Childhood. di Lucy_lionheart (/viewuser.php?uid=134218)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di Sorrisi e altre Invenzioni. ***
Capitolo 2: *** Di spade e Penne ***
Capitolo 3: *** Di Sangue e Gigli. ***
Capitolo 1 *** Di Sorrisi e altre Invenzioni. ***
due
2. Di Sorrisi e altre Invenzioni.
<< Marina, lascia stare, ti prego. >>
<< No! Voglio provare! >>
Alle tue spalle, sentisti la voce maschile sbuffare e te lo
immaginasti, mentre esausto si passava una mano sul volto.
L'aveva ripetuto migliaia e migliaia di volte che non voleva che tu
testassi le invenzioni; questo perché eri "un'adorabile e
fragile piccola donna".
Sull'essere carina e piccola, a sforzarti, potevi anche dargli accordo:
dimostravi su per giù nove anni e avevi i capelli raccolti
in
due lunghe trecce.
Ma a smorzare quella tua femminilità era il vestito infilato
in
modo arruffato e casuale dentro i mutandoni e le tue gambe sbucciate
da innumerevoli cadute.
Nonostante fossero passati due anni dal vostro incontro, ancora non era
passata la ferma convinzione del fiorentino di trasformarti in una
bambina femminile e ben vestita, un qualcosa che a detta sua, grazie
all'eleganza e alla leggerezza dei suoi movimenti, saresti
potuta tranquillamente essere.
Ma con te no, ogni sforzo era perso.
Eri una peste, un piccolo diavolo. Anzi, un maschiaccio.
Un maschiaccio tremendamente carino.
<< Marina, non farmi arrabbiare! >>
Leonardo ti richiamò di nuovo, ancor più
esasperato di
prima. Arrabbiarsi? Lui? Non l'avevi mai visto fare ciò, al
massimo s'innervosiva con i suoi assistenti quando toccavano qualcosa
che non dovevano.
Ma arrabbiarsi, no, non era dal tuo caro Leonardo.
E non era da te demordere.
<< Maestro, la prego! Sono sicura che quest'invenzione
funzionerà! >>
<< Non voglio rischiare con te! >>
Protestò immediatamente il biondo trentenne, osservando con
aria
scettica la struttura piramidale che ti portavi sulle spalle.
Aveva girato un attimo gli occhi ed ecco che tu e il paracadute eravate
spariti dal laboratorio! Gli era toccato rincorrerti per tutta Firenze
( e lui, forse per fargli pagare l'avere un cervello tanto ben
funzionante, era tutt'altro che un corridore ) fino a colle di Fiesole,
dove ti aveva trovata in quelle comiche condizioni - povero il vestito
che ti aveva comprato! - e con il paracadute ben fissato sulle spalle.
E da mezz'ora era lì, intento a dissuaderti.
Persa la pazienza l'uomo si alzò e, con passo deciso, si
diresse verso di te.
<< Guarda che mi costringi a fare... >>
Borbottò, sollevandoti da terra mentre tu scalpitavi e gli
ripetevi di rimetterti giù; ma nulla, non serviva a niente
con
lui! Così, in un attimo, il meccanismo si sciolse
e il
paracadute s'accasciò a terra;
tu, con braccia, gambe e labbra incrociate, te ne stavi a penzolare
dalle braccia del tuo Maestro.
<< Ma uffa. >>
Quella fu l'unica cosa che sei riuscita a dire, con un tono arrabbiato
e innervosito;
inutile dire che, alle orecchie di Leonardo, risultò tutto
tanto
carino e buffo da farlo scoppiare a ridere genuinamente e senza la
minima intenzione di trattenersi.
No, niente, nessuno dei due ce la faceva ad arrabbiarsi con l'altro.
L'uomo ti sorrise, posandoti nuovamente a terra e inginocchiandosi, in
modo d'essere nuovamente alla tua poca altezza e tutti i tuoi tentativi
di fare la finta offesa crollarono, nel momento esatto in cui i tuoi
occhi color nocciola incrociarono i suoi, azzurri come il cielo a cui
tanto ambiva.
<< Andiamo a casa, Marina. >>
<< Va bene... >>
Soffiasti quelle parole, lasciando che l'uomo stringesse la tua piccola
mano nella sua, prendendo velocemente la strada che scendeva lungo la
collina fiesolana.
Nell'inoltrarsi del pomeriggio i tuoi occhi potevano vedere Firenze
tingersi di ombre rosseggianti, giudicandola ancora più
bella di
quello che normalmente già era.
L'Arno sembrava infuocarsi al risplendere del sole, i passanti
sbadigliavano, parlottando e tirando le somme della giornata ormai
giunta al suo esito.
Ma alla Bottega del caro Maestro si continuava, nonostante finisse il
tempo dei lavori e iniziasse quello del bere e del divertirsi, anche in
modi non esattamente consoni.
<< Maestro, dipingiamo quando arriviamo a casa?
>>
Già. dipingere.
Da quel giorno era diventata la tua più grande passione.
Ricordavi bene quando, nei primi giorni dell'anno che era appena
arrivato, avevi rincontrato alla corte del Principe il sorriso
dell'uomo che ti si era presentato poco tempo prima, mentre era intento
a raffigurare il cadavere penzolante del Bardini.
Lui ti aveva sorriso e ti era corso incontro, come se ti avesse
conosciuto da sempre; e tu, in quel preciso istante, ti eri resa conto
di quanto eri felice di rivederlo.
Avevi passato il pomeriggio a parlare con lui e il giorno dopo ti eri
presentata alle porte di quella che ti avevano detto essere la sua
residenza con le gambe tremanti e le guance rosse.
Lui, nonostante fosse immerso nel lavoro, ti aveva accolto con un
enorme sorriso, scompigliandoti i capelli, ma storcendo il naso alla
vista dell'armatura.
<< Hai paura che ti aggrediscano per strada?
>>
Aveva commentato, spingendoti con gentilezza dentro l'abitazione
disordinata, in cui avevi notato con estrema sorpresa quello che, senza
ombra di dubbio, era proprio un cadavere.
L'avevi guardato leggermente storto, non emettendo un suono, cercando
istintivamente la superficie smerlata dell'elsa della tua spada.
A quel vedere lui aveva riso, decidendo di coprire il corpo con un telo
li vicino.
<< Tranquilla, tranquilla. Sono studi anatomici...
quest'uomo non so nemmeno chi sia! >>
<< N-Non lo sospettavo. >>
Avevi commentato, negando quella che invece era l'evidenza.
Dall'uccisione del fratello del Magnifico dubitavi di ogni persona
capace di impugnare anche solo un coltello da cucina.
Ma per qualche strano motivo, in quell'occasione sentivi che potevi
abbandonare la spada... che quell'uomo non ti avrebbe sfiorato capello,
se non per carezzarlo.
<< Avanti, fattela togliere. >>
Aveva detto, facendoti sussultare e allontanare da quelle mani che,
velocemente, si prolungavano verso di te.
No, l'armatura non si toglieva! Era la tua difesa, la tua
difesa da tutto... che esso fosse fisico o sentimentale.
L'uomo, capito che non c'era nulla da fare, ritirò le mani,
posandole sui suoi fianchi, in un leggero sbuffo.
<< E va bene, va bene, hai vinto. Ma ti avverto,
è solo un
peso... >> Disse, voltandosi, diretto chissà
verso quale
angolo della stanza, regalandoti l'ennesimo particolare sorriso.
<< Qui niente e nessuno ti arrecherà mai
dolore.
Qui si lavora per il tuo splendore. >>
E fu con quelle parole che l'uomo di conquistò; furono
quelle
parole a spingerti a presentarti lì anche il giorno dopo...
con i capelli sciolti e un vestito color crema merlettato.
Da lì in poi, ogni giorno andavi nella casa di
quell'artista,
chiamato Leonardo, che ti aveva regalato un vestito nuovo (forse troppo
femminile, per te), tanti fogli e un quaderno.
<< Ti insegnerò poi a usare colori e pennelli.
>>
Aveva detto in quell'occasione.
Inaspettatamente, avevi iniziato a preferire il pennello alla spada e,
assieme al tuo tratto, anche la tua lingua si era sciolta.
Finalmente sorridevi di nuovo.
Quella che eri arrivata a chiamare "casa" apparì dietro l'angolo,
nell'esatto momento in cui tu rivolgesti quella domanda a Leonardo, il
quale ti sorrise con gentilezza.
<< Mi spiace, ma questa sera devo lavorare con
Salaì. >>
Bastò quel nome a farti stringere più forte la
mano a quella dell'artista.
Tutto, andava bene tutto. Ma quel tipo no, eh!
<< Maestro, non è giusto! >>
Dicesti, mentre attraversavate il cortile.
<< E Salaì qui, e Salaì
là, quello fa solo
disastri! E poi chi pulisce? Io! Perché manco quello gli
riesc-
>>
<< Sono qui dietro, peste. >>
La voce ti fece sussultare per la sorpresa; velocemente voltasti il
collo, scontrandoti con la figura di un uomo ricciolo, seguito da un
altro che a stento tratteneva le risate. Il primo se ne stava a braccia
consorte, osservandoti con gli occhi vispi e ambrati.
Ti aveva sentito; un'altra volta.
Ma che eri tanto gelosa di Leonardo era ormai un fatto noto, no?
