Quando il fuoco non scotta e il ghiaccio non gela.

di xEsterx
(/viewuser.php?uid=130503)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***
Capitolo 5: *** Cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***



Capitolo 1
*** Uno. ***



Quando il fuoco non scotta e il ghiaccio non gela.






Fuoco.



Non cercherai tra le tue mani acqua
per spegnere gli altrui fuochi,
se neppure dei tuoi potrai contener fiamma,
ma nemmeno ne alimenterai ardore,
perché di quel fuoco ti sarà ben noto il dolore.

Cleonice Parisi






-Pronti tutti e due?-.

Bryan dovette urlare per sovrastare i forti ruggiti dei motori, ma anche sforzando al massimo la voce, quasi nessuno lo sentì.
Poco importava, però, dato che era ovvio che tutti e due fossero pronti, che domande.
Quando hai un piede piantato sull'acceleratore e l'altro lì per lasciare il pedale del freno per buttarti a tutta velocità in un frontale contro tuo avversario, o sali in macchina già pronto, o puoi pure startene a casa col culo sul divano.

Le regole erano semplici: chi se la faceva sul sedile prima dell'altro e frenava, perdeva.
Chi invece vinceva, si beccava donne, fama, onore e anche un bel po' di bigliettoni.
E per uno che scialacquava tutto in componenti per auto e moto, qualche bel dollaro frusciante non faceva mai schifo.

Ma non era questo che lo spingeva a gareggiare, no. Era quello che sentiva dentro quando stringeva con le mani il volante della sua Viper viola e verde lime ottimizzata e modificata di tutto punto.

E poi... la notte.

La notte era la parte della giornata che preferiva.
Di notte poteva essere se stesso: nessuna regola, nessuna inibizione e soprattutto nessun riguardo verso i suoi problemi di salute, che venivano del tutto accantonati.
Perchè non erano importanti quando, prendendo velocità, le luci della notte si fondevano tra loro tramutandosi in lunghe linee saettanti, quando il motore lo sentiva ruggire attraverso la propria pelle a tutti i giri che gli era possibile tenere.
Il cuore, nemmeno lo sentiva, no. Il suo cuore così fragile poteva andare a farsi fottere mentre correva assieme alla sua "principessa", come gli piaceva chiamarla. E dire che tra tutti i divertimenti e le passioni che poteva andarsi a scegliere, quella delle corse clandestine era davvero la meno indicata per chi era meglio che non si sottoponesse ad emozioni troppo forti.
Ma l'adrenalina che sentiva scorrergli dentro e le farfalle allo stomaco di eccitazione valevano tutti i rischi che correva non appena il piede cominciava a pesare sull'acceleratore. Vedere le forme scomparire in bande colorate indistinguibili e sentire il vento forte entrare dai finestrini, gli urti inaspettati (e a volte cercati), le scorciatoie improvvisate, i pedoni evitati per un soffio e gli sbirri seminati tante di quelle volte che ormai aveva perso il conto, erano per lui il suo pane quotidiano. Amen. Era una fede la sua. C'è chi prega, e c'è chi corre, lui li metteva sullo stesso piano, ecco.

Adorava correre sulle strade a spirale della collina illuminate solo dai suoi fari blu, apprezzando l'effetto sorpresa delle curve inaspettate nascoste dal buio e quello di non riuscire a scorgere chi gli stava davanti se non al momento del sorpasso; ma adorava ancora di più correre in città, in mezzo alle insegne psichedeliche, alle vetrine dei negozi e ai viali alberati, alle luci abbaglianti, al traffico, alla vita.
Perchè lui la sfidava, consapevole, e voleva farlo mentre quella assisteva seduta sugli spalti: rischiare la vita beffandosi di lei era un lusso che gli piaceva permettersi, e faceva poco per risparmiarselo, perchè avreste dovuto vederlo, come correva. “Kamikaze" era l’ aggettivo con cui lo avevano descritto più spesso: evidentemente non gli bastava dare solamente forti colpi alla sua malattia, perchè la cosa che lo esaltava di più era buttarsi a capofitto in azioni suicide di quelle con davvero un'alta probabilità di successo.
E per successo si intende quello di suicido, è chiaro: sempre secondo a frenare nei frontali, record di maggiori incidenti sia procurati sia subiti e record di minor centimetri di sfioramento con altre vetture; senza contare che il più alto numero di vittorie su gare a circuito era il suo.
Pazzo, non c'erano dubbi.

E, fondamentalmente, era anche per questo che era il più forte.

-...Sei il più forte, tesoro.-.

Appunto.

Ma non c'era bisogno che glielo soffiasse all'orecchio la puttanella di turno, che si era appoggiata a braccia incrociate sopra il finestrino abbassato e della quale non riusciva mai a mettersi in testa il nome, per ricordarglielo.
Lui nemmeno la degnò di uno sguardo, troppo concentrato a tenere gli occhi fissi sull'avversario a centocinquanta di metri di distanza, famelico, come il più spietato dei predatori: c'era Marcus dei Silver Rocks nell'altra auto, una Nissan Skyline gt gialla canarino e famosa in tutta la California per raggiungere i centotrenta in quattro secondi netti. Era un altro che la testa se l'era bevuta con l'acido, avversario perfetto: senza cognizione della realtà.

-E sono Charlene, stronzo, giusto perchè non ti ricordi mai.-.

Appunto.
C'era quel sesto senso, nelle donne, quella capacità di leggere nel pensiero che lo stupiva sempre. Anche se, a pensarci bene, per rendersi conto che l'uomo che ti cerca unicamente per scoparti quando più gli aggrada non si ricorda il tuo nome, non è che ci voglia poi tutto questo grande intuito.
Vedendo che lo "stronzo" si era messo a sorridere eccitato e rendendosi subito conto che di certo non si stava rivolgendo a lei, ma al pensiero della partenza imminente, Charlene girò i tacchi (nel vero senso della parola: 16 genuini centimetri) e si allontanò ancheggiando dalla vettura, bofonchiando tra sè e sè una cosa simile a: -Ma tu guarda 'sto pezzo di merda.-.
Lo diceva tutte le volte, e non lo pensava mai veramente; nemmeno adesso, perchè altrimenti non si sarebbe tirata su la gonna aderente e già cortissima con un gesto fintamente noncurante, per regalargli una vista che, se possibile, lasciava ancor meno spazio all’immaginazione.
E a quello, bisogna dire, la coda dell'occhio ce l'aveva buttata.
Ah, Charlene! La più bella del giro, e lui doveva solo compiere la fatica di uno squillo per averla tutta per sè.
Questi i vantaggi dell'essere il pilota imbattuto di Los Angeles.

Ed era il momento di dimostrarlo per l'ennesima volta.

Si beò degli ultimi secondi prima della partenza: le urla dei ragazzi, le vibrazioni dell'auto, i muscoli delle proprie gambe e braccia tesi allo spasmo per reagire il più veloci possibile, Melissa che reggeva la bandiera ancora ferma a metà del tragitto di gara.
Nonostante avesse vissuto quei momenti mille e mille volte, l'attesa prima della partenza ancora gli faceva quasi uscire fuori il cuore dal petto. E il che non era proprio una buona cosa, insomma.

-Forza, piccola. Fai la brava.- Parlava alla propria macchina, sì. E la accarezzava anche, talvolta. Charlene si imbestialiva vedendo che l'auto veniva coccolata molto più di lei. Povera Charlene.
Il chiasso si intensificò, si cominciava.

Tre.

Due.

Uno.

Melissa agitò la bandiera e si tolse subito dalla traiettoria.
Entrambi i piloti abbandonarono il freno, e le ruote sgommarono rumorosamente a terra prima che le macchine partissero a tutta velocità una contro l'altra.
Lui non staccava gli occhi da quelli ancora lontani di Marcus, sempre armato di quello strano sorriso che un po' inquietava, e tenendo salda la presa sul volante per non perdere il controllo dell'auto a quelle velocità folli.

Ottanta metri
La lancetta sul tachimetro saliva sempre di più.

Quaranta metri
Velocità costante, il piede ancora lontano dal pedale del freno.

Trenta metri.
-Forza, Marcus. Fammi vedere che non sei il cagasotto che penso.- Dentro di sè sperava che l'altro ancora non si facesse venire in mente l'idea di frenare, perchè quello era vivere, quello era vivere senza che la vita ti avesse dato il permesso.

Venti metri.

Quindici metri.
E un rumore fastidiosamente acuto e stridulo decretò la sua vittoria: Marcus aveva inchiodato, aiutandosi con il freno a mano e riuscendo a fermarsi senza compiere un testa coda completo a nove-otto metri dalla macchina dell'altro.
Non appena ebbe appurato della propria vittoria, lui rallentò e sterzò per frenare fuori dalla traiettoria, superando la macchina di Marcus.

Il boato di acclamazioni arrivò subito dopo.
Si concesse giusto pochi secondi, quelli necessari per abbandonarsi contro lo schienale e fare due bei respiri per recuperare un po' d'aria, tenendo gli occhi chiusi; si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore, poi uscì dalla sua Viper con le braccia alzate cosparse di tatuaggi, sorridendo sornione, per accogliere i meritati festeggiamenti.
In men che non si dica fu circondato da una folla di osannatori e strusciato da quattro cinque ragazze.

-Anche stavolta t'è andata bene, Kamikaze da due soldi!-.
Marcus, circondato dalla sua crew, sbraitava con una gamba a terra e l'altra ancora dentro la Nissan, il braccio appoggiato allo sportello aperto -Ma non ci contare per la prossima volta!- concluse alzando in bella vista il dito medio e poi sparì all'interno della vettura imitato dai compari, per poi darsela a gambe tutti insieme in un bella sinfonia di sgommate e accelerazioni.

Il vincitore se la rise di gusto, avendo perso il conto di quante volte aveva sentito quella tipica minaccia campata in aria, pronunciata dal perdente di turno.
-Una nuova vittoria per il "Kamikaze!"- allargò le braccia, facendo bella mostra di sè, e poi le utilizzò per stringersi addosso due delle ragazze che gli erano intorno.

-Bello spettacolo pure stavolta!- esclamò qualcuno rifilandogli una pacca sulla spalla sudata lasciata quasi del tutto nuda dalla canottiera.

-Il Dio dell'asfalto!- fece qualcun altro.

Il Dio dell'asfalto.
Se ne era presi tanti di stupidi nomignoli, ma era la prima volta che, nel sentirne uno nuovo, provava una fitta allo stomaco. Si concentrò su quel paragone, mentre il sorriso scemava dal suo volto.
Un Dio.
Il silenzio dentro di sè si fece ancora più assordante del trambusto esterno, ovattandolo.
Bryan lo scosse per un braccio, chiedendosi perchè se ne stesse immobile e in silenzio a fissare il vuoto.
Samantha si preoccupò per il suo cuore assieme a Jessica, le quali lo strinsero forte.

Sfidare la morte quasi tutte le sere era davvero quello che voleva, in fondo?
Era onnipotente, un Dio in terra sempre in bilico tra la vita e la morte, ma allo stesso tempo immune ad essa.

Era per la sua abilità, certo, ma era anche e soprattutto per una grande quantità di fortuna.
Era ancora lì, in piedi a raccontare le sue vittorie, ma quando sarebbe durato?
Una vite stretta male, il NOS installato nella maniera sbagliata, una macchia d'olio a terra, senza contare la sua salute così fragile: bastava una stronzata e puf, tanti saluti.

Forse era questo ciò che voleva e che pareva andasse cercando in tutti i modi; perchè probabilmente, il motivo inconscio per cui si era tuffato con tutto se stesso in quel tipo di vita era uno solo: non era destinato a vivere a lungo per via della sua malattia, e se proprio doveva andarsene, voleva farlo decidendo lui in che modo e in quale posto, correndo dentro una macchina o sopra una moto, e non a frignare nel divano di casa o in un letto d'ospedale. Cose che però ebbero troppo poco tempo per frullargli in testa e poter prendere forma, perchè alle loro spalle cominciò a urlare una sirena assordante che i piloti e il resto della crew conoscevano bene.

Sbirri.

-Tutti via!- gridò Charlene correndo verso la sua auto e venendo imitata immediatamente da tutti gli altri, mentre le guardie erano ormai arrivate.

Lasciato solo e tornato bruscamente alla realtà, si fiondò in macchina e lasciò immediatamente Downey street prendendo la direzione opposta con un testa coda da fermo.

-Fottuti sbirri.-.



***





Ghiaccio.





Ha occhi di ghiaccio
e di ghiaccio le mani
ha un cuore freddo
freddo gelato
la neve è un bambino
che non si è mai svegliato.

Vivian Lamarque










-Molto bene, signor Arnaud , molto bene.-.

Vedeva gli occhi del professor La Fleur brillare di soddisfazione.
D'altronde lo aveva appena deliziato con un esame perfetto.
Tirò fuori il libretto universitario e lo porse al docente, sorridendo leggero ed educato mentre seguiva con gli occhi la punta della penna che lasciava scritto con enfasi sullo spazio apposito un bel trenta e lode decisamente marcato, seguito dalla firma del professore.

Lui chiuse il libretto e lo porse al suo studente preferito, ma non appena questo allungò la mano per afferrarlo, lo ritirò indietro, come se avesse lasciato qualcosa in sospeso.
-Degel.- Non erano poche, le volte in cui lo chiamava semplicemente per nome e gli dava del tu; a dir la verità, lo faceva sempre all'infuori delle questioni ufficiali o burocratiche. -Voglio che non tenga la tua mente solo per me e quest'università...-.

Degel ritirò la mano, fissandolo interrogativo, anche se in qualche modo immaginava dove il professore volesse andare a parare.
-Ho idea di trasferirti per un po' in un progetto importante all'estero.-

Tombola. Era l'occasione che aspettava.
Degel mostrò il suo entusiasmo con il solito contegno aggraziato, tirando solo un po' le labbra verso gli zigomi. -Di che si tratta?- chiese.

-Ancora non so. Devo valutare un po' di cose, sentire un po' di persone, decidere quale tra le cose che ho sottomano è la più adatta per te.-.
Il ragazzo annuì, afferrando il libretto che finalmente l'altro aveva deciso di rendergli.
-Ti farò sapere il prima possibile.-.

Degel ringraziò, si alzò dalla sedia dopo aver recuperato la propria cartella e uscì dalla grande aula dal profumo di legno vecchio, ritrovandosi per i corridoi della facoltà di Medicina della Sorbonne.
Camminava col suo cipiglio elegante, e forse un tantino più snob del solito, ora che era appena venuto a conoscenza di una bella notizia, e non passava di certo inosservato tra gli altri studenti.
Chi non si voltava quando i propri occhi adocchiavano Degel Arnaud? Lo studente che spiccava per la sua brillantezza in ogni corso che si trovasse a frequentare; intelligente fuori la norma, di famiglia ricca, già un anno avanti rispetto a quello accademico ordinario, media di trenta trentesimi, e una quantità ingente di partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti convegni universitari.
Qualcuno lo stimava, molti lo odiavano. E di certo non si sforzava di far cambiare le cose, lui che era consapevole della sua superiorità intellettuale e donava l'onore della sua parola solo ai pochi eletti che riuscivano a stimolarla.
Ma c'era pure chi gli puntava gli occhi addosso semplicemente perchè era bello da impazzire, con quei capelli chiari, quello sguardo di ghiaccio, quel viso dai lineamenti perfetti e gli abiti appena usciti da atelier famosi di prete a porter.

Raggiunse il cortile principale, riflettendo sulla proposta del professore: "più adatta a te", aveva detto. Sicuramente sarebbe stato mandato, che so, in Italia, o meglio ancora negli Stati Uniti, dove si disponeva di attrezzature all'avanguardia e la ricerca era ben finanziata, e là, grazie anche all'influenza di La Fleur, medico e ricercatore conosciuto in tutto il globo, avrebbe di certo collaborato con un'equipe medica delle più prestigiose. Sì, senza dubbio si sarebbe trattata di una cosa sensazionale, degna dell'ammirazione che il docente nutriva per lui e, soprattutto, degna di una mente come la sua.

-Degel!-

Degel arrestò i propri passi, voltandosi in direzione di quella voce che conosceva bene.
-Michelle.- salutò il ragazzo che gli era appena corso incontro semplicemente pronunciando il suo nome. Poi, nell'attendere di sentire ciò che Michelle aveva da dirgli, non nascose la sua insofferenza con un rumoroso sospiro e un roteare d'occhi, dato che quello al momento stava riprendendo il fiato perso nella corsa, annaspando con la schiena piegata e le mani poggiate sulle ginocchia.
-Allora?- lo incalzò, non senza una certa scontrosità.
Michelle ridacchiò e rizzò il busto, e Degel gli tenne gli occhi addosso, constatando con rammarico che indossava gli stessi vestiti da cinque giorni: un paio di jeans di sei-sette taglie più del necessario, una maglietta rossa con su stampato un baloon giallo e la scritta "Mazinga!", e una camiciona a quadri blu e bianca, sbottonata. Indumenti da trogloditi, e lui troglodita di conseguenza: capelli rossi tutti spettinati, viso paffuto pieno di lentiggini e le labbra perennemente tirate in un sorrisetto da ebete.
Strano quindi, che Degel fosse interessato a sentire parole da quello lì; cosa che invece non risultava poi così insolita se non ci si dimenticava di considerare il tratto fondamentale del carattere dello studente: l'essere cinico.
Lui dava ripetizioni a Michelle in quei pochi corsi che riusciva a frequentare durante l'anno, e Michelle in cambio gli faceva da complice: era il suo principale attuatore di piani e fornitore di informazioni, e non che la cosa gli dispiacesse: con Degel e le sue richieste sembrava sempre di stare dentro un film di 007.

Finalmente il rosso si decise a parlare, e guardò Degel con un cipiglio soddisfatto, alzando un sopracciglio d’intesa: -Monsieur Arnaud- cominciò, emulando tono e movimenti giocosamente formali –sono lieto di informarla che le manovre eseguite hanno portato i successi sperati.-.
Anche Degel inarcò un sopracciglio, ma il suo, anzichè un richiamo di complicità, pareva più un invito per Michelle a farla finita coi suoi giochetti e a sbrigarsi a sputare fuori il rospo per non fargli perdere altro prezioso tempo.
-D'accordo, d'accordo- sghignazzò il ragazzo ponendo le mani avanti –Il tipografo che abbiamo ormai dalla nostra è riuscito come sempre a cambiare per lo meno la cifra che bastava, ma la cosa che ti manderà fuori di testa è sapere che Claude è riuscito ad entrare nel sistema delle segreterie..- fece una piccola pausa, tanto per dare maggior enfasi alle proprie parole e per prendersi il tempo di gonfiare di soddisfazione i propri ben miseri pettorali -.. cambiando la data anche lì. Certo, ci abbiamo messo un bel po’, quelli sono a prova di scasso, ma non è stato difficile dopo aver effettuato il colpo informatico del secolo.-.

Degel storse il naso, scettico. –E cioè?-.

-Ah!- Michelle cacciò un urlo e spalancò gli occhi, quasi fosse adirato dal fatto che l’altro non capisse una cosa a parer suo così scontata –Quel mio compare genio della rete di cui ti ho tanto parlato, Claude… e non annuire perché tanto so che non te lo ricordi… quello che passa le sue giornate a fare l’haker, beh due sere fa è riuscito a creare e ad attaccare il sistema delle segreterie con uno spyware o un backdoor non saprei, le cui caratteristiche non te le sto nemmeno a spiegare, ma ti basti sapere che è riuscito a mandare tutto in tilt per ben due secondi netti, cosa che non riuscirebbe nemmeno a Bill Gates in persona!- aveva cominciato ad agitare le braccia, in preda all’eccitazione. Degel sospirò, ma non lo interruppe. –...Troppo pochi per permettere a quelli lì di accorgersene, ma abbastanza per portare a termine il compito.
-Claude non ha dovuto fare altro che utilizzare uno dei suoi aggeggi da Matrix ed estrapolare la password per entrare da utenti nel sistema dati. Ti lascio immaginare il resto.- Concluse infine con un sorriso a trentadue denti, estraendo dalla tasca quello che aveva tutta l’impressione di essere un libretto universitario dalla copertina in pelle blu notte e lo porse a l’altro, il quale lo afferrò con un impeto che gli si confaceva davvero poco. -Per cui da adesso in poi credo che non avremo più problemi, trovato questo nuovo metodo, Degel-.

D’accordo, magari Michelle sarà pure stato un troglodita, ma in quanto a imbrogli e cacce al tesoro, a lui e alla sua combriccola di svitati non li batteva nessuno.
Sinceramente, se si fosse impegnato a tal proposito, con buone probabilità Degel sarebbe riuscito nell’intento anche da solo, senza l’aiuto di esaltati informatici. Ma lui era uno da carta e penna, si sapeva.

Il ragazzo aprì il libretto e fece scorrere gli occhi avidi su cosa c’era scritto: Degel Arnaud, 4 febbraio 1986, quelle erano le sue generalità, non c’era niente di nuovo in quelle prime pagine, così sfogliò velocemente le altre, fino ad arrivare più o meno a metà. Quando lesse ciò che gli interessava, non trattenne un sorriso soddisfatto; fece schioccare tra loro le due metà del fascicoletto con un energico chiudere di palmo e lo ripose con cura nella tasca posteriore dei jeans.
-Ottimo lavoro-. Disse solo questo al complice, voltandogli le spalle e tornando sui passi dai quali Michelle lo aveva interrotto.

Il rosso allargò le braccia e scosse la testa di esasperazione -Magari un grazie, eh!- sbuffò una vana protesta che si limitò a rimbalzare contro la schiena dell’altro che continuava ad allontanarsi imperterrita. Rimase lì immobile per qualche secondo, poi portò una mano a spettinarsi ulteriormente i capelli e sghignazzò divertito, lasciando scemare anche la minima traccia di turbamento nel suo volto. –Degel Arnaud, non cambierai mai.- Così si incamminò nella direzione dalla quale era arrivato, fischiettando uno stonatissimo motivetto della sigla di un qualche cartone animato giapponese dei tempi andati.

