WhiteCrow

di Curly and Dangerous
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1. “Essere normali, o essere speciali? Essere d’accordo, o non esserlo affatto? Guardiamo in basso ad occhi chiusi, non c’è nulla di cui stupirsi… Ma, chissà! Potremmo guardare in cielo E scorgere un corvo bianco……” Punto, aveva finito. Era tutto quello che aveva da dire. Non era molto, lo sapeva. Anzi, era davvero poco…...Guardò l’orologio: mancavano un’ora e cinquantacinque minuti alla fine del tempo messo a loro disposizione e lei ci aveva impiegato esattamente cinque minuti. Non male, no? Ma la Grouwnaz non l’avrebbe pensata allo stesso modo…. Razzista com’era verso tutti coloro che non corrispondevano al suo ideale di persona normale, aveva goduto nel dare quel tema: “Definite coloro che, per aspetti fisici o caratteriali, non rientrano nella norma”. Che traccia assurda! Guardò nuovamente l’orologio: erano passati altri cinque minuti. Si mise a pensare….. La Grouwnaz non correggeva subito i temi; era troppo occupata ad osservare le facce degli studenti, contorte nello sforzo di dare un senso a quel tema. Ma con lei non c’era ancora riuscita…. Guardò per la terza volta l’orologio: erano passati altri cinque minuti. Poteva rimanere lì, a pensare o a riempire il foglio che aveva davanti. Ma perché perdere tempo?. ‘Basta!’Si alzò e consegnò il foglio. Nessuno l’aveva notata e la Grouwnaz non sembrava meravigliata più di tanto. Uscì dall’aula. ‘Ah’, un sospiro di sollievo. Sapeva, però, che non l’avrebbe passata tanto liscia: il padre l’avrebbe guardata, amareggiato e deluso; e la matrigna……o beh, in quel caso valeva la pena combinare guai. Già se l’immaginava, la sua faccia da ebete preoccupata e la sua voce mielosa con cui le avrebbe detto: “Lucry, oh Lucry!”. Cominciò a correre, direzione: la sala da ballo. Quell’ultimo pensiero l’aveva a dir poco inorridita; aveva bisogno di riprendersi. Entrò nella sala, si piazzò di fronte al grande specchio che ricopriva la parete centrale e chiuse gli occhi.“Lucrezia” disse. Era quello il suo nome, un nome particolare proprio come lei. Un nome strano per la maggior parte delle persone, un nome orribile per la sua matrigna. Così quasi tutti, zii, parenti e conoscenti la chiamavano Lucry, un nome orribile per lei. Non poteva sopportare una simile storpiatura a quel nome, quel bellissimo nome che invocava l’immagine di una donna bella, incantevole e gentile: sua madre. Così era scesa ad un compromesso…. Aprì gli occhi e li chiuse di scatto. “Liss”disse. Era quello l’unico nomignolo che riusciva ad accettare. Aprì definitivamente gli occhi e lasciò che il suo cervello ricevesse la sua immagine riflessa. Lasciò che anche la sua mente la ricevesse e si guardò con un interesse che non si era mai dedicata prima. ‘Mmm’…..non era poi così male. I suoi capelli ricci e neri erano sempre indomabili,come quelli di suo padre; ma i suoi occhi erano azzurri e limpidi, come quelli di sua madre. Inoltre aveva la pelle bianchissima e delle gambe troppo lunghe e snelle per la sua età: diciassette anni e un metro e settantacinque di altezza non erano numeri molto consueti tra le collegiali sue coetanee. A pensarci bene, non rientrava nella norma. Ma le dispiaceva? Non proprio, o comunque doveva pensarci…. Andò negli spogliatoi adiacenti alla sala per cambiarsi: portava sempre con sé il necessario per le ore di danza. Rientrò nella sala. Le sue scarpette producevano un bel suono caldo sul legno del pavimento. Non potendo utilizzare il pianoforte si diresse verso l’impianto stereo e diede un’occhiata ai cd che aveva a disposizione: Mozart, Beethoven, Bach, Chopin. Avrebbe preferito poter usare il pianoforte e danzare su quelle sinfonie suonate da abili mani, ma si poteva accontentare. Mise una melodia a caso, si guardò allo specchio e cominciò a ballare. Un passò dopo l’altro,leggera, precisa; un salto, un volteggio, un altro salto e poi giù: una spaccata perfetta. Si guardò allo specchio, un po’ accaldata: era una spaccata davvero buona, forse troppo. Doveva cambiare…. Ritornò all’impianto stereo, cercò tra i cd qualcos’altro: tutte sinfonie. Uff ,pensò. Le piaceva la musica classica, ma ora non era quello che voleva. Frugò nel suo zainetto ma trovò i soliti vecchi cd di sempre, o quasi…. Cos’è questo?, si chiese. Aveva tra le mani un cd senza nome, in una custodia del tutto priva di indicazioni o etichette. Non sembrava uno dei suoi ma decise di provarlo. Lo mise nello stereo: una voce limpida cominciò a cantare, accompagnata da dolci e delicate note. Incantata da questa soave melodia ritornò a frugare nel suo zaino ed estrasse una delle cose a cui teneva di più: la palla di sua madre, l’attrezzo ginnico che, come lei, preferiva e con il quale aveva dimostrato, per la prima volta quando aveva cinque anni, di avere lo stesso talento della madre. Prese la palla e si posizionò al centro della sala. La guardò: era stupenda, di un nero intenso, completo e profondo. Bella e semplice. Ci giocherellò con la punta delle dita, la fece roteare lungo le braccia come faceva sempre e cominciò a muoversi o , come le diceva sempre sua madre quando era piccola, ad esprimersi. La musica ignota cambiò, il ritmo divenne più veloce, aggressivo, martellante: questo cambiamento la faceva ansimare violentemente, ma non si fermò. Anche le parole cambiarono; e la voce, da delicata quale era divenne roca e profonda. “Un angelo disperato, accasciato su un’altura; un angelo depravato, cacciato dalla Luna. Un cuore che ha peccato, circondato da passionali mura; quel cuore è stato ucciso, da un’entità più pura.” Che parole strazianti e stupende,pensò Liss. Non aveva mai ballato così intensamente e non pensava l’avrebbe mai fatto; ma quella musica era così trascinante da farle perdere la cognizione del tempo. Come svegliata da un bel sogno istintivamente guardò l’orologio: era troppo condizionata da quelle lancette che segnavano il trascorrere delle ore e che la informavano che il tempo a sua disposizione era finito. La sua matrigna la stava aspettando…. Nella fretta lasciò lì il suo nuovo e misterioso cd, mentre le note che ancora risuonavano ben presto non riuscirono a raggiungere più le sue orecchie…. “Basta –urlò –non ne posso più!”. Salì in camera sua, sbattendo le porte,e si gettò sul letto. Era successo ancora una volta . Ancora una volta era stato umiliato . Ancora una volta decine di sguardi lo avevano deriso, decine di bocche avevano bisbigliato alle sue spalle e ancora una volta non era passato inosservato. Ma perché? Se lo chiedeva ogni dannatissima volta che succedevano queste cose, senza mai saper rispondere. Si alzò di scatto, tirò un pugno contro la parete: si fece male, ma non importava. Si guardò allo specchio: “Cosa aveva di diverso?”. Si analizzò intensamente per cercare di capire cosa non andava, ma in un primo momento non trovò nulla di male. Era alto, forte e scattante. Giocava a basket quindi i suoi muscoli erano ben sviluppati, ma non troppo. Aveva la pelle nera come tutti i ragazzi nella sua scuola e, come la maggior parte di essi portava i capelli acconciati in tante ciocche arrotolate che imitavano un po’ le capigliature dei rasta. Non era particolarmente bello, ma di sé apprezzava in particolare gli zigomi alti, la bocca perfettamente simmetrica e ben definita e il pizzetto, che ostentava quasi con orgoglio. Allora cos’è che non andava?. Per un atto l’aveva quasi dimenticato, ma ben presto vide i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi grigi. Una lacrima li bagnò. Era per questo che tutti lo guardavano, bisbigliando alle sue spalle; era per questo che tutti lo additavano e lo conoscevano come “il ragazzo dagli occhi di ghiaccio”. Per quegli occhi, simili a pietre preziose tra la terra,ora viveva nel vecchio ranch fuori città di suo zio, un luogo sicuro per fuggire dalla realtà aspra di tutti i giorni, ma anche una prigione il cui custode era la solitudine, accompagnata dai continui impegni che