Petali di asfalto

di Florelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** É sempre tutto uguale ***
Capitolo 2: *** Un quaderno dalla copertina in pergamena. ***
Capitolo 3: *** Teatro ***



Capitolo 1
*** É sempre tutto uguale ***


“Ma sì, in fondo gli volevo bene anche io alla tua bestia puzzida” lo canzonò lei, mentre Luca accarezzava uno ad uno gli oggetti del suo adorato cane, Lulù, morto poche ore prima nello studio del veterinario che l’aveva sempre curato, alla veneranda età di sedici anni.
“Lulù non ha mai puzzato. E comunque ‘puzzida’ in italiano non si dice, Marianna” la rimbrottò Luca con un tono secco, curvando le spalle. “Non parlare male di lei” borbottò. Voleva veramente bene a quel cane: era stato il suo compagno fedele durante la sua adolescenza e probabilmente la presenza più sensata in quella casa.
Beh, adolescenza... Luca non era esattamente sicuro di averne avuta una, visto che sin dai primi anni del liceo – o forse anche prima – era sempre stato oberato da mille responsabilità. Ecco, adesso stava copiando le frasi di Alessandra un’altra volta. Scosse la testa.
“Certo, l’unica donna della tua vita!” rise lei a squarciagola, mostrando tutti i denti perlacei.
“Cretina!” sbottò lui.
“Luca, smettila di trattare male tua sorella!” gridò la madre, che stava preparando il pranzi per quella riunione familiare.
“Ha cominciato lei!” protestò il giovane.
“Smettetela di litigare come quando eravate bambini. Comportatevi da persone adulte!”
“Hai visto, mamma ha detto che non sei una persona adulta.” Luca avrebbe voluto risponderle, ma consolidando una tattica ormai vecchia, se ne rimase in silenzio, voltando lo sguardo da un’altra parte.
“Ehi, sto parlando con te!” Marianna gli si avvicinò e lo scosse per un braccio. “Sei sordo?” esclamò, urlandogli in un orecchio. “Sei sordo e cattivo!” disse ancora, scuotendolo più forte e alzando il volume della voce.
“Marianna! Abbassa la voce!” gridò la madre, senza entrare nella stanza.
“Sei cat-ti-vo!” gli urlò di nuovo.
“Lasciami in pace! Hai capito? Lasciami in pace!” Luca esplose, alla maniera di una pentola a pressione a cui il tappo salti. Si alzò dalla poltrona su cui era sprofondato e scattò verso le scale, per raggiungere quella che era stata la sua cameretta.
Perché gli sembrava che non cambiasse mai niente? In quel momento desiderò ancora una volta che sua madre entrasse piano piano senza bussare dalla porta di camera, lo abbracciasse e lo rassicurasse che sua sorella non aveva il diritto di comportarsi così, né di aggredirlo. Voleva che sua madre lo abbracciasse e lo rassicurasse dolcemente.
Ma sua madre non aveva mai fatto un gesto simile per lui perché “lo sai, tua sorella è sfortunata, tua sorella ha dei problemi, la devi capire.”
Che cosa doveva capire? Pensava rabbioso, massaggiandosi il braccio livido. Tirò sul col naso e si guardò allo specchio.
“Hai venticinque anni, non puoi comportarti ancora come un quindicenne” si disse a mezza voce, ma sapeva benissimo che se fosse sceso di nuovo in salotto, lui e Marianna avrebbero finito per litigare ancora. Si sedette sul letto e tirò fuori l’i-phone, cominciando a giocare con alcune applicazioni.
Se almeno Alessandra gli avesse mandato un messaggio per chiedergli come stavano andando le cose... ma Alessandra si interessava raramente di questo. Per non sentirsi solo, si concentrò sul videogame, impiegando tutta la sua rabbia per distruggere le bolle che cadevano sullo schermo.
“È pronto!” urlò la voce di suo padre che era tornato dal lavoro e, come al solito, si era probabilmente messo a guardare il telegiornale, senza curarsi di salutare i figli.
Luca rimise il cellulare in tasca e scese giù per le scale.
“Ciao, babbo” disse distrattamente, passando davanti al televisore.
“Ciao, Luca.” rispose l’uomo alzandosi e facendogli un cenno col capo. Si avviarono entrambi in cucina.
Marianna stava chiacchierando con la loro madre, anzi sarebbe più giusto dire – osservò Luca – che stava chiacchierando a sua madre, come al solito macinando sillabe e investendola con percorsi logici piuttosto ardui da individuare, se logici affatto. Sua madre con pazienza tentava di tenerle dietro e di risponderle dove possibile, altrimenti semplicemente annuiva.
“Come mai non sei allo studio?”chiese suo padre a Luca.
“È sabato, di sabato lo studio è chiuso” ripeté a macchinetta, quasi sentendosi in colpa per la settimana corta del suo lavoro, come se fosse stato lui il padrone dell’attività e non un semplice dipendente.
“A proposito, c'è una mia amica” cominciò sua madre “che ti dovrebbe chiamare nei prossimi giorni. Ha intenzione di ristrutturare la casa di sua madre, le ho dato il tuo numero.”
“Ok.”
“Mamma, stavo parlando io! Ti stavo dicendo che ho conosciuto questo tipo e...” riattaccò Marianna come se nulla fosse. Ovviamente i genitori non dissero niente e aspettarono in silenzio che la giovane finisse il suo monologo. Così scivolo via metà del pranzo. Quando finalmente Marianna si interruppe, distratta dalle bollicine della Coca Cola, il padre intervenne: “Luca, perché non hai mangiato quasi nulla?”
“Ho lo stomaco chiuso” fu la risposta sottile. Il padre scosse la testa, ma non commentò.
“Io invece ho mangiato tutto! Mamma cucina così bene! Sai mamma, dovresti darmi proprio la ricetta del tuo risotto, così lo rifaccio a Stefano... ti ho parlato di Stefano, no? Ecco vedi, la cugina di Stefano, che si chiama Lucrezia... Lucrezia... o forse era Lucia... no, ma mi sembra proprio Lucrezia... Lucrezia, che brutto nome, sembra un personaggio cattivo di un telefilm, Lucrezia... Lucrezia... cervellone, che vuol dire Lucrezia?”
“ È latino” rispose Luca laconico.
“Insomma, la tua ricetta, ecco dicevo perché Lucrezia fa un risotto buono, ma il tuo è più buono così faccio anche bella figura perché la mamma di Stefano dice che sono buona a poco. Ma è solo perché è una vecchia arpia antipatica ed è gelosa, quella troia...”
“Marianna!” sbottò il padre.
“Babbo, lo sai, quando ci vuole ci vuole ed io parlo come si deve, mica sono come questo cervellone qua che infiocchetta tutte le parole manco fossero caramelle, che poi alla fine mica si capisce nemmeno quando parla con tutte quelle caramelline.. Perché lo sai, la mamma raccomanda sempre di non mangiare troppe caramelle perché sennò ti si cariano i denti... ah, ieri l’altro sono stata dal dentista e...” Luca si disconnesse da quella scena, com’era solito fare, facendo una lista mentale delle cose che avrebbe dovuto fare nel resto del giorno. Fare un po’ di spesa, stendere la lavatrice, possibilmente finire il quadro che da due settimane stava sul cavalletto, magari uscire quella sera con Alessandra o qualcun altro. Non che avesse tutta questa voglia di uscire di casa, ma dicesi che, per convenzione sociale, fosse una buona cosa parlare con qualcuno che non fossero i colleghi di lavoro almeno una volta a settimana.
O magari poteva andarsene a ballare da qualche parte, prendere la macchina e arrivare fino a Tirrenia. Erano passate almeno due settimane dalla sua ultima avventura... rabbrividì inorridito quando realizzò i pensieri che stava facendo a tavola con i suoi genitori. Non era pulito, non era corretto.
La voce squillante di Marianna ancora una volta lo riportò alla realtà:
“Mamma, mi chiami un taxi? Ho un appuntamento con Stefano..” Almeno se Marianna se ne fosse andata, anche lui avrebbe avuto una buona scusa per tornare a casa senza sembrare scortese. Aiutò la madre a sparecchiare come aveva sempre fatto, in silenzio, poi guardò l’ora con un gesto plateale e annunciò che aveva del lavoro da sbrigare.