Mentre attraversava il verdissimo prato quotidianamente curato da laboriosi giardinieri e cosparso da studenti spensierati, non riusciva a non pensare alla firma del professore letta nel libretto ricevuto pochi attimi prima, accanto al voto d’esame ottenuto lo scorso lunedì, e a quella che era la data appena fatta modificare con successo dai suoi complici: 24 aprile 2020. 29/30. Esame di glottologia germanica. Non gli servì leggere anche le correzioni apportate agli altri esami, si fidava.
E non si trattenne nel nascondere un ghigno compiaciuto per la vittoria ottenuta, sornione, ora che i suoi esami di lettere classiche erano stati resi perfettamente legali dalla semplicissima sostituzione di una cifra.

Quindi dicevamo di Degel Arnaud: ragazzo intelligente fuori la norma, di famiglia ricca, già un anno avanti rispetto all'anno accademico ordinario, media di trenta trentesimi, una quantità ingente di partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti convegni universitari, e, stavamo per dimenticarcelo, unico studente a potersi vantare di riuscire a frequentare contemporaneamente e con invidiabile successo due differenti corsi di laurea.

Uscì dalle mura universitarie, diretto verso la metro. Proprio quando cominciò a far sera, varcò la soglia di casa sua, un superattico al centro di Parigi gentilmente acquistato da genitori ricconi, dalle quali grandi finestre poteva godere della più bella delle viste che offrivano gli alti palazzi parigini. A ore dodici, la Tour Eiffel già tutta illuminata in lontananza, tanto per dirne una.
Poggiò la cartella sul grande divano nero, e liberò dalle asole i primi due bottoni della camicia chiara, diretto verso il suo studio; era una grande stanza nella quale più di tutti si sentiva a proprio agio e l'unica arredata con mobili in stile antico (il resto dell'appartamento era sobrio e moderno): una libreria di ebano che copriva tutta la parete di destra sia di altezza che di lunghezza, una grossa poltrona rossa di velluto stile ottocento e una pesante scrivania in ciliegio di faccia alla porta, su cui vi erano poggiati i più svariati e pregiati accessori del mestiere, tipo taglia carte in oro zecchino, fogli scritti in calligrafia invidiabile e tutti riposti ordinatamente agende piene zeppe di impegni, penne stilografiche di tutti i generi e qualche volume sottratto alla libreria ancora in fase di lettura o di studio.
Si abbandonò sulla sedia di velluto e legno dietro la scrivania, fissando davanti a sè; gli capitava spesso di assentarsi in quel modo, ultimamente.
Se ne stava lì seduto con gli occhi puntati sulla porta, ma senza guardare per davvero.

-Sei felice?- le aveva chiesto una volta Corinne, sua sorella maggiore, e l'unica persona che poteva chiamare amica; per lei provava il più genuino e assoluto degli affetti, senza secondi fini, senza motivazioni.
Era venuta qualche settimana fa a trovarlo lì, e senza informarlo del proprio arrivo, come al solito, così da spaventarlo per gioco: Corinne era l'opposto di Degel, affettuosa, chiacchierona, e forse un po' troppo vivace; se Degel era motivo d'orgoglio per i genitori, lei lo era di disperazione, in primis per il fatto che aveva deciso di abbandonare gli studi poco prima del conseguimento della maturità ed investire i soldi che stava mettendo da parte già da qualche anno per intraprendere la carriera di pasticcera. Degel ricordava bene quel periodo: frequentava ancora le scuole medie, e un giorno, tornato a casa da scuola, trovò i genitori a litigare violentemente con la sorella, la quale li aveva appena informati della decisione presa. Sua madre piangeva, suo padre sbraitava come un ossesso, talmente rosso in faccia e gonfio più i quanto già non fosse, che Degel si tenne pronto per chiamare il pronto soccorso.

-Perchè?! Dimmi, Corinne, perchè?!- urlava in faccia alla figlia agitandole le mani davanti e sputacchiandole pure qualche schizzo di saliva, tanto aveva perso il controllo di sè. -Non ti abbiamo fatto mancare nulla e ora ci fai questo?! Una pasticcera, ah! Parleranno della famiglia Arnaud con il peggiore dei disgusti!-.

-Che me ne frega della famiglia Arnaud!- rispose a tono la ragazza, all'epoca diciassettenne ma già con le idee chiare. -Sono stufa di vivere sotto l'ombra della famiglia! Voglio prendere e la mia strada e lo farò!-.
Quelle parole avevano decretato la fine della discussione, perchè lei s'era presa un bello sganassone in faccia ed era corsa via da casa sbattendo la porta.
Tornò lì il giorno dopo a fare le valige, con un occhio tutto illividito, e abbracciò forte Degel, sussurrandogli all'orecchio che ce l'aveva solo coi genitori e che lo amava tantissimo, poi sparì per non tornare più.
Frequentò la sua agognata scuola di pasticceria e dopo aver lavorato qualche anno alle dipendenze di un gelataio famoso, riuscì ad aprire un locale proprio.

Ad oggi era una delle più celebri e capaci cucina-inventa-dolci della città, senza contare che il suo "Les gourmandise", era uno dei locali più in di Parigi; nonostante i suoi successi, però, ancora con i genitori non parlava, se non per scambiarsi gli auguri delle festività religiose.
Degel al contrario frequentava spesso Les gourmandise e riceveva molte volte a casa le visite della sorella, la quale, in possesso di una copia delle chiavi dell'appartamento, si divertiva a cogliere di sorpresa il fratellino, stando ben attenta ad aprire la porta d'ingresso in silenzio e gettarsi a braccia aperte verso di lui qualunque cosa stesse facendo, persino il bagno.

Quando Corinne gli pose quella fatidica domanda, Degel stava lavando i piatti, e al sentirla uno gli scivolò dalle mani, impattando sugli altri nel lavello.
-C..che hai detto?- chiese sottovoce, voltando il capo verso di lei, seduta al tavolo alle sue spalle.

-Ti ho chiesto se sei felice.-.

Il ragazzo ci mise un po' troppo a rispondere, per i gusti di Corinne. -Certo che sono felice.-.

-Sicuro?-.

-Perchè me lo chiedi?- Nemmeno lasciò stare la propria occupazione, per darle l'impressione che quella domanda fosse talmente assurda e fuori luogo da scivolargli addosso come acqua sul giaccio. Non c'è bisogno di dire che in realtà lo aveva scosso parecchio. -Sono già un anno avanti all'università e non mi faccio mancare niente, cosa potrei volere di più?-.

Corinne sbuffò gonfiando le guance e bofonchiò tra sè e sè -E' proprio perchè ti manca qualcosa, che te l'ho chiesto.-.

Degel fece finta di non sentire, continuando ad armeggiare con le vettovaglie, ma quel giorno non faceva che pensare a quella frase borbottata sommessamente e tormentarsi riguardo al significato che poteva aver impiantato Corinne in quelle strane parole.
Era per questo, forse, che la notizia di una quasi certa partenza lo aveva rallegrato non poco, confortandogli la mente con l'idea che sarebbe stato per un po' lontano da Corinne e talmente preso dal nuovo, e quasi sicuramente intenso, lavoro tanto da riuscire a stare lontano anche da quei fastidiosi rimurginamenti.

Adesso, però, seduto lì al proprio luogo di pensiero, non faceva altro che porsi domande; a lui non mancava nulla, a cosa diavolo si era riferita la sorella?

Per l'ennesima volta non sopraggiunse nessuna risposta, ma stavolta perchè il cellulare squillò attraverso la tasca dei jeans. Degel serrò gli occhi stanchi e rispose, mentre con l'altra mano massaggiava la radice del naso. -Pronto?-.

-Degel, sono il professor La Fleur.-.

A Degel mancò un battito. -Sì, mi dica.-.

-Ti sembrerà strano, ma ho già deciso il posto in cui andrai per il tuo stage.-.

Stavolta ne perse due, di battiti. E schiarì la voce, per non lasciar trapelare l'emozione. -La ringrazio per la celerità, professore. Sarebbe?-.

-Los Angeles.-.







Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Due. ***






Los Angeles.
Non poteva crederci. Non poteva essere.
Ciò che lo spingeva a crucciarsi e a chiedersi il perchè di questa strana scelta presa dal professore  non era tanto il posto designato, quanto le battute che Degel aveva scambiato in seguito con lui: -Ho parlato di te con il capo dell'equipe di ricerca di oncologia, e mio carissimo amico, il professor Hector Tatch...- aveva detto La Fleur -...ma nonostante io abbia avuto solo parole di elogio nei tuoi confronti, quelli vogliono prima, come dire... un tuo rodaggio.-.

-D'accordo, cosa sarà mai, dovrò starmene zitto e buono per qualche giorno a guardarli lavorare...-.

-Veramente mi hanno detto che incomincerai subito a darti da fare, ma non con loro.-.

Degel non aveva risposto, sentiva che quello che avrebbe sentito di lì a poco non gli sarebbe piaciuto nemmeno un po'.

-...ti hanno affidato al dottor Sean Ackroyd. Lavorerai per un primo periodo con lui, all'obitorio dell'università.-.

Obitorio
...
Dopo aver ascoltato, Degel si era ritrovato a rimanere a bocca aperta, senza parole da dire per parecchi secondi, tanto da far preoccupare La Fleur: -Degel, tutto bene?-.

-C-certo, professore.- Aveva balbettato lui, incredulo del fatto che gli fosse toccata davvero una simile sorte. Si era però detto che non avrebbe dovuto nemmeno rimanere troppo stupito dalla cosa, d'altronde cos'altro poteva aspettarsi da uno stage in una delle città con più alto tasso di omicidi del mondo e dove di conseguenza l'unico ramo della Medicina che godeva di buona fama era quello legale?
Ma perchè quei pazzi dell'equipe non si erano fidati di La Fleur? Di certo non era intenzione di Degel rinchiudersi in un obitorio a sentire puzza di morto per dover dimostrare qualcosa a qualcuno, ma rifiutare sarebbe stato ancora più deleterio, dato che avrebbe rovinato il suo (comodissimo) buon rapporto con una personalità importante come La Fleur, e poi se quei fanatici americani avessero deciso di prenderlo con loro dopo il periodo di prova sarebbe stato davvero un gran bel colpo per il suo curriculum universitario. Suo malgrado si ritrovò perciò ad accettare l'offerta e di conseguenza aveva passato i giorni seguenti a domandarsi cosa fosse andato storto e fosse sfuggito al suo controllo, ma nonostante si stesse interrogando al riguardo ormai da un tempo indicibile, non ricordava nulla che potesse dare risposta ai suoi interrogativi, nulla che avesse fatto per meritarsi un simile, vergognoso schiaffo.
A Los Angeles ad aprire e ricucire morti. Pensava che non sarebbe più dovuto cimentarsi in una cosa del genere alla fine del tirocinio del primo anno di Università, e ora stava per intraprendere uno stage d'elitè per ritrovarsi a fare proprio quello, per giunta in un posto senza nè storia nè cultura, dove la delinquenza faceva da padrona e la corruzione imperversava anche nelle scuole.

-Signore…? Sto parlando con lei, signore!-.

Ci volle la voce insistente della hostess del check-in per riportarlo alla realtà ed impedirgli di tormentarsi ulteriormente con quei pensieri, cosa che lo avrebbe indotto in un tempo abbastanza prossimo a mollare lì i biglietti e a fare dietro front per ritornare a casa.
Sospirò e scosse la testa sconsolato, sollevando la pesante valigia per poi poggiarla sul rullo, come indicato dalla signora.

-Attenda un minuto, torno subito.-

-Prego, faccia pure con comodo, tanto la fila qui dietro è diventata così lunga che per sapere com’è Los Angeles devo solo chiedere un passaparola.- Degel chiuse gli occhi e sospirò, massaggiandosi la radice del naso: era la quinta volta che quella tizia sovrappeso e dai capelli legati, incollati alla testa da chissà quale prodigiosa e lucidissima colla, guardava i suoi documenti con insofferenza e, non sapendo cosa fare, si allontanava per chiedere informazioni al collega dello sportello accanto, lasciando il ragazzo lì in snervante attesa.
Gli bastò un’occhiata, appena arrivato davanti allo sportello, per inquadrare la persona; una scollatura vertiginosa su di un seno raggrinzito, la pelle colorata della tipica abbronzatura arancione da solarium, tutta agghindata di patacche d’oro e di pietre preziose, truccata al limite possibile per una donna, incompetenza totale nel lavoro e… un cerchio di pelle più chiara attorno all’anulare sinistro; tutto ciò non poteva che portare ad una conclusione: una vita passata a fare la signora e a concedersi ogni tipo di vizio e di comodità grazie alle ricchezze del marito, ora cambiata drasticamente a causa di una separazione molto recente, che l’aveva lasciata senza un soldo e a ringraziare Dio di essere riuscita a tenere per sé almeno gli amatissimi gioielli; spinta dalla disperazione, si era vista costretta a fare qualcosa che mai si sarebbe immaginata: lavorare; cosa per lei evidentemente così estranea e insostenibile, da mettere tutto l’impegno non nel mestiere in sé, ma nel servirsene per cacciare una nuova preda a cui parassitarsi e poter così vivere di soldi altrui come prima. Solamente che, pensava Degel osservandola di sottecchi, con quel trucco e quella linea, l’unico uomo che poteva sperare di far abboccare all’amo era Boy George.
Per fortuna questa volta la tizia tornò alla propria postazione prima del solito e, dopo aver scritto un paio di cose a testa bassa, borbottando qualcosa tra sé e sé, gli rese finalmente le sue carte augurandogli buon viaggio con un sorriso tiratissimo tra le rotonde guance rosse di fard.
-Era ora. Grazie!- sbuffò così il ragazzo, esasperato, sottraendo i documenti da quelle salsicce inanellate con quella che poteva non proprio definirsi grazia.
Girò i tacchi di corsa, allontanandosi dal check-in con nelle orecchie le proteste dei viaggiatori inferociti in coda ormai da secoli, e si diresse finalmente verso il gate.



***



Teneva il piede piantato sull’acceleratore ormai da parecchio tempo, e addirittura cominciavano a stancarglisi le braccia a sterzare con forza su curve difficili da tenere a quelle velocità folli.
Però i brani dei Motley Crue vomitati dal suo impianto stereo, così potente da fargli vibrare il petto ad ogni nota bassa, gli rendevano tutto più facile, stimolandogli l’adrenalina; si poteva dire che stesse guidando seguendo quella musica assordante che scuoteva l’intera vettura.
Gettò una celere occhiata allo specchietto retrovisore e vide che, nonostante avesse seminato già un paio di volanti, ne aveva ancora quattro alle calcagna; saltare al di là del ponte che stava per alzarsi e imboccare le sue più segrete scorciatoie evidentemente non era stato abbastanza: doveva inventarsi qualcos’altro.
Purtroppo per lui si trovava in una zona di periferia che non gli faceva venire in mente nessun giochetto per depistare i veicoli rimanenti, ma la cosa non bastò a scoraggiarlo, non ora che sentiva la sua principessa più viva che mai, con l’odore acre dei pneumatici che si consumavano contro l’asfalto e gli pizzicavano le narici, le luci notturne che gli saettavano davanti agli occhi infervorandogli i sensi, e la schiena madida di sudore appiccicata allo schienale del sedile, contro il quale la stava premendo spasmodicamente, come se volesse venire inglobato dall’auto per diventare una cosa sola con essa. L’afa umida e appiccicosa della notte non era mai stata più piacevole, si ritrovò persino a pensare.
Fece abbassare la lancetta del conta giri, alleggerendo volontariamente il peso sull’acceleratore, e attese che le auto nemiche gli furono abbastanza attaccate al culo per scalare marcia e sterzare di colpo, così da imboccare una stradina residenziale secondaria a tutta velocità, imprecando però con un: -Cazzo, l’avevo riverniciata due giorni fa!- biascicato a denti stretti, per aver strusciato la fiancata destra della sua Viper al muro del palazzo che faceva angolo; in compenso agli inseguitori era andata peggio: la prima della pattuglia, presa alla sprovvista dalla manovra, non aveva reagito in tempo ed era andata a sbattere contro lo stesso edificio, bloccando l’accesso anche agli altri veicoli, che ebbero come unica alternativa quella di continuare dritti per cercare di raggiungerlo da altre vie. Lui ghignò, e lo fece con quel suo cipiglio mefistotelico di sempre, esasperato dallo sguardo mordace tenuto fisso sulla strada: era un predatore, ad altro non poteva essere paragonato, se non a una creatura affamata e bramosa delle sue prede, perché, anche se ad un occhio esterno poteva non sembrare, quello che svolgeva la parte del cacciatore era proprio lui, e la stava interpretando come era nel suo stile, in maniera subdola e anche un tantino svitata, dando agli altri l’impressione che fossero loro a rivestire la parte attiva, mentre invece il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lui. E quando ci si accorgeva di come stavano davvero le cose, era solo nell’attimo in cui sferrava il suo colpo letale. Come uno scorpione che in principio impegna il malcapitato avversario soltanto con le proprie chele, così da lasciargli credere di disporre soltanto di quell’unica arma, per poi prenderlo alla sprovvista con il suo pungiglione vibrante di veleno, tenuto a bada lì dietro –non senza fatica- fino al momento opportuno.
Sì, diciamo che il paragonarlo ad uno scorpione era cosa più che lecita.

Si immise infine in una strada più larga, che giudicò essere una parallela del viale che collegava l’esterno al centro della città, ma la relativa calma durò poco, che improvvisamente sbucarono da una traversa le tre volanti rimaste con le loro sirene squillanti, rimettendoglisi alle calcagna; pensò in fretta a cosa fare, e si ricordò che poco lontano da lì, forse due centinaia di metri, avrebbe dovuto esserci un cantiere, e all’affiorare nella propria testa di come avrebbe utilizzato questa cosa a suo favore, tirò ancora di più le labbra, mostrando qualche dente; così spinse al massimo sull’acceleratore e ci impiegò meno di uno sputo per arrivare a quello che sarebbe stato il suo parco giochi, con polizia al seguito.

Si trattava di un grosso centro commerciale in costruzione ormai da anni, che aveva ultimato a malapena lo scheletro dell’edificio: una di quelle porcate dovute a favori e patteggiamenti con la mafia che si presentava come un immenso e confusionario labirinto a più piani di impalcature, transenne, travi e sostegni di vario tipo piantati sulla terra smossa, e che si poteva trovare in attività –se andava bene- dieci, massimo quindici volte al mese e, indovinate, quella sera era proprio una di quelle volte.
-Non potevo sperare di meglio.-.
Se prima la sua faccia era coinvolta in un ghigno, ora si concesse una vera e propria risata di eccitazione al vedere operai e macchine al lavoro, e si leccò pure le labbra, famelico, come a pregustare il divertimento che sarebbe arrivato di lì a poco.
-Forza, stronzi, fatemi vedere se a scuola vi hanno insegnato a guidare per davvero.-.
Si passò l’avambraccio sul viso per tergersi il sudore e poi abbandonò la strada per tuffarsi a testa bassa verso il cantiere, fregandosene dei pannelli di legno che delimitavano la zona e sui quali vi era verniciato “Divieto d’accesso. Solo personale e veicoli autorizzati”, dato che li investì in pieno, così da immergersi in quel dedalo di ferro e legno; il terreno accidentato sembrava non spaventare i suoi ammortizzatori e i pneumatici enduro, ma la stessa cosa non poteva dirsi per quelli degli sbirri che si ritrovarono costretti a rallentare per non ritrovarsi con le ruote all’aria. Senza contare che si rischiava di investire di tutto, oggetti e persone, anche a basse velocità, figuriamoci durante un inseguimento; lui ovviamente, in mezzo a quel ginepraio stava dando il meglio di sé: giocando di sterzo e freno a mano, guidava evitando ostacoli e uomini con una fluidità incredibile, nemmeno lo stesse facendo in una strada sgombra di metropoli, e non passò molto prima che disorientò i suoi inseguitori, i quali si ritrovarono presto a girovagare per il cantiere ad inseguire un’auto che poteva dirsi ormai sparita.
Ma quella sera un semplice depistaggio non era la sua idea di divertimento, no. Per cui decise di mostrarsi nuovamente a loro, sbucando davanti ai loro nasi all’improvviso, da cacciatore che si finge esca, e fare così in modo di venire inseguito nuovamente, mentre si dilettava nel canticchiare la strofa che stavano partorendo le casse a tutto volume.

Ciò che fece in seguito, indusse i poliziotti a gioire, poichè interpretarono quello che videro come un suo sintomo di stanchezza o di adrenalina ormai esaurita, dato che sembrava non riuscire più a correre in maniera precisa come prima; di fatti, a quasi ogni svolta, colpiva in pieno qualche palo che teneva su le impalcature, e ad ogni trave in più che schizzava via, loro guadagnavano terreno e assaporavano sempre di più la vittoria che credevano ormai prossima.

-L’ho sempre detto che voi sbirri comprate il distintivo al supermercato!- rise lui di gusto, appurando con un’occhiata allo specchietto che là dietro stavano facendo esattamente il suo gioco; magari erano pure convinti che fosse entrato lì dentro e avesse fatto tutta quella strada in mezzo a quel casino da suicidio per semplice carenza di risorse, e se li immaginava anche a festeggiare, ora che lo stavano vedendo rovinare la carrozzeria della sua adorata principessa per quella che quasi sicuramente credevano semplice stanchezza!
Ridacchiò al pensiero e gettò un’occhiata in alto per accertarsi di stare facendo tutto bene, ma soprattutto di farcela ad uscire di lì vivo e vegeto, dato che la situazione sopra la sua testa stava diventato pericolosamente instabile; infine contò che di pali da far saltare ne era ormai rimasto solo uno, quello centrale che reggeva il grosso del peso, così si diresse a tutta velocità verso l’obiettivo, mangiandosi la strada che lo separava da esso al massimo dei giri e col cuore che batteva all’impazzata, ma quando sterzò e se lo trovò davanti agli occhi, non poté fare a meno di masticare una bestemmia contro uno degli operai che, fuggendo per non venire investito dal gruppo di veicoli, aveva avuto l’incredibile “fortuna” di bloccarsi terrorizzato proprio con le spalle contro il sostegno che lui stava mirando. Digrignò i denti, indeciso sul da farsi, e proprio quando lo separavano solo un paio di metri dall’uomo che lo fissava implorante, sterzò di colpo e proseguì dritto; dietro di sè, invece, non appena l’operaio si presentò alla vista della volante che stava in testa, questa inchiodò e le ruote posteriori slittarono di lato, alzando una tempesta di terra, e dando così il tempo all’uomo di scappare via; ma la cosa ebbe anche il fortuito effetto di far scivolare in velocità l’auto ormai ingovernabile addosso all’ultimo palo.
Quello che vide dallo specchietto retrovisore nel giro dei seguenti cinque secondi gli strappò un grido di eccitata vittoria: ora che tutti i suoi sostegni erano stati buttati giù, una delle impalcature-magazzino, isolate rispetto al vero e proprio scheletro del palazzo, e precisamente quella che sorreggeva un’ingente catasta di mattoni di terracotta, precipitò addosso alle tre macchine rimanenti che nel frattempo si erano tamponate tra loro, immobilizzandole sotto una cascata di materiale edilizio.

