L'Anfora di Didone

di Josie_n_June
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 24 dicembre 2010 ***
Capitolo 2: *** 25 dicembre 2010. Parte I ***
Capitolo 3: *** 25 dicembre 2010. Parte II ***



Capitolo 1
*** 24 dicembre 2010 ***


24 dicembre 2010
(Venerdì)
Quello è il giorno in cui, se mi ricordo bene, tutto ha cominciato a cambiare.
Camminavo con le mani affondate nei più profondi meandri delle mie tasche. Madrid, in quel periodo dell’anno, è gelida quasi quanto è rovente in estate.
Io me ne andavo in giro con addosso soltanto la solita, pesante felpa bianca, e i jeans neri che fasciavano le mie gambette da cicogna per poi sparire dentro le fruste All Star a collo lungo. Non indossavo il cappotto. Non so cos’avessi, allora, contro i cappotti, ma non ne avevo neanche uno, nell’armadio.
Era la Vigilia di Natale. Vedevo le luci degli alberi che ammiccavano dalle finestre sulla strada di periferia dove camminavo. I bambini giocavano per strada, e si scambiavano supposizioni su quali regali i Re Magi avrebbero portato loro il 6 Gennaio, come si crede qui in Spagna.
Alcuni di loro si voltarono a guardare lo strano individuo –sarei io- che se ne andava in giro col cappuccio calato sulla faccia.
Ricambiai i loro sguardi e li salutai con la mano. Poi, approfittando del fatto che avevo avuto il coraggio di tirarla fuori dalla tasca, detti un’occhiata allo schermo dell’orologio digitale che avevo al polso.
Le 3 e mezza.
Eva mi avrebbe ammazzato. O meglio, avrebbe organizzato il mio omicidio perché qualcun altro mi ammazzasse. Dopotutto, era quello che le riusciva meglio.
Già me la immaginavo, la mia sorellina, con le mani sui fianchi davanti alla porta e, presumibilmente, una macchia di pomodoro sulla guancia.
Com’è possibile, sapevo avrebbe detto, che con tutti gli aggeggi tecnologici che ti porti dietro tu non sia mai in orario, Andreu?
Per l’appunto Eva, che non somigliava affatto a mio padre –al contrario di me che, sfortunatamente, sono la sua copia sputata- era riuscita a prendere da lui la fastidiosa abitudine di chiamarmi Andreu. Ma, visto che sapeva benissimo che m’infastidiva, lo faceva soltanto quando era offesa o arrabbiata. Io non dicevo niente e la lasciavo sfogare, anche perché devo ammettere che il più delle volte me lo meritavo. E quando finalmente sentivo un Andrés uscire dalle sue labbra, sapevo che mi aveva perdonato.
Eva ha tre anni meno di me ma, tra di noi, è lei ad aver assunto il ruolo di sorella maggiore. Anche perché le si addice molto più che a me.
E’ cresciuta a Sevilla con me, mia madre e, saltuariamente, mio padre; poi, nel 2008 - cioè a diciannove anni- si è trasferita per frequentare la Facoltà di Biologia all’Università autonoma di Madrid.
Io, quello stesso anno, mi ero stabilito da qualche mese a Valencia. Non ci vedevamo molto da allora.
Da parte mia, avevo sempre qualche missione da qualche parte del mondo, e non mi dispiaceva, certo, ma la cosa non mi lasciava molto tempo. E, anche quando non era così, stentavo ad allontanarmi dalla mia Valencia, con le sue strade larghe e la sua tecnologia.
Eva, dal canto suo, aveva sempre qualcosa da fare. Se c’è un estremo contrario di “pigra” –adesso non mi viene in mente niente di appropriato- quello era Eva. Oltre a studiare, lavorava in un Orto Botanico in centro, ogni tanto la chiamavano per fare qualche turno in un ristorante, e collaborava con noi alla Dimora di Madrid.
Ah, Eva non si era omologata a quella particolare caratteristica della mia famiglia.
Certo, aveva seguito come me l’addestramento da Assassino a cui ci aveva simpaticamente prestato nostro padre, ma una volta finito aveva deciso che non era quello che voleva fare. Non fu una sorpresa; la mia sorellina, amante di tutti gli esseri viventi, che uccideva qualcuno? Non ci credevo neanch’io.
Così continuava a lavorare nel nostro ambito, ma senza agire direttamente sul campo. Dalla Dimora di Madrid, insieme ad altri componenti della Confraternita, organizzava le missioni e perfezionava strategie. E, per essere così giovane, non era male.
Comunque il punto è che, a parte nei momenti in cui lavorava ad operazioni in cui ero coinvolto anch’io, non ci vedevamo molto.
Eva mi lasciava passare tutte le volte che potevo andare a trovarla e non lo facevo. Credo pensasse che, anche in questo, assomiglio a mio padre. E, detesto ammetterlo, probabilmente aveva ragione.
Gli unici momenti che mi chiedeva erano le festività, nelle quali ci riunivamo io, lei e, fino a poco tempo prima, nostra madre. Ci vedevamo per tradizione tutti i Natali, le Pasque, i compleanni e i Ferragosto, a cui Eva aveva aggiunto anche Halloween e il Ringraziamento, benché non fossimo Americani e il tacchino ci facesse piuttosto schifo.
Ma erano le uniche occasioni in cui ci vedevamo, e l’unica cosa che esigeva da me. E poi, avevamo anche saltato la riunione per il mio compleanno, dato che lei era stata in Canada a agosto e settembre. In fondo, avrei anche potuto arrivare puntuale.
Mi ripromisi che la volta successiva sarebbe stato così, ben sapendo che mentivo a me stesso. A quel punto arrivai davanti al palazzo di Eva.
Mi avvicinai al citofono e premetti il pulsante sulla sesta linea di campanelli, vicino al nome Eva Sirera. Non rispose nessuno. Provai un altro paio di volte a vuoto, poi alzai la testa verso la sua finestra.
Forse si era addormentata, o magari era a farsi la doccia. O, auspicabilmente, si era stancata di aspettarmi e aveva chiamato lo studente carino di Lettere di cui mi aveva parlato.
Rimasi un altro po’ all’ingresso col naso all’insù, mentre il fiato mi si condensava in nuvolette di vapore. Mi stavo congelando, e non potevo aspettare, nel caso A, che si svegliasse o, nei casi B e C, che finisse.
Conoscevo diversi modi per arrivare ai sesti piani dei palazzi senza usare le scale, ma non ero sicuro che Eva avrebbe apprezzato la mia entrata in scena alla Spiderman. Così decisi di suonare alla sua vicina.
La signora Jiménez fu molto gentile, mi aveva già visto un paio di volte e mi aprì la porta principale. Salii le scale e raggiunsi il sesto piano, porta di destra, poi appoggiai una mano sul pomello.
Fu allora che cominciai a capire che qualcosa non andava.
La maniglia girò nella mia mano senza opporre resistenza, e la porta si socchiuse. Scacciando quel brutto presentimento bussai energicamente alla porta, senza entrare.
“Eva?” chiamai.
Nessuno rispose.
A quel punto oltrepassai la soglia con lentezza, lasciando la porta aperta dietro di me. Lo stretto corridoio che portava alle camere era buio. Non accesi la luce, ma accelerai il passo.
“Eva?” chiamai ancora.
Dietro l’angolo mi aspettavo di vedere il piccolo salotto come lo ricordavo, il divano a due posti contro il muro, con davanti il tavolino del telefono e la libreria di fianco alla finestra.
Non era affatto così.
Il tavolino era in pezzi sul pavimento, la libreria era per terra e aveva vomitato tutti i libri, il divano era rovesciato e sventrato dai cuscini.
A quel punto iniziai ad avere paura.
“Eva!” urlai, senza ricevere risposta.
Mi precipitai in cucina, sperando che mia sorella si fosse messa a provare un nuovo fottuto tipo di yoga che prevedesse caos, luci spente e porte aperte.
Imprecai ad alta voce; anche quella era sottosopra. Gli armadietti erano aperti e alcuni erano stati staccati dal muro, il frigo era sdraiato sullo sportello anteriore, il tavolo era per terra spaccato a metà.
Rimasi piantato sulla porta, fissando le macchie di sangue rappreso sulle mattonelle del pavimento e sul bancone.
Due domande vorticavano nella mia testa tanto da farmi venire la nausea. Una, piuttosto prevedibile, era: dove cazzo è mia sorella?
La seconda, che invece richiedeva un po’ più di concentrazione, era: perché?
Il chi era abbastanza chiaro. Era ovvio che Eva era stata rapita; non c’erano tracce di furto, soltanto un gran casino, e nemmeno abbastanza sangue da pensare a un omicidio. Certo questo particolare non escludeva del tutto l’ultima ipotesi, ma mi sforzavo di non pensarci.
Eva era una studentessa universitaria, non scriveva sul giornale né si occupava di politica, viveva nella discrezione e non rompeva i coglioni a nessuno, e qualsiasi organizzazione criminale se ne sarebbe fregata altamente di lei. Senza contare che era stata addestrata da Assassina, e avrebbe fatto il culo a chiunque l’avesse aggredita senza saperlo.
In conclusione, rimaneva un unico, banale sospettato; l’Abstergo Industries. Per gli amici, l’Ordine dei Cavalieri Templari.
Ma come diavolo avevano fatto a sapere chi era lei? Avevamo cancellato qualsiasi traccia che insinuasse anche lontanamente la nostra parentela.
Lei usava un cognome falso, non aveva mai partecipato a nessuna missione per cui avrebbero potuto riconoscerla, e non era possibile che l’avessero vista entrare nella Base, o avrebbe voluto dire che sapevano dove fosse la Base. Quando andavo da lei facevo in modo che nessuno lo sapesse, mi accertavo di non essere seguito e non scoprivo mai la faccia. E poi i Templari non conoscevano il mio nome; tra di loro mi chiamavano il Sevillano, per via del mio accento, oppure il Catalán, perché spesso parlavo la lingua della Catalunya per essere meno identificabile.
