Sole di mezzanotte

di _Miwako_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Two years later ***
Capitolo 2: *** From the abcence of the sun ***
Capitolo 3: *** They still don't understand ***
Capitolo 4: *** Who do I wanna be? ***
Capitolo 5: *** Slow down ***
Capitolo 6: *** The dark side of me ***
Capitolo 7: *** Erase and rewind ***
Capitolo 8: *** Shoot ***
Capitolo 9: *** Something blue ***
Capitolo 10: *** Weakness ***
Capitolo 11: *** IF YOU WANT TO ***
Capitolo 12: *** Chaos - first part ***
Capitolo 13: *** Chaos - second part (defeat) ***
Capitolo 14: *** Till music slows down and fade ***
Capitolo 15: *** We are just ash in a jar - till the end 1 ***
Capitolo 16: *** We are just ash in a jar - till the end 2 ***



Capitolo 1
*** Two years later ***


Ebbene sì, alla fine mi sono fatta convincere a fare un seguito de L’ultima metà del cielo… anche se poi era un’idea che mi fr

Ebbene sì, alla fine mi sono fatta convincere a fare un seguito de L’ultima metà del cielo… anche se poi era un’idea che mi frullava in testa già da prima di terminarla._.

Volevo fare un paio di chiarimenti (adoro fare chiarimenti a quanto pare-_-): è possibile che qualcuno di voi si ricordi di una mia vecchia fic che arrivò appena al primo capitolo, Sole di mezzanotte, appunto. Beh, dato che non riuscivo proprio a trovare il modo di continuarla, ho pensato di inglobarla con questa: la trama è esattamente quella che avevo in programma per allora. Non so quanti capitoli durerà questa: non credo che sarà lunga quanto UMC, ma chi può dirlo?... come al solito nemmeno io ho le idee chiare. Credo comunque che per leggere questa fic non sia del tutto necessario aver letto UMC… c’è solo qualche riferimento qua e là che poi viene anche spiegato, quindi direi che si può leggere tranquillamente anche solo questa. Spero comunque che questo primo capitolo possa piacervi… qualsiasi commento, opinione e critica costruttiva lo sapete, sono bene accetti.

 

 

 

TWO YEARS LATER.

 

[Due anni dopo.]

 

 

 

“I’m here without you baby                          “Sono qui senza te
but you’re still on my lonely mind                 
ma tu sei ancora nella mia mente sola
I think about you baby                                  
  penso a te
and I dream about you all the time               
 e ti sogno tutto il tempo
I’m here without you baby                             
sono qui senza te
but your still with me in my dreams              
 ma nei miei sogni tu sei ancora con me
And tonight girl it’s only you and me”           
e stasera siamo solo io e te.”

 

 

 

Three Doors Down

 

 

Nove del mattino.

Ron Weasley dormiva della grossa sul letto, mentre tutte le coperte giacevano per terra stropicciate.

Senza bussare, qualcuno entrò nella sua stanza.

Una ragazza dai lunghi capelli rossi, vestita di tutto punto, lo guardò disgustata.

-         Non dovresti essere a Diagon Alley, a quest’ora? –

Ron mugugnò.

-         Ron. Rooon, datti una svegliata! Oggi non avevi un esame? –

Il ragazzo si voltò dall’altra parte, in silenzio. Dopo qualche secondo scattò a sedere.

-         Che giorno è? –

Ginny Weasley sorrise ironica, incrociando le braccia.

-         Venerdì. –

Ron fece un’espressione terrorizzata.

-         Oh, cazzo! –

Si catapultò giù dal letto, raccolse alcuni vestiti a caso da terra, sorpassò Ginny urtandola e si chiuse in bagno sbattendo la porta.

Ginny scoppiò a ridere e si accostò alla porta del bagno.

-         Che esame hai? Sei sicuro che ti ammetteranno, ormai? –

Sentì l’acqua della doccia cominciare a scorrere. La raggiunse la voce di suo fratello, attutita dalla porta.

-         Ho lavorato come un deficiente per farmi ammettere a quel diavolo di esame! Se non mi prendono sono morti! –

-         Mi sa che sei tu che sei morto, se non lo dai. Ma insomma, possibile che tu non ti sia svegliato? Che hai fatto ieri sera, che non ti abbiamo nemmeno sentito rientrare? – ridacchiò Ginny.

L’acqua della doccia smise di scorrere. Ron uscì come un fulmine dal bagno, con l’accappatoio sopra i jeans ed i capelli ancora bagnati, ed andò a frugare nella sua stanza alla ricerca di una maglietta decente.

Ginny lo seguì allegramente.

-         Allora? Com’è che stai zitto? –

Ron si spazientì, ficcandosi alla bell’e meglio una delle sue quindici magliette dei Chudley Cannons.

-         Senti, perché sei così allegra, oggi? Non avevi una specie di colloquio non so cosa? –

Ginny fece spallucce.

-         Ce l’ho, ma fra due ore. E comunque, è per accedere al corso di Auror, come se non lo sapessi! L’hai fatto anche tu. –

Ron si infilò le scarpe alla velocità della luce e prese lo zaino. Ginny si accorse che aveva un po’ di schiuma da barba sotto il mento, ma per ripicca fece finta di niente.

-         Sì, beh, non sai in che casino ti stai ficcando, cara mia. Ci fanno sgobbare come animali! –

Ginny lo guardò alzando un sopracciglio.

-         Harry non mi sembra così distrutto. –

-         Perché Harry non è un essere umano, è una macchina da guerra. Altrimenti non si sarebbe preso una come te. –

Ginny fece un’espressione indignata, ma prima che potesse tirargli un cuscino in piena faccia, Ron si smaterializzò ridacchiando.

 

Nove del mattino.

Harry tamburellò le dita sul tavolo, guardandosi intorno. Possibile che quel cretino dovesse arrivare in ritardo proprio oggi? Tutti gli altri stavano prendendo posto, con aria nervosa.

Era il secondo esame del corso per Auror: eppure sembrava il decimo, tant’erano difficili. Non scherzava la McGrannitt quando aveva detto che avrebbero fatto una fatica terribile. Harry, a forza di studiare fino a notte inoltrata, si ritrovava spesso a pensare di mollare tutto e mettere su un allevamento di Schiopodi Sparacoda.

Però, ridendo e scherzando, alla fine perfino Ron ce l’aveva fatta ad essere ammesso al corso, nonostante i suoi voti a Hogwarts non fossero certamente eccellenti. In quei tre mesi si era impegnato parecchio: non poteva buttare tutto all’aria arrivando in ritardo al secondo esame, che non si poteva neanche ridare.

Appoggiò la fronte al banco, stremato.

-         Che aria stanca, Harry! Dovresti essere allegro, è già venerdì. –

Lui alzò faticosamente la testa.

L’espressione allegra di una graziosa ragazza dai capelli biondo cenere gli si parò davanti. Strinse gli occhi, come se vedesse d’improvviso un gran sole dopo essere stato delle ore in una stanza buia.

-         Non ho l’aria stanca, Cloe, io sono stanco. –

-         Io per niente. –

-         Forse perché tu sei una specie di genio e se leggi un libro una volta lo sai già a memoria. –

-         Non esagerare, anche tu te la cavi. A proposito, ma dov’è finito Ron? Lo sa che questo esame non si può ridare, se lo si manca? –

-         Lo sa, lo sa. Solo che è un deficiente. –

Cloe sorrise e fece per dire qualcosa, ma entrò una donna sulla mezza età, vestita di un orrido giallo, che proclamò di sedersi ai loro posti.

La ragazza andò a sedersi al suo banco, e Harry si sentì furioso. Dove diavolo era, quell’idiota?

La donna cominciò a distribuire i fogli ed a controllare che non avessero bigliettini o penne magiche nascosti dentro le mutande (beh, in realtà controllò solo nelle giacche).

La porta si spalancò con un botto.

-         Scusi il ritardo! –

Ron, completamente sudato e con il fiatone, si trascinò verso il suo posto poco lontano da Harry e si sedette.

La donna lo squadrò dall’alto in basso come se fosse il peggiore scarto umano che avesse mai visto.

-         E’ in ritardo. Si rende conto che potrei squalificarla? Così dovrebbe ripetere anche il primo esame. –

Ron riprese leggermente fiato ed ostentò un sorriso.

-         Ma non vede che sono corso qui come un matto solo per lei? Ed ora vuole buttarmi fuori? –

Tutta la classe scoppiò a ridere.

Harry trattenne un sorriso. Notò un’ombra decisamente preoccupata negli occhi di Ron. Non era proprio reale il suo atteggiamento da sbruffone.

La donna comunque gli fece un cenno infastidito e decise di lasciarlo perdere. Ron era piuttosto popolare per le sue uscite spiritose, un po’ come a Hogwarts, con la differenza che adesso parecchie studentesse gli ronzavano attorno con interesse perché giocava tutti i sabati mattina in una squadrucola locale che però dalle parti di Diagon Alley era assolutamente adorata.

Anche Harry aveva la sua dose di ammiratrici, ma per carattere tendeva a non farci particolarmente caso: di solito quando c’era una ragazza che gli piaceva, gli piaceva quella e basta. E ce l’aveva da parecchio, una ragazza che gli piaceva.

Calò il silenzio e gli studenti cominciarono a scrivere.

 

Nove del mattino.

Hermione se ne stava seduta sul letto della sua stanza con cinque o sei libri piuttosto spessi attorno. Leggeva ad alta voce e la bacchetta accanto a lei scriveva su un blocco per gli appunti. Si fermò per sorseggiare un po’ di caffè ma ormai era freddo. Era sveglia da due ore.

L’unico giorno in cui aveva la mattina libera, e lei lo passava a studiare. Il fatto era che non riusciva proprio a dormire fino a tardi. Ad un certo punto le mancava il sonno, ecco. E non aveva niente di particolare da fare, a parte studiare, appunto.

Sentiva al piano di sotto la radio accesa, e sua madre che canticchiava lavando i piatti, mentre suo padre faceva colazione sfogliando il giornale, sicuramente nell’inserto sportivo.

Riprese la bacchetta, sbuffando. Si annoiava. Ormai aveva finito di studiare. Come avrebbe fatto dopo, quando non avrebbe più avuto nulla da fare?

A volte pensava che avrebbe dovuto iscriversi al corso per Auror. Harry e Ron sembravano sempre così indaffarati… ad esempio, quella mattina avevano addirittura un esame importante. A proposito: se Ron ne avesse combinata una delle sue come al solito, lo avrebbe ammazzato. Sperava sinceramente che si fosse svegliato in orario, dato che tutta la sera prima (ed anche le precedenti) le avevano passate praticamente solo studiando. Anche se lui era sempre così dannatamente distratto, da chissà quali pensieri, poi.

Sentì bussare alla porta.

Sua madre fece capolino.

-         Tesoro, hai visite. La tua amica Ginevra sta salendo – abbassò sensibilmente la voce. – santo cielo, ma non potresti chiederle di avvertire prima di comparirmi nel camino così, all’improvviso? Per poco tuo padre non si affogava con una ciambella. –

Hermione sorrise, trattenendo invece una risata.

Sua madre se ne andò lasciando il posto a Ginny.

-         Buongiorno – disse la ragazza, allegramente, reggendo due sacchetti bianchi in mano. – ti ho portato dei cornetti al cioccolato. E del caffè solubile. E delle bustine di thé. –

Lei alzò un sopracciglio.

-         Cos’è, volevi fare la spesa alla babbana? –

-         Oh, io adoro entrare in quei negozietti. I babbani hanno un’aria così ingenua e fra le nuvole… a parte quando il commesso mi ha detto che le monete che gli avevo dato non valevano. –

-         Come te lo devo dire che a Londra si usano le sterline? –

-         Beh, insomma. –

Ginny si sedette sul letto e scartò un sacchetto.

-         Chissà, forse ti dovresti trasferire a Diagon Alley. –

-         Sì, e con quali soldi? Non ho tempo di trovarmi un lavoro. –

-         Non si può mai dire. –

Hermione la guardò stranita, ma decise di lasciar perdere. Addentò un cornetto.

-         Ma tu non avevi un colloquio? –

-         Sì, ma ne manca di tempo. Nel frattempo, non sapevo che fare. Facciamo schifo, quando Ron e Harry sono impegnati noi ci ingozziamo. –

Hermione fece un’espressione altezzosa.

-         Parla per te – disse, però a bocca piena.

Ginny rise.

 

Nove del mattino.

Sotto le lenzuola bianche, Draco dormiva a pancia in giù, tranquillamente, con il respiro lento.

Seduta su una sedia, Pansy appoggiò la tazza piena di caffelatte. Erano già diversi minuti che lo guardava dormire.

Lui fece un lungo sospiro.

Lei sorrise.

Inconsciamente strinse le dita, toccando il cerchietto d’oro che circondava l’anulare sinistro.

Avrebbe dovuto rivestirsi, ma non ne aveva voglia. Stava così bene lì a guardarlo…

D’improvviso, Draco aprì gli occhi grigi.

-         Buongiorno – sussurrò Pansy, alzandosi per andargli a dare un bacio.

Lui non rispose. Si mise a sedere ed afferrò una canottiera da in fondo al letto. Se la infilò in silenzio.

-         Che ore sono? – chiese, andando a prendere i jeans.

-         Le nove. Vuoi fare colazione? –

-         Sì. Ma fuori. Qui dentro c’è tanfo. –

-         Cerca di resistere. Rodolphus ha detto che tra qualche giorno ti sposteranno. –

-         In qualche altra stanza schifosa. Questo castello è uno schifo di per sé. –

Pansy tacque. Evidentemente, era uno di quei giorni in cui Draco non era di buon umore. Cioè, di buon umore non lo era mai. Però, si notava dal suo sguardo, quando ti sopportava e quando ti avrebbe ucciso se avesse potuto.

C’erano stati giorni, specialmente all’inizio della sua vita nel castello, che Draco non sopportava niente e nessuno. Era capace di alzare la voce perfino con Rodolphus, che era stato praticamente assegnato a ‘tutore dei nuovi’. I nuovi erano Draco e Pansy, naturalmente.

Gli unici con cui non sembrava mai perdere la pazienza anche con l’umore nero erano suo padre ed il Signore Oscuro.

Anche perché, se avesse fatto una cosa del genere, entrambi non ci avrebbero pensato due volte ad ucciderlo.

Poi, però, sembrava che con il passare del tempo si fosse adattato. Smetteva di trattare chiunque come se fosse feccia. Giusto in tempo per il matrimonio.

Cioè, matrimonio. Niente celebrazioni, figuriamoci. Si erano solo messi gli anelli ed anagraficamente, a partire da una domenica di giugno, erano sposati.

Però, in realtà, non era cambiato un bel niente tra loro. Dormivano in camere separate, lei spesso si infilava nella sua, ma non rimaneva mai a dormire. Sapeva che era una delle cose a cui Draco era intollerante. Odiava dormire con qualcuno.

Pansy lo guardò legarsi la cintura.

-         Allora, stasera… -

Draco andò allo specchio, la mascella contratta, si pettinò i capelli.

-         Stasera cosa? –

-         Andiamo. E’ tutto pronto? –

-         Non me ne occupo io, Pansy, è inutile che me lo chiedi. Ci hanno chiesto di andare e noi ci andiamo, come abbiamo sempre fatto. –

Pansy non si scompose.

-         Tuo padre? –

-         Non viene. Insomma, non è mica una missione di importanza mondiale. Andiamo solo a spaventarli un po’. –

Lei lo guardò, inclinando leggermente la testa.

-         L’altro giorno… cosa ti ha detto il Signore Oscuro? Ha convocato solo te. –

-         Se ha convocato solo me, vuol dire che non sono cazzi tuoi. –

Lei ancora non rispose. Proprio di umore pessimo. Forse aveva solo bisogno di una boccata d’aria, in quella stanza davvero c’era un orribile odore di chiuso.

Draco aprì la porta.

-         Il mantello, Draco… -

-         Non ne ho voglia. E smettila di controllarmi. –

Uscì. Scese le scale del castello, non salutò quelli che incrociò.

Ma nel giardino vide che era una giornata di sole e si sentì ancora più irritato.

Fumò una sigaretta chiedendosi perché si era scelto quella merda di vita monotona.

 

Suonò la campana.

Hermione chiuse il libro, soddisfatta.

Ora che si era fatta due ore buone di Cura delle Ferite Interne (sotto materia di Cure da Veleno) si sentiva di umore decisamente più positivo. Prese la borsa e ci ficcò dentro libri, appunti e bacchetta. Adorava il ritmo dell’Università. Poteva metterci ore ad andarsene dall’aula ma non arrivava nessun professore a urlare di darsi una mossa.

Percorse i corridoi affollati dell’edificio ed arrivò fuori. Era stata una bella giornata soleggiata: perfetta per l’inizio della primavera. Faceva ancora piuttosto freddo, specialmente ora che il sole stava per tramontare: però, le giornate così le mettevano allegria comunque.

Lui era seduto sugli ultimi gradini della scalinata fuori dalla scuola, che si leggeva un libro… no, un fumetto. Beh, si sarebbe stupita del contrario.

-         Sei fra i piedi, Ron – disse, quando gli arrivò alle spalle. Effettivamente, ostruiva un po’ il passaggio.

Lui si voltò, pronto a tirare uno o due insulti, poi vide che era lei e fece un sorriso ironico.

-         Ma come siamo carini, oggi. Cos’è, non hai preso mille ad un esame? –

-         Anche tu sei molto simpatico, oggi. E comunque, no, niente esami – si sedette sul gradino accanto a lui.

-         A proposito di esami, non ne avevi uno tu, stamattina? – chiese, casualmente, anche se lo sapeva benissimo. Rabbrividì sotto una folata di aria fredda.

Ron scrollò le spalle e si slegò un po’ la sciarpa che aveva annodato al collo.

-         Sciarpa? – fece, offrendogliene metà.

-         Risultato dell’esame? – ribatté lei, prendendola comunque per riscaldarsi un minimo.

-         Che hai da fare stasera? –

Hermione roteò gli occhi.

-         Niente, a parte cercare di capire perché eludi le mie domande. –

-         Bene. Quando hai finito, Harry ha prenotato una tavolata al ristorante. –

-         Ron, se non mi dici subito il risultato di quell’esame, impazzisco. Dimmelo! – esclamò lei, perdendo la pazienza. Per rafforzare la sua domanda tirò violentemente un lembo della sciarpa nel tentativo di strangolarlo.

Ron tossì e si allentò frettolosamente la stretta sghignazzando.

-         Va bene, va bene, non c’è bisogno di uccidermi! Sono passato. –

-         Cosa? –

-         Oltre che violenta sei pure sorda? Sono passato. –

Hermione batté le mani, assolutamente entusiasta.

-         Ma è fantastico, Ron! Questo era uno degli esami più difficili! Non sei contento? –

Evidentemente lui aveva fatto uno sforzo immane per non tradire un’enorme soddisfazione con l’espressione, che però in quel momento gli sfuggì in un sorriso beato.

-         Abbastanza – disse, però con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

-         Ma quanto sono stata brava e paziente? Se non fosse stato per me, non avresti studiato neanche se te l’avessero chiesto in ginocchio. A questo punto, urge un premio! –

Ron fece un’espressione disgustata.

-         No, un momento. Sono io quello che è stato bravo e paziente. Sono io che ho studiato. Sono io che merito un premio! –

Hermione si alzò, togliendosi la sciarpa con indifferenza.

-         Beh, allora spero che tua madre ti dia un galeone come paghetta. –

Lui scoppiò a ridere e la seguì. Imboccarono una stradina che portava alla via principale di Diagon Alley. Passarono anche davanti alla Scuola per Auror di Ron.

-         Allora, ci vieni stasera? Anche Harry è passato. Festeggiamo, no? –

Hermione fece spallucce.

-         Spero solo che i miei non facciano storie. Ultimamente si lamentano un sacco perché torno tardi la sera, come se non sapessero che vengo solo da te ad aiutarti a studiare. Pensano sempre male, quelli lì, e non mi va di rivoltarmeli contro. –

Ron schioccò la lingua con netta disapprovazione. I genitori di Hermione gli erano sempre stati simpatici e la cosa era anche reciproca, però negli ultimi tempi erano incredibilmente sospettosi sul suo conto.

-         Hermione, hai diciotto anni. Non dovrebbero intromettersi così nella tua vita… -

-         Parla quello che non si muove da casa senza l’approvazione della mamma. –

-         Ma mia madre è un demone… -

-         Beh, anche la mia può diventarlo. -

-         Allora, digli che stanotte vai a dormire da Ginny. –

Hermione trattenne un sorriso.

-         Ron, quella è anche casa tua. –

-         Oh! Già, è vero… beh, due piccioni con una fava. –

Lei gli lanciò un’occhiataccia.

-         Comunque, per stasera non credo ci siano problemi. Cercherò solo di non fare troppo tardi. –

Ormai erano a Diagon Alley. La gente camminava allegramente guardando le vetrine dei negozi, ed i lampioni si stavano lentamente accendendo.

Hermione si voltò verso Ron.

-         Bene, allora vado. Sei troppo stanco per Smaterializzarti alla Tana? –

-         Uhm, non sono stanco. E poi vado a casa di Harry. Ti vengo a prendere? –

Lei scosse la testa.

-         Ma no. Uso la Polvere Volante. –

-         Sicura? Lo sai che di sera non si può andare in giro da soli. –

-         Ti dico che uso la Polvere Volante, arrivo dritto dritto nel ristorante. –

-         La tua indipendenza è estremamente irritante. –

Anche se pensava che fosse irritante, questo non gli impedì di chinarsi a baciarla, ma lei si voltò di scatto e le sue labbra finirono a baciare il suo orecchio.

Hermione era rossissima in viso.

-         Siamo nel bel mezzo di Diagon Alley. –

Ron alzò gli occhi al cielo.

-         Infatti. Se avessi voluto molestarti ti avrei portato in un posto deserto. –

Hermione, suo malgrado, rise.

-         Ci vediamo stasera – disse, e prima che Ron potesse protestare lei si Smaterializzò.

Sospirò. Uffa. Le poche volte che lui prendeva l’iniziativa (quel giorno era particolarmente di buon umore, ed era stato ardito), o era il momento sbagliato, o il posto sbagliato.

Stavano insieme da due anni, ormai: eppure sembrava che il loro rapporto non si fosse evoluto per niente. Per strada non si tenevano mai per mano; figurarsi se si baciavano davanti a qualcuno. Forse avevano una sorta di ‘deformazione professionale’… in fondo, erano stati più tempo amici che ‘ragazzo e ragazza’. Però, insomma… va bene che Hermione per lui era anche un’amica, ma lui mica era di pietra. Se lui provava a spingersi solo leggermente un po’ più ‘in là’ del soliti baci… lei lo respingeva subito. La cosa più che farlo arrabbiare o stupire, lo faceva impazzire. Capiva che dopo le esperienze al sesto anno, avesse bisogno di tempo per riadattarsi a fare un’esperienza ‘da grandi’, per questo non insisteva mai più di tanto. Però, cioè. Voi capite.

Si diresse verso l’appartamento di Harry. Uhm, chissà, magari anche lui se la poteva trovare una casa.

 

Ginny si lisciò i jeans e si alzò dal letto. Si diede un’occhiata allo specchio mentre indossava un paio di orecchini d’oro.

Non si piacque. I lunghi capelli rossi incorniciavano un viso stanco ed aveva l’espressione spenta. Di solito, quando era con gli altri, il suo viso era totalmente diverso: era sorridente, aveva le guance rosee e gli occhi vispi, come suo solito, peraltro. Però, forse perché non sopportava rimanere da sola, in momenti come quello era come se si spegnesse di botto.

Mise sotto gli occhi un prodotto per alleviare le occhiaie. C’era anche da dire che aveva studiato parecchio per il colloquio, quindi non è che avesse passato notti molto tranquille. Poi a lei piaceva anche andare in giro, quindi si stancava anche di più.

Andò alla scrivania e dal cassetto estrasse una scatola di latta. La aprì con uno schiocco e si mise a cercare qualcosa da mettere alle mani. Alla fine decise di indossare un grazioso e semplice cerchietto d’oro bianco.

Lanciò un’occhiata molto veloce all’unico anello che non aveva toni chiari. Un anello nero.

Richiuse la scatola ed andò a pettinarsi, senza pensare a niente.

 

Al ristorante cominciava a raccogliersi parecchia gente.

Harry era arrivato in anticipo, visto che era stato lui ad organizzare i ‘festeggiamenti’. Poco dopo era arrivato qualche compagno di corso, e si erano messi animatamente a chiacchierare sull’esito delle Finali ai Mondiali di Quidditch.

Luna Lovegood arrivò puntualissima, alle otto spaccate.

-         Ciao, Luna. – disse Harry, andandole incontro mentre i suoi compagni di corso lo guardavano strano.

Effettivamente, Luna, come suo solito, non aveva potuto lasciarsi sfuggire l’occasione di vestirsi in modo... ehm, fuori dai canoni. Sarebbe stata carina se avesse avuto soltanto quel grazioso vestito lilla al ginocchio, solo che ci aveva aggiunto bracciali di forme assurde (ma quelle che le pendevano dal polso erano piccole ossicine?), degli stivali di materiale sospetto ed i suoi inconfondibili orecchini enormi. Quella sera erano a forma di mappamondo. E c’erano veramente tutti i continenti e gli Stati.

-         Ciao, Harry! Congratulazioni! –

-         Grazie. –

-         Cosa festeggiamo? –

Harry sorrise trattenendo una risatina. Era proprio da lei, probabilmente.

La cosa assurda era che dopo la scuola avrebbe benissimo potuto perderla volutamente di vista, ma per qualche motivo lui, Ron ed Hermione (naturalmente anche Ginny, ma lei era notoriamente una sua amica) avevano continuato a frequentarla. Sarà stato l’evento di due anni prima, comunque pareva proprio che fossero diventati tutti amici. E ormai Harry non faceva nemmeno più caso alle frasi imbarazzanti od all’abbigliamento eccentrico di Luna. Anche se ancora, a volte, si chiedeva veramente se ci fosse o ci facesse.

-         Io e Ron abbiamo passato un esame importante al corso di Auror. Non te l’avevo detto? –

-         Oh, sicuramente me l’hai detto, ma io mi dimentico le cose. Hai letto il mio articolo sugli Ippogrifi Scarlatti? –

Harry si versò un po’ d’acqua.

-         Sì. Esaltante – mormorò. Vero che l’aveva letto, falso che lo trovava esaltante, anzi, era spaventoso.

Luna faceva gavetta al Cavillo, era dipendente di suo padre. C’erano ottime probabilità che in qualche anno lei stessa sarebbe diventata la nuova direttrice. Nel frattempo, si divertiva parecchio ad andarsene in giro per i boschi e per i posti più strani alla ricerca di strane creature, che puntualmente non trovava mai, allora finiva che i suoi articoli diventavano vaghi viaggi mentali su quello che avrebbe potuto trovarsi nel tal lago o nella tal caverna.

Neville e Ginny arrivarono chiacchierando.

-         Ciao, ragazzi – disse allegramente lei, baciando Harry su una guancia e sorridendo a Luna. Indossava una bella camicia bianca sopra i jeans. – io e Neville ci siamo incontrati all’entrata. –

-         Pensavo di aver sbagliato ristorante – disse Neville, con aria sollevata. – ciao, Harry. Ciao, Luna. –

Pochi minuti dopo arrivò Hermione. Aveva i capelli sciolti e sembravano un po’ più domabili del solito. Non aveva azzardato quanto Ginny: indossava un discreto dolcevita a collo alto.

-         Complimenti, Harry! – disse, abbracciandolo con un sorriso. – non avrei scommesso niente su voi due, ed invece ce l’avete fatta. Forse state maturando un po’… -

Ginny scoppiò a ridere.

-         Chi, maturo? Lui? – disse, tirando con un po’ troppa violenza una guancia ad Harry deformandogli la faccia.

-         Ahia! –

-         Oh, poverino, gli ho fatto male alla guancina – ridacchiò Ginny, mentre lui si massaggiava contrariato la parte lesa.

Hermione si guardò intorno.

-         Ron non è ancora arrivato? Non doveva venire con te, Harry? –

-         Sì, ma ci metteva troppo per mettersi in tiro e l’ho lasciato a casa mia. –

Lei alzò gli occhi al cielo. Ron, per sua fortuna, arrivò un attimo prima che tutti si mettessero a tavola per ordinare.

 

- E allora le dico: ma se ho fatto tutta questa corsa solo per lei? E mi vuol buttare fuori? – diceva Ron, a voce un po’ troppo alta, quando tutti finirono di mangiare e stavano arrivando i caffè.

 - Ron, questa l’hai raccontata troppe volte, ci hai stufato! – esclamò Harry, ma se la rideva un sacco. – vi devo raccontare di quando… -

Hermione e Ginny si lanciarono un’occhiata rassegnata. Ormai erano tutti parecchio brilli e parlavano a voce altissima. Neville si era fatto i capelli dritti con della gelatina. Non lo reggeva per niente bene, l’alcool. Perfino Luna, che era sempre stata astemia, aveva bevuto appena un po’ di vino ed era totalmente fuori gioco. Se ne stava zitta a guardare nel vuoto.

A quanto pareva, le uniche lucide erano proprio Hermione, che per principio non beveva mai troppo (in realtà, non faceva mai troppo di niente: a parte che studiare, ma per lei non era mai troppo), mentre Ginny quella sera non poteva bere perché se Molly la beccava appena un po’ brilla gliele suonava (questo perché una volta era tornata da una festa delle sue compagne del corso di preparazione ubriaca fradicia: comunque, anche se sua madre non l’avesse sgridata a morte, avrebbe deciso lei stessa di non fare mai più una cosa del genere; al solo ricordo di come si era sentita male dopo, le si rivoltava lo stomaco).

Quando Harry, Ron e Neville cominciarono ad intonare il vecchio inno di Hogwarts abbracciati, Ginny non ne poté più e si alzò.

-         Vado a prendere una boccata d’aria. Vieni? – fece, rivolta ad Hermione.

Lei sospirò, guardando di sbieco i ragazzi.

-         No, voglio godermi il momento in cui il loro divertimento cesserà di botto. In una decina di minuti si fionderanno tutti in bagno a vomitare. –

Ginny sorrise. Indossò la giacca ed uscì dal ristorante, seguita ancora dai canti di giubilo degli amici.

L’aria era fredda e pungente: però, era quello che ci voleva dopo una serata passata in quel caldo asfissiante.

Sapeva che teoricamente non era prudente che uscisse da sola per la strada di sera: ma per una volta che Harry non se ne accorgeva, aveva voluto cogliere l’occasione.

La strada terrosa era deserta. Erano ai confini di Diagon Alley, e tutto era molto tranquillo. Il cielo era sereno: significava che avrebbe fatto freddo ancora per qualche giorno. Si vedevano tantissime stelle, e la luna era al primo quarto.

Camminò un po’. Attorno c’erano poche case, e tutte con le luci spente.

Mentre camminava, sentì improvvisamente uno scricchiolio. Si voltò si scatto, trasalendo.

Un gatto nero la guardò, immobile.

Ginny tirò un sospiro di sollievo. Faceva tanto la coraggiosa, però a volte sudava freddo. Si avvicinò al gatto, che la guardò malissimo e se ne zampettò oltre la staccionata di una casa buia.

-         Cattivo – mormorò lei.

Fece per tornarsene indietro al ristorante, ma all’improvviso, una luce fioca fioca attirò la sua attenzione.

Una persona assennata se ne sarebbe andata e di corsa: di quei tempi indugiare e fare i curiosi non era mai una buona idea. Ma Ginny, assennata?

Guardò meglio. Veniva da dietro la casa dove era sparito il gatto.

Le parve di sentire delle voci.

E se fosse stato qualcuno che aveva bisogno d’aiuto? In quella parte di Diagon Alley non c’era molta gente disposta ad aiutare uno sconosciuto.

Deglutì, indecisa. Poi si disse che in fondo a Diagon Alley in un innocente venerdì sera non poteva esserci niente di male.

Scavalcò la staccionata, finendo con i piedi in una pozzanghera. Borbottò ma continuò a camminare, con cautela.

Le voci si facevano sempre più chiare, anche se erano sussurrate.

-         … dopo, potrete scappare. Però, tornate al castello entro domattina. Vorrà sapere com’è andata. –

Era una voce maschile. Le suonava strana alle orecchie. Già la conosceva, quella voce. Ed ebbe un pessimo presentimento, ma ormai le sue gambe andavano da sole, e la curiosità era troppo forte.

Si accostò ad un muro e, con estrema attenzione, fece leggermente capolino.

Sì sentì il cuore mancare un battito. Anzi, pensò che avesse totalmente smesso di battere per la paura.

Stretti attorno ad una bacchetta che produceva quella luce fioca, c’erano delle persone. Erano in tre, tutte vestite di nero… e, naturalmente, incappucciate. Chiunque li avesse visti lì, così all’improvviso, si sarebbe spaventato, Ginny era pronta a garantirlo. Era impossibile spiegare la sensazione terrificante che quelle figure le davano, nonostante sapesse perfettamente che erano normali esseri umani.

Non riusciva a vederli in viso. Vide il gatto nero, o meglio, i suoi occhi gialli, accarezzare con la coda le gambe di uno dei Mangiamorte.

-         Tesoro, non è il momento – disse una voce femminile, affettuosamente, ed il gatto venne accarezzato da un paio di mani sottili.

Stavolta la voce la riconobbe, e bene. L’aveva sentita tante volte, anche se distrattamente, l’aveva irritata tante volte, e pensava che non avrebbe dovuto sentirla mai più.

Rimase ghiacciata sul posto, come se non potesse scappare.

-         E tu cerca di non essere innovativo come tuo solito – disse la voce maschile di prima, sprezzante.

Qualcuno schioccò la lingua.

-         Come no. – disse.

Bastarono quelle due parole per riconoscere quella, di voce.

Si scostò di scatto e si appiattì contro il muro, con gli occhi sgranati nel buio ed il cuore che le batteva all’impazzata. Le gambe sembravano faticare enormemente per tenerla in piedi.

Doveva scappare. Doveva correre.

Fece a fatica un passo.

Il gatto nero guardò verso di lei e miagolò furiosamente.

Tutti e tre si voltarono.

Ginny non ebbe il tempo di nascondersi né scappare né respirare che loro la videro.

Improvvisamente, le gambe ripresero a funzionarle.

Non riusciva a pensare a nient’altro. Corri, corri, corri.

E lo fece.

- Ci hanno sentiti! – esclamò la voce femminile. La voce di Pansy Parkinson, che era riconoscibilissima.

Nel corso di preparazione per Auror tenevano molto alla corsa. Perché se si era Auror bisognava saper rincorrere e trovare, e saper scappare e non farsi trovare. Per questo negli ultimi mesi Ginny era diventata particolarmente veloce, tanto che per un attimo speranzoso pensò sinceramente di averli seminati, o comunque che avessero rinunciato a rincorrerla.

Anche se non aveva mai sentito di Mangiamorte che rinunciano a fare del male a qualcuno.

Ma ebbe appena il tempo di sentire dei passi veloci dietro di lei che qualcuno le tappò la bocca con la mano così violentemente che sentì il labbro spezzarsi. Cercò di liberarsi e urlare, ma la tenevano ferma per le braccia e si sentiva soffocare.

Venne strattonata in una strada secondaria, dove era particolarmente buio.

Ginny aveva talmente tanta paura che ormai non riusciva neanche più a capire quanta. Eppure la sua bacchetta era lì, nella tasca posteriore dei jeans.

Magari non era un genio in incantesimi, ma era rapida. Bastò che per un attimo la persona che la teneva ferma estraesse la propria bacchetta che riuscì, anche se facendosi parecchio male al braccio, a prendere la bacchetta ed a spingerlo lontano.

Si sentì quasi salva fino a quando lui non parlò.

-         Ehi, come siamo agitati. Stai buona, voglio solo cancellarti la memoria. –

Era quella voce. Non si sentì più salva. Non aveva la forza di dire nulla, e quasi sembrava che non respirasse proprio più. Il labbro le sanguinava ed il braccio le faceva incredibilmente male, ma non era per quello che aveva paura.

Strinse forte la bacchetta, e non appena lui fece per avvicinarsi gli lanciò contro uno Schiantesimo, rabbiosamente.

-         Scudo! – gridò lui, e l’incantesimo le si rivoltò contro sbattendola con violenza contro il muro.

La bacchetta le scivolò dalle mani e lei cadde a terra, dolorante. Non aveva mai provato tanto dolore tutto insieme. Sembrava che tutte le ossa del suo corpo si fossero spezzate.

Lui raccolse la bacchetta e le si avvicinò. Si chinò puntandogliela alla tempia.

Lo sentì sogghignare.

-         Obliv…-

Improvvisamente, la luce al secondo piano di una casa poco lontana si accese.

E non fu più così buio.

Gli occhi grigi la fissarono, ma non ebbero alcun tentennamento. Fu la fermezza con cui teneva la bacchetta a tradirlo: la punta della bacchetta dalla tempia di Ginny si allontanò impercettibilmente.

Si fissarono per un lungo istante e lei ebbe una paura folle che avrebbe terminato l’incantesimo.

Però poi si ricordò di com’era fatto lui, e capì che non l’avrebbe fatto. Non per riguardo; non c’era una ragione particolare. Era solo che lui era fatto così: non avrebbe saputo spiegarselo meglio.

Si allontanò da lei e rimise la bacchetta in tasca.

-         Sparisci – le intimò.

Ginny si alzò a fatica. Il braccio le faceva male da morire. Il sangue del labbro doveva essersi seccato.

Lei lo sapeva benissimo che avrebbe dovuto solo andarsene, ed in fretta, senza dire una parola. Però… erano due anni che non lo vedeva. Ora, non che si fosse distrutta a pensare a lui per tutto quel tempo. C’era stato un periodo in cui il solo pensiero l’aveva fatta impazzire, ma quando la ferita era ancora fresca ed i ricordi erano ancora veri.

Ora come ora, i ricordi che le venivano alla mente erano molto vaghi, come la trama di un libro che si ha solo sfogliato. Però i ricordi c’erano, e lei non gli voltava mai le spalle.

-         Malfoy – mormorò, sentendosi vagamente stupida. Sperò che non l’avesse sentita.

Lui non la guardò, come se lei non esistesse. Ma era chiaro che aveva fatto solo finta di non averla sentita.

-         Cosa stavate facendo qui? –

-         Non te ne sei ancora andata? – chiese, con una tale freddezza che Ginny rabbrividì.

Era parecchio tempo che qualcuno non la trattava con tanta freddezza.

-         No, anche perché mi devi aver spezzato qualcosa – disse, imitando il suo tono gelido.

Draco si voltò a guardarla, inarcando le sopracciglia.

-         Dovresti ringraziarmi per non averti uccisa. –

Ginny non poté trattenersi.

-         Non credo l’avresti fatto. –

Lui la guardò malissimo.

-         Vedo che sei insopportabile come al solito. Non mi hai sentito? Ti ho detto di sparire. –

Lei esitò. Ma capì che non era una conversazione che poteva andare avanti.

Ormai per lei era come parlare con un estraneo.

Con il cuore che per qualche motivo le batteva all’impazzata, sopportò il dolore e corse via, reggendosi il braccio.

Corse via con il respiro affannoso e gli occhi strani e la paura.

Qualcuno la vide uscire dal vicolo e sparire nella strada verso il ristorante.

Vide anche Draco uscire da quello stesso vicolo, rimettendo la bacchetta in tasca.

-         Dovevi ucciderla – disse Rodolphus Lestrange, mostrando un ghigno nell’ombra del cappuccio nero.

Draco non lo degnò nemmeno di uno sguardo.

-         Non ne valeva la pena. Le ho cancellato la memoria. –

Rodolphus lo fissò con un sorrisetto incredibilmente odioso che gli si allargava in viso.

-         Sbaglio o era Ginny Weasley? –

Lui si voltò a guardarlo, non rispose.

-         Oh, andiamo, Draco, non c’è in giro nessun’altra ragazza con i capelli così rossi – sogghignò Rodolphus, che sembrava gongolare del silenzio di Draco. – pensavo l’avessi rincorsa apposta. –

Lui gli lanciò un’occhiata gelida.

-         Perché avrei dovuto? –

-         Perché una volta eravate… come dire?... amici è la parola giusta? –

-         No. – sbottò Draco.

Rodolphus rise. Rodolphus, se mai ti ricapiterà di vedere Ginny Weasley, perché non le chiedi di unirsi a noi? In fondo, all’epoca del diario di Tom Riddle non mi parve poi così dalla parte dei ‘suoi’. Una ragazza sola ha più probabilità di cambiare idea.

Chissà, forse il Signore Oscuro aveva ragione. Forse era il caso di lavorarci sopra. In fondo, con tutta probabilità era al corrente di parecchi segreti dell’Ordine della Fenice.

Poi, naturalmente, la uccideremo.

Quando Draco si voltò, non poté impedirsi di sorridere.

 

Hermione era in piedi, con la schiena appoggiata alla porta del bagno degli uomini. Da dentro provenivano rumori molto spiacevoli di qualcuno che non si sentiva affatto bene.

Quando ritornò il silenzio, bussò.

-         Tutto bene? Sei ancora vivo? –

La serratura fece un clak e la porta rivelò un Ron parecchio verde in faccia.

-         No – mormorò, ed effettivamente non sembrava molto tra i vivi.

-         Tu non lo reggi l’alcool. Te lo dicevo che non dovevi bere. –

-         E’ stato Harry a costringermi… -

-         Beh, Harry lo regge molto meglio di te, si è già ripreso – vedendo il viso in stato comatoso di Ron, l’espressione di Hermione si addolcì un po’. – dai, adesso ripeschiamo Ginny che ti riporti a casa. –

Ron si appoggiò con la fronte al muro.

-         Non voglio andare a casa… - mugolò.

-         Ah, sì? E dove vuoi andare? –

Lui la guardò con gli occhi lucidi per il post sbronza.

-         Fammi dormire a casa tua. –

Hermione sbuffò.

-         Ron, in che lingua te lo devo spiegare che casa mia per te è off limit? Io vivo con i miei genitori, santo cielo. –

Ron fece un’espressione sofferente e le si avvicinò, appoggiando il mento sulla sua massa di capelli castani.

-         Allora metterò da parte dei soldi e cercherò una casa. Se l’ha fatto Harry… -

Hermione rise contro il suo petto.

-         Harry aveva un’eredità da parte, Ron. –

-         Non mi rovinare i miei viaggi mentali, Hermione… -

-         Ragazzi, avete visto Harry? –

Hermione guardò oltre la spalla di Ron. Ginny aveva i capelli tutti spettinati, un labbro sanguinante e si reggeva il braccio sinistro con la mano destra. In più, era pallida come un cencio.

-         Ginny, ma cosa ti è successo? – disse Hermione, scrollandosi di dosso Ron con somma disapprovazione di lui. Poi anche Ron si accorse che c’era qualcosa che non andava.

Ginny parve imbarazzata.

-         Ehm… ero fuori da sola, e… beh… - cercò di far lavorare la sua mente il più possibile. – mi hanno rapinata. –

-         Che cosa? – esclamò Ron, ritornando improvvisamente lucido e guardando furiosamente alle spalle della sorella come se i rapinatori potessero spuntare da un momento all’altro dalla porta del bagno delle donne.

Ginny si vergognava tantissimo a mentire così spudoratamente.

-         Ecco… ho opposto resistenza, così mi sono fatta un po’ male. Comunque, sono scappati poco dopo, anche perché non avevo nulla con me. – sperò ardentemente che nessuno notasse che avrebbero benissimo potuto toglierle l’anello e gli orecchini d’oro.

-         Se li vedo gli spacco la faccia… - disse Ron, digrignando i denti, poi però dovette di nuovo correre al bagno a vomitare.

Hermione aveva un’espressione molto preoccupata ma non diceva niente. Ginny si chiese se a lei poteva dire la verità, ma sapeva che non era il caso. Che poi, in fondo non era successo poi niente… va bene, era stata aggredita da un Mangiamorte, ma niente di più, e poi quel Mangiamorte lo conosceva, quindi tecnicamente non… va bene, il ragionamento faceva acqua da tutte le parti. Ma sapete quando uno si impunta che non vuol fare una cosa? Così Ginny si impuntò a non voler dire la verità.

Harry arrivò con addosso il giaccone, seguito da una Luna ancora un po’ scossa dalla sbronza ma con gli occhi finalmente normali.

-         Ah, Ginny, ti… beh, cosa ti è successo? –

Lei improvvisamente ammutolì. Oh, non aveva per niente voglia di mentire a Harry, proprio per niente.

-         Era uscita a fare una passeggiata, e l’hanno aggredita per rapinarla – la precedette Hermione, con suo sommo sollievo.

Harry parve furioso, e cominciò a chiedere un sacco di particolari ed a guardarla e controllarle il braccio e dirle che doveva andare al San Mungo a farselo sistemare. Ginny annuiva, o rispondeva a monosillabi.

Alla fine Hermione riuscì a convincere Harry che non c’era bisogno di andare all’ospedale, ma che bastava che cercasse alla Tana una pozione per l’aggiustamento delle ossa (in una famiglia con sei figli ce ne doveva per forza essere un po’) e si facesse una bella dormita.

Harry però insistette per accompagnarla a casa. Lui ed Hermione andarono nel bagno degli uomini per trascinare via Ron di peso.

Luna sorrise a Ginny.

-         Sai che una volta ho letto che quando una persona risponde solo ‘sì’ o ‘no’ vuol dire che non dice la verità? –

Lo disse senza la minima traccia di malizia od allusione, anche se Ginny ebbe la spaventosa impressione che sapesse, ma l’espressione di Luna era assolutamente sincera, l’aveva detto solo per parlare.

Però, quando Luna era così sincera, faceva venire sensi di colpa così forti che per un attimo si finiva per odiarla.

-         Bene, allora cercate di riposarvi – disse Hermione, squadrando Ron e Ginny con attenzione.

-         Devo accompagnarla a casa, Harry? – biascicò Ron, che faticava a reggersi in piedi.

-         Sì, certo Ron, adesso la accompagniamo a casa… - disse, trascinandolo via e salutando Hermione.

Lei sorrise e si Smaterializzò.

 

-         Draco? –

La porta si socchiuse lasciando uno spiraglio di luce.

Lui era da un po’ che teneva gli occhi aperti al buio. Non era che non riusciva a dormire, era che non aveva voglia di dormire.

Tuttavia, non rispose.

Lei aspettò un po’ sulla soglia, poi pensò che dormisse e richiuse la porta.

Non era che non riuscisse a dormire, era che non aveva voglia di dormire.

A volte si tengono gli occhi aperti al buio e ci si abitua, ma quando arriva la luce ti accorgi che è tutta un’altra cosa.

E tutto iniziava lì, da quella sera, da quel buio e da quella luce.

 

 

 

**

 

Allora?._. Come vi è sembrato?._. Spero vi sia piaciuto (logicamente)… fatemi sapere!

A presto!

 

Miwako__

 

P.S. Come al solito, se ne avete l’occasione, vi consiglio di ascoltare la canzone Here without you dei 3 Doors Down, che mi ha ispirato questo capitolo>_<

 

 

 

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Capitolo 2
*** From the abcence of the sun ***


.FROM THE ABCENCE OF THE SUN.

 

[Dall’assenza del sole.]

 

 

“Now I'm standing in the cold                   “Adesso sono ferma al freddo   
(Everything is said and done)                   
 (tutto è stato detto, tutto è stato fatto)
Atomic winter in my soul                            
 l’inverno devastante nella mia anima
(From the absence of the sun)                   
 (dall’assenza del sole)
The only remedy I know                              
l’unico rimedio che conosco
Is I gotta let you go                                     
 è che ti devo lasciare andare

There will come a day                                  arriverà un giorno

when all of this is in my past                        in cui tutto questo sarà il mio passato
And there will come a day                           
 e arriverà un giorno

when you're out of my head at last              in cui sarai finalmente fuori dalla mia testa
I'm trying not to fall                                   
 cerco di non cadere
Damn it's such a long way down                
 diavolo, è una via talmente lunga e faticosa
But here I am.”                                           
 però ci sono.”

 

 

Marion Raven, Here I am.

 

 

Due sere dopo si ritrovarono a Grimmauld Place.

Ormai il posto era diventato il presunto nascondiglio dell’Ordine della Fenice. Erano passati parecchi anni da quando Harry l’aveva ereditato, e solo negli ultimi tempi avevano ricominciato ad usarlo. Pareva che non ci fosse pericolo.

Remus Lupin stava a capotavola in silenzio, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi che fissavano le proprie mani segnate senza vederle.

Da quando Silente era morto, era diventato quasi automatico considerare lui il leader della situazione, essendo il più presente dei membri adulti dell’Ordine.

Naturalmente, non si poteva dire che Harry, Ron, Hermione, Ginny e Luna fossero esattamente membri dell’Ordine: probabilmente gli adulti gli nascondevano ancora alcune cose. Però li facevano partecipare spesso alle riunioni, ed era un buon passo avanti: del resto, aveva detto un giorno Lupin, mestamente, a Molly Weasley, c’era bisogno di più aiuto possibile, anche se dovevano sacrificare la loro giovinezza. Loro non capivano: essere quasi-membri dell’Ordine per loro non era un sacrificio, era un onore.

Forse solo più tardi sarebbero riusciti a capire il vero significato delle parole di Lupin.

-         Dunque – disse l’uomo, schiarendosi improvvisamente la voce.

Tutti gli altri alzarono lo sguardo.

C’erano i ragazzi, Arthur Weasley, Kingsley Shacklebolt e Ninfadora Tonks.

-         Come probabilmente avrete saputo, una famiglia babbana di Stratford è stata attaccata da un gruppo di Mangiamorte l’altra notte. Ci sono feriti, ma nessuno si è fatto seriamente male. Purtroppo, questi casi si stanno ripetendo con troppa frequenza – si schiarì di nuovo la voce.

Nessuno disse niente.

-         Il Ministero ha come al solito ripetuto di mantenere la calma ed ha fatto stampare alla Gazzetta del Profeta un articolo in cui il Ministro sostiene di aver fatto posizionare una decina di Auror nelle vicinanze dei confini tra mondo magico e mondo babbano… naturalmente si tratta di una bugia. Quando io e Kingsley siamo andati a controllare, ce n’era uno, due al massimo. Bisogna fare qualcosa per fermare queste aggressioni e fare in modo che smettano di prenderci in giro e si scontrino direttamente con noi. –

Harry schioccò la lingua, in preda ad una fitta di sprezzo.

-         Non ne hanno il coraggio… -

Remus lo guardò.

-         No, hai ragione, Harry, non ce l’hanno per ora. Ma appurato questo, qualcuno ha qualche idea per risolvere la situazione? –

Ci fu un attimo di silenzio.

Hermione alzò lo sguardo.

-         E’ impossibile raccogliere un numero sufficiente di Auror, considerando il tempo e la resistenza che richiederebbe posizionarci alla protezione dei luoghi babbani. E poi i Mangiamorte non si farebbero mai vedere se sapessero che ci sono veri Auror in giro. Bisogna trovare una strategia completamente diversa. –

Ancora silenzio.

Ginny affondò le mani tra i capelli, sfinita. Non dormiva da due giorni, eppure aveva un sonno pazzesco. Un cerotto le copriva una tempia.

Tonks la guardò di soppiatto, ma non disse niente.

-         Bisognerebbe sapere dove vogliono andare prima che ci vadano – disse Ron, istintivamente.

Tutti lo fissarono.

Ron fece un’espressione offesa.

-         Beh? –

-         Grazie per aver detto questa interessante ovvietà, Ron – borbottò Hermione, giocherellando con la bacchetta, soprappensiero.

Harry guardò Ron.

-         Forse ha ragione… - disse.

Stavolta, tutti fissarono lui.

Remus, nonostante la stanchezza e la preoccupazione, riuscì a stento a trattenersi dal ridere.

-         E allora, Harry? – fece Hermione, esasperata. – certo che vogliamo sapere cosa faranno in anticipo. Ma non si può. –

Luna scosse la testa allegramente.

-         Intende una spia – disse, con tono velato.

Harry si voltò a guardarla, incredulo, ma lei ricambiò lo sguardo con pura curiosità.

-         Ehm… sì, intendevo quello. Dobbiamo trovare un infiltrato. –

-         Mi pare un po’ difficile – fece Tonks. – ci conoscono tutti in faccia. E non crederanno mai all’ipotetica ‘conversione’ di uno di noi. Senza contare che non so quanti di noi sarebbero veramente disposti a rischiare così tanto. Si tratterebbe di una questione di vita o di morte. –

A Harry venne da dire che per loro era sempre stata una questione di vita o di morte, ma si trattenne.

- Bisognerebbe trovare qualcuno che stia dalla nostra parte… ma che abbia avuto a che fare con Voi-sapete-chi o i suoi seguaci. Qualcuno di cui loro si fidino, ma di cui ci fidiamo anche noi… - mormorò Hermione, anche se scoraggiata.

- Devo ancora conoscerla una persona così – sospirò Tonks.

Ginny chiuse gli occhi e quasi si addormentò.

 

-         Allora, quando comincerai i corsi? –

Harry la guardò, incuriosito. Ginny si voltò, davanti al camino di Grimmauld Place, pronta a tornare alla Tana a dormire. Harry sarebbe rimasto lì per la notte.

La riunione dell’Ordine si era conclusa con nulla di fatto.

-         Fra quattro mesi – sorrise lei, un po’ assonnata.

-         Perché non rimani qui? –

Ginny sorrise ancora di più e prese per le spalle Harry scuotendolo leggermente.

-         Ma insomma, non mi stavi chiedendo della mia situazione lavorativa? –

-         Sì, però mi sono distratto. Dai, è pericoloso che una ragazza se ne vada in giro a quest’ora e di questi tempi. –

-         Roba vecchia, Harry. Non parli mica con una sprovveduta. Questa qui è la scusa che hanno sempre usato i miei fratelli con le ragazze, anche quando non eravamo in guerra. –

Lui la guardò e prima che lei potesse replicare la baciò. Lei si lasciò baciare, felice e a suo agio.

Però c’era sempre uno strano e sinistro vuoto.

Lei lo amava. Lui l’amava. Ma era questo? Cioè, a volte le veniva da chiedersi: tutto qui?

Insomma, nessuno glielo aveva mai spiegato che cos’era l’amore. Era trovarsi a proprio agio o il contrario? E in ogni caso, che c’era di così straordinario?

Le veniva da chiederselo ma non lo chiedeva mai.

Tutto qui?

 

-         Ti vuole vedere. –

Draco alzò lo sguardo da un giornale che stava svogliatamente leggendo steso sul letto.

-         Chi? –

-         Lui. –

Bellatrix lo guardò in modo ostile. Non le piaceva, quel ragazzo. Troppo incontrollabile, troppo ‘leader’, troppo pieno di sé. Anche se c’era da aspettarsi che sua sorella non avrebbe potuto crescerlo diversamente. Era un’abitudine della famiglia, viziare i figli e renderli dei perfetti idioti.

Lui sbuffò. Non ne aveva minimamente voglia, ma non si discuteva.

Bellatrix fece per richiudere la porta.

-         Ah, e smettila di stare lì a far niente. Avrai pure qualcosa di più produttivo da fare che leggere giornaletti. -

-         E tu avrai pur qualcosa di più produttivo da fare che rompermi continuamente i coglioni. –

Lei diventò rossa dalla rabbia.

-         Non mi parlare così, sai. –

-         Oh, lo so. –

Calò il cappuccio del mantello sulla fronte e la superò senza lasciarle il tempo di dire altro.

Scese le scale di pietra, percorse due corridoi, attraversò una sala, poi un’altra, finché non si trovò davanti ad una porta.

Rimase fermo per un attimo, poi alzò la mano e bussò.

Subito qualcuno gli aprì. Un paio di acquosi occhi da topo lo guardarono, preoccupati.

-         Prego, prego, signor Malfoy, prego. – squittì Codaliscia, facendosi da parte per lasciarlo passare.

Draco non disse nulla. A volte si divertiva a tormentarlo un po’, ma non ora. Guardò dritto davanti a sé. Davanti ad un mite fuoco nel caminetto, su una poltrona, c’era il Signore Oscuro. Ne vide solo la mano bianca e magra.

-         Buonasera, Draco. Hai erroneamente sabotato qualche altra azione dei miei Mangiamorte, ultimamente? – disse quella voce melliflua, con più che una punta di insopportabile ironia.

Draco si inchinò, sapendo che doveva mantenersi in quella posizione anche se non lo guardava. La trovava una cosa semplicemente ridicola, già il fatto che non gli rispondesse male era un segno di rispetto, per lui. Ma era la prassi. Strinse i denti a quella parole, ma rimase a testa bassa.

-         No, signore. –

Ci fu un attimo di silenzio.

-         Codaliscia, portameli. –

L’ometto sussultò e subito corse verso una sorta di armadietto. Draco, chinato, non poté vedere cosa stava facendo, ma dopo un po’ avvertì la sua presenza davanti a sé.

-         Ebbene, Draco – continuò il Signore Oscuro, continuando a rimanere seduto senza voltarsi, come se lui non esistesse. – vorrei che ora tu alzassi la testa e contassi gli oggetti che vedi. –

Il ragazzo alzò lo sguardo e vide davanti a sé uno scrigno d’argento aperto, sorretto dalle mani un po’ tremanti di Codaliscia. All’interno dello scrigno c’erano alcuni anelli d’oro nero, identici.

Draco li guardò senza capire.

-         Ho detto contali – ripeté il Signore Oscuro, però con maggiore fermezza.

Il ragazzo li scorse con gli occhi.

-         Sono otto, signore. –

Non poteva vedere in viso Voldemort, ma avrebbe scommesso che in quel momento stava ghignando e lui non poteva far altro che lasciarsi prendere in giro, e non lo sopportava.

-         Esattamente. Ora, tu conosci bene quegli oggetti. Mi sai dire che funzione hanno? –

-         Sono gli anelli dei Mangiamorte. –

-         Precisamente, dei Mangiamorte che considero più fidati. Perfetto. Ne possiedi uno anche tu, ed in totale fanno nove. Ora, mi sapresti dire quanti in realtà dovrebbero essere? –

Draco non sopportava quell’interrogatorio come se fosse una sorta di bambino piccolo.

-         Sapevo che ne esistevano dieci. – disse, a denti stretti.

-         Esatto, esatto!  -

Fu a quel punto che il Signore Oscuro si alzò in piedi e si voltò verso di lui. Draco ebbe appena il tempo di guardarlo per un attimo negli occhi rossi prima di chinarsi istintivamente.

Lo sentì avvicinarsi.

-         E mi sapresti dire anche, Draco, dove può essere finito il decimo anello? -

-         Io… -

-         No, vorrei che mi guardassi mentre me lo dici. –

Lui rimase un attimo immobile, poi alzò freddamente lo sguardo grigio.

-         So che è andato perso alla morte di Avery, signore. –

Voldemort lo guardò con gli occhi rossi che guizzavano.

-         Perso? Come può un simile oggetto andare perso? Andiamo per esclusione. Non può essere distrutto; alla morte del suo possessore sarebbe dovuto arrivare dritto qui dentro. Com’è dunque possibile che sia sparito, o usando le tue parole, perso? –

Draco rimase in silenzio.

-         Forse che lo possiede qualcuno adatto a possederlo? – continuò Voldemort. – forse che il nostro Avery sia stato in punto di morte più intelligente di quanto sia mai stato in tutta la sua inutile esistenza? -

A Draco sfuggì.

- Non capisco perché ne parla a me. – borbottò, ma si zittì subito, chinò la testa, ma non si pentì.

Il Signore Oscuro lo guardò, ghignò, si diresse verso il fuoco.

-         Voci mi riferiscono che tu avessi… uhm… come possiamo chiamarla? Un’amicizia? Una tresca? Chiamala come vuoi, con l’attuale detentore, o dovrei dire detentrice?,  dell’anello. –

Draco rimase chino, fissò il pavimento, per qualche motivo il sangue cominciò a pulsargli forte nelle vene.

Nonostante l’apparenza, Draco Malfoy non aveva avuto molte ‘amicizie’ (anche se lui non le avrebbe mai definite così… diciamo che non le avrebbe mai definite e basta). Non è che ci fossero molte ragazze che considerasse alla sua altezza, anzi, a malapena ce n’erano. Escludendo le storie da una notte e via, rimanevano solo due. E Pansy Parkinson non aveva sicuramente l’anello di fiducia del Signore Oscuro.

-         Ho sempre avuto una particolare simpatia per Ginny Weasley… che resti tra noi, naturalmente – sogghignò Voldemort, continuando a guardare il fuoco scoppiettare nel camino. – nonostante tutto, è purosangue, e probabilmente la sua ‘filobabbania’ è curabile. Intendiamoci, all’epoca del diario non le avrei mai dato credito, era una bambina così ridicolmente debole!, ma, senza che me ne accorgessi, proprio grazie a quell’esperienza si è rafforzata. Inoltre, non deve avere un grande rispetto per le regole e per la sua famiglia, se si è concessa uno come te. –

Voldemort camminava per la stanza, Draco ne osservava e ne udiva i passi.

-         Dev’essere un caso più unico che raro, all’interno della famiglia Weasley, che sono… bah, disgustosi? Rivoltanti? La loro ‘lealtà’ mi fa rabbrividire. Ma forse è così che funziona: ci sono le eccezioni, nelle famiglie… nel bene e nel male. D’altronde una donna è pur sempre una donna… tu lo sai bene, vero, Draco? Sono instabili, estremamente ingenue e sprovvedute, tutte. Forse non è un caso che la prima donna Weasley da generazioni sia anche la più incline all’oscuro. La trovo una cosa molto interessante. –

Draco avrebbe voluto andarsene. Veramente, non sopportava quei suoi giri di parole. Quella sua ironia. Sapeva che aveva uno scopo. Perché non ci arrivava?

-         Vuoi che arrivi al punto, Draco? – disse Voldemort, gelido, come se gli avesse letto nel pensiero.

Lui tacque.

Il Signore Oscuro sogghignò.

-         Oh, non si possono fare due chiacchiere con te? Ma forse hai ragione, neanch’io ho mai sopportato le chiacchiere a vuoto. Volevo solo esortarti ad essere gentile, Draco… nei confronti di qualche inaspettato nuovo arrivato. Non si sa mai, vero? –

Lui si alzò, annuì, lo guardò. Voldemort non si voltò, non ce n’era bisogno.

Draco uscì dalla sala a passo veloce.

Gli veniva da ridere.

Incline all’oscuro… oh, andiamo.

Se uno è da una parte non è dall’altra.

Ne era sicuro.

 

Il giorno dopo, era una bella giornata di sole.

Hermione aveva lezione per tre ore.

Si alzò di buon’ora, fece colazione con i suoi genitori, prese i libri, li salutò, si Materializzò a scuola. C’era poca gente in giro, nell’istituto: del resto non era esattamente giorno di lezioni, ma a Medimagia avevano degli orari strani.

Entrò nella sua aula, si sedette al banco, tirò fuori il libro.

-         Buongiorno. Anche oggi vi sfiancherò con qualche formula, ragazzi, perciò voglio attenzione e appunti ovunque. – disse il professore, un ometto cicciotto con gli occhiali, mentre si sedeva alla scrivania e con la bacchetta cominciava a scrivere sulla lavagna.

Hermione prese la piuma, la intinse nell’inchiostro. Rifletté un attimo, poi si voltò verso una compagna di corso.

-         Scusa, che giorno è oggi? –

-         Primo marzo. –

-         Okay, grazie… -

Si voltò, fece per scrivere sulla pergamena, ghiacciò sul posto, la piuma per aria.

Aprì e chiuse la bocca a intermittenza.

Primo marzo.

Oddio. Il compleanno di Ron. Il compleanno di Ron.

Lui aveva passato tutta la sera precedente a ricordarglielo ed avevano anche bisticciato parecchio dato che non la lasciava leggere canticchiando Happy Birthday to me.

Calma. Erano solo le nove del mattino. Probabilmente quello dormiva ancora. Però lei aveva sempre avuto una chiara visione di quel compleanno: sarebbe stato tutto, un’espressione adatta?, diciamo straordinario. Per un motivo o per l’altro, l’anno precedente non era stato niente di speciale: erano tutti impegnati con le simulazioni dei M.A.G.O., e alla fine Harry ed Hermione gli avevano solo dato i loro regali e stop. Però pareva che Ron andasse matto per il suo compleanno, e va bene, lei la trovava una cosa abbastanza… uhm, carina. Per questo si era detta che avrebbe preparato qualcosa, qualsiasi cosa, però poi tra l’Ordine, gli esami dei ragazzi e varie cose non aveva avuto il tempo di pensarci.

Però… insomma, va bene, erano solo le nove del mattino, ma lei non si sarebbe potuta defilare dalle lezioni prima di mezzogiorno. Cioè, non che lei fosse il tipo da piombare a casa di un ragazzo (del… proprio ragazzo, anche se ancora faticava a dirlo) con brioches e caffè, sbattendo le ciglia e strillando buon compleanno svegliandolo di botto, come invece pareva essere molto di moda tra le sue compagne di corso.

Anzi, al solo pensiero… si vergognava da morire...

-         Signorina Granger, ha bisogno di un estintore? Se arrossisce ancora un po’ prenderà fuoco. –

Tutta la classe scoppiò a ridere.

Hermione si guardò intorno e arrossì ancora di più.

Il professore ridacchiò, agitando una mano.

-         Vada a darsi una rinfrescata! Quando torna la voglio concentrata sulla lezione. –

Santo cielo, quanto era odioso quel professore. Che voleva?

Si alzò dal banco, stizzita, ed uscì dall’aula.

L’aria fresca del corridoio deserto la fece sentire decisamente meglio. Doveva smetterla di fare pensieri stupidi, altrimenti qualsiasi professore avrebbe pensato che fosse completamente scema.

Si diresse verso il bagno.

-         Speravo uscissi, ma non mi aspettavo così presto! –

Lei si voltò, impietrita. Ron era appoggiato alla parete, proprio vicino alla porta dell’aula da cui era appena uscita, sbadigliava.

Aprì e chiuse la bocca a intermittenza.

-         Che diavolo ci fai qui? –

-         Sei sempre molto accogliente! Almeno lo sai che giorno è oggi? –

Lei distolse lo sguardo.

-         Certo che lo so. – borbottò.

Ron sorrise, inarcando le sopracciglia.

-         E quindi…? C’è qualcosa che dovresti dirmi? –

Hermione sbuffò.

-         Senti, io ho lezione, adesso… -

-         Sì, ma è il mio compleanno. –

-         Oh, lo so. Ma ho lezione! –

Lui la scrutò, con il broncio.

-         Tu sei fredda, intelligente e crudele, ma i tuoi occhi ti tradiscono. –

Hermione lo guardò, altezzosa.

-         E quindi che intenzioni hai? -

-         Niente, ti invito a pranzo. –

A lei scappò un sorriso.

- Nooon posso. –

- Sì, che puoooi. –

Ron si guardò intorno nel corridoio vuoto, si diresse verso di lei e prima che Hermione potesse dire qualsiasi cosa le afferrò la mano e cominciò a correre verso l’ingresso trascinandosela dietro.

Hermione era sbalordita, mentre gli arrancava dietro inciampando sui suoi stessi piedi.

-         Ron! Ho lezione! E poi ho lasciato tutti i miei libri! Non puoi… -

-         Su, sii spontanea per una volta! –

Superarono un paio di studenti che stavano entrando, lasciandoli un po’ perplessi e corsero fino in fondo alla strada, svoltarono e si ritrovarono nella strada principale di Diagon Alley.

Hermione finalmente trovò la forza di ritirare la mano (anche se a fatica), e si fermò nel bel mezzo della strada.

-         Ron, sei uno stupido. – disse, però non era proprio arrabbiata.

-         Ma uno stupido attraente. Dove andiamo? –

Ron la guardò con aria interrogativa. Hermione lo fissò, incredula.

-         Pensavo che prima di rapirmi ti fossi fatto un’idea di dove andare! –

-         Uhm, per pranzare è ancora presto. Però ho fame – piagnucolò Ron, guardandosi intorno come se si aspettasse di vedersi comparire improvvisamente davanti una ciambella.

Hermione sospirò rassegnata, però sentiva una strana adrenalina correre lungo la sua spina dorsale. Non che fosse felice di aver marinato le lezioni (anzi, al solo pensiero si sentiva male), però, insomma, non aveva mai fatto una cosa del genere. Nemmeno Ron aveva mai fatto una cosa del genere, con lei (perché al contrario lui ed Harry erano veri esperti di queste uscite ‘politicamente scorrette’).

Ci pensò su, poi le venne in mente.

-         Hai mai fatto un giro nella Londra babbana? –

A Ron si illuminarono gli occhi come ad un bambino.

- No! Insisti per portarmi? –

- Va bene, però non avere strani comportamenti, e tieni nascosta la bacchetta, e non fare osservazioni strane, tipo parlare di babbani e di magia e… -

- Hermione, sbaglio o quello è il tramonto? Hai parlato così a lungo? –

Lei fece una smorfia. Molto divertente.

Comunque, alla fine, riuscirono ad uscire da Diagon Alley e si trovarono nel bel mezzo della Londra babbana.

Dimenticando totalmente le raccomandazioni di Hermione, Ron faceva commenti ad alta voce su ogni cosa che vedeva, e pareva che lo sconvolgessero in modo particolare le auto (specialmente le decappottabili: ne avevano incontrate due nel tragitto e lui era rimasto a fissarle rapito).

Arrivarono ad una bancarella che vendeva dolci e caffè a volontà. Hermione prese un caffè ed un brownie, Ron prese un caffè e due ciambelle glassate.

-         Guarda che sono pesanti – rise Hermione, guardandolo divorare la prima ciambella.

-         Faccio sport, io! Le consumerò in un attimo. –

-         Sì, come no. Non venirti a lamentare quando ti accorgerai di avere la pancia. –

-         Io starei più attento alla tua, di pancia. Sei un po’ ingrassata ultimamente? –

Hermione gli fece lo sgambetto, lui lo evitò gongolante ma andò a scontrarsi dritto contro il palo del semaforo.

-         Dove andiamo, adesso? – fece Ron, quando si fu ripreso ed Hermione ebbe smesso di ridere.

-         In libreria! –

-         Oh, ma ti prego! –

-         Qua le librerie non sono come a Hogsmeade. Ci si divertono anche i bambini di tre anni, quindi sicuramente troverai qualcosa con cui giocare. –

-         Oddio, come sei divertente! Guarda, se è vero giuro che ti offro il pranzo, con i soldi che mi ha prestato stamattina Ginny per comprarle una giacca. –

Comunque, era vero. Mentre Hermione si aggirava nella sezione dei libri di documentazione e politica, Ron si abbandonò totalmente tra gli scaffali della sezione dei fumetti e delle riviste. Si sedette anche per terra, assieme ad altri appassionati del genere, anche se erano perlopiù ragazzini.

Dopo parecchio tempo Hermione andò a cercarlo e lo vide immerso in una fitta conversazione con quello che pareva un tredicenne.

-         Senti, se c’è una cose di cui sono sicuro è che Nancy si è comportata da stupida! Era logico che lui non sarebbe tornato da lei! – diceva Ron, anche piuttosto concitatamente.

Il ragazzino scuoteva la testa.

-         E’ così che doveva finire! Lui era anche troppo vecchio per Nancy! Guarda che non parli con uno sprovveduto, io sono un appassionato di Sin City da anni! –

-         E cioè da quando non eri ancora nato! –

Le ci volle un po’ per dividere i due e per costringere Ron a uscire, e si trovò in seria difficoltà quando lui afferrò una rivista per donne si ritrovò in seria difficoltà quando lui le chiese che cos’era il silicone.

Era un po’ come portare in giro un bambino per la prima volta, e la cosa, anche se idealmente pensava le avrebbe dato fastidio, le faceva parecchio piacere.

Tra una cosa e l’altra si era fatta ora di pranzo. Andarono a mangiare dal McDonald’s (in realtà, lei avrebbe volentieri evitato, ma lui aveva seguito una ragazza che faceva pubblicità davanti al locale e naturalmente era troppo pericoloso lasciarlo vagare lì). Quando ebbero entrambi mangiato, Hermione propose una passeggiata ed in una mezz’oretta si ritrovarono ad Hyde Park. Hermione, ormai totalmente divertita dal suo ruolo di guida, gli propose di comprare del mangime per gli scoiattoli, ma per un buon pezzo di strada non ne incontrarono nessuno. Ne comparve uno proprio quando avevano perso le speranze e si erano seduti su una panchina davanti ad un lago.

-         Eccone uno! – disse Ron, a bassa voce. – ehi, amico, vieni qui, ti offro il pranzo. –

Hermione lo guardò mentre offriva il mangime all’animale e quello a poco a poco si avvicinava e cominciava a mangiare dalle sue mani.

-         ‘Mione, vieni – disse Ron, voltandosi a guardarla.

Lei scosse la testa.

-         Non sono molto indicata per queste cose… -

-         Oh, dai, non avrai mica paura? –

Lei lo fissò indignata e gli si portò accanto. Ron ridacchiò e le mise in mano un po’ di semi. Lo scoiattolo guardò diffidente le mani di Hermione, ma visto che in quelle di Ron non c’era più niente, con lentezza annusò li cibo e poi si mise a mangiare.

Hermione deglutì.

-         Era da tantissimo tempo che non facevo una cosa del genere! – bisbigliò, un po’ emozionata.

-         E invece si direbbe che tu non l’avessi mai fatto… -

Lei lo guardò, contrariata.

-         Non te l’avrei proposto, se non l’avessi mai fatto. –

Ron sorrise.

-         Giusto… tu non fai mai una cosa se non l’hai già fatta una volta. –

Hermione lo ignorò.

-         Mi ci ha portato mio padre quando avevo otto anni. Mi sono divertita molto, quel giorno. –

Lo scoiattolo trotterellò via. Ron ed Hermione tornarono a sedersi sulla panchina.

-         Infatti tuo padre è in gamba – disse Ron. – è tua madre che mi dà da pensare. Fino ad un anno fa mi offriva sempre i biscotti al cioccolato quando venivo a casa vostra, ma poi ha cominciato ad odiarmi. –

Hermione scoppiò a ridere.

-         Non ti odia! Se ti odiasse non ti lascerebbe nemmeno entrare. –

-         Beh, è come se lo facesse, dato che se mi capita di trattenermi un attimo di più mi sorveglia come un condor. –

Lei sorrise. Effettivamente, la situazione era un po’ così.

-         E’ solo un po’ diffidente. –

-         Ma perché? –

Hermione borbottò qualcosa.

Ron aggrottò le sopracciglia.

-         Cosa? –

-         Ehm… - lei alzò un po’ la voce. – … da quando le ho detto che… insomma… che stavamo insieme… - le sfumò la voce.

Lui sgranò gli occhi.

-         Mi stai dicendo che hai aspettato quasi un anno intero prima di dirglielo? –

Hermione lo fissò, indignata.

-         Non sono mica cose facili da dire! Tu mica l’hai detto, ai tuoi genitori. –

-         Perché loro ci vedono continuamente e se ne sono accorti. In ogni caso, in casa mia è impossibile mantenere un segreto! –

-         Comunque, mia madre è solo un po’ diffidente perché ti ha visto sempre come mio amico e non riesce a vederti come… insomma, non riesce a vederti. –

-         E’ diventata cieca? –

-         Oh, hai capito! -

Ron trovava molto divertente che Hermione non riuscisse mai a dire di lui ‘il mio ragazzo’, dimenticandosi che anche lui faceva parecchio fatica a dirlo senza arrossire. Pensava che fosse assurdo, in fondo avevano diciotto anni. Anzi, diciannove, per lui.

Passarono il resto della giornata a girarsi il parco da cima a fondo, poi girarono qualche negozio (perfino un concessionario: Ron voleva assolutamente provare il brivido di sedersi dentro una di quelle decappottabili, con sommo stupore e disapprovazione di Hermione) ed andarono a cenare in un altro fast-food, sempre con somma disapprovazione da parte di Hermione.

Ron disse che non aveva voglia di tornare subito a casa, così lei si ritrovò a sentirsi dire ‘puoi venire a casa mia’. Nel tentativo di aprire la porta della villetta a schiera, le caddero di mano le chiavi due volte.

Quando entrarono, era buio pesto.

Hermione accese la luce, con disappunto. Guardò l’orologio: erano solo le nove e un quarto di sera.

-         Ci siete? – urlò, ma nessuno rispose, poi le venne in mente. – ah… è vero… i miei stasera sono fuori a cena. Rimpatriata con un paio di colleghi dentisti. Devono essere usciti da poco… –

Ron sbatté ingenuamente le palpebre.

-         Oh? Davvero? Peccato… -

Hermione fece una smorfia ma poi sorrise.

Ron si buttò sul divano davanti alla televisione spenta e con una mano le fece segno di sedersi accanto a lui.

Lei lo guardò, incrociando le braccia.

-         Non tenterai di sedurmi, vero? –

Ron sorrise, scrollò le spalle.

-         Sei seducibile? –

Hermione scosse la testa.

-         Lo immaginavo – annuì lui, ma le fece comunque segno di avvicinarsi.

Lei si sedette accanto a lui e si sentì innaturalmente bene quando lui le circondò le spalle con il braccio e le diede in bacio sulla testa.

Hermione alzò lo sguardo.

-         Buon compleanno. – disse, arrossendo un po’.

Ron la baciò sulle labbra. Lei chiuse gli occhi, portò una mano al collo di lui, dischiuse le labbra. Hermione pensava che non poteva ricordare nessun momento in cui stava così bene. Era felice, ma anche quel termine era un eufemismo.

Ron, dal canto suo, aveva come l’impressione che neanche un’esplosione avrebbe potuto smuoverlo di lì. Con una mano le alzò il pullover alla ricerca della pelle della schiena. Sapeva che c’era un momento in cui lui si sentiva seriamente incapace di fermarsi, e lei lo fermava. La cosa, prima gli era parsa comprensibile, poi l’aveva trovata persino carina, ora però cominciava a sentirsi un po’ turbato. Più da sé stesso che da lei, a dire la verità. Non che avesse chissà quali appetiti sessuali animaleschi da saziare, ed era Hermione che voleva, non un’altra. Quasi inconsciamente, sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui per quanto la voleva, si sarebbe arrabbiato, e naturalmente si sarebbe arrabbiata anche lei perché ‘non avrebbe capito’, o meglio, lui si sarebbe sentito un idiota a spiegarglielo.

Hermione, che sentiva le dita di Ron correrle lungo la schiena ed il ventre, si sentiva improvvisamente nervosa.

-         … sì, un attimo, un attimo. –

Tac. La voce di Elizabeth Granger ruppe il silenzio immacolato e Ron ed Hermione si separarono di scatto, ritrovandosi a guardare la donna sull’ingresso seduti sul divano in una posizione innaturale.

Lei ricambiò lo sguardo, molto perplessa.

-         Oh, ragazzi… non pensavo ci foste… c’è solo una luce accesa… - si avvicinò.

Hermione cercò di mettersi in una posizione normale e sperò ardentemente che il pullover non le si fosse alzato sulla schiena.

-         Ah, ehm… ma sei già tornata, mamma? –

-         No, mi ero dimenticata il portafoglio… - ridusse gli occhi a due fessure. – piuttosto… voi che stavate facendo? –

Entrambi arrossirono un po’, ma la luce non era molto forte, il lampadario non era acceso. Lo sguardo della signora Granger vagava dalla televisione spenta, alle riviste chiuse come a chiedersi cosa si poteva fare in silenzio su un divano a parte leggere o dormire. Ma parevano sveglissimi.

-         Ah… uhm… - balbettò Ron, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.

-         Ehm… stavamo facendo due chiacchiere, mamma. Quando ti abbiamo sentito arrivare ci siamo un po’ spaventati, non ti aspettavamo. –

Elizabeth Granger non aveva l’aria di crederci, proprio per niente, ma visto che il marito, infastidito dal suo ritardo, continuava a suonare il clacson dall’interno della sua BMW per il ritardo della moglie, decise di lasciar correre e non pensarci.

-         Beh, tuo padre si sta arrabbiando… sarà meglio che vada. E’ stato un piacere vederti, Ron. –

Lui fece un goffo cenno con la mano.

La signora Granger si diresse verso la porta, sotto i loro occhi. Si voltò.

-         E… non fate tardi. – disse, a denti stretti.

Ron e Hermione le sorrisero, con aria un po’ colpevole.

 

Ginny posò la giacca sul letto. Era sera tardi, e la Tana era tranquilla e silenziosa. Sbadigliò. Si tolse il braccialetto e si sedette davanti allo specchio per pettinarsi. Fece per prendere la spazzola, ma qualcosa la bloccò.

Si guardò intorno. Non avrebbe saputo dire se fosse stato un rumore od un’ombra od una luce, ma c’era qualcosa che l’aveva distratta. Il suo sguardo andò dritto verso il cassetto del comodino. Non aveva niente di strano. Pensò che fosse un po’ paranoica, però aveva una brutta sensazione allo stomaco che più si sforzava di ignorare più cresceva, ed era una sensazione agghiacciante.

Si alzò in piedi, deglutendo come per mandare giù un groppo in gola, si tolse i vestiti ed indossò la camicia da notte. Si buttò sul letto, evitando accuratamente di badare a quella specie di ‘paura crescente’. Sotto le coperte, guardò furtivamente dalla finestra, come una bambina che ha paura del buio. Niente, fuori era tutto tranquillo. Chiuse forzatamente gli occhi e prese un gran respiro. Doveva smetterla di rincasare così tardi, la stancava.

 

Aprì gli occhi. Fuori era ancora buio. Non doveva essere passata più di mezz’ora. Fece per voltarsi dall’altra parte nel tentativo di riprendere sonno, ma improvvisamente un dolore lancinante al braccio le fece spalancare gli occhi. Si mise velocemente a sedere e si tirò su la manica. Rimase agghiacciata. Lì, proprio sul suo braccio sinistro, che aveva guardato distrattamente neanche un’ora prima, c’era il Marchio Nero. Bruciante, spaventoso, più nero di qualsiasi cosa si ricordasse di aver visto. Faceva così male che pensò che stesse per morire. Fece per toccarlo con le dita nella mano destra, come per cancellarlo, e poi lo vide. All’anulare della mano destra, l’anello che non aveva mai indossato, che non aveva più toccato per due anni. E si spaventò, e si chiese cosa significasse, e guardò alla sua destra e sul suo comodino vide un libricino nero. Quasi urlò, ma la voce le morì in gola. Il diario di Tom Ridde, intatto. Era stato distrutto. Lo sapeva. Lo aveva distrutto Harry. Non poteva essere lì. Doveva essere impazzita. Meccanicamente, prese il diario e senza respirare lo aprì.

Mi sento sola. A volte ho paura.

Hai paura?

Ho paura.

Di cosa hai paura?

Di quello che succederà.

Che succederà?

Quando tutti andranno avanti ed io rimarrò indietro. Che succederà?

Tu non rimarrai indietro.

Come lo sai?

Perché tu andrai molto più avanti di tutti gli altri.

Non ne sono capace!

Ti aiuterò.

Mi aiuterai?

Ti aiuterò a non avere paura di quello che succederà.

Come?

Perché avrai il tuo futuro nelle tue man e potrai decidere solo tu.

Gettò il diario per terra e stavolta urlò davvero, piegandosi su sé stessa, ma anche questa volta non sentì nessun suono.

Sul diario, rimasto aperto a terra, l’inchiostro formò parole.

Io ti ho aiutato. Ora tocca a te.

 

Aprì gli occhi e si alzò di scatto, con il fiatone. Si guardò intorno. Era nella sua stanza. Dalla finestra entravano splendenti raggi di sole che si diffondevano in tutta la stanza. Con la fronte imperlata di sudore, alzò la manica del braccio sinistro. Niente. Neanche un segno. La pelle era bianca come al solito. Guardò la mano destra, ma non c’era nessun anello. Per terra, nessun diario. Fuori, gli uccellini cinguettavano. Deglutì con forza, ancora con il fiato corto.

Un sogno. Un sogno? Sì, solo un sogno.

Però, lei non ci credeva più nei sogni.

Scese dal letto. Doveva dirlo a qualcuno. A qualcuno che non l’avrebbe presa per pazza.

-         Arthur! Aiuto! – gridò la voce di sua madre, con tono terrorizzato.

Ginny sentì suo padre correre giù per le scale. Lei chiuse gli occhi e strinse le labbra. Quasi come un robot, aprì la porta, ancora con la camicia da notte, scese lentamente le scale, andò uscì in giardino da dove provenivano delle voci concitate.

Arhur e Molly guardavano sconcertati il muro davanti a casa. Ginny li raggiunse, quasi controvoglia alzò lo sguardo.

E quasi come se lo sapesse, le bastò la prima parola per capire cosa c’era scritto a caratteri insanguinati su quella parete.

Io ti ho aiutato. Ora tocca a te.

 

Grimmauld Place.

I membri dell’Ordine erano stati convocati in via straordinaria.

C’era un silenzio pesantissimo intorno alla tavola. Ginny aveva appena finito di raccontare il suo sogno. E, quando aveva cominciato a parlare, non era più riuscita a controllarsi. Aveva anche confessato di quella sera a Diagon Alley, quando aveva ‘incontrato i Mangiamorte’.

E, beh… aveva raccontato anche dell’anello che le aveva dato Avery due anni prima.

Lupin, dopo qualche attimo, sospirò.

-         Ginny, perché non ce l’hai detto? Avremmo fatto in modo che tu fossi più al sicuro. –

-         Come sei arrivata ad avere collegamenti con i Mangiamorte fino a questo punto? –

-         Hai visto qualcuno in viso? –

-         Sei sicura di non aver nessun segno sul braccio? –

Tutti la sommergevano di domande, tranne Harry, Ron ed Hermione. Lei teneva lo sguardo basso e non li guardava. Sapeva perché non dicevano nulla. Sapeva cosa stavano pensando.

Perché non lo hai detto almeno a noi, Ginny?

Almeno a loro, che erano suoi amici. Si tremendamente in colpa, si sentiva triste. Ma per qualche motivo sapeva che non era pentita. Che se fosse successo un’altra volta lo avrebbe fatto di nuovo.

