The Last Track

di Bikachu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo Settimo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Casa Keller - Berlino
20 Ottobre


...
-Ormai è impossibile tenere i gemelli persino nella loro casa a Los Angeles-

-Perché?- David appoggiò i gomiti sulle ginocchia e cinse le mani guardando in basso, poi alzò la testa e prendendo un grande respiro comincio a parlare. I suoi occhi erano come quelli di un padre: affettuosi, protettivi, quasi come se i gemelli fossero diventati per lui una famiglia vera e propria e non soltanto un lavoro che vantava di aver venduto sei milioni di dischi in tutto il mondo. –Sono costantemente e perennemente con i paparazzi alle calcagna e non ce la fanno più-.

Qualcosa non mi tornava.

-Scusa Dav ma… loro lo sapevano che cambiando casa non avrebbero trovato un letto di petali di rosa. L.A. è una delle città più “gossippate”, se così si può dire, di tutto il mondo! Non mi sembra che la loro sia stata una mossa tanto saggia quella di lasciare la Germania per l’America…-

-E qui allora?- mi domandò alzando la voce. Aggrottai le sopracciglia e mi allontanai da David alzandomi dalla poltrona e andando verso la finestra, pensando che almeno in quel modo avrei evitato la brutta piega che la discussione aveva preso. -Secondo te qui sarebbero stati al sicuro dopo quello che è successo? Dopo il furto? Dopo le aggressioni e gli appostamenti? Dopo le minacce alla madre? È questo ciò che vuoi per loro?- il tono della sua voce era letteralmente alterato.

Sbuffò e seguirono degli attimi di silenzio interminabili dove rimasi a fissare la neve che cadeva fuori dal vetro e senza accorgermene mi ero totalmente mangiata un’unghia, cosa che non succedeva dal primo liceo!

Ero in preda ad una crisi isterica e mi sarebbe bastata una goccia soltanto e il vaso sarebbe esploso e non semplicemente traboccato.

Detto fatto, la goccia arrivò prima del previsto.

-Preferiresti vederli perseguitati, soffocati da orde di giornalisti che per uno straccio di foto pagherebbero oro oppure asfissiati da…-

-Da chi? Dalle loro fan? Dalle groupies o come si chiamano? Dalla vita che si sono scelti per conto loro? Da quello David, è quello?- urlai girandomi di scatto verso di lui e correndogli dietro mentre cercava di uscire dall’appartamento. –Bhè, mi dispiace, chiamami anche falsa amica o quello che ti pare ma non li aiuterò a nascondersi da ciò che si sono cercati… non questa volta!- finii la frase di fronte a lui rendendomi conto che era più alto di me di almeno dieci centimetri e che la mia fronte gli arrivava al mento, ma in quel frangente a tutto pensavo tranne a quello che dicevo perché ero talmente accecata dalla rabbia e dalla furia omicida che avevo verso i Kaulitz che tutto il resto era annebbiato.

David si guardava i piedi senza segno di vita, quasi fosse morto.

Il silenzio era atroce, la lancetta dell’orologio emetteva un ticchettio stressante e ripetitivo che ti entrava in testa come un martello, il respiro affannato e gli occhi lucidi di David mi mettevano una tale angoscia impossibile da descrivere.

-Dav…- alzò lo sguardo e capii che non c’era nulla di cui arrabbiarsi, quindi cercai di calmarmi e con il tono di voce più calmo possivile gli chiesi: –Cos’ è successo… veramente?-

David chiuse gli occhi, respirò più lentamente, poi li riaprì sforzandosi non poco.

Mi mise una mano sulla spalla e mi abbracciò.

-Tu, forse ora più di tutti, puoi aiutarlo… puoi riportargli il sorriso e rendergli la vita più semplice perché non può stare in queste condizioni a contatto con le telecamere o con i giornalisti famelici del minimo rumor…- tutto questo era strano, ma di che parlava?

Rimasi abbracciata a lui inconsapevole di poterlo sostenere perché non riuscivo a capire di cosa aveva bisogno, cosa era successo.

-Ma, mi vuoi dire per favore cosa diamine è successo? Mi stai facendo agitare, non riesco a seguirti e non posso darti una mano se non mi fai chiara questa storia… per favore…- dissi quasi supplichevole.

Sciolse l’abbraccio ma tenne le sue mani ferme sulle mie spalle, si schiarì la voce e provò a parlare ma ciò che gli uscì dalla bocca fu un sibilo, niente più.

-Come scusa?- chiesi sottovoce facendomi più vicina a lui.

-Tom…-

-Tom… cosa?-

-Tom sta male…- una scintilla, un fulmine che mi colpì in pieno. Mi allontanai da David come se fosse stato lui la causa dello shock che avevo appena ricevuto.

La salivazione era a zero, i battiti del cuore a mille, un senso di freddezza dentro al corpo al centro del petto e tanta debolezza mi circondarono in un millesimo di secondo.

Frastornata e in cerca di un appoggio istantaneo, mi voltai e barcollai fino in salone dove cercai di aggrappare il bracciolo di una poltrona ma lo mancai e caddi in ginocchio sul tappeto.

Lo sguardo di David, le sue parole strascicate, il tono della sua voce non lasciavano intendere nulla di facilmente risolvibile.

La tensione lasciò posto alla paura che mi bloccò i muscoli e la capacità di pensiero razionale, mi distesi completamente sul tappeto e la voglia di piangere era tanta, così tanta che non riuscii neanche a tirar fuori una lacrima.

David si inginocchiò di fianco a me ma la mia vista era offuscata e annebbiata dai ricordi di Tom e Bill da piccoli in giardino che giocavano senza alcun pensiero, i biscotti di Simone, i Natali passati insieme, poi tutto così di fretta: il successo, la fama, i tour…

Ci siamo persi di vista da anni per tanti motivi ma più che altro per uno in particolare e adesso mi ritrovo nuovamente intrecciata alle loro vite… alla sua vita… come in un copia e incolla… un cd che già conoscevo ripetuto centinaia e centinaia di volte…

Tutto attorno a me si fece ovattato…

Sempre più silenzioso…

Sempre più buio e David alla fine parve solo un miraggio lontano…

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo ***


Casa Keller
20 Ottobre

Quando riaprii gli occhi, intravidi le fiamme del fuoco vibrare e lo schioppettio del caminetto acceso.
Una coperta era avvolta attorno a me e sul tavolino ai piedi del divano dove ero miracolosamente sdraiata c'era una tazza di cioccolata fumante e un paio di biscotti.
Rendendomi conto di essere svenuta, un attimo di vergogna mi invase al solo pensiero del mio corpo semi-morto non dare più segni di vita davanti a David, già parecchio sconcertato dalla vicenda di poco prima.
Tom stava male, non sapevo da cosa era affetto né come si poteva curare, se c'era una cura, quanto poteva durare la convalescenza, dove doveva essere portato, analisi, prelievi, ospedali...
Il mal di testa tornò più forte di prima. Portai una mano alla fronte stringendomi dolcemente le tempie e provando ad alzarmi facendo forza su un gomito.
Riuscii a sedermi e a prendere con entrambe le mani la tazza di cioccolata per paura di farla scivolare mentre ancora non ero completamente tornata me stessa con tutti i sensi al posto giusto.
Sorseggiai un goccio di cioccolata che mi riempì di calore il petto e mi placò i pensieri.
Ora sapevo, quindi dovevo reagire altrimenti mi sarei fatta trascinare nel baratro oscuro della mia mente dove non volevo più tornare e questo era certo.
Pensare, pensare, pensare...
Georg e Gustav erano in Germania, per loro i problemi di gossip erano in parte risolti da quando i gemelli abitavano a Los Angeles ma Bill e Tom non potevano assolutamente rimanere in America, anche perché io non potevo spostarmi da Berlino: con gli esami dell'università, il lavoro, era impossibile trasferirmi in maniera permamente ma forse per brevi periodi sarei riuscita ad organizzarmi gli impegni.
Loro potevano restare da me, nella mia stanza c'è annesso un bagno con tutte le comodità mentre io potevo dormire sul divano vicino al camino e quello non era un problema.
Altra cosa da non far notare erano le macchine: può sembrare una cosa futile e alquanto superficiale pensare a cose materiali in momenti del genere ma era necessario far sparire le loro auto da sotto il parcheggio di casa mia.
Abito in un appartamento e ho un box auto soltanto dove tra l'altro tengo la mia macchina che utilizzo per gli spostamenti lunghi, quelli fuori città, per andare ai corsi dell'università o a fare la spesa prendevo i mezzi pubblici o andavo a piedi.
Le loro macchine potevano restare in un parcheggio pubblico oppure a casa dei miei, a Lipsia, quindi il prima possibile dovevo chiamare mia madre e aggiornarla su tutta la questione "Kaulitz" così papà sarebbe sceso in treno e ne avrebbe portata via almeno una delle due, quella più appariscente ovviamente.
L'altra poteva benissimo rimanere nel parcheggio esterno del palazzo che era abbastanza largo e poi a quel tipo di problemi si trova una soluzione quando ci si trova di fronte.
D'un tratto David si affacciò da dietro lo stipite dell'arco del salone silenziosamente, pensando che ancora dormissi.
- Vieni Dav, sto bene adesso. - lo rassicurai facendogli un sorrisetto sbiego e tornando a fissare il fuoco. Lui si sedette vicino a me e gli porsi un pezzo di coperta sulle ginocchia.
- Io devo parlarti Kim, ma ho paura che adesso avrai altri mancamenti. Sei debole e non sono sicuro che riusciresti a tenere questa conversazione. -
- Ohh dai, tranquillo, la tua cioccolata mi ha decisamente rimesso al mondo. Sarei pronta anche ad andarli a prendere direttamente a Los Angeles. - strinse le labbra in un sorriso forzato come per autocinvincersi che poteva parlare di Tom e Bill senza che io svenissi di nuovo.
- Ok, allora comincio. -
- Va bene. -
- A patto che tu non mi interrompa. -
- Non c'è problema. - certe volte indossavo una maschera talmente perfetta da non far trapelare neanche un attimo di inquietudine.
- Come ti ho detto prima, se ricordi, ti ho accennato che loro non possono più vivere in America per questioni di soffocamento da parte dei media che in parte è vero ma la realtà e la vera problematica che è venuta fuori in queste settimane, è una strana "epidemia" se così possiamo chiamarla, che ha preso Tom. -
- Epidemia? - ripetei storcendo la bocca ed immaginando come poteva essersela presa.
- Si, ma non si sà come se la sia presa né quanto dura, quindi dobbiamo farlo visitare dagli specialisti in Germania perché è più sicuro, qui parla la sua lingua ed è più a suo agio.- non faceva una piega.
- Capisco. -
- Però, quello che per ora ci hanno detto i medici in America è che dovrà fare delle trasfusioni di sangue e che quindi dovrà passare molto tempo in ospedale a fare avanti e dietro da casa. -
- Non è un problema, basta che riesca a farmi mettere gli appuntamenti di Tom con gli orari dell'università e del lavoro, poi comunque c'è Bill che... - mi freddò con lo sguardo. - Ah, è vero... non dovevo interromperti... scusa. -
- Quindi, come hai detto giustamente tu, potremmo fare così con gli orari e poi troviamo una sistemazione vicina ai gemelli così che tu possa andarli a trovare in maniera rapida e all'occorrenza cinque minuti e sei da loro. -
- Mi dispiace dissentire ma devo fermarti per forza. - mi squadrò e alzò lievemente un sopracciglio curiosamente. - I gemelli possono stare direttamente nel mio appartamento. Ci stavo pensando prima, quando mi ero appena svegliata dal "coma", e magari se loro avrebbero accettato potevano benissimo restare qua per tutto il tempo che gli serve. Gli lascerei la mia camera, dove c'e anche un bagno se hai visto bene, mentre io dormirei qua così la mattina visto che esco di casa molto presto, loro possono rimanere a dormire senza che vengano disturbati in alcun modo o da alcuna cosa. Vado ai corsi, vado a lavoro e torno per l'ora di cena, quindi avrebbero casa completamente a loro disposizione per tutta la giornata. - David si pizzicava la barba del mento pensieroso, come se stesse prendendo seriamente in considerazione le mie parole. Era ora di dare il colpo di grazia. - Vitto e alloggio garantiti e per di più... senza paparazzi in giro. Assolutamente una vita normale, noiosa, dedita allo studio e al lavoro. -
Mi guardava fisso, senza dire nulla. Annuiva leggermente con la testa e niente più.
- ...allora? Ci stai? Prima che cambi idea Dav, per favore. -
- Ok ok ok, ci sto ma... - c'era anche un "ma"? Dopo tutto quello che avevo proposto c'era anche il "ma". - Dovrai aiutare i gemelli in una cosa importante, forse la più importante perchè fondamentalmente non si parla di entrambe i gemelli ma solo di... ehm... di Bill. - sospirai sentendo quel nome.
- Mh, e cosa vuoi che io faccia di preciso per Bill? - sottolineai con enfasi il suo nome.
- Dai non prendertela con lui, almeno non ora in questa situazione. Cerca di lasciare almeno per questo periodo che vivrai con loro sotto un unico tetto il passato alle spalle e dagli una mano. -
- Ti ripeto la domanda in maniera lenta e scandita: cosa, devo, fare, per, Bill, punto interrogativo. - alzò gli occhi al cielo capendo che sarebbe stato più difficile del previsto.
- Cerca di fargli pesare il meno possibile la malattia di Tom. Sono gemelli Kim, li conosci praticamente da quando hai memoria, sai come si comportano l'uno con l'altro e sai che tipo di legame speciale hanno. Se uno sta male di riflesso anche l'altro non è al massimo delle sue forze seppur in realtà è sano come un pesce. -
- Si, lo so. - dovetti confermare con gli occhi bassi.
- Quindi, te lo chiedo con il cuore in mano, supllicandoti in ginocchio se servirà, ma fai in modo e maniera di sollevare i pensieri di Bill perché prima di tutto non si capisce se sta bene, se è connesso con il mondo o se parla telepaticamente con Tom e poi perché si isola, vuole stare da solo oppure fa le nottate a fissare per ore il fratello mentre dorme. Ha paura di tutto, anche del più lieve spiffero d'aria che entra dalla finestra. Ma la cosa brutta è che l'ho trovato pochi giorni fa a piangere in camera sua al buio. - chiusi gli occhi ed ebbi l'immagine di Bill che piangeva, scossi la testa e volli scacciare via quell'orrenda visione. David capì all'istante cosa avevo percepito.
- Non andare oltre. - lo fermai con un gesto della mano sollevata come per tappargli la bocca e non far uscire nient'altro. - Ho capito, mi hai convinta ma... fermati qua non c'è bisogno di continuare. -
Mi alzai noncurante della coperta che scivolò a terra e mi si arrotolò alle caviglie. La scacciai con un colpo del piede e andai in cucina, proprio dietro al divano: una delle fortune di avere un appartamento con salone e cunina "all in one" era che non dovevi farti tutto il giro di casa per prendere un bicchiere d'acqua dal frigo.
Posai nel lavandino la tazza con la poca cioccolata rimasta e vedendo scendere una gocciolina all'interno della ceramica non riuscii a resistere e la catturai con un dito mangiandomi anche quella. Drogata di cioccolata.
Andai verso il frigo e lo aprii in cerca di acqua fresca, si, era autunno e in Germania fa freschetto in questo periodo ma se non avevo perennemente una bottiglia d'acqua in frigo mi pareva vuoto.
- Dav, posso offrirti qualcosa da bere? - ci pensò poi si voltò verso di me dal divano e come se ordinasse al bar chiese gentilmente una birra.
Ma forse, non sapeva che per mantenermi gli studi e non gravare troppo sui miei genitori, io lavoravo prorio in un bar e quindi per me quella era solo l'ennesima birra da servire.
Stappai con una forchetta in fretta e furia il tappo della birra, cosparsi il beccuccio con del sale e ci misi in mezzo uno spicchietto di limone: in frigo avevo una Corona e quale miglior modo di berla se non con del limone?
Ritornai da lui con in mano la sua birra e nell'altra la mia acqua frizzante.
Bevve un sorso e rimasi ad aspettare un suo commento con un sorrisetto furbetto stampato in faccia.
- Allora, com'è dottore?- fece schioccare la lingua sul palato emettendo quel suono della voce tipico che facciamo non appena beviamo qualcosa di dissetante.
- Ottima Kim, davvero buona! -
- Non c'è di che, Dav. -
- Ma tu... suoni per caso? - lo vidi fissare la mia Epiphone Alpine White appoggiata al muro.
- Bhè... non esattamente. Non ho mai preso lezioni di chitarra, sono autodidatta. Piu che altro mi piace cantare. - lo vedevo interessato all'argomento, quindi mi sembrava normale continuare a parlarci tranquillamente. - Ho registrato casalingamente un paio di pezzi unplugged con una mia amica ma non li abbiamo mai messi su internet... a dire la verità non ci abbiamo mai pensato, ognuna di noi ha diecimila cose da fare e non abbiamo proprio il tempo materiale per portare avanti questo progetto. -
- Avete un nome? -
- No, non ne vedevamo l'utilità. Ci riuniamo, suoniamo, pizza con birra e poi tutte a casa. -
- Tutte donne? - chiese sbalordito.
- Già. - confermai fiera e spavalda mandando giù un sorso d'acqua come se fosse il drink più pregiato al mondo. - Tutte donne, per la precisione siamo quattro come i tuoi beniamini. - sorrise a quella battuta.
- Non lasciarlo mai questo tuo sogno, poi magari, potrebbe essere un punto di partenza per far distrarre Bill. Mostragli i tuoi testi, potrebbero piacergli! -
- Si, come no... - dissi sarcastica. David non sapeva che tutti i testi in realtà, anche se non esplicitamente, parlavano per la maggior parte di lui.
- Provaci, promesso? -
- E va bene, promesso! Contento adesso? -
- Si, più di prima! -
- E ridammi la birra non te la meriti! - gliela strappai dalle mani scherzosamente. - Senti Dav, ma... quando dovrebbero arrivare i Kaulitz? -
- Penso che entro domani sera stiano in città e senza che pernottino in qualche albergo che possa dare la soffiata, li faccio venire direttamente qua. Tu a che ora sei a casa? -
- Per le 8.00 di sera penso di essere qui, ti lascio le chiavi se vuoi. -
- Ottima idea! - andai in corridoio e dentro una teiera di porcellana bianchissima presi il doppione delle chiavi di casa: quello essenziale, senza fronzoli, solo chiavi del portone, garage e porta d'ingersso.
- Eccole qua. - gliele lanciai e le prese al volo.
- Senti, mi ha fatto davvero piacere rivederti dopo tanto tempo e credo ti renderò grazie in eterno per quello che stai facendo. Farò il possibile per tenere gossip e stampa lontano dalla Germania, fingerò che i Kaulitz siano ancora a Los Angeles così avrai una copertura totale e non dovrai preoccuparti di nulla! -
- Grazie mille, scusa Dav ma devo veramente andare a dormire, domani avrò una giornatina niente male tra studio e lavoro. -
- Si certamente, scusami. - si avviò verso la porta e uscendo si voltò verso di me improvvisamente come se avesse scordato qualcosa.
- Kim devo dirti una cosa, anzi devo confessarti una cosa. -
- Cosa? Che altro c'è? - ero così satura di notizie che non ne avrai assimilata un'altra, neanche se fosse stata piccolissima e insignificante.
- Non sono venuto qui per volere mio, mi ha detto Bill di venire da te e non smette di pensare a quanto sia stato stronzo a farti quello che ha fatto. - il mondo si fermò e quelle parole fecero uno sforzo enorme per entrare ed uscire dalle mie orecchie come una macchina da corsa, ma facendo appello a tutta la mia forza, ci riuscii.
- Ok. Buonanotte Dav, ci sentiamo. - chiusi molto lentamente la porta e figurativamente chiusi anche tutto ciò che per me era stato Bill Kaulitz fino a quel momento, fino alle ultime parole di David.
Bill Kaulitz non avrebbe dovuto rivolgermi la parola e se stava a casa mia, stava alle mie regole!