Se i Templari l’avevano presa doveva esserci un motivo, e credevo impossibile che quel motivo fosse legato a me.
Quanto mi sbagliavo.
Smisi di fissare le macchie di sangue e decisi di muovermi. Uscii dalla cucina in modo meccanico, e fu nel momento esatto in cui rimisi piede in salotto che sentii il rumore.
Senza pensare scattai verso la camera da letto, spalancai la porta già socchiusa e mi gettai addosso alla figura che stava accanto alla finestra.
Ricordo benissimo il mio primo incontro con quel figlio di puttana.
Rovinammo addosso alla specchiera, che si rovesciò all’indietro. Lo specchio si spaccò e i frammenti di vetro mi tagliarono dappertutto, ma non lo mollai. Lottammo a terra per qualche secondo, poi riuscì a rialzarsi; lo spinsi con violenza contro il muro, feci scattare la lama al mio polso e gliela puntai alla gola.
A quel punto smise di muoversi.
“Chi cazzo sei? Dov’è mia sorella?”
Il tizio che avevo davanti era poco più alto di me, e decisamente più robusto. Doveva avere più o meno la mia stessa età, aveva la pelle scura più della media degli spagnoli, ricci neri e occhi scuri dal taglio obliquo che suggerivano venisse da un qualche paese del Nordafrica. Indossava una molto inappropriata felpa degli Aiden.
Il tipo alzò le mani quanto la mia presa glielo permetteva.
“Ehi, non c’è bisogno di essere così aggressivi.”
“Non sono d’accordo.”
La lieve ombra d’accento nel suo spagnolo confermò le mie ipotesi sulle sue origini.
“Dov’è mia sorella?” urlai di nuovo.
Il tizio mi guardò per un po’ senza rispondere. Inquieto, ma non come sarebbe ovvio aspettarsi. Sembrava piuttosto indeciso.
“Non ti conviene farmi incazzare.” incalzai, premendo la lama sulla sua gola.
“Non ne possiamo parlare con calma? Sai, non è che mi senta molto a mio agio con quella cosa puntata al collo.” protestò il tizio.
Non so se lo facesse per sdrammatizzare o per semplice idiozia. In ogni caso, la situazione era folle.
“Credi che me ne freghi qualcosa?” sibilai, sbattendolo contro la parete “Dov’è Eva?”
“Il punto è” disse lui, guardandomi come a scusarsi “Che se parlo con te, poi loro mi ammazzano.”
“Se non parli ti ammazzo io adesso.” gli feci presente.
“Anche questo è vero.” considerò lui.
Non avevo nessuna voglia di perdere tempo, e lo sbattei ancora una volta contro la parete.
“Dimmi che è successo ad Eva, o non avrai tempo di preoccuparti di chi ti ucciderà prima.”
“Oh, avanti, lo sai che le è successo.” fece il tizio “Sembri un tipo sveglio. Fai due conti.”
Lo sapevo; ma il fatto che mi prendesse anche per il culo non mi divertiva affatto.
Dov’è?” ringhiai.
“Questo... Io non lo so.”
Lo sbattei di nuovo al muro con poca grazia.
“Chi cazzo sei tu?” gli chiesi.
“Samir Navarro, investigatore privato. Occasionalmente ladro. Occasionalmente, su commissione.”
Certo. Ecco come aveva fatto ad entrare senza passare dalla porta.
“E ti hanno pagato perché gli consegnassi mia sorella?” sbottai.
“Minacciato.” mi corresse Navarro.
Inutile dire che non mi faceva pena per niente.
“In realtà l’avevano già trovata. Io dovevo solo eliminare ogni traccia del loro passaggio qui, e confermare che fosse tua sorella.”
Abbassò una mano all’improvviso, e mi ero già preparato a disarmarlo quando mi accorsi che, dalla sua tasca, non aveva estratto un’arma, ma un pezzo di carta. Me lo porse.
“Un'asse mobile sotto il letto. Un trucco da liceale.”
Gli presi di mano quella che si era rivelata essere una foto.
Eravamo io ed Eva, qualche anno prima, nel giardino della nostra vecchia casa. Ci abbracciavamo e sorridevamo all’obbiettivo; eravamo più piccoli, lei era più bassa e io avevo i capelli più corti, ma eravamo noi.
“Tu devi essere Andrés.” aggiunse Navarro.
Imprecai sottovoce. Stupida, stupida Eva. Avrei scommesso che teneva una mia foto anche nell’agenda.
Me la ficcai in tasca e tornai a tenere fermo Navarro.
“Perché l’hanno presa?” domandai per l’ennesima volta. “Vogliono me? Mi vogliono ricattare?”
Il ladro abbozzò un sorriso.
“Non sei tu che vogliono.” rispose “E’ Eva che gli serve.”
Il suo nome, pronunciato così tranquillamente da quel bastardo, mi fece salire il sangue alla testa.
“A che cosa?” feci tra i denti, esasperato.
Il ladro mi fissò per un attimo.
“Tua sorella è quella che loro chiamano Soggetto 15.” rispose.
Non ci fu nessun attimo di suspance o di tensione rivelatrice.
“E che cazzo vorrebbe dire?” mi limitai ad urlare.
“Non lo sai?” replicò Navarro, sorpreso “E voi dovreste essere i buoni? Non è che così invogliate la gente a venire dalla vostra parte.”
“Cerca di rispondere alle domande evitando commenti.” tagliai corto.
“Da qualche anno a questa parte, l’Abstergo Industries sta sviluppando una... macchina.” cominciò a spiegare Navarro, leggermente titubante “Io l’ho vista una volta sola, e non perché sia sotto gli occhi di tutti. Ci fanno stendere le persone e gli ficcano in testa una specie di casco. Da quello che ho capito, loro lo chiamano Animus.”
Non fraintendetemi. Non fu quel pomeriggio, nella camera devastata di mia sorella, che per la prima volta la Confraternita venne a conoscenza dei piani dei Templari. Soltanto la notizia non era ancora arrivata a me.
“Cos’è?” chiesi “Cosa fa?”
“Da quello che ho capito” ripeté Navarro, lentamente “Serve a leggere i ricordi genetici.”
Aggrottai la fronte.
“Cazzate.”, fu la mia sentenza.
Non esisteva la memoria genetica. Avevo letto qualcosa a riguardo, ed ero sicuro che fosse dimostrato che il DNA non registra i ricordi. E non avevo nessuna voglia di continuare a farmi prendere per il culo.
“E’ quello che ho sentito.” replicò Navarro.
“E vorrebbero leggere i ricordi genetici di mia sorella?”
“Suppongo di sì.”
“Credi che sia stupido?”
Navarro sussultò quando gli premetti la lama sul collo. Non è bello da dire, forse, ma godevo nel vedere finalmente che aveva paura.
“Puoi non credermi,” disse “Ma non pensi che se avessi voluto raccontarti una balla avrei potuto inventarmene una migliore?”
Effettvamente.
Rimasi in silenzio per qualche secondo, cercando di tornare lucido e di riflettere.
Lo fissai; ero ancora convinto che stesse mentendo, ma c’era il remoto caso che stesse dicendo la verità. Cercavo di valutare le cose oggettivamente, non ero sicuro che mi riuscisse, ma alla fine presi comunque una decisione.
“Bene.” dissi “Dimostramelo.”
Navarro spalancò gli occhi.
“Come pensi che possa fare?”
“Avrai un appuntamento con i Templari per dare loro questa, no?” feci, sbattendogli la foto stropicciata di me ed Eva sul petto “Vengo con te.”
Navarro era seriamente spaventato.
“Senti, tu mi sei simpatico, e davvero non ho nulla contro tua sorella, però se gli porto un Assassino all’incontro, loro mi ammazzano.”
“Forse ti sembrerà strano, ma non mi metterò a piangere.”
Il ladro sorrise, come se la cosa lo divertisse molto. Se non fosse stato l’unica speranza che avevo di ritrovare mia sorella, non credo avrei resistito al desiderio di affondargli la lama nella gola.
“Immagino che se non obbedisco mi ucciderai tu.”
“Non sei un completo idiota, allora.”
“E come farai a convincerlo a dirti la verità? Quelli piuttosto si fanno ammazzare.”
“Vedrai che con me parlerà. E, comunque sia, sono affari miei.”
Navarro rimase qualche secondo in silenzio. Poi sospirò.
“In Plaza de Colón. Oggi.”
Posto affollato: ottimo.
Lo so. Era la più grande stronzata che potessi fare. Sapevo benissimo che quella poteva essere una trappola; Eva poteva essere già morta, Navarro poteva volermi attirare lì per consegnarmi ai Templari, ed io rivelarmi essere il vero bersaglio come avevo pensato fin dall’inizio. Lo sapevo perfettamente, ma non m’importava.
In ogni caso, quella era l’unica possibilità che avevo di trovare Eva. Avevo bisogno di fare qualcosa e, in quel momento, non mi sembrava così assurda l’idea di andare in contro a una molto probabile morte. O forse sì ma, l’ho già detto, non potevo impedirmi di farlo comunque.
Vi sarà chiaro che la cosa di pensare lucidamente non era andata in porto.
“Andiamo.” mi limitai a dire.
Rinfoderai la lama e lo mollai. Navarro gettò un’occhiata al mio antibraccio.
“Prova a scappare, e te la ritrovi conficcata nella schiena prima di ricordarti da che parte è la porta.”
Lui fece una smofia.
“Lo so. Perché credi che sia ancora qui?”
Anche se ancora non lo conoscevo, vedevo da solo che, in quanto a forza fisica, Navarro era avvantaggiato su di me. Allora io ero meglio addestrato ma, sinceramente, non so se sarebbe bastato. L’unica ragione per cui non aveva già tentato la fuga era che io ero armato, lui no. Nonostante questo, per quanto ero incazzato, forse l’avrei battuto anche a mani nude.
“Fuori.” gl’intimai di nuovo.
Navarro uscì dalla camera di mia sorella senza guardarsi indietro.
Io, invece, non potei fare a meno di bloccarmi un istante a guardare il pavimento pieno di schegge e vetri, i mobili spostati, il letto sfatto, e ogni angolo della stanza che portava i segni evidenti di una battaglia. Eva si era fatta valere, e non avevo idea se la cosa mi rassicurasse o mi spaventasse ancora di più.
Seguii Navarro fuori dalla stanza, ed evitai di guardare qualsiasi altra cosa lungo il tragitto fino alla porta d’ingresso.