Distesi sul divano della casa dei genitori, Luca ascoltava ancora pazientemente le lamentele di Alessandra sull’ennesimo ragazzo che l’aveva trattata male. Alessandra non era una brutta ragazza secondo lui, dolce fin nei tratti del viso, sempre sorridente, forse un po’ ingenua, con le forme nei posti giusti – ok, forse un po’ troppo formosa – di una bellezza acqua e sapone un po’ retrò, vestita sia col caldo che col freddo con colori sgargianti.
“Ecco... perché non sei venuto ieri sera? Almeno gli avresti dato un pugno in faccia.” si lamentò, in riferimento alla serata precedente passata in discoteca con le amiche quando aveva visto il tipo con cui usciva – o, per dirla come pensava Luca, il tipo con cui aveva scopato un paio di volte – strusciarsi molto appassionatamente con un’altra.
Luca avrebbe voluto obbiettare che, essendo una serata tutte donne, si sarebbe sentito un po’ fuori posto, ma decise di lasciar perdere.
“Ah comunque... la Mari mi ha trovato qualcosa che cambierà la tua vita.”
“La mia vita?” Lei gli mise in mano un volantino stropicciato che pubblicizzava le nuove attività dell’Arcigay per quell’anno. Luca lo guardò sommariamente. “Tanto lo sai che al Gay Pride mi piace andarci da solo. Perché dovrebbe interessarmi?”
“Questo deve interessarti. Un corso di teatro!”
“Cosa?”
“Teatro e linguaggio del corpo. Ti farà bene, ti insegnerà ad essere un po’ meno baccalà... e vedrai che successo coi ragazzi.”
“Mi sono mai lamentato di non aver successo?”
“Lucaa... sei vecchio, hai venticinque anni, è ora che tu ti trovi un fidanzato! Basta andare a scopacchiare in giro come un quindicenne.”
“A me va bene così.”
“Ti va bene così finché avrai un visetto giovane e fresco e un bel culo... ma sai anche tu che non durerà per sempre.”
“Non ho ancora trovato la persona giusta. E comunque meglio soli che male accompagnati” Stava recitando la solita commedia perché ad Alessandra andava bene così. Era più facile per lei pensare che il suo migliore amico non aveva mai avuto una relazione importante, nonostante fosse decisamente di bell’aspetto e intelligente, piuttosto che addentrarsi a capire che bei lineamenti e un quoziente intellettivo sopra la media non bastavano, che nessuna delle cotte di Luca aveva mai trovato riscontro in qualcosa di più serio che una scopata, che spesso e volentieri i suoi coetanei non ne notavano neppure la bellezza, indispettiti dalla sua incapacità di interagire. No, quella non era la storia che Alessandra voleva sentire; allora Luca recitava per lei la parte del ragazzino che non vuole relazioni, che si vuole soltanto divertire. Non le aveva mai confessato i suoi sogni più intimi, quelli in cui fantasticava su un compagno dolce e affettuoso, cenetta a lume di candela e passeggiate in riva al mare di notte mano nella mano.
Non lo avrebbe mai raccontato ad Alessandra, lei non avrebbe capito. Ma del resto non si aspettava che qualcuno davvero lo potesse capire; gli esseri umani non si capiscono.
“Ti va di uscire a prendere una cioccolata calda da qualche parte?” le chiese.
“Mi vuoi ancora più brutta e grassa?” rispose lei, soffiandosi il naso in un fazzoletto. Luca rimase in silenzio, ascoltando il suo stomaco che cominciava a reclamare un po’ di cibo. Il cellulare di Alessandra interruppe il silenzio.
“Ciao, Marisa.. Sì, sono a casa. Come sto? Sto a pezzi... sì, sì, Luchino è qui da me... se vogliamo andate a mangiare una pizza stasera? Aspetta che chiedo... Luca, ti va di andare a mangiare una pizza fuori con Marisa e un suo amico? Mi farebbe tanto piacere, dai dai dai...”
“Non eri a dieta tu?” rispose lui, facendole la linguaccia..
“Ok... ci vediamo verso le sette al solito posto.” L’amica aveva ritrovato il sorriso; al contrario Luca stava già cominciando a sudare freddo alla prospettiva di dover conoscere qualcuno di nuovo e di vedere probabilmente per l’ennesima volta Alessandra fare la smorfiosetta.