Senza farsi troppi problemi il ricciolo ti afferrò
lì
dove si sentiva il bordo dei mutandoni, sollevandoti con ben poca
grazia e tu mandasti un piede in avanti, indirizzato a colpirlo senza
nessuna gentilezza.
Leonardo si passò la mano sulla faccia.
Quanta pazienza ci voleva con voi due.
<< Mollami! Non è colpa mia se non sai fare
nulla! >>
<< Lingua serpentina che non sei altro, non sarei qui se
non fosse così! >>
<< O se tu non avessi quei tuoi bei riccioli!
>>
Esclamasti, afferrando una delle lunghe ciocche castane, splendenti di
riflessi color fiamma.
<< Maestro, è troppo buono con questa
bambina... >>
<< No, è troppo buono con te! >>
<< Gian Giacomo, mollala. >>
La voce del moro, tale Marco d'Oggiono, interruppe la zuffa tra te e il
Caprotti, che però non accennò a mollarti.
<< Visto? Anche Marco mi dà ragione!
>>
Affermasti, rivolgendogli un sorriso sbeffeggiante. Lui fece per aprire
nuovamente bocca, ma la voce di chi in quel gruppo dava i comandi si
fece sentire e tu, immediatamente, sentisti nuovamente il terreno sotto
ai piedi.
<< Saladino che non sei altro, lasciala andare.
>> Disse
Leonardo, unico a cui il Salaì obbediva. << E
andiamo, che
dobbiamo lavorare... Marco, ti affido Marina. >>
Disse, mentre tu ti dirigevi verso l'uomo, lasciando che esso ti
prendesse sulle spalle. A differenza del primo, con il secondo
assistente di Da Vinci avevi un buon feeling.
Forse perché non era così attaccato al Maestro.
Rivolgesti al Salaì la linguaccia, appena esso ti diede le
spalle, facendo ridere Marco.
<< Quanto sei gelosa, piccoletta. >>
<< Puoi giurarci. >>
Non pronunciasti parola in più, mentre affondavi una mano
nei suoi capelli corvini.
Lui sorrise, soffiando quando una delle tue trecce gli
arrivò sul naso.
Sapeva che in quei casi c'era una sola cosa che ti tirava su il morale.
<< ... mettiti il vestito nei mutandoni, che adesso
giochiamo a Palla. >>
Erano passati più di venti anni da quando tu e Marco vi
eravate
messi a giocare al tramonto a palla e tu, "senza volerlo" l'avevi
calciata prendendo in pieno gli adorabili riccioli di Gian Giacomo
Caprotti, facendo ridere il Maestro, che ti disse di ricordare il
movimento che avevi compiuto, perché magari avrebbe potuto
costituire un qualche nuovo gioco, o un pizzico di pepe in quello
esistente.
Ne erano passati, invece, undici da quando Leonardo aveva iniziato a
appuntare in bella calligrafia i suoi studi sul volo, facendo rompere
una gamba al povero Tommaso, cavia " volontaria e ben disposta" a
lanciarsi dal Colle di Fiesole con il paracadute.
Quattordici da quando il Maestro, tornato a Firenze, ti aveva
incontrato -purtroppo- in compagnia di uno scontroso con una barba
più folta della sua, che portava il nome di Michelangelo
Buonarroti, con cui, a dispetto di ogni tua previsione, ci fu una
spietata rivalità fatta di secche critiche artistiche e
parole
velenose, traboccanti d'intelligenza.
E pochi mesi, da quando lo avevi seguito in Francia.
Già, Francia.
Quel paese ti aveva sorpreso tanto quanto la sua incarnazione, Francis.
Non tirava aria buona con quel biondo, no, non ne tirava affatto.
Insomma, era troppo.. troppo.
E tu eri solo una bambina fin troppo gelosa del tuo ormai vecchio
Maestro.
<< Marina, siamo arrivati. >>
La voce della persona che si trovava con te nella carrozza ti distrasse
dal seguire la linea che le gocce di pioggia disegnavano al di fuori di
essa.
Eri tornata per pochissimo tempo a Firenze, assieme a Francesco Melzi,
il più fidato degli assistenti di Leonardo, tanto che aveva
battuto su quella scala pure Gian Giacomo.
Anche tu lo preferivi; era più silenzioso, più
sorridente, più intelligente e meno sbruffone.
Molto più simile al tuo Maestro.
<< Starà bene? Con questo diluvio...
>>
Francesco sorrise, scompigliandoti i capelli con un sorriso.
<< Tranquilla. E' un po' pazzo, ma non incosciente.
>>
Scendeste assieme dalla carrozza, non appena essa si fermò
proprio davanti al portone del castello di Clos-Lucè,
evitando
di bagnarvi i vestiti sotto quell'acquazzone.
Nello scendere frettoloso, però, notasti una fila di
carrozze; e quelle di chi erano?
Chi mai poteva essere venuto a far loro visita?
Salisti quasi correndo le scale, seguita dal povero Francesco, che ti
ripeteva di non correre veloce, poiché rischiavi di
scivolare sui gradini bagnati.
Ma mano a mano che salivi, sentivi delle voci, tante e rumorose, che
t'incuriosivano, tanto che superasti l'ultimo scalino quasi saltando.
Ti affacciasti nel salotto, trovandolo invaso: il Re, la sua corte, una
moltitudine di nobiluomini francesi, tutti attorno al tuo Maestro.
<< Bonjour, Marì. >>
<< Francis! >>
Sussultasti, alzando gli occhi su quelli azzurri del ragazzo, che ti
sorrideva, con in mano una bicchiere ricolmo di vino ( sì,
già a quell'età, ma lui continuava a dire che era
come
bere acqua, almeno fin quando non si ubriacava ) .
Magari a lui avrebbe potuto chiedere!
<< Francis, sai dirmi cosa succede qui? >>
<< Ma come, non lo sai? Proprio tu, Marì, mi
deludi.
>> Ridacchiò, buttando giù
l'ennesimo sorso.
<< Il Maestro Léonard de Vinci ha appena
concluso il suo
quadro. >>
Quelle parole ti illuminarono gli occhi. Aveva concluso... il Maestro
aveva concluso!
Schizzasti a velocità quasi inumana nella sala, mollando
lì il biondino e passando senza fare complimenti fra le
calzamaglie di tutti quegli uomini, che sbottavano al tuo passaggio.
Finalmente, al quarto spintonato, intravedesti la barba canuta del caro
Leonardo, seduto su uno di quegli stupidi e scomodi divanetti.
Lo raggiungesti e lui, che ti aveva già adocchiata da un
po', ti sorrise.
<< Ecco la mia bambina! Allora, che si dice a Firenze? E'
bella come la ricordo? >>
<< Maestro, avete davvero finito la Monna Lisa?
>>
Chiedesti, troppo curiosa per avere la pazienza di rispondere alle
domande.
Lui ti sorrise, annuendo con la testa, mentre alle tue spalle era
arrivato anche Francesco.
<< E... avete fatto tutto da solo!? >>
A quella tua frase l'intera sala scoppiò a ridere, mentre
Leonardo e il Melzi non emisero sillaba, quasi facendo finta che nulla
ti fosse uscito dalla bocca.
Tu, nel sentire quelle risate fragorose, arrossisti per la vergogna,
mordendoti il labbro.
<< Che sciocca bambina, chi vuoi che lo abbia fatto?
>>
<< Oh, sarebbe il colmo, non trovate? >>
Da lì, l'imbarazzo fu talmente tanto che non facesti
più uscire parola dalla tua bocca.
O almeno, fino a quando...
<< Marina! >>
Esclamò Leonardo con voce roca, vedendoti far capolino dalla
porta dei sotterranei, dov'era solito lavorare.
Avevi un'aria imbronciata, le mani sporche e il vestito imbrattato di
fango.
Con gli occhi bassi e la bocca piegata in un ringhio, corresti dal tuo
caro Maestro, lasciando sbalordito pure Francesco, che mai ti aveva
visto in tali condizioni.
Il vecchio genio ti fece sedere sulle sue gambe, mollando per un attimo
il carboncino con cui stava schizzando sulla tela avanti a lui.
Ti sorrise, in un misto di dolcezza e preoccupazione.
<< Bambina mia, che hai fatto? >>
<< Ho litigato con Francis. >>
Leonardo sospirò, lanciando un'occhiata al suo assistente.
<< E questo perché? >>
<< Diceva che... che dato che lei aveva finito il quadro
qui in
Francia, allora era di sua proprietà. Ma non
è
vero, lei lo ha iniziato quando era da me! >>
<< Capisco. E come si collegherebbe, questo, al fango che
hai pure sul naso? >>
Arrossisti, deglutendo.
<< Insisteva... e ho perso un po' la calma.
Così gli ho tirato una palla di fango. >>
<< E lui? >>
<< Ha urlato e se n'è andato lamentandosi
delle macchie. >>
<< Non ha contrattaccato? >>
<< No. >>
<< E le macchie sul tuo vestito, allora? >>
<<. ... dovevo pulirmi le mani. >>
Francesco, alle tue spalle, scoppiò a ridere, mormorando
qualcosa come "Chi troppo femminile e chi troppo poco.", mentre
Leonardo ti guardò con una leggera aria di rimprovero.
<< Ancora ti ostini a maltrattare i vestiti che ti
regalo, eh? >>
Facesti spallucce, leggermente rossa in viso. Poi lo guardasti;
finalmente potevi chiedergli la cosa che avevi in mente da quando eri
entrata.
<< Maestro, posso vedere il quadro? >>
Lui sorrise, con un accenno di sorpresa.