-Tanto prima o poi ti prendiamo, figlio di puttana!- Gli urlò dietro uno dei poliziotti, riuscendo ad uscire dalla macchina distrutta, ma ormai lui era tornato in strada, e per tutta risposta tirò fuori dal finestrino il braccio, mostrandogli il dito medio.


Proprio quando aveva appena imboccato la XIVa, il cellulare squillò.

-Pronto?-.

-Sono Charlene-.

Ghignò.
-Charlene, bambolina! Stavo proprio pensando a te!-.

Lei ridacchiò dall’altro capo del telefono: -Certo, come fai ogni volta che stai con un’altra. Ascolta: se rispondi vuol dire che non ti hanno ancora preso, ma anche se li hai depistati non potrai stare tranquillo per un po'.-.

-Oh, io invece credo di sì, non so perché ma qualcosa mi dice che impegneranno per qualche tempo un sacco di piedipiatti al centro commerciale in costruzione.-.

-Piantala con le tue battute, stronzo, e vieni qui al garage di Vinny che io e gli altri ti aspettiamo per festeggiare la vittoria. Non ci siamo mica dimenticati, eh.- concluse baciando l’altoparlante e poi riattaccò.

Lui scosse la testa, divertito, e tirò su col naso, prima di ingranare la quinta e dirigersi al luogo designato, che non era nemmeno troppo distante da dove si trovava in quel momento.

Quando raggiunse il retro del garage e arrestò la macchina non potè trattenere una smorfia al sentire dei rumorini non proprio rassicuranti provenire dalla Viper, il cui motore stava sicuramente facendo fumo sotto il cofano, ma ci avrebbe pensato l’indomani: ora l’unica cosa di cui aveva voglia era divertirsi insieme agli altri, così smontò dalla vettura e dopo averla salutata con una carezza distratta, si ravviò i capelli incollati al viso dal sudore e prese una profonda boccata d’aria, portando la mano destra ad accarezzarsi il pettorale sinistro.
E nemmeno oggi hai deciso di mollarmi.
Difficile dire però se il pensiero affioratogli fosse di rammarico o di sollievo.
Evitò di pensarci e si apprestò a girare l’angolo, ben accorto nel mostrarsi bello e sicuro di sé, come consono al vincitore che era stato quella sera su tutti i fronti.

-Buonasera, stronzo.-.
Charlene stava seduta sul divano di pelle nera al centro della grande stanza, sola, senza l’ombra di nessun’altro della crew nei paraggi, e gli stava rivolgendo un sorrisino tutt’altro che benevolo. Nemmeno quando voleva scopare gli donava sorrisini benevoli, certo, ma questo era di un genere che non le aveva mai visto in faccia.
Lui si accigliò, guardandola sospettoso, ma, complice la stanchezza, quando si accorse di movimenti sospetti dietro di sè era ormai troppo tardi: due, forse tre sbirri lo agguantarono alle spalle, e uno di loro gli rifilò un pugno in pieno volto, confondendogli i sensi, mentre un altro gli torceva il braccio dietro la schiena, spingendolo con la faccia a terra; provò a dimenarsi, ma quando uno di loro gli piantò il ginocchio contro la schiena, schiacciandogli la gabbia toracica contro il pavimento e impedendogli così di respirare, non riuscì a fare altro che strizzare gli occhi e ringhiare di dolore al sentire le costole scricchiolare sotto quel peso che sembrava essere quello di un dinosauro; nel frattempo un altro sbirro era riuscito ad ammanettargli i polsi senza difficoltà.
Essendo stato sempre un movimento involontario, mai si era accorto in tutta la sua vita di quanto fosse piacevole respirare fino al momento in cui lo sbirro gli tolse quello scomodo ginocchio di dosso, cosa che gli diede un sollievo tale da fargli addirittura accantonare per un’istante la situazione di merda in cui si trovava.

-Hai finito di spadroneggiare in città, bastardo!- Due di loro lo alzarono in piedi con forza, trattenendolo per le spalle sudate, e lui ebbe solo il tempo di lanciare verso Charlene uno sguardo furente, infiammato, gli occhi ombrati da ciocche di capelli finitegli davanti al viso e di vedere questa agitare un corposo mazzo di bigliettoni mentre gli soffiava un bacio, prima di sputarle addosso un –Puttana!- pieno di collera, e venire portato via, col sapore di sangue e di sconfitta tra i denti.



***



Era la sua giornata no, senza dubbio.
Sarà stato per la tizia al check-in, sarà stato perché la hostess di volo gli aveva rovesciato addosso la bottiglia di succo di frutta al mirtillo dopo appena mezzora di viaggio a causa di una turbolenza, o perché avevano passato due ore e mezzo a girare in tondo per i cieli di Los Angeles per aspettare che il temporale diminuisse di intensità e ricevere così il permesso di atterrare.
E, come se non bastasse, la sua valigia tardava ad apparire sul rullo.
Guardò l’orologio da polso: le due del mattino.
Sbuffò d’insofferenza all’appurare che stava aspettando lì ormai da una buona mezzora a tamburellare a terra col piede, e più i secondi passavano, più nella sua testa si faceva largo la convinzione che il suo bagaglio non sarebbe più arrivato.
E se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella non aveva di certo i presupposti per essere una piacevole e proficua permanenza.
Purtroppo per lui, però, il peggio doveva ancora arrivare.

-Ci scusi, signore.-.

Degel sentì una mano poggiarglisi sulla spalla e si girò di scatto, ritrovandosi davanti agli occhi due agenti in divisa che gli mostravano il distintivo. E ringraziò l’accortezza avuta poco fa nell’indossare la giacca per coprire la grossa macchia violacea sulla camicia chiara, nonostante facesse un caldo bestiale. Squadrò i due tipi, e si divertì nel constatare quanto potesse piacere agli americani descrivere sui loro schermi un paese che si poteva dire tutto tranne che quello che realmente era: di fatti i suoi occhi si erano posati su due ordinarissimi tizi che tutto parevano, tranne che i robusti e spigliati cops che si vedevano action movie: uno doveva pesare la metà di lui ed era alto più o meno il doppio, si grattava i capelli rossissimi e un lembo della camicia era sfuggito alla costrizione della cintura, mentre l’altro, come qualcuno diceva, si faceva prima a saltarlo che a girargli attorno; non per niente, era intento a divorare un cestello maxi di patatine fritte.
Evitando di trastullarsi troppo sui suoi pensieri, si schiarì la voce, tentando di assumere un atteggiamento rispettabile, nonostante l’aspetto demolito dal lungo viaggio e dagli sfortunati eventi suggerisse tutt’altro. –Prego. Ditemi pure.-. Capiva e parlava l’inglese in maniera impeccabile, sia formale che dialettale, ma proprio non voleva saperne di annullare quella sua francesissima erre roulant, e rendeva volontariamente tronche parecchie parole, il tutto con impressa l’intenzione di rendere sempre e comunque evidenti le origini e nazionalità di cui andava fiero.

-Potrebbe farci vedere i documenti, per cortesia?- chiese quello magro, allungando la mano verso di lui.

Degel annuì e tirò fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, per poi dare all’agente ciò che gli aveva chiesto, con un cortese: –Ecco a lei.-.

-Ci scusi, ma abbiamo ricevuto l’ordine di controllarne il più possibile, questa sera. Siamo in allerta, ma niente di grave.- Il poliziotto abbassò così il capo per leggere ciò che aveva ora tra le mani e subito aggrottò la fronte, storcendo pure la bocca in una smorfia che persino a Degel risultò enigmatica.

-Qualcosa non va, agente?- chiese quindi con cortesia, corrugando la fronte a sua volta.

Quello, per tutta risposta, sollevò il viso impallidito e alternò lo sguardo tra il francese e le carte che aveva in mano. Dopo la terza volta che ripeté la cosa, mollò i documenti al collega ed estrasse di corsa la pistola, puntandola contro il ragazzo.
-Non ti muovere! Alza le mani sopra la testa e metti le ginocchia a terra!-.

Era una sua impressione o il tizio stava tremando?
Degel sollevò un sopracciglio, scettico, e per nulla scosso. Alzò le braccia, ma neanche troppo; di mettersi in ginocchio poi nemmeno se ne parlava.
–Ma non dovreste dirmi anche tutte quelle cose sull’avvocato, i diritti e cose simili?- Ebbene sì, oltre che irriverente, stava persino sorridendo; perché assistere agli sforzi di quello sbarbatello nel risultare un duro lo divertiva alquanto.

-Un bastardo come te non ne ha bisogno!- guaì il rosso agitandogli la pistola davanti, che impugnava spasmodicamente con entrambe le mani.
Anche il secondo agente realizzò la situazione, che ancora era però del tutto estranea a Degel, e dopo aver lasciato cadere a terra le patatine e infilato in tasca i documenti altrui, si sbrigò a sganciare le manette dalla cintura per poi gettarsi addosso al ragazzo che, con loro grande sorpresa, non oppose la minima resistenza, anzi, rese più facile il lavoro porgendogli addirittura i polsi.

-Se poi i signori vorranno cortesemente spiegarmi il perché di questa pagliacciata..- disse a voce alta e infastidita; quelli stavano giocando troppo con la sua pazienza, soprattutto ora che il poliziotto che lo aveva ammanettato gli stava infilando le mani unte in ogni dove per perquisirlo.

Ebbene sì, notò anche la macchia viola sulla camicia.

–Si finge anche un ubriacone trasandato per non destare sospetti. Ah! A voi piace sempre prenderci in giro, ma stavolta vi abbiamo fregato!- fece il poliziotto con malcelata superbia, ora che lo teneva forte per le braccia magre, impedendogli di muoversi, nonostante il francese non stesse dando la minima impressione di voler fuggire o divincolarsi; se ne stava lì in piedi, stanco e insofferente, fissando i poliziotti con occhi di ghiaccio, mentre attendeva le spiegazioni che era convinto gli spettassero di diritto.
-Degel Arnaud, sei in arresto per contatti e complicità con i terroristi. Hai finito di fare la spia per loro, ti portiamo dentro e non uscirai prima delle mosche che avranno banchettato sul tuo cadavere!-.

-Cosa?!- sbottò lui mentre lo portavano via. –Ci deve essere un errore, io sono stato mandato qui dalla Sorbonne di Parigi per uno stage...-.

-Sì, come no, vi inventate storie sempre più assurde. Ora stai zitto, non potrai parlare se non davanti al giudice.-.

-Ma vi dico che vi sbagliate, io…- non fece in tempo a concludere che l’agente che teneva la pistola gliela puntò alla nuca, e Degel pensò bene di fare come diceva lui.
Non era né preoccupato, né intimorito, sapeva di essere innocente ed era certo che nel giro di due, tre ore la polizia si sarebbe resa conto dello sbaglio e lo avrebbe lasciato in pace. Però, diamine, quando era troppo era troppo. Al momento desiderava soltanto avere la possibilità di poter sbattere ripetutamente la testa contro un muro, mai gli era capitato di vivere una giornata del genere e di chiuderla in bellezza in quella maniera: persino arrestato! Non poteva crederci.
Sospirò, cercando di sedare quell’ira che gli stava salendo lungo la schiena e già gli riscaldava il collo, mentre una volta scortato fuori dall’aeroporto una folata di aria calda che sembrava appena uscita da un phon gli investì la faccia, togliendogli il respiro. Odiava quel posto, lo odiava con tutto se stesso. E non avrebbe trovato niente di buono, là in mezzo, niente che facesse per lui.
Non appena la situazione si fosse risolta, pensò, si sarebbe sbrigato ad acquistare i biglietti per il ritorno e ne avrebbe dette quattro a La Fleur, oh se gliene avrebbe dette.
Fu spinto con forza all’interno della macchina, con l’agente che gli abbassava la testa come si fa ai veri criminali e fu portato di corsa alla centrale di polizia, con tanto di sirena accesa. Durante il breve viaggio si impose di tenere gli occhi fissi davanti a sé, occhi che non guardavano per davvero, accecati dal rifiuto verso tutto quello che avevano intorno.

Una volta arrivati, fu fatto scendere dalla vettura e, ad attenderlo davanti al distretto, c’erano una decina di poliziotti armati fino ai denti che lo fissavano torvi. Degel reggeva il confronto di sguardi con una tenacia ammirevole, persino quando questi tirarono fuori le proprie armi e gliele puntarono contro. Lo scortarono tutti fino all’ufficio del comandante, rimanendo poi fuori a sorvegliare la stanza, così da lasciare che lo accompagnassero dentro solo i due che lo avevano arrestato.
Al centro dell’ufficio, vi era un uomo sulla cinquantina, alto e ben piazzato, con capelli scuri e cortissimi tagliati a spazzola, e occhi piccoli, ma che sembravano in grado persino di tagliare l’aria. Quello sì che gli sembrò un vero poliziotto.
Era seduto dietro una scrivania piena di fogli e cartelle, ma quando vide i tre entrare nella stanza, si alzò è fece cenno ai due agenti di arretrare un poco, così da lasciare libero il ragazzo, intorno al quale prese a camminare lentamente, le mani congiunte dietro la schiena. Era circospetto e curioso come un avvoltoio.
-Sono Millard. Comandante Russ Millard.- si presentò a Degel educatamente, poi si rivolse ai colleghi: -Quindi questo sarebbe il francese che giorni fa gli infiltrati dell’FBI hanno intercettato al telefono con i terroristi...-.
Sapeva già la situazione, ovviamente era stato messo subito al corrente della cosa e del loro imminente arrivo.
Degel al sentire le parole dell’uomo sgranò gli occhi interdetto, ma per il resto non fece una piega, permanendo con quel suo atteggiamento altero, il mento alzato e lo sguardo fiero. Il fiato, però, stava cominciando a mancargli.

-Signorsì, signore!- cominciò con voce tonante uno degli agenti, mettendosi sull’attenti. –Eravamo stati informati che sarebbe arrivato in aeroporto nella fascia di orario da mezzanotte in poi. Francese, corporatura longilinea e corrisponde anche uno dei falsi nomi da lui utilizzati.-
Il comandante annuì grave al sottoposto, per poi fermarsi di fronte a Degel, con il volto ad un respiro da quello di lui: aspettava una sua parola.

Come ad accontentarlo, Degel inspirò piano, come a volersi prendere qualche secondo per modulare al meglio le parole da utilizzare. -Comandante, mi rincresce dirglielo, ma qui avete preso tutti un grosso abbaglio.- E dire che le aveva pure pensate bene, il che lasciava facilmente intendere quanto la sua pazienza fosse arrivata ai minimi storici: spazientito, sporcato (non sporco, sia chiaro), stanco morto e pure arrestato… andiamo, a tutto c’era un limite.

Il poliziotto alzò un sopracciglio, infastidito. –Abbaglio? Lei, oltre che ad essere insolente, mette in dubbio sia le nostre capacità che i nostri metodi: ancora non mi pare di averlo mica arrestato.-.

-Però mi pare di avere le manette.-.

-Non c’è etica quando si tratta della sicurezza nazionale. Comunque, se davvero è stato uno sbaglio, ce ne renderemo conto tra poco, quando avremo saputo ogni cosa di lei, della sua vita, del perché è qui, e avremo confrontato il tutto con i dettagli che abbiamo a disposizione sulla spia. Lasci fare ai miei agenti, a volte possono risultare casi di omonimia, non lo escludiamo.- concluse, perentorio, senza lasciare possibilità di replica. La sua era una risolutezza velata dalla cortesia, decisamente ammirevole, pensò Degel: quel poliziotto ci sapeva fare e non era affatto uno sprovveduto. Per cui era certo che chiedergli di fare una telefonata sarebbe stato inutile, poiché si aspettava una risposta sveglia del tipo: -Sicuro, così potrai far esplodere l’intera città, nel caso stessi davvero dalla parte dei terroristi-; così si limitò ad annuire debolmente e si fece condurre senza fare storie nella cella di attesa, quella nella sala principale del distretto, dove venivano rinchiusi i criminali appena arrestati prima di essere trasferiti nel carcere vero e proprio. Fortunatamente era tirata a lucido e aveva una panca su cui sedersi.

-Ora aspetti qui per un po’, finchè non ci accertiamo di un paio di cose.- lo ammonì l’agente che era stato incaricato di sorvegliarlo.

-Ah, non c’è problema.- fece lui con noncuranza, andando a sedersi.
Almeno ora avrò un po’ di tranquillità si ritrovò a pensare, stupendo persino se stesso, mentre tirava un sospiro di sollievo e poggiava schiena e capo contro il muro.
Suo malgrado, fu presto smentito da un trambusto proveniente dal corridoio che collegava l’entrata all’interno del dipartimento e che passava perpendicolarmente alla sua cella.
Che diavolo succede adesso? Si limitò a pensarlo, senza muovere un muscolo, troppo stanco e arrabbiato per interessarsi a problemi altrui.
Perché non poteva sapere che presto quei problemi altrui sarebbero diventati anche e soprattutto i suoi.
Però cominciò ad intuirlo quando quel trambusto si tramutò in voci più o meno distinte di agenti e di quello che doveva essere un criminale. E un criminale di basso borgo, dato il tono oltremodo elevato e il linguaggio scurrile che utilizzava per insultare ripetutamente poliziotti e altre persone che Degel non aveva idea di chi fossero. Più i passi riecheggiavano nel corridoio, e più ebbe la consapevolezza che no, non avrebbero svoltato per altri corridoi, e che sì, si sarebbero fermati davanti alla sua cella.
Così fu, in effetti, ma si sa: mai una volta che le sue predizioni non si fossero avverate.
Solo che sperava in un “coinquilino” meno… tremendo di quello. Davanti ai suoi occhi, al di là delle sbarre, se ne stava ansante e con la schiena tenuta curva da due poliziotti che lo trattenevano con forza un ragazzo che giudicò più o meno della sua età, ma che più diverso da lui non poteva essere. Indossava una canottiera strettissima sui muscoli pronunciati e abbronzati, e la pelle lasciata libera dai tatuaggi, se trapiantata, avrebbe rivestito sì e no un piede. Per di più, portava capelli lunghissimi e mossi, talmente ribelli che sembravano muoversi di vita propria. Come fiamme, pensò; inutile dire che la cosa non gli piaceva affatto. Lo fissava per studiarlo senza farsi scrupoli, curioso e indiscreto, e non gli staccò gli occhi di dosso nemmeno quando quello alzò i suoi, ombrati dai capelli scarmigliati sul viso, e lo guardò in una maniera che lo fece rabbrividire.
Quello sguardo… quello sguardo lo spaventava. Conteneva qualcosa di bestiale, qualcosa che lui aveva cercato di allontanare da sé per tutta una vita, ritendendolo superfluo e di ostacolo. Vi era qualcosa a lui ignoto, in quegli occhi blu, che non gli dava alternativa dal rimanere a fissarli, come se il solo incontrarli di sfuggita avesse dato loro modo di legargli al collo un cappio che lo stava tenendo irrimediabilmente allacciato ad essi. Rilucevano di una luce malsana, vibrante di un dolce veleno che annebbiava i sensi e confondeva le menti.
In quegli occhi c’era.. no, quegli occhi erano il fuoco. Erano la passione viscerale, l’istinto primordiale, e pareva che fossero in grado di avvolgere nelle fiamme del loro ardore qualsiasi cosa toccassero.
Alla fine, fu l’altro ad interrompere per primo quel contatto, strappando Degel da quella schiavitù volontaria e assuefacente, giacchè i poliziotti aprirono la cella e lo spinsero dentro, per poi richiudere a chiave e sputargli addosso parole di disprezzo.
Il tizio ridacchiò sommessamente, scuotendo la testa rivolta verso il basso e borbottando qualcosa che Degel non capì, per poi trascinarsi verso la panca e abbandonarsi contro il legno con un pesante tonfo delle natiche.
Il francese, seduto all’altro capo dello scranno, tenne lo sguardo fisso davanti a sé, ben intenzionato a non dare la minima confidenza a quel tizio che di sicuro ce l’aveva un motivo per stare lì, al contrario suo. E poi, anche se non voleva ammetterlo, lo intimidiva e non poco.
Indifferenza che però non fu reciproca, dato che quello non si fece problemi nel riprendere a fissarlo con insistenza; una cosa però era certa: dentro quella cella due persone così agli antipodi non c’erano mai state rinchiuse. Entrambi ammanettati, sì, ma uno era vestito di tutto punto (seppur macchiato) e manteneva, anche in una situazione come quella, aria distinta e sofisticata, quasi principesca, standosene dritto e con il volto tirato su d’orgoglio; dell’altro, tutto sudato e scomposto, con la schiena muscolosa piegata in avanti e gli avambracci poggiati sulle cosce, non si poteva certo dire la stessa cosa.
Solo dopo due buoni minuti che sentiva lo sguardo dello sconosciuto incollato su di sé, decise di voltarsi e guardarlo con fare adirato; ci mise tutte le buone intenzioni per mandarlo a quel paese senza remore, ma le parole gli morirono in gola prima di fuoriuscire dalle labbra schiuse: di nuovo, quegli occhi lo stavano spiazzando, mozzandogli il respiro.

-Qualcosa non va, amico?- l’altro tirò su col naso, e fece una smorfia divertita con la bocca –Sembri aver visto un fantasma, guarda che sulla sedia elettrica non mi ci hanno ancora messo.-.

-No.. è che..-.

-Che hai fatto per finire qui? Non sembri un cattivo bambino.-.

