in Vento et rapida Aqua

di Lady Antares Degona Lienan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Non c’era riposo quella notte. Costretto a credere a verità più grandi di lui e a teoremi il cui senso sfuggiva alla propria mente si agitava inquieto nel suo letto. La realtà cui aveva sempre affidato la propria vita era costretta a ripiegarsi su di un nuovo modello: un altro lancio di dadi. Le lettere dell’Onorabile Eloise s’infrangevano contro i suoi occhi, cozzavano con il ritmo quieto della sua esistenza; sarebbe stato errato dire che aveva avuto paura: più di una volta lui e Sophia avevano errato, seguiti da Jordan, lungo le vie della città, incauti e sconsiderati. Solo adesso capiva i rischi cui erano andati incontro. E adesso? Adesso che non poteva più trovar coraggio nella mascella ben fatta di Jordan, adesso che Sophia non era con lui, adesso aveva paura. Chinò il capo verso le proprie mani e cercò di non piangere.

 

in Vento et rapida Aqua

Prologo

 

 

Quando si sforzava, riusciva a ricordare: suoni, colori, forme della sua infanzia; attimi rubati a un passato che non gli apparteneva più, cancellato dall’abbandono. Curioso come la sua mente creasse immagini tanto vivide, non essendo lui in grado di maneggiare nemmeno un carboncino. Ogni qual volta che tornava con la mente agli istanti dell’addio, un enorme portone si schiudeva davanti a lui lasciando passare alcuni raggi di luce. Il respiro sincopato di una donna, forse sua madre. Un sopracciglio curvo, forse suo padre. Un sorriso gentile, forse una Sorella – Suor Leticia, che lo aveva tenuto stretto a sé nelle prime notti?

Per arrivare a dei fotogrammi completi, tuttavia, doveva spingersi oltre, oltrepassare il portone e camminare a lungo. Lì, lì dove la strada che aveva seguito sfociava in una stanza buia, lì giaceva il ricordo più caro, e più profondamente custodito.

Lo avevano tenuto per un paio di giorni isolato, per verificare che fosse in salute – ma questo lo capì solo più tardi, con il passare degli anni. Quando lo portarono a conoscere gli altri bambini orfani si nascose dietro la gonna scura di Suor Leticia sperando di sparire al suo interno, di diventare invisibile, di tramutarsi in stelo d’erba e passare il resto della sua vita a piegarsi dolcemente con il vento e a farsi calpestare da piccoli piedi: ovviamente il miracolo non avvenne – forse era troppo presto per ricominciare a sperare in qualcosa - e si ritrovò davanti ad una schiera di ragazzini dai denti mancanti e i capelli spettinati. Uno in particolare lo spaventava: aveva gli occhi azzurri e una zazzera bionda dai riflessi opachi. Julian si vide specchiato in quei cerchi d’acqua e provò una sensazione terribile – come se qualcosa gli stesse stringendo lo stomaco per indurgli dei conati di vomito. Il bambino biondo lo stava fissando, il mento in alto e il naso svettante sul viso tondo. « Julian, questo è Alexander. »

Attimi di silenzio. « Salutalo, avanti. Alexander, lui è Julian. È nuovo e non conosce nessuno: puoi fare in modo che non si senta solo? »

Julian sperò con tutta l’irrazionale spinta emotiva di cui gli infanti sono capaci: sperò che il bambino dagli occhi azzurri lo degnasse appena di uno sguardo, annuisse di fronte alla richiesta di Suor Leticia e lo lasciasse poi in pace. Voleva esplorare il luogo e voleva farlo da solo. Alexander tuttavia gli tese una mano piccola e delicata e lo invitò a stringergliela. « Ciao. », gli disse. « Ciao. », rispose lui affidando la sua mano in quella dell’altro.

Fu in quel momento che la vide, seppur in un primo istante solo con la coda dell’occhio e per una manciata di secondi. Poi Alexander lo strattonò a sé portandolo verso la sua piccola cerchia di amici. Poteva essere un caso o una scelta mirata, ma tutti i ragazzini avevano gli occhi chiari. Julian deglutì, lanciò uno sguardo indietro, verso la Suora, ma quella se ne stava andando come una barca con il vento in poppa: non aveva scampo. « Io… » disse. « … io. Vado di là! »

Si girò, in un mezzo tentativo di fuga che terminò ai piedi della bambina che aveva notato prima. Era bellissima, china sulle ginocchia mentre stracciava delle violette riducendole a solo un gambo e qualche coriandolo colorato. Quando alzò gli occhi su di lui Julian si accorse di star fissando l’ennesimo paio di imbarazzanti occhi cerulei. A disagio, quasi fosse un escluso – escluso dai giochi ancora prima di potervi partecipare, in ultima analisi – si adagiò sull’erba accanto a lei, seguito in ogni suo gesto da quello sguardo attento. « Chi sei? »

« Mi chiamo Julian. »

« Io sono Sophia. Da dove vieni? »

« Da Aldenor. »

Sophia rise stringendo nelle mani i petali del fiore che aveva appena distrutto. « Qui siamo ad Aldenor, sai? » disse, canticchiando e volgendo lo sguardo verso il roseto.

