Il regalo

di LauFleur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inviti ***
Capitolo 2: *** Natale ***
Capitolo 3: *** Ritorno ***
Capitolo 4: *** Caduta ***
Capitolo 5: *** Arretrati ***
Capitolo 6: *** Occhi lucidi ***
Capitolo 7: *** Scontri ***
Capitolo 8: *** Inizio e fine ***
Capitolo 9: *** Miraggio ***
Capitolo 10: *** Epilogo - Dieci anni dopo ***
Capitolo 11: *** Extra 1 - Prima volta ***



Capitolo 1
*** Inviti ***


Qualche mese fa scrissi questa One-Shot per un contest indetto da "Twilight Fanfic Contests", in occasione del Natale

Qualche mese fa scrissi questa One-Shot per un contest indetto da "Twilight Fanfic Contests", in occasione del Natale. Mi sono affezionata fin da subito ai personaggi, soprattutto ad Edward, e ho assecondato la voglia di scrivere ancora di loro.
Questa fan-fiction sarà breve: in totale saranno 9 capitoli ed un epilogo.
Se qualcuno conosce già la OS la ritroverà nei primi due capitoli (che posterò a poca distanza di tempo l’uno dall’altro) e si accorgerà che è stata leggermente modificata. Le modifiche principali sono legate ad un “esperimento” che volevo iniziare già da un po’: scrivere al passato ed in terza persona.
Dedico questo ed i capitoli che verranno a chi ha letto e commentato la One-Shot, lasciandosi emozionare, ricoprendomi di complimenti e sperando in un seguito: eccolo, ed è in gran parte merito vostro.
Aggiornerò ogni lunedì, un capitolo a settimana.
Buona lettura!

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Capitolo 1 – Inviti

Era la mattina del ventidue dicembre.
A ricordarglielo ci pensava il calendario colorato appeso sopra il camino. Rosalie aveva aperto tutte le caselle ed aveva mangiato i cioccolatini che contenevano, fino a lasciare coperto il numero ventitrè. Era diventato il suo piccolo e felice rituale mattutino: si svegliava, apriva la casella del giorno e mangiava il cioccolatino con un solo boccone. 
Edward era sveglio da parecchie ore, ma gli occhi bruciavano ancora per il troppo sonno arretrato. Aveva fatto due lavatrici e i panni profumati erano stesi davanti al camino. Davanti al focolare che aveva acceso lui, accanto all'abete che aveva decorato lui, con l'aiuto di sua sorella.
Aveva messo in ordine le camerette, rifatto i letti con cura. Tutti tranne quello di sua madre, che era ancora lì dentro, soffocata tra le coperte, la testa nascosta sotto due cuscini.
Dopo aver dato una ripulita veloce anche alla cucina, si prese qualche minuto di riposo. Si staccò dalla sua vita, solo per un attimo, con la testa abbandonata sulla poltrona morbida e i piedi gelati vicino al focolare. Inspirò il profumo di detersivo, di pulito, di fatica.
A vederlo così, con gli occhi chiusi e il viso stanco, sembrava passata un'eternità. Ed invece erano solo tre mesi. Tre mesi da quella maledetta sera, tre mesi dalle lacrime, tre mesi dal più grande cambiamento. Forzato, subìto, inaspettato.
Aveva trascorso una giornata intera in biblioteca, impegnato a ripassare le ultime cose prima di dover affrontare il college. Pedalava come un pazzo per riuscire ad arrivare a casa in tempo per la cena. Perché in quella casa regnava il dovere della puntualità, non era ammesso neanche un minuto di ritardo. Perché è così che si fa in ogni famiglia che si rispetti: si cena tutti insieme, tutti sorridenti, tutti allegri, Com'è andata la giornata caro? Per favore mi passi l'insalata? Certo tesoro prendi anche un po' di patate.
Ma il sorriso in realtà era finto, era solo una maschera che tutti dovevano attaccarsi alla faccia per far contento il padre, il marito. E lui, quella maschera, non aveva mai avuto voglia di indossarla.
La stessa storia si ripeteva la mattina, a colazione. Lo scambio dei buongiorno, Esme indaffarata ai fornelli, suo padre che non rivolgeva loro nemmeno uno sguardo. Ma non era questo l'importante, quello che contava era stare tutti insieme e recitare al meglio la tua parte nella perfetta famiglia da spot pubblicitario. Poco importava se gli unici a rivolgersi la parola fossero Edward e Rosalie, poco importava se nessuno vedesse la faccia di Carlisle, sempre rintanata dietro il giornale spalancato. E non importava nemmeno che la loro madre avesse sempre lo sguardo fisso sul piatto, con il respiro affannato e le mani che le tremavano, di insicurezza e terrore. Paura di dire la cosa sbagliata, in un momento ancora più sbagliato. Paura di deluderlo, quel marito sempre impettito sul suo trono. 
E lui, Edward, non riusciva mai a stare zitto, non riusciva a non ribellarsi. Quell'enorme farsa gli era sempre andata troppo stretta. Perse il conto di tutte le volte in cui suo padre lo spedì in camera senza cena, con lo stomaco vuoto che brontolava e la bocca piena di parole amare. E riusciva a mettere in un angolo la rabbia solo quando sentiva sua madre che, durante la notte, saliva le scale in punta di piedi per portargli qualcosa da mangiare. 
Edward aveva passato l'adolescenza in punizione. Per aver parlato troppo, per aver preferito per l'ennesima volta la schifosa verità all'insopportabile recita, per aver lasciato a briglia sciolta quello che ormai era diventato il suo compagno di giochi: il sarcasmo.
A scuola era sempre stato in disparte, perso in un mondo che non apparteneva a nessuno se non a lui. Era il ragazzo solitario, quello con il libro in mano e i capelli spettinati. Ed andava bene così.
Era sempre riuscito a trovare un equilibrio fra tutte le cose che lo interessavano. Ed in quell’equilibrio ci faceva entrare anche le ragazze. I primi anni le cose non andavano benissimo, i pochi appuntamenti che riusciva ad ottenere li rovinava alla seconda uscita, se non prima, senza neanche riuscire a capire dove avesse sbagliato.
Ma poi era cresciuto, ed il suo corpo con lui. Non si doveva più sforzare per far colpo, per attirare una sguardo, per avvicinare una ragazza. Gli bastava essere quello che era, stare in disparte dov'era sempre stato, e le ragazze arrivavano da sole. Non era costretto a trascinarsi a feste idiote per rimorchiare, gli bastava sfoderare un sorriso sghembo, passarsi una mano tra i capelli 'di un colore che non avevano mai visto fino ad allora', al massimo aggiungere quant'era bravo a destreggiare le sue dita anche sui tasti di un pianoforte. Ed il gioco era fatto. 
Le quattro mura di casa traboccavano di problemi e quando ne usciva non voleva ulteriori complicazioni. Solo cose semplici, nessun rompicampo sentimentale. Solo parole dritte al punto, nessun romanticismo. Solo scopate, nessun amore.
Ma tutto l'equilibrio era stato spazzato via quella sera, nel momento in cui aprì la porta di casa e trovò sua madre accasciata sul divano, con le mani tra i capelli. Corse ad abbracciarla, straziato dal suo dolore e terrorizzato dall'idea di scoprire cosa fosse successo. Sua madre singhiozzava parole senza senso, lui continuava a ripeterle di calmarsi. Ed in tutto quel mare di lacrime e dolore, non riusciva non chiederle Dov'è Rose? Lei sta bene?, ma Esme non aveva la forza di mettere insieme una risposta. Dopo qualche bicchiere d'acqua ed altre cascate di lacrime, gli confessò disperata che Carlisle se n'era andato. Era tornato dal lavoro e, borbottando le sue solite parole tanto inutili quanto ipocrite, aveva fatto i bagagli per non tornare mai più. Aveva deciso di lasciare la sua moglie perfetta e la sua famiglia da pubblicità così, come un vigliacco. Il vigliacco che, in fondo, era sempre stato.
In quel momento scese le scale Rosalie, impaurita e confusa, che a sette anni era costretta a vedere sua madre a pezzi tenuta insieme soltanto dalle braccia di suo fratello. 
Fu quella la prima volta di una lunga serie in cui tutto quello che Edward voleva era solo tapparle occhi e orecchie, ed evitarle di vedere e sentire tutte quelle parole e quelle lacrime. Ma non poteva. Allora si limitò a stringerla, e tra le sue braccia fece posto ad entrambe le donne della sua vita.
Con le labbra premute sui capelli profumati di Rosalie ed una mano sulla spalla di sua madre, si vergognò quasi quando si accorse che lui non aveva bisogno di essere consolato. Lui non stava male, non era distrutto, non aveva voglia di piangere.
Lui era sollevato.
Carlisle se n'era andato, portandosi via le sue idee del cazzo, e forse per loro la vita sarebbe migliorata, forse avrebbero trovato una felicità tutta loro, fatta di risate sguaiate e cene consumate sul divano alle nove di sera.
Ad un tratto – lì, sul quel divano, abbracciando sua madre e sua sorella, immaginando suo padre lontano – Edward ripensò ad Esme, la vide con i suoi occhi di bambino. Quando ancora sorrideva, scherzava, correva. Passava interi pomeriggi a dipingere con suo figlio sulle ginocchia, canticchiando canzoni d'amore, aspettando con trepidazione il ritorno a casa del suo uomo. Ma quell'uomo negli anni cambiò, venne risucchiato dai soldi, dal lavoro, dalla sua merdosa clinica. E la mamma frizzante e piena di vita che Edward conosceva sparì. Il tempo e il matrimonio portarono via tanti pezzettini di lei, fino a lasciare nient'altro che un involucro, triste e vuoto. E adesso Edward sperava che quella donna sempre entusiasta e sorridente potesse tornare, come se non se ne fosse mai andata.
Ma si sbagliava. Niente migliorò, cominciò soltanto un altro orribile capitolo della loro vita. Un capitolo che lo costrinse a caricarsi sulle spalle una casa e una famiglia, a fare i compiti insieme alla sua sorellina ed a ripetere le tabelline con lei. Lo costrinse ad imparare come si fa una lavatrice, come si pagano le bollette e come si cucina un pasto per tre persone, che di solito restavano in due. 
Tutto questo perché lei non ce la faceva. Esme, sua madre. Da quella sera non smise più di piangere, non smise più di disperarsi, cambiò solo posto dove farlo. Da divano si trascinò nel letto e ci rimase per giorni, settimane, mesi. Si tolse la maschera che indossava quando Carlisle era lì con loro, ma nel frattempo si era scordata come si fa a sorridere, ad accarezza tua figlia, ad abbracciare tuo figlio. Si ricordava soltanto di quanto le piaceva la vodka e non faceva altro per tutto il giorno: si attaccava alla bottiglia, dormiva, piangeva, tornava alla bottiglia. Usciva di casa soltanto quando la sua migliore compagnia si svuotava ed Edward le urlava contro che nemmeno morto sarebbe andato a comprargliela. Ecco, in quelle occasioni Esme di sforzava, si metteva un giaccone sopra il pigiama ed usciva nel mondo, per tornare a casa solo qualche minuto dopo, con una bottiglia piena stretta tra le mani.
Non serviva a niente scuoterla, sgridarla, ripeterle che doveva farsi aiutare, che non si poteva scordare di essere una madre. Non serviva a niente nemmeno abbracciarla, coccolarla, consolarla.
Non serviva a niente, tutto restava uguale: Edward con il vomito di sua madre da lavare dal pavimento.

Lo sguardo si posò sull'orologio che portava al polso e, all'improvviso, i ricordi vennero spazzati via dalla paura di fare tardi: doveva andare a prendere Rose a scuola.
Afferrò il cappotto e le chiavi del lucchetto della bicicletta (Sì, una bicicletta... perché Carlisle si è portavo via l'unica macchina che avevano). La stessa bicicletta con cui l'aveva portata a scuola a settembre, il primo giorno del nuovo anno scolastico. Quella mattina era una piccola forza della natura, con il suo zaino rosso sulle spalle e le guance arrossate dall'emozione. Si rifiutò categoricamente di salire sul seggiolino attaccato al manubrio, costrinse Edward a smontarlo e a portarla sulla canna 'perché i grandi fanno così'.
Sorrise a quel ricordo e cominciò a pedalare.

Si appoggiò al grande cancello di ferro battuto proprio mentre il suono della campanella rimbombava tra le pareti della scuola e faceva spuntare grandi sorrisi liberatori sui visini allegri degli alunni. 
Ed eccola, Rose, che sbucava dal portone di legno scuro in mezzo all'enorme sciame di bambini. Edward riuscì a notarla tra tutte quelle piccole teste perché era l'unica a non correre. Parlava animatamente con un suo amichetto, gesticolava con foga, si sistemava i lunghi capelli biondi dietro le orecchie. Edward la guardò e non potè fare a meno di sorridere. Riusciva a meravigliarlo ogni volta, ogni giorno. Con la sua spontaneità, la sua vivace sincerità... tutto concentrato nella dolcezza di una bambina di sette anni.
Rose smise di parlare, di gesticolare, di sistemarsi i capelli. Alzò la testa e lo vide. Bello, alto, suo fratello. In mezzo a tutti quei genitori, mamme e papà, nonni, babysitter. Suo fratello.
La bocca le si spalancò in un sorriso largo quanto un abbraccio, alzò subito la sua piccola mano e la agitò per salutarlo.
Ecco qual è la mia forza, pensò Edward, ecco cosa mi salva dall'impazzire: quel meraviglioso sorriso.
Si buttò al collo di suo fratello, con lo zaino e tutto il resto, e gli allacciò le braccia intorno al collo.
"Allora, principessa?" le scompigliò i capelli, lei si affrettò a riordinarli con le dita. "Com'è andato l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze?"
"Tutto bene, come sempre." Abbassò lo sguardo, giocando con lo scollo a V della maglietta di suo fratello che sbucava dal cappotto. "Abbiamo fatto questo," aprì una mano e mostrò il regalino per le famiglie che le maestre facevano preparare ai bambini ogni anno. Era un piccolo abete di ceramica, colorato con le tempere. "È molto più bello l'albero che abbiamo fatto noi a casa, vero Edward?"
Lui aveva fatto di tutto per prepararle un bel Natale, aveva comprato tutte le decorazioni che le piacevano, l'aveva presa in braccio e l'aveva sollevata per farle mettere la punta sull'albero. Voglio che ami il Natale, si ripeteva in continuazione, non voglio che lo detesti come ho sempre fatto io.
"È molto bello anche questo, Rose!"
Poi la piccola si rabbuiò, il sorriso sparì e sussurrò "Ci dovevamo scrivere dietro i nomi dei componenti della famiglia... io non sapevo cosa scrivere." L'ultima parola si sentì a malapena.
Edward, con il cuore traboccante di tenerezza, voltò fulmineo l'alberino che stringeva nella mano.
Aveva scritto Mamma, Edward, io.
"Va benissimo così, mostriciattolo. Puoi scrivere quello che vuoi!" e le stampò un bacio sulla guancia.
Si sentì strattonare i jeans con forza e abbassò lo sguardo, trovando una testa coperta di capelli a spazzola, neri come la pece.
"Mia mamma ancora non è arrivata." borbottò timidamente il bambino.
"Non ti preoccupare Emm, l'aspettiamo con te." si intromise Rose, che aveva già ritrovato tutta la sua allegria. "vero, Edward?"
"Certo, certo" provò a tranquillizzarli, anche se loro non ne avevano proprio bisogno.
"Possiamo andare a giocare mentre aspettiamo la sua mamma?" gli chiese sua sorella con un sorriso furbo.
Eccolo il momento, una delle classiche situazioni che gli si presentavano ogni giorno. Lui non sapeva cosa rispondere, avrebbe voluto dirle soltanto: E io che ne so?. Ma stava a lui decidere, lo sapeva bene, perché era l'unico a cui Rose poteva chiederlo. 
Diede un'occhiata al piccolo parco giochi al centro del giardino della scuola, provò a ragionare come si immaginava facessero i genitori: ci sono già altri bambini, posso comunque tenerla d'occhio e non mi dispiace rimanere qui un altro po'.
"Ok, va bene."
"Siiiiiiiiii!" urlarono in coro i due bambini.
"Ma non possiamo fare tanto tardi perché prima di andare a lavoro devo preparare il pranzo per te e mamma, capito Rose"?" Ma lei stava già correndo verso l'altalena, marcata stretta dal suo amico.
Poi, il fratellone maggiore collegò il nomignolo di quel bambino ad un episodio che Rosalie gli aveva raccontato qualche giorno prima, così la rincorse e la fermò. "Non è quell'Emmett che vuole diventare il tuo fidanzato, vero?"
"Edwaaaard, zittoooo!" strillò. Si coprì la faccia con le mani, per poi continuare subito a correre.
Lui sbuffò e si rialzò lentamente, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans. E, proprio mentre vagava con lo sguardo per cercare una panchina su cui sedersi, la vide.
La sua ossessione, l'unica pazzia che si concedeva, il motivo per cui andare a prendere Rosalie a scuola non gli pesava neanche un po': Isabella Swan, la maestra.
Era appoggiata al portone della scuola, con le braccia intorno ai fianchi per proteggersi dal freddo, osservava i suoi studenti abbracciati ai genitori.
Indossava una camicetta bianca, un golfino di lana ed una gonna a vita alta che le lasciava scoperte le ginocchia. Ai piedi, un paio di scarpe con il tacco alto.
Come sempre, lasciò che la sua mente malata immaginasse tutto quello che gli occhi non riuscivano a vedere: il reggiseno che indossava sotto la camicetta, il reggicalze nascosto dalla gonna, il collo liscio e profumato coperto dal colletto bianco. Sentì l'uccello indurirsi, imprigionato nei jeans.
Isabella si avvicinò ad una mamma, che le disse qualcosa che Edward non riuscì a capire. Lei sorrideva, guardava con tenerezza il bambino aggrappato alla gamba della madre e gli fece una carezza prima che si allontanassero. E poi il suo sguardo cambiò perché ad un tratto si era intrecciato con quello dell'unico ragazzo presente nel piazzale, che se la stava mangiando con gli occhi.
Succedeva sempre così, ogni mattina: i loro occhi si cercavano ed erano sempre pronti a trovarsi.
Lei arrossì immediatamente, abbassò la testa con uno scatto, come se volesse scacciare un pensiero. Lui approfittò di quell'attimo di incertezza e si fece avanti.
"Salve, signorina Swan." Lei era imbarazzata, lui no.
"Ciao, Edward." rispose, dopo aver schiarito la voce.
"Le va di farmi compagnia?" le chiese, sfacciato come il suo sguardo.
"Smettila, ti ho già detto mille volte di non darmi del lei!" La faceva sentire insensatamente vecchia, ma questo non glielo aveva mai detto.
"Mi scusi." insistette, alzando un angolo della bocca.
Le strappò un sorriso, che le scoprì i denti bianchi e perfetti. Edward vide le guance imporporarsi sempre di più, gli occhi color cioccolata si illuminarono. Ed ogni volta che la vedeva brillare così gli sembrava un regalo, una piccola grande conquista.
Una ciocca di capelli le scivolò davanti agli occhi e lui, con un riflesso pronto, allungò la mano e gliela spostò dietro l'orecchio. Nel momento esatto in cui la toccò, un brivido gli percorse la schiena. Un'emozione forte che però non riuscì a distrarlo dai jeans che diventavano sempre più stretti e fastidiosi.
Lei si allontanò di un passo, intimorita dalla sua iniziativa. Si guardò intorno, per controllare che nessuno li stesse osservando. Era nervosa, si morse il labbro inferiore. Un movimento che buttò benzina sulle voglie di Edward: non fece altro che fargli notare le sue meravigliose labbra carnose.
Lui voleva avvicinarsi di nuovo, ma lo fermò la paura di esagerare. Finora si erano sempre scambiati qualche parola, si erano punzecchiati, provocati. Le aveva rubato un'informazione dopo l'altra, conservandole come se potessero scappare. Aveva scoperto che non era fidanzata, che aveva venticinque anni, che era in città da sola perché la sua famiglia viveva lontano. Parole sussurrate, sorrisi nascosti dalla timidezza, domande azzardate, me niente contatto. Si sfioravano a malapena, lei non si avvicinava mai abbastanza. E tutte le volte lui impazziva. Pazzia mischiata alla paura che fosse tutto un gran bel film girato nella sua mente deviata. 
"Io lavoro alla RoadHouse, la tavola calda in centro." azzardò, senza smettere si sorriderle. "Faccio pranzo, cena e quando posso lavoro fino a tardi. Lì non saresti costretta a guardarti intorno con la paura che qualcuno ti stia osservando. Ed io con il grembiule sono uno spettacolo da non perdere." Un altro sorriso, un'altra piccola conquista. "Passi stasera?"
Mentre lui pregava che gli dicesse sì senza neanche pensarci due volte, lei scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sospiro. "Sei tremendo." disse fra sè e sè, evitando i suoi occhi.
"Lo so. Vieni?"
Lo scrutava con il suo sguardo luminoso e i suoi pensieri indecifrabili e, mentre indietreggiava verso il portone, bisbigliò "Ci penserò".
La vide sparire e, qualche secondo dopo, si dissolse anche il rumore dei suoi tacchi.
Tornò ad osservare sua sorella, che stava ordinando ad Emmett di spingere l'altalena più forte, ed intanto cominciò a pensare a cosa potesse tirare fuori dal frigorifero per mettere insieme un pranzo decente.


