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Una giornata
trascorsa al Ministero della Magia poteva essere più tremenda di quanto non si immaginasse, sopratutto se si viene scelti come scagnozzi
da Dolores Jane Umbridge. Gray contemplava la massa eterogenea di persone
affollare i marciapiedi, chiedendosi per quanto tempo avrebbe sopportato quella
donna. Probabilmente, anzi, sicuramente, la stava cercando per affidarle
qualche compito idiota, ma questo non era certo un motivo per il quale Gray
sarebbe scesa da lassù.
Da quando poi
aveva saputo che avrebbe dovuto accompagnarla ad
Hogwarts come assistente, non aveva certo fatto i salti di gioia. Sarebbe stato
ancora più difficile tenersi in contatto con i membri dell'Ordine, ma
adoperando come scusa la sua malattia, avrebbe potuto filarsela quando le
faceva più comodo. Per il resto, non era a conoscenza dei piani del Ministero.
Da quelle parti nessuno si fidava di Gray, o meglio, nessuno
era così stupido da farlo. Era come se qualcuno avesse intuito che aveva
dei contatti con qualcuno che il Ministero non adorava proprio: Silente. Ed in effetti neanche Gray ne era particolarmente felice.
Era
probabilmente il membro meno attivo dell'Ordine. Ogni tre giorni - come minimo
- la malattia la stendeva a tal punto che restava addormentata per lungo tempo.
Non aveva occasione di spiare il Ministero, anche perchè non appena riapriva
gli occhi veniva scaraventata nell'ufficio degli Auror
per continuare le indagini sulla cattura di Sirius Black.
A dir la
verità Gray sapeva perfettamente dove si trovasse,
anzi, non vedeva l'ora di tornare a Grimmauld Place.
Ma
probabilmente avrebbe dovuto aspettare ancora molto: sarebbe volentieri partita
di soppiatto la notte scorsa, ma da quando la Umbridge
l'aveva personalmente selezionata come assistente non aveva neanche il tempo di
respirare. Le veniva la tentazione di sperimentare qualche maledizione sul
vecchio rospo, ma per il momento non le pareva una buona idea.
La sua reputazione era già abbastanza agghiacciante.
Un improvviso
bruciore all'altezza delle clavicole la attanagliò mozzandole il respiro, e
diffondendosi su tutto il corpo. Gray si contorse dal dolore, e per poco non
cadde di sotto, dodici piani più sotto. Non che questo la
preoccupasse. Ma quel dolore non era un buon
segno. Scagliò un'occhiata al punto dal quale proveniva il dolore, cercando di
inquadrare il segno che contraddistingueva tutti quelli come lei. Avvertì una
chiara sensazione di disgusto.
Disgusto
per tutto quello che quel marchio le aveva provocato, disgusto per il signore
che avrebbe dovuto servire se solo non si fosse sforzata di resistere. Stava lentamente pagandone il
prezzo. Grey emise una specie di gemito; il marchio stava emergendo ancora una
volta e lei avrebbe dovuto respingerlo di nuovo. Il peggio era che,
stranamente, sembrava che nessun incantesimo potesse contrastare il Marchio, e
l’unica scelta era tagliarsi completamente la pelle. Non aveva più voglia di
dilaniarsi la pelle, come quando era a scuola, ma sapeva che se non l'avesse
fatto non avrebbe più avuto piena volontà delle sue azioni. E
allora forse avrebbe ucciso qualcuno. E sarebbe
tornata in quel posto orribile... forse stavolta niente l'avrebbe salvata dai
Dissennatori…
- Gray! -
Una voce la
fece trasalire e per la seconda volta rischiò di precipitare. Una ragazza dai vistosi capelli violetti trotterellava verso di lei. Gray
non si mosse di un centimetro. Scrutava i dintorni con noncuranza, convinta che
Tonks non l’avrebbe riconosciuta.
Invece, quando si voltò, era proprio di
fronte a lei.
- Forza, lo so che sei tu -
Gray scrutò
ancora una volta i dintorni per assicurarsi che nessuno la vedesse,
poi scese dal cornicione e riprese sembianze umane. Anche in quel caso, comunque, non era il tipo di persona che passa facilmente
inosservata. Aveva la pelle di un pallore quasi disumano, le palpebre livide e
cineree, e gli occhi rossi erano offuscati da un’ombra di sconfinata
spossatezza. Il suo aspetto esteriore non tradiva la malattia che la
accompagnava da quando era nata, ma nel vederla, sembrava proprio che dovesse
morire da un momento all’altro, perdendosi nella brezza come un mucchietto di
sabbia. Lunghi capelli fulvi scintillavano sotto il debole sole di Londra. Si
stringeva in una lunga giacca di pelle, che portava semplicemente sulle spalle,
senza infilare le maniche. Aveva dei pantaloni lucidi e aderenti, che
sembravano fatti di squame, ed una maglia di velluto strappata dalle maniche
svasate e molto larghe. Essendo vestita completamente di nero, il colore
spettrale della sua pelle risaltava come non mai.
Nero era lo
smalto che aveva sulle unghie, neri erano gli stivali, nero il cuore dalle ali
d’argento che portava al collo. L’unica cosa di colore diverso era la cintura
di cuoio rivestita di aculei, ciondolante sotto la vita
e adorna di ogni genere di piccola catenina d’oro.
Tonks ormai la
conosceva bene, ma non poteva evitare di restare impressionata ogni volta che
la vedeva così all’improvviso. La sua pelle era liscia come una tavola di
legno, sembrava trasparente sotto quel sole, ed emergeva ostinatamente dalla
montagna di nero di cui era vestita.
Gray sembrava
aver sempre freddo, anche nel clima mite di fine estate. Era magra e sottile
come un fuscello, sembrava che bastasse un soffio di vento per spezzarla in
due.
Lo strano e
malato carisma che la sua figura imprimeva sembrava imporre qualcosa che
rasentava il terrore.
Tonks sapeva
bene che Gray aveva conosciuto le fauci di uno dei luoghi più terribili di quella Terra.
-E tu come fai a sapere che… -
- Sirius - la interruppe Tonks, - me l’ha detto
lui. -
- Quanta privacy… - Gray roteò gli occhi.
- Lascia perdere. Stasera c’è
una riunione, - disse Tonks in
tono allegro.
- Non so se posso, - rispose Gray stancamente.
- Sì, però devi !
Abbiamo delle novità riguardo all’ar… cioè… riguardo a quella cosa, capisci… - Tonks sembrava timorosa che qualcuno stesse
origliando l’intera conversazione, ma proseguì, abbassando vertiginosamente la
voce, - Non è difficile sgattaiolare
fuori dal Ministero, no? Sei un Animagus! Nessuno baderà ad un corvo -
- La Umbridge mi sta
alle costole. Si accorgerà subito che me la sono filata, - Gray ebbe un violento colpo di tosse e divenne
ancora più pallida. Dovette mettersi seduta sul cornicione, pericolosamente
oscillante verso l’esterno.
- Ci sono mille scuse, - replicò Tonks con aria furba, - di’ che ti sei sentita veramente male… o
magari che hai avuto notizie di qualche ricercato, o… -
- Non funzionerà -
- Che pessimista! -
- Si dice realista, - corresse Gray, - comunque la mia non è
esattamente la posizione che può permettersi sparizioni di questo genere. Non
ho una fedina penale impeccabile come la tua. -
Tonks tacque
per un istante.
- Una volta non avresti fatto tante storie, - disse all’improvviso
-… Cosa? -
- Anche questa me l’ha
detta Sirius -
Gray non poté
evitare di sorridere, nonostante continuasse a tossire.
- Allora?, - chiese Tonks
- Vengo -
- …Sicura? -
- Sicura. -
*
- Permesso? - , trillò
la Umbridge, vagamente alterata, - Permesso per cosa? -
- E’ una cosa lunga, Umbridge -
- Sono miss Umbridge. -
- Sì… d’accordo - tagliò corto Gray con impazienza, prima di
guardarsi intorno con sguardo nervoso. Non era esattamente il tipo di compagnia
che avrebbe voluto avere per una conversazione di quel genere. Gran parte del
Wizengamot era abbastanza vicina da poterla sentire, e quanto alla Umbridge, parlava con Lucius Malfoy assieme a
Caramell.- Voglio solo una sera libera. Tutti i
dipendenti hanno la sera libera! Domattina all’alba sarò di nuovo qua -
Gray volse attorno l’ennesimo sguardo. Da nervosa era diventata
rabbiosamente imbarazzata. Si sentiva come una mocciosa che chiedeva il
permesso per uscire la sera, e tutti la guardavano di soppiatto così come avrebbero guardato un barbone o un ammasso di rifiuti al
bordo della strada. Gray pensò che fosse il momento giusto per darsi un tocco
di classe. - E
avrò notizie di Black. -
Malfoy inarcò
il sopracciglio. A differenza degli altri, lui, la Umbridge
e Caramell la guardavano anche troppo spudoratamente. - Sei convinta di sapere il suo nascondiglio?, - chiese Malfoy
scrutandola con un’occhiata superiore.
- Sì. -
- E pensi di poterlo
arrestare stasera? -
- Esattamente. - Il silenzio si impadronì
del corridoio - Se posso uscire di qui
stasera, ovvio. Ma visto che non sembrate
dell’opinione… - Gray voltò loro le
spalle e fece per andarsene.
Misurava il
pavimento a passi lenti; era praticamente certa che,
non appena si fosse avvicinata alle scale, l’avrebbero fermata e l’avrebbero
fatta uscire. Qualsiasi cosa dicesse Tonks, la miglior
tattica da seguire col Ministero della Magia era comportarsi da educati
sottoposti. Non era esattamente la specialità di Gray, ma faceva del suo
meglio.
Mancavano ancora
due passi alle scale, quando, come previsto, la voce della Umbridge
trillò angelica alle sue spalle.
- Gray? -
Con un sorriso
innocente stampato in faccia, Gray girò lentamente i tacchi e tornò verso i
tre.
- Sì? -
- Penso che tu possa andare -
- Bene -
- Ma la bacchetta resta
qui -
Questo Gray
non l’aveva calcolato.
E non era
sicura che non le importasse, perché non era del tutto
tranquilla a girovagare senza bacchetta. Soprattutto
se aveva a che fare con l’Ordine della Fenice. Era convinta che si
sarebbe trovata di fronte a una buona metà di spie e
di volta faccia; l’esperienza le insegnava a non fidarsi di nessuno e,
soprattutto, a non separarsi mai dalla bacchetta…
- Ma perché? -
- Diciamo che non sei… la persona di cui tutti
noi si fiderebbero… - Scandì lentamente Malfoy. Gray lo osservò
senza calare lo sguardo neanche per un istante. Lo so, cosa credi… Mangiamorte…
- E lei, Malfoy…
suppongo che di lei ci sia molto da fidarsi. -
- Gray!! - abbaiò Caramell.
Gray stava
iniziando a perdere la volontà di comportarsi bene e la voce della sua
coscienza ormai era un soffio remoto. Non che Gray l’avesse
mai ascoltata, in verità. Ma aveva sempre
cercato di non farsi guai col Ministero. Malfoy non l’avrebbe passata liscia.
Malfoy era un Mangiamorte esattamente come lei… però Malfoy non era mai finito
ad Azkaban… Malfoy non aveva mai avuto amicizie sospette… Malfoy era innocente
come un agnello, e Gray doveva essere grata… era il Ministero che le aveva risparmiato ciò che si meritava…
- Non dovresti nemmeno azzardarti, ragazzina… -
- E tu perché non mi
metti di nuovo in prigione, Caramell? - latrò Gray - Hai paura? Hai paura che io ti salti addosso e
ti strangoli? Pensi che io sia l’unica assassina, in questo corridoio? -
Cessando per
un attimo di respirare, Gray udì i presenti fare altrettanto. I loro sguardi
erano gonfiati di risentimento e di quella che assomigliava tremendamente alla
compassione.
**Loro
nonhanno maiprovato ilgelido
abbracciodi Azkaban . ..**
Gray ebbe il
presentimento di averla detta troppo grossa. Eppure c’erano abituati! Lo sapevano bene. Gray non aveva
difficoltà ad indovinare come la giudicassero: lei era
instabile, una povera orfana, la sua malattia non le consentivadi provare neppure emozioni troppo forti, era
una mezza dissanguata, metà della sua vita la trascorreva a letto priva di
sensi…
**Uccidili.**
Non sapevano
niente. Non potevano lontanamente sospettare quanto male le facesse…
**Guardali,
Gray… **
Lo sguardo di ogni membro del Wizengamot era puntato su di lei. Altri
dipendenti accorrevano perché avevano sentito dire, in un attimo, che c’era
aria di baruffa nei corridoi. Gray tossì. Si sentiva debole…
**…guardalinegliocchi…**
Gray sapeva
che stava per succedere. Cercò di scacciare tutta la sua rabbia, cercò di
rammentare tutte le lezioni di Occlumanzia che era
stata obbligata a seguire… basta impedire al nemico di entrare nella mente, di
guardarti i ricordi…
**Uccidili,Gray,
devi ucciderli…**
- Bhe? Che diavolo ti
prende? - il tono di Caramell era di
scherno. Gray ne era certa.
La Umbridge scoppiò a ridere. Gray si
sentiva così tremendamente infantile…
Malfoy
sghignazzava.
**Che
penaprovano
perte!pensaci…
…cosadeviloro? **
Gray lo
sapeva. Non gli doveva niente. Aveva lo sguardo inondato di
sangue, sentiva il dolciastro colmarle la bocca.
**pensaci…**
- Oh, sta male… - rise la Umbridge.
Rospo! Vecchio rospo!
Gray sentiva
il sangue.
**Uccidili,Gray!
UCCIDILI!!
**
Gridò con
tutte le forze che aveva in corpo, prima di perdere
improvvisamente i sensi e sentire una vampata di fiamme avvolgerle il Marchio.
Era tornato.
*
Invano tentò di ricordare cos’era successo. Le pareti attorno a lei
sembravano inghiottire ogni suo pensiero, ogni volta che tentava di formularne
uno. Il vestito attorno al Marchio era bruciato, e il teschio nero era ormai
netto come un taglio nella carne. Gray tossiva ogni minuto, sputando sangue
ogni volta. Si chiese in che guaio fosse finita. Ma che le importava?
Fuori la
pioggia, o almeno l’illusione trasmessa dalle false finestre, velava ogni
domanda, come una tenda di velluto.
Gray aveva gli
occhi appannati dalle lacrime, come ogni volta che si sentiva male.
Il suo
cervello sembrava essere sparito, restava solo la scatola cranica vuota, dentro
la quale echeggiava ogni secondo la risata della Umbridge.
Gray strinse i pugni così violentemente che le unghie lunghe ed affilate le
scavarono dei tagli nella pelle e macchiarono le lenzuola. Dopo molto tempo
realizzò di trovarsi al Ministero, ai piani intermedi, dove venivano
messi quelli che si sentivano male. Le ricordava tanto il San
Mungo…
No, somigliava
forse all’infermeria di Hogwarts… quante volte c’era stata…
In un istante
ebbe un sussulto e un gemito, la sensazione che i pensieri le fossero tornati in testa tutti quanti in un colpo solo. la riunione… alla fine non c’era andata. Adesso l’avrebbero
schiaffata di nuovo in una qualche cella piena di topi… o forse non era nemmeno
la Ministero, magari era a Grimmauld Place, forse
tutto quel che aveva visto se l’era solo sognato…
O forse era a casa. Per un attimo
si ricordò il suo nome, era certa di sentirlo…
La porta si
aprì ed entrò il signor Weasley. Fu come se un colpo di forbice le staccasse
ogni ricordo legato al passato. le vocine che
sussurravano il suo nome svanirono e le pareti di casa sua crollarono,
fuggirono via, come un castello di carte da gioco.
- Come va? -
Gray rispose
con una domanda. - Che
è successo? -
- Sei svenuta, e poi… -
- Lo so benissimo che sono svenuta. Voglio sapere cos’è successo dopo -
- Bhe… -
Arthur Weasley
sembrava riluttante a dirglielo
- La Umbridge ha fatto
distruggere la tua bacchetta. -
Gray emise un
sospiro tale che le fece quasi venire le vertigini. Perfetto. Nient’altro
mancava per farle venire la voglia di restare sul letto per sempre.
- Era veramente arrabbiata,
sai -
Gray non
rispose. Il signor Weasley continuava a riferirle i fatti, ma lei non ascoltava
neanche una parola. Captava qualche frase di tanto in tanto ma non aveva
nessuna voglia di capirla.
Fissava un
punto nel vuoto.
- Harry ha fatto l’udienza ed è andata bene - disse ad un tratto il signor Weasley.
- Che… cos… … udienza ?Ma non doveva essere… -
- Hai dormito quattro giorni, - annuì il signor Weasley, con un mezzo sorriso.
Gray sibilò un imprecazione mentre si lanciava di
nuovo sul cuscino: quanti editti - a suo danno, ovviamente - era riuscita a
deliberare la Umbridge, in tutti quei giorni? - Nel frattempo la Umbridge
ha anticipato la partenza per Hogwarts. Domani. Che tu stia
bene o no. -
- Se non volessi
andarci? -
- Andiamo, non mi pare
il caso di combinare qualche altro guaio. Abbiamo bisogno di spie al Ministero,
non ad Azkaban. -
Gray dovette
scuotere la testa, ammettendo che non aveva torto. Non
aveva nessuna voglia di tornarsene a scuola, anzi, la sua
riluttanza superava il limite della sopportazione. “Lavorava” al
Ministero soltanto perché non la arrestassero di nuovo, e quanto all’Ordine,
sebbene fosse il compito meno ingrato che le fosse
toccato, non sopportava l’idea di fare un piacere a Silente. Non le era mai
andato a genio. Quando andava a scuola aveva sempre
preso le sue difese, in moto talmente spudorato da farla passare per la cocca
del preside. Ed accoglieva professori scadenti come il
direttore di un orfanotrofio. Non a caso, aveva assunto Mocciosus.
Dentro di sé, comunque, Gray aveva già un piano.
*
- Che significa che non
riuscite a sbloccare questa dannata porta? - ruggì Caramell.
- Deve averla sigillata dall’interno con qualche
incantesimo, - rispose uno dei membri
del Wizengamot, - e non c’è magia che riesca a… -
- Idioti! - Caramell lo scansò violentemente - Ha solo chiuso a chiave!! Come può lanciare un
incantesimo senza la bacchetta? -
Il consiglierò sembrò perplesso.
- Eppure… -
- Bah! Fatti da parte, babbeo!
Alohomora ! - Qualche istante di totale
silenzio, e un clicksegnalò che la
serratura era scattata. - Ci voleva così
tanto impegno!? -
Il consigliere
era ancora più perplesso, e la piccola folla dietro le sue spalle cominciava a dar segni di irritazione.
- Ad aprirla ci siamo già riusciti!, - azzardò, - è che… -
Caramell non
lo lasciò finire, e, sempre seguito dalla Umbridge,
spalancò la porta e fece per irrompere nella stanza, quando andò a sbattere
contro un muro. Il botto si udì per tutto il corridoio e fece accorrere una
dozzina di dipendenti ansiosi di vedere Caramell che, col naso appiattito e
l’espressione ebete, si afflosciava a terra come un ubriaco. Inoltre la Umbridge gli era andata a sbattere contro per la frenata
improvvisa, spiaccicandolo letteralmente fra il suo grasso e la parete.
- Che diavolo ci fa un muro....?
-
Un muro di
pietre era come germogliato ad un millimetro oltre la porta, coprendo tutta la
parete ad essa circostante. Incise sui massi c’erano
le parole “Ci vediamo a Hogwarts, se riuscite a far entrare la
Umbridge sul treno”.La Umbridge si agitò nelle lonze di grasso, emettendo
scattanti “oh!” scandalizzati, che la facevano somigliare ad un vecchio
telegrafo.
- Quel ridicolo avanzo di cimitero! - sbottò Caramell.
- Ecco il suo ringraziamento dopo tutto quelle che abbiamo fatto per lei! - echeggiò la Umbridge.
Nessuno si
mosse.
- Bhe? Che diavolo ci fate
qui? Mandate qualcuno a cercarla, imbecilli!! -
*
Gray non si
sarebbe mai sognata che fosse così semplice ingannare Caramell e gli altri.
Probabilmente non aveva avuto un’idea poi così geniale, ma aveva dimostrato che
anche senza bacchetta non era totalmente disarmata. E
poi aveva bisogno di tempo per essere di nuovo in grado di muoversi, e se fosse
entrato qualcuno nel frattempo, avrebbe potuto capire che intendeva filarsela.
Non aveva
fatto altro che sintonizzare il suo cervello su quello di coloro
che tentavano di aprire la porta. La sua paura era che qualcuno tentasse
di attraversarla, perciò quando Caramell era andato a sbattere era rimasta decisamente sorpresa. Aveva sempre creduto che la sua
capacità innata di creare illusioni non potesse generare oggetti tangibili, ma
evidentemente si sbagliava.
Il suo piano
era far allontanare tutti per cercarla, ma così non era stato. Caramell e la Umbridge avevano anzi chiamato rinforzi per smantellare
la parete. La parete alla fine era scomparsa, ma Gray aveva creato l’illusione
del suo cadavere schiacciato contro la finestra. Si erano tutti riuniti,
quindi, nella parte della stanza più lontana dalla porta, e lei aveva potuto
filarsela con tutto comodo. Le persone che riempivano i corridoi rendendole
difficile la fuga le facevano provare una netta
nostalgia del Mantello dell’Invisibilità: non poteva trasformarsi in corvo in
luoghi così affollati, ma finalmente riuscì a trovare un angolo riparato da
ogni sguardo indiscreto.
Raggiunta la
sala principale, finalmente, aveva avuto la possibilità di Smaterializzarsi:
quella era l’unica zona del Ministero dove simili incantesimi erano fattibili.
Non appena aveva lasciato il Ministero le illusioni che aveva seminato erano
scomparse, e già si immaginava il casino che avevano
prodotto.
La prima zona
che le era venuta in mente per Smaterializzarsi era
Diagon Alley. Niente di più scontato, dal momento che aveva
bisogno di una nuova bacchetta. Ripensò con una rabbia indescrivibile alla Umbridge, e nell’immaginarsi la sua reazione quando si
sarebbero rincontrate ad Hogwarts le veniva voglia di gironzolare per Diagon
Alley tutta la vita.
Osservando
quanto poco quel posto fosse cambiato, negli anni, Gray ripensò a quando c’era
stata la prima volta. C’erano pochissimi ricordi nella sua testa che si riferissero a quel periodo. Una ragazzina
dall’aria atterrita che barcollava per le strade sprofondate nella neve,
tremando di freddo. Ogni luce era spenta, se non per
qualche piccolo bagliore lontano, ogni voce si era assopita nella notte.
La bimba
doveva avere poco più di otto anni. Capelli fulvi
spettinati, macchie di sangue sulla pelle e sui vestiti. Sembrava
del tutto incapace di ragionare, di pensare, sembrava malata al
cervello, parlava da sola. Contemplava le vetrine nascoste dalle saracinesche e
volgeva di tanto in tanto al cielo uno sguardo disperato. Improvvisamente, si
mise a correre.
Nascostasi
dietro un angolo scoppiò il lacrime chiamando i suoi
genitori. Tentò di strusciarsi il viso con le maniche, ma peggiorò la
situazione spargendosi il sangue su tutte le guance. Aveva degli sfavillanti
occhi rosso sangue, che riflettevano il bianco della neve lì intorno. Una
nuvola offuscò la luna, poi, altre nuvole, fin quando il cielo fu una macchia
nera senza punti di riferimento.
I lampioni si
spensero. Al Paiolo Magico le deboli luci che venivano dalle stanze si spensero
tutte contemporaneamente, e da qualche parte risuonò un grido lontano. La bimba
non se ne curò, continuava a piangere e il sangue gocciolava. Non era ferita,
sembrava che si fosse solo macchiata. I capelli arruffati sembravano un mucchio
di rovi, pieni di fiocchi di neve. Era vestita troppo poco per il freddo che
faceva. Da dove veniva? Che ci faceva lì da sola? Perché era terrorizzata, cos’erano quelle macchie di sangue
che aveva addosso?
L’orologio
segnava l’orario e la data. Gray non riusciva a mettere a fuoco i numeri. Nella
sua mente tutto era una macchia confusa colorata di rosso. Vaghe ombre si
aggiravano nella sua testa, confondendosi col dolore, con le lacrime, con
l’amaro della ferita e della vergogna.
Quando era entrata per la prima volta da
Olivander, Gray era accompagnata dalla McGranitt. Era stato Silente a trovarla
a Diagon Alley quando aveva otto anni: le aveva permesso di vivere ad Hogwarts, ma non le aveva mai detto da cosa l’avesse
salvata. Gray ricordava soltanto uno spazio di gelo e terrore che occupava il
vuoto fra Diagon Alley e Hogwarts. Era così per gran parte della sua memoria.
Di quando era piccola, prima di quella notte, non ricordava niente. La memoria
si ricostruiva lentamente, fino a lasciare spazio agli unici ricordi completi
che avesse: dal suo primo anno di Hogwarts in poi.
Non appena
ebbe passato la porta del negozio di Olivander, venne
investita da un calore malsano. Una falciata di luce entrava da un’unica
finestra, gettando la stanza in una strana penombra color seppia, nella quale
aleggiavano almeno due dita di polvere.
Il
proprietario emerse poco dopo e sembrò piuttosto stupito di vederla. Sembrava
averla riconosciuta, nonostante fossero passati almeno quindici anni
dall’ultima volta.
- Gray… dico bene? Gray… Gray… com’era?... - Olivander si
perse con lo sguardo al soffitto, e Gray immaginò che stesse tentando di
ricordare il suo nome. Non era la prima volta che si trovava di fronte ad una
situazione simile, e così si mise ad aspettare pazientemente che Olivander
s’arrendesse. - Dovrai perdonarmi, ma il
tuo nome ora mi sfugge. -
- Non importa. - Gray scosse le spalle gettando lo sguardo
altrove.
- Posso aiutarti? -
- Indovina… -
Olivander la
scrutò con attenzione per un istante.
- Ricordi di cos’era
composta la tua bacchetta? -
Gray scosse la
testa - No. Era quella che tremava in
continuazione. -
- Ah! Naturalmente! - Olivander si ravvivò all’improvviso e corse
verso i suoi scaffali. Prese a scrutarli con aria frenetica, ma sembrò non
trovare ciò che stava cercando, e si recò nel retro. Gray, mentre aspettava, si
guardava in giro: sembrava un vecchio negozio di scarpe.
C’era uno
sgabello sul quale delle scatole erano appoggiate alla rinfusa, e sembravano
stare in piedi per miracolo. Era lo stesso sgabello sul quale s’era seduta
Gray, chissà quanto tempo prima, un bello sgabello intagliato. Adesso aveva
soltanto due gambe - quella mancante era stata rimpiazzata da un vecchio
bastone - ed era completamente infestata dai tarli.
Improvvisamente
uno splendido gufo, che era lì da chissà quanto e aveva l’aria particolarmente
scocciata, bussò col becco al vetro della finestra. Gray non aveva idea di come
si aprisse, e decise di aspettare Olivander.
- Ecco qui - Finalmente il negoziante apparve dal soqquadro
del retro con una scatola in mano. Non appena l’aprì, la bacchetta al suo
interno cominciò a vibrare e saltellare come una forsennata. Gray non credette
di riconoscere la sua ex-bacchetta, ma non disse nulla. In verità il Ministero
gliel’aveva confiscata così tante volte che non aveva
avuto modo di usarla spesso. Non erano mai arrivati a spezzarla comunque. - Platano
Picchiatore. Nessuno ha mai avuto una bacchetta del genere… è
un legno molto particolare, sai… bacchette così sono anche troppo corte, a dir
la verità. D’altra parte non è facile procurarsi un legname del genere… -
- Ah-Emh… - Gray tentò di schiarirsi la voce per farsi
sentire, ed indicò la finestra, dove il gufo fremeva di stizza per la lunga attesa.
- Dopo! - disse impazientemente Olivander gesticolando,
e senza voltarsi nemmeno verso la finestra - Adesso provala, dimmi se è la tua. Ma ne sono
certo: ricordo tutti i miei clienti, negli anni, uno
per uno, e so esattamente che cosa comprano. Questa è Platano Picchiatore,
media, piuma di corvo. Sono certo che è la tua. -
- Credo di sì - Gray tentò di prenderla in mano ed ottenne una
sonora bacchettata sulle nocche.
- Ahia! - La bacchetta saltellò per tutta la scrivania
buttando all’aria fogli e libri. Olivander non si scompose, ma aspettò che
fosse di nuovo a portata di mano per ficcarla nuovamente nella scatola e
seppellirla sotto una montagna di cianfrusaglie perché non tentasse di uscire.
- Ah, temo che non fosse
quella. Ma allora quale… ne ero certo… -
- Pensavo che fosse quella. La lunghezza era
identica. -
- Si cambia nel tempo, e sono passati anni… ma
non credo esistano altri modelli in Platano Picchiatore… - ,
e Olivander si gettò nuovamente nel retro. Gray decise di cercare una maniglia
per poter aprire la finestra al povero gufo. Ma non
appena si fu avvicinata, notò un particolare che la fece trasalire: il sigillo
del Ministero. Gray ci mise un secondo ad immaginarsi il contenuto della
missiva: era una coincidenza ben poco credibile. Sicuramente c’era il divieto
di venderle una qualunque bacchetta.
- Mi spiace, amico, ma tu adesso te ne torni da
dove sei venuto, - disse in tono serio,
rivolgendosi al gufo, che a sentir quelle parole inalberò un profondo sdegno,
drizzandosi in tutta la sua statura. Gray non poteva rischiare che Olivander
leggesse, qualsiasi cosa ci fosse scritta.
I suoi occhi
rossi divennero fiammeggianti, e le pupille sparirono: aprì la mano destra e la
fece scorrere sul vetro, davanti al gufo, che si addormentò subito dopo un
tremito convulso. Gray trovò l’apertura della finestra, afferrò il gufo e lo
lanciò dritto dritto nel cestino della spazzatura;
non prima di aver preso la lettera ed essersela infilata in tasca, giusto in
tempo per l’arrivo di Olivander.
- Sì, sì, ecco qua! Questa è l’ultima che ho, se
non è questa penso che dovrai cercare altrove. - Gray deglutì. Era alquanto
improbabile che esistessero altri negozi di bacchette magiche, a meno che non volesse fare un viaggio all’estero. Olivander tolse
lentamente lo spago che legava la scatola, che iniziò subito a fremere tanto da
stappare la scatola. Il negoziante s’affrettò a chiuderla gettandovisi sopra
con tutto il suo peso. - Molto lunga,
sì, proprio molto lunga. Interamente in legno di Platano Picchiatore, ricordo
benissimo, l’hanno preso da una foresta là in Irlanda…
Silente non era ancora preside, è una bacchetta alquanto vecchia! E poi… aha, crine di Thestral! Bisogna avere un carattere
particolare per questo tipo di bacchetta… Forti ma
volubili… -
- … Lunatici e violenti? - concluse Gray.
- Precisamente. - annuì Olivander interdetto. - Ed un sacco di altre
cose -
- Aprimela, la provo, -
concluse Gray, con un sorriso.
- Attenta. Penso che si metterà a correre per la
stanza. Personalmente non credo ti piacerebbe ricevere un’altra frustata sulla
mano. Non ho ancora trovato nessuno compatibile con
questa bacchetta. E’ il mio peggior fondo di magazzino. E’ anche scheggiata. -
Gray trattenne
la bacchetta appena in tempo, prima che cominciasse a lanciarsi fuori dalla scatola a distruggere tutto il negozio. La
bacchetta si calmò all’istante e Gray poté allentare la presa. Sull’impugnatura
comparve un intaglio a forma di serpente con la scritta: “C.B.”;
le scheggiature scomparvero immediatamente mostrando il disegno nodoso del
Platano Picchiatore in tutta la sua lucentezza. Olivander osservava sbalordito.
Nei suoi occhi si leggeva un vago timore: non si era impressionato di fronte
alla bizzarra aura di Gray, che di solito incuteva un certo rammarico al solo
guardarla, e ora che finalmente aveva trovato la sua bacchetta, pareva molto
agitato e per niente soddisfatto.
- Sarà la mia? Ero sicura che fosse più corta. -
Gray osservava la lunga bacchetta che
terminava in cima con una fascia d’argento.
- Ti dissi prima, - rispose Olivander, - Che negli anni si cambia, ragazza mia, si cambia spesso in modo vertiginoso. A volte le vicende che attraversiamo
ci cambiano completamente il carattere, ma sono lieto di vedere... - , aggiunse, - che
sei ancora una Serpeverde. -
- Tanto la scuola l’ho finita -
- Si, possiamo dire di sì… - Gray lo fulmino con uno sguardo talmente
velenoso che Olivander ebbe un fremito. Per la prima volta una vampata di lava
s’era accesa su quel viso così pallido. - …Ma la Casa alla
quale uno è appartenuto lo accompagna per sempre. Non parlo
solo di reputazione… sono i caratteri distintivi. E’ raro che negli anni
uno si mantenga della stessa Casa… la linea è molto sottile, sai… Per esempio,
spesso un Tassorosso potrebbe appartenere al Grifondoro e un Corvonero
mescolarsi coi Serpeverde. Ma
io ho sempre preferito questi ultimi due… li ammiro, piuttosto. Così intelligenti…
e così portati all’individualismo… di questi tempi è una dote, non un
deprecabile difetto. -
Gray sembrava
piuttosto annoiata dai discorsi di Olivander, proprio
come quando era piccola. Sconfinava in conversazioni soporifere, per quanto
forse interessanti, e sembrava essersi totalmente dimenticato che Gray era lì
per comprare una bacchetta.
- Bhe? Quanto le devo?,
- incalzò Gray.
- Vedi… - L’espressione dell’altro si offuscò. Sembrava
improvvisamente colto da qualcosa che pareva rimorso. Un sottile drappo ombroso
calò sulla sua voce, che si fece riluttante. - Io… io temo di non potertela vendere. -
Gray aveva già
le mani nelle tasche, e rimase in quella posizione, immobilizzata da
quell’affermazione.
- Sbaglio o ti pagano
per vendere? -
- Sì ma… è troppo pericolosa. Io non posso
vendertela. -
- Ah, cretinate! Non ho più quindici anni. - Olivander fu costretto da quel tono di voce a concludere l’affare - Non disturbarti per la scatola. -
Gray pagò, ed
aveva già la mano sulla maniglia della porta quando Olivander la fermò, con la
stessa voce ombrosa di pochi istanti prima.
- Gray… quella bacchetta… -
Gray si voltò.
- Sì? -
Olivander
scosse la testa. Per un lungo, interminabile istante, Gray ebbe la sensazione
di vedere il terrore negli occhi del vecchio.
Harry
osservava, distratto, i tentativi di Fred e George di captare la riunione con
le Orecchie Oblunghe. Mancava poco al suo rientro ad Hogwarts, ma la cosa non
lo rendeva felice come negli anni passati. Forse era il comportamento di
Silente a renderlo sfiduciato, nonostante tutto l’indispensabile aiuto che gli
aveva offerto durante l’udienza col Consiglio. O forse avrebbe preferito di
gran lunga restare a vivere al numero 12 di Grimmauld Place. Era certo che
anche Sirius ne sarebbe stato felice, e la prospettiva di vivere lì offuscava
la luce così familiare scaturita dal pensiero del ritorno a scuola. Harry però
sapeva che non avrebbe potuto fare a meno di andare a scuola: quello per lui
era l’anno dei G.U.F.O. E comunque la presenza di Kreacher per casa lo nauseava
a sufficienza - forse per questo che odiava pensare a Sirius costretto a
sopportarlo da solo.
Ultimamente
c’erano grandi novità nell’Ordine.
Il signor
Weasley era tornato due giorni prima annunciando che Gray, l’unico membro
dell’Ordine che Harry non aveva ancora conosciuto, dopo essersi non proprio
ripresa dal malore, aveva ingannato il Ministro della Magia con un’illusione e
se l’era filata. La Umbridge le aveva spezzato la bacchetta, ed era probabile
che Gray si fosse Materializzata a Diagon Alley per comprarne un’altra. Il
signor Weasley aveva però precisato che erano partite delle lettere dirette ad
ogni negozio, perfino alla gelateria, le quali parlavano di lei praticamente
come di una ricercata.
Sicuramente le
avrebbero vietato di acquistare qualsiasi cosa e, chiunque l’avesse vista,
avrebbe immediatamente fatto in modo che il Ministero lo venisse a sapere. La
signora Weasley non faceva che ripetere che Gray era un’incosciente, non
avrebbe mai dovuto provocare Caramell, e scappare quando non era ancora
perfettamente in forze non era stata una grande idea.
Harry non si
spiegava come mai Sirius lanciasse occhiate torve alla signora Weasley ogni
volta che faceva simili affermazioni; pensò che fosse soltanto il fatto che non
si erano certo trovati simpatici a vicenda.
A dir la
verità ogni volta che l’argomento veniva nuovamente toccato, gli pareva di
scorgere una specie di fretta nel modo di comportarsi di Sirius.
*
Il tempo
trascorse lentamente, passarono due giorni, forse tre, senza che nessuno avesse
notizie di Gray. I giorni che separavano loro da Hogwarts si riducevano sempre
di più, ed Harry era il solo a non contarli con smania: mancavano poco meno di
due settimane e, a differenza di Ron e Hermione, lui era l’unico a non esserne
impaziente. D’altro canto, loro due erano stati nominati Prefetti… le battute
di Fred e George non servivano a farlo sorridere, anzi lo riempivano di dubbi.
Assisteva con riluttanza alla gioia e alla soddisfazione dei suoi amici, e come
sempre alle smancerie della signora Weasley. Doveva sorbirsi le autentiche
coccole che Ron riservava al suo distintivo scintillante; e tutti i sospetti
che nutriva verso Albus Silente lo assalivano sempre più.
Sembrava che
niente potesse smuoverlo da quella ridicola situazione di inquietudine, almeno
fino a quando una visita inaspettata giunse a Grimmauld Place.
Harry aveva da
poco finito di pranzare a stava salendo in camera sua, quando un debole
picchiettio alla finestra del corridoio non lo fece trasalire. Harry temette
che il quadro della signora Black potesse svegliarsi, ma fortunatamente così
non accadde. Harry scanso le vecchie tende logore e al vetro notò un bellissimo
corvo dal becco lucido e dorato. Non sembrava in ottima salute, però; anzi
aveva l’aspetto piuttosto malaticcio, e alcune piccole piume che aveva perduto
erano sparse sul davanzale. Harry cercò di aprire la finestra più
silenziosamente possibile, senza nemmeno domandarsi cosa ci facesse un corvo da
quelle parti: era così desideroso di qualche diversivo, anche insignificante,
che spalancò il vetro senza fare complimenti.
Ma essendo la
finestra molto vecchia, così come il resto della casa, un forte cigolio fu
inevitabile: e la signora Black ricominciò immediatamente a urlare e strepitare
contro tutti i mostri e i mezzosangue che infestavano la casa dei suoi padri.
Il corvo volò
nel corridoio. Dalla lentezza con la quale sbatteva le ali sembrava essere
molto stanco; forse aveva appena fatto un lungo viaggio. Harry sollevò la mano
affinchè l’animale potesse posarvisi. Osservandolo da vicino, Harry notò che le
piume avevano qualche sfumatura rossastra e gli occhi erano color sangue.
Nessuno
sembrava badare alla signora Black, fin quando non salì anche Moody che riuscì
a zittirla.
-Non è una buona idea aprire la finestra
-disse col suo solito ringhio,
avviandosi di nuovo alle scale. Ma subito dopo, prima che l’altro potesse
rispondere, il suo occhio magico roteò fino al corvo sulla mano di Harry.
-Animagus! -esclamò. Quell’affermazione fece sobbalzare
Harry, che ritrasse la mano come terrificato. Il corvo, piuttosto spaesato,
riprese a volare appena in tempo per non cadere sul pavimento.
In una nuvola
di sottile nebbia nera, il corvo iniziò a prendere forma umana, fin quando non
fu completamente ri-trasformato.
Harry si trovò
di fronte una ragazza dalla pelle bianca come un foglio di carta, i lunghi
capelli castani e gli occhi rosso sangue - esattamente come quelli del corvo
nel quale si era trasfigurata. Le labbra erano livide e sottili, gli occhi
evidenziati dal mascara nero, fin troppo, e nero era anche tutto il resto del
suo abbigliamento. Lo sguardo era stanco, somigliava un po’ a quello di Lupin
quando si avvicinava la luna piena. Harry fece un passo indietro. Non aveva mai
visto quella ragazza, che sembrava avere circa venticinque anni. Ma bastò una
sola occhiata a gettarlo in una strana angoscia, come se si fosse trovato
davanti un cadavere. Si accorse solo quando gli sorrise che un sottile rigo di
sangue le colava dall’angolo della bocca.
Moody non
sembrava meno impressionato di lui, ma riuscì comunque a trattenersi. Forse
perché l’aveva già incontrata.
-Come diavolo hai trovato questo posto? - ,
chiese, sospettoso.
-Quando sei poco ospitale… -commentò la ragazza, ed Harry notò che
respirava a fatica, ma non lo dava a vedere -Le Illusioni di Occultamento con me non funzionano, e nemmeno
l’Incantesimo Fidelius, dovresti saperlo - . Tentando invano di lisciarsi i capelli
spettinati dal vento, la ragazza si voltò verso Harry, e tese la mano.
-Harry Potter, giusto? -
Harry annuì e
le strinse la mano gelida, piuttosto perplesso. Le dita lunghe e bianche, dalle
unghie puntute, emergevano a mala pena dalla vaporosa e svolazzante manica di
seta nera.
- Io sono Gray. -
Harry sorrise,
incerto. Finalmente aveva conosciuto l’ultimo membro dell’Ordine della Fenice,
anche se non si sarebbe mai aspettato una persona come Gray. Gli avevano
raccontato che Silente parlava di lei con grande fiducia, ma anche con un filo
di preoccupazione. Harry non ebbe dubbi: la preoccupazione derivava dal suo
aspetto così malato, e la fiducia dal sorriso inaspettatamente caldo.
-Mi sono persa qualcosa? -
-Ti sei persa tre mesi di oscure
macchinazioni! -rispose Tonks, emergendo
dalla scalinata di legno. -Forza,
forza, vieni giù, gli altri vorranno vederti! -
Gray sembrò
quasi illuminarsi e, se possibile, riacquistare un po’ di colorito. Si lasciò
pigramente trascinare per il braccio, ma quando stavano per scendere le scale,
Moody le bloccò.
-Non avresti dovuto trasformarti in Animagus.
Qualcuno potrebbe riconoscerti. -
-Tipo chi? -rispose Gray alzando le spalle, per poi sparire in cucina insieme a
Tonks.
Moody emise
una specie di sbuffo e, insieme ad Harry, le seguì.
Quando Harry
aprì la porta, la cucina era già tutta un baci e abbracci.
La signora
Weasley era praticamente esausta dal sollievo di vederla tutta intera, e
continuava a ripeterle - anche se nessuno le prestava ascolto - di non essere
mai più così incosciente, che Silente non sarebbe mai stato felice di questo, e
chissà quante altre cose. Ron e Hermione sembravano aver avuto la stessa
reazione di Harry, quando avevano visto Gray, perché la osservavano sempre,
senza nemmeno sbattere le palpebre. Persino Grattastinchi sembrava avere avuto
un istante di tranquillità, ma poi tornò alle vecchie abitudini giocando con
l’orlo della giacca di Gray, fin quando Hermione non lo trattenne.
Gray e Sirius
si abbracciarono così forte che Harry li scambiò per due francobolli. Non
riuscì a sentire cosa si dicevano perché parlavano troppo piano, ma sembravano
due amici di vecchia data si incontravano dopo tanto tempo. Anche Lupin fu
felice di rivederla. Harry cominciò a formulare qualche ipotesi quando Gray lo
chiamò Lunastorta.
Dopo una
decina di minuti, Gray si afflosciò su una sedia con tale spossatezza che
sembrava in punto di addormentarsi, ma nessuno ci fece caso, a parte la signora
Weasley.
-Ti senti bene, cara? - , domandò con
apprensione.
-Tutto a posto, non preoccuparti. -
Harry capì che
mentiva.
*
Come previsto,
Molly Weasley spedì i ragazzi a dormire, destando le loro lamentele, ma alla
fine perfino Fred e George desistettero, lasciando i membri dell’Ordine a
parlottare in cucina. D’altra parte i gemelli sapevano benissimo che la cucina
non aveva difese contro le Orecchie Oblunghe.
Harry saliva
le scale di malavoglia: non aveva nessuna voglia di andare a dormire, avrebbe
di gran lunga preferito restare giù ad assistere alla conversazione. Perfino
Hermione sembrava manifestare il desiderio di disubbidire alla signora Weasley.
Di comune accordo, si riunirono tutti in camera di Harry e Ron, dalla quale
tentarono di ascoltare.
Gray però
parlava a voce molto bassa, e riuscirono a sentire ben poco di quello che
diceva.
-E così sei riuscita a fartela vendere. -disse il signor Weasley osservando la
bacchetta nuova di Gray -A quanto pare
il Ministero non ce l’ha così tanto con te. -
-E’ arrivata una lettera a Olivander, a dir la
verità -rispose Gray bevendo birra
Babbana -Solo che non l’ha letta.
-sorridendo, tirò fuori dalla tasca la
lettera che aveva rubato al gufo prima di addormentarlo e lanciarlo nel
cestino. -Non so cosa c’è scritto, non
ho avuto tempo di leggerla, - aggiunse,
strappando la busta.
“E’ probabile
che una certa Gray si aggiri per Diagon Alley.
E’ una
ragazzina pallida, mingherlina e vestita di nero, con occhi rossi e capelli
lunghi, castani.
Ricorderete
che Gray ha numerosi precedenti penali, che il Ministero della Magia aveva
promesso di dimenticare se si fosse prestata a lavorare nell’edificio e a
rigare dritto. Gray è afflitta da una sconosciuta malattia emorragica che non
le consentirà di certo di andare lontano. Si manifesta con tosse e mancamenti.
Ora,
nonostante la disponibilità del Ministero e di tutti i suoi dipendenti verso di
lei e verso i suoi innumerevoli problemi cerebrali, la fiducia promessa è stata
di nuovo tradita.
Decideremo la
punizione quando riusciremo a trovarla, nel frattempo diffidate di qualsiasi
persona che risponda alla descrizione, non vendetele nessun articolo e
soprattutto ricordatevi che non ha il pieno possesso delle sue facoltà mentali.
Il Ministro
della Magia,
Cornelius
Caramell. ”
-Innumerevoli problemi cerebrali? -rilesse Sirius con una smorfia irritata
-Ti hanno fatta passare per una pazza!
-
-Perché, di solito cosa si pensa di me? - ,
ribatté Gray con sarcasmo, buttando la lettera nel caminetto acceso. La sua
voce andava sempre più incrinandosi, e al termine delle frasi beveva un altro
po’ e strizzava gli occhi, come se la luce le desse fastidio.
-Ormai lo sanno tutti che i malori sono dovuti
al Marchio Nero. -
-Ma nessuno sarebbe molto contento di saperlo
-disse il signor Weasley -al Ministero c’è una che impazzisce a causa
di Voldemort… non credo che la prenderebbero bene. Posso vederla? -aggiunse, accennando alla bacchetta magica.
Gray la sfilò
dalla cintura e gliela lanciò distrattamente. Non appena fu nella mano del
signor Weasley, la bacchetta cominciò ad agitarsi fin quando non saltò sulla
credenza e distrusse la maggior parte dei piatti. Riuscirono a fermarla molti
minuti dopo, appena in tempo, perché stava per riservare alla finestra la
stessa sorte dei piatti.
-Reparo - , disse la signora Weasley puntando
la sua bacchetta contro i piatti, che tornarono immediatamente a posto.
-Non era così violenta quando andavamo a
scuola, -commentò Lupin.
-In effetti non è la stessa. -rispose Gray -Però è strano… -
-E’ strano cosa? -
Gray si
corresse immediatamente.
-No… dicevo… è strano che quella di prima non
mi andasse più bene. -
Gray non
credeva fosse il caso di raccontare a tutti dello strano comportamento di
Olivander. Dopotutto non era convinta che si trattasse di una cosa tanto grave,
altrimenti si sarebbe letteralmente rifiutato di venderle la bacchetta.
Nonostante il cervello le fornisse questa spiegazione, il sesto senso avvertiva
che c’era una strana energia dentro quella bacchetta. Gray era dell’opinione
che non fosse il caso di riferirlo a tutti. Ne avrebbe parlato con Sirius e
Lupin più tardi, forse.
Però le dava
abbastanza fastidio sentirsi l’occhio magico di Moody perennemente puntato
addosso: con lui nelle vicinanze, diventava straziante raccontare una bugia.
-Naa. Sono tanti i maghi che cambiano
bacchetta ad un certo punto della loro vita. Tu poi eri molto piccola quando
hai avuto la prima, vero? - , disse Tonks.
-Otto anni. -rispose Gray. La sua voce stava abbassandosi sempre di più. Ormai tutti
si erano accorti di quanto fosse strana, somigliava ad una che ha terribilmente
sonno ma che si sforza di restare sveglia. Ognuno fece finta di niente, ben
sapendo che avrebbe ottenuto solo una risposta vaga, evasiva, ma la signora
Weasley non perse tempo:
-Non faresti meglio ad andare a dormire, cara?
-
Nessuno la
ascoltò.
-Io credo che faremmo meglio a spostare
l’attenzione su cose più importanti. -ringhiò Moody.
-Tipo? -
-Voldemort. -
Al piano di
sopra, tutti quelli che ascoltavano tramite le Orecchie Oblunghe, a parte
Harry, furono scossi da un violento fremito non appena sentirono quel nome. Di
sotto nessuno si era accorto di niente, e così i ragazzi dovettero zittirsi e
mettersi bene in ascolto per non perdersi nemmeno una frase.
-Credo sia evidente che la causa del tuo
collasso di pochi giorni fa… -
-Non c’è nessuna causa e nessun collasso!
-rispose Gray con voce arida -Ero arrabbiata e basta. -
-Nessuno dorme quattro giorni per un attacco
d’ira! -
-Io sì -replicò Gray -E lo sai
benissimo. -
Per qualche
istante ci fu un totale silenzio. Gray non aveva torto: era sempre stata
eccessivamente debole, così che ogni suo malessere psichico andava sempre a
peggiorare le sue condizioni fisiche. Moody sembrava di tutt’altro avviso.
-Quest’Ordine è sorto per contrastare
Voldemort. Non stai parlando al Ministero. -
Gray sospirò
inarcando le sopracciglia, come rassegnata. Allargò la scollatura della
maglietta fin quando il Marchio Nero non fu totalmente visibile. Dopo il giorno
che si era svegliata, non aveva mai fatto altri tentavi di liberarsi la mente,
perciò il Marchio era visibile a sufficienza perché tutti i suoi contorni
potessero distinguersi. Intorno ad esso giaceva un disegno terrificante di cicatrici.
La signora Weasley lanciò un gridolino strozzato, portandosi la mano alla
bocca. Moody non fece una piega, Tonks si morse le labbra, mentre Sirius e
Lupin sembravano esserci abituati, ma rimasero comunque inorriditi.
-Allora continui a tagliarti. -disse Sirius, cupo, scuotendo la testa.
-Non c’è altro che posso fare. -
Seguì un’altra
parentesi di silenzio totale. Moody scrutava con attenzione il Marchio Nero con
espressione truce.
-Credi che Voldemort sia in pieno delle forze,
ormai? -chiese Tonks
-Sì, certo. E’ risorto da un pezzo. -rispose Gray in tono neutro.
-Cos’è successo di preciso? -
-Ero… ero nei sotterranei, lì dove hanno fatto
l’udienza a Harry. Ero andata a chiedere alla Umbridge il permesso di
assentarmi per la riunione… bhe, non le ho detto che venivo qui, è ovvio.
C’erano anche Caramell e Lucius Malfoy. Non so perché era lì. Era all’incrocio
fra il corridoio principale e quello che porta all’Ufficio Misteri. Malfoy ha
detto che nessuno dovrebbe fidarsi di me… -
-Immagino com’è finita. -sospirò Lupin
-Ho sentito… non lo so… -
-Cos’hai sentito? -incalzò Moody.
-Una voce… continuava a ripetermi di
ucciderli. -
La voce di
Gray era ormai un debole sospiro.
Sembrava che
sudasse, e fissava il vuoto, come se delle immagini indipendenti da quella
dimensione scorressero di fronte ai suoi occhi.
-Hai cercato di resistere? -
-Ci ho provato. -Gray scosse la testa -Ci ho provato troppo. -
**Non èstato
sufficiente… **
-Che ti ha detto? Qualcosa di Voldemort? Dov’è
nascosto? -
La signora
Weasley lanciò un’occhiata di rimprovero a Moody per la sua insistenza. Ormai
si erano accorti tutti che Gray stava male, anche chi voleva far finta di
niente non poteva fare a meno di notarlo. Al piano di sopra, in camera di Harry
e Ron, anche loro avevano avvertito che c’era qualcosa che non andava. Avevano
calato ancora un po’ le Orecchie Oblunghe, per poter sentire meglio i sussurri
di Gray.
-Mi ha detto… -
**Vuole solo
sapere comesoffri… chegl’importadi te?
nongl’importaniente…**
-Vattene… -sibilò Gray.
-.. Vattene? Ha detto “vattene”? -ripeté Moody.
Si era alzato
in piedi ed era in ginocchio di fronte alla sua sedia, nel tentativo vano di
guardarla negli occhi. Gray rimase immobile.
-No… -
Gray si
paralizzò.
-Che ti ha detto, Gray? Che diavolo ti ha
detto!? Dobbiamo saperlo! -Moody la
scosse violentemente -Rispondi,
Gray!! -
Sirius lo
scansò con violenza. -Lasciala
stare! -
**Non ti fanno
pena…?**
Gray sembrava
in coma.
Volgeva
intorno lo sguardo terrificato, scrutando senza vederli tutti i presenti. La
signora Weasley si strinse al marito, tremante.
Gray sentiva
l’amaro sulla lingua… una boccata di sangue schizzò via dalle sue labbra,
macchiandole il viso, scivolandole sul collo…
Il Marchio
Bruciava… intorno a lei erano tutti agitati…
**Sei
statatu,
Gray…**
-Lasciami… lasciami… -
Ormai erano
tutti terrorizzati. Al piano di sopra Harry e gli altri avrebbero voluto
scendere e accostare l’orecchio alla porta, ma Moody se ne sarebbe accorto
subito. Non riuscivano a sentire niente.
-Gray, per favore, svegliati! -
Di chi era
quella voce?
**Assassina…**
-Bugiardo… -
-Basta!! Smettila! -
Gray si stava
sbilanciando dalla sedia, sembrava dover cadere da un momento all’altro… ancora
una boccata di sangue… ancora macchie rosse sul pavimento…
Come quando
loro erano morti…
**Tu seisoloun’assassina…**
-Basta! -
Gray strillò.
Un grido. Sempre più forte. Un grido che veniva su dalle viscere, un grido
infernale che allagava il cervello. La signora Weasley si premette una mano
sulle orecchie, ed era ormai praticamente in lacrime… tutti si allontanarono…
non potevano fare niente…
La sedia si rovesciò.
Gray era
distesa per terra, rantolava di dolore, urlava, si contorceva come se qualcuno
l’avesse messa sotto tortura. La porta si spalancò. Harry e gli altri irruppero
nella cucina, terrorizzati da quelle grida. Il quadro della signora Black si era
risvegliato e anch’essa sbraitava come un’indemoniata.
Ginny strillò.
Gray
continuava a vomitare sangue.
Rotolò sulla
schiena un paio di volte, trovandosi a pancia in su. Dalla sua posizione
sembrava quasi che, con le mani, tentasse di trattenere un braccio invisibile,
un braccio che tentava di strozzarla. C’era come una barriere invisibile di
terrore che impediva a chiunque di avvicinarsi.
Ad un tratto
allontanò violentemente le mani, come se il braccio fosse riuscito a spezzarle
le ossa. Il suo corpo si bloccò, facendosi rigido. Quattro tagli profondi,
simili a grosse unghiate, si formarono sul suo viso. Perfino Moody rimase
sconcertato. Sarebbe rimasta cieca. Una vampata di luce, e il Marchio Nero fu
visibile di nuovo come se fosse stato appena impresso.
E poi, il
tempo di un istante, e tutto si placò.
Le profonde
unghiate sul viso di Gray sparirono, lasciando solo le macchie di sangue. La
ragazza rimase distesa a terra, respirando a mala pena. La signora Black
continuava a gridare e imprecare, ma nessuno ci pensava. Il primo a scuotersi
dallo shock fu Sirius, che sollevò Gray mettendola sulla poltrona.
Tornò a
parlarle a bassa voce, mentre tutti gli altri osservavano ancora Gray,
sconcertati. La sua espressione era deformata dal pianto, anche se si stava
lentamente calmando, e le lacrime avevano sciolto il mascara, che le imbrattava
le guance insieme al sangue. Era fradicia di sudore e il marchio aveva bruciato
i vestiti intorno ad esso.
All’improvviso,
Kreacher l’elfo domestico apparve in cucina: probabilmente era entrato da un
pezzo e nessuno lo aveva sentito.
-Vattene, Kreacher. -sibilò Sirius.
-L’Oscuro Signore punisce sempre i traditori
-disse Kreacher, con tono cupo.
-Fottuto
mostro, vattene subito!! -
Kreacher
scappò. Probabilmente andava dal quadro della madre di Sirius.
-Sono stata… sono stata io… Sono… sono… li ho
uccisi… -ansimò Gray.
-Basta, Gray -Sirius le baciò i capelli. -Tu
non hai fatto niente - .
La cosa che
più di tutte lasciò Harry senza parole fu il comportamento di Gray la mattina
dopo: anche se era chiaro che stava fingendo, sembrava totalmente indifferente,
come se quella notte non fosse successo nulla. Harry fece colazione molto prima
di lei, e così non poté ascoltare i discorsi che scambiò con gli altri membri
dell’Ordine. A tredici giorni dall’inizio della scuola, Harry aveva ancora meno
voglia di tornarci.
Non riusciva a
spiegarsi niente di ciò che era successo quella
fatidica notte. Gli avevano detto che Gray aveva una strana malattia per la
quale perdeva sempre un mucchio di sangue, ma nessuno o aveva informato del
Marchio Nero. Fu da quella notte in poi che Harry - e non solo lui - iniziò a
capire che non sapeva niente di Gray. Non sapeva da dove veniva, quanti anni
aveva, perché non si faceva vedere spesso. Sapeva solo che era finita ad
Azkaban per omicidio. Adesso che aveva scoperto la sua natura di Mangiamorte,
non poteva fare a meno di temerla. Ma le parole di
Kreacher erano state, in un certo senso, confortanti. Almeno per lui.
Se Voldemort puniva i traditori,
significava che Gray aveva tradito Voldemort.
Dopo quel
giorno scorse nelle espressioni di tutti i suoi amici una
strana inquietudine.
Erano quelle
le punizioni di Voldemort? Era quella la sofferenza che spettava a tutti coloro che si opponevano a lui? Voldemort gli aveva
strappato i suoi genitori, ma finora Harry non aveva mai osato immaginare
simili torture. Da come gli altri agivano e parlavano, sembrava che Gray avesse
spesso problemi di quel genere.
Anche i suoi genitori avevano sofferto
così? Oppure l’Avada Kedavra era più rapido, più
indolore? Cosa sarebbe successo se Voldemort avesse
messo le mani sull’arma di cui gli avevano parlato il giorno che era arrivato a
Grimmauld Place? Sarebbe stata una catastrofe. Era spietato anche senz’arma.
Harry scosse la testa. Gli restavano ancora così tante domande…
Di cosa si era
accusata Gray quella notte? Forse aveva rivissuto l’omicidio per il quale era
stata arrestata… forse parlava dei genitori di Harry… o dei suoi stessi
genitori…
Harry
interruppe le sue ipotesi, che stavano sconfinando nell’impossibile. Sapeva
benissimo chi era il responsabile della morte di James e Lily Potter. E i genitori di Gray potevano essere ancora vivi. Decise
che, a qualsiasi costo, prima che fosse iniziata la scuola avrebbe chiesto
spiegazioni riguardo a Gray.
Nonostante i
suggerimenti da parte degli altri, Gray decise che sarebbe andata ad Hogwarts il primo giorno di scuola, prendendo lo stesso
treno degli altri. Nessuno sembrava stupirsi della decisione e così non ci
furono insistenze.
Era passato un
giorno dalla notte dell’arrivo di Gray, e il sole stava già calando. Harry
preferiva non pensare che, di ora in ora, si
accorciava il tempo che lo separava di Hogwarts. Stava guardando dalla finestra
alla quale il corvo aveva picchiettato col becco, e quando vide che una donna,
alla finestra di fronte, guardava proprio dalla sua parte, si nascose
immediatamente dietro le tende. Ma quando tornò ad
osservare, la donna guardava ancora dalla sua parte, ma non vedeva che la casa
dietro il Quartier Generale, o forse un muro bianco. Come aveva fatto Gray a
trovare quell’edificio?
Si perse in
ogni genere di pensiero, di fronte alla finestra. La signora Weasley gli passò
accanto e, vedendolo così assorto, non provò neanche a chiedergli di andare a
dormire. Dopotutto quella notte non c’erano discorsi da origliare. Harry non si
accorse nemmeno del passaggio della signora Weasley, che d’altra parte
camminava con passo felpato per evitare di sveglia la madre di Sirius che
dormiva nel suo quadro. La notte prima, non aveva smesso di sbraitare nemmeno
un secondo contro i traditori dell’Oscuro Signore, si era zittita soltanto dopo
le tre del mattino, quando si era accorta che nessuno era interessato ad
ascoltarla.
Harry sperava
quasi di intravedere un gufo nella notte, magari la sua Edvige, e ricevere una
qualsiasi lettera, purché non provenisse da Hogwarts. Aspettò paziente, come se
la sua speranza fosse una certezza, ma dovette arrendersi dopo una quarantina
di minuti. Alcune voci familiari lo scossero dall’apatia. Sirius e Gray stavano
parlando nell’ingresso. Gli bastava sporgersi dalla ringhiera del pianerottolo
sul quale si trovava… anche se l’idea di origliare non lo attirava per niente,
dovette ammettere che voleva solo trovare qualcosa da fare che non fosse andare
a dormire.
<<
…allora è così che sei scappata… >>, sentì dire
a Sirius.
<< Avrei
fatto meglio a restare là dentro. >> commentò Gray asciutta.
<< Ma Silente lo sapeva, che tu eri… >>
<< No,
non lo sapeva. O forse non aveva voglia di andare fin
là, in quella fogna. >>
Harry non
riusciva a seguire il discorso. Immaginò che Gray stesse parlando delle
circostanze che l’avevano fatta rinchiudere ad Azkaban.
<< Non
dire stupidaggini… sarebbe venuto sicuramente ad aiutarti se avesse saputo.
>>
<< Perché avrebbe dovuto? Ero comunque
colpevole. >>
<< Non
per tua decisione! Lo dicesti anche tu, quando andavamo a scuola. C’erano
quelle voci… >>
<<
Quelle voci mi parlavano in continuazione, ma la cosa più grave è che io le ascoltavo. Meritavo un altro paio d’anni ad
Azkaban. >>
Harry decise
di sporgersi ancora un po’ per sentire meglio, stando bene attento che le assi
non scricchiolassero. Qualche rumore lo produsse, ed
era certo che i due se ne fossero accorti, pur non volendo farci caso.
<<
L’unicoche se li sarebbe
meritatiè Voldemort!! >>
<< Non
alzare così la voce... >> sussurrò Gray posandogli l’indice sulle labbra.
Per un attimo piombò la quiete, come se l’intera casa, con tutti i suoi naturali
rumori da vecchio edificio logoro, si fosse ammutolita. Harry
rabbrividì. L’unica fonte di luce erano le due bacchette magiche di Sirius e
Gray, poggiate su un mobile, che emettevano una
pallida luce dalla loro punta.
<< Gray…
non posso credere che tu non voglia vendicarti… dopo tutto
quello che ti hanno fatto… Perché non reagisci? >>
<< Io
sono una di loro. Se io e Bellatrix ci fossimo
scambiate le parti, io avrei fatto la stessa cosa. Anche
tu volevi uccidere Peter, perché era un traditore. E
io non sono tanto diversa da lui, ho tradito Voldemort. >>
<< Peter
aveva la possibilità di scegliere! Tu hai potuto decidere di avere quel
Marchio? Qualcuno ti ha dato l’opportunità di scegliere da che parte stare?
>>
<< No.
>> rispose semplicemente Gray. La sua voce era tranquilla e dolce. Non
somigliava per niente a quella di Sirius. Era come se non si potesse mai
scomporre, come se ne avesse viste sempre di ben peggiori.
Harry aveva visto l’effetto che Azkaban faceva sui prigionieri. Aveva visto che
aspetto tremendo aveva Sirius quando lo aveva incontrato nella Stamberga
Strillante…
E alcuni diventavano perfino
Dissennatori…
Gray era
pallida, e aveva il viso malato: nonostante questo, però, era
così bella…
<<
Codaliscia era solo un vile traditore, Gray >> aggiunse Sirius con
fermezza, come se avesse capito che Gray non era molto convinta. << E tu
non hai niente di simile ad uno come lui. Niente.
>>
Gray annuì con
un’improvvisa scossa della testa. Harry non riusciva a vedere l’espressione di
nessuno di loro, perché le bacchette non illuminavano abbastanza. Era
terribilmente tentato di sgattaiolare in camera sua, prendere il Mantello
dell’Invisibilità di suo padre, e scrutare la situazione da vicino. Ma era come inchiodato al pianerottolo. Non voleva perdersi
neanche una frase. Era la sua occasione per capire il passato di Gray senza
dover fare spiacevoli domande. Ad ogni frase si sentiva sempre più spregevole.
I due parlavano a voce sempre più bassa: lo facevano apposta? Che si fossero accorti della presenza di uno spione sul
pianerottolo?
Harry non
avrebbe mai voluto rompere quella privacy: rispettava Sirius, e Gray gli faceva
paura. Anche se non lo avessero scoperto, forse si
sarebbe sentito in colpa.
<< Gray,
loro ti hanno rubato tutta la tua vita. >>
<< Non
tutta. >> disse Gray sorridendogli << Non ancora. >>
Strinse il
ciondolo a forma di cuore alato che portava legato al collo. Harry intravide
che le tremava la mano da quando la presa sull’oggetto era forte.
<<
Avete… avete fatto così tanto per me… >> mormorò con la voce rotta
<< E io non ho potuto fare niente… Non ho mai fatto niente… >>
Sirius strinse
la mano che Gray chiudeva intorno al ciondolo. << Non dirlo neanche.
>>
<<
Quando ti hanno portato ad Azkaban io dov’ero!?! Non
l’ho neanche saputo !E
quando hanno ucciso James? Non c’ero! Non c’ero! Avrei potuto fermarlo…
rallentarlo… qualsiasi cosa! Non mi sono mai meritata niente di tutto quello
che avete fatto per me… >>
Harry
sobbalzò. Non si aspettava che parlassero si suo
padre. Gray aveva alzato la voce così inaspettatamente che fece
quasi paura. Nei due giorni in cui l’aveva vista - perché dire “conosciuta” gli
sembrava una parola grossa - non l’aveva mai sentita
scomporsi dal suo tono pacato, a parte quando il Marchio era riemerso.
Sirius
sembrava anche lui ammutolito, come se, per la prima volta, non sapesse proprio cosa dire. Le frasi che Gray aveva appena pronunciato erano verità incontestabili.
<< Io
sono.. sono solo un peso. >> concluse Gray dopo
un interminabile silenzio. Fissava il pavimento. All’improvviso, Sirius le
sollevò il viso in modo da guardarla negli occhi, tenendole il mento con le
dita.
<<
Smettila. >>
Sirius spinse
lentamente Sara contro l’angolo dell’ingresso, baciandola sul collo, e fu
allora che Harry decise di non sbirciare più.
Era il giorno
della partenza per il Binario 9 e ¾, e nessuno si era mai sentito maldisposto
come Harry. Non solo tutti si erano rifiutati di parlargli di Gray, ma aveva
scoperto che una persona del Ministero avrebbe lavorato ad
Hogwarts. Il lato positivo della faccenda era che, se
non altro, visto che Gray doveva assistere la Umbridge, avrebbe avuto tutto il
tempo per chiederle qualcosa sulla sua vita.
Come previsto,
Harry fu obbligato a recarsi alla stazione con la maggior parte dei membri
dell’Ordine al seguito. Sirius era decisamente giù di
morale e Harry sentiva un irrefrenabile rimorso per questo, nonostante non
fosse colpa sua. Dopo le innumerevoli raccomandazioni della signora Weasley, il
gruppo era pronto a partire, ed erano già in punto di uscire quando un grosso
cane nero venne loro incontro.
<<
Silente non ne sarebbe affatto contento! >> Protestò Molly ma, ancora una
volta, nessuno la ascoltò.
Harry non osò
dirlo, ma il fatto che anche Sirius lo accompagnasse bastava a fargli tornare
la voglia di recarsi ad Hogwarts.
Il viaggio in
treno era parso ancora più lungo del solito.
Ron e Hermione
avevano passato i tre quarti di esso nel vagone dei
Prefetti, e poi a controllare che tutto fosse in ordine. Malfoy fece arrabbiare
Harry ancor prima che iniziasse l’anno, non solo
annunciando che era diventato Prefetto anche lui, come previsto, ma le sue
battute sui segugi non erano proprio un bel modo di iniziare la giornata.
Ogni
pochi minuti,
oltretutto, Malfoy ricompariva nel suo scompartimento con Tiger e Goyle,
cercando una qualche scusa per poterlo far sentire ridicolo.
Harry era
finito in scompartimento con Neville, Ginny, e Luna “Lunatica” Lovegood.
Quest’ultima era una persona decisamente strana: i
suoi discorsi non tradivano l’espressione trasognata e leggeva il Cavillo alla
rovescia. Quando Hermione seppe che suo padre dirigeva quella rivista, negli
occhi le si leggeva quasi lo stesso ribrezzo che
Malfoy provava per i Mezzosangue.
Anche il suo primo incontro di
quell’anno con Cho Chang si era rivelato fallimentare, a causa della spruzzata
di liquido puzzolente della specie di cactus di Neville. Se
era sembrato ridicolo fin dal primo momento, figurarsi cosa sarebbe successo
durante l’anno. Dopo tutte quelle prospettive Harry si chiese che cosa
gli era preso a salire su quel dannato treno. Quando arrivarono ad Hogwarts, anziché sospirare di sollievo, si sentì ancora
peggio.
Gray era
sparita quando erano entrati sul treno, ed Hermione suppose
che fosse andata a cercarsi un luogo dove potesse stare sola. Non appena il
treno si fermò, Harry intravide Gray tra la folla, prima che sparisse di nuovo.
*
La prima
lezione di Difesa Contro le Arti Oscure era stata un
incubo. Tutti ebbero da lamentarsi riguardo alla Umbridge,
anche se la maggior parte degli studenti consideravano Gray come una dea scesa
dal cielo per salvarli dal flagello: probabilmente la Umbridge le aveva fatto
passare dei guai non appena Gray le era ricomparsa davanti, e per questo motivo
la ragazza amava la Umbridge come la amavano gli studenti. Cioè
la odiava a morte.
Le intenzioni
del Ministero della Magia furono immediatamente chiare. Non ci voleva molto ad
immaginarsele, del resto. Era facile screditare Silente, e di conseguenza anche
Harry, perché entrambi sostenevano da un anno che
l’Oscuro Signore era risorto.
Harry
rimpianse quasi Rita Skeeter. Al confronto della Umbridge,
era soltanto una fastidiosa cavalletta. La Gazzetta del Profeta aveva passato
l’estate, come del resto anche l’inverno scorso, a riempire il cervello della
gente di fandonie sul conto di Harry. E minacciava di
essere un altro anno praticamente identico, con
l’unica complicazione che c’erano i G.U.F.O.
Già, i
G.U.F.O. ... Come avrebbero potuto sostenerli con gli
insegnamenti di quella donna?
Harry
rimpiangeva incredibilmente le lezioni di Lupin, due anni
prima, e non era il solo. Malfoy, invece, gongolava soddisfatto. Era
nella miglior posizione con la Umbridge. Gray
naturalmente, quando era da sola, non perdeva occasione per sfogare su Draco
tutte le ire causategli dal padre di quest’ultimo. Ma non passava momento che
ciò non venisse riferito alla Umbridge.
Gray non
sembrava minimamente preoccupata per quello che le avrebbero detto
al Ministero. E questo era un vantaggio per gli
studenti, naturalmente. Il più clamoroso brutto scherzo che
Gray fece a Dolores fu scriverle sulla grossa borsa, con la bacchetta,
“Umbitch” al posto di “Umbridge”. Da quel momento Fred e George la venerarono
come una santa, ma la professoressa non fu felice quanto lei.
Harry comunque era sollevato al pensiero che Gray fosse obbligata
ad accompagnare sempre la Umbridge alle lezioni. Naturalmente era lei che doveva
fare la maggior parte del lavoro, ma tutti constatarono
con piacere che la professoressa nutriva un certo timore per Gray: forse temeva
una qualche Maledizione, adesso che la ragazza era relativamente in buona
salute.
Non durò a
lungo. A tre settimane dall’inizio della scuola, Gray ebbe uno svenimento
durante una cena. I Serpeverde gridarono allo scandalo, accusandola di non
essere in grado di sostenere il suo compito: ed in effetti
restò in infermeria per quindici giorni, che resero ogni lezione ancora più
infernale.
<< Non
lo trovate strano? >> disse una volta Hermione in Sala Comune.
<< Oh,
no, Hermione, non avrai scoperto un altro Lupo Mannaro? >> sbuffò Ron
<< Non
parlavo della salute di Gray, ma del fatto che la Umbridge
l’abbia scelta come aiutante. Non vi è parso che abbia
un po’ paura? E allora perché si fa accompagnare da
lei ovunque? >>
<< Forse
per tenerla d’occhio. >> disse Harry
<< O
magari per avere una guarda del corpo >> aggiunse Ron
<< Ne dubito, >> replicò Hermione, << Gray a tutta
l’aria di poterla squartare da un momento all’altro. Io, comunque,
non mi sento molto tranquilla quando ce l’ho intorno. >>
<<
Hermione, per me tu sei solo gelosa. >>
Hermione alzò
la testa di scatto, e parve profondamente scandalizzata. << Che cosa ? >>
<< Ma sì, tutte le ragazze la odiano! >> spiegò Ron
<< Quando passa lei, nessuno le guarda più.
Dovresti sentire che mostruosità sparano su Gray
quando non è nei paraggi… >>
Hermione si
drizzò in piedi, chiudendo il libro che stava leggendo. << Ron, per
l’amor del cielo! Pensi che abbiamo tempo di pensare a queste… a queste
frivolezze ? E’ una Mangiamorte! >> Ron e Harry
si guardarono intorno atterriti, controllando che nessuno li avesse sentiti
<< Cosa credi che mi importi se lei piace a
tutti e io a nessuno? Non so cosa passi per la testa a
Silente, ecco cosa! L’ha accettata nella sua scuola! E
quel che è peggio è che anche il Ministero, che invece dovrebbe rinchiuderla
con gli altri Mangiamorte, la pensa così! Che cosa
stupida! >>
Vedendo che
due o tre persone si erano girate, e avevano gli sguardi decisamente
allarmati, Harry e Ron arrossirono immediatamente, sentendosi in imbarazzo per
la situazione. Hermione invece non fece una piega.
<< E’… è matta. Studia troppo… sapete…
>> balbettò Ron.
<< Sì, ha… ha le visioni. >> aggiunse Harry.
<< Ah
sì, eh? >> Hermione in un istante fece un fascio di tutti i suoi libri e
rotoli di pergamena e camminò spedita verso il dormitorio delle ragazze.
<< Ho le visioni. Bene, allora! A mai più rivederci ! >>
E sparì dietro la scala a
chiocciola. Le ragazze ridacchiarono e i ragazzi alzarono le spalle, per poi
tornare alle loro occupazioni come se niente fosse successo.
Harry si sentì
un po’ in colpa ma Ron sembrava impassibile.
<< Che razza di discorsi. >> disse Ron << E allora
cosa dovremmo dire di Piton? >>
<< Forse
dovremmo parlare ad Hermione, dopo. Di solito ha…
intuito per queste cose, ecco. >> rispose Harry, neutro.
<< E’
gelosa e basta, ecco cos’è! >> borbottò Ron affondando
nella sedia, al caldo del caminetto acceso << Gray è a posto. E poi anche Silente è dello stesso parere. >> Harry
roteò gli occhi. Sentire che anche Ron poneva le opinioni di Silente come
bilancia per il giusto e lo sbagliato lo nauseava, mentre un tempo sarebbe
stato pienamente d’accordo. << Se voleva fare
qualcosa di losco lo avrebbe fatto settimane fa. >>
<< Sì,
>> mugugnò Harry, ormai convinto della gelosia di Hermione <<
Giusto. >>
L’indomani
Hermione non rivolse loro la parola. Harry diventava sempre
più nervoso, e quanto a Ron, non era cambiato per niente. Sembrava che
la faccenda non lo toccasse neanche un po’, ma forse, segretamente anche lui se
ne rendeva conto: un altro Mangiamorte a scuola.
E nessuno
garantiva che fosse passata dalla loro parte. Gray non
sembrava mai felice di vedere Silente, Piton non era felice di vedere lei, e la Umbridge era più nervosa ed irritabile che mai.
Harry temeva
che un giorno potessero manifestarsi gli stessi terribili sintomi di quella
notte a Grimmauld Place. E se fosse successo in
pubblico? Harry sapeva come ci si sentiva ad esser dichiarati pazzi. E la malattia di Gray poteva far pensare veramente che anche
lei lo fosse.
Quando Gray fu di nuovo presente a
lezione, tutti i dubbi si dissiparono. Era l’unica cosa che rendeva la Umbridge sopportabile. Ma le
punizioni erano sempre più frequenti. Malfoy aveva la garanzia di non ricevere
mai né punizioni né taglio di punti per Serpeverde: evidentemente la Umbridge temeva suo padre almeno quanto temeva Gray.
Gray non amava
molto i Serpeverde e amava togliere loro punti: ma faceva lo stesso con
Grifondoro, e con immenso piacere. Sembrava che non avesse una parte dalla
quale stare, era semplicemente spietata con tutti.
Una mattina,
Harry e Ron trovarono Hermione intenta a leggere molto avidamente un annuncio
in Bacheca. Si avvicinarono senza farsi notare: non volevano che Hermione
avesse il sospetto che cercavano di fare pace.
Per ordine del Ministero della Magia
l’Assistente della rispettabile
Professoressa di Difesa Contro le Arti Oscure
non ha alcun diritto di togliere
punti o assegnare punizioni alle Case designate dalla
Professoressa Dolores Jane Umbridge.
Le case designate sono…:
Seguiva un
elenco delle Case alle quali Gray non poteva togliere punti, e c’era un solo
nome: Serpeverde.
<< Lo
sapevo! >> sbottò Ron, facendo sobbalzare Harry ed Hermione. <<
Quel Lucius Malfoy! C’è il suo zampino! Adesso Gray si sfogherà su Grifondoro!
>>
<< Mmh,
sì, presumibile. >> disse Hermione in tono vago.
Harry roteò
gli occhi. Al terzo anno, Hermione aveva assunto spesso quel comportamento di irritante superiorità, come di qualcuno che sa molte cose
ma non ha intenzione di spargere informazioni alla plebe.
<< La
vuoi smettere?! >> latrò Ron. << Mi hai seccato! >>
<<
Poverino, ti ho seccato… >>
<< Ci
segui ovunque! Sei insopportabile! Vuoi che ti chiediamo scusa così puoi dirci
quello che sai? >>
<< Sei
tu che mi sei comparso dietro! Io non sono così ruffiana! >>
<< E allora non rispondermi, almeno! Non stavo assolutamente
parlando con te! >>
<<
Parlavi da solo? >>
<<
Niente affatto! Parlavo con Harry! …Vero, Harry? >> aggiunse, voltandosi
verso il ragazzo. Hermione alzò un sopracciglio e sorrise beffarda. Harry si
sentì avvampato di fiamme.
<<
Sapete cosa vi dico? >> gridò << Non vi sopporto più, nessuno dei
due ! >>
<< Statemi alla larga! Sparite! >> e
anche Ron cominciò a gridare. Si separarono, camminando rapidamente, tutti e
tre, in direzioni opposte. Pix, sulle travi del soffitto, rideva come un pazzo.
Non smise di
ridere fin quando Gray emerse dal suo studio con occhi assonnati e i capelli
spettinati. Aveva il tono seccato di chi è stato costretto a svegliarsi in un
giorno festivo.
<<
Finiscila, razza di impiastro! >>, tossì.
Pix la guardò
per un attimo, ma non si zittì, anzi rise ancora più forte. Si stava rotolando
sulla sua trave, evidentemente gongolante per il litigio appena avvenuto, che
aveva finalmente separato gli inseparabili. Gray sembrava dover esplodere da un
momento all’altro. << Aspetta solo di venire giù… >>
Pix intonò
canzoncine di scherno. Era effettivamente un fantasma, un corpo non tangibile,
e Gray non poteva certo ucciderlo di nuovo. Improvvisamente, però, qualcosa
emerse dal muro e sembrò distoglierlo dalle sue risate. Gray sospirò esasperata
quando Nick-Quasi-Senza-Testa emerse dalla parete.
Sir Nicholas
lanciò una strana occhiata a Gray.
<<
Basta, Pix. Sta cercando di dormire. >>
<< Oh,
oh, oh! >> abbaiò Pix, ormai in lacrime dalle risate << Sennò cosa
mi fa? >>
Sir Nicholas
allora si alzò in volo fino a Pix, e Gray lo osservò mentre gli sussurrava
qualcosa all’orecchio. Dopo ciò che gli era stato
riferito, il Poltergeist fece subito retromarcia, si zittì, e porse le sue
scuse a Gray con tanto dispiacere che lei quasi si commosse.
Senza nemmeno
ringraziare Nick, Gray tornò nel suo studio e si sbattè la porta alle
spalle.
Negli ultimi
tempi, Harry, Ron ed Hermione non si parlavano neanche un po’. Hagrid sembrava
preoccupassimo per la situazione, ma le terribili ispezioni della Umbridge lo
tenevano così occupato, che non solo le sue lezioni andavano a rotoli, ma
dimenticava completamente di parlare ai ragazzi quando li vedeva. La classe
rimpiangeva la Caporal. Hagrid era un facile bersaglio per i Serpeverde e anche
per Gray, che non trovava simpatico neanche lui.
-Ma secondo te aveva degli amici, quella lì?
-bisbigliavano fra loro le ragazze.
Loro non lo sapevano, ma effettivamente la risposta era pressoché negativa.
I Serpeverde
cominciavano a trovare più simpatica Gray ora che non poteva più togliere loro
punti: infatti si accaniva contro Grifondoro, un po’ come faceva Piton. Lei
aveva la differenza, però, che toglieva punti solo quando era giusto, ma ne
stroncava così tanti insieme che ad un tratto i Grifondoro si trovarono vicini
allo zero. Tassorosso subiva la stessa sorte, mentre Corvonero aveva un
trattamento un po’ più amabile.
-Non si può dire che non faccia favoritismi,
comunque -disse Hermione, alzando
accuratamente la voce in modo che Harry e Ron la sentissero.
Stavano
iniziando a pensarla come lei.
-E pensare che dopo lo scherzo alla Umbitch mi
era così simpatica… -piagnucolò Fred.
-E’ la mia preferita, -dichiarava invece con orgoglio Luna Lovegood.
-E’ sospetta -dichiarò Lavanda Brown -Pix ha
paura di lei. Non è strano? -
Harry,
qualunque fosse l’idea degli studenti, cercava di seguirla ad ogni occasione.
Gray però spariva sempre nel suo ufficio e Harry non aveva occasione di
seguirla anche lì. Aveva proposto a Fred e George di usare le Orecchie
Oblunghe, ma loro riferirono che dovevano costruirne altre, perché le avevano
già vendute tutte.
Così Harry si
rassegnò. Pensò con sollievo al fine settimana ad Hogsmeade, nonostante sapesse
che avrebbe dovuto viverlo col pensiero dei compiti che lo aspettavano su al
Dormitorio. Naturalmente Ron non sarebbe mai andato per Hogsmeade insieme a Ron
o a Hermione: erano ancora ai ferri corti. Quindi decise di aspettare che
entrambi avessero già lasciato la Sala Comune, prima di recarsi anche lui
all’uscita.
E fu mentre
attraversava i corridoi che la vide: Gray si avviava al terzo piano con passo
leggero e aria furtiva. Harry non poteva perdere una simile occasione, anche a
costo di sacrificare Hogsmeade: aveva tutto l’anno per andarci. Scattò a
prendere il Mantello dell’Invisibilità, e fece appena in tempo prima di
perderla di vista.
Harry seguì
Gray per i corridoi di Hogwarts, mentre i quadri lo osservavano con
disapprovazione. Gray si fermò in vista di un lungo corridoio ad Harry molto
familiare. Ma dove stava andando? Non ci passavano in molti in quel corridoio…
non c’era niente da vedere… non portava da nessuna parte, solo al quarto piano,
perché Gray si fermava?
Harry la vide
bloccarsi di colpo, e pensò che fosse prudente nascondersi dietro un’armatura.
Non si sentiva sicuro, sotto il Mantello dell’Invisibilità… Gray riusciva anche
a vedere il Quartier Generale dell’Ordine, dopotutto.
Gray si
avvicinò alla statua della strega orba. Si guardò intorno, all’erta, poi alzò
la bacchetta, pronunciò “Dissendium!”, e sparì dietro la gobba.
In condizioni
normali, Harry si sarebbe precipitato da Ron e Hermione a raccontare loro
tutto. Ma non voleva sorbirsi le lagne infantili di Ron e l’aria da saputella
di Hermione, così decise di non dire niente. Dopotutto non era niente di
particolare. Gray sapeva solo un passaggio segreto. Uno dei tanti. Ma era certo
che, senza la Mappa del Malandrino, nessuno sarebbe mai andato a dire
“Dissendium” di fronte alla statua di una strega orba…
Harry si
diresse comunque ad Hogsmeade, e fece appena in tempo prima che Gazza non se ne
andasse. Non gli sarebbe piaciuto usare il passaggio segreto: meglio recarvisi
onestamente col permesso, dopo quello che era successo quando Malfoy aveva
visto la sua testa galleggiare a mezz’aria, due anni prima. Decise di andare a
Mielandia: era nel suo scantinato che sbucava il passaggio segreto preso da
Gray…
Ma era troppo
tardi. La folla lo soffocava, e Gray era senz’altro già andata via. Aveva un
gran vantaggio su di lui, il passaggio non era così lungo… Harry però si
sbagliava. Era già lontano da Mielandia quando vide, appena in tempo, un corvo
nero e piuttosto magrolino librarsi in volo da una finestra del negozio. Era
lei. Harry vide benissimo gli occhi rossi e la sfumatura ramata delle piume, ed
era certo che non si trattasse di coincidenza.
Facendo finta
di niente, lasciò che il corvo volasse avanti a lui: si dirigeva alla Stamberga
Strillante.
Harry si mise
a correre come un forsennato, e andò a sbattere contro altre persone diverse
volte. Oltrepassò in un lampo Zonko, l’Ufficio Postale, e l’affollato Ai Tre
Manici di Scopa. Se Hermione e Ron erano da quelle parti, non aveva nessuna
intenzione di raccontar loro tutto affinchè lo seguissero.
E finalmente
giunse alla Stamberga Strillante. Gray aveva fatto bene a trasformarsi in
Animagus: se qualcuno l’avesse vista aggirarsi nei pressi di quella casa
sinistra, avrebbero potuto pensare qualsiasi cosa, e di certo non benevola. Con
Harry il discorso non era diverso, però: avrebbe potuto mettersi il Mantello
dell’Invisibilità, che portava ancora nella borsa, ma non era sicuro che
sarebbe servito a qualcosa. Forse Gray lo vedeva comunque.
C’era una
spaccatura nel vetro di una finestra del piano più alto: il corvo rallentò e vi
passò attraverso con molta facilità…
Che ci faceva
nella Stamberga Strillante? Come faceva a sapere del passaggio segreto? Da
quanto tempo conosceva Sirius, Lupin e il padre di Harry? Il ragazzo era
convinto che le risposte a queste domande combaciassero: ma per scoprirlo
doveva entrare nella Stamberga Strillante, e non sarebbe stato facile passare
dal portone principale. Per prima cosa era inchiodato, e poi chiunque avrebbe
potuto vederlo. Harry decise che sarebbe passato da una porta sul retro. Ogni
grande villa doveva avere almeno due entrate, e la Stamberga non faceva eccezione.
Dopo una lenta
e circospetta circumnavigazione della casa, Harry trovò un’apertura nel muro
che faceva proprio al caso suo: anche un animale di grossa taglia avrebbe
potuto passarci. Sembrava che il legno in quel punto fosse stato scorticato da
cose simili ad artigli.
Harry vi passò
senza difficoltà. Dentro tutto era silenzioso, ma di tanto in tanto qualche
rumore turbava la quiete: cigolii, scricchioli, e il rumore di qualcosa che
veniva rosicchiato. Del resto, lì intorno, tutto era pieno di tarli. I mobili
erano completamente bucherellati, ma la maggior parte di essi non si era retta
in piedi: il tavolo e la credenza erano crollati, ma Harry riuscì a dedurre di
essere nella cucina. Un terribile tonfo ritmico lo faceva sobbalzare ad ogni
passo. Doveva trattarsi di una finestra che sbatteva al vento.
Harry aveva il
cuore in gola. Sapeva bene che Gray non sarebbe stata felice di trovarlo lì.
L’aveva
seguita. L’aveva spiata. E se si andava a cacciare in un posto del genere,
doveva avere un terribile segreto.E se
invece così non fosse stato?
E se Gray
fosse andata lì per caso? Tanto per fare un giro? O magari si trovava nella
vecchia villa per motivi tutt’altro che clamorosi. Ma allora perché tutta
quell’accortezza in corridoio, perché quella circospezione? Harry ne era
sicuro: Gray aveva qualcosa da nascondere. Sentì dei passi sopra la sua testa.
Gray stava camminando. E sembrava piuttosto nervosa.
Magari c’era
qualcun altro con lei. E se fosse stato un Mangiamorte?
O Voldemort…
forse Voldemort si era rifugiato lì… forse da lì preparava un attacco a
Silente…
Harry raccolse
tutta la cautela che aveva in corpo, perché avrebbe dovuto salire le scale
evitando di farle cigolare. Se lo avessero scoperto… Ma quando arrivò nel
grande salotto, non poté rimanere impassibile. La villa un tempo doveva essere
stata un’abitazione grandiosa. Tutto era caduto sotto l’assedio della polvere,
molti mobili erano distrutti, ragnatele che sembravano fatte di seta
avvolgevano ogni cosa, come soffici tende. Harry ripensò alla casa in Grimmauld
Place. Gli ricordava un po’ quell’edificio, in effetti, ma la Stamberga
Strillante un tempo doveva essere stata molto, molto più bella e sontuosa… Non
sembrava in rovina da molto tempo. Harry sapeva che il professor Lupin la
utilizzava per limitare le sue crisi nelle notti di luna piena, e quindi non si
stupì delle terribili unghiate che avevano ridotto a brandelli la maggior parte
della stanza.
Le travi, che
inchiodavano porta e finestre, lasciavano delle fessure molto grandi attraverso
le quali la luce filtrava in aspre falciate, evidenziando tutta la polvere che
c’era, e che faceva venir voglia di starnutire. Harry resistette. Aveva la
sensazione di essere osservato, e non solo da una persona. Tutta la casa lo
osservava. Tutto sembrava scrutare con sguardo severo il visitatore. Se un
quadro si fosse messo a gridare Harry non si sarebbe stupito.
A terra c’era
un lampadario distrutto, che aveva aperto una voragine sul pavimento. Doveva
essere stato enorme, prima di cadere dall’altissimo soffitto.
Le tende erano
strappate. Il tessuto che ricopriva i divani ottocenteschi non aveva incontrato
una sorte migliore. Sì, era proprio una villa ottocentesca. Si capiva dal
mobilio. Harry guardò in alto e rimase strabiliato. Tutto il soffitto era
ricoperto da un affresco che lo faceva somigliare ad una chiesa, perché era
stato dipinto anche con l’oro massiccio. Era un albero Genealogico. Harry vide
che tutti i volti erano offuscati, come cancellati da un colpo di spugna.
Alcuni nomi erano rimasti, ma non i cognomi. La grandissima quercia sopra la
quale erano stati dipinti tutti quei volti aveva il tronco avvolto di catene, e
degli strani esseri scheletrici, vagamente antropomorfi, si levavano dalla
terra rossastra intorno alle radici. Harry strizzò gli occhi: la quercia prese
fuoco. Urla tremende piovevano addosso a lui e sembravano circondarlo fino a
soffocarlo. Harry non sopportò quella visione atroce. Gettò lo sguardo sul
parquet, e quando alzò di nuovo la testa, l’albero era un normalissimo albero,
senza fiamme, senza catene, senza demoni scheletrici.
Harry credeva
di impazzire e tornò a guardare il pavimento.
Macchie di
sangue vecchio vi erano sparse, e c’era una puzza molto forte ad impregnare
ogni parte della stanza. Harry si avvicinò al caminetto. Era un grandissimo
camino, che sicuramente bastava a riscaldare tutto il piano terra. Per la
maggior parte era franato, essendo un camino di pietre, Harry non vedeva che
cenere e macerie. Sopra la cappa, sul muro, c’era un grosso quadro dalla sfarzosa
cornice in oro. Era stato anch’esso vittima di artigli, ma Harry riuscì a
distinguere: un tempo c’era disegnato il busto di un nobile. Come i volti
nell’albero genealogico sul soffitto, però, era stato cancellato dalla tela,
era tutto sbafato. Sulla cornice c’era una targa d’ambra con un’incisione:
Demetrius Gray.
Harry si
lasciò possedere dal silenzio. Gli sembrava che una voce scura gli stesse
raccontando una triste storia, ma appena distolse gli occhi se l’era già
dimenticata. Al muro erano attaccati tantissimi quadri e trofei di caccia. La
statua di un drago, che aveva un corvo e un serpente sulle lunghe corna, era
caduta in terra, ma non si era rotta.
Harry osservò
poi quella che un tempo era una grossa vetrina per soprammobili, e adesso era caduta
a terra: il vetro si era infranto e tutto ciò che conteneva era riversato sul
pavimento. Harry vide delle bacchette magiche tagliate di netto - probabilmente
perché non fossero più usate -, gioielli di ogni tipo, boccette che un tempo
dovevano aver contenuto dei veleni, perché il legno attorno a loro era eroso e
sbiadito.
Ma quello che
terrorizzò Harry abbastanza per scappare dal salotto furono delle reliquie
umane attaccate sotto ogni quadro, in grosse bottiglie lavorate contenti un
liquido azzurrino. Scilla aveva sotto di sé un barattolo con un avambraccio,
sul quale era impresso il Marchio Nero, Harry ne era sicuro. Sulla cornice di
Scilla c’era scritto: “Seduzione”.
Odino si
ergeva sopra un barattolo contente due zampe di corvo mozzate, e la sua cornice
diceva “Violenza”. Sotto Baal stavano dei bulbi oculari rosso fuoco, e c’era
scritto sulla cornice: “Guerra”.
Seymour aveva
lasciato solo due canini lunghi e appuntiti. La sua cornice diceva “Notte”.
Ancora molti
altri quadri e molte altre reliquie, fin quando Harry non vide un quadro vuoto.
Era una tela senza disegno. Sotto, il liquido azzurrino non conteneva niente.
Sulla cornice c’era scritto: “Morte”.
Harry era
sconvolto. Non aveva mai notato quella stanza della Stamberga Strillante: il passaggio
sotto il Platano Picchiatore conduceva dalla parte opposta dell’edificio.
Sapeva che quella notte non avrebbe dormito ma, vedendo quanto pericolosamente
vicino fosse il tramonto, decise di muoversi. Si infilò il mantello
dell’invisibilità, ignorò le voci che raccontavano della tragedia della loro
famiglia, e si preparò a salire le scale.
Aveva paura,
tanta paura… una paura incontrollabile…
Perché i volti
erano stati cancellati, così come il loro cognome? Chi era quella famiglia? E
quel quadro bianco? Harry decise di non pensarci. Soltanto a guardare indietro
verso il salotto gli sembrava che un demone sorgesse dalla polvere: quella casa
era stregata. Ora ne era certo. Non erano dicerie. Era una casa piena di
spiriti del male.
Harry si
trovava ad un passo dalla porta dietro la quale, presumibilmente, c’era Gray… e
chissà chi altro… ormai aveva il cuore in gola, pensava di poterlo sputare da
un momento all’altro. Non aveva quasi la forza di reagire. Sentì il rumore di
una lama che esce dalla sua custodia.
Fu allora che
si precipitò dentro.
Gray era lì,
impalata, gli dava le spalle e aveva l’aria di aver qualcosa in mano. Si
trovava nella stessa stanza dove Harry aveva incontrato Sirius la prima volta.
Non si voltò subito, ma era chiaro che aveva sentito Harry, perché aveva aperto
la porta con molta violenza. Gray nascose l’oggetto che aveva in mano e poi si
girò verso Harry così lentamente che lo fece rabbrividire. Harry era sul punto
di svenire. Gray aveva due grossi squarci sul viso, perdeva sangue come un
rubinetto, aveva i vestiti strappati, i capelli unti di sudore. Il Marchio Nero
era diventato enorme. Gray avanzò verso di lui come uno zombie. Harry non fu in
grado di muoversi. Gray lo stava afferrando alla gola. Era la sua ora… Harry
cercò di gridare… nessuno lo avrebbe sentito…
-Allora sei qui, Potter. -disse una voce alle sue spalle.
Gray sparì. Si
dissolse in una nube di fumo. Sparì il sangue, così come il suo odore, e i
brandelli di vestiti per terra. Harry non capiva: Gray era alle sue spalle, la
pelle liscia, i capelli pettinati, i vestiti esattamente come al solito. Harry
si tolse il Mantello. Non capiva cosa stesse succedendo.
-Allegro, allegro. Non ti strangolo, per oggi.
Hai abbastanza gatte da pelare. -
-Gray… tu… tu… lei… tu eri… -Harry ci rinunciò e sospirò. -Era un’illusione? -
-In parte. -rispose Gray.
Harry non
riuscì a decifrare la sua espressione. Sapeva solo che la sua paura stava
sgonfiandosi, per lasciare il posto alla confusione mentale.
-Che diavolo ci fai qui, Harry? Pensavo che tu
ne avessi avuto abbastanza di questo posto! -
-Ho visto… il corvo… e ho pensato… -
-E hai pensato, che avrà in mente quella
pazza? Seguiamola un po’! Cosa speravi, che ti accogliessi a braccia aperte e
magari ti offrissi il gelato? -Harry
era immobile. Non sapeva cosa rispondere. Era la prima volta che il suo
coraggio si annullava così di colpo. -Ti comunico che il Mantello dell’Invisibilità non è una sacra veste. C’è
chi può vedere cosa c’è sotto. -
-Solo gli occhi magici e i Dissennatori posso
vederlo! -
-Bene, vedo che sei rinsavito. -Gray gettò un’occhiata nervosa fuori dalla
finestra.
-Gray… tu… perché sei qui…? -
-Affari tuoi? -
-No. -
-Appunto. -Gray tossì violentemente -Harry,
te lo chiedo per favore. -Gray sapeva
che, anche senza aggiungere altro, Harry aveva capito cosa intendeva dire. Ma
preferì continuare comunque. -Non so
cosa ti sia venuto in mente, ma non dire mai a nessuno cosa hai visto qua
dentro. Ti guardo da quando sei passato da quel buco… -
-Ma… allora, i passi su nell’atrio… chi… -
-… e ti assicuro che se qualcuno lo venisse a
sapere non faresti una bella fine. Harry, ti prego, tutto questo deve restare
tra noi. Non dire mai chi o cosa hai visto e sentito qui dentro, non riferire
che c’ero anch’io, e soprattutto… nessuno deve sapere dei quadri. Nessuno,
Harry. Mi hai capito? -
Harry annuì e
Gray tossì ancora più violentemente di prima.
-Però… tu che ci fai qua dentro? -
-Le domande a dopo. Io sono qui perché sono
qui. Sei tu che non dovresti esserci. -
Gray lo zittì
di colpo. Un sibilo incontenibile faceva tremare tutte le pareti. E poi ci fu
uno schiocco. E un colpo, un immenso colpo, Harry fu assordito per qualche
istante. Gray chiuse gli occhi con noncuranza, cercando di rimanere ferma, e
poi li riaprì.
-Che cos’è stato? -Harry tirò fuori la bacchetta.
-Non ti servirà, quella. -rispose Gray. -E’ solo caduto il lampadario di cristallo di
diametro due metri che si trova nel salotto. L’avrai visto, immagino. -
-No… non l’ho visto. Cioè… era sul
pavimento!... -
-Allora l’hai visto quand’era già caduto.
-Harry strizzò gli occhi, incredulo.
-Capisci, cade almeno due volte alla
settimana, ormai ci sono tutti abituati. Allora, Harry, promettimi che farai
tutto quello che ti ho detto. Anche perché se non lo fai, sarai tu quello che
sarà espulso, non io. -
Harry annuì.
Gray sembrava
ben disposta verso di lui: si era aspettato che l’avrebbe ucciso, squartato, o
qualcosa del genere. Harry sorrise. Era una delle poche volte in cui si sentiva
felice che Gray fosse lì, forse perché aveva accolto come una buona notizia il
non essere solo nella Stamberga Strillante.
-E adesso posso chieder… -
-Potter! Lo
sappiamo che sei lì dentro! Esci subito fuori!
-
Gray si voltò
per tutta la stanza, quasi con un salto, da quanto era stata colta alla
sprovvista. Harry invece non si stupì più di tanto, per una volta. Ormai i suoi
nervi erano troppo flaccidi per sobbalzare.
-E’ Piton! -disse. -Come diavolo… -
-La mia lunga esperienza in fughe e punizioni
mi suggerisce che tra poco Mocciosus butterà giù la porta. -disse tranquillamente Gray -Harry, nella stanza accanto, da quella parte…
c’è una cassapanca. Aprila, scendi le scale, e aspettami laggiù. Non muoverti
assolutamente. Ci vediamo tra un minuto. -
Gray si fiondò
giù per le scale. Harry era riluttante a seguire il consiglio, ma decise di non
restare oltre in quella casa. Aprì la cassapanca, scacciò i ragni e gli altri
insetti e si buttò giù per la vecchia scalinata di pietre. Nel frattempo, Gray
era già arrivata nel salotto. Si bloccò davanti al portone. Piton continuava ad
urlare, e si distinguevano anche le voci di Malfoy e della professoressa
Umbridge. Gray tese la braccia dinanzi a lei. le sue palpebre di restrinsero.
-Lontani da qui. -
Fuori sentì
delle grida. Piton e gli altri avevano appena visto uscire da sotto la porta
una nube rossastra, che si tramutò lentamente un gigantesco Ungaro Spinato. Ben
presto tutta Hogsmeade fu nel panico. Il drago sputava fuoco ovunque.
E poi gli
occhi di Gray tornarono normali. Si ritenne soddisfatta del proprio lavoro e,
dopo aver lanciato un incantesimo pronunciandolo molto a bassa voce, si
affrettò a raggiungere Harry.
Si trovavano
dentro uno stretto corridoio scavato nella terra, dal quale di tanto in tanto
era necessario usare degli incantesimi per bruciare le radici che bloccavano il
passaggio. Era composto quasi unicamente di scale, e tutto il pavimento era
rivestito di pietra, a sua volta coperta di muschio. Harry seguiva Gray
fiducioso, o quasi.
-Che cos’hai fatto? Ho sentito gridare! -
-Sono convinti che ci sia un Ungaro Spinato.
-ridacchiò Gray. Harry ricordò con ben
poca simpatia il giorno in cui aveva visto un Ungaro Spinato. -E se ne convinceranno ancora per una decina
di minuti. Nel frattempo noi dobbiamo correre. Sbucheremo dietro la gobba della
strega orba, al terzo piano, poi devieremo verso un passaggio ben nascosto, e
arriveremo al Dormitorio del Grifondoro, se non è crollato niente. -
-Ma non è segnato sulla Mappa del Malandrino!
-si lasciò scappare Harry.
-Che… cosa? -Gray sembrò quasi rallentare -Tu
hai la Mappa del Malandrino? -
-Non in questo momento. -rispose Harry a voce bassa. Ci capiva sempre
meno.
-Ah, bè, pazienza. La so a memoria. -
-Ma perché non è segnato questo percorso?
-
-Lo scoprii io al terzo anno. Molto comodo per
ritrovarsi tutti a fare baldoria una volta che si usciva dalla Stamberga
Strillante. Non lo aggiungemmo sulla cartina perché era già successo che fosse
quasi scoperta… ci sono tanti passaggi di Hogwarts che non sono segnati. Basta
ricordarseli. -
-Allora tu… -
Gray tossì
così forte che per poco non cadde -Dammi il Mantello. -
-Co… cos… perchè? -
-Mica lo mangio! Dopo la storia dell’Ungaro
Spinato, temo che Piton non sarà dei più soavi con te. Se ti trovasse il
Mantello dell’Invisibilità saresti proprio a posto. Te lo ridò alla prossima
lezione di Difesa, sempre che non ti espellano stasera. -
-Potevi aspettare prima di creare
quell’Ungaro! Sono nei guai!-
Gray si mise a
ridere come se la cosa la divertisse immensamente, e nel frattempo bruciò
un’altra grossa radice. Sembrava già stanca. Harry le consegnò il Mantello e
lei se lo mise in borsa.
-Scusa, Harry, se ti ho salvato le penne e ti
ho conferito un trenta per cento di possibilità di cavartela con Piton. Credevi
che l’avresti fatta franca a buon prezzo dopo che comunque sei entrato nella
Stamberga, quando non avresti dovuto farlo? -
Harry notò che
Gray rallentava sempre di più.
-Ah, che palle. -disse lei. Il corridoio si fece più basso:
poteva passarci a fatica Harry, ma Gray era più alta di lui di più di dieci
centimetri. -Stammi dietro, pivello.
-
Gray si
trasformò in un corvo, non prima di aver tossito ancora abbondantemente.
Cominciò a volare così velocemente che Harry faceva fatica a seguirla. Batté la
testa diverse volte. Alla fine si trovarono di fronte ad una botola, sul
soffitto. Harry l’aprì e ci passarono senza troppe difficoltà. Harry scoprì con
stupore di essere finito proprio di fronte alla porticina sulla gobba della
signora orba, nella parte interna, naturalmente. Non appena la chiusero, la
terra inghiottì la botola.
Gray tornò
umana. Frugò a lungo nel punto in cui la botola era scomparsa, fin quando non
trovò la maniglia e l’aprì di nuovo. -Si riparte. Muoviti Harry. -
-Ma perché torniamo indietro? Per
disorientarli? -
-Perché devi sempre parlare a vanvera? Come
facciamo a disorientarli se non sanno nemmeno se ci stanno seguendo o no?
Harry, questa strada può essere percorsa solo in un verso, ricordatelo bene, o
non sai più dove finisci. Forza. -
Gray non ebbe
bisogno di tornare corvo, perché fece cenno ad Harry di andare. Il ragazzo
scese dalla botola e, con sua grande sorpresa, era atterrato esattamente nella
sua stanza, picchiando una discreta botta al sedere. Gray lo fissava da sopra
la botola.
-Posso farti solo una domanda? -
-Se ci metti meno di cinque secondi direi di
sì. -disse Gray.
-Perché hai usato il passaggio della strega
orba e non quello sotto il Platano Picchiatore? -
-Pensavo che quello del Platano tu non lo
conoscessi. -Gray alzò un sopracciglio,
e prima che Harry potesse ribattere, si affrettò ad aggiungere: -Tu non sai dell’Ungaro, la casa forse è
stregata, tu non c’eri e non hai visto nessuno, intesi? -
-Intesi. -
-Ciao, Harry. -Gray sorrise e richiuse la botola.
Immediatamente essa sparì, diventando sempre più trasparente sul soffitto.
Harry si dette una rassettata prima di prendere un libro e recarsi in Sala
Comune, fingendo di studiare.
Harry non fu
stupito quando Piton, la Umbridge, Malfoy, Hermione e Ron, subito seguiti dalla
McGranitt, irruppero nella Sala Comunque, ma dovette comunque assumere un
cipiglio profondamente meravigliato. Chiuse il libro di scatto e drizzò la
testa, sforzandosi di tenere un comportamento credibile. Hermione gli si gettò
al collo in lacrime e Ron aveva l’aria terribilmente preoccupata. I volti di
Piton e della Umbridge erano così carichi d’ira che Harry credette che potessero
schiantare da un momento all’altro. La McGranitt aveva un’espressione pressoché
indefinibile, e Draco Malfoy sembrava piuttosto divertito, pregustando
l’imminente punizione - o forse espulsione - che sarebbe toccata ad Harry.
- Vieni
immediatamente nell’ufficio del Preside, Potter! - tuonò Piton.
- Perché farlo
passare dall’ufficio? - propose le Umbridge - Espelliamolo subito! -
- Ma che sta
succedendo? - balbettò Harry, compiacendosi del suo tono scandalizzato.
- Che sta
succedendo! - ripeté Piton in un ruggito. Harry non l’aveva mai visto così
fuori di sé, e cominciò a preoccuparsi - Dal preside, Potter! -
- Ma… ma io… -
- Dal
Preside! -
Silente
aspettava, calmo, sulla poltrona del suo ufficio, un ufficio che la Umbridge
sembrava contemplare con avidità. Hermione e Ron avevano insistito con la
McGranitt per poter venire anche loro, e questa non aveva potuto dire di no.
Non avevano potuto parlarsi durante il tragitto, ma almeno anche Malfoy era
rimasto zitto. Probabilmente era troppo felice al pensiero dell’espulsione di
Harry.
Silente non
guardò neanche per un attimo Harry, il suo sguardo passò subito su Piton. Harry
si sentì profondamente irritato.
- Che c’è,
Severus? -
- Ah, signor
Preside, questo… questo criminale… - si accalorò la Umbridge.
- Potter è
stato visto nelle vicinanze della Stamberga Strillante. -
- Oh. -
commentò Silente - Non mi risulta di averlo proibito. -
- Lei no… -
cinguettò la Umbridge, - ma io sì! Quando diventerò preside... -
Harry, Ron ed
Hermione le lanciarono uno sguardo talmente irritato che dovettero contenersi
per non lanciarle qualche incantesimo per farla star zitta.
- Per carità,
Dolores. Sto parlando con il professor Piton. - Scandì Silente.
- Potter ha
girato tutto intorno alla casa con fare sospetto e poi è passato da un buco e
vi è entrato! Subito dopo, il buco è sparito. -
Harry aprì
bocca per protestare, ma poi gli venne in mente ciò che gli aveva raccomandato
Gray. Adesso lo capiva. Era stata Gray a tappare quel buco, per evitare che
scappasse terrorizzato una volta viste le reliquie. Voleva parlargli prima che
fuggisse, voleva farsi promettere che non avrebbe spifferato niente a nessuno…
Da quanto tempo Gray lo stava seguendo, Harry non poteva saperlo. Così come non
capiva quando fosse iniziata l’illusione e quando la realtà.
- Abbiamo
gridato più volte a Potter di uscire, ma non abbiamo ottenuto risposta. -
Anche stavolta
Harry avrebbe voluto dire qualcosa. La casa stregata e i demoni di quella
famiglia lo avevano stordito così tanto che non sentiva le urla appena fuori
dalle pareti?
- Ad un
tratto, dopo l’ennesimo avvertimento, abbiamo sentito un rumore assordante.
Crediamo che si tratti di cristallo, vetro… tutta Hogsmeade ha sentito il
rimbombo. Potter deve aver pensato di essere divertente a distruggere un
lampadario antico. -
- Non è vero! -
stavolta Harry non poté contenersi - Cade più di una volta, tutte le settimane!
-
- Chi te l’ha
detto, Potter? -
- Me l’ha
detto… - Harry si paralizzò - …nessuno. Lo so e basta. -
- E come puoi
sapere che c’è un lampadario all’interno della Stamberga Strillante? -
- Tutti a
Hogsmeade sanno del lampadario che casca. Provi a chiederlo in giro, in
taverna. - azzardò Hermione, cercando di difendere Harry, nonostante non
capisse cosa stesse succedendo. Piton, lei e Harry erano le uniche voci che si
sentivano: tutti gli altri stavano zitti. La Umbridge continuava a volgere lo
sguardo famelico intorno all’ufficio, come fosse stato già suo.
- Stai zitta,
una volta tanto! - sibilò Piton in direzione di Hermione.
- Via,
Severus. Ha solo cercato di esprimere il suo parere. - disse Silente.
Piton dovette
compiere uno sforzo immane per reprimere la sua ira sconfinata. Nessuno lo
aveva mai visto più arrabbiato, perfino Malfoy ne fu un po’ intimorito.
- Non è
comunque finita qui, Preside. Potter ha risposto al richiamo soltanto molto più
tardi. Ha gettato due incantesimi: per prima cosa ha creato l’illusione di un
gigantesco esemplare di Ungaro Spinato, che ha gettato Hogsmeade nel panico per
almeno mezz’ora. E poi ha stregato la vecchia villa. Non era possibile staccare
una trave senza che questa ricrescesse! -
Harry sbiancò.
Era stata Gray a fare tutto quel lavoro? O forse la Stamberga era davvero
stregata, e aveva fatto tutto da sola? Lui non poteva saperlo, perché in quel
momento era in fondo alle scale della cassapanca tarlata. In ogni caso la sua
improvvisa perdita di colorito non sfuggì a Piton.
- Hem, hem -
Tutti, perfino
Piton, ebbero un fremito isterico, come tutte le volte che la Umbridge interrompeva
i discorsi con quel suo terribile “hem, hem”.
- Prego? -
- Silente,
ritengo che il ragazzo sia un pericoloso soggetto criminale… - Hermione e Ron
emisero gridolino di stizza, ma la McGranitt li fulminò con lo sguardo - una
canaglia, un malvagio delinquente, un gaglioffo della peggior specie… in
possesso di gravi Arti Oscure e Illusorie. Che il Ministero ha proibito,
naturalmente. -
- Non sia
sciocca, Dolores. - disse Silente. - Come potrebbe? -
- Certo che
non potrebbe!! - esplose la McGranitt - Noi tutti non abbiamo mai insegnato
niente di simile agli alunni della nostra scuola, abbiamo sempre controllato le
loro attitudini e abbiamo sempre preso i provvedimenti necessari! Non so chi
sia lei per venire ad infangare il nome di Hogwarts e del suo degno preside, ma
io le garantisco… - gli occhi della McGranitt si fecero gelidi - …che Potter ha
sempre fatto del bene a questa scuola, sempre del bene e nient’altro di più! -
Concluse,
gettandosi esausta su una sedia. Hermione la guardò con occhi pieni di
ammirazione, e Harry la ringraziò senza parlare, cercando poi di incrociare lo
sguardo di Silente. Ma il Preside non lo degnava della benché minima
attenzione, nonostante fosse lui il soggetto della questione.
- Silente,
avete detto che controllate le attitudini dei vostri alunni… -
-
Precisamente. -
- Che prendete
sempre tempestivi provvedimenti… -
- Esatto. -
- Dimmi,
allora. - La Umbridge gongolava dalla gioia di poterlo contraddire con
argomenti così evidenti - A suo tempo… controllaste le … attitudini della mia
attuale assistente? E i provvedimenti che prendeste? Li prendeste in tempo? -
- La tua
assistente, Dolores, fu una delle mie migliori studentesse e ti posso garantire
che se qualcosa mi avesse fatto sospettare che fosse pericolosa, l’avrei subito
fermata. -
- Ma è finita
ad Azkaban, vero? Ha ucciso, Silente! Quella ragazza è un’assassina! A tredici
anni frequentava i peggiori soggetti che questa scuola abbia mai avuto - e che
voi tutti continuate a ritenere i più brillanti dell’edificio…! Che fine hanno
fatto i vostri brillanti studenti? Uno è morto, uno era un lupo mannaro, ed è
già molto che lo abbiate licenziato, uno è il peggior criminale che abbia mai
conosciuto Azkaban… E Gray lo sapete. Ha aggredito Il Ministro Caramell circa
un mese fa e avrebbe fatto lo stesso con gli altri se il rispettabile Lucius
Malfoy non l’avesse fermata… -
- Non
è andata affatto così! -
esplose Harry. Non riusciva più a trattenersi.
- Silenzio,
piccolo viscido bugiardo! Tu c’eri? Eri presente? -
- Siamo qui
per parlare di Harry Potter, mi risulta. - disse Silente cogliendo tutti di
sorpresa.
- La
situazione è come gliel’ho descritta, Preside, e non posso permettere che un
simile soggetto si aggiri per questi corridoi… - iniziò Piton.
- Permetterà
che si aggiri nel suo studio, Severus. - concluse Silente alzandosi e voltando
a tutti le spalle - A lei la scelta della giusta punizione. -
Harry si era
sentito sollevato quando Ron e Hermione avevano avuto il permesso di
accompagnarlo nello studio di Silente, ma adesso che doveva raccontare loro
tutto, si sentiva un peso sullo stomaco. Ripensare a quella casa, e soprattutto
alle reliquie che giacevano nel liquido azzurro sotto ogni quadro, lo faceva
stare male. Aveva visto sempre una sola stanza della Stamberga Strillante, e si
pentì di aver sempre desiderato di visitarla per intero. Ron lo ascoltava con
gli occhi sgranati. Hermione era nauseata.
Lo fu ancor di
più quando seppe che la punizione di Harry era stata decisa: assistere Gazza
nella sua caccia contro le Merendine Marinare a naturalmente i loro creatori.
Quando Neville si era fatto scoprire durante le ore di Pozioni, Fred e George
avevano dovuto raccogliere tutta la loro pazienza per impedire di ucciderlo.
Adesso però Gazza pretendeva di sequestrare ogni singola Merendina Marinara
esistente nella scuola.
- E’
un’occasione, Harry - disse Hermione - Non possiamo permettere che quei due
continuino a distribuire tutte quelle sciocche merendine, mentre quest’anno
dovremmo studiare ancora di più -
- Hermione,
come puoi essere così bisbetica? - protestò Ron - Harry non li incastrerà,
vero? -
Harry annuì.
- Ron! Credevo
tu fossi un Prefetto ! -
- Certo, ma
Fred e George non fanno niente di male! -
- Ah no! - si
stizzì Hermione.
- Pensavo che
tu sapessi il regolamento a memoria - disse Ron - Non c’è niente contro di
loro. -
Harry, per una
volta, fu contento che Hermione e Ron litigassero: aveva meno occasioni di
pensare alla punizione che lo aspettava, ma non era quello il suo massimo
cruccio, dopotutto. Gray, anziché rispondere alle sue domande, gliene aveva
fatte venire in testa ancora di più.
*
Gray sedeva
sul suo letto, sfinita. Quella notte non era certo stata popolata dei suoi
sogni migliori. La finestra era chiusa, le spesse tende tirate, e sulla
scrivania non c’erano altro che fogli e libri in completo disordine. Una sorta
di calice fumante giaceva ai piedi del letto, e conteneva una bevanda rossa
fuoco. Gray sapeva che avrebbe dovuto berla da un pezzo, ma era fin troppo bollente
e non c’era verso di raffreddarla. Aveva la voce arrochita dal sonno e si
sentiva la gola secca. Non era scesa per la colazione, e poi sapeva bene che la
lezione era nel pomeriggio: aveva tutto il tempo per dare un’occhiata ai suoi
sogni. Abbassò la testa, come concentrandosi profondamente, premendosi le dita
sulle tempie.
Non si rese
conto di quanto tempo passava; doveva assolutamente evitare di pensarci. Frugò
nel suo cervello, fino ai suoi angoli più remoti, cercando disperatamente un
segno. Come sempre, ci sarebbe voluto molto tempo, e non era certa di
riuscirci. Doveva impedire che qualche altro pensiero le entrasse in testa, o
avrebbe affrontato il resto della giornata incapace di fare un discorso
sensato.
Ecco, le
sembrava di intravedere una macchia familiare… non era certa che si trattasse
di un sogno… forse era solo un ricordo…
Fuori, le voci
dei ragazzi che uscivano… andavano a Cura delle Creature Magiche…
Il ricordo
sembrò allagarsi, la macchia si tinse di rosso e inondò ogni altro suo pensiero.
Gray staccò le dita, già stanca. Doveva assolutamente impedirsi una qualunque
distrazione.
Tornò ad
immergersi nella sua mente… le sembrava di essere uno strano veicolo in corsa,
non faceva altro che girare, andare avanti, girare di nuovo, tornare indietro…
e intanto attorno a lei scorrevano immagini confuse, indistinte, macchie
liquide, voci lontane che parlavano tutte assieme…
Finalmente,
Gray lo vide. Era un incubo. Era uno di quegli incubi che, di tanto in tanto,
potevano rivelarle qualcosa sulla sua vita… Lo vide chiaramente. Nevicava…
tutto era deserto e desolato… poi la neve si tingeva di rosso… Gray era sicura
che si trattasse di un incubo, ed era altrettanto certa che fosse recente.
Bruciava come una ferita appena aperta, e portava paura e inquietudine così
fresche che non avrebbe potuto essere un vecchio sogno.
Gray staccò
nuovamente le mani, ma molto lentamente. Una specie di macchia gelatinosa
fluttuava a mezz’aria, seguendo il movimento delle sue braccia. Gray finalmente
tornò nel mondo reale, riaprendo gli occhi di colpo: la gelatina sferica cadde
precipitosamente, infrangendosi sul pavimento dove creò una pozzanghera. Al suo
interno si riflettevano immagini continue, ma molto più chiare di come erano
quando Gray le aveva scorte nella sua mente. Era senza dubbio l’incubo di
quella notte, che l’aveva fatta svegliare alle prime luci dell’alba, con un
senso di indecifrabile malessere.
Gray si
inginocchiò sul pavimento, per vedere che cosa si rifletteva nella pozza. Si
coprì la mano col lenzuolo per non scottarsi, ed afferrò finalmente il calice
bollente. Aveva un disgustoso sapore amarognolo, ma sapeva che doveva prenderlo
se voleva tirare avanti senza mancamenti per almeno quattro giorni. Non che si
fidasse molto di ciò che le veniva rifilato da Piton…
Non appena
riuscì a capire ciò che succedeva nell’incubo, Gray fece un sospiro quasi
deluso. Era lo stesso identico sogno, e ormai lo faceva così spesso che non la
inquietava più come prima. Sapeva che, arrivato ad un certo punto, si sarebbe
interrotto esattamente dove si interrompeva tutte le altre volte.
La neve
turbinava nella pozzanghera di gelatina.
I fiocchi di
neve, a guardarli bene, sembravano tantissime farfalle morte, che si lasciavano
trasportare nell’oscurità. Una bimba vagava nella notte. Sembrava esausta…
sembrava che avesse camminato così tanto… Si mise a correre. Si nascose in un
angolo, e scoppiò in lacrime. Gray era convinta di poterne sentire l’amaro.
Tutte le luci
si spensero simultaneamente, tutte le poche luci che erano rimase accese.
Sentì
centinaia di voci che gridarono, tutte nello stesso istante ma in modo
disordinato. Sembravano distorte, lontane, acute ma spente come l’aria lì
intorno. Gray, guardando nella pozza, sentiva mille occhi puntati su di sé. Una
fiamma brillò nel buio, fluttuava e si muoveva lentamente, gettando intorno a
sé un gemito sordo. Aveva l’aria di essere così calda…
La bambina si
alzò: doveva seguirla. Aveva freddo, e quel piccolo fuoco fluttuante sembrava
diventare sempre più grande e invitante…
C’era. Era lì
vicina. Ad un passo. E il fuoco si allontanava sempre di più… La bambina
continuava a piangere così forte che chiunque avrebbe potuto sentirla.
Piangeva, piangeva… eppure nessuno usciva, nessuno andava ad aiutarla, ormai
non poteva fare a meno di seguire la fiamma fluttuante…
E poi delle
ombre altissime, gigantesche, sorsero dalla neve, spazzando via tutto,
lasciando soltanto un’immensa zona vuota. La bambina sembrava non riuscire più
nemmeno a piangere. Il gelo serpeggiava nelle sue ossa.
Le ombre
diventavano sempre più alte. Una sola di esse sembrò staccarsi dalla massa. Era
un’alta figura incappucciata… si avvicinò alla bambina, facendola cadere, in
preda al terrore… Gray vide che l’ombra si toglieva il cappuccio, sentì la
bambina gridare… ma non riusciva a mettere a fuoco il volto.
- Gray! -
La ragazza
sobbalzò. Il calice di vetro le si ruppe fra le mani, riempiendole le dita di
piccoli tagli, e il poco che restava del liquido rosso si versò sulla
pozzanghera. Immediatamente la visione si ruppe. Il cervello di Gray era invaso
di voci che parlavano simultaneamente, e cominciò ad agitare le mani in modo
confuso, come se potesse respingerle. Di nuovo la voce che l’aveva chiamata
tuonò fuori dalla sua porta, dicendole che era ora di andare, e che lei non
poteva aspettare oltre. Gray la riconobbe: era la Umbridge. Non avrebbe mai
immaginato che fosse trascorso così tanto tempo.
- Evanesco -
disse, con voce flebile: il liquido rosso sparì. Gray non aveva voglia nemmeno
di riparare il calice. La pozzanghera si disfaceva in gocce che convergevano in
un unico punto, fino a formare di nuovo la sfera iridescente.
- Gray! - era
la quarta volta che la chiamava.
- Arrivo,
cazzo, sto arrivando… - sbuffò Gray infilandosi i pantaloni.
- La mia
pazienza ha un limite! -
La sfera
fluttuava nello stesso punto in cui si era composta. Sembrava quasi attendere
che Gray facesse il suo dovere.
- Oh, cavolo…
Perché deve incazzarsi solo con me? -
- Gray!!
Se hai voglia di scherzare…-
Lanciò un’ultima
occhiata alla sfera.
- Bhe… nessuno
entrerà dopo di me, dopotutto. -
Gray uscì
ancora mezza spettinata, per evitare di scatenare ancora di più le ire della
Umbridge. La sfera galleggiava ancora al suo posto.
Quando tornò
nella sua stanza, dopo ore estenuanti con la Umbridge, non ebbe certo la
migliore delle sorprese. Stanca com’era, non fece subito caso alla mancanza.
C’era odore di chiuso. La stanza restava sempre con le finestre chiuse, e
giaceva perennemente nella penombra. Gray fu costretta ad aprire la finestra,
ma lasciò le tende al loro posto. Fuori, dopo due giorni di continue nevicate e
brutto tempo, era tornato il sole, che faceva brillare la neve di un bianco
accecante. Gray non riusciva mai a guardare fuori, se non quando era notte.
Fu solo quando
tornò verso il letto che si rese conto che la sfera era sparita.
O meglio, era
di nuovo sparsa sul pavimento, e vi si riflettevano le stesse immagini, solo in
modo più confuso e impreciso. Continuarono a sfocarsi sempre più, fino a
sparire completamente. Gray cercò ogni possibile spiegazione logica, ma poi
dovette mettersi l’anima in pace: qualcun altro aveva letto il suo incubo. Non
c’era modo di capire chi fosse entrato nella sua stanza mentre era a lezione, e
questo servì solo ad accrescere la sua già immensa irritazione. Dopotutto le
avevano appena sbirciato nel cervello.
Ed era l’idea
che fosse stata colpa sua che la faceva sentire ancora più arrabbiata.
Avrebbe dovuto
neutralizzare la sfera appena dopo averla letta, era molto più importante
recuperare un ricordo che arrivare in tempo dalla Umbridge. Adesso però, non
c’era più niente da fare. Lo stesso sogno era stato letto per la seconda volta,
e non c’era più modo di poterlo recuperare.
Gray fece un
sospiro e decise di non dare peso alla questione. Non era il caso di penarsi.
Chiunque avesse visto il sogno forse si sarebbe incuriosito… e avrebbe voluto
riprovarci… ma stavolta lei non sarebbe stata così disattenta.
- E’… è
terribile! - gemette Hermione, in Sala Comunque - Avete appena fatto la cosa
più terribile che potesse venirvi in testa! E io vi ho anche accompagnato… -
- Non fare
tante storie, - disse Ron - Non abbiamo fatto fuori nessuno. -
- I sogni sono
roba grossa Ron, sono la cosa più segreta di una persona! Non si possono
guardare come fossero delle videocassette… -
- Video… cosa?
-
- Oh, lascia
perdere! -
Hermione tornò
ad immergersi tra le pagine del libro di Aritmanzia e Ron, con uno sbuffo, si
rimise al lavoro sul tema di Storia della Magia. Harry era l’unico che, nonostante
avesse ancora una montagna di compiti da fare, stava con le mani in mano,
fissando il fuoco del caminetto. Era come se si aspettasse che la testa di
Sirius apparisse lì, tra le fiamme, come un paio di giorni fa. Ma sapeva che
era impossibile: la Umbridge teneva tutto sotto controllo e non c’era modo di
comunicare con quel mezzo.
Le parole di
Hermione erano bastate a fargli crescere un divorante senso di colpa. Non si
era mai sentito così viscidamente colpevole quando visitava luoghi che non avrebbe
dovuto. Al massimo era sempre accompagnato dalla paura di essere scoperto, ma i
suoi fini gli erano sembra bastati per giustificarsi i mezzi. Adesso che il suo
unico fine era la curiosità, l’essersi intrufolato nella stanza di Gray
sembrava un atto totalmente insensato.
Ricordava bene
il caos che aveva visto nella stanza di Gray: la scrivania era sommersa di
libri ai quali mancavano molte pagine, ed era certo che a volte l’inchiostro si
fosse sciolto perché ci erano state versate delle lacrime. Poteva essere un
qualunque liquido trasparente, ma gli pareva poco adatto a tutto il resto delle
cose che aveva visto in quell’ufficio. Oltre ai libri, il tavolo di legno
lucido era sommerso da ritagli della Gazzetta del Profeta rabbiosamente
tagliuzzati. C’era anche un rasoio simile a quello che usava Zio Vernon per
farsi la barba, e aveva le lame piuttosto arrugginite. Per cosa lo usava?
C’era anche
una foto di cinque ragazzi a con l’uniforme di Hogwarts, e Harry era rimasto
per ore a guardarla: erano suo padre, Sirius, il professor Lupin e una ragazza
dai lunghi capelli castani e gli occhi rossi, che era sicuramente Gray. Tutti e
quattro lo salutavano con aria spensierata, e Harry aveva sentito una stretta
al cuore. Peter Minus, comunque, era stato rimosso a suon si sforbiciate.
Accanto alla
foto, a stipare i cassetti e parte del pavimento, c’erano fialette contenenti
ogni genere di pozione: su una scatola di provette tutte uguali c’era un
biglietto scritto a calligrafia molto minuta, che diceva: “da usarsi se le cose
si mettono male”. Su un’altra scatola c’era un altro biglietto identico, ma con
scritto “da usarsi se le cose si mettono veramente molto male”, ed infine, su
un’altra scatola ancora, composta di quattro provette più piccole, “pericolo di
morte”.
C’era un
grosso calderone con dentro un liquido bollente rosso sangue, che Hermione
aveva identificato come Pozione Rimpolpasangue. Da una parte erano accatastati
ingredienti di ogni genere per le Pozioni, insieme ad appunti con scritte delle
ricette.
“Insonnia”,
“Filtro Rallegrante Extra: depressione cronica”, “autolesionismo”, “freddo
polare”, “tosse”, “delirio / febbre / isterismo”, erano gli appunti
scribacchiati su ogni ricetta, che sembrava ricopiata a mano. Hermione osservò
che solo i guaritori del San Mungo usavano roba così potente, che si trattava
quasi di droghe e Harry era certo che Gray le lasciasse lì per ogni volta che
la malattia raggiungeva i suoi picchi. E per il resto, la camera era immersa in
un caos assolutamente normale: vestiti e calzini sparsi ovunque, e qua e là
qualche accessorio borchiato. A parte l’assortimento di coltelli che giaceva
sul comodino, e le bende insanguinate poco lontano da quest’ultimo, anche la
zona letto era nell’ordinario: libri molto vecchi sparsi ovunque, piume
d’aquila, boccette d’inchiostro.
E poi, quella
sfera di gelatina a galleggiare in aria: no, quella non era normale. Harry non
avrebbe dimenticato tanto facilmente quello che aveva visto quel giorno, di
questo ne era assolutamente certo.
- Tu che ne
pensi, Harry? - chiese Hermione di colpo - Hai avuto tu l’idea… -
- Che vuoi
dire, che siamo finiti nei guai per causa mia? -
- No, non
siamo finiti nei guai… però… insomma, Gray se ne accorgerà. Eravamo assenti a
lezione, saprà subito che siamo stati noi, è una coincidenza troppo strana.. -
- Hai detto tu
che le lezioni della Umbridge non servono a niente. - ribatté aspro.
- Però non ho
detto che dovevamo seminare in giro prove così evidenti! -
Hermione
cercava di difendersi, ma sembrava che le tremasse la voce, come se si
aspettasse un’esplosione da un momento all’altro.
- Senti, non
ci ha ancora detto niente, e il suo sogno è sparito da ore… - disse Ron - Non
credi che sarebbe già venuta a squartarci, o qualcosa del genere? -
- Non lo so…
potrebbe anche essere qui. -
Ron si drizzò
immediatamente in piedi, girando la testa a destra e a sinistra,
improvvisamente terrorizzato. Poi tornò a sedersi, scocciato, lanciando a
Hermione occhiate vendicative.
- Harry,
perché hai voluto vedere quell’incubo? A cosa ti serviva? -
- A niente,
accidenti! A niente! Perché sei così noiosa? Ti ho fatto saltare due ore con la
Umbridge e nessuno ci ha ancora chiesto nulla! Non ti basta come consolazione? -
- Dimmi almeno
se hai visto ciò che volevi vedere! - gridò Hermione, esasperata, e
contemporaneamente molto offesa.
- Sì! In parte
l’ho visto. Adesso sei soddisfatta? -
- No, sono
delusa. - replicò la ragazza - Credevo che tu fossi più maturo di così. -
- Ma chi ti
credi di essere, tu? Non mi sembra di averti mai chiamato “mamma”! - sbottò
Harry.
Hermione
sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. La tensione fra Harry, lei e Ron
cresceva ogni giorno di più e sembrava che, alla fine, l’impatto sarebbe stato
impossibile da evitare. Harry sentì un leggero fruscio di vestiti poco lontano
da lui, e pensò che fosse Ron. Ma si sbagliava.
- Non
ascoltare le donne, Potter. - disse una voce che lo fece trasalire - Correresti
il rischio di ascoltare qualcosa di intelligente. -
Harry, Ron ed
Hermione si voltarono, terrorizzati, verso il punto da cui la voce proveniva, e
trovarono Gray. Era in piedi, con le braccia incrociate e la schiena appoggiata
al cornicione del caminetto. In un attimo il sospetto di Harry si trasformò in
certezza: Gray li aveva ascoltati fin da quando avevano iniziato a parlare.
Però lui aveva controllato tutta la Sala Comune, e poi aveva evitato
accuratamente di alzare la voce, almeno fin quando non avevano iniziato a
litigare. Non aveva visto nessun corvo, nessun volatile dalle piume nere, e
tanto meno aveva visto Gray.
- Puoi
prestarmi la tua sciarpa? - sorrise Gray - Vorrei usarla per pulirci il
pavimento, visto che quando sono tornata ci ho trovato sopra una pozzanghera. -
- Gray… io…
noi… -
- Tutto
chiaro. - Lo interruppe Gray con una smorfia di scherno. - Non ho intenzione di
farti il predicozzo. Tieni solo il naso lontano dalla roba degli altri, non so
se mi spiego. La prossima volta potrebbero girarmi un po’ le palle, capisci. -
Le sue parole
bastarono a zittirli tutti, ma non per molto.
- Eri tu
quella bambina? - chiese Harry senza riflettere, e perfino Gray sembrò colta
alla sprovvista.
- Sì. -
rispose. Toccò ad Harry stupirsi: si era aspettato una risposta del tipo “non
sono fatti tuoi”, ma evidentemente Gray aveva capito, da un pezzo, che risposte
del genere equivalevano a un “sì”.
- E quel posto
era Diagon Alley? - aggiunse Hermione.
- Penso di sì.
-
- E poi è
arrivato un Dissennatore… -
- Se avete
finito con l’interrogazione, io me ne andrei. -
Con questa
frase Gray concluse la conversazione e, gettatosi uno sguardo intorno, si avviò
verso l’uscito della Sala Comune. Harry, Ron ed Hermione continuarono a non
rivolgersi la parola e decisero di andarsene a letto. Erano bastate poche frasi
per convincersi che, negli affari di Gray, era meglio non ficcarci il naso mai
più.
Finalmente si
era liberata di quei marmocchi. Gray aveva già rimandato di troppo il lavoro
che necessitava di essere portato a termine già due o tre giorni prima. E così
sarebbe avvenuto senz’altro, se solo Harry non si fosse messo in mezzo, alla
Stamberga Strillante. Gray non poteva fare a meno di sorridere, tuttavia,
quando pensava allo scherzetto che aveva da poco concluso. Adesso era certa
che, la prossima volta, nessuno avrebbe potuto seguirla, con o senza la Mappa
del Malandrino.
Stavolta,
comunque, avrebbe scelto la via più semplice. Le bastava uscire dalla scuola
senza che nessuno la vedesse, trasformarsi in corvo, e poi raggiungere la
finestra rotta dell’ultimo piano, a Hogsmeade. Ma le illusioni non avrebbero
funzionato. Non poteva rischiare di sforzare la mente, perché, non appena lo
avesse fatto, il Marchio Nero si sarebbe di nuovo impossessato di lei.
Lo sentiva.
Voldemort
aveva bisogno di lei per fare qualcosa…
Per un compito
importante, lì a Hogwarts…
Gray scosse la
testa violentemente e, visto che era nascosta dietro un’armatura, cercò di
reprimere la tosse che le raschiava la gola. Cominciava anche a sentire un
familiare sapore amaro in bocca… Un’ombra tremula si allungò sul pavimento: qualcuno
girava l’angolo. Gray si ritrasse.
Ecco, era la
McGranitt… stava facendo il suo giro nel corridoio per controllare che nessuno
facesse il furbo… niente era cambiato rispetto ad anni prima, e mai come in
quel momento Gray se n’era resa conto.
**Civuolecosì poco…
Cosìpoco…**
Gray si
ritrasse ancora, per lasciar passare la McGranitt, resistendo alla tentazione
di addormentarla. Camminava troppo lentamente… ci sarebbe voluto un secolo. E
lei non poteva aspettare. Doveva andare immediatamente alla Stamberga
Strillante.
**Pochisecondi,
e nessun rumore…**
Muoviti,
muoviti… Gray non aveva tempo. Sentiva la pelle tirare nel punto in cui c’era
il Marchio Nero, e di lì a pochi istanti quella sensazione di trasformò in un
bruciore infernale… Gray strinse il coltello che aveva nella borsa. Doveva
farlo ora.
**Nessuno
saprà che l’hai
uccisa…**
La McGranitt
era vicinissima all’armatura.
Gray percepiva
il richiamo di un istinto irrefrenabile. Il cuore le batteva al triplo della
sua normale velocità… Sembrava che la bacchetta stesse muovendosi da sola: ci
voleva così poco...
**Non
sentiràneanche
il dolore. **
Gray voleva
schiaffeggiarsi, e la tosse che reprimeva in gola stava per uscire fuori… ecco,
la McGranitt era passata… ancora pochi passi e avrebbe voltato l’angolo, a
destra, e Gray avrebbe avuto il campo totalmente libero per l’uscita.
**E’ latua sola
occasione…**
La McGranitt
stava voltandosi. Stava per girare l’angolo.
Presto Gray
avrebbe potuto filarsela.
**Uccidila. **
E la McGranitt
sparì dietro la statua che chiudeva la parete.
Gray non era
ancora libera di fare tutto il rumore che voleva, ma corse fuori, ignorando la
voce. Quando finalmente fu nascosta da un immenso cespuglio, Gray fu avvolta da
una nuvola nera e rossastra, e si trasformò in corvo. Voldemort non poteva
raggiungerla, perché non era un serpente, non poteva parlare al corvo come
parlava all’umana.
Gray tuttavia
non poteva permettersi di rilassarsi. Soltanto la trasformazione l’aveva
sfinita. Non sarebbe stata in grado di volare a lungo, ma doveva muoversi,
mancava pochissimo per Hogsmeade. Ormai era certa di potercela fare, nonostante
i suoi errori di calcolo.
Non avrebbe
dovuto ritardare così tanto, le sarebbe convenuto assentarsi una volta da
lezione, a costo di destare i sospetti della Umbridge, piuttosto che trovarsi
ora a rischio… Gray era un pericolo, lo sapeva bene. Se avesse ceduto,
Voldemort avrebbe potuto impartirle tutti gli ordini che voleva. Era per questo
che il Marchio Nero era comparso in quel posto insolito: Voldemort voleva che
essere più vicino possibile al cervello.
Finalmente
Gray la vide: era senza dubbio la Stamberga Strillante. Ormai la sua
trasformazione stava per esaurirsi, Gray non era in grado di preservarla tanto
a lungo. Cercava di volare più in basso possibile, quasi rasoterra, e quando
non poteva sorvolava i morbidi cespugli fioriti che adornavano i viali.
Gray notò un
minuscolo buco al pianoterra, piuttosto in alto. Non resisteva più…
Non aveva
tempo di salire fino alla finestra del terzo piano…
Raccolse tutte
le sue forze, si lanciò verso il buco nella parete e si strinse addosso le ali,
cercando di passarci meglio possibile. Il buco era piuttosto rialzato rispetto
al pavimento. Gray non era ancora passata completamente attraverso la
fenditura, quando non fu più in grado di restare Animagus.
Tornò umana
all’improvviso, e il suo brusco ingrandirsi stroncò la breccia, ferendole
leggermente le gambe. Gray finì a terra, rotolando su un fianco, e ci volle
qualche secondo prima che riuscisse ad alzarsi, sepolta sotto una massa di
polvere e frammenti di legno.
**Speridipotermi
fermare? **
Gray ignorò
ancora una volta la voce di Lord Voldemort, che adesso era divisa in due, tre, dieci
parti, sembrava che più di una voce le sussurrasse ordini nel cervello. La
ragazza, non appena si fu alzata, corse su per le scale, divorò in un attimo la
rampa. Doveva salire più in alto possibile, dove nessuno, neanche per sbaglio,
avrebbe potuto vederla.
**E’ inutile.
Io ritornerò sempre… **
- Lo so,
maledetto! Lo so !! -
Gray non perse
tempo. Ne aveva perso anche troppo. Trasse il coltello dalla borsa, serrò i
denti, e lo piantò senza alcuna esitazione esattamente al centro del Marchio
Nero. Per fortuna che non si trovava dalla parte del cuore. Non riuscì a non
gridare. Ma le voci dentro la sua testa non si erano ancora estinte. Gray si
riempì di tagli, tutti nel solito punto, e un fiume di sangue si riversava sul
pavimento.
Sembrava quasi
che Gray volesse strapparsi la pelle.
Non era in
grado di capire se fosse servito a qualcosa, perché il Marchio Nero ormai era
totalmente nascosto dal sangue. Gray non riuscì più a reggersi in piedi. La
debolezza si impossessò di lei, e la fece cadere mollemente sul pavimento.
Gray sentiva
di avere le palpebre molto pesanti, e allo specchio, poggiato alla parte
opposta, riusciva a vedere quanto la sua pelle fosse pallida e sciupata, molto
più di prima. Sapeva che non sarebbe morta dissanguata… le ferite guarivano
sempre… anche se non sapeva perché.
Il sonno, la
stanchezza, la mancanza di liquido in corpo ebbero la meglio.
Gray cadde
addormentata, piena di confusione nella testa, ma con un bizzarro e potente
senso di sollievo.
I primi raggi dell’aurora
lambivano gentilmente la sua pelle, ma bastavano a farle bruciare le palpebre.
Tentò di girarsi per sfuggire alla luce solare, ma alla fine fu costretta a
svegliarsi completamente. Il flusso del sangue si era fermato molto tempo
prima: le ferite stavano già trasformandosi in cicatrici, ancora cicatrici da
aggiungere alle altre, come succedeva da più di quindici anni. Per terra
c’erano macchie di sangue secco: macchie sui vestiti, sulla pelle e fra i
capelli. Gray non riusciva ad alzarsi. Nonostante la perdita di sangue si fosse
fermata, non era ancora abbastanza per restituirle le
forze.
Se non altro il Marchio
Nero sarebbe rimasto al suo posto per un bel po’: ferire il Marchio era un po’
come ferire Voldemort, anche se non poteva nuocergli più di tanto.
Era un atto di ribellione nei suoi confronti, una resistenza che lui non si
aspettava, come la cicatrice di Harry.
Per un mese, forse meno,
forse più, Gray non avrebbe avuto quasi nulla di cui preoccuparsi, se non la
malattia con la quale divideva la sua vita dalla nascita.
Passò quasi un
ora prima che Gray decidesse che era ora di tornare a scuola. Non sapeva
che ore erano e non voleva saperlo. Voleva soltanto quella roba rossa e
amarognola che aveva bevuto così di malavoglia il giorno
prima, ma che almeno l’aveva fatta sentire meglio.
Come previsto, Madama Chips le
proibì un qualsiasi sforzo, anche se minimo, per almeno due giorni. Le era
bastato vederla più bianca del solito perché si allarmasse,
e se Gray non fosse riuscita a convincerla forse avrebbe trascorso mesi e mesi
in infermeria. Si fece strappare il permesso di poter almeno andare in giro per
Hogwarts e partecipare alle cene in Sala Grande. Madama Chips non fece
obiezioni, sapendo che Gray si presentava al tavolo degli insegnanti solo per
un pasto al giorno, a volte neanche quello. Tutte le
ragazze continuavano a dire che ci fosse sotto qualcosa,
e ormai anche gli studenti se n’erano convinti: Gray non era normale. Le voci
che la Umbridge diffondeva su di lei mentre non c’era,
poi, farcivano ancora di più l’idea generale.
Così, il giorno che Gray lasciò la
Stamberga Strillante con un peso un meno sulla coscienza, dovette
aspettarsi qualche altra sorpresa. C’era grande agitazione
per i corridoi, tutti parlottavano in modo concitato, e, come Gray si era
aspettata dalle battute di Draco Malfoy, Harry e i Weasley erano spariti.
Inutile chiedere informazioni ai
professori, perfino la Umbridge ne era all’oscuro: e
la cosa sembrava mandarla veramente su tutte le furie, tanto che tempestò la
settimana di innumerevoli Editti Scolastici. Da quando era stata nominata
Inquisitore Supremo - e Gray “Assistente Vincolata Ufficiale” - sembrava ancora
più in forma: aveva dovuto crearsi un orario delle punizioni, da quanto i suoi
pomeriggi erano affollati di “giovani delinquenti in penitenza”, e sembrava che
prima o poi il Ministero avrebbe, per suo tramite,
preso il controllo di tutta la scuola. Gray non osò immaginare il trattamento
che avrebbero ricevuto Harry e gli altri quando
fossero tornati, visto che la Umbridge doveva proprio sfogarsi.
Gray si sarebbe volentieri
approfittata dell’ordine di Madama Chips di non fare sforzi per andare a
chiedere spiegazioni a Silente, ma la Umbridge
sembrava fregarsene del suggerimento, almeno quanto lei: infatti la trascinò a
lezione latrando e abbaiando come un mastino, e Gray sfoderò una cera così
pessima e un atteggiamento così floscio da farle venire i sensi di colpa.
Dopo un’estenuante giornata,
finalmente Gray ebbe il tempo per andare da Silente. Non si curò nemmeno della
parola d’ordine, semplicemente ingannò il Gargoyle facendogli credere che fosse
la McGranitt in piena e fatale emergenza.
La statua parve molto
impressionata e si spostò da sola, senza bisogno della parola d’ordine (che
d’altra parte Gray non conosceva). Nello studio, i quadri dei vecchi presidi
discutevano animatamente. Silente sembrava l’unico non preoccupato, anche se
Gray colse delle ombre nei suoi occhi, dietro le lenti a mezzaluna.
- Che mi
sono persa? - chiese semplicemente.
Silente non sembrò meravigliarsi,
ma alzò lo sguardo con un’espressione piacevolmente sorpresa, come se non si
fosse reso conto dell’entrata di Gray.
- Niente di buono, temo - rispose
Silente - E’ una vera fortuna che tu sia qui. -
- Perché?
-
- La professoressa Umbridge sembra
interdetta a causa della scomparsa di alcuni studenti.
-
- Idem. -
- Ebbene,
sono… scomparsi ieri notte, e adesso
si trovano nel Quartier Generale. -
- Se la
sono filata, eh? -
- Suppongo che potranno
raccontatelo loro stessi, perché voglio che tu ti rechi là, e ti assuma la loro
completa responsabilità, in quanto Assistente
Vincolata Ufficiale. Al tuo ritorno riferirai all’Inquisitore Supremo che i
ragazzi erano sotto la tua tutela, e che i tuoi dovere
comprendono proprio la vigilanza sugli studenti. Ma non è specificato entro
quali confini. -
Gray sorrise - Quanto ci hai messo
a prepararti questo piano geniale? -, disse in tono ironico.
- Il tempo necessario, - rispose
Silente: in normali circostanze avrebbe risposto al sarcasmo con altro bonario
sarcasmo, ma in quel momento non fu così. Evidentemente c’era qualcosa che lo
preoccupava, ma Gray non aveva intenzione di saperlo.
- E come
faccio ad andare fin là? Non posso smaterializzarmi e non ho nessuna
intenzione di farmela tutta a piedi! - Silente, finalmente sorrise,
probabilmente guardando oltre lo strato di indolenza
che Gray era solita costruire attorno a sé.
- Prenderai il Nottetempo fra
sette ore esatte, a Hogsmeade. E il resto lo sai. -
- Posso sapere cos’è successo di
preciso, visto che devo anche fare la babysitter? -
- Arthur Weasley è stato aggredito
al Ministero della Magia, proprio ieri notte. -
- Ieri notte? E
come avete fatto a saperlo nello stesso momento? - chiese Gray sospettosa.
- Suppongo che Harry saprà
spiegartelo molto meglio di quanto non possa farlo io stesso. E mi raccomando, non dire niente a nessuno. -
- Sì, boss… - commentò Gray,
acida, prima di uscire dall’ufficio richiudendosi la porta alle spalle.
*
Come al
solito il viaggio sul Nottetempo fu qualcosa di molto simile ad una tortura:
Gray però amava viaggiare su quell’autobus, in un certo senso lo trovava
divertente. Aveva dei ricordi collegati anche quell’autobus,
forse quella bambina era arrivata a Diagon Alley proprio col Nottetempo…
Gray guardò un attimo fuori dal finestrino ma cambiò immediatamente idea:
l’autobus andava così veloce che faceva venire il mal di pancia. L’autista
sembrava essersi dimenticato di trovarsi su un veicolo con due passeggeri a
bordo - Gray e, naturalmente, Madama Palude - e correva come un invasato. Gray
rischiò di picchiare una colossale botta nei denti quando il Nottetempo si
fermò per far scendere Madama Palude.
- A Londra, Gray? Grimmauld Place,
eh? -
- Mmh. - mugolò Gray annuendo.
Aveva veramente sonno e si distese sul letto, ben sapendo che sarebbe stato
molto difficile mantenere quella posizione, con i continui scossoni del
veicolo.
- Cioccolata, Gray? Latte? Tè? -
- Birra -
- Ehi, non vogliamo vomiticci
sulla tappezzeria, no no. -
- Portamela e basta. Sto
benissimo. -
Stan Picchetto tornò poco dopo con
un boccale di birra e, per precauzione, un sacchetto di carta.
- Di’, ce l’avevano
questa roba ad Azkaban, eh? -
- Sì, e non era così sgassata - rispose
Gray, tentando di liquidarlo.
- Dicono che sia un gran brutto
posto, eh? Com’è? -
- Grazioso -
- Cinque anni… orpo! Sei la prima
che è scappata, dico bene? C’hai avuto fortuna, però… -
- Se fossi
una persona così fortunata non sarei finita qua sopra. -, ribatté Gray,
prendendo quella frase come un’offesa al suo piano perfetto di cinque o sei anni prima.
Stan tentò per altri dieci minuti
di scucire qualche eroico racconto dalla bocca di Gray, ma ottenne soltanto
risposte strascicate e aspre. Gray non aveva proprio voglia di ridere, e tanto
meno di farlo raccontando dei cinque anni ad Azkaban. Aveva solo voglia di
sprofondare nel cuscino e mettersi a dormire, ma con le frenate del Nottetempo
l’impresa era impossibile. Probabilmente, se avesse avuto a disposizione un
letto immobile, si sarebbe assopita all’istante.
Ma
il viaggio non durò ancora a lungo: ancora un paio di frenate brusche e,
finalmente, il Nottetempo raggiunse la sua meta.
- Forza, avanzo di galera! -
strillò allegramente Stan - E’ ora di scaricarti! -
Gray si alzò, così felice di
scendere dal Nottetempo e di tornare al Quartier Generale, che sembrava essersi
svegliata di colpo. Ernie e Stan sembrarono piuttosto offesi
per questo improvviso rinvigorimento.
- Bhe? “Grazie del viaggio”?
