Yes, I'm gay!

di Herzschlag
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***



Faccio scorrere l'inchiostro del mio pennarello nero in modo frenetico. È un movimento deciso del polso, ormai automatico. Non faccio neanche più attenzione a dove poso la punta. Scarabocchio la mia firma e passo alla prossima, in modo continuo. Una ragazza si sofferma davanti a me qualche secondo più del dovuto, io la guardo e le sorrido. Lei fa altrettanto, mi mormora un “sei bellissimo” in tedesco strascicante e poi fugge via rossa in viso. Io la guardo andare via, poi mi volto per indirizzare un sorriso alla ragazza dopo di lei che attende con impazienza che firmi anche la sua copia del cd. La accontento, e passo ancora alla prossima. Solo oggi credo di aver ripetuto quest'operazione almeno trecento volte. Dovrei avere i crampi alla mano, ma ormai sono talmente abituato a scarabocchiare firme sbilenche, che non ci faccio più caso. A volte può essere noioso, ma fa sempre piacere vedere come quelle ragazze che sfilano una dopo l'altra davanti a te, ti siano riconoscenti, e ti guardino con occhi luccicanti, piene d'ammirazione. Non sono tutte uguali come si potrebbe pensare. Ognuna di loro ha il suo modo di dimostrarti affetto, ognuna di loro prova un amore da fan, diverso dalle altre. Ciò che le accomuna, è che loro sono sempre qui per me, per noi.
La cosa a volte mi spaventa. Dico sempre di cercare la ragazza giusta, il vero amore. Diciamo che più che altro è ciò che mi dicono di dire, ma un fondo di verità c'è. Non mi farebbe per nulla male avere una ragazza al mio fianco con cui condividere tutto, con cui parlare di tutto. Una ragazza che diventi parte di me. E penso che ognuna di queste ragazze sarebbe estremamente felice di ricoprire questo ruolo. La scelta sta a me.
Il problema è che non ci riesco. Il problema è che di tutte le ragazze che ho visto, non mi sono mai innamorato di nessuna. Alcune mi attraevano, all'inizio. Ora nemmeno più questo. Una volta mentre le vedevo scorrere davanti a me per gli autografi, le osservavo una ad una e nella mia mente giudicavo quanto una fosse più carina o scopabile dell'altra, mentre adesso sotto questo punto di vista mi sembrano tutte allo stesso livello. Forse è la routine, mi convinco. Sì, dev'essere questo.
Mentre penso a ciò, mi trovo davanti un ragazzo, il che è parecchio insolito. Ha i capelli neri liscissimi, gli occhi azzurri e un piercing al sopracciglio uguale al mio. Mi sta davanti sorridendomi e attendendo che anche la sua copia venga firmata. Gli rivolgo un sorriso e poi poggio il pennarello sulla copertina, sfoderando una firma più leggibile del solito. Quando gli riconsegno l'album mi dice “Grazie” e poi il mio sguardo lo segue mentre se ne va. Mi piace il colore dei suoi occhi. E anche lui è carino.
Blocco immediatamente quel pensiero, quasi spaventandomi. No, non l'ho pensato davvero. Era una constatazione oggettiva.
Scrollo la testa e mi concentro su altro.
«Hey Bill, quanto manca?».
Fortunatamente Tom interrompe quei pensieri. Si volta verso di me attendendo una risposta, mentre continua a firmare copertine del nostro nuovo album.
Guardo l'orologio di sfuggita. «Dieci minuti», gli rispondo. «Oh bene. Non ce la faccio più, devo pisciare».
«Non essere troppo fine, Tom», lo rimprovero ironicamente.
Lui alza un sopracciglio ghignando e torna al suo lavoro.
Finita la signing session ce ne torniamo in albergo stanchi morti, nonostante fossimo stati seduti tutto il tempo. Sembra assurdo, ma rispondere per l'ennesima volta alle domande che ti pongono alle interviste e firmare copertine di album per tutto il pomeriggio, può essere molto stancante.
Attraverso il corridoio con la borsa in spalla desideroso di piombare nella mia stanza per una bella doccia rilassante. Sto per far passare la carta magnetica per aprire la porta quando sento chiamarmi.
«Hey Bill, aspetta».
È David.
Lo guardo con espressione interrogativa.
«Scusami, lo so che sei stanco. Ci sarebbe un'ultima intervista al telefono con la Finlandia. Potresti occupartene tu?».
Alzo gli occhi al cielo. Davvero non mi va stasera. Sono stanco, voglio lavarmi e poi riposare.
«Certo», gli rispondo.
«Perfetto. Tieni», mi dice porgendomi un cellulare ultimo modello, «Sono già in linea. Ho detto loro di attendere qualche minuto, così se vuoi puoi farti una doccia intanto».
«No, non importa. Me ne occupo subito. Prima finisco e meglio è». Prendo il cellulare e mi rifugio in camera, chiudendo la porta alle mie spalle.
Ancora non ho avuto modo di vedere la mia stanza. Entrando, scorgo subito un salotto davvero spazioso con un divanetto, due poltrone ai lati e un televisore al plasma fissato al muro. Proseguo e aprendo una doppia porta giungo in camera da letto. Il letto è rotondo con il copriletto e le fodere bianche. A sinistra, dopo tre gradini c'è il bagno dotato di due lavandini, doccia e vasca idromassaggio a due posti. Questo sì che è lusso. Mi sento già un po' risollevato. Butto per terra la borsa, mi siedo sul letto e attivo la chiamata in sospeso.
«Pronto?», chiedo dall'altro capo del telefono.
“Pronto? È il Signor Kaulitz?”, mi chiede gentilmente una voce femminile.
«Sì, sono Bill», rispondo.
“Avrei qualche domanda per lei”.
«Sì certo, sono qui per questo», le rispondo gentile.
“Dunque, può dirci come sono nati i Tokio Hotel?”
«Inizialmente, la band era composta solo da me e Tom e ci chiamavamo i 'Black Questionmark', che è un nome un po' ridicolo, ma eravamo solo dei bambini all'epoca! Poi abbiamo conosciuto Georg e Gustav, che si sono aggiunti alla band, che abbiamo rinominato 'Devilish'. Infine, nel 2005 con l'arrivo del nostro successo il gruppo ha cambiato nome in 'Tokio Hotel'».
“E come mai avete scelto questo nome?”
«Perché volevamo una città frenetica e moderna come Tokyo che ci rappresentasse. Hotel invece è dovuto al fatto che siamo sempre in giro per gli hotel!»
“Va bene. Ora una domanda personale. Lei dice sempre di essere alla ricerca del vero amore. Come mai finora ancora non l'ha trovato? Lei è amato da così tante ragazze!”
Proprio oggi questa domanda? Mi sale un groppo in gola, e non so perché. Mi sento il respiro che si blocca e non ne capisco il motivo. Ho l'istinto di chiudere la chiamata, e gettare lontano il telefono. Invece sono immobile con il telefono stretto fortissimo nella mano destra. Chiudo gli occhi, li strizzo. Ma che mi succede? È una domanda che mi hanno fatto tante, troppe volte. Risponderò anche questa volta, senza problemi.