***


Mezzanotte del ventitrè dicembre, e stava ancora lavorando.
Non era stata una serata troppo impegnativa: pochi clienti, poche ordinazioni, poche distrazioni. Il Natale era sempre più vicino e la gente iniziava a preferire l'atmosfera intima ed accogliente delle loro case ad una tavola calda piena di sconosciuti. Rimanevano fedeli solo i soliti abbonati visi tristi, che non avevano case accoglienti ad aspettarli. Di solito, a quest'ora, Edward era sempre indaffarato tra drink e spuntini notturni, ma oggi poteva già cominciare a riordinare tavoli e sedie.
Jacob Black, il propretario del locale da quando suo padre Billy era venuto a mancare, uscì dal magazzino tenendosi il cappotto su una spalla.
"Cullen, stasera ti è andata bene!" gridò nella sua direzione, con una voce sottile sproporzionata al suo corpo ingombrante. "Appena finisci di pulire puoi andare a casa, sei libero! Ti dispiace chiudere al posto mio?" gli chiese, con una pacca sulla spalla. 
Edward si lasciò sfuggire un sospiro, sollevato dal pensiero che sarebbe tornato a casa ad un orario decente e, dopo un'eternità, sarebbe riuscito a dormire per più di cinque ore filate. O almeno avrebbe potuto provarci.
"Voglio tornare a casa prima che Leah si sia addormentata, lo sai quanto diventa insopportabile quando la faccio innervosire!" Annuì con un sorriso tirato, anche se in realtà non ne aveva idea. La moglie di Jacob l'aveva vista solo due volte, da lontano, e nemmeno gli aveva rivolto parola.
Gli disse di non preoccuparsi e che poteva stare tranquillo, non aggiunse che sbrigare le ultime cose senza nessuno tra i piedi sarebbe stato ancora più piacevole. Il suo titolare lo salutò, gli augurò la buona notte e lui, educatamente, ricambiò.
Dopo aver passato velocemente la spugna sul bancone, si avvicinò ai tavoli ed alzò una sedia per poter cominciare a spazzare. Ma non fece in tempo ad afferrare la scopa che il campanellino attaccato alla porta cominciò a suonare, seguito dal rumore di qualche passo incerto. Per un attimo restò immobile, indeciso se servire l'ultimo cliente o cacciarlo dicendogli che erano già schiusi. Il sonno, che gli era sfuggito per troppo notti, ebbe la meglio e si voltò, annunciando con tono fermo: "Mi dispiace, stiamo chiud-"
Le parole gli morirono in gola quando si trovò davanti Isabella.
Teneva le braccia incrociate sul petto, forse per il freddo, forse per l'imbarazzo. Indossava un cappotto nero, stretto in vita, che valorizzava la forma incantevole dei suoi fianchi. In testa portava un delizioso cappellino di lana rosso, dal quale sbucava una morbida cascata di capelli mossi.
Edward sapeva che era in silenzio da troppo tempo, doveva assolutamente trovare qualcosa da dire. Qualcosa che non la fecesse scappare, che la trattenesse lì, con lui, per tutta la notte.
"Mi dispiace" sussurrò lei, battendolo sul tempo. "è tardissimo, stai chiudendo... me ne vado."
"No," si affrettò a rassicurarla, sentendosi mancare al pensiero che fosse già tutto finito. "Resta."
Fece un passo verso di lei, prima che potesse voltarsi ed andarsene. D'istinto allungò un braccio per fermarla, ma, senza nemmeno sfiorarla, tornò ad appoggiarlo sulla sedia perché si accorse che non era necessario: non si era voltata, non si era allontanata, non voleva andarsene.
Tolse la sedia dal tavolo e gliela indicò. "Siediti pure."
E allora lei sorrise. Si sentì come se, all'improvviso, qualcuno l'avesse liberata di un macigno caricato sulla spalle, come se ad un tratto fosse più leggera, più giovane, più spensierata. Si dette della cretina, ma continuò a sorridere a quel ragazzo che non riusciva a smettere di guardare.
Gli si avvicinò, sentì che profumava di buono. Si sedette timidamente, con le mani in grembo.
"Cosa ti porto?" le chiese gentilmente, allungandole un menù.
"Ma stavi chiudendo, non voglio disturb-"
"Che ne dici di una cioccolata calda?" la interruppe, prendendo l'iniziativa.
Lei lo guardò per un secondo che sembrò un anno, scosse la testa e, dopo aver liberato un respiro pesante come un macigno, si arrese. "Vada per la cioccolata calda!"
Edward raggiunse il bancone e preparò la bevanda con la testa che rischiava di esplodere: voleva impiegare meno tempo possibile per poter tornare subito da lei, ma nello stesso tempo voleva impegnarsi per prepararle con cura la cioccolata più buona che avesse mai assaggiato.
Quando lei vide la tazza, ricoperta fino all'orlo con una spruzzata di panna montata, sgranò gli occhi come di solito faceva Rosalie quando era felice. Edward decise che era un buon segno. 
"È perfetta!" sussurrò, afferrando il cucchiaino.
"Come fai a dirlo? Prima assaggiala!"
Si sedette accanto a lei e la osservò mentre si avvicinava la tazza alla bocca. Alla sua meravigliosa, carnosa, morbida bocca. Iniziò a giocherellare con le mani per distrarsi, seguiva con le dita le venature del tavolo. Tutto per non pensare che gli sarebbe bastato allungarsi di un paio di centimetri per toccarla, per accarezzarla, per...
"È perfetta davvero! Ora che l'ho assaggiata lo posso dire, giusto?"
Edward si lasciò andare ad una risata, che aumentò quanto vide la punta del suo nasino, arrossata dal freddo, macchiata di cioccolata. Allungò l'indice e la catturò con il polpestrello, che finì dritto tra le sue labbra. Lei si imbarazzò, come se quel gesto le avesse ricordato con uno schiaffo che era sola con un ragazzo bello da morire, dal quale si sentiva attratta dalla prima volta che lo aveva intravisto nel cortile della scuola. Lui la vide in difficoltà, con gli occhi velati di un'emozione che non sapere tradurre, e per smorzare la tensione le sorrise. Quel sorriso sghembo che tante volte aveva sfoderato, ma che mai gli era sembrato così poco convincente come adesso.
"Dimmi un po'..." mormorò, guardandolo dritto negli occhi, con una sicurezza che fino a pochi minuti prima non c'era. "Quante ragazzine hai conquistato con quel sorriso storto?"
Edward scoppiò a ridere, divertito e anche un po' imbarazzato, nascondendosi la faccia con una mano.
"Non abbastanza, a quanto pare."
Lei strinse le dita sottili intorno alla tazza e, dal cambiamente dello sguardo e dal piccolo sorriso che se ne andò dalle sue labbra, Edward capì che stava per iniziare un discorso che la metteva a disagio.
"Senti,"
"Dimmi"
"Forse ho sbagliato a venire qui o forse no, non lo so. Il problema è che nemmeno io so perché l'ho fatto. Ero indecisa, tu ieri mi hai invitata ed io non sapevo cosa fare... ma poi mi sono detta che due chiacchiere tra amici non avrebbero fatto male a nessuno"
"Tra amici?"
"Voglio solo che tu sappia" continuò, ignorandolo. "che non sono qui per quello che pensi, per quello che vuoi. Perchè l'ho capito cosa vuoi. Porca miseria, si vede... eccome se si vede. Da come mi guardi, da come mi parli. E devi smetterla, davvero"
"Isabella,"
"È una cosa sbagliata, completamente sbagliata... spero che tu te ne renda conto. Io sono l'insegnante di tua sorella, capisci? L'insegnante di tua sorella! E sono un'adulta, sono una donna, molto più grande di te. Ed è sbagliato, anche solo essere qui è completamente sbagl-"
"Isabella." la chiamò di nuovo, posandole una mano sul braccio, scacciando con la sua sicurezza la confusione creata da tutte quelle cose sbagliate in un solo discorso. "Hai parlato abbastanza, non ti pare? Ora calmati, respira e lascia parlare me."
Annuì seria, sfuggendo al suo sguardo.
"Non mi sono fatto nessuna idea, davvero." Lei provava a capire se fosse sincero, lui provava a convincersi di quella bugia per apparire più convincente. "So solo che sto bene. Ora, qui, con te... sto bene."
Ecco, questa era la verità. Ora non doveva nascondersi fin dentro lo stomaco, poteva confessarsi.
Solo un po', ma poteva farlo.
"E non dobbiamo etichettarlo, dargli un nome. Proprio come non dobbiamo dare un nome a noi due. Stasera non sei l'insegnante di Rosalie ed io non sono il fratello di una tua alunna. Sei solo una donna, incredibilmente bella, che ha deciso di prendere qualcosa da bere e, per sua fortuna, ha trovato un cameriere con cui adora parlare. Va bene? Ci stai?"
Lo guardava con i suoi occhi grandi e lucidi. Sospirò, continuando a scrutarlo per capire se fosse sincero. Quello che vide forse la convinse davvero perché gli sorrise ed annuì.
"Ci sto." E a Edward sembrò di aver appena scalato una montagna.
Le ore successive corsero sull'orologio in modo strano, particolare, emozionante. Il tempo scivolava veloce, scandito da emozioni diverse, constrastanti, una continua lotta tra il sollievo e l'ansia. Sollievo per ogni parola che usciva dalle loro labbra, ansia perché temevano sempre che potesse essere l'ultima. Più Bella parlava, più Edward capiva che non ne avrebbe avuto mai abbastanza. Della sua voce, del suo modo delicato di gesticolare, delle sue fossette che le addolcivano il viso più di quanto fosse umanamente possibile. 
Gli chiese dei suoi studi, volle sapere perché aveva deciso di lavorare invece di andare al college. E lui liberò le parole come se fossero un fiume in piena. Le raccontò della sua famiglia, di sua mamma, di quanto riuscisse ad amare quel piccolo scricciolo biondo che anche lei vedeva tutte le mattine. Le disse quanto fosse stata naturale, sofferta e scontata l'idea di abbandonare per un po' gli studi per stare vicino a loro, per non abbandonare le persone a cui teneva di più al mondo. Le raccontò della sua passione, la musica. Le raccontò il suo sogno, diventare un medico. E le raccontò anche il suo incubo, diventare un medico come suo padre. Le disse cose che non aveva mai detto a nessuno e, per la prima volta, ascoltò il suono dei suoi pensieri, da sempre chiusi a chiave nella testa e nel cuore. 
Lei ricambiò con foga ed emozione le sue parole, il suo interesse, la sua voglia di aprirsi. Ed aggiunse acqua al suo fiume in piena. Completamente rapito, lui l'ascoltò parlare di sua madre e di suo padre. Capì, dalla voce incrinata e dagli occhi turbati, quanto fosse stato difficile gestire i rapporto con i genitori separati, sempre divisa tra due case, due vacanze, due caratteri e migliaia di abitudini diverse. La vide arrossire nominando i suoi pochi e sbagliati amori e si emozionò davanti ai suoi occhi lucidi quando gli confessò di invidiare il suo rapporto con Rosalie, il rapporto che fin da bambina aveva sognato di avere con un sorella che, purtroppo, non aveva mai avuto.
Lei parlava, lui la ascoltava e poi si scambiarono di nuovo i ruoli, come se fosse una danza che entrambi sapevano eseguire alla perfezione, senza sbagliare i passi e senza pestarsi i piedi. E sentivano ogni parola accarezzare la pelle come se fosse medicina per le loro ferite.
Finirono a parlare del Natale, di quel Natale. Edward fu costretto a mordersi la lingua per non dirle che tutto quello che avrebbe voluto era una Natale sotto le coperte con lei e, mettendo da parte per l'ennesima volta i pensieri sconci, le chiese se sarebbe partita per trascorrere le vacanze con i suoi.
"No," borbottò timida. "preferisco rimanere qui, tanto non sarebbe un bel Natale nemmeno se tornassi a casa."
"Quindi sarai sola?" Gli si strinse il cuore ad immaginarla sola in casa, senza l'abbraccio di nessuno, senza nessuno con cui fare un brindisi.
"Una mia collega, Angela, mi ha invitata a casa sua per la Vigilia. Una cena tranquilla, con i suoi amici."
"Ma?"
Gli sorrise complice, era tanto tempo che non aveva l'impressione che qualcuno le leggesse il pensiero. "Ma... non credo di andare."
"Beh, vieni da noi!" le disse, spontaneo e convinto.
"Cosa?" squittì Bella. Sgranò gli occhi, allarmata e spiazzata.
"Non sarà nulla di formale, non ti preoccupare. Proveremo a mangiare le schifezze che cucinerò, ascolteremo un po’ di musica oppure guarderemo un film, quello che vuoi." Cercò la sua approvazione con lo sguardo, ma non la trovò perchè lei evitava di guardarlo. Aveva sentito un allarme scattare, Bella. Quell'allarme assordante, che ora copriva le parole di Edward e le ripeteva: cammina, rallenta, smettila di correre come una pazza. "Rose sarebbe pazza di gioia, e lo sarebbe anche mia madre se riuscisse a tenere gli occhi aperti!"
La vide abbassare all'improvviso la testa, rabbuiata dalle sue parole. Quando tornò a guardarlo, i suoi occhi erano più duri, più scuri, non ammettevano repliche.
"No, Edward." Due semplici parole e lui rotolò giù per quella montagna che con tanta fatica aveva scalato.
"Va bene, ti capisco." si affrettò a precisare, con un sorriso che sperò sembrasse tranquillo e comprensivo.
La vide afferrare la borsa, infilarsi il cappello, recuperare il cappotto. Tutto sembrava andare a rallentatore e lui non sapeva cosa fare, come fermarla. Bella osservò per qualche secondo la tazza vuota di fronte a lei e poi lo cercò, con gli occhi di nuovo dolci e sereni. 
"Grazie" sussurrò emozionata. "Grazie davvero. È stata una serata perfetta."
"Di più." Sentì spuntare il sorriso storto contro la sua volontà.
Si alzò lentamente e, come un mendicante sogna una manciata di spiccioli, Edward si ritrovò a sperare che gli lasciasse almeno un bacio sulla guancia. Patetico, se ne rendeva conto. Ma lei non si avvicinava, restava lì, in piedi davanti al tavolo. Poi, all'improvviso, gli passò una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più. Lui sentì le sue piccole dita sottili scivolargli sulla testa e non ebbe il tempo di fare niente, pensare a niente, riuscì a malapena a socchiudere gli occhi e godersi quell'attimo. Si allontanò subito, facendo risuonare i suoi tacchi nella piccola stanza vuota, e lo salutò con un ultimo sorriso.

 

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Capitolo 2
*** Natale ***


Grazie mille per l’”accoglienza”

Grazie mille per l’”accoglienza”!
Grazie a chiunque abbia letto, recensito o inserito la storia nelle preferite!
Vi lascio al secondo capitolo.
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Capitolo 2 – Natale

Non aveva idea di come si preparasse una cena per la Vigilia di Natale. Si ricordava che Esme ogni anno si chiudeva in cucina per ore, lavorando sui dettagli, cercando di accontentare i gusti di tutti. Ma lui non sapeva proprio da dove partire. Quel pomeriggio era salito in camera di sua madre per chiederle qualche consiglio, lei gli aveva risposto barcollando fino al bagno e chiudendocisi dentro. Per fortuna aveva trovato il suo ricettario e si era procurato gli ingredienti per cucinare qualcosa di non troppo complicato.
Sospirò e si portò le mani alle tempie. 
Se non fosse per Rose, continuava a ripetersi sottovoce, a quest'ora sarei in un bar ad ubriacarmi fino a svenire.
"Edward? Tutto bene?" Era la voce di sua sorella che lo raggiungeva dalla sala da pranzo.
"Arrivo!" rispose urlando, mentre cercava le presine per aprire il forno.
Pollo al sale grosso e patate arrosto. Non gli restava che sperare che fossero più buone delle lasagne bruciate con cui avevano iniziato.
Corse in sala da pranzo con la teglia tra le mani e, sussultando, si bloccò. Fu come se per un attimo riuscisse a vedere la sua famiglia dall'esterno, con gli occhi di un estraneo: una bambina con un paio di treccine bionde che dondolava le sue gambette avanti e indietro sotto il tavolo, una donna trasandata con i capelli in disordine e la testa tra le mani, e un posto vuoto.
Sentì una stretta al cuore e, mentre sua sorella si voltava nella sua direzione, scacciò quell'estraneo che compativa la sua famiglia. Abbandonò i suoi panni e, servendo pollo e patate nei tre piatti, tornò ad essere Edward.
Iniziarono a mangiare e lui si scusò fin da subito per il cibo che, ancora una volta, sarebbe stato disastroso. Rosalie gli sorrise divertita e rassicurante, sua madre continuò a tenere lo sguardo sul piatto. Come sempre, ad Edward venne voglia di scuoterla arrabbiarsi urlare ma, come sempre, si morse la lingua.
Quel pomeriggio, poco prima dell'ora di cena, Edward si era ricordato quanto piacesse a sua madre riempire la tavola di candele, bicchieri di cristallo, tovaglioli colorati, piatti di ogni forma, e le aveva chiesto di apparecchiare. L'unica cosa che le aveva chiesto, l'unica. Esme aveva accettato, sfiorandogli una mano, e per un attimo Edward si era concesso il lusso di sperare che potesse essere una bella serata. Ma quando sua madre si era accorta che per sbaglio aveva preso piatti e posate per quattro persona, era scoppiata a piangere ed era tornata ad accasciarsi sul divano. 
"Bravo Edward, è buono!" commentò Rose, un po' troppo entusiasta.
Lui la guardò storto, fingendosi offeso dal suo finto complimento. In realtà, il suo tentativo di coccolarlo lo lusingava.
"A me sembra sciocco, e anche un po' crudo." borbottò.
"Vabbè... sempre meglio delle lasagne!" e risero insieme.
La cena trascorse così, con la voce di Rosalie che riempiva la stanza e occhiate veloci lanciate ad Esme per controllare se stesse mangiando. Sua figlia provava a coinvolgerla nei discorsi, a volte ci riusciva per qualche minuto, altre volte invece si arrendeva quando si accorgeva che sua madre non aveva proprio voglia di parlare. Continuava a raccontare della scuola e dei suoi amici, giocando con le ultime patate rimaste nel piatto.
"Lo sai Edward che c'è una bambina che mi copia? È insopportabile!" sua fratello la guardò confuso e lei continuò, ancora più agguerrita. "Fa tutto quello che faccio io, tutto! Si veste come me, si pettina come me... Se io mi faccio le treccine lei il giorno dopo, indovina un po'?, arriva a scuola con le treccine!" Buttò gli occhi al cielo, allargò le braccia e scosse la testa.
"Ed è una cosa grave?" Edward, ancora più confuso, stava provando a ricordare se, durante la sua infanzia, avesse mai fatto caso a come fossero vestiti o pettinati i suoi compagni di classe.
"Ceeerto!" rispose indignata, sgranando gli occhi. Lui lanciò un'occhiata a sua madre, sperando che lei – da donna – riuscisse a capirla meglio di quanto potesse fare lui, ma li stava ascoltando a malapena.
"Beh..." iniziò, non sapendo bene dove andare a parare. "Secondo me la stai prendendo nel modo sbagliato." Lei, in risposta, lo guardò come si guardano i pazzi. 
"A me sembra molto semplice..." continuò. "Se ti copia vuol dire solo che le piaci. Le piace come ti vesti, come ti pettini, e – chissà – se diventi sua amica le potrai dare qaulche consiglio. Così sarete contente tutte e due, no?"
L'espressione negli occhi di Rosalie cambiò ed Edward si accorse del momento esatto in cui le sue parole, per lei, diventarono credibili. Promosso, pensò. Lei si sistemò sulla sedia, con la schiena sempre più dritta, e gli sorrise.
"In effetti..." sussurrò orgogliosa.
Suo fratello ricambiò il sorriso e, ordinandole di finire tutte le patate che aveva lasciato nel piatto, le dette un leggero pizzicotto sulla guancia. Proprio mentre lei rispondeva con una linguaccia, Esme ruppe il silenzio.
"Ragazzi," la voce sottile sembrava sul punto di spezzarsi. "Vi dispiace se mi vado a stendere sul divano?"
"Sì." rispose veloce Edward, senza lasciare il tempo a sua sorella di dire la sua. Rose lo guardò preoccupata e lui si rese conto che aveva usato un tono un po' troppo forte. Provò ad addolcirlo ed aggiunse: "Ho preparato una torta di mele seguendo una tua ricetta, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Ve bene,mamma?" Insistette su quell'ultima parola. 
Lei lo guardò, con un sorriso che sembrava quasi compatirlo, e lui si incazzò ancora di più.
"Perdonatemi, ragazzi... ma proprio non ce la faccio. Non mi sento molto bene." e si alzò.
Edward aveva la testa in fiamme, un fischio nelle orecchie, la mascella tesa. Si costrinse a bere un po' d'acqua per calmarsi. Quando avvicinò la mano al bicchiere si accorse che tremava, e la vide anche Rose.
"Io la mangio volentieri la torta." disse.
La guardò, così piccola e forte, così dolce e sveglia. Gli occhi grandi e lucidi pieni di preoccupazione. Gli risuonò nella mente la sua voce, si specchiò nel suo sorriso timido che tentava disperatamente di consolarlo, e fu costretto a distogliere lo sguardo per evitare di scoppiare a piangere.

Lavarono i piatti insieme, come sempre. Lui con le braccia immerse nella schiuma e lei in piedi su una sedia, pronta ad asciugare tutto quello che le passava. Canticchiavano una canzoncina, lui cominciava il verso e lei lo finiva. Quando si stancava di cantare, iniziava a schizzarlo con la schiuma, a ballare come se fosse una cubista, a fingere di cadere dalla sedia per impaurirlo. Non stava ferma neanche per un secondo. Poi, dopo avergli raccontato per l'ennesima volta una barzelletta sentita dal suo amico Emmett, cambiò argomento.
"Secondo te la mamma vorrà giocare con noi dopo?" gli chiese, continuando ad asciugare con cura un piatto. "Almeno un po'?"
"Non lo so." le rispose, con l'ennesima ed insopportabile stretta al cuore.
"Forse ha voglia di guardare un film, un cartone animato... oppure giocare a Monopoli!"
"Non lo so, tesoro."
"Speriamo!"
Sì, speriamo.

Rosalie camminava davanti a lui mentre raggiungevano la sala. Edward la guardò zampettare fino al divano, dov'era sdraiata Esme. La raggiunse e la scosse delicatamente, chiedendole sottovoce se aveva voglia di giocare con loro. Sua madre tentennò lentamente la testa. Preferisci guardare un film? e, oltre a ciondolare la testa, emise un lamento. Aiutandosi con il bracciolo del divano, si mise seduta e, con un filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto, disse che preferiva salire in camera per stendersi un po' sul letto.
E Edward impazzì.
Sentì salire la rabbia e, questa volta, le permise di traboccare. Lasciò che la testa scoppiasse e che la vista restasse appannata. Con la voce roca e la gola che raschiava fino a fargli male, le rovesciò addosso tutte le parole che aveva sempre trattenuto. Sentì ogni cosa sfuggirgli dalle mani: il controllo, la ragione, il Natale che sognava per sua sorella. Tutto venne spazzato via. Si dimenticò che accanto a lui c'era Rosalie e lasciò che la sua voce riempisse la stanza.
"BASTA!" ruggì. "BASTA! Non ne posso più, cazzo!"
Esme si prese subito la testa tra le mani, per evitare di sentire, ascoltare, guardare,
"Falla finita, mamma! SMETTILA! Lo so che è difficile... cazzo, lo so! Ma devi stringere i denti, devi cambiare, devi alzarti! Capito? ALZATI, PORCA TROIA!"
Si fermò un attimo, solo per prendere fiato. E poi tornò a sovrastarla, cone le urla e con il corpo.
"Qual è il problema? Eh? Quel pezzo di merda di tuo marito ti ha lasciata? PACE! Si va avanti, tu devi andare avanti!" Le puntò un dito contro, che sembrava schiacciarla ancora di più sui cuscini del divano. "E se proprio non vuoi farlo per te, se proprio non vuoi pensare a te stessa, pensa a noi. A NOI, CAZZO! Noi siamo sempre qui! E ci manca nostra madre... un sorriso, una parola, una qualsiasi stronzata!"
Si alzò a fatica, così stravolta da non sembrare nemmeno umana. Tremava dalla testa ai piedi ed era così instabile che sembrava sul punto di sbriciolarsi. Aveva gli occhi gonfi, traboccanti di lacrime.
Riuscì ad alzarsi e, trovandosela davanti, Edward percepì ancora di più la grandezza e l'arroganza del suo corpo che sovrastavano il suo, così piccolo e fragile.
Ma ancora non aveva finito. C'era altra rabbia, altra stanchezza, altre parole.
Questa voltà le sussurrò, riuscendo con sforzo a controllare la voce.
"Mi fai pena, mamma. Pena. E lo sai quanto è brutto compatire il proprio genitore? Fa schifo mamma, schifo."
Lei, per la prima volta, lo guardò negli occhi ed immediatamente lui si pentì di tutto quello che le aveva detto. Avrebbe voluto abbracciarla, stringerla, ripeterle che sarebbe andato tutto bene, pregarla di dimenticare. Ma ormai la barriera si era alzata e le sue parole erano già indelebili, per entrambi.
Si voltò e, traballando, raggiunse le scale. La vide sparire dopo essersi trascinata per i gradini e, quando sentì la porta sbattere, chiuse gli occhi.
Nella stanza calò il silenzio. Un silenzio pesante e scomodo che lo catapultò di nuovo nella realtà. Si rese conto che non era solo, non lo era mai stato. Sentiva addosso lo sguardo di Rosalie, era come se gli bruciasse le spalle.
Sapeva di aver sbagliato. Aveva urlato parole orribili alla loro madre davanti a lei, che aveva sempre voluto proteggere da tutto e da tutti. E, questa volta, la stava distruggendo proprio lui.
Avrebbe dovuto resistere, aspettare di essere solo, evitare di perdere la testa. Avrebbe dovuto farlo per Rose, per quella piccola grande bambina che non chiedeva niente se non una serata tranquilla e spensierata.
Sono un coglione, pensò, un coglione. Non aveva nemmeno il coraggio di voltarsi e guardarla.
Ma, dopo minuti interi di silenzio assoluto, sentì avvicinarsi i suoi passi leggeri e la sua piccola mano scivolò nella sua, facendo incastrare le dita.
Appoggiandosi al suo fianco e alzando lentamente la testa, bisbigliò "Hai voglia di continuare il nostro puzzle?"
Lui le sorrise. Sopreso, sollevato, meravigliato, stupito. E si limitò ad annuire perché se anche solo avesse provato ad aprire bocca sarebbe crollato lì, davanti a sua sorella, piangendo come un bambino.

Era un puzzle enorme che portavano avanti da un mese. Quasi tutti i pomeriggi, dopo che Rose aveva finito i compiti e prima che Edward andasse a lavoro, si sedavano davanti a tutti quei piccoli pezzettini e cercavano di incastrarli l'uno con l'altro, cercavano il posto giusto per ogni tassello, come se così potessero ordinare anche tutto il resto. Entrambi tenevano un occhio sul tavolo e uno sul coperchio della scatola, che mostrava quella che sarebbe stata l'immagine finale: la ‘Notte stellata’ di Van Gogh.
E, mentre si perdevano tra tutti quei pezzi e quegli incastri, ascoltavano la musica.
"Posso aprire i regali?" gli chiese, cercando un pezzo di cielo dello stesso colore di quello che aveva in mano da cinque minuti.
Edward, d'istinto, si voltò verso l'albero addobbato, sotto il quale c'erano tre pacchetti.
Uno era per Esme: una catenina d'oro bianco con un ciondolo, su cui aveva fatto incidere il suo nome e quella della sorella. Gli altri due erano per Rosalie: un paio di guantini di cachemire blu elettrico, con una sciarpa abbinata, ed un peluche quasi più grande di lei a forma di lupacchiotto. Babbo Natale, invece, le avrebbe portato un gioco per disegnare e creare modelli di vestiti. Nella scatola c'erano anche i tessuti da usare e alcune foto da cui prendere spunto. Aveva visto la pubblicità in televisione e gli era sembrata una cosa adatta a lei, ma aveva una gran paura di aver sbagliato tutto. 
L'anno prima il pavimento era pieno, i pacchi arrivavano fino al tappeto. E c'era un regalo per tutti, anche per Edward. Esme li sceglieva con cura ed era più emozionata di loro quando li aprivano, curiosa ed impaziente di vedere le loro facce.
"No," rispose secco, scacciando i ricordi. "Potrai aprirli domattina, come tutti gli anni. Devi imparare ad avere pazienza!" 
"Aspettare mi fa schifo!" E, con una smorfia, continuò a cercare il suo pezzo di cielo.
L'ipod di Edward, attaccato alle casse, proponeva una canzone dopo l'altra. Rose cantava quelle che conosceva, saltava quelle che non le piacevano, ma quando nell'aria iniziò a diffondersi una delle sue canzoni preferite esultò, alzò il volume, abbandonò il puzzle e cominciò a ballare sulla sedia. Cantava, si dimenava, muoveva a tempo braccia e gambe.
Edward la guardava e rideva, sentendo la sua risata riempire la stanza che fino a qualche minuto prima era piena solo delle sue urla. Senza smettere di agitarsi, Rosalie gli ordinò di alzarsi e ballare, di non essere il solito timidone. Lui si alzò e, impacciato, la prese in braccio e la guidò in uno strano e patetico valzer. Lei gli scoppiò a ridere nell'orecchio.
"Come sei imbranato! Questa canzone non si balla cosììì!!!" lo rimproverò, senza smettere di ridere.
Allora la fece atterrare sul pavimento e cominciò a fare il cretino, ballando con movimenti esagerati, come se fosse un ubriaco al centro della pista di una discoteca. E mentre si dimenava, inciampò sul tappeto e cadde a terra. Le risate di Rose diventarono incontrollabili, si sbellicava tenendosi la pancia con le mani. Lui rimase disteso sul pavimento, godendosi ad occhi chiusi il suono della risata di sua sorella.
Lei gli saltò addosso, gli fece il solletico, continuò a ridere con le lacrime agli occhi.
Lo abbracciò, gli si aggrappò al collo con le sue piccole mani e, con parole mischiate a sorrisi, gli sussurrò all'orecchio: "Menomale ci sei tu."
Edward sentì gli occhi bruciare, il petto gonfiarsi di emozione, un groppo in gola che non sapeva come sciogliere. E, all'improvviso, la risata di sua sorella sparì. Il divertimento se ne andò e restarono soltanto le lacrime. Le scivolavano sulle guance, gli bagnavano il collo, la maglietta. La sentiva sussultare, il suo corpicino scosso dal pianto si aggrappava alle sue spalle. E lui la stringeva... per darle forza, per darle amore, per darle tutto quello che spesso mancava anche a lui.
Si alzò dal pavimento, senza smettere di stringerla, continuando a tenerla in braccio, e si sedette sul divano. Rosalie si appoggiò a lui, con la testa tra il suo collo e la sua spalla. Non smetteva di piangere, e lui non smetteva di ripeterle che sarebbe andato tutto bene.
Andrà tutto bene, scricciolo. Te lo prometto, andrà tutto bene.
Le riempiva i capelli di baci, le accarezzava la schiena, la cullava, le cantava 'Hey Jude' perché sapeva che le piaceva. Lentamente, il respirò si calmò e le spalle smisero di tremare. Riuscì a rilassarsi e, sfinita, si addormentò tra le sue braccia. 
Chiuse gli occhi anche lui. I colori della stanza vennero inghiottiti dal buio, le palpebre stanche trovarono sollievo. E restò così, immerso nel buio, fingendo per qualche secondo che non esistesse nient'altro. Sentì i muscoli sempre più rilassati e, abbracciato dal calore di Rosalie, si assopì. 

