Altair Zero

di Malvagiuo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ultima notte ***
Capitolo 2: *** Il frutto della pietà ***
Capitolo 3: *** Masyaf ***
Capitolo 4: *** Parole deliranti ***



Capitolo 1
*** L'ultima notte ***


Questa ff era stata abbastanza apprezzata ai tempi in cui la scriveva Clive Danbrough. Ora mi ha affidato l'arduo compito di continuarla, e spero di esserne all'altezza. Ho deciso di cominciare la storia ancor prima dell'inizio della ff di CD... un prologo della vita di Altair. Se vi piace, fatemelo sapere, così che io possa regolarmi entro quanto preparare nuovi capitoli. Buona lettura!

Ayman aprì gli occhi.
Sapeva che cosa avrebbe fatto quella notte. Sapeva che quella sarebbe stata una nuova, grande notte di sangue.
Prima di sollevare il braccio, controllò – come sempre – la lama nascosta nel bracciale sinistro. Quella lama così sottile, così piccola, e tuttavia così letale. Quante volte era stata tinta di rosso dal sangue dei nemici? Ayman ormai lo aveva dimenticato.
Fissò il proprio anulare mozzo, privo di oltre la metà del dito, il marchio di ogni Assassino.
Per un momento, rischiò di ricadere nel tormento che da mesi lo affliggeva. Vigorosamente, scuoté la testa. Non aveva mai provato niente di simile in vent’anni. Perché proprio ora quei sentimenti si affacciavano nella sua mente?
Richiuse gli occhi e li riaprì con energia.
Quella sarebbe stata l’ultima notte. Lo aveva promesso a sé stesso. Si era reso conto di essere arrivato al limite. Vent’anni di uccisioni avevano ampiamente saziato la sua sete di sangue. Non ne poteva di più di infilzare bambini, strangolare donne e spezzare famiglie intere. Quelle anime lo tormentavano, ogni notte. Da venti lunghi anni. I fantasmi del passato lo perseguitavano, a ragione, attendendo con ansia che li raggiungesse nella voragine dell’Inferno.
L’ultima notte. Sarebbe stato così.
 
Infine, Ayman sollevò il braccio in un gesto fulmineo.
Istantaneamente, una decina di figure incappucciate e coperte da un abito nero discesero dal pendio dov’erano appostate, precipitandosi verso la valle sottostante. Lo circondavano, erano tutt’attorno a lui, ed egli stesso balzò oltre il masso dietro cui era nascosto per seguirle, mantenendo la loro andatura.
Correvano e saltavano molto velocemente, ma non producevano un solo rumore.
Si dirigevano verso una serie di luci che risplendevano nell’oscurità. Torce, infilzate nel terreno accanto a numerose tende. Carovanieri che si erano accampati per riposare, probabilmente diretti a Gerusalemme. Molti di loro ci sarebbero senz’altro arrivati entro pochi giorni. Ma alcuni no. E nella fattispecie, uno.
Una tenda leggermente più grande e sontuosa delle altre si innalzava a pochi metri da loro. Il bersaglio non poteva essere che lì. I dieci Assassini sgusciarono invisibili fino al confine dell’accampamento, non viste dalle poche sentinelle di guardia. Evitando accuratamente il bagliore delle torce, non produssero ombre né segnali che ne tradissero la presenza.
L’abito nero era stata un’idea di Ayman. Fino a pochi anni prima, anche per le missioni notturne era considerato necessario indossare le tradizionali vesti bianche. Non ci era voluto molto a convincere i capi della setta che l’alta probabilità di fallimento delle missioni notturne era spesso legata a quegli abiti facilmente individuabili. Così, come primo atto da Priore, Ayman aveva insistito perché almeno di notte la tradizione cedesse il posto alla necessità e al buon senso.
Ora, lui e i suoi uomini avanzavano lenti e decisi verso l’obiettivo.
Due sentinelle semiaddormentate sorvegliavano l’ingresso della tenda. Ciò non lasciava dubbi circa l’identità di chi dormisse lì dentro. Nessun altro uomo laggiù aveva tanta importanza da godere della protezione di guardie. Sarebbe stato più facile del previsto.
Un rapido movimento della mano destra, e gli uomini di Ayman circondarono la zona intorno alla tenda. Ayman non ebbe bisogno di vederli o udirli per sapere che erano in posizione. Quando fu il momento, la morte piovve addosso alle due sentinelle.
Esse videro solo un bagliore argenteo, talmente rapido da non credere che fosse realmente apparso. Quando dalle loro gole iniziò a colare sangue, e tastandosi scoprirono che due minuscole lame erano state lanciate e li avevano colpiti, tranciando loro le arterie, era troppo tardi.
Crollarono a terra senza un lamento, producendo soltanto un lieve tonfo che nessuno udì.
 