“Ciao, tesora!” Marisa urlò attraverso il locale e andò a prendere i due amici. Salutò Alessandra con due baci sulle guance e un lungo abbraccio. “Ciao, dolcezza” disse a Luca, smorzando un po’ l’impeto, ma non rinunciando ad accarezzarlo sul viso. Lui si irrigidì come tutte le volte, non capiva proprio la smania della gente per il contatto fisico. Stava benissimo senza che nessuno invadesse il suo territorio.
“Alcuni amici si sono uniti a noi, spero non vi dispiaccia. Tutti simpaticissimi, comunque” sorrise. Luca avrebbe voluto scappare a gambe levate in quel momento. Ma se c’era tanta gente probabilmente nessuno avrebbe prestato particolare attenzione a lui e si sarebbe potuto ritagliare il suo angolo di spazio.
Non capì bene quante persone componessero il nuovo gruppo di amici, forse una decina, comunque troppi. Dall’abbigliamento si poteva distinguere chiaramente che fossero amiche e amici di Marisa, platealmente gay e questo calmò un poco Luca. Quanto meno, non si sarebbe sentito troppo un pesce fuor d’acqua.
Superato il solito rito della scelta dell’aperitivo si accomodò in un angolo, osservando gli altri e cercando di non riconoscere che era oggetto a sua volta di occhiate interessate. Almeno tre gradi di separazione, non avrebbe mai potuto scopare uno degli amici di Marisa, sarebbe stato imbarazzante.
Anche se il biondo con la camicia aperta non era niente male, forse un po’ troppo california-style e con troppi pettorali per i suoi gusti, e perché no, anche il tipo piccoletto con la testa rasata. Alessandra era scomparsa chissà dove con il ragazzo, che, come da copione, l'amica le aveva fatto conoscere, mentre Marisa era impegnata in un appassionato dialogo con una morettina.
“Posso?” Luca quasi sussultò quando sentì quella domanda e per una breve frazione di secondo si trovò occhi negli occhi con l’interlocutore.
“Non volevo spaventarti” rise il ragazzo. Luca si concentrò solo sui lunghi capelli castani, da metallaro.
“Ero solo sovrappensiero. Comunque sì, puoi prendere la sedia.”
“Io intendevo sedermici, non portarla a casa, veramente” rispose l’altro con un tono semplice e neutro che Luca non si aspettava. Si sforzo di guardarlo nel viso.
Come aveva fatto a non notarlo prima?!
Forse era stata una sorta di autodifesa da parte del suo cervello, cercare di escludere dai suoi sensi la persona che sembrava fatta apposta per lui. O per lo meno per i suoi ormoni.
Tre gradi di separazione...
“Sei anche tu un amico di Marisa?” gli chiese. Aveva pure una bella voce dolce e chiara.
“Sì” annuì Luca, senza riuscire ad aggiungere nient’altro.
“Piacere, io sono Nicola.”
“Luca.” Ci fu qualche momento di imbarazzo, Luca non sapeva se doveva tendergli la mano oppure no, se doveva fare qualcosa. Di sicuro era arrossito e la cosa non migliorava il suo umore.
“Mi sono trasferito in città da poco” sorrise Nicola. “Mi hanno assunto in una piccola casa editrice, finalmente! E soprattutto mi dedico alla mia più grande passione, il teatro. Così quando Marisa mi ha chiesto se volevo tenere un corso di teatro allÁrci gay le ho subito detto di sì, non vedo l’ora di iniziare.” Luca si lasciava cullare dal lento fluire delle parole. Chiuse gli occhi per un attimo: letteralmente adorava quando qualcuno gli parlava, sollevandolo dal fardello di dover attaccare conversazione o peggio ancora di dover rispondere. “Comunque, ti dicevo, mi sono trasferito qui da poco, ho studiato insieme a Marisa a Padova, poi sono rimasto a fare il dottorato in Editoria su e adesso sono venuto qua. Non mi dispiace affatto Firenze, almeno è una città aperta. E tu? Nato e cresciuto qui.”
“Sì.” Seguirono attimi di silenzio. Luca maledì la sua incapacità di sciogliersi o di fare una qualsiasi mossa che sembrasse seduttiva. “Faccio l’architetto. Cioè, per ora non ho uno studio mio... ma almeno faccio quello che mi piace.”
“Quindi sei un creativo!” esclamò l’altro con esagerato entusiasmo.
“Mi piace disegnare. Dipingere anche.”
“Un’artista misterioso!” esclamò di nuovo Nicola. “E con un bellissimo sorriso.”
“Nico, noi andiamo! Muoviti o ti lasciamo a piedi.” Il ragazzo coi capelli rasati venne a chiamarlo.
“Arrivo! Beh, Luca del Mistero, ci vediamo presto.” Gli sorrise. Luca avrebbe voluto sbattere la testa al muro.
Perché si doveva sempre comportare così?

