Una persona sbagliata

di billiejoe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Damon ***
Capitolo 2: *** Colchester ***
Capitolo 3: *** Beatrice ***
Capitolo 4: *** Graham ***
Capitolo 5: *** Blur ***
Capitolo 6: *** Essex ***
Capitolo 7: *** Alex ***
Capitolo 8: *** Maria ***
Capitolo 9: *** Jimmy ***
Capitolo 10: *** Mrs Albarn ***
Capitolo 11: *** Dave ***
Capitolo 12: *** Best days ***
Capitolo 13: *** Tender ***
Capitolo 14: *** Jake ***
Capitolo 15: *** Silent Hill ***
Capitolo 16: *** Christmas ***
Capitolo 17: *** Caravan ***
Capitolo 18: *** Across the universe ***



Capitolo 1
*** Damon ***


Damon
 
Damon era seduto allo stresso tavolino in quell’angolo buio e nascosto della caffetteria, e davanti a sé aveva il solito giornale di musica rock, con quella copertina lucida e invitante, sulla quale aveva sognato per tanto tempo di finire un giorno non troppo lontano. Aveva smesso di vagheggiare pochi mesi prima, quando aveva lasciato la sua band, quando i suoi amici stanchi di lui lo avevano cacciato senza troppe scuse. Aveva ventisei anni ormai, era troppo tardi per lui, per ricominciare con un’altra band, e molti grandi rocker a quell’età avevano venduto milioni di dischi, e quelli in copertina forse non avevano trent’anni in quattro.
 
Graham gli aveva portato il suo trabordante tazzone di caffè, e lui gli aveva sorriso timidamente, chiedendogli come fosse andato il provino per quel talent show di cui gli aveva parlato. Nonostante tutto quello che era successo, nonostante i litigi in seno alla band, e nonostante Graham fosse il fratello di lei, Damon continuava a volergli bene, e non riusciva a serbargli rancore. E comunque, lui era ancora il suo migliore amico, l’unico che gli fosse rimasto accanto dopo quello che aveva combinato.
 
I suoi occhi dovevano essere diventati lucidi perché Graham aveva posato il vassoio sul tavolino e si era seduto per un attimo affianco a lui, avvicinando la sedia di ferro non senza far rumore. E poi aveva posato lo sguardo sull’altro giornale, quello che teneva sotto, nascosto, quello che non mostrava ma che aveva ormai consumato anche solo strofinando le dita sulla foto di lei, nel vano tentativo di carezzarla, nella stupida speranza che lei potesse sentire la sua carezza, il suo amore, il suo disperato bisogno di lei.
 
Ma lei era andata via. Pochi giorni prima del suo compleanno, quando lui aveva finalmente trovato i soldi per comprarle quell’anello di diamanti, quando aveva già deciso come e quando chiederle di sposarlo, quando aveva già immaginato nella sua mente ogni dettaglio e ripercorso ogni sentiero che li avrebbe riportati a quel posto sul mare dove si erano conosciuti, dove si erano innamorati.
 
Lei era andata via. Lo aveva lasciato al suo destino da sfigato, in quel miserabile paese nella contea dell’Essex, lo aveva lasciato ad alzarsi ogni giorno alle quattro,a spezzarsi la schiena e a spaccarsi le mani, solo per potersi guadagnare quel poco necessario a pagarsi l’affitto, le rate dell’auto, le corde della chitarra. Lo aveva lasciato lì a sognare di diventare famoso con la sua musica, con le sue canzoni, con le parole che ruotavano nella sua mente vorticosamente, che correvano per inseguire un progetto che probabilmente non avrebbe realizzato mai.
 
Damon aveva fissato la sua tazza di caffè cercando di specchiarsi dentro quel nero profondo, e si era passato le mani tra i capelli biondi per spostarli dalla sua fronte pallida, dai suoi occhi cerulei, mentre Graham correva a prendere un’ordinazione.
 
Erano le cinque del pomeriggio, era l’ora del thè nella fredda e nebulosa cittadina di Colchester, e il rumore dei tram lo aveva ridestato dal torpore che lo prendeva a quell’ora, quando dopo dieci ore alla catena di montaggio era troppo stanco per pensare, e troppo angosciato per riuscire a dimenticare dove fosse, e come ci fosse finito.
 
Londra gli sembrava ormai così lontana, gli sembrava lontana la sua ricca casa nel centro della città, gli appariva lontano suo padre, con le buffe guance rosse e quel sorriso severo, e sua madre timida e riservata che imbandiva la tavola perché tutto fosse perfetto, e i suoi fratelli, e i suoi nipoti, e la sincera allegria di quei giorni passati insieme, quando non sapeva ancora cosa avrebbe spinto suo padre a mandarlo via per sempre, a cacciarlo dal paradiso per spedirlo li, a Colchester, a respirare petrolio per dieci ore al giorno, per 800  fottute sterline al mese.
 
Lì dove avrebbe ricominciato a vivere, daccapo, a diciassette anni, lì dove aveva formato la sua band, lì dove aveva conosciuto Graham, Alex, e Dave, lì dove si era follemente innamorato di Maria.
 

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Capitolo 2
*** Colchester ***


Colchester

 
Doveva essere davvero tardi quando era sgusciato via dalla caffetteria evitando gli occhi indifferenti di quelli che avrebbero dovuto essere, loro malgrado, i suoi futuri suoceri. Era scuro fuori, tanto scuro che neppure la nebbia era riuscita a schiarire quella notte cupa e triste dentro la quale si incamminava.
 
Damon aveva aperto la sua auto distrattamente, e altrettanto distrattamente si era infilato nelle stradine più buie e malfamate di quel piccolo paese di provincia. Dopo che Maria lo aveva lasciato, dopo che anche i suoi amici lo avevano allontanato dalla cosa che amava di più dopo la sua ragazza, dopo che non aveva più motivo di prendere in mano la sua chitarra ogni sera, di suonarla, di cantare i suoi pensieri e le sue emozioni, non aveva neppure motivo di spendere i suoi soldi in corde, plettri e amplificatori. Tutti i suoi fottuti risparmi finivano nelle mani di Jimmy, che era un ragazzotto alto e robusto, coraggioso fino al punto da tatuarsi un capezzolo, e di mostrarlo in giro senza provare vergogna per il suo petto rasato e abbronzato, e la sua panciotta tonda. Jimmy era di Dublino, e aveva una parlata strana, aveva sempre le gote rosse, forse perché il più delle volte era pieno di punch, e di mestiere faceva il puscher.
 
Da quando Maria lo aveva lasciato Damon era tornato nella morsa della droga, era tornato da Jimmy, era tornato nel suo disperato tunnel. Un paio di strisce a settimana, del resto quello poteva permettersi, ma era abbastanza per poter sfuggire al dolore che lo attanagliava almeno per qualche ora, quando anche il prozac scivolava via come l’acqua.
 
Doveva essere tardi davvero perché anche Jimmy era andato via e si era portato dietro le uniche speranze di Damon di passare una serata serena almeno per un paio d’ore. Doveva tornare nel suo angusto appartamento da solo, come ogni sera, doveva mettere la testa sotto le coperte, e piangere nel silenzio assordante di quelle pareti, e cercare di ricordare il suono allegro delle voci dei suoi amici, o l’accento borghese e seccato della sua ragazza che lo rimproverava di essere un fallito.
 
Dalla finestra cigolante della sua stanza riusciva a vedere fuori. La periferia di Colchester era molto meno affascinante delle ridenti casette colorate, coi tetti rossi e gli alberi, e il ridente giardino sul davanti, con gli scivoli, le altalene, i giochi dei bambini. La periferia era cupa e orribile, era la parte più povera di quella città perbene di cui sentiva di non fare parte.
 
Londra sembrava così lontana e a lui mancava così tanto, e mentre ancora si rigirava nel letto cercando di prendere sonno la sua sveglia aveva iniziato a suonare, ed era stato costretto ad alzarsi, e a infilare la tuta blu, e il suo giubbotto di pelle scuro, e il suo berretto che lasciava scoperta la sua frangia bionda, appena scompigliata sulla fronte. Il freddo pungente di dicembre gli aveva arrossato le mani, e cercando di riscaldarle aveva fatto uscire dalle labbra quella nuvoletta calda che lo divertiva spesso, ma non quella mattina. Le sue dita sottili stringevano la sigaretta ormai quasi finita, mentre saliva in macchina e correva, in ritardo,  verso quella fottuta fabbrica di auto dove ogni giorno, ormai da sette anni, sporcava quelle stesse dita nella stupida catena di montaggio di cui faceva parte.
 
Una catena di uomini per una volta tutti uguali, tutti vicini, tutti rivolti a fare una cosa comune, tutti intenti a far parte di un progetto pi grande, tutti con un solo piccolo fottuto eppure importante compito. In quella catena, per la prima volta nella sua vita, si era sentito parte di un qualcosa. In quella fabbrica per la prima volta si era sentito meno solo. Quando un rivolo di sudore era sceso sul suo viso, confondendosi a una lacrima solitaria, aveva accostato le dita agli occhi sporcandosi di grasso, e si era sentito un fallito davvero. Un miserabile operaio di una miserabile fabbrica che avrebbe passato la vita in quella catena di montaggio a fare parte di un tutto senza essere abbastanza importante per essere un individuo. Maria aveva ragione, lui era un fallito. E man mano che il suo compleanno si avvicinava si rendeva conto che la sua solitudine sarebbe diventata sempre peggiore, che sarebbe stato sempre più solo, che doveva prendere finalmente in mano le redini della sua vita.
 
Quando era suonata la campana aveva deciso di darsi un termine. Aveva deciso che sarebbe tornato a essere felice, o almeno sereno, entro la fine dell’anno. Oppure l’avrebbe fatta finita, e per sempre.
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Beatrice ***



Beatrice


 
–  Non mi lasciare solo adesso  –  Si era svegliato sibilando queste parole disperate, piangendo, con la testa tra le braccia, su quel tavolo freddo accanto alla finestra. Per pochi istanti si era guardato intorno, e si era reso conto che fuori era già buio da un pezzo, e che doveva ancora mettersi sotto la doccia per cancellare quel puzzo di olio di motore che lo infestava da quella mattina.
Si era alzato lentamente asciugando quella lacrima, quando si era accorto di essere ancora davanti al suo portatile, di essere ancora davanti alla chat aperta che per qualche ora al giorno gli regalava un po’ di sollievo. Beatrice era già andata via, forse a mangiare, lei ci metteva  poco davvero, alle volte lui aveva immaginato che mancasse giusto il tempo di correre in cucina, afferrare il piatto fumante e portarlo traballante davanti al computer, per continuare a parlare con lui.
 
Non erano mai stati davvero amici, non si erano mai davvero conosciuti, lei era un’amica di Maria, e avevano iniziato a parlare solo così, per gioco, ed in fondo non avevano mai parlato di cose serie, solo di sesso, amici, divertimenti, musica, cocaina. E di lei, di Maria, di tutte le volte che era così felice da scriverle canzoni e dedicarle poesie, e di tutte le volte che lei invece lo aveva umiliato, maltrattato, abbandonato.
 
Beatrice non era più in linea, e neppure lui. Era stanco e depresso e aveva di nuovo sognato Maria. Lei era così bella. Aveva gli occhi scuri e intensi, riusciva a restarne ipnotizzato anche solo sfiorandoli con lo sguardo.  Aveva un sorriso dolce e particolare, appena accennato e mai volgare. Aveva quella voce dolce e melodica, e quando lui le accennava qualche accordo con la chitarra si affrettava e cantarci su qualcosa, ed era così bello passare la serata così, a perdersi l’uno nello sguardo dell’altra, a fare le due senza dirsi niente, e a cominciare a baciarsi quando lei era ormai alla porta, e a fare l’amore con tutta la dolcezza di cui era capace, e a farla godere due, tre volte, fino a crollare sfinito accanto a lei.
 
In quelle notti d’amore e di passione, quando le luci dell’alba erano ormai vicine, dentro di lui i demoni iniziavano a spingere per venire fuori. L’angoscia che lo tormentava spesso senza motivo, spesso dopo essere stato tanto felice con lei, tornava a premergli sul petto fino a fargli mancare il fiato, e Damon si ritrovava davanti a lei con le lacrime agli occhi, e le parlava, le raccontava dei suoi giorni felici, del passato, degli amici, della sua famiglia lontana. Della sua malinconia, della nostalgia e del dolore.
 
E spesso lei si addormentava, così, al suono della sua voce rotta dal pianto, chiudeva gli occhi e respirava piano accanto a lui, senza muovere altro che le labbra, in un piccolo lontano sorriso. A volte Damon riusciva a restare immobile, perso nei suoi pensieri, le sorrideva e la guardava dormire in silenzio, e poi sgusciava via per tornare alla sua fabbrica, non prima di averle lasciato un biglietto pieno di tante dolci parole d’amore. Altre volte il dolore era troppo da sopportare,il bisogno di parlarle era più forte della logica e dell’opportunità di quell’azione sconsiderata, la svegliava nel pieno della notte, e lei ancora assonnata gli rispondeva con un mugugno. Si ritrovava accanto a lei, a sussurrarle quelle parole, a volte a urlarle piangendo, sperando che lei lo ascoltasse, mentre la guardava girarsi dall’altro lato e senza dire niente riprendere a dormire. – non mi lasciare solo adesso – e così restava, solo, in silenzio, arrabbiato e tormentato.
 
Spesso scriveva a Beatrice, magari rispondeva a un messaggio che lei gli aveva lasciato ore prima, quando lui era troppo impegnato a provocare la sua ragazza con le sconcerie che gli venivano in mente. E aspettava che lei tornasse a parlare con lui, o si metteva a dormire, sapendo di poter contare su un suo messaggio la mattina seguente.
 
Spesso ringraziava Dio di aver trovato un’amica come lei, una compagna di giochi non troppo seri, non troppo volgari, non troppo intimi eppure così necessari a rendere serene le sue serate, pieni i suoi pomeriggi dopo il lavoro, allegre le sue noti passate a rileggere le vecchie porcate di un tempo.
 
Aveva chiuso il computer e lasciato un messaggio a lei. Una cosa scema e sconcia, nel suo stile. E poi era filato sotto la doccia, prima di rintanarsi nel suo letto vuoto, per continuare a sognare Maria, e piangere invocando ancora una volta, inutilmente, le sue attenzioni.

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Capitolo 4
*** Graham ***



Graham


 
Sulla strada verso casa Damon aveva trovato finalmente Jimmy quella sera. Era seduto sul solito marciapiede con la sigaretta in mano ed era come sempre pieno di punch fino alla punta dei suoi capelli rossicci. Gli aveva sorriso compiaciuto e in cambio del suo grammo di felicità gli aveva chiesto 30 sterline e una sigaretta, giusto perché aveva appena spento la sua.
 
Damon non aveva un rituale suo in quei momenti. A volte passava dieci minuti buoni a sistemare le sue piste sul tavolino accanto alla finestra, lo divertiva creare forme geometriche che avrebbe poi rivisto nelle allucinazioni che la cocaina gli dava, e spesso quando aveva finito di sistemarla e iniziava ad arrotolare la sua banconota gli veniva in testa un’altra idea balorda, e disfaceva quelle figure geometriche per creare una più malinconica e romantica M. Altre volte invece, più spesso come quella sera, quando non cercava sballo e divertimento ma solo un modo per mettere a tacere il dolore, svuotava la bustina sulla formica scura e la sistemava con la stessa banconota con cui poi l’avrebbe tirata, alla svelta, senza troppi preamboli.
 
Il suo divano in quei momenti gli sembrava uno sterminato campo fiorito in cui immaginava di correre tirandosi dietro un arcobaleno colorato, e spesso nel cielo di quel blu profondo apparivano immagini che lo riportavano alla sua infanzia felice, che aveva buttato nel cesso quel giorno di sette anni fa. Ogni volta che quell’immagine appariva davanti ai suoi occhi spiritati si sentiva scendere nel profondo, verso l’inferno. Ma quella sera all’improvviso quella discesa era stata interrotta dal repentino e insistente suono del campanello. Si era sollevato a fatica solo per incontrare lo sguardo semi – disperato di Graham.
 
