Il Braccio della Morte

di AnnaOmbraBrambilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Paragrafo 1, Assassino ***
Capitolo 2: *** Diana ***



Capitolo 1
*** Paragrafo 1, Assassino ***


«Siamo entrati nel braccio della morte il giorno stesso in cui siamo nati, anche se così lo si chiama solo per noi carcerati. Quelle donne sarebbero morte comunque. Io ho solo accelerato i tempi».
L’ispettore guardò il giovane uomo che aveva davanti. Gli occhi neri fissi sulle fotografie delle donne che aveva ucciso. Aveva una sua morale, immaginava, ma non riusciva davvero a capirla.
L’assassino prese una delle foto del gruppo, l’avvicinò un po’ in maniera tale da poterla osservare meglio.
La donna, una giovane che avrà avuto più o meno ventitré anni era in una pozza di sangue, una profonda ferita alla gola doveva essere stata la causa della morte. I capelli, mescolati a sangue rappreso, le copriva parte del viso, ma questo non bastava a nascondere i segni lividi sulla sua pelle.
«Sa, questa non è mia» disse Jonathan Smith ributtando la foto sulla scrivania.
Derek Grey osservò il volto dell’assassino. Non aveva senso confessare l’omicidio di tredici donne e di escludere dalla lista quella. Tuttavia, sentirgli dire non è mia, come se si trattasse di merce di scambio gli fece ribollire il sangue.
«Che vuoi dire?».
Jonathan si appoggiò allo schienale della sedia, le mani ammanettate posate sul tavolo accarezzavano la foto della sua numero cinque.
«Che questa non l’ho uccisa io» il killer guardò l’ispettore come se fosse ritardato «Ci sono almeno sei segni sul suo corpo che differenziano il suo stile dal mio».
Derek cercò di reprimere l’impulso di prendere tutte le quattordici foto e di rimetterle a confronto immediatamente.
«E quali sarebbero?» chiese con calcolata diffidenza appoggiandosi a sua volta allo schienale.
«Se glielo dicessi, le faciliterei il lavoro».
Jonathan sorrise. Aveva in sé qualcosa di profondamente contorto, di storto.
Quella foto gli aveva riportato alla mente il suo primo omicidio, ecco cosa c’era di diverso tra le sue donne e quella.
Aveva diciassette anni quando le sue mani tolsero la vita ad una donna per la prima volta. Allora e non si chiamava ancora Jonathan.
All’epoca viveva ancora nella sua città natale, in uno dei quartieri più difficili. Era nato lì, figlio di un eroinomane dedito all’alcool che aveva finito la sua vita, per un debito non saldato, in uno scantinato, con un proiettile piantato nel cranio e tutte le ossa rotte, segno di un’esecuzione lenta e non troppo piacevole.
Sua madre era una prostituta eroinomane che non aveva mai nascosto il suo disprezzo per quel bambino che le aveva rubato diversi mesi di lavoro e di guadagno.
Quando suo padre fu ritrovato, le indagini non andarono molto oltre l’ipotesi della regolazione dei conti. A nessuno importava veramente sapere chi era stato a ripulire il mondo da quella feccia. Sua madre si era vista accollare i debiti e aveva costretto lui a prostituirsi. La sua prima esperienza sessuale l’aveva avuta a dieci anni con una donna che aveva almeno sei volte la sua età.
La sua casa, l’ambiente in cui viveva era molto più simile ad un bordello che a una di quelle patinate situazioni familiari delle pubblicità dei biscotti per la colazione.