Riaprì gli occhi e non sapeva quanto tempo fosse passato. Per un attimo restò spaesato, chiedendosi che giorno era, dov'era, quanto aveva dormito. Si passò una mano sugli occhi e sentì un respiro, diverso dal suo e da quello rilassato di sua sorella. 
Sul divano non erano soli, c'era anche Esme. Seduta accanto a lui, né troppo vicina né troppo distante. Le gambe di Rosalie, prima abbandonate sui cuscini, erano sulle cosce di sua madre. Le aveva tolto le scarpe e le stava massaggiando i piedi attraverso i calzini.
Edward notò subito che aveva la schiena dritta, non era accartocciata su se stessa. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati, ma asciutti e liberi dalle lacrime. Le spalle erano sempre un po' curve, schiacciate da un peso più grande di lei, ma stava provando a sorreggersi. E lo sguardo non era perso nel vuoto, ma puntato su sua figlia.
Senza che lo guardasse o gli rivolgesse parola, Edward capì che era arrivato il suo turno: era pronta a parlare, e lui era pronto ad ascoltarla.
"So che non capisci il mio dolore," sussurrò. "E so anche che Carlisle non era né un buon padre né un bravo marito. E proprio per questo è ancora più difficile spiegarti quanto mi manca."
La voce le si incrinò, ma lei le impedì di spezzarsi. Gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime, ma le lasciò intrappolate, in bilico.
"So che non era presente," continuò, schiarendosi la voce. "So che aveva le sue rigide regole, che non era affettuoso, che era testardo. Li ho sempre visti e riconosciuti i suoi difetti, e li vedo anche ora. Potrebbero aiutarmi a superare tutto questo... ma non è così."
Restò in silenzio, smise di parlare continuando ad accarezzare Rosalie. Poi riprese a confidarsi sottovoce, ma questa volta alzò la testa e lo guardò negli occhi.
"Io lo amo, Edward. Io tuo padre l'ho sempre amato, anche quando faceva di tutto per farsi odiare. È l'amore della mia vita, sono cresciuta con lui e l'ho visto trasformarsi davanti ai miei occhi. Quando mi sentivo persa, confusa, quando non riuscivo più a capire chi ero, mi bastava guardare lui per ricordarlo. Guardavo lui, guardavo voi e sapevo di essere una moglie e una madre."
Prese il fazzoletto che teneva nella tasca del maglione e si soffiò il naso. Il bene che le voleva e la tenerezza che provava imploravano Edward di abbracciarla, accarezzarla, dimostrarle che aveva capito. Ma non si permise di fermare le sue parole perché sapeva quanto bisogno aveva di lasciarle libere.
"Ora lui non c'è, non posso più appoggiarmi a lui, farmi sostenere da tutto l'amore che c'è sempre stato. Ma tu hai ragione, Edward... ci siete voi. Io sono persa, confusa, non so più chi sono e, questa volta, per ricordarmelo guarderò voi, soltanto voi. E saprò di essere una madre, vostra madre."
Una lacrima, più tenace delle altre, le scivolò lungo la guancia.
"So di avere un problema, un grosso problema. E so di dovermi fare aiutare. Lo farò Edward, te lo prometto. So anche che vi devo chiedere scusa... sia a te che a tua sorella, ma mi devo scusare soprattutto con te. In questi mesi ho sempre avuto la vista appannata perché riuscivo a vivere solo così: sfocata, ovattata, lontana. Ma questo non mi impediva di vederti. Ho visto come sei, tutto quello che fai, come riesci a prenderti cura di Rose. Vedo l'uomo che stai diventando e sono così orgogliosa. Così orgogliosa, Edward." 
Più vedeva le sue lacrime rigarle le guance, più ascoltava le sue parole straziate, e più sentiva la mascella indurirsi. In balia di emozioni che non sapeva controllare, si limitò a guardarla, sperando che i suoi occhi parlassero per lui.
"Mi hai detto di alzarmi e sono pronta a farlo. Ne ho voglia, ne ho bisogno... voglio farlo per voi e per me stessa. Spero con tutte le mie forze di poter ancora rimediare, spero di non aver sprecato troppo tempo."
Guardò Rosalie, che ancora dormiva su di lui, e le lacrime diventarono incrontrollabili. Le passò una mano sui capelli, le sistemò il maglioncino, le accarezzò di nuovo i piedi. E poi tornò a guardare suo figlio, con uno sguardo stracolmo di supplica. 
"Riuscirete mai a perdonarmi?" e questa volta la voce si spezzò.
Edward non parlò, non pianse, non si avvicinò, non l'abbracciò. Le tese una mano. Aperta, sicura, pronta ad accoglierla. Lei dimenticò per un attimo le lacrime, sorrise come se non l'avesse fatto per una vita intera e afferrò la mano di suo figlio, come se fosse un salvagente.

Quasi timidamente, gli disse che le sarebbe piaciuto dormire con Rosalie, averla vicino nel lettone per tutta la notte. Lui prese in braccio sua sorella e l'accompagnò in camera della madre.
Rose si infilò sotto il piumone come se fosse il suo piccolo guscio e, appena toccato il cuscino, aprì leggermente gli occhi. Capì che non era nel suo letto, che presto avrebbe avuto la sua mamma accanto e sorrise. Fra sé e sé, senza guardare nessuno, senza dire una parola... sorrise. 
Edward tornò in sala, con la testa sottosopra, con la sensazione di non avere più il controllo dei suoi pensieri, con la paura che la lunga e difficile giornata stesse per schiacciarlo, facendolo crollare.
Ancora gli risuonavano nella testa le ultime parole di sua madre: "Domattina dormi fino a tardi, non caricare la sveglia. Ti chiamo io appena il pranzo è pronto." E, mentre la guardava ancora incredulo, aveva aggiunto: "Buonanotte, tesoro. Riposati, te lo meriti."
Parole che aspettava da mesi e che credeva di non poter più sentir uscire dalla bocca di sua madre.
Ad un tratto quella casa, i problemi, le lacrime, le difficoltà che aveva superato e quelle che ancora lo aspettavano, gli tolsero il respiro. Si sentiva soffocare. Era come se qualcun'altro avesse preso tutte le sue energie, tutte le sue forze, tutta la sua aria e a lui non fosse rimasto altro che stanchezza. Insopportabile e faticosa stanchezza. Aveva voglia di spaccare quel cazzo di albero, aveva voglia di distruggere ogni maledetta decorazione, aveva voglia di urlare. Tutto solo per non fermarsi a pensare. Tutto solo perpaura. Paura di illudersi ancora una volta, di credere alle parole di sua madre, di sperare che finalmente qualcosa si potesse sistemare.
Sentì gli occhi bruciare di nuovo, vide le mani che avevano ripreso a tremare e cominciò a camminare, compiendo gesti meccanici, con la testa vuota. L'unico pensiero era prendere aria, muoversi, respirare. Cercò il cappotto, non lo trovò e allora uscì senza. Afferrò le chiavi, aprì la porta e la richiuse sbattendola. Si fermò dopo aver fatto a malapena un passo.
Lei era lì, che camminava avanti e indietro lungo il portico, che si guardava le punte dei piedi, che respirava nelle mani unite a coppa per sopportare il freddo. Che si malediva, si vergognava, si dava della pazza... ma questo Edward non lo poteva sapere.
Isabella sentì il rumore della porta, si voltò, spalancò gli occhi e, anche lei, si fermò.
Entrambi immobili, l'uno davanti all'altra. 
Lo vide stravolto, tremante, stanco. E lui si lasciò guardare.
Lei capì quello che voleva, capì tutto quello di cui lui aveva bisogno, e lo fece: senza parlare, senza chiedere, senza spiegare, si avvicinò e lo abbracciò.
Le sue braccia sottili scivolarono sui suoi fianchi, gli strinse la vita, gli accarezzò la schiena. Appoggiò la testa sul suo petto, respirando il suo maglione, coprendolo con i suoi lunghi capelli. E lui la sentì, come non aveva mai sentito nessun'altro in vita sua. Sentì le sue mani, le sua braccia, il suo respiro. Sentì lei, e a lei si abbandonò. Si lasciò cadere in quell'abbraccio, si lasciò curare dalla sua presenza, sfiorò con le labbra i suoi capelli morbidi, intrecciò le braccia sulle sue spalle. La toccò, la strinse, la respirò.
L'aria tornò a circolargli nei polmoni, la calma ricominciò a scorrergli nelle vene, il tremore della stanchezza si placò. E tutto gli sembrò possibile: lei è qui, tra le mie braccia, la vita non può essere così difficile, forse le cose si sistemeranno davvero, forse mia madre manterrà le sue promesse, forse Rose sarà felice. Forse lo sarò anch'io.
"Isabella..." mormorò sui suoi capelli, continuando a respirare il suo profumo.
"Bella, chiamami Bella." La sentì sospirare, sempre stretta tra le sue braccia, con la testa ancora appoggiata sul suo petto. "Anche stasera sono arrivata in ritardo..."
"Shhh" e la strinse ancora più forte. "Sei qui, Bella. Sei qui."
"Ti sembrerò una pazza..."
"Mi piaci pazza."
"... è che non faccio altro che pensarti. Pensare a te, al tuo modo di parlare, di pensare, alla tua vita, alle tue scelte." Fece scorrere le mani lungo la sua schiena, lo accarezzò, strinse il maglione e poi tornò ad aggrapparsi ai suoi fianchi. "Non dimostri l'età che hai, Edward. Forse sei anche più grande di me."
"Quindi," avvicinò la sua bocca all'orecchio di lei e, sfiorandole il lobo con le labbra, sussurrò "non c'è più nessun problema?"
La sentì irrigidirsi, il respirò diventò irregolare, le dita si aggrapparono con più forza. Non gli rispondeva, non apriva bocca, non si muoveva. Le fece scivolare una mano dietro il collo e quasi svenne al tocco della sua pelle morbida, calda, delicata. Così perfetta che riuscì a superare le sue tante fantasie. Le voltò la testa e in un istante i loro occhi si trovarono, come avevano sempre fatto per tante mattine. Ma questa volta non c'era vergogna, timidezza, paura di essere visti o giudicati. C'erano soltanto loro, le loro mani, i loro respiri. Edward abbassò la testa ed appoggiò la fronte su quella di lei, sospirando di attesa, di emozione, di impazienza. La sentì tremare, il respirò sempre più affannato. Lei si sollevò sulle punte dei piedi, lui l'afferrò per i fianchi, e le loro labbra si posarono l'una sull'altra. Con foga e dolcezza, con forza e delicatezza. Lui si godeva la morbidezza del suo bacio e la bellezza della sua bocca, senza smettere per un attimo di toccarla, stringerla, accarezzarla. Senza smettere di respirare a pieni polmoni il profumo della sua pelle, di farsi avvolgere dal calore della sua presenza. Intrecciò le dita tra i suoi capelli nel momento esatto in cui si intrecciarono le loro lingue. Sempre più morbida, sempre più calda, sempre più vicina. Anche le mani di Bella cercavano i suoi capelli e, dopo aver viaggiato sul petto e sulle spalle, li trovò, tirandoli leggermente. Lui si lasciò sfuggire un gemito e tornò ad appoggiare la fronte sulla sua, per riprendere fiato, per capire se fosse tutto vero. Trovò i suoi occhi accesi e maliziosi e, con il cuore che batteva come se volesse spaccargli il petto, si godè quella visione che sembrava un miracolo.
"Buon Natale, signorina Swan." mormorò, senza allontanare gli occhi dai suoi.
Lei si lasciò andare ad una risata, che alle orecchie di Edward suonò come una nuova conquista, un nuovo regalo. Il suo unico, bellissimo, inatteso regalo di Natale.

 

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Capitolo 3
*** Ritorno ***


Siete davvero tanti

Siete davvero tanti... a leggere, seguire e recensire questa storia.

Non posso far altro che ringraziarvi, di cuore!

Ringrazio anche Alessia e Eleonora per la meravigliosa pubblicità.

Vi lascio al capitolo, arrivano le novità anche per chi aveva già letto la One-Shot.

Buona lettura.

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Capitolo 3 - Ritorno

 

Esme e Rosalie erano sul divano. Le spalle vicine, i cuscini intorno. Timidi e ritrovati sorrisi illuminavano le loro labbra, mentre le piccole mani della figlia imitavano quelle della madre. Le stava insegnando a fare l'uncinetto. All'inizio Rosalie era stata dubbiosa, confusa da tutti quei difficili movimenti delle dita e quelle piccole bacchette che sua madre muoveva così velocemente. Su, giù e incrocia. Su, giù e incrocia. E così via. Ma Esme le aveva raccontato che quando era giovane si cuciva i vestiti da sola, ed i suoi preferiti erano proprio le magliette e i corpetti che faceva all'uncinetto. Aveva saputo attirare la sua attenzione, aveva saputo giocare con la passione di sua figlia per i colori, le stoffe, gli abiti. Ed ora eccole lì, madre e figlia, alle prese con piccoli quadratini intrecciati di filo.

"Li metteremo tutti insieme!" esclamò la bambina, soddisfatta ed eccitata. "Faremo una super coperta, tutta colorata!"

Edward le guardava, con un sorriso quasi ebete stampato sulla faccia. Era stanco, stanco morto. Era tardi, faceva freddo, ed aveva lavorato fino a cinque minuti prima. Aveva ancora nel naso il tanfo di hamburger e patatine fritte, la maglietta macchiata odorava di birra. I piedi gli facevano male, accaldati e costretti dentro le vecchie scarpe da tennis. Gli occhi stanchi gli scongiuravano di chiudersi, ma lui si rifiutava. Doveva rimanere sveglio.

Afferrò distratto il telecomando che qualcuno aveva lasciato cadere sul divano. Accese la televisione, vagando di canale in canale.

"Ne vuoi una anche tu, Edward?"

Si voltò, sorrise a sua sorella. "Ovviamente!"

Diede un'occhiata a quello che stringevano tra le mani: il lavoro di sua madre era preciso ed impeccabile, Rosalie invece stava facendo un macello. Era troppo eccitata per concentrarsi, troppo felice di avere sua madre accanto per capire come incrociare quelle due piccole bacchette di metallo. La guardava, e non poteva fare a meno di sorridere. Edward incrociò gli occhi di sua madre e per un attimo in quegl'occhi si perse. Era rilassata, tranquilla, le mani non le tremavano. Piano piano, giorno dopo giorno, aveva ricominciato a prendere in mano la sua vita, le sue giornate. Non sorrideva spesso, era ancora a pezzi, lui se ne rendeva conto. Ma si stava impegnando, ci stava provando. A volte si perdeva, si assentava con la mente e con il corpo, altre la sentiva piangere fino a quando non crollava nel sonno. Ma non beveva, non aveva più bevuto. Edward aveva insistito per giorni interi affinché si rivolgesse ad una clinica, ad un centro specializzato. "Le cliniche costano troppo, e quei centri mi deprimono. Ce la faccio da sola, Edward. Ce la posso fare", continuava a ripetergli sua madre. Lui non ci credeva, ma ci sperava.

Senza volerlo, per un attimo, ripensò a quella sera. Le urla, la rabbia, la stanchezza. Le lacrime di sua madre, la sua debolezza, il suo sbriciolarsi davanti a lui. Si disse che aveva fatto bene ad urlare, a scoppiare ed, infine, ad abbandonarsi alla speranza che qualcosa potesse cambiare.

Il ricordo di quella sera arrivò e, con sè, si portò lei. Bella. La sua Bella.

D'istinto guardò l'orologio: 21 e 30. Le ventuno e trenta del quattro gennaio. Erano dieci giorni che non la vedeva. Dieci giorni dalle sue labbra, dai suoi capelli, da quelle ore passate come se fossero nient'altro che sfuggevoli secondi. Se chiudeva gli occhi, se escludeva il resto del mondo, poteva ancora sentire il profumo. Il profumo di freddo e di nuovo che aleggiava sul portico. Risentì le sue mani grandi sulla pelle morbida di lei e i jeans cominciarono a gonfiarsi. Con disinvoltura, afferrò un cuscino e, quasi abbracciandolo, si coprì il bacino.

L'aveva baciata per ore, e lei si era lasciata baciare. Avevano sentito le dita intorpidirsi, la punta del naso congelarsi, Edward aveva cominciato a tremare sotto il maglione. Ma di lasciarla andare via, di staccarsi da lei, non se ne parlava. L'aveva trascinata in casa, tra le insistenti ma non troppo ferme proteste di lei, che continuava a ripetere che non voleva disturbare, che avrebbero svegliato tutti, che non voleva rovinare il Natale a nessuno. Non sapeva che in quella casa non c'era più niente da rovinare.

Ubriachi di baci, sussurrando i loro nomi e soffocando le risate, si erano lasciati cadere sul divano. L'aveva stretta tra le sue braccia, lei aveva abbandonato la testa sul suo petto. Per un'eternità, così. Senza pensare, senza parlare, a sentire il peso della stanchezza scivolare via.

Avevano visto un film, con il volume al minimo e i pop corn sulle ginocchia. Edward ne aveva preparato solo un sacchetto, così sarebbero stati costretti a diverselo, a toccarsi, a stare vicini. Il film lo aveva scelto lei, a lui faceva schifo ma non disse nulla. Per tutto il tempo non fece altro che guardarla, lo incantava il modo in cui la fioca luce azzurra della televisione tingeva il suo volto. Si specchiava nei suoi occhi enormi, illuminava i suoi denti bianchi. E mentre Cameron Diaz si lasciava andare al suo primo vero pianto, rinchiusa in un taxi e circondata dalla neve, lei lo guardò e timidamente gli sorrise.

"Vero, Edward?" la voce acuta di sua sorella lo riscosse.

"Come scusa?"
"Vero che è ingiusto fare i compiti durante le vacanze?" gli chiese, con due occhioni enormi che pregavano solidarietà. Lui stava per dargli ragione: ricordava che durante le vacanze amava stare ore e ore al pianoforte, o in compagnia dei suoi libri, si ritrovava a fare in fretta i compiti alla mezzanotte dell'ultimo giorno prima di tornare a scuola. Gli bastava poco, dava il massimo anche a notte fonda, con l'orologio che sembrava mangiarsi i minuti e il sole minacciava di sorgere da un minuto all'altro, lasciandolo senza tempo e senza scampo. Stava per annuire solidale, proprio come avrebbe voluto sua sorella, ma sua madre alzò con uno scatto la testa e lo rimproverò con un'occhiata.

"Ha ragione mamma, Rose." si affrettò a sentenziare. "Ti vuoi ritrovare all'ultimo minuto a fare i compiti che avresti dovuto fare in settimane?"

Esme abbassò lo sguardo soddisfatta, e continuò a dedicarsi all'uncinetto. Rosalie lo guardò imbronciata, ma si rilassò appena vide l'occhiolino di suo fratello, che era pazzo di gioia: sua madre si era appena comportata come una madre.

Tornò a guardare l'orologio: 21 e 45. Appena un quarto d'ora e l'aereo di Bella sarebbe atterrato. Le avrebbe dato il tempo di tornare a casa, disfare i bagagli, chiamarlo, e poi si sarebbe fiondato a casa sua. Come deciso, come promesso.

Gli sembrava di non vederla da un'eternità. E, anche se non osava ammetterlo, aveva una paura fottuta che tutti quei giorni avessero cambiato qualcosa. Troppe ore lontani, troppo presto. Aveva paura che non tornasse più da lui, che non tornasse com'era. Era una paura idiota, lo sapeva bene, e per questo la ignorava.

Quella sera, mentre lei guardava quel benedetto film e lui guardava lei, aveva pensato già a come programmare i giorni che li aspettavano. Il Capodanno, aveva sempre odiato quel giorno. Solo perché cambiava un numero in fondo alla data, tutti erano costretti a fare qualcosa. Costretti a partecipare ad un cenone, ad un trenino, ad un brindisi. Costretti a divertirsi, quando in realtà il peso di quella costrizione non faceva mai divertire nessuno. Ma quest'anno sarebbe stato diverso, quest'anno c'era lei.

Ed invece, la mattina di Natale, mentre Rosalie apriva estasiata i suoi regali e Edward fremeva dalla voglia di rivedere la ragazza che gli aveva fatto perdere la testa, il telefono di Bella si era messo a squillare. Fino a svegliarla, fino ad impaurirla. Suo padre, Charlie. Un infarto, era solo, e lei doveva correre da lui.

Edward l'aveva chiamata tutti i giorni, per sapere come stava suo padre, per sapere come stava lei. Aveva esultato e festeggiato con lei quando l'avevano dichiarato fuori pericolo, quando l'avevano dimesso dall'ospedale, quando tutto era tornato alla normalità. Ed aveva esultato e festeggiato ancora di più quando gli aveva annunciato che la sera del quattro gennaio sarebbe tornata.

Doveva fare una doccia, doveva prepararsi, a momenti lei avrebbe chiamato.

Si alzò, sentendo scricchiolare le gambe, e con una mano spettinò i capelli di Rosalie mentre le passava accanto. Lei non aveva ancora smesso di lamentarsi e di pettinarsi con le dita e lui non aveva ancora raggiunto le scale, quando il campanello suonò.

Il suo primo pensiero fu È lei, mi ha fatto una sorpresa. Non poteva essere nessun'altro.

A grandi passi raggiunse la porta, afferrò il pomello e lo girò. Dove si aspettava di vedere il delizioso volto di Bella, apparve il sorriso imbarazzato di una ragazza. Era bionda, i capelli lunghi le incorniciavano il viso. Un viso delicato, giovane, bellissimo. Era visibilmente a disagio, ma si sforzava di sorridere, e stringeva le dita intorno ai braccioli della sua sedia a rotelle.

Dietro di lei, con le mani che le accarezzavano le spalle, c'era lui.

Un completo grigio e una cravatta rossa.

Carlisle, suo padre.

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Capitolo 4
*** Caduta ***


Siete sempre più numerosi, non avrei mai immaginato di ricevere tutto questo affetto ed entusiasmo

Siete sempre più numerosi, non avrei mai immaginato di ricevere tutto questo affetto ed entusiasmo.

Grazie, grazie, grazie.

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Capitolo 4 – Caduta

 

Con due passi, spingendo la sedia a rotelle, Carlisle entrò in casa. Edward, ammutolito, non poté far altro che spostarsi e farli passare. Chiuse la porta dietro di sè e subito l'aria sembrò risucchiata dalla stanza. Nessuno riusciva più a respirare.

"Buonasera." li salutò Carlisle con aria solenne, come se fosse ad uno dei suoi convegni e stesse per esporre una delle sue noiose relazioni. Esme rimase seduta sul divano, pregando in silenzio di venire inghiottita dai cuscini. Rosalie si lasciò cadere sulle cosce il pezzo di stoffa che stringeva tra le mani e cercò subito gli occhi di suo fratello. La ragazza bionda continuava ad elargire sorrisi e Edward si ritrovò a chiedersi se fosse del tutto normale. Ma non ti rendi conto che non c'è proprio un cazzo da sorridere?

Carlisle ignorò con maestria il silenzio agghiacciante dei suoi familiari. "Lei è Tania."

Edward si fece avanti, e quando lo raggiunse gli sembrò addirittura di essere più alto. O forse era suo padre che all'improvviso sembrava basso. Piccolo, codardo e basso. Nonostante si sforzasse di apparire un gigante.

"Tania chi?" Le parole risuonarono nell'aria come una sfrecciata di lama.

