To Be Born Again

di Shu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-To Be Born Again - In Your Arms ***
Capitolo 2: *** 2-To Be Born Again - For My Sake ***



Capitolo 1
*** 1-To Be Born Again - In Your Arms ***



 

Luce. Tanta, spaziosa, immensa. Troppa. Troppa, troppa luce addosso, a riempire di colpo di bianco lo schermo degli occhi, a cancellare di prepotenza tutto tranne se stessa, tutto tranne l’impulso di serrare le palpebre, e difendersi sprofondando di nuovo nel sonno.

E poi c’era il peso. Il peso della braccia, delle gambe abbandonate tra le coperte, un’oppressione che affondava nella consistenza arrendevole del materasso sotto la schiena, la sensazione delle lenzuola sotto le dita.

Tatto.

Fuori, lontano, amplificate dal sonno, le chiacchiere degli uccelli, su un sottofondo di alberi e vento.

Udito.

L’odore dell’aria… quell’aroma inconfondibile fatto di pelle, di profumo di sapone nella federa, e, dietro, tutto il resto, lo sfondo dimenticato ed essenziale… oh, dio, la facoltà, la fatica di respirare…

Olfatto.

E poi, se si azzardava a riprovare a schiudere le ciglia, tutta quella luce, luce ovunque, che si faceva più trasparente man mano che i suoi occhi vi si abituavano, lasciando trapelare le linee del soffitto, il colore delle tende, l’intelaiatura della finestra, le sue venature di legno.

Ma soprattutto, sotto a tutto c’era quella sensazione… la presenza

Aprì completamente gli occhi. Poi provò a concentrarsi sul calore che avvertiva tutto intorno, addosso, o forse dentro –non sapeva dire dove, ma lo percepiva- sulle minuscole sensazioni che percorrevano invisibili strade, da laggiù, dai piedi nudi contro le lenzuola, fino agli occhi e al pensiero, strade che sembravano in qualche modo delimitare la sua essenza. Era difficile, difficile soprattutto afferrare quell’idea confusa che si risvegliava in fondo al suo essere, quella straniante impressione di familiarità…

Provò a muovere le dita. Una. L’altra. Il gioco fluido del polso, l’altra mano. Piegare il gomito, il braccio. Ancor prima di intuire il comando, ecco, già la risposta, così pronta, logica, precisa…

Decisamente, sembrava che avesse un corpo.

A lungo restò ad ascoltare il mormorio silenzioso del suo esistere, ad ascoltare tutte le sensazioni che affluivano insieme, disordinate ma così naturali, strane solo per l’istante del contatto, e poi già impregnate di quel sapore quasi inconscio del quotidiano.

Allora era così, rinascere…

Rinascere… un momento.

Nascere… di nuovo… significava che lei doveva… doveva essere… morta.

Seishiro…

E infatti ricordava. Ricordava tutto, perfetto come fosse accaduto da un attimo, confuso solo verso la fine –annebbiate le ultime parole che aveva rivolto al suo assassino, fuggevoli e stanchi gli ultimi pensieri, sicuramente tesi verso il fratello, nel vago tentativo di abbracciare in un solo istante la sua vita e tutto il suo futuro, un futuro felice…

Ma quando mai, in qualsiasi religione, si era sentito che si potesse rinascere ricordando la vita precedente?

Rinascere. Rinascere… era l’idea, ancor più della situazione stessa, ad essere così impossibile, così estranea, così inconcepibile, così…

Decise di alzarsi. Sollevare la schiena e appoggiarla alla testata del letto le costò uno sforzo enorme e un capogiro violentissimo. Poteva sentire il sangue pulsare improvviso e affluire alla testa lentamente, cancellando pian piano le macchie nere e le oscillazioni nella sua vista. Poggiare i piedi per terra –oh, il freddo del pavimento- e tentare un passo… impossibile, assolutamente impossibile, non erano le gambe che non la sostenevano, era che mancava qualcosa, la coordinazione, forse.