« Non ti piacciono i fiori? »

« Mi piacciono le rose. »

« E gli altri fiori? »

« Non hanno un buon profumo, sai. S’infila su per il naso e non esce più. Le rose hanno un profumo fortissimo ma che svanisce subito. »

Julian raccolse le ginocchia al petto e vi si rannicchiò sopra. La bambina parlava di cose strane, di profumi e faccende da femmina, per cui non si sprecò ad ascoltare ciò che lei stava dicendo. Quando una farfalla colorata si posò sul dito medio della mano destra perse completamente il filo del discorso, finendo catapultato in un universo dalle mille sfumature. Si riebbe solo quando la farfalla fu spazzata via da una folata improvvisa di vento. Sophia cantava una buffia melodia. Gli lanciò un’occhiata in tralice: Julian la colse solo grazie ad un lampo d’azzurro che gli fiocinò la testa. Alla bambina non piaceva essere ignorata.

« Scusami! », disse, « Ma era una bella farfalla. Comunque siamo amici, no? »

La bambina ripiegò un paio di volte le palpebre sulla cornea e sull’iride, poi si buttò le violette alle spalle. « Non mi piacciono le violette. A me piacciono le rose. E quella farfalla non era colorata, era grigia. Così grigia da sembrare uno spettro. »

« Portami una rosa, se vuoi essere mio amico. », gli disse mentre camminava verso la casa dei bambini. « Una rosa del roseto bello. »

A Julian non servirono spiegazioni per indovinare che nessun bambino del Monastero di Nostro Signore della Selva (Sheliak) sarebbe dovuto entrare in quel giardino.

 

 

 

 

 

 

 

Non sono un’amante delle note, siano esse a inizio o fine pagina, per tanto non mi dilungherò: del passato di Julian e Sophia Lord non si sa molto, così come non ci è dato sapere nei particolari il loro carattere. Mi sono attaccata alle poche descrizioni, ai pochi dialoghi, e ho cercato di dipingerli nella loro fanciullezza – adolescenza, pur prendendomi un paio di libertà riguardo le manifestazioni della discendenza di sangue. Ho scelto di trattare questi due personaggi perché adoro Julian e perché egli ha avuto un effimero momento di gloria in cui ho erroneamente pensato che fosse lui l’erede Blackmore. Sophia veniva da sé!

Non so assolutamente come siano gli ordini dei Monasteri nel mondo dell’autrice: io ci ho messo delle suore, ma non è che sia molto sicura. Nomino spesso dei Cartigli e degli strumenti usati nel nostro mondo, non sapendo bene cosa usare o inventarmi. I capitoli sono divisi in due tipologie. Passato / presente, stesso tempo prima e dopo il prologo, due capitoli per ciascuna tipologia. Mi piaceva l’idea della simmetria, e così avevo modo di seguire bene la sottocornice del presente a cui ho dato ampio spazio nel capitolo due, che è diciamo il passaggio di testimone tra custode passato e custode presente.

Questa storia partecipa al concorso indetto da Mirya sul forum di Efp. La rosa ne è il tema dominante. Rispetto al prologo inviato ho corretto solo due refusi (in cui il povero Jordan era stato chiamato Julian così, a furor di popolo). Ho cercato di allontanarmi il più possibile dallo stile dell’autrice, ma non è che la cosa mi sia riuscita benissimo, soprattutto nel primo capitolo: forse quello sarà ricorretto e cambiato maggiormente. In ogni caso vi rimando alle prossime note per varie ed eventuali. Prossimo aggiornamento domattina /stasera.

Il titolo riprende un passaggio dei Carmina di Catullo, ma mentirei se dicessi di ricordarmi con precisione quale.

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Per rammentargli che non l’aveva dimenticato gli inviò una rosa. Si permise di sorridere appena al pensiero di quel gesto: involontariamente gli aveva richiamato  alla memoria il seguito di quel filo di pensieri che si era perso a riordinare qualche giorno addietro. Strinse la rosa nel palmo della mano (non prima d’aver avuto la malizia d‘osservare bene la disposizione delle spine) e con essa serrata tra il petto e il palmo camminò a lungo nella stanzetta. Un ritratto suo e della sorella era poggiato delicatamente sul tavolo in legno di noce. Sophia sorrideva di quel sorriso che solo lei sapeva produrre, un misto tra una smorfia di furbizia e un’espressione dolce come il miele prodotto viaggiando tra centinaia di fiori. Era un ritratto che la mostrava per com’era veramente: una ragazza piena di accortezze verso il prossimo, ma non così ingenua da non guardarsi le spalle. Una Blackmore, dunque. Una Blackmore nel gestire gli avvenimenti e nelle passioni, così forti e certe, che pure si mitigavano in sua presenza; gli piaceva pensare di aver reso Sophia un po’ meno Blackmore e un poco più Lord, in quegli anni. Gli parve una sciocchezza, una follia da innamorato, ma fu certo di veder la rosa schiudersi nella mano: il suo profumo lo penetrò come una lama, come uno sguardo dell’adorata sorella. Forse amarla così non era abbastanza.