-         Io non l’ho detto perché… - disse, quasi più a sé stessa. – …non pensavo fosse così importante. –

Silenzio.

-         Ginny – disse Tonks. – nessuno in questa stanza pensa che tu sia così stupida. –

Lei abbassò lo sguardo azzurro e tacque. Tonks la guardò. Probabilmente, in qualche angolo della sua mente, l’aveva sempre sospettato.

Kingsley prese la parola.

-         Dobbiamo dedurne che la vorrebbero con loro? –

Lupin scrollò le spalle.

-         Certo, ma è una trappola. –

Kingsley lo guardò, esitante

-         Però, a noi un infiltrato servirebbe. –

Ron alzò improvvisamente la testa.

-         Non lei! –

-         State scherzando? – esclamò Arthur, riprendendosi dai suoi pensieri. – ha solo diciassette anni! –

Lupin sembrava molto combattuto.

Kingsley scosse la testa.

-         Arthur, anche alcuni dei Mangiamorte hanno più o meno la sua età. –

-         Mi stai dicendo che dovrei lasciare che mia figlia andasse dritta dai Mangiamorte? E come sperate che ritorni viva? –

-         Ginny ha dimostrato di essere stata sottovalutata già molte volte. Non dovrebbe combattere con loro. Dovrebbe solo rimanere a guardare e riferirci. Si tratterebbe di poco tempo. Remus ha più volte rischiato fingendosi dalla parte del nemico. –

Arthur li fissò, indignato.

-         Ma lei è mia figlia! –

-         Sono morti anche ragazzi molto più giovani di lei a causa dei Mangiamorte. –

Di nuovo, silenzio.

Ginny non sapeva cosa dire. Guardò Harry, che non aveva detto nulla. Se ne stava a fissare il tavolo, zitto.

Lui aveva combattuto sin da quando aveva undici anni. Lui aveva rischiato di morire, aveva visto morire, lui lo sapeva che cos’era la morte. Eppure era lì, ancora viveva, ancora riusciva ad avere il coraggio di andare avanti. Lui era speciale, ma lei forse poteva prendere in prestito un po’ di quel suo modo di essere. Forse.

E poi, a pensarci bene non aveva esattamente paura. Non dei Mangiamorte… e forse non aveva nemmeno paura della morte. Era stata l’unica ad avere un rapporto diretto con Voldemort a parte Harry, in quella stanza. Lei, in fondo, non aveva neanche paura di lui. La verità era che aveva sempre avuto paura di quello che sarebbe successo, del futuro. Del presente non aveva paura.

Se il presente era combattere, lei lo avrebbe fatto.

-         Sarebbe un aiuto – sentì dire infine a Lupin. – ma non possiamo certo costringerla o cercare di convincerla. E’ una questione delicata e pericolosa. Ginny, tu sei maggiorenne. Puoi decidere cosa fare. Se hai il minimo dubbio, ti puoi tirare indietro e non accadrà assolutamente nulla. Voglio solo sapere se sei disposta. Sinceramente. –

Ginny lo guardò.

Ron scosse la testa.

-         Non potete… -

-         Io… penso di poterlo fare. –

Tutti si voltarono a guardarla.

-         Cosa? – questa volta, fu anche Harry a parlare.

-         Non ho paura… posso farlo, davvero. –

Lupin la guardò.

-         Non devi dimostrare niente a nessuno, Ginny, questo devi saperlo. –

Ron si spazientì, e con lui Arthur.

-         Non puoi farlo… -

-         Se Ginny se la sente, e se la sente davvero – intervenne Tonks. – non c’è niente da discutere. E’ giovane, ma non è una bambina. Nessuno di noi vorrebbe essere qui, nessuno di noi voleva la guerra. Ma dal momento che c’è, tutti quelli che possono devono combattere. –

Continuarono a discutere a lungo, ma Ginny non disse più una parola. Ormai aveva deciso.

Avrebbe fatto cadere Voldemort e tutti i suoi seguaci nella loro stessa trappola.

Harry la guardava e per la prima volta da molto tempo ebbe veramente paura.

 

Draco se ne stava seduto alla scrivania, fumando svogliatamente una sigaretta. Un po’ guardava il foglio di pergamena bianco davanti a sé, un po’ guardava il vuoto. La luce del sole che tramontava al di là della finestrella da prigione, contrastando l’oscurità della stanza, illuminava un’opaca striscia di fumo.

Sentì bussare ed aprire la porta prima che lui dicesse qualcosa.

Prese un’altra boccata dalla sigaretta senza voltarsi.

-         Ti ha convocato di nuovo. –

-         Già. – rispose lui, emettendo una nuvoletta di fumo.

Pansy lo guardò con gli occhi neri, cercando di carpire qualcosa dalla sua espressione, anche se da anni sapeva che era impossibile. Indossava un vestito nero. Pareva che dentro al castello esistesse solo quel colore.

Lei si avvicinò, si sedette sulla scrivania proprio davanti a lui, a gambe leggermente divaricate.

-         Cambiamenti? – fece, inclinando la testa e muovendo leggermente il caschetto di capelli neri.

-         Così pare. –

-         Vuoi parlarmene? –

-         Tanto lo scoprirai. E non è niente di rilevante. –

Pansy si stupì. Ormai era talmente abituata alle risposte brusche e pungenti di Draco, che quando lui le rispondeva normalmente si sentiva quasi lusingata.

Rallegrata da quella specie di eccesso di generosità, Pansy lo guardò, scese dalla scrivania e scivolò a cavalcioni sulle sue gambe.

Gli prese di mano la sigaretta quasi finita, diede una boccata guardandolo negli occhi, la spense nel portacenere dietro di lei.

-         Stasera siamo liberi. –

Lui la fissò con gli occhi grigi, non disse nulla, annuì leggermente, lasciò che lei si chinasse a baciarlo. Bacio sulle labbra per un attimo, un bacio molto più profondo ed intimo subito dopo. Lui chiuse gli occhi, sentì che lei si abbassava la cerniera del vestito sul fianco.

Quella trafila era un’abitudine, ma non era routine. Pansy ci sapeva fare, aveva tutti i ‘numeri’ giusti ed era molto piacevole passare quella mezz’ora la sera dopo cena, un po’ un surrogato del liquore dopo il caffè.

Però quando lei se ne andava, raccoglieva i vestiti, lo baciava di nuovo, sgattaiolava fuori dalla porta e lui chiudeva gli occhi e dopo poco si addormentava, in dormiveglia gli capitava di chiederselo.

Tutto qui?

 

Quella notte, Ginny non dormì.

 

 

**

 

Okay, questo capitolo è estremamente lungoXD Però, l’ho scritto in momenti molto diversi, quindi i paragrafi mi sono venuti di una certa lunghezza._. Oh, beh, come al solito spero che non vi crei troppi fastidi, purtroppo non sono capace di fare i capitoli corti._.

Niente di particolare da dire riguardo a questo capitolo, solo che spero che vi piaccia, come al solito, e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate in ogni caso*_*

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 3
*** They still don't understand ***


.THEY STILL DON’T UNDERSTAND.

 

[Loro ancora non capiscono.]

 

 

“But I guess they still don't understand            “Ma io penso che loro ancora non capiscano
And they can never understand
                         e non potranno mai capire
And they said go find 2000 man                       
 e dicevano ‘trova l’uomo che va a duemila’
And they said tell him we've got new plans       
e dicevano ‘digli che abbiamo nuovi piani’
But instead I'm here to tell you friend              
 ma io invece sono qui per dirti, amico

I believe they want you to give in                     
 Credo che loro vogliano che ti arrendi
Are you giving in 2000 man?                            
 Ti stai arrendendo, uomo che va a duemila?
(Did you love this world                                     
(hai amato questo mondo?
And did this world not love you?)”                     e questo mondo non ha amato te?)”

 

 

He’s simple, he’s dumb, he’s the pilot (Grandaddy).

 

 

-         Hai un aspetto orribile. -

-         Grazie, Ron. Molto carino che mio fratello si premuri di dirmi queste cose. –

Lui guardò Ginny, cupamente. Lei ingollò le ultime gocce di caffè in fondo alla tazza.

Sono tre notti che non dormo.

Ma se glielo avesse detto, avrebbe pensato che lei aveva paura.

-         Forse non dovrei svegliarmi così presto, senza motivo, tra l’altro. – lo occhieggiò al di sopra del bricco di latte. – piuttosto, mi stupisce che tu sia sveglio. –

-         Ho lezione fra mezz’ora  – borbottò lui. – poi stanotte non ho dormito bene e non sono riuscito più ad addormentarmi parecchie volte. Ho fatto degli incubi… -

Ginny lo fissò, il cuore le mancò un battito.

Abbozzò a fatica un sorriso.

-         Incubi…? –

-         Sì, la madre di Hermione mi inseguiva per i corridoi della scuola di Medimagia e mi scagliava degli Schiantesimi dicendo di essersi fatta prestare i poteri da Voldemort per eliminarmi. –

Ginny inarcò le sopracciglia, scoppiò a ridere.

Si alzò in piedi e gli diede una pacca sulla spalla.

-         Tu hai degli istinti repressi, povero Ron. –

-         Ah! Non ritengo istintivo farmi polverizzare dalla signora Granger. –

La sorella minore lo guardò dall’alto in basso come se avesse enorme pietà di lui.

-         Parlavo di istinti sessuali. –

-         Oddio, Ginny! – Ron si portò le mani alle orecchie cercando di non sentire. – l’ultima cosa che voglio è che mia sorella mi parli di istinti sessuali! –

Ginny si stava divertendo un mondo.

-         Perché io e Harry, sai, insomma… -

-         Non voglio sentire! Santo cielo, un pessimo modo di iniziare la giornata! –

Ron corse via (con le orecchie in fiamme) e se ne andò su per le scale. Ginny, ridendo, udì la porta della camera di suo fratello sbattere.

Il suo sorriso si spense. Guardò la cucina.

Le sarebbe mancato… tutto quello.

Non si era mai fermata a riflettere in modo realistico.

Doveva lasciare la sua casa. La sua famiglia. I suoi amici. Harry. Tutto. Doveva lasciare tutto.

Per quale motivo?

Lei ci pensava da giorni, aveva passato intere notti a pensarci, ma non ne veniva a capo. Sentiva già una mancanza pazzesca di quello che lasciava e angoscia per quello che arrivava, ma la volontà di andare sembrava più forte di qualsiasi cosa.

A niente erano valse le preghiere dei suoi genitori, tutti le avevano consigliato di rimanere, ma lei non aveva mai tentennato.

Perché?

Harry aveva ragione: essere un ‘eroe’ non era niente di speciale. Ed era questo che pensava: non era per fare l’eroina che aveva accettato.

Era come se… come se volesse. Voleva. Non c’era altro modo di spiegarlo.

Un brivido le percorse la schiena.

Il giorno dopo, avrebbe incontrato Lupin per farsi spiegare le modalità della cosa.

E una settimana dopo sarebbe partita.

 

-         Hai un aspetto orribile. –

-         Grazie, Ron. Molto carino che il mio migliore amico si premuri di dirmi queste cose. –

Il ragazzo si sedette accanto a Harry. Effettivamente, non aveva una cera molto diversa da quella di Ginny: occhiaie e l’aria di uno che non ha dormito.

-         Cos’hai? – chiese, però lo sapeva.

-         Secondo te? – rispose Harry, cupamente. – siamo tutti preoccupati. –

Fece una pausa.

-         Io davvero non capisco perché ha accettato. Non lo capisco. –

E tu perché hai accettato di arrancare nel tentativo di sopravvivere?

Harry lo sapeva, lo sapeva che Ginny nonostante le apparenze era coraggiosa, lo sapeva che era forte, ma sinceramente non sapeva se era abbastanza forte per questo. Come al solito, quando qualcuno a cui voleva bene doveva affrontare Voldemort, avrebbe preferito essere al suo posto.

Si proteggono le persone che si amano, no?

-         Allora, perché diavolo non l’hai fermata? Ti avrebbe ascoltato. – protestò Ron, che aveva tentato di tutto per farle cambiare idea.

Harry fissò il banco.

Già, perché non l’hai fermata?

Perché... perché so cosa vuol dire essere così. Che se ti lanciano una sfida, anche se hai paura, anche se non è la cosa più giusta, tu l’accetti.

-         Non mi avrebbe ascoltato… -

-         Chi è che non ti ha ascoltato, Harry? –

Una voce allegra alle loro spalle li fece voltare.

Cloe Shefferd li salutò con un sorriso e si sedette nel banco accanto al loro.

-         Nessuno ascolta mai Harry – disse Ron, guardando l’amico con aria comprensiva.

-         Finiscila! – rise Harry, suo malgrado.

Lei li guardò sorridendo.

-         Ah! Stavo per dimenticarmi. Avete da fare, venerdì sera? –

I due si guardarono, scrollarono le spalle.

- Perché? –

Cloe si voltò verso il suo zaino e, dopo aver frugato a lungo, tirò fuori due volantini (che però erano perfettamente lisci come appena stampati).

-         Se vi interessa, i miei genitori danno una festa, e mi hanno detto di invitare chi volevo. –

Harry e Ron lessero i volantini.

20° anniversario di Oliver&Rebecca Shefferd.

Ron sbatté le palpebre.

-         Scusa, mi sbaglierò sicuramente, ma… tuo padre di certo non è quell’Oliver Shefferd… il Cercatore che ha vinto la Coppa del Mondo nell’86, nell’88 e nel 92? –

Cloe lo guardò, stupita.

-         Sei informato. Sì, beh, è lui. E’ vero, tu sei un appassionato di Quidditch. –

Ron rimase a bocca aperta.

-         Cioè… mi stai dicendo che tuo padre è quell’Oliver Shefferd? –

Lei fece spallucce e annuì.

-         Lo voglio conoscere! – disse Ron, che dagli occhi che gli brillavano sembrava partito per un mondo lontano. – ci vengo assolutamente. -

Mise una mano sulla spalla di Harry.

Lui sospirò.

-         Sì, va bene, ma… è una di quelle feste in cui si indossano gli abiti da cerimonia, vero? –

Cloe annuì, un po’ imbarazzata.

-         Sì, beh, però poi certi miei amici pensavano di andare, dopo, ad un’altra festa, una normale. Che ne dite? Casa nostra è grande, quindi non c’è limite di persone. Potete portare i vostri amici. Naturalmente, Harry, la tua ragazza è invitatissima. –

Harry sbatté le palpebre, perplesso.

-         Ehm… - si voltò verso Ron, e lo indicò. – guarda che anche lui ha una ragazza. –

Cloe parve presa in contropiede.

-         Oh – disse. – scusami, non lo sapevo. Ovviamente, invitate anche lei! –

Il professore entrò e nell’aula calò il silenzio.

Dopo qualche minuto di spiegazione, Harry prese un foglietto e ci scrisse sopra con la piuma.

Lo passò a Ron.

Ti consiglio di fare attenzione. Mi sa che Cloe si è presa una cotta per te.

Ron fissò il biglietto, perplesso (ma un po’ ringalluzzito, stile playboy).

Ripassò il biglietto a Harry.

E da dove l’avresti capito, ragazzo-che-è-sopravvissuto?

Harry rispose.

La mia ragazza la invita, per la tua sperava addirittura non esistesse. Non fare come tuo solito e stalle lontano, altrimenti farai incazzare qualcuno.

P.S. Non mi chiamare ‘ragazzo-che-è-sopravvissuto’, sei odioso.

Ron gli lanciò il biglietto di risposta in testa.

Stai tranquillo, latin lover, non sono il tipo.

P.S. Non ti chiamo più ‘ragazzo-che-è-sopravvissuto’ solo perché è troppo lungo da scrivere.

Harry, dopo avergli dato un vigoroso calcio sotto al banco per il ‘latin lover’, pensò che, al contrario, Ron era assolutamente il tipo; ma sperava che la cosa sfumasse e basta.

 

Pansy guardò prima Bellatrix e poi Rodolphus.

-         Fra una settimana? –

Rodolphus aspirò dalla sigaretta a lungo, prima di annuire.

Erano tutti e tre in un corridoio dell’immenso castello. In quel posto era quasi impossibile incrociare qualcuno, a meno che non si avessero le stanze vicine.

Gli stessi Mangiamorte faticavano a ricordarsi i volti dei propri compagni.

Lord Voldemort non la considerava una grande carenza.

Forse aveva pensato che vivere a stretto contatto può portare anche persone del genere ad ‘affezionarsi’… o forse, semplicemente, non gli importava.

-         Ci sarà una festa… una tradizione babbana, non ho idea di cosa si tratti. Comunque, il Signore Oscuro ci ha ordinato di informarci, e per l’occasione ci saranno i fuochi artificiali, alla sera. Naturalmente, è una ghiotta possibilità per noi, per dare un avvertimento agli Auror; quando uccideremo qualcuno, nessuno sentirà chiasso per via dei fuochi. Ultimamente, tutte le nostri azioni sono andate a monte: non vogliamo che gli Auror pensino che siamo in pausa. –

Pansy annuì, sinceramente d’accordo.

Rodolphus guardò per un attimo il vuoto, poi sorrise vagamente.

-         Sarà interessante vedere la sua reazione. –

Pansy e Bellatrix lo guardarono.

-         La reazione di chi? – chiese la ragazza.

Lui scrollò le spalle.

-         Lo scoprirai. –

Pansy lo fissò ed ebbe improvvisamente una fitta.

Come un brutto, bruttissimo presentimento.

 

Harry era stato seriamente sul punto di lasciar perdere l’idea di andare alla festa.

Di certo, non era un gran periodo per i festeggiamenti.

Ginny stava per partire. Dalla riunione dell’Ordine, si erano malapena rivolti la parola.

Era come se lui fosse arrabbiato con lei, ma non era esattamente così. Da una parte la capiva, dall’altra avrebbe voluto riscuoterla e dirle che per dimostrare di avere coraggio stava rischiando la vita. Effettivamente, un po’ era arrabbiato. Sembrava che Ginny ci giocasse, con la sua vita. Giocava con la vita, con le persone che amava, come se in realtà non le importasse. Questo lato di lei a volte quasi lo spaventava. Sembrava… come dire… intoccabile.

Distaccata.

E dire che la maggior parte delle volte aveva un temperamento veramente vivace.

Forse era normale che avesse tante contraddizioni.

Forse era normale.

Entrò nel bar in cui di solito pranzava il giovedì dopo le lezioni.

Era un bel locale proprio accanto alla scuola per Auror. In realtà, non sperava veramente di incontrarla lì, però la vide ad un tavolo, che mangiucchiava un panino e guardava fuori dalla vetrata che dava sulla via principale di Diagon Alley. Aveva i capelli rossi sciolti sulle spalle ed una semplice t-shirt bianca, ma in quel momento gli parve di vederla per la prima volta e quasi gli dispiaceva andare ad interrompere i suoi pensieri.

-         Buono? – disse, quando arrivò al tavolo ed afferrò la sedia vuota di fronte a lei.

Per un attimo, Ginny parve stupita, poi sorrise.

-         Ho mangiato di meglio, ma avevo una fame… -

Harry si sedette.

-         Che cosa fai da queste parti? –

-         Sono venuta a prendere un paio di cose da scuola. Orari delle lezioni, giornate degli esami, cose del genere. –

Silenzio.

Era chiaro che nessuno dei due voleva parlare della partenza di lei, anche se forse avrebbero dovuto.

Harry la guardò, indeciso.

-         Senti… hai da fare, sabato sera? –

Lei gli sorrise.

-         Non direi. Perché, hai qualche programma? Niente di alcolico, spero. –

-         No, non cercherei mai di farti cadere in tentazione. E’ che una compagna di corso mia e di Ron, una certa Cloe Shefferd… -

-         Chi, la figlia di Oliver Shefferd, il giocatore di Quidditch? –

-         Ma cos’è, siete fissati? Perché solo io non so chi sia questa gente? –

Ginny rise.

-         E’ che alcuni anni fa è finita spesso sui giornali. Sai, su quelle rivistucole per ragazze. Ad Hogwarts non ne avevo occasione, ma d’estate ne leggevo molti. Era una specie di icona… frequentava una scuola privatissima, niente a che vedere con Hogwarts, Beaux-batons o Durmstrang. Era la migliore studentessa di tutta la Gran Bretagna. Avrebbe potuto perfino saltare un paio d’anni di scuola e finire direttamente all’anno del diploma, ma a quel punto ogni traccia di lei sparì. Non so, dicevano che aveva avuto una specie di crollo. Dicevano che a volte le persone molto, molto intelligenti, i geni, quelli che sono stati veri e propri bambini prodigio, sono molto deboli psicologicamente. Però, non lo so, in realtà non ho idea di chi sia. Non sapevo fosse una vostra compagna di corso, comunque… -

Harry era sbalordito. E dire che Cloe non aveva minimamente l’aria di una che è stata una bambina prodigio o chissà chi. Anzi, aveva un’aria parecchio ordinaria, non era niente di speciale, non aveva una conversazione più brillante di altri. I suoi voti erano alti, ma niente che nessuno avesse già raggiunto. Probabilmente, è vero che le apparenze ingannano.

-         Beh, comunque, i suoi genitori organizzano una festa per il loro ventesimo anniversario di matrimonio o qualcosa del genere e lei ci ha invitati, e mi ha chiesto di invitare anche te. –

Ginny si irrigidì. A dire la verità, non aveva molta voglia di andare a delle feste, in quel periodo. Anche prima della ‘decisione’. Ci andava controvoglia. Di solito preferiva molto di più stare sola con Harry, oppure fare due chiacchiere con Hermione. E dire che nessuno, tra tutti quelli che la conoscevano, la considerava una persona tanto tranquilla.

Chissà quand’era che aveva cominciato ad essere così.

-         Immagino di poter farci un salto… - fece una piccola smorfia. – tu ne hai molta voglia? –

Harry scrollò le spalle.

-         Non particolarmente – mormorò, un po’ stranito dalla reazione tiepida di Ginny. Di solito si entusiasmava sempre per questo tipo di cose. – però, Ron ci vuole andare assolutamente per conoscere il padre di Cloe, e non mi va di lasciarlo là da solo. Credo che a lei piaccia. –

Ginny non riuscì a trattenere una risata.

-         Ma a chi, alla Shefferd? Non che io la conosca, ma mi sembra molto improbabile che una persona del genere sia interessata a Ron. L’unica ragazza intelligente a cui piace Ron è Hermione. Tutte le altre sono sempre state delle oche. –

Lui rimase zitto, ma ormai non pensava più a Ron, o a Cloe o alla festa.

Pensava che Ginny, proprio in quei momenti, era strana.

Che il modo in cui si riavviava i capelli era strano. Che il suo sguardo era strano. Che il suo sorriso era strano.

Che non voleva pensare qualcosa di banale, ma l’espressione ‘lontana’ gli parve talmente adatta a lei, in quella situazione, e non riuscì a trovare una parola migliore.

 

Ginny guardava fuori dalla finestra della sua camera. Era il tramonto. Guardava i panni stesi ad asciugare nel giardino davanti a casa e c’erano Ron, Fred e George che giocavano con una vecchia Pluffa.

Sentì dei passi dietro di sé, si voltò.

Sua madre la guardava.

-         A cosa pensavi? – chiese. Era un po’ strana, era molto seria.

Ginny la guardò, perplessa.

-         A niente di particolare… -

E’ una bugiarda!

Un sibilo all’orecchio.

Si voltò di scatto, si guardò intorno nella stanza, spaventata. Tornò a guardare sua madre.

-         Hai detto qualcosa? –

-         Tu sai che non ti ho ancora perdonato, vero? –

Ginny la fissò.

-         Per cosa? –

E’ una bugiarda!

Lei ghiacciò sul posto.

-         L’hai sentito? - sussurrò.

Sua madre la guardava come se non la sentisse.

-         Non ti ho mai perdonato. – disse e la guardò con uno sguardo che non le aveva mai visto.

Ginny sentì come lo scrosciare d’acqua dietro di sé. Si voltò di scatto, e dalla finestra della sua camera non vide più il solito tramonto, i panni stesi ad asciugare, i suoi fratelli che giocavano in giardino. C’era una spiaggia ed il mare, calmo e grigio, quasi come seta d’argento.

Si voltò di nuovo, faceva freddo, sua madre non c’era più, e nemmeno la sua stanza.

Guardò l’imponente retro di una bella villa irlandese, ma lo vedeva un po’ appannato, come se ci fosse la nebbia.

Un colpo di vento alzò la sabbia che le finì negli occhi, dovette chiudere le palpebre, e quando le riaprì indossava un mantello nero ed un cappuccio le nascondeva i capelli rossi.

 

Sgranò gli occhi. Aveva il fiato corto. Dalla finestra della sua camera arrivavano i raggi rossi del sole del tramonto. Doveva essersi appisolata sul letto.

Si mise a sedere, tentando di controllare il respiro.

Non credeva nei sogni, ma in quel momento avrebbe voluto crederci.

Vide il suo riflesso allo specchio appoggiato al muro. Era pallida ed aveva l’aria terrorizzata.

Ron entrò nella camera senza nemmeno bussare, come suo solito.

-         Ginny, ti stai preparando? Non ti dovrò mica portare io alla festa, vero? Devo già passare da Hermione e Harry mi ha detto solo che venivate anche voi… –

Ah. Era sabato sera. Effettivamente, era per questo che quel pomeriggio aveva deciso di salire in camera: doveva cercare qualcosa di decente da mettersi. Poi però si era addormentata.

Il solo pensiero di andare ad una festa le faceva venire la nausea.

Non ne aveva minimamente, minimamente voglia.

-         Ehm… non mi sento molto bene. Penso che rimarrò a casa. –

Ron aggrottò le sopracciglia.

-         Effettivamente, sei bianca come un cencio. Devo preoccuparmi? –

-         No, sarà solo un po’ di stanchezza… rimarrò a letto e magari leggerò qualcosa. –

Lui esitò un attimo, squadrandola.

-         E lo dici tu a Harry? –

-         Beh, ero d’accordo con lui che ci saremmo visti là… glielo potresti dire tu quando vi vedete? –

Ron annuì, ma lentamente. Sua sorella era un po’ strana, ultimamente. Che ci stesse ripensando, riguardo alla missione dell’Ordine?

Ce l’aveva ancora un po’ con lei perché aveva deciso di accettare. Quella maledetta testarda. Faceva solo il maledetto contrario di quello che le dicevi.

Però, era sua sorella.

-         Mah, cerca di dormire. – borbottò Ron, sentendosi un po’ strano a fare delle amorevoli raccomandazioni alla sorellina minore.

Ginny gli sorrise.

 

-         Buonasera, signor Granger – salutò nervoso il padre di Hermione, che gli aveva aperto la porta.

L’uomo gli sorrise e si tolse gli occhiali da lettura.

-         Ciao, Ron. Credo che Hermione sia praticamente pronta. Vuoi entrare un attimo? Abbiamo appena fatto un po’ di camomilla. Mi dispiace di non poterti offrire caffè, ma siamo contrari… rovina i denti. –

Ron scosse la testa, ancora più teso di prima.

-         No, grazie, posso aspettare. –

Ma dannazione, quanto ci voleva a Hermione per prepararsi? Non era minimamente il tipo da farti aspettare ore ed ore seduto sul divano mentre cambiava sfumatura d’ombretto tredici volte.

Con sua grande delusione e terrore, dalle scale non scese lei ma sua madre.

-         Buonasera, Ron! – disse la signora Granger, briosa. Non aveva affatto un’aria spaventosa, ma bisognava stare sull’attenti comunque. Era un po’ come Hermione (ma solo un po’): un momento sembrava che tutto andasse bene eccetera, e l’attimo dopo, tac, cominciava a strepitarti contro senza che tu riuscissi a capire perché. Non che la signora Granger gli avesse mai strepitato contro, ma era sicuro che le fosse passato più volte per la testa.

-         Buonasera – mormorò Ron, già stremato.

-         Allora, Hermione mi ha detto che stasera avete in programma di andare ad una festa. –

-         Sì, signora. –

-         Che tipo di festa? –

Oddio, ci sono vari generi di festa?

-         Ehm… una festa… di anniversario di… ehm… genitori di un’amica. –

Elizabeth Granger sbatté docilmente le palpebre.

-         Oh. E cosa farete, a questa festa? –

A questo punto lui era parecchio confuso. Cosa si fa ad una festa? Cioè, non ci aveva mai pensato. Presumeva che si parlasse. Si ballasse. Si bevesse, forse. Uhm. Era la risposta giusta? Cosa lo avrebbe reso un ragazzo perfetto agli occhi della signora Granger? Non gli veniva in mente nulla di sufficientemente intelligente.

- Ecco… niente di particolare – balbettò, sconfitto.

- Spero vivamente che non berrete, sai, alcol! –

Ron assunse un’aria scandalizzata, giusto per cominciare la sua maratona verso la figura di ragazzo perfetto.

-         Assolutamente no, signora. –

-         Me la riporti per mezzanotte, vero? –

E che era, Cenerentola? Ma uffa!

- Sì, signora. –

- Eccomi, sono pronta, sono pronta. –

Dei passi veloci e poco femminili lungo le scale annunciarono il sospirato arrivo di Hermione e Ron tirò decisamente un sorriso di sollievo.

Poi, però, quando la vide per qualche secondo smise di respirare.

Hermione, ai piedi delle scale, si stava sistemando una scarpa. Quando si rialzò, arrossata dalla corsa (probabilmente sapeva che al piano di sotto c’era un interrogatorio stile FBI in corso), era decisamente ed innegabilmente molto carina. Indossava un bel vestito lungo, ceruleo, senza spalline, ed aveva raccolto i capelli. Caspita, sotto quelle felpe che indossava sempre c’era decisamente qualcosa.

Ma probabilmente, anche se lì non ci fossero stati i genitori di Hermione, lui non sarebbe stato in grado di spiccicare né un complimento né una sola parola.

-         Ciao, mamma, ciao, papà. – disse lei, baciando frettolosamente i genitori sulle guance e scendendo i primi gradini dell’ingresso, seguita a ruota da Ron.

-         Divertitevi, ragazzi! – gli urlò dietro la signora Granger. – e cercate di… non fare fermate non previste. –

Ron guardò Hermione, a bocca aperta, quando ebbero girato l’angolo.

-         Ma che intendeva dire? –

-         Ehm… lascia perdere. Piuttosto, come ci arriviamo a questa festa? –

Hermione si fermò ed imprecò sottovoce contro le scarpe che le facevano già male.

Ron ebbe la netta sensazione che quello fosse il momento perfetto per buttare lì con nonchalance un commento gentile, niente di troppo impegnato, un sei carina o qualcosa del genere.

Improvvisamente dimenticò come si coniuga il verbo ‘essere’ e lasciò perdere.

-         Mi hanno dato una passaporta, è per gli invitati – disse, piuttosto sconsolato per la perdita nella battaglia contro se stesso.

-         Accidenti, dev’essere una gran cosa questa festa – mormorò Hermione, aggrottando le sopracciglia. – ti sei messo perfino la cravatta! –

Lui fece una smorfia.

-         Sì, e la odio e la detesto. Mi sembra di avere il cappio al collo. –

-         Se ti può consolare io odio e detesto queste scarpe. Il tacco è sicuramente l’invenzione di un uomo. –

Si guardarono. Scoppiarono a ridere.

-         Mi sa che non siamo fatti per queste cose – disse Hermione, prendendo con entrambe le mani la passaporta (che era un pacchetto di biscotti vuoto) assieme a Ron.

 

La festa era decisamente una cosa in grande stile.

C’era gente ovunque, camerieri che se ne andavano in giro facendo svolazzare con la bacchetta vassoi ricolmi di stuzzichini e cose varie. La villa degli Shefferd era enorme: già l’ingresso sarebbe potuto essere tranquillamente un bilocale. Quella sera non faceva freddo, così avevano aperto agli ospiti anche il giardino, anche quello enorme, con due fontane che facevano uscire acqua colorata in spruzzi sempre diversi. C’era perfino una piccola orchestra proprio in un palchetto in giardino, e suonavano una musica particolarmente armoniosa ed elegante.

Ron fischiò di apprezzamento non appena vide quell’enormità. Ecco uno dei motivi per cui da ragazzino sognava di diventare un giocatore di Quidditch.

Anche Hermione era parecchio impressionata.

-         Non pensavo che esistessero posti così grandi per una sola famiglia – disse, sorpresa ma anche con un filo di contrarietà. Probabilmente stava pensando ai poveri ed agli elfi.

-         Non ricomincerai, Hermione… -

-         Ricominciare con cosa, scusa? –

-         I diritti dei poveri… gli elfi che preparano da mangiare… -

-         Hai qualcosa in contrario? –

-         Non puoi farti un problema di tutto… -

-         Non me ne faccio un problema, penso solo che lo spreco… -

-         Ti avevo chiesto di non ricominciare! –

-         Sei tu che mi hai provocata! –

Si guardarono in cagnesco.

-         Ron! – una voce li distrasse dalla loro conversazione iniziata male.

Cloe correva loro incontro sorridendo e sgomitando nella folla di invitati. Aveva un fiore arancione tra i biondi capelli corti ed indossava un elegante tubino nero.

Quando li raggiunse, guardò Ron raggiante.

-         Allora sei venuto! Ho parlato di te con mio padre, ed è ansioso di conoscerti. –

Ron fece per rispondere entusiasta ma Cloe si voltò a guardare Hermione.

-         Tu devi essere la ragazza di Ron – disse, porgendole la mano con un sorriso che però non coinvolse gli occhi.

-         Sono Hermione Granger – disse lei, stringendole la mano, un po’ sul diffidente. Diciamo che già da parecchio tempo aveva capito che doveva stare sulla linea di pensiero ‘le amiche di Ron non sono anche amiche mie’.

Ron come al solito era su un altro pianeta ed era solo contento di aver potuto evitare un altro bisticcio con Hermione.

-         Dov’è Harry? – chiese, guardandosi intorno.

Cloe spostò la sua attenzione su di lui.

-         Ah, l’ho visto prima ad una delle fontane. Credo aspettasse la sua ragazza. Ascolta, Ron, che ne dici di andare subito da mio padre? Sarà più che felice di evitare le chiacchiere noiose dei suoi ex manager. –

Ron si illuminò ed annuì entusiasta.

-         Hermione, glielo dici tu a Harry che Ginny non può venire? –

Lei lo fissò.

-         Cosa? –

-         Ti prego! Poi vieni a cercarci! –

Guardò Ron e Cloe che si allontanavano nella folla provando una fitta di ira malsana. Poi vieni a cercarci!, ripeté dentro di sé in falsetto. Idiota! Era quello il programma della serata? Lei che se ne stava lì come un bambolotto mentre lui faceva il galletto?

Tuttavia, non poté far altro che andare mestamente a cercare Harry. Lo trovò proprio seduto sul bordo di una fontana.

-         Harry! –

Lui si voltò. Non aveva una gran bella espressione. Sembrava stanco e vagamente depresso. Di certo non era l’anima della festa.

-         Ciao, Hermione – disse. – hai visto Ginny? Sarebbe dovuta arrivare più di un quarto d’ora fa… -

Stranamente, Hermione si sentì un po’ in colpa a dover dirlo a Harry.

-         Ehm… Ron mi ha detto che quando è uscito Ginny non si sentiva bene e che sarebbe rimasta a letto a riposare. Niente di grave, forse è solo un po’ di debolezza… -

La sua voce sfumò come se non sapesse come altro scusare l’amica.

Harry scattò in piedi.

Improvvisamente, sembrava un po’ arrabbiato.

-         Ah, davvero? –

-         Sì… c’è qualche problema? –

-         No. Anzi, sì. –

Hermione non sapeva di cosa diavolo stesse parlando.

Lo guardò senza parole Smaterializzarsi davanti ai suoi occhi.

 

Harry si Materializzò proprio davanti alla Tana. Bussò, Molly gli aprì la porta.

Lo guardò, accigliata.

-         Harry! Pensavo fossi a quella festa con Ron ed Hermione. C’è qualche problema? –

-         No… - invece sì. - vorrei solo vedere Ginny. –

La signora Weasley lo lasciò entrare.

-         Certo… penso sia sveglia, prima le ho portato da mangiare e stava leggendo. E’ un po’ debole, ma non ha la febbre. –

Harry annuì velocemente, cercando di non sembrare troppo agitato. Salì le scale, arrivò davanti alla porta di Ginny. Rimase fermo per un attimo, come se all’improvviso non fosse più tanto sicuro di doverlo fare.

Ma aprì la porta.

Ginny era stesa sul letto, rannicchiata sotto le lenzuola sfogliando una rivista. Quando sentì il clack nella maniglia, alzò lo sguardo.

Lei e Harry si fissarono per uno strano momento, come se non si conoscessero.

-         Harry – disse lei, riprendendosi. – beh? Cosa ci fai qui? –

Lui si richiuse la porta dietro le spalle. Ginny non sembrava né turbata né niente. Si sentì inondare da una strana fitta di rabbia. Ed era molto al di là della festa, molto al di là della situazione in sé. Stava dietro il suo sguardo, ed il suo sorriso, che a lui erano sempre piaciuti ma in quel momento gli sembravano solo una copertura. Come se avesse accudito un uovo nella speranza che ne nascesse un pulcino, e non gli avessero detto che non era fecondato.

Era un’illusione.

-         Come ti senti? – riuscì a dire, soltanto.

Ginny sorrise, aggrottando le sopracciglia. Chiuse la rivista.

-         Abbastanza bene. Ma non sarai mica venuto qui perché era preoccupato? Guarda che non era niente di grave. –

Non era niente di grave.

Non era niente di grave.

-         Ginny, tu stai per andare a farti uccidere dai Mangiamorte. E non è niente di grave? –

Lei lo fissò, presa in contropiede.

-         Che cos’hai, Harry? Che c’entra, adesso? Ormai ho preso la mia decisione. Ormai… -

-         Sì, lo so, lo so, lo so! Hai preso la tua decisione. Ma sembra che tu non sappia nemmeno di cosa stai parlando. Te ne stai lì, tranquilla, come se fosse un giorno come un altro e lasci che siano gli altri a preoccuparsi per te, mentre tu ti ignori totalmente! –

La ragazza aprì e chiuse la bocca ad intermittenza.

Che gli prendeva?

Un attimo prima era stata quasi felice di vedere Harry entrare da quella porta, perché in fondo non aveva poi tanta voglia di stare sola.

E ora lui la guardava come se non credesse ai suoi occhi, come se non la riconoscesse. Come se si stesse chiedendo dov’era finita la vera lei.

Si alzò in piedi buttando il lenzuolo giù dal letto, spazientita, delusa, arrabbiata, spaventata.

-         La mia impressione, Harry, è che tu non voglia che qualcuno ti rubi il tuo ruolo da eroe. –

Come una secchiata d’acqua gelida.

Si fissarono ancora.

Quante volte avevano scherzato proprio su questo.

La devono smettere tutti quanti di guardarmi come se fossi un eroe.

Ma Harry, tu sei un eroe!

Ma non voglio affatto esserlo.

E allora non lo sarai. Almeno per me.

Era quando ancora si sorridevano in quel modo particolare, che un sorriso richiama l’altro e ti rimane in viso anche quando sei solo.

-         Ginny, io non ti riconosco. Io so che ti sta passando per la testa qualcosa, ma non riesco a capire cosa. E tu non sei intenzionata a dirmelo, vero? –

Lei distolse lo sguardo.

Il ricordo sfocato di quegli incubi le passavano per la testa.

E no, non era intenzionata a parlarne.

Con nessuno.

-         Non mi uccideranno. Andrà tutto bene. – mormorò, sentendo gli occhi che le pizzicavano.

Andrà tutto bene, Ginny.

Non rimarrai indietro.

Io ti aiuterò.

Harry si sentì una stretta allo stomaco quando vide che era sul punto di piangere. Anche lui distolse lo sguardo.

-         Io credo soltanto che tu… non stia dando valore alla tua vita. - mormorò.

Ci stai giocando come se non avesse importanza.

Ginny non disse niente, perché non poteva negare. Che già da un po’ niente la toccava, niente la impressionava, come se fosse soltanto una specie di contenitore assolutamente vuoto di emozioni.

Da quando si trascinava nell’esistenza come se ‘non avesse importanza’?

Harry la guardò, e le voleva ancora bene, ma per la prima volta non sentì il netto bisogno di proteggerla.

Se il cucciolo che hai salvato continua a morderti la mano, prima o poi smetti di porgergliela.

Uscì dalla stanza e Ginny improvvisamente scoppiò a piangere.

 

Era passata quasi un’ora e mezza. Durante la quale Hermione non aveva fatto altro che ciondolare da una parte all’altra della villa, sgomitando nella folla con il vestito che minacciava di farla inciampare ogni volta che si muoveva. Non conosceva nessuno in quel posto, neanche di vista: così era rimasta sempre in silenzio a mangiucchiare tartine e bere degli strani intrugli che comunque non avevano l’aria di essere molto alcolici. Ogni volta che incontrava Ron, lui la guardava a malapena, troppo preso da infinite conversazioni sul Quidditch con gente sconosciuta a lei ma probabilmente famosa nel campo. Lui sembrava scoppiare di gioia, lei contava i minuti. Se ci fossero stati Harry e Ginny si sarebbe annoiata decisamente di meno, ma ora era tutto quasi insopportabile. In più, quella Cloe Shefferd era sempre con lui, e partecipava alle conversazioni, e sembrava perfino interessata.

La centesima volta che incappò in Ron che chiacchierava animatamente, si sedette poco lontano in modo da poter ascoltare queste conversazioni così apparentemente favolose.

-         … inizialmente, l’affare sembrava non potesse andare in porto… -

-         Beh, allora è stata una vera fortuna! – stava dicendo Ron, concitato. Aveva allentato decisamente il nodo della cravatta.

L’uomo di turno con cui stava parlando doveva essere Oliver, il padre di Cloe. Sembrava sorpreso.

-         Più parlo con te, ragazzo, più penso che se ci fossero giocatori volenterosi ed informati come te il Quidditch diventerebbe uno sport ancora migliore! –

Ron arrossì, orgoglioso.

Cloe sorrise.

-         Te l’avevo detto, papà: se non sbaglio, Ron, tu segui il Quidditch sin da quando eri bambino, vero? –

Lei roteò gli occhi, addentando con particolare ferocia un innocente tramezzino.

-         E’ incredibile che ci si possa appassionare ad una cosa per tanto tempo – stava dicendo una ragazza carina con i capelli lunghi biondo cenere, con voce abbastanza civettuola. – sono sicura che dopo un po’ le cose vengono a noia. –

Hermione allungò le gambe sotto il tavolo e tese le orecchie.

Ron scrollò le spalle.

-         Se una cosa mi piace, non mi viene mai a noia. – rispose, semplicemente.

Tutti risero.

-         Ammirevole! – disse qualcuno e Ron divenne rosso in zona orecchie.

-         Oliver, potresti venire un attimo? Ti devo presentare un paio di persone. – si materializzò la signora Shefferd, tirandolo per un braccio.

L’uomo sospirò rassegnato e fece un cenno a Ron allontanandosi.

-         Caspita, gli sei proprio piaciuto! – disse Cloe, allegra. – non mi stupirebbe se ti cercasse un posto in una qualche squadra. –

Ron non disse niente, troppo ringalluzzito per anche solo mormorare qualche parola di circostanza.

-         Ehi, Hermione! – disse, all’improvviso. Doveva averla vista nonostante la folla. Le andò incontro, lasciando il gruppo di persone dimenticandosi di salutare.

-         Lo sai che sono piaciuto a Oliver Shefferd? – esclamò, tronfio, quando l’ebbe raggiunta.

Hermione ingurgito un qualche intruglio strano con indifferenza.

-         Bene, magari ora mollerà sua moglie e scapperete insieme. –

Ron scoppiò a ridere, senza accorgersi della punta di scherno nel suo tono di voce.

Lei rimase impassibile.

-         Non sarai mica arrabbiata? –

-         Io? Perché dovrei? –

-         Ah, non lo so. Lo saprai tu che sei arrabbiata. –

-         Io non sono arrabbiata. –

-         Sei arrabbiata anche mentre dici che non sei arrabbiata. –

-         Se dico che non sono arrabbiata lo posso dire con la faccia che voglio anche se sembro arrabbiata. –

Si fissarono gelidamente.

-         Ron, dobbiamo assolutamente ballare insieme questa canzone! –

Sia lui che Hermione si voltarono a guardare quella tizia carina che prima aveva scambiato due parole con lui.

La cantante della piccola orchestra scandiva le prime parole di una specie di lento ben ritmato.

Okay, questo era decisamente troppo.

Hermione si alzò di scatto (ignorando le briciole del povero tramezzino che le cadevano per terra dalla gonna).

-         Non credo sia il caso, ci stavamo giusto andando. – disse, afferrando il braccio e strattonandolo verso la pista da ballo all’aperto piena di gente.

-         Ahia, ahia, ahia, mollami! Mi stai affondando le unghie nel braccio! –

Lei lo ignorò, ma quando furono nella pista e si voltò, si fissarono immobili come se non sapessero cosa fare.

-         E quindi? – Ron si lasciò scappare una risatina nervosa.

-         Non so ballare questo tipo di cose. – disse Hermione, seria, come se avesse ammesso di avere qualche grave disfunzione.

Stavolta lui scoppiò veramente a ridere.

-         Nemmeno io. Perciò mi chiedo che ci facciamo qui. –

-         Insomma, possibile che tu non abbia minimamente carattere e ti debba strappare dalle grinfie di chiunque perché altrimenti non sai dire di no? – sbottò improvvisamente lei, distogliendo lo sguardo.

Ron la fissò senza capire poi arrossì ma cercò di mascherarlo con un sorriso.

-         Ah, sei gelosa! –

-         Non sono gelosa, sono infastidita. –

-         Infastidita solo quando ci sono delle ragazze che mi chiedono di ballare! –

Hermione era paonazza e lo avrebbe volentieri strangolato con la cravatta se in giro ci fossero stati meno testimoni. Quella sua espressione trionfante era pressoché insopportabile.

-         Sei insopportabile. –

-         Grazie, anche tu. Ma ora basta con i complimenti, passiamo alla pratica. –

Prima che lei potesse dire qualcosa, le prese entrambe le mani e se le mise sulle spalle.

-         Dunque, cosa sappiamo dei lenti? –

Hermione si sforzò enormemente di non lasciarsi sfuggire un sorriso.

-         Che l’uomo conduce. – disse, con una poco convincente espressione seria.

-         Bene. Vai pure, sono pronto. –

-         Ah-ah, molto spiritoso. –

Fecero qualche passo, perlopiù imitando le coppie vicine. Poco più in là, Cloe Shefferd rideva ballando con suo padre.

Dopo un po’, comunque, dopo aver evitato di parlare per concentrarsi meglio, sembravano aver preso il giusto ritmo, avevano quasi smesso di pestarsi i piedi e non traballavano più.

-         E se ti facessi fare una giravolta? – le chiese Ron, come se le avesse proposto di gettarsi giù da un elicottero senza paracadute.

Hermione lo guardò dubbiosa, ma prima che potesse ribattere distese il braccio allontanandosi un po’ da lei e per tornare indietro lei fu costretta a fare una piccola giravolta atterrando leggermente di schiena contro il suo petto.

-         Wow – mormorò. – ce l’ho fatta. –

-         Oltre Ogni Previsione. – sghignazzò Ron, mentre la canzone terminava.

 

Era una serata insolitamente calda per essere primavera.

Era già un’oretta che Draco se ne stava disteso sull’erba, non molto lontano dal castello, su una collinetta da cui si vedeva un bosco piuttosto lontano, ed un’enorme porzione di cielo limpido punteggiato di stelle. Abbastanza insulso, preferiva quando il cielo era coperto.

Aveva già fatto fuori cinque o sei sigarette, giusto perché non sapeva cosa fare.

Stava giusto per accenderne un’altra con la bacchetta, ma qualcuno gliela strappo di mano.

-         Ti fa male, povero piccolo. – disse un’ormai familiare voce canzonatoria.

Rodolphus si sedette accanto a lui, che era piuttosto infastidito, ma troppo apatico per mettersi a discutere.

Rimasero in silenzio per un po’, mentre l’uomo si fumava la sua sigaretta.

-         Ho appena visto Narcissa. Ha chiamato con la Metropolvere. –

Draco fece un vaghissimo cenno con la testa, senza nemmeno voltarsi.

-         Avrebbe voluto parlarti. Dice che non hai risposto alla sua ultima lettera. Quella di un mese fa. –

-         E allora perché non mi hai chiamato? –

Rodolphus scrollò le spalle.

-         Perché se avessi voluto parlarle, le avresti risposto a quella lettera. Ma non l’hai fatto, no? –

Il ragazzo non disse nulla. A dire la verità, aveva tentato parecchie volte di rispondere. Si era messo spesso alla scrivania, con la piuma intinta nell’inchiostro in mano e la pergamena davanti. Ma non era mai arrivato a scrivere niente più che ‘madre’.

-         A volte può essere soffocante – continuò Rodolphus. – è totalmente l’opposto di Bellatrix. –

Draco irrigidì istintivamente la mascella. Non gli piaceva che Rodolphus si mettesse a dare giudizi con quel ghigno sulla faccia. Lui stesso aveva pensato spesso che sua madre fosse soffocante. Ma lui era suo figlio.

-         Ehi, fra qualche giorno andiamo a divertirci un po’, hai sentito? –

-         Sì, ho sentito. Dai babbani, no? –

-         Andremo ad agitare una festicciola babbana, sì. – Rodolphus lo guardò in modo strano. – sai, non si tratterà solo di spaventare qualcuno. Mi capisci? –

Draco schioccò la lingua come se fosse ovvio.

-         Se non te la senti, non venire – disse l’uomo, alzandosi in piedi. – e se vieni, daremo per scontato che tu sia pronto. Chiaro? Niente ripensamenti. Qualunque cosa succeda, chiunque ti capiti di incontrare. –

Se ne andò. Draco rimase immobile a guardare il cielo al buio finché non sentì più i suoi passi sull’erba, poi si mise seduto. Guardò il pacchetto di sigarette accanto a lui (ne erano rimaste tre). Lo gettò giù dalla collinetta e lo guardò rotolare fino a scontrarsi contro un sasso parecchi metri più in là.

Era molto individualista, l’etica dei Mangiamorte. Beh, questo lo aveva capito sin da bambino. Altrimenti i comportamenti del padre sarebbero stati inspiegabili. Un uomo che se ne va senza dire nulla a nessuno, un pomeriggio. Per non tornare per due mesi. E ritornare alle tre di una notte di luglio, con del sangue che gli scendeva da un taglio sulla guancia. E pretendere che non gli fosse chiesto niente. Quando Draco era molto piccolo, si domandava perché sua madre non gli chiedesse mai che cosa avesse fatto, dove fosse stato, non esigesse mai spiegazioni. Dava per scontato che forse erano cose da adulti, che lei forse già lo sapeva. Con gli anni, aveva capito che non era affatto così. Sua madre non chiedeva perché non voleva chiedere, non chiedeva perché non doveva chiedere.

Anche Pansy presto avrebbe smesso di fargli tante domande, probabilmente.

I Mangiamorte lasciavano che la vita e la gente passasse loro accanto, ma non si lasciavano toccare, né tantomeno travolgere.

Qualunque cosa succeda, chiunque ti capiti di incontrare.

 

 

**

Okay, inutile ammorbarvi come al solito con le mie traballanti scuse per il ritardo nell’aggiornamento, ma tra la fine della scuola ed un improvviso ‘blocco letterario’ dei soliti, non ce l’ho proprio fatta a fare prima. Chiedo perdono comunque, però._.

Credo che questo capitolo sia venuto un po’ meno lungo del precedente… avevo intenzione di continuarlo ancora ma 1) avrei aggiornato probabilmente fra settimane 2) sarebbe venuto veramente troppo lungoXD Quindi eccolo qua°_°

Per la cronaca, la canzone che Ron ed Hermione ballano alla festa sarebbe Time of my life di Macy Gray. Va bene, ho una passione segreta per Macy Gray, che ci posso fare?._.

Intanto vi ringrazio tantissimo sia per il fatto che leggete, sia per il fatto che recensite, sia per il fatto che mi sollecitate ad aggiornare. Perciò spero che anche questo capitolo possa piacervi, come lo spero sempre!

Vi auguro un buon ‘inizio d’estate’.

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 4
*** Who do I wanna be? ***


.WHO DO I WANNA BE?.

 

[Chi voglio essere?]

 

 

I am moving through the crowd             “Mi muovo attraverso la folla
Trying to find myself                                
 cercando di trovare me stessa
Feel like a guitar that's never played       
mi sento come una chitarra che non è mai stata suonata
Will someone strum away?                      
 qualcuno mi suonerà?
And I ask myself                                       
 E io mi chiedo
Who do I wanna be?                                 
chi voglio essere?
Do I wanna throw away the key?            
 voglio gettare via la chiave?
and invent a whole new me                      
ed inventare un’intera nuova me
and I tell myself                                        
 e mi dico
No One, No One                                        
 nessuno, nessuno
Don't wanna be                                         
non voglio essere
No One                                                     
 nessuno
But me…”                                                 
tranne me.”

 

 

Aly&Aj, “No one”.

 

 

 

Il giorno della sua partenza dalla Tana, Ginny si alzò tardi. Aveva passato quasi completamente sveglia le notti precedenti, ed aveva finito per crollare in un sonno profondo proprio allora.

Quando aveva aperto gli occhi, fuori gli uccellini cinguettavano a più non posso e la luce forte del sole del mattino filtrava violentemente dalle tende. Il suo cosiddetto ‘bagaglio’ (che più che altro consisteva in un modesto borsone di pelle con quasi nulla dentro) giaceva ai piedi dell’armadio e fu la prima cosa che vide.

Si vestì con una lentezza esasperante anche per lei. Sentiva al piano di sotto lo scorrere dell’acqua, lo sbattere dei piatti e delle voci sommesse. Riconobbe a fatica quella di Lupin.

Era già arrivato a prenderla.

Ilprogramma’ era un po’ complesso. Lupin l’avrebbe portata lontana da casa, in un posto isolato, in modo che non potesse essere chiaramente identificata. Una volta là, avrebbero cercato di lavorare sull’anello per fare in modo che le indicasse un modo per raggiungere il covo dei Mangiamorte, ma da lì in poi sarebbe dovuta procedere da sola. Era molto probabile che la magia che ricopriva l’anello potesse identificare chiunque nel raggio di chilometri dal suo possessore.

Quando scese la scale, Ginny non pensava a nulla ma il battito del cuore aumentava la velocità. Si fermò sulla soglia della sala da pranzo.

Si vedeva che era una partenza vera e propria, e non unci vediamo presto’: attorno al tavolo dove si era seduta miliardi di volte da quando a malapena sapeva camminare, c’erano tutti i suoi fratelli, perfino Charlie (e sperava sinceramente che non fosse tornato dalla Romania ‘solo’ per lei) e Bill, che per una volta non si era portato dietro Fleur. Percy era ormai un assente non giustificato ma scontato. Fred, George e Ron, che stranamente invece di scherzare e battibeccare si stavano contemporaneamente imburrando le rispettive fette di pane, alzarono lo sguardo quando la sentirono arrivare. Lupin, sua madre e suo padre smisero immediatamente di parlare.

A dire la verità, a volte si chiedeva come diavolo riuscissero a stare tante persone in una stanza piuttosto modesta com’era la loro sala da pranzo.

- Buongiorno – disse, sentendosi un po’ stupida a sorridere quando tutta quella gente la guardava seriamente.

Qualcuno borbottò qualcosa in risposta.

Prese posto al tavolo ed afferrò il bricco del caffè come se niente fosse, anche se sentiva i nervi a fior di pelle.

-         Non voglio metterti fretta, Ginny – disse Lupin, cortesemente. – ti dico solo che vorrei che ci incamminassimo il prima possibile. Potremmo metterci un po’ a risolvere la questione dell’anello e delle sue indicazioni. –

Lei annuì.

Silenzio.

Era praticamente surreale che la famiglia Weasley al completo se ne stesse zitta.

Quasi le venne istintivo cercare di fare meno rumore possibile mentre versava il caffè nella sua tazza, ma all’improvviso un po’ di liquido sgusciò fuori dal bordo per un impercettibile tremore della sua mano.

-         Va bene, ora smettiamola di scherzare. Tutto questo è assurdo. – scattò di colpo Ron, che come al solito era il primo a perdere la pazienza.

Tutti si guardarono e sembrò che tutti dovessero parlare nello stesso momento.

-         Effettivamente, non sono stato informato su questa cosa prima dell’altro giorno… -

-         Non è stato tutto troppo veloce? –

-         E’ troppo pericoloso, l’ho sempre detto! –

-         Non si può chiedere ad una ragazzina di fare una cosa tanto pericolosa! –

-         Solo perché si è offerta non significa che sia davvero pronta… -

-         Nessuno di noi è mai stato d’accordo, perché non impedirglielo? –

-         Solo perché è maggiorenne non vuol dire che è un’adulta… -

-         Qui tutti vogliamo solo il bene di Ginny, ma se lei non lo capisce… -

Ginny sbatté la tazza sul tavolo. La ceramica si incrinò.

-         Smettetela di parlare come se io non ci fossi, per favore. – disse, cercando di tenere lo sguardo fisso su un punto. Si sentiva come se se avesse alzato lo sguardo sarebbe scoppiata a piangere e allora nessuno più l’avrebbe presa sul serio.

Lo sapeva che le volevano bene. E, non poteva negarlo, tutto quel bene la faceva un po’ tentennare. Le veniva istintivo il desiderio di rimanere. Perché andarsi a cercare una situazione quasi sicuramente sfavorevole?

E in tutti quei giorni ed in quelle notti, non aveva saputo trovare una sola risposta sensata.

Solo ‘perché sì’.

Perché sì. Che significa, poi?

Che sei talmente confuso da non sapere più decifrare i messaggi del tuo cuore?

O che sei talmente sicuro della tua scelta che non hai bisogno nemmeno di giustificarti con te stesso, figuriamoci con gli altri?

Molly Weasley aveva gli occhi lucidi di chi ha pianto molto.

Ginny se la ricordò nel sogno e mentalmente le promise che questa era davvero l’ultima volta che la faceva piangere.

E mi perdonerai, pensò quasi inconsciamente.

 

Ginny non lasciò a nessuno il tempo di lamentarsi, perché prese quasi subito il suo borsone ed in meno di cinque minuti era già sulla soglia della porta aperta, con Lupin a pochi passi dietro di lei, un’espressione malinconica e rassegnata sul volto segnato dalle cicatrici.

La ragazza guardò la sua famiglia e nella mente impresse per bene i loro volti.

Non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima di rivederli.

Sua madre scoppiò a piangere e l’abbracciò, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.

-         Non andare – balbettò.

Ginny le accarezzò i capelli ma non disse nulla. Intravide Hermione dietro la schiena di suo padre. Doveva essere rimasta in salotto per tutto il tempo, aspettando che tutti si sfogassero inutilmente. Quando Molly si calmò, Ginny abbracciò Hermione sapendo che in un qualche modo doveva essere l’unica persona in quella stanza che quella mattina non si era lamentata. In fondo, era una ragazza insistente e perfino un po’ rompiscatole, ma capiva.

-         Fai attenzione – disse Hermione all’amica, quando si separarono. – non fare troppi errori. –

Ginny sorrise.

Abbracciò tutti i suoi fratelli sentendosi come se stesse per partire per sempre, ma sapeva, sapeva che non doveva essere così. Non doveva.

Ron, quando l’abbracciò, le diede un pizzicotto sulla schiena.

-         Mi stupirei se al mondo esistesse una più testarda di te – borbottò, con il broncio, ma distoglieva lo sguardo.

Quando ebbe abbracciato tutti, mise il borsone in spalla e seguì Lupin. Al cancello del giardino, si voltò indietro: non avevano ancora chiuso la porta. Se c’era un’ultima possibilità di tirarsi indietro, era decisamente quella.

Ma non le passò mai per la testa di ritornare sui suoi passi. Il suo unico pensiero fu che tra tutte quelle persone a cui voleva bene, mancava qualcuno all’appello.

Rimase ancora ferma per diversi secondi a guardarsi intorno in silenzio, come se si aspettasse di vederlo comparire improvvisamente dietro una collina. Ad un certo punto, Lupin fece per dire qualcosa, ma proprio allora Ginny si voltò, fece un segno di assenso tirando fuori la bacchetta ed entrambi si Smaterializzarono.

 

Sette minuti più tardi, Harry si Materializzò davanti alla Tana, senza riguardo scavalcò il cancelletto e bussò forte alla porta.

Arthur Weasley gli aprì con un’espressione sconsolata.

-         Harry… - cominciò, ma lui lo interruppe.

-         Ginny? – fece, affannato come se avesse corso a più non posso. Si guardava intorno come se si aspettasse di vederla spuntare come al solito dalla soglia del salotto.

Il signor Weasley scosse la testa.

-         Mi dispiace, Harry – disse, e dal tono di voce si sentiva che gli dispiaceva davvero. - è partita pochi minuti fa. –

Harry rimase immobile.

Abbassò lo sguardo, poi lo risollevò, provò a dire qualcosa ma non riuscì a formulare una sola parola.

Ron comparve sulle scale.

-         Harry… sei arrivato tardi – disse, con una punta di rimprovero nella voce.

Se la situazione fosse stata diversa, probabilmente si sarebbe arrabbiato con lui, perché sapeva che dal giorno della festa tra Ginny ed Harry era successo qualcosa, qualcosa di brutto, ed istintivamente pensava che doveva per forza essere stata colpa di Harry, perché Ginny non poteva fare male a nessuno, ma sotto sotto sapeva che quella era la vecchia Ginny, la Ginny che chiedeva spiegazioni ai fratelli più grandi, la Ginny che non si sapeva fare le trecce, la Ginny che non era abbastanza veloce a prendere il vasetto di nutella della colazione ed i suoi fratelli la finivano prima che potesse assaggiarla.

Ma la nuova Ginny era una donna, un essere umano realizzato, con i suoi pregi ed i suoi difetti, che fa errori che possono fare male.

Perciò Ron non sfogò la sua rabbia su Harry. Forse, nonostante i presupposti, se fosse stato un altro, un ragazzo qualunque, l’avrebbe fatto.

Ma era Harry. E, checché se ne dicesse, per quanto sbagliasse o fosse testardo, aldilà di essere ilbambino sopravvissuto’, Harry era onesto e se sbagliava, sbagliava onestamente; e nessuno lo sapeva più di Ron.

-         Mi dispiace – fu l’unica cosa che riuscì a dire Harry dopo un lungo ed interminabile silenzio.

Si toccò la nuca con la mano ed abbozzò un sorriso, che di più falsi se n’erano visti pochi.

-         Allora, torno a casa. – disse.

Non diede il tempo a nessuno di dire qualcosa, e si Smaterializzò.

 

Ginny e Lupin si trovavano su un promontorio isolato, circondato da una fitta e scura boscaglia. Lupin le aveva detto di Materializzarsi lì, che era un posto quasi mai frequentato, di modo che era molto difficile che qualcuno, mago o babbano, potesse notarli.

La ragazza posò il borsone ed estrasse l’anello.

Lupin lo prese e le porse una veste.

-         Sono riuscita a rimediartene una, in modo che ti possa subito confondere con loro. Se ti vedessero con gli abiti normali, probabilmente non avresti il tempo di fare un passo che… -

Lasciò sfumare la frase. Non era il caso di spaventarla già da subito. Anche se Ginny non aveva l’aria per niente spaventata. nient’altro, a dire il vero. Era indecifrabile, come se si fosse già calata nella sua ‘nuova vita’.

Indossò la veste. Era nera, con un cappuccio alle spalle. Ginny raccolse i capelli in un elastico e da quel momento cercò di dimenticare quello che aveva addosso.

-         Non dovrebbe essere troppo difficile scoprire come funziona – disse Lupin, scrutando l’anello. – l’hai già indossato? –

-         Solo due volte. Una quando… - tentennò per un attimo. - … l’ho avuto. L’altra di recente. A causa… -

Di quei sogni orribili che continuo a fare..

-         … a causa di quel sogno che ho raccontato all’Ordine. In entrambi i casi non è mai successo niente. –

-         Capisco. Prova ad indossarlo ora. –

Ginny infilò l’anello all’anulare sinistro. Non accadde nulla.

Lupin rifletté per qualche minuto.

Poi alzò lo sguardo.

-         Se quell’anello è, come credo, un segno di riconoscimento per solo una stretta cerchia di Mangiamorte, probabilmente ha in sé un incantesimo che alla morte del possessore o all’eventuale perdita, torna automaticamente nelle mani di Voldemort. Ma perché è rimasto a te? Non riesco a venirne a capo. Ma dev’essere per forza un modo per entrare in contatto con altri Mangiamorte o con Voldemort stesso. Altrimenti sarebbe inutile. Dobbiamo solo capire come farci dare degli indizi. –

Ginny fissò l’anello che sembrava fatto apposta per il suo dito. E dire che prima era appartenuto ad Avery, un uomo che sicuramente aveva le dita più grosse delle sue.

Lupin continuò a fare prove e supposizioni per parecchio tempo, tanto che dovevano essere passate ore mentre lei se ne stava zitta a fissare l’anello.

Lo aveva guardato in ogni millimetro, dalla fascia d’oro nero alle minuscole incrinature che formavano disegni incomprensibili che probabilmente non si sarebbero riusciti a vedere neanche con una lente d’ingrandimento molto potente.

Allo stremo, Ginny se lo sfilò e guardò la fascia dall’interno. C’erano puntini minuscoli che proprio non riusciva a vedere, ma erano diversi dagli indecifrabili disegni esterni. Avevano una continuità.

Prese la bacchetta e fece un piccolo incantesimo per poter vedere i segni ingranditi il più possibile. Di fronte a lei si materializzarono delle lettere grandi mezzo millimetro al massimo.

Marchio – di – obbedienza – e – fedeltà – al – più – grande – sovrano.

Ginny e Lupin si guardarono.

-         ‘Marchio di obbedienza’… che sia il Marchio Nero? -

-         Non resta che tentare. Spero solo che nessuno lo veda. – mormorò Lupin.

Ginny, ovviamente, non aveva mai evocato il Marchio Nero. Ma in un certo senso, sentiva che era come se sapesse già come fare.

Alzò la bacchetta in aria, prese il respiro.

-         Morsmordre! – scandì. Dalla sua bacchetta uscì un denso fumo nero che si levò in alto, verso il sole del pomeriggio, oscurandole il viso, fino a formare un teschio, dalla cui bocca s’insinuò un serpente.

Prima che potesse voltarsi verso di lui, Lupin venne sbalzato via di colpo, molti metri più lontano, come se il campo attorno a Ginny fosse impraticabile.

Il serpente che sibilava nella bocca del teschio si allungò a poco a poco, fino a formare una lunghissima striscia di denso fumo verde e nero lungo il cielo, come un’immensa freccia. Ginny si sforzò con gli occhi di vederne la fine, ma era pressoché impossibile. Si voltò per accertarsi che Lupin stesse bene, ma lui si era già rialzato, anche se faceva un po’ fatica a rimanere in piedi.

-         Da qui in poi devi continuare da sola! – le gridò, non potendosi avvicinare. – tieni sempre la bacchetta pronta e ricordati di fare sempre attenzione! - fece una pausa. – buona fortuna. – disse, con sincerità.

Ginny, per la prima volta da molto tempo, voltandosi verso la strada che doveva percorrere, fu scossa da un tremito di paura.

 

Harry era steso a pancia in su sul suo letto nel suo appartamento di Diagon Alley. Fissava il soffitto con un braccio appoggiato alla fronte, nel silenzio più totale.

Provava un misto di rabbia e di tristezza così devastanti che ormai dovevano avergli impedito ogni movimento.

Se l’era lasciata sfuggire, vero? Era questa la verità.

Se l’era lasciata sfuggire come sempre si lasciava sfuggire tutti quelli a cui voleva bene.

Se solo lei non fosse stata così testarda. Ma sicuramente, per quanto potesse essere arrabbiato con lei, non avrebbe mai, mai voluto lasciarla in quel modo. Certo, teoricamente non era qualcosa di definitivo. Ma era come se si aspettasse che Ginny potesse cambiare, che alcuni sentimenti potessero cambiare, in quel periodo di tempo. Forse anche lui poteva cambiare, e non poteva farci un bel niente, perché i cambiamenti arrivano e basta.

Eppure c’era stato un periodo in cui erano stati entrambi innamorati, e parecchio anche.

Se un giorno decidessi di lasciarti, Harry, aveva detto Ginny una mattina, dopo essersi ritrovata per una cosa o per l’altra a passare la notte da lui, dimmi che sono pazza e invitami a giocare a Quidditch. Tanto ho già notato che una nostra litigata non dura più di una partita.

Ora lui era ancora innamorato di lei. Ma in modo diverso. Nel modo in cui sei innamorato di una persona che ti ha respinto. In modo sottile, nascosto, sfumato.

Non poteva invitarla a giocare a Quidditch, ora.

Quella era più di una partita.

Harry affondò il viso nel cuscino e non si mosse finché fuori il sole non fu tramontato.

 

Luna Lovegood entrò nel suo appartamento e, come faceva sempre, aprì subito tutte le finestre. Qualsiasi persona normale ci avrebbe pensato due volte prima di farlo, dato che fuori si gelava.

Sul davanzale un gufo dall’aria familiare aspettava pazientemente. Lei si accigliò, avvicinandosi alla finestra. Non era che avesse una corrispondenza molto fitta. Prese la busta che l’animale stringeva tra le zampe ed offrì al gufo le briciole di un biscotto alla crema pasticcera raffermo.

L’animale assunse uno sguardo tra l’indignato ed il disgustato e le beccò una mano.

-         Ahia – mormorò lei, guardandolo svolazzare via verso il tramonto.

 Girò la busta per vedere il mittente, anche se già lo sapeva, l’aprì e molto lentamente scorse la lettera parola per parola. Si prese davvero tutto il tempo dovuto, perché quando terminò le stanze erano talmente fredde che sembrava che le finestre fossero rimaste aperte per giorni.

Infilò la lettera sotto il cuscino e corse verso la finestra aperta. Era già praticamente buio.

Si sporse dal davanzale, mettendosi in punta di piedi e guardando verso le finestre chiuse alla sua destra. Le luci erano spente.

Qualcosa le sfiorò le gambe e lei abbassò lo sguardo verso un piccolo felino non meglio identificabile, una specie di cucciolo di leone bianco striato di rosso e con gli occhi neri. Lo prese in braccio, lo accarezzò e lo appoggiò sul davanzale.

 

Durante i giorni prima della sua partenza, aveva preso qualche lezione rapida di Occlumanzia. A dire la verità si era scoperta abbastanza brava in materia, tanto che Lupin si era detto molto più tranquillo di prima. Era fondamentale che, nel caso qualche Mangiamorte avesse tentato di leggerle la mente, lei la chiudesse completamente. Sarebbe stato un disastro se si fosse scoperto che in realtà era una spia, come prevedibile.

Aveva camminato per più di due ore e mezzo, stringendosi nel mantello che nel freddo gelido serviva a ben poco, senza togliere gli occhi di dosso dalla linea di fumo che le indicava la presunta strada per il covo dei Mangiamorte.

Ora che era sola, a camminare nell’erba di una collina a tramonto quasi terminato, si sentiva al tempo stesso sicura ed impaurita. Però ancora non si era pentita.

Diciamo piuttosto che dopo quella lunga camminata al freddo era soltanto molto stanca e si chiedeva se avesse dovuto dormire all’aperto. La sola idea la fece rabbrividire.

La risposta arrivo circa tre quarti d’ora dopo, quando il sole era sparito e le prime stelle cominciavano a trapuntare pigramente il cielo che si scuriva. In cima alla collina seguì la linea di fumo con lo sguardo e si paralizzò. Al termine della discesa, come incavato e nascosto, c’era un castello dall’aria vecchissima e abbandonata. Eppure, da molte finestre, filtrava la luce delle candele, come se fosse abitato dai fantasmi.

La linea di fumo terminava scivolando dentro la finestra di una torre.

Ginny prese forte il respiro. Si calò il cappuccio sulla fronte e nascose i capelli nella stoffa nera. Mise in tasca la bacchetta facendo attenzione a tenerla sempre stretta con una mano.

Scese il sentiero ripido ed in pochi minuti si ritrovò proprio di fronte al castello. Sentì il cuore batterle così forte che temette facesse rumore.

Davanti al portone c’erano due Mangiamorte con i visi coperti dai cappucci neri.

-         Fermo lì – disse uno, non appena la notò. Tirò fuori la bacchetta.

Ginny dovette trattenere l’istinto di fare lo stesso.

-         Desidero – disse, ma parve un sussurro. Si schiarì la voce. – desidero chiedere udienza al Signore Oscuro. –

Uno dei due scoppiò a ridere.

-         Oh, davvero? – sghignazzò. – dì, ma chi sei? Non ti ho mai vista. Perché ti nascondi? Vieni sotto la luce, non ti facciamo niente. -

Ginny non si mosse.

-         Dev’essere la figlia di uno dei veterani – disse l’altro. – dalla voce ti darei a malapena vent’anni. –

Proprio quando parve che i due si fossero spazientiti ed avessero intenzione di avvicinarla con la forza, il portone si aprì.

Un ometto basso ed insignificante sbucò dall’apertura con aria un po’ troppo superba per la sua stazza ridicola e le spalle ricurve.

-         E’ attesa – disse, semplicemente, guardando nel punto nell’oscurità in cui si trovava una Ginny immobile come pietra.

La ragazza parve ricorrere a tutte le sue energie per muoversi e seguire quello che chiaramente doveva essere Peter Minus, il traditore schiavo di Voldemort.

I due Mangiamorte non dissero niente, irritati, e la lasciarono passare. Ginny si guardò per un attimo alle spalle prima che richiudessero il portone dietro di lei, come se si aspettasse di vedere di nuovo l’aperto molto tempo dopo.

L’interno del castello era al contempo squallido e affascinante. Ginny camminò dietro a Minus, a debita distanza, ma in ogni caso questo non si voltò mai neanche per assicurarsi che lei lo stesse seguendo, come se avesse paura di incrociare il suo sguardo.

La condusse lungo un interminabile corridoio senza quadri alle pareti, dai quali a volte gocciolava dell’acqua. Salirono delle scale piuttosto ripide nel silenzio più totale, per poi passare da un corridoio, poi in un altro ancora. Ad un certo punto, Ginny cominciò a pensare che forse non sarebbe stata nemmeno in grado di ricordarsi dov’era l’uscita.

Minus si fermò di fronte ad una porta e bussò goffamente.

Ginny cercò di non trattenere il respiro. Era sicura che lì dietro ci fosse Voldemort.

Sarebbe stata la prima volta che avrebbe incontrato colui con cui aveva parlato decine di volte nel modo in cui non aveva mai parlato a nessuno, e che poi si era rivelato il mago oscuro più potente di tutti i tempi. Quello che aveva procurato dolore a lei e a tutti quelli che la circondavano. Se solo avesse potuto dire ad Harry dove si trovava ora… dove era nascosto… anche se improvvisamente il viaggio a piedi che aveva fatto quello stesso pomeriggio le apparve stranamente appannato.

-         Avanti – disse una voce.

Minus spinse la porta ed entrò facendole cenno di seguirlo senza guardarla.

Ginny prese di nuovo il respiro ed entrò alzando lo sguardo.

Ma lì dentro non c’era affatto Lord Voldemort.

Al contrario di quello che si era aspettata, quella era una stanza spaziosa ma scadente, con le pareti umide e due opprimenti finestre da cui non filtrava un filo d’aria. Al centro della stanza c’erano due poltrone, una delle quali era occupata da un Mangiamorte con il cappuccio abbassato ed il cui viso era illuminato dalle numerose candele che galleggiavano ai lati della stanza.

Ginny non faticò a riconoscere i tratti del viso consumato e olivastro di Rodolphus Lestrange, il cui sguardo color pece era puntato su di un libro.

-         Ho portato… - bisbigliò Minus sommessamente, ma l’uomo lo interruppe.

-         Puoi andare, Minus. –

L’ometto lasciò andare il fiato e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.

Ginny rimase in piedi a due o tre metri di distanza da quell’uomo che aveva visto per la prima volta due anni prima quando per lei c’erano cose molto più importanti della paura e del coraggio.

-         Accomodati. – disse Rodolphus, senza alzare lo sguardo dal libro.

La ragazza esitò. Si era aspettata una specie di duro esame psicologico con Voldemort stesso, ma improvvisamente si accorse di quanto quell’idea era sciocca; in quel modo chiunque avrebbe potuto accedergli. Forse l’incontro con il Signore Oscuro era una cosa che bisognava guadagnarsi.

Con passi incerti andò a sedersi sulla poltrona di fronte all’uomo, ma non si rilassò minimamente: aveva tutti i muscoli tesissimi; perfino il viso appariva tirato.

Finalmente Rodolphus chiuse il libro con uno schiocco e si voltò a squadrarla con un indecifrabile sguardo nero.

-         Togliti quel cappuccio – disse, secco. – tanto vale parlare a viso aperto, visto che entrambi sappiamo chi siamo. –

Ginny provò un moto di rabbia per la superbia di quell’uomo ai suoi occhi odioso ed insignificante, ma non era nella posizione di discutere, non ancora. Tirò indietro il cappuccio facendo ricadere sulle spalle la sua solita cascata di capelli rossi. Non ebbe la forza di guardarlo negli occhi.

-         Bene – disse Rodolphus con tono soddisfatto. – allora, diamo inizio ai giochi. Sono stato informato del tuo arrivo qualche ora fa, anche se, ad essere sincero… diciamo che avevo sentore che ti avrei vista in questa situazione già da parecchio tempo. Se non sbaglio, ci siamo già incontrati, vero?

Per un attimo, Ginny aveva sperato che non se ne ricordasse. Lei fece un cenno con la testa, ma ancora non ebbe la forza di alzare lo sguardo. Se l’avesse fatto, con tutta probabilità le si sarebbe letto in faccia che in quel momento aveva una paura folle.

-         E dunque, mi sembra di capire che sei in possesso di un anello che appartiene al Signore Oscuro. Potresti mostrarmelo? –

Il tono della sua voce era viscidamente educato, ma non ammetteva assolutamente repliche.

Ginny tese la mano mostrando l’anello che le circondava l’anulare

Passò un attimo di silenzio.

-         Quanti anni hai ora? – chiese Rodolphus, quando lei abbassò la mano.

Di colpo, Ginny alzò lo sguardo. Non sapeva da dove le fosse venuto l’istinto, ma finalmente riuscì a guardarlo negli occhi.

-         Diciassette. –

-         Oh, sei ancora così giovane? Allora eri poco più di una bambina quando ti ho vista a Hogsmeade. – fece una pausa. - sei consapevole del fatto che quell’anello è di grande importanza? Che solo i Mangiamorte più fedeli e vicini al Signore Oscuro hanno il permesso di portarlo?

Lei annuì, senza ormai più riuscire a distogliere lo sguardo.

Rodolphus la fissò per qualche secondo, nel silenzio più totale.

-         Posso sapere cosa ti ha spinto a venire fin qui? Sappi che diventare Mangiamorte non è un gioco. Si tratta di affidare la tua esistenza al Signore Oscuro, qualunque cosa accade. Naturalmente, saputo questo, anche se ora ti tirassi indietro non potrei lasciarti andare. Ma in ogni caso, sappi che se sei infedele lo verremo a sapere comunque. Dal momento in cui sei entrata qui dentro non puoi più nasconderti. Tanto vale dunque essere sincera sin da subito. Desideri veramente diventare Mangiamorte, nonché servitrice del Signore Oscuro, e rispettarlo e proteggerlo e combattere per lui e per il suo potere sino alla morte? –

Ginny lo guardò ed ebbe una sensazione stranissima che non aveva mai provato, come se si sentisse sporchissima, sporchissima dentro.

-         Sì – disse soltanto, e faticò molto a dirlo.

-         Perché? –

Rodolphus la guardò in modo strano e Ginny ebbe appena un attimo per rendersi conto di quello che stava per fare. Con uno sforzo che cercò di non mostrare, ricambiò lo sguardo e chiuse la mente, come se si fosse posta davanti ad una porta cercando con tutte le sue energie di tenerla chiusa mentre ricordi e pensieri spingevano per uscire.

Parve comunque che niente fosse filtrato dalla sua mente, perché per un attimo l’uomo parve spiazzato.

-         Perché desidero servirlo e fare il possibile per aiutarlo a prendere il potere. – disse lei, ricordandosi di tenere ben fermi i pensieri.

Rodolphus tacque per un po’, lasciando cadere uno strano silenzio.

-         Bene – disse, chiaramente irritato per non essere riuscito a leggerle nella mente. – purtroppo per me non possiedo alcuna prova del fatto che le tue intenzioni siano diverse da ciò che dici, ed anche se conosco benissimo le tue precedenti ‘amicizie’, tu godi di un trattamento speciale che viene direttamente dal Signore Oscuro, che io, né nessun altro, oso contraddire. Immagino che solo mettendoti alla prova potremo constatare le tue intenzioni. Inoltre possiedi l’anello, che sa giudicare da solo chi sia all’altezza. Hai mai ucciso? –

Lo disse all’improvviso, come se le avesse chiesto se aveva mai bevuto un tè.

Ginny cercò a stento di trattenere un’espressione contrita e disgustata e scosse la testa.

-         Capisco – replicò Rodolphus, con un sorrisetto quasi compassionevole.

Lei gli avrebbe tirato tante di quelle maledizioni che non sarebbe stato più in grado di fare alcuna espressione, ma cercò di indirizzare la sua rabbia per qualcosa di meglio.

-         Credo di averti fatto un quadro abbastanza chiaro della situazione – disse l’uomo. – sarai convocata di nuovo più avanti. Fino ad allora, non dovrai far altro che obbedire agli ordini. Le regole sono queste: obbedisci e non ti sarà fatto nulla. Obbedisci sempre, non importa in che situazione tu sia, non importa cosa ti venga chiesto. La solidarietà nei confronti degli altri Mangiamorte non esiste, perciò non stare mai a guardarti indietro. Se vieni catturata, non azzardarti a fare parola di ciò che ti è stato ordinato o delle persone che hai visto o ti accadrà qualcosa di ben peggiore della tortura. Obbedisci e filerà tutto liscio. Chiaro? –

Ginny annuì, incapace di parlare.

Non riusciva a credere che i Mangiamorte fossero persone vere. Non potevano esserlo.

Erano molto peggio di quello che si era immaginata.

Rodolphus si guardò le dita, non curante.

-         Caso vuole che proprio stasera ci sia qualcosa di molto serio da fare. E’ l’occasione perfetta per metterti alla prova. Spero che tu sia guarita dalla tua babbanofilia, perché fra due ore andremo a dare davvero ‘fastidio’ ad alcuni di loro. Ci saranno i fuochi d’artificio, perciò sarà difficile che qualcuno ci noti nel frastuono. Non devi fare altro che presentarti all’uscita ed il resto ti verrà spiegato più in particolare. –

Ginny ghiacciò sul posto. Una missione? Subito? Metterla alla prova? Che significava ‘dare davvero fastidio’ ai babbani?

A dire la verità, in tutto quel tempo dalla sua decisione non aveva mai preso veramente in considerazione l’idea che forse sarebbe stata costretta a fare qualcosa di molto brutto senza volerlo affatto, nonostante Lupin e suo padre glielo avessero ricordato miliardi di volte.

Ma non poteva. Non quella sera. Non era ancora pronta a gestirsi.

-         Qualche rimostranza? – chiese Rodolphus, con uno sguardo che sembrava penetrarla in profondità.

Ginny capì che non poteva tirarsi indietro né ora né mai.

-         No. – mormorò tranquillamente, anche se la sua voce tremò per una frazione di secondo.

-         Perfetto. Direi che per ora sei congedata e mi riservo di tenerti d’occhio per un po’. – si alzarono. - fra un’ora e mezza all’uscita. La tua stanza è al piano di sopra, la prima a sinistra. Cerca di non attirare troppo l’attenzione. Ai Mangiamorte non piace né la gente nuova, né gli impiccioni, né le persone fastidiose. E tu sei tutte e tre le cose – aggiunse con una punta di sprezzo.

Lei non replicò ma avrebbe molto, molto voluto farlo. Uscì dalla porta dopo avergli rifilato uno sguardo che pensava potesse essere di assoluta superiorità, ma Rodolphus non ci fece caso ed andò alla finestra ad accendersi una sigaretta.

 

Draco uscì dal castello seguito a ruota da una Pansy che stava frettolosamente tentando di sistemarsi il mantello indossato un attimo prima sopra i vestiti.

Passarono di fronte ai Mangiamorte di guardia, che li salutarono con un cenno del capo.

La ragazza si calò diffidente il cappuccio sul capo, Draco fece lo stesso solo quando furono lungo il sentiero buio che portava verso la collinetta.

-         Non capisco perché dovremmo partire per primi – sibilò Pansy, contrariata. – è troppo presto, manca ancora… -

-         Non ricordo di averti chiesto di venire con me. – disse Draco, secco.

Pansy abbassò lo sguardo.

-         Certo, lo so, però… -

-         Beh, allora smettila di parlare a vanvera. Libera di venire con gli altri. Ho bisogno di ispezionare la situazione prima di tutti gli altri. Per il Signore Oscuro sarà soltanto un servigio in più. –

La ragazza lo guardò dubbiosa, ma nascose la sua incertezza annuendo con il capo.

Si Smaterializzarono nel silenzio più totale.

 

La stanza di Ginny era di uno squallore mai visto. Era praticamente una specie di sgabuzzino in cui avevano stipato un lettino scomodo da carcerato, e la cosiddetta ‘camera da letto’ era separata dal bagno da una misera tendina giallognola. Un tavolino era attaccato al muro, polveroso come se nessuno l’avesse mai toccato. Mancava una sedia. L’umidità era insopportabile. Ginny fece apparire una specie di seggiola con la magia, ma non contribuì a molto, specialmente quando si accorse che il suo tentativo di spostare leggermente la scrivania aveva risvegliato una nidiata di ragni che ora vagavano terrorizzati per il pavimento, facendola urlare per lo spavento e saltare sul letto che scricchiolò in modo sospetto. L’unica cosa positiva (se proprio bisognava cercare qualcosa di positivo in quella situazione soffocante) era che, al contrario della ‘stanza di Rodolphus’, quella camera, anche se del tutto priva di finestre, era dotata di una specie di botola sul soffitto che, scoprì poco dopo, aperta faceva non solo filtrare la luce del sole, ma costituiva un passaggio su quello che doveva essere il tetto del castello, anche se ci voleva una scala od una scopa per arrampicarcisi ed uscire.

