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Qualche mese fa scrissi questa One-Shot per un contest indetto da
"Twilight Fanfic Contests", in occasione del Natale
Qualche
mese fa scrissiquesta One-Shotper un contest indetto da"Twilight
Fanfic Contests", in occasione del Natale. Mi sono affezionata
fin da subito ai personaggi, soprattutto ad Edward, e ho assecondato la voglia
di scrivere ancora di loro. Questa fan-fiction sarà breve: in totale saranno 9
capitoli ed un epilogo. Se qualcuno conosce già la OS la ritroverà nei
primi due capitoli (che posterò a poca distanza di tempo l’uno dall’altro) e si
accorgerà che è stata leggermente modificata. Le modifiche principali sono
legate ad un “esperimento” che volevo iniziare già da un po’: scrivere al
passato ed in terza persona. Dedico questo ed i capitoli che verranno a chi ha
letto e commentato la One-Shot, lasciandosi emozionare, ricoprendomi di
complimenti e sperando in un seguito: eccolo, ed è in gran parte merito vostro. Aggiornerò ogni lunedì, un capitolo a settimana. Buona lettura!
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Capitolo 1 – Inviti
Era la mattina del ventidue dicembre. A ricordarglielo ci pensava il calendario colorato
appeso sopra il camino. Rosalie aveva aperto tutte le caselle ed aveva mangiato
i cioccolatini che contenevano, fino a lasciare coperto il numero ventitrè. Era
diventato il suo piccolo e felice rituale mattutino: si svegliava, apriva la
casella del giorno e mangiava il cioccolatino con un solo boccone. Edward era sveglio da parecchie ore, ma gli occhi
bruciavano ancora per il troppo sonno arretrato. Aveva fatto due lavatrici e i
panni profumati erano stesi davanti al camino. Davanti al focolare che aveva
acceso lui, accanto all'abete che aveva decorato lui, con l'aiuto di sua
sorella. Aveva messo in ordine le camerette, rifatto i
letti con cura. Tutti tranne quello di sua madre, che era ancora lì dentro, soffocata
tra le coperte, la testa nascosta sotto due cuscini. Dopo aver dato una ripulita veloce anche alla
cucina, si prese qualche minuto di riposo. Si staccò dalla sua vita, solo per
un attimo, con la testa abbandonata sulla poltrona morbida e i piedi gelati
vicino al focolare. Inspirò il profumo di detersivo, di pulito, di fatica. A vederlo così, con gli occhi chiusi e il viso
stanco, sembrava passata un'eternità. Ed invece erano solo tre mesi. Tre mesi
da quella maledetta sera, tre mesi dalle lacrime, tre mesi dal più grande
cambiamento. Forzato, subìto, inaspettato. Aveva trascorso una giornata intera in biblioteca,
impegnato a ripassare le ultime cose prima di dover affrontare il college.
Pedalava come un pazzo per riuscire ad arrivare a casa in tempo per la cena.
Perché in quella casa regnava il dovere della puntualità, non era ammesso
neanche un minuto di ritardo. Perché è così che si fa in ogni famiglia che si
rispetti: si cena tutti insieme, tutti sorridenti, tutti allegri, Com'è andata
la giornata caro? Per favore mi passi l'insalata? Certo tesoro prendi anche un
po' di patate. Ma il sorriso in realtà era finto, era solo una
maschera che tutti dovevano attaccarsi alla faccia per far contento il padre,
il marito. E lui, quella maschera, non aveva mai avuto voglia di indossarla. La stessa storia si ripeteva la mattina, a
colazione. Lo scambio dei buongiorno, Esme indaffarata ai fornelli, suo padre
che non rivolgeva loro nemmeno uno sguardo. Ma non era questo l'importante,
quello che contava era stare tutti insieme e recitare al meglio la tua parte
nella perfetta famiglia da spot pubblicitario. Poco importava se gli unici a
rivolgersi la parola fossero Edward e Rosalie, poco importava se nessuno
vedesse la faccia di Carlisle, sempre rintanata dietro il giornale spalancato.
E non importava nemmeno che la loro madre avesse sempre lo sguardo fisso sul
piatto, con il respiro affannato e le mani che le tremavano, di insicurezza e
terrore. Paura di dire la cosa sbagliata, in un momento ancora più sbagliato. Paura
di deluderlo, quel marito sempre impettito sul suo trono. E lui, Edward, non riusciva mai a stare zitto, non
riusciva a non ribellarsi. Quell'enorme farsa gli era sempre andata troppo
stretta. Perse il conto di tutte le volte in cui suo padre lo spedì in camera
senza cena, con lo stomaco vuoto che brontolava e la bocca piena di parole
amare. E riusciva a mettere in un angolo la rabbia solo quando sentiva sua
madre che, durante la notte, saliva le scale in punta di piedi per portargli
qualcosa da mangiare. Edward aveva passato l'adolescenza in punizione.
Per aver parlato troppo, per aver preferito per l'ennesima volta la schifosa
verità all'insopportabile recita, per aver lasciato a briglia sciolta quello
che ormai era diventato il suo compagno di giochi: il sarcasmo. A scuola era sempre stato in disparte, perso in un
mondo che non apparteneva a nessuno se non a lui. Era il ragazzo solitario,
quello con il libro in mano e i capelli spettinati. Ed andava bene così. Era sempre riuscito a trovare un equilibrio fra
tutte le cose che lo interessavano. Ed in quell’equilibrio ci faceva entrare
anche le ragazze. I primi anni le cose non andavano benissimo, i pochi
appuntamenti che riusciva ad ottenere li rovinava alla seconda uscita, se non
prima, senza neanche riuscire a capire dove avesse sbagliato. Ma poi era cresciuto, ed il suo corpo con lui. Non
si doveva più sforzare per far colpo, per attirare una sguardo, per avvicinare
una ragazza. Gli bastava essere quello che era, stare in disparte dov'era
sempre stato, e le ragazze arrivavano da sole. Non era costretto a trascinarsi
a feste idiote per rimorchiare, gli bastava sfoderare un sorriso sghembo,
passarsi una mano tra i capelli 'di un colore che non avevano mai visto fino ad
allora', al massimo aggiungere quant'era bravo a destreggiare le sue ditaanchesui tasti
di un pianoforte. Ed il gioco era fatto. Le quattro mura di casa traboccavano di problemi e
quando ne usciva non voleva ulteriori complicazioni. Solo cose semplici, nessun
rompicampo sentimentale. Solo parole dritte al punto, nessun romanticismo. Solo
scopate, nessun amore. Ma tutto l'equilibrio era stato spazzato via
quella sera, nel momento in cui aprì la porta di casa e trovò sua madre
accasciata sul divano, con le mani tra i capelli. Corse ad abbracciarla,
straziato dal suo dolore e terrorizzato dall'idea di scoprire cosa fosse
successo. Sua madre singhiozzava parole senza senso, lui continuava a ripeterle
di calmarsi. Ed in tutto quel mare di lacrime e dolore, non riusciva non
chiederle Dov'è Rose? Lei sta bene?, ma Esme non aveva la forza di mettere
insieme una risposta. Dopo qualche bicchiere d'acqua ed altre cascate di
lacrime, gli confessò disperata che Carlisle se n'era andato. Era tornato dal
lavoro e, borbottando le sue solite parole tanto inutili quanto ipocrite, aveva
fatto i bagagli per non tornare mai più. Aveva deciso di lasciare la sua moglie
perfetta e la sua famiglia da pubblicità così, come un vigliacco. Il vigliacco
che, in fondo, era sempre stato. In quel momento scese le scale Rosalie, impaurita
e confusa, che a sette anni era costretta a vedere sua madre a pezzi tenuta
insieme soltanto dalle braccia di suo fratello. Fu quella la prima volta di una lunga serie in cui
tutto quello che Edward voleva era solo tapparle occhi e orecchie, ed evitarle
di vedere e sentire tutte quelle parole e quelle lacrime. Ma non poteva. Allora
si limitò a stringerla, e tra le sue braccia fece posto ad entrambe le donne
della sua vita. Con le labbra premute sui capelli profumati di
Rosalie ed una mano sulla spalla di sua madre, si vergognò quasi quando si
accorse che lui non aveva bisogno di essere consolato. Lui non stava male, non
era distrutto, non aveva voglia di piangere. Lui era sollevato. Carlisle se n'era andato, portandosi via le sue
idee del cazzo, e forse per loro la vita sarebbe migliorata, forse avrebbero
trovato una felicità tutta loro, fatta di risate sguaiate e cene consumate sul
divano alle nove di sera. Ad un tratto – lì, sul quel divano, abbracciando
sua madre e sua sorella, immaginando suo padre lontano – Edward ripensò ad
Esme, la vide con i suoi occhi di bambino. Quando ancora sorrideva, scherzava,
correva. Passava interi pomeriggi a dipingere con suo figlio sulle ginocchia,
canticchiando canzoni d'amore, aspettando con trepidazione il ritorno a casa
del suo uomo. Ma quell'uomo negli anni cambiò, venne risucchiato dai soldi, dal
lavoro, dalla sua merdosa clinica. E la mamma frizzante e piena di vita che
Edward conosceva sparì. Il tempo e il matrimonio portarono via tanti pezzettini
di lei, fino a lasciare nient'altro che un involucro, triste e vuoto. E adesso
Edward sperava che quella donna sempre entusiasta e sorridente potesse tornare,
come se non se ne fosse mai andata. Ma si sbagliava. Niente migliorò, cominciò
soltanto un altro orribile capitolo della loro vita. Un capitolo che lo
costrinse a caricarsi sulle spalle una casa e una famiglia, a fare i compiti
insieme alla sua sorellina ed a ripetere le tabelline con lei. Lo costrinse ad
imparare come si fa una lavatrice, come si pagano le bollette e come si cucina
un pasto per tre persone, che di solito restavano in due. Tutto questo perché lei non ce la faceva. Esme,
sua madre. Da quella sera non smise più di piangere, non smise più di
disperarsi, cambiò solo posto dove farlo. Da divano si trascinò nel letto e ci
rimase per giorni, settimane, mesi. Si tolse la maschera che indossava quando
Carlisle era lì con loro, ma nel frattempo si era scordata come si fa a
sorridere, ad accarezza tua figlia, ad abbracciare tuo figlio. Si ricordava soltanto
di quanto le piaceva la vodka e non faceva altro per tutto il giorno: si
attaccava alla bottiglia, dormiva, piangeva, tornava alla bottiglia. Usciva di
casa soltanto quando la sua migliore compagnia si svuotava ed Edward le urlava
contro che nemmeno morto sarebbe andato a comprargliela. Ecco, in quelle
occasioni Esme di sforzava, si metteva un giaccone sopra il pigiama ed usciva
nel mondo, per tornare a casa solo qualche minuto dopo, con una bottiglia piena
stretta tra le mani. Non serviva a niente scuoterla, sgridarla,
ripeterle che doveva farsi aiutare, che non si poteva scordare di essere una
madre. Non serviva a niente nemmeno abbracciarla, coccolarla, consolarla. Non serviva a niente, tutto restava uguale: Edward
con il vomito di sua madre da lavare dal pavimento.
Lo sguardo si posò sull'orologio che portava al
polso e, all'improvviso, i ricordi vennero spazzati via dalla paura di fare
tardi: doveva andare a prendere Rose a scuola. Afferrò il cappotto e le chiavi del lucchetto
della bicicletta (Sì, unabicicletta... perché Carlisle si è portavo via
l'unica macchina che avevano). La stessa bicicletta con cui l'aveva portata a
scuola a settembre, il primo giorno del nuovo anno scolastico. Quella mattina
era una piccola forza della natura, con il suo zaino rosso sulle spalle e le
guance arrossate dall'emozione. Si rifiutò categoricamente di salire sul
seggiolino attaccato al manubrio, costrinse Edward a smontarlo e a portarla
sulla canna 'perché i grandi fanno così'. Sorrise a quel ricordo e cominciò a pedalare.
Si appoggiò al grande cancello di ferro battuto
proprio mentre il suono della campanella rimbombava tra le pareti della scuola
e faceva spuntare grandi sorrisi liberatori sui visini allegri degli alunni. Ed eccola, Rose, che sbucava dal portone di legno
scuro in mezzo all'enorme sciame di bambini. Edward riuscì a notarla tra tutte
quelle piccole teste perché era l'unica a non correre. Parlava animatamente con
un suo amichetto, gesticolava con foga, si sistemava i lunghi capelli biondi
dietro le orecchie. Edward la guardò e non potè fare a meno di sorridere.
Riusciva a meravigliarlo ogni volta, ogni giorno. Con la sua spontaneità, la
sua vivace sincerità... tutto concentrato nella dolcezza di una bambina di sette
anni. Rose smise di parlare, di gesticolare, di
sistemarsi i capelli. Alzò la testa e lo vide. Bello, alto, suo fratello. In
mezzo a tutti quei genitori, mamme e papà, nonni, babysitter. Suo fratello. La bocca le si spalancò in un sorriso largo quanto
un abbraccio, alzò subito la sua piccola mano e la agitò per salutarlo. Ecco qual è la mia forza, pensò Edward, ecco cosa
mi salva dall'impazzire: quel meraviglioso sorriso. Si buttò al collo di suo fratello, con lo zaino e
tutto il resto, e gli allacciò le braccia intorno al collo. "Allora, principessa?" le scompigliò i
capelli, lei si affrettò a riordinarli con le dita. "Com'è andato l'ultimo
giorno di scuola prima delle vacanze?" "Tutto bene, come sempre." Abbassò lo
sguardo, giocando con lo scollo a V della maglietta di suo fratello che sbucava
dal cappotto. "Abbiamo fatto questo," aprì una mano e mostrò il
regalino per le famiglie che le maestre facevano preparare ai bambini ogni
anno. Era un piccolo abete di ceramica, colorato con le tempere. "È molto
più bello l'albero che abbiamo fatto noi a casa, vero Edward?" Lui aveva fatto di tutto per prepararle un bel
Natale, aveva comprato tutte le decorazioni che le piacevano, l'aveva presa in
braccio e l'aveva sollevata per farle mettere la punta sull'albero. Voglio che
ami il Natale, si ripeteva in continuazione, non voglio che lo detesti come ho
sempre fatto io. "È molto bello anche questo, Rose!" Poi la piccola si rabbuiò, il sorriso sparì e
sussurrò "Ci dovevamo scrivere dietro i nomi dei componenti della famiglia...
io non sapevo cosa scrivere." L'ultima parola si sentì a malapena. Edward, con il cuore traboccante di tenerezza,
voltò fulmineo l'alberino che stringeva nella mano. Aveva scrittoMamma,
Edward, io. "Va benissimo così, mostriciattolo. Puoi
scrivere quello che vuoi!" e le stampò un bacio sulla guancia. Si sentì strattonare i jeans con forza e abbassò
lo sguardo, trovando una testa coperta di capelli a spazzola, neri come la
pece. "Mia mamma ancora non è arrivata."
borbottò timidamente il bambino. "Non ti preoccupare Emm, l'aspettiamo con
te." si intromise Rose, che aveva già ritrovato tutta la sua allegria.
"vero, Edward?" "Certo, certo" provò a tranquillizzarli,
anche se loro non ne avevano proprio bisogno. "Possiamo andare a giocare mentre aspettiamo
la sua mamma?" gli chiese sua sorella con un sorriso furbo. Eccolo il momento, una delle classiche situazioni
che gli si presentavano ogni giorno. Lui non sapeva cosa rispondere, avrebbe
voluto dirle soltanto: E io che ne so?. Ma stava a lui decidere, lo sapeva
bene, perché era l'unico a cui Rose poteva chiederlo. Diede un'occhiata al piccolo parco giochi al
centro del giardino della scuola, provò a ragionare come si immaginava
facessero i genitori: ci sono già altri bambini, posso comunque tenerla d'occhio
e non mi dispiace rimanere qui un altro po'. "Ok, va bene." "Siiiiiiiiii!" urlarono in coro i due
bambini. "Ma non possiamo fare tanto tardi perché
prima di andare a lavoro devo preparare il pranzo per te e mamma, capito
Rose"?" Ma lei stava già correndo verso l'altalena, marcata stretta
dal suo amico. Poi, il fratellone maggiore collegò il nomignolo
di quel bambino ad un episodio che Rosalie gli aveva raccontato qualche giorno
prima, così la rincorse e la fermò. "Non è quell'Emmett che vuole diventare
il tuo fidanzato, vero?" "Edwaaaard, zittoooo!" strillò. Si coprì
la faccia con le mani, per poi continuare subito a correre. Lui sbuffò e si rialzò lentamente, infilandosi le
mani nelle tasche dei jeans. E, proprio mentre vagava con lo sguardo per cercare
una panchina su cui sedersi, la vide. La sua ossessione, l'unica pazzia che si
concedeva, il motivo per cui andare a prendere Rosalie a scuola non gli pesava
neanche un po': Isabella Swan, la maestra. Era appoggiata al portone della scuola, con le
braccia intorno ai fianchi per proteggersi dal freddo, osservava i suoi
studenti abbracciati ai genitori. Indossava una camicetta bianca, un golfino di lana
ed una gonna a vita alta che le lasciava scoperte le ginocchia. Ai piedi, un
paio di scarpe con il tacco alto. Come sempre, lasciò che la sua mente malata
immaginasse tutto quello che gli occhi non riuscivano a vedere: il reggiseno
che indossava sotto la camicetta, il reggicalze nascosto dalla gonna, il collo
liscio e profumato coperto dal colletto bianco. Sentì l'uccello indurirsi,
imprigionato nei jeans. Isabella si avvicinò ad una mamma, che le disse
qualcosa che Edward non riuscì a capire. Lei sorrideva, guardava con tenerezza
il bambino aggrappato alla gamba della madre e gli fece una carezza prima che si
allontanassero. E poi il suo sguardo cambiò perché ad un tratto si era
intrecciato con quello dell'unico ragazzo presente nel piazzale, che se la
stava mangiando con gli occhi. Succedeva sempre così, ogni mattina: i loro occhi
si cercavano ed erano sempre pronti a trovarsi. Lei arrossì immediatamente, abbassò la testa con
uno scatto, come se volesse scacciare un pensiero. Lui approfittò di
quell'attimo di incertezza e si fece avanti. "Salve, signorina Swan." Lei era
imbarazzata, lui no. "Ciao, Edward." rispose, dopo aver
schiarito la voce. "Le va di farmi compagnia?" le chiese,
sfacciato come il suo sguardo. "Smettila, ti ho già detto mille volte di non
darmi del lei!" La faceva sentire insensatamente vecchia, ma questo non
glielo aveva mai detto. "Mi scusi." insistette, alzando un
angolo della bocca. Le strappò un sorriso, che le scoprì i denti
bianchi e perfetti. Edward vide le guance imporporarsi sempre di più, gli occhi
color cioccolata si illuminarono. Ed ogni volta che la vedeva brillare così gli
sembrava un regalo, una piccola grande conquista. Una ciocca di capelli le scivolò davanti agli
occhi e lui, con un riflesso pronto, allungò la mano e gliela spostò dietro
l'orecchio. Nel momento esatto in cui la toccò, un brivido gli percorse la
schiena. Un'emozione forte che però non riuscì a distrarlo dai jeans che
diventavano sempre più stretti e fastidiosi. Lei si allontanò di un passo, intimorita dalla sua
iniziativa. Si guardò intorno, per controllare che nessuno li stesse
osservando. Era nervosa, si morse il labbro inferiore. Un movimento che buttò
benzina sulle voglie di Edward: non fece altro che fargli notare le sue
meravigliose labbra carnose. Lui voleva avvicinarsi di nuovo, ma lo fermò la
paura di esagerare. Finora si erano sempre scambiati qualche parola, si erano
punzecchiati, provocati. Le aveva rubato un'informazione dopo l'altra,
conservandole come se potessero scappare. Aveva scoperto che non era fidanzata,
che aveva venticinque anni, che era in città da sola perché la sua famiglia
viveva lontano. Parole sussurrate, sorrisi nascosti dalla timidezza, domande
azzardate, me niente contatto. Si sfioravano a malapena, lei non si avvicinava
mai abbastanza. E tutte le volte lui impazziva. Pazzia mischiata alla paura che
fosse tutto un gran bel film girato nella sua mente deviata. "Io lavoro alla RoadHouse, la tavola calda in
centro." azzardò, senza smettere si sorriderle. "Faccio pranzo, cena
e quando posso lavoro fino a tardi. Lì non saresti costretta a guardarti
intorno con la paura che qualcuno ti stia osservando. Ed io con il grembiule
sono uno spettacolo da non perdere." Un altro sorriso, un'altra piccola
conquista. "Passi stasera?" Mentre lui pregava che gli dicesse sì senza
neanche pensarci due volte, lei scosse la testa, lasciandosi sfuggire un
sospiro. "Sei tremendo." disse fra sè e sè, evitando i suoi occhi. "Lo so. Vieni?" Lo scrutava con il suo sguardo luminoso e i suoi
pensieri indecifrabili e, mentre indietreggiava verso il portone, bisbigliò
"Ci penserò". La vide sparire e, qualche secondo dopo, si
dissolse anche il rumore dei suoi tacchi. Tornò ad osservare sua sorella, che stava
ordinando ad Emmett di spingere l'altalena più forte, ed intanto cominciò a
pensare a cosa potesse tirare fuori dal frigorifero per mettere insieme un
pranzo decente.
***
Mezzanotte del ventitrè dicembre, e stava ancora
lavorando. Non era stata una serata troppo impegnativa: pochi
clienti, poche ordinazioni, poche distrazioni. Il Natale era sempre più vicino
e la gente iniziava a preferire l'atmosfera intima ed accogliente delle loro
case ad una tavola calda piena di sconosciuti. Rimanevano fedeli solo i soliti
abbonati visi tristi, che non avevano case accoglienti ad aspettarli. Di
solito, a quest'ora, Edward era sempre indaffarato tra drink e spuntini
notturni, ma oggi poteva già cominciare a riordinare tavoli e sedie. Jacob Black, il propretario del locale da quando
suo padre Billy era venuto a mancare, uscì dal magazzino tenendosi il cappotto
su una spalla. "Cullen, stasera ti è andata bene!"
gridò nella sua direzione, con una voce sottile sproporzionata al suo corpo
ingombrante. "Appena finisci di pulire puoi andare a casa, sei libero! Ti
dispiace chiudere al posto mio?" gli chiese, con una pacca sulla spalla. Edward si lasciò sfuggire un sospiro, sollevato
dal pensiero che sarebbe tornato a casa ad un orario decente e, dopo
un'eternità, sarebbe riuscito a dormire per più di cinque ore filate. O almeno
avrebbe potuto provarci. "Voglio tornare a casa prima che Leah si sia
addormentata, lo sai quanto diventa insopportabile quando la faccio
innervosire!" Annuì con un sorriso tirato, anche se in realtà non ne aveva
idea. La moglie di Jacob l'aveva vista solo due volte, da lontano, e nemmeno
gli aveva rivolto parola. Gli disse di non preoccuparsi e che poteva stare
tranquillo, non aggiunse che sbrigare le ultime cose senza nessuno tra i piedi
sarebbe stato ancora più piacevole. Il suo titolare lo salutò, gli augurò la
buona notte e lui, educatamente, ricambiò. Dopo aver passato velocemente la spugna sul
bancone, si avvicinò ai tavoli ed alzò una sedia per poter cominciare a
spazzare. Ma non fece in tempo ad afferrare la scopa che il campanellino
attaccato alla porta cominciò a suonare, seguito dal rumore di qualche passo
incerto. Per un attimo restò immobile, indeciso se servire l'ultimo cliente o
cacciarlo dicendogli che erano già schiusi. Il sonno, che gli era sfuggito per
troppo notti, ebbe la meglio e si voltò, annunciando con tono fermo: "Mi
dispiace, stiamo chiud-" Le parole gli morirono in gola quando si trovò
davanti Isabella. Teneva le braccia incrociate sul petto, forse per
il freddo, forse per l'imbarazzo. Indossava un cappotto nero, stretto in vita,
che valorizzava la forma incantevole dei suoi fianchi. In testa portava un
delizioso cappellino di lana rosso, dal quale sbucava una morbida cascata di
capelli mossi. Edward sapeva che era in silenzio da troppo tempo,
doveva assolutamente trovare qualcosa da dire. Qualcosa che non la fecesse
scappare, che la trattenesse lì, con lui, per tutta la notte. "Mi dispiace" sussurrò lei, battendolo
sul tempo. "è tardissimo, stai chiudendo... me ne vado." "No," si affrettò a rassicurarla,
sentendosi mancare al pensiero che fosse già tutto finito. "Resta." Fece un passo verso di lei, prima che potesse voltarsi
ed andarsene. D'istinto allungò un braccio per fermarla, ma, senza nemmeno
sfiorarla, tornò ad appoggiarlo sulla sedia perché si accorse che non era
necessario: non si era voltata, non si era allontanata, non voleva andarsene. Tolse la sedia dal tavolo e gliela indicò.
"Siediti pure." E allora lei sorrise. Si sentì come se,
all'improvviso, qualcuno l'avesse liberata di un macigno caricato sulla spalle,
come se ad un tratto fosse più leggera, più giovane, più spensierata. Si dette
della cretina, ma continuò a sorridere a quel ragazzo che non riusciva a
smettere di guardare. Gli si avvicinò, sentì che profumava di buono. Si
sedette timidamente, con le mani in grembo. "Cosa ti porto?" le chiese gentilmente,
allungandole un menù. "Ma stavi chiudendo, non voglio
disturb-" "Che ne dici di una cioccolata calda?"
la interruppe, prendendo l'iniziativa. Lei lo guardò per un secondo che sembrò un anno,
scosse la testa e, dopo aver liberato un respiro pesante come un macigno, si
arrese. "Vada per la cioccolata calda!" Edward raggiunse il bancone e preparò la bevanda
con la testa che rischiava di esplodere: voleva impiegare meno tempo possibile
per poter tornare subito da lei, ma nello stesso tempo voleva impegnarsi per
prepararle con cura la cioccolata più buona che avesse mai assaggiato. Quando lei vide la tazza, ricoperta fino all'orlo
con una spruzzata di panna montata, sgranò gli occhi come di solito faceva
Rosalie quando era felice. Edward decise che era un buon segno. "È perfetta!" sussurrò, afferrando il
cucchiaino. "Come fai a dirlo? Prima assaggiala!" Si sedette accanto a lei e la osservò mentre si
avvicinava la tazza alla bocca. Alla sua meravigliosa, carnosa, morbida bocca.
