Mythoi Ellenika - I Miti Greci

di silencio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, Teogonia ***
Capitolo 2: *** Capitolo I, JULIAN ***
Capitolo 3: *** Capitolo II, Alexandros e Cassandra ***
Capitolo 4: *** Capitolo III, Sarasvati ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV, Il risveglio del Mito ***



Capitolo 1
*** Prologo, Teogonia ***


Mythoi  EllenikA
I Miti Greci





Prologo
Teogonia, Esiodo.





Mousaon Heliconiadon archometh’aeidein
Ai th’Heliconos echousin opos mega te zatheon te
Kai te peri kronon ioeidea poss’apaloisin
Orcheuntai kai bomon epistheneos Kronionos.

Cominciamo il canto dalle Muse eliconie                  
che di Elicona possiedono il monte grande e divino
e intorno alla fonte scura, coi teneri piedi
danzano, e all'altare del forte figlio di Crono;
Dal labbro alle Dive la voce scorre soave, infaticabile.
Cantan dei Numi la lunga storia, di Zeus Egioco e dei suoi,
cantan dei mortali, stirpe dolente, e dei Giganti.
Creatrici di dolci carole, figlie di Mnemosine, io vi chiamo:
Tersicore, Polimnia, Melpomene, Urania, Talia,
Euterpe, Erato, Clio, Calliope dolcissima,
Figlie di Zeus, l’amabile canto a me date.