 

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Dove nove mesi di gestazione, alla fine mi sono decisa a pubblicare questa storia. Io la chiamo short fic XD Diciamo che prevede un numero limitato di capitoli, ed è parte integrante di una serie sul protagonista, Andrés. Mi sono molto affezionata a lui e, anche se più scrivevo questa storia, più mi rendevo conto che è inadatta alla sezione, non ho potuto smettere di scriverla, e dato che qualcuno mi aveva strappato una promessa, ho deciso anche di pubblicarla. Spero davvero che qualcuno l'apprezzi.
I capitoli sono già pronti, quindi ne pubblicherò uno a settimana, credo sempre di domenica. Il titolo della serie è provvisorio, e anche la presentazione delle storie, dato che mi trovo a corto di idee XD Se chi passa di qui, oltre a lasciare una graditissima recensione, ha qualche suggerimento, non si preoccupi -anzi, è pregato- di rendermi partecipe XD
Come sempre, consigli e critiche sono apprezzati, anzi, si accolgono a braccia aperte. Ultima cosa, esiste già una one-shot pubblicata in questa serie, che si colloca nel 2012, ovvero due anni dopo la storia che state leggendo. Perciò non è obbligatorio che la leggiate se non ne avete voglia, anche se, ovviamente, mi fa piacere.
Adesso vi lascio. Alla prossima settimana :)

Josie

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Capitolo 2
*** 25 dicembre 2010. Parte I ***