Iniziò a giocherellare con le mani per distrarsi, seguiva con le dita le
venature del tavolo. Tutto per non pensare che gli sarebbe bastato allungarsi
di un paio di centimetri per toccarla, per accarezzarla, per... "È perfetta davvero! Ora che l'ho assaggiata
lo posso dire, giusto?" Edward si lasciò andare ad una risata, che aumentò
quanto vide la punta del suo nasino, arrossata dal freddo, macchiata di
cioccolata. Allungò l'indice e la catturò con il polpestrello, che finì dritto
tra le sue labbra. Lei si imbarazzò, come se quel gesto le avesse ricordato con
uno schiaffo che era sola con un ragazzo bello da morire, dal quale si sentiva
attratta dalla prima volta che lo aveva intravisto nel cortile della scuola.
Lui la vide in difficoltà, con gli occhi velati di un'emozione che non sapere
tradurre, e per smorzare la tensione le sorrise. Quel sorriso sghembo che tante
volte aveva sfoderato, ma che mai gli era sembrato così poco convincente come
adesso. "Dimmi un po'..." mormorò, guardandolo
dritto negli occhi, con una sicurezza che fino a pochi minuti prima non c'era.
"Quante ragazzine hai conquistato con quel sorriso storto?" Edward scoppiò a ridere, divertito e anche un po'
imbarazzato, nascondendosi la faccia con una mano. "Non abbastanza, a quanto pare." Lei strinse le dita sottili intorno alla tazza e,
dal cambiamente dello sguardo e dal piccolo sorriso che se ne andò dalle sue
labbra, Edward capì che stava per iniziare un discorso che la metteva a
disagio. "Senti," "Dimmi" "Forse ho sbagliato a venire qui o forse no,
non lo so. Il problema è che nemmeno io so perché l'ho fatto. Ero indecisa, tu
ieri mi hai invitata ed io non sapevo cosa fare... ma poi mi sono detta che due
chiacchiere tra amici non avrebbero fatto male a nessuno" "Tra amici?" "Voglio solo che tu sappia" continuò,
ignorandolo. "che non sono qui per quello che pensi, per quello che vuoi.
Perchè l'ho capito cosa vuoi. Porca miseria, si vede... eccome se si vede. Da
come mi guardi, da come mi parli. E devi smetterla, davvero" "Isabella," "È una cosa sbagliata, completamente
sbagliata... spero che tu te ne renda conto. Io sono l'insegnante di tua
sorella, capisci? L'insegnante di tua sorella! E sono un'adulta, sono una
donna, molto più grande di te. Ed è sbagliato, anche solo essere qui è
completamente sbagl-" "Isabella." la chiamò di nuovo,
posandole una mano sul braccio, scacciando con la sua sicurezza la confusione
creata da tutte quelle cosesbagliatein un
solo discorso. "Hai parlato abbastanza, non ti pare? Ora calmati, respira
e lascia parlare me." Annuì seria, sfuggendo al suo sguardo. "Non mi sono fatto nessuna idea,
davvero." Lei provava a capire se fosse sincero, lui provava a convincersi
di quella bugia per apparire più convincente. "So solo che sto bene. Ora,
qui, con te... sto bene." Ecco, questa era la verità. Ora non doveva
nascondersi fin dentro lo stomaco, poteva confessarsi. Solo un po', ma poteva farlo. "E non dobbiamo etichettarlo, dargli un nome.
Proprio come non dobbiamo dare un nome a noi due. Stasera non sei l'insegnante
di Rosalie ed io non sono il fratello di una tua alunna. Sei solo una donna,
incredibilmente bella, che ha deciso di prendere qualcosa da bere e, per sua
fortuna, ha trovato un cameriere con cui adora parlare. Va bene? Ci stai?" Lo guardava con i suoi occhi grandi e lucidi.
Sospirò, continuando a scrutarlo per capire se fosse sincero. Quello che vide
forse la convinse davvero perché gli sorrise ed annuì. "Ci sto." E a Edward sembrò di aver
appena scalato una montagna. Le ore successive corsero sull'orologio in modo
strano, particolare, emozionante. Il tempo scivolava veloce, scandito da
emozioni diverse, constrastanti, una continua lotta tra il sollievo e l'ansia.
Sollievo per ogni parola che usciva dalle loro labbra, ansia perché temevano
sempre che potesse essere l'ultima. Più Bella parlava, più Edward capiva che
non ne avrebbe avuto mai abbastanza. Della sua voce, del suo modo delicato di
gesticolare, delle sue fossette che le addolcivano il viso più di quanto fosse
umanamente possibile. Gli chiese dei suoi studi, volle sapere perché
aveva deciso di lavorare invece di andare al college. E lui liberò le parole
come se fossero un fiume in piena. Le raccontò della sua famiglia, di sua
mamma, di quanto riuscisse ad amare quel piccolo scricciolo biondo che anche
lei vedeva tutte le mattine. Le disse quanto fosse stata naturale, sofferta e
scontata l'idea di abbandonare per un po' gli studi per stare vicino a loro,
per non abbandonare le persone a cui teneva di più al mondo. Le raccontò della
sua passione, la musica. Le raccontò il suo sogno, diventare un medico. E le
raccontò anche il suo incubo, diventare un medico come suo padre. Le disse cose
che non aveva mai detto a nessuno e, per la prima volta, ascoltò il suono dei
suoi pensieri, da sempre chiusi a chiave nella testa e nel cuore. Lei ricambiò con foga ed emozione le sue parole,
il suo interesse, la sua voglia di aprirsi. Ed aggiunse acqua al suo fiume in
piena. Completamente rapito, lui l'ascoltò parlare di sua madre e di suo padre.
Capì, dalla voce incrinata e dagli occhi turbati, quanto fosse stato difficile
gestire i rapporto con i genitori separati, sempre divisa tra due case, due vacanze,
due caratteri e migliaia di abitudini diverse. La vide arrossire nominando i
suoi pochi e sbagliati amori e si emozionò davanti ai suoi occhi lucidi quando
gli confessò di invidiare il suo rapporto con Rosalie, il rapporto che fin da
bambina aveva sognato di avere con un sorella che, purtroppo, non aveva mai
avuto. Lei parlava, lui la ascoltava e poi si scambiarono
di nuovo i ruoli, come se fosse una danza che entrambi sapevano eseguire alla
perfezione, senza sbagliare i passi e senza pestarsi i piedi. E sentivano ogni
parola accarezzare la pelle come se fosse medicina per le loro ferite. Finirono a parlare del Natale, di quel Natale.
Edward fu costretto a mordersi la lingua per non dirle che tutto quello che
avrebbe voluto era una Natale sotto le coperte con lei e, mettendo da parte per
l'ennesima volta i pensieri sconci, le chiese se sarebbe partita per
trascorrere le vacanze con i suoi. "No," borbottò timida. "preferisco
rimanere qui, tanto non sarebbe un bel Natale nemmeno se tornassi a casa." "Quindi sarai sola?" Gli si strinse il
cuore ad immaginarla sola in casa, senza l'abbraccio di nessuno, senza nessuno
con cui fare un brindisi. "Una mia collega, Angela, mi ha invitata a
casa sua per la Vigilia. Una cena tranquilla, con i suoi amici." "Ma?" Gli sorrise complice, era tanto tempo che non
aveva l'impressione che qualcuno le leggesse il pensiero. "Ma... non credo
di andare." "Beh, vieni da noi!" le disse, spontaneo
e convinto. "Cosa?" squittì Bella. Sgranò gli occhi,
allarmata e spiazzata. "Non sarà nulla di formale, non ti
preoccupare. Proveremo a mangiare le schifezze che cucinerò, ascolteremo un po’
di musica oppure guarderemo un film, quello che vuoi." Cercò la sua
approvazione con lo sguardo, ma non la trovò perchè lei evitava di guardarlo.
Aveva sentito un allarme scattare, Bella. Quell'allarme assordante, che ora
copriva le parole di Edward e le ripeteva: cammina, rallenta, smettila di
correre come una pazza. "Rose sarebbe pazza di gioia, e lo sarebbe anche
mia madre se riuscisse a tenere gli occhi aperti!" La vide abbassare all'improvviso la testa,
rabbuiata dalle sue parole. Quando tornò a guardarlo, i suoi occhi erano più
duri, più scuri, non ammettevano repliche. "No, Edward." Due semplici parole e lui
rotolò giù per quella montagna che con tanta fatica aveva scalato. "Va bene, ti capisco." si affrettò a
precisare, con un sorriso che sperò sembrasse tranquillo e comprensivo. La vide afferrare la borsa, infilarsi il cappello,
recuperare il cappotto. Tutto sembrava andare a rallentatore e lui non sapeva
cosa fare, come fermarla. Bella osservò per qualche secondo la tazza vuota di
fronte a lei e poi lo cercò, con gli occhi di nuovo dolci e sereni. "Grazie" sussurrò emozionata.
"Grazie davvero. È stata una serata perfetta." "Di più." Sentì spuntare il sorriso
storto contro la sua volontà. Si alzò lentamente e, come un mendicante sogna una
manciata di spiccioli, Edward si ritrovò a sperare che gli lasciasse almeno un
bacio sulla guancia. Patetico, se ne rendeva conto. Ma lei non si avvicinava,
restava lì, in piedi davanti al tavolo. Poi, all'improvviso, gli passò una mano
tra i capelli, spettinandoli ancora di più. Lui sentì le sue piccole dita
sottili scivolargli sulla testa e non ebbe il tempo di fare niente, pensare a
niente, riuscì a malapena a socchiudere gli occhi e godersi quell'attimo. Si
allontanò subito, facendo risuonare i suoi tacchi nella piccola stanza vuota, e
lo salutò con un ultimo sorriso.
Grazie
mille per l’”accoglienza”! Grazie a chiunque abbia letto, recensito o
inserito la storia nelle preferite! Vi lascio al secondo capitolo. ____________________
Capitolo 2 – Natale
Non aveva idea di come si preparasse una cena per
la Vigilia di Natale. Si ricordava che Esme ogni anno si chiudeva in cucina per
ore, lavorando sui dettagli, cercando di accontentare i gusti di tutti. Ma lui
non sapeva proprio da dove partire. Quel pomeriggio era salito in camera di sua
madre per chiederle qualche consiglio, lei gli aveva risposto barcollando fino
al bagno e chiudendocisi dentro. Per fortuna aveva trovato il suo ricettario e
si era procurato gli ingredienti per cucinare qualcosa di non troppo
complicato. Sospirò e si portò le mani alle tempie. Se non fosse per Rose, continuava a ripetersi
sottovoce, a quest'ora sarei in un bar ad ubriacarmi fino a svenire. "Edward? Tutto bene?" Era la voce di sua
sorella che lo raggiungeva dalla sala da pranzo. "Arrivo!" rispose urlando, mentre
cercava le presine per aprire il forno. Pollo al sale grosso e patate arrosto. Non gli
restava che sperare che fossero più buone delle lasagne bruciate con cui
avevano iniziato. Corse in sala da pranzo con la teglia tra le mani
e, sussultando, si bloccò. Fu come se per un attimo riuscisse a vedere la sua
famiglia dall'esterno, con gli occhi di un estraneo: una bambina con un paio di
treccine bionde che dondolava le sue gambette avanti e indietro sotto il
tavolo, una donna trasandata con i capelli in disordine e la testa tra le mani,
e un posto vuoto. Sentì una stretta al cuore e, mentre sua sorella
si voltava nella sua direzione, scacciò quell'estraneo che compativa la sua
famiglia. Abbandonò i suoi panni e, servendo pollo e patate nei tre piatti,
tornò ad essere Edward. Iniziarono a mangiare e lui si scusò fin da subito
per il cibo che, ancora una volta, sarebbe stato disastroso. Rosalie gli
sorrise divertita e rassicurante, sua madre continuò a tenere lo sguardo sul
piatto. Come sempre, ad Edward venne voglia di scuoterla arrabbiarsi urlare ma,
come sempre, si morse la lingua. Quel pomeriggio, poco prima dell'ora di cena,
Edward si era ricordato quanto piacesse a sua madre riempire la tavola di
candele, bicchieri di cristallo, tovaglioli colorati, piatti di ogni forma, e
le aveva chiesto di apparecchiare. L'unica cosa che le aveva chiesto, l'unica.
Esme aveva accettato, sfiorandogli una mano, e per un attimo Edward si era
concesso il lusso di sperare che potesse essere una bella serata. Ma quando sua
madre si era accorta che per sbaglio aveva preso piatti e posate per quattro persona,
era scoppiata a piangere ed era tornata ad accasciarsi sul divano. "Bravo Edward, è buono!" commentò Rose,
un po' troppo entusiasta. Lui la guardò storto, fingendosi offeso dal suo
finto complimento. In realtà, il suo tentativo di coccolarlo lo lusingava. "A me sembra sciocco, e anche un po'
crudo." borbottò. "Vabbè... sempre meglio delle lasagne!"
e risero insieme. La cena trascorse così, con la voce di Rosalie che
riempiva la stanza e occhiate veloci lanciate ad Esme per controllare se stesse
mangiando. Sua figlia provava a coinvolgerla nei discorsi, a volte ci riusciva
per qualche minuto, altre volte invece si arrendeva quando si accorgeva che sua
madre non aveva proprio voglia di parlare. Continuava a raccontare della scuola
e dei suoi amici, giocando con le ultime patate rimaste nel piatto. "Lo sai Edward che c'è una bambina che mi
copia? È insopportabile!" sua fratello la guardò confuso e lei continuò,
ancora più agguerrita. "Fa tutto quello che faccio io,tutto!
Si veste come me, si pettina come me... Se io mi faccio le treccine lei il
giorno dopo, indovina un po'?, arriva a scuola con le treccine!" Buttò gli
occhi al cielo, allargò le braccia e scosse la testa. "Ed è una cosa grave?" Edward, ancora
più confuso, stava provando a ricordare se, durante la sua infanzia, avesse mai
fatto caso a come fossero vestiti o pettinati i suoi compagni di classe. "Ceeerto!" rispose indignata, sgranando
gli occhi. Lui lanciò un'occhiata a sua madre, sperando che lei – da donna –
riuscisse a capirla meglio di quanto potesse fare lui, ma li stava ascoltando a
malapena. "Beh..." iniziò, non sapendo bene dove
andare a parare. "Secondo me la stai prendendo nel modo sbagliato."
Lei, in risposta, lo guardò come si guardano i pazzi. "A me sembra molto semplice..."
continuò. "Se ti copia vuol dire solo che le piaci. Le piace come ti
vesti, come ti pettini, e – chissà – se diventi sua amica le potrai dare
qaulche consiglio. Così sarete contente tutte e due, no?" L'espressione negli occhi di Rosalie cambiò ed
Edward si accorse del momento esatto in cui le sue parole, per lei, diventarono
credibili. Promosso, pensò. Lei si sistemò sulla sedia, con la schiena sempre
più dritta, e gli sorrise. "In effetti..." sussurrò orgogliosa. Suo fratello ricambiò il sorriso e, ordinandole di
finire tutte le patate che aveva lasciato nel piatto, le dette un leggero
pizzicotto sulla guancia. Proprio mentre lei rispondeva con una linguaccia,
Esme ruppe il silenzio. "Ragazzi," la voce sottile sembrava sul
punto di spezzarsi. "Vi dispiace se mi vado a stendere sul divano?" "Sì." rispose veloce Edward, senza
lasciare il tempo a sua sorella di dire la sua. Rose lo guardò preoccupata e
lui si rese conto che aveva usato un tono un po' troppo forte. Provò ad
addolcirlo ed aggiunse: "Ho preparato una torta di mele seguendo una tua
ricetta, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Ve bene,mamma?"
Insistette su quell'ultima parola. Lei lo guardò, con un sorriso che sembrava quasi
compatirlo, e lui si incazzò ancora di più. "Perdonatemi, ragazzi... ma proprio non ce la
faccio. Non mi sento molto bene." e si alzò. Edward aveva la testa in fiamme, un fischio nelle
orecchie, la mascella tesa. Si costrinse a bere un po' d'acqua per calmarsi.
Quando avvicinò la mano al bicchiere si accorse che tremava, e la vide anche
Rose. "Io la mangio volentieri la torta."
disse. La guardò, così piccola e forte, così dolce e
sveglia. Gli occhi grandi e lucidi pieni di preoccupazione. Gli risuonò nella
mente la sua voce, si specchiò nel suo sorriso timido che tentava
disperatamente di consolarlo, e fu costretto a distogliere lo sguardo per
evitare di scoppiare a piangere.
Lavarono i piatti insieme, come sempre. Lui con le
braccia immerse nella schiuma e lei in piedi su una sedia, pronta ad asciugare
tutto quello che le passava. Canticchiavano una canzoncina, lui cominciava il
verso e lei lo finiva. Quando si stancava di cantare, iniziava a schizzarlo con
la schiuma, a ballare come se fosse una cubista, a fingere di cadere dalla
sedia per impaurirlo. Non stava ferma neanche per un secondo. Poi, dopo avergli
raccontato per l'ennesima volta una barzelletta sentita dal suo amico Emmett,
cambiò argomento. "Secondo te la mamma vorrà giocare con noi
dopo?" gli chiese, continuando ad asciugare con cura un piatto.
"Almeno un po'?" "Non lo so." le rispose, con l'ennesima
ed insopportabile stretta al cuore. "Forse ha voglia di guardare un film, un
cartone animato... oppure giocare a Monopoli!" "Non lo so, tesoro." "Speriamo!" Sì, speriamo.
Rosalie camminava davanti a lui mentre
raggiungevano la sala. Edward la guardò zampettare fino al divano, dov'era
sdraiata Esme. La raggiunse e la scosse delicatamente, chiedendole sottovoce se
aveva voglia di giocare con loro. Sua madre tentennò lentamente la testa.
Preferisci guardare un film? e, oltre a ciondolare la testa, emise un lamento.
Aiutandosi con il bracciolo del divano, si mise seduta e, con un filo di voce e
lo sguardo perso nel vuoto, disse che preferiva salire in camera per stendersi
un po' sul letto. E Edward impazzì. Sentì salire la rabbia e, questa volta, le permise
di traboccare. Lasciò che la testa scoppiasse e che la vista restasse
appannata. Con la voce roca e la gola che raschiava fino a fargli male, le
rovesciò addosso tutte le parole che aveva sempre trattenuto. Sentì ogni cosa
sfuggirgli dalle mani: il controllo, la ragione, il Natale che sognava per sua
sorella. Tutto venne spazzato via. Si dimenticò che accanto a lui c'era Rosalie
e lasciò che la sua voce riempisse la stanza. "BASTA!" ruggì. "BASTA! Non ne
posso più, cazzo!" Esme si prese subito la testa tra le mani, per
evitare di sentire, ascoltare, guardare, "Falla finita, mamma! SMETTILA! Lo so che è
difficile... cazzo, lo so! Ma devi stringere i denti, devi cambiare, devi
alzarti! Capito? ALZATI, PORCA TROIA!" Si fermò un attimo, solo per prendere fiato. E poi
tornò a sovrastarla, cone le urla e con il corpo. "Qual è il problema? Eh? Quel pezzo di merda
di tuo marito ti ha lasciata? PACE! Si va avanti, tu devi andare avanti!"
Le puntò un dito contro, che sembrava schiacciarla ancora di più sui cuscini
del divano. "E se proprio non vuoi farlo per te, se proprio non vuoi
pensare a te stessa, pensa a noi. A NOI, CAZZO! Noi siamo sempre qui! E ci
manca nostra madre... un sorriso, una parola, una qualsiasi stronzata!" Si alzò a fatica, così stravolta da non sembrare
nemmeno umana. Tremava dalla testa ai piedi ed era così instabile che sembrava
sul punto di sbriciolarsi. Aveva gli occhi gonfi, traboccanti di lacrime. Riuscì ad alzarsi e, trovandosela davanti, Edward
percepì ancora di più la grandezza e l'arroganza del suo corpo che sovrastavano
il suo, così piccolo e fragile. Ma ancora non aveva finito. C'era altra rabbia,
altra stanchezza, altre parole. Questa voltà le sussurrò, riuscendo con sforzo a
controllare la voce. "Mi fai pena, mamma. Pena. E lo sai quanto è
brutto compatire il proprio genitore? Fa schifo mamma, schifo." Lei, per la prima volta, lo guardò negli occhi ed
immediatamente lui si pentì di tutto quello che le aveva detto. Avrebbe voluto
abbracciarla, stringerla, ripeterle che sarebbe andato tutto bene, pregarla di
dimenticare. Ma ormai la barriera si era alzata e le sue parole erano già
indelebili, per entrambi. Si voltò e, traballando, raggiunse le scale. La
vide sparire dopo essersi trascinata per i gradini e, quando sentì la porta
sbattere, chiuse gli occhi. Nella stanza calò il silenzio. Un silenzio pesante
e scomodo che lo catapultò di nuovo nella realtà. Si rese conto che non era
solo, non lo era mai stato. Sentiva addosso lo sguardo di Rosalie, era come se
gli bruciasse le spalle. Sapeva di aver sbagliato. Aveva urlato parole
orribili alla loro madre davanti a lei, che aveva sempre voluto proteggere da
tutto e da tutti. E, questa volta, la stava distruggendo proprio lui. Avrebbe dovuto resistere, aspettare di essere
solo, evitare di perdere la testa. Avrebbe dovuto farlo per Rose, per quella
piccola grande bambina che non chiedeva niente se non una serata tranquilla e
spensierata. Sono un coglione, pensò, un coglione. Non aveva
nemmeno il coraggio di voltarsi e guardarla. Ma, dopo minuti interi di silenzio assoluto, sentì
avvicinarsi i suoi passi leggeri e la sua piccola mano scivolò nella sua,
facendo incastrare le dita. Appoggiandosi al suo fianco e alzando lentamente
la testa, bisbigliò "Hai voglia di continuare il nostro puzzle?" Lui le sorrise. Sopreso, sollevato, meravigliato,
stupito. E si limitò ad annuire perché se anche solo avesse provato ad aprire bocca
sarebbe crollato lì, davanti a sua sorella, piangendo come un bambino.
Era un puzzle enorme che portavano avanti da un
mese. Quasi tutti i pomeriggi, dopo che Rose aveva finito i compiti e prima che
Edward andasse a lavoro, si sedavano davanti a tutti quei piccoli pezzettini e
cercavano di incastrarli l'uno con l'altro, cercavano il posto giusto per ogni
tassello, come se così potessero ordinare anche tutto il resto. Entrambi
tenevano un occhio sul tavolo e uno sul coperchio della scatola, che mostrava
quella che sarebbe stata l'immagine finale: la ‘Notte stellata’ di Van Gogh. E, mentre si perdevano tra tutti quei pezzi e
quegli incastri, ascoltavano la musica. "Posso aprire i regali?" gli chiese,
cercando un pezzo di cielo dello stesso colore di quello che aveva in mano da
cinque minuti. Edward, d'istinto, si voltò verso l'albero
addobbato, sotto il quale c'erano tre pacchetti. Uno era per Esme: una catenina d'oro bianco con un
ciondolo, su cui aveva fatto incidere il suo nome e quella della sorella. Gli
altri due erano per Rosalie: un paio di guantini di cachemire blu elettrico,
con una sciarpa abbinata, ed un peluche quasi più grande di lei a forma di
lupacchiotto. Babbo Natale, invece, le avrebbe portato un gioco per disegnare e
creare modelli di vestiti. Nella scatola c'erano anche i tessuti da usare e
alcune foto da cui prendere spunto. Aveva visto la pubblicità in televisione e
gli era sembrata una cosa adatta a lei, ma aveva una gran paura di aver
sbagliato tutto. L'anno prima il pavimento era pieno, i pacchi
arrivavano fino al tappeto. E c'era un regalo per tutti, anche per Edward. Esme
li sceglieva con cura ed era più emozionata di loro quando li aprivano, curiosa
ed impaziente di vedere le loro facce. "No," rispose secco, scacciando i
ricordi. "Potrai aprirli domattina, come tutti gli anni. Devi imparare ad
avere pazienza!" "Aspettare mi fa schifo!" E, con una
smorfia, continuò a cercare il suo pezzo di cielo. L'ipod di Edward, attaccato alle casse, proponeva
una canzone dopo l'altra. Rose cantava quelle che conosceva, saltava quelle che
non le piacevano, ma quando nell'aria iniziò a diffondersi una delle sue
canzoni preferite esultò, alzò il volume, abbandonò il puzzle e cominciò a
ballare sulla sedia. Cantava, si dimenava, muoveva a tempo braccia e gambe. Edward la guardava e rideva, sentendo la sua
risata riempire la stanza che fino a qualche minuto prima era piena solo delle
sue urla. Senza smettere di agitarsi, Rosalie gli ordinò di alzarsi e ballare,
di non essere il solito timidone. Lui si alzò e, impacciato, la prese in
braccio e la guidò in uno strano e patetico valzer. Lei gli scoppiò a ridere
nell'orecchio. "Come sei imbranato! Questa canzone non si
balla cosììì!!!" lo rimproverò, senza smettere di ridere. Allora la fece atterrare sul pavimento e cominciò
a fare il cretino, ballando con movimenti esagerati, come se fosse un ubriaco
al centro della pista di una discoteca. E mentre si dimenava, inciampò sul
tappeto e cadde a terra. Le risate di Rose diventarono incontrollabili, si
sbellicava tenendosi la pancia con le mani. Lui rimase disteso sul pavimento,
godendosi ad occhi chiusi il suono della risata di sua sorella. Lei gli saltò addosso, gli fece il solletico,
continuò a ridere con le lacrime agli occhi. Lo abbracciò, gli si aggrappò al collo con le sue
piccole mani e, con parole mischiate a sorrisi, gli sussurrò all'orecchio:
"Menomale ci sei tu." Edward sentì gli occhi bruciare, il petto
gonfiarsi di emozione, un groppo in gola che non sapeva come sciogliere. E,
all'improvviso, la risata di sua sorella sparì. Il divertimento se ne andò e
restarono soltanto le lacrime. Le scivolavano sulle guance, gli bagnavano il
collo, la maglietta. La sentiva sussultare, il suo corpicino scosso dal pianto
si aggrappava alle sue spalle. E lui la stringeva... per darle forza, per darle
amore, per darle tutto quello che spesso mancava anche a lui. Si alzò dal pavimento, senza smettere di
stringerla, continuando a tenerla in braccio, e si sedette sul divano. Rosalie
si appoggiò a lui, con la testa tra il suo collo e la sua spalla. Non smetteva
di piangere, e lui non smetteva di ripeterle che sarebbe andato tutto bene. Andrà tutto bene, scricciolo. Te lo prometto,
andrà tutto bene. Le riempiva i capelli di baci, le accarezzava la
schiena, la cullava, le cantava 'Hey Jude' perché sapeva che le piaceva.