 

 

 

 

in Vento et rapida Aqua

Capitolo Primo

 

 

Si teneva in quell’inizio di primavera l’undicesimo Palio della Rosa del Monastero di Nostro Signore della Selva. Stendardi colorati a tinta unita splendevano dalle piccole finestre della costruzione in mattoni, ciascuno simbolo di Casata. Il cielo scevro d’ogni nuvola scura era di un colore talmente vivo da non poterlo guardare. Alcuni ragazzini osservavano il sole nel riflesso che esso produceva in una tinozza mentre le donne spargevano teli lungo il prato del Monastero, concedendo così a tutti l’occasione di sedersi e godere dello spettacolo. Il sidro scorreva. Era ormai tradizione che i dieci villaggi si riunissero in Casate per gareggiare in tale occasione: dunque il Palio della Rosa contava dieci squadre, undici con quella formata dai ragazzi del Monastero. La politica del Reggente di Aldenor aveva portato a un’improvvisa riduzione degli abbandoni di fanciulli, cosicché ormai i ragazzi ospitati dal Monastero andavano rapidamente diminuendo; il gruppo principale rimaneva quello dei bambini di dieci anni prima, ormai adolescenti, capeggiati da Alexander Lord, Mastro di Casata, e da Julian Lord, Cavaliere del Palio. L’unica Dama rimasta per cui gareggiare era Sophia Lord, scontrosa ragazzina dai meravigliosi capelli neri. Era appunto verso di essa che il Cavaliere del Palio si stava dirigendo, impettito nella sua uniforme azzurra cucita con affettuosa premura dalle Suore. « Mia Dama! », urlò scherzosamente, « Concedetemi una delle vostre mille ciocche di capelli, sicché la fortuna possa assistermi ancora una volta di più! »

Sophia chinò appena il capo per dissimulare un gorgoglio divertito: quando tornò a guardare Julian negli occhi si specchiò nel medesimo sorriso cortese e galante che egli era solito rivolgerle quando le parlava; le guance le si colorarono di rosso e il viso si scaldò appena. Finalmente, non potendo più sottrarsi a quegli onesti occhi castani che la fissavano con ostinazione, scoppiò a ridere appoggiandosi alla sua spalla. « Mio Cavaliere! », disse raccogliendo il testimone che le era stato porto, « Se v’avessi donato una ciocca di capelli per ogni volta che me l’avete chiesta, state pur certo che adesso parlereste con una ragazza calva! »

« Non potete rifiutarmi un simile pegno! Io sono il Cavaliere del Palio per il Monastero di Nostro Signore della Selva, e Campione del Palio della Rosa dell’anno precedente. Sarebbe un’inaudita crudeltà da parte vostra farvi burle di questo mio bisogno. Tutto il regno riderebbe di me, se cadessi sconfitto! »

« Mio buon Campione, errate nel confidare nel fato, poiché esso non vi tenderà la mano per sempre. Ora andate, il Palio sta per iniziare. »

Julian passò un dito tra la pelle e la scollatura dell’uniforme, agitandosi appena. « Sophia, ti prego, devi darmi un po’ di capelli: ho scommesso con Alex che ne avrei avuti in dono. E se perdo a vantaggio di Ludwig del villaggio di Lunor non uscirò mai più dalla mia camera! »

« Suvvia Julian! », rise Sophia poggiandogli la testa su una spalla. « Facciamo così, ho toccato con i miei capelli la vostra uniforme: dovrebbe andar bene uguale. I veri Campioni sanno fare di necessità virtù. Inoltre non perderai mai con Ludwig di Lunor, perché quell’uomo è grasso come un cinghiale nel periodo autunnale, e tu sei dieci volte più veloce di lui! »

« Oh andiamo Sophia, non puoi essere così crudele! »

« Julian… »

« Nemmeno se ti tento con un abbraccio caldo e rigenerante? » Così dicendo la prese tra le proprie braccia e la strinse a sé, respirando appena nel suo collo: rose rosse, come sempre. Attese qualche altro istante, giusto perché la ragazza cominciasse a sentirsi in effettivo imbarazzo. Quando la sentì dimenarsi allentò la presa e lasciò che lei scivolasse lontano dal proprio corpo: sentì freddo, per un attimo, ma poi il sole primaverile gli aggredì la pelle. Sophia aveva le guance rosse, e quasi sicuramente non a causa del sole; la vide estrarre velocemente un temperino dal grembiule bianco del Monastero e con esso tagliarsi una piccola ciocca di capelli scuri. Sorrise, mentre gliela porgeva, e Julian non poté fare a mano di sentirsi inquieto. Sophia era una ragazza dolcissima e avrebbe fatto di tutto per lei, ma c’erano dei momenti in cui assumeva delle pose innaturalmente calme, terrificanti quasi: anche adesso sorrideva porgendogli i propri capelli, il temperino nella mano destra. La lama scintillava con la stessa intensità dei suoi denti.

« … Julian? Ma la vuoi o no? »

Sussultò. « Ah! Scusa, scusa, mi ero distratto. Grazie mille!, vincerò per te! »

Lei piegò appena il capo. « L’avresti fatto comunque! », gli urlò dietro mentre lui correva via. « E’ merito mio se esiste questo Palio, e se tu sei Campione! »

 

*

 

Quelli del villaggio di Bater avevano dato fondo alle riserve del loro più prezioso sidro, sicché ora giacevano riversi sull’erba insieme a un paio di paesani di Neut. Le rispettive donne parevano non darsi troppo da fare per rianimarli, così da poter parlare senza essere inopportunamente interrotte. Sophia ridacchiò di fronte alla scena che puntualmente si riproponeva ogni anno: fu solo grata di non dover essere annoverata tra le rianimatrici, cosa che le era invero toccata due anni addietro quando Julian aveva deciso di essere abbastanza maturo da poter bere una pinta di bevanda alcolica. Tuttavia Sophia l’aveva strattonato, insultato, poi coccolato e alla fine letteralmente posizionato tra i concorrenti alla partenza; e in conclusione il disgraziato aveva pure vinto. Aveva gioito come ogni volta, perché Julian era il suo migliore amico, suo fratello, e anche un bruciore sempre presente in fondo allo stomaco: oltretutto era per lei che ogni anno undici matti correvano tutta un’ora in mezzo all’orto botanico del Monastero, fino ad arrivare al roseto. Là bisognava cogliere la Rosa della propria Casata, e il primo a raccogliere il fiore era Campione del Palio della Rosa. Julian non aveva mai perso e sentiva che anche quest’anno non avrebbe disatteso le sue fiduciose aspettative.