Graham era un tipo introverso e malinconico, nell’anima come nel corpo. I suoi occhi timidi erano nascosti da un grande paio di occhiali che, diceva lui, lo proteggevano dalle cattiverie del mondo. Il suo corpo esile più che agile, la sua magliettina ordinata, i pantaloni ben stirati, l’orologio e il bracciale d’oro della comunione, descrivevano alla perfezione il ragazzo della porta accanto che abitava ancora con sua madre e che, forse di nascosto, suonava la chitarra elettrica in un gruppo che di rock in effetti aveva molto poco.
 
Era ancora sulla porta, e Damon non riusciva quasi a guardarlo, la luce del pianerottolo dietro di lui lo accecava, così gli aveva chiesto di entrare. Graham si era fermato accanto a quel tavolino e aveva distrattamente guardato quel poco di polvere che lo ricopriva cercando di trovare il coraggio di fare la sua richiesta. Poi aveva alzato gli occhi, e con tutta l’indifferenza di cui era capace aveva chiesto al suo migliore amico di prestargli 2.000 sterline.
 
Damon era scoppiato a ridere proprio davanti ai suoi buffi occhiali neri, e lui aveva capito che era fatto ad un livello osceno. Ma non aveva avuto tempo per dispiacersene, i soldi gli servivano, e prima possibile. Damon aveva cercato di trattenere il suo sorriso idiota, e poi gli aveva chiesto il perché. Solo due mesi prima Graham gli aveva chiesto la stessa cifra, e non gliela aveva ancora restituita. Non che Damon navigasse nell’oro, o che volesse indietro quei soldi da quello che tutto sommato considerava suo fratello, ma non era questo il punto. Graham gli aveva promesso di smettere, e non lo aveva fatto.
 
Adesso era di nuovo davanti a lui, gli stava di nuovo promettendo di restituirgli quei soldi entro due settimane, gli stava promettendo che era uscito da quel giro, che quella sarebbe davvero stata l’ultima volta, che aveva messo la testa a posto, e lo aveva fatto per la sua ragazza, che le avrebbe chiesto di sposarla e avrebbe finalmente lasciato la casa di sua madre.

- Non ho tutti quei soldi – gli aveva detto, e intanto si era diretto verso il suo letto e dal cassetto del comodino aveva tirato fuori una scatola di cartone beige, quadrata. L’aveva aperta e preso quel cilindro fermato da un elastico, e il suo sguardo era caduto su quel cofanetto di velluto rosso, e il suo pensiero era volato a quando aveva stretto quell’astuccio tra le dita immaginando di aprirlo e di prendere quell’anello, e di metterlo al dito di Maria. Ma quell’astuccio non era stato aperto mai, e probabilmente quell’anello non ne sarebbe uscito mai.

 
Aveva lanciato tutti i suoi risparmi a Graham che li aveva afferrati al volo, con il sorriso malinconico di chi sa di avere avuto l’aiuto di un amico vero. L’effetto della cocaina era ormai svanito, e Damon voleva solo sentirsi parte di un rapporto speciale, con una persona speciale. Mentre Graham ancora lo ringraziava e gli ripeteva promesse che non avrebbe mantenuto, Damon aveva preso due birre dal frigo, e ne aveva passata una a suo fratello. Poi lo aveva guardato coi suoi occhi tristi, e gli aveva chiesto di sedersi. 

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Capitolo 5
*** Blur ***


Blur
 


I giorni a Colchester, nella fabbrica, e anche fuori, erano tutti uguali, erano solo un susseguirsi di sveglie, corse in auto, traffico, lavoro, thè delle cinque e quando andava bene un tiro di coca prima di andare a dormire. Spesso non c’era nemmeno nulla da mangiare, spesso la sua cena era un malinconico sandwich sul suo divano sgangherato, di fronte a quella chitarra ormai chiusa nella sua custodia da troppo tempo.
 
Quella sera era riuscito a trovare il coraggio di uscire e di tornare al Cavern, e di andare a sentire, e questa volta, forse per l’ultima volta, da spettatore, i suoi migliori ex amici suonare e cantare le sue canzoni, quelle che aveva scritto col cuore e col dolore, spesso col sangue, spesso dedicandole a Maria, altre volte cercando solo di trovare una musica orecchiabile che coprisse il suo pianto durante il suo concerto, il lamento della sua voce cavernosa e speciale.
 
I blur non erano famosi e non facevano musica popolare. I loro testi erano spesso bui e incomprensibili, anche perché Damon li aveva in massima parte concepiti dopo aver fatto l’amore con Maria, o peggio ancora dopo essersi tagliato per tutta la notte perchè aveva litigato con lei. Le musiche erano strane, a volte elettroniche, altre malinconiche, altre ancora un’accozzaglia di suoi disgiunti e disuniti legati solo dalla voce di Damon che per metà del tempo mangiava le parole e le rendeva incomprensibili.
 
Al Cavern quella sera c’era un’atmosfera cupa e soffocata, il fumo riempiva l’aria di quel pub di periferia e l’odore del punch e della birra rossa colmavano ogni istinto prima ancora che si manifestasse. Il bagno degli uomini era proprio accanto al palco, e lui si era appostato lì, per guardare Graham cantare al posto suo, con gli occhi bassi, senza mai, mai rivolgere il suo sguardo al pubblico, senza mai alzare la testa. Non doveva neppure essersi accorto di lui, che lo guardava con la dannata voglia di salire su quel fottuto palco e di strappargli il microfono e di cantare, e di liberare tutto quello che aveva dentro, e di strappare un applauso a quegli spettatori stanchi e annoiati.
 
Ma nonostante quel bisogno disperato di cantare e di suonare, non era riuscito a vincere il dolore di quella sera, quando dopo l’ennesima litigata Graham aveva chiesto agli altri membri del gruppo di scegliere tra lui e Damon, tra il porto sicuro e il leader incostante, tra la certezza di un futuro magari mediocre ma tranquillo, e l’incertezza delle genialate paranoiche di Damon, che sempre più spesso dopo l’abbandono aveva dimostrato di non essere all’altezza di gestire la sua vita, tantomeno di gestire una band per quanto piccola, insignificante e provinciale fosse.
 
Gli sguardi di quella sera, le parole cattive di Alex, la voce rotta di Dave che cercava inutilmente di calmare gli animi, erano ancora impresse nella sua mente come tanti punti di spillo, e malgrado alla fine Graham fosse tornato a essere suo amico, lo strappo nella band non era stato più ricucito.
 
Lui era stato sostituito, e i suoi lucidi capelli biondi non risplendevano più sotto le luci dei riflettori di quel pub marcio e puzzolente, perché ormai lui non era più parte di quella band.
 
All’improvviso, come se se ne fosse reso conto solo in quel momento, aveva capito quanto fosse stato stupido  a metter la sua vita nelle mani di Maria, a farle gestire i suoi giorni e le sue notti, a dettare i suoi ritmi, a risolvere le sue crisi e calmare i suoi pianti, ad accogliere il suo corpo caldo ogni notte e a spezzare i suoi sogni ogni giorno, a lasciarle decidere del loro presente, e a lasciarle mandare in frantumi il loro futuro.
 
Maria aveva preso le redini della sua vita e lo aveva trascinato ovunque avesse voluto, e adesso che lei non c’era lui non era più in grado di vivere, e aveva rinunciato praticamente a tutto ciò che lo faceva stare bene, riuscendo a conservare solo le pessime abitudini che si era trascinato dietro dall’adolescenza, e che lei aveva sospeso come in un limbo grazie solo al suo sorriso, alle sue parole dolci, al suo amore. Lei lo portava in paradiso, e un istante dopo all’inferno.
 
Il concerto era finito e Graham si era finalmente accorto di lui. gli aveva offerto una birra, calda e schiumosa come di tradizione di quel pub di nottambuli, e poi, poco prima che Damon trovasse il coraggio di attaccare il discorso che si era preparato per tutto il giorno, poco prima che gli chiedesse di ripensarci, che si umiliasse e prostrasse ai suoi piedi chiedendogli scusa, poco prima che con un groppo in gola gli chiedesse di tornare nella sua band, di tornare a cantare e suonare, e scrivere, e riavere almeno un pezzo della sua vita, della vita che lo rendeva felice e non inquieto, poco prima che lui potesse aprire bocca, Graham aveva allungato al barista una banconota da cinque e girandosi verso di lui lo aveva guardato serio – Maria è tornata - 

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Capitolo 6
*** Essex ***



Essex
 
 
Il sole era ormai alto ma lui non voleva alzarsi. I numeri rossi della sveglia lo avevano fissato per tutta la notte mentre aveva imperterrito continuato a disegnare sul braccio sinistro le lettere che componevano la poesia di un nome che non gli apparteneva più. Dopo le quattro non era più riuscito a versare lacrime, i suoi occhi doloranti erano asciutti e tutto ciò che riuscivano a vedere era l’armonioso disegno che quei rivoli di sangue avevano creato sulle sue lenzuola, sul cuscino ancora impregnato del suo odore.
 
Maria era tornata. Da poco più di una settimana, ma non aveva sentito il bisogno di tornare da lui, di chiamarlo, di parlargli. Doveva aver evitato tutti i posti che lui frequentava e che conosceva, doveva aver evitato anche la sua famiglia, anche suo fratello, perché ultimamente Graham stava appiccicato a Damon come una sanguisuga.
 
Era ancora sotto la doccia quando aveva realizzato che non doveva più importargli. Al diavolo, lei non lo voleva, lo aveva rifiutato. Era una fredda serata di dicembre e lui era un impacciato e timido ragazzo innamorato che dopo aver lavorato per tre mesi giorno e notte accumulando straordinari su straordinari le aveva finalmente comprato un fottuto anello con un brillante così bello e luminoso che gli piaceva metterlo sul davanzale la mattina, mentre si faceva la barba, e gli piaceva osservare il raggio di sole che passava attraverso quelle striature e creava quell’arcobaleno di colori che sarebbe stato così bene sulle bellissime e affusolate dita di lei.
 
Era una serata fredda, ma il suo cuore era caldo e colmo d’amore. Aveva smesso di farsi male, lo aveva fatto per lei, perché lei lo amava e anche se spesso aveva continuato coi suoi attacchi di panico e le sue laceranti paranoie lei gli era rimasta accanto. Era stato tutto perfetto in quei quattro mesi. La crisi che avevano passato era ormai lontana, lei non era più fredda, lontana, indifferente. Era tornata a essere la donna di cui lui si era perdutamente innamorato, era dolce e tranquilla, gli cantava la sua canzone preferita quando lo vedeva triste, quando il dolore scendeva sul suo cuore all’improvviso nel mezzo della notte.
 
Era così bello vivere con lei, in quel buco di casa che poteva a malapena contenere il suo amore smisurato per lei, per quelle forme morbide che si muovevano sensuali verso di lui ogni mattina, quando la sveglia suonava e lui andava felice al lavoro, perché aveva finalmente uno scopo diverso dal pagare l’affitto e le bollette. E lei, lei era speciale, lei era straordinaria, lei si sarebbe laureata presto, e avrebbe avuto successo perché era una donna brillante, molto più di quel diamante, lei era in gamba e aveva un futuro radioso, e aveva scelto  proprio lui per condividere quel futuro, e lui era così felice che gli sembrava che il suo cuore dovesse esplodere al peso di un sentimento che non aveva provato davvero mai.
 
Quella sera lei aveva ancora addosso il vestito rosso che aveva indossato per la sua laurea. Era così bella, e sorrideva, e dopo la cena in quel ristornate di lusso lui l’aveva riportata nel loro angusto nido d’amore, nella contea di Essex, perché aveva deciso che sarebbe stato il posto giusto per chiederle di iniziare una vita insieme, e non da innamorati precari, ma da marito e moglie. Ricordava ancora l’ansia di quel momento, e le giornate intere passate a ripetere le parole che le avrebbe detto, mentre si tagliuzzava facendosi la barda, e si faceva male e si chiedeva perché cazzo in passato lo avesse fatto di proposito, tagliarsi, e sentire il sangue scivolare sulle braccia e provare sollievo. Quella sera Maria era più bella, più radiosa, più felice del solito. E quando erano arrivati a casa aveva iniziato a spogliarsi senza troppi preamboli, perché a lei i preliminari piacevano poco, e aveva sempre voglia di fare l’amore.
 
Lui l’aveva bloccata solo per un istante e le aveva sfiorato le labbra con le dita. Maria si era soffermata a guardare quella buffa cartina della contea di Essex, che prendeva tutta la parete e sembrava essere smisurata molto più di quanto la stessa contea non fosse davvero. Avevano spesso sorriso davanti a quell’immagine, e ridendo si erano detti che forse la cartina era a grandezza naturale, e che quella contea poteva a stento contenere loro due e quel paio di figli sciagurati che avrebbero messo al mondo. Damon stava ancora fissando la sua ragazza alla luce di quella lampada traballante, ma dalla sua bocca di rosa erano uscite solo poche fredde parole che gli avevano bloccato il respiro – Accetto quel lavoro, parto per gli Stati Uniti. Lunedì –
 
Era evidente per la prima volta quali fossero i reali progetti di Maria, era evidente quali fossero i suoi sogni e le sue speranze, era evidente che nel suo oggi lui fosse una presenza poco importante, e che nel suo domani lui non avesse affatto un ruolo. Era evidente che le sue priorità non erano le stesse di lei, che lei aveva già deciso cosa fare del suo futuro, senza chiedergli niente, e che implicitamente aveva deciso anche del futuro di lui, perché lei sapeva di essere stata la prima, e l’unica, e probabilmente l’ultima.
 
Maria era tornata. Mentre si asciugava i capelli chiari e ammirava allo specchio lo strazio delle sue braccia, Damon si era reso conto di essere ancora disperatamente innamorato di lei.

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Capitolo 7
*** Alex ***




Alex
 


Damon era ancora sotto la doccia quando la suoneria assegnata a Graham aveva iniziato ad infestare la stanza e a farlo correre come un disperato alla ricerca del suo telefono. Odiava quella musica folk che il suo amico aveva scelto perchè lo rappresentasse quando decideva di scocciarlo per un qualsiasi motivo.
 
Graham voleva vederlo insieme agli altri. E quando parlava di altri alludeva a Dave e Alex, al suo gruppo. Damon aveva a fatica nascosto l'emozione che quella telefonata gli aveva procurato, e si era vestito di corsa immaginando le parole timide e imbarazzate con cui "gli altri" gli avrebbero chiesto di tornare a suonare con loro, di tornare a scrivere le sue canzoni deliranti e ad essere il loro leader. In effetti, da quando Damon era stato cacciato dalla band i blur non erano più riusciti ad ottenere buoni ingaggi, e si barcamenavano tra una serata al Cavern e qualche apparizione minore in coda a qualche band nei locali più malfamati della città. E non c'erano molti locali malfamati a Colchester.
 
Avevano appuntamento al locale dei genitori di Graham, che li avevano visti crescere tutti e quattro, e litigare, e che non avevano mai visto troppo di buon occhio Damon, nonostante fosse stato insieme alla loro primogenita per sei anni. Damon era così eccitato che aveva persino scordato il motivo per cui si era imbottito di antidepressivi fino a un minuto prima di ficcarsi sotto la doccia, e per un istante mentre entrava in quella vecchia locanda in centro si era sentito di nuovo importante, di nuovo affacciato alla porta della vita.
 
I suoi amici erano seduti nel grande tavolo di legno in fondo, su quelle panche fredde coperte dagli accoglienti cuscini gialli della signora Coxon, che adorava il giallo e lo usava in ogni cosa facesse, compreso il thè. Stavano già parlando fitto fitto, e quando lui si era avvicinato al tavolo, come nella migliore tradizione, si erano all'improvviso zittiti, e lo avevano lasciato prendere posto così, semplicemente con un ciao piuttosto imbarazzato. Il suo rimpiazzo non c'era, e aveva alla svelata pensato che no, non sapeva neppure come si chiamasse, povero ragazzo. Lo aveva sostituito nel suo gruppo, e questo bastava perchè Damon lo odiasse con tutto sè stesso.
 