<< Marina... >> iniziò
<< Mi pareva di aver intuito che non volevi assolutamente
vederlo. >>
Deglutisti, imbarazzata. Effettivamente era così! Avevi
pronunciato esattamente quelle parole quando ti eri innervosita
sentendo rimandare ancora la passeggiata quotidiana con Leonardo,
poiché esso doveva incontrarsi con quella là.
Sì, ancora gelosia.
Eri riuscita a farti passare quella per gli uomini, soprattutto se suoi
assistenti, come nel caso di Francesco, che ti era anche simpatico, ma
le donne... le donne erano un'altra storia.
L'unica donna della vita di Leonardo da Vinci eri tu, tu e basta!
<< Beh... h-ho cambiato idea. >>
Mormorasti, incrociando le braccia, ma bastò un segno del
vinciano che Francesco era già corso a prendere il dipinto,
celato da un sottile panno bianco.
Una volta di fronte a te, a voi, afferrasti la stoffa, titubante.
<< Su, scopri. Scommetto che rimarrai sorpresa.
>>
<< ... sorpresa? >>
Le parole del Maestro e lo sguardo enigmatico di Francesco, che teneva
stretta la tela, ti fece incuriosire ancora di più. Preso
coraggio, tirasti via il panno, che lento cadde a terra e...
E sorridesti, incredula a quello che stavi vedendo.
<< Vedi qualcosa di familiare, piccola? >>
Disse Leonardo, ridacchiando.
Il volto, il corpo, era senza dubbio quello della donna che per
innumerevoli pomeriggi avevi visto nel suo studio.
Ma il sorriso... oh no, quella non sorrideva mai, era sempre seria.
Il sorriso era, senza la minima ombra di dubbio, lo stesso e identico
che, in quel momento, risiedeva radioso sul tuo volto fanciullesco.
Senza aspettare un solo momento, ti voltasti verso quel vecchio
sorridente, buttando le braccia al suo collo, stringendolo con forza.
Lui rise, carezzando con una mano la tua schiena.
<< Sei felice? >>
<< Oh, sì! Lo sono, Maestro, lo sono
immensamente! >>
Gioisti, sorridendo con tutta la dolcezza che avevi. Ti accomodasti,
poi, sulle sue ginocchia, apoggiandoti al petto, affondando la testa
nella lunga barba, che ogni volta ti faceva il solletico.
Eri felice con lui, felice come non eri mai stata con nessun'altra
persona.
<< Cosa stava disegnando, Maestro? >>
<< Oh, un abbozzo di quello che ti facevo vedere poco
tempo fa. Devo fare un paio di linee per... >>
Le parole si bloccarono e, assieme ad esse, gelandoti, anche la mano di
Leonardo da Vinci, che aveva appena riafferrato il carboncino.
Questo cadde e la mano rimase lì.
Immobile.
<< Maestro! >>
Le voci tue di Francesco risuonarono all'unisono, mentre questo si era
già precipitato sulla mano immobile, stendendo le dita,
piegandole ancora, nuovamente stendendole.
Era quello ciò a cui ti riferivi con la frase che aveva
fatto
ridere quegli odiosi, nel salotto. Le mani del Maestro, purtroppo, non
funzionavano più bene come una volta...
Si paralizzavano.
<< Ah... è successo ancora. >>
Disse lui, con un mezzo sorriso in cui tu intravedevi immediatamente
quella punta di dolore ormai quotidiano.
<< Francesco, ti spiace... >>
<< Certo che no, Maestro. >>
L'uomo si chinò a prendere il carboncino, e poi nuovamente
sulla tela schizzata.
<< Una linea perpendicolare, sul... >>
<< A destra? >>
<< Sì, bravo. >>
Francesco obbedì, tracciando un tratto che si
andò veloce a confondere con quelli Leonardeschi.
Sospirasti ancora, stringendo una mano alla stoffa che stava sulle
gambe di quello che ormai non era più il biondo estroverso
incontrato nella neve invernale.
Ma lui sorrise, dicendoti silenziosamente di non preoccuparti.
<< Mi piace, stare tutti qui assieme. >>
disse Leonardo,
carezzandoti i capelli. << Mi fa molto felice.
>>
Entrambi sorrideste, mentre l'anziano si perdeva nei suoi
pensieri, lisciando i tuoi capelli come per rilassarsi.
<< Mi viene in mente quella frase che ho scritto ieri nel
Trattato sulla Pittura. >>
<< Suvvia, Maestro, non mi pare proprio il caso.
>> Lo
rimproverò quasi il Melzi, tracciando l'ennesima linea.
<< Beh, non è allegra, ma è di
sicuro molto bella... >> Commentasti invece tu.
Leonardo da Vinci sorrise, lasciando vagare gli occhi.
<< "Sì
come una giornata bene spesa dà lieto dormire,
così una vita bene usata dà lieto morire.
" >>
Allora, non riflettevate su quanto quelle parole si sarebbero rivelate
profetiche.
_______________________*
Note dell'Autrice ~
Scusate, non avevo idea di come intitolare la storia ._.
|
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Capitolo 2 *** Di spade e Penne ***
unobuono
1. Di Spade e di Penne.
Firenze.
Sembrava una qualunque giornata d'aprile, quella, nella vita della
potente città.
Da poco era stato stipulato, in quella che ancora non possedeva il nome
unificante di "Italia", una pace che si poneva come obbiettivo quello
di porre fine al continuo scontro che era il Paese in quel momento;
forse così anche la tua Firenze, dove con il rosso si
coloravano
da tempo sia i quadri che le strade, nelle mani laboriose degli artisti
e nel danzare delle lame delle opposte anime nere e bianche* si sarebbe
quietata. Di fatto la città era diventata così
violenta
che il signor Lorenzo dei Medici si era visto costretto a regalarti per
il tuo compleanno, al posto di fiori e dolciumi, una pesante armatura.
Poco più che bambina eri diventata un cavaliere, difensore
del Magnifico e della sua famiglia, a cui tanto dovevi.
Quel giorno ti trovavi ad accompagnare i due rampolli della famiglia,
Lorenzo e Giuliano, nella parata lungo Firenze che si sarebbe
interrotta solo alla vista della Santa Maria del Fiore.
Camminavi al loro fianco, tenendo la mano sulla spada per puro caso,
non ancora per abitudine, troppo impegnata a osservare il bel viso del
tuo Principe, sulla quale i riccioli d'ebano cadevano con dolcezza; lo
adoravi: ti eri affezionata sin da quando il vecchio Piero l'aveva
fatto diventare il tuo compagno di giochi preferito e adesso che, uomo,
ti riservava lo stesso sguardo di quand'era bambino, il sentimento nei
suoi confronti non aveva fatto altro che aumentare.
<< Sei molto carina, così pettinata, bambina
mia. >>
Disse, carezzando con il palmo una ciocca di capelli delle due code;
arrossisti, non negando però un sorriso gigantesco.
<< Grazie, messer Lorenzo! >>
<< Dimmi, Marina, ti dà fastidio l'armatura?
>>
<< Oh, no Signore. E' stato un regalo davvero molto
utile, la ringrazio! >>
<< Suvvia, Lorenzo, Non fare l'ingenuotto!
>>
Interruppe il fratello Giuliano, lanciandogli un'occhiata di
rimprovero. Nonostante non fosse al livello del fratello, anche
Giuliano si distingueva, non finendo con l'essere l'ombra dell'altro de
Medici.
Fece per parlare di nuovo, ma, alla velocità con cui tu
stringesti le dita intono all'elsa, un arto abbracciò il suo
collo, cogliendo tutti voi decisamente di sorpresa.
<< De Pazzi! >>
Esclamò Giuliano, dopo aver voltato il capo verso la persona
che
l'aveva sorpreso; riconoscesti nel suo viso Francesco della famiglia
sopra citata e, subito dietro di lui, il volto rilassato di Bernardo
Bernardini, servo che da poco si vedeva al fianco dell'altro uomo.
Anch'esso abbracciò il minore, battendogli le mani sulla
spalla
come se lo avesse conosciuto da sempre e continuando a elogiarlo.
Faceva così da quando Giuliano era uscito di casa,
trovandoseli inaspettatamente di fronte.
<< Messere, mi dica, è passato il malessere
del giorno precedente? >>
<< Sì, sì. >> Rispose
Giuliano,
spicciolamente, quasi disturbato da quell'esagerato contatto fisico.
<< Va tutto bene, come ti ho detto anche quando sono
uscito.
>>
<< Menomale. >> Disse Francesco,
sorridente. << Ci
è dispaicuto sapere il motivo per cui il rinfresco di eri
è stato annullato. Che sfortuna, eh? >>
<< Già, che sfortuna. >>
Questo era Lorenzo, il cui tono fu ancor più secco e
tagliente
di quello del fratello, che si limitava a ostentare sarcasmo in ogni
sillaba.
Capivi la loro diffidenza, anzi, non avevi ancora sciolto bene le dita
dall'impugnatura preziosa; tra Medici e Pazzi non vi erano mai stati
grandi rapporti, si potevano definire come cani e gatti, e tutto
quel'affetto e quella cortesia improvvisi erano decisamente sospetti.
Francesco si bloccò, per poi sospirare e tirarsi indietro,
non dopo aver lanciato uno sguardo all'altro.
<< Meglio andare, adesso. A dopo, messeri!