il fratello di sua madre affrontava ogni giorno. Era per quelli che suo padre non lo aveva riconosciuto, e sua madre si era tolta la vita, avendo dato alla luce un figlio non voluto: Sirius. “Basta!” gridò nuovamente:non poteva continuare così. Tirò un pugno allo specchio, distruggendolo. Si tagliò, del sangue cominciò a scorrere lungo un dito ma non importava. Si fiondò sul letto, tastò il pavimento sotto di esso ed estrasse il basso. La musica era come lui: speciale. La musica non lo avrebbe deriso, umiliato , schernito. La musica l’avrebbe calmato. Si mise accovacciato in un angolo e cominciò a suonare. Amava quello strumento, adorava il suono che produceva. Fece vibrare le corde, premette i tasti e le note cominciarono a riempire la stanza, la sua mente, i suoi pensieri. Note calde e profonde, toccanti, quasi sensuali: una sensazione sublime. Poi le note furono messe in ordine e dal basso uscì una melodia ben definita: cominciò a cantare. La sua voce era limpida e penetrante, la canzone che aveva scritto bella e struggente: “Un angelo disperato, accasciato su un’altura, un angelo depravato, cacciato dalla Luna. Un cuore che ha peccato, circondato da passionali mura; quel cuore è stato ucciso, da un’entità più pura.” Era soddisfatto delle parole che aveva scritto, gli piaceva la musica che aveva composto. L’ aveva addirittura registrata. Non per farla ascoltare a qualcuno, era chiaro….solo per conservarla nel caso un giorno l’avesse dimenticata. Solo per questo motivo. D’altra parte sarebbe stato troppo imbarazzante farla ascoltare a qualcuno…. Ora che ci ripensava quel disco andava riascoltato, c’erano un paio di passaggi da sistemare. Posò lo strumento e si mise a frugare nello zaino, inutilmente. Il cd non c’era e non sapeva dov’era finito. Eppure era sicuro di averlo riposto lì. D’altronde non lo avrebbe mai lasciati in giro ne tanto meno dimenticato da qualche parte. Frugò di nuovo nello zaino: una macchia rossastra l’aveva sporcato. Si guardò la mano: la ferita che non aveva curato si stava infettando. “Merda” non riuscì ad evitare di dire.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Guardò l’orologio. Era in ritardo di due minuti ma se avesse corso, se le sue gambe fossero state più veloci, ce l’avrebbe fatta. Prese per il bosco: il sentiero era più difficoltoso per la sua bicicletta ma non poteva prendere la strada, per quanto secondaria che fosse. Non si era cambiata ed aveva ancora il tulle, gli scaldamuscoli e le scarpette con i nastri ormai sciolti, per i quali poteva rischiare di cadere da un momento all’altro. Tutto rigorosamente in nero. Anche per questo era “diversa”. Tutte le sue compagne volteggiavano su candide scarpette, tulle dai colori pastello e nastrini rosa…..ma a lei non andava affatto. Si sentiva ridicola, vestita di bianco e rosa, come una bomboniera. Voleva essere diversa, unica…. E tra i bianchi era l’unico cigno nero.
Diede un’altra occhiata all’orologio. Segnava che aveva perso altri preziosi minuti: l’odiò come non mai, pur essendo solo un oggetto; e pensò di sbarazzarsene, prima o poi. Continuò a pedalare, ormai allo stremo delle forze. Raggiunse il cuore del bosco e girò a destra; scese per un breve pendio….la casa era vicina. Una manciata di minuti e la vide: pedalò più forte che poté. Raggiunse il cancello e lo aprì con un calcio, abbandonando a terra la bici: poi corse verso l’ingresso, se pur con una certa cautela. La sua matrigna non l’aspettava minacciosa sulla porta, il che era, oltre che insolito, a dir poco straordinario. Prese allora la sua copia delle chiavi ed aprì, cacciando dentro solo la testa ricciuta. Nessuna presenza, amica o nemica, si mostrò. Entrò e si guardò in torno ma tutto era in ordine. Allora si diresse verso lo studio del padre: se qualcuno voleva lasciare un avviso, lasciava sempre un biglietto lì. Scrutò la scrivania di noce intarsiato ma nulla attirò la sua attenzione: ogni cosa era posta nel solito, austero ordine di suo padre.