Si era seduto d'istinto di fronte al Alex. I suoi capelli sempre più radi tradivano il fatto che fosse il più anziano di loro, ma l'età non era l'unica cosa in cui Alex primeggiava. Era il più colto, perchè era addirittura laureato, e anche quello che stava meglio, perchè era assistente di un potente politico della città. E poi era il più buono, e quello più tranquillo. Ed era gay. Damon si sfiorava il ciuffo sulla fronte ogni volta che si trovava di fronte a lui, ironicamente, e il suo amico aveva sempre accettato la sua provocazione con un sorriso.
 
Fra tutti, Alex era quello che più aveva capito come maneggiare il fragile equilibrio del suo leader, come penetrare nei meandri della sua mente senza rimanere schiacciato dalle allucinazioni più assurde. Gli aveva di nuovo sorriso e portando la mano davanti agli occhi, come faceva sempre, aveva iniziato a parlargli, con la sua voce roca e pacata. Gli aveva accennato che per la prima volta i blur erano stati ammessi a partecipare a un grande spettacolo, davanti a migliaia di persone, un festival di rilevanza nazionale, ripreso dalla televisione. Enfatizzando ogni parola, e sottolineando ogni frase con i movimenti suadenti del suo corpo, gli aveva detto che sarebbero stati proiettati nelle case di tutta l'Inghilterra, nelle case dei ragazzi che comprano i dischi, nei locali più trendy dove la musica si suona dal vivo e non per pochi spiccioli come al Cavern.
 
Parlava col suo fare dolce e accattivante, e mentre lo ascoltava Damon cercava di ricordare le sensazioni che aveva provato quella volta quando era talmente fatto da avergli permesso di baciarlo. Gli era scappato un sorriso divertito, e Alex aveva capito che era il momento migliore per chiedergli quello che avrebbe dovuto.
 
A quel festival avrebbero dovuto portare canzoni loro, nuove, originali. Ma su ogni spartito in loro possesso c'era una piccola nota che stonava, e che non poteva consentire l'accesso dei blur a quello spettacolo, senza l'assenso del loro proprietario. Damon aveva registrato ogni canzone, e l'aveva fatto a suo nome perchè erano le sue canzoni, perchè le aveva scritte lui. All'improvviso, sotto i suoi occhi, accanto alla tazza del thè e al brick del latte, era apparso un foglio su cui ancora insistevano le tre pieghe orizzontali, e lui aveva sentito i peli delle braccia rizzarsi di botto, e la pelle tendersi e squarciare le sottili cicatrici stringendolo in una piccola morsa di dolore pungente e repentino.
 
Questo era tutto ciò che volevano da lui. Che cedesse loro le sue canzoni, perchè loro, e solo loro, su quel palco, col nome dei blur che lui, lui aveva creato, con le musiche che lui aveva scritto, con le parole che lui aveva cantato, potessero provare a diventare famosi. Loro, e solo loro, senza il loro leader, senza di lui.
 
Alex aveva toccato tutti i punti giusti, aveva usato tutte le parole che lo colpivano dritto al cuore, sapeva come maneggiare la sua anima e aveva saputo maneggiare anche il suo corpo in effetti, ma in quel momento non poteva importare. Gli stava chiedendo di regalare loro tutto quello che la sua anima aveva sputato in quegli anni, per consentire ai blur di realizzare il sogno della fama e del successo, il sogno che lui aveva costruito per quel gruppo di ragazzetti di provincia, il sogno che lui che veniva invece da Londra aveva modellato su quello delle band inglesi che in quegli anni avevano conquistato l'America.
 
Alex gli aveva sfiorato la mano, e approfittando del suo disperato bisogno d'amore gli aveva carezzato il viso coi suoi occhi scuri, e poi gli aveva infilato una penna nell'altra mano. Era arrivato il momento di firmare la resa, di cedere tutto quel poco che aveva realizzato, le uniche cose che erano davvero sue, stava svendendo le sue canzoni, le sue emozioni, i suoi sentimenti, per niente.
 
Damon aveva deglutito e aveva stretto tra le dita la modesta bic blu con cui stava per firmare quel foglio insignificante. Aveva sorriso mestamente ripensando a quando avevano scelto il nome della loro prima canzone, aveva chiuso li occhi e poggiato la penna sulla carta immacolata. E all'improviso aveva sentito la penna scivolare via dalle sue dita, tirata da una mano che conosceva troppo bene. I capelli di lei si erano poggiati per pochi istanti sulla pelle rasata del suo viso, avevano sfiorato le braccia tagliate coperte dalla camicia scura, e diffuso il loro fresco profumo di balsamo nel suo spazio. - Non ti lascerò firmare questo schifo. Sei uno stronzo Alex -.
 
La voce di lei era forte e decisa nonostante fosse tanto dolce e armoniosa. Lo aveva guardato solo per due istanti prima di lanciare la penna ad Alex, e di sfidare con lo sguardo suo fratello in preda al panico. Poi era tornata a guardare Damon, che era ancora lì, seduto nella stretta panca di legno coperta dai cuscini gialli, immobile davanti a quella tazza di thè ancora fumante, e senza troppi giri di parole gli aveva intimato di alzarsi e andare via. Damon aveva di nuovo messo gli occhi su quel foglio, e notato il piccolo puntino blu lasciato dalla sua bic. E poi le aveva risposto di sì. - Sì. Sì, Maria. -

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Capitolo 8
*** Maria ***



Maria
 
 
Maria era tornata. Lo aveva preso per la mano col suo fare deciso, e gliela stava stringendo perché dei due era indiscutibilmente lei l'elemento forte. Era sempre sicura di quello che faceva, e diceva, ed aveva sempre avuto quello sguardo fiero, e quella voglia di difendere i più deboli e di guarire i mali del mondo. Aveva studiato medicina. Si era laureata così presto, e col massimo dei voti, si era specializzata in neurochirurgia e sarebbe diventata certo uno dei migliori del suo campo, specie dopo aver accettato quel prestigioso incarico al centro neurologico di Seattle, dove ormai viveva da più di un anno.
 
Damon aveva sempre immaginato la sua vita insieme a lei in quel fottuto piccolo paese di provincia, l'aveva immaginata alle prese con i nasi colanti e le gote arrossate dei marmocchi febbricitanti di Colchester, l'aveva immaginata col suo camice bianco nel suo piccolo studio a dispensare consigli per la tosse, e allegre pillole colorate per i depressi come lui. E invece no, Maria aveva altri sogni, altri progetti, ed in effetti le sue ambizioni erano all'altezza delle sue capacità, e le sue aspettative di poco inferiori all'immenso potenziale che nascondeva nel sorriso divertito e nelle canzoncine che canticchiava mentre preparava le omelette.
 
Nonostante le apparenze e le difficoltà, Maria si era fissata un obiettivo e lo aveva raggiunto, e lui era certo che ne avesse fissati mille altri nella sua mente in quei mesi a Seattle, ed era altrettanto certo che li avrebbe realizzati tutti, perché lei era una donna speciale, una donna che poteva rendere realtà i suoi sogni e quelli di chi avesse avuto accanto.
 
Maria sapeva come rendere felice un uomo, sapeva dosare amore e attenzioni e cure a chiunque avesse avuto la fortuna di incrociare la sua strada, ma sapeva anche come tarpare le ali e spezzare le forze di chiunque si fosse messo contro le sue idee, e contro i suoi progetti. Damon aveva assaggiato il suo amore e la sua devozione, le sue coccole e quel bruciante senso di protezione, ed era invece rimasto travolto dalla sua rabbia quando alla fine si era ribellato, e lei lo aveva lasciato.
 
Era sempre bellissima. Era forse solo più matura nello sguardo, negli occhi nerissimi sul suo viso chiaro eppure abbronzato, e aveva un sorriso più smaliziato, meno dolce eppure sempre sincero. Le sue labbra erano morbide e rosate, ma sempre brillanti perché a lei piaceva così, e un po' di mascara sulle ciglia era il suo unico vezzo. In quei mesi i suoi capelli si erano allungati eppure erano rimasti mossi e lucenti, e lei aveva ancora il vizio di portarli dietro le orecchie e subito dopo toglierli da lì increspando un po' le labbra in segno di disapprovazione, perché, diceva sempre, così sembrava una ragazzina di quindici anni.
 
Quel gesto innocente aveva all'improvviso riportato Damon a pensare a quella notte. Come sarebbe stato bello aprire quel piccolo cofanetto di velluto rosso davanti a lei, e mettersi in ginocchio come si vede nei film, e cercare di mantenere la voce ferma nonostante l'emozione, e gli occhi fissi sui lineamenti dolci di lei, nonostante le lacrime. Come sarebbe stato bello guardarla e dirle che lui l'amava tanto, che lei era la sua unica ragione di vita. Che aveva lavorato tanto, e risparmiato, e alla fine era riuscito a comprarle quell'anello, per chiederle di sposarlo finalmente, per chiederle di passare la vita accanto a lui, di condividere con lui i suoi progetti e i suoi sogni, di dividere lo stesso tetto ogni notte, lo stesso letto, la stessa piccola finestra sulla periferia di Colchester.
 
E invece lei aveva accettato quel lavoro, negli Stati Uniti. E glielo aveva detto così, con due parole, e con quel tono che non ammette repliche o eccezioni. Gli aveva detto che accettava "quel" lavoro, come se gliene avesse già parlato prima. E invece no, lui non era stato parte della decisione, e non aveva neppure mai saputo di quell'offerta, di quanto sarebbe durato quel progetto, di quando sarebbe partita, di cosa avrebbe fatto, di quello che quella partenza avrebbe significato per lui. Maria aveva preso la sua decisione da sola, e lui era rimasto in silenzio, con quel cofanetto stretto tra le dita, nella tasca di quei pantaloni che un attimo dopo lei gli aveva con foga sbottonato, e sfilato, solo per fare sesso con lui.
 
Quella notte, dopo averla fatta urlare e godere come piaceva a lei, era rimasto sopra il suo corpo sudato per istanti interminabili, le aveva sfiorato il viso con le dita e le aveva sussurrato di amarla. Lei gli aveva chiesto di alzarsi, perché era stanca, e quando si era steso al suo fianco, Maria si era voltata verso di lui un istante solo, gli aveva detto che sì, anche lei lo amava, gli aveva carezzato il braccio proteso verso i suoi fianchi, e aveva chiuso gli occhi.
Damon era rimasto in silenzio a guardarla dormire. I suoi occhi erano carichi di lacrime, ma non osava farne scendere sul suo viso, e non osava singhiozzare, né tirare fuori il più flebile dei lamenti.
 
E adesso, Maria lo aveva trascinato fuori dal locale dei suoi genitori e lui si era ritrovato in preda ai ricordi proprio nel bel mezzo della strada poco trafficata, accanto alla sua auto. Aveva notato con dispiacere che neppure quel mese era riuscito a mettere da parte i soldi per fare aggiustare il finestrino, che non si chiudeva più che per metà, lasciando i suoi sedili esposti al vento, alla pioggia, alla nebbia, e a tutte le mostruosità che immaginava calassero con la notte sulla città.  Maria era arrabbiata e delusa, e glielo stava urlando in faccia, come faceva sempre, per spronarlo, diceva lei, per fargli tirare fuori le palle.
 
Lei non riusciva a spiegarsi per quale assurdo motivo lui stesse firmando quell'accordo scellerato, perché avesse deciso di cedere a quelli che fingeva fossero ancora suoi amici le sue canzoni, l'unico suo lavoro di cui lei andasse fiera. Con la sua voce nervosa aveva iniziato a investirlo di domande. Perché, perché aveva deciso di rinunciare anche ai suoi sogni? Perché lui non era come lei, perché solo lei aveva avuto il coraggio di varcare l'oceano e di inseguire quello che aveva deciso sarebbe stato il suo futuro? Perché solo lei era abbastanza forte da non aver avuto paura di nulla, della solitudine, della nuova grande città, delle sfide e dell'invidia e della cattiveria di chi gli avrebbe messo i pali tra le ruote? Perché invece lui era rimasto a fare l'operaio in quella fabbrica fumosa? Perché non aveva ambizioni, né coraggio, né altro scopo nella vita che arrivare alla fine del mese senza che gli tagliassero la luce?
 
Damon aveva sfiorato con lo sguardo i capelli corvini della sua ragazza. Sembrava essersi accorto solo in quel momento dei mesi che erano passati.  Maria era davvero andata via, era davvero rimasta lontana da lui per tutto quel tempo, senza chiamarlo, senza scrivergli mai. Maria era davvero tornata, ed ora era davvero davanti a lui. Avrebbe voluto stringerla forte a sé, e sentire il suo profumo investire i suoi sensi, e la sua pelle dorata sfiorare il suo dolore. Avrebbe voluto prenderle il viso tra le mani e baciarla, e restare lì davanti a lei, ed aspettare che aprisse gli occhi per dirle che la amava.
 
Ma lei era arrabbiata con lui. Era fredda, distante, si preoccupava dei suoi successi, non dei suoi sentimenti. Era la mamma premurosa, non la fidanzata innamorata. Era una spavalda donna realizzata che non riusciva a capacitarsi dell'ennesimo fallimento del suo ormai ex ragazzo di provincia.
 
Non riusciva più ad ascoltare quelle parole mentre gli scendevano addosso bruciando la sua carne come una pioggia di cenere e detriti e lava incandescente. Aveva rivisto la sua vita in quegli ultimi quattordici mesi, e si era all'improvviso sentito schiacciato dal peso di tutto il dolore che aveva provato. E si era reso conto di quello che era successo solo pochi minuti prima, in quel locale, mentre era seduto al suo tavolo davanti al thè bollente e al brik del latte. Il tradimento dei suoi amici, un'altra sconfitta per il suo orgoglio calpestato, per i suoi sentimenti bistrattati. Aveva sentito le forze mancargli, mentre lei lo fissava furente chiedendogli perché avesse deciso di rinunciare anche ai suoi sogni. E i suoi occhi si erano riempiti di lacrime mentre con tutta la disperazione che aveva dentro le aveva risposto - Ho smesso di sognare da quando sei andata via. Ho smesso di vivere. -
 
Un istante dopo era al volante della sua auto. Il vento invadeva l'abitacolo scoperto e gelava le lacrime sul suo viso. Maria era tornata. Ma non per lui, non da lui, non con lui.

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Capitolo 9
*** Jimmy ***



Jimmy
 

 
Colchester era una cittadina stupida e inutile in ogni circostanza. Non c'erano locali decenti in cui suonare, né posti carini dove portare a cena le ragazze, e neppure un cinema degno di questo nome. In compenso c'erano decine di pub puzzolenti e pieni di punch, fumo e spacciatori. Non era stato difficile per Damon trovare la strada del solito bar e infilarsi dentro alla chetichella, anche se ormai non gli importava più di tanto che la cara signora Malloy potesse vederlo entrare in quello squallido locale di fronte casa sua, e uscirne un paio d'ore dopo ubriaco o peggio.
 
Seduto di fronte al barista discreto, e con in mano una sigaretta piena di cenere, fissava il bicchiere mezzo vuoto e sorrideva delle sue debolezze e dei suoi errori. C'erano stati tanti pomeriggi come quello, in cui si era rifugiato nell'alcol per dimenticare il motivo stesso per cui lo aveva fatto, e spesso in quelle serate sregolate aveva incontrato Jimmy e si era lasciato trasportare lì dove non avrebbe dovuto, ma questo era un altro discorso.
 
Damon lo aveva visto seduto in disparte entrando nel locale, e aveva riflettuto del fatto che, sebbene fosse ancora primo pomeriggio, Jimmy fosse già piuttosto pieno di punch. Era un tipo allegro e gioviale, e nonostante non fosse più giovanissimo aveva sempre addosso uno di quei buffi cappellini da baseball calato sugli occhi e il cellulare all'ultima moda sempre tra le dita. Spesso fingeva di parlare con gente importante, e ancora più spesso fingeva di ricevere una telefonata urgente e spariva dal locale in due secondi, specie quando l'aria diventava pesante. Era uno spacciatore suo malgrado, almeno così diceva lui. Avrebbe voluto fare l'avvocato, o il pagliaccio, perché per lui erano esattamente la stessa cosa, e intanto se ne stava tutto il giorno in quel locale a vendere pochi grammi di speranza ai pochi avventori di quel posto.
 