“Luca, tutto bene?” chiese Marisa, approfittando del fatto che Alessandra si fosse allontanata per una lunga pausa sigaretta con Massimo, la sua nuova conquista.
“Sì” rispose lui, mettendo su una smorfia-sorriso di convenienza.
“Sei più silenzioso del solito.”
“Non mi sembra” biascicò, sbadigliando.
“Mercoledì c’è la lezione di dimostrazione del corso di teatro, ci vieni?”
“Non mi ossessionare anche tu!” ruggì.
“Sarà divertente, non sei mica obbligato a seguire il corso poi, ma sarà una serata carina. Da quando Giacomo si è fidanzato, tu non mi esci quasi più di casa. Cos’è, c’era qualche gelosia fra voi due?”
“Ma no!” Giacomo era stato il suo compagno di uscite in discoteca per i passati otto anni... fino a un mese fa quando era diventato una sottospecie di lesbica, aveva trovato l’uomo della sua vita, si era trasferito da lui e praticamente non aveva più considerazione per nessuno. “È che.. beh, non posso certo andare in un locale gay con te o con Alessandra, con tutto il rispetto.”
“Neppure puoi aspettare in eterno che Giacomo si lasci dal suo ragazzo per tornare in giro con te. Avresti bisogno di qualcun altro.”
“Sto bene, grazie per l’interessamento” rispose polemico, rinchiudendosi nelle spalle.
 

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Capitolo 2
*** Un quaderno dalla copertina in pergamena. ***


3 Marzo 1996

Caro D(i)ario,
Oggi la nonna è venuta a trovarci. Odorava di borotalco, acqua di rose e caramelle Rossana. Ci ha portato in regalo due quaderni belli, di rilegatoria, con la copertina in carta pergamena. Uno per me e uno per Marianna.
È strano che ci permettano di avere qualcosa di uguale, ma forse perché la nonna è una persona anziana e a queste cose non ci pensa. E poi non so, a volte ho l’impressione che la nonna sia un po’ dalla mia parte, che mi voglia un bene speciale.
Prima di rinchiudersi nello studio con la mamma, come tutti i sabati, mi ha dato una carezza vigorosa sulla testa e mi ha detto di fare buon uso di quel quaderno e che sa che non la deluderò.
Per fortuna Marianna era uscita con il babbo per andare a danza, sennò sai quante storie avrebbe fatto per quella carezza squilibrata.
Allora ho deciso che userò questo quaderno per scrivere qualcosa di me, per diventare il mio amico speciale.
Per questo l’ho chiamato Dario, come il condottiero persiano e come il ragazzo di prima liceo che ha quei begli occhi verdi e che non mi considera mai.
Lui è nel club di pallavolo, ma io sono troppo basso per giocare a pallavolo. E ho sempre paura che la palla mi venga addosso e mi faccia male.

4 Marzo 1996

Dario, non ho una foto di me da farti vedere e appiccicare qui, magari uno di questi giorni mi fermerò alla macchina automatica dopo la scuola e ne scatterò una. Per ora accontentati di quello che ti dico.
Non sono un bel tipo, mi dispiace. Sono basso di statura, anche se mio padre mi ripete sempre che crescerò ancora perché “anche lui è cresciuto molto dopo i sedici anni” (anche se rimane basso) e sono mingherlino (la scorsa settimana sono arrivato a cinquanta chili per la prima volta nella mia vita).
Ho i capelli neri con riflessi rossi, ricciuti e per quanto cerchi di curarli rimangono ostinatamente ricci. Non mi piacciono.
Vado orgoglioso del mio naso che è sottile e piccolo e ho sempre paura che la palla ci caschi sopra e lo rovini.
Ho le efelidi che si confondono con i brufoli.
Insomma, una schifezza, ecco.
Pagherei qualsiasi cosa per essere non dico un Achille, ma almeno un Patroclo e non un Tersite. Alessandra, la mia migliore amica, dice che devo essere scemo a pensarla così.
Mia madre dice che io e Marianna ci assomigliamo tantissimo, che abbiamo gli stessi riccioli ribelli, lo stesso taglio degli occhi, la stessa espressione un po’ corrucciata.
Solo che lei è più alta di me, è robusta e ha un bel seno, infatti tutti i maschi della scuola le fanno la ronza e lei torna a casa ogni sabato sera accompagnata da uno diverso.
Lei fa il liceo scientifico, ma quello falso, agli Scolopi, io il liceo classico statale.
In classe non mi trovo poi tanto male.
Premesso che non mi si nota subito, ecco. Non mi piace chiacchierare, preferisco starmene in silenzio e pensare ai fatti miei, studiare e prendere dieci nelle materie importanti (lo prendo anche in quelle meno importanti, ma senza prestare attenzione).
Quando ero alle elementari, una volta le maestre hanno detto a mia madre con un misto di orgoglio e di preoccupazione che ero una specie di genietto perché in seconda elementare già leggevo libri per quelli di quinta. Solo che non parlavo con gli altri bambini.
A parte Alessandra. Era un segreto fra me e lei la mia voce – anche se a dir la verità io la adoro perché lei parla sempre.
Ah, non mi ricordo se te l’ho detto Dario, Alessandra è la mia migliore amica. Ti piacerà. È alta e robusta – le dicono che è grassa ed è sempre a dieta, ma secondo me è bella giunonica com’è – porta un paio di occhiali spessi dalla montatura di marca, ha lunghi capelli castano chiaro, lisci come spaghetti, e occhi nocciola. La conosco dall’asilo.
Alessandra ha una voce melliflua, un po’ impostata dal canto – facciamo entrambi parte del coro della scuola – e soprattutto è instancabile. Nei lunghi pomeriggi d’inverno nella mia stanza oppure d’estate al mare, quando infuria il caldo, lei riempie le mie ore parlando. Di quello che ha letto, di qualche prof. antipatico, dei compiti, del ragazzo per cui ha preso una cotta, di un libro che ha letto o di un film che magari abbiamo visto insieme. Parla sempre in qualche modo di sé.
Il suo tono mi dà pace e mi tranquillizza quando sono triste.