Lentamente, il respirò si calmò e le spalle smisero di tremare. Riuscì a
rilassarsi e, sfinita, si addormentò tra le sue braccia. Chiuse gli occhi anche lui. I colori della stanza
vennero inghiottiti dal buio, le palpebre stanche trovarono sollievo. E restò
così, immerso nel buio, fingendo per qualche secondo che non esistesse
nient'altro. Sentì i muscoli sempre più rilassati e, abbracciato dal calore di
Rosalie, si assopì.
Riaprì gli occhi e non sapeva quanto tempo fosse
passato. Per un attimo restò spaesato, chiedendosi che giorno era, dov'era,
quanto aveva dormito. Si passò una mano sugli occhi e sentì un respiro, diverso
dal suo e da quello rilassato di sua sorella. Sul divano non erano soli, c'era anche Esme.
Seduta accanto a lui, né troppo vicina né troppo distante. Le gambe di Rosalie,
prima abbandonate sui cuscini, erano sulle cosce di sua madre. Le aveva tolto
le scarpe e le stava massaggiando i piedi attraverso i calzini. Edward notò subito che aveva la schiena dritta,
non era accartocciata su se stessa. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati, ma
asciutti e liberi dalle lacrime. Le spalle erano sempre un po' curve,
schiacciate da un peso più grande di lei, ma stava provando a sorreggersi. E lo
sguardo non era perso nel vuoto, ma puntato su sua figlia. Senza che lo guardasse o gli rivolgesse parola,
Edward capì che era arrivato il suo turno: era pronta a parlare, e lui era
pronto ad ascoltarla. "So che non capisci il mio dolore,"
sussurrò. "E so anche che Carlisle non era né un buon padre né un bravo
marito. E proprio per questo è ancora più difficile spiegarti quanto mi
manca." La voce le si incrinò, ma lei le impedì di
spezzarsi. Gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime, ma le lasciò
intrappolate, in bilico. "So che non era presente," continuò,
schiarendosi la voce. "So che aveva le sue rigide regole, che non era
affettuoso, che era testardo. Li ho sempre visti e riconosciuti i suoi difetti,
e li vedo anche ora. Potrebbero aiutarmi a superare tutto questo... ma non è
così." Restò in silenzio, smise di parlare continuando ad
accarezzare Rosalie. Poi riprese a confidarsi sottovoce, ma questa volta alzò
la testa e lo guardò negli occhi. "Io lo amo, Edward. Io tuo padre l'ho sempre
amato, anche quando faceva di tutto per farsi odiare. È l'amore della mia vita,
sono cresciuta con lui e l'ho visto trasformarsi davanti ai miei occhi. Quando
mi sentivo persa, confusa, quando non riuscivo più a capire chi ero, mi bastava
guardare lui per ricordarlo. Guardavo lui, guardavo voi e sapevo di essere una
moglie e una madre." Prese il fazzoletto che teneva nella tasca del
maglione e si soffiò il naso. Il bene che le voleva e la tenerezza che provava
imploravano Edward di abbracciarla, accarezzarla, dimostrarle che aveva capito.
Ma non si permise di fermare le sue parole perché sapeva quanto bisogno aveva
di lasciarle libere. "Ora lui non c'è, non posso più appoggiarmi a
lui, farmi sostenere da tutto l'amore che c'è sempre stato. Ma tu hai ragione,
Edward... ci siete voi. Io sono persa, confusa, non so più chi sono e, questa
volta, per ricordarmelo guarderò voi, soltanto voi. E saprò di essere una
madre, vostra madre." Una lacrima, più tenace delle altre, le scivolò
lungo la guancia. "So di avere un problema, un grosso problema.
E so di dovermi fare aiutare. Lo farò Edward, te lo prometto. So anche che vi
devo chiedere scusa... sia a te che a tua sorella, ma mi devo scusare
soprattutto con te. In questi mesi ho sempre avuto la vista appannata perché
riuscivo a vivere solo così: sfocata, ovattata, lontana. Ma questo non mi
impediva di vederti. Ho visto come sei, tutto quello che fai, come riesci a
prenderti cura di Rose. Vedo l'uomo che stai diventando e sono così orgogliosa.
Così orgogliosa, Edward." Più vedeva le sue lacrime rigarle le guance, più
ascoltava le sue parole straziate, e più sentiva la mascella indurirsi. In
balia di emozioni che non sapeva controllare, si limitò a guardarla, sperando
che i suoi occhi parlassero per lui. "Mi hai detto di alzarmi e sono pronta a
farlo. Ne ho voglia, ne ho bisogno... voglio farlo per voi e per me stessa.
Spero con tutte le mie forze di poter ancora rimediare, spero di non aver
sprecato troppo tempo." Guardò Rosalie, che ancora dormiva su di lui, e le
lacrime diventarono incrontrollabili. Le passò una mano sui capelli, le sistemò
il maglioncino, le accarezzò di nuovo i piedi. E poi tornò a guardare suo
figlio, con uno sguardo stracolmo di supplica. "Riuscirete mai a perdonarmi?" e questa
volta la voce si spezzò. Edward non parlò, non pianse, non si avvicinò, non
l'abbracciò. Le tese una mano. Aperta, sicura, pronta ad accoglierla. Lei
dimenticò per un attimo le lacrime, sorrise come se non l'avesse fatto per una
vita intera e afferrò la mano di suo figlio, come se fosse un salvagente.
Quasi timidamente, gli disse che le sarebbe
piaciuto dormire con Rosalie, averla vicino nel lettone per tutta la notte. Lui
prese in braccio sua sorella e l'accompagnò in camera della madre. Rose si infilò sotto il piumone come se fosse il
suo piccolo guscio e, appena toccato il cuscino, aprì leggermente gli occhi.
Capì che non era nel suo letto, che presto avrebbe avuto la sua mamma accanto e
sorrise. Fra sé e sé, senza guardare nessuno, senza dire una parola... sorrise. Edward tornò in sala, con la testa sottosopra, con
la sensazione di non avere più il controllo dei suoi pensieri, con la paura che
la lunga e difficile giornata stesse per schiacciarlo, facendolo crollare. Ancora gli risuonavano nella testa le ultime
parole di sua madre: "Domattina dormi fino a tardi, non caricare la
sveglia. Ti chiamo io appena il pranzo è pronto." E, mentre la guardava
ancora incredulo, aveva aggiunto: "Buonanotte, tesoro. Riposati, te lo
meriti." Parole che aspettava da mesi e che credeva di non
poter più sentir uscire dalla bocca di sua madre. Ad un tratto quella casa, i problemi, le lacrime,
le difficoltà che aveva superato e quelle che ancora lo aspettavano, gli
tolsero il respiro. Si sentiva soffocare. Era come se qualcun'altro avesse
preso tutte le sue energie, tutte le sue forze, tutta la sua aria e a lui non
fosse rimasto altro che stanchezza. Insopportabile e faticosa stanchezza. Aveva
voglia di spaccare quel cazzo di albero, aveva voglia di distruggere ogni
maledetta decorazione, aveva voglia di urlare. Tutto solo per non fermarsi a
pensare. Tutto solo perpaura. Paura di illudersi ancora una volta, di
credere alle parole di sua madre, di sperare che finalmente qualcosa si potesse
sistemare. Sentì gli occhi bruciare di nuovo, vide le mani che
avevano ripreso a tremare e cominciò a camminare, compiendo gesti meccanici,
con la testa vuota. L'unico pensiero era prendere aria, muoversi, respirare.
Cercò il cappotto, non lo trovò e allora uscì senza. Afferrò le chiavi, aprì la
porta e la richiuse sbattendola. Si fermò dopo aver fatto a malapena un passo. Lei era lì, che camminava avanti e indietro lungo
il portico, che si guardava le punte dei piedi, che respirava nelle mani unite
a coppa per sopportare il freddo. Che si malediva, si vergognava, si dava della
pazza... ma questo Edward non lo poteva sapere. Isabella sentì il rumore della porta, si voltò,
spalancò gli occhi e, anche lei, si fermò. Entrambi immobili, l'uno davanti all'altra. Lo vide stravolto, tremante, stanco. E lui si
lasciò guardare. Lei capì quello che voleva, capì tutto quello di
cui lui aveva bisogno, e lo fece: senza parlare, senza chiedere, senza
spiegare, si avvicinò e lo abbracciò. Le sue braccia sottili scivolarono sui suoi
fianchi, gli strinse la vita, gli accarezzò la schiena. Appoggiò la testa sul
suo petto, respirando il suo maglione, coprendolo con i suoi lunghi capelli. E
lui la sentì, come non aveva mai sentito nessun'altro in vita sua. Sentì le sue
mani, le sua braccia, il suo respiro. Sentìlei,
e a lei si abbandonò. Si lasciò cadere in quell'abbraccio, si lasciò curare
dalla sua presenza, sfiorò con le labbra i suoi capelli morbidi, intrecciò le
braccia sulle sue spalle. La toccò, la strinse, la respirò. L'aria tornò a circolargli nei polmoni, la calma
ricominciò a scorrergli nelle vene, il tremore della stanchezza si placò. E
tutto gli sembrò possibile: lei è qui, tra le mie braccia, la vita non può
essere così difficile, forse le cose si sistemeranno davvero, forse mia madre
manterrà le sue promesse, forse Rose sarà felice. Forse lo sarò anch'io. "Isabella..." mormorò sui suoi capelli,
continuando a respirare il suo profumo. "Bella, chiamami Bella." La sentì
sospirare, sempre stretta tra le sue braccia, con la testa ancora appoggiata
sul suo petto. "Anche stasera sono arrivata in ritardo..." "Shhh" e la strinse ancora più forte.
"Sei qui, Bella. Sei qui." "Ti sembrerò una pazza..." "Mi piaci pazza." "... è che non faccio altro che pensarti.
Pensare a te, al tuo modo di parlare, di pensare, alla tua vita, alle tue scelte."
Fece scorrere le mani lungo la sua schiena, lo accarezzò, strinse il maglione e
poi tornò ad aggrapparsi ai suoi fianchi. "Non dimostri l'età che hai,
Edward. Forse sei anche più grande di me." "Quindi," avvicinò la sua bocca
all'orecchio di lei e, sfiorandole il lobo con le labbra, sussurrò "non
c'è più nessun problema?" La sentì irrigidirsi, il respirò diventò
irregolare, le dita si aggrapparono con più forza. Non gli rispondeva, non
apriva bocca, non si muoveva. Le fece scivolare una mano dietro il collo e
quasi svenne al tocco della sua pelle morbida, calda, delicata. Così perfetta
che riuscì a superare le sue tante fantasie. Le voltò la testa e in un istante
i loro occhi si trovarono, come avevano sempre fatto per tante mattine. Ma
questa volta non c'era vergogna, timidezza, paura di essere visti o giudicati.
C'erano soltanto loro, le loro mani, i loro respiri. Edward abbassò la testa ed
appoggiò la fronte su quella di lei, sospirando di attesa, di emozione, di
impazienza. La sentì tremare, il respirò sempre più affannato. Lei si sollevò
sulle punte dei piedi, lui l'afferrò per i fianchi, e le loro labbra si
posarono l'una sull'altra. Con foga e dolcezza, con forza e delicatezza. Lui si
godeva la morbidezza del suo bacio e la bellezza della sua bocca, senza
smettere per un attimo di toccarla, stringerla, accarezzarla. Senza smettere di
respirare a pieni polmoni il profumo della sua pelle, di farsi avvolgere dal
calore della sua presenza. Intrecciò le dita tra i suoi capelli nel momento
esatto in cui si intrecciarono le loro lingue. Sempre più morbida, sempre più
calda, sempre più vicina. Anche le mani di Bella cercavano i suoi capelli e,
dopo aver viaggiato sul petto e sulle spalle, li trovò, tirandoli leggermente.
Lui si lasciò sfuggire un gemito e tornò ad appoggiare la fronte sulla sua, per
riprendere fiato, per capire se fosse tutto vero. Trovò i suoi occhi accesi e
maliziosi e, con il cuore che batteva come se volesse spaccargli il petto, si
godè quella visione che sembrava un miracolo. "Buon Natale, signorina Swan." mormorò,
senza allontanare gli occhi dai suoi. Lei si lasciò andare ad una risata, che alle
orecchie di Edward suonò come una nuova conquista, un nuovo regalo. Il suo
unico, bellissimo, inatteso regalo di Natale.
Siete davvero tanti... a
leggere, seguire e recensire questa storia.
Non posso far altro che
ringraziarvi, di cuore!
Ringrazio anche Alessia e
Eleonora per la meravigliosa pubblicità.
Vi lascio al capitolo, arrivano
le novità anche per chi aveva già letto la One-Shot.
Buona lettura.
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Capitolo 3 - Ritorno
Esme e Rosalie erano sul divano. Le spalle vicine, i cuscini
intorno. Timidi e ritrovati sorrisi illuminavano le loro labbra, mentre le
piccole mani della figlia imitavano quelle della madre. Le stava insegnando a
fare l'uncinetto. All'inizio Rosalie era stata dubbiosa, confusa da tutti quei
difficili movimenti delle dita e quelle piccole bacchette che sua madre muoveva
così velocemente. Su, giù e incrocia. Su, giù e incrocia. E così via. Ma Esme
le aveva raccontato che quando era giovane si cuciva i vestiti da sola, ed i
suoi preferiti erano proprio le magliette e i corpetti che faceva
all'uncinetto. Aveva saputo attirare la sua attenzione, aveva saputo giocare
con la passione di sua figlia per i colori, le stoffe, gli abiti. Ed ora eccole
lì, madre e figlia, alle prese con piccoli quadratini intrecciati di filo.
"Li metteremo tutti insieme!" esclamò la bambina,
soddisfatta ed eccitata. "Faremo una super coperta, tutta colorata!"
Edward le guardava, con un sorriso quasi ebete stampato sulla
faccia. Era stanco, stanco morto. Era tardi, faceva freddo, ed aveva lavorato
fino a cinque minuti prima. Aveva ancora nel naso il tanfo di hamburger e
patatine fritte, la maglietta macchiata odorava di birra. I piedi gli facevano
male, accaldati e costretti dentro le vecchie scarpe da tennis. Gli occhi
stanchi gli scongiuravano di chiudersi, ma lui si rifiutava. Doveva rimanere
sveglio.
Afferrò distratto il telecomando che qualcuno aveva lasciato cadere
sul divano. Accese la televisione, vagando di canale in canale.
"Ne vuoi una anche tu, Edward?"
Si voltò, sorrise a sua sorella. "Ovviamente!"
Diede un'occhiata a quello che stringevano tra le mani: il lavoro
di sua madre era preciso ed impeccabile, Rosalie invece stava facendo un
macello. Era troppo eccitata per concentrarsi, troppo felice di avere sua madre
accanto per capire come incrociare quelle due piccole bacchette di metallo. La
guardava, e non poteva fare a meno di sorridere. Edward incrociò gli occhi di
sua madre e per un attimo in quegl'occhi si perse. Era rilassata, tranquilla,
le mani non le tremavano. Piano piano, giorno dopo giorno, aveva ricominciato a
prendere in mano la sua vita, le sue giornate. Non sorrideva spesso, era ancora
a pezzi, lui se ne rendeva conto. Ma si stava impegnando, ci stava provando. A
volte si perdeva, si assentava con la mente e con il corpo, altre la sentiva
piangere fino a quando non crollava nel sonno. Ma non beveva, non aveva più
bevuto. Edward aveva insistito per giorni interi affinché si rivolgesse ad una
clinica, ad un centro specializzato. "Le cliniche costano troppo, e quei
centri mi deprimono. Ce la faccio da sola, Edward. Ce la posso fare",
continuava a ripetergli sua madre. Lui non ci credeva, ma ci sperava.
Senza volerlo, per un attimo, ripensò a quella sera. Le urla, la
rabbia, la stanchezza. Le lacrime di sua madre, la sua debolezza, il suo
sbriciolarsi davanti a lui. Si disse che aveva fatto bene ad urlare, a
scoppiare ed, infine, ad abbandonarsi alla speranza che qualcosa potesse
cambiare.
Il ricordo di quella sera arrivò e, con sè, si portò lei. Bella.
La sua Bella.
D'istinto guardò l'orologio: 21 e 30. Le ventuno e trenta del
quattro gennaio. Erano dieci giorni che non la vedeva. Dieci giorni dalle sue
labbra, dai suoi capelli, da quelle ore passate come se fossero nient'altro che
sfuggevoli secondi. Se chiudeva gli occhi, se escludeva il resto del mondo,
poteva ancora sentire il profumo. Il profumo di freddo e di nuovo che aleggiava
sul portico. Risentì le sue mani grandi sulla pelle morbida di lei e i jeans
cominciarono a gonfiarsi. Con disinvoltura, afferrò un cuscino e, quasi
abbracciandolo, si coprì il bacino.
L'aveva baciata per ore, e lei si era lasciata baciare. Avevano
sentito le dita intorpidirsi, la punta del naso congelarsi, Edward aveva
cominciato a tremare sotto il maglione. Ma di lasciarla andare via, di
staccarsi da lei, non se ne parlava. L'aveva trascinata in casa, tra le
insistenti ma non troppo ferme proteste di lei, che continuava a ripetere che
non voleva disturbare, che avrebbero svegliato tutti, che non voleva rovinare
il Natale a nessuno. Non sapeva che in quella casa non c'era più niente da
rovinare.
Ubriachi di baci, sussurrando i loro nomi e soffocando le risate,
si erano lasciati cadere sul divano. L'aveva stretta tra le sue braccia, lei
aveva abbandonato la testa sul suo petto. Per un'eternità, così. Senza pensare,
senza parlare, a sentire il peso della stanchezza scivolare via.
Avevano visto un film, con il volume al minimo e i pop corn sulle
ginocchia. Edward ne aveva preparato solo un sacchetto, così sarebbero stati
costretti a diverselo, a toccarsi, a stare vicini. Il film lo aveva scelto lei,
a lui faceva schifo ma non disse nulla. Per tutto il tempo non fece altro che
guardarla, lo incantava il modo in cui la fioca luce azzurra della televisione
tingeva il suo volto. Si specchiava nei suoi occhi enormi, illuminava i suoi
denti bianchi. E mentre Cameron Diaz si lasciava andare al suo primo vero
pianto, rinchiusa in un taxi e circondata dalla neve, lei lo guardò e
timidamente gli sorrise.
"Vero, Edward?" la voce acuta di sua sorella lo
riscosse.
"Come
scusa?"
"Vero che è ingiusto fare i compiti durante le vacanze?" gli chiese,
con due occhioni enormi che pregavano solidarietà. Lui stava per dargli
ragione: ricordava che durante le vacanze amava stare ore e ore al pianoforte,
o in compagnia dei suoi libri, si ritrovava a fare in fretta i compiti alla
mezzanotte dell'ultimo giorno prima di tornare a scuola. Gli bastava poco, dava
il massimo anche a notte fonda, con l'orologio che sembrava mangiarsi i minuti
e il sole minacciava di sorgere da un minuto all'altro, lasciandolo senza tempo
e senza scampo. Stava per annuire solidale, proprio come avrebbe voluto sua
sorella, ma sua madre alzò con uno scatto la testa e lo rimproverò con
un'occhiata.
"Ha ragione mamma, Rose." si affrettò a sentenziare.
"Ti vuoi ritrovare all'ultimo minuto a fare i compiti che avresti dovuto
fare in settimane?"
Esme abbassò lo sguardo soddisfatta, e continuò a dedicarsi
all'uncinetto. Rosalie lo guardò imbronciata, ma si rilassò appena vide
l'occhiolino di suo fratello, che era pazzo di gioia: sua madre si era appena
comportata come una madre.
Tornò a guardare l'orologio: 21 e 45. Appena un quarto d'ora e
l'aereo di Bella sarebbe atterrato. Le avrebbe dato il tempo di tornare a casa,
disfare i bagagli, chiamarlo, e poi si sarebbe fiondato a casa sua. Come
deciso, come promesso.
Gli sembrava di non vederla da un'eternità. E, anche se non osava
ammetterlo, aveva una paura fottuta che tutti quei giorni avessero cambiato
qualcosa. Troppe ore lontani, troppo presto. Aveva paura che non tornasse più
da lui, che non tornasse com'era. Era una paura idiota, lo sapeva bene, e per
questo la ignorava.
Quella sera, mentre lei guardava quel benedetto film e lui
guardava lei, aveva pensato già a come programmare i giorni che li aspettavano.
Il Capodanno, aveva sempre odiato quel giorno. Solo perché cambiava un numero
in fondo alla data, tutti erano costretti a fare qualcosa. Costretti a
partecipare ad un cenone, ad un trenino, ad un brindisi. Costretti a
divertirsi, quando in realtà il peso di quella costrizione non faceva mai
divertire nessuno. Ma quest'anno sarebbe stato diverso, quest'anno c'era lei.
Ed invece, la mattina di Natale, mentre Rosalie apriva estasiata
i suoi regali e Edward fremeva dalla voglia di rivedere la ragazza che gli
aveva fatto perdere la testa, il telefono di Bella si era messo a squillare.
Fino a svegliarla, fino ad impaurirla. Suo padre, Charlie. Un infarto, era
solo, e lei doveva correre da lui.
Edward l'aveva chiamata tutti i giorni, per sapere come stava suo
padre, per sapere come stava lei. Aveva esultato e festeggiato con lei quando
l'avevano dichiarato fuori pericolo, quando l'avevano dimesso dall'ospedale,
quando tutto era tornato alla normalità. Ed aveva esultato e festeggiato ancora
di più quando gli aveva annunciato che la sera del quattro gennaio sarebbe
tornata.
Doveva fare una doccia, doveva prepararsi, a momenti lei avrebbe
chiamato.
Si alzò, sentendo scricchiolare le gambe, e con una mano spettinò
i capelli di Rosalie mentre le passava accanto. Lei non aveva ancora smesso di
lamentarsi e di pettinarsi con le dita e lui non aveva ancora raggiunto le
scale, quando il campanello suonò.
Il suo primo pensiero fu È lei, mi ha fatto una sorpresa.
Non poteva essere nessun'altro.
A grandi passi raggiunse la porta, afferrò il pomello e lo girò.
Dove si aspettava di vedere il delizioso volto di Bella, apparve il sorriso
imbarazzato di una ragazza. Era bionda, i capelli lunghi le incorniciavano il
viso. Un viso delicato, giovane, bellissimo. Era visibilmente a disagio, ma si
sforzava di sorridere, e stringeva le dita intorno ai braccioli della sua sedia
a rotelle.
Dietro di lei, con le mani che le accarezzavano le spalle, c'era
lui.
Siete sempre più numerosi, non avrei mai immaginato di ricevere tutto
questo affetto ed entusiasmo
Siete sempre più
numerosi, non avrei mai immaginato di ricevere tutto questo affetto ed
entusiasmo.
Grazie, grazie, grazie.
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Capitolo 4 – Caduta
Con due passi, spingendo la sedia a rotelle, Carlisle entrò in
casa. Edward, ammutolito, non poté far altro che spostarsi e farli passare.
Chiuse la porta dietro di sè e subito l'aria sembrò risucchiata dalla stanza.
Nessuno riusciva più a respirare.
"Buonasera." li salutò Carlisle con aria solenne, come
se fosse ad uno dei suoi convegni e stesse per esporre una delle sue noiose
relazioni. Esme rimase seduta sul divano, pregando in silenzio di venire inghiottita
dai cuscini. Rosalie si lasciò cadere sulle cosce il pezzo di stoffa che
stringeva tra le mani e cercò subito gli occhi di suo fratello. La ragazza
bionda continuava ad elargire sorrisi e Edward si ritrovò a chiedersi se fosse
del tutto normale. Ma non ti rendi conto che non c'è proprio un cazzo da
sorridere?
Carlisle ignorò con maestria il silenzio agghiacciante dei suoi
familiari. "Lei è Tania."
Edward si fece avanti, e quando lo raggiunse gli sembrò
addirittura di essere più alto. O forse era suo padre che all'improvviso sembrava
basso. Piccolo, codardo e basso. Nonostante si sforzasse di apparire un
gigante.
"Tania chi?" Le parole risuonarono nell'aria come una
sfrecciata di lama.
Gli occhi di Carlisle si indurirono di colpo. Era come se si
fosse accorto soltanto in quel momento che la stanza era carica non solo di
silenzio, ma anche di rabbia. Soprattutto di quella di suo figlio.
"La mia compagna."
"Almeno è maggiorenne?" Bentornata, ironia. La sua
migliore amica. L'unico modo per affrontare tutto quel dolore. L'unica scappatoia
per non crollare.
