Quando il fuoco non scotta e il ghiaccio non gela. di xEsterx (/viewuser.php?uid=130503)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***
Capitolo 5: *** Cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***
Capitolo 1 *** Uno. ***
Quando il fuoco non scotta e
il ghiaccio non gela.
Fuoco.
Non
cercherai tra le tue mani acqua
per
spegnere gli altrui fuochi,
se
neppure dei tuoi potrai contener fiamma,
ma
nemmeno ne alimenterai ardore,
perché
di quel fuoco ti sarà ben noto il dolore.
Cleonice
Parisi
-Pronti tutti e due?-.
Bryan dovette urlare
per sovrastare i forti ruggiti dei motori, ma anche sforzando al
massimo la voce, quasi nessuno lo sentì.
Poco importava,
però, dato che era ovvio che tutti e due fossero pronti, che
domande.
Quando hai un piede
piantato sull'acceleratore e l'altro lì per lasciare il
pedale del freno per buttarti a tutta velocità in un
frontale contro tuo avversario, o sali in macchina già
pronto, o puoi pure startene a casa col culo sul divano.
Le regole erano
semplici: chi se la faceva sul sedile prima dell'altro e frenava,
perdeva.
Chi invece vinceva, si
beccava donne, fama, onore e anche un bel po' di bigliettoni.
E per uno che
scialacquava tutto in componenti per auto e moto, qualche bel dollaro
frusciante non faceva mai schifo.
Ma non era questo che
lo spingeva a gareggiare, no. Era quello che sentiva dentro quando
stringeva con le mani il volante della sua Viper viola e verde lime
ottimizzata e modificata di tutto punto.
E poi... la notte.
La notte era la parte
della giornata che preferiva.
Di notte poteva essere
se stesso: nessuna regola, nessuna inibizione e soprattutto nessun
riguardo verso i suoi problemi di salute, che venivano del tutto
accantonati.
Perchè non
erano importanti quando, prendendo velocità, le luci della
notte si fondevano tra loro tramutandosi in lunghe linee saettanti,
quando il motore lo sentiva ruggire attraverso la propria pelle a tutti
i giri che gli era possibile tenere.
Il cuore, nemmeno lo
sentiva, no. Il suo cuore così fragile poteva andare a farsi
fottere mentre correva assieme alla sua "principessa", come gli piaceva
chiamarla. E dire che tra tutti i divertimenti e le passioni che poteva
andarsi a scegliere, quella delle corse clandestine era davvero la meno
indicata per chi era meglio che non si sottoponesse ad emozioni troppo
forti.
Ma l'adrenalina che
sentiva scorrergli dentro e le farfalle allo stomaco di eccitazione
valevano tutti i rischi che correva non appena il piede cominciava a
pesare sull'acceleratore. Vedere le forme scomparire in bande colorate
indistinguibili e sentire il vento forte entrare dai finestrini, gli
urti inaspettati (e a volte cercati), le scorciatoie improvvisate, i
pedoni evitati per un soffio e gli sbirri seminati tante di quelle
volte che ormai aveva perso il conto, erano per lui il suo pane
quotidiano. Amen. Era una fede la sua. C'è chi prega, e
c'è chi corre, lui li metteva sullo stesso piano, ecco.
Adorava correre sulle
strade a spirale della collina illuminate solo dai suoi fari blu,
apprezzando l'effetto sorpresa delle curve inaspettate nascoste dal buio e quello di non riuscire a scorgere chi gli stava davanti se
non al momento del sorpasso; ma adorava ancora di più
correre in città, in mezzo alle insegne psichedeliche, alle
vetrine dei negozi e ai viali alberati, alle luci abbaglianti, al
traffico, alla vita.
Perchè lui
la sfidava, consapevole, e voleva farlo mentre quella assisteva seduta
sugli spalti: rischiare la vita beffandosi di lei era un lusso che gli
piaceva permettersi, e faceva poco per risparmiarselo,
perchè avreste dovuto vederlo, come correva.
“Kamikaze" era l’ aggettivo con cui lo avevano
descritto più spesso: evidentemente non gli bastava dare
solamente forti colpi alla sua malattia, perchè la cosa che
lo esaltava di più era buttarsi a capofitto in azioni
suicide di quelle con davvero un'alta probabilità di
successo.
E per successo si
intende quello di suicido, è chiaro: sempre secondo a
frenare nei frontali, record di maggiori incidenti sia procurati sia
subiti e record di minor centimetri di sfioramento con altre vetture;
senza contare che il più alto numero di vittorie su gare a
circuito era il suo.
Pazzo, non c'erano
dubbi.
E, fondamentalmente,
era anche per questo che era il più forte.
-...Sei il
più forte, tesoro.-.
Appunto.
Ma non c'era bisogno
che glielo soffiasse all'orecchio la puttanella di turno, che si era
appoggiata a braccia incrociate sopra il finestrino abbassato e della
quale non riusciva mai a mettersi in testa il nome, per ricordarglielo.
Lui nemmeno la
degnò di uno sguardo, troppo concentrato a tenere gli occhi
fissi sull'avversario a centocinquanta di metri di distanza, famelico,
come il più spietato dei predatori: c'era Marcus dei Silver
Rocks nell'altra auto, una Nissan Skyline gt gialla canarino e famosa
in tutta la California per raggiungere i centotrenta in quattro secondi
netti. Era un altro che la testa se l'era bevuta con l'acido,
avversario perfetto: senza cognizione della realtà.
-E sono Charlene,
stronzo, giusto perchè non ti ricordi mai.-.
Appunto.
C'era quel sesto
senso, nelle donne, quella capacità di leggere nel pensiero
che lo stupiva sempre. Anche se, a pensarci bene, per rendersi conto
che l'uomo che ti cerca unicamente per scoparti quando più
gli aggrada non si ricorda il tuo nome, non è che ci voglia
poi tutto questo grande intuito.
Vedendo che lo
"stronzo" si era messo a sorridere eccitato e rendendosi subito conto
che di certo non si stava rivolgendo a lei, ma al pensiero della
partenza imminente, Charlene girò i tacchi (nel vero senso
della parola: 16 genuini centimetri) e si allontanò
ancheggiando dalla vettura, bofonchiando tra sè e
sè una cosa simile a: -Ma tu guarda 'sto pezzo di merda.-.
Lo diceva tutte le
volte, e non lo pensava mai veramente; nemmeno adesso,
perchè altrimenti non si sarebbe tirata su la gonna aderente
e già cortissima con un gesto fintamente noncurante, per
regalargli una vista che, se possibile, lasciava ancor meno spazio
all’immaginazione.
E a quello, bisogna
dire, la coda dell'occhio ce l'aveva buttata.
Ah, Charlene! La
più bella del giro, e lui doveva solo compiere la fatica di
uno squillo per averla tutta per sè.
Questi i vantaggi
dell'essere il pilota imbattuto di Los Angeles.
Ed era il momento di
dimostrarlo per l'ennesima volta.
Si beò
degli ultimi secondi prima della partenza: le urla dei ragazzi, le
vibrazioni dell'auto, i muscoli delle proprie gambe e braccia tesi allo
spasmo per reagire il più veloci possibile, Melissa che
reggeva la bandiera ancora ferma a metà del tragitto di gara.
Nonostante avesse
vissuto quei momenti mille e mille volte, l'attesa prima della partenza
ancora gli faceva quasi uscire fuori il cuore dal petto. E il che non
era proprio una buona cosa, insomma.
-Forza, piccola. Fai
la brava.- Parlava alla propria macchina, sì. E la
accarezzava anche, talvolta. Charlene si imbestialiva vedendo che
l'auto veniva coccolata molto più di lei. Povera Charlene.
Il chiasso si
intensificò, si cominciava.
Tre.
Due.
Uno.
Melissa
agitò la bandiera e si tolse subito dalla traiettoria.
Entrambi i piloti
abbandonarono il freno, e le ruote sgommarono rumorosamente a terra
prima che le macchine partissero a tutta velocità una contro
l'altra.
Lui non staccava gli
occhi da quelli ancora lontani di Marcus, sempre armato di quello
strano sorriso che un po' inquietava, e tenendo salda la presa sul
volante per non perdere il controllo dell'auto a quelle
velocità folli.
Ottanta metri
La lancetta sul
tachimetro saliva sempre di più.
Quaranta metri
Velocità
costante, il piede ancora lontano dal pedale del freno.
Trenta metri.
-Forza, Marcus. Fammi
vedere che non sei il cagasotto che penso.- Dentro di sè
sperava che l'altro ancora non si facesse venire in mente l'idea di
frenare, perchè quello era vivere, quello era vivere senza
che la vita ti avesse dato il permesso.
Venti metri.
Quindici metri.
E un rumore
fastidiosamente acuto e stridulo decretò la sua vittoria:
Marcus aveva inchiodato, aiutandosi con il freno a mano e riuscendo a
fermarsi senza compiere un testa coda completo a nove-otto metri dalla
macchina dell'altro.
Non appena ebbe
appurato della propria vittoria, lui rallentò e
sterzò per frenare fuori dalla traiettoria, superando la
macchina di Marcus.
Il boato di
acclamazioni arrivò subito dopo.
Si concesse giusto
pochi secondi, quelli necessari per abbandonarsi contro lo schienale e
fare due bei respiri per recuperare un po' d'aria, tenendo gli occhi
chiusi; si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore,
poi uscì dalla sua Viper con le braccia alzate cosparse di
tatuaggi, sorridendo sornione, per accogliere i meritati festeggiamenti.
In men che non si dica
fu circondato da una folla di osannatori e strusciato da quattro cinque
ragazze.
-Anche stavolta
t'è andata bene, Kamikaze da due soldi!-.
Marcus, circondato
dalla sua crew, sbraitava con una gamba a terra e l'altra ancora dentro
la Nissan, il braccio appoggiato allo sportello aperto -Ma non ci
contare per la prossima volta!- concluse alzando in bella vista il dito
medio e poi sparì all'interno della vettura imitato dai
compari, per poi darsela a gambe tutti insieme in un bella sinfonia di
sgommate e accelerazioni.
Il vincitore se la
rise di gusto, avendo perso il conto di quante volte aveva sentito
quella tipica minaccia campata in aria, pronunciata dal perdente di
turno.
-Una nuova vittoria
per il "Kamikaze!"- allargò le braccia, facendo bella mostra
di sè, e poi le utilizzò per stringersi addosso
due delle ragazze che gli erano intorno.
-Bello spettacolo pure
stavolta!- esclamò qualcuno rifilandogli una pacca sulla
spalla sudata lasciata quasi del tutto nuda dalla canottiera.
-Il Dio dell'asfalto!-
fece qualcun altro.
Il Dio dell'asfalto.
Se ne era presi tanti
di stupidi nomignoli, ma era la prima volta che, nel sentirne uno
nuovo, provava una fitta allo stomaco. Si concentrò su quel
paragone, mentre il sorriso scemava dal suo volto.
Un Dio.
Il silenzio dentro di
sè si fece ancora più assordante del trambusto
esterno, ovattandolo.
Bryan lo scosse per un
braccio, chiedendosi perchè se ne stesse immobile e in
silenzio a fissare il vuoto.
Samantha si
preoccupò per il suo cuore assieme a Jessica, le quali lo
strinsero forte.
Sfidare la morte quasi
tutte le sere era davvero quello che voleva, in fondo?
Era onnipotente, un
Dio in terra sempre in bilico tra la vita e la morte, ma allo stesso
tempo immune ad essa.
Era per la sua
abilità, certo, ma era anche e soprattutto per una grande
quantità di fortuna.
Era ancora
lì, in piedi a raccontare le sue vittorie, ma quando sarebbe
durato?
Una vite stretta male,
il NOS installato nella maniera sbagliata, una macchia d'olio a terra,
senza contare la sua salute così fragile: bastava una
stronzata e puf, tanti saluti.
Forse era questo
ciò che voleva e che pareva andasse cercando in tutti i
modi; perchè probabilmente, il motivo inconscio per cui si
era tuffato con tutto se stesso in quel tipo di vita era uno solo: non
era destinato a vivere a lungo per via della sua malattia, e se proprio
doveva andarsene, voleva farlo decidendo lui in che modo e in quale
posto, correndo dentro una macchina o sopra una moto, e non a frignare
nel divano di casa o in un letto d'ospedale. Cose che però
ebbero troppo poco tempo per frullargli in testa e poter prendere
forma, perchè alle loro spalle cominciò a urlare
una sirena assordante che i piloti e il resto della crew conoscevano
bene.
Sbirri.
-Tutti via!-
gridò Charlene correndo verso la sua auto e venendo imitata
immediatamente da tutti gli altri, mentre le guardie erano ormai
arrivate.
Lasciato solo e
tornato bruscamente alla realtà, si fiondò in
macchina e lasciò immediatamente Downey street prendendo la
direzione opposta con un testa coda da fermo.
-Fottuti sbirri.-.
***
Ghiaccio.
Ha
occhi di ghiaccio
e
di ghiaccio le mani
ha
un cuore freddo
freddo
gelato
la
neve è un bambino
che
non si è mai svegliato.
Vivian
Lamarque
-Molto bene, signor
Arnaud , molto bene.-.
Vedeva gli occhi del
professor La Fleur brillare di soddisfazione.
D'altronde lo aveva
appena deliziato con un esame perfetto.
Tirò fuori
il libretto universitario e lo porse al docente, sorridendo leggero ed
educato mentre seguiva con gli occhi la punta della penna che lasciava
scritto con enfasi sullo spazio apposito un bel trenta e lode
decisamente marcato, seguito dalla firma del professore.
Lui chiuse il libretto
e lo porse al suo studente preferito, ma non appena questo
allungò la mano per afferrarlo, lo ritirò
indietro, come se avesse lasciato qualcosa in sospeso.
-Degel.- Non erano
poche, le volte in cui lo chiamava semplicemente per nome e gli dava
del tu; a dir la verità, lo faceva sempre all'infuori delle
questioni ufficiali o burocratiche. -Voglio che non tenga la tua mente
solo per me e quest'università...-.
Degel
ritirò la mano, fissandolo interrogativo, anche se in
qualche modo immaginava dove il professore volesse andare a parare.
-Ho idea di
trasferirti per un po' in un progetto importante all'estero.-
Tombola. Era
l'occasione che aspettava.
Degel
mostrò il suo entusiasmo con il solito contegno aggraziato,
tirando solo un po' le labbra verso gli zigomi. -Di che si tratta?-
chiese.
-Ancora non so. Devo
valutare un po' di cose, sentire un po' di persone, decidere quale tra
le cose che ho sottomano è la più adatta per te.-.
Il ragazzo
annuì, afferrando il libretto che finalmente l'altro aveva
deciso di rendergli.
-Ti farò
sapere il prima possibile.-.
Degel
ringraziò, si alzò dalla sedia dopo aver
recuperato la propria cartella e uscì dalla grande aula dal
profumo di legno vecchio, ritrovandosi per i corridoi della
facoltà di Medicina della Sorbonne.
Camminava col suo
cipiglio elegante, e forse un tantino più snob del solito,
ora che era appena venuto a conoscenza di una bella notizia, e non
passava di certo inosservato tra gli altri studenti.
Chi non si voltava
quando i propri occhi adocchiavano Degel Arnaud? Lo studente che
spiccava per la sua brillantezza in ogni corso che si trovasse a
frequentare; intelligente fuori la norma, di famiglia ricca,
già un anno avanti rispetto a quello accademico ordinario,
media di trenta trentesimi, e una quantità ingente di
partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti
convegni universitari.
Qualcuno lo stimava,
molti lo odiavano. E di certo non si sforzava di far cambiare le cose,
lui che era consapevole della sua superiorità intellettuale
e donava l'onore della sua parola solo ai pochi eletti che riuscivano a
stimolarla.
Ma c'era pure chi gli
puntava gli occhi addosso semplicemente perchè era bello da
impazzire, con quei capelli chiari, quello sguardo di ghiaccio, quel
viso dai lineamenti perfetti e gli abiti appena usciti da atelier
famosi di prete a porter.
Raggiunse il cortile
principale, riflettendo sulla proposta del professore: "più
adatta a te", aveva detto. Sicuramente sarebbe stato mandato, che so,
in Italia, o meglio ancora negli Stati Uniti, dove si disponeva di
attrezzature all'avanguardia e la ricerca era ben finanziata, e
là, grazie anche all'influenza di La Fleur, medico e
ricercatore conosciuto in tutto il globo, avrebbe di certo collaborato
con un'equipe medica delle più prestigiose. Sì,
senza dubbio si sarebbe trattata di una cosa sensazionale, degna
dell'ammirazione che il docente nutriva per lui e, soprattutto, degna
di una mente come la sua.
-Degel!-
Degel
arrestò i propri passi, voltandosi in direzione di quella
voce che conosceva bene.
-Michelle.-
salutò il ragazzo che gli era appena corso incontro
semplicemente pronunciando il suo nome. Poi, nell'attendere di sentire
ciò che Michelle aveva da dirgli, non nascose la sua
insofferenza con un rumoroso sospiro e un roteare d'occhi, dato che
quello al momento stava riprendendo il fiato perso nella corsa,
annaspando con la schiena piegata e le mani poggiate sulle ginocchia.
-Allora?- lo
incalzò, non senza una certa scontrosità.
Michelle
ridacchiò e rizzò il busto, e Degel gli tenne gli
occhi addosso, constatando con rammarico che indossava gli stessi
vestiti da cinque giorni: un paio di jeans di sei-sette taglie
più del necessario, una maglietta rossa con su stampato un
baloon giallo e la scritta "Mazinga!", e una camiciona a quadri blu e
bianca, sbottonata. Indumenti da trogloditi, e lui troglodita di
conseguenza: capelli rossi tutti spettinati, viso paffuto pieno di
lentiggini e le labbra perennemente tirate in un sorrisetto da ebete.
Strano quindi, che
Degel fosse interessato a sentire parole da quello lì; cosa
che invece non risultava poi così insolita se non ci si
dimenticava di considerare il tratto fondamentale del carattere dello
studente: l'essere cinico.
Lui dava ripetizioni a
Michelle in quei pochi corsi che riusciva a frequentare durante l'anno,
e Michelle in cambio gli faceva da complice: era il suo principale
attuatore di piani e fornitore di informazioni, e non che la cosa gli
dispiacesse: con Degel e le sue richieste sembrava sempre di stare
dentro un film di 007.
Finalmente il rosso si
decise a parlare, e guardò Degel con un cipiglio
soddisfatto, alzando un sopracciglio d’intesa: -Monsieur
Arnaud- cominciò, emulando tono e movimenti giocosamente
formali –sono lieto di informarla che le manovre eseguite
hanno portato i successi sperati.-.
Anche Degel
inarcò un sopracciglio, ma il suo, anzichè un
richiamo di complicità, pareva più un invito per
Michelle a farla finita coi suoi giochetti e a sbrigarsi a sputare
fuori il rospo per non fargli perdere altro prezioso tempo.
-D'accordo, d'accordo-
sghignazzò il ragazzo ponendo le mani avanti –Il
tipografo che abbiamo ormai dalla nostra è riuscito come
sempre a cambiare per lo meno la cifra che bastava, ma la cosa che ti
manderà fuori di testa è sapere che Claude
è riuscito ad entrare nel sistema delle segreterie..- fece
una piccola pausa, tanto per dare maggior enfasi alle proprie parole e
per prendersi il tempo di gonfiare di soddisfazione i propri ben miseri
pettorali -.. cambiando la data anche lì. Certo, ci abbiamo
messo un bel po’, quelli sono a prova di scasso, ma non
è stato difficile dopo aver effettuato il colpo informatico
del secolo.-.
Degel storse il naso,
scettico. –E cioè?-.
-Ah!- Michelle
cacciò un urlo e spalancò gli occhi, quasi fosse
adirato dal fatto che l’altro non capisse una cosa a parer
suo così scontata –Quel mio compare genio della
rete di cui ti ho tanto parlato, Claude… e non annuire
perché tanto so che non te lo ricordi… quello che
passa le sue giornate a fare l’haker, beh due sere fa
è riuscito a creare e ad attaccare il sistema delle
segreterie con uno spyware o un backdoor non saprei, le cui
caratteristiche non te le sto nemmeno a spiegare, ma ti basti sapere
che è riuscito a mandare tutto in tilt per ben due secondi
netti, cosa che non riuscirebbe nemmeno a Bill Gates in persona!- aveva
cominciato ad agitare le braccia, in preda all’eccitazione.
