della sua nuova padrona di casa, che continuava a cinguettare stringendolo al petto.

- Sono così felice che sia tornato a casa John!

Sherlock rimase immobile, con il palmo vuoto proteso in avanti, osservando con una punta d’invidia quella donna capace di esprimere così spontaneamente ed apertamente la sua felicità.

E lei si staccò da Watson all’improvviso, aggrottando le sopracciglia mentre agitava l’indice davanti al suo naso con uno scherzoso accento di rimprovero.

 

- Non ci lasci mai più!

 

Fissando quel dito e quella silenziosa accusa John si limitò a sorriderle.
Senza rispondere.

Mrs Hudson fece un passo indietro, spalancando il portone ed invitandoli dentro con un gesto affrettato.

- Entrate, entrate! Che sta iniziando a piovere!

- Subito!

Watson si voltò e si diresse alla volta della sua valigia, afferrando la maniglia con entrambe le mani e tornando rapidamente verso l’ingresso. Ma il peso non indifferente dello stretto indispensabile destabilizzò con facilità il suo equilibrio, costringendo Holmes a spostarsi per evitare di prendere una sonora valigiata sugli stinchi.
Prolungando il movimento con cui aveva appena scansato il colpo Sherlock s’inchinò con una mossa teatrale, indicando l’entrata del 221B con un ampio gesto del braccio.

- Prego, mio caro Watson.

John gli sorrise divertito, scuotendo la testa. Catturato dallo sguardo scherzoso di Holmes si dimenticò di guardare dove stava mettendo i piedi. E gli ingombri.
Lo spigolo duro del suo corpulento bagaglio andò così ad impattare nella porta con un colpo brusco che rimbombò per tutto l’androne delle scale, lasciando un vistoso graffio sulla vernice scura a circa venti centimetri dal suolo.

La signora Hudson si chinò d’istinto a valutare il danno, mentre John si tirava indietro mortificato.

- Oh accidenti! Mi dispiace, io…

Ma la padrona di casa scosse la testa con un sorriso, mettendogli una mano sulla spalla.

- Stia tranquillo John! Questo portone ne ha già prese tante di botte, e ne prenderà ancora altre mille! Ferite di guerra! Ne va orgogliosa! Vorrà dire che ogni volta che vedremo quel segno ci ricorderemo di questo bel giorno!

Mentre parlava prese Watson sottobraccio, conducendolo all’interno dell’abitazione ed avviandosi con lui su per le strette scale che portavano al primo piano.

Sherlock rimase fermo sull’ingresso, osservandoli mentre salivano un gradino dopo l’altro trascinandosi dietro quel carico massiccio.
Non fece nulla per evitare che la porta si richiudesse alle loro spalle, emettendo un debole cigolio.
Il battente si serrò con un tonfo sordo, facendo scattare la serratura.

Soltanto allora Holmes si voltò. E si diresse verso quella cassettiera malandata in mezzo al marciapiede, fermandosi ad osservarne la superficie logora e piena di solchi.
Di ognuno di essi avrebbe potuto indovinare facilmente l’origine, leggendo in quelle mille cicatrici tanti piccoli pezzi della sua vita.
Ma non lo fece.

Si limitò a posare una mano su quel piano ruvido. Con esitazione.
Trattenendo il respiro.

Una goccia cadde all’improvviso sulla vecchia tavola in noce, disegnando un piccolo cerchio bruno tra le sue venature. E Sherlock alzò la testa verso le nuvole.

Il cielo stava mantenendo la sua promessa.

Chiuse gli occhi.
Aspettando di sentirla sul viso.

E mentre il suo palmo aderiva con forza a quel legno consumato Holmes espirò adagio.
Lasciandolo finalmente libero di muoversi alla velocità che preferiva.

Il cuore.

Mentre avvertiva distintamente quello spaventoso squarcio da troppo tempo incuneato al centro del petto che finiva lentamente di richiudersi, colmando l’ultimo residuo di distanza.

               Senza lasciare neanche un millimetro di spazio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note finali (Seduti comodi?...):
1. Spero che nessuno si sia trovato troppo spiazzato dal(l’ ulteriore) salto temporale di questo ultimo capitolo. La fic in realtà si era già conclusa nel cap precedente, e ciò che avete appena letto è una sorta di postfazione.
Volevo che l’inizio del capitolo creasse un po’ di confusione, e spero di non averne generata troppa.
La mia idea era che la scena sembrasse descrivere l’arrivo di John a Baker Street dopo la sua corsa per Londra, per poi trasformarsi lentamente, dettaglio dopo dettaglio (sta per piovere e non c’è il sole, John ha la giacca, Sherlock non è in casa), in tutt’altro momento nel tempo, saltando a piè pari tutto quello che è successo nel mezzo.
Questa storia voleva solo mettere in campo le pedine e far partire il gioco, senza raccontarne lo svolgimento. Ma nonostante questo mio intento programmato fin dall’inizio era indispensabile (no, forse non era indispensabile… però l’ho trovato terribilmente azzeccato) ‘chiudere’ raccontando la soluzione definitiva -lontana nel futuro- alla fase di stallo  fotografata nel finale del capitolo precedente, che vedeva Watson correre  sospeso tra due vite, intrappolato in una situazione ambigua destinata a durare a lungo nel tempo.
John comincia a correre nel capitolo precedente e arriva veramente a casa solo anni dopo, con una lunghissima corsa ideale.
Con questo epilogo il cerchio dell’abbandono si apre e si richiude all’interno della storia, finendo compiutamente il discorso che aveva iniziato, e il lettore fa lo stesso viaggio della cassettiera di John, tornando alla fine nello stesso posto da cui era partito.

2. Ve ne sarete accorti tutti penso, ma già che sono a fare le note… :
Tutto il dialogo tra John e Sherlock davanti al 221B è ricalcato sul loro primo incontro davanti a quella stessa porta nel primo episodio della serie BBC.
I due ‘replicano’ volutamente la scena del primo trasferimento di Watson a Baker Street nel giorno del suo ritorno a casa dopo anni d’assenza, facendo finta di non conoscersi. Come se si trattasse davvero di ripartire da zero, con un nuovo inizio.
Tra l’altro non so se qualcuno di voi ci ha fatto caso, ma ho voluto sfruttare l’occasione per scrivere un intero dialogo in cui Sherlock Holmes e John Watson si danno del lei, nonostante l’ambientazione moderna, così come si danno del lei nella versione italiana del canone. (in inglese è sempre you).
Ho voluto rendere tutta la scena del dialogo il più possibile ‘ottocentesca’, rifacendomi anche ai forbiti modi d’apostrofarsi che i due utilizzano nei racconti originali di Doyle. «My dear Watson» è una delle frasi che Holmes usa spesso per rivolgersi all’amico, che non chiama MAI per nome.
Anche il baciamano è una pratica ottocentesca, ovviamente. **
Spero che fosse chiaramente percepibile il gioco sulla ‘distanza’ che ho cercato di creare. La fic è partita con un allontanamento fisico tra i due, e finisce in questa breve scena che è un progressivo riavvicinamento a metà tra il fisico e l’emotivo, guidato dal desiderio di Sherlock di annullare finalmente quella distanza che si era creata nel primo capitolo tra lui e John, che ha dovuto sopportare per anni, e che adesso si sta dissolvendo lentamente centimetro dopo centimetro, raggiungendo il suo culmine nel punto zero in cui tra loro non esiste più alcuna distanza, né fisica né emotiva, attraverso quel contatto antico ed insolito.
Volevo che fosse una scena un po’ senza tempo, e senza fandom. E ancora una volta sono rimasta quasi del tutto fuori dalla testa e dal cuore dei protagonisti della vicenda, lasciando che i gesti parlassero per loro.
Inutilmente pesante (e inopportuno) sarebbe stato entrare troppo ‘dentro’ Watson e Holmes in questo giorno.
Il salto temporale si porta dietro un enorme bagaglio di fatti, sentimenti e cambiamenti (matrimoni, morti presunte, morti reali, battaglie all’ultimo sangue ecc ecc) che non possono essere riassunti in un semplice incontro, se non al prezzo di rendere il tutto eccessivamente gravoso, ed io invece volevo che questo epilogo avesse un’aria intensa e leggera. Fresca come la gioia di riuscire finalmente ad afferrare una soluzione a lungo cercata.
Ciò che provano questi due uomini che tornano a convivere dopo anni di separazione si dovrebbe leggere –o meglio intuire- attraverso ciò che fanno.
Il salto temporale non è comunque lungo come nel canone (almeno sei anni). Grossomodo ne sono passati due dagli eventi narrati nei capitoli precedenti.

