L'alba del morto vivente

di Malvagiuo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ospedale ***
Capitolo 2: *** Il profumo ***
Capitolo 3: *** Fame ***
Capitolo 4: *** Sete di sangue ***
Capitolo 5: *** Il gatto e il topo ***
Capitolo 6: *** Io ti caccerò ***
Capitolo 7: *** Il condominio ***
Capitolo 8: *** Il ritorno di Lucky ***
Capitolo 9: *** Un nuovo destino ***
Capitolo 10: *** Ricordi ***
Capitolo 11: *** Un dio ***
Capitolo 12: *** Identità ***
Capitolo 13: *** Babbo Natale ***



Capitolo 1
*** Ospedale ***


Se amate il genere zombie/apocalittico, spero che il racconto vi piaccia. Non so ancora se terminarlo entro il prossimo capitolo o farlo continuare a oltranza. Se il mio lavoro vi sembrerà interessante, commentate o recensite e cercherò di aggiungere capitoli con regolarità. Fatemi sapere. Buona lettura!



Apro gli occhi e la prima cosa che vedo – che non posso non vedere – è il soffitto bianco che mi sovrasta.
Sono disteso su un letto che non è il mio. Lo capisco da subito perché la mia camera da letto non ha il soffitto bianco. E se questo fondamentale dettaglio non quadra, dubito che quadreranno tutti gli altri.
A mano a mano che acquisto lucidità, mi accorgo di molte cose. Innanzitutto, di essere nudo. Completamente. Secondo, sono circondato da una varietà di oggetti acuminati e luccicanti appoggiati su vari supporti. Hanno tutta l’aria di essere strumenti chirurgici. Terzo, capisco di trovarmi effettivamente nel bel mezzo di una sala operatoria. Quarto, e questo è piuttosto sconvolgente, alzando il capo vedo che il mio torace è spalancato come le ante di un armadio durante le pulizie di primavera.
Sgrano gli occhi per la sorpresa e un urlo mi muore in gola. Nemmeno io capisco come faccio a trattenerlo.
Fisso le mie carni esposte alla luce artificiale della lampada, rosse e lucide, e istintivamente tento di richiudermi la gabbia toracica spingendone le due estremità verso l’interno con le mani. Non c’è niente da fare. Le costole spingono verso l’esterno, com’è nella loro natura, e senza ricucire il profondo strappo è impossibile richiudere il tutto.
Sono troppo sconvolto per rendermi conto che non sento alcun dolore. Questo è certamente strano, ma è senz’altro più assurdo il fatto che io sia ancora vivo con un simile squarcio in mezzo al petto. Tento di giustificare l’assenza di dolore con una dose massiccia di morfina o roba simile che deve essermi stata iniettata in precedenza. Ipotesi che mi convince assai poco.
Ma le sorprese non finiscono qui.
Sono ormai diversi minuti che osservo attonito le mie interiora. Prima ero troppo sgomento per accorgermene, ma ora lo noto distintamente. Niente si muove all’interno del mio corpo. È tutto immobile.
I polmoni non si gonfiano né si restringono. Il che, in un certo qual modo, è normale: non sto respirando.
Provo a inspirare dell’aria, senza riuscirci. Ogni mio tentativo è vano. Insisto per diversi minuti, ma non c’è verso di introdurre in gola un fiotto d’aria che vada a rigonfiare quella massa spugnosa e grigiastra che sono i miei polmoni. Rinuncio a espirare sulla fiducia.
Nemmeno il cuore dà segni di vita. È tutto calmo, lì in mezzo. Non conosco a tal punto l’anatomia da riuscire a distinguere con sicurezza i vari organi che mi sembra di intravedere, ma giurerei che quella piccola protuberanza compatta che si incunea tra i polmoni sia il cuore. Ed è proprio fermo. Paralizzato. Inerte. Morto.
Morto.
Per la prima volta da quando sono sveglio, questa parola si affaccia alla mia mente.
Io devo essere morto. Comincio a convincermi davvero di essere morto. Il problema è che, però, sono vivo.
 
Dopo essermi alzato, cammino tentoni fino all’uscita della sala operatoria. Non mi sento nemmeno le piante dei piedi. Riesco a muovermi, ma non sento nessuna appendice del mio corpo. Appoggiandomi alla porta, improvvisamente mi si affaccia alla mente il pensiero che prima di tutti gli altri mi avrebbe tormentato se solo non fossi stato distratto da ben altre stranezze.
Dove sono finiti tutti quanti?
Se sono in una sala operatoria, significa che mi trovo in ospedale. E se sono in ospedale, non dovrei trovarmi solo in sala operatoria. Moltissime cose non quadrano, oltre al mio petto squarciato.
Di fianco alla porta, trovo un camice verde. Lo indosso e mi accorgo di non sanguinare nemmeno. Forse è per questo che sento un intorpidimento diffuso: non ho più sangue da versare. E allora come posso essere ancora vivo?
Assillato dalle domande, varco la soglia e mi ritrovo in un lugubre corridoio d’ospedale, del tutto simile a quelli presenti nei più classici film dell’orrore orientali. È deserto. C’è silenzio. Non si sente un lamento o un grido da nessuna parte. Un ospedale silenzioso non è normale. D’altronde, non è nemmeno normale che i medici abbandonino un paziente col torace aperto nel bel mezzo di un’operazione.
 
Sono disceso fino al pianterreno, ma non ho incontrato nessuno. Nel frattempo, sono riuscito a raddrizzare la mia andatura e a camminare come una persona normale. Guardandomi in basso, noto che le mie costole sporgono leggermente dal camice, generando una superficie frastagliata ai lati. Facendo attenzione, si nota benissimo.
È notte. C’è luce perché i lampadari al neon funzionano e irradiano di luce diafana i corridoi e le sale d’attesa. Vedo del disordine un po’ ovunque: documenti sparpagliati per terra, vestiti abbandonati e qualche sporadica chiazza di sangue. Queste ultime mi preoccupano leggermente, e la mia curiosità viene stimolata nei modi più impensabili dalla loro visione. A essere sinceri, non mi va di vagare da solo per l’ospedale, e per giunta di notte. Ho sempre avuto paura di questi luoghi, e l’idea di doverne esplorare uno da solo, di notte e col rischio che le luci si spengano all’improvviso non mi alletta per niente.
Così, decido che è meglio uscire all’esterno a cercare aiuto. Scendendo la gradinata dinanzi all’ingresso, una tenue brezza estiva mi viene addosso scompigliandomi i capelli. Ma è solo grazie a quest’ultimo fatto che me ne accorgo. Non sento il tocco dell’aria sulla mia pelle, non avverto la sua freschezza, la sua impetuosità. Sento solo i capelli muoversi, agitarsi. Ho perso ogni sensibilità. L’unico senso che mi è rimasto è l’equilibrio. Perché?
 
Anche fuori è deserto, ma – a differenza dell’ospedale – il silenzio non regna sovrano.
In lontananza, sento distintamente suoni e voci. Sembrano esplosioni, il cui rombo è attutito dalla distanza. Voci che paiono lontane chilometri si sollevano in grida strazianti. Nonostante le urla siano molto distanti, le percepisco nitidamente. È confermata ormai l’angoscia che mi attanaglia le viscere già da diversi minuti. Sta succedendo qualcosa di davvero orribile qui attorno.
E anche dentro di me.
 
Mi ritrovo a camminare per la strada asfaltata, solo, ricolmo di domande e senza la benché minima idea su dove andare o cosa fare.
Dovrei cercare la mia famiglia. Anzi, devo trovarla. Devo arrivare a casa, anche se è lontano da qui. E devo trovare lei. Francesca. La donna che amo, di cui in questo momento non ho alcuna notizia per la prima volta da quando ci conosciamo. Non so da dove cominciare a cercarla, e una profonda inquietudine mi opprime il cuore non più pulsante.
Ma sopraggiunge qualcosa a distogliere la mia mente dai pensieri che la affollano. Dall’oscurità, emerge una figura barcollante che sembra dirigersi esattamente verso di me. Se da una parte mi sento sollevato nel constatare che è rimasto qualcuno per le strade, dall’altra una nuova angoscia si impadronisce di me. La sagoma che mi si avvicina è decisamente inquietante. Non riesco a distinguerne i particolari, ma – in base a quello che posso dedurre dai movimenti – deve essere afflitta da gravissime ferite. Zoppica vistosamente, trascina i piedi con fatica ed emette suoni che interpreto come gemiti di dolore.
La raggiungo e, con delicatezza, prendo il suo braccio e lo appoggio sopra le mie spalle. Le rivolgo qualche domanda ma come risposta non ricevo altro che borbottii incomprensibili. Probabilmente è in stato confusionale. Mi sorprende che si regga ancora in piedi. Trascino quel corpo appesantito dalla fatica verso il lampione funzionante più vicino, a una ventina di passi da noi, in modo da poter appurare l’entità delle sue ferite e, magari, fare qualche domanda specifica sulla situazione.
Appena penetriamo nel cono di luce, mi volto e guardo negli occhi ciò che sto sorreggendo.
Lancio un urlo e mi scrollo di dosso terrorizzato il braccio del passante. Il mio cuore non batte, ma percepisco nitidamente il terrore attanagliarmi il petto nel vedere che l’uomo che ho soccorso ha il volto ricoperto di sangue e le orbite cave. La mandibola è stata strappata da un’estremità e pende dalla bocca, sorretta dai muscoli ancora intatti e da qualche lembo di pelle. La lingua penzola di fuori, ancora attaccata alla propria radice ma in procinto di recidersi definitivamente. Ora campisco i suoni gutturali e il silenzio alle mie domande. Nonostante il dolore lancinante che deve scaturire da quelle orripilanti ferite, non riesco a provare che disgusto e orrore per quell’essere, che dovrebbe essere ormai dissanguato.
Ma anche io dovrei essere morto.
Per la prima volta dal mio risveglio, la mia nuova natura comincia a rivelarsi.
Osservo con attenzione il mio compagno di sventura, comprendendo che ciò che lo affligge è in buona parte ciò che affligge me. Ma, improvvisamente, subentra qualcosa che mi impedisce di concentrarmi su di lui.
 