'Mah',pensò. Era insolito che la casa fosse vuota a quell’ ora, ma non impossibile. Il padre era al lavoro, e la matrigna probabilmente era da qualche amica per uno scambio di opinioni poco obbiettive su nessuno in particolare, ma su tutti in genere. Si rilassò e decise di concedersi una doccia rigeneratrice. Una scala la separava dalla sua camera e dal suo obbiettivo, ma non fece in tempo a salirla. Al terzo gradino il telefono squillò.

Si asciugò la mano: il sangue non usciva più. Bene,pensò. Avrebbe fasciato il dito così da non avere problemi con le corde del basso ne tanto meno con il basket. Si tranquillizzò.
Ma si sentiva ancora affranto per quanto era successo, e fasciare quel dolore non sarebbe stato possibile. Allora che fare? Doveva continuare ad andare a scuola, certo, non poteva rifiutarsi; ma ogni giorno era destinato a diventare sempre più straziante per lui. Sapeva di non passare inosservato così come era pienamente consapevole che ogni giorno qualcuno avrebbe ipotizzato sul colore dei suoi occhi, o che qualcuna ipocritamente avrebbe finto di trovarlo affascinante per attirare l’interesse di ragazzi gelosi. L’odio che provava per queste persone era particolarmente profondo, a dispetto della loro considerazione.
“Stupide galline saltanti- esclamò, senza cercare di trattenersi- con i vostri altrettanto stupidi bambocci gonfiati”. Anche lui giocava a basket. Anche lui sudava in campo, scartava gli avversari, agile, scattante, preciso, e raggiungeva la meta e saltava e schiacciava e colpiva e segnava! Ma non era acclamato. Nessuna ovazione per Sirius, il “ragazzo dagli occhi di ghiaccio”. Invidia? Forse,pensò. Non gli dispiaceva avere una ragazza, ma non voleva certo una di quelle majorette ululanti…. Stava già pensando alle fattezze della sua ragazza modello quando lo squillo del telefono interruppe, fortunatamente, le sue fantasie.

“Qui Lucrezia Thornton. Chi parla?”disse Liss, la cornetta in mano.
“ Pronto, chi è?” risposerò dall’altro capo. Liss si chiese se aveva sentito bene. Dall’altra parte qualcuno le aveva porto la stessa domanda, come se stesse ricevendo lui stesso la telefonata. Era forse uno scherzo?.Non ne era del tutto sicura. La persona dall’altro capo aveva una voce sicura e ferma, come convinta di rispondere al telefono. O aveva a che fare con un bravo attore?. Cercò di capire chi fosse, ma non ci riuscì. Aveva sentito una voce maschile e roca, ma giovane. Probabilmente un ragazzo ma non era mai capitato che un ragazzo la chiamasse, prima d’ora…. La risposta comunque arrivò inaspettatamente dall’apparecchio opposto.
“Allora, si può sapere con chi è?”. Chiunque aveva parlato si stava spazientendo.
“Sirius, sono tornato” sentì, ma impaurita riattaccò subito.

“Sirius, sono tornato!”.
Sirus si voltò di scatto, abbandonando al suolo la cornetta. Qualcuno, dalla voce molto familiare stava rientrando, finalmente….
“Zio Chris, sei tornato!” esultò. Suo zio, il fratello di sua madre, l’unico a cui non importava il colore dei suoi occhi ne il perché della sua nascita, l’unico che non aveva avuto la codardia di abbandonarlo, era finalmente tornato a casa.
“Ehilà, quanto entusiasmo!”rispose lui, abbracciandolo. I suoi occhi ancora giovani, nonostante la sua età adulta, sorridevano più che mai.
