A little shine

di starcrossed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Otto anni dopo ***
Capitolo 3: *** Quello che non vorresti mai sentirti dire ***
Capitolo 4: *** L'influenza degli altri ***
Capitolo 5: *** Perfetta e vuota ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

Prologo

 

 

 

 

 

Louis non aveva mai visto niente di così bello in vita sua.

Aveva sempre vantato di essere un’esteta – di trovare la giusta misura del sublime in ogni cosa. Ma, steso tra le sue braccia, Ian era semplicemente troppo.

Era una cosina piccola, un groviglio di ossa e pelle chiara macchiata di lentiggini sulle spalle esili e sul petto glabro; aveva poca peluria bionda sui polpacci, sulle braccia e sul sesso, ma una zazzera disordinata gli copriva la testa come una carezza d’oro. Aveva le ciglia semichiuse, mentre l’arco delle sopracciglia disegnava sul suo viso un’incauta serenità; e sembrava quasi in procinto di addormentarsi, le labbra rosse appena dischiuse come fossero un fiore.

Louis non riusciva a smettere di guardarlo e, intimamente, a considerarsi fortunato.

Lo aveva trovato per caso, quel ragazzino; mentre passava sulla sua Fiat panda scassata costeggiando il marciapiede.

Fuori pioveva e lui stava lì, correva vicino al finestrino; indossava un impermeabile azzurro e aveva la frangetta appiccicata alla fronte, mentre i jeans erano divenuti di qualche tonalità più scuri.

Louis aveva accostato, tirato giù il finestrino e gli aveva chiesto se avesse bisogno di aiuto; e Ian aveva risposto che aveva paura dei fulmini, ed era bisognoso di un posto dove ripararsi.

- Le macchine sono il rifugio più sicuro. Se dovesse cadere un fulmine sulla macchina, l’elettricità scivolerà fuori e le gomme scaricheranno a terra. – aveva spiegato. Allora era ancora uno studente in fisica, se la cavava abbastanza bene coi fenomeni naturali.

Ian, per qualche oscuro motivo – forse un’incoscienza naturale – aveva accettato. Erano arrivati fino all’appartamento di Louis, avevano preso una cioccolata, parlato con naturale cortesia del più e del meno.

Poi Ian aveva appoggiato la tazza sul tavolo e ne aveva percorso la circonferenza, per arrivare a sedersi sulle ginocchia di lui; dimentico dell’incoscienza e dell’ingenuità di poco prima, aveva fatto scivolare una mano sotto ai jeans di Louis, e ne aveva stretto il sesso con dolce decisione.

Il resto era venuto da sé; e ora, tra quelle coperte, Louis era sicuro di aver trovato la sua anima gemella nell’arco di nemmeno ventiquattr’ore.

Era in qualche modo sicuro di sapere tutto di Ian; ogni cosa che lui aveva vissuto era impressa sotto la sua pelle, come fosse un codice in braille. Percorrendo la curva della schiena dorsale, il giovane era sicuro di essersi appropriato di tutti i ricordi dell’altro. Come se in quelle piccole insenature, in quelle curve appena accennate fossero depositati strati di passato più o meno trascendentali, e altrettanto inarrivabili.

- A che pensi? – domandò Ian, senza aprire gli occhi.

Erano occhi blu, questo Louis lo aveva notato. Blu scuro, senza sfumature, senza la benché minima esitazione nascosta nel tratteggio dell’iride.

- A te. E a me.

- Ti sei pentito di essere venuto a letto con me? Non sono stato bravo?

Aveva spalancato gli occhi, come un bambino indifeso, e affondato i polpastrelli nella spalla di Louis, come a volersi aggrappare debolmente.

- No, no. Sei stato fantastico. Decisamente il miglior sesso della mia vita.

Louis sorrise, scansandogli una ciocca di capelli da davanti alla fronte; e Ian tentò di baciargli i polpastrelli, di mordicchiarli tra i piccoli dentini chiari.

- Piuttosto – continuò l’altro, senza mai smettere di farlo giocare con le proprie mani – Non dovresti fidarti così del primo che passa, sai? Potevo essere un maniaco. Un killer.

- Ma non lo sei. E poi te l’ho letto negli occhi.

A quel punto, Louis alzò un sopracciglio, accennando un sorriso ironico; non aveva mai creduto a quel genere di cazzate sentimentali. Eppure sentirle dire dalle labbra di Ian muoveva uno strano tumulto interiore dentro di lui, come se ci fosse qualcosa di irrisolto: una sorta di piccola, labile speranza di fondo, accesa come un fiammifero in una stanza buia.

- Che vorresti dire? – domandò, senza riuscire a trattenere una nota di curiosità mista a quel crescente senso del dubbio.

- Che tu già mi ami, vero? Lo sai. Lo hai saputo da subito, non appena mi hai visto dietro il vetro hai capito che ero io che stavi aspettando… ero tutto quello di cui avevi bisogno. E io l’ho capito subito che si trattava di te, dal modo in cui mi hai chiesto se c’era qualcosa che non andava. Come se fosse la cosa più importante del mondo, capisci?

- Forse perché in quel momento esistevi solo tu – provò a controbattere Louis, mentre Ian affondava ridendo la faccia nel cuscino.

- E’ stato un momento solo mio, ma tu ci sei entrato dentro, lo capisci? Con una violenza inaudita, mi hai perforato l’anima. I frammenti dei tuoi occhi sono l’esoscheletro della mia anima… io lo so.

Louis non poteva fare a meno di avere paura e, nel contempo, guardarlo estasiato.

Perché Ian sembrava vivere in un mondo diverso, muoversi su una frequenza diversa e assurda; era la linea impazzita di un elettrocardiogramma, che sprizzava luce e vita da tutti i pori.

Il ragazzo sentì la necessità ancora una volta di baciarlo, per prendere da quella bocca una forma indiretta di linfa vitale; sentì il biondino abbandonarsi tra le sue braccia, distendendosi piacevolmente, e poté finalmente appoggiare la testa sul suo petto.

- A che ora devi svegliarti domani? – domandò ridendo Ian, passandogli una mano tra i capelli.

- Alle nove e mezza.

- Allora per quell’ora ti preparerò la colazione. Mangi le frittelle con le mele, vero?

- Assolutamente.

Una carezza, un’altra carezza, e un’altra ancora e Louis si sentiva chiudere gli occhi. Il calore della pelle di Ian sembrava trasmettersi al suo corpo come tramite onde elettromagnetiche; e ben presto, si ritrovò a lottare  per rimanere sveglio.

Ma il più giovane cominciò a cantargli una ninna nanna – una strana nenia che non sembrava nemmeno inglese, ma piuttosto qualche lingua slava; e proprio mentre questo dubbio gli tormentava piano le sinapsi, il sonno arrivò chiudendogli gli occhi del tutto.

 

 

 

L’indomani mattina, sulle lenzuola era rimasta solo una macchia di sperma e l’incomprensibile freddo dell’assenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_

 

Salve a tutti!

In realtà non ho molto da dire… questa non è la mia prima storia, ma è la prima che pubblico qui. Anche perché sono molto timida, quindi c’è sempre un po’ di *ansia* da prestazione ogni qualvolta che pubblico qualcosa di mio.

Non so se riuscirò a scrivere questa storia come voglio io. Spero di riuscire a dargli un assetto decente, questo sì.  

E niente, ecco. Non siate troppo feroci nei commenti, specialmente con Ian. E’ un po’ un disastro, ma se vorrete seguirmi col tempo lo capirete anche voi.  

Kiss kiss =)

 

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Capitolo 2
*** Otto anni dopo ***


 

 

Capitolo 1

Otto anni dopo

 

 

Liberi,

ci sembrerà

di essere

più

liberi.

 

- Quindi è in questo genere di posti che vivono le rockstar.

Alta, bionda, magra. Sottile come un ramoscello e con le stesse sporgenze ossee, che contribuiscono a rendere la sua immagine ancora più fragile e distruttibile – così, con un battito di ciglia.

Emily Dubois è una delle modelle più in voga del momento: che si trovi dentro all’attico di Louis è una variabile quasi scontata, una predizione che non c’era nemmeno bisogno di fare.

- Perché, pensavi vivessi in una specie di caverna piena di manifesti del Clash?

Lei ride e scuote i capelli, il flute di champagne stretto tra le lunghe dita sottili. Ha denti perfetti, quando li scopre; così bianchi da scintillare nel buio.

E’ così bella con tutto il suo vuoto tangibile che Louis, appoggiato alla cassettiera, non può fare a meno di ridere di nascosto.

Il suo è un attico elegante, rettangolare; il parquet liscio e chiaro è opera della pulizia scrupolosa di Zoe, la vecchia governante. Mobili di legno, divani bianchi dal design moderno e un’enorme porta finestra che ricopre una parete intera, affacciandosi su una Seattle illuminata dalle luci della notte.

Emily sembra sorprendentemente curiosa di tutto ciò che ha attorno; cammina toccando gli oggetti, sfiorandoli coi polpastrelli; si ferma a guardare quadri e manifesti, di tanto in tanto mormora qualcosa rivolta a se stessa.

Ormai Louis ha imparato a riconoscere i modi di prender tempo delle donne – la loro disattenzione perfettamente studiata. Sa a memoria tutti i gesti che dovrebbero essere spontanei, e invece sono calcolati con precisione scrupolosa; come per esempio il modo di portare una ciocca di capelli dietro l’orecchio, o quello in cui la mano, poi, rimane morbidamente sul collo.

Aspetta, e sa che Emily prima o poi poserà il bicchiere e si avvicinerà a lui passeggiando come una gatta: ha già tolto i tacchi, e non vede l’ora di essere fotografata da qualche paparazzo il mattino dopo.

- Senti, ma qua in giro non c’è qualche immagine della tua Musa Malata?

La domanda coglie Louis in contropiede. Sperava che, almeno questa volta, l’argomento canzoni non sarebbe stato toccato. E invece lo si è profanato di nuovo, e stavolta a fare la domanda sono state le labbra imbellettate di una modella in cerca di popolarità.

Gli da quasi sui nervi, che il nome di Ian venga bistrattato in quel modo – considerato alla stessa stregua di una puttana.

- Non credo. Non ho sue foto… non ne ho mai avute.

Emily sgrana gli occhi, appoggiando il flute sul comodino e la schiena contro il vetro della finestra, lasciando dietro di sé Seattle nel suo brillare egoista.

- E allora, cosa intendi quando dici che “in mezzo ai vortici allucinogeni conservo le immagini che ho di te?”

Vortici. Louis sospira, selezionando con cura le parole da dire.

- Intendo dire che quando mi drogo e poi faccio sesso qualche volta riesco ancora a vederlo. Vi dimenticate tutti troppo spesso, che si è trattata di un’avventura occasionale.

Beve di getto l’ultima sorsata di champagne rimasto, consapevole della gravità della sua confessione scevra; eppure Emily non sembra turbata. Dopotutto, ognuno ha i propri mostri nell’armadio.

- E perché ti è rimasta così impressa? Voglio dire… ne avrai avute, nella tua vita.

- Mi ha detto che mi amava, e poi è sparito.

- Oh, andiamo. Vuoi dirmi che non hai mai scopato con una groupie che ha dichiarato di amarti?

- Non in quel modo.