Un profumo come mai ne avevo odorati in vita mia invade le mie narici.
Qualcosa di indescrivibile, che accende in me l’entusiasmo tipico di un adolescente dinanzi a una nuova conquista amorosa. Il che è davvero incredibile, data la situazione in cui mi trovo.
Sembra che anche il mio nuovo – per così dire – amico, non sia insensibile al profumo. Si è affacciato al nostro naso, tenue e timido, e ci attira come insetti impollinatori. Dimentico di avere il torace squarciato, dimentico che al mio fianco c’è un uomo dal volto maciullato... esiste solo il profumo.
Naturalmente seguo la scia e mi lascio alle spalle l’uomo, che non può mantenere la mia andatura.
Essendo in grado di farlo, mi metto a correre. Senza poter fare niente per impedirlo, dalla mia bocca escono gemiti gutturali che mai avrei pensato di poter produrre. Mi spaventerebbero, se la mia mente non fosse totalmente presa dalla ricerca della sorgente del profumo. Scorrazzando per i vicoli deserti, calpesto e salto corpi abbandonati sull’asfalto. Li ignoro, tanto è potente l’attrazione del profumo. Infine, lo trovo. O meglio, capisco dove è nascosto. Sono di fronte a una scuola elementare. Ora che ci penso, lì dentro ci ho studiato anche io. L’aroma irresistibile proviene in modo inequivocabile da lì dentro. In una di quelle aule, si nasconde l’oggetto del mio morboso desiderio. Scavalco agilmente gli ostacoli davanti all’ingresso, forse procurandomi qualche ferita. Non sono sicuro di questo, poiché non sento nulla fuorché il contatto con gli oggetti metallici acuminati.
Inspiro profondamente e sento i polmoni rigonfiarsi. Inspiegabilmente, funzionano.
La traccia è fortissima e talmente nitida che mi sembra di vederla con gli occhi. Chiunque l’abbia lasciata, è passato di qui meno di cinque minuti fa. Mi precipito nel seminterrato e corro sulle scale. Mi ritrovo di fronte un corridoio buio e deserto. Dovrei averne paura, come è avvenuto in ospedale, ma ancora una volta l’odore sovrasta la mia razionalità. Lascio che l’oscurità mi sommerga, facendomi strada attraverso di essa guidato dal mio naso, mai sazio di questo aroma.
Infine, eccomi davanti a una porta metallica. Qualunque cosa stia cercando, è lì dietro. Le mie dita si serrano intorno alla maniglia e la spingono verso il basso, ma è chiusa. Do una spallata energica, ma è resistente. Sono tentato di prenderla a calci, ma so che non servirebbe a nulla. Una rabbia indescrivibile comincia a farsi strada in me, senza che possa far niente per placarla. Voglio entrare a ogni costo, ma non so come.
Improvvisamente, sento un debolissimo lamento provenire dall’altra parte della porta. C’è qualcuno lì dentro. Rinvigorito dalla speranza, sollevo la voce.
«Ti prego, fammi entrare! Aiutami! Non lasciarmi qui fuori!» supplico, battendo i pugni contro la fredda superficie metallica.

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Capitolo 2
*** Il profumo ***





Ed ecco apparire una vocina, flebile e terrorizzata. La voce di una bambina.
«Chi sei?» chiede, sull’orlo delle lacrime.
Per la prima volta in vita mia, mi trovo spiazzato di fronte alla domanda. Chi sono, in effetti? La persona che ero prima si sarebbe lasciata attrarre da una sensazione voluttuosa in maniera tale da ignorare un ferito grave e decine di cadaveri sulle strade? Difficile crederlo. La persona che ero prima sarebbe sopravvissuta con una ferita di tale entità nel petto? Ancora più difficile pensarlo. Per la prima volta da quando mi sono svegliato, mi interrogo profondamente sulla nuova natura che pare caratterizzarmi. Esito diversi istanti, ma alla fine decido di rispondere alla bambina che ancora attende.
«Sono solo. Ti prego, ho bisogno di vedere un’altra persona. Apri la porta, ti supplico!»
Percepisco chiaramente la sua esitazione. Ha paura. Ma di cosa, esattamente?
«C’è il mio papà con te?»
«No, piccola. Te l’ho detto, sono solo».
«Papà mi ha detto di non aprire a nessuno... a meno che...» disse lentamente, trattenendo a stento un singhiozzo.
«A meno che?» incalzai.
«A meno che non ci avesse messo troppo a tornare. Ha detto che in quel caso... in quel caso avrei dovuto aprire a... alla prima persona in grado di parlare che fosse capitata».
Rimango perplesso ascoltando le ultime parole. Io non so niente di quel che è successo nelle ultime ore, ma comincio a intuire qualcosa estraendolo da tutto quello che la bambina dice tra le righe. Capisco che è avvenuto qualcosa di grave, qualcosa di talmente grave da indurre un padre a nascondere la figlia nel sotterraneo di una scuola e ad andarsene... per cercare aiuto? Sembrerebbe la cosa più probabile. Ma cosa può essere avvenuto di tanto terribile da costringere un padre a comportarsi così?
Ma ciò che mi colpisce di più è il fatto che l’uomo le abbia detto di non aprire a nessuno… a meno che non fosse tornato al più presto. Ciò è molto inquietante. Sottintendeva la possibilità che potesse non tornare. Mi tornano alla mente i ricordi dei cadaveri che ho scavalcato venendo qui. E se tra loro ci fosse stato quello del padre di questa bambina? Allontano rapidamente da me il pensiero. Non posso fare altrettanto con il nuovo pensiero che ora monopolizza la mia mente: che cosa potrebbe averlo ucciso? La risposta risolverebbe i moltissimi altri interrogativi che mi assillano.
L’ultimissima frase è, tuttavia, quella apparentemente meno dotata di significato. Per quanto mi scervelli, non riesco a darle un senso compiuto.
«Come ti chiami?»
«Michela» sussurra debolmente.
«È un piacere conoscerti, Michela. Io sono Roberto. Vengo dall’ospedale. Mi sono risvegliato lì e non capisco che cosa stia succedendo… me lo potresti spiegare tu?»
Michela trattiene a stento il pianto. Devo decifrare molte parole in mezzo ai singhiozzi.
«Io non lo so cos’è successo. Papà... papà ha cominciato a dire che dovevamo andare via. Non mi ha detto perché. Diceva di stare tranquilla, ma lo vedevo che aveva paura. E poi... e poi… » un accesso di pianto incontrollabile. «E poi… abbiamo visto il nonno. Ma non era più il nonno. Era… era cattivo! Ha cercato di mordere papà, e io piangevo, gli chiedevo di smetterla, ma non smettevano! Alla fine… papà lo ha picchiato finché non si è più mosso… poi mi ha presa e ha detto che dovevamo andare via».
«Ma cosa significa?» domando, esasperato, perché non riesco a comprendere il senso del tutto.
«La gente è diventata cattiva dappertutto!» continuò la bambina, ormai inarrestabile. «Ho visto… ho visto uomini mordere donne e bambini… e poi anche loro diventare cattivi! Hanno cercato di morderci, ma papà gli ha sparato».
Rifletto in silenzio. La bambina mi sta descrivendo una sorta di epidemia, a quanto sembra. Gente che cerca di mordere altra gente... sembrerebbe rabbia. D’istinto mi controllo, ma non ci sono segni di morsi in nessuna parte del mio corpo. Tuttavia, ricordo improvvisamente che il virus della rabbia ha un lungo periodo di incubazione, e trascorrono settimane prima che la malattia si manifesti. Non si tratta certo di un evento subitaneo come quello descritto dalla bambina.
«Da quanto tempo è via il tuo papà?»
«Cinque giorni».
«Come sei sopravvissuta qui da sola per cinque giorni?» chiedo, esterrefatto.
«Papà mi ha portato qui perché diceva che qui era sicuro... aveva preso da mangiare e da bere da casa e mi ha detto che andava a cercare la mamma. Poi sarebbe tornato e ce ne saremmo andati lontano…»
Cinque giorni. Troppi. Decisamente troppi. Capisco quello che la bambina già sa, ma che si rifiuta di accettare. Il suo papà è morto. Morto nel tentativo di riunire la famiglia. Ora capisco perché le ha detto che se avesse tardato troppo, sarebbe dovuta fuggire con qualcun altro. Qualcuno dotato di parola, ossia immune dal misterioso contagio, che evidentemente preclude la capacità di parlare. Se fosse vivo sarebbe già tornato, con o senza la mamma. Temo che la responsabilità della bambina ora gravi sulle mie spalle.
«Michela… devi aprire la porta. So parlare, no?»
Un minuto di silenzio.
«Andiamo a cercare insieme tuo papà. Dobbiamo andare di via di qui, qualunque cosa stia succedendo».
Trascorrono altri cinque minuti di silenzio, che decido di rispettare. Michela sta prendendo la decisione più importante della sua vita fino a quel momento.
E poi, sento il suono metallico di una chiave che gira. Sento lo scatto della serratura, e la porta è aperta.
Non appena la soglia si dischiude e vedo con i miei occhi Michela, ogni mio sentimento umano di compassione e tenerezza scompare nel nulla. Ecco di nuovo l’odore. Finalmente capisco cos’è che mi ha davvero attirato fin lì. Il profumo è quello della sua carne, del suo sangue. Dei suoi capelli biondi sporchi e unti, della sua pelle ricoperta di avanzi di cibo e dei suoi occhi verdi umidi di lacrime. Ciò che mi ha attirato fin qui è lei stessa. Io voglio lei. La voglio dentro di me.
Voglio ucciderla.
 
Io sono infetto. Solo ora mi è chiaro. Per questo sono vivo, per questo sono sopravvissuto fino a ora. Per questo avverto in maniera così potente il profumo. Un infetto diverso, perché so parlare, ma comunque infetto. Nel vederla, si è risvegliata in me la componente più selvaggia della malattia.
Anche Michela se ne accorge. Eppure il papà le aveva detto che della gente capace di parlare ci si poteva fidare. Ma il povero papà non sapeva che esistevano infetti ancora capaci di parlare. Infetti ancora senzienti. E per questo, infinitamente più pericolosi.
I miei occhi brillano di un bagliore sanguinario. Lo capisco vedendo quel bagliore riflesso negli occhi di Michela. Pochi secondi e il freno imposto dall’ultimo residuo della mia umanità si schianterà, facendomi avventare su di lei. Non posso farne a meno. Io la ucciderò, altrimenti sento che sarò io a morire. È un richiamo ancestrale, insopprimibile. Devo obbedire. E sento che mi piacerà.
Proprio nel momento in cui mi accingo a compiere il primo passo verso Michela, il mio braccio sinistro esplode.
Non sento dolore, naturalmente, ma avverto con chiarezza che il braccio si è frantumato in mille pezzi e non fa più parte del mio corpo. Cado. Michela urla terrorizzata. Ricordo di aver sentito un boato assordante poco prima che il braccio esplodesse. Il mio sangue tappezza le pareti del corridoio del seminterrato, mentre brandelli della mia carne ornano le pareti e il pavimento.
Rialzandomi lentamente, vedo Michela correre nella direzione da cui è arrivato il boato. E vedo qualcosa che mi sconvolge. Anzi, qualcuno.
È lei.
Francesca.
L’ho trovata. O meglio, lei ha trovato me.
E a giudicare da quel che vedo, ha trovato anche un fucile a pompa col quale dilaniarmi. La canna è ancora fumante. Bella come sempre, il suo viso è rigato di lacrime.
«Roberto…» sussurra.
La osservo. Nutro per lei quello che nutrivo poco prima per Michela. La amo ancora, ma sento il bisogno di cibarmi anche di lei. Non posso davvero trattenermi. La fame traspare dalla mia espressione e lei se ne accorge. Avrebbe preferito non vederla, ma ora sa di non avere scelta.
«Roberto… io ti amo» dice, reprimendo un singhiozzo.
Un secondo boato, un bagliore accecante, una scarica di pallettoni che mi si abbatte sul volto. Perdo conoscenza, forse per sempre.
 
Quando riapro gli occhi, vedo tutto rosso. I capillari degli occhi devono essersi squarciati. Nulla di strano.
Alzandomi a sedere, mi tocco il viso con la mano rimasta. Non ho più un naso, la gola è aperta, mi mancano tutti i denti della parte sinistra, ho perso tutta la pelle da quella zona fino all’orecchio. Anche l’orecchio sinistro è andato. Non importa. Sono morto, ma sono vivo. Non ho più motivo di cercare la mia famiglia o Francesca. Ora appartengo a una razza diversa. Potrei piangere, ma so che non ci riuscirei. Inoltre, so che qualunque sentimento io possa provare, per quanto nobile, svanirebbe nell’istante stesso in cui mi trovassi di fronte a un essere umano.
Mi rialzo, abbastanza agilmente per di più.
Scruto nel buio, senza vedere nulla.
Inspiro profondamente.
Sento di nuovo il profumo.