Jimmy aveva finito la sua sigaretta e aveva lasciato il suo angolino buio per andare a sedersi proprio accanto a Damon. E come ogni volta che lo faceva, per scherzare diceva lui, gli aveva messo una mano sulla patta dei pantaloni, e lo aveva toccato per un po'. Damon non aveva mai capito se lo facesse davvero solo per scherzo, o se invece non ci provasse comunque un piacere e un gusto tutto particolare. Non se l'era mai davvero chiesto sul serio, per la verità. Gli avrebbe lasciato fare tutto quello che avesse voluto, e non si era mai curato di capirne il perché.
 
Aveva ordinato un altro punch e gli aveva chiesto se avesse i soldi, perché lui aveva della roba eccezionale, biologica, che per lui significava che non era stata tagliata, se non per il necessario. Rideva sempre quando parlava della roba biologica, perché immaginava i panetti di cocaina coperti di coccinelle che scacciavano gli insetti cattivi. Rideva e contagiava i presenti costringendoli a un'ilarità dovuta non alla sua battuta stupida, ma all'orrendo, sconnesso e a tratti irritante suono della sua risata.
 
Damon aveva alzato gli occhi dal bicchiere e lo aveva guardato per pochi istanti prima di scoppiare a piangere come un bambino appena caduto a terra. Jimmy lo aveva trascinato fuori dal locale senza troppi complimenti, lo aveva nascosto allo sguardo dei curiosi e anche a quello impertinente della signora Malloy, e quando erano arrivati sul retro, tra le auto parcheggiate e i cassonetti bruciati, lo aveva abbracciato forte e lo aveva lasciato piangere, per minuti che sembravano secoli. Le sue braccia forti lo stringevano di nuovo, e ancora una volta il suo petto caldo lo rassicurava, e il suo respiro cadenzato sul collo gli dava quel senso di pace e famiglia di cui Damon aveva tanto, troppo bisogno.
 
La voce di Jimmy non era né dolce né rassicurante, ma in quel momento le uniche parole amiche venivano dalla sua bocca, e per Damon era un po' come un balsamo caldo che cura le ferite, o un bicchiere d'acqua fresca che allevia la sete della calura. Continuava a piangere senza neppure analizzarne il motivo, era lontano da quel posto e da quel momento, e non si curava dell'assurdità di quella situazione, e del fatto che fosse il suo spacciatore a stargli accanto in quel momento, e non quelli che avrebbero dovuto essere i suoi amici, non la sua ragazza, non la sua famiglia.
 
Jimmy non era nuovo a questi slanci affettuosi, lo aveva abbracciato di nuovo, un'altra volta, lo aveva tenuto stretto a sè per ore, in silenzio. Poco meno di quattordici mesi prima Maria si era svegliata presto e per i due giorni successivi lui non l'aveva sentita che per telefono, per pochi frenetici e frettolosi minuti. Stava organizzando la sua partenza, e lui la sentiva tanto, troppo lontana, sentiva di averla persa e non aveva il coraggio di fermarla, anche solo per chiederle di...
 
Non sapeva neppure cosa avrebbe dovuto chiederle, ma dentro di sé voleva che non partisse, voleva che restasse al suo fianco a sfornare focacce e bambini nella loro casetta. Era un pensiero egoista e meschino, e lo aveva tenuto dentro per tanto tempo, perché sentiva che era sbagliato. Eppure, al tempo stesso, Damon sentiva di non aver mai fatto nulla per sé stesso in quegli ultimi anni, sentiva di non aver mai chiesto niente alla sua fottuta vita, e voleva essere protagonista per una volta cazzo, voleva essere felice. Era felice con lei, e non poteva lasciarla andare via.
 
Glielo aveva detto così, all'improvviso, e non riusciva nemmeno a capire dove avesse tirato fuori il coraggio, se non nelle due birre che aveva bevuto prima di uscire unto e sporco dalla fabbrica. Era andato a casa di lei così, senza cambiarsi nemmeno, e sulla porta di casa sua le aveva chiesto di non partire. Le aveva chiesto di rinunciare a quel lavoro, di restare con lui, le aveva chiesto di provare a costruire qualcosa di serio. Le avrebbe chiesto di sposarlo, senza romanticismi e pure senza anello, perché non l'aveva di certo portato con sé.
 
Maria era rimasta sulla porta stringendosi nel suo maglioncino di cachemire bianco, ed era riuscita a tirare fuori anche una lacrima per giustificare il suo dolore nel sentire che il suo ragazzo, l'uomo che avrebbe dovuto appoggiarla e spronarla, in realtà le stava sbarrando la strada verso il successo per cui aveva lavorato anni e anni sui libri, giorno e notte, mentre lui si trastullava a montare e smontare piccole componenti di un motore che non avrebbe visto per intero mai. Gli aveva espresso il suo disappunto in poche, semplici, rabbiose parole. Gli aveva detto che non avrebbe rinunciato al suo futuro per stare con lui.
 
Damon era rimasto in silenzio e sembrava che quel poco di coraggio fosse di nuovo svanito, si era sentito di nuovo il solito sottile giunco preda delle correnti del fiume. Ma la paura di perderla gli aveva di nuovo dato la forza di ribellarsi, e di dirle che non era giusto che lei andasse via così, per chissà quanto tempo, senza che lui potesse dire la sua.
 
Maria non aveva sopportato oltre il suo atteggiamento di sfida, gli aveva detto che sarebbe partita, punto. Che non c'era spazio né per le spiegazioni né per i ripensamenti. E che, per quanto la riguardava, se lui non accettava il suo successo solo perché era invidioso, poteva andare a farsi fottere. E poi gli aveva sbattuto la porta in faccia, urlandogli un addio arrabbiato, no, di più, furente.
 
Il ricordo di quei momenti, di quello sguardo arrabbiato e deluso, lo aveva fatto rabbrividire e tremare, e d'istinto aveva stretto Jimmy ancora più forte. Il suo amico aveva ricambiato il suo abbraccio e ancora una volta gli aveva detto di stare tranquillo, che si sarebbe aggiustato tutto. Ma lui adesso sapeva che non era così. Maria non era solo andata via, era tornata adesso, finalmente. Era tornata ma non era più la sua ragazza, non era che una bellissima donna di fronte a lui, un'altra persona della sua vita pronta a giudicare il suo comportamento e a condannare i suoi errori. Un'altra persona della sua vita che apparteneva al passato, e che non gli avrebbe più dato amore. No, questa volta Jimmy gli stava mentendo, non sarebbe tornato niente a posto, niente.

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Capitolo 10
*** Mrs Albarn ***



Mrs Albarn

 
 
L'insistente suono del telefono alla fine lo aveva svegliato, in un letto che non era il suo. Si era voltato e aveva guardato un po' in giro, ma poco dopo aver spostato la testa in avanti aveva sentito un conato di vomito salirgli alla gola e d'istinto si era alzato per cercare il bagno. E non era stato facile trovarlo. Pochi minuti dopo, mentre ancora era in ginocchio davanti al water, aveva realizzato, nell'ordine: di avere la nausea, un terribile e martellante mal di testa, di essere ubriaco e di esserlo stato a tal punto da non sapere neppure in quale letto avesse dormito, e con chi. Tutto quello che ricordava era di aver abbracciato Jimmy fuori dal locale, ma non era neppure certo di essere tornato dentro e di aver ripreso a bere.
 
Di colpo si era sentito consapevole del fatto di aver toccato il fondo e aveva iniziato a cercare i suoi vestiti in giro, perchè voleva andare via da quella casa, voleva tornare nella sua, anzi cazzo sarebbe dovuto tornare al lavoro, ma il sole era già alto e lui non aveva neppure una linea di febbre che giustificasse un certificato medico. Ma cosa stava succedendo alla sua vita? Dove lo stava portando e perchè in quel momento tutto sembrava essere crollato così miseramente? Si stava ancora infilando i jeans quando Jimmy era entrato nella grande e luminosa stanza da letto con un sorriso più che soddisfatto sul volto, e una profumata e bollente tazza di caffellatte. Aveva addosso un'improbabile vestaglia di seta blu, e delle ciabatte sempre blu, che gli lasciavano scoperto metà piede, tatuaggio di una lucertola compreso.
 
In quel preciso istante Damon aveva sentito un pesante pugno nello stomaco e aveva sentito le ginocchia cedere all'improvviso. Jimmy era così euforico quella mattina, e da sobrio era perfino più simpatico e alla mano. Gli aveva teso la mano e lo aveva aiutato a sedersi sulle lenzuola disfatte. Gli aveva offerto il suo caffè e aveva iniziato a parlare del sole e del mare che era solo a poche miglia da loro, aveva accennato a una passeggiata sul ghiaccio del fiumiciattolo che costeggiava Colchester e alla fine gli aveva detto che quel giorno non avrebbe lavorato, semplicemente perchè non ne aveva voglia.
 
Damon aveva sentito un'invidia profonda prendere posto nel suo cuore in tumulto, e pulsare nella testa con fare martellante. Quella casa così bella e in ordine, quelle cianfrusaglie inutili e costose che la riempivano, i soldi, l'auto decappottabile, il lusso e la bella vita, tutto, persino il sorriso luminoso di Jimmy sembrava gli sbattessero in faccia il suo fallimento. Uno spacciatore poteva permettersi tutto quello, anche un costoso paio di boxer firmati che lui cazzo, e non ricordava nemmeno come, gli aveva visto addosso, e gli aveva invidiato. Era andato via dopo aver scolato il buonissimo caffè irlandese del suo amico, e non gli aveva chiesto niente. Non voleva sapere cosa fosse successo lì, quella notte, non voleva conoscere altri dettagli della sua vita che poi avrebbe volentieri voluto cancellare. Del resto, non era la prima volta che nella sua mente si aprivano immensi buchi neri, e quello lo stava creando lui, quindi non doveva o poteva averne paura.
 
Uscendo dalla casa di Jimmy si era reso conto di essere a pochi isolati dal suo modesto appartamento, e comunque più vicino di quanto pensasse alla sua auto. Camminava nello strano sole malato con la sigaretta tra le dita, e aveva imboccato la strada centrale. Doveva farsi fare un certificato medico, doveva giustificare in qualche modo la prima assenza dal lavoro dopo tanti anni, non poteva permettersi di perdere anche quei quattro spiccioli che guadagnava. Il telefono continuava a squillare, ed era sempre lui, Graham, ma lui non aveva intenzione di rispondergli. A poco a poco cominciava a ricordare le parole di Jimmy, pochi frammenti. Non avrebbe più dovuto  tornare da Maria, e nemmeno da quelli che fingevano di essere suoi amici e lo avevano soltanto cercato per strappargli via la sua dignità e le uniche cose utili che avesse scritto durante la sua vita.
 
Il suo medico aveva alacremente firmato quel certificato e glielo aveva consegnato perché lo spedisse a mezzo fax alla fumosa fabbrica il cui fumo dalle ciminiere spesso giungeva, attraverso il vento, fino alla periferia in cui viveva. Mentre aspettava il suo turno cercando inutilmente di capire come attivare la modalità silenziosa del suo telefono, aveva distrattamente buttato uno sguardo a quel foglio scarabocchiato, sorridendo della contorta grafia del suo medico. L'unica cosa leggibile, aveva commentato tra sè, era la data, 26 novembre 2010.
 
La commessa della cartoleria lo aveva chiamato un paio di volte perché lui si destasse dal suo torpore. Era il 26 novembre. Era il suo compleanno. Come cazzo aveva potuto scordare addirittura il giorno del suo compleanno? All'improvviso si era reso conto di quanto poco importante fosse diventata quella giornata per lui. Quando era un ragazzino, sua madre lo svegliava alle sei perché, gli diceva, lui era nato a quell'ora, ed era così impaziente di nascere che lei aveva fatto giusto in tempo a entrare in sala parto, ci era entrata a piedi e si era spogliata lì, e lui era nato, ed era così piccolo, con la pelle rossa rossa e pochi capelli biondi. E quando aveva aperto gli occhi per la prima volta lei aveva pianto, sì aveva pianto tanto e lo aveva abbracciato forte, e lo aveva stretto al seno. Raccontava quei momenti con tanta dovizia di particolari che era come rivedere lo stesso identico filmato ogni anno, era come aver vissuto davvero quei momenti, era come se fosse possibile per lui aver memoria di qualcosa che lo aveva visto protagonista, anche se troppo piccolo per poterne avere un ricordo.
 
Ogni anno, il 26 novembre, sua madre lo vestiva con un completo nuovo, blu, lo portava a scuola insieme a un grande vassoio di biscotti al burro e cioccolato, e gli dava un bacio più speciale e diverso da quelli di ogni giorno, proprio lì, all'ingresso della prestigiosa scuola privata che frequentava, mentre orgogliosa spiegava alle altre mamme che un altro anno era passato, ma lei era sempre orgogliosa di suo figlio. No, se possibile, ancora più orgogliosa di suo figlio.
 
Da sette anni, ormai, sua madre aveva smesso di svegliarlo all'alba e di preparare quei biscotti al burro e cioccolato il cui odore intenso lo inebriava in quelle fumose mattine di Londra. Da quando suo padre lo aveva cacciato di casa non c'erano stati compleanni, né auguri, né biscotti. Non aveva più rivisto il sorriso dolce di sua madre, e neppure lo sguardo severo di suo padre, e non aveva più sentito quel piccolo coro di voci allegre augurargli cento di quei giorni. Non aveva più rivisto i fratelli e le sorelle, e i nipoti, e tutta l'immensa tribù che popolava quella immensa villa nel centro della città, a pochi passi da Trafalgar Square, la grande casa del giudice Albarn.
 
Ogni anno, in quegli ultimi sette anni, si era svegliato un'ora prima del solito, e si era nascosto nell'unica pasticceria di Colchester, e aveva comprato quei biscotti al burro e cioccolato, e li aveva mangiati cercando inutilmente di ricordare il sapore meraviglioso di quelli di sua madre, e poi era andato al lavoro, ed al ritorno si era lavato e vestito di fretta per correre dai suoi amici, da Maria, per portarli a cena fuori e fare notte, ridendo e giocando con loro, e aprendo quei regali assurdi, e si era sentito felice, o almeno aveva finto di esserlo davvero. E poi, quando ormai la mezzanotte del 27 si affacciava e i suoi amici erano lontani, dopo aver fatto l'amore con Maria, e dopo averla vista andare via con un sorriso, Damon restava seduto sul suo divanetto sgangherato, davanti alla tv, accendeva una sigaretta e aspettava che la luce del giorno nuovo portasse via quel poco di dolore che non lo lasciava mai in quel giorno, lontano dalla sua famiglia.
 
La commessa lo aveva chiamato di nuovo, e lui le aveva meccanicamente passato il certificato, e poi era andato alla solita pasticceria, e aveva comprato i soliti biscotti, e tornato a casa si era lavato, e vestito di blu, e si era seduto sul suo divano davanti al televisore spento, e aveva acceso la sua sigaretta e mangiato i suoi biscotti, in silenzio, perché finalmente aveva trovato il modo di disattivare la suoneria del suo cellulare. Graham era stato l'unico ad averlo chiamato quel giorno, e lui sapeva che non era per gli auguri di buon compleanno. La mezzanotte del 27 era arrivata. Damon aveva acceso la luce e si era spogliato. Si era nascosto nel suo piumone e aveva chiuso gli occhi sperando di dormire.

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Capitolo 11
*** Dave ***



Dave
 

 
Tornare alla fabbrica dopo un giorno di riposo era sempre difficile. Ma quel giorno lo era stato ancora di più, perchè ad aspettarlo davanti allo spogliatoio c'era Dave. Lo aveva visto fermo davanti alla porta rossa, con un piede appoggiato a una cassetta d'acqua, mentre rosicchiando il suo bastoncino di liquirizia chiacchierava con il caporeparto. Avrebbe voluto evitare di passargli accanto ma non poteva, ed era stato costretto ad andare in quella direzione, e a sentirsi prendere per il braccio.
 