In principio fu il Caos, e da egli furono Gea, madre dall’ampio seno, terra ove hanno sede uomini, Dei e tutte le creature; il Tartaro buoio e fondo; Eros dalla forte fiamma, bello fra i celesti, che doma tutti gli uomini e Numi ed ogni accorto consiglio; Erebo dolente e Notte, riposo dei mortali, giunsero in fine. Essi furono tutti generati da Caos. E dal caos fu il cosmo.
Erebo giacque in amore con Notte ed ella generò Etere ed Emera e Caronte, traghettatore d’anime. E poi Notte generò senza amorosa unione Moros il destino e Thanatos la Morte ed Hypnos il sonno, divini gemelli, Nemesi crudele vendetta, Momo la Colpa ed Eris la Discordia ed Apate ingannevole. E da Moros sorsero le tre sorelle Atropo, Cloto e Lachesi, le Moire ricamatrici.
Gea materna, per primo generò a se simile Urano dalle cerulea fronte, cosparso di stelle, che tutta potesse coprirla e fosse sede eterna dei Numi Immortali. E generò i Monti, sede gradita alle Ninfe, ed il Ponto che gonfia ed infuria, e da lui nacquero Euribia e Nereo padre delle Nereidi fanciulle.
Poi con Urano giaciuta, la Madre Antica generò l’Oceano profondo e Ceo, Crio, Giapeto, Mnemosine, Temide, Rea, Iperione, Tea, l’amabile Tetide e Febe dall’aurea ghirlanda. Ed in fine, funesto fra tutti, ebbe luce Crono, scaltro consiglio, odio paterno, fra tutti i figli il più tremendo.
In seconda unione con Urano, senza gioia d’amore, impeto di violenza, Ella generò i Ciclopi che hanno un solo occhio nella faccia, Sterope, Bronte ed Arge, questi i nomi dei fierissimi. E poi i Centimani terribili, Cotto, Briareo e Gige, cento braccia e cento teste.
Ma il Padre terribile sorte aveva per i figli, che ad ogni nascita nel Tartaro profondo li gettava.
Dell’opera triste godeva Urano Signore, e la Terra gemeva provata dal dolore, straziata dalla sorte dei figli amati; e un’arte pensò, una malevola frode, vendetta contro lo sposo violento.
Dal cinereo ferro, subito generò con rapido gesto una pietra, l’Adamantio, e da essa una gran falce estrasse. Convocò poi i figli Titani, e chiese loro, con forza nell’animo e tristezza nel cuore, di sollevare la mano contro il padre,che a lor danno rivolse per primo nella mente, ma nessuno di essi, per timore, si fece avanti. Soltanto Crono, signore del Tempo che scorre, allungò la mano, afferrò la sacra falce, e con rabbiose parole di crudele auspicio giurò alla Veneranda Madre.  E la Terra immane fu lieta.
E giunse l’ora in cui le stanche membra, vinte dalla stanchezza, si riposano. Urano giunse, bramoso d’amore per Gea Fertile, tutto incombette sulla terra, su lei si stese coprendola. Ma prima che l’amplesso potesse principiare avvenne l’agguato: Crono di soppiatto balzò, la manca afferrò del padre le gonadi feconde, impugnò con la destra la falce tremenda ed il Padre d’un colpo fatale evirò. E gettò il figlio i testicoli di Urano, nel mare azzurro così che potesse portarli via.
Ma non senza effetto fu il gesto; gocce stillarono le ferite che posandosi sulla Terra ella le accolse e col volgere degli anni da queste generò le Erinni terribili, e gli immani Giganti, e le Ninfe divine.
E dalle vergogne, nell’ondoso mare, da spuma sorse in ultimo soave fanciulla, presso Citera e poi Cipro in fine, ella giunse. Così nacque Afrodite la bella, di tutte le dee la più tremenda e dolce.
Fra l’urla di dolore, Urano dallo stellato manto, un male lanciò ai suoi figli; atto malvagio aveano compiuto costoro, e di questo, come per lui accaduto, un giorno essi ne avrebbero pagato il fio.  
E cosi avvenne che un nuovo sovrano ascese alla dimora ed al potere e Crono fu signore del nuovo mondo e dominò con scettro possente su tutti i Titani ed i loro figli.
Da Ceo in unione con Febe nacquero Asteria, Lelantos e Leto, signora della tecnica.
Congiuntosi con Euribia, Crio ebbe Astreo, Pallante e Perse.
Da Giapeto e Climene sorsero Atlante dalle possenti braccia, che sorregge tutto il globo celeste, Prometeo dalla lunga vista e l’immensa saggezza, Epimeteo e Menezio rabbioso.
Iperione si unì a Teia ed ella generò Eos dalle d’rosee dita, Elios luminoso sole e Selene bella luna.
Oceano e Teti, in amore congiunti diedero alla luce i fiumi che fluenti dissetano le terre dei mortali e le Oceanine fra cui, la più illustre fu Stige infera, che in unione con Pallante generò Cratos il Potere, Zelos l’Ardore, Bia la Forza e Nike la Vittoria da sempre compagni di Zeus.
In ultimo Crono prese in moglie Rea e da essi venne la stirpe dei Beati, Signori dell’Olimpo nevoso.
Sei ne generarono, grandiosi tutti in maestà: Poseidone Ennosigeo fu il primo, dal fremente tridente, ad egli seguì Ade il lugubre Sovrano, che sui morti e le terre marcescenti ha il dominio, Demetra madre gentile, che delle messi e dei raccolti fa dono a gli uomini, Estia del focolare, Era Leucolena, dall’occhio di Vacca, ed in ultimo Zeus Cronide che su tutti i Numi ha il dominio, il glorioso.
Ma Crono ebbe ad apprendere, e timoroso per le parole del padre, tenendo a se caro il seggio, maligne azioni commise anch’egli sui figli. Come il padre insegna, il figlio esegue. E fu così che il misfatto si fece: Crono ad uno ad uno, venuti che erano alla luce, ingoiò i figli, celandoli nel proprio ventre così che non avesse a subire la stessa sorte di Urano e nessuno di essi potesse mai ribellarsi.
Ma Rea chiomabella, molto sofferse ed in preda a dolore e pianto, con gemiti supplicò la Madre Antica d’aiutarla. Spirito di donna, cuor di madre, il dolore chiama pietà e compassione, e chi patisce il medesimo supplizio è più vicino.
Gea corse in soccorso della figlia suggerendole sordido inganno e Rea udì il consiglio che altro dolore portò in seguito.
Quando giunse l’ultimo figlio, Zeus Egioco, prese il fanciullo in morbide fasce Rea e in custodia segreta lo diede alle Ninfe presso l’Ida, che alto si leva sull’isola di Creta. Recatasi poi dal crudele sposo, ideatore di mali, al posto del divino fanciullo, una pietra avvolta in candidi panni diede a Crono e questi, ignaro, ingannato dalla Sposa e dalla Madre, ingoiò il simulacro.
Fra i dolci declivi dell’Ida Zeus crebbe, nutrito dal dolce latte della capra Amaltea dal vello d’orato, protetto dai Cureti astuti, che battevano sul ferro degli scudi onde coprire i vagiti del bimbo affamato. Li celato alla vista del padre che molto vede, il primo fra i Beati crebbe in forza e grazia e sapienza. Molte amanti ebbe per se, prole divina generò da esse; Metide, che fu moglie prima di Era, e da ella generò Atena divina, Mnemosine, madre delle Muse, Leto che generò Apollo e Artemide, Maia madre di Hermes, Demetra che partorì Kore Persefone. In ultima giunse Era, che dopo la liberazione ne divenne sposa e regina e da lei generò Ares, Ilizia ed Ebe.
Ma giunse il tempo in cui la madre richiamò il figlio ed egli, con la consorte Metide, obbedì all’appello. Con l’ausilio dell’astuzia femminile, desideroso di liberare i propri fratelli, Zeus ordì un piano per spodestare Crono astuto.
Con l’inganno Metide fece bere al sovrano Tempo un emetico maligno, che subito in spasimi e convulsioni aggredì il Potente. Ed egli, rotolando giù dal seggio indistruttibile, vomitò la santissima prole, che avea ingerito. Uno dopo l’altro, i Beati ritornarono alla luce ed insieme con Zeus fuggirono.
E fu guerra nei cieli, sulla terra, nei mari e sotto la terra. Tutto ne venne scosso di tremore e paura. Zeus, su consiglio di Gea, liberò dal Tartaro i Ciclopi ed i Centimani dopo lunga attesa, gettati ivi dai tempi di Urano e mai liberati. Ed essi forgiarono per lui la Folgore, arma invincibile, e con essa il Cronide si scagliò contro gli Dei Titani.
I due schieramenti contrapposti, da una parte gli Olimpi portatori di beni e con essi i Ciclopi ed i Centimani e quanti fra i Titani non sottostavano alla volontà di Crono, Prometeo ed Epimeteo, e poi i figli i Stige, e Pallante, Astreo e Perse. Dall’altro v’era Crono furente, con falce dentata, e tutta la stirpe sua e dei fratelli. Sull’Olimpo stettero i Numi, sull’Otri i Titani avversi. Di colpi su colpi si fece la guerra, grande disastro e dolore, e la Terra gemette.
Con la folgore ed il potere dei Centimani, tuttavia, Zeus conseguì la vittoria, ed il padre Titano, Crono Signore, rovesciato fu dal seggio celeste ed insieme ai fratelli e la loro genia gettati nel tartaro profondo e buio. Poi Poseidone eresse solide mura e spessi cancelli di metallo a chiuderne l’entrata sigillando i nemici degli Dei per l’eternità. A guardia delle porte i Centimani vegliano senza sosta.
Fu così che il nuovo regno ebbe inizio. i tre fratelli si divisero, per sorte, il mondo. A Zeus toccò il cielo, a Poseidone le mobili acque e ad Ade il regno che sotto la terra giace, luogo di morte.
Del canto questo è il termine, ma della storia, come e quando, troppo lungo è il racconto, che il tempo mortale mai basterebbe a colmare. Di come Prometeo, per amore degli uomini, rubò il fuoco a Zeus e per questo fu dal Padre incatenato alla roccia viva del Caucaso, divorato il suo fegato dal cane del Cronide, l’aquila sua implacabile o di Pandora che, prima donna, aprì lo scrigno ed il mondo a causa sua fu invaso da ogni sorta di male.
Questo e molto altro potrei dire, ma qui mi fermo. Il continuo spetta ad altri.