E Louis cerca di chiudere il discorso, senza voglia di insistere più di tanto; il resto del mondo d’altronde non può capire il significato di quella notte con Ian. Ma forse in fondo nemmeno lui può capirci più di tanto; è stato solo uno scambio reciproco di pelle, vita e mostri. Come se nelle vene scorresse stricnina, e in fondo il sesso non fosse altro che un istinto autolesionistico.

Emily sospira, forte; e poi fruga nella propria borsetta di pailettes. Non pailettes qualunque, sia chiaro; pailettes firmate Valentino. Estrae un piccolo involucro di carta, e Louis riconosce subito il contenuto; polvere bianca.

Qualcosa che lo aiuti a staccare il cervello dal resto del corpo, che gli permetta di distaccarsi da se stesso per qualche piacevole ora.

- Vuoi? – propone Emily, serafica – E’ ottima, me l’ha passata il fotografo stamattina. Roba buona, dicono che snellisca anche.

- Per forza, toglie l’appetito.

Si mettono seduti attorno al tavolo di marmo nero nel salotto; con precisione, Emily divide la droga in strisce con la sua mastercard.

- Alla salute! – esclama, prima di tappare una narice e tirare forte su con il naso, aiutandosi con una banconota arrotolata. Louis, poco dopo, la imita.

La coca arriva al cervello quasi subito; e lo strato superficiale si riveste d’un euforia latente; sicché sia Louis che Emily si ritrovano a ridere, come se improvvisamente si trovassero nella situazione più divertente del mondo.

Il sesso è quasi consequenziale; ben presto si ritrovano entrambi accaldati, e il tappeto è la prima superfice che si offre.

Nei ricordi di Louis, quel momento apparirà come un groviglio confuso di capelli biondi e gomiti pungenti; domattina si laverà di dosso l’odore di donna è tutto svanirà.

Ma ora, mentre lo vive, tra le sue braccia Emily sembra quasi bella come Ian; ha le stesse lentiggini sulle spalle, lo stesso sguardo quasi indifeso che mette addosso una strana paura.

La sente stringere con le dita sulle spalle, e le ginocchia intorno ai fianchi; si morde le labbra e butta la testa all’indietro, e sembra quasi una venere deforme così, con le vene del collo che disegnano tracciati improbabili e coordinate astratte che conducono all’essenza.

- Scrivi una canzone su di me. – soffia Emily al suo orecchio – Ti prego, scrivila su di me…

- Lo sai che non posso.

Lei sembra quasi chiudere gli occhi e per un attimo pare quasi che pianga; ha gli occhi lucidi e l’espressione piena di trasparenza agghiacciante. Ma poi, Louis capisce che si tratta solo dell’orgasmo; e una volta raggiunto lo stesso paradiso, si lascia andare sui seni rotondi di lei, con uno strano senso di pace addosso.

- Non scriverai di me nemmeno se adesso ti dico che ti amo e poi me ne vado, vero? – chiede lei, accarezzandogli i capelli con la punta delle dita.

Louis percorre con l’indice il suo fianco, estasiato dal piccolo neo proprio alla base dell’osso.

- No. Ma potrei scrivere di questo neo qui. Inserirlo in qualche canzone, non lo so.

- Che ci vedi, in un neo?

- La vita. Ci vedo te. Ci vedo le cose che nascondi… è come se fosse l’occhiello alla porta tramite il quale posso spiare la tua anima, e vederti. In ogni frammento. In ogni arteria.

Lei ride, stringendosi un po’ più forte.

- Certo che sei un tipo strano, tu. Proprio un’artista.

- Ho solo meno inibizioni degli altri nell’essere me stesso.

A quel punto, Emily gli dà un bacio sulla fronte, prima di sbadigliare copiosamente; la coca ti dà energia e dilata al tempo, ma alla fine ti lascia sottopelle quello snervante senso di stanchezza misto a un’infelicità ben compressa – proprio come nelle pasticche.

- Ma se tra qualche ora mi trovi ancora qui, ti incazzi? – chiede, chiudendo gli occhi.

Louis scuote la testa, sbadigliando.

E s’addormenta; l’ultimo pensiero appeso alle sinapsi è che tanto, prima o poi, te ne andrai lo stesso.

 

*

 

In una parte diversa della stessa città, nello stesso momento in cui Louis e Emily si addormentano avvinghiati.

L’iride si dilata e accoglie la luce; in preda a uno stato di smarrimento nuota per qualche istante nel bianco dell’occhio, aspettando che la dimensione esterna si definisca.

Ian respira, e la vita corre lungo le vene risvegliando braccia e gambe, dando sensibilità a una pelle che sembra ceramica appena lavorata. Sopra di lui, il lampadario spento ridisegna la sua rotondità; il materasso smette di essere accogliente e si copre di un caldo appiccicoso e sudaticcio.

Il peso morto di un braccio attorno alla vita lo costringe a girare appena la testa; e sul suo viso nuotano fili blu come una corrente di pesci psichedelici in un oceano nero.

Demi ancora dorme, le ciglia chiuse e le labbra esangui. Da qualche parte, Ian aveva letto che durante il sonno la pressione sanguinea scende; sicché tutti diventiamo un po’ più pallidi. Col suo strano corollario di capelli blu, Demi sembra ancora più pallida di quanto non sia già.

E ancora vestita, sopra le lenzuola, con la sua felpa nera e la sua sciarpa a quadri verdi; indossa una minigonna di jeans sopra dei pantacollant scuri, e calze piene di righe colorate di diverse grandezze.

Ian cerca di ricollegare i ricordi della sera prima.

Devono aver bevuto un po’ e essere piombati nella solita spirale di pensieri autolesionisti, come un vomito di parole taglienti sulle braccia. E magari volevano scoprir l’America e hanno finito con l’addormentarsi nello stesso letto, come sempre.

Demi è l’unica donna con cui Ian conservi una tale intimità; con lei dorme, mangia, e qualche volta va persino al bagno. Perché lei e solo lei lo ha visto crescere, c’è stata in ogni momento; gli ha tenuto la mano costantemente senza lasciarlo mai. E se c’è un’anima gemella, questa porta il suo nome.

Lei c’era anche quella mattina.

La mattina in cui Ian ha ripreso i propri vestiti umidi ed è corso via, con il corpo di Louis ancora dentro i nei; e non ha dubbi, il ragazzo, che in fondo anche la pelle possieda una memoria tattile.

Che tra tutte le mani che lo hanno toccato, tra tutte le labbra che l’hanno baciato, quelle di Louis siano in qualche modo il centro preciso di ogni sua ricerca.

Se ne è andato. Perché Louis era davvero disposto ad amarlo; e Ian non può, non ha bisogno di un altro motivo per odiare Dio.

Sospira, alzando appena la spalla per cercare di svegliare Demi; e lei strizza appena gli occhi e mugola, cercando di nascondersi tra le sue ossa.

- Dai dormigliona, svegliati. – le dice, con tono fraterno; ma quella non ne vuole sapere, e nasconde la testa sotto il cuscino, cercando di raggomitolarsi come meglio può.

Ian alza un sopracciglio e ride, pizzicandole i fianchi. – Daiii. E’ ora. Dobbiamo fare colazione e poi andare a lezione.

- Novvoio. – brontola lei, in una qualche lingua immaginaria che sa di infantile – Non è vero, possiamo anche saltarla.

- Mh, poi l’esame chi lo dà?

- Quella rompipalle secca che sta sempre seduta al primo banco.

Ian ride, e si alza; si passa una mano tra i capelli prima di aprire le tende e lasciare che il tenue sole del mattino irradi la stanza.

Seattle è già in pieno fermento meccanico; il caos metropolitano si confonde coi familiari mostri d’acciaio, mentre il Needle Space ruota in lontananza, librandosi al di sopra di tutti quei grattacieli, piccoli cimiteri e assassini di vita. La solita città estremamente egoista che non guarda in faccia a nessuno.

- Accendiamo la radio? – chiede Demi, mettendosi a sedere e stropicciandosi un occhio.

Così sembra proprio una bambina, di quelle che affacciandosi dalle auto sorridono agli autovelox; ha la stessa ingenuità e lo stesso disordine vagamente artistico.

- Mh, fai tu. Io vado a lavare i denti.

Hanno poco tempo per prepararsi, lo sanno. Così mentre lui va in bagno, lei va a prepararsi una tazza di latte; e la voce gracchiante del cronista di una stazione radiofonica locale comincia a gracchiare le informazioni del mattino.

Il traffico, le notizie di stanotte, chi ha ucciso chi, chi è scomparso, chi si è perso e non sa più tornare.

Qualche volta Ian vorrebbe smettere di esistere. Non di vivere, di esistere; essere un entità latente e senza cuore che si muove fluttuando tra la gente, con solo i contorni a fare luce. E magari capire il perché di tante cose.

Schiantarsi con la vita degli altri – premere sull’acceleratore e finire in rotta di collisione con le anime slavate della gente comune. Esseri umani così semplici, così normali e vivi da non poter fare a meno di invidiarli.

Invece lo specchio certifica la sua esistenza fatta di carne e ossa e denti e pelle. Ha leggere occhiaie violacee e una piccola cicatrice sulla fronte; un incidente in moto di un paio di anni fa.

- Hanno appena detto di aver visto Emily Dubois entrare in casa di Louis, ieri sera!

L’acqua scivola sul volto di Ian portando via piccoli strati di sporcizia sottopelle; ma non può fare niente per lo strano nodo alla gola, quando sente il nome di Louis.

Demi, in piedi sulla porta del bagno, mastica i suoi cereali rumorosamente.

- Emily Dubois? La modella?

- Mpfh, quella. – borbotta lei, inghiottendo – Dio, io non capisco perché non lo chiami, Ian. Voglio dire… ormai è passato, no?

Nessuno di loro due nomina mai ad alta voce il mostro. Nessuno dei due ha il coraggio di chiamarlo col suo nome; come se dandogli un’ identità, quello potesse ricomparire improvvisamente.

- Potrebbe tornare, lo sai.

- Non lo farà. I medici ti tengono sotto stretto controllo.

- Non posso. Lui non mi amerebbe più come ha fatto quella notte.

- Ian, Cristo, non fa altro che scrivere canzoni su di te.

- Mi amava perché stavo morendo.

- Non lo sapeva, che stavi morendo. Non sapeva nemmeno chi fossi.

- Basta.

Ian chiude la parentesi seccamente, e insieme a quella fa sbattere lo sportellino del bagno. Si dà un’asciugata rapida, prima di uscire dal bagno. Demi, saggiamente, non insiste. Sa fino a dove può spingersi e quando arriva il momento di fermarsi; si limita a sospirare rassegnata, e ad appoggiare la grossa ciotola con i cuoricini disegnati sul bordo della vasca da bagno.

- Almeno puoi dirmi dove diavolo hai lasciato il sapone? – urla, rovistando sul lavabo.

- No! – risponde Ian dall’altra stanza – Oggi puzzerai come un maialino!

- Ma! – Demi si fionda fuori dalla stanza e gli salta addosso, senza troppi complimenti, cercando di strofinargli la testa con le dita. Ian ride, abbracciandola.

E’ il loro modo di fare pace, dopo aver discusso.

E mentre si stringe forte a lei, Ian ha la certezza che Demi è l’unica che rimarrà sempre – anche nella sofferenza, coi suoi mostri a fargli paura e le fobie che non lo fanno dormire.

 

 

 

 

__

 

Primo capitolo.