“Grazie della birra”? “Grazie di tutto”?
- suggerì Stan.
- Sì… ah… sì, bene, grazie. -
disse Gray, ricordando improvvisamente dell’esistenza dei due. Poi voltò
l’angolo e scomparve dietro una siepe.
Dire che la stanza era un mortorio
era una banale restrizione. Gray era arrivata da un’ora e aveva ricevuto un
saluto umano soltanto da Sirius: gli altri erano talmente persi nei loro
pensieri che si accorsero di Gray solo molti minuti più tardi.
- Ragazzi, forza! - disse Gray
sorridendo - Cosa volete che gli succeda? L’ha morso
un serpente, non un drago! Al San Mungo guariscono di
tutto. - Ma nessuno sembrava interessato a farsi
confortare. - Nessuno è mai morto laggiù. Insomma, a volte tornano mezzi
paralizzati o con qualche pezzo in meno, però… -
- Gray - sospirò Sirius.
- Bhe? -. Solo dopo qualche minuto
Gray si rese conto che forse non aveva detto la frase più appropriata. Si
guardò intorno: sembrava la sala d’aspetto di un ospedale Babbano durante un
intervento. Tutti riuniti intorno a un tavolo, tutti
con lo sguardo angosciato fisso nel vuoto, tutti muti come tombe. Solo qualche
enorme sospiro di tanto in tanto. Harry, Sirius e Gray erano gli unici a
guardarsi, di tanto in tanto, per scambiarsi occhiate nervose. Non si avevano
ancora notizie della signora Weasley, andata immediatamente al San Mungo per vedere suo marito. Gray avrebbe voluto fare delle
domande ad Harry ma preferì risparmiarsele. Non le
sembrava esattamente il clima adatto per parlare ancora un po’ del signor
Weasley.
Nemmeno Kreacher si faceva
sentire. Sembrava come scomparso. Tutto nella casa taceva, i mobili e le assi
non scricchiolavano, il vento non frusciava fuori dalle
finestre e, soprattutto, non c’erano quadri a sbraitare tutto il tempo. Gray
aveva quasi voglia di ficcarsi di nuovo nel Nottetempo, bastava allontanarsi il
più possibile da quell’atmosfera ossessiva.
E
poi aveva così sonno…
- Ma
perché no? Perché non posso? -
- Oh, tesoro, cerca di capire.
Puoi vivere una vita normalissima frequentando le scuole babbane. Se tu andassi
là ti faresti un sacco di idee sbagliate… e poi anche
tu ti fisseresti con questa storia del sangue puro… lo sai che sono tutte
stupidaggini… -
Gray aveva l’impressione di non
aver mai sentito un’ingiustizia come quella.
- Tu ci sei andato a Hogwarts! Ci
sei andato!! Però ti sei sposato una… Babbana! -
- Non parlare con quel tono! Non
ci vai e basta! -
- E’ tutta colpa tua! - urlò Gray
in faccia a sua madre - Perché sei una Babbana!! Mi hai fatto diventare una…
una mezzosangue !
E’ colpa tua! -
- Piccola, ti prego… noi siamo la
tua famiglia… cosa conta il sangue rispetto a… -
- Rispetto a cosa!? Ci stanno inseguendo!! Ci uccideranno
tutti! Ed è solo colpa vostra! Colpa tua! Se morirò
è perché mi hai fatto diventare una Mezzosangue!! -
Un colpo.
Lo schiaffo di suo padre sulla
pelle bruciava come una fiamma accesa.
- Vi detesto! Siete dei bastardi! -
- Quelle parole non te le ho
insegnate io, ragazzina! - ringhiò Vincent.
- Vai all’Inferno! Ci
ammazzeranno! -
- Forse, piccola… forse… - Theresa
era in lacrime… era disperata… - Ma io… io ti giuro che… -
- Io ti giuro che vado a Hogwarts!
Imparerò le Arti Oscure e sarò io ad uccidervi! -
- Le Arti Oscure non le imparerai mai a scuola… -
- Le imparerò da sola! Troverò
qualcuno che me le insegni! Vi odio! Vi
odio!! -
Sangue. I suoi genitori gridarono.
Gray sentiva la vergogna bruciarle
la pelle… ma nessun senso di colpa… nessuno…
Assassina!
- …vi odio… -
Gray si era addormentata sul
tavolo, e quando si svegliò era così sconvolta che ci
mise un po’ per rendersene conto. La stanza si era svuotata, e la pallida luce
della luna entrava a mala pena dalla finestra,
filtrando dalle tende consunte. Tutto era scuro: non c’era neanche una luce
accesa. Gray scoprì di avere una vecchia coperta sulle spalle.
Non si sentiva bene. Avrebbe dovuto prendere una medicina, una qualunque, aveva
fatto troppi sforzi. Si sentiva come se avesse avuto la febbre. La pelle
avvampava, come se decine di fiamme vi camminassero sopra, ma dentro aveva un
gran freddo.
Le tremavano le gambe, come se
facessero fatica a tenersi ferme in quella posizione. Non osava muoversi,
perché sapeva che, al minimo spostamento, avrebbe avuto un freddo terribile.
Dopo aver dormito per così tanto tempo - o almeno, lei credeva che fosse così -
si era come pietrificata e il caldo che le faceva la coperta sembrava averla
bloccata.
Gray aveva le palpebre sempre più
pesanti.
- Con chi ce l’avevi,
Gray? -
- Non lo so. - rispose.
- Con i tuoi, forse? -, disse
Sirius.
- Come fai a saperlo? -
- Parlavi nel sonno. Ma gli altri non hanno sentito. Se ne sono andati un’ora fa.
-
- Al San Mungo? -
- Sì. -
Gray sospirò.
- Silente mi aveva detto che avevo
la loro responsabilità e io non faccio che addormentarmi in giro… -
- Ti dispiace essere qui? -
Gray alzò la testa, con un
movimento quasi involontario, e scoprì che i loro corpi erano vicinissimi.
Riusciva a sentirlo respirare, quasi a sentire il suo cuore che batteva. Gray
si lasciò accarezzare, assorta, incapace di muoversi.
- No, - rispose, sorridendo.
Sirius la strinse per le braccia,
e Gray sentì le sue labbra, la sua lingua, le sembrò che le
si stesse sciogliendo il cervello. Non si mosse più di tanto, rimase
quasi immobile, mentre la stanza affogava sempre di più nell’oscurità. Non
riusciva quasi a distinguere niente, la sua vista si appannava.
Toccherà
anche a lui…
prima
o poi…
Un velo bollente le calò sugli
occhi. Le lacrime scendevano sulle guance, lasciando sul loro percorso una
fastidiosa sensazione di umido appiccicoso. Scorrevano
sul collo, e i vestiti le assorbivano. Gray non diceva niente, né aveva
intenzione di dirlo.
Mentre
Sirius le accarezzava le guance, sentiva uno strano calore.
Le lacrime scintillavano sul suo
viso, imprigionando la luce della luna piena.
Sirius non le chiese che le
prendeva, non le disse niente, come se avesse avuto paura di distruggere il
silenzio. Il respiro di Gray si troncava spesso in un singhiozzo. Neanche lei
riusciva a capirsi. Affondò il viso nei vestiti di Sirius, strofinandovi la
pelle contro, stringendo i pungi, come se avesse
voluto impedirsi di piangere.
Ma
non poteva farne a meno.
Sentiva un qualcosa di gigantesco
crescere dentro di lei, crescere e gonfiarsi, così tanto da squartarle la
pelle. Ricordava una scena simile, ne ricordava tante altri,
le sembrava che ogni giorno della sua vita si assomigliasse in maniera
terribile.
Anche i ricordi più recenti si
affollavano nella stessa parte della sua testa, le forme cambiavano, si ingigantivano, le voci che aveva sentito erano diverse.
Non riusciva a ricordare neanche che cosa avesse fatto
cinque secondi prima.
- Che
cosa ti sta succedendo, Gray? -
Sapeva che non si riferiva a
quella notte. Si riferiva a tutta la sua vita. A tutto quello
che era andato in pezzi così tanti anni prima. Cosa ci
era voluto, in fin dei conti? Era bastato una specie di tatuaggio, un
segno sulla pelle, per distruggere tutto quello che era riuscita
a crearsi. O forse… forse era così fin da quando era
nata. Forse era destinata, fin dal principio, a non poter condurre una vita
come tutti gli altri.
- Non lo so… - ansimò Gray -
Sirius… quel… quella tenda… -
Sirius sembrò lanciare uno sguardo
alle tende della stanza.
- Quale tenda? -
- Quella… nera… -
- Non ci sono tende nere in questa
casa, Gray. - La voce di Sirius avrebbe dovuto rassicurarla, ma la fece soltanto cadere nella più totale confusione. Com’era
possibile che non capisse?
- No… Non qui! Non è… -
Sirius la baciò di nuovo e la
strinse a sé.
- Credi… credi che… che mi
piaccia? - strillò Gray.
- Che
cosa? -
- Ve… vedere tutto questo… Non mi piace… Non ce la faccio più. -
Neanche Gray capiva di cosa stesse parlando.
- Gray. - disse Sirius,
sollevandole il viso, come faceva ogni volta che voleva guardarla negli occhi. -
Sconfiggeranno Voldemort e non ci sarà più nessuno a tormentarti. E allora tutto tornerà come prima. Te lo assicuro. -
Gray stavolta non rispose. Era
ormai certa di avere la febbre; aveva voglia solo di svenire. Di perdere
conoscenza. Non le importava cosa sarebbe successo.
Milioni di prospettive sul futuro
si aggiravano nella sua testa. Poteva darsi che Voldemort non venisse mai sconfitto, poteva darsi che il suo regno sarebbe
durato ancora per molti anni, così come la tortura che Gray doveva auto
infliggersi ogni volta che il Marchio cercava di sopraffarla.
Ma
c’era anche un’altra ipotesi. Gray sembrava voler scartare tutte le altre,
perché erano troppo atroci al confronto.
Poteva darsi che prima o poi tutto sarebbe finito.
Non era possibile che le cose
tornassero esattamente com’erano prima, ma potevano migliorare. Il Marchio Nero
non sarebbe scomparso, ma sarebbe stato perfettamente inutile. Nessuno
l’avrebbe più guardata come un’assassina, come un pericolo, come una malata di
mente, qualcosa da eliminare. Finalmente tutti avrebbero potuto iniziare una
vita veramente tranquilla, e Sirius non sarebbe stato più latitante, tutti
avrebbero dovuto ammettere la sua innocenza… Avrebbero lasciato quella casa squallida e sarebbero andati a vivere da qualche parte, come
persone finalmente normali…
Gray era sicura che prima o poi sarebbe successo.
Aveva una certezza bruciante
dentro di sé. Un piccolo incendio che sembrava averle fatto
riprendere la voglia di vivere.
Ma
c’era anche la pioggia. Una violenta tempesta di dubbi, di incertezze,
in piena agitazione, contro la quale la piccola fiamma lottava, senza mai
arrendersi, ma era diventata così debole… Era un brutto, un terribile
presentimento.
Il signor Weasley ormai sembrava
essersi ripreso. Sembrava ben lontano da lasciare il San Mungo
in quella settimana, ma se non altro aveva recuperato le forze. Harry, da
quando era tornato dal San Mungo, era sempre più
schivo. Si rifiutava di parlare con chiunque ed evitava accuratamente di
incontrare esseri umani.
Intanto, le vacanze natalizie
erano iniziate. A dire il vero mancava ancora un giorno alla partenza della
maggior parte degli studenti da Hogwarts, ma tutti si sentivano già in vacanza
e non avevano nessuna forza di volontà nel seguire le lezioni. Come sempre
erano stati torchiati da pile e pile di compiti, e l’aspetto era
alquanto preoccupante: l’unica a non essere minimamente toccata da tutto questo
era Hermione.
Aveva in programma di andare a
sciare coi suoi genitori, ma sembrava ben felice di
avere così tanti compiti da fare.
- Almeno ci teniamo in
allenamento. Sono troppo preoccupata per gli esami. Avrei avuto proprio paura
di oziare per un mese intero! -
Ron e Harry erano rimasti
sbigottiti da quest’affermazione.
Loro, invece, avrebbero trascorso
le vacanze a Grimmauld Place, insieme a tutti i Weasley e i membri dell’Ordine,
e Sirius sembrava particolarmente allegro per questo improvviso affluire di ospiti.
Gray fu costretta a tornare a
Hogwarts, ma se la filò alla prima occasione, ben sapendo che, al suo ritorno, la Umbridge l’avrebbe decisamente fatta nuova. Non che la cosa la preoccupasse: sapeva che non andava mai più in
là della voce grossa, come una vecchia zia, a causa del timore naturale che
nutriva nei confronti della ragazza. E comunque
l’idea di tornare a Hogwarts, in confronto a quella di restare a Grimmauld
Place, era decisamente la peggiore.
Gray non disse a nessuno del suo
sogno, nemmeno a Sirius. O almeno, non rivelò come era
finito, anche perché non aveva capito molto nemmeno lei.
Sentiva come una specie di
serpente sotto la pelle, che puntava dritto al cuore.
Era stata lei. Non sapeva bene a
far cosa… ma era stata lei.
- Cioè… devi starci sempre alle
costole come un segugio? - ripeté Fred, scandendo le parole, una volta che Gray
gli ebbe raccontato quello che le aveva detto Silente. Si erano riuniti tutti
per la cena, il caminetto era acceso e faceva entrare, se non altro, un po’ di
calore; fuori imperversava una terribile tormenta, e il cielo era così
rannuvolato che non si riusciva nemmeno a vederlo.
- Esattamente. Vai a ringraziare
Santa Claus, comunque, è lui che me l’ha chiesto, - rispose Gray, e la signora
Weasley la guardò con una delle sue espressioni peggiori. Non era mai contenta
di sentir parlare male di Silente, anche solo vagamente. - Sembra che sia una
copertura per via della Umbridge -
- Ma siamo in vacanza! - protestò
George - Non dovresti comunque! -
- In tutta franchezza, non più
tardi di ieri, mi è arrivata questa. Harry, immagino che dovresti leggerla tu. -
Gray, sempre sotto lo sguardo
vigile e torvo di Molly, passò uno striminzito foglio di pergamena a Harry, che
lo afferrò senza curiosità. Ma, lette le pochissime righe che lo componevano,
cambiò subito idea, e l’indifferenza mutò in rabbia.
Non nascondo che quando tornerai
passerai dei guai molto seri. A parte ciò, suppongo che tu ti trovi con i
Weasley e Potter. Tieni d’occhio soprattutto lui. Voglio che, quando ti
degnerai di tornare a lavoro, mi venga riferito tutto.
È ancora più disturbato di te.
Non mostrare a nessuno questa
lettera. E’ un ordine.
La lettera non era firmata. Harry
cominciava decisamente a scaldarsi. Anche la Umbridge aveva deciso di tenerlo
sotto controllo? Non che se ne fosse stupito, naturalmente. Ma da quando aveva
saputo che era stato tenuto d’occhio per tutto quel tempo, non tollerava più
niente. Sapeva che Gray, comunque, non avrebbe mai tradito il segreto del
Quartier Generale.
O forse l’avrebbe fatto?
Forse era una spia del Ministero
fin dall’inizio… forse tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento non era
nient’altro che un’orribile macchinazione… Chi aveva detto che poteva fidarsi
di Gray? C’erano prove che stesse veramente dalla loro parte? Non aspettava
forse il momento giusto per consegnare tutti loro al Ministero, con tutte le
notizie che aveva accumulato?
Forse era proprio come Peter
Minus, le accuse che si era rivolta da sola potevano avere un senso. Magari non
erano state dette a caso.
- Ti preoccupi per questo,
nanerottolo? - disse Gray con una smorfia divertita. Harry trasalì. - Niente in
contrario alla frustrazione adolescenziale, ma non credi che dovremmo preoccuparci
di ben altro? -
- Per esempio? - disse Ron, che
evidentemente non aveva capito.
Gray aveva letto i pensieri di
Harry.
- Non capisci? Un gufo è arrivato
qui. -
- E allora? -
Ma tutto il resto dei presenti, o
almeno coloro che non avevano già capito da prima, ebbero un brivido ansioso.
Come scosso da un’improvvisa illuminazione, anche Ron capì. A regola, nessuno
avrebbe dovuto trovare la casa al numero dodici di Grimmauld Place. Gray
osservava con noncuranza gli sguardi degli altri. Era comodamente affondata
sulla sedia, aveva le braccia incrociate e lo sguardo serio, con le
sopracciglia molto basse. Harry aveva ancora il biglietto stretto in mano, e lo
stritolava con tanto furore che lo strappò quasi.
Al diavolo la Umbridge e i suoi
ordini idioti: ora si sarebbe alzato…
- …per buttarlo nel fuoco. Pessima
idea. Mi serve, quel coso. - lo anticipò Gray. Harry, turbato, si irrigidì
sulla sedia, lentamente. Molti sembravano aver capito, ma altri, come la
maggior parte dei Weasley, erano ancora piuttosto perplessi. - Penso di doverlo
esaminare. Non credo che la Umbridge abbia quella grafia (orribile), anche se
non ne sono sicura. Forse lei scrive con molti più fronzoli. -
Harry finse di rileggere il
messaggio.
- Il gufo potrebbe essere un
Animagus. L’Ordine ha tanti membri… - grugnì Moody.
- Controllato. - rispose Gray
pigramente - Ci ho fatto tutti gli esperimenti possibili su quella povera
bestia. Non credo che sia un Animagus. -
- Da dove viene? Hai controllato…?
-
- Certo. Ha il tatuaggio con il simbolo
dell’Ufficio Postale di Hogsmeade. -
- Potrebbe essere tornato
indietro! -
- Ormai è morto. -
Alla signora Weasley per un pelo
caddero i piatti di mano, e con uno scatto improvviso riuscì ad evitare che si
rompessero sul pavimento.
- Come… come sarebbe a dire morto?
È solo un povero gufo! -
- E allora? - rispose Gray con
indifferenza - Te l’ho detto, ho dovuto fare degli esperimenti per essere
sicura che non fosse un Animagus, o altre diavolerie del genere, così gli ho
lanciato qualche stregoneria. Ma è morto poco dopo, non era molto resistente,
perciò è un normalissimo animale. Cioè, insomma… lo era. - Hermione era
totalmente disgustata. I suoi occhi sembravano quasi dire: “non ho convinto i
miei genitori a farmi venire qui per sentire di queste atrocità”, e Ron temeva
che di lì a poco, oltre al CREPA, avrebbe fondato un comitato per la tutela dei
rapaci. Gray non si guadagnava facilmente la simpatia di qualcuno,
naturalmente, ma Hermione sembrava averla definitivamente segnata sulla lista
delle persone spregevoli. - Naturalmente poteva anche trattasi di un essere
umano. Ma doveva essere piuttosto deboluccio, in questo caso; comunque, meglio
morto che vivo. -
- Ancora non riesco a crederci! -
esplose Hermione - Meglio morto che vivo! Gray tu… tu hai… tu forse hai ucciso
un essere umano! Te ne rendi conto?! -
- Sì. - disse tranquillamente
Gray.
- E.. e allora.. -
- Avrebbe potuto spiarci. - disse
Moody.
- E poi non poteva essere un
Animagus… vero? Sono molto rari e credo che non sia tanto facile trovarne
un’altro di cui il Ministero non abbia preso nota. - incoraggiò Tonks. Harry
non poteva far altro che darle ragione: Gray aveva agito in modo molto
inaspettato, ma dopotutto se la Umbridge sfruttava un gufo Animagus, il
Ministero lo sapeva senz’altro, e Harry ricordava la lista che gli aveva
mostrato la McGranitt tempo prima: non c’era nessun Animagus civetta in quegli
anni.
Però la lettera non era firmata.
Hermione aprì bocca per ribattere,
ma Sirius la interruppe.
- Qualcuno poteva venire a sapere
di questo posto. Non ha tutti i torti… -
- Già! - gridò Hermione - per te,
lei non ha mai tutti i torti! -
Harry era certo di non essere il
solo in tensione. Di lì a poco sarebbe senz’altro scoppiata la lite. Lo leggeva
negli sguardi di tutti. Decise di uscire definitivamente dalla conversazione,
ma si sentiva tremendamente a disagio, gli era quasi impossibile pensare
liberamente. Gray poteva scrutare i suoi pensieri da un momento all’altro, e
senza che lui se ne accorgesse, tra l’altro. Doveva stare attento,
tremendamente attento, ogni volta che pensava.
Ma in fondo non gli importava che
Gray gli leggesse il pensiero. O forse questo lo rendeva ancora più sospettoso,
perché con un potere del genere avrebbe potuto essere benissimo una spia del
Ministero.
Peggio ancora: una spia di
Voldemort.
- Dai, Hermione, - disse Tonks,
cercando di calmare la ragazzina - Gray stava solo facendo delle prove. Non
aveva nessuna intenzione di uccidere quel povero gufo, no…? - aggiunse,
volgendo a Gray un’occhiata innocentemente speranzosa. - Vero che non… -
- Mettila così, riccioli d’oro, -
interruppe Gray rivolta a Hermione, anticipando qualche altra urlata - Ho
ucciso una civetta, un gufo, o quel che fosse. Forse era un umano. Ma se tu
avessi la certezza che era proprio un animale, te la saresti presa così tanto? -
Hermione per qualche istante
sembrò non trovare le parole adatte.
- Per l’amor del cielo, Gray! Un
uomo ha... ha una coscienza! Ha un’anima! -
- Non è detto. - rispose Gray, e
il suo tono dava l’idea che non avrebbe detto una parola di più. Hermione se ne
accorse e, stroncata nelle idee, si abbandonò di nuovo sulla sedia e finì di
mangiare in silenzio.
Capendo che era meglio non toccare
più argomenti simili, Tonks fu la prima ad attaccare bottone, cercando di
parlare di cose che non c’entravano niente. La conversazione fu smorta e priva
di interesse, perché quasi tutti erano alquanto a disagio.
- A letto, adesso. - disse
seccamente Molly, dopo un po’.
- Ma, mamma…! - cercò di
protestare Ginny.
- A letto. -
I ragazzi si avviarono a letto
grufolando, offesi: era molto presto, ma la signora Weasley fu irremovibile.
Nella sua voce c’era tutta la durezza di cui fosse capace, ed Harry era certo
di non averla mai sentita così secca. Solo Hermione sembrava estremamente
felice di andarsene di lì, mormorando a sé stessa con tono irato.
Lentamente, mano a mano che
passavano le ore, la stanza si svuotò. Gray guardava indifferente le fiamme del
camino, e sembrava essersi trasformata in una statua, visto che non si muoveva
da un’ora intera. Molly uscì in pattuglia per i corridoi, per assicurarsi che
tutti dormissero, e soprattutto che Fred e George non tentassero di usare le
Orecchie Oblunghe; in cucina erano rimasti solo Sirius, Gray e Lupin.
Rimasero comunque in silenzio, una
quiete rotta solo dalla violenta tosse di Gray. Tutti e tre sembravano persi in
chissà quale pensiero, ma a differenza degli altri, non si sentivano affatto a
disagio. Gray non avrebbe comunque mai letto nei loro pensieri.
- Non è che sei stata un po’
troppo dura con Hermione? - disse Lupin, rompendo il silenzio. Gray sembrò
scuotersi da un profondo torpore.
- Forse. - rispose lei, evasiva.
- Non te la sarai presa perché ha
giudicato così i tuoi… metodi! - disse Sirius, cercando di adottare una voce
allegra.
- No… - disse Gray, alzando la
testa, - è che non capisco tutta questa pietà. -
- E’ difficile capirla. - disse
Sirius, guardando altrove.
- Lo so. Ma loro sono ancora…
bambini, possiamo dire, - ribatté Lupin.
- Andiaaamo. Non credo che
rappresentino ancora la voce dell’innocenza, con tutto quello che hanno
passato. E comunque, che ho detto di così sbagliato? La penso così e basta.
Anzi, penso di averle fatto anche un favore ad uccidere quel gufo. -
- Bhe, hai capito benissimo che
non stiamo parlando di questo, - la interruppe Sirius, e Gray fu costretta ad
annuire. In effetti, era chiaro che la morte di quella civetta era stata solo
una stupida scintilla per far scattare tutte le asprezze che erano germogliate
da tempo.
Scese, per un po’, un silenzio
sepolcrale. Gray sospirò e, dopo di lei, chi prima e chi dopo, sospirarono
tutti almeno tre volte.
- Non devi per forza farti la
colpa di tutto quello che è successo, - disse Lupin - Ma Hermione… e anche gli
altri, naturalmente… non lo sanno. Dobbiamo tenerne conto… -
- … prima di parlare con chiunque.
- concluse Gray, fosca.
Remus si toccò la testa, come nel
tentativo abbozzato di impedire che Gray ci guardasse dentro, ma sorrideva. -
La puoi piantare? -
- Bhe, è meglio se andiamo a
letto. - concluse Sirius, non particolarmente felice dell’argomento al quale si
stavano avvicinando. Del resto, neanche gli altri ne sembravano molto lieti. -
Domani è la vigilia. -
- Già - Gray si alzò, sfiorandogli
le spalle, e uscì. Aveva il passo così leggero che sembrava svolazzare.
Evidentemente non desiderava altro che mettersi a dormire.
Hermione era stesa a pancia in su,
sul letto, ignorando il peso di Grattastinchi che le si era acciambellato sullo
stomaco. Si sentiva divorare dall’ira e dalla sfiducia. Non riusciva ancora a
credere a tutto ciò che, in due frasi, Gray era riuscita a dirle.
Si chiese se fosse davvero umana.
Si chiese se fosse possibile essere così piatti. Certo, era vero, Animagus o
no, il Ministero avrebbe potuto scoprire la casa dei Black… ma questo non
giustificava una morte.
Hermione ripensò all’ultima frase
che Gray le aveva detto. “… Forse era un umano. Ma se tu avessi la certezza che
era proprio un animale, te la saresti presa così tanto?”
Come poteva ragionare in questo
modo?
Hermione aveva la spiacevole
sensazione che tutti le stessero nascondendo qualcosa. Era fermamente convinta
che Gray, soprattutto, avesse qualcosa di terribile che non poteva rivelare. E
Harry non aveva detto niente riguardo alla Stamberga Strillante… ma allora per
quale motivo si era trovato lì?
Bhe, certo, le aveva detto di
quelle reliquie… ma Hermione non poteva credere che fosse andato lì apposta per
vederle.
Gray, c’entrava qualcosa Gray, ne
era sicura.
Non avrebbe potuto essere
altrimenti. Ormai Hermione attribuiva ogni colpa, ogni cosa poco chiara, a lei.
Era dal primo anno che seguiva attivamente La Gazzetta del Profeta, per quanto
poco affidabile fosse: quando si era saputo dell’aggressione a Caramell, c’era
stato un riassunto di tutto quello che Gray aveva combinato, e non era una
buona lista.
Hermione non aveva mai creduto al
Ministero della Magia, ma ora era diverso.
Non poteva fare a meno di
crederci. Gray aveva tutta l’aria di una che compie davvero tutti i crimini che
le si attribuiscono. E il Ministero l’aveva perdonata…
Hermione era sola contro tutti.
Ron le diceva che era gelosa,
Harry invece non diceva proprio niente, e nessuno nell’Ordine sembrava
intenzionato a prendere le parti di Hermione, a parte qualche volta la signora
Weasley. E naturalmente Sirius era sempre dalla parte di Gray, e anche Lupin
sembrava dello stesso avviso. Com’era possibile che non capissero?
Era una pazza violenta…
Prendeva in giro Silente, aveva
una bacchetta così strana, e soprattutto, era una Mangiamorte. Aveva il Marchio
Nero in una posizione molto insolita. Leggeva nel pensiero. Si tirava fuori i
sogni dal cervello.
Hermione non si stupì che fosse
stata una Serpeverde in passato. E come mai nessuno sapeva niente di lei e
della sua famiglia? Perché tutti la chiamavano per quello che sembrava essere
soltanto il cognome?
E a scuola era sempre strana…
sempre pronta a tormentare… o a sparire…
Hermione si drizzò così di colpo
che Grattastinchi finì a terra, miagolando irritato. La ragazza decise: non le
importava se Gray era infallibile, se era impossibile fregarla.
Avrebbe fatto delle ricerche.
Sarebbe riuscita a dimostrare che
stava dalla parte del Ministero, o anzi, ancora peggio, dalla parte di
Voldemort.
E allora Silente avrebbe deciso
cosa fare.
L’Ordine avrebbe dovuto liberarsi
di lei, così come lei si era liberata di quel povero gufo.
Improvvisamente, sentì bussare
alla sua porta. Non aveva idea di chi potesse essere, ma non rispose: magari
era Gray che veniva a chiederle scusa? Era tutta fatica sprecata.
- Avanti. - disse infine Ginny,
con voce flebile. Hermione non riuscì a detestarla abbastanza per dirle
qualcosa, era troppo stanca. Si alzò dal letto, e scoprì meravigliata che era
entrato Sirius. Dopo qualche istante, prima ancora che lui potesse parlare, le
sembrò di avere intuito che cosa era venuta a dirle. Decise che non lo avrebbe
ascoltato, non avrebbe sentito nemmeno una parola da una persona così
inaffidabile. Sirius era a mala pena distinguibile nell’oscurità della stanza
di Hermione e Ginny.
- Possiamo parlare? -
Hermione annuì senza rispondere e
Sirius si sedette sul letto vuoto di fronte a lei, guardandola, con i gomiti
sulle ginocchia. Aveva tutta l’aria di uno che non sa come iniziare un
discorso, e l’espressione della ragazza non lo aiutava di certo. Hermione
comunque era anche un po’ stupita: era la prima volta che parlavano a
quattrocchi, e la cosa l’aveva non poco incuriosita.
- Bhe… senti. - esordì Sirius - Lo
so che tu e Gray siete come il giorno e la notte… quindi non sarà la prima
volta che sarete in disaccordo come stasera. -
- Non è questione di carattere e
di disaccordi. - lo interruppe Hermione - E’ questione di… di… insomma, di
umanità. E lo so che nessuno di voi mi prende sul serio per questa storia del
CREPA, cosa credete… ma io ci credo, e anche se nessuno mi ascolta… -
- Non è affatto vero che nessuno
ti ascolta, Hermione. - disse Sirius, e stavolta toccò a lui interrompere il
discorso. - Lo sai che non è così, ma adesso stiamo parlando di un’altra cosa…
Vedi, insomma, hai visto qual è il carattere di Gray. Non fa amicizia tanto
facilmente, cioè… è un po’ stronza, posso dirlo. - aggiunse sorridendo. Ginny
ascoltava in silenzio, e per un attimo Hermione si dimenticò della sua
esistenza come di quella di Grattastinchi. - Ma davvero, non è colpa sua. Devi
conoscerla com’è da sola, e ti assicuro che è una persona adorabile. -
- Adorabile! - ripeté Hermione,
quasi scandalizzata. - Scusa, non credo proprio che possa esserlo. -
- Anche lei, come molte persone,
ha una doppia faccia. Vedi… anch’io una volta la pensavo come te. Cioè, tutti
la pensavano come te. O anche peggio. Gray era una di quelle persone che
sarebbero dovute andare in giro con un sacchetto di carta in testa, capisci
quello che voglio dire? -
- Cioè… che anche tu la detestavi?
- chiese Ginny.
- Era un bersaglio facile per ogni
genere di tiri mancini. - rispose Sirius abbassando leggermente la testa - Se
ti raccontassi le cose in dettaglio immagino che mi ammazzerebbe, comunque… lei
ha sempre vissuto a Hogwarts. Silente la trovò da qualche parte quando aveva
otto anni. - A Diagon Alley, pensò Hermione, e le tornò in mente il sogno che
aveva visto nella sfera di gelatina. - Silente non perdeva occasione di difenderla
quando le succedeva qualcosa, e così tutti cominciarono a chiamarla “la cocca
del preside”. Da allora lei odia Silente. - Aggiunse con un sorriso amaro. -
Tutti la trovavano strana. In effetti lo era, ma vedi, non era colpa sua. Il
fatto che fosse malata le rendeva la vita ancora più difficile. -
- Non riesco a capire come una
malattia possa emarginare una persona, - ribatté Hermione, decisamente poco
convinta.
- Gray aveva tutti i requisiti per
essere tormentata. - rispose Sirius - Dai, Hermione, era così pallida, così
gracilina, e poi aveva quegli occhi rossi… a chiunque davano fastidio, e dopo
qualche settimana da quando la misero a Serpeverde cominciarono a diffondersi
le voci che parlasse il Serpentese - e non era vero - e che fosse una visionaria.
A volte parlava da sola, si comportava in modo molto strano, eccetera. Per un
anno intero riuscì a tenercelo nascosto, ma poi lo venimmo a sapere: aveva il
Marchio Nero. Era troppo piccola, aveva undici o dieci anni, capisci? La stava
facendo impazzire. Voldemort ci teneva particolarmente al fatto che lei fosse
dalla sua parte e così non faceva che tormentarla. Anche Remus lo sapeva, lo
aveva capito un giorno che l’aveva vista tagliarsi. Ma neanche lui ce lo disse.
-
- Al primo anno Silente decise di insegnarle
personalmente l’Incanto Patronum, - proseguì Sirius, - e lei non produceva
altro che fumo nero dalla bacchetta. Sentimmo che Silente diceva alla McGranitt
che Gray non aveva nessun bel ricordo in testa, neanche uno, e se lo dice lui
ti puoi fidare. Poi dopo il Marchio Nero stava ancora peggio. E’ per questo che
ha deciso di crearsi una legge: “gli esseri umani fanno tutti schifo”. Così
decise di costruirsi un carattere più duro che l’aiutasse a sopravvivere alla
gente. -
Hermione non si sarebbe mai
immaginata tutto quello che le era appena stato detto, e ammutolì, sbiancata:
ma la cosa non bastava a dissuaderla. Il fatto che Sirius si fosse sforzato di
parlare con lei di quell’argomento la rendeva ancora più irritata. Hermione era
convinta che Gray non fosse dalla loro parte, ma era evidentemente che tutti ci
erano cascati. Volontariamente o no, stava facendo qualcosa che non avrebbe
dovuto fare, stava facendo la doppia faccia, Hermione se lo sentiva.
- Comunque se l’è cavata in modo
nobile. - concluse Sirius.
- Nobile? - sillabò Hermione,
incredula.
- In modo molto più nobile di
quanto mi sarei aspettato da una Serpeverde. E’ difficile superare situazioni
simili senza scaricare le cose sugli altri, invece che su sé stessi. -
Hermione lo guardò senza capire e,
per un istante, le parve che una specie di soddisfazione gli attraversasse gli
occhi: forse soltanto perché era la prima volta che lei sembrava veramente
intenzionata ad ascoltarlo.
- E’ autolesionista. - rispose
Sirius, e poi si fermò, ascoltando il silenzio totale che era germogliato da
quelle parole. - Non ne è affatto fiera, naturalmente. Porta sempre vestiti
lunghi apposta… ma ha le gambe e le braccia piene di tagli, e non so proprio da
quanto tempo le cose vadano avanti così. Probabilmente da quando ha messo piede
a Hogwarts, se non ancora prima. - Hermione stavolta abbassò gli occhi fino a
che lo sguardo non precipitò sul pavimento. Pareva molto interessata alle righe
del pavimento, dall’ostinazione con la quale le seguiva, senza alzare lo
sguardo. Ginny sembrava inghiottita dal buio da quanto stava zitta. - Ha sempre
creduto che qualsiasi cosa facesse fosse colpa sua, e non sempre ha avuto
torto, certo… sì, lo so… - aggiunse, frettolosamente, controllando le
espressioni delle due ragazze, - sembra che non abbia senso. Prima sbaglia e
poi se ne dà la colpa fino all’inverosimile. Forse si sta tagliando anche in
questo momento. Mi ha detto che, quando i Dissennatori la presero, faceva così
perché il dolore non le facesse pensare ad altro. Io comunque penso che odi
farlo, e odia anche il sangue. E’ il suo modo per punirsi. Sono anni che provo
a dirle di smettere, ma lei non vuole ascoltarmi. -
- Sirius, - disse Hermione con
voce stranamente ferma. Sirius non le rispose ma la guardò e fece un cenno con
la testa. - Perché mi dici tutto questo? -
Per un attimo sembrò che Sirius
non sapesse bene cosa fosse giusto rispondere, ma recuperò poco dopo la parola.
- Bhe, così… insomma, non vorrei che vi trovaste a litigare per una
stupidaggine. Volevo solo dirti che non devi avercela con Gray, perché… cioè,
andiamo, hai sentito quello che ho detto. È… normale che sia così. -
Hermione lo squadrò di sotto in
su.
- Non mi sembrava che avessimo
litigato per una stupidaggine. - e prima che Sirius, ribattesse, aggiunse, con
tono sempre più cupo. - E se sei venuto qui per dirmi che lei è la protagonista
della tragedia e devo fare la brava ragazza… -
- Pensala come vuoi, - disse
Sirius, alzandosi, e facendosi di colpo più duro. - Mi sto solo preoccupando
per lei, ma immagino che quella che si roderà di più per questa storia sarai
tu. -
Hermione avrebbe voluto gridargli
una quantità innumerevole di cose, ma fece fatica a metterle in fila, e così
dovette guardarlo uscire richiudendosi la porta alle spalle, e sentendo di
colpo che stava cominciando veramente a odiare anche lui.
- Non ti è parso che Hermione stia
diventando sempre più acida con Gray? - bisbigliò Ron, e Harry sentì affiorare
la sua voce da qualche parte, nell’oscurità. Era decisamente impossibile
dormire, ma nel silenzio al quale si era abituato, quel mormorio gli sembrava
un rumore fastidiosamente forte. - Voglio dire, Gray non è proprio innocente
come un agnellino, ecco, ma quel gufo poteva essere pericoloso… per l’Ordine,
voglio dire… tu che ne pensi? - aggiunse, notando che non otteneva risposta.
- Non credo che sia solo colpa di
Hermione. Io l’ho vista. - disse, senza riflettere, e se ne pentì
immediatamente.
- Hai visto… chi? -
Harry tacque. Sperava che Ron non
insistesse, ma non fu così, e fu costretto a liquidarlo con qualche scusa
improbabile, della quale l’amico sembrò assai poco convinto. Harry comunque non
gli avrebbe mai raccontato di aver incontrato Gray alla Stamberga Strillante,
aveva già rivelato fin troppe cose riguardo a quell’episodio, nonostante quello
che aveva promesso… già, ma in fondo che gli importava di quella promessa?
Avrebbe potuto benissimo non
mantenerla e andare a sbandierare la sue scoperte direttamente al preside - a
parte il fatto che non avrebbe mai parlato volentieri con lui. Ma c’era
qualcosa in Gray che gli incuteva un certo timore.
Qualcosa che lo riempiva di sensi
di colpa, colpe di cui non era il responsabile. Ron continuava a parlare, ma
Harry non lo ascoltava. Annuiva e mugolava di tanto in tanto, senza sapere a
cosa stesse rispondendo.
Finalmente, si misero entrambi a
dormire, un sonno del tutto privo di sogni, ma considerati i precedenti, la
mattina dopo Harry si disse che era molto meglio così. Almeno non avrebbe visto
qualcun altro venire morso da un serpente.
La vigilia di Natale passò ancora
peggio, se possibile, della sera precedente. Hermione era sempre più taciturna,
e ancora più irritabile, soprattutto con Ron. Harry non aveva nessuna voglia di
sopportare i loro litigi, così trascorse quasi tutta la giornata da solo.
Nonostante questo, tutto il resto
degli ospiti era impegnato con le decorazioni natalizie. Ora che le pulizie e
le disinfestazioni della casa l’avevano resa di nuovo abitabile, il Quartier
Generale si stava riempiendo di ghirlande e decorazioni.
Sembravano tutti allegri, persino
Gray sorrideva sempre e sembrava anche meno malata, nonostante continuasse a
tossire molto spesso.
A Hermione tutto questo sembrava
dare molto fastidio, cosa che, a quanto pareva, faceva saltare i nervi alla
maggior parte dei presenti nella casa.
Arthur Weasley era stato
totalmente dimesso dal San Mungo, con la promessa fatta a sua moglie di non
tentare più “simili azzardi”, definizione naturalmente riferita alle cure
Babbane che il signor Weasley aveva insistito per provare, e che naturalmente
il veleno del serpente aveva reso vane. Comunque, essendosi ristabilito, tutti
i Weasley erano molto più sollevati. Restava solo un peso sulla coscienza:
Percy.
Non era mai andato a trovare suo
padre, non aveva mai dato in nessun modo sue notizie; Fred e George
immaginavano che avrebbe rimandato indietro il regalo di Natale senza troppi
complimenti, e preferirono non immaginarsi la reazione dei loro genitori.
La sera tardi, Gray come al solito
non era ancora a letto, ma era nella stanza di Fierobecco per dargli da
mangiare dei topi morti.
L’ippogrifo le dava degli
affettuosi colpetti sulla spalla con la testa ma, visto che questa non era
piccolissima, ogni volta rischiava di slogargliela. Gray era talmente immersa
nei suoi pensieri che continuò a gettare topi morti, fin quando non si
accumularono sul pavimento perché Fierobecco ne aveva mangiati veramente
troppi.
Si era accorta di come si sentiva
Hermione e aveva scoperto di non esserne affatto dispiaciuta. Dopotutto aveva
solo detto quello che pensava, e anzi si sentiva fin troppo di buon cuore a non
averle letto nel pensiero nemmeno una volta.
Era abituata a trattenersi, mentre
quando andava a scuola non ci riusciva proprio. A volte non poteva fare a meno
di sentire dei pensieri confusi, quando una persona vicino a lei immaginava
qualcosa di molto intenso. E Hermione, infatti, provava una rabbia molto
intensa, e anche se non se ne accorse, Gray fu costretta a sforzarsi per
rispettare la sua privacy. Soddisfatta di quell’insolita buona azione, decise
che sarebbe andata a dormire con una preoccupazione in meno sull’anima.
Stava pensando a così tante cose
contemporaneamente che non si accorse dell’aprirsi della porta, se non quando
Harry fu definitivamente dietro di lei.
- Immagino che tu voglia parlare
di Hermione, - disse Gray, senza neanche leggergli la mente, e sforzandosi di
non apparire troppo stupita.
- Non proprio, - rispose il
ragazzo, sedendosi anche lui davanti a Fierobecco.
- Allora sputa il rospo. -
- Voglio sapere cosa facevi alla
Stamberga Strillante. -
- Come sei insistente, - sbuffò
Gray - Ti ho detto che sono affari miei. -
- Sono anche miei, dal momento che
devo tacere. - replicò Harry, ormai deciso ad andare fino in fondo. Gray era
preparata a parlare di ben altro, conoscendo Harry, ma visto che l’aveva colta
di sorpresa, non ebbe il tempo di prepararsi delle scuse convincenti.
- Ero lì perché il Marchio Nero
stava tornando in superficie, - rispose Gray di malavoglia.
- E cosa c’entra? -
- L’unico modo per impedirlo -,
continuò Gray ignorandolo, - E’ questo. -
Si allargò la scollatura della
maglietta, in modo che il Marchio fosse visibile, ma Harry rimpianse quasi di
averglielo chiesto.
Un grosso intreccio di cicatrici
giaceva, orribile, nel punto in cui il Marchio Nero si stava lentamente
riformando: ne erano visibili, infatti, solo poche linee sottili.
- Cioè… strappandosi la pelle a
coltellate? -
- Praticamente sì. Non che serva a
molto, naturalmente. E’ un po’ come i morsi di vampiro o di lupo mannaro, non
esiste una cura. Puoi soltanto evitare che succeda il peggio. Non cambia
niente, è solo che se continuo a tirarci coltellate, Voldemort non può prendere
il controllo delle mie azioni. E naturalmente è anche molto doloroso, per
questo vado alla Stamberga Strillante. A Hogwarts mi sentirebbero. -
- Da quant’è che fai così? -
chiese Harry, lentamente.
Gray guardava da tutte le parti,
nella stanza, alla ricerca di una via di fuga per la sua mente affollata. - Da
quando ce l’ho. Avevo dieci anni, e facevo il primo anno. -
Harry sbiancò - Dieci anni? -
Gray annuì. - Nessuno parlava
ancora così tanto di Voldemort, in quel periodo. Solo una parte di persone
sapeva quanto fosse pericoloso. Possiamo dire che il suo regno di terrore non
era ancora iniziato, e infatti durante quell’anno il Marchio Nero non mi dava
tutti i problemi che ho adesso. Però ero ancora troppo debole. Non sapevo come
fare per respingerlo e non ero abituata a tutto quel dolore. Diciamo che non
avevo ancora la pelle dura, così mi rinchiudevo in qualche aula vuota
all’ultimo piano e cercavo di sopportare. E poi, verso metà anno mi ricordai di
quello che avevo sentito dire a Silente a uno studente che ancora non
conoscevo: il passaggio sotto il Platano Picchiatore non lo conosce nessuno,
potrai andare lì ogni notte di luna piena. -
- Il professor Lupin! - disse
Harry.
- Infatti fu lui a trovarmi, e per
poco non mi morse. Era una sera in cui il Marchio mi faceva particolarmente
male e sentivo tantissime voci nella testa. Ogni volta che mi passava accanto
qualcuno mi veniva voglia di ucciderlo, di farlo a pezzi, capisci? Mi sono
ricordata di quella frase e sono scappata nella Stamberga Strillante, dove ho
cominciato a tagliarmi la pelle. Può sembrare strano, ma ad un certo punto non
ho sentito più dolore, anzi stavo molto meglio. Sono svenuta e mi sono
svegliata la notte dopo perché avevo sentito dei versi atroci. Non avevo la
forza di fare niente, neanche di trasformarmi in corvo e di scappare, così sono
rimasta lì, ma lui non mi ha morsa. -
- Ma dopo tutti quei tagli…
dovresti aver perso tantissimo sangue… -
- Le ferite sul Marchio si
rimarginano facilmente. Il sangue ti ritorna in corpo, abbastanza per non
rimetterci la pelle. -
- E ti hanno messo ad Azkaban
perché eri una Mangiamorte? Che avevi fatto? -
- Non mi sembra che questo ti
cambi le cose. Vai a letto, Molly tra due minuti salirà le scale e verrà a
controllare. -
- Ma… -
- Vai. -
Harry obbedì, senza una parola di
più. Si mise a letto immediatamente, e Ron come previsto non si accorse di lui,
perché dormiva come un sasso. Harry si sentiva profondamente scosso, e sapeva
che non si sarebbe addormentato tanto facilmente. Due minuti dopo, sentì i
passi della signora Weasley per le scale.
*
Harry avrebbe evitato volentieri
di tornare a Hogwarts, sapendo che, oltre alle ispezioni della Umbridge, lo
attendevano lezioni extra con Piton. Ma il giorno venne, e, insieme a Lupin,
Gray e Tonks, i ragazzi si prepararono per prendere il Nottetempo diretto a
Hogsmeade. Nessuno sembrava entusiasta di partire.
Come previsto, non appena il
Nottetempo giunse a destinazione, Gray fu la prima a sparire, dopo qualche
brevissimo saluto. Adesso che Harry sapeva la verità, ogni volta che la vedeva
sparire a quel modo non poteva fare a meno di farsi prendere dall’inquietudine.
- Ha fretta di incontrare la
Umbridge? - chiese Hermione, sarcastica.
Ron e Harry alzarono gli occhi al
soffitto.
- Non tutti amano i professori
quanto te, Hermione, - ribatté George.
Harry ascoltò con scarso interesse
le ultime raccomandazioni, e poi si diresse con gli altri verso il castello. La
sera successiva lo aspettava una lezione sicuramente affatto entusiasmante di
Occlumanzia, e se Malfoy fosse venuto a saperlo, lui avrebbe dovuto dire che
prendeva ripetizioni di Pozioni: non si azzardò ad immaginarsi la reazione.
Quello non era certo il suo
cruccio principale. Prima di ogni altra cosa, si chiedeva come mai Silente non
gli desse lezioni di persona, o meglio, perché era così urgente per lui
studiare Occlumanzia.
Se Voldemort controllava le menti,
allora tutta la scuola era in pericolo. Harry voleva illudersi di non essere
l’unica vittima probabile, ma sapeva benissimo che non era così.
Salutati gli altri, il gruppo si
diresse lontano, nella neve, mentre con un sonoro bang il Nottetempo spariva
nel nulla. Camminavano nello strato altissimo di coltre bianca, cercando di
raggiungere il castello senza affondare. La visibilità era molto ridotta: c’era
nebbia ovunque, e piccoli fiocchi di neve cadevano lentamente, formando un
fitto intreccio di puntini bianchi. Sembrava quasi di galleggiare nel vuoto: il
freddo assaliva le gambe come una tagliola, tanto da far perdere loro la
sensibilità. Mancava ancora molto per i grandi portoni di quercia di Hogwarts,
una lunga strada scivolosa tutta in salita.
Hermione, adesso che si trovava
lontana da Gray, sembrava essere tornata quella di sempre, e progettava a voce
alta di preparare altri indumenti per gli elfi domestici da lasciare in giro.
Anche la sua voce tremava di freddo, sembrava tagliare il silenzio come una
lama, visto che intorno la nebbia assorbiva ogni rumore.
Era una situazione piuttosto
sgradevole. Ognuno si limitava a seguire gli altri, convinto che sapessero da
che parte andare. In realtà non c’era uno solo che badasse al percorso, e con
quella visibilità sarebbe stato molto facile perdersi. Intorno giaceva il
silenzio. Sarebbe stato così facile per un assassino sorprenderli lì, e
metterli a tacere per sempre… forse Harry stava diventando troppo pessimista.
- Ma quanto manca al castello? -
protestò Ginny, esausta.
- Siamo sicuri che non ci siamo
persi? - disse Ron, inquieto - Harry? -
- Non ne ho idea, non so neanche
in che direzione stiamo andando! - ribatté lui, alzando le spalle. - Hermione? -
Hermione fu interrotta nei suoi
progetti per il CREPA. - Sì? - A quel punto tutti gli sguardi erano puntati su
di lei, convinti che fosse la più affidabile anche per quando riguardava
l’orientamento.
- Tu sai dove stiamo andando. -
disse George, sgranando gli occhi.
- Certo che no! Non si vede
neanche il sentiero. Pensavo lo sapeste voi. - rispose con semplicità.
E, di comune accordo, tutti si
guardarono negli occhi, angosciati. Le bacchette magiche accese, a questo
punto, non servivano a niente, anche perché la piccola nevicata stava volgendo
in tormenta.
- No, no, no, non ci credo… -
gemette Ron - Ci… siamo… persi! -
- E’… è tutto sotto controllo…
emh… penso che dobbiamo proseguire verso nord. Hogsmeade è proprio a sud di
Hogwarts… - borbottò Hermione, un po’ in colpa.
- Ma dov’è il nord, genio? -
chiese Fred. Ormai il freddo era insopportabile.
Nessuno seppe rispondere alla
domanda di Fred.
- Bhe, sto congelando - disse
Ginny in tono pratico - Continuiamo a camminare. Proseguiamo in questa
direzione e cerchiamo il lago. -
- Sarà già congelato e sommerso di
neve. - disse Ron - O sei forse in grado di fiutarlo? -
Comunque, tutti seguirono il
consiglio di Ginny. Grattastinchi si nascose, tremante, sotto la veste di
Hermione, e sulle gabbie dei gufi erano state gettate delle coperte per
impedire che si trasformassero in ghiaccioli. Hermione propose di spegnere le
bacchette, e di usarle piuttosto per riscaldarsi: con un colpetto leggero, fece
uscire del vapore caldissimo dalla sua bacchetta, e gli altri la imitarono.
Proseguirono in quel modo, avvolti
nel silenzio e nel gelo totale.
Sembrava di vagare in un mare di
ombre grigio - bluastre. Uno dopo l’altro, tutti si fecero possedere
dall’ansia: non avevano idea di dove fossero, e con ogni probabilità, come
diceva Ron, non avrebbero mai trovato il lago. Inoltre non vedevano ad un palmo
di naso. Ogni tanto qualche verso agghiacciante risuonava nel gelido silenzio
sepolcrale, segnalando che si stavano avvicinando alla Foresta Proibita. Si
sarebbero accontentati di girare in tondo fino a tornare a Hogsmeade, avrebbero
chiesto ospitalità e sarebbero ripartiti la mattina dopo, prima che si levasse
il sole. O magari avrebbero potuto trovare la capanna di Hagrid, e restare lì
per riscaldarsi le ossa fino alla fine della tormenta. Erano ipotesi piuttosto
allettanti, ma né Hogsmeade né la capanna si vedevano in lontananza.
- Stiamo camminando da almeno due
ore. -
Hermione non ebbe bisogno di
aggiungere altro. tutti erano stanchi, morti di freddo e in quelle condizioni
anche la fame si faceva sentire terribilmente. Gli animali si lamentavano, e
d’altra parte non erano i soli. Tutti ripensavano con nostalgia agli scossoni
allarmanti del Nottetempo che, a confronto di quella nottata odiosa, era il più
bel luogo del mondo.
- Dobbiamo trovare un riparo.
Ormai non possiamo continuare, la tormenta sta peggiorando. Quando si sarà
calmata manderemo in giro i gufi per vedere se riescono a trovare il castello. -
Il suggerimento di Hermione fu
accolto come la salvezza. Tuttavia trovare un riparo non era così semplice. Ad
un tratto incapparono in una vasta distesa d’alberi, dalle fronte così alte e
fitte che la neve riusciva a stento a passare. Poteva trattarsi di una parte
alquanto remota della Foreste Proibita, così come di un’innocente gruppo di
piante, ma nessuno fece troppe storie: vi si inoltrarono e accesero uno
stentato fuoco incendiando quei pochi sterpi rimasti asciutti. Erano nel bel
mezzo di una radura. L’area intorno al piccolo fuoco - che si avviava
inesorabilmente alla fine dopo solo un quarto d’ora - era bene illuminata, ma
intorno tutto era così opaco che tutti cedettero di essere diventati miopi.
Passarono interminabili quarti
d’ora.
A Hogwarts nessuno si preoccupava
per loro? No, pensò Harry. Silente era certo “impegnato in affari più
importanti” e, se quella notte avessero fatto una brutta fine, chissà quando
l’avrebbe scoperto.
Harry non sapeva che i suoi
sospetti si stavano probabilmente avviando alla concretizzazione.
Il freddo era
lacerante e penetrava nella ossa così profondamente da paralizzarle. Il vento
frusciava attraverso le fronde, strette fra loro come se potessero a loro volta
sentire tutto quel gelo. Lo strato di neve, a terra, era ormai paurosamente
alto e, quel che era peggio, la tormenta non accennava a finire. Di quel passo,
sarebbe arrivata la mattina, e loro non sapevano neanche dove si trovavano.
Come avrebbero fatto a tornare a Hogwarts?
Ci sarebbero
mai tornati? E cosa avrebbero detto i professori?
Cercavano
tutti di chiacchierare più animatamente possibile, nella speranza di poter
respingere il freddo straziante. Alla fine, anche la fame divenne una tortura.
Da quanto tempo erano in giro per quei campi desolati?
- Dobbiamo
mangiare qualcosa, non riusciremo ad andare avanti, sennò. - disse Ginny,
pensierosa.
- D’accordo,
ma cosa mangiamo? Hai un frigobar? - disse Ron, scettico. - O forse speri che
il caro Michael Corner spunti dal nulla con un bel tacchino arrosto? -
Ginny lo
fulminò con la peggiore delle sue occhiate, ma nessuno le badò.
- Dividiamoci
e andiamo a cercare qualcosa. - propose George
- Non saranno
accettate radici, - aggiunse immediatamente Fred.
Piuttosto di
malavoglia, ognuno si separò dagli altri e si addentrò nelle scure fauci del
bosco. Nessuno era molto contento di dover girare da quelle parti completamente
solo, ma non c’era uno solo di loro che osasse dirlo altri. Hermione si offrì
di accompagnare Ginny, ma questa era ancora così inacidita verso Ron che drizzò
il naso e camminò spedita verso una direzione a caso. Ogni tanto qualcuno
andava a sbattere contro degli alberi, sia perché la nebbia era molto spessa,
sia perché i rumori inquietanti che risuonavano lì intorno li facevano
distrarre. Tutti erano tesi come corde di violino: si aspettavano un attacco da
un momento all’altro, ma, nello stesso tempo, erano certi che non sarebbe
successo niente e che tutto si sarebbe concluso per il meglio.
Hermione
volgeva intorno lo sguardo inquieto. Per la verità non sapeva bene cosa fare, e
la situazione era così opprimente che le impediva di agire razionalmente. A
lottare contro la fame c’era in timore di proseguire: cosa c’era oltre quel
cespuglio?
Ad ogni
fruscio le si drizzavano i capelli, ma non riusciva mai a capire quale fosse la
fonte. Il vento ululava attraverso la nebbia, ai rami erano appese ragnatele
gigantesche e cespugliose, e nell’aria aleggiava uno strato lattiginoso di
umidità.
Hermione si
sarebbe aspettata qualsiasi cosa. Non doveva abbassare la guardia…
Un tonfo. Un
ramo che si spezza. Che cos’era quel rumore? C’era qualche creatura poco
rassicurante lì intorno. Un ramo appuntito al quale non aveva fatto caso la
ferì appena sotto l’occhio. Sangue… avrebbe attirato i Thestral, che lei non poteva
vedere… ed erano carnivori…
Hermione
rabbrividì. Ripensò con orrore a tutte le lezioni di Cura delle Creature
Magiche cui aveva assistito. Una volta sarebbe rimasta affascinata dalle
proprietà letali che possedevano alcune creature, ma adesso che avrebbe potuto
trovarsene di fronte una da un momento all’altro, ne era molto meno
affascinata.
- Non dovresti
girare da sola nella tormenta a quest’ora di notte, Mezzosangue. -
Hermione
trasalì. Non era la voce di nessuno che lei conoscesse. O che fosse felice di
conoscere. Non capiva da dove fosse venuta la voce. Forse se l’era
immaginata... la paura causa suggestioni, pensò…
Ma appena vide
che una figura umana emergeva dalla nebbia, a pochi passi da lei, il cuore le
schizzò quasi via dal petto. Voleva gridare… ma il vento portava via la sua
voce, la disperdeva, nessuno l’avrebbe sentita.
Hermione
riuscì a mettere a fuoco l’individuo. L’aveva visto nella libreria di Diagon
Alley, al secondo anno, e se lo ricordava ancora molto bene. Aveva la stessa
espressione di allora e lo stesso vago ghigno perverso, che ad Hermione non era
mai piaciuto.
Era Lucius
Malfoy.
- C… che… che
cosa volete? - balbettò, cercando di avere un tono di voce minaccioso.
- Dimmi dov’è
Harry Potter e ti lascerò andare a piangere da Silente. -
Hermione non
rispose: anche se lo avesse saputo, non gliel’avrebbe mai detto. Cercava di
arretrare, aspettando l’occasione per fuggire, ma per ogni passo che lei faceva
indietro, Malfoy avanzava sempre di più, la bacchetta levata, l’espressione
minacciosa.
- Ti ho
ordinato di dirmi dove si trova Potter, - sibilò Malfoy, proprio come un
serpente.
- E lei… lei
mi dica perché lo cerca. - Hermione aveva la bacchetta dritta di fronte a sé.
Mai, nemmeno per sogno, sarebbe stata utile ad un servo di Voldemort… a un
Mangiamorte…
- Il tuo acume
non è così elevato come i professori lo dipingono, dunque, - sogghignò l’altro.
- Proprio degna del tuo sangue ibrido. - Hermione si sentì avvampare d’odio, ma
il terrore era così gelido che le impediva di reagire. - Una bastarda. -
-
Expelliarmus! - gridò Hermione con tutta la rabbia che aveva in corpo. La
bacchetta volò un aria, poco lontana da Lucius Malfoy, che riuscì a recuperarla
senza troppe difficoltà.
- Sembra che
dovrò farti tacere -
Hermione si
sentì gelare. Gridò. Ma, lo sapeva già, nessuno la stava sentendo.
- Stupeficium!
- Hermione riuscì a scansarsi, ma cadde a terra, ferita, incapace di alzarsi di
nuovo in piedi. - Devo continuare, Mezzosangue? -
- Expecto
Patronum! -
Hermione non
ebbe neanche il tempo di stupirsi. Da un punto imprecisato della bufera, un
grosso Patronum si parò fra lei e Lucius Malfoy. Hermione ne restò abbagliata:
dopo quasi un minuti riuscì a distinguere un rettile dalle piccole ali, il
corpo serpentino e quattro tozze zampe dotate di artigli possenti. Sembrava un
drago cinese. La sua stazza gli faceva distruggere due alberi per volta ogni
volta che si spostava, ma i suoi movimenti erano così rapidi che sembrava una
strana vipera troppo cresciuta. Hermione cercò di mettere a fuoco la zona
intorno a sé, e dato che ora l’ambiente era abbagliato dalla luce del Patronum,
riuscì a vedere Gray, in piedi sul ramo di un albero, con la bacchetta levata
in direzione del Mangiamorte.
Saltò giù
dall’albero e, ignorando completamente Malfoy, l’aiutò ad alzarsi.
- Stai bene? -
chiese, tossendo.
- Sì… io… io
credo… di sì. -
Gray la spinse
leggermente da una parte e tornò a fronteggiare Malfoy con lo sguardo
inviperito.
- Guarda chi
si vede, - disse l’altro, - il Ministero adesso ti ha ingaggiata anche come
guardiana notturna? -
- E tu,
Malfoy? -, ghignò Gray - Voldemort si fida così tanto di te che ti manda ad
aggredire ragazzine sole nelle foreste? -
Malfoy corrugò
la fronte a scrutò Gray con occhi terribili; sembrava che volesse ucciderla da
un momento all’altro. Hermione osservava la scena, paralizzata e aggrappata al
tronco di un albero. Fissava il maestoso Patronum di Gray, che apriva le sue
ali in direzione della sua evocatrice, come se avvertisse il pericolo mortale.
Gray era immobile nella tormenta, e la luce d’argento la faceva sembrare ancora
più spenta.
- Notevole
bestiola, - disse Malfoy inarcando le sopracciglia, guardando il dragone
serpentiforme, che sibilava in sua direzione. - Immagino che tu mi abbia
scambiato per un Dissennatore, da quanto ne sei ossessionata. -
- Suppongo che
se ti tirasse una zampata non saresti felice lo stesso, Dissennatore o no. E’
solo la mia ipotesi, naturalmente. - aggiunse Gray alzando le spalle - Cosa
diavolo ci fai qui? -
- Piuttosto
evidente. -
- Sì, lo so.
E’ che volevo sentire qualche bella scusa delle tue. - Gray si voltò verso
Hermione, probabilmente captando nell’aria la vibrazione del duello imminente -
Scappa. Adesso. - Hermione non riusciva ad obbedire. - Hermione! - sibilò la
ragazza. Cominciava a sentire un vociare lontano. Forse gli altri si erano
incuriositi vedendo la luce sfavillante del Patronum. Alzò le spalle e si
rifiutò di insistere.
- Cosa credi
di fare, Gray? Mi hanno detto che a scuola eri terribilmente scarsa… -
- Ah, ah, ma
guarda, allora perché Voldemort mi ha scelta come Mangiamorte molto prima di
te? - Malfoy aveva un’espressione così minacciosa che si stava quasi
spiaccicando la fronte tra le sopracciglia. - Adesso perché non vai a riferire
che hai fallito miseramente? Voldemort non ne sarebbe felice… - Hermione notò
che anche Malfoy trasaliva a solo sentire quel nome.
Malfoy
sembrava incapace di non guardare gli occhi di Gray… erano un abisso di lava…
Sì: sarebbe
andato da Voldemort a riferire che aveva fallito…
Gridò
selvaggiamente e girò la testa dall’altra parte. - Attenta
a quello che fai, Gray! -
- A quello che
tu stavi per fare, perché danno sempre tutti la colpa a me? -
Malfoy scansò
il mantello dal braccio, pronto a combattere.
Gray invece
non si mosse di un millimetro. Il vociare dei ragazzi era sempre più vicino, e
se non avessero concluso in tempo sarebbe avvenuto un bel caos…
- E va bene.
Se non sbaglio avevo un conto in sospeso con te, Gray… -
- Non ne ho
idea. Te ne inventi uno alla settimana. -
Prima ancora
che Gray potesse ribattere, Malfoy tuonò “Crucio!”, e Gray strillando di dolore
cadde a terra, contorcendosi terribilmente nella neve. Hermione gridò,
terrorizzata. La Cruciatus era una delle Tre Maledizioni Senza Perdono… com’era
possibile che Malfoy la usasse così facilmente in un posto abbastanza in vista
come Hogwarts?
Gray si rialzò
poco dopo, perché il Patronum, prima di sparire, sferrò una possente codata a
Malfoy, che sbattè contro il tronco di un grosso albero, aprendosi un taglio
sulla fronte e interrompendo la Cruciatus.
- Questa era
la tua Maledizione, Malfoy? Temibile… - sorrise Gray - Se volevi spettinarmi ci
sei riuscito in pieno. - Malfoy stava per ribattere ma Gray gli restituì il
colpo senza esitare neanche un secondo - Crucio! -
Malfoy piegò
le braccia così bruscamente che Hermione credette stessero per rompersi. Ma un
attimo dopo, gridò un incantesimo che lei non conosceva e non riuscì a capire,
e una spada di fuoco apparve al posto della bacchetta. - Ti taglierò
quell’inutile testa! -
- Fila via, se
non vuoi che sia io a tagliarti qualcos’altro! - Gray ripeté il medesimo
incantesimo e al posto della sua lunga bacchetta apparve una lunga e sottile
spada di ghiaccio.
- Cosa
vorresti fare con quel ghiacciolo? -
- Far sì che
tua moglie rimanga vedova! -
In un attimo
le spade magiche si incrociarono, e ben presto il duello divenne così rapido
che Hermione faceva fatica a seguirlo. Ma non poteva stare con le mani in mano…
doveva fare qualcosa… e se Gray avesse avuto la peggio? Non se la sarebbe mai
perdonata… Guardò nervosamente in ogni direzione, alla ricerca di qualcosa,
qualsiasi cosa, che potesse aiutare Gray… Doveva fare un incantesimo, ma la sua
bacchetta era molto lontana da lei, proprio nel punto in cui Gray e Malfoy
stavano duellando.
Quando
Hermione si voltò, un grosso taglio era aperto sul braccio e sulla guancia di
Gray, e da quel poco che si vedeva, sembrava che la pelle, intorno, fosse
bruciata.
Le lame di
ghiaccio e di fuoco si incrociarono ancora una volta, entrambe tentando di
attaccare. - Dove si nasconde il cagnolino, Gray? -
- Attento alle
palle, Malfoy, - ringhiò la ragazza, sferrando un fendente così forte che
Malfoy sbattè di nuovo la schiena contro l’albero. Aveva tentato di schivare,
ritraendosi, ma la spada di Gray era più lunga e più tagliente… Un taglio
profondo si aprì sulla pancia di Malfoy. Entrambi ignorarono Hermione che
sgattaiolava verso di loro, mirando alla sua bacchetta…
- Chi è la più
scarsa della scuola? - disse Gray. La sua voce non era affatto spiritosa.
- Mi correggo,
- disse Malfoy rialzandosi, - I tuoi amici erano di gran lunga peggiori di te -
Gray balzò in
avanti cercando di ferirlo di nuovo ma non riuscì a colpirlo. Le due spade
tornarono a roteare nell’aria, frusciando e stridendo come aquile ferite.
Hermione era a
un passo dalla sua bacchetta…
- Mi hai
stancato, mocciosa, - abbaiò Malfoy - Questa è l’ultima volta! Cru… -
- Expecto
Patronum! -
Hermione si
voltò, col viso raggiante.
Un cervo
d’argento galoppo verso Malfoy sferrandogli un poderoso colpo di corna. Non fu
sufficiente per metterlo al tappeto, ma la mossa era riuscita a spiazzarlo.
Gray si ritrasse verso un albero, tossendo violentemente e premendo le mani
contro le ferite incandescenti e la pelle incenerita.
Hermione
raccolse immediatamente la sua bacchetta, e gridò: - Petrificus Totalus! -.
Malfoy era
colto alla sprovvista, e cadde a terra lungo disteso.
Harry e i
Weasley correvano, atterriti, verso la radura dove era appena avvenuto il
duello.
Gray
approfittò di quell’istante, prima che Lucius Malfoy si alzasse. Avanzò verso
di lui, conficcandogli il tacco a spillo dello stivale nella ferita che gli
aveva provocato la spada di ghiaccio. Malfoy non poté evitare che lo guardasse
negli occhi: vide le sue pupille restringersi fino a sparire, così che le sue
iridi furono solo due cerchi minacciosi color sangue.
Vide con
terrore una crepa aprirsi sul terreno. La crepa divenne sempre più grande, in
un insieme di schianti fragorosi, fin quando non si trasformò in una vera e
propria voragine. Vedeva solo quella, dietro le sue spalle, tutto il resto era
confuso e indistinto, come in un sogno, un terribile sogno. Avrebbe voluto
scappare, ma Gray lo tratteneva con quel suo diabolico tacco… ma Gray non c’era
più. La cosa appuntita che bucava nella ferita era l’unghia di un immenso
dragone, che lo tratteneva, soffiando, minaccioso, fuoco e fiamme…
La voragine
dietro di lui emise uno sbuffo di vapore bollente, come un geyser.
E poi dal
vapore, come se niente fosse, emerse una figura di Malfoy conosceva bene. Un
volto orrendo da rettile, sciupato, scarno, e un serpente avvinghiato attorno
alle spalle… spietati occhi rossi scintillavano sotto il cappuccio del manto
nero…
- Taci,
inetto. - sibilò Voldemort. - Vattene di qui… e non tornarci mai più. -
- Ma… Mio
Signore… Siete stato Voi a ordinarmi… -
- Vattene
immediatamente, servo! -
Malfoy corse
via, un attimo prima che Voldemort potesse lanciare una terribile Maledizione
Senza Perdono. Da qualche parte nella sua testa confusa, Malfoy sentì Gray
ridere, sfacciata.
*
- Era proprio
ridicolo, vero? - scherzò Ron con un’allegria da funerale - Continuava a
implorare il vuoto e poi è scappato via come un coniglio… -
- Ha visto
Voldemort, idiota, certo che non implorava al vuoto… - disse Gray, cercando di
ignorare il dolore delle ferite.
- Ma non
c’era! - protestò Ron.
- Certo che
no. - ribatté Gray con un sorriso perfido - Ha visto una specie di filmino. Ho
sempre voluto fare la regista. -
Hermione
sembrò la prima a capire, e dopo di lei tutti gli altri.
- Hai… hai
creato un’illusione? -
- Una cosa
simile, sì. Naturalmente ho dovuto aspettare il momento giusto. Ci ho provato
per tutto il duello, dato che non sono proprio portata per combattere, ma un
mago di quel livello (abominevole) non si lascia fregare così facilmente. Tutto
sta nella padronanza dell’ Occlumanzia, - aggiunse, guardando Harry per un
attimo, - E bisogna cogliere i momenti in cui la mente è più spossata o
vulnerabile. Con voi ovviamente funzionerebbe anche quando vi concentrate al
massimo, visto che il vostro livello è ancora più infimo. -
I ragazzi non
risposero neanche. Erano rimasti ammutoliti dalla scena che avevano appena
visto. Hermione ferita, che tentava disperatamente di recuperare la sua
bacchetta, e Gray, addossata contro il tronco di un albero, ferita anch’essa,
con una lunga spada di ghiaccio in mano. Di fronte a lei Malfoy, stupito dal
Patronum di Harry, reggeva una spada di ghiaccio ed era anche lui ferito. E un
attimo dopo, in un turbine di incantesimi, si trovò per terra, ad implorare
affinchè Voldemort gli risparmiasse la vita.
Ginny era ancora
terrorizzata e, in verità, gli altri non stavano meglio di lei. Fu Gray a
parlare: - Che vi salta in testa di girare nei boschi con questa tormenta? -,
disse, frai colpi do tosse, - Era
chiaro che ne avrebbero approfittato. Harry, soprattutto tu, lo sai benissimo
qual è il loro scopo. - Harry lo sapeva, sì, il loro scopo... volevano
ucciderlo… o forse avevano bisogno di lui per fare qualcosa… Harry si rese
conto che, il loro scopo, non lo conosceva affatto. Ma non poteva comunque dare
torto a Gray. Lei che prima aveva salvato Hermione con tanta naturalezza,
adesso sembrava pronta ad una formidabile ramanzina. - Andrei a far scrivere un
bell’articolone sulla Gazzetta del Profeta giusto per dispetto, così almeno
butterebbero fuori Silente che non si accorge mai di nulla. -
- E allora
perché non lo fai? - la sfidarono Fred e George.
- Forse perché
anch’io sono una Mangiamorte? Fatemi pensare… -
I due gemelli
decisero di tacere.
- Adesso
tornate subito al castello. Tra due ore sarà l’alba. Il primo che dice una
parola su quello che è successo… - e non ebbe bisogno di proseguire.
- Ma la
tormenta… -
- La tormenta
non vi farà niente. Andate sempre a dritto e scoprirete con rammarico che le
porte del castello sono a meno di trenta metri da qui. -
Harry e gli
altri si guardarono, perplessi.
- Non è
possibile! Noi abbiamo girato per ore… -
- Senza
accorgervi che Malfoy vi depista per tutto questo tempo? -
- Co.. cosa? -
- E’ cosa
facile, suppongo, anche per chi non ha poteri mentali, quella di illudere uno
di girare in tondo, mentre magari sta andando nella direzione giusta. Mirava a
cogliervi separati, per non attirare troppo l’attenzione. Ha trovato Hermione e
non gli è parso vero di potersene sbarazzare, visto che non l’ha molto in
simpatia, anche grazie ai racconti del suo bravo pargolo. Naturalmente, dopo,
avrebbe cercato Harry… -
- … e che cosa
avrebbe fatto? - incalzò Harry.
Gray alzò un
sopracciglio, fissandolo, e sembrò piuttosto divertita.
- Ha scelto
proprio una bella notte. Il vento impedisce che le urla si sentano, la nebbia
riduce la visibilità e c’è molta neve… sarebbe stato estremamente difficile
(per lui) illudervi di aver sbagliato strada, se fosse stato bel tempo. -
Consapevoli
che Gray non avrebbe elargito una spiegazione di più, gli altri si rassegnarono
a prendere i loro bagagli per tornare a scuola.
- Dobbiamo
avvertire Silente! - disse immediatamente Hermione
- Oh, Malfoy
per un po’ non si farà vivo. Ma ci penserò io ad avvertire Silente. In un modo
che penso non dimenticherà tanto facilmente. -
La scrutarono
tutti con sospetto, ma Gray strizzò l’occhio, come per dire che non c’era
niente di preoccupante.
- Morsmordre -
sussurrò Gray, con la bacchetta rivolta al cielo.
Hermione si
portò una mano alla bocca. Il Marchio Nero, un grosso teschio con un serpente
che gli usciva dalla bocca, era apparso nel cielo avvolto di scintille verdi;
le nubi temporalesche, ormai impregnate del colore dell’alba si sfacevano
intorno ad esso. E il Marchio, grande e imponente, svettava su quel palco di
nubi gettandosi intorno una nebbia di avvertimento.
Si trattennero
dal gridare: comunque non sarebbe servito a niente. E poi non era morto nessuno
quella notte, non c’era di che preoccuparsi, anche se quando a scuola tutti
avessero visto il Marchio, i primi sospettati sarebbero stati loro, che si
erano persi nella tormenta di quella notte.
- Non ha
senso… non è morto nessuno… -
- Non ancora.
- rispose Gray in tono neutro. Poi si voltò in direzione di Harry, guardandolo
fisso negli occhi. Harry non ebbe neppure il tempo di trasalire. - A terra. -
ordinò Gray, e Harry si buttò immediatamente lungo disteso sulla neve. Ron, che
gli era accanto, notò che gli occhi di Gray sembravano completamente vuoti. -
Chi ti ha mandato qui? Che sei venuto a fare? -
- G… Gray… non
essere ridicola… - balbettò Hermione.
- Il padrone…
mi ci ha mandato. - mormorò Harry con una voce sepolcrale. - Ha bisogno del
Ragazzo-Che-è-Sopravvissuto per… -
- Lo so
benissimo - lo interruppe Gray, che sembrava soddisfatta della spiegazione.
Fred e George provarono a replicare, ma a quanto pareva dovevano avere intuito
che dentro il corpo di Harry non c’era affatto il suo legittimo proprietario.
- Lo tengono
sotto controllo, Gray… - disse Ginny
- Non puoi…
non puoi farlo… - Hermione sembrava averlo intuito.
- In piedi. -
sibilò Gray, e il corpo di Harry si alzò, di fronte a lei, annaspando nella
neve. Tuttavia, sembrava sogghignare.
- Che cosa
vuoi fare? - rise, - Se fai del male a me, farai del male anche al corpo del
ragazzo. -
- E allora? -,
ribatté Gray, implacabile, controllandosi le unghie con noncuranza.
L’essere
dentro Harry sembrò stupito, ed esitò; il ghigno sparì dal suo volto e anche la
voce cambiò. - Se vuoi uccidermi dovrai anche uccidere Potter. -
- Ci sono
altre persone che immagino se ne dispiacerebbero un po’, sicché mi dispiace, ma
dovrò prima tirarti fuori. -
Di colpo il
riso maligno tornò sul viso della creatura - o meglio sul viso di Harry - ma
Gray non ci fece caso e continuò a fissarlo.
Tutta la
sicurezza che aveva negli occhi sembrava imprimere sui presenti la garanzia che
non stava affatto scherzando. La sua espressione era anche un po’ stupita, come
se si stesse chiedendo perché Voldemort avesse mandato il peggiore dei suoi
tirapiedi per compiere un compito relativamente arduo. Tutti levarono le
bacchette, ma non era questo a preoccupare l’intruso; dopotutto non potevano
attaccarlo finché era dentro il corpo di Harry, non potevano ferirlo in modo
pericoloso… potevano solo cercare di fermarlo con i loro incantesimi da
scolaretto… Era Gray che lo preoccupava. Non aveva avuto modo di vederla
eseguire un ordine di Voldemort, neanche una volta, ma sapeva che avrebbe
potuto benissimo ucciderlo, dentro o fuori il corpo di Harry.
- Fuori. -
sibilò Gray. L’intruso cercava di distogliere lo sguardo dagli occhi di Gray;
senza neppure accorgersene, era tornato a perdersi in quello strano rosso
magma, che sembrava una calamita. Non aveva potuto evitarlo…
Non uscì. Non
sarebbe mai uscita. Aveva un ordine da eseguire.
Voldemort la
avrebbe punita…
- Ho detto
fuori, - ripeté Gray.
Non riusciva a
resistere… doveva uscire…
Una strana
forza sembrava ordinarle di andarsene immediatamente, e non poteva ribellarsi,
anche se non sapeva perché. Sentiva che doveva ubbidire…
- Non
fissarmi… -
Le bacchette
fremevano nelle mani dei ragazzi.
Sì… sarebbe
uscita… immediatamente…
Sentì come un
turbine nella testa, mentre la pelle tremava come se sotto ci fossero state
delle gelatine. In un attimo il corpo di Harry era sparito, e una Mangiamorte
era in piedi al suo posto, di fronte a Gray, più furibonda del fatto che
quest’ultima la avesse vinta, che di aver fallito il compito.
- Hai fallito,
genio. - fece presente Gray. Aveva la fronte aggrottata: le sembrava che quella
Mangiamorte avesse qualcosa di familiare, ma non riusciva a capire cosa.
- Che cosa
vuoi fare? Rimandarmi dall’Oscuro Signore con questa vergogna? Farti promettere
di lasciarti in pace in cambio della mia vita? - ansò la Mangiamorte.
- Niente di
così difficile. Temo che faresti fatica ad elaborare l’ordine. - rispose Gray,
alzando le sopracciglia. Alzò la spada di ghiaccio insanguinata, che ancora
reggeva nella mano sinistra. Vide gli occhi della Mangiamorte sconosciuta
spalancarsi così tanto che sembravano due cerchi perfetti. Non si lasciò
commuovere. In un secondo la Mangiamorte si afflosciò a terra, affondando
pesantemente sulla neve, con la spada di ghiaccio conficcata nel cuore,
trapassata da parte a parte. Una chiazza rossa si allargava sulla neve, mentre
Ron, Hermione e gli altri scagliavano a Gray rapidi sguardi atterriti.
La spada
sembrò sciogliersi, ed infine tornò ad essere bacchetta. Tremò e si agitò, fin
quando Gray non la prese in mano. La Mangiamorte sparì: la chiazza di sangue
che aveva lasciato diventò verde e formò di nuovo il Marchio Nero.
- Forse
Voldemort se l’è ripresa per farla a pezzi. - rifletté Gray, piuttosto
indifferente, anche se al pronunciare di quel nome rabbrividirono tutti, e non
certo per il freddo. - La Mangiamorte si era sostituita a Harry. Lo troverete
nella radura, suppongo. E’ da dopo il Patronum che fingeva. -
- E tu come te
ne sei accorta? - chiese Ron.
Gray sorrise e
si diresse verso il castello, che ora svettava molto chiaramente sulla distesa
di neve che riluceva all’alba. Il Marchio Nero era ancora nel cielo. Stagliato
tra le falci di luce color pastello, ben presto tutta la scuola si sarebbe
accorta di quella presenza.
E Silente per
primo, ne era sicura.
Era
altrettanto sicura di averla fatta troppo grossa. Tutti si sarebbero
insospettiti, tutti forse le avrebbero affibbiato la colpa, a partire da
Dolores Umbridge, che non vedeva l’ora di dimostrare a Caramell che era ora di
togliersela dai piedi. Almeno anche Silente sarebbe stato screditato. Gray
pensò che dopotutto era davvero lei la colpevole dell’unica morte avvenuta
quella mattina, e quindi se l’avessero incolpata non avrebbero avuto torto al
cento per cento. Se non altro, con un po’ di fortuna, Silente sarebbe stato
allontanato da Hogwarts.
Gray sapeva a
cosa andava incontro la scuola senza di lui: il fatto che la Umbridge avrebbe,
molto probabilmente, preso il suo posto, era il minimo. Hogwarts non si sarebbe
più ritenuto un posto sicuro.
Voldemort
voleva Harry, e Gray sapeva perché; era troppo presto per ucciderlo e non era
detto che la cosa fosse necessaria. Il fatto che Harry gli si fosse opposto
involontariamente, quando Voldemort aveva ucciso James e Lily, non significava
che sarebbe stato in grado di tenergli testa. L’unico che poteva opporre una
qualche resistenza consistente a Voldemort era Silente. Gray non sapeva come
sarebbero dovute andare le cose, ma Harry, continuando a farsi sorprendere dai
Mangiamorte così facilmente, non era certo sulla buona strada per sopravvivere
all’Oscuro Signore.
Scegliere
quella notte era stato furbo: non capitava spesso di poter trovare Harry da
solo nella foresta, a quell’ora, con quel tempo terribile. E Voldemort aveva
inviato un Mangiamorte dopo l’altro. Che fretta doveva avere…
Non capiva
però come mai Voldemort avesse mandato una Mangiamorte così scarsa, che si era
fatta scoprire troppo facilmente, dalla voce strana, dall’andatura e dal colore
degli occhi. Ma Gray doveva ammettere che era stata molto tenace, nonostante la
tenesse sotto controllo mentale, senza neanche bisogno della maledizione
Imperius. La avrebbe uccisa anche se fosse stata nel corpo di Harry, lo avrebbe
fatto comunque, ma sapeva che Harry aveva degli amici che gli volevano bene, e
che era molto importante per Sirius…
Gray,
comunque, si sarebbe aspettata molto di più l’arrivo di Bellatrix. Non aveva
mai avuto paura di un Mangiamorte come aveva paura di Bellatrix Lestrange, e
aveva i suoi buoni motivi per farlo. Ricordava ancora con ira a quello che era
successo anni prima, dopo la sua fuga da Azkaban… la vita le era peggiorata di
colpo, sorprendentemente, perché Gray pensava non ci fosse più niente da
peggiorare…
Ricordava la
voce nella sua testa… la sagoma di Tom Riddle, come doveva essere stato prima
di diventare Voldemort… quando aveva aperto la Camera…
Quel fulmine…
sembrava averla incenerita… ma era solo un’impressione, si era rialzata, e al
suo risveglio non sapeva più chi era, nessuno sapeva chi era…
Era soltanto
un’assassina…
Senza nemmeno
accorgersene, Gray era arrivata al suo letto. Tossiva così forte da farsi
tremendamente male alla gola. Si buttò fra le coperte, vestita com’era, coperta
di neve e ferita, senza pensare più a niente.
Non le
importava cosa le avrebbero detto l’indomani, non le importava cosa avrebbero
pensato tutti, voleva soltanto dormire e dimenticarsi di qualsiasi cosa.
Gray dormiva
ancora quando la Umbridge entrò come un turbine nella sua stanza. Gridando e
strattonandola riuscì a svegliarla, ma Gray era così esausta che difficilmente
sarebbe stata in grado di camminare. Le ferite secche avevano sparso sangue sul
letto durante la notte, e ora giacevano sul viso latteo come macchie di sporco.
Era piena di altri piccolissimi tagli, aveva le labbra livide e due grosse
borse violacee sotto gli occhi arrossati. Non si ricordava di aver pianto
durante la notte. Aveva i capelli spettinati e uniti in tante mazzette sudate.
La Umbridge
non ebbe pietà. La sbattè fuori dalla stanza tirandola per i vestiti, a tratti
strappati e sporchi di sangue, gridando cose che Gray non riuscì a capire.
Appena fu fuori guardò l’orologio. Era mezzogiorno.
Con la
Umbridge c’erano i professori responsabili delle case: la McGranitt, Piton, la
Sprite e Madama Bumb. Chi di loro non aveva un’aria stravolta e scombussolata,
aveva gli occhi semplicemente traboccanti d’ira e le guance avvampanti come se
avessero appena urlato per ore. Gray tossiva, e non riusciva a vedere
praticamente niente mentre veniva strattonata per i corridoi. Era ancora mezza
addormentata e le gambe si muovevano per pura spinta da parte della Umbridge,
dotata di una sadicità ancora più perversa del solito.
I corridoi
erano deserti: evidentemente gli studenti erano stati spediti nei dormitori o
in qualche altro “luogo sicuro”.
Alla fine,
senza neanche capire come, Gray si trovò di fronte alla scrivania di Silente.
Nello studio c’era tutti il personale, compresi Gazza e Madama Chips, e c’erano
anche Caramell, Lucius Malfoy e due Auror, fra cui Kingsley Shacklebolt. Da una
parte Gray intravide Percy Weasley che prendeva frettolosamente appunti,
nonostante nessuno avesse ancora detto niente.
Gray iniziava
a ricordare, molto lentamente, tutto quello che era successo. Ma, come se non
captasse la gravità della situazione, pensava con occhi sognanti al cuscino
caldo che aveva appena lasciato nella sua camera.
Il suo
desiderio di dormire era brutalmente stroncato dalle espressioni di tutti i
presenti.
Perfino
Silente sembrava fuori di sé, anche se non era chiaro con chi. Magari in quel
momento la scuola pullulava di personale ministeriale, forse perfino di
Dissennatori, e Silente, pur non ammettendolo a voce altra, detestava entrambe
le cose.
- Silente! - sbottò Caramell, afferrando la
spalla di Gray e spingendola con risentimento fino in mezzo alla stanza - Questo
non era mai successo in una scuola e non sarebbe mai dovuto succedere… -
- Via,
Cornelius, - sospirò Silente, esausto - Non vedi che sta male? - poi si voltò
verso Gray che lo guardò appena dietro il velo lattiginoso che le copriva gli
occhi, e aggiunse, con espressione addolcita - Ti prego, siediti. Sedetevi
tutti. - ed evocò delle sedie. Rispetto al numero dei presenti ne mancavano
due.
- Ne mancano
due, Silente, - fece notare Caramell, divertito.
- Niente
affatto, - rispose il Preside pacatamente - Perché mi aspetto che i tuoi Auror
escano di qui immediatamente -
- No, Silente!
- sbraitò la Umbridge - Gray è pericolosa e io vi ingiungo di… -
- Uscite,
ragazzi. - disse Caramell, reprimendo l’ira.
Gli Auror
uscirono dopo un breve cenno del capo verso il Preside, e tutti si sedettero.
Gray sprofondò nella sedia facendola indietreggiare di parecchi centimetri. Si
prese la testa fra le mani, guardando il pavimento di legno, rifiutandosi di
alzare lo sguardo, e tossendo di tanto in tanto qualche goccia di sangue. Piton
la guardò con una specie di soddisfazione negli occhi, ma sforzandosi di
celarla, mentre Malfoy aveva lo sguardo colmo di trionfo. Gray lo sapeva, ma
non gliene importava niente.
- E adesso,
Silente… - ringhiò Caramell - Spiegami. Avanti. Stanno già partendo lettere
ovunque, da studenti e famiglie, perché tutti vengano informati dell’accaduto…
domani sulla Gazzetta del Profeta ci sarà scritto questo e quant’altro, e non
sarai solo tu a finire nei guai con la tua scuola, ma tutto questo trascinerà
anche il Ministero della Magia nella polvere! Il Marchio Nero, Silente! Ieri
notte qualcuno è morto! -
- …Nella tua
scuola, - aggiunse Malfoy, mellifluo - il “luogo più sicuro di tutta
l’Inghilterra”. -
Silente teneva
lo sguardo fisso di fronte a sé, rifiutandosi di mostrare segni di impressione
o cedimento. Gray non si mosse, anzi, la testa affondò ancora di più.
- Soggetti
pericolosi si aggirano per questa scuola, - soggiunse Piton - e credo di
avervelo detto fin dal principio. -
- Suppongo sia
il caso di dimenticare i vecchi dissapori, Severus, - disse Silente a Piton, e
in casi normali Gray avrebbe proprio voluto vedere la faccia di quest’ultimo,
dopo che veniva di nuovo zittito.
- Non stiamo
parlando di “dissapori”, Silente. - disse Caramell - Gli studenti sono in
pericolo. Un Mangiamorte era nei confini di questa scuola, ieri notte, e ho
ragione di credere che ci sia ancora… Silente, è necessario prendere
provvedimenti! -
- Suggerisca,
allora - disse Silente. Gray non ascoltava nemmeno una parola.
- E’ ovvio! È…
è inevitabile! Gray ha fatto un omicidio, capisce? - la Umbridge avvampava
dall’ardore della conversazione - E lo ha fatto con l’uso ripetuto della
Maledizione Cruciatus, da brava Mangiamorte. Silente, tu conosci la pena per… -
- Pena che
nella mia scuola non sarà effettuata, mai più, - concluse Silente.
Gray volle
illudersi di non aver sentito la frase. Le ferite iniziarono a bruciare e un
turbine di sommessi mormorii si agitò nella sua testa. Gray iniziava a
ricordare che cosa aveva sognato… Il Bacio dei Mangiamorte… era il suo terzo
anno a Hogwarts…
- Silente! -
esclamò Caramell, alzandosi in piedi di scatto. La McGranitt e gli altri
professori lo guardarono sdegnati.
- No,
Cornelius, - lo interruppe Silente - Non ci sono prove sufficientemente
concrete che sia Gray la colpevole, e fin quando non le avrò ottenute, non
permetterò che nella mia scuola dei Dissennatori compiano ancora quella cosa
tremenda! -
- Il Bacio non
è una cosa tremenda, - disse Lucius Malfoy, - è un baluardo della giustizia. È
quello che si meritano tutti i Mangiamorte. -
Gray si sentì
avvampare d’ira.
E tu cosa sei,
allora, Malfoy?
- E pretendo, -
aggiunse Malfoy - che Gray lasci subito questa scuola e venga rinchiusa di
nuovo ad Azkaban. L’ultima volta il Ministero è stato fin troppo clemente nei
suoi confronti, e se è questo il modo con cui il crimine viene combattuto… -
- Tu non hai
niente da dire? -, interruppe Piton, guardando Gray con aria sfrontata.
- Fate quello
che vi pare, - rispose Gray in un soffio. Aveva alzato la testa, dritta ed
immobile in direzione di Piton, che si sentiva decisamente a disagio. Ora due
occhi rossi e vacui si erano fissati nel suo cervello, come una tortura.
- Quello che
ci pare, eh? - ripeté Caramell, furibondo - Bene! …Bene! - girò furentemente su
sé stesso e tornò a fronteggiare Silente, probabilmente molto irritato perché
non era riuscito a intimorire Gray. Silente sembrò accorgersi del suo stato
d’animo e i suoi occhi, nonostante tutto, sembravano piuttosto compiaciuti. -
Ti mancano le prove, Silente? Eccoti una testimonianza!! - additò Malfoy,
sbattendo un pugno sulla scrivania, e rovesciando diversi fogli - E’ stato
anch’egli vittima, tentando di fermare Gray che aveva appena ucciso… -
- … chi? -
incalzò Silente. Gray, nonostante tutto, gli si sentiva più ostile che
riconoscente.
- Amelia
Bones! - gridarono
la Umbridge e Caramell all’unisono. Gray trasalì. Era una Mangiamorte. Come
aveva fatto a non riconoscerla? Pur non avendo mai saputo che avesse il Marchio
Nero, l’aveva vista altre volte al Ministero, e se l’avesse riconosciuta
sicuramente non avrebbe agito così imprudentemente. Ormai era tardi per
ripensarci. - Silente, non è la prima aggressione che vedo a Hogwarts, ma non
mi sarei mai immaginato… - aggiunse Caramell, a denti stretti - che la stessa
persona avrebbe ripetuto per due volte il suo gesto. -
- La sua
autorità non conta, adesso. Spetta al Ministero decidere cosa sia più giusto
fare. - aggiunse la Umbridge.
- Esiste un
metodo preciso, - disse Silente mantenendo la calma, ma era visibilmente
turbato. Sembrava di colpo ancora più vecchio, ancora più stanco.
Smisuratamente stanco. Gray non se ne accorse, non gliene importava, non le
importava di niente. Silente usò un Incantesimo d’Appello per chiamare a sé la
bacchetta di Gray che iniziò subito ad agitarsi nelle sue mani. - Prior
Incantatem, - disse, sommessamente.
Figure
argentee cominciarono a sprigionarsi dalla bacchetta di Gray, e lei alzò lo
sguardo, a malapena, come se le ossa e i muscoli non volessero muoversi.
Due o tre figure
umane ne uscirono, erano spettri, o fantasmi, gridavano di dolore parole
incomprensibili. E poi altre figure umane, altri fantasmi, quattro, cinque…
Silente le osservava profondamente amareggiato, ma Caramell sembrava traboccare
di soddisfazione. Le figure più nitide, comunque, erano un drago serpentino
dalle lunghe zanne, che si dibatteva e si contorceva furioso, poi videro un
altro essere umano contorcersi in modo grottesco, disumano… ed era
inevitabilmente somigliante a Lucius Malfoy. E poi fu la volta di una spada di
ghiaccio, che sprizzò di sangue. E il sangue sbocciato dalla lama congelata si
unì, formando un agglomerato perfettamente identico al Marchio Nero.
- Non mi
sembra che si tratti di una prova sufficiente. Una sola Maledizione Cruciatus
non uccide una persona, e nemmeno un Marchio Nero in celo o un Incanto
Patronum. - disse Silente con lentezza, anche se sembrava che non prendesse mai
fiato.
Il viso di
Caramell sembrava un semaforo: in pochi secondi dal rosso era passato al verde.
- Questi sono
gli spettri delle persone che ha ucciso! - gridò.
- Ha scontato
la sua punizione per questo, - insistette Silente - E sei stato proprio tu a
decidere di graziarla. Non vedo qui alcun omicidio che non corrisponda ad acqua
passata, almeno per quanto riguarda la legge. E’ evidente che qualcun altro che
fosse presente al momento dell’assassinio ha compiuto il gesto. -
Percy si era
pietrificato con la penna d’aquila a mezz’aria, così come il resto dei presenti
nell’ufficio. Gray era del tutto indifferente.
- Vorresti
accusare lui, Silente? - ringhiò Caramell additando Malfoy, il quale inalberò
un cipiglio profondamente offeso, e vagamente divertito. Ma sembrava
decisamente turbato dall’espressione sicura che Silente gli puntava addosso.
Nessuno parve accorgersene.
- A questo
quesito risponderà la pura verità, e nient’altro che quella, - ribatté Silente,
che aveva perso il tono benevolo e tranquillo. - Severus… - aggiunse, con un
cenno eloquente della testa. Piton uscì, lasciando al suo posto una coltre di
imbarazzante silenzio.
Quando fece
ritorno poco dopo, aveva in mano un calice contenente un liquido piuttosto
maleodorante. Lo consegnò a Silente, il quale a sua volta lo mostrò a Caramell.
Era Veritaserum.
- Mi rifiuto
di… - iniziò Malfoy, ma un altro gesto di Silente lo zittì.
- Se tu ti
rifiuti, Lucius, - lo interruppe Silente, e il suo sguardo valeva come una
sentenza non pronunciata, - penso che toccherà a te. - concluse, guardando
Gray. Lei alzò a mala pena la testa. I capelli sudati le si appiccicavano al
volto, e le borse sotto gli occhi erano falciate più spesse che mai. Scrollò le
spalle. Ormai non le importava cosa avessero fatto. E comunque, era lei che
aveva torto, era lei la colpevole. Cosa aveva da nascondere? Con sole tre gocce
del liquido, ebbe la sensazione che un lungo rettile, freddo e viscido, le
colasse in gola. In un attimo aveva la mente così annebbiata che a mala pena
riusciva a distinguere i contorni di ciò che aveva intorno, e a volte vedeva
soltanto un fastidioso bagliore completamente bianco.
- Chi ha
ucciso Amelia Bones? - chiese una voce sorda nella sua testa.
- Io. -
rispose Gray senza esitazione.
Ma avrebbe
preferito diventare cieca e sorda all’unisono, per non dover sentire che
Silente veniva sostituito dalla Umbridge a tempo indeterminato, Malfoy riceveva
un Ordine di Merlino per i Servizi Resi al Ministero a all’Ordine Pubblico… e
lei, veniva condannata al bacio dei Dissennatori.
*
“Misteriosa
fuga sotto gli occhi del Ministro.
Ancora ignote
le circostanze per le quali Gray si sarebbe dileguata due giorni fa, entro il
perimetro di Hogwarts, appena dopo l’esecuzione della sentenza che spetta a
tutti gli assassini. Dopo il Bacio dei Dissennatori, Gray sembra essersi
accasciata a terra e poi sparita, lasciando il Marchio Nero al suo posto. Il
Ministro della Magia Cornelius Caramell e l’Inquisitore Supremo di Hogwarts
negano la possibilità che Gray si sia Smaterializzata, in quanto la zona è
protetta contro Incantesimi di questo tipo. La fuga rimane ancora un mistero.
Ci si chiede se non sia stato adottato lo stesso sistema anche per la fuga da
Azkaban che Gray effettuò appena diciannovenne.
Molte famiglie
hanno gridato allo scandalo e preteso che i loro figli tornassero a casa, ma da
quando l’Inquisitore Supremo, Dolores Jane Umbridge, è diventata Preside,
sembra che le acque si siano calmate.
- Ho cercato
invano di fermare Gray quando ha ucciso Amelia Bones, sotto gli occhi di alcuni
studenti di ritorno dalle vacanze, - ha dichiarato il testimone Lucius Malfoy,
presente al momento dell’omicidio, - Gray ha trasportato Amelia Bones fino al
Ministero della Magia, senza dubbio. Un attimo dopo il Marchio Nero è apparso
in cielo. -
Gray
attualmente è ricercata, per la seconda volta. Amelia Bones è stata ritrovata
morta nel suo ufficio, col nome di Gray inciso sul braccio.
- Gray è
sempre stata sospetta, - ha dichiarato l’Inquisitore Supremo, - A cominciare
dalle sue presunte amnesie. E’ stata senz’altro la più giovane assassina che
abbia messo piede ad Azkaban. Chiediamo di mantenere la calma: si nasconde
sicuramente nello stesso luogo di Sirius Black, e i Dissennatori stanno facendo
il possibile per trovarli. -
Al momento
dell’esecuzione erano presenti anche due Auror, e attualmente tutta la loro
squadra è impegnata nella cattura di questi due pericolosi Mangiamorte. E non
siamo i soli ad augurarci che li arrestino presto!”
Gray sentiva
una sorta di buco nero nell’anima, e minuto dopo minuto frammenti di intere
ore, di giorni, di settimane si aprivano nella sua memoria più recente.
Riconosceva perfettamente quella sensazione.
Si sentiva
come priva delle ossa e della capacità di pensare a qualsiasi cosa. Stesa su un
letto di ferro, in una stanza blindata. Le ombre danzavano minacciose sulle
pareti grigio scure. Ogni immagine scorreva a rilento. I suoni erano
strascicati e fiacchi. Molte sensazioni erano sparite, o forse le provava
ancora, ma non ricordava più che nome avessero.
Immensi
baratri neri traboccavano di visioni convulse, senza identità né provenienza.
Ogni volta che
girava lo sguardo, la visuale di Gray si distorceva.
I colori non
corrispondevano alla realtà. Tutto sembrava affogato in una specie di gelatina
violacea. Le iridi di Gray si dilatavano e si restringevano in continuazione, a
volte veniva abbagliata dalla luce, a volte non vedeva niente. Tutti i muscoli
le facevano male, le ferite ormai vecchie frizzavano e marcivano sulla pelle.
Le labbra
erano secche e screpolate, quasi bluastre.
Le sembrava di
essere nel delirio di una droga, di un incubo grottesco, di una febbre troppo
alta.
Se fosse stata
in grado di pensare, non avrebbe potuto comunque riconoscere quella stanza che
non aveva mai visto. Ma non le interessava sapere dove fosse, se riusciva a
mala pena a ricordarsi chi era. Strinse con tutte le forze che le erano rimaste
il ciondolo che portava al collo, dal quale sentiva provenire una strana forza
che lentamente, molto lentamente, le entrava nel corpo e fluiva in ogni sua
parte.
Era in una
posizione piuttosto scomoda, con la pelle a contatto con quel freddo metallo.
Avrebbe voluto girarsi ma non riusciva a trovare la forza da nessuna parte.
Rimase in quello stato per tanto, tantissimo tempo, non seppe definire
esattamente quanto.
Alla fine,
riuscì a muoversi, e si sedette. Soltanto quel piccolo movimento apparentemente
insignificante le era sembrato uno sforzo al di là delle sue possibilità. Si
accorse di avere addosso la bacchetta, come sempre infilata nello stivale, ma
non poteva farci nulla, anche senza tentare, sapeva benissimo che non
l’avrebbero mai messa lì dentro se ci fosse stato un modo per uscirne con un
incantesimo. Per questo le avevano lasciato la bacchetta? Per prenderla in giro
o per attirarla in una qualche trappola?
Per il momento
Gray non si sognava neanche di uscire. Non ce l’avrebbe fatta. Tuttavia, tentò
di raggiungere l’immenso portone sigillato; forse sarebbe riuscita a sentire
qualcosa, che le avrebbe fatto capire dove si trovava. Tossendo, barcollò con
lentezza esasperante. Raggiunta la porta, non resistette più e si accasciò sul
pavimento, battendo i denti a terra. Riuscì a malapena a trascinarsi
nell’angolo, lì vicino, cercando di stringersi in sé stessa, per sentire meno
freddo. C’era una finestra, minuscola, altissima rispetto al pavimento, e
attraverso le sue sbarre Gray riuscì a vedere la notte e la luce di un
minuscolo spicchio di luna. Il cielo era rannuvolato, ogni tanto la sua quiete
era interrotta da tuoni remoti. Gray non sapeva perché, ma sentiva che quella
finestra non era reale.
Aveva un
freddo terribile penetrato fin dentro le ossa. Da quella posizione non si
sarebbe più mossa, era troppo stanca. Perfino l’energia calda che veniva dal
ciondolo sembrava solo un sospiro incerto, lontano.
Non faceva che
tossire.
Il dolore si
fece così lacerante che, ad un tratto, piegò bruscamente la schiena e vomitò
sangue sul pavimento. E accadde altre due, tre, quattro volte. Si stupì di non
sentire fame né sete, ma il bisogno di dormire era incontrollabile, contrastato
soltanto dal freddo e dal pavimento duro e scomodo.
Un vento
ingrato e tagliente cominciò a frusciare per tutta la stanza, che ogni secondo
diveniva più immensa, ma Gray intuì che anche quello era un’illusione. Sapeva
di essere di molti metri sottoterra.
Ogni tanto le
sembrava di sentire delle voci. Sussurravano sommessamente nella sua testa cose
che non capiva. Non era Voldemort. Il Marchio non le faceva male neanche un
po’, ed erano voci troppo dolci… suadenti…
Spiriti
evanescenti emersero dal pavimento, accompagnati da piccole e delicate nubi di
fumo. Sembravano fate, o piccoli fantasmi, sussurravano…
Erano sagome
indistinte, che si perdevano ad ogni soffio di vento, disfacendosi come nuvole
nella tempesta. Nubi di farfalle di ogni colore volavano lentamente attorno
alla fredda stanza, ma ogni volta il vento le distruggeva, o veniva
carbonizzate, finivano la loro vita tra le fiamme. Gli spiritelli continuavano
ed emergere, dal soffitto, dalle pareti, dal pavimento, dalla porta… ma in
qualche modo morivano dopo pochi secondi.
E ogni volta,
grida selvagge, disperate, rimbombavano nella testa di Gray.
Gray non
riusciva a pensare a nessun ricordo felice. Non sarebbe mai riuscita ad
andarsene di lì, sarebbe morta là dentro, da sola, sarebbe morta di pazzia…
Riconobbe il
Bacio dei Dissennatori.
Sapeva che si
trattava di quello, ma sapeva altrettanto bene che non avrebbe avuto alcun
effetto permanente, non finché avrebbe avuto quella collana. Ma non poteva
impedire che, nel frattempo, la disperazione si impossessasse di lei, o si
sarebbe senz’altro uccisa prima di aver recuperato le forze.
Estrasse il
coltello dalla cintura.
Il sole nacque
e morì diverse volte, e Gray continuava a riempirsi di tagli l’avambraccio, le
gambe, le spalle. Non avrebbe mai permesso che i Dissennatori potessero finirla
in quel modo, anche se ci fossero voluti mille tagli dolorosi: il dolore poteva
cancellare l’angoscia.Non sapeva quanto
sarebbe rimasta là dentro, ma ancora non aveva fame, e su tutte le ore che
erano trascorse, non aveva dormito molto. Doveva essere il quinto giorno quando
cadde in uno stato di semi apatia; gran parte del suo cervello dormiva, ma era
come se uno solo dei suoi occhi gettasse intorno a sé sguardi inquieti, nel
timore che succedesse qualcosa.
Era passato il
tramonto quando la porta si aprì, ma Gray non reagì minimamente.
Una striscia,
una falciata di luce tremula serpeggiò sul pavimento e si infranse sulla parete
opposta. Al di là di quella porta dovevano esserci solo delle torce ad
illuminare le stanze. Lo spettro di fioca luce era sormontato dall’ombra di una
sagoma umana sottile, dal lungo vestito; si distinguevano bene la bacchetta ben
stretta nella mano destra e il pesante cappuccio gettato sulla testa.
La donna
avanzò, Gray sentiva i suoi passi echeggiare nel silenzio come un rumore
fortissimo, ma non si mosse. Il suo viso era tremendamente pallido, sembrava si
potesse quasi vedere cosa c’era sotto. I capelli erano sporchi e spettinati, la
sua pelle era macchiata di sangue e coperta di tagli, ormai anche nel viso.
- Ciao, Gray, -
- Bellatrix -
soffiò Gray.
- Hai un
aspetto magnifico. - disse Bellatrix. - Alzati. Ti stanno aspettando. -
Gray non
chiese chi la stava aspettando, si alzò e basta. Aveva la spiacevole sensazione
che niente le avrebbe peggiorato ancora le cose, a quel punto.
Realizzò di
trovarsi nell’Ufficio Misteri.
L’aveva visto,
una volta sola, ma riconosceva bene quel corridoio, quelle porte che giravano…
Giravano come la sua testa. Non si era mai sentita male come in quel momento,
tranne che una volta, anni prima. E avrebbe preferito non doverlo sperimentare
mai più.
Avrebbe potuto
succedere qualsiasi cosa senza che lei se ne stupisse; camminarono a lungo per
i corridoi dell’ufficio Misteri, e sembravano scendere sempre più in basso, fin
quando non raggiunsero una piccola stanza circolare, completamente vuota.
Puzzava vagamente di muffa. Le pietre del pavimento sembravano levigate dal
troppo camminarci sopra. Undici persone vestite di nero stavano in piedi
immobili, voltando le spalle all’entrata, undici persone fra le quali Gray
avrebbe dovuto stare.
Gray sentiva
l’inconfondibile sensazione di un ricordo che torna in mente all’improvviso, un
ricordo molto, molto vecchio.
Intuiva anche
che cosa stava per succedere, ma era talmente sprofondata nel vuoto che
qualsiasi cosa l’avrebbe lasciata del tutto indifferente. Quando gli undici
Mangiamorte sentirono i passi di Bellatrix e Gray avvicinarsi, si voltarono
verso la porta, un semplice buco nella parete di roccia, coperto da una tenda semi
trasparente color porpora. Gray notò che c’era un piccolo buco al centro del
pavimento, ed era così stretto che la tenue illuminazione della stanza non
permetteva di vedere cosa c’era oltre.
- Ehi, Brufolo
Bill, - salutò Gray in direzione di Rookwood, ma il suo tono non era dei più
allegri; una voce strascicata, cadente. Rookwood non la degnò di uno sguardo,
ma forse stava cercando di trattenersi dal lanciare un incantesimo.
- Speriamo che
il soggiorno ti sia piaciuto, - disse uno dei Mangiamorte.
- Ho qualcosa
da ridire a proposito della sistemazione. -
- Di questo
non dovrai preoccuparti. - disse Bellatrix - Tra un po’ sarà questa, la tua
sistemazione, e qualcosa mi dice che ci resterai per sempre. -
I Mangiamorte
sghignazzarono sommessamente, era come se avessero avuto paura di svegliare un
mostro che dormiva, da qualche parte.
I Mangiamorte
si scambiarono qualche sussurro, ogni tanto ghignando in direzione di Gray,
ogni tanto lanciandole espressioni di disgusto. Gray si appoggiò al muro per evitare
di cadere, cercando di recuperare l’equilibrio, perché le girava veramente
troppo la testa, come se fosse appena tornata a terra dopo tre ore di giostra.
- Sai a cosa
serve quel foro, Gray? -, disse Malfoy.
- No, non lo
so, - rispose Gray - E neanche tu lo sai. -
- Esattamente.
- rispose Malfoy, piuttosto contrariato, - Non abbiamo idea di cosa se ne
facciano quelli dell’Ufficio Misteri, ma una cosa è certa, ci sarà molto utile…
-
Venne
interrotto da un grido lacerante che sembrava provenire dalla stanza di sotto,
sotto al foro sul pavimento. Erano grida da far stringere il cuore. Si
spezzavano, ricominciavano, poi si spezzavano ancora… forse era un uomo che
veniva torturato.
Gray mantenne
la stessa espressione, ma una leggera ombra di disgusto le rabbuiò gli occhi; i
Mangiamorte, invece, ghignavano soddisfatti.
- Si tratta di
Avery, - disse Rookwood, - Ed è la punizione che spetta a chiunque osi fornire
al padrone le informazioni sbagliate… -
- Al padrone… -
sbuffò Gray - Al padrone! Caro e onnipotente padrone! Ma vi sentite quando
parlate? -
La sua
affermazione non piacque molto ai Mangiamorte, che però rimasero composti senza
una minima variazione di espressione.
- Ad Avery è
toccata una grande fortuna, un onore, direi, - soggiunse Malfoy, sovrastando le
urla, - è proprio l’Oscuro Signore a punirlo, stanotte, ma tu non avrai lo
stesso privilegio. - Gray alzò gli occhi al soffitto - Purtroppo è un pessimo
compito che devo riservare a me stesso. -
Gray non
rispose. Era duro ammetterlo, ma avrebbe dato qualsiasi cosa per non essere lì
quella notte. Desiderò con tutta sé stessa di trovarsi ancora nella sua camera,
a dormire, che la Umbridge non fosse mai venuta a tirarla fuori per portarla da
Silente, anzi, desiderò non aver mai sentito parlare di Voldemort, del Marchio
Nero, e dei suoi Mangiamorte.
Ma sapeva che
era inutile. Da quella fiammata di esasperazione capì che si stava lentamente
riprendendo, sfondando il muro d’apatia che si era creata in quei cinque giorni
di prigionia. Non durò a lungo perché, poco dopo, era già tornata come prima,
ferma e impassibile, senza più terrore negli occhi, con la sola voglia di farla
finita quella notte, e di farla finita in fretta.
Era troppo
occupata a fissare nel vuoto per rendersi conto che Malfoy aveva alzato la
bacchetta, e che Bellatrix le aveva rubato la sua. Una specie di scossa la
attraversò nelle vene, e poi si accasciò a terra. Un grido lacerante le esplose
dalle labbra. In un istante sparirono tutte le immagini, i rumori, qualsiasi cosa
che avesse intorno, rimase soltanto una specie di bagliore rosso fuoco di
fronte ai suoi occhi. Si sentì come se tutte le sue ossa si stessero spezzando.
Lo stomaco le si capovolse, il gomito si piegò troppo all’indietro… troppo
rapidamente. Ricadde moscio lungo il fianco, con tutto il braccio ciondolante.
Gray non riusciva ancora a vedere niente, sentiva soltanto il sangue fluirle
rapidamente dalla bocca e dai tagli che sembravano essersi riaperti tutti
contemporaneamente.
Dubitava che
sarebbe stata in grado di sentire un dolore più feroce di quello. Si sentiva
soffocare, come se avesse avuto la gola annodata, come se qualcuno la stesse
strozzando. Ancora una volta sentì quel dolore, e fu come se un’infinità di
dita ossute la stessero strangolando. Le furono lasciati pochi secondi di
quiete, di silenzio assoluto. E poi di nuovo il dolore, ancora una volta, e la
sensazione fu quella di spade che le laceravano la pelle più di quanto non
avesse già provveduto da sola.
Credeva che
sarebbe morta. Intorno a sé le voci le apparivano indistinte, altre volte
invece non le sentiva proprio. Tutto era una macchia rossa, e il sangue
frizzava ogni volta che tentava di aprire gli occhi. Era ferita dappertutto,
sapeva che aveva perso troppo sangue. E il punto in cui giaceva il Marchio
Nero, bruciava da far uscire di senno.
- Basta così, -
disse una voce.
Era molto
diversa da quella degli altri Mangiamorte. Gray rimase sdraiata sul pavimento
coperto di sangue, senza curarsi di nulla. Dopotutto la morte era sempre più vicina,
e non ci sarebbe voluto molto perché la raggiungesse del tutto.
- Una volta
non avresti resistito così tanto, devo dire, - aggiunse la voce, - Anni passati
a ribellarti a me, devono averti fatto fare esperienza. -
Era Voldemort.
Non per vederlo
Gray avrebbe aperto gli occhi. Non avrebbe sfidato l’immensità infernale che si
estendeva dietro le sue palpebre, non per guardare negli occhi, ancora una
volta, la causa di anni e anni di dolore insopportabile. La causa della sua
diversità rispetto agli altri, la causa di tutti i suoi disagi, la causa della
punizione che doveva auto infliggersi ogni volta che il Marchio tentava di
emergere… la causa di cinque anni ad Azkaban, e di tutti quelli che aveva
ammazzato per suo volere, senza rendersene conto… di coloro che erano morti e a
cui lei voleva bene…
La sua mente,
ora, era completamente vuota.
E in quel
vuoto assoluto, rimbalzava la sola preghiera di morire prima possibile, prima
di essergli utile di nuovo, e magari di uccidere qualcuno che lei non avrebbe
mai voluto uccidere. Sapeva che non avrebbe opposto nessuna resistenza, in quel
momento, se Voldemort avesse voluto controllarla.
Era troppo
stanca e debole.
Ci sarebbe
voluto poco per distruggere ogni suo volere, anche perché era certa di non avere
più nessuna volontà.
- Apri gli
occhi, Sara, - disse Voldemort. Gray rimase immobile. - Apri gli occhi, o dovrò
aprirteli io stesso. - Gray sapeva che le avrebbe tagliato le palpebre, lo
sentiva, lo leggeva nella sua mente tormentata…
Mutilami
quanto vuoi…
Non cambierà
le cose…
- E finiscila
subito di impicciarti, - aggiunse l’Oscuro Signore. Gray non riuscì più a
vedere nella mente di Voldemort. La sensazione fu quella di una porta che le
veniva chiusa in faccia. Decise di aprire gli occhi. Le sembrò di gettarsi in
un baratro sconfinato, ciò che vedeva per qualche minuto non fu corrispondente
alla realtà, e poi finalmente i suoi occhi tornarono a vedere quello che
realmente avevano davanti.
Il sangue
colava nel buco sul pavimento, e solo allora Gray si rese conto che era
vagamente in discesa.
Voldemort era
davanti a lei. Una figura alta, dalla pelle secca di un grigio chiarissimo, il
viso vagamente serpentino, gli occhi rossi e malvagi che sembravano non
chiudere mai le palpebre. In mano reggeva un calice piuttosto rozzo, e Gray
riusciva solo ad immaginarsi cosa ci fosse dentro. Comunque non aveva molta
voglia di pensarci: era piena di ferite e ormai aveva il braccio rotto e la
caviglia fratturata.
- Era per
impedirti di volare via, - disse Voldemort - Mi sei stata abbastanza di peso,
con questa tua abilità dell’Animagus. Sei stata furba a non farti scoprire dal
Ministero, altrimenti le mie spie me l’avrebbero detto e sarebbe stato tutto
più facile. - Gray avrebbe voluto chiedergli: “che vuoi da me?”, ma la mascella
non si muoveva. Guardando di nuovo verso Voldemort, si rese conto che il calice
che reggeva in mano conteneva un liquido rosso. Gray ora ne era certa, ne
sentiva l’odore fin lì, avvertiva la sua fibra. Era sangue. - Il tuo sangue,
Sara, proprio così. Si fa presto a leggerti nel pens… - Voldemort corrugò la
fronte, ma il viso era così piatto e liscio che il cambiamento si notò ben
poco. Anche lui aveva appena avuto la sensazione di una porta che gli si
chiudeva di fronte. - Bene, bene, non sei ancora completamente fuori di te. E
questo è un bene, perché sto per farti una domanda e sarà l’ultima volta che te
la porrò. -
Gray non aveva
intenzione di rispondere. Sapeva benissimo qual era la domanda. E visto che
stava per morire dissanguata, non vedeva utilità nel rispondere.
- Perché vuoi
il mio sangue? - rantolò, cercando di portarlo fuori dal discorso.
- A differenza
di qualsiasi altro essere umano, - rispose Voldemort tranquillamente, - Io sono
del tutto immune alla maledizione che è stata lanciata anni fa, e so benissimo
che questo sangue contiene un potere enorme, un potere antico e inimmaginabile…
chissà, se sopravvivrai a stanotte forse un giorno lo scoprirai… oh,
dimenticavo… se sopravvivrai, continueremo fin quando non sarai morta… - I
Mangiamorte risero sguaiatamente; Voldemort dissimulava un tono di noncurante
leggerezza. Ma di colpo la sua espressione si fece seria, e anche i Mangiamorte
tacquero. Gray capì che stava per iniziare un altro discorso lunghissimo… e lei
voleva soltanto mettere fine a tutto…
Voldemort la
guardava fisso. Ma stranamente, anche lui come tanti altri, cercava di evitare
di guardarla dritto negli occhi.
- Ho trascorso
anni a cercare di controllarti. - esordì, arricciando appena le labbra
grigiastre, - Tante volte ti sei trovata nel posto giusto al momento giusto: a
Hogwarts, dove avresti potuto uccidere tante persone che mi facevano così
scomodo…. Ti sei mai chiesta quanto sforzo abbia impiegato io per tentare di
assumere il controllo delle tue azioni? Oh, stavi spesso vicina a Silente,
anche se la cosa non ti piaceva… ma eri la sua preferita, naturalmente, una
delle poche… gli facevi proprio compassione… il mostro di turno, insomma,
l’asociale, il cadavere… un vampiro che non sa mordere… -
Gli occhi di
Gray formulavano benissimo la domanda che lei non riusciva a pronunciare.
- Un membro su
tre della tua famiglia basava la sua vita sul sangue, e tu, a causa del sangue,
non riesci quasi a vivere! Gran bella famiglia la tua… sempre meglio della mia.
- e rise amaramente. - Voi Gray eravate maledetti, lo dicono tutti… Tutti un
branco di assassini lussuriosi… e se non morivano ad Azkaban si uccidevano tra
loro, come un branco di animali. E anche tu non sei stata da meno. Hai fatto
fuori i tuoi senza nessuna esitazione. Li odiavi, eh? Per colpa loro sei una
Mezzosangue, anziché di sangue puro come tutta la tua famiglia. Poi qualcuno si
mise sulle vostre tracce per uccidervi. Come tutte le antiche famiglie pure,
non potevano sopportare dei bastardi… c’è chi si limita a diseredarli, ma i
Gray no, volevano il sangue, l’omicidio… -
- Ho sempre
pensato che tu mi assomigliassi, in qualche modo. L’unica razza che dovrebbe
esistere sono i Purosangue, e io lo leggevo nella tua mente, tu odiavi i
Mezzosangue almeno quanto me, per averci contaminato la nascita… -
Gray non
riusciva a capire i discorso di Voldemort. Di lì a pochi minuti non avrebbe più
avuto una goccia di sangue in corpo. E in fondo non le importava di cosa stesse
parlando, perché qualsiasi domanda le avesse fatto, non avrebbe fatto in tempo
ad ascoltare la risposta: sarebbe morta prima.
- Ma
dimenticavo, tu non ricordi niente… -, aggiunse in tono pateticamente
infantile.
I Mangiamorte
risero in modo rozzo, esagerato, soprattutto Bellatrix.
In effetti
neanche loro sapevano di cosa stesse parlando il loro signore, ma conoscevano
la terribile maledizione che era stata lanciata quando Gray era fuggita da
Azkaban…
- Sai, mi è
sempre piaciuta la tua famiglia. Brava gente. Un sangue orgogliosamente perverso.
Non potevo non trasformarti in Mangiamorte, no davvero, perché sapevo che, con
la giusta pressione, avresti fatto esattamente ciò che volevo… per testare la
tua sottomissione, che ero certo fosse completa, tentai di farti uccidere le
uniche persone di tutta Hogwarts che non ti trattavano come una squilibrata, ma
no, la poverina non poteva uccidere i suoi amici… -
- Te ne sei
sorpreso? - riuscì a dire Gray, e non capì come ci fosse riuscita. Ma forse
aveva troppo bisogno di parlare, non poteva lasciarlo blaterale senza
intromettersi…
- No,
naturalmente. Ma avresti mai pensato che ti saresti rifiutata di uccidere anche
il mio futuro servo fedele? Poi ci ha pensato lui a riuscire dove tu avevi
fallito… -
- Dove vuoi
arrivare con questo? - Gray sentiva le parole morirle in bocca prima di
terminare la frase. Mangiava l’ultima sillaba di ogni vocabolo, e tossiva con
violenza.
- Alla mia
domanda, - rispose Voldemort, - che conosci benissimo senz’altro. -
Gray guardò
altrove.
Sì, la
conosceva bene.
- Quello che
voglio dirti è che è inutile che tu ti ribelli. Il Marchio Nero non si può
cancellare, e la tua pecca più grande è che sei una feccia per i Mangiamorte:
un mio sostenitore non dovrebbe desiderare altro che servire me. Dovrebbe
essere il suo scopo, la sua aspirazione, la conclusione di ogni sua ambizione.
Però i tuoi obiettivi sono ben diversi. E io non ho bisogno di un servo che non
vuole obbedirmi. - Gray continuava a guardare da un’altra parte, aspettando che
la morte venisse a prenderla. - Smettila di ribellarti. Cessa di opporti. La
tua è una resistenza inutile. Unisciti a me, e quando il mondo intero sarà ai
miei piedi, i Mangiamorte saranno gli unici a poterne trarre vantaggio! -Voldemort fissò gli occhi di Gray per istanti
tanto lunghi che sembrarono quasi ore.
Ma Gray non
accennava a rispondere. Il suo sguardo adesso era fisso sul soffitto, e
sembrava così sollevato che non si sarebbe mai creduto avesse subito la
Maledizione Cruciatus. Era immobile, floscia, gli occhi beatamente felici.
Voldemort
conosceva bene quell’espressione.
- Come
immaginavo, - ringhiò Voldemort, lo sguardo severo puntato su Malfoy. Il
Mangiamorte si ritrasse, balbettando delle scuse. - Incapace. Sta morendo. -.
Adesso dalla falsa
finestra provenivano gli schianti dei fulmini che abbagliavano la stanza tanto
da far male agli occhi. Gray sputò ancora un po’ di sangue a terra. Ormai il
Bacio dei Dissennatori si era estinto con tutti i suoi effetti collaterali,
perché al suo posto c’era un dolore sconfinato che Gray non sarebbe mai
riuscita a descrivere, in seguito. Non riusciva a credere che fossero così
sadici: l’avevano relativamente curata, tanto da non lasciarla morire troppo in
fretta, e l’avevano di nuovo sbattuta lì dentro. Le avevano dato qualcosa di
strano da bere, che le aveva completamente fatto passare la fame, ma che le
aveva quasi tolto la vista. Lentamente la stava recuperando, ma vedeva tutto
eccessivamente scuro - o eccessivamente luminoso.
Doveva farsi venire in
mente qualcosa.
Voldemort non si sarebbe
accontentato di ucciderla, voleva torturarla fin quando non avrebbe ottenuto la
risposta che voleva sentire, insieme al giuramento che non l’avrebbe mai
tradito. E Gray non aveva in mente quell’ipotesi.
Non sapeva come avrebbe
fatto a scappare prima che venissero di nuovo a prelevarla per torturarla
ancora. Era successo altre cinque o sei volte, e non sapeva da quanti giorni
era lì dentro. Il braccio non faceva più male ma era ancora rotto, e a causa
della caviglia era costretta a zoppicare come un’invalida. Era piena di ferite,
e non sopportava più tutto quel sangue che marciva sulla pelle…
Avrebbe voluto
addormentarsi e basta, solo dormire, e magari dormire per sempre… ma c’erano
ancora tante cose che voleva fare…
Inoltre, aveva scoperto
che Voldemort beveva il suo sangue, quasi come se non fosse ancora risorto del
tutto.
Sembrava che qualcosa
nella sua mente fosse doloroso, lo sfinisse… come se pensasse con due cervelli
contemporaneamente…
E Gray sapeva come mai.
Harry era il suo secondo
io, era quello che poteva entrargli nella mente. Gray non aveva intenzione di
fargli un favore, visto che in tutti quegli anni lei non aveva fatto altro che
soffrire a causa sua.
Doveva decisamente farsi
venire in mente un qualche piano geniale.
- Che diavolo è successo,
Bellatrix? -
- E’ stata… quella… è
stata quella sgualdrina… uno Schiantesimo… è scappata… -
Bellatrix, o almeno una
persona che era identica a lei in tutto e per tutto, si trascinava per il
corridoio illuminato debolmente dalle torce.
Era ferita, terribilmente
ferita, zoppicava e aveva il braccio rotto. Parlava con voce affannosa, e
sembrava che sputasse sangue ad ogni parola.
- Ci si può Smaterializzare
qui?, - chiese d’un tratto Bellatrix, molto velocemente.
- Perché? -
- Ti ho chiesto se ci si
può Smaterializzare. - minacciò la donna.
- S… sì, si può, ma… -
- Grazie
dell’informazione, - rantolò Bellatrix.
Il Mangiamorte che parlava
con lei sembrava incerto. Non capiva da dove provenisse una domanda così
inaspettata.
- Ma perché vuoi saperlo?
-
- Per tagliare la corda. -
Bellatrix fece
l’occhiolino, ma aveva cambiato la voce, di sicuro in modo intenzionale.
La falsa Bellatrix prese
di nuovo la forma di Gray, lentamente, e poi, con un sonoro CRACK!, sparì dalla
vista del Mangiamorte, prima che questo potesse anche solo alzare la bacchetta.
Gray aveva in mente un solo posto dove - forse - sarebbero stati felici di
vederla. In effetti conosceva soltanto Hogwarts, il Ministero della Magia, e il
quartier generale a Grimmauld Place.
*
Evidentemente i membri
dell’Ordine stavano parlando molto animatamente di qualcosa, perché, quando
Gray apparve nella stanza accanto, non la sentirono fino a quando non risuonò
il tonfo sordo di lei che si accasciava sul pavimento. Quando l’aveva vista,
Molly era vicina allo sfinimento, nel constatare quanto la sua pelle fosse
sfigurata dalla tortura.
Fortunatamente si trattava
solo di tagli e, dopo una pozione curativa e un bagno, tutto ciò che rimase del
sangue secco e delle orrende ferite furono dei tagli sottili sulla pelle, come
semplici graffietti; a parte il fatto che il Marchio Nero sembrava risalire da
sotto la pelle, e lo faceva così velocemente che la maggior parte dei presenti
ne rimasero un po’ atterriti.
- Forse ti resterà qualche
cicatrice, - aveva detto il signor Weasley.
Gray scrollò le spalle,
sapendo che quello non era che l’ultimo dei suoi problemi.
Il braccio rotto, la
caviglia e tutte le altre ossa rotte o distorte vennero facilmente curate,
anche se la pozione era un po’ dolorosa e alquanto disgustosa da bere.
Tuttavia, Gray girava ancora con il braccio penzolante da un fazzoletto legato
al collo e zoppicava. Se non ci fosse stato Sirius ad aiutarla, avrebbe avuto
non pochi problemi nel salire e scendere le scale.
Portava degli occhiali da
sole, perché lo strano liquido che le avevano fatto bere all’Ufficio Misteri
faceva sì che la luce del sole le desse veramente troppo fastidio.
- Parlando d’altro, -
disse Moody - Non è stata una grande idea quella di svignarsela. Adesso sei
anche tu ricercata con le peggiori accuse possibili. -
- Non me la sono affatto
svignata! - protestò Gray - Ero nell’ufficio di Silente, stavano parlando di
sbattermi ad Azkaban e un sacco di altre schifezze, poi non ricordo cos’è
successo, ma mi sono ritrovata in una stanza dell’Ufficio Misteri, - rispose
senza nemmeno prendere fiato. Era troppo ansiosa di precisare che, per una
volta, lei non c’entrava niente.
Le sue parole sembrarono
far ammutolire tutti i presenti.
Forse, mentre lei è
assente, si erano fatti una serie di ipotesi riguardo a quello che era
successo, e sentire la sua dichiarazione le aveva sconvolte tutte quante. Gray
non osava immaginarsi cosa fosse successo in sua assenza, anche perché non
sapeva neanche quanti giorni fosse rimasta là sotto.
Fu la prima cosa che
chiese, quel giorno, e la risposta fu - ventidue giorni -.
Gray si sentì mancare e si
gettò sulla prima sedia che le capitò a tiro.
- Che è successo a
Hogwarts? - chiese Gray.
- Hanno ficcato la
Umbridge al posto di Silente, - commentò acidamente Sirius, - E lui sta ancora
ad Hogwarts, come ha fatto la professoressa di Divinazione, ma non ha nessun
potere. Comunque, in questo modo, ha anche più tempo per venire qui ha
informarci di quello che succede.
- Harry e gli altri stanno
piuttosto bene -, proseguì - ma il gruppo che hanno formato per Difesa Contro
le Arti Oscure è stato scoperto e abolito grazie a quella piattola di Malfoy, e
non li hanno buttati fuori solo perché non era ancora uscito l’Editto
Scolastico Numero 24. -
- Un altro? -
- Prevede che ogni gruppo
sia abolito e che chiunque ne faccia parte senza il suo permesso sia espulso, -
spiegò Lupin con voce ancora più acida, passandole un foglio sul quale stava
scritto l’Editto Scolastico numero 24.
Gray, per evitare di
mangiarsi il pezzo di carta, alzò gli occhi al soffitto sospirando diverse
volte. La Umbridge non le era mai andata a genio, ma da quando sosteneva
Caramell per buttarla di nuovo ad Azkaban le era ancora meno simpatica. E poi
non faceva che sfornare Editti Scolastici; visto che ormai era latitante, Gray
considerò l’ipotesi di tornare per un secondo a Hogwarts e assestarle un bel
calcio nell’enorme faccione da rospo.
Gray e gli altri parlarono
ancora un po’ di quello che era successo a Hogwarts e nell’Ordine durante tutti
quei ventidue giorni, ma dal tono sbrigativo con il quale la ragazza si sentiva
rispondere, capì che tutti volevano parlare di quello che era successo a lei.
- E tu? Che hai combinato?
- chiese Tonks sforzandosi di risollevare qualcuno.
- Guarda che non ero in
vacanza, - ribatté Gray con un sorriso molto tirato, - Bhe, io non ho fatto
niente. Mi hanno tenuta là dentro per tutto il tempo e basta. -
Ancora silenzio.
- Quando sei tornata eri
in uno stato tremendo, - disse Sirius, - Che diavolo ti hanno fatto? -
- La Cruciatus, - rispose
Gray.
- Per quanti giorni? -
- Sette. -
A quel punto il silenzio
calato divenne come una spugna che assorbiva qualsiasi tentativo di parlare. Il
fatto che la Maledizione Cruciatus, a uso così ripetuto, non le avesse fatto
perdere la ragione o qualcosa del genere, aveva a dir poco dell’incredibile, ma
la cosa più strana era che Gray fosse sopravvissuta. Certo, aveva il gomito
spezzato, la caviglia fratturata e molte ossa distorte o deformate, soprattutto
le costole.
Era stato un puro miracolo
che non le avessero forato i polmoni.
- Avrebbero potuto fare di
peggio, - disse Gray - Ma Voldemort mi faceva la stessa domanda ogni volta, e
non voleva sicuramente uccidermi finché non gli avessi detto di sì. -
- Quale domanda? - disse
Moody.
- Le solite cose. Dovevo
unirmi a lui e obbedirgli per sempre. -
- E tu che cosa gli hai
risposto? -
- Gli ho detto di no.
Sempre. Ma non gli è piaciuta come risposta. - Gray notò che gli altri, dal
primo all’ultimo, avevano espressioni terrificate o preoccupate, o comunque
ansiose. Non che ci fosse da stupirsene, ma le era rimasto addosso gran parte
del vuoto che aveva accumulato durante quella prigionia e quelle torture,
quando non le importava più di niente, così che aveva perso il concetto di
gravità delle situazioni.
- E’ chiaro, - concluse
Moody, - Voldemort ti ha fatto apparire nell’Ufficio Misteri come ha fatto con
Amelia Bones. Abbiamo chiesto a Kingsley, che era presente fra gli Auror che
Caramell si era portato dietro: i Dissennatori ti hanno dato quel loro Bacio
terribile, e poi tu sei caduta a terra dicendo cose strane. Poi sei scomparsa e
al tuo posto era rimasto il Marchio Nero scavato sul pavimento.
- A Harry abbiamo fatto la
stessa domanda, e ci ha risposto che il corpo di Bones è scomparso lasciando
una macchia di sangue perfettamente identica al Marchio Nero. Quando è apparso
anche nel cielo, poi, tutte le colpe sono ricadute stupidamente sui ragazzi,
che erano arrivati in ritardo trascinando il corpo di Harry svenuto. Tutti
hanno creduto che fosse morto ma, appurato che era vivo, li hanno fatti tornare
nei loro dormitori. Poi la Umbridge è stata informata che Amelia Bones era
morta: il cadavere era nel suo ufficio, e sulla pelle c’era inciso il tuo nome.
Così, era chiaro chi era il colpevole. -
- Ho ucciso Amelia Bones,
anche se non sapevo che era lei, - ribatté Gray con foga, - Ma non ho mai
scritto il mio nome sulla sua pelle! -
- Lo sappiamo. - disse
Lupin. - E’ stato Voldemort a portarcela, perché a quanto pare è in grado di
condurre i Mangiamorte ovunque lui voglia. Comunque, quella notte c’erano
diversi testimoni. Ma a scuola nessuno ci ha creduto, quando hanno cercato di
difenderti. -
- …Difendermi? -, ripeté
Gray, incerta.
- Soprattutto Hermione, -
sorrise Sirius. - Si sentiva veramente in colpa, avresti dovuto vederla.
Secondo lei era tutta colpa sua, che non era stata in grado di cavarsela da
sola, eccetera. Sembrava stranamente ricreduta dopo che le hai salvato la vita.
-
- Comunque io non avrei
lanciato il Marchio Nero per aria così imprudentemente. Non lamentarti se sono
andati subito tutti da te a scaricare le colpe. - ringhiò Moody, e Sirius lo
guardò torvo. Stava per dire qualcosa, quando Gray lo interruppe prima ancora
che potesse aprire bocca.
- Bhe, di chi erano, le
colpe? Amelia Bones l’ho davvero uccisa io, no? -
- Ma il Marchio Nero era
necessario? -
- Non avrebbe cambiato
nulla, lo sai. Ormai era fatta… e poi… dobbiamo farlo… -
- Tu e chi? -, incitò
Moody, riferendosi a quel “dobbiamo”.
- Io… e gli altri… tutti
devono sapere che è stato in nome dell’Oscuro Signore… tutti… tutti devono
tremare al solo pensiero! Io non tradirò Voldemort! - Gray continuò a fissare i
presenti, uno dopo l’altro, con aria convinta e furiosa. Ed eccola, eccola, era
tornata… era l’irresistibile voglia di uccidere…
Ma dopo pochi secondi Gray
si afflosciò di nuovo sullo schienale della sedia, arrossendo un po’. Si era
resa conto che stava delirando.
Per fortuna che esisteva
la signora Weasley, la quale fu molto svelta a recuperare la situazione
offrendo a Gray qualcosa da mangiare: aveva letto negli occhi di tutti una
certa diffidenza. Non era certo che Gray fosse stata “solo” torturata.
E se Voldemort fosse
riuscito a portarla, almeno parzialmente, dalla sua parte?
La pausa-biscotto non durò
molto, sfortunatamente.
- Emh… Sì… bene, io credo
che Gray dovrebbe dormire prima di raccontarci qualcos’altro. - disse il signor
Weasley, ma non riuscì a convincere nessuno, a parte sua moglie e Gray, che
sarebbe stata decisamente felice di ficcarsi a letto e non toccare l’argomento
più a lungo possibile.
- Gray, lo so che è dura,
- iniziò Sirius, in tono incoraggiante. Gray gli sorrise molto debolmente, - Ma
devi raccontarci tutto quello che è successo laggiù. Non importa che tu ci dica
tutto oggi. Ma dobbiamo sapere che cosa ha intenzione Voldemort, o potrebbe
farlo di nuovo. -
Gray non sarebbe mai stata
convinta che la situazione fosse recuperabile, se fosse stato qualcun altro a
dirglielo. Emise un lungo, lunghissimo sospiro, e si preparò a parlare.
C’era un buco nero dal
momento in cui era nell’ufficio di Silente a quello in cui si era trovata in
quella stanza totalmente fatta di ferro. E anche da allora, ricordava solo
l’essenziale. Era doloroso parlarne ancora, era come se per ogni frase una
ferita si aprisse di nuovo. Il racconto fu duro e lungo, anche da ascoltare, ma
Gray giunse alla conclusione senza un tremito nella voce, imperturbabile, con
uno sforzo stoico di mantenere la calma.
- Bhe, Voldemort è stato
astuto, - disse Lupin.
- A me era sembrato solo
sadico. -
- Secondo me era tutto
collegato. Ha spedito a Hogwarts due Mangiamorte ai quali in fondo Gray avrebbe
potuto tenere testa. Amelia Bones era sicuramente la più scarsa, a meno che non
si sia fatta scoprire di proposito. Ma ne dubito. Per evitare che tu leggessi
le loro menti, Voldemort avrà soltanto dato loro l’ordine di portargli Harry
senza fare domande. Se il piano fosse fallito, Voldemort avrebbe ottenuto
Harry, qualsiasi cosa volesse fare, ma visto che il piano è riuscito… bhe, è
successo quello che è successo. -
- Ho capito, - disse Gray
- Quando Bones è morta l’ha fatta apparire al Ministero con la prova evidente
che ero stata io! I Dissennatori mi avrebbero indebolito abbastanza perché lui
potesse convincermi a fare quello che voleva senza sforzarsi troppo, e nel
frattempo aveva buona possibilità che Silente perdesse la sua autorità a
scuola, e quindi anche quelle poche persone che ancora gli credevano. -
Lupin annuì.
Era l’ipotesi più
plausibile, anzi, sembrava assolutamente certo che fosse andata così.
Sembrò che tutti, nella
stanza, pensassero simultaneamente alla stessa cosa: se Voldemort aveva così
tanto bisogno che Gray stesse dalla sua parte, niente gli impediva di
trasportarla di nuovo nell’Ufficio Misteri… Ma avrebbe potuto farlo già da
molto tempo. Forse voleva aspettare un momento in cui tutti abbassavano la
guardia, ma doveva sapere che, ora che erano al corrente di tutto, se Gray
fosse sparita sarebbero andati tutti a cercarla. Era molto più probabile che
Voldemort potesse eseguire quel trucchetto soltanto con chi era debole - o
morto.
- Devo dire che a volte
sei un genio, - disse Gray con aria allegra.
- Grazie, - rispose Lupin,
sorridendo.
- Bhe, adesso basta! -
sbottò Molly Weasley.
- Non ha tutti i torti, -
la appoggiò Tonks - Forse è meglio se andiamo a letto, ormai è notte fonda e
siamo tutti stanchi. -
Lo sguardo di Gray era un
libro aperto: non vedeva l’ora di andare a letto, anche se sapeva che non
sarebbe riuscita a dormire. Si accontentava di stare sdraiata sulla prima
superficie morbida che toccava da più di venti giorni.
I primi raggi dell’alba
ormai si erano estinti: un livido sole invernale, altissimo e piccolo nel
cielo, faceva risplendere la neve di un bianco accecante per tutta Grimmauld
Place.
La stanza dove Gray
dormiva con Sirius, invece, era totalmente immersa nell’oscurità, perché le
pesanti tende erano tirate e impedivano ai raggi solari di passare, a parte per
una minuscola striscia.
Gray era sveglia;
rannicchiata contro Sirius, che dormiva come un sasso, preferiva dare il più
possibile le spalle alla finestra. Nonostante fosse ancora immersa
nell’assopimento, era abbastanza sveglia per sentire dei passi leggeri che,
passando accanto al letto, facevano scricchiolare appena le travi del
pavimento. Aprì gli occhi con uno sforzo indicibile, in tempo per rendersi conto
che Kreacher puntava dritto alle tende.
Sembrava avere intenzione
di aprirle.
- No… aspetta… - mugugnò,
insonnolita, ma evidentemente Kreacher non le aveva nemmeno prestato
attenzione.
- Kreacher deve aprire le
tende, - disse con voce monotona, come di una scusa che si era preparato da
chissà quanto tempo - Il padrone dice che la casa è buia. Kreacher apre le
tende. - e poi aggiunse, convinto che nessuno lo sentisse - …ah, la mia povera
padrona, se sapesse, se sapesse, cosa direbbe, la casa, la sua bellissima casa,
infestata di mostri di ogni tipo, ah, come piangerebbe, la mia povera padrona…
-
E intanto stava per aprire
le tende.
- Lasciale così, Kreachie,
per favore… - implorò Gray sforzandosi di essere gentile, ma intanto, come
l’elfo domestico, anche lei corredava tutto questo da insulti tremendi di ogni
tipo, in direzione di Kreacher. - Quell’ammasso di unghie marcite… -
- Kreacher apre le tende.
Kreacher vive per servire il padrone e i suoi ospiti… -
- No, Kreacher (stupido
mostro), aspetta, per favore, aspetta che mi alz… Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaargh! -
Troppo tardi:
un’abbagliante falciata di luce aveva invaso la stanza, e Gray continuava a
urlare. A lei si unì la signora Black, che sparò a tutta velocità una
collezione di insulti da far rabbrividire chiunque. Ormai Sirius era
completamente sveglio.
Gray si seppellì sotto le
coperte, cercando di non guardare la luce.
- Kreacher! Chiudi quella
finestra! -
- Kreacher non può
chiudere la finestra, padrone, la finestra è già chiusa… -
- Hai capito cosa
intendevo! Rimetti - le - tende - come - erano! -
Kreacher, biascicando
ingiurie e imprecazioni a non finire, si avviò a chiudere la tenda, e poi uscì
a tutta velocità dalla stanza. Una volta che fu tornata l’oscurità, Molly si
era già fiondata nella stanza per vedere cosa stava succedendo.
- Mio Dio, cosa sono
queste urla? -
- Kreacher, - rispose
Sirius sprezzante, e poi diede un colpetto alla spalla di Gray, ancora
appallottolata sotto le coperte - Puoi riemergere, adesso -
Gray, lentamente, come se
avesse voluto assicurarsi che tutta la stanza era veramente buia, si sedette
sul letto. Aveva uno sfregio sulla pelle del viso, dove la luce l’aveva
colpita.
- Bhe… venite giù. - disse
la signora Weasley, esitante - C’è il professor Piton. -
- Deciditi - disse Sirius
- Veniamo giù o c’è Piton? -
- Non fare lo sciocco, -
si stizzì la signora Weasley - Ha un messaggio per Gray da parte di Silente. -
- Mh-m. - annuì Gray,
prima di tirarsi su molto di malavoglia.
Gray notò che la casa era
completamente affogata nella penombra. Tutte le tende erano tirate e, dove esse
lasciavano spazio a qualche spiraglio, c’erano stati messi fogli di pergamena,
o quant’altro potesse coprire. Un vecchio mantello del padre di Sirius era
stato usato allo scopo, per tappare un buco nelle tende piuttosto grande, ma
Kreacher era riuscito a trafugarlo e nasconderlo nella sua tana. Non c’era un
solo membro dell’Ordine in giro, a parte loro, e Piton che li aspettava al
piano più basso.
Gray si chiese come mai un
simile mortorio, ma in fondo ne fu sollevata, perché non aveva nessuna voglia
di farsi venire qualche altra lesione sulla pelle. Una volta scese le scale il
vedere Piton sulla porta, con molta fretta di uscire, fu una buona notizia:
significava che non aveva intenzione di trattenersi a lungo.
- ‘Ngiorno, - disse Gray,
ma il suo saluto era rivolto più che altro a Molly.
- Vedo che sei già avanti
con le rughe, - disse Piton, acidamente.
- Ho detto “buongiorno”,
non “cazzate in ordine sparso”. -
Piton sollevò la testa,
come se volesse vederli bene entrambi. I suoi occhi erano fessure, più che
sufficienti a lasciar fuggire un odio smisurato.
- Vedo che questa casa sta
diventando un covo di latitanti, - disse, e poi gettò uno sguardo allo
scrittoio tarlato e traballante, - oltre che di schifezze assortite. Come vanno
le pulizie? -
Sirius sembrava avere una
voglia tremenda di appenderlo al soffitto legato per i piedi. Gray aveva più o
meno gli stessi intenti, ma era talmente assonnata che non avrebbe messo in
pratica la sua idea tanto facilmente.
- Vanno benissimo. -
rispose Sirius - ma con tutto l’unto che hai nei capelli dovremo ricominciare
da capo. -
Gray soffocò una risata, e
la signora Weasley cominciò a guardare Sirius con aria bieca.
- Bene, - disse Gray,
cercando di apparire seria, - Molly ha detto che Silente… -
- Non esporti per nessun
motivo alla luce del sole. - disse Piton asciutto.
- È… è questo che voleva
dirmi? -
- Sì. -
- Ma perché? -
- Potevo anche evitare di
dirtelo, e mi sarei fatto un gran favore… ma Silente ha insistito perché tu lo
sapessi. Non appena un raggio di luce solare toccherà la tua pelle questa
comincerà a sfregiarsi, e poi si polverizzerà. -
Gray deglutì.
- E quanto ci vuole
perché… mi polverizzi? -
- Abbastanza da rendersene
conto. - rispose seccamente Piton.
- Che cavolo dici, Piton?
Non è un mica vampiro! - sentenziò Sirius, e Piton lo guardò con uno sconfinato
ribrezzo. La signora Weasley era tornata ai fornelli, e solo di tanto in tanto
faceva ritorno nella stanza dove i tre stavano parlando. Gray fissava con aria
preoccupata i piccolissimi spiragli di luce che trasparivano dalle fenditure
delle tende e delle pergamene incollate sui vetri.
- Stamattina, quando
quella creatura servile ha aperto le tende, Gray ha guardato la luce per
qualche secondo, e questo è il ripugnante risultato. -
- Ti riempirei di botte,
se la cosa non mi facesse schifo. - sibilò Gray.
Piton non le badò.
- Che ti hanno dato da
bere all’Ufficio Misteri? -
- Una schifezza. - disse
Gray - Mi ha quasi accecato, però era una specie di pozione curativa. Non ha
funzionato tanto, comunque. -
- Ti ha accecato? Cioè,
vedevi troppa luce? -
- Sì -
A quel punto, tutti
tacquero.
Sembravano tutti e tre
persi in strani ragionamenti, ma Piton era quello che rimuginava più di tutti.
Intanto, Kreacher continuava a togliere tutti i cimeli dai Black dalle
finestre, convinto che nessuno lo sentisse. Ovviamente non era così, ma erano
fin troppo esasperati dall’elfo domestico per dargli ordini.
- Hanno senz’altro
mescolato una debole pozione curativa ad una pozione Anti-Vampiro. Strano che
tu non ci sia arrivata. Mi aspettavo qualcosa di più da “una delle migliori
studentesse di Silente…” - disse Piton.
Gray alzò gli occhi al
soffitto.
- La pozione Anti-Vampiro,
- disse, gelida - serve per rendere i Vampiri diurni, o i mezzi vampiri,
sensibilissimi alla luce solare, visto che normalmente non lo sono. La usano i
cacciatori di vampiri per stanarli. Quindi, non poteva trattarsi di una pozione
del genere, perché non sono né un vampiro diurno né un mezzo vampiro. -
- Per tua informazione, -
sibilò Piton, - ho svolto delle ricerche e non esiste nessun altra pozione che
causi quei sintomi. E su un essere umano normale, la pozione Anti Vampiro è un
veleno mortale. -
- Ah. -
Gray non fu capace di dire
altro.
Cercò di ripensare con
tutte le sue forze a quello che le aveva detto Voldemort quando l’aveva
torturata la prima volta, ma le ci sarebbe voluto moltissimo tempo e
soprattutto silenzio per potersi concentrare. I discorsi affioravano sconnessi
nella sua mente, non avevano senso, a volte erano a mala pena percettibili… e
quando le sembrava di ricordare, un qualsiasi insignificante rumore faceva
scappare via tutto quello che era riuscita a ricordarsi. - Bhe, non è
possibile. - concluse, seppure poco convinta. Piton alzò le sopracciglia.
- Bene, allora. Là dentro
c’è ancora un Molliccio, non è vero? - chiese, fissando lo scrittoio, e la
signora Weasley annuì con la testa tremolante. Piton non fece una piega e si
preparò ad aprire il vano cavo dello scrittoio. Gray e Sirius avevano già la
mano sulla bacchetta, non tanto per affrontare il Molliccio, quanto piuttosto
perché non sapevano cosa avesse intenzione di fare Piton. - Scansati, Black.
Voglio che lei affronti il Molliccio. - aggiunse, fissando Gray con aria di
sfida, anche se evitava accuratamente i suoi occhi rossi.
Gray alzò le spalle,
dubbiosa ma rassegnata, ed estrasse la bacchetta da uno dei suoi stivali. Non
era affatto felice di affrontare le sue paure sotto gli occhi di Sirius, ma a
dire la verità il fatto che Piton avesse quell’espressione la preoccupava
ancora di più: sembrava quasi che si immaginasse la forma che avrebbe assunto
il Molliccio dinanzi a lei. Non ebbe il tempo di leggergli la mente, comunque:
Piton aprì lo scrittoio e si fece subito indietro.
La bacchetta pronta, tesa
verso la creatura, si aspettava qualcosa come un Dissennatore, o il cadavere di
qualcuno a cui voleva bene, o qualsiasi altra tragedia: invece no.
Il Molliccio aveva preso
la forma del sole. Era ora una piccola sfera luminosissima, grande come una
pallina da tennis. Era solo un’imitazione, così Gray non ne rimase infastidita…
ma scoprì di esserne semplicemente terrorizzata.
Per qualche istante ne fu
rapita: ma poi, ricordandosi che Piton evidentemente la stava fissando con aria
di scherno, e che Sirius era poco dietro di lei, puntò la bacchetta contro il
piccolo disco dorato, e gridò: - Riddikulus! -
Ci vollero due tentativi
prima che il Molliccio fosse completamente sparito.
Gray era troppo scossa,
aveva troppi pensieri, ipotesi, domande, supposizioni a vorticarle nella testa,
e le tornò la voglia di andare a letto e dormire fino al giorno dopo. Alla
fine, un secchio d’acqua apparve sotto il piccolo disco dorato, che vi piombò
dentro con un buffo PLOP!, e si spense sfrigolando.
Sirius non aveva detto una
parola, ma le poso la mano sulla spalla, stringendola sempre di più. La signora
Weasley tornò in cucina, decisa a non uscire finché Piton non se ne fosse
andato: sull’espressione di quest’ultimo era dipinta una strana, cupa
soddisfazione.
- Nelle tue vene c’è
sangue di vampiro, che ti piaccia o no. Il filtro si esaurirà fra poco più di
una settimana. - concluse Piton con aria fredda, pronto ad andarsene - Ma visto
che ora sei ricercata, non avrai problemi a sigillarti per tutto il tempo in
questa topaia. -
- Aspetta un attimo! -
Gray non riuscì a fermarlo: Piton se n’era già andato.