Free Talk:
Dunque, quanto sta scritto nel presente prologo e quanto seguirà nei capitoli successivi, quindi, in una sola parola, la storia per intero, non è nulla di che. Non è una storia a cui particolarmente tengo al momento, diciamo che la partii una sera ascoltando della musica, dopo aver letto lo storico libro di Robert Grave, I Miti Greci, da cui il titolo, e dalla noia che ultimamente mi ha pervaso. Quindi lo stile, che non è certamente il mio stuile solito, è decisamente e volutamente poco curato, la storia si evolve di pari passo alla scrittura e non c'è nulla di programmato se non le semplici conclusioni del racconto. Sentitevi dunque liberi, gentili lettori, di criticare, segnalare gli errori, le omissioni e quant'altro vi va, non mi offendo di certo, potete anche tacere, nemmeno in questo caso ne avrò a male. Potrei solo trarre beneficio dalle vostre parole.
La corrente sezione, Free Talk, la terrò per ogni singolo capitolo ove potrò esporre le debite spiegazioni, i ringraziamenti e quant'altro mi verrà in mente.
Concludo nel dire che il rpesente prologo è tratto, come suggerisce il titolo, dalla Teogonia dell'inimitabile Esiodo, una summa diciamo di quanto lui narrò. La parte iniziale, per quei pochi che non lo sapessero è una citazione dell'incipit direttamente in greco (non ho usato le lettere originali per permettere a chiunque di leggere). Forse son l'unica cosa davvero bella e significativa, proprio perchè non l'ho scritta io. Dico inoltre d'essermi preso alcune libertà nella composizione della storia delle divinità poichè molti sono i miti e discordanti fra loro, tanto da creare un enorme caos spazio-temporale peggiorato dalla presenza ingarbugliata di nomi e luoghi.
Tutti i nomi di divinità qui citate saranno presenti nella storia quindi son da tenere bene in mente, il proglogo stesso, inutile dirlo, è indispensabile al racconto. per chiarimenti o altro, basta contattarmi come recensione o sul mio profilo.

    Silencio

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Capitolo 2
*** Capitolo I, JULIAN ***


Capitolo I
JULIAN




Quando Julian si svegliò, la giornata parve iniziare come di consueto. Alle sei e quarantacinque precise la sveglia sul comodino cominciò allegramente a trillare come tutte le sacrosante mattine, ed esattamente come tutte le mattine Julian, infastidito dal suono di quel malefico aggeggio infrangisogni, tirò un calcio male assestato alla sveglia, mandando a sbattere dolorosamente l’alluce contro lo spigolo del comodino.
Ovviamente il dolore fu tale da farlo saltar per aria più che il botto di una bomba atomica scagliata nel giardino di casa sua.
Gettando un urlo disumano, il giovinotto balzò giù dal letto, e mentre con ambo le mani afferrava di fretta il piede ferito mugolando e guaendo, con l’altro saltellava come un povero scemo per tutta la stanza. Era proprio il caso di dire che il buongiorno si vede dal mattino, e di questo, Julian ne avrebbe avuta conferma di lì in avanti.
Intanto, svegliata dal trambusto, la madre di Julian, la dolce e zuccherosa Mary-Sue, si diresse con passo assonnato, sfregandosi gli occhi, nella camera del figlio. Aprendo la porta, le apparve la scena: una stanza di medie dimensioni, arredata in modo assai spartano con un letto a muro, un comodino, una piccola scrivania di legno, un armadio per gli abiti e delle mensole qui e lì, un gran tappeto che ricopriva il pavimento quasi per intero, di un accesissimo colore verde pisello, che faceva palesemente a pugni con l’intero arredamento (di color nocciola). E in ultimo, il caos. Un enorme, immenso, incommensurabile caos. Libri sparsi ovunque, sulla scrivania, sul tappeto, sulle mensole, e poi scarpe, vestiti spiegazzati alla meno peggio, cumuli di calzini, pacchetti di patatine e altra robaccia mezza smangiucchiata ovunque. Insomma, il disordine più totale… ah, dimenticava, in mezzo a tutto questo c’era anche Julian che saltellava come un povero scemo reggendosi un piede, ma questo l’ho già detto.
-J-Julian…?- disse lei, intontita, immobile sulla soglia.
Il figlio, udendo la voce della madre, si girò di scatto verso la porta, colto alla sprovvista. Mai azione fu più nefasta. A causa di un’impercettibilissima torsione del busto, l’equilibrio precario crollò definitivamente, portando giù nella rovinosa caduta anche Julian che, ahilui, finì a terra con un urletto parecchio acuto e certamente poco virile. Fortuna per il suo sedere che, indipendentemente da ciò che ne pensasse Mary-Sue, ci fossero un bel po’ di abiti da lavare, ben ammonticchiati per terra, che ne pararono l’atterraggio.
-Julian- ripeté la madre, con tono esausto e ormai del tutto sveglia. –Ma guarda che disastro... Quando imparerai ad essere più… più…-.
-Più ordinato? Più attento?- finì per lei il figlio togliendosi un calzino dalla testa, pensando nel frattempo a quanto la sfiga dovesse averlo preso in simpatia sin dalla nascita.
-Si…- rispose con un sospiro la donna. Lanciò un’occhiata nostalgica al suo pargoletto: ne scrutò ogni lineamento, dai capelli corti e lisci, di un biondo slavato, al viso magro e pallido, passando poi a tutto il resto del corpo, piccolo e magrolino, più da dodicenne che da quindicenne fatto e finito.
-Mamma, non è colpa mia. Io cerco di mettere in ordine, dico sul serio… ma in qualche modo sembra che sia il disordine a venire a cercarmi…- . Julian si alzò, si diede una sistemata veloce, tanto per riassumere un minimo di decenza. –Ora esci per favore, dovrei vestirmi-.