Dave lavorava in quella stessa fabbrica come impiegato contabile da quasi tre anni, non si era mai sporcato le mani di grasso e olio, e non si era mai preso il disturbo di scendere ai "piani bassi" o, come diceva lui, al reparto produzione. Non era il tipo di persona che si montava la testa per un impiego da 2000 sterline, ma ci teneva a mantenere le distanze dagli operai, e sul posto di lavoro non faceva differenza che uno di quegli operai fosse il leader del suo gruppo, uno dei suoi migliori amici.
 
Damon si era fermato proprio di fronte a lui e lo aveva guardato dritto negli occhi scuri, e come ogni volta che lo faceva aveva pensato che Dave avesse la faccia giusta per ogni mestiere, tranne che per fare il batterista. Un batterista, aveva sempre pensato lui, doveva essere un po' pazzo, un po' fuori di testa, allegro, spensierato, sregolato. Dave, invece, era un tipo a posto, con il vestito grigio e la cravatta col nodo stretto, e le scarpe lucide e la macchina pulita, con un alberello profumato dello stesso colore della carrozzeria. Dave non sniffava, non fumava spinelli e manco sigarette, non beveva se non un dito di bollicine a capodanno e mezzo bicchiere di birra e non si era mai impiastricciato i capelli col gel.
 
In effetti, nella loro band non c'era davvero un cazzo di quello che di solito c'è in una band. Erano proprio quattro sfigati, e se il buongiorno di vede dal mattino, a cominciare da lui, che era il leader, gli altri non potevano che essere peggio o quasi.
 
Dave non era lì in visita di cortesia, e anzi aveva tutta l'intenzione di litigare. E aveva iniziato alzando la voce e urlando a Damon che doveva smettere di avere quell'atteggiamento nei loro confronti, che doveva smettere di atteggiarsi a dio perchè lui non era niente di tutto questo. Quelle canzoni le aveva scritte lui, ok, ma in parte avevano contribuito anche loro e quindi avevano diritto di suonarle e cantarle anche senza di lui. E poi, poi, era stato lui a causare la frattura nel gruppo, era stato lui a metterli in condizione di mandarlo via, e di cercare un sostituto. Cosa avrebbero dovuto fare? Sciogliere il gruppo? Abbandonare i loro sogni solo perchè il loro leader aveva deciso di fare il pazzo a causa dei suoi problemi sentimentali? Avrebbero forse dovuto lasciare ciò che li faceva stare bene? E perchè poi, per compiacere il loro amico? E no, non si poteva certo dire che loro non ci avessero provato a ricucire lo strappo, che non ci avessero provato a salvare la situazione, a stargli accanto, a farlo ragionare. Ma lui aveva davvero esagerato e loro dovevano salvare il gruppo prima che lo distruggesse come stava facendo con la sua vita.
 
Era strano sentirlo parlare così. Da quando non faceva più parte dei Blur, Damon aveva comunque continuato a considerare ognuno di loro come un amico, anche se i rapporti si erano raffreddati, e in realtà aveva davvero mantenuto i contatti solo con Graham. Nonostante non fosse una persona che provava risentimento, e lo dimostrava il fatto che avrebbe firmato quella cessione se non fosse stato per Maria, nonostante questo Damon non poteva, non riusciva a dimenticare quello che era successo tra loro quella sera.
 
Maria era partita da poco e lui era sprofondato nella depressione. Non riusciva più a dormire, a mangiare, si trascinava a stento al lavoro e tornava a casa a notte fonda, dopo aver passato tutto il pomeriggio a bere e spesso a fumare marijuana. Non riusciva a tenere in mano la sua chitarra, non riusciva a scrivere niente, e non aveva nemmeno voglia di cantare. Era un momento particolare per il Blur perché avevano da poco inciso una demo e l'avevano spedita un po' ovunque, e una di quelle case discografiche li aveva contattati per sentirli suonare dal vivo. Ma Damon si era dato assente, e i loro litigi erano diventati sempre più frequenti. Graham aveva iniziato a dare direttive al gruppo come se fosse lui il leader. Imponeva i suoi tempi, le sue canzoni, soffocava gli accordi monotoni di Damon con i suoi virtuosismi, perché, in effetti, di tutti lui era l'unico che sapesse suonare davvero, e davvero bene.
 
L'atmosfera era diventata cupa e tesa, e ogni volta che Damon entrava nel garage dove provavano fino a tardi sentiva le voci dei suoi amici spegnersi lentamente, una ad una, e sottili bisbigli farsi strada alle sue spalle, quando iniziava a intonare qualche canzone nuova, depressa e spesso tanto angosciante da sembrare un lamento piuttosto che un brano. Non si aspettava certo che capissero. Del resto il suo amore per Maria rasentava a tratti l'ossessione e i suoi amici non avevano mai davvero capito e accettato la sua dipendenza da lei. Ma quando Maria era lontana dal suo cuore e dalla sua mente, quando per qualche giorno non sentiva la sua voce e il suo respiro sul corpo, Damon sprofondava in una paranoia che lo isolava dal resto del mondo, e in quei giorni di buio aveva iniziato ad avere anche un atteggiamento di sfida, come se dovesse far pagare ai suoi amici quello che la sua ragazza gli aveva fatto.
 
Era un primo pomeriggio di febbraio quando Damon aveva iniziato a intonare le prime desolanti parole di Caravan. Graham non era riuscito a trattenere la rabbia. Non poteva più sopportare quei lamenti, non poteva permettere che il gruppo nato per divertirsi e far baldoria in un garage scorticato e con la porta rotta diventasse invece il rifugio per l'anima tormentata di colui che scriveva le canzoni. Avevano iniziato a litigare e proprio Dave, alla fine, esasperato, gli aveva detto che non ce la faceva più a sopportare i suoi lamenti. E che il dolore e la solitudine doveva finalmente decidersi ad affrontarli, perchè aveva 26 anni, e non poteva continuare a comportarsi come un bambino abbandonato dalla mamma. Damon sopportava ogni genere di insulti, ma quando si toccava il tasto materno scattava come una molla, ed in uno di quegli scatti aveva preso a pugni proprio lui, proprio Dave.
 
Gli aveva dato un pugno proprio su quel naso perfettino da impiegato del mese, e, quando lui aveva cercato di reagire, aveva sentito di nuovo quella rabbia assalirlo come solo sei anni prima, e aveva iniziato a sentirsi forte e imbattibile, tanto forte e sicuro di sè e delle sue ragioni, e quel sangue che pulsava nelle sue arterie era arrivato al suo cervello e di lì alle braccia, alle mani, alle gambe. Lo stava uccidendo. Lo stava picchiando a sangue come aveva fatto solo sei anni prima con suo padre. E che lo psicologo avesse detto, poi, che non era lui in quel momento, che non era in sè, non era stato importante, per suo padre come per il suo amico, In realtà, Damon gli aveva dato solo un paio di pugni, ma quando Dave ne parlava con enfasi spesso si trovava a dire che, se non fosse stato per Alex che si era messo in mezzo, quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita.
 
Nessuno aveva detto niente, erano tutti in ginocchio accanto al povero Dave, e guardavano Damon come si guarda un mostro uscito dall'armadio poco dopo aver controllato che in realtà non ci fosse nulla dentro. Graham aveva tossito e schiarito la voce, e poi glielo aveva detto chiaro - Fuori di qui. Per sempre. -
 
Damon pensava a quelle parole ogni volta che, come quel pomeriggio, prendeva la borsa della sua chitarra. Non aveva mai più rivolto la parola a Dave dopo quel giorno, dopo che, ormai sulla soglia della porta arrugginita del garage, con le lacrime agli occhi, sinceramente gli aveva chiesto perdono.
 
Dave aveva spostato il piede dalla cassetta e si stava sistemando i pantaloni, e poi si era sistemato la cravatta. Damon doveva dargli quelle canzoni. Gliele doveva perché lui, da signore, non lo aveva denunciato, e lui sapeva benissimo che se lo avesse fatto, coi suoi trascorsi, sarebbe tranquillamente finito dietro le sbarre. Sorrideva. Dave aveva quel sorriso maligno che amabilmente definiva demoniaco. - Me lo devi Damon. Fai una cosa giusta nella tua fottuta vita. Una sola. - Poi si era girato di spalle, aveva salutato con un cenno della mano il caporeparto, e aveva imboccato la strada per gli ascensori.

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Capitolo 12
*** Best days ***



Best Days
 
 

Anche quel giorno era finito, e dopo il lavoro Damon era tornato a casa di corsa, e si era messo sotto il getto bollente della doccia. La schiuma di incenso e mirra aveva inebriato i suoi sensi, e mentre si strofinava il petto aveva sentito il bisogno di poggiare la testa al muro e di regolare il getto della doccia perché diventasse gelido. E intanto, come ogni volta, si era sfiorato, solo un po', solo per sentire quel brivido corrergli su per la schiena. Giusto quel tanto per provare un po' di piacere, poco prima che si trasformasse in estasi.
 
Si era sentito percorrere da un desiderio immediato e cocente, e si era ritrovato ansimante a strofinare i capelli sulle fredde mattonelle scure del bagno. La sua mano aveva ripreso a scorrere verso il peccato, e aveva sentito il bisogno di provare quelle sensazioni di nuovo, in quel luogo, in quel preciso istante. Dio quanto aveva represso quella pulsione, per mesi e mesi e mesi. Quante volte si era svegliato sudato e bagnato nel cuore della notte pensando a lei, a quello che aveva rappresentato in quegli anni passati insieme. Ogni più piccolo e fottuto pensiero accresceva il desiderio e la vergogna. Avvampava al pensiero di lei, e a quello che sua madre avrebbe detto di quella situazione, ma non riusciva a fermare la sua mano, e il suo respiro spezzato.
 
Scorrevano sul suo viso le lacrime della vergogna e il sudore del piacere, percorrevano quelle mura il respiro della stanchezza e il gemito dell’estasi. Aveva sentito quell’ebbrezza attraversare come una scossa la sua mente, e l'acqua fredda aveva alla fine lavato ogni cosa, lasciandolo stanco e finalmente soddisfatto.
 
Un'ora dopo era al Cavern. Sapeva che anche quella sera, come ogni venerdì, ci avrebbe trovato i Blur. Dave lo aveva accolto con un sorriso, col sorriso del vincitore, ma lui non era e non voleva apparire sconfitto. Si era aggiustato i capelli con la sua solita mossa smorfiosa e suadente, e si era seduto a un tavolino rotondo, di quelli con gli sgabelli alti da cui spesso cadevano gli ubriachi dell’ultima ora.
 
Damon aveva ordinato la sua solita birra rossa e ne aveva presa una per Graham, perché lo aveva visto entrare, ed aveva tutta l’intenzione di parlare con lui. Graham era diventato pallido, perché non si aspettava quella visita lì, in quel posto, ma sperava che la sacralità che quel luogo aveva per loro impedisse a Damon di fare una delle sue sparate. Purtroppo per Graham, non aveva calcolato quanta cocaina Damon avesse in corpo in quel momento, e soprattutto quanto dolore e quanta rabbia. Si era avvicinato a lui con la sua birra stappata, e gli aveva chiesto senza giri di parole di restituirgli tutti i soldi che gli aveva prestato. Che non erano pochi.
 
Graham aveva accennato un sorriso nervoso, e salutato con un modesto cenno della mano Dave, che aveva intuito che qualcosa tra loro non stesse andando per il verso giusto.  Doveva tenerlo lontano da quella discussione, almeno lui non doveva sapere quello che stava succedendo nella sua vita in quel momento. Quando si era trattato di scegliere il leader della band Graham era apparso il più basato e sicuro di sé, ma di certo nessuno dei suoi amici sapeva quanto gli piacesse giocare fino a tardi nel retrobottega della drogheria all’angolo, e quanti soldi dovesse allo strozzino che la gestiva.
 
Graham aveva biascicato qualcosa e aveva chiesto a Damon un po’ di tempo, ma lui questa volta sembrava irremovibile. Del resto, erano passate molto più che le due settimane entro cui avrebbe dovuto restituire i suoi soldi, e il fatto che pochi giorni prima avessero chiesto a Damon di cedere loro le sue canzoni non aveva affatto agevolato le cose. – Dammi tempo fino a sabato – gli aveva detto, e aveva stretto il braccio di Damon in segno di amicizia, come facevano un tempo, quando erano molto più che fratelli.
 
Dave si era avvicinato a loro solo in quel momento, e aveva commentato con una battuta stupida il segno di un’amicizia ormai spezzata. Damon aveva abbassato gli occhi e aveva preso con insistenza a cercare qualcosa nel suo borsello marrone, e alla fine aveva cavato fuori una penna. – Diamo a Cesare ciò che non è di Cesare – aveva detto sorridendo, e anche Dave aveva capito quanto Damon fosse fatto in quel momento. Il che gli sarebbe dispiaciuto solo un paio di anni prima, ma non adesso, perché ormai era diventata la regola. Damon non era un tossico, la cocaina per lui aveva la stessa funzione dell’aspirina, o del Prozac, o di entrambe quando stava male come in quei giorni. E di solito, contrariamente a quanto accadeva ai tossici, a Damon la cocaina faceva l’effetto di essere più lucido, freddo e distaccato di quanto invece non aveva altro che la sua desolata disperazione dentro.
 
Dave aveva tirato fuori dalla borsa del basso quel documento stropicciato, e Damon aveva poggiato la sua penna esattamente lì dove c’era quel puntino blu lasciato poco prima che Maria fermasse la sua mano. Aveva firmato la cessione con la sua grafia limpida e pulita, senza dire niente, e aveva scolato la sua birra ancora fredda.  
 
Erano da poco passate le undici, e lui si era lasciato alle spalle la porta antincendio del Cavern, poco prima che Graham attaccasse le note della sua canzone preferita, della canzone d’amore più bella e banale che avesse scritto, e non sarebbe stato necessario cercare di capire per chi.
 
Aveva ventisette anni ma aveva amato una donna sola, e a volte sorrideva lui stesso pensando a quanto fosse stupida quella cosa. Nessuna cotta giovanile, nessun innamoramento, nessun bacio, nessuna piccola esperienza. Damon aveva amato solo lei, e l’avrebbe amata per sempre, e quella sera ne era più sicuro del solito, e cercava di non pensare perché.
 
Le strade di Colchester erano buie e fumose, e una sottile coltre di neve si andava depositando sulle case addossate una all’altra. Pensava. A dove andare, a chi cercare, su chi addossare la colpa del suo dolore e del suo fallimento. Non aveva fatto neppure dieci passi quando aveva deciso di tornare indietro, di tornare al Cavern.
 
Era entrato dentro con passo sicuro, come una rockstar consumata dalla droga e dall’alcol, da anni di risse sui palchi e di scopate nei backstage. Aveva appena prestato attenzione alla voce gutturale di Graham che stava cullando verso morfeo metà del pubblico, di quello stesso fracassoso pubblico che lo aveva amato e seguito un tempo. Si era avviato con passo svelto sul palco, ed aveva salito con un saltello i due scalini che lo sopraelevavano. Si era avvicinato a Graham e lo aveva spinto al suo posto, alla sua destra, perché Graham era il miglior chitarrista che lui avesse mai conosciuto, ma faceva davvero schifo come cantante.
 
Aveva iniziato lì dove aveva lasciato pochi mesi prima. Era forse ancora meglio, perché al suo fianco c’era anche chi adesso stava suonando le sue note, lasciandolo libero di cantare, solo di cantare, di modulare la sua voce, di trascinare il pubblico nelle sue emozioni, di caricare quelle parole con tutte le sfumature cui non aveva avuto modo di pensare prima, quando era impegnato anche a non sbagliare gli accordi. Aveva cantato con la solita enfasi e la sua brillante lucidità, si era lasciato scappare qualche sorriso divertito verso i suoi compagni, quando accennava qualche parola più spinta, e si era dato a un piccolo sensuale spogliarello quando aveva cantato beetlebum, strusciando il suo corpo esile e soddisfatto sull’asta del microfono.
 