“Signor Kaulitz? È ancora lì?”.
«Sì scusi, non prendeva bene la linea. Dicevamo... Beh sì, la risposta credo sia che viaggiamo talmente tanto e stiamo in un posto così poco tempo che non ho la possibilità di conoscere a fondo una ragazza per potermene innamorare!», rispondo come se nulla fosse. “Okay. Grazie mille per il suo tempo! Arrivederci.”
«Grazie a lei, arrivederci!», dico con finto entusiasmo.
Digito il tasto rosso e lascio cadere il cellulare sul materasso. Sto per qualche secondo seduto con le ginocchia rannicchiate a fissare il vuoto. Poi mi alzo di scatto e mi fiondo in bagno. Apro il rubinetto della vasca idromassaggio al massimo e inizio a spogliarmi gettando i vestiti per terra. Mi guardo allo specchio mentre il mio corpo si scopre. Quando sono nudo mi osservo più attentamente. Ho la pelle d'oca. Fa freddo, nonostante il vapore dell'acqua calda inizi a scaldare la stanza. Mi avvicino allo specchio e mi guardo il viso scavato. Il trucco è un po' sbavato e le occhiaie sono più pronunciate di quanto fossero la mattina. I capelli sono scomposti. Quando ero uscito per la signing session erano perfettamente tirati all'indietro, un po' cotonati. Ora sono tutti spettinati, e un ciuffo mi ricade davanti l'occhio sinistro. Allungo una mano, e sfioro lo specchio. La manicure è perfetta. Lo smalto nero che mi dipinge le unghie è perfetto. Ma la mia mano è così magra, lo è sempre stata. Come il resto del corpo. Mi hanno sempre dato dell'anoressico, ma non lo sono mai stato. L'anoressia è una malattia mentale. Io invece mangio regolarmente, a volte mi dimentico di farlo, ma è solo perché sono troppo impegnato, non perché voglio diventare uno scheletro che, tra l'altro, sono già. Mi si vede perfettamente ogni costola e le linee dell'inguine sono ben pronunciate.
Mi fisso ancora una volta allo specchio con gli occhi spenti e l'espressione sbattuta. Poi mi volto, e chiudo l'acqua del rubinetto. La vasca è quasi piena. Immergo una gamba nell'acqua bollente, poi l'altra, finché non mi inserisco completamente fino a spingere il livello al limite della vasca.
Poggio la testa contro il bordo, mi lascio scivolare in quel liquido caldo e trasparente. Chiudo gli occhi. Sento il vapore caldo che mi accarezza il viso. E il gusto salato che mi raggiunge le labbra. Non è vapore, sono lacrime.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Sono ancora tra le braccia di Morfeo, quando sento picchiare dei colpi alla porta. All'inizio, inglobo il rumore esterno nel sogno confuso in cui mi trovo. Poi lentamente la mia mente si affaccia alla realtà e comprendo che è qualcuno che bussa alla mia stanza. «Voglio dormire», mugolo tra me e me infilando la testa sotto il cuscino e sperando che ritorni il silenzio. I colpi però continuano, anzi si fanno più forti, al che io, esasperato, mi trascino fuori dalle coperte calde e striscio i piedi fino all'ingresso della mia stanza. Abbasso la maniglia e apro la porta stropicciandomi gli occhi. Mi trovo davanti Tom, già vestito nei suoi soliti abiti larghi, che mi guarda male con le mani ferme sui fianchi.
«Vuoi muovere quel tuo culo secco?», mi rimprovera.
«Ma che vuoi? Stavo dormendo», mi giustifico io.
«Abbiamo un photoshoot tra un'ora. E considerato che tu ci metti due ore a prepararti, siamo in ritardo».
«Cazzo, me n'ero dimenticato. Chiama Natalie, intanto mi vesto».
Tom alza gli occhi al cielo. Vorrebbe replicare, lo so. Qualcosa tipo “Ma chi sono io? Il tuo servo?”, ma se lo risparmia perché faremo ancora più tardi. Si limita a borbottare qualcosa tra i denti e se ne va. Io allora torno in camera, mi lavo e mi cambio tre volte prima di scegliere cosa indossare. E la mia scelta ricade su jeans chiari di Dior, maglietta di Barneys, scarpe da ginnastica Rick Owens e giacca Dsquared.
In effetti non conta molto cosa mettersi addosso per fare un servizio fotografico, tanto i vestiti te li impone chi di dovere, quando sei là. È anche vero però che ho fatto solo tre cambi. E di solito sono almeno sei. Mentre mi allaccio le scarpe sento bussare nuovamente alla porta. Sbuffo e mi dirigo verso all'ingresso con i lacci di una scarpa che strisciano sul pavimento. «Che c'è ancora?», chiedo a Tom che sta di nuovo in piedi sul mio ingresso.
«Natalie dice che ti truccheranno e pettineranno là. Quindi non c'è bisogno di lei per stamattina», mi risponde.
«Sei un vero idiota, Tom».
«Perché, che ho fatto?», mi chiede con una smorfia.
«Perché mi hai fatto alzare un'ora prima, quando non ce n'era bisogno!», gli grido.
«Ah. Beh. Mi dispiace. Allora andiamo a fare colazione, no?», cerca di rimediare lui.
«Io non esco struccato e spettinato».
«Oh, che petula che sei! Mettiti una cuffia e un paio di occhiali da sole e non se ne accorgerà nessuno. Ti va bene?».
«Mmh, d'accordo. Finisco di prepararmi e andiamo».

Tom mi porta in un bar carino non lontano dall'hotel. Ovviamente siamo il più camuffati possibile, attrezzati entrambi di cuffia, occhiali da sole e sciarpa tirata su fino al naso, per non farci riconoscere. Ma nonostante ciò, qualche fan ci becca lo stesso durante il tragitto e ci chiede un autografo.
All'interno del bar siamo al sicuro e nessuno ci disturba più. È tutto molto lussuoso qui. Come tutto nella mia vita, del resto.
C'è una strana atmosfera ovattata con musica classica di sottofondo. I camerieri sono in divisa: camicia e gilet, nonostante sia solo l'ora di colazione. I tavolini sono trasparenti, ognuno accompagnato da quattro poltroncine color panna, quelle così morbide che quando ti ci siedi sprofondi.
Io ordino un cappuccino con brioches alla crema, mentre Tom un semplice caffè macchiato. Amo la colazione italiana. Fino a due anni fa, la mia colazione sarebbe stata pancetta, würstel e uovo strapazzato. Poi sono diventato vegetariano, e dopo aver scoperto il cappuccino ho decisamente cambiato gusti. È una colazione più leggera e con più calorie. E si addice a una celebrità.
Quando il cameriere ci serve, inizio ad agitare una bustina di zucchero di canna per poi aprirla e versarla nel mio cappuccino. Immergo il cucchiaino nella tazzina e lo rigiro in modo meccanico, fissando il vortice che si crea nella sostanza cremosa.