Carlisle lasciò le spalle di Tania e si mise faccia a faccia con
Edward. La durezza degli occhi di uno si mischiava con quella dell'altro.
"So che vi devo delle spiegazioni,"
"Come minimo, cazzo!"
"e ve le darò quando arriverà il momento. Ma adesso ci sono
questioni più urgenti da discutere."
Questo stronzo, pensò Edward. Sparisce nel nulla per mesi, ci
lascia alla deriva, se ne strabatte della sua famiglia, e poi torna a casa in
forma smagliante, portandosi dietro una ragazzina e il suo solito viso da
stronzo.
Carlisle si voltò verso il divano, dedicò un sorriso innaturale a
sua figlia, che lo stava fissando terrorizzata, e poi si rivolse a sua moglie.
"Esme, dobbiamo parlare."
"Non se ne parla!" sbottò Edward, mettendosi fra lui e
il divano. Ma Esme si era già alzata.
Rosalie seguì l'esempio della madre, ma lei non si fermò.
Continuò a camminare, fino a quando non trovò il fianco di suo fratello. Con un
braccio gli circondò le gambe, come se volesse diventare l'ombra dell'unica
persona di cui si fidava in quella stanza.
"Oh andiamo, Edward! Non esagerare! È solo una chiacchierata!"
Non esagerare? Ma io ti spacco la testa, ti spezzo le gambe, ti
mando a fare compagnia alla tua amichetta a quattro ruote!
Non aveva pietà per nessuno, era furioso, incredulo, incazzato
nero. Riusciva a trattenersi dallo scoppiare solo grazie a quella mano, quella
piccola mano che gli stringeva i jeans. Una stretta che gli chiedeva aiuto e,
allo stesso tempo, lo teneva ancorato all’umanità.
"Va tutto bene, Edward." Era sua madre, era la voce di
sua madre. Incredibilmente calma e controllata. Passandogli accanto gli
accarezzò un braccio e poi si avvicinò alla porta della cucina, facendo cenno a
Carlisle di entrare.
"Allora vengo anch'io." sentenziò, fermo e deciso. Esme
lo guardò, scosse la testa e poi accennò un sorriso. Edward avrebbe voluto
urlare, prendere a pugni suo padre, pregare sua madre di salire in camera,
mettersi a dormire e fingere che l'ennesimo cambiamento non fosse avvenuto. Che
il traballante equilibrio che avevano raggiunto a fatica non fosse in pericolo.
Ed invece, ricordandosi all'improvviso di quanto potesse essere meschino suo
padre, disse soltanto: "Non firmare niente."
Tania si voltò all'improvviso. Ad Edward sembrò che lo guardasse
male, ma se ne fregò.
"Non le fare firmare niente." ripetè ancora più
risoluto, rivolgendosi di nuovo a suo padre.
Carlisle spalancò le braccia, come fanno nei film quando vogliono
assicurarti che non sono armati, ed entrò in cucina seguito da Esme. Prima di
sparire al di là della porta, però, lanciò un ultimo sguardo a Tania, che
rimase lì, in silenzio, parcheggiata in mezzo al salotto.
Restarono soli. Edward, Rosalie e la nuova compagna del padre.
Soli, imbarazzati e persi.
Edward indietreggiò fino a trovare il divano, ci si lasciò cadere
come se le forze lo avessero abbandonato all'improvviso. Aveva bisogno di
calma, silenzio, ordine. Doveva pensare, riflettere, pianificare la prossima
mossa. O almeno intuire quelle di suo padre. Avrebbe voluto chiudere gli occhi,
dormire dodici ore di fila, dimenticare quanto quell'uomo riuscisse a farlo
incazzare. Avrebbe voluto chiamare Bella, sentire la sua voce, dirle portami
via.
Invece si voltò verso sua sorella, che gli si era seduta accanto.
Lo guardava come per dire: E ora?.
Non lo so Rose, non ne ho idea.
Le posò una mano sulla testa, le lasciò un bacio sulla fronte.
"Non ti preoccupare, andrà tutto bene." le sussurrò sui
capelli. E se lo ripetè un'altra volta nella testa, in silenzo, per crederci
davvero.
Tania, quella ragazza giovane e strana, guidò la sedia a rotelle
fino a raggiungerli. Si piazzò di fronte a loro, tra i due grandi divani, si
portò le mani in grembo e sorrise. Lo stesso sorriso imbarazzato e fuori luogo
che aveva accolto Edward alla porta.
Edward la guardò, le sembrò spaesata quanto lui, e per un attimo
gli fece pena. Ripensò a come si era comportato, provò a vedersi con gli occhi della
ragazza: non aveva salutato, aveva urlato, e con una battutina idiota aveva
dato a lei della minorenne e a suo padre del pedofilo. Per un istante si
vergognò, ebbe paura che quella sconosciuta pensasse che sua madre non gli
avesse insegnato la buona educazione.
Poi guardò di nuovo sua sorella, il suo sguardo perso nel nulla,
il suo corpo rintanato contro il suo, e la vergogna scomparve. Non aveva
salutato per un motivo, aveva urlato per difendere sua madre, era stato
maleducato perché negli ultimi mesi aveva camminato nella merda in cui l'aveva
lasciato suo padre.
"Mi dispiace esservi piombata in casa così, senza neanche
avvisare."
Era la prima volta che sentivano la sua voce, la prima volta che
parlava.
Rosalie si irrigidì ancora di più. La schiena un pezzo di cemento
contro lo schienale del divano. Guardò suo fratello e cominciò a pregarlo, in
silenzio. Ti prego, parla te. Io non so cosa dire, non so nemmeno chi è. Parla
te, parla anche per me. E come se la potesse sentire, come se quelle preghiere
silenziose fossero arrivate dritte alle sue orecchie, Edward parlò. E
pronunciando quelle poche parole a quella sconosciuta, in quel momento di
imbarazzante silenzio, quando tutto quello che Rose capiva era che il suo
piccolo mondo sarebbe cambiato di nuovo, fu come se l'abbracciasse. Sì,
parlando l'abbracciava. Le sorrideva, le accarezzava i capelli, le cantava 'Ehi
Jude' e gli ripeteva Ci penso io, penso a tutto io.
"Immagino non sia colpa sua." mormorò.
Le dette del lei. Perchè non la conosceva, perché non la voleva
conoscere, perché la voleva tenere a distanza.
"Siete davvero bellissimi. Carlisle me l'aveva detto, ma credevo
che i suoi occhi di padre esagerassero. Invece aveva proprio ragione!"
Per Edward fu come un calcio dritto sullo stomaco.
È così che ti ha parlato di noi? Così che ci ha descritti?
Cos'altro ti ha raccontato? Che ti ha detto di me, di mia sorella, di mia
madre?
"I suoi occhi di padre..." sussurrò Edward, dondolando
la testa con un sorriso amaro sulle labbra.
Tania si zittì, capì che aveva scelto le parole sbagliate. Il
primo passo falso con i figli del suo compagno. Si maledì e desiderò di tagliarsi
la lingua. Ma decise che non era giusto fermarsi al primo ostacolo, prima o poi
ce l'avrebbe fatta a conquistarli. Le avrebbero sorriso, avrebbero risposto con
entusiasmo alle sue domande. Magari non stasera, stasera era troppo presto.
Prima o poi.
"Ti chiami Rosalie, vero?" ci riprovò. Decise di
rivolgersi alla piccolina, perché le sembrava avesse gli occhi gentili e,
sicuramente, era meno arrabbiata del fratello. Non poteva sapere, però, che
quel silenzio e quella compostezza nascondevano molto più dolore delle urla e
della rabbia di Edward.
Rosalie alzò la testa con uno scatto. Capì che quella volta
toccava a lei, Edward non poteva rispondere al posto suo. Non poteva, vero?
Biascicò un sì stiracchiato, annuendo più volte per dare alle
parole quella forza che mancava nella voce.
"Vostro padre mi detto che sei molto brava a scuola,"
"Sì, è bravissima." sbottò suo fratello. "Siamo
tutti bravi e belli. Proprio come le ha detto nostro padre."
La testa di Tania tornò ad abbassarsi, Rosalie tirò un sospiro di
sollievo, Edward si rese conto di essere stato un'altra volta maleducato, ma
ancora una volta se ne fregò.
Per un attimo ebbe paura che tornasse a tartassarli di domande, e
allora gli venne l'istinto di cominciare per primo: Chi sei? Quanti anni hai?
Come l'hai conosciuto? Perché sei su una sedia a rotelle? Dove vivete? Dove
siete stati per tutto questo tempo?
Ma notò che lei rimaneva a testa bassa, senza aprire bocca, non
sembrava volesse domandare qualcos'altro. Anzi, sembrava proprio che le fosse
passata la voglia di chiacchierare. Allora Edward lasciò che il silenzio
regnasse nella stanza, e serbò le domande per un altro momento.
Liberò un respiro più profondo degli altri, si sistemò meglio sul
divano. Rosalie si stava torturando le unghie con i denti, Edward se ne accorse
e le allontanò la mano dal viso. Lei tenne stretta quella del fratello e, con
un sorriso complice, iniziò quel giochino che lui detestava: mano chiusa quasi
a pugno incrociata con quella dell'altro, un giocatore deve improgionare il
pollice dell'avversario e l'altro prova a non farsi acchiappare il dito. Uno
spasso, insomma. Ma Rosalie sembrava già più spensierata. Contava solo questo.
Il cellulare vibrò all'improvviso nella tasca. Smise di giocare
all'istante e lo prese tra le mani come se bruciasse. Sul display vide il suo
nome e per un attimo gli mancò il fiato. Fece per alzarsi per andare a parlare
con lei fuori, o in camera sua. Aveva bisogno di privacy mentre le spiegava che
stasera non potevano vedersi. Era quasi in piedi, poi si rese conto che sua
sorella sarebbe rimasta sola con quella Tania, allora restò seduto sul divano.
"Pronto?" Rosalie e Tania distolsero lo sguardo, gli
concessero quel minimo di riservatezza che potevano offrirgli.
"Ti prego dimmi che sei già per strada! Non vedo l'ora di
vederti!" La sua voce, le sue parole, furono una fitta al cuore. Avrebbe
voluto andarci di corsa da lei, anche in ginocchio se fosse stato necessario.
Ma era bloccato nel salotto di casa sua.
"Purtroppo c'è un problema," sussurrò. "Non posso
muovermi, non posso uscire."
"Ah." Sentì la delusione nella sua voce, e si agitò
ancora di più sul bordo del divano. "Ma va tutto bene, vero? Non mi far
preoccupare!"
No, non va tutto bene. È tornato quel pezzo di merda di mio
padre.
"Sì, tutto apposto. Ti spiego tutto appena ci vediamo."
"State bene?" Parlava al plurale. Parlava di loro, di
Edward e di Rosalie.
"Alla grande, signorina Swan." Bella si arrabbiava
sempre quando la chiamava così perché non voleva infastidire la bambina, aveva
paura che quella situazione la disturbasse. Rosalie, invece, non ci pensava
nemmeno lontanamente a farsi disturbare: il suo meraviglioso fratello e la sua
maestra preferita si piacevano e parlavano per ore al telefono, era euforica.
"Edward!" Si indispettì come sempre. La sua voce arrivò
anche alle orecchie di Rosalie, che sorrise divertita a suo fratello.
"Sicura che non sia un problema?"
"Non scherzare... Ci vedremo domani, un giorno in più non è
niente!" Non era vero, non vedeva l'ora di vederlo, di baciarlo, di farsi
stringere tra le sue braccia. Ma lo disse lo stesso, con tutta la naturalezza
di cui era capace.
"Ci sentiamo domani, allora?"
"Certo. Buonanotte, Edward."
"Buonanotte, signorina Swan." Lei rise, lui si godè la
sua risata e poi riattaccò.
Quando i suoi genitori uscirono dalla cucina, Edward cercò subito
gli occhi di sua madre. Non riuscì a trovarli: erano bassi, fissi sul
pavimento. Si appoggiava al muro, come se avesse bisogno di aggrapparsi a
qualcosa di solido. Suo padre, intanto, si avvicinò a Tania. Le fece un sorriso
che suo figlio non gli aveva mai visto sulle labbra e la spinse fino a
raggiungere la porta.
"Allora è deciso," Carlisle si rivolse ad Esme.
"Domani pomeriggio alle due, davanti allo studio del mio avvocato."
Edward rimase impietrito, c'erano così tante parole sbagliate in
quella frase. Senza contare che sembrava quasi un ordine. Impiegò qualche
secondo per abituarsi all'idea dei suoi genitori davanti ad un signore in
giacca e cravatta. Uno sconosciuto che, a quanto pare, avrebbe messo fine a
tutti quegli anni di matrimonio.
Esme annuì, con la testa ancora bassa e la schiena appoggiata
alla parete.
"Buonanotte, ragazzi." nemmeno li guardò, era già al di
là della porta. Arrivò anche la voce di Tania che li salutava, e poi la porta
si chiuse dietro di loro.
Se ne andarono così, lasciandoli nel silenzio nel quale li
avevano fatti sprofondare.
Edward guardò sua madre, con la disperazione in agguato. Con gli
occhi la supplicò di non crollare, di restare con loro, di tornare ad insegnare
l'uncinetto a sua figlia. Cazzo mamma, ce la puoi fare.
Ma lei ricambiò quello sguardo con la disperazione che ormai
aveva preso il sopravvento. Un occhio perse una lacrima, che le accarezzò la
guancia e poi si lanciò nel vuoto. A passi affranti raggiunse le scale e si
rintanò nella sua stanza.
Quella sera, ebbe la sua prima ricaduta.
"Posso leggere un po'?" Edward era così furioso che anche
la voce di sua sorella riusciva ad innervosirlo.
"No, Rose. Falla finita. È tardi, devi andare a letto."
"No!" urlò, rovesciando su suo fratello tutta la voce
che aveva trattenuto nell'ultima ora. "Voglio leggere! Non rompere!"
"Vuoi farmi incazzare anche te, eh? Fai come cazzo ti
pare!" Afferrò il libro di Harry Potter appoggiato sulla mensola sopra il
camino e lo buttò sul divano, accanto alle gambe di sua sorella.
Lei lo afferrò rapida, lo aprì, incastrò il segnalibro sotto la
copertina ed iniziò a leggere. Come per magia, riuscì subito a liberare la
mente, ad immergersi in quel mondo stupendo che non era il suo. Sentì i muscoli
della faccia rilassarsi, le spalle non erano più rigide. Era ad Hogwarts, e non
c'era più bisogno di sentirsi minacciati.
Non riusciva, però, ad ignorare quella fastidiosa sensazione di
senso di colpa. Alzò la testa e guardò suo fratello, che cammina avanti e
indietro davanti a lei con il cellulare in mano.
"Leggo solo qualche pagina, poi vado subito a letto. Te lo
prometto."
Edward la guardò male, le fece la linguaccia e lei ridacchiò.
"Mi dispiace averti risposto male. E mi dispiace anche che
non hai potuto vedere la signorina Swan."
"Già," borbottò lui. "Dispiace tanto anche a
me." Si lasciò cadere di nuovo sul divano, accanto a lei.
"Ma questi libri non sono troppo per te?" le chiese, un
po' confuso.
"Troppo che?"
"Boh... troppo lunghi, troppo difficili. Hai sette anni,
Rosalie!"
Lei spalancò gli occhi indispettita. "Quasi otto, e ho fatto
la primina! La signorina Swan ha detto che ho talento e che posso farcela. E mi
ha detto anche che se mi accorgo che non ce la faccio, posso smettere senza
problemi e leggerli tra qualche anno."
Edward si rese conto che l'aveva offesa, che in qualche modo
rischiava di scoraggiare la sfida che animava sua sorella. Le sorrise sincero,
le spettinò i capelli. "Sono sicuro che ce la farai."
Lei, soddisfatta, si rituffò tra le pagine. Edward chiuse gli
occhi per un istante, ascoltò il suono del suo respiro leggermente affannato e
poi li riaprì. Le dita erano già sui tasti del telefono.
Jacob, scusa per l'ora. Ho avuto un contrattempo, domani non
potrò esserci per il turno del pranzo. Spero non sia un problema, mi dispiace
per il poco preavviso. Buonanotte, e scusa ancora per il disturbo.
Non l'aveva mai fatto. Non aveva mai preso un giorno di ferie,
non aveva mai saltato neanche un turno, non aveva mai chieso una sostituzione.
Ma questa volta era obbligato: il giorno dopo doveva presentarsi ad un
appuntamento dall'avvocato di suo padre.
Guardò il telefono. Voleva farsi sentire, ma aveva paura di
sembrare un poppante. Dopo attimi di indecisione, accantonò le seghe mentali e decise
di correre il rischio.
Non ti ho nemmeno chiesto com'è andato il volo. Sono
imperdonabile.
Rosalie era ancora persa tra le pagine del libro, con la testa
appoggiata su una mano e le gambe incrociate.
"Sei sicura che non ti dia fastidio che io esca con
Isabella?"
"Sì." Non alzò nemmeno lo sguardo.
"Sì cosa? Sì sei sicura, o sì ti da fastidio?"
Sollevò la testa scocciata, roteò gli occhi al cielo come se
avesse a che fare con un bambino di tre anni che fa i capricci. "Sì, sono
sicura che non mi dia fastidio. Ora posso tornare da Harry, Ron e Hermione che
sono molto più interessanti di te e la signorina Swan?"
Le sorrise, ma lei non se ne accorse: aveva già riaffondato la
testa tra le pagine.
Il cellulare vibrò. Edward aspettò qualche secondo prima di leggere
per godersi la meravigliosa sensazione che l'attesa delle sue parole riusciva a
creare.
Hai ragione, domani dovrai impegnarti parecchio per farti
perdonare.
Quella notte, rigirandosi tra le coperte, non fece altro che
ripetersi quelle parole.
Ignorava la sensazione di incertezza, la paura di nuovi pianti,
la fatica di nuove battaglie. Ignorava perfino sua madre che vomitava nella
stanza accanto. Con fatica, ma per qualche minuto riuscì a non pensare che in
quella casa era ricominciato a scorrere l'alcool e il veleno.
Continuo a ringraziarvi.
Tutti i lettori silenziosi e tutti quelli che, a fine lettura, trovano la
voglia e il tempo di recensire. Ogni parola è una spinta ed un sorriso in più.
Grazie.
____________________
Capitolo 5 – Arretrati
Aspettavano davanti a quel portone di legno e si sentivano
congelare. Non serviva a niente rinchiudersi nei cappotti, sfregarsi le mani,
nascondere il viso nelle sciarpe. I loro passi nervosi suonavano secchi sul
marciapiede.
"Lo sapevi già?" chiese Edward. Sua madre lo guardò confusa.
"Che frequentava un'altra donna, che stava con quella Tania. Lo
sapevi?"
Esme fece spallucce, per un istante sembrò una bambina. "Lo
sospettavo, in fondo credo di averlo sempre saputo. Ieri sera mi ha detto che
stanno insieme da un anno."
Un anno? Perché gli faceva male il petto? Perché aveva voglia di
vomitare?
Studiò gli occhi di sua madre e gli parvero stranamente calmi e
controllati. Sospettava che dietro a tutto quel controllo ci fosse qualche
goccia di vodka.
Quando videro arrivare una berlina scura tirarono un sospiro di
sollievo e, allo stesso tempo, si immobilizzarono. Scesero due uomini in
giaccia e cravatta e li salutarono: Carlisle con un cenno del capo e l’avvocato
con due calorose strette di mano. Seguirono lo sconosciuto lungo le scalinate
di marmo e si accomodarono tutti in una grande sala. Quella delle riunioni,
immaginò Edward. Non si concesse il tempo di guardare le pareti tappezzate di
foto ed onorificenze, i mobili di legno lucidati, il vassoio pieno di tazzine e
biscotti: aveva gli occhi fissi su suo padre.
Si avvicinarono al grande tavolo che troneggiava al centro della
stanza e si sedettero. Edward e sua madre da un lato, Carlisle e l'avvocato
dall'altro. Quest'ultimo, da buon orchestratore, prese parola per primo.
"Buongiorno," la sua voce era forzatamente accogliente
quanto il suo sorriso. "Mi chiamo Garrett Denali e sono l'avvocato del
signor Cullen. Vi ringrazio per essere venuti,"
In quel momento esatto entrò un altro signore in giacca e
cravatta. Molto più disordinato, spettinato e grassoccio di quello che avevano
di fronte. Li raggiunse quasi correndo e, con il fiato corto, si affrettò a
presentarsi.
"Scusatemi, scusate il ritardo. Sono Mike Newton, l'avvocato
della signora."
Allungò la mano sudaticcia verso il suo collega, che continuava a
sfoggiare il sorriso di circostanza, condito adesso anche da un pizzico di
soddisfazione e superiorità, e poi verso Carlisle, che la strinse come se
potesse attaccargli la peste. Con una smorfia sgangherata stampata sulle
labbra, quello che a quanto pare era il loro avvocato si accomodò accanto ad
Esme, con la pancia strizzata dal bordo del tavolo. I suoi occhi incontrarono
quelli di Edward, che lo guardava già incazzato nero. Il fatto che lo avessero
scelto completamente a caso sfogliando le pagine gialle gli dava il diritto di
presentarsi in ritardo con la grazia e la professionalità di un elefante? Forse
sì.
"Certo che potevi vestirti un po' meglio." gli sussurrò
all'orecchio sua madre. Indossava jeans e felpa, era comodo, era a suo agio ed
era diverso da quel gruppetto di pinguini imbalsamati. E lei, sua madre, tra
tutte le preoccupazioni che potevano tormentarla decideva di assecondare
proprio quella che riguardava gli abiti e la presenza di suo figlio. Quella più
facile, forse. Quella meno dolorosa. Lui sbuffò ignorandola, si sistemò meglio
sulla sedia e si preparò ad ascoltare. Capì fin da subito che l'incontro
sarebbe stato condotto dall'avvocato Denali, il loro si limitava ad annuire e a
subire.
Carlisle aveva già presentato l'istanza di divorzio, mostrare i
documenti ad Esme era il motivo per cui si era presentato a casa loro la sera
prima. Edward aveva fatto bene a preoccuparsi, la sua era stata un'intuizione
giusta. Mancava solo la firma di sua madre e la discussione dei termini.
Con gesti ampi e teatrali Garrett tirò fuori dalla ventiqattrore
fogli e cartelle.
"Come assegno mensile proponiamo duemila dollari. Una bella
cifra." affermò, quasi sovrappensiero, come se il rumore delle carte che
si distendevano sul tavolo potesse coprirgli la voce. E fu proprio in quel
momento, tra carte e parole, che intervenne per la prima volta Edward.
"Di sicuro non sono un esperto come lei, avvocato." La
voce era composta, educata, ma vide lo stesso suo padre fremere dall'altra
parte del tavolo. "Ma so che, dopo la separazione, chi se ne va deve
assicurare uno stile di vita pari al precedente. Sbaglio?"
"Giusto, Edward." Lo chiamò per nome, come se lo
conoscesse, e gli sorrise accondiscendente, come se fosse un bambino.
"Allora duemila dollari non bastano. Almeno tremila, mille
dollari ciascuno."
Lasciò che le sue parole, forti e nette, aleggiassero nell'aria e
poi guardò sua madre. Lei sapeva alla perfezione quanto guadagnava suo marito,
avrebbe potuto ribattere e sparare molto più in alto, ma non lo fece. Si limitò
ad annuire timidamente, sostenendo suo figlio.
"E va bene," tuonò Carlisle. Era scocciato, stava
sprecando il suo tempo prezioso lì con loro. "Che tremila dollari
siano."
"Vogliamo anche un'auto." ribattè pronto Edward.
"Cosa?"
Fu suo padre a rispondergli, ma lui parlò guardando l'avvocato.
"Prima ne avevamo una, e ne abbiamo bisogno ancora. Senza contare che prima
o poi la mia maledetta bicicletta cadrà a pezzi. Vogliamo un'auto."
Un'occhiata tra Garrett e Carlisle, e anche questa richiesta
venne soddisfatta. Subito dopo vennero stabilite tutte le altre condizioni che
avrebbero permesso a Carlisle di sbarazzarsi della sua vecchia famiglia: la
casa resterà alla moglie e ai figli, l'affidamento sarà congiunto, le visite
settimanali cambieranno in base alle esigenze dei ragazzi. A mezza voce,
Carlisle assicurò che avrebbe vissuto nelle vicinanze.
"Gli arretrati?" Ancora una volta, i grandi discorsi
degli avvocati vennero interrotti dal ragazzo in felpa.
Questa volta perfino Garrett apparve spaesato, preso in
contropiede. "Arretrati di cosa?"
Edward lanciò un'occhiata fulminea a quel Mike Newton. Quando hai
intenzione di iniziare a fare il tuo cazzo di lavoro? Scosse leggermente la
testa e poi appoggiò i gomiti sul tavolo. Sentì la mano di sua madre
stringergli la coscia attraverso i jeans. Non sapeva se era per sostenerlo o
per fermarlo, nel dubbio andò avanti.
"Il suo cliente se n'è andato di casa a settembre, e noi non
abbiamo mai visto nè lui nè i suoi soldi. Sono quattro mesi, dodicimila dollari."
E gli venne assicurato anche il pagamento degli arretrati.
Quando uscirono una folata di vento li investì. Mentre madre e
figlio era impegnati ad abbottonarsi i cappotti, Carlisle bofonchiò un saluto e
si incamminò a piedi verso il centro. Edward lo seguì con lo sguardo, poi fissò
Esme. "Aspettami qui, torno subito."
Non fece in tempo ad ascoltare le proteste e le preoccupazioni di
sua madre perché aveva già iniziato a camminare. Passi veloci, scattosi,
incazzati. Lo raggiunse quasi subito, lo afferrò per una spalla e suo padre fu
costretto a guardarlo.
"Ieri sera hai detto che ci devi delle spiegazioni." Si
sforzò per scandire le parole, con il vento freddo che gli frustava la faccia e
tentava di portargli via la voce. "Beh, le voglio adesso."