Recuperate le lame da lancio dalle gole dei malcapitati, Ayman le rinfoderò e si parò innanzi all’ingresso della tenda. Sarebbe penetrato da solo, mentre gli Assassini rimanevano fuori a controllare che nessuno interferisse e, nel caso, intervenire.
Era un Priore, e l’onore del sangue spettava a lui.
C’era un tiepido tepore all’interno. Bastarono pochi secondi perché la sua vista si abituasse al buio e distinguesse nitidamente le sagome sdraiate a terra. C’erano ben cinque persone lì. Tutte dormivano. Avrebbe avuto bisogno di entrambe le lame nascoste.
Pochi passi, e sovrastò le due figure al centro della tenda. Una di loro doveva essere senz’altro il bersaglio. Sollevò le braccia e le piegò ad angolo acuto, con i palmi delle mani rivolti verso il basso. Ayman ora assomigliava a un corvo dalle ali spiegate in procinto di colpire la preda con i suoi artigli.
Un russare sommesso. Respiri delicati.
Un bagliore di un istante.
Un gorgoglio orripilante, movimenti convulsi.
E poi, l’eterna immobilità.
Estratte le lame dai volti dei due addormentati, Ayman percepì il tenue rumore delle gocce di sangue che ricadevano sulle superfici carnose. Esalò un profondo respiro. Non era finita.
Altri tre dormivano nella stanza. Non poteva essere certo di aver ucciso l’uomo giusto finché non fossero stati tutti morti. Al buio non poteva distinguerne i lineamenti. Doveva ucciderli tutti, uno per uno. Si rattristò. Non voleva farlo, ma doveva.
 
Pochi minuti dopo, il silenzio regnava sovrano dentro la tenda di Husam di Aleppo.
Il mercante era partito per il viaggio senza ritorno, accolto dalle braccia amorevoli di Allah... o forse no. Con qualche compagno che, di sicuro, non avrebbe voluto seguirlo in questa nuova avventura.

 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Il frutto della pietà ***




Stava per abbandonare per sempre quel luogo di morte, quando qualcosa lo trattenne.
Un sospiro.
Una serie di flebili singhiozzi.
Ayman si voltò di scatto, orientandosi nel buio seguendo il proprio udito. Vide una cosa che prima non aveva notato. O meglio, aveva notato quell’oggetto, ma senza intuirne la reale natura.
Una culla.
Non ebbe bisogno della luce per capire che dentro c’era un bambino.
Immediatamente, uno spettro – più grande e terribile di qualunque altro si fosse mai presentato per tormentarlo – aleggiò alle sue spalle, gelandogli il sangue nelle vene.
Non ce l’avrebbe fatta a ucciderlo. Non tentò neppure di estrarre la lama nascosta. Il cuore gli si fermò al solo pensiero di dover compiere un atto così nefando.
Sollevò una mano e lasciò che il piccolo gli afferrasse l’indice. Bastò quel gesto a calmarlo. Il contatto di un altro essere umano fu sufficiente a precipitare il piccino nel sonno.
Che cosa ne sarebbe stato di lui, senza il padre a proteggerlo?
Ora, senza famiglia, il piccolo sarebbe stato un peso per chiunque. Il mattino dopo, quando i carovanieri si fossero accorti dello sterminio, difficilmente avrebbero portato con sé quel fardello tanto bisognoso di cure. Nessuno sarebbe stato disposto a occuparsene, già lo sapeva.
Sarebbe stato abbandonato, magari proprio là, a poche miglia dal deserto. Offerto in sacrificio agli avvoltoi o al sole spietato. Si rese conto che, pur non avendo intenzione di ucciderlo, la vita di quel marmocchio era nelle sue mani.
Ayman aveva sulla coscienza uomini, donne, anziani e anche bambini. Una buona azione non sarebbe bastata a redimerlo da una vita abominevole. Naturalmente, tutti rispettavano Ayman. Nessuno vedeva in lui un carnefice, ma solo un fedele esecutore della volontà dei padri della setta. Poco importava come si sentisse in verità.
Era solo un bambino.
Ne aveva già uccisi tanti, direttamente o indirettamente.
Uno in più non avrebbe fatto differenza.
Si voltò per andarsene.
 