«Allora, come va?», mi chiede Tom.
«Come dovrebbe andare?», dico io sulle mie.
«Non lo so. È un po' che non parliamo, tra una cosa e l'altra...».
«Va... normale. Sì.», dico giocherellando con la schiuma nel mio cappuccino. In realtà, non so nemmeno io come va. «Sei agitato per il tour in arrivo?», mi chiede.
«Sì, forse. Un po'», ammetto, «Tu?».
«Parecchio. Anche se abbiamo già fatto dei tour, questa è una cosa più seria, completamente nuova. Mi sembra di essere agli esordi. Sono un po' teso. Ma sono contento di questo».
«Sì, logico. Anche io sono contento. È quello che abbiamo sempre sognato».
«Già. Mi sembra ieri che andavamo di nascosto in camera di mamma e papà a improvvisare concerti sul lettone». Rido a quel ricordo. Alzo gli occhi dalla tazza e vedo che anche Tom sorride. E mi fa uno strano effetto. Mi fa stare meglio.
«Alla fine sarà la stessa cosa di quattordici anni fa. Solo che questa volta ci sono anche Georg e Gustav, qualche migliaio di fan in più e un palco che è una figata, altro che lettone», gli dico, dopo aver bevuto il primo sorso di cappuccino.
«Ed io e te, siamo sempre gli stessi, vero? Come tredici anni fa», mi chiede Tom.
Poso la tazzina sul tavolo, tenendola però tra le mani. Non sono sicuro della risposta. Non sono sicuro di essere rimasto uguale a prima. Sento che qualcosa sta cambiando in me. Ed il fatto che io non sappia cosa sia di preciso, mi spaventa. Ma me lo terrò per me, finché non saprò per certo di cosa si tratti. E forse custodirò il segreto anche allora.
«Sì Tom, come tredici anni fa».

* * *

Alla sera, dopo il photoshoot, sono distrutto. È durato tutto il pomeriggio, abbiamo fatto non so quanti cambi di vestiti e non so quante pose diverse. Sembrava non andasse mai bene nulla al fotografo, finché alla fine, forse qualche scatto decente l'abbiamo fatto. Anche se comunque, basta che ci metti la mia faccia, e non importa che cosa indosso, sarà comunque una bella foto.
Ho appena finito di fare la doccia e giro per la mia suite in accappatoio. Tiro fuori dei vestiti a caso dalla valigia e li indosso. Tanto per stasera non credo di uscire, non ho voglia di affrontare fan e paparazzi, me ne starò qui. Sto forse diventando un pantofolaio? Mh, magari vado a vedere che fa Tom. La chiacchierata di stamattina mi è servita. Abbiamo parlato di un sacco degli episodi di quando eravamo piccoli e abbiamo fatto progetti di come sarà il tour che partirà tra poco. Mi mancava la compagnia di Tom, siamo sempre così impegnati che anche una chiacchierata normale, per noi è qualcosa di speciale. Busso alla porta della sua camera e subito mi apre lui a torso nudo con un asciugamano attorcigliato in testa.
«Ehi! Che succede?», mi chiede.
«Nulla. Mi annoio. Ti disturbo?».
«No, figurati. Entra», dice spalancando la porta e spostandosi di lato.
Io obbedisco, e faccio ingresso in una suite identica alla mia.
Mi butto sul divano mentre Tom cerca una maglietta in mezzo alla pila di vestiti che sta sulla poltrona. «Non esci stasera?», mi chiede.
«No. Non mi va. Tu?»
«No. Posso benissimo divertirmi qui», dice con un sorriso sbilenco.
Mi viene da sorridere, credendo che intendesse divertirsi con me, magari ricordando i vecchi tempi.
Poi penso che quello che mi sta parlando è Tom e che sicuramente per 'divertimento' intende una scopata. «Mmh, fammi indovinare. Aysha?».
Tom si infila la maglietta e si siede sulla poltrona di fronte a me, accendendo il televisore su MTV.
«Sbagliato. Stasera Cindy», dice compiaciuto.
«Cindy? Non pensavo ti attirassero le ragazze acqua e sapone. Pensavo andassi più sul sadomaso», dico alzando un sopracciglio.
«Oh, è questo il bello. Quelle che sembrano tanto dolci e carine, in realtà sono delle puttane incredibili. Dovresti provarla Cindy, una volta. A proposito, da quant'è che non ti fai una scopata, fratellino?».
In effetti, da tanto. La cosa assurda è che quasi non ne sento il bisogno. Mi sembra di avere così tante cose da fare, da non trovarne più il tempo. Forse è per questo che sono così teso in questi giorni.
«Da un po'», ammetto.
«Beh, è quasi ora di dare da mangiare al pesciolino», scherza Tom, «sai, non volevo dirtelo, ma ti vedo un po' sciupato ultimamente».
Ma è così evidente? Mi sento strano, ma non pensavo che anche gli altri mi vedessero strano.
«Sai che faccio?», dice Tom senza che facessi in tempo a replicare, «Prenditela tu Cindy stasera. Ne hai bisogno. Io chiamo Aysha».

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Non oppongo resistenza a Cindy quando inizia a baciarmi, prima le labbra poi il collo. Fino a scendere, sempre più giù. È una bella ragazza, sottile ma non molto alta, con i capelli lunghi, lisci e biondi, gli occhi di un particolare colore, tra il marrone e il verde. Sono come un oggetto tra le sue mani, immobile contro il muro della mia camera da letto. Non mi oppongo alle sue mani che lentamente mi sfilano la maglietta, né do segni di interesse. Pensavo che il sesso mi avrebbe liberato dai pensieri, invece è ancora peggio. La mia mente è ovunque tranne che in questa stanza.
Concentrati Bill, concentrati. Su, fa' qualcosa anche tu. Eppure, non mi muovo.
Lei getta la mia maglietta per terra ed inizia a leccarmi i capezzoli e giocare con il piercing che vi è attaccato a uno di essi. Faccio una smorfia, infastidito.
«Beh, che c'è? Non fai nulla?», mi dice lei.
Non trovo neanche le parole per rispondere. Semplicemente non mi va. E non desidero altro che se ne vada. Perché do sempre retta a Tom, perché? Che se le tenga per lui le sue puttane.
«Ho capito. Fai il passivo, eh?», sogghigna lei, «So io cosa vuoi».
Lentamente si abbassa e inizia a slacciarmi i pantaloni. Prima la cintura, poi fa scorrere la zip, finché rimango in boxer. Mi sfila pure quelli e quando vede che non c'è segno di erezione tra le mie gambe sembra vivamente stupita.
«Questo è davvero curioso», dice.
Non è colpa mia. Evidentemente stasera non è serata. E poi, sono... stanco. Molto stanco, sì.
Ben presto però non ho più bisogno di giustificazioni, perché Cindy con un lavoro di mano risveglia inevitabilmente il mio amichetto. Non contenta, scivola in ginocchio e si prende il mio pene in bocca.