Mary gettò allora una fragorosa risata. –Cos’è?- disse con un sorriso sornione –Ti vergogni della tua mammina? Ti ho fatto io sai? Non c’è nulla di te che io non abbia mai visto!- e per sottolineare la cosa, tirando il naso all’insù, rise con fare civettuolo e palesemente finto.
Julian, avvezzo ormai alle sparate di quella psicopatica di madre, senza dir nulla, senza fare una piega, si diresse alla porta chiudendola in faccia alla donna, gridandole soltanto –Sono in ritardo!-.
Sopirò Mary da un lato dell’uscio chiuso. Suo figlio era cresciuto. Perduti erano i giorni in cui lo attaccava al proprio seno per allattarlo nel pieno della notte, lontani i tempi dei pannolini, delle pappine, degli abitini piccoli e graziosi, con cui lei lo vestiva a mo’ di bambolotto… fine di un tempo era quella e dei divertimenti di una giovane madre… ora giunta era l’adolescenza, gli sbalzi umorali, le prime cotte… Ed ecco che la sua mente, a quel singolo pensiero s’illuminò di nuova luce. In un millesimo di secondo, un’equazione le balenò: cotte adolescenziali = segreti imbarazzanti = nuovi divertimenti per una madre contorta. Con una risata degna di Satana, congiungendo le mani come e meglio di Montgomeri Burns, si diresse saltellando nella sua stanza. Per i prossimi anni aveva trovato qualcosa da fare, finalmente.
Dall’altra parte, al sicuro dietro le pareti della sua camera, Julian ebbe improvvisamente un brivido freddo, sudore diaccio gli imperlò la fronte e il cuore perse un battito. Il male era in agguato. Sua madre stava architettando qualcosa, lui lo sentiva, lui sapeva. Di solito si ritiene che il legame psicologico madre-figlio cessi una volta avvenuto il parto, entro la prima settimana o poco più. Nel caso di Julian e di Mary, invece, durava da ben quindici anni. Potrebbe apparire una bella cosa in una situazione normale, ma tenendo conto del particolare carattere posseduto dalla “dolce e zuccherosa” Mary-Sue, tanto graziosa quanto contorta, si può ben capire quanto molesta potesse risultare al figlio.
Con rassegnazione, il ragazzo vagò in giro per la stanza rovistando fra i mucchi di abiti, in cerca di qualcosa da mettersi per quella mattina. In fretta poi si sistemò, si pettinò i capelli alla meno peggio con le mani (odiava i pettini), cercando di darsi un tono tra il pettinato male e lo spettinato bene, inforcò lo zaino in spalla, prese le chiavi che stavano sul comodino e si diresse al piano di sotto, dove ad attenderlo stavano già la madre, il povero padre suo, vittima prediletta dopo lui da Mary, ed il fratello maggiore Charles.
Occorre, in questa sede, dare alcune piccole precisazioni su tale soggetto che risponde al nome di Charles Ali. Alto un metro e ottantasei centimetri virgola nove, spalle larghe ma non troppo, corpo atletico da giocatore di calcio, gambe muscolose, occhi nocciola (ereditati dalla madre), capelli neri e sguardo tra l’ingenuo e lo scaltro, Charles era quello che tutti definirebbero il tipico ragazzo dalle tre B: Bravo, Bello, Buono (Julian avrebbe volentieri aggiunto Bastardo, ma questo era parere poco considerato dalla gran parte). Tanto bello quanto astuto, sapeva tranquillamente passare da uno stato di malvagità pura, solitamente rivolta ai danni del fratellino minore, a uno di santità degna di Francesco D’Assisi e poco ci mancava lo si vedesse in quei momenti chiacchierare allegramente con gli uccelli. Lui era un vincente nato, bravo a scuola, benché s’impegnasse il minimo indispensabile, bravo nello sport e in ogni altra cosa che faceva… ed inoltre, aveva un grande successo con il gentil sesso, di cui faceva allegramente uso e consumo, cambiando soggetto ogni due giorni o poco più.
Giunto in cucina il nostro non tanto fortunato protagonista, il signor Michael Ali, padre di Julian, rivolse al figlioletto un buongiorno molto strascicato; sulla fronte esibiva vistosamente un bernoccolo fresco fresco, sicuro regalo di buona sveglia da parte dell’adorabile mogliettina. Leggeva il giornale seduto a capotavola mentre, alla sua sinistra, Charles beveva il suo frullato ipercalorico quotidiano.
-Buon giorno sorellina…- lo salutò, con un sorriso smagliante del tipo “ti-vedo-in-uno-stato-di-cacca-ed-io-ne-gioisco-come-un-bimbo-a-natale”.  –Assonato, Julian? Hai fatto brutti sogni per caso?-
Julian non rispose, preferendo esser superiore e non cedere così alle vili provocazioni. Mary-Sue, che invece non aveva mai compreso il genio malvagio che il figlio maggiore certamente da lei aveva ereditato, rispose al posto del minore.
-Oggi Julian s’è svegliato male, credo abbia sbattuto il piede-… era abbastanza perspicace, anche se non sembrava.
-Oh povero piccino. Ma lo sai che se ti fai la bua puoi sempre chiedermi aiuto… a che servirei altrimenti; come fratello maggiore ho delle responsabilità nei tuoi confronti!- disse solenne Charles, mentendo spudoratamente.
Julian lo fissò con odio profondo prima di rispondere un secco –Posso farne a meno!-
Poi afferrò un toast, ingollò in fretta il suo succo d’arancia e, salutando mestamente la famigliola felice, uscì da casa per dirigersi al luogo dell’eterna tortura: la scuola.
Ritrovatosi nel cortile di casa, getto un’occhiata al cielo, era terso e azzurro, pochissime nuvole, candide come pezzetti di cotone lo chiazzavano qui e lì. La giornata era cominciata, perfettamente normale, perfettamente identica alle altre. In quel momento, un senso di completa noia mista a una strana tristezza lo afferrò. Quanto avrebbe voluto che la sua vita potesse assumere una svolta nuova, inaspettata, diversa da prima.
Non sapeva Julian in quel momento che molte forze erano in moto per realizzare tale desiderio.