25 dicembre 2010
Me ne stavo appollaiato sul davanzale della camera da letto di Sole, guardando attraverso il vetro socchiuso.
Vedevo la sagoma del suo corpo sotto le coperte, girata su un lato; dormiva sempre girata su un lato.
Lo so, ho saltato la parte in cui minaccio il Templare e mi faccio raccontare tutta la storia. Ma vi assicuro che non è granché interessante, e comunque avrei raccontato tutto a Sole di lì a poco, quindi per voi sarebbe stata una ripetizione.
Dicevo, stavo appollaiato sul davanzale della finestra di Sole, sempre a Madrid, solo che era notte inoltrata della Vigilia o mattino molto presto del giorno di Natale.
In realtà non avevo tanto tempo da perdere, ma ero inchiodato lì, con lo sguardo perso oltre il vetro, a fissarla, senza un motivo preciso.
Ci rimasi per un po’, perciò sfrutterò il tempo che passai a guardare Sole dormire per parlarvi di lei.
Io e Sole siamo amici praticamente da sempre. Ha la mia stessa età, e si trasferì nella via di Sevilla dove abitavo io quando avevo tre anni. Nel mio primo ricordo è compresa anche lei, e io ho buona memoria.
Sole è la ragazza che in un tipico telefilm americano sarebbe etichettata come della porta accanto. Lo so, è banale. Ma con la vita che ho, un po’ di banalità non guasta.
Sole ha origini nomadi (infatti il suo primo cognome è Cassian). Ma nomadi per davvero, nel senso che suo padre se ne andava in giro per l’Europa vendendo amuleti e strani intrugli vegetali. Credo che per un po’ anche lei abbia fatto quella vita, ma poi sua madre, che è spagnola (infatti il secondo cognome di Sole è Brújula), deve essersi rotta le scatole e aver deciso di mollare il marito e tornare in Spagna.
Penso che sia per questo motivo io e Sole siamo andati subito d’accordo, eravamo tutti e due figli di padri inesistenti. Devo dire, però, che a me è andata meglio; almeno il mio ci mandava i soldi.
Siamo cresciuti, e col tempo Sole è diventata la mia migliore amica. Siamo anche stati insieme, per un periodo, poi però abbiamo deciso che stare insieme era quasi più strano che non stare insieme, ed è finita.
Ma sono stato bene, in quei mesi, e guardarla dormire mi restituiva un po’ di quella tranquillità, di cui, in quel momento, avevo un fottuto bisogno.
Quando me n’ero andato, per addestrarmi, avevo rischiato di perdere i contatti anche con lei. Li avevamo mantenuti soltanto grazie al suo impegno.
Sole non ha mai saputo niente di me o della mia famiglia, ma credo abbia sempre sospettato qualcosa. Non per niente si era appena laureata alla facoltà di antropologia e si stava specializzando in mitologia e leggende, lavorando nel frattempo come ricercatrice all’Università. Era soprattutto per quello che mi trovavo da lei, quella notte.
Non so se avesse scelto quella facoltà per me, ma sono sicuro di aver avuto una piccola influenza.
Vidi le coperte cominciare a muoversi e poi un braccio uscire da sotto il bozzolo del piumone. Sole trovò a tentoni l’interruttore della lampada sul comodino e la accese.
Guardò verso i piedi del letto e, a quel punto, anche lei mi vide. Non si sorprese, perché già mi arrampicavo alla sua finestra quando eravamo piccoli.
Si alzò a sedere e mi fissò. Poi si stropicciò gli occhi col dorso della mano, e disse:
“Che diavolo ci fai qui?”
Scossi le spalle.
“Non posso far visita a un’amica?”
Lei gettò uno sguardo alla sveglia.
“Sono le tre di notte.”
“Volevo essere il primo a farti gli auguri.”
Mi mandò molto candidamente a fanculo. Poi si alzò con lentezza. Indossava un pigiama a righe molto carino.
“Caffé.”, mugugnò soltanto, prima di dirigersi in cucina lungo il corridoio.
Hermes, il suo gatto, che aveva perso la coda e che Sole aveva raccattato a Sevilla una quantità improbabile di anni prima, la seguì trotterellando sul parquet. Io scesi dal davanzale e andai loro dietro verso la cucina.
Mi appoggiai contro la parete stuccata di bianco, e mi misi a guardare Sole che trafficava nella dispensa.
“Ne vuoi una tazza?”, mi domandò.
“Sì, grazie.”, risposi, trascurando il fatto che, forse, al momento la caffeina non era l’ideale.
Prese il barattolo del caffé e la caffettiera dal lavandino, la riempì con l’acqua, sistemò il caffé macinato, la chiuse e la mise sul gas.
A quel punto si voltò a guardarmi.
“Adesso puoi dirmi il vero motivo per cui sei qui?”
Aveva l’aria stanca.
Io le restituii lo sguardo.
“Eva.”
“Cosa?”
“L’hanno rapita.”
Sole sgranò gli occhi e fece un breve, silenzioso sussulto.
Mi guardò per un secondo seria, esitante. Poi disse:
“I Templari?”
Ecco. Momento cruciale. Musica catartica.
Quella era la prima volta che la mia “vera vita” veniva fuori così, esplicitamente, tra di noi. C’erano sempre state domande non fatte, e risposte mai date ad alta voce ma, in fondo, io sapevo che Sole sapeva, e lei era stata sempre quasi sicura di sapere tutto.
Perciò fu con grande semplicità che risposi:
“Sì.”
“Quando?”
“Ieri. Anzi, ormai l’altro ieri. Il 23 notte.”, dissi, ripetendo le informazioni che m’aveva dato Navarro, “Ieri pomeriggio avremmo dovuto vederci da lei, ma non c’era, e casa sua era distrutta.”
Sole imprecò a bassa voce, fissando il vuoto.
Si riscosse quando la caffettiera sul fuoco cominciò a gorgogliare. Spense il gas e si sporse a prendere dalla credenza due tazzine. Le appoggiò sul tavolo senza il barattolo dello zucchero; né io né Sole lo mettevamo.
Versò il caffé e rimise la caffettiera sul fornello, poi si sedette. Mi invitò con lo sguardo a fare lo stesso.
“No, grazie. Preferisco stare in piedi.”, risposi.
Così Sole mi afferrò per un braccio e mi fece sedere di fronte a lei. Mi sentii subito meglio.
Sorrisi, e con ogni probabilità era la prima volta da quel pomeriggio.
“Grazie.”
Anche lei abbozzò un sorriso, e bevve un sorso di caffé.
Subito il gatto Hermes mi saltò sulle ginocchia e si accoccolò, iniziando a fare le fusa in preventiva. Presi ad accarezzarlo distrattamente.
“Che cosa sai?”, mi domandò a quel punto Sole, riappoggiando la tazzina sul tavolo.
Bevvi anch’io un sorso di caffé. Era buono, e mi riscaldò un po’.
“Non molto, ma tu forse puoi aiutarmi. Per questo sono venuto da te.”, risposi, “A casa di Eva ho trovato un tizio. Si chiama Samir Navarro; ha detto di essere un ladro, che si trovava lì per cancellare le tracce del rapimento e trovare una prova materiale della mia parentela con lei.”
“Cercavano te?”, chiese Sole.
“No.”, risposi, “Ho minacciato Navarro, e mi ha detto che l’hanno presa come oggetto per un... esperimento.”
Feci una pausa e bevvi un altro sorso di caffé. Volevo trovare le parole per dirlo senza sembrare un pazzo.
“Mi ha detto che vogliono decodificare la sua memoria genetica per rivedere i ricordi di un nostro antenato.”
Non mi riuscì.
“Cazzate.”, disse subito Sole, riecheggiando inconsapevolmente la mia prima reazione, “Non esiste la memoria genetica.”
“E’ quello che ho pensato anch’io. Così mi sono fatto portare da Navarro al punto d’incontro che aveva fissato col Templare.”
“Andrés!”, esclamò Sole, “Ma sei scemo?”
“Sì, lo so, ho capito, ho rischiato. Ma mi vedi qui, ora, okay? Non sono morto.”
Lei avrebbe evidentemente voluto parlarne ancora, ma tagliò corto.
“Vai avanti.”