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Capitolo 3
*** Fame ***


Finalmente gli esami sono finiti e posso dedicarmi a continuare la storia. Cercherò di aggiornare il più possibile, continuate a commentare e fatemi sapere se vi piace (se avete suggerimenti, li ascolterò volentieri :)



Quando la vedo, capisco di dover davvero rinunciare a quel poco che è rimasto della mia natura umana.
La forza che mi attrae verso di lei è qualcosa di potente, inarrestabile, proviene direttamente dalle mie viscere. È fame. Nelle mie condizioni, non ho certo bisogno di nutrirmi... eppure, provo fame lo stesso. Non è la tipica fame che chiunque ha provato nel corso della vita. È molto diversa. È come avere un incendio nello stomaco, si ha la sensazione di morire da un momento all’altro se non si obbedisce quanto prima al richiamo. Quando si risveglia, è impossibile assopirla. L’unico modo per placarla è nutrirsi. E la carne dev’essere di prima scelta. Non corpi in decomposizione, non creature morte da poco, ma solo e soltanto carne viva.
Ho visto una donna.
È viva.
Il profumo che emana è inebriante.
Si nasconde qui vicino, in uno degli edifici, e ha paura. Lo sento nitidamente. È come il curry spruzzato sul riso.
Non c’è niente di sovrannaturale in tutto questo. È pura e semplice chimica. Emana qualcosa, e quel qualcosa mi attira. Qualcosa che i morti e quelli come me non hanno più. Per questo non ci sbraniamo a vicenda.
Devo fare in fretta.
Il profumo è fortissimo e difficilmente ha attirato soltanto me.
La scia è così forte che posso prevedere la presenza di almeno altri due... come chiamarli? Simili? Risorti? Immortali? Non ho ancora pensato a come definirci. Ma questo per ora non ha importanza. A ogni modo, altri due come me probabilmente sono già sulle sue tracce. Se mi precedono, non mi lasceranno neanche le briciole e io dovrò tornare a vagare senza meta. Non ho intenzione di permetterlo.
Io sono avvantaggiato.
 
Ho corso più rapidamente che potevo lungo la strada disseminata di automobili abbandonate e chiazze di sangue sparse, lasciandomi guidare dalla traccia. Regna il silenzio e la solitudine, ma so che è solo apparente. Altri, tanti altri come me devono essere in agguato nell’ombra. Ormai siamo più dei vivi. Presto saremo costretti a lasciare la città.
Mentre avanzo, rifletto ancora sulla mia situazione.
Sono in questo stato da qualche giorno, e ho già visto qualcosa di interessante. Credo di aver imparato qualcosa di nuovo sulla mia natura. Ho capito che non tutti possono tornare. Alcuni restano morti anche dopo il morso. Non so perché, ma è così. Anche qui un fattore di chimica, immagino. Di quelli che tornano – che sono poi la maggior parte – pochissimi diventano come me. Quasi nessuno mantiene l’autocoscienza. Li vedo, e sono meno che animali.
Non ragionano, non pensano, sono ammassi di carne putrefatta guidati dal mero istinto.
Mi ritengo fortunato a non essere finito in quel modo.
Sono felice di essere speciale.
Pare inoltre che l’autocoscienza preservi dalla decomposizione. O almeno la ritardi. Se fossi ancora in grado di percepire il mio odore, annuserei una puzza stomachevole, che però nulla avrebbe a che fare con la putrefazione. Sarebbe odore di sporco, di sangue rappreso, ma non di disfacimento. La cosa un po’ mi risolleva.
Ciò che davvero mi allieterebbe, però, sarebbe trovare una buona volta quella fottuta preda.
 
Mi ritrovo davanti a un condominio che era malridotto già ai tempi in cui tutto era tranquillo. Percepisco qualcosa di diverso nelle sue vicinanze. È vicina. È una donna, decisamente.
Mi precipito all’interno dell’atrio grigio e malandato.
Un rumore rimbombante si fa più forte man mano che mi avvicino.
Entro e rimango stupefatto.
Dodici.
Ci sono dodici fottuti risorti bastardi che insidiano la mia preda. Tutti ammucchiati davanti alla porta sprangata del seminterrato.
I dodici figli di puttana si accorgono di me e si voltano. Orbite cavate, occhi giallastri e senza sguardo, ossa allo scoperto, sfumature violacee e nerastre sulla pelle, movimenti inconsulti, odore rivoltante. Niente che non abbia già visto. Loro, invece, sembrano non aver mai visto uno come me. Si accorgono della mia diversità. Mi fissano per un minuto buono, sospendendo l’assedio. È un minuto tremendo, in cui valuto la possibilità di filarmela a gambe levate mandando al diavolo la fame.
Ma non lo faccio. Resto dove sono. E loro, a poco a poco, tornano a concentrarsi sulla porta sbarrata, sbattendo rumorosamente gli arti rimasti su di essa per aprirla.
Sforzi inutili. Non la apriranno mai in quel modo. Ma io saprei come fare.
Il trucco è sbarazzarsi di questi ospiti indesiderati. Molto indesiderati.
Io non divido il mio cibo.
È un aspetto del mio carattere che ho mantenuto anche dopo la morte.

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Capitolo 4
*** Sete di sangue ***





Esco dal condominio.
Anche se sono superiore a quelle bestie, non posso sperare di sopraffarne dodici da solo.
Nulla mi impedisce di pensare che, attaccandone uno alla volta, gli altri non reagiranno. Ma è un rischio troppo grande. Se, contro ogni previsione, il gruppo decidesse di rispondere al mio attacco, sarei finito. Perciò devo ricorrere a qualcosa di meglio. E so già cosa.
Mi chiedo dove trovo il coraggio di fare quello che sto facendo.
Non ho mai avuto simili pensieri nella mia... diciamo, vita passata. Mai sarei stato indotto così facilmente a compiere un gesto efferato come quello mi appresto ad attuare. Adesso tante cose sono cambiate. Resto me stesso in buona parte, ma qualcosa di nuovo si è aggiunto alla mia... vogliamo chiamarla anima? Chiamiamola così. Si è mescolata una componente estranea, aliena, di cui prima non c’era traccia.
O forse mi sbaglio.
Forse c’è sempre stata questa ferocia, questa determinazione selvaggia. Solo che prima era assopita, nascosta. E le mie nuove condizioni l’hanno resa libera, se non addirittura predominante.
Pensieri inutili.
Scoprirne di più sulla mia natura non è certo la mia priorità. In ogni caso, non mi farà mangiare.
Questo, invece, sì.
 
Mi sono allontanato qualche metro dall’ingresso del condominio. Una pompa di benzina abbandonata si staglia, lugubre e desolata, di fronte a me. So già dove trovare quello che cerco. Ed è pure più facile di quanto pensassi. Ci sono alcune macchine vuote parcheggiate davanti ai distributori. Hanno le portiere spalancate, una ha anche il bagagliaio aperto. Mi affaccio e, senza pensarci su, afferro l’oggetto pesante depositato al suo interno.
Una tanica piena di benzina.
Qualcuno stava facendo rifornimento, ma probabilmente era stato interrotto al momento meno opportuno.
Ho abbastanza forza da trascinarmi appresso il contenitore, sebbene tema che il peso sia tale da lacerarmi qualche muscolo. Attuare il piano non si dimostra facile quanto allestirne i preparativi. Non sono vivo e non avverto più la fatica come prima, tuttavia devo ricorrere a ogni residuo di forza rimastami per trasportare il carburante a pochi passi dalla marmaglia di zombi che ancora si affanna per entrare nel seminterrato.
Non ho bisogno di riprendere fiato, ma per riflesso lo faccio ugualmente.
Svito il tappo della tanica e lascio colare buona parte del carburante ai piedi della concorrenza.
Nessuno ci fa caso.
Ora che la tanica è notevolmente alleggerita, posso sollevarla e, con un movimento energico, rovesciarne il contenuto addosso ai dodici non morti. Tutti ricevono la loro porzione di Senza piombo, e nessuno si volta per capire che cosa stia succedendo. Mi fanno quasi tenerezza. Lancio lontano la tanica vuota e mi muovo verso il gabbiotto della portineria. Frugo per qualche minuto nei cassetti e trovo un accendino di plastica. Tendo le mie carni lacerate in quello che una volta era un sorriso e lo afferro.
Una fiammella fa capolino dal cilindretto arancione.
Mi abbasso e tocco con questa la superficie di granito bagnata dalla benzina.
Un bagliore accecante si diffonde immediatamente per l’atrio. Non posso sentire il calore fisicamente, ma la mia memoria è ancora buona e ricordo la sensazione di caldo sulla pelle, permettendomi di percepirlo.
Le fiamme circondano i dodici zombi, la cui carne putrefatta comincia a sfrigolare e a staccarsi. Per un po’ continuano a premere contro la porta come se niente fosse. Poi finalmente si accorgono che qualcosa non va. Cominciano a gemere, urlare, biascicare versi incomprensibili e a dimenarsi come in preda al dolore. Naturalmente non sentono alcunché, ma credo siano ancora in grado di provare paura. Hanno capito che stanno morendo. Questa volta per sempre.
Osservo a lungo il grottesco spettacolo da me organizzato.
Impiegano un’ora a morire, le fiamme di più.
Per tutto quel tempo, io resto immobile a guardare.
 
Quando non rimane altro che fumo, cenere e corpi carbonizzati, mi faccio avanti.
È il mio turno di bussare.
Batto il pugno sulla dura superficie metallica. E parlo.
«C’è qualcuno lì dentro?»
La mia voce è un po’ roca. Spero che non mi tradisca.
La risposta arriva dopo aver ripetuto la domanda un paio di volte.
«Chi sei?»
È un uomo. Dev’essere alto e grosso come un armadio. Ha un timbro tonante, in cui tuttavia rilevo una nota tremolante.
«Un sopravvissuto» rispondo.
Odoro la sua indecisione. Non è convinto. La ragione, però, gli ricorda che non esistono morti che parlano.
«Da dove vieni?»
La sua domanda è più un tentativo di autoconvincimento che un vero interessamento. Come se sentendomi parlare possa ricevere la conferma di via libera che tanto desidera.
«Non potremmo parlarne al sicuro?»
Lui esita. Non dev’essere uno stupido. Adesso la paura è nitida. Non si fida di me. Devo agire.
«Ti prego, fammi  entrare! Non hai idea di cosa ho passato là fuori! Vi ho liberato da quei mostri perché speravo mi avreste aiutato! Mi devi un favore!»
«Li hai uccisi tutti?»
«Tutti».
Un cambiamento nell’aria, e capisco che è fatta. Continua a non fidarsi di me, ma non trova nessun motivo valido per non aprirmi. Finalmente, la serratura scatta.
Quando la porta si spalanca, c’è ancora parecchio fumo nell’atrio. Una leggera ombra grigia mi nasconde parzialmente il volto, perciò quando si para dinanzi a me non capisce al volo la trappola che gli ho teso. È proprio come l’avevo immaginato: alto, imponente, robusto… nella vita precedente, sarebbe stato in grado di incutermi timore.
Quando i suoi occhi, infastiditi dal fumo, distinguono i miei tratti, è troppo tardi.
Gli sono già alla gola.
 