Mi fa quasi schifo pensare a quello che questa ragazza sta facendo a me. Chiudo gli occhi cercando di evadere da questo momento, di pensare a qualcosa che mi distragga da ciò che sta accadendo realmente. La prima cosa che mi viene in mente è il ragazzo incontrato il giorno prima alla signing session. Quei suoi occhi blu e il piercing a labbro che gli avrei strappato con un morso. Inizio ad immaginare che sia lui inginocchiato davanti a me. Appena l'immagine prende forma nella mia mente una scarica di piacere mi pervade la spina dorsale. Emetto un gemito di piacere e secondo la mia versione, il ragazzo dagli occhi blu inizia a succhiare più forte. I gemiti si fanno sempre più forti, butto la testa in dietro e boccheggio. Allungo una mano verso la testa in ginocchiata davanti a me, ma quando mi accorgo di toccare capelli lunghi, il mio sogno si infrange e ritraggo subito il braccio. Cerco di immaginare nuovamente lo scenario di prima, e la cosa mi piace, finchè sento l'orgasmo crescere e infine vengo. Ho la fronte inumidita di sudore. Apro gli occhi e vendo Cindy mezza nuda rialzarsi e ricomporsi davanti ai miei occhi.
«Ti è piaciuto?», dice una voce vellutata e femminile. Sento un conato di vomito.
Voglio che se ne vada. Subito. Mi fa schifo e mi faccio schifo.
Tutto ciò è estremamente sbagliato.
Ho solo voglia di rimanere da solo e di andare a dormire. Mentre mi riallaccio i pantaloni, sento Cindy che mi chiede: «Ehi, che fai?».
«Mi vesto, mi sembra ovvio», dico sbrigativo senza guardarla negli occhi.
«E perchè mai? Anche io voglio divertirmi».
«Non è un mio problema», le rispondo secco.
Lei sembra shoccata dalla mia risposta. Mi guarda con gli occhi sgranati e la bocca aperta mentre mi rimetto la maglietta. Evidentemente, non è abituata a ricevere un rifiuto. Considerato che è una delle troiette di mio fratello, posso facilmente intuirne il carattere. «Che c'è, hai paura di non essere alla mia altezza?», mi spiattella acida.
Ma per favore. Ne ho viste tante di ragazze, tu non sei la migliore di tutte, né migliore di me. E poi non eri neanche tu a... Mi blocco. No. Piantala.
Non la considero e continuo a vestirmi.
«O sei forse diventato gay?», aggiunge.
Sento le vene gelarsi dentro di me. La testa pulsarmi. Le mani tremarmi mentre cerco di riallacciarmi la cintura. Oh, no. Questo non dovevi dirlo. Questo proprio non dovevi dirlo.
Faccio un bel respiro. Cerco tempo, cerco aria.
Prima mi sento come ferito da quelle parole acide. Dovrebbero sembrarmi vuote ed invece le sento pesanti e rimbombanti nelle mie orecchie.
Poi mi trapassa un fottutissimo nervoso per tutto il corpo. Ti sistemo io, stronzetta.
«Gay? Io?». La guardo con gli occhi socchiusi. Lei mi squadra con aria di sfida e un sorrisetto compiaciuto. Te lo tolgo subito quel sorrisetto, puttana.
Mi avvicino lentamente. Lei sembra soddisfatta.
Finché non mi avvicino troppo. E la inchiodo al muro, tenendola per un braccio. Sento il suo respiro addosso, ma non è una sensazione piacevole. «Uh. La belva si è risvegliata», sogghigna ancora lei, iniziando a passarmi la mano libera sul mio fianco. Oh no, allora non hai capito. Ora comando io.
Le stringo più forte il polso e la trascino fino al letto. «Hey, così mi fai male!», si lamenta.
«Non era questo che volevi?», le dico sbattendola sul letto.
Le salgo sopra e mi tolgo prima la mia maglietta, poi la sua.
Cerca di toccarmi in qualche modo, di accarezzarmi, ma io le inchiodo le braccia sul materasso, le blocco il bacino con le mie gambe, impedendole ogni movimento.
Non riesco neanche a decifrare la sua espressione. È tra l'incredulo e... paura?
Ora non si muove neanche più. Lascia che sia io a dominare la situazione. Ed io sono talmente incazzato che non controllo nemmeno i miei movimenti. La spoglio con decisione ed inizio a baciarle il collo. O meglio, il collo del ragazzo dagli occhi blu. O il suo? Non distinguo nemmeno più la realtà dalla fantasia. Non so chi ho di fronte, né di preciso cosa sto facendo. So solo che sono arrabbiato, molto arrabbiato. Quasi mordo. Lei sospira. Forse non è quel tipo di sospiro, ma non importa. Eppure, non mi fermo. Ora sì che sono eccitato. E voglio scoparmela, in modo da farle chiudere quella bocca. Così da non farle sparare più cazzate.
Mi slaccio i pantaloni, me li tolgo e li getto dietro di me.
Lei stringe gli occhi mentre la penetro. Per un momento sembra rilassarsi, poi è di nuovo tesa. Distolgo da lei la mia attenzione, concentrandomi sul piacere crescente che provo.
«Potresti fare un po' più piano?», azzarda lei.
Solo allora mi accorgo dei miei colpi decisi, violenti. Ma la ignoro, facendo finta di non averla sentita. È come un oggetto tra le mie mani. La mia valvola di sfogo. Vedendo che non rallento, tace, subendo i colpi, uno dietro l'altro.
Inizia a gemere anche lei e questo mi eccita ancora di più. Sospiro più forte e infine vengo.
Subito mi lascio cadere su di lei, con il fiatone. Poi vedo la sua espressione quasi spaventata e per qualche motivo mi alzo dal letto.
«Fuori di qui», le dico.
Lei raccoglie i suoi vestiti sparsi per terra e se ne va a gambe strette.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


C'è silenzio. Solo il rumore del motore e delle ruote sull'asfalto. Ogni tanto sbadiglio. Mi sento le palpebre dure e pesanti. Mi appoggio allo schienale di pelle nera e guardo fuori dal finestrino, mentre negozi, abitazioni, passanti, mi sfrecciano sotto gli occhi.
«Sei emozionato?».
Mi volto verso Tom. Lui mi guarda, con uno sguardo comprensivo.
«A dire il vero sì, sono molto nervoso. Tu?».
«Sì anche io. Sono abbastanza curioso».
È una giornata importante oggi. Vedremo per la prima volta il palco realizzato appositamente per noi, per il nostro tour. Ovviamente ne abbiamo già avuto una visione abbozzata dal progetto. Ma vederlo concretamente, vederlo dal vivo, sarà tutta un'altra cosa. David, il nostro produttore, l'ha già potuto assaporare, ha detto che è pazzesco, immenso davvero. Non vedo l'ora di poterci salire, di poterlo dominare, potervi sciogliere le mie emozioni e fonderle con le lamine d'acciaio che lo costituiscono.
Sarà magico.
«Ah senti, ancora non te l'ho chiesto. Com'è andata ieri sera?», mi chiede Tom.
«Ieri sera cosa?», chiedo innocentemente.
«Con Cindy».