"Edward, Cristo Santo. Sono di fretta, non lo vedi?"
"Non mi provocare, Carlisle." Non lo chiamò papà, non
ce la fece. Riuscì a malapena a ringhiare il suo nome.
"E va bene," scosse la testa, si portò le mani alle
tempie. "Cosa vuoi sapere?"
"Perché te ne sei andato?" Dai, questa è facile.
"E' una lunga storia." tagliò corto.
"Allora sarà meglio che ti sbrighi. Hai fretta,
giusto?"
"Senti, Edward. Le cose tra me e tua madre non andavano bene
da molto, molto tempo."
"E hai deciso di consolarti con una venticinquenne, fin qui
ci sono."
Lo guardò male, aveva lo stesso sguardo di quando stava per
metterlo in punizione. Ma questa volta non poteva. Non poteva zittirlo,
negargli la cena, spedirlo in camera sua.
"E' davvero una brava ragazza. Avrai modo di conoscerla, tu
e tua sorella avrete modo di conoscerla. E vi piacerà, te lo assicuro. È
davvero una ragazza adorab-"
"E dovevi per forza scappare? Non potevi stare con lei senza
sparire come uno schifoso latitante?"
Urlava, sbraitava, contro la faccia che tanto odiava. E Carlisle
improvvisamente si fece più serio, cupo, sembrava quasi in difficoltà. Edward
credette di vedergli addirittura gli occhi un po' lucidi, ma forse era solo il
vento.
"A settembre... a settembre Tania ha avuto un incidente. Un grave
incidente. Si è dovuta sottoporre a tante operazioni, costose e soprattutto
faticose. Ha perso l’uso delle gambe, da un giorno all’altro si è ritrovata su
una maledetta sedia a rotelle. Dovevo starle accanto, Edward. Dovevo dedicarmi
completamente a lei."
Alzò la testa e guardò suo figlio negli occhi. Si denudò di
fronte a lui, gli mostrò quello che realmente era:un uomo innamorato che soffriva per il dolore
della sua donna.
"Aveva bisogno di me, lo capisci?" Aveva perso la sua
solita compostezza, era disperato. "Lo capisci, Edward?"
Lo capiva? Non lo sapeva. Non sapeva più nulla. Ma, tra tutte
quelle novità e tutta quella confusione, una sola era la certezza: non poteva
perdonarlo, non poteva dimenticare tutto il male chiuso in casa sua per mesi.
Tutto quel male lo aveva avvelenato.
"Peccato che mentre eri impegnato a fare il buon samaritano
ti sei scordato di fare il padre."
Gli sputò contro le ultime parole, gli dette le spalle e tornò da
sua madre.
Tornando verso casa, con Esme che arrancava al suo fianco, non
riuscì a parlare. Sembrava che la voce si fosse congelata e che il cervello non
funzionasse più. Era bloccato, in pausa.
Riusciva a pensare solo ad una cosa, solo ad una persona. E
quando pensava ai suoi capelli morbidi riusciva perfino a dimenticare il
freddo. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e le dita scivolarono ansiose
sui tasti.
Preparati, stasera ti porto a cena fuori.
Finalmente l'avrebbe rivista. Finalmente il primo appuntamento.
Il primo appuntamento vero, con i sorrisi, l'imbarazzo, i baci. E questa volta
non poteva fallire. Lei non era una delle tante, non era una di quelle da poter
dimenticare dopo la seconda serata andata alla deriva. Lei no.
Avrebbe noleggiato un'auto... Dio, per lei avrebbe noleggiato
perfino una limousine. Avrebbe prenotato un ristorante di lusso, avrebbe tirato
fuori l'abito per le occasioni speciali, quello che piaceva tanto a sua madre.
Avrebbe speso uno stipendio intero, ma non gli importava.
Il telefono vibrò nella sua mano ghiacciata.
Non vedo l'ora. Ti passo a prendere alle 20.
Lesse il messaggio, vide l’auto noleggiata svanire e sentì un po'
di orgoglio sbriciolarsi. Ma alla fine lo mise da parte e si arrese a quel
piccolo sorriso che gli solleticava le labbra.
Il colpo di clacson lo fece sobbalzare. Si guardò un'ultima volta
nello specchio.
"E' arrivata, è qui." Rosalie apparve alla porta e fece
aumentare l'ansia del fratello.
"In camera." rispose, con voce improvvisamente vuota e
distaccata. "Sù muoviti, non la fare aspettare!"
Afferrò il cappotto, le chiavi, il cellulare. Si infilò il
portafoglio nella tasca dei pantaloni e si inginocchiò davanti a Rose. Le
dispiaceva lasciarla sola, l'aveva già fatto tante volte quando doveva andare
alla tavola calda, ma questa volta era diverso. Le aveva preparato la cena –
una cena che sua madre, tornando alle care vecchie abitudini, aveva rifiutato
con un lamento – e, dopo mangiato, l'aveva vista lanciare un’occhiata al puzzle
da completare con aria sognante.
Edward aveva paura di tutte quelle cose che sua sorella non
riusciva a dire, né a lui né a nessun altro al mondo. Tutte quelle emozioni che
le ribollivano in quel corpo così piccolo ma che prima o poi sarebbero scoppiate,
distruggendola.
"Non ti preoccupare," lo anticipò. "Starò
benissimo. Tra poco mi lavo i denti e vado a letto."
"Non leggere troppo." Le lasciò un bacio sulla fronte.
"Solo qualche pagina" sulle labbra le si dipinse un
sorriso furbo e poi, scappando in camera sua, gridò: "Divertitevi!"
Prima di scendere le scale, Edward bussò alla porta di sua madre.
"Mamma, io vado!" Nel silenzio, distinse un mugolio.
Almeno era sempre viva. Ubriaca fradicia, ma viva.
Bella era appoggiata sul cofano della macchina, con le mani
chiuse intorno ad una pochette. Indossava i jeans, una giacchetta stretta sotto
il seno, un paio di stivali bassi. Ed era bellissima.
Edward evitò di attraversare di corsa il giardino solo per
conservare un minimo di amor proprio, ma quando le fu vicino abbastanza da
toccarla, l'afferrò per i fianchi e la sollevò in aria. Respirò il suo profumo,
sorrise sui suoi capelli. Gli sembrava di essere sbarcato su un altro mondo
senza neanche essersene accorto.
"Sei bellissima." sussurrò, dopo un tempo ed un
abbraccio che sembrarono infiniti.
Lei lo guardò, gli occhi le brillavano. "Tu invece sei
orribile. Inguardabile." E scoppiò in una delle sue risate. Quelle piene,
imbarazzate e calde che facevano impazzire Edward.
"Forza, sali in macchina." Senza smettere di sorridere,
aprì la sua portiera e si mise al volante. Si voltò verso di lui. "Hai
prenotato in un ristorante, vero?"
Lui rispose subito, come se volesse dimostrarle che aveva pensato
a tutto, che non doveva preoccuparsi di niente. Poteva gestire tutto quanto,
anche se non aveva una macchina ed era costretto a farsi scarrozzare.
"Certo. È un ristorante bellissimo, ci andavamo sempre dopo i
concerti."
"I tuoi concerti?" chiese curiosa. Edward annuì,
godendosi la sua espressione attenta. "Prima o poi mi dovrai far sentire
quanto sei bravo, lo sai vero?"
"Prima o poi."
"Comunque, mio caro pianista, devi disdire la
prenotazione." Lo guardava con gli occhi accesi ed emozionati, e non
riuscì a non arrossire.
"Scusa?"
"Hai capito bene. Chiama il ristorante e digli che stasera
non avranno l'onore di averci come ospiti."
"E perché mai dovrei fare una cosa del genere?"
"Prima di tutto perché te lo dico io, e poi perché ho altri
progetti per noi due."
Edward la guardò, mentre si metteva la cintura e girava le chiavi,
e gli sembrò diversa. Più spigliata, più intraprendente, nonostante il rossore.
Ancora più donna. Era così sicura di sè che lo fece quasi eccitare. Capì che si
sarebbe lasciato portare ovunque, avrebbe accettato qualsiasi suo progetto.
Qualunque cosa, per quel noi due.
Parcheggiò accanto al marciapiede, in una strada buia e poco
trafficata. Edward la seguì in silenzio, curioso ma paziente. Percorsero un
vicolo stretto e quando svoltarono erano all'entrata di un parco. Gli alberi e
le panchine erano decorati con tante piccole lampadine, la strada che tagliava
l'erba era ordinata e piena di sassolini. Il vento per fortuna era calato,
tutto sembrava sospeso, in pace. Ad Edward parve di sentire lo stesso profumo
di calma e felicità che aleggiava sul portico di casa sua la sera della
Vigilia.
"Magico, vero?" sussurrò lei.
C'era già stato, ce l'aveva portato sua madre qualche volta,
quando era piccolo. Forse perché erano passati tanti anni, forse perché lui era
cresciuto, o forse perché era lì con Bella, ma sembrava tutto completamente
nuovo. "Si, magico."
Passarono accanto ad una pista di pattinaggio quasi deserta,
ignorarono due innamorati stretti sotto un gazebo di legno. Camminavano
lentamente, come se il tempo non ci fosse. Edward le prese la mano, e tutto
diventò magico davvero.
"Eccoci."
C'era un piccolo baracchino, incastrato tra due immensi alberi.
L'insegna era luminosa e un uomo che sembrava un gigante chiaccherava
allegramente con un cliente.
"Hot-dog?"
"Non ti piacciono?" gli chiese, ad un tratto
preoccupata.
Edward la guardò negli occhi e si rese conto che l'aveva fatto
per lui. Aveva evitato che noleggiasse un'auto, che mangiassero in un
ristorante di lusso, che spendesse uno stipendio per il loro primo
appuntamento. Avrebbe voluto dirle che non importava, che tutti quei soldi li
avrebbe spesi più che volentieri. Avrebbe voluto portarla davvero in un posto
lussuoso, dove un cameriere le versava il vino e la trattava da signora. Ma non
parlò. Non seppe far altro che commuoversi davanti a quella donna a cui era
bastato così poco per conoscerlo e per capirlo. Lasciò che l'eco della sua
domanda si disperdesse tra gli alberi, e la baciò.
Erano seduti su una panchina, le gambe di Bella distese sulle
cosce di Edward. Avevano finito gli hot-dog, bevuto le loro bibite ed avevano
anche fatto il bis. Edward si era accorto che lei tremava, e gli aveva dato la
sua giacca. Adesso era lui a tremare come una foglia e malediva la favolosa
idea di non indossare una camicia sotto quel maglioncino, ma lo sforzo per non
farlo notare a lei riusciva quasi a scaldarlo.
Avevano già parlato del viaggio di Bella, della salute di
Charlie, di quanto si erano mancati, di quanto tutto era più bello adesso. Ma
nessuno dei due aveva accennato a Rosalie, a Esme, a Carlisle.
"Ieri sera è tornato mio padre." Lo disse veloce, tutto
d'un fiato, come si fa quando si strappano i cerotti. Lei lo guardò con gli
occhi traboccanti di preoccupazione, poi gli appoggiò la testa sul petto e lui
la circondò con le braccia.
“Non per restare,” continuò, raccogliendo la forza da
quell'abbraccio. "è tornato per chiedere il divorzio e presentarci la sua
nuova compagna."
"Edward, mi dispiace."
"Lei è giovane, bella, gentile. Si chiama Tania. Ed è sulla
sedia a rotelle." Sentì le sue parole vacillare ed il corpo di Bella
irrigidirsi contro il suo. "Ci ha lasciati perché lei ha avuto un
incidente ed aveva bisogno di lui." Lei allungò una mano e gli accarezzò i
capelli. Lui lasciò cadere la testa fino ad abbandonarsi sulla sua fronte.
"Bella... non riesco a perdonare mio padre, non riesco a provare
compassione per Tania. Sono una persona orribile."
Bella lo abbracciò ancora più forte e lui si rifugiò in quelle
braccia. Chiuse gli occhi, e ad un tratto fu solo silenzio. Nonostante tutti i
suoi sforzi, non riuscì ad ignorare quella sensazione pungente che gli
torturava lo stomaco e gli ripeteva che non si sarebbe mai sistemato niente.
Tutto sarebbe continuato a crollare, fino a soffocarlo tra le macerie.
Sono sempre più felice/emozionata/incredula di ricevere
tutte queste recensioni e visite.
Grazie mille.
Prima di lasciarvi al capitolo, ci tengo a fare un grande in bocca al lupo a chiunque stia
affrontando l’esame di maturità. Stamani la terza prova, poi l’ultimo sforzo
dell’orale e finalmente sarete liberi!
Un’ultima
cosa, ultima davvero: vi consiglio di dare un’occhiata aquesto sito(c’è anche lapagina facebook), e
ringrazio Martina per aver deciso di consigliare anche questa storia. Buona lettura.
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Capitolo 6 – Occhi lucidi
Edward lavorò tutto il giorno,
dall’apertura alla chiusura, dalla colazione agli snack notturni. Jacob Black lo controllava, dal magazzino o dai tavoli che
occupava per chiacchierare allegramente con i suoi migliori e più affezionati
clienti. Gli lanciava occhiate sbieche, con un ghigno divertito sulle labbra.
Tutto nella sua faccia bisbigliava: Visto,
ragazzo, cosa succede a darmi buca senza preavviso con un messaggino del cazzo?
Prima di pranzo, a metà
pomeriggio e dopo cena, Edward aveva telefonato a casa. Aveva sempre risposto
Rose. Le aveva chiesto come stava, se era pronta per tornare a scuola il giorno
dopo, si era raccomandato di fare i compiti e di non distrarsi troppo. Lei gli
aveva raccontato che aveva mangiato tutto quello che lui aveva lasciato nel forno,
aveva aggiunto qualche nuovo pezzo di cielo al loro puzzle, e non aveva
esagerato con la lettura. Esme l’aveva aiutata con le tabelline, ma poi era
salita subito in camera “perché era tanto stanca”.
Tirò giù con forza la
saracinesca, facendola ruggire nel buio della notte. Mentre il respiro gli si
congelava davanti agli occhi, pensò a Jacob. Alla sua poca comprensione, alla
sua assente voglia di conoscerlo e capirlo, alla voglia – apparsa in quel
momento per la prima volta, ma che sembrava gli bruciasse nello stomaco da
sempre – di salutarlo, dare le dimissioni, tornare ai libri che tanto amava. E
mentre i piedi spingevano sui pedali e le dita stringevano con forza il
manubrio ghiacciato, abbandonò i pensieri sul suo datore di lavoro e si
concesse qualche pedalata serena pensando a lei. Alla risata capace di riempire
il parco intero, alle labbra carnose macchiate di maionese, alle guance
arrossate dal freddo e dall’imbarazzo, alla sua giacca che sulle spalle di
Bella faceva l’effetto di un abito da sera. Come ormai succedeva dal giorno di
Natale, quella deliziosa presenza nei suoi pensieri funzionò come un miracoloso
calmante ed Edward riuscì ad arrivare a casa senza essere incazzato con il
mondo intero.
Girò la chiave, aprì la porta e
la prima cosa che pensò fu: vodka. L’odore pungente aleggiava nelle stanze,
fino ad invadergli le narici. Si lasciò guidare dal presentimento orribile che
quella banfata di alcool aveva sollevato e a passi svelti raggiunse la cucina.
Vide sua madre, abbandonata su una sedia, con i capelli arruffati, le mani che
le reggevano la testa ed un bicchiere vuoto davanti alla faccia. Rinunciò a
tutte le speranze, tranne una: non gli rimase che pregare che sua sorella si
fosse addormentata prima di vederla in quello stato.
“Mamma…” La voce venne fuori un
sussurro, così sottile che perfino lui stentò a sentirlo.
Scostò una sedia dal tavolo e si
piazzò davanti a lei, che intanto aveva alzato la testa con un gemito. “Mamma,
non possiamo andare avanti così. Dobbiamo fare qualcosa, devi fare qualcosa…
questa volta davvero. Cercheremo una clinica, una bella clinica. Io ti aiuterò, lo sai-“
Lo interruppe scuotendo la testa
e, con la mano tremante, gli strinse l’avambraccio. Liberò un respiro più lungo
e pesante degli altri, Edward socchiuse gli occhi e finse che le sue parole e
il suo alito non puzzassero di vodka. Dopo quella giornata infernale, Dio solo
sa quanto bisogno aveva del profumo di sua madre.
“Non possiamo.” Nonostante gli
occhi lucidi e le labbra torturate dai denti, la voce era ferma, risoluta. “Non
possiamo Edward, non ora. È tornato tuo padre, lo capisci? Cosa pensi che
succederebbe se scoprisse come sto, come sto davvero? Vi perderei, vi perderei
per sempre. Non possiamo, non possiamo…”
Le prese la mano, intrecciò le
dita alle sue. Strinse forte, per essere sicuro che sapesse che lui era lì, con
lei, e che non aveva intenzione di farla sprofondare ancora di più.
Lasciò cadere la testa sul
tavolo, si abbandonò al buio degli occhi chiusi e al tepore della stanchezza. E
aspettò.
Le piccole mani di Rose tiravano
le lenzuola, gli scuotevano le spalle, gli facevano il solletico sotto i piedi.
In quei secondi di opaco dormiveglia, Edward si ricordò del suono fastidioso
della sveglia che gli trapanava le orecchie e della sua mano che con un tonfo
la zittiva, facendo tornare il silenzio e la pace nella stanza. E proprio come qualche
minuto prima aveva ignorato la sveglia, adesso stava cercando di ignorare sua
sorella.
“Edward?
Svegliati, è tardi!” Smise di scuotergli le spalle e, con un
movimento secco, afferrò il piumone e lo tirò in fondo al letto. Edward,
coperto solo dai boxer, tentò di nascondere il freddo e il sonno affondando la
testa sotto il guanciale.
“Ho sonno…” Far uscire la voce,
ammortizzata dalle coperte, richiese uno sforzo sovraumano.
“Non ce la fai?” Aveva smesso di chiamarlo,
di toccarlo, si era arresa. “Vado da sola? Se mi dai il permesso vado a piedi,
tanto la strada la so.”
Furono quelle parole, insieme al
pensiero di sua sorella sola davanti alla scuola, che lo svegliarono. In un
attimo fu in piedi, le dita nei capelli e la bocca aperta in uno sbadiglio.
“Sono pronto, prontissimo.”
Afferrò una maglietta appallottolata sulla sedia e un paio di jeans abbandonati
sul pavimento. “Il tempo di mettermi le scarpe e andiamo.”
Con un sorriso Rosalie si sistemò
lo zaino sulle spalle, si chiuse con cura il piumino fino a coprire il collo e,
proprio con quel sorriso, lo ringraziò.
Il vento gli bucava la faccia e
gli torturava gli occhi ancora mezzi chiusi. Pedalava veloce e con fatica,
costringendo i muscoli delle gambe a svegliarsi in fretta. Rosalie era al
sicuro tra le sue braccia, aggrappata al manubrio e appoggiata al suo petto.
Dondolava le gambe sopra l’asfalto che correva veloce e liberava l’emozione per
il ritorno a scuola cantando una delle sue canzoncine preferite. Edward fermò
la bicicletta proprio davanti al cancello della scuola, aiutò sua sorella a
scendere e rimase seduto sul sellino. Pronto a rivederla, pronto a ripartire.
Mentre Rose salutava i compagni
che scendevano dalle macchine dei genitori, lui alzò lo sguardo. E lei era lì.
Come prima, come sempre. Aveva i capelli sciolti, una ciocca testarda
continuava a volarle sul viso e lei pazientemente la riportava dietro
l’orecchio. Anche da lontano, Edward riusciva a rievocare ogni lineamento del
suo viso: la bocca a forma di cuore, la piega affusolata degli occhi, il
piccolo neo vicino al labbro superiore. Ancora non si era accorta che la stava
osservando, che tra tutti quei bambini, genitori e babysitter c’era anche lui. Edward
adorava scrutarla da lontano, studiare come si muoveva nel mondo, nel suo
lavoro, nella sua vita. In quella di entrambi.
“Io vado.”
In bilico sulla bici, la sollevò
di peso fino a stamparle un bacio sulla guancia.
“Ci vediamo all’uscita, ti
aspetto qui.”
La fece riatterrare sul
marciapiede, pronto a vederla sparire al di là del cancello. In quegli istanti
di attesa, non resistette e sollevò di nuovo lo sguardo. Tornò a guardare il
modo in cui i capelli castani le danzavano sulla schiena, le gambe toniche
fasciate dalle calze nere, il sorriso che dava il benvenuto ai suoi alunni. Ma
questa volta non riuscì a godersela fino in fondo: vicino a lei, con gli occhi
troppo attenti e le mani troppo vicine, c’era un uomo. Sulla quarantina,
capelli brizzolati pettinati all’indietro. Alto e impeccabile, nel suo abito
scuro.
D’istinto allungò un braccio,
afferrò il cappuccio di sua sorella e la costrinse a fermarsi. Lei riuscì a non
perdere l’equilibrio e si voltò, lanciandogli un’occhiataccia incredula.
“Ehi!” esclamò.
“Scusami…” mormorò lui. “Chi è?”
Con un cenno della testa indicò il portone. Rosalie lo seguì con lo sguardo e
vide un paio di suoi compagni di classe, la sua maestra e... “Dici il preside
Whitlock?”
“Il preside?”
“Sì, è nuovo. È arrivato poco
prima di Natale.” E, salutandolo con la mano, riprese a camminare verso il
cancello. “A dopo, fratello innamorato!”
Edward le fece una mezza smorfia
e guardò il suo zaino rosso che veniva inghiottito dal portone. Quando tutti i
bambini furono entrati, Bella si voltò e finalmente incrociò il suo sguardo. Le
labbra le si aprirono in un sorriso luminoso e spontaneo, che in una frazione
di secondo fece sparire tutto il sonno e la stanchezza. Mentre la mano di
Edward si alzava per salutarla, quella del preside si posò sul fianco di Bella
e l’accompagnò dentro la scuola.
Si girava e si rigirava nel
letto. La stanza era quasi completamente buia, ma i piccoli e deboli raggi di
sole che entravano dalle tapparelle erano sufficienti a tormentare il suo
riposo. Il volume della televisione di sua madre, nonostante le avesse già urlato
una decina di volte di abbassarlo, era sempre troppo alto. Ma non abbastanza
alto da coprire il rumore dei suoi pensieri. Nascose la testa sotto il
guanciale, costrinse gli occhi a chiudersi, obbligò il cervello a spengersi. Doveva
dormire, doveva riposare, aveva poche ore per farlo prima che fosse costretto a
ripresentarsi alla tavola calda. Ma, proprio come quella sera nel parco, non
poteva evitare l’opprimente sensazione che gli suggeriva che tutto sarebbe
crollato. Era così forte che si sentiva già sotto quelle macerie.
Quella mattina di gennaio, in
quella stanza carica di angoscia, Edward ebbe la certezza che sua madre non si sarebbe
mai più ripresa, che suo padre avrebbe continuato ad essere lo stronzo che era
sempre stato, che Rosalie sarebbe stata costretta a combattere le sue stesse
battaglie. E, tra tutti quei presentimenti, ce n’era un altro. Forse il più
infantile, immaturo e fastidioso: sapeva che, all’uscita di scuola, sui gradini
di quel portone, Bella non sarebbe stata sola.
E così fu.
Bella guidava con tranquillità,
una mano sul volante e una sul cambio. Si lasciava trasportare dalla musica sprigionata
dalla radio e dal motore che cantava. Sollevò le dita e le appoggiò sulle
bocchette del riscaldamento, il calore le pizzicò subito la pelle. Fuori era
buio, l’inverno la luce se la inghiottiva presto, lasciandoli tutti nel buio
nei loro pensieri. E quella sera, nei suoi pensieri, tutto era in pace. Era
serena, come non le capitava da mesi, forse anni. A casa non c’erano problemi,
o almeno non ce n’erano di nuovi. Quella città iniziava a sentirsela addosso,
le strade sconosciute e le abitudini diverse non la spaesavano più. Il lavoro
andava a gonfie vele, i bambini – tranne rare eccezioni – erano vivaci ma
piacevoli, intelligenti e stimolanti. I colleghi erano simpatici, fin da subito
l’avevano fatta sentire a suo agio. E poi c’era lui, che con quei suoi modi di
fare insoliti e attraenti le aveva fatto tornare la voglia di spalancare la sua
vita sotto gli occhi di qualcun'altro. Di dirgli eccomi, sono questa. Di farsi affascinare dalla sua forza, di
ridere insieme a lui, di ascoltarlo mentre le confidava di sentirsi una persona
orribile e fare di tutto per convincerlo del contrario.
Tutti quei dubbi che aveva avuto
all’inizio, nemmeno se li ricordava più.
Chiuse la macchina, afferrò la
borsa carica di libri e si incamminò lentamente verso il portone. Salutò il
portiere, che la guardò imbarazzato, e prese la posta ammucchiata nella sua
cassetta. Le scale erano fredde, ma non se ne curò: si tolse le
decolté e camminò scalza, con i piedi doloranti che esultavano. Mentre saliva,
lo stomaco cominciò a brontolare, aveva fame. Ma la fatica di accendere i
fornelli e prepararsi qualcosa di decente batteva a mani basse i crampi allo
stomaco: avrebbe mangiato qualche schifezza, spaparanzata sul divano, con il
portatile sulle gambe. Mentre apriva la porta il mazzo di bollette le cadde dalle
mani, si piegò per raccoglierle e quando si rialzò rimase immobile, pietrificata,
con gli occhi spalancati e le labbra aperte dalla sorpresa. Le bollette le
scivolarono di nuovo dalle mani e la borsa di libri andò a fargli compagnia sul
pavimento.
Edward era lì.
Nella sua cucina, con un cesto di
insalata in mano, un sorriso storto sulle labbra e il ricettario di sua madre sul
tavolo. Quel pomeriggio, mentre lavorava, aveva deciso che era stanco dei presentimenti
e che era arrivata l’ora di agire, di fare qualcosa per mettere i bastoni tra
le ruote a quei brutti pensieri.