5 Marzo 1996

Sai, Dario, mi capita spesso di essere un po’ triste, di una tristezza strana, quasi nauseante. Credo sia il 'disagio dell’età', perché alla fine nella mia vita non c’è niente che proprio non vada.
Mia madre mi ripete sempre che non ho ancora una ragazza, ma non sono sicuro che la cosa mi interessi.
Il babbo, da quando Marianna ha cominciato a uscire la sera sempre con uno diverso, dice che è meglio così, che almeno io ho giudizio.
Ieri notte Marianna ha avuto una delle sue crisi, contro i nostri genitori stavolta. Che strano, di solito se la prende con me.
Io stavo già dormendo perché vado a scuola anche il sabato – mica come lei! – quando mi sono svegliato per gli urli.
Mi sa che mia sorella non avesse preso le sue medicine. Volevo restarmene al caldo nel letto – mi fa paura quando mia sorella fa così – ma alla fine non ce l’ho fatta, perché Marianna gridava forte e mio padre di più. Quando sono andato in salotto la mamma aveva la faccia rossa e piangeva. Mi ha fatto impressione.
Babbo la teneva stretta per le braccia e allora ho capito. Mi ha fatto un cenno e sono andato in camera loro, dove tengono le medicine. Mi sembrava di essere un robot tante volte ho fatto questa cosa. Quando sono tornato in salotto ho teso le medicine a mamma, ma lei ha fatto finta di non vedermi. Non reagiva. Allora mi sono avvicinato io a mia sorella, per fargliele prendere.
Lei è diventata tutta viola in volto e ha cominciato a gridarmi “Piccolo verme schifoso!” e “Ladro maniaco!”e ad accusarmi di aver rubato la sua maglietta col pizzo.
Io non avevo toccato niente! Le avrei voluto gridare “Stronza”, ma so che non mi è permesso gridarle contro, però mi sono messo a tremare dalla rabbia. Ho fatto cadere le medicine, per fortuna la boccetta non si è rotta. Mia madre alla fine si è mossa a raccoglierle, mi ha detto che non sono buono a niente.
L’ho delusa. Ancora. Lo so che dovrei badare io a mia sorella. Sono scappato in camera mia, senza fiato.
Ma non è per questo che sono triste. Forse, non lo so. È che mi sembra di non fare mai abbastanza, di essere il cane che insegue l’osso, ma non riesce mai ad afferrarlo.
Sono uno stupido, ecco cosa sono.

8 Marzo 1996

Alessandra mi ha visto star male stamattina a scuola. Si è accorta che faticavo a reggermi in piedi, che avevo sonno. Le ho solo detto che Marianna era stata di nuovo male, lei ha messo su un sorriso di compassione e l’argomento si è chiuso lì.
A ricreazione mi ha parlato di questo tipo che le piace, su cui devo dare il mio giudizio. Lei chiede sempre il mio parere in fatto di maschi. Non lo so, mi sa che ci capisco più di lei, anche se non le ho parlato della simpatia che ho per Dario – quello vero, non tu.
Mi ha anche chiesto se mi va di uscire con questo tipo e una sua amica e lei, ma non ne ho tanta voglia. Ha cominciato a pregarmi, a fare gli occhi tristi e a dirmi che non sono un buon amico se la lascio sola con un tipo che le potrebbe pure saltarle addosso al primo appuntamento per quanto ne sa. Che la devo difendere.
Mi sono lasciato convincere facilmente.

8 Marzo 1996 (ma forse é già il 9?)

L’uscita è stata a dir poco fallimentare. Il tipo che piace ad Alessandra è uno stronzo di prima categoria e Alessandra non gli piace nemmeno, continuava a guardare altre ragazze. Ad un certo punto si sono appartati, credo che abbia chiesto ad Alessandra di scopare e lei gli abbia detto di no, perché poi è venuta a tirarmi via per un braccio.
Però l’amica dello stronzo, Marisa, era simpatica, soprattutto perché ha messo subito in chiaro che io non gli interessavo. La cosa è stata un sollievo per me.
Abbiamo parlato di letteratura e di manga – incredibile, ci piacciono gli stessi!- mi ha lasciato il suo numero e ha detto che magari uno di questi giorni mi viene a cercare a scuola a ricreazione.