Erano passate tre ore, eppure sembrava che fossero passati pochi secondi. L’ebbrezza che la musica gli dava, le sensazioni che cantare gli procuravano, potevano soddisfare il suo corpo e la sua anima molto più di tutta la cocaina che aveva preso negli ultimi due anni. Aveva asciugato il sudore sulla sua fronte finalmente appagata, e realizzato che niente avrebbe mai più potuto renderlo felice come lo era in quel momento. Il gestore del locale aveva iniziato a gesticolare pesantemente intimando loro di scendere dal palco, e malgrado il pubblico non fosse d’accordo Damon aveva dovuto annunciare l’ultima canzone.
 
Alex aveva iniziato i pochi accordi al piano, e Damon aveva abbassato gli occhi e nella penombra aveva pensato a Maria, dedicandole quelle parole. Solo, stavolta, lo aveva fatto ad alta voce, e per la prima volta aveva sussurrato al microfono, davanti a tutta quella gente, che quella canzone era per lei, che quelle parole d’amore erano per l’unica donna che avesse mai amato. Aveva cantato strappando la voce e trattenendo le lacrime, e le ultime note alla tastiera avevano accompagnato un applauso sentito e sincero. Sì, era come nella canzone. Quelli erano davvero stati i giorni più belli delle loro vite. Di sicuro della sua.
 
Damon aveva sorriso al suo pubblico, pensando che in realtà non era più suo, e non lo sarebbe stato più. Era sceso dal palco e si era diretto di nuovo alla porta antincendio del Cavern, e quando aveva poggiato le mani sulla barra rigida che la serrava si era sentito sfiorare la camicia sudata dalla mano che aveva sognato per mesi e mesi. Si era voltato e Maria era apparsa davanti a lui in tutta la sua bellezza.

- Così questa canzone è per me -, gli aveva detto, con il suo sorriso più bello, quello in cui scopriva di poco i denti lucidi muovendo appena il labbro inferiore. – è bellissima – aveva aggiunto, e gli aveva carezzato la guancia. Ma neppure lei sapeva come sarebbe andata a finire.

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Capitolo 13
*** Tender ***




Tender
 


Alla luce pacata del Cavern, Maria appariva bellissima. Anzi no, non era mai stata tanto bella. La cocaina e la birra e le crescenti emozioni che aveva nel corpo e nel cuore avevano scatenato in Damon un turbine di desiderio e d’amore che aveva rivolto ancora una volta nei confronti dell’unica donna che avesse mai amato. Sebbene non le avesse mai parlato in quel modo, e malgrado non avesse idea del motivo per cui le aveva parlato con tanta enfasi e con tanto slancio, aveva deciso che quella sera sarebbe stato padrone della sua vita, che quella notte sarebbe stato lui, e solo lui, a decidere cosa fare del suo corpo e del suo cuore.
 
Mentre la mano di lei scendeva sul suo viso in una dolce carezza, lui le aveva serrato un braccio introno alla vita, l’aveva portata di fronte al suo volto sudato, e prima che lei potesse aprire bocca aveva spezzato il suo respiro con un bacio dolce e appassionato al tempo stesso.
 
L’aveva baciata per istanti interminabili, mentre la stringeva forte al suo corpo trasmettendole il suo desiderio e la sua febbrile eccitazione. Maria si era staccata da lui un attimo solo, il tempo di fissarlo negli occhi intensi, di quel verde che le faceva paura e che amava sopra ogni cosa. Lo sapeva, lei sapeva chi aveva davanti in quel momento, e sapeva che non era il ragazzetto timido e impaurito che le aveva chiesto di restare piangendo come un disperato quel giorno in aeroporto. No, no era Damon quella sera al Cavern.
 
Ci aveva pensato spesso in quei giorni solitari negli Stati Uniti, quando si era chiesta se avesse fatto la scelta giusta, se avesse fatto bene a rinunciare all’amore per la carriera, se avesse fatto bene a lasciare solo Damon, e se lui avrebbe retto al peso di quell’abbandono, o se invece un giorno Graham l’avrebbe chiamata per dirle che Damon si era ammazzato.
 
E adesso, quell’uomo era lì. Damon era lì, ma non era Damon, era l’uomo che lei amava come una pazza, che desiderava, cui aveva tanto pensato mentre era lontana, che gli era mancato da morire. E prima ancora che lei potesse pensare ad altro, lui l’aveva trascinata fuori dal locale, e pochi minuti dopo si erano chiusi alle spalle la porta traballante della casa di LUI. Non avevano nemmeno acceso la luce. Del resto, in quel miserabile quartiere di proletari, i lampioni di strada erano sempre puntati sulle finestre del suo appartamento, e le luci arancioni avevano spesso fatto da sfondo alle loro notti di passione.
 
Damon era rimasto in silenzio solo un attimo davanti alla fulgida bellezza di lei, e poi l’aveva stretta a sé e l’aveva di nuovo baciata. In silenzio, aveva preso a spogliarla lentamente, nonostante bramasse di vederla nuda ai suoi occhi prima che fosse possibile. Le aveva sfilato la maglietta toccando la sua pelle con i polpastrelli gelidi, e aveva iniziato a sentire il tremore del suo corpo bollente. Poi le aveva sfilato i jeans, toccando a lungo le sue gambe e i suoi glutei, e stringendo ancora una volta il corpo di lei sul suo.
 
E poi, dolcemente, le aveva passato una mano tra i capelli e l’aveva baciata, e aveva lasciato che le sue labbra scendessero su tutto il suo viso, che lambissero il lobo dell’orecchio, e quel punto del collo che la mandava in estasi. Aveva aspettato che lei spingesse indietro il collo in un gemito soffocato, e poi aveva portato le mani ai suoi seni, staccandole il reggiseno e sfiorando i capezzoli con le dita, e poi con le labbra umide. Era rimasto sul suo capezzolo destro per tanto, tanto tempo, prima di passare all’altro, quando aveva sentito il corpo di lei tremare forte per un brivido inatteso.
 
Aveva portato le mani ai fianchi morbidi e poi le aveva congiunte alla base della schiena, e aveva sfiorato coi polpastrelli quel punto che la faceva impazzire, lì alla base della schiena, poco sopra il sedere. Lei aveva iniziato a toccarlo, e quando ormai i preliminari sembravano una tortura inutile lui l’aveva spinta sul divano e lei lo aveva accolto tra le sue gambe.
 
Damon era in preda a una febbre d’estasi. Le sue mani non smettevano di toccare quel corpo, e le sue labbra di baciare quei capezzoli, per poi scendere sempre più giù, alla pancia, all’ombelico, e scoprire finalmente il fulcro del suo desiderio. Maria non riusciva più a ragionare, né a dire niente. Di solito, sentiva il bisogno di parlare anche quando facevano l’amore, ma quella notte Damon aveva messo a tacere anche la sua lingua. Era perduta. Sentiva quei brividi percorrere il suo corpo dalle gambe al cervello e poi di nuovo in giù, e quando Damon aveva iniziato a lambire con la lingua l’apertura delle sue gambe aveva iniziato a muoversi come in preda alle convulsioni, e ad ansimare come non aveva fatto mai.
 
Damon non sembrava sorpreso né infastidito da quei gemiti così inattesi e inusuali, anzi sembrava che lo spingessero a continuare sempre meglio nel suo unico scopo, quello di soddisfare la sua donna. Il suo viso era ormai completamente sprofondato tra le gambe di lei, la sua lingua era persa nei meandri del suo piacere e le sue labbra si stringevano e succhiavano e spesso, insieme ai denti, tiravano proprio in quel punto che le piaceva da impazzire.
 
Aveva passato minuti e minuti in quella posizione. Maria si era dimenata e senza rendersene conto aveva urlato, e aveva afferrato Damon per i capelli biondi, e con gli occhi chiusi e la schiena così inarcata che pareva dovesse spezzarsi lo aveva implorato di non fermarsi, mai. E alla fine, quando ormai sembrava non potesse esserci piacere più intenso, aveva sentito una violenta scarica arrivare fino al cervello, e aveva urlato, e mentre ancora si gustava il suo orgasmo, Damon era entrato dentro di lei, ed aveva iniziato a darle un altro, acuto, tipo di piacere.
 
Il corpo di Damon sopra il suo erano ormai una cosa sola. Maria non riusciva a smettere di abbracciarlo e di toccare il suo sedere e di imprimere le sue dita sulla schiena bianca di lui. Non lo aveva mai desiderato così intensamente, e non si era mai resa conto di quanto lui fosse bravo, di quanta passione avesse in quel corpo asciutto e delicato, e di quanto potesse farla urlare di piacere nonostante di solito la tormentasse con i suoi pensieri angoscianti.
 
Damon aveva continuato a spingere dentro di lei in silenzio. Si era lasciato sfuggire solo qualche respiro strozzato, e qualche gemito più forte quando ormai stava per raggiungere il paradiso. Quando aveva sentito il suo orgasmo arrivare alla sua mente stanca aveva irrigidito le braccia ed era rimasto in silenzio sopra di lei, col viso perlato di sudore di fronte al suo. Poi aveva aperto gli occhi, e l’aveva guardata solo per un istante. Era ancora sfinito e sentiva il respiro strozzato in gola. E lei era ancora lì, con gli occhi lucidi e le labbra tumide, con la pelle sopra il seno tutta arrossata, le guance infuocate, le mani ancora strette sulla sua schiena.
 
Damon  aveva sfiorato le sua labbra con un tenero bacio, e aveva sorriso e per un attimo erano passati davanti ai suoi occhi tutti i mesi passati a sentire il dolore per la sua partenza, e la solitudine, e l’oblio. Aveva ripensato a quello stesso pomeriggio, quando masturbarsi nella doccia era sembrato così bello, aveva ripensato quasi con compassione a quel povero imbranato. No, non era lui quel povero sfigato costretto a darsi piacere da solo, lui poteva avere la sua donna, lui sapeva soddisfarla, lui sapeva come tenerla stretta a sé.
 
Aveva aspettato che lei si riprendesse e che, come ogni volta, gli chiedesse di sposarsi per potersi girare su un fianco, e poggiare la testa sul suo petto, e godersi  un po’ di riposo dopo quell’ondata di piacere. E poi, mentre lei ancora gli guardava il naso e asciugava una debole goccia di sudore, glielo aveva detto con tutta la passione e la forza che aveva dentro. – Ti amo Maria, sposami -

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Capitolo 14
*** Jake ***



Jake



 - Svegliati Maria -. Non riusciva a pensare ad altro. Del resto, non poteva essere vero, quelle parole che Damon aveva pronunciato non potevano che essere un sogno, un’allucinazione, magari solo il frutto di quello che lei chiamava il paradiso dopo il paradiso, quel misto di piacevoli deliranti sensazioni che avvolgevano la sua mente e il suo corpo dopo l’orgasmo.

Ma Damon era di fronte a lei, la stava guardando con gli occhi lucidi, no non era un sogno, lui le aveva davvero chiesto di sposarla.
 
Avrebbe voluto essere migliaia di km lontano da quel divano. Aveva sempre pensato che un giorno lui le avrebbe fatto quella proposta, ma dopo che lo aveva lascito aveva davvero smesso di preoccuparsene.
 
Sì, la verità era quella. Maria amava l’uomo con cui aveva fatto sesso per tutta la notte, l’uomo che saliva sul palco e si metteva a cantare e a ballare come uno squinternato, l’uomo che strusciava il suo corpo esile sull’asta del microfono e incantava con la sua voce profonda e sensuale. Amava l’uomo che la portava al mare, e la faceva ridere con delle barzellette improponibili, e quello che si faceva trovare fuori dalla facoltà con la sua auto scassata e un mazzo di rose rosse, e la portava a casa felice, e la baciava dopo che lei aveva superato un esame.
 
Maria amava quell’uomo, ma quell’uomo non era Damon. E questo lo sapeva solo lei. Damon era il ragazzo spaventato che il padre aveva cacciato di casa molti anni prima, quando in preda a una crisi isterica aveva messo le mani al collo di sua madre rischiando di ucciderla sotto gli occhi di tutti i suoi fratelli. Damon era l’uomo di quasi trent’anni che si svegliava in piena notte con i pantaloni bagnati, che aveva gli incubi, che vedeva le ombre della gente morta, e piangeva disperato. Damon era il bambino tormentato che non sopportava la sua assenza per più di due ore, che doveva sempre sapere dove lei fosse, e con chi, che doveva gestire la sua vita e quella di chi gli stava intorno, che si faceva prendere dal panico quando lei usciva con le amiche, o quando lo trascurava per un paio di giorni prima di un esame.
 
Era un ragazzo buono e dolce, vittima della depressione e di anni di abuso di quei farmaci che dovrebbero farti stare meglio, e che invece rendono semplicemente schiavi e dipendenti, che neutralizzano il tuo io per trasformarti in un pagliaccio mite e allegro, capace di incantare ma incapace di vivere la propria vita.
 
E poi, quando i demoni del suo cuore erano domati, quando per un misterioso enigmatico motivo il sole riusciva a far breccia tra le nuvole, sul suo viso delicato appariva un sorriso spavaldo, i suoi occhi diventavano brillanti, e quel verde smeraldo appariva infuocato da una passione per la vita e per tutto quello che lo circondava. Nessuno aveva mai davvero capito. Nessuno aveva mai notato quei piccoli insignificanti gesti che distinguevano quell’uomo da Damon. Nessuno aveva mai notato quegli atteggiamenti strani e contraddittori, nessuno aveva mai compreso o voluto investigare il perché di quel comportamento spesso assurdo e inspiegabile.
 
La depressione, i farmaci, spiegavano al mondo il perché di una fase di angoscia alternata a una fase di euforia ingiustificata. Ma nessuno, nessuno sapeva che dietro quella fase c’era un altro uomo. Nessuno se non la donna che lo aveva guardato dritto negli occhi, che gli aveva guardato nell’anima, nel profondo, che lo aveva catturato e preso e guidato, e manipolato. Maria sapeva. Nella testa di Damon c’era un’altra persona. Nella testa di Damon c’era Jake.
 
Aveva un nome, sì, e piuttosto stupido e insignificante, ma era un leone. Era quello che ogni donna avrebbe amato, era quello che Maria amava con tutta se stessa, era quello che in quel momento le aveva chiesto di sposarlo, dopo sette anni passati ad abbozzare timidi sorrisi imbarazzati, e sguardi non sostenuti. Se fosse stato lui, se ci fosse stato solo Jake, Maria avrebbe detto quel sì con tutta la forza che aveva in corpo, e l’avrebbe abbracciato forte, e lui avrebbe di nuovo sentito in bisogno di possederla.
 
Ma Jake non era Damon, e lei non poteva, non voleva sposare Damon. Non avrebbe potuto sopportare che lui le impedisse di tornare negli Stati Uniti, non poteva permettere che le chiedesse di restare con lui e rinunciasse ai suoi sogni, lui non avrebbe capito, lui era ossessionato da lei, e forse era dolce, e buono e gentile, e la amava, ma non era passionale, violento e determinato come Jake. E lei avrebbe sposato Jake mille volte, ma era terrorizzata al pensiero di restare una notte da sola con le deprimenti e solitarie paranoie di Damon.
 
Aveva preso una decisione. Alla fine, lentamente, gli occhi di Maria avevano attraversato ed esaminato ogni angolino del corpo di Damon. Era bellissimo, almeno ai suoi occhi, era l’uomo che aveva sempre desiderato. In quel corpo c’ era l’uomo dei sogni, dei progetti strampalati, dei mille interessi inutili, e quello dalla vita devastata, dai pensieri strazianti e dagli incubi notturni. In quel corpo c’erano il ragazzo che la faceva urlare di piacere e quello che due minuti dopo scoppiava a piangere perché era disperato, spesso senza nemmeno sapere perché.
 