“Fai licenziare quel portiere, mi
ha dato le chiavi come se niente fosse!”
Lui parlava, sorrideva, e lei lo
guardava. Lo guardava senza dire e fare niente. Ed era bellissimo.
Bellissimo come non mai.
Rimase lì, con i libri
sparpagliati intorno ai piedi nudi ed un paio di scarpe in mano.
Il suo sorriso, gli spaghetti
fumanti nei piatti, la tavola apparecchiata. Nessuno aveva mai fatto una cosa
del genere per lei. Nessuno.
Mentre Edward la spronava a
sedersi e le grattava il formaggio sulla pasta, non riuscì a non piangere di felicità.
Continuate a dimostrarmi affetto,
e io continuo a ringraziarvi di cuore.
Questo capitolo è stato difficile
da scrivere, ma è stato anche uno di quelli che mi ha coinvolta ed entusiasmata
di più. Spero piaccia anche a voi, e che non arriviate ad odiarmi troppo.
Dimenticavo: aspettatevi un
regalino in settimana…
___________________
Capitolo 7 – Scontri
Esme stava sempre peggio. Edward
non riusciva più a capire quando era sveglia e quando dormiva, stava per ore
chiusa in camera sua, usciva di casa sempre meno. Si accorgeva dei suoi sforzi:
ce la metteva tutta per stare in piedi, per non piegarsi, per non deluderli.
Eppure, tutto il resto - tutto quello che riusciva a schiacciarla -vinceva. Vinceva sulle
dimostrazioni di amore per i suoi figli e sulle dimostrazioni di forza per il
suo ex marito.
Quella mattina era una delle
peggiori. Edward aveva accompagnato Rosalie a scuola ed aveva ancora una volta
la mattinata libera. Ma quelle ore che avrebbe dovuto impiegare nel fare le
lavatrici, pulire la casa e preparare qualcosa per pranzo, le aveva trascorse
reggendo la testa di sua madre mentre vomitava. Non riusciva a riprendersi, non
riusciva a stare in piedi, non riusciva a tenersi nello stomaco tutta la merda
che aveva bevuto. Verso l’ora di pranzo, Edward si era vestito per uscire,
preparandosi a lasciarla sola. Ma, all’ultimo minuto, un’altra ricaduta: Esme aveva
ricominciato a vomitare, questa volta proprio sui suoi jeans. E siccome non
aveva avuto tempo per fare le lavatrici, non c’erano pantaloni puliti che
potesse indossare. L’unica soluzione su cui era riuscito a ripiegare era un misero
colpo di spugna. Infine, bestemmiando, aveva pedalato nel freddo fino a
raggiungere la scuola.
Era lì, appoggiato al cofano di
una macchina, con una chiazza scura sui jeans, e si sforzava di respirare a
ritmo regolare per smaltire la rabbia. Inspirava veleno e sputava aria buona. Ancora non era arrivato nessun
genitore ed il cortile era completamente vuoto. Vide il portone aprirsi e, per
un istante, sperò in una ventata di buonumore: fa che Bella sia uscita prima,
fa che abbia finito la lezione in anticipo e che mi possa venire a salutare
senza che nessuno ci guardi, fa che sia lei. Ed invece, da quello spiraglio
apparve un abito scuro, una camicia bianca, un volto abbronzato. Con una
ventiquattrore in una mano ed un quotidiano arrotolato nell’altra. Si avvicinò
a grandi falcate, passò davanti ad Edward ed invece di ignorarlo continuando a
camminare, come il ragazzo si aspettava che facesse, gli si piazzò davanti.
Edward alzò le sopracciglia, ed
in quel minuscolo movimento c’era un mondo intero di tacite domande ed una sola
ma enorme affermazione: non è giornata.
La bocca del preside Whitlock si deformò in una smorfia, una specie di sorriso
bastardo, che ad Edward ricordò la superiorità con cui si atteggiava l’avvocato
di suo padre.
Non lo salutò, non si presentò,
l’unica cosa che disse fu: “Credi di avere speranze, ragazzino?”
Le mani gli cominciarono a pizzicare,
la mascella di colpo si tese. Chiuse i pugni, affondò le unghie nella pelle.
Tutto, pur di non prendere a pugni il preside nel cortile della scuola. Perché
era proprio quello che avrebbe voluto fare: dimostrargli quante speranze aveva
a suon di cazzotti nei denti.
“Come scusi?” La voce non era
sicura e minacciosa come avrebbe voluto, e si maledì in silenzio.
Il preside tirò fuori le chiavi
della macchina dalla tasca dei pantaloni, ci giocò passandosele tra le dita e
poi tornò a fissarlo. “Che maleducato, non mi sono neanche presentato. Sono il
Professor Jasper Whitlock, è un piacere.”
“Piacere tutto suo, professore.”
“Dammi pure del tu.”
“Mi hanno insegnato a dare del
lei alle persone anziane.”
“Come ti pare.
E, comunque, fossi in te mi pulirei prima che lei ti veda.” lo prese in giro, indicando
con la testa i jeans macchiati.
Nelle orecchie di Edward quelle
parole risuonarono come una sfida di guerra. Stava per scoppiare, e l’allusione
a Bella non faceva altro che peggiorare la situazione. Strinse ancora più forte
i pugni e serrò la mascella. Jasper, accorgendosi che le sue provocazioni non
trovavano risposta, affondò il colpo.
“Che c’è, te la sei fatta
addosso?” rise.
Eccola, la goccia che faceva
traboccare il vaso. Riuscì a non rispondere con la violenza, ma lo fece con
l’arma che una vita intera con suo padre gli aveva insegnato a maneggiare alla
perfezione: le parole.
“No, signor Whitlock.
È che sua madre non riesce più a succhiare bene come faceva una volta.”
Riuscì, nello stesso tempo, a
risultare composto e volgare. Vide l’espressione dell’altro cambiare di secondo
in secondo: l’arroganza fece posto allo stupore, la superiorità sparì ed
apparve lo sbalordimento.
“Ma come ti permetti? Ti
consiglio di stare attento a quello che dici, ragazzino.”
Gli puntò un dito contro, sbuffò
dal naso, poi girò i tacchi e se ne andò.
“Non si preoccupi per me, nonno.”
gli gridò dietro Edward, mentre il preside era impegnato a salire sulla sua
Mercedes.
Staccò verso le sette e mezza,
esultando per non aver dovuto sopportare un altro turno. Nel pomeriggio era
passata Bella. Doveva correggere dei compiti ed organizzare alcune lezioni. Si
era piazzata in un tavolino in disparte e non aveva mai smesso di ordinare cibo
e bevande, tutto per poter scambiare due chiacchiere con il cameriere che le
piaceva tanto. Rivederla in quel locale, con il menù sotto gli occhi, la borsa
e il cappotto abbandonati sulle sedie, aveva fatto tornare il buonumore. Edward
si era accorto che, quando si trattava di Bella, bastava davvero poco per farlo
sentire improvvisamente leggero.
Pensava proprio a quella
meravigliosa sensazione di leggerezza mentre apriva la porta di casa e si
preparava ad organizzare una cena con gli avanzi del pranzo. Ma ormai sapeva
benissimo che, nelle stesso imprevedibile modo con cui
Bella riusciva a risollevarlo, quella casa nascondeva sempre qualche trappola
per farlo inciampare di nuovo. Ed infatti, come da
copione, gli bastò respirare un paio di boccate d’aria in quelle stanze
avvelenate e la leggerezza di colpo sparì. Si dissolse quando vide Rosalie,
seduta sul divano, con le mani incrociate sul petto e gli occhi tristi.
“Che è successo?” Quando le
parole uscirono, Edward si accorse che non c’era preoccupazione nella sua voce,
solo rassegnazione.
Sua sorella afferrò con entrambe
le mani l’orlo del delizioso abito che indossava: la gonna si aprì come se
fosse un ventaglio. Di solito era felice quando sua madre le permetteva di
indossare quel vestito, ma questa volta nei suoi occhi non c’era eccitazione,
vanità, soddisfazione. C’era solo tristezza, sgomento e… rassegnazione.
“Devi indossare l’abito quello
bello, quello scuro, quello con la cravatta. E devi essere
pronto entro dieci minuti.”
“Che succede tra dieci minuti?”
“Arriva papà.”
“Cosa?”
A quel punto, Esme comparve dalla
porta della cucina. Era in pigiama, il volto pallido, la voce fioca. “Ha
telefonato tuo padre. Ha detto che alle otto vi passa a prendere e vi porta a
cena fuori. Voi due, lui e quell’altra.”
“E perché cazzo non gli hai detto
no?” sbottò lui.
“Ha detto di vestirsi bene.”
aggiunse, come se Edward non avesse mai parlato. Poi gli dette le spalle ed
iniziò a salire le scale, pronta a raggiungere
quell’isola di infelicità che era la sua stanza.
“Mamma!” La voce di Edward la rincorse
su per i gradini. “Cazzo!” Ed era già sparita.
Edward, con una forza tale da
rischiare di rompere la cerniera, si tolse il piumino e lo lanciò sul
pavimento. Si portò le mani incrociate dietro la nuca e chiuse gli occhi.
Che ho combinato nella mia vita
precedente per meritarmi tutta questa merda?
“L’ho vista mentre parlava a
telefono con papà.” sussurrò Rosalie, lo sguardo fisso su suo fratello. “Non
diceva niente, piangeva e basta. Stava male Edward, non ce la faceva a parlare,
per questo non gli ha detto no.”
Edward la guardò. Si specchiò nel
verde degli occhi di sua sorella e, di colpo, si rese conto di quanto fossero
vicini. Gli stessi occhi, lo stesso sangue, la stesse pelle. E ringraziò Dio
per quella vicinanza.
“Lo so.” mormorò, sconfitto dalla
realtà delle loro vite.
“Non lo indosserai il vestito
bello, vero?”
Aveva ragione, eccome se aveva
ragione. Il minimo che potesse fare per ribellarsi era disobbedire all’unico
ordine che suo padre si era permesso di impartire, senza averne nessun diritto.
Guardò l’orologio, erano quasi le
otto. Si lasciò cadere sul divano, la schiena stanca esultò a contatto con la
spalliera morbida. Allargò le braccia, lasciò che Rosalie si avvicinasse. Lei posò
la testa sul petto del fratello, appoggiò la mano sulla maglietta macchiata che
puzzava di fatica e di lavoro.
Parlò sui suoi capelli biondi.
“No, non credo proprio che indosserò il vestito bello.”
E sua sorella rise.
Il viaggio in auto era stato
carico di silenzio ed imbarazzo, gli unici rumori erano il motore potente che
gridava ad ogni spinta sull’acceleratore, le ruote che scivolavano
sull’asfalto, e la delicata voce di Tania che ad intervalli regolari tentava di
sviluppare una conversazione con il suo compagno. E quel silenzio e
quell’imbarazzo li seguirono anche nel ristorante, al tavolo appartato che la
coppia aveva prenotato.
Edward guardava suo padre, seduto
proprio di fronte a lui. Scrutava i suoi occhi di ghiaccio, e si chiedeva in quale
parte del corpo si fosse nascosto il Carlisle
disperato, piegato dal dolore e dall’impotenza che aveva intravisto quel
pomeriggio, in mezzo alla strada, sotto lo studio dell’avvocato. Forse non era
mai esistito, forse era solo la fantasia di un figlio che si ostina a credere
che suo padre abbia un cuore.
Anche Carlisle
lo guardava. Non negli occhi, per quello ci voleva un
quantità di coraggio che per ora gli mancava. Guardava quella maledetta
maglietta, i capelli spettinati, il suo modo disordinato di stare seduto.
Sentiva l’odio e il disprezzo che il corpo di suo figlio sprigionava e, per
difendersi, usò lo stesso identico disprezzo rivolgendogli la parola.
“Ti sembra il modo di presentarsi
in un locale del genere?”
Edward aveva smesso di guardarlo,
con gli occhi bassi ispezionava il menù, anche se in realtà non leggeva neanche
una parola. “È il mio fascino.”
“Sei sempre il solito…” scosse la
testa, la bocca deformata in una smorfia.
“Menomale.” E lo disse con una
tale convinzione che Rosalie e Tania rabbrividirono.
Poco dopo arrivò il cameriere per
prendere le ordinazioni. Il ragazzo con il grembiule alla vita ed un arnese
elettronico in mano dette una rapida occhiata al tavolo, e il suo volto si
macchiò di disagio: perfino lui non reggeva tutta la tensione accumulata su
quelle sedie.
Carlisle
disse, con aria solenne e ruffiana, che quello era il miglior ristorante di
pesce della zona. Dopodiché, ordinò tre o quattro antipasti, spaghetti
all’astice e aragosta. Ordinò per sé e per la sua compagna, che non aveva
ancora aperto bocca.
“Allora,”
Edward smise di consultare il menù e si rivolse al cameriere, imitando e
scimmiottando il modo di fare di Carlisle. “Forse mio
padre si è scordato, oppure non l’ha proprio mai saputo, che a me e a mia
sorella il pesce fa schifo. Quindi,
per noi due… crostini e affettati misti, una bistecca – al sangue mi
raccomando, non mi costringa a rimandarla indietro – insalata verde e patatine
fritte.”
Il cameriere annotò
l’ordinazione. Edward, rivolgendosi a sua sorella, aggiunse: “Va bene, cara?”
“Tante patatine fritte!” rispose
Rosalie, già più a suo agio. Sorrise a suo fratello e, dall’altra parte del
tavolo, quell’improvvisa ondata di spensieratezza contagiò le labbra di Tania.
Carlisle
aspettò che il cameriere si fosse allontanato e, schiarendosi la voce, riprese
a parlare. Si rivolse a Rosalie, con un tono che voleva essere gentile ma che
alle orecchie di Edward risuonò soltanto ridicolo. “Allora, piccola? Come va la scuola?”
Il sorriso sulle labbra della
bambina scemò, lasciando la bocca chiusa in un’espressione tesa. “Bene.”
Carlisle,
già tornato nella sua solita bolla di silenzio, sembrava addirittura più imbarazzato
di lei. Intervenne Tania in suo aiuto. “Con i compagni di classe ti trovi bene?
Con le maestre?”
Rosalie annuì, ed il sorriso
tornò ad aprirsi quando disse: “Sono tutti molto simpatici, mi piacciono, e
anche Edward si trova benissimo con le maestr-“
Fu interrotta dalla gomitata di suo
fratello, che per poco non la fece cadere dalla sedia. E mentre lui le lanciava
un’occhiataccia, Tania li guardava curiosi e Carlisle
li scrutava sospettoso, lei rise di gusto.
La cena proseguì nel silenzio,
con le occhiate complici dei due fratelli e l’inadeguatezza stampata sul volto
degli altri due. Toccarono il punto di maggiore imbarazzo quando Tania domandò
ad Edward se avesse la fidanzatina.
Glielo chiese senza cattiveria, senza malizia, ma venne fuori una domanda che
poteva benissimo essere rivolta ad un ragazzino di dodici anni. Edward la
guardò come se potesse sbranarle la faccia, mentre Tania diventava paonazza e
provava a scusarsi con lo sguardo mortificato.
Avevano finito il secondo e stava
quasi per arrivare il dolce, ed Edward stava già assaporando l’aria di libertà
che lo aspettava fuori dal ristorante, quando le cose iniziarono a rotolare. Carlisle appoggiò i gomiti sul tavolo e Tania si sistemò
meglio sulla sedia a rotelle. Edward li guardò negli occhi e capì che stavano
per sganciare una bomba.
“Sentite,
ragazzi.” iniziò suo padre, con la voce impostata. “Io e Tania dobbiamo
parlarvi di una cosa.”
I suoi figli non risposero, si
limitarono a guardarlo negli occhi.
“Vi vogliamo proporre una cosa…
una soluzione, chiamiamola così. So che all’inizio vi sembrerà assurda e
penserete che sia impossibile anche solo prenderla in considerazione,
ma credo sia la cosa più giusta da fare. Per noi, per voi, per tutti.
Non è necessario che rispondiate subito, potete ascoltare quello che abbiamo da
dire e pensarci un po’. Non vi stiamo obbligand-“
“Forza Carlisle,
spara.” Edward iniziava ad innervosirsi.
“Ho capito che vostra madre non
sta bene. Si vede, è evidente. Non so che problema abbia,
ma-“
“Carlisle.”
Questa volta, nella voce, oltre al nervoso c’era la rabbia.
E la bomba fu sganciata. “Venite
a vivere con noi. Andiamo a vivere insieme, noi
quattro.”
Contemporaneamente, Rosalie
abbassò la testa e Edward si lasciò andare ad una risata, del tutto priva di
divertimento. Suo padre ignorò quel suono agghiacciante e
continuò: “Sceglieremo una bella casa, ne abbiamo già viste alcune. Staremo bene, le cose miglioreranno.”
In un istante, con un ringhio che
sembrava provenire dalla gola di un animale, Edward fu in piedi. La sedia rovesciata
ai suoi piedi, gli occhi iniettati di rabbia, l’indice puntato contro suo padre
e tutta la sala in silenzio, con gli occhi gravitati su di loro.
“Zitto!” ruggì. “Devi stare zitto.
Non hai il diritto di parlare, non hai il diritto di buttarci addosso ancora altra
merda. Chi sei? Si può sapere? Non ti conosciamo nemmeno. Spiegami chi cazzo
sei, cosa vuoi da noi e dove hai trovato il coraggio per guardarci dritti negli
occhi e aprire la bocca. Non sei un padre, per me non sei nemmeno un uomo.”
Si alzò anche Carlisle,
mentre Tania, con le lacrime agli occhi, lo teneva per un braccio.
“Non tipermett-“ ma suo figlio lo interruppe di nuovo.
“Hai fatto una sola cosa giusta
nella vita, una: levarti dalle palle. E se avessi continuato a farti i cazzi
tuoi, forse avremmo avuto una possibilità per stare bene davvero. Non ti
permetto di parlare di nostra madre, se lo rifai giuro su Dio che ti sputo in
faccia. Non ti permetto di parlare della sua salute, della sua vita, di come
riesce ad essere un genitore. Ti dirò di più: lei, con i suoi problemi, le sue
ricadute, le sue debolezze, in confronto a te è un gigante.”
Si allontanò di qualche
centimetro dal tavolo, smise di stringere il bordo di legno. Respirò a grandi
polmoni e fece scivolare lo sguardo da Carlisle a
Tania, poi di nuovo su suo padre.
“Qual era la vostra grande idea? La
soluzione… Caricarci su una macchina,
nemmeno fossimo due pacchetti da consegnare, e piazzarci in una casa? Una bella
villa con piscina, magari insieme ad un bel cane, per formare la famiglia
perfetta. La famiglia impeccabile che hai sempre voluto, eh Carlisle?”
Lo guardò, e per poco non gli
venne da vomitare.
“Solo un’altra cosa, e poi
sparisco: ci vedi, noi due?” Si indicò il petto e subito dopo puntò il dito
verso Rosalie. “Noi due, noi due siamo una famiglia. Io e mia sorella, non il
ridicolo teatrino che hai messo in piedi stasera.”
Controllò la voglia di sputargli davvero
e di mandare affanculo tutti quelli che li stavano
osservando al di là dei loro piatti stracolmi di cibo prelibato. Afferrò lo
schienale della sedia abbandonata sul pavimento, la sollevò e la rimise al suo
posto. Poi prese Rosalie in braccio e se la caricò su un fianco. Se ne andò a
grandi passi, con lo stomaco sottosopra e la testa che minacciava di scoppiare.
“Scusami.” sussurrò all’orecchio
di sua sorella.
Non sapeva, però, che Rose non
aveva niente da scusargli e che gli sarebbe stata per sempre grata per aver
pronunciato quelle parole, che erano la fotocopia dei suoi pensieri ma che lei
non avrebbe mai avuto la forza e la capacità di dire.
Eccomi, con il “regalo” che vi
avevo promesso. Non so se può essere chiamato così: è soltanto un piccolo
anticipo, un capitolo pubblicato un po’ prima, per dimostrarvi quanto tengo a
tutto l’affetto che mi dimostrate. I commenti e le visite continuano ad aumentare
e non posso far altro che ringraziarvi!
Vi ricordo che manca ancora un
capitolo (il numero nove) e l’epilogo. Spero non vi deludano!
Grazie fin da ora. A lunedì.
__________________
Capitolo 8 – Inizio e fine
Quella notte Edward non chiuse
occhio. Era stanco morto, la testa pulsava e gli occhi bruciavano, ma non
riuscì a prendere sonno. La sera prima era tornato a casa con lo stomaco che
gli ribolliva di rabbia, aveva osservato Rosalie preparare la cartella per il
giorno dopo e le aveva rimboccato le coperte prima di vederla addormentarsi.
Aveva chiamato Bella, mosso dal disperato bisogno di sentire la sua voce. Ma
nemmeno questo era andato per il verso giusto: lei aveva lasciato squillare il
telefono a vuoto e poco dopo gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che era
stata trattenuta a scuola e che sarebbe tornata tardi. Ed eccolo lì, il
rompicapo sentimentale che aveva sempre evitato come la peste.
All’alba si era alzato, ormai
arreso all’insonnia, ed aveva approfittato della levataccia per sbrigare qualche
faccenda di casa. Qualche ora più tardi, aveva
sopportato a denti stretti il turno di mattina alla tavola calda. Aveva
lavorato con gli occhi bassi e doloranti, la testa stordita chiusa in una
campana di vetro. Ogni movimento richiedeva il doppio della fatica.
Quel giorno Rosalie pranzò da una
sua compagna di classe e il pomeriggio rimase a casa sua per fare i compiti
insieme. Edward benedì quelle ore di riposo e, appena tornato da lavoro, si
buttò sul letto, sentendo il sonno che lentamente si inghiottiva tutte le
preoccupazioni. Finalmente, si addormentò.
Scese al pianoterra nel tardo
pomeriggio e trovò sua madre in cucina. Sul tavolo, di fronte a lei, c’era un
mucchio di fogli sparpagliati. Edward era troppo assonnato per provare a
leggerli, allora si limitò a guardarla con aria interrogativa.
“Non siamo più sposati,
ufficialmente.” affermò Esme, con la voce spenta.
Lui, senza dire una parola, alzò
un braccio e le mostrò le carte che stringeva nella mano. Le aveva stampate
quella mattina, e potevano racchiudere la soluzione ad uno dei tanti problemi
che gli toglievano il sonno. Lasciò cadere i fogli sul tavolo, sopra le
pratiche del divorzio. Sua madre li ignorò.
“Come è andata ieri sera con
vostro padre?” cercò di cambiare argomento.
“Male, ovviamente.” Riempì una
tazza di caffè e, sorseggiandola, si sedette accanto ad Esme.
“Lei com’è?”
“Non lo so, non la conosciamo. Ma
sembra gentile.”
“Bene, meglio così. Cosa vi hanno
detto?”
Edward la guardò: la pelle bianca
animata da qualche piccola ruga, la curva morbida delle spalle, le braccia
magre prosciugate dallo sfinimento. Sentì una stretta al cuore e decise che
l’avrebbe protetta fino alla fine. Con un sospiro, disse: “Niente… niente di
importante.”
La risposta sembrò bastarle e,
finalmente, prestò attenzione ai fogli che suo figlio aveva stampato.
“Cosa sono?” gli chiese, quasi
controvoglia.
“Mi sono informato, è quello che
fa per noi. Non è una clinica, non verrai ricoverata, non comparirai in nessun
registro. Niente di ufficiale, solo una serie di incontri. Parlerai con alcuni
volontari che hanno provato le stesse cose che stai provando tu, sapranno come
aiutarti. E deciderai tu quando presentarti, quante volte e per quanto tempo.
Carlisle non ne saprà mai nulla. Va bene?”
Mentre lo guardava, Esme sentì il
cuore gonfiarsi di preoccupazione. Ma, ancora più forte della paura di non
farcela e di deluderli, era la gratitudine che provava per suo figlio e la
determinazione che le trasmetteva.
Se lo promise, e lo promise a
Edward e Rosalie: quello era un inizio.
“Va bene.” E si asciugò la
lacrima che le rigava la guancia.
Pedalava come un pazzo con le chiavi
di Bella in tasca. Gliele aveva date quella sera, la sera della sorpresa, degli
spaghetti, dei baci. Al ricordo di quanto la desiderasse, mentre erano sdraiati
sul divano a guardare distrattamente un film, sentì una piacevole fitta
attaccargli l’inguine. Voleva fare le cose con calma, voleva farle per bene, e
non avrebbe mai permesso alla fretta e alle voglie di rovinare tutto. Non
ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva avuto così
tante premure prima di andare a letto con una ragazza, ma aveva la sensazione
di stringere tra le mani qualcosa di troppo delicato e non voleva rischiare di
scheggiarlo, romperlo, perderlo.
Si chiese se fosse giusto
avvertirla del suo arrivo, ma quei pochi giorni insieme una cosa gliel’avevano
insegnata: Bella amava le sorprese. E allora perché non viziarla?
Entrò, salutò il portiere e salì
di corsa le scale. Suonò il campanello ma Bella non c’era. Usò la chiave che
gli aveva dato e, per la seconda volta, aprì la porta di casa sua e si godè la
magnifica sensazione di avere il permesso di entrare nella sua vita. La prima
volta se l’era preso di nascosto, ora invece se l’era guadagnato. Le stanze
erano piene del profumo di Bella, ed ebbe la tentazione di cercare il suo
armadio, riconoscere i suoi vestiti, sbirciare la sua camera da letto. Una
tentazione che, però, riuscì a controllare facilmente. Non si mise a cucinare
perché decise che quella sera l’avrebbe portata a cena fuori, si limitò ad
accomodarsi sulla poltrona ed accendere la televisione.
“Sei sicura che non sia un
problema?” le chiese Jasper che, sicuro della risposta, stava già salendo in
macchina.