Lo aveva interrotto. Lo aveva interrotto e lo aveva fatto anche con una sfacciataggine invidiabile. Se fosse stato al massimo delle sue energie, non l’avrebbe mica permessa una cosa del genere, oh no di certo!
-Nulla.- si schiarì la voce, ripristinando il proprio autocontrollo e la solita sicurezza di sé. –Infatti tra poco verranno a tirarmi fuori di qui, vedrai.-.
Parlava senza pensare, affinchè non potesse rendersi conto che lo stava facendo con un criminale, e della peggior specie, per giunta!

-Me lo auguro per te.- sogghignò il tizio, con un sentore di amarezza nella voce. –Io mi sa che di qui non uscirò tanto presto.-.
Degel non rispose, limitandosi ad osservarlo, per la prima volta non come una cavia da laboratorio da studiare, ma come si osserva una semplice persona con la quale si sta condividendo il medesimo destino, seppure per poco tempo.
-Come ti chiami, francesino?- gli chiese quindi l’americano a voce bassa, scherzando sul sin troppo palese accento dell’altro, e accompagnando le parole con un cenno del mento. Era conciso ed essenziale, e non si faceva problemi a risultare importuno.

-Di certo non vengo a dire il mio nome a un delinquente come te.- replicò Degel con fare indisponente, facendo di tutto per non nascondergli il fatto che già non poteva soffrirlo. –E poi non dovresti presentarti tu, prima di chiedere?-.

Il criminale si concesse un risolino divertito, a labbra chiuse, e alzò i polsi ammanettati, per porgere all’altro la mano destra. -Cardia.-.

Degel fissò per un attimo quell’avambraccio tutto tatuato (era una pin-up senza vestiti, quella?), fino a far scorrere gli occhi sulla mano robusta e callosa.
Oh, au diable.
Scrollò le spalle e rispose alla stretta. -Degel. Degel Arnaud.-.









Beeeeeene. Di solito, come avrete notato, non scrivo mai niente di personale a fine fic, ma questa volta mi vedo costretta a farlo per il semplice fatto che ci tengo a scusarmi per la prolungata assenza da efp, ma con questi esami all’università si può dire che nell’ultimo mese ho acceso il computer giusto per studiare -.-. Per cui chiedo scusa per aver fatto arrivare questo capitolo dopo SECOLI (spero che non abbiate dimenticato la prima parte, nel frattempo xD), e anche per aver smesso di colpo di recensire tutte le storie che stavo seguendo… giuro che recupero tutto!!
Poi, insomma, vorrei condividere con voi un’emozione immensa che è arrivata proprio qualche giorno fa: abbiamo visto finalmente i nostri amati Cardia e Degel muoversi e parlare <3<3<3 Non so voi, ma io guardo di continuo quelle due scene in cui appaiono nelle ultime due puntate della seconda serie <3<3<3, sembro una deficiente felice! (Forse perché lo sei ._. ndcoscienza). Secondo me sono stati resi in maniera impeccabile, soprattutto per quanto riguarda le voci *sviene* (Quella di Cardia è troppo la sua, diamine). Quindi magari, per chi segue l’anime di Lost Canvas, risulterà ancora più facile leggere e figurarsi questa fic. :)
Grazie di aver letto, e accetto ogni tipo di commento :) Se ne lasciate uno, apprezzo tanto. Alla prossima! <3<3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Tre. ***





IMPORTANTE: dopo tempo immemore sono finalmente arrivata a postare il seguito della storia. Però ho al contempo deciso di cambiare qualcosa nei capitoli già scritti per un diverso sviluppo delle cose che ho maturato in questo periodo di impegni incessanti (ad esempio la facoltà e quindi lo stage di Degel, per dirne una). Quindi, per cortesia, sarebbe meglio che rileggiate i primi due, ci troverete delle cose un tantino diverse :). Grazie e scusate il ritardo <3.











Degel fissava dritto davanti a sè, forse perchè sperava con tutto se stesso che una faccia amica e salvatrice avrebbe fatto capolino al di là delle sbarre il prima possibile, o forse perche stava semplicemente cercando di non pensare alla strana sensazione che gli infastidiva la mano destra da qualche minuto a quella parte. Era un formicolio? Una scottatura?


-Ei, francesino.-.

Di nuovo quella voce sporca, quel tono impertinente e sornione che gli dava sui nervi. Degel non rispose, si limitò a posare gli occhi addosso all'americano senza nessun peso.

-Ehi, non fare il ghiacciolo, dopotutto stiamo respirando la stessa puzza da più di due ore.- ridacchiò Cardia, per poi fare un cenno col capo verso le proprie spalle, accompagnato da una smorfia -Senti, fammi il favore, dammi una grattatina qua dietro, ho un prurito che mi sta facendo impazzire.-.

-Ma non ci penso nemmeno!- Degel inorridì strabuzzando gli occhi, ma non fece in tempo a dire nient'altro che la voce di un poliziotto richiamo l'attenzione di entrambi i detenuti: al di là delle sbarre, accanto a quello, c'erano altri quattro agenti armati e un  uomo sulla cinquantina, magro e brizzolato, con indosso vestiti eleganti sì, ma che dovevano essere andati di moda non meno di cinquant'anni prima; però, dietro la polvere di quella giacca grigio topo e quei mocassini consumati, si scorgeva un'intelligenza non comune, spruzzata da due occhi vispi, a tratti inquietanti, e un'espressione severa. Aveva il viso allungato in maniera quasi equina, incorniciato da una barba incolta e dei capelli arruffati.

-Quello là, amico mio non lo è di sicuro.- sghignazzò sommessamente Cardia, mentre lo sguardo di Degel andava illuminandosi di un baluginio di euforica speranza.

Il poliziotto parlò, mentre frugava in un corposo mazzo di chiavi che teneva tra le mani: -Signor Arnaud, ci scusiamo per il terribile inconveniente. Si è trattato di un caso di omonimia, e il signore qui presente ha dato ulteriore conferma alle ricerche condotte dagli agenti.-.

Degel fissò l'uomo con cipiglio interrogativo, ma fu soltanto un riflesso di prassi, dato che era quasi sicuro di aver capito l'identità del suo salvatore; cosa che venne confermata dalle parole che quello subito pronunciò: -Signor Arnaud, sono il Dottor Ackroyd, il suo tutore qui a Los Angeles.-.

-Non credevo sarei mai stato così felice di conoscerla...- sospirò il ragazzo, rilassando le membra e fremendo di sollievo.

Cardia se ne stava lì, silenzioso e a testa bassa, rimanendo piegato con i gomiti sulle cosce, apparentemente infischiandosene della romantica scenetta. Solo per un momento diede accenno di muoversi, perchè abbassò le mani ammanettate a grattarsi la caviglia destra, ma nient'altro. Degel non ne capì il perchè, ma quel gesto fece formicolare il suo sesto senso, cosa che però si sbrigò a sopprimere, pensandola come una semplice suggestione, e anche perchè ormai l'agente aveva trovato la chiave e la stava infilando nella toppa.

-Ero venuto  a prenderla in aeroporto,- cominciò il medico. -ma dato che di lei non c'era traccia nonostante il volo fosse arrivato da un bel pezzo, e il cellulare risultava essere inattivo, l'ho descritta ad un dipendente e questo mi ha detto di averla visto portare via dalla polizia.- Parlava a voce bassa, modulando ogni parola con cura e lentezza, come volesse assaporarne ogni minimo suono, oppure, pensò Degel con un filo di ammirazione, come se la consapevolezza che più di altri aveva sulla morte gli permettesse di apprezzare ogni soffio dell'effimera vita, e la cosa non poteva che trapelare in ogni suo gesto e modo. -E dato che non credo che la squadra di ricerca possa affidarmi dei delinquenti, eccomi qui.-.

Ora in piedi vicino alle sbarre, Degel si limitò ad annuire, stanco e parecchio scosso, nonostante si fosse sforzato fino a quel momento di lasciar intendere il contrario.
La serratura scattò rumorosamente e il poliziotto aprì finalmente la porta, mentre gli altri rafforzavano la prese sulle armi e le puntavano contro un innocuo Cardia che per tutta risposta si limitò a poggiare le spalle contro il muro e sbuffare infastidito.
Al 'venga pure avanti' dell'agente, lo studente fece per avvicinarsi all'uscita della cella, e stando ben accorto a non farsi vedere troppo coinvolto, lanciò un fugace sguardo all'altro ragazzo, che ricambiò con un ghigno mefistotelico; vedere quella smorfia sul viso di Cardia lo lasciò interdetto per un istante, ma evitò comunque di darle peso dato che la priorità del momento era uscire di lì.
Ma contro ogni sua aspettativa, non ci volle molto per far luce su quella stranezza che aveva deciso di lasciar correre, perchè non appena Degel compì il suo quinto passo, Cardia scattò in piedi e prima che i poliziotti potessero reagire alla cosa, questo aveva già fatto suo il francese, facendogli passare attorno al collo la catena delle proprie manette e portando una mano a stringergli la mascella verso l'alto, per fare così bella vista del suo collo niveo; l'altra teneva una lamina di ferro affilata pericolosamente vicino alla pelle di Degel, minnacciando di poter percorrere quando più le aggradava, e senza il rischio di venire interrotta in tempo, i pochi millimetri che la separavano dalla giugulare pulsante.
Cardia aveva fatto giusto in tempo ad abbracciare la sua preda che tutta la squadra tolse la sicura dalle armi e gliele puntò contro, mentre l'agente che aveva aperto la porta si fece indietro.
A Degel mancava il respiro: come aveva fatto ad essere così veloce, quello lì? Aveva appena cominciato ad assaporare la libertà, che Cardia gli si era avvinghiato addosso e stava minacciando di ammazzarlo. E nemmeno gli passò per la testa l'idea di divincolarsi, perchè non avrebbe avuto nessuna speranza di vittoria contro quel bestione tutto muscoli, e soprattutto ogni minimo movimento sarebbe stato rischioso con quella lamina sul collo.
Gli balenò nella mente l'immagine di poco prima, quella in cui la sua attenzione era stata rapita dal fare di Cardia, il quale aveva abbassato le mani verso la caviglia apparentemente per grattarla, e tutto improvvisamente gli fu chiaro. Si maledisse allora per non aver dato retta al suo sesto senso che aveva cercato di avvertirlo... Ma come poteva immaginare che quel bastardo stesse nascondendo un ferro affilato in prossimità dei piedi? Di sicuro si sarebbe inoltrato in conseguenti pensieri riguardo l'inettitudine e la poca efficienza della polizia americana e dei suoi metodi di perquisizione, se solo in quel momento non gli fosse salita veloce lungo la schiena la consapevolezza di trovarsi in serio pericolo. E ad averlo appena messo in quella pessima situazione era proprio il ragazzo che poche ore prima l'aveva infiammato con quello sguardo.

-Ha un ostaggio, ha preso un ostaggio!- gridava qualcuno ad un ricevitore, mentre gli altri si radunavano nel fatidico corridoio, a dare man forte agli agenti già presenti.
In poco tempo l'agitazione si impadronì della stazione di polizia, che si animò di squillanti allarmi e via vai di agenti.
 -Torna al tuo posto, cosa diavolo credi di fare?!- lo ammonirono i poliziotti urlandogli contro -Lascia il ragazzo e non ti spareremo!-.

Cardia rise. E rise di gusto. Fu una risata divertita, ma non appena le sue vibrazioni giunsero alle altrui orecchie, nessuno potè fare a meno di rabbrividire. Era un gorgeggio spaventoso, dalle vibrazioni così basse ed intense che sembrava nascere direttamente dalle budella di chi lo ascoltava, anzichè dall'esterno. Solamente Degel non fu colto da quell' impressione, per il semplice fatto che quelle vibrazioni le sentì su di sè direttamente dalla fonte, dato che l'ampio torace di Cardia spingeva con forza contro la sua schiena.
E ci fu di nuovo quel fuoco, di nuovo quel divampare di fiamme che prima aveva visto in quegli occhi, e che stavolta stava sentendo in quella voce e percependo sulla pelle.
Possibile che tutto di quel tizio fosse fuoco?

-Non fatemi ridere, signori.- Sibilò lascivo Cardia, lasciando che il suo sguardo tagliente scorresse su quello di ciascun presente, nessuno escluso. E quando il malcapitato del momento si concedeva un quasi impercettibile fremito una volta colpito, beh, questo non faceva altro che mettergli in circolo ancora più adrenalina. In quel momento era come se stesse correndo nel cuore di Los Angeles a più di duecento all'ora, ed era raro che qualcos'altro oltre alle corse sfrenate fosse in grado di fargli provare simili sensazioni.  
Sorrideva di un sorriso malsano, sentendo andare il proprio corpo a fuoco come non mai. E il fatto che gli stessero puntando contro armi cariche e prive di sicura non faceva che rendere il tutto ancora più esaltante, inducendolo a giocare la propria parte come meglio poteva.


Se solo non fosse stato lui uno dei due protagonisti della vicenda, Degel avrebbe pure potuto trovare assurdo ed ironico il fatto che ci fosse bisogno di così tanti uomini per sventare quello che aveva tutta l'aria di essere un tentativo di fuga di un coatto tutto muscoli; la spiegazione a ciò, era proprio il fatto che c'era qualcuno che stava rischiando la vita, e probabilmente Degel non aveva realizzato del tutto che quel qualcuno fosse proprio lui, dato che ebbe voglia di provocare il suo aggressore:

-Cos'è? Hai paura che gli altri detenuti possano rubarti la merenda, una volta dentro?-

Per tutta risposta, Cardia rafforzò la presa sulla sua mascella, inducendo Degel a grugnire di dolore, e lo avvicinò ancora di più al suo viso, tanto da arrivare a premergli le labbra contro l'orecchio: -Stammi a sentire, principessa...- Parlava ringhiando, alitandogli contro il collo aria tanto bollente da sembrare pericolosa.
Aveva ancora quel ghigno stampato in faccia, ma Degel non poteva di certo vederlo; come non poteva sapere che tutta quella situazione lo stava esaltando quasi al piacere. Sentiva solo il suo torace muoversi per i respiri veloci e profondi, che da tutto gli sembravano causati tranne che dalla paura, visto il soggetto.
 -... Non credo tu sia nella posizione di poter scherzare, adesso.- E come a dare ancora maggior credibilità alle proprie parole, Cardia fece scorrere delicatamente la punta fredda sulla gola dell'altro, ben accorto nel far sì che il gesto fosse visibile a tutti i presenti.

Degel rabbrividì in silenzio, digrignando i denti: quello stava facendo sul serio. Si guardò attorno facendo guizzare gli occhi in ogni direzione, in cerca di qualcosa che avrebbe potuto sfruttare a suo vantaggio per togliersi da quella situazione, ma si stupì nell'appurare che per la prima volta il suo cervello non stava lavorando come doveva: mai si era trovato in una situazione di stress tale da influire sulle sue capacità cognitive; e più questa consapevolezza prendeva forma nella sua testa, più il corpo la seguiva, rendendo palese ciò che fino a quel momento la razionalità era riuscita a sopprimere: che stava tremando come un coniglio aveva cominciato ad accorgersene solo adesso, così come si era appena reso conto del respiro affannoso e del cuore che pulsava a mille ormai in gola. Deglutì a forza, poi cercò di modulare qualche parola, accorgendosi che la bocca gli si era fatta irrimediabilmente riarsa: -Ehi, Cardia.- pensava che il chiamarlo per nome e usare un tono calmo e affabile avrebbero potuto instaurare una certa confidenza che sarebbe stata utile a persuaderlo, o almeno così si ricordava di aver letto in un qualche libro di psicologia. -Diavolo, ti stai mettendo nei guai. Se prima bastava che ti facessi qualche anno in reclusione, adesso non penso te la caverai così facilmente.-.
  Ancor prima di aprire bocca per parlare, qualcosa nella propria testa gli aveva detto che sarebbe stato tutto inutile con quello, e infatti ci volle pochissimo tempo prima di ricevere conferma dal diretto interessato, il quale, non appena Degel terminò il suo paternale, si premurò nel ricordare chi era il capo tra i due:  strattonò di nuovo la mascella del suo ostaggio e tese la catena delle proprie manette per stringergliela forte al collo. Il francese tossì, artigliando istintivamente il braccio di Cardia che lo teneva a sè, per cercare invano di allontanarlo. Dannati libri di psicologia.

-Adesso la pianti di fare la mammina che fa finta di preoccuparsi per me e vediamo di andarcene da qui.- Cardia gli aveva di nuovo parlato all'orecchio, a denti stretti, stando ben attento a non farsi sentire dai poliziotti, i quali ormai sembravano più delle belle statuine, che degli uomini d'azione.

Tra di essi, tra l'altro, Degel scorse Millard, armato di pistola, ma con una strana espressione scossa sul viso. Fu lui a parlare, mantenendo una notevole padronanza di sè: -Stammi a sentire, ragazzo. Se lascerai immediatamente l'ostaggio non saranno presi provvedimenti alla pena, parola mia.-. Pronunciò quel 'ragazzo' con un tono che colpì  Degel, anche se non riuscì a spiegarsi il motivo.

Cardia sputò a terra. -Me ne fotto della vostra clemenza, comandante.-  guardava l'ufficiale con aria di sfida, gli occhi spalancati e animati di un baluginìo folle, decisamente inquietante. -Io non voglo farmici nemmeno un giorno, nel vostro porcile.-. E non era un mero capriccio, perchè era sicuro che sarebbe morto, se fosse stato più di due giorni là dentro senza la sua principessa e la sua Los Angeles. Perchè Los Angeles era sua, e non avrebbe permesso a degli idioti in divisa di strapparlo dal proprio trono per permettere a un qualsiasi stronzo di sedervisi al suo posto. No, ormai su quel trono c'era la sagoma del proprio culo.
-Ora fate un favore al vostro Cardia, da bravi. Aprite un varco tra di voi così posso passare tranquillamente...- poi indicò Degel con un'occhiata e un gesto del capo, sorridendo famelico -...senza che nessuno qui si faccia male.-.

Al sentire quelle parole, tutti gli agenti si smossero e borbottarono tra loro, offesi e spazientiti. -Fai sul serio?!- gridò uno, rafforzando la presa sull'arma che teneva davanti al viso, già con gli occhi puntati sul mirino. -Figurati se ti lasceremo passare! Ora molla il ragazzo e metti la faccia al muro, oppure ti spariamo!-.

La minaccia non spaventò di certo Cardia, sia perchè non era proprio il tipo facile da impressionare, sia perchè aveva il pieno controllo della situazione, di fatti era stato ben attento a posizionarsi nella stanza in modo tale da offrire a fucili e pistole soltanto il corpo di Degel, e impedendo ai poliziotti qualsiasi mossa avventata grazie alla lama che teneva ben posizionata sul collo del francese. E per la prima volta i suoi pensieri andarono a lui, traendo divertimento dal fatto che, appena giunto oltreoceano, aveva già avuto modo di toccare con mano quella che era la VERA America: la splendida, libera, selvaggia America. L'America dove solo chi è disposto ad ammazzare può meritarsi il rispetto e una buona posizione in mezzo alla gente. A dir la verità un po' gli dispiaceva per quello straniero snob dal musetto presuntoso, ritrovatosi in quella situazione per puro caso; forse una volta liberi e lontani dagli sbirri non lo avrebbe nemmeno ammazzato, ma decise di riservarsi quella decisione per dopo: ora la cosa importante era andarsene da lì.
E soprattutto farlo sotto gli occhi di Russ Millard.
-Uhn!- un mugolio di Degel lo strappò dai suoi pensieri, facendogli accorgere di aver premuto un po' troppo sul suo collo. Cosa che scosse tutti i presentii, dato che sulla pelle del francese stava scivolando giù una goccia di sangue, resa ancora più cremisi dal contrasto con la pelle diafana. Beh, Cardia pensò che un po' di effetto scenico non faceva mai male.
Allora strinse a sè il corpo magro con ancora più forza, beandosi dei suoi brividi e del suo respiro rotto dalla paura. -Non scherzo, come potete vedere, e se non mi lasciate passare lo ammazzo sul serio.- si interruppe per un attimo, il tempo per posare gli occhi sul comandante e guardarlo con una malizia che era di piena sfida. -Comandante, ormai mi conosci da tanto tempo, sono anni che mi date la caccia, e sono sicuro che sai che preferirei ammazzare qualcuno e bruciare sulla sedia elettrica piuttosto che starmene qui buono buono a scontare la mia pena.-.


Faceva sul serio? A Degel una vocina interiore diceva di sì. Quell'americano era completamente pazzo e se la giornata era cominciata in quel modo già dall'aeroporto, non poteva non chiudersi così in bellezza. Aveva paura. Anche se non voleva ammetterlo a se stesso, ringraziava che  ci fossero lo forti braccia di Cardia a sorreggerlo, perchè sentiva che le gambe non erano in grado di sorreggerlo già da un bel po'. Poi, ora che il collo aveva preso a bruciargli per il piccolo taglio, era come se la consapevolezza di un'orribile e molto probabile evenienza si stesse facendo largo dentro di sè, privandolo di ogni capacità di iniziativa: poteva morire. Se Cardia era il fuoco a cui ogni fibra del suo essere rimandava, lui non era altro che un cubetto di ghiaccio in balia delle fiamme. Stava giusto abbandonandosi a questa insolita immagine, che fu costretto dal corpo di Cardia ad avanzare. Questi aveva compiuto giusto due passi lenti, prima di ruggire un potente: -Allora?!-.

I poliziotti non smisero di puntargli contro le armi, ma nemmeno si azzardarono a prendere iniziative, dato che il colpire Cardia senza prima attraversare il corpo di Degel era praticamente impossibile. Il comandante era un fascio di nervi, e la sua fronte si era imperlata di sudore già da un bel pezzo, ma nemmeno per un secondo si concesse di sottrarre il proprio sguardo da quello di Cardia, il quale, vedendo che nessuno dava l'impressione di muoversi, aveva ripreso ad avanzare.
Ora, sarebbe stato ammirevole da parte di Degel uscirsene con un: "No, per amor del cielo! Non pensate a me, sparate comunque e fermate questo delinquente!", ma non si trattava mica di un film e teneva troppo alla propria pelle. E soprattutto, non c'era il minimo senso patriottico che lo muoveva. Per lui gli americani potevano divertirsi con i loro criminali quanto volevano, non erano affari suoi, gli interessava solo andarsene da lì... e possibilmente con la testa attaccata al collo.