3. Si capisce dal discorso che fa Holmes, ma per sicurezza lo ribadisco: ovviamente Mary in questa versione ‘moderna’ non è morta, lei e Watson si sono semplicemente sposati e poi separati, come succede al 70% delle coppie nel 2011, e non poteva invece succedere nel 1800.
John si è ritrovato fuori casa e sta tornando a vivere a Baker Street, dietro invito di Holmes.

4. Il titolo di questo cap è stato messo lì appositamente per ingannarvi (*.*).
Venendo dai capitoli precedenti l’interpretazione più ovvia che si può dare a quella strada senza ritorno è un’impossibilità per Watson di tornare a Baker Street dopo la decisione presa. In realtà una volta letto il capitolo la frase assume un significato esattamente opposto, e molto più ampio.
Sono tante le vie senza ritorno in questa fic: Sherlock non può tornare indietro. Non vuole fare a meno dell’amico, e non gli resta che tentare di trattenerlo con sé. Mary non può tornare indietro, ha lasciato John e non tornerà da lui. E soprattutto non può farlo Watson. Non può più tornare sui suoi passi.
Non importa dove andrà, non potrà mai allontanarsi veramente da Baker Street. Anche lui ha preso una strada senza ritorno.

5. È giunto il momento di rivelarvi un mio piccolo segreto…
C’è un motivo scemo per il quale il personaggio di Mary mi è sempre rimasto simpatico, nonostante il suo ruolo scomodo e lo scarso impegno che ci mette Doyle nel tratteggiarlo. Qualcosa che me la fa piacere nonostante l’enorme ‘danno’ che fa entrando in scena e nonostante abbia i capelli biondi (io odio le bionde).
Il motivo è che io e lei siamo omonime.
Da qualche parte nella psiche il mio orgoglio s’incendia all’idea di avere lo stesso suono della moglie di John Watson, nonchè ‘rivale’ di Holmes, che esce addirittura vittoriosa dallo scontro.
Ripensandoci attentamente…  questa è la cosa più simile ad una Mary Sue che io abbia mai scritto in vita mia.
Gh. Mi si accappona quasi la pelle… Forse tra un po’ scriverò un best seller che venderà milioni di copie, sul quale scriveranno miliardi di fanfiction (piene a loro volta di Mary Sue) e dal quale produrranno una serie di film campioni d’incassi. [Questa è un’ipotesi di fantasia. Ogni riferimento a libri o persone realmente esistenti è puramente casuale].
Ma tornando ad essere seri…. È ovvio che questa scemezza non sia l’unico motivo per cui apprezzo il personaggio. Il principale motivo per cui lo ritengo determinante  al di là della sua misera comparsata è che in lei vedo materializzata la vera nemesi di Holmes.
In un certo senso è proprio Mary il suo nemico naturale, più di Moriarty, Mycroft o la Adler, che in realtà riescono ad assumere l’ambito ruolo di suoi avversari perché sono estremamente simili a lui.
La signora Watson invece è davvero il suo contrario in ogni cosa, dalla più stupida alla più importante. Bionda/moro, donna/uomo, cuore/cervello, comune/straordinario. Dite una caratteristica di Sherlock e lei avrà l’opposta. Sempre.
Holmes contro di lei non ha nessun’arma. Non può battersi. E se ne rende perfettamente conto.
Mary incarna tutto ciò che è normale, ordinario, femminile, carnale, delicato, banale, sentimentale, noioso se vogliamo, ma così rassicurante ed empatico che a Holmes manca totalmente. Rappresenta quella normalità di cui lo stesso John è costituito, e di cui il dottore ha bisogno per sfogare la sua emotività più genuina.
Lei è tutto ciò che Sherlock non potrà mai essere. È il cuore che si scontra con la ragione.
Un cuore che perde su molti fronti ma esce vittorioso da altre battaglie, che la mente non può combattere.
Concludo la nota con un’uscita ancor più scema di quella con cui ho iniziato, linkandovi l’immagine ‘ideale’ di come mi figuro io l’aspetto di Mary Morstan.
Non ho idea di chi sia la tizia in questione, l’ho trovata a giro per la rete e photoshoppata qua e là.
È particolarmente scema come cosa, me ne rendo conto. Ma visto che stiamo a slashare un telefilm… facciamo anche il casting no?

6. Sull’onda della nota precedente posso finalmente spiegarvi uno dei motivi principali per cui ho scritto questa storia.
Al di là del tema, dello svolgimento, e dei protagonisti della vicenda, uno degli intenti di questa fic era di posizionare Watson nel modo più corretto possibile al fianco di Holmes, e per farlo mi sono voluta cimentare in una sorta di apologia dell’eterosessualità di John.
Sembra un paradosso. Soprattutto perchè siamo in un contesto slash. E invece secondo me è proprio quando si naviga in queste acque che è importante tenere conto di questo aspetto.
Io trovo che attribuire a Watson delle nascoste pulsioni omosessuali, screditando la sua attrazione per le donne, in realtà non faccia altro che sminuire e banalizzare enormemente il sentimento che prova per Sherlock.
Cosa c’è di straordinario in un gay attratto da un uomo?
Assolutamente niente.
Mentre ciò che lega John a Holmes non ha niente di ordinario.
È un’affezione talmente intensa e fuori dal comune da trascendere il suo orientamento sessuale.
Il dottore non s’ “innamora” Sherlock perché in realtà è gay, s’ “innamora” di lui NONOSTANTE non lo sia.
A Watson piacciono le donne, e solo le donne. Non è nemmeno bisessuale. Eppure è chiaramente “innamorato” di Sherlock, che ne possiede tutta la mente, e metà del cuore.
Solo metà, perché John ama sinceramente di Mary, di quell’amore passionale, fisico, sentimentale e privo di struttura ch’è più naturale nell’uomo.
Ciò che prova per Sherlock è di tutt’altro livello e spessore, e non ha niente a che vedere con la sessualità.
In questa differenza si nasconde il cuore della mia fic, in cui ho cercato di raccontare la scissione di Watson tra queste due forme d’amore, così diverse tra loro. Il suo bisogno di averle entrambe crea la situazione descritta nella mia storia. Per questo trovo indispensabile difendere il sentimento sensoriale e sessuale che John prova per quella che sarà la sua futura moglie, separandolo nettamente da quello che prova per Holmes.
Quando ostento il mio blocco psicologico nel non poter leggere fic ad alto tasso erotico su questa coppia perché composta da attori esistenti dico tre quarti della verità. Il motivo è principalmente quello, ma in parte la mia riserva nasce anche dal fatto che non vedo alcun punto d’incontro tra questi due uomini sull’argomento ‘sesso’.
Senza dubbio esiste il modo di farli finire a letto insieme, ed in questo fandom ne ho anche intravisti di molto azzeccati e IC. Solo che sarebbe appunto un incidente, una contingenza, una forzatura. Qualcosa d’anomalo che s’inserisce in un legame che tocca tanti tasti e svariati organi, ma non quelli sessuali. E gran parte della sua bellezza sta proprio in questo.
Badate bene che parlo da slasher convinta, che ama leggere e scrivere -ed ha in passato letto e scritto- cose anche sconcissime, ai limiti della denuncia penale.
Eppure in questo caso (e solo in questo) trovo il legame tra questi due uomini particolarmente splendente proprio perché cammina su binari tutti suoi, che non si possono ricondurre ad una definizione precisa (slash, bromance, yaoi, shounen-ai et similia).
Siamo davanti ad una simbiosi talmente forte da far “innamorare” tra loro un normale uomo eterosessuale e un genio asessuale.
Alla fine sono una ragazza all’antica, di quelle che tendono a separare l’amore dal sesso, ed anzi conferiscono all’amore platonico una caratura maggiore, le rare volte in cui davvero esiste. E resiste. Questa è secondo me una di quelle volte.
Perciò è così importante secondo me parlare dell’amore che John prova per Mary. Perché solo definendo (e difendendo) con chiarezza questa parte ‘normale’ della sua emotività si riesce a dare la giusta luce al vincolo straordinario che lo lega a Sherlock.
Questa storia in fondo non fa che puntualizzare ed approfondire il discorso che avevo iniziato nella mia prima fic riguardo al suo titolo (I wanna grow in your garden). È sempre lo stesso discorso che gira nella mia testa e che tento di esprimere attraverso ciò che scrivo.
Per questo Watson non poteva rispondere sì a quella proposta. Perchè tra loro non c’entrano nè il sesso, nè gli affitti da pagare, nè le regole sociali. È qualcosa di molto diverso da un semplice, banale matrimonio, che può finire con un semplice, banale divorzio.