>>
Detto ciò si allontanarono, mischiandosi nuovamente nel
corteo;
seguiste tutti e tre le due figure, fin quando furono abbastanza
lontane, allora Giuliano si voltò, guardando il fratello
come se
nulla fosse accaduto.
"Una mosca che passa davanti agli occhi."
<< Dicevamo, fratello? >>
<< L'armatura di Marina... >>
<< Oh, certo. Dicevo: guardala, poverella! Ci sguazza
dentro! Ne hai fatta realizzare una fin troppo grande! >>
<< Ma come? >>
Rispose quello, osservandoti. Effettivamente gli arti metallici erano
più lunghi delle tue eslili braccia e il petto era
così
grande da permetterti di star china.
<< Eppure il fabbro aveva detto che era su misura...!
>>
<< Oh, certo, " Su misura " ! Non ti preoccupare, Marina,
ci
penso io, non appena finiamo qui. Ti farò realizzare
un'armatura
che ti starà a pennello, bambina! >>
Concluse, con un sorriso alla quale tu rispondesti con fatica.
In realtà quell'armatura la portavi solo perchè
era un
loro regalo, avresti preferito di gran lunga farla fondere e
realizzarvi un gioco. Da quei pensieri di distrasse la mano di Lorenzo,
che in un segnale silenzioso sfiorò il tuo braccio; alzasti
lo
sguardo, vedendolo sorridere, e lui con un movimento della testa ti
face segno d'alzare il braccio come avevi fatto con gli occhi.
Obbedisti e lui strinse la tua piccola mano ferrata, chiudendola nella
sua. La gioia invase il tuo corpo e stringensti ancor più le
dita, sorridendogli sorniona.
Per lui avresti indossato la più pesante delle armature.
<< Siamo arrivati, amichetti. >>
La voce di Giuliano ti distolse da quel momento di bambinesca
felicità, riportandoti dentro l'armatura e lontanto dal
profumo
dei gelsomini e dei gigli bianchi tra i quali tu e Lorenzo, nel
giardino dell'enorme proprietà, trascorrevate il tempo
libero.
Alzasti lo sguardo e vedesti davanti a te l'imponente figura del Duomo,
in tutta la sua purezza. L'avresti visto così ancora per
poco.
I due fratelli presero posto, tu affiancasti Lorenzo, assieme a
Poliziano e i tuoi due "compagni di squadra", ovvero i due Cavalcanti,
e la messa potè iniziare.
Stranamente la folla non si era aquietata come le volte precedenti: era
silenziosa, sì, ma le tue orecchie udivano strani sussurri.
Sussurri che, per uno strano motivo, ti diedero un lungo brivido.
"E' il vento."
ti ripetesti, stringendo un braccio attorno all'altro.
" In questa armatura passano gli spifferi.".
Il latino del cardinale echeggiò nell'aria, e la ritmica che
prese ti parve di colpo macabra.
" Oh, smettila con queste fantasie, Marina, ti sei fatta influenzare
dal manoscritto che hai letto ieri notte! "
Era arrivato il momento della solenne elevazione; tutti
s'inginocchiarono, iniziando a recitare l'ennesima preghiera, mentre il
religioso, come sempre, prese ostie e boccale,preparandosi per
l'eucarestia.
Nessuno avrebbe pensato che le ostie quel giorno non sarebbero state
bagnate dal vino.
<< Muori! >>
Un coltello, i tuoi occhi che scattano, Lorenzo che urla, la folla che
impazzisce, il Bardini che svelto riporta nelle sue mani la sua lama;
Giuliano che cade, in un lago di sangue.
<< Fratello! >>
Lorenzo si buttò su di lui, mentre tu ti scagliavi, o
meglio,
cercavi di scagliarti, senza capire, completamente alla cieca,
sull'aggressore, facendo in tempo solo a vedere una seconda lama;
quella che il prete lanciava contro il Magnifico!
Non facesti in tempo a separare la spada da quella del Bardini, urlando
il nome del tuo signore, che uno dei nobili di conoscenza del
Magnifico, tale Francesco Nori, gli fece scudo con il suo stesso corpo.
<< Marina, Marina! >>
Altre urla, questa volta quelle di uno dei due cavalcanti, nemmeno
riuscisti a capire quale, nelle confusione.
<< Prendi Lorenzo, portalo via, veloce! >>
Non te lo facesti ripetere due volte: la mano libera si strinse a
quella dell'uomo, notando solo allora il sangue che usciva dalla sua
spalla, sollevandolo e trascinandolo via, la tua spada davanti a fare
strada in quella calca, dove non si distingueva il buono dal cattivo,
muovendosi come un toro impazzito.
<< Corra! Corra! >>
Urlasti,con la voce rotta dalla paura, mentre salivi le gradinate della
sacrestia.
<< Ha la chiave, vero!? >>
Alla tua domanda Lorenzo reagì con un muto segno del capo,
mentre prendeva dalla cintura la chiave e la inseriva nella serratura.
Ti voltasti a guardargli le spalle, con gli occhi che tremevano ancora
di più delle mani, e solo allora vedesti un uomo correre a
tutta
velocità verso di voi, tenendo tra le mani una spada dalla
lama
tremendamente lunga: altri due passi e vi avrebbe trafitto, tutti e due
e in un colpo solo.
Non c'era tempo di pensare, non c'era tempo di avere paura, di tremare,
di rimanere fermi o d'immaginare la morte. Non c'era tempo, non c'era
tem-
<< ... Uh. >>
Il gemito dell'uomo di spettinò i capelli, la sua spada
cadde al tuo fianco.
E la tua?
Oh, eccola:
grottescamente conficcata nella metà del suo collo.
... che diavolo era successo? Quando avevi agito?
Il grande portone di legno cigolò. aprendosi e svegliandoti,
e
Lorenzo sparì dietro la sua metà, tendendo una
mano verso
te.
<< Marina! Entra, veloce! >>
Il tuo sguardo vagò da lui al corpo che faceva da cornice a
quella lama che era stata appena battezzata con il sangue, fino a
quello che stava avvenendo alla fine di quelle scalinate.
Cosa fare, in un attimo, ti parve ovvio... e facilmente realizzabile.
<< Non posso. >>
Sussurrasti, spingendo dentro la chiesa il tuo signore, senza dargli
tempo di controbattere con un ordine che saresti stata costretta a
seguire, e chiudendo la porta;
silenzio.
Per un attimo, tutto ti parve slenzioso.
Ti voltasti verso quel corpo, sul ciglio delle scale, in cui stava
ancora la spada; la impugnasti di nuovo, poggiasti un piede sulla carne
morta e, in un gesto veloce, spingesti via, buttandola giù,
facendola rotolare lungo le scale.
Il più lontano possibile da te.
Il sangue gocciolò sulla punta, splendendo come un rubino
alla luce del sole;
quell'uomo era stata la tua prima uccisione a sangue freddo.
La prima di una lunga serie che, quel giorno, si sarebbe inaugurata.
Un cigolio di un imponente portone in lengo interruppe il silenzio di
una chiesa immensa, illuminata solo da poche candele e dalla luce del
tramonto, che filtrava nelle alte vetrate colorate, offrendo al vuoto
un meraviglioso gioco di ombre e colori.
Davanti all'altare, ecco un uomo: stava in ginocchio, tremava, la testa
china sulle sue mani, strette, come i denti, in una preghiera bagnata
di lacrime.
Dalla spalla del vestito di alta manifattura, impreziosito qua e
là da qualche meravigliosa gemma, restava la scia di un
sangue
secco che aveva smesso di colare solo da poco, a differenza del pianto
che ancora bagnava il suo volto; non era cosa da fare, piangere, per un
uomo così importante, era segno di debolezza.
Ma per Lorenzo de Medici, in quel momento, più che di
debolezza, quello era il segno di una profonda umanità.
Sussultò, nel sentire la grande porta aprirsi. Oltre a lui e
al
parroco -che aveva visto cadere per la lama di uno dei Cavalcanti-
c'era solo un'altra persona a possedere la chiave della sacrestia.
Il sorriso, come una crepa, si delineò a scatti sulle sue
labbra e il busto ruotò, fin troppo velocemente.
<< Giuliano! Fratello, allora se vi-
>>
La voce si mozzò, nel vedere la lunga ombra che attraversava
tutta la navata, nella più orrenda delle previsioni, e, a
seguire, la figura dalla quale era proiettata.
Oh, il fratello dell'uomo c'era, certamente;
Ma stava avvolto nella bandiera della Signoria Medicea, macchiata di
sangue là dove doveva stare la testa, volta a guardare verso
l'alto (attraverso il velo, Lorenzo poteva intravedere la bocca
pressata sulla stoffa, a cercare un respiro che mai sarebbe stato
preso), tenuto in braccio da un cavaliere di dimensioni minute rispetto
alla media e dai capelli lunghi e castani, l'armautura che in un primo
secondo, al Signore, era sembrata scarlatta per via del troppo sangue.
Tu.
<< Mio Signore... sono mortificata.
>>
Quelle tre parole, alla quale avevi pensato dal primo momento in cui il
corpo era stato depositato tra le tue braccia, che fino ad allora
avevano brandito come non mai una spada, uscirono dalla tua bocca in un
sussurrare debole.
<< Non c'è... non c'è stato nulla
da fare... il
taglio alla nuca era troppo profondo, aveva perso sangue, e-e...
>>
La frase, detta con voce spezzata e fin troppo velocemente per esser
compresa, venne spezzata dalla vista del tuo Signore.