14 Marzo 1996

Oggi, quando sono tornato a casa, mio padre mi aspettava fuori in giardino, cosa strana dato che non mi aspetta mai nessuno. Ha detto che voleva portarmi a fare un giro, a mangiare qualcosa fuori. Aveva un’espressione grottesca, di chi cerca di nascondere le cose.
“Che è successo, babbo?” gli ho chiesto, già immaginandomi chissà quale tragedia.
“Tua sorella si è trovata in un guaio. Ha avuto una delle sue crisi a scuola, ha aggredito un compagno che le si era avvicinato in maniera troppo esplicita.” Mi ha raccontato che a scuola è successo un gran casino, che li hanno chiamati e che forse Marianna non ci potrà più tornare.
“Ormai sei grande, vorrei che tu sapessi le cose come stanno” mi ha detto quando ci siamo seduti fuori ad un tavolo del bar a due isolati da casa. Io mi sentivo teso come una corda di violino.
“Tu e tua sorella state crescendo... e per quanto io e tua madre abbiamo provato a farvi crescere al meglio e a non fare pesare le differenze tra di voi, non ci siamo riusciti.” Finalmente, ho pensato dentro di me, adesso mi faranno fare quello che voglio. Sono stufo di non poter fare le cose che voglio perché le fa Marianna. Come la danza. Come il pianoforte. Come mille altre cose. Invece non era questo il discorso che mio padre voleva farmi.
“Marianna è sfortunata, non è intelligente come te, ha... ha un problema psichiatrico, lo capisci?”
“Non ho cinque anni, babbo” risposi un po’ offeso.
“Vedi, tua sorella.. tua sorella non crescerà mai del tutto. Il suo cervello non si svilupperà mai come il tuo o come il mio. Questo non vuol dire che sia stupida, ma solo diversa. Solo che la gente non lo capisce e cercherà sempre di farle del male e di approfittarsi di lei. Tu devi essere paziente con lei, non devi risponderle male come fai di solito, devi cercare di proteggerla. E di volerle bene.”
“Io le voglio bene” ho protestato. “Però è fastidiosa! E poi è violenta. Mi fa paura.”
“È tua sorella, devi capire che non ti farebbe mai del male” mi ha detto lui serio ed io avrei voluto piangere e urlare: “Non è vero!” perché lei mi ha spesso fatto male, fin da bambini. È per questo che a volte la odio.
“Devi capire che lei vede in te quello che vorrebbe essere lei. Tu potrai fare quello che vorrai nella vita e lei no. Lei pensa che vogliamo più bene a te perché sei più intelligente, perché riesci bene in tutto, dobbiamo farle capire che non è vero. Che anche lei si merita amore. E tu per primo devi cercare di dimostrarglielo. Me lo prometti?”
“Ma non è giusto!” avrei voluto urlare, ma mi sono sentito in colpa anche solo di aver pensato una cosa del genere. Marianna è mia sorella, devo volerle bene, è giusto che sia così.
“Sì, babbo.”
“Sapevo che avresti capito, Luca, sei un ragazzo molto maturo per la tua età.” Beh, almeno per questo i miei mi vogliono bene, perché dicono che sono 'maturo'. Anche se a volte vedo gli altri ragazzi coi loro piccoli problemi, il motorino che vorrebbero cambiare, un paio di scarpe che vorrebbero ed i loro genitori non vogliono comprare e mi sembrano infinitamente più felici. Più spensierati.
Io la spensieratezza non so cosa sia. A volte mi sembra di essere in una gabbia. La notte mi sveglio col cuore in gola, il timore che Marianna si sveglierà e verrà ad urlarmi contro. Mio padre ha continuato a farmi un discorso lungo su quanto la mamma soffra per Marianna al punto tale di starcisi quasi ammalando e che quindi devo cercare di fare il bravo anche con lei, di aiutarla e di non risponderle male. Perché la situazione è delicata.
E che se mamma si arrabbia tanto e mi tratta male – è successo qualche giorno fa, non l’ho scritto perché dopo non mi sentivo nemmeno le forze per scrivere, caro Dario, mi sono attardato una mezz'oretta al rientro da scuola e lei è andata su tutte le furie, mi ha urlato contro e mi ha detto che sono un figlio snaturato e poi mi ha tirato uno schiaffo – insomma, babbo ha detto che devo cercare di capirla. Che a volte ha reazioni esagerate.
Io mi sono sentito ancora più solo quando me ne parlava. Mi sono sempre sentito solo, fin da quando ho cominciato a essere abbastanza grande da poter provare la solitudine. A volte guardavo le famiglie della televisione, quelle col padre amorevole e la mamma che prepara le torte, e mi mettevo a piangere.
Perché io non ho il diritto ad una famiglia normale?
Ma alla fine quelle sono solo illusioni, immagino che le famiglie siano tutte come la mia.

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Capitolo 3
*** Teatro ***


“Allora, adesso ripeteremo l’esercizio di rilassamento a coppie. Chi è accoppiato riprenda il suo partner, che non voglio creare scompigli! E chi non è accoppiato si trovi qualcuno del sesso che preferisce” ridacchiò Nicola.
“Ehi, Luca, perché te ne stai lì fermo in un angolo?”
“Per me è abbastanza” mugugnò il ragazzo. Già l’esercizio precedente sulle espressioni del volto lo aveva stravolto. A dir la verità, tutto l’esperimento era stato un supplizio, cominciando dal fatto di doversi presentare davanti ad un gruppo di estranei.
“Dai, vieni.” Lo trascinò al centro, prendendolo per un polso, e Luca credette di morire. Spiegò l’esercizio successivo, che consisteva nel lasciarsi andare di schiena verso il compagno, che avrebbe puntualmente fatto da sostegno. Nicola si lasciò andare per primo, col sorriso sulle labbra, alla presa di Luca, che era teso come una corda di violino.