Degel sospirò, ma non lo interruppe. –...Troppo
pochi per permettere a quelli lì di accorgersene, ma
abbastanza per portare a termine il compito.
-Claude non ha dovuto
fare altro che utilizzare uno dei suoi aggeggi da Matrix ed estrapolare
la password per entrare da utenti nel sistema dati. Ti lascio
immaginare il resto.- Concluse infine con un sorriso a trentadue denti,
estraendo dalla tasca quello che aveva tutta l’impressione di
essere un libretto universitario dalla copertina in pelle blu notte e
lo porse a l’altro, il quale lo afferrò con un
impeto che gli si confaceva davvero poco. -Per cui da adesso in poi
credo che non avremo più problemi, trovato questo nuovo
metodo, Degel-.
D’accordo,
magari Michelle sarà pure stato un troglodita, ma in quanto
a imbrogli e cacce al tesoro, a lui e alla sua combriccola di svitati
non li batteva nessuno.
Sinceramente, se si
fosse impegnato a tal proposito, con buone probabilità Degel
sarebbe riuscito nell’intento anche da solo, senza
l’aiuto di esaltati informatici. Ma lui era uno da carta e
penna, si sapeva.
Il ragazzo
aprì il libretto e fece scorrere gli occhi avidi su cosa
c’era scritto: Degel Arnaud, 4 febbraio 1986, quelle erano le
sue generalità, non c’era niente di nuovo in
quelle prime pagine, così sfogliò velocemente le
altre, fino ad arrivare più o meno a metà. Quando
lesse ciò che gli interessava, non trattenne un sorriso
soddisfatto; fece schioccare tra loro le due metà del
fascicoletto con un energico chiudere di palmo e lo ripose con cura
nella tasca posteriore dei jeans.
-Ottimo lavoro-. Disse
solo questo al complice, voltandogli le spalle e tornando sui passi dai
quali Michelle lo aveva interrotto.
Il rosso
allargò le braccia e scosse la testa di esasperazione
-Magari un grazie, eh!- sbuffò una vana protesta che si
limitò a rimbalzare contro la schiena dell’altro
che continuava ad allontanarsi imperterrita. Rimase lì
immobile per qualche secondo, poi portò una mano a
spettinarsi ulteriormente i capelli e sghignazzò divertito,
lasciando scemare anche la minima traccia di turbamento nel suo volto.
–Degel Arnaud, non cambierai mai.- Così si
incamminò nella direzione dalla quale era arrivato,
fischiettando uno stonatissimo motivetto della sigla di un qualche
cartone animato giapponese dei tempi andati.
Mentre attraversava il
verdissimo prato quotidianamente curato da laboriosi giardinieri e
cosparso da studenti spensierati, non riusciva a non pensare alla firma
del professore letta nel libretto ricevuto pochi attimi prima, accanto
al voto d’esame ottenuto lo scorso lunedì, e a
quella che era la data appena fatta modificare con successo dai suoi
complici: 24 aprile 2020.
29/30. Esame di glottologia germanica. Non gli servì leggere
anche le correzioni apportate agli altri esami, si fidava.
E non si trattenne nel
nascondere un ghigno compiaciuto per la vittoria ottenuta, sornione,
ora che i suoi esami di lettere
classiche erano stati resi perfettamente legali dalla
semplicissima sostituzione di una cifra.
Quindi dicevamo di
Degel Arnaud: ragazzo intelligente fuori la norma, di famiglia ricca,
già un anno avanti rispetto all'anno accademico ordinario,
media di trenta trentesimi, una quantità ingente di
partecipazioni e collaborazioni ai più illustri e importanti
convegni universitari, e, stavamo per dimenticarcelo, unico studente a potersi vantare
di riuscire a frequentare contemporaneamente e con invidiabile successo
due differenti corsi di laurea.
Uscì dalle
mura universitarie, diretto verso la metro. Proprio quando
cominciò a far sera, varcò la soglia di casa sua,
un superattico al centro di Parigi gentilmente acquistato da genitori
ricconi, dalle quali grandi finestre poteva godere della più
bella delle viste che offrivano gli alti palazzi parigini. A ore
dodici, la Tour Eiffel già tutta illuminata in lontananza,
tanto per dirne una.
Poggiò la
cartella sul grande divano nero, e liberò dalle asole i
primi due bottoni della camicia chiara, diretto verso il suo studio;
era una grande stanza nella quale più di tutti si sentiva a
proprio agio e l'unica arredata con mobili in stile antico (il resto
dell'appartamento era sobrio e moderno): una libreria di ebano che
copriva tutta la parete di destra sia di altezza che di lunghezza, una
grossa poltrona rossa di velluto stile ottocento e una pesante
scrivania in ciliegio di faccia alla porta, su cui vi erano poggiati i
più svariati e pregiati accessori del mestiere, tipo taglia
carte in oro zecchino, fogli scritti in calligrafia invidiabile e tutti
riposti ordinatamente agende piene zeppe di impegni, penne
stilografiche di tutti i generi e qualche volume sottratto alla
libreria ancora in fase di lettura o di studio.
Si
abbandonò sulla sedia di velluto e legno dietro la
scrivania, fissando davanti a sè; gli capitava spesso di
assentarsi in quel modo, ultimamente.
Se ne stava
lì seduto con gli occhi puntati sulla porta, ma senza
guardare per davvero.
-Sei felice?- le aveva
chiesto una volta Corinne, sua sorella maggiore, e l'unica persona che
poteva chiamare amica; per lei provava il più genuino e
assoluto degli affetti, senza secondi fini, senza motivazioni.
Era venuta qualche
settimana fa a trovarlo lì, e senza informarlo del proprio
arrivo, come al solito, così da spaventarlo per gioco:
Corinne era l'opposto di Degel, affettuosa, chiacchierona, e forse un
po' troppo vivace; se Degel era motivo d'orgoglio per i genitori, lei
lo era di disperazione, in primis per il fatto che aveva deciso di
abbandonare gli studi poco prima del conseguimento della
maturità ed investire i soldi che stava mettendo da parte
già da qualche anno per intraprendere la carriera di
pasticcera. Degel ricordava bene quel periodo: frequentava ancora le
scuole medie, e un giorno, tornato a casa da scuola, trovò i
genitori a litigare violentemente con la sorella, la quale li aveva
appena informati della decisione presa. Sua madre piangeva, suo padre
sbraitava come un ossesso, talmente rosso in faccia e gonfio
più i quanto già non fosse, che Degel si tenne
pronto per chiamare il pronto soccorso.
-Perchè?!
Dimmi, Corinne, perchè?!- urlava in faccia alla figlia
agitandole le mani davanti e sputacchiandole pure qualche schizzo di
saliva, tanto aveva perso il controllo di sè. -Non ti
abbiamo fatto mancare nulla e ora ci fai questo?! Una pasticcera, ah!
Parleranno della famiglia Arnaud con il peggiore dei disgusti!-.
-Che me ne frega della
famiglia Arnaud!- rispose a tono la ragazza, all'epoca diciassettenne
ma già con le idee chiare. -Sono stufa di vivere sotto
l'ombra della famiglia! Voglio prendere e la mia strada e lo
farò!-.
Quelle parole avevano
decretato la fine della discussione, perchè lei s'era presa
un bello sganassone in faccia ed era corsa via da casa sbattendo la
porta.
Tornò
lì il giorno dopo a fare le valige, con un occhio tutto
illividito, e abbracciò forte Degel, sussurrandogli
all'orecchio che ce l'aveva solo coi genitori e che lo amava
tantissimo, poi sparì per non tornare più.
Frequentò
la sua agognata scuola di pasticceria e dopo aver lavorato qualche anno
alle dipendenze di un gelataio famoso, riuscì ad aprire un
locale proprio.
Ad oggi era una delle
più celebri e capaci cucina-inventa-dolci della
città, senza contare che il suo "Les gourmandise", era uno
dei locali più in di Parigi; nonostante i suoi successi,
però, ancora con i genitori non parlava, se non per
scambiarsi gli auguri delle festività religiose.
Degel al contrario
frequentava spesso Les gourmandise e riceveva molte volte a casa le
visite della sorella, la quale, in possesso di una copia delle chiavi
dell'appartamento, si divertiva a cogliere di sorpresa il fratellino,
stando ben attenta ad aprire la porta d'ingresso in silenzio e gettarsi
a braccia aperte verso di lui qualunque cosa stesse facendo, persino il
bagno.
Quando Corinne gli
pose quella fatidica domanda, Degel stava lavando i piatti, e al
sentirla uno gli scivolò dalle mani, impattando sugli altri
nel lavello.
-C..che hai detto?-
chiese sottovoce, voltando il capo verso di lei, seduta al tavolo alle
sue spalle.
-Ti ho chiesto se sei
felice.-.
Il ragazzo ci mise un
po' troppo a rispondere, per i gusti di Corinne. -Certo che sono
felice.-.
-Sicuro?-.
-Perchè me
lo chiedi?- Nemmeno lasciò stare la propria occupazione, per
darle l'impressione che quella domanda fosse talmente assurda e fuori
luogo da scivolargli addosso come acqua sul giaccio. Non c'è
bisogno di dire che in realtà lo aveva scosso parecchio.
-Sono già un anno avanti all'università e non mi
faccio mancare niente, cosa potrei volere di più?-.
Corinne
sbuffò gonfiando le guance e bofonchiò tra
sè e sè -E' proprio perchè ti manca
qualcosa, che te l'ho chiesto.-.
Degel fece finta di
non sentire, continuando ad armeggiare con le vettovaglie, ma quel
giorno non faceva che pensare a quella frase borbottata sommessamente e
tormentarsi riguardo al significato che poteva aver impiantato Corinne
in quelle strane parole.
Era per questo, forse,
che la notizia di una quasi certa partenza lo aveva rallegrato non
poco, confortandogli la mente con l'idea che sarebbe stato per un po'
lontano da Corinne e talmente preso dal nuovo, e quasi sicuramente
intenso, lavoro tanto da riuscire a stare lontano anche da quei
fastidiosi rimurginamenti.
Adesso,
però, seduto lì al proprio luogo di pensiero, non
faceva altro che porsi domande; a lui non mancava nulla, a cosa diavolo
si era riferita la sorella?
Per l'ennesima volta
non sopraggiunse nessuna risposta, ma stavolta perchè il
cellulare squillò attraverso la tasca dei jeans. Degel
serrò gli occhi stanchi e rispose, mentre con l'altra mano
massaggiava la radice del naso. -Pronto?-.
-Degel, sono il
professor La Fleur.-.
A Degel
mancò un battito. -Sì, mi dica.-.
-Ti
sembrerà strano, ma ho già deciso il posto in cui
andrai per il tuo stage.-.
Stavolta ne perse due,
di battiti. E schiarì la voce, per non lasciar trapelare
l'emozione. -La ringrazio per la celerità, professore.
Sarebbe?-.
-Los Angeles.-.
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Capitolo 2 *** Due. ***
Los Angeles.
Non poteva crederci.
Non poteva essere.
Ciò che lo
spingeva a crucciarsi e a chiedersi il perchè di questa
strana scelta presa dal professore non era tanto il posto
designato, quanto le battute che Degel aveva scambiato in seguito con
lui: -Ho parlato di te con il capo dell'equipe di ricerca di oncologia,
e mio carissimo amico, il professor Hector Tatch...- aveva detto La
Fleur -...ma nonostante io abbia avuto solo parole di elogio nei tuoi
confronti, quelli vogliono prima, come dire... un tuo rodaggio.-.
-D'accordo, cosa
sarà mai, dovrò starmene zitto e buono per
qualche giorno a guardarli lavorare...-.
-Veramente mi hanno
detto che incomincerai subito a darti da fare, ma non con loro.-.
Degel non aveva
risposto, sentiva che quello che avrebbe sentito di lì a
poco non gli sarebbe piaciuto nemmeno un po'.
-...ti hanno affidato
al dottor Sean Ackroyd. Lavorerai per un primo periodo con lui,
all'obitorio dell'università.-.
Obitorio...
Dopo aver
ascoltato, Degel si era ritrovato a rimanere a bocca aperta, senza
parole da dire per parecchi secondi, tanto da far preoccupare La Fleur:
-Degel, tutto bene?-.
-C-certo, professore.-
Aveva balbettato lui, incredulo del fatto che gli fosse toccata davvero
una simile sorte. Si era però detto che non avrebbe dovuto
nemmeno rimanere troppo stupito dalla cosa, d'altronde cos'altro poteva
aspettarsi da uno stage in una delle città con
più alto tasso di omicidi del mondo e dove di conseguenza
l'unico ramo della Medicina che godeva di buona fama era quello legale?
Ma perchè
quei pazzi dell'equipe non si erano fidati di La Fleur? Di certo non
era intenzione di Degel rinchiudersi in un obitorio a sentire puzza di
morto per dover dimostrare qualcosa a qualcuno, ma rifiutare sarebbe
stato ancora più deleterio, dato che avrebbe rovinato il suo
(comodissimo) buon rapporto con una personalità importante
come La Fleur, e poi se quei fanatici americani avessero deciso di
prenderlo con loro dopo il periodo di prova sarebbe stato davvero un
gran bel colpo per il suo curriculum universitario. Suo malgrado si
ritrovò perciò ad accettare l'offerta e di
conseguenza aveva passato i giorni seguenti a domandarsi cosa fosse
andato storto e fosse sfuggito al suo controllo, ma nonostante si
stesse interrogando al riguardo ormai da un tempo indicibile, non
ricordava nulla che potesse dare risposta ai suoi interrogativi, nulla
che avesse fatto per meritarsi un simile, vergognoso schiaffo.
A Los Angeles ad
aprire e ricucire morti. Pensava che non sarebbe più dovuto
cimentarsi in una cosa del genere alla fine del tirocinio del primo
anno di Università, e ora stava per intraprendere uno stage
d'elitè per ritrovarsi a fare proprio quello, per giunta in
un posto senza nè storia nè cultura, dove la
delinquenza faceva da padrona e la corruzione imperversava anche nelle
scuole.
-Signore…?
Sto parlando con lei, signore!-.
Ci volle la voce
insistente della hostess del check-in per riportarlo alla
realtà ed impedirgli di tormentarsi ulteriormente con quei
pensieri, cosa che lo avrebbe indotto in un tempo abbastanza prossimo a
mollare lì i biglietti e a fare dietro front per ritornare a
casa.
Sospirò e
scosse la testa sconsolato, sollevando la pesante valigia per poi
poggiarla sul rullo, come indicato dalla signora.
-Attenda un minuto,
torno subito.-
-Prego, faccia pure
con comodo, tanto la fila qui dietro è diventata
così lunga che per sapere com’è Los
Angeles devo solo chiedere un passaparola.- Degel chiuse gli occhi e
sospirò, massaggiandosi la radice del naso: era la quinta
volta che quella tizia sovrappeso e dai capelli legati, incollati alla
testa da chissà quale prodigiosa e lucidissima colla,
guardava i suoi documenti con insofferenza e, non sapendo cosa fare, si
allontanava per chiedere informazioni al collega dello sportello
accanto, lasciando il ragazzo lì in snervante attesa.
Gli bastò
un’occhiata, appena arrivato davanti allo sportello, per
inquadrare la persona; una scollatura vertiginosa su di un seno
raggrinzito, la pelle colorata della tipica abbronzatura arancione da
solarium, tutta agghindata di patacche d’oro e di pietre
preziose, truccata al limite possibile per una donna, incompetenza
totale nel lavoro e… un cerchio di pelle più
chiara attorno all’anulare sinistro; tutto ciò non
poteva che portare ad una conclusione: una vita passata a fare la
signora e a concedersi ogni tipo di vizio e di comodità
grazie alle ricchezze del marito, ora cambiata drasticamente a causa di
una separazione molto recente, che l’aveva lasciata senza un
soldo e a ringraziare Dio di essere riuscita a tenere per sé
almeno gli amatissimi gioielli; spinta dalla disperazione, si era vista
costretta a fare qualcosa che mai si sarebbe immaginata: lavorare; cosa
per lei evidentemente così estranea e insostenibile, da
mettere tutto l’impegno non nel mestiere in sé, ma
nel servirsene per cacciare una nuova preda a cui parassitarsi e poter
così vivere di soldi altrui come prima. Solamente che,
pensava Degel osservandola di sottecchi, con quel trucco e quella
linea, l’unico uomo che poteva sperare di far abboccare
all’amo era Boy George.
Per fortuna questa
volta la tizia tornò alla propria postazione prima del
solito e, dopo aver scritto un paio di cose a testa bassa, borbottando
qualcosa tra sé e sé, gli rese finalmente le sue
carte augurandogli buon viaggio con un sorriso tiratissimo tra le
rotonde guance rosse di fard.
-Era ora. Grazie!-
sbuffò così il ragazzo, esasperato, sottraendo i
documenti da quelle salsicce inanellate con quella che poteva non
proprio definirsi grazia.
Girò i
tacchi di corsa, allontanandosi dal check-in con nelle orecchie le
proteste dei viaggiatori inferociti in coda ormai da secoli, e si
diresse finalmente verso il gate.
***
Teneva il piede
piantato sull’acceleratore ormai da parecchio tempo, e
addirittura cominciavano a stancarglisi le braccia a sterzare con forza
su curve difficili da tenere a quelle velocità folli.
Però i
brani dei Motley Crue vomitati dal suo impianto stereo, così
potente da fargli vibrare il petto ad ogni nota bassa, gli rendevano
tutto più facile, stimolandogli l’adrenalina; si
poteva dire che stesse guidando seguendo quella musica assordante che
scuoteva l’intera vettura.
Gettò una
celere occhiata allo specchietto retrovisore e vide che, nonostante
avesse seminato già un paio di volanti, ne aveva ancora
quattro alle calcagna; saltare al di là del ponte che stava
per alzarsi e imboccare le sue più segrete scorciatoie
evidentemente non era stato abbastanza: doveva inventarsi
qualcos’altro.
Purtroppo per lui si
trovava in una zona di periferia che non gli faceva venire in mente
nessun giochetto per depistare i veicoli rimanenti, ma la cosa non
bastò a scoraggiarlo, non ora che sentiva la sua principessa
più viva che mai, con l’odore acre dei pneumatici
che si consumavano contro l’asfalto e gli pizzicavano le
narici, le luci notturne che gli saettavano davanti agli occhi
infervorandogli i sensi, e la schiena madida di sudore appiccicata allo
schienale del sedile, contro il quale la stava premendo
spasmodicamente, come se volesse venire inglobato dall’auto
per diventare una cosa sola con essa. L’afa umida e
appiccicosa della notte non era mai stata più piacevole, si
ritrovò persino a pensare.
Fece abbassare la
lancetta del conta giri, alleggerendo volontariamente il peso
sull’acceleratore, e attese che le auto nemiche gli furono
abbastanza attaccate al culo per scalare marcia e sterzare di colpo,
così da imboccare una stradina residenziale secondaria a
tutta velocità, imprecando però con un: -Cazzo,
l’avevo riverniciata due giorni fa!- biascicato a denti
stretti, per aver strusciato la fiancata destra della sua Viper al muro
del palazzo che faceva angolo; in compenso agli inseguitori era andata
peggio: la prima della pattuglia, presa alla sprovvista dalla manovra,
non aveva reagito in tempo ed era andata a sbattere contro lo stesso
edificio, bloccando l’accesso anche agli altri veicoli, che
ebbero come unica alternativa quella di continuare dritti per cercare
di raggiungerlo da altre vie. Lui ghignò, e lo fece con quel
suo cipiglio mefistotelico di sempre, esasperato dallo sguardo mordace
tenuto fisso sulla strada: era un predatore, ad altro non poteva essere
paragonato, se non a una creatura affamata e bramosa delle sue prede,
perché, anche se ad un occhio esterno poteva non sembrare,
quello che svolgeva la parte del cacciatore era proprio lui, e la stava
interpretando come era nel suo stile, in maniera subdola e anche un
tantino svitata, dando agli altri l’impressione che fossero
loro a rivestire la parte attiva, mentre invece il coltello dalla parte
del manico ce l’aveva lui. E quando ci si accorgeva di come
stavano davvero le cose, era solo nell’attimo in cui sferrava
il suo colpo letale. Come uno scorpione che in principio impegna il
malcapitato avversario soltanto con le proprie chele, così
da lasciargli credere di disporre soltanto di quell’unica
arma, per poi prenderlo alla sprovvista con il suo pungiglione vibrante
di veleno, tenuto a bada lì dietro –non senza
fatica- fino al momento opportuno.