“Il Templare è arrivato all’ora stabilita. Gli ho fatto avvicinare Navarro con una foto mia e di Eva, guardandoli da vicino in mezzo alla folla. Navarro ha fatto il bravo, così sono riuscito ad afferrare il Templare e a trascinarlo in un luogo meno scoperto. Lì, l’ho fatto parlare.”
“E come fai a sapere che non ha sparato un mucchio di cazzate anche lui?”, chiese ragionevolmente Sole.
La guardai un attimo.
“La Confraternita” –cazzo se era strano dirlo di fronte a lei- “Ha sviluppato in laboratorio una tossina che elimina le inibizioni. Tipo un siero della verità.”
Sole aprì bocca come per fare una domanda, così aggiunsi:
“Comunque sia, ha parlato. E questo è l’importante.”
“Che ti ha detto?”
Abbassai un attimo lo sguardo, terrorizzato di sentire un altro dei suoi ‘cazzate’.
“Ha confermato le parole di Navarro.”
Sole, contrariamente a quel che mi aspettavo, non disse niente, e la sua espressione rimase la stessa. Così andai avanti.
“Eva... ed io siamo i discendenti di qualcuno che in passato fu in possesso di un oggetto importante per i Templari. I ricordi di questo qualcuno sono immagazzinati nel nostro DNA, e l’Abstergo...”
“Chi, scusa?”, m’interruppe.
Io esitai.
“L’Abstergo. L’industria farmaceutica. I Templari la usano come copertura.”
I suoi occhi dicevano chiaramente: cazzo, ho comprato le loro medicine. Le sue labbra, pertanto, rimasero in silenzio.
“Vai avanti.”
“L’Abstergo ha creato una macchina che può decodificarli. Che può decodificare i ricordi genetici, tradurli in dati ed immagini. Il Templare l’ha chiamato prototipo. Navarro, Animus.”
Sole continuava a guardarmi. Ogni lineamento del suo viso era rigido. Non capivo se per lo scetticismo o lo stupore.
“Ed è possibile?”
Io le ripetei ciò che mi ero ripetuto per tutta la notte fino allo sfinimento, fino a crederci davvero.
“Non so niente del DNA o dei ricordi genetici... Ma se, davvero, insieme ai geni, i nostri antenati ci trasmettessero le loro memorie, e con le conoscenze e la tecnologia che maneggiano i Templari... Teoricamente, sì. Sarebbe possibile.”
Sole si alzò, prese la mia tazza e la sua e si diresse al lavandino. Le appoggiò sotto il rubinetto.
Hermes lanciò un miagolio. In quel momento suonò piuttosto ridicolo.
“D’accordo, che altro ha detto quel tizio?”, mi domandò, decisa, voltandosi di nuovo a guardarmi.
“Ha farneticato soltanto qualcosa riguardo una sezione B e una regina Elissa. Ha parlato di un vaso... Cercano un vaso.”
Mi presi la testa tra le mani.
Sole m’incalzò.
“E poi?”
“E’ morto.”
Sentii il suo respiro fermarsi, e visto che il mio è per natura inudibile, gli unici rumori a rimanere nella stanza furono le fusa di Hermes ed il ticchettare monotono dell’orologio alla parete.
“Non ho idea di che cosa sia la sezione B,”, disse Sole dopo un po’, lentamente.
Io alzai lo sguardo.
“Ma so chi è Elissa.”
Raddrizzai la schiena, attento.
“E chi è?”
Era, in effetti. O meglio, forse.”
“Di chi parli, Sole?”
“Mai sentito parlare di Didone? La donna per cui Enea quasi rinunciò a fondare Roma?”
Io annuii, mentre ricordi sbiaditi dei tempi del liceo riaffioravano alla mia mente.
“Quella che creò uno stato grande come una pelle di mucca?”
Sole abbozzò un breve sorriso.
“Più o meno. La leggenda narra che Didone chiese a re Iarba un territorio in cui fondare la sua città, domandando tanto terreno quanto ne contiene una pelle di bue. Il re accettò, deridendo la stoltezza della donna, ma Didone riuscì ad ingannarlo. Scelse astutamente una penisola, e tagliò la pelle di bue in strisce finissime, riuscendo a delimitare il territorio che avrebbe poi occupato la sua città. La città di Cartagine.”
Rimasi per qualche secondo in silenzio, pensando a quanto Sole fosse brava a raccontare. Poi mi accigliai.
“E cosa c’entra tutto questo con Eva?”
Sole scosse la testa.
“Non ne sono sicura.”
“Puoi dirmi di cosa non sei sicura?”, feci io, mettendo giù Hermes che continuava a farmi dolorosamente il pane sulle gambe.
Lei sospirò.
“Se questo Animus legge i ricordi genetici, e il Templare ti ha parlato di Elissa...”
Afferrai.
“Devo accertarmente.”
Mi alzai in piedi, e mi avviai di nuovo nel corridoio. Stavolta fu Sole a seguirmi stupita.
“Aspetta! Che cosa vuoi dire?”
“Che ho tutte le intenzioni di andare alla Dimora...”
“Dove?”
“Al Quartier Generale della Confraternita degli Assassini a Madrid, accedere ai server delle Dimore di tutto il mondo e vedere cosa sanno i miei confratelli di questo cosiddetto Animus, e della sezione B, e di Elissa.”
Sole mi bloccò per un braccio.
“Andrés.”
Io mi voltai.
“Cosa farai quando lo saprai?”
La fissai negli occhi.
“Andrò all’Abstergo e mi riprenderò mia sorella.”
Sole inarcò le sopracciglia.
“Certo. Assedierai tutte le fabbriche di farmaci di Spagna, e più che altro ne uscirai vivo e ritroverai anche tua sorella.”
Io mi liberai dalla sua presa, esasperato.
“E allora cosa vuoi che faccia? Che lasci che la uccidano?”
“Non la uccideranno, per ora.”, mi spiegò con calma Sole, “Hanno bisogno di lei. Devi soltanto aspettare.
Sospirai, per recuperare la calma, dopo qualche esitazione.
“Bene. E dopo?”
“Non lo so.”, ammise Sole, “Ma troveremo qualcosa da fare.”
Respirai di nuovo profondamente. Il suo tono tranquillo e la sua voce calda riuscivano sempre a rassicurarmi. Cercai di sorriderle, e lei ricambiò.
“Andiamo alla Dimora?”
Annuii automaticamente. Non m’importava che, secondo le regole, nessun esterno potesse accedervi. Sole era di famiglia.
“Vado a chiamare Navarro.”
“Eh?”, esclamò Sole, riafferrandomi il braccio.
Io la guardai con le sopracciglia inarcate.
“Navarro. E’ qui fuori. Non mi si scolla, ha paura dei Templari e, in fondo, può essermi utile.”
In quel momento mi sembrava tanto ovvio che la sua espressione sconvolta mi fece ridere.
“Non posso portarlo alla Dimora, ma neanche lasciarlo alla mercé dei Templari. Mentre noi non ci siamo lo possiamo nascondere qui.”
Sole mi guardò come si guarda un pazzo.
“Vuoi lasciare un ladro in casa mia?”
“Non ruberei niente.”, intervenne improvvisamente una voce proveniente dalla terrazza nella stanza di Sole.
Lei trasalì, ed io mi voltai con uno sguardo glaciale.
“Tendo a fare il bravo con gli amici di chi ha in mano la mia vita. Non che ci sia niente da rubare.”, fece il ladro, dalla terrazza.
“Sarebbe lui?”, esclamò Sole, rivolta verso di me, “Ora sì che sono tranquilla. E mi spieghi perché nessuno suona il campanello e passa dalla porta per entrare in casa mia?”
Io guardai Navarro.
“Tu fai poco lo spiritoso, o ti lascio ai Templari. E tu”, continuai, spostanto gli occhi su Sole “E’ solo per poco.”
“Non mi lascerai ai Templari.”, protestò Navarro, dalla terrazza, “Ti ho sentito.”
“Sta’ zitto.”, gl’intimai “Non ho ancora deciso.”
Sole sembrava ancora più indecisa di me.
“D’accordo. Andiamo.”, disse alla fine.
A quanto pareva, la sua fiducia in me aveva prevalso sulla sfiducia che provava nei confronti di Navarro.
“Ma devo vestirmi.”
“Okay, io vado in cucina.”, disse il ladro, facendole l’occhiolino, “E’ rimasto un po’ di caffé?”
Io mi avviai alla finestra senza guardarla, preoccupato che cambiasse idea.
“Aspetta, ti dispiacerebbe uscire dalla porta?”, disse invece.
Io mi voltai a guardarla con un sorriso e mi strinsi nelle spalle.
“Proprio adesso che posso finalmente mostrarti tutto il mio talento?” 