Lo guardò con fare medico. Julian era un ragazzo sano e forte, e tuttavia la sua muscolatura era quasi inesistente; qualche fascio di fibre affiorava qua e là sotto la pelle, ma senza mai attirare l’attenzione. Nulla in Julian pareva minaccioso o terrificante, eppure Sophia sapeva bene che l’inganno migliore del suo amico non risiedeva nelle braccia e nelle gambe, bensì nella mente. Era un pensatore sopraffino, anche se a volte per comodità lasciava intendere di avere delle capacità modeste: quando decideva di ottenere qualcosa, tuttavia, non era possibile fermarlo. Una caratteristica, questa, che Sophia condivideva con lui – le piaceva pensare, in realtà, che crescendo insieme si fossero influenzati a vicenda, regolandosi l’uno con l’altro, eccellendo dove l’altro falliva. Se Sophia non sapeva correre veloce, Julian era una lepre cresciuta nel folto della foresta; se Julian non riusciva a mantenere la calma nei momenti più duri, Sophia era dotata di una mente lucida, affilata, che non la tradiva mai. Avevano imparato a compensarsi, a rispettarsi: e con gli anni Sophia aveva anche imparato ad amare quel ragazzo dagli occhi dolci come la torta di castagne e dal sorriso saldo. Il bruciore in fondo allo stomaco. L’oppressione intorno alla gola. La consapevolezza di non poter dire nulla, né di saper leggere nella sua testa ciò che egli provava per lei. Eppure, Julian correva con i suoi capelli nell’orlo della divisa, e vinceva per lei.

La salutò dalla fila dei concorrenti e lei riuscì appena ad agitare la mano, impensierita. Quando Suor Anna suonò con il fischietto, tuttavia, Sophia cominciò a tifare per lui e Julian, sentendo ciò, mise le ali ai piedi. Era in quei pochi momenti che il ragazzo si mostrava per ciò che era: un curioso incrocio tra un mite agnello e un predatore scaltro, poiché correva con un sorriso dolcissimo sul viso e tuttavia la precisione dei movimenti non lasciava spazio ad alcun concorrente. Al di là di ogni sua più rosea prospettiva Ludwig di Lunor gli si affiancò quasi da subito, sostenendo il ritmo con le sue gambe imponenti; Julian rallentò il passo e Sophia lasciò andare un sospiro tremulo: Julian rifiutava la competizione come prevaricazione del singolo e pertanto se posto a diretto confronto con un avversario pareva spegnersi.

« Julian, corri! », lo incitò dalla partenza, i concorrenti ancora visibili perché impegnati a percorrere i primi undici giri esterni. Quando fossero entrati nel campo interno – l’edificio adibito a giardino e serra – sarebbe stato impossibile accertarsi di persona degli esiti parziali della corsa; solo alcuni giudici costellavano il margine del tracciato per controllare la regolarità della competizione. « Corri!, se non vuoi fare una pessima figura! » lo canzonò a pieni polmoni raccogliendo la voce con le mani e direzionandola verso di lui. « Altrimenti rivorrò indietro i miei capelli! »

Accompagnato da quella scherzosa minaccia Julian s’inoltrò di slancio nelle stesse mura di recinzione che aveva scalato undici anni prima per cogliere la rosa più bella. E farne infine dono a lei.

 

*

 

Il sole gli buttava i raggi in viso. Il monastero risplendeva di una luce gloriosa e i cartigli dipinti della famiglia reale - appesi sul muro esterno per la festa - mostravano sorrisi abbacinanti. Solo la figlia del vecchio reggente – rappresentata in un disegno più modesto, anche se delizioso – esibiva un’espressione maggiormente composta e rigida. Gli occhi scuri parevano voler bucare la carta e materializzarsi nel giardino. Si chiamava Eloise Weiss. Si diceva studiasse nella grande città. Miti dicevano avesse ammaliato il principe Axel con le sue doti da strega, ma Julian non aveva mai voluto credere a simili voci: la piega delle labbra di lei era troppo simile ad un sorriso per poter apparire mostruosa.

Alzò appena il busto per osservare quei ritratti malinconici, quei figli privati dei genitori. Il sole gettava su di loro una luce aranciata, eppure non riusciva a renderli vivi; pareva quasi che i regnanti della Casa Reale di Aldenor fossero ombre di loro stessi. Si chiese se anche lui - orfano da quando poteva ricordare - fosse privo di quella luce negli occhi.

« Che fai, mio Campione? Ti trastulli sui dolci occhi di Lady Eloise? » La voce di lei lo colse di sorpresa. Voltò il capo incrociando il sorriso sfacciato di Sophia, che era piegata su di lui come un giunco appena nato, ancora acerbo. Pareva quasi che le sue labbra spaccassero a metà il viso tondo, proporzionato.