“Per forza- rispose Sirius giustificando, un po’ imbarazzato, il suo affetto- non ci sei mai!a proposito, come mai a casa così presto? Avevi parlato di un mese, anche due; e invece ti ripresenti a casa solo dopo due settimane. Qualcosa non va?”.
“Ma tu non eri contento di vedermi? –lo rimproverò Chris, fintamente offeso- comunque, niente di grave. I miei impegni hanno richiesto meno tempo del previsto, così sono tornato a casa prima. Perciò prendi di corsa la giacca: stasera si festeggia.” E detto questo si diresse in garage, a scaldare la vecchia auto, rimasta ferma troppo a lungo.
Sirius lo guardò allontanarsi sprizzante energia da tutti i pori. Non era molto convinto, ma ora che lo zio era lì non voleva rovinare l’evento con un interrogatorio. Le spiegazioni e avrebbe lasciate al giorno dopo. Prese la giacca e uscì di casa, finalmente felice per qualcosa.

“Che scherzo idiota!”esclamò Liss. Aveva sentito qualcuno che urlava e, istintivamente, aveva riattaccato. Cercava quindi di dare una spiegazione a quanto successo sperando, al tempo stesso, di giustificare la sua paura. Ma non era proprio sicura si fosse trattato di una burla telefonica. Come aveva intuito prima, la persona dall’altro capo del telefono sembrava aver semplicemente risposto ad una chiamata, così come aveva fatto lei. Lo dimostrava il fatto che improvvisamente qualcuno aveva gridato. Non che divertirsi alle spalle degli altri fosse il suo passatempo preferito, certo; ma non era difficile intuire che, se qualcuno aveva davvero avuto l’intenzione di prendersi gioco di lei, certamente prevedeva di avere il massimo silenzio per non lasciare eventuali indicazioni a suo sfavore. Mentre, dall’altro lato nessuno si era preoccupato di tenere la voce bassa, anzi. Che cosa, poi, aveva sentito, non lo ricordava con precisione. Qualcosa del tipo Sono tornato o era 'Sono a casa, Sirius?'.
“Sirius!” disse, quasi urlando. Perché non ci aveva pensato prima? La persona dall’altro capo del telefono si chiamava Sirius!. Ma questo non l’aiutava. Non conosceva nessuno con quel nome ne, tanto meno qualcuno che, a giudicare dalla voce, doveva essere abbastanza giovane. Aveva almeno bisogno del cognome per rintracciarlo, senza contare che poteva aver chiamato da chissà dove. O forse l’avrebbe rintracciata lui. Se non ricordava male, aveva pronunciato il cognome della casa rispondendo al telefono, come si conviene. Maledisse per una volta la sua buona educazione: l’idea che lui potesse rintracciarla le metteva addosso una certa agitazione.
Però, che strano,pensò. Non aveva mai pronunciato il suo nome di battesimo rispondendo al telefono. In realtà non lo aveva mai pronunciato in presenza di estranei, in vita sua. Abituata com’era a sentirsi chiamare ‘Lucry’, faceva già tanta fatica ad imporre il diminutivo che lei aveva scelto. Farsi chiamare ‘Lucrezia’, poi, era un’impresa a dir poco impossibile.
Il suono del campanello di casa la distolse bruscamente da questi pensieri, annunciando che qualcuno era rientrato. Sperava fosse suo padre ma, a giudicare dall’insistenza, doveva essere la matrigna.
Con un sospiro molto profondo andò ad aprire la porta mentre senza rendersi conto cercava di non dimenticare quel nome.

Inserì la chiave nella serratura e aprì la porta: erano le due di notte e solo ora stava rientrando da una lunga serata passata in un locale con lo zio. Avevano festeggiato alla grande. Soprattutto Chris, che ora dormiva felicemente ubriaco. Aveva bevuto così tanto da costringere il nipote a guidare fino a casa. E il lavoro non era finito lì.