Cercò di pensare il meno possibile a quello che la aspettava quella sera. Passò tutto il tempo a spostare i pochissimi mobili, provocando la dispersione degli insetti più svariati che si affrettò a cacciare via, a dondolare sul letto facendolo scricchiolare, a provare diverse fantasie per la tendina del bagno, a righe orizzontali e verticali, a pois o a quadretti. Dovette far scorrere l’acqua del lavandino per più di dieci minuti prima che smettesse di essere gialla, chiedendosi nel frattempo come diavolo avrebbe potuto lavarsi il resto del corpo da quel momento in poi.

In sostanza fece quello che si fa quando si cerca di adattarsi ad un posto che francamente è solo scomodo. Ma non aveva altra scelta. E lo spostamento dei mobili era l’unico modo per non ritrovarsi a pensare che aveva avuto, se lo sentiva solo ora, una pessima idea a voler arrivare fino lì.

 

Un’ora e mezza dopo, dopo aver trovato molto a fatica l’uscita ed essersi persa sei volte per i corridoi senza però mai incrociare nessuno, si trovò davanti al portone. Notò che c’erano almeno una dozzina di Mangiamorte che aspettavano, i volti nascosti dai cappucci, perciò si affrettò a raccogliere i capelli e stringersi il più forte possibile nel mantello, come se la nascondesse meglio.

Sul momento nessuno parve notarla, ma presto si accorse che parecchi sguardi ridacchiavano rivolti verso di lei.

Riconobbe un paio di occhi neri velati ed una risatina insopportabile.

-         Chi abbiamo qui? – disse la donna, avvicinandosi e catturando l’attenzione di molti intorno a loro.

Ginny la fissò, sprezzante, la bacchetta sempre stretta tra le mani nella tasca.

-         Una traditrice? Una pentita? O magari una bugiarda? – trillò la voce striata di pazzia di Bellatrix Lestrange.

La donna le posò ipocritamente una mano affilata sulla spalla e le bisbigliò all’orecchio.

-         Ti tengo d’occhio – sentenziò, con un luccichio negli occhi.

-         Tieni giù le mani – ringhiò Ginny, senza più riuscire a trattenersi.

Bellatrix rise, ma ritrasse la mano.

-         Non ci tengo ad entrare in contatto con una pezzente traditrice del suo sangue come te. Guarda che l’ho capito il tuo gioco. Gli schifosi come te non cambiano. Non capisco perché il Signore Oscuro abbia voluto… -

-         Dovresti proprio smetterla di interferire nelle decisioni del nostro signore, Bellatrix – commentò sprezzante la voce di un’altra donna lì vicino. Aveva penetranti occhi verdi ed il cappuccio doveva nascondere una cascata di capelli biondo scuro.

-         E tu dovresti smetterla di fare la perfettina con me, Alecto. Tanto lo sappiamo tutti che alla prima occasione vorresti tenerti il favore del Signore Oscuro solo per te. –

Fu così che Ginny cominciò a capire che, se si fosse giocata bene le sue carte, forse sarebbe riuscita davvero a carpire le debolezze dei seguaci di Voldemort e forse dello stesso.

Era chiaro che i Mangiamorte, in quanto persone fondamentalmente meschine ed egoiste, non potevano andare d’accordo tra loro se non per profitto personale. Perciò era chiaro che dovevano esserci dei dissapori tra di loro. Il che non è mai una cosa buona in quella che dovrebbe definirsi una ‘squadra’, anche se Ginny l’avrebbe apostrofata con termini decisamente meno gentili.

-         Bene, grazie per lo spettacolo, signore – disse improvvisamente l’ormai ‘familiare’ voce di Rodolphus Lestrange, entrato nella sala in quel momento. – ora però sarebbe il caso di riporre gli artigli e passare alle questioni serie. –

Le due donne si guardarono in cagnesco. Prima di voltarsi verso il marito, Bellatrix lanciò un ultimo sguardo gelido verso Ginny, la quale si limitò a fissarla come se stesse guardando qualcosa di molto disgustoso.

Quando l’attenzione fu carpita da Rodolphus, la ragazza non poté fare a meno di guardarsi intorno. Era praticamente impossibile riconoscere qualcuno in quell’accozzaglia di mantelli neri, perciò lasciò perdere presto l’idea di vedere qualche viso.

Non che le interessasse.

Però non poteva nemmeno negare di non averci mai pensato.

-         Ci divideremo in gruppi di tre o quattro ed attaccheremo da quattro punti. Sarà in corso una festa, perciò, se non agirete senza pensare, dovrebbe passare tutto inosservato. Ci saranno parecchie case sulla strada: vi basterà entrare e occuparvi a caso dei babbani che troverete. Fate ciò che desiderate: ma naturalmente dovrà essere qualcosa che lasci il segno. - passò lo sguardo su tutta la sala. – come saprete, questa missione è stata affidata a me, per stasera, perciò non ammetto errori. Lo scopo non è solo di mero divertimento come qualcuno di voi penserà, ma c’è in gioco una vera e propria offesa nei confronti degli Auror e di tutta la corte dei miracoli cui orbitano intorno. Fate qualcosa di sconvolgente, qualcosa che lasci veramente le vostre, le nostre tracce. Ricordo inoltre che questa occasione sarà perfetta anche per testare certi giovani che come sapete sono entrati a far parte del nostro ‘giro’ recentemente. – il suo sguardo passò lungo le teste dei Mangiamorte. Aggrottò le sopracciglia e lanciò uno sguardo a Bellatrix, la quale rispose con una smorfia ed un gesto vago.

Rodolphus tornò a guardare avanti.

-         … alcuni dei quali purtroppo credono ancora di poter fare quello che vogliono senza renderne conto agli adulti. Sperando comunque che siano solo casi quasi isolati di sconsideratezza e stupidità ereditarie, congedo voi grandi e vaccinati e chiedo agli altri di seguirmi. –

Nel giro di pochi secondi, quasi prima che Ginny potesse assorbire bene le sue parole, la maggior parte dei Mangiamorte si era Smaterializzata, ed erano rimasti sì e no in cinque con Lestrange.

Con una stretta allo stomaco, riconobbe le figure ed i robusti profili di Tiger e Goyle. Certo era strano vedere persone che aveva incontrato (e deriso, volendo) centinaia di volte a scuola in una situazione del genere. Gli altri due erano una ragazza ed un ragazzo, che però lei non riconobbe. La ragazza, comunque, non doveva avere più di quindici anni ed aveva l’aria pressoché terrorizzata.

-         Tutti voi sapete Materializzarvi e compiere magie, presumo. Tu – indicò la ragazzina terrorizzata – ti Materializzerai con me per questa volta. Perciò non mi dilungherò nel raccomandarmi di non rappresentare un peso ed un impaccio per gli altri. Siete sotto stretto controllo, sia per gli errori che per le azioni corrette, ma se in pericolo non verrete soccorsi in ogni caso. Questo deve esservi chiaro. L’autonomia è basilare. Non azzardatevi a soccorrere o chiedere di essere soccorsi o stupidaggini simili. Naturalmente, per il resto, con i babbani ad esempio, siete autorizzati a lasciare andare la vostra fantasia a briglia sciolta… non la stupidità, però. Vi rivoglio qui tra un’ora. E, Ginny, a quel punto vieni nella mia camera, devo tatuarti il Marchio Nero.

Ginny non voleva il Marchio. Non disse nulla.

E odiava ogni secondo di più quell’uomo. Parlava di cose orribili con una naturalezza disumana. Quella gente costringeva anche ragazzini che non avevano ancora l’età per Materializzarsi a compiere crimini indicibili. Sembravano tutti in una specie di folle trance. Sembrava un incubo.

Doveva trovare un modo per contattare Harry o Ron o Hermione o chiunque dell’Ordine per avvertirli di quello che stava per accadere, passando però inosservata.

La prospettiva, anche se vaga, di poter chiamare aiuto la risollevò per un attimo.

Rodolphus spiegò loro con precisione dove si dovevano Materializzare e partirono.

 

Harry si risvegliò da un sonno senza sogni con il suono sfrigolante di un fuoco appena acceso.

-         Harry? – disse una voce agitata.

Il ragazzo cercò a tentoni gli occhiali che erano finiti dall’altra parte del letto per qualche strano motivo e li inforcò.

Nel camino svolazzava il viso preoccupato di Tonks circondato da fiamme verdi.

-         Sì? – fece Harry, con la voce ancora un po’ impastata.

-         Sono stata avvertita da alcuni membri dell’Ordine che c’è qualcosa che non va in un paese fuori Londra. Pare che un babbano abbia visto una persona vestita di nero comparire dal nulla e riuscire a incendiargli un cespuglio di rose nonostante fosse lontano metri da casa sua. Poi sono spuntate un paio di ali da Boccino al suo porcellino d’India che ha cominciato a svolazzargli per casa entrando dalla finestra. –

-         Mi stai prendendo in giro? –

-         Non è il caso di ridere, Harry. In quel paese è in corso una vesta del luogo, con una fiera ed i fuochi d’artificio e cose babbane del genere. Babbani ovunque. E’ l’occasione perfetta per i Mangiamorte di agire contro di loro. Kingsley e Remus sono molto scettici, ma ho un brutto presentimento. Io ho intenzione di andare là, ma se tu non vieni è molto difficile che qualcuno mi segua. –

Harry la guardò. Quello di cui aveva meno voglia in quel momento era Materializzarsi in un posto sconosciuto per un paranoico falso allarme. Ed aveva ancora meno voglia di combattere davvero.

Però era questo che tutti si aspettavano da lui.

-         Tonks – fece Harry, passandosi stancamente una mano tra i capelli. – davvero, non credo che un Mangiamorte da solo spunti dal nulla per terrorizzare un babbano con un porcellino d’India volante. E’ completamente… -

Stava per dire ‘privo di logica’, ma una voce lo interruppe.

-         Infatti non era un Mangiamorte! – disse esagitata Luna Lovegood entrando a fatica nelle fiammelle della Polvere Volante con un sorriso totalmente inadatto alla situazione.

-         Ehm – tossicchiò Tonks, cercando di non farsi accecare dai capelli svolazzanti di Luna. – Luna è qui con me… è stata lei ad avvertirmi di questa soffiata del Ministero… assolutamente accertata, comunque – si affrettò ad aggiungere di fronte all’espressione scetticissima di Harry.

-         Io credo che quello non fosse un Mangiamorte! Io credo che fosse Ginny! – disse Luna con crescente ed immotivato entusiasmo. – ha sempre fatto spuntare le ali alle cose! Una volta ha fatto spuntare le ali al mio Saltanarici ucraino! Io credo che non avesse altro modo per comunicarci qualcosa! –

Harry trovò assolutamente inutile chiedere ‘che cosa?’ vista l’assoluta determinazione di Luna che ormai gli stava descrivendo con dettagli parecchio agghiaccianti e sicuramente non richiesti l’utilità di un Saltanarici volante.

Ad ogni modo, il solo pensiero che Ginny in quel momento doveva essere con i Mangiamorti gli fece provare una bruttissima sensazione. Sapeva che era tipico di lei fare qualcosa di eclatantemente ridicolo per sdrammatizzare le situazioni più critiche e, stranamente, per un attimo credette sinceramente a Luna. L’attimo dopo la razionalità ebbe il sopravvento, il pensiero che rivedere Ginny così presto era pressoché impossibile, ma sia Tonks che Luna lo guardavano con tale determinazione che non riuscì ad ignorarle e tornare ad affondare nel suo cuscino della disperazione che, probabilmente, gli sarebbe pienamente spettato se fosse stato un ragazzo normale.

A volte devi solo adattarti a quello che ti viene dato e sperare soltanto di riuscire a sopportarlo o apprezzarlo nel miglior modo possibile.

E questo faceva di lui il bravo ragazzo per eccellenza, purtroppo.

 

Ginny scappò di corsa dalla vista del babbano che la fissava impietrito mentre il suo porcellino d’India gli trotterellava intorno alla testa.

Era riuscita a farsi rilasciare da Rodolphus quando ormai i festeggiamenti erano nel loro pieno, e lui aveva dato il permesso ai ‘ragazzini’ di andare e ‘lasciare a briglie sciolte la loro fantasia’, mentre si guardava intorno sempre più contrariato alla ricerca di chissà chi.

Questo da una parte costituiva un vantaggio, perché ora era completamente libera e questo gli aveva dato la possibilità di lanciare quella specie di segnale che sperava sinceramente non andasse a vuoto, perché davvero non sapeva come altro contattare quelli dell’Ordine senza farsi notare dagli altri Mangiamorte.

L’altra faccia della moneta era che ora non poteva assolutamente controllare ciò che facevano i Mangiamorte nel frattempo. Non poteva essere lei a fermarli.

Si trovava in una strada abbastanza buia e silenziosa adiacente parecchi metri sotto quella della fiera, che si trovava su una specie di largo sentiero appena sopra un fiume scuro. Ginny raggiunse col fiatone l’inizio della fiera, segnato da un cartello stradale e da una bancarella di oli profumati in cima alla scalinata che portava allo stradone illuminato e pieno di musica. I fuochi d’artificio non erano ancora iniziati.

Pensò che, anche se in realtà non poteva fare nulla, probabilmente era meglio andare a cercare gli altri Mangiamorte e sabotarne il più possibile.

Fortunatamente tutti i babbani erano troppo impegnati a schiamazzare e comprare alla luce sfavillante delle lanterne perché qualcuno si preoccupasse di guardare verso il basso per vedere una figura molto losca camminare di soppiatto per strada.

Per parecchi minuti non accadde nulla: lei percorreva in silenzio la strada deserta illuminata dai lampioni e tendeva l’orecchio, ma non sentiva altro che delle risate e della gran musica.

All’improvviso, però, sentì un botto e guardò verso il cielo.

Molti bambini, più in alto, lanciarono grida di giubilo.

Erano iniziati i fuochi d’artificio.

Per un attimo Ginny rimase immobile, a guardare quelle fiammelle colorate che si disperdevano nel cielo nero, come ipnotizzata. Poi però sentì un grido soffocato da un altro botto, che da quel che era riuscita a carpire aveva ben poco di gioioso.

Si mise a correre, anche se era troppo difficile seguire i rumori in tutto quello scoppiare che faceva quasi tremare il suolo.

Si guardò intorno e vide una porta di una casa chiudersi di botto e le luci spegnersi.

Si sentì come se qualcuno le avesse gettato addosso un secchio di acqua gelata.

Meccanicamente, scavalcò il cancello del giardino e senza pensarci due volte estrasse la bacchetta e sfondò la porta con la magia.

Non fece in tempo a vedere nulla che venne sbattuta all’indietro da una maledizione. Sentì la schiena irrigidirsi contro la parete e mugolò di dolore, ma tenne la bacchetta alzata e cerco di ritornare in piedi in fretta.

Udì dei bisbiglii, qualcuno mormorò lumos e qualcuno con il suo stesso mantello la tirò su per il braccio.

-         Scusa – disse una voce femminile con un tono che sapeva ben poco di scuse. – pensavamo fossi un Auror o qualcosa del genere. Comunque, che fai qui? E’ già occupato. –

Sentì un urlo al piano superiore e qualcuno scoppiare in singhiozzi.

Alla luce della bacchetta, la Mangiamorte illuminò parte del viso.

Naturalmente, se avesse avuto qualche secondo in più, Ginny avrebbe immediatamente realizzato, solo dalla voce fastidiosa, chi aveva davanti.

Pansy Parkinson la guardò come se avesse appena scoperto un topo morto nel suo beauty case.

-         Tu! –

Indietreggiò di colpo e le punto la bacchetta contro gridandole un expelliarmus, ma Ginny si fece scudo mandandole contro l’incantesimo che la fece cadere all’indietro sbattendo contro una scrivania.

-         Vi camuffano come i nostri ora? – urlò la ragazza, tentando di rialzarsi e recuperare la bacchetta.

Vedendola già così a terra, Ginny si rese conto che non doveva avere un grande talento come strega e per la prima volta da parecchio tempo si sentì un po’ più sicura di se stessa.

Diede un calcio alla bacchetta della Parkinson facendola rotolare sotto uno scaffale.

-         Io sono dei vostri ora – disse Ginny, come se la cosa la rendesse fiera. – mi stupisce che non ti abbiano informata. –

Giusto per godere fino all’ultimo della momentanea sensazione di superiorità, le sventolò la mano con l’anello alla luce della bacchetta davanti al naso.

-         Come… - si rialzò sconvolta la Parkinson, con espressione diffidente. - … come possiedi quell’anello? Non… -

-         Sono dalla vostra parte, punto e basta, fine dell’interrogatorio – tagliò corto Ginny rimettendo strategicamente la bacchetta in tasca, come se si fidasse di lei.

Non credeva di possedere tali capacità recitative. Perfino la Parkinson sembrava impressionata, o forse aveva solo battuto la testa mentre cercava a tentoni la sua bacchetta.

Ginny sentì ancora dei singhiozzi ancora più agghiaccianti, e fece un passò sopra il primo gradino delle scale.

-         Non ti azzardare – sibilò Pansy, spingendo da una parte lo scaffale e facendolo crollare rovinosamente per terra. – ci siamo già noi qui. –

-         Voi? – chiese Ginny, alzando lo sguardo verso le scale buie. Salì il secondo gradino.

-         Ho detto non ti azzardare! – gridò Pansy, ormai alla disperata ricerca della sua bacchetta.

Con il cuore che le si stringeva come una morsa nel petto, Ginny non l’ascoltò. Finché non ritrovava la bacchetta non poteva fare un bel niente, e dallo sguardo che aveva fatto vedendo l’anello dubitava che avrebbe osato fare molto anche se l’avesse avuta.

Salì di corsa le scale, sfilando di nuovo la bacchetta, mentre i singhiozzi si facevano più forti.

Seguì quel suono orribile lungo il corridoio e spalancò una porta chiusa.

Doveva essere una camera da letto per adulti. Sul letto un uomo si contorceva orribilmente, come se tutti i muscoli gli si ribellassero, e lanciava grida insopportabili. Ai piedi del letto, c’era una donna, priva di sensi. In un angolo della stanza, c’erano due bambine, che si abbracciavano terrorizzate. Una non doveva avere più di sei anni.

La luce della luna illuminava di spalle il Mangiamorte che teneva la bacchetta puntata contro l’uomo che si contorceva.

Quella scena le si impresse così tanto nella mente che dubitava sarebbe più riuscita a dimenticarla.

-         Pansy – sbottò irritato il Mangiamorte – ti ho detto che non dovevi salire. Devi rimanere di guardia… -

Ginny si tolse il cappuccio.

La luce della luna dovette illuminarla abbastanza da rendere i suoi tratti riconoscibili.

Il Mangiamorte di colpo distolse la bacchetta dall’uomo e la puntò contro di lei. L’uomo giacque con il fiatone sul letto, gli occhi vacui.

 

Draco strinse forte la bacchetta ed avvertì un rivolo di sudore imperlargli la fronte.

Ormai non sentiva più nemmeno i singhiozzi delle due bambine rintanate in un angolo.

Ebbe per un attimo la sensazione che tutto quello fosse troppo anche per lui.

Ginny Weasley lo fissava, in piedi sulla soglia della porta. Teneva una mano in tasca, ma non c’era bisogno di una grande immaginazione per capire che cosa stringeva.

-         Che cosa sei venuta a fare?

Lei lo guardò con aria impassibile, ma Draco non poté fare a meno di notare che i suoi occhi erano impercettibilmente saettati verso le due bambine.

Come prevedibile, fece qualche passo che avrebbe dovuto sembrare casuale, ma che come risultato la poneva tra lui e le ragazzine.

Solo dopo qualche frazione di secondo lui si rese conto che indossava la sua stessa veste, ma il pensiero non gli passò nemmeno per la testa.

La sua sola presenza era semplicemente insostenibile.

-         Che cosa sei venuta a fare? – urlò Draco, avvicinandosi con aria minacciosa.

Ginny tentò palesemente di trattenersi dal fare un passo indietro.

-         A controllare – disse, con una tranquillità un po’ forzata, ma la sua voce si incrinò chiaramente. – sono una Mangiamorte anch’io. Ne ho il diritto. –

Draco scoppiò a ridere, sprezzante.

Cosa credeva che fosse, un gioco?

Quell’uomo… un attimo prima, lui stava per…

Ginny tirò fuori dalla tasca la bacchetta, ma inspiegabilmente non gliela puntò contro. Con la mano che le tremava impercettibilmente, gli mostrò l’anello.

Sul momento Draco non pensò nemmeno per un attimo che fosse quellanello, ma istintivamente andò a guardare il suo, che gli bruciò come quando Rodolphus o Bellatrix erano vicini.

Naturalmente, valeva per i possessori dell’anello. E c’era solo Ginny e quattro babbani in quella stanza.

-         E’ impossibile – fu l’unica cosa che riuscì a dire, con una risata nervosa.

-         Ci starebbe bene se dicessi che ‘niente è impossibile’, vero? – disse Ginny, con tono tagliente.

Non era per niente soddisfatta dell’espressione di Draco in quel momento. Non era stupito, né arrabbiato, né sconvolto o impaurito, niente. Non lasciava trasparire assolutamente nulla. I suoi occhi grigi, i suoi lineamenti, erano come una dannata maschera impassibile.

Aveva imparato in modo quasi spaventoso a padroneggiare gli ultimi, deboli sentimenti che gli rimanevano.

Immaginò che quello fosse il Draco Malfoy forgiato da due anni nell’esercito di Voldemort.

Lo sguardo di Ginny corse verso l’uomo sul letto e per un attimo si chiese se fosse ancora vivo. Si chiese se Draco avesse già ucciso qualcuno.

Il solo pensiero era insopportabile.

Dato che era stata lei a lasciarlo andare.

All’improvviso sentirono una porta sbattere al piano di sotto con un botto che riuscì addirittura a coprire gli scoppi dei fuochi d’artificio.

-         Ritiratevi! Arrivano gli Auror, sono il doppio di noi! – gridò qualcuno.

Ginny e Draco si scambiarono un’occhiata, ma nessuno dei due parve intenzionato a muoversi.

-         Arrivano i rinforzi – ringhiò Draco.

-         Non sono più i miei rinforzi – rispose Ginny, che cominciava a mentire con una strana naturalezza.

Draco si voltò a guardare l’uomo rantolante sul letto. Auror o non Auror, imprevisto o non imprevisto, aveva promesso qualcosa a Rodolphus, e doveva portarlo a termine.

Non importava cosa accadesse, né chi gli capitasse di incontrare.

Si sentì strano, come se il calore corporeo gli fosse calato di colpo. All’improvviso, tutto gli parve troppo insormontabile, troppo difficile. Sentì le mani sudate e ghiacciate al tempo stesso.

Se non lo faceva, ci sarebbero state delle conseguenze.

Se non lo faceva, avrebbe di certo smesso di ricevere lettere di sua madre, e non per sua volontà.

Se non lo faceva, tutto sarebbe finito.

Alzò la bacchetta.

Ginny, improvvisamente, impallidì. Cercò di pensare il più in fretta possibile e di mantenere la calma, anche se il suo istinto principale sarebbe stato quello di disarmarlo. Ma doveva ricordarsi della sua posizione.

-         Non… non c’è bisogno di farlo – disse, cercando di sembrare naturale. – è stupido, non servirà proprio a nulla. Stanno arrivando gli Auror, è meglio… -

Draco non sembrava ascoltarla. Teneva lo sguardo fisso sull’uomo. Dalle sue condizioni, sarebbe bastato un solo Cruciatus per ucciderlo.

Prese piano il respiro, inspirando più ossigeno possibile.

Ginny lo fissò. Se lo avesse fatto, lei non avrebbe avuto altra scelta che agire. Sperava, sperava di vedere qualcosa nello sguardo di Draco, qualcosa che indicasse che era almeno un po’ indeciso, ma la sua espressione era indecifrabile, e ne traspariva soltanto la stanchezza.

Draco agitò la bacchetta.

-         Crucio!

Accadde tutto in pochissime frazioni di secondo. Ginny ebbe appena il tempo per estrarre la bacchetta, ma venne sbalzata di lato da qualcuno, poi una delle bambine dall’angolo gridò; quella più piccola si era gettata a scudo del padre e la maledizione la colpì in pieno.

Piombò sul pavimento con un piccolo tonfo, si contorse per pochi secondi, prima che Draco, istintivamente, abbassasse la bacchetta, rendendosi a malapena conto dell’interferenza.

Ginny si sentì trattenere il respiro, si chinò sulla bambina priva di sensi. Era davvero troppo piccola e debole per sopportare una Cruciatus potente come quella che aveva lanciato Malfoy.

Sentirono dei passi sulle scale, il rumore di una Smaterializzazione, delle voci. Ginny non riusciva quasi a capire più nulla, guardava solo la bambina e cercava di capire se respirava ancora.

Draco, per la prima volta in vita sua, non aveva idea di cosa fare. Sapeva che gli Auror stavano salendo e la cosa più sensata sarebbe stata scappare e Smaterializzarsi. Eppure era impietrito lì, in piedi, con la bacchetta in mano, a fissare senza espressione Ginny Weasley che abbassava la testa sulla ragazzina che lui aveva ferito, per capire se respirava.

La bambina mosse una mano. Ginny parve riprendere a respirare. La sorella un po’ più grande accorse ed abbracciò la ragazzina, che con il fiatone le si strinse vicino ad occhi chiusi.

Draco sembrò risvegliarsi.

-         Andiamo, dannazione! –

Non seppe perché aveva detto ‘andiamo, ma forse non ci fece nemmeno caso. Strattonò Ginny per un braccio rimettendola in piedi, e prima che lei potesse dire o fare qualsiasi cosa, si Smaterializzarono.

 

Harry, Ron e Kingsley Shacklebolt piombarono nella stanza. Harry camminava a stento: aveva una ferita alla gamba infertagli da un Mangiamorte mentre fuori c’era stato un fuggi fuggi generale di maghi oscuri.

Ginny doveva averli avveriti davvero, perché c’era stato davvero un attacco dei Mangiamorte.

La scena non era delle migliori: c’erano due ragazzine per terra che piangevano a dirotto, un uomo sul letto che borbottava qualcosa fissando il vuoto ed una donna svenuta stesa sul pavimento.

Kingsley si avvicinò alla donna per capire come stesse, la sollevò con la magia posandola sul letto ed ordinò a Harry e Ron di addormentare anche le due ragazzine.

Nel giro di pochi secondi tutta la famiglia era priva di sensi.

Kingsley passò qualche minuto a controllare e borbottare incantesimi sull’uomo.

-         Ma che cosa gli hanno fatto? – chiese Ron, agitandosi per la stanza furioso.

-         Troppe Cruciatus – sentenziò l’uomo. – ma si riprenderà. Sistemerò io le loro memorie. Ora voglio che voi corriate dagli altri membri dell’Ordine e facciate rapporto sull’accaduto. –

-         Sì, ma qui non abbiamo visto nessuno… -

-         Ho sentito il rumore di qualcuno che si Smaterializzava – mormorò Harry. – immagino che se fossimo arrivati un attimo prima… -

Kingsley scosse la testa.

-         E’ andata bene comunque, anche se non li abbiamo catturati. –

-         Ma perché prendono sempre di mira le famiglie?

L’uomo sorrise malinconico a Ron.

-         Visto che la famiglia è il dono più importante che ci è stato concesso, distruggerla o ferirla provoca un grande impatto anche su quelli che non ne fanno parte. Come se dicessero, presto accadrà a voi e ai vostri parenti. –

Harry ebbe un impeto di rabbia così forte che dovette dare un pugno contro il muro per controllarlo.

Ron scosse la testa, incredulo.

-         Bisogna essere totalmente privi di sentimenti per fare una cosa del genere. –

-         Non necessariamente – scrollò le spalle Kingsley, mentre modificava i ricordi di una delle bambine. – piuttosto bisogna conoscerli bene, i sentimenti, per sapere dove fa più male. –

 

Ginny sentì l’aria fredda colpirle il viso come uno schiaffo.

Rimase per un attimo immobile al buio, le ginocchia a terra, con il respiro irregolare.

Alzò lo sguardo: erano appena fuori dal castello. Draco, in piedi accanto a lei, si voltò di scatto e senza degnarla di uno sguardo si diresse verso il portone. Due Mangiamorte diversi da quelli di quel pomeriggio gli aprirono senza chiedere spiegazioni; lasciarono aperto attendendo che anche lei si decidesse ad entrare.

Ginny sentì tutta la frustrazione accumulata durante quella giornata, durante tutte le giornate, spaccarsi dentro di lei come un bicchiere di vetro gettato per terra. Le si appannò la vista e le tempie le pulsarono. Trattenne un singhiozzo mentre si alzava in piedi.

Non ci voleva entrare da quel portone. Non voleva mai più rivedere quel castello. Non importavano tutte le chiacchiere di cui si era riempita la bocca con gli altri, sull’indipendenza ed il fatto che ora era adulta. Si accorse che anche gli adulti potevano non avere la forza. Non dipendeva certo dall’età le capacità di fare certe cose o no.

I due Mangiamorte le fecero cenno di sbrigarsi.

Ginny sentì il cuore stringersi. Sarebbe andata così, d’ora in poi? Avrebbe dovuto guardare la crudeltà di tutte quelle persone senza poter muovere un dito? Avrebbe dovuto soltanto attendere che arrivassero i ‘suoi rinforzi’ per sempre?

Si asciugò le lacrime con la manica della veste.

Forse era in questo che consisteva questa prova. Imparare a non attendere più con trepidazione i rinforzi. Cercare di fare del proprio meglio nel frattempo, anche da sola.

-         Allora, ti muovi? – fece uno dei Mangiamorte, spazientito.

Ginny alzò la testa.

-         Tieni a freno la lingua o ti faccio ritrovare con le ossa mischiate. –

Il Mangiamorte imprecò, ma poi non disse nient’altro e continuò a lasciarle il portone aperto.

Non poteva arrendersi già ora. Non dopo aver capito che tipo di persone erano loro.

Non ora che aveva davvero capito quanto importante era il suo ruolo lì.

Entrò.

 

-         Mi spieghi che cos’è questa storia? –

Rodolphus alzò lo sguardo, mentre si abbassava il cappuccio. Draco era piombato nella sua stanza senza bussare.

-         Ehi, Draco, strano che tu ti faccia vedere da queste parti pur sapendo che dovrai essere punito per la tua sconsideratezza di oggi. –

Lui lo ignorò.

-         Hai davvero permesso a Ginny Weasley di diventare Mangiamorte? –

Rodolphus scrollò le spalle.

-         Ordini dall’alto. – mormorò, tranquillamente.

-         Che significa? A che gioco state giocando? Che intenzioni avete?

-         Mi fa piacere che per una volta ti interessi dei piani del Signore Oscuro, visto che hai sempre fatto di testa tua qualunque ordine ricevessi, ma purtroppo questa storia per te è off-limit, stanne fuori. –

Draco sbatté un pugno sulla scrivania, facendo cadere per terra un vasetto di inchiostro.

-         Non posso starne fuori! Non posso credere che… -

-         Perché? – chiese Rodolphus, guardandolo con aria compassionevole. – perché non puoi starne fuori? –

Il ragazzo scosse la testa, incredulo.

-         Lei è una Weasley! Non so se li hai presente, ma sono i migliori amici di Potter e la sua banda! –

Rodolphus scoppiò a ridere.

-         Oh, la donna del nemico… che paura – ridacchiò, togliendosi il mantello.

Draco era furioso.

-         Tu non capisci! Quella ha sicuramente un secondo fine, qualcosa, non possiamo lasciare che rimanga! Devi cacciarla! –

L’uomo sospirò, spazientito.

-         Senti, sai che di qui non si caccia via proprio nessuno – sorrise. – se ti dà tanto fastidio, hai il mio permesso di ucciderla. Chiuderò un occhio al riguardo, non sarebbe la prima volta che ci sono dei dissapori tra i Mangiamorte. –

Draco lo fissò, spiazzato. A volte, Rodolphus gli ricordava in modo impressionante suo padre. Nel modo di parlare, nell’atteggiamento superiore. In Lucius l’aveva sopportato e rispettato, perché era suo padre. Ma Rodolphus lo faceva semplicemente infuriare.

L’uomo vide che lui rimaneva in silenzio, così considerò la conversazione chiusa.

-         A proposito – disse, fissandolo. – ho appena visto la Parkinson. Com’è andata? Chi hai ucciso? –

Il ragazzo lo guardò e capì che era la resa dei conti. C’era stato un patto. Un Mangiamorte che non sa uccidere è inutile. E di lì non si cacciava nessuno. Si aveva solo il permesso di morire.

Draco aprì la bocca per dire qualcosa, ma Rodolphus distolse lo sguardo da lui e guardò alle sue spalle.

-         Si parla del diavolo – sorrise. – la nostra novellina. –

Draco si voltò. Ginny era ferma sulla soglia della stanza. Era molto pallida e con gli occhi lucidi, ma sembrava decisa a non farla notare.

Vedendola alla luce forte e chiara delle lanterne, lui si rese materialmente conto che era davvero lì. E di nuovo la sua presenza gli parve insostenibile, come si aspirasse tutto l’ossigeno dell’aria senza lasciargliene.

E dire che sembrava così debole che c’era da stupirsi se riusciva a tenersi in piedi.

- Sei venuta per farti fare il Marchio? Hai l’aria di un fantasma. Così faticosa la prima missione? E dire che si trattava solo di fare qualche scherzo… -

Ginny parve usare tutte le sue forze per evitare di lanciarglisi contro.

-         No, sono stanca perché oggi ho camminato molto – disse. – ero con lui. –

Rodolphus guardò Draco con aria fintamente soddisfatta.

-         Bene, bene. Sai, il nostro Draco oggi era sotto esame. Che cosa avete combinato? Ah, ti consiglio di non mentirmi, Draco sa bene che cosa succede a dirmi bugie e non credo ti consiglierebbe di farlo. –

Ginny lo ignorò totalmente. Aveva cominciato a mentire, e avrebbe mentito fino in fondo. Aveva studiato bene Occlumanzia. Poteva farcela.

-         Ha ucciso una bambina. Per errore. Si è buttata nel bel mezzo di una Cruciatus troppo potente. Non credo ne avesse l’intenzione, comunque – disse, tremando leggermente. Era una mezza verità.

Rodolphus la fissò.

-         Davvero? –

Ginny chiuse immediatamente la sua mente.

Lui parve spazientirsi di nuovo.

-         Per questa volta cercherò di prenderla come verità – disse, irritato. Guardò Draco. – spero per te che non sia un patetico tentativo di coprirti. Non sei nella posizione migliore, dato che tuo padre è in galera e tu sei in prova già da tempo. Al minimo errore, sai che succede. –

Guardò di nuovo Ginny, sorridendo improvvisamente.

-         Bene, facciamo quello che dobbiamo fare. Draco, so che sarebbe inutile chiederti di sparire vista la tua faccia contrariata. Allora, Ginny, tirati su la manica del braccio sinistro. –

Ginny tentò di evitare lo sguardo di Draco. Fece ciò che le era stato chiesto e Rodolphus posò la bacchetta sul suo braccio, poco sotto la spalla.

Mormorò qualcosa, non riuscì a capire esattamente cosa. Capì soltanto che ad un certo punto ebbe una voglia matta di ritrarre il braccio, perché cominciava a sentire un dolore tremendo. Era come se qualcuno le stesse disegnando dei cerchi sulla pelle affondando un coltello nelle carni. Chiuse gli occhi, sudando freddo. Ad un certo punto il dolore fu così insopportabile che quasi si svenne. Emise un gemito.

-         Ecco fatto – fece Rodolphus, in tono piatto, lasciandole andare il braccio.

Ginny si guardò istintivamente. Si era aspettata di avere tagli ovunque e il sangue scenderle lungo il braccio, ma la sua pelle era perfettamente intatta. L’unica differenza stava nel teschio nero con la lingua di serpente che pulsava, in netto contrasto con la sua carnagione bianca.

Provò una sensazione orribile, di colpa e di tradimento, ma cercò di non darla a vedere.

Alzò senza volerlo lo sguardo verso Draco.

Lui la fissava con il suo sguardo grigio come se non avesse mai visto niente di più patetico e disgustoso.

-         Ora sparite, prima che cambi idea su entrambi – disse Rodolphus, seccamente.

 

Harry zoppicò fino alla porta del suo appartamento, aprì la porta con la bacchetta e si trascinò fino al letto. Vi si lasciò cadere a sedere con un tonfo. Si alzò una gamba dei pantaloni: il polpaccio era trapassato da un lungo taglio sanguinolento. Bruciava da morire, ma non aveva minimamente intenzione di andare al San Mungo. Cercò di trasportarsi fino al bagno per prendere un asciugamano bagnato e stringerlo attorno alla ferita, ma non appena mise a terra il piede sano qualcosa miagolò, o ruggì, o qualunque cosa fosse quel rumore tremendo.

Guardò in basso, alzando di scatto il piede. Una coda strana sparì da sotto la suola della sua scarpa e da sotto il letto comparve un animale tremendo, una specie di piccolo e parecchio brutto incrocio tra un leone ed una tigre, un cucciolo di quelli che si vedono nei documentari ma molto meno carino e molto più peloso.

-         Che diavolo sei? – fece Harry, esasperato, mentre questo si voltava senza degnarlo di troppa attenzione per leccarsi la schiena.

-         Harry! –

Per un attimo il ragazzo pensò che fosse stato quel coso a parlare, poi si voltò verso la finestra e con orrore si accorse che fuori dal vetro, la faccia di Luna Lovegood gli sorrideva allegramente.

-         Santo cielo – borbottò, neanche troppo stupito visto che il dolore lancinante al polpaccio gli annebbiava la mente.

Zoppicò fino alla finestra e la sollevò, aprendola.

-         Luna, sei appesa al mio davanzale? – fece Harry, orripilato, afferrando la bacchetta dalla tasca per tirarla su in aria e farla atterrare sul pavimento fermo.

-         Ah, già, è che il mio Soffiartigli dev’essere saltato dalla mia finestra alla tua. Anche se chissà come ha fatto a entrare? – fece Luna, rispolverandosi.

Harry guardò di sbieco il gatto bicolore evitando accuratamente di chiederle che cosa fosse un Soffiartigli, anche se il nome non diceva niente di buono.

-         Luna, la tua finestra? Ma tu non vivi qui! – disse esasperato, lasciandosi cadere sul letto mentre Luna trotterellava in giro con il Soffiartigli in braccio e sbirciava sulla scrivania di Harry.

-         Oh, sì che ci vivo. Nell’appartamento accanto al tuo. Da un anno – fece allegramente, prendendo il pettine di Harry e cominciando a districare i nodi del pelo del suo psicotico animale.

Harry la fissò come se fosse pazza, cosa di cui era sempre più sicuro.

-         Un anno? Luna, io vivo qui da un anno e mezzo. Me ne sarei accorto se una persona che conosco abitasse accanto a me. –

-         Ah, sì, ma tu non hai mai guardato le altre porte e sei sempre andato dritto verso casa tua, inoltre quando esci o entri sei sempre troppo soprappensiero per accorgerti degli altri, quindi ovviamente era difficile che ti accorgessi di me – disse Luna, come se fosse ovvio, mentre un mucchietto di pelo cadeva sul pavimento di Harry.

Lui era così incredulo che quasi avrebbe voluto arrabbiarsi, ma visto che arrabbiarsi con Luna per lui era stranamente impossibile, e visto che il dolore al polpaccio cresceva ogni secondo, non osò nemmeno alzarsi.

-         Ma perché non me l’hai detto, mi chiedo – sbuffò, parlando a se stesso visto che parlare a Luna era come parlare con un gremlin.

-         Ho pensato che se te l’avessi detto poi ti saresti sentito obbligato ad essere gentile e salutarmi per le scale e prestarmi il sale se te lo chiedevo anche se molte volte non ne avresti avuto voglia, perché tu ti senti sempre obbligato ad essere gentile anche con le persone scomode come me. –

Era incredibile la capacità di Luna di dire cose così imbarazzanti e sincere senza la minima traccia di timidezza.

Harry sospirò, fissandosi la ferita che pulsava.

-         Non sei una persona scomoda – mormorò, rassegnato.

-         Ogni tanto fa piacere anche solo sentirselo dire! – esclamò allegramente Luna, posando il pettine (ormai inutilizzabile) dove l’aveva trovato. Guardò la ferita alla gamba di Harry.

-         E’ stato quel Mangiamorte, vero? Hermione una volta mi ha detto che è sempre bene tenersi una cassetta del pronto soccorso in casa, con antidoti e strane cose che sapeva solo lei. Io non ho idea di come si usi, ma se vuoi te la porto. –

Harry la guardò, piuttosto grato.

-         Sì, sarebbe grandioso – mormorò, a denti stretti per il dolore.

Luna saltò in piedi facendo sussultare il Soffiartigli, felice di rendersi utile.

-         Stavolta però passerò per la porta – lo informò uscendo.

 

Hermione guardò fuori dalla finestra, prima di chiudere le tende.

Sorseggiò un po’ di camomilla dalla tazza. Aveva i nervi a pezzi. Aveva passato tutta la giornata a studiare per un esame, e poi Lupin l’aveva chiamata informandola che l’Ordine si radunava ad una festa babbana perché c’era il sospetto di un attacco dei Mangiamorte. La sua prima intenzione era stata di prendere la bacchetta ed andare, ma l’uomo l’aveva bloccata dicendo che erano venuti tutti e non c’era più nessuno che potesse tenere i contatti con il Ministero, perciò era meglio se rimaneva a casa e chiamava il Ministro con la Polvere Volante per tenerlo informato.

Naturalmente aveva obbedito, ma pensare che tutti erano là a combattere mentre lei se ne stava lì a ricevere gufi e chiamate dal camino la faceva diventare matta. Appena ci era riuscita, si era messa in contatto con Lupin, che però l’aveva liquidata dicendo che Tonks era al San Mungo e che doveva andare a controllare, Harry al suo camino non rispondeva e Ron non era a casa, così era rimasta fino a mezzanotte passata a fissare il vuoto e scalpitare in attesa di notizie, mentre i suoi genitori si tenevano bene alla larga da lei.

Verso le due, quando erano entrambi andati a letto e lei stava bevendo il quindicesimo caffè fissando una macchia del tappeto, qualcuno aveva suonato con estenuante insistenza alla porta ed Hermione si era ritrovata davanti un Ron parecchio stanco, anche se non ferito, appena tornato dopo aver fatto rapporto per due ore ai membri del Ministero, con una sola richiesta.

-         Voglio un panino con il salame e tutto quello che riesci a metterci dentro. –

Lei si adoprò per il panino, dato che in fondo era l’unica cosa che sapeva fare di commestibile, ma nel frattempo tartassò Ron di domande su quello che era successo, se qualcuno era ferito, se avevano catturato qualcuno, qual era stata la dinamica del fatto.

Ron si era buttato sul divano il più silenziosamente possibile (erano le due di notte e di sicuro c’erano i genitori di Hermione – sua madre – in casa, non ci voleva un genio per capire che non era il caso di fare i casinisti come al solito).

-         Hermione, ho ripetuto la stessa storia a venticinque persone diverse… - dall’espressione di Hermione capì che doveva affaticarsi a raccontarlo ad una ventiseiesima. - … in sintesi, pensiamo che Ginny abbia usato uno stratagemma per informarci che i Mangiamorte stavano per attaccare a questa festa babbana. Non ci sono morti, feriti qualcuno dei nostri e qualcuno dei loro, Harry si è fatto male ad una gamba ma è una ferita superficiale, non abbiamo catturato nessuno dei loro e loro non hanno catturato nessuno dei nostri. Non sono arrivati ad uccidere nessun babbano, ma ne hanno feriti alcuni e pare sia stato un casino sistemare le memorie di tutti quanti. –

Detto questo, aveva appoggiato la testa sul cuscino del divano e si era addormentato di colpo.

Hermione aveva sospirato, le era scappato un sorriso, aveva comunque finito di preparare il panino e poi si era fatta una camomilla nella speranza che quella, da sola, annullasse l’effetto dei quindici caffè che si era ingurgitata quella sera.

Ora, la casa era immersa nel solito sonnolento silenzio notturno, rotto soltanto dal respiro un po’ pesante di Ron che dormiva profondamente.

Hermione prese una coperta dal sottoscala e gliela buttò addosso un po’ goffamente. Ron non si mosse ma mugolò qualcosa.

Lei sposto la poltrona con la bacchetta, più piano che poté, portandola vicino al divano. Andò al piano di sopra in punta di piedi per prendere il suo copriletto ed un libro e tornò in salotto. Avvolse il panino in un po’ di carta assorbente e lasciò il pacchettino sul tavolo. Si sedette sulla poltrona scomoda. Non riuscì a leggere più di tanto, così si coprì e voltò le testa, guardando i capelli rossi di Ron che stonavano incredibilmente con il divano rosa pastello. Gli tirò quasi involontariamente una ciocca di capelli e lui borbottò qualcosa ad occhi chiusi, voltandosi dall’altra parte.

Hermione sorrise ebete stranamente in pace col mondo, si accoccolò il più comodamente possibile nella poltrona e chiuse gli occhi.

 

 

*

 

Eccomi qua! Stavolta non sono particolarmente in ritardo (credo)… anche se sono stata in astinenza da Internet per un mese abbondante, ho sempre il mio mirabolante computer con me così ho potuto scrivere (ma pensa che vita piena ed interessante!). Questo capitolo non mi è venuto molto breve, chiedo venia come al solito, sono quella dei capitoli lunghi._. Presa da raptus stile Vally (Weasleygirl) mi sento in dovere di dedicare questo capitolo alla Cri (Ayumi) perché l’altro non gliel’ho dedicato anche se era il suo compleanno (e lei non ha affatto mancato di farmelo notareXD). Perciò, tieni Cri! Beccati questa. E ringrazio pure la Vally che mi ha fornito di canzoni, devo ammetterlo, molto belle per scrivere (anche se dice che sono sue).

Però, immagino sia inutile ripeterlo mille volte ma lo faccio lo stesso!, allo stesso modo ringrazio tutti quelli che leggono, in particolar modo quelli che commentano, perché come saprete anche un paio di parole possono risollevare il morale di un fanwriter. Davvero, grazie, sono contentissima che questa fic possa piacervi, anche solo un po’. Spero che possa continuare a piacervi e mi impegnerò per questo!XD

Vi rinnovo gli auguri di buone vacanze!

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 5
*** Slow down ***


.SLOW DOWN.

 

 

[Rallenta. ]

 

 

“Slow down, you crazy child                         “Rallenta, pazzo ragazzino
you're so ambitious for a juvenile                  
 sei molto ambizioso per essere un minorenne
But then if you're so smart, tell me                 
ma allora se sei così forte, dimmi
Why are you still so afraid?                           
 perché hai ancora così paura?

Where's the fire, what's the hurry about?        
Dov’è il fuoco, perché tutta questa fretta?
You'd better cool it off before                        
 faresti meglio a raffreddarlo

 you burn it out                                                 prima che tu lo esaurisca
You've got so much to do and                         
 hai così tanto da fare e
Only so many hours in a day                          
 solo tante ore in un giorno

Slow down, you're doing fine                          
Rallenta, stai andando bene
You can't be everything you want to be          
 non puoi essere tutto ciò che vuoi essere
Before your time                                            
  prima del tuo tempo
Although it's so romantic on the borderline   
 nonostante sia così romantico al limite

tonight, tonight...”                                           stasera, stasera…”

 

 

“Vienna”, Billy Joel.

 

 

 

Draco, all’alba del giorno dopo, era già sulla collina, seduto sull’erba, completamente solo.

Fumava una sigaretta anche se non ne aveva minimamente voglia. Il sole stava nascendo all’orizzonte, dietro la foresta.

Se uno si fosse guardato alle spalle, avrebbe visto solo il castello ed il cielo ancora buio, dove la luce del sole non era ancora riuscita ad arrivare.

-         E’ una bella camminata in salita, dal castello a qui – disse all’improvviso una voce.

Draco si voltò. Rodolphus gli sorrideva ipocritamente in piedi dietro di lui.

-         Sembra che tu comunque non sia troppo pigro – disse lui, sprezzante.

-         Oh, non essere così scontroso. Tu immagini sicuramente cosa voglio dirti. –

Passarono alcuni secondi di silenzio.

-         Naturalmente, non ho creduto ad una sola parola di quello che la nostra nuova amica ha detto ieri sera al tuo riguardo, anche se ammiro il coraggio. –

Il ragazzo schioccò la lingua e distrusse la sigaretta premendola nel terreno.

-         Non ho obiettato più di tanto perché non volevo già spaventarla, poverina. In fondo, lei non ha ancora avuto il piacere delle punizioni per i trasgressori alle regole. –

-         Dì quello che vuoi dire, Rodolphus. –

L’uomo scrollò le spalle, con semplicità.

-         Non hai ucciso, Draco. Ti avevo dato un ordine, e tu non l’hai eseguito. Ti perdono, ti perdono perché tuo padre mi ha coperto altre volte in occasioni in cui io sono stato in errore. Ma ad una punizione non puoi certo scampare, come sai. Il Signore Oscuro è molto, molto deluso riguardo alle conclusioni della missione di ieri sera. Comincia a pensare che sia meglio liberarsi di certa gente sbagliata, certi vigliacchi, certi scarti. Questo significa che non potrò coprirti per sempre. –

Draco scattò in piedi, stringendo forte i pugni. Non poteva alzare assolutamente le mani su Rodolphus, ne era consapevole. Ma avrebbe voluto. E la cosa più odiosa era che lui lo sapeva. Non avrebbe mai dato del ‘vigliacco’ o dello ‘scarto’ a suo padre.

Rodolphus si guardò le unghie con noncuranza, senza neanche degnare di uno sguardo lo scatto d’ira del ragazzo.

-         Vedremo se un po’ di dolore fisico ti farà anche bene alla mente. Chissà che non la smetti di opporti a chi sai di non poter battere e cominci a concentrarti sui compiti che il tuo stesso sangue ti ha affidato. –

Rodolphus si voltò e cominciò a scendere la collina. Draco lo guardò andarsene, immobile.

All’ultimo momento, l’uomo si voltò.

-         Sai, a volte – gli disse – mi chiedo cosa mai ci possa trovare una donna in uno come te. –

 

- Santo cielo! Alexander, vieni qui! Hermione! Santo cielo, svegliati! -

Il vago e piacevole tepore che inconsciamente sentiva sopra la testa, tra i capelli, se ne andò di colpo.

-         Mamma, non urlare! –

Okay, la voce isterica di prima poteva anche essere la voce di una qualsiasi donna isterica che girava in casa sua, anche di sua madre, ma quella era decisamente la voce di Hermione. E non era  normale sentire la voce di Hermione ancora prima di alzarsi.

Aprì gli occhi. Addosso aveva una coperta calda. Attaccata al divano, dietro a dove la sua testa era appoggiata, c’era una poltrona stropicciata e fece appena in tempo a vedere Hermione inciampare sul plaid alzandosi.

Rimase immobile con gli occhi aperti cercando di capire. Quella non era la sua coperta. E a giudicare dai muscoli vagamente indolenziti, non aveva di certo dormito su un letto comodo, ma comunque quello non era sicuramente il suo divano.

-         Hermione, mi vuoi spiegare… -

Santo cielo. Quella era la signora Granger, vero? Il timbro di preoccupazione nel suo tono di voce era inconfondibile. Purtroppo.

-         Mamma, abbassa la voce! Sono solo le sette del mattino! – disse Hermione, in tono quasi supplichevole. – se andiamo in cucina ti… -

-         Scusa, e cosa dovrei fare, finta di nulla? Potevi almeno avvertire, solo perché hai diciotto anni non significa che puoi portare in casa chi vuoi a dormire senza chiedere il permesso… -

-         Jane – disse improvvisamente la voce del signor Granger. – forse dovremmo davvero andare… -

Prese finalmente la forza di alzarsi. La famiglia Granger al completo si voltò a guardarlo. Certo che in quel momento avevano un’aria particolarmente buffa, quei tre. Il padre di Hermione con la vestaglia da camera e le pantofole. La ragazza con i capelli spettinati e l’aria di una che si è proprio appena svegliata. E la signora Granger, che si stringeva nella sua vestaglietta rosa. Con aria davvero molto dignitosa, per una che ha i bigodini in testa.

-         Uhm – ora che si era alzato, che doveva dire? – io… non… -

Hermione sospirò.

-         Bene, ora che avete svegliato lui, penso sia il caso di andare a buttare giù dal letto anche il resto del vicinato. –

Ron la guardò. Caspita. Era raro vederla così irritata con qualcuno che non fosse lui. Anche se forse non era una cosa buona.

Comunque, se di solito tifava per se stesso, stavolta tifava decisamente per lei.

Fight, Hermione!

-         Non parlare con quel tono a tua madre – disse la signora Granger, presa in contropiede.

Il signor Granger parve capire che era ora di prendere in mano la situazione, visto che Hermione non aveva l’aria di voler rispondere molto gentilmente (oddio, lei che non rispondeva cortesemente ad un adulto?).

-         Sono sicuro che se mettiamo qualcosa sotto i denti sarà meglio per tutti – si voltò sorridendo verso il ragazzo. – Ron, ti va un po’ di colazione? So che è molto presto, ma io e mia moglie andiamo a lavorare fra una mezz’oretta, per questo… -

-         Sì, va bene, grazie – rispose prontamente Ron, che nonostante l’idea di fare colazione con i genitori di Hermione (terrore e incubo) aveva parecchia fame.

La signora Granger fece un gesto come per scacciare una mosca fastidiosa ed andò in cucina, seguita stancamente dal marito che prendeva una rivista da vicino il telefono.

Hermione e Ron si guardarono.

Lei distolse lo sguardo.

-         Mi dispiace – disse, con strascichi di irritazione da prima. – avrai dormito sì e no quattro ore… contavo di svegliarmi prima di loro per spiegargli la situazione senza fare tanto chiasso, ma mi sono appisolata ed ovviamente per mia madre trovare un ragazzo che dorme sul divano con sua figlia non è esattamente l’immagine quotidiana… -

Ron la fissò.

-         Ma tu non hai dormito con me, vero? –

Hermione lo guardò.

-         Come? –

-         Dico, non eri sul divano con me. Vero? –

Lei lo fissò sbattendo le palpebre, arrossendo leggermente.

-         Certo che no, che domande fai? –

-         Beh, tu hai detto che… -

-         Oh, non ha importanza chi ha dormito dove… - disse Hermione, imitando lo stesso gesto spazientito di sua madre.

Lui fece per replicare, ma la ragazza lo zittì facendogli cenno di andare in cucina.

C’era già un buon odore di brioches calde.

La signora Granger si era tolta i bigodini. Probabilmente non poteva sopportare l’idea di aver l’aria di una la cui testa era un nido di aquile, neanche per Ron.

Quando tutti si sedettero a tavola, a lui parve improvvisamente molto strano. Insomma, di solito era Hermione che si sedeva a colazione a casa sua, circondata dalla sua famiglia chiassosa. Qui, invece, erano solo loro quattro, e l’unico rumore erano le stoviglie che sbattevano e il volume basso della radio accesa.

Era, per la prima volta probabilmente, in ‘zona Hermione’.

Ciò gli chiuse lo stomaco per i due minuti successivi, ma poi la fame ebbe il sopravvento sulla profonda riflessione che stava avendo.

Nel frattempo, Hermione spiegava pazientemente il perché della presenza di Ron in casa, quello che era successo, eccetera, e la signora Granger per un attimo dovette rimanere colpita, perché ad un certo punto del racconto si voltò verso di lui squadrandolo come se lo stesse rivalutando.

In ogni caso, la colazione non durò molto, almeno per i genitori di Hermione: dovevano essere allo studio dentistico alle otto, perciò si fiondarono a vestirsi dopo dieci minuti.

Hermione bevve un ultimo sorso di  tè con una smorfia e, dopo aver sbirciato in corridoio, andò di soppiatto a mettere su l’acqua per farsi un caffè.

-         Forse dovremmo andare a trovare Harry – disse, facendo comparire con la bacchetta un pacchetto di caffè solubile. – sei sicuro che non avesse bisogno di aiuto? –

Ron addentò la seconda brioche, pensieroso.

-         Non penso. Ieri zoppicava, però tutto sommato stava bene, e per quanto io e Kingsley abbiamo insistito per farlo andare al San Mungo, non ne voleva sapere e si è Smaterializzato ed è andato a casa, suppongo. Comunque, devo andare a casa sua in ogni caso, alle nove abbiamo lezione e di solito passo da lui verso le otto e mezza. –

-         Oh – mormorò lei, facendo comparire dell’altro caffè solubile. – beh, in effetti anch’io ho una lezione, alle dieci, però. –

Controllò con aria critica nel pentolino. Prese due tazze e versò un po’ di caffè solubile in entrambe, per poi metterci l’acqua.

Ron doveva ammettere che era piuttosto divertente vedere Hermione indaffarata ai fornelli, visto che Hermione indaffarata la vedevi sempre ma ai fornelli mai.

La ragazza gli piazzò la tazza sul tavolo davanti a lui, e Ron ebbe l’irresistibile tentazione di afferrarle il braccio e…

La signora Granger comparve di colpo sulla soglia della cucina.

-         Noi andiamo – disse, con un sorriso smagliante (aveva una faccia completamente diversa da quella di qualche minuto prima – non bisognerebbe mai vedere la gente appena sveglia). Batté le ciglia e sgambettò solennemente con i tacchi verso di loro, che avevano le tazze di caffè a mezz’aria.

-         Che state bevendo? –

Tutti e tre si guardarono.

-         Tè alle erbe –

-         Cioccolato –

Esclamarono, all’unisono.

Hermione gli tirò un calcio sotto il tavolo e lui traballò.

La signora Granger fece per dire qualcosa (e sicuramente era qualcosa che riguardava il fatto che certi ragazzi ti portano lontano dalla retta via, lontano dalla via dell’astinenza del caffè), ma il marito (per cui Ron cominciava a provare una profonda e religiosa ammirazione) la chiamò e lei parve non voler indagare oltre. Svolazzò via dalla cucina e loro aspettarono che la porta si chiudesse e che calasse il silenzio.

-         Cioccolato… – mormorò Hermione, incredula.

-         Scusa, me lo devi poi spiegare che cos’è un tè alle erbe! – ribatté Ron, offeso. – e forse sarebbe ora di finirla con questa farsa – riprese, imitando in modo impressionante il tono di rimprovero tipico della ragazza. – e dire la ve-ri-tà ai tuoi genitori. Tu bevi il caffè. –

Lei lo guardò strabuzzando gli occhi.

-         Senti chi parla! Se dovessi mettermi a fare una lista di tutte le cose che hai nascosto o nascondi a tua madre, non potrei uscire di casa due mesi… -

-         Sai una cosa? In questo caffè c’è troppa acqua, forse dovrei direttamente iniettarmelo per riuscire ad intontirmi abbastanza da sopportarti di prima mattina! –

-         Sai una cosa? Credo che la prossima volta che ti presenti a casa mia alle due di notte ti tirerò addosso un secchio di acqua gelida e ti lascerò fuori ad assiderarti. –

Si guardarono in cagnesco finendo il caffè. Hermione prese rabbiosamente la sua tazza e quella di Ron e fece per andarle a gettare del lavello, ma Ron le afferrò il polso di sorpresa, costringendola a chinarsi, e la baciò.

 

Ginny aprì gli occhi.

Sul momento non realizzò che le pareti non erano più quelle quasi bianche della sua stanza, con i poster, ed il letto non era quello caldo e comodo su cui si era addormentata tutte le estati, ma quando vide che filtrava una luce molto fioca dalla finestrucola con le sbarre – di certo non la grande finestra con le tende color pesca della sua camera – si ricordò di dove si trovava.

Stranamente, quella notte aveva dormito tutte le ore di fila, senza mai svegliarsi, senza sogni né incubi. Era stato quasi un sonno piacevole, più piacevole degli ultimi, sicuramente, con l’unica pecca che ora si sentiva indolenzita a causa dell’umidità che lo stesso castello sembrava emanare.

Dovevano essere le sette e mezzo, o le otto, del mattino: fuori brillava un sole un po’ opaco e nebbioso.

Il suo stomaco brontolò. La sera prima non aveva toccato cibo, e quella era proprio ora di colazione.

Si lavò alla bell’e meglio con l’acqua del lavandino (doveva davvero trovare una doccia od una vasca o qualsiasi cosa in cui fare il bagno), indossò la veste nera. Guardò la porta. Non aveva minimamente voglia di uscire. Era sicurissima che avrebbe finito per litigare con il primo che avrebbe incontrato. Non che la cosa la stupisse: non ci teneva nemmeno a fare amicizia con i Mangiamorte, comunque.

La sera prima, Rodolphus aveva sbattuto lei e Malfoy fuori dalla sua stanza senza dare il tempo a nessuno di replicare. Malfoy se n’era andato senza dire una parola.

Il risultato era che ora lei non poteva più guardare il suo braccio sinistro. Faceva semplicemente finta che il Marchio non esistesse. Sia quando si era svestita la sera prima, sia vestendosi quella mattina, aveva ostentatamente evitato di guardarsi la spalla. E non poteva nemmeno pensare a quello che aveva visto la sera precedente. Era passato solo un giorno, e c’erano già un sacco di cose che voleva dimenticare.

Fece appena in tempo a far apparire una tazza di caffè caldo con la magia, che qualcuno spalancò la porta.

-         Esci – disse Bellatrix Lestrange, con le braccia incrociate e lo sguardo sprezzante. – sei di turno alla porta. –

Ginny la fissò.

-         Di turno…? –

Bellatrix roteò gli occhi.

-         Alla porta, Weasley. Due Mangiamorte alla volta stanno di guardia, non te ne sei accorta? Oggi ti tocca la mattina. Chiaro? E sbrigati, gli altri hanno già staccato da un pezzo. –

Ginny fece molta fatica a fingere indifferenza e a trattenersi dal risponderle a tono. Tutto quell’accumulare cose che voleva dire era molto fastidioso. Bellatrix lanciò un’ultima occhiata a dir poco disgustata alle tende a pois (create da Ginny) e uscì senza degnarla di uno sguardo.

I corridoi sembravano infiniti. La ragazza faceva sempre più fatica a capire in che parte del castello si trovasse. Comunque, al contrario del giorno prima, quella mattina incontrò almeno una dozzina di Mangiamorte che giravano trafelati per il castello, con il cappuccio abbassato, ma la maggior parte non le prestò la minima attenzione. Si chiese quante persone in totale vivessero nel castello. Potevano anche essere più di un centinaio. Tutti al servizio di Voldemort, tutti che architettavano qualcosa per distruggere gli Auror ed i loro alleati. Tutti che come obiettivo principale, a parte la salita al potere del Signore Oscuro, avevano probabilmente Harry Potter. Averlo per le mani e poterlo portare a Lord Voldemort doveva essere un’idea molto allettante per tutti quanti. Ginny pensò che prima che uno di quei mentecatti seguaci di un maniaco del potere potesse battere Harry, sarebbero passati milioni di anni.

Davanti al portone, c’era già un altro Mangiamorte di guardia.

Ginny capì che non sarebbe stata una mattinata rilassata quando incrociò lo sguardo di Pansy Parkinson da sotto il cappuccio.

La ragazza con i capelli neri si voltò di scatto verso Bellatrix, gli occhi fiammeggianti.

-         Non dovrò passare cinque ore con questa? – ringhiò, squadrandola come se fosse stupita che la natura avesse partorito un tale disastro.

-         Gli altri erano tutti occupati – fece Bellatrix, con aria quasi compassionevole. – ti consiglio di non darle tanta importanza ed ignorarla. –

Pansy schioccò la lingua con disprezzo.

-         Mi pare difficile. Tu ignoreresti un topo morto che puzza sul tuo lenzuolo? –

Bellatrix scoppiò a ridere e se ne andò ancora ridendo.

Ginny non poté trattenersi.

-         Ti vedo un po’ scontrosa, Parkinson – disse, tagliente, appoggiandosi al portone. – dev’essere dura svegliarsi e guardare tutte le mattine la tua brutta faccia. –

Pansy divenne rossa di rabbia.

-         Tieni la tua ironia da poveraccia lontana da qui, Weasley. Se pensi che ti abbia accettata tra noi… -

-         E’ il mio più grande terrore, Parkinson. –

La ragazza inarcò le sopracciglia, cercando di non farsi prendere dalla rabbia.

-         Credi di essere molto furba, vero? Beh, ti do un informazione: non siamo più a scuola. Non ti basterà più guardare tutti quanti con i tuoi occhioni da cerbiatto per passarla liscia. La fidanzatina di Potter! Figurati se qualcuno si fida di te. –

Non ho bisogno della fiducia di nessuno, avrebbe voluto rispondere, ma entrambe dovettero voltarsi a guardare ai piedi della collina, da dove qualcuno stava venendo verso di loro.

Ginny intravide gli occhi grigi sotto il cappuccio nero per un breve attimo.

-         Draco – trillò Pansy, avvicinandosi a lui. – sei già sveglio? Pensavo… -

-         E’ passato Rodolphus? – la interruppe freddamente il ragazzo.

-         Oh, non penso, ma io sono qui da poco – lanciò uno sguardo verso Ginny. – come vedi, la guardia scarseggiava molto e guarda con chi mi tocca stare. –

Malfoy non la guardò. Oltrepassò Pansy senza un’altra parola ed entrò nel castello.

Ginny vide il viso della Parkinson rabbuiarsi, ma quando la ragazza si accorse del suo sguardo fece una smorfia ed evitò di parlarle o rivolgerle gli occhi per i minuti successivi.

 

Harry si svegliò di botto, come se qualcuno l’avesse schiaffeggiato.

Scattò a sedere ma un gran dolore alla gamba lo costrinse a ristendersi stringendo forte le palpebre.

La sua stanza era immersa nella penombra. Fuori il tempo doveva essere variabile, perché ogni tanto filtrava il sole ed altre volte era buio pesto.

Mentre inforcava gli occhiali, sentì un gran chiasso di pentole e di piatti rompersi sul pavimento provenire dalla cucina.

-         Chi c’è? – esclamò, afferrando la bacchetta e zoppicando a fatica verso la cucina.

-         Chi c’è? – esclamò un’altra voce.

Svoltando in cucina, si trovò di colpo di fronte a Luna Lovegood, che teneva in mano una padella, pronta a colpirlo.

-         Oh, Harry! Eri tu! – disse la ragazza, allegramente, abbassando la padella.

Harry la fissò con gli occhi sgranati.

Dopo qualche secondo, si riprese.

-         Ero… ero io, certo, questa è casa mia! Da quanto sei qui? –

Luna parve non cogliere la sfumatura irritata del suo tono di voce. Assunse un’aria pensierosa. Aveva un’aria particolarmente ridicola, con i capelli raccolti in due codini alti.

-         Dunque, ieri sera quando sono tornata dalla porta tu ti eri addormentato, così ho pensato di andarmene, poi a casa mi sono accorta che avevo preso le tue chiavi, così ho pensato che visto che non ti eri ancora curato la gamba potevo tornare stamattina, così sono tornata, ma tu dormivi ancora ed improvvisamente mi è venuta una gran voglia di biscotti con i pezzi di cioccolato dentro, hai presente?, e li ho cercati dappertutto ma tu non li hai, perché poi?, e stavo giusto pensando di farli da me quando tu ti sei messo a gridare e mi hai spaventata. –

Harry si passò una mano sulla faccia, stremato. Zoppicò fino ad una sedia e vi crollò sopra.

-         Luna – cercò di dire, con aria ragionevole. – non… non puoi entrare in casa delle altre persone così… avrei anche potuto lanciarti un incantesimo o che so io, perché non sapevo che eri tu… magari la prossima volta suona il campanello, o bussa… ma non entrare con le mie chiavi – ci pensò un attimo su. – e non entrare nemmeno dalla finestra. –

Luna lo guardava come se stesse dicendo delle stupidaggini, ma annuì come si annuisce di fronte ad un matto.

-         Va bene – disse, scrollando le spalle. – sì, ma perché non hai i biscotti con i pezzi di cioccolato? –

Harry si mise le mani nei capelli.

 

Ron ed Hermione si Materializzarono di fronte alla porta dell’appartamento di Harry.

-         Non ho voglia di andare a scuola – borbottò Ron, suonando il campanello con insistenza (intonando una specie di musichetta).

-         Non mi fai per niente pena – disse Hermione, dandogli uno schiaffetto sulla mano in modo che la smettesse con la canzoncina.

La porta si aprì.

-         Buongiorno! – disse Luna, allegramente.

Ron ed Hermione sbatterono le palpebre.

-         Luna – disse la ragazza. – che… che ci fai qui? –

-         Beh, ieri stavo alla finestra quando il mio Soffiartigli, a cui poi devo ancora dare il nome, ma sapete, mi avevano proposto Rodolfo o Mister Claw ma non suonano bene per lui, secondo me, comunque, stavo là alla mia finestra, perché io vivo qui accanto, e… -

-         Sì, magari glielo spiego io – arrivò Harry, zoppicandole alle spalle, con aria disperata. – entrate. –

Ron si sedette alla sedia della scrivania, guardando confuso Luna che trotterellava in cucina come se fosse sua. Harry spiegò il più sinteticamente possibile la situazione, cercando di non sembrare troppo scocciato.

Hermione sorrise, un po’ perplessa.

-         E’ stato… molto carino da parte di Luna… portarti la cassetta del pronto soccorso, ecco. –

-         Forse era meglio il dissanguamento – mormorò Ron, sempre guardando Luna che tornava con della roba informe che sfumacchiava dentro ad una padella.

Harry tacque, ma la pensava più o meno così. Si versò sopra la ferita il disinfettante che poco prima aveva scovato dentro alla cassetta e cercando di sopportare il bruciore si arrotolò una garza intorno al polpaccio.

-         Comunque oggi non penso verrò a lezione – disse. – non riesco a reggermi in piedi, la gamba mi fa male ed ho sonno. –

Ron batté le mani.

-         Hai ragione! Penso proprio che me ne tornerò a casa e… -

Hermione lo squadrò, orripilata.

-         Tu non hai motivo di rimanere a casa. Harry, tu pensa solo a riposarti. –

Ron fece per replicare ma Hermione si alzò in piedi solennemente ponendo fine alla conversazione.

-         E lei? – bisbigliò Ron, indicando Luna che non accennava ad andarsene.

-         Ho cercato in tutti i modi di dirle che forse era il momento che ritornasse a casa – sussurrò Harry, scuotendo la testa snervato. – o non capisce, o fa finta di non capire… -

Luna aprì la finestra e fece entrare il suo Soffiartigli dal davanzale come se fosse la cosa più normale del mondo.

 

-         Posso sedermi? Harry non c’è? –

Ron alzò lo sguardo, sbadigliando. Cloe lo guardava con aria interrogativa. Annuì, togliendo la sua borsa piena di libri (pressoché inutilizzati) dalla sedia accanto alla sua e riappoggiandosi sul tavolo con aria sfinita.

-         No… abbiamo fatto tardi ieri sera – mormorò, stiracchiandosi. – sai… uccidi un cattivo qui, salva il mondo là… -

Cloe scoppiò a ridere, mettendo il suo libro di Difesa Avanzata sul tavolo. Il professore non era ancora arrivato e l’aula era tutta un chiacchiericcio.

-         Sai, mio padre ultimamente non fa che parlare di te – disse la ragazza, dopo un po’. – gli hai fatto davvero una buona impressione. Sarebbe contento di riaverti a casa nostra, una di queste volte. –

Ron si voltò a guardarla.

-         Sì, magari facessi questo effetto a tutti i genitori… - borbottò.

Cloe aggrottò le sopracciglia, sorridendo confusa.

-         Ha perfino detto che se cerchi un immobile, te lo sconterebbe volentieri. Se non sbaglio vivi ancora con i tuoi, giusto? –

Ron la fissò.

-         Ne abbiamo fin troppi, di mobili, a dire la verità… in casa non si cammina… -

Cloe sorrise, cercando di trattenere una risata.

-         No, intendo immobili, case, insomma. Non te l’ho detto? E’ uno dei passatempi preferiti di mio padre. Si è messo in società con un suo amico a capo di un’agenzia immobiliare, ed hanno parecchi edifici nuovi sottomano. –

Ron la guardò, sbattendo la palpebre. Si grattò la nuca.

-         Oh… beh, sì, io vivo ancora con i miei… e casa è parecchio lontana da qui, ed è parecchio fastidioso Materializzarsi continuamente… -

Cloe annuì.

-         Infatti gli ho detto che forse potevi essere interessato. Hanno fatto delle case nuove proprio qui a Diagon Alley, e lui ne gestisce la vendita. Per venire a scuola non avresti neanche bisogno di Materializzarti. –

Ron rifletté. Non aveva mai pensato, a dire la verità, all’idea di andarsene di casa. Certo, quando Harry si era trasferito da solo nel suo appartamento aveva provato un po’ di invidia, ma dopotutto la sua situazione era molto diversa. Tuttavia, non doveva essere male non essere svegliato ogni mattina presto da tua madre che pulisce negli antri più profondi della tua stanza, non sentire continuamente lamentele sui vestiti sporchi lasciati a mollo nel lavandino e sul bagno allagato dopo la doccia, non dover nascondere certi giornali (sì, quei giornali… c’è poco da ridere, sono cose serie) nel doppiofondo dell’armadio perché lei non li trovi per poi avere un attacco isterico sul tema ‘non-posso-crederci-perfino-il-mio-bambino’. D’altra parte, in fondo non doveva nemmeno essere facile dover tenere umanamente la casa (in ordine sarebbe esagerato, e poi, perché?) e lavarsi i vestiti da soli, ma specialmente non poter trovare colazione, pranzo e cena pronti sul tavolo...

-         Sai che potremmo fare? – irruppe la voce di Cloe, interrompendo i suoi pensieri. – dopo la lezione, ho un po’ di tempo libero. Se ti va, potrei chiamare un dipendente di mio padre e magari ci facciamo fare un giro turistico di una casa, così, per divertirci. Ce n’è una che mi piace moltissimo, è in vendita da poco e penso potrebbe piacerti. –

Ron scrollò le spalle, indeciso.

-         Beh, non ho impegni dopo... –

-         Non devi salvare il mondo? –

-         Oh – mormorò lui, con noncuranza. – quello domani. –

Cloe rise.

 

Ginny si buttò sul letto scricchiolante della sua stanza, sfinita.

Aveva passato tutta la mattina con Pansy Parkinson, ed era stato devastante. Non sapeva decidere quale fosse stato il momento peggiore, se quando la Parkinson si era messa ad inveire contro di lei ed avevano finito per Schiantarsi a vicenda, o quando Bellatrix Lestrange si era fermata per un po’ lì a parlare ‘male’ di lei ad alta voce e dopo un po’ senza preavviso l’avevano Schiantata contro il muro rischiando di ridurre le sue ossa in frantumi.

Il resto del pomeriggio aveva pensato di essere libera, ma naturalmente Bellatrix l’aveva bloccata prima che andasse a perdersi nei corridoi alla ricerca della sua stanza e le aveva ordinato di ‘pulire il servizio di bicchieri della cucina del castello’, servizio che consisteva in circa cinquecento bicchieri di cristallo delicatissimi, proclamando che se ne avesse rotto uno si sarebbe messa nei guai.

Ginny aveva avuto l’impressione di essere presa in giro (dubitava che altri Mangiamorte avessero mansioni tipo pulire cinquecento bicchieri… non doveva essere molto utile al Signore Oscuro avere la cristalleria brillante), ma, dato lo sguardo pazzoide di Bellatrix, se si fosse rifiutata avrebbero finito per ammazzarsi a vicenda, e quel giorno non ne aveva molta voglia.

Quattro ore dopo (naturalmente non aveva nemmeno potuto usare la magia, altrimenti avrebbe finito sicuramente per rompere qualcosa) era finalmente salita nella sua stanza, umiliata, arrabbiata e stanca.

Guardò il soffitto della stanza. La pietra creava l’effetto ottico di restringersi sopra di lei.

Si mise seduta. Odiava gli ambienti oppressivi. Secondo lei però la sua non era claustrofobia, ma ragionevolezza. Il fatto che i Mangiamorte fossero degli svitati era provato dal fatto che vivevano in camere ristrette e soffocanti come quella.

Prese la bacchetta. Si stese di nuovo sul letto a pancia in giù. Alzò il braccio ed agitò la bacchetta verso il soffitto con aria critica. La pietra divenne arancione. Era terrificante. Agitò di nuovo la bacchetta. Verde. Sembrava muschio. Di nuovo. Rosa. Ma neanche a pensarci.

Fece varie prove come in trance (era un po’ strano per un Mangiamorte mettersi a cambiare il colore del soffitto?), finché non raggiunse, chissà come, una bella tonalità d’azzurro cielo.

Si alzò in piedi, andò davanti alla finestrella con le sbarre. Agitò la bacchetta ed in un attimo finestra e sbarre furono distrutte, creando un buco grande quanto, beh, una finestra normale, non da prigione, sicuramente. A dire la verità, sembrava che qualcuno ci avesse lanciato contro un camion. Si mise addirittura a fare le rifiniture della pietra, e dopo un po’ la finestra assunse parvenze quasi normali, con il vetro e tutto il resto, a parte gli spifferi che provenivano da certi buchi che lei aveva tralasciato.

Sorrise, soddisfatta. La vista non era male: si vedeva una buona parte di cielo e la collina di fronte e se si sporgeva un po’ riusciva a vedere anche il portone del castello con i due Mangiamorte di guardia.

Il sole si stava tingendo di rosso e stava per tramontare dietro la collina. Da lassù si doveva avere uno spettacolo splendido del tramonto, a dire la verità.

Beh, tanto non aveva niente di meglio da fare.

 

Ron, Cloe ed il signor Brown (sì, un mago di mezz’età, basso e piuttosto tarchiato che si chiamava ‘signor Brown’ e faceva l’agente immobiliare) si fermarono di fronte ad un bell’edificio dall’aria nuova, proprio nella strada parallela a quella della Scuola per Auror e nella stessa strada di quella di Medimagia.

-         E’ una zona centrale ma al tempo stesso tranquilla – decantava il signor Brown agitando le braccia. – questo edificio è stato ultimato un paio di mesi fa, le tasse condominiali sono, oserei dire, irrisorie per un palazzo simile. Purtroppo gli appartamenti sono quasi tutti venduti, ne rimangono due, mi sembra. Uno è l’attico – squadrò Ron dall’alto in basso. – ma non credo sia adatto alle vostre esigenze. Sarei intenzionato a mostrarvi l’altro, se volete seguirmi. –

Beh, come posto non era affatto male, pensava Ron, mentre entravano da una porta scorrevole di vetro. Comunque, non aveva certo intenzioni serie al riguardo. Quel posto, se anche per Cloe poteva sembrare ‘semplice semplice’ era un po’ troppo sopra le sue possibilità, anche se di certo non era lussuoso. E poi, lui non lavorava, dove li andava a pescare i soldi per comprarsi un appartamento? Da sotto il materasso (dove tanto non c’era niente, visto che Molly Weasley aspirava sempre qualsiasi cosa fosse sotto al letto)?

L’appartamento ‘adatto alle vostre esigenze’ era al terzo piano senza ascensore. Il signor Brown aprì la porta continuando a decantare le lodi del posto e lanciandosi in irritanti disquisizioni su quanto sia scomodo vivere in campagna.

Ron stava giusto giusto per perdere la pazienza e mandare al diavolo il signor Brown, quando guardò oltre la porta.

Certo, modesto era modesto. Poco lussuoso, era davvero poco lussuoso. Ma era… era… accogliente, ecco. Ron non avrebbe saputo spiegarlo diversamente.

Dall’ingresso si vedeva un piccolo salotto, naturalmente non arredato, con un vano per il caminetto ed una portafinestra che dava su una bella terrazza bianca con vista sulla strada principale di Diagon Alley.

La cucina e la sala da pranzo erano un’unica stanza, più o meno come alla Tana. Il bagno era spazioso ed aveva una finestra che sporgeva sul cortile interno del condominio. C’era una vasca ampia e bianca incassata contro la parete.

Il signor Brown continuava a ciarlare.

-         Trovo che questo appartamento sia stupendo per dei giovani, è comodo, piuttosto spazioso ma non troppo, e poi, guardate che luminosità! Come vedete, c’è una terrazza per il salotto (le tende bianche sono incluse, naturalmente) ed una nella camera da letto, che dà sul cortile, che è molto tranquillo quindi la privacy è rispettatissima. La mattina il sole entra che è un piacere. Immaginatela arredata: c’è lo spazio per un letto matrimoniale ed un armadio… poi in salotto due divani ci stanno comodamente, magari anche una di quelle scrivanie di legno antico… -

Per quanto tutte le sue chiacchiere da agente immobiliare fossero un po’ fastidiose, la mente di Ron frullava a grande velocità. Era davvero bello, quell’appartamento. Senza nemmeno accorgersene, già si immaginava ad alzarsi la mattina ed aprire quella bella finestra luminosa, poi andare in cucina a prepararsi il caffè, poi andare in salotto a scombinare l’ordine alfabetico dei libri sullo scaffale di Hermione…

Oh.

Un momento. Caspita.

Caspita.

Il signor Brown si voltò a guardarli.

-         Allora, come vi sembra? L’affitto non è affatto proibitivo. Direi che è perfetto per una coppia di giovani come voi. -

Ron parve risvegliarsi, e lo guardò confuso.

-         Ah, no… non stiamo insieme. –

Cloe fece un segno di assenso dopo qualche secondo.

-         Oh… capisco – disse il signor Brown, secco. – quando la signorina Shefferd mi ha chiamato, ho pensato… -

-         Non importa, signor Brown – intervenne frettolosamente Cloe. – è stato molto gentile a farci fare questa visita. In realtà, solo Ron è interessato all’acquisto… -

-         Ehm… veramente – disse il ragazzo, prima di riuscire a fermarsi. – se è per due persone, è per due persone… tutto questo spazio sprecato… forse… uhm, forse dovrei discuterne con qualcuno. -

Il sorriso di Cloe si spense lentamente.

-         Sì… certo – mormorò. – è molto spazio per una persona sola… -

Ma Ron ormai era partito in quarta con i pensieri.

Forse poteva trovarsi un lavoro. E visto che i suoi genitori non gli avevano ancora fatto il regalo di compleanno (sua madre si arrovellava per settimane… per poi regalargli il solito maglione), poteva rinunciare al maglione (magari) e farsi dare un po’ di soldi, visto che a lui gliene davano sempre pochi col fatto che la Scuola per Auror costava parecchio, ma sua madre si sentiva comunque un po’ in colpa. Forse poteva pagare prima con quelli e poi trovarsi un lavoro. Forse poteva parlarne con Hermione.

La sola idea lo elettrizzò quel tanto che dovette arrossire in zona orecchie, perché il signor Brown lo guardò un po’ stranito ed incuriosito (sarà mica stato gay?).

-         Senta, me lo può fermare per un paio di giorni? Devo davvero parlarne con una persona – disse il ragazzo, saltellando da un piede all’altro come un bambino che aspetta che gli incartino un regalo.

Il signor Brown assunse un’espressione indecisa.

-         Beh, non saprei – mormorò. – sono appartamenti molto convenienti, questi… ci sono tanti acquirenti, non vorrei che… -

Cloe fece un sospiro.

-         Su, signor Brown – disse, all’improvviso. – sono sicura che può fermarlo, per due giorni. Ron le farà sapere entro i tempi stabiliti, vero? –

Ron annuì energicamente.

L’uomo parve rifletterci per un po’. Poi, sospirò.

-         E va bene – disse, alla fine. – ma che siano solo due giorni. Poi lo riconsidererò in vendita. –

Il ragazzo sorrise ed in un attimo svolazzò fuori dalla porta inciampando nel suo stesso borsone, salutando e ringraziando velocemente i due.

Cloe gli sorrise e lo salutò con la mano.

Il signor Brown tossicchiò.

-         Mi scusi, signorina Shefferd, per la gaffe di prima… credevo davvero che il ragazzo fosse il suo fidanzato, da come ne aveva parlato… anche perché suo padre ha chiesto uno sconto per lui, quindi ho pensato… -

-         Davvero, non c’è problema – disse Cloe, scrollando le spalle. – non si può ottenere tutto… speravo solo… -

Il signor Brown la guardò, in ascolto.

Cloe sorrise, agitando una mano.

-         Niente, lasci perdere. –

 

Ginny si sedette sull’erba e sorrise. Una leggera brezza le scompigliò i capelli.

Caspita, lì in cima alla collina si stava davvero bene. Era un paradiso. C’erano tutte le cose che preferiva di un luogo: il vento, l’odore degli alberi, il tramonto, una vista del cielo stupenda. Certo, voltandosi si vedeva il castello, il che rendeva la situazione un po’ cupa, ma se guardava dritto davanti a sé si vedeva solo il sole, il tramonto ed il sentiero che portava alla foresta non troppo lontano da lì.

In più, era assolutamente silenzioso e deserto, lì attorno. Il sentiero dal castello alla cima della collina era troppo lungo e faticoso perché qualche Mangiamorte si avventurasse là sopra.

Lo avrebbe eletto ‘posto di sua proprietà’.

Appoggiò le mani dietro la schiena, sull’erba e qualcosa le premette leggermente contro il palmo della mano destra. La ritrasse, aggrottò le sopracciglia.

Lì tra i fili d’erba c’era una sigaretta spenta, fumata a metà. La prese fra due dita, disgustata. Incredibile che a qualcuno venisse voglia di fumare in un posto del genere. Perfino lei, che ultimamente non era al massimo della forma, di fronte ad uno spettacolo del genere si sentiva in grado di sormontare qualsiasi ostacolo. Gettò la sigaretta lontano.

-         Sei onnipresente, Weasley? –

Ginny si voltò di scatto.

Draco Malfoy era in piedi qualche metro dietro di lei, alla fine del sentiero che portava lì, con l’aria di non apprezzare affatto la sua presenza lì.