Non sono pienamente soddisfatta, penso potesse riuscire meglio. Si può sempre fare di meglio. Ad ogni modo, però, devo dire che fino ad ora Louis e Ian si stanno comportando in modo abbastanza decente. Se non altro, fanno ancora come gli dico io.

Suppongo che adesso molti di quelli che leggono faranno ipotesi sul mostro di Ian, sulla sua malattia. Io non vi anticipo nulla, se non che può essere di tutto.

Spero che non vi abbia dato fastidio la scena di Louis, che non sia stata troppo pesante; ero molto titubante a riguardo e anche ora non ne sono pienamente convinta.

Riguardo ai personaggi femminili, che ne pensate? Io adoro Demi. Se può interessarvi, il suo personaggio è ispirato – almeno per quello che riguarda l’aspetto fisico – a Clementine di “Eternal Sunshine Of Spotless Mind”. Ecco perché ha i capelli blu (e, nel corso della storia, gli cambierà colore più volte)

Grazie a chi mi sta seguendo, e a Bizzy Kat Blur che è stata così carina da lasciarmi una recensione la volta scorsa.

La frase di apertura “liberi ci sembrerà di essere più liberi” e dei Negroamaro e Elisa, della canzone Basta così.

Credo – spero – di aver detto tutto. Perdonate eventuali errori di battitura e/o distrazione, ho fatto un’attenta rilettura me resto comunque un po’ troppo sulle nuvole ^^’

Un abbraccio,

 

- sc

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Capitolo 3
*** Quello che non vorresti mai sentirti dire ***


Capitolo 2

Quello che non vorresti mai sentirti dire

 

Dopo

 un'attenta

 analisi,

 confronti

 e riflessioni

 ho capito

 che

 io...

no,

non

 ho

 capito

 niente

 di

 te.

 

La musica pulsa sin troppo forte, nella stanza.

Con un ultimo colpo di batteria, Cappie conclude la canzone, lasciando che i piatti vibrino ancora un po’ e spargano l’ultima nota nell’aria. Il resto, poi, dopo un ultima scivolata di Dennis sulla chitarra, è solo silenzio.

Come uno Ian Curtis maledetto, Louis ha ancora gli occhi chiusi, e resta aggrappato all asta del microfono con entrambe le mani – lunghe dita pallide che stringono la plastica come se fosse vita. Ha le labbra attaccate alla parte retinata dell’amplificatore, e sembra quasi tremare. Evanescente e sottile, la sua immagine sa di quel dolore interno che ti lacera dentro – che ti smuove l’essenza lasciandola vibrare.

Seattle, alle sette della sera, è una trasfusione di radiazioni chimiche; fuori dalle finestre degli studi del registrazione il paesaggio cola come la tela di un pittore impressionista, disperdendosi sulla infinite gradazioni del rosso. Dentro la stanza, il bianco asettico è sintomatico di anime vuote che cercano una pace inesistente.

- Cazzo, io non so voi ma non riesco a sentire la chitarra – borbotta Dennis, sfilandosi la Fender rosso fuoco e appoggiandola al grosso amplificatore.

- Mh, anch’io ho avuto l’impressione che il volume della batteria fosse un po’ troppo forte.

Louis riapre gli occhi, stanco. Non ci ha nemmeno fatto caso; non ha sentito quello che cantava. O perlomeno, non lo ha sentito a 360° gradi, con tutti i sensi e le capacità recettive deviate di chi ha insito in sé il sacro fuoco dell’arte.

- Non mi piace il testo. – borbotta, infine, lasciandosi cadere su una sedia.

Dennis lo guarda, alzando un sopracciglio.

- Perché? E’ ottimo.

- Non è d’impatto… non è sufficientemente catartico.

Cappie da un colpetto al piatto con la bacchetta, evitando di guardare sia Louis che Dennis. E’ un gesto che fa quando è irritato, quando quelli della produzione richiedono un nuovo album e i tempi non coincidono.

D’altronde, Cappie è ancora poco più che un ragazzino.

Ha ventidue anni, un taglio di capelli vagamente Emo per cui Louis e Dennis lo hanno preso in giro tante volte; tanto più che la sua testa è di un rosso ramato naturale, e lo fa sembrare particolarmente eccentrico. Ha le orecchie piene di anelli e indossa quasi sempre abiti neri, doc martens e svariate cazzate dal gusto dark.

Dennis, invece, è più moderato; se non fosse il chitarrista di una band famosissima, lo si potrebbe scambiare per uno qualunque. Ha i capelli a spazzola, neri; e un paio di begli occhi verdi che, per qualche assurdo motivo, sembrano ridere sempre.

E’ difficile rimanere tristi, o incazzati, o delusi se di mezzo ci sono gli occhi di Dennis. Persino Louis, quando lo guarda, si sente pervadere da una strana emozione; che se in tutta la sua vita non avesse fatto alto che prendere insetticidi per precauzione, probabilmente sarebbe in grado di sentire le farfalle nello stomaco.

Appoggia l’indice e il pollice all’attaccatura del naso sulla fronte, massaggiandosi la testa; comincia a sentire quel lieve fastidio quando la violenza creativa si stratifica in eccesso sotto la sua pelle, premenedo per esplodere. Le sue sinapsi diventano centrali nucleari, luoghi comuni dove ogni clichet esplode alla ricerca di una nuova strada. Le parole si inseguono e si combinano tra di loro, cercando di trovarvi un senso compiuto.

- Non capisco qual è il verso che non va – borbotta Cappie, continuando a giocherellare con la batteria.

- Ma mi affoga il cuore nello stomaco ogni volta che qualche placca intercontinentale con un terremoto ti allontana da me.

- Effettivamente, non fa impazzire nemmeno me – fa notare Dennis, buttandosi su una sedia e facendo scrocchiare il collo.

- La soluzione è: pausetta!

La voce, stavolta, non è di nessuno del gruppo. Viene dalla porta, dalla presenza di Julie appena arrivata nella stanza.

Non appena entra Julie, Louis sente un istantaneo sollievo.

Si tratta della compagna di Dennis; una giovane gallerista, con una bella treccia color del grano e occhi chiari, che sembra uscita dal testo di una poesia. Ha arrotolata attorno al collo una sciarpa multicolore, e tra le mani tiene un sacchetto della pasticceria.

- Sia lodata Julie! – esclama Cappie, saltando in aria. Dennis ride, facendo cenno alla compagnia di mettersi seduta sulle sue ginocchia. Lei, dopo averlo baciato sulla fronte e aver rivolto un sorriso a tutti, si mette seduta.

- Quale buone notizie porti, Ju? – chiede Louis, appropriandosi di una pasta al cioccolato.

- Mmmh! – borbotta lei, con la bocca piena. – Stamani sul giornale c’era scritto che siete stati invitati ai Music Awards.

A Louis si gela il sangue.

I Music Awards. Se ne era totalmente scordato. Montagne e montagne di ragazzine sotto il metro e sessanta che si strappano capelli come fili dell’elettricità, mentre un gruppo di critici in ceralacca e papillon è pronto a dar loro un giudizio più spietato possibile. E se tutto va bene, si torna a casa con qualche centone.

- Ah si, mi ero scordato a dirtelo – borbotta Dennis, affondando il naso nel suo collo. Probabilmente, la sua era una dimenticanza calcolata.

- Fa niente, non credo che verrò. Me ne starò a casa a guardare l’ultima puntata di Grey’s Anatomy.

- Ma perché non ci rimaniamo tutti? – propone Cappie, cominciando a battere la bacchetta sul tavolo. Notoriamente, quando Cappie non suona la batteria, suona tutto quello che ha intorno fino a quando non diventa pericolosamente snervante; il che, di solito, coincide con un Dennis irritato che gli intima di smettere o un Louis particolarmente fuori di testa che lo minaccia.

- Non abbiamo bisogno di un’altra serata tutti insieme passata a contemplare i capelli del Dr. Sheperd, è autolesionista – fa notare Julie.

E Louis ride.

Ci sono momenti in cui la mancanza di Ian si acuisce così tanto da fargli mancare il respiro; e di solito, quei momenti coincidono con una violenta e irritante fase creativa in cui il giovane arriva quasi a scrivere sui muri, pur di svuotare se stesso.

Ma di tanto in tanto, capita che quel vuoto si riempia di una leggerezza inaspettata e effervescente, data dalla presenza confortante dei soliti volti noti.

- Mi sa che per oggi finiamo qui. Tanto sono le sette e mezza… Un po’ tardi per fare merenda, effettivamente. – fa notare Louis, rendendosi conto solo dopo di quanto ha mangiato.

- Mh, andata. A chi serve un passaggio? Cap?

- No, sono in moto. Louis, tu vieni con me?

- Se Julie ha la macchina vado con lei.

- Malfidato!

Ridono, buttando il resto della serata sullo scherzo; poi, uscendo dall’ufficio, ognuno prende la sua strada. Cappie col casco in mano saluta gli altri, sparendo rapido per le vie dove la tecnologia s’arrampica come un’edera maligna; Louis, invece, sale dentro la Fiat seicento di Julie, mentre la ragazza si mette gli occhiali per guidare.

- Vuoi che guidi io? – le chiede Dennis, preoccupato. Ma lei scuote la testa e salta al posto del guidatore, mettendo in moto. Quando gira la chiave nel quadrante, parte un vecchio CD dei Rammstein, che cantano Amerika con voce particolarmente cattiva.

Louis non capisce bene cosa i due davanti si stiano dicendo; probabilmente stanno scherzando, parlando del più e del meno.

Ma lui è catturato dalle luci di fuori, dal modo uomocentrico in cui la città si snoda, con tanto di tram grandi come enorme serpenti di ferro che sembrano mangiare l’asfalto e inghiottire tutte le vernici colorate dei muri.

Il panorama ha il sapore del petrolio, e quasi nessuno guarda dove va; la gente cammina portando i cellulari al guinzaglio o urlando in auricolari a lavoratori invisibili. L’isteria è un concetto ritrovabile persino nel 21esimo secolo, nel mondo soffocante e distorto.

Una traversa, un’altra traversa. Un giovane col cappello da contadino tiene una sigaretta tra le dita e, quando la macchina di Julie si ferma al semaforo, guarda dietro al finestrino.

Rimane lì a fissare Louis coi suoi occhi di cenere e un sorriso spento, appoggiato al palo. Con un gilet pieno di lustrini su una camicia bianca e calzoni di pelle troppo aderenti; ed è bello nel modo poetico e volgare di tutte le puttane, mentre aspetta che qualcuno gli offra quattro soldi per dimenticarsi della propria dignità.

Ma ben presto diventa un ricordo anche lui, sparisce in una macchia di colori. Il fotogramma successivo è casa di Louis.

- Io allora scendo qui. Grazie per il passaggio.

- Vieni a cena, una sera di queste? – domanda Julie da dietro gli occhiali da mosca.

- Come no. Basta che non fai cucinare Dennis, non voglio morire avvelenato.

Un’ultima risate, poi la portiera sbatte. Ben presto, anche il portone di vetro scatta e si chiude, lasciando dietro di sé una vita relativa.

Nel tempo che seguirà, Louis salirà in casa, si farà una doccia, rollerà una canna, prenderà il telefono e chiamerà di nuovo Emily.

Ma la progressione del presente, noi la seguiremo andando dietro alla macchina di Julie.

 

*

 

L’abitacolo della macchina è un panorama ben conosciuto.

E’ una macchina piccola e sporca con una radio piena di tasti gialli; attaccato allo specchietto retrovisore c’è un cornetto portafortuna ed un piccolo portachiavi a forma di infradito arancione.