La signora Weasley evitava
i commenti, Kreacher continuava a mettere in salvo preziosi cimeli della
famiglia Black, e la madre di Sirius tornò a strepitare.
Suo figlio e Gray, invece,
erano muti come tombe.
- Meglio che… che andiamo
a tappare tua madre, - disse Gray per cambiare discorso.
- Già… - rispose Sirius, che
in realtà pensava a ben altro, - Andiamo. -
Silente li aveva informati
di tutto quello che era successo, e che a sua volta gli era stato riferito dai
membri dell’Ordine della Fenice. Il che era stato difficile a causa della
circospezione con la quale la Umbridge pattugliava i corridoi.
Adesso Harry, Ron ed
Hermione erano al corrente di cosa era accaduto in quei venti giorni o poco
più, anche se si era trattato di un discorso molto nebuloso, dato che neanche
Gray ricordava molto bene. Quello che non sapevano era che Gray aveva omesso
dei particolari che aveva scoperto tirandosi fuori i ricordi dalla testa, dopo
la visita di Piton a Grimmauld Place.
- Devo andare a Hogsmeade.
- Molly Weasley stava dirigendo i piatti che si lavavano da soli, grazie alla
bacchetta magica, ma dopo quell’affermazione le caddero quasi tutti. I tre
avevano appena finito di mangiare, e di lì a poco sarebbero tornati anche gli
altri membri dell’Ordine. Sirius guardo Gray con un’espressione decisamente
perplessa.
- Sei impazzita? -
strepitò la signora Weasley - Oh, certo che sei impazzita! Non c’è altra
spiegazione! Ti stanno cercando, Gray, capisci? Sei latitante! Se ti trovano ti
sbattono ad Azkaban! -
- Non c’è nessun
Dissennatore a Hogsmeade, sono fuori controllo del Ministero. -
- Questo non è un buon
motivo per scherzare col fuoco! -
Sirius sembrava di
tutt’altro avviso. - Non ci vai da sola. -
- Quante storie. Non ho
cinque anni! -
- Ti comporti come se li
avessi! - intervenne Molly, esasperata.
- Andiamo, Molly. Dopo
quello che ha sentito, dovrà… - Gray gli lanciò un’occhiata che parlava da
sola, e Sirius ammutolì all’istante.
- Non capisco cosa ci sia
da fare a Hogsmeade, - obiettò la signora Weasley, tentando di dissuaderla. In
effetti non aveva la più pallida idea del motivo che spingeva Gray ad andare
fin laggiù, a rischio di essere trovata.
- Sono cose personali,
Molly, - rispose Gray, stranamente mite. Sembrava essersi improvvisamente
addolcita, ma evidentemente era così, quando cercava di convincere qualcuno a
darle retta.
- D’accordo, d’accordo,
niente in contrario, Silente se la prenderà con voi, - concluse infine la
signora Weasley - Ma come pensate di andarci? Il Nottetempo e qualsiasi altro
mezzo pubblico è perfetto se volete essere arrestati. Non potete
Materializzarvi perché anche Hogsmeade e protetta, dopo gli ultimi avvenimenti…
Inoltre tu non puoi esporti alla luce solare, cara, o resterai carbonizzata…
Cosa pensate di fare? -
Gray affondò in una serie
convulsa di ragionamenti, dalla quale Sirius si sbrogliò molto prima di lei.
- Una Passaporta, - disse.
- Qui non ce ne sono, -
ribatté, sollevata, la signora Weasley.
- Ma possiamo crearla.
Dammi un oggetto qualsiasi, Molly, - sorrise Gray, evidentemente divertita
dall’espressione della donna, alla quale stavano ribattendo colpo su colpo. La
signora Weasley le passò una pentola, la prima cosa che le capitava a tiro.
Gray sollevò la bacchetta, puntandola contro la stoviglia, e disse: - Portus. -
La pentola si illuminò di azzurro e poi tornò come prima: era diventata una
Passaporta.
- No, no, no! - gridò la
signora Weasley - Non potete farlo, per favore, siate prudenti una volta tanto,
se il Ministero lo scopre… oh, Cielo, non oso immaginarlo… volete caricarvi di
accuse ragionevoli quando ne avete abbastanza di irragionevoli!? -
I due non la ascoltarono.
- Bhe, sarà meglio che
vada a cambiarmi, - disse Gray, volando su per le scale.
In un attimo tornò giù con
la sua lunghissima e attillata giacca di pelle, ma non si era limitata a gettarsela
sulle spalle come al solito: l’unica parte di pelle visibile era il suo viso, a
parte gli occhiali da sole dalle lenti marroncine. Aveva degli stivali di pelle
di drago, dei guanti di stoffa, e un maglione rosso scuro a collo alto,
talmente lungo che copriva benissimo i pantaloni a vita bassa, dai quali
ciondolavano numerose catene. La bacchetta magica era infilata nella cintura
dalle lunghe borchie acuminate.
- Direi che possiamo
andare, - concluse, mentre Molly la guardava con occhi supplichevoli, che
sembravano implorarla di non fare pazzie.
Gray si gettò in testa il
cappuccio della giacca, che era così lungo da farle ombra a tutto il viso. A
quanto pareva, voleva essere assolutamente sicura che il sole non la
incenerisse. Ma visto che anche da corvo aveva gli stessi punti deboli, non
aveva altra scelta che girare in forma umana, dato che in quel modo era molto
più semplice coprirsi. Molly si comportava un po’ come Kreacher perché, mentre
era ai fornelli, mormorava chissà cosa. Sirius e Gray si sorrisero e non ci
badarono.
- Sembri un Dissennatore,
- disse Sirius.
Gray rispose con una
risata acida, sillabando un “grazie” piuttosto sarcastico.
Toccarono la Passaporta
diretta a Hogsmeade, e sparirono, un attimo prima che il campanello suonasse e
gli altri membri dell’Ordine entrassero. Molly preferì non dire niente fin
quando non le fu chiesto, e a quel punto le toccò spiegare che i due avevano
creato una Passaporta e se n’erano andati.
- Se ne sono andati? -
latrò Moody - SONO IMPAZZITI! -
- E’ quello che ho detto
anch’io, - disse la signora Weasley - ma non mi hanno ascoltata. Gray ha detto
che era una cosa personale, che tanto non c’erano Dissennatori a Hogsmeade, e
si è vestita pesantissima perché la luce non la polverizzasse… -
- Polverizzasse? - scandì
Lupin incredulo.
- Sì, - disse Molly, in
tono moscio, - Stamattina è arrivato il professor Piton con un messaggio dal
professor Silente, dopo che voi siete andati via. Ha detto che Gray aveva
bevuto una pozione Anti Vampiro, e adesso è pericolosissimo per lei mettersi a
contatto della luce solare… stamattina Kreacher le ha aperto le tende in faccia
e le si è contorta tutta la pelle.. era orribile… certo, è passato… dopo un
paio d’ore, però… insomma… e poi il professor Piton ha detto che Gray nelle
vene ha sangue di vampiro, prima di andarsene senza aggiungere altro… Povera
ragazza, era un po’ scossa… e Sirius ha voluto accompagnarla. -
- Bhe, sono mesi che non
esce… -
- Silente avrà avuto le
sue ragioni per proibirglielo! Quei due mi ricordano Fred e George! -
Nessuno poté darle torto,
ma convennero che, se fossero andati a cercare i due, avrebbero attirato
l’attenzione, e non era proprio il caso. Inoltre a Hogsmeade tutti conoscevano
Lupin, e sapevano altrettanto bene il motivo per cui aveva dato le dimissioni
due anni prima.
Non potevano far altro che
avvisare Silente e sperare che non si verificasse il peggio.
Per gli abitanti di
Hogsmeade non era certo un particolare anomalo vedere persone strane dalle loro
parti; probabilmente nessuno fece caso alla ragazza che giunse di lì a poco
sulla strada principale accompagnata da un grosso cane nero. Sembrava che
facesse di tutto per non farsi vedere, infatti non
c’era un centimetro della sua pelle che fosse libero dai vestiti, o dai guanti,
o dai capelli. La neve caduta era stata del tutto spalata a riunita ai bordi
della strada, dove si stava lentamente sciogliendo: era giunta la seconda metà
di marzo, e il sole splendeva già luminoso come d’estate. Non era altrettanto
caldo, naturalmente, ma il riverbero era così forte che Gray abbassò ancora di
più la testa. Conosceva a memoria Hogsmeade, ma se non fosse stato per quello,
non avrebbe mai trovato la strada giusta per la
Stamberga Strillante tenendo lo sguardo così fisso al suolo.
Pur non trattandosi del fine settimana, la strada
principale era affollata di gente. I alcuni negozi o
uffici, come quello Postale, la fila di persone era così lunga che usciva dalla
porta.
Dovettero fare un bel
pezzo di strada, perché erano arrivati dalla parte opposta rispetto alla loro
direzione: la Stamberga Strillante. Non lo avevano detto ad alta voce a
Grimmauld Place, ma entrambi sapevano bene che la
maggior parte dei dubbi di Gray erano rivolti a quella casa in rovina, e ai
suoi ritratti.
Ed eccola lì, la Stamberga Strillante, stagliata
contro il cielo livido.
Accertandosi
con circospezione che nessuno li vedesse, Gray e Sirius passarono senza
difficoltà dalle inferriate altissime e sbilenche che cingevano la villa. Un tempo dovevano essere
state dipinte di verde metallico, ma ora che la vernice si era scrostata, erano
solo dei pali di ferro, sghembi e neri come quelli di un vecchio cimitero. Il
cancello cigolava e sbatteva, nonostante non tirasse un alito di vento, ma era
ben chiuso da innumerevoli catenacci e lucchetti, forse dal giorno in cui Harry
era stato visto mentre entrava.
Il giardino era una ammasso di sterpaglie incolte, e gli alberi rinseccoliti
marcivano nei loro friabili tronchi. I loro rami sembravano le dita di uno
scheletro.
Un tempo quel giardino
doveva essere stato bellissimo: una scalinata fatta interamente d’ambra
emergeva dalla terra, e conduceva di fronte alla porta d’ingresso. Negli
scalini, tuttavia, c’erano incastonate delle tibie umane: sembravano
galleggiare in un blocco di miele.
Gray e Sirius girarono
intorno alla villa fin quando non furono sul retro. Gray puntò la bacchetta contro
la parete e uno squarcio vi si aprì silenziosamente. Una volta che i due furono
dentro, Gray pronunciò un altro incantesimo e l’apertura di richiuse.
Erano in una stanza di cui
era impossibile identificare l’uso: i mobili erano gettati sul pavimento in
modo disordinato, oppure erano così polverosi e avvolti di lanose ragnatele che
era impossibile definire cosa fossero. Si distingueva
con chiarezza soltanto un vecchio pianoforte, con ancora lo spartito posato sul
leggio, e mezzo divorato dagli insetti. Un topo sgusciò fuori
dal pianoforte in un gran rumoreggiare di vecchie corde.
Di colpo, il pianoforte e
la stanza intera, apparvero così come dovevano essere stati tanto, tanto tempo prima. La stanza era molto luminosa, ma
stranamente tutta quella luce non dette alcun fastidio a Gray. La finestra era
grandissima, aperta, e tutto il vento piacevole dell’estate entrava,
accarezzando la pelle. Sirius era scomparso.
Numerosi tappeti enormi e
ben lavorati giacevano sul pavimento, e altrettanti quadri e arazzi riempivano
le pareti, affiancati da diplomi, medaglie, coppe, pezzi di pergamena e ritagli
di giornale importanti, tutti incorniciati, come in una sala trofei. Un grosso
serpente si attorcigliava sornione su un pezzo di legno di un marroncino chiarissimo,
lisciato e lucidato. Una donna aprì la porta, Gray avvertì lo scattare della
maniglia… era una bellissima donna, dai capelli corvini lucenti, che le
cadevano sulle spalle in tanti morbidi boccoli. Aveva degli sfavillanti occhi,
rossi come il fuoco, sottili e un po’ malvagi, identici a quelli di Gray.
Indossava un elegante
vestito dal lungo strascico. Si richiuse la porta alle spalle, poi si sedette
al pianoforte, e le sue dita sottili iniziarono una melodia molto strana
…
Gray sentiva i suoi sensi
intorpidirsi…
- Gray? - La ragazza sentì
che Sirius le scrollava la spalla.
Si girò verso di lui con
aria spaesata. - Cosa c’è? -
- “Cosa
c’è”? Penso che tu stessi praticamente dormendo in
piedi! Lo sai che non devi metterti a fissare qualcosa, qua dentro… -
Gray guardò il pianoforte
con aria sconsolata, e poi si girò per osservare tutta la stanza. I tappeti giacevano arrotolati in un angolo, mezzi mangiucchiati e consumati,
gli arazzi erano spariti oppure mezzi distrutti. Il tronco dove stava il
serpente marciva sul pavimento. Il pianoforte era fasciato di polvere di abbandono, non c’era traccia della donna dagli occhi
rossi, né della sua struggente melodia. - Penso di aver visto… -, farfugliò
Gray.
Sirius stava per uscire,
ma si fermò. - Che cosa? -
- Io… forse… - si guardò
intorno, perplessa e sbigottita. - Scilla. -
Continuarono a girare per
la casa. Era sufficientemente buia per consentire a Gray di togliersi il
cappuccio e gli occhiali da sole.
- Per cosa siamo venuti,
in particolare? - si decise a chiedere Sirius, che in fondo non sapeva bene che
cosa stesse cercando Gray in un posto come quello.
- Non lo so. - rispose
Gray, ma si affrettò ad aggiungere: - dopo che Piton mi ha detto questa cosa
dei vampiri, ho cercato di tirarmi fuori i ricordi dalla testa… e insomma, non
ci ho capito molto, erano confusi… hai mai la certezza lampante che devi fare una cosa, subito? Che
troverai tutte le risposte che vuoi? - Sirius annuì, e Gray scrutò l’immensa
volta del salotto simile ad una cattedrale, con due o tre pianerottoli che
giravano intorno alle pareti. - Io ho avuto la certezza assoluta che dovevo venire qui. E poi quella
donna… - Gray tornò col pensiero alla donna che suonava il pianoforte, poco
prima, in quella strana stanza col serpente e i trofei. - Dovunque guardo, vedo
la villa che era un tempo... e mi sembra quasi che… - ma si immobilizzò.
Non riusciva ad andare avanti. Si era lasciata trasportare, con la sgradevole
sensazione di avere appena detto una stupidaggine.
Non ci volle molto perché
anche il salotto cominciasse a parlarle, a raccontare qualche altra storia.
Sirius sembrava non farci caso, come se si fosse già abituato. Sembrava avere
intuito che quella casa aveva un valore specifico nell’anima di Gray, ma non
riusciva a capire perché. Gray era immobile, con lo sguardo svagato, al centro
dell’enorme salotto. Sirius, cercando di non fissare troppo lo sguardo su uno
stesso punto, si guardava intorno con diffidenza: quel posto lo faceva sentire
stranamente a disagio e, in qualche modo, gli ricordava la casa a Grimmauld
Place. Anche nel suo abbandono aveva un’ombra di
magnificenza che la casa dei Black non aveva: forse perché non era mai stata
veramente disabitata, mentre dentro la Stamberga Strillante vivevano soltanto i
demoni della famiglia. E un edificio abbandonato aveva sempre un’aria diversa
rispetto a quella di un posto dove vive un solo elfo
domestico con un quadro isterico.
Sirius avrebbe preferito
non trovarsi in quella stanza. Accidentalmente, i suoi occhi aveva
indugiato troppo a lungo su una finestra inchiodata, e questo bastò perché gli
spiriti della famiglia deceduta lo assalissero di nuovo.
Era ancora più buio. Era
notte. Fuori nevicava e c’era un freddo terribile. C’erano cinque persone in
quel salotto e, dal modo in cui si guardavano intorno, sembravano tutti molto ansiosi. Quattro di loro sembravano
avere circa quindici anni, e un’altra, una ragazza, sembrava più piccola
di almeno due anni. L’allegria era quella di un funerale, e anche senza che
qualcuno parlasse, la tensione vibrava nell’aria trasportando un presagio
fatale.
Un ragazzo dai capelli
neri e arruffati scrutò oltre una fessura delle travi che inchiodavano il
portone, cercando di arrivare con lo sguardo in lontananza nonostante la neve
ostacolasse la visuale. Vide quello che non avrebbe mai voluto vedere.
Scosse la testa,
ritraendosi immediatamente.
- Stanno arrivando, -
disse, in un soffio appena percettibile.
La ragazza dai lunghi
capelli fulvi e gli occhi rosso sangue emise un gemito disperato.
Sirius sentì uno schiaffo
sulla nuca, e quando si voltò, era di nuovo nella penombra pomeridiana. Erano
solo in due, e Gray gli aveva appena sferrato un sonoro
pattone.
- Sei impazzita? -
- Non ti svegliavi! - si
giustificò Gray - Ti ho chiamato due volte. -
Sirius si era svegliato di
colpo, e così i ricordi di quello che aveva visto erano ancora troppo freschi per comportarsi con naturalezza, ma si sentì quasi sollevato
nel notare che Gray aveva negli occhi lo stesso senso di spossatezza.
- Che
hai visto? - chiese Gray.
- Nulla. - mentì Sirius, -
E tu? -
- Dobbiamo trovare i
sotterranei. - rispose Gray con fermezza tale che Sirius non osò dubitare che
quella casa avesse dei sotterranei.
Esplorarono ogni piano e
ogni angolo nel tentativo di trovare una scala o un passaggio segreto che conducesse sottoterra, ma la loro ricerca fu lunga e
inutile. Il sole era sempre alto nel cielo, e splendeva molto più di prima.
Gray disse a Sirius che aveva avuto la visione di un uomo che diceva di
seppellire i mezzosangue nei sotterranei, e lo diceva con una perversa
soddisfazione, come di un peso fastidioso che viene
finalmente rimosso. Gray aveva sentito i nomi dei Mezzosangue che dovevano
essere sepolti nelle viscere della casa, ed era certa che le suonassero fin
troppo familiari.
Gray si appoggiò ad un
vecchissimo armadio pieno zeppo di armi, che sembrava
l’unico mobile a tenersi in piedi saldamente. Forse perché
non era affatto di legno pregiato, come tutti gli altri nella casa, ma di
pietra, colorata in modo che somigliasse al mogano. In basso aveva una
fila di statuette di pietra che raffiguravano dei
teschi umani privi di mandibola. Uno sembrava avere delle
narici fin troppo rotonde e dilatate, ed era orientato verso l’alto
anziché verso il basso come gli altri.
Gray inizialmente non ci
fece caso, ma poi si abbassò per guardarlo meglio. In effetti
sembrava anche un po’ troppo liscio e di fattura diversa. Pareva quasi che
fosse stato aggiunto in seguito, ma se non ci si faceva
bene attenzione era impossibile scorgerlo. Gray chiamò Sirius, e anche lui
impiegò un po’ di tempo prima di rendersene conto.
La ragazza stava macinando
un’idea. Trovava improbabile un’ipotesi del genere, ma tentò ugualmente: infilò
il dito medio e l’indice nelle narici del teschio. Immediatamente il
pesantissimo mobile di pietra girò su se stesso, fin quando non rivelò
un’apertura rettangolare sul pavimento, che nascondeva delle scale anch’esse
d’ambra, e anch’esse piene di ossa umane.
Gli sguardi scettici di
Sirius e Gray si incontrarono.
Inarcando le sopracciglia,
i due scesero le scale.
Un senso immediato di
pungente umidità li avvolse; era così penetrante che faceva male alle ossa.
Fiamme di un verde acido scoppiettavano sulle torce spalmate di pece, che si
erano accese non appena il mobile aveva finito di spostarsi. Il passaggio era
ancora aperto, e probabilmente era necessario infilare di nuovo le dita nel
naso del teschio per chiuderlo. La scala d’ambra, che rifletteva il verde delle
torce, si insinuava sempre più in basso, ma i gradini
erano sempre regolari e sempre pieni di ossa. C’erano anche delle mani tutte
intere, ma sempre accuratamente ripulite da ogni
rimanenza di pelle.
- Chiunque abitasse qui aveva un senso dell’orrido pazzesco, - disse
Sirius, abbassando la voce gradualmente: il silenzio era tale che ogni minimo
suono sembrava un rumore fortissimo e insopportabile. Ben presto i due non
comunicarono se non a sussurri sommessi, aumentando la tensione che si era
creata.
Cosa c’era in fondo alle scale d’ambra?
Lo spettacolo li lasciò
orripilati.
Il salone era
perfettamente regolare: un’enorme sala rettangolare.
Ma non era di pietra, non di marmo, non di legno, era
una sala gigantesca rivestita completamente d’ambra, che luccicava e sfavillava
alla luce delle candele fluttuanti, come quelle di Hogwarts. Era
un trionfo di luci calde, morbide, sfumate dall’oro all’arancio, come un
primo accenno di tramonto. Il soffitto era altissimo, se ne perdeva quasi la
vista, e innumerevoli rosari pendevano dall'alto, fin quasi a toccare il
pavimento.
- E’… è la cosa più bella che io abbia mai visto… - boccheggiò Gray. Ed era la verità. Non aveva visto molti posti, in effetti, e
il più bello - fra loro - era Hogwarts: ma quella sala sprofondata nell’ambra
era senz’altro superiore a qualsiasi altro luogo che lei avesse visitato.
Lei e Sirius erano troppo impegnati a guardare in alto per rendersi conto
di quello che c’era incastonato nell’ambra. E quando
lo scoprirono, il terrore li paralizzò. Sotto i loro piedi, nella sala
rettangolare, inglobato da quella specie di miele, stava un drago morto.
Era il drago più grosso
che avessero mai visto.
Sembrava nuotare in
quell’immenso mare dorato. Non era possibile dire quanto fosse
lungo: era come un serpente, come un drago cinese.
- E’ identico al tuo
Patronum, - disse Sirius, la voce affogata nello sbigottimento.
- Che…
che vuol dire? - bisbigliò Gray, come se avesse avuto paura di svegliarlo:
attraverso l’ambra, sembrava quasi di poter sentire il battito del cuore del lungo
drago serpentino.
Cuore
che doveva essere largo almeno quanto Hagrid.
Aveva le fauci spalancate,
gli occhi rabbiosi, trasmetteva una paura indescrivibile, oltre qualsiasi altra
cosa viva esistesse. Gli artigli erano enormi, la coda una grandissima spazzola. Era privo di
ali, ed era completamente nero, anche se le squame iridescenti
trasmettevano riflessi blu e viola. I denti erano lunghissimi e affilati. Le
zampe erano piegate in modo innaturale, e il drago era attorcigliato su sé
stesso il più possibile per poter entrare nel grossissimo salone.
Ma quello che Sirius e Gray non avevano ancora visto
erano gli scheletri umani incastonati anch’essi nell’ambra. I primi che
notarono erano i Purosangue: erano perfettamente allineati nelle pareti
verticali, e di fronte ad ogni scheletro stava una targa d’oro con scritto il
nome del defunto. Ma come Gray aveva previsto, i
cognomi erano come cancellati.
Visto che la sala era
veramente grande, i morti dovevano essere diverse decine. I loro teschi
risplendevano d’oro e d’arancio, minacciosamente terrificanti.
Gray
lesse i nomi, uno per uno: Seymour, Scilla, Baal… una parete era riservata,
invece, ad una sola persona: Demetrius. E nella sua targa, che era molto più grande e lavorata delle altre,
c’erano scritte delle parole con estrema chiarezza, in
latino:
“Padre e Madre dei Gray
e dei loro
eredi dal sangue puro”
*
Gray sussultò. Accanto a
Demetrius c’era un altro scheletro e un’altra targa: Cassandra Black. E toccò a Sirius sussultare. Che diavolo significa?,
lo sentì sussurrare.
Gray sapeva benissimo che
cosa significava. A poco a poco stava capendo tutto. Era tutto chiaro, nella
sua mente. Ora sapeva... i ricordi si delineavano nel
suo cervello, dritti e precisi, come se li stesse leggendo da una lista
scritta.
E i morti li osservavano.
Con la loro calma
perfetta, nella strana sapienza che ogni cadavere porta in sé, scintillavano
nell’ambra, immobili, inquisitori.
- Questa… questa è della
mia famiglia? - fece Sirius, tendendo la mano verso lo scheletro di Cassandra,
- Non ho mai saputo di lei… -
Gray non fece neanche in
tempo ad annuire, che qualcosa catturò la sua attenzione. Altre carcasse. Ma non erano sulle pareti. Erano sul pavimento, assieme al
drago, ed erano poste in disordine, c’erano ancora brandelli di pelle attaccati
alle ossa, e dalle posizioni storte con le quali erano state sistemate,
sembravano vorticare nel turbine dell’ira del dragone.
Erano i Mezzosangue.
Sembrava che i teschi dei
Purosangue, alle pareti, li guardassero con disprezzo, come se volassero sopra
il loro sangue sporco.
Gray non riusciva quasi a
guardare il drago. Era troppo grosso… troppo grosso… Faceva
una paura incontenibile… le veniva voglia di tagliarsi…
Di uccidersi… di uccidere…
Maledetti Mezzosangue…
- GRAY! - Sirius la scosse
con violenza.
Ancora una volta Gray si
era assopita.
- Sirius! Non guardare mai
quel drago! Non guardarlo! - ansimò, girandosi verso di lui con gli occhi
sgranati - Non guardarlo! -
Sirius cercava di
calmarla, ma gli ci volle molto prima di riuscirci.
In corrispondenza degli
scheletri dei Mezzosangue c’era a mala pena
un’incisione, con scritto il loro nome. Gray li lesse, e le sembrò che anche i cognomi stessero, poco a poco, riapparendo; Beltania,
Beatrice... ma quello che catturò l’attenzione di Gray furono due scheletri
sepolti in modo insolito, forse perché avevano compiuto un tradimento
particolarmente grande: uno era vicino, molto vicino alle fauci del drago, e
portava il nome di Vincent. Un altro era quello di una donna di nome Theresa:
era incastonata tra gli artigli serrati della bestia, che sembrava intenta a
stritolarla.
Theresa e Vincent…
Nomi che
iniziarono a vorticare nella mente di Gray come una raffica di vento impazzita.
- Va tutto bene, Gray? -
chiese Sirius con voce scossa.
Gray rispose, quasi in trance, tramortita da quell’ondata di ricordi non suoi: - E’
tutto a posto, Sirius, questa… questa è… la mia famiglia… -
Gray aveva iniziato a
tossire con una violenza tale che i suoi singulti rimbombavano per tutto il
salone. Tra le dita della mano che si era portata alla bocca schizzavano
spruzzi di sangue, e sugli occhi cadde un velo opaco e lattiginoso. Sembrava
che dovesse perdere i sensi da un momento all’altro. Sirius la prese in braccio
e la riportò in cima alle scale. Scoprì con sorpresa che l’armadio di spostò da
solo non appena ebbe toccato il pavimento del salotto. Gray non era ancora
svenuta, ma sembrava che non sarebbe durata ancora a lungo. Ci volle una buona
mezz’ora prima che riuscisse a recuperare le forze. Nel frattempo il pomeriggio
volgeva alla sera, ma la luce del sole era ancora più
penetrante di prima. Sirius e Gray avevano gli occhi inondati dai colori di
quel cimitero d’ambra, e non riuscivano ancora a credere di aver visto una cosa
del genere.
Quel drago… era tremendo…
E poi tutti quegli scheletri…
Sirius non fece domande
riguardo all’ultima affermazione che Gray aveva fatto
prima di sprofondare nel delirio della sua malattia. La aiutò a rialzarsi,
mentre il lampadario che cadeva per l’ennesima volta copriva i colpi secchi
della tosse.
La ragazza si voltò verso
Sirius, con occhi vacui e agonizzanti.
- Tu… sapevi di Cassandra?
-
- No, - rispose Sirius, -
Non ne ho mai sentito parlare. -
- Forse dovremmo chiederlo
a tua madre o a Phineas, - ipotizzò Gray, asciugandosi la fronte sudata.
- Chi, quelli? - si stupì
Sirius - Figuriamoci! -
Gray non fece in tempo a
rispondere che un paletto acuminato lanciato a tutta velocità la mancò per un
pelo e andò ad infrangersi sul muro. Si voltarono entrambi di scatto e videro
un uomo vagamente simile a Charlie Weasley, ma più vecchio. Dalla cintura
pendevano paletti e crocifissi a non finire, brandiva
una spada e l’altra mano era pronta sulla bacchetta magica. Aveva un crocifisso legato anche al collo ed uno marchiato a fuoco
sulla guancia destra. Un solo lobo era stracolmo di orecchini
ad anello che tintinnavano ad ogni suo passo. Era vestito in modo trasandato, e
aveva dei pesantissimi guanti di pelle, lo stesso materiale di cui erano fatti
gli stivali. Gli occhi erano nascosti da occhiali molto sottili dalle lenti
rosse.
- E’ un cacciatore di
vampiri, - disse Sirius, per niente entusiasta.
- E
ha sbagliato posto, - continuò Gray.
Un ghigno feroce si
dipinse sul volto dello straniero, che non disse niente. Sembrava muto, perché
mosse solo le labbra senza emettere alcun suono. Gray e Sirius evitarono di
guardarsi.
Il
cacciatore di vampiri stavolta parlò eccome: puntò la bacchetta contro una
finestra inchiodata e fece saltare le travi: Gray stava per fermarlo, ma era
troppo tardi: un’onda incontrollabile di luce solare la colpì in pieno viso,
gettandola a terra in preda al dolore. Sirius tirò immediatamente fuori la bacchetta e scagliò uno
Schiantesimo dopo l’altro contro il cacciatore, che tuttavia sembrava
resistere. Con una forte spinta, Sirius fece rotolare
Gray lontano dalla luce lasciata dalla finestra. La ragazza inforcò gli
occhiali da sole e tirò fuori la bacchetta, nonostante la pelle tirasse come se
si fosse rattrappita di colpo.
- Ma
guarda… Ho beccato una diurna, - gongolò lo straniero.
- CRUCIO! - tuonò Gray, e
l’uomo piombò a terra preso dagli spasimi più atroci,
piegandosi su sé stesso in modo del tutto innaturale.
- Ma
sai fare solo questo? - rise Sirius.
- Lo so fare solo perché
me lo sono beccato in continuazione, - rispose Gray.
Gray non riuscì a
mantenere a lungo il contatto visivo. La luce era troppo forte comunque, la pelle si stava sfacendo, sarebbe morta…
- Wingardium Leviosa! -
gridò Sirius. Un quadro si staccò dal muro e andò a spiaccicarsi contro la
finestra, che immediatamente venne quasi del tutto coperta. - Gray, scappa! -
Gray ci mise un po’ a
rimettersi in piedi, ma non si scansò abbastanza in tempo: un paletto la colpì
al cuore. Il cacciatore di vampiri sembrava piuttosto stupito che Gray non morisse né si carbonizzasse.
- Ibrido! - gridò l’uomo,
- Sudicio ibrido! -
- Qualcosa in contrario?
-, disse una voce, prima di pronunciare uno Schiantesimo che scaraventò il
cacciatore contro il camino, ribaltandocelo dentro. La voce veniva dal piano di
sopra. E infatti, sul pianerottolo, sporto in fuori
per controllare che ci fossero tutti quelli che stava cercando, c’era Lupin.
Gray e Sirius non fecero
in tempo a stupirsi che il cacciatore di vampiri si era
rialzato dal camino, puntando una pistola contro l’ultimo arrivato. - E scommetto che quello è un lupo mannaro! -, latrò.
- Scansati di lì! - urlò
Gray - E’ un proiettile d’argento! -
- Protego! -, disse Lupin,
appena sentì la detonazione. Il protettile rimbalzò su
una barriera invisibile.
Vedendo che Gray si era
rimessa il cappuccio e gli occhiali da sole, Sirius ruppe l’incantesimo
Levitante, non dopo aver fatto sbatacchiare la tela contro la testa del
cacciatore.
- La Passaporta è al piano
di sopra! - disse Lupin, sceso dal pianerottolo.
- Aspetta un attimo, -
replicò Gray con un sorriso perfido.
Puntò lo sguardo contro il
cacciatore, e in un attimo le sue pupille si restrinsero fino a scomparire, inghiottite dalle iridi rosse. Il cacciatore gridò dal
terrore: nessuno seppe mai cosa Gray gli aveva fatto vedere, ma il cacciatore
iniziò a sbattere la testa contro lo stipite del caminetto, come un pazzo, fin
quando non scappò dalla finestra, in perfetto silenzio, con la testa sanguinante.
Gray emise un lunghissimo sospiro e cominciò di nuovo a tossire. Con un altro
incantesimo le travi furono riparate, e nessuno ad
Hogsmeade venne mai a sapere che due ricercati e un lupo mannaro erano stati
così vicini al villaggio.
Il sole finalmente
tramontava. Gray non faceva altro che passarsi le dita sulla pelle del viso e
del collo. Apriva gli occhi a mala pena, e ne era felice, perché non avrebbe
mai osato guardarsi allo specchio. In un attimo erano tornati a Grimmauld
Place, e la signora Weasley continuava a guardarla con un’espressione a metà
fra la preoccupazione e il rimprovero.
- E’ già tanto che nessuno
vi abbia riconosciuto ma tu avresti potuto rimetterci la pelle, capito, potevi
restarci carbonizzata, e quella specie di tugurio, casca a pezzi solo a
guardarlo, altro che “cosa personale”… ma che cosa vi è saltato in mente… -
Nessuno la ascoltava,
anche perché parlava in quel modo da almeno un quarto d’ora.
- Come hai fatto a sapere
che eravamo lì? - chiese Gray a Lupin.
- Prevedibile, - rispose
lui - E’ quel tipo che non era previsto. -
- Quando avrà smesso di
incraniarsi sugli stipiti, non ricorderà niente, - assicurò la ragazza - Credo.
Ma se ricorda, farà una brutta fine. Comunque, immagino che fosse lì a
Hogsmeade e ha pensato che fossi un vampiro, così ci ha seguito fin dentro la
Stamberga Strillante. Mi auguro che non abbia visto il passaggio segreto. -
- Quale passaggio segreto?
-, chiese Tonks incuriosita.
Sirius e Gray iniziarono a
raccontare che cosa avevano visto, dal meccanismo nascosto dentro il teschio,
fino all’immenso e grottesco sepolcro d’ambra nei sotterranei. I ricordi di
quella visione erano freschi e orrendi; entrambi i ragazzi avrebbero preferito
non scendere mai per quelle scale nelle quali erano incastonati resti umani,
non dopo il perverso terrore che incuteva quel salone.
Di chi erano tutte quelle
ossa, nelle scale d’ingresso e in quelle del sotterraneo?
Più che altro fu Sirius a
parlare. Gray sembrava immersa fino al collo in una serie di pensieri troppo
sconfinati per capire di cosa si stava parlando.
Aveva addosso una
sensazione elettrizzante che la sfiniva in modo inesorabile. Nella sua mente
affluivano sempre più ricordi, sia suoi che altrui, come se qualcuno glieli
stesse riversando in testa con un secchio. Si chiese quanto a lungo avrebbe
sopportato quella scarica di immagini, suoni, odori, prima di crollare, senza
forze; sicuramente, non tanto a lungo.
All’improvviso si
ricordava tutto.
All’improvviso la crudele
sentenza di tanti anni prima sembrava essersi annullata…
Gray sentì a mala pena che
i presenti stavano parlando proprio di quello: di come Voldemort aveva
cancellato tutta la sua vita passata, con un colpo di spugna, dalla sua mente e
da quella di chiunque altro. Di come ogni accenno alla sua famiglia su un
qualsiasi documento fosse stato sostituito da un frego, simile ad una
cancellatura, di come nessuno sapeva il suo nome…
E adesso, invece, Gray
aveva l’impressione di ricordarsi tutto.
Era finito il tempo in
cui, anche guardando nei suoi sogni, ogni volta che qualcuno la chiamava per
nome, non si sentiva altro che una specie di gracidio, un rumore strano, come
di registratore inceppato.
- Io… penso che andrò a
dormire. Scusate… -.
Immediatamente, tutti
ammutolirono seguendola con lo sguardo mentre usciva.
Gray si alzò debolmente,
senza dire una parola di più.
Fece le scale barcollando,
e una volta arrivata di fronte al letto vi si buttò di peso cercando di non
pensare a niente. Fu un impresa impossibile: ma visto che era terribilmente
stanca, si addormentò all’istante e non si svegliò prima del pomeriggio
successivo.
*
- Come sarebbe a dire che
non ha più intenzione di insegnarti Occlumanzia? - sillabò Hermione, scandalizzata,
dopo quello che gli aveva detto Harry riguardo alle lezioni di Piton.
- Sarebbe a dire che non
vuole più vedermi lì dentro. - rispose Harry. - Questo è quello che ha detto. -
- Non è possibile! -
continuò Hermione, sempre più alzando la voce, approfittando del fatto che non
c’era nessuno in Sala Comune. - Tu devi andare di filato da lui o da Silente e
chiedere che le lezioni proseguano! Tu-Sai-Chi potrebbe anche prendere il tuo
controllo! O potrebbe farti vedere qualche altra scena orribile… -
- Hermione… - Harry la
interruppe con uno sforzo sovrumano di parlare, dato che era fin troppo stanco.
- Se avessi studiato Occlumanzia, non avrei visto neanche il signor Weasley,
capisci? -
- Harry ha ragione, -
mormorò Ron, decisamente incerto, - Papà sarebbe nei guai, a quest’ora. -
Hermione li guardò uno
dopo l’altro, come se si aspettasse che si ricredessero da un momento
all’altro. Stava cercando freneticamente di contenere lo stupore: non riusciva
a credere che parlassero in quel modo. Comunque, ne aveva veramente troppe a
cui pensare per tentare di convincere Harry, dato che sapeva benissimo quanto
fosse irremovibile.
Fred e George avevano
fatto non poco infuriare la Umbridge, la quale era diventata una specie di
zimbello popolare da quando erano scappati per mettersi in affari a Diagon
Alley. Era sempre più difficile fare qualcosa a scuola che la Umbridge non
interpretasse come una trasgressione al regolamento. Gazza aveva il permesso di
frustare gli studenti, che improvvisamente si erano trasformati in agnellini, e
le punizioni si facevano sempre più frequenti. Da quando poi era apparso in
cielo il Marchio Nero, regnava in giro una strana atmosfera. Hermione non fece
che preoccuparsi per Gray, fin quando Silente li informò che rispetto ai suoi
standard stava benissimo, se si escludeva la Pozione Anti-Vampiro, e a
Grimmauld Place non c’era possibilità che i Dissennatori trovassero lei o
Sirius.
La Umbridge cercava con
furore di respingere gli sguardi pieni di scherno da parte degli studenti. Il
fatto che Gray fosse riuscita a dileguarsi, nonostante il Bacio e tutto il
resto, gettava un grosso alone di ridicolo sia su lei sia su Caramell, e la
Gazzetta del Profeta, per una volta, sembrava dello stesso avviso.
I professori detestavano
la Umbridge almeno quanto gli studenti: inoltre, dato che l’ES era stato
scoperto, Silente aveva lasciato Hogwarts per salvarne i membri
dall’espulsione. Malfoy, essendo Prefetto e membro della Squadra
d’Inquisizione, falcidiava gongolante più punti possibili a qualunque casa, a
parte Serpeverde.
E il peggio era che si
stavano avvicinando i G.U.F.O. e, con tutti i professori in verifica da parte
della Umbridge, era molto difficile tenere una lezione decente. La più
disperata di tutti era appunto Hermione: era così tesa e agitata per gli esami
che studiava tutto il giorno, senza prendersi nemmeno una pausa, e a volte
saltava il pranzo. Era una tortura doversi tappare in Sala Comune per studiare,
quando fuori il sole splendeva suadente, annunciando l’estate e le vacanze.
Hermione era immune alla malattia: aveva più esami degli altri e studiava così
tanto che gli studenti la fissavano terrorizzati.
Harry non aveva nessuna
intenzione di chiedere a Piton di riprendere con Occlumanzia. Per prima cosa
non aveva nessuna intenzione di supplicare proprio lui, e poi sapeva che
avrebbe ottenuto un “no” come risposta. Segretamente, comunque, non voleva
affatto seguire quelle lezioni extra…
Voleva vedere ancora
quella porta… chissà cosa c’era oltre?
La domanda lo assillava giorno
e notte.
E ogni volta che il suo
sogno proseguiva, c’era qualcosa pronto ad interromperlo. Se poi avesse
studiato bene l’Occlumanzia, ubbidendo quindi a Silente, le sue possibilità di
scoprire che cosa c’era oltre quella porta dell’Ufficio Misteri scendeva a
zero.
I suoi ragionamenti
vennero interrotti dalla voce di Ron, che tentava disperatamente di cambiare
discorso:
- Avete sentito del fine
settimana a Hogsmeade? Non vi viene in mente niente? - Harry ed Hermione si
guardavano, lei ancora con la mente affollata da mille preoccupazioni, ed
infine entrambi scossero la testa, incuriositi. Ron sbuffò; - Harry ci ha
parlato di quei quadri nella Stamberga Strillante. Penso che… -
- No, Ron. - si oppose
decisa Hermione - No e no, assolutamente. -
- Ma… -
- Ci cacceremmo nei guai e
basta, lo sai! Immagino che la Umbridge sia abbastanza avvelenata per conto
suo, senza che le diamo un’occasione per metterci in punizione. E Gazza adesso
ha il permesso di dare frustate, vero? -, Ron sembrò dissuaso, e rabbrividì; il
pensiero che Gazza avesse finalmente il permesso tanto agognato di usare la
frusta sugli studenti lo rendeva decisamente timoroso. No, non era una buona
idea. Hermione annuì con sussiego, prima di affondare nuovamente nella
poltrona, dirigendo i ferri che fluttuando in aria producevano quantità
industriali di indumenti per gli elfi domestici. - E comunque abbiamo anche i
G.U.F.O. di cui preoccuparci. - aggiunse, ma non fu certo più persuasiva di
prima.
- Che ne pensi, Harry? -
chiese Ron. Harry provò un po’ di fastidio per l’essere stato interpellato
soltanto adesso.
- No… - farfugliò - No…
non è una buona idea. Meglio di no -
Stava per aggiungere
qualcos’altro, tanto per sembrare più convincente, ma si sentiva troppo
insonnolito. Le luci calavano sotto i suoi occhi, anche se nessuno le stava
spegnendo. Il bagliore del caminetto sembrava abbassare sempre più la sua
intensità, oscurandosi come il sole in piena eclisse. Le voci si sfocavano.
Diventavano sempre più remote. Un fastidioso dolore alla cicatrice lo
inchiodava alla poltrona…
Era in una stanza buia di
un posto che conosceva bene. Sì, lo aveva visto tante volte… ma ora la stanza
era diversa. Era una stanza circolare la cui unica porta era protetta solo da
un drappo nero e strappato. Al centro del pavimento c’era un foro, e tutto
intorno, una puzza insopportabile di sangue vecchio. Harry parlava con Lucius
Malfoy, anche se in principio lui stesso non riuscì a distinguere le sue stesse
parole. Ma lentamente, tutto si faceva più chiaro… Malfoy si esibì in un
abbozzo di inchino, poi disse qualcosa, farfugliava.
Harry, sprezzante e iroso,
gli rispose:
- Non c’entra. Avrei
dovuto saperlo… dovevo saperlo bene… -
- Pa… Padrone… - biascicò
Lucius Malfoy, guardandosi intorno nervosamente e inchinandosi per la seconda
volta.
- Il sangue, per quanto ne
si beva, non è sufficiente a ottenere un potere del genere, era scontato dal
principio… e la prova è la ragazza. Perché, perché a lei il potere di
Cassandra, e non magari ad un parente più vicino? Bene, non importa… il mio
piano non si è ancora concluso. Se pensa di potermi scappare per sempre… -
- Io… che cosa devo fare,
padrone? -
Harry inarcò le
sopracciglia. - Tu? Tu pensi di poter fare qualcosa? Bene, ecco qualcosa che
puoi fare. Conduci i Mangiamorte da Sara Gray, e portala di nuovo da me, viva e
in salute, per quel che puoi. Non voglio correre di nuovo il rischio che possa
morire sotto la Maledizione Cruciatus. Ho bisogno di torturarla per il mio
piano... Quanto a me… bhe, io farò in modo che il pesciolino abbocchi all’amo…
- Harry rise, rise fortissimo, e l’eco della sua risata tuonò per i corridoi
dell’Ufficio Misteri. - Una trappola perfetta. -
- Bene, Padrone. Sarà
fatto, Padrone. -
- Oh, no, non subito. -
Harry rise di nuovo, poi alzò la bacchetta. Vide l’espressione del Mangiamorte
che aveva dinanzi a sé contrarsi dal terrore, infiammarsi di paura. - Tu mi hai
condotto sulla pista sbagliata, Malfoy. Come hai potuto pensare che bevendo il
sangue di quella mocciosa io potessi acquistare il potere di Cassandra? -
- Padrone, no… vi prego,
Padrone… rimedierò… vi prego… farò qualsiasi cosa… -
- Sì, - ghignò Harry -
soffri. -
Harry si vide scagliare la
Maledizione Cruciatus, e Malfoy si afflosciò, cadde, gridò mentre si
divincolava orribilmente a terra.
Un grido spaventato fece
sobbalzare tutta la Sala Comune: veniva dall’ingresso.
E sembrava la voce di
Marietta, quella che aveva fatto la spia alla Umbridge riguardo all’ES. Harry
si chiese quale altro tipo di fattura Hermione avesse escogitato per punirla,
tanto da farla gridare così, e poi si unì agli altri che uscivano in massa
dalla Sala, per vedere cosa stava succedendo. Ben presto ogni studente, anche
quelli che erano già andati a letto, lasciarono le loro occupazioni e si
diressero nervosamente in corridoio, dove la ragazza correva come una pazza
cercando un professore.
E simultaneamente pensò
che l’ultima volta che aveva visto Cho, avevano litigato.
La prima che venne
incontro a Marietta per tentare di calmarla fu la professoressa McGranitt, di
pattuglia in corridoio. Corse preoccupata verso la ragazza, che ormai era
scoppiata in lacrime. Le grida avevano attirato anche altri professori.
- Sta’ calma, ragazza,
sta’ calma! - gridò la McGranitt per farsi sentire. - E voi tornate dentro, su,
tutti quanti! - ma nessuno dei Grifondoro la ascoltò, per la prima volta, anzi
cominciavano ad affluire anche studenti delle altre Case: evidentemente
Marietta correva terrorizzata per la scuola da molto tempo, abbastanza perché
tutti l’avessero sentita. - Che è successo? Cosa ti prende? Non dovresti essere
per i corridoi a quest’ora… -
- Cho! - strillò Marietta
- Cho!! È… tremendo! Eravamo… eravamo… giù nella… nella Sala Grande… ooh,
professoressa, la prego, lo so che non si può… era… era una cosa importante e…
-
- Che cosa le è successo?
- scandì la McGranitt.
- Una donna!! Una donna!
È… è… è.. apparsa… una donna… e l’ha morsa!! -
Un singulto di mormorii e
di grida sommesse pervase la piccola folla che si era creata. La McGranitt ebbe
un sussulto, e per un attimo si pensò che lei stessa non sapesse cosa fare, ma
recuperò subito la lucidità.
- Che cosa l’ha morsa,
Edgecombe, che cos’era? - abbaiò la McGranitt, presa dal panico.
- UNA VAMPIRA! - strepitò
Marietta, e scoppiò ancora di più in lacrime. La McGranitt era agghiacciata, e
con lei tutti i presenti, che ormai non avevano nessuna intenzione di tornare
ai loro Dormitori. Ormai sembrava che tutta la scuola stesse ascoltando.
Harry aveva un groppo in
gola. Cho… aggredita… da un vampiro?
No, non riusciva a
crederci.
- E… era orribile… è
orribile… - singhiozzava Marietta - è lì… è ancora lì… Cho… tutto quel sangue…
- deglutì rumorosamente, ansando, - E… la donna… h-h-ha detto che aveva un
messaggio per… per Silente… per tutti… - quando la McGranitt le scosse le
spalle Marietta sembrò piangere ancora più forte, ma sotto gli sguardi
inquisitori di tutti i professori fu finalmente in grado di parlare. - Lei…
s-si chiama Scilla… - Harry sussultò. Volle illudersi di non aver sentito bene
- E… e ha detto… che i… i Gray… sono tornati in vita… -
Gray.
La McGranitt ebbe un
lungo, lunghissimo istante di esitazione.
- Granger! Weasley! -
strillò, facendoli sobbalzare. - Siete o non siete dei Prefetti? Dritti da
Madama Chips! Ditele di venire qui, subito, CHIARO? -
I due annuirono sconvolti,
e poi si precipitarono verso l’infermeria. Marietta venne affidata a due
ragazze di Corvonero, che la riportarono al dormitorio, dopo essersi accertate
che non fosse ferita.
- Venti punti in meno a
Corvonero, - sibilò Piton nell’orecchio della povera ragazza in lacrime - Per
essere andate in giro di notte. -
Scilla, pensò Harry,
ripetendolo ossessivamente dentro di sé. Scilla.
Nel suo nascondiglio a
Grimmauld Place, Gray si svegliò di soprassalto.
Harry, sprofondato nella
poltrona, la testa rovesciata all’indietro, fissava il soffitto tentando di
riordinare le idee. Intanto, nella Sala Comune si erano scatenate accese e
spaventate discussioni riguardo a tutto quello che era successo. I Prefetti
tentavano di calmare le acque, ma era nient’altro che fatica sprecata. La
Umbridge era rimasta pietrificata dalla notizia, e aveva ottimi motivi per
farlo. Gray… era una coincidenza troppo strana. Harry sapeva che non si
trattava affatto di una coincidenza: Scilla era ritratta in uno dei quadri
della Stamberga Strillante. E se quella era la casa di Scilla e dei suoi
parenti, significava che anche Gray era sua parente, aveva lo stesso cognome… e
aveva abitato lì, prima che andasse in rovina?
I Gray erano risorti:
voleva dire che erano tutti morti.
Forse Gray era l’ultima
rimasta.. forse non c’entrava niente con Scilla, però. Forse aveva solo lo
stesso cognome. Harry contemplò per un attimo quell’ipotesi, che tuttavia non
stava in piedi. Gray era sempre in giro per la Stamberga Strillante, e aveva
particolarmente a cuore il fatto che quei quadri restassero segreti.
Ora che ci pensava, perché
chiamarla “Gray”? Era il suo cognome. Anche Sirius la chiamava per cognome.
Di colpo gli sembrò strano
che Gray non avesse un nome: com’era possibile? Harry non sapeva che tutte le
persone che avessero visto Gray almeno una volta, in quel momento, stessero
pensando esattamente la stessa cosa.
- Sentite un po’, - fece
la voce di Lee Jordan, - Sono sicuro che Gray c’entra in tutto questo (a
proposito, com’è che si chiama di nome?). No? Non è scappata dopo aver ucciso
Amelia Bones? E poco dopo appare una tipa che si chiama Scilla e parla della
resurrezione dei Gray… insomma, non è strano? Secondo me è successo qualcosa di
strano, ce l’avrà pure una famiglia, quella, e ora sono su di giri perché
volevano sbatterla di nuovo ad Azkaban, insomma, forse hanno deciso di
vendicarsi… -
Harry scosse il capo, come
se Lee avesse potuto vederlo e zittirsi, nonostante fosse dalla parte opposta
della stanza. Ron e Hermione guardavano Harry preoccupati.
Cho… Scilla Gray aveva
morso Cho…
- E naturalmente i vampiri
quando mordono sono pericolosissimi… - disse una studentessa del secondo anno,
che pareva la fotocopia perfetta di Hermione - ho un libro che parla di queste
creature semiumane, sapete. Praticamente, la vittima potrebbe diventare un
vampiro, però… prima… -
Harry sentiva il cuore
balzargli fuori dal petto.
- “Però” cosa? - incitò
uno studente dell’ultimo anno, sgomento.
- Bhe, ecco… - la bambina
esitò. Harry cercò di imporle col pensiero di tacere, di non dire una parola,
guai a lei… - Prima la vittima… deve… deve… morire. -
La sala cadde nel
silenzio.
Poi, parecchie persone
gridarono. Harry sembrò cadere in un abisso. Aveva la netta sensazione che non
gli importasse più di niente. Però… in fondo… perché preoccuparsene? Cho
piangeva sempre, era sempre di pessimo umore, sempre depressa… e litigavano,
ogni volta… e lei non faceva che ricordargli di Cedric e di qualsiasi altro
ragazzo avesse mai avuto… e diceva che non aveva amato nessuno come Cedric...
Harry sapeva tutto questo,
ma non riusciva a calmarsi. Sentì di odiare Gray - come diavolo si chiamava? -
con tutte le forse che ancora gli restavano.
- E poi rinasce. - disse
la ragazza, - Rinasce come vampiro. -
- Basta! - gridò Hermione
con tempismo perfetto. - …O lo dirò alla professoressa McGranitt! Queste sono
favole! Leggende! Assurdità! Seminerai il panico! - la ragazza sembrò
pietrificata: si capiva molto bene dal suo aspetto e dal suo carattere che
riteneva Hermione come la sua musa ispiratrice, e sentirsi rimproverare così
duramente da lei l’aveva proprio scossa nel profondo.
Hermione, vedendo il gelo
che aveva disseminato intorno a sé, annuì autoritaria e andò a sedersi con
Harry e Ron, ringraziando sarcasticamente quest’ultimo per il tempestivo
supporto. E così passò un giorno.
Gray stava comodamente
allungandosi sulla poltrona di Silente, con le braccia incrociate dietro la
nuca e le gambe distese sulla scrivania. Aveva tirato tutte le tende per
impedire a un qualsiasi spiraglio di sole di penetrare nell’ufficio, anche se
ormai il tramonto era vicinissimo. I quadri non la perdevano d’occhio un
istante, e i loro sguardi erano traboccanti di disapprovazione, anche se,
tuttavia, alcuni di loro parevano sorridere divertiti.
- Chi si vede. - disse
pigramente Phineas Nigellus, con un cenno della testa.
- Vorrei farti due
domandine, se non ti dispiace, - fu la distratta replica. Phineas sembrava
incuriosito, e i quadri non smettevano ancora di brontolare. Gray gettò sulla
scrivania la pergamena che aveva in mano: si svolse magicamente, stirandosi alla
perfezione nonostante fosse stata arrotolata per molto tempo. Sembrava un
albero genealogico, che Phineas scrutò perplesso. - L’ho trovato nella casa dei
Malfoy. Immagino che non sarebbero molto contenti di sapere che Narcissa è
rimasta per un paio d’ore sotto la Maledizione Imperius, visto che mi ha anche
offerto il tè, - ghignò perfidamente, - Perciò evita di andarlo a riferire a
qualcuno. -
- Vedo che tre anni di
punizioni assortite e cinque di prigione non ti hanno cambiata affatto, -
borbottò il quadro.
Gray inarcò le
sopracciglia. - Perché tutti non fanno altro che ricordarmelo? -
- Oh, vedi, - commentò
Phineas, acido - In genere, referenze così, indurrebbero una persona normale a
starsene buona nel suo angolo, invece che ad andare in giro a lanciare
Maledizioni Senza Perdono. -
- Sì, ovvio, - sbuffò Gray
tanto per liquidarlo. Intanto teneva in mano uno strano strumento dorato
trovato sulla scrivania, rigirandolo in ogni direzione per cercare di capire a
cosa servisse.
- Cosa vuoi che ne sappia
io dell’albero dei Malfoy? - disse Phineas con veemenza.
- Niente. Non è il loro
albero, è il mio. Ho trovato questo… pezzetto di pergamena a casa loro, visto
che siamo imparentati non molto alla lontana. Io non ho nessun albero della mia
famiglia, a meno che non vada a strappare l’affresco dalla vecchia villa. -
- Capisco. -
- Chi era Cassandra Black?
- chiese improvvisamente Gray. Phineas sembrò esitare, ma dopotutto era solo un
quadro, e non gli importava più molto di quello che facevano o che venivano a
sapere le persone in carne ed ossa. - Mai segnata sull’arazzo dei Black. -
proseguì la ragazza, - Mai segnata da nessuna parte. Viene quasi il dubbio che
non le voleste molto bene. -
- Perché non chiedi alla
vecchia isterica? -
- Ci ho provato, - disse
Gray, alzando le spalle. Era stato decisamente impossibile fare una qualunque
domanda alla madre di Sirius: dopo averla sopportata per due ore e mezza,
avevano deciso che era meglio rischiare e rivolgersi a Phineas. Dopotutto
l’ufficio di Silente era sigillato, ma Gray non aveva trovato molte difficoltà
a volare in forma di corvo fino alla finestra, per poi distruggere il vetro con
un incantesimo. L’ufficio di Silente era il solo posto sicuro che ci fosse a
Hogwarts, almeno per Gray, visto che fuori nessuno sarebbe stato molto felice
di rivederla.
Specie dopo quello che
aveva fatto Scilla.
- Oh… bè, - iniziò
Phineas, e Gray si mise prontamente in ascolto - Cassandra… non ho mai saputo
di chi fosse figlia né in verità l’ho mai vista di persona. Non so nemmeno
quanti anni dovrebbe avere adesso. -
Gray fece un’espressione
sarcastica.
Al che Nigellus si
affrettò ad aggiungere: - So per certo che i suoi genitori, chiunque essi
fossero, se ne liberarono non appena nacque e non ne fecero parola con nessuno.
Da allora Cassandra è una specie di leggenda, di quelle che non sai più se sono
esistite davvero o no. - vide che Gray gli indicava un nome sul suo albero
genealogico: era il nome di Cassandra, e una linea lo collegava a Demetrius. E
poi, sotto di loro, le linee si univano per condurre al nome del loro unico
figlio: Seymour. - Ecco, vedi, voi Gray non siete mai stati tanto longevi. Non
antichi come noi, insomma. Ma in pochi anni proliferaste come formiche. Per
forza! I discendenti diretti di Demetrius erano quasi tutti uomini, e ciascuno
ebbe innumerevoli mogli e un figlio da quasi tutte loro! - disse, con
disprezzo.
- Perché Cassandra fu
cacciata? - chiese Gray, senza curarsi di quello che Phineas aveva aggiunto
nella speranza di cambiare argomento.
- Perché! - ripeté
Nigellus, in tono da che-razza-di-domande-fai - Era un mostro! Dico io: vai a
guardare in quelle tombe agghiaccianti che tenevate sotto casa vostra. E guarda
un po’ il suo cranio. Non aveva due occhi, ne aveva tre. Tre! Tre bulbi oculari,
tutti rossi come i tuoi. - Gray spalancò gli occhi. Non aveva notato quella
particolarità nello scheletro di Cassandra. Provò ad immaginarsi una donna con
un terzo occhio spalancato in fronte ma distolse la mente da quel pensiero: era
una cosa terribile. - Per forza che la allontanarono. -
- Aveva la Vista? -
- Il terzo occhio nel suo
caso non era sinonimo di veggenza, no, non credo proprio. Ma aveva dei
grandissimi poteri mentali, capisci. Leggeva i sogni e i pensieri degli altri,
li creava, ci faceva quello che voleva! - Gray deglutì, nervosa. Era
esattamente la stessa cosa che fin dalla nascita sapeva fare anche lei. -
Insomma, prendeva un cervello umano e ci giocava come più le piaceva. La sua
poteva essere una preveggenza parziale, basata sull’analisi profonda del
ragionamento umano, grazie alla lettura dei pensieri. Una cosa deplorevole, ma
molto utile, certo. Comunque nessuno di noi volle quel mostro in giro. Vedi, i
suoi occhi (tutti e tre), erano strani: se li guardavi ti veniva voglia di commettere
qualche omicidio. Dico solo che, sembra, sua nonna la guardò negli occhi per un
istante, e subito si precipitò ad accoltellare suo marito. Nessuno era immune
da tutto questo. Prima cominciarono a bendarle gli occhi, poi decisero di
nasconderla in un qualche stanzino. Ed infine la cacciarono. Tutti avevano
paura di lei, e quindi nessuno la accoglieva, non so che razza di vita abbia
fatto… nessuno si salvava dal suo potere ipnotico… nessuno, tranne il vecchio
Demetrius. -
- Conoscevi Demetrius? -
- Non io, piccola
ignorante: tutti conoscevano Demetrius Gray. Sempre in giro tutto lugubre,
tutto grigio, appunto. Tutti lo chiamavano Gray e alla fine quello divenne il
suo cognome ufficiale. Demetrius era un grande mago. Frequentò Durmstrang e
dovettero inventare un nuovo voto, più alto, per dargli una valutazione quando
fece gli esami. Bhe, di mestiere faceva l’Auror, ci crederesti? Con tutti i
Maghi Oscuri che i Gray hanno avuto… bhe, erano tutti quanti Maghi Oscuri, in
verità. Non che Demetrius fosse convinto del suo mestiere ma, con i voti che
aveva, altrove sarebbe stato sprecato. Tornò in Inghilterra e conobbe
Cassandra. Non so come, ma si sposarono ed ebbero un figlio: Seymour, sì,
proprio lui. - disse vedendo che Gray guardava il nome di Seymour sull’albergo
genealogico. - Morì sotto il morso di un vampiro e quando rinacque, ovviamente
anch’egli lo era diventato. Da allora Demetrius iniziò l’amabile tradizione di
seppellire i morti nell’ambra, in modo che i vampiri, non-morti, non potessero
uscirne. Anche se è stato inutile. -
Gray comunque non lo
ascoltava più: ammutolì e si immerse, ancora una volta, in una marea di
ragionamenti che le fecero far quasi male la testa. Dopotutto aveva
riacquistato la memoria da poco. Il maleficio di Voldemort si era rotto da poco
tempo, al massimo due o tre giorni, e contenere una massa così forte di ricordi
improvvisi non era semplice.
Gray pensava a Cassandra e
non poté fare a meno di capirla.
Sapeva bene cosa
significava essere diversi dagli altri… essere costantemente temuti e odiati,
derisi da tutti, consapevoli che c’è qualcosa di sé stessi che non va, qualcosa
che non è normale… Cassandra aveva il potere mentale di fare qualsiasi cosa col
cervello delle persone, e anche Gray ce l’aveva quel potere. Era una cosa
ereditaria, quindi, che aveva sempre posseduto dal giorno in cui era nata. Non
aveva avuto bisogno di affinare la sua arte, era semplicemente nel suo sangue.
Non si chiese perché
Demetrius fosse immune al potere di Cassandra, e non si chiese nemmeno perché
nella famiglia dei Black ci fosse una donna del genere. Che lei sapesse,
nessuno dei parenti di Sirius era mai andato in giro con qualche occhio di
troppo.
- Possiamo aprire quelle
tende? - si lamentò uno dei ritratti con tono molto irritato, - Ormai il
tramonto è passato! -
- E va bene, - sbuffò
Gray, aprendo le tende con un gesto della bacchetta. Ormai era notte, infatti.
- Se noti, - riprese
Phineas - Questa storia degli occhi non ti ha risparmiata. Ti ho vista mille
volte ingannare perfino Silente con quel trucchetto, in quest’ufficio! Una
sfacciataggine mai vista. E comunque, con quegli occhiacci biechi che ti
ritrovi, ti sarai accorta che metti sempre a disagio le persone, se le guardi
fisso. -
- Me ne sono accorta,
grazie, - sibilò Gray. Era una caratteristica che le dava già abbastanza
problemi senza che qualcun altro glielo ricordasse.
- Nessun altro Gray è mai
nato con più di due occhi. In genere nella tua famiglia erano frequenti gli
occhi blu scuro, ma tu e Scilla fate eccezione. Anche lei aveva, o meglio… ha
tutt’ora, un’espressione per niente simpatica. -
Gray sembrava molto
riluttante a lasciare la comoda poltrona, ma dovette alzarsi: era ora di
andare. Con un colpetto della bacchetta fece ripiegare la pergamena, per poi
farla volare nelle sue mani. Aveva saputo tutto quello che voleva. O quasi. Ma
tutte le altre domande che ancora mancavano di una risposta, non potevano
ottenerla da un parente dei Black.
- Bhe, grazie, - disse
Gray stiracchiandosi. Nessuno dei quadri rispose, ma alcuni si limitarono a
salutarla con la mano.
Gray sparì in una nuvola
di freddo fumo rossastro, e poi volò via dalla finestra senza nemmeno
preoccuparsi di ripararla, sparendo nella notte.
La notizia che Scilla
aveva aggredito Cho Chang aveva fatto il giro della scuola agghiacciando
chiunque ne parlasse. Le parole che aveva
pronunciato la seguace di Hermione in Sala Comune, poi, contribuivano a creare
un alone sinistro intorno alla faccenda. Da parte sua, la Umbridge
era a dir poco terrorizzata, e non poteva far altro che seguire le istruzioni
della McGranitt. Non sembrava avere molto in mano la
situazione, come la Gazzetta del Profeta voleva far credere.
I fine settimana a
Hogsmeade erano stati annullati. Tutti i pasti furono anticipati di almeno
un’ora, i Prefetti dovevano entrare sempre per ultimi nei Dormitori e
verificare che nessuno diffondesse voci pericolose, oltre che sorvegliare tutti
gli studenti. L’orario entro il quale gli altri dovevano entrare nelle loro
Sale Comuni, che ospitavano sempre almeno un professore, era anticipato fino
alle diciotto di sera. Gli allenamenti di Quidditch e le partite erano sospesi,
e Cura delle Creature Magiche doveva tenersi al coperto.
Inoltre, il castello
pullulava di Cacciatori di Vampiri. Se il Ministero li
avesse avuti sotto controllo, sicuramente anche i Dissennatori si sarebbero
fatti vivi.
E intanto di Cho nessuna notizia.
Harry cominciava a
pensare che era ora di andare alla Stamberga
Strillante: lì era certo che avrebbe ottenuto delle risposte ai dubbi che gli
frullavano in testa. A parte naturalmente quelli che
riguardavano la visione dell’Ufficio Misteri; voleva solo capire qualcosa in
quella storia del risveglio dei Gray.
A convincerlo che fosse ora di agire fu una conversazione che aveva udito,
insieme a Ron ed Hermione, fra la Umbridge e un cacciatore di vampiri piuttosto
vecchio, con alcuni vistosissimi bernoccoli in fronte.
I due erano
nell’ufficio della Umbridge, ma visto che la porta era
socchiusa, anche solo passando nel corridoio era impossibile non sentirli.
- Io lo so chi è
quella Scilla! - latrava il cacciatore, - L’ho vista. Era a Hogsmeade,
accidenti, e mi ha lanciato una Cruciatus… E mica era da sola. C’era un tipo
sinistro. Ci giuro, ci giuro quello che vi pare, era
Sirius Black. E poi ad un tratto è arrivato anche un
lupo mannaro, ne sono certo. -
La Umbridge sembrava trovare quell’uomo estremamente simpatico.
- Ma
è strano… - aveva ripreso il cacciatore.
- Che
cosa? - fu il trillo della Umbridge.
- Prima Scilla era da
sola. Con un cane. Nero, grosso… e poi da quando è
entrata in quella baracca… - si era soffermato a lungo, alzando gli occhi al
cielo con aria stupidamente pensierosa, come se non si rendesse conto di quello
che stava dicendo.
La Umbridge lo aveva incalzato, frettolosa, i rotondi occhi da rospo
frementi di impazienza perversa. - Sì? Che cos’è successo
poi? -
Ma il cacciatore sembrava senza parole: non si ricordava più un’acca.
- Che…
che ho… detto? -
- Ha detto, - aveva
risposto la Umbridge altezzosamente, cercando di
controllarsi, - Che Scilla è entrata nella vecchia villa con un grosso cane
nero e poi questo è scomparso, che lei ha visto Sirius Black e un lupo mannaro…
-
Il cacciatore l’aveva
fissata, terrificato. Poi aveva impugnato la bacchetta, cominciando a prendersi
a legnate nelle costole, gridando che era un idiota,
un traditore, che si era inventato tutto, che lo licenziassero pure perché non
serviva a niente, e un sacco di altre accuse dirette a sé stesso.
*
- C’è
lo zampino di Gray… - disse Ron, una volta in Sala Comune, - …Oh, insomma, di
come accidenti si chiama. -
- Andiamo, Ron! -
ribatté Harry, - E come avrebbe fatto? Avrebbe convinto quel tipo a farsi
venire i sensi di colpa ogni volta che raccontava a qualcuno quello che aveva
visto? Nessuno sa fare una cosa del genere! -
- Ma
Cassandra sì. - disse Hermione, cogliendoli tutti di sorpresa.
- Che…
-
Hermione stava
leggendo “Le Grandi Famiglie di Maghi Purosangue dal Secolo XVIII”, e sembrava
non aver mai letto nessun libro con tanta avidità. Alzando la testa, Harry e
Ron videro a mala pena quale capitolo stesse
sfogliando.
Hermione spiegò loro
pazientemente tutto quello che aveva scoperto. Aveva sfogliato per mesi quel
libro, quando aveva cercato una scusa qualsiasi per incastrare Gray e per
allontanarla da Hogwarts: ma ogni volta che arrivava ad una pagina che sembrava
interessante, notava con stupore che molti nomi e cognomi erano cancellati, così
come le foto e i riferimenti alle epoche, agli anni e ai luoghi. Sembrava quasi
che qualcuno avesse rimosso intenzionalmente tutte quelle informazioni… ed
Hermione aveva capito senza troppe difficoltà che era
la famiglia di Gray: non le era capitato molto spesso di imbattersi in una
strega di cui nessuno sapeva niente. Il nome, i parenti, dove aveva abitato…
Ma di colpo, in una sola notte, tutto sembrava essersi rimesso a
posto: le cancellature erano sparite, ogni lettera appariva dritta e nitida
sulle pagine ingiallite.
- Sentite qua, - disse
Hermione, scorrendo il dito su una pagina - “I Gray abitarono
una assai sontuosa villa, situata nei dintorni della Scuola di Magia e di
Stregoneria di Hogwarts, nei pressi della quale abitazione nessuno osava avvicinarsi,
per timore, si dice, che il malocchio della famiglia lo colpisse (nota a pagina
561). Dopo la morte dell’ultimo dei Gray - o almeno così viene
tramandato, - la casa rovinò nell’oblio e attorno sorse una florida cittadina
riservata unicamente ad una popolazione magica; fu chiamata Hogsmeade.” -
- La Stamberga
Strillante! - esclamarono Harry e Ron all’unisono: in effetti
la Stamberga Strillante era l’unica cosa che somigliasse ad una villa in tutto
il paesino.
Hermione proseguì,
sfogliando frettolosamente le pagine fino alla 561.
- Capitolo undicesimo,
“Come il malocchio portò le Casate al tracollo”. - lesse Hermione - “I Gray
sono la famiglia meno longeva ma più numerosa degli ultimi secoli. Capostipite
fu l’assai celebre Demetrius “Grigio”, assieme a sua moglie Cassandra, vittima
di una strana mutazione magica (nota a pagina 122), si dice, un potere
misterioso cui nessuno sembrava indenne; ella era
forse discendente dei Black, malgrado le negazioni di questi ultimi.” -
- Black? - ripeté Harry,
incredulo.
- Fammi finire, - lo
zittì Hermione. - “Al malocchio di qualche spirito maledetto si attribuisce la
caduta dei Gray i quali, uno dopo l’altro, morirono, o divennero vampiri, o si assassinarono fra loro, o furono uccisi dai loro padri per
qualche peccato o tradimento. Nessuno sa dove i morti siano
sepolti, ma la leggenda dice che le ossa inglobate nell’ambra della scalinata
d’ingresso siano appartenute agli antenati. Furono tutte
morti premature. Il primo fu Seymour, figlio di Demetrius e Cassandra,
che fu morso da un vampiro, perciò morì e rinacque in forma semiumana”. - Harry
deglutì, inquieto. Era la stessa sorte che spettava anche a Cho? - “Ebbe molte
mogli. I suoi discendenti più celebri furono Scilla e Baal, due fratelli, figli
di Seymour e di una discendente di Salazar Serpeverde, fondatore…”bla bla… ah, ecco!
“Infine i Gray sono tutti morti, uno dopo l’altro, e nessuno sa dove e come
siano sepolti”. Non capite? - aggiunse Hermione, fissandoli, mentre continuava
a sfogliare, stavolta cercando di raggiungere la pagina centoventidue, alla
ricerca del capitolo riguardante le mutazioni più conosciute fra le famiglie di
purosangue.
- No, - rispose Ron,
aggrottando la fronte.
Hermione sbuffò, e
sembrò quasi che le cascassero improvvisamente la braccia.
Dovette trattenersi dallo schiaffeggiare il ragazzo, che a quanto pareva non
aveva ascoltato neanche una parola.
- I Gray sono tutti
morti. E se Scilla è risorta, annunciando che anche
gli altri avrebbero fatto lo stesso, significa che tutti i Gray erano vampiri,
e che continueranno a rinascere fin quando non li si ucciderà nel modo giusto. -
Hermione sembrava piuttosto scossa dall’argomento, e non le
si poteva dar torto: a sentire il libro, i Gray erano alquanto numerosi,
e questo significava che un mucchio di vampiri stava per tornare in vita. - Se Gray… oh, insomma, lei… se fosse veramente parente di
questa famiglia, si spiegherebbe come mai la pozione Anti-Vampiro ha avuto
effetto. Non funziona se non si ha sangue di vampiro in corpo, e in una
famiglia dove fanno tutti parte di questa razza è impossibile nascere
completamente… umani, ecco. -
Il discorso,
orribilmente plausibile, che aveva appena fatto Hermione aveva lasciato Harry e
Ron immobili come ghiaccioli: occhi impassibili, fronti di marmo, non facevano
che contemplare il vuoto davanti a loro, come se la loro vista passasse
attraverso gli oggetti che avevano davanti. Hermione era rimasta in sé, aspettando una reazione da parte
degli altri due, ma anche lei non poteva credere che tutto ciò fosse successo
davvero.
A Hogwarts una
studentessa era appena stata morsa, e probabilmente non era
che la prima di una lunga serie. Presto il pericolo si sarebbe esteso a
tutta Londra, o forse anche di più. Ma come mai i Gray
avevano atteso così a lungo prima di rinascere?
Il Ministero non dava
alla situazione la gravità che meritava: non avevano creduto neanche un po’
alla “panzana” della rinascita di un’intera famiglia. Inoltre, nessuno aveva
mai saputo dell’esistenza dei Gray: soltanto da un po’ di giorni a quella parte
tutti sembravano essersi riscossi da un lungo torpore. Harry, Ron, Hermione e
tutti gli studenti di Hogwarts non erano i soli a porsi domande. Di dove
saltava fuori l’assistente della professoressa Umbridge? Possibile che nessuno
sapesse niente del suo nome, della sua famiglia, o di qualsiasi altra cosa? Non
poteva essere sbucata dal nulla…
- Sentite, dobbiamo
prendere il Mantello dell’Invisibilità e usare il passaggio segreto della
strega orba, - disse Hermione, lasciandoli tutti a dir poco di sasso, - Harry,
hai detto che c’erano cose strane alla Stamberga Strillante? E’ ora di
controllare. -, concluse, con stoica fermezza.
- He… Hermione. -
esordì Ron, farfugliando dallo stupore. - Ma che ti
prende? Domani c’è… c’è l’esame di Astronomia! Non
posso credere che tu voglia infrangere le regole e smettere di studiare! E
chissà quanto ci hai messo a studiarti quel libro sulle famiglie… -
Hermione arrossì,
lusingata.
- Bhe, dobbiamo
scoprire la verità, - rispose, modesta.
- Giusto, - commentò
Harry. Ma stranamente, in quel momento, l’unica cosa sulla quale volesse scoprire la verità era il sogno ricorrente
sull’Ufficio Misteri.
- Allora è deciso. -
concluse Hermione, riponendo tutto nella borsa. In un attimo Harry e Ron furono
al Dormitorio, cercando il Mantello dell’Invisibilità e facendo in modo di non
svegliare nessuno.
La Stamberga
Strillante era esattamente come Harry se la ricordava
dall’ultima volta. E d’altra parte, non sarebbe mai
riuscito a cancellare dalla memoria quello che aveva visto e sentito. C’era
solo qualcosa di diverso.
Ogni luce, ogni
lampada, ogni torcia, ogni candela era accesa.
Una luce morbida e
arancione danzava tremolante sulle pareti rivestite di legno pregiato. L’alone
luminoso faceva risaltare le ragnatele, filtrava attraverso i drappi di seta
che pendevano dal soffitto di alcune stanze,
riscaldando l’oscurità di un insolito tepore, stranamente accogliente. Anche il camino era acceso, in salotto, e così le vecchie
stufe a carbone, le quali sorprendentemente riuscivano a riscaldare le
grandissime stanze. Da qualche parte, un pianoforte suonava.
I passi sui
numerosissimi tappeti risuonavano ovattati e soffici.
Ma la cosa che più agghiacciò Harry fu il parlottio sommesso che
veniva dal salotto. Ogni tanto si sentivano dei passi, e si vedeva chiaramente
la loro impronta lasciata per un attimo sul tappeto… ma non c’era nessuno.
I Gray erano tornati
in vita.
I tre intrusi
sussurrarono “Lumos!”, terrorizzati all’idea che qualcuno li sentisse.
Ma dopotutto, prima o poi avrebbero dovuto scoprirsi,
se volevano davvero sapere la verità. A passi cauti, lentissimi e silenziosi
raggiunsero il pianerottolo, e si sporsero giù per osservare l’immenso salotto,
con la sua volta a cattedrale, e il lampadario che scintillava di migliaia e
migliaia di luci: erano candele, la cui luminosità veniva
scomposta dalle infinite sfaccettature dei pendagli di cristallo.
Il parlottio ora era
più udibile, - e i passi anche, - anche se non si riuscivano ancora a distinguere
le parole. Uomini e donne parlavano tra loro, ed erano in salotto.
Il fatto che non ci
fosse nessuno si visibile non bastò a convincere i
ragazzi che fossero semplici quadri a parlare: dopotutto anche quei passi erano
prodotti da qualcosa di nascosto agli occhi, ma non certo da un ritratto.
Harry sentiva solo il
sordo battito del cuore, e gli sembrava così forte che avrebbe potuto
squarciargli il petto.
Mossero qualche passo
verso le scale. Ma Ron, quando si voltò bruscamente, andò a sbattere contro qualcosa, contro un ammasso di bastoncini; o forse uno
scheletro. Immediatamente un grido squarciò il calore accogliente del salotto,
fece tintinnare i vetri e i pendagli di cristallo del lampadario, come se
dovessero rompersi. Anche Ron gridò, più forte che poteva.
- Un morto! Un morto!
Uno scheletro! - gridò Ron, indietreggiando rumorosamente di diversi passi. Il
grido straziante continuava, sembrava terrorizzato almeno quanto Ron, ed era
una voce di donna.
- Calmati, Ron, per
l’amor del Cielo, zitto! - gemette Hermione.
Harry non poteva
essersi sbagliato: un drago nero enorme, lungo, dalla forme
di un serpente, volgeva intorno le sue spire, ed era così grosso che,
acciambellato, occupava gran parte del salotto… il drago sbuffava fiamme
nerastre, spalancava le fauci incrostate di sangue… scheletri danzavano tutto
intorno a loro…
- Li vedete? - strillò
Ron - Cristo, li avete visti!? -
Harry si destò,
confuso. Non era il solo ad aver avuto quella visione, forse, almeno per una
volta…
Una delle voci che
parlottavano nel salotto fino a poco prima, e che dopo le grida si erano
zittite di colpo, mormorò qualche parola che suonava come la formula di un
incantesimo: e in un attimo degli artigli invisibili agguantarono le vesti dei
tre ragazzi, trascinandoli giù per le scale. Rotolando e incespicando, infine,
Harry, Ron ed Hermione si trovarono di fronte ai quadri e alle reliquie.
Ma non era come quando Harry li aveva visti la prima volta. I quadri
ora erano nitidi, si muovevano, parlavano, e dato che
erano enormi, incutevano un terrore ancora maggiore. Tra un quadro e quello
successivo c’erano delle torce che bruciavano di fiamme cangianti, di ogni colore. La casa, tuttavia, sembrava sprofondata in
un abisso di oscurità.
- Mezzosangue, -
sibilò una voce cupa e arrochita, quasi malata.
Il ritratto di
Demetrius Gray era un alto rettangolo dall’aspetto sinistro, illuminato da
fiamme iridescenti molto più grandi di quelle degli altri, e dalla luce che
proveniva dal grosso caminetto acceso. Sotto Demetrius non c’erano reliquie, ma
un vaso di vetro pieno di rose nero-bluastre, e diversi bastoncini di incenso accesi, che emanavano nell’aria vapori argentei e
un aroma molto forte. Sembrava quasi l’aula di Divinazione, ma l’odore era solo
troppo forte, non aveva il potere di rintontire come quello della Cooman.
Un uomo sembrava
imprigionato nella tela sciupata, dentro la cornice di legno dipinto d’oro. Non
sembrava troppo vecchio, non quanto Silente. I capelli erano neri, o forse di
un castano molto scuro, ma visto che il ritratto era
un po’ sfocato non era possibile definirlo con precisione. L’espressione era
severa, gli occhi blu scuri. Come Gray, aveva le labbra livide e le dita
lunghe. Solo che quelle di Demetrius erano appoggiate su due
crani.
Guardava Harry ed
Hermione, come se fossero stati il più grande errore di
quell’universo, un cumulo di spazzatura fetida in mezzo a una strada pulita.
- Immaginavo da tempo che sareste venuti ad impicciarvi in cose che non
vi riguardano, - disse Demetrius, facendoli rabbrividire tutti e tre. - Ma non sapevo che avreste rischiato la vostra vita per
questo. Grifondoro… stupidamente, eccessivamente incoscienti.
-
Harry, Ron ed Hermione
si erano pietrificati sul posto, ed immaginarono che tra lo sguardo di
Demetrius e quello di un Basilisco vi fosse ben poca differenza.
- Ho sterminato
Mezzosangue per tutta la vita, - proseguì Demetrius, - ed ora è impresa ardua
lasciare che siano i miei discendenti e Lord Voldemort a proseguire l’opera.
Avete fatto un pessimo errore venendoci a trovare. E
mi dispiace di dover restare a guardare mentre i miei figli morderanno quei
vostri flaccidi colli. -
Harry ebbe un lampo di
terrore ben visibile negli occhi. Demetrius Gray parlava lentamente, la voce
sempre più roca, con una vaga intonazione perversa. Ad ogni frase sembrava che
gettasse ombre sempre più pesanti sulla luce accogliente che si diffondeva
nella casa. E la sua intenzione, era quella di
ucciderli, o meglio di stare a guardare dentro il suo ritratto mentre i suoi
figli lo uccidevano… che stesse parlando di Scilla? Era stata la prima a
tornare in vita, o forse la prima a manifestarsi… La prima che aveva avuto
sete. Una sete che presto avrebbe trovato sollievo col loro
sangue.
Forse Harry avrebbe
negato quell’evidenza, in altre situazioni, avrebbe giurato a sé stesso di
impedire con tutte le sue forze che gli toccasse una fine del genere, ma
Demetrius parlava in modo così convincente da gelargli
tutte le viscere.
Harry scrutò le
espressioni dei suoi amici: non erano certo meno spaventati di lui.
Eppure, Hermione parlò.
- Che
cos’erano quegli scheletri e quel drago? - la sua voce tremava come il fuoco
nel caminetto, ma si sforzò di non balbettare troppo, o Demetrius avrebbe avuto ancora più soddisfazione nel vederli morire.
- A che ti serve
saperlo? - disse una voce acida poco lontano da Demetrius, la voce di uomo che senz’altro era molto più giovane.
Infatti l’aspetto mostrava circa ventotto anni: doveva trattarsi di
Seymour, perché anche il libro di Hermione lo descriveva come un uomo molto
attraente. Aveva corti capelli castani, fulvi, e anch’egli le labbra livide. In
realtà la sua carnagione era completamente bianca, e anche i suoi occhi erano
pallidi, di un grigio vagamente rossastro. Nel parlare, aveva scoperto i lunghi
canini puntuti, probabilmente gli stessi nel liquido azzurrino delle reliquie,
sotto di lui. Vestiva di bianco, molto leggero, e dalla scollatura della
camicia traspariva un grosso tatuaggio con un drago nero simile a un serpente.
Anche lui era un vampiro.
- A niente, - rispose
Demetrius al posto di Hermione - Ma suppongo che possiamo accontentarli prima
che muoiano. - I ragazzi deglutirono molto rumorosamente. Gli altri quadri
risero di sadica soddisfazione.
- Il drago ero io, -
esordì Demetrius - l’ira cieca del drago che ha
tagliato teste e strappato viscere ai maghi e alle streghe della peggior
specie. Anche a quelli della mia famiglia. Essi sono
sepolti insieme a quella cieca ira e alla sua personificazione, per così dire,
e giacciono nell’ambra così che non possano risorgere.
Però la maledizione dell’Oscuro Signore si è spezzata.
Non potendo rinascere come spiriti corporei, essi si aggirano per questa casa
come degli spiriti evanescenti, urlando e gridando dalla disperazione, le ossa
costantemente lacerate dal drago nero. Il drago nero che tutti i Gray hanno nel sangue, nel cervello. Il drago
che è l’effige della nostra famiglia e dei nostri Patronus. -
Se Harry aveva ancora
qualche dubbio sul fatto che Gray facesse parte di quella famiglia, adesso ne era assolutamente certo: il drago che avevano visto era
anche il Patronus di Gray.
- Ci sono cose che si
tramandano col sangue, - proseguì Demetrius, - e così, di generazione in
generazione, fino a Sara, l’ultimo membro della nostra famiglia che sia rimasto in vita senza bisogno di rinascere. -
Sara, pensò Harry,
Sara poteva essere…
- Quella tela è per
Sara, quando la morte si sarà svegliata in lei, -
disse Seymour, volgendo a mala pena gli occhi verso il quadro vuoto che Harry
aveva visto anche tempo prima. Adesso però il quadro non era affatto vuoto. I
ragazzi videro, e lo videro con un brivido elettrico lungo la schiena, che la
figura profondamente addormentata nella tela era una ragazza dai capelli lisci
e fulvi, l’aspetto molto malato, un ciondolo a forma di cuore
nero con le ali appeso al collo. Era lei. - Mezzosangue, è vero. Tuttavia contribuì alla purificazione della nostra famiglia
uccidendo i propri genitori traditori. E si unì a Lord Voldemort, seppur contro
la sua volontà... ma prima o poi non avrà sicuramente
scampo dal Marchio Nero. -
Gli altri ritratti
guardavano la ragazza addormentata nel quadro, e videro comparire
nell’incisione della cornice il nome “Sara”. Con orrore, Harry, Ron ed Hermione
videro che tre bulbi oculari rosso sangue erano
apparsi dentro il vaso delle reliquie.
- Lei… lei non è
ancora… -
- Non lo è. Perché in effetti quegli sono gli occhi di Cassandra. - rispose
Demetrius prima ancora che Hermione concludesse la
frase. - Sara non ha lo stesso potere di Cassandra, no, e non ha nessuna
disgustosa deformità. Quella donna poteva indurre ad atti selvaggi soltanto
guardandola negli occhi. Non c’è nessun quadro di lei: immagino che il suo
potere sarebbe rimasto pressoché inalterato, perciò l’abbiamo seppellita senza
nessuna testimonianza. Sara, però, ha ereditato molte cose di
lei, per questo Voldemort la volle come Mangiamorte. È stata molto
deludente, ma fa ancora parte della mia famiglia, devo dire. Voldemort volle
punirla della sua disobbedienza, scagliandole contro una maledizione che ci
mise tutti in ginocchio. -
Harry non doveva
essere il solo ad avvertire una fitta tensione omicida nell’aria, e seppe con
esattezza che almeno due o tre vampiri erano nascosti chissà dove, o forse
erano invisibili dietro di loro, pronti a sbranarli. Doveva farsi venire in
mente qualcosa… doveva farlo, o sarebbe stata la fine…
- Che…
cos’è questa storia della maledizione? Una Maledizione Senza Perdono? - azzardò
Ron con la voce tremula.
- Maledizione Senza
Perdono! - ripeterono molti quadri con tono quasi offeso, e Ron desiderò che il
pavimento lo inghiottisse facendolo ricomparire da qualsiasi altra parte. Gli
tramavano le ginocchia.
- Simpatici gingilli, -
disse Demetrius, - Tanto più che abbiamo qui il
ragazzo che è sopravvissuto… Ho sempre pensato che un onore del genere
spettasse a un Purosangue, ma poi mi sono convinto che non si tratta di un
onore, ma di una condanna. - Harry non capiva le parole del vecchio. Sì, molto
spesso non era riuscito a sopportare la sua fama, aveva creduto di crollare… ma
come poteva definirsi addirittura una condanna? Si immaginò,
e ben presto se ne convinse, che l’affermazione di Demetrius non era affatto
un’esagerazione o un caso. - No, Sara fu colpita da
qualcosa di peggiore, che Bellatrix Lestrange scagliò al posto di Voldemort. Vi
siete accorti che c’è qualcosa di strano nell’aria da qualche giorno, visto che
avete conosciuto Sara. -
- Ma
lei come fa… -
- Taci, Weasley. -
E la voce di Demetrius era un latrato.
Alle parole di
Demetrius, non solo Ron e gli altri, ma anche i quadri che parlottavano tra
loro si misero composti e si zittirono all’istante. Quello di Demetrius era un
ruggito simile, o forse identico, al gorgoglio che il drago nero emetteva dalle
fauci.
Un attimo dopo, il lampadario
cascò. Il boato fu enorme, pezzi di cristallo volarono in tutte le direzioni,
ma si fondevano di colpo non appena si avvicinavano ai ritratti, e il
lampadario immenso si frantumava come un vaso di ceramica, portando con sé una
nuova ondata di terrore.
Harry sapeva che il
loro tempo era segnato, quello era il capolinea…
Sparì il desiderio di
ascoltare il resto del discorso. Sparì qualsiasi cosa. Ormai erano già morti, praticamente. Si guardò intorno nervosamente, e intanto
Demetrius contemplava il silenzio che aveva creato, con aria soddisfatta.
E ad un tratto vide Sirius. Stava per gridare, ma la visione sparì
all’istante, come se avesse appena visto un’anima. Ma
non poteva trattarsi di un’anima…
Harry cercò di seguire
il fantasma evanescente di Sirius che fluttuava a pochi centimetri da terra,
guardandosi intorno; Harry capì, si trattava di un’altra delle visioni della Stamberga Strillante, che faceva rivivere ogni ricordo
impregnato nelle sue mura.
Ecco Gray… cioè, Sara. Era di fronte ad un armadio, lo apriva, era
pieno di armi… Chiamò Sirius, e si inginocchiò accanto
all’armadio. Fissava uno dei tanti teschi lì in basso… e poi con un sorriso
divertito infilò le dita nel naso a un teschio…
Era un passaggio
segreto. La loro salvezza. O almeno così Harry
suppose.
- Sara avrebbe
dimenticato tutto quello che riguardava la sua famiglia, il suo nome, le sue
origini, i luoghi che aveva visto, le cose che aveva fatto. Sarebbero sparite
le persone che aveva conosciuto, quelle poche a cui aveva
voluto bene, quelle tante che aveva odiato. Tutto sarebbe
scomparso, lei sarebbe ripartita da zero come una neonata. E non solo lei: chiunque avrebbe dimenticato tutto ciò che
la riguardava, i libri si sarebbero cancellati, i quadri sarebbero spariti.
Qualsiasi cosa, qualsiasi, che stava nel cervello di Sara, sarebbe scomparsa
per tornare mai più: e niente o nessuno ne avrebbe
conservato la memoria. -
Hermione e Ron
sgranarono gli occhi. Harry era troppo nervoso per accorgersi
delle parole di Demetrius. Il silenzio fu di pietra fin quando Demetrius non
concluse: - Questa fu la maledizione. -
In un primo momento
restarono tutti sbigottiti.
- Ti chiedi come abbia
fatto a cavarsela? - disse Seymour rivoltò a Hermione, che apriva e chiudeva la
bocca come se stesse parlando a sé stessa, anche se ricordava molto un pesce
lesso.
Hermione annuì con
veemenza, ancora più nervosa.
- Era protetta da
qualcosa di speciale, - rispose Seymour, - Qualcosa che tutt’ora
porta legato al collo, camuffato come un ciondolo, e che l’ha salvata anche dal
vuoto quando finì ad Azkaban. Non ti sei mai chiesto perché ne
è uscita quasi normalmente? C’era qualcosa lì a proteggerla. E’ il
regalo che le hanno fatto i suoi unici amici. È ciò
che ti ha salvato quando Lord Voldemort ha tentato di rubare la Pietra
Filosofale quattro anni fa, è una cosa complessa e irrimediabile che forse in
questa casa non è mai esistita. -
- Sara non partì
proprio da zero, - proseguì Seymour. Harry notò che aveva l’aria più malvagia
di Demetrius, ma sembrava di indole molto meno feroce,
aveva un qualcosa di affabile nel modo di parlare. Era troppo preso da un piano
di fuga per ragionare sulla frase che gli aveva appena detto il figlio di
Demetrius. - riuscì a salvarsi parzialmente. Il primo anno, dopo tutto ciò, fu caotico e crudele, ma lentamente riuscì a
recuperare la sua memoria, grazie al potere mentale di Cassandra. Leggeva i
suoi sogni e i meandri della sua memoria, tentando di recuperare i ricordi
perduti. Non sapeva che in questo modo ci avrebbe lentamente riportati
in vita. -
Harry pestò un piede a
Hermione e lei, recepito il messaggio, tirò la manica
a Ron. Entrambi lanciavano occhiate di sbieco a Harry,
che tuttavia non era affatto sicuro circa la riuscita del suo piano. Ma dovevano tentare.
- Queste cose
riguardano loro, Seymour? - tuonò un uomo dalla voce maestosa.
- Certo che no, Odino,
- ribatté Seymour con un sorriso affabile, - Ma stanno per morire, che fastidio
possono darci? -
Harry indicò ai due
l’armadio di finto legno.
Dovevano agire adesso.
Seymour e Odino
stavano ancora discutendo, quando i tre ragazzi balzarono all’indietro e poi si
voltarono correndo più veloci che potevano. Evitarono il lampadario, cercando
di non scivolare sui frammenti di cristallo, e intanto i quadri strillavano e
ruggivano come animali. Ancora le parole di quella specie di incantesimo:
Hermione fu presa dagli artigli di un drago invisibile. Riuscì a divincolarsi,
ma non se la cavò senza ferite.
Ron strisciava sul
pavimento cercando di liberarsi dall’artiglio che gli afferrava la veste. Alla
fine si strappò il mantello e corse via verso l’armadio, più velocemente che
poteva. Harry riuscì ad evitare la terribile zampa, ma un grosso quadro
raffigurante un paesaggio lo colpì alla schiena, probabilmente lanciato dalla
bestia che cercava di fermarli. Non solo non era visibile, ma neanche corporea:
gli Schiantesimi in ogni caso non funzionavano.
- Se
è davvero un drago, non servirà a niente! - gemette Hermione.
- Zitta e corri,
Hermione! - la rimbeccò Ron.
Erano arrivati
all’armadio. Sotto lo sguardo stupito degli altri due, Harry infilò le dita nel
naso al teschio a sinistra.
- Harry ma… ma ti
sembra… non scherzare, ti prego… -
Hermione capì che si
sbagliava: il mobile iniziò a spostarsi, ma lo fece con una lentezza
esasperante. Era troppo lento, troppo lento… non potevano
passare da quella minuscola apertura. Stranamente, i quadri si erano zittiti e
il drago non si faceva più sentire. Hermione avrebbe voluto dire qualcosa, ma
era chiaro che tutti avevano notato quel comportamento
sospetto: in ogni caso, preferirono calarsi giù nella botola piuttosto che
aspettare la loro fine sotto gli occhi di Demetrius.
Tramortiti dalla fuga
e da ciò che avevano sentito dire ai ritratti, i tre ragazzi non fecero caso
alle ossa umane inglobate nell’ambra dei gradini che stavano scendendo. Non
poterono ignorare il sinistro spettacolo troppo a lungo, perché ben presto si
trovarono in una sala fatta completamente dei ambra, la stessa che Sara e
Sirius avevano visto solo pochissimi giorni prima. Ma c’era qualcosa di
diverso.
In numerosi punti
l’ambra sembrava disciolta da una potente fiammata, e le ossa che un tempo vi
erano state sepolte erano scomparse. Immediatamente, Harry, Ron ed Hermione
pensarono che fossero fuggite. Ogni tanto pervenivano loro visioni di quello
che era successo in quella stanza altre volte, e non era mai un bello
spettacolo.
Videro un drago nero
levarsi in cielo con le fauci grondanti di sangue, e poi due persone girate di
spalle che, a giudicare da ciò che cadeva in terra, stavano togliendo
accuratamente la pelle - e tutto il resto - da un cadavere. Videro l’ambra
liquefarsi, dando modo a quei due di seppellirvi dentro lo scheletro. Poi la
massa arancione - dorata si faceva di nuovo solita, e il morto restava lì per
sempre. Videro anche Sara e Sirius, anche loro intenti a guardarsi intorno con
facce sgomente.
Sul pavimento era
quasi impossibile camminare: il buco lasciato dal drago nero era così grande
che l’ambra sembrava un mare congelato in un momento di tempesta.
Alcuni scheletri,
tuttavia, erano rimasti al loro posto, come quello di Demetrius e quello di
Cassandra. Evidentemente non erano vampiri e non erano mai potuti risorgere. Ma
i vampiri, allora, come mai avevano dovuto aspettare così tanto per tornare in
vita?
- E’… è orribile… -
sentirono dire a Hermione, e si affrettarono a dirigersi verso il punto in cui
lei si trovava. Era di fronte alla carcassa di Cassandra Black. - Guardate il…
cranio… - soffiò la ragazza, appena udibile.
E allora anche Ron ed
Harry videro che in piena fronte, al centro, il cranio di Cassandra aveva
un’altra orbita oculare. Si avvicinarono di un passo. Era quello lo strano
potere di Cassandra, il potere di cui parlava il libro?
Ma avevano commesso
l’errore di guardare troppo a lungo un solo punto.
Harry aveva poggiato
la mano sull’ambra, gelida come un pezzo di ghiaccio. Ed in un attimo dovette
scostarsi, perché lo scheletro di Cassandra aveva subìto uno scatto repentino.
Ma dato che Ron e Hermione si erano affrettati a distogliere lo sguardo, Harry
dedusse che aveva avuto un’altra visione.
Non fece in tempo a
terminare la supposizione, che una voce rise alle loro spalle. Una voce di
donna. E stavolta non era affatto un’apparizione incorporea.
Una giovane donna
d’alta statura era in piedi, immobile, con una mano sul fianco, alla porta che
conduceva nuovamente su per le scale. Indossava un corsetto molto rigido e
aderente, e una specie di gonna che si apriva quasi completamente sul davanti,
simile ad uno strascico da sposa. Aveva una lunga serie di cinture alla gamba
sinistra, e un laccio rosso scarlatto si avvolgeva intorno al collo. I tre
notarono con orrore che le mancava tutto l’avambraccio, dal gomito in giù.
La pelle era
bianchissima, non proprio come quella di Sara, ma non sembrava comunque umana.
Ed in effetti somigliava molto a Sara, non solo perché era vestita solo di
nero.
Harry vide le stesse
mani che erano anche le stesse di Demetrius, affusolate, dalle dita lunghe e
sottili, le stesse labbra livide, e soprattutto, gli stessi occhi. La loro
forma molto aguzza era sottolineata dal trucco scuro e pesante, così che le
iridi rosse rubino scintillavano come non mai. Mettevano decisamente a disagio,
fissi com’erano, davano l’impressione che niente potesse smuoverli. Erano colmi
di una strana, sadica crudeltà. Le sopracciglia erano molto vicine agli occhi,
ed erano fini e lunghe, costantemente curvate in un’espressione minacciosa,
quasi feroce. Erano tali e quali agli occhi di Sara.
- Siete in trappola, -
disse la donna, - non siete stati molto astuti a scappare in un vicolo cieco. -
- C… Che diavolo sta
succedendo qui? - Harry si sorprese dell’improvviso impeto con il quale aveva
parlato.
- Credevo che la tua
mente fosse più sveglia, Harry Potter, - ghignò la donna, rovesciando
all’indietro la chioma di boccoli corvini. - Tu sai cos’è un’anima? -
Harry e gli altri
erano spiazzati. Che domanda era, così improvvisamente?
- Le anime non
esistono. - disse Hermione a voce così bassa che la donna fece un passo avanti
per sentirla.
- Le anime sono la
parte di un essere umano che continua a camminare sulla terra dopo il traguardo
della morte fisica. - rispose la donna - Le anime sono tenute in vita dal
ricordo che la gente mantiene di colui che è morto. Se nessuno ha memoria di
lui, la sua anima non ha ragione di esistere, non può esistere. Le anime sono i
ricordi. - aggiunse, in risposta alle espressioni perplesse dei tre. - E anche
un non morto non può tornare in vita se la sua anima è estinta. Ora il momento
è giunto. -
Finalmente… finalmente
Harry capiva. Anche se, dall’espressione di Hermione, poteva dedurre che lei lo
aveva capito molto prima di lui.
La maledizione aveva
cancellato ogni memoria esistente di chiunque portasse il cognome di Sara. I
vampiri non potevano risorgere se la loro anima non si ricongiungeva al corpo,
e questo non era possibile se i ricordi venivano cancellati…
“…Non sapeva che in
questo modo ci avrebbe lentamente riportati in vita…”
Era questo che aveva
detto Seymour, e soltanto adesso Harry capiva.
- Finalmente la nostra
sete sarà placata, - riprese la donna: la sua voce mutava lentamente in un
sibilo, in modo così vistoso che era impossibile non accorgersene. Sorridendo
scoprì i lunghi canini da vampiro.
- Tu hai morso Cho! -
si sorprese a gridare Harry.
Non sapeva esattamente
cosa glielo facesse pensare, ma era certo che quella fosse Scilla.
- Sono soltanto la
prima che ha ceduto alla sete, - disse la donna, scrollando le spalle. - Tu
stai qui a parlare, Potter, ma nel frattempo una decina di vampiri sta mettendo
in ginocchio tutto il castello di quel ridicolo Silente… -
- No! -
Harry si sentiva
accecato dalla rabbia. Ma non doveva preoccuparsi… a scuola era pieno di
cacciatori… anche se la nuova Preside non sarebbe stata di alcun aiuto, anche
gli altri professori avrebbero fatto di tutto per impedire che succedesse il
peggio. Sì, erano al sicuro…
- Stupeficium! - gridò
Hermione. Harry e Ron si scansarono di colpo, ma Scilla non si scompose.
Proprio mentre il raggio rosso si dirigeva verso di lei, la videro scomparire
lasciando al suo posto un piccolo stormo di pipistrelli, che volava verso di
loro… verso Ron.
- Ron! - strillò
Harry, - Ron, no! -
Era troppo tardi.
Ron non aveva avuto il
tempo di difendersi prima che i pipistrelli gli piombassero addosso: e poi
Scilla era tornata umana, e i suoi denti erano affondati nel collo del
ragazzo...
Con orrore
incontenibile, Harry ed Hermione videro Ron afflosciarsi a terra, con due fori
ben distinguibili sul collo completamente macchiato di sangue. Scilla si
rialzò, mostrano il viso anch’esso rosso di sangue, il sangue di Ron. Si leccò
le labbra con un’espressione perfida.
Senza neanche
pensarci, Harry le si era scagliato addosso. Non sapeva cosa avrebbe fatto, non
lo sapeva proprio, ma doveva fare qualcosa…
Scilla non ci fece
troppo caso, si ritrasformò in pipistrelli e volò di nuovo verso le scale.
Harry ed Hermione corsero verso Ron, annaspante sul pavimento eroso: era ancora
in sé, ma dopo un lieve spasimo, svenne. Non era ancora morto, ma il cuore
pulsava a mala pena.
Harry non rifletteva:
Scilla aveva morso prima Cho, poi Ron.
Doveva fare qualcosa.
- Expecto Pa… -
- Expelliarmus! -
Scilla fu più rapida di lui.
Inaspettatamente tirò
fuori una bacchetta di ebano dalla cintura e Harry sentì che la sua arma gli
veniva strappata dalla mano con furia spaventosa, prima di finire lontanissima,
giù, in fondo alla sala. Chissà perché, Harry aveva sempre pensato che i
vampiri non potessero essere, dopotutto, anche loro dei maghi e delle streghe.
Hermione aveva levato
la bacchetta, convinta che Scilla non la stesse osservando. Invece, prima che
potesse pronunciare una qualsiasi formula magica, la vampiro le lanciò contro
un potentissimo Schiantesimo, che la fece svenire all’istante, scaraventandola
un paio di metri indietro, fin quando non cadde in una delle fosse lasciate dal
drago e dagli scheletri.
- E ora, Potter, tocca
a... -
- Scilla! -
Harry sussultò. Una
voce aveva parlato dal lato opposto della stanza, dove era finita la sua
bacchetta. Voltandosi di scatto, vide con rinnovato orrore che si trattava di
un gruppo di Mangiamorte, che dovevano essere almeno una decina. A parlare era
stata una donna, i cui lunghi capelli neri spuntavano da sotto il cappuccio che
le copriva gli occhi.
Scilla non ebbe altra
reazione a parte un sorrisetto divertito. Con un soffio disinvolto scacciò i
capelli dagli occhi, e iniziò a fissare il gruppo di incappucciati che le
venivano incontro. Harry era ancora lì, in piedi, ma gli sembrò che nessuno
fosse interessato a lui: stranamente la cosa non lo rendeva sollevato.
- Tutti e dodici i
Mangiamorte! - fischiò ironicamente Scilla - Qui per fermarmi? -
- Non toccare quel
moccioso, Gray. - ringhiò la donna incappucciata.
- Perché dovrei
ubbidire a colei che ci ha condannati al vuoto per così tanto tempo? -
- E’ il Padrone che te
lo ordina! -
L’espressione di
Scilla si contorse impercettibilmente fino a diventare quasi atterrita, ma si
ricompose subito dopo, essendosi resa conto che il suo sgomento non era poi
invisibile.
- Non ho nessun
padrone, - ribatté Scilla alzando il braccio mozzato. - Non più. -
Harry ebbe un lampo di
memoria: sotto il quadro di Scilla, nel vaso delle reliquie, c’era proprio un
avambraccio, rigido e bianco, e sopra vi era impresso il Marchio Nero. Scilla
era una Mangiamorte.
- Non puoi cancellare
un legame di servitù soltanto tagliandoti un braccio! Il Marchio Nero è eterno!
- quella era la voce di Lucius Malfoy. Che stava succedendo? Perché i
Mangiamorte volevano salvargli la vita? Voldemort aveva bisogno di lui, vivo?
- Ma guardatevi, -
rise Scilla con un ampio gesto del braccio sano, - Fedeli come pecorelle al
loro pastore. Quante volte Voldemort vi ha illuso di avere il mondo fra le
mani? E quante volte avete creduto di poter raggiungere finalmente il potere
grazie a lui? No, Malfoy, Voldemort ha promesso, ma non vincerà mai finché
questo moccioso sarà vivo! Lasciate che io lo morda, sarà allora che il vostro
padrone potrà mantenere le sue promesse! -
- Attenta a come
parli, vampira! - abbaiò Bellatrix Lestrange, e nella foga di alzare la testa
il cappuccio le scivolò sulle spalle. La prigionia ad Azkaban aveva strappato
il colore e la bellezza al suo viso, i capelli non erano più lucidi come un
tempo, e gli occhi erano l’unica cosa che pareva viva del suo volto: due occhi
lucidi di fanatica crudeltà.
Scilla alla sua vista
inarcò le sopracciglia col suo sorriso di scherno.
- Che brutta pelle, -
disse in tono dolce. - Come puoi chiamarti donna? -
- Non cercare di
portare la situazione a tuo vantaggio. Se lo mordi diventerà un vampiro! -
Bellatrix aveva alzato la bacchetta, ma cercava di controllarsi.
- Non succederà, -
rispose Scilla tranquillamente, - se non sono io a volerlo. Il padrone non l’ha
spiegato ai suoi alunni? -
Harry si sentì
estremamente sollevato, tanto che gli sembrò che il cuore rallentasse i suoi
battiti impazziti. Ron e Cho non correvano il rischio di trasformarsi in
vampiri a loro volta.
Però se non avesse
portato subito Ron da Madama Chips…
Bellatrix era fuori di
sé. - Vattene subito da qui, se non vuoi la tortura, Gray! -
Scilla aprì le
braccia, come per dirle di farsi avanti. Il suo braccio monco era ancora più
appariscente. - Torturami, allora! - sorrise. - Non puoi uccidermi, mortale, io
tornerò sempre… -
Bellatrix Lestrange
aveva il viso sorprendentemente sconvolto dalla follia di uccidere. Sembrava
che avesse di colpo acquistato una sfumatura rosso fiamma. - Sta’ attenta,
vampira… - cercava di tenere la voce ferma, ma non ci riusciva. Qualcosa
fremeva sotto al suo petto.
- Torturami,
Lestrange! - ripeté Scilla quasi urlando, un sorriso di sfida dipinto sul bel
viso florido dalle guance tinte di trucco. Aveva aperto così tanto le braccia
che sembrava crocifissa. - Torturami fin quando non ti si scheggerà la bacchetta!
Mi sono tagliata il braccio da sola, me lo sono bruciato perché non
ricrescesse… come pensi che io possa soffrire per quella tua Cruciatus? -
Gli altri Mangiamorte
assistevano alla scena in assoluto silenzio, come se fossero venuti lì soltanto
per guardare. Harry si era lasciato prendere dalla situazione: ora osservava la
splendida Scilla fissare Bellatrix con le braccia spalancate, curioso di sapere
cosa avrebbero fatto i Mangiamorte…
Ma che diavolo stava
facendo?
Doveva portare in
salvo Ron ed Hermione. Chiunque avesse vinto la contesa, lui non avrebbe avuto
possibilità di scampo, e Ron sarebbe morto dissanguato. Possibile che non ci
fosse un modo per scappare? Possibile che non ci fossero altri passaggi
segreti?
Bellatrix sembrava non
curarsi del fatto che la magia non era in grado di uccidere i vampiri. Harry si
costrinse a tenere gli occhi aperti e la mente lucida mentre Scilla si
contorceva sotto la Maledizione Cruciatus. Eppure, la donna continuava a
fissare la sua torturatrice con occhi fissi, quasi congelati.
- Smettila! - abbaiò
Bellatrix, interrompendo la Maledizione e voltando furiosamente la faccia su un
fianco, - Smettila subito! -
- Ti do fastidio,
Lestrange? - sibilò Scilla, l’espressione sempre più sadica. Scilla prese ad
avvicinarsi a Bellatrix, e Harry non avrebbe mai voluto essere al suo posto,
sotto lo sguardo ininterrotto degli occhi della vampira.
- Non hai ancora visto
cosa posso fare! - Bellatrix scagliò ancora una volta la Cruciatus, ma con suo
orrore, Scilla era scomparsa. Aveva compiuto un balzo fin troppo alto, ed era
atterrata esattamente dietro di lei. Ormai non era più un’umana: era una
pantera.
Digrignava i denti,
camminando lentamente verso i Mangiamorte. Non zoppicava, perché non le mancava
affatto un pezzo di zampa. Ad ogni movimento dei suoi muscoli solidi il pelo
nero come petrolio scintillava, lucente sotto la luce delle candele fluttuanti.
Dondolava la lunga coda flessuosa in atto aggressivo. Era pronta al balzo,
aveva le unghie completamente in fuori, le orecchie basse, e i denti in mostra.
- Basta così,
Bellatrix, - disse Malfoy - Non puoi competere con loro. Lo sai. -
Harry rabbrividì. I
Gray erano nati dal sangue di Demetrius e Cassandra, probabilmente tra i maghi
più potenti del secolo. Come avrebbero fatto i cacciatori di vampiri a tenere
loro testa se anche i Mangiamorte si ritraevano di fronte a loro?
Comunque era certo che
Sara non fosse alla pari di Scilla. Del resto, quest’ultima era di discendenza
molto più vicina ai due capostipite, era la loro nipote diretta, mentre Sara
aveva anche del sangue Babbano.
- Non possiamo
ritirarci! - disse un Mangiamorte, Rookwood, parlando per la prima volta da
quando era entrato nella sala d’ambra, - il Padrone ci ha ordinato di portargli
la vampira e noi lo faremo! -
Non aveva ancora
completato la frase che Scilla gli era piombata addosso, lanciandogli una
feroce zampata sul muso. Rookwood cadde a terra incespicando in una
deformazione dell’ambra, con tre grossi tagli sul viso.
- Perché diavolo la
tua famiglia non fa altro che disubbidire, Gray!? - ruggì Malfoy prima di
colpirla con uno Schiantesimo. Scilla tornò umana ma non perse i sensi, anche
se era scivolata due o tre metri dietro di sé. - Chi vi credete di essere? -
- Sai chi ci ha
creati, inferiore? - rise Scilla, prima di gridare: - Impedimenta! -
Lucius Malfoy prese in
pieno la stregoneria, e si ribaltò all’indietro diverse volte prima di finire
anche lui dentro una scanalatura lasciata dal drago nero.
Harry doveva agire
adesso.
Approfittando del
fatto che tutti i Mangiamorte erano impegnati per tenere testa a Scilla, si
avvicinò cautamente a Ron ed Hermione, che per fortuna non erano troppo lontani
l’uno dall’altro, e usò la bacchetta di Ron per riprendersi la sua con l’Incantesimo
d’Appello. L’effetto non fu molto efficace, ma consentì a Harry di effettuare
un Incantesimo Scudo appena in tempo, prima che una stalattite di ghiaccio
colpisse lui e gli altri due: qualcuno aveva appena ghiacciato la metà delle
candele, e la visibilità si era molto ridotta. Harry cercò di avvicinarsi il
più possibile alle scale, ignorando gli scheletri dalle mascelle spalancate
appena sotto di lui. Salire quei gradini con Ron ed Hermione a traino avrebbe
significato fare ritorno nel salotto, dove Demetrius lo aspettava con la sua
sentinella invisibile. Ma era sempre meglio che essere catturati, visto che non
vedeva altra via d’uscita.
E poi ricordò: la
cassapanca.
Sara gli aveva
mostrato un passaggio segreto che portava direttamente al dormitorio dei
Grifondoro, e gli aveva detto che poteva essere percorso in una sola direzione:
dalla Stamberga Strillante fino a Hogwarts.
Doveva soltanto
raggiungere l’ultimo piano.
Il salotto era quieto:
non si sentiva un solo rumore. Sembrava che il trambusto del sotterraneo
appartenesse ad un’altra dimensione, tanto era calda e gradevole la luce del
camino e del lampadario, magicamente tornato al suo posto e perfettamente
integro.
Hermione si era
ripresa grazie ad un contro incantesimo, e sembrava che nessuno si fosse
accorto di niente: schizzava sangue da tutte le parti, ognuno era impegnato a
guardarsi le spalle, e inoltre la forma irregolare dell’ambra, dopo la fuga dei
cadaveri, catturava la poca luce rimasta scagliando ombre impazzite in tutte le
direzioni.
Harry si accorse che
l’alba era giunta da un pezzo. Dovevano tornare subito a Hogwarts. Demetrius
non fece niente per fermarli. La sentinella invisibile non si sforzò più di
tanto di catturare lui ed Hermione che trascinavano Ron su per le scale di
legno. Forse Voldemort aveva convinto il vecchio a lasciarlo vivo…
Meglio così, penso
Harry. Avrebbe affrontato un problema alla volta.
E il problema che si
poneva in quel momento erano i passi sulle scale d’ambra, che si sentivano
dalla piccola apertura sul pavimento: evidentemente il mobile non poteva
richiudersi se prima tutti quelli che entravano non erano usciti. Harry sentì
la voce affannosa di Bellatrix: si erano accorti della loro fuga. Lui ed
Hermione corsero con tutte le loro forze.
- Laggiù! - gridò
qualcuno al pianterreno.
Li avevano visti.
- Il mantello, Harry!
Il mantello! - sussurrò Hermione disperata.
Harry non se lo fece
ripetere. Si nascosero in un angolo e si misero il mantello, poi si rimisero in
marcia verso l’ultimo piano, con i Mangiamorte alle calcagna. Erano almeno in
quattro o in cinque.
Harry sapeva che non
poteva nascondersi da loro, dal momento che sentivano i suoi passi. Ma
soprattutto, era molto difficile trascinare Ron tenendolo sotto il mantello.
Hermione, dopo molti tentativi falliti, sussurrò: “Mobilicorpus”, e il corpo di
Ron si mise a fluttuare ad una trentina di centimetri dal pavimento.
I Mangiamorte erano
sempre più vicini.
Ma la cassapanca era
vicina… ecco, mancavano tre porte…
- L’ho visto! - gridò
un Mangiamorte. - Hanno un Mantello dell’Invisibilità! -
- Prendili! - strillò
Bellatrix.
Hermione fu sfiorata
da un altro Schiantesimo, ma riuscì a proteggersi in tempo con un Incantesimo
di Scudo.
Ecco, ecco la stanza
con la cassapanca e il passaggio segreto.
Harry uscì dal
Mantello, gridò: “Impedimenta!” e i due Mangiamorte che stavano davanti agli
altri rotolarono all’indietro bloccandoli tutti. Bellatrix imprecò ferocemente.
E fu la prima a
rialzarsi.
- Hermione! Nella
cassapanca! Muoviti! -
Bellatrix tentò per la
terza volta con uno Schiantesimo, e Harry fu preso quasi in pieno. Cercò di non
svenire… doveva, doveva restare sveglio…
Hermione e Ron erano
già nel passaggio segreto.
- Expecto Patronus! -
annaspò Harry; sapeva che non avrebbe avuto molto effetto, ma almeno avrebbe
disorientato Bellatrix e lui avrebbe potuto sparire nel passaggio segreto. E
infatti, come previsto, Bellatrix venne bloccata dal cervo d’argento: lui ebbe
appena il tempo di immergersi nella cassapanca, richiuderne il coperchio e
rotolare giù per i gradini prima che la Mangiamorte si riprendesse.
Lasciandosi cadere giù
per le scale di pietra fin quando una radice non fermò il suo rotolare, Harry
si arrese: era veramente esausto. Hermione fece atterrare lentamente Ron sulla
terra umida, e si sedette accanto a lui. Aveva gli occhi chiusi e il respiro
affannoso: evidentemente ben poche volte si erano trovati in pericolo come in
quel momento. E se Bellatrix avesse visto il passaggio segreto?
Bastò quel pensiero a
farli alzare entrambi, come se si fossero letti nel pensiero. Hermione sollevò
nuovamente Ron con lo stesso incantesimo, mentre Harry bruciava le radici che
ostacolavano loro il passaggio con la bacchetta magica.
- Chissà… chissà cosa
sta succedendo a Hogwarts… - ansò Hermione.
- Non è detto che stia
succedendo qualcosa. Scilla voleva solo intimorirci. - Harry cercava di
apparire convincente, prima di tutto a sé stesso. In effetti non era tanto
rassicurato dalle sue stesse parole.
- Tutti quei vampiri
sono risorti! - disse Hermione, - Non so come faremo a cavarcela, stavolta. Con
i vampiri non si scherza. Immagino che insieme ai lupi mannari siano le
creature più pericolose che esistano. Ma almeno la Umbridge verrà screditata,
certo, e magari faranno tornare Silente. Lui si che avrebbe in mano la
situazione… -
- Ora capisco perché
le ferite di Sara si sono sempre rimarginate appena in tempo. - rifletteva
Harry a voce alta, - Non dipendeva affatto dal Marchio Nero. È il sangue di
vampiro. -
Hermione annuì. Forse
anche Sara lo aveva sospettato, da tutto il tempo che aveva quella specie di
tatuaggio: forse anche lei aveva avuto il dubbio di avere del sangue anomalo
nelle vene, e aveva cercato disperatamente un’ipotesi ragionevole che potesse
cancellare l’evidenza. Quella delle ferite sul Marchio Nero era perfetta:
poteva essere veramente plausibile, e Harry c’era cascato.
Scilla si era tagliata
il braccio e aveva bruciato la ferita per evitare che potesse ricrescere, era
disposta a tutto questo pur di far sparire il Marchio Nero: non c’era altro
modo, visto che la sua natura permetteva a tutte le ferite di ricrescere.
Scilla poteva solo tagliarsi il braccio direttamente.
Ma perchè i
Mangiamorte erano lì, quella notte? Che cosa ci erano venuti a fare?
Voldemort aveva
bisogno di Harry vivo? O aveva bisogno di Scilla?
O magari di entrambi…
ma perché tentare di convincere una Mangiamorte che non aveva intenzione di
esserlo, a tornare dalla parte di coloro dai quali si era allontanata? Era così
anche per Sara: forse l’Oscuro Signore aveva dei segreti da nascondere che
aveva rivelato a quelle due, e temeva che fossero rivelati, o forse possedevano
un potere che a lui faceva molto comodo…
In effetti, però,
Bellatrix aveva impedito che Scilla mordesse lui, Harry: questa era la prova
che Voldemort stava cercando anche lui. Ma per fare cosa? Harry si ricordò del
sogno che aveva fatto, quando Avery stava per essere punito: Bode era stato
sotto la Maledizione Imperius, perché doveva prendere quell’arma. Forse
Voldemort voleva che Harry la prendesse per lui…
- Mi ascolti? - lo
interruppe Hermione.
Harry si rese conto
solo allora che era andato a sbattere in una grossa radice e che Hermione non
si era zittita un secondo mentre lui stava affogando in tutti quei
ragionamenti. Si chiese come avrebbe fatto ad affrontare quel che restava degli
esami, con tutti quei pensieri in testa. Anzi, ci sarebbero stati ancora degli esami,
con dei vampiri in giro?
Non si era mai trovato
a desiderare di parlare con Sirius come allora.
Aveva troppe domande
in testa, domande che ne producevano altre, e altre ancora…
Perché diavolo Silente
aveva avuto il lampo di genio di andarsene proprio ora?
*
- Non sta molto bene, -
disse Madama Chips quando Harry ed Hermione andarono a visitare Ron in
infermeria. - La… Preside ha detto che non sarebbe mai stato morso se non fosse
andato a gironzolare qua e là all’alba, ma alla fine l’abbiamo convinta che può
tenere gli esami più tardi. Chang, invece… - e gettò uno sguardo sconsolato
verso il letto di Cho. Sospirò, e Harry la incalzò con lo sguardo ad andare
avanti. - Sta sempre peggio. La porteranno al San Mungo domani. Ha saltato
molti esami e la Preside non ha intenzione di farglieli tenere più tardi, per
ora. -
Harry ed Hermione si
precipitarono verso il letto di Ron.
Harry fissò a lungo la
tenda opaca che faceva intravedere la sagoma di Cho Chang, profondamente
addormentata nel suo letto. Per evitare che qualcuno le si avvicinasse troppo,
Madama Chips aveva messo delle tende intorno a lei e vi aveva gettato un
incantesimo perché nessuno potesse superarle: era un gesto assai poco
incoraggiante da parte sua, perché significava che stava davvero molto male.
Harry scoprì che il suo dispiacere e la sua preoccupazione erano quelli che
avrebbe avuto un qualsiasi studente verso una sua semplice compagna di scuola,
perfettamente estranea, e non se ne stupì affatto. Anche se l’avrebbero portata
al San Mungo solo il giorno dopo.
E poi, naturalmente,
era molto più preoccupato per Ron.
Andava sempre
peggiorando, ma non sembrava ancora grave come Cho.
Se non altro a volte
mugolava nel sonno, e Madama Chips aveva assicurato che era un buon segno. I
cacciatori di vampiri avevano insistito per analizzare le due vittime, e
avevano dichiarato che la trasformazione non era in corso, che sarebbero
rimasti umani, se fossero sopravvissuti. Lo dissero con tale secchezza che
anche a Madama Chips si gelò il sangue. Era peggio di quando c’era stato il
Basilisco, al secondo anno.
Come se non bastasse,
Hagrid era stato costretto alla fuga dagli Auror che Caramell gli aveva
sguinzagliato contro, con l’assistenza della Umbridge: la McGranitt, nel
tentativo di impedire loro di far del male al guardiacaccia, era stata colpita
da quattro Schiantesimi simultanei, e non c’era da stupirsi che fosse stata
ricoverata.
Non era una buona
situazione per Hogwarts. Per fortuna mancava poco alla fine, si sentiva dire
nei corridoi: ogni studente non vedeva l’ora di andarsene di lì.
Sotto le lettere
infuriate dei genitori, il Ministero della Magia aveva triplicato la
sorveglianza, e c’era da sperare che nessuno sarebbe stato più morso.
La cosa preoccupante
era che nessuno sapeva quanti vampiri ci fossero in giro, esattamente. Anche
Harry, Ron ed Hermione avevano visto solo Scilla, ma a giudicare da tutti i
buchi lasciati nell’ambra, ce n’erano molti altri a piede libero.
Harry fissò con aria
scoraggiata la montagna di lettere che Ron aveva ricevuto dalla sua famiglia,
soprattutto dalla signora Weasley.
Ce n’era anche una di
Percy, ma fra le tante frasi amareggiate c’era anche un: “se mi dicessi che eri
in giro di notte con quell’Harry Potter, non resterei certo rammaricato” e un
“sono certo che la Preside farà di tutto perché tu guarisca e perché la cosa
non si ripeta più”. Percy forse non sapeva che la Umbridge non era di alcuna
utilità: c’erano più cacciatori di vampiri a farle da guardie del corpo, di
quanti non ne fossero disposti in tutta la scuola.
Ron comunque non
poteva leggere le lettere che si accatastavano sul comodino accanto al suo
letto.
Harry ed Hermione
scrivevano spesso ai Weasley per informarli che andava tutto bene: si trattava
sempre di messaggi molto brevi, perché se si fossero dilungati si sarebbero
sicuramente lasciati sfuggire che Ron stava peggiorando.
Le risposte di sua
madre, non a caso, erano sempre più lunghe e preoccupate.
- Andiamo, Harry, -
disse ad un tratto Hermione. - Abbiamo l’esame domani pomeriggio. Ci conviene
studiare. -
- Non riuscirò a fare
niente, - ribatté Harry con lo sguardo basso - Forse avrei bisogno di un
Incantesimo della Memoria per concentrarmi. - scoprì che, in fondo, stava
parlando piuttosto sul serio.
Non aveva nessuna
voglia di sostenere l’esame di Storia della Magia, ma non aveva scelta se non
dare retta a Hermione: non aveva voglia nemmeno di infrangere le regole, e
visto che adesso dovevano essere ai dormitori entro le sei del pomeriggio,
sarebbe comunque dovuto andarsene presto.
Alle due del
pomeriggio precise, ogni studente del quinto anno aveva preso posto di fronte
al suo foglio, voltato a faccia in giù sul banco. La professoressa Marchbanks
aspettò ancora cinque minuti prima di ordinare che i fogli fossero voltanti e
che gli studenti cominciassero.
Con un colpo di
bacchetta capovolse la grande clessidra che stava sulla cattedra, e la sabbia
cominciò a cadere. Agli studenti parve che lo facesse troppo velocemente.
Storia della Magia non era certo una delle migliori materie della scuola.
Ad Harry bastava un
fruscio di vestiti, un grattare della penna, qualsiasi cosa, per distrarsi.
Ogni pochi minuti ripensava a Ron, e a quello che aveva visto alla Stamberga
Strillante. Si sorprese a pentirsi amaramente di non aver tentato davvero un
Incantesimo per cancellarsi la memoria, anche se farlo in modo sbagliato
avrebbe avuto esiti disastrosi.
Come gli avrebbe fatto
comodo leggere nella mente di Hermione, che scriveva spedita sulla sua
pergamena come se la penna funzionasse da sola…
No, penso Harry, devo
farcela da solo.
Il suo cervello
approfittava di qualsiasi pretesto per trovare distrazione, ma Harry pensò che
per diventare Auror gli ci volevano voti perfetti… doveva impegnarsi, anche se
non aveva la minima possibilità di prendere una “O”.
La sabbia scorreva
inarrestabile nella clessidra…
C’era un incantesimo
per fermarla? Non ce l’avrebbe fatta nel poco tempo che gli restava… come
faceva a ricordarsi tutta quella roba?
Lentamente le luci si
stavano spegnendo… gli si stava annebbiando la vista.
Le piume d’aquila
degli studenti intorno a lui volavano sicure sulle loro pergamene, ma che
diavolo avevano mangiato per scrivere così in fretta? Lui non ricordava niente…
- Bhe? - chiese Sara, -
Come sta? -
- Meglio. Sono sicura
che non si trasformerà… ma ha perso tanto sangue… - Tonks si fermò un attimo
per controllare l’espressione di Sara, e scoprì che questa era fissa sul corpo
privo di sensi di Kingsley, le sopracciglia basse e vagamente arcuate, le
palpebre improvvisamente appesantite, e soprattutto, le iridi totalmente prive
di pupilla. Toccava l’armadio lì accanto come se volesse sentirne le
pulsazioni. - Emh… Sara? -
La testa di Sara ebbe
uno scossone, come se si fosse svegliata improvvisamente da un sogno ad occhi
aperti. Poi annunciò, con estrema sicurezza e un filo di ansia nella voce, che
era stato un certo Baal, il quale era senza ombra di dubbio suo nonno.
Tonks aggrottò la
fronte e la fissò per un attimo, chiedendosi come avesse fatto.
- E come fai ad
esserne sicura? - disse Sirius.
- E’ entrato qui ieri
notte mentre tutti dormivamo e Kingsley faceva il turno. Era nascosto
nell’armadio sotto forma di pipistrelli. Poi è uscito fuori da umano, gli ha
tirato una botta in testa e l’ha morso, - concluse Sara con sorprendente
naturalezza.
Siccome non si era mai
sbagliata, decisero di non contraddirla.
- Come hai fatto a
scoprirlo - obbiettò Moody - se non c’erano testimoni a cui leggere la mente? -
- C’erano. -
Sara bussò sull’anta
dell’armadio, sferrando due piccoli colpetti, e in risposta ne ottenne altri
due che provenivano dall’interno del mobile. L’occhio magico di Moody roteò
fino al vecchio armadio, e poi storse la bocca già deforme, sibilando: - Un
Doxy. -
- Finché hanno il
cervello lo si può leggere. -
Sara inarcò le
sopracciglia, evidentemente affatto dispiaciuta di vedere cose che gli altri
non vedevano, soprattutto in quella situazione.
Era mattina presto.
Quella notte, Kingsley
Shacklebolt si era afflosciato malamente addosso al vecchio divano tarlato,
senza un grido, col collo sanguinante marchiato dall’inconfondibile morso di
vampiro. Il divano l’aveva sostenuto tutta la notte, ma visto che vi era
sdraiato in posizione molto sbilenca, la mattina dopo all’alba era infine
caduto sul pavimento con un tonfo sordo che era stato sufficiente a svegliare
la signora Black.
- Se non ci fosse
stata tua madre a sbraitare… - sorrise Gray guardando Sirius.
- Non darle
soddisfazione, per favore. - ribatté gelidamente, - Probabilmente è la prima
volta nella sua vita che fa qualcosa di utile. -
- Forse faremo meglio
a portarlo al San Mungo, - constatò la signora Weasley, interrompendoli, e
aggiungendo che con le ferite di quel genere non c’era da scherzare, che non
c’era alcuna certezza che non si fosse trasformato. Tonks la guardò, offesa per
il fatto che una sua convinzione fosse stata contraddetta, ma la signora
Weasley non fece una piega. Da quando anche Ron era stato morso, era ancora più
ansiosa e preoccupata per qualsiasi cosa succedesse, e soprattutto, aveva i
nervi tesi, a fior di pelle. Bastava pochissimo per farle perdere le staffe o
per farla scoppiare in lacrime.
Vedendo che Sara stava
aprendo bocca per ribattere, e immaginandosi che avrebbe parlato con assai poco
tatto, Lupin decise di interromperla. - Ti capisco, Molly, ma cosa possiamo
dire a quelli dell’ospedale? Dovremo dire anche dove l’hanno morso, e se non
saremo convincenti useranno il Veritaserum. -
- Ma solo Silente può rivelare
dove si trova questo posto! - protestò Molly.
-
Appunto per questo sembrerà ancora più strano. - intervenne suo marito, - Pensa
un po’ se sotto il Veritaserum ci mettiamo a dire che non abbiamo la più
pallida idea di dove stiamo. Penseranno che stiamo nascondendo loro due, -
aggiunse, con lo sguardo rivolto a Sara e Sirius.
-
Ci state nascondendo. - fece notare Sara.
-
Hai capito cosa intendevo, - concluse frettolosamente Arthur Weasley.
La
signora Weasley li guardò entrambi, e i suoi occhi schizzavano dall’uno
all’altro sempre più freneticamente, fin quando non si parò davanti al marito e
cominciò a gridargli in faccia che non c’era niente di più importante della
salvezza di una persona, che era uno stupido, che invece tutti si erano preoccupati
per lui quando era al San Mungo, e un sacco di altre cose, spesso molto
offensive. Il signor Weasley era completamente paralizzato sulla sedia. Cercava
di dissuadere la moglie a calmarsi, ma la furia da leonessa della donna gli
faceva perdere le parole, così annaspava aprendo e chiudendo la bocca senza
parlare.
Essendo
fin troppo abituati alla scena, i membri dell’Ordine parlavano fra loro
cercando di sovrastare le urla di Molly, ed erano molto più preoccupati per
l’Auror che non per il povero signor Weasley.
Nessuno
sembrava accorgersi che Kreacher avanzava furtivo verso l’arazzo dei Black:
l’Incantesimo di Adesione Permanente era stato spezzato, così l’arazzo era
stato impiegato per tappare una grossa fessura fra le tende che faceva passare
fin troppo sole. Kreacher stava già avviandosi a toglierlo. Sirius sentì i suoi
passi, e si voltò: inizialmente non se ne accorse, ma l’elfo domestico aveva
già staccato un angolo della grossa tela, e stava per togliere dal vetro anche
tutto il resto.
-
Giù! -
-
Whaaa! -
Sirius
batté un violento colpo sulla schiena di Sara, spingendola dalla parte opposta
della stanza, dove cadde con una sonora botta sulla fronte, proprio un attimo
prima che Kreacher completasse la sua opera, e un fascio abbagliante di luce
solare invadesse il salotto. Anche gli altri erano abituati alla penombra, e
così dovettero pararsi gli occhi con le mani prima di abituarsi alla luce.
-
Kreacher! - latrò Sirius, prima che l’elfo domestico scomparisse sotto il suo
scaldabagno. L’elfo fece finta di non sentire, e dovettero pietrificargli le
gambe con un Incantesimo perché non se ne andasse. Saltellando, arreso,
Kreacher si diresse verso il salotto e, giunto di fronte a Sirius, si esibì in
un inchino esagerato ed alquanto ridicolo.
-
Cosa diavolo credevi di fare? -
-
Kreacher deve conservare i cimeli della nobile famiglia Black, - rispose
Kreacher fissandolo con i suoi occhi enormi. Intanto, Tonks e la signora
Weasley stavano rimettendo a posto l’arazzo sul vetro della finestra, e questo
sembrò irritare Kreacher in modo particolarmente feroce. - I mostri invadono la
casa della padrona, sudici ibridi senza… -
-
Te l’ho detto mille volte, - lo interruppe Sirius esasperato - la. Casa. Deve.
Essere. buia. Chiaro? -
Nel
frattempo Sara si rialzò massaggiandosi la fronte che aveva battuto sul
pavimento. Kreacher fece ondeggiare le grosse orecchie da pipistrello. - La mia
povera padrona, cosa direbbe, la sua casa, la sua bellissima casa, piena di
mostri, quanti esseri disgustosi, Mezzosangue, vampiri, lupi mannari,
assassini, traditori dell’Oscuro Signore… - Perfino Moody alzò gli occhi al
cielo, perché ultimamente Kreacher era sempre più insopportabile. Non faceva
che declamare le pene della sua povera padrona e di tutte le fecce che
infestavano la casa della nobile famiglia Black.
-
Ne abbiamo abbastanza a cui pensare, d’accordo? Sparisci. - sibilò Sirius, e
con qualche altro inchino ridicolo l’elfo sparì, saltellando a gambe unite,
ancora sotto l’effetto dell’Incantesimo.
-
Grazie per la delicatezza. - disse Sara rivolta a Sirius, quando le acque si
furono definitivamente calmate.
-
Emh… -
Sara
si sporse leggermente per guardare fuori dalla porta, ma vedendo che Kreacher
era sparito dalla visuale, si arrese e tornò in posizione eretta.
-
La prossima volta non mandarlo via. - disse tranquillamente.
-
Perché? -
-
Bhe… sì… cioè, no, insomma… devo dirgli una cosa, ecco. -
Ma
dallo sguardo che tutti le stavano rivolgendo, non era difficile rendersi conto
che non erano affatto convinti dalla sua spiegazione confusa.
Probabilmente
c’era chi di loro si aspettava il peggio, ma Sara non ci fece caso.
-
Anche l’elfo della tua famiglia era così? - commentò Lupin guardando la porta
dalla quale Kreacher era uscito.
-
Oh, no, non avevamo mica gli elfi, noi… - sospirò Sara in tono sarcastico.
-
Esseri umani. Demetrius aveva la passione dei Babbani sotto la Maledizione
Imperio. A volte non ce n’era nemmeno bisogno, perché avevano troppa paura di
ribellarsi, infatti Seymour quando aveva sei anni era un tenero piccolo genio
della Maledizione Cruciatus. E sua figlia voleva solo Babbani di bell’aspetto. -
Per
un istante i presenti rimasero di stucco, poi decisero di tornare ad occuparsi
della salute di Kingsley.
Nessuno
poteva sapere cosa aveva in mente Sara, e per fortuna nessuno poteva leggerle
nella mente, altrimenti avrebbe dovuto spiegare più cose del dovuto. Era
convinta che Kreacher avesse spalancato di proposito le tende, quella fatidica
mattina, ed era altrettanto sicura che non avesse tolto l’arazzo soltanto per
salvarlo dalla sorte che era toccata agli altri cimeli della casata dei Black.
Doveva soltanto capire chi glielo avesse chiesto e perché, anche se ne aveva
una vaga idea… ma doveva leggere la sua mente per poterne essere davvero
sicura. Per il momento era meglio che nessuno sapesse niente: si sarebbero
preoccupati troppo, e Gray sapeva che a preoccuparsi degli altri si finisce
spesso nei guai.
Continuava
a divincolarsi. Cercava di liberarsi dalla stressa del
professor Tofty che tentava di accompagnarlo in infermeria. Harry
alla fine si arrese, convinto che mai sarebbe riuscito a dissuaderlo che andava
tutto bene: d’altra parte, non poteva certo raccontargli quello che aveva visto
nel suo sogno.
Scappò,
dicendo che andava da Madama Chips. Scappò e corse per i corridoi con tutta la
forza che aveva nelle gambe. Scappò fino al Dormitorio, poi corse oltre,
sperando che qualcosa sbucasse dal pavimento, qualcosa, qualsiasi cosa che lo
facesse volare immediatamente via, verso il Ministero della Magia.
Le
tre del pomeriggio.
Come
diavolo avrebbe fatto ad entrare al Ministero? Ma
doveva provarci. Anche se nessuno l’avrebbe aiutato, e
chi poteva farlo del resto? A scuola non c’era nessun membro dell’Ordine.
Piton? Figurarsi se avrebbe ascoltato una singola parola di
quel che diceva. Silente? Nessuno sapeva dove fosse.
Avrebbe potuto fidarsi della professoressa McGranitt, ma l’avevano
portata al San Mungo giorni prima.
Ron
era ancora privo di sensi. Hermione. Solo Hermione poteva aiutarlo, e mancavano
solo due minuti alla fine dell’esame… avrebbe potuto
chiedere a lei, lei avrebbe senz’altro saputo cosa fare.
Ancora
non riusciva a crederci.
Sirius,
nell’Ufficio Misteri. Voldemort lo aveva preso. E lo
stava torturando. Harry credette che non ci fosse spiegazione
logica a tutto questo, fin quando non gli fu tutto chiaro. Ricordò del
sogno che aveva fatto un attimo prima che Marietta
corresse urlando per il corridoio davanti alla Signora Grassa. Voldemort aveva
parlato di Sara. Aveva ordinato a Malfoy di portarla da lui viva e vegeta,
perché voleva torturarla… torturarla fin quando il pesciolino non avrebbe abboccato all’amo…
Ecco
qual era il suo piano. Catturare Sara perché Sirius corresse
a salvarla.
E poi, obbligarlo con la tortura a prendere per lui quella cosa,
quell’arma, o quel che diavolo era…
Se le cose erano davvero
andate così, non c’era tempo. Non c’era un minimo di tempo per quello stupido
esame, ed Hermione doveva muoversi, doveva sbrigarsi con quei fogli inutili,
perché Sirius stava per morire, forse… e forse Sara aveva già incontrato la
stessa sorte da chissà quanto tempo.
Stava
ancora correndo, disperato, per tutta la scuola, cercando di farsi venire
un’idea, ma qualcosa lo interruppe. Qualcosa che emerse
dall’ombra di una vecchia statua, una figura umana alta e longilinea.
E
dopo di essa, un'altra, inequivocabilmente quella di
una donna.
Harry
li riconobbe. Li aveva visti, li aveva visti fin troppo bene quando era tornato l’ultima volta alla Stamberga Strillante, ed
erano in cima alla lista di persone che non avrebbe mai voluto incontrare in un
momento come quello. Senza accorgersene, Harry era giunto in un corridoio che
gli studenti non percorrevano mai: era un piano ancora inferiore ai sotterranei
di Piton, era il piano più basso di tutti, forse superiore soltanto alla Camera
dei Segreti.
E davanti a lui,
c’erano Scilla e Seymour. Ma li riconobbe solo dalla voce, perché entrambi portavano indosso un pesante mantello nero, con un cappuccio
che oscurava quasi completamente il loro viso pallido. Gli occhi rossi della
donna scintillavano come rubini sotto l’ombra del tabarro, e i suoi boccoli
corvini emergevano di tanto in tanto dalla veste, coprendole le spalle. Harry
dedusse che doveva avere un braccio nuovo, un braccio fasullo, come la mano di
Codaliscia: vedeva delle dita d’argento spuntare da sotto la manica della
tunica nera. Era la tunica di un Mangiamorte.
Seymour
aveva un sorriso famelico stampato sulle labbra, i lunghi canini in mostra, i
denti bianchissimi scintillanti alla luce delle deboli torce.
Era più alto di Scilla e perciò svettava minaccioso sopra la testa di Harry.
Ma lui era troppo nervoso,
troppo ansioso, troppo scosso per provare qualsiasi altra cosa.
- Perché corri in giro per tutto il castello, Potter? - chiese
Seymour con voce sibilante e perfida.
-
Per caso qualcuno sta per fare una brutta fine? - aggiunse Scilla, e Harry seppe
che la sua testa stava scoppiando. La cicatrice gli doleva immensamente e le
parole dei due Mangiamorte lo avevano fatto completamente avvampare di fiamme,
al punto che Harry si stupì di non vedere neanche una lingua di fuoco spuntare
dalla sua pelle. La sua mano volò alla bacchetta, ma prima ancora che potesse
spiccare parola, Seymour gli paralizzò il braccio.
-
E dobbiamo portarli a termine, - concluse Scilla,
alzando a sua volta la bacchetta di nero ebano. - Non sarà difficile
paralizzarti qua sotto, mentre l’Oscuro Signore termina la sua opera… -
Harry
corse verso di lei, scattò in avanti, deciso a farli a
pezzi entrambi. Ridendo divertito, Seymour gli paralizzò anche una gamba, e
Harry cadde a terra in modo alquanto ridicolo. Scilla si aggiunse alle risate
di Seymour.
-
Bel colpo, pa’. - sorrise. Harry bruciava di furore. - Dovresti sistemarti un
po’ quei capelli, ragazzo. Gratta e netta. -
Una
cascata di bolle di sapone azzurrognole gli piombarono
in testa, colandogli sulle palpebre serrate. Harry non poteva muoversi… e
mentre quei due si trastullavano con lui come fosse stato un giocattolo, un
ridicolo stupido giocattolo, Sirius era ancora con Voldemort…
Harry
si alzò in piedi. La sua gamba e il suo braccio erano tornati a muoversi. Stava
correndo via, quando Scilla lo fermò: - Imperio! -
Ecco che i pensieri sparivano dalla sua testa. Da qualche parte giaceva ancora il fantasma di un cervello, di
un pensiero, di un volere forse… ma era troppo flebile. Harry non riusciva a
coglierlo, e sentiva che niente avrebbe potuto liberarlo da quella fortezza di
sogni, di silenzio alla quale la Maledizione Imperius lo aveva condannato.
Sì,
era bello non pensare… era bello non preoccuparsi di
niente…
:Fai la gallina:, disse una voce. :Imita una gallina, coraggio…:
Harry
voleva opporsi. Doveva opporsi. Ma sentiva che il suo
corpo stava imitando un pollo, ecco che sbatteva le braccia piegate sui
fianchi, ecco che la sua voce si contorceva nel verso di quello stupido
animale…
:E adesso baciami le scarpe.:
Non
ti bacerò le scarpe! Per chi mi hai preso?
:Baciami le scarpe.:
E la voce era forte,
irresistibile… era seducente. Come poteva resisterle? Come poteva rifiutarsi?
Si chinò, per baciare le scarpe alla bellissima donna vestita di nero che stava
in piedi di fronte a lui. Harry sentì la sua stessa voce rantolare un rifiuto,
poi un’imprecazione, ma il resto del suo corpo non riusciva a ribellarsi al suo
volere.
- Finite incantatem - disse una voce
allegra e derisoria.
Harry
si afflosciò per terra, sfinito. Non aveva mai provato una Maledizione Imperius
così potente, probabilmente neanche quando aveva affrontato Voldemort l’anno prima. Ma Voldemort non
possedeva quella voce suadente, che sembrava ridurgli il cervello in una misera
poltiglia. Non aveva tempo di rifletterci su. Doveva correre,
doveva scappare…
L’esame
era finito, sicuramente, e quindi doveva cercare Hermione. Doveva
filare all’Ufficio Misteri, doveva aiutare Sirius.
- Se lo uccidessimo? - domandò Scilla.
-
Non sarebbe male, - annuì Seymour con un sorriso fin troppo rilassato, - Ma non
è questo l’ordine. -
- E allora divertiamoci un po’ - Scilla scrollò le spalle.
-
Expelliarmus! - gridò Harry, ma con sua immensa sorpresa, il colpo che andò
perfettamente a segno non funzionò: la bacchetta rimase ben salda nelle mani di
Seymour. - Expelliarmus! Expelliarmus! - ripeté mille e mille volte,
esasperato. Seymour ormai si disfaceva dalle risate.
Di colpo tornò serio e sussurrò:
-
Serpensortia -
Harry
si sarebbe aspettato qualcosa come una vipera, o un serpente di piccola taglia.
Ma dalla bacchetta di Seymour uscì un’enorme Boa
Constrinctor. Harry lo riconobbe, era identico a quello che aveva visto allo zoo, cinque anni prima, quando il suo odioso cugino
Dudley era quasi stato aggredito.
Scilla pronunciò a sua volta lo stesso incantesimo, ma dette un
colpo diverso alla bacchetta: dalla sua, uscì un cobra dal bellissimo disegno
nero e nocciola, ma Harry non ebbe il tempo di restarne ammirato: il cobra e il
boa strisciavano verso di lui velocemente, troppo velocemente. Il boa gli afferrò la caviglia,
stritolandogliela quasi, lo fece cadere. Il cobra si infilò
sotto la sua maglietta e prese a strisciargli sulla schiena…
-
Stupeficium! - gridò qualcuno. Harry non sapeva chi. Era paralizzato dal
terrore, e sudava freddo, molto freddo. Poi alzò la testa, quando il boa
schizzò via lontano da lui, colpito dallo Schiantesimo: era Ron.
E dietro di lui c’era
Hermione. Non era da sola. Pronunciò un incantesimo di cui Harry non colse le
parole e il cobra sparì all’istante: Harry non sentiva più le sue sottili spire
gelate. Mise a fuoco, aggiustandosi gli occhiali e rialzandosi in piedi. Dietro
Hermione e Ron, non meno esterrefatti di questi ultimi, c’erano Neville, Luna e
Ginny.
- Siamo in un asilo, - sospirò
Seymour - Guarda quanti mocciosi. -
Seymour
dette un colpetto alla sua bacchetta e le scale in cima alle quali stava il
gruppetto si disciolsero, come fossero diventate un
budino. I cinque rotolarono giù, atterrando dritti dritti
sulla schiena di Harry.
-
Scappate! - rantolò Harry, mezzo soffocato. - Scappate subito! I vampiri… -
Guardò
indietro: Scilla e Seymour erano a un millimetro da
loro.
-
Con te abbiamo finito, Potter. A meno che qualcuno di voi non sia così sciocco da lanciarci contro un incantesimo… - disse
Scilla.
-
Nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive, - aggiunse
Seymour - E saranno gli innocenti i primi a morire, e i ciechi ignoranti a sopravvivere,
trascinandone altri nella morte. Ricordatelo, Potter. -
E poi, in una nube di
pipistrelli, entrambi sparirono.
*
Indubbiamente, stava
succedendo qualcosa di strano, qualcosa di molto strano.
Nessuno poteva sapere
quali fossero le cause.
Si sapeva solo che un attimo prima Sara stava aiutando Molly Weasley a lavare i
piatti, e un attimo dopo, era caduta profondamente nel sonno, con espressione
inquieta e angosciata, e sembrava non avere la minima intenzione di svegliarsi.
Sirius e gli altri aveva fissato con orrore il Marchio Nero emergere sempre di
più, diventare nero come il petrolio, incidersi linea dopo linea nella pelle di
Sara, mentre le dormiva e gridava nel sonno. Piantava le unghie nel tessuto del
divano, sferrava calci e pugni, tossiva, come sempre, ma in quella situazione
pareva ancora più malata. Il pallore della sua pelle aumentava sempre di più e
sembrava dimagrire ogni ora.
Erano passate ormai
cinque ore da quando, a mezzogiorno, Sara era caduta nel suo strano incubo perpetuo,
e da cinque ore, cinque ore inarrestabili, i membri dell’Ordine della Fenice
assistevano al suo delirio.
Non faceva che gridare
della vendetta di Voldemort, del suo riscatto, dell’impero che stava sorgendo
di nuovo, dell’inutile guerra che gli avrebbero mosso
contro. Tutto per merito del suo piano perfetto, della sua trappola
infallibile.
Sirius non si era
allontanato da lei neanche un attimo. Forse Sara non era in grado di sentire la
stretta della sua mano, ma era bello illudersi che avrebbe funzionato, che ciò
l’avrebbe riportata alla realtà. Nessuno se lo aspettava, non così
all’improvviso, e Malocchio non era stato per niente confortante. Secondo lui,
la malattia di Gray aveva raggiunto il capolinea, il picco supremo, e non aveva
detto cosa le sarebbe successo dopo. E nel delirio,
continuava a ripetere ciò che Voldemort non aveva fatto che ripeterle nelle
orecchie ogni istante della sua vita.
- Ogni malattia passa,
- sentenziò Moody - E può passare nel migliore dei
modi, così come nel peggiore. -
Sirius si era
rifiutato di ascoltarlo. Non poteva sentire neanche una di quelle parole
stupide… perché non stava succedendo niente, Sara si era solo addormentata e al
risveglio non avrebbe ricordato più niente…
Non poteva ignorare la
crudeltà dei fatti; ad un tratto Sara strinse ancora di più la presa sulla sua
mano e cominciò a strillare che Harry, Ron, Hermione, Neville, Ginny e Luna, si
trovavano in quel preciso istante nell’Ufficio
Misteri, al cospetto di tutti quanti i Mangiamorte, ai quali si erano aggiunti
gli antichi servi di Voldemort che erano risorti dall’ambra nella quale
Demetrius li aveva imprigionati. I vampiri della famiglia Gray. E mentre le fiamme bruciavano ancora nel caminetto della
Stamberga Strillante e i quadri dei mortali parlottavano tra loro fitto fitto, i risorti figli di Cassandra erano liberi e si erano
ricongiunti a Voldemort.
E poi, Gray si era afflosciata.
Era diventata ancora
più pallida, se era possibile, e aveva tirato l’ultimo rantolo di tosse, un
singhiozzo fioco e appena percettibile. Un istante dopo, però, aveva riaperto
gli occhi di scatto, ed erano occhi ancora più rossi, ancora più sanguigni,
ancora più terrificanti. Era stato questione di un istante
prima che spalancasse una finestra, si trasformasse in corvo, e volasse
via di corsa senza guardare in faccia a nessuno.
Erano rimasti tutti
allibiti.
- Dove
credete che sia andata? - chiese Tonks, mentre tutti i membri
erano riuniti nel salotto, di fronte al camino, come aspettandosi una qualche
comunicazione importante che suggerisse loro cosa fare. Erano passati
due quarti d’ora dalla fuga misteriosa di Sara, e nessuno aveva ancora capito
quale ne fosse la causa - Da… da Voldemort? - suggerì,
a dir poco esitante.
- Non sarebbe da escludere, - commentò
Moody, crudo.
- Ma
certo che è da escludere. - lo rimbeccò Sirius - Non lo farebbe mai… non
starebbe mai ad obbedire a un ordine di quel… -
- L’hai sentita anche
tu, - ribatté Malocchio senza scomporsi - L’hai sentita meglio di tutti noi,
visto che eri a un centimetro da lei. E hai sentito altrettanto bene che ha parlato di Potter e
degli altri. -
- Pensi che possano
essere all’Ufficio Misteri? - chiese Remus. - Non è un po’… improbabile? -
- Forse. -
- Sentite,
non possiamo trascorrere tutto il tempo a fare ipotesi! - li interruppe
Tonks con veemenza, - Se sono davvero all’Ufficio Misteri e se Sara ha… emh…
detto il vero mentre dormiva, i ragazzi sono nei guai!