Gli occhi di Carlisle si indurirono di colpo. Era come se si fosse accorto soltanto in quel momento che la stanza era carica non solo di silenzio, ma anche di rabbia. Soprattutto di quella di suo figlio.

"La mia compagna."

"Almeno è maggiorenne?" Bentornata, ironia. La sua migliore amica. L'unico modo per affrontare tutto quel dolore. L'unica scappatoia per non crollare.

Carlisle lasciò le spalle di Tania e si mise faccia a faccia con Edward. La durezza degli occhi di uno si mischiava con quella dell'altro.

"So che vi devo delle spiegazioni,"

"Come minimo, cazzo!"

"e ve le darò quando arriverà il momento. Ma adesso ci sono questioni più urgenti da discutere."

Questo stronzo, pensò Edward. Sparisce nel nulla per mesi, ci lascia alla deriva, se ne strabatte della sua famiglia, e poi torna a casa in forma smagliante, portandosi dietro una ragazzina e il suo solito viso da stronzo.

Carlisle si voltò verso il divano, dedicò un sorriso innaturale a sua figlia, che lo stava fissando terrorizzata, e poi si rivolse a sua moglie. "Esme, dobbiamo parlare."

"Non se ne parla!" sbottò Edward, mettendosi fra lui e il divano. Ma Esme si era già alzata.

Rosalie seguì l'esempio della madre, ma lei non si fermò. Continuò a camminare, fino a quando non trovò il fianco di suo fratello. Con un braccio gli circondò le gambe, come se volesse diventare l'ombra dell'unica persona di cui si fidava in quella stanza.

"Oh andiamo, Edward! Non esagerare! È solo una chiacchierata!"

Non esagerare? Ma io ti spacco la testa, ti spezzo le gambe, ti mando a fare compagnia alla tua amichetta a quattro ruote!

Non aveva pietà per nessuno, era furioso, incredulo, incazzato nero. Riusciva a trattenersi dallo scoppiare solo grazie a quella mano, quella piccola mano che gli stringeva i jeans. Una stretta che gli chiedeva aiuto e, allo stesso tempo, lo teneva ancorato all’umanità.

"Va tutto bene, Edward." Era sua madre, era la voce di sua madre. Incredibilmente calma e controllata. Passandogli accanto gli accarezzò un braccio e poi si avvicinò alla porta della cucina, facendo cenno a Carlisle di entrare.

"Allora vengo anch'io." sentenziò, fermo e deciso. Esme lo guardò, scosse la testa e poi accennò un sorriso. Edward avrebbe voluto urlare, prendere a pugni suo padre, pregare sua madre di salire in camera, mettersi a dormire e fingere che l'ennesimo cambiamento non fosse avvenuto. Che il traballante equilibrio che avevano raggiunto a fatica non fosse in pericolo. Ed invece, ricordandosi all'improvviso di quanto potesse essere meschino suo padre, disse soltanto: "Non firmare niente."

Tania si voltò all'improvviso. Ad Edward sembrò che lo guardasse male, ma se ne fregò.

"Non le fare firmare niente." ripetè ancora più risoluto, rivolgendosi di nuovo a suo padre.

Carlisle spalancò le braccia, come fanno nei film quando vogliono assicurarti che non sono armati, ed entrò in cucina seguito da Esme. Prima di sparire al di là della porta, però, lanciò un ultimo sguardo a Tania, che rimase lì, in silenzio, parcheggiata in mezzo al salotto.

 

Restarono soli. Edward, Rosalie e la nuova compagna del padre. Soli, imbarazzati e persi.

Edward indietreggiò fino a trovare il divano, ci si lasciò cadere come se le forze lo avessero abbandonato all'improvviso. Aveva bisogno di calma, silenzio, ordine. Doveva pensare, riflettere, pianificare la prossima mossa. O almeno intuire quelle di suo padre. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, dormire dodici ore di fila, dimenticare quanto quell'uomo riuscisse a farlo incazzare. Avrebbe voluto chiamare Bella, sentire la sua voce, dirle portami via.

Invece si voltò verso sua sorella, che gli si era seduta accanto. Lo guardava come per dire: E ora?.

Non lo so Rose, non ne ho idea.

Le posò una mano sulla testa, le lasciò un bacio sulla fronte.

"Non ti preoccupare, andrà tutto bene." le sussurrò sui capelli. E se lo ripetè un'altra volta nella testa, in silenzo, per crederci davvero.

Tania, quella ragazza giovane e strana, guidò la sedia a rotelle fino a raggiungerli. Si piazzò di fronte a loro, tra i due grandi divani, si portò le mani in grembo e sorrise. Lo stesso sorriso imbarazzato e fuori luogo che aveva accolto Edward alla porta.

Edward la guardò, le sembrò spaesata quanto lui, e per un attimo gli fece pena. Ripensò a come si era comportato, provò a vedersi con gli occhi della ragazza: non aveva salutato, aveva urlato, e con una battutina idiota aveva dato a lei della minorenne e a suo padre del pedofilo. Per un istante si vergognò, ebbe paura che quella sconosciuta pensasse che sua madre non gli avesse insegnato la buona educazione.

Poi guardò di nuovo sua sorella, il suo sguardo perso nel nulla, il suo corpo rintanato contro il suo, e la vergogna scomparve. Non aveva salutato per un motivo, aveva urlato per difendere sua madre, era stato maleducato perché negli ultimi mesi aveva camminato nella merda in cui l'aveva lasciato suo padre.

"Mi dispiace esservi piombata in casa così, senza neanche avvisare."

Era la prima volta che sentivano la sua voce, la prima volta che parlava.

Rosalie si irrigidì ancora di più. La schiena un pezzo di cemento contro lo schienale del divano. Guardò suo fratello e cominciò a pregarlo, in silenzio. Ti prego, parla te. Io non so cosa dire, non so nemmeno chi è. Parla te, parla anche per me. E come se la potesse sentire, come se quelle preghiere silenziose fossero arrivate dritte alle sue orecchie, Edward parlò. E pronunciando quelle poche parole a quella sconosciuta, in quel momento di imbarazzante silenzio, quando tutto quello che Rose capiva era che il suo piccolo mondo sarebbe cambiato di nuovo, fu come se l'abbracciasse. Sì, parlando l'abbracciava. Le sorrideva, le accarezzava i capelli, le cantava 'Ehi Jude' e gli ripeteva Ci penso io, penso a tutto io.

"Immagino non sia colpa sua." mormorò.

Le dette del lei. Perchè non la conosceva, perché non la voleva conoscere, perché la voleva tenere a distanza.

"Siete davvero bellissimi. Carlisle me l'aveva detto, ma credevo che i suoi occhi di padre esagerassero. Invece aveva proprio ragione!"

Per Edward fu come un calcio dritto sullo stomaco.

È così che ti ha parlato di noi? Così che ci ha descritti? Cos'altro ti ha raccontato? Che ti ha detto di me, di mia sorella, di mia madre?

"I suoi occhi di padre..." sussurrò Edward, dondolando la testa con un sorriso amaro sulle labbra.

Tania si zittì, capì che aveva scelto le parole sbagliate. Il primo passo falso con i figli del suo compagno. Si maledì e desiderò di tagliarsi la lingua. Ma decise che non era giusto fermarsi al primo ostacolo, prima o poi ce l'avrebbe fatta a conquistarli. Le avrebbero sorriso, avrebbero risposto con entusiasmo alle sue domande. Magari non stasera, stasera era troppo presto. Prima o poi.

"Ti chiami Rosalie, vero?" ci riprovò. Decise di rivolgersi alla piccolina, perché le sembrava avesse gli occhi gentili e, sicuramente, era meno arrabbiata del fratello. Non poteva sapere, però, che quel silenzio e quella compostezza nascondevano molto più dolore delle urla e della rabbia di Edward.

Rosalie alzò la testa con uno scatto. Capì che quella volta toccava a lei, Edward non poteva rispondere al posto suo. Non poteva, vero?

Biascicò un sì stiracchiato, annuendo più volte per dare alle parole quella forza che mancava nella voce.

"Vostro padre mi detto che sei molto brava a scuola,"

"Sì, è bravissima." sbottò suo fratello. "Siamo tutti bravi e belli. Proprio come le ha detto nostro padre."

La testa di Tania tornò ad abbassarsi, Rosalie tirò un sospiro di sollievo, Edward si rese conto di essere stato un'altra volta maleducato, ma ancora una volta se ne fregò.

Per un attimo ebbe paura che tornasse a tartassarli di domande, e allora gli venne l'istinto di cominciare per primo: Chi sei? Quanti anni hai? Come l'hai conosciuto? Perché sei su una sedia a rotelle? Dove vivete? Dove siete stati per tutto questo tempo?

Ma notò che lei rimaneva a testa bassa, senza aprire bocca, non sembrava volesse domandare qualcos'altro. Anzi, sembrava proprio che le fosse passata la voglia di chiacchierare. Allora Edward lasciò che il silenzio regnasse nella stanza, e serbò le domande per un altro momento.

Liberò un respiro più profondo degli altri, si sistemò meglio sul divano. Rosalie si stava torturando le unghie con i denti, Edward se ne accorse e le allontanò la mano dal viso. Lei tenne stretta quella del fratello e, con un sorriso complice, iniziò quel giochino che lui detestava: mano chiusa quasi a pugno incrociata con quella dell'altro, un giocatore deve improgionare il pollice dell'avversario e l'altro prova a non farsi acchiappare il dito. Uno spasso, insomma. Ma Rosalie sembrava già più spensierata. Contava solo questo.

Il cellulare vibrò all'improvviso nella tasca. Smise di giocare all'istante e lo prese tra le mani come se bruciasse. Sul display vide il suo nome e per un attimo gli mancò il fiato. Fece per alzarsi per andare a parlare con lei fuori, o in camera sua. Aveva bisogno di privacy mentre le spiegava che stasera non potevano vedersi. Era quasi in piedi, poi si rese conto che sua sorella sarebbe rimasta sola con quella Tania, allora restò seduto sul divano.

"Pronto?" Rosalie e Tania distolsero lo sguardo, gli concessero quel minimo di riservatezza che potevano offrirgli.

"Ti prego dimmi che sei già per strada! Non vedo l'ora di vederti!" La sua voce, le sue parole, furono una fitta al cuore. Avrebbe voluto andarci di corsa da lei, anche in ginocchio se fosse stato necessario. Ma era bloccato nel salotto di casa sua.

"Purtroppo c'è un problema," sussurrò. "Non posso muovermi, non posso uscire."

"Ah." Sentì la delusione nella sua voce, e si agitò ancora di più sul bordo del divano. "Ma va tutto bene, vero? Non mi far preoccupare!"

No, non va tutto bene. È tornato quel pezzo di merda di mio padre.

"Sì, tutto apposto. Ti spiego tutto appena ci vediamo."

"State bene?" Parlava al plurale. Parlava di loro, di Edward e di Rosalie.

"Alla grande, signorina Swan." Bella si arrabbiava sempre quando la chiamava così perché non voleva infastidire la bambina, aveva paura che quella situazione la disturbasse. Rosalie, invece, non ci pensava nemmeno lontanamente a farsi disturbare: il suo meraviglioso fratello e la sua maestra preferita si piacevano e parlavano per ore al telefono, era euforica.

"Edward!" Si indispettì come sempre. La sua voce arrivò anche alle orecchie di Rosalie, che sorrise divertita a suo fratello.

"Sicura che non sia un problema?"

"Non scherzare... Ci vedremo domani, un giorno in più non è niente!" Non era vero, non vedeva l'ora di vederlo, di baciarlo, di farsi stringere tra le sue braccia. Ma lo disse lo stesso, con tutta la naturalezza di cui era capace.

"Ci sentiamo domani, allora?"

"Certo. Buonanotte, Edward."

"Buonanotte, signorina Swan." Lei rise, lui si godè la sua risata e poi riattaccò.

 

Quando i suoi genitori uscirono dalla cucina, Edward cercò subito gli occhi di sua madre. Non riuscì a trovarli: erano bassi, fissi sul pavimento. Si appoggiava al muro, come se avesse bisogno di aggrapparsi a qualcosa di solido. Suo padre, intanto, si avvicinò a Tania. Le fece un sorriso che suo figlio non gli aveva mai visto sulle labbra e la spinse fino a raggiungere la porta. 

"Allora è deciso," Carlisle si rivolse ad Esme. "Domani pomeriggio alle due, davanti allo studio del mio avvocato."

Edward rimase impietrito, c'erano così tante parole sbagliate in quella frase. Senza contare che sembrava quasi un ordine. Impiegò qualche secondo per abituarsi all'idea dei suoi genitori davanti ad un signore in giacca e cravatta. Uno sconosciuto che, a quanto pare, avrebbe messo fine a tutti quegli anni di matrimonio.

Esme annuì, con la testa ancora bassa e la schiena appoggiata alla parete.

"Buonanotte, ragazzi." nemmeno li guardò, era già al di là della porta. Arrivò anche la voce di Tania che li salutava, e poi la porta si chiuse dietro di loro.

Se ne andarono così, lasciandoli nel silenzio nel quale li avevano fatti sprofondare.

Edward guardò sua madre, con la disperazione in agguato. Con gli occhi la supplicò di non crollare, di restare con loro, di tornare ad insegnare l'uncinetto a sua figlia. Cazzo mamma, ce la puoi fare.

Ma lei ricambiò quello sguardo con la disperazione che ormai aveva preso il sopravvento. Un occhio perse una lacrima, che le accarezzò la guancia e poi si lanciò nel vuoto. A passi affranti raggiunse le scale e si rintanò nella sua stanza.

Quella sera, ebbe la sua prima ricaduta.

 

"Posso leggere un po'?" Edward era così furioso che anche la voce di sua sorella riusciva ad innervosirlo.

"No, Rose. Falla finita. È tardi, devi andare a letto."

"No!" urlò, rovesciando su suo fratello tutta la voce che aveva trattenuto nell'ultima ora. "Voglio leggere! Non rompere!"

"Vuoi farmi incazzare anche te, eh? Fai come cazzo ti pare!" Afferrò il libro di Harry Potter appoggiato sulla mensola sopra il camino e lo buttò sul divano, accanto alle gambe di sua sorella.

Lei lo afferrò rapida, lo aprì, incastrò il segnalibro sotto la copertina ed iniziò a leggere. Come per magia, riuscì subito a liberare la mente, ad immergersi in quel mondo stupendo che non era il suo. Sentì i muscoli della faccia rilassarsi, le spalle non erano più rigide. Era ad Hogwarts, e non c'era più bisogno di sentirsi minacciati.

Non riusciva, però, ad ignorare quella fastidiosa sensazione di senso di colpa. Alzò la testa e guardò suo fratello, che cammina avanti e indietro davanti a lei con il cellulare in mano.

"Leggo solo qualche pagina, poi vado subito a letto. Te lo prometto."

Edward la guardò male, le fece la linguaccia e lei ridacchiò.

"Mi dispiace averti risposto male. E mi dispiace anche che non hai potuto vedere la signorina Swan."

"Già," borbottò lui. "Dispiace tanto anche a me." Si lasciò cadere di nuovo sul divano, accanto a lei.

"Ma questi libri non sono troppo per te?" le chiese, un po' confuso.

"Troppo che?"

"Boh... troppo lunghi, troppo difficili. Hai sette anni, Rosalie!"

Lei spalancò gli occhi indispettita. "Quasi otto, e ho fatto la primina! La signorina Swan ha detto che ho talento e che posso farcela. E mi ha detto anche che se mi accorgo che non ce la faccio, posso smettere senza problemi e leggerli tra qualche anno."

Edward si rese conto che l'aveva offesa, che in qualche modo rischiava di scoraggiare la sfida che animava sua sorella. Le sorrise sincero, le spettinò i capelli. "Sono sicuro che ce la farai."

Lei, soddisfatta, si rituffò tra le pagine. Edward chiuse gli occhi per un istante, ascoltò il suono del suo respiro leggermente affannato e poi li riaprì. Le dita erano già sui tasti del telefono.

Jacob, scusa per l'ora. Ho avuto un contrattempo, domani non potrò esserci per il turno del pranzo. Spero non sia un problema, mi dispiace per il poco preavviso. Buonanotte, e scusa ancora per il disturbo.

Non l'aveva mai fatto. Non aveva mai preso un giorno di ferie, non aveva mai saltato neanche un turno, non aveva mai chieso una sostituzione. Ma questa volta era obbligato: il giorno dopo doveva presentarsi ad un appuntamento dall'avvocato di suo padre.

Guardò il telefono. Voleva farsi sentire, ma aveva paura di sembrare un poppante. Dopo attimi di indecisione, accantonò le seghe mentali e decise di correre il rischio.

Non ti ho nemmeno chiesto com'è andato il volo. Sono imperdonabile.

Rosalie era ancora persa tra le pagine del libro, con la testa appoggiata su una mano e le gambe incrociate.

"Sei sicura che non ti dia fastidio che io esca con Isabella?"

"Sì." Non alzò nemmeno lo sguardo.

"Sì cosa? Sì sei sicura, o sì ti da fastidio?"

Sollevò la testa scocciata, roteò gli occhi al cielo come se avesse a che fare con un bambino di tre anni che fa i capricci. "Sì, sono sicura che non mi dia fastidio. Ora posso tornare da Harry, Ron e Hermione che sono molto più interessanti di te e la signorina Swan?"

Le sorrise, ma lei non se ne accorse: aveva già riaffondato la testa tra le pagine.

Il cellulare vibrò. Edward aspettò qualche secondo prima di leggere per godersi la meravigliosa sensazione che l'attesa delle sue parole riusciva a creare.

Hai ragione, domani dovrai impegnarti parecchio per farti perdonare.

Quella notte, rigirandosi tra le coperte, non fece altro che ripetersi quelle parole.

Ignorava la sensazione di incertezza, la paura di nuovi pianti, la fatica di nuove battaglie. Ignorava perfino sua madre che vomitava nella stanza accanto. Con fatica, ma per qualche minuto riuscì a non pensare che in quella casa era ricominciato a scorrere l'alcool e il veleno.

Pensò soltanto a lei.

Domani l'avrebbe rivista.

 

 

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Capitolo 5
*** Arretrati ***


Continuo a ringraziarvi

Continuo a ringraziarvi. Tutti i lettori silenziosi e tutti quelli che, a fine lettura, trovano la voglia e il tempo di recensire. Ogni parola è una spinta ed un sorriso in più.

Grazie.

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Capitolo 5 – Arretrati

 

Aspettavano davanti a quel portone di legno e si sentivano congelare. Non serviva a niente rinchiudersi nei cappotti, sfregarsi le mani, nascondere il viso nelle sciarpe. I loro passi nervosi suonavano secchi sul marciapiede.

"Lo sapevi già?" chiese Edward. Sua madre lo guardò confusa. "Che frequentava un'altra donna, che stava con quella Tania. Lo sapevi?"

Esme fece spallucce, per un istante sembrò una bambina. "Lo sospettavo, in fondo credo di averlo sempre saputo. Ieri sera mi ha detto che stanno insieme da un anno."

Un anno? Perché gli faceva male il petto? Perché aveva voglia di vomitare?

Studiò gli occhi di sua madre e gli parvero stranamente calmi e controllati. Sospettava che dietro a tutto quel controllo ci fosse qualche goccia di vodka.

Quando videro arrivare una berlina scura tirarono un sospiro di sollievo e, allo stesso tempo, si immobilizzarono. Scesero due uomini in giaccia e cravatta e li salutarono: Carlisle con un cenno del capo e l’avvocato con due calorose strette di mano. Seguirono lo sconosciuto lungo le scalinate di marmo e si accomodarono tutti in una grande sala. Quella delle riunioni, immaginò Edward. Non si concesse il tempo di guardare le pareti tappezzate di foto ed onorificenze, i mobili di legno lucidati, il vassoio pieno di tazzine e biscotti: aveva gli occhi fissi su suo padre.

Si avvicinarono al grande tavolo che troneggiava al centro della stanza e si sedettero. Edward e sua madre da un lato, Carlisle e l'avvocato dall'altro. Quest'ultimo, da buon orchestratore, prese parola per primo.

"Buongiorno," la sua voce era forzatamente accogliente quanto il suo sorriso. "Mi chiamo Garrett Denali e sono l'avvocato del signor Cullen. Vi ringrazio per essere venuti,"

In quel momento esatto entrò un altro signore in giacca e cravatta. Molto più disordinato, spettinato e grassoccio di quello che avevano di fronte. Li raggiunse quasi correndo e, con il fiato corto, si affrettò a presentarsi.

"Scusatemi, scusate il ritardo. Sono Mike Newton, l'avvocato della signora."

Allungò la mano sudaticcia verso il suo collega, che continuava a sfoggiare il sorriso di circostanza, condito adesso anche da un pizzico di soddisfazione e superiorità, e poi verso Carlisle, che la strinse come se potesse attaccargli la peste. Con una smorfia sgangherata stampata sulle labbra, quello che a quanto pare era il loro avvocato si accomodò accanto ad Esme, con la pancia strizzata dal bordo del tavolo. I suoi occhi incontrarono quelli di Edward, che lo guardava già incazzato nero. Il fatto che lo avessero scelto completamente a caso sfogliando le pagine gialle gli dava il diritto di presentarsi in ritardo con la grazia e la professionalità di un elefante? Forse sì.

"Certo che potevi vestirti un po' meglio." gli sussurrò all'orecchio sua madre. Indossava jeans e felpa, era comodo, era a suo agio ed era diverso da quel gruppetto di pinguini imbalsamati. E lei, sua madre, tra tutte le preoccupazioni che potevano tormentarla decideva di assecondare proprio quella che riguardava gli abiti e la presenza di suo figlio. Quella più facile, forse. Quella meno dolorosa. Lui sbuffò ignorandola, si sistemò meglio sulla sedia e si preparò ad ascoltare. Capì fin da subito che l'incontro sarebbe stato condotto dall'avvocato Denali, il loro si limitava ad annuire e a subire.

Carlisle aveva già presentato l'istanza di divorzio, mostrare i documenti ad Esme era il motivo per cui si era presentato a casa loro la sera prima. Edward aveva fatto bene a preoccuparsi, la sua era stata un'intuizione giusta. Mancava solo la firma di sua madre e la discussione dei termini.

Con gesti ampi e teatrali Garrett tirò fuori dalla ventiqattrore fogli e cartelle.

"Come assegno mensile proponiamo duemila dollari. Una bella cifra." affermò, quasi sovrappensiero, come se il rumore delle carte che si distendevano sul tavolo potesse coprirgli la voce. E fu proprio in quel momento, tra carte e parole, che intervenne per la prima volta Edward.

"Di sicuro non sono un esperto come lei, avvocato." La voce era composta, educata, ma vide lo stesso suo padre fremere dall'altra parte del tavolo. "Ma so che, dopo la separazione, chi se ne va deve assicurare uno stile di vita pari al precedente. Sbaglio?"

"Giusto, Edward." Lo chiamò per nome, come se lo conoscesse, e gli sorrise accondiscendente, come se fosse un bambino.

"Allora duemila dollari non bastano. Almeno tremila, mille dollari ciascuno."

Lasciò che le sue parole, forti e nette, aleggiassero nell'aria e poi guardò sua madre. Lei sapeva alla perfezione quanto guadagnava suo marito, avrebbe potuto ribattere e sparare molto più in alto, ma non lo fece. Si limitò ad annuire timidamente, sostenendo suo figlio.

"E va bene," tuonò Carlisle. Era scocciato, stava sprecando il suo tempo prezioso lì con loro. "Che tremila dollari siano."

"Vogliamo anche un'auto." ribattè pronto Edward.

"Cosa?"

Fu suo padre a rispondergli, ma lui parlò guardando l'avvocato. "Prima ne avevamo una, e ne abbiamo bisogno ancora. Senza contare che prima o poi la mia maledetta bicicletta cadrà a pezzi. Vogliamo un'auto."

Un'occhiata tra Garrett e Carlisle, e anche questa richiesta venne soddisfatta. Subito dopo vennero stabilite tutte le altre condizioni che avrebbero permesso a Carlisle di sbarazzarsi della sua vecchia famiglia: la casa resterà alla moglie e ai figli, l'affidamento sarà congiunto, le visite settimanali cambieranno in base alle esigenze dei ragazzi. A mezza voce, Carlisle assicurò che avrebbe vissuto nelle vicinanze.

"Gli arretrati?" Ancora una volta, i grandi discorsi degli avvocati vennero interrotti dal ragazzo in felpa.

Questa volta perfino Garrett apparve spaesato, preso in contropiede. "Arretrati di cosa?"

Edward lanciò un'occhiata fulminea a quel Mike Newton. Quando hai intenzione di iniziare a fare il tuo cazzo di lavoro? Scosse leggermente la testa e poi appoggiò i gomiti sul tavolo. Sentì la mano di sua madre stringergli la coscia attraverso i jeans. Non sapeva se era per sostenerlo o per fermarlo, nel dubbio andò avanti.

"Il suo cliente se n'è andato di casa a settembre, e noi non abbiamo mai visto nè lui nè i suoi soldi. Sono quattro mesi, dodicimila dollari."

E gli venne assicurato anche il pagamento degli arretrati.

 

Quando uscirono una folata di vento li investì. Mentre madre e figlio era impegnati ad abbottonarsi i cappotti, Carlisle bofonchiò un saluto e si incamminò a piedi verso il centro. Edward lo seguì con lo sguardo, poi fissò Esme. "Aspettami qui, torno subito."

Non fece in tempo ad ascoltare le proteste e le preoccupazioni di sua madre perché aveva già iniziato a camminare. Passi veloci, scattosi, incazzati. Lo raggiunse quasi subito, lo afferrò per una spalla e suo padre fu costretto a guardarlo.