Cose così. Che fanno di una macchina qualsiasi la macchina di Julie, e non solo.

E’ stata anche l’auto dove, in un giorno in cui faceva troppo freddo per uscire fuori, ha mangiato una pizza con Dennis. E poi ci ha fatto per la prima volta l’amore, facendosi anche un po’ male.

Colpa del freno a mano, dei sedili rotti, di tutto che sembrava dover cadere da un momento all’altro. Il mondo stesso.

Dennis è sempre stato tutto.

Julie ci pensa proprio ora, mentre guida – mentre guarda la striscia bianca scorrere sotto ai suoi occhi e lui è seduto lì vicino senza dire una parola, con la fronte appoggiata al finestrino e lo stesso sguardo di un canarino in gabbia.

E’ sempre stato tutto. Lo è stato dall’inizio, dalla festa in cui si sono conosciuti; lei indossava un abito troppo corto ed era indecentemente brilla; e lui invece aveva una maglietta dei Doors e sembrava così provvisorio, in mezzo a tutti gli altri.

Era bello come qualcosa che deve sparire da un momento all’altro. Bello come i luoghi comuni dell’assenza.

E aveva scelto lei. Per qualche motivo astruso e incomprensibile, lei era diventata la sua casa. Il suo santuario.

E’ stato quasi sei anni fa. Louis era già in preda alla sua depressione artistica e la band ai primi tempi; lei era diventata la compagna di Dennis e parte del tutto.

Adesso, a distanza di anni, di quella ragazza ubriaca e del ragazzo distaccato che le dedicava canzoni con la chitarra è rimasto solo il ricordo di un amore imprigionato tra i sedili di un auto che profuma ancora di pelle e arbre magique.

Non sono più gli stessi, Julie lo sa. Eppure in qualche modo il loro amore si è preservato, si è mantenuto.

Anche se Dennis sembra sempre più lontano, sempre più chiuso in se stesso; lei sarebbe disposta persino ad amarlo solo da fuori. Basta che lui glielo conceda.

Quando arrivano a casa, Julie tira un respiro di sollievo. Non le piace guidare dentro Seattle, ma si sforza di farlo per avere un minimo di autonomia. Dennis si offre quasi sempre di guidare al posto suo, ma non glielo lascia fare.

- Che c’è per cena? – domanda lui, sbadigliando e prendendo la strada del vialetto d’ingresso.

Vivono in una di quelle villette a schiera, di quelle con la porta dipinta e il numero di ottone. Hanno persino un cane, una piccola bestiola piena di peli che si chiama Pablo.

- Non ne ho idea, ma penso che tireremo fuori una scatoletta di tonno. – propone Julie, serafica, entrando in casa e sfilandosi la sciarpa mentre Pablo corre loro incontro per fare le feste.

Al solito Dennis si ferma a giocare con il cane, mentre Julie accende la luce della cucina.

- Ma basta tonno, cazzo. Lo stiamo mangiando da una settimana.

- Lo so, ma ti faccio notare che è una settimana per l’appunto che torniamo tardi. Non è che ho tutto questo tempo di mettermi a cucinare le prelibatezze francesi, io.

- Mmh, non ti offendere. Una sera di queste ti faccio una cenetta io.

Julie ride, mentre Dennis l’abbraccia da dietro e le bacia il collo. Mentre prova ad aprire la scatoletta del tonno, lui la distrae.

- Daiii, che sennò non mangiamo mai.

- Ma io mi mangio te! – borbotta lui, dandole un morso sulla spalla. Julie ride, e fa finta di minacciarlo con la scatoletta del tonno.

- Non mi avrai, uomo!

- Questo lo dici tu, piccola sardina al limone!

Ed è così che cominciano a ridere, e scherzare. Proprio come due adolescenti, si punzecchiano, si inseguono, giocano in giro per la casa; e va a finire che Julie rotola dal divano al tappeto, mentre Dennis, lanciatosi al suo inseguimento, fa la stessa cosa. Con i piedi appoggiati allo schienale del divano, entrambi guardano il soffitto.

- Ma tu sei felice, Dennis? – domanda Julie, dopo un attimo di silenzio.

E’ una domanda che sente di dover fare. Che la sta dilaniando lentamente.

Capitano raramente, ormai, quei momenti in cui lei e Dennis giocano come due idioti e si crea tra loro l’atmosfera complice che gli consente di parlare. Tanto vale sfruttarla, anche se c’è il rischio di rovinare tutto.

- Perché mi fai questa domanda? – chiede lui, dopo un attimo di silenzio.

- Ogni tanto mi sembra che tu ti senta in gabbia. – risponde lei, con la massima sincerità possibile.

Il silenzio che ne consegue è sconcertante. Perché magari dura pure poco, ma è uno di quei momenti che rischia di dilatarsi e di ripercuotersi all’infinito con estrema voracità;  ed è uno di quei silenzi che un po’ ti uccide, da quanto fa male. Ti svuota.

- Ora, in questo momento, sì. Ma non  è sempre così.

E a Julie viene in mente Kokosckha e la Sposa nel Vento; il quadro in cui i due protagonisti sono abbracciati dopo aver fatto l’amore, e lei dorme mentre lui, sveglio, fissa il vuoto sapendo già che tutto finirà.

- Che vuol dire, che non è sempre così?

A quel punto, Dennis si mette a sedere, abbracciandosi le ginocchia. La situazione dev’essere più grave di quel che sembra.

- Guardaci, Juls. – l’ha chiamata Juls. Col nomignolo standard che le ha appioppato lui. E Julie, con tutta la stupidità di una donna innamorata, in fondo spera ancora che qualcosa possa cambiare in positivo.

- Guardaci – riprende lui – Viviamo sotto lo stesso tetto, ci vediamo durante il giorno… ma tutto quello che facciamo è comportarci come amici. Ridiamo, scherziamo. Mai un ti amo. Mai un po’ di sesso.

E a quel punto, a lei si gela il sangue.

Quand’è l’ultima volta che hanno fatto l’amore? Che si sono detti ti amo a vicenda?

Il primo, folle, irrazionale istinto è quello di spogliarsi; di offrirsi come vittima sacrificale e dire: “Eccomi, sono qui. Scopami.” Ed aspettare che lui si fotta pure la sua anima per conservare i propri istinti.

Con le dita nervose, slaccia i bottoni della camicia. Dennis la guarda stravolto, e appoggia le mani sulle sue per fermarla.

- Juls, no. – dice, con voce tenera.

- Possiamo fare sesso, no? Qui, ora, sul tappeto. – propone lei, cercando di sfilarsi la gonna – Come la prima volta che siamo venuti qui. Te lo ricordi, no? L’abbiamo fatto sul pavimento perché non c’erano materassi. E ci siamo addormentati davanti al camino.

- Julie, non cambierà quello che sta succedendo. Se adesso facciamo sesso, non torneremo quelli che eravamo.

- Ma…

- Non è quello, capisci? Ma ci vedi? Stiamo insieme tutti i giorni e non riusciamo a pensare nemmeno a uno straccio di futuro. Arriviamo alla sera e l’unica cosa che sappiamo fare è discutere sulla cena, su Grey’s Anatomy, su chi deve portare fuori il cane. Cazzo, non facciamo un progetto da anni ormai! Nemmeno le vacanze. Nemmeno un viaggio all’estero d’estate.

E stavolta, Julie capisce che spogliarsi non le servirà a niente sul serio. Perché Dennis ha appena messo a nudo la sua anima in un modo diverso da quello che si sarebbe aspettata; e ora è spaventata sul serio, dall’enormità di quello che sta succedendo.

- Possiamo cominciare. Posso cambiare. – propone, con voce tremolante.

- A che servirebbe? La ragazza di cui mi ero innamorato non esiste già più. – dice lui, con un sorriso triste.

Julie si sente morire dentro. Di botto, all’improvviso, senza che nessuno l’abbia avvisata. Vorrebbe riavvolgere la pellicola e tornare indietro, al pomeriggio, alle sette e un quarto, alla macchina, a quando è entrata in casa, alla scatoletta di tonno. E magari tagliarsi le dita così sarebbe stata costretta a medicarsi e magari Dennis le avrebbe tamponato la ferita, anziché infliggergliene una ancora più grande.

Strizza gli occhi per non piangere, ma con scarsi risultati.

- Julie… - prova a iniziare Dennis.

- Non mi toccare. – dice lei, scansandosi. Poi si alza, cerca le scarpe e la borsa.

- Julie, aspetta, calmati. Non sei lucida. Non mi sembra il momenti giusto per uscire di casa.

- Vado da mia sorella, non ti preoccupare. – esclama lei, con le mani che tremano. Afferra le chiavi della macchina; della paura di guidare, ora, si è persino scordata.

Dennis la insegue in ogni stanza della casa, mentre lei prende oggetti qua e la più o meno irrilevanti; e alla fine se ne esce sul vialetto con una valigia piena di lacrime.

Lui la chiama ancora, dalla porta della casa; ma lei è già dentro la macchina.

Andrà da sua sorella, ha detto.

Mette in moto la macchina, e Dennis le è dietro. Cerca di urlarle qualcosa, ma c’è il vetro ad attutire le sue parole; e c’è un cuore malato che non vuole nemmeno sentire quello che lui ha da dire.

Così lo vede allontanarsi pian piano dallo specchietto retrovisore; e mentre va, sa che è quella la distanza che vorrebbe prendere dalla sua vita.

Mentre guida, non riconosce nemmeno più le strade.

E’ buio, e Seattle sembra terribilmente marcia, sporca e piena di schifo umano.

 

*

 

Piove di nuovo.

Alla sera, a Seattle piove quasi sempre.

Seduta sul divano di casa di Ian, Demi tiene tra le mani la cornice appoggiata sul comodino all’ingresso.

Nella foto, lei, Ian e Adam sorridono vivacemente; erano i tempi del liceo, avevano poco più di diciott’anni. Adam aveva addosso l’uniforme della squadra di football, mentre Ian sembrava poco più che uno studentello Emo; in mezzo a loro due, lei sorrideva allegra, con le trecce castane ai lati del viso e gli shorts che gridavano estate ovunque.

Sospira, soffermandosi su Adam. Nella foto è venuto particolarmente bene; i suoi occhi blu sembrano quasi bucare il tempo e lo spazio ed arrivare fino a oggi, direttamente dal passato. Peccato che non sia così semplice.

- Ti manca così tanto?

La voce di Ian la coglie all’improvviso, facendola sobbalzare. E’ stata beccata ancora una volta con le mani nel sacco – dal suo migliore amico, per giunta.

Arrossisce. Sa che non c’è bisogno di parlare, per spiegare il suo tumulto interiore; me è altrettanto sicura che Ian lo farà lo stesso, anche solo per cercare di tranquillizzarla. Fa parte del suo buon cuore.

- Mi manca tantissimo. Vorrei che fosse qui, ora.

Ian sospira, mettendosi seduto vicino a lei.

- Perché non provi a scrivergli un e-mail? – propone, passandosi una mano tra la zazzera bionda.

Demi alza un sopracciglio, perplessa – Non mi sembra che tu abbia scritto molto a Louis, in questi anni.

- Touché. Ma Louis è su tutte le copertine, quasi tutti i giorni. Basta comprare Rolling Stones. Adam è in Afghanistan, non è la stessa cosa.