E noi dobbiamo andare ad aiutarli! -
- Potrebbe essere una
trappola. -
- Tu vedi trappole ovunque!
- disse Tonks, seccata ma tuttavia vagamente arrendevole. Effettivamente poteva
trattarsi di un tranello, di un subdolo agguato. E molto ben
preparato, tra l’altro, per quanto la cosa non fosse affatto lodevole.
C’erano troppi punti interrogativi nell’intera vicenda, e soltanto affidandosi
all’istinto avrebbero risolto ben poco. Fu con questo
ragionamento che Tonks si piegò definitivamente: non valeva la pena abboccare all’amo senza la certezza che i ragazzi fossero
davvero in serio pericolo. - Bhe… hai ragione, Malocchio. Per una volta… -
- Bene, d’accordo,
tutti convinti, non è vero? - intervenne Sirius con voce rabbiosa, - Harry
potrebbe essere al sicuro, vivo e vegeto, e ho i miei seri dubbi che sia così… ma Sara, dovunque sia, non sta certo bene. E se avete intenzione di lasciare che vada da sola, ovunque
Voldemort l’abbia costretta ad andare, bhe, non contate su di me. -
Qualcuno aprì la bocca
per ribattere, ma la richiuse subito dopo emettendo
appena un mormorio incerto.
- Remus! - Sirius si
voltò seccamente verso Lupin, il quale sembrò serrare le labbra, esitante, -
Anche tu la pensi come loro? Non sei tu quello che la
difendeva sempre, a scuola? Non siete amici? -
I due per qualche
istante si guardarono negli occhi. E poi, il primo a distogliere lo sguardo fu
Lupin, che non aveva più alcuna traccia di esitazione
nella voce.
- All’Ufficio Misteri,
- disse Remus, - E’ là… sono là. Di sicuro. -
- Andiamo,
non ti ci mettere anche tu con i piani idioti, - lo
contraddisse Moody. Ma prima che qualcun altro potesse
rispondere, lo specchio appeso in salotto, a pochi metri da loro, cominciò a
strillare come un pazzo, facendo netta concorrenza alla signora Black. Per
nulla meravigliati, i membri dell’Ordine presenti si diressero verso lo specchio
e Tonks disse:
- Fatina orba. -
Lo specchio si zittì
all’istante e la sua superficie si fece azzurrina. Per qualche istante
increspature turchesi apparvero sullo specchio ovale, prima che questo tornasse
normale e riflettesse un posto che era completamente
diverso da Grimmauld Place: era Hogwarts e, più precisamente, l’ufficio di
Severus Piton. Al centro dello specchio la sua figura scura e unticcia, il naso
adunco e gli occhi neri e spenti bastava a riempire la cornice.
- Piton? - disse
Sirius con una smorfia visibilmente disgustata.
- Strano, - commentò
Piton per niente ironico - A sentire Potter un paio d’ore fa, dovresti essere all’Ufficio Misteri sotto la crudele tortura
di Voldemort. -
- Che…
eh? - Sirius rimase perplesso, ma Piton lo interruppe subito.
- Potter e altri dei
suoi amici sono entrati nella foresta con la Umbridge,
e ne ignoro la ragione. Non ne sono più usciti. Ho ragione di
credere che si siano recati all’Ufficio Misteri, perché credo di averli
intravisti a cavallo di alcuni Thestral che sbucavano dagli alberi. -
- Come fai a dire che
sono andati proprio là? - chiese Lupin, poco convinto.
- E’ quello che ha
detto Potter. - rispose Piton tranquillamente.
- E perché diavolo non
ci hai avvertiti prima? - abbaiò Sirius.
- Perché una certa Sara Gray mi ha aggredito alle spalle e mi ha
trattenuto per tutto questo tempo, dicendo che era un ordine dell’Oscuro
Signore. Dopodiché si è riscossa, ha balbettato qualcosa che somigliava
grottescamente a delle scuse, ed è volata via dalla finestra. -
Si guardarono tutti
negli occhi, a turno, con aria scioccata. Ma non c’era
tempo per riflettere troppo. Se era trascorso tutto
quel tempo da quando Harry era partito con i suoi amici, a quest’ora erano
senz’altro nei guai. In guai seri.
Non ci vollero parole
perché tutti si convincessero ad agire: e se c’erano ancora dei dubbi, si
dissiparono all’istante. Harry e gli altri erano in pericolo. Era ora di agire.
- Te lo ripeterò per l’ultima volta, - disse
uno dei Mangiamorte a denti stretti, fissando Harry negli occhi. - Dammi quella
Profezia. Adesso. -
Harry, al contrario
strinse la Profezia nella mano ancora più forte. Era la prima volta che si
trovava in una situazione così disperata, e dopotutto, stava considerando
l’idea che non gli sarebbe cambiato niente se l’avesse
consegnata o tenuta. Dunque era quella l’arma
che l’Ordine della Fenice cercava di allontanare da Voldemort.
- No. - rispose con
fermezza, ma dentro di sé stava pensando il contrario.
- Andiamo,
Harry, - disse Scilla in tono mite, o forse
soltanto mellifluo. - Dacci la Profezia e ti lasceremo andare senza un graffio.
Tu e i tuoi amici, ok? -
Scilla aveva fatto un
passo verso di lui, ma Harry si ritrasse di scatto,
portandosi il braccio con la sfera di vetro all’altezza del petto. Fissava gli
affilati occhi rossi della vampira, e si chiedeva se non fosse stato meglio
consegnare loro la Profezia e basta. Ma non appena
Hermione gli ebbe sferrato una gomitata, Harry guardò altrove e si riscosse.
Mai i suoi amici erano
stati così in pericolo di morte, mai per causa sua.
Ai Mangiamorte si
erano riuniti, come in passato, molti dei componenti
della famiglia Gray che essendo vampiri erano potuto resuscitare. Scilla era di
fronte a lui, di fianco a Bellatrix. Poco lontano c’era Seymour, poi altre due
donne e tre uomini che Harry non aveva mai visto. Era
convinto che molti più vampiri fossero resuscitati, a giudicare da come era ridotto il sepolcro sotto la Stamberga Strillante,
ma dopotutto non tutti loro potevano essere dei sostenitori di Voldemort, per
quanto Demetrius fosse stato uno sterminatore di Mezzosangue.
Dietro Harry c’erano
gli altri cinque, Ron, Hermione, Ginny, Neville e Luna. Ogni tanto qualcuno di
loro si lasciava sfuggire un gemito atterrito, e non
c’era da biasimarli: più di una decina di Mangiamorte stava di fronte a loro,
causando un netto svantaggio numerico. E tra l’altro,
sapevano quali erano state le orribili gesta degli incappucciati, ed erano
certi che, anche se fossero stati in vantaggio, non avrebbero mai potuto
competere con loro.
Harry si sforzava di
non essere pessimista: nonostante i Mangiamorte li avessero inseguiti per tutto
quel tempo e ora li avessero infine circondati, lui doveva ancora cercare
Sirius, e doveva evitare in qualsiasi modo che entrassero in possesso della
Profezia…
Ma non era il caso di consegnarla? O voleva
forse essere lui il responsabile della morte dei suoi amici, che erano stati
coinvolti quasi per caso? Avrebbe dovuto avere la coscienza in pace, erano stati loro ad insistere… ma questo non significava
niente, era tutta colpa della sua mania di fare l’eroe, certo, nient’altro che
di quello…
- Come dobbiamo
ripetertelo, Potter? - sibilò Bellatrix Lestrange, - Dacci la Profezia o farete
tutti una brutta fine. -
- Voi ditemi dov’è
Sirius e io vi darò la Profezia! - abbaiò Harry e si sentì rispondere dalle
risate malvagie della ventina di Mangiamorte. Bellatrix era quella che rideva
di più, al contrario di Scilla. Quest’ultima sembrava piuttosto seria, e
fissava intensamente, uno per uno, tutti coloro che la
circondavano. Harry non ci fece troppo caso. Poteva darsi che non avesse
semplicemente voglia di prenderlo in giro, ma alla fine lo avrebbe
ucciso ugualmente.
- Povero bambino, - lo
schernì Bellatrix - Forse dovresti distinguere meglio
i sogni dalla realtà, che cosa ne pensi? -
Harry non capiva cosa
volesse dire.
Per un attimo, il
folle pensiero che fosse solo una trappola gli
attanagliò il cervello, senza pietà, e non fu solo l’idea di un momento: per
lunghi, interminabili minuti continuò a tormentarlo. E
poi, vide Scilla annuire lentamente, ma senza sorridere, senza schernirlo.
Harry ebbe un fremito convulso: anche Scilla leggeva il pensiero.
Ed era una Mangiamorte. Qualsiasi cosa Harry avesse voluto fare, lei
l’avrebbe prevenuto. Non sarebbe stato difficile ingannarla, se solo avesse
studiato Occlumanzia, se solo non avesse guardato in quel maledetto Pensatoio…
Mentre i Mangiamorte parlavano, lui non sentiva: era troppo preso a
guardare Scilla. stava muovendo le labbra senza
emettere suoni, ma lui non capiva. Che cosa voleva
dire?
Scilla, spazientita,
mosse le labbra molto più distintamente: “scappa”.
Sembravano tutti
impotenti di fronte al perfido suggerimento di Seymour di torturarli tutti, uno
per uno, finché Harry non avesse consegnato la
Profezia. Anche Harry aveva provato a minacciarli, ma
a nulla erano valsi i suoi tentativi, se non a far ridere di nuovo i
Mangiamorte. Sembravano aver capito anche loro che il ragazzo era consumato dal
bruciante desiderio di sapere che cosa diceva la Profezia. Forse non era un
volere maggiore rispetto a quello di salvare i suoi amici, ma era sufficiente a
dargli qualche attimo fatale di esitazione.
Nessuno sembrava
essersi accorto di Scilla: aveva il cappuccio abbassato sulle spalle, perciò
non passava certo inosservata muovendo le labbra a quel modo. Harry non
riusciva a capire. Un’altra trappola? O forse Scilla
non stava veramente dalla parte di Voldemort: e in effetti, se così non era,
perché lo aveva risparmiato nei sotterranei di Hogwarts?
Harry decise che,
qualsiasi cosa ci fosse sotto, era senz’altro meglio che starsene lì. Specie perché i Mangiamorte avevano deciso di accettare il
suggerimento di Seymour. Scilla sembrava aver captato i pensieri di
Harry, e ora i suoi occhi scarlatti roteavano impazientemente a destra e a
sinistra, come se avesse voluto accertarsi che fosse il momento giusto.
- E
va bene, - sorrise Bellatrix - Non vi dispiace se cominciamo da Paciock? -
- Fai pure, - rispose
Malfoy con l’identico ghigno.
E fu tempo di un
istante: Bellatrix e Rookwood, che erano ai lati di
Scilla, mossero appena un passo in avanti, diretti verso Neville. I muscoli del
collo della vampira erano tesi e rigidi. Scilla si mosse in un secondo e
assestò una pedata sotto il mento di Bellatrix, che si sbilanciò all’indietro,
sanguinando dalla bocca, e andò a ricascare addosso ad un Gray dietro di sé.
Prima che il butterato potesse ribattere, Scilla gli
aveva già puntato la bacchetta contro con il braccio sano e lo aveva
scaraventato dalla parte opposta della stanza con una magia che non aveva avuto
bisogno di formula: un raggio nero che si era piantato nello stomaco del
Mangiamorte era semplicemente schizzato via dalla punta della bacchetta, appena
questa era stata mossa.
- Alohomora! - gridò
Scilla in direzione di un grosso portone di ferro che giaceva, sigillato, poco
lontano da Harry. I ragazzi capirono che era quello il momento: dovevano
scappare in quella direzione.
Harry non poteva
andarsene senza guardare cosa succedeva. In un attimo, gli altri Mangiamorte
erano addosso a Scilla, che schivò per un pelo ben quattro Schiantesimi, e ne evitò altrettanti con un Incantesimo Scudo. Ma uno di essi le centrò il braccio monco tagliandole via la manica
del mantello, mostrano la pelle tagliata.
Harry non ci fece
caso, ma dopo un paio di secondi se ne rese conto: Scilla aveva un avambraccio
braccio artificiale. Nessun moncherino.
- Tu non sei Scilla! -
abbaiò Malfoy proprio nello stesso istante in cui Harry lo aveva esclamato
dentro di sé.
- Indovinato, -
sorrise Scilla, un attimo prima che una nuvola nera e
rossa la avvolgesse completamente. Gli incantesimi si fermarono all’istante.
Tutti aspettavano che
la falsa Scilla riprendesse le sue vere sembianze, e quando la nuvola si
dissolse, Harry vide quello che non si sarebbe mai immaginato, ma che, dentro
di sé, aveva segretamente sperato. Scilla era sdraiata a terra, priva di sensi,
ed era quella vera, perché aveva il braccio finto; Sara era in piedi al centro
del cerchio dei Mangiamorte, i quali la fissavano con uno stupore pari a quello
del ragazzo. E certamente Harry sarebbe rimasto lì impalato a guardare il
combattimento, se Hermione non lo avesse trascinato via insieme agli altri, oltre la porta che Sara aveva spalancato.
Sara lanciò alla porta
un’occhiata fugace, in tempo per rendersi conto che Malfoy si era già lanciato
all’inseguimento dei ragazzi.
- Colloportus! - gridò
Sara, e la porta dalla quale erano scappati si sigillò con un
noioso squittio, un attimo prima che Malfoy la attraversasse.
Non fece in tempo a
girarsi dall’altra parte che il raggio rosso dell’ennesimo Schiantesimo le
fendette la guancia. Reprimendo un grido di dolore, Sara rispose con un Lumos.
Ma non era lo stesso che si imparava a scuola: invece
che una tenue sfera di luce, dalla bacchetta si sprigionò una cascata di
bagliore accecante, che costrinse anche lei a strizzare gli occhi per non
rimanere accecata. I Mangiamorte non avevano fatto in tempo a proteggersi la
vista e per qualche istante rimasero disorientati.
Baal, invece, che si era trovato di fronte al raggio luminoso, rotolò a terra.
Il cappuccio gli cadde dalla testa, e la veste si strappò, mostrando terribili
piaghe e sfregi sulla pelle, molto più gravi di quelle che erano comparse sulla
pelle di Sara quando aveva visto la luce del sole.
L’unica che non aveva
risentito del fascio di luce era Bellatrix, e Sara la
sentì pronunciare lo stesso incantesimo che aveva usato contro Malfoy quasi una
settimana prima. Una spada bianca e violetta comparve
nelle mani della Mangiamorte, al posto della bacchetta magica, sembrava
composta di un fascio di fulmini.
Sara fece appena in
tempo a far comparire la spada di ghiaccio; Bellatrix l’aveva quasi colpita
negli occhi. Sara si abbassò schivando un altro colpo per un pelo, ma anche la
Mangiamorte schivava quasi tutti i suoi attacchi. Ben presto si resero conto
che era del tutto inutile andare avanti a quel modo, e fu Sara la prima ad
agire.
- Petrificus Totalus! -
Il corpo di Bellatrix
per un secondo assunse il colore grigiastro di una pietra, poi tornò normale,
ma cadde rigido a terra come un pezzo di piombo.
Gli altri Mangiamorte
nel frattempo avevano cercato di sbloccare la serratura, ma si erano accorti
che era stata sigillata da un incantesimo troppo potente: dovettero colpirla
tutti contemporaneamente per poterla aprirla, e Sara era
troppo lontana per impedirlo.
Ma non potevano
immaginare quello che trovarono dietro la porta: una
gigantesca pianta carnivora strisciava e si diramava verso di loro con le sue
migliaia di fusti. I Mangiamorte indietreggiarono velocemente, ma ormai era
impossibile richiudere la porta. Cercarono di lanciare ogni tipo di incantesimo contro la famelica pianta, ma più che
indebolirla sembravano farla crescere ogni secondi di più.
- Imbecilli! Che
diavolo state facendo!? -
Era la voce di
Bellatrix, che gridava contro di loro. Si era risvegliata
dalla pietrificazione, e con il suo urlo la pianta era svanita.
- Era un’illusione! -
gridò, intontito, un Mangiamorte.
- Esatto, Tiger, -
ringhiò Bellatrix - E ci siete cascati come deficienti! -
- Non poteva essere
un’illusione! - ribatté Rabastan, - Era… reale. Mi ha toccato il braccio! -
- Un’illusione
corporea... e dolorosa, naturalmente. Secondo te perché Voldemort sta cercando
quella piccola idiota? - gli occhi di Bellatrix erano in fiamme. Gray era
scappata mentre i Mangiamorte erano impegnati con la falsa pianta, e
sicuramente aveva raggiunto Harry e gli altri. Ormai, potevano essere dovunque.
Malfoy roteò
rapidamente lo sguardo nella stanza: Baal forse poteva sopravvivere, ma non era
in grado di combattere. La luce di quell’incantesimo lo aveva quasi del tutto
spellato, e ora il vampiro gridava e si dibatteva sul pavimento, con le mani
sulla faccia devastata, come fosse stato in preda alla maledizione Cruciatus.
Quanto a Scilla, ci sarebbe voluto un po’ prima che si riprendesse dallo
svenimento che lo Scambio di Corpi le aveva causato.
- Dobbiamo dividerci
in coppia. Conosciamo questo posto come le nostra tasche.
- disse Malfoy. I Mangiamorte si organizzarono rapidamente prima di
attraversare la porta distrutta, prova che la falsa
pianta carnivora era veramente corporea, e si lanciarono all’inseguimento dei
fuggiaschi.
- Ha preso Sirius! -
gridava Harry senza sosta, - Sara! Voldemort ha… -
- Sirius è a Grimmauld Place, te lo assicuro. - rispose infine Sara,
senza scomporsi, ma continuando a correre. - Sei tu che sei caduto nella
trappola. -
Harry stava per
ribattere: e allora, il sogno che aveva fatto? Di colpo capì: non era Sara
l’esca per attirare Sirius, era Sirius l’esca per attirare lui, Harry.
Voldemort si era senz’altro accorto del collegamento mentale che lo univa al
ragazzino, e ne aveva approfittato parlando con Malfoy
in modo che Harry potesse equivocare. Era andata senz’altro così. Ecco perché
Silente voleva che studiasse Occlumanzia, ecco perché tutti lo ritenevano così
importante, Voldemort lo aveva ingannato fin dal principio, e lui c’era
cascato…
Non aveva mai commesso
un errore così grave, mai, in tutta la sua vita. Si era lasciato abbindolare
dalla sua mania di fare l’eroe, dalla sua stupidità. Come aveva potuto
commettere quello sbaglio? Avrebbe dovuto ascoltare Hermione, avrebbe dovuto
agire in modo razionale… e ora tutti i suoi amici erano
coinvolti in quella storia e rischiavano di morire soltanto per colpa sua.
- Sì, tecnicamente sì.
- disse Sara, e Harry capì, dagli occhi vuoti, che gli aveva
letto di nuovo nel pensiero. - Ma se riuscite a scappare prima che sigillino
tutte le uscite non succederà niente. Bhe… per ora. -
- E…
tu? Che cosa vuoi fare? -
- Non posso evitare i
Mangiamorte per sempre. - rispose Sara in tono tetro, e Harry capì che aveva
intenzione di affrontarli da sola, dopo aver portato in salvo lui e gli altri.
- E’ una follia.. - sussurrò Hermione sgomenta, come parlando a sé stessa.
- Lo so. - rispose
Sara, - Ma dopotutto sono un membro dell’Ordine della Fenice, Hermione.
Qualcosa devo fare anch’io. -
Qualcosa devo fare anch’io, ripeté Harry nella sua mente, qualcosa
devo fare anch’io… era esattamente quello che avrebbe detto Sirius. E gli sovvenne un altro dubbio atroce. Sirius non era stato veramente catturato da Voldemort, era stata solo
un’illusione per attirarlo in trappola. Ma se Sirius e
gli altri membri dell’Ordine fossero venuti a sapere che loro erano nei guai,
sarebbero accorsi per salvarli, forse… o meglio, sicuramente. Altre persone da
aggiungere alla lista di quelli che Harry aveva messo
in pericolo, con la sua ingenuità. Strinse i denti così forte
che immaginò di poterseli spezzare.
Guardò verso Sara, che
correva avanti a loro, e non sapeva se avesse letto i suoi pensieri o no: comunque, non disse niente.
I corridoi si
diramavano incessantemente verso ogni lato, ma Sara guidava il gruppetto senza
la minima esitazione. Harry si chiese come faceva ad essere
sicura di dove stava andando, ma non espresse il suo dubbio ad alta
voce. Era già abbastanza disperato senza aggiungere qualche altro peso alla sua
coscienza.
Il buio calava sempre
più, le torce si facevano più flebili, fin quando l’oscurità non fu totale. Non
si vedeva niente, e Sara ordinò che non facessero luce con le loro bacchette.
- Ma
perché? - ansò Ron, cercando di combattere con la puzza di putrefazione che si
faceva sempre più acuta, tanto da far male ai polmoni, - Tanto, se i
Mangiamorte non possono vederci, ci avranno già sentiti…
-
- E’ meglio che non
facciate luce in questa stanza, tutto qua. - rispose Sara, e poi si affrettò ad
aggiungere, per essere più convincente: - Ci sono un po’ di schifezze qui
dentro, ma se volete dare un’occhiata... E’ giusto che
i giovani imparino. -
Neville deglutì più
rumorosamente di tutti. - Imparino… a fare che…? -
- I macellai. - disse
Sara in tono piatto, e i ragazzi si misero a correre più velocemente, agitando
le braccia in avanti per evitare di andare a sbattere contro qualcosa
di orribile. Di colpo, Sara si fermò: davanti a lei non c’era nient’altro che
il buio, ma quando Harry tese in avanti la mano, toccò una fredda lastra di
ferro. Scorrendo la mano più sotto, notò anche un battente. Era una porta, ed
era ad un centimetro da Sara: si chiese come aveva fatto a fermarsi nel buio
con quella precisione, e poi si ricordò di quello che gli aveva detto Silente
sulla Pozione Anti-Vampiro. Serviva per acutizzare
tutti i caratteri distintivi di quelle creature, dato che i Mezzivampiri o i
Diurni non ne risentivano molto, ed era difficile riconoscerli. La settimana
non era ancora trascorsa, perciò il filtro era ancora attivo.
Sara poteva vedere
benissimo al buio, o quasi, ma questo significava che, forse, poteva anche
morderli.
- Cavolo, - imprecò
Sara, battendo un pugno contro la porta davanti alla quale si erano fermati. -
L’hanno chiusa. -
- Bhe, apriamola. -
disse Luna. - Abbiamo le bacchetta, no? -
- Se
l’hanno bloccata con un Incantesimo alla serratura, sono degli idioti, -
commentò Sara - Era aperta, questa porta, ci sono entrata prima. Significa che
l’hanno chiusa adesso per intrappolarci, ma se vogliono davvero fermarci, non
ricorreranno a incantesimi così stupidi. -Il ragionamento non faceva una piega, e
persino Hermione non ebbe nulla da obbiettare. Harry si sentiva privo di
cervello: non era in grado di pensare a un piano per
uscire di lì, aveva troppe altre cose per la testa, colma da un oppressivo
senso di colpa. E poi doveva ammetterlo: lui non conosceva quel posto, e comunque non era neanche in grado di vedere al buio e il suo
livello non era neanche lontanamente comparabile con quello dei Mangiamorte.
Arrivata Sara, lui non serviva più a niente.
- Sentite, lo so che è
rischioso, ma dobbiamo dividerci. - disse Sara, - Siamo in sette. Tre verranno con me passando dalla porta alla mia destra, altri tre
dovranno andare da soli in quella alla mia sinistra. -
- Non vediamo niente! -
ribatté Ginny. Sara sospirò.
- Non guardate
indietro e accendete le bacchette, - rispose seccamente Sara. Harry era sicuro
che non si era mai impegnata così tanto per salvare
qualcuno. - Avanti, tutti nelle entrate più vicine a voi. -
Ci fu un coro di
“Lumos!”, sussurrati più piano possibile. La tentazione di guardare cosa c’era
in quel corridoio puzzolente di morto era orrenda e
tuttavia irresistibile, ma sapendo che i Mangiamorte stavano per raggiungerli,
la prospettiva di fermarsi si faceva di colpo meno invitante.
Hermione, Ron e Luna
spinsero la porta a sinistra e vi scomparirono, richiudendola alle loro spalle.
Harry, Ginny e Neville avevano già attraversato la
porta a destra, ma Sara non si era mossa.
- Sara! - sussurrò
Ginny. - Che fai? -
- Flagramus, - disse
Sara lentamente, e mosse la bacchetta apparentemente a vuoto: un crocifisso incandescente si formò sulla porta sigillata dai
Mangiamorte, coprendola quasi tutta e illuminandola di un bagliore rossastro.
Sara si parò gli occhi con la manica della giacca di pelle, e poi si affrettò a
raggiungere i tre ragazzi. - Fatelo se vedete che davanti a voi c’è un vampiro,
- tossì, mentre camminavano lentamente nel corridoio, cercando di riprendere
fiato. - Ed è meglio se glielo imprimete sulla pelle.
Ricordatevelo. -
Avanzarono per minuti
interminabili nel corridoio completamente spoglio: non c’era niente, né sul
soffitto, né sul pavimento, né sulle pareti, e sembrava privo di curve. Andava
sempre dritto, rettilineo, impregnato di fredda umidità. Ogni tanto, solo
qualche porta si apriva nelle pareti ai loro lati, ma Sara sembrava non
considerarle neanche.
- Perché
non proviamo ad attraversarne una? - propose timidamente Neville.
- Perché non
sappiamo dove porta. Alcune danno sul vuoto, altre ti fanno tornare indietro,
altre ti trascinano chissà dove… c’è ogni tipo di incantesimo su queste porte.
Gli Indicibili le usano per studiare i fenomeni più oscuri della magia, ma
naturalmente solo loro sanno come uscirne indenni, a volte. Se
vuoi provare… -
Sara aveva già la mano
su una porta a caso, pronta ad aprirla.
- Nonononono, stavo
solo scherzando, lascia stare… - farfugliò Neville, e il gruppetto riprese la
marcia.
Harry si chiese cosa
stavano facendo Hermione, Ron e Luna, da soli chissà dove, in quei corridoi
spaventosamente grandi. Al solo immaginarsi quanto doveva essere immenso quel
posto, si sentiva mancare, gli tremavano le gambe. Considerando
poi che ogni porta conduceva chissà dove, gli spazi sembravano ancora più vasti.
- Oh, no, - sentì dire
a Sara.
- Che
cosa c’è? - soffio Harry, ansioso.
Sara, in risposta, si voltò bruscamente indietro, scansò i ragazzi
con un forte movimento delbraccio e,
levata la bacchetta, gridò: - Impedimenta! -
Qualcosa gridò e
rotolò all’indietro: era un Mangiamorte, ed era apparso dal nulla. Harry capì,
dal modo in cui era tornato visibile, che aveva indosso un Mantello
dell’Invisibilità: sembrava quasi che fosse ricomparso togliendosi di dosso una
coperta.
Altre persone dietro
di lui si tolsero il Mantello, anche perché, rotolando, la
vittima lo aveva strappato di dosso a tutti quanti. Harry vide una porta
socchiusa, e uno spiraglio di nero intenso affiorava dall’apertura.
#Entra. Non c’è
pericolo.#
Aveva sentito quella
voce direttamente nel cervello, e la riconobbe, anche se non era molto
distinguibile: era quella di Sara. Mentre lei cercava
di ritardare l’avanzata dei Mangiamorte, Harry afferrò Ginny e Neville e si
precipitò oltre la porta. Ma non riuscì a chiuderla.
Mancava ancora Sara.
Formulato quel
ragionamento si voltò, e credette di svenire.
Si trovavano non in
una stanza, ma nel vuoto. Camminavano su un pavimento che sembrava invisibile,
in uno spazio privo di confini: erano nell’universo. Non si trattava di
un’immagine: pur essendo in grado di respirare, i ragazzi capivano che la cosa
era reale. Le stelle brillavano ovunque, ed erano molto più grandi di come le si vedeva dalla Terra. La Terra, infatti, fluttuava ad
inconcepibile distanza da loro, visto che era grande poco più di un pallone da
calcio. Potevano vedere la Luna, e tutti i pianeti. E poi,
una sfera di fuoco sospesa nell’oscurità: il Sole.
Sara spalancò di nuovo
la porticina fluttuante nello spazio e la richiuse
immediatamente con un incantesimo che non era il Colloportus, ma Harry era
troppo impegnato a fissare i pianeti per decifrare ciò che Sara aveva detto.
- Non è il momento di
incantarsi, - ansò Sara, tossendo con violenza, ma non riuscendo a nascondere
il suo stupore.
Harry si riscosse. I
Mangiamorte stavano arrivando. Sentiva i colpi degli incantesimi che si
schiantavano contro la porta sigillata. E lui non
poteva farci niente.
- Harry, - sussurrò
Sara, - Non commettere questo errore. Hanno bisogno di
te. Non di me. Sei tu che dovrai portarli fuori di qui, quando io sarò… - e
sospirò velocemente con il fiato mozzo.
Harry non capì subito
quelle parole. Non ne ebbe il tempo: la porta finì in
pezzi e quattro Mangiamorte erano entrati: fra loro c’era Bellatrix.
- Dammi quella
Profezia, Potter, se non vuoi farti male! -
- Non fargli niente,
Bellatrix, o la distruggerò! - ringhiò Sara.
Non puoi
distruggerla…
- Chi si vede! - rise
Bellatrix, - La nostra smemorata! Cosa ti porta dalla
parte dei mocciosi, sentiamo…? -
- Non toccateli neanche, - ripeté Sara, facendo un passo avanti, e
fissando intensamente Bellatrix negli occhi, - Io posso distruggerla, lo
sai… -
- Tu menti! - abbaiò
Bellatrix - Non ti ribellerai a Voldemort! -
#Scappa. Corri verso
il Sole. #
Harry sentiva la voce
di Sara rimbombargli furiosa nel cervello: si infrangeva
nella sua testa, tornava indietro, echeggiava… sembrava quasi un grido mentale.
Harry lanciò un’occhiata eloquente a Neville e Ginny, cercando di dire loro di
seguirlo, ma parvero capire senza problemi: forse Sara aveva parlato nel
cervello anche a loro.
Tu devi obbedire a me…
a me…
soltanto a me…
Un Mangiamorte,
Macnair, stava correndo verso Harry, Ginny e Neville, che a loro volta si
precipitavano verso il Sol con tutta la forza che avevano nelle gambe. Harry
stringeva la Profezia con forza, con tutta la forza che poteva, tanto che le
sue nocche erano ormai bianche. Ma allo stesso tempo temeva di romperla… che il
sudore che aveva nelle mani l’avrebbe fatta scivolare
via…
- Avada Kedavra! - e anche quella, era la voce di Sara.
Ci fu un lampo intenso
di luce verde, che quasi accecò Harry, ma stranamente la cicatrice non gli fece
alcun male. Il Mangiamorte cadde, ma era morto molto prima, nello stesso
istante in cui il lampo scaturiva dalla bacchetta di Sara come un proiettile da
una pistola. L’uomo, però, non cadde sul pavimento invisibile: cadeva sempre
più giù, ininterrottamente, fin quando non scomparve alla vista.
Harry lo fissò,
inorridito, sprofondare nel nulla.
- Non cadete! Dovete -
restare - in - piedi! - gridò agli altri due. Ormai erano
vicini al Sole… forse mancava poco…
- Tu… maledetta…! -
Bellatrix era fuori di sé. - Crucio! -
Perchè l’ho fatto?, pensava Sara, senza volerlo… come aveva potuto
disubbidire all’Oscuro Signore? La Maledizione di Bellatrix la strangolò
all’altezza della gola, sentiva i polmoni schiacciati sotto un peso invisibile,
ma non cadde. Rimase con i piedi inchiodati per terra, contorcendosi come un
serpente, con le mani sul collo.
E poi, di colpo tutto finì. Con un’ultima mostruosa fitta di
dolore, Sara sentì il suo respiro mozzarsi definitivamente.
Prendi quella
Profezia…
Sara si voltò di scatto
verso Harry, gli occhi iniettati di sangue.
- Dammi quella
Profezia, Potter! - gridò con tutta la voce che aveva in corpo, e un fiotto di
sangue esplose dalla sua gola, perdendosi anch’esso nel vuoto. - Accio Prof…-
Ma si fermò e si premette le mani contro le tempie. Che diavolo stava facendo? Harry era terrificato. Voldemort
stava per prendere il controllo completo di Sara?
- Scappa, deficiente! -
gridò Sara, e Harry, Neville e Ginny ripresero a
correre all’impazzata verso l’immensa sfera infuocata.
Prendila!
- No! -
Sara sentì una fiamma
incontenibile incendiarle le viscere. Eccoli là, i Mangiamorte… era tutta colpa
loro, e non c’era nessun altro responsabile, se non il crudele signore che li
comandava… e lei doveva sconfiggerli. Doveva resistere.
- Imperio! - gridò
Avery, un attimo prima che Gray potesse reagire -
Prendi la Profezia! - Gray non si mosse, o per meglio dire, non dette neanche
un minimo segno di obbedire alla Maledizione Imperio. - Prendi
la Profezia, prendi quella dannata Profezia! - ripeté rabbiosamente il
Mangiamorte. Sara, per tutta risposta, alzò la bacchetta e lanciò un potente
Schiantesimo contro Avery, che si sbilanciò: incapace di tenersi in piedi,
svenne e precipitò nel vuoto come Macnair.
- Idiota! - gridò
Rodolphus Lestrange - Come credi che possa funzionare la Maledizione Imperius
su di lei? -
Sara sorrise, e
Rodolphus sentì distintamente lo stomaco capovolgersi: lo stava guardando negli
occhi. Due sfere rosse come il fuoco, del tutto prive di pupilla, erano puntate contro di lui, pronte a fargli perdere il
controllo. Adesso il Mangiamorte sentiva il bisogno di
uccidere… non poteva resistere…
- Harry! Ci siamo! -
gridò Neville. Mano a mano che andavano avanti, Sara e
i Mangiamorte erano sempre più lontani, fin quando non si videro quasi più. E il Sole era così vicino… gettava intorno a loro un’aura
bianca…
Tutti i contorni
sparirono, inghiottiti da un lampo di luce.
Rimanevano soltanto
due Mangiamorte, e la più vicina a Rodolphus era Bellatrix. L’uomo si voltò con
occhi bianchi verso di lei, sollevando la bacchetta, dalla quale uscivano
incontrollabili scintille rosse e verdi. Bellatrix sapeva cos’era successo:
aveva fissato troppo a lungo gli occhi di Sara, e Sara lo aveva convinto che
doveva uccidere sua moglie.
- Expelliarmus! -
gridò Bellatrix, e dovette ripeterlo una seconda volta perché avesse effetto:
fu così potente che la mano di Rodolphus Lestrange si ferì, e il dolore bastò a
far rinsavire il Mangiamorte.
Sara si sentiva debole… voci rimbombanti continuavano a risuonare dentro di
lei, non solo nella testa, ovunque. Sentiva di essere vicina
allo sfinimento, non poteva controllarsi, non sapeva che cosa fare… Doveva
resistere. Non poteva cadere. Doveva restare in piedi.
Bellatrix e Rodolphus
scagliarono entrambi lo stesso incantesimo: agitarono la bacchetta come una
frusta e due lingue di fuoco si levarono dalla punta di essa.
Miravano al viso di
Sara.
Quest’ultima fece
appena in tempo a pronunciare la lunga formula dell’incantesimo Freddafiamma
per evitare che i fili di fuoco le bruciassero gli occhi, ma non poté evitare
che le si avvolgessero intorno al collo, scagliandola
verso il fondo. E poi sparirono.
I tre ragazzi, Harry,
Neville e Ginny, si ritrovarono in una stanza poco illuminata: tre o quattro
lampade appese a delle catene pendevano dal soffitto, ma la metà di essere
erano distrutte e i pezzi di vetro giacevano sul pavimento sotto di loro.
C’erano delle scrivanie alle pareti, ma anche quelle non avevano incontrato una
sorte migliore. Una vasca enorme piena di liquido verdognolo stava al centro
esatto della stanza, e conteneva quelli che sembravano cavoli lessi, ma che in
realtà, erano cervelli.
Ron era accasciato a
terra, accanto alla vasca, avvolto da spire argentee semi trasparenti: un
cervello sembrava averlo aggredito, e il ragazzo borbottava cose
incomprensibili. Hermione era svenuta, pareva quasi morta da quanto era pallida,
e giaceva sotto il peso di un grosso pezzo di legno probabilmente appartenuto
ad una scrivania. Luna pareva ancora in sé, ma non stava meglio. Sanguinava
pesantemente dalla fronte e si reggeva il ginocchio più forte che poteva. Gli
occhi strabuzzati fissavano il vuoto con espressione ancora più svagata del
solito. E nella stanza, non c’era nessun altro.
Harry, Neville e
Ginny, spaventati, misero i corpi degli altri tre ragazzi l’uno accanto
all’altro, una volta staccato il cervello da Ron con l’aiuto di un Incantesimo
di Levitazione.
- Luna… che cosa… chi…
state tutti…? -
Luna annuì debolmente,
respirando a mala pena con la bocca spalancata.
- Erano tantissimi… i
Mangiamorte… c’erano anche i vampiri… il crocifisso non serve, perché ci hanno
attaccati… prima loro… e poi… Ron… l’hanno colpito con qualcosa di strano e… è
impazzito… ha preso un cervello… - non ebbe bisogno di continuare. Tutti
intuivano che i pensieri del cervello avevano tentato di strangolarlo. -
Hermione… l’hanno colpita due volte… u…uno Schiantesimo… e io… un… non lo so… -
- Lascia stare, Luna, -
disse Ginny sottovoce, cercando di calmarla. Poi, sia lei sia Neville si
voltarono verso Harry, e i loro sguardi chiedevano una risposta, un
suggerimento, qualcosa da fare. Harry non si era mai sentito così in colpa da
quando era nato, di questo ne era assolutamente certo.
E le parole di Sara
gli tornarono in mente: era lui che doveva portarli fuori. Lui li aveva
trascinati in quella follia, perciò spettava a lui trovare una soluzione, per
quanto potesse essere al di là delle sue capacità. Sapeva che si erano salvati
nella “stanza” dei pianeti soltanto grazie a Sara. Ma ora che lei non c’era era
il momento in cui anche lui avrebbe dovuto fare qualcosa.
Sara sentì la sua
schiena sbattere violentemente contro un pavimento di pietre, e si stupì di non
essersi spaccata la spina dorsale. Riuscì, debolmente, ad alzarsi, e barcollò
in direzione della prima parete che le capitò a tiro: voleva soltanto qualcosa
che la potesse sorreggere. Intorno a lei tutto era buio, e stavolta, non poteva
vedere niente. Capì che non era circondata da oggetti non illuminati, ma dal
semplice e assoluto vuoto.
La bacchetta era
schizzata via dalla sua mano non appena Sara aveva toccato il suolo. Riusciva a
vederla, era lontana da lei, ma non era scomparsa alla vista. La raccolse e
provò a dire “Lumos!”: funzionò ma, come previsto, non cambiò niente: intorno a
sé, era circondata da una coltre nera impalpabile a apparentemente priva di
dimensione.
Si aggirò per qualche
minuto, in silenzio, ma non capiva in che direzione stesse andando.
- Guidami, - disse
alla bacchetta. Ma non accadde niente.
Domandandosi se quello
non fosse l’aldilà, Sara vide, all’improvviso, un fascio di luce viola, al
centro di quale fluttuava una fiamma dello stesso colore. E guardando con
maggiore attenzione, vide con terrore che al centro del grappolo di fuoco stava
un occhio umano: l’iride era rossa, la palpebra mezza abbassata; l’occhio aveva
un’aria malata e apatica.
Sara non riuscì a
resistere alla tentazione di toccare quell’occhio, anche se non sapeva perché.
Stranamente, le fiamme non bruciavano, anzi, erano fredde come il ghiaccio. Con
un lento movimento del braccio Sara sfiorò l’occhio gelido, e attese, col cuore
in gola, che succedesse qualcosa.
Le sembrò che non ci
fosse niente di anomalo.
Si voltò, e alle sue
spalle, c’era una donna.
Aveva dei lunghi
capelli neri, una benda sugli occhi e un mantello di tessuto molto vecchio e
logoro, leggermente trasparente, avvolto sul corpo nudo. L’unica altra cosa che
aveva addosso erano dei bracciali grigi e mezzi arrugginiti, fissati a una
catena che pendeva da un punto imprecisato del “soffitto”: era impossibile
cercare di seguire la catena, perché arrivava così in alto da diventare
invisibile. La pelle della donna era perfetta, i capelli molto arruffati. Era
forse imprigionata ad Azkaban?
- Chi sei? - domandò Sara, e scoprì che la sua
voce era fredda e limpida, disumana, come il tintinnio di una forchetta contro
un bicchiere di vetro.
- Io - disse la donna,
- sono Cassandra. -
Sara deglutì,
atterrita. Quella era Cassandra. Per un attimo la sua mente si rifiutò di
ricordarla, respingendo seccamente quel nome, ma ben presto le parole di
Phineas Nigellus nell’ufficio del Preside affollarono confusamente la sua
testa.
- Non mi temi? -
domandò Cassandra.
- No. - rispose Sara,
senza pensare a quel che diceva. In effetti, si stupì della sua risposta,
perché in effetti era decisamente terrorizzata.
- Menti. - ribatté
Cassandra. - Io lo so. Io so tutto. Io sono una rinnegata, io vivo nella cenere
che mi hanno lasciato coloro che vivono del mio stesso sangue, ma… Demetrius ha
scoperto l’unico Incantesimo al mondo in grado di distruggere il mio potere.
L’Incantesimo più grande di tutti… - Sara ascoltava, ma non vedeva l’ora di
scappare. Soltanto la voce liscia ma fioca di Cassandra bastava a metterla in
subbuglio, e pregò che non si sfilasse mai la benda dagli occhi. Sapeva che
cosa c’era sotto. E non voleva vederlo. - Ma solo Demetrius lo conosce.
Demetrius era un grande mago, ma morì quando la Pietra Filosofale venne
distrutta… -
Sara era esterrefatta.
Non solo perché Cassandra parlava in parte al passato e in parte al presente,
ma soprattutto perché non si sarebbe mai immaginata che esistesse qualcun altro
al mondo, oltre Nicolas Flamel e sua moglie, che usufruisse dell’Elisir di
Lunga vita.
Ma come era possibile?
Silente lo avrebbe saputo, e glielo avrebbe detto. E comunque, se Flamel era
insieme a Silente il creatore della Pietra, perché avrebbe dovuto fornire
l’Elisir a un mago che aveva passato la sua vita a sterminare Mezzosangue?
- Naturalmente -
riprese Cassandra, e Sara seppe che non le aveva solo letto nella mente, le
aveva rubato i pensieri dal cervello: piccole sfere gelatinose erano uscite
dalla sua testa e fluttuavano intorno a Cassandra - Albus Percival Wulfric
Brian Silente non sapeva. Egli non poteva sapere. Demetrius ruba l’Elisir a
Nicolas Flamel grazie a me. Io ogni settimana addormento il marito e la moglie
e tutti quelli che si avvicinano alla casa. Io ogni settimana faccio sì che
credano di aver preparato meno Elisir del dovuto, così che non si accorgano del
furto… e Demetrius sopravvisse. Siamo morti solo tre anni fa. Ma prima d’ora
stavamo nascosti, nel mio limbo. Aspettavamo che l’Oscuro Signore facesse la
sua prima mossa. Ma poi la Pietra Filosofale si è trovata in pericolo perché
Lord Voldemort ha tentato di rubarla. E l’hanno distrutta. Demetrius è morto, e
anch’io sono morta, ma io… Io ho attraversato la nera soglia… Io so cosa c’è
dopo la morte. Io so tutto. - ripeté Cassandra.
Sara fece numerosi
passi indietro mentre la donna parlava. La donna che in effetti le aveva
tramandato tutto il suo potere.
- Il mio Occhio vede
ogni cosa in ogni parte del tempo, e in ogni dimensione ove l’anima va. Il tuo,
vede le menti e i terrori umani e se ne nutre. Tu manipoli, ma io Vedo. -
Per un solo istante
Sara si domandò se non avesse davanti la Cooman travestita, ma qualcosa le
suggerì che non era il momento di fare battute stupide.
- Vedo e creo,
distruggo, estirpo ogni pensiero e ogni ricordo. Se fossi stata viva, la
maledizione dell’Oblio di Bellatrix Lestrange non mi si sarebbe comunque
avvicinata. Il mio è il doloroso compito di portare gli umani alla distruzione,
sono troppo deboli per comprendere, per sopportare… io vedo ogni morte, gli
umani rifiutano ogni morte. -
- Che cosa vuoi dire? -
- Tu sei l’anello
successivo della mia catena, - rispose Cassandra, - Quella era la mia
bacchetta, il Fabbricante delle Bacchette me la vendette senza sapere che costa
stava facendo… con quella bacchetta io strappai due piume alla fenice che
generò la bacchetta di Voldemort. - Sara capì: ecco perché Olivander non voleva
venderle quella bacchetta, in Platano Picchiatore e crine di Thestral. Fanny
non aveva donato le due piume di sua spontanea volontà, come Silente era stato
saggio da far credere… le erano state rubate. Forse Cassandra aveva visto
Voldemort sorgere, centinaia di anni prima che succedesse? Forse aveva visto
quello che stava per accadere e aveva strappato quelle due piume apposta? Non
era possibile. Non era affatto possibile. Per quanto potesse leggere il futuro,
non poteva sapere tutto…
- Tu sei designata
come mia susseguente, - proseguì lentamente la donna dal Terzo Occhio, - ma non
puoi sopportare la morte. Non ancora. Perché tu non hai il Terzo Occhio. E
quando vedrai Sirius Black attraversare la nera soglia, non potrai sopportarlo.
Cercherai di seguirlo, ma sarai trattenuta. E poi… -
- Smettila! - gridò
Sara.
La sua voce non era
più limpida a cristallina. Era diventata un ruggito che non le apparteneva, non
poteva appartenerle. Tutto tremò. Strinse la bacchetta nella mano sinistra, con
forza tale da farsi sanguinare le mani. Cassandra mentiva. Mentiva, ne era
certa.
Di colpo, tutto sparì,
in un istante, senza lasciarle il tempo di versare lacrime. Sara si ritrovò in
un’enorme stanzone simile ad uno stadio coperto fatto solo di pietre. Alle
pareti della stanza concava si arrampicavano dei gradoni di pietra più chiara.
Lei si trovava sul fondo della stanza, su una piattaforma, e voltava le spalle
ad un arco vecchio e pieno di crepe, dal quale pendeva una spessa tenda nera.
Sara ebbe un fremito
che durò a lungo. Molto a lungo.
Ma ancora una volta
non ebbe il tempo di capire quali fossero le sue sensazioni che un’esplosione
assordante la fece sobbalzare. Si era aperto un buco sul soffitto, un grosso
cratere, e Sara vide Harry rotolare di sotto, sui gradini della stanza nella
quale lei si trovava, inseguito dai Mangiamorte.
- …Harry? -
Harry rotolò fino al
pavimento, e i Mangiamorte, dato che stavano camminando, non arrivarono prima
di lui. Il ragazzo lanciò un Incantesimo Scudo per proteggersi da uno Schiantesimo,
e poi Gray corse verso di lui.
- Che diavolo è
successo? Perché non siete ancora usciti? -
- I Mangiamorte.
Hermione e Ron sono svenuti… e Luna è ferita. Ci hanno attaccati e poi… Neville
e Ginny… -
Sara lo scaraventò sul
pavimento, abbassandosi a sua volta, prima che un raggio argenteo li colpisse.
Trasse un sospiro di sollievo e poi si alzò, fronteggiando con lo sguardo i
Mangiamorte rimasti. Il crocifisso che aveva lasciato sulla porta non era stato
inutile: erano rimasti soltanto due vampiri.
Una era Scilla, che
pareva fresca come una rosa, per niente ferita.
L’altro era Baal, suo
nonno, sopravvissuto nonostante fosse il più ferito di tutti: la pelle era
talmente devastata che era quasi impossibile riconoscerlo. L’occhio destro era più
sporgente di quello sinistro. Il labbro inferiore era stato strappato via del
tutto così come l’orecchio destro.
Bellatrix, Malfoy e
Rodolphus erano in prima fila. Dietro di loro c’erano Rabastan, Dolohov, i due
vampiri e Jugson. Sembravano tutti stupiti di vedere Sara, mentre Scilla e Baal
erano semplicemente furiosi, ma non perdevano, nonostante tutto, la loro
espressione distaccata.
Sara tossì: era sempre
più pallida, per quanto fosse possibile, e si sentiva magra come uno scheletro,
come se non avesse mangiato per giorni. Il Marchio Nero bruciava implacabile
sul suo petto ma, almeno, la voce di Voldemort aveva cessato di blaterarle nel
cervello.
Harry e Sara erano
soli di fronte ai cinque Mangiamorte. Harry non aveva ancora perso del tutto la
speranza. Nonostante fossero sopravvissuti soltanto i più terribili di loro,
Sara non era proprio disarmata nei loro confronti, e lui aveva la strana
certezza di potercela fare. Di dovercela fare. Dovevano andarsene prima
possibile, i suoi amici erano in condizioni gravi.
- Ma non si riesce mai
ad ucciderti, Gray? - sibilò Malfoy in direzione di Sara.
- Tsk. - Sara schioccò
le labbra con un sorriso di scherno.
Non fece in tempo ad
aggiungere altro: quel suo sorriso non era piaciuto molto ai Mangiamorte e la
prima ad attaccare era stata Scilla. Le si era parata di fronte in un attimo e
aveva ripetuto l’incantesimo con il quale Bellatrix e Rodolphus l’avevano
spaventata nel vuoto poco prima. Sara tese le bacchetta e il filo di fuoco
purpureo si avvolse intorno ad essa, e non riuscì a bruciarla. Chissà come, ma
Sara se lo sentiva.
Accanto a lei, Harry
aveva lanciato un Incantesimo di Pietrificazione contro Jugson, che stava per
attaccare, e invece cadde a terra rigido e immobile. In quello stesso istante,
Bellatrix si fece accanto a Scilla, sussurrando qualcosa che suonava come un
“lasciala a me”.
Bellatrix e Sara si
trovarono una di fronte all’altra, sulla piattaforma con l’arco e il velo nero.
Poco lontano, Harry aveva appena preso un pieno la maledizione Cruciatus. Sara
si voltò indietro ma la sua esitazione bastò a farsi colpire da Bellatrix nel
fianco, con un colpo di spada magica. Si sentì avvolta da una scarica elettrica
che non le lasciò alcun taglio, ma che la fece cadere a terra in preda a un dolore
straziante. Non si era ancora ripresa che sparò un Incantesimo Reductor contro
il gradino più vicino a Bellatrix: una delle grosse pietre che lo componevano
schiantò, e i suoi grossi frammenti caddero addosso a Bellatrix la quale riuscì
ad evitare che la colpissero alla testa, ma prese un violento colpo nelle
costole.
Sara si voltò ancora
verso Harry e lanciò a sua volta una Cruciatus all’aggressore del ragazzo,
giusto in tempo perché non pronunciasse un Avada Kedavra.
- Vacci piano! -
sbraitò Malfoy al Mangiamorte - Se rompi la Profezia… -
- Non hai tempo per
preoccuparti di lui, Gray! - gridò Bellatrix rivolta rabbiosamente a Sara, -
Stupeficium! - lo Schiantesimo colpì Sara su una gamba, facendola cadere
nuovamente a terra in preda al dolore. Ma non perse i sensi.
Appena si fu rialzata,
sentì la voce di Harry sparare un Incantesimo di Ostacolo e minacciare i
Mangiamorte di distruggere la Profezia.
- Lasciateci andare e
non fate del male a…! -
Stava per dire “a
Sara” quando una voce rimbombò nella sua testa, e Harry capì che era di nuovo
la voce della ragazza.
#Scappa e basta,
Harry, questi sono fatti miei.#
Harry capì che,
qualsiasi cosa che volesse fare, non poteva impedire a Sara di affrontare il
suo passato. Non poteva evitare che facesse quello che secondo lei era giusto,
per quanto gli sembrasse avventato o privo di senso.
- Finalmente sole,
dunque? - ghignò Bellatrix.
- Me lo auguro, -
rispose Sara, e nello stesso istante compì un gesto brusco con la sua
bacchetta, in direzione del pavimento.
Bellatrix lo sentì
tremare sotto i suoi piedi, e un attimo dopo un enorme serpente d’acqua dalla
forma molto indefinita aprì una voragine nella pietra ed emerse, puntando il
muso contro di lei. Sara mosse ancora la bacchetta e il serpente si avventò
contro Bellatrix, sotto le grida esterrefatte degli altri Mangiamorte, che
distolsero per un attimo le attenzioni da Harry. Bellatrix fu scaraventata
verso il velo nero, ma riuscì a rotolarvi lontano, sbattendo invece la schiena
contro una delle colonne del vecchio arco. Il serpente non era ancora estinto.
Non dette modo a Bellatrix di pronunciare un solo Incantesimo: si precipitò
nuovamente verso di lei avvolgendola nelle spire d’acqua che, scoprì la
Mangiamorte sulla sua pelle, era bollente. Con un grido di dolore Bellatrix
sembrò quasi perdere i sensi. Gli altri non si accorsero che Gray aveva mosso
di nuovo la bacchetta: la coda del serpente emerse dal pavimento vicino a Harry
parandosi davanti al ragazzo e spazzando via i suoi aggressori.
Bellatrix si riprese
non appena fu caduta a terra. Evidentemente si era ripresa. Lanciò un raggio di
luce pallida contro il serpente d’acqua che immediatamente si dissolse in
miliardi e miliardi di piccole goccioline che per qualche secondo piovvero
nella sala.
Toccò a Bellatrix
attaccare, approfittando di un attimo di debolezza che Sara ebbe a causa della
tosse, fattasi spaventosamente violenta. Lanciò un Incantesimo Levitante contro
il più grosso dei frammenti di roccia che Sara aveva creato distruggendo il
masso poco prima, e lo fece volare velocemente verso la ragazza. Sara riuscì a
schivarlo un attimo prima che le si stampasse nei denti, ma non riuscì ad
evitare lo Schiantesimo che Bellatrix le sferrò subito dopo.
Cadde a terra,
sentendo la vista appannarsi e l’udito affievolirsi…
- Stupeficium! - gridò
ancora Bellatrix, e Sara cedette del tutto.
Bellatrix fece
ritorno, trionfante (anche se si teneva una costola apparentemente rotta),
verso il gruppo dei Mangiamorte, lasciando il corpo inerte di Sara steso
malamente sulla piattaforma. Nessuno si era accorto che, pur essendo svenuta,
la ragazza grondava sangue dalla bocca con regime pericolosamente abbondante.
- Allora, Potter, -
disse Malfoy, puntando la bacchetta contro Sara. - Dammi quella Profezia, o la
ucciderò. -
Harry non poteva
permetterlo, Sara non poteva morire. Gli aveva salvato la vita… aveva salvato
la vita a tutti loro, e se non ci fosse stata lei, a quell’ora sarebbero stati
tutti già morti… come poteva lasciare che la uccidessero? Sapeva che potevano
farlo. Niente li tratteneva, dopotutto.
Voldemort aveva
provato a riportarla dalla sua parte ma non ci era riuscito. A quel punto, non
le serviva di ordinare ai suoi Mangiamorte di tenerla in vita. Harry tese la
mano, ormai paralizzata intorno alla sfera, dato che l’aveva tenuta stretta per
tutto quel tempo.
Un sorriso largo e
perfido stirò le labbra di Malfoy che prese immediatamente la Profezia e la
contemplò con occhi famelici.
Harry strinse i pugni,
piantando con forza le unghie nel palmo nella mano. Che cosa aveva fatto? Ma
non aveva scelta…
- Aggio Brofezia! -
gridò una voce che Harry per un attimo non riconobbe: era Neville. Era in cima
ai gradini e cercava di strappare la profezia dalle mani del Mangiamorte, ma
non ottenne altro che le loro disgustose risate. - Aggio Brofezia! Aggio
Brofezia… Accio Profezia! - Malfoy non si aspettava che Neville ci riuscisse:
invece, la sfera di vetro schizzò via dalle sue mani e andò a posarsi sul palmo
teso di Neville. Harry lo fissò con occhi grati e sollevati, ma non era certo
che avesse fatto la cosa giusta: e lo avessero di nuovo minacciato di uccidere
Sara?
Probabilmente Scilla
stava per proporlo, ma una voce la interruppe: era quella di Bellatrix. -
Paciock, dico bene? Non credo che tua nonna rimarrà sconvolta se ti uccido, che
ne dici? O forse preferisci andare al San Mungo nello stesso reparto dei tuoi?
Non sai chi li ha torturati, moccioso? -
Harry si sentì
avvampare. - Silencio! - gridò con tutta la forza che aveva, e la voce di
Bellatrix si spense. Incredula, muoveva le labbra, sembrava gridare, ma non
emetteva nessun suono. Era la prima volta che gli riusciva quell’incantesimo.
Neville ormai aveva
sentito, e Harry vide con orrore la sua stretta allentarsi intorno alla
Profezia. - Neville! Non farla cadere! Non devi ascoltarla, Neville! - implorò,
disperato.
- Paciock! - tuonò
Malfoy - Che ne dici se torturiamo Potter come abbiamo torturato i tuoi? A meno
che tu non ci consegni quella sfer… -
Improvvisamente, un
fulmine rosso fendette l’aria immobile e si infranse contro il petto di Lucius
Malfoy, che cadde a terra con un tonfo, battendo la testa su uno dei gradini.
Harry si voltò e il suo viso si illuminò di speranza: Sirius, Lupin, Tonks e Moody
erano in cima ai gradini e li scendevano velocemente, lanciando un incantesimo
dopo l’altro. Non ci volle molto perché si accorgessero del corpo di Sara
accasciato sul pavimento in quella che ormai era diventata una pozza di sangue.
Sirius era subito
corso verso di lei, ma nel frattempo gli altri quattro avevano dovuto
difendersi dagli incantesimi che piombavano verso di loro, dando vita ad uno
sfavillio di lingue luminose. Riuscirono a fermare per un pelo Rodolphus
Lestrange che stava per scagliare un Avada Kedavra.
Sirius sollevò il
corpo di Sara, che era più pesante del solito. La bocca non aveva smesso di
sanguinare, ma il fiotto era molto diminuito.
- Innerva, - disse
Sirius puntando la bacchetta magica su di lei, che si svegliò a mala pena, tossendo
e sputando altro sangue. Sembrava che ogni movimento comportasse una fatica
immensa.
- Si…Sirius…? -
ansimò, guardandolo da sotto le palpebre semi chiuse. Il trucco nero intorno
agli occhi si era sciolto e le colava sulle guance, bianche come il marmo.
- Stai… stai bene? -
chiese Sirius, prendendole la mano, ben sapendo che era una domanda
completamente inutile.
- Niente di rotto, -
sussurrò Sara cercando di non mangiarsi le parole mentre il sangue le
appiccicava i capelli sul collo. E poi, una specie di molla le scattò nel
cervello, come se si fosse improvvisamente risvegliato dentro di lei un
qualcosa di dimenticato. Strinse le braccia intorno al collo di Sirius e
scoppiò in lacrime. - Vattene! - gridò con tutte le sue forze, mentre intorno a
loro il combattimento si faceva sempre più feroce - Vattene da qui! Ti prego…
io… vattene… - lentamente la sua voce tornò a spegnersi, inghiottita dalla
tosse. Vedendo che non riusciva a muoversi, Sirius cercò nelle taste interne
della giacca di Sara le boccette di vetro che si portava sempre dietro:
contenevano lo stesso liquido rosso e amaro che beveva ogni volta che perdeva
troppo sangue, e Sirius glielo fece entrare a forza in bocca. Sara deglutì con
fatica, e sembrò riacquistare un po’ di colore. Immediatamente la perdita si
arrestò. Si alzò in piedi ancora con molta fatica, oscillando pericolosamente
sulle gambe esili, come se avesse indossato tacchi troppo alti.
Le ci volle un po’
prima di recuperare il controllo dei suoi movimenti, così trasse dalla tasca
un’altra fiala, contente stavolta una pozione nerastra, e la mandò giù di colpo
in una sola sorsata. Non appena ebbe inghiottito, tornò praticamente illesa
come prima.
- Sirius… vattene… ti
prego. - lo implorò un’ultima volta. Le ferite erano sparite ma non le lacrime.
Sirius le posò una
mano sulla guancia fredda. - E’ tutto a posto, Sara. - disse lentamente. - Io
devo combattere. Lo capisci, no? - Sara annuì, ma non aveva nessuna intenzione
di farlo. Sapeva bene che non poteva fermare Sirius né obbligarlo ad andarsene…
tuttavia non poteva permettere che restasse lì. Aveva il più oscuro
presentimento che l’avesse mai infestata in tutta la sua vita. Ed era
altrettanto sicura che le predizioni di Cassandra non erano lontane dall’avverarsi.
- Ce la fai? - fece Sirius, guardandola negli occhi. Sara annuì di nuovo,
pronunciando un flebile “sì” e asciugandosi gli occhi.
No, si stava
sbagliando. Non sarebbe successo niente.
- Malfoy aveva
ragione, Sara, - sorrise Scilla fissando Sara, - Non si riesce mai a toglierti
di mezzo. Sei come una mosca. - Sara non le rispose se non con uno Schiantesimo
che Scilla riuscì ad evitare senza troppa difficoltà. Gli occhi rossi e aguzzi
di entrambe scintillavano sull’ombra che era calata sui loro visi.
Sirius stava
affrontando Bellatrix, poco lontano da loro, e Moody era impegnato a bombardare
di incantesimi Baal, che tuttavia non sembrava troppo indebolito: del resto non
si poteva ucciderlo con la magia. Remus e Malfoy duellavano sulle gradinate,
Tonks era impegnata contro Rodolphus, e gli altri Mangiamorte inseguivano Harry
che cercava di trascinare via Neville dalla mischia. Ormai la sala era
pressoché distrutta: gli incantesimi che mancavano il bersaglio si infrangevano
contro le pareti o i gradini, mandandoli in frantumi.
- Tarantallegra! -
gridò Jugson in direzione di Neville, il quale non poté fare a meno di notare
il tono di voce divertito che c’era nella pronuncia di quell’incantesimo.
Quando questo lo colpì, scoprì il perché: le sue gambe sembravano impegnate in
un qualche ballo frenetico, e Neville non riusciva a controllarle.
Harry, che stava
cercando di portarlo via, fu trascinato a terra insieme a Neville. Il
Mangiamorte stava per strappare la sfera di vetro dalle mani di Neville, quando
qualcuno alle loro spalle gridò: - Petrificus Totalus! - Il Mangiamorte cadde
quasi addosso ai due ragazzi. A pietrificarlo era stata Tonks, che in
quell’istante aveva schivato uno Schiantesimo e si era accorta del pericolo.
Harry prese la Profezia dalle mani di Neville le quali, per forza d’inerzia, le
erano strette intorno. Le gambe del ragazzo sembravano impazzire, ma stava
cercando di non essere troppo di peso, sforzandosi di camminare: purtroppo il
tentativo era vano.
Sara lanciò un Locomotor
Mortis alle gambe di Scilla, e non la mancò. Se Scilla però era incapace di
camminare, poteva sempre lanciare incantesimi: forse avendo intuito che Sara la
stava tenendo d’occhio con troppa concentrazione, diresse altrove il suo
mirino. Il primo che le capitò a tiro fu Lupin, e puntandogli contro la
bacchetta gridò:
- Avada Kedavra! -
Sara sgranò gli occhi,
terrorizzata, ma non perse del tutto la calma: si buttò contro Scilla e, nello
stesso istante in cui essa pronunciava l’ultima parola, la spinse a terra. Il
raggio verde fu deviato, ma non del tutto. Remus cadde a terra di colpo, e non
si rialzò.
- Flagramus! - strillò
Sara al limite della disperazione. E ripeté lo stesso incantesimo così tante
volte che in pochi secondi Scilla si contorceva come un’ossessa, la pelle
coperta da grossi crocifissi incandescenti. Poi, vedendo che Scilla tentava di
reagire, Sara trasformò di nuovo la bacchetta in una spada di ghiaccio e stava
per piantare la punta nel cuore della vampira, quando Scilla si rialzò in piedi
ancora strillando. Afferrò la spada con il braccio d’argento e, immediatamente,
questa si sciolse, tornando a essere bacchetta, sotto gli occhi esterrefatti di
Sara. Ma Scilla non poteva ancora liberarsi di quei crocifissi: - Avada
Kedavra! - gridò di nuovo, ma stavolta in direzione di sé stessa. Sara si coprì
gli occhi per proteggerli dal lampo di luce, e la guardò afflosciarsi in terra.
Sapeva che presto si sarebbe rialzata. Non fece in tempo a correre verso Lupin
per accertarsi se fosse vivo o morto: Rabastan le stava scagliando contro una
maledizione Cruciatus, Sara se ne accorse perché lo sentì pronunciare la
formula appena in tempo, e lei fu più rapida. Descrisse con la bacchetta un
ampio cerchio a mezz’aria, di fronte a sé, e una specie di specchio si innalzò
nel punto in cui aveva mosso la bacchetta: la maledizione, pur essendo un
raggio invisibile, vi si infranse e tornò a colui che l’aveva emessa. Sara lo
finì strozzandolo con un Incantesimo di Strangolamento.
Nel frattempo, Moody aveva
avuto la peggio su Baal, che a quanto pareva lo aveva morso, e ora avanzava
trionfante verso Tonks, deciso a fare altrettanto con lei. Nella mano teneva
l’occhio magico di Malocchio, e ogni tanto lo lanciava in aria per poi
riprenderselo.
- Accio (bleah)
occhio! - gridò Tonks, e funzionò: l’occhio volo nella sua mano e, superando
ogni senso di repulsione, andò a ripiantarlo nell’orbita di Moody, prima di
alzarsi e riprendere a combattere, stavolta contro Baal.
Nessuno si era accorto
che la Profezia si era rotta.
*
Silente era giunto
come la salvezza, almeno agli occhi di Harry, che lo vide scendere dai gradini
e lanciare Incantesimi a lui sconosciuti contro i Mangiamorte. Questi ultimi,
uno dopo l’altro, si bloccavano e cadevano addormentati, russando
fragorosamente.
Soltanto due persone
continuavano a combattere: Sirius e Bellatrix.
Sembravano non essersi
resi conto dell’arrivo di Silente. Sirius schivava quasi tutti i colpi di
Bellatrix, ma ad ogni volta che lo mancava, lei riprendeva ad attaccare con
maggiore impeto. Harry notò che Sara non si muoveva. Si era avvicinata a Lupin
per sentire come stava, ma ora teneva gli occhi fissi sui due e non degnava
Silente di uno sguardo: sembrava terrorizzata e Harry non capiva perchè.
Sirius evitò un’altra
maledizione, e ne scagliò una a sua volta.
E Bellatrix compì lo
stesso Incantesimo che aveva usato Sara poco prima: uno specchio luminoso e
circolare si formò di fronte a lei. La maledizione di Sirius colpì lo specchio,
che tremò, vicino allo spezzarsi.
Ma ritornò indietro.
Sara emise un grido
strozzato e cessò per interminabili secondi di respirare. Se anche il cuore le
si fosse fermato non se ne sarebbe stupita.
- Sirius! - e il grido
di Sara fu lungo e orribile.
Perché?, si chiese
Harry. Perché?
È solo una maledizione
riflessa, si rialzerà… che aveva Sara da disperarsi tanto?
Ma Sirius non si
rialzò, né, in verità, tocco il pavimento. Non ebbe neanche in tempo di
cambiare espressione per il colpo ricevuto, che si sbilanciò all’indietro. La
sua schiena si piegò e, dopo la testa, tutto il corpo sprofondò nella tenda
nera, oltre l’arco.
Harry di colpo diventò
sordo. Soltanto le urla di Sara potevano penetrare la membrana lattiginosa
calatagli sui timpani.
Stava per scattare in
avanti, quando un qualcosa di invisibile non lo trattenne: era Silente, che
aveva mosso la bacchetta per fermarlo e lo stava trascinando indietro, come
pescandolo con una lenza.
Cercava di dibattersi,
ma era inutile. Perché diavolo lo fermava?
Lasciami andare,
lasciami andare…
Harry vide qualcosa
muoversi nel suo campo visivo, e un attimo dopo, la cosa che si era mossa era
addosso a Bellatrix. Era un drago. Un enorme drago nero, scaglioso, serpentino.
Era il drago sepolto
nell’ambra, nella vecchia dimora dei Gray, la Stamberga Strillante.
(…) And even when I go to sleep Istill can hear your voice…
and those words I will never forget.-
L’immenso drago nero
dalla forma di un serpente srotolava le sue immense spire che bastavano a
colmare tutta l’enorme stanza. Quanto era lungo? Venti, trenta, mille metri?
Nessuno era in grado di calcolarlo. Gli artigli delle quattro corte zampe si
piantavano nella roccia sgretolando tutto quello che capitava sotto di esse.
Sara stava lì. Al
centro. In ginocchio. Un fumo nero si sprigionava dalla sua bocca, e un fumo
nero si sprigionava dalla bocca del drago. Sara gridava, e il drago ruggiva
così forte da mettere in serio pericolo i timpani. Un Mangiamorte che Silente
aveva addormentato lì vicino - era Baal - venne
calpestato dal drago nero, e la sua zampa gigantesca lo fece a pezzi.
Silente stesso
sembrava atterrito, una cosa che Harry non aveva mai visto.
Erano tutti
paralizzati, privi della forza di camminare.
<< Tu! >>
latrò Sara, e il drago ruggì più forte, più forte, sempre più forte. Il
ciondolo a forma di cuore nero le si staccò dal collo,
distrutto, e andò a finire sul pavimento.
Bellatrix cadde quasi
a terra, fissando gli occhi del drago nero. Rossi. Le pupille erano nere e
verticali.
<< Muori!
>> gridò Sara reggendosi la testa con le mani, quasi volesse
schiacciarla sotto quella violenta pressione. << Muori! >>
Il drago nero spalancò
due grosse ali sul dorso, e la loro apertura buttò giù
quasi del tutto le pareti della sala. Harry cercò di ripararsi dalla caduta dei
massi, ma il dolore alla cicatrice era potente, lancinante, sentiva la testa
rotta in due pezzi…
Il drago si lanciò
contro Bellatrix. Gli occhi completamente bianchi di Sara furono l’ultima cosa
che Harry vide prima che un masso lo colpisse alla nuca.
*
L’ufficio del
professor Silente era sigillato a tutti tranne che e lui e così, per qualche
istante, Harry si domandò come avesse fatto ad entrare.
Poi si rese conto che
non gli importava affatto. La ferita provocatagli dal masso era
scomparsa, o meglio, tutte le ferite erano scomparse.
Non c’era sangue, non
c’erano graffi, era come se si fosse appena svegliato una mattina completamente
normale.
Ma non era una mattina
normale. Era una notte strappata via dall’Inferno.
Era successo tutto per
colpa sua. Tutto per colpa sua. Non era necessario cercare delle
giustificazioni a sé stesso, non ce n’erano e non voleva trovarle: era stato
uno stupido e un ingenuo, per non dire un egoista.
Era stato
semplicemente un moccioso come Voldemort si aspettava che fosse.
La Profezia era
distrutta e nessuno l’aveva ascoltata. L’Ufficio Misteri era
sicuramente franato sotto i colpi dell’ira del Drago Nero. I suoi amici erano
chissà dove e in chissà quali condizioni. I membri
dell’Ordine avevano subito perdite.
Sirius era morto.
Ed era tutta colpa sua…
colpa di Harry. E della sua stupidità.
Voldemort aveva
tentato di ingannarlo e c’era riuscito, senza poi troppe difficoltà. Sara aveva
cercato di salvarli, per tutto il giorno non aveva fatto che tentare di
portarli fuori di lì, e lui cosa aveva fatto? Aveva voluto combattere, lui, non
se n’era andato da lì quando avrebbe potuto, e così Sirius e gli altri erano
andati a salvarli… ed era successo quel che era successo, ormai era
irreversibile, non poteva cambiare…
Niente poteva
cambiare.
Harry fissava l’atono
futuro che gli stendeva dinanzi come un tappeto logoro… una voragine in quella
che avrebbe potuto essere una vita quasi normale. Se
la vita a Hogwarts gli appariva ora spaventosa, la casa dei Dursley al numero
quattro di Privet Drive era semplicemente la concretizzazione dell’Inferno.
I quadri intorno a lui
gli facevano domande ma lui non rispondeva.
Cercò di aprire la
porta per andarsene, ma la maniglia era bloccata e non si mosse. Preso dalla
rabbia, rovesciò la scrivania. Questa tornò in piedi
perfettamente integra, così come tutto ciò che vi era sopra.
Fanny era sul suo trespolo,
una specie di piccolo pollo delle dimensioni di un
cigno, evidentemente vicina alla morte. E quindi, alla
resurrezione.
Sirius però non
sarebbe mai risorto. Era morto. Morto e basta.
Il dolore di Harry si
stagliava ben oltre le lacrime, ben oltre la stanchezza, ben oltre qualsiasi
cosa, e lo lasciava lì, in piedi, senza più un cervello che dicesse
al suo corpo cosa fare. Stava immobile. Aspettava soltanto una scintilla per
mettersi a distruggere tutta la stanza, e gridare.
Gridare
finché non gli fosse finita la voce, e ancora di più.
Improvvisamente, con
un sonoro applauso da parte dei ritratti appesi alle pareti, le fiamme del
camino divennero verdognole e, con un tenue fruscio, Silente comparve nel suo
legittimo studio.
<< Grazie…
grazie, ma adesso… adesso basta. >>
I ritratti notarono la
sua aria stanca e si calmarono di colpo.
Silente si sedette
alla scrivania, e invitò Harry a fare altrettanto. Solo molti
minuti dopo Harry si decise ad accettare l’invito. Nessuno dei due
sapeva cosa dire. Silente stava sforzandosi di trovare una prima frase, da
qualche parte nel suo repertorio, ma Harry non voleva proprio parlare. Voleva
dormire, magari per mesi, e svegliarsi scoprendo che si era trattato di un
incubo, o di un altro tranello di Voldemort.
Si sarebbe
accontentato anche di quello.
<< Harry, i tuoi
amici stanno tutti bene, >> disse infine Silente, e Harry ne fu
sollevato. Ma non abbastanza per uscire dal suo pozzo
nero. << Madama Chips si sta occupando di loro e di certo li rimetterà in
sesto. Remus Lupin non sta molto bene, anche prendendo per un pelo una
Maledizione di quel genere ci sono poche possibilità di..
cavarsela… ma si riprenderà. Lo hanno portato al San Mungo.
>>
Harry annuì. Ora che
aveva saputo che stavano tutti bene, non voleva sentire altro. Silente parve
cogliere nei suoi occhi quel desiderio.
<< Harry… so
come ti senti. >>
<< Non lo sa, >> rispose Harry << Non ne ha idea. >>
Nigellus sbuffò
malizioso. << Ecco! Lo vedi, Sil… >>
<< No, Phineas.
>> Silente lo interruppe con un gesto della mano, e il vecchio preside
sembrò molto contrariato, ma si zittì. Silente si voltò nuovamente verso Harry.
<< Harry, mi rendo conto di quanto tu stia
soffrendo, credimi. E so che passerai dei giorni,
delle settimane, dei mesi orribili. So che ogni cosa ti riporterà a Sirius… ma
ora è il momento che tu accetti la verità: la sofferenza fa parte dell’essere
umano e c’è bisogno anche di questa per poter dire di essere
vivi. Credimi. >>
<< Se volessi morire? >> Harry pronunciò queste parole
con secchezza tale che Silente ne rimase turbato.
<< La verità è
che tu non lo vuoi veramente. >> disse, calmo << Se tu lo volessi, avresti già provveduto mentre ero via. Ma
non l’hai fatto, e questo significa che in fondo al tuo cuore c’è ancora la
volontà di vivere e di essere di nuovo allegro, più o meno come prima. Se lo vuoi, puoi farcela. Almeno tu… almeno tu puoi farcela.
>>
<< Che vuole dire? >>
<< Il drago nero
è caduto stanotte, >> rispose Silente con la medesima calma, << e
non so se avrà intenzione di rialzarsi. >>
Harry per qualche
istante rimase in silenzio, immobile, ma poi scoprì che gli interessava ben
poco di capire. Era troppo stanco persino per ascoltare.
<< Sta parlando
di Sara? >>
Silente annuì
lentamente. << Immagino che stavolta né tu ne io
riusciremo a capire. Ma persone come Sara quando
cadono… non tornano più su. Non vogliono. E così ha
deciso di andarsene lontano da qui. >>
<< Andarsene?
>>
<< Il più
lontano possibile da Londra. Forse perché non riuscirebbe a
sopportare di mettere di nuovo piede in Grimmauld Place, o forse perché non
vuole che qualcuno la veda come sicuramente si ridurrà. >>
Harry non riusciva a
crederci. Il tempo di un’ora, forse solo di mezz’ora, e Sara se n’era andata chissà dove, Sirius era morto, e lui, il colpevole di
tutto, stava lì a parlare quasi tranquillamente con Silente, quando la cosa
migliore da fare sarebbe stata andarsi a nascondere da qualche parte e non
farsi più vedere da nessuno. Rimpianse di non essere tornato dai Dursley quella
notte al Quartier Generale, quando poteva farlo… se solo Silente non gli avesse ordinato di restare dov’era…
Aveva voglia di
piantargli in faccia una serie di grida ed insulti, tanti quanti ne poteva pronunciare, aveva voglia di distruggergli tutto
l’ufficio in modo che si rendesse conto di come i suoi segreti avessero
distrutto lui. Ma il suo corpo non assecondava il
volere dell’istinto, era esausto, e non aveva la forza di distruggere ancora.
Silente sospirò e la
sua espressione si fece smisuratamente stanca.
Harry era deciso a non
farsi commuovere.
<< Penso che sia
giunto il momento di raccontarti cosa successe a Sara anni fa. Forse allora
capirai anche cosa sta succedendo adesso a Voldemort. >>
Harry poté constatare che Silente non aveva molta voglia di parlarne…
ma d’altro canto neanche lui aveva voglia di ascoltare. Perché
non lo lasciava uscire?
Perché non lo lasciava
libero di andarsene? Aveva intenzione di imprigionare anche lui, come aveva
imprigionato Sirius in quella casa orrenda?
<< Tuo padre
stava per iniziare il suo primo anno a Hogwarts, a quei tempi, quindi Sara
aveva poco più di otto anni. >> iniziò Silente,
con molta lentezza, lasciando così trasparire la sua spossatezza. << Ero
a Diagon Alley per incontrare certi miei amici al Paiolo Magico. Era già notte
fonda quando di colpo ogni luce si spense e un freddo tremendo invase tutto il
quartiere. >> Harry pensò di riconoscere gli effetti della presenza di un Dissennatore e si ricordò del sogno che aveva visto
nella sfera gelatinosa, settimane prima. << Capivo cosa stava succedendo,
o meglio chi si stava avvicinando, così sono corso fuori per scacciarlo.
Certamente avrai capito che si trattava di un Dissennatore. Ero appena sceso in
strada quando lo vidi. Stava di fronte a una bambina mezza congelata e sporca di sangue, e stava
per Baciarla. >>
<< Era… Sara?
>>
<< Era Sara.
>> rispose Silente, << Non riuscii ad
impedire il Bacio. Ma vedi… forse farai fatica a
crederci. Sara non aveva molti bei ricordi da farsi succhiare via. Il
Dissennatore non poteva sfamarsi solo di quelli, erano
molto pochi. Appartenevano a quando Sara era ancora più piccola, ancora troppo
piccola per odiare senza perdonare. >>
Harry non capiva cosa
voleva dire. Odiare senza perdonare?
<< Sara, quindi,
non ne uscì tanto male, ma non capivo cosa fosse successo. Ero convinto che
fosse innocente, che il Dissennatore l’avesse attaccata solo per la sua
ingordigia. Sapevo che un pericolo mortale si levava all’orizzonte, un pericolo
di nome Voldemort. Perciò non sospettai di lei. Ma
sono comunque un Legilimens. E prima
o poi scoprii cosa era successo. Una cosa che non mi sarei
mai immaginato… >>
<< Che cosa? >> Harry sentiva che aveva sempre più voglia
di ascoltare.
Soltanto adesso che
Silente aveva iniziato il suo racconto, si ricordò di tutti i dubbi che aveva
sempre nutrito verso Sara, e non era mai stato così
divorato dalla fretta di risolverli. Per un istante fuggevole sembrò
dimenticarsi tutto il resto.
<< Sara aveva
ucciso i suoi genitori. >> rispose Silente in un sospiro, massaggiandosi
stancamente la fronte. << Un purosangue e una Babbana,
Vincent e Theresa. Li odiava. >>
Il ragazzo fissò il
pavimento: conoscere tanto bene i propri genitori tanto da odiarli gli pareva
un grandissimo lusso.
<< Come sai,
visto che sei stato alla Stamberga Strillante,
>> (Harry si chiese come faceva a saperlo), << Demetrius è il
capostipite della famiglia di Sara. Ho scoperto che è morto quando ho distrutto
la Pietra Filosofale. Te ne stupirai, ma con l’aiuto di Cassandra,
Demetrius rubava l’Elisir a Nicolas Flamel. Senza saperlo eravamo
proprio io e il mio amico a tenere in vita un pericoloso sterminatore di
Babbani. O meglio, di Mezzosangue. Vedi, Demetrius non
aveva niente in contrario ai Babbani, li considerava soltanto inferiori, ma
erano comunque purosangue. Lui uccideva tutti quelli
col sangue misto, indiscriminatamente che fossero suoi
parenti o no. >>
Harry pensò che
Demetrius fosse un pazzo.
<< Così si
attivò per inseguire Vincent, Theresa e la loro figlia, Sara appunto. Doveva
ucciderli. Ma erano scappati chissà dove, così mandò
Baal e Odino a distruggerli. Erano suoi discendenti; lui non voleva sprecar
tempo con loro. Sara odiò per questo i suoi genitori: sapeva che sposandosi e
avendo lei come figlia, l’avevano condannata a morte. >>
Silente fece una lunga
pausa, durante la quale anche i ritratti non emisero un solo rumore, un solo
fruscio di vesti: rimasero semplicemente immobili.
<< Dava la colpa
ai suoi genitori anche della sua incurabile e sconosciuta malattia, perché
anche Theresa era malata quando ebbero lei come figlia. Così li uccise. Non
poteva sopportare di morire per qualcosa che non fosse
colpa sua. Con il Nottetempo raggiunse Diagon Alley. Dette l’illusione ai
conducenti che lei non fosse macchiata di sangue, così
potevano portarla in giro senza fare domande. Fu per quelle strade, infine, che
la trovai, in lacrime, di fronte al Dissennatore. Ma quando scoprii
la verità le avevo già promesso che sarebbe vissuta a Hogwarts e che nessun
Dissennatore avrebbe potuto avvicinarsi a lei. Una promessa e pur sempre una
promessa, e non potevo romperla. >>
<< Perché piangeva se aveva ucciso i suoi di proposito?
>> domandò Harry.
<< Lei sbaglia, poi si pente. Prima uccide, poi tortura sé stessa,
si taglia. E dopo ricomincia a sbagliare. Rimane
convinta di ciò che affatto, ma allo stesso tempo prova sensi di colpa. Non tanto per aver ucciso una persona in particolare, ma perché sa
che non dovrebbe farlo. E una cosa complicata, Harry, neanch’io la
capisco come avrei dovuto. Lei è come divisa in due. Una parte che vuole, una parte che non vuole. >>
Harry annuì incerto.
Non era sicuro di capire. Lo strano autolesionismo in cui versava Sara gli
sembrava qualcosa di terribile, ma non riusciva non provarne curiosità… come
del resto per tutte le cose terribili.
<< Tre anni
dopo, Sara era al primo anno e fu smistata a Serpeverde, nonostante le
indecisioni del Cappello Parlante. Cominciò gli anni peggiori della sua
infanzia. Tutti la prendevano in giro, tutti la detestavano e la scansavano, e
tutto ciò derivava dal timore che avevano per lei. Ha ereditato da Cassandra
uno strano potere intimidatorio generato dai suoi occhi, così come il potere
mentale che avrai avuto modo di conoscere. Inoltre,
per colpa della sua malattia, era considerata un mostro. >>
<< Un mostro?
>>
<< La gente ha
sempre paura di ciò che non capisce. Tutti la bollarono come un mostro, un
fetido mostro… tutti, tranne uno. >>
Harry si aggiustò
sulla sedia, essendosi accorto che stava sprofondando sempre di più, e puntò il
suo sguardo su quello di Silente.
<< E più precisamente, tutti tranne Remus Lupin. >>
riprese Silente << Che immagino fu il suo unico
amico per la maggior parte di quell’anno. Non so come successe… ma lei scoprì che era un lupo mannaro, e lui scoprì il Marchio
Nero. >>
<< Sì… >> disse Harry con voce flebile, << Sara me l’ha detto.
>>
<< Sara marinava
sempre le lezioni ma si esercitava con Remus per conto suo per magie più
avanzate. Riuscì ad imparare anche l’unica magia per estinguere un fantasma,
pochi maghi ci riescono al giorno d’oggi. Lentamente
anche tuo padre e Sirius divennero suoi amici, ma ci
volle tempo. Non riuscivano ad accettarla. Credo che successe
qualcosa quando li misero in punizione insieme per una cosa che successe a
lezione di volo. >>
Harry lo interruppe.
<< Perché Voldemort le… le impresse il Marchio
Nero così presto? Era solo una bambina! >>
<< Era solo una
bambina con poteri grandissimi, Harry. >> rispose Silente. << E Voldemort sapeva che li aveva ereditati da Cassandra. Infatti quasi tutti i Gray furono Mangiamorte. Voldemort
bramava il potere di quella famiglia… e anche quello di Sara, nonostante fosse
una Mezzosangue. >>
<< Successe
prima delle vacanze di Natale, >> riprese il Preside << E io riuscii
a tenerlo nascosto, anche ai professori. Non era il caso che sapessero.
Allora Voldemort non era ancora nel pieno dei suoi poteri, era solo un mago con
un’ideologia che a molti Purosangue piaceva… il suo regno di terrore non era
ancora iniziato, ma Sara era un chiaro segno che stava per cominciare a fare
sul serio. Da dopo quel tragico giorno Sara peggiorò vertiginosamente con la
sua malattia, ma impedii che la portassero al San Mungo:
e se avessero visto il Marchio Nero? Io le avevo promesso
che i Dissennatori non l’avrebbero toccata. Mi sentivo in errore a pensarla
così, ma adesso ho capito che feci la cosa giusta. >>
<< Sapevo che
era rischioso non affidarla ai Guaritori, ma Sara era forte, pur essendo solo
una bambina, e se la cavò. Mi domandavo come avesse fatto
e scoprii che aveva in sé del sangue di vampiro. Tutti se ne accorsero,
ben presto, a causa dei suoi denti. E la presero di
mira ancora di più. Io non sapevo che fare. Come potevo tenerla ancora a
Hogwarts, vedendo tutto quello che era costretta a
sopportare? Sapevo che, per scacciare l’angoscia e i sensi di colpa, era solita
tagliarsi. Quello che non sapevo era che aveva scoperto come esorcizzare
il Marchio Nero per un breve tempo: pugnalandosi. E
grazie ai numerosi vampiri della sua famiglia, che le donarono alcune delle
loro qualità, le ferite si rimarginavano in tempo perché non morisse. >>
<< Ma quando
Sara faceva il terzo anno e tuo padre il quinto, successe… >>
<< Che cosa? >> incalzò Harry, vedendo che Silente
esitava.
<< … Voldemort
voleva scalzarmi da Hogwarts per avere campo libero e prendere quindi il
controllo di molti validi studenti e professori che vi si trovavano. Ma come
sai non poteva agire finché c’ero io. Aveva bisogno di
qualcosa che convincesse il Ministero della Magia a
sostituirmi: qualcosa che togliesse a Hogwarts il titolo del luogo più sicuro
del mondo. Con un ultimo, straziante tentativo, Voldemort prese il controllo di
Sara, una notte. Lei cercava sempre di opporsi e lo sforzo fu tale che rischiò
di morire. Voldemort le ordinò di uccidere, e lei uccise. Uno
insegnate e tre studenti in tutto. Aveva usato l’Avada Kedavra. >>
Harry strinse i pugni
sui braccioli della poltrona e si irrigidì. Silente si
accorse del suo atto di tensione ma sembrò non volerci far caso: ormai aveva
deciso di dirgli la verità.
<< I
Dissennatori lo scoprirono e… ecco… la Baciarono. E
stavolta Sara aveva dei bei ricordi da perdere, visto che aveva trovato degli
amici. Ma una cosa che né io né loro potevano sapere è
che erano dei veri amici e fecero di tutto perché Sara non perdesse l’anima.
Hai notato il suo ciondolo? Sara lo ha sempre portato. Tuo padre, Sirius e
Remus trovarono un incantesimo… non so nemmeno io
quale… un incantesimo che la salvò. Un incantesimo che non troverai
su nessun libro… lo stesso che tua madre inconsapevolmente usò per proteggere
te. >> Harry in un attimo capì di cosa stava parlando Silente. <<
Questo la salvò dalla pazzia ad Azkaban, e così cinque anni
dopo, la più giovane e la più colpevole prigioniera mai vista in quelle celle,
riuscì a scappare. >>
<< Si nascose
non so neanch’io dove… ma Voldemort la trovò,
naturalmente. Le chiese di non respingere più il Marchio Nero, le offrì
l’opportunità di passare del tutto dalla sua parte. Ma
Sara rifiutò. Bellatrix Lestrange le scagliò una Maledizione… ma non una di
quelle “normali”. L’hai sentito dire da Seymour. E avrai senz’altro capito che,
a causa di questa maledizione, i vampiri Gray non poterono risorgere, perché
l’anima è un ricordo, e se questo viene cancellato…
>> fece una pausa che consentì a Harry di capire dove andava a finire il
suo discorso.
Stranamente il ragazzo
aveva ascoltato tutto, e finalmente aveva capito qual era il segreto che tutti
gli tenevano nascosto riguardo al passato di Sara. Quando
tutti la chiamavano ancora “Gray” era perché nessuno si ricordava niente di
lei, ad eccezione che poche cose riguardanti il suo passato a Hogwarts.
<< Sara ha
recuperato la memoria grazie a ciò che le ha detto
Voldemort quando l’ha catturata tempo fa per torturarla. E
di nuovo le ha posto la sua domanda. Voldemort era l’unico a non essere stato
colpito dalla Maledizione. Ma di nuovo… di nuovo Sara
ha rifiutato, ed è riuscita a rompere la maledizione dell’oblio tornando a
visitare quella che un tempo era la dimora dei suoi avi. I ricordi sono tornati
e vampiri hanno cominciato a risorgere. Voldemort è riuscito a farli riunire a
sé, ma non del tutto: stanotte hanno morso molti dei Mangiamorte di Voldemort,
la sete è incontrollabile. Non so se li abbiano trasformati in vampiri o no… ma
li hanno senz’altro uccisi. >>
A Harry venne in mente
una domanda: << Perché il Ministero non l’ha condannata, quando è
scappata? >>
<< Perchè faceva
comodo. >> rispose Silente con semplicità. << Credi che un potere
come il suo non faccia gola a nessuno? Bhe, il Ministero promise che avrebbe
dimenticato tutto se lei avesse lavorato lì e avesse rigato dritto. Poi Sirius venne accusato della morte dei tuoi genitori, e visto che
tutti sapevano dell’amicizia fra lui e Sara, lei divenne ancora più utile: ma
non sapeva dove si trovasse Sirius, perciò neanche col Veritaserum poteva
rivelarlo. E comunque, se lo vuole veramente, può
resistere alla pozione della Verità. Caramell decise di affidare Sara come
assistente per Dolores Umbridge: quest’ultima non è mai stata d’accordo, ma
sapeva che, alla prima mossa falsa, Sara avrebbe diffamato la mia
attendibilità. Così infatti è successo, il piano è
riuscito. >>
<< Ora, a causa
del suo legame con Voldemort, non pari al tuo, naturalmente, Sara ha capito i
suoi piani: aveva intenzione di farti prendere la Profezia, perché lui non
poteva farlo. È da quando ti ha incontrato che cerca di starti vicino per
impedire che Voldemort riesca nel suo intento, ma quando il Ministero l’ha data
per ricercata, tu sei rimasto vulnerabile. Per questo non sono stato io ad
insegnarti Occlumanzia. Voldemort si era accorto del suo legame con te e l’avrebbe usato per spiarmi o per uccidermi. Non ho fatto altro che evitarti, quest’anno, te ne sarai
accorto. >>
Harry annuì. Se n’era accorto… e lo aveva odiato. Anche adesso non
riusciva a non credere che lo avesse fatto con le migliori
intenzioni.
<< Quindi
Voldemort si impegna tanto per portare Sara dalla sua
parte perché non mi difenda da lui? >>
<< Anche per questo,
certo, >> rispose Silente, ed ogni parole gli
faceva male, << Ma soprattutto perché al mondo non esiste nessun altro
essere umano che possegga il potere di Cassandra. Voldemort ne
aveva bisogno per controllarti, dato che Sara ha un potere mentale pari
o superiore al suo. Ma non essendoci riuscito, ha scelto la via più difficile:
convincerti che Sirius era all’Ufficio Misteri per
farti correre laggiù. E in questo lo ha aiutato
Kreacher che serviva due padroni contemporaneamente: Sirius… e Narcissa, moglie
di Lucius Malfoy. >>
Harry ascoltò le
parole di Silente con la massima attenzione, per la prima volta da quando era
uscito dall’Ufficio Misteri… ma anche con la massima collera. Ad ogni frase
sentiva che l’ira lo avvampava sempre più, come se qualcuno gli avesse
rovesciato addosso dei carboni ardenti.
Ascoltò come Kreacher aveva cercato di carbonizzare Sara alla luce solare per
tutto quel tempo, strappando i fogli di pergamena dalle pareti… e di come aveva
tradito Sirius, e resistette…
Ascoltò come Piton avesse cercato di avvertire i membri dell’Ordine, ma non
aveva fatto abbastanza in tempo perché Voldemort aveva di nuovo preso il
controllo definitivo di Sara, che aveva cercato di fermarlo, e resistette…
Ma quando sentì che
Sirius avrebbe dovuto ascoltarlo, avrebbe dovuto
restare in casa e trattare Kreacher con più rispetto, non poté controllarsi.
Balzò in piedi e rovesciò di nuovo tutto ciò che trovò sopra la scrivania,
sbattendo i pugni sul duro legno. I quadri gridarono con disapprovazione, e Fanny
si agitò preoccupata.
Ma a lui non importava.
Gli dava un immenso
fastidio che Silente lo guardasse con quella calma.
Gli dava un fastidio terribile, che mutava rapidamente nell’ira più cieca.
Aveva solo voglia di uscire, e così si precipitò verso la porta, ancora
serrata, accusando Silente. Come poteva parlare di Sirius come fosse lui solo il colpevole della sua stessa morte? Come
poteva parlare con quella tranquillità dei fatti che erano bastati a
sconvolgerlo per sempre?
Scoprendo che la porta
era ancora sprangata, Harry la prese a pugni, a calci, a manate, ma
naturalmente questo non servì a farla aprire.
<< Mi faccia
uscire subito! >> strillò Harry.
<< No. >>
fu la risposta di Silente.
E
infatti non lo fece uscire, nonostante Harry continuasse a distruggere
ogni cosa che gli capitava a tiro.
<< Stai agendo
come Sara. Distruggendo non cambierai la situazione né ti sentirai meglio.
>> disse Silente.
Harry lo squadrò.
<< Che diavolo vuole dire? >>
<< Non ti sei
chiesto cosa fosse quel Drago Nero, Harry? >> domandò Silente, e Harry fu
costretto ad annuire. In effetti se l’era chiesto, ma
non aveva avuto il tempo di domandarselo più di una volta, così se n’era
dimenticato. << Era Sara, Harry. O forse era
Demetrius. Era la sua rabbia. Era tutta la rabbia che le è rimasta dentro per
anni senza che potesse veramente, definitivamente sfogarla. Ne
aveva bisogno, direi. Demetrius ti ha detto che il drago nero
imprigionato nell’ambra è la sua ira… che è anche l’ira di tutti i Gray.
>>
<< E ora il drago nero non c’è più, nell’ambra. Se n’è andato quando ha scoperto che la sopportazione di Sara stava
toccando il picco finale. E stanotte ne hai
avuto la prova. Un attimo prima che tu svenissi,
Voldemort ha fermato il Drago Nero, tuttavia restando ferito. Comunque, Bellatrix è salva. Bellatrix, la colpevole fisica
della morte di Sirius. E finché il suo sangue non sarà
completamente versato, il Drago Nero brucerà dentro Sara. Soltanto quando
otterrà la vendetta, tornerà al suo posto… nelle tombe d’ambra. Finché Sara non avrà di nuovo bisogno di vendetta. >>
<< Ma perché? Sara ha detto a Sirius… di
andarsene… lei sapeva…? >>
<< Sara mi ha
lasciato una lunga lettera, e non so come abbia fatto a scriverla in mezz’ora e
a consegnarmela prima che venissi qui. Non credo che
sia il caso che tu la legga, anche se mi dispiace avere ancora altri segreti. Ma posso dirti che mi ha spiegato di aver visto Cassandra.
Nella sala dei pianeti, Sara è stata colpita da un Incantesimo che l’ha fatta
cadere nel vuoto. E qui ha scritto che secondo lei
Cassandra è in grado di andare di qua e di là dalla soglia nera. >>
<< La soglia
nera? >>
<< La morte,
naturalmente. >> rispose Silente.
<< Perciò… anche Cassandra è risorta? >>
<< Sara mi ha
detto che secondo lei, solo l’anima di Cassandra può viaggiare attraverso la
morte. Ma non può risorgere perché il suo corpo è
quello di un mortale, non di un vampiro. E un’anima
senza corpo non può camminare sulla terra con i vivi. Capisci che cosa voglio
dire? >> Harry annuì con le poche, pochissime forze che aveva ancora in
sé. << Cassandra ha salvato Sara dalla morte quando è sprofondata nel
vuoto, perché Cassandra vede anche il futuro: è sospesa in un tempo che non
esiste. Sapeva che le cose dovevano andare in altro modo, che Sara doveva
restare viva. Sara è finita nel limbo di Cassandra, e quest’ultima le ha predetto la morte di Sirius: sapeva che Sara, accecata
dall’ira, avrebbe distrutto il limbo e sarebbe tornata in vita. Possiamo dire
che Cassandra vive, quindi, in un posto che non solo è superiore al tempo, ma
anche alla morte. >>
Harry non riusciva a capire, era un ragionamento fin troppo astratto
per poter comprendere. Dov’era uno spazio né passato,
né presente, né futuro? Dove stava Cassandra se in effetti
non era viva né morta?
<< E così Sara ha cercato di allontanare Sirius dalla nera
soglia che studiano all’Ufficio Misteri. Ma non ci è
riuscita. E lo sapeva. Non poteva impedire a Sirius di
salvarti e di salvare lei, sapeva che avrebbe fatto di tutto per portarvi in
salvo entrambi. Chi conosce il futuro… bhe, non può comunque
cambiarlo. >>
Harry sprofondò di
nuovo sulla poltrona, spostandola di diversi centimetri indietro. Troppe cose,
sapeva troppe cose.
Ne aveva sentite troppe.
Non era certo di potercela fare a sopportare tutto ciò, e probabilmente di lì a
poco avrebbe semplicemente sfondato la finestra e
sarebbe scappato di lì, anche se fosse stato a cinquanta metri d’altezza. Non
gli importava di ferirsi o di ferire, anzi, era proprio ciò che voleva.
E Silente
riprese a parlare, fluidamente ma stancamente, cercando di pronunciare
tutte le parole in modo comprensibile, nonostante ciò gli facesse visibilmente
male. Harry non aveva interesse per le pene del Preside.
In
effetti era a dir poco felice se Silente soffriva.
Il senso di colpa lo
aveva abbandonato.
Silente stava
ammettendo, uno per uno, gli errori che aveva compiuto
nel non rivelargli il segreto più grande che avesse e che lui, Harry, avrebbe
dovuto essere il primo a sapere. Si chiese se non fosse finito nel limbo di
Cassandra quando sentì l’apatia avvolgerlo: stava ascoltando la profezia… e
capiva… aveva capito… uno dei due sarebbe morto, senz’altro, non era possibile
che vivessero entrambi sulla stessa terra.
E ricordò le parole di
Seymour.
…e saranno gli innocenti i primi a
morire, e i ciechi ignoranti a sopravvivere, trascinandone altri nella morte….
Sì, era così che era andata. Harry capì che si riferiva a lui e a
Sirius. L’innocente era morto per primo e il cieco ignorante era sopravvissuto…
aveva trascinato Sirius nella morte e poco ci era
mancato prima che toccasse la stessa sorte a Sara e ai suoi amici. Seymour
sapeva? Anche lui aveva visto?
O
forse era stata Cassandra a raccontargli tutto, come aveva raccontato a Sara?
Forse… Ma Harry non l’avrebbe comunque mai saputo con
certezza.
Silente,
non so quanto
potrò resistere ancora se torno a Grimmauld Place, così me ne vado. Parlerò con
i Cacciatori di Vampiri e partirò con loro. Ci avevo già pensato prima di
stanotte, non sarebbe male se me ne andassi per
uccidere definitivamente i vampiri che io ho contribuito a generare. Mi sembra
che i cacciatori non siano tanto riluttanti.
Vado in
Transilvania con i Cavalieri dell’Alba.
Tanto sono
ricercata, perciò non dovrei stare qui lo stesso. Io
spero solo che potrò cancellare tutto questo. Spero solo che prima
o poi potrò incontrare di nuovo Bellatrix e pretendere la vendetta che
mi spetta… o almeno spero di morire e finire nello stesso posto dov’è lui… ma
ho i miei dubbi che succederà.
Ho combattuto
contro i Mangiamorte per salvare Harry ma è stato inutile; non darti pena, la
profezia è rotta. Ma non ho potuto impedire che lui
morisse. Ho visto Cassandra e mi aveva avvertito che
sarebbe successo, ma lui non ha voluto ascoltarmi, e sapevo che sarebbe stato
così. Non voglio più sapere il futuro. Se solo fossi una
persona normale…
Tutto questo
non sarebbe accaduto. Non nascondo che naturalmente la colpa sia
tua.
Se solo tu
avessi lasciato che il Dissennatore mi portasse ad Azkaban, anni fa a Diagon
Alley, non avrei potuto scappare, no? E tutto questo non sarebbe successo. Tutti vivrebbero ora
felici e contenti, a parte me, ma non mi sarebbe importato.
Il resto della
lettera, preferisco sia solo tu a leggerla.
L’Espresso di Hogwarts
sferragliava sotto un sole estivo dal rinnovato calore. Dopo gli avvenimenti
precedenti, non c’era speranza che quel sole potesse brillare come prima, ma
almeno era arrivato il momento di allontanarsi da Hogwarts una
volta per tutte. O meglio, almeno fino al primo
settembre successivo.
Nello scompartimento
regnava un allegro cicaleccio. Ron, del tutto ripreso dal morso di vampiro,
aveva sostenuto da poco gli esami che si era perso, anche se ciò non lo aveva
reso proprio felicissimo. Anche gli altri stavano
bene, e Harry sembrò quasi stupirsene: come si poteva stare bene in un momento
simile? Le Cioccorane saltellavano ovunque, mentre i ragazzi si scambiavano le
figurine. Harry scosse la testa: era impossibile stare allegri. Non era decisamente possibile.
Nessuno sembrava
accorgersi di quanto lui stesse male, perciò dovette
unirsi alle chiacchiere dei suoi amici: non poteva permettere che stessero di
nuovo male per colpa sua, visto che si erano già trovati sull’orlo dell’abisso.
A scuola tutto si era
aggiustato, più o meno: i vampiri erano spariti insieme ai cacciatori, la Umbridge non era più Preside né insegnate, Hagrid era
tornato, e la Cooman avrebbe insegnato assieme a
Fiorenzo. Harry si chiese come avrebbe fatto a sopportare le lezioni della
Cooman dopo aver saputo che era stata lei a fare la profezia su lui e
Voldemort.
Anche Luna Lovegood era con
loro nello scompartimento: la Gazzetta del Profeta aveva acquistato dal Cavillo
l’articolo di Rita Skeeter e Luna declamava con orgoglio di come suo padre
avesse consentito che il Profeta considerasse di nuovo Harry come un eroe.
Adesso tutti sapevano
che Voldemort era tornato.
E questo non poteva che
farlo stare ancora peggio.
Harry era accanto al
finestrino e osservava distratto il paesaggio che correva di fronte ai suoi
occhi: ben presto sarebbero arrivati alla King’s Cross, e sarebbe giunto il
momento di tornare dai Dursley. Lì era al sicuro, sì… era
casa sua, ormai.
Non aveva nessun altra casa, dopotutto, e Silente aveva deciso di
rinchiuderlo lì…
Harry strinse più
forte le dita sul diario che Silente gli aveva fatto
scivolare nel baule prima di partire. C’era solo un biglietto che diceva che
era appartenuto a Sara, e che forse gli avrebbe fatto piacere leggerlo, dato
che si riferiva al periodo in cui suo padre e gli altri erano a Hogwarts.
Harry non poté che
soffrirne ancora. Non aveva mai conosciuto suo padre, e quindi il sentirne
parlare lo rendeva il qualche modo felice. Come lo avesse incontrato la prima
volta.
Ma avendo conosciuto
Sirius, come poteva sopportare di sentirlo ancora nominare?
Non sarebbe stata una
tortura?
E Sara, chissà dov’era
in quel momento…
Con
i Cavalieri dell’Alba, certo, a piantare paletti nel cuore di decine di
vampiri, in Transilvania. Harry la ringraziò mentalmente per tutto ciò che aveva
fatto, e si sentì vuoto. L’ultima volta che l’aveva vista era in circostanze
affatto belle da rievocare. Ma forse era meglio così.
Come aveva detto Silente, soffrire e ricordare faceva parte dell’animo umano, e
per la prima volta quell’anno il ragazzo si trovò a
trarre conforto dalle sue parole.
Mentre il treno sfrecciava
sempre più inesorabilmente verso Londra (e verso i Dursley), andando incontro
ad una nuova estate, Harry sospirò: la seconda guerra era cominciata.
Aprì il diario, e
cominciò a leggere.
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IMMANCABILE COMMENTINO FINALE!
Ho finito la prima
parte! XD Come potrete facilmente evincere dalla frase finale, la prossima è il
Passato, la parte che mi piace di meno ma che ho scritto con un po’ più di
spontaneità… Che sarebbe un diario, come capirete in seguito, anche se è
scritto in terza persona.
Spero
che per il momento vi sia piaciuta. In ogni caso lasciate le vostre reviews, anche per mandarmi al diavolo come probabilmente
vorrete fare (anche se non dovreste dirlo in modo così testuale… -.-)… Ma
soprattutto x fare complimenti! :P
Un piccolo
post-scritto, la terza parte la pubblicherò unicamente sul mio sito perché non
se tutti sarebbero d’accordo sull’inserimento nella categoria di Harry Potter…
ci sono moltissimi riferimenti, insomma, è sempre una fan fic su HP anche la
terza parte… ma tutti sanno che la gente non fa altro che sottilizzare! XD sicchè mi astengo dal pubblicare tutte e tre le parti qui.
Non è una manovra
pubblicitaria! XD anche perché di solito le suddette manovre servono a fare
soldi e io, tanto per precisare… non ci guadagno un quattrino! ^__-
Non so che altro dire,
per cui è meglio se chiudo qui. Ci vediamo con la
seconda parte!
E’ d’uopo un ringraziamento a tutti coloro che mi scrivono reviews, o anche
a quelli che vorrebbero farlo ma non hanno voglia (come vi capisco!)! :P
Soprattutto bisogna che ringrazi Macycas per il suo
perenne sosteNio!! *___*
Questa è la seconda parte, ovvero l’ultima che pubblicherò su un sito che non
sia il mio… la terza ed ultima parte infatti la
pubblicherò solo sul mio sito personale di fan fiction (raggiungibile dalla
collective linkata nella pagina del mio account) per motivi che ho già detto
prima! :P
Spero quindi che vi piaccia anche questa
parte, e che non vi scoraggiate se sarà lunga praticamente
come la prima… non so esprimermi in poche parole! XD
Altri recensionisti
che ringrazio (ma sì, facciamo la lista della spesa) sono lizzie,
Lord Samurai, Pietro (argh… anche su internet me lo devo sopportare!) e Heavy!
Voi fate di me una bimba felice! *__*
Adesso basta con gli sproloqui!
Pubblichiamo anche questa e leviamocela di torno!!
01. Una cliente difficile
28 agosto 1971, LONDRA
sto iniziando questo diario, e già mi auguro di
finirlo presto. So da adesso che salterò molte parti della mia vita. Non so se
avrò sempre la forza di descrivere tutto esattamente com’è andato e comunque, anche se ci riuscissi, immagino che non servirebbe
a nessuno.
Le luci erano quasi tutte spente, e Diagon Alley versava
nel silenzio più profondo. Solo di tanto in tanto qualche schiamazzo
proveniente dal Paiolo Magico rompeva la quiete. Ma si
trattava di rumori soffici, ovattati; non duravano molto. Dal cielo cadeva la
neve, fitta e incassante, e ormai il suolo ne era del
tutto ricoperto, a piccole collinette bianche. Da alcune
finestra proveniva una danzante luce di caminetto, che apriva un
rettangolo arancione a terra. Non era ancora settembre, eppure l’inverno sembrava
già arrivato, a il suo gelo stringeva le ossa in una
morsa crudele.
Non tutti erano al riparo e al caldo. Non tutti erano
sepolti sotto le coperte dei loro letti e dei loro sogni.
Nell’oscurità nebbiosa,
all’orizzonte, una piccola figura barcollava senza meta, emettendo a volte
qualche gemito, a volte qualche grido debole. Nessuno la sentiva. Si appoggiava
ad ogni palo e ad ogni parete. La pelle bianca come un foglio di carta era
macchiata di sangue non ancora del tutto seccato. I capelli, la fronte, i
vestiti erano madidi di sudore, e gli occhi gonfi e arrossati di lacrime. I
ciuffi davanti della capigliatura castana si attaccavano al sangue sulla pelle
del viso della bambina.
Spossata ed esausta, ogni tanto
cercava di correre, ed evitava la luce che proveniva da quelle finestre aperte
come se temesse che potesse ucciderla. Non voleva che qualcuno la vedesse.
Chiamò sua madre e suo padre con tutte le sue forze… ma in fondo, lo sapeva.
Non potevano tornare. Ed era colpa sua.
Non valeva la pena di incolparsi
di qualcosa che ormai era compiuto e che, comunque,
aveva ben poco do ingiusto. Sapeva quanto gli esseri umani si sforzavano ogni
giorno di sopravvivere, e dunque, perché non poteva avere anche lei il diritto
di farlo? In fin dei conti anche lei era un essere umano.
O forse no.
Non lo sapeva più.
Di colpo una serie di immagini simili a vecchie fotografie sfocate le sfilò
davanti agli occhi. Non resisteva più. Non riusciva a crederci. Era stata lei.
Lo aveva fatto lei. Era un’assassina.
Non sapeva perché lo aveva fatto,
o per meglio dire, non era capace di capire dove avesse trovato l’impulso per
compiere quel passo che, ne era certa, preparava da
almeno un anno. Da quando aveva scoperto che erano costretti
a scappare come dei ricercati. Li stavano inseguendo, e li stavano
inseguendo per ucciderli. Ed era tutta colpa di sua
madre.
Tutta colpa di
quella donna disgustosa, e dell’uomo stupido che l’aveva sposata.
Almeno fossi stata figlia di altri genitori, pensò la bimba, forse a quest’ora starei
bene.
Si scaraventò nel primo angolo che
le capitò a tiro, riparata da una colonna.
La neve le cadeva addosso implacabile, e ben presto si sarebbe scatenata una
tormenta. Alla bambina non importava se sarebbe morta di freddo, o di fame, o
se qualcuno fosse venuto a sapere di ciò che aveva fatto e l’avesse punita. Per
esempio condannandola ad Azkaban. Ne sarebbe stata quasi felice.
Le sembrava che le fauci del suo
futuro fossero terribili assassine anche in confronto alla prigione di cui
aveva sentito tanto parlare. Non era possibile che esistesse un inferno
peggiore di quello. Non era possibile.
Le lacrime sembravano gocce di
fuoco e seccavano sulla pelle insieme al sangue. La bambina sentì che era tutto
finito, che non c’era alcuna speranza. La luna si vedeva a
mala pena in cielo, era piena. Faceva capolino ogni tanto dalle nuvole,
insieme con le stelle, ma durava ben poco. Il cielo era sommerso da una coltre
di nubi cariche di tempesta.
Il freddo salì. La notte si
estingueva sempre più rapidamente.
All’improvviso, tutte le luci si
spensero, e il cielo diventò nero come petrolio, fin quando Diagon Alley non
sembrò completamente annaffiata dall’inchiostro nero. Qualche
grido in lontananza e poi un vociare confuso che mano a mano si affievoliva,
come la fiamma di una candela. Ogni cosa stava spegnendosi.
No, non poteva esistere niente di
peggiore. Se lo sentiva.
Mentre stava lì a piangere,
cercando invano di pulire il sangue che le gocciolava sul viso, sentiva
distintamente che la felicità non esisteva, e si chiese se ne
avesse mai provata in vita sua. Poi capì. Era la morte, ed era venuta a
prenderla; non chiedeva altro. Finalmente si sarebbe sbarazzata di quella parte
di lei che piena di rimorso.
Passarono minuti interminabili. D’un tratto una specie di coltellata le spezzò il cranio in
due: guardando nel suo cervello, ricordò della lama che affondava, del sangue
che schizzava in tutte direzioni, e delle urla… le urla laceranti che colmavano
quella notte mortale…
La fuga precipitosa. La neve, il
freddo, le lacrime.
Alzò la testa, convinta che ci fosse qualcosa di spaventoso davanti a lei: lo sentiva
distintamente, era sicura che, mentre piangeva con la testa bassa, qualcosa si
fosse parato lì di fronte. Si aspettava chissà cosa. Invece, vide solo una
specie di mantello.
Uno straccio
grosso e nero, che aleggiava a pochi centimetri dal tappeto di neve. Sembrava del tutto incurante del
freddo. Il suo tabarro era agitato dal vento, ma fluttuava nell’aria molto più lentamente rispetto alla portata delle raffiche.
Emanava un odore disgustoso di cane insepolto, di terra marcia, come di
qualcosa in putrefazione. Non si vedeva il viso, se ne aveva,
soltanto delle dita disumane, ricoperte di croste, spuntavano a mala pena dal
mantello scuro. Emetteva lunghi e rumorosi sospiri rochi, come di un vecchio in
punto di morte. E poi, il silenzio che giaceva intorno
a sé fu interrotto da un rumore metallico. La bimba si sentì soffocare, come se
qualcosa le avesse appena estirpato l’aria dai
polmoni.
E poi, l’essere col mantello le si avvicinò.
La bambina aveva gli occhi
completamente spalancati, terrorizzati, ed era impallidita di colpo ancora più
di prima. Non riusciva a fermare la tosse, ma allo stesso tempo era incapace di
staccare lo sguardo dalla creatura.
Ormai era vicinissima. Vide le
dita scheletriche abbassare il cappuccio… e poi non fu più in grado di guardare
in quella direzione. Dovette chiudere gli occhi. Si accorse a mala pena di venire sollevata, e le parve che tutte le sue ossa di
fermassero: non era più in grado di muoversi. Dita scheletriche e ruvide come
ghiaia le si serrarono intorno alla gola.
Qualcosa improvvisamente scattò
nel suo cervello, come un pensiero che spiccava sugli altri. La bimba non fece
in tempo a rendersi conto di che pensiero fosse, che quello
era già schizzato via, ed era sparito per sempre. In pochi secondi si ritrovò a
terra, con la netta sensazione di essere appena stata
morsa da una bestia feroce. Aveva l’impressione che dei denti le si fossero conficcati nella pelle, ma ormai non le
interessava.
Dove si trovava? E in fondo, che le importava di saperlo?
Il suo corpo si rovesciò a terra,
più magro e fragile che mai. Si sentiva sorda e muta, ma non ancora cieca:
macchie di colore brillavano nei suoi occhi, e solo ogni
tanto riusciva a distinguere le immagini intorno a sé. Ma
era come se la sua testa si rifiutasse di analizzarle. Come
se non le importasse più di niente, qualsiasi cosa succedesse, in qualunque
posto si trovasse. Anche se fosse morta, dopo che
aveva ucciso proprio per non morire.
Ne era sicura: non aveva più
un’anima. Soltanto ricordi spaventosi fluttuavano nella sua mente facendola
tremare di disperazione e di collera, da capo a piedi. E
mentre era lì, accasciata nella neve sporca, vide una specie di barlume bianco
poco lontano. Poi, uno sprizzo di luce d’argento le invase il campo visivo, ma
non si sforzò di strizzare le palpebre, così per qualche minuto rimase quasi
accecata.
Sapeva solo che, quando qualcosa
l’aveva di nuovo sollevata, davanti a lei c’era un vecchio essere umano e il
mantello nero fluttuante che le aveva portato via
l’anima era sparito. Anche la cosa d’argento era
scomparsa, lasciando al suo posto una tenue e piacevole nebbiolina perlacea.
- Mi senti? - disse una voce da
qualche parte nel limbo.
La bambina non rispose. Non
rispose neanche quando la domanda venne ripetuta, due,
tre volte di fila. Era una voce strana, come se provenisse da un barattolo
sigillato. Era distante, e di umano aveva solo qualche
tratto vago.
- Qual è il tuo nome? - disse di nuovo
la voce e due mani la scossero per le spalle.
La bambina balbettò il suo nome
con la voce di un morto.
In qualche minuto il paesaggio
intorno a lei era cambiato. Ora di trovava su qualcosa
di caldo e morbido, forse un letto, e non lontano da lei ardeva un fuoco. Il
crudo inferno là fuori sembrava molto lontano.
Sentiva un parlare concitato che
sembrava provenire fuori da una porta chiusa, e si
accorse di essere sola in una stanza di albergo. Al parlottio nervoso
rispondeva una voce tranquilla che sembrava appartenere un uomo molto vecchio.
- Puoi tenere qui Sara fin quando
non si sarà ripresa? Sono certo che tra pochi giorni
sarà di nuovo in sé. -
- Ma…
andiamo, Albus! - disse la voce agitata. - Un… un Dissennatore! Se l’ha baciata, co… come accidenti speri che possa svegliarsi!
E’ una bambina! -
- Non preoccuparti, - rispose il
vecchio - Qualcosa mi dice che sono arrivato giusto in
tempo. Falle bere qualcosa di caldo e poi lasciala dormire, e vedrai che sarà
come nuova. E ora vorrai scusarmi, ma devo avvertire
il Ministero della Magia che c’era un Dissennatore fuori controllo qui a Diagon
Alley. Non saranno molto felici di saperlo, temo. -
Poi Sara sentì dei passi e
immaginò che il vecchio se ne fosse andato.
*
La nevicata era esaurita e il sole
splendeva di nuovo allegro.
Sara osservava incuriosita la via
gremita di maghi e di streghe. Le case e i negozi sembravano precipitare sulla
strada lastricata, da quanto vi erano ammassati intorno. C’era un gran vociare
e un andirivieni continuo di ragazzi e ragazze accompagnati dai loro genitori,
e Sara immaginò che fossero tutti futuri studenti
della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts che andavano a Diagon Alley a
rifornirsi del necessario. Bastava quel pensiero a farle dimenticare tutto il
resto e a farle venire una gran voglia di scendere e visitare un negozio dopo
l’altro. Ma sapeva di non potere. Era obbligata a
restare nella sua stanza.
Con lo sguardo corse per le strade
fin quando non si accorse che qualcuno era entrato: era un uomo molto vecchio,
con una lunga barba argentea. I suoi occhi la guardavano da dietro un paio di occhiali dalle lenti a mezzaluna, e sembrava avere
un’espressione fin troppo serena. Appena lo vide, Sara cessò di
essere allegra. Era chiaro che aveva intenzione
di parlare con lei, e sapeva anche di cosa: non aveva nessuna voglia di
rievocare gli eventi di tre notti fa. Tornò a girarsi verso la finestra con
fare austero.
Il vecchio si schiarì la voce e le
tese la mano.
- Sono Albus Silente. -
Sara lo squadrò
per un attimo con la coda dell’occhio, poi tornò a fissare ostinatamente
le strade di Diagon Alley dall’alto della sua finestra.
- Devo farti un paio di domande…
Sara, giusto? Spero che la cosa non ti dia troppo
fastidio, ma dopo la notte scorsa tutto il paese è preoccupato. -
- Perché?
- chiese Sara, facendo sentire la sua voce per la prima volta.
Silente tornò serio, ma pur sempre
tranquillo e pacato.
- Ciò che ti ha
aggredita era un Dissennatore, e non è per niente bello che una creatura
simile girovaghi per Diagon Alley… e aggredisca una bambina. -
- Che
cos’è un Dissennatore? -
- Sono le guardie di Azkaban e… bhe, penso non ci sia bisogno di descriverti
ciò che fanno di preciso. -
No, non importa, disse Sara dentro di sé, ho capito benissimo. Le guardie di Azkaban. Che quel Dissennatore
non fosse lì per caso? Forse aveva capito, aveva saputo… ed era lì per
rinchiuderla nella prigione dei maghi, perché si era venuto a sapere in giro
che aveva ucciso i suoi genitori. Una ferita che le faceva ancora male, e
quell’uomo dietro di lei sembrava peggiorarla: cos’era quella gentilezza? Se doveva condannarla a qualcosa, tanto valeva che lo
facesse subito e basta.
- Come ti senti? -
- Voglio uscire
di qui, - disse aspramente Sara - Mi sono rotta. -
- Bhe, - sorrise Silente, - Questo
è un buon segno. -
Sara per la prima volta lo guardò
negli occhi: ma ne era sicura, Silente aveva avuto un
brivido non appena lei gli aveva puntato lo sguardo addosso. Cercò di sforzarsi
per chiudere la sua mente: Silente non doveva sapere la verità, non doveva
sapere che lei aveva ucciso i suoi, altrimenti l’avrebbe portata ad Azkaban.
Ora che aveva visto che esistevano posti come Diagon Alley, non le andava più
di finire i suoi giorni in quel posto orribile, dove era certa che non
esistessero complicazioni nel rinchiudere anche un minorenne.
Non lo seppe mai, ma in quel
momento Silente ebbe la netta sensazione che una porta gli fosse
sbattuta in faccia. Sara poté solo sospettarlo dalla sua espressione
interdetta. Lo fissava torva da sotto l’ombra dei capelli. Aveva la testa
bassa, ma le iridi rosso sangue sembravano vedere
oltre la cortina di ciuffi fulvi. Apparivano da sotto di essi
come due falciate di fuoco su un viso dal colorito di un cadavere.
- Da dove vieni? Dove sono i tuoi genitori? -
- Non ho nessun genitore, -
rispose Sara, più fredda del ghiaccio.
- Oh. - Silente parve quasi
intenerirsi, ma la sua espressione non mutò di molto. Sulla fronte gli era
apparsa una piccola ruga incerta. - Capisco. Mi dispiace di avertelo chiesto.
Come sei finita qui? -
- Non lo so. - mentì Sara - Non me
lo ricordo. -
Era una bugia a metà. I suoi
ricordi erano così vaghi che faceva fatica a ricongiungerli, perciò non era
molto sicura di aver davvero preso un autobus impazzito chiamato Nottetempo.
Poi, non sapeva come, aveva desiderato con tutta sé stessa che i conducenti la
scambiassero per una donna adulta e del tutto normale… e i due si erano
comportati esattamente come Sara aveva sperato. Non riusciva a spiegarsi come
fosse successo.
- Sì che lo sai. -
- No, non lo so. - ripeté Sara.
- Un’ultima domanda. - Silente si interruppe, quasi che volesse attendere un cenno da parte
della bambina che lo esortasse a parlare. Sara rispose alzando le sopracciglia
sottili.
- Ti senti… strana? Voglio dire…
infinitamente triste? Come se ti mancasse qualche ricordo… come se tu non
potessi essere felice mai più? -
Sara fissò Silente, stupita. Non
si aspettava una domanda del genere, o meglio, non si aspettava che il vecchio
indovinasse esattamente ciò che aveva provato quando il Dissennatore le si era avvicinato. Ora, comunque,
si sentiva in modo molto diverso: era ancora scombussolata, ma non del tutto
depressa. Riusciva a tratti ad uscire dal baratro che le si
stendeva davanti, ma a volte aveva l’impressione che la sua vita sarebbe
stata nient’altro che un tormento, che mai più avrebbe visto un sorriso
illuminare il suo futuro.
- Un po’. -
- Cioè…
non troppo? -
- Mh-m. -
annuì rapidamente Sara, e stavolta stava dicendo la verità.
- Molto bene. - Silente fece un
cenno con la testa, e sorrise di nuovo, assumendo di colpo un tono di voce più
vivace. - Aspettami qui. Ci metterò solo un minuto. -
Sara guardò con aria sarcastica il
vecchio che usciva dalla porta, e la richiudeva alle spalle. Chissà quanti
altri giorni di prigionia le sarebbero toccati…
- Com’è andata, Albus? - chiese
una quasi giovane Minerva McGranitt, con espressione agitata. Sembrava che
stesse aspettando Silente da ore e ore, mentre invece era lì da appena cinque
minuti.
- Stupefacente, - rispose Silente,
lasciando la McGranitt ancora più perplessa.
- P… prego? - disse, aggiustandosi
gli occhiali.
- Sarò un Legilimens, - sorrise
Silente con espressione soddisfatta - Ma non sono riuscito
a leggere proprio niente in questa bambina, Minerva, anzi… posso assicurarti
che è stata lei a leggere me. -
Stavolta la McGranitt si aggiustò
il capello. - Possibile? -
- Oh, certo! Riconosco
quegli occhi, non c’è alcun dubbio. Pensavo che non avrei mai più visto
nessun altro membro di quella famiglia, ma a quanto pare
mi stavo sbagliando. Eh sì, la bocca, le mani, il modo di fare… quella è una
Gray, Minerva. Ne sono certo. - A quel punto la McGranitt si sentì mancare.
Tornò a fissare il Preside di Hogwarts con occhi ancora più scombussolati di
prima, evidentemente chiedendosi come fosse possibile una cosa del genere. Ma vedendo lo sguardo sicuro che Silente le rimandava indietro, decise
di non fare altre domande. - E’ innocua, anche se un po’… come dire?…
gelida. Credo di sapere come abbia fatto ad arrivare fin qui,
ma avrò bisogno di farmelo dire da lei di persona, se voglio una certezza.
Per il momento, visto che non ha un posto dove andare, dovrebbe venire con noi
a Hogwarts, direi. -
- Al… m… ma… Professor Silente! -
si stizzì la McGranitt, sforzandosi di recuperare un minimo di sicurezza, e
facendosi improvvisamente di pietra. - A Hogwarts? Ma
lei è… E’… come posso dire… piccola. Troppo piccola. Non sarebbe meglio
trovarle una casa e una famiglia con cui stare? -
- E
mettere a repentaglio una famiglia qualunque di persone oneste? Oh no, Minerva,
temo proprio che dovremmo tenerla con noi… Demetrius non oserà toccarla se si trova
a Hogwarts, e ritengo necessario che, prima che raggiunga
l’età giusta, cominci a portarsi avanti col lavoro. Qualche incantesimo di base
e qualcosa per difendersi, sarà più che sufficiente. Ce la farà. Poi
frequenterà la scuola come tutti gli altri e, mi dispiace dirlo… non dovrà mai
muoversi dal castello. -
- Demetrius la sta cercando, vero?
-
- Temo di sì. - disse Silente,
annuendo con sguardo mesto. - Per questo dobbiamo insegnarle qualcosa in
anticipo. -
- E’ sicuro che sia la cosa giusta
da fare? Crescerà, Albus, come tutti vorrà essere un
po’ più indipendente… non potremo tenerla laggiù per sempre! Non
è che… -
- Colui che
vede una vittima… ma non l’aiuta, - la interruppe Silente, - E’ un infame. -
Sara aveva sentito tutto, con l’orecchio
poggiato alla porta, nonostante i due parlassero con toni piuttosto sommessi.
Così non si stupì quando il Preside le promise che a Hogwarts niente le avrebbe
fatto del male e nessun Dissennatore avrebbe osato
avvicinarsi. Non riusciva ad immaginarsi quante cose sapesse
Silente sulla sua famiglia, né come potesse averle scoperte, ma per il momento
non le interessava. Si accontentava solo di essere finalmente fuori per le vie
di Diagon Alley, in mezzo a tutte quelle vetrine, a tutti quei negozi pieni zeppi
di cose che non si sarebbe mai immaginata di vedere…
Tutto ciò non poteva neanche
lontanamente competere con il mondo Babbano al quale sarebbe stata condannata. Nonostante tutti si voltassero quando vedessero la
Professoressa McGranitt accompagnarla per i negozi, si sentiva allegra. Forse,
per la prima volta, avrebbe potuto essere felice.
Qualcosa catturò la sua
attenzione, mentre camminavano per la strada principale: una strada in discesa
che, schiacciata fra due negozi, si vedeva a mala pena. Era immersa nell’ombra,
nonostante l’ora del pomeriggio, ed era certa che da quelle parti fosse pieno
di maghi e streghe strani - molto più del normale. Qualcuno reggeva strano strumenti in mano, qualcun altro parlava sottovoce
additando i passanti e sogghignando.
- Che
cosa c’è laggiù, McGranitt? -
- Professoressa McGranitt, -
corresse Minerva rigidamente, cercando di ignorare l’incertezza che il piano di
Silente le aveva trasmesso - Laggiù non c’è niente di interessante.
O per meglio dire… sono cose molto interessanti per
chiunque, ma è meglio tenersi alla larga. -
- Perché?
Cosa sono? - insistette Sara.
La professoressa finse di
ignorarla.
- Che
cosa c’è laggiù? - ripeté Sara, e la professoressa commise l’errore di
guardarla negli occhi per più di un secondo. Non poté resistere: sentiva il
bisogno di dirglielo..
- Laggiù vendono strumenti per la
Magia Oscura, eccetera. - rispose con un brivido nella voce - E’ pieno di tipi
pericolosi... insomma, strana gente… ed è meglio non rivolgere loro la parole o entrare nei negozi. Sul serio. Tieniti alla
larga da Notturn Alley, e vedrai che tornerai al Paiolo Magico viva e vegeta. -
Poi si zittì con espressione
sconvolta, come se avesse appena detto qualcosa di compromettente, contro la
sua volontà. Sara continuò a fissare Notturn Alley, voltandosi continuamente
indietro, fin quando non fu costretta a guardare in avanti per evitare di
andare a sbattere contro qualcuno.
- Beh. - disse la McGranitt
fermandosi di fronte a un piccolo negozio dell’insegna
consulta e le finestre impolverate. - E’ ora di comprarti una bacchetta. Non
puoi fare alcun incantesimo senza quella. Olivander è
il miglior fabbricante di bacchette che ci sia in
tutta l’Inghilterra, e sicuramente anche più in là. -
Sara fissò con scarso interesse la
vecchia bottega di Olivander. La sua mente era ancora
a vagare nella stradina ombrosa.
- Coraggio, entra, - la esortò la
professoressa, vedendo che si era come impalata. Sara si riscosse, spinse la
porta ed entrò.
Sembrava una specie di negozio di
scarpe vecchio stile. Sugli scaffali si ammonticchiavano decine e decine di
vecchie scatole sottoli, e Sara non riuscì neanche a
immaginarsi quante bacchette doveva contenere quel negozio.
Vedendo che non arrivava nessuno,
dopo circa un quarto d’ora la McGranitt prese a schiarirsi la voce, sempre più
forte e con stizza, fin quando una scala appesa agli scaffali non si mosse
rivelando un vecchio di statura piuttosto bassa e dalla schiena ingobbita. Sara
continuava a guardare altrove, nonostante sapesse che non poteva fare
incantesimi senza bacchetta; in quel momento le interessava ben altro.
- Ah, sì… - riflettè Olivander a
voce alta. - Sì. Silente mi ha avvisato del tuo arrivo… non immaginavo che ti avrei vista così presto… bhe, non immaginavo neanche che ti
avrei vista, in verità. È rischioso sottoporsi alla prova della bacchetta così
presto… -
Prova?,
pensò Sara. Non era pronta. Non era senz’altro pronta
a nessun tipo di prova…
- Lo sappiamo, - disse la
McGranitt. - ma il Professor Silente ritiene… -
- Oh, certo. Bene, ecco qua. -
tirò giù da uno scaffale una scatola e la aprì sotto gli occhi di Sara - Ebano.
Dodici pollici. Lingua di serpente. Scilla… ricordo che la vendetti anche a
Scilla, sai? Prendila e agitala… vediamo come funziona. -
Sara, con la mente assorta, fece come il venditore le aveva detto. Si aspettava di
provare una sensazione strana, o almeno un fremito, invece
impugnare una bacchetta fu esattamente come prendere in mano un normale pezzo
di legno. Agitò la bacchetta con un movimento fluido, come aveva visto fare a
suo padre, e questo parve sorprendere sia Olivander sia la McGranitt. L’unico risultato che ottenne fu quasi rovesciare l’armadio che
stava di fronte a lei. Diverse scatole caddero a terra.
- Oh, no, non ci siamo, non
proprio… - bofonchiò Olivander, tornando a rovistare fra la sua merce. - Allora
che ne dici di questa? Abete e piuma caudale di pavone. Tuo nonno aveva proprio
questa, sì… fui io a vendergliela, un modello difficile… -
Sara ripeté il movimento del
braccio che aveva fatto prima, e stavolta un raggio nerastro mancò per un pelo
Olivander è spaccò un vaso di fiori marciti davanti a
lei. Sara notò con stupore che, pochi secondi dopo, il vaso era già tornato in
piedi con acqua e fiori al suo interno, perfettamente ricostruito.
- No, neanche questa… ah, ma la
troveremo, stai tranquilla… dunque… sì… - Olivander
sembrava riflettere per conto suo, ma a voce alta. Si inabissò
nel retro del negozio. Sara pensava ancora a tutt’altro che alle bacchette, e
la McGranitt si guardava intorno apparentemente molto interessata alle pareti.
Dopo poco il vecchio fece ritorno con una dozzina di scatole e scatolette
sottobraccio, e le riversò tutte sulla vecchia scrivania tarlata. Sara sgranò
appena gli occhi, perché fino a quel giorno aveva sempre creduto che le
bacchette fossero tutte uguali. - Ciliegio! Pelo di grifone! Quindici pollici! -
Sara prese in mano la bacchetta, non molto convinta, e di nuovo non avvertì
alcuna sensazione fuori dal normale. Agitò la
bacchetta e stavolta il povero vecchio fu centrato in pieno e ribaltato
all’indietro. La McGranitt si voltò, sbalordita e inquieta, con occhi
spalancati.
- Emh… ops.
- Sara fu colta da un buffo rossore sul naso, stringendosi nelle spalle, ma
Olivander si rialzò con quel suo portamento sbrigativo, come se niente fosse
stato.
- E
allora… - aprì fulmineamente un’altra scatola - Legno di noce e cuore di drago…
un Dorsorugoso di Norvegia. - Sara fece un tentativo, tenendo la mira ben
lontana dal venditore: distrusse i vetri di una vecchia piccola finestra.
Olivander non si spazientiva, anzi, era sempre più
esaltato. - Oh, beh, una cliente difficile… e allora prova questo: Rovere e
piuma d’Ippogrifo, una rarità. -
Non fu l’unica “rarità” che Sara
dovette provare; tanti altri tentativi fallirono, tuttavia stava cominciando a
divertirsi. Aveva mandato in frantumi quasi tutto il
negozio e la McGranitt dava segni di addormentarsi da un momento all’altro.
Olivander era di tutt’altro avviso: non gli capitava molto spesso un cliente
che dovesse provare una trentina di bacchette senza ancora trovare la sua.
- Oh… bene! - ansò, dopo essere
spuntato faticosamente fuori da un mucchio di scatole
che gli era piombato addosso dopo l’ultima accidentale distruzione. - Non ho
dubbi. Non ho dubbi! Non può essere che… - corse speditamente verso il retro,
seguito da un gran rumore di scartamenti. Ne uscì con una scatola in pugno che
sembrava la più recente di tutte: era ancora lucida e profumava intensamente di
legno appena tirato a lucido e lisciato. Sembrava di una bacchetta fabbricata
da come minimo una mezz’ora: Olivander si era portato dietro una gran dose di
trucioli e rimasugli di piallatura, quando era andato a prenderla. - L’ho
appena terminata. È un legno molto, molto particolare. Lei lo conoscerà,
Minerva… - la professoressa gli lanciò uno sguardo interrogativo - Non so come mai… ma l’hanno piantato a Hogwarts giusto
quest’estate, e Silente è stato così gentile da mandarmene un campione. È stato
difficile lavorarlo… Platano Picchiatore! L’unico legno che non galleggia! E poi… Guarda che
caratterino… - e mostrò le mani piene di lividi e
cerotti. Sara rabbrividì: come si faceva ad impugnare una bacchetta fatta con
quel legno? Pregò ardentemente che non fosse la sua, o avrebbe dovuto
prepararsi un guantone da baseball, ma Olivander parve leggerle nel pensiero,
indovinando il suo timore, e disse: - Soltanto il legittimo proprietario di
questa bacchetta può calmare il legno del Platano Picchiatore, e bada, solo e
soltanto lui. - Sara deglutì. Improvvisamente, il divertimento le era evaporato
di dosso. - Certo… questo è un esemplare molto giovane. Perciò
non ha ancora la forza di un Picchiatore millenario, ma posso assicurarti che
non è dei più amichevoli. Se ora, Minerva, lei mi facesse
la cortesia… di scansarsi… - La McGranitt non se lo fece ripetere e andò a
rifugiarsi verso un vecchio scrittoio usato anch’esso per stipare le numerose
bacchette del negozio.
Olivander iniziò a sfilare le
corde e le catene che tenevano ben chiusa la tremolante scatola… e in quello
stesso istante il tintinnio limpido del campanello sospeso sopra la porta
segnalò che qualcuno era entrato. Voltandosi, Sara vide entrare un ragazzo che
doveva avere due o tre anni più di lei. Aveva capelli neri
piuttosto lunghi, e numerosi ciuffi gli ricadevano sugli occhi. Non si
salutarono.
Il ragazzo era accompagnato da una
vecchia donna dall’aspetto arcigno, vagamente rassomigliante a quello di un
mastino. Vestiva di tonalità scure tali che la facevano rassomigliare a una composizione in natura morta. Il viso era pieno di
rughe e i capelli grigio scuri erano raccolti in una crocchia dietro la nuca.
Neanche lei salutò Sara, anzi la squadrò con sguardo così torvo da farle
drizzare i capelli.
- Aah… chi si vede. Un altro
Black, eh? Bhe, scansatevi… devo far provare… una bacchetta… a questa… signor…ina…!... - annaspò, togliendo
l’ultima catena e trattenendo il coperchio del contenitore fin quando la porta
non fu completamente chiusa.
In un attimo qualcosa di simile a un lampo schizzò fuori dalla scatola, e cominciò a
distruggere ogni cosa che gli capitasse sotto tiro. Sara ebbe un moto di
terrore quando si rese conto che era quella la bacchetta.
Continuò a roteare e saltellare
all’impazzata per tutta la bottega, scatenando un pandemonio. Sfilò di testa il
cappello alla professoressa McGranitt, facendolo ricadere molto più lontano, e
rischiò quasi di accecare la vecchia che accompagnava il ragazzo. Poi Sara,
vedendo che la bacchetta impazzita puntava dritta contro
di lei, tese la mano nel tentativo - che lei stessa trovava folle - di
fermarla. Non riuscì a crederci quando la bacchetta cessò la sua opera di
distruzione e si posò docilmente nella sua mano.
Stavolta Sara si sentì strana.
Invasa da uno strano calore che le sembrava quasi familiare. La bacchetta,
attimo dopo attimo, si faceva sempre più calma, fin quando non si fermò del
tutto, sotto gli sguardi sbigottiti degli altri. Solo
Olivander, quando riemerse dalla scrivania dietro la quale si era nascosto,
batté le mani come a seguito di uno spettacolo particolarmente entusiasmante.
- Splendido! Davvero splendido! - esclamò - Ma stai attenta che nessuno te la
prenda, quando sarai a scuola: non vorrei che ci rimettesse un occhio. -
La Professoressa McGranitt si
fermò a parlare con Olivander in tono sommesso, generando un brusio
incomprensibile. Nel frattempo, il ragazzo si avvicinò a Sara che non poté fare
a meno di sentirsi imbarazzata, e di nuovo comparve quel bizzarro rossore sul
naso. In effetti non aveva mai frequentato neanche una
scuola Babbana e non aveva mai rivolto la parola a nessun essere umano che non
fossero stati i suoi genitori.
Prima che li uccidesse.
- Tu quest’anno vai a Hogwarts,
vero? -
- Emh… beh… - Sara non sapeva che
genere di figura avrebbe fatto dicendogli che Silente le aveva consentito di vivere a Hogwarts. Non voleva passare come la
povera orfanella accolta sotto il tetto di qualcuno, e soprattutto alle spese
di qualcuno. Le dava una sensazione di dipendenza che non riusciva a
sopportare, specie se si trattava di parlarne con qualcuno che non conosceva.
Fortunatamente l’arrivo della
vecchia con la faccia da mastino interruppe il suo balbettare prima che fosse
costretta a rispondere. Come se la McGranitt avesse capito che quella donna non
era delle più affabili, si allontanò dal banco ed esortò Sara a sbrigarsi, dato
che dovevano comprare ancora un sacco di cose.
- E lei, -
ringhiò la vecchia, - E’ sua madre? Sua nonna? -
- Oh, no, - rispose con indifferenza
la McGranitt - Insegno a Hogwarts. Sono la professoressa di Trasfigurazione. -
La vecchia inarcò le sopracciglia.
Sara desiderò disperatamente che la McGranitt non lo avesse mai detto, e
intanto il rossore le si estendeva alle guance magre.
- Oh. E… come si chiama? -
- Minerva McGranitt. -
- McGranitt. - ripeté la vecchia
con le sopracciglia ancora più arcuate. La professoressa annuì. - E posso
chiederle… a quale discendenza… -
- Mamma…! - protestò il ragazzo a
voce alta.
La professoressa alzò leggermente
le spalle con aria di sufficienza. Ma mentre usciva,
non poté fare a meno di notare che la vecchia aveva puntato i suoi occhi
infossati su Sara, e di questo anche suo figlio si era accorto.
Sara si fermò e ricambiò lo sguardo:
furono necessari solo due secondi prima che la donna
fosse scossa da un fremito allarmante che la indusse a distogliere lo sguardo.
Non riusciva a fissare troppo a lungo quegli occhi.
- E tu… -
esordì - posso sapere come ti chiami? -
- Sara. - rispose la bambina. La
donna schioccò le labbra.
- Non m’interessa il tuo nome. -
ribatté scocciata, mentre la McGranitt dava segni di stizza. - Voglio il
cognome. -
Sara non sapeva se rispondere o
no, ma infine si decise:
- Gray. -
Il ragazzo la scrutava con
curiosità, evitando accuratamente di guardarla negli occhi. Sua madre, invece,
non perdeva la sua espressione bieca, ma sembrava del tutto
dissuasa dal farle altre domande. E la McGranitt, nonostante
in effetti lo sapesse già, ebbe un mezzo mancamento, pur restando eretta
con la mano sulla maniglia dell’uscio.
E Sara sapeva il perché.
- Molto bene, -
sibilò la vecchia - Spero che siano state adottate delle misure particolari per
farti frequentare le lezioni con gli altri esseri
umani… -
Sara di colpo abbassò gli occhi
sul pavimento. La McGranitt intervenne.
- Non frequenterà il primo anno. -
rispose con immensa freddezza.
Perché accidenti lo aveva detto? Non
poteva rimanere zitta? La vecchia donna fissò prima Sara e poi la McGranitt con
rinnovata perfidia. - E allora… perché una bacchetta così presto?
E come mai una professoressa di Hogwarts ad
accompagnarla? Oh, non me lo dica, non me lo dica… i Gray si
sono di nuovo sbranati fra
loro? - e scoppiò in una risata roca. - Allora questa
dev’essere una piccola orfanella… - e rise più forte.
Sara strinse i pugni, conficcando
con violenza le lunghe unghie nella carne. Che cosa ne
sapeva lei? Quella vecchia stupida…
Il ragazzo sembrò accorgersi della
sua strana reazione e tirò una piccola pedata intimidatoria negli stinchi a sua
madre: la vecchia gli rispose assestandogli uno schiaffo decisamente
più forte.
- L’ospedale San Mungo per Ferite Magiche non è lontano da qui, - sillabò la
professoressa - … e curano anche l’insolenza.
- Girò stizzosamente i tacchi e Sara giurò di avere sentito un autentico
ruggito provenire dalla vecchia. - Ragazzo, più forti, quelle pedate. - concluse la McGranitt prima di spingere la bambina fuori e
richiudersi violentemente la porta alle spalle.
Lo Smistamento. Era la prima volta che Sara assisteva a
quella cerimonia, e non ne era sorpresa, tuttavia. La
cosa che l’aveva interdetta di più era l’aspetto del castello che, pur non
avendo sempre un’aria accogliente, era ben diverso da come lo avevano dipinto i
suoi genitori. Cioè come un posto orribile,
inquietante e grottesco. Era sempre stata quella la descrizione che Vincent
Gray aveva elargito riguardo a Hogwarts, ma Sara non ci aveva mai creduto, un
po’ perché il desiderio di frequentarla era superiore a tutto, un po’ perché
suo padre non era molto credibile, aggiungendo particolari sempre più
inquietanti di volta in volta.
Sara si sentiva
un fantasma, uno di quelli che fluttuavano per la Sala Grande (e nessuno di
loro gridava e agitava catene straziando i timpani come diceva suo padre):
Nessuno badava a lei, e d’altro canto, non era possibile che si accorgessero
della sua presenza: era appollaiata sul bordo di una specie di finestra aperta
sul punto più alto di una parete. Se non avesse saputo che si trattava di un’illusione,
avrebbe creduto di essere vicinissima al cielo
stellato, abbastanza vicina per toccare una nuvola.
La “finestra” faceva parte di una
specie di mansarda che girava tutto intorno alla Sala Grande, dietro le pareti.
Era praticamente invisibile, e Sara l’aveva raggiunta
grazie ad un passaggio segreto dietro a un’armatura che aveva scoperto per
caso, andandoci a sbattere contro. Sollevando l’elmo c’era una leva che apriva
la strada verso un angusto corridoio i cui vecchi scalini erano affogati nella
polvere di anni e anni.
C’era una gran puzza di vecchiume,
infatti, ma Sara si rese conto era un luogo molto comodo per stare per i fatti
propri: a giudicare da tutta la polvere e lo sporco che c’era (tra cui numerose
cacche di gufo), la grossa stanza sospesa era in disuso da
tempo. Sara decise che quella sarebbe diventata ufficialmente “la sua
soffitta”.
Tornò a guardare in basso, verso
la Sala Grande, e nonostante fosse molto in alto rispetto ad essa,
scoprì di non avere il minimo senso di vertigine. C’erano quattro tavoli
apparecchiati e lunghissimi, e davanti a essi un altro
tavolo di identica lunghezza, girato però in orizzontale rispetto agli altri.
Nei quattro tavoli vicini stavano gli studenti delle quattro case, mentre in
quello che li dominava sedevano i professori. C’era un gran vociare. Un gruppo di atterriti ed emozionati studenti del primo anno si
accalcava davanti alla professoressa McGranitt. I novizi non facevano che
indicare a destra e manca cose che trovavano
assolutamente incredibili, fin quando la McGranitt non si schiarì la voce
inducendo, quasi magicamente, al silenzio.
- Adesso sarete sottoposti alla
prova del Cappello Parlante. Chiamerò i vostri cognomi in ordine alfabetico e
voi vi sederete su questo sgabello. - un brusio concitato si levò dalla frotta
di matricole, e la McGranitt dovette schiarirsi di nuovo la voce per ottenere
attenzione. - Il Cappello Parlante griderà il nome della vostra Casa e voi
andrete a sedervi al tavolo corrispondente. E’ chiaro? -
Un “sì” alquanto confuso gorgogliò
dal gruppo del primo anno.
Sara emise uno sbuffo spazientito
quando il Cappello Parlante cominciò a cantare delle strofe di benvenuto. Non
le ascoltò neanche un po’: aspettava con impazienza che iniziasse il vero e
proprio Smistamento, perché sapeva che fra un paio d’anni sarebbe stato il suo
turno.
Finalmente, la canzone cessò e la
McGranitt cominciò a chiamare in ordine alfabetico cognomi e nomi degli
studenti del primo anno.
- Black, Sirius! - disse d’un tratto, e Sara
si voltò. Vide avanzare verso lo sgabello, affatto barcollante
come tutti quelli che erano venuti prima di lui, lo stesso ragazzo che
aveva incontrato da Olivander assieme al vecchio mastino. Il Cappello Parlante
non ebbe quasi bisogno di essergli appoggiato in testa: gridò immediatamente
“GRIFONDORO!”. Dal tavolo dalle decorazioni rosse e oro esplose un sonoro
applauso.
Lo stesso successe com “Lupin, Remus!” e “Potter, James!”. Al turno di Peter Minus, che li seguì al tavolo dei
Grifondoro, il Cappello ebbe molte più incertezze, ma Sara non riuscì a sentire
quello che veniva detto prima dell’annuncio della Casa.
Con un Corvonero, “Vandom, Thomas!”, la lista si chiuse e tutti
gli studenti avevano ormai preso posto ai loro tavoli.
Sara aveva del tutto distolto
l’attenzione, una volta appurato che la prova del Cappello Parlante non era
nient’altro che un farsi leggere la mente da un vecchio copricapo. Niente a che vedere con l’idea che si era fatta grazie a suo padre,
ovvero che il Cappello addentasse lo studente con lunghe fauci facendogli
sanguinare la testa e strappandogli i capelli. Ma quando Silente esordì
con il suo “benvenuti a un nuovo anno ad Hogwarts”,
Sara tornò attenta. Era proprio curiosa di sapere che cosa avrebbe detto
Silente come discorso di benvenuto; solo dopo scoprì che avrebbe fatto meglio a
non sentire.
- Prima di iniziare il banchetto, -
esordì Silente, - non debbo darvi che qualche
avvertimento. Come prima cosa, è assolutamente vietato l’ingresso alla Foresta
Proibita, a tutti gli studenti. Come seconda cosa, è proibito anche l’accesso
al villaggio di Hogsmeade agli studenti dal terzo anno in su
che non abbiano ottenuto il permesso… quindi anche ai più giovani. E per
ultimo, un avvertimento che vi risulterà senz’altro
insolito… e cioè che quest’anno noterete una cosa… bizzarra. Hogwarts non ha
mai ospitato ragazzi e ragazze che non siano studenti,
ma ci sono dei momenti in cui si ritiene necessario tenerli al sicuro. Non che
vi voglia intimorire… ma ci sono dei pericoli fuori di
qui, che aspettano solo di concretizzarsi. Vorrei diffidarvi quindi dallo scatenare conflitti o disagi, verso chiunque. Sono
questi i momenti in cui è necessario dare il meglio di sé, per esempio restando
uniti. - il discorso fece ammutolire tutta la Sala, più di quanto non fosse già
silenziosa. Perfino i professori erano pietrificati, e non spiccavano parola.
Probabilmente nessuno degli studenti aveva capito a cosa si riferiva Silente,
ma Sara distolse lo sguardo bruscamente, sentendosi avvampare nel profondo:
stava parlando di lei.
- E ora
voglio presentarvi, - continuò Silente con uno sguardo e un sorriso verso
l’alto. Sara rabbrividì: rivolto verso di lei. - una persona sicuramente molto
particolare, che spero non avrete problemi ad
accogliere, e che vi sta guardando da quando siete arrivati qua. - tutti gli
studenti girarono intorno gli sguardi, agitati,
domandandosi dove fosse la persona che li stava osservando di nascosto da
quando avevano messo piede in quella sala. Sara notò con orrore che qualcuno
aveva gridato “lassù!”, e così si
ritrasse di colpo, rotolando sul pavimento dove nessun poteva vederla. Si pentì
di non essere rimasta al suo posto, magari sfoderando un cipiglio
imperturbabile, che avrebbe senz’altro impedito a qualche risatina di arrivare
crudelmente fino ai suoi timpani.
Silente rimase zitto a lungo,
molto a lungo. E poi diede via al banchetto.
.
1 settembre 1973, SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Se Sara aveva creduto con tutta sé
stessa che non ci fosse niente di peggio del Bacio di un Dissennatore, ora la
sua testa le diceva che si era sbagliata.