Quando sua madre lo abbandonò per un uomo, non restò certo sorpreso. Quello che veramente non riusciva a capire era come un uomo piuttosto benestante avesse potuto interessarsi ad una donna come lei, una puttana che non avrebbe certo smesso di praticare la sua professione solo perché qualcuno le offriva una qualche sorta di stabilità.
Jonathan era rimasto solo ad occuparsi del bordello, della sua casa. Aveva allacciato rapporti con minorenni scappati di casa e molte ragazze usavano la stanza che era stata della madre per fissare gli appuntamenti. Entrava e usciva gente di ogni tipo. Si potevano vedere criminali, mendicanti di umanità, uomini e donne ricche che volevano usare il ghetto, comprarlo come si comprano i giocattoli nei supermercati.
Era successo per caso, una notte di quasi sedici anni prima, la sua cliente era una donna molto ricca affascinata da quel ragazzino con gli occhi da uomo vissuto e dal quel corpo tenuto in forma nelle palestre, affinché fosse sempre pronto a difendere il guadagno della giornata.
Rebecca Lane. Aveva circa cinquant’anni. Dopo aver usato il suo corpo come piegandolo alle sue richieste tutt’altro che piacevoli, aveva deciso di non pagare il servizio, asserendo che era stato scadente e deludente.
La discussione si era fatta animata e Jonathan, all’epoca Gabriel, aveva afferrato la gola della donna fino a soffocarla. Aveva stretto finché lei non si era più mossa e la rabbia che aveva in corpo tenne le sue mani attorno a quel collo diversi minuti ancora. I capelli neri, lucidi, ben pettinati e curati erano ricaduti sul suo viso quando l’aveva lasciata crollare a terra senza vita.
Con la lucida freddezza elaborata in un’infanzia disagiata, Gabriel frugò nella sua borsa. Le portò via tutti i contanti e rubò le carte di credito.
Aveva abbastanza liquidità per pagare qualcuno che facesse sparire il corpo e per pagare qualche ragazzino affinché prelevasse dai bancomat tutto il contatto possibile. Si stupì della stupidità della donna che si era segnata il codice di sicurezza nell’agenda telefonica.
Ben rifornito di contante, con i documenti freschi di stampa, Gabriel aveva cambiato città. Il suo nome era finito nel dimenticatoio, il bordello era rimasto in mano ad una delle ragazze con le quali aveva vissuto gli ultimi tre anni e che, suo malgrado, non aveva potuto salvare da quell’inferno.
Jonathan chiuse gli occhi. Amanda avrebbe cambiato tutto. Se lo avessi voluto, se avesse accettato di scappare con lui … Amanda lo avrebbe salvato, ma aveva scelto di rimanere, troppo spaventata, troppo debole per afferrare la sua mano tesa.
Non l’aveva più vista e adesso, anche sforzandosi, aveva iniziato a dimenticare i suoi occhi, il loro colore, il loro calore. Anche impegnandosi non riusciva più a percepire il suo profumo da tanti anni. E, alla fine, si era arreso alla consapevolezza della sua morte.
«Non è ora di ributtarmi in gabbia?» Jonathan ruppe il silenzio. Pensare ad Amanda lo aveva reso particolarmente agitato.
Derek annuì e fece cenno alle guardie di riprenderselo.
Quando fu sulla porta, le mani dei due poliziotti ben salde sulle sue braccia toniche, Jonathan si voltò verso l’ispettore, un bagliore di vita negli occhi.
«Rebecca Lane» disse «Il suo corpo fu ritrovato in una discarica diverse settimane dopo l’omicidio. La causa della morte è il soffocamento. Nonostante le ricerche e le indagini, non è stato trovato nessun colpevole» s’interruppe e guardò Derek con un sorriso beffardo.