Il posto che non deve essere nominato fa venire i brividi a Demi. Perché immaginarsi Adam – il suo Adam – in mezzo alle bombe con un fucile in mano non è esattamente confortante.

- Forse hai ragione. Dovrei scrivergli. Anche perché non voglio che passino altri due mesi, prima di riuscire a prendere la linea telefonica.

Così, Demi si alza, lasciando Ian sul divano con la tazza di thé in mano, e accende il pc.

Quando si trova davanti alla pagina bianca, le prende un attimo di terrore. Le ha sempre messo paura, il vuoto; lo spazio deserto da riempire con parole e emozioni. Ha paura di non esserne capace.

Ma, in qualche modo, comincia.

 

Caro Adam,

come stai? Va tutto bene, in terra d’Islam? Noi stiamo bene. Ian è il solito cazzone, continua a guardare Louis a distanza proprio come faceva alle superiore. Mi sta facendo esasperare.

A Seattle piove. Bella novità, eh?

Scommetto che ti manca la pioggia. Laggiù è tipo deserto arabico, o no?

A me manchi tu.

Mi manchi come potrebbe mancarmi un paesaggio che ho visto per tutta la vita; mi manca vederti, e abbracciarti, e l’odore delle tue magliette e le tue mani piene di calli e parlare delle cose stupide prima di andare a dormire.

Dio sono un disastro. Ian è più bravo di me a scrivere, lui si che riesce a tenere una corrispondenza come Cristo comanda. Io no, perché poi comincio a scrivere tante cazzate.

Tipo che vorrei che tu non ti arruolassi più.

E tornassi a casa, da me. Perché non ti ho mai detto che ti amo, e vorrei così tanto potertelo dire.

Non te l’ho detto nemmeno quando al liceo stavi con quella cheerleader idiota – Lucy, si chiamava. Perché dicevi di essere innamorato e io volevo solo fossi felice.

Però adesso lo so che se tornassi potrei renderti felice io, no?

Perché ti amo e ti ho sempre amato.

Ma tanto, questa e-mail non te la invierò mai. Almeno non tutta. L’ultima parte magari la tolgo, ma volevo avere la soddisfazione di scriverla.

Niente, ti voglio bene.

Rispondimi quando e se puoi, soldato Joker.

I miss you, per citare i Blink.

 

Demi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

Eccomi di nuovo qui… aggiornamento lampo anche stavolta =)

Abbiamo conosciuto il resto della band, finalmente. E anche Julie (non è tenerissima?). Ian e Demi li abbiamo visti poco, ma non volevo concludere senza di loro.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

E niente, la citazione iniziale è di “Mi Vida” dei Linea 77.

Alla prossima!

 

- sc

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Capitolo 4
*** L'influenza degli altri ***


Capitolo 3

L’influenza degli altri

 

 

Can’t take

my mind

off

you.

 

( Blowers Daughter – Demien Rice )

 

Mentre il cielo di Seattle fuori dalla finestra sembra cadere, decine di rose di fazzoletti galleggiano sul marrone chiaro del parquet.

Julie è acciambellata come un gatto sul davanzale di marmo freddo, le braccia che abbracciano le ginocchia pallide.

Ha la fronte appoggiata al vetro, una vestaglia chiara e le gambe nude; non è servito a niente mettersi lo smalto sulle unghie dei piedi. Non l’ha fatta stare meglio. Non l’ha fatta nemmeno dimenticare. E qualsiasi cosa sostenga Judith – sua sorella – nemmeno tagliarsi i capelli servirà a qualcosa.

O cambiare vestiario, rifare l’armadio, buttarsi a capofitto nel lavoro; i classici clichet da donna lasciata, insomma. D’altronde Judith, nella sua semplicità, impazzisce per questo genere di cose; e Julie è quasi convinta, in fondo, che a lei faccia piacere avere una sorella di cui prendersi cura come fosse una bambina. Ha sempre avuto quell’istinto materno che a lei invece mancava.

Per questo non ha mai pensato a fare dei figli con Dennis; né a prendere una casa al mare, o a pagare un mutuo, occuparsi di quelle cose stupide e abitudinarie che fanno la famiglia.

C’era Dennis. E Dennis bastava a riempire tutti i suoi vuoti.

Adesso non c’è più; non c’è nel letto sfatto e non ci sono i suoi jeans abbandonati sulla sedia, il giorno prima. Non c’è il suo dopobarba sulla mensola del bagno, né il suo caotico senso del disordine. Non c’è più nemmeno casa loro, con tutte le foto, e i baci, e i paesaggi di contorno che al confronto sembravano quasi irrilevanti.
Quella casa, con tutti i suoi ricordi, sembra appartenere a un’altra dimensione – distante e lontana.

Persino a un altro tempo; perché a Julie sembra di essere invecchiata di dieci anni solo nell’arco di qualche ora; e quello che sente, ora, è un forte senso di nausea al centro dello stomaco e la voglia di infilarsi due dita in bocca e vomitare, fino a scorticarsi lo stomaco. Come se l’acido che sente dentro potesse corrompere tutti i suoi ricordi malati e bruciare il volto di Dennis dalla memoria, portandolo via insieme al ricordo della marea, un giorno d’agosto di tre anni prima.

Julie chiude piano gli occhi, ascoltando la pioggia che batte sui vetri. Sarebbe bello se, come succede nei film, potesse cancellare ogni dolore; ma la pioggia di Seattle sa di petrolio e gas, di inquinamento e sporcizia urbana; sa di ruggine, di malandato. E’ sporca.

La frequenza radioattiva dei pensieri di Julie viene interrotta da due colpi leggeri alla porta; e Julie è costretta a voltarsi, a lasciar entrare la sua stanza nel caos mentale.

Non è più a casa sua e di Dennis. E’ a casa dei suoi genitori, dopo esser fuggita di corsa da casa di Judith; ed è nella sua vecchia stanza. Come prima che tutto iniziasse.

C’è ancora il suo letto e il termosifone dipinto di blu, la scrivania disordinata e le mensole piene dei libri dell’università. Ci sono le foto di Oxford, di Cambridge, delle vacanze in Irlanda con le compagne del college; Marie, Susan, Lydia. Chissà che fine hanno fatto.

Strofina il naso con il fazzoletto, sentendolo paurosamente umido; e con la voce gutturale di chi non fa altro che piangere ininterrottamente, mormora; - Avanti.

Adrian entra nella stanza in punta di piedi.

Suo fratello adolescente, di diciott’anni, è l’essere al mondo che le assomiglia di più; non solo fisicamente, ma anche caratterialmente parlando.

Hanno la stessa zazzera biondo grano – solo che Adrian si è tinto i capelli di nero. Gli stessi occhi chiari; e la stessa tendenza a definirsi anormali.

Una volta, forse; adesso Julie è una ordinaria. E’ per questo che Dennis l’ha lasciata, no?

Invece Adrian è nel pieno della sua gioventù. Indossa un foulard rosso attorno al collo e una blusa  a righe bianche e blu, un po’ troppo grande: jeans a sigaretta e converse rosse ai piedi.

Se non si sentisse così morente, Julie lo prenderebbe in giro; d’altronde, suo fratello è un fissato coi francesi e con la scrittura. Dice che diventerà il nuovo Sartre, lui.

Ma si vede che è entrato in camera con l’intenzione di parlare di tutt’altro; ha gli occhi grandi e comprensivi di chi ha voglia di ascoltare con discrezione i problemi degli altri.

- Come stai, Jul?

E’ la domanda più scontata che le si possa fare; e Julie, senza riuscire a trattenersi, scoppia di nuovo a piangere.

Adrian si avvicina colpevole, e prova a passarle un braccio attorno alle spalle; le dà un bacio sulla tempia con tutto l’affetto fraterno  di cui è capace, e Julie si ritrova a stringersi a lui come fosse una sorta di ancora di salvezza.

- Va uno schifo, Adrian. Va proprio uno schifo.

Non dovrebbe sfogarsi così. Suo fratello è giovane.

Ma Julie si sente corrosa, usata; si sente merce vecchia che non apparterrà mai più a nessuno, perché Dennis le ha tolto tutto. Le ha rubato ogni singola briciola di amore di cui poteva essere capace, ogni attimo di rara tenerezza. Le ha portato via sei anni di vita in cui lei ha creduto, sperato; anni in cui ha concimato il proprio amore senza pensare di recidere nulla, perché era in grado di accettarne anche il marcio.

Julie si è annullata.

Lei, che era una ragazza così viva e piena di sogni e voglia di fare – che voleva girare il mondo su una mongolfiera e fare le foto con le sette meraviglie del mondo solo per potersi considerare l’ottava – si è lasciata plasmare.

Come un vaso in ceramica sul tornio.

Ha lasciato che fosse Dennis, a modellarla, a darle la forma, a definire i suoi vuoti, le sue curve, le parti più o meno dolci della sua anima; ha lasciato che le dipingesse sopra i suoi pensieri e le sue astrazioni, le sue idee.

E ha assorbito tutto. Ha assorbito così tanto che ora non solo sente di aver perso Dennis, ma anche se stessa.

Adrian, cercando di consolarla, le arruffa i capelli.

- Sai, mamma e papà dicono sempre che passa tutto quanto. Che tutto scorre, no? E che magari qualche volta qualcosa di bello finisce per lasciare il posto a qualcosa di migliore.

- Sono tutte puttanate. – sbotta con cattiveria Julie – Sono le solite stronzate che ci si inventa per consolarsi. Chiusa una porta si apre un portone, o boiate del genere. Sono i soliti clichet. Come tagliarsi i capelli dopo che ci si lascia. Come andare a fare shopping curativo con le amiche. Niente di quello che farò servirà a farmi stare meglio… l’unica cosa che vorrei, ora, è uno sparo in testa che annichilisca la memoria.

A quel punto, Julie sente il respiro mancare. Si sta autodistruggendo, e sta distruggendo anche suo fratello. Lui che deve ancora crescere e tutto questo non lo sa.

Ma Adrian non sembra turbato; perché ha la speranza, dentro di sé. Quel piccolo barlume a forma di stella che gli brilla nel cuore e lo rende speciale.

- Io credo che i clichet, come li chiami tu, siano stati inventati per questo sai? Per farci stare meglio. Per auto convincimento. Adesso ti sembra la fine del mondo,  Juls… e non credo di poterlo capire, non ci sono nemmeno mai passato: ma io ti conosco abbastanza da sapere che ti riprenderai. Come quella volta che hai mandato a fanculo quella stronza che al liceo ha fatto la bulla per tre anni, te la ricordi?

E Julie scoppia a ridere, con tutte le lacrime ancora negli occhi e il fazzoletto a cercare di raccogliere; pianterà altre rose sul pavimento, lo sa, ma adesso un piccolo brio la travolge sorprendendola.

- Si chiamava Micha. Micha Daniels, se non sbaglio. Era insopportabile, una cheerleader… e non faceva che prenderti per il culo perché era invidiosa di te. Così quando hai dato gli esami finali sei uscita e le hai detto “e adesso se sei capace, anziché contare le calorie, conta con quanti voti più di te sono uscita, puttana!”

- Cristo, eri un bambino. Come fai a ricordarti una cosa del genere?

- Sei una leggenda, Juls. Questa frase è scritta ancora in tutti gli annuari del 2000.

- Oddio, davvero?

- Sì. E non c’era Dennis. Eri tu, e solo tu, contro il mondo intero.