_______________________

 

Che bello, manco subito al primo appuntamento. Direi che ho dimostrato la mia inesistente puntualità! Scusate ma ieri proprio non ce l'ho fatta a pubblicare, non avrei avuto neanche il tempo di accendere il computer (seriamente, ci mette tipo un quarto d'ora ad accendersi XD).
Comunque sia vi prego di perdonare queste ventiquattr'ore di ritardo. Il capitolo è un po' corto, me ne rendo conto; in teoria doveva essere parte del successivo, che però mi sono accorta essere troppo lungo. E allora non sapevo cosa fare D: La soluzione è stata questa. Scusate quindi quest'inizio un po' lento, ma se avrete il coraggio di continuare a leggere saprò farmi perdonare :)

Josie

P.S. Grazie a chi recensisce, e anche a chi passa a leggere e basta :) Il mio ego vi è grato XD
P.P.S. Ehi, dimenticavo; di solito io evito di commentare troppo ciò che scrivo, mi sembra di togliere qualcosa. Ma se avete delle annotazioni sui personaggi o delle domande rispondo volentieri :) 


 

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Capitolo 3
*** 25 dicembre 2010. Parte II ***


25 dicembre 2010
Dominavamo la strada tra i lampioni, che ci sfrecciavano accanto come flash sfocati.
Mi è sempre piaciuto guidare di notte, soprattutto la moto, soprattutto nelle grandi città. Anche semplicemente muovermi, in effetti, ma non avrei potuto andare così veloce.
E, inutile dirlo, la velocità mi esalta. O mi tranquillizza, a seconda dei casi.
Quella notte speravo nel secondo effetto.
La Dimora si trovava nel Distretto del Centro e, dato che Sole abitava in Villaverde, dovevamo fare un po’ di strada. Superammo Plaza Mayor, e continuammo su Calle Mayor fino a svoltare in Calle San Nicolas, vedemmo sulla nostra destra San Nicolas de Bari e andammo avanti fino ai Jardines de Lepanto. A quel punto presi Calle de Vergara fino a girare a destra in Calle del Espejo.
Rallentai davanti all’anonimo edificio dai vetri in plexiglass e mi avvicinai al citofono. Invece di suonare, premetti una combinazione specifica di campanelli.
Il cancello si aprì immediatamente, ed io imboccai la piccola discesa che conduceva al garage sotterraneo.
Posteggiai vicino all’entrata e spensi la moto. Mi lanciai un’occhiata alle spalle.
“Non devi piegarti così tanto quando siamo in curva.”
Sole sciolse la ferrea presa attorno alla mia vita e scese goffamente dalla moto.
“Oh, senti, non va bene se mi piego, non va bene se sto ferma, ma guidi tu o guido io?”
Io sorrisi davanti alla sua esasperazione. A Sole non era mai piaciuta la mia moto.
Scesi anch’io, tirai giù il cavalletto e mi tolsi il casco. Poi andai a slacciare quello di Sole, glielo tolsi e le scompigliai i capelli scuri. Lei mi guardò malissimo.
Appoggiai i due caschi sulla sella e mi avviai verso l’uscita del parcheggio. Sole mi seguì.
“E’ solo che dopo tutte le volte che ti ho portata dietro sei ancora incapace. E dovresti tenerti meglio, tutte le volte che piego ho paura di farti cadere.”, la provocai.
Un modo come un altro per stemperare la tensione.
“Mi piacerebbe sapere”, replicò Sole alle mie spalle, legandosi i capelli, “Come avete fatto tu e Navarro ad arrivare fino a casa mia.”
Io feci una smorfia.
“Lascia perdere.”
Lei rise, e anch’io fui capace di una risatina stentata.
Afferrai il freddo corrimano di metallo delle scale, e le salii due gradini alla volta. Aprii la porta d’acciaio sul pianerottolo. Qulla oppose l’usuale resistenza data dal meccanismo di sicurezza, ma si aprì alla mia spinta.
Ci trovammo nell’ingresso, davanti ad un’altra porta, stavolta di legno e vetro. Nonostante sembrasse meno solida della precedente, io sapevo benissimo che chiunque avesse provato a forzarla avrebbe avuto vita breve. Sole si mise al mio fianco, mentre io stupidamente esitavo.
“Che c’è?”
“Niente.”, dissi. “E’ solo strano farlo davanti a te.”
Estrassi la lama celata. Lei non sussultò né indietreggiò come mi ero aspettato.
Quel momento fu davvero bizzarro. Era come se, improvvisamente, la mia vita da Assassino –la vita che, da quando ero stato inziato al Credo a diciotto anni, era diventata la mia vita vera, e non più la mia vita segreta- e la vita che avevo vissuto da bambino a giocare con Sole –che prima del giuramento era la mia vita vera, mentre adesso era diventata la mia vita segreta- avessero finalmente deciso di incontrarsi. Si presentavano e prendevano un caffé insieme. Il fatto che Sole fosse lì mi faceva anche pensare che una delle due ci stesse provando con l’altra.
Ma perché vi sto annoiando con le mie farneticazioni?
Allungai il braccio e feci entrare la lama celata nella minuscola fessura che c’era al posto della maniglia, e con uno scatto la ritirai dentro la manica. La porta si aprì.
Questo non tanto perché la lama fungesse da chiave, quanto per il gesto di richiamarla nella placca metallica; la velocità con cui torna dentro è inimitabile, e attivava una serie di sensori che io stesso avevo creato e che, modestamente, erano stati adottati in tutte le Dimore del mondo.
Inoltre, ognuna delle nostre lame celate ha un codice; la serratura lo legge e lo trasmette ad un computer che elabora i dati. Nome, cognome, età, giorno ed orario della visita, foto. E se la foto non corrisponde alla faccia del tizio che sta cercando di entrare, la porta si arrabbia.
Io varcai la soglia, spingendo Sole davanti a me. L’ultima misura di sicurezza, anch’essa di mia invenzione, era che, se la telecamera nascosta nell’architrave della porta trasmetteva al computer l’immagine di qualcuno tentava di entrare dopo un Assassino, magari minacciandolo, mentre la porta era aperta, scattava l’allarme ed una trappola nel momento in cui il tizio armato superava la soglia.
Un po’ complesso ma indispensabile.
Comunque, ci ritrovammo dentro.
Ci sono tre principali sedi della Confraternita nella Penisola Iberica; a Lisbona, Madrid e Valencia. Io sono stato in tutte e tre, e posso dire senza ombra di dubbio che quella di Madrid era di gran lunga la più bella.
Lo stile emirato arabo non stonava affatto con gli impianti ad alta tecnologia installati nella stanza principale. Occupava tutto il piano con venti postazioni computer; una parete era occupata interamente da un planisfero Peters con luci di diversi colori, che lampeggiavano come quelle che avevo visto un’eternità prima ammiccare dalle finestre della strada dove abitava Eva.
Soltanto guardandolo con molta attenzione ci si accorgeva che non era dipinto sulla parete, ma proiettato su un gigantesco schermo ultrapiatto ad alta definizione. Le lucine in movimento segnalavano gli Assassini, quelli in azione e quelli fermi in tutto il mondo.
Non erano tante come si potrebbe pensare. Noi Assassini, a differenza dei Templari, non abbiamo una gerarchia che comprende superiori e poveri disgraziati mandati a fare il lavoro sporco. Abbiamo un Maestro, certo, ma siamo tutti Assassini, anche se alcuni di noi svolgono un ruolo diverso. Per questo siamo pochi. Relativamente, ma meno dei Templari.
Visto che siamo così pochi, e che nessuno di noi rimane fermo a lungo, non abbiamo tutti il tempo di lavorare per mantenerci da soli. Noi, però, non abbiamo un’industria farmaceutica multimiliardaria, e non la vogliamo; la discrezione è parte del nostro essere, e di certo questo non sarebbe discreto.
Così in ogni Dimora del mondo c’è un Assassino esperto d’informatica, che trasferisce periodicamente dai conti di qualche società molto ricca piccole quantità di denaro su diversi conti fantasma che risalgono a noi. Non prendevamo mai, comunque, più di quello che ci serviva, oltre ad una quota mensile capace di mantenere noi e le nostre basi operative ed efficienti.
Io ero l’hacker della Dimora di Valencia.
Quella di Madrid, la più grande di Spagna, aveva un piano completamente adibito a palestra, comprendente normali attrezzi e simulazione virtuale, oltre agli alloggi dei componenti e alla sala di lavoro e pianificazione dove ora ci trovavamo.
Non mi sfuggì lo sguardo brillante di Sole.
“Com’è essere qui?”, le domandai.
“Soddisfacente.”, mi sorrise lei. “E’ bello scoprire di aver avuto ragione su di te... Su di voi.”
“Ho sempre saputo che lo sapevi.”, le sorrisi anch’io. “E sono contento di non spaventarti... o disgustarti.”
“So molte cose.”, replicò Sole con aria seria. “Per questo mi fido di te e non ho mai smesso.”
Credo che l’avrei baciata, se le circostanze non fossero state tanto penose.
Invece mi voltai e mi avvicinai velocemente ad uno dei computer. Smossi il mouse ed il monitor s’illuminò immediatamente. Sole mi raggiunse e si chinò sul computer, mentre io digitavo velocemente un codice sulla tastiera numerica.
“Cosa fai?”
“Cerco il video di sorveglianza.”
E fu quello che feci. Modificai la registrazione della stanza d’ingresso sostituendola con qualche minuto in cui era vuota. Poi cancellai la registrazione della mia visita fatta attraverso la lama.
Fortunatamente non c’erano altre videocamere all’interno dell’edificio, perché non c’era motivo di dubitare dei confratelli. In quel momento, mi resi conto di quanto fosse stupida quell’idea.
Conclusi rapidamente la procedutra, e poi accedetti ai file della Confraternita. Niente password, niente segreti tra di noi.
Sole continuava a sporgersi oltre la mia testa per vedere il monitor.
“E ora che fai?”, chiese di nuovo.
“Cerco riferimenti ad Elissa e ad una sezione B.”, le risposi pazientemente.
Usai un programma explorer per fare più in fretta, e rapidamente mi presentò i risultati.
O, per meglio dire, non mi presentò proprio un cavolo.
Feci una smorfia che non sfuggì a Sole.
“Non c’è niente?”
“No.”, risposi.
“Questo non è possibile.”, disse lei con decisione. “Riprova.”
E riprovai, usando le parole Didone, Cartagine e di nuovo sezione B.
Niente.
“Deve esserci qualcosa.”, insistette Sole. “Non c’è un’area protetta da una password?”
“No.”, le risposi in tono neutro, e nel frattempo già cercavo ciò di cui parlava Sole.
Devo ammettere che ci misi un po’ a trovarla. Niente da commentare, il supervisore -noi li chiamiamo Rafiq, per abitudine- non era un completo in capace. Nonostante questo, riuscii in poco tempo a guadagnarmi l’accesso alla serie di file protetta.
Come non detto; c’erano evidentemente dei segreti, tra gli Assassini. Ed era normale, a pensarci bene. Era inverosimile che sapessimo tutto di tutti. I miei confratelli non sapevano di Sole, né avrebbero saputo di Eva.
Quello che mi chiedevo era che cosa il Rafiq –anzi, i Rafiq- avesseto voluto nasconderci.
Il primo file che aprii era un documento di testo, uno a caso di una lunga serie conservata in una cartella priva di titolo. Era scritto in un carattere tanto piccolo che dovetti avvicinare il viso al monitor per riuscire a leggere. Sembrava una comunicazione di servizio.
Il titolo recitava: ‘News about PTP A’.
Il simbolo in alto a destra era quello che testimoniava che il mittente era il Sommo Maestro.
 