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Capitolo 2
*** Diana ***


Diana aspirò l’ultima bocca di fumo e spense la sigaretta. Suo padre sarebbe arrivato a momenti e, nonostante sapesse che non le avrebbe detto niente – erano anni che non le diceva niente – preferì far sparire il mozzicone.
La cena era pronta, doveva solo scaldarla un attimo in padella e metterla in tavola. Rimase a contemplare la sua immagine riflessa nella finestra davanti a lei.
Derek entrò in casa e subito fu punto dall’odore acre delle sigaretta della figlia. Arricciò il naso contrariato: odiava quella sua abitudine.
Salutò ad alta voce, abbandonò le chiavi nella scodella di legno sul mobile all’ingresso, accanto alla foto della moglie, tolse il soprabito e si diresse in cucina.
Diana era già ai fornelli, i piatti accanto a lei pronti ad essere riempiti.
«Come va la tua tesi?».
La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Andrebbe molto meglio se il tuo amico avesse voglia di seguirmi un po’».
Derek sorrise. «Steven è una brava persona».
«Forse è bravo nel suo lavoro» ammise Diana sedendosi a tavola e porgendo il piatto al padre «ma è sicuramente un pessimo relatore».
Gli occhi verdi di lei fiammeggiarono e Derek decise di non aggiungere altro. Aveva la stessa capacità della madre di ammutolirlo con un solo sguardo e, sebbene l’autorità paterna non fosse mai stata messa a rischio, quegli occhi lo infastidivano.
«A te com’è andata?».
«Non come avrei voluto» un lungo sorso di vino rosse seguì le sue parole «Devo farti vedere delle foto».
Diana annuì. «Fammi finire di mangiare, non vorrei che mi togliessero l’appetito come l’ultima volta».
La cena finì in silenzio, la sigla del telegiornale ne scandì la conclusione. Derek si alzò togliendo i piatti dal tavolo, prese la sua borsa da lavoro e tirò fuori le foto delle quattordici ragazze che aveva mostrato nel pomeriggio a Jonathan.
Diana le osservò attentamente. Non era la prima volta che il padre le sottoponeva un book fotografico del genere.
«Cosa devo guardare?» domandò alzando lo sguardo sul padre.
«C’è un filo comune».
Diana distribuì sul tavolo sparecchiato le foto, una accanto all'altra, senza far caso all'ordine datole dal padre: se c'era una cosa che aveva imparato dai suoi studi è che gli schemi troppo rigidi ci nascondono buona parte del vero.
Il filo comune non era nell'aspetto delle donne: i loro capelli non si assomigliavano, i loro occhi erano tutti diversi, i loro fisici non avevano niente in comune; non era neanche nella professione o nella loro età.
«Questa è diversa» disse Diana rompendo improvvisamente il silenzio «Non so bene in cosa, ma questa è diversa».
Diana sollevò la foto e la mostrò al padre. Era la stessa che Jonathan aveva escluso dalla sua lista, senza spiegarne il motivo. «Non è mia» aveva detto e, adesso, Diana vedeva chiaramente che qualcosa distingueva quella foto dalle altre, quell'omicidio dalle altre, perché lui no?
Derek si sentì pervaso da quel senso di inquietudine che conosceva bene e con il quale conviveva da quando la figlia aveva cinque anni. Non aveva mai creduto ai cartomanti, ai maghi, eppure una donna lo aveva avvicinato senza che se ne accorgesse, si era sporta verso di lui, si era accostata al suo orecchio e gli aveva detto, in un sibilo, che la figlia avrebbe percorso la strada di tutti coloro a cui dava la caccia. Poi la donna se n'era andata, lasciando una scia di odore nefasto e una risata roca.
Non aveva mai saputo spiegarsi perché, ma quell'intrusione nella sua vita aveva segnato l'inizio di una lunga e sofferta agonia.
Gli era gelato il sangue quando, una sera di sei o sette anni prima, poco dopo la morte della madre, Diana aveva esordito a cena dicendo che le sarebbe piaciuto capire cosa si prova a stringere la gola a qualcuno fino ad ucciderlo.
«Cosa intendi dire?» le aveva chiesto mantenendo una calma apparente.
«Vorrei capire cosa ha provato quell'uomo quando gli occhi della mamma hanno smesso di guardarlo, per sempre».
La risposta di Diana gli era parsa diplomatica e al tempo stesso lo aveva scosso.
Negli anni dell'adolescenza, lo sapeva bene, la figlia aveva frequentato compagnie sbagliate, delinquenti di quartiere e, probabilmente, non si era fatta mancare l'esperienza della droga.
Derek si abbandonò al ricordo della notte in cui lei confessò che il suo sogno era studiare psicologia criminale. Diana era stata arrestata e portata in caserma.
L'ispettore era stato avvisato mentre la figlia era ancora in macchina e, quando la volante arrivò a destinazione, era già sulla porta ad aspettarla.
Era certo di non poter contenere la rabbia, era sicuro che la sua mano le avrebbe colpito il viso, quel viso arrabbiato, quel viso corrucciato e crudele che lo guardava con disprezzo. Quando la figlia scese dalla macchina la sua ira scomparve. Non sembrava più l'adolescente arrabbiata che aveva sbattuto la porta di casa poche ore prima, era una giovane donna spaventata che faceva i conti con se stessa e con i suoi fantasmi.
Quella notte uno dei suoi amici che lui non sopportava era morto e lei si era trovata da sola con lui, senza poter fare niente per salvarlo da quell'ultima dose.
Derek la prese in custodia e la portò a casa, si sentiva più un assistente sociale che un padre. Per la prima volta dopo anni, Diana gli parlò senza isteria.
«Voglio diplomarmi» disse «I miei voti sono ancora molto buoni, nonostante tutto. Vorrei studiare psicologia, dopo» un singulto la interruppe «Voglio capire cos'ha provato quell'uomo togliendole la vita» non diceva più la parola mamma da molti anni «perché io vedendo Daniel morire ho provato solo un senso di impotenza e di disperazione. Come si fa a guardare qualcuno che muore? Come si può desiderare di vedere qualcuno che muore?».
Aveva pianto per ore, aveva buttato fuori tutta la rabbia che negli anni si era accumulata in qualche anfratto del suo cuore.
«Non riesco a capire cos'è» Diana interruppe il flusso dei suoi ricordi e Derek si sforzò di mettere a fuoco la figlia «Credo che sia nel viso» socchiuse gli occhi «Sì, è nel viso» cercò di concentrarsi e di vedere oltre quella sensazione, ma non riuscì ad identificare niente «Potrei lavorarci domani» propose lei allungando istintivamente la mano verso il pacchetto di sigarette e fermandosi solo all'ultimo momento.
Derek annuì. Il senso di inquitudine non lo abbandonava, vedeva negli occhi della figlia un interesse troppo acceso.

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