Forse… forse, per una volta, la maledizione dei Sakurazukamori non aveva funzionato, forse qualcuno l’aveva salvata, e adesso si svegliava per la prima volta dopo una lunga stanchezza… Ma allora dov’erano tutti? Dov’era la nonna, dov’era Subaru? E dov’era, cos’era quella grande stanza sconosciuta in cui si trovava adesso?

Stavolta riuscì a tenersi in piedi, e persino a muovere qualche passo. Sì, era tutto nuovo, tutto strano, ma la cosa più estranea era quel peso addosso, le sembrava come di essere tanto, troppo alta…

Uno specchio. Un lungo specchio, dentro l’anta di un armadio socchiuso, attirò la sua attenzione deflettendo un improvviso raggio di sole. Si avvicinò. E sulla sua superficie d’argento, insieme alla violenta luce del giorno, si rifletteva un’immagine che non conosceva.

Una figura alta, davvero alta, esile, capelli neri nel leggero disordine del sonno, corti sul collo; e, malgrado la delicatezza del volto, la camicia bianca aperta sul petto mostrava senza equivoco la sottile muscolatura di un uomo.

Arrossì violentemente, volgendo d’istinto lo sguardo dallo specchio. No, non era possibile, non era lei, non poteva essere lei…

Era… dentro il corpo…

Era dentro il corpo di un uomo

Ma poi, una microscopica rifrazione di verde scorta nello specchio con la coda dell’occhio la fece girare di nuovo.

Ed era proprio così. L’immagine sul vetro aveva occhi color smeraldo cupo, appena accesi e resi trasparenti dal riverbero del sole. E subito la tinta di quelle iridi stupefatte si sciolse dietro un velo di lacrime, nello stesso istante in cui la sua visuale si sfuocava, e si disfaceva.

Subaru…

Non poteva essere che Subaru… anche se era tutto così diverso, così cambiato, anche se era sparito tanto di quello che ricordava di lui e che le era familiare più d’ogni altra cosa, non poteva essere che Subaru… Perché la figura nello specchio pareva una naturalissima, elegante variazione sul tema delle sue memorie, e tutto la costringeva ad ammettere che, se mai nell’inconsapevolezza dei suoi sedici anni avesse immaginato suo fratello da grande, avrebbe disegnato un ritratto come quello.

E adesso piangeva non più solo per l’inverosimile emozione di trovarsi dentro Subaru. Adesso piangeva perché infinite volte aveva immaginato come sarebbe stata lei da grande –come sarebbero caduti su nuove guance i capelli più lunghi, come si sarebbe truccata gli occhi e le labbra più piene, come sarebbe sbocciata quella promessa accennata nelle sue forme immature, in cui premevano già impazienti, dentro, i cambiamenti.

Una promessa che non sarebbe fiorita mai…

Poi, lentamente, i singhiozzi cominciarono ad abbandonarla, mentre lei cercava di asciugarsi le lacrime nella manica della camicia sgualcita. Le sfuggì un mezzo sorriso: Subaru dormiva vestito… Non lo poteva lasciare un minuto da solo, che già si trascurava… Osservò ancora una volta il riflesso del suo corpo, i begli occhi dalle lunghe ciglia nere, il viso fine e senza difetti; decisamente, ce n’era abbastanza da far cadere ai suoi piedi qualsiasi ragazza, però era magro, un po’ troppo magro… Spontaneo le salì alle labbra il rimprovero:

Mangi abbastanza, Subaru?”

Si tappò di scatto la bocca con le mani. Quella voce… da dove diavolo veniva quella voce profonda e bassa –così vibrante in gola- quel suono mille miglia lontano sia dalla sua voce squillante che dal tono sempre leggero e ansioso del fratello che ricordava lei? Le scappò una risatina, roca e grave anche quella: beh, a quanto pareva, questa doveva essere la voce del Subaru adulto.

Adulto… ma quanto adulto?