Sì, diciamo
che il paragonarlo ad uno scorpione era cosa più che lecita.
Si immise infine in
una strada più larga, che giudicò essere una
parallela del viale che collegava l’esterno al centro della
città, ma la relativa calma durò poco, che
improvvisamente sbucarono da una traversa le tre volanti rimaste con le
loro sirene squillanti, rimettendoglisi alle calcagna; pensò
in fretta a cosa fare, e si ricordò che poco lontano da
lì, forse due centinaia di metri, avrebbe dovuto esserci un
cantiere, e all’affiorare nella propria testa di come avrebbe
utilizzato questa cosa a suo favore, tirò ancora di
più le labbra, mostrando qualche dente; così
spinse al massimo sull’acceleratore e ci impiegò
meno di uno sputo per arrivare a quello che sarebbe stato il suo parco
giochi, con polizia al seguito.
Si trattava di un
grosso centro commerciale in costruzione ormai da anni, che aveva
ultimato a malapena lo scheletro dell’edificio: una di quelle
porcate dovute a favori e patteggiamenti con la mafia che si presentava
come un immenso e confusionario labirinto a più piani di
impalcature, transenne, travi e sostegni di vario tipo piantati sulla
terra smossa, e che si poteva trovare in attività
–se andava bene- dieci, massimo quindici volte al mese e,
indovinate, quella sera era proprio una di quelle volte.
-Non potevo sperare di
meglio.-.
Se prima la sua faccia
era coinvolta in un ghigno, ora si concesse una vera e propria risata
di eccitazione al vedere operai e macchine al lavoro, e si
leccò pure le labbra, famelico, come a pregustare il
divertimento che sarebbe arrivato di lì a poco.
-Forza, stronzi,
fatemi vedere se a scuola vi hanno insegnato a guidare per davvero.-.
Si passò
l’avambraccio sul viso per tergersi il sudore e poi
abbandonò la strada per tuffarsi a testa bassa verso il
cantiere, fregandosene dei pannelli di legno che delimitavano la zona e
sui quali vi era verniciato “Divieto d’accesso.
Solo personale e veicoli autorizzati”, dato che li
investì in pieno, così da immergersi in quel
dedalo di ferro e legno; il terreno accidentato sembrava non spaventare
i suoi ammortizzatori e i pneumatici enduro, ma la stessa cosa non
poteva dirsi per quelli degli sbirri che si ritrovarono costretti a
rallentare per non ritrovarsi con le ruote all’aria. Senza
contare che si rischiava di investire di tutto, oggetti e persone,
anche a basse velocità, figuriamoci durante un inseguimento;
lui ovviamente, in mezzo a quel ginepraio stava dando il meglio di
sé: giocando di sterzo e freno a mano, guidava evitando
ostacoli e uomini con una fluidità incredibile, nemmeno lo
stesse facendo in una strada sgombra di metropoli, e non
passò molto prima che disorientò i suoi
inseguitori, i quali si ritrovarono presto a girovagare per il cantiere
ad inseguire un’auto che poteva dirsi ormai sparita.
Ma quella sera un
semplice depistaggio non era la sua idea di divertimento, no. Per cui
decise di mostrarsi nuovamente a loro, sbucando davanti ai loro nasi
all’improvviso, da cacciatore che si finge esca, e fare
così in modo di venire inseguito nuovamente, mentre si
dilettava nel canticchiare la strofa che stavano partorendo le casse a
tutto volume.
Ciò che
fece in seguito, indusse i poliziotti a gioire, poichè
interpretarono quello che videro come un suo sintomo di stanchezza o di
adrenalina ormai esaurita, dato che sembrava non riuscire
più a correre in maniera precisa come prima; di fatti, a
quasi ogni svolta, colpiva in pieno qualche palo che teneva su le
impalcature, e ad ogni trave in più che schizzava via, loro
guadagnavano terreno e assaporavano sempre di più la
vittoria che credevano ormai prossima.
-L’ho sempre
detto che voi sbirri comprate il distintivo al supermercato!- rise lui
di gusto, appurando con un’occhiata allo specchietto che
là dietro stavano facendo esattamente il suo gioco; magari
erano pure convinti che fosse entrato lì dentro e avesse
fatto tutta quella strada in mezzo a quel casino da suicidio per
semplice carenza di risorse, e se li immaginava anche a festeggiare,
ora che lo stavano vedendo rovinare la carrozzeria della sua adorata
principessa per quella che quasi sicuramente credevano semplice
stanchezza!
Ridacchiò
al pensiero e gettò un’occhiata in alto per
accertarsi di stare facendo tutto bene, ma soprattutto di farcela ad
uscire di lì vivo e vegeto, dato che la situazione sopra la
sua testa stava diventato pericolosamente instabile; infine
contò che di pali da far saltare ne era ormai rimasto solo
uno, quello centrale che reggeva il grosso del peso, così si
diresse a tutta velocità verso l’obiettivo,
mangiandosi la strada che lo separava da esso al massimo dei giri e col
cuore che batteva all’impazzata, ma quando sterzò
e se lo trovò davanti agli occhi, non poté fare a
meno di masticare una bestemmia contro uno degli operai che, fuggendo
per non venire investito dal gruppo di veicoli, aveva avuto
l’incredibile “fortuna” di bloccarsi
terrorizzato proprio con le spalle contro il sostegno che lui stava
mirando. Digrignò i denti, indeciso sul da farsi, e proprio
quando lo separavano solo un paio di metri dall’uomo che lo
fissava implorante, sterzò di colpo e proseguì
dritto; dietro di sè, invece, non appena l’operaio
si presentò alla vista della volante che stava in testa,
questa inchiodò e le ruote posteriori slittarono di lato,
alzando una tempesta di terra, e dando così il tempo
all’uomo di scappare via; ma la cosa ebbe anche il fortuito
effetto di far scivolare in velocità l’auto ormai
ingovernabile addosso all’ultimo palo.
Quello che vide dallo
specchietto retrovisore nel giro dei seguenti cinque secondi gli
strappò un grido di eccitata vittoria: ora che tutti i suoi
sostegni erano stati buttati giù, una delle
impalcature-magazzino, isolate rispetto al vero e proprio scheletro del
palazzo, e precisamente quella che sorreggeva un’ingente
catasta di mattoni di terracotta, precipitò addosso alle tre
macchine rimanenti che nel frattempo si erano tamponate tra loro,
immobilizzandole sotto una cascata di materiale edilizio.
-Tanto prima o poi ti
prendiamo, figlio di puttana!- Gli urlò dietro uno dei
poliziotti, riuscendo ad uscire dalla macchina distrutta, ma ormai lui
era tornato in strada, e per tutta risposta tirò fuori dal
finestrino il braccio, mostrandogli il dito medio.
Proprio quando aveva appena imboccato la XIVa, il cellulare
squillò.
-Pronto?-.
-Sono Charlene-.
Ghignò.
-Charlene, bambolina!
Stavo proprio pensando a te!-.
Lei
ridacchiò dall’altro capo del telefono: -Certo,
come fai ogni volta che stai con un’altra. Ascolta: se
rispondi vuol dire che non ti hanno ancora preso, ma anche se li hai
depistati non potrai stare tranquillo per un po'.-.
-Oh, io invece credo
di sì, non so perché ma qualcosa mi dice che
impegneranno per qualche tempo un sacco di piedipiatti al centro
commerciale in costruzione.-.
-Piantala con le tue
battute, stronzo, e vieni qui al garage di Vinny che io e gli altri ti
aspettiamo per festeggiare la vittoria. Non ci siamo mica dimenticati,
eh.- concluse baciando l’altoparlante e poi
riattaccò.
Lui scosse la testa,
divertito, e tirò su col naso, prima di ingranare la quinta
e dirigersi al luogo designato, che non era nemmeno troppo distante da
dove si trovava in quel momento.
Quando raggiunse il
retro del garage e arrestò la macchina non potè
trattenere una smorfia al sentire dei rumorini non proprio rassicuranti
provenire dalla Viper, il cui motore stava sicuramente facendo fumo
sotto il cofano, ma ci avrebbe pensato l’indomani: ora
l’unica cosa di cui aveva voglia era divertirsi insieme agli
altri, così smontò dalla vettura e dopo averla
salutata con una carezza distratta, si ravviò i capelli
incollati al viso dal sudore e prese una profonda boccata
d’aria, portando la mano destra ad accarezzarsi il pettorale
sinistro.
E
nemmeno oggi hai deciso di mollarmi.
Difficile dire
però se il pensiero affioratogli fosse di rammarico o di
sollievo.
Evitò di
pensarci e si apprestò a girare l’angolo, ben
accorto nel mostrarsi bello e sicuro di sé, come consono al
vincitore che era stato quella sera su tutti i fronti.
-Buonasera, stronzo.-.
Charlene stava seduta
sul divano di pelle nera al centro della grande stanza, sola, senza
l’ombra di nessun’altro della crew nei paraggi, e
gli stava rivolgendo un sorrisino tutt’altro che benevolo.
Nemmeno quando voleva scopare gli donava sorrisini benevoli, certo, ma
questo era di un genere che non le aveva mai visto in faccia.
Lui si
accigliò, guardandola sospettoso, ma, complice la
stanchezza, quando si accorse di movimenti sospetti dietro di
sè era ormai troppo tardi: due, forse tre sbirri lo
agguantarono alle spalle, e uno di loro gli rifilò un pugno
in pieno volto, confondendogli i sensi, mentre un altro gli torceva il
braccio dietro la schiena, spingendolo con la faccia a terra;
provò a dimenarsi, ma quando uno di loro gli
piantò il ginocchio contro la schiena, schiacciandogli la
gabbia toracica contro il pavimento e impedendogli così di
respirare, non riuscì a fare altro che strizzare gli occhi e
ringhiare di dolore al sentire le costole scricchiolare sotto quel peso
che sembrava essere quello di un dinosauro; nel frattempo un altro
sbirro era riuscito ad ammanettargli i polsi senza
difficoltà.
Essendo stato sempre
un movimento involontario, mai si era accorto in tutta la sua vita di
quanto fosse piacevole respirare fino al momento in cui lo sbirro gli
tolse quello scomodo ginocchio di dosso, cosa che gli diede un sollievo
tale da fargli addirittura accantonare per un’istante la
situazione di merda in cui si trovava.
-Hai finito di
spadroneggiare in città, bastardo!- Due di loro lo alzarono
in piedi con forza, trattenendolo per le spalle sudate, e lui ebbe solo
il tempo di lanciare verso Charlene uno sguardo furente, infiammato,
gli occhi ombrati da ciocche di capelli finitegli davanti al viso e di
vedere questa agitare un corposo mazzo di bigliettoni mentre gli
soffiava un bacio, prima di sputarle addosso un –Puttana!-
pieno di collera, e venire portato via, col sapore di sangue e di
sconfitta tra i denti.
***
Era la sua giornata
no, senza dubbio.
Sarà stato
per la tizia al check-in, sarà stato perché la
hostess di volo gli aveva rovesciato addosso la bottiglia di succo di
frutta al mirtillo dopo appena mezzora di viaggio a causa di una
turbolenza, o perché avevano passato due ore e mezzo a
girare in tondo per i cieli di Los Angeles per aspettare che il
temporale diminuisse di intensità e ricevere così
il permesso di atterrare.
E, come se non
bastasse, la sua valigia tardava ad apparire sul rullo.
Guardò
l’orologio da polso: le due del mattino.
Sbuffò
d’insofferenza all’appurare che stava aspettando
lì ormai da una buona mezzora a tamburellare a terra col
piede, e più i secondi passavano, più nella sua
testa si faceva largo la convinzione che il suo bagaglio non sarebbe
più arrivato.
E se il buongiorno si
vedeva dal mattino, quella non aveva di certo i presupposti per essere
una piacevole e proficua permanenza.
Purtroppo per lui,
però, il peggio doveva ancora arrivare.
-Ci scusi, signore.-.
Degel sentì
una mano poggiarglisi sulla spalla e si girò di scatto,
ritrovandosi davanti agli occhi due agenti in divisa che gli mostravano
il distintivo. E ringraziò l’accortezza avuta poco
fa nell’indossare la giacca per coprire la grossa macchia
violacea sulla camicia chiara, nonostante facesse un caldo bestiale.
Squadrò i due tipi, e si divertì nel constatare
quanto potesse piacere agli americani descrivere sui loro schermi un
paese che si poteva dire tutto tranne che quello che realmente era: di
fatti i suoi occhi si erano posati su due ordinarissimi tizi che tutto
parevano, tranne che i robusti e spigliati cops che si vedevano action
movie: uno doveva pesare la metà di lui ed era alto
più o meno il doppio, si grattava i capelli rossissimi e un
lembo della camicia era sfuggito alla costrizione della cintura, mentre
l’altro, come qualcuno diceva, si faceva prima a saltarlo che
a girargli attorno; non per niente, era intento a divorare un cestello
maxi di patatine fritte.
Evitando di
trastullarsi troppo sui suoi pensieri, si schiarì la voce,
tentando di assumere un atteggiamento rispettabile, nonostante
l’aspetto demolito dal lungo viaggio e dagli sfortunati
eventi suggerisse tutt’altro. –Prego. Ditemi
pure.-. Capiva e parlava l’inglese in maniera impeccabile,
sia formale che dialettale, ma proprio non voleva saperne di annullare
quella sua francesissima erre
roulant, e rendeva volontariamente tronche parecchie
parole, il tutto con impressa l’intenzione di rendere sempre
e comunque evidenti le origini e nazionalità di cui andava
fiero.
-Potrebbe farci vedere
i documenti, per cortesia?- chiese quello magro, allungando la mano
verso di lui.
Degel annuì
e tirò fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei
pantaloni, per poi dare all’agente ciò che gli
aveva chiesto, con un cortese: –Ecco a lei.-.
-Ci scusi, ma abbiamo
ricevuto l’ordine di controllarne il più
possibile, questa sera. Siamo in allerta, ma niente di grave.- Il
poliziotto abbassò così il capo per leggere
ciò che aveva ora tra le mani e subito aggrottò
la fronte, storcendo pure la bocca in una smorfia che persino a Degel
risultò enigmatica.
-Qualcosa non va,
agente?- chiese quindi con cortesia, corrugando la fronte a sua volta.
Quello, per tutta
risposta, sollevò il viso impallidito e alternò
lo sguardo tra il francese e le carte che aveva in mano. Dopo la terza
volta che ripeté la cosa, mollò i documenti al
collega ed estrasse di corsa la pistola, puntandola contro il ragazzo.
-Non ti muovere! Alza
le mani sopra la testa e metti le ginocchia a terra!-.
Era una sua
impressione o il tizio stava tremando?
Degel
sollevò un sopracciglio, scettico, e per nulla scosso.
Alzò le braccia, ma neanche troppo; di mettersi in ginocchio
poi nemmeno se ne parlava.
–Ma non
dovreste dirmi anche tutte quelle cose sull’avvocato, i
diritti e cose simili?- Ebbene sì, oltre che irriverente,
stava persino sorridendo; perché assistere agli sforzi di
quello sbarbatello nel risultare un duro lo divertiva alquanto.
-Un bastardo come te
non ne ha bisogno!- guaì il rosso agitandogli la pistola
davanti, che impugnava spasmodicamente con entrambe le mani.
Anche il secondo
agente realizzò la situazione, che ancora era
però del tutto estranea a Degel, e dopo aver lasciato cadere
a terra le patatine e infilato in tasca i documenti altrui, si
sbrigò a sganciare le manette dalla cintura per poi gettarsi
addosso al ragazzo che, con loro grande sorpresa, non oppose la minima
resistenza, anzi, rese più facile il lavoro porgendogli
addirittura i polsi.
-Se poi i signori
vorranno cortesemente spiegarmi il perché di questa
pagliacciata..- disse a voce alta e infastidita; quelli stavano
giocando troppo con la sua pazienza, soprattutto ora che il poliziotto
che lo aveva ammanettato gli stava infilando le mani unte in ogni dove
per perquisirlo.
Ebbene sì, notò anche la macchia viola sulla
camicia.
–Si finge
anche un ubriacone trasandato per non destare sospetti. Ah! A voi piace
sempre prenderci in giro, ma stavolta vi abbiamo fregato!- fece il
poliziotto con malcelata superbia, ora che lo teneva forte per le
braccia magre, impedendogli di muoversi, nonostante il francese non
stesse dando la minima impressione di voler fuggire o divincolarsi; se
ne stava lì in piedi, stanco e insofferente, fissando i
poliziotti con occhi di ghiaccio, mentre attendeva le spiegazioni che
era convinto gli spettassero di diritto.
-Degel Arnaud, sei in
arresto per contatti e complicità con i terroristi. Hai
finito di fare la spia per loro, ti portiamo dentro e non uscirai prima
delle mosche che avranno banchettato sul tuo cadavere!-.
-Cosa?!-
sbottò lui mentre lo portavano via. –Ci deve
essere un errore, io sono stato mandato qui dalla Sorbonne di Parigi
per uno stage...-.
-Sì, come
no, vi inventate storie sempre più assurde. Ora stai zitto,
non potrai parlare se non davanti al giudice.-.
-Ma vi dico che vi
sbagliate, io…- non fece in tempo a concludere che
l’agente che teneva la pistola gliela puntò alla
nuca, e Degel pensò bene di fare come diceva lui.
Non era né
preoccupato, né intimorito, sapeva di essere innocente ed
era certo che nel giro di due, tre ore la polizia si sarebbe resa conto
dello sbaglio e lo avrebbe lasciato in pace. Però, diamine,
quando era troppo era troppo. Al momento desiderava soltanto avere la
possibilità di poter sbattere ripetutamente la testa contro
un muro, mai gli era capitato di vivere una giornata del genere e di
chiuderla in bellezza in quella maniera: persino arrestato! Non poteva
crederci.
Sospirò,
cercando di sedare quell’ira che gli stava salendo lungo la
schiena e già gli riscaldava il collo, mentre una volta
scortato fuori dall’aeroporto una folata di aria calda che
sembrava appena uscita da un phon gli investì la faccia,
togliendogli il respiro. Odiava quel posto, lo odiava con tutto se
stesso. E non avrebbe trovato niente di buono, là in mezzo,
niente che facesse per lui.
Non appena la
situazione si fosse risolta, pensò, si sarebbe sbrigato ad
acquistare i biglietti per il ritorno e ne avrebbe dette quattro a La
Fleur, oh se gliene avrebbe dette.
Fu spinto con forza
all’interno della macchina, con l’agente che gli
abbassava la testa come si fa ai veri criminali e fu portato di corsa
alla centrale di polizia, con tanto di sirena accesa. Durante il breve
viaggio si impose di tenere gli occhi fissi davanti a sé,
occhi che non guardavano per davvero, accecati dal rifiuto verso tutto
quello che avevano intorno.
Una volta arrivati, fu
fatto scendere dalla vettura e, ad attenderlo davanti al distretto,
c’erano una decina di poliziotti armati fino ai denti che lo
fissavano torvi. Degel reggeva il confronto di sguardi con una tenacia
ammirevole, persino quando questi tirarono fuori le proprie armi e
gliele puntarono contro. Lo scortarono tutti fino all’ufficio
del comandante, rimanendo poi fuori a sorvegliare la stanza,
così da lasciare che lo accompagnassero dentro solo i due
che lo avevano arrestato.
Al centro
dell’ufficio, vi era un uomo sulla cinquantina, alto e ben
piazzato, con capelli scuri e cortissimi tagliati a spazzola, e occhi
piccoli, ma che sembravano in grado persino di tagliare
l’aria. Quello sì che gli sembrò un
vero poliziotto.
Era seduto dietro una
scrivania piena di fogli e cartelle, ma quando vide i tre entrare nella
stanza, si alzò è fece cenno ai due agenti di
arretrare un poco, così da lasciare libero il ragazzo,
intorno al quale prese a camminare lentamente, le mani congiunte dietro
la schiena. Era circospetto e curioso come un avvoltoio.