« Sophia! » esclamò. « Mi hai fatto prendere un colpo. »

« Scusa, scusami, non era mia intenzione. Non ti avevo mai visto così interessato ai Reali di Aldenor. Che c’è, improvvisamente senti dell’appartenenza? »

« Ma no. Semplicemente, mi sembrano tristi. Sai, come se avessero smarrito la capacità di vivere. »

« Julian, hanno perso i genitori. Di certo non possono essere contenti, anche se trovo che tu stia esagerando. I cartigli spesso idealizzano le persone dipinte, le cristallizzano in un attimo che non è reale. Basta poco a un pittore per modificare un’espressione, uno sguardo: forse ce li hanno voluti mostrare così, desolati, per farceli apparire più simpatici e mesti. »

« Sophia! » invocò per una seconda volta. « Non essere meschina. E anche noi abbiamo perso i nostri genitori… siamo anche noi così? »

« Meschina!, tu dici. Io penso: realista. Ma non devi rimuginarci troppo, sai? Come io non devo pensare ai fiori e ai loro odori cattivi, tu non devi concentrarti sul dolore altrui, perché ti farà male. »

Si sedette accanto a lui, passandogli una mano sui capelli castani e tirando appena con le dita per districare alcuni nodi: gli sorrise, quando lui la guardò, perché non c’era altro che poteva fare per placare il suo dolore, e con esso il proprio.

« Vedi Julian, per quanto tu desideri salvare il mondo, non sempre potrai farlo. Non sarai per sempre il Campione del Palio, e presto le sfide saranno ben più ardue del correre in un giardino per arrivare ad una rosa. E quando succederà, tu non potrai farti carico dei problemi di tutti, perché se c’è una cosa che tu non conosci, è la realtà esterna. Non capirai le altre persone con la stessa empatia di cui fai uso adesso, perché non tutti provengono da un monastero. E non tutti sono stati abbandonati da genitori che non ricordano; alcuni hanno i loro visi ancora freschi nella memoria, e memorie a cui aggrapparsi che noi non possiamo concepire. Non sapremo mai che dolore provano i Reali di Aldenor, e non siamo come loro. Non lo siamo mai stati, sai. Però anche loro hanno una famiglia attorno a cui stringersi, proprio come noi due abbiamo l’un l’altro. E Alexander, se ci pensi. »

« Sophia, io… »

« L’anno prossimo voglio frequentare lo Studium. », disse lei bruscamente. Julian rimase a bocca aperta: non ne avevano mai parlato con schiettezza l’uno con l’altro: pareva quasi essere un pensiero proibito. « Voglio imparare e conoscere un mondo nuovo. Voglio andare via dal Monastero. Voglio studiare e dedicarmi solo a questo. »

« Sophia. »

« No, ascoltami. Non voglio sapere che cosa ne pensi della mia decisione. Vorrei solo che tu mi dicessi che approvi. È importante per me. »

« Sophia. »

« E se non potessi averla dalla tua bocca, non importerebbe poi così tanto, perché so che per me desideri solo felicità. E io sarei felice, nella città. »

« Sophia. »

« Julian, ti prego. »

« Sophia, sai che verrò con te. Lo sai. »

Negli occhi di lei era ancora nascosta una sottile incertezza: tuttavia quella risposta breve e sentita le fece sorgere un piccolo sorriso ai lati della bocca. Si portò le ginocchia al petto, in silenzio, pronta ad ascoltare. « Ti accompagnerò nella grande città e ti difenderò dai pericoli: sarò la tua famiglia, e insieme cercheremo qualcuno con cui allargarla. Siamo solo noi due, adesso. »

« Sì. Sarà così. », rispose lei.

Il silenzio che calò fra di loro sapeva di decisione premeditata, di smarrimento solo apparente. Julian sapeva da tempo cosa celava lo sguardo di Sophia, e sentiva d’esser pronto.

La osservò: il sole puntava dritto nei suoi occhi blu e li animava di una luce dorata meravigliosa. Sophia aveva due cerchi perfettamente realizzati incastrati sopra gli zigomi e lui adorava immergersi in questo tipo di considerazioni: pertanto si lasciò andare alla poesia del momento. Erano occhi vivi, i suoi.

Le porse la rosa con una piccola riverenza del capo. « Ogni promessa è debito. », disse. Sophia afferrò il fiore noncurante delle spine – questo perché, per qualche curiosa coincidenza, queste non parevano nuocerle – e vi affondò il viso, inspirando a pieni polmoni. Julian vide i petali compenetrare quasi il viso di lei e aprirsi appena. Come al solito, quando si trattava di rose, Sophia compiva dei piccoli miracoli. Lo spettacolo era così bello che avrebbe potuto morirne.

« Grazie, Julian. », mormorò la ragazza. Lui annuì e, alzandosi frettolosamente, ebbe cura di posarle casualmente una mano sulla spalla, come sostegno. Sophia rise: la risata lo accompagnò fino all’ingresso del Monastero, quando infine scemò in un breve gorgoglio che gli scaldò il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho reso Julian più spericolato rispetto a come l'autrice ce lo mostra. Perchè? Semplice: i maschi quando s'esibiscono nel loro ambiente di appartenenza sono genericamente più spavaldi e fanfaroni. Sophia è un po' saputella, e sa di avere il rispetto di Julian. Per questo motivo, a volte, se lo porta in giro come un piccolo cucciolo. Nonostante tutto, però, lo adora. Oh, se lo adora.