“Vedete? È solo questione di fiducia nell’altro. Adesso ripetetelo a turno per dieci minuti finché non ci riuscirete” disse a voce alta. “Vieni, Luca.” L’architetto si mise in piedi, dando le spalle a Nicola, e rimase rigido come un palo. Nicola gli si fece più vicino, quasi annullando la distanza tra loro due.
“Lasciati andare.”
“No.”
“Come sarebbe a dire no? Non vuoi provare a fare l’esercizio?”
“No” rispose Luca con tono duro. “La mia religione me lo impedisce.”
“E che religione sarebbe?”chiese Nicola, sogghignando.
“Il d’unpezzismo. Ma siamo rimasti in pochi, ci hanno piegati quasi tutti.” Il ragazzo rise di gusto, mentre Luca si diede dello scemo. Perché doveva sempre comportarsi come il buffone della situazione?
Ovviamente tutti gli altri nella sala erano riusciti nell’esercizio e nessuno era caduto o si era fatto del male. Luca, ancora una volta, si sentì a disagio.
“Bene” disse Nicola. “Allora quest’anno abbiamo un progetto ambizioso! Visto che in contemporanea sono iniziate anche le nostre classi di ballo moderno e tiptap, la nostra associazione ambisce a mettere in scena un... musical! Quindi, tra i nostri novelli attori, avremo bisogno pure di qualcuno con una bella voce... suvvia, adesso ognuno di voi mi canterà trenta secondi di una qualsiasi canzone, filastrocca o jingle della giungla. Alla nostra Marisa l’onore di aprire le danze... pardon, i canti!” Luca si sentì morire. Quello sarebbe potuto essere il momento per far vedere che in fondo aveva anche lui qualche qualità. Così, quando fu il suo turno, vinse la timidezza e si decise a cantare, ma il suo cervello sembrava aver fatto piazza pulita di qualsiasi canzone leggera che non fosse 'Fra Martino campanaro'. Perciò riandò indietro con la memoria ai pezzi che era solito cantare con il coro della scuola e intonò l’'Ave Maria' di Gounod. Di certo bellissima, ma non la canzone più appropriata.
Si sentì un imbecille per l’ennesima volta.
“Bene, pare che abbiamo un Pavarotti in erba tra noi. E, con queste note, spero che vi siate divertiti e mi auguro di vedervi alla prossima lezione mercoledì!” Luca cercò di defilarsi verso l’uscita quando Nicola lo fermò per un polso.
“Hai davvero una bellissima voce.”
“Cantavo nel coro della scuola al liceo.”
“Ti va di andare a bere qualcosa?”
“Mi dispiace... domani mattina entro alle otto a lavoro, è meglio che vada.”
“Ti rivedo mercoledì prossimo?”
“Non lo so.”

La mattina dopo, quando Luca si connetté a Internet dall’ufficio, trovò una richiesta di amicizia su Facebook da parte di un certo Nicola Ranzin con il seguente messaggio: “Visto che non so quando ti rivedrò, caro il mio Luca del Mistero, così almeno ci teniamo in contatto. Sei libero all'ora di pranzo?”
L’architetto arrossì. Chiuse il messaggio, lo riaprì e lo rilesse. Ok, non richiedeva molto sforzo. Digitò meccanicamente il proprio numero di telefono nella casella della risposta e aggiunse: “Mi piacerebbe molto.”
Aveva pensato di terminare il tutto con qualche punto esclamativo, ma la mossa gli era sembrata troppo infantile. Inviò perplesso il messaggio.
Era sicuro che Nicola non avrebbe risposto; evitò di guardare il cellulare per quella mattina perché era sicuro che non trovare un messaggio di Nicola lo avrebbe gettato sull’orlo delle lacrime.
All'una e un quarto, come tutti i giorni, salvò il progetto che stava elaborando e si avviò giù in strada, con l’i-pod in tasca. Di solito amava prendersi un tramezzino e fare un giro in centro, piuttosto che stare seduto in qualche affollato bar.
“Non rispondi mai agli sms tu?” La voce di Nicola lo investì appena varcò la soglia. Luca diventò rosso.
“Scusa...”
“Fa niente. Andiamo che ho fame.” Nicola era decisamente bello: una camicia color crema leggera e un paio di jeans sabbia lo facevano sembrare dorato come una statua e gli occhi celati da un paio di occhiali scuri lo rendevano ancora più affascinante.
“Che bella maglia che hai” disse a Luca, approfittandone per mettergli una mano sulla schiena. “Ti porto in un posto carino che mi ha indicato Marisa. Quanto tempo hai di pausa?”
“Un’oretta più o meno.”
“Benissimo” rispose l’altro, azzardandosi a prenderlo per mano. Luca rabbrividì e cercò di sottrarsi, ma la presa di Nicola era decisa.
Si misero a sedere in un caffè dall’aspetto rustico, frequentato per lo più da studenti. Riuscirono a trovare un tavolino appartato in un angolo.
“Sei teso come una corda di violino” puntualizzò Nicola, sfiorandogli uno zigomo. L’altro si chiuse ancora di più a riccio su se stesso. Discussero su cosa ordinare, poi Nicola gli raccontò del suo nuovo lavoro e di quanto fosse contento del gruppo di teatro; a questo modo Luca, senza essere obbligato ad interloquire più del necessario se non con qualche battuta ironica, cominciò a sentirsi più a suo agio.
“Venerdì – domani – è il mio compleanno, darò una piccola festa a casa mia. Vieni?” gli chiese. “Mi farebbe piacere.”
“Mi piacerebbe. Molto.” Nicola lo guardò profondamente, immaginava già dove quella festa avrebbe portato. E fanculo i tre gradi di separazione! Almeno forse, per una volta, non sarebbe stato nel cesso di una discoteca o in mezzo alla pineta di Tirrenia.
Quando all’uscita dal ristorante Nicola tentò nuovamente di prendergli la mano, stavolta Luca cercò di non respingerlo.
“Ci vediamo domani sera, bellezza!” lo salutò il redattore, facendogli l’occhiolino.