"Ieri sera hai detto che ci devi delle spiegazioni." Si sforzò per scandire le parole, con il vento freddo che gli frustava la faccia e tentava di portargli via la voce. "Beh, le voglio adesso."
"Edward, Cristo Santo. Sono di fretta, non lo vedi?"

"Non mi provocare, Carlisle." Non lo chiamò papà, non ce la fece. Riuscì a malapena a ringhiare il suo nome.

"E va bene," scosse la testa, si portò le mani alle tempie. "Cosa vuoi sapere?"

"Perché te ne sei andato?" Dai, questa è facile.

"E' una lunga storia." tagliò corto.

"Allora sarà meglio che ti sbrighi. Hai fretta, giusto?"

"Senti, Edward. Le cose tra me e tua madre non andavano bene da molto, molto tempo."

"E hai deciso di consolarti con una venticinquenne, fin qui ci sono."

Lo guardò male, aveva lo stesso sguardo di quando stava per metterlo in punizione. Ma questa volta non poteva. Non poteva zittirlo, negargli la cena, spedirlo in camera sua.

"E' davvero una brava ragazza. Avrai modo di conoscerla, tu e tua sorella avrete modo di conoscerla. E vi piacerà, te lo assicuro. È davvero una ragazza adorab-"

"E dovevi per forza scappare? Non potevi stare con lei senza sparire come uno schifoso latitante?"

Urlava, sbraitava, contro la faccia che tanto odiava. E Carlisle improvvisamente si fece più serio, cupo, sembrava quasi in difficoltà. Edward credette di vedergli addirittura gli occhi un po' lucidi, ma forse era solo il vento.

"A settembre... a settembre Tania ha avuto un incidente. Un grave incidente. Si è dovuta sottoporre a tante operazioni, costose e soprattutto faticose. Ha perso l’uso delle gambe, da un giorno all’altro si è ritrovata su una maledetta sedia a rotelle. Dovevo starle accanto, Edward. Dovevo dedicarmi completamente a lei."

Alzò la testa e guardò suo figlio negli occhi. Si denudò di fronte a lui, gli mostrò quello che realmente era:  un uomo innamorato che soffriva per il dolore della sua donna.

"Aveva bisogno di me, lo capisci?" Aveva perso la sua solita compostezza, era disperato. "Lo capisci, Edward?"

Lo capiva? Non lo sapeva. Non sapeva più nulla. Ma, tra tutte quelle novità e tutta quella confusione, una sola era la certezza: non poteva perdonarlo, non poteva dimenticare tutto il male chiuso in casa sua per mesi. Tutto quel male lo aveva avvelenato.

"Peccato che mentre eri impegnato a fare il buon samaritano ti sei scordato di fare il padre."

Gli sputò contro le ultime parole, gli dette le spalle e tornò da sua madre.

 

Tornando verso casa, con Esme che arrancava al suo fianco, non riuscì a parlare. Sembrava che la voce si fosse congelata e che il cervello non funzionasse più. Era bloccato, in pausa.

Riusciva a pensare solo ad una cosa, solo ad una persona. E quando pensava ai suoi capelli morbidi riusciva perfino a dimenticare il freddo. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e le dita scivolarono ansiose sui tasti.

Preparati, stasera ti porto a cena fuori.

Finalmente l'avrebbe rivista. Finalmente il primo appuntamento. Il primo appuntamento vero, con i sorrisi, l'imbarazzo, i baci. E questa volta non poteva fallire. Lei non era una delle tante, non era una di quelle da poter dimenticare dopo la seconda serata andata alla deriva. Lei no.

Avrebbe noleggiato un'auto... Dio, per lei avrebbe noleggiato perfino una limousine. Avrebbe prenotato un ristorante di lusso, avrebbe tirato fuori l'abito per le occasioni speciali, quello che piaceva tanto a sua madre. Avrebbe speso uno stipendio intero, ma non gli importava.

Il telefono vibrò nella sua mano ghiacciata.

Non vedo l'ora. Ti passo a prendere alle 20.

Lesse il messaggio, vide l’auto noleggiata svanire e sentì un po' di orgoglio sbriciolarsi. Ma alla fine lo mise da parte e si arrese a quel piccolo sorriso che gli solleticava le labbra.

 

Il colpo di clacson lo fece sobbalzare. Si guardò un'ultima volta nello specchio.

"E' arrivata, è qui." Rosalie apparve alla porta e fece aumentare l'ansia del fratello.

Jeans, maglioncino, scarpe nè eleganti nè sportive.

"Può andare?" le chiese.

"Sì, stai bene."

"Mamma dov'è?"

"In camera." rispose, con voce improvvisamente vuota e distaccata. "Sù muoviti, non la fare aspettare!"

Afferrò il cappotto, le chiavi, il cellulare. Si infilò il portafoglio nella tasca dei pantaloni e si inginocchiò davanti a Rose. Le dispiaceva lasciarla sola, l'aveva già fatto tante volte quando doveva andare alla tavola calda, ma questa volta era diverso. Le aveva preparato la cena – una cena che sua madre, tornando alle care vecchie abitudini, aveva rifiutato con un lamento – e, dopo mangiato, l'aveva vista lanciare un’occhiata al puzzle da completare con aria sognante.

Edward aveva paura di tutte quelle cose che sua sorella non riusciva a dire, né a lui né a nessun altro al mondo. Tutte quelle emozioni che le ribollivano in quel corpo così piccolo ma che prima o poi sarebbero scoppiate, distruggendola.

"Non ti preoccupare," lo anticipò. "Starò benissimo. Tra poco mi lavo i denti e vado a letto."

"Non leggere troppo." Le lasciò un bacio sulla fronte.

"Solo qualche pagina" sulle labbra le si dipinse un sorriso furbo e poi, scappando in camera sua, gridò: "Divertitevi!"

Prima di scendere le scale, Edward bussò alla porta di sua madre.

"Mamma, io vado!" Nel silenzio, distinse un mugolio. Almeno era sempre viva. Ubriaca fradicia, ma viva.

Bella era appoggiata sul cofano della macchina, con le mani chiuse intorno ad una pochette. Indossava i jeans, una giacchetta stretta sotto il seno, un paio di stivali bassi. Ed era bellissima.

Edward evitò di attraversare di corsa il giardino solo per conservare un minimo di amor proprio, ma quando le fu vicino abbastanza da toccarla, l'afferrò per i fianchi e la sollevò in aria. Respirò il suo profumo, sorrise sui suoi capelli. Gli sembrava di essere sbarcato su un altro mondo senza neanche essersene accorto.

"Sei bellissima." sussurrò, dopo un tempo ed un abbraccio che sembrarono infiniti.

Lei lo guardò, gli occhi le brillavano. "Tu invece sei orribile. Inguardabile." E scoppiò in una delle sue risate. Quelle piene, imbarazzate e calde che facevano impazzire Edward.

"Forza, sali in macchina." Senza smettere di sorridere, aprì la sua portiera e si mise al volante. Si voltò verso di lui. "Hai prenotato in un ristorante, vero?"

Lui rispose subito, come se volesse dimostrarle che aveva pensato a tutto, che non doveva preoccuparsi di niente. Poteva gestire tutto quanto, anche se non aveva una macchina ed era costretto a farsi scarrozzare. "Certo. È un ristorante bellissimo, ci andavamo sempre dopo i concerti."

"I tuoi concerti?" chiese curiosa. Edward annuì, godendosi la sua espressione attenta. "Prima o poi mi dovrai far sentire quanto sei bravo, lo sai vero?"

"Prima o poi."

"Comunque, mio caro pianista, devi disdire la prenotazione." Lo guardava con gli occhi accesi ed emozionati, e non riuscì a non arrossire.

"Scusa?"

"Hai capito bene. Chiama il ristorante e digli che stasera non avranno l'onore di averci come ospiti."

"E perché mai dovrei fare una cosa del genere?"

"Prima di tutto perché te lo dico io, e poi perché ho altri progetti per noi due."

Edward la guardò, mentre si metteva la cintura e girava le chiavi, e gli sembrò diversa. Più spigliata, più intraprendente, nonostante il rossore. Ancora più donna. Era così sicura di sè che lo fece quasi eccitare. Capì che si sarebbe lasciato portare ovunque, avrebbe accettato qualsiasi suo progetto. Qualunque cosa, per quel noi due.

Parcheggiò accanto al marciapiede, in una strada buia e poco trafficata. Edward la seguì in silenzio, curioso ma paziente. Percorsero un vicolo stretto e quando svoltarono erano all'entrata di un parco. Gli alberi e le panchine erano decorati con tante piccole lampadine, la strada che tagliava l'erba era ordinata e piena di sassolini. Il vento per fortuna era calato, tutto sembrava sospeso, in pace. Ad Edward parve di sentire lo stesso profumo di calma e felicità che aleggiava sul portico di casa sua la sera della Vigilia.

"Magico, vero?" sussurrò lei.

C'era già stato, ce l'aveva portato sua madre qualche volta, quando era piccolo. Forse perché erano passati tanti anni, forse perché lui era cresciuto, o forse perché era lì con Bella, ma sembrava tutto completamente nuovo. "Si, magico."

Passarono accanto ad una pista di pattinaggio quasi deserta, ignorarono due innamorati stretti sotto un gazebo di legno. Camminavano lentamente, come se il tempo non ci fosse. Edward le prese la mano, e tutto diventò magico davvero.

"Eccoci."

C'era un piccolo baracchino, incastrato tra due immensi alberi. L'insegna era luminosa e un uomo che sembrava un gigante chiaccherava allegramente con un cliente.

"Hot-dog?"

"Non ti piacciono?" gli chiese, ad un tratto preoccupata.

Edward la guardò negli occhi e si rese conto che l'aveva fatto per lui. Aveva evitato che noleggiasse un'auto, che mangiassero in un ristorante di lusso, che spendesse uno stipendio per il loro primo appuntamento. Avrebbe voluto dirle che non importava, che tutti quei soldi li avrebbe spesi più che volentieri. Avrebbe voluto portarla davvero in un posto lussuoso, dove un cameriere le versava il vino e la trattava da signora. Ma non parlò. Non seppe far altro che commuoversi davanti a quella donna a cui era bastato così poco per conoscerlo e per capirlo. Lasciò che l'eco della sua domanda si disperdesse tra gli alberi, e la baciò.

 

Erano seduti su una panchina, le gambe di Bella distese sulle cosce di Edward. Avevano finito gli hot-dog, bevuto le loro bibite ed avevano anche fatto il bis. Edward si era accorto che lei tremava, e gli aveva dato la sua giacca. Adesso era lui a tremare come una foglia e malediva la favolosa idea di non indossare una camicia sotto quel maglioncino, ma lo sforzo per non farlo notare a lei riusciva quasi a scaldarlo.

Avevano già parlato del viaggio di Bella, della salute di Charlie, di quanto si erano mancati, di quanto tutto era più bello adesso. Ma nessuno dei due aveva accennato a Rosalie, a Esme, a Carlisle.

"Ieri sera è tornato mio padre." Lo disse veloce, tutto d'un fiato, come si fa quando si strappano i cerotti. Lei lo guardò con gli occhi traboccanti di preoccupazione, poi gli appoggiò la testa sul petto e lui la circondò con le braccia.

“Non per restare,” continuò, raccogliendo la forza da quell'abbraccio. "è tornato per chiedere il divorzio e presentarci la sua nuova compagna."

"Edward, mi dispiace."

"Lei è giovane, bella, gentile. Si chiama Tania. Ed è sulla sedia a rotelle." Sentì le sue parole vacillare ed il corpo di Bella irrigidirsi contro il suo. "Ci ha lasciati perché lei ha avuto un incidente ed aveva bisogno di lui." Lei allungò una mano e gli accarezzò i capelli. Lui lasciò cadere la testa fino ad abbandonarsi sulla sua fronte. "Bella... non riesco a perdonare mio padre, non riesco a provare compassione per Tania. Sono una persona orribile."

Bella lo abbracciò ancora più forte e lui si rifugiò in quelle braccia. Chiuse gli occhi, e ad un tratto fu solo silenzio. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì ad ignorare quella sensazione pungente che gli torturava lo stomaco e gli ripeteva che non si sarebbe mai sistemato niente. Tutto sarebbe continuato a crollare, fino a soffocarlo tra le macerie.

 

 

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Capitolo 6
*** Occhi lucidi ***


Continuo a ringraziarvi di cuore

Continuo a ringraziarvi di cuore.

Sono sempre più felice/emozionata/incredula di ricevere tutte queste recensioni e visite.

Grazie mille.

Prima di lasciarvi al capitolo, ci tengo a fare un grande in bocca al lupo a chiunque stia affrontando l’esame di maturità. Stamani la terza prova, poi l’ultimo sforzo dell’orale e finalmente sarete liberi!

Un’ultima cosa, ultima davvero: vi consiglio di dare un’occhiata a questo sito (c’è anche la pagina facebook), e ringrazio Martina per aver deciso di consigliare anche questa storia.
Buona lettura. 

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Capitolo 6 – Occhi lucidi

 

Edward lavorò tutto il giorno, dall’apertura alla chiusura, dalla colazione agli snack notturni. Jacob Black lo controllava, dal magazzino o dai tavoli che occupava per chiacchierare allegramente con i suoi migliori e più affezionati clienti. Gli lanciava occhiate sbieche, con un ghigno divertito sulle labbra. Tutto nella sua faccia bisbigliava: Visto, ragazzo, cosa succede a darmi buca senza preavviso con un messaggino del cazzo?

Prima di pranzo, a metà pomeriggio e dopo cena, Edward aveva telefonato a casa. Aveva sempre risposto Rose. Le aveva chiesto come stava, se era pronta per tornare a scuola il giorno dopo, si era raccomandato di fare i compiti e di non distrarsi troppo. Lei gli aveva raccontato che aveva mangiato tutto quello che lui aveva lasciato nel forno, aveva aggiunto qualche nuovo pezzo di cielo al loro puzzle, e non aveva esagerato con la lettura. Esme l’aveva aiutata con le tabelline, ma poi era salita subito in camera “perché era tanto stanca”.

Tirò giù con forza la saracinesca, facendola ruggire nel buio della notte. Mentre il respiro gli si congelava davanti agli occhi, pensò a Jacob. Alla sua poca comprensione, alla sua assente voglia di conoscerlo e capirlo, alla voglia – apparsa in quel momento per la prima volta, ma che sembrava gli bruciasse nello stomaco da sempre – di salutarlo, dare le dimissioni, tornare ai libri che tanto amava. E mentre i piedi spingevano sui pedali e le dita stringevano con forza il manubrio ghiacciato, abbandonò i pensieri sul suo datore di lavoro e si concesse qualche pedalata serena pensando a lei. Alla risata capace di riempire il parco intero, alle labbra carnose macchiate di maionese, alle guance arrossate dal freddo e dall’imbarazzo, alla sua giacca che sulle spalle di Bella faceva l’effetto di un abito da sera. Come ormai succedeva dal giorno di Natale, quella deliziosa presenza nei suoi pensieri funzionò come un miracoloso calmante ed Edward riuscì ad arrivare a casa senza essere incazzato con il mondo intero.

Girò la chiave, aprì la porta e la prima cosa che pensò fu: vodka. L’odore pungente aleggiava nelle stanze, fino ad invadergli le narici. Si lasciò guidare dal presentimento orribile che quella banfata di alcool aveva sollevato e a passi svelti raggiunse la cucina. Vide sua madre, abbandonata su una sedia, con i capelli arruffati, le mani che le reggevano la testa ed un bicchiere vuoto davanti alla faccia. Rinunciò a tutte le speranze, tranne una: non gli rimase che pregare che sua sorella si fosse addormentata prima di vederla in quello stato.

“Mamma…” La voce venne fuori un sussurro, così sottile che perfino lui stentò a sentirlo.

Scostò una sedia dal tavolo e si piazzò davanti a lei, che intanto aveva alzato la testa con un gemito. “Mamma, non possiamo andare avanti così. Dobbiamo fare qualcosa, devi fare qualcosa… questa volta davvero. Cercheremo una clinica, una bella clinica. Io ti aiuterò, lo sai-“

Lo interruppe scuotendo la testa e, con la mano tremante, gli strinse l’avambraccio. Liberò un respiro più lungo e pesante degli altri, Edward socchiuse gli occhi e finse che le sue parole e il suo alito non puzzassero di vodka. Dopo quella giornata infernale, Dio solo sa quanto bisogno aveva del profumo di sua madre.

“Non possiamo.” Nonostante gli occhi lucidi e le labbra torturate dai denti, la voce era ferma, risoluta. “Non possiamo Edward, non ora. È tornato tuo padre, lo capisci? Cosa pensi che succederebbe se scoprisse come sto, come sto davvero? Vi perderei, vi perderei per sempre. Non possiamo, non possiamo…”

Le prese la mano, intrecciò le dita alle sue. Strinse forte, per essere sicuro che sapesse che lui era lì, con lei, e che non aveva intenzione di farla sprofondare ancora di più.

Lasciò cadere la testa sul tavolo, si abbandonò al buio degli occhi chiusi e al tepore della stanchezza. E aspettò.

 

Le piccole mani di Rose tiravano le lenzuola, gli scuotevano le spalle, gli facevano il solletico sotto i piedi. In quei secondi di opaco dormiveglia, Edward si ricordò del suono fastidioso della sveglia che gli trapanava le orecchie e della sua mano che con un tonfo la zittiva, facendo tornare il silenzio e la pace nella stanza. E proprio come qualche minuto prima aveva ignorato la sveglia, adesso stava cercando di ignorare sua sorella.

“Edward? Svegliati, è tardi!” Smise di scuotergli le spalle e, con un movimento secco, afferrò il piumone e lo tirò in fondo al letto. Edward, coperto solo dai boxer, tentò di nascondere il freddo e il sonno affondando la testa sotto il guanciale.

“Ho sonno…” Far uscire la voce, ammortizzata dalle coperte, richiese uno sforzo sovraumano.

“Non ce la fai?” Aveva smesso di chiamarlo, di toccarlo, si era arresa. “Vado da sola? Se mi dai il permesso vado a piedi, tanto la strada la so.

Furono quelle parole, insieme al pensiero di sua sorella sola davanti alla scuola, che lo svegliarono. In un attimo fu in piedi, le dita nei capelli e la bocca aperta in uno sbadiglio.

“Sono pronto, prontissimo.” Afferrò una maglietta appallottolata sulla sedia e un paio di jeans abbandonati sul pavimento. “Il tempo di mettermi le scarpe e andiamo.”

Con un sorriso Rosalie si sistemò lo zaino sulle spalle, si chiuse con cura il piumino fino a coprire il collo e, proprio con quel sorriso, lo ringraziò.

Il vento gli bucava la faccia e gli torturava gli occhi ancora mezzi chiusi. Pedalava veloce e con fatica, costringendo i muscoli delle gambe a svegliarsi in fretta. Rosalie era al sicuro tra le sue braccia, aggrappata al manubrio e appoggiata al suo petto. Dondolava le gambe sopra l’asfalto che correva veloce e liberava l’emozione per il ritorno a scuola cantando una delle sue canzoncine preferite. Edward fermò la bicicletta proprio davanti al cancello della scuola, aiutò sua sorella a scendere e rimase seduto sul sellino. Pronto a rivederla, pronto a ripartire.

Mentre Rose salutava i compagni che scendevano dalle macchine dei genitori, lui alzò lo sguardo. E lei era lì. Come prima, come sempre. Aveva i capelli sciolti, una ciocca testarda continuava a volarle sul viso e lei pazientemente la riportava dietro l’orecchio. Anche da lontano, Edward riusciva a rievocare ogni lineamento del suo viso: la bocca a forma di cuore, la piega affusolata degli occhi, il piccolo neo vicino al labbro superiore. Ancora non si era accorta che la stava osservando, che tra tutti quei bambini, genitori e babysitter c’era anche lui. Edward adorava scrutarla da lontano, studiare come si muoveva nel mondo, nel suo lavoro, nella sua vita. In quella di entrambi.

“Io vado.”

In bilico sulla bici, la sollevò di peso fino a stamparle un bacio sulla guancia.

“Ci vediamo all’uscita, ti aspetto qui.”

La fece riatterrare sul marciapiede, pronto a vederla sparire al di là del cancello. In quegli istanti di attesa, non resistette e sollevò di nuovo lo sguardo. Tornò a guardare il modo in cui i capelli castani le danzavano sulla schiena, le gambe toniche fasciate dalle calze nere, il sorriso che dava il benvenuto ai suoi alunni. Ma questa volta non riuscì a godersela fino in fondo: vicino a lei, con gli occhi troppo attenti e le mani troppo vicine, c’era un uomo. Sulla quarantina, capelli brizzolati pettinati all’indietro. Alto e impeccabile, nel suo abito scuro.

D’istinto allungò un braccio, afferrò il cappuccio di sua sorella e la costrinse a fermarsi. Lei riuscì a non perdere l’equilibrio e si voltò, lanciandogli un’occhiataccia incredula.

“Ehi!” esclamò.

“Scusami…” mormorò lui. “Chi è?” Con un cenno della testa indicò il portone. Rosalie lo seguì con lo sguardo e vide un paio di suoi compagni di classe, la sua maestra e... “Dici il preside Whitlock?”

“Il preside?”

“Sì, è nuovo. È arrivato poco prima di Natale.” E, salutandolo con la mano, riprese a camminare verso il cancello. “A dopo, fratello innamorato!”

Edward le fece una mezza smorfia e guardò il suo zaino rosso che veniva inghiottito dal portone. Quando tutti i bambini furono entrati, Bella si voltò e finalmente incrociò il suo sguardo. Le labbra le si aprirono in un sorriso luminoso e spontaneo, che in una frazione di secondo fece sparire tutto il sonno e la stanchezza. Mentre la mano di Edward si alzava per salutarla, quella del preside si posò sul fianco di Bella e l’accompagnò dentro la scuola.

Si girava e si rigirava nel letto. La stanza era quasi completamente buia, ma i piccoli e deboli raggi di sole che entravano dalle tapparelle erano sufficienti a tormentare il suo riposo. Il volume della televisione di sua madre, nonostante le avesse già urlato una decina di volte di abbassarlo, era sempre troppo alto. Ma non abbastanza alto da coprire il rumore dei suoi pensieri. Nascose la testa sotto il guanciale, costrinse gli occhi a chiudersi, obbligò il cervello a spengersi. Doveva dormire, doveva riposare, aveva poche ore per farlo prima che fosse costretto a ripresentarsi alla tavola calda. Ma, proprio come quella sera nel parco, non poteva evitare l’opprimente sensazione che gli suggeriva che tutto sarebbe crollato. Era così forte che si sentiva già sotto quelle macerie.

Quella mattina di gennaio, in quella stanza carica di angoscia, Edward ebbe la certezza che sua madre non si sarebbe mai più ripresa, che suo padre avrebbe continuato ad essere lo stronzo che era sempre stato, che Rosalie sarebbe stata costretta a combattere le sue stesse battaglie. E, tra tutti quei presentimenti, ce n’era un altro. Forse il più infantile, immaturo e fastidioso: sapeva che, all’uscita di scuola, sui gradini di quel portone, Bella non sarebbe stata sola.

E così fu.

 

Bella guidava con tranquillità, una mano sul volante e una sul cambio. Si lasciava trasportare dalla musica sprigionata dalla radio e dal motore che cantava. Sollevò le dita e le appoggiò sulle bocchette del riscaldamento, il calore le pizzicò subito la pelle. Fuori era buio, l’inverno la luce se la inghiottiva presto, lasciandoli tutti nel buio nei loro pensieri. E quella sera, nei suoi pensieri, tutto era in pace. Era serena, come non le capitava da mesi, forse anni. A casa non c’erano problemi, o almeno non ce n’erano di nuovi. Quella città iniziava a sentirsela addosso, le strade sconosciute e le abitudini diverse non la spaesavano più. Il lavoro andava a gonfie vele, i bambini – tranne rare eccezioni – erano vivaci ma piacevoli, intelligenti e stimolanti. I colleghi erano simpatici, fin da subito l’avevano fatta sentire a suo agio. E poi c’era lui, che con quei suoi modi di fare insoliti e attraenti le aveva fatto tornare la voglia di spalancare la sua vita sotto gli occhi di qualcun'altro. Di dirgli eccomi, sono questa. Di farsi affascinare dalla sua forza, di ridere insieme a lui, di ascoltarlo mentre le confidava di sentirsi una persona orribile e fare di tutto per convincerlo del contrario.

Tutti quei dubbi che aveva avuto all’inizio, nemmeno se li ricordava più.

Chiuse la macchina, afferrò la borsa carica di libri e si incamminò lentamente verso il portone. Salutò il portiere, che la guardò imbarazzato, e prese la posta ammucchiata nella sua cassetta. Le scale erano fredde, ma non se ne curò: si tolse le decolté e camminò scalza, con i piedi doloranti che esultavano. Mentre saliva, lo stomaco cominciò a brontolare, aveva fame. Ma la fatica di accendere i fornelli e prepararsi qualcosa di decente batteva a mani basse i crampi allo stomaco: avrebbe mangiato qualche schifezza, spaparanzata sul divano, con il portatile sulle gambe. Mentre apriva la porta il mazzo di bollette le cadde dalle mani, si piegò per raccoglierle e quando si rialzò rimase immobile, pietrificata, con gli occhi spalancati e le labbra aperte dalla sorpresa. Le bollette le scivolarono di nuovo dalle mani e la borsa di libri andò a fargli compagnia sul pavimento.