Julie sospira, e abbraccia Adrian forte; perché suo fratello è chi le ha dato di più, in quel momento di difficoltà. E perché l’ha aiutata a capire che, dentro di lei, il mondo prima di Dennis esiste ancora; e in qualche modo, con tempo, calma e tranquillità, riuscirà a tirarlo fuori di nuovo.

Quando smetterà di fare male.

E quando sul pavimento non fioriranno più rose ma altri fiori – migliori, di colori diversi, e senza spine.

 

*

 

Una stanza.

Totalmente.

Bianca.

 

Vuota.

Senza aria.

Senza gravità.

 

Solo, Ian.

E Louis, davanti a lui.

 

Si guardano,

Per un lasso di tempo indeterminabile;

 

e poi Ian cede.

E si lascia cadere tra le sue braccia;

scivola.

scivola,

scivola,

scivola,

scivola,

scivola.

 

Fino al pavimento.

E dal soffitto cola veleno e lacrime di sale;

ma sotto quella pioggia Ian e Louis fanno l’amore.

 

La pelle di Louis si stacca piano, piano

Come fosse un serpente;

e muta.

Fino a diventare un essere indefinito;

 

e il soffitto diventa uno specchio.

 

Ian vede se stesso smagrito e pallido,

senza capelli,

senza vita negli occhi,

mentre il serpente,

dentro di lui,

si mangia il suo cuore.

 

- Calma. Calma. Va tutto bene. Calma.

La voce di Demi arriva come un’eco lontano, quasi come fosse di un’altra vita. Le sue braccia attorno alle spalle di Ian sembrano terribilmente piccole.

- Respira Ian. Ci sono io. Sei vivo. Sei qui con me.

E i puntini neri che ronzano negli occhi di Ian si diradano lentamente; l’adrenalina si muove in tutte le vene come il formicolio impazzito di un televisore. E il cervello, in automatico, produce ondate di nausea e panico.

- Demi l’ho sognato di nuovo… il mostro, l’ho sognato di nuovo. – mormora, sull’orlo delle lacrime. Sa già che adesso dovrà arginare i ricordi, per non permettergli di passare oltre la diga dei pensieri; e si impone un autocontrollo formidabile, per far sì di non superare i confini.

Demi, vicino a lui, gli bacia una guancia.

E’ pomeriggio, l’aria sa di polvere e cenere. La luce grigia della stanza dà l’impressione che sia più tardi; ma in realtà sono solo le tre, ed è così buio che sembra di essere in un ospedale.

Ian deglutisce a fatica, chiudendo gli occhi.

- E’ finita, Ian. E’ tutto finito. Sei vivo, sei qui con me, ti ricordi? Devi solo respirare. Adesso apri la bocca e fai come me, respira piano.

E Demi col solito fare materno, prende aria dal naso e la lascia andare dalla bocca. Una, due, tre volte; fino a quando Ian non si convince a fare lo stesso e sente l’aria che riprende a circolare nei polmoni.

Ha le mani e le gambe informicolite, e l’orrida sensazione di star per morire è ancora appiccicata alla pelle; ma per il resto, le funzioni del corpo sono regolari.

Il cuore ha ripreso a battere normalmente. La tensione accumulata nello stomaco si sta sciogliendo; tutto ciò che resta è quella specie di elettrocardiogramma impazzito che ha in testa – la sensazione di angoscia che altera le frequenze.

- E’ stato così brutto? – domanda Demi, chiudendo piano gli occhi e appoggiando la testa alla sua spalla.

- Peggio del solito.

- Mi dispiace… ti ho sentito urlare nel sonno mentre studiavo e sono corsa di qua. Vuoi che ti faccia una camomilla?

- No, voglio che resti qui. Non mi lasciare da solo.

Ian tira la ragazza per un braccio e la stringe forte; e il solo respirare l’odore dei suoi capelli lo fa stare meglio. Sanno di balsamo, di fragoline di bosco. Evidentemente, Demi usa il grosso flacone rosa che tengono appoggiato alla vasca.

Il suo corpo è così piccolo, diamine. Non che quello di Ian sia enorme, ma lei è proprio minuta. Così piccola che potresti metterla in tasca e portarla via con te.

Eppure nel contempo è così forte da lasciarlo sbalordito ogni volta. E’ forte per tutti e due, lei; non si abbatte mai. Lotta e combatte costantemente.

- Ho tanta paura, Demi. – mormora Ian, al suo orecchio.

- Lo so. Ma devi pensare che ora stai meglio, capito? E poi pensa ad Adam. Lui se ne sta tutti i giorni a fare avanti e indietro sui carri armati, eppure non ha paura.

- Lui è sempre stato migliore di me. Non ha mai avuto paura di niente. Anche quando è comparso il mostro, ti ricordi? Non ha dubitato un attimo… ha sempre creduto che ce l’avrei fatta.

- Si sentiva in colpa per come ci aveva trattato, all’inizio. Ha sempre voluto crederci, è diverso.

- Non importa. Vi ho rovinato la vita.

- Non ti azzardare nemmeno a dirla, una stronzata del genere.

Demi non lo ammetterebbe mai, ma Ian lo sa. Ne è convinto; sa che Adam si è arruolato anche per questo. Perché aveva bisogno di vedere altro dolore, per dimenticare. Aveva bisogno di aiutare se stesso laddove la propria anima aveva fallito; e di vivere altre urgenze, altre operazioni veloci per convincersi che il mondo, purtroppo, funziona così.

La memoria di Ian torna indietro, ad anni e anni prima.

Al liceo, addirittura; a un giorno, seduti sulla fontana all’esterno, poco prima che arrivasse l’estate…

 

Se ne stavano sdraiati testa contro testa, Ian e Demi.

Stesi al sole come lucertole, sul bordo della fontana che eruttava acqua chiara: mentre gli studenti tutt’attorno prendevano il sole fingendo di studiare per gli esami finali, loro due non si davano nemmeno questa pena. Ascoltavano insieme il walkmen, con dentro un vecchio CD dei Genesis – o forse, erano i Cure?

Demi rideva, i capelli sparsi come serpenti sul marmo bianco; e Ian si sentiva particolarmente stanco e fragile, ma era sereno.

Non lo sapeva ancora. Non lo sapeva nessuno.

E di certo non poteva saperlo Adam, che si era avvicinato con tutt’altro che buone intenzioni.

- Ehi, sfigato! – lo aveva chiamato, avvicinandosi e strappandogli la cuffietta dall’orecchio.

Lui e Demi si erano alzati di corsa, mettendosi a sedere; nella fretta, la borsa di Ian si era rovesciata, lasciando uscire un foglio.

Prima che il ragazzo potesse nasconderlo, Adam se ne era già appropriato.

- Cos’è questo? Una lettera? E’ per il tuo fidanzato, checca?

Intorno a loro, tutti ridevano. Ian era arrossito, e aveva cercato di riprendersi la lettera. L’aveva scritta così, di soppiatto, per il ragazzo del College annesso che aveva visto passare in segreteria qualche giorno prima. Era riuscito a scoprire che si chiamava Louis dopo un’attenta manovra da stalker; e vi si sarebbe sicuramente avvicinato, anche solo per essere suo amico, se quel giorno le cose non avessero preso una piega del tutto inaspettata.

Nella colluttazione che era seguita tra Adam e Ian, la lettera era finita nella fontana; e tutto l’inchiostro aveva finito con lo sciogliersi in una marea di parole liquide.

Ma era successo qualcos’altro.

Ian aveva sentito il fiato mozzarsi, improvvisamente; e inizialmente aveva anche pensato che fosse colpa del troppo fumo.

Demi, dietro di lui, li implorava di smettere; ma lui non si era fermato, fino a quando la vista non si era riempita di puntini neri. A quel punto, gli era parso di sentire il cuore scoppiare nel petto.

- Aiuto! – aveva chiamato, sgranando gli occhi.

E poi era caduto.

Aveva sentito urla, e panico, e paura intorno a lui; poi, c’erano stati solo nebbia e un inquietante silenzio.

 

*

 

- Cappie cazzo, smettila con quell’affare. C’è gente alla porta per te.

Cappie alza gli occhi, smettendo di suonare la batteria. Sua madre, dalla porta, lo guarda con le sopracciglia alzate.

In molti sostengono che Cappie e sua madre siano due gocce d’acqua; ma aldilà dei capelli, il ragazzo non ci vede tutta questa gran somiglianza tra loro due.

Tolto il fatto che sua madre è una rompipalle con tanto di fattore esponenziale, il loro viso è diverso. Lui assomiglia più a suo padre; e se sapesse di chi si tratta, magari potrebbe anche andarne fiero.

Ma è una di quelle domande a cui Miriam non risponderà mai; probabilmente era troppo sbronza persino per ricordarsi che faccia avesse, il padre di Cappie. Ed era anche sbronza quando gli ha dato questo stupido nome idiota, secondo lui.

- Un attimo, arrivo.

- Non un attimo, subito. Per una volta che per questa casa passa una signorina con la faccia per bene e non uno scalmanato con qualche strumento musicale, vediamo di non farla aspettare troppo.

Cappie aggrotta le sopracciglia, chiedendosi chi diamine possa mai essere una signorina con la faccia per bene. In un primo momento, crede che si tratti di Julie; ma poi realizza che Julie non sa nemmeno dove abita, quindi sarebbe abbastanza surreale.

Raramente lascia che qualcuno entri a casa sua. E’ successo una volta sola, con Louis, e si è curato che non possa più ripetersi un evento del genere. Di solito, Miriam è troppo ubriaca o troppo fatta per sopportare le visite; tra i difetti di avere una madre figlia dei fiori, c’è anche quello che si tratti di una svitata perenne.

Non che Cappie si lamenti. In fondo, se è un’artista, lo deve anche a lei e alle sue logiche malsane.

Si tira su da dietro i piatti senza troppa voglia, sbadigliando; e infila un paio di scarpe al posto delle ciabatte coi teschi. Chiunque sia, farsi vedere in ciabatte non è consigliabile.

Mentre percorre il corridoio, sbadiglia; non ha dormito granché stanotte. Allergia, o qualche diavoleria del genere.

Ed è ancora a bocca aperta – e senza mano davanti – quando si trova davanti alla sconosciuta.

Sbatte un paio di volte le ciglia, prima di realizzare che lei è davvero lì. E, per usare la terminologia di sua madre, è una signorina così spaventosamente per bene che con tutto il caos intorno non c’entra assolutamente nulla.

La prima cosa che viene in mente a Cappie, quando la vede, è che il suo viso è coperto di farfalle.

Come se al posto della pelle ci fosse un esplosione di tante piccole ali, pronte a volare da un momento all’altro; ma perlopiù si tratta di colori.

Ha le guance appena rosate, le labbra pallide, gli occhi grandi colorati con una matita di un verde sconvolgente; e sopra, sfumate, ci sono tracce di azzurro. Ha un baschetto rosso messo di traverso, capelli che scendono a onde nere sulle spalle spioventi. E persino i suoi vestiti sembrano coperti di farfalle; sono così colorati che al confronto Cappie sembra più funereo del solito.

Lei ha una sciarpa arancione e rossa, con un assurda fantasia caleidoscopica. Indossa un giacchetto viola – viola, per Dio! E calzoni in velluto rosso bordeaux. Ai piedi, un paio di Doc Martens di pelle di un rosa così tanto acceso da far male agli occhi.

La ragazza farfalla lo guarda con un sorriso, tranquilla; mentre Miriam la ignora come fosse parte dell’arredamento.