No! Questa volta no!
Il pensiero si affacciò con tale prepotenza nella mente di Ayman da costringerlo ad arrestarsi sulla soglia della tenda, per la seconda volta.
Stava lasciando trascorrere troppo tempo. Gli altri Assassini dovevano essere preoccupati. Perché il loro capo indugiava così a lungo?
Ogni secondo che rimaneva lì aumentava il rischio di venire scoperti.
Ayman, infine, prese la sua decisione.
Per la seconda volta tornò sui propri passi e afferrò con cura il fagottino che dormiva nella culla. La sua delicatezza fu tale che il piccolo non si svegliò nemmeno. Anni e anni di addestramento nelle arti mortali avevano acuito la destrezza delle sue mani, così come una vita di feroci battaglie rendeva le mascelle del lupo tanto perfette da poter ghermire i propri cuccioli senza ferirli.
Finalmente, Ayman uscì dalla tenda.
Quando gli Assassini lo videro, lo seguirono senza vedere ciò che l’uomo reggeva tra le braccia.
Nessuno fece domande finché non furono al sicuro, lontano dalla carovana.
La missione era compiuta. Ma la notte non era finita.
Quando Ekmel, ormai disinteressato alla retroguardia perché sufficientemente lontani da qualunque minaccia, vide il bambino, non poté trattenersi dall’esclamare:
«Che cos’è quello, maestro?»
Ayman non si voltò.
«Il frutto dell’ultimo residuo della mia umanità».
Alla risposta, gli Assassini tacquero. Nessuno osò ribattere. Sapevano chi era il loro capo, sapevano che non avrebbe mai osato infrangere una regola senza un’ottima ragione. Rapire quel bambino non era esattamente contro le leggi della confraternita, ma poteva trattarsi di un’azione estremamente sconsiderata.
 
Quella notte, Ayman non dormì.
Il giorno successivo avrebbero raggiunto Masyaf, dove al piccolo sarebbero state fornite le cure necessarie.
Il piccolo dormiva, e Ayman non riuscì a trattenere un sorriso nell’udire il suo flebile e delicato respiro.
In quel preciso istante, si rese conto che doveva trovargli un nome.
Sentì la necessità di trovargliene uno, anche se in realtà già doveva averlo. Ma quel nome era destinato all’oblio, sarebbe rimasto ignoto per sempre.
Ayman era perplesso. Di fronte a una scelta del genere, che per la prima volta si trovava ad affrontare, non sapeva come comportarsi.
Rimase lunghe ore in silenzio, a riflettere. Ma nessun nome, tra quelli che conosceva, pareva adatto.
Ma ecco che uno stridio acuto giunse a squarciare il silenzio della notte. Un suono potente, intimidatorio, di un predatore notturno in caccia.
Disteso sulla schiena, Ayman la vide volteggiare in cielo nonostante il buio. Vide la sua sagoma maestosa stagliarsi sulla volta celeste, più cupa della tenebra stessa, oscurando il lume delle stelle. Un’aquila.
Pensò ancora qualche istante, e poi sorrise.
Perché no?
Il Priore si girò su un lato, verso il fagotto che dormiva accanto a lui.
«È un bel nome» sussurrò. «Inoltre, da questo momento non sei più figlio di nessuno».
Sollevò ancora lo sguardo, e ciò aumentò la sua convinzione.
«Verrai nella nostra casa e diventerai uno di noi. Benvenuto tra gli Assassini, Altaïr Ibn-La’Ahad». 