7. È finalmente giunto il tanto atteso momento del quizzone.
Jerry Scotti è di fronte a voi, seduto sul suo comodo sgabello rialzato. Avete esaurito tutti gli aiuti e potete contare solo su vuoi stessi per riuscire ad agguantare il montepremi finale. Un milione di euro in tappi di bottiglie se risponderete a questa semplice domanda:
Chi tra voi sa dirmi…quante mogli ha avuto John H. Watson?
A. due        B. una       C. sei
D. zero       E. sette      F. dato non pervenuto
La risposta esatta è probabilmente la F, ma vi assicuro che per ognuna delle altre risposte esistono fior di detrattori con tanto di minuziose ed accuratissime teorie.
L’ipotesi più accreditata sembra essere la A, che attribuisce a Watson una prima moglie Mary Morstan, dopodichè gliene appioppa un’altra –senza nome né identità- in seguito alla sempre più famosa frase di Holmes «deserted me for a wife» ed una serie di altri dettagli e deduzioni (ha ha ha).
Durante le mie ricerche sull’argomento ho scovato addirittura un simpatico amico il quale avanzava con tanto di argomentazioni serissime l’ipotesi che la seconda moglie di John fosse in realtà Mrs Hudson… **
Questo è il casino che spesso succede quando un personaggio diventa più potente del suo autore, e ne forza il volere, costringendolo a scrivere su di lui anche dopo che la vena sembra essersi esaurita. Doyle voleva concludere la storia di Holmes con la sua morte nello scontro con Moriarty, lasciando Watson alle cure della sua mogliettina Mary. [«Pray give my greetings to Mrs. Watson, and believe me to be, my dear fellow,very sincerely yours, Sherlock Holmes.» (*_*)]
Ma non gli è stato permesso.
Sir Arthur è stato anche assai resistente, per otto lunghi anni non ha toccato penna ed ha lasciato il povero Sherlock a galleggiare nel fiume, però alla fine ha dovuto comunque cedere alle pressioni del pubblico, e andare a ripescarlo.
Credo che il nostro consulting detective sia il primo personaggio letterario ‘resuscitato’ a furor di popolo a dispetto della morte decisa dal suo creatore. Dopo di lui letteratura (e fumetto) sono stati invasi da queste ress forzate, dettate più dal desiderio di guadagno che dall’ispirazione letteraria.
Questo non vuol necessariamente dire che tutto ciò che viene dopo la redivivazione sia da buttare via, o senza valore. Tutt’altro. Io per prima sono felice che Holmes non sia morto precipitando in quella cascata, perché ci saremmo persi tanta robba. Spesso anche se costretti gli autori tirano fuori delle gran belle cose, solo che non ci possiamo stupire se gli scappa qua e là qualche cialtronata, visto che l’interesse per l’argomento in loro è scemato.
La seconda moglie di Watson è effettivamente una cialtronata. Un essere inutile buttato lì di sfuggita, senza nome né aspetto, né alcun tipo di senso narrativo. È talmente sciatta come uscita che verrebbe quasi la tentazione di dare alla celeberrima frase di Sherlock qualsiasi altro significato, appioppando al dottore una scappatella extraconiugale con la moglie di Lestrade, oppure ad Holmes una dislessia settoriale per la definizione delle creature dotate di tette (mogli, donne, cameriere, femmine, guastafeste, rompicoglioni, tutti sinonimi). Se ci fosse solo quella frase, io lo farei.
Purtroppo però c’è anche il non trascurabile dettaglio che John leva le tende da Baker Street.
E John leva le tende da Baker Street solo quando si trova una maledetta moglie. Quindi per quanto sciattamente esposta temo che l’idea di un secondo matrimonio di Watson fosse esattamente ciò che aveva in mente l’autore mettendo quelle parole in bocca a Sherlock.
Posso immaginare che a Doyle sia suonato un vago campanello d’allarme quando gli è passato per la testa che avrebbe chiuso le avventure di Sherlock Holmes lasciando questi due scapoli/vedovi a vivere soli soletti al 221B di Baker Street fino alla loro morte. Probabilmente ha sospettato che nel 2011 avremmo potuto pensar male, così ha tirato fuori la seconda moglie in zona cesarini.
Ma noi pensiamo male lo stesso, quindi è stata fatica (poca) sprecata.
Sir Conan l’aveva trovata una moglie a Watson, ed era Mary. Per poter ricomporre la coppia di detective che tanto piaceva al pubblico ha dovuto eliminarla, e a quel punto glien’è fregato assai poco di ridefinire la questione, ha solo rimesso in piedi alla meno peggio e all’ultimo momento la situazione finale che avrebbe voluto lasciare all’origine, con un Watson sposato e un Holmes se non morto (per carità… che poi gli toccava ressarlo di nuovo…) quantomeno ritirato a fare l’apicoltore (?????????????... come gli è venuta questa lo sa solo lui… Candyman!).
Allora! Con questo cosa volevo dire!
Non lo so! Però! C’ho ragione! E i fatti mi cosano!
*Dono della sintesi vieni a me*
Stringendo… Il senso di tutta questa lagna/riassunto/analisi (ve lo avevo detto o no che era una cosa lunga? Non mi date mai retta…) è che volendo riportare a moderno tutto ‘sto garbuglio noi ci troviamo in una situazione più vantaggiosa rispetto a Doyle. Ai suoi tempi il divorzio già esisteva, ma era una cosa rara, se volevi liberarti di una moglie era più semplice farla secca.
Nel 2011 per fortuna invece esiste addirittura la separazione, quindi è buffo da dire ma risulta più facile per noi rispettare i suoi desideri di autore in un remake moderno di quanto non lo fosse per lui farlo nei primi del secolo.
Sto parlando dell’ipotesi B ovviamente, quella secondo cui Watson ha avuto una sola moglie, Mary Mostan, dalla quale si è separato a causa di un lutto (poniamo la morte di un figlio?) per poi ritornare da lei dopo un po’ di tempo.
C’è addirittura chi avanza questa stessa ipotesi pure nel canone, anche se in un contesto ottocentesco il divorzio sembra essere abbastanza improbabile.
Intendiamoci… la pratica esisteva già 4000 anni fa nella cultura egizia, e l’Inghilterra è pioniera sull’argomento. Ve lo ricordate il nostro amico Enrico VIII? Quello che uccise tante mogli perché continuavano a entrare in bagno? Ecco! Lui creò a muzzo la Chiesa Anglicana nel 1534 solo per poter divorziare da una di quelle poveracce (evidentemente si era stufato di doverle accoppare) alla faccia della religione cattolica e soprattutto di Papa Leone X, che glielo impediva. Lo sapete no, a quei tempi the King riceveva sia il potere temporale che quello religioso, la palla e la staffa, quindi non poteva sgarrare pena la detronizzazione e tante altre cose poco carine e… INSOMMA! Ditemi qualcosa quando divago così!
STRINGENDO!*Nggggh* Se è vero che il divorzio oltremanica esiste e viene praticato sin dal 1500, resta comunque una faccenda più che altro per nobili e Re fino al ventesimo secolo. C’è anche da dire che uno dei motivi per chiedere il divorzio al tempo era la sterilità, e calcolando che in sei anni di matrimonio in casa Watson di figli non s’era vista nemmeno l’ombra l’ipotesi potrebbe anche non essere così peregrina, ma alla fine dei conti è molto più semplice e meno arzigogolato associare il lutto di cui parla il dottore al fatto che Holmes parli di UNA moglie e non di Mrs. Watson (come definisce Mary dopo il suo matrimonio con John) arrivando alla più lineare conclusione che la Morstan sia effettivamente morta, e il buon dottore si sia risposato.
Doyle non poteva farlo, anche se secondo me avrebbe voluto. Ma nel 2011 noi possiamo. E quindi facciamolo. Io scelgo la B.
L’accendiamo!
In fondo in fondo in fondo in fondo sono un po’ romantica dai…  Preferisco pensare che nella sua vita John abbia amato una sola donna.
E un solo uomo.