Un familiare morso allo stomaco la distrasse da quel pensiero, la risposta alla sua domanda: Subaru non mangiava abbastanza… Come per un riflesso incondizionato attraversò la stanza, aprì la porta e scese le scale, con la mente ovattata, come ubriacata dal peso di quel corpo che non riusciva a bilanciare sulle gambe, stordita da tutte quelle sensazioni così fisiche, dall’affollarsi di tutte quelle reazioni troppo nuove –antiche?- e automatiche che le facevano piegare le giunture, scendere i gradini, appoggiare le dita sul corrimano.

Al piano di sotto, la luce era ancora più intensa, si diffondeva in tutto il vasto ambiente, batteva sull’acciaio della cucina in fondo alla stanza. Che casa era quella? Non la residenza di famiglia a Kyoto, non l’appartamento suo o quello di Subaru nella capitale, e nemmeno i corridoi stretti e le note stanze della casa a Shinjuku sopra la clinica, la casa di…

Sul tavolo, in bell’ordine, aspettavano una ciotola di riso, bacchette, una porzione di frittelle e la caraffa del tè. Si bloccò. Chi aveva preparato la colazione?

Con chi viveva Subaru?

C’è nessuno?” tentò, ma le rispose solo l’eco della sua voce, ancora straniera alle sue orecchie. Era mai possibile che…

Sei-chan…?

Il cuore le sobbalzò, ancora più forte di come avesse fatto fino ad allora, un’infinità di possibilità incredibili prendevano forma e correvano l’una addosso all’altra… Ma poi si avvicinò ad un piccolo mobile, dove, insieme al telefono e ad un giornale piegato, baluginava il rosso di un fermaglio da donna.

Subaru viveva con una ragazza?

Con il sangue che pulsava sempre più forte nei polsi e la mente affollata di interrogativi, si girò verso il corridoio ed ebbe la sua risposta.

Appesi al muro pendevano due giubbotti sportivi, un lungo cappotto leggero, bianco, una casacca di un’uniforme scolastica, molto più piccola degli altri abiti, e due giacche femminili, di taglie diverse. Troppe cose per una persona sola. Troppe anche per due. E nulla neanche vagamente della misura di Seishiro.

Un altro morso di fame la guidò verso la colazione sul tavolo, ancora tiepida. Buona… almeno c’era la consolazione che ci fosse qualcuno di bravo in cucina a prendersi cura di suo fratello, senza fargli troppo rimpiangere i suoi memorabili piatti… Si leccò le dita dopo le frittelle: un gesto che né il Subaru adolescente né, presumibilmente, quello adulto avrebbero fatto mai… Rise. E la risata le si spezzò sulle labbra.

Il giornale…

Corse furiosamente al mobile del telefono, spiegò in un solo gesto i fogli. E, insieme alle foto di palazzi in fiamme e al titolo disperato in caratteri cubitali, c’era la data: 5 settembre 1999.

Scivolò con la schiena lungo il muro, a seppellire le lacrime nelle ginocchia strette al petto. E se poco prima la sua vita, la vita di Hokuto Sumeragi pareva distante solo un attimo, un battito di ciglia dal suo risveglio, adesso era ai suoi occhi infinitamente lontana, una nave già partita e già svanita dietro la curvatura dell’orizzonte, separata dallo spazio di chilometri di deserti dal mondo così concreto di quella casa, di quel muro, di quel giornale e degli uccelli sugli alberi, fuori dalla porta. Sentiva, instabile come nausea, invadente come acqua ghiacciata nei vestiti, la sensazione di non appartenere a quel luogo, né a nessun altro, di non avere il diritto di sentire quelle lacrime bruciare e poi gelarsi sulle guance, di camminare, di vedere la luce accecante di quel mattino.

Era passato così tanto tempo… un tempo che non ricordava, che non aveva vissuto, scavalcato in un istante per farla svegliare, un giorno, in un corpo non suo, in una stagione non sua…

E allora perché si trovava lì, nel corpo di Subaru?