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo ***


Casa Keller
21 Ottobre
Ore 03:30am

...
La notte era impossibile: mi giravo e rigiravo nel letto non riuscendo a trovare una posizione abbastanza comoda per addormentarmi. Pensavo al giorno che sarebbe arrivato e alle novità che avrebbe portato in casa mia.
Sapevo che quando avrebbe varcato quella soglia dovevo sdoppiare la mia personalità: la Kim di sempre, contro la Kim Anti - Bill.
Ma più pensavo, meno riuscivo a collegare tutto e a sistemare quel mix di confusioni drastiche e repentine che mi avevano invaso il cervello stipandosi per bene nella mia testolina.
Bill sarebbe tornato e l'avrei rivisto, ci avrei parlato ed era inveitabile. L'unica cosa che potevo fare era rimanere il più possibile lontano da casa ma comunque c'era sempre il fattore "Tom" che non poteva essere trattato con superficialità e soprattutto non poteva rimanere da solo con un fratello psicopatico che lo fissava 24 ore su 24!
Era come un labirinto: intrappolata nella mia stessa casa.
Poi la mia mente mi giocò un brutto scherzo e fece un rewind concentrato della storia con Bill, dell'incidente, delle ore passate in ospedale aspettando uno straccio di notizia che non arrivava mai, della sua perdita di memoria e della sua partenza ma il ricordo che bruciava più di tutti era l'immagine del led della segreteria telefonica lampeggiare incessantemente... e il terribile shock che il messaggio vocale mi provocò: la sua voce era limpida e le sue parole erano tanto chiare quanto riuscirono a freddarmi l'anima.
Le ricordo come se le avessi sentite ieri, quando in realtà erano passati anni.
- Ciao Kim, sono io... ehm Bill. Ti ricordi quando in ospedale i medici ti hanno detto che avevo perso la memoria? Bhè... ecco, non era vero. La memoria l'ho sempre avuta ma non potevo lasciarti come un ragazzo normale... non volevo lasciarti! Cerca di capirmi, sto facendo uno sforzo enorme a parlarti così ma io dovevo partire e non potevo allontanarmi da te semplicemente mettendo fine alla nostra storia come avrebbe fatto un Tom della situazione. Pensavo che parlandone saremmo arrivati ad una soluzione insieme, ma non ne ho avuto il coraggio... - abbracciai forte il cuscino ripensando a quel maledetto momento e ai conati di vomito che mi venivano mentre ascoltavo la registrazione. - Le nostre strade si sarebbero divise comunque, forse questo era il modo più indolore per fartelo sapere. Sono stato un vigliacco e so che con questo messaggio ti ho spezzato il cuore, quindi non mi aspetto che tu mi perdoni... ma prometto che non intralcerò più la tua vita e che di me non avrai più notizia. Sei una ragazza d'oro e ti auguro tutto il bene di questo mondo, tutto quello che non sono stato in grado di darti. Scusami... - di quei frangenti mi ricordo che, una volta finito il nastro, rimasi a fissare la segreteria per un tempo interminabile e che quando riuscii a capire cosa era successo mi sentii tradita e talmente ingenua di aver creduto alla sua perdita di memoria che mi infuriai con me stessa e scaraventai a terra l'apparecchio, che fino a pochi attimi prima aveva trasmesso per tutta casa la sua voce, con rabbia disumana.
Ma tutta quella rabbia alla fine sfociò in un pianto dolorosissimo perché ero certa che lo avrei amato... anche dopo quell'episodio.
Mi addormentai stremata dai ricordi e una lacrima nuova scese cauta, andando a bagnare il cuscino.


...
- Senti, io e te dobbiamo parlare. -
- Ohh adesso ti ci metti anche tu, ma che cos'è mi avete scambiata per la psicanalista di zona? - la mia unica e migliore amica Kate Millan, meglio detta "Cherry Bomb", mi diede due colpetti con il gomito per attirare la mia attenzione durante il corso di Letteratura Tedesca. Ero talmente concentrata sulla lezione che la sua interruzione mi mandò in bestia e poi tutto mi andava di fare quel giorno, tranne che di parlare.
- Fai poco la scontrosetta, voglio parlarti seriamente di questa storia e vorrei sapere da te se posso esserti utile in qualche maniera. - la adoravo: lei sapeva tutto di me e anche quando ero di pessimo umore sapeva come farmi ridere, ma non penso ci sarebbe riuscita anche in questo giorno, specialmente in questo giorno.
Mi voltai verso di lei e le sorrisi cercando di essere gentile e di recuperare al malo modo in cui mi ero rivolta prima.
- Se avrò dei problemi sarai la prima che chiamerò. - sbuffò.
- Certo... sono l'unica di cui ti fidi in questa città, mi pare ovvio che chiameresti me.-
- Non è vero, posso sempre chiedere un favore a Mandy. -
- Quello del mercatino della domenica? Il venditore di spezie turco? - domandò a raffica con un'ironia che solo lei riusciva a trasmetterti in maniera così eclatante, facendomi sbottare in una risata che dovetti soffocare con una mano davanti alla bocca per non stordire i compagni di corso. - Ma ti prego, quello sta lì solo perché prima o poi tu gli comprerai una qualche erba che ti manderà al ceratore con quella sua faccia che ride sempre, mi puzza. -
- Bhè... è un ottimo pusher. - la informai e intanto continuavo a ridere e a pronunciare a fatica quelle parole. - Una volta ho fumato una sua spezia con il narghilè e ho riso per i due giorni seguenti, ti ricordi? -
- Oddio ma che era la sera del post Oktoberfes? - chiese strabuzzando gli occhi e non riuscendo più a trattenersi dalla ridarella.
- Ahahahahah siii quella sera là! -
- Oddio che delirio. -
- Folli. -
- Tu con il narghilè, e io invece che ero talmente fuori che avevo cominciato a girare per casa tua con indosso le mutande in testa e cantavo con il telecomando sbarellando di qua e di là "Noo woman no cryy, no woman no cryy!". -
- Che spettacolo che eri! - finimmo di ridere e le strinsi la mano intrecciando le sue dita con le mie. - Grazie Kate. -
I suoi occhioni trapelavano bontà ad ogni battito di ciglia, era adorabile. Ancora, però, non mi capacitavo del perché non riusciva a trovare un ragazzo.
- Di nulla... -
- Senti, fai una cosa... alle 7:30 di questa sera, quando ho finito di lavorare, fatti trovare fuori dal bar così torniamo a casa insieme. Sinceramente non so quanto potrò reggere la botta della sua visione dentro il mio appartamento... - Le parole pesavano come macigni dentro di me, sia per un fatto di orgoglio sia perchè era la verità: non ero sicura al 100% di rimanere in uno stato mentale sano.
- Non c'è problema, sarò là alle 7:30 spaccate! - mi diede due colpetti sulla mano per rassicurarmi e sospirai sentendomi leggermente più sollevata.
Tornai alla lezione con il pensiero che almeno non sarei stata sola nel frangente in cui lo avrei rivisto.

Finite le mie ore di Part - Time, appesi il gilet rosso bordeaux nel piccolo sgabuzzino del bar, salutai JJ il mio superiore e uscii in fretta cercando Kate.
Lei era appoggiata alla portiera della mia macchina: una Chevrolet Spark verde mela come quella del film Transformers 2 e che tra l'altro avevo chiamato proprio come quella nel film "Skids".
- Dai non fare quella faccia da cane bastonato, non sarà poi così drammatica la cosa... - mi assicurò Kate.
- Ah bhè, se lo dici tu allora... - controbbattei sarcasticamente e di rimando mi fece la linguaccia mentre saliva dalla parte del passerggero.
Per tutto il tragitto rimasi in silenzio, nella mia bolla immaginaria del "Ci" ("l'equilibrio" in lingua cinese). Stringevo lo sterzo così forte che le unghie trafissero il palmo della mano.
- Stai calma Kim, stai calma... -
- Io sto calma. - ma più che una rassicurazione per Kate, sembrava più un'autoconvinzione che lo fossi veramente e continuai a ripetermelo in testa finché non arrivai nel mio garage.
Aprii il portone del palazzo e lo tenni aperto per far passare la mia amica.
- Scale o ascensore? -
- Scale. - risposi secca. Più allungavo la distanza fra me e la porta di casa e più mi illudevo che potevo tranquillamente aprirla senza trovare alcuna persona al suo interno.
L'eco dei tacchi risuonava in tutto l'androne, ad ogni scalino in cuore batteva sempre più forte fino a sentirmelo pulsare in gola.
Arrivata sul piano camminai fino a trovarmi la porta dell'appartamento di fronte.
"Interno 44", si era il mio.
Presi le chiavi dalla borsa e la mano cominciò a tremarmi freneticamente, mentre quella di Kate sulla mia spalla mi ricordò che non ero sola.
Fuori dalla porta non c'era segno di scatoloni o quant'altro che poteva rimandare ad un trasloco, ma questo non significava nulla.
"Fai che non mi senta male, fai come se lui non ci fosse" continuai a dirmi mentre giravo la chiave nella serratura.
Uno, due giri, la porta era chiusa probabilmente dall'interno.
La tensione saliva, il respiro era affannato, tachicardia presente.
La serratura scattò e aprii la porta spingendola quasi furtivamente, ma entrando avevo paura che tutte le emozioni represse degli anni passati si riversassero in un secondo.
Azzardai due passi in corridoio ma le luci erano spente.
- Entra Kate, è tutto spento non credo siano ancora arrivati. - gettai le chiavi su una mensola e sospirai di sollievo.
- Non c'è nessuno? - chiese curiosamente quasi non credendoci.
Vedendo la sua espressione attonita non potei fare a meno di sorriderle.
- Bhè, se non sono qua arriveranno fra poco tranquilla. Intanto finisco di sistemare un paio di cose in casa. -
- Ti aiuto? - le sentii chiedere mentre andavo in cucina.
- Magari, devo cambiare le lenzuola del letto e sistemare il bagno non ho avuto tempo stamattina di... - superata la porta ad arco che conduceva in salone, mi paralizzai. Le mie gambe erano bloccate così come le mani sul muro.
- Si non ti preoccupare ti aiuto io poi stasera possiamo... hey, perché ti sei ferm... oh... - Kate mi arrivò da dietro le spalle e non vedendomi dire una parola guardò in salone rimanendo sorpresa e sconcertata al tempo stesso.
Due paia di occhi ci fissavano: uno dei due mi sorrideva e salutò con la mano, l'altro invece non si muoveva di un millimetro e non battè ciglio.
Con la coda dell'occhio vidi che Kate guardava me e poi i ragazzi alternando e controllando ogni singolo movimento. Sapevo che se avessi fatto qualcosa di sconveniente o strano, lei mi avrebbe placata immediatamente.
Kate era una garanzia.
Poi gli occhi del ragazzo impassibile si chiusero, prese un respiro profondo come per prendere atto del momento e li riaprì all'improvviso.
- Ciao Kimberly. - disse tutto d'un fiato, come se quelle parole fossero di un'altra lingua difficilissime da pronunciare.
Ed eccomi, faccia a faccia con il passato. Quel passato che aveva promesso di non intralciarmi più la vita e che non sarebbe tornato, di cui non avrei più avuto notizia.
Ma la notizia, volente o nolente, era nuovamente parte di me.
- Ciao Bill. - aprendo e chiudendo i saluti con un tono di voce piatto e senza alcuna emozione.