Cindy. Cazzo. No.
Mi ritorna tutto alla mente in un flash. Ma la visione che ho ora di quello che è accaduto è completamente diversa dal modo in cui la vedevo la sera precedente. Rivedo lei rigida sul letto, che mi stringe i polsi, con quell'espressione strana in volto che non capivo o non volevo capire. Rivedo il ragazzo con gli occhi azzurri. Mi faccio schifo da solo. Mi faccio molto schifo. Ero davvero io in quel corpo? Ero davvero io a trattare così una persona che nemmeno conoscevo?
Non so più cosa pensare nemmeno di me stesso. Mi sento tremendamente fuori controllo. Non nel senso di furioso, ma nel senso di essere comandato da qualcun altro o qualcos'altro. Come se un bimbo dispettoso avesse preso in mano il joystick della mia vita e avesse iniziato a giocarci, ma nel modo sbagliato, facendomi andare a sbattere contro i muri e non prendendo le monetine luccicanti che ti danno i punti.
«Bill? Pronto?».
«Eh? Ah, sì. Con Cindy tutto a posto. È stata una serata carina», dico di getto.
Certo non dirò a Tom la verità. Lui è la cosa più preziosa che ho. Non voglio fargli schifo, non voglio che pensi che sono un mostro. Già lo penso io e questo mi basta.
«è una bomba, eh?», ammicca Tom.
«Ne ho viste di migliori. Ma sì, non è male», invento sudando freddo.
Spero che Tom non faccia altre domande. Passa qualche secondo, mentre sono sulle spine pronto a inventare qualche altra balla, quando lui si gira dall'altra parte e riprende a fissare il finestrino. Per fortuna.
Continuiamo il viaggio così, in silenzio, un po' per il sonno, un po' perchè non abbiamo molto da dire. Un po' perchè io sono pietrificato da ciò che mi ha fatto tornare alla mente. Finché, la macchina si ferma e l'autista ci avvisa ci essere arrivati a destinazione.
Il bodyguard mi apre la portiera ed io scendo dal mezzo posando elegantemente sull'asfalto le mie Jimmy Choo tacco dieci. Scendono anche Georg e Gustav dall'altra auto e insieme entriamo in un edificio immenso. C'è un atrio con le pareti bianche e qualche sedia attaccata al muro, nulla di che.
Subito ci accoglie una donna bionda sulla trentina, sorridente e cordiale.
«Voi dovete essere i Tokio Hotel. Piacere, sono Misty Buckley, la progettatrice del palco».
A turno le stringiamo la mano, pronunciando i nostri nomi con enfasi.
«Bene, se volete seguirmi diamo un'occhiata al lavoro che stiamo svolgendo».
Senza dire una parola la seguiamo ansiosi di vedere quale grande creazione ci aspetta. Non ho mai avuto occasione di incontrare Misty prima, ci ha sempre parlato David per noi come un tramite e solo un paio di volte l'ho sentita al telefono. Ora che ce l'ho davanti, anche se non la conosco, mi dà l'idea di una donna forte e indipendente, che sa quel che vuole e non ha bisogno di nessuno per ottenerlo. Mi piace.
Attraversiamo un corridoio lungo e stretto fino ad arrivare a un ingresso a due porte. Misty le apre entrambe e davanti a me si apre un abisso. Qualcosa di enorme, magnifico. Avanzo qualche passo a bocca aperta osservando il palco metallico che si erge lì di fronte. Al centro vi è una sorta di sfera, un uovo, con delle fessure che ricordano il simbolo dei Tokio Hotel. Ai lati ci sono delle scale che portano ad un secondo piano. E poi c'è la passerella, più corta però rispetto agli altri anni. Avevo visto il progetto in disegno, ma vederlo dal vivo è qualcosa di indescrivibile, magnifico.
Nessuno parla, siamo tutti rapiti dalla struttura.
«Ovviamente non è finita, stiamo lavorando agli ultimi ritocchi. Manca la ringhiera per il secondo piano, la vernice e altri dettagli», dice Misty. Solo ora mi accorgo che alcune persone sono alle prese con i lavori e sono sparse per il palco, per finire l'opera.
«Puoi avvicinarti Bill! Anche salire sopra se desideri», mi incoraggia Misty.
Distolgo lo sguardo dal palco e mi volto verso di lei sorridendole: «Certo, grazie».
Tom, Georg e Gustav lo stanno già osservando da vicino, solo io ero rimasto all'ingresso, incantato. Cammino veloce verso gli altri e mi blocco raggiunta la passerella. Sfioro il metallo da cui è costituita, un brivido mi percorre la schiena. Chiudo gli occhi. Vedo i fan, sento le grida, la mia voce, vedo Tom che mi sorride con la chitarra tra le mani, Georg con la testa china sul basso, Gustav con le bacchette tra le dita. Emozioni. Emozioni tanto forti da non poterne fare più a meno. Voglio concerti, rivoglio un tour. Non vedo l'ora.
«Ehi Bill, vieni quassù a vedere!». Alzo la testa e vedo Tom correre sul palco. Sorrido e lo raggiungo.
Salire sopra mi dà ancora più i brividi.
«Guarda, c'è la botola!», dice Tom indicando il pavimento al centro del palco.
Il mio sguardo si illumina: «Oh, per la moto! Fantastico, davvero fantastico!».
«Già, e anche per il pianoforte», aggiunge lui.
«Hey non saliteci sopra, dei pezzi per la botola devono ancora essere saldati!», sento che dice qualcuno alle mie spalle. Mi volto e noto un ragazzo appeso a una corda che sta verniciando qualcosa, in alto e sta guardando dalla nostra parte.
«Dici a noi?», chiede Tom.
«Sì, proprio a voi!», risponde il ragazzo da lassù.
Lentamente la corda a cui è appeso cala sempre più in basso fino a consentirgli di toccare terra senza farsi male. Si scioglie dall'imbragatura e ci raggiunge.
«Non vi conviene salire lì, potreste farvi male, sul serio», dice il ragazzo guardando Tom.
«E tu chi sei per dirlo?», lo accusa Tom.
«Sai, io lavoro qui», gli risponde il ragazzo alzando un sopracciglio.
«A noi è stato detto di poter andare dove volevamo», continua Tom.
«Non ti ho impedito nulla, ti ho solo avvisato», gli risponde esasperato il ragazzo.
«Piantala Tom, non fare lo stronzo», lo rimprovero.
«Che vuoi tu?», dice Tom rivolgendosi a me.
«Scusa mio fratello, oggi gli girano i coglioni. È solo nervoso per il tour», dico gentilmente al ragazzo. Lui rivolge l'attenzione a me, guardandomi dritto negli occhi. E... mi fa effetto. Ha gli occhi grandi e brillanti, di un colore particolare, castano ma quasi dorato. I capelli color miele corti e spettinati.
«Oh, non ti preoccupare. Se non fosse per il suo tour, io non avrei un lavoro», mi dice il ragazzo come a significare che non gliene importa nulla dell'arroganza di Tom.
Mio fratello fa una smorfia, ma tace.