PS Siete giunti fino a qui, e questo dimostra il vostro indubbio coraggio, la vostra abnegazione e la vostra enorme pazienza, ma soprattutto dimostra che avete davvero un sacco di tempo da perdere.
Per questo meritate un premio.
Immagino che il finale vi abbia lasciato un po’ in sospeso, e che sarete curiosi di sapere almeno com’è andata la prima notte di reunion di questi due freschi… coinquilini.
Ah-ah! Se pensate a cose zozze vi mando a rileggere la nota 6. Non vi conviene.
Se invece fate i bravi posso dirvi che per gentile concessione della bravissima fanwriter Stray cat Eyes ho l’onore di potervi indicare la sua splendida fic Floating, feeling come seguito ideale di questo capitolo, assicurandovi che la mia idea di come sono andate le cose quella sera è praticamente identica, solo che io l’avrei scritta molto peggio. In circa 4mila caratteri...
Ringrazio questa bravissima autrice per avermi permesso di linkare il mio lavoro al suo, e per aver composto questa meraviglia che mi ha fatto tornare la voglia di scrivere dopo anni.
Grazie di esistere! ><v

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Capitolo 6
*** Capitolo Extra: What the fuck happened here?! ***


Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Nell’impianto originario della fic non volevo raccontarlo, e quindi non l’ho raccontato. Però avete ragione voi, era davvero un peccato saltare l’incontro di John e Holmes dopo la sua corsa per le strade di Londra. Soprattutto se la scena c’è.
La storia principale non poteva che andare così per come l’avevo concepita. John doveva restare a metà della strada, là dove lo avevamo trovato all’inizio, e non andava detto niente di più prima del capitolo finale, per non far cadere la tensione.
Però la scena c’è.
E allora mi sono detta, perché non scriverla?
L’idea iniziale era tentare una flashfic, ma mi sono dovuta arrendere a me stessa quando ho realizzato che SOLO lo schema del capitolo era di 443 parole…
Devo rassegnarmi alla mia natura, non c’è nient’altro da fare. Sopportatemi.

WARNING Non commettete l’errore di considerare questa ‘giunta’ un seguito diretto del capitolo 4. Non lo è.
Il tono ed il clima sono del tutto differenti, e la tensione che ho creato nella storia principale si è riversata ed esaurita interamente nel capitolo 5, che è e resta il finale di questa fic.
Ciò che state per leggere rispecchia esattamente il titolo che ha: è un episodio extra. Un di più.
Una di quelle scene che al cinema ti mettono dopo i titoli di coda, come chicca finale.

Inciso Il titolo di questa fic -nonchè la sua versione tradotta all'interno della storia- vanno lette ispirandosi alla frase che pronuncia John nel telefilm quando Sherlock si mette a sparare al muro. (se non ve la ricordate andate a rivederla. Merita.) 

 

 

 

What the fuck happened here?!

 

 

 

 

John continuava a correre.

Nonostante la fatica. Nonostante i muscoli quasi pietrificati dall’acido lattico. Nonostante l’aria che gli scartavetrava la gola, entrando a raffiche attraverso la bocca spalancata in una smorfia grottesca.
Nonostante il sudore, che si asciugava spietatamente sulla pelle, assicurandogli una piacevole broncopolmonite primaverile, di quelle che ti sdraiano a letto per due settimane, imbottito di Amoxicillina e acido clavulanico.

Eppure lui continuava a correre.

Perchè mancava troppo poco per fermarsi adesso.

Ancora una curva e avrebbe visto quelle grandi finestre, con le tende tirate ed il riflesso del sole sul vetro.

Non appena girò l’angolo alzò d’istinto la testa, senza rallentare, cercando con gli occhi la vistosa insegna dello Speedy’s.
La possibilità che il 221B fosse evaporato nelle ultime ventiquattr’ore era piuttosto remota, eppure quando intercettò da lontano quella familiare sagoma di legno nero su intonaco bianco John si sentì stranamente rassicurato.
Lo sguardo salì verso l’alto, per controllare che anche il primo piano fosse esattamente là dove lo aveva lasciato, quando d’un tratto gli parve di cogliere un movimento dietro la finestra situata sopra il tendone del bar. Qualcosa si spostò sotto il riverbero della luce con un sussulto improvviso, come se la casa rispondesse alla sua occhiata con un confuso scivolare d’ombra e di stoffa.

Ma forse si era sbagliato.
Un riflesso e nient’altro, probabilmente.

Troppo poco sangue al cervello. Senza dubbio.

Con un battito di ciglia scacciò quel miraggio e tornò a guardare dritto davanti a sé, verso la meta, ormai ad una manciata di passi.
Non rallentò neanche negli ultimi metri, proiettando direttamente sul portone tutto il suo slancio attraverso le braccia tese in avanti, mentre il corpo si arrestava di scatto, abbandonando la testa tra le spalle.

Non si aspettava che l’anta cedesse sotto la sua spinta, ma le gambe ancora gonfie d’adrenalina recuperarono prontamente l’equilibrio, e John non perse tempo prezioso a chiedersi come mai la porta fosse aperta. S’infilò nell’inatteso pertugio, andando ad appoggiarsi con la spalla alla parete del corridoio e lasciando che la bocca continuasse ad ingurgitare fastidiose manciate d’ossigeno, scandendo il ritmo del suo respiro.