-Sono Millard.
Comandante Russ Millard.- si presentò a Degel educatamente,
poi si rivolse ai colleghi: -Quindi questo sarebbe il francese che
giorni fa gli infiltrati dell’FBI hanno intercettato al
telefono con i terroristi...-.
Sapeva già
la situazione, ovviamente era stato messo subito al corrente della cosa
e del loro imminente arrivo.
Degel al sentire le
parole dell’uomo sgranò gli occhi interdetto, ma
per il resto non fece una piega, permanendo con quel suo atteggiamento
altero, il mento alzato e lo sguardo fiero. Il fiato, però,
stava cominciando a mancargli.
-Signorsì,
signore!- cominciò con voce tonante uno degli agenti,
mettendosi sull’attenti. –Eravamo stati informati
che sarebbe arrivato in aeroporto nella fascia di orario da mezzanotte
in poi. Francese, corporatura longilinea e corrisponde anche uno dei
falsi nomi da lui utilizzati.-
Il comandante
annuì grave al sottoposto, per poi fermarsi di fronte a
Degel, con il volto ad un respiro da quello di lui: aspettava una sua
parola.
Come ad accontentarlo,
Degel inspirò piano, come a volersi prendere qualche secondo
per modulare al meglio le parole da utilizzare. -Comandante, mi
rincresce dirglielo, ma qui avete preso tutti un grosso abbaglio.- E
dire che le aveva pure pensate bene, il che lasciava facilmente
intendere quanto la sua pazienza fosse arrivata ai minimi storici:
spazientito, sporcato (non sporco, sia chiaro), stanco morto e pure
arrestato… andiamo, a tutto c’era un limite.
Il poliziotto
alzò un sopracciglio, infastidito. –Abbaglio? Lei,
oltre che ad essere insolente, mette in dubbio sia le nostre
capacità che i nostri metodi: ancora non mi pare di averlo
mica arrestato.-.
-Però mi
pare di avere le manette.-.
-Non
c’è etica quando si tratta della sicurezza
nazionale. Comunque, se davvero è stato uno sbaglio, ce ne
renderemo conto tra poco, quando avremo saputo ogni cosa di lei, della
sua vita, del perché è qui, e avremo confrontato
il tutto con i dettagli che abbiamo a disposizione sulla spia. Lasci
fare ai miei agenti, a volte possono risultare casi di omonimia, non lo
escludiamo.- concluse, perentorio, senza lasciare
possibilità di replica. La sua era una risolutezza velata
dalla cortesia, decisamente ammirevole, pensò Degel: quel
poliziotto ci sapeva fare e non era affatto uno sprovveduto. Per cui
era certo che chiedergli di fare una telefonata sarebbe stato inutile,
poiché si aspettava una risposta sveglia del tipo: -Sicuro,
così potrai far esplodere l’intera
città, nel caso stessi davvero dalla parte dei terroristi-;
così si limitò ad annuire debolmente e si fece
condurre senza fare storie nella cella di attesa, quella nella sala
principale del distretto, dove venivano rinchiusi i criminali appena
arrestati prima di essere trasferiti nel carcere vero e proprio.
Fortunatamente era tirata a lucido e aveva una panca su cui sedersi.
-Ora aspetti qui per
un po’, finchè non ci accertiamo di un paio di
cose.- lo ammonì l’agente che era stato incaricato
di sorvegliarlo.
-Ah, non
c’è problema.- fece lui con noncuranza, andando a
sedersi.
Almeno ora avrò un
po’ di tranquillità si
ritrovò a pensare, stupendo persino se stesso, mentre tirava
un sospiro di sollievo e poggiava schiena e capo contro il muro.
Suo malgrado, fu
presto smentito da un trambusto proveniente dal corridoio che collegava
l’entrata all’interno del dipartimento e che
passava perpendicolarmente alla sua cella.
Che diavolo succede
adesso? Si limitò a pensarlo, senza muovere un muscolo,
troppo stanco e arrabbiato per interessarsi a problemi altrui.
Perché non
poteva sapere che presto quei problemi altrui sarebbero diventati anche
e soprattutto i suoi.
Però
cominciò ad intuirlo quando quel trambusto si
tramutò in voci più o meno distinte di agenti e
di quello che doveva essere un criminale. E un criminale di basso
borgo, dato il tono oltremodo elevato e il linguaggio scurrile che
utilizzava per insultare ripetutamente poliziotti e altre persone che
Degel non aveva idea di chi fossero. Più i passi
riecheggiavano nel corridoio, e più ebbe la consapevolezza
che no, non avrebbero svoltato per altri corridoi, e che sì,
si sarebbero fermati davanti alla sua cella.
Così fu, in
effetti, ma si sa: mai una volta che le sue predizioni non si fossero
avverate.
Solo che sperava in un
“coinquilino” meno… tremendo di quello.
Davanti ai suoi occhi, al di là delle sbarre, se ne stava
ansante e con la schiena tenuta curva da due poliziotti che lo
trattenevano con forza un ragazzo che giudicò più
o meno della sua età, ma che più diverso da lui
non poteva essere. Indossava una canottiera strettissima sui muscoli
pronunciati e abbronzati, e la pelle lasciata libera dai tatuaggi, se
trapiantata, avrebbe rivestito sì e no un piede. Per di
più, portava capelli lunghissimi e mossi, talmente ribelli
che sembravano muoversi di vita propria. Come fiamme,
pensò; inutile dire che la cosa non gli piaceva affatto. Lo
fissava per studiarlo senza farsi scrupoli, curioso e indiscreto, e non
gli staccò gli occhi di dosso nemmeno quando quello
alzò i suoi, ombrati dai capelli scarmigliati sul viso, e lo
guardò in una maniera che lo fece rabbrividire.
Quello
sguardo… quello sguardo lo spaventava. Conteneva qualcosa di
bestiale, qualcosa che lui aveva cercato di allontanare da
sé per tutta una vita, ritendendolo superfluo e di ostacolo.
Vi era qualcosa a lui ignoto, in quegli occhi blu, che non gli dava
alternativa dal rimanere a fissarli, come se il solo incontrarli di
sfuggita avesse dato loro modo di legargli al collo un cappio che lo
stava tenendo irrimediabilmente allacciato ad essi. Rilucevano di una
luce malsana, vibrante di un dolce veleno che annebbiava i sensi e
confondeva le menti.
In quegli occhi
c’era.. no, quegli occhi erano
il fuoco. Erano la passione viscerale, l’istinto
primordiale, e pareva che fossero in grado di avvolgere nelle fiamme
del loro ardore qualsiasi cosa toccassero.
Alla fine, fu
l’altro ad interrompere per primo quel contatto, strappando
Degel da quella schiavitù volontaria e assuefacente,
giacchè i poliziotti aprirono la cella e lo spinsero dentro,
per poi richiudere a chiave e sputargli addosso parole di disprezzo.
Il tizio
ridacchiò sommessamente, scuotendo la testa rivolta verso il
basso e borbottando qualcosa che Degel non capì, per poi
trascinarsi verso la panca e abbandonarsi contro il legno con un
pesante tonfo delle natiche.
Il francese, seduto
all’altro capo dello scranno, tenne lo sguardo fisso davanti
a sé, ben intenzionato a non dare la minima confidenza a
quel tizio che di sicuro ce l’aveva un motivo per stare
lì, al contrario suo. E poi, anche se non voleva ammetterlo,
lo intimidiva e non poco.
Indifferenza che
però non fu reciproca, dato che quello non si fece problemi
nel riprendere a fissarlo con insistenza; una cosa però era
certa: dentro quella cella due persone così agli antipodi
non c’erano mai state rinchiuse. Entrambi ammanettati,
sì, ma uno era vestito di tutto punto (seppur macchiato) e
manteneva, anche in una situazione come quella, aria distinta e
sofisticata, quasi principesca, standosene dritto e con il volto tirato
su d’orgoglio; dell’altro, tutto sudato e
scomposto, con la schiena muscolosa piegata in avanti e gli avambracci
poggiati sulle cosce, non si poteva certo dire la stessa cosa.
Solo dopo due buoni
minuti che sentiva lo sguardo dello sconosciuto incollato su di
sé, decise di voltarsi e guardarlo con fare adirato; ci mise
tutte le buone intenzioni per mandarlo a quel paese senza remore, ma le
parole gli morirono in gola prima di fuoriuscire dalle labbra schiuse:
di nuovo, quegli occhi lo stavano spiazzando, mozzandogli il respiro.
-Qualcosa non va,
amico?- l’altro tirò su col naso, e fece una
smorfia divertita con la bocca –Sembri aver visto un
fantasma, guarda che sulla sedia elettrica non mi ci hanno ancora
messo.-.
-No.. è
che..-.
-Che hai fatto per
finire qui? Non sembri un cattivo bambino.-.
Lo aveva interrotto.
Lo aveva interrotto e lo aveva fatto anche con una sfacciataggine
invidiabile. Se fosse stato al massimo delle sue energie, non
l’avrebbe mica permessa una cosa del genere, oh no di certo!
-Nulla.- si
schiarì la voce, ripristinando il proprio autocontrollo e la
solita sicurezza di sé. –Infatti tra poco verranno
a tirarmi fuori di qui, vedrai.-.
Parlava senza pensare,
affinchè non potesse rendersi conto che lo stava facendo con
un criminale, e della peggior specie, per giunta!
-Me lo auguro per te.-
sogghignò il tizio, con un sentore di amarezza nella voce.
–Io mi sa che di qui non uscirò tanto presto.-.
Degel non rispose,
limitandosi ad osservarlo, per la prima volta non come una cavia da
laboratorio da studiare, ma come si osserva una semplice persona con la
quale si sta condividendo il medesimo destino, seppure per poco tempo.
-Come ti chiami,
francesino?- gli chiese quindi l’americano a voce bassa,
scherzando sul sin troppo palese accento dell’altro, e
accompagnando le parole con un cenno del mento. Era conciso ed
essenziale, e non si faceva problemi a risultare importuno.
-Di certo non vengo a
dire il mio nome a un delinquente come te.- replicò Degel
con fare indisponente, facendo di tutto per non nascondergli il fatto
che già non poteva soffrirlo. –E poi non dovresti
presentarti tu, prima di chiedere?-.
Il criminale si
concesse un risolino divertito, a labbra chiuse, e alzò i
polsi ammanettati, per porgere all’altro la mano destra.
-Cardia.-.
Degel fissò
per un attimo quell’avambraccio tutto tatuato (era una pin-up
senza vestiti, quella?), fino a far scorrere gli occhi sulla mano
robusta e callosa.
Oh, au diable.
Scrollò le
spalle e rispose alla stretta. -Degel. Degel Arnaud.-.
Beeeeeene.
Di solito, come avrete notato, non scrivo mai niente di personale a
fine fic, ma questa volta mi vedo costretta a farlo per il semplice
fatto che ci tengo a scusarmi per la prolungata assenza da efp, ma con
questi esami all’università si può dire
che nell’ultimo mese ho acceso il computer giusto per
studiare -.-. Per cui chiedo scusa per aver fatto arrivare questo
capitolo dopo SECOLI (spero che non abbiate dimenticato la prima parte,
nel frattempo xD), e anche per aver smesso di colpo di recensire tutte
le storie che stavo seguendo… giuro che recupero tutto!!
Poi,
insomma, vorrei condividere con voi un’emozione immensa che
è arrivata proprio qualche giorno fa: abbiamo visto
finalmente i nostri amati Cardia e Degel muoversi e parlare
<3<3<3 Non so voi, ma io guardo di continuo quelle
due scene in cui appaiono nelle ultime due puntate della seconda serie
<3<3<3, sembro una deficiente felice! (Forse
perché lo sei ._. ndcoscienza). Secondo me sono stati resi
in maniera impeccabile, soprattutto per quanto riguarda le voci
*sviene* (Quella di Cardia è troppo la sua, diamine). Quindi
magari, per chi segue l’anime di Lost Canvas,
risulterà ancora più facile leggere e figurarsi
questa fic. :)
Grazie
di aver letto, e accetto ogni tipo di commento :) Se ne lasciate uno,
apprezzo tanto. Alla prossima! <3<3
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Capitolo 3 *** Tre. ***
IMPORTANTE:
dopo tempo immemore sono finalmente arrivata a postare il seguito
della storia. Però ho al contempo deciso di cambiare
qualcosa nei
capitoli già scritti per un diverso sviluppo delle cose che
ho
maturato in questo periodo di impegni incessanti (ad esempio la
facoltà e quindi lo stage di Degel, per dirne una). Quindi,
per
cortesia, sarebbe meglio che rileggiate i primi due, ci troverete
delle cose un tantino diverse :). Grazie e scusate il ritardo <3.
Degel fissava dritto davanti a sè, forse perchè
sperava con tutto se stesso che una faccia amica e salvatrice avrebbe
fatto capolino al di là delle sbarre il prima possibile, o
forse perche stava semplicemente cercando di non pensare alla strana
sensazione che gli infastidiva la mano destra da qualche minuto a
quella parte. Era un formicolio? Una scottatura?
-Ei, francesino.-.
Di nuovo quella voce
sporca, quel tono impertinente e sornione che gli dava sui nervi. Degel
non rispose, si limitò a posare gli occhi addosso
all'americano senza nessun peso.
-Ehi, non fare il
ghiacciolo, dopotutto stiamo respirando la stessa puzza da
più di due ore.- ridacchiò Cardia, per poi fare
un cenno col capo verso le proprie spalle, accompagnato da una smorfia
-Senti, fammi il favore, dammi una grattatina qua dietro, ho un prurito
che mi sta facendo impazzire.-.
-Ma non ci penso
nemmeno!- Degel inorridì strabuzzando gli occhi, ma non fece
in tempo a dire nient'altro che la voce di un poliziotto richiamo
l'attenzione di entrambi i detenuti: al di là delle sbarre,
accanto a quello, c'erano altri quattro agenti armati e un
uomo sulla cinquantina, magro e brizzolato, con indosso vestiti
eleganti sì, ma che dovevano essere andati di moda non meno
di cinquant'anni prima; però, dietro la polvere di quella
giacca grigio topo e quei mocassini consumati, si scorgeva
un'intelligenza non comune, spruzzata da due occhi vispi, a tratti
inquietanti, e un'espressione severa. Aveva il viso allungato in
maniera quasi equina, incorniciato da una barba incolta e dei capelli
arruffati.
-Quello là,
amico mio non lo è di sicuro.- sghignazzò
sommessamente Cardia, mentre lo sguardo di Degel andava illuminandosi
di un baluginio di euforica speranza.
Il poliziotto
parlò, mentre frugava in un corposo mazzo di chiavi che
teneva tra le mani: -Signor Arnaud, ci scusiamo per il terribile
inconveniente. Si è trattato di un caso di omonimia, e il
signore qui presente ha dato ulteriore conferma alle ricerche condotte
dagli agenti.-.
Degel fissò
l'uomo con cipiglio interrogativo, ma fu soltanto un riflesso di
prassi, dato che era quasi sicuro di aver capito l'identità
del suo salvatore; cosa che venne confermata dalle parole che quello
subito pronunciò: -Signor Arnaud, sono il Dottor Ackroyd, il
suo tutore qui a Los Angeles.-.
-Non credevo sarei mai
stato così felice di conoscerla...- sospirò il
ragazzo, rilassando le membra e fremendo di sollievo.
Cardia se ne stava
lì, silenzioso e a testa bassa, rimanendo piegato con i
gomiti sulle cosce, apparentemente infischiandosene della romantica
scenetta. Solo per un momento diede accenno di muoversi,
perchè abbassò le mani ammanettate a grattarsi la
caviglia destra, ma nient'altro. Degel non ne capì il
perchè, ma quel gesto fece formicolare il suo sesto senso,
cosa che però si sbrigò a sopprimere, pensandola
come una semplice suggestione, e anche perchè ormai l'agente
aveva trovato la chiave e la stava infilando nella toppa.
-Ero venuto
a prenderla in aeroporto,- cominciò il medico. -ma dato che
di lei non c'era traccia nonostante il volo fosse arrivato da un bel
pezzo, e il cellulare risultava essere inattivo, l'ho descritta ad un
dipendente e questo mi ha detto di averla visto portare via dalla
polizia.- Parlava a voce bassa, modulando ogni parola con cura e
lentezza, come volesse assaporarne ogni minimo suono, oppure,
pensò Degel con un filo di ammirazione, come se la
consapevolezza che più di altri aveva sulla morte gli
permettesse di apprezzare ogni soffio dell'effimera vita, e la cosa non
poteva che trapelare in ogni suo gesto e modo. -E dato che non credo
che la squadra di ricerca possa affidarmi dei delinquenti, eccomi qui.-.
Ora in piedi vicino
alle sbarre, Degel si limitò ad annuire, stanco e parecchio
scosso, nonostante si fosse sforzato fino a quel momento di lasciar
intendere il contrario.
La serratura
scattò rumorosamente e il poliziotto aprì
finalmente la porta, mentre gli altri rafforzavano la prese sulle armi
e le puntavano contro un innocuo Cardia che per tutta risposta si
limitò a poggiare le spalle contro il muro e sbuffare
infastidito.
Al 'venga pure avanti'
dell'agente, lo studente fece per avvicinarsi all'uscita della cella, e
stando ben accorto a non farsi vedere troppo coinvolto,
lanciò un fugace sguardo all'altro ragazzo, che
ricambiò con un ghigno mefistotelico; vedere quella smorfia
sul viso di Cardia lo lasciò interdetto per un istante, ma
evitò comunque di darle peso dato che la priorità
del momento era uscire di lì.
Ma contro ogni sua
aspettativa, non ci volle molto per far luce su quella stranezza che
aveva deciso di lasciar correre, perchè non appena Degel
compì il suo quinto passo, Cardia scattò in piedi
e prima che i poliziotti potessero reagire alla cosa, questo aveva
già fatto suo il francese, facendogli passare attorno al
collo la catena delle proprie manette e portando una mano a stringergli la
mascella verso l'alto, per fare così bella vista del suo
collo niveo; l'altra teneva una lamina di ferro affilata
pericolosamente vicino alla pelle di Degel, minnacciando di poter
percorrere quando più le aggradava, e senza il rischio di
venire interrotta in tempo, i pochi millimetri che la separavano dalla
giugulare pulsante.
Cardia aveva fatto
giusto in tempo ad abbracciare la sua preda che tutta la squadra tolse
la sicura dalle armi e gliele puntò contro, mentre l'agente
che aveva aperto la porta si fece indietro.
A Degel mancava il
respiro: come aveva fatto ad essere così veloce, quello
lì? Aveva appena cominciato ad assaporare la
libertà, che Cardia gli si era avvinghiato addosso e stava
minacciando di ammazzarlo. E nemmeno gli passò per la testa
l'idea di divincolarsi, perchè non avrebbe avuto nessuna
speranza di vittoria contro quel bestione tutto muscoli, e soprattutto
ogni minimo movimento sarebbe stato rischioso con quella lamina sul
collo.
Gli balenò
nella mente l'immagine di poco prima, quella in cui la sua attenzione
era stata rapita dal fare di Cardia, il quale aveva abbassato le mani
verso la caviglia apparentemente per grattarla, e tutto improvvisamente
gli fu chiaro. Si maledisse allora per non aver dato retta al suo sesto
senso che aveva cercato di avvertirlo... Ma come poteva
immaginare che quel bastardo stesse nascondendo un ferro affilato in
prossimità dei piedi? Di sicuro si sarebbe inoltrato in
conseguenti pensieri riguardo l'inettitudine e la poca efficienza della
polizia americana e dei suoi metodi di perquisizione, se solo in quel
momento non gli fosse salita veloce lungo la schiena la consapevolezza
di trovarsi in serio pericolo. E ad averlo appena messo in quella
pessima situazione era proprio il ragazzo che poche ore prima l'aveva
infiammato con quello sguardo.
-Ha un ostaggio, ha
preso un ostaggio!- gridava qualcuno ad un ricevitore, mentre gli altri
si radunavano nel fatidico corridoio, a dare man forte agli agenti
già presenti.
In poco tempo
l'agitazione si impadronì della stazione di polizia, che si
animò di squillanti allarmi e via vai di agenti.