Ho corretto un paio di frasi, accorciando la sintassi. Il Palio della Rosa, ovviamente, trae spunto da quello di Siena. Un'idea super originale, considerando che ci sono stata due settimane fa!

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


Alba. Ebbe appena modo di registrare quell’informazione quando l’odore di fiori gli schiantò la mente. Scattò a sedere, guardò prima a destra, poi a sinistra. Infine piegò il capo all’indietro e vide gli occhi più agghiaccianti di tutto l’universo osservarlo con blando divertimento.

« Curioso. », disse Ashton toccando con fare assente l’intelaiatura della finestra da cui era entrato. Il dito s’infilò in un errore di trama del legno e lo picchiettò appena. « Chi mai dormirebbe con il letto sotto la finestra? »

« Io. » rispose. Si strinse i lembi della camicia da notte addosso. « Così i ladri mi cadrebbero sopra. E potrei coglierli di sorpresa. »

 

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Capitolo Secondo

 

 

Ashton rise. « Non un ladro vampiro. » Continuava a fissare la stanza ma evitava accuratamente di guardarlo negli occhi; forse non era un oggetto abbastanza interessante. Non lo guardava. Julian evitò di pensare per troppo tempo a quanto quegli esseri potessero essere fastidiosi: probabilmente non lo dicevano a nessuno ma sapevano anche leggere nel pensiero. « Adesso siete così annoiati da buttarvi pure nelle vili pratiche umane? »

Il vampiro finalmente lo degnò di un’occhiata: ma così velocemente come il viola si era posato su di lui, altrettanto velocemente deviò verso la rosa del Palio, magicamente intatta. « Conosco storie su quella rosa. È stata Sophia a raccontarmele. Sono storie in cui hai il ruolo di Cavaliere, giovane Lord. » Fu il nome di lei a fargli vincere ogni ritrosia. Si gettò contro Ashton afferrandogli il mantello, tirandolo verso di lui. Lo avvolgeva un tale sentimento d’agonia da renderlo invincibile, almeno nella propria mente. « Come sta?! Parlami di lei! »

Se prima aveva desiderato essere fulcro dell’attenzione di Ashton Blackmore, improvvisamene sperò di diventare invisibile: non gli era mai piaciuto essere scrutato dall’alto in basso e la propria altezza non aveva favorito le circostanze. Se prima lo aveva strattonato verso di sé, adesso lo spinse via. « Scusami. », balbettò. « Scusatemi. Io… »

Un’altra risata dai toni evanescenti. Strapparsi le orecchie non era un’opzione, ma per la centesima volta in qualche minuto bramò l’impossibile. « Ashton, perdonatemi. Vi ho mancato di rispetto e gentilezza. Come state? A quanto mi era stato dato d’intendere eravate più nel mondo dei morti che in quello dei vivi. », balbettò stentatamente. Si affrettò a dargli le spalle e ad afferrare la rosa del Palio come oggetto di difesa.

Ashton lo penetrava con lo sguardo, anche se non con l’intenzione di esaminarlo: piuttosto pareva volesse passargli attraverso, per giungere a qualcosa che risiedeva dietro di lui. « Più morto che vivo? Interessante scelta di parole, giovane Lord. » Quella che avrebbe dovuto essere un’espressione divertita si articolò in un macabro siparietto di muscoli e pelle. C’erano dei momenti in cui Julian sapeva di non capire l’Onorabile Eloise, e questo era certamente uno di quelli; lui non avrebbe mai intenzionalmente abbandonato il proprio letto per seguire quel cadavere in posti bui e spaventosi. A meno che non si trattasse di Sophia, ovviamente. Si riscosse. « Ehm. No, certo. Dunque state bene. », tentò. Bruciava dalla voglia di sentire il nome di lei uscire dalle labbra del vampiro, ma quello pareva intenzionato a prendere le cose con calma.

« Sto bene, sì. »

« Ah. Bene. »

« Potete lasciare la rosa, non intendo rubarvela. »

Imbarazzato movimento nel rimetterla a posto. « No, no, certo. È un regalo di Sophia, un pegno più che altro. Gliela ridarò quando non saremo più Matriculae. È una promessa che ci siamo scambiati per tenere duro nei momenti di difficoltà. »

Era improvvisamente interessato. Gli guardava la bocca in maniera ossessiva, quasi aspettasse delle altre parole. « Potete dirmi come sta? »

« Sta bene. È molto scossa dalle novità, e vi ricorda di fare il turno della lavanderia, questo giovedì. Ci tiene inoltre a rammentarvi di avervi lasciato in prestito il suo libro preferito: vi prega di custodirlo gelosamente fino al suo ritorno. »

« Ah. »

Se non altro sembrava perplesso quanto lui, quasi non credesse d’aver dovuto portare un messaggio simile a qualcuno.

« Se non avete altro da riferire andrei. L’alba incalza e molti altri compiti mi attendono. », disse con tono appena sussurrato. Julian si riscosse dal torpore che l’aveva avvolto e si appoggiò sulla scrivania a mo’ di sostegno. Pensare al suo nome era doloroso come degli aghi nella pelle. « Aspettate! », fece. « Aspettate. Potete dirle che mi manca molto, e che non vedo l’ora di rivederla? Lo farete? »

Il vampiro annuì e si accostò ala finestra. Solo allora Julian si permise di accasciarsi contro il legno massiccio della struttura della propria scrivania. Mosse il collo per svegliarsi e fu catturato da un lampo blu; si girò e incrociò gli occhi di Sophia attraverso il disegno. Disegno che era giusto dietro la sua schiena. Fu allora che Julian capì forse per la prima volta l’Onorabile Eloise e quella sua incredibile ostinazione a voler vedere sempre il più profondo animo di tutti. Ostinazione che le era valsa mille rimproveri ma, in fondo, anche un’attenta capacità di analisi introspettiva.