 
Ci sono arrivate alcune fonti che affermano il passaggio alla sperimentazione umana. Civili nei pressi della loro sede di Denver sono scomparsi, presumibilmente rapiti dall’Organizzazione.
Non sappiamo se stiano avendo successo, e stiamo agendo in modo da fermarli, ma si sta rivelando complesso.

Ancora nessuna notizia dall’infiltrato; è passato quasi un anno. E’ possibile che non abbia modo di farci pervenire i suoi messaggi, ma a questo punto è d’obbligo cominciare ad accettare l’idea di averlo perso.
Ad ogni modo, se ancora è attivo ed è dalla nostra parte, potremmo perderlo al primo passo falso.
 
Per questo, devo chiedervi di tenere i confratelli all’oscuro di tutto, almeno per il momento. Creerebbe soltanto del panico ed un’agitazione che rischierebbe di scoprirci.
Per quanto ci abbia provato, per ora non trovo altra soluzione che quella di tacere.
 
William M.

 
 
Controllai velocemente la data: 22 Novembre 2009. Risaliva a circa un anno prima.
“Si riferisce a quello di cui ti hanno parlato sia Navarro che il Templare?”, mi chiese Sole, riscuotendomi.
Annuii. Mi ero dimenticato che anche lei conosceva benino l’inglese -lingua in cui era scritto il messaggio- e mi stavo già preparando a tradurglielo.
“Esatto. Guarda.”
Le indicai il titolo dell’e-mail.
PTP A.: Prototype Animus.”
“Perché vogliono tenervi all’oscuro di tutto?”, domandò Sole, dopo un lungo attimo d’attonito silenzio. “Se la Confraternita fosse unita, non vi sarebbe più facile contrastare l’Abstergo, e questa pazzia?”
“No.”, le risposi semplicemente. “Noi Assassini siamo persone sveglie, ma anche teste calde, in buona percentuale. Non voglio generalizzare, ma tutti crediamo nella causa, e non penso che riusciremmo stare con le mani in mano: se si venisse a sapere, temo ci fionderemmo tutti a Denver, decretando la fine di quel povero disgraziato all’interno.”
“Ah, capisco.”, commentò Sole.
Forse capì così in fretta perché conosceva me.
“Perché Denver?”, chiese poi.
Mi strinsi nelle spalle.
“E’ una delle sedi più grandi. E, anche se ti sembrerà anacronistico, è in un buon punto strategico.”
“Dopo Assassini e Templari nel 2010, niente mi sembra più anacronistico.”
Con un mezzo sorriso, aprii un secondo documento.
Anch’esso era un file di testo. Si chiamava ‘Effetti esposizione PTP A.’.
A quanto pareva, la Confraternita aveva già qualcuno impegnato a lavorare sull’aspetto tecnico e scientifico. Non era da escludere che si lanciassero nella progettazione di una nuova versione di quell’Animus, o che cos’era.
Quello che continuavo a chiedermi era perché qualcuno volesse scavare nei ricordi genetici di qualcun altro.
Per un albero genealogico più completo e approfondito?
Non credevo proprio.
Il Templare mi aveva detto che cercavano un vaso. Un vaso forse appartenuto a Didone. Io, fino ad allora, l’avevo considerata nient’altro che un personaggio mitologico.
Invece, adesso, mi scoprivo a cercare qualcosa che la collegasse a me, e a mia sorella.
Ma come poteva essere un vaso tanto importante per i Templari?
La risposta aleggiava nell’aria, ma io mi rifiutavo di coglierla.
Fu allora che individuai un terzo documento. Lo aprii, e Sole emise un sussulto di sorpresa.
Si chiamava ‘Aree di ricerca F.D.E.’.
Era un planisfero del tutto simile a quello proiettato sullo schermo alla parete, ed era diviso in aree diverse. Vicina, una legenda a scorrimento titolava ognuna di esse con la parola sezione ed una lettera dell’alfabeto. Per l’appunto, le sezioni erano esattamente ventisei.
Non appena vidi quella che mi serviva, spostai il cursore a istinto –istinto dettato dalle dimensioni del documento- su di essa. Immediatamente l’area s’ingrandì.
Era parte della costa mediterranea dell’Europa –diciamo fino alla Turchia- e dell’Africa.
Era colorata d’azzurro pallido, e diversi –ma non moltissimi- puntini rossi la facevano sembrare in preda ad una leggera forma di varicella.
Apparve quasi subito una nota che congiungeva tutti i punti evidenziati, e affermava: No results.
“Nessun risultato.”, lesse Sole, chinandosi eccitata sulla mia spalla. “Vedi?”, fece poi, picchiettando con poca grazia un dito sul monitor. “Qui: è Cartagine.”
Mi indicava una piccola penisola nel Nordafrica, vicino a Tunisi.
Feci una smorfia. Mi sembrava tirato, vista la grandezza dell’area. Non ero più neanche certo di aver sentito il nome di Elissa. Scoraggiato, mi voltai verso di lei.
“Come fai ad esserne così sicura?”
Lei sorrise trionfante.
“Perché, Andrés, è lì che si trova il tuo vaso.”
 
 
Guardai per un po’ Sole con aria stralunata, prima di riuscire ad articolare qualche parola.
“Di che cavolo stai parlando?”
Lei sbuffò.
“Devo proprio spiegarti tutto?”
Afferrò una sedia girevole dalla postazione vicina alla mia, si sedette e mi guardò.
Io le feci un cenno con la testa.
“Spara.”
“La leggenda di Didone che tutti conoscono ci viene dall’Eneide di Virgilio.”, partì lei. “Pochi sanno che della storia della regina di Cartagine c’erano altre versioni.”
Si sistemò a gambe incrociate sulla sedia.
“Alcune erano considerate troppo inverosimili... Sì, Andrés, anche più inverosimili della storia della pelle di mucca.”, rispose al mio inarcamento di sopracciglia. “E perciò nel tempo si sono perse. Ma antichi documenti ne conservano alcune trascrizioni, così recentemente –diciamo durante il XIX secolo- sono state riscoperte.”
Annuii, considerando la strana idea che Sole aveva del ‘recente’.
“In particolare, un testo anonimo in latino, di provenienza italiana ma tradotto dall’arabo, e risalente –se non mi sbaglio- al 1300 circa, afferma una versione della vicenda di Didone piuttosto singolare.”
Malgrado le circostanze e l’impazienza, adoravo il suo modo di tendere la tensione. Perché, in quel momento, era come se non fossi a salvare la vita di mia sorella, ma d’estate sotto la veranda di Sole, quando faceva troppo caldo per giocare, e allora l’ascoltavo raccontarmi le sue leggende.
“Secondo questo storico, come si autodefinisce, Didone, sposa di Sicheo, era così addolorata per l’assassinio di suo marito...”
“Aspetta: assassinio?”
“Sì, venne ucciso dal fratello di Didone, Pigmalione, che voleva governare Tiro al suo posto. Poi Sicheo apparve alla sposa in sogno, le raccontò tutto e ovviamente lei fuggì alla volta del regno dei Getuli.”
“Ovviamente.”
“Comunque, Didone era così affranta per la morte del suo sposo che una dea, commossa dal suo dolore, volle farle un dono. E indovina che cosa le donò.”
Aggrottai le sopracciglia.
“Un vaso?”, chiesi poco convinto.
Sole storse le labbra e scosse la testa.
“Non un semplice vaso.”, sorrise. “Un’anfora. Un’anfora consacrata a Giunone, piena d’ambrosia, che avrebbe garantito al suo futuro regno stabilità e la forza di resistere a qualsiasi impero. Per questo, secondo la leggenda, Cartagine riuscì ad opporsi a Roma così a lungo. Lo storico la chiama l’Anfora di Didone*.”
La guardai per qualche istante. Poi mi girai sulla sedia, e digitai un altro codice sulla tastiera. Mi si aprì un nuovo explorer, e scrissi velocemente, nell’apposito spazio, le parole: ‘Anfora’ e ‘Didone.’
Nemmeno un secondo, e la schermata si riempì.
 
RICERCA F.D.E.
Anfora dell’Eden – Anfora di Didone
Possibile n°24.
Fonte mitologica. Non confermato.
Sezione B – Sottosezione 9
Ricerche nell’area: 2000-2004
Nessun risultato.
 