Mi colpisce più volte in testa con i poderosi pugni, ma non c’è niente da fare. Quei pugni che avrebbero stordito un cavallo contro di me non hanno effetto. Non lo mollo finché non si accascia per terra, tremante e paralizzato. È ancora vivo quando con un morso gli dilanio il ventre e ne estraggo le viscere ribollenti. Non può urlare, ma l’agonia nei suoi occhi è dipinta come in un quadro espressionista. Muore poco prima che, con la mano, mi addentri nella sua cavità addominale fino alla spina dorsale.
Il macello dura parecchi minuti, forse un’ora intera.
Sono coperto di sangue dalla testa ai piedi.
Il sangue si rapprende sul pavimento e sulle scale che conducono al seminterrato.
Improvvisamente, sollevo la testa e lascio cadere il brandello di carne che stringo tra le fauci.
Qualcosa ha di nuovo colpito la mia attenzione. Il profumo non è morto. Non è scomparso dopo la morte del ciccione guardiano. Inspiro profondamente e mi accorgo che la sorgente è nel seminterrato.
Mi alzo in piedi e scavalco la carcassa martoriata.
Non è finita.
C’è qualcuno, là sotto. Non ho bisogno di sentire rumori per saperlo.

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Capitolo 5
*** Il gatto e il topo ***





Rivoli di sangue e bava mi insozzano le labbra grigiastre e macchiano quello che una volta era un camice verde.
I miei occhi schizzano in direzione del buio cunicolo che conduce al seminterrato.
Una scia meravigliosamente intensa mi calamita là sotto. C’è ancora del lavoro da fare.
Lavoro.
Per la prima volta da chissà quanto tempo, sorrido. Sto cominciando a considerare quello che faccio una professione. Scannare e smembrare i vivi non per piacere personale, ma per dovere. Una sensazione nota, ma così lontana da sembrare estranea, mi pervade a poco a poco. Sale dal petto e si propaga lungo il collo, la testa, la bocca, ovunque nelle mie parti superiore. E infine esplode.
Un verso che non udivo da tanto. Un verso che non ha senso udire in un momento simile.
Risate.
Risate.
E le sto producendo io. Sto ridendo per quello che mi appresto a fare, che mi rendo conto quanto sia malvagio e terrificante, ma da cui non posso astenermi. La verità mi è chiara.
Io amo uccidere.
Lo sto amando sempre di più, dopo ogni nuova vittima. È una sensazione allucinante, perversa e orgasmica. Inizialmente non me ne rendevo conto, o forse la ignoravo deliberatamente, rifiutando a livello inconscio di cedere a un istinto tanto bestiale e immondo. Mi consolavo dicendomi di non avere scelta. Uccidevo perché era la mia natura a impormelo. Ma ora comincio a capire che non è così semplice. Questa natura non è nuova. C’è sempre stata.
Io ero così anche prima di trasformarmi in uno zombi.
Ma non lo sapevo.
Quando qualcuno scopre di poter provare simili sensazioni uccidendo, si trasforma. Diventa un serial killer, uno stupratore o via dicendo. Quando esistevano, ovviamente. Dubito che i recenti sviluppi nella società umana permettano una normale proliferazione di quei soggetti. E in ogni caso, durerebbero poco.
Ma quando si ritorna, la natura omicida si risveglia.
Nel mio caso, è successo qualcosa di ancora più terribile.
Si è risvegliata e, allo stesso tempo, io sono rimasto io.
 
Scendo i gradini umidi con calma. Chiudo la porta dietro di me. Improvvisamente sento un curioso desiderio di fischiettare. Tuttavia mi astengo, perché non ho mai saputo farlo bene.
Mi sento come un bambino che gioca a nascondino, ma sono quel tipo di bambino un po’ bastardo che finge di non sapere dove si nascondono i suoi compagni, mentre in realtà lo sa perfettamente. Mi diverto a dare una falsa speranza, facendo illudere il bambino nascosto di potercela fare, di riuscire a liberare tutti facendo tana. Senza farglielo capire, io controllo la via di fuga e sono pronto ad agguantarlo non appena deciderà di esporsi. È così che mi piace giocare. Da sempre.
La vittima con cui sto giocando è parecchio sudata. Puzza. Credo non si lavi da una settimana, almeno. D’altronde, difficile trovare docce funzionanti di questi tempi. Una traccia di sebo e un’altra che pare piscio. È talmente facile che sto perdendo il gusto di giocare. Mi aspettavo un gioco un po’ più divertente, lo ammetto. Potrei lasciarla scappare, illuderla, così da animare l’inseguimento. Penso che farò così.
Dev’essere una donna.
Anzi, è senz’altro una donna.
Odora di sangue. E non è ferita.
Praticamente, è un tacchino che si offre spontaneamente al taglio della gola.
 
Sono arrivato a uno spazio piuttosto ampio. Ci sono tanti posti dove nascondersi. Ovviamente io so già dov’è lei, ma mi dirigo dalla parte opposta. Frugo tra gli scatoloni che ingombrano lo spazio, dando un’occhiata al ciarpame in mezzo al quale viveva col compagno. Ci sono cadaveri di topi sparsi qua e là. Ho l’impressione che si fossero ridotti a nutrirsi di loro. Chissà da quanto tempo erano assediati dai miei... colleghi.
Un tanfo nauseabondo mi permette di individuare quella che sembrerebbe una latrina di fortuna. Un angolo in cui i due inquilini del seminterrato hanno dovuto accumulare le loro deiezioni per diversi giorni, presumo. Se non fossi arrivato io, avrebbero dovuto vedersela con il colera entro breve.
Lascio quell’angolino squallido e mi incammino con la mia andatura barcollante verso di lei. Vediamo quanto impiega a capire che la sto prendendo in giro.
Non la vedo, ma so esattamente dove si nasconde.
C’è un cumulo di gabbiotti per uso agricolo, destinati probabilmente a conigli e animali da allevamento, davanti a me. Sono ammassati con casse di legno in pessime condizioni e sacchi dell’immondizia. Oltre, un vicolo cieco. Lei è dietro quella barriera di spazzatura. Anche se non serve, do segnale della mia presenza.
Emetto una serie di disgustosi rantoli, come se stessi per vomitare. Secrezioni sanguinolente colano dai fori del mio collo, scivolando a poca distanza dal nascondiglio della mia cara vittima.
Ai rantoli fanno seguito ringhi sommessi, cupi, decisamente inquietanti.
Non so da quand’è che li so fare, ma è piuttosto divertente. La puzza di paura satura ormai l’intero ambiente, sovrastando il miasma di decomposizione, piscio e merda onnipresente.
Il ringhio finale è terrificante. Rimbomba per l’angusto spazio come se avessi ringhiato in un altoparlante, un suono che non immaginavo le mie corde vocali potessero ancora produrre.
E poi mi allontano.
Mi piazzo il più lontano possibile da lei. Voglio che cominci a crederci.
Voglio che creda di avere una speran
za.



Domani arriva la seconda parte, promesso :)

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Capitolo 6
*** Io ti caccerò ***





Chiudo gli occhi per concentrarmi al meglio sul profumo.
È buio nel seminterrato, ma questo non è problema per me. Altrettanto non si può dire per la mia “coinquilina”.
Sono in piedi a circa tre metri da lei, do le spalle al suo nascondiglio. Mi mantengo innaturalmente immobile. Potrei fare la fortuna di un reporter a caccia di uno scoop sui fantasmi. La mia sagoma nell’ombra è inquietante, ricorda quella degli spiriti tormentati tradizionali dei film dell’orrore orientali.
Rimango venti minuti interi in questa posizione. Lei sa che non me sono andato. Non mi ha sentito risalire i gradini che portano all’atrio. Voglio che lei sappia che sono ancora qui.
Non ho bisogno di guardare nella sua direzione per sapere che ha finalmente trovato il coraggio di affacciarsi oltre le casse. Vuole vedermi e capire se può tentare l’impensabile. Comincia a crederci. Il suo cuore batte forte, a giudicare dai respiri affannati che emette. Un vivo non li percepirebbe mai a questa distanza, ma i miei sensi si sono acuiti grazie alla trasformazione. Rilevo il timbro e la frequenza degli ansimi. Sono diversi da prima. La trepidazione ha avuto la meglio sul panico. Sta riflettendo. Sta cercando un modo di tirarsi fuori da questa brutta, bruttissima situazione.
I minuti di attesa diventano trenta. Per fortuna sono un essere paziente. Se non lo fossi, i resti della mia cara signorina avrebbero già composto una macabra imitazione di un Klimt sulle pareti che trasudano muffa.
Se voglio divertirmi, devo aspettare. Mi rendo conto che è costretta a prendere una decisione difficile. Se sbaglia, non avrà scampo. Ma, dal momento che non mi muovo di qui, anche rimanendo ferma non avrà scampo. C’è una sola scelta sensata da fare, per quanto ardita: tentare il tutto per tutto con una fuga precipitosa.
 
Ci siamo.
Lentamente e silenziosamente, si è alzata alle spalle del nascondiglio. È pronta a fare quello che deve. Non può vedere il ghigno sadico che mi si è allargato sul viso, uno squarcio che va da un lato all’altro del volto, oltre il quale si intravede un abisso senza ritorno. I miei occhi luccicano sinistri. Un’espressione diabolica, l’incarnazione di un perverso e inumano ludibrio. Non può vedere le gocce di bava rossastra che mi gocciolano dalle aperture nelle carni. Non può percepire l’eccitazione che cresce in me, l’adrenalina che satura ogni millimetro cubo del mio sangue infetto. Il mio corpo sarà ancora regolato dalle leggi della chimica?
Lei muove un passo. Impercettibile, ma lo avverto.
Un altro, e un altro ancora.
Brava.
Avvicinati alla scalinata. Lo senti il sapore della libertà? Abbandonati. Fai scattare le gambe e datti a una fuga precipitosa. Poi comincerà il divertimento.
Sono talmente preso dalle mie fantasie che non mi accorgo di un dettaglio essenziale. I passi che sta muovendo dietro di me non vanno in direzione dell’uscita. Si sta spostando a lato del cumulo di rifiuto, che è alto fino al soffitto. È indubbio che abbia in mente qualcosa, ma dopotutto le alternative sono piuttosto ristrette. Attendo fiducioso il momento cruciale, che non tarderà ad arrivare.
E poi succede un casino.
Un fracasso tremendo, una botta alla schiena che in altri tempi mi avrebbe causato un dolore lancinante. Non sono più in piedi. Sono inginocchiato sotto il peso di una marea di pattume. Mi è crollato addosso il dannato cumulo di rifiuti. Mi correggo, anzi: mi è stato fatto crollare addosso.
Figlia di puttana.
Allora lo sai come si gioca.
Con un sforzo sovrumano mi risollevo e lei grida. Non se l’aspettava. Stupida troia. Pensava davvero che bastasse a togliermi di mezzo. Il mio sguardo la paralizza. Sa che dovrebbe darsela a gambe levate, ma resta inchiodata dov’è. La vedo in volto, finalmente. Una bellezza sciupata, un volto che un tempo sovrabbondava di trucco e belletti, e che ora è ricoperto da una patina di sporco e unto che la rende sgradevole persino ai miei occhi. Capelli piatti e fetidi appiccicati alla faccia paonazza. Trema come una foglia.
Non c’è più niente che possa trattenermi. È finita.
 