- Ehm. Tu saresti? – chiede Cappie, preparandosi mentalmente a ricevere una risposta con una voce da topo. Inizia il conto mentale alla rovescia e…

- Io mi chiamo Samantha, Samantha Coleman. Ma tu puoi chiamarmi semplicemente Sam. Sono una giornalista del New Music Magazine Zone, e… oddio, non ti ha chiamato nessuno della redazione per avvisarti dell’intervista? Mi sembri piuttosto sorpreso.

Samantha – Sam – Farfalla – Coleman sbatte le lunghe ciglia aliene perplessa. Non ha una voce sgradevole, però. Ha una voce simpatica, di quelle affabili e un po’ imbranate.

Comincia a frugare nella borsa per cercare il cellulare, ma Miriam interviene dall’altra stanza.

- Sì, sì, avete chiamato la settimana scorsa. Ma mi sono scordata di avvisare… Cap, tesoro, mi sono fatta passare per il tuo agente.

E Cappie, a questo punto, si lascia sfuggire una di quelle imprecazioni mentali che farebbero diventare tutti i capelli bianchi alla sua vecchia professoressa del liceo. Si sforza di rimanere tranquillo, ma con scarso successo.

- Senti… cosa. Mia madre è un’imbecille, e probabilmente la sua testa è l’unico punto di Seattle dove non piove. Non rilascio interviste, lo sanno tutti.

- Ma sei il batterista di una delle band più famose del momento!

- Sì, ma delle pubbliche relazioni si occupano gli altri. Io no. Ecco, vedi? Sono vestito di nero. Di là ho le ciabatte coi teschi. Sono brutto e cattivo e mangio i giornalisti.

A quel punto, Sam ride. E, rendendosi conto dell’idiozia che ha detto, anche Cappie si lascia andare.

Quella ragazza, per qualche motivo, gli sta simpatica a pelle. Sarà che sembra un tantino fuori di testa, proprio come lui.

- Non puoi rispondere nemmeno a una domanda? Se torno a mani vuote il capo si arrabbierà. Ed è il mio primo incarico ufficiale, insomma.

Lo guarda con gli occhi sgranati. E sono così grandi che Cappie non può fare a meno di sentirsi in colpa.

- Una soltanto.

- Ok. Ti va di venire a cena con me?

A quel punto, Cappie torna a sentire il suo antico odio per il sesso femminile.

- Eh?

- Dai. Così potrò scrivere un articolo su com’è cenare con una rockstar! E avrò risolto il problema. Magari il capo mi fa fare anche un articolo a puntate… potrei diventare “Sam Coleman – a cena con le stelle”

- Non ti offendere, ma più che per una testata musicale sembra il titolo di un libro di cucina.

- Accetti?

Cappie non sa bene cosa fare. Tentenna. Non se l’è mai cavata bene né con l’altro sesso, né tantomeno con i giornalisti; e la prospettiva di passare la serata con i suoi due peggiori incubi messi insieme in techinicolor lo sconvolge non poco. Sospira, prendendosi il tempo necessario per rispondere.

Sam gli sta simpatica. Non sembra poi così male. Un po’ svitata forse – ma giusto l’essenziale.

- Ci si può provare. – dice, alla fine.

E si ritrova con la giornalista attorno al collo, che fa una specie di urlo vittorioso.

- Grazie, grazie! Mi stai salvando il culo in un modo che non ti puoi immaginare!

Gli dà due baci sulle guance, prima di riprendere compostezza.

- Allora ti passo a prendere venerdì sera alle 7 e mezza. Il posto lo decido io… tranquillo, evito i posti in mezzo a tanta gente. A venerdì!

E senza nemmeno dargli il tempo di rispondere, se ne va correndo sui suoi Doc Martens allucinogeni. Cappie, dopo un primo istante di sconvolgimento interiore, chiude la porta.

Quando si volta, quasi sobbalza nel trovarsi sua madre – alta, allampanata e con gli occhi a palla – in piedi davanti a lui, con le mani sui fianchi e la sua espressione da “Ora-ci-penso-io”.

- Non porterai quelle bacchette a cena con te. Sappilo.

E, in quel preciso momento, Cappie capisce di essersi infilato in un’enorme, colossale guaio.

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

Niente Louis, stavolta.

Non vi preoccupate, non è sparito né passato in secondo piano; solo che essendoci una grande alternanza dei personaggi, lascio il posto a chi ha la priorità.

Come avrete potuto leggere, le prime due parti del capitolo sono piuttosto pesanti. Per questo ho deciso di aggiungere la parentesi su Cappie; volevo alleggerire un po’ il clima di tensione. Questa storia è sì, drammatica e un po’ malinconica; ma non voglio che non conservi anche una sorta di taglio tragicomico di sottofondo agli eventi. Tanto è tutto dominato da una forte surrealtà.

Come avrete potuto leggere, c’è anche un piccolo frammento del passato di Ian. Tempo al tempo, prometto che scoprirete tutto.

Potrei avere qualche difficoltà ad aggiornare nei prossimi di giorni, perché ho qualche impegno in settimana. Nulla di improrogabile, ma potrebbe rallentarmi nella scrittura dei pezzi.

Grazie, come sempre, a chi mi dedica il suo tempo.

 

- sc

 

 

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Capitolo 5
*** Perfetta e vuota ***


Capitolo 4

Perfetta e Vuota

 

I cannot

 sleep,

I cannot

dream

tonight.

 

( I Miss You- Blink 182 )

 

Guardalo bene il tuo viso. E’ l’unica cosa che hai.

E così mentre Marguerite la trucca, Emily si guarda allo specchio. Nello strano clima ovattato che precede una sfilata, la sua testa rimbomba di voci passate; e mentre si guarda allo specchio le sembra quasi di rivedere il film della sua vita, scritto sulle rughe d’espressione che le disegnano la faccia.

Un colpo di spazzola, Emily.

Devi essere perfetta.

Due colpi. Tre. Perfetta.

L’immagine di sua madre le torna alla mente, la sera prima di andare a dormire: ancora col suo tailleur nero e la sua camicia bianca, sempre con quei due o tre bottoni aperti in un calcolo perfetto. E la catenina d’argento che si perdeva tra le linee della pelle, mentre i boccoli d’oro, statici, incorniciavano un viso duro ma bellissimo.

Emily è cresciuta così, con la consapevolezza di dover essere solo che questo: perfetta.

Solo se se perfetta gli altri vorranno stare con te. Nessuno ti vorrà mai bene se prima non sarai bella.

Ed aveva ragione, Miss Dubois. Ha sempre avuto ragione. Emily l’ha visto, se ne è accorta crescendo: i brutti, gli strani, gli intelligenti… nessuno voleva stare con loro. Erano piccoli microcosmi della stessa specie, piccole matasse di adolescenti brufolosi e obesi schifosi; e tutti desideravano esserle amici. O ragazzi.

Emily è la classica donna che prima di essere donna è stata un’adolescente reginetta della festa. Non le è mai mancato niente.

Solo il cuore, qualche volta.

Così mentre si guarda allo specchio si compiace per l’ennesima volta di se stessa; il suo viso sembra quasi selvaggio, con la matita scura che ne sottolinea gli occhi. E le sue ossa sono sorprendentemente sporgenti, sotto la pelle tirata e liscia. Marguerite, muovendosi attorno al suo volto, crea piccoli miracoli di fard; e contribuisce a cancellare ogni tentennamento e ogni segreto dalla sua faccia.

Qualche volta – quando si sente particolarmente vulnerabile e disarmata – Emily si sente molto simile a Dorian Grey; e le capita spesso di chiedersi se da qualche parte nel mondo non ci sia un ritratto che si stia prendendo tutte le sue colpe.

- Dubois. Dubois, tocca a te.

Armand, l’uomo paurosamente eccentrico che gestisce i retroscena delle sfilate, si affaccia per chiamarla; e Marguerite smette all’istante di pennellare, facendole cenno di andare.

Per un breve istante, che sembra dilatarsi all’infinito, Emily guarda la truccatrice.

Non in superficie, come fa sempre; in qualche modo, sembra andare più vicino che mai. Come se i suoi occhi fossero una rete elettrica in grado di smolecolarizzare ogni particella del corpo dell’altra donna, e di percorrere ad alta velocità, come fossero percorsi ad alta velocità, tutte le sue vene; fino ad arrivare alle sinapsi e comprenderne i pensieri.

Marguerite non è bella. E’ una spagnola alta, irsuta, con una marea di capelli neri che la fanno sembrare addirittura volgare; ha un corpo formoso, che nell’ambiente definirebbero addirittura grasso. Alcune modelle la guardano con evidente disprezzo, e il più delle volte anche Emily si accoda a loro.

Ma adesso no. Adesso, sulla scia dei propri pensieri, la giovane modella non può fare a meno di provare una fitta d’invidia.

Perché Marguerite, negli occhi, ha la forza. E ha tutta una vita un po’ puttana e un po’ bastarda che le trabocca in ogni sfaccettatura dell’iride, e che sembra quasi deriderla, lei e la sua bellezza. Di più, sembra provarne pena.

Come fosse uno scarafaggio.

Irritata, Emily si avvicina alla passerella, tentennando sui tacchi alti.

Lei non sarà mai così. Non ce l’avrà mai quella forza. Camminerà sempre su tacchi troppo alti sostenuta da gambe troppo ossute e ridicole; e quando non avrà più i flash e i giornalisti a proteggerla, basterà una folata di vento a spazzare via i suoi quarantadue chili.

 

*

 

La fila di bicchieri scintillanti sul tavolo potrebbe quasi essere suonata con una forchetta.

Louis alza lo sguardo, riscuotendosi da tutto quel luccicare di vetro; i profili distorti di Dennis e Cappie ruotano vorticosamente nella stanza, in mezzo al mare di facce più o meno sconosciute che sembrano quasi fissarlo, nascoste dietro alle posate e ai piatti in ceramica italiana.

Non gli piace stare lì, gli fa venire la nausea. Una nausea forte e prepotente che il più delle volte si estende a capogiri improvvisi, a un pizzicare fastidioso nella gola, o al senso di bruciore negli occhi.

Louis, ne è certo, vomiterà.

Mentre Dennis continuerà a osservare vestiti troppo leggeri e Cappie a starsene appoggiato al muro con lo sguardo perso nel vuoto.

Improvvisamente, però, un colpetto sulle spalle lo riporta alla realtà; ed Emily, con il viso ancora truccato per via della sfilata e un abito bianco leggermente trasparente, sorride tranquilla e un po’ stanca.

Ha qualcosa di strano negli occhi – una distorsione. Qualcosa di simile al buco nero di una pellicola bruciata.

- Sei venuto! – dice, contenta. E a Louis viene il dubbio che tutta quella felicità in realtà non esista.

- Mh, mi hai rotto le palle un secolo. Sono dovuto venire anche per forza.

Se ne pente quasi subito, di averlo detto; perché il viso di Emily cede come un’impalcatura grottesca, e sembra diventare la furia di una tela sfregiata. La trasfigurazione dura un attimo, ma Louis è un ottimo ladro; e quel frammento di secondo se lo chiude nel cuore, sapendo già che finirà intrappolato nel testo di una canzone.

Emily si appoggia al tavolino, incrociando le braccia sul petto magro; alza una mano per salutare qualcuno e poi, senza nemmeno guardare il ragazzo che ha accanto, domanda col classico distacco da star;

- Allora, come sta andando il nuovo album?