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


Casa Keller
21 Ottobre
...
Era lì che mi fissava e niente più.
Cresciuto, più alto, capelli sempre corvini ma corti, trucco a go-go e una varietà di piercing che non mi erano familiari: sembrava che il tempo per lui non fosse passato, tranne che per un leggero aumento della massa muscolare che ricordava vagamente la sua reale età.
Non sapevo come spiegare quel momento perché in realtà non penso c'era nulla da spiegare e mentre focalizzavo una fiamma nel camino Tom fece volutamente un colpetto di tosse e ci fece tornare tutti coi piedi per terra.
- Magari, sempre se vuoi, potresti venirmi a salutare come si deve Kim. - aprì le braccia e vedendolo sorridere con quei due occhioni, come potevo resistere a quella faccia sorniona?
Corsi verso di lui lanciando la borsa sulla poltrona lisciando Bill che si spostò giusto un attimo prima dell'impatto e abbracciai Tom calorosamente quasi cadendo.
Anche lui era cambiato molto: aveva lasciato i lunghi dread per fare spazio a delle trecce spesse che gli ricadevano sulle spalle fino al petto, lo rendevano molto attraente e gli stavano davvero bene.
- E queste? - chiesi prendendone in mano una.
- Diciamo che ci sono state delle novità dall'ultima volta che ci siamo visti... - si giustificò ridendo.
Mi fiondai sul suo collo e lo abbracciai forte, lui ricambiò l'abbraccio nella stessa maniera: dopotutto ero stata la loro vicina di casa e insieme ne avevamo fatte di cotte e di crude.
Adoravo i gemelli, erano dei fratelli acquisiti e nessuno doveva provare a toccarmeli specialmente a scuola!
Forse tutto questo si era rovinato proprio per colpa mia e di Bill, forse non avremmo dovuto mai metterci insieme. Ma quello che era stato, era stato e siamo andati avanti non curandoci troppo del passato che avrebbe condizionato le nostre vite fin troppo profondamente.
- Ops, scusatemi. – mi ricordai improvvisamente. - Devo fare le presentazioni. - mi staccai dall'abbraccio girando intorno al divano e passando davanti a Bill senza degnarlo di uno sguardo per raggiungere Kate che tutto ad un tratto era diventata un po' timida.
- Lei è Kate, la mia migliore amica e loro come ben sai sono Tom... – che la salutò con un gesto della mano. - E... Bill. - che rispose al saluto facendo lo stesso gesto del fratello senza metterci troppa enfasi.
- Ciao Kate, piacere di conoscerti. - disse Tom da in fondo la stanza squadrandola per pochi secondi. Quei secondi che sapevo bene gli servivano per “analizzare” una ragazza e, a parer mio, sembrava annuire sorridendo soddisfatto.
- Piacere mio ragazzi. - e sorrise mettendo in mostra la sua dentatura bianca come la neve che scendeva fuori la finestra. Poi si rivolse verso di me e gesticolando, come era suo solito fare, si offrì di cominciare a sistemare la mia stanza che sarebbe diventata la loro.
- Si vai, adesso arrivo. Grazie mille Kate ti devo più di un favore. -
- Non ti preoccupare Kim, capisco la situazione. - detto ciò guardò di sfuggita Bill che ricambiò lo sguardo alzando impercettibilmente un sopracciglio. Lei, vedendolo, arrossì leggermente e distolse lo sguardo da quegli occhi che sapevo benissimo come riuscivano ad ipnotizzarti in maniera tanto rapida e veloce, quasi come il morso fulmineo di un serpente. - Ehm... vado allora, ti aspetto dillà. -
- Ok, due minuti e sono da te. - lanciò un ultima occhiata veloce al salone, questa volta evitando Bill e puntando Tom che le sorrise beffardo.
Mentre camminava verso la mia camera la seguii con lo sguardo, la vidi voltarsi un istante e farmi il segno dell'OK con una mano mimando un espressione sbalordita. Leggendo il labiale lessi "Tom".
 Sorrisi pensando a quante volte, per colpa di quel babbuino, l'avrei avuta a casa mia.
Ero con la spalla appoggiata al muro e tornai a guardare verso il divano, verso Tom precisamente. Sentivo gli occhi di Bill bruciarmi sulla pelle come carboni ardenti ma non me ne importava proprio nulla e mi ero promessa che ci avrei parlato il minimo indispensabile.
- Tom... – lo chiamai. - Posso abbracciarti di nuovo? E' talmente strano rivederti dopo tutto questo tempo che non mi sembra tu sia veramente qua! -
- Sorellona mia... - si sistemò meglio sul divano mettendosi seduto in una maniera quasi normale. - Il tuo Tom è pronto ad accogliere l'ennesimo abbraccio, vieni quaaaa... - mi incitò finendo la frase con una vocina stridula, che sinceramente, sentendola uscire da un ragazzone di un metro e ottanta (...e anche qualcosina di più), era davvero una cosa comica.
Mi incamminai nuovamente verso di lui passando davanti alle gambe chilometriche di Bill e mentre stavo per gettarmi sul ragazzo treccioluto qualcosa mi tirò indietro.
Voltandomi cercai di dare una spiegazione a quella mano scarna che mi si era avvinghiata al polso saldamente, imprigionandolo ed impedendomi di andare oltre.
Una delle cose che più non sopportavo era il proibirmi di fare qualcosa o di andare dove volevo, quando lo volevo.
Una rabbia mi salì dentro e il calore dell’intolleranza si propagò per tutto il braccio che avevo ancora libero facendomi inconsciamente stringere la mano a formare un pungo e a tendere tutti i muscoli in una fase di tensione nervosa.
Lo guardai fulminandolo letteralmente e lui, senza mollare minimamente la presa della mano, mi fissò dritto negli occhi, freddo, pungente e con una voce altrettanto aguzza mi chiese: - E a me? L’abbraccio non è concesso? – puntualizzò.
Tom, dall’altra parte, sgranò gli occhi e abbassò le braccia fino a posarle sui braccioli silenziosamente.
Sembravamo due pantere che stavano per azzuffarsi in una maniera tutt’altro che giocosa, più che altro la nostra lotta sarebbe stata come per la contesa di un pezzo di antilope che nel nostro caso era solamente un fattore di puro orgoglio da parte mia e di non so cosa da parte sua.
-  Lasciami. Subito. – gli ordinai facendo uscire quelle parole a denti stretti come un sibilo.
Continuò a guardarmi fisso per i dieci secondi successivi e io feci lo stesso non battendo neanche una volta le palpebre.
Mi faceva schifo e se non mi avesse lasciata immediatamente penso che il pungo che avevo in serbo presto sarebbe andato a segno sul suo bel nasino.
Prendendo atto di quanto fossi imbestialita, aprì la mano e mi lasciò andare, pur rimanendo in contatto visivo con i miei occhi. Questi non mi facevano più alcun effetto, non li vedevo come prima ma ad essere sincera per un frangete provai a ricercare all’interno di quelle iridi marroni un qualcosa che mi ricollegasse al Bill Kaulitz di cui mi ero innamorata follemente, ma non trovai nulla e fu come aver fatto un immenso buco nell’acqua.
Erano vuoti.
Appena allentò la presa tolsi frettolosamente il mio polso dalle vicinanze della sua mano e lui tornò a guardare il caminetto, giunse le mani e appoggiò i gomiti sulle sue gambe lasciando che il viso si appoggiasse a sua volta sulle mani giunte.
Tornai a guardare Tom i cui occhi erano illuminati dalle fiamme e ne riflettevano le sfumature rossastre, com’era bello il mio fratellone.
Mi sedei per terra, vicino a lui e cominciammo a parlare un po’ di tutto: della sua strana epidemia senza senso, della sua fuga dalla Germania e la voglia al tempo stesso di tornarci, le sue follie in America e soprattutto le ragazze americane. Ogni tanto Bill faceva qualche commento, tanto per ricordare che c’era e che era vivo ma per me fu come il ronzio fastidioso di una zanzara dentro l’orecchio mentre ti stai per addormentare. Assolutamente da scacciare via, oppure da ignorare nel mio caso.
Squillò il cellulare e corsi a rispondere.
- Scusami un secondo Tom, torno subito. – mentre cercavo il cellulare in borsa, Kate entrò in salone annunciando che la stanza era pulita e in ordine.
- Oddio scusami, Kate! – le dissi mettendomi una mano sulla fronte. – Mi ero scordata di darti una mano e… stavo parlando e… scusa… - il cellulare squillava nella mia mano.
- Rispondi Kim, non ti preoccupare. – mi sorrise teneramente.
Non c’erano parole, quella ragazza era assolutamente da sposare.
- Si, pronto? – risposi al Blackberry. – Davvero? Ah va bene allora scendo subito. –
- Chi era? – chiese curiosamente Kate.
- Era David. – i gemelli si girarono verso di me. – Ha fatto portare qui le vostre auto quindi devo andare a spostare la mia macchina dal garage, così mettiamo la tua dentro, chiusa e assolutamente nascosta! – dissi facendo l’occhiolino a Tom mentre mi infilavo l’impermeabile.
Presi le chiavi di Skids dalla borsa.
- Ti do’ una mano, aspetta. – propose Tom alzandosi dal divano.
- No, stai lì… da questo momento in poi dovrete cercare di uscire il meno possibile, almeno finché non ho ben chiara questa storia e capiamo fin dove abbiamo dei limiti da rispettare. –
- …mi pare giusto. – concluse Tom risedendosi.
Uscii dall’appartamento ed entrai in ascensore ravvivandomi i capelli con la mano. Cliccai il tasto per andare in garage ma le porte vennero bloccate e si riaprirono per far entrare proprio chi non desideravo avere accanto. L’ascensore si chiuse e cominciò a scendere.
Guardavo davanti a me in silenzio, lui invece batteva freneticamente la punta del piede per terra e ad un tratto:
- Tom ha detto che la sua macchina dovevo parcheggiarla io, ecco perché sono sceso. – si giustificò senza che gli avessi chiesto nulla.
- Ok. – dissi facendo spallucce.
Momenti di silenzio, poi:
- Sai… sono curioso di sapere se per tutto il tempo che abiterò qui tu non mi rivolgerai la parola oppure se sentirò almeno un “ciao” quando entrerò in quell’appartamento le rare volte che uscirò. – sbottò mettendosi davanti a me, costringendomi a guardarlo.
- Parlerò con te il meno possibile, è bene che tu questo lo sappia e che te lo ficchi bene in quella testolina vuota che ti ritrovi. – cominciai ad informarlo nella maniera più calma e pacata possibile, quasi sembravo una donna risoluta. – Poi se proprio lo vuoi sapere, no, non ho il piacere di fare ulteriore conversazione con te a meno che non si parli di tuo fratello o di ipotetiche cose che non trovi in casa mia e un’altra cosa… -
- Cosa? – mi chiese avvicinandosi.
Allungai la mano sul suo petto fino a spostarlo e a mantenerlo a debita distanza da me, ovviamente, senza provare niente tranne che una rabbia tenuta ben stretta al guinzaglio.
- Non provare mai più, e dico mai più in alcun modo o in alcuna maniera a toccarmi o ad impedirmi di fare una cosa. MAI! Sei a casa mia Kaulitz e starai alle mie regole, che ti piaccia oppure no. Brevi e necessarie conversazioni, utilizza casa mia come fosse la tua basta che mi eviti il più possibile perché ti assicuro che sarà ciò che farò io. – l’ascensore si fermò e uscii lasciandolo dietro di me.
David era in fondo al garage che aspettava tra due macchine: un’ Audi R8 e una Q7.
Bill salutò con la mano il manager.
- Hey Dav, come va? – chiesi andandogli incontro sorridente e abbracciandolo.
- Bene Kim, incasinato come sempre ma… bene! – rispose corrispondendo calorosamente al mio abbraccio. – E tu? –
Lo guardai e poi sbuffando spostai lo sguardo sul cantante che si aggirava intorno alla macchina del fratello.
- Ok, ho afferrato il concetto. Grazie ancora per quello che stai facendo, significa molto per me e per loro… anche se non lo ammetteranno mai. –
- Si, lo so che sono molto orgogliosi ma con me è diverso… almeno per quanto riguarda Tom. – dissi lasciando intendere quello che provavo per l’altro gemello.
- Ehm, direi di mettere dentro la sua macchina così sistemiamo anche questa faccenda e poi torno ad Amburgo. –
- Ad Amburgo? – esordimmo io e Bill all’unisono sbalorditi. Ci guardammo per un secondo, lui sorrise di sbieco, io lo fulminai e tornai a guardare David che era rimasto a godersi la scena apparentemente comica ad occhi comuni.
- Ma non dovevi pernottare in un albergo qui vicino? – chiesi.
- Si ma il problema è che il lavoro continua e qui non posso portare avanti determinate cose. Non ho ciò che mi serve e poi non posso rimanere a fare da balia a due ragazzi grandi e grossi! – mi accigliai.
- Certo, per quello ci sono io vero? –
- No, non dire così perché sai che non è vero. Comunque qui ho la lista delle medicine che Tom deve comprarsi e lui può andare in farmacia anche da solo, può camminare e muoversi autonomamente come anche quell’altro può fare. –
- Dell’altro non avevo dubbi, continua. – dissi storcendo la bocca.
- Bene, quindi questa è la lista. – mi diede un foglio con un sacco di nomi di medicinali e per me la calligrafia dei medici era qualcosa di crittografato, geroglifico da dover decifrare. Sgranai gli occhi quando la vidi.
- Ma, sono tutti antidolorifici. – notai con sorpresa. – Nessun antibiotico? –
- Finché non si sa da cosa è affetto è inutile somministrargli medicinali antibiotici. –
- Hai ragione, scusa. – chiusi il foglietto e lo misi nella tasca interna dell’impermeabile. – Ti sposto Skids. –
- Chi? – chiese come se cadesse dalle nuvole.
- E’ il nome che ho dato alla mia macchina, ora la levo dal garage così il Sig. Kaulitz… - l’improvviso rombo del motore dell’ R8 ci fece voltare entrambi mentre l’intero garage si riempiva di quel potente ringhio mettendo in risalto l’ennesima prova di egocentrismo di Bill. – Dicevo… così può mettere quell’astronave qui e io parcheggio fuori senza problemi. –
- Perfetto, io porto fuori quella di Bill allora. – annuii.
Portai fuori dal box Skids e feci passare Bill che dentro quel bolide, a parte tutto, faceva proprio una gran figura.
Spensi la macchina nel parcheggio sul retro aspettando che David coprisse con un telo per automobili la Q7 di Bill e alzando gli occhi al cielo vidi con disappunto che  le nuvole non promettevano nulla di buono: quella sera un temporale si sarebbe scatenato sulla città di Berlino.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto ***


Casa Keller

Ore 24:00

 

In casa tutto era silenzioso: l’unico lieve rumore che si poteva sentire era lo scoppiettio della legna nel camino. Kate aveva mangiato con noi e poi era tornata a casa sua ribadendomi che per qualsiasi cosa potevo chiamarla, anche all’una di notte. Il problema però era che non volevo disturbarla per farle presente la mia insonnia: avevo gli occhi spalancati tipo gufo e andavo avanti e indietro fra divano e frigo senza prendere o mangiare nulla, quasi avessi un tic. La verità era che non riuscivo a prendere sonno sapendo che avevo lui nel mio appartamento, anzi, in camera mia nel mio letto a due piazze avvolto nelle lenzuola e nel piumone. Forse a torso nudo, forse con indosso solo una maglietta leggera o forse…
Oh ma che ti prende!
Non dovevo neanche pensare certe cose nei suoi confronti! Non dopo tutto quello che mi ero ripromessa e dopo tutto il tempo passato a cercare di tenerlo lontano dalla mia testa!
Eppure c’era un qualcosa che era più potente di ogni resistenza che tentavo di utilizzare, che riusciva a superare l’immenso muro della voluta indifferenza e che nuotava liberamente nel lago di lacrime che avevo accumulato con il passare degli anni.
Probabilmente era solo un qualche attacco nervoso causato da sindrome d’abbandono o qualcosa di vagamente simile ma di una cosa ero certa: non dovevo permettere a questa “cosa” di farmi illudere nuovamente.