Due anni erano stati, due anni
infernali. Due anni che avrebbe voluto cancellare, e lo aveva voluto con tutta
sé stessa. Ma ogni giorno, ogni mese, aveva constatato
che non poteva. Non poteva vivere in un mondo diverso o cambiare sé stessa,
poteva soltanto sopportare, sopportarne di ogni tipo e
soffrire ancora. Lei, la povera orfanella. La cocca di Silente. Se soltanto avesse potuto spiegare… se soltanto avesse potuto
gridare in faccia a tutti che non lo aveva scelto lei. che era stata lei ad ammazzare i suoi genitori, che avrebbe
voluto marcire ad Azkaban per il resto dei suoi giorni…
Avrebbe potuto farlo, ma non era stato così. Ormai era considerata una pazza, e chi
l’avrebbe ascoltata? E comunque, c’era qualcosa dentro
di sé che le diceva che non doveva farlo. Una parte di sé era convinta di
meritarsi il riposo, magari eterno, e un’altra parte diceva il contrario: aveva
ucciso due persone del suo stesso sangue, con la sola colpa di
averla fatta nascere. Avrebbe meritato una pena ben peggiore di due anni
a Hogwarts al centro del mirino di chiunque.
E ora era arrivato il momento di
iniziare la scuola. Non c’era prospettiva che la uccidesse
più di quella. Quando non frequentava le lezioni,
almeno, poteva nascondersi quando non le andava di condividere la stessa aria
di quella gente disgustosa. Ma ora, avrebbe dovuto
sopportarli sempre, ovunque, in qualsiasi momento.
Scherzi crudeli, risatine e
sussurri al suo passaggio, battute mordaci, pettegolezzi orrendi, e il resto di
una serie infinita di torture. Non c’erra nient’altro per lei finché fosse rimasta a Hogwarts.
Che colpa ne aveva
se Silente non faceva che ricordare a tutti di trattarla bene, ogni volta che
ne aveva l’occasione? Che colpa ne aveva se era nata
malata, se sveniva di tanto in tanto, se sputava sangue, se non poteva correre
per più di dieci minuti senza restare in infermeria per giorni?
Lei non aveva chiesto neanche
quegli occhi disgustosi. Si guardava allo specchio e pensava che non ci fosse
niente di peggio. Tutti avevano paura di lei come i loro
parenti avevano avuto paura della sua famiglia. Era forse per causa sua
che era nata sotto il loro cognome? Non poteva farci
niente.
Era consapevole che poteva
“illudere” le persone semplicemente volendolo. Sapeva di poter leggere i sogni,
poteva crearli, poteva cancellarli e poteva modificarli. Era in grado di fare
qualsiasi cosa col cervello umano. Ma il potere che
mai avrebbe desiderato e che era costretta a trascinarsi dietro ovunque andasse
era la lettura del pensiero. La odiava. La considerava la più grande tortura che avesse mai sopportato. Non era in grado
di impedire che i suoi occhi leggessero i pensieri di qualcun altro, erano due
anni che ci provava, ma non ci era mai riuscita. E così, doveva sopportare non solo ciò che poteva sentire e
vedere… ma anche ciò che cercavano di tenerle nascosto.
E solo lei poteva farlo. L’aveva
detto anche Silente.
Non c’era nessuno che odiasse di
più di quello stupido vecchio.
Si fingeva suo amico, forse
credendosi d’aiuto… ma come poteva esserlo se l’aveva condannata a tutto ciò?
Non era umano farlo quando si era a conoscenza delle conseguenze... Non era umano neanche sopportarlo. Non
quando si è così giovani… quando di solito la propria vita è innocente e
spensierata.
Sara aveva imparato di potersi
trasformare in un animale, e aveva capito che era un corvo; quasi d’istinto
aveva scelto un corvo al posto di un gufo, quando si era trattato di comprare
un animale… e ora capiva che il legame non era stato una semplice conseguenza.
Scoprì leggendo che era un Animagus. E nessuno lo
sapeva. Due cose che le sarebbero state di vantaggio ma, visto quanto odiava sé
stessa, non aveva nessuna intenzione di usare. Non avrebbe
mai usato nessuno dei suoi poteri, appena fosse stata in grado di cancellarli
tutti. Silente la stava obbligando, fra le altre cose precoci, a studiare
Occlumanzia: era una buona occasione per impedire al
suo cervello di lavorare, con quelle armi spaventose che possedeva dalla
nascita.
Un centinaio di pensieri le affollavano la mente mentre camminava solitaria verso la
Sala Grande. I quadri non la degnavano di uno sguardo, e neanche in fantasmi
che passavano di tanto in tento. Solo Pix non la
ignorava, ma da quando Sara lo aveva conosciuto, non aveva fatto che
bersagliare la ragazzina di scherzi di pessimo gusto.
Sara aveva contemplato mille volte
l’idea di buttarsi di sotto da una delle torri. Ma qualcosa l’aveva trattenuta. E non riusciva a capire
cosa: sarebbe stata un’occasione perché tutti parlassero di lei con qualcosa di
diverso dalla cattiveria, e comunque lei non avrebbe
potuto sentirli.
Mai più.
Mai più voci rimbombanti
nell’orecchio. Mai più quella vita disgustosa.
E invece si era fermata. Non ce l’aveva mai fatta, e questo contribuiva a farle calare
ancora un po’ l’autostima: probabilmente c’era una sola persona che odiava Sara
più di quanto non la odiassero gli altri. E quella
persona era sé stessa. Si odiava in modo ormai irrimediabile, un odio così
viscerale da costringerla quasi al vomito.
Sì, decisamente
il Bacio dei Dissennatori al confronto era una pacchia.
La professoressa McGranitt
chiamava, come ogni anno, gli studenti uno per uno; questi indossavano il
Cappello Parlante e, quando la loro Casa veniva
annunciata, un’esplosione di applausi scaturiva dal tavolo cui il nuovo
arrivato era stato destinato.
Candele fluttuanti illuminavano la
Sala Grande con l’aiuto di grosse torce appese al muro. Per Sara, comunque, la sala era buia.
- Gray, Sara! - chiamò la McGranitt.
E lei non si mosse, sotto lo
sguardo impaziente e imbarazzato della professoressa, e soprattutto, tra le
risatine non troppo nascoste di tutti i commensali. Stava lì, in piedi,
fissando il pavimento. Non era sicura di voler veramente stare lì. Perché Silente non la lasciava andare? Non cercava di
aiutarla, no, altrimenti l’avrebbe fatta scappare via
da tanto, tantissimo tempo… forse era soltanto un altro che amava prenderla in
giro.
- G…Gray, Sara! - ripeté la professoressa a voce più alta. Le risate
schiantavano da ogni parte in tutta la Sala Grande e Sara sentì
un velo bollente scenderle sugli occhi… un velo opaco che le rendeva tutto
invisibile… voleva trasformarsi in corvo, ma sapeva di non potere, non doveva permettere
che qualcuno lo scoprisse… ma voleva volare via… voleva scappare, andarsene…
no, lei non sarebbe rimasta a Hogwarts.
Uno spintone, e risate ancora più
forti. Qualcuno dietro di lei l’aveva spinta… e lei era inciampata finendo a
terra senza opporre la minima resistenza. Immediatamente un rivolo di sangue le
era colato giù dall’angolo della bocca. Ma non le
importava di niente.
Non più.
Si tirò su, ben consapevole che
non aveva scelta: Silente la guardava fissa… la stava obbligando a quella vita
che non voleva… perché faceva questo? Che gusto ci
provava?
Il Cappello Parlante le fu calato
in testa, e Sara si strinse nelle spalle. Era un segno
di imbarazzo o di timore… ma lei non era arrossita.
Non stava più bene come quando era a Diagon Alley. Tutte le speranze false e
inutili che aveva nutrito per Hogwarts erano svanite in una nube di fumo, e di
quella vita che si era illusa potesse migliorare non
era rimasto che uno straccio nero senza alcuna volontà. Un vegetale. Un
qualcosa che ormai si era del tutto arreso, che non aveva più voglia di lottare
per niente.
Poi, una voce le parlò nella
testa.
- Oh, suvvia, ragazza, apri quella testa, non posso certo assegnarti a una casa se non mi fai vedere che
c’è dentro… -
Sara si sorprese: evidentemente il
suo desiderio di non appartenere a quel mondo… di non esistere… era stato così
forte che perfino il Cappello Parlante si era trovato di fronte a una porta chiusa quando aveva cercato di leggerle dentro.
Stava quasi per sorridere. Ma poi si rese conto che
non era un potere bello o utile: era mostruoso.
Cercò di rilassarsi, di respingere
qualsiasi dubbio o rancore…
- Ecco, così va meglio… molto
meglio. - Sara cercò di resistere allo strano formicolio che sicuramente gli
altri non sentivano: era l’effetto che faceva l’incursione del cappello nei
suoi pensieri. E si protrasse più a lungo di quanto
non avrebbe dovuto. Sara aveva visto quanto poco ci aveva messo a smistare gli
altri prima di lei, e allora perché la tirava tanto per lunghe proprio con lei?
Ci teneva a ridicolizzarla ancora di più? - No, no, no, ti sei
richiusa di nuovo… rilassati, ragazza mia, rilassati… non si sente alcun
dolore, sai? - Sara strinse i pugni, rilasciandoli poco dopo con una nervosa
espirazione. Era ridicolo che avesse bisogno di concentrarsi per essere come
una persona normale, ma ormai aveva quasi accettato l’idea. - Bhe... sei
difficile… che dire… c’è tanto coraggio qui, e lealtà… saresti
un’ottima… - Sara guardò verso il tavolo dei Grifondoro, dove i soliti quattro
non si erano ancora ripresi dalle risate, e sfoggiavano sorrisi maligni.
Qualsiasi cosa che non sia Grifondoro mi andà bene, qualsiasi, pensò intensamente, e come
previsto il Cappello Parlante riuscì a leggere quella supplica.
- Ne sei proprio convinta? Non ho
ancora conosciuto uno studente che rifiuti Grifondoro, ma… bhe, qui c’è anche
l’astuzia… e un po’ di ambizione… forse Serpeverde? Ma
c’è un bel cervello, degno dei Corvonero… e… no, proprio non Tassorosso… bene,
sei davvero complicata… e questo cos’è? - Sarà sentì
una specie di strizza, ma non riuscì a distinguere se fosse
la tensione oppure qualcosa di legato all’incursione troppo lunga del Cappello
Parlante nella sua testa. - Ah, questo è l’odio… quanto odio… e c’è anche la
vendetta… Voi giovani disturbati… comunque. se allora non vuoi Grifondoro, direi proprio… Serpeverde! -
Quell’ultimo grido risuonò
violentemente nella Sala Grande, ma portava in sé qualcosa di gelido. Nessuno
applaudì mentre Sara si sedeva, più in disparte possibile, al tavolo dei Serpeverde;
solo un qualche battito di mani fugace e alquanto incerto,
proveniente dal tavolo del professori. Sara colse lo sguardo preoccupato
di Silente, ma lo ignorò. Non aveva bisogno di altra
compassione, men che meno, poi, della sua.
- Chi l’avrebbe
detto che avrebbero Smistato anche quella… - bofonchiò James Potter due tavoli
più in là. -
Pensavo che Silente la volesse tenere in uno scantinato, così almeno sarebbe stataal
sicuro… -
- Logico che è
finita in quella discarica di Serpeverde. - commentò acido Sirius senza curarsi che nessuno
lo sentisse.
- Io invece
pensavo che fosse troppo tonta per Serpeverde, - replicò l’altro. - E comunque
è una Mezzosangue, che io sappia. Pensavo che nessun Mezzosangue andasse a
Serpeverde. -
- L’ho incontrata, a Diagon Alley…
al Paiolo Magico dicevano tutti che l’aveva assalita
un Dissennatore. Ma penso che fossero ubriachi…
nemmeno un Dissennatore potrebbe avere un tale senso dell’orrido. -
- Appunto. -
Sara non li sentiva, ma immaginava
benissimo che cosa si stessero dicendo.
Sara fece immediatamente ritorno
al Dormitorio, sgattaiolando lontano dall’attenzione del Prefetto dei
Serpeverde, tanto per risparmiarsi la compagnia di qualche altro studente: ne aveva visti fin troppi, e ciò era un grave attentato ai
suoi nervi, visto che voleva soltanto stare sola. Senza degnare neanche di uno
sguardo il corvo che stava dormendo sul suo trespolo (non le andava di tenerlo
alla Guferia), scribacchiò qualche pagina del suo diario, o piuttosto lo riempì
di scarabocchi dettati unicamente dalla depressione, finchè decise che si
sarebbe ficcata subito a letto fingendo di dormire; così avrebbe evitato
sguardi carichi di disgusto, battute idiote e quant’altro da parte delle sue
compagne di camera che, a loro dire, la sopportavano da fin troppo tempo.
Avrebbe voluto addormentarsi
davvero per non sentire o sapere niente, ma il nervosismo e l’acidità che le
gravavano sul cuore erano così forti che la tennero
sveglia come un grillo fin quando non giunsero anche le altre tre ragazze.
Erano del terzo anno: Sara aveva dormito in camera con loro da quando era
arrivata a Hogwarts, e loro non l’avevano mai trovata particolarmente simpatica
o piacevole di compagnia. Erano tra le persone più maligne che avesse mai conosciuto in vita sua. Era una sfortuna
terribile che l’unica camera con un posto libero, quando lei era arrivata, fosse quella. Se almeno fosse stata in un’altra Casa, avrebbe potuto andarsene di lì ma dopotutto, che differenza
avrebbe fatto?
Che lei sapesse,
non una sola persona in tutta la scuola la risparmiava da ogni genere di
scherzo o frase perfida, perciò tanto valeva restare dov’era.
- Che
sfortuna! - esordì una delle tre, quando entrarono, gettando la sua uniforme
sul letto. - Proprio a noi doveva toccare? -
Un’altra stava tranquillamente
rovistando fra le cose di Sara.
- Guardate qua! - sghignazzò - con
tutte queste medicine si tiene a mala pena in vita. Se
gliele rompessimo? Sarebbe nei guai, no? -
E buttò a terra una boccetta, che
s’infranse appena toccò il pavimento. Sara, abituata a questo, continuava a far
finta di dormire, ma stringeva i pugni sotto le
coperte.
- Chiudi la tenda, invece, Anna. -
disse la terza, - non la posso vedere. -
Con una nota fin troppo evidente
di disgusto, Anna chiuse le tende del letto di Sara, e lo fece con tale
violenza che quasi le strappò. Poi le tre cominciarono a parlare sommessamente.
Sara si concentrava per non leggere dalle loro menti
quello che stavano dicendo e che lei non era in grado di sentire, ma non sempre
ci riusciva.
A volte le facevano l’imitazione
quando sveniva o tossiva, esagerando ognuno dei suoi sintomi, altre volte
meditavano su quale maledizione lanciarle la prossima volta che l’avessero visto.
- Quella deficiente, - disse Anna -
sempre a nascondersi dietro Silente! Perché è il
Preside, naturalmente… non ho mai incontrato una persona più debole! Si merita
almeno il doppio di tutto quello che le fanno. -
- Ti ricordi quando Daniels e gli
altri l’hanno pestata l’anno scorso? Come frignava! -
- Sì, sì! E
poi sviene sempre dappertutto. -
- Spero che trovino una scusa per
espellerla. Sarebbe proprio il massimo. Finalmente avremmo la stanza tutta per
noi senza quella scema con cui spartirla. Prende troppo spazio. Guarda lì… - e
probabilmente fece un cenno verso il letto di Sara.
Era probabilmente la più pigiata delle quattro. Per evitare che il trio di avvoltoi trovasse una scusa per tormentarla ancora di
più, cercava di accatastare le sue cose in un angolo, nel tentativo di occupare
sempre meno spazio possibile. Ma a quanto pareva,
avrebbe dovuto far Evanescere il tutto per non dar loro fastidio. O forse neanche quello sarebbe bastato.
- Vorrei proprio vederla domani a
lezione, come se la caverà. Anzi…
meno male che siamo al terzo anno e lei al primo. Non potrei sopportarla
anche in classe. -
- Io dico che sverrà al primo
quarto d’ora. Ci scommetto almeno cinque galeoni. -
- Un galeone che ci farà subito
perdere punti! E tu, Liz? -
Elizabeth simulò un patetico
istante pensieroso che fece ridere le sue compagne, prima di scommettere dieci
galeoni sul fatto che Sara avrebbe preso una punizione il primo giorno di
scuola.
- Bhe, ma perché parlare di lei? -
sbottò infastidita una di loro.
- Giusto, Ellie. Che ci dici del francese?
- chiese Anna con tono malizioso.
- Mi ha scritto per tutta
l’estate… - rispose Elise con una voce alquanto patetica e civetta - E’ un vero
peccato che studi a Beuxbatons… sai, sua
madre è francese… Ma ci vedremo per le vacanze… mio padre non mi rifiuta
niente. Ha detto che andremo in Francia a Natale. Non vedo l’ora di
incontrarlo… poi devo farvi leggere qualcosa che mi ha scritto, oh, è davvero
dolce… -
- Sarete una coppia adorabile… -
Sara sbuffò sommessamente per non
farsi sentire, ma non poteva restare insensibile a quelle insinuazioni. Mai e
poi mai Elise sarebbe stata una persona adorabile, non
lo era neppure d’aspetto, e anche se fosse stata accanto al ragazzo più
splendido del pianeta le cose non sarebbero cambiate. Le menti delle tre
ragazze erano cariche di un’ipocrisia degna di un gruppo di zitelle. Sara non
aveva mai visto un’amicizia più falsa e carica di gelosia di quella… ma dato
che non aveva mai avuto amici, non poteva dirsi esperta in materia. Chissà se tutte le persone “amiche” erano così. Chissà se
tutte erano invidiose l’una dell’altra, chissà se tutte erano civette e
ipocrite, con quell’eterna puzza sotto il naso… chissà se erano felici.
La lezione di Pozioni allora si
teneva nell’aula più luminosa di tutto il castello. Ricordava una vecchia soffitta; la polvere era molto spessa ed evidente sotto le
falci di sole che entravano dalle grandissime finestre. I banchi, dato il vasto
spazio a disposizione, erano ben distanti l’uno dall’altro e sparsi per la
classe un po’ alla rinfusa. La cattedra era anch’essa decisamente
impolverata, posta su un piano sopraelevato del pavimento di legno.
La professoressa Mandragola era
una tipa svampita e dall’andatura saltellante. La sua statura
non era certo delle più invidiabili e aveva una voce alquanto stridula.
Vestiva principalmente abiti dai colori pastello; sembrava molto vecchia, aveva
dei cespugliosi capelli brizzolati e occhi verdi molto chiari. Nonostante l’aspetto quasi amabile, alcuni studenti del terzo anno che
passavano di lì per recarsi a Trasfigurazione avevano avvertito le matricole
che era meglio, molto meglio, non
farla arrabbiare.
La sua nocetta stridula sembrava
capace di far vibrare persino i vetri: gli studenti, nonostante la spiegazione
lunga e noiosa, non sarebbero riusciti ad addormentarsi
neppure sotto l’effetto di una pozione soporifera con quel parlottio squillante
nei timpani.
Sara era quella che meno di tutti
stava attenta. Il docile terrore da primo anno le scivolava addosso spingendola
ad approfittare di ogni momento di distrazione. Il ronzio di una mosca imprigionata fra il vetro e la tenda, un
volatile che passava, là fuori, il rumore dello spostarsi di una sedia.
Come avrebbe potuto impegnarsi nella lezione, con tutti quei pensieri altrui
che mulinavano nel suo cervello?
Avrebbe dato qualsiasi cosa per
evitare di sentirli, ma se si fosse concentrata per scacciarli la sua
attenzione sarebbe calata ancora di più.
- E ora voglio che prepariate la
pozione di cui abbiamo appena parlato, - concluse la
professoressa Mandragola sedendosi, con un sorriso quasi sornione.
Sara ebbe un fremito: non aveva
sentito una parola.
Poco male, pensò, scriverà gli
ingredienti alla lavagna…
Invece no. La professoressa stava ferma
immobile ad osservare i suoi studenti che lavoravano. Tutti tranne Sara. E ora
nel turbinio di pensieri che già aleggiava sulla sua
mente si aggiungeva qualche inconfondibile battuta di scherno nei suoi
confronti.
La Mandragola colse quella sua
passività.
- Tu non hai intenzione di
preparare la Pozione, Gray? -
- Lo farei, se la scrivesse alla lavagna. - rispose tranquillamente, vincendo l’ansia.
Qualcuno ridacchiò sommessamente.
- Scriverla alla
lavagna? - sorrise la professoressa Mandragola, - Non hai bisogno che io la
scriva alla lavagna, avendo ascoltato la mia
spiegazione. -
- Non la ascoltavo, - confessò
Sara con la medesima tranquillità.
Per un attimo un rossore
infiammato indugiò sulle guance rugose della Mandragola, ma durò poco: il
rossore divenne ben presto un verde intenso.
- Non la trovavi forse interessante,
Gray? -
I risolini non erano più tanto
celati. Sara alzò le spalle, ormai del tutto incapace di rispondere. Si sentiva
avvampare; aveva conosciuto un imbarazzo ben peggiore di quello, ma non
riusciva a controllarlo, ed immaginò di essere veramente molto rossa in viso.
La professoressa Mandragola scattò
in piedi sbattendo due poderose manate sulla cattedra. Probabilmente il
pavimento in corrispondenza del tavolo era rialzato per cercare di farla
apparire un po’ più imponente. Sara ebbe la disgustosa sensazione che gli occhi
della professoressa fossero diventate due biglie
d’argento, dardeggianti fiamme.
- Ci vuole una punizione,
professoressa! - osservò Emma Dawson, una ragazza al primo anno di Serpeverde.
- Silenzio! -
Sara era terrorizzata, e per una
volta i suoi pensieri erano in sincronia con quelli altrui: perché in effetti tutti erano terrorizzati. Gli occhi della
professoressa Mandragola avevano emanato dei bagliori impossibili da non
cogliere, e un istante dopo Emma Dawson era rimasta
pietrificata, fissa nella sua posizione. I cappelli bianchi e lanosi
della professoressa erano ora vagamente rassomiglianti
a corti rettili ondeggianti, e le unghie le erano di colpo cresciute.
- Punizione per Gray, Dawson, e
per te, laggiù!, - e puntò un dito artigliato contro
un ragazzo in ultima fila che stava indietreggiando ancora di più con la sedia,
tentando di nascondersi. Il ragazzo si drizzò immediatamente sulla sedia
sudando di paura- …sì, proprio a te,
Stebbins! -
- Gray! Tu non solo toglierai quindici punti a Serpeverde, ma
trascriverai venticinque volte il tema di sessantasette centimetri sugli usi
dell’Amanita Trinciapollo, e lo farai oggi! Dawson! - continuò, latrando,
puntando gli occhi di nuovo contro la studentessa pietrificata - Ripulirai alla
perfezione questa stanza fin quando il più piccolo granello di polvere non sarà
volato via! Senza magia! Chiaro?... Dawson! DAWSON!?? -
Emma non dava segno di rispondere
alla professoressa Mandragola.
- E’… è… -
azzardò un Tassorosso, alzando timidamente la mano.
- Che cosa diavolovuoi, Hornby!? -
- Lei è… è…
è… - alla fine Hornby deglutì, e disse, a voce tanto bassa che anche il suo
vicino di banco dovette tendere l’orecchio: - …pietrificata. -
Il silenzio cadde imperturbabile,
e negli istanti della sua durata la professoressa Mandragola fissò gli studenti
uno per uno, gli occhi fiammeggianti; pietrificò
almeno altri tre ignari alunni, e aveva l’espressione di chi è costretto ad
ammettere l’evidenza ma ha subito un’onta degna d’ogni sorta di punizione.
- E… e…
va bene! E allora voi le riferirete ciò che dovrà fare! Stebbins?
Tu riordinerai per argomenti tutti i libri della biblioteca! Fila! Marsch! -
- Ma…
c’è… ho… abbiamo… lezio… -
- Non m’interessa! - ululò
Mandragola - Muoviti! -
Immediatamente Frank Stebbins
lasciò la stanza, correndo come una pazzo, e la
professoressa si volse verso Hornby, ansante.
- Hornby, quaranta punti in meno
per Tassorosso! Sì, Hornby, sì, quaranta! Per avermi contraddetta! Qualcosa in
contrario!?
-
I Tassorosso la guardavano con
un’espressione più che terrificata. La professoressa Mandragola uscì come una
furia dall’aula, sbattendo la porta con tanta forza che la scardinò, e si
rifiutò di terminare la lezione di due ore che spettava agli studenti quella
mattina.
E loro rimasero lì, incerti se
andarsene, se avvertire qualcuno, se terminare la pozione…
Quando, allarmata
dal galoppare di Stebbins per i corridoi, giunse Madama Chips, ordinò agli
studenti di tornare immediatamente nei loro dormitori e augurando loro di non
incontrare più la professoressa Mandragola mentre era arrabbiata.
Era con estrema riluttanza che
Sara aveva fatto ritorno alla Sala Comune dei Serpeverde. Forse
per il pensiero che avrebbe dovuto ricopiare un tema lunghissimo venticinque
volte. Non la preoccupava il fatto di incontrare qualcuno, perché tutti
erano ancora a lezione e ne avrebbero avuto fino a
metà pomeriggio. Non aveva intenzione di presentarsi in Sala Grande per il
pranzo. Avrebbe finito i venticinque temi di sessantasette
centimetri prima che qualcuno la vedesse. Avrebbe volentieri evitato di
farlo, in fondo bastava illudere la professoressa che
non avesse mai chiesto una cosa simile. Ma non avrebbe funzionato tanto a
lungo, Sara sapeva che prima o poi l’illusione sarebbe
crollata.
E comunque,
disse una vocina dentro di sé, se lo meritava.
Il fatto che anche qualcun altro avesse preso una punizione e che, contro i suoi quindici
punti, i Tassorosso ne avessero persi quaranta in un colpo solo, non era che
una magra consolazione. Per evitare ancora meglio che qualcuno la notasse, si chiuse fra le tende del suo letto e baldacchino
e si mise a fare i temi sotto le coperte. Nessuno aveva freddo come lei, e
quando tutti erano in maniche corte lei portava ancora dei maglioni; era un
altro motivo per prenderla in giro, naturalmente.
Il corvo s’insinuò in un apertura delle tende del suo letto e si appollaiò sulla
sua spalla. Sara gli sfiorò il muso con la piuma d’aquila, pensando che in fin
dei conti era il suo unico amico.
Cercava di scrivere con la miglior
grafia possibile, ma era così arrabbiata che ogni parola le veniva
ritorta e allungata. Il problema più grande non era trascrivere venticinque
volte il tema ma buttarne giù la prima copia. Era solo il suo primo giorno di
scuola, e nonostante avesse trascorso i due anni che lo avevano preceduto in
biblioteca, non sapeva niente dell’Amanita Trinciapollo. Riuscì a copiare
qualcosa dal libro di testo - non aveva nessuna voglia di andare in biblioteca,
magari per incontrare Stebbins che le avrebbe sicuramente dato la colpa per
aver fatto arrabbiare la professoressa Mandragola - e tentò di allungare i
discorsi più che poteva, e lasciare più spazio fra una
riga e l’altra. Non raggiunse esattamente i sessantasette centimetri a causa
della sua grafia sottile e minuscola: arrivo solo ai sessantacinque, ma alla
professoressa sarebbe andato bene lo stesso. Forse.
Rassegnata ormai alla tempesta che
ribolliva nel fondo delle sue viscere, tirò fuori un’abbondante quantità di
fogli di pergamena e prese a ricopiare il tema.
Le ore passavano e lei continuava
a scrivere come non aveva mai scritto in vita sua. La tensione saliva ogni
volta che sentiva delle voci in corridoio, ma fortunatamente nessuno era ancora
entrato nella stanza.
Nessuno, tranne i tre avvoltoi.
Sara strinse i denti pregando che
non la notassero, e cercò di reprimere i colpi di tosse con tutte le sue forze:
non ci teneva affatto ad essere scorta.
Per fortuna erano venute solo ad
accompagnare Anna, che doveva prendere il suo manico di scopa per l’allenamento
di Quidditch. Sara trasse un immenso sospiro quando se ne andarono,
ma il vulcano dentro di sé esplose inesorabile al sentir dire a Elizabeth:
Se Sara pensava di non poter
raggiungere un baratro superiore di quello, si stava certamente sbagliando di
grosso.
Era passata già una settimana, ed era stata una settimana
disastrosa. Il fatto di non aver incontrato James Potter e la sua combriccola
era senza dubbio una fortuna, sapendo che cosa succedeva ogni volta che si incrociavano, e Sara ringraziò il cielo che si trovassero
in Case e anni scolastici diversi. Ma i Serpeverde e
gli altri del primo anno erano sufficienti a rendere la sua vita un inferno.
I tre avvoltoi avevano sfracellato
quasi tutte le sue cose sul pavimento, e stavolta la sua rabbia
era stata tale che non solo Sara le aveva Schiantate tutte e tre
(prendendosi di conseguenza una punizione), ma era anche svenuta finendo in
Infermeria per tutto il weekend. Almeno anche il trio era finito in punizione…
il problema è che dovevano scontarla insieme a lei.
Madama Chips era sempre più disperata con lei, e non faceva che suggerire di
portarla al San Mungo, ma per qualche motivo che Silente non amava rivelare,
rifiutava sempre suggerimenti di quel genere. Sara non conosceva la verità,
percui la sua ipotesi ra che il sadismo del Preside la costringesse
a restare a Hogwarts.
Le sarebbe
piaciuto eccome essere ricoverata al San Mungo, pieno di malati come lei
o, forse, peggiori di lei. Pieno di mostridella sua stessa risma…
Madama Chips, ultimamente, aveva
avuto la brillante idea di parlare con Silente, a voce non certo bassa, dei
denti di Sara. Due lunghi canini che senz’altro di umano
avevano ben poco. Tutti sapevano che la maggior parte dei membri della sua
famiglia erano stati vampiri prima che il leggendario
Demetrius trovasse il modo di impedire la loro resurrezione.
Madama Chips aveva l’atroce,
agghiacciante sospetto che Sara fosse una diurna.
Il problema era che anche il trio
delle persecutrici di Gray erano in infermeria, ed
Elise era stata la prima a riprendersi dallo Schiantesimo.
Aveva sentito tutto.
Non ci era
voluto molto perché la notizia circolasse, ed entro lunedì l’articolo era già
pubblicato sulla Gazzetta del Profeta.
Albus Silente:
sempre più discusso il preside di Hogwarts.
La fiducia da tutti noi risposta in Albus Silente,
rispettabile Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, e ora
prossima al vacillare. Stando alle
testimonianze di gran parte degli studenti della sua
scuola, avrebbe accolto un vampiro diurno e lo avrebbe ammesso alle lezioni. La Gazzetta del Profetane aveva parlato
tempo fa: quella che è probabilmente l’ultima della tragica famiglia dei Gray è
attualmente al suo primo anno, ma gli studenti hanno sempre avuto dubbi e
diffidenze nei suoi confronti.
Si pensava alla sua malattia (tutt’ora sconosciuta
e apparentemente incurabile) come causa della sua secca emarginazione sociale,
ma adesso la domanda ha trovato una risposta: la giovane Gray segue le orme genetiche
dei suoi parenti, ed è infatti una vampira.
- Mi ha quasi morsa, due giorni fa, - dichiara una studentessa della
Casa di Serpeverde, la giovane Emma Dawson, - e non
segue mai le lezioni; ci fa perdere tantissimi punti, prende sempre delle
punizioni e aggredisce gli studenti! -
A quanto pare Albus Silente sembra difenderla, nonostante
in questa settimana Sara Gray abbia assalito con uno Schiantesimo tre
studentesse al loro terzo anno di studi. Sembra addirittura che da piccola
abbia subito un parziale Bacio da parte dei Dissennatori.
- Le tre ragazze hanno chiesto di cambiare stanza, ma per ora non se
ne parla, - dice imbarazzata la professoressa Minerva McGranitt, responsabile
della casa di Grifondoro. - Non fa niente di male, va
solo trattata come una persona normale. -
Sembra addirittura che il Preside si sia rifiutato di farla ricoverare
all’Ospedale San Mungo per Ferite Magiche, per motivi non dichiarati.
Non siamo i soli ad augurarci che questo pericolo venga
allontanato dalla scuola, in nome della sicurezza degli studenti, e della
tranquillità delle loro famiglie.
Dopo quell’articolo, Silente
ordinò ad una incredula Madama Chips di somministrare
a Sara un Distillato della Morte Vivente, preparato appositamente dalla professoressa
Mandragola. L’infermiera c’era abituata, c’erano stati momenti in cui non si
era potuto fare a meno di farle bere quella pozione, quando la sua depressione
subiva un radicale peggioramento ed era necessario escluderla da qualsiasi
sensazione, da ogni dolore. Madama Chips aveva sempre protestato, convinta che
una responsabilità di quella mole sarebbe toccata a un
Guaritore, non a un’infermiera scolastica. Silente rispondeva stancamente che
non c’era altra scelta, e si rifiutava di aggiungere altro.
La pozione soporifera costrinse
Sara a letto per un’altra settimana durante la quale non dette il minimo segno
di vita. Dopo non capì mai se Silente lo aveva fatto per non farle udire i
pettegolezzi risonanti nei corridoi, o se fosse, come al
solito, un atto dovuto al peggiorare della “malattia”.
In ogni caso
prima o poi
dovette svegliarsi.
E avrebbe preferito non farlo.
Fu vittima di ogni
genere di scherzo di pessimo gusto per due settimane di prima, e ogni volta che
provava a reagire le venivano tolti dei punti. Pensò che doveva
farsi furba se voleva attaccare gli studenti senza che ci fossero prove della
sua colpevolezza, così si ritirò nella sua soffitta e cominciò a studiare
Incantesimi di Invisibilità, trascurando ancora di più le materie standard della
scuola. Ma si consolava pensando che non avrebbe mai
avuto bisogno di Storia della Magia come di un Incantesimo di Disillusione.
Nel frattempo, visto
che lei e i tre avvoltoi si erano completamente ripresi, era ora di dare
il via alla loro punizione. Avrebbero dovuto prelevare dal
lago la piovra gigante perché il professor Kettleburn di Cura delle
Creature Magiche doveva guarirle un’infiammazione al tentacolo.
- E come
pretendono che tiriamo fuori quella stupida piovra dal lago? - sbottò Elise.
- Un Incantesimo di Levitazione
sarà sufficiente se riuscite a farlo abbastanza
potente. Altrimenti potete sempre tentare con un’esca.
- disse Kettleburn, apparso dietro le spalle delle tre
e avendole sentite. - Quattro punti in meno a Serpeverde per l’insolenza. -
aggiunse, prima di andarsene, incurante delle tre dita medie alzate contro le
sue spalle.
25 ottobre 1973, SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Non si parlava altro che della
punizione toccata a Sara, Elise, Anna ed Elizabeth. Tutti ritenevano che fosse
un’impresa impossibile, e comunque non era detto che
la piovra uscisse allo scoperto per farsi sollevare o per fiutare un’esca, per
quanto fosse mansueta.
Vennero le ore ventuno di martedì,
con ottobre già quasi alla fine.
Sara, a differenza delle tre, era
fredda e impassibile; forse aveva deciso di non dare a vedere il suo nervosismo
perché, dentro di sé, sapeva benissimo di non avere alcuna fiducia in sé
stessa. Come sempre, del resto.
- Questo è il lago e quella la sua
piovra, - annunciò allegramente il professor Kettleburn, quando le quattro
ragazze ebbero raggiunto il lago. La piovra gigante
nuotava placida poco sotto la sua superficie. L’aria era ferma e la massa
d’acqua liscia come l’olio. Le tre “avvoltoie”, troppo preoccupate a rimediarsi
un fidanzato o a leggere le lettere del francese, non si erano minimamente
preparate per la punizione, e cominciarono a scagliare incantesimi di
levitazione che non smuovevano nemmeno un po’ l’animale. Ben presto persero
fiducia e si voltarono come delle furie verso Sara. Invano il professor
Kettleburn cercò di fermarle.
- Tu non fai niente, eh? Non sai
neanche un incantesimo di levitazione! Guarda che è tutta colpa tua se siamo in
punizione! - latrarono in coro.
Sara non si era mai sentita più
arrabbiata, ma decise di farsi avanti verso la riva,
se non altro per voltare le spalle alle tre e non mostrare la sua faccia
contratta dall’ira. Non era affatto sicura di potercela fare. Come poteva un
incantesimo di quel basso calibro sollevare una prova grossa come un
Dormitorio?
No, infatti
non poteva.
Mentre le risate di incalzamento dietro di sé si facevano sempre meno
represse, Sara estrasse molto lentamente la bacchetta dallo stivale, dove era
solita tenerla, e la sollevò in aria con la mano tremante. Sì, lei sapeva un
incantesimo che poteva funzionare… ma non lo aveva mai provato… lo aveva
studiato per conto proprio…
- Su, Mezzosangue! - rise a
squarciagola Elizabeth - Fai vedere che sai fare! -
Sara inspirò profondamente per non
voltarsi e Schiantarle di nuovo tutte e tre. Puntò fermamente la bacchetta
contro la piovra ignara, e gridò:
- Mobilicorpus! -
Sotto lo sguardo attonito perfino
del professor Kettleburn, la piovra lentamente si sollevò, facendo calare di
molto il livello dell’acqua. Le tre ragazze dietro di lei videro sollevarsi il
corpo della piovra con una lentezza esasperante, ed essa si dibatteva, si
agitava, ma non riusciva a liberarsi della specie di amo
che l’aveva pescata.
Sara la tenne a metà dentro
l’acqua e a metà fuori, in modo che non asfissiasse. Dopo un attimo di incertezza il professor Kettleburn si affrettò a spalmare
una gelatina verdognola su una grossa chiazza viola su uno dei tentacoli della
bestia.
Probabilmente frizzava, perchè la piovra gigante si dibatté schizzando acqua ovunque, poi
emise una colata di inchiostro che in poco tempo tinse di nero tutti i
presenti. Le tre gridavano e ululavano come lupi, dato che
i loro vestiti erano stati inesorabilmente macchiati d’inchiostro di polpo.
- Raccogliete un po’ d’inchiostro!
Fa’ comodo per le pozioni! - suggerì il professor Kettleburn terminando di
spalmare la pomata.
Finse di non sentire i “Col
cazzo!” non troppo sommessi provenire dalle tre. Sara rimase immobile, poi
lentamente lasciò andare la piovra che tornò in acqua a dir poco seccata.
L’acqua era da poco tornata liscia
come l’olio, quando Anna si precipitò verso Sara.
- Che
razza di trucco era, eh? Una magia oscura, scommetto! -
- Ma come
ti… - tentò di protestare il professor Kettleburn. - E’ una magia
regolamentare, per tua informazione! Gray vi ha semplicemente superato! -
- Per forza! È un mostro! Un mostro! -
Sara ebbe un fremito convulso e
poi cessò per qualche secondo di respirare, fissando il suolo. Non fece in
tempo a rialzare lo sguardo che Elizabeth le strappò la bacchetta di mano.
Questa cominciò ad agitarsi e a tremare. Liz fu costretta a mollarla,
guadagnando una sonora frustata sulla spalla destra che la fece cadere a terra
(e nessuno avrebbe mai detto che si trattasse di un’abile recitazione).
Poi la bacchetta fece un salto
incredibile: Sara si accorse con orrore che stava andando dritto dritto verso il lago, e immediatamente le vennero in mente
le parole di Olivander: il Platano Picchiatore è
l’unico legno incapace di galleggiare.
Sara si slanciò in avanti,
evitando la presa di Kettleburn che evidentemente voleva trattenerla. Sapeva
benissimo di non essere in grado di nuotare, ma sapeva altrettanto bene che non
ne avrebbe avuto bisogno…
Con estrema sorpresa dei presenti,
che già erano pronti al peggio, Sara appoggiò un piede sulla superficie
immobile dell’acqua. Una serie di cerchi concentrici si sprigionò dal suo
stivale nero, ma lei non affondò che di circa un millimetro. La bacchetta non
era ancora atterrata. Sara si mise a correre sul pelo dell’acqua, mentre
qualcuno sulla riva gridava dallo stupore. Pensava di essere sulla traiettoria
della bacchetta, quando con un ultimo scatto quest’ultima deviò bruscamente la
sua direzione.
Sara riuscì a recuperarla per un
pelo, gettandosi all’ultimo momento verso il punto il cui la bacchetta sarebbe
atterrata: sdraiata sulla schiena come se sotto di sé avesse avuto il
pavimento, Sara riuscì a recuperare la sua bacchetta magica appena in tempo
prima che curvasse di nuovo.
Non ebbe il tempo di sentirsi
sollevata che l’acqua sotto di lei si agitò e, per restare in equilibrio, la
ragazza dovette tenersi in piedi. La piovra non doveva averla perdonata per
averla tirata fuori dall’acqua, e di colpo una serie
di grossi tentacoli affiorarono come missili dal fondo del lago. Sara ne evitò un paio per miracolo, e stava ancora correndo verso
la riva quando un terzo tentacolo le sferrò una mazzata, dritta sulla spina
dorsale. Subito una boccata di sangue schizzò via dalla bocca della ragazzina,
che atterrò rotolando sull’erba, ansimante, bagnata fradicia e col viso
insanguinato.
Il professor Kettleburn era
tutt’altro che preoccupato, anzi, balzò verso di lei tutto contento.
- Eccola qui, eccola qui la
pronipote di Demetrius! Una Pozione Galleggiante, eh? Splendido,
ragazza, splendido! Venti punti in più a Serpeverde! -
Le altre tre ragazze stavano disfacendosi dalla rabbia. Sapevano benissimo che erano ben
pochi i maghi attualmente in vita che fossero in grado
di creare una Pozione Galleggiante.
- E a voi tre, purtroppo, in totale venti punti in
meno per l’insolenza, ancora una volta! Spero che prima o
poi impariate! -
Rassegnate alla sconfitta (ma
meditabonde di vendetta), le tre si avviarono di nuovo
nel cartello, costrette a sorreggere Sara che pareva già in fin di vita.
Qualche studente che aveva trasgredito il coprifuoco
per venire a vedere la punizione sbirciava il gruppo dal suo nascondiglio, ma
il professor Kettleburn era troppo orgoglioso per punire qualcuno, anche quando
lo coglieva sul fatto.
Sara finalmente sorrise: era la
prima volta che riusciva a fare qualcosa di cui qualcun altro fosse orgoglioso.
O geloso.
La mattina dopo Anna ed Elise
stavano narrando ad un folto corteo di studenti di come Liz avesse
fatto guadagnare venti punti a Serpeverde, preparando una perfetta
Pozione Galleggiante e sollevando la piovra con un incantesimo potentissimo. Elizabeth
sorrideva tronfia e firmava autografi a quelli del primo anno che la guardavano
con la più profonda ammirazione. C’era chi aveva assistito al reale svolgimento
dei fatti, ma non era il caso di correggere Liz: per prima cosa perché i suoi
genitori erano dipendenti di gran rilievo al Ministero della Magia, e poi
perchè era un peccato perdere un’occasione per mettere Sara in ridicolo; Liz
non mancava di far presente di come Sara tremasse di paura e non avesse fatto
niente per tutta la durata della punizione, cosa che aveva fatto perdere alla
Casa i venti punti faticosamente guadagnati.
Adesso tutti i Serpeverde la
guardavano con odio.
Ma lei si rifiutava di sentire o
vedere: dopotutto era di nuovo in infermeria, per la seconda volta in due
settimane.
Ma stavolta la situazione minacciava
di farcela restare molto più a lungo.
*
Erano trascorse due settimane dalla punizione con la piovra gigante, e l’argomento era
diventato un pettegolezzo passato di moda. Adesso tutti erano troppo impegnati
con l’ultimo articolo della Gazzetta del Profeta, nonostante fosse ancora più
vecchio.
Non c’era timore nel considerare
che Sara poteva essere una diurna: in fondo nessuno ci
credeva, ma era una buona scusa per prenderla in giro. Nessuno era ancora
riuscito a vedere i suoi denti, perché Sara parlava poco e non rideva mai.
Mentre era in
infermeria, sapeva benissimo che sul suo conto se n’erano dette di tutti i
colori. E sapeva anche che Sirius Black, il ragazzo che aveva incontrato per la
prima volta da Olivander, aveva suggerito ai tre avvoltoi una maledizione da
lanciare sul suo baule, che si sarebbe mangiato qualsiasi cosa messa al suo
interno e l’avrebbe fatta ricomparire chissà dove.
Sara, un po’ perché si sentiva costantemente addosso una
selvaggia voglia di piangere, un po’ perché odiava ogni essere vivente di
quella scuola, e un po’ perché doveva cercare tutti gli oggetti vittime della
maledizione del baule, non frequentò le lezioni.
Silente lo sapeva, ma non diceva
niente.
Sara aveva imparato alla
perfezione l’Incantesimo dell’Invisibilità e ora girava tranquillamente per i
corridoi, finalmente non obbligata a nascondersi per non essere vista quando
marinava la scuola.
Novembre era già verso la sua
metà, quando Sara riuscì a togliere la maledizione dal sua
baule e a recuperare tutto ciò che le era sparito. Decise di portare un
po’ il suo corvo in giro per la scuola, così Disilluse anche lui, il quale
parve decisamente stupito, e si avviò per i corridoi
di Hogwarts. Aveva scoperto il suo ritmo ideale: non era molto meglio marinare
le lezioni e studiare per conto proprio magie di livello o
più alto e certamente più utili?
Era così abituata a farlo che
ormai le sembrava assurdo frequentare le lezioni.
E visto che
nessuno faceva niente per prendere provvedimenti, era doppiamente incoraggiata
a fare di testa propria. Non si spiegava come mai quella mansuetudine e quella
sornioneria da parte del corpo docente soprattutto di Silente, ma dal momento
che la situazione per lei era vantaggiosa, decise di approfittarne e basta
senza far domande.
Quel giorno scoprì tanti passaggi
segreti da garantirle una conoscenza del castello superiore perfino a quella del
Custode. Grazie ai suoi poteri mentali era in grado di vedere doveva volava il
suo corvo senza essere costretta a legargli un filo alla zampa, e la sua tosse
consentiva all’animale di capire esattamente dove fosse.
Nonostante l’invisibilità, cercava di evitare
qualsiasi essere umano. Non le andava di essere di nuovo rintronata di pensieri non suoi come succedeva ogni volta che si
trovava vicino a qualsiasi cosa avesse un sistema nervoso.
Fu esplorando uno dei tanti
passaggi segreti che aveva scoperto, che si ritrovò di colpo in una minuscola
stanza vagamente comparabile con uno sgabuzzino per le scope. Dinanzi a lei, poco lontano dalla porta che si era appena richiusa
alle spalle, c’era uno specchio.
Un grosso specchio ovale dalla
cornice decorata, con una frase che Sara non ebbe il tempo di leggere: infatti era troppo impegnata a guardare la propria immagine
riflessa (cosa non molto normale, dato che era invisibile). Era certa di non
essere lei, ma si rese conto che la persona nello specchio rifletteva esattamente
i suoi movimenti.
Solo dopo una lunga osservazione
si rese conto che era proprio lei… lei come non si era mai vista di fronte a uno specchio: era più grande, aveva la pelle molto più
scura di come in realtà era. Due sfavillanti occhi azzurro cielo scintillavano all’ombra di una frangia biondissima.
Sorrideva e i suoi denti erano perfettamente normali. Dietro di lei c’erano una
serie di professori e studenti che applaudivano e la fissavano con sguardi
pieni di ammirazione. La ragazza rideva con una
felicità quasi eccessiva, ravvivandosi di tanto i tanto i lunghi capelli.
Portava la spilla di Prefetto e reggeva la coppa del Quidditch. Dietro di lei
c’era un ragazzo senza volto che le abbracciava i fianchi.
Sara non capiva.
Si guardò alle spalle, ma non
c’era nessuno. Si voltò ovunque, potenziò al massimo
la sua percezione mentale… ma non sentì niente.
Nessuno.
Tutta quella scena
era solo nello specchio. Purtroppo,
disse una voce nella sua testa. Sara osservò bene i lineamenti della ragazza
riflessa nello specchio, e fece ancora qualche movimento, qualche gesto
stupido: ma la persona riflessa la imitava sempre. Tentò di toccare nel vuoto,
ma ancora una volta ebbe la prova che non c’era proprio
niente intorno a sé. Prova di cui non aveva bisogno: aveva capito.
Chiuse gli occhi cercando di
concentrarsi.
Cercò di aprire il suo cervello…
Ecco che sfrecciava in un
labirinto fatto di immagini in movimento e sfumato di
rosso molto scuro. Spesso incappava in un vicolo cieco, correva all’impazzata,
rivedeva i suoi sogni e i suoi ricordi, e intanto si inoltrava
sempre più rapidamente nel suo labirinto.
Ecco… ecco la stessa ragazza nello
specchio. Sara lo riconobbe: era un desiderio. Un desiderio profondo, molto
profondo.
Cancellati, cancellati, ringhiò. Fu con uno
sforzo doloroso che Sara riuscì ad eliminare quel desiderio dal suo cervello, e
ancora una volta si rese conto che il suo potere non era altro che una
maledizione, un qualcosa di mostruoso. Poteva cancellare anche ciò che era
involontario… poteva dominare qualsiasi cosa che il cervello decidesse…
Spalancò gli occhi di colpo.
La ragazza bionda era sparita. Lo
specchio la rifletteva ora esattamente per com’era. Non più
una folla sciolta nell’ammirazione, non più un ragazzo senza volto, non più una
ragazza più grande, più bella… non più una persona normale.
Di nuovo, stagliato nella polvere,
il volto di un mostro.
Sara lo fissò per ore, e pianse.
Sara si accorse che ormai era
notte. Il buio si era impadronito del minuscolo stanzino come pure dei corridoi
stretti e non illuminati del passaggio segreto che aveva percorso per
arrivarci. Accese una luce sulla punta della sua bacchetta magica; si asciugò
gli occhi gonfi e tirò accuratamente giù le maniche dell’uniforme, per
nascondere le braccia piene di tagli nuovi e ancora lucidi di sangue fresco.
Il corvo l’aveva guardata preoccupato per tutto il tempo, poi, in uno strano
atteggiamento affatturo, aveva cominciato a becchettarla delicatamente sulla
guancia. Sara lo aveva accarezzato debolmente, piangendo, e si chiese perché aveva cancellato quel desiderio dal suo
cervello: almeno avrebbe potuto vederlo di nuovo ogni tanto, nello specchio,
tanto per illudersi che un giorno la vita sarebbe stata migliore.
Stava già per andarsene, con gli
occhi ancora lucidi, quando sentì con chiarezza uno smisurato potere mentale
nell’aria. Una specie di vibrazione, di messaggio telepatico.
Istintivamente si voltò verso lo specchio. Non rifletteva più lei, ma una
sagoma dalla pelle grigio-verdastra, gli occhi rossi dardeggianti sotto il
mantello nero.
In un primo momento Sara pensò a un Dissennatore, e una morsa impazzita di terrore le
attanagliò lo stomaco. Poi si rese conto che era qualcosa d’aspetto un po’ più
umano, seppure trasfigurato.
Il
potere…
Sara si tappò le orecchie. Ma scoprì che la voce le rimbombava direttamente nel cranio,
senza passare dalle orecchie. Era abituata a quella sensazione, ma riusciva
sempre a trovarla fastidiosa. Adesso però era certa che nella stanza non ci
fosse nessuno. Non stava sentendo i pensieri di qualcuno vicino a lei, e il
corvo stava pensando a ben altro: aveva l’istinto di fuggire, volare via.
L’unica arma
della vendetta…
Sara sentì un qualcosa di
selvaggio risvegliarsi in lei.
Qualcosa di irresistibilmente
diabolico, una proposta allettante, alla quale non poteva dire di no… la
vendetta… L’unica cosa che aveva progettato per anni.
Io posso darti tutto il potere
che
desideri…
Sì, lui, qualsiasi cosa fosse, era potente.
Sara se lo sentiva.
Ma contemporaneamente una specie di onda anomala spazzava i suoi pensieri ribaltandoli tutti
e facendola sentire ridicola. Che diavolo stava
facendo? Doveva scappare… andarsene da quello specchio…
Vieni da me…
L’eco continuò a rimbombarle nella
testa, e in tutte le ossa, ancora molto a lungo. Il pianto si era estinto dai
suoi occhi, ora c’era solo un sudore freddo che faceva bruciare le ferite. Una
parte di Sara voleva scappare lontano da quella tentazione, voleva soltanto
mettersi a dormire e ignorarla… ma la parte di Sara che aveva sopportato per
tre anni, e ancora di più, la vita peggiore che potesse mai essersi immaginata,
pensò che era quella la cosa giusta da fare: vendetta.
“Impossibile
scappare… impossibile ribellarsi. Tu sei un mostro, ti è stato dettato dalla
nascita un destino crudele, ma so che programmi vendetta. Lo so. Lo sento. Ogni
tua singola vena esplode al pensiero di chi ti ha fatta Mezzosangue, e
rivedendo tutti questi mocciosi trattarti come spazzatura… ribellati… il potere
presto non sarà più in mano a questi inetti, presto il
mondo sarà al mio servizio, al servizio di coloro che mi aiuteranno a
dominarlo… ribellati… dimostra a tutti la potenza del tuo sangue… unisciti a
me…”
Queste
erano le parole che Sara ormai sapeva a memoria, perché popolavano i suoi sogni
con una morbosa perversione che le faceva male
all’anima.
Ma
lei aveva rifiutato.
Aveva
scorto la trappola, aveva compreso il crudele egoismo sepolto sotto quelle
parole tentatrici e, sorprendendosi lei stessa delle parole che le erano
esplose dalle labbra di fronte al mago più potente del mondo,…
aveva rifiutato.
E poi un
grosso buco mnemonico si apriva nei suoi ricordi, e Sara non aveva intenzione
di indagare oltre per scoprire cosa fosse successo nel
frattempo. Ricordava solo il dolore di una spada conficcata nella carne,
all’altezza delle clavicole, dalla parte opposta rispetto al cuore… qualcosa
mangiava la pelle, qualcosa come delle zanne che strisciavano nelle vene, e
creavano un disegno… un teschio.
Il
bruciore delle fiamme su quell’orrendo tatuaggio, il grido che nessuno poteva
udire, la risata lacerante… dov’era? Come era arrivata
fin lì?
Non se lo
ricordava. Sapeva solo che, il giorno dopo, era stata ritrovata dagli studenti
che si recavano a Cura delle Creature Magiche. Era lì, a pancia in giù, distesa
sulla riva del lago, nell’acqua bassa che le faceva ondeggiare lentamente i
capelli. Era un bagno di sangue. Una dose spropositata di liquido rosso
aleggiava nella tenue risacca che si infrangeva sulla
sponda. Prima che qualcuno potesse voltarla era già
arrivato Silente. E lui doveva aver notato, doveva aver visto quel marchio di
fiamme che le aveva devastato la pelle e l’esistenza…
Il
Preside aveva impedito che chiunque guardasse il Marchio Nero. L’aveva solo
portata di filato in infermeria chiamando Madama Chips e la professoressa
McGranitt. Nessun altro.
Sara era
stata messa, ancora una volta da quando aveva iniziato l’anno, sotto l’effetto
del Distillato della Morte Vivente. Silente aveva visto le lacrime sgorgare dai
suoi occhi senza che lei si muovesse, e sapeva che
stava facendo ogni sorta di incubi, ben capaci di infrangere l’apatia causata
dalla Pozione… ma il corpo non reagiva del tutto. Lei restava ferma, più
pallida che mai, in pericolo di morte. Non era in grado di tossire e così,
quando la bocca le si colmava di sangue, Madama Chips
doveva sollevarla (accorgendosi di quanto fosse sempre più scheletrica) e
aprirle la bocca sopra un catino.
Era al
cospetto di quello spettacolo che Silente aveva deciso di parlare con la
professoressa McGranitt. Solo lei doveva sapere. I suoi timori infine avevano
trovato la loro concretizzazione.
- Non la porterò al San Mungo. Non sarò io ad infliggerle questo. -
dichiarò Silente tetro come un sepolcro. - Penso di avere fin troppe colpe nei
suoi confronti. -
- Ma… ma… Albus… è… lei potrebbe… potrebbe non farcela… -
sussurrò atterrita la professoressa McGranitt.
- Ne sono
consapevole, Minerva. - annuì Silente con lo stesso tono di prima, - Ma
stanotte è accaduto ciò che non avevo mai osato neanche temere, se non nella
mia immaginazione più remota. Ho estratto i suoi pensieri dal Pensatoio… e non
mancherò di mostrarteli. - indicò il bacile di pietra che giaceva sul comodino,
ai piedi del letto di Sara, di fronte al quale i due stavano in piedi. Madama
Chips aveva un’espressione distrutta dalla pietà e dalla sofferenza nel vedere una
bambina così piccola vomitare sangue ogni quarto d’ora e avvicinarsi sempre più
inesorabilmente alla morte.
Silente
fece cenno alla McGranitt di avvicinarsi al Pensatoio, e poi una serie di immagini cominciarono ad emergere dal bacile. Dapprima un
essere incappucciato… promesse di potere e di vendetta… e poi qualche altra
persona ammantata, inchinata di fronte al primo… Sara cadeva a terra col petto
in fiamme… un urlo lungo che faceva stridere il cuore…
- La smetta… lo faccia smettere. - disse con fermezza la
McGranitt.
Immediatamente
il Pensatoio, con un piccolo pluf!, ingurgitò di
nuovo le immagini.
Il
silenzio fu la sentinella inesorabile di alcuni minuti
orrendi. Madama Chips era seduta sul bordo del letto di Sara, la cui pelle era
chiarissima anche le buio totale, quasi che assorbisse
soltanto una parte di oscurità.
- Questo…
che cosa significa, Albus? - domandò inquieta la
McGranitt.
- Hai
visto Voldemort appropriarsi di un altro Mangiamorte,
di un altro servo da adoperare come marionetta per i suoi scopi. Sara ha
tentato di rifiutare l’offerta… e questo è il risultato. - La McGranitt portò
le mani alla bocca, e Madama Chips si fece sfuggire un
gemito. - Pensavo che l’ascesa di Voldemort fosse lontana e astratta… quasi un
sogno, un qualcosa di sfocato. Ma questa è la prova
che l’alba del suo impero di terrore ha incontrato una nuova via favorevole, e
presto altre morti e altre distruzioni si abbatteranno su di noi, maghi,
streghe, babbani… tutti. Niente troverà scampo. -
- Lo è, -
rispose Silente ancora più cupo, - ma essa discende da Demetrius e Cassandra, e
Voldemort non potrà avere mai lo stesso potere scaturito da quell’unione… mai
potrà competere con l’erede assoluta di Cassandra, mai il suo sangue rigenererà
le ferite come quello di un mezzovampiro… sta cercando alleati potenti per
sottometterli al suo volere. E Sara adesso è una forza
latente… un giorno i suoi nemici moriranno uno dopo l’altro sotto il suo potere
inarrestabile. Per questo Voldemort la vuole. Anche se è… -
Silente pareva soffrire ad ogni parola, - …piccola… - e si arrestò, come se la
sua voce di troncasse a metà parola.
- Se sopravvive a questa notte, vivrà una vita ben peggiore
del riposo eterno. Sarà una Mangiamorte. Ma io, Minerva… io le ho promesso… che
niente le avrebbe fatto mai del male… le ho promesso che nessun Dissennatore le
si sarebbe mai avvicinato, che sarebbe stata per sempre al sicuro. È questo il
modo con cui mantengo la parola data? -
Poi,
distrutto, rovesciò la testa in avanti, nascondendola fra le mani. Nessun altro
osava parlare. Dopo lunghi minuti, Silente risollevò gli occhi.
-
Voldemort l’ha scelta giovane per poterla controllare meglio… e se muore, se
stanotte non ce la fa, per lui sarà ancora meglio: un nemico pericoloso in
meno. In genere il Marchio Nero non si trova lì, ma sull’avambraccio… ma
Voldemort ha bisogno del controllo totale del suo cervello. Non la porterò al San Mungo. Non voglio che altri sappiano ciò che
le è successo. È stata solo aggredita da qualche scherzo di cattivo gusto. -
- Albus.. se ci saranno incidenti… se… se qualcuno resterà ucciso… -
- Non
avremo mai prove che sia lei la colpevole. - dichiarò
il Preside con fermezza, - Ma quando le avrò, sarò costretto a consegnarla io
stesso ai Dissennatori… e so già che il senso di colpa mi ucciderà… so già che
tradirò una promessa fatta ad una bambina di otto anni
che non ha più nessuno a cui volere bene… ma dovrò farlo. -
E fu
lì che si chiuse la discussione. La McGranitt uscì, incerta se farlo o se
rimanere, ma il Preside si trattenne quasi tutta la notte accanto al letto di
Sara, domandandosi quanto altro avrebbe potuto sopportare un corpo così debole.
Silente
non lo rivelò mai alla professoressa McGranitt né ad altri, ma lui sapeva che
Sara era colpevole della morte dei suoi stessi genitori; sapeva che era quello
il motivo per cui il Dissennatore l’aveva attaccata a
Diagon Alley. Era stato un grave attentato alla sua fiducia il venirlo a sapere
una volta che Sara aveva parlato nel sonno. Ma non
poteva venire meno alla sua promessa ed era certo che, anche di fronte
all’evidenza, avrebbe sempre fatto il possibile per non tradirla mai.
Ancora
una volta, Sara era caduta più in basso di quanto
avrebbe creduto fosse possibile. Non riuscì mai a definire quanto a lungo avesse dormito sotto l’effetto del Distillato della Morte
Vivente, o forse semplicemente svenuta a causa del dolore smisurato che il
Marchio Nero le aveva causato. Sapeva soltanto che ancora sentiva un frizzore
bruciante in corrispondenza dell’orrendo tatuaggio, che aveva coperto con un
grosso cerotto di garza. Si domandò quante ancora ne avrebbe
sopportate prima di decidere di spararsi un colpo.
Non tornò
mai più a visitare lo Specchio delle Brame, che sicuramente Silente aveva
spostato, e per qualche motivo le tornò la voglia di frequentare le lezioni. O meglio, le frequentava per forza d’inerzia. Al mattino le
ragazze si alzavano e si vestivano e anche lei faceva altrettanto. Andavano a
fare colazione e andava anche lei. Si sedevano e anche lei si sedeva.
Rifletteva esattamente ogni abitudine che la circondava, per quanto non le
appartenesse, come se si fosse ridotta ad una marionetta senza capacità di
intendere o di volere. Le sembrava di essere ancora
dormiente, e voleva credere che quello fosse solo un sogno disgustoso. Voci
convulse e frenetiche le sussurravano nell’orecchio ogni genere di atrocità, anche quando era da sola.
Aveva
dentro di sé un istinto omicida pressoché incontrollabile.
Faceva
una gran fatica per trattenersi, aspettandosi il colpo di grazia da un momento
all’altro, il colpo che l’avrebbe portata ad uccidere
senza ritegno ogni persona che le passasse accanto. Era sempre più irritabile,
più lunatica, ma anche smisuratamente più stanca. Una
specie di presa, come di una mano gelida, le stringeva le viscere sfinendola,
tanto che nessun offesa, nessun insulto, nessuno
scherzo e nessun pettegolezzo riuscivano a scalfire il suo velo tragico di
moribonda. Perché era proprio così che si sentiva. A un passo dal morire, e con una gran voglia di farla
finita.
Si
accorse lentamente che il timore nei suoi confronti da parte di coloro che la
circondavano era cresciuto gradualmente fino a toccare non lo scherno, non il
disprezzo, ma l’odio allo stato puro.
Gli scherzi, da tali erano diventati quasi crimini, nel piccolo degli
studenti che si facevano sempre più violenti nei suoi confronti. La Gazzetta del Profeta sfornava articoli su articoli, e a Sara
venne quasi il dubbio che si sapesse del fatto che era una Mangiamorte. Ma poi doveva risolvere che così non era.
D’altra
parte anche lei era diventata più strana.
Finalmente
i tre avvoltoi avevano ottenuto il permesso di dormire da sole: lei era stata
trasferita in una stanza più piccola, ma che non doveva dividere con nessuno, viste le cose che erano successe nelle ultime
notti, cose che avevano suscitato uno scandalo e una perfidia ancora maggiore
di prima.
Sara
ormai era sonnambula e parlava, gridava, piangeva nel sonno ogni notte. Gazza
l’aveva accidentalmente svegliata di colpo in corridoio alle due di notte,
credendola fuori di sua spontanea volontà, e Sara era rimasta
in stato di shock per un giorno intero. I suoi occhi inoltre erano sempre più
micidiali. Bastava incontrarli per una frazione di secondo per impazzire, anche
se per un breve lasso di tempo, così Sara cominciò ad
andare a lezione con gli occhiali da sola, cosa che aumentava l’odio e lo
sprezzo di tutti coloro che la circondavano. La sua malattia si era aggravata
precipitosamente e doveva riempirsi di pozioni medicinali in dose da adulto
ogni mattina appena sveglia e ogni notte prima di addormentarsi. Le faceva
molta fatica leggere o scrivere con scorrevolezza,
come se il suo cervello fosse rinato da capo. La sua voce era un sibilo, e ogni
giorno andava affievolendosi. Pensarono tutti che parlasse
il Serpentese; era l’ennesimo sospetto infondato, ma era vantaggioso poterci
credere per rifornire d’argomenti crudeli i giornali di cronaca.
Era stata
definitivamente esonerata da qualsiasi cosa potesse
apportarle fatica.
Appena
una piccola nota di stanchezza le deformava la voce, doveva sedersi
immediatamente e restare ferma. Non partecipava a lezione di volo (non che lo
avesse mai fatto) e spesso neppure a Cura delle Creature Magiche: nei primi
tempi soltanto camminare fin lì le risultava faticoso,
poi cominciò a riabituarsi, ma era ancora troppo presto per inseguire creature
bizzarre per tutto il parco.
Ogni
punizione le veniva evitata e, al posto di essa,
tantissimi punti venivano tolti a Serpeverde.
Sara
detestava quella situazione, sapeva quanta pietà e commiserazione stesse dietro alle apprensioni di Silente e degli altri
professori, e non riusciva a credere che potessero condannarla a tutto ciò.
Sapeva che andare al San Mungo sarebbe stato molto
peggio e probabilmente le avrebbe portato dei guai legali a causa del Marchio
Nero. Non osava immaginarsi la baraonda che avrebbe generato lo scoprire che
era una Mangiamorte, ma non poteva neanche restare con le mani in mano mentre
tutti la trattavano da invalida. Questo serviva solo ad aumentare l’odio e i
dissapori fra lei e gli studenti.
I
peggiori, come sempre, erano James e la sua compagnia. Le loro cattiverie erano
aumentate in proporzione con quelle degli altri studenti, e Sara era troppo impegnata a considerarli tutti quanti escrementi per
rendersi conto che uno solo di loro non le aveva ancora torto un capello, né
aveva intenzione di farlo.
E
ogni giorno, la voglia di uccidere cresceva.
Sapeva
che nessuno di quelli che la circondavano meritava pietà o indulgenza. Come
potevano meritarsele? Avevano trascorso mesi e mesi a renderle la vita una
tragedia e lei non aveva ancora fatto niente per
vendicarsi?
Si
sentiva completamente impotente ma, allo stesso tempo, la forza e la
premeditazione dell’assassino crescevano in lei. Silente pareva essersene
accorto e così le ricordava continuamente di ingurgitare, fra le altre medicine
che era costretta a prendere, una Pozione della Pace.
Sara non ne aveva ingollata una sola goccia da quando
le era stato suggerito di farlo. Non aveva intenzione di farsi trattare
ulteriormente così.
Se era in
fin di vita, che la lasciassero morire.
Non
sopportava più l’essere compatita. Non c’era niente che sopportasse.
Odiava
ogni cosa e basta. Era questa la sua visione complessiva del mondo, e non avrebbe potuto essere altrimenti.
E
poi… c’era la seconda parte di lei.
La parte
totalmente succube dell’odio e della vendetta, ma che nonostante questo
continuava a implorare pace, riposo. La parte che perseverava nel resistere al Marchio Nero e al
sussurro di Voldemort, la parte grazie alla quale nessuno era ancora morto.
Ma ci sarebbe pur stato un momento in cui la volontà
pacifica di quella metà della sua anima sarebbe venuta meno, pensò Sara con
terrore, sarebbe arrivato l’istante fatale in cui la bacchetta si sarebbe
levata, e lei avrebbe pronunciato quelle due parole irreversibili…
Sara se
lo sentiva. Non stava prevedendo il futuro ma immaginandolo. Ed era certa che prima o poi
l’ipotesi si sarebbe avverata.
Le fiamme
ardevano nel caminetto rendendo tutto più caldo e vellutato, a parte il
ghiacciaio che Sara coltivava nell’anima. Tutti si tenevano alla larga da lei
quando veniva buio, come se temessero la sua indole di vampiro si risvegliasse.
Sara non sentiva niente di lei che derivasse dalla
razza dei vampiri, al contrario, si sentiva un’umana della peggior specie. Un
mostro, per l’appunto, un mostro di sembianze estetiche antropomorfe.
Sara era
china sui libri, ma in realtà non stava studiando. Scriveva e disegnava sul suo
diario cose incomprensibili, come se in quel momento fosse stata isolata in una
dimensione diversa. O forse scriveva per illudersi che il suo cervello potesse ancora funzionare, mentre la verità era che si
stancava soltanto a formulare pensieri troppo lunghi. Si chiese quando avrebbe
recuperato le sue facoltà fisiche e cerebrali. Silente le aveva assicurato che
presto tutto sarebbe tornato normale, ma in quei lunghi momenti di apatia, era difficile crederci.
Eccoti di nuovo
in trappola…
Un’ombra
attraversò per un attimo il camino, attenuando le fiamme, che però ripartirono
subito dopo non appena la voce si fu zittita. Sara ormai riconosceva
quel sussurro così come riconosceva i sintomi della sua malattia. Stando
attenta che i braccioli della poltrona la coprissero a
sufficienza, estrasse un rasoio e scostò le maniche della veste.
Cosa
speridipoter
fare?
Il primo
taglio e il primo dolore, sopra le cicatrici vecchie. Di solito una linea
bianca appariva sulla pelle prima che cominciasse a
uscire il sangue, ma dato che la sua pelle era già sufficientemente pallida,
non si notava la differenza. Sara strinse i denti e proseguì nell’opera.
Tu non puoi ferirmi…
No, lei
non poteva ferirlo, non poteva apportargli alcun danno soltanto lacerandosi la
pelle. Ma ormai quella era un’abitudine che non aveva
niente a che vedere con Voldemort. Ormai era abituata a tagliarsi, era un modo
con cui le due parti contrastanti della sua personalità si dichiaravano guerra,
ma nessuna delle due vinceva mai… perdevano entrambe…
Lei non
poteva ferire altri se non sé stessa.
E poi
ricordò, ricordò cosa aveva sentito dire a Silente, due anni
prima, grazie ad un passaggio segreto che andava a finire dritto dritto sotto il suo ufficio. Non aveva capito con chi stava
parlando il Preside, ma aveva sentito distintamente quasi ogni parola.
-
…facendo così potrai passare sotto il Platano Picchiatore… oltre quel passaggio
c’è una vecchia villa abbandonata, a Hogsmeade. Lì nessuno potrà sentirti o
raggiungerti durante le… crisi. Tutti penseranno che quel posto sia infestato
di fantasmi e di spiriti maligni. Nessuno osa mai avvicinarsi a quella casa. -
Sara
pensò che quell’occasione fosse perfetta. Non aveva udito come fare a passare
sotto il Platano Picchiatore, ma in fondo bastava trasformarsi in corvo e
raggiungere Hogsmeade volando.
C’era
solo un modo per mettere a tacere quella voce. Solo
uno.
- Ehi,
visionaria! - rise uno dei tre avvoltoi passandole accanto. - Non si fa tardi
la sera! Non vorrai che Silente si preoccupi! -
Uccidila…
Sara si
tappò le orecchie e l’avvoltoio rise ancora più forte. Ma
non era la sua voce che Sara non voleva sentire. Sì… sarebbe stato bello
ucciderla…
Ma
no, non poteva farlo…
Non avrai
altreoccasioni…
No, non avrò altre occasioni… devo farlo adesso…
Sara
aveva già sollevato la bacchetta…
Soltantodue parole…
… morirà prima dipotergridare…
Già, non
avrebbe avuto il tempo di reagire, sarebbe morta e basta,
sul colpo. Ora era lì di fronte che la prendeva in giro sotto gli sguardi
malvagi e sprezzanti dei pochi altri studenti che c’erano nella Sala Comune.
Sara non riusciva a sopportarla.
Uccidila…
Sì…
doveva ucciderla.
Ma
perché, poi? Perché non poteva opporsi alla volontà di
quel sussurro? Lei non voleva ucciderla, la odiava,
certo, ma non ancora al punto da cercare altri guai. Perché
doveva ascoltare una voce priva di corpo invece del suo cervello?
Tu nonpuoi
disubbidire…
Sara
scattò in piedi e si precipitò verso l’uscita, facendo sobbalzare tutti i
presenti. Non poteva più restare in compagnia di esseri
umani, o li avrebbe uccisi tutti. Perché in fondo lo sapeva:
lei non poteva disubbidire. Era brava, quella voce, ad istigarla nei
punti in cui era più debole. Era brava ad alimentare il suo odio fino al punto
dello schianto, ma Sara ora sapeva cosa doveva fare. Accertatasi che non ci fosse nessuno, si trasformò in corvo. Una nuvola rossastra
la avvolse, e di colpo, lei si sentì mutare. Era
bastato pensarlo intensamente perché succedesse, ed eccola volare come un
fulmine per i corridoi del castello, una creatura nera e lucente, come uno
straccio nella notte.
Era già
uscita dal castello…
Dove pensidi poter scappare ?
Lontana
da te, pensò Sara volando ancora più velocemente. In un batter d’occhio aveva
superato il lago. Ecco che gli alberi della Foresta Proibita
scomparivano come macchie indistinte verdi scure. E
poi, i primi tetti di Hogsmeade, affacciati sulla via principale. Una salita,
delle scale d’ambra, un giardino incolto e la sagoma di una vecchia villa
slanciata contro le stelle… Le finestre erano tutte inchiodate e, a prima
vista, non c’era possibilità di entrare. Sara non ci pensò due volte prima di
lanciarsi in una fessura fra una trave e l’altra.
Non ebbe
il tempo di contemplare l’ambiente che la circondava, ma se lo avesse fatto, avrebbe riconosciuto a mala pena la dimora dei suoi avi,
almeno a giudicare dalle descrizioni che le davano i libri.
Appena
atterrata malamente sul pavimento di legno estrasse un
coltello. Il dolore in corrispondenza del Marchio e la cecità della
disperazione non le dettero neppure un istante di
esitazione: Sara si piantò il coltello sul tatuaggio ancora bollente.
Dalla sua
bocca schiantò un grido lunghissimo e acuto, che bruscamente si arrochì, mentre
un fiotto di sangue germogliava dalla lama del pugnale. Sentì un’esplosione di
voci e di sussurri nella sua testa, e a sua volta colui che
bisbigliava nel suo cervello orinandole di uccidere, gridò. Sara capì che stava
funzionando.
La visuale
era piena di cerchi e macchie luminose, mentre gli occhi si appannavano. Ma il dolore era superiore alle lacrime, e Sara non pianse
nemmeno quando si conficcò il coltello nella carne altre due, tre, quattro
volte. La cosa che la sorprese, dopo la sesta volta, fu che non sentì più alcun
dolore; al contrario, si sentiva quasi sollevata. Forse si era abituata a
dolore sordo? Forse stava morendo? In quel caso, non che le
dispiacesse. Dopotutto non c’era niente che le fosse mai piaciuto della
vita che stava conducendo, e non aveva nessuno a cui volesse
dire addio. Nessuno se la sarebbe presa troppo per la
sua morte… e non c’era niente di particolarmente bello nella sua esistenza che
la tenesse radicata alla vita e la spingesse a proseguirla.
Fu quello
il suo ultimo pensiero quando il suo corpo genuflesso si sbilanciò del tutto in
avanti, sanguinando come un rubinetto. Negli occhi c’era l’ombra
dell’abbandono, poi un velo di nebbia calò anche sulle orecchie, e non sentì
più niente se non l’odore del sangue.
*
Sara aprì
gli occhi, ma non trovò l’alba a condurla nel mattino: era notte.
Una luce
spettrale penetrava a falciate dalle fessure delle pareti e delle travi; era la
luce diafana della luna piena. Sara non fu in grado di muovere un solo muscolo,
si limitò a tenere gli occhi semiaperti e a stupirsi di
essere viva, mentre osservava il disco bianco e azzurrognolo sospeso nel
cielo assieme alle stelle. Tutto giaceva nel silenzio, a parte il sordo battito
del suo cuore che le giungeva all’orecchio tramite il pavimento; sembrava di
essere sul fondo dell’oceano.
Il corpo
di Sara giaceva abbandonato e inerte sul pavimento sporco di sangue secco e
puzzolente. Un rettangolo di luna abbracciava il suo viso ancora più pallido, e
i suoi muscoli sembravano intirizziti, rinsecchiti. Sara non si sentiva più le ossa, aveva anzi l’impressione di aver
dentro, sotto la pelle, soltanto alcune grosse pietre.
Sarebbe
sicuramente rimasta in quello stato senza formulare alcun pensiero, se un verso
non avesse attirato la sua attenzione. Le ci volle un po’ per rendersi conto di
che rumore era, prima di riconoscerlo come il ruggito di una belva feroce. E sembrava lì vicina. Molto vicina.
Sentì
delle unghie grattare ferocemente il pavimento, e poi uno schianto quasi
assordante coprì ogni rumore: Sara non sapeva anche che si trattava del
lampadario del salotto che cascava e si rimontava in continuazione.
Per
qualche istante fu possibile sentire soltanto l’infrangersi del cristallo sul
pavimento e il tremare di questo, come se ci fosse stato un terremoto. Sara
così non poté accorgersi del feroce picchiettare delle unghie sul pavimento,
passi di un animale che si dirigeva verso di lei: quando tornò il silenzio,
Sara notò con orrore che un lupo era comparso sulla porta, e la fissava. Sulla
pelle era pieno di ferite, come se si fosse graffiato da solo. Ansava, aveva
gli occhi vacui, e ruggendo sommessamente come in preda a
un attacco d’isteria faceva dondolare freneticamente la coda da una parta
all’altra.
Se Sara
fosse riuscita a muoversi sarebbe senz’altro scappata…
ma tutto ciò che poté fare fu trasformarsi nuovamente. Sapeva di essere una
preda molto più facile, ma forse avrebbe disorientato
l’animale, o sarebbe riuscita a volare via.
Il lupo
rimase immobile, e dal movimento brusco che fece col muso Sara capì che era
rimasto perplesso. Ancora una volta ruggì, un latrato era misto a un lamento. Aveva abbassato le orecchie e la coda si era
fermata. Sara aveva il terrore che, da un momento all’altro, le sarebbe saltato
addosso e l’avrebbe divorata. Era decisamente il modo
peggiore che si immaginava per morire.
Il lupo
cessò di ruggire. Avanzò lentamente verso il corvo, che si sentiva le vene
scoppiare dalla tensione. Ma non lo morse, non lo
graffiò.
Annusò il
volatile che, totalmente inerte, si lasciò capovolgere a pancia in su dal muso del lupo. Quest’ultimo non aveva il naso
umido, come avrebbe dovuto essere, ma secco; sembrava
malato.
Sara
ormai sentiva la morte vicina, ma dopo le coltellate che si era inferta non
riusciva a concepire un dolore maggiore. Osservando nuovamente la luna piena,
si rese conto che era passato un giorno intero da quando aveva messo a tacere quel sussurro nella sua testa, perché la
notte che era svenuta mancava soltanto un piccolissimo spicchio per completare
la fase lunare.
D’un
tratto, il lupo si accasciò a terra, poco lontano da lei, cadendo su un fianco.
Le fauci erano aperte, e il respiro affannoso. La notte era gelida come il
ghiaccio. Sara dovette muoversi soltanto di pochi centimetri prima di
appoggiare la testa sulle costole del lupo, addormentandosi fra il suo pelo
folto e caldo.
Che
cosa era successo quella notte? Il lupo era forse troppo stanco, troppo ferito
per ucciderla? O forse aveva letto in lei la medesima
la stanchezza, il medesimo dolore, e si era arreso al suo strano morbo, cadendo
addormentato? Sara non lo capì mai, neanche in futuro, ma in quel momento non
le passò neanche per un attimo nella testa l’idea che l’animale fosse un lupo mannaro.
Ancora una volta, Sara aprì gli occhi dopo un lungo sonno, che non
sapeva neanche lei quanto fosse durato. Ma dal lampo di luce che
assalì i suoi occhi abituati all’oscurità, si rese conto che doveva essere
pomeriggio. Il sole si avviava già, impercettibilmente, verso ovest, prossimo
all’inabissarsi dietro le fronte degli alberi. Un
vociare confuso e appena percettibile le arrivava ai timpani, e Sara lo
riconobbe come il parlottio della gente giù in strada. Non riusciva a vedere
del tutto Hogsmeade, perché la fessura dalla quale era entrata giorni prima
consentiva solo la visuale di un pezzo di cielo.
Quanti
giorni erano passati?
Uno
soltanto? Forse due, o ancora di più? Aveva perso la concezione del tempo.
Si rese
conto di essere tornata umana: nel suo campo visivo c’era una mano bianca
abbandonata sul pavimento, e le ci volle un po’ prima di riconoscerla come sua.
L’acre puzza del sangue le faceva quasi male alle narici. Sentiva le ossa e i
muscoli flaccidi ecompletamente
indolenziti dal troppo rimanere sdraiata sul pavimento duro e freddo.
E si sorprese
nello scoprire che la sua testa era appoggiata a qualcosa che non erano le assi del parquet. Dapprima non ci fece caso, forse
ancora mezza addormentata, poi ebbe un moto di sgomento fulminante quando si
accorse che c’era un altro essere umano in quella
stanza. Sentiva il sollevarsi e l’abbassarsi della pancia sulla quale aveva
poggiato la testa. Dapprima restò per quasi un minuto
paralizzata, con occhi sgranati, in fondo ancora incapace di muoversi.
Poi trovò, da qualche parte, le forze, e si girò sull’altro fianco, lentamente,
per guardare il faccia il ragazzo.
E si
accorse di averlo già visto. Era uno studente di Hogwarts.
Membro
del gruppo dei suo massimi persecutori, secondi
soltanto ai tre avvoltoi.
Sara si
drizzò di scatto, sorprendendosi della prima reazione immediata che aveva avuto
da quando s’era svegliata. In un attimo era balzata in piedi, e il respiro le si era fatto molto pesante. Non riusciva a ricostruire
ciò che era successo nelle ore precedenti. Ancora una volta rovistò nel suo
cervello, e le riapparve di fronte agli occhi quello strano labirinto rossastro
le cui pareti erano immagini in movimenti, simili a pellicole di un film. E poi ricordò del lupo, e della luna piena… ricordò tutto
quello che aveva visto e percepito prima di cadere addormentata. Fece un unico,
lungo passo verso le travi che inchiodavano le ampie finestre e riuscì a vedere
che nel cielo limpido era rimasta la sagoma della luna, piena e rotonda, che
sembrava schizzata con un gesso.
Allora
non era passato poi tanto tempo, pensò Sara, e se questo avrebbe dovuto
tranquillizzarla, la fece agitare ancora di più. Se ci
fosse stato uno specchio avrebbe visto la sua pelle
bianca diventare rossa come una fragola. Il cuore batteva così forte che ormai
se lo sentiva fuori dalla pelle.
Dunque
era con lui che stava parlando Silente quando gli aveva suggerito del passaggio
segreto sotto al Platano Picchiatore. Evidentemente
era un modo per evitare che qualcuno sapesse che era un lupo mannaro, o
semplicemente perché nessuno venisse morso.
I suoi
ragionamenti vennero interrotti da un mugolio simile
ad uno sbadiglio; voltandosi bruscamente vide che il ragazzo si stava
svegliando. Dapprima anche lui parve confuso almeno quanto Sara e, mentre si
guardava intorno, non spiccicò parola. Infine si alzò piuttosto faticosamente e
si diresse verso di lei.
- Bhe…
emh… ciao. - Tese la mano, come per un saluto, ma entrambi rimasero
zitti, prima di mettersi a ridere, incerti.
Le
spiegazioni furono lunghe e faticose.
- E’…
tuo, tutto quel sangue…? - chiese Remus Lupin. Sara abbassò per un attimo lo
sguardo, per poi risollevarlo molto più lentamente, annuendo. - Hai cercato di
tagliare il Marchio Nero, vero? -
Sara
stavolta non rispose ne fece cenni col capo. Si limitò
a fissarlo con occhi ancora più sgranati. - Non… non so di che parli. - disse
infine, evasiva.
- Non
importa nasconderlo, - ribatté Remus, con una voce priva di ostilità,
- Credo di averti sentita parlare, stanotte, mentre dormivi… beh, qualcosa sono
riuscito a capire. - e concluse con uno sguardo eloquente in direzione del
telaio di ferite che si delineava sul tatuaggio
raffigurante il teschio. Sara lo fissò per la prima volta, come ricordandosi di
averlo, e rimase sconcertata. Era veramente uno spettacolo terribile. Si affrettò
a tirare su la scollatura del maglione bianco ormai per metà marrone di sangue
vecchio. Remus sorrise a mala pena alla vista di quella sua lieve goffaggine.
- Eri tu…
quel lupo? - chiese di colpo Sara, lasciandolo disorientato.
- Sì, ero
io. - rispose tetro l’altro.
- E perché non mi hai morsa? - insistette la ragazza.
- Non lo
so. Ricordo sempre poco quando mi sveglio il giorno dopo… - e
troncò la frase su quell’ultima parola. Dopo qualche istante il suo
sguardo tornò su quello di Sara, che era un libro aperto. Era fin troppo
evidente che gli stava chiedendo altre spiegazioni. -
Mi ha morso un licantropo, quando ero piccolo, prima che venissi
qui. - Senza accorgersene, entrambi si erano seduti,
l’uno accanto all’altra, con la schiena appoggiata alla parete. - I miei
credevano che non potessi frequentare una scuola… ma Silente fece piantare il
Platano Picchiatore, così potevo venire in questo posto ogni notte di luna
piena. Altrimenti potrei mordere qualcuno. -
- Io
sarei contenta di poter mordere qualcuno. - disse gelidamente Sara.
- No,
sicuramente no. - ribatté Remus - Se sei venuta qui ad
accoltellarti. -
- Quella
è un’altra cosa, - Sara arrossì, - Lo faccio perché voglio che sparisca… non
perché ho paura di fare del male a qualcuno. Che mi importa
se qualcuno muore… -
Remus la
guardò negli occhi per un attimo.
- Lo so
che mi stai prendendo in giro… - continuò Sara a voce bassa, guardando il
pavimento con sguardo acquoso.
- Perché dovrei? Cosa ti salta in
testa? -
Sara scosse
la testa, - E così, tanto lo so… credi che… che non lo
sappia? Tutti a scuola sono così. Perché tu dovresti
essere diverso? Dillo, avanti. Dillo che… che sono…. sono un… un mostro… - aggiunse abbassando la voce tremante.
Remus le
posò una mano sulla spalla, costringendola a voltarsi.
- L’unico
mostro fra noi due sono io. - disse.
- Allora
è per questo che mi hai risparmiata? Perché siamo mostri entrambi? - ribatté Sara con sarcasmo.
- Tu sei
solo diversa, - disse Remus, - Cos’hai che dovrebbe
farti sembrare un mostro? -
Sara
tossì improvvisamente, prima di rispondere: - Questi… - disse, indicando i
lunghi canini, - …questo… - proseguì, indicando stavolta il Marchio Nero, - …e
poi questi. - concluse. Tirò su le maniche del maglione mostrando una lunga
serie di tagli, vecchi e nuovi, su entrambi gli avambracci. Se
Remus era inorridito, non lo dette a vedere.
- Ma perché… perché lo fai? -
- Te l’ho
detto. Perché sono un mostro. - rispose Sara, - Sono
un mostro e devo morire. Non lo so… è che mi viene voglia, quando sono
arrabbiata, quando… quando mi viene da piangere… perché lo so che è tutta colpa
mia… -
- Ti
capisco, - la interruppe Remus, - Ma di tutto quello che mi hai indicato non
c’è nemmeno una cosa che sia colpa tua. -
- Non avrei neanche dovuto nascere. - ribatté aspramente la
ragazza, - lo so che lo pensi anche tu. Tutti lo pensano. -
- Non
l’ho mai pensato, - disse l’altro, - e non lo farò mai. -
Sara non
trovò niente da ribattere: soltanto in quel momento si era effettivamente resa
conto che Remus non aveva mai fatto niente per esserle ostile. Cercò invano un
argomento che provasse che lui era esattamente come
gli altri, ma non riuscì a trovarlo.
Improvvisamente
Remus si alzò in piedi, scuotendosi la polvere dall’uniforme lacerata. Sara
invece rimane seduta, fissando il vuoto, profondamente meditabonda.
- Sarà
meglio che torniamo a scuola. -
- Non ci
tengo. - rispose Sara, seccamente.
Remus
sorrise scuotendo la testa, - Vuoi restare qui tutto l’anno? -
Sara
scrollò le spalle, ma alla fine dovette riconoscere che non era una bella
prospettiva quella di restare in quella stanza puzzolente per il resto dei suoi
giorni. Remus le tese la mano e l’aiutò a rialzarsi in piedi.
Non era
chiaro se ciò fosse ispirato all’improvvisa scomparsa di Sara o se semplicemente
le girasse così, ma Liz aveva ripreso la vecchia storia della piovra gigante e
di come l’aveva sollevata dall’acqua. Non c’era studente che non pendesse dalle
sue labbra, neanche quando diveniva fin troppo chiaro che la ragazza
aggiungesse particolari diversi e sempre più eroici, come un vecchio ubriacone
in un pub. Quando Sara riapparve sorridente per i corridoi, (a volte
addirittura facendo qualche risata, particolare non poco agghiacciante), per la
prima volta in compagnia di qualcuno, i tre avvoltoi e il loro corteo rimasero
paralizzati. Era scomparsa da qualche giorno, e naturalmente non avevano fatto
a meno di notare che quel lasso di tempo comprendeva anche il giorno di luna
piena. Non potevano sapere cos’era successo alla Stamberga Strillante soltanto
la sera prima.
Comunque
non avevano intenzione di dare a vedere il loro stupore e, sforzandosi di far
finta di niente, i racconti delle gesta della ragazza ripresero. Come al
solito, non appena Sara fu abbastanza vicina, Liz si premurò di alzare la voce
a sufficienza affinchè potesse sentirla.
- E
naturalmente Gray stava ferma a tremare come una foglia, non è servita proprio
a niente, ci ha fatto perdere tutti i venti punti che avevo guadagnato… -
-
Lasciale perdere, - bisbigliò Sara a Remus, tuttavia allungando vistosamente il
passo. Invece il ragazzo si era già diretto verso il gruppo. - No, aspett… -
inutile cercare di fermarlo senza alzare la voce, ormai non era più a portata
di bisbiglio.
- …
Kettleburn non finiva più di complimentarsi, sapete, a quanto pare sono degna
di saper preparare una pozione del genere… - proseguiva ignara Elizabeth.
- Ma di
che diavolo stai parlando, oca? - disse una voce poco lontano da lei, facendola
trasalire. - L’hanno visto tutti, è stata Sara e sollevare la piovra e
camminare sull’acqua. -
Impossibile
definire la faccia del piccolo corteo di adoratori quando videro Remus smentire
Elizabeth, tra l’altro chiamandola “oca”. Come il resto del suo gruppo usuale,
non ispirava la voglia di contraddirlo, ma piuttosto di ammirarlo
silenziosamente, anche se era il meno appariscente. Sara, almeno tre metri più
in là, aveva già una mano sul viso, mordendosi le labbra, ma sbirciava la scena
fra le dita e aveva uno strano divertimento represso negli occhi.
- Bhe, ma…
lei non… lei è… -
Prima che
potesse aggiungere altro Remus le aveva già dato le spalle e lui e Sara
ripresero il tragitto verso i Dormitori.
- Li
avrai tutti addosso, - disse Sara un po’ preoccupata, tossendo. - Le avvoltoie
sono terribili. -
- Non so
proprio come hai fatto a sopportarle per tutto questo tempo, - grugnì Remus con
un’espressione indignata che fece sorridere Sara. Non sapeva esattamente
perché, ma dal giorno prima ogni cosa sembrava farla sorridere, renderla
felice, ed era la prima volta nella sua vita che succedeva, che lei ricordasse,
dopo il Bacio di quel Dissennatore. - E’ anche un ignorante. Se ne sapesse
davvero qualcosa della Pozione Galleggiante, saprebbe anche che è impossibile per lei prepararla. -
- Che
cos’ha di tanto speciale? -
- Ma sei
matta? - rispose Remus - La inventò Demetrius Gray per far fuggire suo figlio
da Azkaban, Trasfigurandosi in un Dissennatore a tutti gli effetti e
mettendogliela nel cibo. Così lui scappò, non so come, e il tratto di mare
riuscì a farselo tutto a piedi. -
- Non
poteva nuotare? - chiese Sara.
- Le
acque intorno alla prigione sono stregate. Qualsiasi essere umano che prova a
nuotarci, annega. Demetrius era il più grande allievo che abbia mai avuto
Durmstrang, così riuscì a lanciare una maledizione: solo i più degni del suo
sangue sarebbero riusciti a preparare la Pozione Galleggiante in futuro… è un
bel rischio che chiunque sappia usare una pozione simile. Doveva impedire che
tutti potessero farlo. -
- E che
succede se uno che non è degno del suo sangue la beve? -
- Il
contrario… affoga. - rispose Remus.
Sara
emise un lungo sospiro liberatorio. Aveva letto gli ingredienti di quella
pozione quando era piccola, e non era stato un problema ripescarli da qualche
parte nel labirinto rossastro dei ricordi, non per lei. Aveva deciso di bere
quella pozione prima della punizione, per evitare che succedesse il peggio,
visto che non sapeva nuotare. Era una buona occasione per far schiattare
d’invidia i tre avvoltoi, nonostante poi il tentativo le si fosse in parte
ritorto contro. Adesso però che sapeva di aver rischiato di morire, non poteva
fare a meno di sentirsi infinitamente sollevata.
In tutto
ciò c’era soltanto una nota negativa, che non le faceva mai troppo piacere
farsi tornare in mente la sua famiglia. Non poteva averne piacere, del resto,
se il suo stesso capostipite aveva tentato di farla uccidere solo perché era
una Mezzosangue, una colpa inesistente che comunque non le apparteneva. E poi,
effettivamente, i suoi genitori le avevano parlato sempre molto poco dei suoi
avi, e i libri di Hogwarts non fornivano un grande aiuto: evidentemente, da
Demetrius in su, tutta la sua discendenza era avvolta di mistero. Era solo una
magra consolazione sapere che la maledizione di Demetrius l’aveva considerata,
stranamente, degna del suo sangue.
- Com’è
essere discendenti di Demetrius? - chiese di colpo Remus, sorridendo.
- E… eh?
Cosa? - farfugliò Sara colta di sorpresa.
- Bhe, in
genere i più grandi maghi del mondo non hanno mai avuto figli che potessero
esserne orgogliosi. Però sembra che tu non sappia niente di lui. -
- I miei
non ne parlavano mai. -
Remus non
rispose, e Sara, accorgendosi suo malgrado che stava rimuginando un’ipotesi, si
sforzò di chiudere la sua mente a una qualsiasi incursione di pensieri altrui e
pregò che si sbrigassero a salire le scale e raggiungere i loro Dormitori.
- E’
perché… insomma… è perché voleva uccidervi? - esitò il ragazzo.
- Perché
avrebbe dovuto volerci uccidere? - disse Sara.
Si stupì di
come fosse brava a recitare la parte dell’ignara.
-
Demetrius uccideva qualunque Mezzosangue, o qualunque Purosangue che ne
sposasse uno… anche se erano della sua famiglia. Era famoso per questo. Era
praticamente la sua vera professione. -
- Ma come
fai a sapere queste cose? Non le so neanch’io! È normale? - rise Sara.
- Bhe…
leggo. - Sara alzò scherzosamente gli occhi al soffitto. - E tu? Che hai fatto
per questi due anni? -
Sara si
accorse con immenso sollievo di essere giunta di fronte a Sir Cadogan, il
guardiano provvisorio dell’entrata che conduceva al suo Dormitorio. Ma se da
una parte era felice di poter rifuggire quell’argomento, dall’altra sentiva una
grande oppressione in fondo all’anima. Perché in fondo non aveva nessun altro
con cui parlare, con cui avesse mai camminato così a lungo per i corridoi. E
per la prima volta da quando era là, timidamente nella sua testa cominciò a
formarsi la definizione di “amico”.
Ma lo era
davvero?, si domandò, dicendo la parola a Sir Cadogan e salutando Remus.
Non era
un’altra presa in giro? Uno scherzo più perfido, più lungo, più logorante degli
altri? Non poteva darsi che fosse tutta una montatura per metterla in ridicolo?
L’immagine di Remus che rideva perfidamente coi suoi amici di averla illusa con
tanta facilità prese a tormentarle i pensieri come un demone, e di colpo niente
le sembrò più importante che lo scoprire la verità. Ma non voleva leggergli nel
pensiero, non avrebbe voluto, almeno. Le sarebbe piaciuto molto di più farsi
dire spontaneamente come stavano le cose, anche se sapeva che, in caso i suoi
tormenti fossero concreti, la cosa era impossibile.
Aveva
imparato ad odiare il suo innato potere in tutti quegli anni, lo aveva
detestato dal profondo del suo cuore, rendendosi conto che, fino a quel
momento, aveva ammucchiato dentro di lei uno strazio dopo l’altro, una vergogna
dopo l’altra.
Desiderava
profondamente potersi abbandonare la fiducia, ma era davvero il caso di farlo?
Era forse quel dubbio un’illusione dovuta alla paura di perdere l’unico amico
che potesse dire di avere? Come avrebbe voluto cessare di pensare a tutto ciò,
dormire e basta, e la mattina dopo svegliarsi pensando che in fondo le cose le
stavano finalmente andando bene! Tuttavia tre anni di torture le avevano
insegnato che la fiducia era un morbo più che una medicina, un morbo fatale.
Decise di addormentarsi seguendo per la prima volta il consiglio di Silente:
bevve la pozione della Pace e, cosa che non avrebbe mai sospettato, si sentì
stranamente tranquilla, anche se non felice, né minimamente pacifica.
I dubbi
non le erano passati. Però non aveva voglia di pensare a risolverli, né di
tessere qualche altra macchinosa ipotesi su quale fosse la realtà. Le bastava
sapere che per ora stava andando quasi tutto bene.
Silente
le aveva detto che molto probabilmente la Pozione non le sarebbe servita per
sentirsi allegra e in pace col mondo, come di solito tale filtro aveva il
potere di fare. Qualsiasi pozione agisse sul cervello, sullo stato d’animo,
sull’inconscio, aveva ben poco effetto su di lei. Un filtro della verità poteva
scucirle due frasi a mala pena prima che la sua mente si ribellasse, una
pozione della pace poteva soltanto trascinarla nell’apatia e l’unica cosa che
potesse veramente addormentarla era il Distillato della Morte Vivente.
Tossendo
ancora un po’, dopo aver dato da mangiare al corvo e aver preso il resto delle
medicine, Sara si ficcò sotto le coperte.
Aspettava
con ansia, per la prima volta, il mattino dopo.
22 novembre 1973, SCUOLA DI MAGIA
E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Era
probabilmente la prima volta dopo settimane che Sara frequentava le lezioni, e
non era stato molto bello scoprire di essere paurosamente indietro. Del resto
aveva studiato per conto suo, nella sua soffitta, soltanto le cose che le erano
sembrate più interessanti, constatando che si trattava quasi sempre di Arti
Oscure. Molto spesso aveva dovuto barare con qualche trucchetto mentale per
evitare che i professori le togliessero altri punti, dato che Serpeverde era
sempre più in basso in classifica, quasi ultimo. Ed era la prima volta anche
che Sara sentiva qualcosa che somigliasse all’orgoglio nell’appartenere alla
sua Casa.
Nel
tentativo di rimettersi in pari con gli altri aveva spesso frequentato la
biblioteca, trovandoci altrettanto spesso Remus, il quale l’aveva aiutata molto
con il ripasso, nonostante Sara gli ripetesse in continuazione che in quel modo
stava perdendo tempo per studiare le sue
lezioni. Al di là di quella premura, comunque, non le dispiaceva affatto che
studiassero insieme. Aveva notato che ormai trascorreva molto più tempo con lei
che con i suoi amici, e questo le produceva uno strano e inconfessato
sentimento di rivincita, del quale lei stessa si vergognava.
Nessuno
dei due faceva caso alle risatine ai commenti ancora più maligni che
echeggiavano non troppo sommessamente quando loro passavano; d’un tratto
avevano iniziato a sentirsi superiori, come se niente di tutto ciò potesse
veramente sfiorarli. Non si trattava di più della forzata noncuranza che
ostentavano prima, tentando di reprimere la rabbia. Adesso non importava loro
più di niente. Neanche della luna piena che si avvicinava sempre più
inesorabile.
Sara non
osava leggere i pensieri di Remus, anche perché i suoi dubbi si erano
dissipati. Tornavano alla luce ogni tanto, brucianti, maligni, ma non appena i
due ragazzi si incontravano e parlavano, ogni pensiero di quel genere svaporava
come non fosse mai esistito, e Sara si sentiva molto ridicola ad aver pensato
cose di quel genere.
Stava
lentamente imparando a controllare il suo potere e tutti i suoi effetti,
sorprendendosi che fosse possibile, e doveva ammettere che se non ci fosse
stato Remus non ce l’avrebbe mai fatta. Passavano molto tempo nella soffitta
adiacente alla Sala Grande, portandovi libri dal reparto proibito della
biblioteca, grazie alla Disillusione che entrambi avevano imparato.
L’annullamento a piacere dei poteri mentale di Sara - che Remus stesso aveva
impiegato molto per accettare dentro di sé - non richiedeva pochi sforzi.
Soltanto dopo un lavoro molto intensivo ci riuscirono, ma Sara stava sempre
peggio e si sforzava troppo per la sua condizione. Quando non pensavano a quel
problema, si divertivano ad andare sconsideratamente avanti col programma,
studiando incantesimi che di solito venivano presentati ai M.A.G.O., ridendo di
ogni tentativo fallito e provando sui gufi della scuola le stregonerie
relativamente più innocue.
Fu
durante uno di questi esperimenti che avvenne ciò che Sara non si sarebbe mai
aspettata. Non così presto.
- Le tre
Maledizioni Senza Perdono, - lesse distrattamente Remus da un vecchio libro
dall’aspetto vissuto e dalla copertina completamente nera. Era intitolato Magie Discutibili e Formule ad Esse Relative.
Remus evidentemente non si era accorto che Sara aveva fatto praticamente volare
via dalla grossa apertura sul muro che dava sulla Sala Grande il gufo che stava
tentando di far diventare un piccolo drago. Sara rimase ferma, senza curarsi
del tubare furioso dell’animale che volava di nuovo via verso la Guferia.
Lentamente abbassò la bacchetta ed i suoi occhi, rievocando immagini che
credevano sepolte, si inabissarono nel vuoto. - Che ne dici? Sarà il cas… Sara?
-
Remus si
era accorto di quell’improvvisa paralisi soltanto quando aveva alzato gli occhi
verso di lei, e le si era avvicinato.
- Sara? -
ripeté, ma lei per qualche istante non fece una piega.
- …Cosa?
Che hai… che hai detto? -
- Ho
detto… - disse Remus, incerto, - Siamo arrivati alle tre Maledizioni Senza
Perdono, ma non penso sia il caso di farle, insomma, se non ti… -
Inaspettatamente, Sara ebbe un mezzo mancamento e gli sprofondò sulla spalla
destra respirando ancora più piano e lentamente di prima. - Sara.. ho detto
qualcosa… qualcosa che non va? -
Sara ebbe
appena la forza per scuotere la testa.
Di colpo
tutto lo sforzo che aveva compiuto nei giorni prima le era precipitato sulle
spalle, curvandola improvvisamente a terra. Le era tornato in mente tutto,
tutto. Tutto ciò che risaliva alla sua infanzia… quelle Maledizioni… poi il
sangue dei suoi genitori… il Nottetempo… la paura, il terrore… e il
Dissennatore…
- Sara. -
Remus aveva abbassato la voce e l’aveva lentamente scossa per le spalle.
Sara
sentiva che le tornava uno strano bruciore nell’anima… di nuovo quell’istinto…
Ma si
trattenne. Doveva trattenersi. Tornò in posizione eretta, poi entrambi si
sedettero uno di fronte all’altra.
- Remus…
c’è una cosa… una cosa che… non ti ho mai detto… - iniziò Sara avvampando e
congelandosi insieme ad ogni parola che pronunciava. - Io penso che sia… s…sia
ora di dirtelo, ma… mi devi promettere che non lo dirai a… a nessuno… -
- Te lo
prometto, Sara. -
La
ragazza lo guardò negli occhi e non ebbe bisogno di scrutare i suoi pensieri
per rendersi conto che non l’aveva detto per ascoltare il suo segreto, ma era
sincero. Sara deglutì cercando di placare il tremore della sua voce, poi
riprese a parlare.
- I miei
genitori sono morti… - Remus probabilmente pensò che non era un segreto così
inconfessabile, ma non diede a vedere neppure quell’impercettibile punta di
scetticismo che avevano i suoi occhi. - Ma… non… non li ha uccisi Demetrius…
non è stato un suo sicario… non hanno avuto un incidente, niente… niente di
tutto questo… -
Remus
avrebbe voluto non sentire mentre Sara pronunciava le parole “Sono stata io.”
Una frase
definitiva, priva di tremito, di tono, perfino d’espressione. Una frase che
bastava a tramutare la verità in un atto irreversibile, definitivo,
incancellabile. Purtroppo, non poté tapparsi le orecchie né obbligare i suoi
timpani a non funzionare. Sara aveva abbassato la testa così tanto che le si
vedevano solo i capelli, ma probabilmente stava piangendo il silenzio. Remus
tentò di non reagire in nessun modo, le rialzò solo la testa posandole una mano
sulla guancia.
Sara lo
guardava con gli occhi gonfi grondanti lacrime, e dentro di sé sembrava
invocare ad un qualche dio invisibile un perdono che non poteva ottenere.
Contro ogni aspettativa di Remus, Sara riprese a parlare senza bisogno di
alcuna richiesta, quasi che volesse svuotarsi del tutto.
- Io…
avevo cinque anni, e l’ho saputo… loro lo sapevano da quando… s…si… da quando
si erano… sposati… e me lo dissero, che Demetrius… ci voleva uccidere… perchè
mio padre era un traditore, aveva sposato una… Babbana… e io ero nata
Mezzosangue… - Remus ascoltava in silenzio ma aveva gli occhi sgranati dallo
sconvolgimento - Li odiavo perché… non volevo morire, volevo vi… vivere… e ho
imparato la Maledizione Cruciatus… ci ho provato, a… a trattenermi ma non ce
l’ho fatta… gli davo tutta la colpa… e poi li ho uccisi… con la Maledizione.. e
dopo li ho… li… ho.. - Sara si interruppe e scoppiò in un’altra serie di
singhiozzi, nascondendo il viso tra le mani.
- Sara…
parla. Devi parlarne, capisci? - disse Remus con voce atona.
- No! No!
Non ci riesco! - gridò Sara crollando in avanti. Il ragazzo la sorresse,
cercando di calmarla. Alla fine Sara decise di concludere. - Li ho
accoltellati. - soffiò, sospiro che per Remus sembrò una tormenta. Non riusciva
a credere alle parole che aveva sentito, neanche a una.
- Sono
scappata… e un Dissennatore mi ha attaccata… ma.. Silente era lì… e mi ha
salvata, lui… l… lui non lo sapeva… -
E a quel
punto non parlò più, si limito a piangere ininterrottamente, malgrado la sua
voce si abbassasse sempre più e fosse spesso interrotta da singulti di tosse.
- E’
meglio se… se vai a letto. - disse Remus a voce abbastanza alta perché potesse
sentirlo. Non era ancora così tardi, ma in quel momento la cosa migliore da
fare gli sembrava lasciarla in pace a dormire. Sara annuì, tremando dalla testa
ai piedi.
Remus le
prese il polso destro facendole passare il braccio intorno al suo collo, e
l’aiutò a scendere le scale senza cadere. Gli pareva che potesse svenire da un
momento all’altro. Entrambi si Disillusero per evitare commenti da parte di chi
passava, e tentando di fare meno rumore possibile raggiunsero l’entrata del
Dormitorio dei Serpeverde, che allora si trovava al piano più basso della Torre
Nord.
- Chi va
là? - tuonò Sir Cadogan. I due spezzarono l’incantesimo d’invisibilità.
- Ignobile furfante. - sussurrò Sara.
- Bada a
come parli! - Sir Cadogan si spostò mostrando l’entrata per la Sala Comune.
Sara non sembrava intenzionata ad entrare, come se si stessero aprendo di
fronte a lei le porte di un abisso.
- Buonanotte.
- disse a voce ancora più bassa, rivolta verso Remus.
-
Buonanotte, Sara. - rispose Remus, baciandola sulla fronte.
Remus non
aveva fatto in tempo a tornare alla Sala Comune dei Grifondoro che aveva
ricevuto la peggiore delle accoglienze. James, Sirius e Peter erano tutti e tre
immersi nelle poltrone rivestite di raso rosso, vicino al caminetto acceso, ed
erano apparentemente molto impegnati sui libri. Fuori il cielo era buio a causa
delle nuvole nere che riversavano sul castello una pioggia di fiocchi di neve.
Remus non poté fare a meno di sentirsi ridicolo quando, al suo arrivo, tutte le
chiacchiere si assopirono. Gli studenti in Sala Comune lo guardarono per un
attimo, poi storsero la bocca e tornarono alle loro occupazioni. James, Sirius
e Peter non si sforzarono nemmeno di alzare gli occhi.
Non
risposero neanche al suo saluto e sembrarono non fare una piega quando Remus si
sedette accanto a loro.
- Bhe?
Che è successo? - Nessuno rispose, James si limitò a schioccare le labbra in un
sonoro tsk. - Andiamo, che vi prende?
-
- Perché
non ce lo dici tu? - disse aspro Sirius.
- Come va
con la non-morta? - aggiunse James, scatenando qualche risolino isterico da
parte di Peter.
- Che
vuoi dire? -
- Tutti
sanno che i vampiri sono dei non-morti, - rispose James con tranquillità, - E
Gray non sembra molto in forma, vero? - Remus dovette compiere un grande sforzo
per controllarsi, cosa che, vista la sua espressione, non passò inosservata.
Fulminò Peter con lo sguardo, facendolo istantaneamente ammutolire.
- Mi dite
che cos’avete contro di lei? -
- Ah,
andiamo! Ma non lo capisci che non è normale? -
- Non è
affatto un vampiro, se vuoi saperlo. - rispose gelidamente Remus.
- No,
certo! - sbottò Sirius - E allora come mai tutti hanno sentito Madama Chips che
affermava il contrario? Come li spieghi i suoi denti? -
- Lo
hanno sentito solo quelle tre galline di Serpeverde. Se vuoi fidarti di loro… -
Sirius
per un attimo sembrò non trovare nulla da ribattere. - E allora? Ti sembra una
persona normale lo stesso? Ma via, si
capisce subito che ha dei problemi… -
-
Mettiamo che li abbia… vi sembra che sia un motivo per prenderla di mira così?
Come siete stupidi! -
- Però
sono quasi tre anni che sparisci tutti i mesi senza dirci il perché, - fece
presente Peter dal suo angolo, più riparato possibile dalla discussione.
L’offesa non sembrava averlo toccato più di tanto, forse perché era fin troppo
abituato ad essere definito “stupido”.
- Tu - cosa - diavolo - ne - sai? - abbaiò
Remus, zittendolo di nuovo. Si stupì perfino lui di quell’improvviso scatto
d’ira, ma visto il tasto che Peter aveva toccato, non era riuscito ad impedirsi
quella reazione.
- Mettila
così, - lo interruppe James, alzandosi e ficcando alla rinfusa tutte le sue
cose nella borsa. Uno dopo l’altro, anche gli altri lo imitarono. - Se sei così
tanto preso dal frequentare mostri da dimenticare chi sono i tuoi veri amici, da questo momento sei fuori. A
mai più rivederci. -
Remus
guardò i tre allontanarsi senza batter ciglio, domandandosi con uno sbuffo come
potesse considerare “amici” delle persone del genere. Quei pochi studenti che
ancora si erano trattenuti in Sala Comune avevano assistito alla scena con la
coda dell’occhio, ma adesso non si preoccupavano più di tanto di nascondere i
loro sguardi. Avevano osservato increduli il gruppo sciogliersi con quella
freddezza e così all’improvviso, ma ora i loro occhi fissavano Remus ogni tanto
come fosse stato spazzatura.
Il
ragazzo non aveva avuto tempo di rendersi conto della situazione, perché stava
ancora pensando a quello che gli aveva detto Sara prima di andare a dormire.
Nella stanchezza e nella spossatezza, gli strascichi della discussione gli
pesavano ancora; l’immagine di Sara in lacrime, appoggiata alla sua spalla, e
il terribile segreto del quale nessuno era a conoscenza erano solo due dei
pensieri confusi che aleggiavano nella sua testa.
Quelli
che aveva sempre creduto amici fino a quel momento gli sembrarono di colpo
ciechi e stupidi. Lui che aveva visto Sara in quello stato, in ginocchio sotto
al peso della sua coscienza, non poteva non odiare a morte tutti coloro che non
capivano. Non capivano niente, non sapevano nulla di lei.
E poi gli
era tornato in mente che fra meno di due giorni ci sarebbe stata la luna piena.
Non si era quasi accorto di sentirsi sempre più stanco, quasi malato, con tutte
le cose che erano successe… ma quel litigio lo aveva riportato bruscamente alla
realtà. Almeno, adesso che il gruppo si era diviso, non ci sarebbe stato più bisogno
- forse - di inventarsi scuse sempre più ridicole per giustificare le sue
sparizioni.
Che la
fine della loro amicizia dipendesse da quel segreto? E da tutti gli altri segreti, che si stavano sempre
più accumulando. Remus non ci pensò, dicendosi che in fondo non avrebbero mai
litigato per una stupidaggine del genere se fossero stati veramente “amici”.
28 novembre 1973, SCUOLA DI MAGIA
E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Sara in
quel periodo si sentiva decisamente sollevata, ma Remus non possedeva certo un
simile stato d’animo. Alla ragazza, che vedeva tutto quanto sotto una luce
diversa, sembrava che qualsiasi cosa la circondasse avesse acquistato vita. Si
era liberata della pesante zavorra che quel segreto le causava, e si sentiva
decisamente meglio. La sua situazione fisica non era certo migliorata, ma tutti
avevano notato che psicologicamente era impossibile abbattere la sua nuova
visione del mondo. Conservava ancora una nota evidente di pessimismo e di
sarcasmo, che aveva sempre considerato armi ineffabili per la “sopravvivenza”.
Sapeva che le persone che la circondavano non avevano smesso di considerarla
come la consideravano prima, ma la differenza era che, adesso, la cosa non la
sfiorava neanche.
Per
Remus, invece, la differenza sembrava essere fatale. Riusciva a nascondere
molto bene il suo stato d’animo, ma non poteva evitare che Sara si accorgesse
della burrasca scatenatasi dentro di lui. Non era necessario leggere nel
pensiero, non ci voleva un Legilimens per comprenderlo. Sara aveva avuto sotto
gli occhi le menti e i ragionamenti di troppe persone per non conoscere tutti i
meccanismi di quel genere di cose. Si era chiesta spesso se quell’eccessiva
perspicacia desse fastidio a Remus, ma era veramente troppo felice per
preoccuparsene. Si accontentava di sapere che qualsiasi sofferenza, qualsiasi
pecca in quella situazione perfetta, restasse inespressa.
Era il
giorno prima della luna piena, e Sara se n’era ricordata soltanto quando Remus
le era apparso davanti con la peggiore delle sue espressioni. Aveva un volto
logoro, simile ad un vecchio straccio, due linee violacee molto pronunciate
sotto gli occhi ed un’espressione di eterna sonnolenza. Era molto pallido, non
ancora quanto lei, ma di certo non stava bene.
- Senti,
i Lupi Mannari sono pericolosi soltanto per gli esseri umani, vero? - chiese di
colpo Sara, e la domanda sembrò spiazzare Remus. Stavano camminando per il
parco nonostante il freddo glaciale, cercando di evitare le micidiali bordate
di palle di neve che ogni tanto qualcuno sparava loro contro.
- Sì. -
non ebbe il tempo di aggiungere “perché me lo chiedi?”. Gli era venuto in mente
dopo che Sara non aveva ragione di fare una domanda simile.
- Allora
vengo con te, domani notte. - dichiarò Sara con sicurezza, un’espressione che
non voleva ammettere d’essere contraddetta. Si stupì lei stessa di aver
acquistato anche una fiducia in sé stessa tale da permetterle di affermare una cosa, invece che chiederla.
- Neanche
per sogno, ti ha dato di volta il cervello? - protestò Remus voltandosi con gli
occhi sgranati e uno sguardo preoccupato. - Puoi scordartelo. E se ti mordo? E
comunque cosa c’entrano gli animali? -
- Non te
lo ricordi? -
- Che…
che cosa? -
Remus non
ricordava. Qualsiasi cosa Sara intendesse, non riusciva a cogliere un nesso.
Sara si guardò più di una volta intorno, per accertarsi che nessuno la stesse
ascoltando (o prendendo di mira con una palla di neve), poi si alzò sulla punta
dei piedi, accostandosi all’orecchio di Remus e gli bisbigliò: - Sono
un’Animagus. -
Le nuvole
che scorrevano, mosse dal vento, drappi scuri sfumati di perla, lasciavano
apparire ogni tanto la luna piena: un disco pallido incrostato d’argento che si
ergeva nel cielo nero come il petrolio. Le stelle erano pressoché invisibili
nella notte nuvolosa. Il tempo minacciava pioggia, ma per il momento c’era solo
il vento. Raffiche crudeli, fredde come il ghiaccio, assalivano la pelle come
punte di mille aghi, tirandola e flagellandola, anticipando la perfida morsa
dell’inverno che ormai era quasi del tutto sopraggiunto.
La
superficie del lago era increspata e tremula, non più cristallina e piatta;
nessuna piovra sguazzava appena sotto il pelo dell’acqua. La luna coi suoi
stracci di nubi si specchiava sulla massa d’acqua come sui frammenti di uno
specchio rotto. I fili d’erba s’agitavano e si flettevano al vento. Le foglie
degli alberi stormivano minacciose, i versi di qualche animale si disperdevano,
disfacendosi con le raffiche; il parco di Hogwarts sembrava un’unica immensa
entità spettrale foderata di notte e di oscurità, non più relativa al castello
o a qualsiasi altro posto, era un mondo a parte.
Il freddo
pungeva sempre più.
D’un
tratto, in un tenue frullio d’ali, un uccello nero dal rapido volo giunse nei
pressi di un grosso albero i cui rami fremevano appena. Era il Platano
Picchiatore. Pareva la sentinella di tutto il paesaggio, stagliato lì, contro
la cartapesta del cielo notturno.
Il
Platano si svegliò, cercando di colpire il corvo, ma non ci riuscì. Era troppo
veloce, e in un attimo, con un lungo gracchio, aveva fatto cenno a qualcosa di andare. Un qualcosa che
aveva quattro zampe. Era un lupo. Con una corsa quasi sfrenata raggiunse
l’apertura creatasi nel terreno, e, un attimo prima che si richiudesse, il
corvo lo seguì per il corridoio sotterraneo.
*
Prima di Natale e nel giorno
stesso, SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Era tutto
l’anno che gli studenti si lamentavano della recente e incomprensibile
decisione di Silente di tenere le classi miste fra studenti che avessero anche
due anni di differenza. Così, il terzo anno di Tassorosso faceva lezioni di
Erbologia con il secondo di Corvonero, e al primo di Serpeverde toccavano
lezioni di Cura delle Creature Magiche insieme al terzo anno di Grifondoro. In
particolare erano stati gli studenti più grandi a lamentarsi della situazione,
ma anche la maggior parte delle famiglie e dei professori la ritenevano un’idea
brillante, e non c’era segno di cambiamenti in vista. Sara non era molto felice
di dover frequentare due ore di Cura delle Creature Magiche insieme a James
Potter e gli altri, ma non aveva scelta, avendo promesso a Remus di non saltare
più neppure una lezione.
Quel
giorno il professore Kettleburn li aveva condotti ai confini esterni della
Foresta Proibita, affermando che stava avvenendo un fenomeno molto raro: i
Thestral si allontanavano dal cuore della foresta con i loro cuccioli appena
usciti dalle uova, per portarli a vedere l’esterno e brucare erba fresca.
- I
Thestral sono bizzarri ibridi animali in parte ruminanti, - spiegava il
professor Kettleburn, - I loro cuccioli non sono ancora carnivori, iniziano a
digerire la carne soltanto quando hanno sei mesi, ma sono ugualmente attratti
dal sangue. -
Il fatto
che i Thestral fossero attirati dal sangue probabilmente gettava nello
sconforto la maggior parte degli studenti, che dovevano già considerarle bestie
poco simpatiche. Aspettarono per quasi mezz’ora appostati fra i cespugli senza
riuscire a vedere niente, ma finalmente si sentì un fruscio e un lieve
scalpiccio di zoccoli. Sara strizzò gli occhi per vedere meglio e notò che
dalla fitta boscaglia stavano emergendo gli animali più strani che avesse mai
visto. Le sembravano incroci fra cavalli e serpenti, e avevano anche qualcosa
preso dai draghi. Nessuno osava proferir parola, perché il professor Kettleburn
aveva annunciato a inizio lezione che alla prima chiacchiera li avrebbe sospesi
a vita dalle lezioni.
Il primo
grosso cavallo-rettile che aveva visto era accompagnato da quello che
sicuramente era un puledro. Due piccole alucce gli spuntavano dalle spalle, e
aveva quattro gambette sottili e tremule. Aveva un qualcosa di tenero,
nonostante le evidenti fattezze di rettile. Rimasero per la maggior parte delle
due ore ad osservare i Thestral, e Sara avrebbe voluto restarci ancora un altro
po’, se non che il piccolo branco avvertì un fruscio di foglie da qualche parte
e tornò ad inoltrarsi nella foresta.
Quando fu
certo che tutti i cavalli se ne fossero andati, il professor Kettleburn si alzò
tutto contento e disse: - Allora, chi di voi li ha visti alzi la mano. -
Sara alzò
la mano insieme a poche altre persone, ma rimase stupita quando scoprì che non
tutti erano riusciti a vedere gli animali. Com’era possibile? Erano così bene
in vista! Erano usciti completamente dalla Foresta, ed erano lì, proprio
davanti a loro. Si accostò all’orecchio di Remus.
- Non li
hai visti? Sei fuori? - disse, vedendo che non aveva la mano alzata. - E… erano
vicinissimi! Come hai fatto a non accorgertene? -
- Li ho
solo sentiti. - sorrise Remus alzando le spalle.
- Dunque,
volevo dirvi… - li interruppe il professore, - Che non tutti possono vedere i
Thestral. Essi sono sempre stati considerati animali col malocchio perché
soltanto coloro che hanno visto la morte possono scorgerli. Ma non sono
pericolosi. Amano molto il sangue e sono carnivori, certo… ma non fanno niente
di male. Quelli di Hogwarts - e non agitatevi così! - tirano le carrozze per
quelli dal secondo anno in su, sono mansueti. Adesso voglio che la prossima
volta chi li ha visti ne abbia fatto un disegno dettagliato, e chi invece non
li ha visti dovrà portare un tema, - aggiunse, ignorando le proteste di quasi
tutti quelli che non erano stati in grado di vedere i Thestral.
Sara
provò solo ad immaginarsi quale altro epiteto le avrebbero riservato a scuola,
una volta che tutti avessero scoperto che lei aveva visto la morte.
Il suo
rassegnato rimuginare fu interrotto in corridoio quando sentì che Remus
rifletteva a voce alta: - Vorrei poterli vedere anch’io… -
- Ti
piacerebbe vedere la morte? - ribatté Sara, di colpo proiettata in un abisso.
- No, no,
- si affrettò a precisare Remus, accorgendosi di quell’improvviso cambiamento
di stato d’animo, - E’ solo che penso sarebbe bello poter vedere una cosa che
gli altri non vedono… cioè, il professor Kettleburn mi ha messo addosso la
curiosità. Non ci posso fare niente. -
Sara si
limitò ad annuire, anche perché quando aprì bocca per rispondere, la
professoressa McGranitt stava già abbaiando loro di tornare immediatamente in
classe.
Durante
la notte era caduta moltissima neve, tanto che era stato necessario un
incantesimo per liberare il sentiero che conduceva al castello di Hogwarts. Era
la mattina del venticinque dicembre e quasi tutti gli studenti si erano già
svegliati da un pezzo e avevano scartato freneticamente i loro regali. O almeno
quelli che non erano tornati a casa per le vacanze, e ne erano rimasti molto
pochi. Remus era solo nella sua camera quando il forte riverbero dei raggi del
sole sulla neve lo svegliò, e si accorse che erano già le undici passate.
Soltanto quando vide i regali ai piedi del suo letto si ricordò che era Natale,
nonostante la sera prima, come tutti gli studenti, non avesse fatto che
pensarci.
Notò che
i suoi ex-amici continuavano a fargli regali per pura forza d’inerzia, ma la
cosa che lo stupì fu il pacchetto non firmato che era mezzo nascosto dagli
altri. Fu il primo che aprì. C’era una statuetta che non si sarebbe mai
aspettato di vedere. Su un piano orizzontale ampio come la sua mano aperta era
intagliata una vegetazione estremamente dettagliata, praticamente identica a
quella che stava davanti alla Foresta Proibita, dove erano stati a “vedere” i
Thestral con il professor Kettleburn.
Sopra
l’erbetta e i funghi stava una specie di cavallo nero insieme col suo puledro:
però era anche simile ad un rettile, non solo ad un equino. Era veramente
scheletrico, sembrava quasi malnutrito, ma il suo sguardo malvagio incuteva
timore più che pietà.
Le ali
ripiegate verso i fianchi sembravano quelle di un drago o di un dinosauro
volante, e quelle del cucciolo erano ancora piccole e mezze rattrappite.
Il muso
era quello di un cavallo, ma era anche la parte più strana, un po’ peloso, un
po’ squamato, con occhi da rettile. La statuetta non si muoveva, a differenza
di tutte le altre che Remus aveva visto, ma era precisa e ben colorata come
fosse stata una foto tridimensionale. C’era una piccola pergamena scolpita alla
base della scultura, e sopra c’era scritto: “Thestral”. Fu a quel punto che
Remus cominciò a capire chi glielo aveva regalato.
- Ti
piace? -
La voce
lo fece sobbalzare e per poco non gli caddero di mano i due mini Thestral.
Voltandosi, vide che dietro di lui era comparsa Sara, già vestita e sorridente.
- Sara!
Non dirmi che l’hai… l’hai… l’hai fatto tu? -
- Con la
magia, non illuderti. - disse Sara, - Non riesco a scolpire senza bacchetta! Ho
chiesto apposta a Kettleburn di ridarmi il disegno del Thestral che avevamo
fatto… Guarda un po’. - gli prese dalle mani la statuetta, e puntandole contro
la bacchetta, disse a bassa voce: - Vola.
-
Gli occhi
di entrambi gli animali si illuminarono e il più grande, la madre, dispiegò le
grosse ali e cominciò a volare e planare in cerchio intorno alla stanza, sotto
lo sguardo sbigottito di Remus. Poi il cavallo atterrò sulla scrivania, dove
Sara aveva poggiato il piedistallo, e aiutò il cucciolo a librarsi a sua volta
nell’aria.
- E’… è…
è splendido. Come hai fatto? -
- L’ho
stregato, così si muove. Ho trovato l’incantesimo tre giorni fa su uno di quei
libri per la preparazione ai M.A.G.O. - rispose Sara, - Comunque sono venuta a
ringraziarti. Era bellissimo quel libro di Incantesimi
Ideali per Farsi Espellere. -
- Basta
che non ti fai espellere davvero. -
- Ci
proverò, - rise Sara, e insieme scesero nella Sala Grande.
1 febbraio 1974, SCUOLA DI MAGIA E
STREGONERIA DI HOGWARTS
Remus
dovette ammettere che, da quando Sara lo accompagnava alla Stamberga Strillante
ogni notte di luna piena, le cose andavano molto
meglio. Era come se qualcosa dentro di lui si calmasse, come se la bestia che
aveva sempre avuto dentro si assopisse, lasciando il posto alla sua parte più
umana. E in un certo senso facendolo sentire, da umano, molto
più tranquillo. Non sapeva se Sara ricorresse a qualcuno dei suoi poteri
mentali per calmarlo, ma gli piaceva credere che non fosse così, che la cosa
non fosse mai stata necessaria… anche
Sara gli
aveva detto che lei non faceva niente. Si appollaiava sul pavimento e lì
restava, sveglia fino all’alba. Dato il sonno che aveva, per lei era un
problema affrontare le lezioni, ma non le importava granchè. Una luna piena era
capitata il trenta dicembre, quando tutti erano ancora in vacanza, e un’altra
un venerdì di gennaio, fortunatamente di fronte ai due giorni festivi del
weekend.
Da un po’
Sara aveva cominciato a tenere d’occhio il calendario per sapere sempre con
certezza quali fossero le notti fatidiche, e studiava
ogni libro possibile ed immaginabile per tentare di scoprire una pozione. Il
Reparto Proibito per lei, ormai, di proibito non aveva più niente. Non sapeva
che una pozione risolutiva per la licantropia era inesistente, perciò
continuava a cercarla in ogni libro le capitasse a
tiro.
- Ma i tuoi amici non si preoccupano? - disse gelidamente
Sara, - Sparisci tutti i mesi e non hanno nemmeno un filino di dubbio su dove
vai? -
- Bhe,
meglio così. - commentò Remus alzando le spalle. Sara lo guardò con un sorriso
storto, alzando il sopracciglio e socchiudendo le palpebre. - Che c’è? - farfugliò Remus messo a disagio da quello sguardo
penetrante.
- Mi
nascondi qualcosa… - ghignò scherzosamente Sara.
- No, che
dici! Non ti nascondo niente! -
Remus non
voleva che sapesse del fatto che ormai lui non aveva altri amici all’infuori di
lei. Non voleva che credesse di averne tutte le colpe, come era
solita fare; preferiva risparmiarle qualsiasi notizia di quel genere, visto che
aveva scoperto com’era felice di vederla tranquilla e allegra.
- Guarda
che ti leggo nel pensiero, - minacciò Sara alzando l’indice.
Remus
sbuffò, - Bhe… abbiamo litigato. -
- Tutto
qui? - Sara fece spallucce, ma intanto l’indice le era
rimasto alzato. In effetti non si sarebbe mai
aspettata che i cosiddetti “Malandrini” litigassero. Non aveva ancora sentito
tutto.
- E… bhe, diciamo che sono fuori. -
- Fuori da che? -
- Dal
gruppo. - rispose Remus con noncuranza. L’indice di Sara s’era fossilizzato.
Squadrò
per un attimo il ragazzo, fermandosi sui due piedi in mezzo al corridoio. Aveva
abbassato ancora di più le palpebre, come avrebbe fatto per prendere meglio la
mira.
- E’ per
causa mia, vero? - chiese, con tono infinitamente colpevole, e Remus fu come colpito da una mazzata in testa. Era la domanda che
si era sempre aspettato ma che insieme aveva sempre sperato non dovesse mai trovarsi di fronte. Per fortuna gli venne una
risposta plausibile appena in tempo.
- No, tu
non c’entri. È solo che cominciavano a insospettirsi
del fatto che non ci sono mai una volta al mese… loro non lo sanno perché. E non vale la pena essere amici se poi ci sono tutti questi…
segreti, insomma. -
- Allora
sei tu che sei sgombrato. -
- Eeh.. sì, sì… certo. Sono io. Sì. -
Non ci
voleva molta perspicacia per dedurre che Sara non ne era
affatto convinta.
*
Hogwarts è uno zoo di mostri?
Secondo recenti testimonianze da
parte di uno studente di Serpeverde (Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts)
che ha preferito mantenere l’anonimato, la scuola sarebbe covo di ogni genere di mostruosità, per altro illegali o
ufficialmente bandite dal Ministero della Magia.
Sembra che Sara Gray, studentessa
di Serpeverde di cui si è molto parlato in questi giorni, possedendo il sangue
dei suoi celeberrimi avi, sia non solo parzialmente vampira ma anche Animagus.
Per la precisione sarebbe in grado di cambiare aspetto trasformandosi in un
corvo, sempre secondo le dichiarazioni del nostro anonimo informatore.
- Escludo a priori - dichiara la
ben nota Dolores Jane Umbridge, assistente del Ministro della Magia e prossima
alla nomina di Sottosegretario
Anziano del Ministro, - che esistano Animagus
non segnalati al Ministero della Magia. Non vi sono corvi o altri volatili che possano rassomigliarvi nella nostra lista, ma eseguiremo dei
controlli per evitare critiche: rassicuriamo i lettori, promettendo che grazie
ai nostri test non ci saranno più Animagus non segnalati ad Hogwarts. -
Tuttavia non possiamo ancora essere tranquilli.
Sara Gray è ancora sulla cresta
dell’onda di una lunga serie di misteri: secondo le testimonianze lei ed un
altro studente di Grifondoro spariscono regolarmente una volta al mese senza mai rivelarne le ragioni: coloro che si sono
fatti un’idea maliziosa resteranno delusi e sconvolti. Le uscite dei due
ragazzi corrispondono alle notti di luna piena e lo studente di Grifondoro
sembra appaia sempre di pessimo aspetto prima di
queste notti. Dobbiamo sospettare un lupo mannaro?
Il nostro informatore è convinto
di sì. Ed afferma, peraltro, di aver assistito alla
corsa per tutto il parco della scuola da parte della mostruosa bestia.
- Ben presto anche i Lupi Mannari
non saranno più un problema, - dichiara ancora una volta la Umbridge,
- Non si può condannarli sotto nessuna accusa, purtroppo, ma le nuove Norme di Controllo di Creature
Magiche Pericolose garantiranno
finalmente la sicurezza ad ogni onesto mago e strega della Gran Bretagna. I
controlli a sorpresa a Hogwarts includeranno anche un accertamento di questa
situazione. -
Non è finita. Torniamo ancora una
volta a Sara Gray. Il nostro informatore non è l’unico studente a notare che
porta sempre una bendatura all’altezza delle clavicole, ma a differenza degli
altri studenti, l’anonimo è in grado di affermare con certezza che si tratta di
un marchio a forma di teschio, apparentemente tracciato a fuoco. Cosa dobbiamo aspettarci ancora?
- Che
cosa fa Silente, dorme? - gridano i dipendenti del Ministero, indignati.
E non sono gli unici!
Rita
Skeeter.
- Ehi,
mostriciattoli! Paura del dottore? - gridavano gli studenti ogni volta che Sara
e Remus passavano per i corridoi, e si riferivano certo alla squadra del
Ministero della Magia che sarebbe venuta a sorpresa a Hogwarts per svolgere dei
test su ogni alunno. Sarebbe venuta loro la voglia di Disilludersi anche per
fare due passi, ma l’invisibilità reciproca era
scomoda per muoversi in un gruppo di persone e soprattutto per parlarsi.
- Quella Rita Skeeter! - ringhiava Sara come non aveva mai
ringhiato, strappando ogni copia della Gazzetta
del Profeta che le capitava a tiro. Aveva gettato ogni cartoccio nel fuoco
dopo averlo ridotto in frantumi, ma sapeva che questo non sarebbe
servito a cambiare le cose - Se faranno quegli stupidi controlli è soltanto
colpa sua e di quel pezzo di merda che ha fatto la spia! Ma
Silente dov’è, eh? Al cesso!? -
- Ehi,
calmati, Sara… ce la caveremo, - diceva Remus cercando di ammansirla.
- No, io me la caverò, non tu! Non puoi illuderli di non esistere,
e io non posso farlo per te se eseguiranno quelle analisi separatamente. Da
lontano non ci riesco. Svengo sempre. Bhe, troveremo un altro modo. Pensi che
si possa nascondere di essere Lupi Mannari? -
rifletteva a voce alta Sara, inarrestabile.
- Ci saranno dei Guaritori, immagino. Con una Pozione non ce la
faremo. -
- E se
magari Demetrius ne avesse inventata qualcuna e
l’abbia maledetta come la Pozione Galleggiante? Di sicuro i Guaritori non
sarebbero in grado di riconoscerla, e potremmo… -
- Nessuno
della tua famiglia era un Lupo Mannaro, che importava a Demetrius di far
qualcosa del genere? -
- Bhe,… così… tanto per fare il
grosso… -
Erano
discussioni che cadevano nel vuoto.
L’ispezione
avrebbe potuto essere in qualsiasi giorno, e in tutto quel parlare né Sara né
Remus avevano ancora trovato un modo per risolvere la
situazione. Intanto la situazione peggiorava. I due erano vittime di ogni genere di scherzo. Prima erano stati bersagliati da
una Pozione Appiccicante, e Remus aveva dovuto andare
in infermeria sotto gli occhi di tutti con una mano sulla spalla di Sara
nell’atto di una pacca amichevole.
Un’altra
volta qualcuno aveva lanciato un Incantesimo di Adesione
Permanente su una serie di disegni osceni raffiguranti vampiri e lupi mannari
che erano rimasti sulle pareti dei corridoi fin quando Silente non era
intervenuto e aveva sospeso seduta stante il responsabile, al quale era
risalito addirittura col Veritaserum.
Era veramente fuori di sé, nessuno lo aveva mai visto così.
Del
resto, l’idea che venisse effettuata un’ispezione
nella sua scuola, della quale quindi era lui il responsabile, lo rendeva
decisamente irascibile. Soprattutto perché sapeva che Remus e Sara erano i due oggetti dell’ispezione, ed erano praticamente i
due studenti verso i quali - loro malgrado - era più premuroso, pur non dandolo
a dimostrare. Che cosa ne poteva a sapere la gente
della loro condizione? Ma lui avrebbe difeso l’onore
della sua scuola e dei suoi studenti, avessero dovuto buttarlo fuori.
Ciò che
non sapeva era che, per la prima volta, Sara girovagava in mezzo alle folle di
gente di sua spontanea volontà. I suoi poteri mentali erano tirati al massimo,
scrutava selvaggiamente nella mente di chiunque le capitasse
a tiro, per scoprire quello che aveva fatto la spia con il giornale. E poi se ne sarebbe occupata lei personalmente…
Ma nel
suo rovistare nei cervelli altrui come in un mucchio di scartoffie, non si era
resa conto di averne sempre tralasciato uno, uno che
faceva parte di uno dei gruppi meno amati della scuola, ai quali del resto Sara
non si era mai avvicinata più di una volta per evitare qualche altro tiro
mancino.
Intanto,
il sesto senso avvertiva che il giorno del test si avvicinava.
Sara
aveva preferito andare sul tranquillo e aveva cominciato a far svolazzare il
suo corvo fuori dal castello per intercettare
qualsiasi gufo proveniente dal Ministero. Era stato inutile. Evidentemente
nemmeno Silente era stato avvisato della data, e ciò doveva contribuire a
renderlo ancora più iracondo.
Sara
correva verso il dormitorio dei Grifondoro, Disillusa; avrebbe aspettato di
poter entrare seguendo qualcuno, visto che non conosceva la parola d’ordine,
perché doveva assolutamente dire a Remus che aveva scoperto una possibile
scappatoia, anche se non era per niente risolutiva, e non era sicura che Remus
avrebbe accettato di salvarsi dall’espulsione con un metodo simile.
Finalmente,
uno studente più largo che lungo del settimo anni
aveva annaspato per le scale dirigendosi verso la Signora Grassa che intanto,
guardinga, si accertava che in giro non ci fosse nessuno. Aveva sentito i passi
di Sara, pur non riuscendo a vederla. Lo studente pronunciò
sommessamente la parola d’ordine, e Sara gli si fece subito dietro. Il
grassone sembrò accorgersi di avere qualcuno alle calcagna, e
nel girarsi bruscamente per un pelo non piantò una gomitata nelle
costole della ragazza. Per fortuna entrambi riuscirono
ad entrare senza che nessuno si accorgesse di niente.
Sara non
aspettò neppure che il grasso dello studente la lasciasse passare liberando
l’apertura rotonda nel muro: lo spinse facendolo rotolare a terra, sotto le
risate di tutti, e invano lo studente tentò di spiegare che c’era Pix dietro di
lui che gli faceva gli scherzi. Remus non era lì, comunque.
Sara si diresse verso le scale che conducevano ai Dormitori maschili,
approfittando del fatto che le ragazze avevano libero accesso, dato che i fondatori di Hogwarts le credevano più
affidabili.
Se
l’avessero conosciuta, però, avrebbero certamente cambiato parere.
Non le ci
volle molto a scoprire la stanza. Un alto vociare proveniva da una porta
socchiusa, e Sara riconobbe le voci di James Potter di Sirius Black. Alle loro
frasi rispondeva qualcuno con un tono molto più basso
e tranquillo, e Sara capì che si trattava di Remus. Rimase fuori
dalla porta: aveva provato ad aprirla, ma scricchiolava troppo, e per un
pelo non avevano capito che c’era anche qualcun altro nel corridoio. Doveva
dolorosamente ammettere che non erano tonti come lo
studente che prima aveva spinto sul pavimento, e avrebbero potuto intuire che
una porta non va ad aprirsi da sola se qualcuno non la spinge.
Stavano
litigando, di nuovo.
- Hai già
fatto fagotto, eh? Sai che ti butteranno fuori? -
- Perché non ti fai un po’ gli affari tuoi, James? - era la
voce di Remus. Sara non riusciva quasi a trattenersi dal non guardare, ma
decise che era molto meglio anche per Remus se restava nascosta.
- E’
pazzesco… - sbuffò Sirius ridendo per non gridare, - Perché non ce l’avevi mai detto? Pensavi che ti avremmo subito fatto
espellere? -
- Ora ho
la prova che ho fatto bene. - rispose Remus.
- S-sì, però… -
- E tu stai zitto,
Peter. - lo ammonirono tutti e tre contemporaneamente. E
poi rimasero in silenzio per un po’, probabilmente affatto contenti di aver
detto la stessa cosa insieme. Sara non aveva mai sentito Remus parlare così.
- Perché non ci dici la verità fino in fondo, se ormai ti
espellono? Gray è davvero un’Animagus non registrato? -
- No che non lo è, idiota. - disse Remus - Ma vallo a chiedere a quel visionario
che lo ha raccontato alla Skeeter, che intanto non avrebbe nemmeno mai dovuto
essere a Hogwarts… -
- Ha
fatto bene a esserci, una volta tanto. - disse James.
- Almeno
sapranno tutti che razza di mostro è… le analisi lo dimostreranno. -
- Possono
analizzarla quanto vogliono, - ribatté Remus - tanto non troveranno niente per
poterla buttare fuori. -
- Anche se lo trovassero ci sarebbe Silente a difenderla, vero? - disse James
scimmiottando stupidamente una voce infantile.
- Ah,
andiamo, lasciamolo stare. - disse Sirius con tono pomposo - Vorrà scegliere
con calma il prossimo da mordere quando andrà in crisi, poverino. -
Sara
strinse i pugni per evitare di fare qualcos’altro.
- Mi
chiedo perché non espellano voi, se
vogliono fare un favore alla società, - sibilò Remus mentre gli altri tre si
allontanavano. Sara dovette appiattirsi al massimo contro il muro per evitare
che la toccassero, accorgendosi di lei.
Dopodiché
Sara entrò nella stanza e picchiettò l’indice sulle spalle di Remus, seduto sul
letto. Dapprima lui rimase perplesso, non vedendo nessuno, ma poi sembrò
capire. A quel punto Sara interruppe l’incantesimo e apparve di colpo davanti
al ragazzo.
Aveva un
grosso libro dalle pagine ingiallite e rigide come travi di legno; dalla sua
espressione non sembrava molto felice di vedere Remus, nonostante quest’ultimo
sorridesse, un sorriso molto forzato. Ma anche quel
barlume di sorriso scomparve quando vide che Sara manteneva uno sguardo del
tutto incapace di sorridere. Aveva, piuttosto, una faccia terribile.
- Perché non mi hai detto che era colpa mia? - disse con voce
spettrale. Lo aveva sentito chiaramente: quando James e gli altri erano usciti
dalla stanza lei aveva percepito con esattezza che era solo sua la colpa se il
gruppo si era sciolto.
- Dai,
Sara, - disse stancamente Remus, - Sarebbe successo comunque,
tu non c’entri niente. -
- Non sarebbe successo comunque!
Eravate sempre stati amici! Prima che io… -
Remus la
zittì stringendole entrambi i polsi con le mani. - Ti ho detto che non c’entri.
Ti basta? - Sara lo fissò per qualche altro istante, poi annuì, alquanto
incerta, e decise di venire subito al dunque.
- In questo
libro, - disse, gelida, tendendogli il voluminoso manoscritto, intitolato Come Farla Franca in Tutte le Occasioni,
Seconda Ristampa, 1919-1970. - C’è una pozione per evitare che qualcuno ti scopra.
C’è il cinquanta per cento delle possibilità che una volta usata su quello che
sta prima di te nella fila, le analisi non proseguano.
-
Remus
aprì il volume alla pagina contrassegnata dal segnalibro, e vide scritto,
sottolineato di recente con l’inchiostro nero e piuttosto di fretta, “Come dare la colpa agli altri senza che
nessuno se ne accorga. Pozione numero
2992, Filtro Lupesco di Primo Grado”.
- Filtro
Lupesco di Primo grado? - ripeté Remus, sospettoso.
Ma Sara
era già sparita senza che lui se ne accorgesse.
Evidentemente aveva preso molto male l’idea di essere
la responsabile della fine di un gruppo che, fino a quel momento, era sempre
parso a tutti indistruttibile. Remus non si era mai sentito peggio da quando
era arrivato a Hogwarts. Non aveva mai mentito a così tante persone insieme.
Aveva mentito ai suoi ex-amici, nascondendo loro la verità. Aveva mentito a
Sara, per colpa dalle sua vigliaccheria che gli aveva
fatto pensare che fosse meglio evitarle preoccupazioni inutili. Ma non aveva
pensato che, al momento della verità, tutti e quattro
avrebbero scoperto bruscamente le cose che erano state tenute loro nascoste, e
lui si sarebbe ritrovato da solo.
Cercando
di non pensarci, aprì nuovamente il libro e, sedutosi allo scrittoio, iniziò a
leggere la parte che Sara aveva sottolineato a
margine.
- Il Filtro Lupesco di Primo Grado, - leggeva
sommessamente cercando di non alzare troppo la voce e mangiandosi qualche
parola, - …inventato da Marlene Flintchell, Corvonero, Hogwarts, primo anno nel
1920, fu adoperato per vincere i periodici controlli del governo secondo le
Norme per le Creature Magiche Pericolose. Flintchell era un lupo mannaro, e
anche se ciò venne scoperto quando ormai si aggirava
intorno ai novantotto anni, a scuola le fu molto utile per far espellere altri
al posto suo.
- Grazie
a questa pozione è possibile trasformare in lupo mannaro un qualsiasi essere
umano per due ore e quarantanove minuti esatti, imitando alla perfezione il DNA
di un essere umano affetto di licantropia. Flintchell, fino a qualche decennio
fa, fu alchimista e studiosa di pozioni ed insegnò a Durmstrang e Beuxbatons in
questo campo, fino al suo licenziamento. Non scoprì mai un antidoto al morso di
un lupo mannaro, ma i suoi Filtri Lupeschi vanno dal
primo grado al settimo.
- Il
secondo grado garantisce quattro o cinque ore di licantropia completa, il terzo
grado dodici ore, il quarto grado ventiquattro ore. Poi, i peggiori: il quinto
grado conferisce alla vittima una trasformazione completa, ma solo nelle notti
di luna piena, il sesto grado trasforma completamente il lupi mannari anche di
giorno, purché la luna non sia calante. Il settimo grado trasforma in lupi
mannari per quasi un anno, come se fossero sotto l’effetto di un morso vero, ma
gli ingredienti sono sconosciuti. -
Remus, un
po’ esausto e un po’ incredulo, non terminò la lettura e chiuse il libro di
scatto. Di colpo tutti i sensi di colpa che aveva
avuto verso Sara sparirono. Mentalmente la ringraziava di non essersi mai
arresa e di aver trovato la soluzione anche nei libri più improbabili, ma non
aveva intenzione di far espellere qualcuno senza colpa al suo posto. Piuttosto
se ne sarebbe andato lui da Hogwarts, tanto ormai aveva imparato molte cose,
anche se in cuor suo sapeva che non erano abbastanza.
Come
poteva Sara pretendere che lui tradisse la fiducia di Silente in quel modo?
Silente, l’unico preside che lo avesse accettato a scuola, quando senza dubbio
nessun altro lo avrebbe mai fatto.
No, non
avrebbe usato quella pozione. Non poteva pretendere che la usasse. In qualche
modo se la sarebbe cavata. Ne era sicuro. Spense la
candela e si mise a dormire.
6 febbraio 1974, SCUOLA DI MAGIA E
STREGONERIA DI HOGWARTS
Il nuovo
regolamento di Hogwarts, stabilito da Silente dopo i recenti avvenimenti,
prevedeva che nessuno studente fosse nella Sala Comune entro le nove di sera,
ma che dovesse uscirne tassativamente prima delle ventitré. Sara naturalmente
stava passeggiando per la Sala Comune dei Serpeverde oltre gli orari
prestabiliti, ma lo faceva per una buona causa. Erano ormai le due di notte di
quel venerdì gelido, e Sara era ancora intenzionata a
scoprire chi fosse il responsabile della soffiata a Rita Skeeter.
Stava già
per salire le scale dei Dormitori maschili della sua Casa, quando una voce
attirò la sua attenzione. Una voce che l’aveva chiamata, con
tono viscido, mellifluo. Perfido. Chi poteva esserci in Sala Comune - a
parte lei - a girovagare a quell’ora?
Sara si
voltò di scatto, quando vide una delle persone che avrebbe voluto vedere meno
al mondo. Era uno studente del terzo anno. Capelli neri a
appiccicati d’unto, e due occhi che sembravano costantemente intensi ad
impicciarsi nei fatti altrui.
- Piton. -
sibilò Sara.
- Cosa ci fai qui, corvo? -
- Che diavolo blateri, Piton? Sei sonnambulo?
-
Sara non
poté evitare di farsi prendere dal nervosismo. Doveva leggergli nella mente, ma
non ne aveva l’occasione. Piton aveva già ripreso a
parlare.
- Non
farò mai più soffiate alla Gazzetta del Profeta. Non pagano bene. -
Sara si
sentì avvampare. Non c’era stato bisogno di leggere la sua mente: aveva
confessato. Forse non sapeva bene con chi avesse a che
fare, dato che Sara preparava da giorni la sua vendetta contro l’eventuale
spia, se fosse riuscita a scoprirla.
- Sei
stato tu? - disse Sara con tono
falsamente affabile, - Non sapevo fossi in grado di parlare a
un giornalista, non ti è colato l’olio dai capelli per l’imbarazzo? -
Piton per
un istante non rispose. Nonostante ripetesse in continuazione che quelle
stupide battute non lo sfioravano neppure, era chiaro che in realtà ne
risultava decisamente offeso. Ed
era proprio questo che Sara voleva.
- Vi ho
messi nei guai, vero? - ghignò Piton, - Dovreste stare più attenti. Non vi
siete accorti che ero sotto il Mantello dell’Invisibilità di Lucius Malfoy
quando hai rivelato di essere un Animagus. Chi l’avrebbe mai detto che quello
lì fosse un Lupo Mannaro? Vedrai che l’ispezione del Ministero vi smaschererà
entrambi. E l’hai saputa l’ultima? Ci saranno anche
dei Dissennatori. -
Sara ebbe
un fitta allo stomaco, poi una morsa ghiacciata le attanagliò
le viscere. I Dissennatori no, disse dentro di sé, gridando
mentalmente, i Dissennatori no. Non voleva più rivedere nessun
Dissennatore. Non voleva più sentire quel risucchio
disgustoso, non voleva più le dita lunghe e storte di uno di quei mostri
intorno al collo, a strangolarla…
L’avrebbero
capito. Avrebbero capito che lei era un’assassina. L’avrebbero portata ad
Azkaban.
- Avrei
potuto dire a Rita Skeeter di tutti quei tagli che ti sei fatta da quando sei
arrivata qua, ma penso che lo farò con calma, se per
caso non riescono ad espellerti. Ho un sacco di notizie che potrebbero far
comodo al Ministero. -
Sara si
morse freneticamente le labbra fin quando i canini non le trafissero. Ma non era per quello che le stava colando del sangue dalle
labbra… aveva la bocca piena di
sangue. Stava succedendo ancora.
Sara
cominciò a camminare lentamente verso Piton, piantandogli gli occhi addosso,
ben sapendo che in questo modo lo stava riempiendo di terrore. I suoi occhi
erano diventati molto più pericolosi da quando aveva il Marchio Nero, e l’unico
che ne era immune era Remus, forse perché Sara
guardava spesso altrove, per abitudine, quando parlava con lui, e comunque non
aveva nessuna intenzione di terrorizzarlo.
Le
pupille di Sara si restrinsero sempre più fin quando non scomparirono del
tutto, inghiottite dalle iridi scarlatte, come se
avessero visto una quantità incontenibile di luce…
Schioccò
le dita e Piton si afflosciò all’istante, russando come un mantice.
Sara
cominciò a pestarlo e gli buttò perfino delle ceneri ardenti del camino
sull’uniforme, stando attenta che non prendesse fuoco,
per accertarsi che Piton stesse dormendo, anche se sapeva benissimo che il suo
potere funzionava sempre.