Gli fisso le labbra mentre parla. Sembrano così morbide e perfette.
«Beh comunque, grazie dell'avvertimento», dico per rimediare alla figuraccia di Tom, «Io sono Bill».
Gli allungo la mano e lui l'afferra stringendola forte.
«Sì, so chi sei. Io sono Kevin».
Tom se ne va irritato, ma ci faccio poco caso.
«Sarò franco con te, trovo la tua musica orribile», mi dice Kevin.
«Oh, grazie per la sincerità. Le critiche sono sempre costruttive», gli rispondo io.
Ho le mani gelate, qui dentro fa davvero freddo. E vedere che Kevin indossa solo una maglietta grigia a maniche corte mi fa tremare ancora di più. Mi raggomitolo nel mio cappotto peloso e metto le mani nelle tasche rivestite di pelliccia.
«Non è per cattiveria, ma io sono di tutt'altro genere. Sai, ognuno ha i suoi gusti».
«Certo. Non possiamo essere tutti uguali. E come mai lavori qui se trovi la mia musica “orribile”?».
Kevin sorride come se lo avessi colto in fallo.
«Bisogno di soldi. Non siamo tutti come te, che stampi una maglietta con la tua faccia sopra e solo con quello hai da mangiare per un anno», mi dice con tono ironico.
«Potresti provare a stampare una maglietta con la tua faccia, magari il risultato non è male come pensi», dico prontamente io rispondendo alla sua battuta.
«Sai, potrei pensarci. Ti dirò», scherza.
«Bill! Hey Bill, dobbiamo andare!».
È Georg che mi chiama dall'altra parte della sala. «Sì, arrivo!», gli grido.
Kevin mi guarda, con quei due occhi brillanti che mi mettono i brividi.
«Io vado, ragazzo-a-cui-fa-schifo-la-mia-musica».
«Io torno al lavoro ragazzo-che-fa-soldi-vendendo-magliette-con-la-sua-faccia-stampata-sopra».
«Ci vediamo», sorrido iniziando a scendere le scale.
«Sì, a presto», dice lui.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


«Allora che ne pensate, ragazzi?».
«Oh David, è la cosa più fica che abbia mai visto», risponde Georg sputacchiando pezzi di pollo ovunque.
«Sarebbe più fico se non parlassi a bocca piena», dico guardando un pezzo di carne volato nel mio piatto di insalata.
«No, sul serio David, questa volta abbiamo superato noi stessi. Sarà qualcosa di incredibile. Rimarrà nella storia quel palco», dice Tom in estasi.
«Ora non esageriamo», ribatte David, «Madonna ha fatto di meglio».
«Ci sottovaluti», risponde Tom, «Madonna è una, noi siamo quattro».
Siamo tutti e cinque in hotel per pranzo: i Tokio Hotel con il loro manager. Momenti come questi in realtà non sono molto frequenti, David ha sempre un qualche pranzo di lavoro e noi preferiamo il servizio in camera. Oggi però abbiamo deciso di festeggiare questa magnifica sorpresa che è stato un palcoscenico da urlo, con un pranzo tutti insieme.
«No dico, avete visto l'uovo?», se ne esce Gustav.
«Assomiglia molto alla mia palla sinistra. Per questo lo amo».
Tutti smettiamo di mangiare e rimaniamo con le forchette a metà strada e la bocca spalancata fissando Tom. Mio fratello dopo pochi secondi alza lo sguardo e nota che lo stiamo tutti osservando.
«Beh, che c'è?».
«Perchè scusa? La palla destra cos'ha di diverso?», chiede Georg.
«è leggermente più piccola», risponde Tom indifferente. «Hai una palla più grande dell'altra?», dico io sull'orlo della risata.
«Sì, e allora? Pensavo lo sapessi, siamo gemelli e abbiamo fatto anche il bagno insieme da bambini», dice Tom capendo di aver tirato fuori una discussione che doveva rimanere celata.
«Le mie palle sono a posto, e sinceramente non sto a guardare le tue», dico.
«Tom ha una palla di grande dell'altra!», grida Georg. E tutti scoppiamo a ridere.
«Non c'è niente da ridere», si difende Tom con una smorfia. David è piegato in due sul tavolo da pranzo, «Non sapevo di avere un chitarrista con le palle dislessiche!». Tutti ridono più forte e io quasi sputacchio la Coca Cola che stavo bevendo.
«Questo mi mancava Kaulitz, avresti dovuto dichiararlo nell'intervista “Tom, svelaci i tuoi dieci segreti” al posto di “mi piacciono i preservativi alla frutta così poi ho il pene che profuma di lamponi”», ride Georg.
Oh Dio, l'Hobbit un giorno di questi mi farà collassare dal ridere. E mio fratello è davvero un idiota.
«Va bene, dopo questa cosa imbarazzante, cambiamo argomento», dice Tom sentendosi deriso.
«Oh, Tom, Tom, Tom, mi farai morire un giorno di questi. Piccolo Tom...», sghignazza David dandogli dei colpetti in testa. Tom emette un suono quasi simile a un ringhio.
«Su, torniamo a parlare del palco, mi piaceva di più come argomento rispetto ai testicoli di Tom...», dice Gustav ancora sorridendo, mentre Tom lo ringrazia con lo sguardo, «Avete notato i bocchettoni per la fuoriuscita delle fiamme degli effetti speciali?».
«Oh sì. Da paura», dice Georg distogliendo l'attenzione da Tom e rivolgendola completamente a Gustav.
«Cosa? Io non li ho visti!», dico posando il bicchiere.
«Ovviamente, tu eri impegnato a parlare con gli sguatteri...», dice Tom con aria sufficiente.
Gustav, Georg e David puntano lo sguardo su di me, alzando un sopracciglio.
«Sguattero? Tom potevi fare anche tu quel lavoro sai? Non c'è niente di male», ribatto indignato.
«Che lavoro?», chiede David.
«Si riferisce a uno di quei tizi che montano il palco», rispondo io alzando gli occhi al cielo.
David annuisce ma non dice una parola.
«E non è degradante? Devi girare per l'Europa stando dietro a dei pezzi di metallo», dice Tom.
«Ma mi spieghi che cazzo te ne frega? Ti ha solo avvisato di non salire sulla botola. Potrebbe anche averti salvato la vita. Adesso bisogna farne una questione di Stato?!», dico sbattendo le posate sul tavolo.
«Non c'era bisogno di prenderci il tè con i pasticcini. Siamo celebrità Bill, non parliamo con il primo che passa», dice Tom sicuro del fatto suo.
«David, digli qualcosa!», esplodo cercando una difesa.
«Ah, io non mi impiccio. Tra i due litiganti il terzo prende il dolce», dice David buttandosi sul la torta al cioccolato nel suo piatto.
«Ma David, tu sei il manager! Questa cosa in un certo senso ti riguarda», lo incito.
«Bill ti prego, non farmi intervenire», sospira facendomi capire che è più propenso agli ideali di Tom.
«Anche David la pensa come me, Bill. Una celebrità deve avere un certo atteggiamento, deve avere a che fare solo con gente della sua portata», afferma Tom.