Continuava a guardarlo senza dire niente. Conosceva già la risposta a quella domanda, ma non sapeva come darla all’uomo che aveva amato per sette anni. Alla fine, aveva sollevato la sua mano eterea e l’aveva poggiata sulla guancia fredda di lui. Damon conosceva la risposta meglio di lei, e aveva abbassato gli occhi. Era ritornato in sé, era di nuovo il ragazzo disperato che l’aveva vista attraversare il gate numero 4, per prendere quell’aereo e andare via, fisicamente ed emotivamente, da lui.
 
Damon era riuscito a tenere gli occhi aperti, e a contenere le lacrime. Si era avvicinato al viso di lei in silenzio, e le aveva rubato un casto bacio sulle labbra. E poi si era alzato ed era rimasto davanti a lei per qualche secondo, coperto solo dell’odore della sua donna, e di una lacrima solitaria sulla guancia destra. Aveva deglutito e asciugato il viso, e poi l’aveva guardata ancora.
 
Lì, su quel divano, nuda, in quella posa come pittoresca, alla luce arancione del lampione sulla strada, era la sua dea. Non avrebbe vissuto senza di lei, non avrebbe avuto senso, non sarebbe stato giusto né opportuno. – Ti amo Maria -, le aveva detto, ed era silenziosamente entrato in bagno.
 
Maria aveva sentito il getto della doccia, e si era alzata piano. Si era rivestita continuando a pensare a Jake, e a Damon. Forse avrebbe dovuto sacrificare un po’ di sé per avere accanto l’uomo che amava, ma tutte le sue forze gli stavano imponendo di scappare il più lontano possibile da quello psicopatico.
 
Quando Damon era uscito dal bagno avvolto da una nuvola di vapore, lei non c’era più, me nell’aria il suo profumo continuava a inebriare i suoi tormenti.
 
 

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Capitolo 15
*** Silent Hill ***




Silent Hill

 

 
E’ incredibile come i giorni riescano a passare veloci e imperturbabili nonostante dentro tutto quello che si voglia sia morire. Damon aveva passato quei giorni seduto sul suo divano con la sigaretta in mano, e un bicchiere mezzo vuoto d’acqua minerale, che usava per spegnere le sigarette.
 
Il suo corpo non aveva più fame né sete, e quanto al sonno non ne aveva mai avuto molto. Piano piano una febbre sempre più intensa gli era salita alla testa, si sentiva confuso e spaventato, e quando l’ultima pastiglia di Prozac era sprofondata nel suo stomaco vuoto, le allucinazioni avevano preso possesso della sua mente e della sua casa, e avevano iniziato a terrorizzarlo e addirittura, a volte, a fargli compagnia.
 
Era seduto e fissava il televisore. Era spento, eppure era come se trasmettesse continuamente orribili film dell’orrore, scene assurde e surreali, strazianti e a tratti tanto verosimili da farlo sobbalzare. Aveva giocato spesso, ultimamente, ad uno di quei videogiochi mostruosi che gli aveva consigliato la sua amica Beatrice, lo aveva scaricato piratamente da internet perché non aveva i soldi per comprarlo, e sinceramente aveva iniziato più per curiosità che per interesse.
 
E adesso, i mostri e le orrende creature di Silent Hill, con quei nomi improbabili e le loro turbe psichiche, lo guardavano dallo schermo del computer, gli correvano incontro con la testa mozzata, lo inondavano di bigliettini, gli chiedevano aiuto per superare un semaforo, per aprire un ponte, per scappare da un ospedale psichiatrico.
 
Ci sarebbe stato da ridere, se lui non lo avesse davvero visto un ospedale psichiatrico, e molto da vicino, quando aveva diciassette anni. Non ricordava molto della sua permanenza lì, ed in effetti sarebbe stato difficile, vista la quantità di sedativi che aveva in corpo in quei tre giorni. Erano solo frammenti di ricordi, spezzoni di immagini. Una stanza bianca con le finestre sbarrate e le tende a pannello pesanti, bianche. La porta con la finestrella, e il letto poggiato sotto un crocefisso di legno marrone, che però era solo dipinto, perché le pareti di quel posto non potevano contenere oggetti che potessero servirgli a tagliarsi.
 
Ma non si poteva impedire a uno psicopatico di manifestare i suoi bisogni e di sfogare il suo dolore e la sua rabbia, e non serviva confinarlo su un letto con le lenzuola bianche, e la striscia azzurre col nome della ditta che le lavava. E non bastava togliere l’immagine di Cristo e dipingerla sul muro per impedire a quello stesso psicopatico di strapparsi a morsi la pelle delle braccia, per trovare sollievo nel sapore ferruginoso del sangue caldo. Damon era riuscito a farsi male anche lì, e a vedere il sangue macchiare le lenzuola chiare, prima che un’altro infermiera gli mettesse tre pillole in bocca, spingendogliele fino in gola, per essere sicura che fossero andate giù.
 
Le infermiere del reparto psichiatrico non erano belle e prorompenti come quelle di Silent Hill, e un volto ce l’avevano, purtroppo, ed era il volto truce e indurito di chi ogni giorno doveva combattere contro un muro fatto di follia e lucido delirio, di chi ogni giorno doveva portare nel mondo reale persone che volevano solo vivere nei propri sogni e nelle proprie realtà.
 
Anche Damon aveva avuto una realtà alternativa una volta, quando era più giovane, ma non aveva più sentito la necessità di un mondo irreale quando si era innamorato di Maria. E adesso, quando l’ultima pillola di Prozac aveva smesso di tenerlo ancorato alla realtà, non sapeva nemmeno più dove rifugiarsi. Aveva pensato di uscire e camminare un po’ tra le stradine di Colchester addobbate per il Natale, e di prendere il telefono e di chiamare sua madre, per sentire la sua voce, come ogni anno la vigilia di Natale. Ma dovevano aver capito, perché da due anni ormai a rispondere era il loro maggiordomo, che lui aveva sempre chiamato James, scoprendo solo dopo quale fosse il suo vero nome.
 
Man mano che le ore passavano, e che le ore diventavano giorni, le allucinazioni di Damon si facevano sempre più creative, e maledettamente vicine alla realtà che più lo spaventava. Le porte chiuse del videogioco diventavano la porta chiusa a chiave della sua stanza, la nebbia che copriva le case era la sua vista appannata dalla droga, e la bambina che scappava via evanescente, che lo tormentava e gli chiedeva di essere seguita, e che poi scappava via senza che lui riuscisse a riprenderla mai, quella bambina era la sua vita. Aveva pensato tante volte a come sarebbe finita, e adesso gli appariva sempre più chiaro che avrebbe passato i suoi ultimi giorni in uno di quegli ospedali per pazzi che non possono permettersi l’assicurazione sanitaria. Sarebbe finito a pisciarsi e cagarsi addosso su un letto in una stanza ammuffita e ingrigita dal dolore e dalla puzza, sarebbe finito solo, coi pidocchi in testa e le unghie consumate dai denti, e le braccia ridotte a brandelli dalle sue stesse dita, dai suoi denti ormai marci.
 
Si era reso conto ormai di non avere più il controllo su Jake, di non ricordare dove avesse messo le cose perché non le aveva spostate lui, di non ricordare più cosa avesse detto a Graham quella sera al Cavern, e soprattutto di non sapere quali fottute emozioni il suo corpo avesse provato mentre faceva l’amore con Maria.
 
Si era sentito preso in giro dal suo cervello, e non voleva più aspettare che succedesse, che arrivassero due uomini con la barella, che gli mettessero quella camicia coi lacci, che lo portassero lì dove lui aveva più paura di andare. Avevano creduto che fosse psicopatico, e quello che la gente comunemente pensava degli psicopatici era che non avessero lucidità, ragione, memoria. Lo avevano picchiato e seviziato, avevano abusato di lui perché nessuno credeva che lui avrebbe ricordato, perché nessuno pensava che lui avrebbe capito quello che gli stavano facendo.
 
Si era ritrovato a piangere con la testa tra le mani, e non riusciva a smettere. Non voleva più essere lucido, e non voleva più soffrire, e in un istante si era reso conto che l’unico modo che aveva per non soffrire più era di rinunciare a vivere.
 
Sua madre gli aveva trasmesso la sacralità del Natale, della nascita di Cristo e del miracolo che ogni anno portava nel cuore della gente l’amore, e nelle tasche degli industriali parecchio denaro extra. Si era alzato con lenta, lucida determinazione, era entrato in bagno e si era fatto la barba stando attento a non tagliarsi il viso. E poi, con la stessa lametta, si era fatto 26 tagli su ogni braccio, corti e sottili, paralleli e ravvicinati. Si era messo sotto la doccia ma stavolta non si era toccato, e aveva solo aspettato che il calore sciogliesse l’odore di nicotina e lo portasse via dal suo corpo.
 
Era uscito allegro e sorridente, ed era entrato nel negozietto di terracotte all’angolo, per comprare un regalo. 

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Capitolo 16
*** Christmas ***




Cristhmas


 
A Colchester il clima era sempre piuttosto freddo, e a Natale di solito c’era un folto manto di neve a coprire l’asfalto scuro e immacolato, e la perfezione delle villette della via centrale, tutte belle, tutte uguali, tutte col loro giardino, tutte col loro cancello di ferro battuto . E i cinque gradini che conducevano alla porta della casa di Maria.
 
Era Natale, o meglio lo sarebbe stato il giorno dopo. E a Natale Colchester diventava un’immensa accozzaglia di luci colorate, di festoni rossi e di ghirlande, e di alberi luccicanti, e di vetrine invitanti. A Natale ogni cosa in quel piccolo insignificante paese diventava speciale, anche la piccola stazione ferroviaria, quella in cui era sceso quel pomeriggio dopo essere scappato da Londra, quella in cui il controllore lo aveva beccato senza biglietto. Quante fottute coincidenze c’erano state nella sua vita, e quella della stazione di Colchester era di sicuro la migliore.
 
Aveva trovato quel lavoro alla fabbrica praticamente subito, e si era sentito realizzato al pensiero di essere un ragazzetto sbarbatello che riusciva a cavarsela da solo e senza l’aiuto dei suoi genitori. Ma Natale era un giorno diverso, era un giorno speciale. Un giorno di cupa e sorda malinconia. Sua madre iniziava i preparativi due giorni prima, e apparecchiava sempre la tavola dalle cinque del pomeriggio, con la porta chiusa a chiave. La tovaglia blu, e i tovaglioli color panna, e il centrotavola e le posate allineate con la precisione di un ingegnere. Preparava e cucinava e intanto, insieme all’odore di biscotti e tacchino ripieno, nella grande villa di Londra si diffondeva quel profumo di famiglia e amore che si sentiva solo a Natale. C’era quel calore di camino e quell’aroma di serenità che pervadeva quell’immenso soggiorno quando arrivavano i bambini, e le sorelle cercavano invano di offrire aiuto a sua madre, che non faceva entrare nessuno, nessuno, in quella stanza prima dell’ora di cena.
 
Ricordava le esclamazioni di stupore della famiglia al completo quando finalmente apriva la porta e mostrava a tutti loro cosa volesse dire creare l’atmosfera del Natale. Quelle candele sospese e quelle luci che trasmettevano una magia speciale, e quei preziosi fili dorati che scendevano come una luminosa pioggia dal soffitto. E ricordava suo padre con quell’enorme coltello intento ad affettare il tacchino, e i bambini seduti nel loro tavolino, lì da parte, felici di poter finalmente giocare coi piselli e il purè di patate.
 
Erano da poco passate le sette a Colchester, e lui era dietro quel cancello di ferro battuto. La neve aveva ripreso a scendere forte e sicura di sé, e a imbiancare anche le spalle scure del suo giubbotto di pelle. Sarebbe stato il suo primo Natale lontano da quella casa. Quando Maria lo aveva lasciato, Graham aveva comunque voluto che lui passasse il Natale con la sua famiglia, anche perché lei non c’era, e per lui Damon era stato molto più che un fratello. Ma quel Natale, quello che avrebbe portato tutti davanti a una tavola imbandita e poco dopo davanti a un pianoforte a intonare delicate canzoni di festa, quel Natale sarebbe stato per lui il primo lontano da quella casa.
 
Aveva suonato il campanello, e Graham lo aveva fatto entrare con gli occhi bassi. Probabilmente era ancora scosso per quello che era successo al Cavern, e avrebbe voluto evitare di guardarlo in volto, ma chiudendo la porta non gli erano comunque sfuggiti gli occhi lucidi e gonfi di Damon, e il suo sguardo spaventato nella faccia tirata.
 
Damon era entrato, non prima di strofinarsi le maniche del suo giubbotto per far cadere quel poco di neve, e poi si era diretto verso la piccola cucina della signora Coxon. Era entrato con passo sicuro, aveva tossito per schiarirsi la voce e attirare la sua attenzione, e quando lei si era voltata le aveva allungato un pacchetto di lucida carta rossa, con una piccola coccarda dorata. Poi, le aveva baciato la guancia sussurrandole – Buon Natale mamma – perché lui la chiamava così.
 
Martha Coxon era rimasta quasi paralizzata, e aveva abbassato gli occhi. Poco prima, Damon era riuscito a leggere in quegli occhi una piccola scintilla luminosa, un piccolo dolore subito celato dal suo sorriso di mamma. Doveva essere dispiaciuta del non averlo invitato a quella cena di Vigilia, del non averlo accolto nella sua casa anche quell’anno, dell’aver fatto una scelta, dell’aver scelto Maria. Damon era sempre stato così buono e dolce con lei, era stato amorevole quasi più dei suoi stessi figli, e lei gli aveva voltato le spalle e lo aveva lasciato solo, nel giorno più bello dell’anno, nel giorno di Natale.
 
E adesso, Damon era di fronte a lei con quel pacchetto, e le aveva fatto gli auguri, e l’aveva chiamata mamma con la voce rotta dall’emozione, perché lei sapeva che, come ogni volta che la chiamava mamma, Damon pensava alla sua di mamma, e il suo cuore si spezzava nel ricordo di una persona che aveva amato tanto e che aveva perso.
 
Martha aveva preso il pacchetto e lo aveva ringraziato, e gli aveva offerto il suo punch caldo, e i suoi biscotti di zenzero. Damon ne aveva preso uno, il suo preferito, quello a forma di alberello. Le aveva sorriso ringraziandola e le aveva chiesto cosa avesse preparato per quella sera di vigilia. Ma le sue parole si erano fermate quando Maria aveva pronunciato il suo nome, come se volesse al tempo stesso sgridarlo, e chiamarlo, ed esprimere il suo desiderio di parlargli.
 
Lo aveva aspettato nel piccolo corridoio buio, illuminato solo dalle lucine intermittenti e colorate del suo albero di Natale. Gli aveva chiesto perché fosse lì, e perché fosse andato via piangendo in quel modo, quella sera a casa sua. Ma lui non aveva risposto. Aveva accennato un sorriso negli occhi e sulle labbra ancora addolcite dallo zucchero a velo del biscottino. Aveva deglutito e l’aveva guardata negli splendidi occhi scuri, e poi le aveva sfiorato la mano e se l’era portata al viso. – Mi manchi Maria, ti prego torna da me -.
 
Maria era rimasta interdetta. No, non avrebbe mai immaginato di sentire quelle parole, tantomeno quel giorno, in quel momento, in quel corridoio freddo e con i suoi genitori e suo fratello alle spalle. Non avrebbe mai immaginato di ricevere quella proposta vestita così, con quell’abitino nero di lana e le scarpe così basse, così insignificanti, le scarpe che continuava a fissare per evitare gli occhi di Damon, che in quel momento dovevano essere lucidi ed emozionati, come la prima volta che l’aveva baciata. E spaventati, come quella sera a casa sua, quando le aveva chiesto di sposarlo, e lei gli aveva urlato il suo no senza neppure dover aprire la bocca. Probabilmente, anche quella richiesta sarebbe rimasta senza risposta. Maria non gli avrebbe detto di no, si sarebbe limitata a scuotere il capo appena un po’, e a riavviarsi i capelli dietro le orecchi, scorrendo le dita affusolate lungo tutta la ciocca sottile, fino alle punte.
 