Farti illudere su cosa, esattamente?
Bene, adesso parlavo anche con la piccola Kim all’interno del mio cervello.
Sto impazzendo, lo sento.
Livello d’esaurimento? Ormai ha sconfinato verso l’infinito e oltre!
- Sto proprio fuori. E me lo dico anche da sola, sto doppiamente fuori! – buttai giù un sorso di Corona passivamente.
La pioggia batteva contro il vetro della finestra brutalmente, le gocce erano giganti e il rumore che facevano era alla pari di un chicco di grandine contro una persiana di ferro. Terribili.
Guardai fuori e di automobili neanche l’ombra.
A Berlino siamo soliti uscire in bicicletta o in metro semplicemente perché abbiamo degli ottimi mezzi pubblici e la macchina quasi non serve. Io sono l’eccezione alla regola.
Si, è vero, anche io utilizzo poco Skids per muovermi in centro ma rispetto ai normali berlinesi la mia macchina ha fatto più chilometri di quanto una Volkswagen riuscirebbe a fare in mano a qualsiasi altra persona in città.
Amo guidare, amo la velocità.
Mio padre ha la passione per le moto da corsa e quando può, insieme ad alcuni suoi amici, ne approfitta per andare a girare in pista al Nurburgring. Peccato che ha cominciato tardi a frequentare le piste motociclistiche, se avesse iniziato da piccolo chissà… la stoffa del campione ce l’ha sempre avuta in fondo.
Anche quando ha insegnato a Tom ad andare in bicicletta.
Un sorriso si dipinse sul mio volto rivivendo quei momenti.
Eravamo sulla via di casa nostra, che era anche quella della famiglia Kaulitz, e mi ricordo che mio padre mi aveva comprato una bicicletta bellissima rossa. La mia prima due ruote, un fulmine, una saetta.
Ero emozionatissima quando ci salii e affianco a me c’era Tom che guardava tutto con estrema venerazione.
Io, diciamocelo, non ero poi così brava quindi decisi di scendere e di far salire salire Tom che non sapeva ancora andarci benissimo.
Papà lo teneva dietro al sellino e lui cominciò a pedalare veloce, sempre più veloce, finché mio padre lo lasciò andare e lui sfrecciò via come se fosse nato per stare in sella ad una bici!
Era fantastico vederlo libero e felice, con quel sorriso che sprizzava gioia e purezza da ogni angolazione e vederlo adesso, in casa mia, con questa strana cosa che lo ha affetto costretto a nascondersi dalla gente è un paradosso.
Il sorriso sul mio voltò svanì a mano a mano che facevo chiarezza e il ricordo di Tom si affievolì, sparendo totalmente nel giro di pochi attimi.
Una strana sensazione di vuoto mi contornò.
Sorseggiai una seconda volta la birra notando che le goccioline formatesi sulla bottiglia mi avevano bagnato tutta la mano. Spostai la Corona nella mano asciutta e passai l’altra dietro al collo.
Il fresco dell’acqua mi riportò con i piedi per terra e lasciò che un po’ della mia ansia se ne andasse per conto suo.
- Hey… - mi voltai cercando di capire nella penombra del salone chi dei due fosse che aveva richiamato la mia attenzione. I battiti accelerarono e decelerarono improvvisamente quando focalizzai che Tom si presentò davanti ai miei occhi con un paio di pantaloni larghissimi di cotone e una canotta bianca.
Si passò una mano sugli occhi stropicciandoseli.
- Sei ancora sveglia? – chiese quasi dormendo.
- Si, non riesco a dormire. – dire la verità in certi casi è la scusa più plausibile.
- Vampira. –
- Come scusa? – forse avevo capito male.
Si avvicinò alla finestra dove la luce della città lo illuminò meglio: gli occhi un pochino gonfi dal sonno, le ciglia lunghe e folte, la sua altezza, le sue spalle larghe messe ancora più in risalto da quella canottiera e per finire in bellezza le labbra carnose.

Wow.
Si limitò a dire la mia coscienza e dentro di me risi a quel pensiero.
Io guardavo Tom come un fratello, non vedevo in lui una strana voglia di saltargli addosso come migliaia di ragazzine urlanti avrebbero fatto in un momento come questo, però non c’era nulla da dire perché metteva paura per quanto era bello!
- Vampira, vampira, vampira… non dormi mai, questa cosa ti è rimasta. Non è una sorpresa vederti sveglia Kim, anche quando abitavamo vicini la luce nella tua stanza era per la maggior parte delle notti accesa. –
Arrossii ripensando ai tempi che furono.
- Ti ricordi, eh? –
- Eh bhè, come potrei non ricordarmi… la tua luce mi perforava la finestra! Sono dovuto ricorrere alla mascherina da notte perché altrimenti avrei avuto delle borse, anzi no, delle valige sotto gli occhi non indifferenti! – disse sorridendo e muovendo le braccia.
- Avevi il sonno così leggero? –
- Io no per fortuna ma Bill non sai quante notti mi ha fatto passare sveglio mentre era affacciato a guardarti! –
- Che hai detto? – sembrava che cadessi dalle nuvole.
Lui mi osservò e proseguì, questa volta assumendo un tono della voce serio.
- Ehm, ok. Bill, quando abitavamo o per lo meno quando tornavamo a casa per quei brevi giorni liberi che ci erano concessi, senza che tu lo sapessi ha continuato a guardarti in finestra anche dopo… ecco… il messaggio, sai quello della… segreteria telefonica… -.
Gelo, fuoco e poi di nuovo ghiaccio.
Il mio volto passava dal rosso, al viola, al blu, al verde senza mai fermarsi.
Ringraziai il cielo che la stanza era buia o mi sarei nascosta con la testa sotto il parquet.
- Devo sedermi. – confessai.
Tom mi passò un braccio intorno alla vita e mi fece sedere affianco al camino. Il calore delle fiamme avvampò su di me in breve tempo e quel tepore mi tranquillizzò.
Riportare a galla certe cose era una cosa difficile da mandare giù, però ora volevo sapere.
Il fratellone si sedette a gambe incrociate sul tappeto con me e guardandomi preoccupato disse:
- Mi dispiace averti ricordato queste cose ma… se non lo faccio ora non lo farò più. –
- Cosa intendi dire con questo? – chiesi con sguardo interrogativo.
Sospirò.
- Sai, non è facile vivere come me e Bill. Non penso che se prendessimo una persona a caso e le facessimo rivivere il rapporto che avevate questa si giustificherebbe in altra maniera da come ha fatto mio fratello. – per qualche secondo si girò a guardare nel camino, poi tornò a me. – Quando siamo andati via lui non sapeva come fartelo sapere e cercò in ogni modo e maniera di venirti in contro prima della partenza per poterti parlare, ma vedendoti così entusiasta di lui e così innamorata, non ebbe il coraggio di parlarti. Poi ci fu l’incidente… - brividi. - Un’orrenda casualità, vero, ma un’opportunità d’oro per inventarsi qualcosa. Bill improvvisamente perde la memoria, succede quello che succede e poi non hai più notizie nostre per due giorni. In quei due giorni non sai e nemmeno puoi immaginarti come stava conciato… era un automa che vagava per il bus come un’anima in pena. Vedendolo in quelle condizioni non potei fare a meno di esporgli la mia idea del messaggio… -
- Sei stato tu! Tu gli hai permesso di lasciarmi così? – mi alzai improvvisamente in piedi portando le mani al viso, trattenendo le lacrime che stavano per sgorgare irrimediabilmente.
- Non c’era altra maniera Kim! Lo vuoi capire? –
- Poteva semplicemente dirmelo, non sono un mostro non lo avrei mangiato! –
- Ma avresti pianto come stai facendo ora e lui era proprio questo che non voleva! Non avrebbe sopportato di farti piangere per colpa sua! –
- Queste sono lacrime di rabbia, cretino! – gli urlai contro sempre tenendo un tono moderato perché non volevo che Bill in camera mia si svegliasse o sentisse la discussione.
Tom si immobilizzò sentendomi esordire con quella parola e aspettò che mi calmassi.
Andai in cucina e feci scorrere l’acqua fredda dal rubinetto del lavandino, presi un bicchiere e lo riempii bevendo tutto d’un fiato.
Tornai a sedermi davanti al camino.
La pioggia scendeva ancora rabbiosa su Berlino e la sua musica accompagnò i nostri respiri per il successivo paio di minuti.
Il respiro mi tornò regolare e sfiorai il braccio di Tom, quasi come per scusarmi dell’ira improvvisa.
- Come va? – chiese comprensivo.
- Stavo meglio prima ma… continua Tom, devo sapere. –
- Ok, mi pare giusto che tu debba sapere certe cose. –
- Già. – annuii.
- Allora, dopo la mia idea… - mi guardò di sottecchi per vedere se avessi avuto un’altra delle mie sfuriate ma io rimasi calma e impassibile. – Bill capì che forse era l’unica via d’uscita possibile. Scrisse tutte le pagine di un intero quaderno sull’ipotetico discorso che poteva farti ma non trovò nulla che andasse bene per non farti soffrire e al tempo stesso per metterti al corrente della situazione. Un giorno prese in mano il telefono e compose il tuo numero, così, senza fogli vari o frasi appuntate e ti disse ciò che sai… -
Feci di si con la testa spronandolo a continuare a parlare.
- Un volta chiusa la chiamata si sedette stremato su un divanetto dell’autobus e rimase là, a guardare fisso la strada che scorreva veloce. Io non riuscivo a parlargli perché,
sinceramente, non sapevo cosa dirgli o come fargli pesare meno la cosa. Avevo paura che per una minima parola sarebbe scoppiato come un pop – corn vicino al fuoco! –
- Wow che paragone… - dissi ironicamente per alleggerire l’atmosfera.
Avevo fatto un passo avanti: riuscivo a parlare dell’argomento senza esplodere in un pianto teatrale e per di più sapevo scherzarci sopra!

Brava!
Grazie.
- Eh bhè che vuoi, la vena artistica da poeta ce l’ha mio fratello io mi limito a strimpellare… - lasciò il discorso sospeso e mi guardò con occhio furbetto.
- Si si ho capito dai… fai meno lo spavaldo sex – gott che con me non attacca e vai avanti! – rise alla battuta e mi diede una bacetto sulla guancia.
Tom è sempre stato un donnaiolo fin da piccolo, però mi faceva impazzire quando veniva in casa mia e mi raccontava delle sue fidanzatine delle medie chiedendomi consigli su come conquistarle.
Dietro quella maschera da super figo, c’è sempre stato il Tom dolce e un po’ bambagione che in realtà nessuno si aspetta da uno come lui. L’apparenza inganna.
- Quindi è così… il tempo poi scorre, cerchi di andare avanti non pensando troppo al passato che avrebbe deviato tutto eppure ogni anno che passa, quel preciso giorno che ti ha lasciato il messaggio in segreteria, lui è di un triste e insopportabile assurdo! Ti giuro! Non puoi stargli vicino anche perché si rifugia da qualche parte e sparisce, puff! – ero sorpresa nel sentirmi dire queste cose. – Io sono strano, ma lui mi batte alla stragrande, credimi! – disse quasi scandendo parola per parola.
- E’ strano… ho passato gli ultimi anni a cercare di capire se avessi sbagliato qualcosa, facendo mea culpa per essere stata troppo ingenua ad aver creduto ad una storia così folle eppure Tom, anche se mi ha ucciso dentro e se n’è andato senza dire nulla, anche se tutto quello che aveva detto si è dileguato in un nano secondo con quel maledetto messaggio… ti sembrerà una pazzia ma… - non ero sicura di doverlo dire ma in fin dei conti era Tom, i nostri segreti erano nostri, se gli dicevo di tenerselo per sé non lo avrebbe mai detto a Bill giusto? Oh ma al diavolo tutto, glielo dico! – Io non ho mai smesso di amarlo, adesso però è diverso. Ho capito che per andare avanti non ho bisogno di lui, mi sono fatta una vita e sto studiando per realizzare i miei sogni dove Bill non ne fa più parte, prima magari era il protagonista della mia favola incantata come quelle scritte sui libri ma le favole rimangono tali… questa è la vita reale. –
Tom non poté fare a meno di annuire al mio discorso logico rimanendo muto.
- Quindi… - proseguii. – Sono contenta che per lui ho significato qualcosa e che ricorda ogni anno l’anniversario della nostra “rottura telefonica” – mimai le virgolette con le dita mentre mi alzavo lentamente da terra. – Ma Bill non è niente per me adesso se non un ospite in casa mia, scusami Tom ma è così. –
Prima che potessi aggiungere altro, Tom mi fermò con la mano il polso proprio come aveva fatto il fratello il pomeriggio dello stesso giorno, solo che lo fece in maniera molto più delicata.
- Kim… - espirò rumorosamente. – Se solo Bill sa che ti sto dicendo questo mi ucciderebbe in maniera lenta ed atroce… -
- Addirittura? –
- Già, proprio così quindi farmi il favore di stare un secondo zitta e sentimi! – rimasi allibita da quel fare di Tom così sicuro e determinato.
- Ok, ti ascolto. –
- Bene… prima di entrare da quella porta – indicò l’ingresso dell’appartamento. – Bill è rimasto a fissarla per un’ora e mezza, minuti contanti da me medesimo, chiedendo se era stata una buona idea di far venire David a chiederti una mano oppure se potevamo prendere baracca e burattini e trasferirci da mamma. L’ho bloccato mettendogli le mani sulle spalle e gli ho dato una bella scrollata, era diventato una cosa allucinante. Kim, te lo dico, Bill sta impazzendo e quello che ti chiedo di fare è solamente di salutarlo o di parlarci qualche volta perché sai anche tu com’è fatto: se non c’è nessuno che se lo fila diventa schizzato e per di più se chi non gli dà importanza se tu, figuriamoci! –
- Ma perché dovrei parlarci quando non ho nulla da dirgli se non di starmi lontano!? Tom, mettiti nei miei panni… cosa faresti tu? Gli parleresti come se niente fosse o ci
penseresti due volte prima di rivolgergli la parola? –
- E tu, Kim? Mettiti nei suoi panni… che faresti se colui che hai sempre amato e sei stato costretto a lasciare non ti rivolgesse più la parola per un banalissimo e superficiale fattore d’orgoglio? –
- Non è orgoglio! –
- Oh si che lo è altrimenti lo capiresti! –
- Io Bill lo capisco benissimo! –
- Non dire cose di cui poi potrai pentirti perché di Bill ti sei persa un bella fetta di vita… -
- E l’ho voluto io secondo te? Io sarei partita con voi, sarei partita con lui se solo me lo avesse detto e mi avesse dato il tempo di organizzarmi! –
- Avevamo solo diciassette anni, non potevamo capire cose che riusciamo a malapena a comprendere adesso che ne abbiamo ventuno. –
- Forse si, se me ne aveste dato l’occasione! – Tom mi lasciò andare il polso che sembrava aver preso la forma delle sue dita, era così indolenzito che dovetti sfregarlo per riattivare la circolazione.
Si alzò, mi guardò senza dire nulla e fece per andarsene quando si voltò e tornò indietro.
- Di tutte le donne che ho conosciuto e che ho avuto il piacere di avere con me, tu sei stata l’unica che non mi ha mai attratto in quel senso… – lo guardavo non capendo ancora dove voleva arrivare. – Sono passati un sacco di anni ma questo non mi impedisce di dirti che stai facendo una grandissima cavolata. Non capisci, almeno non ancora. Parli con la rabbia nel cuore esponendo solo quello che vedi tu non cambiando prospettiva alle cose e questo ti fa vedere tutto nero. Mi sento come se fossi veramente parte della tua famiglia e tenendo fede a questo ruolo mi permetto di darti un consiglio che spero seguirai saggiamente: Bill ti ama… - a quelle parole sobbalzai e il cuore sembrava aver perso i suoi battiti, il fiato mi si mozzò in gola e le gambe cominciarono a tremarmi. - Anche adesso che sta dormendo sono sicuro al 100% che sta sognando te. Avete sofferto tantissimo entrambi durante questi anni, perché non cercate di mettere fine a questa storia? Non dico che dovete tornare insieme, tutti e due siete troppo cambiati, però fare chiarezza può essere l’inizio della fine di questo periodo di dolori. Non voglio più vedervi stare male, ok? –
Annuii deglutendo.
- Promesso? –
Annuii di nuovo.
- No, parla, voglio sentire uscire “si, lo voglio” da quelle tue labbra a cuore! –
- “Si, lo voglio”? –
- Si… lo devi volere altrimenti non ha senso. –
- Senti Tom, non so da dove ti sia uscita tutta questa saggezza o se hai fatto qualche gita spirituale sulla Muraglia Cinese ma va bene, te lo prometto e si… lo voglio! – dissi con un solo respiro.
Sorrise compiaciuto.
- Perfetto ora posso andare a dormire… -
- Aspetta un momento, tu ti saresti alzato per parlarmi? –
- In realtà ho aspettato che Bill cadesse in fase rem per venire di qua e svegliare te saltandoti con i piedi sulla schiena ma tu lo eri già e quindi mi hai anche levato il divertimento della serata oltre che avermi sottratto del tempo vitale al mio sonno ristoratore! Grazie tante… buonanotteeee –
- Buonanotte Tom. – gli augurai mentre lo vedevo sparire dietro l’arco.
La porta della stanza si chiuse e io rimasi sola con i miei pensieri…