Si vede che è la classica chiacchierata di convenienza; la sua voce ha quell’inflessione cadente e un po’ melliflua tipica del disinteresse totale.

- Bene, credo. Stiamo scrivendo… ma abbiamo un po’ di problemi con alcuni dei testi. Niente che non si possa risolvere, ad ogni modo.

L’immagine di Ian sta svanendo.

La pura e semplice verità è questa; Louis ha lottato per trattenere i ricordi, ma quelli se ne stanno andando. Si stanno sbiadendo pian piano, lasciando il posto a nuovi particolari cerebrali – più vicini nel tempo.

Vicini quanto il corpo di Emily che, teso sotto la stoffa, sembra quello di una dea greca.

- Hai ancora voglia di una canzone solo per te? – le domanda improvvisamente Louis.

E Emily sembra cadere giù dalle nuvole, come un palloncino ad elio. Tutto il suo odio e la sua superficialità – il suo senso di superiorità, svaniscono. Sgrana gli occhi così tanto che potrebbe entrarci tutto il cielo, lì dentro; e sorride, stavolta sul serio. Magari, sorpresa dal fatto che qualcuno abbia qualcosa da raccontare su di lei.

- Lo faresti sul serio?

- Sì. Ma devi venire con me, ora. Mentre ancora mi pizzicano le mani.

Lei non se lo fa ripetere due volte.

E Louis, manco a dirlo, la porta via. Fa un cenno di saluto a Cappie, ancora appoggiato alla sua colonna; Dennis è sparito chissà dove, dietro a una nuvola di seta rossa. Per un attimo, il pensiero va a Julie, chiusa nella sua stanza come una principessa nella torre. Ma poi torna immediatamente alla mano di Emily, stretta nella sua.

Oltrepassano la gente, il marasma, i fotografi curiosi, i giornalisti appostati all’uscita; e ben presto la macchina è lanciata dentro Seattle, lo stereo al massimo, le luci fuori dal finestrino sono un vomito confusionale di emozioni.

E’ un passaggio rapido, questo. Che va a più di duecento chilometri orari. E’ un viaggio che dura nemmeno mezz’ora, ma chiuso nelle parole si riduce a poche sensazioni descrittive.

Il bianco asettico dei sottopassaggi e i fari a neon; le puttane sul viale e chi spaccia droga, un’ambulanza, e la polizia.

Dettagli. Il mondo che ti trapassa le narici e te lo senti nell’anima che batte violento, come una frequenza impazzita. Louis ne è drogato, di queste frequenze. Lo è così tanto che il riceverle tutte insieme lo sballa, lo fa delirare; ed è un delirio creativo e convulso, una necessità che gli impedisce di stare fermo.

Fa fatica persino a respirare – perché respirare, sì, è diventata una funziona secondaria.

E il viso di Ian sembra sprofondare nella memoria, quando improvvisamente realizza di trovarsi di nuovo a casa sua, nella Stanza Spenta.

La Stanza Spenta è il luogo sacro dove Louis raramente fa entrare qualcuno; si tratta di un piccolo studio rettangolare, con una scrivania in legno e una lampada bianca, di quelle dal design moderno. La scrivania è coperta di fogli, c’è un portapenne rosso al lato. Sulla bacheca appesa sopra ci sono foto, frasi, pagine di giornali. Due grandi quadri sulle pareti, una piccola libreria a lato, un tappeto rosso a terra.

Emily è in piedi, e non sembra spaventata, anzi.

Ha tolto le scarpe, proprio come la prima volta. Ma sembra meno impostata – come se tra loro, ora, ci fosse un’intimità diversa.

Louis si avvicina a lei come se fosse un oggetto sacro. E negli occhi, può vedere improvvisamente un lampo di paura e qualcosa che quasi non le appartiene; forse, la semplicità di un’emozione simile a una piacevole e annichilente febbre.

- Louis… - mormora, a voce bassa. Ma lui le appoggia un dito sulle labbra e, di riflesso, lei si ritrova a chiudere gli occhi.

- Fidati di me. Non ti farò male.

Non ti farò male.

Ne farà solo a se stesso, Louis già lo sa. Lei resta in piedi, immobile; mentre Louis, con la punta delle dita, accarezza il suo collo e scende fino alle spalle; accompagna le spalline giù, insieme al vestito, facendolo scivolare piano. Per qualche secondo, l’unico rumore che si sente è quello della stoffa che scorre piano sulla pelle, e il tonfo attutito dell’abito che tocca la terra.

- Sdraiati. – sussurra Louis all’orecchio della ragazza.

Lei, accondiscendente, si rannicchia sul tappeto. E adesso è di nuovo ad occhi aperti e sembra un po’ una bambola.

A quel punto, il ragazzo si volta, perdendola di vista solo un istante; quel tanto che gli basta per afferrare un pennarello dal portapenne e mettersi in ginocchio davanti a lei.

Le scansa una ciocca di capelli dal viso, guardandola; e si meraviglia nel constatare che quella strana, fredda ragazza che si svende con estrema facilità ha gli occhi lucidi.

- Scriviamola insieme, ok? La scriverò sul tuo corpo… Sulla tua pelle. Così rimarranno i segni, sotto. Sarà tua per sempre.

Lei annuisce, andando a ricercare una sua mano per stringerla forte. E poi, lasciandolo di stucco, dice piano.

- Per favore, scrivi tutta la verità. Senza fronzoli o censure… scrivi della persona orribile che sono. Così poi potrò lavarmi e cancellare tutte la scritte e tenermi qualcosa dentro per ricordarmene sempre.

- Non sei una persona orribile, Emily.

- Sono perfetta. Perfetta e vuota. Scrivilo, Louis… questo è il titolo della tua canzone. Perfetta e vuota.

Louis, lasciandosi guidare da lei, scrive.

Diventa qualcosa di simile a una comunione perfetta, meglio del sesso; perché l’uniposca sulla pelle è infinite volte più sensuale di qualsiasi altro gesto volgare e un po’ inibito.

Non c’è nemmeno il sudore, o il pizzicare collerico dei peli mal fatti; non c’è lo sfregarsi puzzolente l’uno contro l’altro e il fastidio dei capelli che si appiccicano ovunque. C’è invece una sorta di pulizia catartica e meravigliosa, che li lega.

Il corpo di Emily diventa il foglio su cui Louis vomita la sua anima. Senza censure.

E loro due, ora, sono un’unica persona Perfetta e Vuota.

 

*

 

Davanti allo specchio, Emily sembra camaleontica.

Louis dietro di lei sembra quasi avere il fiatone; ha ricopiato la canzone su un foglio, domani la proporrà al resto della band.

Ma Emily non può fare a meno di continuare a guardarsi. Di chiedersi se tutte quelle parole sono forti come Marguerite.

Mi vedi, ora? Ma sei così perfetta e vuota che vedi solo te stessa

Sì, sei così perfetta e vuota che ami solo te stessa,

sì, sei così perfetta e vuota che tutto il tuo amore è perfetto e vuoto,

sì, sei così perfetta e vuota che non sei niente

se non un congegno autodistruttivo.

Un congegno autodistruttivo. Scritto proprio  lì, sotto la coscia. Emily vorrebbe strapparsi la pelle, mutare come un serpente; e cancellarsi per rinascere in un’altra stagione, migliore di questa. Ma sa di non poterlo fare.

- Vado a farmi la doccia. – dice a Louis, intento ancora a scrivere.

Lui alza lo sguardo solo un istante dai suoi fogli, dai suoi disegni di logica; e lei trema, di nuovo. Perché ha la certezza che quegli occhi neri, in qualche modo, possano vederle attraverso. Come se tutte le parole che ha scritto fossero una specie di pass partout, di chiave per aprirla in due e sezionare la sua anima.

Emily, in mutande, raggiunge il bagno; tutto quel bianco la disturba per un attimo, prima di farci l’abitudine; riempie la vasca e lascia che la schiuma lieviti, sciabordando sopra il bordo.

Quando ci si immerge dentro, realizza che l’acqua è piacevolmente calda e che sembra quasi un disinfettante per la sua anima corrotta.

Ma è come se la pelle non volesse saperne di pulirsi; l’inchiostro sembra un formicaio isterico che si diverte a otturarle i pori.

Perfetta.

Emily strofina.

Perfetta.

Di più, più forte ancora, fino a quando non brucia, fino a quando non fa male, fino a quando non sente le lacrime e l’acqua è diventata grigia, fino a quando non grida e, improvvisamente, si trova a desiderare di affogare.

Ma qualcosa – o meglio, qualcuno – la trattiene.

Le braccia di Louis, stretta forte attorno ai suoi fianchi, le impediscono di affondare. E Emily, improvvisamente, si rende conto di star respirando. E lo fa in maniera così improvvisa che l’aria che brucia nei suoi polmoni fa male.

- Andrà tutto bene – dice Louis, piano, con un sussurro. – Vedi? La pelle è pulita. Adesso stappiamo la vasca, e l’acqua se ne andrà. La puliremo per bene e non rimarrà nemmeno una traccia. Sembra impossibile, ora… ma andrà tutto bene. Andrà tutto bene.

 

 

*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo so, è pesante. Ma avevo questa scena in mente da un bel po’ e avevo bisogno di scriverla; tanto più che Emily è da qualche capitolo che se ne sta zitta, e in qualche modo doveva tornare. Lei è un po’ così, un po’ odio vivo. Dovrete farci l’abitudine, temo.

Un paio di note a riguardo della storia.

Rileggendo, ho notato che tendo a infilare macchine Fiat ovunque. Ora, la Fiat, come penso saprete, è “Fabbrica Italiana Automobili Torinesi”, e non ha un gran senso che un gruppo di figoni americani se ne giri per Seattle con vecchi e scassati mezzi di casa nostra, lo so. Se questo dettaglio ha disturbato qualcuno, me ne scuso; è colpa della mia limitatissima conoscenza in materia motori. Calcolando che non ho nemmeno la patente, la mia conoscenza sta davvero a zero.

Poi. Non è stato fatto ancora un pov per Dennis, lo so. E quello di Demi era indecente; solo che non riesco a vederli come vorrei. Quindi vi chiedo pazienza, a tempo debito avrete anche quelli.

Negli avvertimenti di questa storia c’è scritto esplicitamente “Slash”. Il che vuol dire che chi legge, dev’essere preparato a rapporti omosessuali; che, malgrado per ora la storia sia in pieno clima het, si svilupperanno col tempo.

Spero di non aver esagerato, o avervi annoiato.

Ah. Normalmente, non mendico recensioni; sono troppo timida, e mi vergogno a chiederle. Solo che essendo estremamente insicura, ho *bisogno* di sapere cosa ne pensate. Anche se sono critiche negative, io le accetto di buon grado. Se aggiorno troppo velocemente, e alcuni di voi hanno bisogno di più tempo per recensire, basta dirlo che io rallento subito. Non ho mai avuto problemi col tempo – o meglio, ce li ho ma cerco di gestirli in modo da poter fare tutto.

E, in ultima cosa, ovviamente per chi si prende la briga di recensire, se posso ricambiare il favore e c’è qualche storia in particolare che vi piacerebbe passassi a leggere, io leggo sempre volentieri. Oddio, certo, il mio non è un parere da critico letterario, ma cerco sempre di essere più onesta e corretta possibile.

Bene, credo di aver detto tutto.

Alla prossima,

 

- sc

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