-Mettete quelle cazzo di armi a terra.-  fece poi Cardia, perentorio. E per dare manforte alle parole, si concesse un altro piccolo graffio al proprio ostaggio, stavolta pericolosamente vicino alla giugulare, gesto che venne accolto dal diretto interessato con un lamento di dolore.
Tutti gli agenti posarono gli occhi sul loro comandante, che dopo qualche secondo di titubanza, abbassò il capo, definitivo. Il rumore del metallo impattante con il pavimento rieccheggiò per il corridoio, mentre i poliziotti si liberavano di fucili e pistole.
-Bene.- continuò Cardia tirando su col naso -Ora tenete alzate le mani per bene, tutti quanti...- parlava lentamente ed utilizzava uno strano tono gentile, come se stesse ammonendo dei bambini. -...Così che possa avere il tempo di tagliare la gola al francese, se qualcuno si facesse venire la stupida idea di abbassarsi a prendere l'arma.-.
Una volta appurato che tutti si fossero attenuti al suo ordine, rimaneva il problema di come svignarsela dalla stazione di polizia cercando di non esporre il proprio corpo senza lo scudo offerto da quello del signor Baguette. Cardia si guardò attorno, alternando occhiate nervose tra il luogo e i poliziotti, così da tenere sempre sotto controllo persino i loro respiri. In tutto ciò la sua attenzione si posò anche su quello che diceva essere il tutore del suo ostaggio, che con sua grande sopresa, se ne stava immobile in mezzo agli agenti, senza mostrare il minimo accenno di panico. Fissava la vicenda con lo stesso sguardo di quando si era presentato poco prima davanti alla cella, e pareva che tutto quel trambusto non gli avesse nemmeno fatto sgualcire la camicia. Neanche la seguente occhiata di Cardia, una delle più grottesche del suo repertorio, lo fece scomporre. Tra lui e l'escargot facevano a gara a chi era più faccia di cazzo, pensò, mentre nella sua mente si formava finalmente anche una buona idea per lasciare quel postaccio. Trovò ispirazione nel guardare le pareti che delimitavano il piccolo corridoio in cui si trovavano lui e gli agenti di polizia, e che collegavano quello principale alla cella d'attesa. Quindi lasciò la presa  sulla mascella di Degel, ma solo per afferrargli il braccio, più comodo per quando avrebbe dovuto costringerlo a muoversi assieme a lui. -Adesso, signori, vi pregherei di spostarvi tutti a destra, e attaccarvi al muro.-.

Stavolta i poliziotti si mossero senza l'autorizzazione del comandante, tutti rassegnati al fatto che  finchè quel delinquente fosse rimasto là dentro a farsi scudo di quel povero straniero, non avrebbero potuto fare proprio nulla.
Così, annuendo soddisfatto, Cardia strattonò Degel per il braccio ed uscì dalla cella lentamente, tenendo sempre la schiena appiccicata alla parete opposta rispetto a quella dove si erano ammassati i poliziotti. Si compiacque del fatto che il francese si stesse muovendo senza fare capricci, rendendogli il lavoro facile. No, quasi sicuramente non l'avrebbe ucciso se avesse continuato a comportarsi così bene. Una volta raggiunte le armi lasciate a terra dai poliziotti si fermò l'attimo che bastava per piegarsi velocemente verso una di esse, portandosi appresso Degel che quasi perse l'equilibrio, e sostituire la lama con una pistola, per poi puntargliela subito alla tempia.


La velocità con cui Cardia eseguì la manovra fu, se possibile, ancora maggiore di quella con cui si era fiondato prima su Degel. E dopo che la catena delle manette lo spinse giù con forza, mozzandogli il respiro e rischiando di farlo finire con le ginocchia a terra, il francese non riuscì a capire cosa stesse accadendo finchè, una volta che fu rizzato di nuovo su da uno strattone dell'altro, non sentì qualcosa di freddo spingere contro la propria tempia . Siccome non era affatto uno stupido, ci mise un attimo a capire di cosa si trattava. Rabbrividì, chiudendo per un momento gli occhi: più i secondi passavano, e più veniva meno la speranza di poter tornare sano e salvo a casa. Perchè tornare a casa, se fosse uscito di lì vivo, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto, e Los Angeles poteva scordarsi di vedere ancora la sua faccia finchè fosse stato capace di intendere e di volere: questa era una delle due certezze che aveva in quel momento; l'altra era la consapevolezza di essere giunto ad odiare quell'americano con ogni centimetro del proprio essere.

Con la pistola puntata alla testa, si accorse solo in quel momento di quanto stava sudando: fu una cosa che lo sorprese non poco, dato che non era solito sudare nemmeno quando faceva quel poco di sport ogni tanto. Però, poichè in quel momento la possibilità di sentirsi perforare il cranio da piombo rovente non era per niente da escludere, sentire la camicia umida appiccicarsi alla pelle non era poi così strano; soprattutto se si considerava il fatto che il corpo di Cardia sembrava avere una temperatura che superava sì e no di una decina di gradi quella di una qualsiasi altra persona.
A stare con la schiena a contatto con il suo torace, quasi sentiva il proprio sangue bollirgli nelle vene. E quel cuore che sentiva martellare dietro di sè con così tanta veemenza, gli dava l'impressione che prima o poi avrebbe potuto fracassare la gabbia toracica che lo ospitava e uscirne con una forza tale da entrare nel corpo che gli stava davanti. Cosa che poteva risultare alquanto romantica se solo si pensava alla presente situazione, la quale aveva tutte le carte in regola per favorire una perfetta sindrome di Stoccolma, ma si sa, Degel Arnaud avrebbe preferito ammalarsi di tumore al cervello, piuttosto che di quella.
Frenò l'istinto di gettare occhiate supplicanti a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi salvatori, ma una volta che Cardia lo costrinse a muoversi insieme a lui, facendolo camminare di lato, incontrò gli occhi severi del dottor Ackroyd, al quale non potè nascondere il terrore che lo attanagliava. Lui ricambiò con uno sguardo caldo, rassicurante a modo suo, ma in quel momento nemmeno la vista di babbo Natale con tanto di doni e campanellini lo avrebbe fatto sentire meglio.
Cardia prese quindi a camminare lentamente con la schiena attaccata al muro, senza mai smettere di puntare la pistola al suo ostaggio e di tenere d'occhio ogni singolo poliziotto. Un po' per quella che Degel interpretò come vanità, Cardia non si trattenne nel regalare qualche occhiata spocchiosa al comandante, il quale stava stringendo i pugni con così tanta forza da sbiancarsi le nocche ed era diventato paonazzo in viso, chissà se per vergogna o per rabbia. Magari entrambe, d'altronde stava per venire sconfitto in casa propria, e non avrebbe potuto sopportare una simile onta. Come non l'avrebbero sicuramente sopportata i superiori, dai quali sarebbe stato degradato senza troppi problemi. Una vita dedicata ad ottenere quel posto e onorarlo come meglio poteva, ed ecco che per colpa di uno squilibrato stava vedendo andare in fumo tutto quello per cui aveva lavorato.

Ma Degel non poteva di certo sapere che si stava sbagliando di grosso, e che in verità ciò che stava tormentando il poliziotto era qualcosa che non avrebbe mai potuto immginare: quella che sembrava vergogna era in realtà un profondo senso di frustrazione, di promesse fatte ma mai mantenute, di quello che avrebbe potuto essere ma che invece non era stato, e la rabbia che gli stava spezzando il respiro era rivolta solamente verso se stesso.


Non era facile, non lo era mai stato, ma mai Millard avrebbe immaginato di ritrovarsi in una situazione del genere. Non poche volte era stato combattutto tra il suo essere di uomo e di poliziotto, ma era la prima volta che si vedeva coinvolto in maniera così intima, e prendere la decisione giusta era in quel momento la cosa più difficile che gli fosse mai capitata; senza contare poi il fatto che doveva assolutamente affrettarsi nel farlo data la situazione critica, e che tutta la centrale dipendeva dalle sue decisioni, sbagliate o giuste che fossero.

E tutto perchè il ricordo di quello che era successo tredici anni fa, ma che aveva portato i suoi strascichi per molto tempo a seguire, era ancora vivo nella sua mente, e ora si stava riproponendo con violenza, impedendogli di fare ciò che andava fatto.
Alla fine chiuse gli occhi con gravità, abbandonandosi alla sensazione di un lungo brivido che serpeggiava lungo tutta la spina dorsale, messaggero di una dolorosa consapevolezza: era giunto il momento di finirla, anche se ciò voleva dire riportare alle luce un passato che si era promesso di lasciare nell'oblio.
-Scorpio.-.

Bastò quella semplice parola per immobilizzare Cardia sul posto e far nascere sul suo viso un'espressione di pura incredulità (o era terrore?). Il ragazzo si voltò lentamente verso l'uomo, annaspando l'aria con concitato affanno.
-Come... come mi hai chiamato?- sussurrò, con le labbra in preda ad impercettibili spasmi.






Beeeeene.
Non so nemmeno che parole usare per scusarmi con coloro che seguivano -e spero seguiranno ancora- la storia, riguardo la mia lung(hissim)a assenza. Davvero, non saprei che inventarmi, se non dirvi la verità, e cioè che ho appena avuto un semestre infernale all'università per quanto riguarda le lezioni e l'ammontare di studio, e che il poco tempo libero che avevo a disposizione mi permetteva giusto di uscire ogni tanto da casa per prendere un po' d'aria ._. Al sol pensiero mi viene da vomitare *Bleaauurgh* Ma bando alle ciance *si pulisce*, spero che siate comunque rimasti soddisfatti dagli sviluppi (e dai cambiamenti apportati), ma soprattutto che abbiate ancora voglia di leggere. Tanto manca poco (spero), solo che sento il bisogno di approfondire un po' un particolare rapporto che pare essere venuto fuori proprio in queste ultime righe.
Fatemi sapere se la fic vi gusta, così magari mi impegno per allungare un po' il brodo, altrimenti chiudo subito in un altro paio di capitoli e via :).
Giuro che sarò un tantino più presente, sia per postare, sia per riprendere a leggere quelle fic che ero solita commentare!
Un'altra cosa che ci tenevo a dire è questa: qualche giorno fa, ho avuto il piacere di leggere un cult del genere noir, dal titolo 'Dalia Nera'. E ho scoperto di citarlo involontariamente quando parlo di Cardia e Degel rispettivamente come fuoco e ghiaccio. Lì nel libro, anche  per i due personaggi principali vengono usate dal narratore (che è uno di questi due) queste due parole come soprannomi. Dato che ho amato il romanzo e dato che ormai ho combinato questa cosa, ho deciso  di citarlo ancora (stavolta volontariamente) dando al comandante il nome dell'unico, a mio avviso, personaggio della storia che può essere definito positivo.
Detto questo, grazie a coloro che leggono per la pazienza che hanno con questa povera studentessa esaurita, e scusatemi ancora per avervi fatto aspettare così tanto. Al prossimo capitolo! <3
Essie.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quattro. ***








Il comandante trattenne il respiro, mentre nella sua testa ricordi offuscati dal tempo prendevano forma in immagini in movimento, rese qua e là più o meno vivide dall'intensità delle corrispondenti emozioni provate in quegli attimi. E quando la memoria gli riportava sulla pelle quelle più intense, i ricordi si presentavano nitidi e violenti come se li stesse rivivendo proprio in quel momento, assistendo ad essi con gli occhi di adesso.


Mancavano diciannove minuti alle undici di notte. Si trovava in zona Inglewood, nei pressi della centoquattresima, dove l'intervento della mafia aveva fatto edificare un numero spropositato di fabbricati illegali, che i malavitosi utilizzavano come magazzini per la merce destinata al contrabbando. Erano ormai anni che il Dipartimento di Polizia tallonava quella banda di delinquenti senza volto, La "Viuda de Negro", la vedova nera, sfiorando sempre per un pelo la possibilità di metter loro le mani addosso. All'epoca lui era solo uno dei tanti giovani sergenti nella città numero uno del crimine, affamati di eroiche imprese da infilare nel curriculum professionale e con le quali costruirsi una buona reputazione nell'ambiente lavorativo e in quello criminale. Se fosse riuscito ad acciuffarli... Se ci fosse riuscito di certo l'impresa non sarebbe passata inosservata agli occhi dei superiori. Anche perche la banda della Viuda de Negro si era guadagnata una bella fama in giro per tutta la Californa e anche oltre; con i loro commerci illegali di armi e droghe, rapine organizzate, violazione di reti informatiche di sicurezza, erano senza dubbio una più che succosa preda da portarsi a casa. Il fatto però di essere specializzati in così tante attività diverse aveva in principio depistato la polizia, la quale ci aveva messo un po' di tempo a scoprire che si trattava sì di menti diverse, ma unite tutte in un'unico organo. Non sapevano ancora quanti fossero i veri componenti, ma in base ad investigazioni su vari fronti, si supponeva che quei delinquenti non dovevano essere più di una decina, se non si contava gentaglia affiliata di poco conto. Si muovevano bene, cambiando strategia e fronte d'azione ogni volta che la polizia riusciva ad avvinarsi a loro un poco di più; questo aveva permesso alla Viuda de Negro di cavarsela sempre, ma grazie alla presenza di menti capaci e agenti volenterosi, ormai il Distretto di Polizia era ad un passo dalla vittoria. Una trappola architettata ad hoc era la loro strappata finale, l'ultima carta da giocare, quella che se non fosse andata a buon fine, li avrebbe rispediti indietro al punto di partenza. E il compito di guidare la delicatissima operazione spettava a lui, al sergente Russ Millard, in coppia con un suo superiore.
Bisognava pero dire che la prima parte del piano, che era poi quella più lunga, complessa e pericolosa, si era conclusa nel modo sperato: alla fine, tutti gli infiltrati erano riusciti, dopo parecchi mesi, a guadagnarsi la fiducia della Viuda de Negro e fingersi con successo dei buoni informatori di colpi grossi. Per facilitare loro il lavoro, la polizia aveva dovuto concedere alla banda parecchi crimini lasciati volutamente impuniti, ma ne valeva la pena se volevano avere una minima chance di acciuffarli. Poi, finalmente, gli infiltrati avevano convinto i criminali di poter concludere un allettante affare  e dopo qualche mese di lavoro, assieme all'aiuto di parecchi altri agenti in incognito, erano riusciti ad attirare cinque delle più importanti teste nemiche, e altri membri di minore importanza, all'interno di quel magazzino dismesso, che era poi il luogo designato per il finto incontro con i "famigerati contrabbandieri russi di armi pesanti". Il resto e la riuscita finale della missione, gravava in parte sulle spalle del sergente Millard, e non serviva specificare che anche il minimo errore sarebbe stato fatale. Nascosto dove il mobilio di cassoni lo consentiva, Russ avrebbe dovuto dare al momento giusto l'ordine di cattura e arresto agli altri venti agenti che stavano appostati e in agguato come lui. In apparenza era un compito semplice, ma se si andava a considerare tutte le varie (e possibilissime) variabili in gioco, poteva facilmente trasformarsi in un suicidio. Ma lui non avrebbe fallito, perchè ci teneva troppo a mettere le mani su quei bastardi che lo avevano privato di quasi un anno della sua vita, e precisamente da quando era stato trasferito alla "Crimine Organizzato" e il caso Viuda de Negro lo aveva impegnato fisicamente e mentalmente in quasi tutte le ore delle sue giornate. Ricordava che stava sudando freddo. Cercava di respirare piano e profondamente per cercare di diminuire i battiti cardiaci oramai al massimo della loro intensità, ma la tensione stava avendo la meglio. -Cristo.- Aveva imprecato sotto voce, conscio che il proprio successo dipendeva quasi esclusivamente dal suo sangue freddo. Non ricordava per quanto tempo aveva tenuto gli occhi puntati sull'unica zona illuminata del locale, e cioè quella dove gli infiltrati/finti collaboratori della polizia/Viuda de Negro stavano attendendo l'arrivo dei criminali, seduti attorno ad un tavolino di legno, su cui erano poggiati un paio di lampade accese, tre posaceneri e qualche quotidiano stropicciato. Russ invidiava il loro autocontrollo e temeva di non riuscire a gestire la propria emotività quando sarebbe stato il momento. Proprio quando aveva terminato di formulare quel pensiero, la grossa porta di ferro vibrò di cinque colpi battuti secondo un criterio ritmico preciso: erano loro. Si erano davvero presentati all'appuntamento.


Quello che Millard ricordava essere successo dopo quel momento, risultava molto più vago e confuso; le  immagini risultavano un miscuglio di tutti i fatti che erano successi in quei pochi, ma concitati, minuti seguenti, e soltanto qualche fotogramma risultava nitido e risparmiato dall'azione corrosiva del tempo e della paura, come il ricordo di aver visto entrare da quella porta molte più persone di quelle attese... I criminali che parlottavano con gli infiltrati della polizia... La sorpresa che lo aveva colto nel vedere che i bastardi si portavano dietro un ragazzino denutrito e palesemente depresso che non doveva avere più di tredici, quattordici anni... E infine il segnale dato al momento giusto di uscire allo scoperto e puntare le armi contro i delinquenti.
Ma qualcosa era andato storto: la Viuda de Negro si era dimostrata in grado di sapersi destreggiare anche in situazioni disperate come quella. I bastardi erano preparati ad ogni evenienza, e il sergente Millard si era ritrovato ben presto a dover tenere testa a quello che era il capo nemico.

Dopo quel momento, tutti i ricordi tornavano a farsi nitidi e uniti insieme dalla giusta sequenza logica e temporale.

Ma si trattava di pochi secondi. Pochi secondi durante i quali aveva avuto la peggio con il criminale, che lo stava tenendo sotto tiro con la sua calibro 38. Era un uomo alto e grosso, coi capelli nerissimi impomatati all'indietro, gli zigomi sporgenti e lo sguardo vitreo, talmente inespressivo da somigliare spaventosamente a quello di un rettile. Pochi secondi per fissare la mano del nemico stretta sulla pistola, e il suo dito indice sul grilletto. E pochi secondi per far sì che accadesse l'impossibile: i muscoli del dito che avevano vibrato per sparare il colpo, erano stati un tutt'uno con il rumore assordante dello sparo. Millard aveva chiuso gli occhi, ricordava che era troppo intento a pensare a suo padre e a cosa avrebbe fatto dopo aver saputo che il figlio era rimasto ucciso, per accorgersi che il rumore era in verità sopraggiunto con un impercettibile anticipo rispetto al proiettile. Anzi, dopo qualche attimo di troppo, si era reso conto di non  essere stato affatto colpito. Aveva quindi aperto gli occhi di scatto, giusto in tempo per vedere il tizio davanti a sè tossire un fiotto di sange e crollare giù ai suoi piedi con la faccia a terra, così da rivelare alle sue spalle il palese arteficie dell'accaduto.
Il bambino, ansante e con gli occhi spalancati, teneva davanti al proprio viso una pistola dalla canna fumante con entrambe le mani. Tremava come una foglia ed era più pallido di un fantasma. Quel ragazzino gli aveva appena salvato la vita, macchiandosi della più grave delle colpe, l'omicidio.

A quel punto, senza il loro capo, fu quasi un gioco da ragazzi prendere in mano la situazione ed arrestare i rimanenti e disorientati membri della banda lì presenti. Ricordava di averli sentiti chiamare quel bambino col nomignolo di "Scorpio", che solo giorni più tardi scoprì essere dovuto a piccole e subdole missioni affidategli dalla banda, in cui il suo aspetto innocente e la sua furtività gli concedevano di pungere indisturbato senza lasciare traccia nè sospetti. Lo obbligavano a lavorare per loro, picchiandolo e promettendogli il cibo solo al completamento delle missioni. E se tornava con cattive notizie , solo Dio sapeva quello che doveva subire da quei figli di puttana.
Tenendo le mani alzate per fargli capire che non gli avrebbe fatto alcun male, Millard gli aveva parlato quietamente: -Stai tranquillo, piccoletto, non ti faremo niente.-.
Scorpio lo fissava spaurito e apparentemente incapace di fare qualsiasi altra cosa che non era tremare e stringere quella pistola fino a sbiancarsi le dita. Fissava il corpo ormai senza vita di quello che era stato uno dei suoi aguzzini e sembrava sul punto di disfarsi in mille pezzettini.

-Fidati di me...- aveva ripreso Russ Millard, stavolta incominciando a muovere qualche passo cauto per aggirare il cadavere e tentare così di avvicinarsi al bambino. -... Baderemo a te... Io baderò a te. Se abbassi la pistola, ti porto via da qui e giuro su Dio che nessuno ti farà del male.-.
Non ricordava con precisione cosa di quel ragazzino lo colpì così tanto da farne una questione personale e promettergli quelle cose. Forse perchè gli aveva salvato la vita, forse perchè già immaginava, prima di venire a saperlo da lui giorni più tardi, quali mostruosità aveva dovuto sopportare a causa di quei bastardi.
Forse erano quei suoi occhi così pieni, così vivi, da averlo coinvolto in quella maniera. Perchè erano degli occhi che poco si confacevano ad un ragazzino: erano animati da un fervore rovente, aizzato da tutto il rancore maturato durante ogni secondo passato ai servigi di quella gente, dalla consapevolezza che ogni giorno il passato si sarebbe inevitabilmente tramutato in un presente che non cambiava di nulla, destinandolo sempre allo stesso crudele futuro. Occhi senza speranza, divorata da demoni di fiamme.
Russ Millard, in quelle orbite infossate, ci aveva visto l'Inferno.
Ricordava di aver giurato a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa per alleggerire il peso che gravava su quelle piccole spalle. Oltre al senso di gratitudine, era anche e soprattutto questo il motivo che aveva spinto il poliziotto a non abbandonare quella creatura e a cercare di proteggerlo per quanto poteva, mettendocela tutta per essere una presenza costante nella sua vita, anche dopo che ognuno aveva preso la propria strada. Millard aveva fatto carriera grazie all'arresto di quella notte, mentre Cardia (questo era il suo vero nome) passava gli anni successivi a saltare da una coppia affidataria all'altra, a causa della sua cattiva condotta; parecchio tempo lo passava in ospedale, a cusa di una malattia cardiaca riscontrata ai tempi della sua permanenza nella Viuda de Negro, e il resto a picchiarsi con altri ragazzi.
Qualche anno più tardi, la sua attenzione però si era spostata anche su di un altro fronte, quello dei motori, cosa che si rivelò presto la sua più grande passione. Era stato proprio grazie a Millard che Cardia aveva scoperto il suo incredibile talento meccanico, e cioè quando il poliziotto aveva pensato che spendere del tempo in un lavoretto lo avrebbe tenuto lontano dai guai almeno per qualche ora al giorno. Ne aveva parlato con i suoi tutori del momento e questi avevano accettato di buon grado, se non altro per liberarsi un poco dalle preoccupazioni che il ragazzino dava loro di continuo. Così, dopo essere riuscito a persuadere anche il diretto interessato, Millard lo aveva affidato ad un suo amico meccanico a cui il Distretto affidava le volanti da riparare. Con grande sorpresa di tutti, Cardia prese molto sul serio la cosa, dedicandosi con solerzia e passione al lavoro; lì aveva imparato i segreti del mestiere e scoperto così la sua grande vocazione.
L'idillio però era durato poco, fino a quando il ragazzo, divenuto consapevole del proprio talento, ben pensò di sfruttarlo per divertirsi e guadagnare un po' di grana. Era così che si era addentrato nel giro delle corse clandestine e del tuning, guadagnandosi in pochi anni la fama del più forte.