Sentì i muscoli rilassarsi, mentre gli occhi si abituavano alla penombra di quell’androne scuro, indovinando la sagoma familiare delle scale di fronte a lui.

Allora serrò le palpebre per un istante, cercando di controllare l’affanno.

Al diavolo.
Per calmare quel fiatone avrebbe dovuto restare disteso sul pavimento per una settimana.
E John non poteva più aspettare.

Con una mossa energica si staccò dal muro, spendendo gli ultimi residui d’adrenalina nel divorarsi quella manciata di gradini a due a due. Per la prima volta.

La porta dell’appartamento era socchiusa.
E lui non esitò.

L’inerzia di quella corsa irrazionale continuava a spingerlo in avanti, incalzato da un’urgenza ormai del tutto insopportabile, che si sarebbe placata solo varcando quella soglia.

Afferrò la maniglia e spalancò l’uscio con forza, mentre con l’altra mano si aggrappava allo stipite, piegando goffamente il busto verso il basso nel tentativo di comprimere la milza dolorante e nascondere gli scomposti movimenti del petto.
Per la faccia invece non c’era niente da fare.
La sporse coraggiosamente all’interno della stanza. Ansante, sudata, in uno stato pietoso.

 

La prima cosa che vide, nonostante tutto, fu lui.

 

Placidamente adagiato sulla poltrona nera, con le gambe incrociate ed il busto rilassato all’indietro, gli occhi bassi sul pesante libro posato sulle ginocchia, sostenuto tra le dita con sorprendente leggerezza.
Non un solo muscolo del suo corpo era in tensione. Neanche l’ombra di una qualsiasi espressione su quel volto impassibile che sembrava fissare le pagine aperte davanti a sé come fossero trasparenti, prive di qualsiasi contenuto.

Avvertendo il rumore della porta che si apriva Sherlock sollevò lentamente la testa, puntando su John uno sguardo calmo e leggermente sorpreso. Come se non si aspettasse di vederlo.

Come se fosse uscito da quella stanza da non più di cinque minuti.

Eppure per un attimo, solo un brevissimo istante, a Watson parve di scorgere nei suoi occhi un minuscolo frammento di panico. Un sussulto di quell’angoscia provocata dall’accostarsi di un evento disastroso che sembrava imminente, e invece imprevedibilmente tarda ad arrivare, alimentando l’ansia dell’attesa.

Troppo poco sangue al cervello, decisamente.

John ricambiò quello sguardo tranquillo appena qualche secondo.
Poi non poté più fare a meno di vederlo.

Il caos.

I suoi occhi furono calamitati dalle macerie che circondavano la placida figura di Holmes.

Con la bocca spalancata, le pupille dilatate, senza poter smettere di ansimare, percorse i miseri resti di quella che il giorno prima era una stanza.
Disordinata, dispersiva e sovrappopolata, ma pur sempre una stanza.
Procedette attraverso l’ecatombe di volumi smembrati sul pavimento, soffermandosi sull’implosione della libreria, e sul crollo strutturale della pila interminabile di libri un tempo edificata sul panchetto a fianco del camino, e ora sparpagliata come un mazzo di carte ai piedi di Sherlock.
Appena qualche centimetro sano d’appartamento davanti alla finestra, e poi riconobbe pezzo per pezzo l’intero contenuto della scrivania accatastato in una massa informe accanto al divano, miracolosamente illeso.
Il computer invece non era sopravvissuto alla tragedia. Il suo scontro frontale con il muro aveva lasciato un vistoso segno nero sull’intonaco sotto la finestra.

E sopra quelle rovine, una miriade di fogli bianchi.
Sparsi per tutto l’appartamento come le schegge impazzite di un unico oggetto, andato in mille pezzi all’impatto col suolo.

Chiuse gli occhi e li riaprì più volte, mentre contemplava quell’ambiente un tempo familiare, che ora giaceva inerte ed irriconoscibile, sbriciolato sotto i colpi di un evento catastrofico d’immane portata.

Forse si era verificata una scossa sussultoria del decimo grado della scala Richter con epicentro sotto il 221B, che aveva miracolosamente lasciato intatte le pareti.
Oppure un elicottero del soccorso stradale era stato costretto a stazionare per un’ora di fronte alle finestre spalancate, diffondendo all’interno dell’abitazione un vento costante di circa 70 nodi.
Magari era venuta a mancare la gravità per alcuni minuti, in quella zona di Londra.
Ma sembrava più che altro che qualcuno si fosse divertito a prendere la stanza tra le dita, rovesciarla a testa in giù e scuoterla leggermente, per poi rimetterla al suo posto senza provocare ulteriori danni.

John prese un gran respiro. Per poterlo dire tutto d’un fiato.

 

- Che cazzo è successo qua dentro?!

 

Continuò a vagare ancora un istante tra le particelle del soggiorno esplose qua e là sul pavimento, per poi tornare a posare gli occhi sul legittimo proprietario, alla ricerca di una risposta che tardava ad arrivare.

Holmes non si era scomposto. Non si era mosso.
Continuava ad osservarlo dalla poltrona, dopo aver sollevato leggermente il volume in una posizione meno faticosa per le mani, e scosse appena la testa, fissando il suo sguardo quieto in quegli occhi spalancati ed allibiti.

- Niente d’importante.

Un tono pacato, appena annoiato. Che sotto la veste dell’indifferenza lasciava intravedere una durezza che non ammetteva repliche.
Né ulteriori spiegazioni.

Avrebbe potuto chiederlo ancora.
Ma la risposta sarebbe stata la stessa.

 

Non era successo niente d’importante. Evidentemente.

 

Staccandosi dalla maniglia e sollevando il busto in posizione eretta John riuscì addirittura ad emettere un sonoro sbuffo di rassegnazione tra una boccata d’aria e l’altra, constatando con piacere che stava a poco a poco recuperando il controllo dei suoi polmoni nonostante i postumi imponenti della veloce traversata.

Facilitati da quella nuova prospettiva, i suoi occhi caddero sul libro che Holmes teneva tra le dita, la cui copertina era adesso perfettamente visibile. E la domanda sorse avventata quanto spontanea, giusto un po’ impastata dal fiatone.

- Perchè stai leggendo un libro al contrario?...

- Oh…

Tradendo un impercettibile moto di sorpresa e disappunto Sherlock abbassò lo sguardo sul grosso volume d’astronomia appoggiato sulle sue ginocchia, chiaramente rovesciato, ed a Watson parve che lo vedesse per la prima volta.
Eppure la sua espressione rimase perfettamente calma mentre sollevava ancora la testa tornando a guardarlo.

- Non è poi così difficile, sai?

John sospirò di nuovo, concedendo ad un sorriso leggero d’incurvargli le labbra, mentre si lasciava invadere da quell’intensa e pacifica sensazione di familiarità che si espandeva adagio in ogni fibra del suo essere.

Era davvero uscito da quella stanza da appena cinque minuti.

 

Continuarono a guardarsi in silenzio, per alcuni secondi.
Finché Holmes non esordì con voce posata, senza nemmeno abbassare lo sguardo.

- Hai un bottone slacciato.

- Oh!

Watson si piegò di scatto verso il cavallo dei pantaloni, mentre le sue mani si precipitavano con imbarazzo a chiudere bottega, litigando con quell’asola ribelle che d’un tratto s’era fatta terribilmente stretta.
E proprio nell’istante in cui decretava la sua vittoria su quei jeans odiosi la voce di Sherlock lo raggiunse ancora una volta, costringendolo a rialzare la testa.