«E le tue puttane sono gente della “nostra portata”?», dico sentendo di aver colpito il punto giusto. Tom rimane per un attimo disorientato incassando il colpo.
Poi continua: «No, non lo sono. Ma è solo sesso. Mi hai mai visto uscire con una di loro? Mi hai mai visto chiacchierare allegramente con una di loro?».
«Sono persone Tom, meritano rispetto».
«Sono loro che si sottomettono, per farci un favore. Io colgo solo l'occasione».
Non credo alle mie parole. È davvero Tom quello che parla? «Indi per cui, smettila di fare il ragazzo normale, perché non lo sei più», mi dice.
«Ma guarda te che razza di stronzo! Scendi dal piedistallo tesoro. Io parlo con chi mi pare e piace», dico assottigliando gli occhi.
Prendo il tovagliolo che ho sulle gambe, lo sbatto sul tavolo e me ne vado senza dire una parola.

Pensa di potermi dire cosa devo o non devo fare? Pensa di avere il controllo su ogni mia azione? Beh, non ce l'ha. Proprio non ce l'ha. Sono adulto e vaccinato, ragiono con la mia testa e penso di sapere cosa è giusto per me. Ma che diavolo gli è preso? L'hanno drogato per caso? Non ho mai visto Tom comportarsi così... con quei modi altezzosi, da tirargli due schiaffi in pieno viso. È giorni che penso di avere qualcosa che non va, ma credo di non essere l'unico. Ho fatto cose orrende anche io, con... Cindy... ma so di avere sbagliato e sono pentito davvero. Lui no, in quello che dice ci crede davvero. Che razza di fratello degenere mi ritrovo? “Ed io e te, siamo sempre gli stessi, vero? Come tredici anni fa”. Sti grandissimi cazzi. Il Tom di tredici anni fa non mi avrebbe mai risposto così. E nemmeno il Tom di un anno fa.
Cammino veloce nel corridoio dell'hotel verso la mia stanza, con i pensieri che mi frullano in testa e un mare di rabbia che mi distrugge i nervi.
Ecco, c'era pure la torta al cioccolato come dessert, e per colpa di quello stronzo di Tom l'ho saltato. Anche questa me la paga.
Sono veramente furioso. Non mi interessa il giudizio degli altri e non mi è mai interessato, ho sempre fatto di testa mia qualsiasi cosa dicesse la gente. Ma Tom, cazzo, sopra Tom proprio non riesco a passarci. È l'unico del quale mi è sempre importato qualcosa. E che succede? Si mette a parlare a vanvera su chi dovrei frequentare. No anzi, neanche frequentare, solo scambiare due parole. Che poi, quel ragazzo potrebbe anche averci salvato la vita. Stupido Tom. Stupido fratello snob che pensa solo a infilare il suo pene dove capita. Io non posso parlare con il primo che capita, ma lui può scoparsi la prima che gli capita. Tutto ciò non ha senso.
Faccio scorrere la carta magnetica nell'apposita fessura ed apro la porta della mia camera, la numero 253. Entro sospirando nella stanza e mi butto sul divano nell'entrata. Appoggio la testa sul bordo della spalliera, fissando il soffitto. Sono immobile, ho la testa che frulla di pensieri, di cose, di persone... Voglio essere libero, voglio poter fare ciò che desidero se è qualcosa che ritengo giusto. Ho un tatuaggio che significa Libertà sul braccio, vorrà pure dire qualcosa se me lo sono fatto. E parlare con persone che non hanno i milioni che escono dal culo lo ritengo giusto. Sai che faccio? Oggi mi prendo un giorno di vacanza. Oggi sarò un ragazzo normale che frequenterà persone normali. Il primo giorno di una lunga serie. Mi alzo con uno scatto stiracchiandomi. Prendo il mio cappotto appeso all'attaccapanni, dietro alla porta, indosso una cuffia grigia, gli occhiali da sole. Agguanto infine la borsa ed esco.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Brrr, fa freddo fuori. Nascondo il viso nel cappotto e mi incammino in centro. Mentre ero in ascensore ho pensato già a una lista di cose da fare. Innanzitutto, una tappa da Dior è d'obbligo. Non c'è Tobias che mi può portare le borse, ma pazienza, oggi sono indipendente e farò da solo. Dopodiché credo farò anche un salto da Gucci. E Chanel. E anche da Louis Vuitton. Un po' di sano shopping non ha mai fatto male a nessuno. Ma non posso stare in giro troppo oppure si accorgeranno della mia assenza, inizieranno a cercarmi come cercano un carcerato evaso e sarà la fine della pacchia. Specie se lo scopre David. Devo darmi una mossa e tra due ore devo essere di nuovo in Hotel.
Giungo per le vie del centro e procedo a passo deciso in mezzo alla folla. Mi guardo intorno, osservo la gente, ma sembra che nessuno badi a me. Oggi, sono solo uno dei tanti. Quelli che passano inosservati. Quelli normali. Scorgo la vetrina di Chanel in lontananza, con le due grandi C del logo incrociate che luccicano nell'insegna. Mi dirigo a destra della via e do un'occhiata veloce ai negozi. Swarovski. Troppo luccicante. Rolex. Hey, quello in vetrina è l'orologio di mio fraltello! 5.480 euro? Cavolo, notevole. Non sapevo avesse speso tanto, perchè non me lo ha... beh, fa niente. Zara. Decisamente non il mio posto. Chanel. Eccolo! Una scintilla mi illumina gli occhi. Guardo sognante il negozio, che considero uno dei più chic in assoluto. Due bodyguard vestiti completamente di nero, muniti di occhiali da sole e auricolare mi squadrano dall'alto in basso. Osservo la vetrina alle loro spalle, dove troneggiano lussuose due borse in pelle con il logo del marchio in metallo in bella vista, due manici e una tasca laterale. Una nera e l'altra bianca. Sudano soldi solo a guardarle. Accanto, un portafoglio abbinato alla borsa nera e un ciondolo classico con il marchio. Faccio per salire il primo gradino per accedere al negozio ma vengo fermato da uno dei bodyguard. Mi blocco indispettito.
«Posso vedere un documento?», mi chiede freddo.
«Certo», rispondo con una certa stizza.
Frugo nella borsa in cerca del portafoglio e quando lo trovo sfilo il mio passaporto. Glielo mostro e noto un cenno di sorpresa nell'espressione dell'uomo.
«Bill Kaulitz?», domanda retorico il bodyguard.
«Così dicono», rispondo io indifferente.
«Prego signore, da questa parte», dice l'uomo con un'improvvisa cortesia. Percorre la scalinata e mi apre la porta di vetro.
«Grazie», rispondo io seguendo il suo invito.
Attraverso l'entrata e la porta si chiude alle mie spalle. C'è un'atmosfera ovattata qui, un profumo di lavanda misto a Chanel n°5. E c'è una temperatura così accogliente che finalmente il mio naso può scongelarsi. Percorro a passi lenti la moquette beige, osservando tutto ciò che mi circonda: eleganti scaffali su cui sono esposte comodamente borse dal valore inestimabile. Portafogli ingabbiati in vetrine cubiche; gioielli accuratamente sistemati in vetrine splendenti di sicurezza. Tutto perfettamente tirato a lucido e che odora di lusso.