Edward era lì.

Nella sua cucina, con un cesto di insalata in mano, un sorriso storto sulle labbra e il ricettario di sua madre sul tavolo. Quel pomeriggio, mentre lavorava, aveva deciso che era stanco dei presentimenti e che era arrivata l’ora di agire, di fare qualcosa per mettere i bastoni tra le ruote a quei brutti pensieri.

“Fai licenziare quel portiere, mi ha dato le chiavi come se niente fosse!”

Lui parlava, sorrideva, e lei lo guardava. Lo guardava senza dire e fare niente. Ed era bellissimo.

Bellissimo come non mai.

Rimase lì, con i libri sparpagliati intorno ai piedi nudi ed un paio di scarpe in mano.

Il suo sorriso, gli spaghetti fumanti nei piatti, la tavola apparecchiata. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lei. Nessuno.

Mentre Edward la spronava a sedersi e le grattava il formaggio sulla pasta, non riuscì a non piangere di felicità.

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Capitolo 7
*** Scontri ***


Grazie, grazie, grazie

Grazie, grazie, grazie.

Continuate a dimostrarmi affetto, e io continuo a ringraziarvi di cuore.

Questo capitolo è stato difficile da scrivere, ma è stato anche uno di quelli che mi ha coinvolta ed entusiasmata di più. Spero piaccia anche a voi, e che non arriviate ad odiarmi troppo.

Dimenticavo: aspettatevi un regalino in settimana…

___________________

 

 

Capitolo 7 – Scontri

 

Esme stava sempre peggio. Edward non riusciva più a capire quando era sveglia e quando dormiva, stava per ore chiusa in camera sua, usciva di casa sempre meno. Si accorgeva dei suoi sforzi: ce la metteva tutta per stare in piedi, per non piegarsi, per non deluderli. Eppure, tutto il resto - tutto quello che riusciva a schiacciarla -  vinceva. Vinceva sulle dimostrazioni di amore per i suoi figli e sulle dimostrazioni di forza per il suo ex marito.

Quella mattina era una delle peggiori. Edward aveva accompagnato Rosalie a scuola ed aveva ancora una volta la mattinata libera. Ma quelle ore che avrebbe dovuto impiegare nel fare le lavatrici, pulire la casa e preparare qualcosa per pranzo, le aveva trascorse reggendo la testa di sua madre mentre vomitava. Non riusciva a riprendersi, non riusciva a stare in piedi, non riusciva a tenersi nello stomaco tutta la merda che aveva bevuto. Verso l’ora di pranzo, Edward si era vestito per uscire, preparandosi a lasciarla sola. Ma, all’ultimo minuto, un’altra ricaduta: Esme aveva ricominciato a vomitare, questa volta proprio sui suoi jeans. E siccome non aveva avuto tempo per fare le lavatrici, non c’erano pantaloni puliti che potesse indossare. L’unica soluzione su cui era riuscito a ripiegare era un misero colpo di spugna. Infine, bestemmiando, aveva pedalato nel freddo fino a raggiungere la scuola.

Era lì, appoggiato al cofano di una macchina, con una chiazza scura sui jeans, e si sforzava di respirare a ritmo regolare per smaltire la rabbia. Inspirava veleno e sputava aria buona. Ancora non era arrivato nessun genitore ed il cortile era completamente vuoto. Vide il portone aprirsi e, per un istante, sperò in una ventata di buonumore: fa che Bella sia uscita prima, fa che abbia finito la lezione in anticipo e che mi possa venire a salutare senza che nessuno ci guardi, fa che sia lei. Ed invece, da quello spiraglio apparve un abito scuro, una camicia bianca, un volto abbronzato. Con una ventiquattrore in una mano ed un quotidiano arrotolato nell’altra. Si avvicinò a grandi falcate, passò davanti ad Edward ed invece di ignorarlo continuando a camminare, come il ragazzo si aspettava che facesse, gli si piazzò davanti.

Edward alzò le sopracciglia, ed in quel minuscolo movimento c’era un mondo intero di tacite domande ed una sola ma enorme affermazione: non è giornata.

La bocca del preside Whitlock si deformò in una smorfia, una specie di sorriso bastardo, che ad Edward ricordò la superiorità con cui si atteggiava l’avvocato di suo padre.

Non lo salutò, non si presentò, l’unica cosa che disse fu: “Credi di avere speranze, ragazzino?”

Le mani gli cominciarono a pizzicare, la mascella di colpo si tese. Chiuse i pugni, affondò le unghie nella pelle. Tutto, pur di non prendere a pugni il preside nel cortile della scuola. Perché era proprio quello che avrebbe voluto fare: dimostrargli quante speranze aveva a suon di cazzotti nei denti.

“Come scusi?” La voce non era sicura e minacciosa come avrebbe voluto, e si maledì in silenzio.

Il preside tirò fuori le chiavi della macchina dalla tasca dei pantaloni, ci giocò passandosele tra le dita e poi tornò a fissarlo. “Che maleducato, non mi sono neanche presentato. Sono il Professor Jasper Whitlock, è un piacere.

“Piacere tutto suo, professore.”

“Dammi pure del tu.”

“Mi hanno insegnato a dare del lei alle persone anziane.”

“Come ti pare. E, comunque, fossi in te mi pulirei prima che lei ti veda.” lo prese in giro, indicando con la testa i jeans macchiati.

Nelle orecchie di Edward quelle parole risuonarono come una sfida di guerra. Stava per scoppiare, e l’allusione a Bella non faceva altro che peggiorare la situazione. Strinse ancora più forte i pugni e serrò la mascella. Jasper, accorgendosi che le sue provocazioni non trovavano risposta, affondò il colpo.

“Che c’è, te la sei fatta addosso?” rise.

Eccola, la goccia che faceva traboccare il vaso. Riuscì a non rispondere con la violenza, ma lo fece con l’arma che una vita intera con suo padre gli aveva insegnato a maneggiare alla perfezione: le parole.

“No, signor Whitlock. È che sua madre non riesce più a succhiare bene come faceva una volta.

Riuscì, nello stesso tempo, a risultare composto e volgare. Vide l’espressione dell’altro cambiare di secondo in secondo: l’arroganza fece posto allo stupore, la superiorità sparì ed apparve lo sbalordimento.

“Ma come ti permetti? Ti consiglio di stare attento a quello che dici, ragazzino.

Gli puntò un dito contro, sbuffò dal naso, poi girò i tacchi e se ne andò.

“Non si preoccupi per me, nonno.” gli gridò dietro Edward, mentre il preside era impegnato a salire sulla sua Mercedes.

 

Staccò verso le sette e mezza, esultando per non aver dovuto sopportare un altro turno. Nel pomeriggio era passata Bella. Doveva correggere dei compiti ed organizzare alcune lezioni. Si era piazzata in un tavolino in disparte e non aveva mai smesso di ordinare cibo e bevande, tutto per poter scambiare due chiacchiere con il cameriere che le piaceva tanto. Rivederla in quel locale, con il menù sotto gli occhi, la borsa e il cappotto abbandonati sulle sedie, aveva fatto tornare il buonumore. Edward si era accorto che, quando si trattava di Bella, bastava davvero poco per farlo sentire improvvisamente leggero.

Pensava proprio a quella meravigliosa sensazione di leggerezza mentre apriva la porta di casa e si preparava ad organizzare una cena con gli avanzi del pranzo. Ma ormai sapeva benissimo che, nelle stesso imprevedibile modo con cui Bella riusciva a risollevarlo, quella casa nascondeva sempre qualche trappola per farlo inciampare di nuovo. Ed infatti, come da copione, gli bastò respirare un paio di boccate d’aria in quelle stanze avvelenate e la leggerezza di colpo sparì. Si dissolse quando vide Rosalie, seduta sul divano, con le mani incrociate sul petto e gli occhi tristi.

“Che è successo?” Quando le parole uscirono, Edward si accorse che non c’era preoccupazione nella sua voce, solo rassegnazione.

Sua sorella afferrò con entrambe le mani l’orlo del delizioso abito che indossava: la gonna si aprì come se fosse un ventaglio. Di solito era felice quando sua madre le permetteva di indossare quel vestito, ma questa volta nei suoi occhi non c’era eccitazione, vanità, soddisfazione. C’era solo tristezza, sgomento e… rassegnazione.

“Devi indossare l’abito quello bello, quello scuro, quello con la cravatta. E devi essere pronto entro dieci minuti.”

“Che succede tra dieci minuti?”

“Arriva papà.”

“Cosa?”

A quel punto, Esme comparve dalla porta della cucina. Era in pigiama, il volto pallido, la voce fioca. “Ha telefonato tuo padre. Ha detto che alle otto vi passa a prendere e vi porta a cena fuori. Voi due, lui e quell’altra.”

“E perché cazzo non gli hai detto no?” sbottò lui.

“Ha detto di vestirsi bene.” aggiunse, come se Edward non avesse mai parlato. Poi gli dette le spalle ed iniziò a salire le scale, pronta a raggiungere quell’isola di infelicità che era la sua stanza.

“Mamma!” La voce di Edward la rincorse su per i gradini. “Cazzo!” Ed era già sparita.

Edward, con una forza tale da rischiare di rompere la cerniera, si tolse il piumino e lo lanciò sul pavimento. Si portò le mani incrociate dietro la nuca e chiuse gli occhi.

Che ho combinato nella mia vita precedente per meritarmi tutta questa merda?

“L’ho vista mentre parlava a telefono con papà.” sussurrò Rosalie, lo sguardo fisso su suo fratello. “Non diceva niente, piangeva e basta. Stava male Edward, non ce la faceva a parlare, per questo non gli ha detto no.

Edward la guardò. Si specchiò nel verde degli occhi di sua sorella e, di colpo, si rese conto di quanto fossero vicini. Gli stessi occhi, lo stesso sangue, la stesse pelle. E ringraziò Dio per quella vicinanza.

“Lo so.” mormorò, sconfitto dalla realtà delle loro vite.

“Non lo indosserai il vestito bello, vero?”

Aveva ragione, eccome se aveva ragione. Il minimo che potesse fare per ribellarsi era disobbedire all’unico ordine che suo padre si era permesso di impartire, senza averne nessun diritto.

Guardò l’orologio, erano quasi le otto. Si lasciò cadere sul divano, la schiena stanca esultò a contatto con la spalliera morbida. Allargò le braccia, lasciò che Rosalie si avvicinasse. Lei posò la testa sul petto del fratello, appoggiò la mano sulla maglietta macchiata che puzzava di fatica e di lavoro.

Parlò sui suoi capelli biondi. “No, non credo proprio che indosserò il vestito bello.”

E sua sorella rise.

 

Il viaggio in auto era stato carico di silenzio ed imbarazzo, gli unici rumori erano il motore potente che gridava ad ogni spinta sull’acceleratore, le ruote che scivolavano sull’asfalto, e la delicata voce di Tania che ad intervalli regolari tentava di sviluppare una conversazione con il suo compagno. E quel silenzio e quell’imbarazzo li seguirono anche nel ristorante, al tavolo appartato che la coppia aveva prenotato.

Edward guardava suo padre, seduto proprio di fronte a lui. Scrutava i suoi occhi di ghiaccio, e si chiedeva in quale parte del corpo si fosse nascosto il Carlisle disperato, piegato dal dolore e dall’impotenza che aveva intravisto quel pomeriggio, in mezzo alla strada, sotto lo studio dell’avvocato. Forse non era mai esistito, forse era solo la fantasia di un figlio che si ostina a credere che suo padre abbia un cuore.

Anche Carlisle lo guardava. Non negli occhi, per quello ci voleva un quantità di coraggio che per ora gli mancava. Guardava quella maledetta maglietta, i capelli spettinati, il suo modo disordinato di stare seduto. Sentiva l’odio e il disprezzo che il corpo di suo figlio sprigionava e, per difendersi, usò lo stesso identico disprezzo rivolgendogli la parola.

“Ti sembra il modo di presentarsi in un locale del genere?”

Edward aveva smesso di guardarlo, con gli occhi bassi ispezionava il menù, anche se in realtà non leggeva neanche una parola. “È il mio fascino.”

“Sei sempre il solito…” scosse la testa, la bocca deformata in una smorfia.

“Menomale.” E lo disse con una tale convinzione che Rosalie e Tania rabbrividirono.

Poco dopo arrivò il cameriere per prendere le ordinazioni. Il ragazzo con il grembiule alla vita ed un arnese elettronico in mano dette una rapida occhiata al tavolo, e il suo volto si macchiò di disagio: perfino lui non reggeva tutta la tensione accumulata su quelle sedie.

Carlisle disse, con aria solenne e ruffiana, che quello era il miglior ristorante di pesce della zona. Dopodiché, ordinò tre o quattro antipasti, spaghetti all’astice e aragosta. Ordinò per sé e per la sua compagna, che non aveva ancora aperto bocca.

“Allora,” Edward smise di consultare il menù e si rivolse al cameriere, imitando e scimmiottando il modo di fare di Carlisle. “Forse mio padre si è scordato, oppure non l’ha proprio mai saputo, che a me e a mia sorella il pesce fa schifo. Quindi, per noi due… crostini e affettati misti, una bistecca – al sangue mi raccomando, non mi costringa a rimandarla indietro – insalata verde e patatine fritte.

Il cameriere annotò l’ordinazione. Edward, rivolgendosi a sua sorella, aggiunse: “Va bene, cara?”

“Tante patatine fritte!” rispose Rosalie, già più a suo agio. Sorrise a suo fratello e, dall’altra parte del tavolo, quell’improvvisa ondata di spensieratezza contagiò le labbra di Tania.

Carlisle aspettò che il cameriere si fosse allontanato e, schiarendosi la voce, riprese a parlare. Si rivolse a Rosalie, con un tono che voleva essere gentile ma che alle orecchie di Edward risuonò soltanto ridicolo. “Allora, piccola? Come va la scuola?”

Il sorriso sulle labbra della bambina scemò, lasciando la bocca chiusa in un’espressione tesa. “Bene.”

Carlisle, già tornato nella sua solita bolla di silenzio, sembrava addirittura più imbarazzato di lei. Intervenne Tania in suo aiuto. “Con i compagni di classe ti trovi bene? Con le maestre?”

Rosalie annuì, ed il sorriso tornò ad aprirsi quando disse: “Sono tutti molto simpatici, mi piacciono, e anche Edward si trova benissimo con le maestr-

Fu interrotta dalla gomitata di suo fratello, che per poco non la fece cadere dalla sedia. E mentre lui le lanciava un’occhiataccia, Tania li guardava curiosi e Carlisle li scrutava sospettoso, lei rise di gusto.

La cena proseguì nel silenzio, con le occhiate complici dei due fratelli e l’inadeguatezza stampata sul volto degli altri due. Toccarono il punto di maggiore imbarazzo quando Tania domandò ad Edward se avesse la fidanzatina. Glielo chiese senza cattiveria, senza malizia, ma venne fuori una domanda che poteva benissimo essere rivolta ad un ragazzino di dodici anni. Edward la guardò come se potesse sbranarle la faccia, mentre Tania diventava paonazza e provava a scusarsi con lo sguardo mortificato.

Avevano finito il secondo e stava quasi per arrivare il dolce, ed Edward stava già assaporando l’aria di libertà che lo aspettava fuori dal ristorante, quando le cose iniziarono a rotolare. Carlisle appoggiò i gomiti sul tavolo e Tania si sistemò meglio sulla sedia a rotelle. Edward li guardò negli occhi e capì che stavano per sganciare una bomba.

Sentite, ragazzi.” iniziò suo padre, con la voce impostata. “Io e Tania dobbiamo parlarvi di una cosa.”

I suoi figli non risposero, si limitarono a guardarlo negli occhi.

“Vi vogliamo proporre una cosa… una soluzione, chiamiamola così. So che all’inizio vi sembrerà assurda e penserete che sia impossibile anche solo prenderla in considerazione, ma credo sia la cosa più giusta da fare. Per noi, per voi, per tutti. Non è necessario che rispondiate subito, potete ascoltare quello che abbiamo da dire e pensarci un po’. Non vi stiamo obbligand-

“Forza Carlisle, spara.” Edward iniziava ad innervosirsi.

“Ho capito che vostra madre non sta bene. Si vede, è evidente. Non so che problema abbia, ma-“

Carlisle.” Questa volta, nella voce, oltre al nervoso c’era la rabbia.

E la bomba fu sganciata. “Venite a vivere con noi. Andiamo a vivere insieme, noi quattro.”

Contemporaneamente, Rosalie abbassò la testa e Edward si lasciò andare ad una risata, del tutto priva di divertimento. Suo padre ignorò quel suono agghiacciante e continuò: “Sceglieremo una bella casa, ne abbiamo già viste alcune. Staremo bene, le cose miglioreranno.”

In un istante, con un ringhio che sembrava provenire dalla gola di un animale, Edward fu in piedi. La sedia rovesciata ai suoi piedi, gli occhi iniettati di rabbia, l’indice puntato contro suo padre e tutta la sala in silenzio, con gli occhi gravitati su di loro.

“Zitto!” ruggì. “Devi stare zitto. Non hai il diritto di parlare, non hai il diritto di buttarci addosso ancora altra merda. Chi sei? Si può sapere? Non ti conosciamo nemmeno. Spiegami chi cazzo sei, cosa vuoi da noi e dove hai trovato il coraggio per guardarci dritti negli occhi e aprire la bocca. Non sei un padre, per me non sei nemmeno un uomo.

Si alzò anche Carlisle, mentre Tania, con le lacrime agli occhi, lo teneva per un braccio.

“Non ti permett-“ ma suo figlio lo interruppe di nuovo.

“Hai fatto una sola cosa giusta nella vita, una: levarti dalle palle. E se avessi continuato a farti i cazzi tuoi, forse avremmo avuto una possibilità per stare bene davvero. Non ti permetto di parlare di nostra madre, se lo rifai giuro su Dio che ti sputo in faccia. Non ti permetto di parlare della sua salute, della sua vita, di come riesce ad essere un genitore. Ti dirò di più: lei, con i suoi problemi, le sue ricadute, le sue debolezze, in confronto a te è un gigante.

Si allontanò di qualche centimetro dal tavolo, smise di stringere il bordo di legno. Respirò a grandi polmoni e fece scivolare lo sguardo da Carlisle a Tania, poi di nuovo su suo padre.

“Qual era la vostra grande idea? La soluzione… Caricarci su una macchina, nemmeno fossimo due pacchetti da consegnare, e piazzarci in una casa? Una bella villa con piscina, magari insieme ad un bel cane, per formare la famiglia perfetta. La famiglia impeccabile che hai sempre voluto, eh Carlisle?

Lo guardò, e per poco non gli venne da vomitare.

“Solo un’altra cosa, e poi sparisco: ci vedi, noi due?” Si indicò il petto e subito dopo puntò il dito verso Rosalie. “Noi due, noi due siamo una famiglia. Io e mia sorella, non il ridicolo teatrino che hai messo in piedi stasera.

Controllò la voglia di sputargli davvero e di mandare affanculo tutti quelli che li stavano osservando al di là dei loro piatti stracolmi di cibo prelibato. Afferrò lo schienale della sedia abbandonata sul pavimento, la sollevò e la rimise al suo posto. Poi prese Rosalie in braccio e se la caricò su un fianco. Se ne andò a grandi passi, con lo stomaco sottosopra e la testa che minacciava di scoppiare.

“Scusami.” sussurrò all’orecchio di sua sorella.

Non sapeva, però, che Rose non aveva niente da scusargli e che gli sarebbe stata per sempre grata per aver pronunciato quelle parole, che erano la fotocopia dei suoi pensieri ma che lei non avrebbe mai avuto la forza e la capacità di dire.

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Inizio e fine ***


Eccomi, con il “regalo” che vi avevo promesso. Non so se può essere chiamato così: è soltanto un piccolo anticipo, un capitolo pubblicato un po’ prima, per dimostrarvi quanto tengo a tutto l’affetto che mi dimostrate. I commenti e le visite continuano ad aumentare e non posso far altro che ringraziarvi!

Vi ricordo che manca ancora un capitolo (il numero nove) e l’epilogo. Spero non vi deludano!

Grazie fin da ora. A lunedì.

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Capitolo 8 – Inizio e fine

 

Quella notte Edward non chiuse occhio. Era stanco morto, la testa pulsava e gli occhi bruciavano, ma non riuscì a prendere sonno. La sera prima era tornato a casa con lo stomaco che gli ribolliva di rabbia, aveva osservato Rosalie preparare la cartella per il giorno dopo e le aveva rimboccato le coperte prima di vederla addormentarsi. Aveva chiamato Bella, mosso dal disperato bisogno di sentire la sua voce. Ma nemmeno questo era andato per il verso giusto: lei aveva lasciato squillare il telefono a vuoto e poco dopo gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che era stata trattenuta a scuola e che sarebbe tornata tardi. Ed eccolo lì, il rompicapo sentimentale che aveva sempre evitato come la peste.

All’alba si era alzato, ormai arreso all’insonnia, ed aveva approfittato della levataccia per sbrigare qualche faccenda di casa. Qualche ora più tardi, aveva sopportato a denti stretti il turno di mattina alla tavola calda. Aveva lavorato con gli occhi bassi e doloranti, la testa stordita chiusa in una campana di vetro. Ogni movimento richiedeva il doppio della fatica.

Quel giorno Rosalie pranzò da una sua compagna di classe e il pomeriggio rimase a casa sua per fare i compiti insieme. Edward benedì quelle ore di riposo e, appena tornato da lavoro, si buttò sul letto, sentendo il sonno che lentamente si inghiottiva tutte le preoccupazioni. Finalmente, si addormentò.

Scese al pianoterra nel tardo pomeriggio e trovò sua madre in cucina. Sul tavolo, di fronte a lei, c’era un mucchio di fogli sparpagliati. Edward era troppo assonnato per provare a leggerli, allora si limitò a guardarla con aria interrogativa.

“Non siamo più sposati, ufficialmente.” affermò Esme, con la voce spenta.

Lui, senza dire una parola, alzò un braccio e le mostrò le carte che stringeva nella mano. Le aveva stampate quella mattina, e potevano racchiudere la soluzione ad uno dei tanti problemi che gli toglievano il sonno. Lasciò cadere i fogli sul tavolo, sopra le pratiche del divorzio. Sua madre li ignorò.

“Come è andata ieri sera con vostro padre?” cercò di cambiare argomento.

“Male, ovviamente.” Riempì una tazza di caffè e, sorseggiandola, si sedette accanto ad Esme.

Lei com’è?”

“Non lo so, non la conosciamo. Ma sembra gentile.”

“Bene, meglio così. Cosa vi hanno detto?”

Edward la guardò: la pelle bianca animata da qualche piccola ruga, la curva morbida delle spalle, le braccia magre prosciugate dallo sfinimento. Sentì una stretta al cuore e decise che l’avrebbe protetta fino alla fine. Con un sospiro, disse: “Niente… niente di importante.”

La risposta sembrò bastarle e, finalmente, prestò attenzione ai fogli che suo figlio aveva stampato.

“Cosa sono?” gli chiese, quasi controvoglia.

“Mi sono informato, è quello che fa per noi. Non è una clinica, non verrai ricoverata, non comparirai in nessun registro. Niente di ufficiale, solo una serie di incontri. Parlerai con alcuni volontari che hanno provato le stesse cose che stai provando tu, sapranno come aiutarti. E deciderai tu quando presentarti, quante volte e per quanto tempo. Carlisle non ne saprà mai nulla. Va bene?”

Mentre lo guardava, Esme sentì il cuore gonfiarsi di preoccupazione. Ma, ancora più forte della paura di non farcela e di deluderli, era la gratitudine che provava per suo figlio e la determinazione che le trasmetteva.

Se lo promise, e lo promise a Edward e Rosalie: quello era un inizio.

“Va bene.” E si asciugò la lacrima che le rigava la guancia.

 

Pedalava come un pazzo con le chiavi di Bella in tasca. Gliele aveva date quella sera, la sera della sorpresa, degli spaghetti, dei baci. Al ricordo di quanto la desiderasse, mentre erano sdraiati sul divano a guardare distrattamente un film, sentì una piacevole fitta attaccargli l’inguine. Voleva fare le cose con calma, voleva farle per bene, e non avrebbe mai permesso alla fretta e alle voglie di rovinare tutto. Non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva avuto così tante premure prima di andare a letto con una ragazza, ma aveva la sensazione di stringere tra le mani qualcosa di troppo delicato e non voleva rischiare di scheggiarlo, romperlo, perderlo.

Si chiese se fosse giusto avvertirla del suo arrivo, ma quei pochi giorni insieme una cosa gliel’avevano insegnata: Bella amava le sorprese. E allora perché non viziarla?

Entrò, salutò il portiere e salì di corsa le scale. Suonò il campanello ma Bella non c’era. Usò la chiave che gli aveva dato e, per la seconda volta, aprì la porta di casa sua e si godè la magnifica sensazione di avere il permesso di entrare nella sua vita. La prima volta se l’era preso di nascosto, ora invece se l’era guadagnato. Le stanze erano piene del profumo di Bella, ed ebbe la tentazione di cercare il suo armadio, riconoscere i suoi vestiti, sbirciare la sua camera da letto. Una tentazione che, però, riuscì a controllare facilmente. Non si mise a cucinare perché decise che quella sera l’avrebbe portata a cena fuori, si limitò ad accomodarsi sulla poltrona ed accendere la televisione.

 

“Sei sicura che non sia un problema?” le chiese Jasper che, sicuro della risposta, stava già salendo in macchina.