NOTA DI POLIPOZZO
Per chi non lo sapesse, Altair significa 'Aquila' e Ibn-La'Ahad è un'espressione araba che, coniugata al nome, dà il significato di 'Aquila Volante' oppure 'Figlio di Nessuno'. Ho ritenuto doverosa questa nota per far capire la scelta del nome da parte di Ayman.

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Capitolo 3
*** Masyaf ***





«Altaïr!»
Marouf correva a perdifiato lungo lo scosceso pendio su cui sorgeva il villaggio di Masyaf. Si dirigeva verso la sommità del colle, dove si stagliava maestoso il castello degli Assassini, autentico monumento alla potenza che l’ordine aveva guadagnato, omicidio dopo omicidio, nel corso dei secoli. Il forte, tanto grande da coprire con un velo d’ombra l’intero villaggio, era stata la meta di Marouf fino a pochi minuti prima.
Dopo aver scorto un cappuccio bianco in mezzo alla folla, le sue gambe lo fecero affrettare senza indugio verso quella direzione, tanto che urtò diversi uomini nel tentativo di agganciare il suo obiettivo. Quando, dopo diverse imprecazioni e parecchi ruzzoloni per terra, ebbe raggiunto l’uomo dal cappuccio bianco, era il ritratto dell’affanno. Ma la fatica, per quanto grande, si annullò innanzi allo stupore e allo sgomento, quando si avvide che l’uomo che aveva inseguito non era affatto Altaïr.
Dinanzi ai suoi occhi si ergeva Malik, e lo sguardo che gli rivolse esprimeva tutto fuorché comprensione.
«Ti sembra il modo di comportarti, Marouf? Se svolgerai i tuoi futuri incarichi con la stessa discrezione con cui ti sei avvicinato a me, temo che non arriverai mai a indossare il cappuccio bianco».
Marouf era ancora trafelato. Approfittò di quei pochi istanti per riprendere fiato, ma il suo affanno non parve dileguarsi.
«Sto… cercando… Altaïr…»
«Questo l’ha capito mezza Masyaf» ribatté Malik. «Penso si trovi al castello. Posso sapere perché lo cerchi con tanta disperazione?»
Marouf alzò gli occhi e, per la prima volta da quando si erano incontrati, sostenne lo sguardo del suo superiore.
«Suo padre sta morendo».
Malik tacque.
Aspettava quella notizia da mesi, ma chissà perché non avrebbe immaginato che sarebbe arrivata proprio quel giorno. Il suo volto si rabbuiò. Sapeva che cosa doveva fare.
«Torna alle tue mansioni, Marouf. Darò io la notizia ad Altaïr» mormorò Malik e, vedendo il tentativo di resistenza da parte del suo sottoposto, aggiunse: «È un ordine».
 