Lentamente l'uomo si avvicinò, togliendo dalle tue braccia
tremanti il fratello e prendendolo nelle sue braccia tremanti; poi si
voltò, camminando fino all'altare. Non una parola, non un
respiro.
Delicatamente, poggiò la salma sul marmo freddo.
E scoppiò a piangere di nuovo, attanagliandoti il cuore.
<< S-Signore... >>
Mormorasti, guardandolo mentre si accasciava a terra; non l'aveva visto
così nemmeno alla morte del padre.
<< Marina, vieni qui. >>
Le parole ti fecero sussultare e per un attimo non sapesti cosa fare;
poi, lentamente, con il suo stesso passo, ti avvicinasti, facendo
rimbombare il cigolare della tua armatura; gocciolando sangue non tuo
fino a un metro da lui.
<< Mi dica, Signore. >>
<< Cosa sta succedendo, là fuori?
>>
Chiese, con tono distaccato, come se si stesse occupando di un comune
affare politico.
<< I Pazzi, mio Signore. Jacopo è sceso in
piazza,
pensando di trovare la situazione favorevole... ma lo stesso popolo lo
ha aggredito. Il sicario assunto da Francesco De Pazzi e altri sono
riusciti a fuggire. Io... >>
La tua voce per una ttimo si fermò; estraesti la spada,
mostrandola a colui che te l'aveva regalata: rossa, dall'elsa fino alla
punta.
<< Ho ucciso ogni soldato che mi si è messo
davanti.
Nessuno è riuscito a mettere piede anche sul primo gradino
della
cattedrale. >>
Ti eri stupita di te stessa.
Dopo la prima vittima, tante altre se n'erano ammassate in un cumolo ai
piedi della chiesa; avevi agito automaticamente, in gesti fluidi, come
se tu stessi ballando, nonostante i nemici fossero tanto più
grandi e molto più armati di te.
Ti era riuscito fin troppo facilmente.
E di questo, non sapevi se compiacerti o disprezzarti.
<< Avvicinati... avvicinati, bambina mia. >>
Obbediente, muovesti altri due passi, ma quello ti chiese di venire
ancora più avanti, e avanti ancora, fino a quando non ti
trovasti esattamente a dieci centimetri da lui. Ti osservò,
per
qualche attimo, poi, con una certa tranquillità,
portò le
mani alla tua armatura.
Tlack, il primo pezzo cadde.
Cloc, ecco il secondo.
E il terzo, il quarto, tutti, fino a lasciarti con una semplice veste
di maglia che portavi sotto di essa. Allora le due braccia si
allargarono ancora di più, circondandoti, e portandoti poi a
contatto contro il suo petto.
Un abbraccio.
Tremasti, a quella stretta così potente, portando con fatica
le braccia attorno al suo collo, premendo il viso contro la
spalla ferita e pulendoti alla sua veste.
Silenzio,
lacrime,
sangue.
<< Questa armatura... è diventata troppo
Piccola. Te ne farò fare una nuova. Una bellissima.
>>
Stretta, già, lo era diventata tanto da toglierti il respiro.
Ma se adesso il tuo corpo stava lì, tra le braccia di
quell'uomo tanto debole e tanto forte...
... la tua anima era rimasta imprigionata per sempre dentro acciaio di
quell'armatura scarlatta.
*
Firenze.
Poteva essere una qualunque giornata di dicembre, quella, nella
città.
Poteva, se non fosse stato per qualcosa che attraeva i tuoi occhi.
In piedi, in un'armatura più grande, adatta ad un corpo che
improvvisamente era cresciuto, eri rimasta lì anche quando
la
folla era iniziata ad andarsene, dopo giorni e giorni, a osservare la
novità che, ormai, era diventata abitudine.
I tuoi occhi ondeggiarono ancora, a seguire la cosa che dondolava dal
Palazzo della Signoria, scossa dal vento.
Un cadavere.
Accanto a lui altri, logorati dal freddo e dal tempo.
I nocciolati vagarono ancora, annoiati, mentre seguivi il ritmo di
quegli ondeggiamenti ticchettando le tue dita coperte d'acciaio
sull'elsa della spada;
disgustata? Oh, no.
Soddisfatta. Vendetta era stata finalmente fatta.
E adesso?
Ti eri abituata fin troppo a quell'armatura, tanto che la toglievi solo
per dormire. Lorenzo ti abbracciava poche volte, rinchiuso in un lutto
fatto d'arte o poesie recitanti l'incertezza del domani, e sentivi
pervadere in te un senso di freddo. Come quando, in quei mesi, si
faceva l'abitudine a essere colpiti in faccia dal vento gelido.
<< Oh, ma tu guarda! >>
Sussultasti di colpo, facendo saltare i pezzi della tua armatura: e
adesso chi era che pareva tanto felice con tutto quel freddo da
mettersi a parlare da solo?
Ti voltasti, osservando basita quella figura:
un uomo, di circa venticinque anni, cosa che si poteva dedurre dalla
leggera barba bionda adatta a quelli che non erano più
ragazzi;
con una mano simulava una lente, puntata dritta sul cadavere
penzolante, mentre con l'altra teneva un foglio, una penna e un
calamaio.
Sotto i tuoi occhi stupefatti si sedé nel bel mezzo della piazza,
srotolando il foglio sulle sue gambe e inumidendo nella boccia nera la
piuma bianca.
<< Ehi, scusa. >>
Disse, facendoti uno strano segno con la mano.
<< Potresti... spostarti? Sai, mi occupi tutta la
visuale. E ci
tengo a farlo bene, questo disegno... me l'ha ordinato Lorenzo de
Medici, mica qualche nobilotto qualunque! >>
A quelle parole, oltre al toglierti dalla sua mira, come ti era stato
detto, decidesti finalmente di aprire bocca; inoltre, sentivi una
strana sensazione, la stessa che provavi quando Lorenzo ancora ti
trattava come la sua piccola pupilla.
<< Oh... lavora per i Mio Signore? >>
Chiedesti, educatamente.
Gli occhi azzurri di quello, che già aveva iniziato a far
scivolare la penna, schizzarono veloci sui tuoi, facendoti addirittura
arrossire.
<< Oh! Aspetta, aspetta... >>
Esclamò, sfiorandosi il mento con la piuma leggera.
<< Ma certo! Oh, come ho fatto a non riconoscerti! Sei
Marina,
vero? La piccola Marina! Quella che se n'è andata fino in
Turchia pur di riprendere il Bardini e impiccarlo! Oh, ti devo un gran
favore, è grazie a te che ho il mio primo lavoro importante!
>>
Cocluse, puntando la penna contro il cadavere del sopracitato uomo e
schizzando ovunque l'inchiostro.
Tu annuisti, non sapendo se sentirti elogiata o che altro.
"Ma guarda tu che tip-"
Non potesti nemmeno relizzare tale pensiero che la mano del biondo
strinse la tua, guantata, avvicinandoti tanto a lui e portandoti a
sedere.
Calore.
In un attimo un calore che per tanto tempo non avevi sentito,
tornò a scaldarti meravigliosamente il cuore.
<< Vieni, vieni qui accanto a me! >>
Gioì,
osservandoti dopo ciò. << Oh, sei proprio una
fanciullina
meravigliosa! Ma... questa armatura non si adatta al tuo viso delicato.
Ci vorrebbe un bel vestito di seta, al diavolo se è
inverno!>>
"Cielo, quanto parla."
ti venne da pensare.
Ma in ogni parola che quell'uomo diceva trapelava un'intelligenza che
forse non potevi neanche immaginare, in quel momento.
E... l'idea di vestirti in tale modo, a essere sinceri, non ti
dispiaceva affatto.
In quel momento, accanto a lui, ti sentivi di nuovo una bambina.
<< Mi scusi. >>
Lo interrompesti, guardandolo con le guance leggermente rosse, come non
lo erano da quasi un anno.
<< Lei conosce il mio nome... ma io non so il suo.
Può dirmi come si chiama? >>
Quello ti sorrise, mostrando una fila di denti perlati e un viso che,
se non fosse stato per quella barba e i capelli ricci e un po' lunghi,
ti sarebbe parso quello di un bambino per la sua solarità.
<< Hai ragione, Mia Bambina del Giglio Puro di Firenze.
>>
Disse.
<< Il mio Nome è Leonardo, Leonardo Da Vinci.
>>
- Nel
1478 la famiglia dei Pazzi, con l'appoggio del papa, attenta alla vita
dei due de Medici, riuscendo a uccidere il minore, Giuliano.
L'anno a
seguire, senza che
il Magnifico debba sporcarsi le mani o dare semplicemente ordini, tutti
coloro che hanno partecipato alla congiura vengono uccisi, i corpi
vengono trascinati per le strade, lapidati, torturati, altri impiccati
e lasciati penzolare dallo stesso Palazzo della Signoria.
In questi
anni, alla corte
Medicea si avvicina la figura di un giovane e promettente artista a cui
Lorenzo darà il compito di ritrarre il cadavere
dell'assassino
del fratello; il nome di tale artista è Leonardo Da Vinci,
che
in futuro verrà conosciuto dall'intero mondo.-
________*
Note
dell'Autrice.
* S'intendono i Guelfi Neri e i Guelfi Bianchi.
|
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Capitolo 3 *** Di Sangue e Gigli. ***
tre
3. Di Sangue e Gigli.
Pioveva.