“Figurati! Seguimi, ti faccio strada.” gli rispose Bella, con un sorriso imbarazzato. Aprì la portiera, lasciò cadere la borsa sul sedile del passeggero e si mise al volante. Controllò nello specchietto retrovisore se anche Jasper era pronto a partire e mise in moto.

Il giorno seguente, durante il pomeriggio, ci sarebbe stata una riunione dell’intero gruppo dei docenti. Bella aveva iniziato a familiarizzare con il metodo di lavoro del nuovo preside, ed era sollevata dalla sua precisione e bravura nell’organizzare le cose. Seguiva gli insegnanti nel preparare le lezioni, aveva a cuore gli studenti, teneva d’occhio i loro progressi, ed era gentile. Qualità che in un collega di lavoro non si finisce mai di apprezzare. Jasper aveva richiesto ad ogni insegnante una scheda dettagliata, che conteneva programmi, voti, progressi, valutazioni. E Bella, tradendo la sua solita precisione e diligenza nel rispettare le consegne, aveva dimenticato la sua scheda a casa.

Parcheggiò proprio davanti al portone. Si aspettava che Jasper si fermasse in doppia fila, pronto a ripartire, ed invece cercò un posto libero qualche metro più avanti.

“Salgo a prendere il materiale e torno subito.” gli disse mentre lui la raggiungeva sul marciapiede. “Farò in un attimo!”

“Non dire sciocchezze, Isabella!” sulle labbra aveva un sorriso più sfacciato di tutti quelli che finora le aveva rivolto. “Ti accompagno, così non sarai costretta a scendere di nuovo.”

Bella annuì mentre cercava le chiavi. “Va bene, come vuoi. Ma non ti assicuro niente sull’ordine della casa!”

“Fidati, è l’unica cosa di cui non mi importa.” Si chiuse il portone alle spalle e, sistemandosi il colletto della camicia, incrociò lo sguardo del portiere. Lo salutò con un educato salve, l’anziano rispose con un cenno del capo e nei suoi occhi Jasper scorse qualcosa che assomigliava alla sorpresa.

Raggiunse Bella per le scale, accompagnato dal ticchettio dei suoi tacchi sui gradini. E, con la visione della gonna aderente che le fasciava le gambe sottili e il fondoschiena, non gli rimase che sperare che quelle scale non avessero fine. Ma comparve il pianerottolo ed il preside fu costretto a tornare a guardarla negli occhi, non che anche quella visione non lo entusiasmasse.

“Sembri stanca.” sussurrò, mentre lei infilava le chiavi nella serratura. “Va tutto bene?”

Bella lo guardò stringendo gli occhi, come se volesse studiare cosa ci fosse al di là di quelle parole e di quello sguardo. Poi tornò a sorridere e disse: “Certo che va tutto bene, solo una lunga giornata di lav-“

Le parole si spezzarono quando aprì la porta, mosse il primo passo e vide Edward.

Bella lo guardò, in un modo che per tutti i presenti fu qualcosa di diverso: per lei stupore, per Edward colpa, per Jasper speranza.

Il preside approfittò di quell’attimo immobile di sorpresa ed entrò in casa a grandi passi, superando Bella. Con le mani nelle tasche, puntò il ragazzo seduto sulla poltrona, e non riusciva a pensare ad altro che: eccolo il mio momento, è arrivato. Qualche parola messa insieme nella maniera giusta e Bella si renderà conto di quanto poco convenga frequentare chi è appena uscito da un’aula di liceo.

Sentì spuntare sulle labbra il sorriso, quello stronzo, e gli occhi gli brillarono quando incrociarono quelli verdi scuri di Edward.

“Sei venuto per le ripetizioni, ragazzino? Hai bisogno di una mano con i compiti?”

Così, oltre a dimostrargli che era riuscito a farsi portare a casa da Bella per fare Dio solo sa cosa, gli dimostrò che poteva prenderlo per il culo tutte le volte che voleva. Anche di fronte a lei.

Bella rimase immobile, senza avere neanche il tempo di chiedersi da dove nascesse la confidenza racchiusa in quella frase, e tutto il resto successe in pochi secondi.

Edward saltò come una molla dalla poltrona e si mangiò i metri che lo dividevano da Jasper, con la stessa ferocia e velocità con cui un leone si scatena sulla preda. Con la mascella tesa, gli occhi rabbiosi e le vene del collo che minacciavano di scoppiare, lo afferrò con una mano per il nodo della cravatta e, trascinandolo con sé, lo fece sbattere contro il muro. L’espressione di derisione sul volto del preside ancora non se n’era andata, anzi sembrava ancora più soddisfatto, e Edward decise di cancellarla con un pugno. Partì dritto, veloce, sicuro, accompagnato dalle urla sconvolte di Bella. Sentendo la voce della ragazza che desiderava che lo implorava di smetterla si sarebbe potuto fermare, ed invece ci trovò ancora più gusto.

Dopo il primo colpo, Jasper cadde a terra, con una mano insanguinata premuta sul labbro spaccato. Edward si inginocchiò, bloccando le gambe del preside tra le sue ginocchia. Sollevò un braccio, preparò il pugno e riprese a picchiarlo.

Un pugno per i suoi ridicoli tentativi di prenderlo per il culo.

Un pugno per i suoi sorrisini stronzi.

Un pugno per la sua voglia di scoparsi Bella.

Un pugno per Carlisle, che ancora non aveva smesso di distruggere la sua famiglia.

Un pugno per Esme, che non aveva la forza.

Un ultimo pugno per se stesso, e per la sua vita che andava a puttane.

Si alzò con il fiato corto e la fronte umida di sudore. Si allontanò da quel corpo e da quel viso sfigurato che si dimenava e tossiva sul pavimento. Per istinto, si guardò le mani. Quelle dita che gli avevano fatto compagnia per tutta la vita, che avevano fatto magie sui tasti del pianoforte e sui fianchi delle ragazze, ma che mai prima d’ora avevano fatto sanguinare un uomo.

Le nocche erano spaccate, il suo sangue si mescolava con quello di Jasper. Sentì Bella che arrancava a respirare alle sue spalle e si ricordò di quella volta che gli aveva detto quanto le piacessero le mani del “suo pianista”: il dorso coperto di vene sporgenti, le dita spigolose, affusolate, maschili. Eleganti, le aveva descritte.

Si voltò lentamente e l’espressione che trovò sul volto di Bella gli ruppe qualcosa dentro. Avrebbe voluto urlare, incazzarsi, chiederle cosa ci faceva quell’uomo in casa sua. Avrebbe voluto stringere il suo bel volto tra le mani distrutte, sussurrare il suo nome, spiegarle le sue ragioni, raccontarle quanto lo aveva provocato quel preside di merda, descriverle l’espressione che aveva suo padre mentre gli proponeva di abbandonare Esme. Sarebbe voluto crollare ai suoi piedi e pregarla di salvarlo. Ed invece non si mosse e non parlò.

Fu Bella a farlo. Spostò il disgusto dagli occhi al palmo della mano, che finì dritto sulla guancia di Edward. Lo schiaffo fischiava nelle orecchie e la pelle bruciava, ma era una carezza in confronto al dolore che gli provocava la delusione stampata sul volto di Bella.

“Hai rovinato tutto,” gli rovesciò addosso parole e lacrime. “Sei solo un ragazzino.”

“Non dire così.” voleva dirlo gentilmente, ed invece uscì fuori un ruggito.

“Cosa dovrei dire allora? COSA?” adesso urlava. Gli occhi abbandonarono Edward e fissarono Jasper, che intanto si era messo seduto con la schiena appoggiata alla parete. Gemeva e si lamentava con fare teatrale, come se fosse sul punto di morte.

“Non sono così, lo sai che non sono così.” Era disperato. La guardava e vedeva tutto le cose che non avrebbe più avuto. Lei, già lontana, continuava ad evitare il suo sguardo.

“Vattene.” sibilò. “E restituiscimi le chiavi.”

“Bella, ascolt-

“Vattene. Ora.”

Una sentenza, la sua sentenza. Non restava altro che sopportare la condanna. Edward se ne andò, correndo giù per le scale, allontanandosi da lei. Perdendosi.

Quella sera per la prima volta aveva picchiato un uomo e quella sera, qualche ora più tardi, per la prima volta si ubriacò. Fino a perdere il senso del tempo, delle parole, del corpo.

Si lasciò rotolare sul marciapiede e vomitò. Vomitò la rabbia, lo schifo, l’anima. Fino a non far rimanere niente nello stomaco e nella testa. Una testa inutile, svuotata di tutto e di tutti, riempita solo da una parola e dalla sua eco: fine.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Miraggio ***


Grazie per la risposta all’ultimo capitolo. Grazie, grazie, grazie.

E’ anche per “colpa” del vostro affetto se mi intristisce così tanto arrivare alla fine.

Eccovi l’ultimo capitolo. L’epilogo arriverà lunedì prossimo.

____________________

 

 

Capitolo 9 – Miraggio

 

4 settimane dopo

 

Buttò le chiavi della macchina nella tasca dello zaino, salutò con un occhiolino la donna seduta al di là del bancone e scese le scale mangiandosi i gradini due a due. Raggiunse il suo solito posto, il suo preferito, quello che lo aveva ospitato nelle ultime tre settimane. Gli scaffali formavano un corridoio stretto e poi un piccolo meandro, occupato soltanto da altri libri, un tavolino, una lampada e una sedia. La sua isola di pace. Lontana dal chiacchiericcio e dal resto del mondo.

Edward aveva conquistato la simpatia della bibliotecaria fin dal primo giorno, e dopo qualche chiacchierata e una tazza di caffè consegnata regolarmente al suo bancone ogni mattina, gli aveva permesso di rintanarsi in quel buco, dove riusciva a trovare silenzio e concentrazione.

Si lasciò cadere sulla sedia, aprì lo zaino ed afferrò il manuale. Sorseggiò il caffè, preparandosi ad un’altra mattinata di studio. Nemmeno un minuto libero, un minuto di vuoto, un minuto per pensare. Tutti movimenti meccanici, già provati, imparati a memoria.

Carlisle aveva mantenuto la parola ed aveva iniziato ad inviare i soldi, arretrati compresi. Non aveva sgarrato di un dollaro. Una boccata d’aria per le loro tasche sempre più pericolosamente leggere. Aveva comprato anche un’auto, un SUV nero scelto da lui, che Edward ed Esme condividevano. Non riusciva ancora a parlare con i suoi figli, spiegare le sue difficoltà, scusarsi per i suoi sbagli. Non riusciva a mostrare quell’uomo che voleva disperatamente essere, e che solo Tania vedeva. Non sapeva dire Scusatemi, non so fare il padre, quelle maledette parole non ne volevano proprio sapere di uscire, e allora li riempiva di silenzi e di Ecco, i soldi e la macchina. Prendete quello che vi posso dare. Quello che vi so dare.

La prima volta che si erano rivisti, padre e figlio, dopo quella sera al ristorante, non avevano fatto cenno alla discussione. Anzi, non si erano proprio rivolti parola. Quella litigata era rimasta accantonata in un angolo, sotterrata dalle urla di Edward e dal senso di colpa che sembrava aver sommerso Carlisle e Tania.

Tania, lei continuava a provarci: faceva domande, era cortese, raccontava piccoli aneddoti che le sembravano divertenti, sorrideva, si interessava alle loro vite. E quell’interesse sembrava davvero sincero. Quel sorriso un po’ imbarazzato e un po’ fuori luogo che aveva accolto Edward quella sera alla porta, ancora non se n’era andato. La voglia di conquistarli, riuscire a farli sorridere, costruire un rapporto che non fosse solo silenzio ed imbarazzo, ancora la animava. E la sua perseveranza aveva dato dei piccoli frutti: Edward sembrava sempre più a suo agio in sua compagnia. Rosalie, invece, aveva ancora un bel po’ di strada da fare. La rabbia che negli ultimi mesi aveva nascosto con cura sotto strati di pelle e i pensieri che la tormentavano ma che non riusciva a condividere con nessuno, costruivano un ostacolo dopo l’altro sulla sua strada verso la serenità.

Avevano assaggiato la stessa rabbia, i due fratelli. Avevano respirato lo stesso veleno. Ma Edward, quella rabbia, l’aveva sempre buttata fuori: sputata sulla faccia di suo padre, sulle spalle piegate di sua madre, negli abbracci di Bella, sui marciapiedi chiazzati di vomito. E la sua incapacità di stare zitto e lasciar correre gli avevano salvato la vita, anche se lui ancora non lo sapeva.

Aprì il libro, incastrò tra le dita un evidenziatore, si passò una mano tra i capelli.

Sua madre l’aveva costretto a licenziarsi dalla RoadHouse, voleva che ricominciasse ad impegnarsi negli studi. Lui aveva avuto qualche dubbio, temeva che qualcosa andasse storto, che suo padre smettesse di inviare soldi e che i problemi finanziari tornassero – perché è così che succede sempre, no? L’aveva imparato bene – ma alla fine aveva ceduto. Aveva vinto il suo istinto di sopravvivenza, quella piccola vena di egoismo che lo pregava di non farsi schiacciare da colpe non sue. Così, con indescrivibile soddisfazione, aveva salutato Jacob Black, quel bancone strofinato fin troppe volte, quel pavimento che non avrebbe mai più dovuto spazzare, ed aveva ricominciato a camminare sulla strada tracciata mese dopo mese nella sua testa. Era libero, libero. Aveva richiesto dei colloqui con i docenti del college, si era procurato i libri di testo ed aveva iniziato subito a studiare, sperando di riuscire a dare esami appena i corsi fossero iniziati. Voleva provare, riuscire, non deludersi.

 

All’ora di pranzo, si prese una pausa per mangiare un panino al volo e, prima di iniziare a ripetere un nuovo paragrafo, prese il cellulare e compose il numero di casa.

Altri movimenti meccanici, provati, imparati. Un altro breve copione da seguire alla perfezione senza lasciarsi trascinare dai pensieri.

“Pronto?” Era sua sorella.

“Sono io. Come va?”

“Bene,” la voce sembrava leggera. “Mamma è venuta a prendermi a scuola, ora sta lavando i piatti. Tra poco inizio a fare i compiti e lei ha detto che mi aiuta.”

“A scuola com’è andata?”

“Ho preso ottimo alla verifica di matematica!”

“Brava, piccolo genio.”

E poi, traditore, calò il silenzio. Una falla nel sistema, una pagina bianca del copione, un buco non previsto. Un silenzio, però, simile a tanti altri nei quali si erano imbattuti nelle ultime settimane. Un silenzio durante il quale Edward avrebbe voluto chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, sulla sua maestra, sulla signorina Swan: Come sta? Sorride? Sembra triste? Quel pezzo di merda del preside le gira ancora intorno? Lui ha sempre il naso fasciato? E gli occhi neri?

Fu Rosalie ad interrompere il fiume di delirio. “Ti passo la mamma, ti vuole parlare.”

“Edward,” sua madre prese la cornetta ed intanto Rosalie in sottofondo iniziava a canticchiare la sigla di un cartone animato. “Ti dispiace tornare un po’ prima stasera? Avrei un incontro.”

Era così che chiamava le chiacchierate che l’aiutavano a rimanere a galla. Aveva mantenuto la promessa che aveva pronunciato a se stessa e a suoi figli, e si era presentata in quell’edificio spoglio ma accogliente. Con la paura che le immobilizzava le gambe e l’ansia che le serrava la gola. Ma ce l’aveva fatta, ci era riuscita. Inizialmente si era limitata a stare in silenzio, in angolo, con il desiderio di nascondersi per rimanere inosservata. Poi le cose erano andate avanti da sole, l’ansia e la paura si erano affievolite fino a sparire, la bocca e il cuore si era aperti lasciando scivolare parole, ricordi e dolore. Era ancora all’inizio, tutto era difficile e faticoso, e le ricadute erano dietro l’angolo, ad aspettare affamate il primo momento di debolezza. Ma adesso sentiva che poteva vincerle. E guarire, vivere, respirare.

“Certo, mamma. E non ti preoccupare per la cena, ci penso io.”

“Sei un tesoro.”

Quando riattaccò un nodo gli serrò la gola. Vide la mano tremare e, per un attimo, abbandonò quell’illusione di serenità nella quale viveva da giorni ed ammise la verità: ho paura. Ancora una volta. Aveva una fottuta paura di tutte quelle cose che si stavano aggiustando, ma che ancora scricchiolavano. E visto che c’era ne ammise un’altra, di verità: mi manca Bella. Era stanco di non averla. Sulle mani, tra le braccia, sulle labbra. Non nel cuore, perché lì c’era ancora. C’era sempre stata.

Le speranze che potesse perdonarlo erano svanite lentamente, mentre i giorni passavano e si faceva largo la convinzione di averla persa per sempre. Edward aveva accompagnato a scuola Rosalie ogni mattina, ma Bella non si faceva più vedere sul portone. Aveva provato a chiamarla, ma lei non rispondeva. L’aveva aspettata per ore sotto casa, ma non si presentava. Forse viveva da lui, forse era riuscita a convincerlo a non sporgere denuncia portandoselo a letto, forse in quei bei capelli brizzolati e in quelle piccole rughe da uomo vissuto aveva trovato quello che cercava. Forse aveva cambiato città, forse non era mai esistita. E il film, che Edward si proiettava in testa almeno un paio di volte al giorno, andava avanti.

Respirò a fondo, si passò una mano sulla faccia e provò a scordarsi come si chiamava, dove si trovava, chi lo conosceva e come viveva. Cancellò tutto, lasciando vivo soltanto il libro aperto sul tavolo. Era quella l’unica cosa che adesso doveva esistere.

Ma il destino, o qualunque cosa governi tutti quanti, sapeva benissimo che quelle pagine stampate non erano l’unica cosa piena di vita in quella stanza. Ed allora decise di giocare, con Edward e con la sua vita. Aiutato dall’amore che quel ragazzo era riuscito a conquistarsi, gli ricordò che tutto è possibile, che le seconde possibilità esistono, che il perdono è di chi ama, che alcuni legami possono sopravvivere a tutto: alle famiglie distrutte, alla stanchezza che ti casca addosso e non ti fa pensare, all’incapacità di chiedere aiuto, alle nocche e alle labbra spaccate.

“Quella donna dietro al bancone è innamorata di te.”

La voce gli arrivò alle spalle, rimbalzò sulle pagine, gli scaldò il cuore e fece tremare di nuovo le mani. Non ci credo, non è possibile, Dio fa che sia vero. Forse nei suoi filmini mentali, insieme alla nuova vita di Bella, si era immaginato anche quella voce. Allora si voltò, sperando di non essere un pazzo che insegue miraggi.

“Non so cosa tu le abbia fatto, ma credo di averla appena fatta ingelosire.”

No, non era impazzito: lei era proprio lì. In piedi in mezzo agli scaffali, i capelli raccolti che le lasciavano il collo scoperto ed un vestito color crema che si intravedeva dal lungo cappotto. E sulle labbra aveva un sorriso. Un po’ incerto, ma era un sorriso.

Rimase seduto, senza muoversi o parlare. Si sentiva un idiota, ma non aveva la forza di fare nient’altro. Tutte le sue energie erano su di lei, con lei. In attesa di altre parole.

Ancora, parla ancora, parla per me.

“Tua madre è venuta a scuola, mi cercava.” continuò lei, pronta a soddisfare la sua aria persa. “Mi ha detto che voleva parlare di Rosalie, dei suoi voti, voleva essere informata sulla sua situazione scolastica, ma poi ho capito.”

Parlava con le mani nelle tasche del cappotto, lo guardava negli occhi senza incertezze, sembrava serena. Edward invece moriva, aggrappato allo schienale di quella sedia.

“In realtà, voleva parlare di te. Ed è quello che ha fatto. Mi ha detto quello che non sapevo e quello che sapevo già, confermando l’idea che mi ero fatta su di te. Confermandomi che non mi ero sbagliata, ad essersi sbagliati erano tutti quei dubbi a cui fingevo di aver dato retta. Mi ha raccontato di essersi accorta che avevi iniziato ad uscire con qualcuno, ti vedeva diverso… era come se avesse trovato il modo per tenere incollati tutti i pezzi, così ha detto. E a suo parere, quella colla ero io.”

Lui ad un tratto si alzò, ma lei lo fermò alzando una mano. Lo guardò socchiudendo leggermente gli occhi, come se gli stesse chiedendo il permesso di continuare a parlare di sua madre, del suo dolore, di quanto era distrutto, di tutti i pezzi che aveva perso per strada.

“Mi ha detto che poi ha capito che qualcosa era andato storto, ed ha immaginato che avessi smesso di vederti con la tua colla.” ridacchiò. “E allora ha deciso che era arrivato il momento di comportarsi proprio come la maggior parte delle madri: si è intromessa. Ha chiesto informazioni a Rosalie, che le ha detto che suo fratello era innamorato della signorina Swan.

Il labbro inferiore di Edward iniziò a tremare, lo bloccò subito con i denti.

Non so cosa sia successo e non so se sia colpa di mio figlio, ma dall’angoscia che gli vedo negli occhi penso proprio di sì. Non mi ero mai permessa di intromettermi nella sua vita, ma ora mi sento in obbligo perché lui ha salvato la mia. Lo perdoni, perché lei è una delle due persone che riesce a calmarlo quando il mondo gli sta crollando addosso. L’altra ha quasi otto anni, i suoi stessi occhi e il suo stesso DNA. Ed ha bisogno di entrambe nello stesso, disperato modo. Mi ricordo ogni parola Edward, me le ricorderò per sempre. Perché l’uomo” quella parola la pronunciò lentamente, dimostrandogli che aveva capito che quel ragazzino che lo aveva accusato di essere era sparito tanto tempo prima. “l’uomo che riesce ad essere così forte, generoso ed altruista da mettere sua madre e sua sorella sopra ogni cosa, e riesce a trasmettere quella stessa forza ad una donna distrutta che decide di comportarsi da madre, dimostrare tutto il bene che gli vuole e convincere la sua ragazza a perdonarlo… beh, quello è l’uomo che vorrei al mio fianco.”

Continuò a guardarlo dritto negli occhi e si ritrovò a desiderare di viverci per sempre, in tutto quel verde. Allungò una mano, con il palmo aperto rivolto verso l’alto pronto ad accogliere le dita del suo pianista.

Edward barcollò fino a raggiungerla e, senza aprire bocca, crollò ai suoi piedi. Si aggrappò ai suoi fianchi come se fossero l’unico pezzo di legno in un mare deserto. Affondò la testa sul suo petto, tra le sue braccia, che l’accolsero come avevano fatto fin dal primo giorno. Sentì le dita di Bella intrecciarsi ai suoi capelli, la bocca che cercava la sua testa e ci lasciava un bacio. E lì, in ginocchio davanti alla donna che amava, finalmente pianse.

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Capitolo 10
*** Epilogo - Dieci anni dopo ***


Credetemi, sono senza parole. Non avrei mai immaginato di poter ricevere così tanti apprezzamenti! Vi ringrazio per ogni parola. Ogni. Parola.

Vi adoro.

Ci “vediamo” alla fine ;)

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Epilogo - Dieci anni dopo

 

Te la ricordi quella sera, Rose? Saltavi intorno al manichino, un sorriso più grande di te, gli occhi brillavano. Il tuo primo vestito, la tua prima creatura. Non la smettevi di parlare. Che ne dici dell’orlo? Troppo corto, troppo lungo? Ed il taglio, troppo azzardato? Del tessuto che te ne pare? Lo vedi come casca bene? Lo vedi? Non vedevo un cazzo, Rose. Non ci capivo nulla. Ma guardarti era troppo bello. Finalmente, solo per un po’, leggera. Finalmente, vivevi ballando in quel pezzo di cielo, quel piccolo frammento di puzzle, che abbiamo cercato per una vita intera.

Ed ora eccoti, avvolta nella tua toga blu. Più luminoso della cascata di capelli dorati, c’è solo il tuo sorriso. È sfacciato, quasi spavaldo. Non c’è traccia di incertezza, un’incrinatura di emozione. È così, la mia piccola Cullen. Ha scavato, nascosto, sopportato, fino a quando il sorriso si è indurito. E quella forza che non hai mai saputo di possedere è proprio lì, tra quelle labbra che non vedono l’ora di scoppiare in una risata.

Cammini sicura tra i tuoi compagni. Ne vedo un paio che ti guardano con più insistenza. Pendono dalle tue labbra, tu non li consideri neanche per sbaglio. Sei troppo impegnata a sbocciare, crescere, stupire con la tua grazia che diventa donna.

Donna.

La mia piccola Rosalie è quasi una donna. Me lo devo ripetere almeno un paio di volte al giorno per crederci davvero. Ti vedo ancora con lo zaino rosso, il piumino chiuso fino al collo, le trecce che ti danzano sulle spalle. Le gambette che dondolano nervose sotto il tavolo, mentre aspetti che qualcosa cambi. Magari, questa volta, in meglio.

Ti vedo salire sul palco, ogni tuo passo è un battito del mio cuore. Sono con te. Ora, sempre. Il tuo sguardo continua a non tradire nessuna emozione, il mio stomaco invece ha iniziato a tremare. Tremo perché ti vedo crescere, perché mi sembri felice, perché ho paura di vederti spiccare il volo. Come quando ti vidi per la prima volta salire sul motorino, indossare una maglietta un po’ più scollata, disegnarti le labbra con quel lucidalabbra che tu adoravi e che a me sembrava il diavolo. Come quando sei andata per la prima volta in discoteca, e io non ho chiuso occhio per tutta la notte. Come adesso, che stai per andartene. Lontano da tutto quello che ci ha piegati, spaccati, sfiniti. Sempre più vicino alla vita che sogni, alla donna che vuoi diventare, alla persona che meriti di essere.