Eccolo. Incredibile che tutto fosse come aveva detto Sole; quella ragazza mi spaventava.
I miei occhi indugiarono su ‘fonte mitologica’.
Mi ribollì il sangue, e l’illusione della calma andò in pezzi. Quindi rischiavano la vita di mia sorella per qualcosa che non erano neanche sicuri che esistesse?
In quel momento avevo veramente voglia di assediare l’Abstergo.
E quello che continuavo a ripetermi era che avrei dovuto aspettarmelo. Non c’era niente che i Templari volessero, e niente che non fossero disposti a sacrificare per ottenere quello.
“F.D.E.?”, chiese Sole molto candidamente al mio orecchio.
Neanche valutai la possibilità di parlargliene. Non era come sapere la mia vera identità; c’era molto di più in gioco. E saperlo avrebbe sconvolto il suo mondo o, perlomeno, il suo modo di concepire tutto ciò che era accaduto dall’inizio dei tempi fino a quel giorno.
Per non parlare del Credo: non potevo violare fino a quel punto il terzo principio.
“E’ una storia lunga.”
“Penso di doverlo sapere.”, insistette Sole.
Io non sostenni il suo sguardo.
“Se te lo dicessi, dovrei ucciderti.”
Sole rise.
“Andrés, fa tanto 007, ma di certo non Assassino.”
“No, sul serio.”
Mi voltai verso di lei.
“Dovrei ucciderti.”
Mi fece male quel breve lampo di terrore nei suoi occhi, ma ci passai sopra. Era meglio così anche per lei.
Come se si fosse accorta di avermi fatto dispiacere –io minaccio di ucciderla e lei crede di dover farsi perdonare- disse:
“E ora che facciamo? Mi sto chiedendo da un’ora perché qui non ci sia nessuno che ci aiuti. Adesso dovrai ripetere tutto ai tuoi confratelli.”
“No.”
“Come no?”, fece Sole, confusa.
“Intanto, se qui ci fosse stato qualcuno, non avrei potuto accedere ai file criptati. Secondo, se glielo dico, mi impediranno di andare a cercare Eva.”
“Perché?”
“Manderebbero squadre su squadre a cercare l’Anfora prima che la trovino i Templari. Si metterebbero a combattere, ed Eva verrebbe ammazzata.”
Mi guardava con i suoi grandi occhi spalancati.
“No, non credo che...”
“Tu non lo puoi sapere. La vita di mia sorella, per loro, è meno importante di ciò che c’è in gioco. Salvarla potrebbe compromettere la Confraternita. E non si deve mai compromettere la Confraternita. E’ il terzo principio del nostro Credo.”
“Avete un Credo?”, domandò Sole, senza capire.
“Sì, il Credo dell’Assassino: tre principi, le uniche leggi a cui dobbiamo sottostare. Adesso non c’è tempo per una disquisizione a riguardo.”
Sole tacque per qualche istante. Speravo ricominciasse a parlare in fretta, perché mi ero reso conto di averla trattata male.
“Quindi non hai intenzione di dire niente.”
“Sarò egoista, Sole,”, le risposi più gentilmente, “Ma non riuscirei a lasciare Eva nelle mani dei Templari, anche se questo volesse dire violare il Credo. Farò in modo che non ottengano l’Anfora, ma salvando mia sorella. A costo di andare da solo.”
Sole mi guardò seria per qualche istante. Poi si profuse in una risatina sarcastica.
“Da solo?”
Non lo trovavo granché divertente.
“Tu non farai proprio niente da solo, Andrés, con tutto il rispetto. A malapena hai idea di che cosa stiamo parlando. Io non posso sapere cosa sono quegli F.D.E, forse, ma qui si tratta di trovare reperti archeologici; e sei tu a non saperne nulla.”
“Se so infiltrarmi in qualsiasi sistema informatico riuscirò a scoprire dove si nasconde un vaso.”, risposi seccato.
“Ed è qui che ti sbagli. Non si tratta di codici o di password, è storia. E’ antropologia. E non puoi farcela da solo.”
Afferrai al volo.
“Tu non verrai con me, Sole.”, dissi con forza. “Non ho intenzione di mettere in pericolo anche te.”
“Hai bisogno di me. E non sarò in pericolo, se arriviamo prima. E comunque puoi proteggermi tu.”
“E qui sei tu che non sai di cosa parli. Non sai quante volte sono stato così vicino a morire che ho salutato il mondo...”
“Magari se me ne avessi parlato...”
“E me la sono cavata per semplice fortuna.”, andai avanti, ignorandola. “Non voglio che tu ti trovi nella stessa situazione, Sole, è da pazzi.”
“Beh, noi non siamo mai stati tanto normali. E tutta questa situazione è da pazzi, Andrés, un po’ di follia in più un guasterà.”, sorrise. “Sai che ti posso aiutare. Anzi, probabilmente sai bene che ti devo aiutare, se vuoi combinare qualcosa. Anch’io voglio bene ad Eva.”
Non riesco mai a ribattere quando ostenta quella sicurezza.
Così mi limitavo a scuotere la testa con disapprovazione, mentre pensavo che Sole sarebbe stata un ottimo avvocato. E anche un’ottima Assassina, quanto meno per quella parte del lavoro che riguardava l’estorcere informazioni.
A quel punto, lei fece una smorfia.
“Sai almeno dove andare?”, mi chiese passando al sarcasmo.
Detti un rapido sguardo alla cartina ancora aperta sul monitor.
“Sezione B, sottosezione 9.”, affermai. “Cartagine.”, aggiunsi poi un po’ titubante.
Sole continuava a sorridere e a guardarmi con sufficienza.
“Sì, e fino qui ci siamo. Ma, sai, tutto ciò che rimane di Cartagine sono quattro colonne e qualche strada lastricata, e visto che dubito che l’Anfora sia appoggiata su un bel piedistallo al centro del sito, bisognerà cercare.”
“Posso seguire gli agenti dell’Abstergo quando entreranno.”
“Credevo volessi arrivare prima.”
Stetti zitto.
Non era facile, non era per niente facile decidere se mettere in pericolo la vita di Sole per salvare quella di Eva. Ma Sole la potevo ancora proteggere, Eva no.
Feci un gesto d’esasperazione, e mi passai una mano tra i capelli. 
“D’accordo.”, decisi infine, cupo. “Ma non partecipi, hai capito? Mi dici solo dov’è, e io la vado a prendere. Mentre tu stai a debita distanza, dietro un muro di cinta, con le braccia conserte e un giubbotto di kevlar. Sono stato chiaro?”
Sole annuì, cercando di rimanere seria.
“Cristallino.”
“Bene.”
Detto questo, chiusi tutto e cancellai ogni traccia del mio passaggio dal computer. Poi mi alzai.
“Adesso dove andiamo?”, mi chiese Sole, recuperando il cappotto.
Io rimisi la sua sedia dove l’aveva presa.
“Da un amico. Ci procurerà passaporti falsi e tutta l’attrezzatura.”
Sole si mise la giacca, seguendomi verso l’uscita.
“Non sono cose che fate all’interno della Confraternita?”
“In teoria sì. Ma ognuno ha i suoi contatti.”
“Perché ho bisogno di un documento falso?”
“Non voglio che i Templari scoprano chi sei. Se mi riconoscono e ti notano, almeno dovranno faticare un po’ per trovarti, e intanto io potrò nasconderti.”
“Va bene.”
Eravamo di nuovo al parcheggio.
Misi il casco, e così fece Sole. Salii sulla moto e l’accesi, e lei montò dietro di me.
Quando mi cinse la vita con le braccia, mi parve di sentirla tremare.  

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(*) Anche se ne ho letto, non sono sicura delle mie fonti: il manoscritto me lo sono inventato. Perciò evitate di scriverlo in un compito in classe xD.

Eccomi, stavolta puntuale :) Questo capitolo è lungo rispetto ai precedenti, ma non mi andava di dividerlo. Il brodo si sarebbe allungato troppo. Vi prego, non lasciatevi scoraggiare dal fatto che vi siete addormentati cinque volte durante la lettura: vi assicuro che tutto -ma proprio tutto- ha un senso nello svolgersi della storia. E nel prossimo si parte alla volta di Cartagine, e sarà meno noioso, prometto!
Non pubblicherò il prossimo di domenica, ma in mezzo alla settimana, perché sabato parto e sto via fino al 26 di luglio. Torno a casa l'8, per un giorno, e cercherò con tutte le mie forze di pubblicarne uno. Se volete, questa settimana ne pubblico due di seguito. :) Ditemi voi. Dimenticavo, ho cambiato il nome delle sedi degli Assassini in giro per il mondo: da Basi a Dimore. Penso che suoni meglio, no?
A presto!
Josie

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