Free Talk
Ecco a voi il primo vero capitolo del racconto (il secondo è già bello che finito, ma lo posterò la prossima settimana).
Come potete vederei toni cercherò di tenerli oscillanti  nel comico-facetto ed il serio, ciò dipendente anche dai personaggi o dall'argomento che in quel capitolo viene trattato. Spero di avervi rallegrati con questo inizio allegro e vediamo chi avrà il "coraggio" di seguirmi di qui in avanti.
Alla prossima.
    Silencio

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Capitolo 3
*** Capitolo II, Alexandros e Cassandra ***


Capitolo II

Alexandros ed Cassandra

 

 

 

 

-…e Demetra a tutti mostrò i riti misterici,
a Trittolemo e a Polisseno, e inoltre a Diocle,
I riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere
né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per gli dei impedisce la voce.
Felice colui – tra gli uomini viventi sulla terra – che
ha visto queste cose:
chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte
non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide
tenebre marcescenti di laggiù-.

Declamò il Gran Sacerdote di Demetra, Agapios Kerthomas, levando le braccia al cielo appena stellato. Li, fra le nubi aranciate del crepuscolo, un’aquila si levò in volo, lanciando il suo strillo acuto sopra la teste dei fedeli. Quello, pensò Agapios, era certo un segno di Zeus che, con Demetra e tutti gli Olimpi, aveva accettato le offerte.
Lui, ormai ultra ottantenne, quasi non si reggeva in piedi, schiacciato dal peso degli anni e dalla profonda esperienza accumulata. Dietro ogni sua ruga si celava un sorriso, un urlo rabbioso, o un gemito di pianto. Le dita ormai secche come rami, tremavano, vinte dalla malattia. Il suo tempo, lo sapeva, stava per concludersi. Ma prima che le Moire implacabili recidessero il filo della sua esistenza ed Ermete ctonio giungesse a prenderlo per condurlo all’Ade, nel suo cuore uno strano presagio pian piano, da qualche giorno, stava prendendo forma. Sentiva che presto sarebbe accaduto qualcosa di grande e che la sua vita, il suo consiglio, la sua devozione, fossero indispensabili affinché ciò che stava per verifica giungesse a corretto termine.
Volse uno sguardo alla piccola folla, inchinata ai suoi piedi. Erano pochi, meno di un centinaio, gli ultimi rimasti e li conosceva tutti, molti di loro li aveva visti nascere, figli di quelli che con lui avevano operato l’ultima grande impresa, scalato il Sacro Olimpo e reso grazie agli Dei secondo il rito che da secoli, la comunità dei Fedeli compiva. Ma da allora eran già trascorsi settant’anni.  La comunità era diminuita drasticamente, e ora restava solo lui a serbare gelosamente le memorie, la conoscenza di una verità oscurata da secoli d’ignoranza, presunzione e paura.

Con gesto solenne, fissato come ogni altro nella mente del vecchio sacerdote, afferrò il coltello sacro, posto sull’altare, si avvicinò alla pira ove l’offerta abbrustoliva, un grosso bove dal vello candido, e cominciò a tranciarne brandelli, cotti e fumanti, distribuendoli ai vari fedeli, a uno a uno finché le carni non fossero state tutte consumate e le ossa e il grasso e gli intestini, consumati dal fuoco.  Nel compiere il rito, non poté non pensare a chi quel dono sacro del fuoco aveva fatto, divenendo egli steso animale da sacrificio, subendo la collera del Cronide Padre. A lui con tutto il cuore fu enormemente grato.
Quando, alcune ore dopo, del bue non rimasero che pochi brandelli e le ossa, avvinto tutto ormai dalle fiamme, Agapios terminò la preghiera di ringraziamento e andò a cambiarsi le candide vesti, macchiate del sangue del sacrificio.
Al suo fianco, per aiutarlo v’era Daphne Galanaki, Melissa di Demetra presso le restanti vestigia di Eleusi. Con lei stava la figlia in apprendistato, Cassandra. Per lei, lo ierofante Agapios provava un grande amore, come quello di un nonno. Egli l’aveva vista nascere, insieme al fratello gemello Alexandros, e da subito, appena incrociatone l’infantile sguardo, aveva percepito che in lei più che in ogni altro membro della comunità brillava la fiamma della divinazione. Lei un giorno, ne era certo, avrebbe fatto rivivere nel cuore degli uomini l’amore per gli Dei Olimpici.
Adesso la bambina aveva sedici anni. Quasi una donna nell’aspetto. I capelli biondi e lunghi, le incorniciavano il volto dai tratti gentili e delicati, la pelle era scura, tipicamente mediterranea, e il corpo già mostrava i segni di un futuro di donna florida e bella. E fra tutte queste belle caratteristiche ve ne era una che le superava: gli occhi, di uno strano colore grigio, dallo sguardo dolce e vagamente malinconico, emanavano una luce unica, soave e bella. Lei era nata sicuramente sotto il favore di qualche santa dea.
Dentro la tenda, montata per quell’occasione, Agapios si cambiò d’abito, tornando a indossare i consueti pantaloni e la sua amata camicia a quadri, immergendosi nuovamente in quella che definiva “la tediosa ma amata normalità presente”.
Fuori dalla tenda, intanto, Alexandros attendeva l’uscita della madre e della sorella. Appoggiato a un vecchio olmo, fumava di nascosto una sigaretta. Lentamente gustò l’acre del fumo nella bocca, sapore che di rado poteva saggiare dato il ferreo proibizionismo di sua madre. Da quando il padre dei gemelli era andato via, divorziando dalla moglie, Daphne era diventata sempre più rigida, imponendo ai figli regole su regole fin quasi a trincerarli dentro casa. Alek non sapeva spiegarne il motivo… Cassandra, che era fra i due la più saggia e riflessiva, soleva dire che un simile atteggiamento era dovuto all’assenza, quella del padre, che Daphne in tutti i modi, senza farlo notare, cercava di colmare. Alek, non ne era sicuro, e in fondo nemmeno gli importava. Era, dopo tutto, colpa di Daphne se suo padre era andato via. Era lei quella che mentiva sempre al marito.
Rivolse uno sguardo distratto al cielo, ormai oscurato dalla notte. La falce lunare splendeva quieta lì appesa, come un grande diadema. Sua madre certamente avrebbe detto che la dea Artemide quella sera era propizia, ma lui non sapeva se crederci. Gli sembravano solo storielle da bambini e null’altro. Lo stesso Agapios gli appariva come un povero vecchietto, legato ai bei tempi che furono, troppo arretrato perché modernizzi. Nel nuovo millennio non c’era posto per i fantasmi.
-Alek- la voce delicata da uccellino della sorella gli giunse alle spalle, prendendolo di soppiatto. –Stai fumando Alek? Sai che la mamma non vuole-.
-Tsk.. sai che mi frega…- disse spezzante, ma spense comunque la sigaretta.  –Allora, ti sei divertita? Piaciuto il sacro rito agli Olimpi?- fece sarcasticamente ieratico, scimmiottando Agapios.
Cassandra non rise. Non rideva mai molto da quando il loro padre era andato via. –Non male. Come sempre… è il mio futuro del resto-.
Alek non poté frenare uno scatto d’ira a quelle parole, non tanto per il senso, che comunque lo ripugnava, ma per il tono usato dalla sorella: freddo, distaccato, quasi disinteressato.
-Ti fai sottomettere così Cassandra? Esegui senza battere ciglio gli ordini di nostra madre e di quel vecchiaccio idiota?-.
Cassandra non rispose subito. Guardò prima un punto inesistente al suolo. –Io faccio solo ciò che è giusto Alek… dovresti provare a farlo anche tu… al volere degli Dei non si scappa-.
-Me ne fotto!- quasi gridò Alek. Era disgustato, arrabbiato, triste, spaventato. Lui, che amava la libertà come suo padre, che desiderava un futuro avventuroso, che forgiare giorno per giorno secondo il proprio volere, lui che desiderava più d’ogni altra cosa l’esser libero di decidere e, all’occorrenza, anche cambiare idea, mal sopportava un futuro già deciso, già programmato da altri. E che questi altri fossero i parenti, i capi della comunità o gli Dei, poco gli importava. Nessuno aveva il diritto di decidere per lui o per la sorella.
La mano delicata della sorella gli accarezzò d’improvviso i capelli bruni. Quel gesto materno lo fece calmare. Sua sorella, l’unico essere sulla terra che lo conosceva meglio di ogni altro, l’unica persona cui mai avrebbe rinunciato. Erano nati lo stesso giorno, segno infausto secondo i più anziani della comunità. E da quel momento, proprio come nel ventre materno, mai si erano separati. Facevano tutto insieme. E mai si sognavano d’esser divisi il futuro, mai lo avrebbero voluto e Alek in particolare, mai avrebbe permesso che una cosa simile occorresse. Mai.
-Alek, non temere per me. Io mi fido degli Dei… prova a fidarti anche tu per una volta-.
Alexandros sospirò esausto e rassegnato. Non poteva fare altro. Se questo era il destino, qualunque azione avrebbe compiuto sarebbe valsa a nulla. Se era la volontà di Cassandra, lui doveva rispettarla.
-Alexandros, Cassandra, sbrigatevi, dobbiamo andare- da lontano la voce della madre li raggiunse e i due gemelli, mano nella mano, si incamminarono verso l’auto, pronti per tornare a casa, ignari delle trame che il destino stava intessendo con le loro e con le vite di altri giovani.    