Accarezzi il legno chiaro del leggìo, fissi il microfono, poi alzi lo sguardo. Impassibile, studi la platea che ti sta osservando, che si aspetta un discorso che li faccia ispirare ed emozionare. Guardi i tuoi compagni, tutti quei piccoli puntini blu sparati sul prato. Guardi i genitori, i parenti, gli amici, i fidanzati. Fino a quando i tuoi occhi di smeraldo non arrivano nel nostro piccolo pezzetto di prato. Incroci lo sguardo di mamma. La mamma, Rose. In lacrime, emozionata, orgogliosa. Capito, piccola Cullen? Orgogliosa.

Cerchi ancora un po’ e non trovi tuo padre e Tania. Mi hanno telefonato, Rose. Pochi minuti fa. Carlisle sta facendo tardi in clinica. Sai com’è, un intervento urgente. Il solito, prevedibile intervento urgente.

Certe cose non cambiano mai.

Il vuoto che l’assenza di tuo padre ti ha scavato negli occhi, viene riempito da capelli castani, sorriso smagliante, sguardo fiero di quella bambina che spronava a leggere Harry Potter: Bella. Lo vedi come ti guarda, Rose? Come ha sempre sognato di guardare la sorella che non ha mai avuto. Le sorridi, la saluti con un piccolo cenno del capo e lei, traboccante di felicità, si stringe ancora di più alla mia spalla. Ad un tratto alza la testa, si specchia nei miei occhi e sorride. Un sorriso, Rose... Dio. Te ne ho mai parlato? Quelle labbra che si schiudono per me saranno sempre una piccola conquista, una montagna scalata, un regalo. Il mio regalo.

Certe cose non cambiano mai.

Per fortuna.

Poi - proprio come in una di quelle tante mattine, quando era freddo ed era difficile, quando dovevi strizzare gli occhi e cercarmi tra tutti i genitori, quando aspettavi di scorgermi tra la folla, abbracciarmi con un sorriso e salire sulla bicicletta - guardi me.

E, per la prima volta da quando hai addosso quella toga, ti vedo emozionata. Un po’ incerta, titubante. È difficile, Rose? Guardarmi, volermi bene, sperare di non deludermi. Capita anche a me. Lo so come ti senti, l’ho sempre saputo.

Ricordi? Andrà tutto bene. Quante volte te l’ho ripetuto. Quante volte ho sperato di non dover tradire le mie promesse di agognata serenità. Andrà tutto bene, non ti preoccupare. Te lo ripeto, ancora una volta.

Ricordi? Il puzzle, le canzoni, i piatti da lavare, Hey Jude. Menomale ci sei tu.

Ricordi, Rose? Noi due. Io e te. Una famiglia.

Vai ora, parla. Tocca a te.

 

 

***

 

 

Inizio a parlare. Srotolo davanti a tutti le parole che ho scritto sulla scia dell’emozione e che ho ripetuto, imparato, provato più e più volte. Tutte queste toghe blu, che brillano sotto il sole e che mi ricordano che una parentesi della mia vita si sta chiudendo, mi distraggono. Allora decido di fare quello che ho sempre fatto quando mi trovo in difficoltà: guardo te.

Più bello di sempre. Un fratello, una salvezza. Un medico, un pianista, un uomo. Un paio di spalle larghe a cui è facile e meraviglioso aggrapparsi. Un sorriso che illumina anche quando non mi ricordo nemmeno cosa sia la luce.

Visto, Edward? Sto imparando a parlare. Sto imparando da te.

Non hai ancora finito di insegnarmi, di guidarmi. Non finirai mai. Come farò lontana da te?

Mentre cito libri che ho letto e film che ho visto, lo sguardo si sposta di nuovo su Isabella. La donna che è riuscita a salvarti. La maestra che ha aperto un libro e me l’ha messo sotto gli occhi, insegnandomi la strada per raggiungere quel mondo dove avrei sempre potuto rifugiarmi. Stretta al tuo fianco, ti guarda come se non ci fosse nient’altro. Come se il mondo finisse qui, su questo prato, tra il suo vestito a fiori e la tua camicia celeste. Riuscirò mai a non essere almeno un po’ invidiosa dei vostri sguardi? Del vostro amore. Del vostro talento nel tenervi uniti. Capirvi, esserci. E riuscirò a conquistarlo e a riconoscerlo, se quello sguardo verrà concesso anche a me?

Mamma sta piangendo, Edward. È solo emozione, vero? Quante volte l’abbiamo vista piangere. Troppe per lei, troppe per noi. Ma, ultimamente, tutti quei pianti sembrano chiusi in una delle tante scatole su in soffitta. I ricordi più vividi, quelli che mi investono mentre chiudo gli occhi e sto per addormentarmi, la vedono sempre sorridere. Sorride mentre mi insegna l’uncinetto, mentre mi fa il solletico sotto i piedi, mentre mi mette a letto e mi rimbocca le coperte. Sorride quando prendo la patente, quando le racconto della mia prima ed imbarazzante cotta, quando parliamo di te che impazzisci per organizzare una vacanza e fare una sorpresa a Bella. Sorride, perché è riuscita ad esserci. Non se l’è persi tutti quegli anni, Edward. Era lì, era con noi.

Il discorso sta per arrivare alla fine quando un movimento sulla destra cattura la mia attenzione.

Ed eccolo lì. Impeccabile come sempre. Abito scuro, cravatta, camicia bianca. Capelli pettinati, un accenno di sorriso imbarazzato. Ha gli occhi lucidi. Mi guarda, cresciuta e lontana, ed ha gli occhi lucidi.

È qui, è venuto per vedermi con il mio diploma in mano. In ritardo, ma è qui.

“Un padre imperfetto, ma nostro padre.” È così che dici sempre, vero Edward?

Tania gli stringe una mano, l’altra è sul pancione.

Riuscirò mai a guardarli e non sentirmi sbriciolare qualcosa dentro? Riuscirò a fare come te? Parlare con papà senza sentirmi sotto esame, abbracciare Tania come se fosse una di famiglia, discutere con loro dei miei progetti e dei miei studi, cenare a casa loro senza aver voglia di vomitare.

Riuscirò a perdonare?

Insegnami, Edward. Insegnami anche questo.

 

 

 

____________________

 

 

Non scrivo la parola “Fine”, e c’è un motivo.

Ci saranno alcuni extra. Ancora non li ho scritti, lo farò con calma quando avrò la testa libera da pensieri e preoccupazioni (università ti odio), ma quello che c’è già sono le idee.

L’ordine con il quale scriverò e pubblicherò questi extra lo deciderete voi, e potete votare esprimendo una preferenza nelle recensioni.

Non vi dirò di cosa tratteranno. Per votare, lasciatevi trasportare da quello che il titolo vi trasmette.

Potete scegliere tra:

1.    La prima volta

2.    Occhio nero

3.    Già donna

4.    Michael Cullen

L’extra che riceverà più voti sarà quello che pubblicherò per primo (ma non so davvero quanto dovrete aspettare) e di sicuro. Gli extra che arriveranno secondo, terzo e quarto non so se e quando saranno pubblicati. Spero che l’idea vi piaccia!

Ora passiamo alle cose importanti.

 

Scrivere questa storia è stato un piccolo grande viaggio, è stato scavare e ricordare. Difficile e, soprattutto, bellissimo. Farvela leggere, ancora di più. Quello che mi avete dato in cambio è stato inaspettato e, ogni volta, incredibilmente entusiasmante. È stato questo il vero REGALO.

Ringrazio chiunque sia passato di qui. Per leggere, per rileggere, per farmi sapere la sua opinione. Ringrazio chiunque abbia speso tempo ed energie per lasciare anche solo una recensione. Ho letto dei commenti meravigliosi, accurati, capaci di leggere e descrivere i personaggi alla perfezione. Ringrazio chi si è lasciato emozionare, chi si è affezionato ai due fratelli, chi ha sorriso insieme a Bella, chi ha tifato per Esme, chi ha capito Tania, chi ha imprecato contro Carlisle e chi ha odiato Jasper. Ringrazio chi ha lasciato i cosiddetti “messaggi brevi”: tre parole stupende non sono considerate una recensione, ma per me sono motivo di orgoglio e sorrisi. Ringrazio chi c’era dall’inizio, da quella che doveva essere solo una one-shot, e chi mi ha chiesto di continuare a far vivere questi personaggi.

Ringrazio Federica, che con le sue confidenze ha reso ancora più speciale questa storia, e che mi ha insegnato che in ognuno di noi si nasconde un po’ di Edward.

A proposito di Edward… ringrazio anche lui, che mi ha aiutata a capirmi, a farmi forza, a darmi pace. Tutto l’affetto che avete dimostrato a lui, vi assicuro che lo avete dimostrato anche a me.

Infine, ringrazio la mia Rosalie. Senza saperlo, fa parte di tutto questo ed è la piccola scintilla dalla quale l’idea è nata: la voglia di scrivere di una Sorella.

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Capitolo 11
*** Extra 1 - Prima volta ***


Per prima cosa, grazie. Per due motivi:

1) Continuate a leggere e a commentare anche a distanza di mesi, e non può che farmi un piacere immenso.

2) Ieri sera ho saputo che “Il regalo” è stata inserita nelle Storia Scelte. Non potete immaginare quanto sia BELLA questa notizia per me. Gongolo da quando è arrivata la mail. E il merito è tutto, tutto vostro. In particolare, ci tengo a ringraziare con tutto il cuoricino VerdeEvidenziatore e la mia adorata Lele Cullen per aver segnalato la storia. Grazie, grazie, grazie.

 

Seconda cosa, ho creato un account Facebook per tenervi aggiornati di eventuali nuovi extra o, magari, nuove storie. Potete trovare il collegamento sulla mia pagina, qui su Efp. Mi farebbe  piacere avervi tra gli ‘amici’.

 

Terza cosa: eccovi il primo extra. Mi dispiace di averci messo un bel po’ di tempo ma sono stata completamente risucchiata prima dalle vacanze, poi dalla sessione di settembre e infine dall’inizio di questi corsi maledetti.

Questo è il primo classificato (ringrazio chiunque abbia espresso una preferenza).

Preciso che, a differenza di tutti i precedenti capitoli, il rating è rosso. Ed è ambientato alla fine del nono capitolo “Miraggio”.

Buona lettura. E grazie fin da ora.

 

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Extra 1 – Prima volta

 

Si alzò con le gambe che tremavano. I brividi lo scuotevano dalla testa ai piedi, le lacrime ancora gli rigavano le guance. In quel mare di confusione e stordimento, aveva solo una certezza: l’unica cosa che lo teneva fermo, intero, vivo erano le mani di Bella. La sua presenza. La sua esistenza.

Senza pensare, senza riflettere, senza parlare, solo con la voglia di assecondare ogni suo bisogno, le afferrò la testa e la baciò. Finalmente libero dalle lacrime versate, e dal peso di tutte quelle che aveva sempre nascosto, l’unica cosa che restava era la voglia di averla.

Come aveva sempre voluto, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare. Bloccato dalla paura di sbagliare, perdere, rompere. Con le mani legate dal bisogno di eseguire ogni passo nel tempo giusto.

Ora le catene erano rotte. Spezzate. E le aveva mandate in mille pezzi proprio lei. Quella straordinaria donna che continuava a capirlo e ad amarlo. Quella donna che si era presentata di fronte a lui con il cuore aperto. Un sorriso pronto. Un paio di tacchi alti, un vestito che sembrava cucito sulle sue forme e i capelli raccolti che le lasciavano scoperto il collo.

“Edward,” si allontanò stringendo gli occhi, come se ogni centimetro lontano da lui fosse una piccola coltellata. “Piano.”

Sentiva la sua irruenza, il suo bisogno, ormai cieco. Sentiva le labbra affamate, la lingua calda intrecciata alla sua, il viso bagnato di lacrime che bagnavano anche il suo. Le sue mani strette ai capelli, intorno al collo, sulla faccia, sui fianchi, dentro il cappotto. Le sue mani dappertutto.

“No, Bella.” E la fermezza nella sua voce riuscì a impaurirla e a eccitarla nello stesso tempo. “Non ne posso più.”

Senza smettere di baciarla, di toccarla, di mangiarla, l’afferrò per i fianchi e la costrinse a camminare insieme a lui. Raggiunsero una porta nascosta tra due scaffali, Edward l’aprì senza guardare, con una mano, che per qualche secondo fu privata del tocco di Bella.

Era buio. Un buio che, proprio come il nuovo Edward, la impauriva e le piaceva.

“Cos’è?” riuscì a chiedere, tra un bacio e l’altro.

“Un magazzino” e le strappò il cappotto di dosso.

“Quella donna-“ un bacio “potrebbe entrare-“ le labbra “in qualsiasi momento” la lingua.

“Bella,” si fermò all’improvviso, con le mani ancora tra i suoi capelli. La guardò fissa negli occhi, e lei ebbe l’impressione che la potesse trapassare. “Non me ne frega niente. Ti voglio. Ora.”

E quelle furono le parole che fecero crollare ogni muro. Ogni dubbio. Ogni paura.

I loro respiri accelerati divennero uno soltanto. I pensieri, le labbra, le mani. Una cosa sola.

Edward le strinse le natiche, le accarezzò, portandosi con sé il vestito. Glielo alzò fino ai fianchi, fino a liberarla dal tessuto che le nascondeva quelle mutandine che troppe volte lui aveva solo immaginato. La prese in braccio, incastrato tra le sue cosce, con le dita che già avanzavano tra il pizzo nero, e si bloccò quando la schiena di Bella raggiunse uno scaffale. Premette la sua erezione sull’inguine di lei, la sentì gemere, e perse anche l’ultimo briciolo di controllo. Si liberò della cintura, dei jeans, dei boxer. Fino alle ginocchia, quel poco che bastava per farla finalmente sua.

Scostò le mutandine, la guardò negli occhi, respirarono insieme. E poi, finalmente, fu tutto perfetto.

 

 

Erano ancora vestiti. Se ne rese conto all’improvviso, quando la furia svanì e lui si ritrovò con la schiena contro lo scaffale e il corpo di Bella abbandonato sul suo fianco. Si era limitato ad alzarle il vestito, abbassarsi i pantaloni, non aveva fatto nient’altro. Niente carezze, nessuna frase dolce. Per un attimo si pentì di tutta quell’irruenza. Poi lei alzò leggermente la testa, gli baciò la gola, la mascella, le labbra, e quell’attimo scomparve.

Quando finalmente aveva deciso di fare l’amore con Bella, tutto il tempo del mondo sembrava essere stato risucchiato da una forza più grande di loro. Più grande di lui. Aveva lasciato comandare le mani, le dita, la lingua. E lei. Lei perfetta, lei meravigliosamente perfetta. Mentre chiamava il suo nome e si aggrappava alle sue spalle. Mentre lo faceva sdraiare sul pavimento, gli saliva sui fianchi, ballava su di lui quella danza che già amava e gli permetteva di ammirarla in tutta la sua straordinaria bellezza.

“Raccontami qualcosa.” gli disse.

Edward abbassò lo sguardo. Gli occhi si erano abituati al buio e riusciva a vederla. I piedi scalzi che si strusciavano sui suoi jeans. Il vestito che ancora nessuno dei due aveva intenzione di abbassare. Le mutandine che disegnavano la perfetta linea dei suoi fianchi. Il suo seno che gli premeva sul fianco. La cascata di capelli che gli solleticavano il viso.

Esiste qualcosa di più bello?

 “Avremo tutto il tempo per parlare. Adesso voglio soltanto starmene qui e continuare ad accarezzarti la coscia.”

“Dai,” insistette. “Un aggiornamento veloce. La mano puoi lasciarla dov’è…”

Una risata gli salì nel petto, fino alla gola. “Ah, si?”

Si sistemò meglio contro lo scaffale, tenne Bella ancora più stretta e a voce bassa aggiunse, “Allora, vediamo di darti quest’aggiornamento lampo. Ho lasciato il lavoro, ho ricominciato a studiare, ho una macchina e una mamma. E mi sei mancata.”

Le sue labbra trovarono i capelli di Bella e, con un bacio, a occhi chiusi, si perse nel suo profumo.

“Rosalie come sta?” chiese lei, quasi sussurrando. “A scuola sembra tranquilla.”

“La solita Rosalie. La Rosalie che sembra tranquilla, ma che in realtà si consuma con pensieri più grandi di lei. Però è più serena di qualche settimana fa… Forse le ha fatto bene smettere di mangiare tutti i giorni la robaccia bruciacchiata che le cucinavo io e ricominciare a gustarsi la cucina di sua madre.”

“Non essere così cattivo con te stesso. Gli spaghetti che hai cucinato a me non erano né troppo scotti né troppo sciocchi…”

“Simpaticona!” rise. “Ah, dimenticavo la novità più importante: ha finito di leggere La pietra filosofale. E, con mio grande piacere, ha trascorso un giorno intero con un asciugamano avvolto intorno alla testa come un turbante fingendo di avere la faccia di Voldemort sopra il collo!”

Bella scoppiò in una risata fragorosa, che superò tutti gli strati che li dividevano, gli entrò nel petto e lo scaldò.

“È tutta colpa tua!” aggiunse Edward, con il sorriso sulle labbra.

Lei, continuando a ridere, alzò lo sguardo. Incontrò i suoi occhi e restò spiazzata dalla totale spensieratezza che riusciva a leggerci dentro. Una leggerezza che forse, in tutti quei mesi di sguardi rubati, appuntamenti e baci, non aveva mai visto. “Ecco, vedi?” disse. ”Questo è uno dei tanti motivi per cui ti amo.”

Lui rimase a bocca aperta, con un sorriso storto bloccato a metà. Non ebbe la lucidità per parlare, per respirare, per chiederle di cosa stava parlando, la lucidità per risponderle anch’io, anch’io, anch’io da sempre.

Poi, in quel silenzio traboccante di parole non dette, lei aggiunse, “Quando parli di tua sorella sei ancora più bello.”

 

Salirono le scale vicini. Edward, con lo zaino che gli penzolava dalla spalla, le offrì il braccio, e un sorriso. Lei si aggrappò a lui e insieme passarono davanti al bancone.

“Addio, mio piccolo angolo di pace!” le sussurrò all’orecchio, dopo aver educatamente salutato la bibliotecaria.

“Mi dispiace.” rispose Bella. “Devo trovare un modo per farmi perdonare.”

Mentre si stringeva al cappotto e usciva dalla biblioteca, con Edward che le teneva aperta la porta, aggiunse, “Potresti venire a studiare a casa mia. È sempre vuota. Non ti disturberà nessuno e quando tornerò a casa dalla scuola, troverò te. Che ne dici?”

Lui s’immaginò come sarebbe stata, una giornata tra le pareti di Bella. Vederla aprire la porta di casa, salutarla con un bacio, sentire la stanchezza svanire. E tornò a chiederselo: esiste qualcosa di più bello?

“Mi sembra un’idea meravigliosa.” disse, con una voce bassa e ferma che cercava di nascondere l’impazienza.

Raggiunsero l’auto, un sorriso illuminò le labbra di Edward, finalmente orgoglioso di non essere costretto a farla salire su un manubrio.

“Et voilà!” Schiacciò il pulsante e le sicure si aprirono.

“Wow! Ho il permesso di salire a bordo?”

Si avvicino alla portiera del passeggero, l’aprì e, facendole l’occhiolino, sussurrò “Permesso accordato, signorina Swan.”

Guidava con calma, con una mano sul volante e una sul cambio. Sentiva il motore cantare, le ruote scivolare sull’asfalto, la musica leggera che usciva dalla radio e li coccolava. Si voltò a guardarla. Era buio, il debole sole di quel pomeriggio era già stato inghiottito dall’inverno. Le luci della strada le illuminavano il viso, si specchiavano nei suoi occhi, le disegnavano le labbra. Lei gli aveva chiesto dove la stava portando, lui non aveva risposto. Vivevano nel silenzio da quando erano entrati in macchina. Un silenzio semplice, spontaneo, che non aveva bisogno di essere riempito. Lei guardava fuori dal finestrino e sembrava sorridere. Solo un accenno, ma sembrava un sorriso.

“Mi dispiace.” disse lui, all’improvviso. E come le parole lasciarono le sue labbra, smise di guardarla e tornò a fissare a strada.

“Per cosa?” Si voltò, cercò i suoi occhi senza trovarli, il lieve sorriso scomparve.

“Per te, per noi… anche per lui. Mi dispiace per quella sera.”

“Ed-“

“Mi dispiace di averti costretta a guardarmi mentre mi distruggevo. Mentre distruggevo tutto quello che avevamo.”

“Edward,” allungò un braccio e posò la mano sulla sua, cercò le dita strette intorno al cambio e le intrecciò alle sua. Lo costrinse a stare in silenzio, ad accantonare il passato. A dimenticarlo, almeno per quel pomeriggio di pace. “Va tutto bene. Andrà tutto bene.”

Quella frase Edward l’aveva sentita un’infinità di volte. Nella sua testa, in ogni sfumatura della sua voce. Ripetuta come una ninna nanna a sua sorella, come una supplica a sua madre. L’aveva detta e sentita fino a perdere il senso delle lettere, delle sillabe, del suono. Ma soltanto in quel momento – nella loro immobile tranquillità, con la musica della voce di Bella che lo cullava e gli cantava non sei più solo, con tutto il loro mondo dentro quell’auto e tutto il resto fuori - soltanto in quel momento, per la prima volta, riuscì a crederci.

 

“Siamo arrivati.”

Bella si guardò intorno. Riconobbe il giardino, il portico, la bicicletta. Le finestre erano illuminate.

“È casa tua.” Non capiva. Rimase seduta, con la cintura ancora allacciata. Edward fece il giro dell’auto, le aprì la portiera, la guardò.

“Ho deciso che oggi è la giornata dei desideri. I miei e i tuoi. Ne realizzerò il più possibile.”

“Continuo a non capire.”

“Te lo ricordi il nostro primo appuntamento? Mi dicesti che ti sarebbe piaciuto fare una cosa.”

“Ti assicuro che quella sera avevo voglia di fare tante, tante cose… ma non mi sembrava di avertelo fatto sapere!”

Edward rise, quella risata rauca che la faceva impazzire. “Basta indovinelli, seguimi.”

E lei lo seguì.

La casa era calda, luminosa, dalla cucina arrivava il profumo di sugo, ma, nonostante i segni di vita, sembrava vuota. Edward le prese il cappotto, poi si tolse anche il suo. La fece accomodare sul divano e, divertito dall’espressione confusa di lei, si allontanò.

Spostò lo sgabello, si sedette e si sistemò per essere il più comodo possibile. Sfiorò i tasti, li salutò come se fossero amici che non sentiva da mesi ma che non aveva mai dimenticato. Sembravano freddi, soli, chiedevano compagnia. Sentiva il peso dello sguardo di Bella sul collo, sentiva la sua impazienza, ora che finalmente aveva capito.

Dandole le spalle, sorrise. A lei, a loro, a tutto quello che li aveva portati fin lì.

Raddrizzò la schiena, piantò bene i piedi per terra e lasciò che le sue dita prendessero vita.

La musica riempì la stanza, le orecchie, il cuore. Una musica che urlava disperazione, pregava pace, esultava per averla ricevuta. Una musica che raccontava lacrime, promesse, passeggiate. Urla, pugni stretti, una corsa giù per le scale. Raccontava libri, capelli profumati, pizzo nero. Raccontava loro, raccontava lui.

Bella si lasciò abbracciare dal divano, si accomodò sui cuscini e, con lo sguardo fisso sulle spalle concentrate ma leggere di Edward, sentì le lacrime riempirle gli occhi. Aveva voglia di piangere, ridere, alzarsi e abbracciarlo, rimanere seduta e guardarlo. Guardarlo ancora, e ancora.

Passi leggeri scesero le scale. Rosalie rimase senza parole, con gli occhi sbarrati e un sorriso che si faceva strada per illuminarle il viso. Per un attimo, si chiese se fosse tutto vero. Se quella fosse la sua casa, se quello fosse suo fratello. Raggiunse il divano, vide la signorina Swan – proprio la signorina Swan! - e si accorse che piangeva. Si preoccupò, ma poi capì che erano lacrime belle, di quelle che quando le versi non fanno male. Si sedette accanto a lei, Bella le passò un braccio intorno alle spalle.

“Gli hai fatto un incantesimo, di’ la verità. La maledizione Imperius, giusto?” scherzò la bambina.

“Non ho fatto niente, giuro. Sono solo una povera babbana.” rise Bella, alzando le mani per ribadire la sua innocenza. “Ha fatto tutto da solo.” E, tornando a guardarlo, si rese conto di quanta verità ci fosse in quelle parole.

“Erano mesi che non suonava!” bisbigliò Rosalie, ancora incredula.

“E ascoltarlo è ancora più bello di quanto ricordassi.” Si voltarono di scatto. Esme aveva parlato piano, come se avesse avuto paura di disturbare, spezzare l’atmosfera. Si sedette anche lei, trascinata dalla cucina al divano dalla magia delle note di suo figlio.

Con le dita che ancora danzavano su tasti, Edward si voltò. Trovò su di sé lo sguardo fiero delle sue tre donne. Si perse nel volto luminoso di sua sorella, si emozionò di fronte a sua madre che si era portata una mano sul cuore. Si specchiò negli occhi lucidi di Bella e le sorrise. Un sorriso che sembrava nato per quelle labbra e destinato a quegli occhi.

Fu il suo modo per dirle: “Guardami. Ti amo anch’io.”

E lei lo capì.

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