Cosa pericolosa.
Mh, forse… ma almeno adesso sapevo che in fondo Bill non poteva fare altro, forse aveva agito veramente nel miglior modo possibile e magari avevo esagerato a comportarmi mettendo paletti così spessi sulla mia immaginaria linea di confine tra me e lui, però non volevo trarre conclusioni affrettate. Come aveva detto Tom “mi sono persa una bella fetta di vita di Bill”, quindi non ero sicura di riuscire a ritrovare in quel Bill nuovo il mio vecchio modello, ci avevo già provato e il primo tentativo era decisamente fallito!
Oh cavolo!
Mi ero scordata di dire a Tom di non fare parola con Bill di quello che gli avevo confessato…e  adesso?
Naaa, tranquilla Kim, Tom è muto come una tomba.

Ma lo sappiamo tutti che fine ha fatto “Tranquillo”, vero Kim?
Si lo so… a furia di stare tranquillo, Tranquillo è morto eheh.
Ok. Seriamente. Dovevo finirla di parlare da sola!
Mi sistemai sul divano e chiusi gli occhi aspettando l’arrivo del sonno, lasciandomi cullare dal suono del diluvio che ormai andava scemando e dal vento che sibilava all’interno del caminetto.

 

Note: vorrei ringraziare tutte le lettrici che stanno seguendo questa Fan Fiction e tutte coloro che hanno anche utilizzato parte del loro tempo per commentarla!
Sono molta contenta che questa mia storia vi piaccia ma dicendo così ho solo paura di scrivere cose già
lette e scritte da miriade di autrici quindi, quale modo migliore di ringraziarvi se non con un altro capitolo e un grandissimo GRAZIE MILLE di cuore!

Tra queste lettrici ricordo:
ZoomIntoMe (la prima ragazza che ha commentato la FF ^_^); 
UnleashedLIEBE
(tranquilla che Tommaso vivrà più sano di come lo conosciamo! :D);
Marty_483_
 ( che ha scritto non uno ma ben due commenti alla storia e di questo sono davvero emozionata **) e poi per ultima ma non meno importante delle altre…  
ilenia91dorough (non vedo l’ora di leggere I tuoi prossimi capitoli!!!)
Grazie a tutte voi che continuate a seguirmi e a mettermi voglia di scrivere ancora, e ancora, e ancora, e ancora…

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto ***


Casa Keller
22 Ottobre
Ore 5:30
 
Mancava poco al compleanno di Kate e sapevo già cosa regalarle, il fatto era che dovevo accompagnare Tom all’ospedale per gli accertamenti e il negozio dove dovevo andare era da tutt’altra parte. A meno che non mi fossi clonata, era difficile che riuscissi a fare entrambe le cose in tempo.
La colazione era già pronta sul tavolo: il caffè fumante, i cornetti del bar che avevo comprato poco prima e le finestre aperte nella speranza che un qualche lieve fascio di luce penetrasse attraverso le tende ma le mie speranze erano vane e la mattina sembrava essersi scambiata di posto con la notte.
Aprii la porta-finestra che dava in balcone e una ventata di aria pungente mi investì il viso. Uscii fuori stringendomi addosso la mia solita coperta di pile, appoggiai i gomiti sulla ringhiera e respirai profondamente.
La quiete dopo la tempesta.
Il fruscio del vento fra gli alberi e le loro foglie ormai ingiallite, rossastre, che cadevano a poco a poco lungo le strade creando un uniforme tappeto multicolore. In lontananza si cominciavano a vedere le prime persone uscire di casa per andare a lavorare, gli spazzini che erano all’opera da un bel pezzo e le luci che illuminavano le strade notturne si spensero all’improvviso, segno che una nuova giornata stava per iniziare nella torbida Berlino.
Torbida, forse non era la mia città ad essere così, forse ero solamente io che dentro di me avevo qualcosa che non andava e di riflesso ogni cosa che mi circondava prendeva queste sembianze, le mie sembianze.
 