Di nuovo si passò le dita e la manica sul viso bagnato, asciugandosi poi la mano sulla stoffa scura dei jeans; infine recuperò il giornale dal pavimento, lo aprì.

Forse era passata mezz’ora quando si rialzò da terra per richiudere il quotidiano e rimetterlo al suo posto sul mobile; probabilmente non aveva mai passato tanto tempo in vita sua a leggere un giornale. Ringraziando mentalmente per la colazione, infilò gli stivaletti lasciati nel corridoio e poi il cappotto che sembrava essere il suo, quello bianco, e uscì di casa.

 

 

 

 



 

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[Note…

Che dire… Innanzitutto, che la scintilla d’ispirazione che ha trasformato un semplice abbozzo d’idea in questo racconto mi è venuta leggendo “Sakura and Snow”, una delle straordinarie fanfiction di Natalie Baan…  -Thank you from the bottom of my heart, Natalie! ^__^ Because you let me utilize the inspiration you gave me, but most of all because you always make me dream with your works!-

L’ambientazione è intorno alla prima parte del vol.11 di X; ho immaginato che a Subaru potesse capitare qualche volta di fermarsi a dormire alla residenza degli Imonoyama… E’ solo che mi piace tanto quell’atmosfera di casa che si respira in quel numero del manga…

Il mio obiettivo era cercare di mettermi negli impossibili panni di qualcuno che si è disabituato alla vita… qualcosa di simile al risveglio la mattina, la difficoltà di mettere a fuoco le sensazioni e i luoghi, ma naturalmente ad un livello molto più alto. Mi auguro di aver almeno suggerito l’idea, e soprattutto di non avervi annoiato… Vi prego di farmelo sapere, e di informarmi di qualsiasi critica abbiate! In particolare, grazie alle chiacchiere con Juuhachi Go riguardo a “Incontro”, ho cercato stavolta di migliorare la chiarezza espositiva (anche se qui la situazione era ancora più intricata!), ma anche di mantenere un alone di mistero, di sospensione.

Beh, questo sarebbe, nelle mie intenzioni, soltanto il primo capitolo… sempre che ci sia qualcuno che abbia voglia di leggerne il seguito!^^

Colgo l’occasione per un saluto a Kairi84, perché non ho ancora avuto modo di ringraziarla per aver commentato molte delle mie fic, quindi lo faccio adesso!^__^

Allora a presto, spero! E grazie di aver letto!! Shu- ]



 

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Capitolo 2
*** 2-To Be Born Again - For My Sake ***


 

All’improvviso, senza nessun motivo, l’ultima boccata della sigaretta gli si bloccò in gola. Tossì, due brevi colpi, ma piuttosto inusuali per lui, che fumava da quando aveva sedici anni e non ricordava nulla di vagamente simile ad un’influenza da quando ancora non aveva neanche iniziato la scuola. Ma forse quell’ostacolo nel respiro doveva essere colpa di un altro fumo, quello pesante di piombo e benzene che si gonfiava, denso, dalle finestre di uno dei grattacieli nani stretti in cerchio al Sunshine City come un corteggio di ancelle attorno a una nobildonna. L’incendio era quasi domato, anche se il fumo sembrava ancora ribellarsi; l’edificio aveva retto, “Non ci sono vittime!” gridava un vigile del fuoco col sorriso sporco di fuliggine.

Aspetta e vedrai.

Buttò il mozzicone e s’infilò subito tra le labbra una nuova sigaretta. Ma l’accendino, comprato nuovo neanche due ore prima, si rifiutò inspiegabilmente di fare il suo dovere. Allora non era proprio giornata… Chiese da accendere al primo passante.

“Ma non lo sa che fumare fa veramente male?” gli rispose quello, accigliato.