Russ Millard ricordava che tante volte aveva cercato di dissuaderlo ad uscirne, confidandogli che non poteva continuare a coprire un delinquente e che se avesse continuato così sarebbe stato costretto a metterlo dentro per un po' o almeno in libertà vigilata; senza considerare le conseguenze sulla malattia al cuore che ogni anno che passava peggiorava sempre di più. Ma parlare con Cardia era come farlo con un muro: il suo protetto esplodeva ogni volta in mille scintille ed entrambi si ritrovavano presto ad urlare in faccia ad un interlocutore sordo.
Ricordava che era stato proprio quel giorno, dopo il loro ennesimo litigio, che lo aveva visto per l'ultima volta.
-Sono riuscito a sbrogliare le faccende burocratiche, ragazzo..-.
 Erano a casa di Millard, seduti uno accanto all'altro, il poliziotto gli aveva poggiato affettuosamente le mani sulle spalle -Finalmente non c'è niente che possa opporsi all'affidamento.-.
 Il ragazzo non lo guardava, tenendo uno sguardo apatico fisso sulle proprie cosce. Oramai, aveva pensato Millard con tenerezza, Cardia era diventato un uomo, ed erano passati più di dieci anni dall'accaduto a Inglewood, ma al Commissario pareva di essere stato investito dalle fiamme del ragazzo soltanto il giorno prima. -Se vuoi, puoi venire a stare da me, senza doverti più preoccupare di niente... Nè dei soldi, nè di dove dormire, nè della tua malattia. Penseremo a tutto assieme, vedrai.-.  Aveva pronunciato quelle parole con tono basso e rotto dall'emozione.
Da quando Cardia aveva raggiunto i ventuno anni di età, i servizi sociali non gli avevano più assegnato dei tutori e una casa dove stare e la sua situazione era peggiorata drasticamente. Da quel momento il poliziotto aveva fatto di tutto per prenderlo con sè, ma affinchè anche il ragazzo la prendesse seriamente, senza il timore di potersi ritrovare di nuovo per strada (anche se piuttosto che quello, Millard avrebbe preferito tagliarsi una mano) lui si era mosso per rendere la cosa ufficiale, ottenendo così l'affidamento.

L'attesa della risposta lo stava uccidendo, si era ritrovato persino a pensare che nessun'incursione o arresto lo aveva tenuto più con il fiato sospeso di quel momento. Ma Cardia ci aveva messo un po' troppo a rispondere, e quando si era finalmente deciso a farlo, Millard ricordava di essersi sentito sgretolare.
-Di tempo ne hai avuto, dopo la tua promessa. Undici anni per l'esattezza. Oramai è troppo tardi.-.


Russ Millard sentiva quella frase rimbombargli nel crano ogni benedetta sera, prima di andare a dormire. Il rimorso per non aver agito prima, per non averlo preso subito con sè, così da potergli riservare un futuro migliore, lo divorava da quando aveva ricevuto quel rifiuto. Perchè non gli aveva risparmiato tutti quegli anni di sofferenza e ineguatezza verso il mondo, accogliendolo subito a casa sua? Utilizzava verso se stesso la scusa che non gli avrebbero permesso di tenerlo, che prima o poi lo avrebbero portato via e affidato a qualcun altro che l'affidatario lo faceva di mestiere, perchè con il suo lavoro non sarebbe riuscito ad essere presente quanto sarebbe servito e avrebbe voluto. La verità era un'altra ed era riuscito ad ammetterlo a se stesso solo in quel momento, ora che Cardia, colui a cui aveva voluto e voleva bene come un figlio, ce lo aveva di nuovo davanti agli occhi dopo che era sparito per tre lunghi anni senza farsi mai vivo. Ed era che, nonostante il suo unico desiderio fosse quello di liberarlo da quelle fiamme, per quanto ci avesse provato non ci sarebbe mai riuscito, perchè Cardia e il fuoco che lo attanagliava ormai da una vita erano diventati una cosa sola. Ed era proprio quel fuoco che lo teneva in vita, che facev a ancora battere quel cuore debole, erano la rabbia e il fervore del suo spirito rovente.
Se era impossibile estinguere quelle fiamme, l'unica cosa da fare era condividerle. Ma lui, come ogni singola persona che aveva provato a stare vicino a Cardia, non era stato in grado di sopportare l'Inferno che era racchiuso in quello sguardo.

Prese un lungo respiro. -Scorpio.- ripetè, dato che non era per niente sicuro di averlo anche detto, oltre che pensato, poco prima.
Al sentirsi nuovamente appellare in quel modo, Cardia non resistette, ed esplose. -Non azzardarti a chiamarmi con quel nome!- urlò, tanto forte da raschiarsi la gola e stringendo a sè con ancora più forza il povero corpo di Degel; tremava forte, la pistola che teneva in mano ballonzolava contro la fronte del francese come se ci fosse un terremoto.

-Ti scongiuro- continuò Millard -Non macchiarti di altro sangue.-.





Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cinque. ***




Piuttosto che fare del male a Cardia, Russ Millard avrebbe preferito tagliarsi una mano.
Eppure eccolo lì, ritrovatosi a ricorrere al metodo più subdolo che ci potesse essere per richiamare a sè l'attenzione del ragazzo e cercare di riportare dalla sua la situazione che ormai gli era sfuggita di mano: rievocare il triste e traumatico passato di Cardia però non era stata di certo la cosa migliore da fare, anzi, forse poteva proprio dirsi la peggiore. E nessuno avrebbe mai potuto capire quanto dolore stesse investendo Millard in quel momento; non passò un secondo che subito si pentì di quello che l'istinto lo aveva appena indotto a fare e si maledisse per la propria debolezza. Debolezza di cui si incolpava ogni volta che i pensieri andavano agli anni trascorsi e per colpa della quale ora erano lì uno di fronte all'altro, in veste di  nemici.

L'unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era correre dal ragazzo e abbracciarlo forte, gridandogli il suo dispiacere per come si era comportato con lui, ma represse in fretta quel desiderio, cercando di focalizzarsi sulla sua missione e convincersi che quello che aveva davanti in quel momento era solo un criminale che stava tenendo in ostaggio e minacciando di morte un povero ragazzo. E in situazioni del genere, ogni metodo era lecito se fosse servito a salvare una vita. Il resto dei poliziotti aspettava un suo ordine, con le pistole ancora a terra davanti ai loro piedi, come da comando di Cardia.

E lui era ancora lì che annaspava aria con le narici dilatate e stringeva convulsamente Degel tra le braccia, il quale dal canto suo stava capendo davvero poco di quello che stava succedendo e del perchè quel semplice appellativo avesse mandato così fuori di testa il suo sequestratore. Però almeno il fatto che Cardia si stesse abbandonando all'emotività in quel modo gli faceva sperare per il meglio riguardo alla propria sorte, e quasi riuscì a convincersi che forse il comandante sapeva quello che stava facendo, o per lo meno se lo augurava con il tutto il cuore, soprattutto nel momento in cui si sentì mancare l'aria a causa della stretta dell'americano, fattasi ancora più soffocante. Tossì e piantò istintivamente le unghie sulla pelle tatuata di quell'avambraccio che gli impediva di respirare, ma era come se Cardia al momento si trovasse in una dimensione dove i due unici esseri che la popolavano erano lui e il comandante.

-Tu non sai un cazzo di me!- .
Cardia urlava per cercare di mascherare il tremolio della propria voce. Stava andando tutto così bene, ed erano bastati poco più di cinque secondi per ribaltare la situazione.
Si stupì di sè, per il fatto che il solo sentire quel nome avesse potuto fargli quell'effetto: per quanto si fosse sforzato di accantonare il suo passato, quello non perdeva mai occasione di ripresentarsi nei suoi incubi e nei suoi pensieri. E ogni volta il dolore che provava era lo stesso di tanti anni prima, di quando era costretto a subire le torture di quei bastardi.
Tutte le scappatoie in cui si tuffava a testa basta, come le corse, riuscivano a tenergli per un po' la mente lontana da quelle cose, ma non appena il gioco finiva, tornava il piccolo ragazzino denutrito in balia di ricordi indelebili che lo facevano sentire come se i suoi aguzzini non lo avessero mai lasciato.
Ed ora quello stesso ragazzino aveva preso il posto di Cardia, e Millard sentì un tuffo al cuore nel constatare di quanto quegli occhi assomigliassero a quelli spauriti e disorientati del loro primo incontro, quando Cardia gli salvò la vita.
-Per favore, lascia andare quel ragazzo e risolviamo la cosa tra noi...- disse Millard.
Cardia era tutto un tremito e sentiva come se il sangue stesse per spillargli dalle orecchie. -Il tempo delle chiacchiere è finito...-.
-Credi davvero che mi limiterò a chiacchierare se continui a fare lo stronzo?-.

Cardia non rispose, non più certo di poter più contare sull'ascendente che aveva sul comandante: doveva andarsene di lì e il prima possibile.

Si sforzò di riprendere il controllo di sè, tornando con l'attenzione sul francese e il resto del corpo di polizia. Era madido di sudore e sentiva la camicia del suo ostaggio inumidirsi contro la sua canottiera ormai fradicia, mentre riprendeva a camminare lungo il corridoio. Gli occhi avevano ritrovato la loro folle determinazione mentre riprendeva ad ammonire gli agenti: -Ora noi ce ne andiamo di qui, e se qualcuno prova ad uscire da questa cazzo di centrale mentre siamo fuori, sparo al francese!- e per calcare le proprie parole, battè diverse volte la bocca della pistola contro la tempia di Degel, che gemette contrariato.
I poliziotti si guardarono tra loro interdetti e il comandante fece loro cenno di lasciarli andare con un'occhiata che brillava di risolutezza.
-Pazienza, una volta fuori non andrà lontano, abbiamo alte possibilità di riacciuffarlo.-.

***

Cardia non impiegò molto a svoltare l'angolo ed uscire dalla linea di vista dei poliziotti, poi, dopo essersi assicurato che per il momento non era loro intenzione seguirlo, si voltò in direzione dell'uscita e diede uno strattone a Degel per fargli capire che era ora di darsi una mossa. Lo teneva ancora con la catena delle manette attorno al collo e non si decideva a togliergli la pistola dalla testa, e Degel fece molta fatica a correre in quel modo e riuscire a stargli dietro; Inciampò due o tre volte, ma quel ragazzo stava dimostrando di non avere solo aria in quelle grosse braccia, e riusciva a sorreggerlo come se avesse il peso di una piuma.
Cardia andava spedito per i corridoi e non si fermò neanche una volta per fare mente locale su quale fosse la direzione giusta da prendere, come se già si fosse preso la premura di memorizzare la strada quando lo avevano condotto in cella.
Probabilmente aveva già macchinato di evadere da qui ancor prima di metterci piede.. pensò Degel ..Chissà che felicità deve avergli dato il vedere che dentro la cella c'era qualcuno che gli avrebbe reso più facile la cosa.
Durante la breve fuga non incontrarono nessun agente, poichè evidentemente tutti impegnati a far fronte all'emergenza nei pressi della cella, e ci vollero pochi secondi per ritrovarsi davanti agli occhi l'uscita; Degel potè giurare di sentire il cuore di Cardia battere con così tanta frenesia da sembrare sul punto di scoppiare.
Una volta fuori, fu costretto a fermarsi di colpo, trattenuto dall'altro, perchè si ritrovarono davanti una dozzina di poliziotti armati che accerchiavano il perimetro dell'uscita e li stavano tenendo sotto tiro.

Cardia bestemmiò a dentri stretti.
Stava andando tutto liscio ed ecco che proprio quando credeva di esserne fuori si era presentato l'ennesimo problema. Doveva sbrigarsi o il resto degli agenti -quelli che erano rimasti dentro- lo avrebbe raggiunto in poco tempo e così si sarebbe trovato circondato, in pieno svantaggio e con un'unica alternativa: arrendersi.
Piuttosto mi ammazzo. Pensò.
Lasciò passare qualche secondo senza fare nulla, come fosse in attesa di qualcosa, e proprio quando stava ormai dandosi per vinto, un rumore che identificò senza difficoltà raggiunse le sue orecchie e gli donò una scarica di eccitazione: una Ford Mustang modificata arancione e gialla si stava avvicinando a tutta potenza, e di quella macchina, con quelle caratteristiche, ce ne era una sola in tutta Los Angeles.
-Jorge...- mentre Cardia sussurrava quel nome, tutti gli agenti furono costretti a spostare l' attenzione alle loro spalle, verso un'auto in corsa che dava tutta l'impressione di volerli investire in pieno. Cosa che effettivamente sarebbe successa se quelli presi di mira non avessero rotto la formazione per salvarsi la pelle, permettendo così alla macchina di entrare nel perimetro che stavano circondando ed inchiodare proprio davanti a Cardia, diffondendo nell'aria un odore acre di pneumatici.
-Sei in ritardo!- fece il ragazzo abbandonandosi ad una risata di sollievo.
-Muovi il culo e chiudi la bocca, Cardia!- ribattè Jorge agitando un braccio fuori dal finestrino abbassato e, prima che i poliziotti presero a sparare contro l'autovettura, Cardia aveva già spintonato Degel e si era buttato assieme a lui nel sedile posteriore dell'auto. Jorge allora partì a tutto gas sgommando sull'asfalto e in un battito di ciglia furono abbastanza distanti dal blocco per considerarsi fuori tiro e potersi concedere un respiro di sollievo. Quasi tutti, almeno.
-Non respiro...- rantolò infatti Degel schiacciato dal petto di Cardia, il quale non si era fatto troppi problemi a cadergli sopra per entrare in fretta nell'auto; lui grugnì con una smorfia e si sollevò dal francese in tutta calma, per poi buttare un occhio al vetro posteriore: qualche auto aveva preso ad inseguirli, ma con il vantaggio che avevano non sarebbe stato difficile seminarle in fretta.
-Ti devo un favore, Jorge...-.
-E siamo a quanto..? Dieci a zero per me?- ridacchiò il ragazzo mentre alternava la concentrazione tra la strada davanti e lo specchietto retrovisore.  -Ma il piano non prevedeva che tu portassi un ospite.-.
Il piano? Era tutto progettato sin dall'inizio pensò Degel, il quale aveva da poco ripreso fiato ed aveva rizzato la schiena ...Tutto tranne il mio aiuto... e come diavolo pensava di uscire da lì senza un ostaggio? Scosse la testa, imponendosi di non perdersi in attività cerebrali che in quel momento erano del tutto inutili, e volse lo sguardo verso il ragazzo alla guida: Jorge -così lo aveva chiamato Cardia- aveva capelli nerissimi, tagliati corti, e la pelle mulatta; gli occhi che Degel vedeva riflessi sullo specchietto retrovisore erano grandi e dello stesso colore dei capelli. Doveva avere un bel po' di sangue del sud, come suggeriva pure il suo accento esotico.
-Questo francese qui mi ha reso le cose decisamente più facili, aspetta di sentire la storia.- ammiccò Cardia.
-Francese?!- Jorge ripetè con disappunto l'unica parola che sembrava aver attirato la sua attenzione -Allora hai fatto bene a fargliela fare un po' addosso!- ridacchiò poi, riferendosi evidentemente alla bruttissima cera dello studente.
Degel pensò bene di non ribattere, perchè stare lì da solo con due criminali non poteva dirsi di certo la più rosea delle situazioni, nonostante stesse morendo dalla voglia di mandarli a quel paese, prendere la pistola che Cardia stava ancora tenendo in mano e sparare ad entrambi. O almeno fare qualcosa di meno drastico e penalmente punibile, ma che avrebbe rallentato la corsa e dato modo alla polizia di raggiungerli, perchè se le cose continuavano così, per i buoni ci sarebbe stato poco da fare. A convincerlo di questo era proprio l'incredibile abilità alla guida di Jorge, che si stava esibendo in robe che Degel pensava che avrebbe visto sempre e solo nei film, come pericolose curve in derapata, slalom e sorpassi in mezzo al traffico a velocità parecchio oltre i limiti consentiti.
-Niente scherzi, principessa.- come ad avergli letto nel pensiero, Cardia si era sporto verso di lui e gli aveva sussurrato quella minaccia all'orecchio, la voce roca e calda, come un serpente sul punto di ipnotizzare la preda. -Stai buono qui senza dare fastidio, così posso pensare a cosa fare di te una volta fuori dalla merda, mh?-.
Degel deglutì saliva che non aveva, ma non esitò nel fissarlo con occhi determinati che ce la stavano mettendo tutta per nascondere il suo disagio.
-Dov'è la macchina?- domandò allora Cardia a Jorge, facendosi avanti col torace e appoggiando gli avambracci sulle spalliere dei sedili davanti.
-A due isolati da qui, l'ho nascosta per bene...- rispose lui.
Degel non capiva, e nemmeno tentava di sforzarsi ora che gli era esplosa un'emicrania pazzesca.
Cardia sbuffò contrariato e alzò i polsi per mostrare le manette che ancora li tenevano imprigionati: -E come faccio con queste?-.
Jorge sterzò di colpo per imboccare una traversa, imprecando contro una volante che stava guadagnando terreno. -Vete a la verga* Cardia devo pensare a tutto io?! C'è qualcosa qui sotto il mio sedile che puoi usare!-.
Degel, che era seduto proprio dietro Jorge, si ritrovò in men che non si dica con Cardia chino sopra le sue gambe che si affrettava ad afferrare a terra un paio di grosse tenaglie.
-E con queste che ci fai?!- Cardia si rizzò su -con grande sollievo dello studente- e si mise al lavoro per liberarsi.
-Le ho portate per te, ojete**! Ora muoviti a liberarti che siamo quasi arrivati.-.
A quel punto, osservando Cardia intendo a liberarsi, Degel non si trattenne nel lanciargli un'occhiata che aveva un che di supplichevole, portando poi lo sguardo sulle proprie manette, come una muta richiesta.
-Niente da fare...- ridacchiò lui, non senza una punta di sadismo nella voce -...tu le tieni ancora per un po'.-.
Degel serrò le mascelle, frustrato e con lo stomaco che si contorceva di rabbia repressa.

***

Jorge riuscì in breve tempo a sparire dalla vista delle volanti grazie anche a vari percorsi alternativi e manovre per niente sicure che fecero balzare il cuore in gola al povero Degel davvero troppe volte. Poi, dopo quella che a lui sembrò un'eternità, imboccarono un vicolo buio e strettissimo, e si meravigliò di come il messicano fosse riuscito a sterzare così bruscamente senza perdere il controllo dell'auto, ed entrarvi a quella velocità senza nemmeno graffiare la vettura. Alla fine frenò proprio accanto a quella che sembrava un auto coperta da un tendone pesante.
-La targa?- fece Cardia uscendo dall'auto, ormai libero dalle manette, infilando la pistola tra la cintura e i pantaloni, contro il proprio fianco.
-Uguale anche quella.- ammiccò Jorge, mentre faceva ruggire a folle la Mustang per mandare il motore su di giri.
Cardia tolse allora il tendone e un'auto identica a quella di Jorge si rivelò agli occhi di Degel, il quale finalmente iniziò a capire.
-Io torno in strada da qui...- continuò Jorge -... e tu uscirai dall'altra parte del vicolo.-.
-So quello che devo fare.- tagliò corto Cardia mentre contemplava soddisfatto la copia della macchina di Jorge.
Degel fece per aprire lo sportello, ma prima che potesse tirare la maniglia Cardia lo precedette e lo afferrò con forza per il braccio. Rise. -Dove credi di andare tu?-.
 Il francese respirò profondamente: -Hai finito con me, ormai non ti servo più, no?-. Non aveva paura di imporsi, aveva deciso di rischiare, ora che non ce la faceva più ad essere il giocattolo di quel Vin Diesel da due soldi, ma solo dopo aver concluso si rese conto dell'assurdità di ciò che aveva appena detto.
A quelle parole, infatti, Cardia tornò a ridere di gusto, gettando il capo all'indietro: -Come no! Così la prima cosa che farai sarà correre con quelle tue gambette dalla polizia e soffiare a tutti il nostro piano!- sarcastico, non mancò di simulare l'azione muovendo freneticamente indice e medio della mano.
Quella baguette lo divertiva, questo doveva ammetterlo, e ormai ci stava provando gusto a portarselo in giro e godere ogni volta di quella faccia spaurita. Ma per quanto l'idea di continuare a dargli fastidio lo allettasse, doveva muoversi o tutto sarebbe andato a puttane. Allora, senza perdere altro tempo, lo tirò a sè e lo costrinse a scendere.
-Le chiavi e il cellulare sono dentro, cerca di non farti prendere o vengo in prigione e ti spacco il culo!- esclamò Jorge prima di fare retromarcia e reimmettersi nella strada principale.
-Pinche ojete***!- gli gridò dietro Cardia nella sua lingua, sorridendo e tenendo ancora stretto il braccio di Degel.
-Lasciami!- sbottò quest'ultimo cercando invano di liberarsi.
-Ma come, vuoi lasciarmi?- lo prese in giro Cardia mettendo su un finto quando ridicolo broncio -...Proprio adesso che arriva il bello!-.
Chissà perchè, a Degel quelle parole non lasciavano presagire niente di buono: stava cominciando ad inquadrare quel tizio, e aveva capito che quello che per lui era "bello", in realtà era qualcosa di molto vicino al suicidio.
-Qui, così posso tenerti d'occhio.- disse quindi l'americano costringendolo a salire sul sedile davanti, e di corsa andò a prendere il posto al volante, mise in moto, accese lo stereo e partì a tutta velocità nella direzione opposta rispetto a quella che aveva preso Jorge.
Degel era un fascio di nervi. Finchè Cardia fosse stato impegnato a disfarsi della polizia, lui sarebbe stato al sicuro, ma dopo? Dove lo avrebbe portato, cosa gli avrebbero fatto lui e la sua ipotetica banda di fuori di testa? Già si vedeva a marcire dentro un cassonetto dell'immondizia con cinque o sei buchi di proiettile sparsi in tutto il corpo, oppure mangiucchiato dai topi nelle fogne cittadine, o forse aveva visto troppe puntate di C.S.I. e doveva piantarla di farsi prendere dal panico prima del dovuto.
Ma una cosa era certa: se Degel Arnaud avesse creduto in qualche Dio, lo avrebbe di sicuro pregato affinchè la polizia li avesse acciuffati il prima possibile.