- Buong-g-g-iorno. – mi voltai e vidi un Tom insonnolito sfregarsi le braccia velocemente per compensare al freddo mattutino – F-forse potremmo chiud-d-ere la fines-s-tra, ti s-s-piace? -.
Corsi dentro chiudendo al volo i vetri – Ops, scusa. –
- Non ti preoccupare, figurati, per così poco… stai già facendo tanto per noi. – centocinquanta? Si, forse questa frase l’avrò sentita più o meno centocinquanta volte, se non di più.
- Dai Tom, siediti e bevi un cappuccino bello caldo è appena fatto. –
Tom si sedette a tavola e prese fra le mani la tazza ancora fumante. Una volta che la sua pelle entrò in contatto con il calore della ceramica, tutto il suo corpo si rilassò e anche l’espressione del suo viso divenne più morbida.
- E questi? – chiese indicando i cornetti.
- Un piccolo regalino… non ti ci abituare. – rise e afferrò il fagottino al cioccolato.
- Tu non fai colazione? – la sua bocca si era magicamente riempita di cioccolata e le parole uscivano come soffocate dalla pasta del cornetto.
- No, la mattina generalmente la faccio al bar dell’Università con Kate, oggi però mi avete dato l’opportunità di riutilizzare la moca dopo una vita! –
- Sono contento di ciò, a proposito il caffè è ottimo! –
- Sono contenta di ciò – risposi con la sua stessa intonazione facendogli l’occhiolino.
- Ehm ehm, mi faresti un favore? –
- Dimmi, però che sia una cosa veloce. Dobbiamo essere all’ospedale per le 6:30 oppure rimaniamo lì dentro per tutta la giornata. –
- Si si è una cosa velocissima… - disse mentre fissava le ondine del caffè che si formavano quando girava il cucchiaino.
- Allora dimmi. – lo incitai a continuare.
- Mi sveglieresti Bill? – chiese con una semplicità estrema.  Per lui era la cosa più cretina del mondo ma per me era una missione ardua da portare a termine.
Sbuffai. Guardai a terra con le mani posate sui fianchi come se non credessi che lui mi avesse chiesto di fare una cosa del genere. Alzai gli occhi e incrociai i suoi che mi fissavano con aria di sfida.
Tom alzò una mano e con l’indice mi suggerì di andare verso il corridoio, lo guardai per altri secondi senza dire nulla rimanendo saldamente nella mia posizione e la sua mano cominciò a fare avanti e indietro da me verso il corridoio. Pareva una specie di segnale stradale squilibrato.
- Ok ok, va bene ci vado. – mi incamminai con passo deciso senza voltarmi a guardare la faccia di Tom che di sicuro, mi ci sarei giocata le mutande, aveva stampato in faccia un sorriso da gongolone.
“Ma guarda te, mi tocca fare pure da balia a dei ventun’enni. Devo pure svegliarlo adesso! Cos’altro vuole che faccia, che gli porti la colazione a letto?”
Arrivai davanti alla porta e mentre stavo per aprire la maniglia ed entrare dentro la stanza a passo di carica per svegliarlo con un urlo agghiacciante in “sergente Snorkel style”, mi fermai e capii che non sarebbe stato da ragazza matura fare una cosa del genere. Accoglierli in casa propria e poi svegliarli come se fossero in caserma, era un po’ un controsenso.
Bussai dolcemente sperando che all’interno una qualche voce parlasse così io potevo tornarmene in salone con la consapevolezza che era già sveglio, invece no, nessuno rispose dall’altra parte.
Sfiorai la maniglia e abbassandola cominciai a respirare lentamente chiudendo gli occhi.
 Spinsi la porta di poco, quel poco che mi bastava per vedere dentro: il mio letto era nella penombra e l’alba stava sorgendo fuori dalla finestra. La parte dove aveva dormito Tom era vuota e disfatta mentre affianco c’era un cumulo di coperte che si gonfiavano e si sgonfiavano in maniera impercettibile.
Entrai chiudendo alla spalle la porta e un aroma dolciastro mi invase le narici. Sembrava una specie di deodorante, o un qualche dopobarba… mi piaceva.
Cercai di girare intorno al mio letto a baldacchino per raggiungere Bill facendo attenzione a non inciampare nelle loro valige che erano disseminate disordinatamente sul pavimento.
“Mio Dio che caos!”
Poi lo vidi, vidi quella specie di creatura fantastica che aveva riempito la mia vita passata: Bill assolutamente senza un filo di trucco, con i capelli sbarazzini sparsi un po’ ovunque sul suo viso e le coperte tirate fin sotto al mento. Era davvero fantastico e non potei fare a meno di guardarlo per una manciata di secondi. In quei pochi attimi ero riuscita a rivedere in lui il vero Bill Kaulitz.
Scossi la testa e mi inginocchiai vicino al letto, davanti al suo splendido viso.
“Non mi ricordavo che fossi così bello. Dietro a tutto quel trucco, in fondo, si nasconde sempre il solito ragazzino che mi riempiva di fiori la cassetta della posta… ma sei cambiato. Pure se all’esterno mi ricordi quel bambino, al tuo interno non trovo nulla che mi ricolleghi al vecchio Bill. Eppure c’è qualcosa che non riesco a capire… qualcosa di te… qualcosa che credo non capirò mai a questo punto.”
Sospirai. La tentazione di sfiorare quel viso era effettivamente tanta ma sollevata la mano verso un suo ciuffo corvino mi resi conto che non potevo farlo: qualcun’altra avrebbe avuto il compito di stargli accanto e di aiutarlo nei momenti bui, qualcun’altra lo avrebbe tirato su di morale quando era triste, qualcun’altra sarebbe stata la sua lei, non io. Io non lo ero più da un pezzo e non volevo commettere lo stesso errore.
Non volevo più soffrire.
Ma allora… perché quella qualcun’altra che lo stava svegliando ero io?
Puro e semplice altruismo.
Parlò la mia coscienza che in fondo non aveva tutti i torti.
Sovrappensiero non mi resi subito conto che Bill aveva cominciato a muoversi. Scattai in piedi come una saetta e tornai dalla parte del letto disfatta.
Bill si stiracchiò.
- Tom, sei sveglio? – la voce era leggermente cavernosa e la sua mano tastò il cuscino in cerca del fratello ma non trovandolo aprì bruscamente gli occhi guardandosi intorno.
Parla, cavolo, parla. Dì qualcosa!
- Ehm, no Bill… Tom è a fare colazione io sono venuta qui perché… ecco, perché… - cosa mi inventavo? Non potevo dirgli che ero là perché dovevo svegliarlo e che ho passato la maggior parte del tempo a guardarlo lottando contro me stessa per non farli una carezza, sarebbe stato troppo imbarazzante! – Ecco, sono qui perché Tom mi ha chiesto di portargli il cellulare e… oh, eccolo qua, meno male! – afferrai un oggetto dal comodino di Tom ma nel buio non avevo proprio la minima idea di cosa avessi preso. – Adesso ti lascio solo così ti vesti, scusa ancora se ti ho svegliato… ci vediamo dillà. – uscii di fretta dalla stanza, lasciando Bill seduto sul materasso.
Ti sei pure scusata?
Ah, lascia stare.
Andai in salone e trovai Tom che inzuppava un secondo cornetto nel suo cappuccino.
Mi sedetti a tavola e il suo sguardo allibito si posò su di me.
- Tutto ok? – chiese moderando le parole.
- Ehhh si. – feci spallucce e gli sorrisi come un’ ebete schizzata. Sembravo appena uscita da un ricovero per  ipertesi!
- Ah, capisco. Allora, scusa la domanda, ma… perché vai in giro con un telecomando in mano? –
Rimasi lì senza dire nulla, a pensare a cosa aveva appena detto, poi mi guardai fra le mani e il telecomando della TV che era in camera mia mi si parò davanti agli occhi.
- BENISSIMO! – dissi ironicamente.
Poco dopo Bill ci raggiunse in salone.
- Ciao brò. – salutò Tom.
- Buongiorno. Ho bisogno di caffè, tanto caffè… - sbadigliò.
- Prendo una tazza e te lo verso subito, cappuccino o solo caffè? - chiesi a Bill con nonchalance facendo finta di niente riguardo a quello che era accaduto poco prima e frugando dentro lo scolapiatti una tazza pulita.
- Cappuccino, grazie. –
- Zucchero? –
- Un cucchiaino mi basta per carburare, almeno credo. – si passò una mano sulla spalla e fece una mezza smorfia di dolore.
- Io stanotte ho dormito da re! Seriamente Kim, il tuo letto è una favola! – mi voltai per squadrarlo e non capivo se in quella sua affermazione c’era un doppio senso voluto o era più un volermi ricordare la discussione della sera precedente davanti al caminetto.
Portai il cappuccino a Bill che era ancora in piedi con le mani appoggiate allo schienale della sedia.
- Ah Tom, prima che mi ci sieda sopra… - disse, attirando sia la mia attenzione che quella del fratello – Tieni. – tirò fuori un IPhone da una tasca dei suoi jeans e lo posò affianco al braccio del treccioluto. – Credo che Kim si sia dimenticata a cosa serva un telecomando... – disse con un sorrisetto beffardo girandomi intorno.
Io rimasi immobile, paralizzata dalla paura che Bill aveva intuito il mio stato d’animo.
Oh ma al diavolo tutti questi trip mentali! Vivi come capita!
Giusto.
- Si, ho sbagliato lo so, ma una volta uscita dalla stanza non ho voluto rimetterci piede perché sapevo che ti stavi cambiando. – risposi stizzita.
Bill si sedette tranquillamente e cominciò a mangiare.
- Come vuoi, ma non ti inquietare perché non sto pensando a nulla… comunque grazie per i cornetti. – lo disse sorridendo quasi mi stesse prendendo per i fondelli.
- Prego. – alzai gli occhi al cielo e feci per andare in bagno.
- Kim ma… -
- Si? – mi girai nuovamente verso Tom. Se continuava di questo passo a chiamarmi ogni tre secondi, avrei rischiato di lì a poco un micidiale colpo della strega!
- Ecco… dicevo, quella tua amica… -
- Kate? –
- Eh, si lei. Non è che mi accompagnerebbe a fare le analisi? –
- E perché mai dovrebbe? Hai il tuo taxi personale, cos’è, non ti fidi? – a che vantaggio far andare Tom con Kate, perché mai? Non aveva senso.
- Non capire male, è solo che… sai… ieri quando è stata con me mentre tu e Bill stavate sistemando le macchine con David, parlando… mi aveva dato la sua disponibilità per accompagnarmi stamattina. –
Non potevo crederci.
- Mi stai dicendo che hai bisogno che qualcuno anzi qualcuna, una a caso, ti accompagni all’ospedale e rimanga con te tutto il tempo per poi riportarti a casa? Ma quanti anni hai, due? Scusami ma le cose non mi quadrano eh! Io pensavo che… vabè, tanto che penso a fare, conoscendo Kate se adesso la chiamo ci sono l’80% di probabilità che sia già qua fuori la porta. – presi il cellulare.
- No dai non chiamarla, se poi dorme? –
- Si sveglia, non è un problema quello… siamo abituate a chiamarci presto per le cose dell’Università. –
Composi il numero e portai il BB all’orecchio.
- A che ora le avevi detto di stare qua? No, scusa, riformulo la domanda: a che ora le hai detto che partivamo da casa? –
- Alle 6:00. – diedi una rapida occhiata all’orologio: le 5:50. Kate era di sicuro fuori casa mia.
- Comunque non capisco, potevi benissimo dirmelo che volevi andare con lei Tom, lo sai che non ho di questi problemi. Però detto così non mi dai neanche il tempo di organizzarmi la giornata. –
- Scusa… - fece una faccetta triste e mi sentii quasi in colpa per averlo “sgridato”.
- Fa niente… oh ciao Kate, scusa se ti chiamo a quest’ora, so che oggi non abbiamo i corsi ma per caso… non è che stai venendo qua? – sorrisi sorniona quando disse che era ad aspettare Tom vicino la mia macchina. – Si si, me l’aveva detto tranquilla, me l’ero solo dimenticato non importa… ok, quindi andate voi due io farò altri giri in centro. Ci vediamo dopo a casa mia, rimani per cena? Perfetto. Un bacione tesoro. – chiusi la telefonata.
- Sbrigati che ti sta già aspettando nel parcheggio. – Tom si alzò facendo muovere tutto il tavolo e il cappuccino di Bill cadde sulla tovaglia pulita.
- TOM! – Bill alzò le braccia in aria infuriato.
- Scusa, scappo, ciao ragazzi divertitevi qualunque cosa vogliate fare oggi! –
“Divertitevi? Ma che pensava dovessi fare?”
- Ciao. – la porta d’ingresso si chiuse e Tom se ne andò portando via con sé anche quel poco chiasso che c’era in casa. In salone scese il silenzio.
Bill tamponò con della carta da cucina il latte versato, e vedendolo sclerare mentre non riusciva a ripulirsi la maglia mi avvicinai e lo aiutai senza pensarci due volte.
- Lascia stare, tanto questa ormai la dovrò lavare. E’ zuppa di caffè! – presi dalle sue mani la carta intrisa di latte e la gettai nella spazzatura. – Aspetta qua, vediamo se riesco a fare un miracolo… -
Con una spugnetta bagnata tornai da Bill che non si mosse di un centimetro e cominciai a strofinargliela delicatamente sulla macchia che lo aveva segnato proprio in mezzo al petto. Feci dei movimenti rotatori per togliere le sfumature del caffè ma se continuavo solo a trattarla dall’esterno, non sarebbe mai andata via.
Il suo petto si alzava e si abbassava sotto la mia mano e il suo respiro mi accarezzava i capelli.
Una strana sensazione mi percosse e quella voglia matta di accarezzarlo tornò a farsi più viva che mai.
- Bill, se continuo a strofinarla mentre la stoffa è attaccata alla tua pelle, non penso che andrà via facilmente. – precisai.
Il fatto era un altro: non stavo solamente cercando di spiegare a Bill “qual’era la drastica situazione della sua maglietta”, ma in verità facevo tutto quello solo per poterlo sfiorare, solo per sentire il suo contatto con la mia mano… dopo così tanto tempo….
- Devo toglierla? – mi chiese ingenuamente.
- No, tienila ma basta che rimani fermo. –
- Ok. – presi un bel respiro senza che se ne accorgesse.
Scesi molto lentamente con la mano libera fino ad afferrare la parte bassa della sua maglietta e sempre molto lentamente la portai sotto la stoffa.
Bill rimase muto e immobile come una statua.
La sua pelle pareva andare a fuoco sotto la mia mano e il suo addome era piatto, liscio, ovviamente tutto questo doveva sembrare un caso quindi non potevo soffermarmi tanto. Salii con la mano fino al suo petto e la poggiai proprio dov’era la corrispondenza della macchia sulla maglia, così il tessuto si sarebbe tirato e sarebbe svanito tutto.
La stoffa della maglietta si era talmente tirata su che Bill era coperto solo sulle braccia e sulle spalle.
Ero distratta, il calore che sprigionava era paragonabile ad un termosifone, era caldissimo e il suo respiro continuava ad avvolgermi. Inconsciamente stavo chiudendo gli occhi e la spugnetta cadde dalla mano.
- Kim… ti senti bene? – mi prese tra le sue braccia e io rinsavii.
- Si scusami, forse non fare colazione non è stata una grande idea. – buttai lì una scusa.
- Non hai ancora mangiato? –
- No… ma non importa, ora esco e mi prendo qualcosa al bar, tu oggi hai tutta casa per te quindi vedi di non fare danni! – ero tornata quella di sempre. Presi la borsa, misi dentro il cellulare e cercai le chiavi della macchina.
Bill abbozzò un sorriso sbieco e poi tornò di nuovo serio.
- E se ti accompagnassi? –
Lo guardai sorpresa con le chiavi sospese a mezz’aria.
- Vorresti accompagnarmi? –
- Perché no, dai, aspettami un secondo che prendo il giacchetto. Dove andiamo? – continuavo a seguirlo con lo sguardo finché non sparì in camera per poi riuscire dopo pochi minuti con una maglietta pulita, un cappotto nero lungo a ¾, una sciarpa grigia e un berretto  scuro. Che fantasia!
- Un paio d’occhiali a mosca e sei pronto per entrare nei M.I.B.! – gli dissi scherzando.
- Io farò pure parte dei Men In Black ma tu che vai in giro quasi senza nulla che ti protegge, bhè… sei incosciente, ecco perché te ne metti una anche tu. – Inaspettatamente una sciarpa di lana bianca e nera mi si attorcigliò intorno al collo.
- Ma è più grande di me! – era una cosa immensa, sembrava un paracadute arrotolato. I pelucchi della lana mi entrarono in bocca e fui costretta a sputacchiarli via ma si erano appiccicati alle labbra e alla lingua, impossibile levarli tutti.
- Forza, forza usciamo! – Bill mi spinse oltre la porta d’ingresso e una volta chiusa a chiave, mise le chiavi nella tasca del mio cappotto.
Da dove usciva tutta quell’euforia!?
Rideva, era felice.
Tom era in ospedale e lui era felice?
Ma che COSA CONTORTA erano i Kaulitz?
- Comunque ancora non mi hai detto dove andiamo. – domandò mentre scendeva i gradini a due a due.
- Se proprio lo vuoi sapere, devo andare a fare compere nel tuo settore. – mi guardò incuriosito. – Niente di che Bill, devo comprare un regalo per Kate e avrei in mente di regalarle un disco in vinile delle Runaways. –
- Particolare, sempre se ti piace lo stile della Jett e il “ch-ch-ch-ch-ch-ch-ch” di Cherry Bomb! – mimò quella frase mettendo la mano come a formare un becco e picchiettando sul mio naso ad ogni “ch-ch” che diceva.
- Bill ma che erba fumi? –
- Marlboro light o rosse, dipende dai periodi. – lo guardai con aria demoralizzata, per me certe volte non ci arrivava proprio!
- Sei veramente strano! Fattelo dire! –
Arrivati nel parcheggio cercai di mettere in moto Skids ma qualsiasi mio tentativo di accensione, la piccola Chevrolet non rispondeva.
- Ecco, adesso ci mancava anche questa! –
- Aspetta, vediamo se riesco io a fare un miracolo adesso… - Bill uscì dalla macchina e aprì il cofano, disse di mettere in moto ma la vettura non voleva proprio dare una mano.
- Coraggio piccoletta parti, dai ti prego parti… niente. BENE! – sbattei le mani sul volante e mi lasciai cadere sul sedile.
Bill si avvicinò al finestrino, lo abbassai molto apaticamente.
- La batteria è andata. Un classico. – la fortuna continuava a perseguitarmi.
- Quindi? –
- Quindi abbiamo due opzioni per oggi: o torniamo a casa e non facciamo nulla fino a questa sera, oppure prendiamo la mia, anzi se esci mi dai una mano a togliere il telo. – diede due colpetti con la mano sulla mia portiera per incitarmi a scendere e io, ovviamente, lo seguii.
- Come si fa qua? –
- Basta che slacci i fiocchi in basso, il telo si allarga e noi lo tiriamo via. – sembrava facile.
Slacciai due fiocchi e l’elastico si allargò in un attimo. Poi Bill si mise davanti al muso della macchina che sembrava un immenso pacco regalo, le mancava solo il fiocco rosso sopra e sarebbe stata perfetta.
- Mettiti dall’altra parte e alza il telo, così lo portiamo via insieme senza rischiare di farlo impigliare da qualche parte. – tirammo via il telo e quella meraviglia di macchina venne scoperta. Era splendida!
Prese una busta di plastica, di quelle grandi, ci infilò il telo reduce dell’acquazzone della serata passata e gettò tutto nel portabagagli della sua Q7.
Rimasi a guardarla a bocca aperta, era divina! Ed era enormemente enorme!
- Bhè, che fai non sali? – chiese Bill da dentro l’auto.
- Si arrivo, stavo pensando… ero su un altro mondo. – per salire dovetti tirarmi su la gonna altrimenti sarei rimasta a terra. Oltre che bellissima, quell’auto era anche alta!
La megalomania di Bill Kaulitz non aveva limiti!
Chiusi la pesante portiera che fece un suono pieno e al tempo stesso “protettivo” che a confronto quella della mia macchina sembrava era un insulto alla sua.
- Quindi… direzione? – chiese mentre metteva in moto.
- Bülowstrasse, andiamo al Mr Dead and Mrs Free, forse lì hanno quello che cerco. -
Bill era fantastico dentro quell’automobile, poi da un cassettino tirò fuori un paio di Dior mise su anche quelli e si voltò verso di me.
- Trasformazione M.I.B. completa! -
 


NOTE: volevo ringraziare 
Morgue.Tomsa per avremi aggiunta fra i suoi autori preferiti :)
Grazie mille a te e a tutti i lettori che seguono la mia storia :D