E invece qualcosa mi trattiene letteralmente. È già due volte che provo ad agguantarla, ma non riesco a schiodarmi dalla mia posizione. Abbasso d’istinto lo sguardo e noto un oggetto estraneo al mio corpo spuntarmi dall’addome. Un tubo di ferro arrugginito. Mi guardo alle spalle e vedo l’altra estremità. Una stramaledetta tubatura di ricambio che è rimasta incastrata sotto il cumulo di casse e gabbie e chissà che altro. Mi tiene bloccato quanto basta per permettere alla mia preda di riscuotersi dal torpore e fuggire.
Perdo il controllo.
Un gorgoglio mi ribollisce in gola, risalendo dallo stomaco, ed erompe in un ruggito che a momenti incute timore perfino a me stesso. Ho gli occhi fuori dalle orbite a causa della furia omicida che è tornata a possedermi con prepotenza inaudita. Afferro con entrambe le mani l’estremità del tubo davanti a me e spingo nella direzione opposta, aiutandomi con le gambe. Dopo un tentativo sono libero, anche se ho dovuto privarmi di una consistente quantità di viscere, che ora penzolano inerti da quella lancia improvvisata.

Ho la vista annebbiata dall’odio, vedo rosso dappertutto, e mi fiondo sulle scale per dare la caccia a chi ha osato prendersi gioco di me. Non posso tollerare di essere battuto sul mio campo. Dovessi inseguirla per tutta la valle, io la troverò. E, dopo quello che mi ha fatto, non mi limiterò a ucciderla. La farò soffrire come mai anima umana è stata costretta a subire. Si è imbattuta in uno dei peggiori incubi che deambuli oggi per questa terra, e non la lascerò andare al Creatore prima che si sia pienamente resa conto dell’errore che ha commesso opponendo una resistenza tanto sfrontata.
Io ti caccerò. 

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Capitolo 7
*** Il condominio ***





Risalgo precipitosamente dal seminterrato. Quando emergo, noto con stupore che, in mezzo all’odore di sangue e di fumo, il profumo della mia preda è ancora intenso. Non è uscita dall’edificio. È rimasta qui dentro, contro ogni aspettativa. Perché?
La risposta striscia lentamente nella mia direzione, accompagnata dal cupo brontolio di una decina di esseri dall’andatura claudicante.
Quello che una volta doveva essere un bambino avanza verso di me, trascinandosi con la sola forza delle braccia, dal momento che non gli sono rimaste gambe cui appoggiarsi. E nemmeno un bacino. Guardo impassibile l’estremità tranciata della spina dorsale che gli spunta dall’addome, e lui ricambia il mio sguardo. Occhi grigi, spenti, inespressivi. La bocca è aperta in modo tale da fargli assumere un’espressione che non esiterei a definire idiota. Emette versi gutturali con la sua voce rauca.
Alzo la testa e vedo i suoi compagni. Creature non dissimili da quelle che ho bruciato poc’anzi. In questo frangente mi sono state utili, impedendo alla mia cara compagna di giochi di fuggire all’esterno. La caccia sarà meno faticosa del previsto, a quanto pare. Ora non mi resta che ispezionare il condominio, piano per piano. Ma prima devo occuparmi di una faccenda.
Il primo zombi che tenta di salire su per le scale dev’essere stato un camionista: grasso, imponente, barba incolta... perfino dopo morto ha un alito che sa di birra. Protende le mani in avanti, come nel più classico dei film dell’orrore. Come un mostro di Frankenstein in una pellicola degli anni Trenta. Se riesco a domarlo, potrò fare lo stesso con tutti gli altri. È tempo di approfondire la mia conoscenza sui miei consimili.
Mi piazzo tra lui e le scale. Come ho già detto, odio dover dividere le mie prede con altri. Mi seccherebbe alquanto se, nel bel mezzo del pranzo, una o più di queste bestie si intromettesse per mendicare un brandello di carne. Do al grassone una spinta energica e lo faccio indietreggiare. Come se non avessi fatto nulla. Continua ad avanzare, imperterrito. Immagino sia insensibile agli stimoli esterni di questo tipo. Poco male. Ho altri metodi.
Avanzo a mia volta e gli afferro il bavero della camicia aperta. Costringo il suo collo flaccido ad abbassarsi verso di me e produco un ringhio così assordante che, per un attimo, ho l’impressione che i suoi occhi brillino nuovamente di luce viva. Non so se il merito vada a una sostanza chimica contenuta nel mio alito, a una stimolazione del sistema nervoso tramite l’udito, o a chissà che altro. Fatto sta che il mostro si immobilizza e non tenta più di scavalcarmi. E lo stesso vale per quelli che gli erano più vicini.
Forse ho trovato il modo di controllarli.
Non so quanto durerà l’effetto che sono riuscito a sortire, ma sento che dovrebbe bastare. In fondo, non mi interessa dominarli fino a questo punto. È sufficiente che mi stiano alla larga finché non ho finito.
 
Lascio i miei buttafuori improvvisati a fare la guardia all’imbocco della rampa di scale. Arrivo al primo piano e proseguo. Non è qui.
Secondo piano. Non c’è anima viva nemmeno quassù.
Terzo piano. Una flebile traccia di vita. Decido di indagare. Il fiuto mi porta dinanzi alla porta dell’appartamento numero 44. La porta è chiusa, ma per aprirla è sufficiente una spallata. Era sottile, non certo un ostacolo di rilievo. Ancora una volta, scopro che il mio olfatto non mi ha tradito. Legato alla gamba di un tavolo, è legato un giovane pastore tedesco. È talmente magro che vedo le ossa della gabbia toracica. Non occorre essere dei geni per capire che è stato lasciato qui a morire, per l’impossibilità dei padroni di portarselo dietro.
Quando mi vede, uggiola disperato. Non per paura, ma per speranza. In qualche modo, intuisce che non sono una minaccia per lui. E infatti è così. Mi rendo conto di non nutrire alcun desiderio verso l’animale. Anzi, al contrario. Il cane risveglia in me un sentimento che non affiorava da molto tempo, e che nessuna delle mie vittime umane era riuscita a far prevalere: la pietà.
Non sono in grado di salvarlo.
È debole e malaticcio, i parassiti cominciano a infestarlo e io non ho modo di curarlo. Ma forse c’è una soluzione. Sono incapace di chiamare “cura” quello che mi appresto a fare, ma non esiste altra via. Se voglio che questo animale cessi di soffrire, conosco un solo rimedio.
Il pastore tedesco non è in grado di opporre resistenza. Quando lo mordo a una zampa, emette solo un flebile uggiolio. Rimango con lui alcuni minuti, dopodiché muore. Attendo qualche altro minuto, ma non succede niente. I suoi occhi rimangono chiusi, non respira, è assolutamente immobile. Non ha funzionato. Evidentemente la diversità di specie è troppo grande.
Noto la targhetta appesa al collare che ha ancora al collo. La sollevo e leggo il nome Lucky.
«Non questa volta» mormoro.
Sconsolato, esco dall’appartamento e ritorno alla mia precedente occupazione.
Quarto e ultimo piano. Il luogo dove la mia cara amica verrà agguantata e fatta a pezzi. Il profumo è forte. Non c’è via di scampo. Avanzo con passo tranquillo, sapendo dove andare. Si è di nuovo asserragliata in uno spazio chiuso. Certa gente proprio non impara.
Mi staglio di fronte all’ingresso dell’appartamento 59. Lei è qui dentro.
Abbatto la porta con un calcio e mi precipito all’interno, bramoso di dilaniarla una volta per tutte.
Lei non c’è. L’appartamento è vuoto, lo capisco nonostante percepisca nitidamente il suo odore. Lasciandomi guidare dal naso, trovo la maglietta che indossava nel seminterrato.
Sono sbalordito. Ha capito che potevo inseguirla grazie all’olfatto. Come ha fatto?
Ritorno nel corridoio del quarto piano.
In fondo, mi accorgo solo ora che la porta che conduce alla scala antincendio è spalancata. 

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Capitolo 8
*** Il ritorno di Lucky ***





Forse non è troppo tardi.
Mi precipito sul parapetto di ghisa della scala antincendio e focalizzo il mio sguardo sul manto stradale sottostante. Faccio appena in tempo a scrutare in basso, quando vedo la sagoma affannata di una donna percorrere velocemente gli ultimi gradi della rampa finale. Come se avvertisse il mio sguardo su di sé, solleva il viso e guarda verso l’alto. Mi vede. Per la prima volta, anche se a diversi metri di distanza, siamo faccia a faccia.
Da così lontano non posso decifrare la sua espressione, ma qualcosa mi suggerisce che l’ombra di un sorriso le si è dipinto sulle labbra. Si sentirà orgogliosa di avermi fregato. È felice di aver guadagnato un altro po’ di tempo da trascorrere in questo inferno. Magari resterà soddisfatta finché non sopraggiungerà un altro idiota in decomposizione a strapparle quella mandibola compiaciuta.
Se fossi ancora del tutto me stesso, lascerei perdere.
Il problema è che la mia natura di predatore non può tollerare che io abbandoni una preda. Che io conceda la vittoria in un inseguimento a una preda. Non ho scelta.
Mi aspetta una giornata faticosa.
Sono ormai rassegnato all’idea, quando qualcosa di delicato mi sfiora la gamba. Immediatamente mi volto e, incredulo, osservo un pastore tedesco dal passo incerto e dal pelo arruffato che mi si accosta alla caviglia. Lucky, la mia vecchia conoscenza.
Non so dire esattamente che cosa provi nel rivederlo. Ormai non conosco altra gioia che quella trasmessami dal massacro di un uomo o di una donna. Non posso dire di essere felice di vederlo, perché la felicità è qualcosa che non fa più parte di me. Tuttavia, sento qualcosa. E non è una sensazione sgradevole. Rinuncio a darle un nome, poiché le emozioni che provano i non morti sono molto diverse da quelle dei vivi. Incomprensibili, non condivisibili... inumane, insomma. Ma non per questo meno vere.
Mi inginocchio e lo esamino.
I suoi occhi hanno perso vivacità. Sono vacui, come i miei. Nessun essere vivente proverebbe simpatia per un essere dotato di un simile, inquietante sguardo. Ma, come ho già detto, noi non siamo loro, e loro non sono noi. Lucky mi ha riconosciuto. Sa che sono stato io a renderlo quello che è. Non mi è difficile immaginare che mi seguirà ovunque io vada. So che obbedirà ai miei ordini, senza bisogno che io li pronunci ad alta voce.
Mi sto rendendo conto, minuto dopo minuto, che esiste una connessione tra noi. E non si tratta di qualcosa di astratto, ma di un vero e proprio legame, inscindibile e tangibile. Lui è come un burattino e io sento i fili del potere nelle mie mani.
Questa scoperta mi fa rabbrividire e apre un mondo davanti a me.
Le possibilità cominciano improvvisamente a moltiplicarsi in maniera frenetica, come le cellule di un tumore una volta che questo è innescato.
 