- Sei totalmente spettinato.

Con scrupolosa obbedienza John si passò le dita tra i capelli arruffati, cercando inutilmente di dar loro una forma, dominato da quello sguardo tagliente che riusciva sempre a provocare in lui uno sgradevole, impellente bisogno di giustificarsi. Ogni dannatissima volta.

- Sai… è che stavo-…

Ma Sherlock alzò di scatto la mano, bloccando la sua frase con un gesto secco ed inequivocabile.

 

- Non osare dirmelo.

 

Il tono irritato di quelle parole fu accompagnato da una  lieve smorfia di disgusto. O forse di fastidio.
E senza attendere ulteriori chiarimenti Holmes si mosse all’improvviso, come suo solito, passando da uno stato di quiete assoluta ad una rapida ed incalzante sequenza di azioni.
D’improvviso chiuse il pesante volume tra le mani, lanciandolo con destrezza sulla poltrona rossa. Poi si alzò in piedi con un agile colpo di reni e si diresse a grandi falcate verso il cappotto abbandonato sul divano, evitando abilmente le carcasse di libri sparse lungo il cammino.

- Muoviamoci. C’è del lavoro da fare.

Watson era rimasto a bocca aperta, con quella frase sospesa e fraintesa in bilico sulle labbra, seguendo con gli occhi la sua veloce serie di movimenti, del tutto indifferenti al marasma circostante.

- E questo casino?...

- Lo metteremo a posto più tardi. Ora non c’è tempo.

La prima persona plurale non sfuggì all’attenzione di John, che lanciò uno sguardo eloquente in direzione del suo ottimista ex coinquilino, intento ad aggiustarsi il bavero della giacca.

- MetterEMO?...

Domanda retorica ovviamente.
Ma forse era opportuno ampliare il concetto.

- MetterAI!

Holmes si limitò ad alzare gli occhi al cielo, sbuffando con aria infastidita.

- Come ti pare. Ora andiamo.

Poi s’incamminò verso la porta con passo risoluto, certo d’essere obbedito.
Ma John lo prese in contropiede.

Invece di precederlo sulle scale gli venne improvvisamente incontro, entrando nella stanza e portandosi una mano sulla tasca posteriore dei pantaloni, mentre con l’altra gli faceva un eloquente segno d’attesa.

E Sherlock si fermò.

- Aspetta un attimo, devo fare una cosa importante.

Pronunciando quelle parole John sfilò il cellulare dai jeans e digitò un numero sulla tastiera con rapidità spaventosa, per poi portarlo subito all’orecchio, fissando il vuoto con un’espressione che all’improvviso si era fatta maledettamente seria.

A Holmes non sfuggì il repentino cambiamento d’umore di quel volto teso, che d’un tratto aveva smesso completamente  di ansimare.
Percepì il lievissimo clic che annunciava la pronta risposta di chiunque si trovasse dall’altra parte dell’apparecchio, e vide John inspirare con forza per immagazzinare nei polmoni tutta l’aria che riusciva a trattenere. Prima di urlare.

 

- DOVE DIAVOLO SEI STATA TUTTA LA NOTTE?!?

 

Eh sì.
Era decisamente una cosa importante.

Sherlock rimase stordito dal volume di quell’imprevisto accesso di collera, ed istintivamente indietreggiò di un passo, fissando due occhi sgranati sullo sconosciuto che aveva di fronte, furioso come non lo aveva mai visto.
Non con lei.

Era difficile riconoscere John Watson in quel maschio inferocito che incalzava, e protestava. E borbottava. Come una pentola dimenticata su un fuoco troppo alto quando trabocca di schiuma, scuotendo e sollevando il coperchio con un chiassoso scoppiettio.

Osservando quel volto infiammato dalla rabbia Holmes sentì un accesso di riso incontrollabile risalire lentamente la trachea in direzione della faringe, e fu necessaria tutta la sua prontezza per trattenerlo nell’epiglottide appena qualche istante prima che gli scivolasse sulla lingua, esplodendo in una fragorosa risata.

Non era proprio da lui.

Strinse i denti e mantenne il controllo, infilando di colpo le dita tra i capelli e scompigliandoli con una scossa energica, per poi rovesciare la testa all’indietro, ad occhi chiusi, tentando inutilmente  d’impedire che quel sorriso spudorato sulla sua faccia continuasse ad allargarsi, ed allargarsi ancora, conquistando le sue guance centimetro dopo centimetro.

L’esile voce di Mary fuoriusciva a tratti dall’apparecchio, balbettando probabilmente qualche pessima scusa. E John continuava a non accettarne nessuna, abbaiandole contro con quell’insolito piglio ringhioso.

Sherlock riaprì lentamente gli occhi, tornando ad osservare quella ridicola scenata di tormento.
E per un istante il suo sorriso impertinente si dipinse di un’intensa sfumatura d’amarezza.

Era davvero arrabbiato.

 

Si avvicinò senza fare rumore, fermandosi ad un passo dalla sua schiena.
Watson non si accorse della presenza dietro di lui fino a quando Holmes non si chinò in avanti, piegandosi ad un angolo di circa centodieci gradi, per poter posare il mento sulla sua spalla libera.
Pur avvertendo quel peso improvviso da un lato del collo John continuò imperterrito a borbottare dall’altro, limitandosi a reclinare appena il capo per fare spazio al suo nuovo ingombrante inquilino.

Da quella goffa e scomodissima posizione Sherlock sentì il tessuto di cotone tendersi sotto il mento, ed il calore della pelle attraverso il tessuto, mentre nella testa transitava rapidamente uno dei suoi rari pensieri stupidi.
Anche sudato aveva un buon odore.

Accostò la bocca al suo orecchio e parlò con il suo tono di voce più sensuale. Che non era comunque un granché.

 

- Era qui con me.

 

John non si girò, e non si mosse. Non tentò nemmeno di scrollarselo di dosso.
Lasciò quel fardello sulla clavicola e quelle ciocche scure ad infastidirgli la guancia, limitandosi a rispondere con voce seccata.

- Non dire sciocchezze.

Un tono fermo e deciso, dal quale non traspariva neanche la più pallida traccia di dubbio.

Ma dall’altra parte di Londra una voce delicata e realmente sensuale disse qualcosa che riuscì a sentire solo lui, e Watson sgranò improvvisamente gli occhi.

- Come sarebbe a dire «è vero»?!?

Di scatto si divincolò dal mento di Holmes, voltandosi a fissarlo con uno sguardo incendiario.

Privato del suo punto d’appoggio Sherlock si tirò su rapidamente, scontrandosi con quell’espressione variegata nella quale galleggiavano qua e là grossi pezzi d’incredulità misti a qualche granello di rabbia, una spolverata di shock e giusto un pizzico d’indignazione, il tutto immerso in una densa brodaglia a base di terrore. E gelosia.

Continuava a guardarlo. E non riuscì più a  trattenersi.

Liberò quella risata fragorosa sotto lo sguardo attonito di John, che lo fissava come pietrificato, stringendo convulsamente nella mano il cellulare ancora acceso, dal quale si spandeva nell’aria la risata acuta e cristallina di Mary, solo leggermente alterata dall’altoparlante.

Lo sguardo di Watson prese ad oscillare con estrema lentezza tra Sherlock e il telefono, ancora incerto se doversi sentire infuriato, divertito, disperato, o tutte e tre le cose insieme.

Una sola faccenda gli era decisamente chiara.

- Smettetela di ridere tutti e due! Non è affatto divertente!

Oh sì che lo era.