Se lo prese in spalla e lo portò in camera sua, per farlo riposare bene. Era troppo tardi per preparare un altro letto, e lui poteva benissimo dormire sul divano: era il minimo che poteva fare, per ringraziarlo della serata. Prese una coperta e guadagnò il salotto, ma nel buio della sala quasi si ammazzava. Qualcosa lasciata per terra l’aveva fatto inciampare e si era salvato solo grazie alla posizione provvidenziale del divano. Trovò a tastoni l’interruttore della luce e lo accese: a terra c’era la cornetta del telefono.
Se ne era dimenticato, ma ora ricordava perfettamente quanto successo: il telefono aveva squillato e lui aveva risposto, ma anche dall’altra parte qualcuno aveva chiesto chi fosse. Una voce femminile, lo ricordava bene, aveva chiesto con garbo chi c’era al telefono.
Afferrò la cornetta abbandonata e l‘accostò all’ orecchio, senza motivo apparente. Come minimo chiunque fosse aveva chiuso da un bel po’. Riagganciò.
Si sdraiò sul divano e cominciò a pensare. Era sicuro di aver udito una voce femminile per di più giovanile…probabilmente era una sua coetanea.
Dava quasi per scontato, inoltre, di aver sentito il suo nome e il suo cognome anche se al momento non lo rammentava. Si sforzò di ricordare ma il sonno prese il sopravvento.
“Lucrezia”sussurrò mentre le palpebre si facevano pesanti.

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Capitolo 3
*** 3 ***


“Lucrezia Thornton, vieni subito qui!”. Liss si svegliò di soprassalto: qualcuno l’aveva chiamata usando, per di più, il suo nome di battesimo. Stava ancora sognando?.
“Lucrezia, scendi immediatamente!”. No, non stava proprio sognando. Qualcuno la stava chiamando e inoltre era spiacevolmente consapevole che quel qualcuno era la sua matrigna. E, a giudicare dal tono, era successo qualcosa di grave. Pensò. Cosa aveva combinato negli ultimi tempi?. Non le veniva in mente niente, a meno che….
“Lucrezia, ho detto scendi!” tuonò per la terza volta la matrigna e Liss fu costretta ad obbedire. Aveva capito che la sua ultima verifica scolastica e la Grownaz c’entravano qualcosa; così mentre scendeva le scale cercava come farla franca.
Arrivata sull’ultimo gradino trovò la matrigna, gli occhi neri che la fissavano. Non aveva più tempo per escogitare qualcosa così cominciò a parlare a vanvera. Disse che quel tema era assurdo, che non sapeva cosa scrivere, che la prossima volta avrebbe saputo fare di meglio….br> “Ma che diamine vai blaterando!”la interruppe la donna. “Hanno chiamato da scuola: qualcuno ha lasciato un disco nello stereo della sala da ballo e il custode giura di aver visto te!”.
È solo questo?pensò sollevata. Davvero nessuno l’aveva punita per quello che aveva scritto?. Incredibile…
“Ma ti rendi conto che figura abbiamo fatto? E siamo fortunati che le donazioni di tuo padre bastano a non farci pagare uno stereo nuovo o peggio, a farti espellere! Ora corri a scuola: si aspettano le tue scuse e …”.
Non se lo fece ripetere due volte. Era sabato, e se c’era un modo per sfuggire alle grinfie di quella donna per un paio d’ore avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche andare a scuola nel fine settimana.
Corse su per le scale ed andò a cambiarsi: era così contenta di non esser stata ancora scoperta e di dover passare del tempo in meno con la sua matrigna che si vestì di nero. Le piaceva vestirsi di nero, come quelle “dame gotiche” che spesso comparivano nei racconti noir e, a volte, si sentiva una di loro. Le piaceva inoltre nascondersi in lunghe gonne nere plissettate e in maglie dello stesso colore, con gli orli delle maniche di pizzo scuro.
Fu proprio ciò che fece. Indossò una lunga gonna dalle ampie falde, un maglioncino dal collo alto e gli stivali al ginocchio: la matrigna non sarebbe stata contenta. Diceva che il padre la riempiva di vestiti nuovi. Quindi, perché indossare quella robaccia nera?. Ma Liss non se ne curava. I vestiti che suo padre, sotto suggerimento- come se non lo sapesse- di quella donna, la rendevano simile a tutte le sue coetanee. E lei non voleva paragonarsi a nessuno.