«Buongiorno, posso aiutarla?».
Mi volto, abbandonando con lo sguardo il portafoglio nero con il logo Chanel pitonato che aveva attirato la mia attenzione. Una commessa mi sorride raggiante mostrando disponibilità. Anche lei si abbina allo stile del negozio. Perfettamente truccata, con il caschetto platinato e un tubino nero, si regge su un tacco 12. Sembra che ce l'abbiamo messa dentro incorporata al negozio. Come Barbie e la casa delle bambole.
«Sì, potrei vedere la borsa nera in vetrina per favore?», le dico.
«Certamente. Quella in pelle o quella di paillettes?», mi chiede lei.
«Quella in pelle», rispondo indicandogliela.
«Gliela mostro subito, è l'ultima rimasta», mi informa. Chissà perchè è una frase che sento spesso.
Procede a passi veloci verso la vetrina, si abbassa ed estrae il pezzo dalla vetrina.
«Ecco a lei», me la porge.
Io la prendo in mano delicatamente e l'accarezzo. È un tuffo al cuore ogni volta che sfioro un pezzo Chanel. Ogni borsa sembra abbia un proprio carattere, completamente diverso dalle altre. Mentre la osservo nei minimi dettagli, la commessa si accinge a descrivermela diligentemente: «E’ realizzata in pelle matellassè nera con doppi manici e logo metallico. Una borsa classica nel colore più classico, elegante e perfetta sempre, la definirei immortale».
«Un vero splendore», affermo, «la prendo», aggiungo con uno sguardo adorante verso quella che sta per diventare la mia Chanel.
«Le preparo subito una confezione», mi sorride la commessa compiaciuta del suo lavoro. Mi prende la borsa dalle mani e giunge al bancone. Mentre la infila in una borsa protettiva di tessuto e in un'altra borsa di carta e plastica rigorosamente firmata Chanel, io mi guardo ancora intorno. Sono davvero tentato dal comprare il portafoglio abbinato, ma appena una settimana fa ne ho acquistato uno di Calvin Klein. Magari la prossima settimana ci ritorno. «Sono 2.050 euro», mi annuncia la commessa.
Tiro fuori giust'appunto il portafoglio Calvin Klein e sfilo la carta di credito. La commessa la fa passare nel nastro e compie le opportune procedure. Mi porge i due scontrini da firmare ed io così faccio. Le restituisco uno dei due pezzi di carta e prendo in mano la borsa con il mio nuovo acquisto. Lei spalanca la bocca leggendo il mio nome sullo scontrino.
«Grazie mille, arrivederci!», le dico cortese.
«Grazie a lei! Torni a trovarci signor Kaulitz!», dice la commessa con una voce un po' troppo stridula.
Apro lentamente la porta di vetro, facendomi travolgere mio malgrado da una ventata di aria gelida.
«Ti dico che è lui!».
«Figurati, sarebbe troppo bello».
«Sì invece, ho sentito prima il suo nome».
«Te lo sei sognato, dai andiamo, sono stufa di aspettare qui inutilmente. Fa un freddo cane».
«No aspetta, guarda sta uscendo!».
Scendo velocemente le scale con lo sguardo basso. Spero di aver sentito male.
Arrivato in fondo alla gradinata vedo due figure che mi osservano quasi spaventate.
«Arrivederci signor Kaulitz e buona giornata!».
Mi volto, ed è il bodyguard alle mie spalle a salutarmi, quello che prima mi aveva richiesto i documenti. Ed ho come un brutto presentimento.
«Ehm sì, arrivederci!», mormoro cercando di non dare nell'occhio.
Accelero il passo, imboccando una direzione qualunque.
«Bill? Sei Bill Kaulitz?».
Merda.
Le due figure spaventate ore mi appaiono due ragazze ben visibili, che mi bloccano il passaggio. Una ha i capelli lunghi e biondi, con gli occhi castani, l'altra ha il caschetto nero e gli occhi verdi con un piercing al labbro. Mi fermo non sapendo bene cosa fare, se fuggire via oppure accontentarle per togliermele dai piedi. Maledetto bodyguard.
Pur non rispondendo alla loro domanda, loro mi chiedono «Possiamo farci una foto?».
«Certo», rispondo io con un sorriso. Un finto sorriso. Loro tirano fuori una macchina fotografica, si sistemano di fianco a me, una da una parte e una dall'altra. La ragazza con il caschetto scatta una foto allungando il braccio con l'obiettivo rivolto verso di noi. Ritrae poi il braccio verificando come sia venuta la foto.
«Ops. Caroline tu sei tagliata a metà.», dice guardando perplessa la foto e rivolgendosi alla sua amica, «un secondo Bill!», dice rivolgendosi a me e correndo poi a fermare una passante.
«Scusi! Ci può fare una foto?».
«Certo», risponde la passante, «devo schiacciare qui?», chiede rigirandosi tra i guanti la macchina fotografica.
«Sì, il tasto argentato».
Mi rimetto in posa con un sorriso, mentre la passante ci scatta due foto. Restituisce poi la macchina fotografica alla mora che la ringrazia. Lei a sua volta ringrazia me: «Danke Bill!».
«Bill? Sei quello dei Tokio Hotel?», si blocca la passante, studiandomi.
«Tokio Hotel?!», urla una ragazza che stava passando affianco a noi.
«Cosa? C'è Bill?», domanda la sua amica.
Si fermano tutte e due davanti a me, sorridendo estasiate.
«Bill Kaulitz?!», ne vedo correre una verso di me.
«Oddio, Clara, c'è Bill!».
Bill, Bill, Bill, Bill.
In meno di dieci minuti sono soffocato da mani che tentano di afferrarmi, flash che mi accecano e videocamere che studiano ogni mio inutile movimento.
Sono decisamente nella merda.
«Piano ragazze non mi spingete», riesco a mormorare.
Forse se le accontento tutte, se ne andranno.
Allora inizio a prendere in mano il pennarello che mi offrono e a scarabocchiare firme sbilenche sui pezzi di carta che ho davanti. Ma più ne accontento, più ne arrivano di nuove correndo e urlando “è Bill Kaulitz!” attirando ancora più gente.
Provo a spingerle e a sgusciare via dalla calca ma sono più forti di me e non mi lasciano via di fuga.
Bravo Bill, sei un emerito coglione. E adesso?
Cerco di mantenere la calma cercando una soluzione mentre ancora firmo freneticamente della roba. Forse...
«Bill, ehi Bill!», sento quasi sussurrare.
Non ci bado molto, in quel caos tutti urlano il mio nome. «Pss, Bill, quaggiù!». Ma questa non urla e non è nemmeno una voce femminile.
Abbasso lo sguardo.
«Kevin?», dico strabuzzando gli occhi, «che ci fai lì sotto?».

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