 

 

 

 

 

Free talk

 
Ecco il secondo capitolo, come promesso. Ringrazio da subito quanti hanno letto o stano leggendo. Per i prossimi capitoli (due o tre), presenterò i vari personaggi. Dunque questa prima parte fungerà da premessa ed introduzione alla storia vera e propria. Mi auguro, come ogni buon “autore”, che il presente ed il passato capitolo suscitino un minimo di interesse o divertimento (questo è solo divertimento, per me, e spero anche per voi, nulla di impegnativo, ci tengo a ribadirlo).
Alla prossima, cari lettori e lettrici.

 Silencio

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Capitolo 4
*** Capitolo III, Sarasvati ***


Capitolo III
SARASVATI

 

 

 

-Signorina Utti… Utti… eh, mi scusi, non riesco bene a leggere il suo cognome… come si chiama lei?- esordirono l’anziana e grassoccia docente, l’elenco dei nomi alla mano.
-Uttishtha Sarasvati- rispose lei, annoiata quanto mai. Sempre la solita storia, dopo tutto; mai che qualcuno riuscisse bene a pronunziare il suo cognome… eppure aveva a che fare con gente che leggeva l’Iliade in greco con la stessa facilità con cui si potrebbe leggere la favola di Cappuccetto Rosso.
–I miei genitori venivano dall’India- precisò.
-Oh... beh, sì, immaginavo- disse la professoressa, cercando di dissimulare l’evidente imbarazzo con una bella risata. –Sarò breve, l’ora è tarda e credo che entrambe dovremmo rincasare…-.
Sara concordò, almeno mentalmente, con la donna. Pregò Vishnu perché accelerasse la lingua della docente più del solito e non la facesse perdere in loquele inutili e dissanguanti.
-Dunque, signorina, devo innanzitutto congratularmi con lei per gli ottimi risultati ottenuti durante l’ultimo test. Ne sono rimasta assai sbalordita e compiaciuta. Lei ha i voti più alti di tutta la classe al momento, almeno nella mia materia. Per questo motivo ho deciso di selezionarla per uno studio sul campo-.
-Studio sul campo?- chiesto la ragazza perplessa. Sperava non le stesse per proporre un ampliamento del suo già gonfio curriculum universitario con qualche altra materia d’approfondimento. Le mancavano ancora parecchie materie alla laurea, troppe per la verità, e se a questo si fosse aggiunto che meno di un ventotto non accettava, era presto deducibile che avrebbe impiegato un’eternità per laurearsi.
-Si signorina, uno studio sul campo. Lei lavorerà come stagista per due mesi presso un’area archeologica di recente scoperta. Il responsabile dell’area (un mio carissimo amico), sta cercando giovani e volenterosi laureandi, e mi ha chiesto un piccolo aiuto… stia tranquilla, le gioverà molto quest’esperienza, inoltre peserà notevolmente sul voto di laurea…- si affretto ad aggiungere.
-E dove si terrà questo “stage”?- chiese allora Sarasvati, più preoccupata che altro… nell’osservare il sorriso stirato in quella faccia tonda e malamente truccata, provava uno strano, forte timore. -Oh beh, in Grecia, naturalmente!-.
 