-         Pensavo fosse una tua caratteristica – replicò lei, sulla difensiva, alzandosi in piedi.

-         Non essere modesta – disse Malfoy, sarcastico.

Si guardarono gelidamente.

-         Sei ancora qui, Weasley? Quanto ti ci vuole per andartene? –

Ginny incrociò le braccia.

-         Qui c’ero prima io. –

-         Sì, ma ora sono arrivato io. E non mi sembra il caso di stare nello stesso posto contemporaneamente. –

-         Libero di andartene. –

Malfoy roteò gli occhi, infastidito.

-         Hai mantenuto la tua odiosa abitudine di rispondere continuamente – disse. – non sei un po’ grande per impuntarti? –

Ginny lo guardò e miliardi di pensieri le passarono improvvisamente per la testa, così confusamente che per un attimo non riuscì a rispondere e non capì perché.

Scosse la testa e si risedette.

-         Pensa quello che vuoi, non me ne frega niente – proclamò, voltandosi dalla parte opposta. – ma io rimango qui. –

Draco sospirò pesantemente, infastidito, ma evidentemente non aveva voglia di continuare a giocare al botta e risposta, che tanto era risaputo che con Ginny Weasley era una partita persa.

La guardò, scocciato. Non aveva affatto voglia, però, di dargliela vinta andandosene.

Prese una sigaretta dalla tasca e l’accese con la bacchetta, sempre più irritato. Si era anche seduta dove si sedeva lui di solito.

Rimasero in silenzio per un po’, mentre Draco fumava in piedi appoggiato ad un albero.

Alla quinta volta che il ragazzo espirò il fumo, Ginny cominciò a tossire ed agitò la mano.

-         Santo cielo – ringhiò, voltandosi a guardarlo.

-         Che hai, Weasley, ti è caduta una ciglia finta? –

Ginny lo ignorò.

-         Ti dispiacerebbe smetterla? –

Malfoy la fissò aspirando la sigaretta con aria innocente.

-         Smettere di fare cosa? –

-         Di respirare. –

-         Se il fatto che io respiri ti rende così nervosa, presto ti verranno delle brutte rughe… anzi, oserei dire che ne vedo già qualcuna lì sulla fronte… -

Ginny scattò in piedi di colpo.

-         Qualunque persona abbia bisogno di fumare in un paesaggio del genere, dev’essere una persona molto infelice. –

Prima che lui avesse il tempo di replicare, Ginny gli si parò di fronte, gli strappò la sigaretta di mano, la buttò per terra e la pestò con tutta la sua forza.

-         E ora me ne vado. Grazie per avermi reso spiacevole anche questo. –

Draco la fissò freddamente.

-         Di niente. –

Ginny stringeva i pugni affondando le unghie nel palmo delle mani. Era snervante, era veramente una delle persone più snervanti che avesse mai conosciuto. Doveva sempre avere quell’aria superiore, quell’aria intoccabile. Per quanto lei si lamentasse, gridasse, si arrabbiasse, niente lo turbava e rispondeva sempre con due parole ben piazzate.

E ti guardava in quel modo. Con quegli occhi grigi. Con quello sguardo.

La ragazza fece per andarsene.

Poi, si bloccò di colpo.

-         L’hai sentito? –

Malfoy, che stava prendendo un’altra sigaretta dalla tasca, la fissò.

-         Pensavo te ne stessi andando – disse, freddo.

-         Stai zitto per un secondo, okay, Malfoy? –

Ginny tese le orecchie. Era sicura di aver sentito qualcosa, qualcosa che le aveva dato una brutta sensazione.

Lo sentì di nuovo, in lontananza.

-         Ecco! L’hai sentito? –

Malfoy continuò a fumare, fissandola come se fosse pazza.

-         Non ho tempo per le tue allucinazioni uditive, Weasley. –

Di nuovo quel suono. Stavolta il ragazzo dovette sentirlo, perché si voltò istintivamente.

-         Cos’è? – chiese Ginny.

-         Sembrerebbe un pianto… a chi hai tolto il lecca lecca, Weasley? Anche se temo ci sia poco da piangere. -

Ginny lo fulminò con lo sguardo.

-         Tu ed i tuoi doppi sensi mi fate schifo – dichiarò. – dico sul serio, sembra il pianto di un bambino. –

-         Ecco l’istinto materno che risorge in tutta la sua pateticità – gettò la sigaretta quasi finita per terra. – dico sul serio, non te ne stavi andando? -

Lei non sembrava prestargli la minima attenzione. Il pianto non accennava a smettere. Sembrava provenire dalla foresta. Non riusciva a muoversi. Non poteva ignorarlo. Gli dava una bruttissima sensazione.

-         Devo andare a vedere – disse, fissando lo sguardo sulla foresta.

-         Accomodati. –

Ginny rimase incerta per un attimo, poi prese a camminare giù per la collina.

-         Ti perderai – le rise dietro Malfoy. – c’è un incantesimo Confundus qui attorno. Se non hai l’anello e ti allontani dal castello senza permesso, ti dimentichi la strada e sei finito. –

La ragazza si fermò, irritata. Si voltò e risalì il sentiero fissando l’aria soddisfatta di Malfoy.

-         Hai ragione – disse.

Lo afferrò per un braccio.

-         Accompagnami. –

Malfoy la fissò, trascinato giù per il sentiero senza che se ne rendesse conto.

-         Ma neanche per sogno! – si liberò della sua stretta.

-         Tu hai l’anello. Te la ricorderai, la strada. –

-         Non ho intenzione di fare una cosa così stupida. –

-         Neanche a me va di stare dieci secondi in più in tua presenza, ma devo andare là. E comunque, non ti lascerò in pace finché non accetterai. –

Malfoy la guardò negli occhi, senza tentennare. Ginny resse lo sguardo.

Il ragazzo sbuffò.

-         Tu sei veramente fuori di testa, Weasley. - dichiarò, ma la seguì.

-         Oh, non ricoprirmi di troppi complimenti. –

Malfoy roteò gli occhi, infastidito. Il giorno in cui quella ragazza sarebbe rimasta senza parole, probabilmente Lord Voldemort avrebbe ricoperto il castello di gerani per soddisfare il suo senso estetico.

 

Il Soffiartigli si accoccolò sulle gambe di Harry senza che lui potesse fare nulla per impedirlo, vista la gamba che non poteva muovere.

-         Davvero, Luna, credo che forse dovresti tornare a casa, io sto benissimo – disse, per l’ennesima volta, ma probabilmente lo ascoltava di più l’animale che lei.

La ragazza camminava avanti e indietro per la casa senza mai fermarsi da ore, ormai. E la cosa agghiacciante era che spargeva in giro degli oggetti che pensava fossero ‘graziosamente decorativi’, ma che erano semplicemente inguardabili. Basti pensare che uno dei soprammobili più identificabili in qualcosa di esistente era un gufo rosa impagliato con le ali aperte in posizione d’atterraggio, con gli occhi gialli spalancati. Edvige al suo ritorno dal giretto serale non sarebbe stata per niente contenta.

Luna aprì le tende di colpo e Harry si coprì la faccia con una mano. Il sole del tramonto trafiggeva la stanza.

-         Perché tutti quanti chiudete le tende quando c’è il sole? – chiese Luna, con aria sinceramente interrogativa.

-         Perché è accecante – replicò seccamente Harry, frustrato.

Luna guardò alla finestra con aria molto perplessa, come se non la ritenesse una risposta soddisfacente.

Si voltò a guardarlo.

-         Non capisco – disse. – comunque, forse dovrei andare alla redazione del Cavillo… sono tre giorni che non ci vado… e ci ho lasciato anche delle scatolette di tonno aperte… saranno andate a male?... –

Harry si illuminò.

-         E’ un’ottima idea… non voglio impedirti di fare il tuo lavoro – disse, evitando accuratamente di chiedere come fosse possibile che un dipendente potesse entrare ed uscire dalla redazione quando gli pareva.

Luna fece spallucce.

-         Mi raccomando, occupati tu di Soffiartigli, anche se so che non ti piace… però, in fondo, se hai un gufo perché non puoi occuparti anche di un Soffiartigli? –

Harry chiuse gli occhi e li riaprì cercando di non sembrare esasperato. Luna aveva un carattere molto faticoso (sì, un carattere faticoso… del genere che dopo una conversazione ti senti sfinito come se avessi corso per sette chilometri senza fermarti mai), ma puntualmente ogni volta che lui perdeva un po’ la pazienza, lei annuiva con aria comprensiva, e capiva e si toglieva di mezzo, e questo lo faceva sentire stupidamente in colpa.

-         Certo, me ne occupo io – rispose in fretta, e se fosse riuscito ad alzarsi l’avrebbe volentieri accompagnata alla porta a grande velocità.

-         Fantastico! Speriamo che le scatolette di tonno non stiano puzzando troppo… Ci vediamo, Harry e Soffiartigli! –

Luna scivolò fuori dall’appartamento rumorosamente com’era arrivata.

Harry finalmente si rilassò e si stese sul letto cercando di non spostare troppo Soffiartigli (era molto pesante, ma d’altronde aveva dato un’occhiata alle sue unghie nascoste nel pelo delle zampe e, beh… era decisamente meglio non irritarlo, di sicuro).

Sperava sinceramente che il fatto di aver scoperto che Luna era la sua vicina di casa e di averle inavvertitamente detto che non gli dispiaceva (per pura cortesia), non significasse che ora lei doveva stare sempre nel suo appartamento a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Non ora che non aveva proprio voglia di avere molta compagnia.

Harry non riuscì nemmeno ad assopirsi, c’era troppa luce che filtrava dalle finestre.

 

Percorsero la strada fino alla foresta nel più gelido silenzio. Un paio di volte, Ginny si guardò indietro e più camminava più si rendeva conto che non si ricordava bene dove fosse il castello. Ad un certo punto arrivò davvero a non ricordarsi nemmeno che passi aveva fatto. Draco invece non aveva l’aria per niente confusa, e la seguiva irritato.

Più si avvicinavano, più si sentivano chiaramente dei singhiozzi e degli urli di pianto.

Era un bambino, quasi sicuramente.

Nella foresta, era quasi buio. Entrambi accesero le bacchette.

Ginny si guardava intorno.

-         Ma da dove viene? - chiese, più all’aria che a lui.

Girarono per pochi minuti sull’erba, e si addentrarono poco nella radura.

-         Bene, dopo questa spiacevole gita, me ne vado – disse Malfoy, ad un certo punto.

-         No, aspetta – disse Ginny, afferrandogli il braccio.

Lei e questa sua mania di fermarlo afferrandogli il braccio.

Tendendo al massimo le orecchie, lo trascinò a destra e poi a sinistra, scavalcarono delle radici piuttosto grosse e superarono una quercia.

Lì dietro, c’era un bambino.

Era molto piccolo, non doveva avere più di sei, otto mesi. Piangeva e strillava avvolto in un lenzuolo, dentro ad un cesto a mo’ di culla.

-         Santo cielo – sussurrò Ginny, chinandosi verso di lui.

-         Si direbbe un bambino – disse Draco, sempre impassibile e tenendosi ben lontano dalla culla come se emanasse cattivo odore.

Ginny gli lanciò un’occhiataccia. Il bambino strillava a più non posso.

Malfoy si allontanò ancora.

-         Fantastico, possiamo andare, ora? –

Ginny lo fissò, orripilata. Con delicatezza prese in braccio il bambino e lo squadrò. Aveva dei begli occhi azzurri. Quando la vide, smise un attimo di piangere contorcendo il viso rosso di sforzo e poi scoppiò di nuovo a piangere.

-         Sei impazzito? Non possiamo lasciarlo qui. –

-         Per favore, e quale altra soluzione avresti? Te lo porti al castello? Ieri non sembravi incinta… -

Ginny lo ignorò totalmente. Fece comparire con la bacchetta una bottiglietta di latte, la stappò e la offrì al bambino. Quello parve calmarsi, squadrò la bottiglia e ci si attaccò voracemente.

-         Finalmente – sospirò Draco. Gli strilli erano stati veramente strazianti per le sue orecchie.

-         Ma chi potrebbe abbandonare un bambino così piccolo nella foresta? –

-         Forse non lo sapremo mai. Ora, potresti posare quell’affare, così andiamo? Si sta facendo freddo. –

La ragazza annuì.

-         Hai ragione – sentenziò. – questo lenzuolo non basta, si ammalerà. Dammi la tua veste. –

Malfoy la fissò come se non parlassero la stessa lingua.

-         Punto uno: è già tanto che io ti abbia accompagnato fin qui e che non ti ci abbia lasciato, perciò non cominciare a farmi perdere la pazienza con le tue richieste assurde. Punto due: perché non usi la tua veste, visto che sei tanto una santa? Punto tre: potresti cortesemente smetterla di preoccuparti di cose che non ti riguardano? –

Ginny roteò gli occhi, impaziente.

-         Punto uno: tu sei in debito con me, perché io ho mentito a Rodolphus per non farti finire nei guai per pura bontà del mio cuore e perché mi fai molta, molta pena, quindi accompagnarmi fin qui è stato il minimo e ti conviene pure rimanere se non vuoi che spifferi tutto. Punto due: non posso usare la mia veste perché sotto non porto qualcosa che tu puoi vedere. Punto tre: non riesco a credere che tu consideri ‘cose che non ti riguardano’ un bambino così piccolo che piange abbandonato in un bosco. A volte penso che tu abbia venduto il tuo cuore per una scopa nuova. –

Draco la fissò

Santo cielo, com’era snervante. Era davvero snervante. Ma starsene zitta? Mai, eh? Almeno abbassare lo sguardo qualche volta. E poi, ancora con questa sua aria da paladina dei poveri e degli indifesi, ancora a sbandierare la sua morale trita e ritrita come se fosse la cosa più importante del mondo.

Avrebbe potuto dirle che le sue bugie con Rodolphus non erano servite ad un bel niente.

Avrebbe potuto chiederle cosa significava che sotto la veste portava ‘qualcosa che non poteva vedere’. Cioè, niente?

Oh, diavolo. Si era concentrato un po’ troppo sul punto due.

Comunque. Ginny non aveva proprio l’aria di voler lasciar perdere.

-         Che palle – imprecò Malfoy, e si sfilò la veste dalla testa, rimanendo in jeans e t-shirt.

Mentre se la toglieva, Ginny notò qualcosa sulla sua nuca.

Sembrava un brutto graffio. A guardarci bene, ce ne dovevano essere altri che andavano a finire sotto la maglietta, ma non fece in tempo a vedere meglio. Malfoy si voltò porgendogli la veste con aria omicida.

Ginny avvolse il bambino (che stava praticamente finendo il latte) nella veste nera, in silenzio.

-         Cos’hai fatto al collo? –

Draco la guardò, infastidito dal freddo.

-         Cosa? –

-         Al collo. Come ti sei fatto quei tagli? –

Il ragazzo la fissò, portandosi istintivamente la mano alla nuca.

-         Non sono cazzi tuoi – disse, alla fine, scrollando infastidito le spalle.

Ginny lo guardò.

-         Stai tranquillo, non me ne frega niente. –

Il bambino fece un gemito di approvazione dopo aver bevuto tutto il latte.

-         Bene – disse la ragazza. – ora possiamo andare. –

Malfoy la fissò.

-         Andare dove? –

-         Al castello. Non ci tenevi tanto a tornare? –

-         Non se ne parla. Non con quel coso dietro. –

Ginny ricambiò lo sguardo incredula.

-         Non dirai sul serio, spero. Vorresti davvero lasciarlo qui? Pensi che arriverà mamma lupo ad allattarlo per renderlo il re della foresta? –

Il ragazzo sospirò pesantemente, irritato.

-         Non so assolutamente di cosa stai parlando, Weasley. Comunque, ora io torno indietro. Se vuoi seguirmi portandoti appresso il coso, accomodati, ma se speri che te lo lascino tenere o che passerai inosservata tenendo un aggeggio che strilla nascosto nella mia, e ribadisco mia veste, sei totalmente pazza, ma già si sapeva, quindi fà pure, ma io non mi prendo alcuna responsabilità. –

Ginny scrollò le spalle.

-         E quando mai te ne sei presa una? –

Prima o poi qualcuno le avrebbe dovuto tappare la bocca, maledizione.

Draco si voltò e ripercorse i propri passi verso la cima della collina che nascondeva il castello, senza mai voltarsi indietro a controllare che lei lo stesse effettivamente seguendo.

Quando fu alla fine del sentiero e già si vedeva il castello illuminato da alcune candele alle finestre, il sole era sparito e si era fatto buio. Il cielo era trapuntato di poche stelle. Si fermò per riprendere fiato.

Ginny si fermò pochi passi più indietro. Teneva ancora il bambino in braccio, anche se nella penombra non si vedeva bene e sembrava solo un ammasso di stoffa.

Rimasero in silenzio, mentre il respiro si faceva più regolare.

Ginny guardò Malfoy di sottecchi e notò che, sarà stato il buio, ma aveva un’aria quasi normale senza la veste da Mangiamorte. Quasi, perché un ragazzo di diciotto anni davvero normale non poteva avere quell’espressione dura sempre stampata sul viso. Lo sguardo le cadde verso la sua mano sinistra un attimo prima che cominciasse a scendere il sentiero senza degnarla di uno sguardo.

Portava un cerchio d’oro all’anulare sinistro.

Improvvisamente, si sentì come se si fosse abbassata di colpo la temperatura.

Guardò il bambino. Dormiva.

Non sapeva perché, ma era sicura che doveva portarlo con sé. Non poteva certo abbandonarlo nella foresta, era troppo piccolo e faceva troppo freddo. Tuttavia, la sola idea che Bellatrix o Rodolphus lo scoprissero era agghiacciante.

-         Ehi, Malfoy. –

Draco si voltò, a metà strada.

-         Che vuoi? –

Ginny si fermò, stando ben attenta a non sfiorarlo nemmeno. Per qualche motivo.

-         Non dire a nessuno del bambino – disse, e avrebbe voluto che suonasse come una richiesta, ma suonò duro come un ordine.

Malfoy non parve per nulla impressionato. Scrollò le spalle, riprendendo a camminare.

-         Non vedo perché dovrei. Se ne accorgeranno da soli. –

Forse Draco Malfoy non aveva venduto davvero il suo cuore per una scopa nuova. Forse solo per un paio di mocassini nuovi.

I due Mangiamorte all’ingresso non fecero molto caso a loro e li lasciarono entrare senza accorgersi di nulla.

Malfoy si volatilizzò nella sua stanza senza più dire una parola e Ginny, con una strana sensazione, tenendo ben nascosto il bambino, tornò nella sua, l’unica del castello che aveva il soffitto azzurro cielo.

 

 

 

**

Ehilà! Stavolta sono abbastanza in orario, eh? Una volta ogni tanto, per sbaglio, capita pure a meU_U”

Questo capitolo è molto più ‘gioioso’ rispetto il precedente, o è una mia impressione?°_° Vabbé, bisognava allentare un po’ la tensione, no? Erano tutti così depressi! Spero comunque, come al solito, che non vi abbia annoiato ma che vi sia piaciuto. Ringrazio tutti quelli che continuano a commentare (dovrò aggiornare il mio vocabolario per ringraziare abbastanza senza essere noiosa!) e anche a quelli che leggono soltanto (ma magari, un pensierino…(L)).

Per tutti quelli che mi hanno chiesto certi sviluppi della storia, naturalmente ho la bocca cucita come al solito! Non faccio mica spoiler, io, anche se di minima importanza e c’è chi lo sa bene!XD

(Per Evan88 e Cri (eh eh): non saprei, non ho mai ben capito se il nome ‘Ginny’ fosse uno di quei diminutivi che usano solo gli amici ed i conoscenti o proprio un nome vero e proprio, e ‘Ginevra’ è solo il suo nome all’anagrafe –ci sarà un’anagrafe?°_°-… comunque, per ora non ho avuto occasione di far parlare davvero altri Mangiamorte, ma in futuro capiterà sicuramente, quindi vedremo come risolvere la questione <- cioè, si va dove porta il cuore… ovvero più o meno a casoXD).

Grazie a tuuuutti.

A presto!

 

 

Miwako__

 

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Capitolo 6
*** The dark side of me ***


THE DARK SIDE OF ME

THE DARK SIDE OF ME.

 

[Il mio lato oscuro.]

 

 

“There used to be a greying tower           “C’era una torre che s’ingrigiva   

alone on the sea                                          sola nel mare
you became the light                               
    tu sei diventata la luce

on the dark side of me                                 nel mio lato oscuro
love remained a drug                                  
l’amore è rimasto una droga

 that's the high and not the pill                    che è il massimo e non la pillola
But did you know,                                       
 ma lo sapevi,
That when it snows,                                    
 che quando nevica,
my eyes become large                                  
i miei occhi si allargano
and the light that you shine can be seen.” 
e si può vedere la luce di cui risplendi.”

 

 

‘Kiss from a rose’, Seal.

 

 

Metteva sempre quel disco quando era triste.

E quando era triste la casa era silenziosa a parte quella musica, e gli elfi domestici parlavano a bassa voce, come se non volessero farla arrabbiare.

E lei stava là, seduta sul davanzale della grande finestra della sala bianca e lucida, a guardare fuori dalla finestra il mare che si stendeva là fuori, liscio come una pista di ghiaccio argentata.

E lui la guardava e non sapeva mai perché era triste.

Poi lei si voltava.

-         Sei già sveglio? Oggi è il tuo compleanno, potevi dormire un po’ di più. –

Lui si avvicinava e la donna gli faceva posto sul davanzale in modo che potesse sedersi.

E gli accarezzava i capelli. Quando era triste era sempre buona con lui.

Lui la guardava ed avrebbe voluto chiederle perché era triste, perché c’era quella canzone che suonava lungo le stanze, perché fuori il mare era così piatto e grigio. Ma lei non gli aveva mai risposto, così aveva capito che forse non doveva chiederlo.

-         Oggi saremo solo io e te – diceva lei, aggiustandogli il colletto della camicia. – che ne dici di fare una passeggiata sulla spiaggia? –

Lui annuiva. Lei sorrideva un po’.

-         Sei sempre più carino. Sono orgogliosa di te. –

E lui non sapeva trattenersi.

- Perché sei triste? – diceva, abbassando lo sguardo con rispetto.

Passavano alcuni secondi di silenzio.

-         Non sono triste – rispondeva lei alla fine. – tu sei triste? –

Lui non se l’aspettava, quella domanda. Ci pensava un po’ su.

-         Non sono triste. –

E lei gli accarezzava i capelli e sorrideva un po’.

Entrambi erano tristi, ma nessuno l’avrebbe mai ammesso, come se fosse stato qualcosa che non si poteva dire.

Così si potevano fare le passeggiate sulla spiaggia, si poteva leggere un libro insieme, si poteva sorridere un po’, ed erano tutte cose per cui non c’era bisogno di spiegazioni, non erano cose complicate, non erano cose che non si potevano dire.

Era da deboli, dire che non si era felici.

 

Draco aprì gli occhi.

Pansy teneva una mano sul suo petto e dormiva profondamente.

Lui si alzò, con poca accuratezza in realtà.

Pansy mugolò risvegliandosi mentre lui si metteva i jeans.

-         Che ore sono? – chiese, con la voce ancora impastata dal sonno.

-         Come te lo devo dire che non voglio che dormi qui? – replicò lui, infilandosi una maglietta.

Lei sospirò, alzando il lenzuolo alla ricerca del suo reggiseno.

-         Scusami, mi sono addormentata – disse, senza infastidirsi. – vuoi che vada in cucina a cercare qualcosa per fare colazione? Devi andare da qualche parte? -

-         No, non ce n’è bisogno – rispose Draco, cercando la sua veste nell’armadio. – devo chiedere un permesso a Rodolphus per uscire. –

La sua mano si fermò a mezz’aria mentre apriva l’altra anta.

La richiuse.

-         Capisco – disse Pansy, alzandosi in piedi per indossare la sua veste.

Lo guardò e vide in lui una strana espressione, e si trattenne dal chiedere se c’era qualcosa che non andava. Non rispondeva mai, e si arrabbiava se glielo chiedevi.

Il ragazzo fece per uscire, ma lei gli prese la mano e lo baciò sul collo d’improvviso.

-         Devi andare? – gli chiese, con voce lamentosa.

Draco si allontanò.

-         Devo andare. –

Pansy gli sorrise.

-         Senza veste? –

Lui la fissò.

-         Senza veste. –

Uscì dalla stanza. Pansy raccolse i suoi orecchini dalla scrivania. Vide che lì vicino, Draco aveva dimenticato al fede. Se la rigirò tra le dita, poi la appoggiò sul pacco di carta da lettere intonso accanto alla boccetta di inchiostro, in modo che si vedesse meglio.

 

Ron si fermò di fronte alla casa, prese un bel respiro.

Suonò il campanello.

Dopo qualche attimo, la porta si aprì.

Hermione lo guardò accigliata. Santo cielo, erano le nove del mattino, come faceva ad essere così fresca e riposata?

-         Ron – disse, con un sorriso confuso, lasciandolo entrare. – ma che ci fai qui? Io mi stavo preparando per andare a lezione. Papà mi ha detto che avevi chiamato, ma ieri sono stata tutto il giorno in biblioteca, e sono tornata tardi. Ho un’esame tremendo e ho paura di non riuscire a farcela, stavolta. Sono sicura che appena mi siederò davanti al foglio d’esame non mi ricorderò più nulla. –

Il ragazzo la fissò.

-         Okay, puoi allontanare per un momento le tue paturnie insensate dalla conversazione? Ti devo chiedere una cosa. –

Hermione lo guardò, con un po’ di broncio.

-         Ehi, cos’hai, sei nervoso? No, perché se hai intenzione di scaricare su di me le tue frustrazioni mattiniere su quanto sia faticoso il tuo corso e su quanto vorresti copiare i miei compiti se facessimo gli stessi, beh, il corso te lo sei scelto tu, e secondo me è da veri irresponsabili… -

-         Ti piacciono i salotti spaziosi? – la interruppe lui, con le orecchie in fiamme come se le avesse chiesto qualcosa di molto personale.

Hermione continuò a guardarlo senza capire.

-         Come? –

-         Sai, potrebbe esserci molto spazio per tutte le tue librerie e tutti quei libri e non dovresti più metterli nell’armadio e sotto al letto… -

-         Ma di cosa stai parlando? – chiese la ragazza, confusa. – dov’è che c’è molto spazio? –

Ron la fissò. Era davvero, davvero dura. Molto più difficile di quanto si aspettasse. Nella classifica delle cose che nella sua vita era stato parecchio difficile dire, quella stava appena sotto a quando, beh, si era dichiarato a Hermione. Forse era lei che rendeva le cose difficili.

E la cosa folle era che nonostante questo, nonostante si rendeva conto che se davvero fosse andata come sperava avrebbe dovuto continuare a nascondere i giornaletti nel doppio fondo dell’armadio, avrebbe dovuto continuare a sentire delle ramanzine sui vestiti sporchi nel lavandino e sarebbe stato ancora un po’ come vivere con sua madre, nonostante tutto questo, lui voleva farlo, voleva assolutamente. Non era solo per la questione ‘dormire insieme’ (anche se sicuramente quella era una parte parecchio interessante della faccenda): voleva non dover aspettare dei giorni per vederla perché si chiudeva in casa a studiare, voleva non doversene andare perché altrimenti la signora Granger li sgridava immotivatamente, voleva poterla baciare quando lo desiderava, voleva vederla in quei momenti in cui non gli era mai stato concesso di osservarla, quando andava a dormire, quando si alzava, quando faceva la borsa per l’università, quando metteva quei dannatissimi libri nel loro dannatissimo ordine alfabetico sulla libreria.

Era assurdo. Non pensava che le persone potessero dare dipendenza.

Non pensava che lui potesse volere tanto una persona.

-         Io… ho visto una casa. – annunciò, distogliendo per un attimo lo sguardo.

Hermione lo fissò.

-         Sì, ce ne sono parecchie in questa strada. –

Ron tornò a guardarla, incredulo.

-         Insomma, stai cercando di capirmi, o no? Ti dai tante arie da perspicace e poi non capisci quello che ti sto dicendo! –

Lei accusò il colpo, offesa.

-         Ronald, tu non mi stai dicendo niente. Se continui a borbottare e lasciare le frasi a metà senza dargli un senso, non potrei capirti neanche se fossi la persona più intelligente sul pianeta… -

-         Ti sto chiedendo se vuoi venire a vivere con me, ma tu sei troppo occupata a pensare che sono io quello che si spiega male, oppure sei troppo distratta con i tuoi fantomatici compiti, perciò, guarda, vai pure, io non… -

Hermione assunse una strana espressione, d’un colpo. Ron tacque, terrorizzato all’idea di una reazione spiacevole, tipo una risata od una piedata sull’alluce. Lei, invece, distolse lo sguardo, arrossì un po’ e si grattò la nuca con la mano destra, in un gesto imbarazzato. Tornò a guardarlo solo per una frazione di secondo.

-         Ho sentito bene? - distolse lo sguardo.

E’ che Ron la guardava in un modo. In quel suo modo, con gli occhi azzurri che ti fissavano e aspettavano, e se ti guardava quello sguardo era impossibile pensare razionalmente.

-         Sì – mormorò lui, con cautela. – io… ho visto una casa a Diagon Alley… e ho pensato subito… ho pensato subito… che se qualcuno ci doveva abitare… beh, tanto valeva che ci abitassimo noi, perché, insomma, non è molto comodo da qui all’università, no? –

Tacque. Non sapeva proprio più che dire. O meglio, lo sapeva, ma non aveva affatto intenzione di dirlo. Aveva un orgoglio anche lui, accidenti.

Hermione teneva sempre lo sguardo basso e si tormentava il bottone delle maniche della camicia.

-         Ron… cioè… uhm… io… non so… non… ecco… sai, è un impegno parecchio importante… la convivenza non è una cosa facile… - stava ripetendo pari pari quello che aveva letto in una delle riviste di Ginny?

-         Sì, credimi, ci ho pensato, con te la convivenza non dev’essere affatto facile – rispose Ron, senza riuscire a trattenersi.

Hermione fece una smorfia ironica e dovette guardarlo negli occhi.

Oh, diavolo.

-         Ascolta, anche se mi dà fastidio ammetterlo, io non sono assolutamente adatta a fare queste cose… non puoi aspettarti che io cucini, perché non so cucinare, posso imparare, ma è difficile, una volta ho provato a fare una bistecca e, beh, per poco non facevo fuori Grattastinchi, perciò si tratta anche della tua incolumità, e… e…  -

Ron sorrise all’improvviso.

-         Credo sia la prima volta che perdi il filo del discorso. –

Hermione lo fissò e fece per replicare, ma di colpo capì che non era il momento per rinfacciargli quante volte l’aveva perso lui, il filo del discorso.

Non riusciva a pensare che Ron fosse disposto a fare una cosa del genere.

Improvvisamente, si rese conto che in fondo era consapevole di essere un po’ una rompiscatole.

Il problema era che ora lui la guardava con quell’aria speranzosa, ma cosa sarebbe successo, poi, dopo che fossero andati a vivere insieme? Avevano abitudini completamente diverse. Lei non era disposta ad accettare la presenza dei suoi calzini da Quidditch inspiegabilmente nel frigorifero, e lui con tutta probabilità non era disposto a dividere l’armadio in ‘capi estivi’ e ‘capi invernali’.

Quindi, perché voleva correre un rischio simile?

Le persone possono stancarsi di certe altre persone.

E questo è spaventoso.

- Io… non so cosa dire, Ron. – si arrese, senza guardarlo.

Ron si sentì d’un tratto molto più nervoso di prima.

Esitava. Lei esitava.

Santo cielo. E se avesse detto di no? Poi l’episodio non si sarebbe potuto cancellare e d’ora in poi si sarebbero innervositi entrambi.

Aveva fatto tutto troppo in fretta. Col fatto che l’appartamento era disponibile solo per due giorni, era diventato frettoloso e quello che otteneva ora era un rifiuto.

Che figura meschina.

-         Mi… mi dispiace – balbettò, deglutendo rumorosamente. – non avrei dovuto chiederlo. –

Hermione alzò lo sguardo, leggermente.

-         No… mi ha fatto piacere – borbottò, rossa sulle guance. – è solo che… non sono sicura che… sai, che saresti in grado di… sai, di sopportarmi… - la sua voce sfumò.

Ron sbattè le ciglia.

Se era in grado di sopportarla?

Ma allora, lo sapeva che a volte era una rompiscatole!

Okay, calma, non c’è niente da ridere.

-         Non te lo avrei chiesto… se non lo fossi – disse lui, serio, mascherando il successivo attacco di risa con un colpo di tosse.

Hermione lo fissò, guardinga.

-         Sei sicuro? –

-         Sì. –

-         Metterai i calzini nel cassetto dei calzini? –

-         … sì. –

-         Porterai i piatti nel lavello dopo aver mangiato? –

-         … sì. –

-         La smetterai di uscire con i tuoi compagni del Quidditch per poi tornare irrimediabilmente alle tre di notte totalmente brillo chiedendomi dov’è il dormitorio femminile di Tassorosso…? –

Ron assunse un’espressione indignata.

-         Andiamo, è successo solo un paio di volte! Quando abbiamo vinto le partite! E’ il gusto della vittoria! –

Hermione incrociò le braccia, in attesa di risposta.

Ron sospirò.

-         E va bene. Ma tu sei una despota. E immagino che sarò in grado di sopportarlo. –

Hermione sorrise, totalmente in imbarazzo, quindi più che altro fece una strana smorfia.

-         Allora, immagino che… si possa fare. –

Ron si illuminò in viso e senza pensare l’abbracciò.

Le gambe di Hermione ebbero una specie di lungo fremito e le cedettero leggermente.

Santo cielo. Era normale che le facesse ancora quell’effetto dopo tutti quegli anni che si conoscevano? Per un abbraccio, poi.

Era solo che… Ron era così alto, e quando ti abbracciava ti sentivi così assolutamente al sicuro, anche se può sembrare banale. Ma la sensazione era proprio quella, ed era speciale, perché quando si diventa adulti è raro sentirsi ancora così al sicuro.

-         Dovrò dirlo ai miei genitori – mormorò Hermione, col viso appoggiato al suo petto.

Ron fece un gemito.

-         Preferirei non esserci – mormorò, ed Hermione si trattenne dal ridere.

-         Non è che… - disse la ragazza, tornando seria ma senza scostarsi da lui. – tua madre ci rimarrà male… voglio dire, ora tu sei il suo unico figlio che vive ancora con lei… dato che Ginny è partita… -

Ron tacque. Erano giorni che evitava di parlare o pensare a Ginny. Tra lui e Harry praticamente esisteva un accordo non scritto per cui non se ne doveva parlare e basta.

-         Non è sola – disse, con una fermezza non da lui. – la maggior parte di noi la va a trovare praticamente tutti i giorni, e c’è papà. E poi sarà troppo occupata a preoccuparsi che abbia le camice pulite. –

Hermione scoppiò a ridere. Ron non sarà stato una cima per le situazioni serie, ma sapeva sempre come sdrammatizzare. Era una delle sue migliori qualità.

Oh, caspita. Era già ridotta ai livelli di decantare le sue qualità? Si stava istupidendo.

Beh, però intanto era al sicuro.

 

Harry controllò per l’ultima volta i libri dentro la borsa. La gamba ormai non gli faceva più male e probabilmente il giorno dopo avrebbe potuto anche togliere le garze.

Soffiartigli si strusciò contro il suo polpaccio affettuosamente.

Il fatto era che fortunatamente Luna dal pomeriggio precedente non era rumorosamente tornata a mettere tutto sottosopra, però si era dimenticata il suo incrocio nell’appartamento di Harry. Per carità, a quanto pareva non era né aggressivo né fastidioso né altro, e se doveva fare i suoi bisogni usciva dalla finestra sull’albero vicino, ma mangiava come neanche una dozzina di gatti. La sera prima praticamente lui e Harry si erano litigati due bistecche. Aveva vinto Soffiartigli, naturalmente.

Harry prese in braccio l’animale. Sarebbe andato a restituirlo; e nel caso Luna lo avesse invitato ad entrare, aveva sempre la scusa che doveva andare a lezione.

Cioè, non che gli stesse antipatica o la considerasse negativamente o qualcosa del genere. Ma era così sfinente. Insomma, in una conversazione normalmente ci sono delle frasi di circostanza, dei prototipi, se uno ti dice ciaocomestai tu rispondi benegrazieetu. Ma se parlavi con lei non ti aspettavi cosa rispondesse, lei non si atteneva alle benedette regole della conversazione.

Ciaocomestai? Stavopensandoallesortidelleapi frizzolenell’industriadelciboperAsticellicomepensiandrà?

Uscì dal suo appartamento con Soffiartigli che faceva le fusa sulla sua spalla. Chiuse la porta con due mandate e si voltò verso la porta di Luna.

Un tizio con una sciarpa stramba (verde a scacchi, un pugno in un occhio con quei capelli, uhm… neri? Viola?) e gli occhiali spessi con la montatura rosso scuro stava suonando il campanello con insistenza.

Harry aggrottò le sopracciglia e si avvicinò.

-         Non c’è? – chiese, educatamente.

Il tipo (era giovane, ora che lo guardava da vicino poteva perfino essere più giovane di lui) si voltò di scatto e lo squadrò dalla testa ai piedi.

-         Perché hai il Soffiartigli? – ringhiò.

Harry sbattè le palpebre.

-         Beh, perché… ehi, ma tu chi sei? –

Aveva imparato che era sempre meglio essere quello che fa la domanda, non quello che risponde.

Il tipo, comunque, non accennò a voler rispondere. Gli strappò di mano Soffiartigli prima che lui potesse fare una mossa.

-         Aspetterò qui finchè non torna. E tu non azzardarti più a prendere Mister Claw! –

Mister Claw?

Harry si allontanò piuttosto scosso mentre quel ragazzo continuava a borbottare cose insensate.

A dire la verità, sembrava la versione maschile di Luna (molto più antipatica e molto più scontrosa). Possibile che le persone simili si conoscano tutte?

Scese le scale.

Oh, santo cielo. E se quello era il suo ragazzo? Al pensiero, a Harry venne da ridacchiare. Cioè, calma, forse non era così strano… Luna non era mica brutta o stupida, era solo un po’ (parecchio) strana, per carità. Però, boh, a Hogwarts con tutta probabilità lei non aveva avuto tresche di nessun genere, e ora immaginarla ad amoreggiare (con quel tipo, poi!) era qualcosa di molto innaturale.

Beh, in fondo anche lei aveva diritto a farsi la sua esperienza di tipi strani.

 

Rodolphus alzò lo sguardo dal libro, inarcando le sopracciglia.

-         Ancora? Non ti stai prendendo un po’ troppi permessi, ultimamente, Draco? –

Il ragazzo non fece una piega.

-         Devo uscire. Allora? –

-         E fallo andare. Tanto è inutile tanto dentro quanto fuori. – belò Bellatrix stesa sul divano di fronte alla poltrona di Rodolphus, bevendo qualcosa che aveva l’aria di essere parecchio alcolico.

Rodolphus sorrise, scrollò le spalle.

-         Fai come ti pare. A partire da quando? Ricordati che stanotte sei di guardia. –

Draco annuì.

-         Esco ora. Tornerò al tramonto. E ho bisogno di una veste nuova. –

L’uomo lo fissò.

-         Che ne hai fatto della tua? –

Draco resse il suo sguardo senza vacillare.

-         L’ho persa. –

Bellatrix fece schioccare la lingua.

-         Mia sorella deve averti proprio viziato… cosa credi, che ci sia una specie di corredo che puoi cambiare sempre? –

Rodolphus la interruppe alzando la mano.

-         Lascia perdere, Bella. Si può sempre ‘perdere’ una veste. –

Con lo sguardo puntato su di lui, prese la bacchetta e fece comparire una veste nera nuova davanti ai suoi occhi. Draco la prese senza ringraziare.

Fece per voltarsi, ma Rodolphus lo richiamò.

-         Ah, ho saputo e visto ciò che hai fatto. Mi fa piacere vedere che stai mettendo la testa a posto. Forse non avrò più bisogno di punirti. –

Draco lo fissò. Non provò alcuna soddisfazione. Forse, una volta l’avrebbe sentita.

Quando era entrato nei Mangiamorte, provava soddisfazione se veniva lodato. E ora, a poco a poco, qualsiasi cosa gli dicessero non lo toccava.

Stava diventando un vero Mangiamorte.

Niente più lo toccava.

 

Narcissa Malfoy si voltò di scatto, sentendo dei passi alle sue spalle.

Rilassò le spalle, quando vide suo figlio che la guardava, sulla soglia della sala.

Gli sorrise, stupita.

-         Draco… che ci fai qui? Ti sei Materializzato? E’ faticoso dall’Inghilterra a qui… -

Il ragazzo non rispose. Rimase qualche attimo a guardarla, poi le si avvicinò, le mani in tasca.

Narcissa continuava a guardarlo, gli occhi un po’ lucidi.

-         Era così tanto tempo che non ti vedevo… quasi otto mesi… e ultimamente non hai più risposto alle mie lettere… comiciavo a pensare… -

Tirò leggermente su col naso, con dignità, incapace di andare oltre.

Draco la fissò con sguardo freddo.

-         Non vedo che bisogno ci sia di piangere – disse, con voce piatta.

Narcissa si asciugò gli occhi con le dita e lo guardò con un mezzo sorriso.

-         Hai ragione. Non c’è bisogno di piangere. –

Draco si voltò a guardare fuori dalla finestra. Il mare era identico al solito: rifletteva il cielo plumbeo come uno specchio, inalterato, imperturbabile.

Narcissa invece guardava lui.

-         Somigli sempre più a tuo padre. – disse, alzando un braccio per accarezzargli una guancia.

Il ragazzo si scostò.

Narcissa abbassò il braccio, tranquilla.

Non era estranea a quel tipo di freddezza.

-         Draco – mormorò, all’improvviso. – cosa fai qui? Tu odi questa casa. –

Lui non disse nulla.

La donna gli toccò leggermente il braccio, così poco che lui a malapena se ne accorse.

-         Sei triste? – gli chiese, stringendo la manica della sua camicia.

Ora che lo vedeva così, senza veste, sembrava un semplice ragazzo di diciotto anni.

Non sembrava un Mangiamorte. A parte quell’innaturale sguardo freddo.

Ma doveva andare così.

Draco non si prese nemmeno la briga di risponderle, limitandosi a rivolgerle uno sguardo inespressivo.

Narcissa deglutì.

Ma doveva andare così.

Vero?

-         Vuoi che… -

-         Devo andare – la interruppe Draco, ritraendo il braccio che lei gli stava stringendo.

Narcissa lo fissò, confusa.

-         Ma sei appena… -

-         Devo andare. – ripetè il ragazzo.

Lei si inumidì le labbra.

-         Non ti rivedrò ancora per mesi? Risponderai alle mie lettere? –

Draco la guardò.

-         Sì. –

Ma lei non capì a quale domanda avesse risposto.

 

-         Dove andrete? – chiese Harry, sbalordito.

Ron lo fissò.

-         A vivere insieme – borbottò, con le orecchie in fiamme. – preferirei non me lo facessi dire così esplicitamente. –

L’amico non pareva ascoltarlo.

-         Ma se fino a ieri eravate a livelli di scuola elementare! –

-         Oh, sì, grazie mille! – esclamò Ron, offeso.

Harry si trattenne dal ridere e cercò di fare il serio.

-         E come fai a pagare l’appartamento? –

-         Beh, pensavo di andare a fermarlo oggi. Poi, lo dirò ai miei… non si potranno rifiutare di farmi un regalo, dopo tutto questo tempo, almeno una parte. Ed Hermione dice che ci vuole mettere assolutamente una parte anche lei, che sinceramente non so dove abbia guadagnato, anzi la cosa un po’ mi spaventa, comunque poi mi cercherò un lavoro… -

Harry lo fissò, incredulo, come se stesse improvvisamente assistendo al passaggio di un bambino alla pubertà. A dire la verità, da una parte era contento che finalmente Hermione avesse deciso di porre fine ai tormenti di Ron riguardo la signora Granger, ma dall’altra aveva sempre creduto che la prima volta che Ron avesse lasciato la Tana, per un po’ sarebbe andato a stare da lui… beh, probabilmente non ti puoi permettere di fare baldoria tra maschi se c’è di mezzo una donna (o, in questo caso in particolare, una dittatrice).

-         Che ne dici di provare a chiedere a Fred e George se hanno bisogno di aiuto al negozio? – propose, aprendo il libro di Difesa Avanzata.

Ron lo fissò.

-         Sai che hai ragione? E’ la via più semplice. Harry, di colpo ti vedo sotto una luce nuova. –

-         Qualcuno deve aver deciso di riparare la lampadina rotta da anni nel tuo cervello. –

Harry schivò il suo energico e poco affettuoso pugno alla spalla ridacchiando.

 

Ginny crollò distesa sul letto con un gemito.

Il bambino dormiva beato nella sua culla improvvisata, una specie di scatolone con un cuscino ed una dozzina di pezzi di stoffa indistinguibili.

A vederlo così sembrava adorabile, ma naturalmente nessuno è come sembra, pensò Ginny, afferrando faticosamente la bacchetta per far apparire un caffè e qualcosa che avesse la parvenza di un toast.

Aveva passato praticamente tutta la notte alzata, dato che quasi ogni ora il bambino inspiegabilmente si svegliava e cominciava a piangere e a urlare a livelli di decibel che neanche allo stadio, e lei aveva dovuto passare i tre quarti d’ora successivi a inventarsi ogni tipo di metodo per farlo riaddormentare.

Doveva assolutamente trovare i suoi genitori. Non se le immaginava altre notti così senza perdere totalmente il senno.

D’altra parte, non aveva nemmeno idea di dove andarli a scovare. Se era stato abbandonato intenzionalmente, forse non era nemmeno il caso di restituirlo, o l’avrebbero abbandonato di nuovo. E l’idea di portarlo ad un orfanotrofio era assolutamente fuori discussione. Lei odiava gli orfanotrofi, come parecchia altra gente, sai, aveva detto una volta Anna ad una rimpatriata di alcuni ex Grifondoro (non che avesse smesso di esserlo da molto, Grifondoro).

C’era anche da dire che stava dando per scontato che fosse un mago, ma in realtà fino ad allora non aveva dato alcuna dimostrazione di magia. Essendo un bambino piccolo, era anche normale, però non si poteva escludere la possibilità che fosse un babbano.

L’unica soluzione era tornare dove l’aveva trovato e cercare degli indizi.

Indossò il mantello e guardò il bambino. Quello si mosse leggermente stringendo gli occhi, dormendo profondamente. Una veste nera lo teneva al caldo.

Era molto grottesco che la veste –simbolo dei Mangiamorte, simbolo del Signore Oscuro in un certo senso- se ne stesse lì a coprire un bambino.

Avrebbe dovuto restituirla.

Sì, beh. Magari dopo.

Stava per uscire in punta di piedi per non svegliare il bambino, quando un pop le fece fare un salto e rovesciare un po’ di caffè sulle lenzuola stropicciate del letto.

-         Oh! – gracchiò una vocetta.

Ginny cercò davanti a sé con lo sguardo, non vide nulla, lo abbassò e si ritrovò a fissare un paio di occhi tondi e grossi come palline da tennis che ricambiavano lo sguardo con grande stupore.

Era un elfo domestico. Portava addosso una vecchissima maglietta sporca e strappata dappertutto, era anche difficile definirla una maglietta. L’elfo domestico sbattè le enormi palpebre allargando la bocca in un sorriso un po’ sdentato.

-         Tinker sapeva che se nel castello c’era una Ginevra Weasley non poteva essere che lei, signorina Weasley! Anche se Tinker si ricorda che preferiva essere chiamata Ginny, signorina. Appena Tinker ha capito che era lei, è corso qui per vedere se era vero. Tinker è tanto contento di rivederla! –

Ginny non faticò per niente a ricordarsi chi fosse quell’elfo e dove l’avesse incontrato.

-         Tinker! – balbettò. – anch’io mi ricordo di te. Sei l’elfo che lavorava a Malfoy Manor – le fece una strana impressione dire ‘Malfoy Manor’ con la stessa tranquillità (anche se in questo caso, forzata) con cui diceva ‘la Tana’. – come mai sei qui? –

L’elfo fece comparire uno spolverino rosa spelacchiato e cominciò a spolverare per terra.

-         Tinker fa le pulizie per il signorino Malfoy, signorina Ginny. Tinker deve tenere in ordine le stanze del signorino, sì. –

Ginny inarcò le sopracciglia.

-         Oh, capisco. Quello non si appoggia neanche sul cuscino da solo, eh? –

Tinker la guardò con sguardo vacuo, Ginny sorrise rassegnata.

Di colpo il bambino ricominciò a frignare. La ragazza fece un sospiro ed andò a prenderlo dalla scatola.

Tinker la fissò colpito, smettendo perfino di spolverare.

-         Non sapevo che la signorina Ginny avesse un bambino, signorina. Tinker pensava che lei era molto, molto giovane… -

Ginny arrossì di colpo, senza capire perché. Il bambino aveva quasi smesso di frignare mentre lei camminava avanti e indietro per la stanza.

-         Oh. Ma non è… come pensi, lui non è… uhm, mio. L’ho trovato. –

-         Trovato? – spalancò gli occhi Tinker.

Ginny si sentì stranamente sollevata. Finalmente poteva parlarne con qualcuno.

-         Sì, ieri sera… devono averlo abbandonato nel bosco. Non ho idea di dove sia la sua famiglia, né da che parte cominciare a cercarla. Non so se è un babbano, o un mago. Non so niente di lui. –

Gli occhi di Tinker si illuminarono.

-         Tinker può fare ricerche, signorina Ginny. Tinker è felice di farle un favore perché la signorina Ginny non dà mai ordini ed è sempre gentile e dice sempre per favore. Tinker può aiutare a prendersi cura del bimbo, se la signorina Ginny si fida. –

Ginny provò una stretta al cuore.

Ginny non dà mai ordini ed è sempre gentile e dice sempre per favore.

Ginny è corretta, Ginny dice quello che pensa.

Ginny diceva sempre la verità.

Tinker doveva essere l’ultimo essere al mondo a pensare così bene di lei, dopo il modo in cui si era comportata con le persone che le volevano bene nell’ultimo mese.

Le persone che le volevano bene.

Cercava di non pensarci.

Sapeva che presto avrebbe dovuto scrivere loro una lettera.

Non aveva nemmeno la forza di stappare l’inchiostro.

Perfino quel gesto le sembrava ipocrita.

-         Ti ringrazio molto, Tinker – disse Ginny, con un gran sorriso. – comunque, non potrei chiederti una cosa del genere, è… un po’ troppo impegnativo. Questo bambino è molto piccolo, e i bambini piccoli sono un po’… -

-         … oh, faticosi! Tinker lo sa. Tinker ha seguito il signorino Malfoy dal giorno dopo in cui era nato fino a quando non è partito per Hogwarts. Nel primo anno che il signorino Malfoy era nato, Tinker non ha dormito più di un’ora a notte. –

-         Cosa? -

Ginny lo fissò, sgranando gli occhi. A parte il fatto che Tinker sembrava molto più giovane di quello che era effettivamente, se si era occupato di Malfoy sin da quando era nato, non aveva idea che lui fosse stato costantemente seguito da un elfo domestico, non a quei livelli, anche se sapeva che spesso le famiglie di maghi ricchi affidano la cura dei figli agli elfi domestici.

Evidentemente, per la signora Malfoy era troppo svilente occuparsi di suo figlio.

Davanti alla faccia stupita di Ginny, Tinker dovette sentirsi onorato.

-         Oh, sì, Tinker non è un disastro a curare i bambini, non lo è affatto – si vantò, lucidando la vasca da bagno con uno straccio preso da chissà dove. – Tinker dava al signorino Malfoy il latte e lo metteva a dormire puntualmente, e se piangeva Tinker non si spazientiva, perché già il padrone si arrabbiava e a Tinker dispiaceva. –

Ginny provò ancora una volta un po’ di tristezza.

Non riusciva ad immaginarsi a sgridare suo figlio perché piangeva.

Pensò a come si sarebbe sentita lei se sua madre non fosse stata lì quando cadeva dalla scopa, se non le avesse mai preparato la colazione con l’uovo con la faccia, se suo padre non le avesse mai letto le avventure di ‘Richard il Babbano’ prima di andare a dormire.

Certo c’era un motivo se Malfoy era venuto su così intrattabile.

Si sentì talmente strana e triste che anche Tinker sembrò intristirsi.

-         Tinker ha detto qualcosa di sbagliato? – chiese l’elfo domestico, dopo aver cambiato la federa del cuscino.

-         Come? Ah, no, no! Stavo pensando… beh, sai, probabilmente da sola non posso farcela, specialmente con i turni di guardia e se dovrò uscire dal castello… sinceramente ti chiederei di aiutarmi, ma non è che questo ti creerà dei problemi, uhm, con Malfoy? –

Tinker sembrò pensarci su ma scrollò le spalle.

-         Tinker pulisce le stanze del signorino quando lui esce la mattina e di solito non torna fino a sera, ed il signorino non chiede mai niente a Tinker, fa finta che Tinker non ci sia – fece una piccola pausa, poi riprese a rimboccare le lenzuola al letto. – Tinker non pensa sia un disturbo per lui aiutare la signorina Ginny con il bambino trovato. –

Ginny gli sorrise.

Ora poteva cominciare a cercare la sua famiglia.

 

-         Sei di turno stanotte, Weasley. –

Ginny si fermò sul penultimo gradino della scalinata che portava al piano terra. Una Mangiamorte con gli occhi verdi la guardava dall’alto in basso con aria di sufficienza.

Riconobbe Alecto, quella che aveva bisticciato con Bellatrix il primo giorno che Ginny era arrivata al castello.

Ginny fece un vago cenno con la testa, ma la cosa non le piaceva per niente. Avrebbe già dovuto chiedere a Tinker di tenere sotto controllo il bambino, e forse era troppo presto per chiedere un favore.

Ora che aveva trovato almeno una creatura all’interno del castello che credesse in lei, ci teneva a non lasciarla allontanare.

Non pensava che un giorno avrebbe avuto tanto bisogno degli altri.

Fece per andarsene.

-         Aspetta, Weasley, non ho finito. Girano certe voci su di te. Si può sapere chi sei? –

Ginny si voltò a guardarla, stranita.

-         E chi dovrei essere? –

Alecto non si spazientì ma roteò gli occhi come se pensasse che lei fosse troppo lenta di comprendonio.

-         Ah, non lo so. Certi dicono certe cose, certi altre. Quanti anni hai? –

-         Diciotto. –

-         Strano, avevo sentito diciassette. –

Ginny distolse lo sguardo.

-         Girano anche strane storie su di te – mormorò Alecto, appoggiandosi al corrimano della scalinata. – dicono che tu sei la ragazza che aprì la Camera dei Segreti di Hogwarts sei anni fa. –

La ragazza ebbe un brivido gelido lungo la schiena, ma non si scompose.

Si era già tormentata abbastanza, per quella storia.

-         Ah, dicono questo? – mormorò, vaga..

Alecto sospirò profondamente. Probabilmente pensava che fosse irrimediabilmente stupida o qualcosa del genere.

-         E’ vero che sosterrai il Giudizio prima di tutti gli altri apprendisti? –

-         Il Giudizio? –

-         Tra tutti gli apprendisti pare che tu sia la più quotata a diventare Mangiamorte nel vero senso della parola. Perfino il figlio di Lucius è qui da quasi un anno e mezzo e non è ancora stato Giudicato, ma lui è coperto da Rodolphus, lo sanno tutti, col fatto che era amico di quel rammollito di Malfoy. Può fare anche mille stronzate che viene insabbiato tutto. –

Ginny scrollò le spalle, non rispose. Alecto si spazientì definitivamente, le lanciò uno sguardo gelido e se ne andò.

Ginny non aveva mai sentito parlare di questo Giudizio, neanche da Lupin. Era chiaro che doveva essere una specie di esame da passare per i nuovi che passavano dalla parte di Voldemort. Evidentemente selezionava accuratamente chi tenere in caso di reale bisogno.

D’altra parte, allora, perché il Signore Oscuro aveva dato l’anello, che era segno di profondissimo legame con lui, a Malfoy, e aveva permesso che lei stessa lo tenesse, quando entrambi erano solo ‘apprendisti’? E poi, quanto tempo richiedeva questo Giudizio? Perché dopo tanto tempo che Malfoy frequentava i Mangiamorte non lo era ancora diventato a pieno titolo? E poi, in fondo, sia lui che la Parkinson si erano sempre professati Mangiamorte.

No, questo Giudizio doveva consistere in qualcosa di diverso, non poteva essere semplicemente un passaggio di grado. Tutti potevano essere Mangiamorte. Ma quali erano le caratteristiche che segnalavano una differenza tra gli apprendisti ed i Mangiamorte adulti, a parte la differenza d’età?

Non riusciva a venirne a capo.

E per la prima volta, si rese conto che la sua presenza al castello non era passata inosservata come era sempre stata convinta.

Solo ora che l’aveva sentito da Alecto, si accorse che i Mangiamorte che incrociava si voltavano per un attimo a guardarla. Non avendo esattamente caratteristiche fisiche comuni (tutti quei capelli rossi e quelle lentiggini erano piuttosto evidenti), era facilmente identificabile.

Non si sentì affatto a suo agio.

-         Weasley! – disse una voce ormai fastidiosamente familiare.

Lei fece per voltarsi e prima che se ne rendesse conto Rodolphus le camminava già accanto.

-         Ginevra, giusto? – sorrise l’uomo con aria evidentemente ipocrita.

Come se non lo sapesse.

-         Sì – mormorò Ginny, evitando accuratamente di fargli notare che erano in pochissimi a chiamarla così.

-         Ti ho messo di turno stanotte, te l’hanno detto? –

-         Sì. –

-         Oh, non avere l’aria così infastidita. La ronda di notte è la migliore, il panorama è incantevole – fece un sorriso di traverso. – anche se da quel che ne so tu preferisci i tramonti, giusto? –

Ginny si voltò per un attimo a guardarlo, cosa che aveva accuratamente evitato di fare sin dall’inizio, visto che la faccia di Rodolphus era sempre così strafottente che le faceva venire una rabbia incontrollabile.

Mugugnò qualcosa, ma non gli chiese come facesse a saperlo; sarebbe stato solo un modo per continuare quella indesiderata conversazione.

Rodolphus non disse niente per qualche attimo, poi riprese.

-         Hai una mezza idea di dove stai andando? –

Ginny si fermò. Effettivamente, erano diversi minuti che giravano a vuoto, ma il castello era talmente grande che non se n’era accorta. E poi non si era diretta volontariamente verso il portone: non le andava che Rodolphus sapesse che usciva. O che la vedesse salire verso la collina.

-         Certo. Vorrei solo essere lasciata sola. – si lasciò sfuggire. Doveva assolutamente aggiustarsi quel difetto di non pensare prima di parlare, se lo portava dietro da anni. Ed era poi la causa della maggior parte dei suoi guai.

Rodolphus, comunque, non si arrabbiò proprio per niente. Anzi, sorrise, stavolta quasi con un velo di sincerità.

-         Scusami, hai perfettamente ragione. Sei un tipo indipendente, vero? –

Prima che Ginny potesse rispondere senza pensare, Bellatrix arrivò correndo giù dalle scale.

-         Rod, sbrigati, c’è una questione urgente – gli mormorò, quando gli fu accanto, come se non volesse che Ginny sentisse. Le lanciò un’occhiataccia. – e smettila di perdere tempo con ‘sti ragazzini. Sembra quasi che ti divertano. –

Rodolphus rise, circondando la vita di Bellatrix con un braccio. Lanciò un ultimo strano sguardo divertito verso Ginny, mentre salivano le scale.

-         Ma mi divertono – gli sentì dire. – gli si legge sempre tutto nello sguardo, specialmente quando non vogliono. –

 

Hermione sbirciò nello studio di suo padre per la decima volta.

Alexander Granger stava riordinando le cartelle dei pazienti alla sua scrivania, dandole le spalle.

La ragazza in qualche modo trovò la forza di bussare alla porta già aperta.

Suo padre sobbalzò.

-         Oh, sei tu – mormorò lui, sorridendole e voltandosi di nuovo a guardare le cartelle. – mi hai spaventato. Sei silenziosa, eh? Mi fai sempre prendere dei colpi. –

Hermione gli si avvicinò con una smorfia divertita.

-         Grazie tante. –

-         Oh, era davvero un complimento. Tua madre si sente quando arriva anche oltre tre isolati. Si riconosce dal modo in cui si sta lamentando di me, immagino. – rise.

Non c’era fastidio nel suo tono di voce.

Hermione per un attimo si sentì a disagio. Era un po’ strano che dopo tanto tempo che conosceva la mamma –che conosceva i suoi lati peggiori e più spaventosi ed insopportabili- suo padre avesse ancora quel tono di voce da ‘è terribile, ma in un modo carino’. Per carità, sua madre in condizioni normali era assolutamente adorabile. Se le andavi a genio, non potevi fare altro che affezionartici, perché aveva un modo di fare tutto particolare: era quel tipo di persona che incontri una o due volte nella vita, che ti mette a tuo agio senza fare nulla, quella che se anche l’hai appena conosciuta puoi stare in silenzio senza sentirti a disagio. Il fatto è che se ti inseriva nella sua lista nera, poteva diventare veramente, veramente insopportabile, fastidiosa come una trentina di zanzare che ti svolazzano attorno mentre dormi senza lenzuolo addosso.

Hermione rimase per un po’ ad aleggiargli intorno mentre lui chiudeva i cassetti dei suoi scaffali. Ad un certo punto, il signor Granger si voltò.

-         C’è qualcosa che non va? Devi dirmi qualcosa? – chiese, accigliato.

Hermione non era ancora pronta psicologicamente.

-         Oh! – fece, con aria casuale. – io? –

-         Beh, diciamo che non stavo parlando da solo. –

La reazione esitante di Hermione lo fece incuriosire ancora di più. Si sedette alla scrivania con aria scherzosamente indagatrice.

-         Avanti – disse, guardandola sorridendo. – sono proprio curioso. Era dai tempi in cui hai chiesto a tua madre di comprarti un reggiseno che non ti vedevo così imbarazzata. –

La ragazza arrossì di botto.

-         Non mi ricordo di aver mai fatto niente del genere! –

-         Oh, ti ho sentito, sai. Cos’era, l’estate seguente al tuo primo anno a Hogwarts? –

-         Tu hai le allucinazioni! – borbottò Hermione, girando i tacchi. – basta, non ce la faccio. Volevo dirlo prima a te così forse potevi aiutarmi con la mamma… -

-         A fare cosa? –

Hermione si bloccò. La signora Granger era ferma sulla porta dello studio e si stava togliendo gli orecchini con aria innocente.

-         A fare cosa? – ripetè Hermione, con occhi sospettosamente vacui.

Elizabeth Granger guardò oltre la sua spalla in direzione del marito.

-         Cos’è che ci vuole dire nostra figlia? –

Il signor Granger scrollò le spalle.

-         Forse vuole che le compri un nuovo reggiseno. –

Scoppiarono entrambi a ridere come matti. Hermione avrebbe voluto sprofondare. Insomma, ma perché in casa dovevano essere così allegri? Con gli estranei erano sempre tutti composti, la mamma specialmente. Ormai, l’atmosfera ed il coraggio per dire ‘la cosa’ erano completamente sfumati, ecco.

-         Oh, Hermione, non fare quella faccia, sei proprio permalosa – ridacchiò allegramente sua madre.

Okay, un attimo. Non era molto normale che sua madre fosse così allegra. Anzi, era proprio su di giri.

-         Com’è che sei così di buon umore? – le chiese, diffidente.

La signora Granger fece spallucce. Tirò fuori dalla tasca del camice appoggiato alla poltrona una busta.

-         Ho ricevuto una lettera. –

-         Ah – fece Hermione, un po’ delusa. – un cliente? –

La signora Granger fece di nuovo spallucce con un po’ troppa foga. Estrasse la lettera e passò alla figlia solo la busta.

I destinatari erano Alexander ed Elizabeth Granger.

Guardò il mittente.

Ronald Weasley.

Lo stomaco si rivoltò vorticosamente.

-         Non può essere una lettera vera – mormorò Hermione, incredula, quando riuscì a spiccicare parlare.

Sua madre indietreggiò.

-         E’ firmata, sai? –

Hermione le si lanciò addosso.

-         Fammela leggere! –

-         Cosa? Vedi il tuo nome, lì sopra? Non è per te! – esclamò con aria scandalizzata sua madre, tenendo la lettera fuori dalla portata della figlia.

-         Cosa diavolo c’è scritto? – chiese esasperata Hermione, completamente rossa di imbarazzo.

-         Oh? Chissà? – fece sua madre, lanciando un’occhiata molto poco casuale alla lettera. – ‘per i signori Granger. Vi scrivo questa lettera per chiedervi formalmente’… mah? Qui non si legge bene… -

Hermione si portò le mani ai capelli e cercò di non perdere completamente il senno. Suo padre fra un po’ faceva le capriole dal ridere.

-         Ditemi che non l’ha fatto veramente, ditemi che non l’ha fatto… -

-         Ci sarà scritto ‘convivenza’ o ‘congruenza’? – continuava a dire la signora Granger, che comunque dalle rare occhiate che lanciava alla lettera doveva averla letta già parecchie volte.

Hermione andò a crollare sulla poltrona dello studio di suo padre, psicologicamente distrutta.

Il padre si alzò dalla scrivania con un sorriso.

-         Su, non prendertela, Hermione. Abbiamo solo voluto farti uno scherzo… -

-         Sto morendo dal ridere! – borbottò Hermione con gli occhi lucidi per la vergogna. Sua madre non l’aveva mai presa in giro tanto spudoratamente, anche se quando era di buon umore davvero cambiava carattere e diventava scherzosa come un cucciolo di panda, il che era semplicemente agghiacciante. Forse era bipolare. – non posso credere che Ron vi abbia scritto una lettera. Non me ne ha fatto parola. Non credevo che sarebbe arrivato a questo punto… dovevamo almeno discuterne… è così imbarazzante… fa sempre di testa sua… -

Il signor Granger le sorrise di nuovo, con più dolcezza.

-         Non è colpa sua. Sono stato io a convincerlo a scriverla. –

Hermione alzò la testa di scatto.

-         Cos’hai fatto? – fece, sbalordita. – ma perché? E la mamma cos’ha da ridere? – chiese, guardandola in tralice mentre si rileggeva gongolante la lettera senza ascoltarli.

Alexander Granger rise.

-         Va bene, mettiamola così, ma non ti arrabbiare. Ieri Ron è venuto a casa a cercarti, ma in casa c’ero solo io, perché tu eri a lezione e la mamma a chiudere l’ufficio. E, beh, l’ho invitato ad entrare a bere qualcosa tra uomini – qui Hermione sbuffò come se i termini ‘Ron’ e ‘uomo’ non fossero affiancabili - visto che anche se ci vediamo molto spesso da anni non abbiamo mai avuto l’occasione di parlarci… lo vedevo un po’ in imbarazzo e gli ho chiesto se ci fosse qualcosa che non andava. Non ha ceduto subito, ci ho messo quindici minuti buoni a convincerlo a parlare… avevo paura fosse qualcosa di grave che ti riguardasse, non era solo curiosità – aggiunse frettolosamente, vedendo lo sguardo assassino della figlia. – comunque, dopo essermi fatto aiutare da due bicchierini di liquore alla liquirizia, ha borbottato questa idea che avete di ‘prendere una casa’… -

Hermione era sconvolta. Possibile che Ron si fosse fatto raggirare in quel modo? Va bene che era un ingenuo, ma c’era un limite. D’altra parte, suo padre era un curioso mai visto ed era sempre interessato ai fatti degli altri (non a caso quando era giovane aveva pensato di fare lo psicologo, e qualche libro al riguardo campeggiava ancora sulla sua libreria), e visto che quando Ron ha un problema glielo si legge in faccia come un’insegna al neon, non era poi tanto strano che fosse venuto fuori. Quello che la terrorizzava era la reazione più che gioiosa di sua madre, a cui non c’era assolutamente una spiegazione plausibile.

Suo padre continuò.

-         Personalmente, non sono affatto contrario a questa cosa, se ne sei pienamente convinta. In fondo, da quando eri piccola te la sei sempre cavata da sola, e, anche se mi dispiace dirlo, i pilastri fondamentali della tua adolescenza non possiamo essere stati io e la mamma, vedendoti così poco durante l’anno. Eri una bambina, un concentrato di sapere di un metro e cinquanta, e hai trovato subito le persone giuste con cui crescere. E Ron è uno di queste. Se sei diventata come sei, una ragazza che nonostante qualche paranoia qua e là (e non guardarmi così male!) sa badare a se stessa ed è più intelligente della maggior parte delle persone che ho conosciuto, lo devo anche a lui. Per questo non sono mai stato contrario al fatto che steste insieme. –

Okay, era molto imbarazzante che suo padre cianciasse così apertamente del rapporto tra lei e Ron. Anche se non poteva negare una sola parola.

-         E’ evidente che mi dispiacerebbe se te ne andassi di casa proprio ora che possiamo vivere insieme anche mentre frequenti la scuola. Ma ho conosciuto sia i genitori di Ron che lui stesso, e da quel che ho visto sono brave persone. E dal modo in cui hai reagito qualche mattina fa, quando tua madre l’ha svegliato mentre dormiva sul divano di casa nostra, credo proprio che tu gli voglia molto bene. Ti sei quasi sempre rivolta in modo gentile alla mamma… - rise ancora.

Hermione avrebbe voluto sprofondare nei più profondi antri della Terra.

Era così evidente?

-         Così – continuò suo padre. – gli ho detto che se glielo dicevi tu, alla mamma, che te ne andavi di casa per andare a vivere con lui, si sarebbe infuriata davvero, e se glielo diceva lui, beh, poteva pure scapparci qualche ferito. Gli ho consigliato di scriverle una lettera, e ammetto che forse per voi giovani è una cosa piuttosto antiquata, ma fu quello che feci io con i genitori di tua madre quando le chiesi di sposarla, visto che non avevo il coraggio di affrontare suo padre, che teneva un fucile del ripostiglio. Fu una cosa tremendamente imbarazzante, che rifarei solo se costretto, e quella lettera doveva essere piena di errori di ortografia per il nervoso, ma funzionò. Tutta la famiglia di tua madre si intenerì tanto che il fatto che gli stessi portando via la figlia minore passò in secondo piano. Ho pensato che forse era una buona idea riportare questa storia alla memoria della mamma. –

La ragazza lo guardò. Aveva sempre voluto molto bene ai suoi genitori, eppure non li conosceva tanto in profondità, sapeva solo alcuni episodi del loro passato, e nessuno le aveva mai raccontato questa storia.

Pensò che fosse una bella storia, ma forse era di parte perché la maggior parte delle volte le storie della tua famiglia ti sembrano le più belle.

-         Ed ha funzionato. – mormorò Hermione, disarmata, guardando la madre che canticchiava in corridoio.

-         Beh – deglutì il signor Granger. – certamente la lettera di Ron l’ha addolcita molto. Effettivamente, quella lettera è talmente maldestra e pastrocchiata che intenerirebbe qualsiasi criminale. Tuttavia… non potevate davvero sperare che la mamma lasciasse andare la sua unica bambina per una lettera, no? Ho dovuto convincere Ron ad aggiungere qualche… compromesso. –

Ahi.

Hermione gli lanciò un’occhiata.

-         Compromesso? –

Il signor Granger si strinse nelle spalle con aria improvvisamente poco sicura.

-         Cose di poco conto… insomma… la garanzia che Ron si trovasse un lavoro… -

Hermione lo fissò, sbalordita.

-         Guarda che anch’io posso trovare… -

-         Poi – la interruppe tentando di ignorare il suo sguardo contrariato. – almeno una sera a settimana dovresti venire a cena, se non sei impegnata con lo studio… visto che non andate ad abitare lontano e comunque ora ti puoi Materializzare… -

-         Ma questo era ovv… -

-         Inoltre, la mamma ha preteso, e giuro che non ho trovato modo di dissuaderla, che Ron ti offrisse delle garanzie… nel caso vi lasciaste… -

Okay, home run, fuori gioco, time out.

-         Stai scherzando? – esclamò Hermione, col viso in fiamme. – gli avete davvero chiesto una cosa del genere? –

-         So che per te può risultare un po’ imbarazzante… -

-         Un po’? Gli avete praticamente fatto firmare un contratto prematrimoniale! Penserà che lo vogliamo incastrare, tutti quanti! –

Non si era mai sentita così raggirata in vita sua. Certo che sua madre era felice, sua figlia era praticamente sistemata! E Ron era stato plagiato da quei folli.

Dio, non avrebbe più trovato il coraggio di guardarlo in faccia.

 

Harry era piegato in due dalle risate.

-         E’ stata la cosa più imbarazzante della mia vita – mormorò Ron, appoggiandosi distrutto allo schienale della sedia nella cucina dell’appartamento di Harry. Erano tornati dalle lezioni, ed avevano in programma un pomeriggio pizza/partita di Quidditch al campo fuori Diagon Alley.

Harry, dopo essersi calmato, prese una fetta di pizza.

-         Sono molto, molto colpito. Chi l’avrebbe detto che avresti avuto il coraggio di pestare ripetutamente la tua dignità pur di portarti Hermione in quella casa. –

Ron arrossì violentemente.

-         Non ho ripetutamente… beh, sì, un po’ ho calpestato la mia dignità – lanciò uno sguardo a Harry. – okay, diciamo che non l’avrei mai e poi mai fatto se il padre di Hermione non mi avesse garantito che così la signora Granger si sarebbe data una calmata. Giuro che ho passato l’ora più lunga della mia vita a scrivere quella lettera. –

-         Ci hai messo un’ora? – scoppiò a ridere Harry, senza riuscire a frenarsi.

-         Senti, credi che riusciresti a privarmi del suono della tua risata cristallina per almeno cinque minuti? Sei allegro? –

Harry scrollò le spalle, il sorriso si spense un po’.

-         Non particolarmente. – rispose, soltanto. Non aggiunse altro.

Ron capì che non era il caso di chiedere nulla.

Si stiracchiò.

-         Beh, comunque, domani andrò al negozio di Fred e George. Li ho già sentiti. Inizialmente mi avevano detto che potevo scordarmelo, ‘sti… comunque sia, credo che mia madre li abbia sgridati, perciò ora ho ottenuto un ‘colloquio di lavoro’. Spero fortemente che scherzassero quando mi hanno chiesto di presentarmi con giacca e cravatta, perché mi rifiuto. -

-         Oh, a proposito! Tua madre e tuo padre non ti hanno detto nulla riguardo a questa cosa di andare a vivere con Hermione? –

Ron fece una faccia pensierosa, masticando la pizza.

-         Beh, non mi sono sembrati molto stupiti – disse, a bocca piena. – anche se mia madre ha già cominciato a rompere su come farò a nutrirmi e a lavarmi i vestiti, perché non vuole ‘che sia un peso per la povera Hermione che ha già da studiare’… come se io non studiassi quanto lei! –

Harry gli lanciò un’occhiata. Ron alzò gli occhi al cielo, colpevole.

-         E domani devo anche andare a sentire dall’agenzia immobiliare per tutte quelle stupide scartoffie che dovrei firmare – fece una smorfia. – pensavo fosse molto più facile comprare una casa. –

Rimasero per un po’ in silenzio, finendo la pizza.

Harry assunse, contrariamente al buonumore di prima, quella sua aria un po’ cupa di quando aveva i suoi problemi per la testa.

Ron lo guardò, e come al solito il massimo che poteva fare era stare lì ed aspettare che poco a poco trovasse una soluzione. Lui non poteva essere uno di quelli che chiedevano continuamente ad Harry ‘cosa c’è che non va’.

Nessuno tranne Ron sembrava aver capito che il modo migliore per aiutare Harry quando aveva un problema era fargli compagnia, mentre lui, come sempre, trovava una soluzione.

 

Ginny si stese sull’erba in cima alla collina, esausta.

Aveva passato l’ora precedente a setacciare, naturalmente con l’anello di Voldemort al dito, la zona in cui aveva trovato il bambino. Non c’era traccia di essere umano da nessuna parte, né niente. Era come se quel bambino fosse spuntato dal nulla, così.

Comunque, non poteva darsi per vinta dopo così poche ricerche. Forse avrebbe dovuto chiedere informazioni a qualcuno all’esterno.

Fissò gli occhi sul cielo azzurro che si arrossava sopra la sua testa, splendido e terso come al solito, apparentemente all’oscuro delle schifezze che c’erano sulla terra. Si mise a sedere, si guardò intorno. Con la bacchetta chiamò a sé un rotolo di pergamena ed una penna (aveva lasciato la nuova finestra della sua camera aperta), tanto per fare qualcosa.

Avrebbe già dovuto scrivere da giorni.

Non aveva ancora trovato le parole.

Per sbaglio lasciò cadere una goccia di inchiostro sulla carta, che l’assorbì formando una macchiolina scura.

Scrisse.

Caro Harry

Rimase a fissare quelle parole per i cinque minuti successivi.

Anche se avesse saputo cosa dire, come avrebbe fatto poi a dirlo?

Con che faccia poteva davvero pensare di rivolgergli la parola come niente fosse?

Per la prima volta, si rese conto che per quello che aveva fatto si sentiva in colpa.

Una parte di lei la scherniva e le diceva che non aveva fatto assolutamente nulla di male. Non era quello che aveva sempre voluto, perseguire le sue idee anche se gli altri la ostacolavano?

Accartocciò la pergamena e dimenticandosi di ‘rispettare la natura’ la gettò lontano, giù per la collina ripida. Si stese di nuovo, mentre un brivido di freddo le percorreva la schiena.

 

-         Come hai potuto essere così sciocca? - le disse sua madre.

Lei tacque, singhiozzando silenziosamente mentre la donna bagnava di disinfettante il cotone e glielo passava sulla grossa scorticatura lungo il ginocchio.

Bruciava da morire.

-         Te l’ho detto mille volte che i salti dall’altalena sono pericolosi – la rimproverò sua madre, continuando a disinfettarle la ferita. – solo perché lo fanno i tuoi fratelli non significa che tu li debba imitare ogni volta che combinano qualche sciocchezza. E se proprio ti diverte lanciarti nel vuoto, fallo quando sai che c’è qualcosa di morbido sotto, tipo un po’ d’erba. Non il cemento, tesoro. Dirò a tuo padre di spostare l’altalena sul giardino sul retro. –

Rimasero un po’ in silenzio. Sua madre rimise il tappo al disinfettante e lo fece sparire con un tocco di bacchetta. Poi prese due cerotti dal cassetto accanto a lei e glieli appiccicò per bene sui punti in cui la scorticatura era più profonda.

Ginny guardò i due cerotti con i disegni delle giraffe con aria abbattuta. Le colava il naso ed aveva gli occhi gonfi come due piccole palline da ping pong azzurre.

-         Oh, non fare quella faccia così triste – sorrise sua madre, addolcita. Le passò un fazzolettino bagnato sul viso senza che lei potesse ritrarsi. – è passato, no? Ti ho messo anche i cerotti con le giraffe, ora guarirai. – le accarezzò la testa con la mano.

Ginny riuscì a sorridere leggermente, tirando su col naso.

Sua madre si alzò.

-         Stai attenta, la prossima volta – l’ammonì, e tornò ai fornelli.

Ginny sorrise di nuovo, stavolta veramente, si abbassò a guardare il ginocchio.

La scorticatura non c’era più.

Di colpo non si sentiva più tanto piccola.

Vide il riflesso di se stessa, quella presente, quella di diciassette anni, sul vetro della cucina.

Com’era successo, tutt’a un tratto?

Si voltò a guardare sua madre. Le dava ancora le spalle, stando ai fornelli.

La sentì parlare.

-         Come hai potuto essere così sciocca? – disse, senza voltarsi a guardarla.

Ginny cercò di alzarsi, ma la veste nera si era impigliata da qualche parte.

Lo sforzo di muoversi le offuscò la vista e la voce di sua madre si deformò a tal punto che non sembrò più la sua.

Se proprio ti diverte lanciarti nel vuoto, fallo quando c’è qualcosa di morbido sotto.

E se non sai cosa c’è, sotto? E se non lo puoi prevedere, osservare, toccare?

E se non puoi decidere il momento in cui salterai?

E’ passato, no?

Se non lo è, lo farà! Deve essere così.

Ora guarirai.

La sua vista funzionava a scatti, come se fosse inceppata. Vedeva della neve in fondo ad un precipizio, vedeva degli scaffali di una biblioteca, vedeva un Boccino che non riusciva ad afferrare, vedeva la sua mano stringere quella fredda di qualcuno per non cadere, vedeva quel collo ed il modo in cui le sue dita avrebbero voluto toccarlo, vedeva dei capelli biondi, vedeva il soffitto di una stanza che aveva visto una sola volta ma che le era rimasto impresso per sempre, vedeva una foto confusa appesa ad un muro. A volte vedeva i suoi stessi occhi, e lo sguardo che avevano. A volte vedeva degli occhi grigi, e lo sguardo che avevano.

Stai attenta, la prossima volta.

 

Scattò a sedere di colpo, così in fretta che per un attimo le girò la testa.

Il sole era già tramontato da un pezzo. Non c’erano stelle.

Si ritrovava in mezzo all’erba al buio senza la più pallida idea di che ore fossero.

Si alzò in piedi, accese la bacchetta.

Rimase ferma, ad ascoltare il proprio respiro al buio, soltanto le luci del castello creavano una lieve penombra.

Aveva i brividi dappertutto. Le mani le tremavano impercettibilmente.

Odiava i sogni.

 

Ron cominciava a pensare che si stava trovando di fronte a quella porta un po’ troppo spesso.

Insomma, com’è che alla fine doveva essere sempre lui ad andare a prendere Hermione? Aveva seri dubbi sul fatto che qualcuno avrebbe potuto molestarla, visti gli sguardi assassini che riusciva a lanciare.

Comunque, non era questo il punto. Il punto era che Hermione lo aveva chiamato a raccolta –vabbè, in realtà l’aveva chiamato e basta- e gli aveva chiesto di andare a casa sua, senza una motivazione, ed aveva buone possibilità di passare le due ore successiva a prendersi una ramanzina. Oddio, magari aveva anche letto la lettera. Cielo, che cosa umiliante. Che cosa umiliante.

Stava giusto per fare dietro front e scappare alla velocità della luce, quando la porta si aprì.

Hermione lo accolse con uno strano sorriso.

-         Buonasera! – disse, allegramente. – entra, entra. Scusa, sono un attimo occupata in cucina. –

E scivolò via con una sospettosissima grazia.

Ron era talmente diffidente che quasi aveva paura di camminare su quel pavimento, come se fosse minato.

In salotto, si diffondeva un buon profumo di arrosto.

Hermione svolazzava dal tavolo della cucina ai fornelli canticchiando.

Ron cominciava a sentire il panico.

-         Va… va tutto bene? – chiese, avvicinandosi ed allungando lo sguardo verso il forno in cui cuoceva davvero un arrosto.

Hermione non lo degnò nemmeno di un’occhiata.

-         Ma certo che va tutto bene! La cena è quasi pronta! – disse, tirando fuori un coltello di dimensioni preoccupanti. Ron indietreggiò di un passo.

Forse voleva punirlo. Una tortura lenta ed angosciante, che iniziava con Hermione che canticchiava tra i fornelli (e grazie al cielo non aveva il grembiule) e finiva con l’arrosto avvelenato.

Già si immaginava i titoli sui giornali.

-         Cosa fai lì impalato? Siediti! – e lo costrinse con una violenza poco femminile a sedersi a tavola, la quale naturalmente era apparecchiata alla perfezione.

-         Ehm… i tuoi genitori? –

-         Sono andati ad un congresso a Oxford. –

Ron inarcò le sopracciglia.

-         Oh. -

Quindi, era, tipo, sola?

No, vabbè, calma. Certo che aveva la mente veramente attiva a volte, per farsi tutti quei viaggi in pochi secondi.

Cercò di ignorarsi.

-         Hai cucinato… tu? – chiese, intimorito.

Hermione aprì il forno.

-         Certo – disse, con tono ovvio. Si tirò indietro i capelli e si mise in punta di piedi per aprire la dispensa.

Solo allora Ron si accorse che non era vestita come al solito. Indossava una gonna al ginocchio leggera e quasi svolazzante, il che già di per sé era molto strano, visto che il massimo quanto a gonne che si azzardava a fare erano castissime e anonime gonne scure a pieghe. Il che era un peccato, perché quanto a gambe non era davvero male… no, si stava distraendo di nuovo. Quello che in realtà aveva notato –oltre alla gonna- era la canotta senza maniche nera che a quanto ricordava le aveva regalato Ginny per il suo precedente compleanno. Era piuttosto semplice, ma era insolito vedere Hermione con le spalle scoperte.

Oddio. Si stava trasformando in una specie di maniaco.

Distolse con decisione lo sguardo e lo puntò dritto verso Grattastinchi, che stava innocentemente entrando in cucina con un miagolio. Quando vide Ron, lo fissò con vago disprezzo e prese la via più lontana da lui per arrivare alle caviglie di Hermione facendo le fusa in cerca di cibo.

La ragazza gli passò di soppiatto un pezzettino di prosciutto. Grattastinchi lo guardò deluso ma si accontentò.

Hermione prese un paio di guanti e tirò fuori l’arrosto dal forno. Lo posò con anormale delicatezza al centro del tavolo.

Ron lo fissò. Effettivamente aveva un’aria invitante, ma non doveva lasciarsi ingannare.

Hermione si sedette educatamente di fronte a lui e lo guardò.

-         Non ne prendi un po’? – fece, innocentemente.

Ne era sicuro, era avvelenato.

Ridusse gli occhi a due fessure.

-         Siamo sicuri che vada tutto bene, Hermione? –

Lei sbattè le palpebre.

-         Ma perché me lo chiedi? –

-         Beh, sinceramente non mi aspettavo tutta questa… cosa… cioè, non mi avevi detto che avresti preparato la cena di persona. E poi, sei un po’ diversa… sei così di buonumore… -

-         Perché, di solito non sono di buonumore? –

-         Ehm, sì, però in un modo diverso. Di solito non sei così gentile. Voglio dire… mi aspettavo che ti saresti arrabbiata… -

Hermione posò la forchetta.