Mezz’ora più tardi mi ritrovo con Lucky al mio fianco in una delle tante vie abbandonate.
Lucky è un pastore tedesco. Un animale che la natura ha dotato di uno dei migliori fiuti che esistano sul pianeta. L’uomo dispone di un olfatto che fa fatica a distinguere gli odori più semplici, ma dopo la trasformazione il mio si è acuito oltre i limiti del pensabile. Quanto potrà essersi acuito quello di Lucky?
Mi arresto di botto in mezzo alla strada. Non ho bisogno di parlare, né di rivolgergli lo sguardo. Mi basta pensare quello che voglio che faccia. Basta una parola per esprimerlo.
Trovala.
Le orecchie di Lucky si rizzano. Il muso si solleva e sento lo stridio delle sue unghie sull’asfalto. Quello che all’inizio è un brontolio sommesso si trasforma a poco a poco in un agghiacciante ringhio che sfocia in un latrato dalla ferocia terrificante.
Nel vederlo, provo la stessa gioia che proverei se avessi già la vittima inerme nelle mie mani.
«Bravo, piccolo. Bravo» sussurro. Lo accarezzo. «E adesso ammazzamela».
Lucky scatta in avanti con un ardore che mi lascia basito. Dal momento in cui ha individuato la traccia, un fiotto di bava ha cominciato a scorrergli inarrestabile dalle fauci. Nessuno lo distinguerebbe da un cane rabbioso. Ma l’essere che ho sguinzagliato contro quella donna è infinitamente peggiore. E adesso sono io a sorridere soddisfatto.
 
Non vedo Lucky da dieci minuti.
Posso seguirlo grazie alla scia odorosa, che è piuttosto intensa e praticamente impossibile da perdere. Dopo poco, mi ritrovo davanti a un magazzino in disuso. Non ho dubbi che sia il posto giusto. Dall’interno sento provenire latrati assordati e una serie di urla disperate.
Avanzo con passo leggero, senza fretta, con le mani in tasca.
Quando penetro all’interno del magazzino, vedo quello che mi aspettavo di trovare. Lucky sta inseguendo per tutto il deposito quella fastidiosa, stupida e insistente donnicciola. Ogni suo urlo è un tributo alla mia sete di sangue. Mi appoggio con fare noncurante alla soglia, gustandomi lo spettacolo. Non può sfuggire a Lucky. Nemmeno io potrei, se mi desse la caccia.
Dopo un minuto circa di inseguimento forsennato, percepisco tramite il legame che il possente morso di Lucky – quello che nessun vivo vorrebbe mai provare su di sé – si è abbattuto sulle carni della preda. Subito prima che termini il lavoro, gli impartisco un nuovo ordine.
Fermo. Portala da me.
Non devo aspettare neanche dieci secondi, che scorgo il posteriore inarcato di Lucky che avanza a ritroso verso di me. Si avvicina lento, ma inesorabile. Sta trascinando per il cuoio capelluto quella povera sfortunata, che non riesce più a urlare per la confusione indottale dalle ferite al cranio. È talmente bravo che la trascina esattamente davanti ai miei piedi, mollando la presa non appena si avvede che è dove volevo che io fosse.
Ciocche di capelli insanguinati sono disseminate per il tracciato compiuto da Lucky. Squarci sanguinanti sono sparsi lungo tutto il capo della donna. I suoi occhi azzurri roteano come impazziti. Trema da capo a piedi, quasi incosciente. Ha degli spasmi, come se dovesse vomitare. Stille di sangue colano dagli angoli della bocca, e se vomiterà mi ricoprirà le scarpe con sangue misto a succhi gastrici.
«Sei stato bravo, Lucky. Goditi il tuo premio» mormoro. «Magari, rendila un po’ più carina».
Così, scopro che Lucky ha anche fantasia. Quando le sue zanne perforano i bulbi oculari della donna e cingono in una morsa formidabile la sua pelle, trattengo a stento una risata. Quando, con forza inaudita, Lucky le strappa gli occhi e quasi tutta la maschera di pelle dalla faccia, lasciando scoperta una massa di carne rosso vivo, non posso più trattenermi.
Le mie risate echeggiano nel magazzino deserto.

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Capitolo 9
*** Un nuovo destino ***





Alessandro inspirò a fondo.
Era una situazione nuova, per lui. Anche se non se ne rendeva conto, aveva atteso quel momento da tutta la vita. Molti di coloro che lo avevano conosciuto lo avevano catalogato – chi con compassione, chi con disprezzo – “un povero fallito con una stupida passione”.
Sarebbe stato felice di rivedere, in quel preciso momento, gli stessi che lo avevano etichettato in quel modo. Che venissero, quegli stronzi, a ridere adesso del suo amore per la caccia, davanti al portone sbarrato di casa sua implorandolo di entrare.
Alessandro era una persona chiusa, questo lo sapeva. Non c’era selvaggina o foresta cupa che potessero incutergli timore, ma si sentiva a disagio circondato da quell’animale che non poteva cacciare: l’uomo. Il suo consimile. Si era sempre chiesto che cosa si provasse a uccidere un uomo. I libri e i film inquadravano spesso i cattivi di turno declamare l’estasi dell’uccisione, dell’assassinio, descrivendolo come un attimo sublime. Ne aveva sentito parlare a tal punto da domandarsi se davvero quella sensazione fosse tanto intensa come gli attori recitavano. Tuttavia, non aveva mai avuto il coraggio di attuare un omicidio. Anche se ci aveva fantasticato sopra più di quanto a una persona normale sia concesso.
I tempi erano cambiati. E di molto.
Era come essere tornati nel medioevo, con i vantaggi dell’era moderna. Niente archi o spade, ma fucili di grosso calibro e pistole semiautomatiche. Niente Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma solo la legge del più forte. E lui, adesso, era uno dei forti.
Quante persone vivevano con quintali di provviste in scatola custodite nella cantina? O con un arsenale in soggiorno? Per non parlare del deposito di munizioni nell’ampio sgabuzzino.
La sua casa si era trasformata, praticamente da un giorno all’altro, nel fortino più agguerrito e sicuro nel raggio di centinaia di chilometri. Ed era solo suo. Quanti vicini gli avevano chiesto disperatamente aiuto, pur sapendo benissimo quanto in passato avessero parlato di male di lui alle sue spalle per il bizzarro stile di vita che conduceva? Nel giro di poche ore, si erano ricreduti da cima a fondo. Ma ormai era tardi. Era stato divertente assistere allo spettacolo del macello che aveva avuto luogo sotto il suo balcone. Ci aveva perfino riso su.
Andatevene tutti a fanculo, adesso, aveva pensato, sogghignando.
 
Il supermercato è il luogo ideale. Non è certo cibo o merce inutile ciò che vado cercando, naturalmente. Dalla lunga distanza, già mi accorgo che il posto è gremito. Corpi deformi e ciondolanti che deambulano da una parte all’altra, rivivendo attimi di una vita di cui non resta traccia se non nei loro gesti.
I morti sembrano eccitati. Lo deduco dai movimenti più frenetici e sconnessi del consueto.
Se il supermercato è tanto affollato da morti viventi, significa una cosa sola: i vivi sono vicini. Come ho avuto modo di appurare, i miei consimili non si radunano in zone deserte, scevre dalla presenza umana. Quando si raggruppano in conglomerati così densi, è perché il cibo è a portata di mano.
Farsi strada tra di loro non sarà difficile.
La mia figura sottile si incunea tra i grossi cadaveri eretti, pance di obesi con budella che penzolano da grosse ferite all’addome, donne e bambini che barcollano incuranti delle proprie nudità e dei propri abiti strappati. Appuro la direzione verso la quale stanno convergendo in massa. Il piano superiore.
Sì, c’è.
In mezzo al fetore di decomposizione, cibi scaduti e sangue coagulato, c’è odore di carne viva. Anche Lucky lo avverte, e il brontolio sommesso che emette mi dimostra quanto sia ansioso di soddisfare il proprio appetito.
C’è un portone sprangato che conduce alla sala di sicurezza del supermercato, i locali della sorveglianza. Probabilmente il posto migliore dove asserragliarsi. La moltitudine di zombi ha un potenziale notevole, ma destinato a restare inespresso senza una mente che li coordini. Ora ho capito. Quella mente sono io. Devo essere io a tendere i loro sforzi verso un obiettivo comune.
Spintono quelle bestie flaccide per ottenere lo spazio necessario ad avanzare. Il che è una bella impresa, considerando che le corsie del centro commerciale sono piene e c’è a malapena lo spazio per respirare. Fortuna che non respiro più da un bel po’ di tempo. Non posso attirarli a me uno per uno, o gruppo per gruppo. Sarebbe troppo lungo e snervante. Devo catalizzare la loro attenzione in una sola volta, anche per evitare che molti di loro vengano nuovamente distratti e ne perda il controllo.
Un’idea mi folgora.
È talmente semplice che mi chiedo come mai non mi sia venuta prima.
Mi precipito nella sala del supermercato dove so che troverò ciò che sto cercando, seguito dal mio fedele Lucky. 
 
Scusate se il capitolo è un po' corto, ma oggi ero poco ispirato T_T ne prometto uno più lungo per la prossima volta.

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Capitolo 10
*** Ricordi ***


Scusate l'attesa. Questo capitolo è un po' più forte di quanto avete letto finora. Spero non vi faccia troppa impressione.