Si specchiò, e la sua immagine riflessa le diceva che non era male. Soprattutto i suoi occhi erano stupendi, messi in risalto da tutto quel nero. Ma le mancava qualcosa…. Scese le scale e corse nello studio del padre, sperando in una sua assenza. Non doveva fare nulla di male, ma era preferibile che nessuno, per diversi motivi , la vedesse. Entrò nell’ampia stanza e si diresse verso la libreria più piccola, sulla parete occidentale. La spostò, con notevole sforzo, di mezzo metro e spinse il muro retrostante: un pannello mimetizzato con il muro rivelò uno spazio vuoto. Quella era la parte più bella della casa, nonché l’unica di cui la compagna di suo padre non era a conoscenza. Chissà che pandemonio se avesse saputo che i vecchi ricordi di sua madre non erano stati buttati ma conservati in quella mansarda ora segreta. Meglio evitare, e in questo suo padre era d’accordo.
Attraversò il pannello e salì la piccola scala a spirale che conduceva alla soffitta. Una volta dentro si collocò nel centro e cominciò a contemplarla come faceva sempre, lasciandosi riscaldare dai raggi del sole che filtravano dal lucernaio impolverato.
“Lucry, dove sei?” udì, rabbrividendo. Stavolta, però non avrebbe avuto tempo di pensare.
Andò decisa verso un piccolo tavolo da caffè in un angolo e prese un pacchetto di carta. Poi si precipitò giù dalle scale, chiuse il pannello, spostò la libreria….
“Ah, sei ancora qui!” – sobbalzò nel sentire quella voce già così vicina- “Vuoi sbrigarti o no?”fece la matrigna. “E cos’è quella roba che ti sei messa?”. Non le diede il tempo di proseguire con le lamentele. “Si, ora vado” ,tagliò corto. Poi prese un libro per giustificare la sua presenza nello studio e scappò via. Prese una borsa nell’ingresso, ci ficcò il libro dentro e, una volta arrivata alla bicicletta, cominciò a pedalare. Non si fermò finché non raggiunse il bosco e solo quando superò di molto il limitare, si fermò a riprendere fiato. Un tuffo al cuore l’aveva colta quando la matrigna era comparsa nello studio senza preavviso; e ora sperava non si fosse accorta d nulla. Riprese fiato e si calmò.
Probabilmente la curiosità della matrigna era sfocata quando aveva finto di interessarsi ad un libro…. Lo ricacciò fuori, giusto per vedere qual’era stata la sua scelta: si ritrovò in mano un volume vecchio e un po’ logoro. Alcune parole del titolo mancavano e, aprendolo, non riconobbe gli ideogrammi delle parole scritte a mano. Probabilmente una lingua arcaica ormai morta,pensò. Più tardi avrebbe chiesto maggiori illustrazioni a suo padre. Lo ripose e frugò nuovamente nella borsa. Stavolta prese il pacchetto di carta che aveva prelevato dalla soffitta- se ne era quasi scordata- e lo aprì delicatamente: un paio di guanti neri dalle dita mozze e dal taglio maschile fece capolino in un contrasto sconvolgente con il delicato involucro.
Erano un paio di vecchi guanti da motociclista che sua madre usava per andare a cavallo. Un uso insolito senza dubbio, aveva pensato più volte. Ma lei era fatta così…. Li indossò con evidente soddisfazione e ripartì. Si sentiva più sicura, così….

La sveglia suonò inaspettatamente. La spense con un pugnò. Era sabato mattina, la sveglia aveva suonato, lui era sveglio, erano solo le sette e aveva dormito sul divano. 'Peggio di così',pensò.
Buttò a terra la coperta e si alzò: una volta sveglio era difficile si riaddormentasse. Decise di fare colazione ed entrò in cucina. Sul tavolo c’era un biglietto.
Suo zio era di nuovo partito, lasciandolo di nuovo solo. Ma fortunatamente erano nello stesso continente.
'Londra',lesse. Una città che conosceva bene. Forse stavolta la casa non sarebbe stata desolante troppo a lungo. O così sperava….

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