-         Per cosa dovrei essere arrabbiata? –

Ron distolse lo sguardo.

-         Beh, sai, per la questione della lettera… non ero sicuro che la cosa ti sarebbe andata a genio… cioè, io non volevo farne una cosa ufficiale, ma tuo padre e tua madre… -

Lei lo fissò. Ron aveva l’aria così imbarazzata che era francamente impossibile non provare l’impulso di saltargli addosso.

Hermione, per la milleduecentesima volta, si trattenne.

-         Ron, non sono affatto arrabbiata. –

Lui alzò lo sguardo.

-         Ah, no? –

Hermione cercò di guardarlo il meno possibile negli occhi.

-         Proprio per niente – mormorò.

E digli la verità, le diceva una vocina dentro di sé.

Digli che non sei mai stata così felice da perdere le parole.

Digli che non sei mai stata così felice da arrivare a cucinare un arrosto ed aleggiare per la cucina come un’eroina anni cinquanta.

Digli che sai che neanche in un milione di miliardi di anni avresti conosciuto una persona come lui.

E digli che sei così perdutamente innamorata di lui che hai una paura folle.

- Mi… mi ha fatto piacere – borbottò, invece, soltanto questo.

Comunque, Ron sembrò sollevato.

-         Bene, perché è stata davvero una cosa terribile – si lanciò nel racconto. – con tuo padre nell’altra stanza che aspettava che finissi. Veramente, dovresti ringraziarmi in eterno per tutto… -

-         Grazie – disse improvvisamente Hermione. Non lo guardava negli occhi. – ti ringrazio davvero, Ron. –

Perché neanche nei sogni più assurdi e anomali avresti pensato che potesse esistere una persona che ti avrebbe voluto bene nonostante le tue paranoie, il tuo carattere difficile, la tua aria da saputella insopportabile.

E la cosa più straordinaria era che Ron non si rendeva affatto conto di tutto questo.

Infatti, la guardò strano, preso in contropiede.

-         Oh – mormorò. – e… l’hai letta la lettera? –

Ops.

Hermione distolse lo sguardo, irritata.

-         Mio padre me l’ha nascosta. –

-         Cosa? –

-         Sì… dice che non sono abbastanza ‘matura’ per leggerla! L’ho cercata ovunque, e non si trova. –

Ron fece un gran sorriso trionfante.

-         Quindi non hai idea di cosa ci sia scritto, eh? –

Hermione s’incupì.

-         No. –

Lui scoppiò a ridere.

-         Guarda, io e tuo padre dovremmo parlare più spesso, se magari le prossime volte evita di consigliarmi di mettere su dei teatrini. Come credi se la caverebbe come Cacciatore a Quidditch? –

La ragazza s’immaginò il padre fieramente a cavallo di una scopa e non riuscì a trattenere un attacco di risa.

-         Oh, sono sollevato, sei tornata normale. Comiciavo a temere che ti fossi trasformata in una specie di perfetta casalinga, come se non fossi già brava nella altre cose. Dovrai pure essere un disastro in qualcosa! - disse Ron, prendendo l’arrosto. Ormai era quasi sicuro che non fosse avvelenato. E poi aveva fame.

Hermione cercò di ignorare il commento e cominciò a mangiare anche lei con un mezzo sorriso.

-         Pensavo fosse quello il tipo di ragazza che ti piace – si buttò.

Ron inarcò le sopracciglia, pensieroso.

-         Effettivamente, sì. Ma questo non significa nulla – si affrettò ad aggiungere quando Hermione si ritrovò casualmente ad impugnare di nuovo il coltello affilato. – voglio dire, non ti ci vedo proprio a fare una cosa simile. Ma non vuol dire che tu… non… -

Oddio, ma come si erano infilati in quel discorso? Come se non si fosse già esposto abbastanza. Praticamente ci mancava che si buttasse giù da un elicottero gridando che gli piaceva.

Insomma, non era il tipo.

Ma stranamente, Hermione lo interruppe.

-         Lo so – mormorò, arrossendo. – e, beh, mi dispiace che ti senta costretto a dirlo perché forse io… non sono… ammetto di non essere molto espansiva… come lo sarebbe qualcun'altra al posto mio… ma non vuol dire che tu… non… -

Ed ecco quel momento.

Sapeva che sarebbe arrivato prima o poi, ma lo raggiunse comunque impreparato.

In quel momento, qualsiasi rumore, qualsiasi visione, qualsiasi persona, qualsiasi cosa non avrebbe potuto distrarlo da lei. Era come se di colpo tutti i sentimenti che aveva provato da quando la conosceva lo travolgessero improvvisamente, tutti insieme, tutti incasinati, tutti potenti ed emozionanti come scendere in picchiata giù dalle montagne russe.

Senza nemmeno rendersene conto, si alzò, le si avvicinò e prima che lei potesse dire una parola, la baciò.

Ma non nel solito modo stile ‘stai tranquilla, so esattamente quando fermarmi, perché ho autocontrollo io’. Era esattamente il contrario.

L’autocontrollo in quel momento sparì dal suo vocabolario, totalmente.

Hermione fu presa talmente alla sprovvista che si dimenticò anche dove mettere le mani, e le lasciò a mezz’aria per qualche secondo. Poi, senza staccarsi dalle sue labbra, si alzò in piedi per non costringerlo a rimanere chinato e impacciatamene gli appoggiò le mani sul collo.

Santo cielo, le labbra di Ron. Non che avesse una grande esperienza, ma aveva come l’impressione che nessuno le avrebbe fatto quell’effetto, quello stesso effetto, il tipo di emozione che ti capita una volta ogni dieci anni se sei fortunato, e che lui era capace di farti provare soltanto baciandoti.

Approfondirono il bacio senza pensarci troppo. Ron appoggiò le mani sulle sue spalle nude e provò un lunghissimo brivido lungo la schiena. Ogni pensiero era lontano da lui anni luce.

Le lasciò le labbra, la baciò all’angolo della bocca, sul mento, sul collo.

Hermione ormai vedeva il suo cervello salutarla con la mano, la sua mente che faceva le valige.

Ron lasciò la mano vagare con aria innocente lungo la sua schiena, ma poi si infiltrò sotto la canotta.

Per un attimo il debolissimo buon senso di Ron arrancò nella sua mente e gli disse che forse non era una buona idea, che magari Hermione nemmeno voleva.

Anche il cervello di Hermione fece timidamente capolino, dicendole che forse, insomma, non era il momento, forse non era il caso. E se non… cioè, e se poi si fosse bloccata? E se poi il ‘trauma’ tornava ed era costretta a rifiutare Ron? E se non si ricordava come… insomma…

Effettivamente, la prima, primissima volta di ‘quel’ genere sembrava irreale, lontana anni luce, come se non fosse mai esistita, e si sentiva molto più nervosa di allora.

Poi incontrò gli occhi azzurri di Ron, per puro caso.

Oh, al diavolo.

Con coraggio sovrumano, si allungò a baciarlo come incoraggiamento. Ron rimase incerto per un attimo, ma il buon senso ormai si era volatilizzato, quindi.

Le prese la mano in un gesto impacciato. Si diressero verso le scale che portavano al piano superiore.

-         Ti porterò in mondi splendidi, baby – disse di colpo, con aria ammiccante, per allentare la tensione.

Effettivamente, ci riuscì. Hermione fece una smorfia.

-         Corro a fare la valigia – ironizzò con un sorriso, mentre entravano nella sua camera.

Lì, Ron sentì i freni inibitori sciogliersi allegramente e la baciò di nuovo.

Finirono sul letto quasi senza accorgersene.

Hermione aprì per un attimo gli occhi ed osservò i capelli rossi di Ron, sopra di lei.

Davvero. Ma come aveva fatto a fare finta di niente fino ad ora?

-         Ahia – disse Ron, all’improvviso. Tirò fuori un libro spigoloso da sotto il ginocchio.

-         Dico, ma cosa ci faceva questo qui? –

Hermione rimase per un attimo smarrita, ancora a fare le valige per i ‘mondi splendidi’.

-         Oh – fece. – è l’Enciclopedia Musicale. –

-         E che diavolo te ne fai di un’enciclopedia musicale che hai sì e no due dischi? –

-         Mi piace avere una cultura completa. –

Si guardarono in cagnesco, cosa che effettivamente risultava un po’ ridicola vista la situazione.

Ron gettò il libro a terra.

-         Tu non sei adatto a queste cose – gli disse, strafottente.

Hermione ebbe appena il tempo di sorridere che lui la baciò un po’ più sotto del collo, quasi all’altezza delle clavicole. Le tolse la canotta con inquietante facilità.

Chissà come, finì che neanche lui aveva più la maglietta.

Inutile dire che ormai nessuna Enciclopedia Musicale avrebbe potuto distrarla.

La baciò con più foga sulle labbra, ormai fisicamente e psicologicamente dipendente da lei. Avrebbero dovuto renderla illegale in tutti gli stati europei più qualcuno americano, era una specie di droga.

Le mani di Hermione vagavano incerte sul suo petto e sulla sua schiena, ed era meglio di qualsiasi cosa avesse mai provato.

Tornò a baciarle il collo mentre le sue mani arrivavano finalmente dove non erano mai arrivate.

-         Ti devo confessare una cosa – disse Hermione, appoggiandosi con gli occhi chiusi alla spalla scoperta di Ron. Lui mugugnò qualcosa, giustamente un po’ distratto. – l’arrosto era surgelato, non l’ho fatto io. –

Ron rise contro la sua pelle.

-         Lo avevo capito. Specialmente quando ho visto la confezione vicino ai fornelli. –

Hermione arrossì, ma tanto lui non se ne accorse.

Ti voglio bene. E ti ringrazio infinitamente per avermi fatto diventare la persona che sono ora.

E lo pensarono entrambi.

Ron le abbassò leggermente la cerniera della gonna mentre lei, riprendendo quel coraggio mostruoso, almeno per lei, gli baciava dolcemente il collo, il che era ancora meglio del meglio di prima.

E tutto era il meglio del meglio del meglio del meglio di qualsiasi…

- Hermioneee, sei in casa? –

Okay, quella voce doveva per forza essere una brutta e stupida allucinazione uditiva. La ignorarono bellamente.

-         Hermioneee? –

Un’insistente allucinazione uditiva. Ron non si sarebbe mosso da lì per niente al mondo.

-         Hermione, sei in camera? –

No, un momento, quelli erano passi. Su per le scale.

Ebbero appena il tempo di guardarsi per un attimo che scattarono in piedi. Si rivestirono così in fretta che non avrebbero potuto fare di meglio con la magia.

La signora Granger entrò.

-         Hermione, ma cosa… oh – fece la donna, con la mano sulla maniglia, vedendo Ron.

Effettivamente, era davvero una fortuna che fosse una donna fastidiosa ma fondamentalmente ingenua.

Hermione aveva la gonna stropicciata e la camicia al contrario, dal colletto spuntava l’etichetta, rossa in viso. Ron, anche se non fosse stato più in disordine del solito, aveva una faccia così rossa e colpevole che perfino un neonato si sarebbe insospettito. Tenevano in mano l’Enciclopedia Musicale.

-         Mamma – fece Hermione, con una strana voce roca tutta stupita. – ma cosa fai qui? Non eri a Oxford? –

La donna aggrottò le sopracciglia.

-         Il relatore non riesce ad arrivare in Danimarca se non la prossima settimana, così hanno annullato il congresso che non eravamo neanche a metà strada. Tuo padre sta mettendo la macchina in garage… ciao, Ron – disse.

Il ragazzo le fece un cenno forzato con la mano.

Silenzio.

-         Ehm… cosa stavate facendo di bello, ragazzi? – chiese, con aria circospetta.

-         Oh… leggevamo l’Enciclopedia Musicale. E’ molto interessante, sai. – fece Hermione, accennando al volume con aria poco convinta.

La signora Granger lanciò un’occhiata perlpessa al libro voltato al contrario.

-         Capisco – mormorò. – beh, se hai bisogno di me, sono nella stanza accanto… – disse, con aria velatamente minacciosa, e aleggiò fuori dalla stanza.

Sia Ron che Hermione tirarono un lungo sospiro di sollievo, quando la porta si chiuse.

Va bene che stavano per andare a vivere insieme, ma farsi cogliere il flagrante subito, così, non era proprio il caso.

Comunque, ora la situazione era avvolta nell’imbarazzo più totale.

Ron si alzò in piedi faticosamente.

-         Sarà meglio che torni a casa – borbottò, con una punta di disperazione.

Insomma, la madre di Hermione lo faceva apposta, a piombare nei momenti sbagliati. Non era scientificamente possibile essere così precisi senza volerlo, caspita.

Senza contare che, ora come ora, aveva seriamente bisogno di una lunga, lunghissima doccia fredda. Meglio filare, prima di combinare qualche disastro.

-         Sì – disse Hermione, incapace di articolare più di due parole per l’imbarazzo.

Ron le lanciò un’occhiata di nascosto e dovette fare due passi indietro per impedirsi di seguire il suo malfidato istinto.

-         Mi dispiace – borbottò all’improvviso lei, alzandosi, così piano che lui dovette allungarsi per sentirla. – non so come faccia a essere così… -

Così rompipalle, avrebbe voluto dire Ron, ma forse era meglio mantenere un contegno.

-         Sì, beh, prima o poi qualcuno se la prenderà molto e tu rimarrai orfana, povera ‘Mione – si lasciò sfuggire.

Hermione rise e inaspettatamente si allungò a baciarlo.

Ron dovette usare una forza sovrumana per evitarsi di approfondire il bacio e tenere le mani placidamente sulle sue spalle. Certo che anche lei, per caso era in combutta con sua madre per farlo uscire di testa e rinchiudere?

Grazie al cielo –o purtroppo- si allontanò. Aveva il viso in fiamme ma Ron era troppo impegnato a ricordarsi come ci si Smaterializza per farci caso.

Domani all’alba avrebbe firmato la maledetta burocrazia di quella maledetta casa, e che diamine.

 

Ginny, con la veste ed il cappuccio calato sulla fronte, raggiunse il portone a mezzanotte in punto. Non aveva voglia di farsi inutilmente riprendere per i soliti due minuti di ritardo.

Aveva affidato ‘il bambino’ (ormai si era decisa a dargli un nome, anche se ancora non sapeva quale) a Tinker, il quale ci mancava che facesse i salti di gioia, praticamente l’aveva buttata fuori dichiarando che ‘Tinker se ne sarebbe occupato perfettamente’, con aria gongolante. Si era anche fatta garantire che non ne avrebbe fatto parola con nessuno (né del bambino né del suo improbabile baby-sitter). Con nessuno.

Al portone, era tutto deserto e silenzioso. Solo le torce ai lati dell’entrata le permettevano di vedere qualcosa nel raggio di pochi metri. Si sedette sul muretto sotto la luce, chiedendosi cos’avrebbe potuto fare di lì alle cinque e mezzo del mattino.

Alzò la testa.

Effettivamente, non aveva mai guardato il panorama da quell’angolazione, e doveva ammettere che Rodolphus aveva ragione. Era inaspettatamente splendido.

Il cielo sembrava non finire mai. Era pieno di stelle, come se fossero state le luci di una città viste da lontano, e la luna era al suo primo quarto. L’aria era fredda. Soffiò sulle mani per scaldarsi e si chiese se era vero che se ti addormenti al freddo muori.

-         Diavolo, Weasley, sei peggio della muffa. Dopo un po’ spunti dappertutto. –

Ginny si voltò di scatto, così in fretta che quasi cadde giù dal muretto.

Non poteva essere vero.

Rodolphus non poteva aver fatto una cosa del genere.

Faceva il finto tonto, ma la conosceva bene, la situazione.

Eppure, eccolo lì, Malfoy, materializzatosi da chissà dove. Comunque, doveva venire dall’esterno, perché era vestito normalmente e non aveva la veste.

Ginny sentì il suo stomaco rivoltarsi, per qualche motivo. Ce l’aveva lei, la sua veste.

Non fece nemmeno il tempo a pensarlo che lo vide indossarne un’altra sopra i vestiti. Si calò il cappuccio sul viso, come se non si fidasse di lei, il che con tutta probabilità era vero.

Ginny si riprese. Non si sarebbe lasciata scalfire da una cosa così stupida.

Era indipendente, lei.

-         Qui l’unica cosa ammuffita deve essere il tuo cervello – replicò, con una smorfia, distogliendo lo sguardo. – non dirmi che devo… -

-         Che io devo passare cinque ore e mezza nella noia più totale a meno di due metri da una Weasley? Purtroppo sì. –

Dio, era veramente snervante. Questo suo continuo affermare la sua ostilità era fastidioso e inutile. Avrebbe voluto dirgli che tanto già dal suo sguardo si capiva che era ostile.

In effetti, bastava un suo sguardo per agghiacciarti abbastanza da farti tacere.

Ma tanto Ginny non lo guardava quasi mai negli occhi.

-         Mi fa piacere vederti così in forma, Malfoy – ironizzò. – dì un po’, dov’è che vanno i Mangiamorte in belle giornate come queste? A fare scampagnate? –

Draco la fissò con odio puro, ma lei continuava a guardare il cielo come se lui non fosse lì vicino, alla distanza di un portone, seduto sul muretto parallelo.

Dio, era veramente snervante. Sperò vivamente che con tutto quel freddo prima o poi le venisse un colpo, così la smetteva di rispondere a qualsiasi cosa dicesse. Le persone normali tacevano quando vedevano che lui era di cattivo umore. Ed era evidente che ora lo era.

-         Di scampagnate ne saprai sicuramente più di me, Weasley – disse, con un sorrisetto. – immagino che il posto preferito di voi filobabbani siano le discariche. Molto caratteristico, non c’è che dire. –

-         Oh, sì, Malfoy, mi sembrava di averti visto là, in mezzo ai rifiuti. –

Stavolta non poterono fare a meno di guardarsi, gelidamente.

Ginny si sentì un po’ meglio. Quando lo aveva visto arrivare, si era spaventata, a dire la verità. Perché sapeva di poter controllare tutto, ma non riusciva mai a controllare quello che le succedeva se era in sua presenza. Visti i precedenti… a cui, comunque, si era assolutamente vietata di pensare.

Quei ricordi erano solo un vecchio incubo, ecco.

Davvero.

Il tempo guarisce tutte le ferite, davvero.

In ogni caso, ora come ora, l’unica cosa che lui suscitava in lei era una gran rabbia. Ogni volta che apriva bocca aveva quel suo tono strafottente e arrogante.

E lei detestava le persone arroganti.

Dopo qualche minuto, Ginny non riuscì a trattenersi.

-         Non ti aspetterai che rimaniamo in silenzio per cinque ore e mezza, vero? –

Draco sbattè le palpebre, guardò l’orologio al polso.

-         Veramente, sarebbero cinque ore e ventidue. E poi, dubito che potremmo condividere molti argomenti di conversazione. –

Ginny fece una smorfia, di nascosto. Se non la smetteva di avere quel tono, lo avrebbe preso a calci prima delle due.

Passarono altri minuti, durante i quali Draco rimase appoggiato al muro con gli occhi chiusi, perfettamente fermo come se stesse dormendo, con la differenza che ogni tanto muoveva le dita sulla pietra, mentre Ginny giocherellava con i lacci sdruciti delle sue scarpe.

Ad un certo punto, era talmente assorta che cominciò a canticchiare.

Draco aprì gli occhi, incredulo. Si voltò a guardarla.

-         Cercherò di ignorare la tua pessima intonazione, ma mi chiedo come mai per te sia così difficile rimanere in silenzio, che starei cercando di dormire. –

Ginny gli lanciò un’occhiataccia.

-         Sei il massimo della guardia, eh, Malfoy? Se ti comporti sempre con tanta responsabilità, non ti affideranno mai neanche un gattino. –

-         Odio i gatti. E la guardia è un’emerita cazzata, vista la moltitudine di incantesimi che circondano il castello e ridurrebbero in poltiglia un esercito di giganti. Io mi fiderei di meno della gente che sta dentro il castello – disse, guardandola.

La ragazza ignorò totalmente la provocazione.

-         E comunque, il silenzio è fastidioso e noioso, punto. –

-         Ah, sì, immagino che per te sia molto noioso, Weasley, visto che di solito il silenzio ti permette di pensare e sospetto che tu non abbia possibilità di pensare. –

Ginny avrebbe voluto volentieri prenderlo ripetutamente a schiaffi.

-         No – disse, invece. – a dire la verità il silenzio è fastidioso proprio perché ti permette di pensare. Ma quelli che non pensano come te cosa ne possono sapere... –

Draco tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e rise di scherno mettendone una tra le labbra.

-         Calma, non ti agitare, Weasley. Se cominci a fare confusione adesso, domani mattina sarai stremata. –

Ginny lo guardò gelida accendersi una sigaretta. Credeva di essere il migliore, lui.

Draco le rivolse uno sguardo, tirando una boccata.

-         Che c’è? Se stai pensando che ora che abbiamo finito gli argomenti di conversazione potremmo giocare a verità o sfida, mi rifiuto, grazie dell’offerta. –

Lei fece l’ennesima smorfia, disgustata.

-         No, stavo più che altro pensando che dev’essere stata costosa la scuola che hai frequentato per diventare così perfettamente stronzo. –

Draco non riuscì a trattenere un sorrisetto. Parlare con Ginny era un po’ come giocare a squash, la palla ti tornava sempre indietro, e tu facevi una fatica spropositata, ma diamine, era pure divertente. Il fatto era che lei aveva l’aria di prendersela così seriamente, anche se lui la prendeva in giro. Era quasi un riflesso condizionato stuzzicarla.

Entro i limiti che si era posto, comunque.

Quando l’aveva vista a guardia del portone, si era arrabbiato. Sapeva benissimo che Rodolphus non aveva lasciato cadere i loro nomi nei turni di guardia così, a caso. Quell’uomo era malato di mente, se pensava di essere spiritoso.

Comunque, se sperava di turbarlo o chissà cosa, si sbagliava di grosso. Anzi, quasi lui stesso era stupito della sua elegante tranquillità, non che ci fosse niente di strano, in questo. Finchè con la Weasley non si parlava di babbani e Mangiamorte, poteva anche evitare di arrabbiarsi in modo furioso, come gli succedeva la maggior parte delle volte quando lei apriva bocca.

Ma le cose andavano meglio del previsto. Anche se aveva solo un anno in meno di lui, come atteggiamento sembrava quasi più piccola di quello che era. Come Mangiamorte non si poteva proprio prendere sul serio.

-         Detto da te sembra quasi un complimento – commentò, espirando il fumo e guardandolo alzarsi nell’aria fredda.

-         Beh, non lo è – replicò Ginny, spazientita.

Rimasero in silenzio per un tempo indefinito.

Ginny davvero non sopportava quel silenzio strano –almeno per lei- ma a quanto pareva anche parlare era una pessima idea. Avrebbero finito per strangolarsi.

Gli lanciò un’occhiata furtiva. Draco aveva spento la sigaretta e se ne stava insopportabilmente tranquillo a occhi chiusi, come prima.

-         Guarda che se ti addormenti al freddo muori – disse, prima di riuscire a trattenersi.

Draco aprì gli occhi senza preavviso e la guardò.

Ginny rimase pietrificata e per un lunghissimo attimo non riuscì a respirare.

Non ti addormentare.

Ci si era già trovata al freddo con Malfoy.

Non ti addormentare.

Lo aveva già detto.

Distolse di colpo lo sguardo, così seccamente che nonostante il silenzio sembrò che un bicchiere di vetro si fosse spaccato per terra.

Malfoy chiuse immediatamente gli occhi.

-         Se questo lo chiami freddo… - mormorò, con tranquillità.

Ginny sperò ardentemente che lui non si fosse accorto di niente. Perché se mostrava un minimo segno di debolezza in sua presenza, sarebbe stato come ammettere la sua supremazia su di lei.

La vita non sempre è una guerra, Ginny.

Forse lui aveva ragione, forse stava esagerando.

Ma quella sensazione di tensione non le sarebbe passata per tutta la notte.

Capì che non era il caso di parlare, definitivamente. Appoggiò il mento alle ginocchia abbracciando le gambe con le braccia e cominciò a contare le stelle, per distrarsi.

Draco aprì gli occhi e la guardò di sfuggita. Finalmente si era decisa a tacere, per qualsiasi motivo.

Fece per prendere un’altra sigaretta dal pacchetto, ma stranamente non ne sentiva minimamente il bisogno, proprio per nulla. Si limitò a tennerne una spenta tra le labbra, giusto per fare qualcosa.

Non ti addormentare.

Accese la sigaretta di colpo, ignorando l’istinto che gli diceva che non ne aveva voglia.

Passarono due ore e mezza nel più totale silenzio.

Ginny aveva avuto il tempo per rilassarsi e si era messa a fare degli strani ghirigori per aria con la luce della bacchetta, come le facevano vedere i suoi genitori da bambina a capodanno.

Draco stavolta sembrava davvero addormentato. La sigaretta giaceva accesa e quasi totalmente consumata sul pavimento di pietra.

Ginny era al millesimo ghirigoro luminoso quando sentì delle voci e dei passi.

Alzò di colpo lo sguardo ed impugnò meglio la bacchetta.

Due figure si avvicinavano ridendo sguaiatamente.

Ginny notò che avevano la veste dei Mangiamorte.

Non sapeva cosa fare. Non conosceva i volti della maggior parte della gente che popolava il castello. Cosa si faceva quando qualcuno entrava alle tre del mattino? Doveva chiedere spiegazioni, fermarli?

Guardò istintivamente verso Malfoy. Lui aprì gli occhi nello stesso momento in cui lei si voltò, come se fosse sempre stato sveglio.

I due Mangiamorte arrivarono sotto la luce. Da quel che si riusciva a vedere sotto i cappucci, dovevano essere due uomini, tra i trenta e i quarant’anni. Ginny non li aveva mai visti, ma loro parvero riconoscere Malfoy.

- Ehi, Draco, come va? Erano secoli che non ti mettevano di guardia di notte. Hai smesso di essere il cocco dei Lestrange, eh? –

Anche dal metro e mezzo che li separava, Ginny riusciva a sentire odore di alcol. Dovevano aver bevuto, avevano un’aria troppo allegra e bonacciona per quell’orario.

Nonostante i due fossero molto amichevoli, comunque, Draco non fece nemmeno un mezzo sorriso. Si limitò a fare uno scarsissimo cenno con la testa e rinfoderare la bacchetta che aveva tirato fuori sentendo i rumori.

Uno dei due, il più giovane, si voltò verso Ginny e la squadrò con un po’ troppa attenzione.

Ginny istintivamente si nascose meglio sotto al cappuccio.

-         Beh? E tu chi sei? – le chiese, con una risata fuori luogo. Anche l’altro si voltò a guardarla.

La ragazza cercò di sembrare minacciosa e austera come sembrava Alecto.

Non sapendo bene cosa dire, rimase zitta più del dovuto.

-         Ti ha chiesto come ti chiami – rise l’altro. Aveva una spiacevole barba incolta. Si voltò verso Draco. – parla la nostra lingua? –

Il ragazzo lo ignorò totalmente, rimettendo il pacchetto di sigarette in tasca.

-         Ginevra – borbottò Ginny, capendo che fare finta di non sentire era solo peggio.

-         Oh, Ginevra. Carino. Sei nuova, eh? Un’apprendista… - il più giovane lo disse come se stesse pregustando una buffet natalizio.

Ginny annuì, sentendosi a disagio ma cercando di non farlo vedere.

Invece di ritenersi soddisfatto, l’uomo –che aveva una spiacevole barba incolta- andò a sedersi a mezzo metro da lei, sul muretto.

-         Le apprendiste che sono arrivate ultimamente sono terribili. O già impegnate – lanciò un’occhiata divertita a Malfoy, che sembrava totalmente estraneo alla situazione e guardava altrove. – fa sempre piacere vedere qualche eccezione. Hai visto che occhi, Liam? –

L’altro uomo, divertito, si chinò come se non la vedesse bene. Lanciò un fischio di approvazione, nonostante avesse visto quanto prima.

Ginny sentiva il muretto bruciare e le gambe dirle di andarsene immediatamente.

-         Che c’è, non ti piacciono i complimenti? – disse l’uomo con la barba incolta, allungando una mano e mettendole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Per puro riflesso, Ginny alzò un braccio e gli schiaffeggiò piuttosto violentemente il polso perché ritraesse la mano. Perfino Malfoy si voltò per lo schiocco.

Lui non apprezzò.

-         Ehi, ma sei pazza? – disse l’uomo, guardandosi il polso con una smorfia orripilata. – ma come ti permetti? –

Liam se la rideva parecchio e questo sembrò bruciare ancora di più all’uomo.

-         Tu hai bisogno di essere messa al tuo posto – disse, e prima che Ginny potesse capire le lanciò uno sguardo che lei non riuscì ad evitare.

Rimase pietrificata. Non poteva muovere un solo muscolo.

Si ricordò che nonostante le apparenze, i Mangiamorte erano maghi di un certo livello. Era scontato che sapessero praticare gli incantesimi non verbali.

Lei aveva seri problemi. Era tradizione della famiglia Weasley non saper nascondere le cose nelle espressioni del viso.

E non potè nemmeno sbloccarsi. Non ti insegnano a controllare la paura.

Liam stava ridendo a crepapelle.

-         Dai, ma lasciala in pace, Jack – disse, senza crederci affatto. – e poi è di guardia. Se poi Rodolphus ci fa delle storie… -

Jack scrollò le spalle, alzandosi dal muretto.

-         Rodolphus fa di molto peggio. Non è mica giusto che si prenda solo lui il divertimento. –

Ginny cercò con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà, con tutti i suoi muscoli, di muoversi. Non riuscì nemmeno a sbattere le palpebre.

Jack si chinò verso di lei.

-         Non ve lo consiglio – disse una voce, gelida.

Ginny avrebbe voluto spostare lo sguardo, ma non ci riuscì.

Jack si fermò e si voltò a guardare Malfoy.

-         Ah, sì? E come mai? – ridacchiò.

Malfoy alzò gli occhi al cielo con un sospiro profondo, come se stesse parlando con dei minorati mentali.

-         Malattia. Una brutta malattia. – sentenziò.

Jack e Liam lo guardarono boccheggianti come due stupidi pesci.

-         Chi, lei? Tipo cosa? – mormorò Jack, disorientato.

A Ginny venne da ridere disperatamente. Era incredibile come certa gente le dicesse perfettamente, le bugie.

Malfoy fece schioccare la lingua, impaziente.

-         Non credo sia il caso che ve lo spieghi. Vi si potrebbe riproporre la cena a base, temo, di vodka e scotch. –

Cielo, lo diceva così bene che quasi ci credeva lei. Jack e Liam erano talmente colpiti che per un attimo sembrarono perdere sia la sbronza che la stupidità, e rimasero in silenzio per qualche secondo.

-         Se è una balla… - tentò Liam, ma molto incerto.

Draco inarcò le sopracciglia.

-         Oh, provate pure. A vostro rischio e pericolo… -

Quei due dovevano aver avuto pessime esperienze con malattie sessualmente trasmissibili, perché erano sinceramente terrorizzati. Non ci pensarono due volte. Le lanciarono uno sguardo di assoluto disgusto ed entrarono ringraziando sentitamente Malfoy per la dritta.

Ginny avrebbe avuto dire immediatamente qualcosa, ma era ancora pietrificata dall’incantesimo.

Malfoy attese parecchio –sicuramente apposta, pensava Ginny- poi fece qualche lentissimo passo per arrivarle di fronte e guardarla negli occhi.

Il suo sguardo grigio impassibile la trafisse tanto che le sembrò una coltellata.

E la cosa agghiacciante era che non era una coltellata spiacevole.

Di colpo, sentì una violenta scossa elettrica correrle lungo la schiena.

Come non le capitava da secoli.

Rimasero a guardarsi per un tempo indefinito. Poi Malfoy parlò.

-         Guarda che ti ho tolto l’incantesimo da cinquantasette secondi – disse, con l’ombra di un sorrisetto sarcastico in viso.

Oh, diavolo.

Ginny distolse in fretta e furia lo sguardo.

Le sembrò di sentire Malfoy ridere in modo insopportabile mentre tornava al suo posto.

-         Potevi inventarti una scusa migliore – disse la ragazza, prima di riuscire a controllarsi.

Chissà perché quando doveva dire ‘grazie’ non ci riusciva mai.

Malfoy inarcò le sopracciglia.

-         Oh, diavolo, preferivi farti una, oserei dire, terrificante gita nelle fantasie sessuali di quel tipo? Temo che da lui sì che ti saresti presa qualche brutta malattia… -

Ginny arrossì furiosamente.

-         Non volevo dire questo – borbottò, un po’ disarmata. Quella specie di paura improvvisa l’aveva stancata di botto.

Effettivamente, cominciava a sentire il sonno arretrato pesarle sulle palpebre.

Rimasero ancora in silenzio, per diversi minuti.

Il silenzio era ancora più sonnolento.

Oddio. Non poteva addormentarsi.

Si schiaffeggiò mentre Malfoy non guardava.

Doveva tenersi sveglia.

Senza rendersene conto chiuse gli occhi.

-         Sto cercando i genitori del bambino, ma non ho la più pallida idea di dove siano – disse, pensando che se parlava magari rimaneva sveglia.

Malfoy la guardò. Aveva l’aria di essere totalmente fuorigioco. Ma cos’aveva, cinque anni, che non sapeva passare una notte in bianco? La ignorò.

-         Devo trovarli – continuò a cianciare Ginny, sbadigliando. – non posso tenerlo con me, non mi fa dormire, mi fa preoccupare e non ho abbastanza tempo per lui. –

-         Senti, ma a me cosa me ne frega? –

Ginny ormai si sentiva totalmente nell’oblio. Si rannicchiò meglio nella veste nascondendo il viso tra le ginocchia, a occhi chiusi.

-         Dio, sei insopportabile Malfoy – mormorò, la voce soffocata dalla stoffa. – ma che ti hanno fatto per farti diventare così frustrato? –

Il ragazzo inarcò le sopracciglia.

-         E a te che ti hanno fatto per farti diventare così ingenua? –

-         Già, forse. – sospirò lei, inaspettatamente.

Malfoy inarcò ancora di più le sopracciglia. Doveva essere totalmente partita, per dargli ragione.

Perché una volta non sarei mai riuscita a chiudere gli occhi in tua presenza.

Perché quando ti addormenti in presenza di un’altra persona, vuol dire che ti fidi di lei.

O forse vuole solo dire che sei un’ingenua.

- Non mi addormento – disse, più all’aria che altro.

Perché se ti addormenti al freddo muori.

Alle cinque e ventisette il sole cominciò a mostrarsi all’orizzonte.

Draco lo fissò come se lo sfidasse, là, oltre la foschia. Un quarto di luna trasparente era ancora in cielo.

Ginny dormiva raggomitolata su se stessa.

Quando scoccarono le cinque e mezza, i muscoli di Draco si distesero, finalmente.

Era stata una lunga, lunghissima notte.

 

**

 

Okay, sono sconvolta di quanto questo capitolo mi sia venuto lungoO_O E’ terribile°____° Mi spiace, non me n’ero mica accorta°_° Abbiate pazienza.___. E come al solito il ritardo non è indifferente.___. Ma uffa>_<

*rotola mugugnando*

Comunque siaXD Senza volere, in questo capitolo sono spuntati fuori parecchi riferimenti a UMC, e forse risulta un pochino un problema per chi non l’ha letta._. Purtroppo temo fossero inevitabili, ma ho cercato di farne il minor uso possibile._. Per il resto, non credo di aver nessuno appunto importante da fare riguardo questo capitolo… se ci sono cose strane fatemelo sapere peròXD

Se ne avete occasione, ascoltante Kiss from a rose di Seal, la canzone di questo capitolo, è splendida*_* Anche se devo dire che la conoscono un sacco di personeO_o Forse sono arretrata io!°___°

Ah, ultima cosa: pubblicità occulta! Per la serie ‘come se non avessi abbastanza da fare’, mi sono anche infilata a fare un video io medesima come trailer di SdM°_° (la lista degli attori che ho scelto per i personaggi è a destra). Lo trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=49nXWnjpsQY

Bene, direi che ho finito di sproloquiare!

Grazie tantissimo ai precedenti commentatoriç____ç Mi fa tanto piacere! <- sarà la milionesima volta che lo ripeto, maèvvero._.

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 7
*** Erase and rewind ***


ERASE AND REWIND

ERASE AND REWIND.

 

[Cancella e riavvolgi.]

 

 

So where did you see me go                        “Allora, dove mi hai vista andare
it's not the right way, you know                       non è la strada giusta, sai
where did you see me go                                  dove mi hai vista andare
No, it's not that I don't know                            allora, non è che non lo so
I just don't want it to grow                               è solo che non voglio che questo cresca
It's not that I don't know                                  non è che non lo so
I've changed my mind                                     ho cambiato idea
I take it back                                                   mi rimangio tutto
Erase and rewind                                            cancella e riavvolgi
'cause I've been changing my mind.”             perché ho cambiato idea.”

 

 

 

‘Erase and Rewind’, The Cardigans.

 

 

 

-         Fammi pensare… uhm… no.

-         Cosa? Che significa ‘no’? Non hai preso nemmeno in considerazione l’idea! –

-         Aspetta. La sto prendendo in considerazione… ecco… no.

-         Non esco di qui finché non mi dite di sì! –

-         Okay, allora, nel frattempo levati, che abbiamo dei clienti. –

Ron si fece da parte bruscamente, nel tentativo di far sentire la sua enorme disapprovazione con un colpo secco sul bancone del negozio degli scherzi di Fred e George, con un gran dolore alle dita come risultato.

Fred salutò con un’occhiolino una ragazzina tutta arruffata che aveva appena comprato uno di quei sogni in scatola per femmine, e si rivolse di nuovo a Ron.

-         Non abbiamo bisogno di aiuto. –

-         Ma se avete detto che la vostra commessa vi ha appena mollato per frequentare i corsi universitari!

-         Ho forse detto che perciò ho bisogno di aiuto? –

George inarcò le sopracciglia facendo sparire con la bacchetta uno scatolone vuoto.

-         E poi non potremmo pagarti molto. Non quel tanto per mantenere te e la tua donna, comunque. –

Ron arrossì furiosamente.

-         Non… non… senti, mi servono per arrotondare. Tu non ti preoccupare. L’importante è avere questo lavoro. –

-         Ma perché proprio qui?

-         Perché mi sembrava più comodo, finchè non ho scoperto di avere dei fratelli ingrati!

Fred sbattè le ciglia mettendo su un ironico broncio.

-         Povero Won-won, mi fai tanta pena. E’ anche vero che da un’altra parte, con l’esperienza nulla che hai, non ti assumerebbero neanche se fossi parente stretto del Ministro della Magia. Forse, per una concessione a dir poco generosa del mio cuore, per uno sforzo disumano, per un gesto di pura carità e fratellanza sconfinata… -

Ron lo fissò.

-         … forse, se ti comporti da bravo bambino, ti potremmo assumere. In prova. Con gli straordinari, così arrotondi meglio e noi facciamo meno fatica. –

George scrollò le spalle con un sorriso.

-         Mi sembra un buon compromesso. -

-         Ci sto! – disse immediatamente Ron, saltando su come un’anguilla.

I fratelli lo guardarono, dubbiosi.

- Dovrai lavorare. Quando dico lavorare, intendo faticare. Non pensare di essere favorito solo perché sei nostro fratello. –

Ron non li ascoltò minimamente, afferrando la borsa piena dei libri per la lezione di mezz’ora prima.

-         Sei fortunato che nostra madre ti abbia dato un anticipo! Solo perché adora Hermione e tutto il resto! Non sembra, ma sei un gran furbo! –

Il ragazzo filò via facendo una smorfia, e corse verso l’agenzia.

 

-         Luna, non per dire, ma come te lo devo dire che sarebbe decisamente meglio non insegnare a Soffiartigli a scalare le mie tende come se fossero gli appennini per poi lanciarsi giù alle mie spalle facendomi prendere un infarto tutte le volte? –

Luna si voltò a guardare Harry, mentre Soffiartigli, allegro come uno yeti quando nevica, arrampicandosi sulle tende le rendeva alla stregua dei mantelli dei Dissennatori.

-         Oh, ma lui si diverte così tanto – obbiettò Luna, con aria per nulla preoccupata dal tono minaccioso-disperato di Harry – guardalo, fa le fusa! –

Harry rinunciò per l’ennesima volta a replicare qualcosa, dato che per ogni cosa sensata che lui diceva, lei ne rispondeva una insensata e si poteva andare avanti così per l’eternità.

A quanto pareva, al momento al Cavillo se la cavavano benissimo anche senza di lei, dato che se l’era ritrovata quella mattina che dormiva abbracciata a Soffiartigli (il giorno in cui quel coso e Harry si fossero abbracciati in quel modo senza che l’animale lo uccidesse in modo lento e doloroso, probabilmente avrebbe sconfitto Voldemort e tutti i Mangiamorte con un solo battito di ciglia) dentro un sacco a pelo di un giallo canarino agghiacciante preso da chissà dove. Harry cominciava a chiedersi perché diavolo non potesse dormire a casa sua. Mica quel tipo che aveva incontrato il giorno prima la stava molestando? Sì, ma solo ad una persona estremamente malata doveva venire in mente di molestare Luna. Cioè, quella lì poteva attaccarti un bottone sui Dralefanti Erbivori (un ‘innocuo incrocio tra draghi ed elefanti’… no comment) e farti fuggire dopo cinque minuti per la disperazione. D’altra parte, chiederle anche gentilmente di lasciarlo stare in casa sua da solo, lo faceva sentire in colpa, visto che lei nonostante tutto si rendeva parecchio utile (a volte, per una clamorosa allineazione di pianeti, preparava per colazione qualcosa di commestibile) e si preoccupava continuamente di ricordargli di cambiare la fasciatura in modo che non facesse infezione. E poi, averla sempre rumorosamente intorno era anche un modo per distrarsi dal… beh, dal resto.

- Com’è andata la lezione? – disse allegramente Luna, mentre saliva a piedi nudi sul davanzale per afferrare Soffiartigli al volo come un bambino dallo scivolo.

- Niente di nuovo – sospirò Harry, posando rassegnatamente la borsa per terra. – domenica pomeriggio io e Ron abbiamo una partita di Quidditch. –

- Oh! Giochi ancora a Quidditch? –

Era una strana domanda per una che mangiava ancora caramelle a forma di ciuccio.

-         Ehm… sì. Vuoi venire a vederla? –

Oddio. No. No. Cosa gli era sfuggito? Come se non la vedesse abbastanza!

Harry la fissò, sperando ardentemente che Luna assumesse l’aria dispiaciuta di chi ha un impegno e sta per dire di no.

Naturalmente, lei al contrario si illuminò in un sorrisone.

-         Sarebbe fantastico venire a vedere la partita di Quidditch di domenica pomeriggio! – disse, saltando dal davanzale sul letto senza curarsi minimamente di stropicciare le lenzuola. – quando me l’hai detto ho pensato che mi sarebbe piaciuto venirci, ma non credevo che mi avresti invitata, dato che siamo vicini di casa e ci vediamo tutti i giorni. –

Harry fece un tentativo a dir poco stancante di sorridere vagamente. Come se non bastasse che Luna credesse all’esistenza di incroci di animali mai sentiti e probabilmente mai esistiti, quell’abitudine di dire esattamente quello che pensava senza il minimo imbarazzo era… beh, imbarazzante.

-         Vado a comprare una bistecca al sangue per Soffiartigli! – annunciò, tutta allegra, infilandosi due calzini di colori diversi.

Prima che Harry potesse chiederle se magari gliene poteva procurare un avanzo per un essere umano, Luna sparì dietro la porta, lasciandolo solo con Soffiartigli che stava per gettarglisi alle spalle a di sorpresa.

 

Hermione uscì dall’università tutta soddisfatta per essere riuscita a prendere tutti gli appunti in ordine all’ultima lezione, come se non ci riuscisse tutti i giorni.

Faceva ancora piuttosto freddo, e si arrotolò per bene una sciarpa intorno al collo prima di tirare su con forza la borsa gonfia di libri e tirare fuori la bacchetta per Smaterializzarsi con loro.

Stava giusto chiudendo meglio il borsone per evitare che qualche post-it essenziale potesse sfuggirle, quando notò in fondo alla strada una piccola folla attorno a delle bancarelle.

Abbassò immediatamente la bacchetta.

Bancarelle di libri usati.

Le sue immaginarie antenne capta-libri la trascinarono lussuriosamente verso quel lato della strada senza che potesse protestare contro se stessa.

A Diagon Alley a volte mettevano su quelle bancarelle di libri improvvisate, ma in tempi tesi e pericolosi come quelli non si vedevano quasi mai; i libri belli e nuovi nelle librerie andavano spesso oltre le sue risorse monetarie, e spesso se voleva qualcosa di più di un manualino di duecento pagine, doveva attingere alle casse materne e/o paterne, cosa che la metteva sempre in un certo disagio, ora che non andava più a scuola e doveva essere teoricamente indipendente.

Quando notò i prezzi ridicolmente bassi, fu totalmente persa.

Quaranta minuti di scavi dopo, avendo accumulato dietro di sé circa ventotto libri che le svolazzavano intorno sotto gli occhi increduli della signora alla cassa, era estremamente soddisfatta. E non aveva ancora nemmeno toccato il reparto ‘storia’.

Aveva trovato un libro sulla medimagia applicata che effettivamente somigliava molto al suo testo scolastico, ma aveva qualche paragrafo aggiuntivo, perfino note a margine che nella nuova edizione erano state eliminate, ed aveva ponderato parecchio se prenderlo o no. Vista la spesa piuttosto ingente che incombeva (l’anticipo sulla casa), nonostante fosse una spesa che stranamente le dava una sensazione parecchio gradevole, anzi, diciamo che era pronta a sborsare in qualsiasi momento, anche un libro poteva fare la differenza.

Oh, ma aveva davvero bisogno di quelle note a margine, ecco.

Tornò con un sospiro verso il banco delle materie scientifiche ed afferrò il libro da un angolo.

Qualcun altro fece lo stesso.

Hermione alzò lo sguardo inviperita, pronta ad una filippica sul fatto che l’aveva visto prima lei, quando si accorse che la faccia della ragazza che aveva avuto la sua stessa idea era una faccia malauguratamente conosciuta.

-         Oh – dissero entrambe.

Cloe si scostò una ciocca di capelli dagli occhi (una ciocca molto antipatica, comunque).

-         Hermione, giusto? – sorrise Cloe, senza mollare il libro. – la ragazza di Ron. –

-         Già – replicò Hermione, stringendo bene la presa sul suo angolo di libro. – e tu sei Cloe… la… compagna di classe di Ron. –

-         Già. –

Oh, ma faceva veramente freddo per essere marzo.

-         Ho sentito che tu e Ron andrete a vivere insieme. – fece Cloe, dopo due interminabili secondi di silenzio.

-         L’hai sentito? – fece Hermione, sentendosi come se le si fosse pietrificata la mandibola. Cominciava davvero a chiedersi cosa le prendesse.

-         Eh, sì. A dire la verità, gli ho mostrato l’appartamento. Sai, mio padre ha un’agenzia immobiliare, perciò… -

-         Oh – il sorriso di Hermione era letteralmente ghiacciato. Avrebbe potuto rimanere bloccata così per giorni. – beh… –

Stava per dire tra i denti ‘Ron non me l’aveva detto’, ma non voleva dare l’impressione che Ron non le dicesse le cose.

Oh, ma andiamo. Si stava comportando come… come… una patetica copia della copia di un facsimile di fidanzata gelosa. Doveva darsi una calmata. Lei non era un tipo possessivo né niente.

Ahum. Respira. Calma gli istinti omicidi. Sii superiore.

Entrambe abbassarono lo sguardo sul libro che stavano tenendo in mano.

-         Oh, avevo visto anch’io questo libro – disse Cloe. – l’avevo guardato prima, ed è davvero fatto bene ed il prezzo irrisorio… -

-         Infatti – sorrise Hermione, che aveva un’aria davvero spaventosa con quel sorriso statico ed i libri che le svolazzavano attorno tipo fiamme del fuoco infernale. – beh, io studio Medimagia, quindi mi servirebbe proprio. –

-         Pensavo che voi studenti di Medimagia aveste già parecchi libri assegnati dal Ministero dell’Istruzione – fece Cloe, con una risata nervosa. – a dire la verità, penso che uno studente del corso di Auror debba avere un minimo di conoscenze anche nel campo della Medimagia. Però i testi scolastici sono inutilmente costosi, per l’uso che ne farei.

-         Credevo che fossi di famiglia molto ricca – disse Hermione, prima di potersi trattenere.

Cloe fece spallucce. Hermione odiava la gente che fa spallucce. Da ora.

-         Sì, beh, non mi piace sprecare il denaro – replicò.

Si fissarono.

-         Mi servirebbe proprio. –

-         Mi servirebbe proprio. –

Dissero, contemporaneamente.

-         Sono sicura che puoi trovare qualcosa di interessante nella sezione laggiù – disse Cloe.

-         Ma veramente avrei interesse verso le note a margine di questo libro.

La cosa si stava facendo ridicola. Lo tenevano così stretto che avrebbero finito per strapparlo.

La proprietaria della bancarella, notando che stava per scoppiare una rissa nella sezione materie scientifiche, neanche fosse normale amministrazione, si avvicinò a loro con un sorriso pacificatore.

-         Quello è davvero un buon libro – disse, con lo stesso tono con cui si parla a due bambini che si stanno litigando le palette per la sabbia strappandosi i capelli a vicenda. – ne ho una copia in uno degli scatoloni laggiù, se cercate. –

Cloe ed Hermione si guardarono.

-         Che fortuna – disse Hermione, un’ottava sopra il normale. – io non ho proprio tempo, ti dispiace cercare tu? –

-         Anch’io ho davvero poco tempo e volevo proprio questa copia… -

-         Anch’io voglio questa copia – replicò prontamente Hermione. – perché… perché… -

Cloe e la proprietaria la fissavano.

-         Perché… perché è del giusto grado di rovinatura che… - stava lentamente arrossendo.

Perché doveva rendersi così ridicola? Era solo un libro, dannazione. Non le serviva così tanto.

Ma lo voleva, e voleva proprio quello.

-         Senta, glielo pago un galeone in più di quanto costa – disse Cloe, a sorpresa.

La proprietaria si voltò subito verso di lei.

-         Addirittura un galeone? –

Hermione fissò Cloe a bocca aperta. Che colpo basso.

-         Io… io un galeone e mezzo! –

Due galeoni per un libro usato che praticamente già possedeva? Stava impazzendo?

Cloe tirò fuori il portafoglio.

-         Facciamo due galeoni e mezzo e non se ne parli più. –

Hermione tirò subito fuori il suo portafoglio controllando le sue sudate finanze. Tutti i libri che aveva selezionato le sarebbero costati in totale sette galeoni e mezzo, e già era tanto… nel portafoglio aveva dodici galeoni ed era uscita con il proposito di non spenderne più della metà.

-         Quattro galeoni. – disse, decisa ma con un’incrinatura nella voce.

Cloe si voltò a guardarla.

-         Ma è una vecchia edizione! Non ne vale nemmeno tre. -

-         Quattro galeoni – ripetè Hermione, fissando la proprietaria, la quale non se lo fece ripetere due volte e lo strappò di mano a Cloe, cominciando ad incartarlo con gli altri libri.

Cloe era ancora un po’ scossa.

-         Doveva servirti proprio. – disse, e sembrava sinceramente impressionata.

Hermione fece un lungo sospiro, tirando fuori di malavoglia le monete.

-         Sì – disse, tuttavia. – mi serviva proprio. –

 

- Com’è andata la nottata, signorina? -

Tinker aveva la voce un po’ troppo squillante, o forse sembrava a lei che si sentiva così stanca da non reggersi in piedi.

Si trascinò verso il letto e ci si buttò sopra; nonostante l’umidità ed i cigolii, in confronto alla pietra su cui aveva dormito per mezz’ora quella notte, era il paradiso.

-         Non tanto bene – mormorò con voce flebile, con espressione cadaverica. – non sono esattamente abituata a fare le notti in bianco al freddo. -

Tinker parve non capire.

-         E’ strano, signorina! Tinker ha bisogno solo di un’ora per sentirsi di nuovo in forma. Tinker non si stanca facilmente, no! Tinker ha dato da mangiare al bambino ogni tre ore e gli ha cantato la ninna nanna dodici volte per farlo addormentare! -

Ginny si fece sfuggire un gemito. E sembrava ancora pieno di energie. Forse si iniettava caffeina o qualche altra sostanza stupefacente di cui probabilmente il suo padrone faceva uso.

-         Ora Tinker deve andare nelle cucine a preparare la colazione per il padrone giovane – sentenziò l’elfo. – ma tornerà per controllare se la signorina ha ancora bisogno. Tinker potrebbe portare il bambino con sé, se la signorina lo desidera. -

-         Ti ringrazio, Tinker – disse Ginny, sinceramente. Comiciava a pensare che se non avesse avuto almeno lui con cui parlare pacificamente e disposto ad aiutarla, avrebbe avuto una crisi di nervi.

Tinker si smaterializzò con un brioso ‘pop’ assieme al bambino ancora senza nome e Ginny affondò ancora di più nel cuscino. Non erano neanche le sette del mattino ed il sole filtrava dalla finestra.

Stava giusto per cadere in un’esausta fase iniziale di dormiveglia, quando la porta si spalancò con un cigolio che le fece spalancare gli occhi di botto.

-         Buongiorno, Ginevra – la salutò con aria sospettosamente cordiale Rodolphus, mentre lei scattava a sedere. Fece un cenno, fissandolo.

Gli occhi, nel tentativo di assumere uno sguardo freddo, le bruciavano per il sonno.

Rodolphus non sembrava per nulla turbato, e al contrario di lei era perfettamente sveglio, con i vestiti perfettamente stirati (era l’unico che si azzardava a girare per il castello senza la veste da Mangiamorte); si guardava intorno con gli indecifrabili occhi neri e l’ombra di un sorrisetto ingiustificato sulle labbra.

-         Vedo che cerchi di distaccarti dallo stile del castello – disse, osservando quasi con compatimento le tende a pois e le finestre. – non avevo mai visto nessuno farlo. –

Ginny fece una specie di grugnito, diffidente, irritata, spaventata, con tutte le sensazioni che la stanchezza le faceva avvertire in modo più tagliente, come tanti piccoli spilli a fior di pelle.

Rodolphus si voltò a guardarla.

-         Oh, dimenticavo che oggi hai avuto la tua prima guardia notturna. Non è facile, giusto? –

Faceva il finto tonto, per caso?

E’ facile restare svegli per una notte.

Ma non lo è stato questa notte.

Ed era inutile che fingesse di non saperlo.

Ma Ginny non disse quello che le passò per la testa.

-         No – mormorò, semplicemente. – non lo è. –

Rodolphus la fissò.

-         Ti abituerai – replicò, sbrigativamente. – vieni a fare una passeggiata, ti sveglierai. –

‘Vieni a fare una passeggiata’?

Come se fossero in chissà quale ameno luogo di divertimento. Pur di non uscire e di poter rimanere a letto a dormire, Ginny avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Ma lo sguardo di Rodolphus non ammetteva chiaramente unno’ come risposta. E stranamente a quegli sguardi di solito Ginny non ci faceva caso, li ignorava, fingeva di non accorgersene, per il gusto di vedere un’espressione di disappunto, ma con Rodolphus non ci riusciva. Ed era una cosa che detestava di lui, di se stessa.

Si alzò in piedi. Rodolphus guardò la doccia inarcando le sopracciglia.

-         Di lì esce acqua fredda – disse. – come fai a sopportarla? Non te l’hanno detto che c’è una fonte termale dietro al castello? –

Sì, e chi gliel’avrebbe dovuto dire, tutti i suoi amici Mangiamorte che bussavano continuamente alla sua porta con il vassoio della colazione?

Ginny si limitò ad un cenno senza particolare significato e gli si trascinò dietro senza una parola.

Lei aveva gli occhi troppo stanchi per accorgersene, ma lo sguardo di Rodolphus, per un lungo attimo, si posò sulla culla accanto al letto di Ginny.

Ma non disse nulla.

 

Draco era disteso sul suo letto, la veste buttata su una sedia, troppo stanco per cambiarsi i vestiti.

Chiuse gli occhi nel momento stesso in cui qualcuno bussò leggermente alla porta.

Riaprì gli occhi, senza muoversi. La porta si aprì.

Pansy si avvicinò.

-         Draco – disse, in un sussurro, fermandosi in fondo al letto. – com’è andata la nottata? –

Pansy sapeva che non avrebbe ricevuto alcuna descrizione di quella notte, per quanto la desiderasse, e non avrebbe ricevuto nemmeno unbene’ od un ‘male’. Ma ormai, conosceva Draco talmente bene che poteva capire l’essenziale dal solo irrigidirsi dei suoi muscoli, dal modo in cui socchiudeva le palpebre, perfino dai suoi sospiri infastiditi.

Erano le uniche cose a cui poteva aggrapparsi.

Draco chiuse gli occhi, voltandosi a pancia in su con il braccio sugli occhi. Naturalmente, non rispose.

Pansy salì sul letto appoggiandosi sui palmi delle mani e sulle ginocchia, avvicinandosi con cautela.

-         Sei stanco? - disse, appoggiando la mano sul suo inguine.

Draco non ebbe alcuna reazione.

Pansy si avvicinò ancora di più e gli si mise sopra, armeggiando con la sua cintura.

Sapeva cosa doveva fare. Se lui non avesse voluto, l’avrebbe cacciata via molto prima.

Lo prese dolcemente per il polso spostandogli il braccio dal viso. Aveva gli occhi grigi aperti.

Ogni volta che lo guardava, ogni singola volta, si sentiva ripagata, si sentiva fortunata, si sentiva felice, per quanto i suoi sguardi potessero essere freddi o i suoi modi bruschi.

Il problema, in Draco, era che non era come le altre persone, che più ci stai più ti ci abitui, che più ci passi il tempo più diventano ordinarie, le osservi di meno, ti colpiscono di meno, finiscono per diventare quotidiane, a volte noiose.

Ma Draco aveva quegli occhi, quel viso, quell’espressione. Per questo aveva sempre avuto tante persone al suo seguito, in adorazione. Se lo guardavi troppe volte, finivi per diventarne schiavo.

Per Pansy era come una droga.

La sua.

Aveva appena cominciato a baciargli il collo, quando lo sentì contrarsi, come se fosse infastidito.

Smise immediatamente e lo guardò allontanando leggermente il viso. Draco ricambiò lo sguardo, senza dire nulla.

-         Non vuoi? – chiese Pansy, osservandolo attentamente.

Draco si inumidì le labbra. Pansy per un attimo ne rimase ipnotizzata. Poi le sfuggì.

-         Va tutto bene? –

Lui sbuffò.

-         Certo – disse, con tono annoiato. – che domande fai? –

E tutto riprese nella più completa normalità.

Ma Pansy rimase irrequieta.

Lei lo conosceva bene, lei capiva di lui cose che altri non afferravano.

Quella poteva sembrare una conversazione normale, o perlomeno normale per la loro situazione.

Ma c’era così tanto, così tanto da leggere tra le righe, nel modo in cui Draco aveva contratto i muscoli, nel modo in cui si era inumidito le labbra, nel modo in cui aveva parlato, che Pansy non riuscì a chiudere occhio, nonostante fosse rimasta sveglia per tutta la notte.

 

-         Allora, Ginevra, come ti senti? –

La ragazza guardò Rodolphus con le sopracciglia aggrottate, diffidente.

Sorvolando sul fatto che non sopportava essere chiamata ‘Ginevra’ (anche se questo non avrebbe cambiato il fatto che non sopportava Rodolphus comunque), quella era l’ultima delle domande che si sarebbe aspettata le fosse chiesta da un Mangiamorte.

Si trovavano fuori dal castello, nella parte posteriore dove lei non era mai stata; era un cortile stranamente bello, molto ampio, e si accorse che c’erano un gran numero di Mangiamorte, più di quanti ne avesse incontrati nei corridoi, che vi stavano raccolti, a gruppi, a parlare tranquillamente; sembrava quasi il cortile di Hogwarts.

Rodolphus si voltò a guardarla, in attesa di una risposta.

-         Mi sento confusa – disse, dopo un lungo momento di silenzio calcolato.

Rodolphus sorrise.

-         E perché mai?

-         Perché finora le uniche cose che mi avete fatto fare sono state pulire un centinaio di bicchieri e stare sveglia tutta la notte, tutto questo senza alcuna spiegazione, senza alcuna direttiva su niente di niente. Non ho neanche visto… non ho neanche visto il Signore Oscuro. –

L’uomo scoppiò a ridere, Ginny si morse il labbro inferiore per controllare l’irritazione.

-         Beh, Ginevra – disse, con ancora l’ombra di un sorriso. – non è che sei esattamente una Mangiamorte da sempre, capisci. Sei una principiante, e sei perfino una voltafaccia, se mi passi il termine: chi affiderebbe mansioni importanti ad una che fino a tre giorni fa, da quanto dicono le mie fonti, faceva chiaramente parte dell’Ordine della Fenice? –

Rodolphus si interruppe per fare un cenno di saluto ad un uomo ed una donna che gli erano passati accanto. Entrambi osservarono Ginny con interesse, ma non si fermarono.

-         E, per quanto riguarda il fatto che non hai ‘visto’ il Signore Oscuro… beh, tutto a tempo debito. Se non ti dispiace, prima vorremmo assicurarci che tu sia davvero dalla nostra parte. Le spie sono una tattica vecchia come il mondo… -

Ginny resse il suo sguardo senza esitazioni, Rodolphus lo distolse con un sorrisetto.

- Avrai anche tu il tuo momento, Ginevra - concluse Rodolphus, inumidendosi le labbra. – non temere. -

Per qualche motivo, il modo in cui pronunciò non temere le fece correre un brivido di paura lungo la schiena. Ma lo nascose.

-         Quanti Mangiamorte ci sono nel castello? – chiese Ginny, distogliendo lo sguardo.

-         Un centinaio. Ma solo una ventina abita stabilmente il castello.

-         Chi? –

-         I Mangiamorte di diciott’anni fa, principalmente – disse Rodolphus. – quelli rimasti fedeli, naturalmente. I loro figli. E persone… particolarmente promettenti. – le sorrise.

Ginny distolse di nuovo lo sguardo.

-         E perché tutta questa gente sta qui senza fare nulla? Non ci sono missioni da compiere e cose del genere? –

-         Ginevra, non siamo in un libro di avventura – rise Rodolphus. – tutto a suo tempo. A volte, le persone hanno bisogno di riposarsi. –

-         Questo implicherebbe fare qualcosa prima. –

Rodolphus inarcò le sopracciglia.

-         Ti vedo molto volenterosa. Troppo, a dire la verità. La fretta porta distrazione, e la distrazione porta ad errori. E il Signore Oscuro non ci concede errori. Diciamo che se sbagli, è difficile che tu abbia la possibilità di farlo una seconda volta. –

Ginny sentì di nuovo quel brivido freddo, ma incrociò le braccia per nasconderlo ancora.

-         Anche se non mi sembri il tipo che lascia le cose al caso – le disse, mentre si voltavano per tornare indietro, ormai parecchio lontani dal castello.

-         Dubito che qualcuno che mi conosce da tre giorni possa stabilire che tipo sono – replicò Ginny, secca. Più parlava con Rodolphus, più si infervorava, e si sentiva autorizzata a prendersi la libertà di dire quello che pensava.

Rodolphus non fece una piega.

-         Appunto. Stiamo parlando proprio perché io possa farlo. –

Ginny si fermò, all’improvviso, fissandolo. Rodolphus si voltò a guardarla tranquillamente.

-         Che significa? – chiese la ragazza, aggrottando le sopracciglia.

-         Quello che ho detto. –

-         Cosa stai facendo, cerchi di analizzarmi per poi portare i risultati delle indagini al Signore Oscuro?

-         Oh, non così in alto – sorrise l’uomo. – non credere di essere la prima, Ginevra. Non mi pare difficile da capire: ti devo conoscere per potermi fidare di te, e conseguentemente fare in modo che gli altri si fidino di te. Altrimenti non potrai essere inserita in alcuna missione. I Mangiamorte non sono legati da rapporti affettivi, né da nient’altro se non pura fedeltà verso il Signore Oscuro. Per questo occorre una certa collaborazione, senza naturalmente invadere l’individualità degli altri. Queste sono le regole, e mi aspetto che le rispetti. –

Ginny lo fissò.

-         E cosa è necessario che io ti dica di me, perché ti possa fidare?

-         Pensavo di andare per gradi – disse Rodolphus, scrollando le spalle. – ma vedo che la tua filosofia deltutto e subito’ ha avuto la meglio. – la guardò dritto negli occhi. – voglio sapere tutto del tuo passato. Voglio che mi racconti di quando hai cominciato a scrivere nel diario, voglio che mi parli dei tuoi compagni di Grifondoro, di Harry Potter, dei tuoi fratelli, dell’Ordine. Tutto quello che sai su di loro, anche i particolari più insignificanti, da quando li conosci ad oggi. Potrei semplicemente servirmi della Legimanzia, ma ho come la sensazione che tu sia piuttosto brava in Occlumanzia, visto il modo convincente in cui ti sei sforzata di mantenere uno sguardo fermo per tutta la nostra conversazione. –

Ginny, stavolta, si sentì davvero gelare. Non riusciva a distogliere gli occhi, ma al tempo stesso voleva disperatamente farlo.

Aveva sempre di più la sensazione che Rodolphus Lestrange sapesse di più di quello che voleva far credere.

Non riuscì a dire una parola, e continuò a guardarlo.

-         Non ti preoccupare, non metto in dubbio che le tue capacità di fingere siano ottime, per quanto, come dire, un po’ scolastiche – mormorò Rodolphus. – una volta ho dovuto praticare Legimanzia su qualcuno, e sono incappato proprio in questo vecchio pensiero:Ginny Weasley è pessima a mentire’. –

Ginny parlò senza pensare.

-         Qualcuno chi? –

A Rodolphus bastò uno sguardo per spiegarsi.

Ginny si accorse che le sue gambe la reggevano a malapena.

-         Già, a proposito – riprese l’uomo. – non ti preoccupare, so già tutto quello che ho bisogno di sapere su Draco, non ho bisogno di fare la fatica di estorcerti qualche informazione. Spero che tutti i vostri… vogliamo chiamarli ‘dissapori’, anche se non è sicuramente la parola adatta?... siano del tutto passati, perché, sai… come ti ho spiegato, la collaborazione è basilare. –

Se avesse potuto, avrebbe tirato fuori la bacchetta e gli avrebbe fatto del male.

Ogni sua parola la faceva sentire più impotente.

Come se fosse già tutto stabilito, come se lei non potesse far altro che ubbidire.

Beh, se ci teneva tanto a saperlo, Ginny Weasley non era ‘tipo’ da ubbidire.

-         E se non volessi parlare?

-         Ehm, temo sarebbe un errore – rispose Rodolphus, inarcando le sopracciglia. – ti ricordi cosa ti ho detto prima, riguardo alla nostra tolleranza sugli errori? –

Ginny lo fissò.

E capì che neanche questa volta c’era la possibilità di dire ‘no’, che avrebbe dovuto ubbidire, che fosse il tipo o no.

Per la prima volta, la travolse il vero significato della sua decisione di diventare Mangiamorte. Non aveva semplicemente deciso di abitare lontano da casa, di rischiare, di abbandonare tutti nel tentativo di dimostrare qualcosa, qualsiasi cosa.

Quando Rodolphus le aveva impresso il Marchio Nero sul braccio, lei aveva gettato l’unica cosa che da tutta la vita sperava di conquistare.

La sua libertà.

 

Ron se ne stava seduto sui gradini dell’edificio, passandosi un mazzo di chiavi da una mano all’altra, teso come una corda di violino. A dire il vero, quei gradini erano davvero freddi, ma non era per quello che era teso.

Era passato all’agenzia immobiliare. Bene. Aveva firmato la documentazione. Bene. Si era fatto dare il numero per una compagnia di traslochi. Bene. L’appartamento ancora non gli apparteneva (il proprietario doveva ancora approvare ufficialmente; la cosa avrebbe richiesto qualche giorno, visto che era in vacanza alle Bahamas con la terza moglie –no comment-, ma non rappresentava un particolare problema), ma gli avevano concesso le chiavi, quel pomeriggio, per mostrare l’appartamento alla ‘coinquilina’ (che sarebbe dovuta passare a firmare la sua intestazione il giorno dopo). Bene.

Erano le tre e mezza e la ‘coinquilina’ avrebbe dovuto essere lì alle tre. Male.

Hermione non faceva ritardo da…  beh, da mai. Era quella che ti bacchettava se arrivavi sessanta secondi dopo l’orario ufficiale. Era quella che, quando un povero innocente a caso voleva farsi una sana e tranquilla colazione a base di brioche e caffè ad un caldo bar in pieno inverno, con venti centimetri di neve, dopo aver scarpinato per tutta Diagon Alley alla ricerca di un libro che poi si sarebbe scoperto non ancora in vendita, lo sgridava perché se si fosse fermato a fare colazione non sarebbe arrivato in orario a lezione. Cioè, per dire una situazione paradossale.

Ci sarebbe voluto uno di quei cosi, uno di quei citofoni, per chiederle dove diavolo fosse, visto che si stava ghiacciando le chiappe ed un’anziana signora che passava gli aveva appena lanciato una monetina di elemosina.

La dittatrice gli arrivò di fronte con aria assolutamente impassibile.

-         Hermioneee – fece Ron, in tono lamentoso, aggrappandosi alla sua giacca per alzarsi. – ma dov’eri finita? Ti ho aspettato per mezz’ora al freddo seduto su questi gradini gelidi, e mi hanno scambiato perfino per un barbone! –

Hermione non accennò nemmeno un sorriso.

-         Forse se ti pettinassi, ti radessi la barba e ti vestissi come un essere umano eviteresti questi equivoci. –

Ron sbattè le palpebre, e si strinse nelle spalle strofinandosi le mani contro gli avambracci.

-         Sbaglio o stai emanando vapore freddo, Hermione? C’è qualcosa che non va? –

La ragazza salì i gradini.

-         No. –

-         Ti hanno dato un voto minore del massimo? –

-         No. –

-         Non sei riuscita a prendere giù ogni parola della lezione? –

-         No. –

-         Ti si è rotta la borsa dell’università per il troppo peso? –

-         No. –

-         Grattastinchi ha usato la suddetta borsa come lettiera? –

-         No. –

-         Eh, allora, non… -

-         Si può sapere perché non mi hai detto che era stata Cloe a mostrarti l’appartamento? –

Ahiaaa.

Ron rimase immobile per un momento, mentre Hermione apriva con violenza inquietante il portone dopo avergli strappato le chiavi di mano.

Ma cos’era, una specie di veggente? O magari gli leggeva nel pensiero? Com’è che tutte le volte che lui voleva nascondere qualcosa, anche una cosina piccola, lei la scopriva a tempo record?

Riprendendosi, le si affrettò dietro.

-         Non mi sembrava rilevante. –

-         Sì, certo. – fu la risposta ironica di Hermione mentre saliva violentemente i gradini stile yeti.

-         Mi stai dicendo che, oltre allo stress di doverti chiedere dell’appartamento, avrei anche dovuto aggiungere un particolare inutile e noioso tipo ‘ah, ma sai che il padre di Cloe ha un’agenzia immobiliare e mi ha mostrato l’appartamento e mi ha spiegato le coordinate di pagamento’… immagina la noia! –

-         Il problema non è la noia, Ronald. – sbuffò lei, continuando a salire le scale mentre un paio di vecchietti appena entrati dall’ingresso li seguivano faticosamente.

Ron spalancò la bocca, sbalordito, facendo i gradini due a due. Ma perché se la prendeva in quel modo? Va bene, non gliel’aveva detto, okay, ma non era così grave. Forse aveva le sue cose e scaricava la rabbia femminile repressa su di lui. Che cosa c’era da arrabbiarsi nel fatto che Cloe gli avesse fatto il favore di mostrargli un…

Oh.

Oh-oh.

Ron le scivolò accanto, fissandola.

Hermione gli lanciò uno sguardo assassino.

-         Che hai da guardare?

-         Niente. – fece, con un gran sorriso.

Lei lo fissò.

-         Avanti, parla. –

-         Niente, ti dico – replicò Ron, scompigliandosi i capelli. – stavo solo pensando… ho sempre più l’impressione che qualcuno qui sia un pochino geloso. E non parlo di voi – aggiunse, voltandosi con un sorriso verso la coppia di vecchietti che lo fissarono perplessi.

Hermione si voltò di scatto a guardarlo, con espressione orripilata.

-         Cosa stai blaterando? – disse, alzando la voce. – la smetti con questa storia? Trovo solo una mancanza di rispetto da parte tua non dirmi dove hai avuto le informazioni di un appartamento in cui tu mi hai chiesto di andare a vivere. Nessuno potrebbe essere geloso di un idiota che non capisce cose semplici come queste. –

Ron le circondò le spalle con un braccio, con aria confidenziale.

-         Stai tranquilla,Mione. Ammetterlo ti farà bene. So che la competizione a volte è pesante, ma… -

Hermione se lo scrollò di dosso, salendo i gradini più velocemente.

-         Tu credi che tutto ruoti attorno a te, vero? – fece, rossa come un peperone. – beh, non è affatto così. Semplicemente, oggi ho incontrato Cloe, la quale con estrema facilità non ha fatto che cianciare del fatto che lei ti ha aiutato a trovare un appartamento, e ci siete andati insieme, e se permetti potrò sentirmi vagamente scema a trovarmi di fronte questa tizia che blatera di cose che riguardano te ma di cui io non so nulla? –

Arrivarono al terzo piano.

-         E’ gelosa – sentenziò la vecchietta, all’improvviso.

Ron scoppiò a ridere ed Hermione si voltò di scatto verso di lei, più rossa che mai, ma i vecchietti proseguirono sulla rampa di scale che portava al quarto piano.

Silenzio.

Hermione cominciò a camminare avanti e indietro per il corridoio alla ricerca del numero d’interno giusto.

Ron sapeva che avrebbe dovuto sentirsi preoccupato, che il manuale del gentleman, se fosse esistito, gli avrebbe ordinato di correrle dietro e prostrarsi ai suoi piedi nonostante non avesse fatto sostanzialmente nulla di male.

La verità è che stava gongolando. Per una volta non era lui a fare la parte del paranoico insicuro, ed era già la seconda volta che succedeva, più o meno.

Potrà sembrare egoista… ma spesso la gelosia è una delle più sincere dimostrazioni di affetto.

Anche se può essere dolorosa, specie se Hermione ha un mazzo di chiavi appuntite in mano.

-         Comunque, non me ne importa un bel niente – annunciò improvvisamente la ragazza, mentre lui le toglieva cautamente di mano le chiavi e la trascinava dalla parte opposta del corridoio, dove si trovava l’appartamento.

-         Sono sicuro che se non avessi pestato a morte i gradini delle scale ed il tuo atteggiamento non fosse stato così evidente che perfino una vecchietta l’ha notato, ti crederei. –

Hermione sbuffò, incrociando le braccia.

-         Non sono arrabbiata, e non sono gelosa – borbottò, mentre Ron cercava la chiave giusta davanti alla porta dell’appartamento. – ma mi accorgo quando qualcuno gironzola intorno… a qualcun altro. Cos’avresti fatto se al posto di Cloe ci fosse stato Viktor? –

A quel nome, Ron si irrigidì tanto che fece cadere le chiavi, ma raccogliendole cercò di controllarsi e di continuare in modalità gongolamento.

- Beh, non credo che mi sarei fatto trascinare in un appartamento chiuso da Vicky – disse. – e se avesse tentato di sedurmi? –

Hermione gli lanciò un’occhiataccia.

-         Sai cosa intendo. –

Lei si rendeva conto di stare esagerando. Solo che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Sul momento la cosa le aveva fatto una rabbia tale, che non aveva proprio potuto fare a meno di prendersela con lui. Si rivedeva in un film mentale la conversazione che aveva avuto con Cloe, e la sua espressione quando parlava di Ron, e non le piaceva, non le piaceva per niente. D’altra parte, si stava comportando come una bambina che fa i capricci, e questo non era da lei. La cosa irritante era che Ron non sembrava prenderla sul serio, minimamente.

Se si fosse fatta un esame di coscienza, avrebbe capito che quello era un ottimo segno.

Ma aveva inserito la modalità capriccio alla massima potenza.

-         Se fossi stata al tuo posto, mi avresti fatto una scenata lunga ore, mi avresti tenuto il muso ed avresti cercato di estorcermi informazioni inesistenti – continuò a blaterare Hermione, ancora rossa per l’irritazione e per l’imbarazzo di stare continuando quel teatrino, mentre Ron apriva la porta.

-         E’ possibile – si limitò a rispondere Ron, cercando di trattenersi dall’aggiungere altro. Sii adulto. Sii padrone della situazione.

-         E posso solo immaginare quanto ti saresti arrabbiato se il mese scorso ti avessi detto che Viktor era a Londra e mi aveva spedito un biglietto per uscire a cena, ma io ho avuto il buon gusto di declinare l’offerta… -

-         Che cosa ha fatto?! – esclamò di colpo Ron, mentre tutti i suoi buoni propositi sfumavano allegramente.

Ma Hermione guardò l’appartamento.

La luce del sole filtrava pigramente dalle finestre.

C’era un buon profumo, discreto ma intenso, silenzioso ma percepibile. Era quel profumo elettrizzante delle case nuove, che ti innesca un qualcosa nella fantasia e prima che te ne rendi conto ti stai già immaginando come sarebbe viverci lì, camminarci a piedi scalzi, cucinare, dormire.

Hermione si aggirò per le stanze mentre Ron blaterava qualcosa per lei incomprensibile, in quel momento.

E’ difficile spiegare la sensazione di quando trovi in un posto che sai che è adatto a te… un posto che potresti chiamare ‘casa’ anche se non lo fosse davvero. E’ quasi commovente, qualcosa di simile al sollievo che si prova dopo aver passato una situazione difficile, quando sai che è davvero finita, come se tutti i posti che hai visitato non fossero stati che il passaggio obbligatorio, lo scotto da pagare per arrivare lì.

-         … e io mi chiedo, com’è possibile che questo qua abbia ancora la faccia tosta di fare richieste simili? Cosa ci fa in Inghilterra, poi? Chi gli ha dato il permesso? Perché non se ne sta a casa sua? –

Hermione si voltò verso Ron, si mise in punta di piedi e lo baciò.

Il ragazzo smise di gesticolare (a dire la verità, non aveva fatto che gesticolare per tutto il suo monologo).

Oh, ma uffa. Così non era per niente valido. Era una specie di tattica malefica? Ogni forza per litigare lo aveva abbandonato senza nemmeno salutarlo. Beh, dopo le avrebbe detto due paroline, assolutamente, sì.

Le aveva appena circondato la vita con le braccia, quando lei si allontanò.

-         Mi piace. –

-         Come? – fece Ron, ancora stordito.

-         L’appartamento. Mi piace. –

-         Oh. –

-         Effettivamente, sarebbe stato difficile che uno scemo come te lo trovasse senza aiuto. –

-         La smetti di darmi dello scemo? –

-         Non so, mi viene spontaneo. –

-         Ne deduco che non sei più arrabbiata. Le donne. Di fronte alle cose materiali, guarda come diventano… -

Hermione gli pestò il piede. Ron fece un sussulto.

-         Guarda che ho sempre la possibilità di riarrabbiarmi. – disse lei.

-         Oh, lo dimentico sempre. Beh, ti lascerò la possibilità di sedurre l’attuale non ufficiale proprietario di questo appartamento-che-ti-piace, dato che improvvisamente mi è passata la voglia di litigare. –

Hermione arrossì, sorridendo.

-         Anche a me. –

Ron si chinò a baciarla. Lei gli circondò il collo con le braccia, e si dimenticò totalmente di come si fa a essere arrabbiati.

Si separarono e lui sospirò profondamente piegando la testa nell’incavo del suo collo. Perché quella casa non era arredata per niente? Perché tutte le volte che si creava l’atmosfera giusta, o era il momento sbagliato o il posto sbagliato?

Immaginò di dover aspettare qualche giorno. Non sarebbe caduto così in basso da cercare di sedurla lì, al freddo, anche se la tentazione c’era. Il manuale del gentleman avrebbe assolutamente disapprovato (il manuale del gentleman faceva ormai parte della realtà del mondo parallelo nella sua testa, a quanto pareva).

L’abbracciò.

Ti voglio bene.

 

-         Senti, Luna. Ma al Cavillo proprio non hanno bisogno di te?

Luna alzò lo sguardo dalla televisione di Harry, puntata su un canale che stava trasmettendo un film su un cane che riceveva un’eredità e per questo era inseguito da un branco di umani incapaci.

-         Cioè? – chiese la ragazza, con la bocca piena di noccioline.

Harry chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Luna era stata tutto il giorno a gironzolare per casa sua, con Soffiartigli, naturalmente; non faceva niente di particolare, tranne spostare i suoi mobili e stressarlo ai limiti dell’immaginabile con le sue chiacchiere. Davvero, aveva qualcosa da dire tutto. Non esauriva mai gli argomenti di conversazione, e anche se Harry smetteva di essere cortese e non rispondeva, lei continuava a parlare, da sola o con Soffiartigli. Harry non si ricordava più di come fosse il silenzio.

Il risultato era che la sera, quando avrebbe voluto guardare qualche telefilm poliziesco di serie B, affogando i suoi dispiaceri in mari di Burrobirra per poi addormentarsi vestito sul letto sbavando sul cuscino, c’era sempre lei ed il suo stupido animale ‘a tenergli compagnia’, come diceva innocentemente lei. Era come se fosse convinta che se fosse rimasto solo si sarebbe disperato o chissà cosa.

Beh, non aveva bisogno di compagnia. Non era disperato. Era abituato a stare da solo. A quel punto della sua vita, troppa compagnia poteva solo dargli fastidio.

-         Dico, noto che sei sempre… ehm, qui. Non esci praticamente mai… sicura che al lavoro questo non crei problemi? –

Il fatto è che, fosse stata qualsiasi altra persona, non si sarebbe fatto problemi a dirle chiaramente di sloggiare. Però, con Luna proprio non ci riusciva. Forse perché sapeva che con lei la gente di solito non si faceva problemi a parlare ‘chiaramente’, e non voleva fare anche lui la parte del cattivo. Forse le faceva pena, forse era lei a sentirsi sola. Preferiva sentirsi frustrato ora che sentirsi in colpa dopo; forse.

Luna allungò i piedi sul letto stiracchiandosi. Harry si allontanò impercettibilmente come se non volesse avere contatto con lei.

-         Nella redazione del giornale sono tutti molto bravi – disse lei, semplicemente. – non hanno bisogno di me, anzi, la maggior parte delle volte si infastidiscono se ci vado anch’io, perché non sono brava come loro. Di solito vado solo a controllare le ultime cose, come potrebbe fare chiunque. Non sono così importante. –

Come faceva a sminuirsi così senza il minimo dispiacere in viso, era un mistero.

Harry, ovviamente, si sentì in dovere di dire qualcosa.

-         Ma dai – tossicchiò. – sono sicuro che anche tu sei brava, Luna. –

-         Oh, no – sorrise allegramente Luna. – io non so impaginare, non so scrivere senza fare errori, non so dare ordini e non so cercare le informazioni, perché le persone mi evitano. Non sono per niente adatta a lavorare per un giornale. –

Cielo, non sapeva perché, ma era davvero imbarazzante. Harry sentì lo stomaco contorcersi nel tentativo di dire qualcosa che mettesse fine a quella conversazione deprimente.

-         L’unico motivo per cui le persone in genere mi avvicinano è perché hanno sentito che sono amica tua, di Ronald e di Hermione. Mi dicono tutti che è strano passare da non avere amici ad averne di così importanti. –

Harry sentì improvvisamente caldo.

-         Non siamo importanti – bofonchiò, agitandosi sul posto. – senti, Luna, non devi ascoltare quello che dice la gente. La maggior parte non capisce nulla, bisogna farci l’abitudine. –

Luna fece un gran sorriso, spalancando i grandi occhi azzurri, come una bambina il giorno di Natale.

-         Infatti non sono contenta di essere vostra amica perché la gente dice che siete importanti – disse, senza la minima traccia di imbarazzo. – sono contenta di essere vostra amica perché siete sempre molto gentili, come te adesso con me. –

Oddio.

Harry si sentiva talmente in imbarazzo che si mise a sedere per scendere dal letto e fuggire in cucina.

-         Io… -

Click.

Ci fu un piccolo schiocco, ed improvvisamente l’appartamento fu immerso nel buio semi-totale, se non per la luce soffusa che veniva da fuori attraverso le finestre.

-         Che succede? – chiese Luna, per nulla spaventata.

-         E’ un blackout – sospirò Harry, lasciando perdere l’idea di avventurarsi in cucina. – mi succede tutti i giovedì. Dev’essere un problema del condominio. –

-         Ah, già, succede anche a me – fece Luna. Dal cigolio delle molle si capiva che era appena scesa dal letto. – lo chiamo ilblackout del giovedì’. -

-         Di solito non impiegano più di dieci minuti a sistemare… ehi, Luna, che stai facendo? –

Harry vide l’ombra della ragazza aprire la portafinestra come se niente fosse, senza neanche prendere la bacchetta per illuminare la serratura. Uscì sul piccolo terrazzo.

Harry, prima di raggiungerla, sbattè il ginocchio contro una gamba del letto ed inciampò nella coda di Soffiartigli, il quale gli azzannò la caviglia, ma lui raggiunse abbastanza in fretta la sua bacchetta per lanciargli contro un incantesimo e trascinarlo dalla parte opposta della stanza.

Luna si era trascinata dietro la trapunta del letto di Harry (senza chiederlo, naturale) e se l’era messa addosso, e se ne stava appoggiata alla ringhiera del terrazzo a guardare fuori con quella sua aria tutta svampita.

Harry le zoppicò vicino.

-         Già, ehm… il panorama non è un granchèfece, osservando due gatti nel vicolo di sotto che si soffiavano contro litigandosi un pezzo di carne.