Cardia si mise in strada e sembrava seguire un tragitto preciso, come se avesse una meta.
Per di più, il piano sembrava funzionare a meraviglia: Jorge fu bravo a tenere le volanti occupate al suo seguito e, da quello che Degel sentì dalle brevi conversazioni al cellulare tra lui e Cardia, si era allontanato abbastanza dalla loro zona da permettere al compagno di percorrere un bel po' di strada completamente indisturbati; infatti, quando le pattuglie sparse per la città che Cardia non riuscì ad evitare informarono i loro colleghi che dell'auto che stavano inseguendo ne esisteva una gemella, per loro era troppo tardi per recuperare il terreno perso.
-Sembra proprio che gliela stiamo facendo, a quei fottutti sbirri!- esclamò Cardia gonfio di soddisfazione, le parole che si mischiavano a quelle di "Ace of spades" dei Motorhead rigettate dallo stereo.
-Non mettermi in mezzo!- sbottò allora Degel, urlando per sovrastare il rombo del motore e lo stereo a volume altissimo, e staccando gli occhi dalla  strada per portarli sul ragazzo lì vicino. Troppo preso dagli avvenimenti e poi dalla corsa che gli stava raggelando il sangue, era la prima volta che si ritrovava a guardare quel ragazzo dopo che si erano parlati nella cella: Cardia aveva tutti i muscoli in tensione, la pelle lucida di sudore, una mano sul cambio e una sul volante. Era come se quello fosse il suo posto, quello e nessun altro. Se Jorge lo aveva stupito per la sua abilità nello sfrecciare veloce tra stradine strette ed ostacoli impossibili, Cardia lo stava lasciando letteralmente a bocca aperta: non credeva che potessere esistere qualcuno sulla Terra in grado di guidare così, sembrava essere venuto al mondo solo per stare in una macchina, con la sua guida spericolata, ma al contempo incredibilmente fluida, con quell'eccezionale controllo che aveva nel tenere la strada e l'istinto che lo portava a sterzare, frenare o accelerare con la giusta intensità e proprio nell'attimo perfetto.  Era come se fosse talmente sicuro delle proprie mirabolanti abilità da escludere la possibilità di qualsiasi tipo di incidente, ma convenuto che una cosa del genere si adattava ad una personalità più razionale e accorta come la propria, Degel ammise che la spiegazione che calzava meglio a Cardia, anche considerando le sue azioni precedenti, era che lui non sembrava avere il minimo timore del pericolo, forse addirittura della morte. Glielo leggeva in quello sguardo privo di logica che pareva azzannare tutto ciò su cui si posava, in quelle labbra increspate in una smorfia mista di eccitazione e compiacimento; ci passava la lingua ad ogni curva, come se stesse gustando un piatto di cui andava matto.

Dal canto suo, Cardia non si era accorto degli occhi indagatori di Degel su di sè; e come avrebbe potuto, ora che l'adrenalina gli scorreva in corpo irrorandogli di piacere ogni fibra del suo essere. Anche se quella macchina non era nemmeno lontanamente paragonabile alla sua principessa, il ragazzo era rimasto piacevolmente colpito di come la crew fosse riuscita in così poco tempo a trasformare una delle Mustang del Garage in una copia (almeno esteriormente) di quella di Jorge. Era anche piacevole da gestire: il motore era settato quasi alla perfezione, le sospensioni erano rigidissime e sembrava che avessero addirittura installato un turbo che aveva tutta l'aria di essere un signor TD04.
Faceva tanto caldo da annebbiargli la vista (o forse era il suo corpo che scottava?), ma conosceva quelle strade come le proprie tasche e l'istinto, come sempre, faceva da padrone.

Si allontanarono così dal centro città e Degel notò che si stavano dirigendo verso una zona di periferia che sapeva di sud: scritte in messicano, fast food di taco e prostitute dalla carnagione olivastra. Aveva letto una volta del quartiere messicano di Los Angeles, El Pueblo, che era ciò che rimaneva dell'anima messicana di Los Angeles, quasi una sorta di confine ideale fra le due culture che si erano inevitabilmente intersecate fra loro, ma quella zona si trovava nel centro storico della città, cosa che non era di certo il posto alquanto malfamato in cui si stavano addentrando.
Attraversarono veloci una grande piazza, frutto dell'incrocio di due vie principali, e nonostante fosse completamente disorientato, lo studente capì che il viaggio stava volgendo al termine quando la guida di Cardia si fece meno frenetica, e soltanto allora lui gli concesse un po' della sua attenzione: -Cosa devo farne di te, adesso?- la voce profonda e gutturale lo faceva sembrare un predatore affamato, tanto che Degel fu scosso da un tremito, sentendosi davvero come in balia di una bestia.
Deglutì. -E' da quando mi hai spinto in questa macchina che ci pensi e ancora non ti è venuto in mente nulla?-.
Cardia rise di gusto. Lo divertiva da morire come quel ragazzo riuscisse ad essere irriverente anche quando stava tremando come una foglia. Doveva ammettere che era rimasto molto stupito da quello che di primo acchitto aveva giudicato come un francesino dalla puzza sotto il naso, che se la sarebbe fatta addosso ad ogni sua occhiataccia; la puzza sotto il naso ce l'aveva, sì, ma il coraggio e una buona dose di faccia tosta non gli mancavano affatto.
Decise allora di non rispondergli, di far sì che quello godesse un po' del suo piccolo successo, perchè tanto la sua rivincita se la sarebbe presa di lì a poco.
Degel però capiva perfettamente la situazione e sapeva che il silenzio dell'altro non era affatto da celebrare come una vittoria personale; sospirò, guardando fuori dal finestrino, e per un momento i pensieri andarono inspiegabilmente a sua sorella, ma fu subito costretto a tornare vigile dal suono di una sirena che sembrava avvicinarsi sempre più.
-Merda!-. ringhiò Cardia battendò il pugno sul volante, prima di tornare a schiacciare l'acceleratore e riprendere la corsa sfrenata.
Degel si agitò, cercando di capire da quale direzione potesse provenire il suono, quando questo all'improvviso si zittì; allora istintivamente cercò lo sguardo dell'altro ragazzo, il quale stava biascicando tra sè e sè in americano stretto qualcosa che Degel interpretò come imprecazioni e parolacce varie.  

Cardia sapeva bene cosa stava succedendo, non era la prima volta che gli sbirri ricorrevano a quel metodo: disattivavano le sirene, così da confondere il bersaglio riguardo la loro posizione, e continuare l'inseguimento con le loro diavolerie satellitari, per intercettare così il nemico al momento giusto senza che questo avesse avuto modo di capire il quando e il dove.
-Ah, figli di puttana, così mi fate divertire ancora di più!-.
Non senza un brivido di piacere, Cardia tornò nuovamente alla sua guida spericolata, costringendo Degel ad arpionarsi al proprio sedile ogni volta che ignorava un semaforo rosso, si gettava a capofitto in incroci più o meno trafficati o in qualsiasi altra cosa che diminuiva drasticamente le probabilità di farli uscire vivi da quell'avventura.
Dei poliziotti ancora nessuna traccia, ma non si poteva escludere il fatto che a quella volante se ne fossero aggiunte altre.
-Cercano di confonderci...- azzardò Degel, ma si rese contò troppo tardi di aver servito a Cardia il cibo su un piatto d'argento.
-..Ci?!- fece infatti lui, ridacchiando, e non perse occasione di scimmiottarlo, senza dimenticare ovviamente l'accento francese: -...Non mettermi in mezzo!-.
A quelle parole Degel sentì l'ira imporporargli le gote. -Pensa a guidare o farai schiantare quest'auto!- sbottò imbarazzato proprio un attimo dopo che Cardia ebbe evitato per un soffio un frontale con un furgoncino durante un sorpasso parecchio azzardato.
Per tutta risposta, l'Americano sterzò di colpo e la faccia di Degel andò dritta a sbattere contro il finestrino.
-Ti conviene abbassarlo, troppo caldo fa male, non lo sapevi?!- scoppiò a ridere Cardia, mentre riportava l'auto nella direzione giusta.
-Merde!- imprecò il francese massaggiandosi il naso. -L'hai fatto apposta, maledizione!-.

***

Non percorsero molta strada, che Degel, adocchiando lo specchietto, si ritrovò a gridare il nome di Cardia all'improvviso e indicò una volante che era appena sbucata da una stradina secondaria, proprio a una ventina di metri alle loro spalle.
-Ah! Ah!- esultò Cardia tirando fuori il braccio dal finestrino e alzando il dito medio, diretto agli inseguitori. -Hanno fatto male i conti e invece di sbucarci davanti eccoli lì a mangiare la mia merda!-.
Degel si morse la lingua. Perchè aveva avvertito il suo sequestratore del pericolo imminente? Certo, Cardia lo aveva sicuramente visto da sè o lo avrebbe scoperto in meno di un battito di ciglia, ma la gravità della cosa era proprio l'atto in sè, come se avesse voluto anche solo per un attimo ostacolare quelli che erano i suoi salvatori. Cercò di convincersi con tutto se stesso che il fatto che stesse giusto vivendo il momento più emozionante della sua vita non fosse una buona e lecita motivazione: lui non era fatto per cose del genere e prima la polizia lo avesse tirato fuori da quell'inferno, meglio sarebbe stato per tutti.
Dopo aver superato un negozio a luci rosse, Cardia prese la via di sinistra e prima che la volante potesse fare la stessa cosa, rallentò di colpo ed imboccò un vicoletto non illuminato, sparendo così dalla vista dei poliziotti, ed entrò, attraverso una saracinesca già alzata, nella più totale oscurità.
Un rumore metallico, fece intendere a Degel che la saracinesca alle loro spalle si stava abbassando, e l'idea di rimanere chiuso al buio con quel pazzo criminale non lo allettava neanche un po'.
Sentì Cardia lì vicino che apriva lo sportello e scendeva dall'auto; poco dopo, una lampadina al neon fece luce.
Degel si guardò attorno: erano in una specie di garage grande non più di una cinquantina di metri quadrati. Le pareti erano intonacate di bianco e l'"arredamento" consisteva solamente in qualche scaffale pieno di pezzi di ricambio e vari attrezzi da meccanico. Accanto a loro c'era poi un'ordinaria Crysler di colore nero, stranamente rimasta indenne dalle modifiche che Cardia e compagni si divertivano ad apportare alle loro vetture, come aveva avuto modo di notare dalle "eccentriche" macchine in cui era salito quella sera.
-Benvenuto in uno dei nostri nascondigli!- fece allora Cardia, allargando le braccia muscolose con fare sornione, mentre si allontanava dall'interruttore che evidentemente era andato a premere poco prima. -..Davvero utili quando serve da far sparire auto o seminare sbirri uscendo di qui dopo aver cambiato macchina. Ne abbiamo un po' sparsi per tutto il distretto, a prova di satellite.-.
Il fatto che quello gli stesse confidando i propri segreti professionali non fece che far preoccupare Degel ancora di più, perchè gli lasciava intendere una cosa come: "Ti dico tutto quello che mi pare, tanto quando ti ritroverai tre metri sotto terra o con i polmoni pieni dell'acqua dell' L.A. River col cavolo che potrai soffiarlo alla polizia".
-Beh?!- esclamò Cardia -Scendi da solo da quella macchina o devo venire ad aprirti lo sportello, principessa?-.
-Tu, brutto..- Degel rimosse dalla mente i vari scenari di morte che la stavano momentaneamente occupando e scese in fretta dall'auto, digrignando i denti, per raggiungere l'altro di gran carriera. -Chiamami così un'altra volta e...-
-..E?- lo interruppe l'americano, divertito, arrivandogli ad un alito di distanza dalla faccia. Era parecchio più alto di lui, per cui dovette chinare un po' il busto per raggiungerlo, e la sua stazza possente non faceva che rendere lo studente ancora più piccolo e indifeso al suo cospetto.
Degel rabbrividì.
Quegli occhi che erano sempre riusciti ad ammutolirlo, ora ce li aveva così vicini da sembrare di poterci entrare dentro, perchè erano di una profondità rara, ma che sconcertava per la sua vuota sconfinatezza. Cercare di capirli, di interpretare quella vacuità, era come dover risolvere un enigma.
Difficile dire cosa potesse esserci dietro tutte quelle fiamme che sembravano aver consumato ogni cosa, ma che nonostante questo, bruciavano ancora con violenza, come se per farlo non avessero bisogno che di loro stesse.
E insieme a tutto l'odio e la rabbia che Degel stava provando per quell'americano, non potè non essere investito da un moto di compassione per una persona che sembrava non essere mai stata grata alla vita. Si diede dello sciocco a pensare certe cose, a sciorinare conclusioni su un ragazzo che aveva conosciuto poco più di un'ora prima, e che probabilmente erano del tutto errate. Qualcosa però, come una flebile voce dentro di sè, gli suggeriva il contrario.
Fatto sta che di nuovo non fu in grado di reagire a quello sguardo e Cardia se ne accorse, perchè prese a ridacchiare scuotendo la testa.

Quanto a lui, si sentiva... bene. Le emozioni provate nell'ultimo paio d'ore lo avevano fatto sentire più vivo che mai. Poteva sentire ogni muscolo, ogni fibra del proprio corpo, irradiata da un assoluto senso di onnipotenza: i polmoni sembravano aver raddoppiato le loro dimensioni e ogni pensiero o movimento pareva andare al doppio della sua solita velocità... Nemmeno quando era fatto della coca di Bill si sentiva così.
Tutto era andato secondo i piani, anzi meglio, grazie alla sorpresa che aveva trovato dentro la cella. Gliel'aveva fatta a tutta la centrale di polizia, e il pensiero che fosse stato tutto così facile soprattutto perchè Millard non era riuscito ad essere padrone delle sue emozioni, lasciandosi coinvolgere emotivamente dalla faccenda, nemmeno gli passò per l'anticamera del cervello, tanto era il suo compiacimento per le gesta appena compiute.
Ora doveva solo uscire di lì con l'altra macchina e raggiungere la Base per complimentarsi con tutta la crew per il successo ottenuto, ed organizzare subito una bella corsa con amici e nemici per festeggiare.
E forse il giorno seguente avrebbe chiamato Paul per farsi tatuare questa vittoria, perchè tutti i ventidue tatuaggi che aveva sulla pelle avevano ciascuno un preciso significato: una vicenda da non dimenticare.
Era affezionato ad ognuno di loro, ma in particolar modo al grosso scorpione che aveva sull'avambraccio: il suo primo tatuaggio, che simboleggiava la sua prima vittoria in strada. La ricordava come se fosse successo il giorno prima, non c'era dettaglio che avesse dimenticato: il tifo dei ragazzi, le vibrazioni dell'auto, l'adrenalina della corsa. Decidere il soggetto del tatuaggio non era stata una cosa semplice, ma alla fine la scelta era caduta proprio su quel simbolo che più di tutti rimandava al suo triste passato. L'intento era quello di svuotare quello scorpione del suo tragico significato, per riempirlo di uno dei ricordi più belli e appaganti della sua vita.
Ora, quando guardava quello scorpione, riusciva a collegarlo solamente al se stesso in quanto street racer, in quanto leggenda delle strade di Los Angeles, e non in quanto Scorpio. Era riuscito ad annientare il potere negativo di quel simbolo facendone l'emblema della sua forza, perchè quando gli avversari vedevano in gara la famosa Viper blu elettrico con l'aerografia di uno scorpione d'orato sul cofano, già sapevano che sarebbe stato difficile, se non impossibile, sottrarle la vittoria.

Ma anche se i ricordi non lo tormentavano più assiduamente come un tempo, quello che aveva dentro era difficile da cancellare, e a ricordarglielo era stato, ironia della sorte, proprio Russ Millard.
Descrivere quello che Cardia provava per quell'uomo era difficile: anche se ce l'aveva messa tutta nell'apprezzare gli sforzi del poliziotto nel cercare di rimanergli il più possibile vicino dopo l'arresto della Viuda de Negro, non riusciva a togliersi dalla testa che per rispettare la sua promessa, Millard avrebbe potuto fare di più. Non gli aveva perdonato il fatto di non essere stato il padre di cui Cardia aveva avuto bisogno da quando, prima di prenderlo con sè, la Viuda de Negro aveva trucidato la sua famiglia davanti ai suoi occhi. Millard aveva giurato di proteggerlo, ma per motivi che Cardia non era mai riuscito a spiegarsi, questo si era realizzato solo in qualche visita e discussione con i servizi sociali affinchè venisse affidato alle famiglie migliori in circolazione. Famiglie in cui non rimaneva più di sei mesi a causa del suo comportamento ingestibile. Tante volte si era sentito dare del criminale o dell'indemoniato perchè sì, era un ragazzo difficile, ma in parte questo suo atteggiamento aveva sempre avuto uno scopo: persuadere Russ Millard che nessuna famiglia faceva per lui, perchè l'unico posto in cui il ragazzino avrebbe voluto stare era proprio accanto al poliziotto. Perchè quell'uomo riusciva a capirlo, perchè era l'unico che in lui aveva visto qualcosa di più che un fuoco distruttore, ed era stato proprio quell'uomo ad indirizzarlo verso quella che era stata ed era tutt'ora la sua via di fuga da tutta quella sofferenza e solitudine che lo accompagnavano ormai da parecchi anni.
E quando Millard aveva deciso di prenderlo con sè, era troppo tardi.
Ormai il suo scorpione lo aveva reso un'altra persona, una persona forte, senza paura alcuna, nemmeno quella della morte: quello che gli serviva per vivere era proprio farsi beffe della vita stessa.
Consumava i suoi giorni con ardore, consapevole che a causa del suo cuore malato non avrebbe vissuto a lungo, infischiandosene di qualsiasi conseguenza, facendo di tutto per non avere alcun rimpianto per quando fosse arrivato il suo momento.
Ma, in verità, chi avesse avuto capacità e coraggio di osservare quel ragazzo con occhio più attento, avrebbe capito che quello che lo rendeva così invincibile non era la forza, ma il vuoto.
Ogni cosa dentro di lui era stata consumata dalle fiamme, perchè se non c'era nulla, non c'era nemmeno posto per la tristezza. Ed era per riempire questo vuoto o, più probabilmente, per alimentare quelle fiamme che oramai non avevano più niente da bruciare, che le passioni forti, i piaceri carnali smisurati, erano diventati il suo pane quotidiano, il combustibile per il fuoco che lo faceva sentire, sebbene gli avesse tolto tutto, vivo.
E in quel momento lo era più che mai. Godeva perchè il cuore gli stava battendo in petto tanto forte da mandarlo in estasi, e più passavano i secondi e più la cosa lo faceva sentire... tremendamente bene, tremendamente vivo. Oramai era come se tutto il suo sangue gli stesse ribollendo nelle vene, pompato da battiti sempre più frenetici. Era la sensazione più bella del mondo, era...
...Faceva male.
Dapprima cominciò come una sensazione spiacevole, poi crebbe d'intensità, fino ad esplodere in violenti spasmi.
E il dolore cresceva, e sempre di più.
Conosceva bene quella sensazione.
E ogni volta trovava ironico quanto dolore potesse seguire il piacere estremo, a volte senza riuscire a percepirne lo stacco, tanto erano simili, proprio come se quel male fosse uno degli stadi finali e legittimi del piacere.
Si arpionò il petto, tirando la canottiera con le unghie: cercava aria, non respirava più. Quei polmoni, che prima sembravano poter contenere tutto l'ossigeno del mondo, ora erano come straccetti stropicciati. Si ritrovò ad annaspare, cercando l'aria che sembrava essere stata aspirata via dalla stanza, mentre il dolore lancinante cominciava ad irradiarsi dal petto al resto del corpo. Poi, si sentì cadere sulle ginocchia e la vista cominciò ad offuscarglisi.

Infine, al dolore si sostituì l'incoscienza.