Pioveva incessantemente, pioveva così tanto che coloro che
si
muovevano sotto le mille gocce quasi dovevano stare attenti nel
prendere il respiro, poiché altrimenti si sarebbero
ritrovati a
bere un bicchiere d'acqua direttamente dalla sua fonte principale.
E pioveva dal tuo viso.
Quanti anni parevi avere, quella volta? Undici o poco meno.
Il vestito che un tempo avevi sporcato di fango per rivendicare il tuo
possesso su un quadro adesso ti arrivava sopra il ginocchio, quando
prima sfiorava l'inizio dei polpacci, se piegavi il braccio la manica
saliva rovinosamente.
Avresti dovuto cambiarlo, ma non importava.
Era un ricordo... un suo ricordo.
<< Cherì, ormai è notte.
>>
Ti voltasti appena quanto bastava a vedere colui che aveva parlato,
ruotando il busto, mentre le ginocchia rimanevano piantate a terra.
Francis, in armatura.
Era cresciuto molto, lo faceva ogni anno e ormai pareva quasi un
uomo. Tu invece eri sempre una bambina i cui occhi erano
tornati
a essere tristi.
<< La giornata è finita. >>
Continuò lui, con una dolcezza vocale ben diversa dal tono
di
scherno che ti aveva sempre riservato; sapeva che in quel giorno, in
quella ricorrenza, eri come un cristallo o come uno dei gigli bianchi
che crescevano nel giardino: delicato e colpito in continuazione da una
pioggia maledetta.
Tu scuotesti la testa, sorridendogli di rimando.
<< Non ti preoccupare. >> iniziasti,
sorridendo appena,
come a ringraziarlo del trattamento che quel giorno ti era annualmente
riservato. << Resto ancora per un altro po' con il
Maestro.
>>
Lui sospirò, avvicinandosi e carezzandoti i capelli con la
mano guantata di acciaio.
<< Marì, lo sai che questo al momento non
è un
posto sicuro. Che io non posso proteggerti. E la notte è
scura,
potrebbe succedere... >>
<< Francis. >> Lo interrompesti, netta.
<< Ti prego, comprendimi. Sai... sai anche tu cosa si
prova. >>
Il francese perse leggermente di colore, a quelle frasi, mentre i
ricordi risalenti a cento anni di sangue e corti capelli d'oro si facevano
facilmente largo nella sua testa, nel suo cuore.
Non disse nulla, allora, limitandosi a rivolgerti un sorriso mesto e
comprensivo.
<< Oui, oui. Ma poi non dire che ti avevo avvertito,
cavalier d'Italia. >>
Disse, con tono scherzoso, scompigliandoti i capelli e avviandosi verso
l'arcata che fungeva da porta. Si voltò un'ultima volta a
sorriderti, muovendo la mano in cenno di saluto.
<< Arrivederci,
Marine. E... Ou
Revoir, Messier Léonard. >>
La sua figura sparì e i tuoi occhi, in uno scatto quasi
automatico, tornarono a posarsi sulle tue mani congiunte in preghiera.
La cappella di Saint-Hubert era illuminata solo dalla luce delle
candele che tu avevi accesso e da quella naturale della luna che
filtrava nei mosaici, proiettando contro il tuo viso e oltre te ombre
colorate.
Per un solo momento le tue mani si sciolsero, e una, quella che pareva
tremare di meno, si portò alla lastra di marmo che avevi di
fronte, carezzandola con una dolcezza presso che infinita.
Sorridesti, con gli occhi umidi, lasciando che le dita accarezzassero
il bordo delle lettere che, sul fondo della lastra, erano stata
modellate con il ferro.
Faceva male, ne faceva tanto, riconoscere dal solo tatto quel nome. Ma
ti rendeva anche minimamente più vicina a lui.
<< Sono passati cinquant'anni, ormai, Maestro...
>>
Sussurrasti, carezzando ancora la lapide.
Quel 2 maggio 1519 tutti avevate pianto; tu, che svegliandoti l'avevi
visto con un sorriso sulle labbra prive di colore, il Melzi, nel
cercare ti allontanarti da lui, addirittura il re di Francis si era
lasciato andare a un pianto sconsolato.
Come era stato lasciato scritto dallo stesso Leonardo, si era compiuta
la cerimonia, erano state suonate le laude, spartiti gli averi.
E dopo tutti quegli anni di Leonardo da Vinci restavano ogni genere di
manufatto artistico, una fama estesa al di fuori dell'Europa e una
tomba in Francia.
Da lì in poi, ogni due maggio i recavi a Amboise e vi
restavi
per una o due settimane, o, più semplicemente, per tutto il
tempo in cui sentivi di dover piangere e parlargli.
Gli raccontavi cosa accadeva a Firenze, a Roma, degli artisti emergenti
e di quelli che facevano i più grossolani errori, di come
stavano i suoi allievi, pure il Caprotti, e come stavi tu.
Eri arrivata a destinazione la notte precedente e da quel momento le
tue ginocchia non si erano più scollate dalla pavimentazione
della cappella, rappresentate dei gigli.
La notte era ormai scesa, e tutto era quieto; da quando quel castello
era stato teatro della spaventosa Congiura a cui dava il nome, nessuno
più vi abitava se non l'anima del Maestro.
Le uniche cose udibili erano le tue parole, sussurrate in fiorentino e
anche in latino e la pioggia, che con forza e continuità
batteva
e batteva, e scrosciava, coprendo ogni rumore.
Anche quello di passi sconosciuti.
Fu un attimo.
Bastò solo sentire quell'ombra che lenta si stagliava su
tutta
la sua figura, opprimendoti il cuore come se essa avesse consistenza.
Il sangue ti si gelò nelle vene per un altro attimo, quello
necessario a tirarti in piedi di scatto, rompendo la preghiera.
Non avevi mai capito perché Francis quell'anno aveva tanto
insistito perché tu lasciassi perdere la cara ricorrenza,
perché ripeteva ogni volta che quello non era un posto
sicuro.
Tu, la tua testardaggine e il tuo orgoglio non gli avevate dato
ascolto.
Ma ora capivi il perché di tali parole e anche quanto eri
stata sprovveduta.
<< Ma allora è vero quello che ci dicevano...
>>
Osservasti i due uomini davanti a te: non avevano corazze, ma portavano
con loro attrezzi per la terra, dalla quale un occhio poco attento
avrebbe potuto dedurre che erano due contadini. Ma a tradire
quell'ipotesi erano i pugnali che stavano appesi alle cinture di pelle
e il simbolo che portavano sul petto.
" Ugonotti. "
Pensasti, non emettendo respiro.
Eri messa male, molto male. Non ti eri mai portata la spada in quei
viaggi, in quanto sapevi che essa non era mai stata amata dal
Maestro e non avevi null'altro per difenderti se non le tue
mani.
Arrivavi all'ombelico del primo, forse riuscivi a sfiorare i
fianchi al secondo.
In una situazione simile l'unica cosa che potevi fare era aspettare e
sperare che non succedesse nulla.
Diplomazia, Marina, diplomazia.
Anche se sei poco più di una bambina saprai usarne un po',
no?
Dovevi solo fare come Lorenzo De Medici, come Macchiavelli, come
l'adorato Leonardo.
L'uomo ti si avvicinò, mentre il secondo restò
sulla porta.
<< Una della Famiglia Dell'Italia, i Vargas, è
qui in
Francia. Il Centro, poi, che grande onore! >> L'uomo
rise, mentre
tu continuavi a restare in silenzio, a denti stretti.
<<
Pensavo che tu fossi sempre nelle catene dello Stato della Chiesa.
>>
Deglutisti, al sentire quel nome. Non era che fosse una bugia, grande
parte di te era allevata dalla signorina Lucia, che si
poteva
quasi definire la tua tutrice.
E no, non sopportavi che si parlasse di lei con quel tono.
<< Sì, sono io. >>
Rispondesti, con voce secca e decisa. Non dovevi... non potevi
mostrarti spaventata.
Quello si avvicinò ancora e tu, istintivamente,
indietreggiasti
e indietreggiasti ancora, fino a inciampare e cadere sulla lapide.
<< Allora saprai di certo dove si trova Caterina de'
Medici. >>
A quelle parole subito intuisti dove volevano andare a parare; allora
era vero che quei pazzi volevano organizzare una seconda congiura...
<< Sono spiacente, ma ricevo poche notizie da madamigella
Caterina, in quanto essa ora è nobile di Francia. L'unica
cosa
che so è che questo castello è abbandonato dalla
fine di
marzo. >>
<< Davvero non sai nulla, piccina? >>
Il tono melenso usato per farti adescare in quella più che
evidente trappola ti fece salire ancor più la rabbia in
corpo.
<< No, assolutamente nulla. Anzi, avevo
intenzione di lasciare questo posto... >>
Mormorasti, cercando di alzarti, ma quello ti respinse giù
con ben poca delicatezza.
<< Spiacente, non ancora. Abbiamo fatto anche noi molta
strada, sarebbe brutto andarcene a mani vuote... >>
<< Non capisco a cosa vi riferiate, ma non ho nulla di
valore con me. >>
Continuasti, sentendo le pupille tremare nel reggere quello sguardo.
Non sarebbe finita bene.. non sarebbe finita bene affatto.
Quello rise e anche l'altro si avvicinò, brandendo la pala.