Bìkachu.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto ***


In giro per Berlino
22 Ottobre
Ore 10:00
 
Arrivati al negozio cominciammo a spulciare uno ad uno tutti i vinili e di tanto in tanto scappava una battuta o un leggero tocco delle nostre mani, alternati a sguardi veloci dall’uno all’altro per poi distogliere l’attenzione e ritornare a cercare nei vecchi singoli passati che avevano fatto la storia della musica.
L’atmosfera del negozio era calda e accogliente, quasi familiare, Bill mano a mano che passavamo in rassegna ad ulteriori band e cantanti, si avvicinava a me sempre più finché il suo braccio praticamente non si attaccò al mio.
Sotto lo sguardo divertito della cassiera, che aveva capito l’intesa che c’era fra noi, io cercavo di fare finta di niente ma dovevo ammettere che malgrado tutto quella vicinanza era tutt’altro che fastidiosa.
Non devi cascarci, non devi cascarci… di nuovo!
La mia coscienza faceva presto a parlare, ma quello che provavo dentro era una tempesta di emozioni incontrollabili.
- Allora? L’hai trovato? – mi chiese Bill tutto d’un tratto.
- No, ancora niente. Tu hai trovato qualcosa che ti interessa? – le sue lunghe dita spostavano le custodie dei vinili una per una come stesse cercando una parola in un vocabolario.
- Aspetta un attimo… oh, eccolo qui! – da tutta quella mischia estrasse un vinile color panna ma non capii bene di chi fosse perché era girato al contrario. – Questo è seriamente un pezzo di storia: Aladdin Sane di David Bowie è un pezzo da avere assolutamente! L’avevo intravisto prima, scorrendo gli altri vinili, ma non mi sembrava vero e invece… guarda qua! Ha anche l’inserto con il testo originale! Me lo prendo! – la copertina a libro era in condizioni discrete, un po’ rovinata ai lati e qualche angolo sembrava essere stato smangiucchiato però nel complesso i colori erano ancora abbastanza accesi e il vinile pareva nuovo di zecca.
- Wow! David Bowie andava alla grandissima ma in casa mia si sentivano un sacco… ecco, loro! – tenendolo stretto in mano come fosse un oracolo mostrai a Bill la coloratissima copertina del vinile dei Queen “A Kind of Magic”. – Neanche a farlo apposta, parli del diavolo e spuntano le corna! –
- Oh Kim, forse ho trovato qualcosa che potrebbe piacere a Kate. – con fare superficiale estrasse da un gruppo di vinili impolverati e riviste anni ’70 un qualcosa delle Runaways. 
- L’hai trovato! Oddio ti ringrazio, stavo diventando matta e cominciavo a dubitare di riuscire a pescarlo da qualche parte! – “Little Lost Girls” era nelle sue mani e quando mi vide così euforica non poté fare a meno di ridere.
- Che fai prendi in giro? – gli diedi una pacca sulla pancia con il dorso della mano, lui incassò facendo una smorfia di finto dolore.
- No non è vero, non ti prendevo in giro! Però mi è piaciuta la luce negli occhi che avevi, della serie “Dio Kaulitz grazie infinite per avermi salvata da un regalo di compleanno altamente improbabile da trovare”. –
- Il vinile era qua, non te la tirare troppo Kaulitz perché sarei riuscita a trovarlo lo stesso… magari con un po’ più di tempo ma stai sicuro che l’avrei trovato! – feci la linguaccia.
- Bhè, ringraziami lo stesso per aver ottimizzato i tempi. – mi sventolò davanti al naso il vinile.
Presi al volo l’oggetto dalle sue mani e mi diressi alla cassa senza degnarlo di uno sguardo, un po’ stizzita un po’ divertita da quel suo repentino cambiamento di personalità.
Usciti dal negozio erano le 11:00 passate, salimmo in macchina e tornammo verso la parte della città che conoscevo meglio: Unter den Linden e dintorni.
Il traffico era quasi a zero e Bill tutt’un tratto parcheggiò in uno spiazzo vicino ad un distributore.
- Ehm, Bill… ma che ci facciamo qua? – gli chiesi ignara di quello che stava accadendo.
Bill fece spallucce e si tolse gli occhiali.
- Avendo più tempo da passare insieme ho pensato di portarti a fare un giretto in centro, ti va? – tutto il potere del suo sguardo si scaraventò su di me ma, poverino, non sapeva che ormai c’ero abituata e quindi poco mi importava se le sue capacità ipnotiche si fossero spinte fino all’estremo per potermi convincere perché non attaccavano più quei giochetti con me… forse. Comunque eravamo già lì, era tanto che non facevo una camminata sulla Unter quindi perché non approfittarne!?
Feci finta di pensarci sopra portandomi una mano sotto il mento e corrugando le sopracciglia.
- Mhh… si. Per oggi passi Kaulitz hai avuto una bella idea, anche se mi ci hai tratta con l’inganno, però accetto la tua proposta. – dissi gesticolando come una signora aristocratica e facendo una voce sensuale.
Sensuale? Ma tu ti sei fritta il cervello!
Già, problemi? Mi sentivo di nuovo all’altezza di esprimermi in una certa maniera dopo un sacco di tempo e la mia coscienza aveva pure da ridire? Ma roba da matti! Dovresti essere contenta per me… pfui.
Il moretto scese dall’Audi senza staccarmi gli occhi di dosso neanche quando passò davanti al muso della macchina, finché non mi aprì la portiera e mi offrì la mano per scendere.
- Madame. – porsi la mia mano e lui l’afferrò delicatamente.
- Monsieur. – non appena scesi dall’auto Bill, inaspettatamente, si esibì in un impeccabile baciamano e io rimasi lì come annullata, mentre le sue labbra sfioravano la mia pelle e i suoi occhi si incatenavano ai miei.
La nostra passeggiata proseguì serenamente: i tigli che costeggiavano la strada davano al paesaggio un non so che di magico con le loro foglie che sembravano dipinte dai colori del tramonto e il leggero vento che le faceva danzare in aria attorno a noi.
Bill si muoveva affianco a me cauto e premuroso come quando la sciarpa stava per cadermi dalle spalle e non feci in tempo ad afferrarla che subito la riavvolse intorno al mio collo come fosse il più prezioso gioiello che avesse mai fatto indossare ad una donna.
Camminavamo tra la folla berlinese non curanti della gente che sembrava riconoscere Bill: quelli che lo guardavano in viso certe volte si fermavano come avessero avuto un’apparizione, poi scrollavano la testa e si incamminavano per chissà dove mentre altre, ragazze giovanissime soprattutto, vedendoci passare davanti a loro sgranavano gli occhi allibite.
Una fra queste rimarrà impressa nei miei ricordi per sempre: era seduta fuori ad un bar con una cioccolata e dei waffeln sul tavolo, le passai a pochi metri di distanza e non accadde nulla quasi non mi avesse neanche vista, poi passò Bill e quella sorsata di cioccolata che aveva appena ingurgitato le andò di traverso. Risi fra me e me a quella scena perché era tutto diverso, in passato se passeggiavo mano nella mano con Bill nessuno ci guardava o sgranava gli occhi mentre ora…
- Faresti meglio a rimetterti gli occhiali. – puntualizzai.
- Tu dici? – chiese facendosi serio avvicinandosi frettolosamente a me e guardandosi furtivamente dietro le spalle.
- Guarda che non ci segue nessuno, è solo il fatto che a meno che tu non voglia uccidere qualcuno facendolo soffocare con un pezzo di pizza, faresti bene a tirarli fuori e alla svelta pure! Troppa gente credo ti abbia riconosciuto, meglio prevenire. –
Frugò nella sua Gucci nera grande come l’hangar di un Boeing 747 e ne tirò fuori gli ormai famosi Dior, neri anch’essi.
- Ti sembrerà stupido ma ora sono più tranquilla. – mi sentivo seriamente più sollevata anche se Bill Kaulitz non sarebbe mai passato del tutto inosservato, diciamocelo.
Si riconosceva a chilometri anche con una busta in testa!
- Secondo te che succederebbe se la gente mi riconoscesse? Ti darebbe fastidio avere i paparazzi alle calcagna? O magari qualche ragazzina che ti si avvinghia alla gamba per chiedermi di farle un autografo? – lo guardai un po’ attonita.
- Bhè… no, non credo che mi darebbe fastidio avere quel genere di attenzioni, tu ci sei abituato quindi può essere stressante sotto il tuo punto di vista, è vero… -
- Ma perché mi hai fatto notare che la gente mi aveva riconosciuto? Potevi benissimo lasciarli fare a questo punto, no? – continuavo a non capirlo ma non mi piaceva affatto come stava proseguendo la discussione.
- Senti, io te l’ho detto perché non volevo che ti riconoscessero in quanto sarebbe stata come un’esplosione a catena: la gente capisce, la gente parla, voi traslocate! Ecco il fatto! – mi stavo alterando.
- Quindi tu lo avresti fatto per non farmi allontanare da te? – che brutto figlio di…
Simone non c’entra niente, Simone non c’entra niente.
- C’è… aspetta un attimo. – mi fermai e lo bloccai con una mano facendolo voltare verso di me e costringendolo a guardarmi. – Non metterti in testa strane idee perché la giornata di oggi non significa proprio un bel niente! I tuoi sbalzi di umore non cambiano quello che provo per te e non cancellano il passato! Ti ho “protetto” solo perché sono onesta e quando faccio una promessa la mantengo! Tuo fratello aveva bisogno di un posto tranquillo dove stare, mi sta bene e sono felicissima che stia da me, ma non provare minimamente a trarre certe conclusioni! Non dovrebbero passarti neanche per l’anticamera del cervello! – mollai la presa dal suo giacchetto e ripresi a camminare con passi decisi e rabbiosi via da lui, lasciandolo là. Se mi avesse seguito, bene, altrimenti la strada per tornare a casa la conoscevo anche senza aver bisogno di un suo passaggio in macchina.
- Kim… Kim aspetta… - lo sentii in lontananza.
- Kim un cavolo! – i suoi passi veloci si trasformarono in una corsetta per raggiungermi.
Mi prese per una manica e mi fermò.
- Cosa vuoi? Voglio tornare a casa, quindi se non ti dispiace… - stavo per andarmene nuovamente ma lui mi trattenne.
- Hey, hey… calma, aspetta. Ti ci porto io a casa e su questo non voglio più tornarci. – disse quelle parole con così tanta autorità che non mi sarei azzardata a dire il contrario. – Poi, mi dispiace ok? Non volevo che la prendessi così… -
- E come avrei dovuto prenderla? Spiegami. – incrociai le braccia al petto e mi tolsi dagli occhi una ciocca di capelli. Il vento li aveva elettrizzati tutti e dopo tre secondi tornavano ad appiccicarsi al volto!
- Sono stato scortese e maleducato me ne rendo conto, ma certe volte dimentico le buone maniere quando voglio ottenere o sapere una cosa e… dovevo sapere. –
- Sapere, sapere , sapere. Ottenere, ottenere, ottenere! Ma chi credi di essere DIO IN TERRA? E poi scusami tanto ma da me non devi sapere proprio nulla, forse dovrebbe essere il contrario se dobbiamo andare ad analizzare i fatti! Pensavi forse che se fossi tornato ti avrei accolto come il figliol prodigo? Svegliati bellezza, questa è la vita reale! – le nuvole torreggiavano impetuose, probabilmente un altro temporale stava per incombere sulla città.
Dopo pochi secondi una goccia d’acqua mi bagnò una guancia ma quella non arrivava dal cielo, bensì dai miei occhi gonfi di lacrime.
Prima che Bill potesse accorgersene la scacciai via con la mano e voltai il mio sguardo dall’altra parte della strada dandogli le spalle.
Per i momenti che seguirono, l’unica cosa che si poteva udire era il rumore delle auto che percorrevano la Unter den Linden e il parlottio delle persone che camminavano sui marciapiedi.
Io e lui, in questo mondo, nel nostro mondo sembravamo parte del nulla.
Vere gocce di pioggia cominciavano a bagnare la strada, l’odore dell’asfalto e della terra umida cominciava a salire alle narici e sopra di noi alcuni tuoni facevano sentire la loro presenza.
Respirai profondamente quell’aria afosa carica di acqua.
Bill sospirò.
- Kim… sta per piovere, se vuoi ti porto a mangiare qualcosa oppure torniamo a casa… come vuoi tu…  – il suo stato d’animo era evidentemente a tappeto ma sforzandosi di portarmi a pranzo non avrebbe risolto questo problema. Non mi ero accorta di quanto tempo
fosse passato ed effettivamente avevo non poca fame. Era giunto il tempo di mettere da parte la morale e mandare giù qualcosa nello stomaco, almeno avrei ragionato a pancia piena!
- Si… mangiamo qualcosa al volo e poi torniamo a casa, Tom avrà finito i controlli starà tornando. –
- Mi aveva detto che mi chiamava quando stava per tornare a casa e ancora non ho ricevuto una sola chiamata da parte sua. –
- E quando te l’ha detto? Stamattina siamo stati tutto il tempo insieme da quando ti sei svegliato in poi… - ricominciammo a camminare.
Bill si era fatto teso, forse aveva detto una parola più del dovuto.
- Me lo ha detto ieri sera, si, ieri sera. –
- Ok. – non ero sicura che quella era la verità ma dopotutto non mi importava un granché.
- Andiamo qua dai, prima hai nominato pizza e mi hai acceso una lampadina! –
- Casa Italia? – più che una domanda, la mia era un’espressione di sorpresa. Era tantissimo tempo che non tornavo là eppure era uno dei miei ristoranti preferiti! Ristorante italiano gestito da italiani: la pizza doveva essere ottima per forza!
Entrammo e un cameriere ci fece accomodare verso un corridoio a destra del locale che circondava un piano bar. Il tavolino era in plexiglass con il logo satinato del ristorante inciso sopra.
Mi piaceva stare lì perché si respirava un’atmosfera diversa, si stava in pace e di quella non ce n’era mai abbastanza.
Sulle pareti c’erano stampe di alcuni luoghi famosi italiani: dalla Torre di Pisa al Colosseo erano tutte in bianco e nero, contornate da cornici fucsia e da neon dai colori accesi.
Togliemmo i soprabiti e li appoggiamo sulla parte posteriore della sedia, Bill fu costretto a piegare in due il suo giacchetto perché altrimenti avrebbe toccato per terra.
Tolse gli occhiali scrutando nel locale se ci fosse stato qualcuno di sospetto ma vedendo calma piatta li posò sul tavolo e poi si rivolse a me con un mite sorriso.
- Seriamente Kim, scusami. –
- Devi darmi tempo Bill, non è stato facile accettare tutto questo e dire sì a David. – cercai di guardarlo ma non ce la facevo. Cominciai a giocare con uno stuzzicadenti picchiettandolo sul plexiglass.
- E’ stato difficile per tutti e due, Tom in questo caso non c’entra niente. –
- Ma come non c’entra niente? Siete venuti qui per scappare da Los Angeles e da tutti i paparazzi che vi assillavano per questa strana sindrome che lo ha affetto. Se non fosse stato per lui, anche se pare brutto dirlo in questo modo ma non riesco ad esprimermi meglio, non ci saremmo mai più rivisti. – era una confessione la mia?
Lo sguardo di Bill si fece quasi colpevole, sembrava nascondermi qualcosa.
- Signori cosa volete ordinare? – il cameriere che ci aveva accolto all’entrata adesso era di fronte a noi e nemmeno ce ne eravamo accorti, eravamo troppo immersi nella nostra conversazione.
- Per me una Margherita, vado sul sicuro. – dissi con un sorriso porgendo il menù.
- E per lei signore? – Bill diede una rapida occhiata ai nomi delle pizze, poi chiuse il menù e lo porse al cameriere.
- Anche io lo stesso della signorina, così non ha la scusa del “fammi assaggiare un pezzo della tua”. – mi guardò e fece l’occhiolino.
La sua personalità era cambiata per l’ennesima volta.
Una specie di Donnie Darko, il silenzio degli innocenti… o ero io che non capivo che strategia stava usando, o lui aveva davvero qualche problema psicologico.
Passammo il resto del pranzo senza più toccare il tasto dolente del nostro allontanamento e parlammo di tantissime cose: dalle sue stravaganti pose che faceva per i photoshoot, alla sfilata di Dsquared2, per non parlare di quando hanno cercato di disegnare il palco dell’Humanoid City Tour da soli!
- Sembrava un uovo strapazzato con due trampolini! Avevamo creato una cosa orrenda, non si poteva vedere! Infatti non per niente facciamo i musicisti e non gli architetti… saremmo stati senza lavoro! – mentre lo diceva faceva la faccia schifata ripensando al disegno che avevano messo su loro quattro insieme.
Io invece, parlai della mia università, della mia famiglia e delle mie ipotesi per il futuro.
- E quella chitarra che tieni lì in salone la fai solo impolverare o la usi per creare qualcosa in particolare? –
- Quella è per un progetto che sto portando avanti con delle amiche da quando mi sono trasferita a Berlino. Niente di che. – sorvolai.
- Mi piacerebbe sentirti suonare. – disse mettendo in bocca un bello spicchio di pizza.
- Se è per questo canto pure. – ops!
La pizza di Bill si fermò a mezz’aria e lui rimase a bocca aperta.
Poi si riprese, mandò giù il boccone e bevve un sorso di Coca-Cola.
- E tu da quando canti? – era estasiato ma preferivo non dirglielo, mannaggia alla mia boccaccia!
Non per niente ma quello poteva essere lo spunto per un ulteriore “pensare a lui” che nella sua testolina poteva passare come buono! In quel caso ci avrebbe preso ed era proprio questo il motivo per cui dovevo tenermi alla larga il più possibile.
- Mhà… non da tanto, lo faccio per hobby con loro e non ho mai preso lezioni. –
- Guarda che ti si potrebbe rovinare la voce. –
- Che me la stai tirando? –
- No, ti sto salvando le corde vocali visto che io ci sono già passato e non è una bella cosa rimanere in silenzio per un lasso di tempo che ti sembra interminabile, con un fratello che per farti capire non gli bastano neanche i segnali di fumo! –
- Ahaha, certo che in quel caso una ragazza ti avrebbe fatto comodo… - ma zitta! ZITTA!
Bill mi fissò profondamente e sporse il corpo fino a far arrivare il suo viso a pochi centimetri dal mio.
- In quel caso mi sono accorto di quanto io possa essere stato stupido a lasciarti… - la sua mano sfiorò la mia e fu come se una scintilla mi fulminò perché la ritrassi in un lampo.
Dopo una mezz’ora Bill chiese il conto e uscimmo sotto il diluvio.
Tom era a casa con Kate e i controlli erano andati bene, almeno quello era ciò  che diceva lui.
Mentre tornavamo verso la Q7, Bill si avvicinò e con il suo cappotto extra-large mi abbracciò facendomi attaccare al suo corpo con tutte e due le braccia. Sentivo il battito del suo cuore e la pioggia che cadeva su di noi. I capelli di Bill erano totalmente bagnati fradici e gli cadevano sul viso come piccoli rivoli di inchiostro.
Io, Kimberly Keller, che ero sempre stata la ragazza forte che non aveva bisogno di nessuno per fare ciò che si metteva in testa di fare, coperta per metà dal suo braccio che si era trasformato in un’ala protettrice, mi sentivo completa.
Avevo bisogno di calore umano ma non di un calore umano qualunque, avevo bisogno del suo.
 