Seishiro sorrise. Allontanandosi, insieme ai passi sul marciapiede ripercorse i lunghi anni trascorsi a studiare modelli di bronchi, trachee e polmoni con la sigaretta in bocca… E di colpo, inaspettatamente gli attraversò la mente un ricordo diverso…

“Ma dai! Sul serio fai il veterinario? Dev’essere super! Come mai hai deciso di studiare proprio quello? Ci avrai messo un sacco di tempo…”

La prima volta che aveva conosciuto la ragazzina. La prima volta che l’aveva portata in giro -con il fratello che la implorava di lasciare in pace il signor Sakurazuka, e di tornare a casa- per i negozi di Tokyo, tra gridolini d’entusiasmo e domande a raffica…

Chissà perchè gli era venuto in mente proprio allora.

“Perché ho sempre amato gli animali, Hokuto-chan… davvero, soltanto questo!”

Davvero…

Beh, in fondo era quasi vero. Certo, il verbo amare era sicuramente un’esagerazione, ma doveva ammettere che gli animali avevano sempre destato abbastanza la sua curiosità. Ovviamente l’idea della clinica era stata finalizzata a una soluzione per la questione del sakanagi –oh, davvero una soluzione elegante, ancora la rimpiangeva un po’- aveva studiato veterinaria giusto per quello, e per procurarsi una copertura qualsiasi. Sorrise ad un altro ricordo, questa volta gli occhi neri sbarrati della sua compagna di banco al corso di anatomia patologica, quando aveva aperto il libro ad una pagina completamente imbrattata di rosso… non gli veniva in mente quale giustificazione avesse tirato fuori, –si invecchia, caro mio…-  ma rammentava che l’episodio era stato piuttosto divertente.

Eppure, studiare gli animali era stato in un certo senso anche interessante. Lo affascinava la logica così perfetta di quell’istintività, quell’aggressività e, un istante dopo, la fiducia e le fusa… Trattare con loro era tanto facile… quella semplicità, quella totale assenza di complicazioni e pensieri che pareva così vicina alla purezza assoluta…

E la purezza a lui era sempre sembrata una cosa sola: il vuoto.

Per questo aveva passato tanti anni a studiare nomi di ossa, di tendini, di muscoli –per vedere cosa fosse, nella realtà, nella carne quella purezza, se davvero esistesse scritta in una lingua tutta sua nelle spire del DNA.

Per questo, forse, aveva passato un anno intero… a cercare quell’inesistenza in due laghi di smeraldina innocenza, curioso di come fosse, di come si potesse vivere in quell’invariabile limpidezza.

Fu più fortunato con un ragazzo coperto di tatuaggi e piercing, che gli accese la sigaretta senza fare tante storie. Il lampo dell’accendino, uno sguardo casuale del giovane –aveva anche lui gli occhi verdi…

Una stordente sensazione di deja-vu –un improvviso bagliore di sole contro lo smeraldo trasparente di quelle iridi, contro il metallo di un coltello da cucina…

“…se tu dovessi farlo soffrire… io ti ucciderei.”

Ringraziò, inspirò nel familiare sapore corposo del fumo. Incredibile come quegli occhi fossero stati esattamente identici, e allo stesso tempo così differenti da quelli del gemello. Nello sguardo del ragazzo le emozioni affioravano e passavano come nubi nitide contro l’azzurro compatto del cielo, sabbia bianchissima sotto l’acqua verde di qualche spiaggia tropicale. Sì, era un ossimoro –e lui non aveva certo nessuna velleità di poeta- ma poteva dire che, in quello sguardo, anche le profondità dell’animo del sedicenne erano in superficie.

Ma gli occhi di lei… nello stesso colore, un velo di diffidenza, un istante di sorriso obliquo, di sicurezza simili ai suoi, di Seishiro stesso. Da un lato, la spontaneità, l’allegria, la leggerezza di una ragazzina –ma dall’altro il sospetto, la maturità, la forza di guardare in faccia la realtà. Contraddizioni forse, sì –ma non erano proprio quelle contraddizioni così naturali a formare l’animo degli uomini?

Solo quello di lui era così compatto, fermo, monolitico.