Innanzitutto mi sento in dovere (questa cosa è diventata d'obbligo in ogni capitolo, ormai!) di scusarmi con chi sta seguendo la storia per il tremendo ritardo (manco voglio vederla la data dell'ultimo aggiornamento xD) con cui è arrivato questo capitolo. Sono desolata, ma ahimè ho davvero pochissimo tempo da dedicare alle mie fiction! :'(
Ringrazio chi sta tenendo duro e, nonostante tutto, ha ancora voglia di seguire questa storia: apprezzo davvero tantissimo, non potete capire quanto!
Per chi ci tiene particolarmente, poi, posso dire di avere pronta in testa già la struttura dei prossimi capitoli, e metterli per iscritto non ci vorrà molto :)
Di seguito, metto la traduzione delle parole (parolacce XD) in messicano:
*Vete a la verga: Vaffanculo/Vai a farti fottere.
**Ojete: stronzo.
***Pinche ojete: fottiti stronzo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Sei. ***






Razionalmente parlando, quella che si presentava dinanzi a Degel in quel momento era una situazione che non lasciava spazio a scelta alcuna. Perchè non c'era da scegliere tra l'andar via di lì o fare qualsiasi altra cosa che in confronto alla prima sarebbe stata dannatamente stupida e insensata: doveva solo gioire per l'immenso colpo di fortuna, aprire la saracinesca e darsela a gambe, senza valutare altre opzioni. Per questo non riusciva a spiegarsi il motivo per cui stesse ancora lì in piedi a fissare come un idiota quel ragazzo che sembrava soffrire le pene dell'Inferno.
Muovetevi, dannazione... Muovetevi... Ripeteva alle proprie gambe per indurle a vincere quella forza invisibile che le stava inspiegabilmente tenendo immobili.
Sebbene impegnato da questa lotta interiore, Degel non potè fare a meno di interessarsi al ragazzo che aveva davanti, e vide che, nei suoi rantoli, Cardia stringeva la canottiera in corrispondenza del cuore: doveva sicuramente trattarsi di un attacco cardiaco. La mente stanca, ma ora stimolata, dello studente trovò così un barlume di lucidità e cominciò a lavorare a pieno ritmo, cercando e smistando le informazioni nei cataloghi del proprio cervello, per analizzare tutti gli indizi che riusciva a ricavare da un'analisi superficiale dei sintomi di Cardia.
L'agonia del ragazzo non durò più di cinque o sei secondi, che perse conoscenza cadendo con la faccia a terra. A quel punto, quella che un attimo prima non era da considerarsi nemmeno una scelta, ora era diventata un vero e proprio dissidio interiore: il Degel ragionevole e a cui era cara la propria pelle gli stava intimando di cogliere l'occasione e allontanarsi da quel ragazzo il prima possibile, mentre il futuro medico lo persuadeva che se non lo avesse aiutato subito avrebbe mancato al suo dovere, e con un peso sulla coscenza così avrebbe fatto meglio a trovarsi un'altra strada per il futuro.
Ma la sua vocazione per la medicina e per la figura professionale che sognava di diventare, riempiva la maggior parte del suo essere, e così, senza aspettare un secondo di più, si fiondò verso l'Americano disteso a terra e, per quanto i polsi ancora ammanettati e l'ingente peso di Cardia glielo rendessero difficile, cercò di girarlo supino.  
Però, non appena gli toccò la pelle con le mani, l'istinto fu quello di ritrarle subito, perchè gli sembrò quasi di scottarsi. Così, dopo averlo toccato nuovamente ed essersi accertato che non era stata solo un'impressione, rimase per un attimo interdetto dalla quella stranezza, sicuro di non aver mai visto nè letto di una patologia simile. Quella temperatura superava di sicuro i quaranta gradi e non capiva come questo potesse collegarsi al palese attacco cardiaco che aveva fatto perdere i sensi a Cardia. Ma, consapevole che ogni secondo poteva essere fatale, smise di pensare e si affrettò a premere le dita sulla carotide del ragazzo per accertarsi dell'effettivo arresto del cuore. L'assenza di pulsazioni della vena gli diede il via libera di agire, e così poggiò i palmi, uno sopra l'altro, sul punto esatto del torace per effettuare il massaggio cardiaco. Gli odori di benzina e olio del garage si mescolarono a quello non meno acuto delle carni di Cardia, solleticandogli le narici e provocandogli un brivido lungo la schiena.
Respirò a fondo, preparandosi ad iniziare la manovra.

Uno, due, tre, quattro...

Contava e comprimeva senza perdere il ritmo, scaricando il proprio peso, tramite le spalle e le braccia tese, sul corpo del ragazzo, proprio come aveva imparato.
...Cinque, sei, sette...
Si morse le labbra. Inconsciamente sperava che Cardia si svegliasse prima della fine delle quidici compressioni, così da non dover essere costretto ad eseguire, prima del secondo ciclo, la respirazione bocca a bocca.
Avvampò alla sola idea.
Non aveva mai avuto problemi con nessuno quando si trattava di salvare una vita, ovvio, nemmeno con il più bavoso dei vecchietti, per cui non si trattava di ribrezzo, ma non aveva tempo per starci a pensare.
...Otto, nove, dieci, undici...
Ancora nessun segno di conoscenza. In compenso, il proprio cuore stava lavorando per entrambi, tanto i battiti erano frenetici.
...Dodici, tredici, quattordici...
Il cuore riprese a battere sotto i suoi palmi.

Degel si arrestò di colpo, per evitare possibili danni, e con le mani ancora sul petto di Cardia, sentì che la temperatura del ragazzo stava diminuendo di parecchio, tanto da non costituire più una seria minaccia per la sua salute. Sebbene confuso da quella che era a tutti gli effetti una patologia a lui sconosciuta, liberò un lungo e profondo sospiro, sollevato e tremendamente stanco, mentre Cardia schiudeva le palpebre.
Avrebbe voluto stendersi, addormentarsi e dimenticare tutto, dall'arresto dei poliziotti alla corsa in auto, ma gli occhi interrogativi di Cardia, ora spalancati, lo distolsero dai suoi assurdi propositi.
-Cosa è successo?- chiese lui con voce flebile, mentre si sforzava di rizzare la schiena.
Degel si ritrasse un poco, ma mantenne un cipiglio determinato nello sguardo. In quel momento, per la prima volta da quando si era visto costretto a subire la presenza di quell'americano, sentiva di poter avere qualche possibilità di prendere il controllo della situazione: Cardia era lì a terra, debole, e aveva scampato la morte solo grazie al suo intervento. Era come avesse una sorta di potere su l'americano, adesso, cosa che lo aveva portato a salire qualche gradino e mettersi al suo stesso livello.
Quindi rispose con fermezza, non nascondendo un certo compiacimento nel farlo: -Ti ho appena salvato la vita.-.
Cardia strabuzzò gli occhi, e si mise a sedere aiutandosi con il braccio -...E' successo di nuovo.- mormorò poi tra sè e sè mentre si massaggiava il viso con le mani.
-Forse è meglio che torni a stenderti, Cardia...-.
-Quanto tempo sono stato... senza sensi?-.
Degel ci pensò su un attimo, scuotendo la testa -...Uno o due minuti, non di più.-.
Cardia lasciò andare l'aria che aveva trattenuto mentre attendeva la risposta, sollevato da quello che aveva appena sentito, e, ignorando l'avvertimento ricevuto un attimo prima, si alzò in piedi.
Degel lo imitò, prendendo poi a fissarlo con occhi indagatori, e vedendo che quello gli voltava le spalle per trascinare i suoi passi verso la Crysler, sbuffò irritato.
-Ce connard!*-. Cercò di incrociare le braccia al petto, ma le manette glielo impedirono e la cosa lo mandò ancora più in bestia.
Cardia si voltò, storcendo il naso a quelle parole di cui evidentemente non aveva capito il significato ma poteva intendere il senso, e prese a muovere passi lenti ma minacciosi verso lo studente.
Questo non indietreggiò neanche di un passo, per niente spaventato. L'ingratitudine di Cardia lo stava mandando su tutte le furie; perchè una cosa era certa: se lui non fosse intervenuto, con un attacco di cuore di quell'intensità Cardia non avrebbe scampato una carenza d'ossigeno che gli sarebbe stata di sicuro fatale. D'accordo, un medico dovrebbe fare il suo dovere per semplice obbligo morale e professionale e non per pretendere gratitudine, ma lui la laurea non l'aveva ancora presa e, diamine, a tutto c'era un limite.
-Un 'grazie' non sarebbe troppo sgradito...-.
Cardia allora ridacchiò, soffiando aria dal naso, mentre arrestava il proprio incedere ad un passo dal suo impertinetente interlocutore. Non ribattè, o almeno, non ancora.
L'altro, motivato dal suo silenzio, riprese e con ancora più fervore, sbraitando senza controllo: -Diamine! Invece di cogliere l'occasione e andarmene, sono rimasto a respirare la tua puzza e ho evitato che morissi in uno squallido garage! Je ne peux pas croire que tu es tellement ingrat et merde!**-.

Quello che poi seguì le proprie parole, lasciò Degel di stucco. E non tanto per la cosa in sè, quanto per la tranquillità e calcolata freddezza con cui Cardia parlò e agì. Solamente un lampo strano nello sguardo fece da eco al suo essere infiammato, che ora però sembrava essere quasi del tutto inghiottito da un buco nero di sentimento. Gli si fiondò contro investendolo con il suo odore e la sua imponenza, quindi gli afferrò la catenella delle manette e la tirò in alto fino a che le braccia magre di Degel glielo consentirono. E lui, con le braccia tese sopra la propria testa che non gli davano modo di difendersi e il fiato corto per la precedente sfuriata, si ritrovò il viso di Cardia ad un ansito dal suo. Sentì le guance andargli a fuoco, ma diede testardamente la colpa alla collera di poco prima.
-Credimi...- gli soffiò lui con'intensità che gli raggelò il sangue -... E' il posto meno squallido in cui potrei morire.-.
Le labbra di Degel fremettero, cercando di formulare qualcosa di sensato, ma l'unica cosa che ne fuoriuscì fu un gemito strozzato.
Spiazzato da quelle parole, vomitate come veleno, desiderava con tutto il cuore che Cardia si allontanasse da lui il prima possibile, così da non essere costretto a sostenere ancora quella strana espressione e quegli occhi foschi, finestre dell'inferno.
Cardia respirava lentamente e solo dopo qualche secondo che a Degel sembrò durare un'eternità si decise ad allontanarsi un poco dal suo viso; smise pure di tirargli al limite le braccia, che avevano già cominciato a formicolare, ma non lasciò ancora la catena delle manette. Degel era troppo preso dal fissargli la faccia per notare che l'americano aveva portato la mano ad estrarre la pistola dai pantaloni, e realizzò le sue intenzioni solo quando gliela puntò sopra la testa. Sobbalzò per lo sparo, che data la vicinanza gli fece fischiare le orecchie, e subito le mani gli caddero indolenzite lungo i fianchi. Non appena riuscì a smaltire un poco lo sgomento così da cominciare a realizzare che il proiettile aveva colpito e rotto la catena, Cardia gli aveva già voltato le spalle per raggiungere velocemente la Crysler.
-...Merci.- Fu poco più di un sussurro, per lo più non tradotto, mormorato con lo sguardo basso e la voce tremolante.
Per un paio di secondi, Cardia restò immobile davanti allo sportello dell'auto, la mano sulla maniglia. Poi la fece scattare con forza, e aprì. -Sparisci e non farti più vedere.-.
Con queste parole, sputate con una freddezza che pareva inconciliabile con la passione del suo carattere, si congedò da Degel, il quale stette immobile dov'era a fissarlo mentre entrava in macchina e faceva retromarcia verso la saracinesca che si stava alzando, diffondendo nella stanza il suo rumore metallico. Mosse solo due passi strascicati per togliersi dalla traiettoria dell'auto e lasciarlo uscire dal garage. Una volta fuori, la macchina accelerò di botto e con una sgommata sparì dalla sua vista.
Degel si sentì piombare nello smarrimento, sconcertato da come erano andate le cose e dalla velocità con cui si erano concluse, lasciandolo lì con un palmo naso, e ci mise qualche secondo di troppo per accorgersi che la saracinesca aveva cominciato ad abbassarsi e che doveva muoversi se non voleva rimanere intrappolato lì dentro.
Corse fuori chinando la testa per non sbatterla contro il metallo, ma una volta nel vicolo fu investito in pieno da una strana e dirompente sensazione.
All'improvviso, e per la prima volta da quando aveva messo piede in quella città, Degel sentì di avere freddo.

***

Ignorando quella che da debole sensazione si era tramutata prima in inquietudine e poi in pieno malessere fisico e mentale, nascose alla bell'e meglio i bracciali delle manette sotto le maniche della giacca e si affrettò ad allontanarsi da lì. Così prese a camminare velocemente per uscire il prima possibile da quel vicolo angusto e maleodorante, ripercorrendo la strada fatta poco prima con l'auto. Non appena fu illuminato dalle luci aranciate dei lampioni e vide aprirsi davanti agli occhi una larga strada e un ampiò sprazzo di cielo, notò che stava sorgendo l'alba.
Era diversa, l'alba di Los Angeles, da quella della sua Parigi, rosea e delicata nonostante lo smog. E nel fissare il cielo, ebbe la certezza che il Fuoco si stava proprio divertendo a non dargli tregua: prima avviluppandosi all'animo di Cardia, ed ora palesandosi in quell'alba così simile ad un incendio rovente. Non ricordava di aver mai visto qualcosa di simile in nessun posto che aveva visitato, se non al tramonto: nel basso orizzonte (dove palazzi più radi, confinanti con il deserto fuori città, gli permettevano di vedere) si dispiegava una sottile ma densa coltre marrone scuro, avvolta da un intenso alone cremisi. Sopra di questo, si diffondevano in strati tutte le gradazioni del rosso e dell'arancio, dalla più scura alla più chiara, fino a sciogliersi nell'azzurro ancora scuro del resto del cielo. Il sole non riusciva a vederlo, probabilmente coperto da qualche edificio o ancora nascosto sotto l'orizzonte, ma il veloce mutare dei colori gli suggeriva che si stava muovendo abbastanza in fretta, e che tra non molto, forse un paio d'ore, si sarebbe fatto giorno.
Ma osservare scorci pittoreschi non giovava per niente alla situazione in cui si trovava, che giudicò presto pessima: da solo, in un quartiere di periferia semideserto, senza un soldo e senza la più pallida idea di dove andare. Si guardò intorno per cercare di orientarsi, ma la tensione durante la corsa in auto non gli aveva dato modo di memorizzare o anche solo prestare attenzione alla strada che Cardia stava percorrendo. Pieno di sfiducia e inzuppato di pessimismo, l'unica cosa che potè fare fu incamminarsi nella direzione dalla quale credeva fossero arrivati.
In lontananza, udiva le sirene delle volanti della polizia, molto probabilmente ancora intente nella loro caccia all'uomo, ma erano troppo distanti per raggiungerle.

Camminava circospetto e timoroso e man mano che avanzava aveva l'impressione di stare addentrandosi sempre più in quel quartiere anzichè allontanarvisi. Le strade si facevano più strette, e i palazzi -quasi tutti bassi e di colori chiari- più numerosi e vicini tra loro. Ben presto alla desolazione più totale si sostituirono qua e là, per lo più agli angoli delle strade ancora immerse nel buio, figure per niente edificanti di uomini ubriachi o senza tetto,  accompagnate da brusii in quella lingua che oramai era in grado di riconoscere come messicano. Più volte si sentì osservato da cupi sguardi indagatori che gli misero i brividi, come quando, senza volerlo, si soffermò un secondo di troppo vicino a due tizi che avevano tutta l'aria di scambiarsi qualcosa che nascondevano nelle tasche dei propri giacchetti logori.

Trascinava un passo dopo l'altro, stanco e abbattuto, cercando di rimanere in strade spaziose e di non inoltrarsi in vicoletti angusti, ma più svoltava angoli e più il malumore cresceva: si sentiva tremendamente in pericolo, avendo da sempre saputo che a Los Angeles, nelle ore notturne, persino il centro città era un posto da evitare, figurarsi quartieri dismessi come quello. E non potè fare a meno di maledire il giorno che tardava a fare il suo ingresso, perchè era sicuro che la situazione sarebbe volta per il meglio con l'apertura dei negozi e il trafficarsi delle strade ora deserte.
Per di più, non ricordava di aver mai desiderato come il quel momento una bella doccia fresca ed un letto comodo in cui stendersi e dormire. Era distrutto e reso ancora più debole dalla fame; forse riusciva a tenersi ancora in piedi unicamente per istinto di sopravvivenza, ora che oltre alla stanchezza fisica, gli era crollato addosso tutto il peso psicologico delle emozioni e dello stress accumulati in quella notte, non più sostenuto dall'adrenalina della tensione.

Qualche minuto più tardi, un forte e sgradevole odore di cucinato, probabilmente cipolle, che fuoriusciva dallo scantinato di un edificio arrivò ad invadergli le narici. Soffocò un conato, disgustato, e si accorse di essere giunto in una zona residenziale poco illuminata. Convenì che l'essersi affidato all'istinto per ritrovare la strada non era stata una buona scelta, così arrestò i passi, appoggiandosi con la schiena al muro per cercare di conservare le poche forze rimaste, mentre chiedeva al proprio cervello un ultimo, disperato sforzo.
Di chiedere informazioni non se ne parlava: il suo buon senso gli raccomandava addirittura di non incrociare gli sguardi lugubri delle persone che lo fissavano, figuriamoci chiedere loro aiuto. Gli squallidi locali che aveva visto erano tutti ancora chiusi, a parte un paio di night club che però aveva superato da un bel po', e servirsi di una cabina telefonica era impossibile, dato che durante la perquisizione lo avevano privato di ogni centesimo.
Affidò all'aria numerose imprecazioni dirette a Cardia, perchè la colpa di quella dannata situazione era unicamente la sua. Se la sfortuna, infatti, non avesse condotto quel ragazzo nella sua stessa cella, a quest'ora Degel sarebbe al sicuro dentro il letto di un dormitorio, dopo aver passato parecchio tempo a ridere assieme al dottor Ackroyd sul grancio preso dalla polizia.

Quasi si era sentito più al sicuro nell'auto in corsa guidata da Cardia che nelle strade di quel quartiere, ma non ebbe il tempo di ammetterlo a se stesso che la sua attenzione venne richiamata da una voce alle sue spalle.

Degel allora si voltò di scatto e si ritrovò davanti agli occhi un uomo sulla quarantina dalla barba incolta e con addosso una logora tuta sportiva. Puzzava tremendamente di alcool e fissava Degel con occhi vacui e lucidi. A tale vista, il ragazzo trasalì ed indietreggiò di qualche passo.
-Oye... Tienes un cigarrillo?***- biascicò quello, avanzando verso di lui.
Degel perse uno o due battiti cardiaci, immaginando chissà quale minaccia si nascondesse in quelle parole: l'incredibile debolezza fisica e mentale lo rendeva terreno fertile per attacchi di panico.
-Non... non capisco, scusa...- balbettò in inglese, e non passò un secondo che già aveva preso a correre senza prestare attenzione a dove si stava dirigendo, deciso solo a mettere più distanza possibile tra lui e quel messicano ubriaco.

Quando il fiato cominciò a mancargli tanto da costringerlo a fermarsi, il sole aveva finalmente cominciato a percorrere il suo viaggio nel cielo.
Le tinte fosche e cupe avevano lasciato posto ad un biancore soffuso, ovattato dallo smog cittadino, e la cosa non potè non strappare al ragazzo un sospiro di sollievo, anche per il rumore di alcune auto che avevano cominciato a circolare nelle vicinanze.
Passato lo spavento, tornò in sè armandosi di speranza, e addirittura esultò di gioia quando si accorse che, dall'altra parte della strada, un tizio aveva appena aperto un negozio di materiale elettrico. Così Degel attraversò di corsa la strada con l'intenzione di fiondarsi all'interno del negozio per chiedere aiuto a quella che pareva una persona umile ma rispettabilissima.
Se solo non fosse stato per... quel riflesso.

Il buio all'interno della vetrina del negozio faceva sì che le immagini fuori vi si riflettessero come in uno specchio.
Si arrestò a guardare se stesso e non potè non storcere il naso a quel ragazzo che pareva essere nella stessa situazione di uno straccio consunto. I suoi bei vestiti sembravano essere appena usciti da un cassonetto, tutti stropicciati, puzzolenti, e con quella grande macchia violacea di succo al mirtillo sulla camicia; il carico di stress accumulato, poi, non gli aveva dato certamente la migliore delle cere.
Aggrottò le sopracciglia, stupito da quella figura in cui non riusciva a riconoscersi, e non era per le occhiaie violacee e il colorito pallido che gli davano un aspetto cadaverico, ma per qualcosa più in profondità, invisibile ad un'occhiata veloce o superficiale.
Si avvicinò ancora di più al vetro, concentrandosi prima sul viso, per poi focalizzarsi sugli occhi, isolandoli dal resto, conscio che era proprio lì che c'era qualcosa che non andava.
Infatti, gli occhi che erano riflessi nella vetrina erano ben diversi da quelli che conosceva. Si trattava poco più di un baluginìo, di una scintilla che vibrava dietro una spessa coltre di ghiaccio. Era come se, reduci dalla notte più emozionante di tutta la loro vita, avessero vissuto finalmente e veramente per la prima volta, abituati da sempre a guardare quello che era solo un pallido riflesso della vita.
Ora, in quel blu sempre così inanimatamente freddo, poteva vederci una vibrazione liquida dal sapore tiepido, e fortunatamente riuscì a scacciare dalla propria mente, prima che prendesse forma, l'idea che l'essere investito da tutte le dirompenti fiamme di un ragazzo conosciuto poche ore prima, avesse lasciato un segno indelebile nel suo animo.








*Ce connard! = Che stronzo!
**Je ne peux pas croire que tu es tellement ingrat et merde! = Non posso credere che tu sia così ingrato e stronzo!
***Oye... Tienes un cigarrillo? = Ehi, hai una sigaretta?

... Chiacchiere...
Lo so, lo so, è un capitolo un tantino noioso, ma ogni tanto quelli di transizione servono. :)
Cardia non lo vedremo per un pochino, chissà cosa starà combinando, quel ragazzaccio! Vi lascio pensare al riguardo e vi dico che l'attesa sarà premiata, ecco. u.u (o almeno lo spero xD) Come sempre ringrazio tutti quelli che ancora leggono, facendomi tanto felice <3 Ma soprattutto ringrazio quelle care ragazze che continuano a commentare, nonostante tutto, e mi incoraggiano a continuare: se non fosse stato per voi avrei smesso da un bel pezzo, dico sul serio! Leggere le belle cose che mi scrivete e sapervi così appassionate da questa fic fa tanto piacere, grazie! Ogni volta che vedo un commentino mi si apre il cuore <3 (allora forse dovrebbe essere così   <   3 *viene presa a calci per il discutibile umorismo*).
Poi, beh, sono consapevole di aver perso tanti lettori a causa dei miei tempi lunghissimi nell'aggiornare, perchè capisco che è frustrante starmi dietro, ma faccio il massimo, sul serio, per cui scusatemi!
Tra l'altro, mi sono accorta solo qualche giorno fa dei lettori che hanno aggiunto la storia nelle preferite e nelle seguite, per cui ringrazio di cuore anche voi, e mi scuso di essermene accorta solo adesso e non avervi ringraziato prima tramite messaggio privato! No, perchè a 'ste cose ci tengo! :)
Bacini.




Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=724021