-Torna al
tuo posto, cosa diavolo credi di fare?!- lo ammonirono i poliziotti
urlandogli contro -Lascia il ragazzo e non ti spareremo!-.
Cardia rise. E rise di
gusto. Fu una risata divertita, ma non appena le sue vibrazioni
giunsero alle altrui orecchie, nessuno potè fare a meno di
rabbrividire. Era un gorgeggio spaventoso, dalle vibrazioni
così basse ed intense che sembrava nascere direttamente
dalle budella di chi lo ascoltava, anzichè dall'esterno.
Solamente Degel non fu colto da quell' impressione, per il semplice
fatto che quelle vibrazioni le sentì su di sè
direttamente dalla fonte, dato che l'ampio torace di Cardia spingeva
con forza contro la sua schiena.
E ci fu di nuovo quel
fuoco, di nuovo quel divampare di fiamme che prima aveva visto in
quegli occhi, e che stavolta stava sentendo in quella voce e percependo
sulla pelle.
Possibile che tutto di
quel tizio fosse fuoco?
-Non fatemi ridere,
signori.- Sibilò lascivo Cardia, lasciando che il suo
sguardo tagliente scorresse su quello di ciascun presente, nessuno
escluso. E quando il malcapitato del momento si concedeva un quasi
impercettibile fremito una volta colpito, beh, questo non faceva altro
che mettergli in circolo ancora più adrenalina. In quel
momento era come se stesse correndo nel cuore di Los Angeles a
più di duecento all'ora, ed era raro che qualcos'altro oltre
alle corse sfrenate fosse in grado di fargli provare simili sensazioni.
Sorrideva di un
sorriso malsano, sentendo andare il proprio corpo a fuoco come non mai.
E il fatto che gli stessero puntando contro armi cariche e prive di
sicura non faceva che rendere il tutto ancora più esaltante,
inducendolo a giocare la propria parte come meglio poteva.
Se solo non fosse stato lui uno dei due protagonisti della vicenda,
Degel avrebbe pure potuto trovare assurdo ed ironico il fatto che ci
fosse bisogno di così tanti uomini per sventare quello che
aveva tutta l'aria di essere un tentativo di fuga di un coatto tutto
muscoli; la spiegazione a ciò, era proprio il fatto che
c'era qualcuno che stava rischiando la vita, e probabilmente Degel non
aveva realizzato del tutto che quel qualcuno fosse proprio lui, dato
che ebbe voglia di provocare il suo aggressore:
-Cos'è? Hai
paura che gli altri detenuti possano rubarti la merenda, una volta
dentro?-
Per tutta risposta,
Cardia rafforzò la presa sulla sua mascella, inducendo Degel
a grugnire di dolore, e lo avvicinò ancora di più
al suo viso, tanto da arrivare a premergli le labbra contro l'orecchio:
-Stammi a sentire, principessa...- Parlava ringhiando, alitandogli
contro il collo aria tanto bollente da sembrare pericolosa.
Aveva ancora quel
ghigno stampato in faccia, ma Degel non poteva di certo vederlo; come
non poteva sapere che tutta quella situazione lo stava esaltando quasi
al piacere. Sentiva solo il suo torace muoversi per i respiri veloci e
profondi, che da tutto gli sembravano causati tranne che dalla paura,
visto il soggetto.
-... Non
credo tu sia nella posizione di poter scherzare, adesso.- E come a dare
ancora maggior credibilità alle proprie parole, Cardia fece
scorrere delicatamente la punta fredda sulla gola dell'altro, ben
accorto nel far sì che il gesto fosse visibile a tutti i
presenti.
Degel
rabbrividì in silenzio, digrignando i denti: quello stava
facendo sul serio. Si guardò attorno facendo guizzare gli
occhi in ogni direzione, in cerca di qualcosa che avrebbe potuto
sfruttare a suo vantaggio per togliersi da quella situazione, ma si
stupì nell'appurare che per la prima volta il suo cervello
non stava lavorando come doveva: mai si era trovato in una situazione
di stress tale da influire sulle sue capacità cognitive; e
più questa consapevolezza prendeva forma nella sua testa,
più il corpo la seguiva, rendendo palese ciò che
fino a quel momento la razionalità era riuscita a
sopprimere: che stava tremando come un coniglio aveva cominciato ad
accorgersene solo adesso, così come si era appena reso conto
del respiro affannoso e del cuore che pulsava a mille ormai in gola.
Deglutì a forza, poi cercò di modulare qualche
parola, accorgendosi che la bocca gli si era fatta irrimediabilmente
riarsa: -Ehi, Cardia.- pensava che il chiamarlo per nome e usare un
tono calmo e affabile avrebbero potuto instaurare una certa confidenza
che sarebbe stata utile a persuaderlo, o almeno così si
ricordava di aver letto in un qualche libro di psicologia. -Diavolo, ti
stai mettendo nei guai. Se prima bastava che ti facessi qualche anno in
reclusione, adesso non penso te la caverai così facilmente.-.
Ancor prima
di aprire bocca per parlare, qualcosa nella propria testa gli aveva
detto che sarebbe stato tutto inutile con quello, e infatti ci volle
pochissimo tempo prima di ricevere conferma dal diretto interessato, il
quale, non appena Degel terminò il suo paternale, si
premurò nel ricordare chi era il capo tra i due:
strattonò di nuovo la mascella del suo ostaggio e tese la
catena delle proprie manette per stringergliela forte al collo. Il
francese tossì, artigliando istintivamente il braccio di
Cardia che lo teneva a sè, per cercare invano di
allontanarlo. Dannati libri di psicologia.
-Adesso la pianti di
fare la mammina che fa finta di preoccuparsi per me e vediamo di
andarcene da qui.- Cardia gli aveva di nuovo parlato all'orecchio, a
denti stretti, stando ben attento a non farsi sentire dai poliziotti, i
quali ormai sembravano più delle belle statuine, che degli
uomini d'azione.
Tra di essi, tra
l'altro, Degel scorse Millard, armato di pistola, ma con una strana
espressione scossa sul viso. Fu lui a parlare, mantenendo una notevole
padronanza di sè: -Stammi a sentire, ragazzo. Se lascerai
immediatamente l'ostaggio non saranno presi provvedimenti alla pena,
parola mia.-. Pronunciò quel 'ragazzo' con un tono che
colpì Degel, anche se non riuscì a
spiegarsi il motivo.
Cardia
sputò a terra. -Me ne fotto della vostra clemenza,
comandante.- guardava l'ufficiale con aria di sfida, gli
occhi spalancati e animati di un baluginìo folle,
decisamente inquietante. -Io non voglo farmici nemmeno un giorno, nel
vostro porcile.-. E non era un mero capriccio, perchè era
sicuro che sarebbe morto, se fosse stato più di due giorni
là dentro senza la sua principessa e la sua Los Angeles.
Perchè Los Angeles era sua, e non avrebbe permesso a degli
idioti in divisa di strapparlo dal proprio trono per permettere a un
qualsiasi stronzo di sedervisi al suo posto. No, ormai su quel trono
c'era la sagoma del proprio culo.
-Ora fate un favore al
vostro Cardia, da bravi. Aprite un varco tra di voi così
posso passare tranquillamente...- poi indicò Degel con
un'occhiata e un gesto del capo, sorridendo famelico -...senza che
nessuno qui si faccia male.-.
Al sentire quelle
parole, tutti gli agenti si smossero e borbottarono tra loro, offesi e
spazientiti. -Fai sul serio?!- gridò uno, rafforzando la
presa sull'arma che teneva davanti al viso, già con gli
occhi puntati sul mirino. -Figurati se ti lasceremo passare! Ora molla
il ragazzo e metti la faccia al muro, oppure ti spariamo!-.
La minaccia non
spaventò di certo Cardia, sia perchè non era
proprio il tipo facile da impressionare, sia perchè aveva il
pieno controllo della situazione, di fatti era stato ben attento a
posizionarsi nella stanza in modo tale da offrire a fucili e pistole
soltanto il corpo di Degel, e impedendo ai poliziotti qualsiasi mossa
avventata grazie alla lama che teneva ben posizionata sul collo del
francese. E per la prima volta i suoi pensieri andarono a lui, traendo
divertimento dal fatto che, appena giunto oltreoceano, aveva
già avuto modo di toccare con mano quella che era la VERA
America: la splendida, libera, selvaggia America. L'America dove solo
chi è disposto ad ammazzare può meritarsi il
rispetto e una buona posizione in mezzo alla gente. A dir la
verità un po' gli dispiaceva per quello straniero snob dal
musetto presuntoso, ritrovatosi in quella situazione per puro caso;
forse una volta liberi e lontani dagli sbirri non lo avrebbe nemmeno
ammazzato, ma decise di riservarsi quella decisione per dopo: ora la
cosa importante era andarsene da lì.
E soprattutto farlo
sotto gli occhi di Russ Millard.
-Uhn!- un mugolio di
Degel lo strappò dai suoi pensieri, facendogli accorgere di
aver premuto un po' troppo sul suo collo. Cosa che scosse tutti i
presentii, dato che sulla pelle del francese stava scivolando
giù una goccia di sangue, resa ancora più cremisi
dal contrasto con la pelle diafana. Beh, Cardia pensò che un
po' di effetto scenico non faceva mai male.
Allora strinse a
sè il corpo magro con ancora più forza, beandosi
dei suoi brividi e del suo respiro rotto dalla paura. -Non scherzo,
come potete vedere, e se non mi lasciate passare lo ammazzo sul serio.-
si interruppe per un attimo, il tempo per posare gli occhi sul
comandante e guardarlo con una malizia che era di piena sfida.
-Comandante, ormai mi conosci da tanto tempo, sono anni che mi date la
caccia, e sono sicuro che sai che preferirei ammazzare qualcuno e
bruciare sulla sedia elettrica piuttosto che starmene qui buono buono a
scontare la mia pena.-.
Faceva sul serio? A Degel una vocina interiore diceva di sì.
Quell'americano era completamente pazzo e se la giornata era cominciata
in quel modo già dall'aeroporto, non poteva non chiudersi
così in bellezza. Aveva paura. Anche se non voleva
ammetterlo a se stesso, ringraziava che ci fossero lo forti
braccia di Cardia a sorreggerlo, perchè sentiva che le gambe
non erano in grado di sorreggerlo già da un bel po'. Poi,
ora che il collo aveva preso a bruciargli per il piccolo taglio, era
come se la consapevolezza di un'orribile e molto probabile evenienza si
stesse facendo largo dentro di sè, privandolo di ogni
capacità di iniziativa: poteva morire. Se Cardia era il
fuoco a cui ogni fibra del suo essere rimandava, lui non era altro che
un cubetto di ghiaccio in balia delle fiamme. Stava giusto
abbandonandosi a questa insolita immagine, che fu costretto dal corpo
di Cardia ad avanzare. Questi aveva compiuto giusto due passi lenti,
prima di ruggire un potente: -Allora?!-.
I poliziotti non
smisero di puntargli contro le armi, ma nemmeno si azzardarono a
prendere iniziative, dato che il colpire Cardia senza prima
attraversare il corpo di Degel era praticamente impossibile. Il
comandante era un fascio di nervi, e la sua fronte si era imperlata di
sudore già da un bel pezzo, ma nemmeno per un secondo si
concesse di sottrarre il proprio sguardo da quello di Cardia, il quale,
vedendo che nessuno dava l'impressione di muoversi, aveva ripreso ad
avanzare.
Ora, sarebbe stato
ammirevole da parte di Degel uscirsene con un: "No, per amor del cielo!
Non pensate a me, sparate comunque e fermate questo delinquente!", ma
non si trattava mica di un film e teneva troppo alla propria pelle. E
soprattutto, non c'era il minimo senso patriottico che lo muoveva. Per
lui gli americani potevano divertirsi con i loro criminali quanto
volevano, non erano affari suoi, gli interessava solo andarsene da
lì... e possibilmente con la testa attaccata al collo.
-Mettete quelle cazzo
di armi a terra.- fece poi Cardia, perentorio. E per dare
manforte alle parole, si concesse un altro piccolo graffio al proprio
ostaggio, stavolta pericolosamente vicino alla giugulare, gesto che
venne accolto dal diretto interessato con un lamento di dolore.
Tutti gli agenti
posarono gli occhi sul loro comandante, che dopo qualche secondo di
titubanza, abbassò il capo, definitivo. Il rumore del
metallo impattante con il pavimento rieccheggiò per il
corridoio, mentre i poliziotti si liberavano di fucili e pistole.
-Bene.-
continuò Cardia tirando su col naso -Ora tenete alzate le
mani per bene, tutti quanti...- parlava lentamente ed utilizzava uno
strano tono gentile, come se stesse ammonendo dei bambini.
-...Così che possa avere il tempo di tagliare la gola al
francese, se qualcuno si facesse venire la stupida idea di abbassarsi a
prendere l'arma.-.
Una volta appurato che tutti si fossero attenuti al suo ordine,
rimaneva il problema di come svignarsela dalla stazione di polizia
cercando di non esporre il proprio corpo senza lo scudo offerto da
quello del signor Baguette. Cardia si guardò attorno,
alternando occhiate nervose tra il luogo e i poliziotti,
così da tenere sempre sotto controllo persino i loro
respiri. In tutto ciò la sua attenzione si posò
anche su quello che diceva essere il tutore del suo ostaggio, che con
sua grande sopresa, se ne stava immobile in mezzo agli agenti, senza
mostrare il minimo accenno di panico. Fissava la vicenda con lo stesso
sguardo di quando si era presentato poco prima davanti alla cella, e
pareva che tutto quel trambusto non gli avesse nemmeno fatto sgualcire
la camicia. Neanche la seguente occhiata di Cardia, una delle
più grottesche del suo repertorio, lo fece scomporre. Tra
lui e l'escargot facevano a gara a chi era più faccia di
cazzo, pensò, mentre nella sua mente si formava finalmente
anche una buona idea per lasciare quel postaccio. Trovò
ispirazione nel guardare le pareti che delimitavano il piccolo
corridoio in cui si trovavano lui e gli agenti di polizia, e che
collegavano quello principale alla cella d'attesa. Quindi
lasciò la presa sulla mascella di Degel, ma solo
per afferrargli il braccio, più comodo per quando avrebbe
dovuto costringerlo a muoversi assieme a lui. -Adesso, signori, vi
pregherei di spostarvi tutti a destra, e attaccarvi al muro.-.
Stavolta i poliziotti
si mossero senza l'autorizzazione del comandante, tutti rassegnati al
fatto che finchè quel delinquente fosse rimasto
là dentro a farsi scudo di quel povero straniero, non
avrebbero potuto fare proprio nulla.
Così,
annuendo soddisfatto, Cardia strattonò Degel per il braccio
ed uscì dalla cella lentamente, tenendo sempre la schiena
appiccicata alla parete opposta rispetto a quella dove si erano
ammassati i poliziotti. Si compiacque del fatto che il francese si
stesse muovendo senza fare capricci, rendendogli il lavoro facile. No,
quasi sicuramente non l'avrebbe ucciso se avesse continuato a
comportarsi così bene. Una volta raggiunte le armi lasciate
a terra dai poliziotti si fermò l'attimo che bastava per
piegarsi velocemente verso una di esse, portandosi appresso Degel che
quasi perse l'equilibrio, e sostituire la lama con una pistola, per poi
puntargliela subito alla tempia.
La velocità con cui Cardia eseguì la manovra fu,
se possibile, ancora maggiore di quella con cui si era fiondato prima
su Degel. E dopo che la catena delle manette lo spinse giù
con forza, mozzandogli il respiro e rischiando di farlo finire con le
ginocchia a terra, il francese non riuscì a capire cosa
stesse accadendo finchè, una volta che fu rizzato di nuovo
su da uno strattone dell'altro, non sentì qualcosa di freddo
spingere contro la propria tempia . Siccome non era affatto uno
stupido, ci mise un attimo a capire di cosa si trattava.
Rabbrividì, chiudendo per un momento gli occhi:
più i secondi passavano, e più veniva meno la
speranza di poter tornare sano e salvo a casa. Perchè
tornare a casa, se fosse uscito di lì vivo, sarebbe stata la
prima cosa che avrebbe fatto, e Los Angeles poteva scordarsi di vedere
ancora la sua faccia finchè fosse stato capace di intendere
e di volere: questa era una delle due certezze che aveva in quel
momento; l'altra era la consapevolezza di essere giunto ad odiare
quell'americano con ogni centimetro del proprio essere.
Con la pistola puntata
alla testa, si accorse solo in quel momento di quanto stava sudando: fu
una cosa che lo sorprese non poco, dato che non era solito sudare
nemmeno quando faceva quel poco di sport ogni tanto. Però,
poichè in quel momento la possibilità di sentirsi
perforare il cranio da piombo rovente non era per niente da escludere,
sentire la camicia umida appiccicarsi alla pelle non era poi
così strano; soprattutto se si considerava il fatto che il
corpo di Cardia sembrava avere una temperatura che superava
sì e no di una decina di gradi quella di una qualsiasi altra
persona.
A stare con la schiena
a contatto con il suo torace, quasi sentiva il proprio sangue bollirgli
nelle vene. E quel cuore che sentiva martellare dietro di sè
con così tanta veemenza, gli dava l'impressione che prima o
poi avrebbe potuto fracassare la gabbia toracica che lo ospitava e
uscirne con una forza tale da entrare nel corpo che gli stava davanti.
Cosa che poteva risultare alquanto romantica se solo si pensava alla
presente situazione, la quale aveva tutte le carte in regola per
favorire una perfetta sindrome di Stoccolma, ma si sa, Degel Arnaud
avrebbe preferito ammalarsi di tumore al cervello, piuttosto che di
quella.
Frenò
l'istinto di gettare occhiate supplicanti a quelli che avrebbero dovuto
essere i suoi salvatori, ma una volta che Cardia lo costrinse a
muoversi insieme a lui, facendolo camminare di lato,
incontrò gli occhi severi del dottor Ackroyd, al quale non
potè nascondere il terrore che lo attanagliava. Lui
ricambiò con uno sguardo caldo, rassicurante a modo suo, ma
in quel momento nemmeno la vista di babbo Natale con tanto di doni e
campanellini lo avrebbe fatto sentire meglio.
Cardia prese quindi a
camminare lentamente con la schiena attaccata al muro, senza mai
smettere di puntare la pistola al suo ostaggio e di tenere d'occhio
ogni singolo poliziotto. Un po' per quella che Degel
interpretò come vanità, Cardia non si trattenne
nel regalare qualche occhiata spocchiosa al comandante, il quale stava
stringendo i pugni con così tanta forza da sbiancarsi le
nocche ed era diventato paonazzo in viso, chissà se per
vergogna o per rabbia. Magari entrambe, d'altronde stava per venire
sconfitto in casa propria, e non avrebbe potuto sopportare una simile
onta. Come non l'avrebbero sicuramente sopportata i superiori, dai
quali sarebbe stato degradato senza troppi problemi. Una vita dedicata
ad ottenere quel posto e onorarlo come meglio poteva, ed ecco che per
colpa di uno squilibrato stava vedendo andare in fumo tutto quello per
cui aveva lavorato.
Ma Degel non poteva di
certo sapere che si stava sbagliando di grosso, e che in
verità ciò che stava tormentando il poliziotto
era qualcosa che non avrebbe mai potuto immginare: quella che sembrava
vergogna era in realtà un profondo senso di frustrazione, di
promesse fatte ma mai mantenute, di quello che avrebbe potuto essere ma
che invece non era stato, e la rabbia che gli stava spezzando il
respiro era rivolta solamente verso se stesso.
Non era facile, non lo era mai stato, ma mai Millard avrebbe immaginato
di ritrovarsi in una situazione del genere. Non poche volte era stato
combattutto tra il suo essere di uomo e di poliziotto, ma era la prima
volta che si vedeva coinvolto in maniera così intima, e
prendere la decisione giusta era in quel momento la cosa più
difficile che gli fosse mai capitata; senza contare poi il fatto che
doveva assolutamente affrettarsi nel farlo data la situazione critica,
e che tutta la centrale dipendeva dalle sue decisioni, sbagliate o
giuste che fossero.
E tutto
perchè il ricordo di quello che era successo tredici anni
fa, ma che aveva portato i suoi strascichi per molto tempo a seguire,
era ancora vivo nella sua mente, e ora si stava riproponendo con
violenza, impedendogli di fare ciò che andava fatto.