Camminando verso il Sunshine, scansando la folla, pensò che probabilmente Subaru –e chiunque altro sapesse di lui- lo considerava il prototipo della doppiezza, dell’ambiguità e della contraddizione. Come poteva un uomo comportarsi come la gentilezza e la premura fatte persona, ed essere in realtà il più freddo degli assassini? Scosse la testa, gli sfuggì dalle labbra una mezza risata. Una passante si girò a guardarlo, e lui allargò il sorriso: la giovane donna arrossì, sorrise anche lei, e riprese a camminare in tutta fretta.

Era così facile…

Era talmente facile essere così… sorridere, e poi colpire, apprezzare e godere quanto il gioco aveva da offrire, fin quando non arrivava il momento di riscuotere il tributo. Non ci vedeva nessuna contraddizione, nessuna finzione. Era perfettamente logico. Che senso avrebbe avuto, se nell’uccidere non ci metteva l’arte, se non afferrava le occasioni che ballavano la loro danza sfrenata nel dedalo della città, se non assaporava ogni istante della sfida -con in sottofondo il rassicurante, immutabile pensiero che comunque fosse andata, sarebbe stato lui a vincere? Così, c’era sempre qualcosa che sapeva cogliere, rosso bocciolo di fiore raro in mezzo a mille margherite tutte uguali –il lampo di comprensione negli occhi della sua vittima, il piacevole vuoto nello stomaco del pericolo e della tensione, un soffio di vento, e la notte, e una mattina di sole. Forse era anche questo un ossimoro –era davvero una strana giornata- eppure lui, la perfetta incarnazione del Sakurazukamori, l’Angelo distruttore della Terra, si considerava uno che sapeva godersi la vita.

Sakurazukamori. Drago della Terra. Poteva avvertire, quasi fisico, il distacco, la barriera che lo separava dalla confusione dei clienti che entravano e uscivano dai negozi, degli avventori dei bar le cui giacche sfioravano, per un istante, la sua. Ma, in un certo qual modo, sapeva di essere allo stesso tempo parte di quella calca, nell’essenza o forse nell’apparenza, chissà, le due cose si mescolavano. La coscienza di essere diverso e uguale, semidio della morte e della distruzione nel corpo di un uomo come milioni di altri –che come milioni di altri provava piacere nell’aspirare la sua sigaretta e nel vedere le lunghe gambe della bella donna che attraversava adesso l’incrocio, e dolore se il bordo delle pagine di un libro gli scalfiva improvviso la pelle, una smorfia, succhiare il sapore di una stilla di sangue dal dito…

E allo stesso tempo, oltre l’adrenalina e la fame, oltre il freddo e la voglia di restare a dormire cinque minuti in più dopo la sveglia, c’era il suo potere. Il potere, che riplasmava il mondo intorno a lui, trasformando le cose di ogni giorno in fili di perle e diamanti, le tragedie in indifferenza, la realtà in un gioco e il suo gioco, l’universo del Ciliegio, nell’unica verità.

Diverso ma uguale. Simile e opposto. L’assassino e l’amabile veterinario di Shinjuku. E tutto in perfetta armonia, fluido come bianco e nero che si fondono senza conflitto, senza rinunciare l’uno ad essere bianco e l’altro ad essere nero. Insanabili contraddizioni solo per chi non sapesse cosa significasse…

Essere un Sakurazukamori.

E finalmente, oltre la folla, oltre il fiume di ferro del traffico, gli si aprì davanti agli occhi la piazza, e tutta la vertiginosa altezza del Sunshine City.

Era da diverse ore ormai che le scosse erano cessate, non c’era nessun terremoto, eppure lui sentiva, sotto i suoi piedi, il cemento vibrare –era la barriera, il suo bagliore rosso pulsante nei più oscuri recessi della terra, era la barriera che lo chiamava.