L’esile croce del mirino saettò a lungo nella strada affollata. Di tanto in tanto, inquadrava un viso conosciuto. Spesso, era difficile riconoscere chi c’era dietro gli spaventosi volti tumefatti e corrosi dalle ferite. Il più delle volte, però, Alessandro ci riusciva.
D’un tratto, il punto dove si intersecavano i due assi del mirino si posò sull’occhio destro di un uomo.
«Buongiorno, signor Casali. Anche oggi vuole venire a lamentarsi per la puzza di polvere da sparo?» sussurrò Alessandro.
Dopo aver stirato l’indice, questi si incurvò facendo pressione sul grilletto. Un boato detonò nell’aria limpida, sovrastando il mormorio sommesso della moltitudine che si affollava sotto la sua veranda. Dal mirino, rimirò il proiettile che penetrava nella cavità orbitale destra del signor Casali ed erompeva dalla sua nuca in un meraviglioso arcobaleno color sangue. Era stato come sparare a un palloncino. Solo, molto più divertente e appagante.
«Cazzo, dovevo davvero rimanere sotto le armi e diventare un cecchino» esclamò esaltato.
Distolse lo sguardo dall’obiettivo del fucile di precisione e ricaricò in fretta l’arma.
C’erano almeno un centinaio di persone che si accalcavano davanti alla sua porta. Fatica sprecata. Nemmeno un rinoceronte in carica avrebbe potuto sfondare quella porta, dopo che lui l’aveva sprangata a dovere. Finalmente era riuscito a impiegare nel modo migliore  quelle travi in acciaio che giacevano inutilizzate da una vita nella sua cantina. Pensare che fino a una settimana prima era deciso a venderle!
Sogghignando, Alessandro adagiò nuovamente l’occhio accanto al mirino.
«Sotto a chi tocca» mormorò.
Toccava a una biondina che un tempo doveva essere stata molto avvenente. Oh sì che lo era stata. Quella era Elisa Arcasini. Avevano frequentato insieme la scuola superiore e lui aveva sempre nutrito una fortissima, e costantemente inappagata, pulsione sessuale verso di lei. Un po’ tutti si ritrovavano con l’uccello di marmo vedendola passeggiare nei corridoi della scuola. E un po’ tutti si ritrovavano a sbattersela allegramente, a patto che avessero una macchina da almeno trentamila euro e pagassero le sue spesucce negli appuntamenti o nelle infernali sessioni di shopping pomeridiano. Come si può ben immaginare, Alessandro non aveva mai posseduto i requisiti necessari a catturare l’interesse della formosa Elisa. Una volta si era persino preso la briga di scriverle una poesia. Non era certo un poeta, Alessandro, ma quello che scrisse non era così male, e proveniva davvero dal suo cuore. Fu forse l’unica occasione in cui si cimentò di spontanea iniziativa in qualcosa di diverso dalle sue armi e dalla caccia.
Il risultato fu agghiacciante. Ancora adesso rabbrividiva rievocando il ricordo.
La puttanella aveva mostrato la poesia a tutta la scuola, sghignazzando come un cattivo stereotipato da B-movie, umiliandolo come nessun altro aveva mai fatto prima. Da allora, fino alla fine della scuola, non ebbe più il coraggio di rivolgere la parola a qualcuno della scuola. Nemmeno quando divenne acqua passata. Fortuna che si trattava dell’ultimo anno.
Quella troia si era permessa di deridere i suoi sentimenti in pubblico. Certo, sapeva fin dall’inizio di avere poche speranze, non era sprovveduto fino a quel punto. Ma non si era aspettato che la bella scrofa che aveva sperato di sedurre almeno per una sera avesse un morso tanto avvelenato.
«Mia dolce Elisa, come ti sei ridotta!»
Aveva in effetti un aspetto davvero terrificante. Il naso le era stato strappato e si intravedeva, dal mirino, l’intera cavità nasale. Le pupille erano orientate in direzioni opposte, sebbene la ragazza non avesse mai sofferto di strabismo. La mandibola ciondolava vistosamente, facendole assumere un’espressione piuttosto ebete. Ma ormai aveva visto quell’espressione in così tante occasioni, su così tanti volti negli ultimi giorni, da non farci più caso.
Improvvisamente, gli venne un’idea.
«Cambiamo programma.»
Il punto focalizzato dal mirino si abbassò dalla testa al petto («Che sfacelo!»), dal petto all’addome. Eccolo lì. L’oggetto del suo desiderio. La protagonista assoluta di decine e decine di seghe forsennate consumate nell’intimità della sua cameretta, quando viveva con i genitori. Che tristezza, vederla in un simile degrado dopo essere stata il più potente richiamo per uccelli nel raggio di chilometri.
Il grilletto fu premuto ancora una volta.
Ancora un bersaglio centrato.
Il basso ventre di Elisa esplose, disseminando miriadi di brandelli di carne putrefatta sull’asfalto. Un flusso di sangue copioso si riversò, scuro e denso per la coagulazione, dal baratro aperto tra le sue cosce, molto più largo di quanto fosse mai stato quand’era viva. Un miscuglio di sangue dell’ultima mestruazione mai avvenuta, sangue della circolazione intestinale e sangue uterino sbrodolò sulla strada, formando un mare nero dall’aspetto rivoltante. Alessandro aveva mirato un pelo più in alto di quanto avesse voluto, e aveva leso anche la sezione rettale dell’intestino crasso. Un grumo di escrementi colò dalle interiora aperte della donna.
«Avevi ancora un sacco di merda, dentro! Mi stupisco che non ti sia uscito fuori anche il cazzo di qualcuno rimasto intrappolato dentro di te.»
Ridendo della propria battuta, ricaricò il fucile. Mirò verso la testa di Elisa, ma all’ultimo ci ripensò.
No, aveva ucciso abbastanza quel giorno.
Ripensò alle parole che si erano appena formulate nel suo cervello.
Poteva davvero definirsi un assassino? Chi stava uccidendo, in fondo? Quegli esseri non potevano essere classificati come vivi. Una persona in stato comatoso mostrava segni vitali che in quelle creature erano assenti. L’aveva sentito al notiziario. Qualcuno ancora trasmetteva telegiornali, barricato in qualche stazione televisiva protetta dall’esercito. Avevano comunicato un sacco di informazioni utili su come combattere il misterioso flagello che attanagliava la società. Sicuramente informazioni più interessanti del come combattere i matrimoni gay o le coppie di fatto. Da quando era scoppiato quell’inferno, la qualità dei telegiornali era sensibilmente migliorata.

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Capitolo 11
*** Un dio ***


Tornando nel soggiorno, Alessandro appoggiò delicatamente il fucile sul tavolino più vicino. Si avvicinò al frigorifero, lo aprì ed estrasse una lattina di birra. Dopo averla aperta, andò ad adagiarsi sul divano. Dopo il primo sorso, si sentì immediatamente rigenerato. Faceva un caldo pazzesco, e soltanto il divertimento dell’uccidere lo distraeva dall’afa.
Il telecomando era accanto alle sue chiappe. Lo afferrò e accese il televisore. Ogni canale trasmetteva a reti unificate, ormai. Non c’era più spazio per varietà e spettacoli da quattro soldi. Ora regnava l’informazione. Notiziari ventiquattrore su ventiquattro, per tutta la settimana. Annunci e foto, filmati e testimonianze di sopravvissuti. Tutto sommato era interessante, oltre che indispensabile per sopravvivere.
Sorseggiando la birra ghiacciata, alzò il volume del televisore e ascoltò in silenzio lo speaker.
«Siamo rammaricati di dover comunicare che ogni tentativo di rallentare l’avanzata dell’infezione si sta rivelando inutile. Torino è ormai una città morta. L’esercito sta abbandonando gli ultimi presidi ai margini della città. Finché non verrà sintetizzata una cura efficace, purtroppo gli aggiornamenti continueranno a portare brutte notizie. Che gli abitanti ancora vivi intrappolati in città possano perdonarci».
Alessandro spense il pulsante dello spegnimento. Aveva sentito abbastanza. Più di mezza regione era sotto il controllo di quei cosi. La situazione altrove non era molto migliore. Una persona normale, dopo venti giorni di isolamento, avrebbe ceduto all’angoscia e cominciato a dare segni di follia.
Da quando quel mattatoio aveva avuto inizio, invece, la sua vita aveva preso una piega inaspettata. D’un tratto, aveva scoperto di non essere più un fallito. La follia che lo contraddistingueva si era tramuta in audacia, l’incoscienza in coraggio e la meschinità in istinto di sopravvivenza. E la cosa, inutile dirlo, non gli dispiaceva affatto.
Per quanto riguardava l’angoscia, quella era la prima volta in vita sua che il buon vecchio cacciatore di periferia si sentiva libero da quella sensazione opprimente.
 
Migliaia di occhi vacui mi fissano.
Sono perfettamente dritti, uomini, donne e bambini, e mi guardano. Aspettano i miei ordini. La maggior parte di loro ha un aspetto davvero orrendo, dovuto all’avanzato stato di decomposizione. Se non fossi uno di loro, mi verrebbe da vomitare. Ma ora sono il loro padrone. Il loro signore. L’unico essere che è riuscito a ottenere la loro obbedienza. Mi scrutano con lo sguardo perso, allineati come soldati, pronti a compiere ciò che imporrò loro di fare.
Richiamarli attraverso l’altoparlante del supermercato è stato semplice. Hanno udito il mio richiamo e si sono sottomessi alla mia volontà. Non so quale meccanismo chimico o fisiologico sia il responsabile di un simile processo di asservimento, ma dev’essere qualcosa di simile a ciò che permette all’ape regina o al lupo capobranco di dominare sui propri simili. Avvertono la mia superiorità, e questo è quanto.
Non ho motivo di interrogarmi sulle ragioni intrinseche. Mi obbediscono, e non mi interessa altro.
Quando emetto un nuovo rantolo, tutti capiscono cosa devono fare. In pochi minuti, una marea di cadaveri ambulanti assedia la saracinesca abbassata che protegge il magazzino, il luogo da dove proviene il mistico profumo di carne viva che tanto ci attira. La spinta organizzata di migliaia di morti può riuscire dove l’azione isolata di poche decine di loro ha fallito. Sono io a dirigere i loro sforzi. Sono il loro caposquadra, potrei dire, ma sarebbe alquanto svilente nei miei confronti.
Cosa sono io per loro? Qualcosa di molto vicino a un dio, a quanto sembra.
Non osano ribellarsi a me. Non osano disobbedirmi. Si fidano di me ciecamente, anche se non gli ho dato alcun motivo per farlo.
Mezz’ora di spinte sovrumane e la saracinesca comincia a cedere. Non c’è via di uscita, per chiunque si trovi al di là della barriera. E anche se ci fosse, non andrebbero lontano.
Infine, la via è spianata. La saracinesca crolla con uno schianto assordante e la marea di infetti si diffonde come un cancro all’interno dei magazzini. Le urla dei vivi sovrastano il brontolio rauco dei miei sudditi. Ci saranno state almeno venti persone, là dentro. L’odore del sangue già invade l’aria. Due o tre sono già stati fatti a pezzi.
Quando avanzo attraverso la folla, i sudditi si scostano per lasciarmi passare. Quando entro nel magazzino, coloro che erano penetrati si arrestano di botto, trattenendo le vittime che avevano catturato. Cinque sono morti, i loro arti mutilati ricoprono di sangue il pavimento, mentre gli ultimi spasmi irrefrenabili accompagnano il loro trapasso.
Ci sono superstiti, trattenuti dalle mani putrefatte dei miei fidi servitori.
Lucky arranca dietro di me. Gli concedo un bambino terrorizzato trattenuto dalle braccia di un’ex guardia giurata che probabilmente lavorava qui, un tempo. I ruggiti di Lucky, le grida strazianti del piccolo e i pianti disumani dei genitori non mi distraggono dalla fanciulla che è imprigionata a pochi passi da me.
Spalanco i miei occhi rossi e, per la prima volta da molto tempo, resto stupefatto.
Sono sconvolto, anche se è impossibile intuirlo dalla mia espressione.
Davanti a me, alla mia completa mercé, c’è Francesca.
Mi scruta con occhi selvaggi, indecisa se maledirmi o supplicarmi.

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Capitolo 12
*** Identità ***




Fisso quegli occhi verdi in cui una volta amavo rispecchiarmi. Anche loro mi fissano, ma quello che ci vedo impresso non è certo amore.
Afferrandola per la collottola e costringendola ad alzarsi, non distolgo per un solo istante il mio sguardo da lei. Le sue mani si serrano intorno al mio avambraccio, nonostante il ribrezzo per il contatto con la carne decomposta. Vedo il terrore delinearsi sempre più nitido in quelle pupille umide di pianto.
Avvicinando il mio volto, vedo il mio volto riflesso negli occhi della donna che ho amato.
È la prima volta da tempo immemorabile che posso vedere che cosa sono diventato.
Due occhi rossi di sangue emergono da due orbite nere come la notte. Una maschera di pelle verdastra, con ossa che fuoriescono dalla carne, è contratta in una smorfia di odio puro. Dove un tempo c’erano labbra carnose adesso si stagliano zanne grigiastre e frastagliate. Una creatura oscena e ripugnante.
Mi domando come possa avermi riconosciuto. Lo capisco dalle sue occhiate imploranti che sa chi sono, anche se non una sola parola è uscita dalla sua bocca.
Il profumo che emana il suo corpo è molto diverso da quello che ormai conosco bene. È più intenso, possiede una tonalità rimastami ignota fino a ora. Qualcosa di ugualmente attraente, ma che mi impedisce di avventarmi su di lei e farla a brandelli. Stringendo la morso attorno al collo, la trascino lontano dal resto dell’orda. Con un gesto distratto, concedo ai miei servi la loro ricompensa. Le urla riprendono, più strazianti che mai, ma le ascolto appena mentre tiro a forza Francesca verso l’esterno. Non faccio caso alle sue grida che si uniscono al coro che esplode dal magazzino.
 