- Vediamo
se dopo tutto questo avrai ancora da pensare ai
Dissennatori. - Tenendo la mano sinistra sospesa poco sopra la testa di Piton,
Sara tenne gli occhi spalancati e cominciò la sua opera. Ecco che di colpo
davanti a lei si delineava un altro labirinto, scuro,
nerastro, a tratti però pieno di lampi abbaglianti che sembravano poterla
accecare. Era come correre su una moto a tutta velocità lungo una discesa.
Sara
trovava sempre molto difficile pescare dei pensieri o dei sogni dalle menti
tormentate. Vide un sacco di immagini che non riusciva
nemmeno lei a capire. Tante figure confuse che si delineavano
troppo lentamente o troppo velocemente nel suo stesso cervello, sfumandosi le
une nelle altre, distorcendosi, allungandosi, e, perennemente, gridando... Sara
riuscì a mantenere una malignità tale dal pensare che quelli erano senz’altro
ricordi orribili, e preferiva che Piton se li tenesse.
Di colpo
le apparve un ricordo che inevitabilmente doveva essere bello. Si muoveva ad
una velocità normale e portava dei colori più tenui, che assomigliavano molto
di più alla realtà. Sara non si curò di guardarlo come aveva fatto con i
ricordi dolorosi: chiuse il pugno della mano sollevata e lo cancellò.
Ripeté
l’operazione altre poche volte, per tutte le poche volte che aveva trovato
qualche bel ricordo. Sapeva che si stava comportando come avrebbe fatto un
Dissennatore, ma in fin dei conti era proprio quello che Piton si meritava, e
che si era sempre meritato.
Lasciò
qualche ricordo piacevole, in modo che nessuno si insospettisse
troppo; doveva passare alla seconda parte del piano. Tornò ad inabissarsi nei
corridoi confusi e strettissimi di quel labirinto, fin quando non le sovvennero
di fronte agli “occhi” i ricordi più recenti. Vide quello che doveva essere
Piton osservare lei e Remus mentre correvano verso il Platano Picchiatore, vide
anche quel giorno che lei gli aveva sussurrato all’orecchio che era un
Animagus. Vide sé stessa seduta sul letto a dilaniarsi la pelle degli
avambracci e delle gambe.
Ed
infine, vide lei e Remus un paio di volte nella soffitta, ma per fortuna Piton
non c’era il giorno che Sara aveva confessato d’aver ucciso i suoi genitori.
La
ragazza cancellò indistintamente ogni cosa che vide, compresa la scena di
cinque minuti prima. le importava ben poco se poi
l’improvvisa amnesia di Piton sarebbe risultata sospetta, visto che per il
momento ci teneva soltanto a vendicarsi.
Comunque,
decise che non avrebbe mai detto a nessuno dei sogni e dei ricordi che aveva
visto nella testa di Piton. C’erano molti altri modi per rendergli la vita
difficile. Molto difficile.
C’era un
gran subbuglio per tutto il castello. Le vacanze erano terminate solo da un
giorno e, con estrema sorpresa di tutti gli studenti (e un gran fastidio da
parte dei professori) tramite la Metropolvere era
giunto dal Ministero della Magia un folto gruppo di persone che, si capiva
subito, erano quelle incaricate dell’ispezione. Di colpo ogni voce tremava di
tensione. Avevano tutti paura di avere qualcosa che
non andava, anche chi era perfettamente normale. Non ce n’era uno che non
cercasse disperatamente di ingraziarsi la signorina Umbridge, così nel caso ci fossero stati dei problemi, sarebbe stato più facile
cavarsela. Silente non si era visto, e tutti i professori sembrava fossero nel suo studio.
Nel giro
di una mezz’ora dal loro arrivo, gli “esaminatori” avevano ammucchiato i tavoli
della Sala Grande in un angolo e avevano messo tutti gli studenti in fila di
fronte al tavolo dei professori, che era rimasto al
suo posto abituale. La professoressa McGranitt aveva il compito di chiamare gli
studenti uno per uno, in ordine alfabetico secondo il cognome, come per lo
Smistamento. Dopo una serie di domande in pubblico, ogni studente chiamato si
sarebbe recato in una stanzina adiacente alla Sala e sarebbe stato esaminato.
Al tavolo
sedeva, al posto di Silente, la signorina Umbridge, già rassomigliante a un rospo come sarebbe stata anche in futuro, ma un pochino
più giovane. C’erano poi quattro Auror, alla destra della Umbridge:
due coniugi di nome Frank e Alice Paciock, un uomo chiamato Malocchio Moody e
un ragazzo piuttosto giovane di nome Martin McLilians.
Alla
sinistra della Umbridge, invece, c’erano Bartemius
Crouch e Cornelius Caramell.
Non c’era
l’ombra di un Dissennatore.
- Te l’ho
detto. - sussurrava qualcuno dalla lunghissima fila che usciva fino in
corridoio, - Finché c’è Silente, non vedremo alcun Dissennatore. -
Sara comunque non era tranquilla.
I
professori arrivarono di gran carriera, seguiti
mezz’ora dopo da Silente. La professoressa McGranitt si sedette accanto a
Caramell, e gli altri professori rimasero in piedi fin quando non giunse il
Preside che, muovendo la bacchetta, fece apparire alcune poltroncine di chintz
per tutti coloro che non avevano trovato posto.
- Oggi
l’ombra del crimine e del pericolo sparirà anche da questa scuola! - annunciò
Caramell molto compiaciuto di sé stesso, ma volgendosi ogni tanto verso
Silente, che lo guardava con una delle sue espressioni più torve. - Conoscete
lo svolgimento di questa piccola… prova.
Se siete in regola e soprattutto
se sarete onesti non avete niente da temere. Procediamo. -
Quelle ultime frase gettarono gli studenti nel panico completo.
Improvvisamente tutti si erano sentiti anormali e disonesti, divorati dal
nervosismo e dal terrore che oltre quelle porte ci fosse un Dissennatore.
- Sonorus, - disse la McGranitt,
puntandosi la bacchetta alla gola, e la sua voce immediatamente si alzò come
sotto l’effetto di un megafono, per raggiungere anche la coda della fila che
straripava fuori dalla Sala Grande. Si udì un coro di
persone che deglutivano.
Uno dopo
l’altro, gli studenti furono chiamati. Uno dopo l’altro, furono rimandati
indietro dai dipendenti del Ministero con un gran sorriso soddisfatto sulle
labbra.
- Gray, Sara! - chiamò la McGranitt. Molti
risero, molti altri consumarono in silenzio la loro
malvagia soddisfazione. Sara, invece, non sorrideva solo perché era preoccupata
per Remus, altrimenti avrebbe dato libero sfogo alla
sadicità, già immaginandosi le facce degli studenti quando la commissione
l’avrebbe rimandata indietro senza notare niente di strano.
Sara si
ritrovò dinanzi al Ministro della Magia e ai suoi più alti dipendenti, nonché al cospetto di quattro Auror e di tutti i professori
di Hogwarts, ma scoprì che non essere agitata, bensì molto sicura di sé stessa.
Un sorriso lezioso si dipinse sulle labbra della Umbridge
mentre le poneva le prima domande generale, come il nome, il cognome e l’età.
Un minuscolo individuo pelato che Sara non aveva visto prima prendeva
freneticamente appunti. Sara guardo i presenti uno per uno: pensavano forse di
poterla incastrare?
- Ti da
fastidio la luce? Preferisci il giorno o la notte? -
- La luce
mi fa caldo e preferisco la notte, - rispose tranquillamente Sara, dopotutto dicendo la pura verità. La McGranitt la fissava stritolandosi
le mani, mentre Silente era molto rilassato, per una volta.
Il pelato
prendeva appunti con voracità.
- I tuoi
genitori erano di una razza particolare?
Vampiri? Licantropi? -
- Mio
padre era un vampiro, un mago Purosangue, mia madre una Babbana. -
- Ti
senti spesso più che umana? Rassomigliante a un
animale? A volte hai qualche desiderio… animalesco?
-
- Sono
un’Animagus illegale, e posso trasformarmi in un corvo. - Sara si esibì in una
trasformazione: in un attimo una nube rossastra l’aveva avvolta e un corvo nero
come la notte era apparso sul tavolo dei professori. Gracchiò e raspò il legno prima di tornare essere umano. Un “oooooooh!” si
destò nella Sala.
Crouch
balzò in piedi, ma Caramell lo fermò. La Umbridge
aveva ancora molte domande da sottoporle, e sembrava che la prospettiva la
caricasse di una sadica felicità. La McGranitt era più preoccupata che mai e la
folla di studenti ormai non era più una fila, ma una
massa scomposta di persone sempre più sbigottite. Remus era l’unico a sorridere.
Tutti gli
altri fissavano Sara con odio, con timore, forse solo con disprezzo.
- Sei
consapevole che ti meriti già Azkaban per questo? -
- Sì. -
- Sai
anche che il Marchio che porti sulla pelle è il segno distintivo che possiedono
tutti i sostenitori dell’Oscuro Signore? -
- Certo che lo so. -
La sala
ora era ricolma di un silenzio tale da risultare
assordante. Erano tutti nervosi, ansiosi. Tutti sapevano chi era l’Oscuro
Signore. E nessuno aveva mai saputo che la stessa che si erano
fatta nemica in tutti quei tre anni era una Mangiamorte.
Qualcuno
gridò e qualcun altro svenne. I professori erano sbigottiti, vicini all’orlo
del terrore. Gli inviati del Ministero erano tutti agitati, e il pelato fece
cadere il suo blocco degli appunti.
- Raccogli, Weatherby! - ruggì Crouch. - Scrivi! - L’assistente di Crouch franò
a terra nel tentativo di raccogliere i suoi appunti, rovesciando la sedia,
mentre il suo capo fissava Sara con la peggiore delle sue espressioni. - Tu sai
che io stesso ho consentito agli Auror l’uso delle maniere forti per porre fine
agli stermini di Voldemort? - Sara annuì. La McGranitt sussurrò qualcosa a
Silente il quale annuì, e ad un suo gesto tutti i
professori si calmarono. - Sai anche che non permetterò a nessun mezzo vampiro
di calpestare questa terra finché sarò vivo? - latrò Crouch, e Sara annuì di nuovo, tranquilla. Si godeva fin troppo la situazione e,
appena gli Auror si alzarono, capì che era il momento di porre fine a quella
commedia. Aprì e chiuse le palpebre in un attimo che le parve un secolo
interminabile, disperso nel nulla e nel trambusto delle menti e dell’inconscio
più segreto di tutte le centinaia di presenti… tossì,
sputò sangue… lo sforzo era enorme…
Ma un
attimo dopo, dimentichi di quanto era successo, i dipendenti del Ministero la
spedirono in infermeria garantendo che era perfettamente in regola.
Nuovi
raggi solari lambivano la pelle bianchissima di Sara, seduta sul suo letto
d’infermeria, totalmente assorta nei suoi pensieri e nelle sue indelebili
preoccupazioni. Da ore tentava di cancellarle allo stesso modo in cui aveva
cancellato il suo desiderio nello specchio ma la situazione era tale da
impedirle la concentrazione. Una mosca ronzava sul vetro, e fuori qualche
studente si dirigeva a Cura delle Creature Magiche, erano l’ultimo anno di
Grifondoro col penultimo di Corvonero. Altri ragazzi giocavano a pelle di neve,
godendosi l’assenza della McGranitt, che sembrava stesse
di nuovo parlando con Silente nel suo ufficio, e avesse dichiarato ai suoi
studenti che avevano un’ora libera. Le nuvole si inseguivano
brevemente nel cielo, mutevoli e incostanti, oscurando ogni tanto il sole e
disegnando qualche sfumatura nei rettangoli di luce invernale, tracciati sul
pavimento dalle finestre. Il comodino accanto al letto
di Sara gettava sulle mattonelle un’ombra lunghissima e distorta, in cui si
distinguevano le boccette delle numerose medicine e l’incarto
della Cioccorana che la ragazza stava mangiucchiando senza veramente rendersene
conto.
La sua
mente era tutta una risacca di preoccupazioni. Non riusciva a non pensare a
Remus, dopo che aveva saputo da lui stesso che non aveva intenzione di usare il
Filtro Lupesco di Primo Grado. Cosa gli sarebbe
successo? E se lo avessero espulso? A quel punto anche
lei se ne sarebbe andata, non poteva stare in quella scuola senza di lui, il
suo unico amico… non riusciva a concepire una cosa
simile. No, se lo avessero espulso, lei sarebbe scappata. Non c’era altro che potesse fare. Lo sforzo per aver cancellato la memoria di
così tante persone l’aveva ridotta piuttosto male ma non l’aveva fatta svenire.
Le aveva solo causato una discreta emorragia che era
stata risolta da una delle sue medicine, in verità troppo pesanti per una della
sua età, e questo le aveva causato una grandissima sonnolenza. Sonnolenza che, però, non aveva fermato le sue ansie e le sue
angosce.
La porta
si aprì. Non era Madama Chips, non era Silente, non era nessun professore; era
Remus. Immediatamente un sorriso si delineò sulle
labbra livide di Sara, che stritolò inconsciamente ciò che restava della sua
Cioccorana. Se Remus aveva un’espressione così
tranquilla, significava che non era successo niente.
Restava.
- Com’è
andata? - chiese subito Sara con un tono ansiogeno.
-
Benissimo, - sorrise Remus sedendosi sul bordo del suo letto, - Silente ha
parlato a lungo con Caramell, e hanno raggiunto la conclusione che per ora non diranno a nessuno che sono un Lupo Mannaro. Per ora lo sanno solo al Ministero… A maggio Silente dovrà andare al
Ministero per parlarne con gli altri membri del consiglio. bhe,
non è proprio una buona notizia, ma almeno non mi hanno espulso. È andata bene.
-
Senza
neanche accorgersene Sara gli gettò le braccia al collo, ancora masticando la
sua rana di cioccolato, e si scollò solo quasi un minuto dopo, quando Remus
disse:
- Ma sei fredda come il ghiaccio! - Sara in
effetti aveva sempre avuto la pelle fredda. - E
poi, Silente mi ha detto di dirti che i Dissennatori non c’erano. Li ha mandati
via lui. Il Ministro non ne era affatto contento, ma
Silente odia i Dissennatori, e poi ha accennato a una promessa… ha detto che tu
lo sapevi. -
Sara
annuì, e, senza nemmeno accorgersene, gli aveva già
spifferato tutto quanto.
*
15 febbraio 1974, SCUOLA DI MAGIA
E STREGONERIA DI HOGWARTS
Una delle
lezioni che fortunatamente gli studenti non erano costretti a seguire con
qualcuno di anni diversi era lezione di volo, che del
resto era riservata a quelli del primo anno. Quel giorno c’erano due ore di
Lezione di Volo, e Sara le avrebbe tenute insieme con
gli studenti di Tassorosso. Ma non sapeva che la perfidia del destino e
l’inconscia malignità di Madama Bumb aveva in serbo
per lei una pessima sorpresa.
-
Ragazzi, oggi iniziamo seriamente a parlare di Quidditch, perciò ho pensato di farvi conoscere uno dei miei migliori studenti
e sottolineo il miglior Cercatore che abbiamo quest’anno. - disse Madama Bumb
in tono molto fiero.
Sara
cominciò fin da quelle parole a preoccuparsi, ma volle sperare di aver
solamente capito male. Quando poi si accorse che James
Potter stava venendo verso di loro cominciò silenziosamente a pregare che non
stesse effettivamente venendo ad assistere alla lezione, ma che avrebbe deviato
per andare da un’altra parte.
Ma
non era così.
La sua
espressione baldanzosa peggiorò ulteriormente quando, fattosi alla destra di
Madama Bumb con la sua Nimbus, notò che anche Sara partecipava alla lezione. Lei
gli lanciò un’occhiata talmente torva che lo costrinse a voltarsi da un’altra
parte.
- Adesso
voglio che tiriate su le vostre scope. Sapete come fare… -
Mentre a
tutti gli studenti ci volle una buona quindicina di
minuti perché i loro irosi “Su!” funzionassero, Sara fu la prima ad avere il
suo manico di scopra in mano, e lo fece con un semplice cenno della testa,
senza effettivamente dire nulla.
-
Perfetto, Gray, - iniziò Madama Bumb - E adesso, vediamo quali… -
Non fece
in tempo a finire la frase che un grande schianto fece quasi tremare il suono:
proveniva dal castello. Da una finestre che a occhi e
croce sembrava quella dell’aula della professoressa Mandragola schizzarono via
scintille multicolori che si inseguivano e sfrigolavano nell’aria, come fuochi
d’artificio. In effetti era proprio quel che erano.
- Per
tutti i gargoyle! - balbettò Madama Bumb, - Chi ha acceso quella roba? - Si
sentivano fin dal parco le urla della professoressa Mandragola che,
immaginarono gli studenti, aveva già pietrificato due o tre persone. -
Aspettatemi qui, ragazzi, vado a vedere che cosa è successo. Chi si muove.. -
aggiunse mutando improvvisamente tono ed assomigliando paurosamente ad una
belva feroce, - Lo concio per le feste, lo butto fuori dalle mie lezioni, gli
spezzo la bacchetta e, se riesco, lo faccio espellere! -
E
lasciò gli studenti nella totale - quasi - mancanza di suoni. Dopo
quell’avvertimento nessuno osava parlare né muoversi, e gli studenti fra loro
si scambiavano solo qualche sguardo eloquente. L’unico disinvolto sembrava
James. La tensione si sciolse quando furono passati dieci minuti da quando
Madama Bumb era entrata nel castello, fino a quando non riprese il solito
chiacchiericcio. Le ragazze fissavano James come fosse stato
una specie di spirito divino, i ragazzi facevano smorfie o parlavano
animatamente di Quidditch, e Sara se ne stava per i fatti suoi come sempre.
Nessuno osava toccare le scope.
- Perfetto, Gray, - disse d’un tratto James imitando la voce di Madama Bumb, - Mi
domando a che cosa ti serva saper tirare su un manico di scopa, se non sai
volare! -
La sua
constatazione fu accompagnata da un ruffiano coro di risate.
- Io so volare, cespuglio di rovi. - precisò
Sara senza sforzarsi di girare troppo il collo per guardare James, e la cosa
parve irritarlo.
- Certo!
Con quelle scope, saprebbe volare anche uno più idiota di te, pensa! -
- E questo spiega come mai tu sei riuscito a volarci per
miracolo, razza di pratino incolto. - ribatté Sara, e
le risate si spensero.
-
Vogliamo provare? - ringhiò James, - Madama Bumb ha una
Nimbus come la mia, dico bene? Prendila tu e vediamo chi arriva prima a
quell’albero, - e indicò il Platano Picchiatore, decisamente
dalla parte opposta del parco, - …e torna indietro. Ci stai? -
- No, non
vorrei che ti mettessi a frignare davanti a queste papere. - dalle ragazze si
levò un insieme di alte strida, simili a quelle di un
rapace inferocito, e molte la mandarono a quel paese. In realtà Sara sapeva
benissimo di non avere nessuna possibilità, perché con tutte le lezioni che
aveva saltato sapeva a mala pena
- Non è che hai paura, denti a punta? -
- Ho solo
pietà per quella poverina di tua madre, - sibilò Sara.
Senza
nemmeno riprovare a chiederle un parere, James aveva afferrato la scopa di
Madama Bumb e gliel’aveva lanciata addosso. Sara riuscì ad evitare una mazzata
per puro miracolo, ma ormai sapeva che non poteva tirarsi indietro, e la cosa
faceva molto più male. Non le andava di perdere contro un essere del genere, ma
non c’era alternativa: era molto più bravo di lei a
volare.
In quel
momento la cosa la preoccupava molto di più dell’ira di
Madama Bumb. Non solo si stava mettendo a volare quando non avrebbe mai dovuto
farlo in assenza della professoressa, ma lo stava facendo con la sua scopa. Probabilmente se non fossero
riusciti a concludere prima del ritorno di Madama
Bumb, entrambi avrebbero passato dei guai. Entrambi: era questa l’unica cosa
che la consolava. Già si vedeva espulsa da Hogwarts, o meglio, dalle lezioni,
perché non aveva altra scelta che restare comunque nel
castello. Invece James sarebbe dovuto filare
sull’Espresso di Hogwarts e tornare a casa come un’idiota.
Si misero
uno accanto all’altra, a cavallo delle scope, pronti a darsi la spinta per decollare. Sara stava praticamente
per sputare il cuore tutto intero, ma James aveva un qualcosa di sospetto che
lo rendeva alquanto sicuro di sé. Sara decise di non indagare oltre. Dopotutto
lui era sempre sicuro di sé, anche
troppo.
Al “tre!” convenuto entrambi partirono.
Sara sentì l’inconfondibile sensazione del volare su una scopa molto più veloce di quelle a cui si era abituata: ovvero,
stava per vomitare. Le girava già la testa e il vento freddo nei capelli era
tanto forte che sembrava strapparglieli. Si sentiva come se avesse avuto
all’incirca un centinaio di chiodi sparati sulla pelle a ripetizione, e il
freddo alle dita era tale che stava per mollare la presa sul legno solido. Ma non avrebbe mollato. Perdere quella sfida arrivando fino
in fondo era molto meglio che farla finita subito.
Davanti a
lei c’era il Platano Picchiatore, sempre più vicino, vertiginosamente vicino. Ma non vedeva James da nessun parte: di quante ore l’aveva superata? Forse era già
arrivato al Platano, lo aveva circumnavigato ed era tornato indietro. Ma no, non era possibile. Forse era solo fuori
dalla visuale: era passato poco tempo, troppo poco, e lui non poteva
essere arrivato fino in fondo senza che Sara lo vedesse. Impossibile
cercare di captare le urla del gruppetto per rendersi conto se era già
arrivato: i rumori erano confusi e assordanti, non si riusciva a distinguere
niente. Alla fine Sara si fece coraggio e
guardò indietro.
Per poco
non cadde dalla scopa, tale fu la sorpresa. James era almeno cinque metri dietro di lei. Come diavolo aveva
fatto? Era senz’altro merito della scopa, malgrado fosse uguale a quella del
suo avversario, dopotutto lei non sapeva volare, non sarebbe
stata in grado di arrivare prima.
Decise di
non pensarci. Il Platano era vicinissimo e se non avesse curvato a dovere si sarebbe schiantata da qualche parte, o peggio, si sarebbe
lasciata superare.
Ecco che
i rami del violento albero cominciavano a vibrare, ad agitarsi, e così faceva
la sua bacchetta magica infilata nello stivale… ma lei gliel’aveva fatta tante volte
a quel Platano, sottoforma di corvo, certo, ma ora la situazione non era
cambiata. Lei sapeva
volare… lei aveva le ali…
Tracciò
la curva più stretta possibile intorno al tronco del Platano, e un ramo per un
pelo non la disarcionò. Quella era la scopa di Madama Bumb: se non altro per
non essere “conciata per le feste”, doveva starci attenta. E
di nuovo, eccola filare a bassa quota sul prato, per evitare i rami più alti
del Platano Picchiatore che ancora poteva raggiungerla. Poi virò
improvvisamente per evitare una radice che aveva tentato di romperle la
schiena. Era come quando si trasformava in Animagus, non c’era alcuna
differenza. Doveva soltanto trovare il vento, sfruttarlo, sbattere le ali più velocemente possibile, e poi tenerle aperte…
Si tirò su,
stavolta per impedire alle radici di raggiungerla, e vide che James non era più
poi tanto lontano. Chissà se aveva trovato il modo di fare
una curva ancora più rapida.
Sara
stava già immaginandosi la sua faccia quando fosse atterrata,
che la scopa cominciò ad agitarsi e a strattonarla a mezz’aria, come se qualche
mano gigantesca stesse cercando di farla cadere giù.
Che
stava succedendo? Intanto James stava per sorpassarla. Ma
non poteva finire così, mancava pochissimo al traguardo, soltanto pochi metri…
- Adesso finiscila! Vuoi forse ucciderla? -
Sirius, ben nascosto dietro un cespuglio, non gli badava, e continuava a
fissare Sara senza sbattere le palpebre o mutare minimamente espressione:
sembrava che stesse parlando da solo, ma non emetteva che qualche sussurro. -
Non posso credere che abbiate organizzato questa commedia soltanto per farla
cadere! Siete impazziti? -
Remus
parlava praticamente nel vuoto. Peter stava ancora più
nascosto di Sirius, era decisamente immerso dentro
all’intricato cespuglio, incurante delle spine pur di non farsi vedere. Eppure ridacchiava, neanche troppo sommessamente. Remus
pensava che prima o poi lo avrebbe ammazzato se non
stava zitto.
- Sirius,
non costringermi a… - Aveva alzato la bacchetta verso Sirius, per quanto non
fosse intenzionato ad usare incantesimi seri. Sirius continuava a lanciare il
malocchio sulla scopa di Madama Bumb, e Sara era molto vicina
al cadere di sotto, ma sembrava che per il momento fosse in grado di reggersi.
Non sarebbe durato a lungo. - Petrificus…
-
Non
terminò la frase. - Expelliarmus!,- disse Peter, e la bacchetta gli volò di mano.
- Peter,
ma io ti spacco la testa! - abbaiò
più sottovoce possibile, sforzandosi di non mettere in pratica le sue minacce.
Lui stesso si stupiva di essere così aggressivo - Peter era scomparso nel
cespuglio spinoso in preda al terrore - ma la situazione era disperata. Ormai
Remus non guardava più Sirius: i suoi occhi erano puntati su Sara. Ormai James
era arrivato al traguardo, ma non muoveva un dito per aiutarla. Lei sembrava
più morta che viva, ed era bianca come un cencio, ma
il suo viso possedeva un’intensa sfumatura verdognola. - Per favore, Sirius, smettila! -
Ma
non la smise. Sara precipitò dalla scopa, sospesa a dieci metri da terra, e
atterrando sull’erba mezza congelata picchiò il braccio. Remus era certo di
aver sentito le ossa spezzarsi, e strinse i denti così forte
che quasi non gli si ruppero.
Sirius
aveva cessato di fare il malocchio alla scopa, che era caduta
a terra rotolando fino a che un masso sporgente non l’aveva fermata. Il ragazzo
non fece in tempo a voltarsi verso Remus che quest’ultimo gli aveva già
sferrato un pugno nell’occhio, con tutta la forza che aveva. Sirius si era
sbilanciato ed era caduto all’indietro, fra il terrore più totale di Peter, e
stava già tirando fuori la bacchetta per reagire, quando tre persone che
arrivavano dal castello attirarono la sua attenzione.
In quel
preciso istante era arrivata di gran carriera Madama Bumb, accompagnata dalle professoressa Mandragola e McGranitt. Evidentemente
avevano visto tutto dalle finestre dell’aula di Pozioni, che davano sul parco
dove si teneva la lezione di volo, ed erano accorse per evitare il peggio. Ma
non erano state abbastanza veloci per impedire che
Sara cadesse.
- Che diavolo è successo, qui? Potter! Gray! Cosa vi salta… -
Ma
non appena gli occhi di Madama Bumb si erano posati su Sara, il silenzio era
caduto sovrano. La ragazza si stringeva il braccio destro, ed era piegata sul
fianco, fra i rantoli. L’erba era schizzata di sangue, lo stesso che uscendole
dalla bocca le aveva sporcato il viso. C’era una
chiazza di vomito sull’erba, poco lontano da lì.
Madama
Bumb le si avvicinò, e tentò di sollevarle il braccio
destro: ma l’urlo di Sara la convinse che era meglio lasciarlo dov’era.
- Ossa
rotte… - disse a bassa voce Madama Bumb, ma Remus riuscì comunque
a sentirla. - No, professoressa McGranitt, le solite competizioni giovanili, ma
vedrete che Madama Chips la rimetterà in sesto… -
- Non
stiamo parlando solo di competizioni giovanili! - disse seccamente la
McGranitt, guardando verso il cespuglio dietro il quale si erano nascosti
Remus, Sirius e Peter, - Questo è sabotaggio.
-
Partì di
gran carriera, con una professoressa Mandragola schiumante di rabbia, verso il
cespuglio.
- Lo
sapevo! Lo sapevo! - latrò la
professoressa Mandragola. - Se uno di voi fa una stronzata preferite farla in compagnia, vero?
Benissimo! Professoressa…?!? - e si fermò, attendendo che la professoressa McGranitt
decidesse l’espulsione.
- Moderi
i termini, per favore, signorina Mandragola. - disse lentamente la McGranitt, e
poi tornò a fissare i tre, - Non sarete espulsi, credo. - sibilò nella sua durezza più
atroce, - Non sono mai stata tanto arrabbiata in vita mia. Black, avrei potuto immaginarmelo…
Lupin, non me lo aspettavo da te. Decisamente. -
-
Professoressa… -
- Chiudi quella fogna, moccioso, non peggiorare
le cose! - strillò la professoressa Mandragola, ancor più fuori di sé
della McGranitt. Ma le urla della Mandragola erano una
tortura meno grave del tono calmo ma deluso dell’insegnante di Trasfigurazione.
!
- Minus, fuori
di lì! - Peter era già pronto ad uscire, ma avendo guardato
negli occhi la professoressa, rimase immobile come un pezzo di cemento,
nell’atto di uscire. - Minus! Ho detto di uscire! Mi senti o no? MINUS? -
- Temo
che sia pietrificato, signorina Mandragola, - fece educatamente presente la professoressa McGranitt. Ma
poi tornò a fissare gli altri due con uno sguardo atrocemente adirato. A Remus
non importava quasi dell’eventuale punizione: fissava Madama Bumb, da sopra le
spalle della McGranitt, far apparire una barella per portare Sara in
infermeria.
- Potter,
vieni subito qui! - disse la McGranitt abbastanza forte da
farsi sentire da James, che piuttosto indeciso, perdendo il suo solito
cipiglio, si fece avanti verso le due professoresse, non senza aver
guardato Madama Bumb portare Sara nel castello. - Mi auguro che sarai
soddisfatto, Potter… -
-
Professoressa, io… -
- Hai
messo in pericolo la vita di una studentessa già debole di salute, di due anni
più piccola di te, dopo che la tua professoressa ti aveva prelevato dalla mia classe perché tu dessi un esempio ai
ragazzi più giovani! - James non era in grado di ribattere, - La vita, Potter,
sì, la vita! Poteva non cavarsela semplicemente con un braccio rotto! È questa
l’impressione che vuoi dare alle matricole, Potter? Ci tieni tanto a passare
per sciocco? -
-
Professoressa McGranitt, - disse infine James, alzando la voce per evitare che
la donna lo interrompesse di nuovo, - Nessun motivo di salute penso possa
risparmiare Gray dalla punizione! Anche se è più
piccola! Ha rubato la scopa di Madama Bumb! -
- Come ti
permetti di mentire, ragazzo? - abbaiò la McGranitt.
-
Minerva, - intervenne la Mandragola, - Quella mezza stecchita è una delle mie
peggiori studentesse da quando ha messo piede nella mia classe! Mi sono
spiegata? Eh ?! Non mi stupirei se… -
- Ciò che
conta per me sono i voti nella mia
materia, signorina Mandragola, e se sono riuscita a darle da “Troll” a “Eccezionale” in due mesi e mezzo, immagino che non sia esattamente
un’ignorante, che ne dice? Anche nella sua materia è
migliorata. -
- E’
sempre disattenta! Non ascolta neanche
una parola di quello che dico!! - ruggì la professoressa Mandragola. Gli
studenti dietro di lei erano impalliditi. Due professoresse stavano litigando,
una ragazza si era rotta un braccio, quattro studenti del terzo anno
rischiavano l’espulsione, ma la cosa che probabilmente saltava
più all’occhio era il rossore in viso di James, il quale sapeva
benissimo che avrebbe perso se Sirius non avesse lanciato il malocchio alla
scopa di Madama Bumb.
- Forse
non segue perché sa già tutto, Mandragola! -
- Vuole smetterla di difenderla, Minerva?
Che cos’ha di speciale? È sua figlia, per caso? Mi
dica! Avanti! Cos’ha di diverso dagli altri studenti?? -
Tutti
fissavano la McGranitt, in attesa della risposta alla
loro domanda comune.
- Lei non
sa… non capisce… lei non può immaginare… - ansava la McGranitt del tutto fuori di sé, ma poi si
riscosse e si dette un contegno:
- Portate
Minus in infermeria e avvertite la professoressa Sprite che avremo
bisogno di altro ricostituente alla Mandragola. Muovetevi! - aggiunse, vedendo che stavano tutti fermi. Sirius e
James stavano già per sollevare il corpo pietrificato di Peter, ma la
professoressa li fermò. - Non voi. Forza. Tutti gli altri. Prendete Minus e
andatevene. Io devo parlare con questi tre. -
A passo
di lumaca, tutti gli studenti se ne andarono,
indugiando lo sguardo sui tre del terzo anno e trascinandosi dietro il corpo
immobile e rigido di Peter Minus. Restarono solo la professoressa Mandragola,
la quale aveva inforcato due spessi occhiali da sole, la McGranitt, James,
Sirius e Remus, che ancora aveva la mente altrove e non gli importava niente
della punizione che lo aspettava.
- Quando
Sara si sarà ripresa, - (e tutti notarono che era l’unica studentessa che
chiamasse per nome), - e quando a Minus svanirà la pietrificazione, tutti e cinque
vi recherete nel parco dalle ore ventuno fino
all’alba. Voglio che ognuno raccolga almeno trenta Amanite Trinciapollo, e se
non riuscirete a raggiungere la somma, sarete espulsi. -
- Trenta?
Professoressa, sono rarissime!! -
protestò Sirius, con un occhio nero.
- Meglio che vada in infermeria anche tu, ragazzo. - tagliò corto la McGranitt
prima di andarsene, ripetendo ancora una volta la sua delusione e lasciando
tutti e tre con un’aridità inconcepibile in gola.
La
Mandragola li fissò per qualche istante da dietro le lenti
scure, poi disse, con tono perfidamente monotono:
- Venti punti in meno a Gray per aver rubato la scopa di Madama Bumb. Altri dieci per aver accettato
la sfida. Altri quindici perché non è in grado di resistere
al Malocchio come si deve. Altri quindici perché è la
cocca della McGranitt. - i tre deglutirono, chiedendosi come fosse
possibile che Serpeverde avesse ancora sessanta punti da perdere, ed
immaginandosi cosa sarebbe toccato ora a Grifondoro. -
Potter, trenta punti in meno per aver lanciato quella sfida idiota. Altri dieci perché non sai cosa sia un pettine. -
- Maprofes… -
- Chiudi il becco, ammasso di nodi! - E James fu costretto a zittirsi. - Black, quarantacinque
punti in meno per aver lanciato quel Malocchio. Ma te ne aggiungo
due perché era fatto bene. Trenta punti in meno a Minus che è
un vigliacco. Trenta punti in meno anche a Lupin per
aver preso a pugni un suo compagno di classe. Altri
dieci per essere complice del sabotaggio, e a tutti voi tre, trenta punti in
meno per aver marinato le lezioni per una cosa così imbecille. Buona
giornata. -
E
osservarono, esasperati, la Mandragola che si allontanava per le lezioni
pomeridiane.
Si
rassegnarono a tornare nel castello, chiedendosi cosa avrebbero detto i loro
compagni di scuola quando avessero visto che a Grifondoro mancavano
duecentotredici punti.
Decisamente, non era mai una buona idea infrangere così tante regole di Hogwarts
quando in giro poteva esserci la professoressa Mandragola. Adesso in cima alla classifica
c’erano i Corvonero con seicentoventi punti, al secondo
posto i Tassorosso con cinquecento punti, al terzo i Serpeverde con venti
punti, e all’ultimo punto i Grifondoro, con due punti (quelli che la
professoressa Mandragola aveva risparmiato a Sirius). La reputazione del gruppo
non solo era calata ma era quasi pari a quella di Sara, che del resto era
odiata ancora più di prima, perché raramente si riusciva a perdere sessanta
punti in una sola volta.
Tuttavia, con la recente partita di Quidditch Tassorosso contro
Grifondoro, quest’ultima Casa aveva vinto e si era molto risollevata; e se non
altro, il numero delle persone che avevano iniziato a odiare James era molto
calato. Anche
Serpeverde era risuscitato dal baratro: Madama Bumb, vincendo ogni repulsione
verso l’accaduto, aveva aggiunto molti punti a Sara per il
fatto che volava egregiamente, nonostante la salute e l’età le
impedissero di far parte della squadra di Quidditch.
Ma se
James guadagnando punti riacquistava lentamente la simpatia dei suoi compagni
di classe, la situazione di Sara invece non cambiava. Era sempre la stessa:
odio totale. Anche se tutti sapevano che la Mandragola era
sempre stata esagerata con le punizioni.
Remus
cominciò a capire come mai di colpo Peter lo odiasse:
non aveva avuto problemi a schierarsi dalla parte di coloro che alla scuola
erano simpatici. Infatti, da quando Remus era amico di Sara, si era guadagnato
il disprezzo di ogni studente che avesse messo piede
in quel castello. Ma non gli importava. Aveva saputo da
Madama Chips che Sara era veramente in pessime condizioni e non avrebbe aperto
gli occhi prima della fine del mese.
Le sue
previsioni erano esatte, ma Remus non ebbe il coraggio di dire subito a Sara
che la aspettava una punizione. Aveva abbastanza da fare per
tenersi al passo con le lezioni, e Remus si era stupito che ci riuscisse quasi
senza problemi, a parte che in Storia della Magia, dove non riusciva a
concludere niente senza un libro davanti.
Era ormai
il dieci di marzo quando Sara venne a sapere della punizione che la aspettava.
Non soltanto la professoressa Mandragola le aveva già
fatto odiare a sufficienza l’Amanita Trinciapollo con la sua punizione del
primo giorno, ma l’idea di dover stare tutta la notte fino all’alba a cercare
almeno trenta funghi rarissimi la buttava proprio a terra. Era come se le
avessero detto che le vacanze erano state soppresse.
Oltretutto scontare la punizione in compagnia di Sirius, Peter e James
contribuiva a tenerla ancora più depressa.
Ormai
Madama Chips le iniettava nel braccio o le faceva bere medicine
tutti i giorni, tanto da farla sentire come uno straccio; Sara si
chiedeva come fosse possibile che una medicina facesse sentire peggio invece che meglio, ma decise di non fare domande. Dopotutto peggio stava più tardi avrebbe dovuto raccogliere Amanite.
Accade
però l’imprevedibile. Di colpo una notte Sara si addormentò profondamente, e la
mattina dopo non si svegliò.
Erano
trascorsi tre giorni da quando Sara era ufficialmente “peggiorata”. Non aveva
più dato segni di svegliarsi, ma era ancora viva, nonostante respirasse a
fatica. Stavolta Madama Chips non aveva insistito per mandarla al San Mungo, e
anche se Sirius non sapeva perché, quella notte le venne
da ritenerla una pazza a non sottoporre Sara alle cure dei Guaritori. Era il
tramonto: Sirius aveva già finito di cenare da un pezzo e ora camminava con
passo incerto verso l’infermeria. Aveva un solo pensiero in testa.
Era colpa
sua.
Aprì
lentamente la porta dell’infermeria, come un ladro, per evitare domande. Di Madama
Chips neanche l’ombra.
Ma Sara,
quel piccolo fuscello, quel corpo stremato, era lì, sul letto, col braccio
bianchissimo fuori dalla coperte, e i lineamenti
pietrificati e magri.
Pareva
scolpita interamente nel marmo candido; respirava così piano e sommessamente
che non si vedeva l’alzarsi e l’abbassarsi del petto. La luce del tramonto, là
fuori, balzava sulla neve prima di infrangersi su di lei, ma i colori arancioni
dei primi giorni primaverili non bastavano a darle un po’ di colorito.
Aveva un
che di abbandonato, ma allo stesso tempo di risoluto,
quasi reclamasse deferenza per la sua condizione.
Sirius
non capì mai esattamente quando rimase seduto sullo sgabello a fissarla, sapeva
solo che quando si era destato dal suo trance il
tramonto era passato da un pezzo e gli studenti stavano salendo le scale,
avendo finito di cenare. Ma lui non si muoveva.
Guardava Sara chiedendosi come fosse possibile che avesse fatto una cosa del
genere, lui, che ora si sentiva così vile, così meschino.
Il suo
sguardo si perdeva nelle sfumature dei capelli arruffati che fluivano
copiosamente dalla sua testa, poi indugiava sulle lunghe ciglia, sulle labbra
livide, sulle dita lunghe e scheletrite. D’un tratto gli sovvenne che la sua
bellezza - perché, sì, era bella - da sveglia non avesse
niente di comparabile con lo strano alone, implacabile e imperioso, che la sua
figura possedeva dormiente.
Lentamente,
più lenta di quella di un bradipo, la mano di Sirius si mosse verso quella di
Sara, dapprima sfiorandola, come indecisa, poi il freddo di quella pelle lo
vinse, e strinse la mano di Sara quasi nell’intento di regalarle un po’ di
calore. Dal bizzarro rossore che era apparso sul naso di Sara, Sirius avrebbe
dovuto capire che in realtà era sveglia.
Dovette restare in quel modo molto a lungo, senza rendersene conto:
almeno fin quando, certamente dopo le nove, una lunga barba argentea dall’altro
lato del letto lo convinsero a destarsi di scatto da quella specie di paralisi. Era
Silente.
- Non
lasciarti vincere dalla pietà, - disse, sotto lo sguardo spaesato di Sirius, -
lei non vorrebbe mai che qualcuno ne provasse nei suoi confronti. -
- Si
sveglierà? - chiese Sirius cambiando totalmente discorso.
- Chi può
dirlo? Si sveglierà fra un mese? E’ già sveglia adesso? Mah. -
Sirius
ebbe un mezzo sussulto e ritrasse bruscamente la mano, fissando Sara: gli
sembrava addormentata, ma non potendo esserne sicuro, preferì mantenere la
distanza.
- Ti
senti in colpa, lo so, - disse Silente, - E’ stata una cosa crudele da parte
vostra, ma non dovresti rimproverarti eccessivamente
di una diatriba fra ragazzi. -
- Non è
una diatriba, - precisò Sirius, sentendosi sempre più meschino dopo la
pronuncia di ogni parola, - la odiano tutti. -
- Lo so, lo so, - rispose Silente in tono mite ma piuttosto
desolato, - l’odio scaturisce da tante sorgenti, Sirius, anche dalla paura. -
- Io non
ho paura di lei! - ribatté Sirius a voce troppo alta.
Silente
abbassò leggermente la testa, come per volerlo guardare meglio senza l’ostacolo
delle buffe lenti a mezzaluna. Sirius si rimise seduto.
- La
storia ci insegna che a nessun Grifondoro è mai
piaciuto un Serpeverde, purtroppo… - sospirò Silente, - …se vuoi metterla così.
- seguì qualche lunghissimo minuto di quiete, durante i quali nessuno di loro
parlò, e Sara sembrava trasformarsi in un fantasma ad ogni secondo, da quanto
la luce calava. - E’ brutto che la paura metta fine ad una lunga amicizia,
Sirius… è brutto che sempre la paura causi questa situazione. Quando ho portato
Sara a Hogwarts sapevo bene che la aspettavano anni
duri, ma non avevo altra scelta. -
- Perché? -
- Oh, non
sarò io a dirtelo se lei non vuole farlo di persona. -
E detto
questo Silente se ne andò, non prima di aver chiesto a
Madama Chips una Cioccorana, e lasciò Sirius con un’inspiegabile malessere
rappreso nell’anima.
22 maggio 1974, SCUOLA DI MAGIA E
STREGONERIA DI HOGWARTS
Il
cosiddetto “grande giorno” era arrivato. Ben presto
tutti gli studenti avevano saputo quale punizione spettava ai cinque ragazzi, e
non s’era fatto altro che parlarne, come quando si era trattato di scontare
quella punizione con la piovra e il professor Kettleburn. L’umore delle cinque
“vittime” era decisamente peggiorato. Erano diventati
lunatici e irritabili, e chiunque al posto loro lo sarebbe
stato: in ballo c’era l’espulsione. La McGranitt aveva confermato di
essere stata in un momento di rabbia che le aveva fatto prendere decisioni
precipitose, ma ormai era tardi per rimangiarsi la parola, e comunque
parzialmente era ancora nella sua posizione.
Silente
era partito per Londra, diretto al Ministero della Magia, e quindi anche se
avesse voluto, la McGranitt non avrebbe potuto
discutere con lui dell’annullamento della punizione.
Alle nove
meno un quarto Sara e Remus erano già sul posto convenuto,
nella serra numero tre della professoressa Sprite. Alle nove e cinque
arrivarono gli altri tre, dei quali Peter Minus era decisamente
l’ultimo e il più agitato.
- Ora che
finalmente vi siete tutti degnati di arrivare, - scandì la professoressa
Sprite, evidentemente non contenta del ritardo, - vengo ad illustrarvi le
proprietà e l’aspetto dell’Amanita Trinciapollo. Chi sa dirmi qualcosa? -
Del tutto
inaspettatamente, la mano di Sara indugiò in aria, e la professoressa dette la
parola alla ragazza.
- L’Amanita
Trinciapollo è l’unico fungo ad essere carnivoro e dotato di denti. Il suo nome
deriva dal fatto che molte galline sono state sbranate mentre cercavano dei
chicchi di grano per terra. Si trova sottoterra, ma si vede dov’è perché in
quel punto cresce erba più bassa. Ha l’aspetto di un tubero viola con strisce
bianche. -
-
Esattamente, Gray, e a cosa serve? -
- Si usa
per fabbricare bacchette o per le Pozioni Allucinanti. -
-
Quindici punti a Serpeverde per interventi extra-programma, - gioì la Sprite,
finalmente soddisfatta, poi ricominciò a parlare ad un pubblico piuttosto
scocciato, - Oggi dovrete procurarvi trenta esemplari a testa di Amanita Trinciapollo, e credetemi, non vi invidio
proprio. Credo che nel parco ce ne siano a sufficienza. Una volta che le avrete
trovate ricordate di non toccare mai le radici e di metterle in questi sacchi… -
e lanciò ad ognuno dei grossi sacchi marroncini tutti sporchi di terriccio, che
tutti presero di malavoglia - poi le porterete a me, e la professoressa
Mandragola sarà molto felice di metterle a disposizione degli studenti per
realizzare delle pozioni. Basta che non vengano bevute… non vorremmo essere incriminati dalle
famiglie. Ci sono domande? -
- Solo
una, professoressa, - disse James alzando appena la
mano, - Che facciamo se un’Amanita ci mangia un dito? -
-
Gioiremo e festeggeremo, - disse acidamente la professoressa Sprite, - siete
voi che vi siete cacciati in questo guaio, cari miei, perciò fate come vi ho detto e datevi una mossa. L’alba è solo fra otto ore e
non so dove le troverete centocinquanta Amanite Trinciapollo se non vi muovete.
Marsch! -
Detto
questo, la professoressa Sprite letteralmente buttò fuori i cinque dalla serra
e loro non ebbero altra scelta che rimboccarsi le maniche e mettersi a lavoro.
Erano nel
parco da almeno sei ore.
Esattamente
come previsto, Sara e Remus si erano messi a cercare Amanite Trinciapollo
lontani dagli altri tre, i quali si erano diretti vicino alla Foresta Proibita,
convinti che ne avrebbero trovate di più.
Silenziosamente, di comune accordo, quella punizione era diventata una
questione personale: la squadra che avesse trovato prima il numero necessario di Amanite avrebbe vinto. Nessuno aveva posto quelle
condizioni, ma era fin troppo evidente che James moriva
dalla voglia di dimostrare a Sara che non sarebbe stata una sconfitta a farlo
arrendere. Tuttavia, visto che in tutto quel tempo
nessuno aveva ancora trovato trenta funghi, le speranze di gloria cominciavano
a calare.
Era molto
difficile, nonostante la luce sprigionata dalle bacchette, cercare dei punti in
cui l’erba cresceva più bassa: anzi, era praticamente
impossibile. Grazie al tema che aveva dovuto ricopiare per la professoressa
Mandragola, Sara sapeva che esisteva un incantesimo in grado di rilevare la
presenza delle Amanite, ma non era molto preciso. Inoltre, sembrava che quella
zona del parco fosse un luogo particolarmente sfortunato per la ricerca.
Con la
sola luce della luna, al pensiero che in ballo c’era l’espulsione e che nel
frattempo gli altri studenti dormivano comodamente nei loro letti, la punizione
era una vera tortura. Se solo la McGranitt si fosse
rimangiata la parola in tempo…
Sara aveva trovato solo nove Amanite, e Remus dieci. Dividersi non era
servito a nulla: avevano soltanto perso tempo.
- Chissà a che punto sono gli altri… -
- Non lo
so, - rispose Sara, scavando il terreno con un sasso per evitare di toccare le
radici di un’Amanita, - Spero solo che non siano già
pronti. -
Non
poteva certo sapere che in quel preciso istante Peter era stato morso da
un’Amanita Trinciapollo, e per poco non ci rimetteva un dito: sarebbe stato
sufficiente aguzzare la vista per vederlo correre in giro come un disperato,
ululante di dolore.
- Senti, -
disse improvvisamente Sara rivolta a Remus, - mi
dispiace che ci sia andato di mezzo anche tu. Non avrei dovuto accettare quella
stupida corsa… -
- Oh, andiamo, non dirmi che avevi scelta, - disse Remus, ma si capiva
benissimo che anche a lui dispiaceva di esserci andato di mezzo. Anche
troppo.
- Sì,
beh, potevo comunque evitarlo, - ribatté Sara come
decisa ad incolparsi in tutti i modi. - Non è certo un bel passatempo
raccattare Amanite tutta la notte con questi sacchi
ridicoli e col pensiero dell’espulsione. -
- Tanto
tu rimarrai a Hogwarts, - disse Remus in tono neutro.
- Ma che senso ha se mi espellono? -
Che senso
ha se espellono te?, avrebbe voluto dire.
Intanto
il tempo passava e lo spicchio di luna in cielo era sempre più basso. Di quel
passo, non sarebbero riusciti a trovare abbastanza funghi prima dell’alba.
Continuando
a cercare punti in cui l’erba fosse più bassa, ben
presto intravidero la capanna del guardiacaccia, e si resero conto che erano
arrivati ai confini esterni della Foresta Proibita. Trovarono James e gli altri
discutere animatamente e allo stesso tempo sottovoce per non farsi sentire da
Hagrid.
- A
quanto siete? - chiese Sara senza la minima voglia di parlare.
- Trenta…
in tutto. - rispose Sirius -Non ce la
faremo mai prima dell’alba, mancano due ore! -
- Bhe,
non ho intenzione di sgobbare tutta la sera, - tagliò corto James, - O andiamo
a protestare dalla McGranitt o entriamo nella Foresta Proibita. Lì come minimo ce ne saranno a centinaia. -
- Non puoi entrare nella Foresta, James, - disse Remus, - Di
notte là dentro potrebbe essersi qualsiasi cosa. -
- Non è che hai paura, santarello? - ribatté James.
- Certo
che non ce l’ha! - intervenne Sara, - Ma se non
torniamo al castello prima dell’alba non credo ce la
caveremo raccogliendo funghi per il resto dei nostri giorni! -
Per un
attimo nessuno disse niente; era dura ammettere che Sara aveva ragione.
- Nessuno
dice che devi seguirci, - disse James, - Ma io personalmente non ci tengo ad
essere espulso. E’ inutile continuare a cercare nel parco, no? Se torniamo fra
due ore esatte nessuno saprà mai niente. -
Dapprima
lo guardarono tutti come se fosse stato un pazzo, mentre Peter guardava proprio
altrove. Alla fine, comunque, Sirius annuì, e a Peter
non restò altra scelta che unirsi al trio. Sara e Remus, invece, sfoggiavano le
loro espressioni più scettiche.
- Il
primo che torna qui con trenta Amanite nel sacco ha
vinto. Se vincete voi, diremo a tutti di lasciarla in
pace. - disse James guardando Sara, - Ci state? -
- Possibile
che tu debba ancora cercare gare dappertutto nonostante quello che è successo l’ultima volta? - disse acidamente Remus, ma alla fine Sara fece un passo avanti con sguardo di sfida e
tese la mano a James.
- Io ci
sto, - disse con la voce ferma.
Anche
Remus non ebbe scelta che accettare, anche perché non credeva che fosse una buona idea lasciarla andare da sola nella Foresta. E se fosse svenuta di nuovo? In un attimo, i cinque
scivolarono sotto le finestre di Hagrid più silenziosamente possibile e varcarono
il confine immaginario che segnava il territorio proibito agli studenti. Come
se avessero davvero superato una linea netta, un freddo immane li avvolse non
appena mossero un altro passo avanti, quasi che fossero entrati in un ambiente
del tutto diverso.
In
effetti, era proprio così: la Foresta Proibita non aveva niente di simile ad Hogwarts e il resto dei suoi dintorni. Il primo tratto,
che probabilmente si estendeva ancora per molti metri, era composto di alberi fitti, floridi, e piante molto strane che era
decisamente meglio non toccare. A volte il percorso era talmente ostruito dalle
piante che era necessario deviare in un’altra
direzione. Incapparono diverse volte in pericolose piante carnivore le quali
sembravano più intenzionate a mangiare esseri umani invece che insetti. Una
zannata velenosa da parte di una di quelle piante, e non avrebbero avuto più
scampo.
Ogni
tanto qualche sinistro richiamo animale si destava dalle viscere più profonde
del terreno o dall’alto delle fronde degli alberi, ma era impossibile definirne
esattamente la forma. Da quell’intrico di rami e di fronde a mala pena sarebbe
riuscita a passare la pioggia: come avrebbero fatto loro, allora, ad accorgersi
dei primi raggi solari? L’unica scelta era raccogliere trenta Amanite Trinciapollo
il più in fretta possibile e tornare subito indietro.
Il timore
iniziale che indubbiamente ognuno di loro aveva provato era ancora vivo nel
profondo dell’anima, raggelando le ossa, ma insieme a
lui ora bruciava una strana euforia, e il desiderio di dimostrare che neanche
un luogo simile bastava a far loro paura. Vincendo ogni dubbio o scetticismo,
tutti camminavano ora più rapidi, quasi desiderosi di raggiungere il centro
della foresta. Non aveva senso cercare funghi lì: c’erano talmente tante grosse
radici sporgenti che molto difficilmente si sarebbe riusciti a vedere qualcosa.
Dopo aver
annaspato per interminabili minuti nell’intrico della vegetazione, sobbalzando
ad ogni strida di animali, o ad ogni rompersi di un
rametto per terra, raggiunsero il termine di quel paesaggio impenetrabile: un
freddo ancora più raggelante prese il suo posto, mostrando sotto il suo manto
invisibile una sterminata serie di alberi striminziti e senz’altro morti, che
si reggevano tuttavia ancora in piedi, dritti eppure decadenti. Erano molto
distanti l’uno dall’altro: ad impedire la visuali ci
pensava la bassa e lattiginosa nebbiolina che aleggiava a pochi centimetri dal
terreno, e saliva fino a celare la vista, a volte, delle cime degli alberi più
bassi. Quell’agghiacciante panorama simile ad un cimitero vegetale si estendeva
a perdita d’occhio almeno per un paio di chilometri. Il terreno era umido e
irregolare, pieno di zone fangose e puzzolenti così come di strade rocciose
naturali.
L’aria era umida, raschiava i polmoni.
E
allo stesso tempo portava in grembo sinistri presagi, come di un pericolo
imminente che ben presto si sarebbe verificato. Forse era per
questo che di colpo tutti si erano fatti più guardinghi e avevano
fulmineamente estratto le loro bacchette magiche.
Appena
giunti dinanzi a quel sepolcrale ambiente, i gruppi, di comune accordo, si
divisero. Non c’era altro rumore se non dei passi che affondavano nel
terriccio. Ben presto, Remus e Sara sentirono solo i
propri. Gli altri tre si erano allontanati nella nebbia, era
impossibile vederli o sentirli.
D’istinto, i due camminavano vicini, per evitare che la nebbia sempre
più fitta li disperdesse.
Era
difficile cercare le Amanite in quel terreno brullo, che non aveva
fili d’erba a funzionare da indicatori: si poteva solo affidarsi alle poche
erbacce che ogni tanto crescevano rade, e quando si interrompevano di colpo,
era segno che lì dovevano cercare.
Sara
stava scavando nel terreno con un bastone a poca distanza da Remus, perciò non
vide lo strano particolare che il ragazzo aveva notato. In un punto, che non
osava toccare, le poche erbacce sembravano quasi spiaccicate da qualcosa di invisibile e pesante. Il terreno morbido e umido, pieno di insetti, recava l’impronta di un grosso animale. Le
mosche accorrevano numerose, ma volavano alla cieca. Erano come attirate da qualcosa che non c’era, che non vedevano. Eppure si sentiva una puzza di putrefazione inconfondibile,
la puzza di un animale morto.
Remus
vinse il ribrezzo e, ignorando lo stomaco che si capovolgeva al cospetto di
quell’odore nauseabondo, toccò il punto in cui le erbacce erano spiaccicate.
Non arrivò a toccare il terreno. C’era del pelo, o forse delle squame, e uno
squarcio. La sua mano si sporcò di sangue, ma era sangue che lui non riuscì a vedere.
Si ritrasse di colpo e scattò in piedi come una tagliola. Sara se ne accorse e lo raggiunse.
- Che cos… Aaaaaaaaaaaaaaargh!
-
Il suo
urlo echeggiò per qualche istante facendo vibrare l’aria
immobile, poi tutto tornò in quiete: quasi. Sara sembrava terrificata.
C’era un
Thestral lì a terra: era squartato.
La testa sembrava rotta, un rivolo bluastro di sangue colava
terrificante dal cranio. Un qualcosa, un animale dal grosso muso,
probabilmente, lo aveva atterrato con un duro colpo d’artigli, e poi le sue
fauci si erano insinuate nelle viscere del cavallo, svuotandolo del tutto di ogni componente. Restavano solo le
ossa, sporgenti, distrutte, con brandelli di pelle incrostata, e quei pochi
rimasugli di carne rimasti erano portati via dai piccoli animali, topi,
mosche. Perfino la pelle elastica delle ali era stata sbranata, e il muso era
dilaniato, con un occhio fuori dall’orbita. Sara si
portò una mano alla bocca e si girò. Sentiva il vomito salirle in gola, ma
resistette.
- Che cosa c’è? - disse Remus, a voce bassissima, - Un…
Thestral? -
- E’…. è… L’hanno… c’è solo la carcassa… è orribile… -
Remus,
pulendosi la mano destra di quel sangue che non poteva vedere, raccolse delle
strane piume soffici e dorate che aveva trovato vicino
all’impronta sul terreno, poi si diresse verso Sara e la spinse dalla parte
opposta. Entrambi si allontanarono più che poterono. Se
c’era tutto quel sangue, presto sarebbero arrivati
altri Thestral e avrebbero potuto attaccarli.
Soltanto
quando la puzza non poté più raggiungerli, Remus mostrò a Sara le penne che aveva raccolto suo luogo del macello.
- Che cosa sono? - chiese Sara con un filo di voce.
- Sono penne di grifone, ne sono sicuro, - rispose Remus. -
Erano vicine a quel Thestral. - Non ebbe bisogno di aggiungere
altro affinchè la cosa trovasse automaticamente una spiegazione. Sara
prese in mano le piume, chiudendo a mala pena le dita, come se avesse avuto
paura di frantumarle.
- Quindi c’è un grifone a piede libero. - constatò
- E ha fame. -
Sara deglutì.
Non era piacevole sapere di essere soli nella Foresta
(e a dire il vero non sapevano neanche quanto fossero lontani dal castello, e
da che parte fosse quest’ultimo) con un Grifone in libertà che si era appena
sbranato un Thestral.
- Aspetta un attimo… - riflettè Remus mentre camminavano più
speditamente possibile nella nebbia, cercando invano di recuperare il senso
dell’orientamento, - James, Sirius e Peter… loro forse non lo sanno! -
- Non essere ridicolo, - disse Sara, con la voce che era tutta un
tremito, e una netta voglia di togliersi di torno il più presto possibile, -
Certo che lo sanno.
- Ma non era minimamente convinta di ciò che stava
dicendo.
Si
guardarono per un attimo, senza parlare, come pensando intensamente a un piano. E sicuramente sarebbero rimasti in quel modo
molto a lungo, se a destarli non ci fosse stato un ruggito misto a uno grido stonato di aquila. Veniva da lontano, da qualche
parte dentro quella nebbia, ma bastò a farli correre entrambi verso il cuore
della Foresta, o almeno credevano che stessero andando in quella direzione.
Comunque
sia, dovevano trovare gli altri.
- C… c…
che cos’era q…quello? - balbettò Peter in preda al panico.
- Niente
di simpatico, immagino, - rispose James cercando di vedere qualcosa in mezzo a
tutta quella bassa foschia.
Un altro grido identico a quello di prima, e poi un altro, e un altro
ancora. Tutti rochi, stonati, simili al grattare di un’unghia su un vetro.
E dato che fra loro si sovrapponevano, significava
che, a qualsiasi animale appartenessero, ce n’era più di uno.
-
Qualcuno sa che razza di bestie sono? - chiese Sirius
guardandosi intorno.
- Credevo
lo sapessi tu, - disse James.
-
Spiritoso… senti, non ci tengo a finire sbranato da un coso che neanche so cos’è! -
In effetti,
nessuno ne aveva voglia. Non se ne parlava di tornare
indietro e fare la figura dei conigli in fuga, ma non potevano neanche
aspettare che qualche mostro sconosciuto sbucasse dalla nebbia e li facesse
fuori, senza neanche dar loro il tempo per difendersi.
Cercarono
ti intravedere tra le fronde degli alberi quanto
mancasse all’alba, ma era impossibile: in quel punto la foschia saliva fino al
cielo, creando un coperchio indistinto che non faceva passare neanche un minimo
raggio di luce, se c’era.
Difficile
era anche sforzarsi di recuperare l’orientamento: ogni albero pareva uguale
all’altro. Fino a quel momento se l’erano cavata imprimendo una croce
fiammeggiante su ogni corteccia che avevano sorpassato, ma con tutte quelle
bestie misteriose in giro, lasciare segni così evidenti era decisamente
una pessima idea.
Potevano
soltanto rimettersi a camminare (ormai nessuno di loro si curava più delle
Amanite) e sperare di andare a sbucare fuori dalla
Foresta. Ma c’era anche, equivalente al desiderio di
salvarsi la pelle, la curiosità bruciante di vedere quelle bestie. Una sorta di istinto suicida, vista la situazione, che ben presto
divenne più forte di qualsiasi segno di prudenza.
Seguendo
le strida e i ruggiti, camminarono per molti minuti al
totale sbando, cercando di fare meno rumore possibile. La vegetazione tornava a
farsi fitta: i tronchi degli alberi erano sempre più grossi, le piante
rampicanti crescevano del tutto incolte, insieme a
qualche fiore dall’aspetto strano. Una strana puzza di carne decomposta
assaliva i polmoni con vigore sempre crescente, fin quando il disgusto divenne
quasi insopportabile. E con esso, anche quei versi
laceranti si facevano sempre più vicini.
La nebbia
che accarezzava la pelle come un cencio gelido si
stava diradando: sembrava che stessero raggiungendo il limitare della Foresta
Proibita. Possibile che quelle bestie di andassero a nascondere così vicine a
Hogwarts?
I tre
raggiunsero un’altura dalla quale si dominava una radura fatta di terriccio
molle e puzzolente. Gli alberi erano talmente alti che non se ne vedeva la
cima, ma non era quello il primo particolare a saltare
all’occhio…
Almeno
sette enormi bestie si accanivano sui corpi di candidi cavalli che sembravano
emanare luce propria, certamente Unicorni. I famelici carnivori avevano un
corpo che sembrava diviso verticalmente a metà. Il muso era quello di
un’aquila, così pure le zampe anteriori e le ali che spuntavano da dietro le
spalle, curvandosi verso l’alto come quelle di un cigno. Il resto del corpo era
possente e muscoloso: le piume si diradavano lentamente per lasciare il posto
ad un pelame marroncino, le zampe posteriori erano quelle di un grosso felino,
certamente di un leone, ed erano munite di artigli
grandi almeno come due dita. Una coda sventolava, in fondo, frustando l’aria.
Ogni tanto, dopo aver mangiato, un grifone alzava il muso imbrattato di sangue
d’argento al cielo, emetteva uno dei suoi gridi lancinanti, e uno dopo l’altro
tutto gli altri sei lo imitavano, dando vita ad un mostruoso coro di grida aspre
e profondi ruggiti.
James,
Sirius e Peter sembravano appena pietrificati dalla professoressa Mandragola:
fissavano la macabra scena senza muoversi né proferir parola, neanche a bassa
voce. Forse era l’orrore, forse la paura di essere scoperti.
La morte
di quei sei unicorni non era stata semplicemente l’uccisione di un animale. Anche da morti, da squartati, i loro corpi emettevano un
bagliore superbo e orgoglioso, che allo stesso tempo reclamava di piangere quel
fatto tremendo. I grifoni ad ogni beccata sembravano soffrire, feriti. Non
avevano tagli sul corpo: si erano macchiati di un crimine imperdonabile.
- Meglio…
andarsene… - bisbigliò James agli altri, più piano che poté.
Tutti la
trovarono un’ottima idea.
S’erano
appena voltati quando scoprirono con orrore che altri
tre grifoni erano dietro di loro, ruggivano e roteavano le grosse code,
raspando il terreno con gli artigli.
*
James,
Sirius e Peter avevano forse creduto di essere spacciati, ma la salvezza era
giunta all’ultimo momento. Un corvo nero come la pece era
volato freneticamente addosso ai tre grifoni, e col suo becco anch’esso
parzialmente nero, aveva cavato a tutti e tre gli occhi rapaci. I tre animali
si erano immediatamente impennati, dibattendo le code e le ali immense,
demolendo alberi, attirando con i loro ruggiti gli altri esemplari del loro
branco.
Un attimo
dopo era apparso anche Remus. Impossibile definire le facce
degli altri tre quando il corvo si era trasformato in Sara; aveva la bocca
sporca di sangue, come il corvo aveva avuto il becco macchiato di quello stesso
colore nel cavare gli occhi alle bestie.
- Ottima
idea. - commentò acidamente James, - Avevi di meglio da fare che tirarceli
tutti addosso, per caso? -
- Avevo
di meglio da fare che venire a salvarvi la pelle, per la precisione. Non sono
io che ho insistito. -
I tre
guardarono Remus, ma non ebbero il tempo di ribattere niente. Dieci grifoni
alti come minimo il doppio di loro li avevano
circondati.
- Stupeficium! - gridò Sirius in direzione
di uno qualunque di loro, ma il risultato fu soltanto di arruffargli le pelle e fargli comparire un piccolo taglio nel punto in
cui fu colpito.
- Non si
possono schiantare i grifoni, - disse Remus con la bacchetta puntata verso la
bestia di fronte a lui. - tutti gli incantesimi appaiono dimezzati contro di
loro! -
- E
allora che diavolo vuoi fare, genio? - ribatté
seccamente Sirius.
- Petrificus Totalus! - gridò Remus, e il
grifone davanti a lui cadde a terra con il muso paralizzato e le gambe che si
muovevano in modo del tutto indipendente. Gli altri grifoni sembravano
disorientati, ma non ci sarebbe voluto molto perché si
riprendessero. Prima che facessero qualsiasi cosa, Sara gridò qualcosa di incomprensibile e una spada di ghiaccio apparve nella sua
mano.
- Vitious
non ha mai insegnato quella roba! -
trasecolò James.
Ma nel
frattempo Sara aveva piantato la spada in gola al primo grifone che le si era avventato contro con il becco spalancato. Aveva
dovuto ritrarla subito prima che una fiammata color dell’oro le incenerisse il
braccio, ma alla spada ci volle un po’ per riformarsi
dopo tutto quel calore.
- Non
riusciremo mai a ucciderli! - disse Sara, - Bloccateli
e poi scappate! - Eppure, tutti l’avevano vista
uccidere un grifone proprio in quell’istante. - Non state qui a fare gli altruisti! -
Prendendo
esempio da Remus, anche James e Sirius riuscirono a buttare a terra due
grifoni, aprendosi un varco e riuscendo a scappare, trascinandosi dietro un
terrificato Peter. Ma non fecero abbastanza velocemente,
essendosi voltati troppe volte indietro per controllare che Sara e Remus non
fossero nei guai. Due dei grifoni ciechi li avevano raggiunti con l’olfatto.
James
dette un colpo secco alla sua bacchetta e una nuvola di nebbia rossa esplose
dalla punta, come il fumo di un petardo, assalendo i due grifoni.
Evidentemente, quell’incantesimo impediva loro di poterli fiutare. I tre
sgattaiolarono sotto una grossa radice sporgente per evitare una vampata di
fuoco sparata del tutto alla cieca da uno di quegli animali, ma era durato
poco: un altro grifone, con gli occhi del tutto sani, lo stesso che Sirius
aveva cercato di Schiantare, si parò loro davanti e scagliò un’altra fiammata
d’oro contro di loro.
Riuscirono
ad evitarla per un pelo, ma un albero enorme aveva preso fuoco, e ben presto lo
avrebbe appiccato anche al resto della vegetazione nei
dintorni.
Due
secondi dopo, sentirono un tonfo e un grido smorzato provenire dalle loro
spalle: un grifone, con un colpo d’artigli, aveva scagliato Sara contro il
tronco di una quercia. La ragazza si alzò quasi subito, nonostante la boccata
di sangue che sputò e le ferite che aveva sulla pancia. Con un altro colpo di
spada ferì un grifone all’ala e, prima che questo potesse attaccarla, la sua
arma era tornata ad essere bacchetta e lei lo aveva
finito strozzandolo con una lingua di fuoco apparsa dalla punta. Pochi metri
più in là Remus era riuscito a Schiantare un grifone,
o almeno così sembrava. Non ci sarebbe voluto molto prima che si riprendesse.
I cinque
ragazzi erano scappati più lontano possibile, ma non era servito a molto: i
grifoni rimasti li avevano di nuovo circondati. Dietro di loro, ormai era
scoppiato un incendio.
I grifoni
emettevano quei loro versi assordanti, spaccando i timpani. Avevano ancora i
becchi sporchi del sangue degli unicorni. Uno di loro, grosso almeno il doppio
degli altri, si era fatto avanti, spalancando l’enorme becco.
La
bacchetta di Sara tremava nella sua mano. Non aveva scelta…
Nello stesso istante in cui il grifone si lanciava verso di loro
spalancando il becco insanguinato, Sara, senza quasi accorgersene, gli puntò la
bacchetta contro.
Due parole, che le parvero durare un secolo, e poi un lampo
abbagliante di luce verde. Dopodiché qualcosa la colpì alla testa e non
seppe più nulla.
Ci volle qualche minuto prima che tornasse il silenzio e la polvere
si diradasse completamente, salendo verso l’alto e disfacendosi nell’aria. Quel
punto di Foresta era irriconoscibile. I giganteschi alberi erano caduti a
terra, buttandone giù altri. Nessuno capì come fosse stato
possibile, ma l’incendio si era spento lasciando solo qualche fiammella sparuta
qua e là, e un fitto alone di fumo grigio.
Tossendo,
Sirius fu il primo ad alzarsi. Tutti erano caduti a terra, senza neanche capire
cosa fosse successo. Vide il corpo immobile del
grifone più grosso a terra, sepolto dalle fronde di un grosso albero. Gli si
avvicinò lentamente: era morto. Aveva ancora gli occhi aperti, la stessa
espressione feroce di quando si era lanciato contro di loro. Il sangue di unicorno scintillava sul suo becco.
Tutti gli
altri grifoni sembravano essere scappati.
Quando il
suo sguardo si pose in una fossa poco lontano
dall’animale, Sirius ebbe un sussulto convulso. Sara era immobile, la chioma
fulva rovesciata all’indietro, la faccia a terra. Un ramo più grosso di lei,
staccandosi da un albero, l’aveva colpita alla testa facendola sprofondare nel
terriccio. Non dava segno di rialzarsi.
Sirius
corse verso di lei senza neanche accorgersene, e riuscì a spostare il tronco
che le stava schiacciando la schiena, impedendole quasi di respirare. Sollevò
la ragazza senza il minimo sforzo, stupendosi di quanto fosse
leggera. Sara iniziò a tossicchiare e sputare sangue, come recuperando di colpo
la facoltà di respirare. Aprì gli occhi appannati e impiegò qualche minuto per
distinguere le figure intorno a lei. Sirius l’aiutò a rimettersi in piedi, e la
lasciò soltanto quando ebbe finito di barcollare. Entrambi erano
muti come pesci.
- Sara! Che diavolo… - Remus le era corso incontro e non aveva potuto fare
a meno di notare il velo di sangue che colava dalla fronte della ragazza, come
una grottesca maschera. - Tutto bene? -
Sara
annuì. Le labbra le tremavano.
- Dove sono andati tutti quei cosi? - disse Sirius.
- Verso
Hogwarts. Si sono spaventati dopo quell’Avada Kedavra e hanno buttato giù tutto
mentre scappavano, - rispose cupo James, - E ormai è passata l’alba. -
- Quando torniamo ci fanno a pezzi! - piagnucolò Peter.
- Non è
quello il primo dei nostri problemi, che ne dici? - disse Remus, - Silente è
ancora a Londra e nessuno sa che un
branco di grifoni inferociti sta galoppando verso il castello. -
-
Dobbiamo precederli, - sentenziò Sara, tornata in sé.
- E come pensi di fare, scusa? Non credo che qualcuno abbia la
minima idea di dove siamo! - ribatté James.
- Loro però sì, - disse Sara indicando
dietro le spalle del ragazzo.
Quest’ultimo
si voltò di scatto ma, dopo aver guardato a lungo nel punto indicato da Sara,
non vide niente. Alcune impronte comparivano dal nulla sul terriccio umido, e
un cavernoso nitrito si accompagnava al rumore di uno scalpiccio di zoccoli.
- I…
Thestral? - chiese incerto James, e sarà annuì.
Attirati
dal sangue, tre cavalli-rettili si erano avvicinati a Sara e avevano cominciato
e leccarle il viso. Lei non sapeva se scappare o restare immobile, ma visto che
dovevano cavalcarli, era meglio non muoversi.
Ci volle
un po’ prima che tutti riuscissero a salire, ma neanche Peter fece storie
sull’idea di usarli per raggiungere il castello prima
dei grifoni: alcuni di quegli animali erano feriti e non potevano volare,
quindi i Thestral ci avrebbero messo molto meno a raggiungere Hogwarts, se
sorvolavano la foresta.
Non era
proprio piacevolissimo aggrapparsi a cose che non si vedevano, e volare a
cinquanta metri da terra senza capire cosa si aveva sotto. Era bastato dire ai
Thestral di raggiungere il castello, e questi si erano librati immediatamente
in volo, sparati in alto verso il cielo, oltre le fitte fronde dalla Foresta
Proibita.
Le cime
degli alberi scorrevano rapidamente sotto di loro mentre le lunghe criniere dei
Thestral sventolavano nell’aria gelida. In un minuto il castello apparve
dapprima in lontananza, poi, vicinissimo. I grifoni erano lì: avevano già
assalito il portone d’entrata con le loro terribile fiammate
color dell’oro, e gli studenti che erano usciti per le lezioni all’aperto
scappavano in tutte le direzioni incuranti delle grida dei professori.
La
facciata anteriore del castello, all’interno, aveva preso fuoco. Le finestre schiantavano, i frammenti di vetro schizzavano via in ogni
direzione. I Thestral tracciarono due ampi giri intorno al castello, in attesa che venisse loro detto di atterrare. Mai i grifoni
avevano avuto tanta carne fresca a disposizione, e anche i Thestral che
volavano in cielo sembravano una presa succulenta.
Uno dei
grifoni che non aveva l’ala ferita si librò in volo, e
fu allora che i professori videro cinque dei loro studenti volare sul dorso dei
Thestral. La bestia mezza aquila e mezza leone puntava
dritta contro i cavalli alati, inferociti per l’attacco.
- Sara!
Riesci fare un altro di quel…? - iniziò Remus, inclinando il collo
all’indietro.
- Non
posso! Ci sono i professori! -, rispose Sara, gridando per farsi sentire.
-
Fregatene! E’ meglio salvare la pelle! -
Ma
Sara si girò, cercando di fissare il grifone negli occhi. Le pupille si
restrinsero, fino a scomparire. Immediatamente il grifone cessò di sbattere le
ali, richiudendole verso i propri fianchi, e precipitò a terra, incapace di
ribellarsi. Sembrava morto.
Un altro
si librò in volo, e a terra ne restavano tre.
Sara non
se lo aspettava, e il Thestral compì un improvviso giro della morte per evitare
quel becco assassino. Per un pelo Remus e Sara caddero
a terra, ma riuscirono ad aggrapparsi. Sara puntò la bacchetta contro
l’animale, che venne colpito da una specie di scarica
elettrica. Tremando e restringendosi sempre di più, si
trasformò in un’anatra, che volò via terrorizzata sputando ogni tanto qualche
fiammella dal becco.
Lei e
Remus erano rimasti gli unici in volo: gli altri due
Thestral erano atterrati sul tetto del castello, e da lì James e Sirius
lanciavano incantesimi contro i grifoni rimasti a terra; uno di essi crollò
sotto il peso di sette schiantesimi simultanei, con l’aiuto dei professori che
erano accorsi dal castello, facendosi largo tra il corridoio in fiamme. Un
altro era fuggito verso la foresta ma era stato colpito da una freccia di fiamme
sparata dalla McGranitt, che lo aveva infilzato nella spina dorsale,
costringendolo alla definitiva ritirata.
L’ultimo
era riuscito a entrare nel castello, e appiccava il
fuoco a qualsiasi cosa incontrasse. La Sala Grande era completamente bruciata
quando anche quell’animale venne fermato: era Silente.
Semplicemente agitando la bacchetta senza pronunciare alcuna formula, un nastro
d’argento si sfilò lentamente dalla punta della sua arma e, colpendo il
grifone, lo fece diventare sempre più trasparente, fin quando non si dissolse
in una nube di fumo biancastro.
Gli
studenti, terrorizzati ed esausti, si raccolsero in corridoio, aspettando che
Silente emergesse dal fumo della Sala Grande per dare loro delle spiegazioni.
James, Sirius, Sara, Remus e Peter, invece, stavano più nascosti possibile.
- Tornate
nei vostri Dormitori, per adesso, vi prego! - annunciò
Silente con un tono tanto calmo che i cinque rabbrividirono, guardandosi negli
occhi - Il responsabile della vostra Casa vi accompagnerà perché non succeda
nient’altro! E voi Gazza, andate a chiamare Hagrid... -
I cinque ragazzi cercarono di filarsela nascondendosi in mezzo alla folla che
si avviava ai Dormitori, ma Silente li fermò con un gesto eloquente.
In breve,
nel corridoio mezzo carbonizzato erano rimasti soltanto loro, Silente, e i
pochi professori che non avevano accompagnato gli studenti ai loro dormitori.
Poco dopo arrivò anche Gazza, accompagnato da Hagrid, trafelato e
scombussolato.
Silente
guardò i cinque studenti con occhi severi.
Silente
fissava, a turno, tutti i cinque responsabili della situazione: ancora non
sapeva che, involontariamente, erano stati veramente loro a scatenare quel
pandemonio, ma poteva benissimo immaginarlo dalle loro espressioni. Sara si
guardò intorno e ringraziò il cielo che la professoressa Mandragola fosse la
responsabile della Casa dei Serpeverde, così almeno non avrebbe incontrato la
sua ira isterica. Ma lo sguardo di Silente e il silenzio aleggiante sul
castello abbrustolito, era la peggiore delle punizioni che potessero toccare.
- Se non
sbaglio dovevate scontare una punizione… - I cinque annuirono cercando di
guardare dall’altra parte. - Mostratemi i funghi che avete raccolto, allora! -
disse allegramente il Preside, lasciandoli di stucco.
- Ma,
noi, veramente… - Sara sferrò una pedata nello stinco di James costringendolo a
tacere. Afferrò tutti e cinque i sacchi e li porse a Silente: gli altri quattro
non potevano crederci, ma erano diventati stracolmi. Silente vi gettò uno
sguardo rapido, prima di porgerli al Custode.
- Potete
portarli nella serra numero tre, Gazza? -
Gazza
grugnì e scattò con Mrs Purr di nuovo fuori dal castello. James, Sirius e Peter
si voltarono verso Sara con gli occhi sgranati, e lei fece loro l’occhiolino.
Silente tornò a guardarli, sotto le espressioni attonite di tutti i presenti.
Sara notò che il preside fissava con molta attenzione e una nota di
preoccupazione il sangue che le stava seccando sul viso.
- Hagrid,
stanotte questi ragazzi sono stati aggrediti da un branco di grifoni, che sono
usciti dalla Foresta Proibita quando tu
lavori qui proprio per impedirlo! - Si stupirono tutti del modo di parlare di
Silente, che non sembrava quasi il suo. Infatti non lo era. - Che cosa mi dici?
-
- Ma…
professor Silente… io a dirci la verità… non me ne sono accorto… - balbettò
l’enorme guardiacaccia.
- Ah! Non
te ne sei accorto? -
- Eh… no…
-
Silente
fece una smorfia disgustata. Erano tutti meravigliati, quello non sembrava
quasi lui. Remus, come colpito da un’idea improvvisa, si voltò verso Sara che
apriva e chiudeva a mala pena le labbra, e si accorse con orrore che il
movimento labiale della ragazza corrispondeva con quello di Silente.
- Torna
nella tua capanna, Hagrid! - sbottò Silente, - E stai attento la prossima
volta! E’ già molto che non ci siano stati morti! - Hagrid, a passi congelati,
fece dietrofront per la sua capanna, evidentemente mortificato. Poi Silente
tornò a guardare i ragazzi, e Remus notò che Sara aveva smesso di condizionare
Silente. - Siete entrati nella Foresta Proibita, per caso? -
- No. -
disse Sara in tono profondamente offeso ma sicuro di sé.
Silente
ne parve convinto.
-
Trasfigurare un Grifone in un’anatra! - esclamò d’un tratto, - Ottimo lavoro. E
anche voialtri, un’ottima difesa. Vi assegnerei dei punti, se non sapessi che
non è il caso. Potete tornare ai vostri Dormitori. - sentenziò, e sparì nella
Sala Grande incenerita.
Allibiti
e sollevati, i cinque si affrettarono verso le scale, ignorando i pezzi di
legno bruciato che precipitavano a volte sulle loro teste, e i sospiri
impauriti ma sollevati dei ritratti appresi alle pareti.
- Ancora
non posso crederci! - sbottò Remus in direzione di Sara. Si voltarono tutti
tranne lei, perché evidentemente nessun altro l’aveva vista muovere le labbra. -
Hai ingannato Silente e incolpato Hagrid! E il Preside si fida di te, te ne
rendi conto? - Sara lo fissò a lungo, stupita che potesse essersi veramente arrabbiato
per una cosa del genere.
- Che ti
prende, Remus? - chiese Sirius, - Ce l’hai per quella storia dei funghi? -
- Ma non
l’hai vista? Tutte quelle cose, non le ha dette Silente… le ha dette lei. -
- Che…
che cosa? - sbiancò James, ma un sorriso gli si allungò sulle labbra, - Ma è fortissimo! Come cavolo hai fatto? -
Remus non
poteva crederci: - Illusioni. Ma a parte questo… -
-
Impossibile! Sei un Legilimens? - lo interruppe Sirius.
Sara
annuì, arrossendo sul naso, ma Remus si intromise:
- Non
solo. Comunque, volete ascoltarmi? -
-
Andiamo, volevi essere espulso? Che hai da prendertela tanto? -
Quella
frase aveva tutto di vero, ma Remus non riusciva a digerirla. Doveva
aspettarselo da una Serpeverde, ma allo stesso tempo non poteva credere che
Sara avesse ingannato Silente così spudoratamente, sotto il naso di altri
professori. Non aveva mai fatto una cosa del genere da quando l’aveva
conosciuta. O forse l’aveva sempre fatto?
Forse era
stato tutto un’illusione, da quando
si erano visti. Forse lei gli aveva letto il pensiero e lo aveva ingannato in
quel modo per tutto il tempo. Non riusciva più a capire quale fosse la realtà e
quale il miraggio, e non sapeva spiegarsi come facessero i suoi ex-amici ad essere
così tranquilli.
Come
faceva a fidarsi ancora di lei?
Guardò
Sara negli occhi e dall’espressione della ragazza gli venne da sospettare che
lei gli avesse letto di nuovo nel pensiero. Scostò lo sguardo. Gli occhi di
Sara non avevano niente di ostile, erano affranti, tristi, distrutti: Remus
sapeva che non avrebbe sostenuto a lungo quell’espressione stanca, la
conosceva. Accelerando il passo, corse fino alla torre dei Grifondoro dove
aveva intenzione di rimanere fino alla mattina dopo.
Con Sara
aveva chiuso.
24 maggio 1974, IL LUOGO NON HA
IMPORTANZA.
Sara era
tornata al punto di partenza. Le lancette del tempo giravano indietro troppo
velocemente, vertiginosamente, e lei si era ritrovata nella medesima situazione
di due anni prima, quando era arrivata a Hogwarts. Che cosa era cambiato?
Remus non
incrociava mai il suo sguardo e non le rivolgeva la parola neanche quando si
trovavano ad un millimetro di distanza. I tre avvoltoi lo avevano notato,
naturalmente, e dalle loro bocche la notizia era volata per tutta la scuola, ma
distrattamente, quasi senza importanza. A chi interessava, in fondo? Sara
ringraziò la fortuna per questo, non ce l’avrebbe fatta a sopportare più
commenti acidi del normale. Da quando l’ispezione del Ministero aveva
assicurato che lei era “normale”, gli studenti anziché mettere da parte i loro
timori la detestavano ancora di più, come se sospettassero qualcosa di losco.
A dir la
verità c’era davvero qualcosa di
losco, ma loro non potevano certo saperlo. Soltanto Remus, e, da un giorno,
James, Sirius e Peter sapevano dei suoi poteri mentali, nessun altro. A meno
che, come ipotizzò Sara in uno dei suoi momenti più neri, Remus non fosse
andato a spifferarlo a tutta la scuola per vendetta.
Vendicarsi
di che cosa, in fondo?
Che cosa
gli aveva fatto? Era questa la
domanda che bombardava i nervi di Sara mentre la lama del rasoio affondava
inesorabile nella pelle bianca, lacerandola ancora una volta. Ormai aveva le
braccia devastate, sfigurate dai tagli che si era fatta. Aveva anche preso
un’infezione piuttosto grave a causa della ruggine della lama, ma non aveva
intenzione di andare da Madama Chips e farle sapere tutto. Se l’era cavata da
sola, alla meno peggio, trovando gli ingredienti di una medicina su un Manuale per Aspiranti Guaritori.
Se avesse
saputo che era possibile morire per quell’infezione, non si sarebbe curata.
Era per
questo che si ostinava con il rasoio e non con la bacchetta. Magari avrebbe
preso un’infezione mortale. E tagliarsi con la bacchetta non dava il senso
della lama che affonda nella carne viva, non faceva sentire lo stesso dolore,
non infliggeva la stessa auto tortura…
E questi
erano solo i più dolci fra i pensieri che le affollavano la testa ogni giorno.
Aveva ripreso a marinare le lezioni, incurante degli esami di fine anno
imminenti - non le importava neppure come sarebbero andati a finire.
Non
rispondeva a nessuna provocazione, a nessuna presa in giro, evitava di
incrociare Silente o qualsiasi altro essere umano. La maggior parte del suo
tempo la trascorreva esplorando i passaggi segreti del castello, senza
veramente esserne interessata. Non tornava nella sua soffitta se non per
piangere. Non voleva neanche portarsi avanti per conto suo, come aveva fatto in
passato.
Gli
studenti del suo stesso anno erano costretti a portarle una pergamena con
scritta la lezione di portare per i giorni seguenti. Sara strappava i fogli
ingialliti buttandoli nel fuoco.
Non le
interessava. Non le interessava più di niente.
In un
primo momento si era stupita che James, Sirius e Peter fossero diventati più
amichevoli con lei, e poi, successivamente, in qualsiasi atto benevolo nei suoi
confronti lei aveva visto l’inganno e l’ipocrisia.
Erano
gentili con lei soltanto perché in parte li aveva salvati dai grifoni, non per
altro. Se non fosse stato per quello, la situazione sarebbe stata esattamente
quella di prima, e Sara non sapeva di che farsene di amici bugiardi.
In quel
momento, se Remus le avesse detto che era ora di fare pace - se ne esisteva
una, di pace, in un tempo come quello - lei non avrebbe saputo cosa rispondere.
Doveva rifiutare o accettare? Doveva interpretarla come l’ennesima ipocrisia
oppure accoglierla a braccia aperte? La scorza più superficiale della sua
coscienza le diceva che avrebbe dovuto rifiutare con freddezza, ma la verità
era che non si era mai sentita così sola, e dentro di sé, in fondo, rivoleva
indietro l’amicizia di prima.
Ma era
veramente un’amicizia, se era finita così presto?
Non lo
sapeva più.
Il caldo
era venuto all’improvviso, senza che nessuno se lo aspettasse.
Giugno
ormai stava per iniziare e con esso la tanto agognata stagione estiva. Presto
gli studenti di qualsiasi anno avrebbero affrontato i loro esami, e c’era una
sola persona indifferente a questo: Sara.
L’acqua
del lago rispecchiava tremolante le stelle. Non c’era luna. Il cielo era
limpido come un bicchier d’acqua, e nel suo nero totale solo un velo più chiaro
tempestato di stelle illuminava la notte. L’acqua era calma, mossa appena da
una brezza leggerissima, quasi impercettibile, e non si sentiva nessun rumore.
C’erano delle luci accese al castello di Hogwarts, una figura nera ed imperiosa
slanciata contro la volta celeste; tutto, intorno, sembrava traboccante di
vita, nonostante la notte sempre più profonda. Strani pesci dagli occhi
luminescenti nuotavano a pochi centimetri sotto il livello dell’acqua,
sembravano lucciole. Della piovra neanche l’ombra, forse dormiva sul fondo del
lago.
Le rane
gracidavano beatamente, nascoste dalle ninfee e dai loro fiori rosa fucsia, nel
pieno della loro bellezza. Sara lanciava sassolini nel lago, osservando il
gioco di luci diamantine nelle increspature concentriche.
Ormai era
mezzanotte.
Sara era
seduta, con le punte dei piedi nell’acqua tiepida, su un tronco di pianta
acquatica che, come un ponticello, sovrastava un punto qualunque del lago, dove
l’acqua era troppo profonda per lei.
Magari
affogassi!, pensava, ma tutto sommato non si buttava. Chissà, poteva darsi che
imparasse a nuotare proprio in quel momento, e la cosa non le avrebbe fatto
certo piacere.
Osservava
il suo riflesso nelle acque trasparenti. Le lucine dei pesci dagli occhi
intermittenti fluttuavano nella sua stessa immagine. Una goccia d’acqua
precipitò dai suoi occhi fino a cadere nel lago, sfacendosi in tante altre
microscopiche gocce.
- Sara? -
Quella
voce alle sue spalle non la fece sobbalzare né reagire. Era Sirius. Le si
sedette accanto, sul tronco esile e un po’ pericolante. - Che cosa ti prende? -
insistette Sirius, vedendo che non otteneva alcuna risposta.
Sara
scosse la testa. Sirius si sporse in avanti per guardarla negli occhi, e vide
che erano gonfi di lacrime silenziose. Le scostò i capelli dal viso,
tirandoglieli dietro le orecchie, ma per un po’ non osò parlare.
- E’ per
via di Remus? - azzardò il ragazzo.
Che senso
aveva mentire? Sara annuì, ma di nuovo non parlò.
- E’ un
po’ troppo fiscale, - sorrise Sirius, - Ma sta male quanto te. -
- Che ne
sai? -
Sirius fu
stupito da quell’improvvisa e secca domanda; la voce di Sara era un sibilo, il
sussurro di un morto.
- Siamo
in Dormitorio insieme. Non è invisibile. -
-
Neanch’io sono invisibile, ma non mi ha ancora rivolto la parola, - disse Sara,
scrollando le spalle con un gesto brusco.
Perché
diceva quelle cose proprio a Sirius, una di quelle persone alle quali non
avrebbe detto neanche il suo nome per paura che lo usasse contro di lei? Non
aveva senso raccontargli i fatti propri, era una cosa del tutto illogica…
- Bhe,
allora provaci tu, - ribatté Sirius, - Uno dovrà pur cominciare. -
- Perché
mi dici queste cose? - disse Sara alzando la voce, mentre con un singhiozzo
altre lacrime cadevano dai suoi occhi umidi, - Tu non mi conosci nemmeno. Come
puoi venire fuori all’improvviso e pretendere di essere mio amico? -
Sirius fu
per un attimo disorientato da quella veemenza, da quel pianto rabbioso o forse
soltanto disperato. Le si avvicinò.
- Io non
ho mai detto che voglio essere tuo amico. -
Sara si
morse il labbro. Era così evidente? Era così ovvio che era sola? Sirius le
accarezzò la guancia, e lei, come se si fosse appena scottata con un tizzone
incandescente, senza pensarci lo spinse, e lui cadde nel lago.
Nel
silenzio, il suono del tuffo era un fragore tonante.
Gli
animali si zittirono all’istante, la calma del lago si ruppe, e i pesci dagli
occhi lucenti scapparono via confusamente, in tutte le direzioni. Sirius
riemerse, con i capelli corvini appiccicati al viso, e solo allora Sara si rese
conto che aveva ancora un occhio nero.
-
Avverti, almeno! - rise Sirius, e vide che, lentamente, un sorriso incerto si
delineava sulle labbra di Sara, prima di trasformarsi nella prima risata, dopo
tanto tempo.
All’improvviso
Sirius la prese per una caviglia e la trascinò nell’acqua. Non sapeva che Sara
non fosse in grado di nuotare, e pensò che fosse tutto uno scherzo quando la
ragazza cominciò ad annaspare nel tentativo di tenere la testa fuori.
Nel suo
dibattersi frenetico, incontrò le spalle di Sirius e non poté fare a meno che
aggrapparvisi, ansante, con la guancia posata al petto del ragazzo.
- Non sai
nuotare? - disse Sirius, incredulo, fissando la maglietta bianca appiccicarsi,
fradicia, al corpo di Sara.
- Bhe, c…
chi dovrebbe avermelo insegnato, secondo te? - ribatté l’altra, con il corpo
congelato nonostante l’acqua fosse tiepida, tentando di nascondere l’imbarazzo.
Ma il rossore sul viso, che di colpo era avvampato, la tradiva.
Sirius
non faceva che fissarla, e la cosa la rendeva ancora più agitata. I capelli
castani le si erano incollati alle guance, in tanti ciuffi scomposti, mostrando
il lungo taglio orizzontale sulla fronte, all’attaccatura dei capelli, che si
era fatta due settimane prima nella Foresta. L’azzurro scuro del lago si
rifletteva sulla sua pelle bianca, mentre sotto l’acqua le gambe si muovevano
nel tentativo di nuotare da sola.
Il suo
strano ciondolo a forma di cuore nero era finito dietro la schiena. Il petto si
alzava e si abbassava velocemente, come se il cuore stesse impazzendo, sotto la
pelle.
Sentendo
che le braccia di Sirius si stringevano lentamente intorno alla sua schiena,
Sara si ritrasse bruscamente. Sirius era molto più alto di lei, e quindi
riusciva a toccare in quel punto in cui lei non arrivava sul fondo, neanche con
la punta delle dita. Sirius la guardò divertito gesticolare e dibattersi verso
la sponda, mentre cercava di restare a galla.
Sara
aveva già toccato l’erbetta della riva, quando sentì le braccia di Sirius circondarle
la pancia e trascinarla verso di sé. In un attimo aveva sentito le sue labbra
avventarsi bruscamente sulle proprie, mentre una mano del ragazzo scivolava tra
i suoi capelli bagnati. Senza capire neppure quello che stava succedendo,
strinse i fianchi di Sirius fra le braccia esili. Non seppe quanto fosse
durato, e si accorse a mala pena di quando Sirius si ritrasse. Lo guardò
intensamente negli occhi, ansimando più forte di prima, e aggrappandosi
freneticamente ai fili d’erba dietro di sé.
Sentiva addosso
lo sguardo di Sirius, e non c’era niente di peggio, in quel momento, del
fremito e dell’imbarazzo dei quali era avvolta, sotto il peso di quegli occhi
scuri. Poi vide un’ombra di preoccupazione calare sullo sguardo di Sirius e,
seguendone la direzione, si affrettò a coprirsi le maniche. Ma era troppo
tardi: aveva visto i tagli, e le si era di nuovo avvicinato.
- Sara…
ma perché… -
Con uno
strano gelo sulla pelle, e insieme una colata di fiamme nelle vene, Sara
ascoltò per qualche secondo il suo cuore fremere turbolento nel suo petto, poi
si sollevò con le braccia a terra, e scappò più lontano possibile.
*
10 giugno 1974, HOGSMEADE,
STAZIONE
Quante
altre volte era successo? Due? Tre? O almeno una decina?
Che cosa si
erano detti Sirius e Remus perché quest’ultimo e Sara tornassero a parlare come
prima? Come se niente fosse successo. Sara non aveva più interesse per quanto
era accaduto la settimana prima, e tutte le settimane che l’avevano preceduta,
le interessava soltanto il presente, con uno strano ottimismo che non era da
lei. Non era abituata a vedere il futuro con quella nota rosea di felice
spensieratezza e non le interessava neanche se le esami le fossero andati
piuttosto male. In fondo c’erano cose più importanti degli esami.
Il
Marchio Nero non le aveva più dato fastidio. O quasi. Ogni tanto un bruciore
pungente la attanagliava nel punto in cui l’orrendo tatuaggio giaceva, ma
niente di più: niente più voci, tentazioni, istinti funesti. O forse c’erano
stati lo stesso… era lei che non li aveva ascoltati.
Hogsmeade
profumava d’estate.
La vita
per le strade era attiva e frenetica, non ricordava per niente la visuale
malata e arida che Sara aveva avuto, la prima volta, dalla Stamberga
Strillante. L’Espresso di Hogwarts stava per partire, e alla stazione era tutto
un fermento di voci, gesti, grida, risate.
Sara non
aveva mai avuto quella visione di felicità, e per la prima volta nella sua
vita, era certa di potersene appropriare, di poter assorbire quei sorrisi, per
quanto non indirizzati a lei.
Lei e il
gruppo dei Malandrini, finalmente riuniti dopo tutte quelle settimane, stavano
da una parte, in mezzo al binario, aspettando l’ultimo momento per salire
sull’Espresso di Hogwarts.
- Questa
servirà più a te che a noi, - disse James, consegnandole un foglio di pergamena
apparentemente bianco.
- Che
cos’è? - chiese Sara, squadrandolo in tutte le direzioni.
- La
Mappa del Malandrino, - rispose Sirius orgogliosamente, - visto che dovrai
vivere a Hogwarts ti farà comodo. -
E, dopo
averle spiegato come funzionava la Mappa del Malandrino, James si chinò per
tirare fuori qualcosa dal baule. Sara non capì che cos’era fin quando non se lo
ritrovò in mano.
- E’ una
coperta, - constatò.
- Ovvio
che nonè una coperta, è un Mantello dell’Invisibilità! L’ho sgraffignato a
Malfoy, - aggiunse, abbassando la voce per non farsi sentire, - Certo
soddisfazioni bisogna levarsele finché si è in tempo. -
Un
fischio del treno li convinse che era ora di andare. Sara li abbracciò tutti
prima che salissero sulla vettura, ma Sirius fu l’ultimo. Restarono uno di
fronte all’altra, a guardarsi negli occhi, incuranti dei richiami di quelli che
erano già entrati.
- Posso
venire da te la prossima estate? Se lo chiedo a Silente… - disse Sara.
- Non so
come tu possa divertirti a casa mia… comunque… - Sirius scrollò le spalle e
sorrise. Sara si alzò sulla punta dei piedi, nel vano tentativo di essere alta
come lui, e si baciarono per l’ultima volta prima di tre lunghi mesi di torrida
solitudine.
Il primo
settembre era giunto con una lentezza esasperante, ma finalmente, dopo tre mesi
di apatia e di caldo opprimenti, stava per ricominciare la scuola. Normalmente
Sara sarebbe stata felice delle vacanze, avendo l’opportunità di togliersi dai
piedi gli altri studenti di Hogwarts, ma ora che stava per cominciare il suo
terzo anno le cose erano cambiate. Quel giorno, il primo di settembre, avrebbe
finalmente rivisto i suoi amici, gli unici, a dir la verità, in tutta la
scuola, dopo tutti quei giorni da sola nel castello. E ora che Silente le aveva
dato il permesso di passare le prossime vacanze estive da Sirius, sempre che i
suoi fossero stati d’accordo, era sicura che l’anno sarebbe volato.
Seduta ad
un tavolo della Testa di Porco, scriveva da ore sul suo diario, che aveva
lasciato nel baule senza mai aprirlo per tutto l’anno precedente, il suo
secondo a Hogwarts. Non aveva più bisogno di un diario a cui raccontare tutto;
le dispiaceva terminarlo dopo tutto quello che ci aveva scritto, ma sentiva che
era il momento di liberarsene. Dopotutto lo usava soltanto quando le cose
andavano male o quando era sola, cioè lo aveva usato per tutta l’estate. Ma ora
che mancavano solo poche ore all’arrivo degli studenti a Hogwarts, lo stava
solo riempiendo di disegni insensati, fra una cronaca e l’altra, tanto per
passare il tempo, tra gli schizzi di Burrobirra che distrattamente versava
sulle pagine giallognole.
Nella
borsa nera piena di portachiavi a forma di teschio, che appoggiata sul tavolo
sembrava un pezzo di tessuto informe, c’era la Mappa del Malandrino: per tutta
l’estate l’aveva tenuta d’occhio, e per tutta l’estate aveva evitato di
scrivere a Sirius o a chiunque altro di cosa stava succedendo: li avrebbe informati
al loro ritorno a scuola. Qualcosa le diceva che non era il caso di scrivere in
una lettera della Mappa del Malandrino e dello strano fenomeno che vi si
presentava. Rischiava di passare solo per stupida, magari si trattava di
un’imperfezione, di uno sbaglio. O forse la noia le aveva dato alla testa,
stava solo diventando paranoica.
La strana
clientela della Testa di Porco ormai non la stupiva più. Ava trascorso tutta
l’estate a Hogsmeade, e sapeva esattamente che cosa aspettarsi da quel locale.
Soltanto un mese prima, mentre lei stava tranquillamente scrivendo una lettera
e divorando Cioccorane, c’era stata una lite colossale fra ubriaconi. Chiunque
avrebbe trovato che togliere il disturbo fosse un’ottima idea, ma Sara era
rimasta per godersi lo spettacolo. La Testa di Porco era stata praticamente
disintegrata dalla rissa, e un tale era stato ufficialmente bandito dal locale,
per la prima volta nella storia di Hogsmeade. Adesso la Testa di Porco era
stata rimessa in sesto, ma il gruppo di avventori era sempre lo stesso. Una
vecchia strega simile ad un travestito trangugiava un liquore dopo l’altro,
ruttando rumorosamente e orinandone ancora con una strana voce nasale; due
vecchi maghi decrepiti giocavano a scacchi, e Sara aveva cambiato tavolo perché
non era prima volta che un pezzo di alfiere le andava a finire nella
Burrobirra; un gruppo di nonnine dalle mani tremanti si stava scaldando al
caminetto, già acceso a fine agosto, e quando muovevano la bacchetta sembrava
che accanto a loro mani invisibili sferruzzassero calzini e maglioni, senza
sosta.
Sara
aveva già ripreso la Mappa del Malandrino. Sussurrò a voce bassissima: - Giuro
solennemente di non avere buone intenzioni, - e prese a scrutarla molto
attentamente. Come aveva previsto, lo strano fenomeno si stava ripetendo
ancora.
Stava
ricominciando a formulare ipotesi sull’accaduto, quando per le scale sentì una
voce trillante come una sveglia che parlava senza sosta, e l’inconfondibile
rumore dei tacchi a spillo troppo alti che battevano sul legno. Sara si chiese
chi fosse: ebbe subito la risposta, perché dalla scalinata malmessa emerse Rita
Skeeter.
Sara
ripose immediatamente la Mappa, e sfoggiò una delle sue peggiori espressioni,
scrivendo sul diario che se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella doveva
essere la sua peggiore giornata. Rita Skeeter era giovanissima, tanto da aver
vinto il Premio per il più Giovane
Giornalista dell’Anno indetto dalla Gazzetta
del Profeta. Sara aveva i suoi buoni motivi per detestare quel giornale, e
ancor di più per detestare Rita Skeeter. Ma a parte il suo sguardo
inceneritore, si chinò sul diario e fece finta di niente.
Rita
Skeeter e il suo fotografo andarono a sedersi allo stesso tavolo dei due vecchi
che giocavano a scacchi, e Sara intravide alcune monete d’oro scivolare dalle
mani della giornalista fino a quelle di uno dei due ometti. Fortunatamente, nel
cambiare tavolo, Sara non si era allontanata troppo e poteva sentire benissimo le
loro chiacchiere.
- Allora,
parlate, - disse Rita Skeeter in tono famelico, estraendo una penna piuttosto
bizzarra dalla sua borsa di coccodrillo. Appena appoggiata sulla pergamena, la
penna cominciò a scrivere da sola. - E’ vero quello che si dice in giro? -
- Se è
vero! - esclamò uno dei due. - E’ tutto l’anno che Silente li tiene alla larga…
ma quest’estate si sono fatti vivi di nuovo! Ehe! -
- Pensate
che siano fuori controllo? -
- Naa! -
sputacchiò il secondo vecchio, - Non è possibile che il Ministero non ce li
abbia sott’occhio, dico io, no, impossibile… Sono qui per una ragione! L’estate
scorsa, Silente per un pelo ce li ammazza, quelli al Ministero… mandare i
Dissennatori qui! Qui! Insieme a tutti i civili! - Sara ebbe un brivido, e la
penna le cadde di mano.
Ecco cos’erano.
- Quindi
sono due anni che Silente li allontana? - proseguì Rita Skeeter.
- Tzé! -
fece il primo vecchio, - Non solo li fa smammare, ma non lo ha detto a nessuno
che ci sono! A nessuno, capito? Se sono venuti i Dissennatori vuol dire che c’è
qualcuno che dev’essere sbattuto ad Azkaban, ecco cosa! -
-
Dovrebbe avvertire, il vecchio Silente. - disse l’altro, - Ci fa quasi
sospettare che ci sia di mezzo la ragazza. -
- Non è
un po’ troppo piccola? - azzardò Rita.
- Piccola,
sì, ma l’hai sentito dei Grifoni due anni fa? -
- Ci ho
anche fatto un articolo. Ma mi risulta che fosse colpa di Hagrid, del grosso
guardiacaccia, - obiettò la giornalista, mentre il fotografo scattava foto
all’impazzata. I due vecchi sputacchiarono ancora per un po’, trangugiando
alcolici offerti da Rita Skeeter, affinchè la lingua si sciogliesse meglio.
- Ne
combina una dietro l’altra, e non mi importa un fico secco se il Ministero ha
garantito che è normale! - sbottò uno di loro, sputando per sbaglio la dentiera
nel Whisky. - Shono due anni che Shilente la nashconde, c’è qualcosha di
shtrano, mica l’ha capito che da uno dei Gray non ci shi può ashpettare niente
di buono! - Finalmente, il vecchio riuscì a recuperare la dentiera irta di
denti giallastri, e, senza neppure asciugarla, se la rificcò il bocca sotto lo
sguardo di una nauseata Rita Skeeter.
- In
effetti come famiglia non è il massimo, - constatò Rita Skeeter, - Ma da quando
il vecchio Demetrius è sparito, sembrerebbe che non facciano più niente di
particolare. -
-
Bubbole! Demetrius si è cacciato da qualche parte a tramare qualcosa di losco,
te lo dico io! - sentenziò un vecchietto, - La mocciosa è un pericolo, e i
Dissennatori sono venuti a cercare lei!
Ci scommetto quello che vuoi, Rita! -
- Siete
stati preziosissimi, - si congratulò la giornalista, riponendo finalmente la
Penna Prendiappunti, che intanto aveva scritto almeno ottanta centimetri di
“appunti”. Strinse la mano ai due vecchietti e si preparò ad uscire, offrendo
loro l’ultimo giro di Whisky, quando la voce tonante del proprietario fece
tremare perfino i tavoli:
- Mundugus Fletcher! - ruggì, e tutti si
voltarono. La vecchia strega, ormai sbronza come una spugna, non era affatto
una donna. Con un gesto della bacchetta il proprietario le aveva fatto volare
l’enorme cappello rosa shocking dalla testa, mostrando quello che
inequivocabilmente era proprio Mundugus, cacciato dalla Testa di Porco un mese
prima. Sembrava troppo inebetito per fiatare. - Mi pareva di averti ufficialmente cacciato dal mio locale! Che diavolo ci fai qui, eh? -
- Ma… io…
m-ma… - farfugliò Mundugus.
- Defenestratelo! -
E con un
terribile “Aaaaaaargh!”, il vecchio ubriacone venne lanciato dalla finestra del
primo piano della Testa di Porco, rotolando per tutta la strada. Rita Skeeter
non aveva bisogno della Penna Prendiappunti per riempire la sua pergamena di
“informazioni interessanti” le quali, Sara ne era certa, sarebbero andate a
finire sulla Gazzetta del Profeta di
lì al mattino dopo.
A Sara
non importava più di tanto dell’articolo che Rita avrebbe cavato da tutte le
informazioni avute quella mattina, nonostante non potesse fare meno di esserne
irritata. Finalmente aveva scoperto che cosa appariva sulla Mappa del Malandrino
in quel modo strano da tutta l’estate: erano Dissennatori.
E tutti
sospettavano di lei.
Non era
proprio un bel modo di prepararsi per il nuovo anno scolastico.
Rita
Skeeter e il suo assistente stavano avviandosi verso le scale - finalmente -
per uscire, e Sara era ripiombata sul suo diario senza neppure scriverlo. Aveva
appoggiato la punta della penna così a lungo sul foglio senza muoverla, che si
era creata una larga macchia d’inchiostro nero. Dissennatori a Hogwarts… da due
anni… e Silente non aveva mai detto nulla? Lui odiava i Dissennatori: com’era
possibile che non avesse informato nessuno della loro presenza? E perché Sara
non si era accorta di niente? Ecco perché, per tutta la durata del secondo
anno, Silente aveva insistito con l’insegnarle l’Incanto Patronum. Era l’unica
arma contro i Dissennatori. Questa era la prova definitiva che stavano cercando
lei: a nessun altro studente aveva insegnato in privato quell’incantesimo da
M.A.G.O. A nessuno.
Rita
Skeeter parve riconoscere la lunga e fluente chioma fulva della ragazza che le
dava le spalle. Sembrava infreddolita anche in piena estate; portava una
maglietta bianca, con sopra una corta giacca nera di pelle. Aveva dei guanti
senza dita e lunghi stivali con una leggera zeppa, sotto dei pantaloni pesanti
e molto larghi, anch’essi neri, e pieni di catene.
Aveva il
pollice e l’indice divaricati sulla fronte e gli occhi chiusi, in un gesto
adulto di concentrazione. L’altro pugno era stretto intorno penna d’aquila,
ancora immobile.
- Ma
guarda - guarda chi si vede! - trillò Rita Skeeter facendosi di fronte a lei.
Sara non la degnò neppure di uno sguardo. Non aveva dimenticato l’articolo che
aveva messo nei guai lei e Remus. - Scatta, scatta, Bud, - disse, rivolta al
fotografo. Sara avvertì l’odioso abbaglio del flash violaceo della macchina
fotografica. - questo non è un posto per una ragazzina, non pensi? -
- Io vado
dove mi pare, - rispose acidamente Sara.
- E’
facile quando hai un Preside che fa da paparino, vero? -
- Non mi
serve nessun paparino. - sibilò Sara, - Levati dai piedi. -
Un
“oooh!” piuttosto divertito salì dalla piccola folla che si era creata alle
spalle di Sara, e Rita Skeeter arrossì, a metà fra il furente e l’imbarazzato.
- Non ti
permetto di parlarmi così! Sono più grande di te, mocciosa, - ringhiò la
giornalista, ma Sara abbozzò un mezzo sorriso divertito e superiore. Non si
mosse dalla sua posizione. Aveva ben altro a cui pensare invece che dar retta a
Rita Skeeter.
- Sei più
grande di me, ma hai bisogno di ubriacare la gente per farti dire qualcosa di
interessante, non è vero? - disse Sara, e qualcuno rise.
Evidentemente
Rita Skeeter non aveva ancora la fama che in futuro si sarebbe guadagnata.
Erano tutti dalla parte di Sara, per una volta.
- Quando
uscirà quell’articolo sarai di nuovo nei guai, - disse sprezzante.
- Se uscirà. - precisò Sara.
Rita
Skeeter era disorientata. - Che… che accidenti vai dicendo? Certo che uscirà! -
Sara
finalmente mostrò i suoi occhi, togliendosi la mano dalla fronte. Rita avrebbe
preferito che non lo facesse: due cerchi completamente rossi scintillavano nel
bianco del bulbo oculare, e le palpebre sembravano inesistenti, visto che non
erano abbassate neanche un po’. La giornalista dapprima provò l’intento di
scappare, terrorizzata, poi si paralizzò sul posto ed ebbe appena un fremito.
Sara tornò a poggiare il pollice e l’indice sulla propria fronte, e Rita rimase
lì impalata con la sua espressione ebete.
- Che…
io… cos… che ci faccio qui? - balbettò. Tutti la presero per pazza e le
voltarono le spalle, a parte Bud, che tentò invano di scuoterla:
- Mi
chiamo Bud… - fece presente il fotografo. Chi ancora non aveva tolto il
disturbo, ridacchiò di nuovo.
- Sì, sì,
ok, Mark… dammi quella macchina fotografica, presto! - Bud, confuso e
spiazzato, lanciò un’occhiata a Sara prima di passare la sua macchina
fotografica a Rita: non poteva certo sapere che quest’ultima avrebbe lanciato
lo strumento dalla stessa finestra dalla quale era stato scagliato via
Mundugus. Sara la sentì infrangersi a terra, e qualche scintilla violetta fece
capolino da sopra il davanzale.
- Ma… ma…
-
- Forza,
Bob! - lo esortò Rita battendo le mani, - Che ci facciamo in un posto come
questo? Il dovere ci chiama! -
E
trascinò Bud giù per le scale; i clienti lo sentirono ruzzolare e incespicare
mentre Rita lo portava a rimorchio per un orecchio.
Sara non
aveva praticamente pranzato: aveva solo fatto scorta di dolci di Mielandia e se
li era mangiati per strada, perché aveva troppa fretta per andare ai Tre Manici
di Scopa. Doveva controllare Rita Skeeter per vedere se recuperava la memoria:
se non fosse successo per almeno quattro o cinque ore, sarebbe rimasta
intontita per tutta la giornata, e sicuramente non avrebbe scritto nessun
articolo.
Il
pedinamento si era rivelato noioso e inutile: la giornalista era andata
ripetutamente a sbattere contro i passanti, aveva discusso animatamente con un
lampione, incespicato nei suoi stessi piedi e sbagliato un altro centinaio di
volte il nome del suo disperato assistente.
Si era
già fatto buio quando Sara aveva sentito un fischio familiare: l’Espresso di
Hogwarts. Dimenticandosi Rita Skeeter, che ormai era indubbiamente
rincoglionita senza bisogno di controllarla, Sara corse verso la stazione e,
prima ancora che il treno si fermasse, lei era già pronta sulla pensilina.
- Ehi,
guarda chi c’è! - disse James sferrando una gomitata a Sirius e indicando fuori
dal finestrino: Sara era seduta sulla staccionata e sembrava non averli visti.
I quattro si affrettarono a uscire, facendosi largo tra la folla di studenti
che scendevano dal treno. Finalmente furono fuori, e solo allora Sara li vide e
si gettò loro addosso.
- Non
vale! - disse Sirius, - Quand’è che sei diventata così alta? - Sara era sempre
stata molto bassa di statura, e adesso faceva impressione vedersela arrivare
sopra la spalla nonostante avesse due anni meno di lui.
- Ha
usato una pozione, - rise Remus, - non può averlo fatto da sola! -
Sara gli
fece la linguaccia.
- Perché
non hai ancora l’uniforme? - disse James.
- Me la
metto dopo, - rispose Sara alzando le spalle, - Tanto non vengo al banchetto. -
- Vuoi perderti il banchetto? - si
meravigliò Peter.
- Bhe…
no, ma… insomma, stasera non ho voglia. -
I quattro
ragazzi si guardarono negli occhi, e dalle loro espressioni Sara dedusse che
non li aveva affatto convinti. In verità non aveva la minima intenzione di
perdersi il banchetto di inizio anno, ma ne aveva sentite troppe alla Testa di
Porco per stare tranquilla. Se c’erano davvero dei Dissennatori ad Hogwarts lei
voleva vederli.
Doveva vederli. Dopotutto stavano
cercando lei.
-
Andiamo, cosa c’è? - chiese Sirius.
- Sì,
ecco… ve lo dico dopo. Muoviamoci. -
E si
avvicinarono alle carrozze trainate dai Thestral, che come al solito ben pochi
erano in grado di vedere.
- Dissennatori a Hogwarts? - ripeterono a
voce alta i quattro, mentre le carrozza risaliva il sentiero che conduceva al
castello.
- E fate
piano, insomma! - si stizzì Sara guardandosi intorno, come se avesse avuto
paura che da un momento all’altro potesse spuntare Rita Skeeter. - L’ho sentito
alla Testa di Porco. Un paio di vecchietti lo hanno raccontato a quella
Skeeter… -
E
velocemente riassunse tutto ciò che era successo quel giorno, prima dell’arrivo
dell’Espresso di Hogwarts. Gli altri ascoltavano muti, e non sembravano meno
stupiti di lei nell’aver scoperto che da due anni i Dissennatori si aggiravano
a Hogwarts senza che nessuno lo sapesse, a parte Silente.
- Bhe,
erano due vecchietti ubriachi. Se la sono inventata sul momento, - disse Remus,
con molto tempismo.
- Ne
dubito, - disse James, - Sembrava proprio che loro e quella tipa si fossero
dati appuntamento apposta, no? -
- Sì, si
erano sicuramente organizzati, - aggiunse Sara, nonostante quella di Remus
fosse l’ipotesi che preferiva.
- E poi
vi ricordate di quella storia della Mappa del Malandrino? - disse
improvvisamente Sirius, - Quei puntini che apparivano senza il nome sotto?
Erano sicuramente Dissennatori. Spuntavano sempre nelle zone in cui Silente
aveva proibito di andare a inizio anno. -
- Anche a voi succedeva? - si meravigliò
Sara, e fu il suo turno di alzare la voce.
- Bhe…
sì… perché? -
- E’
tutta l’estate che anch’io mi vedo apparire puntini anonimi sulla Mappa del
Malandrino! - Rimasero tutti e cinque in silenzio, perché evidentemente
volevano dirsi la stessa cosa. Non era certo una bella notizia, comunque. -
Perché non me l’avete detto? -
-
Pensavamo che ci fosse solo da perfezionarla, - si giustificò James, -
L’avevamo appena finita, poteva darsi che non fosse esattamente impeccabile. -
- E tu?
Perché non ce l’hai detto se è tutta l’estate che succede? - chiese Remus.
- Bhe…
anch’io pensavo la stessa cosa. - disse Sara alzando le spalle, e di nuovo i
cinque ammutolirono, interdetti.
Adesso
Sara aveva la prova che i due vecchietti avevano detto il vero, nonostante tutto
il whisky che avevano ingollato. I Dissennatori comparivano da un po’, da un
anno intero, e il fatto che Silente avesse proibito alcune zone agli studenti
era la prova irrimediabile che lui sapeva e non aveva detto niente. Lo faceva
per lei, pensò Sara? Pensava forse che non avvertendola di quel pericolo
avrebbe potuto impedire che il peggio si verificasse? Sara fissò
sconsolatamente il paesaggio che scorreva fuori dai finestrini della carrozza,
che si avvicinava sempre di più a Hogwarts: si avvicinava sempre di più ad un
anno tempestato di Dissennatori. L’incubo che l’aveva perseguitata per tutta la
vita, il simbolo di tutti i suoi sbagli e del rovinarsi irreparabile della sua
vita.
I suoi
amici erano pensierosi almeno quanto lei. Per nessuno era una buona nuova.
-
Comunque, perché dovrebbero esserci dei Dissennatori qui? - disse Remus
spezzando il silenzio, - Di certo non è per cercare te… non hai fatto niente! -
- Vi
ricordate i Grifoni, al primo anno? - disse Sara, cupa, a tutti alzarono la
testa. Era impossibile non ricordarsene, - L’Avada Kedavra è una Maledizione
Senza Perdono. Non avrei dovuto usarla, in nessun caso. -
- Sì, ma
non era contro un essere umano! - intervenne Peter.
-
Parliamoci chiaro, non avremmo mai dovuto essere nella Foresta Proibita. Se
fossimo rimasti nel parco non sarebbe successo niente. Dovunque si vada a
parare siamo… sono sempre nel torto.
- si corresse. Non era certo stata lei a volarsi inoltrare nella Foresta
Proibita, ma era stato un suo errore accettare quell’ennesima stupida sfida. -
Se non diciamo che siamo andati nella Foresta, la distruzione del castello non
sarà colpa nostra, ma io avrò apparentemente usato una Maledizione Senza
Perdono immotivata. Se la giustifichiamo dicendo che era per legittima difesa
dovremo ammettere di essere andati nella Foresta e di aver aizzato i grifoni
contro Hogwarts. -
- Sempre
molto ottimista la bambina, vero? - commentò sarcasticamente James incrociando
le braccia. Sara lo guardò: ormai aveva quindici anni. E lei ancora tredici.
Come doveva apparire infantile, ridicola… non sapeva esattamente perché, ma il
quel momento le venne in mente che lei ai loro occhi sarebbe sempre stata una
specie di mocciosa, qualsiasi cosa avesse fatto.
-
Comunque ha ragione, - disse Sirius, - ma non c’è comunque motivo che i
Dissennatori siano qui. Come facevano a sapere che ha usato l’Avada Kedavra? -
- Mi
tengono d’occhio da almeno quattro anni, - disse Sara, - Lo avranno saputo
quasi subito, immagino. - Tacque. E con lei anche tutti gli altri. Sapevano
bene di quale sangue fossero macchiate le mani di Sara, di quale omicidio fosse
colpevole, ma non ne avevano mai fatto parola. Era stato Remus a parlarne agli
altri l’anno prima, per evitare che Sara venisse colta dalla stessa crisi di
quando lo aveva rivelato a lui la prima volta. E da quel giorno nessuno ne
aveva più parlato.
Sara
sfiorò il cerotto che aveva sopra il Marchio Nero. Era inutile nasconderlo.
Due mesi
prima aveva dovuto di nuovo accoltellarsi, e di nuovo non era riuscita a
spiegarsi come fosse potuta sopravvivere a tutte quelle ferite. Ma non se l’era
domandato a lungo. Ormai conviveva con la consapevolezza della sua situazione,
aveva imparato lentamente ad accettarla e a capire che ogni volta avrebbe dovuto
ricorrere al sangue per mettere a tacere le voci nel suo cervello.
Per
mettere a tacere Voldemort.
I
giornali non parlavano altro che di lui, ultimamente. Omicidio dopo omicidio,
crimine dopo crimine, gli articoli di prima pagina si sovrapponevano uno
sull’altro mano a mano che i giorni passavano. E Rita Skeeter ancora cercava di
incastrare lei! Con tutte le morti, il terrore, le famiglie divise, le vite
distrutte che regnavano da un anno a quella parte, lei si preoccupava di
problemi di quel genere… era egoista da parte sua, o cercava solo di negare
l’evidenza? A nessuno faceva piacere sapere che Voldemort e i suoi sostenitori
improvvisamente avevano deciso di ricorrere al terrore e alla violenza.
Sara ne
faceva parte.
Lo
sapeva. Lei era una di loro.
Che lo
volesse o no, faceva parte di quello stesso gruppo che seminava morti ovunque
andasse. Voldemort l’aveva scelta proprio perché era già un’assassina? Aveva
sentito parlare Silente con la McGranitt e sapeva che Voldemort mirava al suo
potere… aveva visto in lei un “soggetto idoneo”? Aveva capito che nelle sue
vene ribolliva l’istinto di un mostro?
Forse i
Dissennatori erano prossime pedine dell’esercito dell’Oscuro Signore… forse
Voldemort li aveva fatti uscire dal controllo del Ministero della Magia apposta
per cercarla, e per costringerla a non ribellarsi più. E un giorno Sara sarebbe
stata succube del Marchio Nero, e avrebbe obbedito a qualsiasi ordine…
- Sara,
avanti! Che ti prende? -
La voce
di Sirius la scrollò. Emerse per un attimo dal suo abisso, con un sussulto, per
rendersi conto che le carrozze erano finalmente giunte ad Hogwarts. Giù nel
fiume beccheggiavano le barche che portavano i nuovi studenti del primo anno,
intimoriti e spossati, con le bocche e gli occhi spalancati, come lo era stata
lei quando era arrivata a scuola la prima volta.
Sara
scese dalla carrozza e rimase per un attimo immobile, lasciando che il vento le
scompigliasse i capelli. All’improvviso era giunto il freddo.
- Sara… -
disse Sirius, appena lei fece un passo. Sara si voltò.
- Che
c’è? -
-
Promettimi che non andrai a cercare i Dissennatori. - Il suo tono di voce era
serio, così come le sua espressione.
- Sì… -
disse Sara, annuendo lentamente, - Te lo prometto. -
Ma Sirius
sapeva che stava mentendo.
*
- Credi
che se ne sia andata in giro a cercare i Dissennatori? - disse Remus dopo che
Sirius, al Dormitorio, gli ebbe rivelato i suoi sospetti. Non gli piaceva
mancare così di fiducia nei confronti di Sara, ma la conosceva abbastanza bene per
dire che preferiva togliersi un dubbio piuttosto che salvarsi la pelle.
Remus
appariva preoccupato almeno quanto lui.
- Ah, ma
di che state parlando! - disse James, passandosi una mano fra i capelli e
buttandosi sulla poltrona più vicina al caminetto. Dopo quello che aveva
mangiato si sentiva già mezzo addormentato, e non voleva farsi venire tante
paranoie in un momento del genere. - Sara è a letto che dorme, ve lo dico io!
Smettetela di preoccuparvi! -
- E’
proprio perché lo dici tu che mi sto preoccupando, - precisò gelidamente Remus.
-
Spiritoso… Bhe, vuoi controllare? - ed estrasse la Mappa del Malandrino
ripiegata nella sua tasca.
- Pensavo
ce l’avesse Sara. -
- Me l’ha
ridata, ha detto che non le serviva. Visto che non c’è niente di cui
preoccuparsi? Se fosse andata a cercare i Dissennatori avrebbe portato anche la
Mappa. -
Ma Sirius
non voleva ancora esserne convinto, e decise di controllare. La Mappa del
Malandrino lentamente cominciò a mostrarsi, come se qualcuno stesse tracciando
le linee dei corridoi in quell’istante, ma quando mostrò il Dormitorio dei
Serpeverde, e poi la camera dove dormiva Sara, i quattro ebbero un sussulto.
Sul letto
c’era un solo puntino, sotto il quale c’era scritto “Sara Gray”.
Ma nel
corridoio deserto, c’era un altro cerchietto che si stava avvicinando alla
camera della ragazza, e sotto di esso non c’era alcun nome: era un
Dissennatore.
- Merda!
- e tutti e quattro corsero fuori dalla Sala Comune.
I
corridoi sembravano interminabilmente lunghi, ed era difficile correre più
velocemente possibile senza farsi scoprire da Gazza o dai Prefetti in
pattuglia. Fortunatamente anche Remus era un Prefetto, e così se qualcuno lo
avesse visto in giro non avrebbe fatto tante storie. Avrebbe semplicemente
dichiarato che si trattava di un’emergenza.
Perché
infatti lo era.
Salirono
le scale velocemente, come fulmini, fin quando raggiunsero il quadro di Sir
Cadogan, e scoprirono con orrore che la cornice era andata in frantumi e il
ritratto giaceva dolorante sul pavimento. Il Dissennatore, al suo passaggio, lo
aveva parzialmente distrutto ed era riuscito ad entrare.
La Sala
Comune dei Serpeverde non somigliava a quella dei Grifondoro: pareva piuttosto
un sotterraneo, nonostante si trovasse su una torre. Normalmente sarebbe stata
pervasa da una strana luce verde, emanata dal camino, dalle candele, dalle
torce.
Ma ora
tutto era spento.
Il
Dissennatore aveva portato con sé un alone di gelo quasi tangibile, spegnendo
ogni luce, gelando ogni anima. Il suo passaggio era ovunque distinguibile.
Aveva senz’altro già attraversato la rampa di scale, perché anche lungo quel
corridoio le torce erano spente, morte, e fumavano ancora. I ragazzi salirono
quelle stesse scale così velocemente che quasi non si accorsero d’averci messo
piede. Sirius era il primo della fila.
Finalmente
giunsero alla porta della camera di Sara: era spalancata.
Era
completamente buia. Un Dissennatore era chino su un corpo pallido
apparentemente senza via, le dita scheletriche e sfigurate intorno al collo
della sua vittima, il cappuccio svolazzante stava per calare…
- Expecto
Patronum! -
Un fascio
di luce argentea esplose dalla bacchetta di Sirius, tanto violentemente da
fargli fare un balzo indietro. Cercava con tutte le sue forze di accumulare nel
cervello pensieri felici, ma non era così semplice. L’esplosione d’argento era
ancora senza forma, e il Dissennatore stava per Baciare Sara…
Il grido
la svegliò. Non fece in tempo ad aprire gli occhi che la stretta fatale ma
impercettibile del Dissennatore si trasformò in una morsa asfissiante… tentò
invano di scansarlo, aveva il viso sempre più pallido, stava per soffocare…
Si
dibatteva, si contorceva, agitava le braccia, ma era inutile.
- Datemi
una mano! - latrò Sirius, e chi non lo aveva già fatto estrasse a sua volta la
bacchetta. Ci fu un coro di “Expecto Patronum”: nessuno di essi assunse una
forma completa e distinguibile, ma quando la luce d’argento si estinse, il
Dissennatore era scomparso. Sara era sdraiata sul letto sfatto, con le mani
alla gola, sottili segni rossi sul collo. Ansimava. Chissà se era mai stata
vicina alla morte come in quel momento.
L’ultima
cosa che vide prima di svenire fu il viso di Sirius, ma non riuscì a sentire cosa
le stava dicendo.
-
Problemi alla respirazione, - sentenziò Madama Chips con uno dei suoi sguardi
più severi, stranamente rivolto verso Silente. Il Preside aveva uno strano
aspetto, un aspetto che non aveva mai avuto prima d’ora. Sembrava quasi che i
suoi occhi traboccassero di ombre estremamente colpevoli, come quelli di un
bambino. - … e all’apparato circolatorio, tanto per rincarare la dose. Nel
sangue c’è una quantità di ossigeno appena sufficiente, è tutto inutile darle
Pozioni Rimpolpasangue o che cos’altro. L’ho detto fin dal principio, professor
Silente: dobbiamo portarla al San Mungo. -
Madama
Chips affrontava imperturbabile il Preside, con le mani sui fianchi, e Sara
fissava il soffitto con occhi vacui. I suoi amici erano accanto al suo letto.
Sirius non faceva che guardarla e le accarezzava la mano.
Erano
tutti in attesa di una risposta da parte di Silente. In quella stanza tutti
conoscevano il motivo per il quale Sara non sarebbe dovuta andare al San Mungo,
e quel motivo era il Marchio Nero. Sara non osava immaginare cosa sarebbe
successo se fosse stata ricoverata in quell’ospedale. Ma in fondo non le
importava. Continuava a pensare al Dissennatore e le pareva che, al suo
cospetto, ogni altro problema fosse pressoché inesistente, futile.
Silente
sfidò per interminabili minuti lo sguardo di Madama Chips, poi sembrò crollare,
e si voltò verso il letto di Sara, chiedendole che cosa ne pensasse. Lei scollò
le spalle, ma la sua espressione trasudava sofferenza.
- Sara… -
disse Sirius, stupido e preoccupato, ma uno sguardo da parte di lei lo
interruppe. La ragazza si volse verso il Preside, muovendo il collo a mala
pena, e scoprendo involontariamente i segni delle dita del Dissennatore.
-
Professor Silente… - il Preside la guardò più intensamente, con occhi
penetranti, ma Sara non ebbe la minima reazione, - Perché non mi ha detto che i
Dissennatori sono venuti a cercarmi? -
Madama
Chips sembrò avere una specie di mancamento e cercò una sedia a tentoni, dietro
la schiena. Silente apparentemente non cambiò espressione, ma era evidente che
nel suo sguardo si stava aprendo un baratro sempre più nero. I ragazzi rimasero
in silenzio, col fiato sospeso, aspettando una risposta.
- E’ da
un anno, - iniziò lentamente il preside, - che tento di scacciarli, di
convincere il Ministero a portarli via di qui, ma… sembra che sia inutile. -
Sembrava aver capito che inutile tenere nascosta la verità, ora che tutti
stavano aspettando di conoscerla. Ma allo stesso tempo, ogni parola comportava
uno sforzo, un grande sforzo. - Ritenevo che una maggiore vigilanza potesse
essere sufficiente… ma non è stato così. Sono stato sciocco a non calcolare che
i Dissennatori sarebbero accorsi numerosi, per il motivo che chi ha bisogno di
sapere, sa. - Sara chiuse gli occhi stancamente, ma più che altro lo faceva per
evitare che qualcuno vedesse che erano pieni di lacrime. - A questo punto, data
la mancanza di validità che le mie decisioni hanno dimostrato di avere, spetta
solo a te decidere se andare al San Mungo o meno, e tutte le conseguenze che
deriveranno dall’una o dall’altra scelta purtroppo ricadranno sulle tue spalle
ancora una volta. So di chiederti troppo… ma ormai le cose sono andate così.
Per ora posso soltanto continuare a scacciare i Dissennatori… ma ci sarà un
momento in cui non potrò più fare niente. - Si alzò, lentamente, aprì la porta
e se ne andò, lasciandoli tutti abbattuti e immobili.
Sirius si
voltò, guardando Sara, solo per accorgersi che dai suoi occhi chiusi scendevano
silenziosamente delle lacrime.
Non sarebbe andata al San Mungo, qualsiasi fosse il
rischio. Aveva sempre sognato di potersi allontanare da Hogwarts, ma aveva
visto il suo desiderio troncarsi sotto il peso di un’oppressione invisibile:
non avrebbe mai potuto allontanarsi da Hogwarts senza sapere che, facendolo,
sarebbe morta, o sarebbe finita ad Azkaban. Il che forse era la stessa cosa, o
magari Azkaban era molto peggiore della semplice morte. Era difficile
stabilirlo. Sara sapeva soltanto che non avrebbe più potuto vivere una vita
normale: se in passato aveva anche solo osato immaginarselo, adesso quel
progetto, quel miraggio, era svanito come un vecchio sogno dimenticato, come un
pugno di sabbia. Non sarebbe mai più stata normale: il danno era irreparabile.
Come avrebbe potuto vivere tranquillamente sapendo che da un momento all’altro
l’ala protettiva di Hogwarts si sarebbe spezzata? Lei sarebbe finita dritta
dritta nelle viscere dell’inferno… morta, forse, o viva ma senza anima. Che
cos’era peggiore? Iniziava a pensarci fin da ora, rassegnata e disperata,
sapendo che il suo momento non era poi tanto lontano.
Nel frattempo, si accorgeva che i suoi amici cercavano di
farle vivere una vita quasi normale. A volte aveva perfino l’illusione che lo
fosse. Se riusciva a non pensare al suo futuro ormai segnato, poteva essere
felice come lo era stata nei due anni passati. La consapevolezza di un destino
segnato la raggiungeva quando era da sola, quando le lacrime non avevano una
mano che potesse asciugarle, quando non c’era nessuno accanto a lei a poterle
promettere che nessuno le avrebbe mai fatto niente.
Sirius… se non lo avesse mai
conosciuto, se quella notte al lago di due anni prima non fosse mai esistita…
la sua vita sarebbe stata peggiore, ne era sicura. Non era più sola neppure di
notte. Dormivano insieme. Era uno strano calore, un abbraccio tiepido che le
pareva bollente, come un asciugamano rimasto troppo a lungo sul termosifone,
posato poi sulla pelle nuda. Certe volte le sembrava di poter guardare
l’inverno da una finestra, da un’altra dimensione: mentre fuori nevicava, lei
era al caldo, felice. Non aveva bisogno di pensare sempre al peggiore, non
voleva farlo.
Come sarebbe stata la sua vita, se
intorno a lei non ci fossero stati anche i suoi amici? Se non li avesse mai
conosciuti, come sarebbero andate le cose? Di colpo si rese conto che tutto ciò
che era successo due anni prima, da quella notte alla Stamberga Strillante fino
alla punizione della McGranitt, erano tutti avvenimenti apparentemente orrendi,
ma che avevano contribuito a costruire qualcosa di bello.
Qualcosa che in un certo senso la
stava salvando dall’abisso.
Intorno a lei, nessuno sapeva
niente: tutti vivevano la loro vita, ignari, e lei non poteva fare a meno di
sentirsi su un gradino superiore - anche se la cosa non era certo positiva -
rispetto a tutti quegli stupidi che la circondavano, che non sapevano niente.
Totalmente inconsapevoli di ogni cosa, continuavano ad essere felici e a
tormentarsi con problemi che, in confronto al suo, parevano forse stupidaggini.
Stupidaggini che Sara avrebbe fatto qualsiasi cosa per avere.
La sua non era invidia, era
qualcosa di diverso che non era possibile descrivere.
Sapevano tutti dei Dissennatori,
naturalmente, ma non potevano fare altro che bombardarla alle spalle con le
loro ipotesi peggiori. Nessuna di loro si avvicinava alla realtà. Non potevano
sapere. Lei era un’assassina, una Mangiamorte, un mostro.
Dal suo spicchio di inferno
osservava lo scenario intorno a sé, un quadro arido e orrendo, e il pittore era
Voldemort.
Si avvicinava la festa di
Halloween, e con essa l’inevitabile e tanto atteso banchetto. Per motivi che
gli altri studenti non potevano sospettare, Silente aveva proibito le uscite a
Hogsmeade fino a Natale - contava forse di risolvere le cose per quel momento?
- e tutti ne erano rimasti sconcertati e increduli.
Sirius, James, Remus e Peter
andavano verso il Dormitorio dei Serpeverde, che era stato spostato nei
sotterranei, nascosto da una parete nuda, dato che Sir Cadogan era molto
malconcio e ci sarebbe voluto del tempo per restaurarlo. Sara faceva avere loro
tutte le parole d’ordine, così come loro le rivelavano sempre a lei.
Praticamente per loro non faceva più differenza a quale Casa appartenessero.
Trovarono Sara china sui libri,
con un’espressione stanca e l’indice e il pollice sulla fronte, il suo tipico
gesto di concentrazione. Muoveva le labbra livide leggendo sottovoce e,
sprofondata nella poltrona, pareva ancora più minuta. La luce verde del camino
dava una sfumatura inquietante alla sua pelle bianca. Era un’immagine
stranamente triste.
Il Dormitorio dei Serpeverde aveva
mantenuto quel suo aspetto sinistro: soffitto, pareti e pavimento erano di
pietre. Le poltrone e il camino erano scolpite con disegni complicati, e dal
soffitto di solito pendevano delle lampade verdognole appese a delle catene.
Adesso al posto delle catene c’erano delle grosse zucche che comunque
emettevano la loro luce verde.
- Molto ameno, - constatò James, -
Sembra una prigione arredata. -
- Bhe… emh… non è proprio un
posticino allegro, - fece Sara sorridendo e alzando le spalle. - Andiamo? - e,
dopo che Sara ebbe rimesso i libri nella borsa, i cinque si avviarono in Sala
Comune per la cena.
Per James e gli altri era l’anno
dei G.U.F.O., ma a differenza degli altri studenti del loro anno, non erano minimamente
preoccupati. Ad eccezione di Peter, che comunque tremolava in ogni occasione.
Remus aveva iniziato fin da quel momento a studiare, ma gli altri non si davano
pena: era presto per studiare, se la sarebbero cavata all’ultimo momento in
qualche modo.
- Mi spiegate come mai anch’io
dico sempre così, però i miei voti fanno schifo? - tossicchiò Sara mentre
salivano le scale e passavano accanto all’infermeria.
- Eeh, ci vuole stile! -
- Diciamo che volete barare, eh? -
- E come si fa? - ribatté Sirius, -
Con quei mastini degli esaminatori, anche se volessimo barare, non potremmo. -
- E con la trasformazione come va?
-
- Ormai ci siamo, - rispose James,
- Facciamo la prova definitiva e alla prossima luna piena saremo pronti. -
Sara lanciò un’occhiata a Remus,
poi disse: - James, la luna piena è domani.
-
- Emh… già… lo sapevo,
naturalmente… facevo per dire. -
Sara alzò gli occhi al cielo,
sorridendo, poi andò a sedersi al tavolo dei Serpeverde, in disparte come al
solito. Erano due anni che Sirius, James e Peter stavano studiando per potersi
trasformare in Animagi. Da quando avevano scoperto cosa era costretto a fare
Remus per la sua natura di lupo mannaro, avevano deciso che sarebbero diventati
Animagi per poter accompagnare lui e Sara alla Stamberga Strillante, ogni notte
di luna piena.
Non era un impresa facile, e c’era
un grosso rischio: non sempre la trasformazione riusciva, se non era fatta nel
modo giusto, e poteva finire molto male.
Sara non sapeva proprio come facesse
a trasformarsi in corvo ogni volta che voleva. Aveva letto che ne esistevano
pochi di Animagus naturali, dotati di quel potere dalla nascita, e nella
famiglia Gray ce n’erano stati almeno tre. Tutti illegali come lei. Non aveva
mai saputo quasi niente della sua famiglia, i suoi genitori evitavano di
parlarne, ma ogni giorno scopriva qualcos’altro che non era certo una buona
notizia. Non sapeva ancora che la Stamberga Strillante un tempo era stata la
dimora della sua famiglia, e che Demetrius e sua moglie, gli unici
sopravvissuti, erano spariti misteriosamente lasciando che la villa andasse in
rovina. Aveva visto soltanto una stanza della Stamberga Strillante, dato che
ogni volta che ci andava non era di certo in visita turistica.
Ma aveva la sgradevole sensazione
che tutti sapessero tutto della sua famiglia. Tutti tranne lei.
1 novembre 1975, SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Era trascorso un giorno da quando la
luna piena si era innalzata nel cielo, ma Sara non aveva avuto il tempo di
accorgersene. Non era andata con loro. Non aveva potuto. E decise che avrebbe
cercato di evitare i suoi amici finché il suo aspetto non fosse tornato
normale, nonostante morisse dalla curiosità di sapere se erano riusciti a
trasformarsi. Era seduta sul parapetto del corridoio esterno di Hogwarts,
protetto dalla pioggia grazie a delle enormi e altissime volte di pietra,
sorrette da colonne. Fuori le gocce d’acqua si infrangevano al suolo, creando
un unico velo nebbioso di altre piccole goccioline che ostacolava la visuale.
Sara non aveva fame, non era andata nemmeno a pranzo. Sapeva che avrebbe fatto
la figura della codarda, di quella che si nasconde. Ma ora voleva solo restare
per conto proprio.
Quando vide che la squadra di
Grifondoro stava dirigendosi al campo per gli allenamenti, nonostante la
pioggia, si appiattì contro la colonna più che poté, nel tentativo di non farsi
vedere. Ci riuscì: il gruppo passò avanti ridendo e schiamazzando senza
accorgersi di lei.
Sara sospirò e istintivamente le
venne da toccare il cerotto che copriva il Marchio Nero. Ultimamente le doleva
in continuazione. Dall’ultima volta che si era ferita, sembrava quasi
scomparso, aveva assunto un colore rossiccio ed era rientrato sotto la pelle.
Ma quando lei lo aveva controllato la notte prima di Halloween, aveva visto
chiaramente che stava riformandosi, come ridisegnandosi da capo. Diventatavi
sempre più visibile, nitido, marcato.
Presto sarebbe apparso del tutto e
lei sarebbe tornata una Mangiamorte a tutti gli effetti.
Non si erano visti Dissennatori in
giro per almeno un mese - probabilmente Silente era riuscito a scacciarli per
un po’ - ma Sara aveva dovuto comunque continuare ad esercitarsi per riuscire
nell’Incanto Patronum. Ora riusciva a produrne uno corporeo una volta su tre.
Non riusciva a guardarlo perché le abbagliava gli occhi, sapeva che era lunga
figura serpentina, grande come non aveva mai visto un incantesimo del genere.
Perfino Silente ne era rimasto sconcertato, facendole tornare il dubbio che
fosse un altro di quei segreti sulla sua famiglia che nessuno le rivelava,
forse credendolo una cosa troppo scontata. Ma si era arresa all’idea. In fondo
non le interessava di sapere vita, morte e miracoli dei suoi avi. Voleva solo
produrre un Patronum decente e scacciare i Dissennatori, per il momento.
- Ah, ecco dov’eri finita! -
Sara sobbalzò. Era la voce di
Remus. Guardando a mala pena dietro di sé vide che lui, Sirius e Peter venivano
verso di lei, nella stessa direzione che aveva preso la squadra di Quidditch.
Forse andavano a vedere gli allenamenti. Sara si voltò e cominciò a camminare
velocemente verso l’interno del castello, dando loro bruscamente le spalle.
I tre si guardarono con sguardi
interrogativi.
- Ehi, Sara, che ti prende? - Sara
continuò a ignorarli, tenendo lo sguardo basso, ma c’era una folla troppo fitta
per permetterle di correre.
All’improvviso sentì una mano
sulla spalla; - Va tutto bene? -. Era la voce di Sirius. Decisamente l’ultima
persona dalla quale avrebbe voluto farsi vedere in quello stato.
- Andavate agli allenamenti, vero?
- disse Sara.
- Sì. -
- E allora andateci. - si scansò
seccamente dalla presa, ma non riuscì a simulare il tono duro e scostante che
avrebbe voluto. Ma Sirius l’aveva già presa per il polso e l’aveva costretta a
voltarsi. Rimase paralizzato. Remus e Peter lo raggiunsero e appena guardarono
Sara si bloccarono con gli occhi sgranati.
- Ma che ti è successo? - disse
Remus scandendo le parole.
- Niente, niente… - rispose Sara,
evasiva, - Sono solo caduta. -
- Caduta? - ripeté Sirius, - Sara,
ti hanno picchiata! -
Sulla guancia Sara aveva un grosso
livido e il segno di uno schiaffo ancora rosso, la forma della mano
perfettamente distinguibile. All’angolo della bocca aveva un lungo cerotto che
lasciava trasparire un taglio ancora fresco. Entrambi gli occhi erano gonfi, ma
quello destro era cerchiato molto più marcatamente dell’altro di un colore
rosso scuro. Aveva l’aria ancora più stanca ed era pallida come una parete
bianca.
Ogni tanto si tirava ancora più
giù le maniche già lunghe dell’uniforme, come se avesse avuto qualcosa da
nascondere, e non faceva che aggiustarsi il colletto in modo che non si vedesse
il cerotto.
- Chi diavolo è stato? - ringhiò
Sirius con tono pericolosamente feroce.
- Dai, non è niente, lascia stare…
-
- No che “non è niente”! Ma lo
vedi come sei ridotta? E’ per questo che ieri notte… -
Sara rimase zitta. Qualsiasi cosa
avesse detto non lo avrebbe mai convinto che “non era niente”. In effetti non
ne era convinta neanche lei, ma avrebbe preferito che non la vedesse in quel
modo, visto che voleva dimenticarsi il prima possibile di quella notte.
Stava dirigendosi verso il
passaggio del Platano Picchiatore, ma non si era ancora trasformata in corvo,
per il momento c’era troppa gente in giro: andavano tutti alla festa di
Halloween, si sentiva il frastuono della Sala Grande fino nei corridoi. Sapeva
che Sirius e gli altri erano già andati, ma Madama Chips aveva insistito perché
restasse in infermeria dopo l’attacco di tosse preoccupante che le era preso
quel pomeriggio. Ci era voluto un po’ prima che l’infermiera abbassasse la
guardia, consentendole di scappare.
Non aveva fatto in tempo a
oltrepassare la porta del gabinetto “guasto” di Mirtilla Malcontenta quando una
mano l’aveva spinta contro la porta facendola finire sul pavimento. E il resto,
preferiva non ricordarselo.
- Allora, chi è stato? - ripeté
Sirius posandole le mani sulle spalle.
- Piton… - disse Sara in un
soffio. - E gli altri… -
- Gli altri chi? - insistette Sirius.
- Il gruppo, insomma… i soliti…
davvero, sto bene, stai tranquillo… -
Ma gli altri non sembravano aver sentito
quell’ultima frase.
- Già, quel bestione di Harris… -
disse Remus - Quanti ne ha pestati da quando è arrivato a scuola? -
- Se potessero dimostrarlo
l’avrebbero già fatto espellere. - disse Sirius, poi si voltò verso Sara, -
C’era un motivo? -
- No, - mentì Sara, per niente
sicura di ciò che stava dicendo.
Mentre andavano a vedere gli
allenamenti di Quidditch sotto la pioggia scrosciante - ovviata grazie ad un
incantesimo - Sara pensò che forse avrebbe dovuto dire a Sirius che Piton sapeva
tutto: Sara non riusciva a spiegarsi come, ma aveva sentito ogni cosa, del
Marchio Nero, dei Dissennatori, di tutto. C’era da stupirsi che non lo avesse
ancora spifferato alla Gazzetta del
Profeta. Magari ogni studente sapeva già tutto, ma facevano finta di
niente.
Forse si trattava di un’altra,
stupida paranoia, ma Sara era convinta che fosse così.
- Siete riusciti a trasformarvi,
ieri sera? - chiese Sara per evitare di pensarci.
- A Peter ci è voluta mezz’ora, -
disse Sirius, e Peter si fece piccolo come uno gnomo, - Comunque ce l’abbiamo
fatta. -
- E siete rimasti lì, immagino… -
fece la ragazza con sguardo penetrante.
Fu Remus a rispondere; - Bhe, non
proprio… Siamo andati un po’ in giro. -
- In giro? - ripeté
Sara alzando bruscamente la voce, incredula. Remus si strinse nelle spalle;
aveva toccato un nervo scoperto. - Non credevo che fosse il caso di andare in giro! -
- Ehi, freddati, non è successo
niente! - disse Sirius tranquillamente.
- Certo che non è successo niente! Voglio venire anch’io la prossima
volta! -
Remus rimase un po’ perplesso, poi
sorrise, e i quattro si sedettero sulle tribune. In verità non c’era niente da
ridere. Aveva agito senza pensarci, quella notte, perché se fosse stato ragionevole
se ne sarebbe rimasto fermo al suo posto fino all’alba. Silente era l’unica
persona che gli avesse dato fiducia, e lui l’aveva tradita. Ci aveva pensato
improvvisamente, e si era stupito di essere stato così idiota.
Quel pensiero l’aveva attraversato
solo per un attimo. Continuava a guardare Sara, che sembrava del tutto
noncurante, addirittura allegra, e si chiese come facesse ad esserlo nella sua
situazione. Dove trovava la forza di non rinchiudersi in sé stessa, con quello
che incombeva sulle sue spalle? Come riusciva a sorridere, dando quasi l’idea
che per la testa non avesse nessuna preoccupazione, niente di negativo?
Lui non ci riusciva mai.
In un modo o nell’altro era sempre
ancorato a preoccupazioni che spesso non avevano neppure ragione di esistere.
Era certo che Sara stava molto peggio di lui, pur non dandolo a vedere, e per
una volta avrebbe voluto assumere anche lui quella maschera spensierata.
Nonostante sapesse che era una
maschera di lacrime.
Il sole autunnale scintillava sul
parco di una luce tiepida, a mala pena capace di scacciare la pioggia del
giorno prima. Gli studenti di Hogwarts si godevano quell’attimo di tregua fra
le intemperie che avrebbero tempestato l’inverno imminente, e uscivano per
studiare o divertirsi sui prati, all’ombra degli alberi.
- Perché Silente non la licenzia,
quella Mandragola? - disse James chiudendo bruscamente il libro di Pozioni, -
Come si fa a dare temi di ottanta centimetri? -
- Zitto e scrivi, che poi lo devo
copiare, - disse Sirius, con la schiena appoggiata all’albero, nel vano
tentativo di non addormentarsi sul libro di Storia della Magia.
- Io ce l’ho da tre fogli di
pergamena, - disse Sara, facendo scorrere lentamente la penna sul libro, per
sottolineare. Era sdraiata a terra, con un ginocchio alzato e la testa sulle
gambe di Sirius - …per la settimana prossima, sul Bubotubero. Come si fa a
riempire tre fogli di pergamena col Bubotubero!? -
Quando alzò la testa, una vistosa
smorfia le si dipinse sul viso, seguita poi da una specie di sorriso: era
appena passato Piton, più velocemente possibile per non farsi notare da loro, e
pareva uno straccio per pulire i pavimenti. Scivolava da un albero a un altro,
per evitare grane, e aveva entrambi gli occhi neri, una ferita sul labbro e un
grosso bernoccolo piantato in mezzo alla fronte.
- Che gli è successo al viscido? -
fece Sara all’orecchio di Sirius, tirandogli una leggera gomitata.
- Pestato, - rispose
distrattamente Sirius, e Sara capì che i suoi ripetuti tentativi di dissuaderlo
dalla vendetta erano stati vani.