Ikebukuro. Sicuramente uno dei luoghi del pianeta dove il genio architettonico si era slanciato nella maniera più ardita e impressionante. La colossale scala mobile del Metropolitan, il labirinto dello shopping del Tobu, i grandi magazzini Seibu, cinquanta ristoranti solo all’ultimo piano –e poi il Sunshine, l’inconcepibile progetto di una città in un solo edificio… Tutto, tutto sembrava sfidare costantemente il cielo e la gravità, provare a salire più in alto, sempre più in alto, la torre di Babele che si ribellava al Paradiso, tutto sembrava chiamare, e dire provaci, dai, avanti, distruggimi

Avrebbe risposto volentieri all’appello.

Era lì per abbattere il Sunshine. Un altro passo verso la conclusione, la conclusione di quel mondo di maschere e di autostrade, di gente che moriva di fame e di gente che possedeva quei grattacieli, di manie di grandezza e sogni antichi e moderni che si credevano più concreti di quelli fatti nella mente solo perché costruiti di pietre –e che invece sarebbero crollati come i castelli in aria, come gli effimeri desideri degli abitanti di quel pianeta.

Un altro passo verso la conclusione del suo mondo –avrebbe ucciso Subaru, in quel giorno che avrebbe messo fine ai giorni. E lui sarebbe morto, tutto sarebbe morto, probabilmente anche la sua stessa esistenza sarebbe finita, allora, ma non importava.

Perché avrebbe vinto la sua scommessa, la sua personale partita con la vita.

Sei stata decisamente un po’ sciocca, Hokuto-chan…

--Se tu dovessi tentare di uccidere Subaru nella stessa maniera in cui hai ucciso me…-- …come se un Sakurazukamori non conoscesse altri mille modi per dare la morte.

Raffinata tecnica, senza dubbio, peccava solo un po’ di quell’ ingenuità che sembrava essere un marchio di fabbrica della famiglia Sumeragi. Anche se Hokuto aveva dimostrato senz'altro un carattere interessante, e un intuito fuori dal comune…

Hokuto…

Perché mai… stava di nuovo pensando a lei, la sua immagine, la voce della sua risata più chiara e vicina di quanto non fosse mai stata in tutti quegli anni… il sapore di quella presenza, un ricordo chiuso in un attimo e una pennellata di colore nell’aria, sopra le mille interferenze della vita normale…

Una boccata di profumo che passava col vento…

Due occhi verdi spalancati a guardare dentro ai suoi. Ma erano quelli di Subaru.

 

 

 

 

 

 

 

 ----

[Note…

Ed eccoci qua… alla mia personale risposta in merito alla straordinaria personalità di Seishiro. Questo capitolo vorrei dedicarlo ad Harriet: ce ne siamo fatte di chiacchierate sul conto del sig. Sakurazukamori… Soprattutto su quest’idea che ho, che Seishiro, in tutto quello che abbiamo visto, non porti mai nessuna maschera. Certo, in TB finge di essere innamorato di Subaru, ma tutto quello che fa gli viene con la naturalezza, con la semplice leggerezza con cui attraversa la vita. Senza sentimenti, è tutto facile, è tutto piano, tutto allo stesso livello, Seishiro non ha bisogno di simulare niente. Lui è veramente così.

Forse è un po’ strampalata l’idea che abbia studiato davvero veterinaria… ma che ci volete fare, mi piaceva! E poi, qualcosa avrà pur dovuto fare, no?^_^

La sezione su Ikebukuro è solo basata su guide sfogliate in libreria, purtroppo non sono mai stata in Giappone… Perdonatemi tutti i possibili errori!

Vi ringrazio taaaaantissimo per aver letto e commentato il primo capitolo! Grazie davvero, sapete bene quanto è importante per me sentire i vostri pareri e le vostre riflessioni…

Un saluto speciale alla mia amica dai tre nomi ^___^ (l’interessata capirà!) che non solo mi sopporta tutti i giorni sui banchi dell’università, ma ha avuto anche il coraggio di leggersi le mie fanfic!

Pronti per l’ultimo capitolo? Come sempre, sarei contenta se mi segnalaste tutto quello che non vi va giù!

A presto…

 –Shu- ]

 

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