Alla fine chiuse gli
occhi con gravità, abbandonandosi alla sensazione di un
lungo brivido che serpeggiava lungo tutta la spina dorsale, messaggero
di una dolorosa consapevolezza: era giunto il momento di finirla, anche
se ciò voleva dire riportare alle luce un passato che si era
promesso di lasciare nell'oblio.
-Scorpio.-.
Bastò
quella semplice parola per immobilizzare Cardia sul posto e far nascere
sul suo viso un'espressione di pura incredulità (o era
terrore?). Il ragazzo si voltò lentamente verso l'uomo,
annaspando l'aria con concitato affanno.
-Come... come mi hai
chiamato?- sussurrò, con le labbra in preda ad
impercettibili spasmi.
Beeeeene.
Non
so nemmeno che parole usare per scusarmi con coloro che seguivano -e
spero seguiranno ancora- la storia, riguardo la mia lung(hissim)a
assenza. Davvero, non saprei che inventarmi, se non dirvi la
verità, e cioè che ho appena avuto un semestre
infernale all'università per quanto riguarda le lezioni e
l'ammontare di studio, e che il poco tempo libero che avevo a
disposizione mi permetteva giusto di uscire ogni tanto da casa per
prendere un po' d'aria ._. Al sol pensiero mi viene da vomitare
*Bleaauurgh* Ma bando alle ciance *si pulisce*, spero che siate
comunque rimasti soddisfatti dagli sviluppi (e dai cambiamenti
apportati), ma soprattutto che abbiate ancora voglia di leggere. Tanto
manca poco (spero), solo che sento il bisogno di approfondire un po' un
particolare rapporto che pare essere venuto fuori proprio in queste
ultime righe.
Fatemi
sapere se la fic vi gusta, così magari mi impegno per
allungare un po' il brodo, altrimenti chiudo subito in un altro paio di
capitoli e via :).
Giuro
che sarò un tantino più presente, sia per
postare, sia per riprendere a leggere quelle fic che ero solita
commentare!
Un'altra
cosa che ci tenevo a dire è questa: qualche giorno fa, ho
avuto il piacere di leggere un cult del genere noir, dal titolo 'Dalia
Nera'. E ho scoperto di citarlo involontariamente quando parlo di
Cardia e Degel rispettivamente come fuoco e ghiaccio. Lì nel
libro, anche per i due personaggi principali vengono usate
dal narratore (che è uno di questi due) queste due parole
come soprannomi. Dato che ho amato il romanzo e dato che ormai ho
combinato questa cosa, ho deciso di citarlo ancora (stavolta
volontariamente) dando al comandante il nome dell'unico, a mio avviso,
personaggio della storia che può essere definito positivo.
Detto
questo, grazie a coloro che leggono per la pazienza che hanno con
questa povera studentessa esaurita, e scusatemi ancora per avervi fatto
aspettare così tanto. Al prossimo capitolo! <3
Essie.
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Capitolo 4 *** Quattro. ***
Il comandante trattenne il respiro, mentre nella sua testa ricordi
offuscati dal tempo prendevano forma in immagini in movimento, rese qua
e là più o meno vivide dall'intensità
delle corrispondenti emozioni provate in quegli attimi. E quando la
memoria gli riportava sulla pelle quelle più intense, i
ricordi si presentavano nitidi e violenti come se li stesse rivivendo
proprio in quel momento, assistendo ad essi con gli occhi di adesso.
Mancavano diciannove
minuti alle undici di notte. Si trovava in zona Inglewood, nei pressi
della centoquattresima, dove l'intervento della mafia aveva fatto
edificare un numero spropositato di fabbricati illegali, che i
malavitosi utilizzavano come magazzini per la merce destinata al
contrabbando. Erano ormai anni che il Dipartimento di Polizia tallonava
quella banda di delinquenti senza volto, La "Viuda de Negro", la vedova
nera, sfiorando sempre per un pelo la possibilità di metter
loro le mani addosso. All'epoca lui era solo uno dei tanti giovani
sergenti nella città numero uno del crimine, affamati di
eroiche imprese da infilare nel curriculum professionale e con le quali
costruirsi una buona reputazione nell'ambiente lavorativo e in quello
criminale. Se fosse riuscito ad acciuffarli... Se ci fosse riuscito di
certo l'impresa non sarebbe passata inosservata agli occhi dei
superiori. Anche perche la banda della Viuda de Negro si era guadagnata
una bella fama in giro per tutta la Californa e anche oltre; con i loro
commerci illegali di armi e droghe, rapine organizzate, violazione di
reti informatiche di sicurezza, erano senza dubbio una più
che succosa preda da portarsi a casa. Il fatto però di
essere specializzati in così tante attività
diverse aveva in principio depistato la polizia, la quale ci aveva messo
un po' di tempo a scoprire che si trattava sì di menti
diverse, ma unite tutte in un'unico organo. Non sapevano ancora quanti
fossero i veri componenti, ma in base ad investigazioni su vari fronti,
si supponeva che quei delinquenti non dovevano essere più di
una decina, se non si contava gentaglia affiliata di poco conto. Si
muovevano bene, cambiando strategia e fronte d'azione ogni volta che la
polizia riusciva ad avvinarsi a loro un poco di più; questo
aveva permesso alla Viuda de Negro di cavarsela sempre, ma grazie alla
presenza di menti capaci e agenti volenterosi, ormai il Distretto di
Polizia era ad un passo dalla vittoria. Una trappola architettata ad
hoc era la loro strappata finale, l'ultima carta da giocare, quella che
se non fosse andata a buon fine, li avrebbe rispediti indietro al punto
di partenza. E il compito di guidare la delicatissima operazione
spettava a lui, al sergente Russ Millard, in coppia con un suo
superiore.
Bisognava pero dire che la prima parte del piano, che era poi quella
più lunga, complessa e pericolosa, si era conclusa nel modo
sperato: alla fine, tutti gli infiltrati erano riusciti, dopo parecchi
mesi, a guadagnarsi la fiducia della Viuda de Negro e fingersi con
successo dei buoni informatori di colpi grossi. Per facilitare loro il
lavoro, la polizia aveva dovuto concedere alla banda parecchi crimini
lasciati volutamente impuniti, ma ne valeva la pena se volevano avere
una minima chance di acciuffarli. Poi, finalmente, gli infiltrati
avevano convinto i criminali di poter concludere un allettante
affare e dopo qualche mese di lavoro, assieme all'aiuto di
parecchi altri agenti in incognito, erano riusciti ad attirare cinque
delle più importanti teste nemiche, e altri membri di minore
importanza, all'interno di quel magazzino dismesso, che era poi il
luogo designato per il finto incontro con i "famigerati contrabbandieri
russi di armi pesanti". Il resto e la riuscita finale della missione,
gravava in parte sulle spalle del sergente Millard, e non serviva
specificare che anche il minimo errore sarebbe stato fatale. Nascosto
dove il mobilio di cassoni lo consentiva, Russ avrebbe dovuto dare al
momento giusto l'ordine di cattura e arresto agli altri venti agenti
che stavano appostati e in agguato come lui. In apparenza
era un compito semplice, ma se si andava a considerare tutte
le varie (e possibilissime) variabili in gioco, poteva facilmente
trasformarsi in un suicidio. Ma lui non avrebbe fallito,
perchè ci teneva troppo a mettere le mani su quei bastardi
che lo avevano privato di quasi un anno della sua vita, e precisamente
da quando era stato trasferito alla "Crimine Organizzato" e il caso
Viuda de Negro lo aveva impegnato fisicamente e mentalmente in quasi
tutte le ore delle sue giornate. Ricordava che stava sudando freddo.
Cercava di respirare piano e profondamente per cercare di diminuire i
battiti cardiaci oramai al massimo della loro intensità, ma
la tensione stava avendo la meglio. -Cristo.- Aveva imprecato sotto
voce, conscio che il proprio successo dipendeva quasi esclusivamente
dal suo sangue freddo. Non ricordava per quanto tempo aveva tenuto gli
occhi puntati sull'unica zona illuminata del locale, e cioè
quella dove gli infiltrati/finti collaboratori della polizia/Viuda de
Negro stavano attendendo l'arrivo dei criminali, seduti attorno ad un
tavolino di legno, su cui erano poggiati un paio di lampade accese, tre
posaceneri e qualche quotidiano stropicciato. Russ invidiava il loro
autocontrollo e temeva di non riuscire a gestire la propria
emotività quando sarebbe stato il momento. Proprio quando
aveva terminato di formulare quel pensiero, la grossa porta di ferro
vibrò di cinque colpi battuti secondo un criterio ritmico
preciso: erano loro. Si erano davvero presentati all'appuntamento.
Quello che Millard ricordava essere successo dopo quel momento,
risultava molto più vago e confuso; le immagini
risultavano un miscuglio di tutti i fatti che erano successi in quei
pochi, ma concitati, minuti seguenti, e soltanto qualche fotogramma
risultava nitido e risparmiato dall'azione corrosiva del tempo e della
paura, come il ricordo di aver visto entrare da quella porta molte
più persone di quelle attese... I criminali che parlottavano
con gli infiltrati della polizia... La sorpresa che lo aveva colto nel
vedere che i bastardi si portavano dietro un ragazzino denutrito e
palesemente depresso che non doveva avere più di tredici,
quattordici anni... E infine il segnale dato al momento giusto di
uscire allo scoperto e puntare le armi contro i delinquenti.
Ma qualcosa era andato storto: la Viuda de Negro si era dimostrata in
grado di sapersi destreggiare anche in situazioni disperate come
quella. I bastardi erano preparati ad ogni evenienza, e il sergente
Millard si era ritrovato ben presto a dover tenere testa a quello che
era il capo nemico.
Dopo quel momento, tutti i ricordi tornavano a farsi nitidi e uniti
insieme dalla giusta sequenza logica e temporale.
Ma si trattava di pochi
secondi. Pochi secondi durante i quali aveva avuto la peggio con il
criminale, che lo stava tenendo sotto tiro con la sua calibro 38. Era
un uomo alto e grosso, coi capelli nerissimi impomatati all'indietro,
gli zigomi sporgenti e lo sguardo vitreo, talmente inespressivo da
somigliare spaventosamente a quello di un rettile. Pochi secondi per
fissare la mano del nemico stretta sulla pistola, e il suo dito indice
sul grilletto. E pochi secondi per far sì che accadesse
l'impossibile: i muscoli del dito che avevano vibrato per sparare il
colpo, erano stati un tutt'uno con il rumore assordante dello sparo.
Millard aveva chiuso gli occhi, ricordava che era troppo intento a
pensare a suo padre e a cosa avrebbe fatto dopo aver saputo che il
figlio era rimasto ucciso, per accorgersi che il rumore era in
verità sopraggiunto con un impercettibile anticipo rispetto
al proiettile. Anzi, dopo qualche attimo di troppo, si era reso conto
di non essere stato affatto colpito. Aveva quindi aperto gli
occhi di scatto, giusto in tempo per vedere il tizio davanti a
sè tossire un fiotto di sange e crollare giù ai
suoi piedi con la faccia a terra, così da rivelare alle sue
spalle il palese arteficie dell'accaduto.
Il bambino, ansante e con gli occhi spalancati, teneva davanti al
proprio viso una pistola dalla canna fumante con entrambe le mani.
Tremava come una foglia ed era più pallido di un fantasma.
Quel ragazzino gli aveva appena salvato la vita, macchiandosi della
più grave delle colpe, l'omicidio.
A quel punto, senza il
loro capo, fu quasi un gioco da ragazzi prendere in mano la situazione
ed arrestare i rimanenti e disorientati membri della banda
lì presenti. Ricordava di averli sentiti chiamare quel
bambino col nomignolo di "Scorpio", che solo giorni più
tardi scoprì essere dovuto a piccole e subdole missioni
affidategli dalla banda, in cui il suo aspetto innocente e la sua
furtività gli concedevano di pungere indisturbato senza
lasciare traccia nè sospetti. Lo obbligavano a lavorare per
loro, picchiandolo e promettendogli il cibo solo al completamento delle
missioni. E se tornava con cattive notizie , solo Dio sapeva quello che
doveva subire da quei figli di puttana.
Tenendo le mani alzate
per fargli capire che non gli avrebbe fatto alcun male, Millard gli
aveva parlato quietamente: -Stai tranquillo, piccoletto, non ti faremo
niente.-.
Scorpio lo fissava spaurito e apparentemente incapace di fare qualsiasi
altra cosa che non era tremare e stringere quella pistola fino a
sbiancarsi le dita. Fissava il corpo ormai senza vita di quello che era
stato uno dei suoi aguzzini e sembrava sul punto di disfarsi in mille
pezzettini.
-Fidati di me...- aveva
ripreso Russ Millard, stavolta incominciando a muovere qualche passo
cauto per aggirare il cadavere e tentare così di avvicinarsi
al bambino. -... Baderemo a te... Io baderò a te. Se abbassi
la pistola, ti porto via da qui e giuro su Dio che nessuno ti
farà del male.-.
Non ricordava con
precisione cosa di quel ragazzino lo colpì così
tanto da farne una questione personale e promettergli quelle cose.
Forse perchè gli aveva salvato la vita, forse
perchè già immaginava, prima di venire a saperlo
da lui giorni più tardi, quali mostruosità aveva
dovuto sopportare a causa di quei bastardi.
Forse erano quei suoi occhi così pieni, così
vivi, da averlo coinvolto in quella maniera. Perchè erano
degli occhi che poco si confacevano ad un ragazzino: erano animati da
un fervore rovente, aizzato da tutto il rancore maturato durante ogni
secondo passato ai servigi di quella gente, dalla consapevolezza che
ogni giorno il passato si sarebbe inevitabilmente tramutato in un
presente che non cambiava di nulla, destinandolo sempre allo stesso
crudele futuro. Occhi senza speranza, divorata da demoni di fiamme.
Russ Millard, in quelle orbite infossate, ci aveva visto l'Inferno.
Ricordava di aver giurato a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa
per alleggerire il peso che gravava su quelle piccole spalle. Oltre al
senso di gratitudine, era anche e soprattutto questo il motivo che
aveva spinto il poliziotto a non abbandonare quella creatura e a
cercare di proteggerlo per quanto poteva, mettendocela tutta per essere
una presenza costante nella sua vita, anche dopo che ognuno aveva preso
la propria strada. Millard aveva fatto carriera grazie all'arresto di
quella notte, mentre Cardia (questo era il suo vero nome) passava gli
anni successivi a saltare da una coppia affidataria all'altra, a causa
della sua cattiva condotta; parecchio tempo lo passava in ospedale, a
cusa di una malattia cardiaca riscontrata ai tempi della sua permanenza
nella Viuda de Negro, e il resto a picchiarsi con altri ragazzi.
Qualche anno più tardi, la sua attenzione però si
era spostata anche su di un altro fronte, quello dei motori, cosa che
si rivelò presto la sua più grande passione. Era
stato proprio grazie a Millard che Cardia aveva scoperto il suo
incredibile talento meccanico, e cioè quando il poliziotto
aveva pensato che spendere del tempo in un lavoretto lo avrebbe tenuto
lontano dai guai almeno per qualche ora al giorno. Ne aveva parlato con
i suoi tutori del momento e questi avevano accettato di buon grado, se
non altro per liberarsi un poco dalle preoccupazioni che il ragazzino
dava loro di continuo. Così, dopo essere riuscito a
persuadere anche il diretto interessato, Millard lo aveva affidato ad
un suo amico meccanico a cui il Distretto affidava le volanti da
riparare. Con grande sorpresa di tutti, Cardia prese molto sul serio la
cosa, dedicandosi con solerzia e passione al lavoro; lì
aveva imparato i segreti del mestiere e scoperto così la sua
grande vocazione.
L'idillio però era durato poco, fino a quando il ragazzo,
divenuto consapevole del proprio talento, ben pensò di
sfruttarlo per divertirsi e guadagnare un po' di grana. Era
così che si era addentrato nel giro delle corse clandestine
e del tuning, guadagnandosi in pochi anni la fama del più
forte.
Russ Millard ricordava
che tante volte aveva cercato di dissuaderlo ad uscirne, confidandogli
che non poteva continuare a coprire un delinquente e che se avesse
continuato così sarebbe stato costretto a metterlo dentro
per un po' o almeno in libertà vigilata; senza considerare
le conseguenze sulla malattia al cuore che ogni anno che passava
peggiorava sempre di più. Ma parlare con Cardia era come
farlo con un muro: il suo protetto esplodeva ogni volta in mille
scintille ed entrambi si ritrovavano presto ad urlare in faccia ad un
interlocutore sordo.
Ricordava che era stato
proprio quel giorno, dopo il loro ennesimo litigio, che lo aveva visto
per l'ultima volta.
-Sono riuscito a sbrogliare le faccende burocratiche, ragazzo..-.
Erano a casa di Millard, seduti uno accanto all'altro, il
poliziotto gli aveva poggiato affettuosamente le mani sulle spalle
-Finalmente non c'è niente che possa opporsi
all'affidamento.-.
Il ragazzo non lo guardava, tenendo uno sguardo apatico fisso
sulle proprie cosce. Oramai, aveva pensato Millard con tenerezza,
Cardia era diventato un uomo, ed erano passati più di dieci
anni dall'accaduto a Inglewood, ma al Commissario pareva di essere
stato investito dalle fiamme del ragazzo soltanto il giorno prima. -Se
vuoi, puoi venire a stare da me, senza doverti più
preoccupare di niente... Nè dei soldi, nè di dove
dormire, nè della tua malattia. Penseremo a tutto assieme,
vedrai.-. Aveva pronunciato quelle parole con tono basso e
rotto dall'emozione.
Da quando Cardia aveva raggiunto i ventuno anni di età, i
servizi sociali non gli avevano più assegnato dei tutori e
una casa dove stare e la sua situazione era peggiorata drasticamente.
Da quel momento il poliziotto aveva fatto di tutto per prenderlo con
sè, ma affinchè anche il ragazzo la prendesse
seriamente, senza il timore di potersi ritrovare di nuovo per strada
(anche se piuttosto che quello, Millard avrebbe preferito tagliarsi una
mano) lui si era mosso per rendere la cosa ufficiale, ottenendo
così l'affidamento.
L'attesa della risposta
lo stava uccidendo, si era ritrovato persino a pensare che
nessun'incursione o arresto lo aveva tenuto più con il fiato
sospeso di quel momento. Ma Cardia ci aveva messo un po' troppo a
rispondere, e quando si era finalmente deciso a farlo, Millard
ricordava di essersi sentito sgretolare.
-Di tempo ne hai avuto, dopo la tua promessa. Undici anni per
l'esattezza. Oramai è troppo tardi.-.
Russ Millard sentiva quella frase rimbombargli nel crano ogni benedetta
sera, prima di andare a dormire. Il rimorso per non aver agito prima,
per non averlo preso subito con sè, così da
potergli riservare un futuro migliore, lo divorava da quando aveva
ricevuto quel rifiuto. Perchè non gli aveva risparmiato
tutti quegli anni di sofferenza e ineguatezza verso il mondo,
accogliendolo subito a casa sua? Utilizzava verso se stesso la scusa
che non gli avrebbero permesso di tenerlo, che prima o poi lo avrebbero
portato via e affidato a qualcun altro che l'affidatario lo faceva di
mestiere, perchè con il suo lavoro non sarebbe riuscito ad
essere presente quanto sarebbe servito e avrebbe voluto. La
verità era un'altra ed era riuscito ad ammetterlo a se
stesso solo in quel momento, ora che Cardia, colui a cui aveva voluto e
voleva bene come un figlio, ce lo aveva di nuovo davanti agli occhi
dopo che era sparito per tre lunghi anni senza farsi mai vivo. Ed era
che, nonostante il suo unico desiderio fosse quello di liberarlo da
quelle fiamme, per quanto ci avesse provato non ci sarebbe mai
riuscito, perchè Cardia e il fuoco che lo attanagliava ormai
da una vita erano diventati una cosa sola. Ed era proprio quel fuoco
che lo teneva in vita, che facev a ancora battere quel cuore debole,
erano la rabbia e il fervore del suo spirito rovente.