***
 
Quando Sarasvati rientrò in casa erano da poco passate le tre pomeridiane. Con uno sbuffo richiuse dietro di se la porta, appese le chiavi al gancio e si diresse spedita in camera sua. Si sentiva stanca, distrutta. Le rimbombavano ancora nella mente le parole della prof di archeologia classica.
Era fregata. Letteralmente, irrimediabilmente, inopinabilmente fregata. Il suo sesto senso non sbagliava mai. L’uomo ragno era una sega al confronto suo.
Aprì la porta della sua stanza facendo sbattere violentemente la porta. Nel bel terrario in rete, adagiato su di un ramo, Socrate il camaleonte sobbalzò un secondo, gettò un rapido guardo alla sua padrona (particolarmente nervosa) per poi rivolgere tutta la propria attenzione alla pianta che gli stava innanzi, trovandola, a quanto pare, assai più interessante.
Senza perdere altro tempo, la giovane ragazza si gettò pesantemente sul letto, scaraventando la borsa carica di libri e appunti da qualche parte nella stanza.
Non poteva ancora credere di aver detti di si, alla professoressa. Come aveva potuto farlo? Insomma, lei aveva un sacco di cose ancora da fare: doveva darsi delle materie a breve, aveva le lezioni di karate (e di certo il maestro Sakamoto non avrebbe accolto di buon grado un’assenza prolungata di due mesi), aveva Socrate di cui occuparsi e… e tante altre ragioni. No, non poteva partire, non poteva lasciare tutto così, all’improvviso.
Estrasse dalla tasca la lettera consegnatale dalla docente. La fissò allungo, senza leggerla.
-Krisna, aiutami tu!- esclamò al fine, esausta.
Certo, era necessario confessare che, almeno una parte di lei, una piccola piccolissima parte molto in profondità, gioiva della cosa. Lavorare sul campo, presso uno scavo di recente scoperta, accanto ad esperti archeologi era assai allettante. Chiunque ne sarebbe rimasto elettrizzato. Solo uno stupido (e lei si dava il caso non lo fosse) avrebbe mancato volontariamente una simile occasione. In oltre, doveva ammettere che una “vacanza” le giovava proprio. Sarasvati, alla veneranda età di ventidue anni, non aveva una briciola di vita sociale. Da quando era stata ammessa all’università, aveva dedicato corpo e mente allo studio, incessante, senza sosta. Il karate era il suo unico sfogo, la sua sola distrazione. Tutto il resto era composto di libri. Certo, le occasioni non le erano di certo mancate; ai primi tempi, molti erano stati gli inviti e le proposte ricevute, ma lei aveva sempre declinato, e dopo le prime insistenze, i suoi colleghi in facoltà o in palestra, avevano lasciato stare. Solo Monica, la sua sicuramente poco studiosa coinquilina insisteva ancora. La sua tenacia era pari soltanto alla sua immensa, smisurata vanità.
Era bella Monica, fisico sensuale, capelli lunghi e sempre ben pettinati, occhi azzurri. La classica Barbie insomma, e della succitata bambola possedeva anche le facoltà intellettive. Civettuola, vanesia, pettegola, esperta in makeup e ogni sorta di griffe, sembrava essersi diplomata alla Luis Vuitton High School, perfettamente capace di giudicare una persona guardando più le scarpe che indossava piuttosto che il carattere. Sara continuava ancora a chiedersi come fosse possibile che, una ragazza del genere, le fosse diventata amica… anzi, ironia della sorte, la sua unica amica.  Erano così diverse, dopotutto. Monica era bella ed affascinante, oltre che popolare. Lei, invece, era ordinaria o anche meno. Non era bella e affascinante, non era simpatica, non era popolare e faticava nel costruire rapporti umani che andassero oltre il mero “buongiorno”.
Con gesto lento, si passò la mano fra i lunghi capelli scuri, così ricci e intricati da costringerla a tenerli legati saldamente in una treccia. La pelle era liscia ma scura e il volto possedeva gli inconfondibili tratti della sua razza, caratteristiche che lei per prima definiva “brutte”.
Sarasvati, era sempre stata (o almeno cercava di esserlo nei limiti umani del possibile) onesta e neutrale. Amava dire le cose come stavano e basta, per quando difficili da ammettere. Non faceva nulla eccezione, soprattutto la sua persona e il suo lavoro, verso il quale era molto critica.
Un forte tonfo sordo proveniente dall’ingresso le annunciò il rientro della coinquilina. Entro pochissimi minuti l’avrebbe vista piombare in stanza con fracasso, strillando come un’ossessa per la sua ennesima conquista (Sara amava definirli più realisticamente “vittime”), sciorinando per filo e per segno ogni dettaglio, dal più inutile al più piccante senza staccare un secondo, nemmeno per riprendere fiato (e, Sara ne era certa, passando dalla respirazione polmonare a quella dermica come gli anfibi).
Chissà, si chiese un secondo prima che le sue previsioni si avverassero, come avrebbe preso Monica la notizia della sua imminente partenza…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Free Talk:
Chiedo scusa per il ritardo, ma forze a me superiori mi hanno impedito la pubblicazione del presente capitolo nei tempi previsti.
Dunque, questo è il l’ultimo capitolo di “introduzione personaggi”. Quelli che verranno poi, saranno presentati durante lo svolgimento della storia. Con il prossimo, dunque, ha inizio il vero e proprio racconto.
Ring razione piccolalettrice e Haruakira per aver letto e commentato la storia. Spero di non deludere le vostre aspettative né col presente, né con i prossimi capitoli.
Un grazie anche a coloro che, pur restando in silenzio, hanno letto e continuano a leggere il racconto. Spero di emozionarvi nelle pagine che da qui in poi seguono.
Grazie ancora.
 
        Silencio
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV, Il risveglio del Mito ***


Capitolo IV
Il risveglio del Mito
 
 
 