- Quando? -
- Ieri sera… nel cesso di Mirtilla
Malcontenta. Ha avuto un piccolo incidente con il lavandino. - Sara guardò
meglio Piton e si rese conto che sul bernoccolo aveva stampata la sagoma del pomello
del lavandino. Scoppiò in una risata soffocata, non riuscì a farne a meno. In
quello stesso momento, James si era alzato in piedi, sotto lo sguardo di pietra
di Remus e un’espressione ammirata di Peter, e aveva puntato la bacchetta
contro Piton.
- Ehi, Mocciosus! Cos’è quel passo
da ladruncolo? Hai paura dell’uomo nero? -
Un raggio scarlatto partì dalla
bacchetta di Piton, ma James lo evitò inclinandosi di lato, senza nemmeno fare
un passo. Rispose con un gesto della bacchetta che ribaltò Piton diverse volte,
facendolo quasi finire nel lago.
Gli altri studenti di Hogwarts,
seduti in riva al lago o anch’essi all’ombra degli alberi, scoppiarono
immediatamente a ridere. Sara si mise seduta, permettendo a Sirius di alzarsi
in piedi e di unirsi a James per tormentare Piton.
Si accorse in quel momento che una
ragazza, seduta con le sue amiche sulla sponda del lago, fissava James con
un’espressione terribile.
- Chi è quella? Fa scintille, -
disse Sara rivolta a Remus, l’unico che non aveva interesse nel tormentare
Mocciosus.
- Lily Evans, - rispose
distrattamente Remus guardando per un attimo in quella direzione, - E’ tutto
l’anno che James prova a invitarla fuori, ma lei lo detesta… -
- Ah… - Sara non aveva mai sentito
dire da James una cosa del genere, probabilmente perché non gli andava molto di
parlare dei suoi continui fallimenti, per una volta che c’erano. Ma Sara già
non ci pensava più.
Era impossibile non ridere
nell’osservare quella scena: Piton non faceva altro che subire, privato, del
resto, della possibilità di muoversi. Veniva pietrificato, ribaltato,
atterrato, ma non riusciva a reagire e le poche volte che ci provava, gli
veniva strappata la bacchetta di mano. Piton era stato appena colpito da un
incantesimo che gli aveva fatto venire i capelli rosa e la pelle verde marcio,
quando in lontananza apparve la professoressa McGranitt, cosa che li convinse a
rimettersi ai loro posti e calmarsi.
Piton, comunque, aveva ancora
quella strana colorazione, e si nascose dietro un cespuglio, come nel tentativo
di riparasi dalle risate di scherno che lo inseguivano. Sara sapeva bene come
doveva sentirsi, ma allo stesso tempo si rese conto che non le dispiaceva
affatto.
La McGranitt aveva una lunga,
lunghissima pergamena in mano e la leggeva molto avidamente, con un’espressione
sgomenta, quasi impaurita. Non si diresse verso il parco, come gli studenti
avevano temuto, ma si fermò nell’ingresso, misurandolo a grandi passi, avanti a
indietro, fin quando non giunse il professor Silente.
Li videro parlare a lungo, sempre
più concitatamente, fin quando non se ne andarono, essendosi accorti che tutti
li stavano guardando.
Parlanodite
…
- Io dico che un giorno quei due
si sposano, - ironizzò Sirius, - Stanno sempre a parlare… - Ma Sara sapeva
benissimo di cosa stavano parlando.
Strizzò gli occhi e i pugni più
forte che poté, come se in quel modo potesse chiudere il suo cervello agli
attacchi di quelle voci, sempre più insistenti, sempre più malvagie…
Losai,
Sara…losai…
No, non lo so, disse a sé stessa.
Avrebbe voluto non sapere niente.
Perché era costretta a sapere
sempre tutto? Non sarebbe stato meglio se fosse stata del tutto ignara della
situazione? Almeno non avrebbe mai saputo che quella voce era di Voldemort. Non
avrebbe mai dovuto sapere che nel cervello sussurrava lo stesso che seminava
tutte quelle morti, fuori da Hogwarts…
Uccidi,Sara…
Tu nonpuoi
disubbidire…
Sara strinse il cerotto tanto forte
che se lo strappò dalla pelle. Nessuno sembrava essersene accorto: erano tutti
intenti a tormentare Piton, dopo aver dato fuoco al cespuglio dietro il quale
era nascosto.
Il Marchio Nero stava tornando in
superficie.
Possibile che nessuno se ne accorgesse?
Ma lei comunque non avrebbe
eseguito una volontà che non fosse la sua. Qualsiasi cosa avesse ordinato
Voldemort, anche se l’avesse uccisa, lei non gli avrebbe mai ubbidito.
Maquesta è latuavolontà..
tuvuoifarlo...
…Tu vuoiucciderli
tutti…
No, lei non voleva farlo. Che
senso aveva ucciderli? Uccidere Silente? Uccidere la McGranitt? Uccidere
chiunque altro le stesse intorno?
Che cosa avrebbe risolto?
Cercava ossessivamente di
ripetersi queste parole, mentre si raggomitolava su sé stessa premendosi le
mani sulle orecchie. Ma sapeva che quel sussurro stava risvegliando dentro di
lei una fiamma distruttiva, un istinto mortale che ben presto l’avrebbe portata
alla completa sottomissione…
Lei era già un’assassina… non
poteva macchiarsi di nuovo dello stesso crimine…
Noncercare lapace,
…Sara…
Tuvuoi
lamorte!
- No! -
James, Sirius, Remus e Peter si
voltarono quando la sentirono gridare. Ma Sara era già balzata in piedi e
correva verso il castello, scappando neanche lei sapeva da cosa, con l’unico
desiderio di far star zitta quella voce, subito…
Le pareti scorrevano velocemente
agli angoli dei suoi occhi, davanti a lei i corridoi si snodavano
vertiginosamente, stava impazzendo, ne era sicura… correva verso il dormitorio
dei Serpeverde, vi si sarebbe rinchiusa, ci sarebbe rimasta fin quando non
fosse riuscita a far tacere quei mormorii.
Fin quando il desiderio di
uccidere non si fosse placato.
- Ehi, zombie! - disse una voce,
confusa, Sara capiva a mala pena da dove provenisse… - Hai ancora gli occhi
neri, eh? Ti fanno bua? -
Harris.
Quel bastardo di Serpeverde, del
settimo anno, che l’aveva lasciata dolorante e sanguinante sul pavimento, dopo
averla picchiata…
Adesso …
Fallo adesso!
Sara credette di morire: non
poteva più resistere.
*
Nell’aria stagnante marciva un
terrore sordo, simile ad un fischio, ad un ronzio. Un sole malato, livido, si era
da poco levato dietro le creste dei monti, gettando i suoi raggi biancastri
attraverso le tende tirate di ogni finestra di Hogwarts. Il silenzio giaceva
sepolto in ogni anima, di qualsiasi essere umano passasse. A memoria d’uomo,
soltanto una volta era successa una cosa del genere a Hogwarts, soltanto una. E
da quando Silente era diventato Preside, tutti avevano creduto che non dovesse
accadere mai più.
Era stato bello conservare quella
speranza, quella certezza, ma adesso era tutto distrutto. Fra i vestiti neri
dei professori e degli studenti, disposti in due file staccate come pareti di
un corridoio, sfilava una barella tirata da due uomini incappucciati, neri
anch’essi come l’aria di quella mattina. Un lenzuolo bianco sventolava
debolmente al muoversi della lettiga, lasciando trasparire duri e grossi
lineamenti umani. Un braccio robusto, dalle dita tozze, freddo e bianco,
ciondolava a terra seminando dietro al suo passaggio un orrendo presagio.
Mark Harris era morto.
I drappi raffiguranti i colori e
gli stemmi delle case erano neri, pendevano dal soffitto come cenci vecchi,
stracci di notte. Non un sussurro, un ronzio, solo le ruote della barella sul
pavimento di pietra. Il pianto di due persone, un uomo e una donna, vestiti a
lutto, l’uno abbracciato all’altra.
Le mani di Sara erano mosce, come
quelle del cadavere. Le gambe la reggevano a stento. Le ginocchia tremavano ed
erano sul punto di cedere, così come le lacrime nascoste dietro gli occhi,
dietro il velo delle palpebre sigillate, assolutamente non intenzionate ad
aprirsi. Non voleva che la vedessero. Nessuno doveva vederla, mai più.
Avrebbe voluto piangere, ma non
tristezza, non di rabbia. Di rimorso. Di vergogna.
Il giorno prima, soltanto poche
ore innanzi, lei aveva ceduto. Aveva ascoltato la tentazione del demonio che
dormiva nel fondo della sua anima e aveva alzato la bacchetta: due parole, ed
era tutto finito. Due parole e, senza un grido, il corpo nerboruto si era
afflosciato come un sottile fuscello, morendo prima ancora di abbattersi sul
pavimento con un tonfo sordo. Un tonfo che per un attimo, un lungo attimo,
aveva fatto fermare il cuore di Sara. Se n’era accorta dopo:
Lo aveva fatto veramente. Di
nuovo.
Scappò via. Che le importava se
avrebbero sospettato di lei? Che le importava dei Dissennatori, di Azkaban, o
di qualsiasi altra cosa? In fondo era lei, per davvero, la colpevole, si
sarebbe meritata tutto quello che le avessero scagliato contro, anche la morte.
No, forse non meritava la morte: era troppo poco.
La lama del rasoio calò con
violenza sulla pelle, sui segni dei vecchi tagli, e scorse: il sangue colò dal
braccio di Sara, mentre un’altra volta la lama salì e poi ridiscese, un’altra
volta, e ancora un’altra volta. Le braccia di Sara erano piene di tagli, taluni
più profondi del solito. Il lenzuolo del suo letto era sporco, una chiazza
rossa scarlatta.
E finalmente le lacrime scorrevano
libere. Avrebbe avuto il coraggio di restare a Hogwarts? O forse era meglio
scappare… Non voleva che Sirius sapesse di quello che aveva fatto, non doveva
saperlo nessuno. Solo lei, e i Dissennatori che sicuramente stavano già venendo
a prenderla.
Ma i Dissennatori non vennero.
Silente era forse convinto fino a
quel punto che lei fosse innocente? Era impossibile non sospettare di lei,
anche se in effetti non c’era alcuna prova certa. Harris, l’unico possibile
testimone, era morto: soltanto Sara sapeva quello che era successo.
Ed era decisa a mantenere il
segreto.
Non era riuscita a dormire, era
andata alla Stamberga Strillante e aveva fatto quello che, ormai, poteva
ritenere il suo dovere. Non aveva
altra scelta, del resto. Non poteva correre il rischio che una cosa così atroce
succedesse di nuovo. Se non altro, nel morire, la vittima non aveva sofferto.
Non era certo una consolazione, da qualche parte nella sua anima Sara pensava
che avrebbe fatto meglio a lanciare una Cruciatus, farlo soffrire e vivere,
invece che ucciderlo senza fargli sentire dolore. Ma erano i pensieri di una
mente che non voleva più vivere: ormai Sara stava desiderando che i Dissennatori la portassero ad Azkaban, avrebbe
avuto quello che si meritava, come quando aveva ucciso i suoi genitori. Le
sarebbe mai passata quella crisi?
Sirius, Remus, James e Peter...
loro non sospettavano di niente. O perlomeno non davano segno di nutrire dei
dubbi, anche se forse li avevano. Sara non voleva leggere le loro menti per
scoprirlo, convinta com’era che ci avrebbe visto soltanto del male nei suoi
confronti. Era combattuta tra il confessare e il non confessare. Confessando
avrebbe cancellato l’ultimo segreto che c’era fra loro, ma era certa che non
avrebbero più voluto vederla. Le avrebbero voltato le spalle, e lei sarebbe
stata di nuovo sola, quando in quel momento aveva solo bisogno di qualcuno con
cui parlare. Non confessando, sarebbe vissuta con quel segreto fino al momento
di andare ad Azkaban - ormai lo aveva accettato come parte della sua vita - ma
avrebbe avuto ancora degli amici. In entrambi i casi si trattava di una
tortura, ma lei aveva deciso di restare in silenzio.
24 dicembre 1975, SCUOLA DI MAGIA
E STREGONERIA DI HOGWARTS
Ad
Hogwarts erano rimasti in pochi: coloro che non se n’era già andati per le
vacanze, erano stati portati via dai loro genitori, che avevano solennemente
giurato di non farceli tornare fin quando non avessero avuto la certezza che
era tutto finito. Non era mai successa una cosa del genere: altri
tre morti, a distanza di sei giorni. Ma ancora
neanche l’ombra di un Dissennatore. Ogni tanto qualcuno diceva di averlo visto
scivolare silenziosamente sul lago, in attesa di
un’occasione propizia per entrare.
Sara
aveva raggiunto la conclusione di dover vivere fino all’ultimo, dato che ne aveva l’occasione: aveva cancellato dalla mente il
ricordo di ciò che aveva fatto, ma sapeva benissimo di non aver compiuto un
gesto definitivo. Quando il Marchio si fosse
svegliato, le sarebbe tornato in mente tutto. Aveva raggiunto il totale di
quattro vittime, che per Voldemort non erano altro che
pedine sacrificali, che era necessario far mangiare per giungere alla fine.
Sperava forse che Sara uccidesse Silente? O che gli
sgombrasse il passaggio fino a lui per poterlo distruggere personalmente? Dopo
la cancellazione di quei ricordi Sara era riuscita a tornare quella di prima.
Su tutti gravava il peso del pericolo e la tensione, ma la vita scorreva quasi
normalmente. Le vacanze erano appena iniziate, ma tutti sapevano che quando
fossero terminate gli studenti di Hogwarts sarebbero stati comunque
meno di quelli di prima. Molto meno.
Silente
era stato processato, ma ne era uscito vincitore,
anche se la sua fiducia barcollava. Non aveva mantenuto i patti che la sua
responsabilità gli stabiliva: quattro morti, tre
studenti e un professore.
Quattro vittime e nessun colpevole, a quanto pareva: sembrava quasi
che Silente si rifiutasse di attuare la ricerca.
Naturalmente
non era così: era solo combattuto fra due diversi modi di agire, entrambi
giusti, e non sapeva quale seguire. Aveva il dovere di trovare il colpevole, ma
se le prove fossero saltate fuori, era certo che Sara sarebbe stata incolpata. E le aveva
promesso che nessun Dissennatore le avrebbe mai fatto del male. D’altra parte
non aveva scelta: il Ministero gli aveva suggerito un patto, avrebbe cercato il
colpevole con delle prove attendibili, ma se non fosse riuscito, allora il
compito sarebbe toccato ai Dissennatori.
Loro
sapevano sempre chi era il colpevole.
Ripensando
a quegli ultimi avvenimenti, Sara fissava la superficie del lago, come due anni
prima, sullo stesso tronco arcuato: ma stavolta il vento agitava le acque con
violenza, generando piccole ma impetuose onde. L’acqua era plumbea, e affatto limpida.
Rifletteva il cielo, tappezzato di nuvole prossime al temporale.
Rifletteva
l’esatto colore che giaceva nella sua anima: che fine aveva fatto il suo
sorriso?
- Di
nuovo qui, eh? -
Sara a
mala pena si voltò. Si stava ripetendo la stessa
situazione di due anni fa. Sirius era alle sue spalle e, un istante dopo, si
era seduto accanto a lei sul tronco ricurvo. Non si dissero niente, perché
entrambi sapevano quale fosse la situazione, ed era
evidente che a Sara non andava tanto di parlare.
Parlare
di cosa, poi? Delle stesse cose. Dei Dissennatori e di tutto il resto.
- Domani
c’è una festa, per Natale, - disse invece Sirius. Sara dapprima non lo ascoltò,
poi si girò di colpo per guardarlo, grata perché aveva evitato quell’argomento.
- Che genere di festa? -
- Hanno appeso l’annuncio poco fa in bacheca, - rispose
Sirius, - E’ un ballo. - aggiunse con
tono acido, quasi disgustato. Sara sorrise a quell’ultima affermazione. - Non è che mi vada di andarci, però… - riprese Sirius
parlando frettolosamente, - Ci vuoi venire con me? -
- Dai, e
me l’hai anche chiesto? -
Sara si
lasciò andare sul fianco e gli appoggiò la testa sulla spalla di Sirius, mentre
lui le circondava i fianchi con il braccio. Ovviamente non poteva ricordare di
essersi cancellata dalla memoria il ricordo dei suoi assassini, perciò in
qualche modo riusciva a essere stranamente,
smisuratamente felice. Non piaceva neanche a lei l’idea di andare ad un ballo,
ma tutto dipendeva dal “con chi”. In fondo non aveva voglia di fare altro:
godersi una festa ed essere, per una volta, una persona normale.
Era
Natale, e il sole era tramontato da un pezzo. Si avvicinavano le nove, e già
gli studenti cominciavano ad andare in Sala Grande per la festa. Nella Sala
Comune dei Serpeverde non si era parlato d’altro per tutto il giorno, almeno
fra quei pochi studenti che ancora vi erano rimasti.
Sara ci
aveva messo ore a decidere cosa mettersi, e soprattutto a cercare qualcosa che nascondesse i tagli sulle braccia: aveva risolto la
situazione con due morbidi scaldamuscoli che le coprivano le braccia dalle
nocche fino al gomito.
Come
sempre il suo colore d’abbigliamento era il nero: aveva una gonna lunga fin
sopra le ginocchia, dall’orlo molto strappato, legata in vita da molti lacci.
Sopra portava una maglietta aderente anch’essa strappata. Aveva degli stivali
sottili lunghi fino al ginocchio, allacciati da molte stringhe, e delle calze
che le coprivano parte delle gambe. Insieme al solito ciondolo che non si
toglieva mai dal collo portava una catenina con un crocifisso
d’argento, lo stesso colore della sottilissima cintura legata floscia sui
fianchi. Aveva un qualcosa di strano, nel suo vestito che ad altri non sarebbe
stato bene, qualcosa che neanche gli altri studenti riuscirono a capire.
Nessuno trovò le esatte parole per insultarla, e così rimasero tutti zitti,
perché in effetti non avevano proprio niente da
ridire: era bella e basta.
Grazie a
Madama Chips le ferite del pestaggio erano completamente scomparse, almeno
quelle sul viso. Di Piton non si poteva dire altrettanto, ma
essendo sgattaiolato via subito dopo il banchetto, non tutti si accorsero
del gigantesco bernoccolo.
Sara e
Sirius ballarono ben poco, perché del resto erano soprattutto le ragazze a
proporre di scendere in pista, e Sara era fiera di non
rientrare in quella categoria. Si erano divertiti molto di più lanciando
Caccabombe nell’ufficio della professoressa Mandragola mentre tutti erano alla
festa e non potevano vederli.
James non
era riuscito a invitare Lily, e così aveva dovuto
accontentarsi di una studentessa del primo anno, che non considerò per tutta la
serata fin quando non andò a ballare con qualcun altro. Lily invece era andata
alla festa con uno studente del settimo anno, e la cosa peggiore era che
sembrava divertirsi molto.
Prevedibilmente,
Peter non aveva trovato ragazza disposta ad accompagnarlo e Remus era venuto da
solo: non aveva avuto la minima voglia di cercarsi qualcuno.
La festa
era quasi giunta al termine quando Sirius e Sara uscirono
da soli sulla grande terrazza di pietra che dava sul lago. Non c’era nessun
altro. Era passata la mezzanotte e chi non era ancora tornato ai Dormitori
giaceva chiacchierando placidamente sulle poltroncine ai lati dei giganteschi
alberi natalizi, cercando cocciutamente di non addormentarsi. Sara non
ricordava di aver mai riso tanto come aveva fatto
quella notte, e probabilmente il non esserci abituata l’aveva già stancata. Non
se ne curava: quella notte, voleva soltanto ridere, senza pensare al resto, ed
era sicura che sarebbe stato così. Almeno per una volta.
- Non ho
ancora avuto il tempo di chiedertelo… - disse Sirius, - Cosa ti era successo
quel giorno che sei scappata? -
- Quando? - chiese Sara, sforzandosi di credere d’aver
frainteso.
- Hai
gridato “no”, e te ne sei andata, ma
Madama Chips ha detto che non hai messo piede in infermeria quel giorno. -
Sara
rimase in silenzio. Senza rispondere, camminò lentamente verso la balaustra
sorretta da tondeggianti colonnine di pietra, e fissò le fronde lontane della
foresta, desiderando ancora una volta di volare via…
E
come poteva dirglielo?
Evidentemente
Sirius non si aspettava quella reazione. Si fece alle spalle di Sara e le
strinse le braccia intorno ai fianchi, affondando il viso nei suoi capelli.
- Cos’hai, Sara? - disse Sirius, quasi esasperato, - Sono giorni
che va avanti così… Cosa ti prende? -
Sara
avvertì l’inconfondibile sensazione di un qualcosa che riaffiora,
come un legno che trattenuto sul fondo di un pozzo torna su bruscamente. Ma non c’era nessun pozzo, era nel suo cervello. Un ricordo
stava tornando in superficie, e Sara riuscì a vederlo, era il ricordo
dell’assassinio, un ricordo rosso sangue…
Non posso dirtelo, Sirius, pensava, cercando di non far arrivare
quelle parole al cervello di Sirius. No, non poteva dirglielo, o non l’avrebbe
mai più guardata in faccia, e lei questo non sarebbe riuscito
a sopportarlo…
- Sara, per favore… -
Sara
sentiva il respiro di Sirius sulla guancia.
Voleva
dirglielo, doveva dirlo a qualcuno.. ma allo stesso tempo non poteva. Quanto a lungo avrebbe
sopportato quella situazione? Perché non era possibile
scappare e farla finita?
- Sirius…
- iniziò Sara, cercando in tutti i modi di articolare le parole, - Non… - sì:
se voleva dirlo, doveva dirlo adesso. - Non è niente… davvero. E’ che… insomma,
la malattia… non dormo mai la notte… sono un po’ stanca. -
Sara si
morse le labbra, maledicendo lei e la sua stupidità… la sua codardia. Era
egoismo e codardia non raccontare la verità neanche a Sirius. Ma lei che altro poteva fare? Come poteva dirgli che era
stata lei ad uccidere tutte quelle persone? Aveva dovuto mentirgli…
Sirius la
voltò, tenendole le mani sulle spalle, e si baciarono.
Chissà se
le aveva creduto.
Il
ciondolo a forma di cuore nero si staccò dalla catenina e cadde a terra mentre
Sara scappava di nuovo nel suo Dormitorio. Prima di seguirla, Sirius lo
raccolse e si mise a correre per raggiungerla.
Sara
correva piuttosto incerta per i corridoi, insieme a Sirius, Remus e Peter.
Stavano andando a spiare James che chiedeva l’ennesimo appuntamento a Lily, in
occasione dell’uscita a Hogsmeade di San Valentino. Erano tutti e quattro
convinti che non avesse speranza, altrimenti non
sarebbero mai andati a spiare la strigliata che Lily gli avrebbe senz’altro
imposto.
James era
riuscito a fermarla in mezzo al corridoio esterno, lo stesso dove Sara aveva
tentato di nascondersi il giorno dopo Halloween. Lily aveva un’espressione
terrificante, che tuttavia non era sufficiente a scoraggiare James, forse per
via degli sguardi ben diversi dello stuolo di ragazze
che la circondavano.
I quattro
spioni erano nascosti dietro l’angolo del corridoio, a pochi passi dalla
scenetta.
-
Andiamo, che ti ho fatto, Evans…! -
- Che mi hai fatto? - ripeté Lily sempre più irascibile, - Niente,
mi hai fatto! Sei semplicemente insopportabile, possibile che tu non te ne
renda conto?-
-
Veramente… -
Ma
Lily si era già allontanata con uno sbuffo perfettamente udibile. James cercò
di seguirla, ma ci rinunciò dopo pochi passi: a quanto pareva gli era andata
buca. Gli altri quattro assunsero immediatamente
un’espressione innocente quando il ragazzo passò loro davanti.
- No… non
adesso… - sussurrò Sara abbassando
improvvisamente la testa, come rivolta a sé stessa. I ricordi che aveva
cancellato per la seconda volta stavano di nuovo
tornando, e con essi quell’orribile impulso assassino che le aveva già fatto
mietere allo stesso modo quattro vittime...
- Non
adesso che cosa? - chiese Remus.
- Eh?
Niente! - disse rapidamente Sara, ma era consapevole che tutti l’avevano
sentita, e la stavano guardando. Come doveva essere ridicola…
Tutti
mentono…
Sara
scosse violentemente la testa. Non l’avrebbe fatto. Era un mostro, ma non fino
a quel punto. Non poteva dar retta a quegli stupidi sussurri proprio in quel
momento, doveva reagire, doveva fare qualcosa…
…Uccidili…!
Un improvvisa esplosione dentro di lei le segnalò con esattezza che la testa le si
stava spaccando in due. I sussurri erano diventati grida sempre più alte, più
che lei si sforzava di resistere. Ma non avrebbe
eseguito nessun altro ordine di Voldemort. Lo promise a sé stessa mentre le
ginocchia cedevano e lei cadeva in ginocchio.
Probabilmente
gli altri erano intorno a lei, e le stavano dicendo qualcosa, Sara sentiva
delle voci indistinte e degli strattoni alle spalle… ma non riusciva a capirci
niente. Aveva una tale confusione in testa.
Avrebbe
resistito.
A costo
di morire, avrebbe resistito. Voldemort non poteva chiederle una cosa simile,
non poteva sperare che lei gli avrebbe fato ascolto.
Sentì un
fiotto di sangue esploderle in gola, e poi sui suoi occhi calò il buio.
20 febbraio 1976, SCUOLA DI MAGIA
E STREGONERIA DI HOGWARTS.
Ci era
riuscita.
Le
importava ben poco il tempo che avrebbe trascorso in infermeria, fossero stati anche tre mesi: l’unica cosa che contava era
che aveva resistito.
Non era
successo niente, soltanto lei era finita là dentro, non c’era nessun altro, ma
neanche questo le interessava: finché fosse rimasta in infermeria, comunque, non avrebbe più potuto fare del male a nessuno.
Sirius e
gli altri venivano tutti i giorni a trovarla, ma lei non sentiva più le voci
del Marchio Nero. Credeva che per un po’ Voldemort si fosse arreso, non poteva
sapere che era un avvertimento.
Voldemort
aveva capito che ormai per Sara era la fine.
In
momento come quelli era difficile crearsi quel genere
di paranoie.
Era un
mese che Sara non apriva neanche un libro, ma si sentiva troppo stanca per
iniziare. Le sue giornate erano fatte di sonno, sonno continuo, e si
risvegliava soltanto quando qualcuno veniva a farle visita. Poi si addormentava
di nuovo. Aveva perso la concezione del tempo, e questo non poteva che essere
un bene, perché in quel modo molte delle cose successe
quell’anno le passavano di mente.
E mentre
lei dormiva, ignara di tutto, gli altri proseguivano
incessantemente le loro ispezioni per il castello, per perfezionare la Mappa
del Malandrino.
Durante
una di queste esplorazioni non certo regolamentari, all’una di notte, avevano raggiunto il passaggio segreto di cui una volta
aveva parlato Sara: dalla parte opposta del castello si arrivava in un
battibaleno ad una grossa stanza che pareva il sotterraneo dell’ufficio di
Silente: era totalmente vuota, e il soffitto era così basso che bisognava stare
almeno in ginocchio, ma aveva il vantaggio di permettere a chiunque vi entrasse
di sentire le conversazioni nell’ufficio del Preside quasi come fosse stato
presente al piano di sopra.
Ma
quel giorno, i Malandrini avrebbero preferito non aver mai sentito niente.
- Silente, tutte le tue ricerche sono state fallimentari, - disse una voce, alla
quale quella di Silente non rispose, nonostante la lunga pausa di silenzio. - I
patti sono patti: tu non sei riuscito, perciò abbiamo chiesto ai Dissennatori
di scoprire il colpevole. -
- Vieni
al dunque, Bartemius, - disse la voce stanca del Preside e, in qualche modo,
quasi colpevole.
- No,
Silente, non verrò al dunque fin quando non avrai compreso che non hai fatto
altro che errori da quando hai accettato quella ragazza a scuola! Suvvia, che
cos’altro potevi aspettarti? E’ una Gray, e come tutti
quelli che l’hanno preceduta, non ha fatto altro che del male! Deve ancora
nascere il Gray che righi dritto… e stavolta abbiamo un’altra Mangiamorte! Una Mangiamorte, Silente! Una serva di Voldemort! - Crouch
inveiva furiosamente contro il preside, e sbattè un violento pugno contro la
sua scrivania, che fece traballare e tintinnare i buffi strumenti metallici,
causando un botto che rimbombò anche nel passaggio segreto. Crouch stesso
sembrava scosso dall’aver pronunciato quel nome. - Tu conosci i miei mezzi,
Silente! - proseguì, - Non posso permettere che un Mangiamorte rimanga a piede
libero in una scuola! Hanno fatto bene quei genitori che hanno fatto tornare i
loro figli a casa! Tu lo sapevi, Silente, lo sapevi che cos’era quella ragazza,
e nonostante tutto l’hai sempre tenuto nascosto!
Questa io la chiamo complicità! E la complicità fra
gli assassini, si punisce ad Azkaban! -
I quattro
erano ammutoliti.
Sopra le loro teste, Crouch accusava Silente di essere colpevole
almeno quanto Sara delle uccisioni avvenute quell’anno. Loro non l’avevano mai
saputo. Non riuscivano a crederci.
I
Dissennatori si erano sbagliati.
- Non posso respingere le tue accuse, lo sai, Bartemius, - rispose
flebilmente il Preside, - così come non potrò evitare qualunque punizione dal
Ministero della Magia. Ho agito come ritenevo giusto per il bene di tutti. Né
ora né mai mi vedrai complice di qualsiasi cosa che possa
nuocere agli studenti della mia scuola. -
- Eppure hai mantenuto bene il segreto, non è così? - ribatté
Crouch, - Hai continuato per chissà quanto a tenere a tutti nascosta la vera
natura di quella Gray, e sono certo che hai adoperato un qualche incantesimo
per evitare che l’ispezione ministeriale risultasse in
regola! -
- Non
puoi accusare me o Sara di aver fatto una cosa del genere fin quando non avrai
le prove, anche questo lo sai benissimo. -
Crouch
rimase a lungo in silenzio.
E con
lui, i quattro ragazzi, là sotto, sembravano quasi aver cessato di respirare.
- E
allora la accuserò per qualcosa di cui ho la prova, - disse Crouch dandosi un
contegno, - I Dissennatori non hanno mai sbagliato, Silente, e anche se tu
volessi effettuare un Priori Incantatem sulla
bacchetta di Sara, troveresti quattro Maledizioni Senza Perdono e saresti
costretto a darmi ragione. Gray ha ucciso quattro persone con la medesima
Maledizione, lo ha tenuto nascosto, e si è comportata come se niente fosse. Tu
hai continuato a respingere i Dissennatori e hai nascosto al mondo che Gray era
Mangiamorte… ma visto chenon c’erano prove… - aggiunse, ringhiando, - Tu sei innocente, ma
non Gray. E la conosci la pena che spetta a tutti coloro
che adoperano una Maledizione Senza Perdono. -
Il
silenzio più atroce penetrava nelle ossa, raggelandole, stringendole in una
morsa mortale. Sembrava quasi che quegli istanti non terminassero mai, e
davanti ad essi pareva snodarsi la notte, l’oscurità,
l’oblio più profondo, senza la minima fonte di luce.
Sì,
Silente la conosceva quella pena. E anche Sirius se la ricordò quando si lasciò
sfuggire un verso strozzato, una specie dei ringhio
che non era riuscito a trattenere del tutto. Non era possibile… non Sara.
-
Detenzione a vita nella Fortezza di Azkaban, - disse
Crouch, - E Bacio dei Dissennatori quanto prima sia possibile. -
*
Fuori la
neve si abbatteva furiosamente contro qualsiasi cosa ostacolasse il suo
cammino. Il freddo pungente non conosceva limite e congelava il sangue nelle
vene. La tagliola dell’inverno si era stretta contro la figura fatiscente della
Stamberga Strillante, penetrando fra le assi, scendendo dal cielo come una
pioggia d’acqua gelida.
La mente era annegata nel caos, lo sguardo era fisso, immobile, nel
disperato tentativo di non pensare a niente. Ma era
inutile. Non si poteva non pensarci. Ormai il destino era segnato, e c’era ben
poco che si potesse fare per rallentarlo. La speranza non moriva,
non ancora, sembrava ardere nel caminetto tra quella legna marcita.
Sara
aveva perso la speranza da molto tempo. Non c’era altro da fare se non
accettare il destino, sapendo che era esattamente quello che le spettava. Non
meritava nient’altro. La speranza era inutile.
Non si
era mai sentita un verme come in quel giorno. Le era
tornata la memoria dei crimini dei quali si era macchiata, e con essi, la
consapevolezza che ora i suoi amici l’avevano scoperto: e non era stata lei a
dirglielo, come avrebbe voluto. Non ci era riuscita:
adesso avevano scoperto tutto di colpo, l’ultimo giorno che lei poteva vederli.
Sapeva bene che anche una sola Maledizione Senza Perdono causava la permanenza
a vita ad Azkaban, e sapeva altrettanto bene che una volta dentro non avrebbe
neanche provato a scappare. Non era questo che doveva fare: finché restava ad
Azkaban nessun altro sarebbe morto per mano sua. La solita parte di lei che
ancora non si era pentita le imponeva di fuggire, a costo di vivere da
latitante, ma in quel momento stava prevalendo la sua seconda metà, la metà
giusta, forse, ma anche quella più difficile da seguire.
Nessuno
osava parlare. Ogni tanto qualcuno prendeva fiato per dire qualcosa, ma apriva
solo la bocca e poi la richiudeva, incapace di formulare anche una sola frase.
James guardava nervosamente fra le assi, cercando di scorgere nella tormenta la
figura di un Dissennatore, ma i suoi occhi erano puntati più su Sara che all’esterno.
Tutti la
guardavano, ma lei fissava il pavimento. Era in ginocchio a terra, e gli altri
erano seduti. Non sentiva nemmeno freddo: era soltanto rassegnata al fatto che
presto la sua vita si sarebbe praticamente conclusa, o
sarebbe andata avanti nel migliore dei modi.
Erano
appena scappati da Hogwarts, svegliando Sara e facendola uscire di nascosto
dall’infermeria, non appena avevano saputo la condanna che le spettava. Nessuno
sapeva se fosse un modo per dirle addio o per tentare di resistere ai Dissennatori,
per l’ultima volta.
Sirius
alzò la testa, e stavolta parlò.
- Tu devi
provare a scappare. -
Tutti lo
guardarono: come poteva dire una cosa del genere? Scappare da Azkaban era già
impossibile, ma la prospettiva di vivere costantemente inseguita dai
Dissennatori non era migliori della prigionia.
- Sei innocente, - proseguì Sirius, - E’ tutto a causa di
Voldemort. Tu non hai fatto niente. - Sara scosse la testa, fissando di nuovo
il pavimento. Sirius le si avvicinò e le lasciò
scivolare in mano qualcosa di freddo. Sara lo guardò. Era il ciondolo che aveva
perso la notte del ballo di Natale. - Portalo sempre. - Sara non capiva cosa
volesse dire. Era solo un ciondolo. Ma Sirius
insistette: - Promettilo. -
Sara
annuì: non aveva capito, ma promise.
- Ci sarà un processo, - disse Remus, di colpo ripresosi dall’apatia, -
Ti troveranno innocente. E’ stato per colpa di Voldemort che hai… hai
ucciso quelle persone. E se non è così puoi… puoi
illuderli! Come hai fatto durante l’ispezione! -
Sara
scosse di nuovo la testa, ma sorrise sinceramente al tentativo.
Illuderli?
Ma i Dissennatori non si potevano illudere, non troppo
a lungo come gli esseri umani, e non avevano alcun ricordo da cancellare.
Vivevano ogni attimo dimentichi del precedente, forse
non avevano neanche un cervello vagamente umano. Prima o poi
si sarebbero rimessi sulle sue tracce.
E comunque, non ci sarebbe stato nessun processo. Non con
Crouch.
- Bhe,
non puoi stare qui senza far niente mentre quei cosi ti attaccano! - disse
James con veemenza, - Useremo i Patronum! Li sappiamo fare, no? Non sono
perfetti, forse, ma basteranno a scacciare i Dissennatori… -
Ancora
una volta l’espressione rassegnata e serena di Sara distrusse quella benché
minima speranza. Era impossibile: anche chiamando i Patronum, i Dissennatori
sarebbero ritornati, prima o poi. Sempre.
James
tornò a guardare nell’oscurità sfocata della tormenta, e tutti gli altri
presero a guardare il pavimento con molto interesse. Nessuno si curava dei
sussurri e delle voci che pervadevano la Stamberga Strillante, nessuno guardava
i quadri e quelle assurde reliquie, erano tutti troppo
impegnati a pensare a cosa sarebbe successo di lì a poco.
Sara si
legò al collo il ciondolo e lo strinse con tutte le sue forze. Non capì perché,
ma era caldo.
Ad un tratto, James scosse la
testa, ritraendosi immediatamente dalle travi che inchiodavano il grosso
portone di ingresso - o almeno, tutto ciò che ne era
rimasto.
- Stanno arrivando, - disse, in un
soffio appena percettibile.
Sara emise un gemito disperato, la
sua testa sembrò quasi cadere dal collo mentre sprofondava in avanti. Di colpo,
la sua rassegnazione si era trasformata in disperazione. Corse verso Sirius,
gettandogli le braccia al collo.
Non l’avrebbe rivisto, mai più.
Non poteva crederci. Tanta
crudeltà non era possibile, non poteva esistere.
Prima ancora che qualcuno realizzasse la situazione, l’aria circostante ebbe una
specie di strattone che per un secondo succhiò via l’aria dai polmoni:
l’oscurità si fece ancora più penetrante, liquida, e con uno strano rumore
metallico, venti Dissennatori apparvero alle spalle di Bartemius Crouch,
Materializzatosi all’interno della villa. Fluttuavano lentamente a pochi
centimetri da terra, emettendo suoni simili a risucchi soffocati dai grossi
mantelli neri e logori.
Crouch si avvicinò a Sara e
prendendola per i vestiti la costrinse ad alzarsi. Non diceva una parola. Dopo quel gesto brusco, anche gli altri quattro si alzarono,
fronteggiando i Dissennatori come se fossero stati solo animali.
Sara ciondolava: sembrava uno
straccio.
Tutti avevano estratto la
bacchetta, ma un suo gesto li fece retrocedere. Un
ultimo sorriso stirò le sue labbra mentre porgeva loro l’ultimo addio.
Durò troppo poco prima che Crouch
li separasse. I versi dei Dissennatori si facevano più
forti, famelici.
- Ora dovete andarvene, - disse
Crouch, - Tornate a Hogwarts. -
Esitarono. Sara annuì lentamente.
I Dissennatori le si avvicinavano inesorabili.
- Andate, - ripeté Crouch.
Furono costretti ad andarsene, ma
inclinando il collo all’indietro videro le dita scarne
dei Dissennatori stringersi intorno al collo bianco di Sara. Di lei niente fu
più visibile: i neri mantelli l’avevano coperta.
La luce della luna filtra appena dalle sbarre della finestra, getta in
questa cella una serie di rettangoli bianchi che mi illuminano
solo metà faccia. Ho tossito troppo, e ora c’è puzza di sangue. Devo avere un aspetto terribile, non ho mai mangiato niente.
Sono giorni che sono qui. Li ho contati. Ho fatto segni sul pavimento.
Per ora, tre settimane.
Eppure c’è qualcosa che i Dissennatori non possono
togliermi. Qualcosa che non so neanch’io cos’è, ma finora mi ha protetta, come se avessi una barriera intorno ai ricordi più
belli. Parlo nel sonno, dicono, sto impazzendo, ma non del tutto.
Una scaglia di felicità brilla ancora da qualche parte. So dov’è: la porto legata al collo.
Che avrà fatto Sirius affinchè questo fosse
possibile? Avrà fatto veramente qualcosa, ho non se
l’aspettava neanche lui? Chissà. So solo che per il momento sono ancora io, ho
ancora un nome, un cervello, posso ancora pensare. Quei Dissennatori non riusciranno
a rubarmi tutto.
Me lo meriterei.
Non sono forse io che ho rubato tutto alle famiglie di chi ho ucciso? Non sono forse una Mangiamorte, e come tale
meritevole delle peggiori pene che possano esistere?
Prima o poi morirò in questa
prigione e toglieranno il mio cadavere ossuto di vecchia gettandolo in mare,
come se non fossi mai esistita. E intanto fuori la
gente continuerà a vivere. In fondo le cose vanno sempre a finire così:
qualcuno muore felice, qualcun altro no.
Puoi solo sperare che il peggio non tocchi a te. Ma
non sempre Dio ti ascolta.
A che scopo scrivere questo diario, allora, se non uscirò mai di qui?
Forse la parte infida di me, che è anche la più vigliacca, ad un tratto avrà
paura di morire e scapperà? So che posso farlo, posso farlo fin d’ora: un corvo
passerebbe benissimo da quelle sbarre.
Perché allora un’altra metà di me invoca la giustizia per coloro che ho ucciso?
Sono troppo stanca per fuggire, o troppo
idiota per non farlo?
Ogni tanto qui davanti passa un Dissennatore e sento che cerca di
rubarmi i ricordi.
Li rubano a tutti.
Nella cella di fronte uno è impazzito, ma il destino è crudele, qua
dentro non c’è niente per uccidersi. Mi taglio con un sasso appuntito: non è
comodo, non taglia. Se volessi impiccarmi non potrei,
nessuno mi darebbe una corda.
S i n c e y o u r d e a t h, e v e r y t h i n g h a s f e l t
S i n c ey o u
rd e a t h,e v e r y t h i n gh a sf e l t
s
om e a n i n g l e s sa n dva i
n
t h a
tI ’ v el o s tt h ew i l lt ol i v e
L o v e ,y o u rd e a t hr i p p e dm yh e a r tr i g h to u t,
a n
ds i n c ey o uw e n ta w a y . . .
L i f e ’ sh a dn o t h i n gm o r et og i v e.
(Sentenced
- Cross My Heart, Hope to Die)
______________________
Prologo.
Le grotte sotto le alpi
Transilvaniche si estendono per chilometri e chilometri in un dedalo sconfinato
di cunicoli che sembra non avere fine. Centinaia di corridoi rocciosi
delimitati da stalattiti, stalagmiti, o spesse pareti di roccia scendono
piuttosto in profondità prima di raggiungere la città dei vampiri.
Scavata nella roccia e nelle
radici degli immensi alberi, che affondano fin là sotto, le uniche luci di New
Bucarest sono prodotte da cristalli iridescenti che affiorano dalla roccia o dalla
dura terra. Non sono sufficienti ad illuminare la grande
città sotterranea, ma gettano uno spettro cangiante di colori delicati sul
terreno circostante. Nessuno che abbia mai messo piede in quella città, nessuno
che non sia un vampiro, ha mai fatto ritorno da umano.
Quasi settemila vampiri vivono
nelle viscere di New Bucarest, troppo grande per così pochi, ma sono in
continuo crescendo. Ogni notte, quando il sole cala, una miriade di pipistrelli
vola in direzione delle grandi città della Romania, attraversando il grande fiume e i boschi della Transilvania. Ogni notte,
qualche altro essere umano cade sotto il morso fatale del
vampiri, aggiungendosi alle loro orde, e la storia si ripete fin quando
ci sono umani da mordere. Fin quando non arrivano i cacciatori di vampiri, ma
molti di loro cadono a loro volta. Muoiono per poi rinascere, e recarsi a New
Bucarest, unico punto in cui i vampiri possano
sopravvivere, lontani dalla sfavillante luce solare.
I vampiri diurni non sono bene
accetti a New Bucarest. Vivono nella luce come vivono nelle tenebre, essi sono
mezzosangue superiori ai normali vampiri, e per questo vengono
respinti e sterminati dalla loro stirpe d’origine.
New Bucarest puzza di sangue.
I vampiri di giorno si mordono fra
loro o sbranano gli animali sotterranei per poter sopravvivere alla sete
straziante.
Agli occhi di un essere umano New
Bucarest non esiste: si vede soltanto la luce tenue dei cristalli luminescenti,
e la città è protetta da qualsiasi incantesimo di luce. Prima ancora di poter accendere
una torcia, un umano verrebbe immediatamente aggredito
e non vivrebbe troppo a lungo per poter vedere le raffinate architetture
rocciose scolpite dalle bacchette dei vampiri maghi. Non le vedrebbe in panni
umani, almeno.
Nessun cacciatore di vampiri si è mai potuto addentrare nelle profondità di questa città,
anche con tutte le accortezze possibili: è il posto più segreto del mondo, il
rifugio per la razza dei vampiri, la loro salvezza dalla luce sfolgorante del
sole della superficie.
I vampiri vivono in un mondo
organizzato. Una sotto società parallela a quella umana,
con le sue regole ma non le sue punizioni. A nessuno importa quale crimine venga commesso all’interno di New Bucarest: i vampiri sono
immortali e non riescono facilmente ad uccidersi fra loro (a meno
che non muoiano a loro volta succhiando l’ultima goccia della propria vittima),
e finché New Bucarest non cade, non esiste niente in grado di distruggerli.
Da ora in poi le frasi fra due asterischi *blablabla* sarebbero in
rumeno, ma dal momento che il rumeno comprensibilmente non
Da ora in poi le frasi fra due asterischi
*blablabla* sarebbero in rumeno, ma dal momento che il rumeno comprensibilmente
non lo so… XD accontentiamoci!
01. Il prezzo della vendetta.
Uccelli neri e spennacchiati uscivano dal sole, un disco
livido e grande come lei non l'aveva mai visto. Un
lungo treno scalcinato sferragliava sulle vecchie rotaie, attraversando le
fitte foreste, il fiume sconfinato, le sinuose colline avvolte di brina fredda.
Le montagne annaspavano nelle nuvole marroncine, una nebbiolina fredda e
lattiginosa. Stralci di nubi disfatte si disperdevano nella luce dell'alba, e
un sordo silenzio piombava sul paesaggio come un manto, squarciato solo
dall'arrivo del treno e dal gracchiare dei rapaci.
Una delle peggiori giornate nelle selve della Romania,
nonostante giugno fosse ormai iniziato e l’estate si preannunciasse
in quasi tutto il resto del continente. Sembrava che la primavera non avesse
ancora sfiorato quelle lande, pronte a fiorire di colori e di vita nel momento
in cui il sole sarebbe emerso del tutto da quella prigione di nebbia.
Sara non vedeva niente di tutto ciò. Dormiva un sonno
leggero, un sonno a metà. Le palpebre chiuse fremevano e scottavano. Appoggiava
la fronte bianca al finestrino freddo, stringendosi nella sua giacca. Erano in
viaggio da ore, partendo dalla Germania, e avevano
fatto una dose innumerevole di soste. Sara aveva assistito stancamente
all’andirivieni dei passeggeri che rumorosamente scendevano e salivano dalla
vettura, aveva sopportato la puzza del fumo, le chiacchiere rozze delle donne
becere, i pianti, gli strilli e i lamenti dei bambini più piccoli. A differenza
del suo compagno di viaggio non si era mai alzata per sgranchirsi le gambe. A
Berlino aveva trangugiato qualcosa senza veramente aver voglia di mangiare, e
da allora non aveva più sentito il bisogno né di bere né di mangiare, né tanto
meno di alzarsi. Uno strano calore malato l’aveva avvolta dal momento in cui si
era seduta, isolandola completamente dal mondo circostante.
- Tra poco saremo arrivati. -
Sara aprì gli occhi e inforcò gli occhiali da sole,
protetti da un Incantesimo Ininfrangibile. Non era certo la sola ad aver notato
qualcosa di strano nei suoi occhi dal momento in cui era partita. Non aveva
ancora avuto modo di guardarsi in uno specchio, perché questo si era rotto sotto
il suo sguardo. Ma poteva immaginare che la pelle era
piuttosto sfigurata intorno alle orbite e sulle palpebre. Sentiva sempre gli
occhi pronti al pianto e li aveva tenuti chiusi per la maggior parte del
viaggio. Finché non avrebbe scoperto che cosa le stava
succedendo, almeno.
Il Cacciatore di Vampiri seduto alla sua destra era lo
stesso che alla Stamberga Strillante aveva quasi cercato di ucciderla. Non era
stato semplice convincerlo che non era affatto una vampira, e Sara ignorava
cosa fosse successo dal momento in cui mesi prima gli aveva proposto di
prenderla nel gruppo. Aveva mandato molte lettere, e soltanto settimane dopo
avevano raggiunto un accordo: l’avrebbe accompagnata fino alla base, nonostante
lui fosse solo un cacciatore di trasferta, poi lui se ne sarebbe tornato in
Inghilterra e il resto sarebbero stati affari di Sara.
Lei aveva accettato. Tutto, fuorché restare a Londra.
- Mi hai sentito? - insistette Slash.
- Sì, - rispose Sara con voce inespressiva.
- Nervosa? -
Sara scosse la testa.
- E’ normale esserlo, - disse invece Slash, poi entrambi
tacquero.
Arrivarono in quella che doveva essere una stazione. O almeno così sembrava, ma ricordava piuttosto una rozza
fermata dell’autobus. Era nient’altro che un binario scalcinato emergente dalla
terra: intorno, c’era una foresta decisamente fitta,
con un sentiero malmesso che pareva creatosi semplicemente a forza di
camminarci sopra. Una tettoia d’amianto mezza rotta e piena di buchi si reggeva
a mala pena sopra le uniche due panchine abbandonate sul
binario polveroso e semi sfasciato. L’orologio ciondolante segnava le
dodici del novembre dell’anno prima. Tutto appariva
vecchio e abbandonato.
Un corvo solitario gracchiava sopra la tettoia, affondando
il becco nelle carni di un ratto morto che aveva catturato. Non c’era nessun
altro.
Sara sapeva che era
la sua fermata. Stava lentamente scendendo quando Slash, facendosi alle sue
spalle, le disse: - aspetta la luna, - e la spinse giù, sulla pensilina.
Sara osservò il treno allontanarsi e si sedette
stancamente su una delle panchine. La aspettavano dodici ore di
attesa in un punto imprecisato della Transilvania, dispersa nelle
foreste. Non aveva paura, non si sentiva nervosa o
ansiosa. Non sentiva nient’altro che il più grande dei vuoti fosse
possibile provare.
Si trovava a iniziare la vita da
capo per la terza volta, ancora una volta da sola, senza nient’altro che sé
stessa a cui affidarsi. Non aveva mai chiesto niente del genere. Avrebbe voluto
che ci fosse stato qualcun altro con lei in quel
momento. Non serviva nasconderlo, avrebbe voluto che
ci fosse stato Sirius.
Raggomitolata su sé stessa, seduta con i piedi appoggiati
al bordo della panchina di ferro, si chiedeva se sarebbe mai stato possibile
farcela, questa volta. Immaginava di no. Non aveva mai
sentito nell’anima una mancanza così grande, così definitiva, così
irrimediabile. Ritornando col pensiero a quella notte, una vampata d’ira le
annebbiava la mente, ma allo stesso tempo le forze l’abbandonavano.
Era vittima di un buio senza punti di riferimento, senza
un modo per orientarsi.
Aveva la netta sensazione che la sua vita si fosse conclusa da due giorni, senza la possibilità di
ricominciarla. L’alba solcava i cieli trasformandosi in mattino e poi in
pomeriggio, ma ancora mancava molto al calare del sole. Sara non sentiva lo
scorrere del tempo, né aveva intenzione di rendersene conto. Senza che ne accorgesse le sue guance erano già rigate da una
ragnatela di lacrime.
Era in un abisso, e uscirne le sembrava uno sforzo al di là delle sue capacità.
Ogni forza che avesse mai avuto
le era stata succhiata via da sotto la pelle.
Le ore trascorsero e lei cambiò posizione diverse volte.
Scoprì che da sola si sentiva molto meglio che circondata da altri esseri umani
a lei perfettamente anonimi. Era molto più semplice soffrire da soli. Soltanto
nella solitudine era possibile capire, pensare. Non sapeva che cosa fosse
meglio: avrebbe volentieri evitato di pensare, ma era come se il suo cervello
non riuscisse a tacere. Pensava, pensava in continuazione, e ogni pensiero la
riportava a Sirius, e a due parole che non era
possibile cancellare, in nessun modo. Ormai era successo.
Era morto.
Sara guardò su verso il cielo. Solo una stella brillava, e
anche quella le causava un dolore. Lentamente essa venne
circondata da altre stelle, che la resero equivalente ad un bagliore
completamente anonimo nell’immensità della volta celeste. La luna piena,
lontana e splendente, era sospesa in un punto qualsiasi del cielo, abbandonata.
Sara dovette riscuotersi ed asciugarsi le lacrime che
ancora cadevano: aveva sentito un ruggito. Si voltò di scatto, e non ebbe il
tempo di estrarre la bacchetta dallo stivale. Un animale avanzava verso di lei,
dapprima come un sagoma nera, un’ombra vagante, poi
Sara lo distinse: era un lupo. E non le ci volle molto
tempo per rendersi conto che non era affatto un lupo qualunque, ma un
licantropo.
Si paralizzò. Il lupo non le toglieva gli occhi di dosso,
e ringhiava sommessamente. Però sembrava quasi che si
stesse trattenendo a fatica. Improvvisamente fece un balzo isterico in avanti,
e prima che Sara potesse scansarsi, le aveva già afferrato
con i denti l’orlo della lunga giacca di pelle, trascinando Sara di malagrazia
verso il sentiero malandato che s’inoltrava nell’oscurità della foresta. Sara
lo seguì. Poteva darsi che avesse qualcosa a che fare
con ciò che le aveva detto Slash?
Quando il lupo mannaro fu certo che Sara
lo avrebbe seguito spontaneamente, lasciò la presa. Sembrava sotto l’effetto di
qualche calmante. Ogni tanto i suoi movimenti si concludevano
con qualche scatto, e dal profondo della sua gola saliva un ringhio affannoso e
sommesso. Mano a meno che le fronde degli alberi si infittivano
sopra le loro teste, il buio cresceva. Sara disse “Lumos”, ma non terminò la
formula perché il lupo emise un forte latrato in sua direzione. La ragazza
rimise lentamente la bacchetta al suo posto e il lupo mannaro riprese a
camminare con sicurezza.
D’un tratto abbandonò il sentiero
addentrandosi in un cespuglio, e guidò Sara molto a lungo per la foresta,
avventandosi di tanto in tanto contro un albero per sfogare il suo morbo
represso. I richiami degli animali selvatici si susseguivano da qualche parte
nella notte, spezzando il silenzio insieme al frantumarsi di rametti e foglie
secche sotto i piedi di Sara, nonostante quest’ultima stesse cercando di
rendere i propri passi più leggeri possibile.
Finalmente giunsero di fronte ad un grosso arco simile al
contorno di un semicerchio che emergeva dalla vegetazione del sottobosco.
Dietro di esso c’era una lunga, lunghissima, scalinata
di pietre. Sembravano le rovine di un tempio antico.
Non erano i soli di fronte all’arco. Una figura
completamente avvolta in un mantello nero, dal cui cappuccio spuntavano lunghi
capelli biondo platino, li accolse alzando la testa. Si diresse verso una
statua raffigurante una dea greca che stava in piedi su una conchiglia, e le
disse qualcosa in latino. Gli occhi della statua si illuminarono
di verde intenso, e prese vita, dicendo in latino, come Sara capì dopo, che
potevano passare.
Il lupo si precipitò su per la scalinata, mentre la donna
dai capelli biondo platino prese Sara per mano e la invitò a salire a sua
volta. Sara non riusciva a seguire il corso degli avvenimenti di quella sera,
ma era grata a quel rapido susseguirsi di fatti, che le impediva
di pensare ad altro.
Le scale erano irregolari, ed erano almeno una
cinquantina. Arrivati alla loro sommità, si trovavano su una piazza rotonda dal
pavimento di pietre, in cima ad una collina. Il mosaico sul pavimento era molto
rovinato dal tempo e dal troppo camminarvi sopra. A nord c’era una grossa porta
di ferro dal battente a forma di unicorno, dietro la
quale evidentemente c’era una grande stanza scavata all’interno di una seconda
collina, più alta di quella sulla quale era costruita la piazzola. Tutto
intorno al pavimento girava una balaustra sorretta da vecchie colonnine greche.
La vista di quello spiazzo era sufficientemente coperta da occhi esterni, visto
che le fronde degli alberi più alti arrivavano fin laggiù. Una grande ma
sfasciata statua equestre di un nobile romano antico svettava dal centro della
piazza.
La donna dai capelli biondo platino si tolse il pesante
mantello, rivelandosi una ragazza che dimostrava la stessa età di Sara. Vestiva
prevalentemente di uno strano giallo acido. Portava una gonna irregolare a
quadri scozzesi, con uno spacco totale sul fianco sinistro che lasciava vedere
lo slip nero, e un corsetto del colore identico a quello della gonna, legato
sul davanti da una serie di stringhe di cuoio. Ai piedi aveva degli stivali
arancioni gommati, alti fin sotto il ginocchio. Al collo era stretto un collare
borchiato collegato alla cintura tramite una sottile catena d’argento. I
capelli lisci le arrivavano a metà della schiena ed erano molto vaporosi. Gli
occhi erano verde smeraldo, con qualche sfumatura
giallastra.
Sara restò un po’ stupita da quella strana ragazza.
- Io sono Asia, - disse la ragazza dai
capelli biondi tendendole amichevolmente la mano, - Tu sei… Sara,
giusto? -
Sara annuì e le strinse la mano.
- Ti senti bene? - chiese Asia notando la sua pessima
cera. Avrebbe dovuto abituarsi, dato che quella era in
effetti una delle sfumature più scure che la pelle di Sara era in grado di
assumere. Comunque, dopo il viaggio che aveva
affrontato, Sara immaginò di avere un aspetto veramente terribile, ma annuì
alla domanda di Asia.
- Aspettiamo Lion, - riprese Asia, -
Diciamo… il boss. Sai, dopo l’agguato di ieri notte gli hanno quasi staccato il braccio, per cui doveva riposarsi un
po’. -
Non era esattamente una prospettiva incoraggiante.
- Quel lupo mannaro…? - Sara non ebbe bisogno di terminare
la frase.
- Oh, sì, e Zanna. - rispose Asia, poi si guardò intorno a abbassò la voce. - Era un Auror prima
che lo mordessero. È successo circa un anno fa. Da allora lo hanno licenziato
ed è venuto con noi. Da queste parti l’Istituto Magico Governativo è piuttosto
confusionario, e quindi sono i cacciatori ad occuparsi di tutte le creature
semiumane pericolose. Bhe, siamo sempre un po’ illegali a dire la verità, ma
nessuno si sforza tanto di cercarci. - Sara era un po’ scombussolata, ma
assorbiva ogni informazione cercando di tenerla a mente, dimenticandola però
appena Asia apriva bocca per aggiungere qualcos’altro. - Non parlargli mai
degli Auror. - la avvertì - Lui era uno dei migliori, prima che lo mandassero
in missione in Bulgaria, è là che l’hanno morso. Ogni notte di luna piena beve
una Pozione Anti-Lupo, ma sai, queste diavolerie lo fanno
a pezzi. Immagino che sia una tortura la vita da lupo mannaro. -
- Sì, - rispose Sara, tossicchiando e guardando altrove, -
Lo so. -
Asia le lanciò un’occhiata in tralice, ma non fece in
tempo a dirle qualcosa che la porta di ferro si aprì grattando fastidiosamente
sulla pietra e facendo schizzare via diversi pezzi del mosaico già di per sé
consunto.
Apparve un uomo dall’aspetto imponente e lo sguardo
arcigno, vestito di colori smorti, con un mantello nero dal cappuccio abbassato
sulle spalle. Le sue braccia scoperte erano solcate da numerose cicatrici,
ricucite da moltissimi punti, come un pupazzo rimesso in sesto. Portava appena
una benda insanguinata sotto la spalla, e a Sara parve un po’ poco per uno che
aveva rischiato solo la notte prima di perdere un braccio. Aveva un’espressione
affatto simpatica, e sembrava giovane. Asia gli corse
incontro baciandolo sulle labbra.
Zanna corse ringhiando oltre la porta di
ferro prima che questa si richiudesse da sola.
Lion, silenzioso, si erse in tutta la sua statura di
fronte a Sara, la quale non batté ciglio e lo fissò a sua volta. Aveva ancora
gli occhiali da sole: da tutto il giorno le facevano male gli occhi e non osava
immaginare lo spettacolo che avrebbe offerto a chi la guardava se si fosse
tolta gli occhiali.
- Sara, vero? - la ragazza annuì, ma il tono decisamente scettico di Lion era vicino a farle perdere le
staffe. - Non va, - disse, squadrandola da capo a piedi. - Troppo debole. Mi domando come faccia a stare in piedi. -
- Sulle mie gambe, - rispose gelidamente Sara, indicando con
lo sguardo le grosse gambe di Lion - Tu invece su due tronchi d’albero? -
Lui non rispose, e continuò a guardarla con occhi di
pietra.
- *Vuoi che la accompagni da Rotten?* - azzardò Asia.
- *No*, - disse Lion con la sua
voce ringhiosa. - *La porto io. Tu avvisa gli altri e di’ loro di non darle mai
le spalle. E’ una dei Gray.* -
Stupefatta, Asia obbedì, e si recò nervosamente alla porta
di ferro.
All’alba, sul dorso di due mansueti e giovani Thestral che
volavano placidamente ma velocemente più in alto possibile, raggiunsero una
zona collinare coperta di campi agricoli. Stretto fra un ammasso circolare di
piccole alture, sorgeva un villaggio di pietra i cui edifici avevano tetti di
legno rivestiti di paglia. Atterrarono e lasciarono i Thestral in custodia
all’entrata del villaggio, dove un ragazzino diede loro da mangiare una mucca
intera ancora viva. Sara scoprì di essere del tutto impassibile ai lamenti
dell’animale mentre veniva legato e poi sbranato.
Il villaggio ricordava una versione più antica di Diagon
Alley. Si articolava su unica strada lastricata, abbastanza grande per lasciar passare un calesse, e ai suoi bordi sorgevano
edifici che sembravano essere tutti negozi. Sara avrebbe preferito che fosse stata Asia ad accompagnarla. Lion era di pessima
compagnia, e le poche volte che si scuciva una parola di bocca era per dire
qualcosa di ostile.
In molti lo salutavano quando passava, ma lui non
rispondeva a nessuno. Si diresse invece a passo rapido verso la fine del
villaggio, dove trovarono una casa di gran lunga più
squallida delle altre. Sembrava una vecchia fabbrica abbandonata. Aveva una
grossa e nuda porta blindata, e una sola minuscola finestra dal vetro rotto.
Era bassa come un porcile, anche se probabilmente aveva dei piani sotterranei,
immaginò Sara.
Lion batté quattro violenti pugni contro la porta. Dopo
pochi minuti si aprì una finestrella, dietro la quale spuntarono
due occhi sporgenti, di cui uno sembrava cieco. Lion si voltò di spalle e
mostrò il tatuaggio a forma di sole con dietro due ali piumate. Il vecchio
mezzo cieco emise un grugnito d’assenso, richiuse la finestrella, e dopo poco
il pesante portone si aprì. Sara vide apparire un uomo piuttosto vecchio che,
come aveva intravisto, aveva un occhio cieco. Non aveva una pelle tanto
rovinata, ma nel suo aspetto c’era qualcosa di orribile,
quasi un alone invisibile.
- *E’ lei, Lion?* -
- *Controllala, Rotten*, -
rispose Lion richiudendo la porta della casa buia, - *Ha qualcosa che non mi convince*. -
- Vieni. - disse il vecchio e strinse violentemente il
polso di Sara per condurla giù per una scalinata. Raggiunsero una stanza così
illuminata che a Sara fecero male gli occhi. Sembrava l’incrocio fra la stanza di ospedale e un laboratorio.
Un calderone dall’aspetto vissuto bolliva sul fuoco del
camino, numerosi piccoli animali morti penzolavano dal soffitto e intere
mensole erano state stipate di ingredienti per pozioni
e quelle che sembravano bacchette magiche. C’era un vecchio lettino da dottore
al centro della stanza. Intorno ad essa erano
disposti, lungo le pareti, grossi tavolini di legno pieni di libri e pergamene.
Su un altro stava un grosso assortimento di coltelli e di forbici, numerose
bottiglie di alcolici e strumenti che sembravano
provenire da luoghi come Notturn Alley.
C’erano contenitori di vetro contenenti crani umani e
animali, strane polveri o liquidi colorati. Un vecchio avvoltoio riposava su un
trespolo tarlato. Al muro erano appese molte spade di varia forma e dimensione,
archi, balestre, paletti d’argento o di legno, pistole e mazze chiodate.
Rotten indicò a Sara il lettino, ma lei non impazziva
all’idea di sdraiarcisi sopra. Sembrava macchiato di sangue, e c’erano delle
cinghie che evidentemente servivano per legare un essere umano. Vedendo che
Sara esitava, Lion le diede uno spintone, e lei fu costretta ad eseguire
l’ordine. Si sdraiò molto di malavoglia, con i muscoli testi, appoggiandosi
meno possibile al tessuto freddo.
- No, stai seduta, - disse Rotten. Chiaramente sollevata,
Sara scattò a sedere. Rotten le si avvicinò, e lei fu
contenta di notare che in mano non aveva nessuno strumento dall’aspetto
inquietante. - Chi sei? - chiese seccamente Rotten.
- Sara, - rispose lei, - Sara Gray. -
Lion, appoggiato al muro con le braccia
incrociata, chiuse gli occhi per un attimo, stringendo i pugni, ma
Rotten non ebbe la minima reazione.
Si infilò un guanto, che sembrava
sottile e flessibile, nonostante fosse fatto in pelle di drago. Improvvisamente
ficcò l’indice nella bocca di Sara, sollevandole il labbro superiore e
scrutandole -evidentemente- i denti canini.
- Ti da fastidio questa luce? - disse, sfilandole
forzatamente gli occhiali da sole. Lion la fissò con una nota di disgusto, ma
di nuovo Rotten non si scompose.
- No, - rispose Sara.
Rotten estrasse con la mano libera la sua bacchetta e le
fece compiere un movimento brusco. La luce si fece di colpo accecante, ma Sara,
capendo che cosa Rotten volesse dimostrare, tenne ostinatamente gli occhi
aperti. Dopo qualche secondo la luce tornò normale. Rotten annuì, sollevato.
- Quanti anni hai? -
Sara non rispose subito: in effetti
non aveva mai fatto caso né a quando fosse il suo compleanno né a quanti anni
avesse. - Trentuno, credo. - rispose, dopo un rapido
calcolo. Rotten sembrò interdetto, ma proseguì nell’analisi.
- Che cosa è successo ai tuoi
occhi? -
- Non lo so. E’ così da… - Sara esitò
di nuovo. In effetti non sapeva da quanto tempo aveva
cominciato a sentire dolore agli occhi - … da due giorni. -
- Che cos’erano i tuoi genitori? -
- Un vampiro mago e una Babbana umana. - rispose
tranquillamente Sara.
- E ora che fine hanno fatto? -
- Un incidente, - mentì la ragazza.
- Sei una Gray, hai detto… -
riflettè Rotten. Sara avrebbe voluto dire qualcosa, ma Rotten aveva già puntato la bacchetta contro di lei e, del tutto
inaspettatamente, gridò “Stupeficium!”. Sara, svenuta,
cadde quasi a terra, ma Rotten la sistemò sul lettino.
Lion lo guardò affatto stupito, staccandosi dalla parte ed
avvicinandoglisi. Rotten emise un lungo sospiro prima
di parlare: - *Ho un brutto sospetto…* - disse a voce bassa. Voltò Sara a
pancia in giù e le sfilò la maglietta. Probabilmente neanche Sara lo sapeva, ma
dietro la schiena aveva un grosso tatuaggio raffigurante un drago nero dalla
forma serpentina.
- *Che diavolo è questo? * -
disse Lion.
- *Il Drago Nero*, - rispose
Rotten, - *Sì, è una Gray… il drago nero è caratteristica
dell’ira di tutti quelli della sua famiglia. E
probabilmente…* - la voltò di nuovo. Lion notò che nonostante fosse svenuta,
gli occhi erano rimasti spalancati. Non
avevano pupilla: le iridi erano stranamente grandi, completamente rosse.
Il bianco degli occhi quasi non si vedeva a causa delle vene
che lo arrossavano, fitte come una ragnatela, come se qualcuno avesse appena
buttato sugli occhi di Sara un liquido velenoso. La pelle delle palpebre
e della zona intorno alle orbite erano sfigurata,
rattrappita, come se le vene, ingrossandosi, fossero emerse. Era uno spettacolo
orrendo. Rotten non fece una piega, ma Lion fu incapace di guardare ancora quel
pezzo di viso malformato. - *Sì, sapevo che prima o poi
ne sarebbe nata una…* -
- *Che vuoi dire? * -
- Cassandra, - ragionò Rotten con
voce cupa, - *La leggendaria donna dallo spirito immortale che vedeva il futuro
e manipolava le menti. Dev’essere lei… certo, è lei l’anello successivo della catena.* -
Lion non capiva di costa stava parlando Rotten, ma cercava comunque
di ascoltarlo. Si sporse per guardare gli occhi di Sara, ma Rotten ringhiò di
non farlo. Su una delle sue mensole trovò uno spesso pezzo di stoffa nera, dal
quale strappò un brandello. Pronunciò con voce gutturale parole magiche
incomprensibili: prima la benda nera si illuminò di
bianco, poi emise per qualche istante una luce rossastra, ed infine tornò ad
essere un normale pezzo di stoffa. Rotten lo legò intorno alla testa di Sara,
in modo che gli occhi fossero nascosti. Controllò l’espressione di Lion e notò
che era perplesso. - *Sta covando una vendetta di sangue, * - disse, -
*Immagino che qualcuno abbia ucciso qualcun altro e lei adesso voglia
distruggere a sua volta l’assassino. * -
- *E questo che cosa dovrebbe
dimostrare? * - chiese Lion, scettico.
- *L’ira di Demetrius e di tutti i suoi discendenti si manifesta sottoforma del drago nero, quello che è le apparso
sulla schiena. Ma dato che lei è, diciamo… “la seconda
Cassandra”… il suo potere sta negli occhi. Quindi, fin
quando non avrà ottenuto la morte dell’oggetto della sua vendetta, gli occhi le
rimarranno in questo modo. E’ l’odio troppo forte. Anche
una questione genetica. Quando la sua vendetta sarà compiuta tornerà normale,
ma nel frattempo i suoi occhi, da pericolosi, diventeranno letali.* -
- *Ma se la bendi non vedrà niente,*
- fece presente Lion.
- *Ho gettato un incantesimo sulla benda,*
- disse Rotten aspro, - *E’ in grado di vedere come se non avesse niente sugli
occhi… ma allo stesso tempo ho lanciato un secondo incantesimo che impedirà ai
suoi occhi di bruciare la stoffa.* -
- *Bruciare?* - scandì Lion.
- *Bruciare,* - ripeté Rotten, -
*Non sottovalutare il drago nero di Demetrius né gli occhi di Cassandra. Messi
insieme sono quanto di peggio possa esistere. Quando
la vendetta sarà completata il Drago Nero sparirà
anche dalla schiena e lei potrà togliersi la benda. Ma
per ora è un pericolo. Se la guardi negli occhi… fra un paio d’ore, direi… bhe,
morirai.* -
Rotten trascorse altre due o tre ore ad analizzare Sara.
Scoprì il Marchio Nero e le cicatrici che lo circondavano. Scoprì i tagli sugli
avambracci e comprese che la malattia era incurabile e
derivava da problemi ai polmoni e al cuore.
Lion era sempre più ostile nei confronti di Sara, anche se
era ancora svenuta. Avrebbe dovuto provare pena per lei, forse? Di certo non
era quello il sentimento che gli bruciava dentro.
- *Un ottimo soggetto,* - disse
Rotten, peggiorando implacabilmente il suo stato d’animo, - *Mangiamorte,
sangue di vampiro, autolesionista, malata, e poi questo piccolo dettaglio della
vendetta.* - lanciò a Lion un’espressione eloquente.
- *Aspettiamo che si svegli* - disse Lion impassibile.
Sara non avrebbe mai pensato di iniziare in quel modo. Non
era certo molto incoraggiante scoprire di dover potare una benda sugli occhi
fin quando non sarebbe riuscita ad uccidere Bellatrix, né tanto meno era bello sapere che Lion non era affatto contento di ciò che
aveva scoperto. Sara avrebbe preferito che sapessero meno possibile di lei, ma dovette riconoscere che per una “professione” come la loro
non bastava la parola d’onore: potevano aspettarsi un tradimento da un momento
all’altro.
Rotten e Lion parlavano un fitto rumeno cercando di
parlare più piano possibile, e Sara per quanto si sforzasse
non riusciva a capire una parola. Del resto anche leggendo loro nel pensiero
avrebbe letto cose in una lingua che non conosceva.
Poi si volsero nuovamente verso di
lei e Rotten riprese a parlare in inglese.
- Dobbiamo decidere se puoi o non
puoi essere dei nostri. -
- *Non può, Rotten!* - gridò Lion.
- *Taci,*
- lo ammonì l’altro, senza nemmeno guardarlo, - Riconoscerai, - disse, di nuovo
rivolto a Sara, - Che le condizioni sono molto sfavorevoli. Sei una
Mangiamorte… sei una mezza vampira… sei malata… tutte cose che presupporrebbero
di ucciderti subito. -
- U… uccidermi? - ripeté Sara, incredula.
- Hai visto il nostro quartier
generale e tutto il resto, - disse Rotten, - Perciò nel caso in cui
rifiutassimo, tu dovresti morire. -
- Ma io
non mi lascerei mai uccidere, - fece presente tranquillamente Sara.
- No, certo… - convenne Rotten,
spingendola di nuovo sdraiata sul letto. Disse
qualcosa in rumeno e le cinghie si strinsero intorno ai polsi, al collo e alle
caviglie di Sara.
- Che
diavolo…? -
- No, per ora non è il caso che tu
muoia, - disse Rotten, - Voglio soltanto somministrarti
qualcosa per confermare i nostri sospetti. -
Estrasse una siringa, ne strofinò
l’ago contro il guanto in pelle di drago, e senza
troppi complimenti la piantò nel braccio di Sara. Questa si sentì
immediatamente avvolta da quella che sembrava una colata di lava, che la fece
gridare per diversi minuti. La luce la stava accecando, anche se aveva la benda
sugli occhi. Non resisteva. E non riusciva a chiudere
gli occhi. Si contorse cercando di non guardare la luce, ma non riusciva a
sfuggire a quella tagliola abbagliante. Sentì la pelle bruciare, quando
finalmente Rotten spense la luce.
- Pozione Anti-Vampiro allo stato
puro, - informò, poi prese una seconda siringa e la piantò di nuovo nel braccio
di Sara. Una fitta allo stomaco la fece quasi svenire, ma a causa delle cinghie
non riusciva a piegarsi su sé stessa. La fitta si estese lungo tutto il suo
corpo, alla spina dorsale, alle articolazioni, agli organi. Sara sputò sangue.
- Veritaserum potenziato al
massimo, - disse Rotten, - Una mia invenzione. -
Prese la terza ad ultima siringa,
molto più lunga delle precedenti, contenente un liquido simile all’inchiostro
nero. Ma stavolta l’ago affondò nel collo, facendo
contrarre i muscoli di Sara fin quando non sentì dolore. Ma
a parte quello, non avvertì nient’altro che una strana sonnolenza.
- Anti Majix, - disse Rotten, -
Un’altra mia invenzione. Per due giorni niente magie, così nel caso tu volessi provare ad ucciderci potresti farlo soltanto con le
armi… e hai molto da imparare in merito, mi pare. -
Sara era ancora troppo dolorante per ascoltarlo. Tutto intorno a lei si componeva di ombre incerte, vaghe, di colori smorti e imprecisi.
- Tu ti droghi, Sara? - chiese
Rotten.
- No. - rispose Sara con voce
priva d’espressione.
- Hai mai ucciso qualcuno? -
- Sì. -
- Quante volte? -
- Nove. -
Lion scosse la testa.
- Fumi? -
- No. -
- Invece
dovresti. - Rotten le mise in mano un pacchetto di sigarette in tutto e per
tutto uguali a quelle Babbane. Ma, come le spiegò, si trattava di sigarette
magiche che avrebbero alleviato un po’ la sua tosse, se non addirittura l’avrebbero estinta per un po’.
Sara sentiva che le ombre si
stavano dissipando. Sapeva che stava dicendo a Rotten la verità, l’esatta
verità. Ma lentamente stava cominciando a chiedersi
perché lo stava facendo…
- Tu mi stai dicendo la verità,
Sara? -
- Sì, - rispose stancamente la
ragazza, chiudendo e riaprendo i pugni per calmarsi.
- E
continuerai a farlo? -
Sara stava per rispondere di sì.
Doveva dire la verità… ma non poteva… non l’avrebbero
accettata... sicuramente… - No… - rispose flebilmente.
- Che
cosa? - chiese Rotten.
- N… No! - Sara ebbe uno scossone così forte che il letto quasi si
ribaltò. Lion era sempre più disgustato, mentre Rotten la fissava con occhi sgranati.
- Spettacolare! - commentò,
ammirato, - Tu hai appena resistito al Veritaserum più potente di questo pianeta, ragazza… Potrai vantartene, se sopravvivi
a stanotte. -
E così dicendo, lui e Lion la lasciarono legata sul lettino ed uscirono, lasciandola sola.
Sara capì solo successivamente
il perché.
La notte trascorreva lentamente,
senza che nessun rumore la turbasse. Dall’esterno non proveniva alcun suono,
alcuna voce, ma era proprio quel silenzio che a Sara non piaceva affatto. Aveva
la sgradevole sensazione che di lì a poco sarebbe successo
qualcosa. Non sapeva esattamente cosa, ma ne era
sicura. Forse avrebbero cercato di ucciderla. Forse avevano deciso che non era
adatta per unirsi a loro, ed era per questo che
l’avevano lasciata legata: per evitare che potesse difendersi.
La Pozione Anti-Vampiro le causava
dolore dappertutto. Sentiva male ai denti, agli occhi, alle mani, alla gola.
Respirava a fatica, come se avesse qualcosa a bloccarle i polmoni, ma era
abituata a quella sensazione. Era difficile sputare il sangue che aveva in
bocca da quella posizione, così si era macchiata il viso e il collo.
Rotten aveva avuto la prova del
suo sangue di vampiro, adesso. E questo la rendeva praticamente
certa che quella notte l’avrebbero uccisa. Ma lei era
pronta. I suoi poteri mentali c’erano ancora, nonostante la benda sugli occhi
li soffocasse. Ma lei avrebbe resistito. Non aveva
bisogno di guardare negli occhi una persona per controllarla, almeno credeva;
non si sarebbe fatta ammazzare, ma se voleva evitarlo doveva evitare di
addormentarsi. Il fatto di non aver mangiato per gran parte della giornata la
stava stancando e il lungo viaggio che aveva compiuto le imprimeva addosso un’irresistibile sonnolenza.
Se Rotten pensava che l’Anti Majix
potesse renderla del tutto impotente si sbagliava. Sara non sapeva che Rotten
era a conoscenza di molte più cose sulla sua famiglia di quante lei stessa non fosse mai riuscita a scoprire. Sapeva di Cassandra, e che
Sara aveva i suoi stessi poteri, per quanto inferiori a causa della mancanza
del terzo occhio.
E sapeva anche di quella vendetta…
Sara ancora non riusciva a
crederci. Era certa che a nessun altro della sua famiglia fosse mai successo
niente del genere. Forse a Scilla, che aveva gli occhi di Cassandra anche se
non il suo potere… ancora una volta, dopo tanto tempo che non provava una
sensazione del genere, Sara si sentì un mostro. Ma se questo poteva
aiutarla a distruggere Bellatrix, avrebbe sopportato qualsiasi cosa in cambio.
Era sicura di avere il potere sufficiente per sconfiggerla, ma non le bastava
di vincere: doveva ucciderla. Solo in questo modo avrebbe placato il suo drago
nero, avrebbe placato la vendetta che le bruciava dentro. Qualunque fosse il
prezzo.
Un sommesso
chiacchiericcio per la scale.Sara non poteva reclinare il collo per
guardare chi arrivasse, ma se ne rese conto ascoltando quei sussurri.
Era Rotten, accompagnato da Lion, e sicuramente c’era anche Asia. Le altre voci
non le conosceva.
La porta si aprì, e Sara strinse i
pugni, tesa. Se parlavano così piano era chiaro che
erano venuti per farla finita. C’era un modo sicuro per scoprirlo: leggere
nelle loro menti.
Adesso che aveva gli occhi bendati le percezioni erano più sommesse e confuse del
normale, ma Sara poteva capirle. Non c’era intenzione
omicida, nessuno, sembrava, aveva intenzione di ucciderla. Sospirò. Ad
una parola di Rotten le cinture si allentarono gradualmente fino a lasciarla
libera. Ignorando il dolore che le causava il Filtro, Sara si alzò
immediatamente in piedi.
- Abbiamo deciso che puoi restare.
- disse Asia.
Lion grugnì.
Asia fece segno di seguirla, e
Sara guardò per un attimo le facce offuscate dall’oscurità, appartenenti alle
persone che avevano accompagnato i tre che conosceva. Sicuramente erano gli
altri cacciatori, e le parte di riconoscere Zanna in
un uomo con un’espressione malata e stanca, forse più della sua.
In perfetto silenzio, il gruppo
attraversò tutta la strada principale del piccolo villaggio, nell’oscurità del
cielo nuvoloso, raggiungendo il luogo dove stavano i Thestral. Ciascuno montò
sulla sua cavalcatura e immediatamente i cavalli - rettili si sollevarono in
cielo, sempre più alto, volando in formazione di nuovo verso la base dei
Cavalieri dell’Alba.
Sara non aveva detto una parola,
ben sapendo che se avesse parlato le sarebbe stato difficile nascondere il suo
senso di sollievo, che l’avrebbe fatta rassomigliare nient’altro che ad
un’ingenua novellina, e non aveva intenzione di dare agli altri questa immagine di sè. I Thestral atterrarono nel folto
della foresta, di fronte all’arco di pietra - probabilmente non era possibile
raggiungere la base senza passare da lì - e come al
solito ad una parola d’ordine in latino la statua li fece passare.
Sara notò che non era l’unica ad
essere in silenzio.
Salirono lentamente le scale, poco
visibili a causa della notte tiepida di metà giugno, e raggiunsero la famosa
piazzola con la statua equestre semi distrutta.
Stavolta, però, tutti si avviavano all’entrata. Sara non sapeva se seguirli o
no, pensava che la cosa migliore da fare fosse semplicemente seguire Asia. Ma un attimo prima che oltrepassasse la porta, Lion la prese
per entrambi i polsi tirandola indietro.
- Non fare mosse false, chiaro? - sibilò, stringendo la presa ancora più forte, - Io so che cosa sei. Al minimo errore, ti ucciderò. Mi sono
spiegato? -
Sara si scosse bruscamente senza
neanche voltarsi indietro, ed entrò.
Sara non avrebbe mai creduto che
la base potesse essere così grande. Quella che evidentemente era stata una
tomba romana era stata rassettata e allargata, in modo
che ci fosse spazio per tutti e gli undici Cavalieri.
La stanza principale, nella quale
tutti si trovavano, era anch’essa circolare aveva le pareti composte da grosse finestre che dall’esterno non erano visibili e che
mostravano tutto il panorama circostante. Sul pavimento un tempo c’era stato un
mosaico raffigurante una scena di guerra, ma ora gli era toccata la stessa
sorte di quello esterno, se non peggiore.
La stanza era quasi completamente spoglia, salvo per qualche vecchio divano, un tavolo con una
sola sedia e alcune tende strappate che coprivano l’ingresso di alcune
scalinate che evidentemente scendevano nelle viscere della collina boscosa.
Adesso i Cavalieri avevano ripreso a parlare tra loro, sempre a voce piuttosto
bassa, nella lingua locale.
Asia si diresse verso Sara,
sorridendole. Era sicuramente l’unica che le aveva sorriso
da quando Sara aveva lasciato l’Inghilterra, e questo non faceva che farla
sentire costantemente fuori posto. Sarebbe stato bello poter rimanere a Londra…
in mezzo a persone che la conoscevano e che le avrebbero senz’altro sorriso
ogni tanto, ma come avrebbe potuto restare in quel
posto dopo ciò che era successo? Si rassegnò al destino del pesce fuor d’acqua,
del viaggiatore che non incontra altro che strazi su
strazi per la sua anima stanca.
Inaspettatamente
Asia le offrì un hamburger, e Sara lo prese lentamente in mano. Dopotutto doveva ammettere che aveva fame.
- Devi scusarli, - disse Asia - sono tutti un po’ intrattabili all’inizio ma ti
assicuro che basta conoscerli e non sono male. Lion non è mai stato così
antipatico, ma sai, ultimamente la città dei vampiri ci da più problemi del
solito. -
- La città dei vampiri? - chiese Sara, incredula.
- E’ una città sotterranea del
tutto priva di luce, Neo Bucareşti, si fa prima chiamandola New Bucarest… sembrava una leggenda ma abbiamo scoperto che è vera. Lì si
nascondono di giorni tutti i vampiri della zona, o quasi tutti almeno, e la
notte escono per nutrirsi. -
- E
perché nessuno l’ha ancora distrutta? - disse Sara.
- Perché non è possibile violarla.. non per un essere umano. Nessuno che ci abbia mai provato
è mai tornato indietro umano. E una volta che diventi
vampiro hai quasi un lavaggio del cervello, perché la sete ti fa impazzire.
Tutti i nostri che hanno tentato l’impresa adesso sono
vampiri. Eravamo in quaranta soltanto il mese scorso. -
Sara deglutì, guardandosi intorno:
adesso erano undici.
- Quello laggiù è Marte. - disse
Asia indicandole un uomo appoggiato alla finestra. Fissava la foresta con
indifferenza, ma il suo sguardo sembrava perdersi ben oltre i confini del suo
campo visivo. Alla cintura portava legate due lunghe spade, ed era armato di
tutto punto, come pronto al combattimento da un momento all’altro, - E’ un
Babbano, certo… ma è in gamba. - proseguì
Asia, - Ha perso tutte e tre le sue figlie per
colpa dei vampiri di New Bucarest. E anche sua moglie.
Abbiamo… abbiamo dovuto ucciderla come si uccidono i vampiri, soltanto la
settimana scorsa. Le tre figlie sono ancora “vive”… si erano
unite ad un gruppo di volontari esploratori per New Bucarest, e quando
le abbiamo riviste erano già morte e rinate. -
Asia parlava con molti intervalli
fra una parola e l’altra, ma la sua voce squillante sembrava aver conosciuto di
peggio per potersi impressionare più del dovuto, e non aveva mai un fremito.
- Zanna lo conosci
già… - aggiunse Asia indicando con un cenno del
capo un uomo steso su uno dei vecchi divani di pelle bordeaux. Aveva lunghi
capelli castani, ma sembravano sbiaditi, stinti. Gli occhi erano grigi e
liquidi. - E quell’altro è Sniper, - disse Asia
indicando un ragazzo che stava tranquillamente affilando alcuni paletti.
Dimostrava la stessa età di Sara. Aveva capelli neri spettinati, in ciuffi che
gli arrivavano alle spalle. Era vestito molto più leggero degli altri. - Un
miracolo, direi, se l’abbiamo preso… -
- Hai detto un miracolo? - disse
Sara a voce bassa, fissando Sniper. Quest’ultimo interruppe il lavoro e alzò
gli occhi su di lei, come se avesse captato lo sguardo della ragazza su di sé.
Sara era certa di conoscere bene il bagliore di quegli occhi.
- Bhe… era molto
inesperto, - disse frettolosamente Asia. - Dunque, quello là è Kill. E’ il massimo sterminatore che
abbiamo. - Asia indicò un uomo sulla quarantina che discuteva con Lion, ma Sara
non lo guardò. Approfittò della benda sugli occhi per fissare Sniper pur avendo
la testa girata dall’altra parte, ma a quanto pareva il trucco non lo ingannò.
Sorrise e le fece l’occhiolino. Fu allora che Sara si riscosse e decise di
ascoltare Asia. - Lei è la sorella di Sniper, si chiama Meteor, - proseguì Asia dirigendo lo sguardo di Sara verso una ragazza
dai lunghi capelli corvini. Erano raccolti in una coda di cavallo che lasciava
libero qualche ciuffo ondulato. Stava discutendo con un’altra donna, alta,
magra e dai capelli di uno strano bianco argenteo, donna che Asia presentò come
Luna.
- Ed
infine quella è Shiva, - terminò Asia, indicando una ragazza dai capelli corti
e castani scuri. Stava seduta su un divano e lucidava la sua spada. Portava
soltanto dei pantaloni e una specie di reggiseno.
- E tu
sei la fidanzata di Lion, vero? - aggiunse Sara in tono sarcastico, incrociando
le braccia e guardando dalla parte opposta.
Non le interessò neppure di
seguire lo spettacolo di Asia che arrossiva
d’imbarazzo. La ragazza non rispose, ma si unì alla discussione di Luna e
Meteor.
- Andatevene, - disse Lion con
voce brusca, prima ancora che Sara potesse muovere un
passo, - Devo restare da solo. -
Sara fu sorpresa soltanto in parte
da quell’ordine che accettò con noncuranza.
Lion le lanciò un’ultima occhiata
scura prima che uscisse, poi nella stanza restarono
solo lui e Asia. Sara osservò distrattamente come gli altri
camminavano mansueti per la piazzola. Marte si appoggiò alla statua
equestre, lanciando ogni tanto a Sara qualche occhiata indecifrabile. Luna alzò
lo sguardo al cielo per guardare le stelle prima che
tramontassero, e tutti gli altri si erano riuniti si fianco alle scalette, con le
armi bene in vista. Sara non ebbe bisogno di leggere loro le menti per capire
che stavano parlando di lei.
Tentò comunque
di farlo ma, esattamente come aveva previsto, con la benda sugli occhi era
molto più difficile mettere in atto i suoi poteri, e ogni percezione era più
sfocata e indistinta del normale.
Voltò a tutti le
spalle e appoggiò i gomiti sulla balaustra, osservando distrattamente le
fronde degli alberi, e sforzandosi di non pensare a niente. Sapeva su che cosa i suoi ricordi avrebbero indugiato se avesse lasciato
loro la possibilità di farlo.
D’un tratto, una mano le si appoggiò sulla spalla, e quando si voltò di scatto
Sara notò che Sniper era in piedi accanto a lei, anche lui con i gomiti
appoggiati sul marmo. Sara non si permise neanche il lusso di sentirsi in
imbarazzo. Non era più così ottusa.
- Non ti hanno fatto una buona impressione, eh? - disse Sniper lentamente, con un
sorriso perenne piuttosto ironico stampato sulle labbra.
- Nessuno di voi me l’ha fatta, - sottolineò Sara notando che Sniper si rivolgeva a tutti
tranne che a sé stesso, - Neanche uno. -
- Fai l’altezzosa? - disse Sniper,
avvicinando il viso.
- E tu
che stai facendo? - replicò Sara per tutta risposta, scansandosi bruscamente.
- Dev’essere dura, - riprese
Sniper lentamente, - Lion non ti accetterà mai… non accetta
nessuno dei carnefici della sua famiglia. -
- Io non sono
un’assassina, - mentì Sara. Doveva respingere
quella verità. Doveva negarla a tutti, a sé stessa se fosse stato necessario, e
presto o tarsi avrebbe dimenticato. Per cinque anni
aveva scontato la sua punizione ad Azkaban, prima che il suo istinto di
sopravvivenza la inducesse a scappare. Lei non avrebbe dovuto
scappare. Ma ne aveva bisogno. Cinque anni che
l’avevano separata da Sirius, ma non sapeva che in qualsiasi caso si sarebbero
divisi prima del tempo. Cerco di evitare che i suoi occhi si facessero
troppo lucidi, più che altro perché la voce non le tremasse di fronte ad uno
come Sniper.
- Sei ricercata, però, - disse
Sniper, e Sara trasalì.
- Come lo sai? - chiese. Ma si era tradita. La sua voce era rotta. Continuò
ostinatamente a fissare le fronde degli alberi. Sniper non fece commenti, e
Sara si guardò dall’essergliene grata.
- Lo abbiamo scoperto… Lion e
Silente sono amici da tempo, ma Lion sa come estorcere
informazioni anche dal più accorto dei maghi. - Sara rispose con un lungo
silenzio. - E’ tosta quando muore qualcuno a cui si
voleva bene, non è vero? - disse Sniper, - anche questo lo abbiamo
scoperto. E pensare che sono stati quelli del tuo gruppo a
ucciderlo… -
- Io non sono come loro! - gridò Sara,
e tutti si voltarono: era un ruggito, non un urlo. Un ruggito che di umano aveva ben poco, perché era il ruggito del drago
nero. Sniper era sul punto di allontanarsi, ma poi si ricordò di cosa gli aveva
detto Rotten riguardo al drago nero, e rimase al suo posto.
No… lei non era
come loro. Non sarebbe stata mai come Bellatrix.
- Lo so, - disse Sniper, - Lion
non capisce. Non capisce mai… lui vede soltanto la cruda realtà che ha di
fronte agli occhi… c’è abituato. Le morti di chi ci circonda
ci impartiscono una lezione impossibile da scordare… -
- E tu
l’hai ricevuta? - ribatté gelidamente la ragazza.
- Sì, - rispose Sniper, - Ma io
non imparo mai. -
Sara si voltò verso di lui. Il
sorriso di Sniper gli aveva scoperto due lunghi canini. Gli occhi azzurri
chiarissimi scintillavano dietro i ciuffi di capelli neri che gli ricadevano
sugli occhi, come ricadevano spettinati sul viso di Sirius.
- Tu sei un
vampiro… - sibilò Sara con gli occhi sbarrati.
- I denti me li ha
impiantati Rotten, - rispose tranquillamente Sniper, - Hanno fregato i vampiri
molte volte. Posso provarlo… - Sniper si staccò dalla
balaustra, e Sara pensava (e sperava) che si sarebbe allontanato. Invece, il
ragazzo le si era improvvisamente avventato contro e
in un attimo Sara aveva sentito dolore al collo. Sniper la stava mordendo. Sara
ebbe bisogno di qualche secondo prima di riuscire a
spingerlo via, reprimendo la tosse.
- Che cosa diavolo stai facendo? - ringhiò a denti serrati, massaggiandosi il
collo ferito da un morso umano.
- Perché
non ti preoccupi dei veri nemici che avrai là fuori? - disse Sniper con un
sorriso lascivo. - O di quelli che avrai fra noi…
vampira? - le strinse le mascelle fra due dita, costringendola a mostrare i
canini lunghi e puntuti.
- Io non sono
una vampira… - ribatté Sara a bassa voce,
incredula.
- Non sei come i Mangiamorte… non
sei una vampira… ma hai i denti a punta e il Marchio Nero. Singolare… - commentò
Sniper con un sorriso ironico.
Sara fissò Sniper con espressione
furiosa, pur sapendo che quest’ultimo non avrebbe mai avuto modo di
sperimentare il terrore e la sottomissione sprigionati dai suoi occhi
scarlatti. Le dava una sensazione di impotenza
osservare le persone senza che loro sapessero che lo stava facendo, mentre
invece una cosa del genere avrebbe dovuto esserle come un comodo vantaggio. Non
si era mai sentita così a disagio, eppure, allo stesso tempo, Sniper le
ricordava qualcosa di familiare, un calore che non sentiva per la prima volta.
Sniper diceva che Lion non capiva…
ma Sara pensò che neanche lui stesso capisse.
- So come ti senti, - disse
Sniper, con tono improvvisamente serio e rassicurante, - L’eterna giovinezza
non è così bella come tutti la descrivono. -
- Di che cosa stai parlando? -
disse Sara, scuotendo istericamente la testa.
- Rotten non te l’ha riferito? -
si meravigliò Sniper, - Hai dieci anni più di me, ma ne dimostri
almeno cinque in meno… - Sara gli rispose con un’espressione interrogativa,
facendo un passo in avanti come per ascoltarlo meglio. - Rotten lo venne a
sapere da tuo padre stesso… tu non puoi saperlo, eri troppo piccola per ricordartelo. Un giorno tuo padre fu vinto dalla sete, e
quasi ti trasformò in un vampiro. Non hai bevuto il suo sangue, ma il morso fu
sufficiente perché le caratteristiche della tua famiglia ti conferissero il
dono più agognato da noi esseri umani… -
Sara questa volta indietreggiò,
come se Sniper fosse stato un mostro.
- Pensavi che la discendenza da
sola fosse sufficiente per generare un vampiro? - disse Sniper, avvicinandosi
di più ad ogni passo che lei faceva all’indietro, - Sei stata morsa, Sara, e da quel momento sei un mezzovampiro… le tue ferite
mortali, anche se più lentamente, si rigenerano. Non hai sete
di sangue… tu detesti il sangue… - Sara capì. Sniper era un Legilimens.
Chiuse bruscamente il suo cervello agli assalti dell’altro, ma non poté evitare
il resto del discorso. - Puoi morire come tutti gli esseri umani. Ma se nessuna malattia ti coglie e se nessun assassino ti
uccide… sarai giovane per sempre. -
Sniper non si godeva
l’effetto delle sue parole, sembrava quasi soffrirne lui stesso. Si
allontanò lasciando che Sara potesse rendersi conto del futuro che l’aspettava.
Era questo, dunque, che si
dispiegava di fronte a lei? Sara avrebbe potuto avere una qualunque età senza
che il suo aspetto cambiasse, e questo la rendeva
dubbiosa. Tutto il tempo che aveva trascorso le sembrava falso: credette che
nessun calcolo fosse esatto, e seppe con certezza che nessuna delle sue
convinzioni era reale.
Erano stati cinque anni quelli ad
Azkaban? Aveva undici anni quando aveva iniziato il suo primo anno a Hogwarts?
O ne aveva di più?
Aveva le dita sulla fronte in atto
pensieroso, ma ben presto affondò il viso in entrambe le mani, ignorando che
Sniper la stava guardando fisso.
Era Azkaban che la confondeva. Lì
non poteva esser certa di aver segnato sul pavimento tutti
i giorni che aveva trascorso nella cella fredda. Forse un giorno aveva dormito
per ventiquattrore, saltando una giornata, e saltandone molte altre dopo…
Per quanti anni era rimasta lì
dentro?
Tutti la trattavano come se avesse
avuto un’età precisa… ma dopotutto neanche loro sapevano.
E non era soltanto tutto ciò a
renderla prossima alle lacrime. Anche se un giorno avesse deciso di tornare a
Londra, altro non le sarebbe rimasto se non il suicidio: se fosse rimasta in
vita, avrebbe visto invecchiare le persone che la circondavano, gli anni
sarebbero passati, poi i suoi amici sarebbero morti, i loro figli sarebbero
cresciuti, invecchiati, e morti anche loro… e lei sarebbe
rimasta sempre la stessa.
Si precipitò da Sniper,
probabilmente come quest’ultimo aveva previsto, e lo inchiodò violentemente con
le spalle al muro.
- Quanti lo sapevano? - chiese
sbattendolo ripetutamente sul muro.
- Tutti coloro
che ti conoscevano bene lo sapevano, perché Silente lo sapeva, - rispose
Sniper, senza badare a quell’impeto violento, - Ma sapevano anche che era così
avresti reagito, se te l’avessero detto. -
Sara lo sbattè
ancora un paio di volte contro il muro, ignorando le occhiate da parte degli
altri, finchè non perse le forse. Allentò la presa e si lasciò cadere in avanti, senza
piangere, ma gridando furiosamente, disperatamente. Non reagì neanche quando
Sniper la abbracciò.
Non ne aveva
la forza, ormai lo sapeva: tutte le volte che aveva cercato l’amicizia di
qualcuno, tutte le volte che si era mai sentita amata… era stato inutile. I
suoi sforzi di una vita trovavano ora la loro vanificazione, perché il suo
destino era descritto dal principio. A cosa era servito sforzasi di cercare
l’amicizia per così tanti, a cosa era servito anche soffrire, litigare, amare,
ridere…? Adesso lo sapeva.
Sara sarebbe stata per sempre
sola.
E tutti lo sapevano. Tutti si erano
sforzati di nasconderglielo. Tutti si erano sforzati di farla sentire normale,
quando non lo era. Cassandra lo sapeva, ma non gliel’aveva detto.
Sirius lo sapeva. Anche lui era rimasto in silenzio.
Mille occhi beffardi erano puntati
su di lei, i mille occhi dei mille anni che avrebbe
trascorso ventitreenne con la consapevolezza dell’eternità… e una sola parola
certa:
Finalmente
la stagione lasciava intravedere qualche spicchio d’estate attraverso il manto
freddo che andava lentamente disciogliendosi. Il sole era appena sorto ma già
il suo calore penetrava nelle ossa. Sara dormiva nella stanza delle donne, un
sonno profondo e privo di sogni come non ne aveva mai
fatti, ma lo preferiva di gran lunga al fiume di incubi che di solito scorreva
nella sua testa. Asia però aveva guastato quella strana ed apatica pace fin
dall’alba: per Sara era giunto il momento di allenarsi un po’. Asia non aveva
perso tempo: l’aveva solo costretta a bendarsi il collo e parte delle spalle,
con bende stregate perché fossero resistenti, in modo che i vampiri non
potessero morderla. Sara non poté fare a meno di notare di essere
l’unica con un accorgimento simile.
C’era un
solo modo per uccidere i vampiri: piantare loro un paletto nel cuore, tagliare
la loro testa e bruciarli. Il crocifisso non era che
un diversivo piuttosto prevedibile il quale lasciava la situazione del tutto
irrisolta: non era in grado di uccidere i vampiri. Sara quindi avrebbe dovuto
scordarsi magie istantanee come l’Avada Kedavra, perché nessun vampiro poteva
morire a quel modo.
Domandandosi
ancora una volta che cosa ci facesse in un posto del
genere e quale pazzia l’avesse spinta a fare tutto ciò, Sara aveva seguito Asia
verso il limitare della foresta, dove le aspettavano due cavalli: secondo Asia,
era meglio muoversi con mezzi Babbani il più possibile.
Sara
apprese ben presto che i Cavalieri dell’Alba non erano tanto amati e
trascorrevano la loro vita nascosti o in fuga, nonostante
la fierezza che il loro nome suggeriva. Essendo costretti per la maggior parte
delle volte a combattere come Babbani, in presenza di
questi ultimi, venivano spesso etichettati come pazzi furiosi, colpevoli di
ogni genere di assassinio. E dato che nessun Babbano credeva ai vampiri, era
semplice imputare i Cavalieri delle sparizioni che invece erano
dovute al trasportare della vittima a New Bucarest, dove la luce solare
non avrebbe rappresentato un problema.
Asia
disse che avevano imparato a fuggire al momento giusto e a vivere agendo sul
limitare della legge, superandolo soltanto di tanto in tanto ed approfittando
di qualsiasi sottigliezza o scappatoia. Sara obiettò che se era per la
segretezza era meglio Disilludersi o viaggiare con mezzi magici per evitare che
i Babbani li vedessero, ma Asia rispose che la sicurezza non era mai troppa.
- La
Romania ha le sue buone ragioni per avere una legge idiota, - disse Asia,
scrollando le spalle, - Per quello che riguarda l’Istituto Magico,
naturalmente. -
- Non
conosci la legge Babbana? - si stupì Sara.
- Non
vivevo qui, - rispose Asia per giustificarsi.
In groppa
al suo cavallo marroncino dalla lunghissima criniera giallastra, Sara non badò
minimamente a dove stessero andando. Sapeva soltanto
che il suo cavallo seguiva quello di Asia, e non c’era
quindi bisogno di controllarlo troppo.
Asia si
fermò di fronte a un castello in rovina. O meglio, era
decisamente ben conservato, e il ponte levatoio doveva
essere ancora funzionante, perché in quel momento era
tirato su. Non c’era acqua nel fossato, e il che era peggio: era abbastanza
alto per spezzarsi l’osso del collo nel caderci
dentro.
Asia si
guardò furtivamente intorno e poi con la bacchetta magica lanciò qualche
scintilla azzurra nel cielo: scintille a mala pena
distinguibili, ma a quanto pareva sufficienti perché quelli che stavano dentro
potessero aprire un varco. Un ponte che sembrava fatto di luce semi trasparente guizzò da una sponda all’altra del profondo
fossato, poi un grosso buco rotondo si aprì nel ponte chiuso e i due cavalli,
per niente innervositi, poterono passare, tirati per le briglie dalle due
ragazze. Appena entrambe furono dentro, il ponte di luce e il buco sparirono. Si ritrovarono magicamente nel cortile esterno
del vecchio castello, dove tutto recava il manto dell’abbandono. Le piante
erano morte o incolte, molti ponteggi di pietra
sospesi e pareti interne erano franate, e i grossi massi che le componevano
avevano formato una scalinata involontaria sulla quale Asia si arrampicò.
Sara la
seguì prima di guardarsi indietro: i cavalli erano scomparsi.
Arrampicandosi
per qualche minuto sulle pietre in rovina, le due attraversarono un vecchio
camminamento fino a giungere ad una porta di legno: la attraversarono ed
entrarono in un ambiente del tutto diverso. Dopo una quantità imprecisabile di
scale, apparve una sala dall’altissimo soffitto che, nonostante fosse piena di
polvere, sembrava la parte più preservata dell’intero castello dalla rovina del
tempo.
Le
altissime volte ad arco la facevano somigliare ad una cattedrale, ma non c’era
altro nella stanza se non un vecchio, lunghissimo tavolo con sopra un velo
scarlatto. Agli angoli del vasto salone c’erano dei teloni impolverati che
sembravano coprire dei mobili, probabilmente ammonticchiati lì perché non
dessero fastidio.
Rotten
era in piedi di fronte al tavolo, e dava le spalle ad Asia e Sara.
- Eccoci
qua, - disse Asia, ravvivandosi la chioma biondo platino, - Oggi cominciamo
l’addestramento. Ci sarà la magia ad aiutarti, quindi in una
settimana sarai già pronta. Hai mai combattuto con una spada? -
Sara
annuì. Dopotutto aveva usato molte volte l’incantesimo della spada magica.
Asia con
un cenno allegro del capo la invitò ad avvicinarsi a Rotten. Quest’ultimo,
senza minimamente mutare la propria espressione arcigna ma allo stesso tempo
indifferente, afferrò un capo del telo rosso che stava sul tavolo e lo tirò
via. Per tutta la lunghezza della tavola erano distese innumerevoli armi
scintillanti sotto la luce che entrava dalle alte finestre. Erano probabilmente
l’unica cosa in tutta la stanza che fosse priva di
polvere.
- Non ti
ci vedo con una zappa, - disse Rotten a bassa voce, squadrando prima Sara e poi
una grossa ascia, - E neanche con un martello… - proseguì osservando una mazza
che aveva l’aria di poter rompere la testa di un essere umano con un semplice
colpetto. Rotten esaminò a lungo tutte le armi che aveva fin quando non giunse
alla fine e disse a Sara d’aver trovato la cosa giusta per lei. Le posò
lentamente in mano una lunga katana dalla lama lucente, maneggiandola come se
fosse stata una reliquia. Aveva un bel manico nero e scarlatto, e ad ogni
movimento la lama sibilava come un serpente. Sara la sfiorò, e aveva appena
poggiato il dito sulla lama con tutta la delicatezza possibile, che la pelle si
era subito tagliata e aveva iniziato a sanguinare.
- E’
l’unica fra queste armi che non ha un incantesimo
molto potente. Quel poco che sono riuscito a fare
senza rovinarla ti sarà utile… ma il resto dovrai farlo da sola. -
Sara non
rispose, né tanto meno lo ascoltò. Era troppo assorta nel contemplare la sua
spada, mentre la faceva roteare in aria sempre più velocemente, stupendosi di
quanto fosse leggera. Leggera e letale.
- E poi naturalmente avrai bisogno di queste, - disse Rotten,
rovistando in un grosso baule posto a lato del tavolo. Ne estrasse
due pistole splendenti come l’argento, dotate di una forma piuttosto insolita e
di un’incisione; l’inizio del Nuovo Testamento. - Sono stregate. Sessanta paletti d’argento prima che l’incantesimo finisca e tu
debba cominciare a lanciarli manualmente. Ma in
genere noi preferiamo sistemare le cose con un solo colpo preciso, perciò sarà
più che sufficiente. Possono funzionare anche con i licantropi, se per caso ne incontrassi qualcuno. -
Rotten
legò una grossa cintura borchiata ai fianchi di Sara, dotata di due fondine
nelle quali infilò le pistole. Sara non era abituata a portare zavorre di
qualsiasi genere ai fianchi, e così le sembrarono decisamente
pesanti. Una volta che Rotten ebbe finito, Asia le legò a sua volta una cintura
più piccola, ma a metà coscia, nascoste dalla corta gonna nera a pieghe: vi
erano attaccati altri paletti.
-
D’emergenza, - spiegò Asia facendole l’occhiolino.
- Tieniti
addosso più crocifissi possibile, - aggiunse Rotten
ficcandole tranquillamente la spada nel fodero appeso alla stessa cintura delle
pistole, - Non li uccidono, ma li tengono a bada. - Sara si sentiva piuttosto in
imbarazzo a sentirsi agganciare continuamente altre cinture e altri pesi
addosso, ma quando i due ebbero finito, l’unico cambiamento evidente nel suo
aspetto era la cintura borchiata con le due pistole e la spada.
- Ed è
meglio se ti metti questo, - concluse Asia, porgendole
un mantello nero molto lungo. Lo avvolse intorno al collo di Sara come una
sciarpa grossa e vaporosa, in modo che i vampiri fossero ancora più scoraggiati
dal morderla, e Sara osservò come il mantello ondeggiasse
da solo nell’aria nonostante quest’ultima fosse stagnante ed immobile. Immaginò
di avere un aspetto decisamente diverso dal solito.
Ancora
una volta il suo colore era il nero, se non per la strana maglia aderente che
era rossa. Si spaccava sul fianco destro e restava unita grazie ad una serie di allacciature, ed era senza maniche. Sara portava due
scaldamuscoli che arrivavano dal gomito alle nocche, uno nero e l’altro rosso.
Aveva una gonna piuttosto corta, a pieghe, nera come il mantello che la faceva
rassomigliare un po’ a un Dissennatore e un po’ a un
vampiro. Ai piedi portava dei lunghi stivali di pelle marrone, dentro ai quali era infilata non solo la bacchetta magica, ma anche
un pugnale ondulato e un paletto decisamente più lungo degli altri, di legno.
La benda
sugli occhi la faceva sembrare una cieca, e Lion contava sul fatto che i
vampiri l’avrebbero erroneamente considerata tale.
Avrebbe
voluto dire qualcosa, ma prima ancora che potesse formulare una frase, Rotten
si diresse verso il tavolo e ne tornò con un mano due
spade a doppio taglio. Le incrociò in aria dirigendosi verso Sara con
atteggiamento ben poco amichevole.
Asia si
allontanò prudentemente dal futuro campo di battaglia, domandandosi come mai
Sara fosse rimasta immobile, senza neanche estrarre la spada. Rotten si
avvicinava sempre più velocemente, curvo e minaccioso come un felino. Ma Sara ancora non si muoveva.
Rotten si
avventò su di lei di colpo ed evidentemente con tutte le sue forze, ma Sara
sembrava esserselo immaginato dal principio, e non aveva bisogno dei suoi
poteri per capire il momento esatto in cui Rotten avrebbe attaccato. Doveva
stare attenta ad entrambe le armi di Rotten, tuttavia, e la cosa non era affatto semplice. Riuscì a bloccarle contemporaneamente,
però, nell’istante in cui si incrociavano per colpirla
alle spalle, e con un colpo ben assestato riuscì quasi a toglierne una di mano
al suo avversario. Ma nel mentre che effettuava quella
manovra, Rotten l’aveva colpita fra le scapole con l’impugnatura della spada
liberata, e aveva avuto modo di spingerla molto lontano con un calcio. Sara si
era subito rialzata e lo aveva ingannato con una semplice illusione, che le
riusciva nonostante la benda sugli occhi in quanto
durava pochi secondi. Rotten aveva quindi creduto che Sara si trovasse dalla
parte opposta a lui, ma così non era: diede le spalle alla
vera Sara e questo le consentì di colpirlo alla schiena tracciando sulla
pelle un lungo taglio verticale.
Rotten si
rivoltò come una pantera, bloccandole la katana con una delle sue spade e colpendola
al ventre con l’altra.
Sara
cadde all’indietro, incapace di mantenersi in equilibrio. Entrambe le spade di
Rotten erano già pronte ad infilzarla e fu da quell’atto che Sara comprese che
il suo avversario non aveva intenzione di evitare di ucciderla. Se avesse perso
si sarebbe mantenuta indegna del gruppo e avrebbe comunque
dovuto morire. Sara comunque non poteva
uccidere Rotten. Sapeva che non era un membro combattente dei Cavalieri, lui
operava in tutti gli altri campi e quindi serviva vivo: Lion non sarebbe stato
tanto gentile con lei se la sua lama gli avesse trapassato il cuore.
Sara
tentò si Smaterializzarsi, ma si ricordò che il termine dell’effetto dell’Anti
Majix non era ancora scaduto. Avrebbe voluto generare la Spada Magica ma non ci
riusciva se non poteva effettuare incantesimi, e in
una frazione di secondo ebbe la certezza lacerante che una strega senza magia
poteva fare ben poco.
Ma
non si sarebbe lasciata uccidere prima di aver placato il drago nero.
Si scansò
rotolando un attimo prima che Rotten la trafiggesse
con le sue armi, e raggiunse rapidamente le spalle del suo nemico. Non sentiva
alcun senso di colpa per il suo costante attaccare alle spalle, perché
dopotutto avrebbe avuto ben poche possibilità di cavarsela se avesse fatto altrimenti.
Colpì in basso, tracciando una linea sanguinolenta orizzontale che si incrociava col taglio di prima, poi spinse Rotten contro
il muro aiutandosi con la spada.
- Non
essere così amichevole! - le ordinò Rotten, - Qualcuno dovrà morire! -
Sara lo
trovava insensato, ma non aveva scelta che trattare il momentaneo nemico con
meno riguardo. Ripensò alla prima impressione che lui
e Lion le avevano fatto e le venne in mente che non le
importava niente se incontravano la morte.
Rotten le si fece addosso prima ancora che lei potesse terminare il
ragionamento, e le piantò la spada dritta fra le costole. Sara non resistette
al dolore e dovette urlare, ma la sua spada trovò l’impulso di attaccare e
tagliò Rotten all’attaccatura della testa sul collo. Poi Sara cadde a terra, ma
non lasciò la spada, più per il bisogno di stringere qualcosa che per un
qualche istinto di sopravvivenza.
Ricordò
la maledizione Cruciatus e pensò che non ci fosse niente di diverso. Doveva
soltanto distendersi e resistere, aspettando l’occasione migliore per alzarsi.
Puntò gli
occhi contro Rotten e li sentì dolere come non avevano mai fatto. L’effetto del
suo potere era dimezzato ma ugualmente funzionale. Rotten sapeva di Cassandra:
doveva creare un’illusione verosimile per evitare che la ragione del nemico non
avesse la meglio sull’ingenuità.
Agli
occhi di Rotten, Sara si era rialzata tremando di dolore, ma era stata in grado
di sollevarsi in piedi. Era corsa verso di lui, cominciando ad attaccarlo alla
cieca. Rotten si stupiva di quell’attacco poco sensato e facile da respingere,
ma non ebbe il tempo per accorgersi dell’inganno: un dolore acerbo e lancinante
gli disegnò una smorfia sul viso, segnalando che una spada gli aveva trafitto
il ventre.
Sara non
fu così docile da far sparire la visione: una sé stessa incorporea sorrideva
crudelmente a Rotten salutandolo con la mano aperta, mentre la
Sara reale rigirava la lama nella ferita; Rotten non era in grado di
reagire, e non poteva colpire Sara perché davanti a sé c’era un’illusione e
quella vera era alle sue spalle, irraggiungibile. Quando Sara
fu sicura che Rotten non avrebbe più tentato di reagire o di dibattersi,
sfilò violentemente la lama, e lo lasciò cadere a terra. L’illusione svanì.
Sara puntò la spada alla gola al suo avversario, tenendogli il volto sollevato
e pestandogli con un solo piede le impugnature delle spade per evitare che le prendesse.
Asia
corse verso di loro, e la dichiarò vincitrice.
- Credevo
che fosse uno scontro mortale, - replicò Sara, inarcando le sopracciglia ma
riponendo la sua spada nel fodero.
- Le
ferite guariscono, anche se mortali, - disse Asia tranquillamente, - Era così per evitare che ti trattenessi, sai, dobbiamo
vedere di cosa sei capace. -
Asia
rovistò nella sua borsa e ne estrasse un sacchetto
nero: vi infilò la mano e il suo pugno ne uscì carico di una strana polvere
dorata, scintillante come una manciata di stelle.
-
Guarisci ! - disse Asia, gettando la polvere su Rotten e guardandola cadere
lentamente. Non appena le scintille dorate toccarono il corpo di Rotten, le sue
ferite scomparvero immediatamente e l’uomo si rialzò, perfettamente ripreso.
- E’ brutto dover vincere colpendo solo alle spalle, non trovi?
- disse Rotten facendo crocchiare le nocche.
- E’ così
che ho imparato a fare, - replicò gelidamente Sara, voltandogli le spalle e
allontanandosi dai due, indipendente dal giudizio che ne avrebbero
tratto.
Non aveva
cambiato espressione per tutta la durata del combattimento.
*
Avvolgendosi
le mani di bende, si domandò quante vittime contasse il suo repertorio. Quanti
vampiri erano periti da quel momento sotto le sue armi, quanti addestramenti aveva ancora dovuto compiere e quante volte aveva desiderato
scomparire sotto lo sguardo di Lion. Si vergognava di sé stessa perché trovava
sollievo nell’affondare lame e paletti nel cuore di tutti quei vampiri, ma si
era sempre sforzata di negare che il suo spirito fosse inevitabilmente lo
spirito scellerato dell’assassino.
Lo spirito che l’aveva condannata a vivere come stava vivendo e,
probabilmente, lo stesso spirito che la costringeva ad indossare una benda
sugli occhi e ad essere costantemente considerata come un qualcosa di
pericoloso.
Qualcosa da tenere alla larga.
Mai
questa sensazione l’aveva abbandonata.
Mai aveva
cessato di incolparsi di ogni cosa si fosse successa e
i tagli sulle sue braccia si sovrapponevano incessantemente, aggiungendosi alle
ferite causate dai combattimenti. I cacciatori agivano
furtivi nell’ombra, a sangue freddo, i loro passi erano silenziosi e i
loro colpi implacabili. Dovevano sorprendere i vampiri per evitare che questi
ultimi sorprendessero loro, e non era semplice. Dovevano evitare di usare magie
nelle vicinanze di Babbani, perché se qualcuno scappava non c’era possibilità
di cancellargli la memoria.
Con Lion
era sempre peggio. Sara sentiva gli occhi dei tre avvoltoi della sua infanzia
tormentarle ancora l’anima: Lion non era l’unico a considerarla un mostro, era
semplicemente quello che lo faceva notare in modo un po’ più esplicito.
Ogni cosa
esisteva per ricordare a Sara che il suo destino era scritto.
La sua
condizione, non poteva cambiarla. Non aveva i requisiti necessari per mettersi
in buona luce di fronte agli altri. Poteva soltanto sperare che capitasse
qualche occasione di salvare loro la vita, ma purtroppo sapevano tutti badare
benissimo a sé stessi.
Era
tornata al suo passato, identico a come era stato
quando lei era a Hogwarts. Chissà, magari era anche peggiore, ma Sara aveva
visto così tanti baratri nella sua vita che non faceva più comparazioni con la
loro profondità. Si era semplicemente dimenticata di cosa fosse la felicità;
nel aveva perso il suo significato. Non era più una cosa spontanea, un casuale raggio di sole, un sorriso
fuggevole ma liberatorio, per lei la felicità adesso era più come il
ricordo di qualcosa di migliore, uno strazio. E come
tale, causava solo altra tristezza.
Cos’era
migliore fare, ricordare le cose belle della sua vita o dimenticarle? Doveva
pur esserci qualcosa in grado di farla stare bene… ma con tutte le volte che
aveva incontrato i Dissennatori, come poteva conservare ancora la memoria di
qualcosa di positivo?
Qualcosa
c’era, in verità. Ma era doloroso ricordarlo.
Ricordare
Sirius non le causava nessun sollievo, solo dolore. Si era improvvisamente
accorta del poco tempo che avevano avuto. Dei pochi mesi
fuggenti che avevano trascorso insieme, di tutto ciò che li aveva separati, ed
infine del passo finale che li aveva divisi per sempre.
Lacrime
ogni notte aumentavano il fiume che aveva già versato, che le allagava il
cuore, dandole la consapevolezza che non ci sarebbe stato
più nulla di bello nella sua esistenza. Aveva anche perso il suo ciondolo, uno
dei pochi ricordi rimasti, l’ultima ancora della sua salvezza, durante la
battaglia all’Ufficio Misteri. E ora le mancava quel calore, e ogni ricordo la
riconduceva a tutti coloro che aveva perso. Troppe,
troppe persone.
Le
restava un unico piacere, per così dire, un sollievo perverso alla sua
oppressione: la vendetta.
Ogni
giorno cresceva il desiderio di annientare Bellatrix Lestrange, di pari passo
col crescendo del suo scoraggiamento. Demoralizzata e avvilita, ogni giorno il
suo unico stimolo per proseguire era provocato dal desiderio di sporcarsi le
mani del sangue di Bellatrix: l’assassina di Sirius.
Agli
occhi di Sara, di fronte a questo crimine, tutte le altre vite mietute da
Bellatrix diventavano stupide, senza peso. La morte di Sirius era di per sé una
parola dolorosa, troppo dolorosa perché gli altri morti del mondo contassero
qualcosa.
In quei
giorni sottraeva continuamente a Kill il titolo di miglior sterminatore. O comunque, in ogni caso, lei era senz’altro la miglior
sterminatrice. Aveva ucciso più vampiri in due settimane che chiunque altro in
un mese. La sua bacchetta non poteva ucciderli ma li rallentava. La sua spada
roteava furiosa nell’aria affondando nelle carni quasi immortali dei vampiri,
ma non effettuava mai un movimento superfluo. Le sue
pistole abbaiavano sputando paletti d’argento e distruggendo ogni creatura semi
umana che le si avvicinasse di quel che lei riteneva
“troppo”. Non aveva più nessun dubbio, era così che avrebbe fatto fin quando
non sarebbe morta. Meditava sulla strada e la circostanza migliore per portare
a termine la sua vendetta e intanto i Cavalieri dell’Alba conoscevano la loro
migliore componente. Agile, furtiva e sempre,
incessantemente circospetta. Era subdola tanto quanto bastava per sopravvivere.
E di rado parlava. Lasciava che fossero le sue armi a
parlare per lei. Agli occhi del resto dei cacciatori lei non aveva un carattere
né tanto meno un’espressione: era fredda e impenetrabile, il suo unico scopo
era uccidere e su questo non recava il minimo dubbio. Ma
la realtà era completamente diversa.
Il
conflitto interiore che si agitava dentro la sua anima, i suoi dubbi e le sue
sofferenze le ottenebravano la mente senza posa.
Era
quella l’unica via perché la sua anima trovasse sollievo?
Era
dunque necessario macchiarsi le mani di sangue, sia pure di vampiro o di
licantropo, per ottenere un piacere dalla vita? Doveva esserci un altro modo. Ma Sara non lo conosceva. La voce di Voldemort aveva cessato
di parlarle nella mente, anche se lei non sapeva perché, ma anche senza di essa c’era la voce della sua coscienza a bisbigliare una sola
parola: assassina.
Assassina,
assassina… sempre, tutto il giorno, tutti i giorni, quella singola parola,
quelle poche lettere sibilanti le creavano una miriade
di domande e la portavano ben poco distante dalla follia. Presto sarebbe uscita
di senno: allora Voldemort sarebbe tornato a sussurrare la sua tentazione, come
aveva fatto per tutti quegli anni?
Sotto la
coltre bollente di dubbi un cubo di ghiaccio riluceva,
nel profondo dell’anima di Sara, una consapevolezza dolorosa… Lei poteva
nasconderla agli altri, ma non a sé stessa: il suo unico piacere era uccidere
qualcuno. Questo era il pensiero dell’assassino, la sua logica e il suo
sostentamento. E perciò lei era veramente ciò che
aveva sempre creduto di non essere, lei era veramente un’assassina. Lei aveva
le sue regole e i suoi ragionamenti quasi lucidi, non era una scellerata
criminale o una malvagia mietitrice di vittime che come unico fine avevano sé
stesse: no, era semplicemente un’assassina, che aveva bisogno di uccidere così
come aveva bisogno di mangiare e di bere.
Combatteva
e uccideva per sopravvivere, per placare la sua sete, e le ci volle molto per
comprenderne il perché.
Lei era
abituata a punire sé stessa, e continuava a farlo. Ma
non aveva mai avuto il coraggio di uccidersi, e i semplici tagli sul braccio
non bastavano più ad estinguere il fuoco che aveva dentro. Aveva bisogno di
uccidere, e visto che non aveva il fegato di uccidere sé stessa, doveva
ammazzare qualcun altro. Per scaricare sulla sua vittima la
colpa di quello che era successo.
Per convincersi che lei non c’entrava niente.
Non aveva
ammazzato lei i suoi genitori, non era colpevole della morte di quelle persone
a Hogwarts, e neanche l’uccisione di tutta quella gente in quelle settimane
solitarie non rientravano in ciò che era sua responsabilità: questo era ciò in
cui voleva credere.
Non
sapeva di sforzarsi in vano. Sapeva solo che la morte di Sirius non si poteva
cancellare, e che non avrebbe mai perdonato, mai: da ora in poi tutti sarebbero
stati colpevoli e tutti avrebbero incontrato la loro condanna,
indiscriminatamente.
Finché
il vero colpevole non fosse morto, tutti sarebbero morti.
Era il
giusto prezzo perché Sirius se n’era andato per sempre.
La notte,
di solito, era il momento in cui i cacciatori uscivano dalla loro tana per
affrontare i vampiri, ma quella volta non fu così. Otto di loro erano feriti
molto gravemente, ed era necessario che tutti coloro
che erano rimasti illesi facessero la guardia al loro covo. Luna si era
Trasfigurata in un pipistrello in modo di vedere benissimo di notte e aveva
iniziato a volare incessantemente lungo tutto il perimetro della vecchia tomba
romana che ora costituiva il rifugio dei Cavalieri dell’Alba.
Viste le
sue capacità, Sara era stata messa a sorveglianza
dell’ingresso principale. In realtà lei stava fissando il cielo non ancora
tappezzato di stelle, prossimo al crepuscolo, ma i suoi sensi erano all’erta.
Aveva imparato a frazionare il suo cervello secondo le priorità dei suoi
compiti: se qualcosa si fosse mosso l’avrebbe sentito immediatamente anche se
si fosse trattato di un rumore impercettibile o se lei fosse stata impegnata in
tutt’altro compito.
Era una
delle qualità che un cacciatore doveva possedere, una di quelle caratteristiche
che gli umani devono imparare a dominare se vogliono mettersi alla pari il più
possibile con i vampiri loro nemici.
Il cielo
piuttosto scuro ma limpido era fradicio di lacrime: non cadevano dagli occhi di
Sara, si manifestavano dall’interno della sua anima, tingendo l’ambiente
circostante di un alone di profonda solitudine. In poche settimane aveva
scoperto le ragioni per le quali era ancora in vita e aveva intenzione di
sopravvivere ancora ma, cosa più grave, aveva scoperto dell’eterna giovinezza.
Non aveva mai saputo che suo padre l’aveva morsa, era troppo piccola per conservare un ricordo simile… E comunque nessuno avrebbe
potuto dirglielo ugualmente, durante l’arco di tempo nel quale la maledizione
di Bellatrix era in corso. Ma dopo… nessuno aveva
scuse. C’era stato il tempo. Perché nessuno glielo
aveva mai detto? Perché era sempre stata l’unica a non
sapere dell’oscuro segreto che non avrebbe mai osato neppure immaginare nei
suoi peggiori incubi?
Ma non
pensava a tutto questo mente fissava il cielo.
Quando il suo sguardo imperturbabile indugiò per l’ennesima volta su
un punto della volta celeste che aveva già visto mille volte, scoprì che
qualcosa era cambiato: di colpo aveva notato che una stella solitaria restava
fissa al suo posto mentre l’ambiente circostante continuava a mutare.
La prima
stella della sera.
La sua
espressione apparentemente scolpita nella pietra, per la prima volta mutò,
trasformandosi in una smorfia che esprimeva il tentativo di reprimere il
pianto: perché era diventata così debole?
Scoprì di
non essere in grado di scacciare un singhiozzo, e ad esso
seguì un pianto vero e proprio. Dopo qualche minuto finalmente Sara riuscì a
farsi tacere. Non le interessava se quel pianto determinasse
che era una persona normale e non le importava neppure se il dolore fosse
marcito dentro di lei, non trovando una via di fuga. In fondo voleva solo dimostrare
a sé stessa che non aveva nessun bisogno di piangere.
Non
voleva capire, si rifiutava di accorgersi che tutta la sua vita era espressa in
lacrime che neppure lei poteva vedere.
Represse
l’ennesimo colpo di tosse parandosi la bocca con una mano che le si macchiò di sangue. Non era soltanto quello che la
identificava perfettamente come una persona debole. Strinse rabbiosamente il
pugno, sentì il sangue appiccicarsi alle unghie che si conficcavano nella
carne.
- Non sei
granchè come cane da guardia, eh? - disse una voce alle sua
spalle.
Trasalì.
Se
qualcuno le era comparso alle spalle così all’improvviso e con una frase
d’esordio così stupida, poteva darsi che fosse lì
chissà da quanto, e allora aveva sentito tutto… In tutto quel formulare di
pensieri, tralasciò completamente il fatto che si trattasse di Sniper.
- Ti
piacciono le stelle? - chiese Sniper mettendosi accanto a lei e assumendo un
tono più serio. Sara non rispose, il suo sguardo indugiò per un istante su
Sniper, poi tornò alla stella. Si odiava per quel modo di comportarsi perché,
dopotutto, Sniper era l’unica persona che rendeva sopportabile l’intera
situazione. Lo considerava invadente e stupido, ma doveva ammettere che, se non
fosse stato per lui, niente le avrebbe impedito di
cadere ancora più in basso di quanto non avesse già fatto.
- Sì, -
rispose distrattamente Sara, dopo quella lunga pausa, senza veramente pensare a
cosa stava dicendo. Estrasse una sigaretta e la accese infiammando la punta
della bacchetta, per evitare di tossire. La sua malattia non era affatto
migliorata, ma ormai faceva parte della sua dolorosa quotidianità, che non le
lasciava lo spazio neanche per soffrire.
- Non
sembrava, - disse Sniper, e Sara capì che non era apparso di colpo come suo
solito, ma si trovava lì da chissà quanto. Abbassò la testa e arrossì
leggermente sul naso, tuttavia era di più la vergogna per come si comportava di
fronte a sé stessa, rispetto a quella per come appariva agli occhi degli altri.
- Sai, tutti qui abbiamo perso qualcosa. Non sei fuori
luogo. Nessuno farebbe mai il Cacciatore di vampiri se non avesse
qualcuno da vendicare o una rabbia da sfogare, - disse Sniper, e Sara si stupì
di quel discorso intelligente.
- L’ho
capito che sei un Legilimens, non è necessario che ti pavoneggi oltre, - disse
acerbamente.
- Non ho
bisogno di leggerti la mente, - replicò Sniper tornando al suo sorriso
insolente e un po’ perfido, - Ma gli umani muoiono tutti, e non si piange per
una stella. -
Senza
nemmeno rendersene conto, Sara si era rivoltata come un serpente e gli aveva
stampato uno schiaffo sulla guancia. Se ne accorse
dopo, e scoprì di non esserne affatto dispiaciuta.
- Lo hanno ucciso! - inveì, - O non
sarebbe morto adesso! -
- Allora
l’avresti visto morire da vecchio! -
Sniper
non si rese immediatamente conto di ciò che aveva appena detto. Per una persona
normale probabilmente quelle parole avrebbero avuto un effetto relativamente
più basso, ma Sara credette che lo avesse fatto apposta. Era vero, comunque. Lo avrebbe visto morire vecchio, come tutti gli
altri, e lei sarebbe rimasta uguale in tutti gli anni successivi, sola…
- Non
volevo dirti così, - disse Sniper con calma, una volta che si fu reso conto
dell’errore.
-
Neanch’io volevo sentirti, - si limitò a ribattere Sara, allontanandosi.
Sniper
tuttavia non aveva intenzione di darle tregua, e la seguì.
- Non si come ti senti, - disse, quando fu dietro di lei,
posandole le mani sulle spalle. - Però, bhe… mi
dispiace. -
- Credevo
che avessimo perso tutti qualcosa, - disse Sara, evidentemente trovandolo poco
convincente.
- Non ho
perso nulla su cui io possa piangere sopra, - rispose
Sniper, affondandole il viso nei capelli fulvi, e neanche quella volta Sara si
sforzò di muoversi. Non ne aveva la forza, né tanto
meno la volontà. Sentiva di nuovo le lacrime farsi strada, ma, prima che
potessero cadere, erano letteralmente essiccate da un’inspiegabile
furore. - Devi accettarlo, Sara, non puoi
torturarti così per il resto della tua vita… -
- Tu… tu
non capisci… - sussurrò Sara, stringendo i pugni, - Non puoi…
non… non avrà più senso… -
- Sì che
ha senso, - replicò testardamente Sniper, - Devi solo trovarlo. -
- L’unico
senso che può avere è ucciderla. -
-
Uccidere chi? -
Sara fece
una pausa. Non era sicura di volerglielo dire… e un istinto - forse stupido -
dentro di sé le diceva che non era il caso di rivelare cose personali a
qualcuno che conosceva a mala pena. Del resto era un Legilimens, e con quella
benda Sara era quasi impotente… prima o poi lo avrebbe
scoperto comunque.
- Tu non
capisci, Sniper, - ripeté Sara, contro il suo istinto.
- No, -
concesse Sniper con il solito sorriso, e Sara sospettò che lo avesse detto
soltanto per accontentarla. Non sembrava averla minimamente presa sul serio, e
la cosa la irritò e insieme la fece riflettere. Forse il suo essersi
considerata incompresa per tutto quel tempo l’aveva trasformata in qualcosa di
ridicolo.
Detestava
che Sniper le parlasse in quel modo. Le sue frasi in
quei momenti contenevano troppi doppi sensi, troppe implicazioni, troppe
possibilità. E soprattutto, troppe accuse.
- Veniamo
al dunque, - disse Sniper senza staccarsi da lei, ma assumendo un tono più
pratico. Sara rispose con uno sguardo interrogativo, ma poi si ricordo che nessuno poteva vedere i suoi occhi. - Ora che
siamo costretti a restare inattivi i vampiri lasceranno più spesso New
Bucarest. E… beh… -
Sara
sollevò la testa con uno scatto, per incitarlo a parlare.
- Siccome sei in parte vampiro, allora… bhe, vedi bene anche
al buio. Pensavano di mandarti da… da sola… a New Bucarest. -
New
Bucarest, la città dei vampiri.
*
I
Thestral attendevano pazientemente che i loro cavalieri ritornassero.
A volo avevano raggiunto uno dei punti più inaccessibili (apparentemente) della
montagna più antica. Non potevano sapere che una di coloro che li avevano
cavalcati andava incontro a una pessima giornata e
forse - chissà - alla morte.
Gli
undici cacciatori proseguivano speditamente su uno strettissimo sentiero che si
arrampicava sul fianco della montagna, e pareva scavato in essa
da esseri umani. Ogni tanto le pareti rocciose erano costellate di disegni e
strane iscrizioni, di una lingua sconosciuta. Sara non conosceva bene il
rumeno, ma aveva imparato a sufficienza per dire che non si trattava di quella
lingua. Infatti, come disse svogliatamente Marte, con una punta di asprezza, si trattava di vampiresco piuttosto complicato,
la prova che si stavano avvicinando all’entrata per la loro città.
Dovettero
evitare molte trappole: grotteschi ma raffinati disegni sul muro le
descrivevano molto bene, ma Lion conosceva quella lingua e decifrandola era
riuscito a prevedere tutte le trappole disseminate lungo il sentiero.
Infine, arrivarono.
Un enorme bassorilievo consunto giaceva su un’alta parete di roccia di fronte a
loro, che occupava quasi tutto lo spiazzo sul quale gli undici stavano a mala
pena. Non era facile definire che cosa raffigurasse
l’incisione, ma Lion si diresse piuttosto speditamente verso di essa, come se
avesse conosciuto bene il percorso da seguire. Sara trasalì quando vide che
infilava l’indice e il medio nelle narici di un teschio, esattamente come
succedeva per accedere alle tombe della Stamberga
Strillante. Lion pronunciò nel frattempo qualcosa in
vampiresco sotto gli sguardi ammirati degli altri cacciatori, e la parete,
senza un rumore, scomparve. Sara deglutì: il momento di inoltrarsi là
sotto era arrivato troppo presto. Ma sapeva benissimo
che, dove lei vedeva distintamente un corridoio roccioso in discesa, gli altri
vedevano soltanto il buio. E visto che questa
caratteristica la portava a dover entrare nella città dei vampiri, avrebbe
preferito essere una normalissima umana.
Rimasero
tutti in perfetto silenzio, nei loro atteggiamenti più nervosi. Sara era
l’unica che appariva indifferente, nonostante dentro di sé il suo stato d’animo
fosse ben diverso. In verità anche Lion era indifferente, solo che lui lo era
sul serio.
- Che cosa dovrei fare esattamente? - chiese Sara, nella
speranza di sentire che avrebbe solo dovuto dare un’occhiata
e poi togliere il disturbo.
- Niente di azzardato, - disse Marte, fissando il nero cunicolo con
sguardo carico di dolore. C’erano ancora le sue figlie, laggiù… ma ormai le loro vite erano irrecuperabili.
- Dovrai
osservare tutto ciò che potrai e cercare di capire se
laggiù succede qualcosa di strano, tipo un piano d’attacco mortale, o roba del
genere, - disse tranquillamente Asia.
- Non
attaccare, - soggiunse Lion, - Non sappiamo esattamente quanti vampiri vivano laggiù. Un attacco, e tutti ti sarebbero addosso.
Fortunatamente non si capisce troppo bene che sei un essere umano, quindi se
non compi passi falsi nessuno baderà a te. - Sara roteò gli occhi: sapeva benissimo
che Lion si stava preoccupando della segretezza della sua base se qualche
vampiro l’avesse attaccata, non certo della sua salute. - Uscirai al tramonto
con tutti gli altri vampiri. - terminò Lion confermando i suoi sospetti, - Se
sarai ancora viva. Se cercheranno di morderti, muori
dissanguata piuttosto, ma non bere mai il loro sangue. Diventeresti una di loro
e sapresti esattamente dove trovarci, uccidendoci tutti. Ricordati
il giuramento che hai fatto dal momento che sei entrata a far parte del gruppo.
-
- Sì,
certo, - disse Sara annuendo svogliatamente. Di colpo tutte
quelle frasi di Lion, anziché scoraggiarla, le avevano fatto voglia di
addentrarsi nei cunicoli di New Bucarest. Non era certa che ciò fosse normale.
Decisa a
non sprecare altre parole, e consapevole che mancava
molto al tramonto, trasse un profondo respiro e si inoltrò nel cunicolo.
Sentiva
la pressione crescere mano a mano che scendeva, ma le discese erano dolci,
probabilmente scavate a quel modo per non far sentire troppo rapidamente
l’effetto della profondità a del peso di tonnellate di
roccia sopra la testa. Non sembrava proprio una grotta di montagna come le
altre, comunque: pareva di entrare in una serra
sotterranea. Dopo i primi passaggi sotterranei spogli, era iniziato un
corridoio scolpito e pieno di affreschi piuttosto
inquietanti. Agli angoli fra il pavimento e le pareti
crescevano rigogliosi felci e muschi di ogni genere. Sara giunse ad un
punto in cui il corridoio scolpito a parallelepipedo si scomponeva in altre sette
strade spoglie come il cunicolo iniziale: ne prese una a caso, cercando di
concentrarsi sulle debole percezioni delle menti dei
vampiri che c’erano nei paraggi. Ma non riusciva a
sentire niente: i suoi poteri già indeboliti si affievolivano ancora di più a
causa della distanza che evidentemente c’era da lì alla città. Sara cercò negli
affreschi alle pareti e nelle incisioni qualcosa che potesse
aiutarla, ma non conosceva il vampiresco come Lion ed era del tutto smarrita.
Si
soffermò a lungo di fronte ad un dipinto che aveva attirato la sua attenzione.
Un uomo o una donna, non era chiaro a causa del cappuccio nero, camminava smarrito in un corridoio nero come il suo
mantello. Intorno, probabilmente per merito di un incantesimo, apparivano e
scomparivano volti evanescenti dai tratti imprecisi.
Sara non
sapeva bene perché quell’affresco la attirasse così tanto, sapeva soltanto che
le faceva paura. E come tutte le cose che facevano paura, non riusciva a fare a meno di fissarlo. D’un
tratto il suo sguardo captò un particolare pressoché invisibile: in
corrispondenza della lanterna del viandante la pittura era consumata, sbiadita,
molto più che nelle zone circostanti. Sara volle tentare: poggiò la mano sulla
lanterna, e si rese conto che le sue supposizioni non erano sbagliate. Molte
mani che avevano ripetuto lo stesso gesto avevano
cancellato parzialmente i colori del disegno.
In fondo
al corridoio scolpito, a un passo dalle sette strade
che portavano chissà dove, si sentì un’esplosione: la terra sul pavimento si
ruppe rivelando una scalinata che andava lentissimamente scomparendo. Sara non
era certa che fosse un’ottima idea, ma si affrettò a scendere quelle scalette
irregolari prima che il passaggio sparisse. Qualcosa le diceva che non si
sarebbero più aperte per un bel pezzo se non avesse colto l’occasione.
Di colpo
Sara sentì una specie di scossa al cervello, un grido
mentale, di qualcosa di misto al dolore e al piacere, e per un attimo la sua
visuale si colorò di rosso intenso. Pensò che fosse la percezione mentale
di qualcuno che mordeva - o che veniva morso. E la cosa bastò a farle capire che aveva preso la strada
giusta. Non poté fare a meno di domandarsi che cosa le sarebbe successo se
avesse preso una delle sette strade di sopra.
La
discesa non era affatto dolce come quelle precedenti,
era ripida e scivolosa, umida. Dal terreno affioravano dei cristalli di forma
vagamente piramidale, che rilucevano di tenui bagliori cangianti, incastonati
fra le stalagmiti.
Sara si
sentì inspiegabilmente inquieta: vedeva ancora come fosse stato giorno, e le
era difficile immaginarsi che in verità fosse buio pesto, ma il fatto di avere
piena visuale non bastava a renderla tranquilla. Sentiva una serie di sussurri
perpetui, e risucchi come quelli dei Dissennatori, ma più sommessi. Sembrava
quasi che qualcosa potesse sbucare dal nulla e attaccarla alle spalle. Non
faceva che guardarsi alle spalle.
Detestava
quel brivido alla schiena, quello strano vuoto provocato dall’ansia.
Grosse e
aggrovigliate radici emergevano ogni tanto dalla terra, ma non le ostruivano il
passaggio: si avvolgevano intorno ai cristalli o scorrevano sulle pareti come
cavi elettrici. Il bagliore cangiante si diffondeva in tutta la stanza mano a
mano che Sara andava avanti. E la curiosità
gradualmente soffocava la paranoia.
Il suo
piede urtò qualcosa che prima non aveva visto, e Sara si lasciò sfuggire un grido sommesso: uno scheletro.
Prima
ancora che l’ansia le tornasse in corpo, il corridoio
finì: di fronte a lei si apriva un baratro, un’immensa grotta sotterranea, sul
cui fondo si ergeva New Bucarest.
Al
centro, un grosso edificio ricco di pinnacoli e di statue di angeli
decapitati si ergeva come una sentinella, e la sua torre più alta toccava il
soffitto. Intorno, si ammassavano abitazioni identiche a quelle Babbane, in un
panorama di semi oscurità perfino agli occhi di Sara, con stretti vicoli umidi,
piccole folle chiassose e un forte, intenso,
fastidioso odore di sangue. Tutto però esprimeva grazia: la città partiva dal
fondo ed era costruita su più livelli che si sovrapponevano verso l’alto, in un
dedalo di strade e cavalcavia che sicuramente rassomigliava ad un labirinto per
quelli che non lo osservavano dall’alto, come Sara. Dal soffitto cascavano rami
flessuosi carichi di foglie simili all’edera, e i più lunghi toccavano quasi il
pavimento, formando uno splendido tendaggio vegetale.
Sara notò
che il corridoio dal quale era provenuta non era la sola apertura sulle pareti
della grotta di New Bucarest. Altri buchi e quindi altri corridoio si aprivano
a varie distanze dal suolo; Sara si ritrasse, appiattendosi contro una parete,
per osservare la splendida New Bucarest ma essere contemporaneamente riparata
da sguardi altrui.
Un
fruscio le segnalò che c’era qualcuno alle sue spalle, e Sara per un istante ne
percepì i pensieri. Un vampiro. Voltandosi di scatto o atteggiandosi in modo
brusco e poco spontaneo l’avrebbe messa in trappola, così cercò
di non farci caso e continuò a guardare New Bucarest, incantata dalle curve
dolci delle strade, dal drappo di vegetali penzolanti e dalla luce iridescente
dei cristalli. Ma a quanto pareva il vampiro aveva
fame: Sara avvertì un’esplosione di sensi confusi simile a quella avuta poco
prima, e prima ancora di poter reagire, aveva già il fiato del vampiro sul
collo. Ma lei non era una vampira, e se fosse stata
morsa sarebbe morta dissanguata. In un secondo estrasse la bacchetta, facendo
qualche passo indietro perché nessuno potesse vederla.
- Avada Kedavra! - sussurrò.
Il
vampiro si afflosciò, e Sara si morse le labbra quando vide che il lampo di
luce verde era fin troppo appariscente: decise che era meglio togliersi di
torno. Trasformò la bacchetta nella spada di ghiaccio e conficcò la punta nel
cuore del nemico. Poi, dopo che gli ebbe tagliato la testa decise di tentare
una mossa azzardata. Fissò intensamente il luogo più distante dalla città e
soprattutto quello che vedeva meglio, e cercò di immaginarselo come se lo
avesse conosciuto: funzionò. Con un forte “Crack!”
si Smaterializzò e riapparve sulla sponda di un laghetto che, scoprì, era fatto
di sangue. Cercò di mettere a tacere le convulsioni
del suo stomaco quando ebbe sentito la puzza che proveniva dal laghetto: un
vampiro che vomita alla vista del sangue non sarebbe stato uno spettacolo
convincente agli occhi di eventuali spioni.
Ormai
Sara era in ballo e il tramonto era ancora lontano: le conveniva adempiere al suo dovere, anche perché non poteva tenersi
alla larga da New Bucarest tutto il giorno, o avrebbe dovuto incontrare
l’espressione poco amichevole di Lion.
Guardò in
alto e vide che sopra di lei non c’erano corridoi rialzati come quelli della
città vera e propria. Si guardò innumerevoli volte intorno e si concentrò al
massimo su ogni possibile percezione per controllare che non ci fosse nessuno,
poi ripose la sua bacchetta insanguinata e si avviò verso la città.
Le sembrò
di essere nel tipico ghetto di una metropoli Babbana. A parte per la grossa
cattedrale con le statue di angeli mutilati, che
sorgeva al centro della ragnatela di strade, naturalmente. Camminava con tutta
la sicurezza possibile, continuando a pensare a cosa sarebbe successo se
qualcuno avesse scoperto che era stata lei a far fuori quel vampiro: nessun
vampiro, del resto, si mette a piantare paletti nel cuore e a tagliare la testa
ai suoi simili che tentano di morderlo. Anzi, probabilmente un vero vampiro
avrebbe accolto con gioia la prospettiva di un altro morso.
Ma
su, in alto, al fianco della statua di un angelo con gli occhi magistralmente
cavati e le braccia tagliate che parevano vere, due persone scrutavano ogni
movimento di Sara e avevano visto tutto nonostante l’accortezza e la
circospezione della ragazza.
-
Potremmo ucciderla… adesso? No? - disse una voce tremola, appartenente ad un
uomo dagli occhi acquosi con una vistosa protesi
d’argento al posto della mano. Il suo volto appariva da sotto la veste nera dal
cappuccio tirato più possibile sulla faccia.
Il suo
compare, invece, era molto più disinvolto. Non aveva paura di scoprire il viso
affascinante e ben modellato, che di certo avrebbe fatto impazzire qualunque
donna. Dai ciuffi castani che gli ricadevano sugli occhi emergevano due
profondi occhi blu. Si appoggiava all’angelo, fissando Sara molto intensamente,
osservando ogni suo passo e ogni suo movimento. Non rispose a Codaliscia. Non
ce n’era bisogno.
E
Codaliscia lo interpretò come un invito ad andare avanti.
- Qui
nessuno lo noterebbe… no…! Forse potremmo… -
- Non
esse stupido, Codaliscia, - disse Seymour Gray con voce glaciale. Codaliscia
rabbrividì. Seymour di solito aveva un tono di voce languido, un po’ sibilante,
ma affabile, e quell’improvviso congelarsi del suo atteggiamento lo aveva
lasciato senza parola. Seymour sorrise scoprendo vistosamente
i suoi lunghi canini. - Quello forse sarà compito della nostra spia. Il nostro
dovere è diverso… -
-
Esitate, capo…? - azzardò Codaliscia.
Seymour
si voltò verso di lui, volgendo i suoi occhi blu verso lo sventurato e servile
individuo, che senz’altro si sentì il sangue gelare nelle vene. Soddisfatto
dell’effetto che il suo sguardo aveva avuto su Peter Minus, Seymour si volse e
tornò a fissare Sara.
In fondo,
che cosa mai poteva capirne Codaliscia? Non era immortale. Non era condannato.
- Dimmi,
Peter Minus… qual è il nostro compito? - gli domandò Seymour.
- D-d-dobbiamo p-prendere il controllo di N-New Bucarest… e…
r-r-r-reclutare vampiri per l’esercito del… di… del Padrone… - rispose
tremolando Codaliscia. Non amava molto fare squadra con
Seymour, così come Seymour destava avere Peter come palla al piede. Ma Seymour non aveva niente da temere da Codaliscia,
fintantoché seguiva gli ordini di Voldemort. Era Codaliscia, piuttosto, che
doveva preoccuparsi di non venire ucciso da un momento all’altro per la sua stupidità
e le sue assurde insinuazioni…
- Esatto,
- convenne Seymour tornando al suo tono languido, che Codaliscia prese per un
elogio nei suoi confronti. - Ma dimmi, sai che quella
donna un tempo ti credeva un amico… e, poverina, si rifiutò di ucciderti… tu
dimostrerai pietà nei suoi confronti? -
Codaliscia
fissò Sara con sprezzante superiorità: ma quella benda sugli occhi, segno
evidente che era cieca, invece che tranquillizzarlo lo riempiva di terrore.
Sara voleva vendicarsi di lui: lui aveva incolpato Sirius di un crimine che
quest’ultimo non aveva commesso, e Sara sicuramente se lo avesse visto lo avrebbe ucciso. Codaliscia
temeva la vendetta di Sara quasi come quella del suo Padrone. Se era cieca, poi, come accidenti poteva camminare per la
città dei vampiri con quella certezza? Quali terribili poteri poteva esercitare? Peter non volle immaginarseli: sapeva
solo che Sara li avrebbe sperimentati volentieri su di lui se lo avesse avuto
tra le mani.
Deglutì.
- No, -
rispose, ben sapendo che Seymour lo stava mettendo alla prova.
- Che
creatura lodevolmente viscida, - constatò Seymour,
annuendo con un sorriso malvagio, o forse solo astuto, un sorriso da vampiro.
Codaliscia pensò per la terza volta che fosse un buon
segno, perché non lesse l’ironia nelle parole di Seymour. - Codaliscia, non
prendere alla larga il compito che ti è stato
impartito. Sono costretto a tollerare le tue cretinate tutto
il giorno. Se tu ti lasciassi prendere… la mano… falliremmo: e non è per questo
che mi servi vivo. Ricordatelo. -
Codaliscia
gli volse uno sguardo carico di terrore, che nascondeva perfettamente il suo
odio. Seymour scomparve, ma Minus sapeva che era ancora lì per controllarlo. Lo
temeva, sì… Ma per quanto ancora avrebbe dovuto
rimanere uno schiavo?
Sara non
scoprì niente di rilevante, solo voci e niente di più,
mentre le ore passavano senza che lo scenario lì intorno cambiasse. Guardando
il soffitto scoprì che una finestra - magica, senz’altro, altrimenti il sole
avrebbe portato alla morte i vampiri - indicava il paesaggio della volta
celeste. Era pomeriggio. A occhio e croce mancava un
po’ al tramonto… all’ora in cui Sara avrebbe dovuto trovare qualche
informazione ghiotta, se non voleva essere spedita là sotto per la seconda
volta dalla sete di informazioni di Lion.
Le voci,
almeno, dicevano che qualcosa si stava muovendo nella città. Qualcosa di poco
definito; voci che sussurravano di un nuovo signore e padrone del mondo che era
finalmente tornato al potere che gli spettava, e cercava
seguaci, seguaci per la sua vittoria e per la conquista del pianeta…
Le solite
cose, insomma, pensò Sara, accendendosi una sigaretta.