Malik camminava a passo sostenuto, ma senza fretta. Tra lui e Altaïr non vi era un vero rapporto di amicizia. Tra i due sussisteva una reciproca tolleranza. Per la verità, Altaïr non aveva mai stretto un rapporto con qualcun altro della setta, limitandosi unicamente alle interazioni indispensabili. Il fatto di esser divenuto Priore era testimone della sua innegabile abilità. Nessuno aveva mai raggiunto tale rango a quell’età senza intrattenere buoni rapporti con la maggior parte dei confratelli. La sua elevazione, dunque, non poteva che essere imputabile a un talento che si scopriva una volta ogni cinquant’anni.
Ed era stato Ayman a trovare quel talento.
Molti grandi Assassini avevano intessuto le lodi di Ayman, benedicendolo per la pietà che così tanto aveva significato per l’ordine. Ciononostante, difficilmente le stesse lodi venivano rivolte al frutto di quella pietà.
Ogni Assassino si augurava di dover svolgere un incarico assieme ad Altaïr.
Eppure, allo stesso tempo, ogni fratello lo disprezzava. Chi per invidia, chi per sdegno, ma nessuno lo benediceva alla stregua di Ayman, a parte i giovani novizi, che sognavano di diventare come lui.
Malik era un caso a parte.
Non lo disprezzava, perché era incompatibile con la sua natura disprezzare un uomo tanto grande e capace. Un poco lo ammirava, dentro di sé lo ammetteva, anche se con remore. Anche lui, un tempo, aveva sognato di raggiungere un simile prestigio. Ora si limitava a svolgere al meglio delle proprie possibilità gli incarichi che gli venivano assegnati, senza badare alla gloria.
All’entrata del cortile del castello, si domandò perché avesse strappato a Marouf il compito di informare Altaïr dell’imminente morte del padre.
Dopotutto, lui non era certo più in confidenza di Marouf con il Priore.
Aveva sentito di doverlo fare. Tutto qui. Aveva obbedito all’istinto. E Malik, del suo istinto, si fidava.
 
Nella corte d’armi Altaïr non c’era. Riconobbe molti novizi e addestratori, ma non vide nessun cappuccio bianco che gli ricordasse la sua sagoma furtiva.
Attraversò velocemente il cortile e si diresse verso il primo luogo che gli venne in mente, il più vicino. La biblioteca del castello. L’entrata era esattamente dinanzi alla corte, un poco sopraelevata, ma distante a sufficienza perché gli eruditi non venissero disturbati dal clamore delle armi.
Varcata la soglia della biblioteca, fu avvolto dalla penombra e dalla frescura. Gli parve di essere penetrato in un altro mondo. Il silenzio regnava sovrano, l’unico rumore percepibile era quello proveniente dal vicino recinto di addestramento, soffuso e smorzato dalle spesse mura. Il suo udito addestrato percepì la presenza di diverse persone, nonostante la sala apparisse vuota.
A sinistra, due eruditi si spostavano silenziosamente da uno scaffale all’altro, senza produrre il minimo rumore. Malik non li vedeva, ma era certo che loro fossero lì. A destra sentì la presenza di un solo uomo, nascosto anch’egli dagli scaffali. Fidandosi ancora una volta della sua intuizione, Malik si diresse verso quest’ultimo, e fu ripagato dalla scelta.
Altaïr si stagliava a pochi passi da lui, dandogli le spalle. Alto e fiero come sempre. Persino ora, nonostante non lo stesse guardando, avvertiva la supponenza del suo sguardo. Dal movimento delle sue braccia, Malik comprese che stava maneggiando un libro. Si avvicinò, cautamente e lasciando che il Priore si accorgesse della sua presenza.
«Che cosa vuoi, Malik?»
Malik si arrestò, trepidante.
Lentamente, Altaïr si voltò. Dall’ombra del cappuccio, si intravedeva un solo occhio. L’altro era coperto dal lembo dell’indumento candido. Un bagliore sinistro brillò per un istante nella sua occhiata gelida, poi scomparve.
Malik si abbassò il cappuccio in segno di rispetto.
«Tuo padre sta morendo, Altaïr».
Si era ripromesso di sostenere il suo sguardo, per dimostrargli la propria forza, ma non vi riuscì. Malik fu costretto a osservare le lastre di pietra del pavimento.
Un fruscio di mantello gli fece comprendere che Altaïr si era voltato di tre quarti.
«Mi dispiace» aggiunse in fretta Malik.
Senza dire una parola, Altaïr gli si avvicinò. Era a meno di un passo da lui.
Per un folle istante, Malik credette che avrebbe estratto la lama nascosta e l’avrebbe ucciso per stizza. O forse per il dolore. Tremò, senza che potesse controllarlo. Ma prima che potesse accennare una reazione, Altaïr lo sorpassò, lasciandolo solo in quella sezione della biblioteca. Per un fugace istante, Malik credette di intravedere un sorriso delinearsi sul suo viso, divertito dalla paura del confratello.
Forse si era sbagliato, tuttavia.