Luna lo ignorò totalmente, ed inaspettatamente gli alzò la testa con la mano per farlo guardare in alto.

-         Ma secondo te – disse lei, fissando il cielo con gli occhi spalancati. – perché le stelle hanno gli spicchi? –

Harry si voltò a guardarla, inarcando le sopracciglia incredulo, tanto che per un momento non seppe cosa rispondere.

-         Ehm… - cercò di ricomporsi. – temo che le stelle non abbiano gli spicchi. –

Stavolta fu Luna a guardarlo incredula.

-         Cosa? -

Harry si sentiva ridicolo a spiegarlo.

-         Uhm… il fatto è che… insomma, che siamo talmente lontani dalle stelle che ci sembra che abbiano gli spicchi, ma in realtà è la nostra vista che le distorce. –

Luna lo fissava come se le avesse detto qualcosa di terribile. Lui si sentiva come il padre di una bambina che cerca di spiegarle che alla fine di un arcobaleno non troverà mai una pentola d’oro.

-         Ma perché allora le disegnano così?

-         Beh… perché ci sembrano così. Non è strano vederle con gli spicchi, le vediamo tutti così. –

-         E che forma avrebbero se non hanno gli spicchi?

Harry si chiese sinceramente se quella ragazza avesse solamente finto di andare ad Astronomia con Ginny, ai tempi di Hogwarts.

-         Suppongo che siano tonde. –

Luna spalancò tanto gli occhi che sembrarono sul serio due palline da ping pong.

-         Tonde? – si voltò a guardare il cielo, come se sperasse che le stelle stesse smentissero la cosa. – ora capisco perché le disegnano con gli spicchi. Tonde sarebbero noiose. –

Harry la fissò, e per qualche motivo, prima di potersi fermare, scoppiò a ridere. All’improvviso, dal nulla, fece la sua prima vera, sincera risata da… beh, aveva perso il conto.

Luna lo guardò e rise anche lei. Se qualcuno avesse abitato l’appartamento di fronte, avrebbe visto questi due nel bel mezzo della notte, con l’appartamento al buio, piegati in due dalle risate.

Harry cercò di contenersi, appoggiandosi alla ringhiera.

-         Perché ridi? – fece, trattenendo i singhiozzi.

Luna si asciugò le lacrime da risata con la manica della felpa.

-         Perché tu ridevi benissimo.

Harry si mise le mani nei capelli, ma ormai non tentava più di chiederle cosa diavolo significasse.

-         E tu perché ridi? - fece lei, prendendo in braccio Soffiartigli che forse aveva cominciato a sentirsi solo, in casa.

-         Non ne ho idea – sorrise Harry. - ma non ridevo da un sacco di tempo. –

Le luci si riaccesero e la televisione ricominciò a trasmettere il film.

 

Quando riaprì le palpebre, con la coda dell’occhio si accorse che fuori era buio pesto.

Si rese conto di una presenza che zompettava lungo la stanza e scattò a sedere.

Era Tinker, con il bambino in braccio.

-         Ben svegliata, signorina Ginny! Tinker si è occupato del bambino per tutto il pomeriggio. –

Ginny si massaggiò la testa, scompigliandosi i capelli. Le sembrava di aver dormito per secoli, e non aveva idea di che ore fossero.

-         Grazie, Tinker – disse, con la voce ancora impastata dal sonno. – e dire che non te l’avevo neanche chiesto. –

Tinker assunse un’espressione disperata.

-         Oh, Tinker non voleva fare qualcosa di spiacevole. Tinker è entrato per vedere se la signorina era tornata e l’ha trovata che dormiva ed il bambino non aveva ancora mangiato, così Tinker ha pensato di occuparsene. Tinker non pensava… -

-         No, no, Tinker – si affrettò a dire Ginny, rialzandosi barcollando. – intendevo dire, sei stato davvero molto gentile ad aiutarmi. Non so come sdebitarmi. –

Tinker si calmò e fece un sorriso sdentato.

-         Tinker non ha bisogno di niente dalla signorina Ginny, ma Tinker ringrazia. –

Ginny gli sorrise stancamente. Raccolse l’orologio da polso che per qualche motivo era finito sul pavimento e controllò l’ora.

Mezzanotte e mezza.

Aveva invertito il giorno con la notte. Fantastico.

Si lavò il viso con l’acqua gelida del lavandino e tornò a stendersi sul letto, nel tentativo di riprendere sonno.

Era sveglia come un grillo.

Si rotolò nello spazio stretto del letto, finché non decise che proprio non riusciva a dormire.

Cosa poteva fare?

Il bambino (a cui doveva assolutamente trovare un nome) si era appena addormentato, e Tinker spolverava silenziosamente le finestre, come se fosse pieno giorno.

Ginny rimase a pancia in su a fissare il soffitto. Si toccò una ciocca di capelli.

A pensarci bene, in mezzo a tutto quel trambusto, era un po’ che non se li lavava in modo decente.

Ma soltanto l’idea di infilare la testa sotto un getto di acqua gelida le faceva venire i brividi.

Non te l’hanno detto che c’è una fonte termale dietro al castello?

Ginny si voltò verso Tinker.

-         Tinker, è vero che dietro al castello c’è una fonte termale? –

L’elfo domestico non smise di spolverare.

-         Oh, sì, è vero – fece. – alcuni Mangiamorte la usano, ma non molti. La maggior parte possiede un bagno con l’acqua calda, da quello che Tinker sa. -

-         Ed in che momento della giornata la usano i Mangiamorte?

-         Tinker pensa che la usano la mattina presto. –

Perfetto.

Ginny saltò giù dal letto, improvvisamente entusiasta, raccogliendo i suoi asciugamani puliti dal bordo della vasca improvvisata.

Un bagno caldo. Erano soltanto pochi giorni che non se ne faceva uno, ma ne sentiva molto la mancanza.

Aprì la porta. Si sentiva stranamente elettrizzata (probabilmente quello era l’effetto di invertire giorno e notte). Corridoio deserto, roger (okay, forse non era il caso di fingere pure di essere delle spie dei primi anni del novecento).

Scivolò silenziosamente lungo il corridoio e le scale, nella speranza di non stare prendendo la strada sbagliata –non era per niente sicura di essere in grado di ritrovare la sua stanza, nel caso si fosse persa-, ma fortunatamente in due minuti raggiunse l’uscita sul cortile in cui Rodolphus l’aveva portata quella mattina.

Bene, da lì non sapeva proprio dove andare.

Si guardò intorno, indecisa. La luna illuminava troppo vagamente il cortile. Accese la bacchetta sussurrando un lumos poco convinto, si guardò di nuovo intorno.

E dopo alcuni secondi, finalmente vide qualcosa di significativo. Un pallidissimo riflesso azzurro in mezzo al boschetto sulla destra del cortile, nel buio più totale.

Ormai completamente calata nella parte della ricercatrice avventurosa, con tanto di asciugamano sulla spalla, Ginny si avventurò con passo a sua detta felino nella boscaglia, cercando di raggiungere la fonte del riflesso senza inciampare o essere divorata da qualche animale notturno.

Girò dietro una quercia, circa cinquanta metri dopo, chiedendosi se non stesse un po’ tentando la fortuna ad avventurarsi in piena notte in un bosco nel territorio dei Mangiamorte, ma si bloccò di colpo. Ci mancava poco che cadesse da una specie di dirupo.

E rimase incantata.

Non aveva mai visitato una fonte termale. Anzi, non ne aveva mai vista una.

Ma quella, ne era certa, era la più bella del mondo.

Circa tre metri più in basso, si stendeva come una pista di ghiaccio un piccolo lago immerso nelle tenebre, che, in qualche modo sicuramente contrario alle leggi naturali, risplendeva di luce propria. Come se sul fondo fossero accese mille candele azzurre.

Del vapore saliva verso di lei.

La sola idea di potere avere quel posto a metà tra il paradisiaco e l’infernale solo per sé, le faceva dimenticare tutti i suoi problemi.

Rimase per qualche minuto a fissare quel paesaggio innaturale, inspirando forte l’aria fredda di quella notte di fine marzo.

Si tolse le scarpe e le gettò alle sue spalle. Si levò la veste da Mangiamorte, e fece per togliersi la maglietta, rabbrividendo per il freddo.

Sentì uno scricchiolio alle sue spalle e si voltò di scatto, la maglietta tirata su a metà.

Oddio. E se fosse stato un animale? Se fosse stato uno di quelle bestie orrende di cui ogni mese parlava entusiasticamente il Cavillo? Se fosse stato uno di quei cosi, quegli animalacci incrociati, tra un corvo ed un serpente, che se ti mordevano rimanevi paralizzato per sempre?

Non aveva mai creduto al Cavillo come in quel momento.

Senza pensarci, si gettò in una specie di siepe lì vicino, sperando di non essere una preda adatta ad un Corvente, nel caso esistesse.

E invece, sentì delle voci.

- Si gela – disse la voce lamentosa di Pansy Parkinson.

Era peggio di un serpente. Ginny si nascose meglio nel buio, e cominciò a pregare di non essere vista. L’ultima cosa che voleva era che Pansy Parkinson a distruggerle il suo sogno personale del momento, cioè rilassarsi in quella bellissima fonte termale.

Ma naturalmente, la Parkinson non girava mai da sola.

-         Sei tu che hai voluto seguirmi. –

Malfoy si chinò a slacciarsi le scarpe a circa mezzo metro da dove Ginny si nascondeva.

La ragazza smise quasi di respirare.

Doveva trovare un modo per andarsene senza fare rumore.

Arretrò lentamente, molto lentamente, finché non si rese conto che le mancavano le scarpe.

-         Lo so, ma pensavo… pensavo che Rodolphus ti avesse mandato fuori… per le stesse ragioni dell’altra notte. –

Pansy era ancora in camicia da notte, o quella che forse sarebbe potuta essere una camicia da notte per una bambina di sette anni. Era minuscola.

Lei si stringeva le braccia intorno alle spalle per riscaldarsi.

-         C’era un motivo per quello, chiaro? – la liquidò in fretta Malfoy, togliendosi la veste. – senti, tornatene al castello, conciata così puoi solo prenderti l’influenza e Rodolphus si incazzerà con me, naturalmente. –

Pansy esitò per un attimo, ma poi starnutì. Gli rivolse un ultimo sguardo dubbioso ma si avviò verso il castello e sparì nel buio.

Ginny se ne stava nella siepe tesa come una corda di violino.

Okay. Calma. Ora doveva solo riprendersi le sue scarpe prima che Malfoy se ne accorgesse. Doveva solo riprendersi le sue scarpe, arretrare senza urtare nulla, molto silenziosamente, e sparire immediatamente.

Malfoy si gettò la veste alle sue spalle, senza guardarci. Proprio sulle scarpe di Ginny.

La ragazza si mosse leggermente valutando la sua posizione. Allungò molto lentamente il braccio attraverso i rametti, stringendo le labbra per la tensione.

Malfoy era voltato dall’altra parte.

La mano di Ginny era a pochi centimetri dalla veste. Le sarebbe bastato sollevarla con un dito e trascinare piano piano le sue scarpe verso di lei. Poteva farcela, sì.

Malfoy si tolse la maglia.

Aveva il torace diafano, inaspettatamente scolpito. Negli ultimi due anni doveva essere perfino cresciuto in altezza. Aveva i muscoli della schiena contratti per il freddo.

Il ragazzo si slacciò la cintura dei jeans.

Ginny si rese conto all’improvviso di avere ancora la mano a mezz’aria. Si diede mentalmente dell’idiota e sperò di non aver tenuto la bocca aperta per tutto quel tempo.

Ma cosa le prendeva? Cos’aveva dodici anni? Come se non avesse mai visto il petto nudo di un ragazzo.

Afferrò con inconscia violenza una delle sue scarpe e la attirò verso di sé con un impercettibile fruscio. E una era andata. Ora l’altra.

Qualcosa le toccò la spalla, lei si voltò perplessa.

Era un orrido, schifoso, disgustoso, terrificante, agghiacciante, spaventoso, enorme bruco nero peloso.

La ragione l’abbandonò.

Lanciò un urlo e balzò fuori dalla siepe con il bruco (di una stazza effettivamente impressionante, sarà stato largo quattro centimetri e meglio non pensare a quanto poteva arrivare di altezza) ancora sulla spalla, saltellando da una gamba all’altro per levarselo di dosso.

Malfoy ebbe appena il tempo di accorgersi di lei.

-         Weasley? – ruggì, ma ormai era troppo tardi per schivarla.

Presa dalla fantomatica paura irragionevole degli insetti marcata Weasley, Ginny indietreggiò tanto da cadere dal dirupo, travolgendo Malfoy, ed entrambi caddero dolorosamente di schienza nel bel mezzo del lago.

Sott’acqua, Ginny aprì gli occhi nell’acqua azzurra e per sbaglio ne inghiottì. Ritornò in superficie tossendo.

Malfoy spuntò fuori un attimo dopo, letteralmente furioso.

-         Weasley, cosa diavolo credi di fare? – ringhiò, tirandosi indietro i capelli biondi bagnati alla bell’e meglio.

Oddio, oddio, oddio. Ma perché era così scema? Perché non aveva potuto semplicemente sopportare la presenza del bruco gigante tacendo?

Malfoy la fissava rabbiosamente, in attesa di una risposta.

-         C’era… un bruco. – balbettò lei, a mo’ di giustificazione, affondando nell’acqua fin sopra il naso.

-         Cosa? – fece Malfoy, ma tanto non sembrava che qualsiasi altra giustificazione lo avrebbe soddisfatto. – si può sapere da dove diavolo sei spuntata? –

-         … dal cespuglio. – mormorò Ginny, arrossendo tanto che pensò si sarebbe sciolta nell’acqua. Grazie al cielo era troppo buio perché Malfoy potesse accorgersene.

-         Cosa ci facevi in un cespuglio? – sbraitò Malfoy. Un secondo dopo, assunse un’espressione orripilata. – non mi stavi mica spiando? Sei arrivata a questo? Capisco che… -

-         Non ti stavo spiando! – gridò lei, assumendo un’espressione altrettanto orripilata. – come ti viene anche solo in mente… non… a nessuno potrebbe mai e poi mai interessare di spiare te! Io c’ero da prima! –

Malfoy inarcò le sopracciglia.

-         Ma davvero?

-         E non fare quella faccia come se non ci credessi! – gesticolò Ginny, lanciando schizzi d’acqua dappertutto. – sono venuta qui dieci minuti fa, poi ho sentito dei rumori e pensavo fosse un animale e così mi sono nascosta, ma… e comunque non devo certo rendere conto a te di quello che faccio. –

Okay, un po’ di self-control, Ginny Weasley.

Non doveva dimenticare chi aveva di fronte. Era il solito Draco Malfoy, quello che scaricava sempre la colpa sugli altri, quello che faceva fare ai suoi schiavetti ciò che lui avrebbe dovuto fare, quello che se ne andava in giro con quella sua aria strafottente, ma più di qualche parola tagliente non era capace di dire.

Strano, però,solito’ era un aggettivo strano da associare a Draco Malfoy.

-         E così pensavi di usufruire dei posti che appartengono ai Mangiamorte mentre porti avanti la tua commediola da ‘sono passata dalla parte oscura’, giusto?

Ginny s’irrigidì. Fece una smorfia ironica.

-         Non mi aspetto che uno che si reputa Mangiamorte da due anni ma che non lo è ancora di titolo possa capire. –

Malfoy digrignò i denti.

-         Di quando in qua tu e Rodolphus parlate di me? –

Ginny fece un sorrisetto sarcastico.

-         Oh, stavamo pensando di organizzare una festa di compleanno a sorpresa per te, peccato che tu ci abbia scoperti. –

Malfoy si lasciò sfuggire un sorriso di sfida.

Il ricordo dei vecchi ping pong di parole a Hogwarts tra lui e lei era ormai sbiadito. Con tutte le volte che Rodolphus gli aveva praticato la Legimanzia, si stupiva di avere ancora qualche ricordo che non fosse danneggiato.

Odiava ammettere che le risposte pronte di Ginny Weasley lo provocavano come non gli succedeva mai.

Ma no, non era una buona ragione per rimanere.

-         Bene, visto che miss evitiamo-di-parlare-del-fatto-che-sono-una-sporca-spia è arrivata per prima, io me ne vado. –

Dio, ma era così difficile per lui rendersi piacevole, o perlomeno sopportabile?

Ora era lei che voleva sparire.

-         No, me ne vado io – ringhiò Ginny, nuotando verso la riva.

-         Benissimo, allora io rimango. –

Ginny si voltò verso di lui, a bocca aperta.

-         No, ci voglio rimanere io! –

Malfoy inarcò un sopracciglio.

-         Scusami, per caso credevi di parlare con una sottospecie di galantuomo? –

Ginny fece una smorfia, irritata.

-         No, non lo credevo affatto. –

Si fissarono minacciosamente, a distanza di sicurezza.

Era come se fingessero di non conoscersi.

Ginny guardò in alto. La sua veste pendeva dal dirupo. Una delle sue scarpe era caduta in acqua.

Lei era caduta nel lago completamente vestita, e tutti i vestiti le si appiccicavano spiacevolmente addosso. Nonostante le scocciasse molto darla vinta a Malfoy, capì che era il caso di andarsene.

Era come se dalla nascita avesse installato dentro di sé un termometro anti-Malfoy; sapeva quando era il momento di allontanarsi, e di corsa.

-         Tu – disse, riducendo gli occhi a due fessure e puntandogli il dito contro. – non ti muovere per nessun motivo. –

Malfoy aggrottò la fronte.

-         Perché io prendo sicuramente ordni da te, Weasley.

Ginny lo ignorò ed andò sott’acqua a recuperare la sua scarpa.

Malfoy la osservò tuffarsi, irritato. Quando era uscito dal castello, pochi minuti prima, si era prospettato un’ora di più assoluto silenzio e tranquillità al buio, senza che nessuno gli rompesse continuamente le palle con richieste, richieste, lamentele e ancora richieste, ma era chiaro che ormai la sua nottata era rovinata. Visto che anche quando la Weasley se ne andava, era come se la sua presenza aleggiasse ancora nell’aria, fastidiosa come poche, pensò Malfoy.

Ginny tornò a galla con la sua scarpa in mano e la lanciò in cima al dirupo. Capì che era arrivata a destinazione dal tonfo che ne seguì.

-         Bene – fece, rivolta a Malfoy. – ora possiamo concludere questo spiacevole incontMalfoy – disse all’improvviso, con voce tesa, fissando un punto indeterminato nell’acqua dietro al ragazzo.

Lui la fissò come se fosse pazza.

-         Cosa c’è, hai avuto un’illuminazione mistica?

-         Malfoy, ci sono animali nella fonte? –

Nello stesso momento in cui pensò ‘ma non ne ho assolutamente idea’, guardò dove Ginny aveva lo sguardo puntato e si accorse di una specie di orribile rospo verde scuro di mezzo metro che nuotava verso di loro.

Malfoy scattò all’indietro come se lo avessero punto, urtando Ginny (la scena di poco prima invertita -la cosa si stava facendo ridicola-), afferrò la sua bacchetta dalla tasca del pantaloni e Schiantò qualsiasi cosa fosse quel coso che gli nuotava contro. Il rospo finì sulla riva e saltellò nel bosco stizzito.

-         Io non verrò mai più in questo bosco – sentenziò Ginny, con i brividi. – nemmeno nella Foresta Proibita ho mai visto tante cose schifose tutte di seguito. –

-         Beh, Weasley, forse perché nella Foresta Proibita non hai mai trovato una superficie in cui specchiarti – ghignò Malfoy, mettendo la bacchetta al suo posto.

Ginny fece per rispondergli (un po’ infantilmente, effettivamente) che quando parlava di cose schifose si riferiva anche e soprattutto a lui, ma il connettore cervello-bocca smise improvvisamente di funzionare.

Lei e Malfoy erano a pochi centimetri di distanza.

Non aveva idea di come fossero finiti così, visto che aveva fatto di tutto per tenersi ad una distanza di sicurezza da lui per tutto il tempo. Maledetto bruco gigante e maledetto rospo gigante.

La cosa agghiacciante, però, era che il suo personale termometro anti-Malfoy era al minimo.

Se non avesse avuto una mente in grado di domare un minimo i suoi istinti, sicuramente non sarebbe rimasta lì immobile come un pezzo di ghiaccio.

Era la famosa calamita. Era il motivo per cui doveva stargli lontano, lontano, lontanissimo.

Draco la fissava.

E si chiedeva perché diavolo i suoi muscoli non gli ubbidissero. Era come bloccato. Come in quei sogni in cui dovresti correre via ma non riesci a muoverti.

Gli occhi di Ginny Weasley, con il riflesso dell’acqua, erano ancora più azzurri.

I capelli bagnati facevano scendere gocce d’acqua calda sulle spalle. La maglietta le aderiva al corpo.

Sentì un inaspettato, spaventoso brivido percorrergli la schiena così potente che quasi smise di respirare.

Ed erano secoli che non provava niente di così forte.

Ginny non si capacitava del fatto di non riuscire a controllare le proprie articolazioni. Aveva le mani strette così forte da graffiarsi i palmi, perché premevano, premevano per avvicinarsi al suo petto.

Aveva il fiato corto e le gambe tese nel tentativo di rimanere assolutamente ferma.

Perché, perché, perché succedeva?

Perché?

-         Allontanati – sussurrò Ginny, col minimo di respiro che le rimaneva, senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso.

Malfoy fece l’errore di lasciar cadere lo sguardo sulle sue labbra.

-         Eri tu che te ne stavi andando. – mormorò.

Fece un movimento impercettibile avvicinandosi quasi inconsciamente a lei.

Ginny deglutì a fatica. I muscoli cominciavano a farle male.

-         Non lascerò che succeda – bisbigliò, cercando di non guardargli la bocca.

-         Che cosa deve succedere? – bisbigliò altrettanto piano Malfoy, socchiudendo le palpebre sugli occhi grigi.

Draco Malfoy, di indole, non era uno che chiedeva alla mente se il corpo voleva fare qualcosa.

Le conseguenze per lui non esistevano. Il futuro non era altro che una versione molto campata in aria del presente, che invece era vero.

Gli bastò un minimo movimento per arrivare a baciarla.

Quello era il presente.

Ginny sentì tutta la sua forza di volontà abbandonarla. I muscoli le si rilassarono completamente, e nonostante ci fosse ancora una vocina, flebile flebile, nel suo cervello, che le diceva di smetterla, di smetterla subito, non riuscì ad ascoltarla.

Le labbra di Draco, dopo due anni, sapevano dell’acqua dolce del lago che brillava di luce propria.

Erano fredde, ghiacciate in confronto alle sue che erano calde per la tensione.

Istintivamente gli circondò le spalle nude con le braccia, sentendosi mancare il respiro.

Le mani di Malfoy la tenevano stretta per i fianchi, mentre l’acqua annullava la forza di gravità e permetteva a Ginny di circondare la vita di lui con le gambe, facendola aderire di più al suo corpo.

Approfondendo il bacio, ogni freno inibitore si spense.

In qualche modo, Ginny si ritrovò spalle al muro contro la parete del dirupo, mentre Draco percorreva con le mani la sua schiena ed il ventre.

Si separarono per un attimo, con il fiato corto. Draco, senza pensare, si chinò sull’incavo del suo collo a baciarle la pelle.

Ginny, percorrendo con le dita il suo petto nudo, socchiuse leggermente le palpebre inspirando  inconsciamente il profumo dei suoi capelli bagnati, e vide con lo sguardo la mano di Malfoy accarezzarle la vita sotto l’acqua.

Ma poi vide quel luccichio.

Il luccichio dorato di un anello.

La fede.

Improvvisamente, sentì una rabbia ed un’altra terribile sensazione troppo simile alla tristezza tali che la sua mente si riattivò di colpo.

Con le mani, usò una forza sovrumana per costringersi ad allontanarlo da sé.

-         Io… non capirò mai perché tra noi succede così. – disse, la voce stranamente incrinata.

Malfoy la fissò, e di colpo la mente si riattivò anche dentro di lui.

Si allontanò volontariamente.

-         Non succede niente tra di noi – fece, impassibile, nuotando verso la riva.

Ginny sentì la rabbia montarle dentro ancora più forte. Era così che la liquidava, eh? Con un non succede niente tra di noi. Beh, quello era niente?

Sentirsi contemporaneamente immersi nel ghiaccio e nelle fiamme dell’inferno era niente.

Forse per lui.

Lei gli nuotò dietro, tenendosi però distante.

-         Mi fa piacere che la pensiamo allo stesso modo – disse, tagliente.

Uscirono dall’acqua. L’aria gelida della notte la ghiacciò. Risalirono una parte più scoscesa del dirupo.

In cima, Ginny agguantò la sua veste e con la bacchetta richiamò le sue scarpe.

-         Beh, fai in modo – disse, fredda, infilandosi la veste. – che niente non succeda più, chiaro? –

Draco si voltò a guardarla, minaccioso, indossando la veste.

-         Non sono solo io a farlo succedere. –

Si fissarono in cagnesco.

Per l’ennesima volta, lo sguardo di Ginny cadde sulla fede che lui portava al dito. Alzò gli occhi verso quelli grigi di Draco.

-         Le cosa sono cambiate. Non si può più fare finta di niente. –

Lui la fissò.

-         Infatti, per me continua ad essere niente.

Ma dicendolo, sentì lo stomaco contorcersi in modo strano.

Ginny deglutì, ma resse il suo sguardo.

-         Perfetto. –

E se ne andò velocemente, senza aspettare alcuna reazione.

Non se ne faceva niente della sensazione di essere al paradiso e all’inferno contemporaneamente.

Non era niente, in effetti.

Vero?

 

 

 

 

**

Eccomi! Scusate il ritardo, come al solitoO_o E’ diventata praticamente routineXD Ci tenevo però a postare prima dell’anno nuovo, ecco, che non sembri che durante le vacanze abbia poltrito e non abbia scritto (visto che, causa scuola, in questi mesi ho scritto ben poco).

Non ho particolari commenti da fare a questo capitolo (eh eh <- cosa ci sarà da ridacchiare?). As usual, spero comunque vi piaccia(L) Ah, sentito il titolo del settimo libro di HP (Harry Potter and the deathly hallows)? Poco rassicurante°_° Speriamo bene! Ehi, ma questo non c’entrava niente con quello che stavo dicendo su questo capitolo… vabbè, pazienza.

Se vi scappa un commentino, è graditissimo, lo sapete.

Buone feste!

A presto!

 

 

Miwako__

 

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Capitolo 8
*** Shoot ***


SHOOT

SHOOT.

 

[Spara.]

 

 

Spengo la TV
e la farfalla appesa cade giù
ah, succede anche a me
è uno dei miei limiti.
Io per un niente vado giù
se ci penso mi da i brividi.
Me lo dicevi anche tu
dicevi tu ...
Ti ho mandata via.
Sento l'odore della città
non faccio niente, resto chiuso qua.
Ecco un altro dei miei limiti.
Io non sapevo dirti che
solo a pensarti mi da i brividi
anche a uno stronzo come me
come me ...
Ma non pensarmi più,
ti ho detto di mirare
l’amore spacca il cuore!
Spara! Spara! Spara, amore!

 

‘Spaccacuore’, Samuele Bersani.

 

 

 

 

Mi dispiace di non averti salutato.

Non so, forse ho pensato che saresti venuto a fare colazione da noi come tutte le mattine. Ho pensato e sperato che ti sedessi lì di fronte a me, prendessi il mio caffè macchiato e mi sorridessi dicendo ‘buon viaggio’. E invece, al tuo posto, c’era mio fratello che mi guardava e mi diceva ‘non andare’.

Cos’avrei dovuto fare?

Tu lo sai meglio di tutti, sei come me. Ci dicono ‘non farlo’ e noi subito ‘sì, invece, voglio farlo’. E’ così che mi sono sentita. Irrazionale, capricciosa, un po’ stupida. Ma sì, ho voluto farlo.

Non sto tentando di giustificarmi… anzi, invece sì.

Tento disperatamente di giustificarmi ai tuoi occhi.

Sto impiegando più di un’ora per scrivere questa lettera; non ci ho mai messo tanto a scrivere una lettera senza nemmeno il nome del destinatario, o del mittente.

Ma tu lo sai chi è il mittente, vero?

Ed io so che sei tu il mio destinatario. Cerco di ricordarmi questo, al momento è la mia unica certezza. Prima sei stato il mittente per una destinataria che forse ogni tanto ti ha rimandato qualche lettera indietro senza leggerla.

Non voglio e non devo essere più quella destinataria, che rimanda le lettere indietro.

So che sei tu la persona a cui devo mandare questa lettera. So che sei tu la persona a cui dovrò scrivere finché rimarrò nella situazione in cui sono.

Magari leggerai le mie lettere perché devi, ma non mi risponderai.

Pazienza; spedisco le mie scuse, le mie giustificazioni e la mia paura nell’universo, cerco di scrollarle via e penso a come fai tu ogni giorno a scrollarla via, la paura.

Tecnicamente, qui va tutto bene. Sto bene, per quanto… beh, puoi immaginarlo. Ovviamente faccio sempre le cose più facili di quello che sono.

Ti scriverò un’altra lettera quando le cose si complicheranno e potrò farmi da parte per fare spazio alla persona più importante di tutte.

Ti dico il ‘ciao’ che non ti ho detto quando sono partita.

Spediamo la paura nell’universo.

Ciao, destinatario.

Diede la busta chiusa al gufo, e quando questo si fu involato verso il cielo, si buttò sul letto, il cuscino sulla testa, e strinse forte forte le palpebre.

Solo una vigliacca come lei poteva scrivere a Harry dopo quella notte.

Fuori, nel buio delle tre del mattino, cominciò a piovere.

 

-         Sono ufficialmente fradicio – declamò Ron, quella mattina, entrando all’università, scuro in viso.

Scrollò via l’acqua dalla giacca e si scompigliò i capelli, sedendosi al proprio posto in aula.

Harry lo fissò. Lui era perfettamente asciutto, ma aveva due occhiaie che sembravano disegnate col pennarello nero.

-         Credi di stare peggio di me? – mormorò, con voce roca, sedendosi accanto a Ron con un tonfo.

-         Ah, giochiamocela – fece Ron, stringendo le palpebre. – ti dico la mia: stamattina mi sono alzato alle sei del mattino perché il temporale mi ha svegliato e non riuscivo più ad addormentarmi per… beh, comunque, mi sono alzato, non c’era caffè, quindi io al momento non ho caffeina che mi circola nel sangue, ma sai cosa? La camomilla che ci ha spedito zia Geraldine dall’Olanda. Cocaina, per un vecchio di centottant’anni, ma non per il sottoscritto. Dopodiché sono passato all’appartamento perché la caldaia non funziona e l’idraulico deve sistemarla. E sono ventotto galeoni che se ne vanno. Ora mi appresto a fare una lezione di cui non mi ricorderò il tema fra cinque minuti, nonostante l’esame sia fra quindici giorni, per poi correre da Fred e George che mi faranno lavorare come neanche l’assistente della direttrice di Vogue. Ah, nel caso te lo stessi chiedendo, so cos’è Vogue per il semplice fatto che ieri il dentista mi ha fatto aspettare tre quarti d’ora in mezzo a riviste femminili prima di farmi entrare e devitalizzarmi due denti. Ora, dimmi, chi sta peggio, Ragazzo Che E’ Sopravvissuto? –

Harry lo fissò con aria di sfida.

-         Mettiamola così: io avrei dormito perfettamente anche con tuoni, fulmini, temporali e cicloni, ma alle quattro, sto dicendo le quattro, di stanotte, Luna ha suonato alla porta. Cosa che avrei considerato un passo avanti, dato che mi ruba le chiavi ed entra quando le pare, ma ha pensato bene che la notte fonda fosse un buon momento per cominciare ad essere educata. Ho tentato di ignorarla, ma lei ha continuato a suonare per un quarto d’ora buona. Le ho aperto. Prima che potessi fare qualsiasi cosa mi ha rubato il letto sostenendo di essere terrorizzata dai temporali. Ho cercato di dormire per terra. Soffiartigli mi si è addormentato sulla faccia e stavo per soffocare. Ho cercato di dormire sulla poltrona. Luna si è svegliata con un tuono ed in preda a terrori notturni mi ha lanciato un cuscino rompendomi una lente degli occhiali. Ormai erano le sei ed i tuoni erano troppo forti per dormire, ma naturalmente Luna ha continuato beatamente. Non ho potuto mettermi i vestiti perché Soffiartigli ha fatto la tana nel mio armadio e quando ho tentato di avvicinarmici mi ha conficcato un’unghia nella caviglia provocando un’emorragia. Non ho fatto colazione. E ora mi appresto ad ascoltare una lezione che parla di – diede un’occhiata al titolo del capitolo. – difesa dalle Ranarroste. Chi sta peggio? –

Ron lo guardò con aria dubbiosa. Dopo aver ponderato per qualche attimo, sollevò un lembo della giacca di Harry.

-         Oh, diavolo. Sei davvero in pigiama. – scoppiò a ridere.

Harry si aggiustò gli occhiali.

.- Questa risata vale un caffè doppio in regalo. –

-         Tutto quello che vuoi, mio caro amico delle pazze. La visione del grande eroe di guerra che si presenta a lezione di Difesa in pigiama è impagabile. –

-         Chi è che è in pigiama? –

Cloe si sedette nel suo solito posto al banco accanto, sorridendo, allegra come al solito.

-         Nessuno, vero, Harry? – fece Ron, rifilando un’energica gomitata al ragazzo, che lo fissò come se fosse matto.

Lui non rispose. Già non era di ottimo umore, ma supportare la gioia sconfinata di Ron, che nel suo essere felice non si accorgeva nemmeno lontanamente dei sorrisi più che esplicativi di Cloe, era davvero una sofferenza.

Cloe non gli stava antipatica, né niente. La cosa che lo stupiva era che una intelligente come lei non avesse ancora capito che con Ron era una partita persa.

Gli occhi di Ron erano per qualcun altro, anche se poteva sembrare un’ovvietà; ma se qualcuno l’avesse visto, l’avrebbe capito senza bisogno di spiegazioni banali.

Cloe voltava lo sguardo per non vedere, e questo significava che ci teneva più di quanto fosse evidente.

Ma Harry non si era mai infiltrato più di tanto nelle faccende sentimentali del suo migliore amico.

Aveva come una brutta sensazione al riguardo; come se, dicendo qualche parola di troppo, avesse potuto peggiorare le cose.

-         Se siete in carenza di caffeina, conosco un posto qui vicino che fa un caffè americano buonissimo. Ci spargono sopra montagne di cacao. Vi va di venirci dopo la lezione? –

Ron saltellò emozionato sulla sedia, come un bambino piccolo.

-         Montagne di cacao? Sicuro! Ci sto. Harry? –

L’amico lo fissò sbattendo le palpebre.

-         Ma non avevi appena detto che devi correre da Fred e George? –

Ron scrollò le spalle guardandolo come se fosse ritardato.

-         Harry, ma chi se ne frega. Sono i miei fratelli. Che vantaggio ci sarebbe ad avere come capi i propri parenti, allora? –

Harry continuò a sbattere le palpebre, chiedendosi se fosse davvero ritardato, e vedeva cose che non c’erano, o se era Ron che non ci arrivava proprio.

 

Harry tornò a casa, ancora un po’ nervoso per la faccenda Ron-ottuso.

Stava salendo le scale sbuffando.

-         Ti prego, aprimi la porta! – stava dicendo, o meglio supplicando una voce maschile pressoché disperata. – non lo farò mai più. Giuro. Lo so che ci tieni a Soffiartigli. Ho solo pensato che avesse bisogno di una pulita… -

Harry salì l’ultimo gradino e si ritrovò a pochi passi di distanza il tipo strano che aveva visto parecchi giorni prima, di nuovo davanti alla porta dell’appartamento di Luna. Stavolta era ancora più strambo dell’altra volta: aveva i soliti occhiali con la montatura nera spessa spessa, una sciarpa di lana grossa verde pistacchio ed un completo scozzese da far venire i brividi al più emerito abitante di Edimburgo.

Il ragazzo bussava insistentemente alla porta dell’appartamento, dal quale non proveniva alcun suono.

Harry lo guardò, perplesso. Prima che potesse defilarsi, il Sciarpa Pistacchio lo notò.

-         Tu – gridò, puntandogli il dito contro. Aveva un aspetto irrimediabilmente… scozzese. – è già la seconda volta che ti vedo qui attorno! Cosa fai? Cosa vuoi? –

Harry si sistemò la borsa dei libri sulle spalle.

-         Ma di che stai parlando? – fece, sinceramente confuso.

La porta dell’appartamento si socchiuse all’improvviso, con uno schiocco.

S’intravedeva un occhio azzurro di Luna. Estremamente guardingo, per essere un occhio solo.

-         Harry – sibilò, come se Sciarpa Pistacchio non potesse sentirla dai suoi venti centimetri di distanza. – entra subito! –

Sciarpa Pistacchio lo fissò, sbalordito.

Harry non si mosse di un centimetro.

-         Ma veramente… dovrei proprio… -

-         Perché ti ha chiesto di entrare? Luna, chi è questo? Chi è? Chi sei? – Sciarpa Pistacchio si avvicinò pericolosamente. Era smilzo, ma piuttosto alto.

Vabbè, non aveva vie di uscita così, però.

Luna aprì la porta, afferrò Harry per un po’ e lo trascinò dentro richiudendo la porta con un botto.

-         Ti avevo detto di entrare – fece, sbrigativamente, diringendosi come se nulla fosse verso un angolo dell’ingresso.

-         Luna, aprimi! Ti prego! Cosa fa quello? Chi è? Chi è? – biascicava Sciarpa Pistacchio contro la porta.

Harry si guardò intorno. Oddio. Non sapeva se era meglio la pazzia dentro o la pazzia fuori.

Nonostante Luna praticamente parassitasse a casa sua, lui non aveva mai visto la sua. Che era assolutamente folle, come aveva immaginato.

C’erano festoni dappertutto, intanto. Festoni con su scritto ‘buon compleanno’, ‘complimenti per il diploma’… perfino ‘felici trent’anni’.

Luna lo vide fissarli.

-         Oh, belli, vero? – fece, tutta gongolante. – li porto via dalle feste. Di solito li vogliono sempre buttare via, ma sono così colorati che è un peccato, no? –

Harry non ebbe la forza di rispondere, né di chiederle perché diavolo potessero interessarle festoni delle feste di qualcun altro. Aveva come l’impressione che avrebbe ricevuto una di quelle ‘lunatiche’ risposte infelici.

Ma naturalmente, non poteva esserci solo quello, di strano.

Intanto, per tutto il pavimento dell’appartamento erano sparsi cuscini. Di ogni genere. Ci si camminava sopra, praticamente, saltellando da un cuscino all’altro (motivo per  cui Luna lo costrinse sin da subito a togliersi le scarpe… cielo).

-         E’ come vivere dentro una nuvola, vero? – ridacchiò Luna, con gli occhi luccicanti di orgoglio, mentre Harry barcollava tra un cuscino e l’altro seguendola.

-         Come no – si lasciò sfuggire ironicamente Harry, ma lei non lo sentì.

-         Comunque – fece Luna, piegandosi improvvisamente in un angolo – mi andresti a prendere dei cracker? –

Harry, cercando di mantenersi in equilibrio su un cuscino particolarmente scivoloso, la fissò.

-         Scusa? –

-         Dei cracker – ripetè a voce alta Luna, nel tentativo di farsi sentire sopra i biascichii disperati che stava ancora emettendo Sciarpa Pistacchio. – Soffiartigli non sta bene e ne ha bisogno. Ma io non posso uscire, hai visto. –

Si fissarono. Lui si aspettava un minimo di spiegazione, lei continuò a guardarlo come i pesci rossi ti fissano attraverso l’acqua, in silenzio.

-         Ehm… Luna, io ti porterei volentieri dei cracker. Ma mi spieghi che succede? –

Luna inarcò le sopracciglia, stupita. Cosa piuttosto irritante.

-         Succede? Oh, vuoi dire fuori? –

-         Io… sì, Luna, voglio dire fuori. Ti sei accorta che un tizio sta bussando alla tua porta da mezz’ora? –

La ragazza fece spallucce, altra cosa estremamente irritante. Dietro di lei, Harry notò Soffiartigli, rannicchiato tra due cuscini, col broncio. Aveva un orecchio bruciacchiato.

-         E che è successo a Soffiartigli? - fece Harry, senza riuscire a trattenersi. Cielo, non avrebbe mai pensato che gli sarebbe capitato di chiedere una cosa del genere.

-         Oh, niente che non si possa sistemare con un bel pacchetto di cracker, vero, Soffiartigli? – lo accarezzò. Soffiartigli fece un grugnito diffidente. – e quello là fuori è solo Mars. –

Harry continuò a fissarla. Non poteva credere di essere in piedi su un cuscino a preoccuparsi dei rapporti interpersonali di una ragazza con dei pantaloni giallo canarino a zampa d’elefante.

-         Mars? –

-         Già, mio cugino di secondo grado. Tutti i miei cugini hanno nomi dei pianeti del Sistema Solare. Mio cugino di primo grado si chiama Ioves. Forte, eh? –

Harry non l’avrebbe definito ‘forte’, lo avrebbe definito ‘assurdo’, ma tanto era inutile esprimere la propria opinione da persona normale.

-         Ma perché grida fuori dalla tua porta? –

-         Oh… si è introdotto nel mio appartamento senza il mio permesso usando le chiavi sotto al tappetino. Ha preso Soffiartigli per fargli un bagno. – uno strano luccichio di irritazione (irritazione? Luna irritata?) le percorse gli occhi blu. – naturalmente non sa che il suo pelo è allergico al sapone di mirtillo. Gli è venuto il bruciore, poverino. – accarezzò nuovamente Soffiartigli, che miagolò in segno di approvazione.

Harry la guardava continuando a non capire.

-         Questo, ehm… non è che spiega esattamente il perché ti stia supplicando di vederlo. –

Luna fece nuovamente spallucce, alzandosi per saltellare verso una poltrona rosa (con tutta probabilità, un ricettacolo di insetti), dove si accasciò tranquillamente.

-         Mars viene a casa mia un giorno sì e uno no. Controlla le bozze del Cavillo, sai. Ultimamente però è strano – qui Harry dovette trattenersi dal fare una battuta ironica. – viene quasi tutti i giorni, e poi mi fa sempre il pranzo e porta a passeggio Soffiartigli, nonostante a lui Mars non piaccia per niente e lo graffia sempre. –

Harry la guardò, incredulo.

-         Beh… mi sembra che sia un comportamento piuttosto evidente… -

Luna sbattè le ciglia, assolutamente ignara.

-         Per cosa? – chiese, cortesemente.

-         Voglio dire, è ovvio che… -

-         Luna! –

Stavolta Mars aveva usato l’incantesimo sonorus e per poco non gli spaccava i timpani.

-         Luna, aprimi, ti prego! Non stare lì dentro con quel tipo losco! –

Avevano definito Harry in svariati modi, negli anni, ma mai ‘tipo losco’.

Tutti i condomini cominciarono a urlare attraverso i muri ed il soffitto di finirla col rumore.

Harry barcollò sui cuscini.

-         Che fai? – fece Luna, preoccupata.

-         Apro la porta. Se non lo vuoi, lo mandiamo via… ma non possiamo lasciarlo lì fuori in eterno – o meglio, lui non poteva rimanere chiuso in quell’appartamento in eterno. Ma per carità.

-         Ma ha fatto il bagno a Soffiartigli col sapone ai mirtilli! – esclamò Luna, sgranando enormemente gli occhi, come se fosse una ragione a dir poco plausibile.

Harry cercò di ignorarla e di arrivare in equilibrio alla porta. L’aprì.

Mars gli si attaccò immediatamente al collo.

-         Cosa credevi di fare? – gridò, sbattendolo contro il muro. Cielo, era davvero forte per avere delle manine così esili.

Harry per poco non soffocava.

Oh, ma andiamo! Lui era il Ragazzo Sopravvissuto. Non si sarebbe fatto mettere k.o. da uno che portava un completo scozzese.

Tirò fuori la bacchetta e lo Schiantò.

Mars finì contro il muro. Poi, alzò lo sguardo, furente.

-         Chi ti credi di essere… - i suoi occhi finirono di colpo sulla cicatrice di Harry. - … Harry Potter? Sei il Prescelto? Cosa fai qui con Luna? –

Harry cercò di ricomporsi. Non si sarebbe mai, mai più azzardato ad avvicinarsi all’appartamento di Luna, mai più.

-         Ehm, siamo amici, suppongo – mormorò, ancora confuso.

Ma Mars non lo ascoltava già più. Si avvicinò a Luna (ma quando si era tolto le scarpe per salire sui cuscini?), con aria preoccupata. Lei aveva il broncio più seriamente infantile che avesse mai visto.

-         Tutto bene, Luna? Senti, mi dispiace per Soffiartigli. Avevo totalmente dimenticato la questione dei mirtilli. Non accadrà mai più. Volevo solo essere… gentile con te – farfugliò, improvvisamente paonazzo. Harry si chiese se stesse per venirgli una sincope.

Luna sembrava sinceramente indecisa, come una bambina offesa di fronte ai genitori che si scusano per non averla portata al parco perché dovevano lavorare.

-         Sei sincero – sentenziò, come se ora ne fosse assolutamente certa. – ma non prendere più Soffiartigli di nascosto, per favore. Mi sono spaventata. –

Mars si illuminò come non mai e cominciò a ringraziarla talmente tante volte che quando Harry si era rinfilato le scarpe lui non aveva ancora finito.

Luna sembrò ritornare di colpo ad essere allegra.

Che lunatica.

-         Hai visto, Mars? Lui è Harry Potter. Ha detto che è mio amico, hai sentito? Non è fantastico? Sono amica di Harry Potter. – disse lei, senza la minima traccia di imbarazzo, tutta orgogliosa.

Harry sentì improvvisamente un gran caldo.

Mars non sembrava entusiasta quanto Luna e lo guardò con sufficienza.

-         Sì, ho sentito parlare di te, immagino – fece, come se stesse parlando di una marca di cereali. Si era ricomposto, dallo stupore iniziale.

Cioè, ma a parte tutto, chi se ne fregava? Harry voleva solo allontanarsi da quei due.

-         Bene! Ora che tutto si è sistemato – disse, arretrando. – penso che sia il caso che vada. Sapete… popolazioni da salvare, palazzi da non far crollare, incendi da spegnere… -

Luna scoppiò in una risata imbarazzantemente lunga.

Mars non accennò un sorriso, il che era ridicolo, perché uno scozzese doc avrebbe apprezzato quel genere di senso dell’umorismo.

No, ma davvero. Chi se ne fregava?

 

Ron assaporò il caffè.

Cacao e caffeina. Ohmm. Paradiso.

-         Questo mi rende molto più positivo verso il futuro – annunciò, pulendosi i baffi di schiuma sulla manica della giacca.

Cloe rise, scavando col cucchiaino alla ricerca dello zucchero sul fondo della tazza.

-         Ti basta poco. –

-         No, ma questo caffè è davvero senza precedenti. Ci mischieranno mica qualche allucinogeno? –

La ragazza sorrise di nuovo, guardandolo mentre prendeva due bustine di zucchero e se le metteva in tasca.

-         Col fatto che vivo vicino a Diagon Alley da sempre, conosco qualche posto più carino degli altri – disse, scrollando le spalle con modestia.

Ron si voltò a guardarla, interessato.

Lei arrossì.

-         Tipo? -

-         Beh – mormorò lei, guardandosi nervosamente intorno come se le girasse la testa. – non so, ad esempio, qualche parco particolarmente tranquillo. Ce n’è uno che fra un mese dovrebbe fare un prato di tulipani rossi davvero splendido. –

Ron aggrottò le sopracciglia.

-         Davvero a Diagon Alley c’è un parco? –

-         Sì, verso la campagna. Dalla parte opposta della Stamberga Strillante. E’ un po’ la fissazione della gente del mio quartiere. –

-         Fissazione? –

-         Sai, la primavera, i fiori – gesticolò Cloe. – la gente va pazza per queste cose. Quel parco, purtroppo, ad inizio aprile si riempie di coppiette che vanno ad ammirare i tulipani rossi, per via della tradizione secondo cui il tulipano rosso sarebbe il simbolo del primo amore. – gli lanciò un’occhiata veloce, furtiva. – che dicono ‘non si scorda mai’. Che è eterno. –

Ron la fissò e lei arrossì violentemente.

Il primo amore. Quello ‘che non si scorda mai’. Quello eterno.

Se avesse portato un mazzo di tulipani rossi a Hermione propinandole questa storiella ci avrebbe fatto un figurone mica da poco. Contando che entrambi ci credevano poco nel significato segreto dei fiori – lei era troppo razionale, troppo realista; lui… beh, lui era un maschio -, era comunque un pensiero che avrebbe fatto sbattere le ciglia anche alla Strega del Nord.

-         Se vuoi – la voce di Cloe interruppe bruscamente i suoi pensieri che lo vedevano eletto ‘gentleman dell’anno’. – un giorno ti ci porto. –

Ron sorrise, cortesemente.

-         Lo cercherò io, non ce n’è bisogno. –

Cloe era visibilmente delusa; naturalmente, lui non ci fece caso.

La ragazza si attorcigliò nervosamente una ciocca di capelli biondi intorno all’indice.

-         Senti… - fece, con la voce un po’ instabile. – stasera vado ad una festicciola di compleanno per una parente. Ad un pub di Hogsmeade. Ti andrebbe… non so, magari, se non hai niente da fare, potresti farci un salto? –

Ron si alzò in piedi, ascoltandola solo a metà.

-         Stasera? Credo che sarò troppo distrutto per muovere anche solo un muscolo. Magari un’altra volta. – buttò lì.

Cloe abbassò gli occhi azzurri sul tavolo e smise di tormentarsi i capelli.

-         Già – fece, fissandosi le dita. – magari. -

-         Ora devo scappare, altrimenti Fred e George mi pestano davvero. – disse.

Il suo unico pensiero, mentre Cloe lo guardava andare via con una di quelle espressioni tristi di cui si conosce sempre la causa, era che, nel caso i suoi fratelli si fossero lamentati, avrebbe potuto correre a frignare da sua madre. Grazie al cielo Molly adorava Hermione.

 

-         Cerca un genere di biancheria in particolare? – fece una voce gentile, all’improvviso.

Hermione fece un salto di circa due metri e mezzo.

Si voltò meccanicamente verso la commessa, che le sorrideva.

Mollò immediatamente qualsiasi cosa avesse in mano.

Maledetto il momento in cui aveva deciso di entrare in quel negozio. Ma perché, poi? Cosa le diceva la testa?

Attorno a lei, un sacco di ragazze si aggiravano tra gli scaffali con aria assolutamente tranquilla. Alcune discutevano perfino di taglie.

-         I-io… stavo solo guardando. –

-         Se vuole posso darle una mano – insistette la commessa. – il nostro personale è specializzato per trovare i completi più adatti ad ogni tipo di clientela. – aggiunse, squadrandola.

Cielo. Ma la privacy? Non poteva esserci tipo un vetro opaco tra lei e le commesse, come coi confessori?

Comunque. Tutto questo era iniziato perché quella mattina, riordinando, aveva trovato una busta con qualche banconota (niente di eclatante, ma qualcosina c’era) ed un biglietto di sua zia Becky che diceva ‘rifatti il guardaroba, ragazza’. Risaliva alla Pasqua dell’anno prima, probabilmente. Zia Becky non aveva assolutamente idea di che tipo fosse Hermione.

Fatto sta che aveva per così dire ‘congelato’ quei soldi per uso futuro, tipo i libri universitari dell’anno successivo, insomma.

Ma poi… beh… aveva guardato di sfuggita al suo cassetto della biancheria e si era accorta… cioè, dai, era pieno di mutande prese al pacchetto al supermercato da sua madre. E ora che sarebbe andata a vivere con… con… forse non avrebbe dovuto… non che pensasse… non che immaginasse che…

-         La sua carnagione si adatterebbe perfettamente ad un rosa antico – sentenziò la commessa, tirando fuori dal nulla una pila di scatole patinate d’argento.

-         Rosa antico? – ripetè Hermione, confusa. C’era un rosa più vecchio del rosa?

La commessa estrasse con leggiadria un indumento minuscolo da una delle scatole.

-         A occhio e croce direi che porta una seconda scarsa, giusto? – sorrise cortesemente, come se non l’avesse appena insultata (pur prendendoci).

Hermione sgranò gli occhi. Era un bel reggiseno ricamato. Rosa (antico… mah). Sì, vabbè, ma era trasparente. Cosa copriva se era trasparente?

Lo chiese personalmente.

La commessa sbattè le ciglia fissandola come se fosse una demente.

-         Beh – ridacchiò, riprendendo il suo savoir-faire. Le fece l’occhiolino. – forse non copre, ma le assicuro che attira sguardi come miele con le api. –

Oddio.

E le mutande erano ancora più piccole, ora che le guardava bene. Anzi, un momento… gli mancava il pezzo di dietro o… oh.

Cioè, avrebbe dovuto indossare quel filo interdentale? Aveva l’aria dolorosa, come un’arma di tortura medievale.

Diede un’occhiata al cartellino. Settantacinque sterline.

Settantacinque sterline per tre triangolini di raso?

-         Forse – balbettò, sconcertata. – forse sarebbe meglio qualcosa di più semplice… ed economico. –

Il sorriso della commessa si congelò. Ripose il completino della sua scatola, con aria risentita.

Guidò Hermione attraverso gli scaffali; raggiunsero un reparto dall’aria molto più umana.

-         Questo è di suo gradimento? – fece la commessa, dubbiosa, accennando ad un completo appeso.

Oh.

Blu pervinca con delle roselline rosse dove terminavano i laccetti. Mutandine normali, con una rosellina che ammiccava sul fianco.

Così poteva funzionare.

-         Perfetto – fece, afferrando la sua taglia.

-         Non se lo prova? –

-         No, ehm… ho occhio per le taglie – buttò lì, quasi correndo verso la cassa.

Voleva solo uscire di lì.

Avrebbe tinto le altre mutande con la magia.

Comunque, in un negozio di intimo non ci avrebbe mai più messo piede.

 

Draco fece cadere per sbaglio la boccetta d’inchiostro sulla scrivania, che si tinse di nero.

-         Merda. -

-         Ci penso io – disse Pansy, calma, estraendo la bacchetta e ripulendo la scrivania. – sei nervoso per oggi? –

-         No, sto una meraviglia, Pansy, e gradirei che la smettessi chiedermelo – la fulminò lui, infilando la bacchetta nella tasca dei jeans.

Pansy non fece una piega e gli sfiorò la nuca con le dita.

-         Vuoi che ti aiuti ad allentare la tensione? – sussurrò.

Draco si scrollò così forte da schiaffeggiarle la mano. Lei arretrò, ma non aveva un’espressione particolarmente risentita. Lui la fissò per un attimo, lo sguardo più grigio e cupo del solito.

-         Non mi toccare se pensi che io sia nervoso – disse.

-         Va bene. – rispose lei subito, con un sorriso.

Questo lo fece arrabbiare ancora di più.

Lei esitò.

-         Draco… quando torni ti dovrei parlare. -

Lui uscì dalla stanza chiudendo la porta con un botto che fece tremare il pavimento.

Va bene, Lucius.

Qualsiasi cosa, va bene.

Spalancò una porta senza bussare.

Rodolphus alzò lo sguardo dal suo solito libro con la copertina di pelle, senza titolo.

-         Devi cacciarla – tagliò corto Draco, strappandoglielo di mano.

Il libro cadde a terra con un tonfo sordo, nel silenzio.

Rodolphus inarcò le sopracciglia. Prese un pacchetto di sigarette dalla tasca e ne accese una con la bacchetta.

Lo fissò per due lunghi secondi, espirando il fumo.

-         Problemi? -

-         Falla finita, Rodolphus – fece Draco, sprezzante. – non me ne frega niente se il Signore Oscuro ti ha messo a capo del gruppo. Tu devi cacciarla. –

-         Oh – esclamò l’uomo, impassibile, facendo cadere la cenere della sigaretta sul pavimento. – ti riferisci alla nuova apprendista? Non ti sta simpatica? –

Prima o poi avrebbe finito per prenderlo a pugni. Era stupefacente che nessuno lo avesse ancora fatto.

Draco cercò di mantenere la calma, ma sentiva la rabbia montargli dentro come se non volesse altro che essere liberata.

-         Dimmi il vero motivo per cui è qui – insistette il ragazzo. – per cui l’hai lasciata rimanere e non l’hai ancora uccisa. Io sono un Mangiamorte da due anni. Se il Signore Oscuro ha un piano, voglio farne parte. –

Rodolphus aggrottò la fronte.

-         Se è per questo, io sono Mangiamorte da vent’anni, ed ancora non so che piano abbia il Signore Oscuro, di preciso. – spense la sigaretta in un posacenere di vetro.

-         Non fingere di non capire. –

L’uomo lo fissò.

Stavolta il suo sguardo era duro, minaccioso.

Il motivo per cui nessuno aveva mai tentato di contraddirlo.

-         Ti lascerò passare questo comportamento – scandì le parole, come se stesse parlando con un bambino. – solo perché sei ancora molto giovane, e non capisci. Trovo anche divertente che uno come te, che non ho mai visto scomporsi in nessuna occasione da quando è nato, perda la sua lucidità per una sciocchezza del genere. O forse non è una sciocchezza… - si alzò in piedi, andandosi a versare un bicchiere di un liquido trasparente, sicuramente alcolico.

-         Non ho perso la mia lucidità – replicò Draco, secco, fissandolo con sguardo gelido. – quello che voglio è che il Signore Oscuro vinca questa guerra. E lo faccia il prima possibile. Questo non è il modo giusto. Ci tradirà. –

Rodolphus lo squadrò, prima di ingurgitare il liquido tutto d’un sorso. Poi, tornò a guardarlo.

-         Molto nobile, da parte tua – commentò l’uomo. – quello che mi chiedo è… temi che lei ci tradisca… o che finirai tu per tradire noi? –

Draco resse il suo sguardo, pieno di disprezzo.

Naturalmente, Rodolphus fingeva di capire. Un buon modo per non dare risposte.

L’uomo non attese che lui dicesse qualcosa; si avvicinò ad un tavolino su cui erano appoggiate una ventina di buste aperte con delle lettere all’interno. Le sfogliò per qualche secondo, per poi estrarne una.

-         Voglio darti comunque un premio per la nobiltà – disse, con un ghigno. – anche se realisticamente è solo lavoro in più. Ma può essere interessante, a volte; è il compito che preferisco tra quelli assegnatimi. – gli porse la busta.

Draco la fissò con diffidenza.

-         Cos’è? –

Rodolphus continuava a tendergli la lettera, paziente.

-         Sai, proprio allo scopo di evitare ‘tradimenti’ o ‘cospirazioni’ o qualsiasi termine romanzesco ti piaccia usare – sorrise. – ho il dovere di… vogliamo dire ‘smistare’ le lettere dei Mangiamorte? –

Draco si voltò di nuovo a guardare la lettera-

-         E cosa me ne dovrebbe importare? – fece una smorfia.

-         Non so, magari potrebbe – gli mise in mano la busta.

Il ragazzo sospirò pesantemente. La busta era stata evidentemente maltrattata, e strappata a forza ad un gufo, presumibilmente. Non c’era mittente né destinatario; solo una ‘H’ sul retro.

Guardò Rodolphus con aria di sufficienza.

-         Grazie per il premio. Molto interessante. – fece, con un’espressione che diceva tutto il contrario.

L’uomo gli sorrise quasi con compatimento.

-         E’ davvero un peccato che una ‘H’ non dica niente proprio a te. –

Draco abbassò lo sguardo sulla busta. Si scorgeva un triangolo della lettera all’interno, coperta da inchiostro in una calligrafia femminile.

Ebbe una brutta sensazione.

Il sorriso soddisfatto di Rodolphus gliela confermò.

Draco aveva quella busta in mano, ed avrebbe voluto bruciarla, farla a pezzi, incenerirla.

Non gli importava, non voleva sapere. Non voleva sapere, mai, mai, mai più.

-         D’ora in poi smisterai le lettere di questa Mangiamorte. – disse Rodolphus, con l’aria più tranquilla del mondo. – naturalmente, se non contravviene alle regole, sei pregato di spedirle normalmente. Se vuoi agire correttamente… - lasciò la frase in sospeso.

Se vuoi agire correttamente.

Vuoi agire correttamente?

Draco stringeva la busta tanto forte da stropicciarla. Lanciò un’ultima occhiata all’uomo; poi mise la lettera in tasca.

Rodolphus sorrise soddisfatto guardandolo uscire.

-         Buon lavoro. –

Un tuono fece tremare le pareti del castello.

 

Ginny stava appoggiata al davanzale a guardare fuori dalla finestra aperta con espressione vuota.

Aveva gli occhi gonfi ed i capelli scarmigliati.

Il vento le gettava addosso gocce gelide di pioggia.

Dove sarebbe dovuto esserci il tramonto, un lampo l’accecò per un attimo, seguito subito da un tuono che la fece rabbrividire.

Non aveva più sonno per dormire; ma non poteva uscire.

Non avrebbe mai più potuto uscire.

Cosa l’aspettava, in fondo, fuori? Solo altra tensione, altre delusioni, altra paura.

Immaginò la sua lettera viaggiare attraverso il temporale. Sarebbe arrivata a destinazione? Sarebbe diventata illeggibile per la pioggia?

Magari sarebbe stato meglio.

Un altro tuono.

Si tappò le orecchie. Detestava i temporali.

Dov’è la mia bambina? Ginny?

Si è nascosta nel letto di Bill e non vuole più uscirne. Ha il terrore dei temporali…

Non è niente, Ginny! E’ solo un temporale, passerà presto.

Non è niente, Ginny…

Non è niente…

Affondò le dita nei capelli.

Doveva reagire. Non poteva semplicemente starsene lì. Non era stata in grado di piangere, né di avere alcuna reazione che non fosse scrivere quella lettera.

Scattò in piedi.

Ora basta.

Quella non era lei. Quella non era nessuno. Nessuna donna dovrebbe mai piangere da sola davanti ad un temporale. Reagire.

Ma cosa poteva fare?

Era la maledizione di quel castello. Se avevi dei brutti pensieri, non potevi distrarti: ti seguivano ovunque andassi, come se aleggiassero minacciosamente nell’aria.

E sfuggirne era impossibile…

- Weasley. – la porta si aprì di colpo. Bellatrix stava sulla soglia con le braccia incrociate.

Ignorò totalmente l’aspetto tra il disperato e il distrutto di Ginny.

-         Mettiti la veste. C’è del lavoro per te fuori dal castello. E datti una mossa – aggiunse, vedendo che la ragazza non si muoveva.

Ginny si sentì sollevata alla vista di Bellatrix per la prima volta nella sua vita.

Indossò rapidamente la veste e la seguì.

-         Devi prendere un oggetto a Nocturn Alley. Ci sono Auror ovunque, là, perciò ti conviene seguire le mie istruzioni alla lettera se non vuoi finire nei guai. Se ti chiedono chi sei, dì la verità: non hai l’aria sospetta. Però ti terranno d’occhio; nessuno che si aggira per Nocturn Alley può avere buone intenzioni, secondo loro. E hanno anche ragione – rise forte, da sola.

Che risata insopportabile.

-         Cosa devo prendere? – disse Ginny, cercando di non far trapelare il suo fastidio.

-         Tu vai da Magie Sinister – tagliò corto la donna. – e lui ti darà ciò che ti serve. –

 

-         Puoi raccogliere i miei resti con la paletta, grazie. -

Ron si stravaccò, con un’aura spaventosa, sul divano di casa di Hermione

Lei inarcò le sopracciglia con aria di sufficienza.

-         Non esagerare. Evidentemente non avevi proprio idea di cosa voglia dire lavorare. –

-         Beh, ora ce l’ho, e devo dire che non mi piace affatto – allargò le braccia, mentre Hermione apriva un libro e lo sfogliava alla ricerca di una pagina in particolare. – assurdo. Intanto, Fred e George mi hanno fatto una ramanzina lunga circa quarantadue secoli sul fatto che sono arrivato in ritardo. Perciò mi hanno costretto a rimanere dopo l’orario senza extra. Mi hanno fatto servire praticamente tutti i clienti mentre loro se ne stavano in ufficio a poltrire. Mi hanno fatto spostare scatoloni ovunque. Ho dovuto trattare con bambine che frignavano perché non potevano portarsi via le Marghecaccole gratis. Hai idea di quanti fazzoletti usino quattro bambine di cinque anni? Quanto moccio potranno mai produrre, che non saranno neanche alte mezzo metro? –

Hermione accennò un sorriso senza alzare lo sguardo dal libro, sottolineando di tanto in tanto.

Ron cominciò a fissarla in silenzio, tenendo il broncio.

-         Smettila di fissarmi in silenzio tenendo il broncio – fece secca lei, continuando a leggere.

Ron aggrottò le sopracciglia.

-         Ma Hermioneee – si lamentò, agitandosi sul divano e sbirciando quello che stava leggendo fingendo interessamento. – tu mi hai invitato, e poi ti metti a studiare? E’ così che si intrattengono gli ospiti? –

Hermione alzò finalmente lo sguardo dal libro.

-         Ron, chiariamo un attimo le cose: io non ti ho invitato, ti ho semplicemente detto con la Metropolvere che stasera rimanevo a casa mia e che i miei genitori andavano ad una cena. E che domani ho un esame. E venti secondi dopo eri davanti alla mia porta. –

-         E non la trovi una cosa favolosa, da uomo eclettico quale io sono? –

Hermione lo fissò, dubbiosa.

-         Ma tu lo sai cosa significa ‘eclettico’? –

-         L’ho appena letto alla pagina trecentoventotto del tuo libro – disse sbrigativamente Ron. – ma non è questo il punto. Il punto è che mi sembrava chiaramente… - lasciò la frase poeticamente in sospeso. - … un invito. –

La ragazza lo guardò, incredula. Senza riuscire ad impedirselo arrossì furiosamente ed indietreggiò impercettibilmente.

-         Mi sembrava chiaro che quando mi hai detto ‘cosa fai stasera?’ e io ti ho detto ‘studio perché domani ho l’esame’, non fosse un invito! –

Ron finse di non aver sentito e le strappò il libro di mano.

-         Vabbè, ma non vedi che sono distrutto da una dura giornata lavorativa? Non mi consoli? Ahia, ma che male! – disse, quando Hermione gli conficcò il tappino della sua penna in un orecchio.

-         Ron, tu adesso prendi e torni a casa; così ti fai una dormita e non sei più stanco. –

-         Ma il tuo divano è così comodo… -

-         Bene, allora dormi. Ma non fissarmi, io devo studiare, e se mi ciondoli intorno non riesco a concentrarmi. –

Ron fece per dire qualcosa con un gran sorriso affabile, ma lei lo interruppe.

-         E no, non per il tuo alquanto discutibile fascino assassino. Senti, devo davvero concentrarmi. Da domani, dopo l’esame, avrò almeno tre giorni liberi, senza contare che il terzo giorno ci trasferiamo. Credo che tu possa sopravvivere alla stanchezza fino ad allora. –

Lui fece gli occhi sbrilluccicosi da cagnolino abbandonato nella pioggia, ed Hermione si impose di ignorarlo. Tutto ciò era ridicolo. Non le passava nemmeno per l’anticamera del cervello di saltare il ripasso. Per nessuna ragione, c’era in ballo un esame importante.

Ignorò, con tutta la volontà e la forza d’animo che aveva, la mano di Ron nella sua.

Va bene, lei non era esattamente di pietra, ma nemmeno di pasta frolla. Doveva essere in grado di controllarsi, diamine.

Quando Ron vide che fare il broncio non funzionava, rinunciò di malavoglia.

Avrebbe voluto rimanere lì (chissà perché, più lei gli diceva di no più gli veniva voglia di insistere), ma nel giro di un’ora sarebbero tornati i suoi genitori, e non aveva voglia di incontrarli per un bel po’.

Si alzò stancamente dal divano, lasciandole la mano.

Hermione sentì lungo il suo corpo un involontario brivido di delusione.

Oh, andiamo.

Maledetto esame.

-         Ehm… - fece, imbarazzata, alzando gli occhi dal libro. – domani, dopo le tue lezioni, se vuoi ti passo a prendere. – farfugliò, a mezza voce.

Cielo, era veramente faticoso essere spontanea e carina.

Ron la guardò e gli venne l’istinto irrefrenabile di gettare all’aria quel libro e via.

Hermione teneva lo sguardo basso. Era così adorabilmente strano quando tentava di essere carina (invece di maltrattarlo come suo solito).

Tese i muscoli della mano, ma resistette.

-         Se proprio insisti. – sorrise.

 

Ora però erano le nove di sera e lui era senza niente da fare e totalmente sveglio. La storia della stanchezza era una mezza bugia, inutile, purtroppo.

Non aveva voglia di tornare a casa, non c’era niente di interessante alla Tana, tranne l’ennesima sgridata da parte di sua madre riguardo alla faccenda ‘non lasciare le tazze del caffè in giro per casa’.

Chissà dov’era Harry? Però, non voleva andare a casa sua; quasi sicuramente c’era anche Luna ed era impossibile fare dei discorsi normali in sua presenza. Era strano associare Harry a Luna, in effetti.

Poi gli venne in mente.

Cloe non aveva accennato qualcosa a proposito di una festa ad Hogsmeade? L’aveva anche invitato, giusto?

Oh, bene. Una festa era quello che gli ci voleva per darsi una calmata.

Tempo due minuti e si era Materializzato davanti al pub di Hogsmeade. Da dentro veniva musica e risate, il che, per quel periodo, era piuttosto strano.

Quando entrò, fu travolto da fumo e chiacchiere.

Il locale era piccolo e caldo. C’erano parecchie persone, alcune in piedi al bancone altre sedute ai tavoli.

Non fece in tempo ad avvicinarsi al bar per ordinare malinconicamente qualcosa, che qualcuno gli posò la mano sul braccio.

-         Ron? – chiese Cloe, sgranando gli occhi. – sei venuto! –

Ron, vagamente inebetito dai fumi del locale, scrollò le spalle.

-         Sì, ehm… non sono poi così stanco. –

Cloe fece un sorriso incredibilmente solare.

-         Mi fa molto piacere vederti – disse, abbassando leggermente la voce e distogliendo lo sguardo.

Ron inarcò le sopracciglia.

-         Anche a me – disse, perplesso. Non pensava che la sua presenza a quel compleanno fosse di tale importanza.

Cloe lo guardò per un attimo, poi se lo trascinò al bancone.

-         Su, prendi qualcosa! Io… -

-         Cloe! – la chiamò una ragazza da in fondo il locale.

Cloe assunse un’espressione un po’ infastidita. Non aveva ancora tolto la mano dal suo braccio.

-         Scusami un attimo – disse, per poi volatilizzarsi in mezzo alla folla.

Ron sbadigliò. Era meglio non avere nessuno con cui parlare; così avrebbe potuto affogare i suoi dispiaceri nell’alcol in assoluta libertà.

-         Senti – disse al barista. – dammi la cosa più rivoltante che avete, grazie. Con quindici litri d’alcol dentro, possibilmente. –

Il barista annuì come se fosse una richiesta normale.

-         Ronald Weeeasley? – ridacchiò una vocina.

Il ragazzo si voltò, seccato.

Oh, uhm.

Sullo sgabello accanto a lei si stava sedendo una ragazza stupenda. Lunghi capelli rossi a onde, labbra piene, sguardo affabile; un po’ brilla da come traballava, ma niente male. L’aveva già vista da qualche parte.

-         Ehm… ci conosciamo? – fece, mentre il barista gli porgeva un bicchierone pieno di un intruglio rosa.

Lei sbattè le ciglia, civettuola.

-         Ti sei già dimenticato di me? Ci siamo conosciuti alla festa di anniversario degli Shefferd. –

Ron continuò a fissarla, perplesso.

Ci aveva pure parlato, con questa sventola? Alla festa? Non si ricordava minimamente. Quando ripensava a quella sera, l’unica cosa che gli veniva in mente era stato il momento fantastico in cui si era reso conto che Hermione era gelosa di lui.

-         Oh, ma certo. Mi ricordo. – sorrise, ma ghignò, più che altro. Pessimo a mentire, come al solito.

Lei finse di non accorgersene, troppo impegnata a bere un cocktail arancione con una mano e reggere una sigaretta tra le dita con l’altra per fare l’offesa.

-         Sono Rachel. – sorseggiò il cocktail dalla cannuccia, guardandolo. – allora, Weasley. Sbaglio o sei una promessa del Quidditch e anche un discreto Auror? –

-         Faccio solo qualche partita la domenica pomeriggio – balbettò il ragazzo, grattandosi nervosamente la nuca. – e sto ancora frequentando il corso per diventare Auror. –

-         Sciocchezze, non essere modesto – ride soavemente lei, avvicinandoglisi. – Cloe non fa che parlare di te, e lei è così selettiva. Se le piaci, un motivo ci sarà. – disse, continuando a parlargli a dieci centimetri dal viso.

Cominciava a farsi piuttosto caldo, cavolo.

Indietreggiò fino ad urtare il bancone del bar.

-         Oh, ecco il tuo aperitivo – Rachel passò un braccio attorno a lui per afferrare un bicchierone di liquido rosa e glielo porse. – una vera bomba, ottima scelta. Il prossimo giro te lo offro io. – gli fece l’occhiolino.

Ron inarcò le sopracciglia e sorseggiò, diffidente.

Oh, uau. Davvero buono. Non erano passati trenta secondi che era già a metà. E non aveva nemmeno l’aria di essere così forte, l’alcol si sentiva appena.

Ringalluzzito dall’atmosfera festosa, dalle attenzioni di Miss Mondo di cui si era già dimenticato il nome e dagli oscuri effetti del cocktail rosa, si sentì molto più disteso e rilassato. Perfino la prospettiva di dover andare a lavorare domani era piacevole. Riusciva a vedere tutto in una visione molto positiva, mentre Rachel gli parlava e lui non l’ascoltava. Domani avrebbe cominciato a trasferire i suoi mobili nell’appartamente.

E tre giorni, soltanto tre giorni dopo sarebbe andato a vivere con Hermione.

Era uno di quei momenti in cui non ti accorgi di avere stampato in viso il sorriso beato di chi è felice.

 

Sinister era più vecchio e avvizzito di quanto ricordasse.

Quando la ragazza era entrata nel negozio, l’aveva squadrata silenziosamente per poi andare nel retrobottega e tornare con un pacchetto polveroso.

La stava aspettando.

Ginny si avvicinò titubante al bancone.

-         Devo… - mormorò. – prendere… qualcosa per conto di… -

-         Lo so – tagliò corto Sinister. – sono stato avvertito. – le porse il pacco. – riferisci alla signora Lestrange che questo è tutto ciò che sono riuscito a reperire; al momento fare questo tipo di ricerche mi è difficile. Sospetta di me. –

La ragazza aggrottò le sopracciglia.

-         Chi sospetta di lei? –

La porta del negozio si aprì con uno scricchiolio.

Sinister abbassò immediatamente lo sguardo con espressione rispettosa ed improvvisamente molto tesa. Lo vide impallidire.

Accanto a Ginny, comparve una figura alta e minuta. Aveva lunghissimi capelli biondi.

Le lanciò uno sguardo glaciale.

Era Narcissa Malfoy.

A Ginny venne istintivamente da abbassare lo sguardo nello stesso modo di Sinister, ma si trattenne. Non riuscì però a non arretrare leggermente.

- Sinister – disse. La sua voce era come un soffio d’aria fredda. – desidero parlarle immediatamente di una questione importante. –

Le mani rugose di Sinister stringevano la scatola di Ginny con una tensione anormale, come se tentasse di tenerla fuori dal suo campo visivo.

Prima che Ginny potesse accorgersene, gliel’aveva messa tra le mani bruscamente.

-         Sparisci – le intimò, guidando poi la signora Malfoy nel retrobottega.

La donna le lanciò un’ultima occhiata e Ginny si sentì mancare il respiro.

Lo stesso sguardo.

Non potè fare a meno di distogliere gli occhi.

Chissà se l’aveva riconosciuta? Chissà se sapeva?

Chissà se aveva mai saputo?

Le domande che urlavano nella sua testa le impedivano di pensare ragionevolmente.

Barcollò fuori dal negozio e tentò di ritornare lucida.

Cominciò a camminare rapidamente.

Okay, per cosa si stava agitando, esattamente? Non era successo nulla. Le era capitato di vedere altre volte Narcissa Malfoy. Certo, mai da così vicino.

E certo, era davvero strano che si fossero ritrovate entrambe da Sinister lo stesso giorno, nello stesso momento. E perché Sinister aveva assunto quell’espressione tesa, quando l’aveva vista arrivare? Da quello che ne sapeva, i Malfoy e lui erano praticamente padroni e servitore. Si aspettava rispetto.

E quando Narcissa Malfoy si era avvicinata al bancone, le aveva subito nascosto la scatola…

Ginny si fermò. Il pacchetto era ancora chiuso tra le sue braccia. Chiuso, ma senza alcuna protezione. Sarebbe bastato alzare il coperchio anche leggermente.

Non le era stato proibito, giusto? Bellatrix non ne aveva fatto parola. E lei era una quasi Mangiamorte, in fondo. Era un suo diritto, sapere.

Naturalmente, l’idea che potesse essere qualcosa di pericoloso non la sfiorava minimamente.

Continuava a fissare la scatola, indecisa. La mano destra si mosse da sola.

Le dita sfiorarono appena il coperchio, fecero leggermente leva. Lo sollevò con cautela.

Qualcosa di luminoso saettò fuori dalla scatola come un minuscolo fulmine e Ginny ebbe appena il tempo di chiudere la scatola prima che quel qualcosa sfuggisse del tutto.

Del fumo bianco luminoso ritornò al suo posto con un piccolo sussulto.

Ginny non impiegò più di qualche secondo per rendersi conto che si trattava di un ricordo.

Un ricordo? Quindi quella scatola era una specie di Pensatoio? Era possibile fare una cosa del genere?

Avrebbe voluto aprire del tutto la scatola, ma a quanto pare i ricordi erano molto rapidi e temeva di disperderli; inoltre era…

-         Cosa fai nel bel mezzo della strada? – l’apostrofò improvvisamente una voce brusca.

Come aveva potuto essere così stupida? Era nel bel mezzo di Nocturn Alley, era vero. Non poteva andarsene in giro aprendo scatole oscure. Tanto valeva cucirsi una bandiera col Marchio Nero e sbandierarsela appresso inneggiando al Signore Oscuro con un megafono.

Alzò lo sguardo e di colpo la tensione si sciolse.

Era Tonks.

Si guardarono per un lungo attimo negli occhi. Ginny non dovette nemmeno togliersi il cappuccio. Nello sguardo di Tonks ci fu quasi subito un lampo di comprensione.

Rimasero in silenzio.

Cosa si doveva fare, in questi casi? Non potevano certo abbracciarsi ed andare a prendere allegramente un caffè insieme.

Tonks accennò con la testa ad un vicolo ed entrambe, l’una piuttosto lontana dall’altra, vi si infilarono con discrezione.

Ginny si levò il cappuccio.

-         Ginny! – sussurrò in un fiato Tonks, nella penombra, con aria concitata. – cosa ci fai qui? Non ti avevo riconosciuta. - la squadrò. – ne deduco che è andata bene, giusto? –

La ragazza prese il respiro. Non aveva quasi le forze di parlare. Era talmente strano vedere una faccia che la guardava con un’espressione così sinceramente preoccupata. Le sembrava di stare guardando i ricordi di una sua vita passata.

-         Sì – disse, cercando di tenere ferma la voce. – è andata bene. Lupin mi aveva consigliato di non contattare nessuno i primi giorni. –

-         Certo, sarebbe stato sospetto. – si fermò un attimo, fissandola. – … stai bene? Pensi di farcela? –

Già.

Una domanda piuttosto ricorrente anche per se stessa.

Tutte le sere e tutte le mattine se lo chiedeva.

Pensi di farcela?

Forse ti sopravvaluti.

Pensi davvero di farcela?

E la risposta?

Meglio evitarla.

-         Mi hanno mandato qui per prendere questa da Sinister – disse, accennando alla scatola. – non ho idea di cosa sia, ma credo contenga dei ricordi. –

Tonks fece per dire qualcosa. La guardò, si arrese.

Rivolse la sua attenzione al pacchetto.

-         Ricordi? Di che tipo? –

-         Non lo so; ho provato ad aprirla e stava per sfuggirmene uno. –

-         L’incantesimo che li tiene insieme dev’essere molto debole. – la osservò ancora. – mi domando se sia il caso che ci dia un’occhiata. –

-         Qui? –

-         Non avremo altre occasioni. Temo solo di rovinarli. I ricordi sono così fragili… se uno uscisse dall’incantesimo, sfumerebbe e non ci sarebbe modo di recuperarlo. Finiresti nei guai. –

Ginny la fissò. Poi, le porse il pacchetto.

-         Correrò il rischio. – disse, seria.

Tonks fece un mezzo sorriso. Prese con delicatezza la scatola.

-         Temevo che l’avresti detto. – mormorò.

Si addentrò un po’ di più nel vicolo e disse a Ginny di rimanere all’inizio per controllare che non passasse nessuno.

La ragazza la vide con la coda dell’occhio rannicchiarsi in un angolo, estraendo la bacchetta, per poi sollevare con estrema cautela il coperchio della scatola. Avrebbe voluto vedere anche lei, ma era troppo lontana.

Per un po’, Tonks rimase in silenzio con la testa bassa sulla scatola. Sussurrava formule ogni tanto. Era proprio come vedere qualcuno guardare in un Pensatoio.

Ad un certo punto, stette tanto tempo in silenzio che Ginny non potè fare a meno di voltarsi.

-         C’è qualche problema? – domandò, cercando di tenere la voce bassa.

-         No – disse la donna, dopo un attimo. Aveva l’aria un po’ perplessa. – no, direi di no. –

Ginny aggrottò le sopracciglia.

-         Dalla tua espressione, non si direbbe. –

Tonks aveva ancora un’aria perplessa.

-         E’ solo… mi domando a cosa servano questi ricordi. Sono… forse è il caso che veda tu stessa. –

Tonks si alzò, mantenendo la bacchetta, che emanava una pallida luce azzurrognola, puntata sulla scatola. Ginny si avvicinò e si scambiarono di posto.

-         Te ne basterà uno – mormorò la donna mescolando i ricordi, che formavano una specie di minuscolo tornado bianco.

Ginny si inginocchiò e guardò nella scatola.

Si sentì come aspirata da un enorme aspirapolvere, trascinata bruscamente per l’ombelico, e chiuse istintivamente gli occhi.

Si sentì ricadere a sedere da qualche parte.

Silenzio.

Solo una musica lontanissima, quasi impercettibile, di una canzone che le sembrava di aver sentito molti anni prima.

Aprì le palpebre.

Si trovava in una stanza a dir poco enorme. Lei era seduta davanti ad una scrivania di legno bianco, ordinatissima. Appoggiata ad una parete c’era una gigantesca libreria senza uno spazio vuoto; accanto ad un'altra c’erano due poltrone che si fronteggiavano. C’era un piccolo caminetto, un grande letto con lenzuola di un bianco accecante, come se nessuno le avesse mai nemmeno sfiorate con lo sguardo, ed una finestra piccolissima che, in confronto allo sfarzo del resto della stanza, sfigurava tantissimo.

La camera era così grande, ma dava la sensazione di soffocare.

Solo dopo qualche secondo si accorse che sul letto c’era qualcuno.

Si alzò piano dalla sedia, dimenticandosi che, essendo in un ricordo, nessuno poteva sentirla.

Si avvicinò cautamente al letto e il cuore le mancò un battito.

Era Draco. Lì, steso, in silenzio, che guardava il soffitto con occhi vuoti. Ne era sicura, ma per un attimo ebbe addirittura il dubbio che non fosse lui.

Era molto, molto giovane. Non aveva nemmeno la faccia di quando l’aveva visto per la prima volta in tutta la vita.

Non doveva avere più di undici anni.

Per un tempo indefinito, rimase immobile, pietrificata, a guardarlo. Lui continuava a fissare davanti a sé, perso in chissà quali pensieri. L’aspetto era quello di un bambino, ma l’espressione era perfettamente identica a quella del Draco che conosceva.

Tuttavia, aveva qualcosa di strano. Era come se non avesse… come se non avesse ancora imparato ad assumere completamente quell’espressione indifferente. La fronte leggermente corrugata incrinava l’imperscrutabilità del suo viso, come un sipario aperto a metà sul palcoscenico.

Evidentemente, non era nato con la capacità di non lasciare trasparire i suoi pensieri.

Passarono diversi minuti, ma non succedeva nulla. Ginny non riusciva a domandarsi se presto sarebbe successo qualcosa: non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quell’espressione.

La porta si aprì con un botto, sbattendo contro la parete, e Ginny sussultò spaventata. Draco parve ritornare indietro dai suoi pensieri e scattò in piedi.

-         Perché mai hai detto a Silente quelle stronzate? – urlò Lucius Malfoy, di qualche anno più giovane, avvicinandosi con passi minacciosi al figlio. Aveva gli occhi azzurri iniettati di sangue, e sembrava furioso.

Perfino Ginny arretrò istintivamente.

Draco non fece nessun passo indietro, ma chinò la testa, irrigidendosi.

-         A cosa ti riferisci? – disse. Aveva una voce così diversa.

Lucius sembrava fuori di sé.

-         Non rivolgerti a me con quel tono, Draco, non permetterti! – urlò, ancora più forte. Troneggiava su Draco in modo spaventoso. – ‘mio padre è molto impegnato. Mio padre è sempre fuori casa, ma non so che cosa faccia…’: sei totalmente impazzito? Ti devo rinchiudere? Silente non è un idiota, perlomeno non del tutto. Se gli dici queste cose, si metterà in testa chissà quali idee. E non dobbiamo permettere che pensi, e tu lo sapevi, Draco, ma hai dovuto comunque complicare le cose! –

Draco alzò la testa, improvvisamente lo sguardo smarrito.

Ginny ebbe un tale tuffo al cuore che si domandò come quel padre potesse continuare a urlargli contro senza notare quello sguardo.