Quel venerdì Luca fu teso per tutta la cena. Aveva passato un’ora a scegliere con cura il proprio abbigliamento – e si era rammaricato di non aver potuto fare shopping per l’occasione – aveva paura che il suo regalo fosse stupido e a Nicola non piacesse. Aveva paura di non piacere agli amici di Nicola. E provava terrore ed eccitazione per quello che sarebbe potuto accadere dopo. Nicola lo aveva fatto sedere accanto a sé e Luca si era sentito sotto osservazione. Aveva provato con la solita tecnica del mutismo, ma non era servita a farlo scomparire agli occhi degli altri invitati. Per somma disgrazia, Marisa non era potuta venire.
Cercò di adottare la sua seconda tattica, che certo gli costava più fatica, ma forse – così sperava – si sarebbe rivelata più efficace: cominciò a sparare battute a raffica, entrando in modalità 'buffone'. Anche stavolta sentì di aver fallito la prova e che tutti lo stessero giudicando un immaturo se non uno stupido addirittura.
“Nicola, ora vattene dalla stanza per favore” rise Alice. Da quanto Luca aveva capito, Alice era la migliore amica di Nicola, venuta apposta da Padova per il suo compleanno. Era l’unica persona nel gruppo che quanto meno gli avesse sorriso apertamente quella sera e avesse provato a metterlo a suo agio.
“Luca” gli sussurrò ad un orecchio “ho bisogno che tu ti assicuri che Nicola non venga a sbirciare finché non lo chiamiamo qua.” Spinse il ragazzo fuori dalla sala da pranzo. Sembrava che in qualche modo Nicola lo stesse aspettando in corridoio; lo accolse con un abbraccio che Luca non riuscì a restituire.
“Anche se il corridoio è buio, non mi sono trasformato nel mostro cattivo” gli sussurrò, accarezzandogli la testa. “Impieghiamo il tempo in modo decente, ti faccio vedere la mia camera.” Luca fu spinto nella stanza di Nicola e barcollò a tentoni sul letto. Almeno adesso si stava muovendo in un territorio che conosceva, più o meno.
Contro le sue aspettative, l’altro si mise a sedere accanto a lui, accese la lampada del comodino e cominciò a toccargli i capelli.
“Ma che stai facendo?”
“Ti accarezzo” gli rispose Nicola sussurrando. “Sei così bello, stella mia.” Luca cominciò a tremare convulsamente... perché non arrivavano al dunque? Cominciò a sbottonare la camicia di Nicola, quasi con furia, ma l’altro lo arrestò. “Non c’è motivo di correre. Voglio baciarti, prima” gli disse avvicinando le labbra a quelle dell’architetto. Luca era imbarazzato e rispose a quel bacio senza capire quello che stesse succedendo.
“Non ti interesso?” gli chiese Nicola, rialzandosi.
“No... no... al contrario! Mi interessi molto... cioè...” Luca lo fermò per un polso. “È che non... non so cosa devo fare.”
“Vuoi dirmi che sei vergine?” rise Nicola. “Non ci credo.”
“È che... non sono mai uscito con la stessa persona per più di due volte” ammise arrossendo.
“L’avevo un po’ capito” sussurrò l'altro, baciandogli la testa.

A fine serata Nicola, Luca e Alice rimasero a mettere un po’ a posto.
“Io me ne vado a letto, ragazzi, sono stanca” disse Alice, quando ebbe finito di spazzare. “Luca, è stato un piacere conoscerti” gli disse, avvolgendolo stretto in un abbraccio. “Spero di vederti presto, magari anche domani.” Alice non sembrava essersi impressionata dalla freddezza di Luca, anzi. A dir la verità per tutta la sera aveva cercato di coinvolgerlo in una conversazione e di farlo sentire a suo agio.
L’architetto rimase ancora più sbalordito dal modo in cui Alice salutò Nicola: si strinsero forte a vicenda due o tre volte, dandosi la mano e scambiandosi baci sulle guance, prima che lei si decidesse a dargli la buonanotte e andare a dormire.
Alessandra non avrebbe pensato nemmeno lontanamente di fare una cosa del genere con lui e d’altronde qual'era il senso di comportarsi come fidanzati?
“Ti sei divertito?” gli chiese Nicola, poggiandogli una mano sulla spalla.
“Sì, sì... I tuoi amici sono simpatici. Allora, io andrei a casa e..” balbetto Luca, ma l’altro lo trattenne baciandolo sulla bocca e accarezzandogli i capelli.
“Ma c’è Alice di là.”
“Mica dobbiamo mettere su la musica a tutto volume, bellezza” gli rispose prendendolo per mano e baciandolo sulla fronte. “Ti va di andare al mare io e te da soli domani?”
“S-sì” balbettò Luca.

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