Buio. Fondo, eterno, incolmabile buio. Né terra, né cielo stellato, né monti o alberi, né ruvide rocce. Non v’era nulla in quel luogo. Solo lieve nell’aria si ode un lento frusciar di stoffe e legni che ritmicamente battevano. Curve figure di donne dalle scure vesti si stagliavano in quell’infinito abisso. I volti coperti da veli, sedevano su scranni invisibili. Delle loro fattezze nulla si mostrava, né il minimo lembo di pelle era scoperto; solo le mani emergevano dalla coltre di pieghe. E come fra loro erano diverse! Se la prima, che a sinistra stava assisa, possedeva mani piccole e delicate come di bambina, la seconda robuste mani candide e buone di una madre, l’ultima a destra, rattrappite e grinzose le dita simili a rametti ritorti mostrava, così cadaveriche che impossibile quasi pareva che la vita potesse animarle ancora.
Molti erano i loro nomi, da altri attribuiti e mai da loro. Figlie di Moros il Titano, antiche più del mondo e degli dei stessi, al di sopra di Zeus esse operavano. Da quando il tempo era sorto, esse incessantemente dedicavano la loro vita all’opera somma, la più grande delle narrazioni, il più bello di tutti gli arazzi, la vita stessa, esse cucivano e scucivano i fili del destino di uomini e Dei. 
Veloci le dita nel dipanare i fili dal fuso, svelte mani misuravano e tramavano, rapide lame recidevano. Così la vita degli uomini nasce, cresce e decade. Così ogni cosa di questo mondo. Le figlie del fato imparziali, che non udivano né preghiere né suppliche, non temevano minacce, sapevano prima di tutti gli esseri ciò che doveva accadere.
Là, nella tenebra fonda esse lavoravano incessantemente, senza sosta, incuranti di tutto. Per l’eternità.
E Cloto, dalle mani di bambina, parlò con foce acuta e fievole, quasi un bisbiglio.
-Quale luce è quella luce? Già spunta il giorno? Che cosa scorgo alla fine?-.
Lachesi, la madre misuratrice, rispose col righello in una mano e la spola nell’altra. –Non è il giorno che spunta, il sole non ha motivo di sorgere ancora. Vedo fiamme intorno alla cuspide dell’Olimpo-.
-È il principio di una fine, e la fine di un principio- rispose con roca voce la terza, Atropo la terribile. Con colpo secco e rumore metallico recise il filo di una vita umana. –Su sorelle, cantiamo e filiamo-.
Ed in coro le loro voci si levano nella vastità non più silenziosa.
-Vada come vada, noi cantiamo legando stretti i fili di questa vita. Tutto possiede inizio e termine, nulla si salva dal Padre divoratore-.
E intervenne Cloto. -Da quando Gea spodestò Urano, il Tempo scorre per tutti gli uomini meno che per gli dei. I Beati non conoscono morte né sofferenza, non temono nulla se non i propri pari, e Zeus nessuno teme, poiché nessuno è pari a lui.
Padre di divina stirpe egli domina da lunghissimi anni innumerevoli.  Potere e Forza siedono al suo fianco, Vittoria ne precede il passo. Egli è Re di tutte le cose. Con la destra impugna la Folgore gloriosa, arma ciclopica. Con essa spodestò il padre; con essa impone il suo dominio.
Quando il Forte ascese al trono, della prole sua divina fu orgoglioso e di loro subito si ricordò ricompensandoli con mille e mille doni. Ma dei tristi mortali, essi non tenne di conto, tosto volle annientarli. Ma un Saggio, Colui che lontano vede, si oppose al volere del Divino, e con l’inganno salvò da rovina gli uomini- cedette poi il filo alla sorella. –Non vedo, non vedo oltre sorella. Canta tu, fila adesso-.
Lachesi, con rapida mano afferrò il filo, veloce lo misurò.
-Il Savio incatenato resta, per il suo vile peccato- iniziò a cantare. -Chi inganna il Padre non ha scampo. Terribile è la sua vendetta. Violento è e padrone del giusto.
Gli uomini fioriscono e dominano la terra, dimentichi del cielo, dimentichi degli dei. Insozzano la loro memoria, insultano ed uccidono i loro fedeli. Si macchiano d’orridi peccati. Sputano sul sacrificio compiuto dal Portatore di Fuoco. Attirano su di se la collera del cielo. Ambiscono al trono e all’Olimpo. Ma la punizione non attenderà oltre. Il Sommo Signore, furente, è pronto a riparare al danno. Purificherà la razza degli uomini col fuoco della folgore e la potenza del tuono. Le porte dell’Ade si spalancano. L’Oscurità avanza. Il male è già desto… ma ecco, la visione a me scompare. Ora non vedo più nulla. A te, Atropo, amata sorella, tocca continuare il canto-.
Il filo scorse e giunge nelle mani ruvide e secche di Atropo, colei che recide. Lei lo afferrò con dita tremanti e malferme.
-La fine giunge per tutti. Per gli uomini e per gli dei. Arriverà il giorno in cui il tempo scorrerà avverso ai Santissimi, e il Forte dalla folgore gloriosa, precipiterà con vergogna dal cielo. A nulla varranno le sue proteste. La Madre piange misera le sfortune dei propri piccoli. Non passerà nulla impunito per lei. Come per il padre, così per il figlio. Non si fugge al destino. Il Fato domina su tutte le creature. Non si fugge al destino-.
D’un colpo fermo e crudele, la Terribile recise il filo. Uccise una vita. Non ne provò compassione.
In coro ripresero il canto.
-Il tempo scorre. Il tempo scorre. Il tempo scorre. Inesorabile muove, come il fiume alla foce. Nulla si salva, nulla si cela alla sua vista, nulla lo vince. Anche gli Dei piegheranno innanzi a lui…-.
D’un tratto si fermarono, osservando il filo, sorprese. Il loro lavoro millenario s’arrestò per la prima volta. Il filo era terminato. Non v’era più lana nel fuso.
-Finito!- disse Cloto.
-Finito- sussurrò Lachesi.
-Finito…- imitò Atropo. –Finito l’eterno sapere. Al mondo annunziamo più nulla. Giù, alla Madre!-.
Le tre Sorelle s’alzarono dai loro seggi svanendo nell’ombra, dissolvendosi come un miraggio.
Tutto tornò silenzioso e vuoto.
 
***
 
Stava su una rupe, sopra di lui il cielo era nuvoloso come di pioggia, ma le nubi erano rosse di fuoco. Sotto si lui, una grande e polverosa piana, un deserto roccioso, e ivi mille e mille guerrieri combattevano in gran massa una guerra sconosciuta. Urla e clangore di spande si spandevano nel vento violento mentre il sangue arrossava la polvere. Al suo fianco delle persone; una ragazza dalla pelle scura e una lunga treccia, arco in pugno e freccia incoccata, un ragazzo, alto e bello, dei lineamenti forti e un accenno di barba e poi un terzo ragazzo della sua medesima età o forse più piccolo, dai capelli biondi e il viso magro, portava tondi occhiali e sembrava spaventato. Fissavano tutti la piana sottostante con paura e apprensione.
Dov’era? Che stava accadendo? Chi erano quei tizzi?
Cercò allora di parlare, di rivolgere ai giovani al suo fianco le domande che affollavano la sua mente, ma le labbra non si mossero, incollate fra loro non si aprivano, non gli permettevano di parlare. Doveva tacere. Tacere e guardare quella sanguinosa e terribile battaglia, mentre in cielo una tempesta di fulmini scoppiava fra le nuvole.
D’un tratto, la voce calma della sorella lo chiamò ed egli, girando lo sguardo lontano dalla guerra la vide, ammantata di luce bianca, i capelli sciolti. Una tunica le fasciava il corpo, scura come il corvo. Gli occhi erano spenti.
-Sorella- la chiamò stupito il ragazzo –che ci fai qui? Che accade? Chi sono quelli?-
Ma la fanciulla non rispose, non se ne curò minimamente. Disse invece, con voce lontana e possente, non più sua. –Preparati Aleksandros… Salvatore degli uomini… Il tuo tempo si compie ora... Nessuno può sottrarsi alla volontà degli Dei…-
E fu allora che, con un forte fracasso, Alek si svegliò mentre il sole, rapido, sorgeva ad est, tingendo di rosso il mondo.
 
 
 
 
 
 
 
Free Talk:
Alla fine ho deciso che, per farmi perdonare il ritardo della settimana scorsa, pubblicherò anche il quarto capitolo, appena ultimato. Spero che possiate apprezzarlo e che, la narrazione, da qui in poi, possa farsi (per voi e per me) ancor più emozionante o quanti meno intrigante. per chiarimenti o altro, non vi basta che chiedere.
P.S. il dialogo delle tre sorelle Moire, l'ho scritto traendo ispirazione da una delle opere liriche che più adoro: L'anello dei Nibelunghi di Wagner. Questo pezzo in particolare si ispira all'overture del quarto e conclusivo capitolo della saga "il crepuscolo degli dei".
Grazie a tutti.
 
        Silencio

 

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