Damon aveva alzato gli occhi solo per notare la famiglia di lei in silenzio e imbarazzata. Si era sentito stupido ad aver creato quell’imbarazzo proprio la vigilia di Natale, e sapeva che sua madre di certo non lo avrebbe apprezzato. Aveva sorriso cercando di nascondere il dolore, e aveva fatto un cenno con la mano, e poi aveva augurato a tutti loro Buon Natale.
 
 Aveva fatto qualche passo all’indietro, senza staccare gli occhi da Maria. Era arrivato a quella piccola porta che conosceva da tanto tempo, ormai, e l’aveva aperta poco prima che le campane della chiesa vicina suonassero le nove.

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Capitolo 17
*** Caravan ***




Caravan


 
Colchester era deserta già a quell’ora. I piccoli negozietti addobbati avevano sigillato le porte con allegri festoni per riaprirle solo il giorno dopo Natale, e anche il grande magazzino a due isolati da casa sua ormai aveva chiuso i battenti. Damon aveva percorso quella strada nella neve, sentendone il peso leggero sulle spalle ogni volta che sollevava gli occhi al cielo, infreddolito e depresso. Non riusciva mai a trovare nulla di buono nel giorno di Natale, e non poteva riuscirci quella sera.
 
Era tornato a casa senza neppure aver comprato qualcosa da mangiare. Aveva acceso le luci e sbirciato da lontano il piccolo alberello poggiato sul tavolino accanto alla finestra, lì dove il portatile era ormai coperto di polvere. Aveva aperto il primo cassetto e ne aveva tirato fuori una tovaglietta di canapa blu, e ci aveva poggiato sopra un tovagliolo di seta color panna, e un piatto, e le posate, e il bicchiere a calice, quello delle grandi occasioni. Tutto sommato era Natale.
 
Aveva aperto il frigo e ci aveva trovato una vaschetta di improponibile lasagna italiana da scaldare al microonde, e l’aveva messa dentro programmandolo. Era rimasto per un po’ a fissare quel piatto girare e girare, e quella flebile luce gialla illuminare quel poco di cucina che aveva. Si era voltato lentamente, e aveva esaminato uno ad uno tutti i mobili che arredavano quel piccolo appartamento di provincia, il divano, il televisore, il letto e il tavolino davanti alla finestra.
 
Era tutto lì, in quei quattro mobili, in quelle quattro pareti, che si era svolta la sua vita negli ultimi sette anni. Il timer del forno lo aveva ridestato ed aveva preso la teglia con la punta delle dita, per non scottarsi. Si era seduto con maestosità a capotavola, ed aveva poggiato la forchetta sulla besciamella anemica che ricopriva quel piatto di pasta.
 
Era bianca, bianca come la neve, bianca come le pareti della sua casa, e quelle dell’ospedale psichiatrico. Era bianca come la luce del neon che dondolava sulla sua testa, riflettendo le sottili forme dei suoi capelli chiari. Era bianca come la sua vita, un foglio di carta intonso, privo di segni, di simboli, di passato, di presente, di futuro.
 
Quando quella besciamella insipida e incolore aveva raggiunto le sue labbra, Damon si era ritrovato a singhiozzare come un bambino caduto dalla bicicletta. Era solo. Era un miserabile psicopatico di ventisette anni seduto davanti a un miserabile tavolino imbandito a festa, con uno schifoso piatto di pasta precotto e un calice di vino in brick da quattro soldi. Si era sentito sprofondare nel più buio e angosciante baratro che potesse immaginare.
 
Era il giorno di Natale. La gente festeggiava allegramente con la famiglia e gli amici. Le urla dei bambini coprivano le conversazioni amene e il sapore del vino confondeva gli animi e le pietanze. Il tacchino ripieno arrivava in gran trionfo davanti al padrone di casa orgoglioso del suo ruolo, e il purè di patate veniva servito come la calce nei piatti. I regali sotto l’albero erano una tentazione irresistibile per i più piccoli, e la carta lucida che li ricopriva veniva continuamente stropicciata e maltrattata perché il pacco svelasse, al suo suono, il suo dolce e tanto atteso contenuto.
 
Nelle famiglie più tradizionaliste, il fratello più grande sedeva dopo cena al pianoforte e iniziava a intonare qualche canto di Natale seguito dalla sorella graziosa in pullover rosso e gonnellina in tinta, e poi da tutti gli adulti col bicchiere in mano. Cliché, si ripeteva nella testa Damon, sono solo cliché. Ma sapeva che non era così, sapeva che quella scena si stava ripetendo come ogni anno a casa dei suoi genitori a Londra, a casa di Maria, e chissà in quante altre case, e paradossalmente quella stessa atmosfera quella sera si sarebbe presentata anche negli ospedali, nei dormitori e nelle mense per i poveri. Ma non da lui. Era solo, era solo il giorno di Natale, la notte di Natale.
 
Si era sentito invadere da un profondo senso di vuoto e solitudine, era scoppiato a piangere e non riusciva a smettere di farfugliare parole scomposte e di invocare il nome di sua madre, e di cercare di ricordare il suono della sua voce che gli mancava tanto. Piangeva e non sapeva neppure perché, ormai non c’era più nulla in quel fottuto mondo che avrebbe voluto continuare a vedere, ad ascoltare, a vivere. Gli era venuta in mente quella canzone depressa che aveva scritto la notte in cui Maria era andata via.
 
Caravan. Aveva avuto tante occasioni nella sua vita. No. Non era così in effetti, aveva avuto poche occasioni, ma evidentemente le aveva miseramente sprecate tutte quante. E adesso, il treno era passato, e lui era rimasto a terra. Aveva cercato conforto tra le panche e le colonne della staxione, prima di rendersi sconto di essere rimasto solo. Non sarebbero passati altri treni, the day will come when you’ll get away from it.
 
Si era alzato e in uno scatto d’ira aveva buttato per aria la sua cena e il suo vino, e il tavolino traballante e l’alberello spoglio, e aveva cercato di asciugarsi gli occhi almeno quel tanto per riuscire a vedere dove stesse andando, per raggiungere il suo divano.
 
Aveva acceso il portatile, e aveva cercato un segno, un segno qualunque, della sua presenza nel mondo. Ma gli unici segni del mondo che lo riguardavano erano le sue prescrizioni mediche, e la mail di licenziamento che il suo titolare gli aveva spedito dopo che si era assentato per due settimane dal lavoro, senza dare spiegazioni.
 
Aveva scritto un messaggio di auguri a Beatrice, perché sapeva che lei gli avrebbe risposto, prima o poi, e perché non voleva lasciarla così, senza una parola, un messaggio, un biglietto. Aveva pensato anche a quello, al biglietto d’addio, ma sarebbe stato davvero stupido pensare che qualcuno avrebbe voluto leggerlo. Aveva preso il suo cellulare e aveva composto il numero di Londra, e James, o come cazzo si chiamasse in realtà, aveva risposto col solito tono ufficiale, e lui stavolta non aveva semplicemente riattaccato. Gli aveva parlato, gli aveva chiesto di suo padre. Non sapeva che cosa avrebbe detto quando il padre avesse sollevato la cornetta, ma non aveva dovuto preoccuparsene. Suo padre aveva detto al suo maggiordomo di chiudere la comunicazione, perché non ricordava di avere un figlio di nome Damon.
 
Damon aveva sorriso. Si era alzato lentamente dal divano e aveva iniziato a ciondolare sereno per tutta la casa. Aveva raccolto tutto, aveva pulito il pavimento e sistemato ogni cosa. Poi si era acceso una sigaretta ed era sceso in strada a buttare la spazzatura. Doveva essere tutto pulito, tutto in ordine.
 
Tornando a casa, aveva lasciato la chiave dentro la serratura, perché aveva speso trenta sterline per farla sistemare, e gli dispiaceva che qualcuno dovesse forzarla per entrare. E lì, sulla porta, aveva lasciato un biglietto giallo, di quelli autoadesivi, di cui non riusciva mai a ricordare il nome.

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Capitolo 18
*** Across the universe ***




Across the Universe
 


Aveva un paio di jeans aderenti, che gli esaltavano le forme che più amava del suo corpo, e una camicia blu abbottonata quasi fino al collo. Era parecchio freddo il suo piccolo monolocale, ma aveva quel piumone scuro sul letto, e si sentiva protetto. Un tempo, quando passava i suoi pomeriggi su quel sito di impiccioni, aveva commentato che bastano poche cose per il Paradiso. Un letto caldo, un portatile, e un barattolo pieno di nutella. Non aveva parlato del Prozac, all’epoca gli piaceva ancora apparire come un ragazzo sereno e senza turbe mentali.
 
E adesso, era davvero giunto il momento di vedere se quel Paradiso fosse o meno reale, e speciale come lo aveva immaginato. Aveva preso il suo barattolino mezzo vuoto di nutella e un cucchiaio, e si era infilato sotto le coperte tutto vestito, senza togliere neppure gli stivaletti neri di pelle. Si era sistemato il cuscino alle spalle ed aveva iniziato ad armeggiare col suo lettore mp3.
 
Damon amava ogni genere di musica, purchè fosse profonda e intelligente, a prescindere dal genere e dall’età di una canzone. Amava i Beatles, perché riteneva che nessuno avrebbe mai più potuto creare quei capolavori di semplicità ed emozioni che Paul e John avevano nel tempo offerto ai loro fan, e agli amanti della musica di tutto il mondo. Mentre mangiava la nutella, leccando il cucchiaio lentamente, e facendola sciogliere sotto il palato, per gustarne meglio il sapore, ed il calore che dava alla sua bocca ed al suo cuore, Damon aveva selezionato una cartella speciale nel suo ipod, ed era davvero speciale perché l’aveva creata quando aveva diciassette anni.
 
L’aveva creata nella sua testa, quando era chiuso in quella stanza asettica e fredda, con il crocefisso dipinto e l’odore di alcol. Aveva cantato nella sua mente ognuna di quelle canzoni, una ad una, cercando di ricordare ogni parola, ogni diverso suono di ogni diverso strumento, e ogni pausa, ogni tempo, ogni sfumatura nella voce di chi cantava. Aveva pensato sempre che un giorno la pazzia avrebbe preso il sopravvento sulla sua testa, e avrebbe cancellato tutti i suoi ricordi più belli, ma era certo che niente avrebbe potuto rimuovere le emozioni e i ricordi che lui aveva collegato a quelle canzoni, a quelle parole, a quelle note.
 
Aveva finito tutta la nutella e aveva nascosto il barattolo nel cassetto del comodino a tre piedi. Stava fermo a guardare il muro di fronte a sè per cercare di capire se quella falena fosse reale, o fosse semplicemente un’allucinazione.  Ma ormai la sua mente era presa da una febbre irreale, e non era più in grado di distinguere la realtà dalla finzione.
 
Lentamente, e metodicamente, aveva iniziato ad arrotolare le maniche della sua camicia fino al gomito, stirando con le dita accuratamente ogni piega, e poi era rimasto per un attimo a fissare le sue braccia martoriate.
 
In quei mesi si era tagliato talmente tanto, e tanto spesso, che la sua pelle era ormai un velo bianco e sottile ricoperti di crosticine sottili e ancora non indurite. Aveva accarezzato quelle cicatrici pensando a quello che ciascuna di esse aveva rappresentato per lui, ma non riusciva a ricordare tutto il male che aveva dentro.
 
Si era infilato una mano nella tasca stretta dei jeans, e aveva tirato fuori un flacone di Prozac. Certo, un vero uomo di sarebbe sparato un colpo facendosi saltare le cervella, oppure si sarebbe lanciato sotto un treno in corsa, ma lui era sempre stato vanitoso, e voleva che il suo corpo non subisse traumi dalla sua morte. Aveva svuotato le ventisette pillole nella sua mano destra, ed una ad una le aveva infilate in bocca, e le aveva mandate giù senza bere nemmeno. Così, non ci sarebbe stata schiuma alla sua bocca, perché era orribile vedere i cadaveri dei morti per overdose.
 
Aveva sistemato il suo cuscino e poggiato la sua testa stanza rivolta verso il soffitto. Aveva paura del buio, e dormiva sempre, sempre con la luce della sua lampada accesa. Aveva sistemato le cuffie nelle orecchie cercando di fare in modo che non gli facessero male quando si girava, perché sapeva che non avrebbe resistito molto in quella posizione, e che presto o tardi si sarebbe rannicchiato come un bambino nell’utero materno, per sentirsi meno solo.
 
Man mano che i minuti passavano, gli occhi di Damon si facevano sempre più pesanti. Nella mano destra non c’era che una sottile patina gelatinosa dovuta alle capsule che ormai erano dissolte nel suo organismo. E sul cuore, stretta in un abbraccio forte e passionale, c’era una foto in bianco e nero, una foto fatta col cellulare di lui, in quel locale fumoso, quella sera di sette anni prima.
 
Non si vedeva nemmeno bene, e lei era leggermente voltata a guardare il palco, ma il suo sorriso era limpido, e i suoi occhi erano innamorati, ed erano tutti per lui. era la prima foto che aveva fatto a Maria, e sebbene lei la odiasse a lui piaceva ricordarla in quel locale, con quella maglietta nera con una scritta assurda inneggiante ai Beatles, e i capelli corti, la frangia sottile sugli occhi scuri e la sigaretta tra le labbra morbide. Maria era stata l’unica donna che lo avesse mai, mai amato. E lui non aveva mai svelato a nessuno i segreti del suo cuore e della sua mente, e non aveva la forza di pensare di poter un giorno ricominciare da zero, e condividere le sue paranoie con un’altra donna.
 
Damon non aveva la forza di ricominciare. Punto. Non aveva la voglia di riprendere le redini della sua vita e di continuare un percorso che lo aveva spaventato sempre. Non voleva vivere più, era stanco. Probabilmente, i suoi amici e la sua ragazza avrebbero etichettato il suo ultimo disperato gesto come un atto di vigliaccheria, e forse era davvero solo questo. Ma Damon aveva un’altra verità.
 
Ogni notte, due uomini dal nauseante odore di formaldeide entravano nella sua stanza, avevano il volto coperto, e le braccia pelose, un camice bianco e un fazzoletto. Mentre uno di loro gli metteva il fazzoletto in bocca, l’altro gli tirava giù i pantaloni, e iniziava a stuprarlo sotto lo sguardo eccitato dell’altro. Lo avevano violentato quattro volte, nel silenzio della sua stanza asettica, lasciandolo con i pantaloni bagnati di pipì. Ogni notte, Damon si svegliava nel suo letto bagnato, e piangeva, e non riusciva a cancellare quei ricordi che lo tormentavano ormai da dieci anni. Teneva la luce accesa e fissava la porta, e non vedeva quegli uomini finché i suoi occhi non riuscivano più a reggere il peso della stanchezza.
 
Non quella notte. Aveva tirato un sospiro profondo, e aveva chiuso gli occhi. Le magiche note di Across the Universe avevano iniziato a investire la sua mente ormai confusa e stanca. Le parole avevano davvero iniziato a danzare nella sua testa, e quei suoni psichedelici si erano trasformati in immagini e colori meravigliosi.
 
Un profondo senso di pace si era impossessato del suo corpo stanco e martoriato. Come in un film aveva rivisto tutti i momenti più belli della sua vita, e solo quelli. Lo aveva letto da qualche parte che prima di morire il cervello si prepara a rivivere solo i momenti più belli, quelli che danno pace e sollievo al corpo, per prepararlo meglio alla morte.
 
Aveva scostato la mano e spento la lampada. All’improvviso l’alone giallo nei suoi occhi chiusi era scomparso, e aveva sentito freddo, un brivido inatteso e violento. Ma poi, come aveva previsto, si era rannicchiato sotto le coperte, e aveva sorriso. Il mio ultimo pensiero è per te, Maria. Aveva sussurrato quelle parole con calma e fredda rassegnazione. E con amore. Forse non erano neppure uscite dalla sua bocca.
 
Damon si era addormentato. Ma questa volta non si sarebbe svegliato tra le lenzuola bagnate, tra gli incubi, e il suono vuoto del telefono spento di Maria. Non si sarebbe svegliato spaventato e confuso. Non si sarebbe svegliato più.

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