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Capitolo 4
*** Parole deliranti ***





Il crepuscolo incombeva.
La maggior parte degli Assassini non avrebbe osato inoltrarsi oltre i confini della fortezza dopo il calar del sole, in spregio alle regole. Ma Altaïr, come sempre, costituiva un’eccezione. La protezione di cui godeva gli consentiva di trasgredire a queste e a molte altre norme della setta, tanto che nessuno oramai si stupiva nel vederlo infrangere i dettami del maestro.
Egli non era immune solo ai colpi e alle maledizioni dei nemici, ma anche a tutto quanto provenisse dalla bocca di un uomo. Eccetto uno.
Serse lo attendeva nella scuderia appena al di fuori del recinto che delimitava il confine del villaggio. Un magnifico stallone nero, dono del maestro. Un animale stupendo, probabilmente il più bello che chiunque vivesse in quella regione avesse mai visto. Altaïr accarezzò il dorso della bestia, massaggiandone i potenti muscoli fino a raggiungere il collo. Era l’unica creatura verso cui riservasse un tocco tanto delicato.
Dopo avergli messo i finimenti e posto una sella sopra la groppa, lo montò e senza indugi si lanciò al galoppo verso l’orizzonte. Il fracasso degli zoccoli sulla terra battuta echeggiò per diversi minuti lungo il passaggio che scortava al cancello di Masyaf, dopodiché piombò il silenzio.
 
Da dieci anni Ayman non risiedeva nei territori protetti dagli Assassini. Benché avesse cessato di svolgere incarichi da molto più tempo, era rimasto alla fortezza per diversi anni in funzione di consigliere, poiché la sua esperienza e competenza erano un prezioso scrigno da cui attingere. In molti si erano rammaricati per la sua partenza, e ancor più oggi lo rimpiangevano, a causa dei tempi cupi che affliggevano la loro terra.
Ciononostante, non tutti si erano rattristati al suo allontanamento.
Uno di questi era proprio Altaïr.
Nessuno, tuttavia, era a conoscenza dei veri sentimenti del Priore verso il padre adottivo. Solo Al Mualim, cui era pressoché impossibile nascondere qualcosa, sospettava la vera natura del giovane. Ma questi era uno strumento troppo prezioso per rinunciarvi in virtù di una simile ragione, per quanto grave potesse apparire.
Altaïr non disprezzava suo padre. Al contrario. Lo temeva.
Era l’unico uomo al mondo verso cui nutrisse un timore reverenziale, e non lo sopportava. Nel suo infaticabile impegno a evitare di provare paura verso chiunque – impegno che gli avrebbe, in pratica, permesso di diventare invincibile –, in lui si incendiava l’odio ogniqualvolta veniva paragonato al padre, o il cui nome veniva menzionato in sua presenza, poiché tale atto scatenava un’irrazionale e inspiegabile paura, per quanto controllata.
Nessuno dei confratelli aveva mai anche solo immaginato una simile realtà nei rapporti tra padre e figlio.
 