Mentre contemplava divertito quel volto indignato Holmes recuperò di scatto il suo portamento austero, conficcando gli occhi in quelli di John con il suo ghigno più diabolico.

- Non hai idea quanto.

 

                       Non ne hai idea.

 

Con un’ultima, sonora risata, Sherlock gli diede le spalle, puntando dritto verso la finestra senza il minimo riguardo per gli oggetti sparsi a terra che avevano la sfortuna di trovarsi sulla sua traiettoria.
Si fermò di fronte a quella tenda chiusa, da cui filtrava una luce intensa che mancava da troppo tempo in quella stanza. Ne afferrò i lembi con entrambe le mani e la spalancò con una sola mossa, facendo entrare finalmente il sole.

E Sherlock chiuse gli occhi, assaporando quell’abbagliante calore sulla faccia. Senza smettere di sorridere.

Dietro di lui sentiva John sbraitare contro lo schermo, o contro di lui, o contro il mondo.

Non era importante, dopotutto.

Watson chiuse il telefono con uno scatto violento.
Non era finita. Oh no.
Era appena cominciata.

Aveva interrotto la comunicazione da circa due secondi quando l’apparecchio tornò a vibrare tra le sue mani, emettendo un trillo leggero.

 

                                              Bip Bip

 

Era arrivato un messaggio.

Holmes trattenne il fiato. E nel suo petto qualcosa mancò un battito, provocando un’intensa vampata di calore all’altezza del viso.

 

Che stupido.

 

Non ci aveva pensato.

Di tutte le centinaia di spiegazioni che si era dato vedendolo affacciarsi alla porta con aria sperduta e inconsapevole, quella non gli era proprio venuta in mente.

Ecco perché John era così tranquillo, tutto considerato.
Non aveva ancora ricevuto il secondo messaggio.

Probabilmente c’era stato un sovraccarico sulla linea, o qualche ripetitore fuori uso.
Un difetto di sincronizzazione alla centrale. O un guasto temporaneo.
Oppure niente.

Soltanto il solito, banalissimo ritardo.

Miserabili, ingrate, maledette compagnie telefoniche. Con tutti i soldi che gli dava ogni fottutissimo mese.

Sherlock espirò. Lentamente.
Per la prima volta nella sua vita incapace d’immaginare cosa avrebbe fatto, quando Watson avrebbe finito di leggere.

Ed era eccitante.

 

John abbassò il viso sullo schermo e vide il mittente.

Sherlock

- Ma che diavolo-…

 

                         Mossa scorretta.

 

 

I am lost without you.

 

 

 

 

Note:
1. Lo avete capito? Penso di sì. Però ve lo dico lo stesso, per sicurezza.
Ovviamente all’inizio della fic Holmes è appostato alla finestra, lì dove lo avevamo lasciato alla fine del capitolo 4.
Altrettanto ovviamente quel movimento che John scorge dietro al vetro non è affatto un riflesso, ma Sherlock, che appena lo ha visto spuntare da dietro l’angolo è scattato sulla poltrona afferrando un libro a caso (non proprio a caso per quel che mi riguarda… XD) e facendo solo finta di leggerlo. Perciò il volume era alla rovescia.
Questo è il suo modo di essere agitato, poiché dà per scontato che John abbia già ricevuto entrambi i messaggi, e resta spiazzato nel trovare John relativamente tranquillo quando entra nella stanza (per quanto possa essere tranquillo uno che si è appena fatto 900 metri di corsa per ritrovarsi davanti un appartamento distrutto…).
Io cerco spesso di sottolineare quanta differenza ci sia tra ciò che realmente prova Holmes e ciò che invece traspare dal suo comportamento. Anche la mia prima long di fatto si basava sullo scollamento tra gli eventi come li percepiva John e come invece li intendeva Sherlock.
Qui il divario è volutamente creato da Holmes, che finge indifferenza. Però ci sono molti altri casi in cui lui ritiene di essere chiaro ed in realtà non viene capito affatto, perché i suoi comportamenti sono comunque al di fuori di ogni schema normale.
Ma questo discorso lo approfondirò meglio in nota 6, quindi passiamo oltre.

2. Non vi siete dimenticati vero… che Watson e Holmes non si parlano da dieci giorni…
Da 240 lunghissime ore s’incrociano appena, sfuggendosi e rincorrendosi senza incontrarsi mai. Eppure quando John varca quella soglia e vede Sherlock seduto sulla poltrona quel tempo è come sparito. Cancellato. Mai esistito.
Il dramma shakespeariano che si è consumato nella fic principale riacquista in questo capitolo le sue reali proporzioni: John ha SOLO cambiato casa, niente di più.
Non è morto, né partito per la guerra, non ha preso un appartamento al di là dell’Atlantico né in Australia, ha soltanto traslocato a 900 metri di distanza dal 221B di Baker Street. E non è un evento poi così catastrofico come appariva prima che accadesse.
Tra Holmes e Watson poco è cambiato. Ed i due se ne accorgono all’istante, non appena si ritrovano di nuovo insieme in quella stanza, scivolando senza scossoni nel loro abituale comportamento reciproco.

3. Probabilmente qualcuno di voi si sarà quasi annoiato nel doversi sorbire ben tre descrizioni dell’appartamento di Baker Street, rivedendo ogni volta le stesse cose… Posso però assicurarvi che la ripetitività non è dovuta a mancanza d’immaginazione ma ad una scelta precisa.
L’intenzione era proprio quella di attraversare il soggiorno più famoso d’Inghilterra da tre punti di vista differenti, ma soffermandosi sempre sugli stessi oggetti, per poter avere tre istantanee in qualche modo ‘sovrapponibili’ e confrontabili.
Il primo scatto lo fa John la mattina in cui trasloca, e la sua è la fotografia malinconica di chi sta dicendo addio.
Il secondo scatto è di Holmes, che cerca il suo astuccio in pelle, e la sua è l’immagine della rabbia di chi ha tutto tranne quello di cui ha bisogno.
Il terzo e ultimo scatto è ancora di John, che osserva lo scempio, cercando di ritrovare tra le macerie ciò che solo il giorno prima aveva impresso nella memoria con nostalgia.
Ho pensato che fosse importante ‘fermare’ queste tre immagini successive dell’appartamento, perchè tutto sommato se ci pensate bene è lui il più autentico protagonista di questa storia. L’unico ad essere veramente abbandonato da John.
Il solo a rimanere davvero ‘deserted’ (and devastated) dopo il suo trasloco…

4. Lo scambio di battute legato al plurale/singolare di chi dovrà restaurare l’appartamento distrutto è una citazione alla lontana di un dialogo del telefilm, in cui Watson, fresco fresco del suo primo incontro con Sarah, sbaglia il ‘sesso’ del suo nuovo posto di lavoro, lasciandosi scappare un «Great. She’s great» (Fantastica, lei è fantastica).
Al che Holmes incalza con un «Who?» (Chi?)
John tenta di rispondere «The job.»(Il lavoro) Ma Sherlock puntualizza il genere:
«She?...»(Lei?...)
Il mio non è uno scambio di sesso ma un gioco tra singolare e plurale, che in italiano va necessariamente spostato sul verbo, e per questo non sembra somigliare nemmeno vagamente al dialogo cui è ispirato. Ma se l’avessi scritto in inglese (come era  affiorato nella mia testa) sarebbe stato un:
«We?...»
«You!»