« Ashton! », chiamò. Lui si voltò, gli occhi viola educatamente perplessi. Probabilmente non avrebbe mai capito cosa animava il cadavere senza vita di quella creatura, ma poco importava: il suo compito era proteggere Sophia e avrebbe dato la vita per farlo, proprio come lui. Si schiarì la voce, la gola improvvisamente arida. « Ashton, non dovete preoccuparvi se lei fatica ancora a guardarvi negli occhi e pare a disagio: quando è scossa tende ad aggrapparsi alla quotidianità. Il messaggio che mi avete portato, per esempio. Era sempre compito suo ricordarmi di queste incombenze e di non distruggere i libri in mio possesso, quindi è chiaro che il suo parlare va letto in chiave. E Ashton, Sophia detesta l’odore di violette sopra ogni altra cosa – probabilmente a causa della sua discendenza Blackmore, ma certo, che sciocco a non pensarci prima -  e i vostri occhi hanno la stessa inquietante sfumatura di quei fiori. Probabilmente è in stato di shock e non è in grado di pensare in maniera lineare. Fatela parlare con Cain, sono sicura che si sentirà più a suo agio. »

Il vampiro non diceva niente per incoraggiarlo a proseguire, ma contemporaneamente non faceva alcunché per tacitarlo. D’altronde, pensò, se fossi un vampiro non mi sprecherei troppo per comunicare con gli esseri umani. Era ancora poggiato sulla finestra, ma tendeva appena verso l’interno della stanza. Il sole doveva dargli fastidio. « Venite. », disse Julian. « Serriamo le tende e chiudiamo tutto. Accendo le candele per vedere qualcosa. » Nessuna risposta, se non un breve movimento verso di lui. Afferrò il cartiglio dipinto e con esso in mano si recò a sigillare la stanza. Le candele le accese l’altro con un movimento sì veloce da spaventarlo. Quando tornò a confrontarsi con lui, nel buio fittizio della sua camera, un brivido di terrore lo colse facendolo fremere. Le mani erano così bianche da sembrare calzate da guanti e le ombre ne ammantavano le dita creando avvallamenti grotteschi. Era stato strappato alla vita e riorganizzato per convivere con entità ben differenti da ciò che era stato. Forza della natura lo avevano modellato per essere forte, svelto e letale: adesso stava di fronte a lui, apparentemente innocuo e fragile, e l’unico oggetto che poteva difenderlo era il cartiglio disegnato che stringeva in mano. Per cederglielo e permettergli così di guardarlo dovette farsi violenza. « Prego. Siamo io e Sophia due anni fa. Lo abbiamo fatto fare dopo aver preso la decisione di venire in città. », spiegò.

Ashton osservava con rapita dedizione la figurina dagli occhi blu racchiusa nella carta. Julian si lasciò scappare un sorriso mentre tendeva la mano per riappropriarsi del disegno. « Non è cambiata poi molto da allora, vero? »

« No. », asserì. « Ha sempre lo stesso sguardo acuto. Anche il sorriso è identico. » Gli porse il manufatto e lo guardò dritto negli occhi. Nel buio erano così scuri da apparire neri. « La conoscete da molto? »

« Quando sono arrivato al Monastero avevo tre anni appena compiuti. Lei era già lì, visto che era stata lasciata nella Ruota quando aveva pochi giorni di vita. Comunque al Monastero non c’è nessun altro che la conosca meglio di quanto la conosca io: non aveva molti amici, non le piaceva giocare ed era troppo saputella per la sua età. »

Ashton continuava ad avere sul viso un’espressione vagamente perplessa, quasi si stesse chiedendo il motivo di quel discorso; tuttavia Julian decise di proseguire, forse indovinando un bisogno così nascosto da dover essere celato. « E’ sempre stata sveglia, troppo sveglia per la sua età. Oltretutto aveva questa ossessione per le rose che non contribuiva a renderla simpatica. Continuava a ripetere che tutti gli altri fiori non le piacevano, che sarebbero dovuti scomparire, e quando sei una bambina non ti crei un grande seguito se fai affermazioni così perentorie. Quando urlava tutto il mondo pareva sparire, come se avesse dei polmoni enormi nascosti in quel corpicino minuscolo. »

« Discendenza di sangue Blackmore. Il potere del vento. », disse solamente Ashton. Julian annuì brevemente, gli occhi socchiusi mentre ripensava alle enormi coincidenze che non era stato in grado di ricollegare tra loro. Non aveva nulla da rimproverarsi, tuttavia: non era stato l’unico a mancare tali collegamenti, anche se certo era stata la persona più vicina a Sophia. Anche Jordan aveva assistito alla scena in cui un vento sibilante e all’apparenza fortuito aveva scacciato quella cosa, la creatura: però, non era stato accompagnato in ogni episodio della propria giovinezza da simili eventi.

« Giovane Lord? », lo chiamò Ashton.