“Figurati! Seguimi, ti faccio strada.” gli rispose Bella, con un sorriso
imbarazzato. Aprì la portiera, lasciò cadere la borsa sul sedile del passeggero
e si mise al volante. Controllò nello specchietto retrovisore se anche Jasper
era pronto a partire e mise in moto.
Il giorno seguente, durante il
pomeriggio, ci sarebbe stata una riunione dell’intero gruppo dei docenti. Bella
aveva iniziato a familiarizzare con il metodo di lavoro del nuovo preside, ed
era sollevata dalla sua precisione e bravura nell’organizzare le cose. Seguiva
gli insegnanti nel preparare le lezioni, aveva a cuore gli studenti, teneva
d’occhio i loro progressi, ed era gentile. Qualità che in un collega di lavoro
non si finisce mai di apprezzare. Jasper aveva richiesto ad ogni insegnante una
scheda dettagliata, che conteneva programmi, voti, progressi, valutazioni. E
Bella, tradendo la sua solita precisione e diligenza nel rispettare le
consegne, aveva dimenticato la sua scheda a casa.
Parcheggiò proprio davanti al
portone. Si aspettava che Jasper si fermasse in doppia fila, pronto a ripartire,
ed invece cercò un posto libero qualche metro più avanti.
“Salgo a prendere il materiale e
torno subito.” gli disse mentre lui la raggiungeva sul marciapiede. “Farò in un
attimo!”
“Non dire sciocchezze, Isabella!”
sulle labbra aveva un sorriso più sfacciato di tutti quelli che finora le aveva
rivolto. “Ti accompagno, così non sarai costretta a scendere di nuovo.”
Bella annuì mentre cercava le
chiavi. “Va bene, come vuoi. Ma non ti assicuro niente sull’ordine della casa!”
“Fidati, è l’unica cosa di cui non
mi importa.” Si chiuse il portone alle spalle e, sistemandosi il colletto della
camicia, incrociò lo sguardo del portiere. Lo salutò con un
educato salve, l’anziano
rispose con un cenno del capo e nei suoi occhi Jasper scorse qualcosa che
assomigliava alla sorpresa.
Raggiunse Bella per le scale,
accompagnato dal ticchettio dei suoi tacchi sui gradini. E, con la visione
della gonna aderente che le fasciava le gambe sottili e il fondoschiena, non
gli rimase che sperare che quelle scale non avessero fine. Ma comparve il
pianerottolo ed il preside fu costretto a tornare a guardarla negli occhi, non
che anche quella visione non lo entusiasmasse.
“Sembri stanca.” sussurrò, mentre
lei infilava le chiavi nella serratura. “Va tutto bene?”
Bella lo guardò stringendo gli
occhi, come se volesse studiare cosa ci fosse al di là di quelle parole e di
quello sguardo. Poi tornò a sorridere e disse: “Certo che va tutto bene, solo
una lunga giornata di lav-“
Le parole si spezzarono quando
aprì la porta, mosse il primo passo e vide Edward.
Bella lo guardò, in un modo che
per tutti i presenti fu qualcosa di diverso: per lei stupore, per Edward colpa,
per Jasper speranza.
Il preside approfittò di
quell’attimo immobile di sorpresa ed entrò in casa a grandi passi, superando
Bella. Con le mani nelle tasche, puntò il ragazzo seduto sulla poltrona, e non
riusciva a pensare ad altro che: eccolo il mio momento, è arrivato. Qualche
parola messa insieme nella maniera giusta e Bella si renderà conto di quanto
poco convenga frequentare chi è appena uscito da un’aula di liceo.
Sentì spuntare sulle labbra il
sorriso, quello stronzo, e gli occhi gli brillarono quando incrociarono quelli
verdi scuri di Edward.
“Sei venuto per le ripetizioni,
ragazzino? Hai bisogno di una mano con i compiti?”
Così, oltre a dimostrargli che
era riuscito a farsi portare a casa da Bella per fare Dio solo sa cosa, gli
dimostrò che poteva prenderlo per il culo tutte le volte che voleva. Anche di
fronte a lei.
Bella rimase immobile, senza
avere neanche il tempo di chiedersi da dove nascesse la confidenza racchiusa in
quella frase, e tutto il resto successe in pochi secondi.
Edward saltò come una molla dalla
poltrona e si mangiò i metri che lo dividevano da Jasper, con la stessa ferocia
e velocità con cui un leone si scatena sulla preda. Con la mascella tesa, gli
occhi rabbiosi e le vene del collo che minacciavano di scoppiare, lo afferrò
con una mano per il nodo della cravatta e, trascinandolo con sé, lo fece
sbattere contro il muro. L’espressione di derisione sul volto del preside
ancora non se n’era andata, anzi sembrava ancora più soddisfatto, e Edward
decise di cancellarla con un pugno. Partì dritto, veloce, sicuro, accompagnato
dalle urla sconvolte di Bella. Sentendo la voce della ragazza che desiderava
che lo implorava di smetterla si sarebbe potuto fermare, ed invece ci trovò
ancora più gusto.
Dopo il primo colpo, Jasper cadde
a terra, con una mano insanguinata premuta sul labbro spaccato. Edward si
inginocchiò, bloccando le gambe del preside tra le sue ginocchia. Sollevò un
braccio, preparò il pugno e riprese a picchiarlo.
Un pugno per i suoi ridicoli
tentativi di prenderlo per il culo.
Un pugno per i suoi sorrisini
stronzi.
Un pugno per la sua voglia di
scoparsi Bella.
Un pugno per Carlisle, che ancora
non aveva smesso di distruggere la sua famiglia.
Un pugno per Esme, che non aveva
la forza.
Un ultimo pugno per se stesso, e
per la sua vita che andava a puttane.
Si alzò con il fiato corto e la
fronte umida di sudore. Si allontanò da quel corpo e da quel viso sfigurato che
si dimenava e tossiva sul pavimento. Per istinto, si guardò le mani. Quelle
dita che gli avevano fatto compagnia per tutta la vita, che avevano fatto magie
sui tasti del pianoforte e sui fianchi delle ragazze, ma che mai prima d’ora
avevano fatto sanguinare un uomo.
Le nocche erano spaccate, il suo
sangue si mescolava con quello di Jasper. Sentì Bella che arrancava a respirare
alle sue spalle e si ricordò di quella volta che gli aveva detto quanto le
piacessero le mani del “suo pianista”: il dorso coperto di vene sporgenti, le
dita spigolose, affusolate, maschili. Eleganti,
le aveva descritte.
Si voltò lentamente e
l’espressione che trovò sul volto di Bella gli ruppe qualcosa dentro. Avrebbe
voluto urlare, incazzarsi, chiederle cosa ci faceva quell’uomo in casa sua.
Avrebbe voluto stringere il suo bel volto tra le mani distrutte, sussurrare il
suo nome, spiegarle le sue ragioni, raccontarle quanto lo aveva provocato quel
preside di merda, descriverle l’espressione che aveva suo padre mentre gli
proponeva di abbandonare Esme. Sarebbe voluto crollare ai suoi piedi e pregarla
di salvarlo. Ed invece non si mosse e non parlò.
Fu Bella a farlo. Spostò il
disgusto dagli occhi al palmo della mano, che finì dritto sulla guancia di
Edward. Lo schiaffo fischiava nelle orecchie e la pelle bruciava, ma era una
carezza in confronto al dolore che gli provocava la delusione stampata sul
volto di Bella.
“Hai rovinato tutto,” gli
rovesciò addosso parole e lacrime. “Sei solo un ragazzino.”
“Non dire così.” voleva dirlo gentilmente,
ed invece uscì fuori un ruggito.
“Cosa dovrei dire allora? COSA?” adesso urlava. Gli occhi abbandonarono Edward e
fissarono Jasper, che intanto si era messo seduto con la schiena appoggiata
alla parete. Gemeva e si lamentava con fare teatrale, come se fosse sul punto
di morte.
“Non sono così, losai
che non sono così.” Era disperato. La guardava e vedeva tutto le cose che non
avrebbe più avuto. Lei, già lontana, continuava ad evitare il suo sguardo.
“Vattene.” sibilò. “E
restituiscimi le chiavi.”
“Bella, ascolt-“
“Vattene. Ora.”
Una sentenza, la sua sentenza.
Non restava altro che sopportare la condanna. Edward se ne andò, correndo giù
per le scale, allontanandosi da lei. Perdendosi.
Quella sera per la prima volta
aveva picchiato un uomo e quella sera, qualche ora più tardi, per la prima
volta si ubriacò. Fino a perdere il senso del tempo, delle parole, del corpo.
Si lasciò rotolare sul
marciapiede e vomitò. Vomitò la rabbia, lo schifo,
l’anima. Fino a non far rimanere niente nello stomaco e nella testa. Una testa
inutile, svuotata di tutto e di tutti, riempita solo da una parola e dalla sua
eco: fine.
Buttò le chiavi della macchina
nella tasca dello zaino, salutò con un occhiolino la donna seduta al di là del
bancone e scese le scale mangiandosi i gradini due a due. Raggiunse il suo
solito posto, il suo preferito, quello che lo aveva ospitato nelle ultime tre
settimane. Gli scaffali formavano un corridoio stretto e poi un piccolo
meandro, occupato soltanto da altri libri, un tavolino, una lampada e una
sedia. La sua isola di pace. Lontana dal chiacchiericcio e dal resto del mondo.
Edward aveva conquistato la
simpatia della bibliotecaria fin dal primo giorno, e dopo qualche chiacchierata
e una tazza di caffè consegnata regolarmente al suo bancone ogni mattina, gli
aveva permesso di rintanarsi in quel buco, dove riusciva a trovare silenzio e
concentrazione.
Si lasciò cadere sulla sedia,
aprì lo zaino ed afferrò il manuale. Sorseggiò il caffè, preparandosi ad
un’altra mattinata di studio. Nemmeno un minuto libero, un minuto di vuoto, un
minuto per pensare. Tutti movimenti meccanici, già provati, imparati a memoria.
Carlisle
aveva mantenuto la parola ed aveva iniziato ad inviare i soldi, arretrati
compresi. Non aveva sgarrato di un dollaro. Una boccata d’aria per le loro
tasche sempre più pericolosamente leggere. Aveva comprato anche un’auto, un SUV
nero scelto da lui, che Edward ed Esme condividevano. Non riusciva ancora a
parlare con i suoi figli, spiegare le sue difficoltà, scusarsi per i suoi
sbagli. Non riusciva a mostrare quell’uomo che voleva disperatamente essere, e
che solo Tania vedeva. Non sapeva dire Scusatemi, non so fare il padre, quelle
maledette parole non ne volevano proprio sapere di uscire, e allora li riempiva
di silenzi e di Ecco, i soldi e la
macchina. Prendete quello che vi posso dare. Quello che vi so dare.
La prima volta che si erano
rivisti, padre e figlio, dopo quella sera al ristorante, non avevano fatto
cenno alla discussione. Anzi, non si erano proprio rivolti parola. Quella
litigata era rimasta accantonata in un angolo, sotterrata dalle urla di Edward
e dal senso di colpa che sembrava aver sommerso Carlisle
e Tania.
Tania, lei continuava a provarci:
faceva domande, era cortese, raccontava piccoli aneddoti che le sembravano
divertenti, sorrideva, si interessava alle loro vite. E quell’interesse
sembrava davvero sincero. Quel sorriso un po’ imbarazzato e un po’ fuori luogo
che aveva accolto Edward quella sera alla porta, ancora non se n’era andato. La
voglia di conquistarli, riuscire a farli sorridere, costruire un rapporto che
non fosse solo silenzio ed imbarazzo, ancora la animava. E la sua perseveranza
aveva dato dei piccoli frutti: Edward sembrava sempre più a suo agio in sua
compagnia. Rosalie, invece, aveva ancora un bel po’ di strada da fare. La
rabbia che negli ultimi mesi aveva nascosto con cura sotto strati di pelle e i
pensieri che la tormentavano ma che non riusciva a condividere con nessuno,
costruivano un ostacolo dopo l’altro sulla sua strada verso la serenità.
Avevano assaggiato la stessa
rabbia, i due fratelli. Avevano respirato lo stesso veleno. Ma Edward, quella
rabbia, l’aveva sempre buttata fuori: sputata sulla faccia di suo padre, sulle
spalle piegate di sua madre, negli abbracci di Bella, sui marciapiedi chiazzati
di vomito. E la sua incapacità di stare zitto e lasciar correre gli avevano
salvato la vita, anche se lui ancora non lo sapeva.
Aprì il libro, incastrò tra le
dita un evidenziatore, si passò una mano tra i capelli.
Sua madre l’aveva costretto a
licenziarsi dalla RoadHouse, voleva che ricominciasse
ad impegnarsi negli studi. Lui aveva avuto qualche dubbio, temeva che qualcosa
andasse storto, che suo padre smettesse di inviare soldi e che i problemi
finanziari tornassero – perché è così che succede sempre, no? L’aveva
imparato bene – ma alla fine aveva ceduto. Aveva vinto il suo istinto di
sopravvivenza, quella piccola vena di egoismo che lo pregava di non farsi
schiacciare da colpe non sue. Così, con indescrivibile soddisfazione, aveva
salutato Jacob Black, quel bancone strofinato fin
troppe volte, quel pavimento che non avrebbe mai più dovuto spazzare, ed aveva
ricominciato a camminare sulla strada tracciata mese dopo mese nella sua testa.
Era libero, libero. Aveva richiesto dei colloqui con i docenti del college, si
era procurato i libri di testo ed aveva iniziato subito a studiare, sperando di
riuscire a dare esami appena i corsi fossero iniziati. Voleva provare,
riuscire, non deludersi.
All’ora di pranzo, si prese una
pausa per mangiare un panino al volo e, prima di iniziare a ripetere un nuovo
paragrafo, prese il cellulare e compose il numero di casa.
Altri movimenti meccanici,
provati, imparati. Un altro breve copione da seguire alla perfezione senza
lasciarsi trascinare dai pensieri.
“Pronto?” Era sua sorella.
“Sono io. Come
va?”
“Bene,”
la voce sembrava leggera. “Mamma è venuta a prendermi a scuola, ora sta lavando
i piatti. Tra poco inizio a fare i compiti e lei ha detto che mi aiuta.”
“A scuola com’è andata?”
“Ho preso ottimo alla verifica di
matematica!”
“Brava, piccolo genio.”
E poi, traditore, calò il
silenzio. Una falla nel sistema, una pagina bianca del
copione, un buco non previsto. Un silenzio, però, simile a tanti altri nei quali si erano imbattuti nelle ultime settimane. Un
silenzio durante il quale Edward avrebbe voluto chiederle qualcosa, qualsiasi
cosa, sulla sua maestra, sulla signorina Swan: Come sta? Sorride? Sembra triste? Quel pezzo di
merda del preside le gira ancora intorno? Lui ha sempre il naso fasciato? E gli
occhi neri?
Fu Rosalie ad interrompere il
fiume di delirio. “Ti passo la mamma, ti vuole parlare.”
“Edward,”
sua madre prese la cornetta ed intanto Rosalie in sottofondo iniziava a
canticchiare la sigla di un cartone animato. “Ti dispiace tornare un po’ prima
stasera? Avrei un incontro.”
Era così che chiamava le
chiacchierate che l’aiutavano a rimanere a galla. Aveva mantenuto la promessa
che aveva pronunciato a se stessa e a suoi figli, e si era presentata in
quell’edificio spoglio ma accogliente. Con la paura che le immobilizzava le
gambe e l’ansia che le serrava la gola. Ma ce l’aveva fatta, ci era riuscita.
Inizialmente si era limitata a stare in silenzio, in angolo, con il desiderio
di nascondersi per rimanere inosservata. Poi le cose erano andate avanti da
sole, l’ansia e la paura si erano affievolite fino a sparire, la bocca e il
cuore si era aperti lasciando scivolare parole, ricordi e dolore. Era ancora
all’inizio, tutto era difficile e faticoso, e le ricadute erano dietro
l’angolo, ad aspettare affamate il primo momento di debolezza. Ma adesso
sentiva che poteva vincerle. E guarire, vivere, respirare.
“Certo, mamma. E non ti
preoccupare per la cena, ci penso io.”
“Sei un tesoro.”
Quando riattaccò un nodo gli serrò la gola. Vide la mano tremare e, per un
attimo, abbandonò quell’illusione di serenità nella quale viveva da giorni ed
ammise la verità: ho paura. Ancora una volta. Aveva una fottuta paura di tutte
quelle cose che si stavano aggiustando, ma che ancora scricchiolavano. E visto
che c’era ne ammise un’altra, di verità: mi manca Bella. Era stanco di non
averla. Sulle mani, tra le braccia, sulle labbra. Non nel cuore, perché lì
c’era ancora. C’era sempre stata.
Le speranze che potesse
perdonarlo erano svanite lentamente, mentre i giorni passavano e si faceva
largo la convinzione di averla persa per sempre. Edward aveva accompagnato a
scuola Rosalie ogni mattina, ma Bella non si faceva
più vedere sul portone. Aveva provato a chiamarla, ma lei non rispondeva.
L’aveva aspettata per ore sotto casa, ma non si presentava. Forse viveva da lui, forse era riuscita a convincerlo a
non sporgere denuncia portandoselo a letto, forse in quei bei capelli
brizzolati e in quelle piccole rughe da uomo vissuto aveva trovato quello che
cercava. Forse aveva cambiato città, forse non era mai esistita. E il film, che
Edward si proiettava in testa almeno un paio di volte al giorno, andava avanti.
Respirò a fondo, si passò una
mano sulla faccia e provò a scordarsi come si chiamava, dove si trovava, chi lo
conosceva e come viveva. Cancellò tutto, lasciando vivo soltanto il libro
aperto sul tavolo. Era quella l’unica cosa che adesso doveva esistere.
Ma il destino, o qualunque cosa
governi tutti quanti, sapeva benissimo che quelle pagine stampate non erano
l’unica cosa piena di vita in quella stanza. Ed allora decise di giocare, con
Edward e con la sua vita. Aiutato dall’amore che quel ragazzo era riuscito a
conquistarsi, gli ricordò che tutto è possibile, che le seconde possibilità esistono, che il perdono è di chi ama, che alcuni legami
possono sopravvivere a tutto: alle famiglie distrutte, alla stanchezza che ti
casca addosso e non ti fa pensare, all’incapacità di chiedere aiuto, alle
nocche e alle labbra spaccate.
“Quella donna dietro al bancone è
innamorata di te.”
La voce gli arrivò alle spalle,
rimbalzò sulle pagine, gli scaldò il cuore e fece tremare di nuovo le mani. Non
ci credo, non è possibile, Dio fa che sia vero. Forse nei suoi filmini mentali,
insieme alla nuova vita di Bella, si era immaginato anche quella voce. Allora
si voltò, sperando di non essere un pazzo che insegue miraggi.
“Non so cosa tu le abbia fatto,
ma credo di averla appena fatta ingelosire.”
No, non era impazzito: lei era
proprio lì. In piedi in mezzo agli scaffali, i capelli raccolti che le
lasciavano il collo scoperto ed un vestito color crema
che si intravedeva dal lungo cappotto. E sulle labbra aveva un sorriso. Un po’
incerto, ma era un sorriso.
Rimase seduto, senza muoversi o
parlare. Si sentiva un idiota, ma non aveva la forza di fare nient’altro. Tutte
le sue energie erano su di lei, con lei. In attesa di altre parole.
Ancora, parla ancora, parla per
me.
“Tua madre è venuta a scuola, mi
cercava.” continuò lei, pronta a soddisfare la sua aria persa. “Mi ha detto che
voleva parlare di Rosalie, dei suoi voti, voleva essere informata sulla sua
situazione scolastica, ma poi ho capito.”
Parlava con le mani nelle tasche
del cappotto, lo guardava negli occhi senza incertezze, sembrava serena. Edward
invece moriva, aggrappato allo schienale di quella sedia.
“In realtà, voleva parlare di te.
Ed è quello che ha fatto. Mi ha detto quello che non sapevo e quello che sapevo
già, confermando l’idea che mi ero fatta su di te. Confermandomi che non mi ero
sbagliata, ad essersi sbagliati erano tutti quei dubbi a cui fingevo di aver
dato retta. Mi ha raccontato di essersi accorta che avevi iniziato ad uscire
con qualcuno, ti vedeva diverso… era come
se avesse trovato il modo per tenere incollati tutti i pezzi, così ha
detto. E a suo parere, quella colla ero io.”
Lui ad un tratto si alzò, ma lei
lo fermò alzando una mano. Lo guardò socchiudendo leggermente gli occhi, come
se gli stesse chiedendo il permesso di continuare a
parlare di sua madre, del suo dolore, di quanto era distrutto, di tutti i pezzi
che aveva perso per strada.
“Mi ha detto che poi ha capito
che qualcosa era andato storto, ed ha immaginato che avessi smesso di vederti
con la tua colla.” ridacchiò. “E
allora ha deciso che era arrivato il momento di comportarsi proprio come la
maggior parte delle madri: si è intromessa. Ha chiesto informazioni a Rosalie,
che le ha detto che suo fratello era innamorato della signorina Swan.”
Il labbro inferiore di Edward
iniziò a tremare, lo bloccò subito con i denti.
“Non so cosa sia successo e non so se sia colpa di mio figlio, ma dall’angoscia
che gli vedo negli occhi penso proprio di sì. Non mi ero mai permessa di
intromettermi nella sua vita, ma ora mi sento in
obbligo perché lui ha salvato la mia. Lo perdoni, perché lei è una delle due
persone che riesce a calmarlo quando il mondo gli sta crollando addosso.
L’altra ha quasi otto anni, i suoi stessi occhi e il suo stesso DNA. Ed ha
bisogno di entrambe nello stesso, disperato modo. Mi ricordo ogni parola
Edward, me le ricorderò per sempre. Perché l’uomo” quella
parola la pronunciò lentamente, dimostrandogli che aveva capito che quel
ragazzino che lo aveva accusato di essere era sparito tanto tempo prima.
“l’uomo che riesce ad essere così forte, generoso ed altruista da mettere sua
madre e sua sorella sopra ogni cosa, e riesce a trasmettere quella stessa forza
ad una donna distrutta che decide di comportarsi da madre, dimostrare tutto il
bene che gli vuole e convincere la sua ragazza a perdonarlo… beh, quello è
l’uomo che vorrei al mio fianco.”
Continuò a guardarlo dritto negli
occhi e si ritrovò a desiderare di viverci per sempre, in tutto quel verde.
Allungò una mano, con il palmo aperto rivolto verso l’alto pronto ad accogliere
le dita del suo pianista.
Edward barcollò fino a
raggiungerla e, senza aprire bocca, crollò ai suoi piedi. Si aggrappò ai suoi
fianchi come se fossero l’unico pezzo di legno in un mare deserto. Affondò la
testa sul suo petto, tra le sue braccia, che l’accolsero come avevano fatto fin
dal primo giorno. Sentì le dita di Bella intrecciarsi ai suoi capelli, la bocca
che cercava la sua testa e ci lasciava un bacio. E lì, in ginocchio davanti alla
donna che amava, finalmente pianse.
Credetemi, sono senza parole. Non
avrei mai immaginato di poter ricevere così tanti apprezzamenti! Vi ringrazio
per ogni parola. Ogni. Parola.
Vi adoro.
Ci “vediamo” alla fine ;)
__________________
Epilogo - Dieci anni dopo
Te la ricordi quella sera, Rose?
Saltavi intorno al manichino, un sorriso più grande di te, gli occhi
brillavano. Il tuo primo vestito, la tua prima creatura. Non la smettevi di
parlare. Che ne dici dell’orlo? Troppo corto, troppo lungo? Ed il taglio,
troppo azzardato? Del tessuto che te ne pare? Lo vedi come casca bene? Lo vedi?
Non vedevo un cazzo, Rose. Non ci capivo nulla. Ma guardarti era troppo bello.
Finalmente, solo per un po’, leggera. Finalmente, vivevi ballando in quel pezzo
di cielo, quel piccolo frammento di puzzle, che abbiamo cercato per una vita
intera.
Ed ora eccoti, avvolta nella tua
toga blu. Più luminoso della cascata di capelli dorati, c’è solo il tuo
sorriso. È sfacciato, quasi spavaldo. Non c’è traccia di incertezza,
un’incrinatura di emozione. È così, la mia piccola Cullen. Ha scavato,
nascosto, sopportato, fino a quando il sorriso si è indurito. E quella forza
che non hai mai saputo di possedere è proprio lì, tra quelle labbra che non
vedono l’ora di scoppiare in una risata.
Cammini sicura tra i tuoi
compagni. Ne vedo un paio che ti guardano con più insistenza. Pendono dalle tue
labbra, tu non li consideri neanche per sbaglio. Sei troppo impegnata a
sbocciare, crescere, stupire con la tua grazia che diventa donna.
Donna.
La mia piccola Rosalie è quasi
una donna. Me lo devo ripetere almeno un paio di volte al giorno per crederci
davvero. Ti vedo ancora con lo zaino rosso, il piumino chiuso fino al collo, le
trecce che ti danzano sulle spalle. Le gambette che dondolano nervose sotto il
tavolo, mentre aspetti che qualcosa cambi. Magari, questa volta, in meglio.
Ti vedo salire sul palco, ogni
tuo passo è un battito del mio cuore. Sono con te. Ora, sempre. Il tuo sguardo
continua a non tradire nessuna emozione, il mio stomaco invece ha iniziato a
tremare. Tremo perché ti vedo crescere, perché mi sembri felice, perché ho
paura di vederti spiccare il volo. Come quando ti vidi per la prima volta
salire sul motorino, indossare una maglietta un po’ più scollata, disegnarti le
labbra con quel lucidalabbra che tu adoravi e che a me sembrava il diavolo.
Come quando sei andata per la prima volta in discoteca, e io non ho chiuso
occhio per tutta la notte. Come adesso, che stai per andartene. Lontano da
tutto quello che ci ha piegati, spaccati, sfiniti. Sempre più vicino alla vita
che sogni, alla donna che vuoi diventare, alla persona che meriti di essere.