Quando Altaïr raggiunse la casa di suo padre, era già notte inoltrata.
Non c’era luce, il buio regnava sovrano, ma il Priore non ebbe difficoltà a individuare la fenditura nella roccia oltre la quale si celava la dimora di Ayman. Era stretta, ma riluceva di un’oscurità assai più densa di quella della notte. Serse era perfettamente mimetizzato nella tenebra opprimente, e ne legò le redini presso i rami di un vicino albero di ulivo. Procedendo rapido e silenzioso, con incedere deciso, Altaïr raggiunse l’entrata della spelonca. In altre occasioni sarebbe stato ben più guardingo, ma sapeva che in quel momento non correva alcun pericolo. Un servitore della confraternita partiva ogni giorno da Masyaf per portare cibo e acqua a suo padre, che nemmeno nella malattia aveva voluto tornare al villaggio per potersi concedere una morte più confortevole.
Quando fu strisciato oltre la galleria, sapeva che Ayman aveva percepito la sua presenza già da un pezzo.
Ecco difatti suo padre, pallido ed emaciato, disteso su uno scomodo pagliericcio infestato da pidocchi, alla luce di un debole fuocherello. L’illuminazione era minima, ma non ebbe bisogno del bagliore baluginante delle fiamme per comprendere che suo padre era oramai davvero prossimo a imboccare l’ultimo sentiero.
«Figlio...» mormorò Ayman.
«Padre...» rispose Altaïr, cercando di dissimulare la sua consueta freddezza.
«Siediti accanto a me... stiamo per parlarci per l’ultima volta, e non voglio che dimentichi le mie parole...» boccheggiò Ayman.
Altaïr si inginocchiò accanto al padre, che respirava a fatica.
«Tu mi odi, figlio?»
Era evidente che l’Assassino non si aspettava fin da subito quella domanda. O almeno, non esposta in modo così diretto.
«È la stanchezza che vi fa parlare, padre».
«Sto morendo, ma mi rendo perfettamente conto. È sempre stato così. Mi hai temuto, ma non come un figlio teme il genitore. Ti spaventavano le mie abilità, non è così?»
Altaïr non rispose.
«Già, la vedo ancora adesso nei tuoi occhi. Paura. Hai visto cosa sapevo fare e temevi che un giorno adoperassi le mie arti contro di te. Povero ragazzo...»
Ayman tossì.
«Ma puoi gioire della mia morte. Ti giuro sulla mia lama che non ti ho celato nulla di quanto sapevo. Ti ho insegnato tutto, non porterò niente nella tomba eccetto i miei resti. Tu sei la mia eredità alla confraternita. Ogni mio segreto vive in te».
Altaïr soppesò il significato di quelle parole. Un brivido di eccitazione si propagò dalla schiena, pervadendogli i muscoli sino alla nuca.
«Non ti ho chiamato per questo, tuttavia. Prima che scompaia, devo avvertirti. Ci sono cose misteriose all’opera, dentro Masyaf».
«Che intendete dire?»
«Qualcosa è cambiato. Temo… io temo che la confraternita sia stata corrotta».
«Spiegatevi».
«In verità, ho molto poco da spiegare. Non ho scoperto granché. Sappi, figliolo, che non ho abbandonato Masyaf di mia iniziativa. Sono stato obbligato a fuggire».
«Chi può avervi costretto a fare qualcosa contro la vostra volontà?»
«Nessuno che non potessi fronteggiare... se non avessi fatto un voto. Purtroppo, anni fa ho giurato che mai più avrei impugnato la lama contro un uomo. Non mi pento della mia scelta, ma riconosco che in tale occasione mi si è ritorta contro. Se fossi rimasto, sarei stato costretto a versare sangue. E io non volevo farlo».
Una pausa permise ad Ayman di riprendere fiato.
«Non ho mai scoperto né un nome, né un piano. Ma so che qualcosa era all’opera. Io so... so che cercavano... un Frutto... dell’Eden».
 
Altaïr cominciò a convincersi che il delirio aveva preso pieno possesso della mente del padre. Da quel momento, prestò scarsa attenzione alle ultime parole sussurrate. Ayman continuò a bofonchiare qualcosa circa un misterioso oggetto, di cui aveva sentito sussurrare, e che nel corso dei mesi aveva interamente catturato l’attenzione di uomini interni alla setta, facendo loro tralasciare la missione suprema originale.
L’Assassino sapeva riconoscere un vecchio che delirava, e non ebbe difficoltà a riconoscere in questi suo padre. Guardò con compassione l’uomo, ormai senza più paura. Era finita. Il grande Ayman, il Lupo delle Sabbie, era morto tanti anni prima, e quest’omuncolo che mormorava frasi insensate era la sua carcassa in decomposizione. Entro quella notte avrebbe cessato di esistere l’unico Assassino al mondo di cui avesse mai temuto la rappresaglia.

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