-         Io… non lo dicevo per complicare le cose – disse Draco, confuso. – era per dire che lavori tanto… -

-         Non tirare fuori scuse così poco credibili, Draco! Cosa sei, stupido? Ho un figlio stupido? Rispondi! –

Draco abbassò di nuovo la testa.

-         No. - mormorò, piano.

-         Ah, dici così? Eppure, quello che hai detto è da stupidi! Come pensi di giustificarti? –

Prima che Draco potesse dire una sola parola, Lucius lo schiaffeggiò; così forte che sembrò un pugno.

Ginny urlò istintivamente, e altrettanto istintivamente si parò contro Malfoy. Ma l’uomo le guardava attraverso, con disprezzo, verso il figlio. Draco era riuscito a malapena a mantenersi in piedi; si asciugò il sangue che usciva da un taglio sul labbro sulla camicia bianca.

-         Che questo ti serva da lezione, e questo è solo l’inizio di ciò che subirai se ti comporterai inadeguatamente un’altra volta! –

Draco sembrò dire qualcosa, ma Ginny non riusciva più a sentirlo. Prima che potesse rendersene conto, era di nuovo in quel vicolo di Nocturn Alley, inginocchiata sul cemento.

Le bruciavano gli occhi ed aveva un nodo in gola.

Tonks richiuse con attenzione la scatola.

-         Ti viene in mente qualche motivo per cui ai Mangiamorte dovrebbero importare dei ricordi di Draco Malfoy? – chiese, aggrottando le sopracciglia.

No, non le veniva in mente, ma al momento non le importava nulla.

Non riusciva a far altro che immaginare se stessa, a undici anni, in quella stessa situazione. Come avrebbe potuto affrontarla? Come sarebbe riuscita a superarla?

Ma soprattutto, in un susseguirsi di situazioni simili, come sarebbe stata, ora, a diciotto anni?

Come sarebbe diventata?

-         Non… non lo so. – riuscì a dire. – devo vedere gli altri. –

Tonks scosse subito la testa, restituendole la scatola ben chiusa.

-         No, è pericoloso. E’ meglio non stare qui troppo a lungo, siamo state fin troppo fortunate. Riferirò agli altri la cosa e ci penseremo. –

Ginny si rimise il cappuccio, titubante. Non riusciva a scrollarsi di dosso una sensazione di gelo, come se le fossero rimasti attaccati alla pelle delle lamine di ghiaccio dopo un’immersione in acqua fredda.

Voleva vedere.

-         Ginny, promettimi che per ora non indagherai oltre. Cercherò di contattarti nei prossimi giorni, sperando che la mia lettera ti arrivi. Va bene, Ginny? E’ assolutamente basilare che non sembri troppo interessata a quello che vogliono fare. Prometti. –

Ginny la fissò, titubante.

Tonks le strinse il braccio.

-         Ginny… – la richiamò, severa.

-         Sì – espirò finalmente Ginny. – sì, prometto. –

La donna annuì lentamente.

-         Sarà meglio che ci separiamo. – disse, in tono più tranquillo. – vuoi… che riferisca qualcosa a qualcuno da parte tua? –

A Ginny, istintivamente, venne in mente la lettera che aveva spedito quella notte.

Avrebbe voluto sprofondare.

Fosse tornata indietro, non l’avrebbe mai scritta.

-         Salutami… tutti. – disse soltanto.

Tonks sorrise leggermente.

Nessuno le vide uscire dal vicolo insieme, né separarsi.

Nessuno si accorse di nulla.

Dopo aver subito mille delusioni, mille inganni…

dopo essersi accorti che al mondo la maggior parte degli esseri umani fa promesse che sa di non poter mantenere, come puoi aspettarti che io sia diversa?

 

Gli sembrò di scivolare e sussultò, svegliandosi di soprassalto.

Accidenti, odiava quando gli succedeva.

Aveva le palpebre pesanti e non appena tentò di aprirle, un dolore lancinante alla testa e una vaga nausea lo colpirono in pieno.

A poco a poco, stringendo forte le palpebre, cercò di capire se era ancora vivo e, nel caso fosse morto, come diavolo aveva fatto.

Vuoto assoluto.

Si costrinse ad aprire gli occhi. L’orologio sul comodino segnava le sette e tredici del mattino. Era così presto… tiepidi raggi di sole filtravano dalla finestra.

Una finestra che non conosceva.

Scattò a sedere, confuso, ma immediatamente la testa riprese a fargli un dolore accecante.

Era una stanza sconosciuta. Armadio sconosciuto, tende sconosciute, scrivania sconosciuta, letto sconosciuto, profumo diffuso sconosciuto… e guardò accanto a sé.

Ragazza sconosciuta che dormiva. Nuda.

Se le sue sensazioni fossero state una pallina su un piano, una pallina che poteva salire e scendere a seconda delle situazioni positive e negative, quello non poteva che essere il principio di una lunga discesa.

Cercò di raccogliere i ricordi, e si odiò quando non riuscì a mettere in ordine i pensieri.

Concentrati, concentrati, concentrati, concentrati…

Era uscito da casa di Hermione… non sapeva cosa fare… era andato alla festa a cui Cloe l’aveva invitato… e poi?

E poi, non si ricordava assolutamente nulla. Per quanti tentativi facesse.

Lo sguardo gli cadde sul pavimento. I suoi vestiti di ieri. Sul pavimento. Si rese conto di non essere vestito.

No. No. No. No.

Ci dev’essere un errore.

Con lo stomaco annodato, scrollò la ragazza piuttosto bruscamente.

-         Ehi! Svegliati! –

Lei mugugnò qualcosa. Sollevò con lentezza esasperante una cascata di capelli rossi ed aprendo le palpebre lasciò intravedere dei begli occhi azzurro chiaro.

-         Cosa c’è? – borbottò. – diavolo, che mal di testa… -

-         Che cosa ci faccio qui? – disse Ron, senza mezzi termini. – cos’è successo? Chi sei? –

-         Oh, non urlare – fece la ragazza, grattandosi la nuca mentre si metteva a sedere. – dov’è il mio reggiseno? –

-         Ascoltami – disse, afferrandola per un braccio. – dico sul serio. Cos’è successo? –

La ragazza lo guardò, poi fece un sospiro pesante.

-         Mamma mia, eri proprio andato, eh? – scrollò le spalle. – pensavo lo reggessi meglio l’alcol. E poi… devo dire che non sembravi affatto andato. Anzi, piuttosto sveglio, devo dire. -  aggiunse, stiracchiandosi con un sorrisetto.

La pallina scendeva a velocità vorticosa.

-         Che significa? – chiese Ron, a voce più bassa, però. Aveva sempre di più la sensazione di non volerlo sapere.

-         Oh, è davvero un peccato che non ti ricordi… anch’io ero parecchio ubriaca, ma accidenti, io non me lo sono mica scordato… -

La ragazza guardò la sua espressione confusa e atterrita. Sbattè le ciglia, seccata.

-         Mi sembra chiaro che abbiamo fatto sesso – disse, come se fosse la cosa più normale del mondo. – anzi, potevi essere più carino e fingere almeno di ricordartene, visto che la situazione mi sembra piuttosto evidente. –

La pallina scendeva, scendeva, scendeva, scendeva, scendeva…

-         Non è possibile – disse Ron. Stava impallidendo.

-         Eccome, invece – disse lei, offesa. – anzi, sei stato proprio tu a farmi le avances. Quando siamo andati via dalla mia festa, mi hai chiesto tutto allegro se potevi venire a casa mia, e, beh, le conseguenze erano ovvie… -

Ron non riusciva a muoversi.

- La tua festa? –

- Rachel! – chiamò all’improvviso una voce fuori dalla porta. – Rachel, la colazione è pronta. Dai, che dobbiamo andare a lezione… -

La porta si aprì che lui aveva appena afferrato la maglietta.

Cloe Shefferd era sulla soglia, immobile, in vestaglia. Smise di parlare. Il suo sguardo passò da Ron, a Rachel, ai vestiti per terra. Anche lei impallidì.

Gli occhi corsero subito a Rachel.

-         Rachel – disse, con voce tremante. – spero… spero vivamente che non sia come sembra. –

La ragazza sbuffò, mettendosi una vestaglia pescata in fondo al letto.

-         E invece è proprio così – esclamò, con un sorriso trionfante. – esattamente come sembra. Invidiosa, eh? –

Ron non aveva parole. Non aveva respiro. Quello doveva essere un incubo, un orribile allucinazione. Nella realtà non gli succedevano cose così terribili. Succedevano nei film. Succedevano agli altri.

-         Voi… siete parenti? - balbettò, annodandosi nel più completo imbarazzo la cintura dei jeans. Si mise la maglia e rimase così, assolutamente pallido e inerme.

-         Cugine – cinguettò Rachel. – visto, Cloe? Altro che ‘irragiungibile’. E’ bastato un po’ d’alcol, e voilà. –

Cloe sembrava furibonda. Era tutta rossa in viso e fissava Rachel.

-         Tu l’hai fatto ubriacare? –

-         Beh, non propriamente… -

-         Rachel – disse. La voce le tremava di rabbia. – tu l’hai fatto ubriacare e te lo sei portato a letto? Nonostante tutto quello che ti avevo detto? –

La ragazza aggrottò le sopracciglia, sulla difensiva.

-         Ehi, non è mica tutta colpa mia! Anche se era ubriaco, insomma, prenditela anche con lui! –

Prima che potesse continuare, Cloe la schiaffeggiò.

      -    Ma che diavolo… -

-         Rachel, io ti avevo detto la situazione! Lui ha una ragazza! –

Rachel si accarezzava la guancia, offesa.

-         Eh, che dramma! E poi, la sua ragazza non glielo fa fare. Me l’ha detto. –

Ron non si era mai sentito così male in vita sua. Avrebbe preferito del dolore fisico. Perfino il mal di testa era passato in secondo piano.

Cloe non sembrava nemmeno ascoltarla.

-         Tu hai sfruttato in un momento di debolezza una persona già occupata! Come hai potuto? Io so che non sei una persona del tutto cattiva, come hai… -

-         Ma quanto la fai lunga! – replicò Rachel, ormai piuttosto alterata. – dici così solo perché non hai avuto tu l’idea per prima! Era esattamente quello che avresti voluto fare, ma sei stata troppo codarda per farlo! Non venire a fare la paladina delle fidanzate altrui con me! –

-         Io… io non avrei mai fatto una cosa del genere – disse, tremante. – mai. Questo è disonesto. Questo… -

-         Io… - disse improvvisamente Ron. Cloe e Rachel si voltarono a guardarlo. Era sempre più pallido, innaturalmente. – io devo andare. –

Afferrò la bacchetta che era finita per terra.

Cloe gli si avvicinò, preoccupata.

-         Ron, va tutto bene? Hai una pessima cera. Senti, non ti devi preoccupare. Rachel è una cretina – non lasciò che la ragazza si difendesse, continuando a parlare. – non conta niente. Non devi sentirti in colpa. Non è con te che te la devi prendere. Promettimi che non ti sentirai in colpa.-

Ron la fissò senza realmente vederla.

-         Io… devo andare. –

E si Smaterializzò.

 

Non sapeva perché, ma il primo posto in cui aveva pensato di Smaterializzarsi fu casa di Hermione.

Un’idea davvero pessima, tutto sommato, considerate le sue condizioni.

La sua mente era svuotata. Come se un maremoto avesse spazzato via ogni genere di vita, di pensiero. Ora si sentiva solo un fischio debole. Forse era la sua coscienza che stava morendo.

Era tutto sudato, spettinato, impresentabile.

Si sentiva come se lo avessero riempito di pugni. Senza fiato, dolorante, terrorizzato.

Eppure, le sue dita, i suoi occhi, in quel momento non desideravano altro che lei.

Come se potesse essere un ritorno alla realtà.

Ignorò totalmente che il galateo gli imponeva di Materializzarsi fuori dalla casa e suonare alla porta; si ritrovò direttamente in camera di Hermione.

Erano le sette e trentadue e lei stava mettendo i libri nella borsa, perfettamente sveglia e mattiniera come al solito.

Quando lo vide comparire, sussultò.

-         Ron! – esclamò. – mi hai fatto prendere un colpo! Cosa ci fai qui? Ho l’esame tra un quarto d’ora… -

Poi si accorse delle sue condizioni. Sembrava che avesse corso per giorni tanto pareva distrutto.

-         Cos’è successo? – chiese, aggrottando le sopracciglia preoccupata. – non stai bene? C’è qualche problema con Harry? –

Non fece in tempo a fare altre domande che Ron le si avvicinò all’improvviso e l’abbracciò.

L’abbracciò forte forte, col cuore che batteva a mille, e strinse forte le palpebre, come per cancellare le immagini che gli tornavano alla mente.

Hermione, perplessa, arrossì, sorpresa da tanto slancio. Le braccia di Ron la stringevano saldamente, impedendole qualsiasi movimento, come se non volesse lasciare che si allontanasse.

-         Ron – bisbigliò, affondando il viso nel suo petto. – cosa c’è? Hai perso a scacchi? –

Lui la strinse più forte.

-         Io… - disse, parlando per la prima volta. – volevo augurarti buona fortuna per l’esame. –

Non poteva dirglielo.

Non poteva.

Non vedeva vie d’uscita.

Preferiva vivere cent’anni con quel senso di colpa piuttosto che vedere la faccia di Hermione se glielo avesse confessato.

Non poteva dirglielo.

Non poteva diglielo.

Non posso dirglielo!
- Ron, beh, ti ringrazio – fece Hermione, imbarazzata. – ma io dovrei proprio andare, ora… -

Dovettero passare diversi secondi prima che lui la lasciasse andare. Lei era rossa come un peperone. Improvvisamente non aveva più tanta voglia di andare a dare l’esame.

Evitò accuratamente il suo sguardo.

-         Bene, direi che ci vediamo dopo. – mise la borsa in spalla, poi si costrinse a guardarlo. Aveva uno sguardo così strano. – sicuro che va tutto bene? –

Lui tentò di sorridere. Sollevare gli angoli della bocca gli sembrò uno sforzo immane.

-         Sì. – disse, con la voce leggermente roca. – sì, tutto bene. –

-         Non hai lezione, stamattina, giusto? – fece Hermione, con aria critica. – vai a farti una bella dormita, che sembri distrutto. Okay? Promesso? –

-         Okay – disse Ron, annuendo lentamente. Lui guardava Hermione, e dentro di sé gridava. – promesso. –

Dopo essersi accorti che al mondo la maggior parte degli esseri umani fa promesse che sa di non poter mantenere…

Come puoi aspettarti che io sia diverso?

 

 

**

 

Mamma mia, che ritardo esorbitanteO_o Non me n’ero accorta! <- complimenti…

Scusate, ma sono stata e sono davvero indaffarata. Non riesco bene a valutare nemmeno la lunghezza di questo capitolo, spero che non sia troppo breve/troppo lungoXD

Ah, a proposito, ormai è inutile che cerchi forzatamente di ignorare il fenomeno dello Spuntino di Mezzanotte (leggasi commenti)! Maledetta Cri, ha creato un business!XDD Il problema è che ora se devo tirare in ballo il nostro caro Rodolphus, che io ho sempre immaginato come figura tenebrosa ed enigmatica (e con la faccia di Clive Owen, ma non chiedetemi perché), non posso fare a meno di ridere! Tra l’altro non è nemmeno mia intenzione cercare di frenare questo fenomeno dilagante, perché mi sganascio in modo vergognoso (da sola, davanti al computer. Credo che i miei genitori comincino a preoccuparsi). Go, Cri, go (in realtà la perdono soltanto perché per Natale mi ha regalato la versione rilegata e con copertina, stile libro, di UMC*_* Perciò suppongo di doverle una percentuale dei profitti)! Detto ciò, continuate a seguire le magiche avventure dei cuochi Mangiamorte! <- ma dovrei dire della fic! Oh, beh, pazienzaXD

Credo di aver finito gli argomenti scemi e pure quelli seri (che non avevo nemmeno prima, mpf).

Come al solito, vi ringrazio davvero tantissimo per i commenti. Magari fossero sempre tutti gentili come voi°_° Sono allibita! Grazie, grazie, grazie!

Ah, se vi capita, ascoltate ‘Spaccacuore’ di Bersani, è una canzone bellissima, secondo me (anche se effettivamente è piuttosto vecchia, perciò l’avrete già sentitaXD).

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 9
*** Something blue ***


SOMETHING BLUE

SOMETHING BLUE.

 

[Qualcosa di triste]

 

 

 

“Like the naked leads the blind                    “Come il nudo guida il cieco
I know I'm selfish, I'm unkind                         
so di essere egoista, di essere odioso
Sucker love I always find                                
trovo sempre l’amore più facile
Someone to bruise and leave behind              
qualcuno da ammaccare e abbandonare
All alone in space and time                            
 completamente solo nello spazio e nel tempo
There's nothing here                                       
 non c’è niente qui

but what here's mine                                       ma quello che è qui è mio
Something borrowed, something blue           
qualcosa in affitto, qualcosa di triste
Every me and every you                                
 ogni me e ogni te
Every me and every you.”                              
ogni me e ogni te.”

 

 

 

“Every me, every you”, Placebo.

 

 

 

 

Harry lasciò cadere per sbaglio un po’ di caffè sul libro quando lo seppe.

Aveva appena cominciato a studiare e prima che potesse accorgersene Ron si era materializzato nel suo appartamento pallido come un cencio.

In una specie di stato confusionale, aveva borbottato qualcosa si incomprensibile e si era seduto sul letto con la testa tra le mani.

Harry l’aveva visto abbattuto, triste, disperato altre volte, ma stavolta era difficile capire quale sensazione prevalesse. Gli aveva chiesto insistentemente cosa diavolo avesse, gli aveva perfino tirato un calcio nello stinco, ma Ron non aveva più detto una parola, come se non ne fosse più in grado.

Chiunque altro probabilmente avrebbe insistito fino all’esasperazione, ma Harry, dopo un buon quarto d’ora, aveva deciso di lasciarlo lì, nonostante lui stesso avesse un pessimo, pessimo presentimento che gli pesava nella gola, e aspettare che si alzasse da quel letto.

Stava appunto bevendo dalla sua tazza di caffè quando Ron aveva alzato la testa e l’aveva detto.

-         Ho tradito Hermione. –

Il resto, sembrava preso da un telefilm di bassa categoria.

E Harry, stranamente, ne rimase più scosso di quanto mai si sarebbe immaginato.

Sapeva che Ron era facile a cadere nel flirt, che la sua pseudo ingenuità ed immaturità, la sua ‘faciloneria’, gli avevano causato problemi con Hermione praticamente da sempre. Ciò non toglieva che per quanto a parole fosse a volte un po’ troppo arrogante, nei fatti non aveva mai fatto nulla che potesse ferire Hermione, perlomeno non da quel lato.

E ora aveva commesso l’errore più clamoroso e ovvio che si potesse fare.

Ma dal punto di vista di Harry, tutto questo era troppo strano, troppo incredibile. Era come aver sempre creduto che la Terra sia tonda per poi scoprire che in realtà è piatta.

Conoscendo così bene Ron, era forse stato un ingenuo a credere che una cosa del genere non potesse capitare?

Forse l’amicizia ti spinge a vedere qualcos’altro rispetto alla persona a cui vuoi bene; forse non è qualcosa di migliore rispetto a ciò che veramente è, semplicemente qualcosa di diverso.

-         Harry – disse Ron. Aveva una voce così strana. Lo fissò. – non posso dirglielo. Non posso. Ma non posso neanche non dirglielo. –

Harry lo guardò. Era come vedere qualcuno annegare senza potergli nuotare incontro per aiutarlo.

Cos’avrebbe dovuto consigliargli? Qual era, davvero, la cosa giusta da fare?

Che la cosa più giusta coincidesse con la più conveniente… probabilmente era fuori discussione.

Ma chi l’ha detto, poi?

-         Ron – disse Harry, con tono più fermo di quanto lui stesso fosse. Ron si voltò a guardarlo, un’espressione così speranzosa che sembrava più giovane di almeno dieci anni.

Su Harry gravava, proprio allora, proprio in quel momento, un’enorme responsabilità.

-         Ron. Tu non puoi e non devi dirglielo. – disse, senza distogliere lo sguardo.

L’amico lo fissò.

-         Ne sei sicuro? –

Un’enorme responsabilità.

-         Sì – disse, aggiustandosi gli occhiali. – ne sono sicuro. –

-         Ma… -

-         Ron, io ne so quanto te. Non so quale sia la cosa giusta da fare, sinceramente, non so se ti sto consigliando bene. So solo che conosco bene sia te che Hermione. E so come lei la prenderebbe. Non mi piace per niente questa visione, perché poi so anche come la prenderesti tu. –

Ron abbassò lo sguardo. Non si stupì quanto avrebbe dovuto delle parole di Harry (non avevano mai speso tanto tempo a parlare di situazioni sentimentali e simili), era troppo concentrato a trovare una via d’uscita.

Nella sua testa vorticavano mille pensieri, vibravano come mille vespe.

Non poteva credere che al mondo milioni di persone tradissero, anche con una certa naturalezza.

Era la cosa più dolorosa che avesse mai fatto. Ed era già così senza bisogno di vedere l’espressione di Hermione nel caso l’avesse saputo.

Non poteva dirglielo. Non poteva non dirglielo.

Perché, perché, perché era così consapevole che in entrambi i casi avrebbe sofferto da morire?

Già: perché non poteva essere uno di quelli che se ne frega, di quelli che dicono ‘è stata solo una scappatella’ o magari ‘è stato solo un errore’?

Perché hai preso la pessima decisione di innamorarti, razza di idiota.

Come se fosse una decisione.

Diamine, non si decide di che colore avere i propri occhi. E nemmeno di innamorarsi.

E’ una cosa del tuo dna, è un fatto di cromosomi.

Non puoi cambiare, per quanto ti concentri, per quanto lo vuoi.

-         Quando rivedi Hermione? –

La voce di Harry lo risvegliò dai suoi pensieri. Si sentiva stanco, aveva ancora i postumi della sbornia, il dolore alla testa, il dolore da qualche altra parte che non riusciva a definire.

-         Penso passerà da casa mia dopo il suo esame. –

-         Va bene. Quindi hai almeno cinque ore di tempo. Tu ora stai qui e diventi una persona brava a mentire. –

Non stava scherzando. Sul viso di Harry non c’era l’ombra di un sorriso.

Ron lo guardò.

-         E come? –

-         Non lo so. Come gli animali si procurano il cibo, suppongo. Per sopravvivenza. –

Il ragazzo attese qualche istante. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere disteso sul letto.

Nessuno dei due disse più una parola nelle cinque ore successive.

 

-         Weasley! –

Bellatrix piombò nella sua stanza mentre lei dormiva.

Il suo primo istinto fu quello di nascondere Oliver (dopo tanto tempo, aveva finalmente deciso di dare un nome al bambino che aveva trovato… non sopportava l’idea che finora non avesse ancora un nome). Ma la culla era ripiegata in un angolo, e sopra c’era un biglietto di Tinker, che l’avvertiva di averlo portato fuori per prendere un po’ d’aria. Lo portava spesso a fare una passeggiata, la mattina, e Oliver sembrava gradire, dato che ormai aveva totalmente smesso di piangere ogni notte.

Ginny si catapultò giù dal letto per nascondere il biglietto dietro le spalle.

Bellatrix si limitò a fissarla con disprezzo, non fece commenti.

-         Oggi cominci l’addestramento. –

La ragazza la fissò.

-         L’addestramento? –

Bellatrix roteò gli occhi, annoiata.

-         Sì, sì, l’addestramento, sei sorda, per caso? Ti consiglio di vestirti in meno di dieci secondi e venire giù in cortile, tutti gli altri apprendisti ti stanno aspettando. Sei proprio una buona a nulla. –

Ginny incassò di malavoglia il colpo, ma non era in vena di discutere. Si vestì in fretta (‘niente veste, come pensi di riuscire a muoverti decentemente, altrimenti?’, l’apostrofò Bellatrix prima di uscire dalla stanza, come se parlasse con una minorata mentale) e saltando i gradini di pietra due a due scese più in fretta che potè.

Nel cortile dove Rodolphus l’aveva già portata, non c’era nessuno tranne il gruppo di ‘apprendisti’.

Eccoli, finalmente, senza veste.

Avevano più o meno la sua età, alcuni forse di meno: c’erano quel ragazzo e quella ragazza che aveva già visto il primo giorno, più due ragazzini che sembravano fratelli ed una ragazza alta e dall’aria arrogante. Accanto a lei, Pansy Parkinson, la quale la fulminò con lo sguardo non appena la vide.

-         Pensi di essere ad un aperitivo? – disse, acida, squadrando la gonna che Ginny si era infilata senza pensare. – ah, scusa, è vero. Dubito che una pezzente come te possa permettersi anche da bere. –

Ginny, per qualche motivo, sentiva da sempre un astio istintivo per quella ragazza. Già solo a vedere la sua faccia le prudevano le mani dalla voglia di schiaffeggiarla.

-         Devi avermi scambiata per qualcuno a cui interessa quello che hai da dire – replicò, senza riflettere. – non vi siete esattamente catapultati a dirmi che gli apprendisti devono fare un addestramento. -

-         Non pensavo ti ci volesse un’insegnante di supporto per capire queste cose così basilari – abbaiò Pansy. – credi veramente di essere nella forma adatta ad affrontare anche l’ombra di un mago potente? Ma guardati. L’unico modo per vincere un Auror per te sarebbe ammazzarlo di risate per la tua incapacità. –

-         E’ solo la tua brutta faccia a renderti così insicura, Parkinson, o anche il confronto con me? – le sfuggì, al culmine dell’irritazione.

Si guardarono negli occhi per un interminabile secondo di odio.

Bellatrix diede uno strattone a Ginny.

-         Weasley, non siamo all’asilo e io non sono una maestra. Se non la finisci, faccio finire all’altro mondo prima che tu possa guardarti intorno sbattendo le ciglia. –

Naturalmente, tra i Mangiamorte non vigeva il divieto dei favoritismi.

Bellatrix guardò il gruppo un’ultima volta, con l’aria di voler aggiungere qualcosa, poi lasciò perdere e li fissò uno ad uno come se avessero due anni.

-         Per chi di voi non fosse abbastanza acuto da capirlo da solo – lanciò un’occhiataccia a Ginny. – l’addestramento vi serve per mantenere una forma fisica e mentale tali da poter essere svegli e scattanti in qualsiasi situazione. Potete stare certi che gli Auror, in questo momento, stanno facendo la stessa cosa. Noi faremo di più. Se non imparate nel minor tempo possibile, siete fuori. Non mi importa se siete stanchi, non mi importa se non ce la fate. Questa non è una scuola, voi non pagate una retta e non avete libri su cui studiare. O ci sono risultati, o non ci sono, e non esistono reclami. –

Si voltò ed indicò il cortile che si estendeva dietro di lei, una distesa d’erba infinita; saranno stati almeno tre chilometri e mezzo di pianura totale.

-         Tutti i giorni, vi eserciterete a coppie secondo dei turni su questo rettilineo. Naturalmente, nessuno di noi Mangiamorte avrà tempo di starvi dietro, perciò dovrete autogestirvi. Rodolphus ha sprecato il suo tempo per darvi una tabella di marcia settimanale, perciò mi aspetto che la seguiate. –

Con aria estremamente annoiata, lanciò ad ognuno di loro una busta.

Ginny non poteva crederci. Non aveva idea che perfino i Mangiamorte badassero all’allenamento. Sapeva che anche gli Auror dovevano essere preparati fisicamente, e aveva visto un sacco di volte Harry e Ron distrutti dopo un allenamento, sebbene non fosse concesso loro di rivelare più del minimo indispensabile riguardo a quello che gli facevano fare.

Eppure, lei era convinta che i Mangiamorte si basassero solo sui loro bassi istinti, su una sorta di follia che li accomunava e su insegnamenti di tipo scolastico. Era anche vero che non c’era sempre il tempo di Materializzarsi e Smaterializzarsi, se cercavano di colpirti con un incantesimo. Bisognava essere svelti a muoversi e svelti a pensare.

Solo in quel momento si rese conto di quanta preparazione c’era dietro ad ogni vero combattente, che fosse Auror o Mangiamorte.

Sul foglio all’interno della busta c’era una tabella molto stilizzata e fatta svogliatamente, ma piuttosto chiara.

Velocità, resistenza, forza, abilità; quattro categorie per due livelli, quello fisico e quello mentale.

-         Ovviamente qualcuno di voi è ancora troppo stupido e inesperto per sapere in cosa consiste l’allenamento – stava dicendo Bellatrix, lanciandole un’altra occhiata. – perciò Rodolphus mi ha chiesto di mischiare gli apprendisti più nuovi con quelli che sono qui da più tempo e che conoscono già le modalità. Dunque… Jefferson e Michaels, voi due nel turno dalle sette del mattino alle dieci. Williams e Bingley dalle undici alle due. Parkinson e… -

Ginny pregò che non lo facesse.

-         Parkinson e Lewitt dalle due alle cinque. –

Lei ebbe appena il tempo di tirare un sospiro di sollievo prima di rendersi conto che era rimasta da sola.

Bellatrix si voltò a guardarla.

-         Oh, già. Qualcuno si dev’essere dimenticato di te. –

Controllati, Ginny, controllati.

Bellatrix a volte sembrava una versione più vecchia e (quasi) più odiosa della Parkinson.

-         Posso fare benissimo da sola – replicò Ginny, cercando di trattenere l’ultimo straccio di dignità che le rimaneva.

La donna inarcò le sopracciglia come se non la prendesse nemmeno sul serio. Guardò oltre la sua spalla e fece uno strano sorriso.

-         I ritardatari stanno con i ritardatari. – disse.

Tutti seguirono il suo sguardo. Parecchi metri più indietro, Malfoy stava camminando con assoluta comodità verso di loro.

La sensazione di Ginny fu terribilmente simile ad una secchiata d’acqua gelida sulla testa in pieno inverno.

-         Draco, cosa ti ha trattenuto tanto da arrivare in ritardo, come tuo solito? –

Il ragazzo arrivò accanto a Pansy, la quale fissava Ginny a bocca semiaperta e con gli occhi iniettati di sangue, come se pure lei stentasse a crederci.

Draco non tentennò minimamente, completamente ignaro, per una volta.

-         Forse il fatto che ritengo questi allenamenti assolutamente ridicoli ed inutili? –

-         E’ una spiegazione che mi dai tutte le volte da quando sei arrivato. E tutte le volte ti rispondo: non mi importa assolutamente nulla di quello che ne pensi. In coppia con Weasley, dalle cinque alle otto. –

Assestò il colpo come se niente fosse. Ginny non riuscì a impedirsi di osservare la sua reazione.

Draco sbattè lentamente le palpebre, inarcò le sopracciglia, sospirò.

-         Fammici pensare un attimo… no. –

Bellatrix gli sorrise freddamente. La tensione si poteva praticamente toccare con mano. Per quanto la donna fosse meno rispettata di Rodolphus, nessuno osava mai contraddirla per paura delle sue reazioni isteriche.

-         Ehm, odio ripetermi, Draco, ma… devo ribadire che non mi importa assolutamente nulla di quello che ne pensi. Chiusa qui la discussione. –

Malfoy non si scompose.

-         Non sono un apprendista, Bellatrix, per favore. E’ già tanto che sia venuto ad assistere. –

Ma Bellatrix lo ignorò totalmente, gli ordinò velocemente di iniziare e se ne andò.

Ginny era semplicemente terrorizzata all’idea di dover stare da sola con Malfoy per più di cinque minuti, e a tempo indeterminato (aveva una sorta di déjà-vu su questo punto), ma aveva sviluppato un buon sensore che accantonava, seppur momentaneamente, i pensieri peggiori. Ed era piuttosto divertente vedere che l’autorità di Draco tra i Mangiamorte non era poi indiscutibile.

Lui era diversi gradini più in alto di tutti gli apprendisti, ma non ancora a livello di Mangiamorte.

Pansy intervenne non appena vide lo sguardo di Malfoy, che nonostante una maschera di impassibilità, aveva l’aria di poter esplodere da un momento all’altro.

-         E’ inammissibile! – abbaiò immediatamente Pansy. – chi si crede di essere? –

Ginny non riuscì a trattenere una risatina isterica. La situazione era talmente assurda da essere ridicola.

Pansy la fulminò con lo sguardo.

-         E tu che hai da ridere? -

-         Oh, niente. Solo che mi sembra un po’ una contraddizione lamentarsi così, dopo che hai passato anni a vantarti del fatto che avresti fatto parte di questo posto. –

Malfoy si voltò a guardarla, ma non disse nulla.

Pansy era rossa di rabbia.

-         Beh, certo non si può dire lo stesso di te, vero, Weasley? – replicò. – la filobabbana per eccellenza, la donna storica di Potter. A me sembra una contraddizione che tu ti trovi qui. –

Ginny incrociò le braccia per nascondere le mani che le tremavano.

Tutti gli altri apprendisti le fissavano in silenzio.

L’espressione di Malfoy era impossibile da tradurre.

-         Alcune persone si evolvono, altre rimangono per sempre idiote. - disse, cercando di tenere un tono di voce fermo.

La Parkinson sembrava ad un passo dall’afferrare la bacchetta e puntargliela contro.

Ma Malfoy ghignò, posando una mano sulla spalla di Pansy con la più completa tranquillità.

-         Vi trovo molto divertenti, ma direi che qui tutti hanno cose più importanti da fare che vedervi dare spettacolo, perlomeno io. Ti consiglio di non infiammarti, Pansy; ho come la sensazione che l’unico scopo nella vita della Weasley sia fare incazzare il prossimo. –

Persino Pansy si stupì di quell’intromissione. Si voltò a guardarlo ed immediatamente si placò, come un cagnolino che smette di abbaiare dopo che il padrone gli ha ordinato di tacere.

Lanciò un’ultima occhiata a Ginny e seguì Malfoy lungo la strada verso il castello.

Gli altri apprendisti la fissavano in modi diversi. Alcuni avevano l’aria tra lo spaventato e il divertito, altri alzarono immediatamente i tacchi con disprezzo.

Rimase solo Lewitt; una ragazzina dall’aria gracile, la più giovane del gruppo: sembrava a malapena quindicenne.

-         Non avevo mai visto nessuno tenere testa alla Parkinson – disse Lewitt all’improvviso, squadrando Ginny con ammirazione. – è stato stranissimo. –

Ginny sbattè le palpebre, guardandola perplessa. Era la prima volta che uno dei Mangiamorte, apprendista o no, le parlava senza ombra di cattiveria o sarcasmo, tanto che per un attimo ebbe l’impressione che la stesse prendendo in giro.

Ma Lewitt continuò a guardarla con aria quasi rispettosa. Più Ginny la osservava, più sembrava piccola.

-         Beh – fece, senza saper bene cosa dire. – non è così difficile. Se sai mettere un alano al guinzaglio, puoi anche rispondere a tono a Pansy Parkinson. –

Lewitt fece un gran sorriso.

-         Mi chiamo Rose – disse, mentre si dirigevano verso il castello. – sono arrivata qui più o meno un mese fa. –

Ginny non potè trattenersi.

-         Scusami se te lo chiedo, ma posso sapere quanti anni hai? –

-         Sedici. Cioè, almeno tra due mesi. –

Lei non poteva crederci. Ma cosa se ne facevano, i Mangiamorte, di gente così giovane tra le loro fila? Ragazzini che magari conoscevano a malapena gli incantesimi più elementari?

-         Ehm… ma come mai sei venuta qui? Cioè… non sarebbe stato meglio finire la scuola? -

Rose non si scompose.

-         Anch’io… credo di averlo pensato – disse, aggrottando le sopracciglia. – non mi ricordo. Ma comunque è stata mia madre ad intercedere per me. Aveva provato anche l’anno scorso, ma Rodolphus non mi ha accettata. Però, quest’anno pensano tutti che io sia in grado di farcela, e non voglio deluderli. –

Ginny non riuscì a dire niente per qualche secondo. Cercava di immaginarsi una madre che per due anni consecutivi faceva di tutto perché la figlia quattordicenne potesse essere ammessa in una banda di assassini.

Arrivate nel castello, Rose guardò l’orologio a pendolo appeso nel corridoio.

-         Scusami, ehm, Ginevra, giusto? Devo correre a dare una ripulita ai pensatoi e poi c’è allenamento e subito dopo devo uscire per delle commissioni. Non farò mai in tempo… se trovo il negozio di Nocturn Alley chiuso, dovrò rimanere fuori tutta la notte finché non apre... –

Ginny la fissò.

-         I pensatoi? –

-         Sì. Lo so, è una noia ed è pure svilente – sembrava quasi imbarazzata. – ma sono gli ordini di Rodolphus e se trova la stanza dei pensatoi in disordine… -

A Ginny scattò qualcosa dentro. La stanza dei pensatoi, eh?

Oh, sì, sapeva cos’era quel qualcosa.

Moriva di curiosità.

-         E se andassi ora a fare le tue commissioni? Basta che mi indichi questa stanza dei pensatoi… e posso pensarci io a riordinarla. – sorrise, con aria più incoraggiante possibile.

Rose parve presa in contropiede; ma si vedeva che l’idea l’allettava non poco.

-         Ah, beh, non so, ehm… - borbottò, titubante. – Rodolphus mi ha detto che era un incarico che potevo fare solo io. Sai, c’è anche una formula d’accesso, non ci possono entrare in molti… -

Ginny le sorrise di nuovo, con aria materna.

-         Sono sicura che a Rodolphus andrà bene lo stesso. In fondo, siamo apprendiste entrambe, no? Basta che mi dici la formula d’accesso… -

Rose era chiaramente ad un passo dal cedere. Ginny la lasciò riflettere per i successivi dieci secondi, poi indicò l’orologio con aria eloquente.

Rose cedette.

 

Hermione uscì dall’università di ottimo umore.

L’esame non poteva essere andato male (oddio, era indecisa sulla risposta quattro, e anche sulla otto e la dodici e la ventinove… ma sulle altre non aveva dubbi), era una bellissima giornata di sole primaverile e l’aria era ancora frizzante dal temporale della notte precedente, e le si prospettavano tre giorni liberi. Non sembrava esistere motivo al mondo per essere tristi.

Passò da un minimarket e si Materializzò quasi subito alla Tana.

La signora Weasley cominciò subito a farle le feste.

-         Hermione, come sono contenta di vederti! Ron non mi avverte mai quando vieni. Sei così magra, vuoi che ti prepari un panino? –

La ragazza sorrise educatamente.

-         Ehm, no, grazie. Ho già pranzato – mentì, mentre nascondeva il sacchetto del minimarket dietro la schiena. – Ron è in casa? -

-         Ah, sì, quel disgraziato è tornato solo mezz’ora fa. E non mi ha nemmeno avvertita che avrebbe passato la notte fuori! Ho capito che è maggiorenne, ma questo non è un albergo, ma tanto i miei figli non mi ascoltano, è questa la verità… -

Hermione aggrottò le sopracciglia.

-         Ha passato la notte fuori? –

La signora Weasley alzò una mano come ad impedirle di parlare.

-         Non voglio assolutamente sapere nulla di quello che fate o non fate voi ragazzi. E’ già uno sforzo per me essere comprensiva quando mi torna dopo quattordici ore con quelle occhiaie. Ma naturalmente di te mi fido, Hermione – si affrettò a precisare.

La ragazza decise di lasciar perdere; meglio non solleticare ancora la logorrea targata Molly Weasley.

Si congedò e salì le scale rapidamente. Al primo piano c’erano parecchie porte uguali, ma sapeva esattamente a quale bussare.

-         Entra! – disse la voce di Ron.

Hermione si sentiva sempre a proprio agio alla Tana; abituata com’era a passarci ogni estate sin da quando era piccola, era un po’ come una seconda casa. Era alla camera di Ron, cui non riusciva ad abituarsi. Si sentiva sempre come se si avventurasse nella giungla con addosso solo un prendisole.

Ron era steso sul letto e sfogliava una rivista di Quidditch. Alzò lo sguardo verso di lei.

Qualcosa nel suo sguardo le fece salire un brivido lungo la schiena; ma pensò che fosse una delle sue solite reazioni a lui.

Hermione estrasse dal sacchetto un barattolo di nutella.

-         Pic nic – sentenziò. – non fa bene stare sempre in casa in questa stagione. Si può soffrire di emicrania per mancanza d’ossigeno. –

Ron le sorrise e buttò la rivista per terra.

-         Mi piace quando prendi l’iniziativa – si mise a sedere. – ne deduco che l’esame è andato bene. -

-         Sì. No… sì. Spero. Non chiedermelo – disse lei, improvvisamente dubbiosa, mentre lui si metteva le scarpe.

Il ragazzo le prese il sacchetto della spesa di mano e ci sbirciò dentro.

-         Pane e nutella! Vuoi proprio sedurmi. Sicura di voler pranzare con queste cose? Sai che gli zuccheri fanno venire le carie? –

Hermione arrossì senza motivo apparente.

-         Ehm, spero che i miei non lo vengano mai a sapere, allora. –

Ron si voltò a guardarla, divertito.

-         Granger, oggi mi fai paura. Com’è che siamo così rilassati? –

Lei non rispose e si lasciò guidare in giardino dalla porta sul retro, dopo che Ron ebbe ‘acciato’ qualche posata ed una tovaglia.

Il fatto era che le era capitato poche volte di vederlo come quella mattina. Non aveva fatto che pensarci, aveva quasi fatto fatica a concentrarsi sul test. Ron era uno spensierato, era praticamente sempre allegro, e quando non lo era, c’era sempre qualcosa di comico nella sua depressione.

Ma l’espressione che gli aveva visto quella mattina non aveva niente, assolutamente niente di divertente.

Ora aveva il viso più disteso, però sembrava ancora un po’ stanco. E dire che non era sotto sessione di esami, e due giorni dopo ci sarebbe anche stata la partita di Quidditch.

Forse era preoccupato? Ma in lui la fase di preoccupazione non arrivava così presto… i crampi allo stomaco arrivavano almeno il giorno prima. Quella doveva essere la fase del fanatismo.

-         Vedo che stai un po’ meglio – azzardò lei, mentre stendevano la tovaglia nel prato, poco lontano dalla Tana. – cos’avevi stamattina? –

Ron sembrò irrigidirsi, ma sorrise facendo spallucce.

-         No, niente di che. Ho dormito male, stanotte. – disse, frugando nel sacchetto della spesa per prendere il pane e la nutella.

Hermione sapeva che forse non avrebbe dovuto chiederlo, ma…

-         Già… tua madre mi ha detto che non si tornato a casa – fece, con aria molto casuale, spalmando nutella su una fetta di pane.

-         Ero da Harry. Partita di scacchi con rivincita – disse, senza alzare lo sguardo dal suo panino.

-         Oh. Chi ha vinto? –

-         Lui. – mormorò, addentando il pane.

Rimasero in silenzio per un po’.

Hermione moriva dalla voglia di parlargli dell’appartamento, ma non sapeva esattamente cosa dire. Cioè, era il concetto in sé che la rendeva allegra.

D’altra parte, il suo insolito entusiasmo era totalmente smorzato dall’ancor più insolito silenzio di Ron. Di solito era lui che riempiva le conversazioni, lasciava raramente passare momenti di silenzio.

Ora come ora, invece, sembrava inavvicinabile.

Oddio.

Forse ci stava ripensando. Domenica, dopo la partita, la loro convivenza sarebbe stata ufficiale. Avrebbero entrambi portato le loro cose nell’appartamento. Non ci aveva pensato. Mancavano solo due giorni.

Cielo, era senz’altro quello. Non che ne sapesse molto, ma da quel che aveva capito dopo otto anni di amicizie maschili, rifuggivano come la peste questo tipo di situazioni vincolanti.

Ma era stato lui a chiederlo, insomma… o magari lei aveva avuto un atteggiamento tale da costringerlo a chiederglielo anche se non voleva e…

Ma che stava facendo?

Si stava trasformando in un’adolescente paranoica.

Non poteva accennare alla cosa, non ce la faceva, non voleva vedere la sua reazione. E poi magari si sbagliava. Magari erano solo suoi viaggi mentali.

Okay, da ora bandite le paranoie.

 

Ginny era davanti ad una porta simile a tante altre del castello.

Aveva le dita fredde per l’emozione. Estrasse lentamente la bacchetta dalla veste e sussurrò la formula.

La porta si aprì con un piccolo scatto.

Appoggiò la mano sul legno ed entrò.

Sembrava la stanza di una chiromante. Immersa nel buio, nessuna candela: le uniche luci, molto fioche, provenivano dai pensatoi disposti a cerchio intorno a lei. Su uno scaffale, c’erano almeno un centinaio di boccette trasparenti in cui volteggiava il fumo luminoso dei ricordi.

Ginny rimase per un attimo incantata ad osservare quelle luci surreali; quando la porta si richiuse debolmente dietro di lei, sussultò, riprendendosi.

Cosa ci era venuta a fare, esattamente? Cos’aveva in mente?

Ovviamente, nulla: come al solito, aveva agito senza pensare veramente a cosa poteva servirle ficcanasare in quella stanza.

D’altra parte… se quelli erano veramente ciò che pensava, cioè ricordi dei Mangiamorte che abitavano nel castello… poteva risultare la stanza più preziosa che potesse trovare.

Si avvicinò allo scaffale e con delicatezza prese una boccetta a caso; la riversò nel Pensatoio più vicino.

Era un ricordo molto breve e poco interessante: una donna che suonava un pianoforte.

Fu così per i successivi ricordi che provò; niente che potesse scatenare il suo interesse, o che fosse minimamene utile. Erano tutti ricordi di vita vissuta. Perché i Mangiamorte li accantonavano lì, se erano semplici fatti quotidiani? Aveva pensato che lì nascondessero i ricordi importanti, che avrebbero potuto essere estratti con la forza dai ‘nemici’.

Nel frattempo, cercò di dare l’impressione che qualcuno avesse ripulito la stanza. Dopo mezz’ora, si rese conto che Rose aveva ragione: era un lavoro molto noioso.

Passò a pulire l’ultimo Pensatoio, frustrata e innervosita da quella perdita di tempo: poi, si rese conto che non era vuoto.

Quando vide l’immagine sfocata di se stessa volteggiare nel fumo, non potè impedirsi di guardare il ricordo per intero.

Solita sensazione di essere afferrata per la pancia e gettata giù da un precipizio: piombò sul morbido, questa volta. Era il prato del cortile del castello.

-         … che l’unico scopo nella vita della Weasley sia fare incazzare il prossimo – stava dicendo Malfoy.

Era un ricordo recentissimo. Ginny si alzò in piedi, perplessa. A chi apparteneva? E come aveva fatto a finire così in fretta in quel Pensatoio?

Vide Malfoy venire verso di lei, e per un attimo si irrigidì; ma la superò senza naturalmente vederla. La Parkinson gli trotterellò dietro subito dopo e lei si sentì spinta a seguirla: a quanto pareva, il ricordo era suo.

Entrarono tutti e tre nel castello. Pansy faticava a tenere il passo di Malfoy.

-         Cosa farai adesso? Vai a protestare da Rodolphus? – disse Pansy, ansiosa.

Malfoy salì le scale senza rallentare.

-         Il mio impegno più immediato è andare a dormire. –

Pansy spalancò gli occhi, incredula.

-         Intendi dire che non… non dirai niente? Che ti va bene così? –

Malfoy sbuffò, scocciato.

-         Non mi va bene così. Affatto. Ma conosco la risposta che otterrei da Rodolphus. Non ho possibilità di scelta. Lo sta facendo apposta. –

Pansy si irrigidì, continuando a seguirlo, sempre più preoccupata.

-         Cosa sta facendo apposta? –

Il ragazzo le lanciò un’occhiata ammonitrice ed ovviamente non rispose.

Raggiunse la porta di quella che evidentemente era la sua stanza.

-         Pansy, stanne fuori. So benissimo cavarmela da solo. Non ho bisogno di una continua rottura di palle. –

La ragazza si affrettò ad annuire.

-         Hai ragione… sì… non mi intrometterò – disse, ancora dubbiosa.

Gli appoggiò una mano sul braccio.

-         E’ solo che non sopporto l’idea che quella si avvicini troppo a te. –

Fece salire la mano lungo le spalle e sul collo. Alzò la testa a baciarlo all’angolo della bocca, lui si voltò all’ultimo momento verso di lei così che le loro labbra si incontrarono completamente.

Ginny sentì un crampo allo stomaco.

Prima che se ne rendesse conto, si ritrovò di nuovo tra i Pensatoi.

La voglia di fare la spia, l’avventuriera, le era sparita totalmente. Non provò nemmeno a pulire l’ultimo Pensatoio ed uscì dalla stanza più in fretta che potè.

Basta idee brillanti per oggi.

 

-         Non sembri di buon umore! –

Harry sbattè le palpebre, riscuotendosi dai suoi pensieri, e fece un salto all’indietro. Luna lo stava fissando incuriosita a tre centimetri dalla sua faccia.

-         Luna! Quando diavolo sei arrivata? –

-         Cinque minuti fa – disse lei, agitando le braccia. Ai polsi le tintinnavano braccialetti che erano spaventosamente simili a collari per gatti. – dovresti farti controllare da un Medimago. Potresti avere la Tribolite. –

Harry non osò chiedere spiegazioni.

-         C’è un motivo particolare per cui sei venuta qui? - chiese, inutilmente.

La ragazza gli tintinnò incontro tenendo in mano la giacca di Harry.

-         Andiamo! –

-         Andiamo? –

-         Andiamo! –

-         And… insomma, intendevo dire, andiamo dove? –

Luna lo costrinse a mettersi la giacca. Sembrava un cagnolino che faceva le feste per essere portato al parco.

-         Vedrai! Andiamo! –

Prima che lui potesse trovare qualche scusa o perlomeno rendersi conto della cosa, Luna lo aveva afferrato e si erano Smaterializzati.

Si Materializzarono un secondo dopo nell’ingresso anonimo di una specie di condominio.

A Harry girava la testa per tutta quella fretta; mentre Luna lo trascinava verso delle scale barcollanti, notò i muri scrostati e degli annunci pubblicitari appesi su una bacheca instabile. C’era un odore diffuso di carta riciclata.

- Luna, posso sapere dove siamo? –

Lei non rispose, tutta contenta.

Harry capì dov’erano non appena salì l’ultimo gradino.

La redazione del Cavillo. Sette o otto persone scrivevano o frugavano negli archivi con aria un po’ annoiata. L’odore di carta riciclata era fortissimo. Harry riconobbe tra le copertine appiccicate ai muri la propria fotografia di quattro anni prima.

Nessuno parve notare Luna, nonostante fosse entrata piuttosto rumorosamente. Lei si schiarì la voce, con l’aria tutta orgogliosa. Nessuno le rivolse lo sguardo. Harry ebbe la netta sensazione che in realtà fossero meno distratti di quello che sembravano. Sentì lo stomaco attorcigliarsi.

Luna si schiarì nuovamente la voce, inutilmente. Ognuno continuava a farsi i fatti propri, e Harry avrebbe voluto scappare per l’imbarazzo trascinandosela dietro.

Una frazione di secondo dopo, da una porta sgangherata  fece capolino una sciarpa tristemente conosciuta.

-         Luna! – urlò Mars, con un gran sorriso, venendole incontro non appena la vide. Si bloccò quando notò anche Harry. – oh. -

-         Ho portato Harry – disse fieramente Luna, continuando imperterrita ad assumere quell’espressione imbarazzantemente orgogliosa.

Solo allora qualche testa cominciò a voltarsi.

-         Harry Potter? – si sentì mormorare e Harry fece istintivamente un passo indietro verso l’uscita.

-         Ho pensato che poteva interessarti vedere la vera sede del Cavillo! – esclamò. – visto che faccia stupita? Gli ho fatto una sorpresa! – gongolò rivolgendosi a quelli che erano venuti a sbirciare.

Prima che potesse rendersene conto, Harry aveva stretto una dozzina di mani ed era stato sbattuto su una sedia mentre quasi tutta la redazione lo inondava di domande.

-         Harry Potter! E’ un onore conoscerti! –

-         Sei davvero il Prescelto? –

-         Sapevi che Colui-che-non-deve-essere-nominato potrebbe concederci un’intervista? Che ne dici di un’intervista a due? –

-         Perché sei venuto qui con la Lovegood? –

-         Come mai non porti le lenti a contatto? –

Non ebbe fondamentalmente il tempo di rispondere a nessuno; nessuno aspettava effettivamente che rispondesse.

Harry balbettò qualcosa e si voltò indietro. Luna era rimasta in un angolo con Mars.

Cercò di districarsi dalla piccola folla per raggiungerli, e grazie al cielo qualcuno fece erroneamente cadere un bricco di caffè, cosa che causò il più completo panico e la disattenzione da lui.

-         Luna – disse, cercando di apparire ragionevole. Si allentò il colletto della camicia per respirare. – posso sapere come mai mi hai portato qui? –

La ragazza sbattè gentilmente le palpebre.

-         Perché qui tutti sono tuoi ammiratori ed ho pensato fossero contenti di conoscerti. -

Harry non riuscì proprio a trattenersi.

-         Ma perché sei così gentile con loro, se non ti considerano nemmeno? -

Appena lo disse, si pentì; Luna non parve ferita. Mars, invece, era nuovamente furioso.

-         Hai una bella faccia tosta, Potter! – inveì. – prima vieni qui a fare il galletto e poi insulti Luna in questo modo? Se non fossimo in luogo pubblico, ti… -

La ragazza inclinò la testa e si grattò il naso.

-         Tu dici, eh? Anch’io ho avuto quest’impressione, effettivamente. Però ho pensato, sono persone di cui il mio papà si fida, e anche Mars, a modo suo… perciò perché non farli contenti, per una volta? Non sono fortunati come me, che posso vederti tutti i giorni. –

Harry aprì e chiuse la bocca senza riuscire a dire una beneamata parola. Naturalmente Luna non si rendeva conto del doppio senso; Mars invece capiva benissimo, e lo fissava così torvo che Harry cominciava a pensare avrebbe cominciato a beccarlo come un merlo incazzato da un momento all’altro.

Luna prese d’improvviso a parlare a ruota libera della redazione, svolazzando da una parte all’altra sotto gli sguardi imbarazzati e frustrati degli altri.

-         Oggi il mio papà non c’è, ma di solito sta in quell’ufficio laggiù; è piccolo e il muro non viene verniciato da vent’anni, ma a me piace un po’. Poi qui tutti lavorano agli articoli, e là fuori dalle finestre ci sono dei gufi sempre pronti a spedire o ricevere lettere. Molti giornalisti sono anche adesso in giro. C’è anche una piccola biblioteca ed uno scaffale con tante pozioni, sai, per gli esperimenti e le prove degli articoli. Uh, te l’ho detto che Jamie -tutti la chiamano Peterson, e lei una volta mi ha detto che preferisce essere chiamata per cognome, ma non ci credo mica… e poi Jamie è un nome così carino, non trovi?-, insomma, Jamie sta preparando un articolo su Soffiartigli! Beh, non proprio su di lui, ma sugli incroci come lui, e Soffiartigli verrà citato come unico nella sua specie. Non è elettrizzante? Siamo entrati in contatto con l’unico esemplare di una specie rara! - battè le mani, tutta contenta.

Prima che Harry potesse in qualche modo esprimere il suo sgomento di fronte a tutta quella follia dilagante, o trovare una scusa per filare via più veloce della luce, Luna venne richiamata di malavoglia da uno dei giornalisti. A quanto pare, gli articoli per ordine del direttore non potevano andare in stampa senza la sua approvazione.

-         E’ una responsabilità un po’ grande per lei – osservò Harry, sorpreso.

Mars lo fulminò con lo sguardo.

-         Ma per favore. Da quando ha cominciato a lavorare per il Cavillo, il giornale ha aumentato le vendite. Almeno un po’ – aggiunse, borbottando. – Luna è molto più brava nel fare qualsiasi cosa di tutti questi tizi messi insieme. –

Harry scrollò le spalle.

-         Immagino – disse, più per dire qualcosa che altro.

Mars lo guardò di nuovo male.

-         Non farlo – replicò. – non scrollare le spalle come se non te ne importasse nulla. E’ una cosa che non sopporto. Tutte le persone a cui Luna si affeziona la sottovalutano. Magari si divertono un po’ per la sua stranezza, inizialmente, ma poi si stancano di lei. Non lo tollero, e non lo tollererò nemmeno per il Prescelto. –

Harry si voltò a guardarlo. Mars era serio.

Improvvisamente si sentì uno schifo.

-         Non era mia intenzione… e non la sottovaluto – si affrettò a specificare. Non sapeva se stesse mentendo, ma sapeva che era la cosa giusta da dire.

Mars non sembrava impressionato né niente; incrociò le braccia appoggiandosi al muro scrostato, guardando Luna che leggeva un lungo rotolo di pergamena qualche metro più lontano.

-         Potter,  devo riconoscere che devi pur essere stato una persona che ha ricevuto i commenti più diversi dalla gente. Come hai fatto a smettere di pensarci? Sembri parecchio tranquillo, per essere quello da cui dipende più o meno il destino dell’intera umanità. –

Harry sbattè le palpebre, preso alla sprovvista.

-         Non lo so… suppongo che ci si faccia l’abitudine. Suppongo che cominci a selezionare solo le opinioni delle persone che contano davvero. –

Mars continuava a guardare Luna.

-         Pensi che un giorno anche lei ci farà l’abitudine? –

-         Lei? Parli di Luna? – fece lui, perplesso. – a me sembra non gliene sia mai importato granché di quello che pensa la gente. Anzi, devo dire che è sempre stata più impassibile di me. –

Mars scosse la testa con un sorrisetto.

-         Certo, dite tutti così. Possibile che solo io me ne accorga? – fece una pausa. – Luna non è affatto impassibile. Ed il suo problema è che non può selezionare le opinioni delle persone che per lei contano davvero, perché per lei tutti contano. Se qualcuno è sulla Terra, per lei è già sufficiente: significa che qualcosa deve valere. E’ la cosa peggiore che ti possa capitare, voler bene a tutti… perché non è possibile che tutti vogliano bene a te. –

Harry aggrottò le sopracciglia, voltandosi anche lui a guardare Luna che annuiva sorridendo mentre finiva le ultime righe dell’articolo.

-         Sì, ma… non ha proprio l’aria di soffrirci. –

-         Solo perché non piange o non si deprime non significa che non sia triste, Potter, santo cielo; mi aspettavo fossi un po’ più sveglio. – roteò gli occhi Mars.

Era una bell’offesa detta da uno con la sciarpa color pistacchio.

Mars non attese risposta. Ad un certo punto, sparì in un ufficio e ne ricomparve due minuti dopo con tre bicchieri fumanti.

-         Tieni, Prescelto – disse, porgendogli freddamente uno contenente caffè. – speriamo che ti aiuti a darti una svegliata. –

A Harry dava piuttosto sui nervi il suo atteggiamento, ma dopo una mattinata del genere un caffè era inevitabile, anche se effettivamente ne aveva già bevuti due a casa. Pazienza.

Luna tornò verso di loro saltellando.

-         Allora, Harry, cosa ne pensi della redazione? Eh, cosa ne pensi? Ti piace? Non sembri molto convinto. Uh, Mars, mi hai preso la cioccolata? –

Mars fece sparire immediatamente la sua espressione ostile e le sorrise. Luna prese uno dei bicchieri e si rivolse ad Harry.

-         Mars fa una cioccolata buonissima, non so come faccia, io sono negata, la brucio sempre quando ci provo; ma Mars la beve lo stesso, penso lo faccia per essere gentile anche se non gli piace. –

Il ragazzo non sembrava per niente in imbarazzo; non quanto lo sarebbe stato Harry al posto suo.

Incredibile: era partito dall’idea che fossero loro quelli ‘strani’.

Ma ora era lui a sentirsi… sbagliato.

Ingurgitò il caffè tutto d’un fiato, e dovette ammettere che era davvero buono. Cominciava a trovare irritante Mars più di quanto avrebbe mai pensato; soprattutto ora che lo guardava con quell’espressione tronfia.

-         Bene – sentenziò il cugino di Luna. – mi sembra il momento che andiate. Stai tranquilla, Luna, ci penso io alla redazione. Tu passa a prendere i fiori. –

La ragazza finì la cioccolata e annuì con un sorriso. Le era rimasto uno sbafo all’angolo della bocca.

-         Oh, sì! I fiori! Sai, Harry, io e Mars controlliamo sempre gli annunci delle nascite e portiamo i fiori in casa delle famiglie. -

-         Ma davvero? – mormorò Harry. Cominciava a sentirsi un po’ strano. Quel caffè non gli aveva fatto per niente bene.

Uscirono dalla redazione piuttosto rapidamente. Harry si sentiva talmente strano che si rendeva a malapena conto di quello che gli succedeva intorno.

Aveva come la sensazione di avere una montagna di cose da dire ma non sapeva nemmeno cosa.

Uscirono in strada mentre Luna continuava a sproloquiare. Harry non poteva evitare di notare continuamente lo sbafo di cioccolata.

-         E, beh, alle bambine portiamo tulipani rosa, ai bambini tulipani gialli. Io adoro i tulipani, e da queste parti ne crescono tantissimi in primavera. Oh, c’è qualcosa che non va, Harry? –

La parola gli sfuggì di bocca a velocità assurda.

-         Sì. –

-         Che c’è? – chiese Luna senza scomporsi.

-         Hai uno sbafo di cioccolata qui – disse, senza freno. Cominciava a spaventarsi. Non aveva assolutamente pensato, prima di dirlo. Ebbe una pessima sensazione.

-         Davvero? – fece Luna, ridendo, cercando di pulirsi con le dita dalla parte opposta.

Harry intervenne istintivamente e passò un dito sul piccolo sbafo di cioccolata, che sparì.

Luna lo fissò per un attimo, poi sorrise come al solito.

-         Grazie! – fece.

Ma Harry ormai aveva come un presentimento.

-         Luna, chiedimi qualcosa. Una cosa che normalmente non direi. –

Luna aggrottò le sopracciglia, divertita.

-         Una cosa che normalmente non diresti? – non gli chiese nemmeno il perché. Sorrise. – ti ha dato fastidio che ti abbia portato al Cavillo senza chiedertelo? -

-         Sì – disse Harry, di riflesso, senza poterselo impedire. – sì, avrei preferito non venirci e non sopporto che tu faccia le cose impulsivamente e di testa tua. Anche se sicuramente se tu me l’avessi chiesto mi sarei inventato una scusa. –

Si tappò la bocca con le mani, allibito.

Non aveva controllo.

Luna cambiò espressione, ma apparentemente non per quello che lui le aveva detto.

-         Sei sotto Veritaserum – gli disse, senza mezzi termini, guardandolo con gli occhi azzurri spalancati come al solito. – quando l’hai bevuto? Ah, no, lo so! Te l’ha messo Mars nel caffè, vero? –

Harry era sconvolto. Effettivamente la sensazione era quella di avere un sacco di… verità imbarazzanti da sputare. Era una pessima sensazione, a dire il vero.

-         Mi dispiace, Harry – disse Luna, mogia mogia. – deve averne trovato nella stanza delle pozioni… ecco perché quando ci sono andata prima non ce n’era più. E tu non gli stai molto simpatico. Voleva che tu mi dicessi quello che pensavi perché sapeva che non erano cose belle, ma non capisco perché. –

Harry tacque. Aveva il terrore di parlare. Con Luna, poi.

Era ghiacciato all’idea di dirle la verità. Non dopo aver fatto tanta fatica per essere così tollerante per giorni e giorni.

-         Quanto durerà? – trovò la forza di dire, flebilmente.

Luna fece spallucce.

-         Ho visto che la boccetta era finita e prima era quasi piena. Quindi circa trentasei ore. -

-         Un giorno e mezzo? – esclamò Harry, terrorizzato.

Trentasei ore di assoluta verità?

Non poteva vedere nessuno. Si sarebbe dovuto chiudere in casa.

-         Sgriderò Mars quando lo vedrò – disse Luna, col broncio, arrivando davanti al fioraio. – a volte non capisco proprio perché si comporta come si comporta. -

-         Ma per favore, Luna – disse Harry, come spinto da una forza oscura. – io non ci credo che tu non ti sei accorta che è geloso di te e tutto il resto. –

Luna gli sorrise, prendendo un mazzo di tulipani rosa e pagando la commessa.

-         Ma certo, anch’io sono gelosa di lui. Ci conosciamo fin da piccoli… -

-         Non in quel senso, santo cielo – fece Harry, senza riuscire proprio a fermarsi. – nel senso che ti vuole bene. Non come ad una sorella e nemmeno come ad una cugina. –

Luna sbattè le ciglia, annusando i tulipani mentre tornavano indietro.

-         Come una mamma? – sorrise, senza la benché minima malizia.

-         Come una ragazza… sei davvero ingenua, e la cosa è irritante. – oh, no, il fiume di parole. – te ne vai in giro saltellando con i tuoi fiori in mano un palmo sopra tutti gli altri, chiedendoti perché gli altri non si comportano come fai tu, come se non sapessi che è il tuo l’atteggiamento strano. A lungo andare tutto questo tuo sbattere le ciglia di fronte al mondo reale come se lo vedessi tutti i giorni la prima volta è insopportabile, e la cosa odiosa è che tutti ti detestano non perché sei strana e fai cose anormali, ma perché non hanno e non avranno mai il coraggio di comportarsi come te. –

Finalmente, riuscì a fermarsi. Non si sentì meglio dopo essersi sfogato.

Non aveva minimamente il coraggio di guardare l’espressione di Luna.

Ma la cosa ancora più sconvolgente è che non sapeva di pensare le cose che le aveva detto. Quel Veritaserum andava bandito.

Luna tacque per diversi istanti. Poi, Harry con la coda dell’occhio la vide voltarsi verso di lui.

-         Tieni – e prima che lui potesse muoversi gli mise un tulipano rosa dietro l’orecchio.

La visione di Harry Potter, il Prescelto, con un tulipano rosa tra i capelli doveva essere esilarante.

Luna non disse altro e lui si tolse il fiore da quella posizione imbarazzante.

Però lo mise nella tasca della giacca e non lo buttò via.

 

Stava seduta sull’erba a rimuginare da un tempo indefinito.

-         Stai mettendo le radici? –

Abbassò la testa contro le ginocchia strette al petto quando sentì quel consueto balzo allo stomaco. Era stanca.

Per quanto cercasse di ignorarlo, lo sentiva sempre, da sempre.

Aveva la sensazione che fosse come cercare di evitare che una barca affondasse munita di un cucchiaino per gettare via l’acqua.

-         In questo posto non le metterei neanche se fossi costretta – rispose istintivamente, cupa.

Draco rimase in piedi poco distante mentre una folata di vento freddo li sfiorava. Ginny non accennava a volersi muovere, il che era strano, considerato che era difficile trovarla ferma anche per un solo momento.

Lui inarcò un sopracciglio.

-         Devo rimanere qui in silenzio ancora per molto? Hai per caso una colite che ti impedisce di stare in posizione eretta? –

Ginny dosò bene il respiro, ma l’avrebbe volentieri preso a ceffoni. Ma aveva deciso di non essere impulsiva; più o meno un minuto prima, ma l’aveva deciso. Doveva imparare a essere più matura e distaccata e smetterla di sentirsi continuamente come se avesse quindici anni.

Si alzò lentamente, in armonia col suo nuovo modo di essere, e già si sentiva molto più adulta.

-         I crampi ti impediscono addirittura di muoverti? – sbuffò Draco, guardando l’ora nell’orologio da polso.

Ginny si ripetè le sue traballanti motivazioni e si voltò verso di lui con un sorriso beffardo.

-         Non pensavo saresti venuto – ghignò. – non sei più un ‘apprendista’, dopotutto. –

Draco la fissò. Lei aveva un’espressione impassibile; se non somigliava a lui, si avvicinava parecchio a certe espressioni pretenziose di Pansy.

Non gli piacque.

-         Già, ma sfortunatamente tu lo sei. E sei anche quella che mi sta facendo perdere minuti di allenamento. –

Ginny fece una smorfia ironica.

-         Benissimo. Allora, che cosa si deve fare per avere l’aspetto di un Mangiamorte? I pesi? Corsi su come stendersi l’eyeliner senza sbafi? –

Draco cominciava a innervosirsi.

Ma che diavolo le prendeva? Già era fastidiosa normalmente: se ci aggiungevi pure quell’aria inedita tutta strafottente, era difficile anche stare in sua presenza.

-         No, Weasley, per quello ci sono delle lezioni supplementari che, ne sono sicuro, non mancherai di frequentare – ironizzò. – ma ora, se non ti dispiace, passerei al motivo per cui siamo entrambi sgradevolmente qui. Il sabato in genere faccio resistenza, dunque anche tu ti adatterai. –

Ginny incrociò le braccia.

-         Ma va? E a cosa resisti? –

-         Oltre alla tentazione di prenderti a schiaffi, faccio resistenza nella corsa. Corro per le tre ore di allenamento per qualche chilometro. Hai bisogno di delucidazioni sul significato di ‘correre’? –

La ragazza chiuse un attimo le palpebre per trattenersi dal rispondere molto male.

Autocontrollo e distacco.

-         E dove si arriva, se è lecito chiederlo? –

Draco si tolse la veste e si chinò tranquillamente ad allacciarsi le scarpe.

-         Fin dove sopravvivi. – disse, e prima che lei se ne rendesse conto era già partito.

Ginny, presa alla sprovvista, si tolse impacciatamene la vesta (incastrandosi all’uscita della testa) e dopo qualche secondo prese anche lei a correre.

Tra lei e Malfoy c’era già uno scarto di almeno cinque o sei metri.

Cercò di imprimere più forza nelle gambe, ma le sembrava di lottare contro la gravità. Era un po’ fuori allenamento, a dire il vero; da piccola era agile come una pantera, sempre a correre nei campi intorno alla Tana. A Hogwarts, bene o male, aveva gli allenamenti di Quidditch.

Ma erano almeno sei mesi che non faceva attività fisica.

Due minuti dopo aveva già il fiatone. Guardò rapidamente l’orologio: le cinque e dieci. Avrebbe dovuto correre così fino alle otto di sera?

Davanti a lei, molto davanti a lei, Malfoy correva a quella che non sembrava neanche la sua massima velocità.

Ma erano tutti pazzi?

Sarebbe caduta a terra prima di poter guardare di nuovo l’orologio.

Malfoy non si voltava mai, nemmeno per controllare se era ancora viva.

Non poteva dargliela vinta; se si fosse fermata, l’avrebbe derisa fino alla fine dei tempi. E si era intestardita, si era assolutamente fissata sul fatto che lui dovesse se non temerla, rispettarla.

Decise di ignorare la fatica e la mancanza d’ossigeno ed aumentò la velocità.

Bastava pensare che quella corsa avesse uno scopo, un termine. Se vedi il traguardo riesci ad andare più veloce.

Decise che per ora il suo traguardo poteva essere Malfoy.

I piedi le bruciavano, sudava da morire e gli occhi le lacrimavano per il vento, ma lo scarto tra lui e lei diminuiva sempre di più.

Quattro metri, tre metri, due, uno.

Lo affiancò.

Finalmente, il ragazzo la degnò di uno sguardo.

-         Hai un aspetto oserei dire orribile – sghignazzò. Oh, diamine, correvano da un quarto d’ora, come faceva ad avere la voce di uno appena uscito da un corroborante bagno caldo? – qualcuno è fuori forma. –

Ginny non gli rispose, un po’ perché non lo considerava segno di maturità, un po’ perché credeva che se avesse parlato sarebbe svenuta.

Rimasero a correre più o meno alla stessa altezza per trenta minuti buoni; ogni tanto lui la superava, ma tutte le volte Ginny trovava la forza di recuperare terreno.

Comunque, alle sei era talmente stanca che era sorpresa di essere in piedi. Lanciò uno sguardo di soppiatto verso Malfoy: possibile che non sentisse il bisogno di fermarsi?

-         Scommetto… che… non… ce… la fai… più – disse Ginny in un filo di voce tra un respiro e l’altro. Cominciava a vedere tutto rosa, neanche fosse ubriaca.

Malfoy inarcò un sopracciglio.

-         In realtà, mi stavo chiedendo perché tieni il mio ritmo se non sei abituata a correre – disse, tranquillamente. – avresti dovuto cominciare più lentamente, razza di cretina. –

Ginny frenò tanto in fretta che istintivamente anche lui si fermò.

-         Mi stai dicendo che potevo seguire i miei ritmi sin dall’inizio? –

Malfoy sbatté le palpebre.

-         Mi sembra ovvio. Vuoi per caso ammazzarti di fatica? Domani avrai i muscoli totalmente fuori gioco. –

Addio, autocontrollo.

-         Ma perché diavolo non me l’hai detto prima! – scoppiò Ginny, rossa di rabbia. – pensavo di doverti seguire! –

-         Ho detto quello che facevo io. Ho detto per caso anche ‘seguimi’? –

Ginny lo fissò, incredula. Malfoy ricambiò lo sguardo poi si voltò dalla parte opposta ed ebbe uno strano tremito alle spalle.

Lei lo guardò con aria indagatrice.

-         Cos’hai adesso? –

Lui non rispose, continuando a voltarle le spalle nel più completo silenzio.

La ragazza gli si avvicinò cautamente e prima che lui potesse scostarsi lo guardò in faccia.

Rideva.

-         Tu stai ridendo di me, Malfoy? – gridò Ginny, arrossendo furiosamente.

Malfoy non riuscì a trattenersi, stavolta ridendole apertamente in faccia.

-         E’ che sei veramente troppo scema – mormorò lui, tentando di tornare alla sua consueta espressione funerea. -  troppo. E’ inevitabile. –

Ginny aggrottò le sopracciglia, irritata.

Ma per qualche motivo era anche tornata di ottimo umore.

-         In un modo o nell’altro, Malfoy, le uniche volte che ti ho visto ridere è stato perché ridevi di me – disse, prima di riuscire a trattenersi.

Lui le rivolse uno sguardo, ma ormai era tornato alla sua faccia impassibile.

-         E’ impossibile non ridere di te, Weasley – fece, secco, ma Ginny non riuscì ad offendersi come avrebbe voluto.

Lo squadrò dall’alto in basso con aria di sufficienza.

-         Bene, vediamo se questo ti fa ridere. –

Prima che lui potesse rendersene conto, Ginny aveva ripreso a correre molto più forte di prima.

Malfoy inarcò le sopracciglia e fece lo stesso.

-         E’ una sottospecie di gara? – le urlò dietro, guadagnando terreno sempre più velocemente.

Ginny sapeva di essere più fuori forma di lui, ma tanto valeva tentare. Al momento, si sentiva come se avesse recuperato le forze tutte insieme, tutte in una volta.

-         Mentre te lo chiedi sto già vincendo! – esclamò, voltandosi solo per un attimo.

Malfoy non potè trattere un mezzo sorriso. Impresse più forza ai piedi e la raggiunse.

Il sole stava tramontando e si era alzato uno di quei venti primaverili serali e frizzanti. L’aria era perfettamente fredda e pulita e profumava di erba appena tagliata.

E le sembrava l’odore della primavera alla Tana, ma pensandoci non ne sentiva poi tanto la mancanza. La cosa migliore da fare è correre, se ti fermi sei finito!, ridevano i gemelli quando gareggiavano a Quidditch.

Ginny inquadrò una quercia su un lato del sentiero che stavano seguendo ed accelerò ancora di più il passo; era quello il loro implicito traguardo. I battiti del cuore erano impazziti, senza riuscire a stabilire un ritmo regolare, faticava a respirare e moriva di caldo: presentava sostanzialmente tutti i sintomi di qualche strana febbre, eppure ebbe la netta sensazione di non essersi mai sentita meglio.

Malfoy rimase indietro di qualche passo e lei si voltò a guardarlo come se avesse la vittoria in pugno.

-         In resistenza sarai anche discreto, Malfoy, ma in velocità fai schifo! – cantilenò, cercando di andare sempre più veloce, come se stesse pattinando sul ghiaccio.

Malfoy alzò su di lei lo sguardo grigio e impassibile nonostante la corsa.

-         Racconterai della tua vittoria a San Potter nella prossima lettera, magari? –

I piedi di Ginny ebbero uno strano cedimento a due metri dall’albero, e Malfoy toccò il tronco prima di lei.

- Ho vinto. – disse lui, con semplicità, asciugandosi una goccia di sudore dalla fronte col braccio.

- Come… come sai… - Ginny lo fissava, incredula. Era sicura di aver fatto tutto nella massima discrezione. Aveva immaginato che le lettere fossero intercettate, ma certamente… non da lui.

- Un allenamento di tre ore mi sembra irragionevolmente lungo – sentenziò Malfoy, ignorandola, guardando l’orologio al polso. – sono le sette. Tu continua pure fino ai crampi, io torno indietro. –

Ginny si trattenne una mano con l’altra per impedirsi di schiaffeggiarlo.

-         Smettila di fare finta di niente, Malfoy! – ringhiò. – dimmi come sai della lettera. –

Malfoy sospirò pesantemente, come se fosse parecchio infastidito da tanta insistenza. Cominciò a camminare verso il castello, mentre lei lo seguiva.

-         Weasley, Weasley, come te lo devo dire? Qui non siamo a Potterlandia, e nemmeno all’Ordine del Fenicottero. Avresti dovuto aspettarti che qualcuno intercettasse le lettere. E’ uno dei motivi per cui qui non si scrivono praticamente mai lettere. –

Ginny era rossa di rabbia e vergogna.

La sua lettera per Harry. La sua lettera per Harry, che aveva fatto tanta fatica per scrivere nella disperazione di quella notte, la sua lettera per Harry, che era più sincera di quante mai ne aveva scritte, infangata dallo sguardo di una persona cui non era mai importato niente di nulla e di nessuno.

Perfino i ricordi che aveva visto, quelli che lo riguardavano, in quel momento le parvero la giusta punizione per una persona come lui.

In fondo, chi le garantiva che non sarebbe diventato così comunque?

-         Pensavo che il motivo per cui non scrivi mai lettere è che non sei in grado di dire nulla di più che qualche parola cattiva e ingiusta – disse, trattenendo delle lacrime che non si era accorta di avere.

Malfoy le rivolse a malapena uno sguardo.

-         Può essere – replicò, gelido. – te la sei scelta tu la vita che stai vivendo, Weasley. E’ una contraddizione che tu voglia metterti in competizione con me, quando non sei in grado di reggere quello che dico senza piangere, ed è anche uno spettacolo patetico. –

Ginny abbassò lo sguardo, sempre più piena di rabbia e mortificazione. Ricacciò indietro le lacrime usando tutte le sue forze e le si abbassò quasi la vista per quanta fatica fece.                                                         

Il ragazzo si voltò a guardarla. Era tutta rossa per lo sforzo di non piangere, aveva ciocche di capelli appiccicate al viso e al collo per la corsa ed era tutta arruffata; un completo disastro.

Ciò non gli impedì di sentire una sorta di forte rimbombo all’altezza dello stomaco, come un pugno bene assestato. Che ignorò; era bravo in questo.

-         Almeno – fece Ginny, dopo qualche attimo. – questa è la vita che mi sono scelta io. Non sono sicura che si possa dire lo stesso di te, Malfoy. –

Malfoy strinse i pugni.

A che serviva?

A che serviva cercare di ignorare una persona per un tempo inenarrabile, se poi questa continuava a parlare, parlare, parlare, a sputare sentenze, a schiaffarti addosso verità che avevi accuratamente nascosto nell’ultimo cassetto della tua mente?

A che serviva se poi la notte non riuscivi più a prendere sonno e volevi e non volevi sentire quelle verità?

Ma l’esperienza insegnava che porsi il problema era semplicemente sbagliato. La prima buona regola del quieto vivere è di non farsi domande. Certo, così non potrai mai goderti niente, mai provare nemmeno una sensazione, mai essere felice di una vittoria o infelice per una delusione, non saprai mai distinguere tra giusto e sbagliato e continuerai a fare gli stessi errori per il resto della tua vita, come un disco rotto.

E a quel punto ti dirai che in fondo è la vita che hai scelto.

E lei ti dirà che non l’hai scelta tu.

E tu stringerai i pugni e per una volta in vita tua non saprai cosa rispondere.

- Puoi restituirmi la mia lettera, almeno? – disse Ginny, respirando profondamente.

Lui scrollò le spalle.

-         Mi sembra di averla rispedita. Mi hai rotto tanto che adesso non ricordo. –

Il castello era visibile in lontananza, finalmente.

Ginny si sentiva sempre di più come se Malfoy le stesse rubando l’ossigeno.

In tua presenza mi sento soffocare.

Ti sembra una bella sensazione?

Ti sembra una brutta sensazione?

-         Continua pure con questo atteggiamento, Malfoy – disse Ginny, fredda. – da quanto ho capito, così andrai parecchio avanti tra i Mangiamorte. Ma credimi, se fossi tra persone normali, e vivessi una vita normale, non dureresti cinque minuti. –

-         Peccato che in questo caso le parti siano invertite, vero, Weasley? – replicò duramente Malfoy. – anche tu andresti parecchio avanti tra le persone normali. Ma tra i Mangiamorte non durerai cinque minuti. –

Ginny si graffiò i palmi delle mani per quanto forte le stringeva.

-         Non sono più quella persona. Sono cambiata. Non ci sto più bene tra le persone normali. –

E, prima ancora di finire di dirlo, seppe che era vero.

Seppe che non era un tentativo immotivato di convincere di Malfoy, o se stessa.

Era vero. E la cosa la terrorizzò.

Non ci sto più bene tra le persone normali.

Da qualche parte dentro di lei sapeva il motivo per cui ora era incapace di accontentarsi e di essere felice semplicemente di ciò che il destino le offriva, come le era stato insegnato.

Il motivo era accanto a lei, e provò una tale rabbia e una tale disperazione nel pensarlo che per un attimo chiuse gli occhi, come se sperasse di essere in un brutto incubo.

Per quanto avesse fatto, per quanto facesse, era come se ci fosse un lato di lei che non aveva mai smesso di rimuginare, di sperare, di ricordare, di piangere, di sorridere, un lato di lei che non era mai andato avanti.

Come poteva distruggerlo, se sentiva di non volerlo nemmeno?

-         Allora temo che tu non abbia destino da nessuna parte – disse Malfoy e si allontanò da lei, lasciandola lì in quel prato sconosciuto che aveva l’odore delle primavere alla Tana, ma di cui lei non sentiva il calore, né il conforto, né il corri che se ti fermi sei finito dei suoi fratelli.

Nessuno faceva il tifo per lei mentre correva, doveva trovare il coraggio da sola di non fermarsi.

 

Domenica.

Harry, come da programma, aveva pensato di dormirsela praticamente tutta e non parlare assolutamente con nessuno.

Quando aprì gli occhi sbadigliò, guardò nella penombra del sole del mattino il tulipano rosa in un bicchiere d’acqua e si voltò dall’altra parte.

Ma poi, di colpo, scattò a sedere.

Era il giorno della partita di Quidditch.

Se n’era totalmente dimenticato.

Diamine. Non poteva andarci così.

Ma non poteva nemmeno evitarla. Era una partita di minicampionato. Ron e gli altri giocatori della squadra non gli avrebbero permesso di stare a casa nemmeno se Voldemort avesse bussato alla sua porta e chiesto di discutere dei loro dissapori davanti ad un thè e due fette di torta.

Okay, calma. Poteva farcela. Poteva destreggiarsi abilmente.

No, non poteva. Se gli facevano una domanda, rispondeva d’istinto.

Va bene, bastava che nessuno gli chiedesse niente.

Bastava arrivare alla partita all’ultimo minuto, giocare e scappare subito dopo senza parlare con nessuno.

Non poteva cavarsela da solo, però. Aveva bisogno di qualcuno che ovviasse ad eventuali problemi.

Di chiedere a Ron non se ne parlava; conoscendolo, non avrebbe perso tempo a chiedergli immediatamente qualcosa e sarebbe finita sicuramente male.

Hermione probabilmente sarebbe stata più corretta, ma chi voleva sentire una predica riguardo all’uso improprio del Veritaserum, contando che non era nemmeno colpa sua?

Purtroppo, ancora prima di sentire la porta spalancarsi e vedere Soffiartigli che correva nel suo armadio a dormire, sapeva la risposta.

Qualcuno che non si imbarazzava di fronte alle verità scomode.

-         Luna, avrei bisogno di un favore. –

 

Ron si buttò sulla panchina dello spogliatoio.

Era la prima volta in vita sua che non sentiva la tensione da prepartita. Anzi, a dire la verità, non sentiva proprio un bel niente. Gli sembrava di aver un buco nero in mezzo al petto che risucchiava tutto quanto, dagli istinti primari come la fame o il sonno alle sensazioni più banali come la sorpresa o la curiosità.

Guardò il proprio riflesso nello specchio di fronte a lui. Sembrava nel bel mezzo di una bruttissima malattia, tant’era distrutto.

Si imponeva di non pensare, il che era strano per lui che non pensava praticamente mai. I suoi neuroni avevano deciso di cominciare a rendersi attivi al momento sbagliato.

Gli altri giocatori scherzavano con lui e tra loro; non notavano la differenza dal solito Ron, anche perché erano principalmente ragazzi che incontrava in occasione delle partite, ed in occasione delle partite aveva sempre quell’aspetto terrorizzato. Non potevano capire che stavolta il Quidditch non c’entrava un accidente.

Quando si fu vestito, guardò l’orologio. Mancavano cinque minuti alla partita e Harry non si vedeva. Il che era assurdo, perché era il capitano della squadra di Diagon Alley e di solito arrivava per primo.

-         Dove diavolo è finito Potter? – sbuffò un giocatore particolarmente corpulento.

Non finì di dirlo che Harry entrò come un fulmine nello spogliatoio.

-         Harry! – disse Ron, cercando di racimolare un po’ di entusiasmo. – che ti è… -

Ma l’amico non lo guardò nemmeno e corse come un razzo in un bagno con tutto il suo borsone da Quidditch. Prima che Ron, piuttosto perplesso, potesse bussare per chiedere se stava bene, si accorse con orrore che dietro a Harry era trotterellata tranquillamente anche Luna.

-         Oh, questo è lo spogliatoio maschile! – sorrise amabilmente a quel branco di ragazzoni in divisa da Quidditch. – fate pure come se io non ci fossi! –

Ron provvide a spingerla immediatamente fuori rivolgendo un sorriso che voleva essere rassicurante agli altri giocatori.