Scardinata la porta d’uscita, mi affaccio sul cortile nel retro del supermercato. Francesca è scagliata oltre la breve scalinata contro l’aspra superficie di cemento. Fa in tempo a girarsi e a sollevare in mano. Vede che mi avvicino, e la paura ha preso possesso di lei. Afferrandole con brutalità il polso e i capelli, la costringo nuovamente ad alzarsi. Avvicino ancora il mio viso marcescente, mentre i miasmi provenienti dalle mie membra disfatte la tormentano ulteriormente.
Non capisco perché non sono ancora riuscito a morderla.
Percepisco una barriera invisibile e intangibile che mi separa da lei, e non riesco in nessun modo a individuarne la natura.
Posso toccarla, maltrattarla, desiderarla... ma non riesco a concludere l’atto di nutrirmi di lei.
Il suo volto bagnate di lacrime è contratto dal terrore. Le palpebre sono serrate e trema istericamente. Dalla paura è passata al panico. Sente di non avere via di scampo.
«R-Roberto...»
Quel sussurro ha la potenza di una bordata che mi colpisce in pieno petto. Immediatamente mollo la presa, lasciandola ricadere sul cemento. È come se la voce di Francesca abbia strappato dal terreno una bara sepolta da secoli. Come la mano di un gigante, ha agguantato qualcosa che credevo fosse stato distrutto per sempre. Per meno di un istante, la mia mente è pervasa da visioni sconnesse e diffuse senza alcuna sequenza logica. Rimango frastornato per un secondo, ma mi riprendo immediatamente.
Francesca ai miei piedi, raggomitolata e singhiozzante.
Mi inginocchio accanto a lei, con una posa che nessun altro della mia specie potrebbe imitare.
Osservandomi e meravigliandosi di non essere ancora morta, Francesca torna a guardarmi. È incerta e non sa cosa aspettarsi. Con gli occhi velati di lacrime, sostiene il mio sguardo. Non vi legge più la terrificante bramosia che lo pervadeva pochi minuti prima.
«Ti... ti ricordi di me?»
Non riceve alcuna risposta. Né oggi, né mai.
Osa alzare un braccio e rivolgere il palmo della mano verso la mia faccia scarnificata. Le concedo di avvicinarla. Avverte che non sono più una minaccia. O meglio, non sono pericoloso come prima. Come un cane famelico con museruola e catena.
Le sue dita mi sfiorano la guancia. Percepisco il flusso di sangue attraverso di esse, il calore, la consistenza della carne viva. Dettagli che potrebbero scatenare nuovamente la mia fame, se non ci fosse quel misterioso muro a trattenermi.
 
Alessandro sbuffò.
Due mesi. Due stramaledetti mesi.
Ad Alessandro piaceva il termine ‘assedio’. Ma doveva riconoscere controvoglia che non era il termine migliore per definire la sua situazione. Il termine più appropriato era ‘in trappola’. Seppur intervallato da appassionanti sessioni di tiro alla testa-di-merda (come amava definire le sue prede), ad Alessandro cominciava a pesare l’isolamento cui era costretto.
Ciò che davvero disturbava la sua psiche – peraltro già piuttosto turbata in sé – era la consapevolezza di non essere libero di fare quello che voleva. E la volontà di uscire si faceva più forte di giorno in giorno. Per quanto bizzarro, Alessandro non era uno stupido. Sapeva bene che le sue possibilità di sopravvivenza in quell’inferno sarebbero scemate se si fosse avventurato allo scoperto senza una stazione di rifornimento. Provviste e munizioni erano indispensabili per affrontare quei mostri.
Alessandro si sarebbe accontentato di una passeggiata.
L’idea era realizzabile, e capì subito in che modo.
Poteva privarsi tranquillamente di una delle bombole di propano che aveva in catina.

Dedicata a Lyssa ;) Lei sa perché.

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Capitolo 13
*** Babbo Natale ***





Il boato riecheggiò a lungo per diversi chilometri.
L’esplosione generata dalla bomba fatta in casa da Alessandro aveva sortito l’effetto desiderato. Una coltre di calore avvolse l’area circostante, mentre i corpi dilaniati degli zombi giacevano inceneriti tutt’attorno. Molti si muovevano ancora, ma non erano più in condizioni di minacciarlo. Fiammelle e incendi divampavano sugli edifici accanto e sulla strada, annerita per tutta l’estensione dell’esplosione.
Agganciatosi alla carrucola montata al di sopra del balcone, Alessandro si calò sull’asfalto imbracciando il proprio fucile. Aveva con sé un’arma nuova, qualcosa che non aveva potuto utilizzare finora. La estrasse e si avvicinò al più vicino dei rifiuti che ancora strisciavano.
Un disgustoso liquido nero colava da ogni poro di quella faccia devastata, presumibilmente cervello e residui di carne decomposta. Afferratogli il grinzoso cuoio capelluto con la mano guantata, Alessandro gli fece il giro attorno sedendosi sulla sua schiena e cominciò a segare fischiettando. Il morto naturalmente non emise gemiti di dolore – e questo un po’ smorzava il divertimento -, ma era evidente che cercava di ribellarsi. Scoperchiata la calotta cranica, Alessandro gettò i frammenti di pelle marcia che aveva reciso. L’osso nerastro e liscio appariva solido, e dovette colpirlo parecchie volte con il manico del machete per scalfirlo. Quando la superficie parve sufficientemente indebolita, Alessandro la sfondò con un pugno deciso. Il contatto con le cervella dapprima fu repellente, ma a poco a poco la vista della brodaglia rossastra che colava fuori parve appagarlo.
Estratta la mano, Alessandro si rialzò e s’incamminò lungo la strada principale. Non si accorse della sostanza nera e lucida che strisciava fuori dalla testa sfondata dello zombi. Anche se l’avesse notata, non si sarebbe accorto della sua particolarità.
 
Camminava da circa un’ora, e assaporò appieno la sgranchita di gambe che non si era potuto concedere da quando era cominciata l’epidemia. Ogni tanto intravedeva alcuni di quei cosi, ma erano troppo malridotti per costituire una minaccia. Quel flagello sarebbe terminato, su questo non v’era dubbio. La decomposizione avanzava anche per quegli esseri, e una volta raggiunto uno stadio avanzato cessavano di essere un pericolo. A giorni, l’esercito avrebbe ripreso possesso di quei territori.
Quindi, era importante godersi la pacchia finché poteva farlo.
Fu distratto dai suoi pensieri da un grido. Un grido umano. Anzi, di una donna. I cosi non urlavano. Probabilmente, aveva a che fare con una superstite.
“Ne varrà la pena?” pensò tra sé.
Ci rifletté un attimo.
“Si tratta pur di sempre di violenza” decise, scrollando le spalle. Poi cominciò a correre.
Le grida provenivano dal primo piano di un condominio, la cui entrata era sbarrata. Invalicabile per uno zombi, ma non per lui.
«Qui dentro dev’essersi rintanata una manica di stronzi. Come cazzo pensavano di resistere con una barricata di merda come questa?»
Abbattuta l’entrata con un calcio, Alessandro si avventurò al suo interno orientandosi con i rumori e le urla. Raggiunto il primo piano, fu guidato verso una stanza dove c’erano tre uomini e una donna. Nessuno di loro era uno zombi. La donna, a quanto poteva vedere, era abbastanza nei guai. Vestiti strappati di fresco e quei tre lupi arrapati che la tenevano ferma per darle una bella ripassata. Cose che potevano succedere, nello status quo.
I tre tizi erano troppo occupati per accorgersi di lui, talmente occupati che non si erano resi conto nemmeno che fosse già entrato nella stanza. Non avevano ancora cominciato a fare sul serio. Ma era questione di secondi, ormai. Quando il primo si calò i pantaloni per dare inizio alla festa, lasciò che si accorgessero della sua presenza ricaricando rumorosamente il fucile a pompa.
Il gruppetto si arrestò di botto e le tre teste si volsero di scatto all’unisono. Il violentatore numero Uno, quello con le braghe calate fino alle caviglie, aveva l’aspetto più bestiale. Colorito cinereo, lurido come un topo che ha appena fatto il bagno nella cloaca all’ora di punta. I numeri Due e Tre avevano una stazza simile, inferiore a quella dell’Uno. Non dovevano essere soggetti particolarmente benaccetti neanche prima del “disastro”.
«Buongiorno, signori. Sono Babbo Natale e sono venuto a portar doni».
«Chi è questo demente?» grugnì Due.
Alessandro, nonostante il fucile a pompa, non aveva un aspetto che incutesse timore. Lo sguardo placido, il sorriso sereno, le guance piene lo avrebbero reso un credibile Babbo Natale con il costume adatto.
«Dacci il fucile, stronzo. O preferisci che ce lo prendiamo da soli e facciamo anche a te il servizietto?» disse Tre, sputando.
Due non lasciò che Alessandro prendesse una decisione. Si avventò su di lui convinto di coglierlo di sorpresa. Quando una scarica di pallettoni si abbatté sul suo viso facendolo esplodere in migliaia di brandelli di carne, che andarono a decorare l’aspetto di Uno e Tre e anche la donna, nessuno mosse un dito per la sorpresa. Solo quando videro il corpo senza testa del compare, ancora tremante e disteso per terra, si resero conto che Babbo Natale aveva davvero un sacco di regali per loro.
«Tu che cosa vuoi per Natale, invece?» domandò Alessandro, sorridendo, a Uno.
Uno, che nel frattempo si era rimesso i pantaloni, riconobbe di essere nei guai.
«Va bene, ho capito. Ce ne andiamo. È tutta tua».
Un secondo boato, seguito da un urlo che esprimeva un dolore ben al di là dell’umana concezione. Alessandro aveva abbassato la mira e la seconda scarica di pallettoni aveva disintegrato la gioielleria di famiglia di Uno. Il povero violentatore si accasciò a terra, rannicchiandosi in posizione fetale e toccando la poltiglia sanguinolenta che fino a pochi secondi prima erano i suoi organi genitali. Lo stato di shock lo faceva tremare come se fosse preda di convulsioni, ma Alessandro non aveva tempo da dedicargli.
Tre aveva intenzione di vendere cara la pelle.
A differenza di Due, era riuscito a piombargli addosso e disarmarlo. Caddero entrambi a terra, il fucile venne scagliato lontano. Tre aveva un alito davvero pestilenziale, nemmeno un morto avrebbe puzzato tanto. Alessandro non si scompose più di tanto. Il povero Tre, avvinghiategli le mani intorno al collo, era convinto di strangolarlo. Ma il cacciatore si era trovato troppe volte in situazioni del genere per perdere la calma per così poco. Non tentò nemmeno di opporre resistenza alla sua stretta. Gli bastò far scivolare la mano destra lungo la coscia, estratte il pugnale da caccia e conficcarlo nel costato di Tre. Fu sgradevole il sangue che questi gli vomitò in faccia, ma era inevitabile, dopotutto.
Morì in meno di un minuto. Alessandro se lo scrollò di dosso e recuperò il fucile.
Nel trambusto si era dimenticato della donna. Pareva sconvolta e incapace di proferir parola. La degnò di uno sguardo e null'altro. Non era una preda, non più.

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