Se era impossibile estinguere quelle fiamme, l'unica cosa da fare era
condividerle. Ma lui, come ogni singola persona che aveva provato a
stare vicino a Cardia, non era stato in grado di sopportare l'Inferno
che era racchiuso in quello sguardo.
Prese un lungo respiro. -Scorpio.- ripetè, dato che non era
per niente sicuro di averlo anche detto, oltre che pensato, poco prima.
Al sentirsi nuovamente appellare in quel modo, Cardia non resistette,
ed esplose. -Non azzardarti a chiamarmi con quel nome!-
urlò, tanto forte da raschiarsi la gola e stringendo a
sè con ancora più forza il povero corpo di Degel;
tremava forte, la pistola che teneva in mano ballonzolava contro la
fronte del francese come se ci fosse un terremoto.
-Ti scongiuro- continuò Millard -Non macchiarti di altro
sangue.-.
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Capitolo 5 *** Cinque. ***
Piuttosto che fare del male a Cardia, Russ Millard avrebbe
preferito tagliarsi una mano.
Eppure eccolo lì, ritrovatosi a ricorrere al metodo
più subdolo che ci potesse essere per richiamare a
sè l'attenzione del ragazzo e cercare di riportare dalla sua
la situazione che ormai gli era sfuggita di mano: rievocare il triste e
traumatico passato di Cardia però non era stata di certo la
cosa migliore da fare, anzi, forse poteva proprio dirsi la peggiore. E
nessuno avrebbe mai potuto capire quanto dolore stesse investendo
Millard in quel momento; non passò un secondo che subito si
pentì di quello che l'istinto lo aveva appena indotto a fare
e si maledisse per la propria debolezza. Debolezza di cui si incolpava
ogni volta che i pensieri andavano agli anni trascorsi e per colpa
della quale ora erano lì uno di fronte all'altro, in veste
di nemici.
L'unica cosa che
avrebbe voluto fare in quel momento era correre dal ragazzo e
abbracciarlo forte, gridandogli il suo dispiacere per come si era
comportato con lui, ma represse in fretta quel desiderio, cercando di
focalizzarsi sulla sua missione e convincersi che quello che aveva
davanti in quel momento era solo un criminale che stava tenendo in
ostaggio e minacciando di morte un povero ragazzo. E in situazioni del
genere, ogni metodo era lecito se fosse servito a salvare una vita. Il
resto dei poliziotti aspettava un suo ordine, con le pistole ancora a
terra davanti ai loro piedi, come da comando di Cardia.
E lui era ancora
lì che annaspava aria con le narici dilatate e stringeva
convulsamente Degel tra le braccia, il quale dal canto suo stava
capendo davvero poco di quello che stava succedendo e del
perchè quel semplice appellativo avesse mandato
così fuori di testa il suo sequestratore. Però
almeno il fatto che Cardia si stesse abbandonando
all'emotività in quel modo gli faceva sperare per il meglio
riguardo alla propria sorte, e quasi riuscì a convincersi
che forse il comandante sapeva quello che stava facendo, o per lo meno
se lo augurava con il tutto il cuore, soprattutto nel momento in cui si
sentì mancare l'aria a causa della stretta dell'americano,
fattasi ancora più soffocante. Tossì e
piantò istintivamente le unghie sulla pelle tatuata di
quell'avambraccio che gli impediva di respirare, ma era come se Cardia
al momento si trovasse in una dimensione dove i due unici esseri che la
popolavano erano lui e il comandante.
-Tu non sai un cazzo
di me!- .
Cardia urlava per
cercare di mascherare il tremolio della propria voce. Stava andando
tutto così bene, ed erano bastati poco più di
cinque secondi per ribaltare la situazione.
Si stupì di
sè, per il fatto che il solo sentire quel nome avesse potuto
fargli quell'effetto: per quanto si fosse sforzato di accantonare il
suo passato, quello non perdeva mai occasione di ripresentarsi nei suoi
incubi e nei suoi pensieri. E ogni volta il dolore che provava era lo
stesso di tanti anni prima, di quando era costretto a subire le torture
di quei bastardi.
Tutte le scappatoie in
cui si tuffava a testa basta, come le corse, riuscivano a tenergli per
un po' la mente lontana da quelle cose, ma non appena il gioco finiva,
tornava il piccolo ragazzino denutrito in balia di ricordi indelebili
che lo facevano sentire come se i suoi aguzzini non lo avessero mai
lasciato.
Ed ora quello stesso
ragazzino aveva preso il posto di Cardia, e Millard sentì un
tuffo al cuore nel constatare di quanto quegli occhi assomigliassero a
quelli spauriti e disorientati del loro primo incontro, quando Cardia
gli salvò la vita.
-Per favore, lascia
andare quel ragazzo e risolviamo la cosa tra noi...- disse Millard.
Cardia era tutto un
tremito e sentiva come se il sangue stesse per spillargli dalle
orecchie.
-Il tempo delle chiacchiere è finito...-.
-Credi davvero che mi
limiterò a chiacchierare se continui a fare lo stronzo?-.
Cardia non rispose, non più certo di poter più
contare sull'ascendente che aveva sul comandante: doveva andarsene di
lì e il prima possibile.
Si sforzò
di riprendere il controllo di sè, tornando con l'attenzione
sul francese e il resto del corpo di polizia. Era madido di sudore e
sentiva la camicia del suo ostaggio inumidirsi contro la sua canottiera
ormai fradicia, mentre riprendeva a camminare lungo il corridoio. Gli
occhi avevano ritrovato la loro folle determinazione mentre riprendeva
ad ammonire gli agenti: -Ora noi ce ne andiamo di qui, e se qualcuno
prova ad uscire da questa cazzo di centrale mentre siamo fuori, sparo
al francese!- e per calcare le proprie parole, battè diverse
volte la bocca della pistola contro la tempia di Degel, che gemette
contrariato.
I poliziotti si
guardarono tra loro interdetti e il comandante fece loro cenno di
lasciarli andare con un'occhiata che brillava di risolutezza.
-Pazienza, una volta
fuori non andrà lontano, abbiamo alte possibilità
di riacciuffarlo.-.
***
Cardia non
impiegò molto a svoltare l'angolo ed uscire dalla linea di
vista dei poliziotti, poi, dopo essersi assicurato che per il momento
non era loro intenzione seguirlo, si voltò in direzione
dell'uscita e diede uno strattone a Degel per fargli capire che era ora
di darsi una mossa. Lo teneva ancora con la catena delle manette
attorno al collo e non si decideva a togliergli la pistola dalla testa,
e Degel fece molta fatica a correre in quel modo e riuscire a stargli
dietro; Inciampò due o tre volte, ma quel ragazzo stava
dimostrando di non avere solo aria in quelle grosse braccia, e riusciva
a sorreggerlo come se avesse il peso di una piuma.
Cardia andava spedito
per i corridoi e non si fermò neanche una volta per fare
mente locale su quale fosse la direzione giusta da prendere, come se
già si fosse preso la premura di memorizzare la strada
quando lo avevano condotto in cella.
Probabilmente aveva
già macchinato di evadere da qui ancor prima di metterci
piede.. pensò Degel ..Chissà che
felicità deve avergli dato il vedere che dentro la cella
c'era qualcuno che gli avrebbe reso più facile la cosa.
Durante la breve fuga
non incontrarono nessun agente, poichè evidentemente tutti
impegnati a far fronte all'emergenza nei pressi della cella, e ci
vollero pochi secondi per ritrovarsi davanti agli occhi l'uscita; Degel
potè giurare di sentire il cuore di Cardia battere con
così tanta frenesia da sembrare sul punto di scoppiare.
Una volta fuori, fu
costretto a fermarsi di colpo, trattenuto dall'altro, perchè
si ritrovarono davanti una dozzina di poliziotti armati che
accerchiavano il perimetro dell'uscita e li stavano tenendo sotto tiro.
Cardia
bestemmiò a dentri stretti.
Stava andando tutto
liscio ed ecco che proprio quando credeva di esserne fuori si era
presentato l'ennesimo problema. Doveva sbrigarsi o il resto degli
agenti -quelli che erano rimasti dentro- lo avrebbe raggiunto in poco
tempo e così si sarebbe trovato circondato, in pieno
svantaggio e con un'unica alternativa: arrendersi.
Piuttosto mi ammazzo.
Pensò.
Lasciò
passare qualche secondo senza fare nulla, come fosse in attesa di
qualcosa, e proprio quando stava ormai dandosi per vinto, un rumore che
identificò senza difficoltà raggiunse le sue
orecchie e gli donò una scarica di eccitazione: una Ford
Mustang modificata arancione e gialla si stava avvicinando a tutta
potenza, e di quella macchina, con quelle caratteristiche, ce ne era
una sola in tutta Los Angeles.
-Jorge...- mentre
Cardia sussurrava quel nome, tutti gli agenti furono costretti a
spostare l' attenzione alle loro spalle, verso un'auto in corsa che
dava tutta l'impressione di volerli investire in pieno. Cosa che
effettivamente sarebbe successa se quelli presi di mira non avessero
rotto la formazione per salvarsi la pelle, permettendo così
alla macchina di entrare nel perimetro che stavano circondando ed
inchiodare proprio davanti a Cardia, diffondendo nell'aria un odore
acre di pneumatici.
-Sei in ritardo!- fece
il ragazzo abbandonandosi ad una risata di sollievo.
-Muovi il culo e
chiudi la bocca, Cardia!- ribattè Jorge agitando un braccio
fuori dal finestrino abbassato e, prima che i poliziotti presero a
sparare contro l'autovettura, Cardia aveva già spintonato
Degel e si era buttato assieme a lui nel sedile posteriore dell'auto.
Jorge allora partì a tutto gas sgommando sull'asfalto e in
un battito di ciglia furono abbastanza distanti dal blocco per
considerarsi fuori tiro e potersi concedere un respiro di sollievo.
Quasi tutti, almeno.
-Non respiro...-
rantolò infatti Degel schiacciato dal petto di Cardia, il
quale non si era fatto troppi problemi a cadergli sopra per entrare in
fretta nell'auto; lui grugnì con una smorfia e si
sollevò dal francese in tutta calma, per poi buttare un
occhio al vetro posteriore: qualche auto aveva preso ad inseguirli, ma
con il vantaggio che avevano non sarebbe stato difficile seminarle in
fretta.
-Ti devo un favore,
Jorge...-.
-E siamo a quanto..?
Dieci a zero per me?- ridacchiò il ragazzo mentre alternava
la concentrazione tra la strada davanti e lo specchietto
retrovisore. -Ma il piano non prevedeva che tu portassi un
ospite.-.
Il piano? Era tutto progettato sin
dall'inizio pensò Degel, il quale aveva da poco
ripreso fiato ed aveva rizzato la schiena ...Tutto tranne il mio aiuto...
e come diavolo pensava di uscire da lì senza un ostaggio?
Scosse la testa, imponendosi di non perdersi in attività
cerebrali che in quel momento erano del tutto inutili, e volse lo
sguardo verso il ragazzo alla guida: Jorge -così lo aveva
chiamato Cardia- aveva capelli nerissimi, tagliati corti, e la pelle
mulatta; gli occhi che Degel vedeva riflessi sullo specchietto
retrovisore erano grandi e dello stesso colore dei capelli. Doveva
avere un bel po' di sangue del sud, come suggeriva pure il suo accento
esotico.
-Questo francese qui
mi ha reso le cose decisamente più facili, aspetta di
sentire la storia.- ammiccò Cardia.
-Francese?!- Jorge
ripetè con disappunto l'unica parola che sembrava aver
attirato la sua attenzione -Allora hai fatto bene a fargliela fare un
po' addosso!- ridacchiò poi, riferendosi evidentemente alla
bruttissima cera dello studente.
Degel pensò
bene di non ribattere, perchè stare lì da solo
con due criminali non poteva dirsi di certo la più rosea
delle situazioni, nonostante stesse morendo dalla voglia di mandarli a
quel paese, prendere la pistola che Cardia stava ancora tenendo in mano
e sparare ad entrambi. O almeno fare qualcosa di meno drastico e
penalmente punibile, ma che avrebbe rallentato la corsa e dato modo
alla polizia di raggiungerli, perchè se le cose continuavano
così, per i buoni ci sarebbe stato poco da fare. A
convincerlo di questo era proprio l'incredibile abilità alla
guida di Jorge, che si stava esibendo in robe che Degel pensava che
avrebbe visto sempre e solo nei film, come pericolose curve in
derapata, slalom e sorpassi in mezzo al traffico a velocità
parecchio oltre i limiti consentiti.
-Niente scherzi,
principessa.- come ad avergli letto nel pensiero, Cardia si era sporto
verso di lui e gli aveva sussurrato quella minaccia all'orecchio, la
voce roca e calda, come un serpente sul punto di ipnotizzare la preda.
-Stai buono qui senza dare fastidio, così posso pensare a
cosa fare di te una volta fuori dalla merda, mh?-.
Degel
deglutì saliva che non aveva, ma non esitò nel
fissarlo con occhi determinati che ce la stavano mettendo tutta per
nascondere il suo disagio.
-Dov'è la
macchina?- domandò allora Cardia a Jorge, facendosi avanti
col torace e appoggiando gli avambracci sulle spalliere dei sedili
davanti.
-A due isolati da qui,
l'ho nascosta per bene...- rispose lui.
Degel non capiva, e
nemmeno tentava di sforzarsi ora che gli era esplosa un'emicrania
pazzesca.
Cardia
sbuffò contrariato e alzò i polsi per mostrare le
manette che ancora li tenevano imprigionati: -E come faccio con
queste?-.
Jorge
sterzò di colpo per imboccare una traversa, imprecando
contro una volante che stava guadagnando terreno. -Vete a la verga*
Cardia devo pensare a tutto io?! C'è qualcosa qui sotto il
mio sedile che puoi usare!-.
Degel, che era seduto
proprio dietro Jorge, si ritrovò in men che non si dica con
Cardia chino sopra le sue gambe che si affrettava ad afferrare a terra
un paio di grosse tenaglie.
-E con queste che ci
fai?!- Cardia si rizzò su -con grande sollievo dello
studente- e si mise al lavoro per liberarsi.
-Le ho portate per te,
ojete**! Ora
muoviti a liberarti che siamo quasi arrivati.-.
A quel punto,
osservando Cardia intendo a liberarsi, Degel non si trattenne nel
lanciargli un'occhiata che aveva un che di supplichevole, portando poi
lo sguardo sulle proprie manette, come una muta richiesta.
-Niente da fare...-
ridacchiò lui, non senza una punta di sadismo nella voce
-...tu le tieni ancora per un po'.-.
Degel serrò
le mascelle, frustrato e con lo stomaco che si contorceva di rabbia
repressa.
***
Jorge
riuscì in breve tempo a sparire dalla vista delle volanti
grazie anche a vari percorsi alternativi e manovre per niente sicure
che fecero balzare il cuore in gola al povero Degel davvero troppe
volte. Poi, dopo quella che a lui sembrò
un'eternità, imboccarono un vicolo buio e strettissimo, e si
meravigliò di come il messicano fosse riuscito a sterzare
così bruscamente senza perdere il controllo dell'auto, ed
entrarvi a quella velocità senza nemmeno graffiare la
vettura. Alla fine frenò proprio accanto a quella che
sembrava un auto coperta da un tendone pesante.
-La targa?- fece
Cardia uscendo dall'auto, ormai libero dalle manette, infilando la
pistola tra la cintura e i pantaloni, contro il proprio fianco.
-Uguale anche quella.-
ammiccò Jorge, mentre faceva ruggire a folle la Mustang per
mandare il motore su di giri.
Cardia tolse allora il
tendone e un'auto identica a quella di Jorge si rivelò agli
occhi di Degel, il quale finalmente iniziò a capire.
-Io torno in strada da
qui...- continuò Jorge -... e tu uscirai dall'altra parte
del vicolo.-.
-So quello che devo
fare.- tagliò corto Cardia mentre contemplava soddisfatto la
copia della macchina di Jorge.
Degel fece per aprire
lo sportello, ma prima che potesse tirare la maniglia Cardia lo
precedette e lo afferrò con forza per il braccio. Rise.
-Dove credi di andare tu?-.
Il francese
respirò profondamente: -Hai finito con me, ormai non ti
servo più, no?-. Non aveva paura di imporsi, aveva deciso di
rischiare, ora che non ce la faceva più ad essere il
giocattolo di quel Vin Diesel da due soldi, ma solo dopo aver concluso
si rese conto dell'assurdità di ciò che aveva
appena detto.
A quelle parole,
infatti, Cardia tornò a ridere di gusto, gettando il capo
all'indietro: -Come no! Così la prima cosa che farai
sarà correre con quelle tue gambette dalla polizia e
soffiare a tutti il nostro piano!- sarcastico, non mancò di
simulare l'azione muovendo freneticamente indice e medio della mano.
Quella baguette lo
divertiva, questo doveva ammetterlo, e ormai ci stava provando gusto a
portarselo in giro e godere ogni volta di quella faccia spaurita. Ma
per quanto l'idea di continuare a dargli fastidio lo allettasse, doveva
muoversi o tutto sarebbe andato a puttane. Allora, senza perdere altro
tempo, lo tirò a sè e lo costrinse a scendere.
-Le chiavi e il
cellulare sono dentro, cerca di non farti prendere o vengo in prigione
e ti spacco il culo!- esclamò Jorge prima di fare
retromarcia e reimmettersi nella strada principale.
-Pinche ojete***!-
gli gridò dietro Cardia nella sua lingua, sorridendo e
tenendo ancora stretto il braccio di Degel.
-Lasciami!-
sbottò quest'ultimo cercando invano di liberarsi.
-Ma come, vuoi
lasciarmi?- lo prese in giro Cardia mettendo su un finto quando
ridicolo broncio -...Proprio adesso che arriva il bello!-.
Chissà
perchè, a Degel quelle parole non lasciavano presagire
niente di buono: stava cominciando ad inquadrare quel tizio, e aveva
capito che quello che per lui era "bello", in realtà era
qualcosa di molto vicino al suicidio.
-Qui, così
posso tenerti d'occhio.- disse quindi l'americano costringendolo a
salire sul sedile davanti, e di corsa andò a prendere il
posto al volante, mise in moto, accese lo stereo e partì a
tutta velocità nella direzione opposta rispetto a quella che
aveva preso Jorge.
Degel era un fascio di
nervi. Finchè Cardia fosse stato impegnato a disfarsi della
polizia, lui sarebbe stato al sicuro, ma dopo? Dove lo avrebbe portato,
cosa gli avrebbero fatto lui e la sua ipotetica banda di fuori di
testa? Già si vedeva a marcire dentro un cassonetto
dell'immondizia con cinque o sei buchi di proiettile sparsi in tutto il
corpo, oppure mangiucchiato dai topi nelle fogne cittadine, o forse
aveva visto troppe puntate di C.S.I. e doveva piantarla di farsi
prendere dal panico prima del dovuto.
Ma una cosa era certa:
se Degel Arnaud avesse creduto in qualche Dio, lo avrebbe di sicuro
pregato affinchè la polizia li avesse acciuffati il prima
possibile.
Cardia si mise in
strada e sembrava seguire un tragitto preciso, come se avesse una meta.
Per di più,
il piano sembrava funzionare a meraviglia: Jorge fu bravo a tenere le
volanti occupate al suo seguito e, da quello che Degel sentì
dalle brevi conversazioni al cellulare tra lui e Cardia, si era
allontanato abbastanza dalla loro zona da permettere al compagno di
percorrere un bel po' di strada completamente indisturbati; infatti,
quando le pattuglie sparse per la città che Cardia non
riuscì ad evitare informarono i loro colleghi che dell'auto
che stavano inseguendo ne esisteva una gemella, per loro era troppo
tardi per recuperare il terreno perso.
-Sembra proprio che
gliela stiamo facendo, a quei fottutti sbirri!- esclamò
Cardia gonfio di soddisfazione, le parole che si mischiavano a quelle
di "Ace of spades" dei Motorhead rigettate dallo stereo.
-Non mettermi in
mezzo!- sbottò allora Degel, urlando per sovrastare il rombo
del motore e lo stereo a volume altissimo, e staccando gli occhi
dalla strada per portarli sul ragazzo lì vicino.