<< C'è qualcosa, qui, che vale molto di
più dell'oro. E tu ci sei seduta sopra. >>
Quelle parole ti congelarono, bloccando il sangue nelle tue vene e
lasciando vivo solo il cuore, che batteva nel tuo petto così
forte da farti male.
E le tue piccole dita sudavano, mentre si scontravano con la superficie
fredda e liscia della tomba di Leonardo da Vinci.
<< ... no. No, no! >>
Ti alzasti, nel vedere il tipo con la pala avvicinarsi, lanciandoti
contro di lui con il cuore in gola.
Non importava la stazza, non importava l'essere disarmata.
Avresti difeso il tuo Maestro a costo della tua vita.
Senza minimamente riflettere, lasciasti che il tuo corpo si muovesse
per te, come durante la Congiura dei Pazzi, e una di loro,
miracolosamente, riuscì a sfilare via il pugnale dalla
cintura
dell'uomo, di cui mancavi un pugno solo per grazia divina.
D'impulso lo affondasti nella gamba del gigante, che urlò di
dolore, e subito dopo ti allontanasti, ansimando e guardando in ogni
direzione, mentre il tipo cadeva.
Bene, fuori uno.
Ti girasti, trovando l'altro a pochi centimetri da te, con il pugnale a
tagliare l'aria; s'incrociò con il tuo e in quella lama
sentisti
tutto il peso del suo possessore.
Con i piedi ben piantati a terra spingesti verso l'ugonotto, con ogni
minimo grammo di forza che avevi, fin quando, con un suono acuto e
scheggiante, la sua lama s'infranse contro la tua.
Quello indietreggiò e sul tuo volto comparse un sorriso;
avevi vinto, ormai, eri riuscita a...
Un rumore, come una raffica di vento echeggiò dietro di te,
fermandosi nell'esatto momento in cui tu ti voltasti;
nell'esatto momento in cui il ferro della pala colpì con
violenza il tuo viso, offuscando il mondo.
<< Maledetta mocciosa. >>
Quella frase fu pronunciata dalla voce che riconoscesti come
appartenente al primo dei due che avevi colpito, evidentemente non
così gravemente da farlo stare a terra, dove adesso ti
trovavi
tu.
Ansimasti, dal freddo del pavimento, combattendo con il tremendo dolore
che proveniva dalla tua tempia e ti istigava a chiudere gli occhi e
abbandonarti alle tenebre, la l'unica cosa che il tuo corpo fu in grado
di fare fu lasciar scivolare una lacrima lungo la tua guancia, seguita
da un'altra.
Urlasti senza emettere nessun rumore, quando le mani spinsero la
lastra fino a spostarla, un gemito piangente uscì dalle tue
labbra bianche quando l'utensile sporco del tuo sangue affondo nella
terra, buttandola poi ovunque, anche addosso al tuo corpo.
Il tuo cuore si strinse fino a farti tossire sangue, alla vista dello
splendido corpo osseo, avvolto in vesti eleganti e nella sua barba
così morbida, spostarsi dalla cassa pregiata ad un sacco
sporco
e logoro.
Nella mandibola, ove qualche rimasuglio di pelle faticava a consumarsi,
credesti di riconoscere il sorriso che ti aveva rivolto al vostro primo
incontro.
<< Andiamocene. >>
<< No.. non ancora. Se lasciamo tutto così se
ne accorgeranno. >>
<< Tanto ci penserà quella Fille du Diable a
parlare! >>
<< Beh... possiamo risolvere due problemi in uno.
>>
Non opponesti alcuna resistenza quando le braccia dell'ugonotto ti
afferrarono, lanciandoti dentro la cassa mortuaria, nella quale cadesti
come una bambola, incapace di muoverti.
Oppure senza motivo per farlo.
Lentamente calasti nell'oscurità, osservando la luce delle
candele e i volti dei ladri farsi sempre più lontani
attraverso
la parte superiore della bara, lasciata mezza aperta.
Poi dall'alto iniziò a cadere la terra, che ti
colpì come la pioggia colpiva i gigli del giardino.
Ah, il Maestro si sarebbe arrabbiato... avevi il vestito tutto sporco
di fango come quella volta.
Infine, la lapide lenta scivolò, facendo eclissare il
rettangolo di luce.
Seppellita.
Viva, ma morta.
Ci volle un'ora, due ( chi lo poteva dire, nel buio totale? ) per farti
prendere nuovamente coscienza, per farti tornare alla mente l'immagine
di te, china a pregare sulla tomba.
La consapevolezza di tutto quello che era successo e di dove ti trovavi
ti colpì al petto, e in un attimo l'odore di putrida terra
ti
aggredì le narici, facendoti tossire in continuazione,
mentre
l'aria piano piano si faceva sempre meno presente.
Eri sola nel buio.
Adesso... adesso non avevi nemmeno più un posto dove
piangere.
E, senza che te ne potessi accorgere, tutta la voce che prima non eri
stata in grado di usare uscì con violenza e rabbia dalla tua
gola.
*
Urla dei dannati.
Era la prima cosa che avevi pensato, una volta coperta la distanza che
dal castello deserto di Amboise ti portava alla cappella di
Saint-Hubert, dove l'uomo di cui portavi il cognome, per caso, per
nomina o per semplice destino, riposava in eterno.
O almeno così dovrebbe essere stato.
I tuoi occhi blu scrutarono dal pesante cappuccio e dalle ciocche di
capelli corvini ciò che ti stava attorno; sotto la pioggia
battente non vi era anima viva e il tuo orecchio continuava a
suggerirti che quelle grida strazianti provenivano proprio dalla
cappella.
Ti chiamavi Marcus e dimostravi circa sedici anni.
Eri cresciuto in un ambiente monastico che poco si adattava al tuo
carattere e, soprattutto, a quello che adesso facevi.
Ma quell'ambiente ti aveva reso indipendente; indipendente dalle mani
morbide e vellutate della Signorina Lucia ( peccato che però
spesso ti ritrovassi ancora vicino a quella figura opposta alla tua ) e
dalla famiglia Vargas. Eri così diverso da questi ultimi!
Fin da
l'inizio era stato impossibile considerarti parte della loro famiglia,
un fratello.
Tu eri solo, solo e indipendente e sempre lo saresti stato.
Tranne per quel "Da Vinci" nel tuo nome. Non ne avevi mai avuto uno e a
dartelo era stato proprio quell'uomo, l'artista da tutti conosciuto, in
un incontro casuale avvenuto a Roma ( tu eri lì per
discutere
con la Signorina Lucia, lui per lavoro).
La notizia della sua morte, pur non turbandoti eccessivamente ( eri
abituato bene a vedere la gente morire, tu ) ti aveva però
lasciato qualcosa nel cervello, un pensiero, potremmo dire.
E dato che in quella settimana ti trovavi proprio nella zona della
Loira per lavoro avevi deciso di fare un salto alla sua tomba.
Ma adesso non era più questa a "incuriosirti"
bensì quelle urla piene di dolore.
Avanzasti ancora senza indugiare e notasti così che oltre ai
tuoi sul terreno fangoso c'erano altre impronte ben più
grandi.
Era successo qualcosa, adesso ne eri più che certo.
Entrasti nella cappella, dove le urla echeggiavano con una potenza tale
da farti portare una mano all'orecchio destro, per tapparlo, trovandola
disastrata; no, per quanto avessi sentito parlare della pulizia ben
poco accurata dei francesi, quello era veramente troppo.
Notasti la lapide, storta, sporca di terra ai bordi.
L'intuizione che ti arrivò fece cambiare espressione al tuo
viso
perennemente freddo e distaccato: le urla non venivano dalla cappella.
Le urla venivano da sotto la cappella.
Normalmente avresti dato ben poca importanza a una cosa simile, te ne
saresti andato, lasciando perdere e facendo semplicemente finta che
nulla fosse successo.
Ma qualcosa ti spinse a spostare la lapide con un calcio, per andare a
scoprire da cosa provenivano quelle urla che ora riconoscevi come
femminili.
Ti togliesti la lunga cappa scura, mostrando quello che era un fisico
decisamente ben allenato per un ragazzo della tua età e
estraendo dalla cintura che portavi in vita il quarto dei tuoi ben
affilati pugnali, con cui tranciasti la terra, scavando come meglio ti
riusciva.
Uno che faceva la tua professione mica si portava dietro una pala.
Riuscisti però a scavare una buca abbastanza profonda e
delle
dimensioni della tua spalla, dalla quale potevi intravedere uno degli
appigli della bara.
Le urla, adesso, erano ancora più forti, ma quando il tuo
braccio afferrò l'appiglio, trascinando la cassa verso
l'alto,
esse cessarono all'improvviso, in modo tanto smorzato da farti quasi
pensare che la persona al suo interno fosse deceduta.
Senza altro aspettare, quando essa era ancora in perpendicolare e mezza
inabissata nelle tenebre, la schiudesti.
I tuoi occhi, per la prima volta da tanti anni, si sgranarono, mentre
osservavano quel volto ansimante e sporco di sangue e terra
già
incontrato svariate volte.
Era Marina Vargas, la seconda dei tre. Il Centro - Italia.
Vi guardaste negli occhi per quella che sembrava
un'eternità, i
suoi erano tremendamente diversi dall'ultima volta che li avevi visti:
la tonalità rossa che faceva brillare il marrone adesso non
ti
dava più quella sensazione di calore.
Bruciava, invece. Come un fuoco che tentava di dilatarsi in ogni dove.