Julian si scosse e camminò fino alla mensola dei libri. « Sì, certo. », mormorò. « Blackmore, se ti affido il suo libro preferito, glielo riporterai? Sono sicuro che averlo le farebbe piacere. »

Un’altra accortezza mascherata da necessità: questa volta fu quasi sicuro che il vampiro se ne fosse accorto. Aver trascorso del tempo con l’Onorabile Eloise dopo esser stato a lungo lontano dal mondo lo aveva nuovamente reso avvezzo alle cortesie degli umani, spesso bizzarre e non convenzionali. Il libro aveva la copertina completamente usurata, tanto era stata tenuta tra le mani spesso sporche della ragazzina che era stata. Lo afferrò saldamente e lo tirò a sé.

« Lo porterò sicuramente alla signorina Sophia. Che libro è? »

Il ragazzo lo fissò sogghignando, gli occhi castani che brillavano giocosamente alla luce della candela. « Quando le suore gliel’hanno regalato, per il suo decimo compleanno, le hanno detto che era un bestiario un po’ particolare. Ma adesso penso che non sarebbe più cortese definirlo così. »

Era un libro sulle creature oscure. La copertina mostrava un vampiro dai tratti ben più spaventosi di quelli comuni, con i denti affilati e la pelle screpolata, cadente. « Un libro sulle creature oscure. », commentò Ashton. « Voi umani non finirete mai di stupirmi. Che dono curioso per un Monastero. Avrei giurato che cercassero di tenervi il più lontano possibile da… creature come noi. » Adesso sul volto era comparso un sogghigno che rispecchiava quello di Julian.

« Io ho sempre ricevuto libri sugli eroi, infatti. Sophia però è sempre stata un po’ particolare. La sorpresero a otto anni a discorrere con un curioso ragazzo fuori dalle mura: si accorsero solo dopo che si trattava di un vampiro errante. Non le fece nulla! », chiarì frettolosamente osservando la piega delle labbra dell’altro, « Anzi, lui le risultò un sacco simpatico. Tuttavia si spaventarono tutti moltissimo, e le fu regalato quel libro per avvisarla dei pericoli. Portateglielo, mi raccomando. »

« Grazie. »

« E tenetela al sicuro. »

Quando gli passò il libro, gli sembrò di affidargli Sophia. Ashton Blackmore sorrise, tuttavia, e gli fece un cenno con il capo corvino: quasi a voler dire che, nonostante tutto, sapeva di chi fosse il cuore della ragazza che stava proteggendo.

Julian sospirò e quando si voltò per ringraziare di nuovo inquadrò solamente aria. L’alba non era ancora giunta, e il vampiro era stato inghiottito dalle tenebre.

 

 

 

 

 

Il passaggio di testimone. Eccolo. Julian affida per un po’ Sophia ad Ashton, confida in lui, vi si appoggia. Non sono adorabili?

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


I rovi non erano stati potati. Le rose non erano state potate. Aveva segni su tutte le braccia e le ginocchia. Il dolore non era neanche lontanamente paragonabile, tuttavia, all’onda di soddisfazione che gli attraversava le viscere: la rosa blu era stretta nel proprio pugno. Quando balzò giù dal muro rotolando su se stesso ebbe per un attimo il terrore d’aver sciupato il fiore: quando si rimise in piedi, però, constatò con sollievo di non aver rovinato niente.

Sophia lo attendeva appena al di là del portone con un sorriso smagliante nascosto da una smorfia di supponenza. Gli pareva di conoscerla da una vita, quando invece l’aveva incontrata solo un’ora prima.

« L’hai presa? », gli chiese la bambina. « L’hai presa per me? »

« L’ho presa. », confermò. « E c’è il tuo nome. »

 

in Vento et rapida Aqua

Epilogo

 

 

Correvano per nascondersi dall’ira funesta delle Suore che era piombata loro addosso subito dopo l’incursione di Julian nel roseto. Mano per mano si trascinavano a vicenda lungo il fiume che scendeva a valle, infilandosi in gole ed anfratti per loro ancora segreti. Julian rideva, rideva senza saper porre fine al gorgoglio che gli cresceva dentro la gola. La strana Sophia - quella bambina che appena qualche ora prima l’aveva cercato di allontanare con una smorfia di celato imbarazzo – adesso lo tirava per la tunica grigia che le suore gli avevano affidato, la rosa blu come i suoi occhi ben stretta nella mano destra.

Gli occhi ridevano orlandosi di lacrime per la corsa furiosa. Inciampò rotolando.

« Julian! Aspetta, Julian! Non lasciarmi qui! »

Quello rise anche lui e si voltò porgendole la mano. « Sophia! Aspetta, rialzati, vieni qui, dobbiamo nasconderci! »

« La rosa! Aspetta, la rompo! »

« Sophiaaa! »

« La rosa! »

« Te ne porterò una ogni anno, nello stesso giorno. E correrò per prenderla, correrò per te! Per sempre! »

La bambina nascose il viso. « Per sempre? »

« Per sempre. Promessa, promessa. »

E corsero via, di nuovo, la rosa blu calpestata e abbandonata sull’erba. Sophia inciampò ancora, tre volte: per ogni caduta, tuttavia, ci fu Julian a tenderle la mano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla fine, contrariamente a quanto avevo detto, ho preferito tenere questo epilogo. Forse perché aveva più senso rispetto alla storia, ed era tenero e autoconclusivo. Io lo adoro, personalmente. Conto di scrivere presto qualcos'altro sui due, e farne una serie.

Grazie per avermi seguito, e recensito. A Ely, e a Whatashame, grazie ancora.

Ross 

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