NOTE: non smetterò mai di ringraziare le persone che seguono "THE LAST TRACK" perché grazie a voi la FF ha raggiunto, in meno di 25 giorni (più o meno), 960 visite *.*
GRAZIE MILLE :D
E mille e mille e mille e mille e mille... ect... ect...  

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Capitolo 8
*** Capitolo Settimo ***


Tornati a casa, Tom e Kim non erano ancora rientrati e la tovaglia tappezzata di caffè era ancora sul tavolo.
Bill posò i nostri giacchetti su una panca in corridoio e corse in camera.
Presi a sistemare i piatti nel lavandino, la tovaglia l’arrotolai e la misi nella cesta dei panni sporchi, accesi la TV e la voce di un presentatore di MTV catturò la mia attenzione.
“I gemelli Kaulitz sono scomparsi letteralmente dalla loro casa in California, nessuno sa dove siano diretti perché non c’è stato modo di mettersi in contatto con loro.”
Mi avvicinai allo schermo per sentire meglio continuando ad asciugarmi le mani bagnate con un canovaccio.
“Il loro produttore ha lasciato solo una breve dichiarazione ai media sottolineando l’importanza della loro privacy e l’attesa per i fan di quello che sarà un periodo d’assenza abbastanza lungo. Ma… cosa sarà successo di così scandalizzante da lasciare la band divisa a metà? Litigi, dibattiti, incoerenze?”. Il presentatore si avvicinò ad una ragazza del pubblico che aveva in mano una fascetta da concerto dei Tokio Hotel e la teneva stretta come una reliquia. In volto dipinta la sofferenza, quel tipo di sofferenza che una fan prova quando la propria band preferita la delude.
“Tu cosa ne pensi? Vedo che l’argomento ti tocca in prima persona.” Disse ridendo falsamente e indicando la fascetta fra la presa ferrea di quella ragazza.
La ragazza prese un profondo respiro, qualche attimo di silenzio e poi parlò quasi singhiozzando.
“Penso che sparire dalla circolazione non abbia senso. Sono scappati dalla Germania, sono arrivati in California e adesso sono di nuovo scappati senza farci sapere nulla! Io sosterrò sempre la band ma facendo così molti fan si fanno domande, si chiedono i perché di certi comportamenti e situazioni… essere fan dei Tokio Hotel non è facile…” aggiunse “Sei perennemente in balia del caos del fandom e se provi a chiedere un’informazione subito che ti attaccano dicendoti che non sei abbastanza fan e che certe cose si devono sapere categoricamente.” Io non credevo a quello che le mie orecchie stavano ascoltando. Ero allibita e sconcertata dalle parole di quella ragazza perché non capivo cosa c’era di tanto difficile nell’essere fan.
“Quindi, in conclusione cosa diresti?” le domandò prontamente il presentatore.
La ragazza tirò su col naso e cacciò dentro le lacrime che stavano per rigare il suo viso del nero mascara.
“Ho solo una cosa da dire: se mi state ascoltando, sappiate che non è giusto nei nostri confronti! Non è proprio per niente corretto! Capiamo tutto: dalla privacy, alle vacanze ma svanire nel nulla, no! Padroni della vostra vita, ci mancherebbe altro però non fate in modo e maniera da allontanarci! Senza i fan nessun artista è completo e voi state remando contro tutto questo, lo state facendo da un anno ormai… non penso che andremo lontano così e…”
La TV si spense improvvisamente.
- Smettila di guardare queste stupidaggini, sono frasi senza senso. – disse con voce bassa.
Gettò il telecomando sul divano dove mi ero seduta e si diresse verso la finestra a braccia incrociate lasciando che il suo sguardo vagasse per la strada sottostante. Aveva ascoltato tutte le parole di quella fan.
- Che cosa vogliono da me? Che cosa vogliono da noi? – il tono della sua voce crebbe e Bill divenne incredibilmente irritato. – Hanno tutto! Cd, interviste, poster, backstage filmati, meet & greet, autografi, concerti, eppure… non gli basta! Non gli basta mai! – appoggiò delicatamente la fronte al vetro freddo e a contatto con esso il suo calore creò un piccolo cerchio di condensa. Chiuse gli occhi ed inspirò lentamente, profondamente.
Quello che aveva detto Tom era vero: Bill era sul limite del suo limite massimo di sopportazione di tutto, del mondo intero penserei a questo punto.
La sua figura dietro di me mi intristiva e anche se mi aveva fatto soffrire in passato, io non volevo vederlo star male in diretta davanti ai miei occhi seppur per una cosa di poca importanza, ma sapevo benissimo che di poca importanza non era.
Forse Tom aveva ragione anche su questo, provare a dare a Bill una seconda opportunità e lasciare il passato alle spalle. L’indecisione e la paura di un’ulteriore freddata mi pugnalava il cuore ma Bill aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, aveva bisogno di me.
Mi alzai e mi avvicinai a lui. Sembrava strano eppure percepivo che c’era qualcosa che non andava.
Posai le mie mani sulla sua schiena e salii fino a cingergli le spalle, sapendo che probabilmente in futuro mi sarei pentita di quello che stavo facendo ma in quel momento non lo pensavo nemmeno.
Sfiorai con il naso la sua maglietta e rimasi con la guancia lì, ferma, ascoltando i battiti del suo cuore.
Il suo profumo, la sua presenza vicino a me, tutto lui mi faceva sentire estremamente felice e perfettamente in sintonia con il resto dell’universo.
Una malinconia si attanagliò dentro di me e tristi ricordi riaffiorarono compensati al tempo stesso da ricordi meravigliosi, ricchi di risate e armonia. Bill era questo: con lui eri costantemente in bilico tra l’eterna felicità e la distruzione totale.
…e mi piaceva, mi piaceva ancora. Mi mancava.
Mi prese una mano e mi fece girare attorno a lui finchè i nostri occhi non furono gli uni di fronte agli altri.
La luce soffusa del cielo berlinese illuminava il viso di Bill e gli dava una sfumatura antica, quasi nobile: la pelle bianca, la linea del naso perfetta, lo sguardo magnetico e quelle labbra impeccabili.
Tom era bello, ma Bill era divino.
In quel frangente non sapevo cosa fare: mi si era seccata completamente la bocca, non avevo più saliva neanche per far schioccare la lingua e anche provare a pensare ad una semplice frase era un’opzione da scartare. Non ci capivo più nulla, la vista cominciava ad appannarsi lievemente.
Mi fissava in maniera glaciale, con le mani serrate sui miei polsi. Generalmente non sopportavo di essere bloccata, ma ammetto che essere bloccata da lui in quel preciso istante aveva un non so che di stimolante e terribilmente affascinante.
Si avvicinò di più verso il mio viso, sentivo il suo respiro sulle mie labbra e il sangue fluirmi tutto insieme nel petto.
- Devi dirmi una cosa Kim. – mi sussurrò quasi sulla bocca – Devo sapere assolutamente, sto impazzendo. –
Di sicuro stavo impazzendo anche io. Ogni singola cellula del mio corpo mi tirava a lui come pezzettini di metallo attratti da una potente calamita.
- Proverò a risponderti, se ce la faccio… - quell’ultimo pezzo di frase riportò sul volto di Bill un piccolo sorriso vincitore che mi scombussolò la testa.
Si fece ancora più vicino, adesso la distanza fra le mie e le sue labbra poteva sicuramente essere contata in millimetri.
Le sue mani si staccarono dai miei polsi e scivolarono sui miei fianchi. Le mie, invece, salirono fino a cingergli il collo e mi ritrovai intrappolata con la schiena attaccata al vetro e Bill davanti a me.
Si spostò di lato, scendendo delicatamente e sfiorandomi la pelle della guancia con le labbra, lungo tutto il profilo del mio viso ed inconsciamente, rapita da quell’improvviso turbine di casta passione, portai la testa all’indietro lasciando che Bill proseguisse a scendere. Il mio collo fu coperto da soffici baci che mi mandarono in estasi e chiusi gli occhi godendomi quegli attimi di ritrovata beatitudine.
La maglietta che portavo era diventata carta velina fra le sue mani e ad ogni tocco la mia pelle a contatto con la sua ardeva con un’intensità che non avevo provato con nessun’altro ragazzo. Era solo e solamente Bill che mi completava eppure più ci pensavo e più la malinconia si faceva forte nei miei pensieri. Feci il possibile per scacciarli via e per non rovinare il momento.
Ad un tratto le sue labbra si fermarono all’altezza della mia clavicola, le braccia gli cominciarono a tremare.
Presi coraggio e cercai i suoi occhi ma non li incontrai subito. Sentii solo il suo respiro accelerato per alcuni secondi.
- Se non avessi fatto quella stronzata di scappare e ti avessi proposto di andare via da qua, da tutto insomma… per me… lo avresti fatto seriamente? – domandò e quasi riuscii a sentire nella sua voce il timore della mia risposta.
Capitava che, prima della sua “fuga”, parlavamo di un ipotetico futuro assieme ed ogni santissima volta che lo facevamo era scontato che io lasciassi tutto per stare con lui, quindi:
- Si… avrei lasciato tutto all’istante, senza pensarci due volte. Volevo stare con te e mi bastava, mi bastavi tu. Ma, giustamente, eravamo troppo piccoli e non sei riuscito a capirlo. Non penso che adesso affronterei una decisione del genere molto superficialmente come avevo fatto qualche anno fa. – risposi meravigliandomi della prontezza della mia capacità comunicativa fra le sue braccia.
Attimi di silenzio.
- Però sei qua, con me… non hai negato la possibilità di partire. – forse avevo sbagliato, gli avevo messo in testa false aspettative. – Ho qualche possibilità di farmi perdonare, Kim? –
In quel momento mi apparve Tom nella mente e i suoi discorsi sulle possibilità. Crescendo era diventato fin troppo saggio per i miei gusti.
- Una persona a me molto cara mi disse che a tutti è concessa una seconda chance, Bill, e tu non sei diverso. –
Alzò lo sguardo e mi guardò così immobile che sembrava fosse paralizzato.
Abbozzando un sorriso sbieco mi ringraziò e io non potei fare a meno di ricambiare il sorriso.
- Però… non è questa la risposta che volevo sentire, perché in realtà non era questa la domanda che volevo farti… - abbassò gli occhi e sciolse il nostro abbraccio. La magia era finita… o forse no?
Posò le mani sul vetro dietro di me e con la testa china i ciuffi corvini che erano scappati dalla presa della lacca mi toccavano il petto.
- Cosa dovevi chiedermi allora? – chiesi quasi senza un filo di voce.
Improvvisamente alzò lo sguardo, fissandomi.
- Mi ami ancora, Kim? – a quella domanda rimasi in silenzio.
Gli attimi passati parevano essere scomparsi del tutto e i miei occhi non riuscirono a sopportare di essere incatenati ai suoi. Mi voltai verso lo schermo nero della TV e desideravo ardentemente di trovarmi seduta sul divano dove ero poco prima invece che sentire il suo sguardo su di me in attesa di una risposta.
- Forse io… - cominciai.
- E’ permessooo!? – domandò qualcuno dall’ingresso di casa, facendo scattare la serratura della porta.
- Ma che ti urli, si può sapere? – chiese una seconda voce femminile.
- Bhè sai… stando alle mie esperienze passate è sempre meglio far sapere a chi è dentro casa che sei arrivato altrimenti potresti trovare scene strane… non si sa mai… - Tom.
- Ehm… credo sia un ragionamento logico. – Kate.
Scappai da Bill non appena li sentii, ringraziando il cielo che per una volta il mio fratellone rasta mi aveva salvata a tempo debito.
- Ciao ragazzi, tutto bene Tom? – chiesi andandogli incontro e prendendo la domanda con una nota un po’ troppo alta, infatti il rasta si bloccò e mi squadrò alzando un sopracciglio. Saranno stati i miei capelli tutti arruffati per essere stati dieci minuti schiacciati sul vetro umido o la mia finta euforia, ma lui sapeva che quando ero in difficoltà me ne uscivo con qualcosa di imprevedibile… anche, e comprese, vocine stridule.
Distolse gli occhi da me e guardò il fratello con fare indagatore.
- Ciao brò. – disse Bill appoggiato alla finestra e facendogli un cenno.
Ancora non convinto ma arrendendosi per non aver trovato nulla di insolito fra di noi, mi passò dietro e andò in cucina seguito dal fratello.
- Ciao Kim tutto ok? – anche Kate si era accorta che ero leggermente “fuori” ma con lei potevo gestirmela meglio mentre Tom, con lui era davvero difficile fargli passare per vera una situazione improbabile sotto il naso senza che dicesse niente.
- Si, tutto ok. – la mia voce era tornata normale.
Ci sistemammo in salotto con qualche salatino e qualche bibita sul tavolino di fronte la TV, chiacchierammo del più e del meno, delle analisi che avrebbe dovuto fare Tom e del mio giro con Bill per Berlino (tralasciando il
particolare del regalo per Kate, ovviamente).
Passarono le ore e scese la notte.
Presi le chiavi della macchina per andare a prendere le pizze che avevamo ordinato qualche isolato più giù rispetto a casa mia e Tom si propose per accompagnarmi.
Felicissima, accettai la sua compagnia e mentre stavamo per uscire:
- Guarda che la tua macchina ha la batteria scarica, prendi la mia. – la voce di Bill mi raggiunse in corridoio e sbuffai sapendo che aveva ragione ma me ne ero totalmente dimenticata. – Le chiavi sono nel giacchetto sul letto. –
Mi voltai e corsi in camera senza accendere la luce, rovistai fra le lenzuola e trovai il cappotto.
Presi le chiavi dell’Audi e in mano mi ritrovai anche un biglietto che misi nella tasca del mio trench senza pensarci.
- Grazie Bill. – lo vidi sorridere ed illuminarsi alle mie parole. Avevo solamente detto “grazie”.
- Guarda per un misero “grazie” come è felice… - disse Tom non appena chiusi la porta alle nostre spalle.
Alzai gli occhi al cielo ma dovetti accettare l’idea che anche adesso aveva pienamente ragione a sottolinearmi certe cose.
Eppure, cavolo, quella che era stata lasciata ero io. Teoricamente chi doveva sentirsi verme e farmi illuminare di gioia era lui, non viceversa. Vabè…
Salii in macchina di Bill e accesi il motore. Tom era rimasto fuori dalla parte del passeggero.
Abbassai il finestrino.
- Bhè, che fai? Non Sali? – chiesi.
- Guidi tu? – mi indicò con gli occhi sgranati.
- Dai Sali, guarda che guido bene. Fidati! –
Tom salì in macchina e chiuse la portiera mettendosi immediatamente la cintura.
- Malfidato. – feci una smorfia e regolai il sedile visto che Bill aveva le gambe doppiamente lunghe rispetto alle mie e riuscire ad arrivare ai pedali, per me, era pura fantasia.
- Vorrei mangiarmela vivo la pizza stasera se per te non ti dispiace. –
- Tom… -
- Si? –
- Non so usare la frizione, ho la macchina automatica. – il panico si dipinse sul suo viso.
- MA COME NON SAI USARE LA FRIZIONE? Scendi che… -
- Ahahah, scherzavo! Sei un folle! – ingranai la prima e partii alla guida di quel macchinone meraviglioso con Tom che rideva affianco a me.

NB: mi dispiace di aver fatto passare tanto tempo fra un capitolo e l'altro ma... avevo il computer rotto >.< BUONA LETTURA ALIENS ^_^

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