E il sorriso, che ben ricordavi per la sua quasi odiosa
radiosità, era sparito, lasciando lo spazio solo a una bocca
dischiusa a prendere respiri.
<< ... Marcus? >>
Chiese, con tono quasi distaccato. Era sconvolta, non ci voleva nulla a
capirlo.
Incrociasti per l'ennesima volta lo sguardo al suo, colpito dalla luce
lunare che filtrava nella chiesa. Fu quell'immagine a fartelo notare:
nonostante i suoi occhi fossero il fuoco e i tuoi il ghiaccio il vostro
sguardo era lo stesso.
Lo sguardo di chi non aveva null'altro da perdere.
<< Sono io. >>
Rispondesti, distaccato.
<< Che ci fai qui? >>
La scioltezza con cui parlava di sorprese; nonostante tutto aveva
trovato la forza per esprimersi a parole,
<< Ero qui per caso. Tu, invece? >>
Osservasti ancora una volta la sala; c'era sangue per terra, impronte
molto più grandi delle sue e un pugnale sporco di rosso,
così come lo era lei.
<< Come ti sei fatta quella? >>
<< Mi hanno colpito con una pala. >>
Come sospettavi, quella non era una ferita da taglio... il sangue sul
pugnale non era il suo.
<< Chi è stato? >>
I tuoi occhi colsero il movimento minimo ma esplicativo dei suoi denti
che si stringevano, lo sguardo che si abbassava.
Raccontò tutto con tono distaccato, senza scendere nei
particolari e, mano a mano che lei raccontava, un'idea si faceva largo
nella tua mente.
Era perfetta.
Aveva affrontato completamente alla sprovvista due uomini armati, non
aveva provato paura nemmeno per un momento.
E adesso fremeva di quei sentimenti che potevi benissimo definire come
rabbia e rancore.
-
<< Vieni con me. >>
Quelle parole ti sorpresero, facendoti precipitare sui suoi
occhi
blu, dove ora stava una strana luce, ma nessuna spiegazione.
<< Non hai nulla da perdere, vero? >>
L'aria ti si blocco in gola, mentre quella frase echeggiava nella testa.
<< ... Nulla. >>
<< Sei arrabbiata? >>
<< Sì.. sì, lo sono.
>>
<< E con chi, Marina, con chi? >>
<< ... con me stessa. >>
<< Questo perché sei troppo debole.
>>
Le parole che Marcus pronunciò vennero scandite, con una
spaventosa
contemporaneità, anche dal tuo cuore. Era vero. Se ti
avevano
portato via il Maestro era solo e unicamente colpa tua.
Eri stata lontana dalle armi per troppo tempo.
<< ... fammi diventare forte, Maestro Marcus.
>>
Il sorriso ( ma quale sorriso? Quello era un vero e proprio ghigno
diabolico) si allargò sulle sue labbra sentendo
quell'appellativo.
Ti mise in piedi, e tu inaspettatamente ti reggesti sulle tue gambe,
tenendo la schiena dritta, e poi si alzò anche lui,
fissandoti.
<< Adesso sì che ragioni. Ti farò
conoscere il tuo
lato oscuro, quello che tieni qui dentro... >> e dicendo
questo
ti colpì il petto proprio dove stava il cuore
<< ... che
racchiude tutta la tua forza. Hai abbastanza fegato per fare il mio
lavoro. >>
<< E quale sarebbe il tuo lavoro? >>
Chiedesti, senza timore. Lui sorrise e solo allora notasti il lungo
mantello con cappuccio e la fila di lame che teneva alla vita.
<< Quello di cui nessuno parla, ma di cui tutti hanno
bisogno. L'Assassino. >>
"Assassino".
Quella parola ti fece tremare un attimo le viscere, ma non di paura.
Sapevi che un cavaliere era forte, ma... ma un assassino, furbo, agile
e pronto a tutto, lo era molto molto di più.
<< ... sono pronta a prendere questa strada.
>>
La frase ti uscì quasi automaticamente dalle labbra e avesti
l'impressione che Marcus non aspettasse altro.
<< Bene. >>
Disse, osservandoti poi da capo a fondo.
<< Hai i capelli lunghi. >>
Ti prendesti la treccia tra le mani, guardandolo poi, senza capire il
perché di quella sua ovvia precisazione.
<< Ti dovrai abituare ad averli sporchi di sangue... come
ora, del resto. >>
Rise appena, con tono di strafottenza.
Per quanto quell'uomo portasse il cognome di Leonardo era tutto un
altro tipo di persona e di Maestro.
Voleva metterti paura, questo era ovvio.
Ti avrebbe reso la vita un inferno, già lo sapevi, si
sarebbe
fatto odiare tanto da farti desiderare la sua morte e per mano sua, in
modo da alimentare il tuo senso di confidenza con l'uccidere a sangue
freddo, la tua rabbia e il tuo livello di sopportazione.
<< ... hai ragione. >>
... ma tu non ti saresti lasciata intimidire.
Ti voltasti, cercando con lo sguardo qualcosa sul pavimento: eccolo
lì, proprio accanto alla macchia di sangue.
Ti chinasti a prendere il pugnale, pulendolo dal sangue sui tuoi
vestiti.
Poi, sotto i suoi occhi stupefatti, afferrasti con la mano libera la
treccia e premesti senza indugio contro l'attaccatura alla nuca la lama
affilata;
sempre più, sempre più, fin quando un sonoro
strappo la lunga treccia castana ti rimase nella mano destra.
Sentire il tuo collo scoperto dai capelli ti diede un brivido, che si
fuse velocemente a quello di soddisfazione provato nel vedere il viso
altrettanto soddisfatto di Marcus.
<< Devo trovarti un nome. >>
<< Un nome...? >>
<< Sì. Un nome di copertura, con cui farti
conoscere. >>
I suoi occhi guardarono dietro di te che, curiosa, ti voltasti seguendo
la traiettoria tracciata dai suoi occhi.
La bocca ti si spalancò, vedendo ciò che stava
alle basi dell'entrata della cappella.
<< Quei... quei gigli... >>
<< Rossi. >>
Marcus concluse la frase, avviandosi verso la porta e recidendone uno
tra l'indice e il medio.
<< Le radici devono aver toccato il sangue, e i petali si
sono colorati.. >>
Si voltò a guardarti, lanciandoti poi il fiore che
velocemente afferrasti, tenendolo tra le palme con cura.
<< Marina. Il tuo nome. da adesso in poi,
sarà... >>
<<
Prendeteli! >>
Roma.
La
milizia scruta ogni dove, ringhiando e tenendo avanti le spade;
La
folla mormora, agitata, senza rendersi conto di cosa sta fuggendo
attraverso essa.
Due
lunghi
mantelli uno nero e uno color mattone, più piccolo,
scompaiono
in un vicolo, lo attraversano, giungendo dalla parte opposta.
<<
Ci sono
un po' troppe guardie. >> Dice il nero, prendendo a
camminare ora
normalmente. << Il nobile che abbiamo giustiziato era un
pezzo
grosso... penso che se lo aspettasse, in un certo senso.
>>
Rispose
il più piccolo.
<<
Comunque, adesso liberiamoci di questi. >>
<<
Sì. >>
I
guanti di
pelle afferrarono il cappuccio, mentre la folla nuovamente vi
avvolgeva, inghiottendo un collo nudo su cui stava un piccolo e
carminio tatuaggio stilizzato di un fiore.
<<
Guarda. >>
Gli
occhi blu di colui che portava il cappuccio nero si posarono sul muro
di lato.
<<
Adesso ti conosco bene. >>
<<
Così sia. >>
<<
Ma devi ancora crescere... sei ancora debole. >>
<<
Lo so. Devo diventare più forte... ancora di più.
>>
Le
figure
scomparirono nel via via di persone, lasciando dietro di loro solo un
manifesto ora sfregiato, composto da un numero con molti zeri, un
titolo che recitava " Morti di Vivo ", un disegno decisamente abbozzato
e un nome.
Il
tuo nome.
Il
Giglio Rosso.
______________*
Note dell' Autrice.
Periodi in cui si svolge la storia.
1° capitolo: 1470, Firenze.
2° capitolo: 1503- 1517, Firenze e
Francia
3° capitolo: 1560- ... Francia e Roma
Si fa riferimento a fatti storici quali:
1° capitolo: Congiura dei Pazzi.
2° capitolo: Vita di Leonardo da Vinci, esposizione al mondo
della Gioconda.
3° capitolo: Congiura di Amboise, organizzazione per la seconda
e subito sventata congiura.
Copyright.
© I personaggi di Francis Bonnefoy ( Francia ) sono di
proprietà di Hidekaz Himayura, creatore di Axis Power
Hetalia.
© I personaggi di Leonardo da Vinci, Gian Giacomo
Caprotti,
Marco D'Oggiono, Tommaso Masini ( ebbene sì! Proprio quel
Tommasino! ), Francesco Melzi, Lorenzo, Giuliano, Caterina e Piero de'
Medici, Francesco Pazzi, Bernardo Bernardini , Michelangelo Buonarroti,
Francesco I e Giovanna D'Arco (Implicitamente citata) sono tutti
esistiti realmente.
© I personaggi di Marina "Centro-Italia" Vargas, della sua
controparte, Il Giglio Rosso, e di Marcus "San Marino" Da Vinci sono di
mia propietà e invenzione da ormai due anni.
© I personaggi di Lucia "Santa Sede" Madeleine
è stato creato e appartiene a me e a una mia amica.
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