Magari
qualche Mangiamorte si era infiltrato a New Bucarest per diffondere la voce di
Voldemort e cercare nuovi sostenitori alla causa del mago oscuro. Niente che non avesse mai sospettato: Voldemort aveva avuto un
esercito, prima della sua caduta, composto anche di molte creature semiumane.
Certamente aveva a cuore la sua ricostruzione.
Sara
raggiunse la conclusione che girando per i cavalcavia e per le strade più infime di New Bucarest avrebbe solo rischiato che la
mordessero. Del resto, era successo sei volte. Se c’erano ancora delle risposte
da cercare, o meglio, se c’era ancora qualcuno che avesse il coraggio di
rivelarle quali movimenti i Mangiamorte compivano
esattamente in città, si trovava senz’altro nell’edificio dagli angeli senza
testa.
Non le
piaceva l’idea di entrarci - chissà a che cosa serviva un posto del genere - ma
non aveva scelta.
Proseguì
a lungo per le vie di New Bucarest, assistendo in continuazione allo spettacolo
di vampiri che si mordevano fra loro. Scene cruente,
orribili, certo… ma con un qualcosa di bello. Con uno strano senso di
piacere che pervadeva anche chi osservava e basta, e costringeva gli occhi di umano non abituato a tutto ciò a fissare intensamente i
denti che affondavano nella pelle bianca di qualche vampiro. Cosa c’era mai di interessante in tutto questo?, pensò Sara. Eppure lei era
fra quelli che non riuscivano a togliere gli occhi di dosso da quel genere di episodi.
Una
strana sensazione… quasi la voglia di sperimentare a sua volta.
Mentre
si avviava alla strana cattedrale, se cattedrale era da definirsi, rimuginava
intensamente su ciò che aveva provato immersa nell’atmosfera e nella puzza di
sangue di New Bucarest. New Bucarest era una città piena di vampiri, era questo
che la attirava. Non era il desiderio di ucciderli, no… era
il desiderio di stare con loro. Perché loro erano tutti
immortali. Erano tutti soli come lei. Tutti maledetti,
condannati al medesimo destino di solitudine, per tutta la durata dell’eterno.
Soltanto New Bucarest li riuniva, e chissà se in qualche modo riusciva a farli
sentire meno soli di come in realtà erano. Non si mescolavano con persone di
razza diversa dalla loro. Non erano tutti umani, erano tutti vampiri: erano
della stessa razza, accomunati dal medesimo destino crudele. Non come Sara. Che non faceva parte di nessuna razza e non aveva luogo dove
potersi sentire a casa.
Sara si
diede uno schiaffo, sapendo che quel genere di sentimento portava fin troppo
facilmente alla morte. Non ci teneva diventare un vampiro. No. Mai.
Mentre
stava formulando questi pensieri era giunta di fronte all’immenso portone di
legno dell’edificio gotico. Una mano l’aveva subito scaraventata a terra.
- Come osi, cieca? - ruggì una voce
acerba e sibilante, come quella di un cobra, in sua direzione. Sara alzò lo
sguardo e vide che una vampira avvolta in un lungo vestito nero violaceo la
stava osservando con il peggiore dei suoi sguardi. - Questo posto è riservato
ai Dominanti! -
- E chi
diavolo sarebbero? - chiese Sara senza riflettere, ma
intanto avvicinando la mano alla bacchetta.
- Stupida
idiota! Ti fai beffe di coloro che sorreggono la sorte
di questo posto? Via! Vai a confonderti con l’altra plebaglia qui in basso, e
non calpestare mai più questo suolo! -
Sara,
senza neanche accorgersene, si era sentita avvampare d’ira. Una
sensazione che inaspriva ancora di più la sua sensazione di trovarsi
costantemente fuori posto. Prima che potesse
scagliare qualche incantesimo con la guardia, il portone si aprì e ne uscì un
basso individuo ammantato. Sara non riconobbe Codaliscia. Sentiva solo un gran
terrore e nella sua mente, ma niente di più, perché i suoi poteri erano troppo
deboli.
L’ometto
sussurrò qualcosa alla guardia, nascondendo accuratamente la mano d’argento. La
guardia si mise una mano davanti alla bocca, fissando Sara con sguardo di colpo
incredulo, poi scoprì rabbiosamente i denti in direzione di Codaliscia, che
subito schizzò via lontano da lei e da Sara.
- Bene… bene! - ansò la guardia, e con un gesto
della mano tirò magicamente Sara ancora in piedi, poi gridò: - Marchiatela! -
Il
monastero si ergeva sul confine più meridionale della Romania, stinto e
vissuto, talmente scarno da non risultare interessante neanche per un turista
particolarmente assetato di musei e reperti storici. Tuttavia, l’edificio era
sufficientemente integro da consentire a più persone di appartarsi nella
cappella per poter discutere di argomenti che non era il caso di fare sentire
in pubblico. Ed era proprio quello lo scopo per il quale l’oscuro monastero
veniva sfruttato, in quel pomeriggio prossimo al tramonto. I raggi di sole non
avevano modo di passare nella cappella polverosa: soltanto delle torce dalla
fiamma verde scintillavano nell’ombra, crepitando silenziose. Il crocifisso
distrutto che stava dietro all’altare aveva un che di orribile: del resto, vi
era infilato il cadavere di un essere umano ancora caldo.
Uno
spione che aveva sentito anche troppi discorsi di Voldemort, nascosto, in preda
al terrore, dietro l’altare. Era stato punito: era Voldemort l’erede al trono
del mondo, ne aveva il diritto.
- Come
procedono le cose? - chiese la sua voce sibilante mentre il serpente Nagini si
acciambellava sull’altare. - Spia? -
aggiunse; una frase a effetto. Passò le dita sull’altare, trascinando via lo
spesso strato di polvere.
-
Perfettamente, - rispose un’allegra e un po’ malvagia voce di uomo, - Nessuno
sospetta di me. Neanche Lion, naturalmente… sono solo un povero disgraziato al
quale i vampiri hanno tolto ogni cosa importante. - l’uomo si strappò la Pelle
Magica dall’avambraccio, mostrando il Marchio Nero, ed entrambi i presenti
fissarono il tatuaggio con compiaciuta soddisfazione.
- La tua
identità è segreta anche a me, - disse Voldemort con un ghigno compiaciuto, -
Eppure sono pochi i Mangiamorte che parlano con me da pari a pari… hai svolto
un ottimo lavoro fino a questo momento. -
L’uomo si
inchinò. - Onorato di compiacervi, Padrone, - disse sistematicamente.
- Seymour
Gray si sta occupando di New Bucarest, e mi assicura che ben presto molti
vampiri saranno di nuovo dalla mia parte… Che posso dire?... In eterno. - e
scoppiò in una risata roca piuttosto forzata, ma senz’altro malvagia. - Ma tu
sai di cosa ho bisogno… -
- Della
ragazza, signore, - rispose l’uomo con voce meccanica ma un po’ ansiosa.
Chiunque, d’altro canto, sarebbe stato in tensione di fronte a Voldemort. - E’
astuta, ma non sospetta nulla. Penso di essere uno dei pochi che non hanno i
suoi occhi sempre addosso, Padrone… - poi esitò per qualche secondo, e
Voldemort se ne accorse, perché rimase in silenzio aspettando che terminasse la
frase. - Ma sarebbe tutto più semplice se potessi ucciderla subito… -
- No! - gridò Voldemort, e l’uomo calò
precipitosamente la testa, fissando il pavimento. Ma restava comunque, con una
punta di disapprovazione da parte del suo padrone, uno dei Mangiamorte meno
terrorizzati alla vista dell’Oscuro Signore. - Io ho bisogno di lei, viva!!
Portamela priva di sensi, portamela in fin di vita, ma non morta! Ti ho
lasciato molta libertà, finora, ma non infrangere il confine che ti ho
stabilito! -
- Se
sapessi che cosa ne volete fare di lei viva, Padrone, la mia motivazione
salirebbe nell’eseguire i vostri piani… -
Voldemort
lo fissò rabbiosamente, ma in un certo senso se l’era aspettato.
- Non
voglio testimoni, Mangiamorte. Se tu sapessi, dovrei ucciderti. -
-
Uccidetemi, - invitò il Mangiamorte.
Voldemort
lanciò uno sguardo significativo alla sua ultima vittima, conficcata fra le
schegge del crocifisso.
- Sei
furbo, - disse, sorridendo malignamente, un sorriso che inquietò perfino
Nagini, - Sai bene che ho bisogno del tuo supporto per distruggere i Cavalieri
dell’Alba… Non ti ucciderei, lo sai… il tuo apporto per ora mi è necessario.
Bene, se vuoi sapere… - Il Mangiamorte trattenne il fiato, ansioso e curioso, -
…Saprai. Sappi solo che la fine dei curiosi è quella. - e guardò di nuovo con
sguardo amorevole la sua vittima. Il Mangiamorte annuì, e Voldemort iniziò a spiegare.
- Ebbene… Io devo assorbire Sara Gray. -
- C… Come
ha detto, signore? -
-
Assorbirla, - ripeté Voldemort, - Bere il suo sangue non mi è servito per
acquisire i poteri di Cassandra. Non sono riuscito a ottenerle la sua fedeltà
con la tortura né con l’inganno o con qualsiasi altra tattica. Resta soltanto,
quindi, questa possibilità. Il suo odio nei miei confronti la rende resistente
ad ogni punizione che io le infligga… dunque, sperimenterò un potere che mai ho
avuto bisogno di provare. La assorbirò, di lei non resterà più nulla, e il
potere di Cassandra sarà mio, nel suo stato più puro! O quasi. - terminò con
enfasi.
- Non è
già abbastanza puro? - azzardò l’uomo.
- Non
senza il Terzo Occhio, - rispose Voldemort, - Ne’ io né Gray lo abbiamo… ma
Gray ha una zavorra che io non ho. Sentimenti stupidi che sono comuni agli
umani stolti. -
- Lo so, -
convenne il Mangiamorte con tono furbo.
- Amore,
amicizia… cazzate. - concluse Voldemort. - Sono un intralcio al potere. Sono
ciò che impedisce all’uomo di raggiungere lo scalino più alto! Io non ho niente
di tutto questo, e così il potere di Sara Gray entrerà nelle mie vene senza alcuna
inibizione. -
Il
Mangiamorte annuì.
- Dunque
mi serve viva, - lo avvertì l’Oscuro Signore, - Viva, mi sono spiegato? E
umana. Non posso assorbire un vampiro, perciò tu dovrai impedire che venga
trasformata, nella maniera più assoluta, chiaro? La terrai d’occhio. Se qualche
vampiro tenta di trasformarla, uccidilo. E poi portami quella ragazza qui,
prima possibile, in questo monastero.
Neutralizza i Cavalieri dell’Alba, non lasciarne vivo neanche uno. Bhe, a parte
te e Sara, naturalmente. E a quel punto saprò come ricompensarti… -
Voldemort
stava diventando sempre più trasparente, pronto a scomparire, ma il Mangiamorte
lo fermò - Non potrebbe sfruttare i Cavalieri con la Maledizione Imperius? -
Voldemort lo scrutò con sadica curiosità, ancora una volta aspettando che
terminasse il suo ragionamento, - Avreste ulteriori pedine nella vostra
scacchiera! -
- No, -
rispose Voldemort, - Sono motivati. Sono diventati Cavalieri per qualcosa che
hanno subìto in passato, qualcosa di terribile per mano dei Vampiri… Io voglio
ucciderli tutti perché non intralcino i miei futuri fedeli vampiri… Ma se li
controllassimo con l’Imperius, resisterebbero: il loro odio per i vampiri
supera i miei poteri persuasivi. Rischio una sconfitta inutile. - Poi lo
sguardo di Voldemort divenne glaciale, e il Mangiamorte abbassò di nuovo la
testa, sconfitto e, per una volta, spaventato a morte. - Stai esitando,
Mangiamorte… questa è disgustosa pietà!…
- disse Voldemort avanzando verso di lui.
- No! - gridò il Mangiamorte
appiattendosi sul ventre e baciando la veste del suo Padrone. - No… mai ! Io vi sono fedele!… Mio Signore! -
Voldemort
si dichiarò soddisfatto. - Sta’ attento, servo. - La sua figura si stava
lentamente dissolvendo, prossima allo sparire del tutto nel silenzio del
monastero, - Sta sempre molto attento.
-
*
Sara ci
capiva sempre meno: in pochi secondi le erano capitate così tante cose che
faceva fatica a seguire il corso degli eventi. Da quel che aveva avuto modo di
capire, i Dominanti erano coloro che governavano New Bucarest, per quanto fosse
strano che potessero esistere delle regole in un posto del genere. E quello che
aveva di fronte era il Palazzo dei Dominanti, o qualcosa di simile.
La
trascinarono dentro il palazzo, di forza. Sara non ebbe il tempo di controllare
come fosse fatto il salone principale, vide soltanto una macchia consunta di
colori scuri, poi si ritrovò in una stanza, attaccata al muro, con delle
cinghie strette intorno ai polsi, alle caviglie e alla vita. Cercò di
ribellarsi: “marchiatela”, aveva detto la guardia. Non provò neanche a
domandarsi che cosa volesse dire. Un vampiro le si avvicinò rapidamente e con
aria sbigottita, puntandole la bacchetta contro. Istintivamente Sara si
irrigidì e tentò di dibattersi, ma ogni resistenza fu vana.
- Perché
si contorce? - disse la voce della guardia. - Rifiuta quest’onore! - aggiunse,
tentando di fermare il vampiro con la bacchetta magica.
- Sono
ordini di Seymour, e gli ordini di Seymour vanno rispettati! - ribatté
semplicemente ma con fermezza il vampiro. Poi si voltò di nuovo verso Sara. -
Cieca, - disse. Sara non provò neanche a spiegare la situazione: non era il
caso di mettersi ancora di più nei guai. Che cosa erano ordini di Seymour? Era
davvero lo stesso Seymour che conosceva lei? - Come possa essere una Dominante…
-
- Fallo e
basta, - disse lo guardia nervosamente, scoprendo i denti. Sembrava avere una
gran voglia di morderlo.
Sara
sentì un dolore incommensurabile al ventre. Il vampiro le aveva puntato la
bacchetta contro in quel punto, e sembrava che le stesse facendo un disegno, un
tatuaggio. Sara cercò di contorcersi, di scappare, ma era impossibile rompere
le cinghie o entrare nella mente del vampiro.
Il
supplizio non era superiore alla maledizione Cruciatus, ma era ugualmente
straziante, e fu lungo. Durò diversi minuti prima che Sara realizzasse che
intorno al suo ombelico c’era una spirale di scritte in vampiresco.
Le
cinghie furono sganciate e lei cadde di peso a terra, stringendosi su sé
stessa, come se ciò potesse fermare il dolore. Iniziò subito a tossire sangue.
- Non
capisco, - disse il vampiro marchiatore.
- Soffre,
- rispose seccamente la guardia, - Non è una vampira! -
- E’ un
umana! - esclamò il vampiro, ritraendosi.
- O
peggio… un mezzo vampiro! -
Le loro
chiacchiere vennero interrotte dal solito ometto tremolante e timoroso che
ancora una volta Sara non riconobbe. Il dolore era troppo per consentirle di
reagire o di alzare la testa.
- Ha
ragione, - disse la guardia quando il tizio ebbe cessato di sussurrare alle
loro orecchie - per non far sentire a Sara la sua voce.
- Non so
cos’abbia in mente Seymour… - disse il vampiro, - Ma è un Dominante. Dobbiamo
fare come dice. - E se ne andarono, lasciando Sara a soffrire nella stanza buia
mentre il tramonto si avvicinava sempre più inesorabile.
Sara non
volle domandarsi se fosse già arrivata la notte.
Il dolore
era passato, ma con esso anche la consapevolezza di dove si trovava. Le ci
volle un po’ per alzarsi in piedi e recuperare la stabilità. Era sporca del
sangue che aveva tossito, e si accese la seconda sigaretta magica nella
giornata per evitare di fare troppo rumore nel tossire. Realizzò di trovarsi
ancora nel Palazzo dei Dominanti. Non sapeva se da quando l’avevano marchiata a
quel momento era svenuta, sapeva solo che un pezzo della sua giornata mancava
nella sua memoria, cancellato dal dolore residuo alla pancia. Il marchio
vampiresco era scomparso.
Per
fortuna.
Decise
che il tramonto poteva essere vicino, o peggio, già passato, e che aveva
ottenuto abbastanza informazioni. Avrebbe dovuto uscire… scappare di lì… ma
allo stesso tempo la curiosità la divorava. Seymour non poteva essere lo stesso
che lei conosceva, non poteva essere il suo bis-bis-nonno? Si sforzò di
convincersi di no. Perché di certo non era un Dominante di New Bucarest! Lui
viveva in Inghilterra…
Forse.
Per quel
che ne sapeva Sara, avrebbe potuto essere ovunque, ma di una cosa era certa,
adesso. Al diavolo Lion e i suoi ordini, dopotutto si preoccupava della
segretezza della sua base, non della salute di Sara. E lei si era unita ai
Cavalieri non solo per sfogare la sua vendetta, ma per rispedire la sua
famiglia da dov’era venuta.
Nelle
tombe d’ambra.
Per
quanto il suo cervello si sforzasse di credere che non era così, il sesto senso
di Sara stava formulando una teoria. Seymour era un Mangiamorte, non molto
disciplinato, forse, ma lo era. E quindi poteva essere lui quello che stava
reclutando nuovi adepti per l’esercito del suo Padrone: vista la sua posizione
di Dominante, non era difficile, neanche in un mondo senza regole come quello
dei vampiri…
Sara
decise di porre fine alla sua curiosità: spalancò la porta e si diresse senza
troppe cerimonie nella Sala Principale del palazzo, soltanto per scoprire che
era completamente deserta. Non si sentiva un rumore, e questo non era un
vantaggio a New Bucarest, quando il pericolo per un essere umano poteva
spuntare in silenzio da qualsiasi angolo poco illuminato.
- *Ciao,
Sara.* -
Sara fu
vicina all’infarto, e dalla paura per un pelo inciampò. Non si aspettava quella
voce, era troppo impegnata a fissare le splendide architetture vampiresco del
salone. Si volse con uno scatto frenetico, e non ebbe più dubbi che quella non
era la sua giornata.
Un uomo
più alto di lei di qualche centimetro stava in piedi comodamente appoggiato ad
una colonna lavorata, con le braccia incrociate sul petto. Il taglio corto dei
capelli castani lasciava che qualche ciuffo ricadesse sugli occhi blu intensi,
sottili e penetranti. Nel bel viso si poteva vedere chiaramente qualche
lineamento che lo rendevano vagamente rassomigliante a Scilla la quale, del
resto, era sua figlia. Seymour Gray. Ufficialmente morto ad Azkaban, ma in
realtà fatto scappare da Demetrius con la Pozione Galleggiante.
- O
magari dovrei dire “Buongiorno, Vostra Grazia”? -
- Che
diavolo stai dicendo? - disse Sara, solo vagamente inebetita.
- Era
l’unico modo per impedire che ti facessero fuori, - rispose tranquillamente
Seymour, - I Dominanti in questo posto sono gli unici che possono uccidersi fra
loro, ma se un vampiro normale tentasse di morderti adesso, morirebbe subito
carbonizzato. E’ la nostra regola. Noi dobbiamo mantenere l’ordine a Neo
Bucareşti, e impedire che qualche creatura non completamente vampiro passi
i nostri confini. -
- Allora
dovresti uccidermi, non pensi? - disse Sara sputando la sigaretta sul
pavimento. Seymour si staccò con grazia dalla colonna e fece qualche passo
molto lento verso di lei, facendola segretamente rabbrividire.
- Chissà…
forse. - disse Seymour in tono enigmatico. Sara tentò di Smaterializzarsi, ma
scoprì che non ci riusciva. Evidentemente simili trucchi non erano possibili
nel Palazzo dei Dominanti. Sara si sentiva come paralizzata. Non riuscì a
muoversi neanche quando sentì il fiato di Seymour sul collo, zona dove aveva
rischiato di essere morsa sei o sette volte nell’arco della stessa giornata.
Una domanda la perseguitò da quei pochi secondi in poi: non riusciva a muoversi
o non voleva muoversi? - Suppongo che
sarebbe il mio dovere… ma vedi… io ho un altro capo da seguire… -
- Già, -
disse Sara con voce ancora più secca, ma tremante, - Voldemort. -
- Mh. -
Seymour emise una specie di risata sommessa, ma non si mosse. Strusciò le
labbra contro la pelle bianca di Sara, e lei era certa di sentire una specie di
sibilo provenire dal nulla. Una sorta di risucchio. Era tesa, ma non osava
muoversi. - Io seguo me stesso, Sara… me stesso. -
- Tu non
segui te stesso, - ribatté Sara, trovando la forza chissà dove, - O non saresti
qui e convincere tutti quelli che puoi ad unirsi a Voldemort. -
- Non hai
imparato molto sulle leggi della sopravvivenza, - disse Seymour, discostandosi
finalmente dal collo di Sara. Lei si accorse che il proprio respiro era
orribilmente affannoso. - Ci sono gli ordini dall’alto e gli ordini dal basso, -
proseguì il vampiro, - Spetta al servitore decidere quando arriva il momento
giusto per cambiare strada. E diventare padrone… -
- Non hai cambiato strada! - gridò Sara,
e il ruggito del drago nero si impossessò della sua voce ancora una volta. Sara
trovò finalmente l’energia per spingere via Seymour, dato che era ancora troppo
vicino. - Tu vuoi soltanto che Voldemort ti porti al potere! Sarà quello il
momento giusto, non è così? Quando sarai più potente di lui… che cosa farai,
eh? Lo ammazzerai? -
- Non
confondermi con mia figlia, - disse Seymour stranamente docile.
Sara
rimase in perfetto silenzio. Quelle parole, o forse quel tono di voce, l’avevano
paralizzata. Che cos’aveva Seymour che funzionava come una calamita? Perché
Sara non alzava la mano e si copriva il collo?
Idiota, si disse… E’ soltanto un parente… un parente lontano quattro o cinque dinastie…
Seymour
riprese a parlare.
- Tu non
hai razza, Sara. Non sei pura né come vampiro né come strega. Sei la metà di
qualcosa, di qualsiasi cosa… non sei né umana né vampira, né strega né Babbana…
- Sara lo avrebbe ucciso. Quelle parole l’avevano tormentata per una vita senza
che lui gliele ripetesse. - Voldemort può sperare di controllare i vampiri… e i
vampiri possono sperare di raggiungere il potere grazie a lui… ma non
capiscono, vero, Sara? Nessuno può comprendere… come ci si sente soli quando si
vedono crescere e morire intere famiglie di fronte ai propri occhi, e quante
persone invecchiano mentre si resta sempre uguali… -
- Lo so… -
disse Sara, la sua voce ridotta a un gemito. Poi se ne rese conto. Seymour
voleva morderla. Stava cercando di convincerla che era la cosa giusta da fare,
che avrebbe posto fine a tutto, ma no, lei non ci sarebbe cascata tanto
facilmente… - Cosa pensi di fare,
Seymour? - gridò, per respingere l’implorazione della sua anima.
- Tu sei
convinta che nessuno ti capisca, Sara, - disse Seymour senza ascoltarla
neanche, - Ma tu non ha vissuto in una casa piena d’odio, di raffinata
perversione, non hai visto le ere susseguirsi dietro le sbarre dei Azkaban… per
quanti anni? Venticinque, dice la gente… Ma non erano affatto venticinque...
Erano trecentoventi… - Sara si sentì mancare. Barcollò all’indietro ed infine
le sue gambe non ressero. Trecentoventi anni ad Azkaban. Trecentoventi anni
sotto lo sguardo dei Dissennatori, tre secoli trascorsi nel luogo più orrendo
del pianeta. Seymour scomparve a apparve di nuovo di fronte a lei,
trattenendola per il polso prima che cadesse semi-svenuta, e poi tirandola
verso di sé.
- Non è
possibile… - ansimò Sara, ancora scioccata.
- Sì,
Sara… lo è… - sussurrò Seymour con voce sempre più languida, - Non sei dunque
così imperturbabile… - e sorrise, mostrando i denti. Un bagliore sfavillante
per un istante possedette i suoi occhi. - Ho vissuto per un numero
incalcolabile di anni vedendo la storia che si disfaceva e si ricomponeva sotto
l’opera degli uomini… ho osservato tutto ciò che un essere umano si sarebbe
solo sognato di osservare… Ma il destino di un vampiro è immutabile. Il destino
di un vampiro è il silenzio. La segretezza. Lo sai, Sara… il destino di un
vampiro è lasolitudine. -
Sara si
sentì di nuovo prossima al perdere i sensi, ma Seymour la sorreggeva. Si
accorse che stava sudando. Era quello il potere di un vampiro, o forse soltanto
Seymour aveva una caratteristica del genere? una parte di Sara non voleva
essere morsa…
Ma la parte
che stava trionfando era l’altra. Seymour aveva ragione…
Non si
era mai sentita chiamare per nome da nessuno. Non aveva mai trovato nessuno che
potesse capire come si sentiva tutte le volte che ripensava all’eterna
giovinezza.
- Il tuo
padre scellerato ti morse, ci provò, almeno… e ora anche tu sei condannata.
Avresti potuto vivere felice, se io non fossi stato morso trasmettendo il
sangue di vampiro a quasi tutta la famiglia. Avresti potuto essere normale, se
soltanto fossi nata da un’altra parte… in un’altra vita… -
In
un’altra vita… parole che non erano usate a caso.
Gli occhi
di Seymour erano semi-chiusi, due fessure.
- Non hai
più nessuno su questa terra al quale dovere qualche cosa che somigli alla
gratitudine, Sara… - disse il vampiro, scostandole i capelli dal collo e
avvicinando il viso alla pelle, sfiorandola con le labbra. - E neanch’io ho
qualcuno di questo genere… Vedremo morire gli unici che sono rimasti
perseverando nella nostra immutabile giovinezza. Noi siamo due dannati. Non per
il destino che ci è toccato, ma per la consapevolezza di esso. Nessun altro di
quei vampiri là fuori capirà mai queste parole… eppure hanno il nostro stesso
fato, ma non sono come noi. Loro ne vanni fieri… Soltanto noi sappiamo che cosa
significhi provare tanto dolore da uscire di senno… -
Sara
avrebbe pensato che si trattava di un tentativo di persuasione, se solo avesse
avuto modo di convincersene: non era così.
In
quell’unico attimo fugace che era riuscita a leggere la mente di Seymour, si
era resa conto che ogni sua parola era la realtà. Che ciò che aveva provato era
superiore a qualsiasi parola potesse uscirgli dalle labbra. Aveva recitato, per
anni, per giungere a quel momento.
Erano due
dannati. Due anime maledette.
- Siamo
rimasti soli, come è nostro destino… lascia che io ti doni un’altra vita, Sara,
una vita completamente diversa da quella che hai adesso. Lascia che il sangue
fluisca… e vivremo l’eternità senza più essere soli. -
Era
quella la cosa migliore da fare, Sara adesso lo sapeva con certezza.
Tudevi
ignorarlo…
Sara non
ignorò Seymour, ignorò quella voce. Quella stupida voce, di quello stupido
Voldemort, che non poteva neanche vagamente comprendere tutto questo…
Era
quella la scelta da effettuare, doveva varcare il passaggio della morte… doveva
rinascere. E avrebbe avuto una razza da definire “sua”, avrebbe avuto un posto
da chiamare casa, qualunque posto, perché ci sarebbe stato anche Seymour,
l’unico essere vivente che condividesse il suo orrendo destino. Perché in fondo
anche quando Sirius era vivo non poteva capirla. Neanche lui era mai riuscito a
capire con esattezza come lei si sentisse, se le aveva tenuto nascosto
dell’eterna giovinezza…
Fu con
perfetta lucidità, e non con folle esasperazione, che Sara tirò verso il suo
collo la testa di Seymour, e poi sentì i denti affondare.
Tu mi devi
obbedienza!
Sara non
sentì Voldemort.
Il morso
fu come avere mille lame piantate nel solito punto, mentre il sangue le veniva
succhiato via… come l’anima dal corpo quando i Dissennatori attaccano. Fu
contemporaneamente un’esplosione di dolore e piacere estremi. Sara spalancò la
bocca e un grido rotolò fuori, strozzato, quando i denti di Seymour affondarono
ancora di più nella carne. La vita fluiva via dalle sue vene… ma era solo il
suo corpo che moriva. Sara piantò le unghie nella schiena di Seymour, gridando
di nuovo, il morso aveva raggiunto l’apice. Poi le sue membra si afflosciarono,
quasi del tutto private di forze, e Seymour lasciò che Sara si lasciasse
lentamente andare sul pavimento. Il sangue gli sporcava completamente le labbra
e scivolava sulla pelle pallida fino al collo. Sara vedeva a mala pena, aveva
gli occhi appannati.
- Stai
cessando di respirare, - disse Seymour a voce bassa, tirandosi su una manica
della veste. Fu sufficiente che una sua unghia sfiorasse la pelle sotto il
polso, e un taglio comparve immediatamente, dritto e sanguinante. - Bevi. -
Nonlo
farai…
Seymour
avvicinò il polso alla bocca di Sara, che a mala pena fu in grado di capire
cosa stava succedendo. Sentì delle gocce di sangue caderle sulla pelle, sulle
labbra…
Non farlo, setieni
alla vita!
- Bevi e
ritorna in vita. - la voce di Seymour era un sussurro.
Sara
sollevò a mala pena la testa, tirando a sé il braccio sanguinante di Seymour.
Chiuse gli occhi. La ferita sul polso del vampiro era vicina alla sua bocca.
Una lama
si alzò, sfavillando, sfiorando il petto di Seymour all’altezza del cuore e poi
posizionandosi sotto la sua gola. Il polso di Seymour, in quel movimento, si
tranciò di netto, ma lui non emise un grido. Si alzò lentamente. Sara aprì gli
occhi e vide Sniper in piedi accanto a lei.
- Sgombra
o ti taglio la testa, vampiro, - sibilò Sniper.
- Credi
che sia stato solo io a volerlo? - sorrise Seymour senza muoversi.
- Lei
non… non avrebbe mai… Certo che sei
stato tu! - gridò Sniper, - Stai lontano da lei! -
Seymour
alzò appena le braccia con un sorriso ironico.
- Cosa
credi di fare contro di me, cacciatore? - disse, e Sniper sussultò.
Effettivamente non aveva contro Seymour le stesse speranze di vittoria che
possedeva contro altri vampiri. - Anche se tu riuscissi a farmi un solo graffio
avresti l’intera città addosso… è questo che ti ha ordinato il tuo capo? -
- Non
provarci mai più, Seymour. - disse Sniper scrollando la testa, facendo
sorridere il vampiro con ilarità ancora maggiore. Sniper si chinò in modo da
poter sussurrare all’orecchio di Sara di tentare di trasformarsi.
- Solo io
posso salvarla, - fece notare Seymour, - Ha perso troppo sangue. -
- Non è
detto, - ribatté gelidamente Sniper. Sara si sentiva un automa privo di
volontà, e non ebbe nient’altro da fare se non trasformarsi come il cacciatore
le aveva detto. In una nube rossastra, al posto di una ragazza apparve un corvo
morente che perdeva penne ad ogni minimo movimento. Sniper raccolse l’animale
più lentamente che poté, e senza nemmeno guardare in faccia Seymour corse più
velocemente che poteva verso il portone.
Ma
proprio mentre lo stava spingendo per scappare, Seymour apparve appoggiato alla
parete di fianco all’uscita e fissò Sniper con uno sguardo indecifrabile.
- Che
cosa farai quando morirà dissanguata, Sniper? - disse Seymour alzando un
sopracciglio.
- E’ per
colpa tua! Credevo facessi parte della sua stessa famiglia! -
-
Famiglia? - Seymour si voltò da un'altra parte e ripeté lentamente quella
parola, contemplandola con pieno sarcasmo, - Ha qualche importanza? - aggiunse,
voltando lentamente la testa in direzione di Sniper, - La nostra famiglia è
importante soltanto per il potere che ne è derivato… Tu non capirai mai che
cosa ha significato “famiglia” per Demetrius… niente. -
Sniper
voltò furiosamente la testa e dette un calcio alla pesante porta di legno,
spalancandola, pronto ad uscire.
- Quando
morirà sarà per causa tua, Sniper… non mia. -
Sniper si
voltò, ma Seymour era sparito. Aveva parlato da qualche altra dimensione,
direttamente nel suo cervello, con una voce innaturale. Sniper non aveva tempo
per quei ragionamenti: si Smaterializzò pensando intensamente al quartier
generale dei Cavalieri dell’Alba, un istante prima che le guardie gli fossero
addosso.
Sara
respirava lentamente ma regolarmente, avvolta in una pesante coperta su uno dei
divani della base. Asia e le ragazze, tranne Luna, che era di nuovo in perlustrazione,
fissavano un po’ lei e un po’ Lion, con sguardi preoccupati: l’uomo volteggiava
intorno alla stanza misurandola a grandi passi, rimuginando maledizioni. Rotten
lo ignorava completamente, troppo occupato a bollire una pozione all’aglio. Sniper
era seduto sullo stesso divano di Sara. Tutti avevano notato che lei,
nonostante fosse quasi in fin di vita, riusciva ad essere più schiva del
solito: continuava a divincolarsi ogni volta che Sniper tentava di prenderle la
mano, come se fosse stata arrabbiata con lui per qualcosa.
- Morsa… da… un… vampiro! - scandì
furiosamente Lion, voltandosi verso Sara come se fosse stato pronto a tagliarle
la testa. La sua mano indugiava pericolosamente sulla sua scimitarra. - Cosa mi
garantisce che non lo sia diventata anche lei? - aggiunse, gridando.
- Non ha
bevuto il suo sangue, - spiegò svogliatamente Rotten senza voltarsi.
- Chi ce
li assicura? -
- Io, -
rispose lentamente Sniper, e Lion sembrò calmarsi.
Riprese a
girare per la stanza, perseguitato dagli sguardi fin troppo eloquenti di tutti
i presenti, specialmente di Asia. E quelli
probabilmente erano gli occhi penetranti che gli facevano più male.
Ma la
calma apparente durò poco.
- Avresti dovuto stare più attenta! -
inveì Lion in direzione di Sara. Il fatto che la ragazza fosse così spossata da
non accorgersi della sua esistenza lo mandava su di giri ancora di più. - Non ti avrebbe morso se tu non lo avessi
attaccato! Perché è questo che hai fatto, vero? Stupida imprudente! -
- Sei
stato tu a dire che per rendersi utile doveva andare laggiù, - ribatté Asia
sulla difensiva, cercando di non apparire troppo aggressiva. Lion si voltò
verso di lei con aria furente, ma lentamente si sbollì, ansando. - Lo so che ti
preoccupi per lei.. per tutti noi, insomma… - si affrettò a precisare Asia, -
Ma stai esagerando. Non avrebbe certo voluto lei che quel vampiro la mordesse,
no? L’importante è che sia tornata viva. -
- Ascolta
la voce dell’ingenuità, Lion… - commentò aspramente Rotten, avanzando verso
Sara con una pozione puzzolente. - Così magari diventerai un’idiota. -
Asia,
infuriata, aprì la bocca per ribattere, ma la puzza sprigionata dalla pozione
la indusse a chiudere subito la bocca. Rotten la versò completamente sul collo
di Sara, in corrispondenza della ferita, e questa si rimarginò immediatamente.
Sara sembrò non rendersene neanche conto, emise soltanto un sospiro dovuto al
pessimo odore dell’intruglio.
Sara
sembrò riprendersi di colpo, e si alzò in piedi nonostante si sentisse ancora molto
debole. Avrebbe preferito restare sdraiata, ma non ci teneva a dare agli altri
l’impressione di essere così facile da mettere al tappeto. Barcollando, riuscì
dopo qualche minuto a recuperare l’equilibrio. Rotten le accese una delle sue
sigarette, per evitare che tossendo potesse perdere altro sangue.
- La
situazione è chiusa, - dichiarò Lion andandosene, e nessuno provò a fermarlo.
Ma tutti lentamente lo seguirono nelle stanze interne della base. Sara aveva la
netta e fastidiosa sensazione che stessero scappando da lei, almeno a giudicare
dalle occhiate che le lanciavano nell’allontanarsi.
Anche
Rotten se ne andò. Rimasero solo Sara, Sniper e Marte, che come al solito
guardava fuori dalla finestra. Sara non resistette e lesse i suoi pensieri, pur
avendone una vaga visione e niente di più. Stava pensando a coloro che aveva
perso a causa dei vampiri, alle sue figlie e alla donna che amava. Sara sapeva
che cosa significasse trovarsi privi di qualcosa di così importante, ma non
poté fare a meno di notare - e con orrore - che non si sentiva affatto in
collera con la razza dei vampiri. Non guardava indietro verso New Bucarest con
rancore, o con qualsiasi altro sentimento che potesse somigliargli.
Voleva
tornarci.
Dovette
ripeterselo più di una volta per convincersi che era proprio vero. E in quel
momento sentiva di odiare Sniper ben oltre la leggera ed amichevole avversione
che aveva provato in precedenza nei suoi confronti. Era stato lui a salvarla: e
questo pensiero, invece che riempirla di gratitudine, la colmava di disprezzo.
Perché lo
aveva fatto?
Seymour
aveva ragione, non era stato soltanto lui a volerlo. Forse prima l’idea non
l’avrebbe neppure vagamente sfiorata, ma ora Sara doveva ammettere che lei
aveva desiderato di bere quel sangue da quando era stata morsa fino a quel
momento. E tutt’ora quel desiderio perseverava. Sperò che nessuno se ne
accorgesse, perché non è un buon cacciatore uno che vuole diventare un vampiro.
Sara si
tastò la pancia, scoprendo ancora una volta che il tatuaggio era scomparso. Ma
indubbiamente c’era ancora, perché le dava un leggero prurito. Il marchio dei
Dominanti. Non lo aveva detto a nessuno, e questo poteva essere un suo
vantaggio; Sara ci pensò soltanto per un attimo, e fu un attimo intenso… Poteva
tornare a New Bucarest. Se aveva quel marchio e se tutti i vampiri non potevano
avvicinarsi al palazzo dei Dominanti, significava che chiunque avesse quel
tatuaggio era in salvo da qualsiasi pericolo di quella città. Allora lei
avrebbe trovato Seymour e stavolta nessuno si sarebbe messo in mezzo…
Che
diavolo stava dicendo? Si tirò uno schiaffo.
Il suo
dovere, sia quello di cacciatrice sia quello di persona, era uccidere Seymour.
Era per causa sua, anche se involontariamente, che era risorto insieme agli
altri, ingrossando le fila dell’esercito di Voldemort. Non doveva unirsi a lui,
ma polverizzarlo.
Era
quella la sua missione… Lei era forte, e doveva farcela.
Marte si
scostò dal vetro, dirigendosi verso la porta.
- Sarai
brava a combattere e a nascondere i tuoi sentimenti, - disse, nel passarle
accanto, - Ma lo sai meglio di me… Sei una debole. -
Sara si
sentì barcollare. La ferita fu a scoppio ritardato, ci mise un po’ a
sanguinare. Un altro Legilimens?
Buttò a
terra la sigaretta e la pestò, la pestò di nuovo, con tutta la forza che aveva.
Quando
Marte se ne fu andato, Sniper trovò che era il momento giusto per cambiare
completamente discorso. Avanzò verso Sara, nonostante sapesse che da quando era
tornata da New Bucarest non era stata più la stessa. Estrasse qualcosa dalla
tasca e Sara sentì il suono della carta come un rimbombo. Non si curò di
voltarsi a guardare cosa stava facendo Sniper.
- E’
arrivato un gufo poco dopo che sei… emh… entrata, - disse Sniper, riconoscendo
a sé stesso che non era un gran che come frase d’esordio. Sara si voltò
distrattamente, pensando che Sniper non glielo avrebbe mai detto se non fosse
stato indirizzato a lei, e la cosa la sorprese: chi poteva mandarle un gufo?
Non ne erano arrivati dall’inizio dell’estate ed era convinta che non ne
sarebbero mai arrivati altri. - Non so cosa sia, ma… -
A quel
punto Sara si voltò definitivamente, e si sentì barcollare. Ciondolante dalla
mano chiusa a pugno di Sniper, c’era una catenina d’argento luccicante alla
luce delle torce, appesa alla quale stava un ciondolo a forma di cuore alato
con due ali anch’esse d’argento, simili a quelle di un angelo. Sara si diresse
lentamente verso Sniper, sollevando contemporaneamente la mano. Aveva gli occhi
sgranati. Aveva perso all’Ufficio Misteri quel ciondolo, e non si sarebbe mai
sognata di ritrovarselo di colpo davanti. Il ciondolo oscillava appeso alla
catena d’argento, e Sara lo prese lentamente, con l’espressione incantata, come
se avesse avuto paura di romperlo.
- Non
c’era nient’altro? - chiese Sara, istintivamente.
- Era
dentro una busta… e c’era una lettera, - rispose Sniper. Vide con una fitta al
fianco che lo sguardo di Sara gli chiedeva di poterla leggere. - Ma Lion, ecco…
-
- Che
cosa? - lo incalzò Sara inclinando la testa di lato.
Sara
dapprima restò paralizzata. Strinse forte il pugno sul ciondolo, facendo
tintinnare la catenina. - Cos’ha fatto?
- ripeté, scandendo le parole.
- Diciamo
che… bhe, non preoccuparti, non l’ha letta… Però pensava che non fosse una
buona idea. - Sara immaginò con disgusto che si trattasse di un’altra delle sue
idee riguardo alla segretezza dei Cavalieri. Ma dal momento che per due mesi
aveva visto i membri della squadra ricevere o spedire regolarmente lettere, non
poté fare a meno di stringere ancora di più la presa, tanto che le ali del
cuore nero le si piantarono nella carne, facendole sanguinare la mano.
- Voi non
vi fidate di me, vero? - ringhiò, dapprima con la voce assente, poi
trasformandola in un ruggito, - Credete
che abbia chiesto io di nascere così?
-
Sniper
sembrò farsi di ghiaccio a quell’affermazione e toccò a lui stringere i pugni,
ma poi tornò al suo normale atteggiamento.
- Io mi
fido di te, Sara… - cercò di iniziare, ma Sara lo interruppe.
- Se ti
fidi, perché mi seguivi a New Bucarest? -
- Non ti
stavo seguendo! - protestò Sniper.
- E
allora come hai fatto ad arrivare al momento
giusto? - Sniper non seppe cosa rispondere. non si era aspettato una domanda
del genere, ma di una cosa era certo. Doveva trovarsi una risposta alternativa
prima che i tremendi occhi di Sara potessero vedere attraverso la stoffa, e
attraverso il suo cervello. Sarebbe bastato un attimo di esitazione, nonostante
il suo potete indebolito. - Io avrei
voluto essere normale! - gridò Sara, al limite dell’esasperazione, - Da una vita… Da una vita non penso ad altro!
Non puoi neanche immaginarti quanto sei fortunato! Quanto mi sarebbe piaciuto
essere come tutti gli altri! -
Si fermò,
ansando, camminando all’indietro, come spaventata dai suoi stessi sentimenti. O
forse la cosa che la sfiniva di più era il fatto che Sniper per tutta la durata
del suo sfogo non aveva neanche cambiato espressione.
- Volevi
essere come gli altri, allora? - ripeté Sniper in tono stranamente più maturo
del solito, - Volevi essere anche tu stupida e ingenua? -
- Non
tutti gli umani sono così, - ribatté Sara in tono aspro, mentre il sangue della
ferita colava arrotolandosi intorno alle dita. - Non ho bisogno che tu mi
consoli offendendoti da solo. -
- Ma
tutti i deboli hanno bisogno di consolazioni, - disse Sniper avvicinandosi a
lei.
Sara
tentò di spingerlo lontano, ma non riuscì a smuoverlo di un centimetro. Scoprì
di non avere più nessuna forza nelle braccia, si sentiva moscia, come una
bambola snodata. Sniper ormai le era appiccicato, sentiva il suo respiro sui
suoi capelli, ma nonostante il calore del suo corpo, Sara era rabbrividita.
Sì,
avevano ragione… non era mai stata così forte come aveva sempre creduto di
essere. Si era sempre illusa, per cercare di trovare in sé stessa meno lati
negativi di quanti veramente ce ne fossero. Altrimenti non si spiegava quello
strano desiderio… quel senso di ansia, di paranoia, che le provocava la voglia
incontrastabile di tornare a New Bucarest e cercare Seymour, e a impedirglielo
era solo la stanchezza fisica.
Seymour
l’aveva convinta fino a quel punto?
O era lei
che aveva ceduto troppo facilmente alle sue persuasioni?
Così come
stava cedendo alla stanchezza, tanto che non era in grado di respingere Sniper.
Era arrivato fino a quel punto il suo desiderio di non essere più sola? Una
persona che non fosse stata debole come lei non avrebbe avuto il minimo di
bisogno di compagnia. Si sarebbe messa in pace con sé stessa accentando e
sopportando ciò che la circondava. Lei non era in grado neanche di vincere i
suoi desideri più deboli.
Sniper la
stava baciando sul collo e sul viso, e senza nemmeno accorgersene lei gli fece
scorrere le mani sulla schiena, lentamente, come se le sue azioni fossero state
dettate da un profondo trance.
Probabilmente
non si era neanche resa conto dell’esistenza di Sniper. Stava pensando a
tutt’altro. Aveva dentro una tale confusione che non riusciva ad articolare un
pensiero intero. Si accorse di non avere più addosso la maglietta e di essere
sdraiata sul divano. Si lasciò andare completamente. Da tempo si era
dimenticata di quella sensazione, e forse c’era ancora qualcosa dentro di lei
che voleva provarla ancora, una specie di fiamma in grado di bruciare il blocco
di ghiaccio che aveva dentro. La luna tramontò, e il cielo si schiarì
lentamente, lasciando il posto ad una nuova alba.
Era la
metà di luglio, inondato da un alone tiepido.
Da prima
che il sole tramontasse, quando il cielo si tingeva
impercettibilmente di colori ovattati dall’arancione al viola, un gruppo di
cavalli dalle lunghe criniere erano in marcia verso un vicino centro abitato. I
cacciatori avevano finalmente scoperto uno dei tanti ritrovi dei vampiri,
quando non erano a New Bucarest o quando venivano
cacciati dalla città sotterranea. Si trattava di un pub rumoroso e affollato in
uno dei quartieri meno appariscenti del paese. Si trovava nella periferia
industriale, lontano dalla strada principale e da qualsiasi abitazione umana.
Lì i vampiri vivevano fino all’alba, quando dovevano trovarsi un nascondiglio
sicuro per ripararsi dai raggi solari. Non aveva importanza se erano vampiri di
sangue puro o misto. In superficie, distanti dalla
protezione che offriva la città dei vampiri, ogni tanto sorgevano rifugi come
quello perché anche i vampiri cacciati da New Bucarest avessero un posto dove
stare e dove nutrirsi.
Sembrava
un normale night club Babbano. Niente lasciava sospettare che fosse pieno di vampiri, e questo era un bene, perché i
viandanti o gli ubriachi vagabondi di razza umana venivano facilmente adescati
dalla forte musica che proveniva dall’interno. E a
quel punto non avevano scampo. Solo uno era riuscito a sopravvivere, Sniper. Lo
avevano scambiato per un vampiro grazie ai denti che gli aveva
impiantato Rotten al posto di quelli normali, e così lo avevano lasciato
andare. Adesso i Cavalieri dell’Alba avanzavano inesorabilmente verso il pub,
ben sapendo che dinanzi a loro si presentava una carneficina. Era sempre
rischioso attaccare dei vampiri in gruppo, perché grazie ai loro poteri
potevano circondarti in un attimo e sbucare da tutte le parti senza che tu te ne accorgessi. Ma i cacciatori
sapevano che, anche se avessero subito delle perdite, erano rimasti gli ultimi
in Romania a poter svolgere quel genere di compito. E
se non erano loro a farlo, il genere umano non aveva scampo, e avrebbe subìto
un lento e graduale prosciugamento. Se i cacciatori si
tiravano indietro, allora non c’era più speranza per nessuno.
Sara era
in ultima fila, e osservava distrattamente il dispiegarsi dei campi e delle
colline ai lati del sentiero sassoso che stavano percorrendo. Guardava lontano,
senza veramente trovare confine all’infinito del suo sguardo, e la sua mente
era un turbinare di pensieri scollegati fra loro, senza uno scopo né una
risposta. Non sapeva neanche lei a cosa dover pensare, e questo in un certo
senso la faceva preoccupare, perché non avrebbe potuto permettersi distrazioni
durante la battaglia. Ma come avrebbe fatto a non
lasciarsi distrarre? Dopo quello che aveva visto a New
Bucarest, e dopo aver saputo che era l’unico essere “umano” che fosse tornato
vivo, non sapeva proprio come avrebbe impedito ai pensieri d’assalirla. Era
ancora vivo nella memoria il morso di Seymour, e nonostante la ferita fosse
scomparsa, il dolore tornava ogni volta che ci pensava.
Che
cos’era meglio? Diventare un vampiro o restare com’era?
Sara non
avrebbe avuto dubbi che la risposta giusta era la seconda, o almeno non li
avrebbe avuti fino al giorno precedente. Ma dopo aver contemplato per un lunghissimo istante, mentre
Seymour la mordeva, l’immensità non più desolata che si estendeva davanti ai
suoi occhi, come poteva esserne sicura?
Guardò il
suo ciondolo: le aveva dato in qualche modo calore, come non ne
aveva mai sentito, come se i suoi amici ci fossero ancora tutti, e
fossero stati appena dietro di lei. Sara sapeva che non era così, che si
trattava soltanto di una meschina illusione, ma era arrivata al punto di
preferire sogni inutili piuttosto che crude verità.
I suoi
ragionamenti vennero interrotti dal fermarsi dei
cavalli, e anche il suo si fermò, nonostante Sara reggesse a mala pena le
briglie. Erano arrivati proprio di fronte al pub, dopo molto tempo che il sole
era calato, e già, sbirciando dalle finestre, si vedeva che i vampiri avevano
affollato la sala. Decine di corpi bianchi, cadaverici, si attorcigliavano
lentamente tra loro come cigni, un preludio all’affondare dei lunghi denti
nella carne, inesorabilmente. C’era soltanto la luce di alcune
torce alle pareti, le cui fiamme erano stregate in modo che fossero azzurre
scuse, così da fare ancora meno luce.
Come
sempre, non ci furono bisogno di parole. Semplicemente
Lion fece cenno ad un gruppo di entrare dalla porta principale, e a un altro di passare dal retro. Sara faceva parte di coloro che sarebbero passati dal retro. Sarebbero entrati
per primi, uccidendo di nascosto quanti più vampiri potevano, e non appena fossero stati scoperti il secondo gruppo avrebbe fatto
irruzione dalla porta principale, aspettando la prima occasione per appiccare
il fuoco all’intero locale. Il fuoco era una di quelle poche cose capaci di
uccidere i vampiri in modo definitivo, a meno che non riuscissero
a scappare volando o Smaterializzandosi altrove: i cacciatori dovevano usare il
fuoco con accortezza, o si sarebbero messi in trappola da soli. I vampiri non
erano facili da intrappolare.
Sara seguì
il solito piano alla lettera. Si trasformò in corvo e volò all’interno, in modo
da controllare la situazione e scegliersi un punto favorevole per dare inizio
alla strage. Si appollaiò senza un briciolo d’orrore sul teschio di un
unicorno, che troneggiava sulla trave portante del pub. Da lì sarebbe calata
sulla folla e avrebbe ucciso in un colpo solo un gruppo di sei vampiri
distratti e semi intontiti dal troppo sangue, intenti ad affondare i denti in
quel che restava di un essere umano crudelmente sezionato. Ormai Sara era
troppo abituata per lasciarsi sorprendere. Il suo
sguardo vedeva alla perfezione nella semi oscurità, e
riuscì così a vedere la corvina Meteor che strisciava dietro il palcoscenico
dove alcune vampire quasi completamente nude ballavano intorno a pali di
metallo insanguinato. Sara vide le labbra di Meteor muoversi pronunciando “Silencio” in direzione di un vampiro che
osservava le ballerine con sguardo ebete. Prima che il vampiro potesse rendersi conto d’essere muto, Meteor gli aveva conficcato
un paletto nel cuore con magistrale precisione, e poi lo aveva pietrificato in
modo che stesse eretto. Meteor ripeté quell’operazione fin quando gli
spettatori delle ballerine non furono altro che un ammasso di statue le quali
sarebbero morte appena l’incantesimo si fosse spezzato.
Meteor aveva fatto fuori almeno otto vampiri. Dopo di lei entrò Sniper, che si
mise tranquillamente a conversare con una vampira seduta al banco. Lei
ovviamente lo scambiò per uno della sua razza, come il mese
prima aveva fatto Sara. La vampira stava per morderlo quando la spada di
Sniper le attraversò il cuore da parte a parte. Sniper sorresse la vampira e la
depose a terra, per evitare che facesse rumore nel cadere. Poi le tagliò la
testa. Dopo Sniper fu la volta di Shiva. Avanzò come un gatto verso i tre
vampiri che stavano all’angolo della stanza, e prima che questi potessero
notarla, lei li aveva ammutoliti come aveva fatto Meteor, e li aveva uccisi tagliando loro la testa e poi nascondendoli sotto un
tavolo in attesa che si polverizzassero.
Ma ben
presto l’incantesimo di pietrificazione di Meteor si sciolse, e con esso anche quello che aveva zittito le vittime, e i vampiri
si risvegliarono: emisero il loro ultimo grido strozzato, che però fu
sufficiente per risvegliare l’attenzione di tutto il locale. Sara calò sulle sue vittime, e con un unico colpo magico di spada mozzò
tutte le sei teste. Con una pedata rovesciò il tavolo addosso a un vampiro che veniva verso di lei, e con un secondo
calcio scaraventò i sei vampiri ancora non del tutto polverizzati addosso al
banco. Le bottiglie si ruppero e i cadaveri si ribaltarono all’indietro, con un
gran fracasso, e poi divennero cenere. A quel punto un calcio di Lion spalancò
la porta principale del locale, e quel che restava dei Cavalieri dell’Alba si
abbatté come un’onda anomala sul gruppo di vampiri. Ai semiumani ci volle ben
poco per rendersi conto delle situazione, e tutti
quelli che non erano ancora ubriachi riuscirono a difendersi in tempo. Marte fu scaraventato contro il vetro e i suoi frammenti gli si
piantarono addosso. Ma nel frattempo Asia aveva
tranciato di netto la testa dell’aggressore. Poi si voltò appena in tempo,
conficcando un paletto nel cuore di un vampiro che stava per morderla. Sniper
fu sbattuto contro un armadio, i cui contenuti, senz’altro
veleni, si riversarono sul pavimento, erodendolo. Il ragazzo si scansò
appena in tempo, e cominciò a sparare con estrema precisione, ammazzando un
vampiro dopo l’altro.
Sara
sentiva il sangue ribollirle nelle vene. Se si trattasse
della smania di uccidere, di ucciderli tutti, o se semplicemente fosse
l’adrenalina del combattimento, non lo sapeva. Anzi, preferì non saperlo. La sua spada aveva appena tranciato di netto
il collo di una vampira che stava per attaccarla, quando uno strano movimento
alle sue spalle non la attirò. Pensò che si trattasse di un altro vampiro
pronto a farla fuori, come sempre. Invece vide che
Lion stava in piedi, immobile, di fronte ad un uomo, apparentemente morto, che
era appena stramazzato al suolo. Sara non distinse subito la somiglianza fra
lui e Lion. Asia sembrava aver dimenticato anche lei la battaglia intorno a
loro, fissava Lion con gli occhi pieni di lacrime e gli stringeva fortissimo la
mano sulla spalla, come a reprimere un grido.
- Che cosa aspetta? - pensò Sara, vedendo che Lion non
accennava a distruggere il vampiro. Il grido d’esortazione che stava per uscire
dalla sua bocca le morì in gola, quando vide che Asia
si copriva gli occhi con la mano mentre Lion trafiggeva il vampiro.
Sara si
diresse verso Asia per chiedere spiegazioni.
- Suo
fratello, - rispose Asia, - E’ successo l’anno scorso. -
Sara non
le fece altre domande, si chiese perfino se la cosa la interessasse veramente,
e tornò a combattere. Non c’era tempo per i sentimentalismi, come Lion stesso
aveva sempre detto, nonostante avesse esitato così tanto a
uccidere suo fratello.
Sara, Meteor e Kill erano stati i primi a raggiungere il piano di
sopra, dove i vampiri tentarono di scappare. Kill ne agguantò
due per le gambe prima che fuggissero dalle finestre, li fece roteare in aria,
e li piantò nelle corna degli ennesimi teschi di equino magico. Meteor estrasse
la bacchetta e fermò un altro vampiro con la Maledizione Cruciatus, facendo
appena in tempo a sparare un paletto metallico nel cuore dell’essere.
Sembrava
che tutto si sarebbe svolto esattamente come al
solito. Qualche ferito, qualche morto forse, perché lo
sterminio di tutti quei vampiri non era esattamente un’impresa dalla quale era
possibile uscire illesi. Poi, sarebbero di nuovo tornati alla base nella
foresta, e la notte successiva il ciclo sarebbe ricominciato. Invece successe qualcosa di diverso.
Sara
aveva appena carbonizzato un altro vampiro quando si voltò
per tagliare la testa ad uno che la stava per attaccare alle spalle. Ma quando
la spada stava per affondare nella carne del collo del vampiro, questo sparì,
rivelando la sua natura di illusione magica. Sara per
un istante rimase paralizzata. Non le era mai successo
di confondersi, non aveva mai sbagliato nel distinguere un’illusione da
un’immagine reale. Mai. Era troppo distratta, stava pensando a ben altro, e
questo non sarebbe dovuto succedere. Fece appena in
tempo ad accorgersi che Meteor era stata colpita e giaceva sul pavimento,
apparentemente morta, poi qualcosa la colpì alla testa, e fece la sua stessa
fine.
*
Ancora le stesse notti, gli stessi incubi da quando era giunta in
Romania. Se i suoi sensi non avessero percepito qualcosa di diverso,
avrebbe detto di essere di nuovo alla base nel bosco, ma non era così. Non si
sforzò di capire dove l’avessero portata, non ne aveva
le forze, si sentiva come priva di sangue. Infatti lo
era, anche se non del tutto. Si alzò tremante sulle ginocchia, rendendosi conto
che due ferite circolari bruciavano sul suo collo.
Era in
una stanza buia, simile ad una cella. Dava decisamente
l’aria di essere molto sottoterra. Per qualche interminabile minuto da gelare
le ossa, Sara credette di trovarsi a New Bucarest, dato che
l’unica fonte di luce proveniva da alcuni cristalli che emergevano dalla terra
e dalle radici: infatti, dopo quei minuti, si rese conto che non lo stava
semplicemente sospettando.
Era vero.
Sentiva
piuttosto distintamente una serie confusa di pensieri nella sua testa, pensieri
che non appartenevano a lei. E li riconobbe irrimediabilmente, erano le menti
di tanti vampiri, una concentrazione come ne aveva
viste solo a New Bucarest, appunto. Erano pensieri così differenti da quelli
umani, così strani… Così superiori. Sara prima di
allora non avrebbe mai pensato una cosa del genere, ma d’altra parte era molto
più terrorizzata all’idea che era quasi contenta di trovarsi lì. Poi si ricordò
che l’avevano morsa, e si analizzò minuziosamente per rendersi conto se aveva
anche bevuto il sangue di un vampiro. Difficile rendersene conto. Ma suppose
che, dato che in quel momento aveva una gran voglia di
patatine fritte, era ancora un umana.
Non c’era
traccia di porte, né finestre. Sara non si spiegava come avessero
fatto a ficcarla lì dentro, se non c’erano uscite, e si convinse che
doveva essersi un passaggio segreto.
Pigramente,
cadde a terra. Era troppo spossata per un altro stupido rompicapo. Comunque, nel tentativo di uscire, se non altro per non
morire soffocata, decise di togliersi la benda dagli occhi; non lo avesse mai
fatto. Il muro rimase intatto, non bruciò né esplose: a risentirne fu lei
stessa. Si rimise immediatamente la benda: di colpo, in un solo istante, il suo
debole potere si era intensificato di almeno cento volte. I pensieri di tutti coloro che vivevano a New Bucarest l’avevano assalita come
tante grida laceranti, aveva rivisto immagini e suoni di cui aveva dimenticato
l’esistenza, poi era caduta a terra, con la faccia sul pavimento, ancora più
stanca.
Ripensò
stancamente agli incubi che si erano svolti nella sua testa da quando si era
addormentata - o meglio, adesso ricordava, da quando qualcosa l’aveva colpita
violentemente alla testa - e non si stupì di trovarli sempre uguali al solito.
Mai nessun sogno, mai niente di allegro. Ma ormai non se ne meravigliava né provava una tristezza
superiore a quella nella quale versava già. Dopotutto si era convinta che al
mondo la felicità rappresentasse solo uno strato sottile, una difesa patetica
che gli umani utilizzano per proteggersi da ciò che covano
nell’anima, nel profondo. Una nebbiolina fuggevole, un riposo precario per
nascondersi dai mostri del cervello di ogni umano.
Sara
sapeva che tutto questo era una conseguenza della morte di Sirius.
Ripensò a
tutte le facce sorridenti che aveva visto nel corso
della sua esistenza, e non poté fare a meno di trovarle ridicole. Sirius era
morto, e il suo velo di felicità si era essiccato. Per sempre, probabilmente.
Sara
sarebbe rimasta ancora delle ore a pensare a tutto ciò, ma un’esplosione di
pensieri oltre il muro alla sua destra fu tanto fragorosa
da farla sobbalzare. Si alzò in piedi. Aguzzando l’udito, si accorse che alcune
persone - o meglio, sicuramente, alcuni vampiri - stavano parlando
concitatamente nella stanza che probabilmente era lì accanto. Sara appiattì
l’orecchio contro la parete.
- Non essere ridicolo. Se fosse
stata veramente come dici, non ci avrebbe sterminati in quella maniera
con quegli stupidi ammazza-vampiri. -
- Non spetta a te giudicare, un Dominante fa
sempre quello che vuole. -
- Non è un vampiro! Ha
soltanto il sangue… di qualche parente, immagino! -
- E allora? E’ stato Seymour a deciderlo.
Guarda quell’idiota di Julius: l’ha morsa e prima ancora di ucciderla si è
carbonizzato. Non ti basta come risposta? -
- Bhe? E allora che
cosa dovremmo farne di lei? Dobbiamo ammazzarla comunque,
o porterà i cacciatori qua sotto. -
- Nessuno saprà niente se muore di fame in
quella cella. O se abbiamo fortuna sarà già morta
soffocata. Prega solo che nessuno venga a sapere che l’abbiamo portata fin qua,
o ci condanneranno alla luce del sole. -
L’altro
vampiro parve rabbrividire ed emise un verso sprezzante.
- Hai ragione. E’ la cosa migliore. -
Sara
aspettò ancora qualche secondo, poi i vampiri tacquero e lei tornò a sedersi.
Meditava
sul fatto che non aveva capito una parola. Ma questo
non era un problema, sarebbe uscita di lì e avrebbe ripescato nella sua memoria
la conversazione appena udita. Poi qualcuno l’avrebbe tradotta. Ma Sara si
fermò su questo pensiero: non solo non era una buona idea
che Lion sapesse cosa si erano detti quei vampiri, poteva trattarsi di
qualsiasi cosa… Ma soprattutto, nei due mesi che era in Romania, aveva imparato
qualcosa della lingua, ed era certa di non aver riconosciuto neanche una
parola, cosa che escludeva definitivamente che si trattasse di rumeno. Forse
era vampiresco, e in quel caso solo Marte avrebbe saputo
tradurglielo.
Ma Sara
si fidava di Marte come della sua mano destra, cioè
non si fidava affatto.
Decise
che non aveva altra scelta se non trovare il modo di andarsene di lì.
Fortunatamente aveva ancora delle pozioni curative nelle tasche, e una di esse le fece tornare un po’ di sangue in corpo, cosa alla
quale, in verità, stava già provvedendo la natura parziale di vampiro. Per
evitare di tossire troppo rumorosamente si accese una sigaretta, contando sul
fatto che avrebbe trovato l’uscita prima di soffocarsi.
Non le ci
volle molto, a dire le verità. C’erano ancora i due vampiri che aveva sentito
parlare, e nonostante la cosa richiedesse uno sforzo quasi insostenibile, Sara
riuscì a leggere un po’ la loro mente: c’era un sasso all’angolo del muro, che
non era affatto un vero sasso. Sara lo sollevò, e
immediatamente una minuscola apertura apparve silenziosamente nel pavimento di
pietre. Sara, sollevata, non ci pensò due volte prima di uscire. Dovunque sarebbe andata a finire, il grado di pericolo era
identico, ma era senz’altro meglio che morire in quella cella umida.
Attraversò
per alcuni minuti uno stretto corridoio totalmente diverso dal resto delle
strade di New Bucarest: non un intaglio, un dipinto, un’iscrizione.
Semplicemente, terra grezza e radici marcescenti. Gli stivali di Sara
affondavano nel terriccio e ogni tanto strappavano dal terreno dei funghetti
alti pochi centimetri e rilucenti di uno strano bagliore fucsia. Puzzavano di
qualcosa di nauseante, penetrante.
Sara
giunse a termine del corridoio sotterraneo con lo stomaco capovolto a causa
della puzza dei funghetti luminosi. Salì una scala naturale di radici, spinse
una botola di ferro sforzandosi di non cadere per la mancanza di appigli, e si trovò in una stanza spoglia come la sua
cella.
Soltanto,
era enorme, e piena di bare. Tante, tante, tantissime bare. Candele
fluttuati come quelle di Hogwarts brillavano nell’oscurità quasi lunare
di quella stanza, gettando giochi danzanti di luci ed ombre sulle lucide bare
nere, i cui coperchi erano ricchi di iscrizioni in vampiresco, ma nient’altro.
La volta del salone era sorretta da altissime colonne di pietra che talvolta
erano tanto alte che la loro cima sfumava invisibile nel buio. La sala era
vagamente curva. File e file, decine e decine… centinaia di bare, minuziosamente
affiancate l’una all’altra sempre alla stessa distanza. C’era un forte
odore di sangue, ma era tanto vecchio che, più che odore, era vero e proprio
tanfo. Sara non ebbe bisogno di molta fantasia per rendersi conto che quelli
erano tutti vampiri.
Aprì a
caso un coperchio, e una puzza ancor più nauseante l’assalì, ma la sua
abitudine a quel genere di spettacoli permise a Sara di resistere con la
consueta impassibilità degna di un morto. Fissò per ore la pelle bianca,
azzurrognola del cadavere di uomo che stava dentro la
bara, e non ebbe dubbi che quello era veramente morto: entro poco tempo,
sarebbe rinato. Gli erano già spuntati dei canini, ancora giovani e deboli, ma senz’altro pericolosi. Sara chiuse il coperchio della bara
con tutta la lentezza che poté, come presa dalla paura che qualcuno potesse
svegliarsi a causa del rumore, poi procedette. Alcune bare non verniciate e
prive di iscrizioni attirarono la sua attenzione:
dovevano essere recenti. Sara non era sicura che fosse un’ottima idea, ma ne aprì una a caso. Quasi si lasciò sfuggire il coperchio. Asia stava lì, sdraiata. Non indossava i suoi
abiti punk, la collana d’argento col crocifisso e gli
stivali di vernice arancione. I suoi capelli biondo platino brillavano
come di luce propria sugli abiti neri pieni di nastri, e la pelle del viso,
delle mani e delle gambe nude era bianca come quella di un morto, ancor più bianca
di Sara.
Sara
rimase per qualche lunghissimo minuto in quel modo, senza domandarsi chi altro
ci fosse nelle bare recenti rimaste. Poi estrasse un
paletto di legno. Lo appoggiò lentamente sul cuore di Asia,
stringendo i pugni fino a fermarsi la circolazione. Poi dette un colpo secco, e
il paletto affondò. Se Asia era già morta, morì di
nuovo: entro pochi minuti di lei non era rimasta che la polvere. Lasciò
soltanto un anello che portava al dito, un bell’anello d’oro bianco dalla forma
di un serpente. Sara lo prese, se lo mise in tasca, neanche sapeva il perché.
Non rifletteva.
Sara
impiegò molto tempo, ma fece lo stesso con tutte le bare che trovò, e quando
non ebbe più paletti usò la spada.
Stavolta,
però, sentì solo freddo. Avrebbe dovuto esserne felice… avrebbe dovuto essere contenta del fatto che, per una volta, l’uccidere non le
causava alcun piacere, alcuna soddisfazione. Invece, sì sentì
vuota, perché sapeva che stava facendo il suo dovere, e che lo stava facendo
soltanto perché le avevano insegnato che si doveva fare così. Da parte
sua non c’era alcuna volontà. C’era ben altro nella sua mente. Fuori
serpeggiavano le strade di New Bucarest e lì, da qualche parte, c’era anche
Seymour. Sarebbe uscita da New Bucarest o l’istinto avrebbe avuto la meglio e
avrebbe deciso di cercarlo? Sara decise che non avrebbe mai più ascoltato il
suo istinto, dopo tutto i guai che le aveva procurato
in passato. Basta. Pensò intensamente alla base, chiedendosi cosa l’avrebbe
attesa al suo ritorno, che cosa avrebbero detto gli altri… se erano ancora vivi.
Crack!
Si
Smaterializzò, decisa a dimenticarsi per sempre di New Bucarest.
Le
ragazze erano scomparse: non si parlava d’altro al quartier generale, e c’erano
nell’aria progetti di ricerca, perché non potevano lasciarle nelle mani dei
vampiri. Tuttavia, quando Sara si Materializzò proprio di
fronte a loro, i Cavalieri rimasero paralizzati di stupore. Lion fu il
primo a riprendersi, recuperando la sua consueta ostilità, che traspariva un
filo d’ansia.
- Dove sono le altre? - le urlò in faccia, strattonandola.
Sara non
rispose. Non sapeva cosa dirgli.
Gli
lanciò l’anello di Asia, e Lion lo afferrò al volo
guardandolo con un’espressione indecifrabile. Il silenzio di tomba calò
inesorabilmente. Sara credeva di poter sentire il rotolare pulsante dei battiti
del suo cuore.
- Dove
l’hai preso? - insistette Lion.
- A New
Bucarest, - rispose Sara con sincerità.
In un
certo senso tutti se l’erano aspettato, e Sara lo
sapeva. Se i vampiri le avevano rapite al pub la notte
prima, tutti dovevano essersene accorti.
- E ora… ora dove sono…? - chiese Sniper per evitare che Lion
dicesse qualcos’altro.
Sara
scosse la testa. Sapeva che in questo modo non aveva una difesa sufficiente a
ciò che gli altri potevano pensare di lei, e aveva tante cose da dire in sua
discolpa, che però si affollavano confusamente nel cervello e morivano sulle labbra prima che lei potesse pronunciarle. A turno,
tutti si guardarono, e poi ruotarono nervosamente lo sguardo da Lion a Sara.
Lion non parlò. Non parlò per molti lunghissimi minuti, poi
guardò Sara con il peggiore dei suoi sguardi. Uno sguardo pieno
d’odio.
- Non lo
sai? - volle illudersi Lion.
- Lo so, -
rispose Sara, sapendo di essere in trappola.
- Perché tu sei ancora viva? - gridò improvvisamente
Lion, facendo sobbalzare i suoi nervi tesi, - Cosa
hai fatto? -
- Non ho
fatto niente! - ribatté Sara con
veemenza, tentando di difendersi.
- E allora perché sei l’unica che è tornata indietro? -
sbraitò Lion, la cui voce si incrinava pericolosamente
su un ruggito, una specie di boato che gelava le ossa.
- Come avrei potuto tornare indietro se fossi stata colpevole? -
gridò Sara con unA strana voce stridula. Sapeva che
quel tono la tradiva. Ma era innocente. Non aveva
fatto niente. Per tutta risposta, Lion le sferrò uno schiaffo che la fece
sanguinare e, se non avesse avuto il muro alle spalle, sarebbe
caduta. Sniper tentò di fermarlo, ma ottenne pressappoco lo stesso
trattamento.
-
ASSASSINA! - gridò Lion.
Assassina.
Quella
parola esplose nelle viscere di Sara e prese a vorticare come un uragano, un
gorgo. Un buco nell’anima. Assassina.
La parola che la tormentava da anni, la triste verità che
aveva per sempre macchiato la sua vita, il più grande dei suoi rimorsi, delle
sue paure, ma purtroppo anche la linfa che scorreva nelle sue vene.
E ora, in
pochi secondi, il rimpianto che aveva creduto di poter dimenticare
era tornato per tormentarla. Era affiorato dalla sua pelle e la stava erodendo.
Lion
aveva ragione: perché negare di essere stata lei?
Non era
colpevole della morte di Asia, Meteor, Shiva e Luna…
ma era colpevole di un sacco di altre vite che non aveva ancora ripagato.
Meritava quelle accuse. Aveva distrutto famiglie, sradicato intere storie e
speranze di una vita di tutti coloro che avevano
conosciuto la sua spada o la sua bacchetta… Poco importava se fossero vampiri,
Mangiamorte, persone normali… era identico. Aveva strappato tante vite, e in
pochi secondi era capace di sterminare un gruppo intero di vampiri… Ricordava la
strana soddisfazione, per quanto gelida, che provava quando uccideva qualcuno. Se n’era spaventata, aveva cercato di negarla per una vita,
ma ora non c’era più niente da fare per celare la verità. Non c’era altra
definizione per lei, non un’altra parola calzante. Era un
assassina.
Senza
accorgersene era diventata di colpo una statua.
Pallida e
immobile, con lo sguardo fisso, sembrava che non si rendesse neppure conto di
tutto ciò che le succedeva intorno. L’intensità dei suoi pensieri l’aveva
travolta.
Lion la
colpì con una pedata.
- Tu
meriti solo la morte! -
Sara
riconobbe l’ondata della disperazione, dell’umana devastazione psicologica. Era
in grado di sentirla anche con la benda sugli occhi. Chiunque, anche senza i
poteri di Cassandra, avrebbe potuto accorgersi
dell’incendio che consumava in quel momento le viscere di Lion.
In un
attimo nella mente della ragazza scorsero immagini passate che avrebbe voluto
cacciar via.
Asia le
stava presentando le ragazze, sorrideva, e sembrava sempre così distante da
quell’alone spettrale che circondava il resto dei Cacciatori… no, lei sembrava
diversa. Solare. Sembrava l’incarnazione di qualcosa di angelico.
Vide Meteor che distruggeva silenziosa come una pantera i
vampiri al pub... Anche lei sorrideva spesso, con lo stesso sorriso di suoi
fratello Sniper, ma i suoi occhi erano più scuri, più impenetrabili… Vide Luna
trasformarsi in pipistrello e sorvolare il quartier generale per perlustrarlo,
il giorno che Sara aveva scoperto di dover andare a New Bucarest… Vide Shiva
ridere insieme a Asia, ma con quella sua espressione grave, tormentata da
qualcosa di costante, eterno…
E le
sembrò di vedere perfino le figlie e la moglie di Marte, nonostante non le
avesse mai viste, pensò di poterle percepire nell’aria fredda addensatasi
intorno a lei, intorno alla sua morte imminente.
La causa
non era sua!
Lei non
aveva fatto niente!
Aveva
cercato di scappare, avrebbe voluto salvarle, che altro poteva fare? Lasciarle
vivere come vampire? E chi le assicurava che sarebbe
loro piaciuta la vita che aveva letto negli occhi di Seymour, la vita desolata
e glaciale che avvolgeva l’eternità, destinata a tutti quelli della loro futura
razza?
No, era
stato meglio così…
- Sarà
diventata un vampiro il giorno che l’hanno morsa… -
disse Marte, con sguardo accusatorio e tremendamente astioso.
- Non è diventata un vampiro! Non è morta, no? Sarebbe già dovuta
morire e rinascere se avesse bevuto il sangue di quello lì! - la difese Sniper.
Le sue argomentazioni cadevano nel vuoto. Scivolavano addosso ai presenti come
l’acqua sul vetro.
- Ha
ucciso tua sorella! - gridò Zanna.
Sniper
tacque.
- E’ un
vampiro e deve morire! -
- Io non sono un vampiro! - gridò Sara, neanche lei sapeva perché. Nell’universo di
nebbia nel quale era sprofondata il grido risuonò
lontano come se non fosse neppure appartenuto a lei.
- E allora come mai sei illesa? - ruggì Lion.
- Non potevano mordermi! - urlò Sara,
esasperata, e ancora una volta alla sua voce si sostituì un ruggito. - Ho il marchio dei Dominanti! - Non le
importava più neanche di cosa stava dicendo. Se le avessero
creduto o no, ormai non era quello l’importante.
- E che diavolo sarebbe? - disse Marte con la voce gelida.
- Me l’hanno fatto a New Bucarest, - rispose Sara con fervore, - Nessun vampiro
poteva mordermi! -
Di comune accordo, guardarono tutti verso Rotten, che stava in un
angolo senza dire niente. Non c’era niente di strano nel suo comportamento, dato
che era sempre così, e quindi nessuno poteva sospettare…
- Mai
sentito, - rispose seccamente. - Non esiste. -
Gli
sguardi tornarono su Sara, che fissò Rotten con un’espressione incredula e
risentita allo stesso tempo. Aveva mentito spontaneamente? Come poteva
affermare che una cosa simile non esisteva? Sara sapeva che il marchio appariva
soltanto quando stava per essere morsa, perciò non ebbe modo di provare quello
che stava dicendo. Non seppe neanche ribattere alle altre insinuazioni che le
furono rivolte da quel momento. Non sapeva veramente più che cosa dire.
Stremata e con le immagini di tutte quelle bare ancora in mente, non ebbe che
una vaga percezione di Lion che l’afferrava sbattendola in un’altra cella,
annunciando che all’alba la sua vita si sarebbe conclusa.
La cella
era calda, afosa, ma umida. I raggi del sole non vi potevano entrare in alcun
modo, perché era costruita sottoterra. Le pareti malmesse e scolpite dalle
crepe erano ricche di cuscinetti di soffice muschio. Dall’angolo fra la parete
e il soffitto, da una lanosa ragnatela, un grosso rango ciondolava
indisturbato. Una porta massiccia protetta da ogni sorta d’incantesimo non
avrebbe mai permesso a Sara di scappare - forse per questo le avevano concesso
di tenere la bacchetta. Non si sentiva alcun rumore dalla superficie, non era
neanche possibile capire se fosse giorno o notte. Sara disegnava con la
bacchetta linee di fuoco sul pavimento, cercando di non pensare alle poche ore
che la separavano dalla condanna.
L’avrebbero
uccisa all’alba, forse aspettandosi che si polverizzasse come gli altri
vampiri. Era soltanto una magra consolazione il sapere che sarebbero rimasti
delusi, dato che al sole sarebbe rimasta perfettamente integra, ma avevano
altri modi per ucciderla.
Tutto,
per la prima volta, per un accusa che non meritava.
Non le
era mai capitato di essere innocente, di non meritare una condanna.
Aspettare
l’esecuzione sapendo di essere colpevoli sarebbe stato molto meglio che
attenderla con la consapevolezza di essere innocenti, almeno per lei. Sentiva
il bisogno di scappare, ma sapeva che era impossibile, e l’inesorabilità della
sua situazione aveva affievolito sempre di più il suo istinto di fuga, fino a
spegnerlo del tutto. E adesso Sara si sentiva soffocata. Soffocata da fantasmi
invisibili che ruotavano intorno a lei, nella sua testa, da una specie di senso
di colpa che disintegrava ogni volontà da parte sua.
Che cosa
aveva da sentirsi in colpa?
Mancavano
soltanto poche ore al termine dei suoi dubbi, nel senso che da morta non
sarebbe più stata in grado di formularne. E invece di intessere piani di fuga,
stava pensando se le piacesse morire o no. In fondo non aveva più tante cose
per le quali fosse il caso di vivere, se non quei pochi amici, o al massimo
conoscenti, che erano rimasti in Inghilterra. O chissà, visto che ora la
seconda guerra era definitivamente iniziata, non aveva più neanche loro.
Perfino il calore del ciondolo era insufficiente per lenire la sua angoscia,
stavolta. Era convinta di non avere ragioni di vivere. Non c’era niente che
potesse rendere la sua vita felice, quindi forse solo la morte era da
considerarsi un grande dono…. Già, il “meraviglioso dono della vita”, di cui
tutti là fuori parlavano.
Ma esso
non era altro che il grande specchio nel quale si rifletteva la figura
cadaverica dei giorni a venire. Un passaggio nel quale scontare l’inferno che,
in qualche modo, aspettava tutti gli esseri umani.
Anche se
ci fosse ancora qualcosa per cui lottare, che cosa c’era al termine? La luce,
forse? Un attimo di pace? Ma da quando era risorto Voldemort, c’era ancora da
sperare in qualcosa, esisteva ancora un barlume di speranza sotto quella coltre
imperscrutabile?
No.
Ci
sarebbero stati altri morti, Babbani, maghi, di ogni razza. Il destino degli
abitanti del pianeta, in quel momento, procedeva malignamente verso la morte.
Non per tutti
era qualcosa di cui avere paura. Per Sara era decisamente una liberazione.
Ma la
vendetta… Non riusciva a credere che il suo desiderio di vendicarsi fosse così
forte da farle desiderare di vivere, dopo l’esistenza che aveva condotto fino a
quel momento. Tutto si stava per concludere fra le quattro mura di quella cella
umida, inevitabilmente, ma c’era ancora una fiamma che consumava la fatalità di
quel destino: la vendetta. Sara doveva ucciderla. Doveva uccidere Bellatrix, ma
in modo diverso da come lei aveva ucciso Sirius, no, lei doveva soffrire. E
questa per Sara era decisamente l’unica cosa che le facesse apparire la vita un
appiglio ancora desiderabile.
Sentì la
porta massiccia scricchiolare, e si aspettò che una lunga striscia di luce
solare, proveniente dalla sommità della scalinata di pietra, si disegnasse sul
pavimento. Invece no: era ancora notte. E non c’era Lion sulla soglia, nessun
altro dei suoi carnefici. C’era il solo che le aveva sempre incondizionatamente
creduto, che aveva, in qualche modo, dimostrato di tenere a lei. La amava,
forse? Difficile da stabilire. Dopotutto in quel caso l’amore non era che un
passaggio, proprio come la vita.
Sniper si
avvicinò a Sara ignorando la luce funerea che irradiava la ragazza.
- E’ ora,
- disse.
- Per
cosa? - chiese Sara, senza volontà.
- Per
scappare, - rispose Sniper. Prendendola per mano la aiutò ad alzarsi, poi si
diresse senza esitazione verso un punto qualunque del muro che delimitava il
perimetro della cella. - Portus, -
ordinò, con la bacchetta tesa verso un piccolo sasso. Sara non fece caso
all’oggetto dell’incantesimo fin quando non lo vide illuminarsi brevemente di
un azzurro sfavillante. - E’ un posto sicuro, nessuno ci va mai, neanche i
turisti, - garantì Sniper.
Evitava
accuratamente di guardare Sara negli occhi. C’era qualcosa di strano, di
sbrigativo nel suo modo di fare. Qualcosa di pentito.
Vedendo
che Sara non si muoveva, Sniper si decise a guardarla, facendo strani versi per
l’imbarazzo di trovarsi lì, immobile e muto.
Un -
Grazie - uscì fievole dalle labbra screpolate e livide di Sara, e i suoi occhi,
se non avessero avuto quella benda e quella occasionale deformazione fisica,
avrebbero espresso il concetto molto meglio delle parole. Le parole… Sara non
era mai stata brava ad usarle. Sniper si voltò di nuovo, le posò fugacemente la
mano sulla spalla e poi le diede le spalle, correndo per le scale e
richiudendosi il portone alle spalle. Sara non trovò risposta al suo
comportamento, né tentò di cercarla: qualcosa le diceva, semplicemente, di non
fidarsi. Ma non aveva altra scelta. Magari quel sasso era una Passaporta verso
qualcosa di altrettanto fatale della condanna all’alba, o forse Sniper aveva
detto il vero e lei aveva solo preso troppo alla lettera il “non fidarsi mai di
nessuno”. Forse semplicemente era il caso di tentare: in qualsiasi caso, ogni
scelta era migliore che aspettare impotente in quella segreta che gli
ex-compagni di squadra la uccidessero.
*
Quella
era probabilmente la sala dove i monaci pregavano, o almeno avevano pregato
quando il monastero era ancora intero e agibile. Ora, un intrico incolto di
alberi e cespugli spinosi aveva avvolto a tal punto il vecchio edificio che i
rovi penetravano fino alle finestre rotte delle torri più alte. I dipinti erano
scrostati e privi d’anima, d’espressione, così come le statue mezze rotte e i
vecchi strumenti della messa: non erano altro che vecchi oggetti, parte
integrante di quella decadenza. Privi della vita demoniaca della Stamberga
Strillante, privi della freddezza penetrante di Grimmauld Place, erano
semplicemente oggetti di una composizione inespressiva.
Il
pavimento era molto rovinato e i suoi mosaici rassomigliavano più ad un ammasso
di terra sporca che ad antiche figure artistiche. Il crocifisso dietro l’altare
era spezzato: le sue schegge erano servite per uccidere un essere umano,
evidentemente, perché sulla sinistra figura della croce distrutta c’era un
umano già quasi del tutto ridotto in scheletro. Le mosche ronzavano
indisturbate, contendendosi con topi e formiche quel poco di carne e interiora
che restavano del morto.
Molte
panche erano ribaltate, altre erano franate a causa dei troppi tarli. Non c’era
espressione in quel luogo: sembrava non avere tempo né spazio, o temperatura.
Era un ammasso di polvere e macerie, l’unica sensazione che trasmetteva era la
puzza del grottesco cadavere, a mala pena distinguibile come un essere umano
perché restando conficcato sul crocifisso lo scheletro, si era deformato e il
cranio s’era staccato dalle vertebre ed era rotolato sul pavimento.
Sara
credette davvero che quel posto fosse sicuro, e non fece fatica a convincersi
che non ci veniva mai nessuno, a parte quel disgraziato; d’altra parte non si
era certo fracassato sul crocifisso da solo: non sarebbe mai stato in grado di
rompere un oggetto così grande in modo da potersi piantare sulle sue schegge.
Qualcuno doveva averlo fatto al posto suo, un mago per esempio. C’erano state
almeno due persone di recente in quel monastero. Sara credette di poter
distinguere le orme nella polvere del pavimento. Non le sfuggirono le quattro
impronte quasi uguali impresse nella polvere dell’altare: quattro dita che
avevano sfiorato l’oggetto. Avrebbe notato anche le tracce di un serpente, se
avesse guardato dietro all’altare. Se c’erano ancora le impronte, non era da
molto che qualcuno era stato lì. Un assassino… una vittima… e forse anche
qualcun altro, che doveva essere stato inginocchiato di fronte all’uomo che
stava in piedi. La polvere non aveva ancora sommerso quelle tracce.
Sara
percepì di colpo un qualcosa di strano, il cervello di qualcun altro. E capì le
sue intenzioni. Rotolò di lato appena in tempo prima d’essere atterrata da uno
Schiantesimo. Appena fu in grado di rialzarsi, riparata dalle ali della statua
di un angelo, si voltò per guardare chi ci fosse nella cappella con lei, anche
se credeva di aver riconosciuto quella voce.
Sniper
era in piedi al centro del corridoio centrale, dove pochi giorni prima si era
inchinato di fronte a Voldemort.
-
Sorpresa! - disse Sniper alzando le spalle, ma senza un minimo di ironia. Era
serio.
- Sniper?
- ansimò Sara, incredula.
- E’ un
po’ tardi per meravigliarsene, non credi? -
Sara si
guardò intorno, non tanto per trovare una via di fuga, ma per distogliere i
suoi occhi da quelli di Sniper. Cercava di darsi una spiegazione, alla sua
disattenzione, alla sua stupidità, o semplicemente a come potesse essere
possibile, quando sentì uno strappo, come un cerotto che viene tirato
lentamente via. Si girò nuovamente, e s’accorse che Sniper si era strappato
dall’avambraccio destro una specie di pelle finta, sicuramente niente di
Babbano: quella che era sembrava la sua stessa pelle, adesso giaceva sul
pavimento, rinsecchita e accartocciata su sé stessa come una sottile pellicola
di plastica rosa-biancastra. Serviva a nascondere il Marchio Nero.
Sara si
morse le labbra. Avrebbe dovuto riconoscerlo… e dire che, per un attimo, la
prima volta che lo aveva visto aveva sospettato che fosse un Mangiamorte, ma
per qualche stupida ragione o forse solo a causa della fame e della stanchezza,
il suo cervello si era rifiutato di prendere in esame quel dubbio.
- Come ha
fatto Rotten a non vederti il Marchio Nero? - fu la prima cosa che chiese Sara,
furente verso sé stessa.
- Rotten
non ha mai visto di me più di quanto non abbia visto tu… anzi… effettivamente
tu hai visto qualcosa più di Rotten… - scoppiò in una risata limpida,
lucidamente malvagia. Sara strinse i pugni, strusciando violentemente il dorso
della mano sulle proprie labbra e poi sputando rabbiosamente a terra, uno sputo
misto al sangue che veniva dalla sua gola. Era schifata. Disgustata. - Debiti, -
riprese Sniper quando fu nuovamente serio, - Lion aveva dei debiti. -
- Debiti?
- ripeté Sara.
- Povero
Lion… - Sniper rise di nuovo, - Gli ho salvato i genitori da un Mangiamorte,
sei anni fa… Ma non poteva certo sapere che era stato l’Oscuro Signore a
ordinarmelo! -
- Tu hai…
hai… Era tutto un piano per farti accettare? - gridò Sara.
- Poi un
vampiro ha ammazzato lo stesso i suoi, pazienza… Rotten sapeva benissimo del
Marchio Nero, ma lui obbedisce a Lion, e finché Lion era in debito con me… -
- Loro
sapevano benissimo del Marchio Nero e non ti hanno fatto fuori? -
- Lion
era il mio burattino, - rise Sniper, - E’ troppo onesto. E per le persone
oneste i debiti verso gli altri hanno un valore alto, stupidamente alto. Perciò
finché Lion si sentiva in debito, avrei potuto essere anche un demone, ma lui
avrebbe dovuto esaudire comunque la mia… richiesta.
-
- E
perché diavolo Voldemort ti voleva nei Cavalieri dell’Alba? -
Sniper
non rabbrividì al sentire il nome di Voldemort. Sulle labbra aveva ancora quel
sorriso che un tempo Sara avrebbe potuto trovare irresistibile, nonostante
anche allora la cosa la disgustasse. Si leggeva bene la malvagità dietro quel
sorriso. Ma Sara aveva sempre evitato di riconoscerla, di ammetterla.
- Hai
idea di come siano superiori i vampiri agli esseri umani? Bhe… certo che ne hai
idea! - la risata di Sniper era il suono di un vetro infranto, Sara sentiva le
proprie orecchie stridere di rabbia, di orrore. - Voldemort voleva dei
Mangiamorte vampiri, ma fin quando c’erano i Cavalieri dell’Alba, era tutto
inutile… ho aspettato sei anni prima di portare a termine questo compito… tutto
perché quella stupida di Asia mi teneva sotto controllo! -Sniper si stava godendo l’espressione
interrogativa nascosta dietro alla maschera di ghiaccio di Sara. - Sì, esatto,
lei era un Auror! Neanche Lion lo sapeva… lavorava in incognito. Il suo compito
era trovarmi e aspettare il momento giusto per uccidermi… come io aspettavo il
momento giusto per uccidere lei. -
Sara
aveva la mente annebbiata da tutto quello che stava venendo a sapere in una
sola volta. Sei anni che Seymour e Asia ingaggiavano un combattimento silenzioso,
alla totale insaputa di tutti. Sei anni prima che ci pensassero i vampiri ad
uccidere Asia, in modo tale che Sniper potesse togliere l’ostacolo dei
Cavalieri dell’Alba dal cammino di Voldemort...
Questo
significava che i Cavalieri dell’Alba, in quell’istante, erano tutti morti.
- Ci
penserò dopo, - disse Sniper, evidentemente captando i pensieri di Sara, ora
che la frustrazione le impediva di proteggerli ad incursioni esterne. - Adesso
la cosa importante è portarti a Voldemort! -
- Pensi
forse di riuscirci? -
- Le
nostre forze si equivalgono, - ribatté Sniper.
- Asia ti
teneva testa ed era più debole di me, - disse Sara. Non avrebbe lasciato che i
bluff di Sniper la caricassero di più ansie di quante ne avesse già. Non le
importava più di nascondere le sue capacità, né per modestia né per prudenza. -
Anche se tu ce la facessi Voldemort non cercherà di uccidermi, perciò posso
resistere a qualsiasi tortura! -
-
Stavolta non immagini neanche che cosa abbia intenzione di fare Voldemort! -
Sara alzò
le sopracciglia. Era l’unico Mangiamorte - a parte lei - che aveva il coraggio
e la mancanza di rispetto di chiamare Voldemort con il suo vero nome, invece di
munirlo di epiteti ancora più grotteschi.
- Perché
non me lo spieghi tu, allora? - disse Sara, elaborando una teoria e stando bene
attenta che Sniper non la leggesse.
-
Assorbirti! - disse Sniper, sbottando in una risata. Sara, per quanto
impassibile, barcollò e scosse la testa. - Per quale motivo pensi che io abbia
sempre cercato di salvarti la vita? Voldemort non può assorbire né i morti né i
non-morti. Seymour ha rischiato di mandare a monte tutto, ma sono sicuro che
sta per essere punito. - Senza rendersene subito conto, Sara si trovò
nell’angoscia. Soltanto ripensare a Seymour dava vita a una baraonda di
pensieri dai quali lei stessa si era messa in selvaggio imbarazzo. - Il marchio
dei Dominanti avrebbe impedito che qualche vampiro comune ti trasformasse…
perché credi che Seymour te l’abbia fatto fare? -
Sara ebbe
uno scossone. E tutti quei pensieri scomparvero: a parte il morso… Seymour
aveva mentito. Era sempre stato dalla parte di Voldemort. Non aveva mai cambiato direzione. Non aveva mai
abbandonato il suo percorso. Era tutto calcolato per raggiungere quel finale.
-
L’Oscuro Signore ne ha abbastanza di inseguirti invano, - disse Sniper
guardando al cielo con espressione falsamente rammaricata, - Ora che gli
spiriti di Demetrius e Cassandra sono ben condensati dentro di te, è arrivato
il momento di assorbirli! -
In un
attimo di esagerata follia, Sara pensò che anche la morte di Sirius era stata
programmata. Non seppe mai se era vero.
- Tra
poco la tua vita terminerà a Voldemort avrà anche il potere dei tuoi avi, e
allora non ci sarà speranza per quel moccioso di Potter, lo sai! -
Sara alzò
il sopracciglio con un sorriso. Il suo petto ebbe qualche scatto convulso, come
a respingere una risata, ma poi le fu inevitabile scoppiare a ridere. La testa
sollevata verso l’alto, la sua schiena sulla schiena dell’arcangelo di pietra,
le mani pendevano dal suo corpo come fazzoletti bianchi. Le sue previsioni
erano esatte.
- Com’è
cieca l’ira umana, - constatò Sniper, ma si vedeva che era ansioso, - Porta
alla pazzia. -
- Sei tu
che sei cieco, - disse Sara, tornando improvvisamente seria. - Non l’hai
capito, Sniper? Hai fallito. -
Sniper
indietreggiò di un passo, e di colpo la stanza attorno a lui si fece gelida
come una tagliola di ghiaccio che gli stringeva le membra e gli faceva battere
i denti. La figura diafana di Sara, il suo fisico striminzito, slanciati verso
l’alto insieme con la statua a quattro ali dell’angelo inespressivo, sembravano
scesi dal cielo, più imponenti di quanto in realtà non fossero. Sniper dette
prova del suo nervosismo soltanto per qualche minuto. Poi, rendendosi conto che
verso un nemico non bisognava mai mostrare quel genere di stato d’animo, si
dette un contegno; la sua fronte, la sua espressione, si pietrificarono. Era
così che erano destinati a vivere i cacciatori di vampiri. Fronti di pietra,
occhi di ghiaccio, e la spada sempre pronta nel suo fodero.
Sara si
staccò dal corpo dell’angelo, ergendosi di fronte al crocifisso spezzato.
- Tu non
avresti mai dovuto saperlo! - disse, segretamente godendosi la rivincita, -
Nessuno avrebbe mai dovuto! Soprattutto, non avrei dovuto saperlo io. Fin da
quando Voldemort ti ha rivelato i suoi piani, tu eri destinato a morire: e
visto che ora i testimoni sono tre, io, te, e Voldemort, tu hai fallito
miseramente. Prima avresti dovuto
uccidere i Cavalieri dell’Alba, poi
vantarti del tuo piano perfetto! Sei come gli architetti che venivano murati
nelle loro stesse piramidi! -
Sniper,
tutto a un tratto capì: Voldemort era stato così
arrendevole quando gli aveva rivelato di voler assorbire Sara… e lo era stato
perché, dal momento in cui le orecchie di Sniper avevano ascoltato tutto ciò,
Sniper era stato destinato alla morte, quando il piano fosse terminato. Ma ora,
Sniper aveva generato un altro testimone che potenzialmente avrebbe anche
potuto scappare per rivelare ad altri il piano di Voldemort. Per esempio,
all’Ordine della Fenice!
Sniper, e
Sara, erano due testimoni che non dovevano
sopravvivere. Come ogni testimone, del resto.
Voldemort
agiva sempre in segreto, sempre. I suoi Mangiamorte eseguivano i suoi ordini,
ma non dovevano mai sapere il perché,
né dovevano chiederselo. Era evidente che Sniper era inutile, o il suo Padrone
non gli avrebbe mai detto che voleva assorbire Sara prima di averlo fatto.
Era
questo il risultato che Sara voleva raggiungere - e che aveva raggiunto. Lo
aveva quasi portato alla pazzia. Gli aveva fatto capire di essere inutile, un
peso, un intralcio, valente poco più di una carcassa d’animale.
- L’hai
capito, Sniper? - sibilò Sara con malcelata, perversa soddisfazione. Adorava
osservare le sue vittime che annaspavano nell’improvvisa consapevolezza dei
loro strafalcioni irrimediabili. O almeno, adorava vederli annaspare quando
meritavano cose peggiori della morte. Esattamente come Sniper. - Non sono stata
la sola ad essere ingannata! -
- Esatto.
-
Entrambi
rimasero di stucco. A parlare non erano stati loro ma un’altra voce, sibilante
ma cavernosa, gelida. Uno spiffero nel buio, quasi. Sniper aprì bocca, ma non
trovò niente da ribattere, e gli rimase semi aperta. Sara dette segno di non
muoversi, ma l’inquietudine saliva in lei come una tempesta di chiodi. Una
paura pungente, simile a un pezzo di vetro piantato nelle costole.
Una
figura ammantata, di un nero tendente al verde acido, sembrava fluttuare verso
di loro, come un Dissennatore, senza neppure poggiare i piedi a terra. Un
serpente strisciava dietro di lui, le spire lunghe e flessuose. Nelle torce si
accesero delle fiamme verdi, e Sniper si precipitò ad inginocchiarsi. Due occhi
infossati brillavano come rubini sovrastando l’ombra generata dal cappuccio. La
pelle cinerei rifletteva i riflessi smeraldini del fuoco nelle torce. Il viso
della statua dell’angelo sotto la luce verde acquistava qualcosa di demoniaco.
- Così
sveglia… e così crudele. Avresti potuto essere la mia migliore Mangiamorte,
Sara… - sibilò Voldemort, reclinando la testa all’indietro per osservare meglio
la ragazza, la cui pelle risplendeva d’un bianco verdolino. Ma sotto la benda,
le vene che erano fuoriuscite disfacendole i bei tratti del viso, pulsavano di
un odio sconfinato, bollente, scarlatto come il sangue. - Viene da stupirsi che
tu non ti sia ancora unita a me, - aggiunse, facendo un ultimo tentativo prima
dell’assorbimento.
- Forse
perché non sono malvagia come credi tu? - ringhiò Sara. Le sue gambe tremavano,
i muscoli del collo erano gonfi e tesi.
- Perché
tenti di nasconderlo? Ti vergogni così tanto? Tu hai il sangue ribollente
dell’assassino, Sara, gli stessi bisogni, la stessa mentalità. È davvero così
brutto essere malvagi, perversi, sadici e omicidi come te? - Sara stava per
ribattere, per urlare qualcosa, ma Voldemort fermò il maremoto che si stava per
scatenare dalle sue labbra, - Forse la cosa che ti dispiace di più è che non
sei mai stata diversa da Bellatrix Lestrange, come invece pensavi di essere? -
Sara
sentì l’immediato e inconfondibile calore delle lacrime che le annebbiavano gli
occhi. Simulando fisicamente il suo tentativo mentale di respingerle e il suo
desiderio di distruggere le parole che l’avevano assalita, sferrò un colpo di
spada contro la statua dell’arcangelo, che per effetto della magia della lama
si frantumò in mille pezzi.
- Io non
avrei mai… -
Voldemort
reclinò di nuovo la testa, incitandola silenziosamente a proseguire.
Tu non avresti mai…?
Sara ansò
freneticamente. Neanche lei lo sapeva. Non sapeva niente, più niente.
- Tu non
avresti mai ucciso una persona, se avessi saputo che era così importante per
qualcuno come lo era Black per te? - terminò Voldemort, stanco dell’attesa e
impaziente di distruggere Sara, - Ma cosa fai da mesi, dimmi… Ogni vita che hai
tolto era importante per qualcuno! Ricordi? Ricordi quei ragazzi a Hogwarts,
trentotto anni fa? - rise.
Rise, e
rise, e rise ancora. A squarciagola.
Sara
cadde in ginocchio. Non era vero! Non era affatto vero! Niente di quello che
diceva Voldemort era vero, cercava solo di farla a pezzi, di sfinirla, ma no,
stava mentendo…
- Trentotto? - gridò Sara,
improvvisamente accorgendosi di quel numero. Non potevano essere trascorsi
trentanove anni da quando lei frequentava il terzo anno a Hogwarts, altrimenti
le doveva avere… cinquatun’anni…
- Non ti
è parso che Black e gli altri fossero un po’ troppo più grandi di te? Ma no,
“l’amore è cieco”… o magari li portavano bene. -
Sara era
già in ginocchio, altrimenti sarebbe caduta di nuovo. Le sanguinavano le
ginocchia per l’impatto con la dura pietra.
- Chi
l’avrebbe mai detto… ormai sei una zitella di mezza età. - disse Sniper,
azzardando un’intromissione fra lei e Voldemort. Controllava l’espressione
dell’Oscuro Signore, cercando disperatamente di sembrargli simpatico.
Divertente. Ma era solo ansioso e stupido. - Gran fortuna mostrare comunque
vent’anni alla tua età, eh? -
Sniper
controllò Voldemort ancora una volta. Vide un sorriso deformare quelle labbra
scarne. Poi una risata fredda, glaciale. E Sniper a sua volta si mise
istericamente a ridere, incoraggiato dalla risata di Voldemort. E ben presto
rise a crepapelle. Era riuscito a far divertire il suo Padrone: forse non
sarebbe morto?
Ma
Voldemort lo aveva fatto apposta. Con un colpo muto di bacchetta, Sniper si
trovò appiccicato dal muro opposto, con il bel volto ferito e sanguinante, il
naso rotto.
- Volevi
una risposta, Sara… e io te l’ho data. Hai cinquantuno anni esatti. È stata
Azkaban a farti perdere la cognizione del tempo… non che tu ne avrai bisogno da
ora in avanti, comunque. Ma in ognuna delle migliori storie la vittima
sacrificale viene a sapere tutto nell’ultimo istante, nei suoi ultimi respiri…
Tra un po’ il tempo che hai trascorso volerà via dalle tue vene e fluirà nelle
mie -
- Pensi
veramente che te lo lascerò fare? - disse Sara, col ringhio di una belva.
Nagini strisciò verso di lei, minacciosamente, ma non le si avvicinò tanto
quanto bastava per assalirla. Sara non la degnava di uno sguardo.
- Non ho
bisogno del tuo permesso, - replicò freddamente Voldemort, alzando la
bacchetta.
- Avrai
bisogno del mio, - disse una voce
femminile alle spalle di Voldemort. Sara la vide oltre il mantello del perfido
mago. E riconobbe alla perfezione i boccoli neri e lucidi come inchiostro,
imprigionati in una complessa pettinature. Riconobbe il fisico perfetto, il
seno pieno, i lineamenti taglienti, e gli occhi affilati e scarlatti come i
suoi, splendenti dietro la corta frangia perfettamente incurvata verso
l’interno.
- Scilla…
- disse ostilmente Voldemort. Voleva nasconderlo, ma Sara lo capì
inevitabilmente: non se l’aspettava. E non sapeva come reagire. Scilla si
avvicinò con quella sua andatura composta, con quel suo ondeggiare delle anche.
Descrisse una lenta curva col braccio artificiale per aggiustarsi un ciuffo
ondulato di capelli che era sfuggito al fermaglio a forma di ragno. Portava la
bacchetta nell’altra mano, reggendola con solo due delle dita affusolate,
l’indice e il medio, elegantemente. - Torna nella tua bara. Sai che posso
ridurti in polvere. -
- No, non
puoi. Io conosco la Profezia. -
- Mi sei
inutile finché non me la dici. -
- Ma
anche tu mi sei inutile finché non viene l’alba, - ribatté Scilla, lentamente,
poi aggiunse, con una ironica riverenza, - Mio Signore. -
Voldemort
non seppe controllare uno scatto d’ira: demolì tre colonne solo gridando, con
un’immensa e insostenibile vibrazione mentale.
- Se solo
un umano può ucciderti, io stesso posso ucciderti! -
- Non
quando è notte. Neanche tu. -
Voldemort
lo sapeva: i Gray erano quanto di peggio esistesse quando calava il sole. E
anche la loro sete era altrettanto micidiale: insaziabile. Perfino Voldemort
avrebbe impiegato molto, molto tempo prima di riuscire anche solo a captare i
movimenti di Scilla. Era senz’altro la peggiore fra i suoi Mangiamorte, ma era
quello il problema: poteva rivoltarsi da un momento all’altro, col favore della
luna. E ora quel momento era giunto. Mancavano ancora due ore al sorgere del
sole.
- Posso
trasformarla in vampiro. - disse Scilla.
- No, tu non lo farai! - gridò Voldemort:
una parte della cappella franò, sommergendo Sniper sotto un ammasso di macerie.
Sara lo sentì a mala pena gemere. E non seppe perché, quel semplice sospiro
innescò qualcosa in lei, qualcosa a cui lei stessa non riuscì a credere.
Strisciò lentamente verso il cumulo di calcinacci, cercando di combattere
contro la sua stessa mancanza di forze. Scansò dei massi, tanto vecchi da
spezzarsi quando ricevevano un forte scossone, e il corpo in fin di vita di
Sniper emerse da quell’ammasso di polvere. Sara lo sollevò verso di sé
reggendolo, con la mano, dietro la testa. Sniper tossì. Stava a mala pena
respirando.
- Scappa,
- fu la prima cosa che disse. Forse non aveva tante parole da sprecare prima di
morire, e preferiva pronunciarle in tempo.
- No, -
rispose bruscamente Sara, guardandolo negli occhi. E sapeva bene che Sniper non
vedeva il suo sguardo traboccante di lacrime, vedeva solo una benda nera e un
po’ strappata. - Vieni anche tu, - disse, ma si accorse che la sua voce era
talmente roca che al movimento delle labbra non era corrisposto nessun suono.
Sniper
non disse altro. Cercò di sollevarsi, ma si sentì lo scricchiolo delle sue
vertebre sul punto di spezzarsi completamente, e ricadde moscio, sorretto dal
braccio esangue di Sara.
- Ho la
schiena mezza rotta, - mormorò. La sua voce era un fruscio, prossimo a
spegnersi completamente. Voldemort e Scilla stavano ancora discutendo, e non si
erano minimamente accorti di loro: o forse, semplicemente, pensavano che non
fossero niente di cui preoccuparsi. Sara fissava Sniper e, sotto la ragnatela
di fili di sangue che avvolgeva la pelle del suo viso, si stupì di trovare
ancora quel sorriso, quel solito sorriso, che Sara non aveva mai visto da
nessun altra parte. Sniper strinse il polso di Sara e le condusse la mano sul
suo collo tremante. - Spezzalo. -
Sara non
se ne accorse, ma il suo respiro si mozzò generando un singhiozzo convulso.
- No! -
ripeté Sara. Non le importava se quella era l’ultima occasione di parlare con
Sniper, di sentire la sua voce, di vedere il suo sorriso… Non riusciva a dire
nient’altro.
- Merito
una morte più lenta… - riflettè Sniper, guardando lontano con la beatitudine e
la falsa espressione meditabonda di ogni morto. - Hai ragione tu. -
Sara
infilò le dita fra i capelli neri di Sniper, stringendoli, senza accorgersene,
come per impedirgli di andarsene. Erano sudati, incrostati di sangue. Aveva una
ferita sulla testa. Sì, meritava una morte più lenta, una morte molto più
dolorosa. Spezzargli il collo sarebbe stato troppo semplice, sarebbe stato
pressoché indolore.
- Sniper…
- la benda che copriva gli occhi di Sara ormai era bagnata di lacrime, e anche
se le tratteneva impedendo che scorressero sulle guance, cosa che molte volte
le aveva fatto comodo, ma la sua voce era l’inconfondibile maschera del pianto
dirotto, nonostante cercasse di trattenerla. - Non devi morire… -
- E’
giusto che io muoia. - Sara strinse la mano di Sniper, molto più scura della
sua, colorita anche sul punto di morte. Sì, era giusto che lui morisse. Eppure
non era giusto. Senza accorgersene, senza averne il tempo, lo lasciò andare.
Sentì la presa di Sniper allentarsi e, pochi minuti dopo, quando le dita di
Sara si staccarono da quelle di Sniper, Sara vide il braccio del ragazzo
precipitare a terra, con un piccolo tonfo che dentro il suo cuore risuonò come
un terremoto. Lo vide a rilento. Ormai Sniper era morto.
La
discussione fra Voldemort e Scilla non si era conclusa. Nessuno dei due
attaccava. Scilla sapeva che Voldemort era più potente di lei, ma sapeva anche
che tutta la sua potenza magica non gli serviva a niente se non riusciva a
vederla. Era un vampiro: lei poteva nascondersi nel buio senza che nessun essere
umano se ne rendesse conto.
- Avrei
dovuto saperlo che ti saresti lasciata accecare dalle tue manie di potere, -
disse Voldemort, tornato stranamente calmo.
- Non è
buffo? - rispose Scilla, - Più o meno tutti viviamo affogati nella nostra
stessa stupida ambizione… Anche tu vi annaspi, vuoi tutto il potere del mondo…
e anch’io lo voglio. Lasciala a me, o sarò io a prenderla. -
- E cosa
ne faresti? -
- Io posso sfruttare quel potere! In me
sarebbe doppiamente potente! - gridò Scilla, stringendo il pugno artificiale
all’altezza del suo petto. I suoi occhi fiammeggiavano come la bocca di un
vulcano. - Tu non hai neanche una briciola del sangue di Cassandra e di
Demetrius, nemmeno un po’! Anzi, mi vergogno di aver servito fedelmente uno così… un essere così infimo… nient’altro
che un disgustoso Mezzosangue! -
abbaiò la splendida donna, al culmine del suo orrore. I suoi muscoli sotto le
membra sottili si flettevano, sinuosi, come quelli della pantera nella quale
aveva imparato a trasformarsi.
Era sinceramente
nauseata. Non si era mai sentito di un Purosangue al servizio di un
Mezzosangue. Avrebbe dovuto essere l’opposto. Quando Scilla avesse ottenuto il
potere di Sara, allora ci avrebbe pensato lei, con la sua immortalità, la sua
potenza superiore, a ripulire per sempre il mondo non solo dai Mezzosangue, ma
anche dai Babbani. Se un sangue misto come Voldemort poteva essere il re del
mondo, lei poteva esserne l’imperatrice.
“Mezzosangue”:
a quella parola accuratamente pronunciata, Voldemort sembrò raggiungere l’apice
della sua ira. Avrebbe lanciato una Cruciatus, se non avesse saputo che era
perfettamente inutile. Invece, agitò la bacchetta e ovunque, nella cappella,
dalle pareti, all’altare, alle finestre rotte, si formarono tantissimi
crocifissi infuocati.
Scilla
gridò, parandosi gli occhi con la mano e gettandosi a terra. Un attimo dopo era
scomparsa. Sara riconobbe quel rumore, si era Smaterializzata. Le sembrò strano
che fosse stato così facile…
Voldemort
si voltò lentamente verso di lei, riacquistando il suo autocontrollo. Lui
stesso sembrava ben consapevole che non bastava così poco contro Scilla, ma non
se ne curò: quella battaglia, la vampira l’aveva perduta, e lei stessa lo
sapeva ed era in grado di ammetterlo. L’Oscuro Signore avanzò verso Sara,
ancora inginocchiata accanto la cadavere di Sniper. Sara leggeva in ogni suo
movimento che l’ira era repressa ma ribolliva ancora nelle vene. Mezzosangue.
Scilla aveva saputo tirare fuori nel momento giusto esattamente tutto quello
che Voldemort era sempre riuscito a nascondere. I Mangiamorte avevano paura di
lui e non osavano chiamarlo in quel modo. Per loro significava la morte, per
Voldemort significava trovarsi faccia a faccia col Tom Riddle che era stato,
con la vita che aveva vissuto, e con le prime, tragiche morti che gli avevano
macchiato le mani per sempre.
- Dimmi,
Sara, che cosa abbiamo di diverso? -
Sara
scosse la testa. Un accozzaglia di sentimenti le stava disfacendo la capacità
di ribattere, di ostentare una qualsiasi difesa. Adesso neanche il sentimento
della sua vendetta riusciva a farle desiderare di restare in vita.
- Non
sono come te, - disse, ossessivamente, - Non sarò mai come te. -
- Sarai
me, - rispose Voldemort, - E’ l’ultimo sguardo che dai alla vita consapevole.
Quando ti avrò assorbita rimarrà di te un corpo vivente ma incapace di
adoperare una qualunque forma di volontà. -
- Fallo, -
sibilò Sara. Falla finita.
Voldemort
gettò a terra la bacchetta: non ne avrebbe avuto bisogno. Profezia o no, col
potere di Cassandra non ci sarebbe più stato nessuno capace di tenergli testa.
Si sarebbe spenta la diceria che lui temeva Silente, così come si sarebbe
spenta la leggenda del ragazzo sopravvissuto. Ogni fiamma di speranza si
sarebbe spenta sotto il gelo del suo potere ancora più grande.
Sollevò
le mani, come se stesse per spiccare il volo.
Sara era
in ginocchio e fissava il corpo di Sniper, come se in quel modo potesse
salutarlo per l’ultima volta, o riportarlo indietro, almeno lui. Sirius era
morto, Sniper era morto, presto tutti sarebbero morti. Non aveva più senso
resistere.
-
Affogherai nella tua stessa brama, prima o poi, Voldemort. -
Voldemort
dapprima non ci fece caso. La sua mente aveva raggiunto un livello troppo
elevato, troppo ultraterreno durante quel rito maledetto, l’assorbimento di una
vita umana, per rendersi conto che non era stata Sara a parlare. Ormai era
tardi per voltarsi: Un fulmine verde sfondò il soffitto della cappella. Nagini
schizzò via, sibilando furiosamente. Poi, un altro fulmine, altri due, altri
dieci. Un forte vento cominciò a spazzare via tutto ciò che incontrava sul suo
cammino.
Ma quando
Voldemort stava per colpire Sara con un raggio nero, questa gli scomparve da
sotto gli occhi. Voldemort era troppo attento per non accorgersi della cosa
antropomorfa che aveva intravisto muoversi e sottrarre il corpo della ragazza
dalla triste fine cui andava incontro. Il vento calò. I fulmini caddero
debolmente, poi anch’essi si arrestarono.
Voldemort,
non ancora ansante, eretto e calmo come sempre, si voltò, girando lentamente su
sé stesso. Non aveva fretta. Avrebbe sistemato quell’ultimo scocciatore.
Dall’altra
parte del salone, Sara era quasi priva di conoscenza. Seymour, in piedi, ancor
più tranquillo dell’Oscuro Signore, la reggeva fra le braccia come se fosse
stata una piuma, un filo d’erba.
Everything is nothing to me, I couldn’t care less.
And I don´t
even dare to try
- I know I can only lose Between this life I live…
and nothing I have to choose
(Sentenced - from The Cold White Light)
Un
sottilissimo filo di luce solare - ormai l’alba doveva essere passata da un
pezzo - scintillava al di sopra di una fenditura nella
pietra. La cripta era fredda come la morte, nonostante l’estate fosse al
culmine. Alcuni insetti vagavano indisturbati sul coperchio della tomba più
grande, simile ad una scatola di marmo intagliata nel pavimento stesso. Alcuni fili d’erba quasi morti affioravano fra le righe dei massi
che componevano il suolo. Al muro, tante lastre di marmo e tanti nomi.
C’erano, sotto, le ossa dei membri della famiglia alla quale apparteneva il
sepolcro.
Che
importanza aveva di qualche famiglia si trattasse:
Seymour aveva solo cercato il cimitero più vicino, appena in tempo perché la
luce del sole emergesse dalle creste lontane delle montagne. Era il posto più
logico, perché nessuno sarebbe mai entrato in una tomba a controllare che cosa
ci fosse all’interno, e poi nessun essere umano sarebbe mai
stato in grado di spostare la lastra di pietra che sigillava la porta
della piccola cappella scolpita.
Quando
Sara aprì gli occhi tentò disperatamente di mettere immediatamente a fuoco ciò
che aveva intorno. Era un segnale. Era il segnale che era
ancora viva, che Voldemort non l’aveva assorbita! O
forse quello era il suo spirito? Il suo spirito che vagava senza pace fuori dai confini dell’Inferno…
Si alzò
di scatto in piedi.
Trovò
che il pavimento era freddo. Anche questo doveva
significare che la vita le apparteneva ancora. Non seppe spiegare come mai il
vedere Seymour lì accanto la riempisse di sollievo,
come la figura di un padre. I suoi occhi erano lambiti dalla striscia spettrale
di luce che filtrava, ma che evidentemente non era sufficiente per nuocergli.
Seymour
aveva il braccio piegato, il cui gomito poggiava sulla lastra più alta. L’altra
mano era infilata con disinvoltura nella tasca, e sembrava completamente
distratto dal mondo circostante per rendersi conto che Sara si era svegliata e
che stava - quasi - bene. Soltanto quando la ragazza gli
chiese dove si trovavano, sembrò lentamente svegliarsi. Rispose passivamente
che erano scappati da Voldemort e che era il momento di portare a termine ciò
che era stato troppo a lungo rimandato. Si staccò dalla lastra di marmo con un
movimento fluido dei fianchi, e tese la mano a Sara per aiutarla ad alzarsi in
piedi. Il fatto che la pelle di Seymour fosse calda anziché
gelida le fece capire che aveva appena succhiato del sangue, ma non il suo: lei
si sentiva bene, si sentiva ancora fisicamente forte. Sara strinse
quella mano, illuminata dal calore del sangue appena bevuto, come se si fosse
trattato del suo unico appiglio alla vita.
- Mi stai
dicendo che devo decidere adesso? - chiese Sara.
- E’
sufficiente che sia io a deciderlo, - rispose serenamente Seymour. Non gli
interessava avere una risposta di Sara; conosceva fin troppo bene i pensieri
che fluttuavano nella sua testa confusa.
Sara
leggeva una certa fretta nel modo di comportarsi di Seymour, una quasi totale
mancanza di tatto. Sembrava poco diverso da Scilla, in quell’istante. Assetato,
di una sete insaziabile. Ma ciò che aveva di diverso rispetto a sua figlia era la strana titubanza che a Sara era invisibile,
perché ben nascosta. Seymour stava formulando un dubbio, un dubbio che non
aveva risoluzione. Non positivamente, almeno.
- C’è
sofferenza nei tuoi occhi, - disse Seymour, scostando i capelli dal viso di
Sara con sole due dita della mano ossuta.
- E’ che
non capisco, - rispose Sara con sincerità, - Non capisco più cos’è giusto e
cos’è sbagliato. -
- Se non ci fosse mai stata una distinzione? -
- C’era.
La ricordo benissimo. Un tempo la vedevo facilmente. -
- Forse
te la stavi soltanto immaginando, - ribatté Seymour - E’
una delle tante consolazioni di cui avevi bisogno come umana. -
- E i vampiri non ne hanno bisogno? - chiese Sara,
ansiosamente. Le sembrava che la metamorfosi potesse essere un passaggio
doloroso ma necessario, verso un’epoca infinita più felice di quella, più
tranquilla. Come ogni essere umano, in tutta la sua
sensibilità e in tutte le sue ansie, non riusciva a scorgere il lato
oscuro della situazione.
Seymour respirava sul suo collo, le sue labbra le sfioravano la
pelle. Le sue mani calde scorrevano sulle braccia nude di
Sara, inconsciamente, dolcemente immobilizzandola. Non rispose alla sua
domanda, e la ragazza gliene pose un’altra. - Il marchio dei Dominanti me l’hai fatto fare perché te l’ha ordinato Voldemort, non è
vero? -
- Te l’ho
fatto per salvarti la vita, - rispose Seymour. Sara non trovò niente da
ribattere. Stranamente, come risposta le sembrava decisamente
plausibile.
Seymour
sospirò profondamente. I suoi denti affilati aprirono un minuscolo taglio,
soltanto sfiorando il collo di Sara. Seymour leccò lentamente la sottilissima
striscia di sangue che ne uscì. Sara non seppe esattamente perché, ma non si
sentì affatto come se qualcuno le stesse leccando il sangue dal collo. Sentì
qualcosa di diverso, qualcosa di più sublime. Improvvisamente, le mani di
Seymour strinsero più forte, e Sara sentì quella sensazione che aveva già
provato nelle viscere delle montagne, a New Bucarest. I denti di Seymour affondarono
violentemente e dolorosamente nel collo di Sara, sul muscolo che si fletteva,
irrigidendosi. Nonostante quell’improvvisa forza,
Seymour era ancora tranquillo. Il suo collo si muoveva, inghiottendo il sangue
come un umano che beve normalissima acqua.
Sara
sentì distintamente la vita scorrerle via dalle vene insieme al liquido rosso,
cadde in ginocchio, aggrappata alla schiena del vampiro, che la stringeva,
bloccandola, impedendole di cadere completamente.
Seymour
avvertiva il cuore di Sara battere sempre più lentamente. Il
petto della ragazza si alzava e si abbassava velocemente ma molto brevemente.
Ansava, ma il suo respiro era prossimo a spegnersi completamente. No, non era
ancora abbastanza. Le sue mascelle strinsero ancora di più, e Sara gridò, rantolò
per la violenza di quell’assalto. Il sangue fluiva fuori
dalla ferita come l’acqua da una fontana. Una striscia di sangue sfuggì
al morso, rotolando fino al collo di Seymour, tingendo la camicia bianca di una
piccola goccia rossa.
Poi, il
cuore di Sara si fermò. Ripartì subito dopo e sempre più stentatamente, ma
Seymour seppe dalla leggera nausea che lo aveva
attagliato che aveva bevuto a sufficienza. Quasi tutto il
sangue di Sara era stato succhiato via da quella morsa fatale.
Sara
aveva sempre tenuto gli occhi spalancati. Quel misto di
dolore e piacere, quella sensazione indescrivibile le avevano sbarrato lo
sguardo su quella strisciolina di luce sulla parete, che si era trasformata,
nella sua mente, in una specie di lampo sfavillante. La ragazza chiuse
gli occhi. Fluttuava a mezz’aria, era sospesa sul soffitto della cripta, o
forse in uno spazio buio che non faceva parte di quel luogo. Seymour era in
piedi, un po’ barcollante, e guardava in basso, verso il corpo quasi del tutto
immobile di una ragazza dai capelli castani. Sara sgranò gli occhi: stava
guardando… sé stessa?
Il tempo
di un sospiro e il battito martellante del suo stesso cuore la assordì. Si era trovata a un passo
da Seymour, a un millimetro da lui. Si era inginocchiato nuovamente. Sara non
aveva la forza di guardarlo né di muoversi, di alzare un braccio, un dito,
niente. Seymour si morse il polso, e Sara vide uno spruzzo di sangue sbocciare
da quella ferita rozza. Se fosse stata del tutto cosciente
si sarebbe aspettata ciò che stava per succedere, e invece, in quell’attimo
fatale, le sembrava non di essere sul punto di morire ma di essere già rinata,
ripartita da zero, come già le era capitato una volta. Il polso sanguinante del
vampiro si accostò alla bocca di Sara, né sentì il calore. Se avesse saputo che
stava per bere del sangue, si sarebbe scansata violentemente, raccogliendo
tutte le sue forze, ma ora era diverso: sentiva che quella era la vita, che
bevendo sangue da quel taglio rosso scarlatto avrebbe bevuto, insieme ad esso, la linfa vitale che le era stata sottratta.
Sentì una
specie di fiamma liquida invaderle la gola e ricadere poi in un punto
imprecisato del suo corpo, forse neanche nello stomaco, ma direttamente in ogni
sua vena.
Poi, nei
suoi occhi esplose un’ultima fiammata di luce, da quel piccolo spiraglio sul
muro, e perse conoscenza. O forse morì, molto più
probabilmente.
*
Per
ognuno che abbia profondamente dormito per molte ore,
il risveglio è la parte più difficile durante il
rinnovato collegamento al mondo vivente. Per Sara non fu così. Si risvegliò,
aprì gli occhi, semplicemente si alzò, e camminò verso Seymour: lui era ancora
lì, in piedi, nella stessa posizione di prima, scolpito nel marmo. Non si era
mosso.
Era di nuovo notte, notte fonda, il momento di uccidere. Di
mangiare. Sara non aveva mai avuto un simile desiderio, era come se lo avesse
acquisito con la sua rinascita. Sì, era rinata. Ma guardando indietro verso la
morte, dato che era morta poche ore prima, si rese
conto che non se ne era meravigliata. La considerava ora come un piccolo
passaggio, un intervallo di sonnolenza nella vita che adesso aveva di fronte.
La vita eterna, ora quasi del tutto invulnerabile, destinata alle tenebre e ad
uccidere umani per tutta la vita. Scappando dal sole, per sempre. Eppure la cosa non l’angosciava. Ci sarebbe stato Seymour.
L’eternità non sarebbe stata orrenda se si poteva
dividerla con qualcuno.
Seymour inarcò le sopracciglia, probabilmente alla vista del
cambiamento fisico così sottilmente evidentemente che Sara aveva attraversato.
Eppure,
c’era un ombra sugli occhi del vampiro. Una strana
ombra. Sara ancora non poteva togliersi quella benda dagli
occhi, e molto probabilmente, non avrebbe potuto togliersela mai. Chi
diceva che avrebbe senz’altro ottenuto la sua vendetta? Chi poteva garantire
che Sara avrebbe ucciso Bellatrix e poi avrebbe vissuto in eterno
tranquillamente senza più quel tatuaggio sulla schiena e quella deformazione
sugli occhi? Era probabile anche che Bellatrix morisse prima di essere uccisa
da Sara… e allora lei avrebbe trascorso col suo male senza rivincita un tempo
che sarebbe durato fino alla fine del mondo.
Seymour
si sorprese nel pensare che questo non poteva
succedere. Per qualche strano sentimento, altrettanto stranamente umano, pensò
che non sarebbe riuscito a sopportare quel flagello. Neanche Sara lo avrebbe
sopportato.
A meno
che Seymour non riuscisse ad ingannarla.
- Ho
visto molte epoche, troppe. Posso ritenermi soddisfatto. Adesso puoi saperlo… -
esordì con malignità, una malignità che a Sara fece
drizzare i capelli sulla nuca.
- Che cos’è che posso sapere? - chiese Sara. La sua momentanea
imperturbabilità non era più una maschera: era la realtà.
- Hai
cercato vendetta invano. Ce l’avevi sotto gli occhi…
ogni volta che volevi. -
Sara si
paralizzò, ruotando lentamente il collo fin quando non si trovò a fissare gli
occhi di Seymour. Poteva distinguere facilmente una bugia, anche con la benda
sugli occhi: e il vampiro non stava mentendo, né pareva averne l’intento.
- Ricordi
quando ti sei sostituita a Scilla per salvare i tuoi…
amici? - sibilò crudelmente Seymour. Ma ogni parola
che pronunciava si condannava a morte. Lo sapeva, ed era questo che voleva.
C’era un
solo modo per dare all’eternità di Sara un dolore minore di ciò che la
aspettava altrimenti: doveva mentire. Ed era
abbastanza abile nel farlo da non farsi scoprire neanche da un Legilimens senza
alcun ostacolo mentale, come la benda sugli occhi di Sara.
Era un
suicidio, ma era l’unica soluzione.
Sara
cominciava a capire. Sgranò gli occhi. Non voleva crederci. Non ora, non ora.
- E’
stato bello ingannarti… Convincerti per settimane e settimane che l’oggetto
della tua giusta vendetta non ero affatto io… -
- Tu mi dai la vita eterna e poi mi riveli che sei tu che devo uccidere!! -
Sara
ruggì. Le pareti tremarono e alcuni sassolini caddero a terra con un leggero
picchiettio. Seymour soffrì per quelle parole. Doveva far credere a Sara che
fosse stato lui a uccidere Sirius Black, e non
Bellatrix. Doveva lasciare che Sara potesse vendicarsi adesso, e liberarsi per
sempre da quel peso che altrimenti l’avrebbe oppressa per chissà quanto altro
ancora. Sapeva per esperienza che portare il drago nero in corpo per troppo
tempo porta inesorabilmente alla pazzia. Erano almeno
tre i Gray morti per questo motivo, quando lui era diventato da poco un
vampiro.
Non
poteva permettere che Sara facesse la stessa fine.
Chiuse gli occhi con aria serafica, poi lentamente li riaprì. Nella mano di Sara, che
stringeva un paletto, c’era la morte. Il termine della sua vita eterna, che
dopotutto prima o poi sarebbe dovuto giungere
comunque. Salutò la morte. Aveva avuto secoli interi per accettarla come
inevitabile, per rendersi conto che era inutile scappare.
Sopportò
l’ultima sofferenza, gli occhi di Sara ancora una volta pieni di lacrime.
- TU HAI
UCCISO SIRIUS! -
Le ossa
tremarono nelle loro casse di legno. I chiodi che tenevano ferme le lastre di marmo cigolarono, minacciando di rompersi. Sara sferrò una spinta così forte che Seymour sbattè violentemente la
schiena dalla parte opposta della stanza, e iniziò a sanguinare.
Annuì con
sguardo insopportabilmente malvagio.
- Come puoi essere COSI’? Pensavo che tu fossi
diverso! Pensavo che non saremmo stati più soli! Perché
mi dici questo, adesso!? -
- Perché è così che ho imparato a fare, - rispose Seymour. Agli
occhi di Sara, lui aveva giocato con la sua sofferenza per tutto quel tempo.
L’aveva condannata a tutto quel dolore, a un tratto le
aveva regalato un picco di felicità e di speranza, e infine, poi,
impietosamente, ancora dolore.
Con le cose che le facevano più male. La vita eterna, la solitudine…
la morte di Sirius. Probabilmente era quella la cosa più insopportabile, la più
inaccettabile.
Sara
scoppiò in un grido selvaggio che sembrò far quasi franare la cripta. Il suo
cuore s’infiammò di una rabbia che lei stessa non avrebbe mai creduto
possibile. Spinse di nuovo Seymour, che cadde sul pavimento senza opporre
resistenza. Lei non si chiese perché… Piantò ripetutamente il paletto nel cuore
del vampiro che credeva essere l’assassino di Sirius, lacerando, strappando,
distruggendo… ma non provò sollievo, solo una rabbia sempre crescente, un’ira cieca, che, infine, la ridusse allo stremo delle forze.
Continuò a piantare quel bastone nel cuore di Seymour, quando ormai era già
morto da un pezzo.
Aveva
sete, ma non bevve, non quel sangue.
Pianse.
Era
l’alba quando smise. Ma era più stremata di una foglia
in autunno. Fragile, debole, sfibrata come una spugna strizzata. Non si sentiva
soddisfatta. Vedeva Sirius ovunque, lo sentiva, lo percepiva, ma era tutto il
frutto della sua immaginazione. Era successo tutto troppo alla svelta, troppo
velocemente, con troppa facilità. Le sembrava tutto irreale, privo di
tangibilità e soprattutto di senso. In così poco tempo, era morta, era rinata,
aveva scoperto di aver inseguito una vendetta sbagliata e l’aveva portata a
termine.
Ma
almeno Seymour era morto.
Però
tutto questo non le dava alcun sollievo, soddisfazione, o felicità. Niente. Si
sentiva soltanto male, terribilmente male, come se avesse avuto la febbre. E non si trattava della sua malattia, della quale non c’era
più traccia. Non era la debolezza, o la stanchezza. Sentiva che nella morte di
Seymour c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che non sarebbe dovuto succedere.
Un particolare ingiusto che tuttavia continuava a sfuggirle.
Che cosa c’era di ingiusto? Aveva avuto quel che si
meritava.
Sara
guardò verso l’alto, nonostante il soffitto le impedisse di vedere il cielo.
- Ti ho
vendicato, Sirius! - gridò, un grido da spezzare il cuore. - Guarda cosa sono
diventata! Ti ho vendicato! -
Si
strappò la benda dagli occhi. Erano tornati normali.
I
tormenti non si erano ancora esauriti. Prima che quel capitolo della sua vita
si chiudesse, c’erano ancora molte cose che dovevano
essere terminate. La prima cosa che fece fu andare a New Bucarest. Adesso era
un vampiro a tutti gli effetti, e dato che era una
Dominante designata da Seymour, poteva fare tutto quello che voleva. Sempre che non si venisse a sapere che era stata lei ad ucciderlo.
Disse
senza mezzi termini al consiglio dei Dominanti che era ora di bruciare New
Bucarest. Che nessuno uscisse, che nessuno scappasse, a parte
lei. Aspettò nel palazzo finché non giunse l’alba, poi, con meccanica e
strana sicurezza, ordinò che venisse riunito il
Consiglio. Si sentiva potente. Nessuno poteva opporre resistenza a ciò che lei
decideva, soltanto Seymour. Ma nessuno sapeva che
Seymour non sarebbe tornato mai più.
Gli altri
vampiri del consiglio mostravano la sua stessa età, in linea di massima. Non le
causava nessuno strano effetto vedere tante persone che sembravano dell’età di
vent’anni ma che in realtà ne avevano un centinaio o
più, decidere per le sorti della città, tenendo gli abitanti completamente
all’oscuro delle loro decisioni.
Sara
sedeva nel seggio più alto. Il consiglio era in un’altissima sala dalla forma
di un uovo, adorna di teschi, cristalli luminosi e stalattiti. Intorno alle
pareti del grosso uovo, nella parte interna, erano scolpite finemente le
balconate alle quali stavano seduti i sessantasei membri del consiglio.
Sembravano due strani cimiteri di cui uno rovesciato:
quelle strutture di roccia ricordavano decisamente delle tombe. Da un estremo all’altro della sala ovoidale, dal basso verso l’alto,
“cadevano” ripetutamente delle gocce gelatinose, di un liquido che pareva
sangue non del tutto coagulato. Sara fissava i volti pallidi dei
cadaveri che aveva di fronte, e che nonostante il loro corpo fosse morto da tempo proseguivano la loro vita come immortali. Le dette
una strana sensazione di familiarità.
Davanti
al viso della ragazza, marmoreo, delimitato da lineamenti taglienti come pezzi
di vetro, ondeggiavano le goccioline rotonde che dal pavimento raggiungevano
lentamente il soffitto. Il suo abbigliamento nero, i capelli lunghi e scuri,
gli occhi rossi puntuti e penetranti come pugnali le
davano l’aspetto di un essere completamente esterno perfino all’immortalità.
- New
Bucarest è sempre stata il nostro rifugio! - obbiettò un Dominante, scatenando
una serie di frasi come quella, tutte rabbiosamente dirette verso l’onnipotente
donna che li fissava tutti con disprezzo.
- Adesso
non più, - rispose Sara.
- Ma… -
- Farete
come i vampiri del resto del mondo. Dormirete in superficie, nelle bare.
Arrangiatevi. Così ho deciso e così dovrà essere fatto. Chi di voi non è
d’accordo? -
La
richiesta d’opinione era soltanto una formalità, tra l’altro piuttosto stupida.
Una cosa che doveva essere fatta tanto per dare qualcosa di ufficiale
alla conclusione già presa. Quello che decideva il Dominante principale, o
qualunque vampiro da lui designato, era legge, e non serviva a niente chiedere
chi fosse d’accordo o no. Infatti, nessuno fece segno
d’opposizione. Ci erano cascati.
-
Resterete tutti qua dentro. Mi lascerete allontanare a
sufficienza, poi sigillerete ogni uscita, ogni pertugio, dall’esterno.
Alcuni vampiri verranno con me per bloccare le uscite, e poi li ucciderò. Tutti
gli altri resteranno dentro per appiccare del fuoco magico nei piani più bassi
e dentro i locali. Prima del tramonto voglio vedere New Bucarest bruciare dalle
fondamenta! -
Urla,
urla. Tutti urlavano, indignati, spaventati, ma incapaci di opporsi. Ormai,
ufficialmente parlando, avevano dato la loro approvazione. Non potevano far
altro che eseguire gli ordini. Sara si Smaterializzò, e alcuni addetti
sigillarono New Bucarest seguendo i suoi ordini, dopodichè Sara li uccise, come
pattuito. Poi, trenta vampiri armati di fiaccole magiche e benzina corsero in giro per i piani più bassi di New Bucarest. Il
fuoco magico delle loro torce poteva bruciare anche la roccia, se gli veniva dato abbastanza combustibile.
Sara
aspettava fuori dall’entrata di New Bucarest, lo
stesso posto dove, poche settimane prima, i Cacciatori l’avevano spinta ad
avventurarsi. Sara si domandò se fosse proprio davanti
a quella porta, in quel momento che ormai pareva lontanissimo, che si fosse
conclusa la sua volontà di restare ancora una mortale. Oquasi una mortale. In
effetti era stata la sua prima entrata nella città dei vampiri a
seminare nel suo animo idee diverse, idee inaccettabili per qualunque altro
essere umano che avesse ancora qualcosa da giocarsi, nella vita.
Sara
sorrise, non poté farne a meno; in quell’istante aveva appena ammazzato
settemila vampiri: era il suo dovere, visto che aveva
deciso di diventare una vampira che ammazzava gli altri vampiri. Un
controsenso, ma le andava bene così.
I vampiri
di New Bucarest, in quel preciso momento, bruciavano e soffocavano, in un
inferno terreno di fuoco, fiamme, fumo nero. Un destino fatale e inconfutabile.
Sara si sentiva strana: era stata lei a deciderlo. Quei vampiri si erano suicidati per suo ordine. Ma
ora che New Bucarest stava bruciando, crollando dall’interno, la sua autorità
di Dominante non valeva più niente.
I suoi
sensi superiori captavano le grida e le sofferenze che c’erano sottoterra. E sarebbe stato sempre così. Ogni sensazione si sarebbe
sempre amplificata, triplicata dentro di sé, perché era un vampiro. Ogni
sensazione, soprattutto il dolore.
Era una
diurna.
Per
qualche strana ragione lo aveva sospettato, ma poi a provarglielo era stata la
luce del sole che aveva lambito gentilmente la sua pelle cadaverica senza farle
alcun male. Per qualche motivo, lei aveva questa grazia. Avrebbe potuto
rivedere il sole, anche se la cosa non le causava
nessuna felicità particolare. Ma se non altro, per la prima
volta nella sua vita, era superiore alla sua razza. Come umana era stata inferiore, un mostro, come vampiro adesso
poteva essere geneticamente più potente.
Voldemort
non poteva più assorbirla. Ora poteva soltanto ucciderla.
Che
tentasse: lei lo aspettava.
Quei
momenti erano per lei spazi enormi di amnesia. Vagava
senza una meta, e non ricordava né dove andava, né da dove proveniva, né perché
lo stesse facendo. Dimentica dell’anno corrente, del mese, del giorno,
dimentica di qualsiasi cosa, semplicemente vagava, sul dorso di un bel cavallo
marroncino dalla lunghissima criniera bionda, come i capelli di
Asia. Ogni notte uccideva, beveva, metteva fine a qualche altra
esistenza e segnava l’inizio del dolore di qualche altra famiglia. Per una
strana abitudine che non le apparteneva, ma che doveva essere stata di Seymour,
il suo creatore, a volte di giorno si rinchiudeva in un cimitero, cercava una
delle tante bare vuote, e lì profondamente si addormentava fin quando non
arrivava la notte.
Non si
sentiva tanto cambiata, era come se quella vita le fosse sempre appartenuta ma
lei non l’avesse mai presa tanto in considerazione. Le
sembrava di essersi semplicemente ricongiunta a qualcosa che era sempre stato
suo ma che aveva perso di vista per tanto tempo. Aveva ricordi dolorosi della
sua vita mortale. Non sapeva quale delle due fosse
peggiore. Per alcuni individui, la vita di vampiro era un
dono, per altri una dannazione, per certi umani era una frottola… per
lei essere un vampiro significava succhiare il sangue ogni notte, per
l’eternità, ed essere, passivamente, come prima. Era cambiato ben poco. Ed era meglio così.
Solo una
cosa le faceva paura. Il tempo.
Un’eternità
senza Sirius. Senza nessuno da amare come aveva amato
lui. Senza l’ambiguità di Sniper - sì, ora lo sapeva, le
mancava - senza la figura quasi paterna di Seymour, che si era rivelato invece
un pessimo assassino senza orgoglio, senza onore, soltanto sadico e patetico;
un’eternità con la sua vita di vampiro, con quelle abitudini strane, con
quell’aspetto senz’altro più inquietante di prima. Un’eternità desolata.
Sola. Per sempre.
Vagò,
vagò per tutta la Romania, e quando andava a dormire perdeva la memoria di ciò
che aveva fatto nell’arco della giornata.
Vagando,
si trovò senza accorgersene nel bosco dove c’era il quartier generale dei
Cavalieri dell’Alba. E con la sua apatica forza
dell’abitudine, disse la parola magica in latino ed entrò. Salì le scale,
portandosi dietro il cavallo, i cui movimenti parevano
mosci e automatici almeno quanto quelli di Sara. La ragazza si trovò nel
piazzale, che abbondava di bare. Senz’altro erano i cavalieri. Sara non provò
niente di particolare. Nessuna sensazione che le segnalasse che era ancora
un’umana.
Erano
morti, e allora? Capita a tutti.
Solo, si
domandò chi li avesse messi nelle bare. Doveva esserci ancora qualcuno vivo da
quelle parti. Lasciò il cavallo nel piazzale assolato, insieme con le bare,
spinse la pesante porta e si trovò all’interno. Non vedeva niente di nuovo da
nessuna parte, e non era esattamente la cosa che le faceva più piacere.
Nel
silenzio della penombra Rotten l’aspettava seduto al tavolo, completamente
privo di una qualche forma di stupore.
Aveva in
mano un foglio di pergamena che depose, tossicchiando. Sara lo distinse
benissimo, che era malato. Lei invece aveva perduto la sua malattia quando era diventata un vampiro, così come aveva perso le cicatrici
del suo non più necessario autolesionismo. Sara lanciò le sue vecchie sigarette
a Rotten, che a sua volta le abbandonò sul tavolo senza curarsi di esse. Aveva lo sguardo di un vecchio pentito. Ed era decrepito. Tanto decrepito da dare
l’impressione di essere in punto di morte. Infatti
era proprio così.
- Avrei
potuto impedirlo, - disse Rotten.
- Che cosa avresti potuto impedire, tu? - disse Sara con disprezzo. - Hai sempre osservato, analizzato,
tratto conclusioni. Eri del tutto inutile per
risolvere i problemi. -
- Io
sapevo che cos’erano i Dominanti. - Sara lo fissò con disgusto ancora maggiore,
ma lo lasciò continuare. L’avere un’eternità davanti a sé l’aveva resa anche più paziente, fortunatamente. - e sapevo che Sniper voleva portarti da Voldemort, ma non mi
aveva detto che ci voleva uccidere tutti… guarda. - aggiunse, aprendo le
braccia tremanti. La sua malattia era il rimorso. - Mi hanno lasciato in vita
perché soffrissi ancora e morissi qui, prima o poi.
Sono chiuso dentro. -
- Non sei
chiuso dentro, - disse gelidamente Sara. Era impazzito.
- Sono
chiuso dentro. -
- Non lo
sei. -
- Sono
chiuso dentro, - insistette Rotten.
Sara
scrollò le spalle, evitando di spazientirsi inutilmente. Non si sedette,
nonostante Rotten le avesse scostato una sedia con
molta malagrazia. Non le andava di conversare con un vecchio pazzo di rimorso.
Lo lasciò confessarsi, come avrebbe fatto un prete paziente nel confessionale,
ma non gli disse niente per consolarlo. Non voleva consolarlo.
- Lion è
sempre stato come un figlio per me… Come un figlio, come un figlio… io che li
ho persi tutti, i miei figli, mia moglie, le mie sorelle e i miei fratelli, i
miei genitori… tutti. Tutti. Lion era l’unico che somigliasse
a un figlio, per me, davvero… Ho scoperto che Asia era un’Auror che voleva
catturare Sniper, ho saputo del piano di Voldemort, ho saputo tutto. Ma Voldemort mi ha detto che avrebbe ucciso Lion dopo averlo
torturato sotto i miei occhi, se avessi detto qualcosa a qualcuno. E presi parte del suo piano immondo. Non feci niente per difenderti
dalla condanna, perché era calcolato che Sniper scendesse per farti scappare
nel monastero… Ho aiutato Voldemort, fedelmente come uno dei suoi sudici
Mangiamorte, da quando tu sei venuta qua! E lui non ha
mantenuto la promessa… Ha ucciso tutti! - esplose infine, - Io l’ho aiutato e
lui li ha uccisi! Perdonami, Sara! Perdonami! Sei immortale! Sai com’è morire!
So che potrai convincere anche gli altri a perdonarmi… Che Dio mi assolva! -
- Dio? -
rise Sara, come non aveva mai riso. Rotten fece appena in tempo a ficcarle il
foglio di pergamena in mano prima che Sara se ne andasse.
La ragazza sentì Rotten che si metteva a piangere, il pianto di un vecchio che
morirà solo. Riprese il cavallo: anche lei sarebbe morta sola.
Rotten
per lei non aveva alcun significato, quasi. Dopotutto, era immortale.
Avrebbe
conosciuto mille persone come Rotten, mille come Lion, mille come Asia, mille
umani dai mille volti che alla fine si sarebbero assomigliati tutti.
Mille
facce, mille voci, e tutti uguali, sempre. Sarebbe stato così.
Se ci
fosse stato Seymour! Se ci fosse stato lui, come Sara
aveva creduto di poterlo conoscere! Se ci fosse stato Seymour come lei aveva pensato che fosse, sarebbe stata felice, ne
era certa. Ora però non poteva più essere felice.
La cosa
più dolorosa, probabilmente, era ciò che lei non sapeva. Seymour si era fatto
uccidere. Seymour aveva mentito. Sara non lo seppe mai: per lei Seymour fu
sempre l’assassino di Sirius.
Sara
riprese a vagare.
Per
quanto ancora avrebbe vagabondato, sterminando componenti
della sua stessa stirpe? Non ne aveva idea, e la cosa
la irritava: di colpo non le piaceva più vivere senza la certezza del domani,
ma era certa che prima o poi sarebbe riuscita a farsene una ragione. Non poteva
programmarsi ogni giorno tutta l’eternità che aveva a
disposizione… aveva tempo per tutto. Poteva fare con calma. Ma era difficile
decidere che cosa fosse giusto fare adesso… Era meglio tornare in
Inghilterra? Uccidersi? Non tornare mai più? Morire di fame? Mille domande
inutili. Sara non avrebbe mai avuto il coraggio di tornare né di uccidersi.
Sarebbe rimasta lì, a camminare per l’eternità.
Avrei dovuto difenderla sempre.
La promessa che le avevo fatto parlava chiaro, Rotten, ma io mi sbagliavo di
grosso quando gliel’ho fatta. Perché non avrei mai potuto
considerarmi come suo padre, o suo nonno, o il suo tutore. Avrei potuto
sempre e solo apparirle come un vecchio sciocco. Ebbene
sì, è così che stanno le cose.
L’ho lasciata venire in
Transilvania quando sapevo che non avrei dovuto.
Tutte le decisioni che ho preso
con lei, tutte, capisco adesso quanto siano sbagliate.
Come ho potuto
illudermi di poter cambiare le cose, non ne ho idea, caro amico.
Come ho potuto anche solo sperare
che per lei ci fosse una speranza, neanche di questo ho una vaga idea. Lei non
vuole avere speranza, perché crede che la speranza non esiste, ed è stato
proprio questo l’errore più grande nella promessa che
le stipulai.
La speranza esiste.
Noi abbiamo idee diverse, io e
Sara. La speranza non è affatto una bella consolazione in grado di darti un po’
di felicità. Molto spesso le nostre speranze vengono
deluse e, come è accaduto a Sara, ci convinciamo con pessimismo che la speranza
sia una convenzione umana che serve solo a nascondere tutto il male che c’è
sotto.
Non è vero.
La speranza è qualcosa di potente.
Qualcosa che stimola gli uomini a
vivere ancora, a continuare a vivere e a proteggere la vita di coloro a cui
vogliono bene. Vedo la speranza riflessa
ovunque, nelle persone che mi circondano, c’è anche l’asia, naturalmente, ma la
speranza è forte ovunque vado. E’ questa la forza di noi esseri umani. Se Sara leggerà mai queste parole, vorrei che potesse convincersene
anche lei. E’ sempre stata sfortunata, dannata, come direbbe lei, suppongo. Ma non per questo la speranza deve morire.
Te lo dico adesso, mio buon amico,
ma avrei dovuto dirtelo molto prima. Te lo dico ora
che ho intenzione di rompere la corrispondenza che è durata per tanti anni fra
noi. Adesso inizia un nuovo capitolo della storia di ognuno, ed è giusto che
andiamo tutti per la strada che troviamo più adatta.
Adesso ho tradito le speranze di
molte persone ma sono pronto a riscattarmi. Tempi bui iniziano per il mondo che
conosciamo, ed è proprio in questo frangente che anche tu devi ricordartelo
Rotten: spera.
Come sperano questi ragazzini qua
intorno, come spera anche un vecchio quando vede che i suoi nipoti giocano in salotto ignari del pericolo che c’è qua fuori… la
felicità esiste, e finora ci è sempre stata utile… non dovremmo dimenticarcene,
non credi?
Il corpo
di Seymour si era polverizzato alla luce delle sole alla quale Sara lo aveva
esposto, quell’anonima mattina del ventuno agosto. Sara fissava quell’ammasso
di polvere fluttuante nel flebile vento e si domandava se fosse proprio quello
il destino che meritavano tutti i vampiri. Con Seymour si era illusa che
potesse esistere qualcuno diverso da come lei pensava, e ora che conosceva la sofferenza che spettava a tutti quelli della
sua razza non poteva fare a meno di provare pietà, almeno un briciolo, un
granello di pietà.
La sua
decisione era ormai irrevocabile, lei sarebbe rimasta
una cacciatrice.
Non tanto per dare sollievo alla sua anima… piuttosto per impedire che
altri vampiri fossero generati. Non sapeva come mai, ma dentro di sé c’era ancora
qualcosa di umano che le imponeva di evitare simili
disastri. Basta con quel dolore!
C’era già
Voldemort a devastare le esistenze di molti esseri umani. Lei aveva la forza,
le armi, la possibilità di risparmiare alle persone quel pericolo, perciò aveva
deciso di farlo, a qualunque costo.
Forse per
non sentirsi sola.
Forse per
sapere che stava facendo qualcosa di utile.
Forse per avere ancora un po’ di speranza, come diceva quella lettera,
e per sapere con certezza che la sua vita eterna era devoluta a qualcosa che
agli umani portava sollievo. Nessuno le avrebbe mai conferito il
merito per questo, nessuno l’avrebbe mai ringraziata per lo sterminio di
quella razza pericolosa.
I vampiri
l’avrebbero odiata, gli umani ignorata.
Ma a
lei non importava: anche lei odiava i vampiri. Erano la sua razza, la sua
famiglia… ma li odiava. Non poteva farci niente. Provava verso la loro vita
eterna quanto la sua un disprezzo sconfinato e indomabile.
Pensandoci
bene, forse era soprattutto per questo che aveva deciso di uccidere vampiri per
il resto della propria vita. Per sé stessa. Come al
solito. Anche perché un vampiro non ha nessun altro se non sé
stesso, inevitabilmente. Un processo logico.
Mentre
i resti di Seymour Gray si perdevano nel vento, lei si sentì patetica e
stupida.
Fissò il
cielo e l’orizzonte, mentre i colori del panorama lì intorno si arrossavano dei
colori del tramonto, dal rosa, al viola, all’arancione, fino al contrasto fra l’azzurro
e il rosso perlato. Sara ebbe la sensazione inspiegabile che niente fosse lì per caso, che ogni cosa che fosse nel suo campo
visivo facesse parte di una sola ed unica composizione indistruttibile. Tutto
era elemento dell’eterno che si addensava in quell’istante scuro di crepuscolo
ma allo stesso tempo luminoso. Tutto era parte di tutto.
E
infine, una volta tanto, piangendo di dolore ma sorridendo di felicità, Sara
vide i suoi dubbi dissiparsi. Anche lei era parte di
quel tutto. Finalmente.