Piccolo Extraquiz.
Secondo voi… chi è che alla fine rimetterà a posto quel casino immane?... Terza persona singolare?
Del resto è colpa sua, anche se non lo sa. E chi è causa del suo mal…

5. Questa nota mi ero bellamente dimenticata d’inserirla nel capitolo 4, quindi colgo l’occasione per piazzarla qui.
Spero con tutto il cuore che abbiate percepito quanto l’uso del cellulare in questa storia sia centrale.
La mia scelta di far passare molte emozioni via etere nasce proprio dal telefilm BBC, che utilizza spessissimo questo apparecchio sia come tramite sia come mezzo d’indagine.
La scena iniziale del primo episodio è un’apoteosi di messaggistica selvaggia, ed ho trovato geniale l’idea di ‘scrivere nell’aria’ le frasi inviate.
Anche i messaggi di questa storia ‘fluttuano nell’aria’. Attraverso il cellulare viaggiano, si fermano, vengono scritti e mai inviati, letti e poi tradotti, modificati e persino bloccati da imprevedibili ritardi. Le emozioni dei tre protagonisti viaggiano da uno schermo all’altro, a volte unendoli quando sono lontani, altre volte allontanandoli quando sono vicini.
Ma in questo capitolo extra succede anche qualcosa di diverso. Finalmente questo benedetto apparecchio svolge il compito per il quale è stato creato, riunendo Mary, John e Sherlock per la prima volta tutti e tre in quel soggiorno, ed eliminando ogni distanza tra loro.
Le tre coppie che si erano alternate nella fic principale (John/Mary, Sherlock/John, Mary/Sherlock) ogni volta che si formavano andavano a creare distanze complesse sia tra i componenti della coppia stessa che con il terzo assente, allargando il vuoto che in fondo li separava tutti allo stesso modo. Ma finalmente con quella telefonata ogni distanza si annulla, ed è come ripartire da zero, iniziando un nuovo round con regole completamente differenti.
Tra l’altro, sempre a proposito di distanze… Non so se qualcuno ci ha fatto caso (e c’entra anche relativamente poco con il discorso del cellulare…) ma Holmes si appoggia alla spalla di Watson esattamente come ha fatto Mary nel primo capitolo, con l’unica differenza che lei è dell’altezza giusta per poter posare il mento lì, mentre Sherlock non solo è più alto di Mary, ma è ben più alto anche di John, il che lo costringe a mettersi in una posa ridicola per riuscire a replicare il gesto della ragazza.
Infine… (e questo c’entra di più) vi pregherei di notare il particolare di Watson letteralmente ‘messo in mezzo’: da un orecchio ha Mary al telefono, dall’altro ha Holmes sulla spalla.
Credete che sia un caso? Tsk.

6. L’ultimo, sleale, ritardatario, imprevedibile messaggio di Holmes è –che ve lo dico a fare?- l’ennesima citazione. Quasi letterale.
Siamo sempre all’inizio del racconto Uno scandalo in Boemia, e se ben ricordate il novello sposino Watson una sera capita ‘per caso’ davanti a Baker Street e decide di fare una visita al suo vecchio amico. Sempre per caso (stavolta davvero) mentre è nell’appartamento di Sherlock bussa alla porta un nuovo cliente, al che Watson tenta di andarsene, ma Holmes lo ferma con la celeberrima frase:
«Stay where you are. I am lost without my Boswell.».
Ma chi è ‘sto Boswell, vi chiederete... L’ex ‘coinquilino’ di Holmes? No.
Tale James Boswell fu uno scrittore britannico del 1700, conosciuto principalmente per i suoi scritti biografici su un certo Samuel Johnson, che sono poi passati alla storia come «la più famosa biografia della letteratura inglese». Boswell seguiva Johnson ovunque andasse, scrivendo le sue gesta, un po’ come fa John con Sherlock. Da qui la dotta citazione di quest’ultimo, che io ho preferito in questo caso ‘tradurre’ nel suo significato più concreto.
La frase messa così è indubbiamente molto forte, diretta e senza scuse. Si potrebbe quasi dire che non è da Holmes essere così esplicito, se non fosse che sono davvero parole sue.
E qui mi ricollego anche alla nota 1, perchè a prescindere da ciò che può apparire da un’impressione superficiale io trovo  che in molte occasioni Sherlock sia piuttosto esplicito con Watson.
A dispetto dei suoi modi scarsamente empatici e della sua totale inesperienza in materia Sherlock mostra di avere le idee molto, molto chiare su quello che vuole. Ed ogni occasione che ha per ribadire il concetto non la perde mai.
Quando Watson gli annuncia il suo matrimonio con Mary si mostra palesemente contrariato. Quando la moglie muore gli chiede esplicitamente di tornare a vivere a Baker Street. Quando John si allontana lo richiama sempre vicino a sé. E parla chiaro. A modo suo.
Ovviamente un uomo come lui non può certo esprimere i sentimenti in maniera ‘normale’, soprattutto perché si trova a gestire qualcosa cui non è abituato e a cui non sa dare un nome preciso, navigando in acque a lui totalmente sconosciute. Per questo spesso risulta poco chiaro, per non dire incomprensibile. Ma comunque non si nasconde, non si tira mai indietro quando è il momento di parlare chiaro, ed è sempre molto schietto su quale sia il ruolo di Watson nella sua vita.
L’unico problema è che John proprio non capisce.
A questo proposito la scena BBC dell’invito a cena è straordinaria. Riesce a trasporre questo lato del loro rapporto in una dimensione estremamente simile all’originale ed allo stesso tempo moderna, condensandola in due semplici battute.
Ve lo riporto parola per parola perché non c’è un modo migliore di dirlo, e m’inchino agli sceneggiatori (traduzione mia personale, quindi correggete pure le magagne):

SHERLOCK: I need to get some air to the brain. We’re going out tonight. (Ho bisogno di dare aria al cervello. Stasera usciamo.)
JOHN: Actually - I’ve got a date. (Veramente… Avrei già un appuntamento.)
SHERLOCK: What? (Che cosa?)
JOHN: It’s where two people who like each other go out and have fun. (Sai, è quando due persone che si piacciono escono insieme e vanno a divertirsi.)
SHERLOCK: That’s what I was suggesting. (Era quello che intendevo.)
JOHN: No it wasn’t. At least I hope not... (No, non credo proprio. O al meno lo spero…)

A parte il livello di slash… che qui raggiunge picchi assai elevati (la qual cosa non può farci che piacere). Ma è talmente attinente all’originale questo loro modo di ‘non capirsi’ su questo tipo di questioni, da lasciarmi totalmente impressionata.
Qui il ‘sottotesto’ di Holmes è piuttosto chiaro: in sostanza gli sta dicendo «Tu mi piaci». Ma Watson non coglie il punto, e di fatto gli risponde senza volere «Tu invece no»… XD
Questo  è di fatto il tipo d’incomprensione che spesso capita tra questi due personaggi (ovviamente in altri modi e con altri mezzi, più ‘ottocenteschi’). John non si rende assolutamente conto della posizione dominante che occupa nella vita dell’amico, se non verso la fine, quando ormai la cosa è talmente chiara da non poter essere più fraintesa. E a tal proposito mi viene in mente di nuovo l’incipit di Uno scandalo in Boemia, in cui Watson descrive il loro incontro dopo tanto tempo esordendo con un «Era contento- credo- di vedermi»
Ah tu credi?...
Complimenti per l’acuto spirito deduttivo.
Figlio mio ma più che DIRTELO... cosa deve fare questo pover'uomo?

 

 

Avrei preferito di gran lunga
postare questo extra a ridosso dell’ultimo capitolo della fic,
in modo che i ricordi della precedente lettura fossero il più vivi possibile.
Purtroppo non ci sono riuscita, ma spero comunque che la lunga attesa
non vi abbia impedito di godervi appieno questo ‘finale alternativo’.

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