Accarezzi il legno chiaro del
leggìo, fissi il microfono, poi alzi lo sguardo. Impassibile, studi la platea
che ti sta osservando, che si aspetta un discorso che li faccia ispirare ed
emozionare. Guardi i tuoi compagni, tutti quei piccoli puntini blu sparati sul
prato. Guardi i genitori, i parenti, gli amici, i fidanzati. Fino a quando i
tuoi occhi di smeraldo non arrivano nel nostro piccolo pezzetto di prato.
Incroci lo sguardo di mamma. La mamma, Rose. In lacrime, emozionata,
orgogliosa. Capito, piccola Cullen? Orgogliosa.
Cerchi ancora un po’ e non trovi
tuo padre e Tania. Mi hanno telefonato, Rose. Pochi minuti fa. Carlisle sta
facendo tardi in clinica. Sai com’è, un intervento urgente. Il solito,
prevedibile intervento urgente.
Certe cose non cambiano mai.
Il vuoto che l’assenza di tuo
padre ti ha scavato negli occhi, viene riempito da capelli castani, sorriso
smagliante, sguardo fiero di quella bambina che spronava a leggere Harry
Potter: Bella. Lo vedi come ti guarda, Rose? Come ha sempre sognato di guardare
la sorella che non ha mai avuto. Le sorridi, la saluti con un piccolo cenno del
capo e lei, traboccante di felicità, si stringe ancora di più alla mia spalla.
Ad un tratto alza la testa, si specchia nei miei occhi e sorride. Un sorriso,
Rose... Dio. Te ne ho mai parlato? Quelle labbra che si schiudono per me
saranno sempre una piccola conquista, una montagna scalata, un regalo. Il mio
regalo.
Certe cose non cambiano mai.
Per fortuna.
Poi - proprio come in una di
quelle tante mattine, quando era freddo ed era difficile, quando dovevi
strizzare gli occhi e cercarmi tra tutti i genitori, quando aspettavi di
scorgermi tra la folla, abbracciarmi con un sorriso e salire sulla bicicletta -
guardi me.
E, per la prima volta da quando
hai addosso quella toga, ti vedo emozionata. Un po’ incerta, titubante. È
difficile, Rose? Guardarmi, volermi bene, sperare di non deludermi. Capita
anche a me. Lo so come ti senti, l’ho sempre saputo.
Ricordi? Andrà tutto bene. Quante volte te l’ho ripetuto. Quante volte ho
sperato di non dover tradire le mie promesse di agognata serenità. Andrà tutto
bene, non ti preoccupare. Te lo ripeto, ancora una volta.
Ricordi? Il puzzle, le canzoni, i
piatti da lavare, Hey Jude. Menomale ci
sei tu.
Ricordi, Rose? Noi due. Io e te.
Una famiglia.
Vai ora, parla. Tocca a te.
***
Inizio a parlare. Srotolo davanti
a tutti le parole che ho scritto sulla scia dell’emozione e che ho ripetuto,
imparato, provato più e più volte. Tutte queste toghe blu, che brillano sotto
il sole e che mi ricordano che una parentesi della mia vita si sta chiudendo,
mi distraggono. Allora decido di fare quello che ho sempre fatto quando mi
trovo in difficoltà: guardo te.
Più bello di sempre. Un fratello,
una salvezza. Un medico, un pianista, un uomo. Un paio di spalle larghe a cui è
facile e meraviglioso aggrapparsi. Un sorriso che illumina anche quando non mi
ricordo nemmeno cosa sia la luce.
Visto, Edward? Sto imparando a
parlare. Sto imparando da te.
Non hai ancora finito di
insegnarmi, di guidarmi. Non finirai mai. Come farò lontana da te?
Mentre cito libri che ho letto e
film che ho visto, lo sguardo si sposta di nuovo su Isabella. La donna che è
riuscita a salvarti. La maestra che ha aperto un libro e me l’ha messo sotto
gli occhi, insegnandomi la strada per raggiungere quel mondo dove avrei sempre
potuto rifugiarmi. Stretta al tuo fianco, ti guarda come se non ci fosse
nient’altro. Come se il mondo finisse qui, su questo prato, tra il suo vestito
a fiori e la tua camicia celeste. Riuscirò mai a non essere almeno un po’ invidiosa
dei vostri sguardi? Del vostro amore. Del vostro talento nel tenervi uniti.
Capirvi, esserci. E riuscirò a conquistarlo e a riconoscerlo, se quello sguardo
verrà concesso anche a me?
Mamma sta piangendo, Edward. È
solo emozione, vero? Quante volte l’abbiamo vista piangere. Troppe per lei,
troppe per noi. Ma, ultimamente, tutti quei pianti sembrano chiusi in una delle
tante scatole su in soffitta. I ricordi più vividi, quelli che mi investono
mentre chiudo gli occhi e sto per addormentarmi, la vedono sempre sorridere.
Sorride mentre mi insegna l’uncinetto, mentre mi fa il solletico sotto i piedi,
mentre mi mette a letto e mi rimbocca le coperte. Sorride quando prendo la
patente, quando le racconto della mia prima ed imbarazzante cotta, quando
parliamo di te che impazzisci per organizzare una vacanza e fare una sorpresa a
Bella. Sorride, perché è riuscita ad esserci. Non se l’è persi tutti quegli
anni, Edward. Era lì, era con noi.
Il discorso sta per arrivare alla
fine quando un movimento sulla destra cattura la mia attenzione.
Ed eccolo lì. Impeccabile come
sempre. Abito scuro, cravatta, camicia bianca. Capelli pettinati, un accenno di
sorriso imbarazzato. Ha gli occhi lucidi. Mi guarda, cresciuta e lontana, ed ha
gli occhi lucidi.
È qui, è venuto per vedermi con
il mio diploma in mano. In ritardo, ma è qui.
“Un padre imperfetto, ma nostro padre.” È così che dici sempre,
vero Edward?
Tania gli stringe una mano,
l’altra è sul pancione.
Riuscirò mai a guardarli e non
sentirmi sbriciolare qualcosa dentro? Riuscirò a fare come te? Parlare con papà
senza sentirmi sotto esame, abbracciare Tania come se fosse una di famiglia,
discutere con loro dei miei progetti e dei miei studi, cenare a casa loro senza
aver voglia di vomitare.
Riuscirò a perdonare?
Insegnami, Edward. Insegnami
anche questo.
____________________
Non scrivo la parola “Fine”, e
c’è un motivo.
Ci saranno alcuni extra. Ancora
non li ho scritti, lo farò con calma quando avrò la testa libera da pensieri e
preoccupazioni (università ti odio), ma quello che c’è già sono le idee.
L’ordine con il quale scriverò e
pubblicherò questi extra lo deciderete voi, e potete votare esprimendo una
preferenza nelle recensioni.
Non vi dirò di cosa tratteranno.
Per votare, lasciatevi trasportare da quello che il titolo vi trasmette.
Potete scegliere tra:
1.La
prima volta
2.Occhio
nero
3.Già
donna
4.Michael
Cullen
L’extra che riceverà più voti
sarà quello che pubblicherò per primo
(ma non so davvero quanto dovrete aspettare) e di sicuro. Gli extra che arriveranno secondo, terzo e quarto non so se e
quando saranno pubblicati. Spero che l’idea vi piaccia!
Ora passiamo alle cose
importanti.
Scrivere questa storia è stato un
piccolo grande viaggio, è stato scavare e ricordare. Difficile e, soprattutto,
bellissimo. Farvela leggere, ancora di più. Quello che mi avete dato in cambio
è stato inaspettato e, ogni volta, incredibilmente entusiasmante. È stato
questo il vero REGALO.
Ringrazio chiunque sia passato di
qui. Per leggere, per rileggere, per farmi sapere la sua opinione. Ringrazio
chiunque abbia speso tempo ed energie per lasciare anche solo una recensione.
Ho letto dei commenti meravigliosi, accurati, capaci di leggere e descrivere i
personaggi alla perfezione. Ringrazio chi si è lasciato emozionare, chi si è
affezionato ai due fratelli, chi ha sorriso insieme a Bella, chi ha tifato per
Esme, chi ha capito Tania, chi ha imprecato contro Carlisle e chi ha odiato
Jasper. Ringrazio chi ha lasciato i cosiddetti “messaggi brevi”: tre parole
stupende non sono considerate una recensione, ma per me sono motivo di orgoglio
e sorrisi. Ringrazio chi c’era dall’inizio, da quella che doveva essere solo
una one-shot, e chi mi ha chiesto di continuare a far vivere questi personaggi.
Ringrazio Federica, che con le
sue confidenze ha reso ancora più speciale questa storia, e che mi ha insegnato
che in ognuno di noi si nasconde un po’ di Edward.
A proposito di Edward… ringrazio
anche lui, che mi ha aiutata a capirmi, a farmi forza, a darmi pace. Tutto
l’affetto che avete dimostrato a lui, vi assicuro che lo avete dimostrato anche
a me.
Infine, ringrazio la mia Rosalie. Senza saperlo, fa parte
di tutto questo ed è la piccola scintilla dalla quale l’idea è nata: la voglia
di scrivere di una Sorella.
1) Continuate a
leggere e a commentare anche a distanza di mesi, e non può che farmi un piacere
immenso.
2) Ieri sera ho
saputo che “Il regalo” è stata inserita nelle Storia Scelte. Non potete
immaginare quanto sia BELLA questa notizia per me. Gongolo da quando è arrivata
la mail. E il merito è tutto, tutto vostro. In particolare, ci tengo a
ringraziare con tutto il cuoricino VerdeEvidenziatore
e la mia adorata Lele Cullen per aver
segnalato la storia. Grazie, grazie, grazie.
Seconda cosa, ho
creato un account Facebook per tenervi aggiornati di eventuali nuovi extra o,
magari, nuove storie. Potete trovare il collegamento sulla mia pagina, qui su
Efp. Mi farebbepiacere avervi tra
gli ‘amici’.
Terza cosa:
eccovi il primo extra. Mi dispiace di averci messo un bel po’ di tempo ma sono
stata completamente risucchiata prima dalle vacanze, poi dalla sessione di
settembre e infine dall’inizio di questi corsi maledetti.
Questo è il
primo classificato (ringrazio chiunque abbia espresso una preferenza).
Preciso che, a
differenza di tutti i precedenti capitoli, il rating è rosso. Ed è ambientato alla fine del nono capitolo “Miraggio”.
Buona lettura. E
grazie fin da ora.
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Extra 1 – Prima volta
Si alzò con le
gambe che tremavano. I brividi lo scuotevano dalla testa ai piedi, le lacrime
ancora gli rigavano le guance. In quel mare di confusione e stordimento, aveva
solo una certezza: l’unica cosa che lo teneva fermo, intero, vivo erano le mani
di Bella. La sua presenza. La sua esistenza.
Senza pensare,
senza riflettere, senza parlare, solo con la voglia di assecondare ogni suo
bisogno, le afferrò la testa e la baciò. Finalmente libero dalle lacrime
versate, e dal peso di tutte quelle che aveva sempre nascosto, l’unica cosa che
restava era la voglia di averla.
Come aveva
sempre voluto, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare. Bloccato dalla paura
di sbagliare, perdere, rompere. Con le mani legate dal bisogno di eseguire ogni
passo nel tempo giusto.
Ora le catene
erano rotte. Spezzate. E le aveva mandate in mille pezzi proprio lei. Quella
straordinaria donna che continuava a capirlo e ad amarlo. Quella donna che si
era presentata di fronte a lui con il cuore aperto. Un sorriso pronto. Un paio
di tacchi alti, un vestito che sembrava cucito sulle sue forme e i capelli raccolti
che le lasciavano scoperto il collo.
“Edward,” si
allontanò stringendo gli occhi, come se ogni centimetro lontano da lui fosse
una piccola coltellata. “Piano.”
Sentiva la sua
irruenza, il suo bisogno, ormai cieco. Sentiva le labbra affamate, la lingua
calda intrecciata alla sua, il viso bagnato di lacrime che bagnavano anche il
suo. Le sue mani strette ai capelli, intorno al collo, sulla faccia, sui
fianchi, dentro il cappotto. Le sue mani dappertutto.
“No, Bella.” E
la fermezza nella sua voce riuscì a impaurirla e a eccitarla nello stesso tempo.
“Non ne posso più.”
Senza smettere
di baciarla, di toccarla, di mangiarla, l’afferrò per i fianchi e la costrinse a
camminare insieme a lui. Raggiunsero una porta nascosta tra due scaffali,
Edward l’aprì senza guardare, con una mano, che per qualche secondo fu privata
del tocco di Bella.
Era buio. Un
buio che, proprio come il nuovo Edward, la impauriva e le piaceva.
“Cos’è?” riuscì
a chiedere, tra un bacio e l’altro.
“Un magazzino” e
le strappò il cappotto di dosso.
“Quella donna-“
un bacio “potrebbe entrare-“ le labbra “in qualsiasi momento” la lingua.
“Bella,” si
fermò all’improvviso, con le mani ancora tra i suoi capelli. La guardò fissa
negli occhi, e lei ebbe l’impressione che la potesse trapassare. “Non me ne
frega niente. Ti voglio. Ora.”
E quelle furono
le parole che fecero crollare ogni muro. Ogni dubbio. Ogni paura.
I loro respiri
accelerati divennero uno soltanto. I pensieri, le labbra, le mani. Una cosa
sola.
Edward le strinse
le natiche, le accarezzò, portandosi con sé il vestito. Glielo alzò fino ai
fianchi, fino a liberarla dal tessuto che le nascondeva quelle mutandine che
troppe volte lui aveva solo immaginato. La prese in braccio, incastrato tra le
sue cosce, con le dita che già avanzavano tra il pizzo nero, e si bloccò quando
la schiena di Bella raggiunse uno scaffale. Premette la sua erezione
sull’inguine di lei, la sentì gemere, e perse anche l’ultimo briciolo di
controllo. Si liberò della cintura, dei jeans, dei boxer. Fino alle ginocchia,
quel poco che bastava per farla finalmente sua.
Scostò le
mutandine, la guardò negli occhi, respirarono insieme. E poi, finalmente, fu
tutto perfetto.
Erano ancora
vestiti. Se ne rese conto all’improvviso, quando la furia svanì e lui si
ritrovò con la schiena contro lo scaffale e il corpo di Bella abbandonato sul
suo fianco. Si era limitato ad alzarle il vestito, abbassarsi i pantaloni, non
aveva fatto nient’altro. Niente carezze, nessuna frase dolce. Per un attimo si
pentì di tutta quell’irruenza. Poi lei alzò leggermente la testa, gli baciò la
gola, la mascella, le labbra, e quell’attimo scomparve.
Quando
finalmente aveva deciso di fare l’amore con Bella, tutto il tempo del mondo
sembrava essere stato risucchiato da una forza più grande di loro. Più grande
di lui. Aveva lasciato comandare le mani, le dita, la lingua. E lei. Lei
perfetta, lei meravigliosamente perfetta. Mentre chiamava il suo nome e si
aggrappava alle sue spalle. Mentre lo faceva sdraiare sul pavimento, gli saliva
sui fianchi, ballava su di lui quella danza che già amava e gli permetteva di
ammirarla in tutta la sua straordinaria bellezza.
“Raccontami
qualcosa.” gli disse.
Edward abbassò
lo sguardo. Gli occhi si erano abituati al buio e riusciva a vederla. I piedi
scalzi che si strusciavano sui suoi jeans. Il vestito che ancora nessuno dei
due aveva intenzione di abbassare. Le mutandine che disegnavano la perfetta
linea dei suoi fianchi. Il suo seno che gli premeva sul fianco. La cascata di
capelli che gli solleticavano il viso.
Esiste qualcosa di più bello?
“Avremo tutto il tempo per parlare.
Adesso voglio soltanto starmene qui e continuare ad accarezzarti la coscia.”
“Dai,” insistette.
“Un aggiornamento veloce. La mano puoi lasciarla dov’è…”
Una risata gli
salì nel petto, fino alla gola. “Ah, si?”
Si sistemò
meglio contro lo scaffale, tenne Bella ancora più stretta e a voce bassa
aggiunse, “Allora, vediamo di darti quest’aggiornamento lampo. Ho lasciato il
lavoro, ho ricominciato a studiare, ho una macchina e una mamma. E mi sei
mancata.”
Le sue labbra
trovarono i capelli di Bella e, con un bacio, a occhi chiusi, si perse nel suo
profumo.
“Rosalie come
sta?” chiese lei, quasi sussurrando. “A scuola sembra tranquilla.”
“La solita
Rosalie. La Rosalie che sembra tranquilla, ma che in realtà si consuma con
pensieri più grandi di lei. Però è più serena di qualche settimana fa… Forse le
ha fatto bene smettere di mangiare tutti i giorni la robaccia bruciacchiata che
le cucinavo io e ricominciare a gustarsi la cucina di sua madre.”
“Non essere così
cattivo con te stesso. Gli spaghetti che hai cucinato a me non erano né troppo
scotti né troppo sciocchi…”
“Simpaticona!”
rise. “Ah, dimenticavo la novità più importante: ha finito di leggere La pietra filosofale. E, con mio grande
piacere, ha trascorso un giorno intero con un asciugamano avvolto intorno alla
testa come un turbante fingendo di avere la faccia di Voldemort sopra il
collo!”
Bella scoppiò in
una risata fragorosa, che superò tutti gli strati che li dividevano, gli entrò
nel petto e lo scaldò.
“È tutta colpa
tua!” aggiunse Edward, con il sorriso sulle labbra.
Lei, continuando
a ridere, alzò lo sguardo. Incontrò i suoi occhi e restò spiazzata dalla totale
spensieratezza che riusciva a leggerci dentro. Una leggerezza che forse, in
tutti quei mesi di sguardi rubati, appuntamenti e baci, non aveva mai visto.
“Ecco, vedi?” disse. ”Questo è uno dei tanti motivi per cui ti amo.”
Lui rimase a
bocca aperta, con un sorriso storto bloccato a metà. Non ebbe la lucidità per
parlare, per respirare, per chiederle di cosa stava parlando, la lucidità per
risponderle anch’io, anch’io, anch’io da
sempre.
Poi, in quel
silenzio traboccante di parole non dette, lei aggiunse, “Quando parli di tua
sorella sei ancora più bello.”
Salirono le
scale vicini. Edward, con lo zaino che gli penzolava dalla spalla, le offrì il
braccio, e un sorriso. Lei si aggrappò a lui e insieme passarono davanti al bancone.
“Addio, mio
piccolo angolo di pace!” le sussurrò all’orecchio, dopo aver educatamente
salutato la bibliotecaria.
“Mi dispiace.”
rispose Bella. “Devo trovare un modo per farmi perdonare.”
Mentre si
stringeva al cappotto e usciva dalla biblioteca, con Edward che le teneva
aperta la porta, aggiunse, “Potresti venire a studiare a casa mia. È sempre
vuota. Non ti disturberà nessuno e quando tornerò a casa dalla scuola, troverò
te. Che ne dici?”
Lui s’immaginò
come sarebbe stata, una giornata tra le pareti di Bella. Vederla aprire la
porta di casa, salutarla con un bacio, sentire la stanchezza svanire. E tornò a
chiederselo: esiste qualcosa di più bello?
“Mi sembra
un’idea meravigliosa.” disse, con una voce bassa e ferma che cercava di
nascondere l’impazienza.
Raggiunsero
l’auto, un sorriso illuminò le labbra di Edward, finalmente orgoglioso di non
essere costretto a farla salire su un manubrio.
“Et voilà!”
Schiacciò il pulsante e le sicure si aprirono.
“Wow! Ho il
permesso di salire a bordo?”
Si avvicino alla
portiera del passeggero, l’aprì e, facendole l’occhiolino, sussurrò “Permesso
accordato, signorina Swan.”
Guidava con
calma, con una mano sul volante e una sul cambio. Sentiva il motore cantare, le
ruote scivolare sull’asfalto, la musica leggera che usciva dalla radio e li
coccolava. Si voltò a guardarla. Era buio, il debole sole di quel pomeriggio
era già stato inghiottito dall’inverno. Le luci della strada le illuminavano il
viso, si specchiavano nei suoi occhi, le disegnavano le labbra. Lei gli aveva
chiesto dove la stava portando, lui non aveva risposto. Vivevano nel silenzio
da quando erano entrati in macchina. Un silenzio semplice, spontaneo, che non
aveva bisogno di essere riempito. Lei guardava fuori dal finestrino e sembrava
sorridere. Solo un accenno, ma sembrava un sorriso.
“Mi dispiace.”
disse lui, all’improvviso. E come le parole lasciarono le sue labbra, smise di
guardarla e tornò a fissare a strada.
“Per cosa?” Si
voltò, cercò i suoi occhi senza trovarli, il lieve sorriso scomparve.
“Per te, per
noi… anche per lui. Mi dispiace per
quella sera.”
“Ed-“
“Mi dispiace di
averti costretta a guardarmi mentre mi distruggevo. Mentre distruggevo tutto
quello che avevamo.”
“Edward,” allungò
un braccio e posò la mano sulla sua, cercò le dita strette intorno al cambio e
le intrecciò alle sua. Lo costrinse a stare in silenzio, ad accantonare il
passato. A dimenticarlo, almeno per quel pomeriggio di pace. “Va tutto bene.
Andrà tutto bene.”
Quella frase Edward
l’aveva sentita un’infinità di volte. Nella sua testa, in ogni sfumatura della
sua voce. Ripetuta come una ninna nanna a sua sorella, come una supplica a sua
madre. L’aveva detta e sentita fino a perdere il senso delle lettere, delle
sillabe, del suono. Ma soltanto in quel momento – nella loro immobile tranquillità,
con la musica della voce di Bella che lo cullava e gli cantava non sei più solo, con tutto il loro
mondo dentro quell’auto e tutto il resto fuori - soltanto in quel momento, per
la prima volta, riuscì a crederci.
“Siamo arrivati.”
Bella si guardò
intorno. Riconobbe il giardino, il portico, la bicicletta. Le finestre erano
illuminate.
“È casa tua.”
Non capiva. Rimase seduta, con la cintura ancora allacciata. Edward fece il
giro dell’auto, le aprì la portiera, la guardò.
“Ho deciso che
oggi è la giornata dei desideri. I miei e i tuoi. Ne realizzerò il più
possibile.”
“Continuo a non
capire.”
“Te lo ricordi
il nostro primo appuntamento? Mi dicesti che ti sarebbe piaciuto fare una
cosa.”
“Ti assicuro che
quella sera avevo voglia di fare tante, tante cose… ma non mi sembrava di
avertelo fatto sapere!”
Edward rise,
quella risata rauca che la faceva impazzire. “Basta indovinelli, seguimi.”
E lei lo seguì.
La casa era
calda, luminosa, dalla cucina arrivava il profumo di sugo, ma, nonostante i
segni di vita, sembrava vuota. Edward le prese il cappotto, poi si tolse anche
il suo. La fece accomodare sul divano e, divertito dall’espressione confusa di
lei, si allontanò.
Spostò lo
sgabello, si sedette e si sistemò per essere il più comodo possibile. Sfiorò i
tasti, li salutò come se fossero amici che non sentiva da mesi ma che non aveva
mai dimenticato. Sembravano freddi, soli, chiedevano compagnia. Sentiva il peso
dello sguardo di Bella sul collo, sentiva la sua impazienza, ora che finalmente
aveva capito.
Dandole le
spalle, sorrise. A lei, a loro, a tutto quello che li aveva portati fin lì.
Raddrizzò la
schiena, piantò bene i piedi per terra e lasciò che le sue dita prendessero
vita.
La musica riempì
la stanza, le orecchie, il cuore. Una musica che urlava disperazione, pregava
pace, esultava per averla ricevuta. Una musica che raccontava lacrime,
promesse, passeggiate. Urla, pugni stretti, una corsa giù per le scale.
Raccontava libri, capelli profumati, pizzo nero. Raccontava loro, raccontava
lui.
Bella si lasciò
abbracciare dal divano, si accomodò sui cuscini e, con lo sguardo fisso sulle
spalle concentrate ma leggere di Edward, sentì le lacrime riempirle gli occhi.
Aveva voglia di piangere, ridere, alzarsi e abbracciarlo, rimanere seduta e
guardarlo. Guardarlo ancora, e ancora.
Passi leggeri
scesero le scale. Rosalie rimase senza parole, con gli occhi sbarrati e un
sorriso che si faceva strada per illuminarle il viso. Per un attimo, si chiese
se fosse tutto vero. Se quella fosse la sua casa, se quello fosse suo fratello.
Raggiunse il divano, vide la signorina Swan – proprio la signorina Swan!
- e si accorse che piangeva. Si preoccupò, ma poi capì che erano lacrime belle,
di quelle che quando le versi non fanno male. Si sedette accanto a lei, Bella
le passò un braccio intorno alle spalle.
“Gli hai fatto
un incantesimo, di’ la verità. La maledizione Imperius, giusto?” scherzò la
bambina.
“Non ho fatto
niente, giuro. Sono solo una povera babbana.” rise Bella, alzando le mani per
ribadire la sua innocenza. “Ha fatto tutto da solo.” E, tornando a guardarlo,
si rese conto di quanta verità ci fosse in quelle parole.
“Erano mesi che non suonava!” bisbigliò
Rosalie, ancora incredula.
“E ascoltarlo è
ancora più bello di quanto ricordassi.” Si voltarono di scatto. Esme aveva
parlato piano, come se avesse avuto paura di disturbare, spezzare l’atmosfera.
Si sedette anche lei, trascinata dalla cucina al divano dalla magia delle note di
suo figlio.
Con le dita che
ancora danzavano su tasti, Edward si voltò. Trovò su di sé lo sguardo fiero
delle sue tre donne. Si perse nel volto luminoso di sua sorella, si emozionò di
fronte a sua madre che si era portata una mano sul cuore. Si specchiò negli
occhi lucidi di Bella e le sorrise. Un sorriso che sembrava nato per quelle
labbra e destinato a quegli occhi.
Fu il suo modo
per dirle: “Guardami. Ti amo anch’io.”