Troppo preso dagli avvenimenti e poi dalla corsa che gli stava
raggelando il sangue, era la prima volta che si ritrovava a guardare
quel ragazzo dopo che si erano parlati nella cella: Cardia aveva tutti
i muscoli in tensione, la pelle lucida di sudore, una mano sul cambio e
una sul volante. Era come se quello fosse il suo posto, quello e nessun
altro. Se Jorge lo aveva stupito per la sua abilità nello
sfrecciare veloce tra stradine strette ed ostacoli impossibili, Cardia
lo stava lasciando letteralmente a bocca aperta: non credeva che
potessere esistere qualcuno sulla Terra in grado di guidare
così, sembrava essere venuto al mondo solo per stare in una
macchina, con la sua guida spericolata, ma al contempo incredibilmente
fluida, con quell'eccezionale controllo che aveva nel tenere la strada
e l'istinto che lo portava a sterzare, frenare o accelerare con la
giusta intensità e proprio nell'attimo perfetto.
Era come se fosse talmente sicuro delle proprie mirabolanti
abilità da escludere la possibilità di qualsiasi
tipo di incidente, ma convenuto che una cosa del genere si adattava ad
una personalità più razionale e accorta come la
propria, Degel ammise che la spiegazione che calzava meglio a Cardia,
anche considerando le sue azioni precedenti, era che lui non sembrava
avere il minimo timore del pericolo, forse addirittura della morte.
Glielo leggeva in quello sguardo privo di logica che pareva azzannare
tutto ciò su cui si posava, in quelle labbra increspate in
una smorfia mista di eccitazione e compiacimento; ci passava la lingua
ad ogni curva, come se stesse gustando un piatto di cui andava matto.
Dal canto suo, Cardia
non si era accorto degli occhi indagatori di Degel su di sè;
e come avrebbe potuto, ora che l'adrenalina gli scorreva in corpo
irrorandogli di piacere ogni fibra del suo essere. Anche se quella
macchina non era nemmeno lontanamente paragonabile alla sua
principessa, il ragazzo era rimasto piacevolmente colpito di come la
crew fosse riuscita in così poco tempo a trasformare una
delle Mustang del Garage in una copia (almeno esteriormente) di quella
di Jorge. Era anche piacevole da gestire: il motore era settato quasi
alla perfezione, le sospensioni erano rigidissime e sembrava che
avessero addirittura installato un turbo che aveva tutta l'aria di
essere un signor TD04.
Faceva tanto caldo da
annebbiargli la vista (o forse era il suo corpo che scottava?), ma
conosceva quelle strade come le proprie tasche e l'istinto, come
sempre, faceva da padrone.
Si allontanarono
così dal centro città e Degel notò che
si stavano dirigendo verso una zona di periferia che sapeva di sud:
scritte in messicano, fast food di taco e prostitute dalla carnagione
olivastra. Aveva letto una volta del quartiere messicano di Los
Angeles, El Pueblo,
che era ciò che rimaneva dell'anima messicana di Los
Angeles, quasi una sorta di confine ideale fra le due culture che si
erano inevitabilmente intersecate fra loro, ma quella zona si trovava
nel centro storico della città, cosa che non era di certo il
posto alquanto malfamato in cui si stavano addentrando.
Attraversarono veloci
una grande piazza, frutto dell'incrocio di due vie principali, e
nonostante fosse completamente disorientato, lo studente
capì che il viaggio stava volgendo al termine quando la
guida di Cardia si fece meno frenetica, e soltanto allora lui gli
concesse un po' della sua attenzione: -Cosa devo farne di te, adesso?-
la voce profonda e gutturale lo faceva sembrare un predatore affamato,
tanto che Degel fu scosso da un tremito, sentendosi davvero come in
balia di una bestia.
Deglutì.
-E' da quando mi hai spinto in questa macchina che ci pensi e ancora
non ti è venuto in mente nulla?-.
Cardia rise di gusto.
Lo divertiva da morire come quel ragazzo riuscisse ad essere
irriverente anche quando stava tremando come una foglia. Doveva
ammettere che era rimasto molto stupito da quello che di primo acchitto
aveva giudicato come un francesino dalla puzza sotto il naso, che se la
sarebbe fatta addosso ad ogni sua occhiataccia; la puzza sotto il naso
ce l'aveva, sì, ma il coraggio e una buona dose di faccia
tosta non gli mancavano affatto.
Decise allora di non
rispondergli, di far sì che quello godesse un po' del suo
piccolo successo, perchè tanto la sua rivincita se la
sarebbe presa di lì a poco.
Degel però
capiva perfettamente la situazione e sapeva che il silenzio dell'altro
non era affatto da celebrare come una vittoria personale;
sospirò, guardando fuori dal finestrino, e per un momento i
pensieri andarono inspiegabilmente a sua sorella, ma fu subito
costretto a tornare vigile dal suono di una sirena che sembrava
avvicinarsi sempre più.
-Merda!-.
ringhiò Cardia battendò il pugno sul volante,
prima di tornare a schiacciare l'acceleratore e riprendere la corsa
sfrenata.
Degel si
agitò, cercando di capire da quale direzione potesse
provenire il suono, quando questo all'improvviso si zittì;
allora istintivamente cercò lo sguardo dell'altro ragazzo,
il quale stava biascicando tra sè e sè in
americano stretto qualcosa che Degel interpretò come
imprecazioni e parolacce varie.
Cardia sapeva bene
cosa stava succedendo, non era la prima volta che gli sbirri
ricorrevano a quel metodo: disattivavano le sirene, così da
confondere il bersaglio riguardo la loro posizione, e continuare
l'inseguimento con le loro diavolerie satellitari, per intercettare
così il nemico al momento giusto senza che questo avesse
avuto modo di capire il quando e il dove.
-Ah, figli di puttana,
così mi fate divertire ancora di più!-.
Non senza un brivido
di piacere, Cardia tornò nuovamente alla sua guida
spericolata, costringendo Degel ad arpionarsi al proprio sedile ogni
volta che ignorava un semaforo rosso, si gettava a capofitto in incroci
più o meno trafficati o in qualsiasi altra cosa che
diminuiva drasticamente le probabilità di farli uscire vivi
da quell'avventura.
Dei poliziotti ancora
nessuna traccia, ma non si poteva escludere il fatto che a quella
volante se ne fossero aggiunte altre.
-Cercano di
confonderci...- azzardò Degel, ma si rese contò
troppo tardi di aver servito a Cardia il cibo su un piatto d'argento.
-..Ci?!- fece infatti
lui, ridacchiando, e non perse occasione di scimmiottarlo, senza
dimenticare ovviamente l'accento francese: -...Non mettermi in mezzo!-.
A quelle parole Degel
sentì l'ira imporporargli le gote. -Pensa a guidare o farai
schiantare quest'auto!- sbottò imbarazzato proprio un attimo
dopo che Cardia ebbe evitato per un soffio un frontale con un
furgoncino durante un sorpasso parecchio azzardato.
Per tutta risposta,
l'Americano sterzò di colpo e la faccia di Degel
andò dritta a sbattere contro il finestrino.
-Ti conviene
abbassarlo, troppo caldo fa male, non lo sapevi?!- scoppiò a
ridere Cardia, mentre riportava l'auto nella direzione giusta.
-Merde!-
imprecò il francese massaggiandosi il naso. -L'hai fatto
apposta, maledizione!-.
***
Non percorsero molta
strada, che Degel, adocchiando lo specchietto, si ritrovò a
gridare il nome di Cardia all'improvviso e indicò una
volante che era appena sbucata da una stradina secondaria, proprio a
una ventina di metri alle loro spalle.
-Ah! Ah!-
esultò Cardia tirando fuori il braccio dal finestrino e
alzando il dito medio, diretto agli inseguitori. -Hanno fatto male i
conti e invece di sbucarci davanti eccoli lì a mangiare la
mia merda!-.
Degel si morse la
lingua. Perchè aveva avvertito il suo sequestratore del
pericolo imminente? Certo, Cardia lo aveva sicuramente visto da
sè o lo avrebbe scoperto in meno di un battito di ciglia, ma
la gravità della cosa era proprio l'atto in sè,
come se avesse voluto anche solo per un attimo ostacolare quelli che
erano i suoi salvatori. Cercò di convincersi con tutto se
stesso che il fatto che stesse giusto vivendo il momento più
emozionante della sua vita non fosse una buona e lecita motivazione:
lui non era fatto per cose del genere e prima la polizia lo avesse
tirato fuori da quell'inferno, meglio sarebbe stato per tutti.
Dopo aver superato un
negozio a luci rosse, Cardia prese la via di sinistra e prima che la
volante potesse fare la stessa cosa, rallentò di colpo ed
imboccò un vicoletto non illuminato, sparendo
così dalla vista dei poliziotti, ed entrò,
attraverso una saracinesca già alzata, nella più
totale oscurità.
Un rumore metallico,
fece intendere a Degel che la saracinesca alle loro spalle si stava
abbassando, e l'idea di rimanere chiuso al buio con quel pazzo
criminale non lo allettava neanche un po'.
Sentì
Cardia lì vicino che apriva lo sportello e scendeva
dall'auto; poco dopo, una lampadina al neon fece luce.
Degel si
guardò attorno: erano in una specie di garage grande non
più di una cinquantina di metri quadrati. Le pareti erano
intonacate di bianco e l'"arredamento" consisteva solamente in qualche
scaffale pieno di pezzi di ricambio e vari attrezzi da meccanico.
Accanto a loro c'era poi un'ordinaria Crysler di colore nero,
stranamente rimasta indenne dalle modifiche che Cardia e compagni si
divertivano ad apportare alle loro vetture, come aveva avuto modo di
notare dalle "eccentriche" macchine in cui era salito quella sera.
-Benvenuto in uno dei
nostri nascondigli!- fece allora Cardia, allargando le braccia
muscolose con fare sornione, mentre si allontanava dall'interruttore
che evidentemente era andato a premere poco prima. -..Davvero utili
quando serve da far sparire auto o seminare sbirri uscendo di qui dopo
aver cambiato macchina. Ne abbiamo un po' sparsi per tutto il
distretto, a prova di satellite.-.
Il fatto che quello
gli stesse confidando i propri segreti professionali non fece che far
preoccupare Degel ancora di più, perchè gli
lasciava intendere una cosa come: "Ti dico tutto quello che mi pare,
tanto quando ti ritroverai tre metri sotto terra o con i polmoni pieni
dell'acqua dell' L.A. River col cavolo che potrai soffiarlo alla
polizia".
-Beh?!-
esclamò Cardia -Scendi da solo da quella macchina o devo
venire ad aprirti lo sportello, principessa?-.
-Tu, brutto..- Degel
rimosse dalla mente i vari scenari di morte che la stavano
momentaneamente occupando e scese in fretta dall'auto, digrignando i
denti, per raggiungere l'altro di gran carriera. -Chiamami
così un'altra volta e...-
-..E?- lo interruppe
l'americano, divertito, arrivandogli ad un alito di distanza dalla
faccia. Era parecchio più alto di lui, per cui dovette
chinare un po' il busto per raggiungerlo, e la sua stazza possente non
faceva che rendere lo studente ancora più piccolo e indifeso
al suo cospetto.
Degel
rabbrividì.
Quegli occhi che erano
sempre riusciti ad ammutolirlo, ora ce li aveva così vicini
da sembrare di poterci entrare dentro, perchè erano di una
profondità rara, ma che sconcertava per la sua vuota
sconfinatezza. Cercare di capirli, di interpretare quella
vacuità, era come dover risolvere un enigma.
Difficile dire cosa
potesse esserci dietro tutte quelle fiamme che sembravano aver
consumato ogni cosa, ma che nonostante questo, bruciavano ancora con
violenza, come se per farlo non avessero bisogno che di loro stesse.
E insieme a tutto
l'odio e la rabbia che Degel stava provando per quell'americano, non
potè non essere investito da un moto di compassione per una
persona che sembrava non essere mai stata grata alla vita. Si diede
dello sciocco a pensare certe cose, a sciorinare conclusioni su un
ragazzo che aveva conosciuto poco più di un'ora prima, e che
probabilmente erano del tutto errate. Qualcosa però, come
una flebile voce dentro di sè, gli suggeriva il contrario.
Fatto sta che di nuovo
non fu in grado di reagire a quello sguardo e Cardia se ne accorse,
perchè prese a ridacchiare scuotendo la testa.
Quanto a lui, si
sentiva... bene. Le emozioni provate nell'ultimo paio d'ore lo avevano
fatto sentire più vivo che mai. Poteva sentire ogni muscolo,
ogni fibra del proprio corpo, irradiata da un assoluto senso di
onnipotenza: i polmoni sembravano aver raddoppiato le loro dimensioni e
ogni pensiero o movimento pareva andare al doppio della sua solita
velocità... Nemmeno quando era fatto della coca di Bill si
sentiva così.
Tutto era andato
secondo i piani, anzi meglio, grazie alla sorpresa che aveva trovato
dentro la cella. Gliel'aveva fatta a tutta la centrale di polizia, e il
pensiero che fosse stato tutto così facile soprattutto
perchè Millard non era riuscito ad essere padrone delle sue
emozioni, lasciandosi coinvolgere emotivamente dalla faccenda, nemmeno
gli passò per l'anticamera del cervello, tanto era il suo
compiacimento per le gesta appena compiute.
Ora doveva solo uscire
di lì con l'altra macchina e raggiungere la Base per
complimentarsi con tutta la crew per il successo ottenuto, ed
organizzare subito una bella corsa con amici e nemici per festeggiare.
E forse il giorno
seguente avrebbe chiamato Paul per farsi tatuare questa vittoria,
perchè tutti i ventidue tatuaggi che aveva sulla pelle
avevano ciascuno un preciso significato: una vicenda da non
dimenticare.
Era affezionato ad
ognuno di loro, ma in particolar modo al grosso scorpione che aveva
sull'avambraccio: il suo primo tatuaggio, che simboleggiava la sua
prima vittoria in strada. La ricordava come se fosse successo il giorno
prima, non c'era dettaglio che avesse dimenticato: il tifo dei ragazzi,
le vibrazioni dell'auto, l'adrenalina della corsa. Decidere il soggetto
del tatuaggio non era stata una cosa semplice, ma alla fine la scelta
era caduta proprio su quel simbolo che più di tutti
rimandava al suo triste passato. L'intento era quello di svuotare
quello scorpione del suo tragico significato, per riempirlo di uno dei
ricordi più belli e appaganti della sua vita.
Ora, quando guardava
quello scorpione, riusciva a collegarlo solamente al se stesso in
quanto street racer, in quanto leggenda delle strade di Los Angeles, e
non in quanto Scorpio. Era riuscito ad annientare il potere negativo di
quel simbolo facendone l'emblema della sua forza, perchè
quando gli avversari vedevano in gara la famosa Viper blu elettrico con
l'aerografia di uno scorpione d'orato sul cofano, già
sapevano che sarebbe stato difficile, se non impossibile, sottrarle la
vittoria.
Ma anche se i ricordi
non lo tormentavano più assiduamente come un tempo, quello
che aveva dentro era difficile da cancellare, e a ricordarglielo era
stato, ironia della sorte, proprio Russ Millard.
Descrivere quello che
Cardia provava per quell'uomo era difficile: anche se ce l'aveva messa
tutta nell'apprezzare gli sforzi del poliziotto nel cercare di
rimanergli il più possibile vicino dopo l'arresto della
Viuda de Negro, non riusciva a togliersi dalla testa che per rispettare
la sua promessa, Millard avrebbe potuto fare di più. Non gli
aveva perdonato il fatto di non essere stato il padre di cui Cardia
aveva avuto bisogno da quando, prima di prenderlo con sè, la
Viuda de Negro aveva trucidato la sua famiglia davanti ai suoi occhi.
Millard aveva giurato di proteggerlo, ma per motivi che Cardia non era
mai riuscito a spiegarsi, questo si era realizzato solo in qualche
visita e discussione con i servizi sociali affinchè venisse
affidato alle famiglie migliori in circolazione. Famiglie in cui non
rimaneva più di sei mesi a causa del suo comportamento
ingestibile. Tante volte si era sentito dare del criminale o
dell'indemoniato perchè sì, era un ragazzo
difficile, ma in parte questo suo atteggiamento aveva sempre avuto uno
scopo: persuadere Russ Millard che nessuna famiglia faceva per lui,
perchè l'unico posto in cui il ragazzino avrebbe voluto
stare era proprio accanto al poliziotto. Perchè quell'uomo
riusciva a capirlo, perchè era l'unico che in lui aveva
visto qualcosa di più che un fuoco distruttore, ed era stato
proprio quell'uomo ad indirizzarlo verso quella che era stata ed era
tutt'ora la sua via di fuga da tutta quella sofferenza e solitudine che
lo accompagnavano ormai da parecchi anni.
E quando Millard aveva
deciso di prenderlo con sè, era troppo tardi.
Ormai il suo scorpione
lo aveva reso un'altra persona, una persona forte, senza paura alcuna,
nemmeno quella della morte: quello che gli serviva per vivere era
proprio farsi beffe della vita stessa.
Consumava i suoi
giorni con ardore, consapevole che a causa del suo cuore malato non
avrebbe vissuto a lungo, infischiandosene di qualsiasi conseguenza,
facendo di tutto per non avere alcun rimpianto per quando fosse
arrivato il suo momento.
Ma, in
verità, chi avesse avuto capacità e coraggio di
osservare quel ragazzo con occhio più attento, avrebbe
capito che quello che lo rendeva così invincibile non era la
forza, ma il vuoto.
Ogni cosa dentro di
lui era stata consumata dalle fiamme, perchè se non c'era
nulla, non c'era nemmeno posto per la tristezza. Ed era per riempire
questo vuoto o, più probabilmente, per alimentare quelle
fiamme che oramai non avevano più niente da bruciare, che le
passioni forti, i piaceri carnali smisurati, erano diventati il suo
pane quotidiano, il combustibile per il fuoco che lo faceva sentire,
sebbene gli avesse tolto tutto, vivo.
E in quel momento lo
era più che mai. Godeva perchè il cuore gli stava
battendo in petto tanto forte da mandarlo in estasi, e più
passavano i secondi e più la cosa lo faceva sentire...
tremendamente bene, tremendamente vivo. Oramai era come se tutto il suo
sangue gli stesse ribollendo nelle vene, pompato da battiti sempre
più frenetici. Era la sensazione più bella del
mondo, era...
...Faceva
male.
Dapprima
cominciò come una sensazione spiacevole, poi crebbe
d'intensità, fino ad esplodere in violenti spasmi.
E il dolore cresceva,
e sempre di più.
Conosceva bene quella
sensazione.
E ogni volta trovava
ironico quanto dolore potesse seguire il piacere estremo, a volte senza
riuscire a percepirne lo stacco, tanto erano simili, proprio come se
quel male fosse uno degli stadi finali e legittimi del piacere.
Si arpionò
il petto, tirando la canottiera con le unghie: cercava aria, non
respirava più. Quei polmoni, che prima sembravano poter
contenere tutto l'ossigeno del mondo, ora erano come straccetti
stropicciati. Si ritrovò ad annaspare, cercando l'aria che
sembrava essere stata aspirata via dalla stanza, mentre il dolore
lancinante cominciava ad irradiarsi dal petto al resto del corpo. Poi,
si sentì cadere sulle ginocchia e la vista
cominciò ad offuscarglisi.
Infine, al dolore si sostituì l'incoscienza.
Innanzitutto mi
sento in dovere (questa cosa è diventata d'obbligo in ogni
capitolo, ormai!) di scusarmi con chi sta seguendo la storia per il
tremendo ritardo (manco voglio vederla la data dell'ultimo
aggiornamento xD) con cui è arrivato questo capitolo. Sono
desolata, ma ahimè ho davvero pochissimo tempo da dedicare
alle mie fiction! :'(
Ringrazio chi sta
tenendo duro e, nonostante tutto, ha ancora voglia di seguire questa
storia: apprezzo davvero tantissimo, non potete capire quanto!
Per
chi ci tiene particolarmente, poi, posso dire di avere pronta in testa
già la struttura dei prossimi capitoli, e metterli per
iscritto non ci vorrà molto :)
Di seguito, metto la traduzione delle parole (parolacce XD) in
messicano:
*Vete
a la verga: Vaffanculo/Vai a farti fottere.
**Ojete: stronzo.
***Pinche ojete: fottiti stronzo.
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