-         Luna – sibilò, una volta fuori. – sarebbe meglio che le donne non entrassero negli spogliatoi maschili. –

Luna lo guardò con interesse.

-         Siete in imbarazzo? –

Ron non aveva le forze per intavolare una discussione così assurda.

-         Sì, sì, siamo molto in imbarazzo. Ora, se non ti dispiace… -

Alzò lo sguardo e vide Hermione entrare dalla porta scorrevole dell’ingresso.

Per qualche strano motivo sentì un tonfo pesante al cuore.

Si ricompose in poche frazioni di secondo e la chiamò. Era una buona occasione per scaricare Luna a lei.

-         Hermione! –

La ragazza si voltò, lo vide, sorrise, gli venne incontro.

Luna si voltò a guardare Ron con le sopracciglia aggrottate.

-         Hai male alla gola, Ronald? – gli chiese, preoccupata.

Ron sbattè le palpebre.

-         No, perché? –

La ragazza fece spallucce.

-         Mi è sembrato che avessi una voce diversa quando hai chiamato Hermione. –

Lui la fissò per un attimo, aprì la bocca per dire qualcosa.

Ma Hermione li raggiunse proprio in quel momento.

-         Allora, come va, Ron? Mal di pancia? – disse. Sembrava di ottimo umore. Salutò allegramente Luna.

Ron le sorrise e quasi si sentì sollevato.

Finché lei aveva quello sguardo, poteva stare tranquillo.

-         Beh, ragazze, sarà meglio che mi muova o mi squalificheranno – sorrise nervosamente, con un groppo in gola.

Hermione lo guardò ed ebbe l’istinto di baciarlo sulla guancia.

Oh, ma non era da lei.

Niente baci in pubblico, se non per stretta necessità.

A volte si dava noia da sola.

- Buona fortuna, Ronald! – agitò il braccio Luna. – non chiedere niente a Harry! – gli urlò dietro, spensieratamente.

Hermione si voltò a guardarla, divertita.

-         Cosa? –

Luna la fissò.

-         Cosa? – ripetè, sorridendo.

Hermione le sorrise di rimando, un po’ incerta.

Non aveva mai capito se Luna ci fosse o ci facesse.

 

La partita fu un disastro.

Un disastro epico, sotto tutti i punti di vista.

Perfino Hermione, che di Quidditch ne capiva ben poco, rimase allibita.

Ron, che come al solito giocava da Portiere, sembrava più che teso; sembrava di ghiaccio. Certo, aveva rovinato altre partite per la sua tensione psicologica. Ma non così: questa volta non provava nemmeno a prendere la Pluffa. Alzava una mano. Niente di più. Sembrava lontano anni luce.

Tutti i fischi indignati che riceveva dal pubblico, non sembrava nemmeno sentirli.

Harry era semplicemente distratto. Ma da un fissato come lui, era comunque incredibile.

Il risultato fu che la squadra avversaria fece punto ogni volta che voleva. E naturalmente Harry non prese la Pluffa.

I compagni di squadra di Harry e Ron sembravano furibondi. Di solito erano più o meno loro che guidavano la partita; e stavolta l’avevano portato alla sconfitta più totale.

Si erano giocati le finali regionali.

Hermione si dimenticò per un attimo di Luna nella folla e a fine partita corse fuori dagli spogliatoi, basita.

Si sentivano i ragazzi litigare anche da lì.

Il primo a uscire, piuttosto di fretta effettivamente, fu Harry.

-         Harry, non fare quella faccia, non è andata… poi così male – disse, cercando di tenere il passo con lui.

Il ragazzo non la guardava nemmeno in faccia e sembrava quasi tentasse di seminarla.

-         Ehm, Harry – fece Hermione, cominciando ad avere un po’ di fiatone. – ti dispiace rallentare, che non ti sto dietro? –

-         Sì, mi dispiace eccome, sto cercando di seminarti – disse.

Harry sentì il gelo dentro di sé e si bloccò, guardando Hermione di sottecchi.

La ragazza ora sembrava molto più che perplessa.

-         E perché mai staresti cercando di seminarmi? – fece, seccata.

Oh, no, una domanda no!

Harry riprese a camminare, quasi a correre. Hermione gli veniva dietro come un segugio.

-         Perché non posso parlarti viste le mie condizioni! – si tappò la bocca, inutilmente.

Ti prego, Hermione, non fare domande per una volta.

Lei poteva essere nota per la sua intelligenza e intuitività, ma di certo non per la sua capacità di lasciare in pace la gente.

-         Parli in modo assurdo, Harry! In che condizioni saresti? –

-         Non ho intenzione di parlare con nessuno perché ho bevuto del Veritaserum il cui effetto finirà solo stasera, perciò fino ad allora non sono in grado né di mentire né di usare delle frasi evasive. – disse.

Ormai la frittata era fatta. Si fermò, rassegnato.

In fondo, era Hermione. Almeno non avrebbe cercato di sfruttare la cosa a suo vantaggio.

La ragazza era incredula.

-         E perché mai hai bevuto del Veritaserum? –

-         Me l’ha propinato il cugino pazzo di Luna ieri alla redazione del Cavillo, con l’inganno, e gradirei non ricevere ramanzine al riguardo da parte tua, grazie. –

Harry sospirò, guardandola con aria di scusa.

Hermione sembrò sul punto di arrabbiarsi, ma poi parve lasciar perdere e scrollò le spalle.

-         Beh, allora ti dico solo questo: visto che la tua vita è costantemente in pericolo, dovresti fare più attenzione a ciò che bevi. Ora, comunque, capisco perché eri così distratto, in campo. Ma… - si fermò un attimo. Si guardarono.

Non era scema. Sapeva che non era politicamente corretto che gli facesse una domanda, conoscendo la situazione.

Finse di non ricordarsi di questo particolare.

Non si può essere sempre politicamente corrette.

-         Ma Ron, cos’aveva da essere così teso? Era molto più nervoso del solito, sembrava sul punto di stare male. Anzi, al dire il vero è così da qualche giorno. Ne sai qualcosa? –

Harry si sentì davvero, davvero, davvero gelare.

Una goccia di sudore freddo gli percorse la tempia.

Le parole spingevano troppo forte per uscire. La sua volontà non era sufficiente.

Dentro di sé sentì una paura folle.

-         Sì, ne so qualcosa – disse, a voce bassissima.

Hermione non si aspettava che ci fosse effettivamente sotto qualcosa. Per questo aveva fatto quella domanda con tanta facilità.

Ora come ora, però, le era impossibile non essere incuriosita.

Chi non lo sarebbe stato?

-         Oh – disse, un po’ incerta. Si sentiva in colpa, ma al tempo stesso voleva sapere. Ron aveva eluso le sue domande con strana facilità.

Era tutto il giorno che era elettrizzata dalla consapevolezza che quella sera sarebbero andati a vivere insieme. Ma al tempo stesso, il recente atteggiamento evasivo di Ron la spaventava un po’. Di solito, se Ron doveva mantenere qualche segreto o dire qualche bugia, si vedeva subito e sputava la verità in tempo minimo. Questa volta, sembrava una questione importante, e lui sembrava decisissimo a non renderla partecipe. Ed era davvero nervoso e… boh, quasi triste, a dire il vero.

Il che era assurdo, perché lei ultimamente poteva scoppiare dalla felicità.

-         Ehm… è una cosa grave? –

Harry la fissò. Non era mai stato così terrorizzato dalle parole in vita sua.

Avrebbe voluto non aver mai parlato con Ron, la mattina prima.

Se non fossero stati tanto amici da dirsi immediatamente le cose, ora non si sarebbe trovato in quella situazione.

Ma era un ‘se’ impossibile, no?

-         Beh… - fece Harry, a fatica.

La cosa brutta del Veritaserum è che non esistono mezze misure. Un ‘dipende’ non è contemplato.

-         Sì. – disse, arretrando. – è grave. –

Hermione cominciava a preoccuparsi. Harry sembrava nervosissimo, quasi quanto Ron negli ultimi giorni. Cosa diavolo le nascondevano?

-         E’ una cosa che ti riguarda? –

-         No. –

-         E chi riguarda, allora? –

No, no, no!

-         Te e lui. –

Non sembrava la risposta che Hermione si aspettava. Cominciava a sentirsi strana. Meno desiderosa di indagare, ad esempio.

Al tempo stesso, sembrava anche lei sotto l’effetto di una pozione.

Se Harry non riusciva a frenare le risposte, Hermione non riusciva a frenare le domande.

-         Una cosa grave che riguarda me e lui? – fece, deglutendo lentamente. Arrossì leggermente. – mi sento davvero una stupida a chiedertelo, Harry, ma… vuole lasciarmi? –

Il ragazzo scosse immediatamente la testa.

-         No, assolutamente no! –

Ma dov’era Luna? Non era la sua spalla?

Era anche vero che, attorno a loro, la folla del pubblico che usciva era ancora enorme. Probabilmente lei era rimasta incastrata da qualche parte.

Li sballottavano di qua e di là ma se ne accorgevano a malapena.

Hermione aprì la bocca per parlare ed entrambi sapevano quale sarebbe stata la domanda e Harry si sentì morire.

C h e  c o s a

- Non chiedermi nulla! – sibilò Harry, al culmine della disperazione.

è

Hermione non poteva più trattenersi.

s u c c e s s o ?

E lo chiese, lettera per lettera, parola per parola.

Punto di domanda, fine.

Il Veritaserum agì sulla sua mente, corse lungo i suoi nervi, lungo i suoi muscoli, arrivò alla bocca.

-         Ti ha tradita con un’altra. E’ andato a letto con una donna che ha conosciuto ad una festa a cui Cloe Shefferd l’aveva invitato. –

Ecco, a volte è proprio vero che le bugie possono essere a fin di bene. O che occhio non vede, cuore non duole… ognuno ha la versione che preferisce, la sostanza non cambia: spesso è preferibile essere ingannati che ricevere addosso la verità come uno sparo che pone fine ad ogni cosa. E’ preferibile non sapere o conoscere una verità un po’ distorta. E’ meglio credere che forse un giorno da un uovo non fecondato nascerà un pulcino, piuttosto che scoprire che tutte le cure, le maledette cure che gli hai dedicato per giorni, sono state assolutamente inutili.

A volte non c’è niente di male a mentire.

Hermione non aveva mai fatto niente di estremo; per lei già sciare era una grande prova di spericolatezza.

Ma non avrebbe saputo descrivere diversamente quello che provò in quel momento: come essere buttati in un burrone oscuro sapendo che qualcuno si è dimenticato di metterti la sicura all’elastico.

Sapendo che cadrai e no, non rimbalzerai.

-         E’ uno scherzo? -

-         No. – rispose, gelido, il Veritaserum.

Perché ormai era a quello che Harry si riduceva. Spettatore mentre il Veritaserum spezzava il cuore alla sua migliore amica. Con la sua voce.

Hermione era pallida, pallida come non l’aveva mai vista.

Si accorse che aveva esattamente la stessa espressione disperata, triste e sconvolta di Ron.

E non era giusto, non era giusto, non era giusto.

Lei lo guardò e non gli disse più niente. Si voltò, sbattendo contro le persone che uscivano, controcorrente.

Harry appoggiò la schiena contro il muro, il respiro irregolare.

Sentì, da qualche parte dentro di sé, che le cose sarebbero cambiate davvero, questa volta.

Alzò gli occhi e vide Luna con i suoi codini in cima alla testa che lo fissava con gli occhi azzurri azzurri.

-         La verità ti ha mai fatto tanto male, Luna? – le chiese, prima che lei potesse dire una parola.

La ragazza sbattè le ciglia, ed al contrario di qualsiasi persona normale non rimase stupita e non fece domande. Sembrò pensarci su e poi fece spallucce come se non ci fosse molto da fare.

-         Io ho sempre avuto molta più paura delle bugie. Fanno fare confusione come quando cerchi qualcuno vestito da Merlino ad una festa di maghi Merlini. – disse, e non aggiunse altro.

Harry dentro di sé sorrise, fuori non ne aveva la forza.

Se hai paura della verità significa che sei diventato un bugiardo?

 

 

 

**

Eccomi di nuovo! Non so, avrò fatto ritardo stavolta? Non mi ricordo l’ultima volta che ho postato… <- questo dovrebbe farvi dubitare molto>_>

Ehm, non ho particolari novità questo mese (quanto sembro un venditore di surgelati porta a porta? Forse dovrei davvero provarci). Uh, ci tenevo in modo particolare a ringraziare tuuuutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo*_* Non troverei la forza di andare avanti anche nei cosiddetti punti morti se non ci fosse qualcuno che mi inneggia e siete davvero cariniç_ç Visto che non ho mai preso l’abitudine di rispondere commento per commento (o magari dovrei farlo?>_>) non tanto per pigrizia quanto per una sottospecie di timidezza fondamentalmente grottesca, dico solo a chi mi ha detto che il tradimento di Ron verso Hermione è risultato un po’ ovvio (sono praticamente sicura fosse MaryAngel –aprirei un’ulteriore finestra Internet per controllare, ma msn mi sta rallentando tutto quanto, per oscure ragioni, e ho paura che il mio già abbastanza psicotico pc portatile potrebbe non sopportarlo e bloccarmi tutto per avvalorare il suo continuo melodramma del ho-poca-memoria), innanzitutto ci tengo a dire che le critiche costruttive sono accettatissime, mi fa solo bene tormentarmi un po’XD Comunque non so, forse lo è stato (banale, intendo), ma era un argomento che ci tenevo molto a trattare e che visti i caratteri dei personaggi (almeno dal mio personalissimo punto di vista) mi sembrava anche, come dire, adatto. Ce l’avevo in testa da parecchio tempo e per me sarebbe stato inevitabile non farlo avvenire; come ho già detto penso che sia una di quelle cose di cui valga la pena parlare… però ti ringrazio per avermici fatto riflettere!

Edvige86, sì, Ron ed Hermione ‘l’hanno già fatto’ in UMC, però mai più da allora perché, come ha prontamente spiegato la Cri, acclamata produttrice di Spuntino di Mezzanotte (aaal ciiinema) e mia pr pagata in nero (ma si sta provvedendo a farle avere un contratto universalmente legale… o perlomeno legale sulla riviera romagnola, dove mi ritroverò probabilmente a vendere borse finto Prada per vivere, mentre lei sguazzerà nella sua piscina hollywoodiana spendendo e spandendo i miei sudati risparmi), dicevo, perché Hermione ha rimasto una sorta di trauma a causa dell’allor professor Phoenix, che diciamo ‘la blocca’ quando si è sulla strada del momento topico, ecco.

Stavolta ho scritto un commento lungo quanto la fic, ho ciarlato tantissimo>_> Se mi sono dimenticata, vista la mia sveglitudine (neologismo), di rispondere a qualcun altro, fatemelo notare che mi metto gli occhialiU_U””

Grazie ancora, a tutti tutti. L’ho già detto che siete gentilissimi? <- sì, ma ribadisco._.

A presto!

 

 

Miwako__

 

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Capitolo 10
*** Weakness ***


WEAKNESS

WEAKNESS.

 

[Debolezza.]

 

 

“I'm not always like this                        “Non sono sempre così
It's something, i become                         
è qualcosa che divento
A terrible weakness                                
una terribile debolezza
In my nature, in my blood                      
 nella mia natura, nel mio sangue
Save me, oh save me,                              
salvami, oh, salvami,

save me from myself                                salvami da me stesso,
Before i hurt somebody else again.”      
Prima che faccia ancora del male a qualcun altro.”

 

 

“Glittering cloud”, Imogen Heap.

 

 

 

 

‘Tradimento: tradimento.
s. m.
il tradire; l'atto proditorio con cui si arreca danno o ingiuria grave a qualcuno, violando l'obbligo della lealtà o della fedeltà nei suoi confronti o abusando della sua fiducia, con un atto offensivo inatteso, che prende di sorpresa.’

Quella domenica sera, Hermione scomparve.

A dire la verità, da dopo la partita, Ron non aveva visto più nessun volto conosciuto.

Si era aggirato nello stadio svuotato per parecchi minuti, e non aveva incontrato nessuno. Dopo un po’, il personale di pulizia lo aveva buttato fuori.

Non ci aveva dato particolarmente peso. Per essere stato in grado di mentire a Hermione (il solo ricordo, per qualche odioso motivo, gli faceva venire i brividi lungo la schiena), aveva buttato fuori tutte le sue emozioni richiudendo la porta di scatto, in modo che non rientrassero. Ed ora era come se stesse appoggiato alla porta con forza, e la rabbia e la delusione e la tristezza e la colpa e la paura spingevano per entrare, ed erano quantitativamente di più, ma lui era più forte lo stesso, vero?

Ora si ritrovava, come dire, forzatamente atarassico. E inespressivo. Almeno fisicamente, era il bugiardo perfetto. Peccato che gli si rivoltassero le viscere in continuazione.

Harry era scappato dopo quella partita disastrosa, e con lui, a quanto pareva, pure Luna; ma Hermione aveva promesso di aspettarlo. Possibile che avesse fatto così schifo a giocare che si fosse offesa? Il che era assurdo, perché lei non ne capiva mezza di Quidditch, si fossero messi in cerchio a tirarsi un mappamondo per lei sarebbe stato lo stesso.

Anche nel quartiere intorno, non incontrò proprio nessuno. Non si stupì di non vedere nemmeno Cloe, che aveva promesso di fare un salto; la situazione era ovviamente cambiata. La sola idea di doverla rivedere il lunedì a lezione lo esasperava.

Perplesso, si Materializzò all’’appartamento’. Aprì la porta con le chiavi (di cui conosceva la fisionomia a memoria per quanto le aveva guardate).

E niente, dentro il silenzio e il vuoto e la polvere e l’odore di chiuso e tutto quello che ci aspetta di vedere in un appartamento che non appartiene a nessuno. Ma non era vero, quello era di qualcuno. Quello non doveva odorare di chiuso, lui aveva aperto le finestre ogni giorno; quello non doveva essere vuoto, Hermione aveva portato il primo scatolone di libri due giorni fa; quel pavimento non poteva essere impolverato, ci avevano camminato ed Hermione si era messa in punta di piedi e si erano baciati.

Eppure, niente.

Solo uno strana scossa fredda che lo colse per tutte le ossa, dalla punta delle dita al collo, come se quella scossa fosse un’insinuazione della sua mente che, per una volta, proprio quella volta, gli parlava.

Gli parlava e diceva: lei sa.

 

Harry non riuscì nemmeno a voltarsi quando sentì lo schiocco, il ‘pop’. Rimase fermo, gli occhiali abbandonati sul comodino, la testa affondata nella federa, le finestre chiuse.

-         Harry – disse la voce di Ron. Aveva quel suo solito tono scherzoso e sdrammatizzante. Stavolta però faceva paura, perché la voce un po’ tremava. – sai dov’è Hermione? –

Harry, nonostante si aspettasse quel genere di domanda, sentì i nervi tesi quasi come se fossero sul punto di spezzarsi. Il Veritaserum era ancora lì e, seppure flebile, minacciava di prendere il sopravvento quando meno se l’aspettava. Si mise seduto ma per un attimo preferì non mettere gli occhiali. Non voleva vedere l’espressione di Ron. Meglio un’abbozzata figura alta alta con i capelli rossi arruffati. L’espressione lo avrebbe spaventato più del suo tono di voce, probabilmente, anche e soprattutto se fosse stata difficile da interpretare.

-         No – disse, calmo. Sentiva distintamente il cuore battere di agitazione. – perché? -

-         Dovevamo andare all’appartamento dopo la partita, e doveva aspettarmi fuori dagli spogliatoi, ma non si è vista. Tu l’hai incrociata? –

Ron guardò gli occhi verdi dell’amico un attimo prima che inforcasse gli occhiali.

C’era quel qualcosa di strano, di fuori dal normale, che magari era solo una leggera sfumatura, ma che negli occhi di un amico riconosci immediatamente.

E non sai come, ma il tuo battito cardiaco sa che ti toccherà ascoltare cose che non vuoi sentire, e accelera, come per correre via.

- Sì. – disse, secco. Si fermò un attimo. L’effetto del Veritaserum era più domabile; ora non aveva più la parlantina delle prime ore. Ma la verità gli veniva comunque fuori, liscia, come acqua da una rete. – l’ho vista. Mi ha chiesto che cosa avessi, perché le sembravi strano. Ed io le ho risposto. –

Ron sbatté le palpebre. Fece un sorriso incerto.

-         Beh, cosa le hai risposto? –

-         La verità. –

Non tutto, in Ron, era ancora arrivato a capire. Forse la sua volontà recalcitrava apposta.

-         La verità? In che senso? – fece, fissandolo.

Solo chi è mai stato veramente, ma veramente costretto a fare qualcosa, con la forza, a qualsiasi costo, contro ogni particella del proprio corpo e del proprio volere, avrebbe capito quanto lacerante fu per Harry dire la verità e solo la pura verità senza neppure poterla in qualche modo abbellire.

-         Il tuo tradimento. Le ho detto tutta la verità. – disse, un nodo stretto in gola.

Ora Harry lo vedeva bene. Vedeva quasi concretamente la sua fiducia in lui che lo abbandonava.

-         Cos’hai fatto? – fece Ron, anche se aveva capito benissimo.

Guardò Harry e prima ancora di sentirlo parlare, sapeva che da quel momento, da quell’esatto istante, qualcosa tra loro cambiava.

-         E’ giusto così, Ron – disse il ragazzo, continuando ad evitare il suo sguardo come se stesse leggendo le battute di un copione. – l’avrebbe scoperto comunque. Tu non sei in grado di mentire, saresti crollato. E non guardarmi in quel modo – disse, dopo aver alzato un attimo gli occhi.

Ron si accorse che stava stringendo i pugni quando sentì un forte dolore ai palmi.

Non gli era mai capitato di guardare Harry e provare tanta rabbia da tremare.

-         Come ti dovrei guardare? Cosa devo pensare, adesso, cosa ti devo chiedere? Perché l’hai fatto? Quale insano meccanismo nella tua testa ha messo in moto tutto questo? Di cosa ti vendichi? –

Harry aggrottò le sopracciglia, evitando di nuovo il suo sguardo.

-         Tu mi stai accusando, ma io ho semplicemente detto la verità. Ti sei autodistrutto, hai ceduto come cedi sempre, hai avuto paura come hai sempre, hai fatto una cazzata come fai sempre. Non hai scuse, Ron. Sei tu ad aver sbagliato sin dall’inizio, e lo sai. Per questo sei felice di potertela prendere con me… -

-         In questo momento, non so neanche che cosa voglia dire essere felice – disse Ron, con una voce strana, rabbiosa, cattiva, delusa. – e spero che sarà così anche per te. –

Si guardarono.

Fa male, fa male.

Fa maledettamente male!

Ron non riusciva quasi più a respirare dalla rabbia e dalla tristezza e dalla paura.

Harry abbassò la testa e la mise tra le mani. Nemmeno lui sapeva che cosa volesse dire essere felice.

Ron prese la bacchetta e fece per Smaterializzarsi.

-         Sono sotto Veritaserum – mormorò, senza alzare la testa. – per errore. Per questo ho detto tutte quelle cose ora e oggi – tacque un attimo, disperato. – perciò non sto mentendo quando dico che mi dispiace. Mi dispiace davvero, Ron. So cosa vuol dire avere il terrore di perdere qualcosa a cui si tiene. –

Ron non disse niente per qualche istante. Harry non sapeva che espressione avesse.

Per lui furono istanti lunghi ore.

-         Allora – disse gelido all’improvviso Ron. Sembrava talmente arrabbiato da non riuscire a pensare. – ti ringrazio per avermi fatto conoscere questa sensazione. Veritaserum o no, quelle cose le pensavi veramente. Non mi interessa com’è successo, non ora. Sai, Harry, non pensavo esistesse modo al mondo in cui potessi deludermi. – prese il respiro, deglutì. Anche lui avrebbe messo la testa tra le mani. – non lo so, è strano, improvvisamente è come se si fosse cancellato tutto. Non ti… conosco… davvero. –

Era che scoprire cosa pensava il tuo migliore amico di te, scoprirlo sul serio, era un proiettile.

Era che faceva male sapere che ora era davanti a te con la testa tra le mani e gli dispiaceva, e avevate paura entrambi, ma non c’era nulla, nulla che potesse avvicinarvi ora.

Sapere che se fossi adulto, se fossi maturo, sapresti perdonare.

Ma ricordarti della tua teoria, che adulti non si diventa mai.

Non tu, almeno.

Ed improvvisamente non c’è più un noi ma un tu e un io.

Improvvisamente sei solo.

 

Ginny ricevette una lettera mentre stava giocando con Oliver.

Stava facendo una smorfia particolarmente complicata quando un gufo sconosciuto picchiettò alla sua finestra.

Era la prima lettera che riceveva da quando era lì.

Il cuore le fece un balzo di almeno tre metri.

Aveva scritto una sola lettera.

Forse era la risposta.

Certo, non era Edvige.

Si avvicinò alla finestra ma non appena sfiorò la busta con le dita, lasciò andare il respiro.

Riconosceva la carta da lettere, e non era da chi si aspettava.

Era comunque strano. Le avevano detto che nessun membro dell’Ordine le avrebbe scritto per motivi di sicurezza. Lo avrebbero fatto solo in caso di urgenza.

Ginny aprì la busta, tesa.

Ginny,

so che dovrei chiederti come stai ma al momento sono troppo confusa e non voglio darti l’impressione che non mi interessi quello che stai passando.

Non ha molto senso che io scriva proprio a te, ma una volta mi hai detto ‘se vuoi che siamo amiche, devi sapere che tra amiche si deve dire quando c’è qualcosa che non va, fosse anche la cosa più stupida del mondo’. Probabilmente è proprio stupida, in effetti, e ti scrivo perfino, proprio ora… ma in questo momento non so nulla. Non so cosa fare, non so con chi parlare, non so che dire. Mi sembra di non sapere nemmeno più come scrivere una lettera mantenendo un minimo di dignità.

Voglio dire, Ron mi ha tradita.

Perché? Non capisco più niente. Penso e ripenso, riprendo tutti i passaggi, ogni attimo, ma non trovo l’errore.

E’ incredibile che ti venga a dire queste cose, è così stupido… cioè, succede continuamente, no? E Ron lo conosco, non dovrei stupirmi, no?

Ma è davvero strano, perché ho una voglia incredibile di piangere ma non ci riesco. Come una punizione infernale. Come se mi si fosse ghiacciato tutto dentro.

E ora non posso fare a meno di vederlo e non posso nemmeno vederlo.

Non so come mi sia venuto in mente di parlare di un argomento del genere in un momento pesante come il tuo, ed in fondo non dovrei nemmeno in un momento normale, perché sei sua sorella.

Ma sei l’unica amica che mi rimane.

Perché sai, contro ogni cosa, ogni mio pensiero, ogni situazione, c’è il mio carattere.

Che, per quanto mi opponga, non mi permetterà mai di perdonare.

Questa è la cosa che più mi spaventa.

E se l’infelicità è il prezzo da pagare per raggiungere la felicità… ne vale davvero la pena?

Scusa, magari è davvero la cosa più stupida del mondo. Parlare di un ragazzo in questo modo…

Non mi riconosco.

So che tu te la cavi molto meglio di me.

H.G.

A Ginny sfuggì la lettera di mano per un attimo.

Rilesse più volte la lettera, ogni riga, per essere sicura di non aver capito male.

Si lasciò cadere sul letto, deglutì.

Dall’esterno, magari non era strano che lei, nella sua posizione di sorella di Ron e amica di Hermione, si dispiacesse per loro. Ma quello non era semplice dispiacere.

Era tristezza. Era delusione. Era un colpo.

Era che Hermione, la ragazza più seria, rigida e riservata che avesse mai conosciuto, le aveva scritto una lettera su suo fratello, ed era la prima volta che la sentiva parlare di lui in quei termini. E questo significava che per lei era stato peggio di un trauma.

Se c’era una cosa di cui Ginny era sempre stata quasi sicura, era di ciò che c’era tra Ron ed Hermione.

Né lei, né i suoi fratelli, né tantomeno Hermione credevano all’anima gemella, ma neanche lontanamente.

Ma assistere a quello che era successo tra Ron ed Hermione nel corso degli anni era come… come un privilegio. Era come riuscire a vedere una stella cadente ed essere abbastanza veloci da esprimere un desiderio. Era come riuscire a mettere la dose giusta di zucchero nel caffè. Era riuscire a correre per quattro ore senza mai fermarsi.

Era qualcosa che solo la natura o il destino potevano creare. E tu magari ti sentivi un po’ triste perché sono di quelle cose che succedono una volta su mille, e certo se la fortuna ha accarezzato qualcuno vicino a te è difficile che torni per dare anche a te il tocco magico – un fulmine non colpisce mai due volte nello stesso punto, no?

Ma il bello di questi piccoli prodigi è che sei felice anche solo di vederli.

Ron ed Hermione erano tutto fuorché perfetti, certo; anzi, a dire il vero avevano qualche difetto di troppo. Lui faceva spesso e volentieri battute a proposito, era disordinato e casinista e pure un pochino superficiale, lei era davvero troppo seria, rigorosa e bacchettona, e quando litigavano, cioè più o meno sempre, ti veniva il mal di testa per quanto riuscivano ad andare avanti ad urlarsi addosso. Ed erano capaci di dirsi cose orribili e non parlarsi per giorni. Poi, per un motivo o per l’altro, si tornava daccapo. C’era qualcosa di rassicurante in questo.

Se non ce la facevano loro, chi altro poteva?

Chi altro poteva riuscire a non essere solo? Anzi, chi c’era mai riuscito?

Ripiegando la lettera, prese la busta in silenzio.

Poi si accorse che il sigillo che la chiudeva era danneggiato.

Prese la bacchetta. Controllò con un incantesimo.

La busta era già stata aperta.

Improvvisamente sentì una gran rabbia. Basta.

Questo era troppo.

Saltò giù dal letto stringendo in mano la lettera, spalancò la porta e la richiuse con un botto.

Quasi correndo percorse una decina di corridoi, su e giù per le scale, avanti ed indietro, controllando ogni porta con le sopracciglia aggrottate ed il sangue che ribolliva ed ignorando le occhiate stranite o diffidenti dei Mangiamorte che incrociava.

Anzi, quando incontrò un Mangiamorte piuttosto pallido e smilzo al corridoio del secondo piano, gli si piazzò davanti afferrandogli un lembo della giacca.

-         Hai idea di quale sia la stanza di Malfoy? – ringhiò.

Lo smilzo fece una faccia un po’ spaventata (non doveva essere un veterano) ed indietreggiando indicò l’ultima porta del corridoio.

Ginny lo lasciò filare via e si piazzò davanti alla porta.

Non si diede il tempo di pensare; chi esita non agisce.

Spalancò la porta senza bussare.

La stanza di Malfoy era imbarazzantemente molto più bella della sua. Sembrava il boudoir di qualche principe.

Draco si stava allacciando l’ultimo bottone della camicia. Alzò lo sguardo grigio verso di lei inarcando solo leggermente le sopracciglia.

Bene, neanche vederla piombare in camera senza bussare lo sorprendeva.

Prima o poi qualcosa lo avrebbe sconvolto e lei avrebbe riso e parecchio anche, sì.

-         Tu, razza di bastardo dalla personalità multipla – attaccò immediatamente Ginny, sbattendosi la porta dietro le spalle e sventolando la lettera. – tu stai ancora controllando la mia posta? –

Draco si aggiustò il colletto come se niente fosse. Andò alla scrivania per mettersi l’orologio al polso.

-         Ti comporti come se avessi una corrispondenza assidua – le rivolse uno sguardo di sufficienza. – cos’è, non hai preso le tue pillole per i dolori mestruali, oggi? –

Ginny gli si avvicinò minacciosamente. Draco cominciò a pettinarsi guardandosi allo specchio appeso al muro.

-         Malfoy, te lo dico molto lentamente cosicché tu mi possa comprendere – fece, riducendo gli occhi a due fessure. – non osare toccare le mie lettere. Né quelle che ricevo né quelle che spedisco. –

-         Non sono nelle condizioni di avere paura di te o delle tue lettere strappalacrime, Weasley – replicò lui, continuando a pettinarsi.

Ginny gli strappò di mano il pettine senza preavviso e lo spezzò in due.

Fissò Malfoy.

-         Tu fai questa fine se continui a intercettare la mia posta. Se vi potete permettere di farlo con gli altri, buon per voi, ma io certe cose non le tollero. –

Malfoy sembrò mal trattenere una risatina divertita. Prese una giacca nera appoggiata alla sedia e se la infilò tranquillamente.

-         Correrò il rischio. – fece per sorpassarla, ma lei gli si parò davanti. Lui fece un lungo ed esagerato sospiro, fissandola.

Ginny cercò di sostenere il suo sguardo, cosa che si rivelò più difficile del previsto. Dovette ricorrere a tutta la sua forza fisica e spirituale per non distogliere gli occhi e lasciarlo passare.

-         Weasley – fece Malfoy, molto lentamente, come se stesse parlando con una deficiente. – personalmente non mi interessa nulla della tua stucchevole chiacchierata epistolare su i problemi sentimentali femminili. Anzi, ti confesso che preferirei gettarmi in una fossa di serpenti piuttosto che sorbirmi questa vostra ipersensibilità tutta filobabbana. Ma è stato Rodolphus a darmi questo sgradito compito. Se hai da dire, lamentati con lui, io ne ho abbastanza sia di lui che di te. –

Passò oltre colpendola poco gentilmente alla spalla. Ginny strinse la lettera tra le mani tanto da stropicciarla. Lamentarsi con Rodolphus. Certo. Era come dire che lei non ci poteva fare proprio niente.

Si voltò a guardarlo mentre si sistemava meglio la camicia bianca e per la prima volta si rese conto che era stranamente elegante.

-         Dove stai andando? – borbottò, sospettosa.

Draco le lanciò un’occhiata come se fosse stupito che lei fosse ancora lì.

Diavolo. Odiava fare la figura della stupida davanti…

No, cioè. Odiava fare la figura della stupida. Punto. Ovviamente.

-         Mi sfugge il motivo per cui sei ancora qui, ma soprattutto perché mi fai delle domande a cui non ho assolutamente intenzione di rispondere – disse Draco, con un sorriso ironico, nascondendo la bacchetta nell’interno della giacca.

Prima o poi, prima o poi qualcuno lo avrebbe preso a schiaffi o gli avrebbe spettinato quei capelli e allora lei avrebbe riso. Sì.

-         Ma fra apprendisti ci si dovrebbe confidare – fece lei con aria casuale. – ci fosse un Mangiamorte, qui, forse sarebbe informato di qualche cosa di importante. Ma non ce ne sono. –

Draco la fissò. Aveva lo strano impulso di gettarle addosso un incantesimo di silenzio o qualcosa del genere. Ogni sua parola era più irritante. Era peggio… peggio dell’ortica.

Che poi, quando l’ortica ti punge, dovresti smetterla di grattarti e resistere, altrimenti diventa sempre peggio.

Draco era incapace di resistere.

-         Hai un umorismo molto raffinato, Weasley, il che è strano per una che è vissuta con una famiglia la cui massima idea di divertimento è ingaggiare una gara di rutti. –

Ginny inarcò le sopracciglia.

-         Del resto, cosa ne vuoi sapere tu, Malfoy, che dentro a quell’involucro semi-trasparente che chiami corpo non hai nulla? –

Malfoy non riuscì proprio a trattenere un sorrisetto. Era proprio sul punto di dire qualcosa di abbastanza spinto, quando la porta si aprì alle sue spalle senza preavviso.

-         Draco, fra venti minuti… oh – disse Rodolphus, sbattendo le palpebre con aria piacevolmente sorpresa non appena vide Ginny. – Ginevra. Devo ammetterlo, è quantomai strano trovarti qui. Spero… di non aver interrotto nulla – trattenne una risata e attese qualche istante prima di parlare, come se volesse prolungare l’imbarazzo di Ginny il più a lungo possibile.

-         Stavo arrivando – fece Malfoy. Non sembrava granchè felice di vedere Rodolphus. Ultimamente gli sembrava quasi insofferente.

Ginny non poteva che trovare la cosa divertente, specie sapendo che Malfoy non poteva fare proprio niente contro Rodolphus. Certo, anche lei, ma… dettagli.

-         Perfetto – fece l’uomo, che sembrava sguazzarci nell’atmosfera tesa ed ostile che aleggiava nella stanza. Si voltò a guardare Ginny per un lungo istante, come se stesse soppesando un’idea.

Le sorrise con aria strana. Ginny si sentì rabbrividire. Rodolphus doveva essere l’unico essere umano al mondo in grado di fare sorrisi freddi nel senso proprio del termine.

-         Non pensavo che te l’avrei chiesto, Ginevra, ma a vederti così adesso, non so, ho cambiato idea – fece, inarcando un sopracciglio. – ci sarebbe una piccola missione. L’avevo riservata a pochi particolarmente fidati, visto che ha la sua importanza… ma in fondo, l’ultima volta mi hai portato quello che mi serviva. Potrebbe essere un’ottima occasione per tutti di passare ad un grado un po’ più elevato – disse, lanciando un’occhiata anche a Malfoy, il quale rispose con uno sguardo tutt’altro che entusiasta.

-         Rodolphus… - attaccò, gli occhi puntati contro Ginny con aria di non fidarsi minimamente di lei.

-         Non si accettano proteste – fece Rodolphus, roteando gli occhi con aria annoiata e sorridendo viscidamente a Ginny.

La ragazza era un po’ spiazzata. Quando era entrata si era aspettata di arrabbiarsi semi inutilmente con Malfoy e sfogare la sua frustrazione contro di lui come contro un pungiball.

Il risultato era che non solo si sentiva anche peggio di prima, ma ora aveva pure qualcosa da fare.

Anche se…

Beh, un po’ la cosa la interessava.

Stare sempre chiusa in quella stanza non era per lei, in fondo.

-         Cosa dovrei fare? – fece, diffidente.

-         Andare a metterti il vestito più elegante che hai e cercare di avere l’aria più sofisticata possibile. – replicò Rodolphus, con un ghigno.

Ginny aggrottò le sopracciglia mentre Malfoy scuoteva la testa scocciato ed usciva dalla stanza bruscamente.

-         E perché? -

-         Perché andrete ad una festa – disse. – alla festa di beneficenza indetta dal Ministro della Magia Scrimgeour. –

 

Hermione si chiuse la porta di casa dietro le spalle senza curarsi di fare rumore.

Immediatamente, dalla cucina spuntò sua madre, che si stava asciugando le mani con uno strofinaccio.

-         Tesoro! – fece, sorpresa. – non ti aspettavo, pensavo fossi… -

Poi se ne accorse.

Hermione aveva i capelli arruffati ed i vestiti bagnati, i libri che spuntavano alla rinfusa dalla sua borsa solitamente ordinata. Ai suoi piedi gli scatoloni con lo scotch strappato con la scritta a pennarello ‘casa nuova’ tutta sbiadita.

Fuori aveva piovuto, sì, ma parecchie ore prima. Conciata in quel modo, sembrava più magra e più pallida che mai.

Eppure, non disse una parola, sorpassando la madre, diretta verso le scale.

La signora Granger ci mise un attimo per mettere da parte la sorpresa.

-         Hermione? Stai bene? Non dirmi che sei bagnata dal temporale di stamattina? –

La ragazza non rispose, continuando a salire le scale come se non la sentisse.

La signora Granger non aveva molta pazienza con chi la ignorava.

-         Insomma, signorina, torna qui e rispondi quando ti faccio una domanda! –

Hermione si fermò, le dita appoggiate sul corrimano. Non si voltò, mentre parlava.

-         Non ho voglia di parlare – mormorò, a voce così bassa che sua madre dovette tendere al massimo le orecchie per capire.

La voce di sua figlia era sottile; ma lei la conosceva abbastanza bene da coglierne ogni sfumatura. Era la cosa incredibile dei genitori; inspiegabilmente capiscono tutto, dal niente, come certi detective dei telefilm.

Hermione non attese ulteriori domande. Salì in corridoio, aprì la porta della sua stanza, se la chiuse alle spalle, si appoggiò alla parete come se non avesse più forze.

La sua stanza era spoglia. Non c’erano più le lenzuola sul materasso. L’anta dell’armadio era aperta per metà, rivelandone l’assenza di vestiti. Le librerie erano desolate. Le uniche cose che erano rimaste al loro posto erano l’abat-jour sulla scrivania ed un album di fotografie che non era riuscita a fare entrare negli scatoloni dei libri.

Ai piedi del letto, due valige contenevano tutte le sue cose.

Odiò quelle valige.

Ci tenevano a ricordarle che non avrebbe dovuto trovarsi lì, che quella notte non avrebbe dovuto dormire sul suo letto, che, come si dice, ‘era di partenza’.

Beh, niente partenza. E per quanto gliene importava, quelle valige potevano anche essere gettate nel primo cassonetto.

Aveva i vestiti bagnati ma non voleva cambiarsi.

Prese il piumone appallottolato in fondo al materasso e se lo avvolse intorno, sedendosi al centro della stanza, circondata da scatoloni e valige e penombra e silenzio, lo sguardo vuoto.

Aveva girato senza meta per ore ed ore, finché non si era fatto buio, e anche allora aveva continuato a camminare e camminare. Tanto che non si ricordava né dov’era stata né cos’aveva fatto, come un sogno spezzettato dal risveglio. Ad un certo punto doveva aver spedito una lettera ma non aveva la forza di ricordarsi a chi e con quali contenuti.

Sapeva solo che ovunque guardasse, qualsiasi cosa facesse, la sua mente dava e ridava lo stesso identico film, e qualcosa le perforava e perforava sempre lo stesso punto del petto, sempre.

In momenti di particolare lucidità, si diceva che stava decisamente esagerando.

Una ragazza indipendente, con le mani ben strette intorno alle redini della sua vita, non si sarebbe lasciata abbattere così. Erano quelle cose da passarci una settimana sul divano a mangiare gelato e patatine. Erano quelle cose da arrabbiarsi a morte con lui e dire di non volerlo rivedere mai più, versarci qualche lacrima e andare avanti.

Aveva sempre saputo di non avere delle reazioni normali di fronte alle cose, e questa ne era la riprova.

Non aveva minimamente fame. Ma le brontolava lo stomaco. Non aveva voglia di stare seduta. Né di stare in piedi. Era arrabbiata, furiosamente. Ma la tristezza era mille volte più forte.

Non voleva rivederlo mai più. Ma se non lo avesse rivisto non sarebbe più riuscita a respirare.

Non ci aveva ancora versato nessuna lacrima.

Piangere è la migliore valvola di sfogo, aveva letto. Se te lo tieni troppo poi finisce che ti viene la ruggine dentro.

Nei momenti di minor lucidità, pensava cose terribili.

Come che questo non sarebbe successo… se fosse stata meno chiusa con lui.

Se, quando era stato il momento, si fosse lasciata convincere, invece di opporre resistenza come una bambina piccola.

Perché sapeva che se fosse stata adulta, se fosse stata matura, avrebbe anche saputo perdonare.

Ma forse Ron aveva ragione; adulti non si diventa mai.

Ed improvvisamente non c’era più un noi ma un lui ed un io.

Improvvisamente era sola.

 

Ron teneva il dito premuto contro il campanello senza il minimo ritegno.

Il cuore gli batteva all’impazzata, moriva di paura, e voleva scappare e voleva piombare dentro senza chiedere il permesso, e non voleva stare fermo ma nemmeno correre e l’unica cosa che sentiva dentro era qualcosa che gli perforava il petto e che gli faceva un male indescrivibile.

La signora Granger aprì la porta con le sopracciglia aggrottate.

-         Ehi, che modi, non si suona così… - s’interruppe, vedendo Ron. Assunse un’espressione strana. – Ronald… sei tu. –

Non si scostò di malavoglia come faceva di solito, per farlo entrare. Gli bloccava l’entrata.

-         Devo vedere Hermione – disse Ron, sentendo i brividi soltanto a dirlo. – per favore – aggiunse in fretta.

La signora Granger sembrava stranamente combattuta.

A Ron non interessava se lei sapesse o no. Voleva solo che la smettesse di esitare e lo lasciasse passare.

- Non so se è il caso – fece la donna. – a dire il vero, quando Hermione è tornata, mi è sembrato non stesse molto bene. Aveva tutti i vestiti bagnati ed era molto pallida. Non ha voluto né parlarmi né scendere per cena, né aprirmi la porta della sua stanza. Aveva tutti gli scatoloni di libri che aveva portato via l’altro giorno per la casa nuova… -

Dio.

Ron si sentiva morire soltanto al pensiero di Hermione in quelle condizioni.

Dimenticò la cortesia, appoggiò la mano contro la porta e si fece spazio per entrare.

-         Ehi – protestò la signora Granger. – ehi, ti ho detto che non mi pare il caso di disturbarla se non sta bene. Se volesse parlarti, ti avrebbe sicuramente chiamato… -

Ron la ignorò, cominciando a salire le scale.

Il signor Granger uscì dalla cucina sbattendo le palpebre mormorando un ‘che succede?’ coperto dalle grida della moglie.

-         Lo so che la causa sei tu! – scoppiò infine la donna, ma non aveva esattamente un tono di rimprovero, non come al solito. Era più un’ammonizione. – non andare – aggiunse, quando lo vide voltare un attimo la testa. – non è il momento. Se vai ora, sarai senza possibilità. –

Ron esitò per un attimo, ma non pensò mai di non andare sul serio.

Forse quello era davvero il momento sbagliato, ma era inutile dirlo ad uno che faceva fatica a pensare dalla paura.

Salì l’ultimo gradino.

 

Hermione aveva quasi smesso di respirare non appena aveva sentito il campanello suonare così insistemente.

Aveva chiuso gli occhi lasciando passare il suono da orecchio a orecchio, pregando e pregando che non fosse lui.

Poi aveva sentito sua madre alzare la voce, e poi i passi sulle scale.

C’è chi dice che quando riconosci il suono dei passi di una persona significa che la conosci.

Come ci si può basare su una cosa così superficiale.

Aveva riconosciuto subito quei passi, ma il cuore aveva cominciato a pulsare di paura non appena ciò era successo. E non hai paura quando si avvicina qualcuno che conosci.

Si strinse istintivamente il piumone addosso e fissò la porta chiusa della sua stanza.

Pochi secondi.

Un passo. Un altro passo.

… ti lascerò la possibilità di sedurre l’attuale non ufficiale proprietario di questo appartamento-che-ti-piace…

… ammetto di non essere molto espansiva… come lo sarebbe qualcun'altra al posto mio…

… ti voglio bene…

… e ti ringrazio per avermi fatto diventare la persona che sono oggi.

Hermione trattenne il respiro quando vide la porta aprirsi.

Che persona sono, invece, ora?

 

Nella stanza c’era penombra e gli occhi di Ron impiegarono qualche istante ad adattarsi.

Ad un primo impatto, notò gli scatoloni e le valige e il materasso disfatto.

Poi vide il piumone per terra.

Vuoto.

Entrò come si sale sul patibolo.

Accese la luce.

Sentì solo allora lo scrosciare d’acqua dall’altra parte della porta che dava sul piccolo bagno della stanza.

Esitò un attimo. Appoggiò la mano alla porta, strinse il pugno, deglutì e bussò più piano di quanto volesse.

Nessuna risposta.

Ron bussò più forte.

Ancora niente.

-         Hermione? – disse poi, incerto.

-         Torna a casa, Ron – disse improvvisamente la voce della ragazza, dall’altra parte della porta.

Bastarono quelle quattro parole ad agghiacciarlo.

La voce di Hermione era dura e fredda e quasi cattiva. Non sembrava minimamente l’Hermione distrutta descritta dalla signora Granger.

-         No – trovò la forza di dirle lui.

-         Sì, invece – replicò lei, sopra lo scroscio dell’acqua. Ma la sua voce era abbastanza vicina da fare intendere che non stava affatto facendo la doccia.

-         Non me ne vado affatto, Hermione. Non finché non lasci che ti parli. – fece Ron, tirando fuori tutto il coraggio e la maturità che aveva.

-         Mi stai già parlando. –

Era quantomai grottesco e massacrante lo scherno nella sua voce.

-         Voglio vederti in faccia. Esci di lì. –

-         Mi hai visto in faccia per anni. Mi sembrava che la cosa ti annoiasse. Deciditi, ti sei stancato o no? –

A Ron era ormai chiaro che lei sapeva, ma più le sue parole rendevano la cosa evidente più si sentiva male.

Prese la bacchetta e tentò di aprire la porta con un alohomora; ma un altro incantesimo la teneva chiusa.

-         Hermione, apri questa porta. Devi lasciarmi la possibilità di spiegare… -

-         Ogni spiegazione in questo caso è irrilevante. –

-         Come fai a dirlo? –

Hermione tacque. Ron non era affatto sicuro che fosse perché non sapeva cosa rispondere.

-         Se… se non te ne vai – esitò la voce della ragazza. – mi metto ad urlare. –

-         Ti ascolterò urlare. Se i vicini si lamenteranno li Schianterò. Ma prima o poi ti si stancherà la gola e dovrai lasciarmi parlare. –

Il ragazzo pregò che non decidesse di Smaterializzarsi.

-         Hermione – mormorò, scoraggiato, appoggiando la fronte alla porta con gli occhi chiusi. – per favore. Esci. –

Furono lunghissimi secondi di silenzio.

E poi, finalmente, sentì lo schiocco dell’incantesimo che si scioglieva ed indietreggiò per permettere alla porta di aprirsi.

Ron ed Hermione si ritrovarono faccia a faccia.

Gli occhi della ragazzai erano perfettamente asciutti. Ma c’era qualcosa di così triste in lei che Ron avrebbe voluto soltanto afferrarla e abbracciarla e farle dimenticare ogni cosa e tenersi tutto per lui per sempre, così magari nel ricordo sarebbe diventato tutto più finto, meno vivo, meno deludente per se stesso.

Istintivamente alzò la mano verso di lei, ma Hermione fece un passo indietro.

-         Non toccarmi – disse, con la voce che tremava. – pensavo avessi qualcosa di sbalorditivo da dire. –

Ron si passò una mano nei capelli, stremato. L’aveva scongiurata di uscire, si era quasi preparato nella testa quello che aveva da dire, ma un po’ se l’era dimenticato un po’ gli sembrava stupido.

Lui stesso non si sarebbe creduto.

-         Non… non l’ho fatto coscientemente – incespicò. – io… dopo essere stato con te… sono andato a questa festa dove mi hanno offerto da bere… -

-         Quale festa? – fece Hermione. Aveva le braccia incrociate e sembrava molto più piccola dei suoi diciannove anni; la voce tremava ancora ma lo sguardo era indecifrabile.

-         Una… festa a cui sono stato invitato. –

-         Da chi? –

Ron esitò. Perché era così maledettamente sulla difensiva? E perché sapeva fare le domande crudelmente giuste?

-         Cloe. –

Hermione scosse la testa.

-         Ho sentito abbastanza. –

-         No, aspetta. Poi dopo mi sono ubriacato e non so… non so davvero… non mi ricordo assolutamente niente, Hermione. Mi sono svegliato e… non ho fatto neanche in tempo a rendermi conto… -

Lei lo fissava e lui credeva sempre meno in se stesso.

E lei stringeva forte le dita tanto da farsi male.

- Perché ti sei ubriacato? – chiese la ragazza, guardandolo con gli occhi molto più neri che cioccolato.

Ron si grattò la nuca, disperato.

-         Non lo so, non ne ho idea… -

-         Forse invece ce l’hai. –

La voce di Hermione si spezzò e lei dovette aspettare diversi secondi prima di riuscire a riprendere a respirare. Sembrava che qualcosa glielo impedisse.

A vederla così, Ron non potè trattenersi dal tentativo di avvicinarla di nuovo.

Le sfiorò appena la spalla con le dita.

Ricevette uno schiaffo.

-         Ti ho detto di non toccarmi! – gridò Hermione.

Quella voce, quella voce.

Quella voce Ron se la sarebbe ricordata per sempre.

Era vederla soffrire, era essere lui a farla soffrire, era non poter fare niente per farle smettere di soffrire.

-         Quando… quando ho deciso di… stare con te – fece Hermione, stringendo ancora di più le braccia conserte come se fosse scossa dai brividi. – sapevo a che rischi andavo in contro. Ti conosco da quando eravamo due ragazzini. Non c’era bisogno della sfera di cristallo per capire che rischiavi di cedere alle tentazioni. E’ che io… io ho davvero sperato che non cedessi. Ho davvero sperato… -

Che ti bastasse volere bene a me.

Ma non ci credevo nemmeno io! Io sono la prima a dubitare di me stessa.

Sono stata la prima a scommettere contro di me.

E ho vinto.

- … non lo so nemmeno io cos’ho sperato. –

Ho sperato che uno come te e una come me potessero farcela sul serio perché tu sei straordinario e mi sentivo un po’ straordinaria anch’io.

Ma era uno ‘straordinario’ in prestito.

Ron non si azzardò ad alzare ancora la mano verso di lei, ma mai come allora avrebbe voluto farlo.

Improvvisamente, l’unica cosa che provò a parte la devastazione nel cuore, fu l’odio per se stesso.

Già, Ron. Perché hai dovuto rovinare tutto?

-         Tu non hai idea di quanto mi dispiaccia, Hermione – fece lui, senza fiato. – non ne hai idea. Non so cosa mi sia preso… io… -

E’ che ti voglio così tanto bene… e ti volevo solo per me.

Ti volevo, ti volevo, ti volevo.

Ti volevo a sedici, diciassette, diciotto, diciannove anni.

Troppo.

-         … io… -

Che cosa poteva dire?

-         … io ti... –

Improvvisamente, Hermione parve furiosa.

-         Che cosa diavolo vuoi da me, Ron? Se sei venuto qui per borbottare delle giustificazioni potevi anche risparmiarti il viaggio, e se era per dirmi ‘ti amo’ come scusa allora dovevi proprio rimanere a casa! –

Ron parve confuso.

-         Ma è… -

-         Non osare dirmelo in una situazione del genere! – gridò Hermione. – perché? Perché hai dovuto farlo? Perché improvvisamente… -

… io non ti sono più bastata?

-         … improvvisamente hai deciso di comportarti da idiota come sempre? Come ti sentiresti se fossi stata io a farti una cosa del genere? Anzi, lascia perdere. Io non ti avrei mai fatto niente del genere. –

Tutt’a un tratto, Ron si sentì irritato.

-         Certo – fece, alzando la voce. – perché tu sei troppo perfetta per sbagliare! Tu prevedi sempre tutto, tu pensi sempre prima di agire, tu devi sempre comportarti come se stessi vivendo una sorta di copione scritto da chissà… -

-         Ah! – esclamò sprezzante Hermione. – perché invece trasgredire è molto bello, vero? Molto soddisfacente, vero? Non doversi curare dei sentimenti degli altri dev’essere liberatorio, vero? Ti do una notizia, anch’io ho finito di preoccuparmi dei sentimenti altrui. Se hai intenzione di rimanere bambino per sempre, rimanici, ma io ho finito di farti da madre o qualsiasi siano le tue carenze affettive, ho finito di occuparmi di te e di cercare di migliorarti e di… -

-         Cercare di migliorare me? – urlò Ron. – chiunque avrebbe preso almeno in considerazione l’idea di perdonare! Sono venuto strisciando da te ma non hai nemmeno menzionato l’idea di concedermi un’altra possibilità! –

-         Un’altra possibilità? – ringhiò Hermione. – un’altra possibilità di farmi male? No, grazie, mi è bastato, hai vinto! –

Ron esitò e la rabbia si affievolì per un attimo, ma poi Hermione continuò.

-         Non sei stato in grado di darmi del tempo, mi hai messo con le spalle al muro e quando non hai trovato generosità dilagante sei andato a cercare da un’altra parte come un animale! Ti dovrei dare un’altra possibilità? No, hai ragione, non riesco nemmeno a prendere in considerazione l’idea, non… -

Non dopo che sono stata innamorata di te per tutti questi anni.

-         … non ora né mai. Ormai… -

… le mani, le labbra, le dita, gli occhi di un’altra…

-         … ormai non riuscirei più a vederti come prima. Forse è una frase fatta… ma esprime perfettamente quello che penso. – la sua voce si spezzò di nuovo e stavolta non fu proprio più in grado di parlare.

Si voltò ed andò alla finestra, dando le spalle a Ron.

Lui era massacrato.

Né ora né mai.

Anche solo l’idea di un futuro – ma anche solo di un domani o un dopodomani – senza Hermione, ragazza o amica, era inconcepibile.

Se pensava che in quell’esatto momento avrebbero dovuto andare a vivere insieme, si sentiva scoppiare di rabbia.

Rabbia contro il destino, contro l’alcol, contro Hermione che sembrava così triste ed arrabbiata, contro se stesso che si riconfermava il bambino stupido di sempre.

-         Ora vai via, Ron. Per favore. – disse Hermione, a voce molto più bassa, continuando a dargli le spalle.

Ron la guardò.

Un’altra possibilità di farmi male?

Tu hai ferito quegli occhi che ti avevano sorriso.

Tu hai ferito quella pelle che ti era stato concesso di accarezzare.

Tu hai ferito quelle spalle che si erano lasciate stringere.

Tu hai ripudiato quell’angolino di cuore per cui avevi lottato.

Come ti senti adesso?

-         Mi spiace, non posso. Tu devi… -

-         Ronald, penso proprio che tu debba tornare a casa. –

Il ragazzo si voltò. Sulla porta c’erano i signori Granger, Elizabeth in prima linea. Non sembravano arrabbiati o pronti a picchiarlo, ma avevano l’aria di non accettare un ‘no’ come risposta.

Con tutta probabilità avevano sentito nessuno.

Ron guardò il padre di Hermione. Non aveva uno sguardo particolare; ma lui si ricordò di aver stretto un patto con lui. E l’uomo, per un attimo, sembrò davvero deluso.

Ron fece per dire qualcosa, ma la signora Granger lo fissava, torva. Si voltò di nuovo verso Hermione, ma lei ancora gli dava le spalle.

Allora respirò profondamente, sforzo sovrumano, prese la bacchetta.

E, cercando di non pensare, si Smaterializzò.

La signora Granger corse subito verso la figlia, con una ruga preoccupata sulla fronte.

-         Tesoro – disse, calma. – ti devi cambiare. Prenderai un raffreddore se rimani così. Poi ti fai un bagno caldo e io ti preparo il letto e papà va a comprare della cioccolata da scaldare. –

Hermione, dopo un istante, starnutì.

E, come se quella fosse stata la goccia di troppo di un fiume in piena, si chinò verso terra, e scoppiò a piangere, di un pianto vero, di quelli disperati, di quelli che vengono da dentro, di quelli che ti avevano fatto troppo arrugginire e il cuore non ne poteva più.

Pianse non del pianto della delusione d’amore, non del pianto del tradimento.

Pianse del pianto del limite, di quando vuoi troppo bene e ti accorgi che non puoi, che non esiste persona al mondo di cui potrai fidarti per sempre, o che rimarrà uguale per sempre, o che ti amerà ugualmente per sempre.

Che ‘per sempre’ non esiste.

 

Ginny si sentiva semplicemente ridicola.

Non è che quando aveva fatto la valigia per andare a fare la spia aveva pensato di dover portarsi dietro un vestito da sera, eh.

Quando uscì di malavoglia dalla sua stanza e raggiunse un gruppo di due Mangiamorte piuttosto giovani (un ragazzo ed una ragazza; dovevano avere più o meno l’età di Tonks) che non aveva mai visto più Malfoy (e tutti e tre sembravano tutto fuorché Mangiamorte: della veste non c’era traccia, sembravano usciti da un telefilm sui ragazzi dell’alta società), Rodolphus si voltò a guardarla e fece un’impercettibile smorfia.

-         Questo era il meglio che avevi? - disse.

L’altra ragazza ridacchiò.

Ginny arrossì furiosamente.

-         Non avevo certo immaginato che venire qui comportasse anche andare alle feste. –

Malfoy sospirò con esasperazione, accendendosi una sigaretta senza nemmeno guardarla; Rodolphus sorrise a roteò gli occhi, come se parlasse con una deficiente.

-         Il punto non è andare ad una festa, ma è cosa fare – estrasse la bacchetta e senza nemmeno dire la formula in un attimo un ammasso di stoffa gli arrivò tra le mani spuntato da chissà quale corridoio. – seguimi – le disse.

Draco alzò lo sguardo mentre aspirava una boccata.

Ginny sentì gli altri due Mangiamorte parlottarle alle spalle mentre seguiva docilmente Rodolphus in una stanza del corridoio sotto la scalinata dell’ingresso.

Sembrava una sorta di ripostiglio delle scope; l’uomo le lanciò il vestito.

-         Tieni; magari Pansy non si accorgerà nemmeno che le manca – disse.

Ginny alzò lo sguardo, inorridita.

-         Devo mettere un vestito della Parkinson? –

-         Conciata come sei ora, non ti farebbero entrare nemmeno in un negozio di dolci per bambini. –

La ragazza fissò arrabbiata la sua anonima gonna. Poi fissò Rodolphus.

L’uomo s’inumidì le labbra, inarcando le sopracciglia.

-         Beh? –

-         Ti dispiace? – disse, facendo il segno di voltarsi con la mano.

Rodolphus ghignò e si voltò in modo fastidiosamente lento, dicendo qualcosa a bassa voce; Ginny ringraziò il cielo di non aver sentito.

-         Quello di stasera è un evento che raccoglierà insieme le persone più influenti all’interno del Ministero – disse finalmente l’uomo. – una festa di beneficenza per costruire una scuola semigratuita per i Maghinò… molto commovente davvero. Naturalmente sarà pieno di Auror ovunque l’occhio si posi; ma abbiamo bisogno di infiltrarci perché quasi sicuramente trapeleranno informazioni su come Scrimgeour intenderà procedere per ostacolarci. E per sapere quali sono i suoi collaboratori. –

Ginny rabbrividì all’idea.

-         Ovviamente, io e la maggior parte dei Mangiamorte non possiamo assolutamente provarci – continuò Rodolphus. – chiunque degli invitati saprà a memoria le nostre facce senza averci nemmeno visto dal vivo. Dunque, ho deciso di mandare due Mangiamorte abbastanza esperti che sicuramente al Ministero non sono mai stati visti, essendo venuti apposta dalla Svezia… quanto a Draco, con tutta probabilità non saranno presenti persone che possano riconoscerlo, e si terrà lontano da Scrimgeour. Inoltre, solo suo padre potrebbe batterlo nel fare la spia; è un vero artista della bugia. –

La ragazza sbuffò senza nemmeno rendersene conto.

-         Quanto a te – disse Rodolphus, voltandosi senza alcun preavviso nel momento esatto in cui fortunatamente Ginny chiudeva la zip sul fianco. – con questa non ti riconoscerebbe nemmeno tua madre. – raccolse da uno scatolone una parrucca e gliela lanciò.

Ginny osservò sbalordita la parrucca nera tra le sue mani. Era per caso finita in un romanzo thriller di serie B? Di malavoglia si sistemò meglio che potè la parrucca in testa, nascondendovi sotto la massa di capelli rossi. Pizzicava.

Quanto avrebbe voluto essere un Metamorfomagus.

Rodolphus le lanciò solo una lunga e cruda occhiata, senza alcun commento, e le fece cenno di seguirlo fuori dal ripostiglio.

Malfoy aveva consumato quasi tutta la sigaretta. La spense, vedendoli arrivare. Puntò lo sguardo indecifrabile su Ginny, la quale, comunque, era perfettamente decisa a non sfiorare nemmeno l’idea di rivolgergli gli occhi.

Si fermarono al centro dell’ingresso; Ginny vide di sfuggita la sua immagine riflessa su un vecchio specchio arrugginito.

Effettivamente, per un attimo nemmeno lei capì che quello era il suo riflesso. Vedeva una ragazza totalmente diversa, con il lungo vestito nero e l’enorme e quasi imbarazzante scollatura lungo la schiena ed i capelli neri lunghi fino poco sotto il lobo; sarebbe potuta sembrare la Parkinson, se non avesse avuto gli occhi azzurri.

-         Ma come facciamo ad entrare, ovunque si tenga questa cosa? – fece Ginny, imitando il tono di voce scocciato tipico dei Mangiamorte, per vedere se riusciva ad adattarsi.

Gli altri quattro la guardarono nuovamente come se fosse scema. Malfoy schioccò la lingua come se fosse impaziente di vederla sparire.

-         Di certo non entrerai come Ginevra Weasley – fece Rodolphus, con aria eccessivamente paziente. Passò a tutti loro una specie di documento col marchio del Ministero.

Ginny, con gli occhi sgranati, aprì il documento, identico a quello che aveva fatto quando aveva compiuto diciassette anni ed aveva potuto cominciare ad usare la magia fuori da Hogwarts.

Dentro c’era scritto, a caratteri antichi: Peonia Thomas, professione impiegata all’Ufficio Trasporto Magico, anni 23, nubile.

-         Peonia?! – fece appena in tempo a dire, ma un flash l’accecò.

Rodolphus, come se niente fosse, estrasse una fotografia con la bacchetta da una minuscola macchina fotografica magica e l’appiccicò sul suo documento. La faccia di Ginny la fissava con gli occhi sgranati e l’aria spaventata, sbattendo le palpebre.

-         Bene – fece l’uomo, senza lasciarla protestare. – ricordatevi: lo scopo è capire come vogliono procedere almeno per questo mese, se rafforzeranno le difese ed in che zone; tenete le orecchie bene aperte specialmente per quanto riguarda i loro rapporti con giganti e goblin. Avvicinate i responsabili delle relazioni pubbliche e dei progetti, porteranno sicuramente una targhetta identificativa; Scrimgeour non riconoscerebbe nessuno dei suoi dipendenti altrimenti. Tenetevi il più lontano possibile dagli Auror e meglio evitare di farsi notare da Scrimgeour e i suoi galoppini più stretti. Lasciate perdere gli impiegati, non avranno informazioni utili. Non rimanete in gruppo, disperdetevi: ma cercate di tenere il contatto visivo con gli altri abbastanza spesso, specialmente sui più inesperti – lanciò una lunga occhiata a Ginny.

Ovvio. La ragazza sospirò pesantemente.

-         Tutto molto bello, ma come facciamo a strappare delle informazioni del genere, se nemmeno ci conoscono? – si lasciò sfuggire.

Rodolphus si voltò a guardare Malfoy, il quale si stava accendendo la seconda sigaretta con l’aria di non voler nemmeno starla ad ascoltare.

-         Non è davvero molto sveglia – osservò l’uomo, come se lei nemmeno ci fosse.

Ginny era lì lì per farsi sfuggire qualcosa di piuttosto pericoloso da dire, ma Rodolphus la interruppe.

-         Avvicina gli uomini invece delle donne, Ginevra, e con quattro moine sei a cavallo… se mi permetti il gioco di parole – fece, con semplicità.

Ginny sbattè le palpebre e davvero impiegò qualche istante per capire.

Sgranò gli occhi e senza volere arrossì, di nuovo.

-         Ma… -

-         Lo sai che il sesso è praticamente alla base della caduta di ogni governo? – sorrise Rodolphus, come se stesse parlando degli ingredienti per fare una torta. – nemmeno la droga fa abbassare tanto la guardia. –

-         Certo che ne spari di cazzate – disse Malfoy, parlando per la prima volta, mentre espirava fumo con un ghigno.

Rodolphus inarcò le sopracciglia.

-         Disse lo spacciatore di droga – mormorò.

Malfoy tirò una profonda boccata in silenzio.

Ginny si sentì infastidita, imbarazzata, sbalordita e sospettosa insieme. Quando quei due parlavano, insieme poi, erano più fastidiosi di una zanzara che ti svolazza intorno alle orecchie.

 

I quattro pseudo Mangiamorte si Materializzarono davanti ad un edificio che Ginny riconobbe come la Galleria delle Moderne Arti Magiche di Diagon Alley. Sapeva che a volte vi si teneva qualche evento pubblico che riguardava il Ministero e pochi eletti; il giorno dopo c’era sempre qualche foto di tizi con la calvizie incipiente ed il cravattino completamente ubriachi abbracciati a delle cameriere ventenni nelle pagine di gossip della Gazzetta del Profeta.

Da dentro veniva della musica, ed una fila di gente sconosciuta perfettamente in tiro scorreva veloce. Fuori dal portone, diversi maghi tenevano sotto controllo la folla e per aria svolazzava una lista su cui una piuma incantata spuntava i nomi degli invitati.

Ginny si chiedeva come, con tanti addetti alla sicurezza, sarebbero riusciti ad entrare.

Tra loro, non si rivolsero la parola; Rodolphus aveva detto che era meglio stare separati e fingere di essere venuti ognuno per conto proprio.

Ginny passò sotto lo sguardo degli Auror per prima.

-         Nome? – le chiese uno.

La ragazza si fece prendere tanto dall’agitazione che per un attimo se lo dimenticò.

-         Eeehm… ehm, Peonia. Peonia Thomas – disse, col cuore che palpitava.

-         Un documento, per favore. –

Ginny glielo porse con le mani sudate.

L’uomo lesse ogni angolo del documento con espressione indecifrabile. Poi alzò lo sguardo verso di lei.

-         Questa foto… - fece, minaccioso.

Oddio, pensò Ginny boccheggiando.

-         … non è venuta molto bene, eh? Nemmeno belle ragazze come lei vengono bene nelle fototessere! - commentò, restituendole il documento.

Ginny si sentì talmente sollevata che non ringraziò nemmeno per il complimento. La piuma sopra la sua testa spuntò il suo nome dalla lista e sul vestito si materializzò una targhetta identificativa.

Seguì la musica e la folla; alla fine di un breve corridoio, raggiunse il salone.

Era strapieno di gente. Vassoi pieni di stuzzichini e alcolici volavano sopra la testa degli invitati; un’orchestra in grande stile suonava qualche pezzo ben ritmato. Vari tavoli rotondi erano disposti qua e là; in quello centrale scorse Scrimgeour che parlava con qualche vecchio baffuto e le loro mogli.

Poi, con sommo raccapriccio, notò che c’era anche Percy.

Si era dimenticata di avere un fratello galoppino del Ministero. Questo non rappresentava un problema finché lei non avesse dovuto incontrarlo, tanto peggio se sotto le mentitissime spoglie di Peonia Thomas. Per quanto non lo vedesse da moltissimo tempo, dubitava che, se si fossero trovati faccia a faccia, non l’avrebbe riconosciuta.

Fece immediatamente dietro front ed andò a nascondersi dietro un tavolo con sopra una torta a due piani.

-         Assolutamente lodevole che il Ministro abbia deciso di devolvere i proventi di questo party all’Associazione dei Giocatori di Quidditch di Terra Maghinò – stava dicendo una signora tutta ingioiellata. – ho un’amica Maganò, e sembrerebbe quasi normale… -

Ginny afferrò un bicchiere a caso per dare l’impressione di essere impegnata a fare… beh, qualcosa. Si guardò intorno con circospezione.

Sparsi un po’ ovunque c’erano gli Auror: si riconoscevano perché tenevano la bacchetta a portata di mano, annodata alla cintura dei pantaloni. Vide la ragazza Mangiamorte del suo gruppo appropinquarsi accanti ad un tipo dall’aria familiare; doveva essere un Responsabile Anziano di nonsisachecosa, finito spesso sulla Gazzetta. Poco lontano, l’altro Mangiamorte si era attaccato al vassoio degli alcolici e non sembrava ancora intenzionato ad attivarsi.

Ginny si guardò meglio intorno, senza nemmeno assaggiare la bevanda frizzante che le scoppiettava in mano.

Di Malfoy, comunque, non c’era traccia. Non si vedeva da nessuna parte, a dire il vero.

Questo a titolo informativo; doveva mantenere il contatto visivo con gli altri. Lo aveva detto Rodolphus, mica lei.

Bene. Ginny si guardò nuovamente intorno.

Da dove si cominciava per soverchiare il governo col sesso?

Cioè, cosa doveva fare, di preciso? Tornò a guardare la Mangiamorte: la vide parlare concitatamente e ridere ogni due per tre, tormentandosi ciocche di capelli. Però, l’uomo non sembrava particolarmente interessato; anzi, forse un po’ preoccupato. Probabilmente non voleva finire nella sezione gossip della Gazzetta.

Nella sala non c’erano soggetti particolarmente attraenti, anzi: l’età media andava ben oltre i quarant’anni. La sola idea di doversi appropinquare a buttare lì qualche frase seducente tipo romanzo erotico di serie B le faceva venire i brividi di orrore. Però, se non portava a Rodolphus qualche informazione interessante… aveva come l’impressione che non l’avrebbe passata molto liscia.

Di colpo, mentre era sommersa nei suoi pensieri, notò in fondo alla sala movimenti sospetti. Beh, non proprio: a dire il vero notò Malfoy, che con aria perfettamente naturale si teneva un po’ in disparte rispetto alla folla ed aveva l’aria di aspettare qualcuno. Un istante dopo, venne raggiunto da una donna con un vestito di strass ed i capelli lunghi e castani; Malfoy afferrò da un vassoio un’intera bottiglia di champagne, posò la mano sull’incavo della schiena nuda della ragazza ed in un attimo sparirono dietro una porta dietro il palco dell’orchestra.

Ginny era a bocca aperta. Non erano lì da nemmeno cinque minuti che Malfoy, senza nemmeno farsi notare, era riuscito a rimorchiare una donna (e da come era vestita – quei vestiti dovevano costare un’infinita senza nemmeno aggiungerci i gioielli – doveva essere una importante) ed allontanarla dagli altri.

Perfetto, sì, molto bravo. Un vero ‘artista della bugia’. Stronzo, ecco.

Comunque, lei non era di certo da meno: se credeva che sarebbe stato l’unico ad avere successo come missione, se lo scordava, eccome.

Avvistò a pochi metri da lei un tipo di suppergiù trentacinque anni che parlava con uno più vecchio; portava una targhetta che riuscì a leggere appena in tempo prima che si voltasse: Friederich Vustok, Amministratore Delegato Relazioni Pubbliche.

Bingo!

Ginny scivolò lì vicino cercando di captare l’argomento di conversazione.

-         Peraltro, trovo inammissibile la richiesta dei folletti della Gringott – stava dicendo Friederich Vustok – insomma, il pieno controllo della banca e del denaro dei clienti maghi! Naturalmente ho risposto loro il più educatamente possibile, quelli sono così suscettibili; ho detto ‘purtroppo, e il Ministro converrebbe con me, temo che qualcuno abbia dimenticato le proprie priorità, e non si tratta certo di Robin Stein…’ –

Ginny scoppiò a ridere deliziata.

I due uomini si voltarono a guardarla, perplessi.

Lei cominciò a sentire un gran caldo alla faccia.

-         Io… - boccheggiò, ma Vustok la interruppe inarcando le sopracciglia.

-         Conosce Robin Stein? – fece, fissandola.

Entrambi la fissavano, a dire il vero. Oddio.

Sudando freddo, prese un lungo sorso di qualsiasi drink avesse in mano, per riflettere; poi guardò Vustok dritto negli occhi con quella che giudicava un’occhiata sexy (ma aveva come la sensazione di essere strabica).

-         Purtroppo solo di fama – disse, briosa. – ma so esattamente cosa intendeva dire… i folletti e le loro… richieste eccessive – prese un altro sorso.

I due erano ancora piuttosto perplessi ma non commentarono; al contrario, ripresero a parlare tra loro.

- Hai presente la nuova circolare per il Primo Livello? Non è un bell’impiccio? Poter entrare al Ministero solo dopo un controllo di Auror e Incantesimi Protettivi, una vera scocciatura… -

- Assolutamente – affermò Ginny con decisione, ricevendo un’altra occhiataccia dai due.

Stavolta, però, Vustok si voltò verso di lei.

Mpf. Lo sapeva che prima o poi avrebbe fatto effetto, se non il suo fascino, la montagna di Profumo Per La Strega Che Non Deve Chiedere Mai che si era spruzzata addosso.

-         E lei cosa nel pensa – disse l’uomo, mentre lei gongolava – della proposta di legge ventitré punto sette punto quindici sezione G denominata ad Atkinsons? –

Ginny lo fissò.

-         N… naturalmente – balbettò, nel più completo caos. – penso che… che… -

Vustok sbattè le palpebre, in attesa.

-         … penso che… dovrei proprio andare… in bagno… - mormorò, arretrando e defilandosi in fretta.

Andò a nascondersi in un angolo, col fiatone per l’imbarazzo; era molto, molto più difficile di quanto pensasse. Già solo intrattenere una normale conversazione sembrava impossibile: come poteva pensare di riuscire a distrarre tanto qualcuno da convincerlo a dire qualcosa di segreto?

Si voltò di scatto, tristemente pronta a ritentare con qualcun altro, ma urtò accidentalmente qualcuno, inondandolo col rimanente contenuto del suo bicchiere.

Un ragazzo coi capelli castani abbassò lo sguardo sul suo smocking tutto macchiato.

Ginny arrossì fino alle punte della parrucca.

-         Mi dispiace! – fece, cercando affannosamente la bacchetta nella cinta del vestito. – non l’avevo vista… -

Il tipo prese la propria bacchetta e con un colpo asciugò lo smocking e lo pulì, tranquillamente.

-         Non si preoccupi – disse, con un sorriso. – una volta ho fatto il cameriere ad una festa di un amico Magonò, senza poter usare la bacchetta; non ha idea di quanti bicchieri ho versato. –

Ginny sorrise, piacevolmente sorpresa. Lo sguardo le cadde sulla targhetta sobriamente appuntata allo smocking: Samuel Higgis, Sottosegretario Junior.

Sottosegretario Junior… alla scuola preparatoria per il corso di Auror aveva studiato qualche carica amministrativa… c’era il Ministro… il Sottosegretario Anziano… ed il Sottosegretario Junior.

Lo guardò con occhi diversi.

Sottosegretario Junior era una delle cariche più vicine al Ministro. In genere passava ai figli dei Sottosegretari Anziani o raccomandati. Ed entrambi i Sottosegretari erano resi partecipi di ogni decisione del Ministro.

-         Dev’essere stato… interessante – disse, cercando di non sembrare troppo impaziente.

Lui scrollò le spalle.

-         Alla fine non ce l’ho fatta a stare senza bacchetta per più di un’ora. Creano dipendenza, non trova… - guardò la sua targhetta. - … Peonia? Che nome esotico. –

Ginny arrossì.

-         Più che esotico lo definirei raccapricciante, come certi pesci velenosi tropicali – disse. – un pessimo scherzo dei miei… genitori. –

Samuel rise. Non doveva avere più di venticinque anni, ed aveva un aspetto piuttosto attraente.

-         Sa, non l’ho mai vista in giro per il Ministero – osservò lui. – il che è strano, perché o lei è una Metamorfomaga o non ho mai visto nessuno con un viso così rilassato come il suo, al lavoro. –

Ginny annuì meccanicamente.

-         Già… sono molto… ehm… rilassata – replicò. – io invece ho sentito molto parlare di lei. – mentì.

-         A questo punto potremo concederci di darci del ‘tu’, no? –

Mpf. Beccati questa, Malfoy!

Cioè, non che c’entrasse niente: era per dire.

 

Harry sentì la finestra aprirsi che era ancora piegato con al testa tra le mani.

-         Luna – fece. – non è il momento. –

Lei gli rivolse uno sguardo analitico con gli occhi sporgenti.

-         E’ sempre il momento per i pancakes. –

-         Non ora. –

-         Invece sì. –

-         Luna, non ne ho voglia, piantala! – sbottò bruscamente Harry.

Luna non sembrò per nulla turbata. Gli mise un piatto con pancake al cioccolato sul letto, si sedette su una sedia di fronte a lui, appoggiò un piatto con un pancake uguale sulle ginocchia e cominciò a mangiarlo in allegro silenzio.

Harry avrebbe dato qualsiasi cosa pur di farla sparire. Non gli importava di non essere cortese. Non gliene fregava niente di come poteva prenderla.

Odiava la sua ostentata tranquillità. Non era quello di cui aveva bisogno.

-         Mangialo, è buono – affermò Luna, con la bocca piena. Oggi era vestita peggio del solito: con un vestito di paillettes arcobaleno e gli stivali da cow-boy. E i capelli raccolti in tre trecce.

-         Non ho minimamente fame né voglia di vedere nessuno – ringhiò lui.

Luna annuì.

-         Capisco. Impedirò a chiunque di entrare, allora. –

Harry sospirò molto pesantemente.

Rimasero in silenzio per un tempo indefinito, con solo il suono della forchetta di Luna che ogni tanto urtava il piatto. Quando ebbe finito il pancake, fece scomparire il piatto con la bacchetta e si stiracchiò come dopo una gran mangiata. Poi, cominciò a fissarlo.

Per minuti e minuti.

Ad un certo punto, Harry non riuscì più a tollerarlo.

-         La smetti di fissarmi? –

-         Scusa – fece Luna con uno dei suoi sorrisi sognanti. – ma hai detto che non vuoi parlare perciò devo capire dalla tua faccia perché non vuoi il pancake. –

Lui lo guardò di sbieco.

-         Credo sia un po’ complicato da capire solo dalla mia faccia – fece, sarcastico.

-         Sei molto triste, vero? – chiese lei, senza nemmeno ascoltarlo.

Harry, preso in contro piede, si oscurò ancora di più. Voltò la testa dall’altra parte, come un bambino piccolo.

-         Se vuoi metterla così… - disse, freddo.

-         Visto che ho indovinato? –

Harry si voltò di nuovo a guardarla, un sopracciglio inarcato.

-         Ma… -

-         Sei molto triste e basta sapere questo per risolvere le cose! – fece lei, annuendo con decisione come se avesse fatto una gran scoperta. Le trecce le saltellavano incontrollatamente sulle spalle.

-         Fosse così facile – borbottò Harry.

Luna andò, facendo tintinnare tutte le paillettes, ad appollaiarsi sulla sponda del letto. Solo allora lui si accorse che non aveva le scarpe.

-         Io non ho mai avuto un amico perciò non capisco per niente come ti senti o perché sei triste – disse, come se niente fosse.

Harry fece una smorfia insofferente. Non aveva per niente voglia di sentire il sentimento di commiserazione che puntualmente gli saliva alla bocca dello stomaco quando la sentiva parlare.

-         Però una volta mi hanno insegnato a fare il doppio nodo ad una corda, intendo, proprio con le mani, senza magia. Ci ho provato tante volte ma si scioglieva sempre, poi ho smesso per un po’, ci ho pensato mangiando un pancake fatto dal mio papà, poi ci ho riprovato. E mi è venuto strettissimo e non sono più riuscita a scioglierlo, intendo, senza magia, almeno. –

Harry l’ascoltava per pura disperazione. Fosse stato per lui sarebbe rimasto con gli occhi nel vuoto anche senza nessuno con lui.

-         E allora? – fece, più per noia che altro.

-         Io penso che tu con Ronald – agitò le mani. – hai stretto un doppio nodo. Di quelli strettissimi che non si sciolgono, però. Se pensi che non sia abbastanza stretto, forse puoi pensarci e mangiare un pancake e sicuramente riuscirai a fare un doppio nodo ancora più stretto. –

Harry, contro la sua stessa volontà, aveva riacquistato attenzione. Quasi gli venne fuori un sorriso, ma fu più un sollevarsi degli angoli della bocca.

-         Non è così facile – affermò, meno brusco di prima, però.

Luna sgranò gli occhi azzurri in modo impressionante.

-         Certo che no, fare un doppio nodo non è affatto facile, ti si scioglie sempre se non stai concentrato! –

Harry inarcò le sopracciglia, facendo un cenno involontario in segno di assenso. Per quanto i discorsi di Luna fossero davvero balzani, avevano un pauroso fondo di verità, il che gli dava sempre di più la sensazione che lei più che esserci, ci facesse, e pure molto.

Certo, doveva essere proprio caduto in basso per farsi consolare da Luna Lovegood, tanto più che non gli aveva mica trovato nessuna miracolosa soluzione al problema; aveva buttato lì qualche bella e forse sorprendente parola, niente di pratico.

Però, chi lo sa… le belle parole ti innescano qualcosa dentro, che per quanto tu sia realista, una parte piccolina di te ci crede, ci crede davvero.

Il che è una fortuna, perché altrimenti nessuno si risolleverebbe mai.

Harry guardò scettico il pancake. Prese la forchetta.

-         Solo un pezzo – borbottò.

Luna annuì e per il resto del tempo continuò a fissarlo.

Ma a Harry non dava più così fastidio.

 

Ginny continuava a sorridere con aria interessata, ma in realtà non aveva mai sentito discorsi più noiosi.

Era passata appena un’ora (aveva controllato l’orologio circa ogni cinque minuti cercando di non farsi notare) e il tanto affabile Sottosegretario Junior si era rivelato una noia mortale. Non faceva altro che parlare di introiti… gestione… management… qualsiasi cosa tutto ciò significasse. Ginny si chiedeva quando sarebbe arrivato il momento giusto per sviare l’argomento di conversazione su ciò che le interessava.

Si guardò distrattamente intorno, intontita. Ed incrociò lo sguardo di Percy, che stava venendo verso di loro.

Le si ghiacciò il sangue nelle vene. Era a non più di dieci metri di distanza.

Non sembrava averla riconosciuta; sembrava più interessato a parlare con Samuel Qualcosa.

Mentre lui e Ginny parlavano, si erano avvicinati al palcoscenico. Ginny finse improvvisamente una strana confusione.

-         Scusami, Samuel, ma non mi sento troppo bene – disse, sbattendo teatralmente le ciglia. – sarà tutta questa gente e questo rumore… hai idea se c’è un posto un po’ più tranquillo? –

Samuel abboccò immediatamente, forse cogliendoci anche un qualche doppio senso. L’importante, per Ginny, era allontanarsi. Il ragazzo non esitò a fingersi mortalmente preoccupato per lei ed a condurla verso… beh, verso la porta dietro al palco.

Ginny non sapeva più che pesci prendere, tesa come una corda di violino. Da una parte si stava avvicinando Percy; dall’altra, c’era la stanza in cui aveva visto sparire Malfoy e la sua povera preda due ore prima. Non aveva più guardato in quella direzione, quindi sperò vivamente che non fossero più lì… e comunque non in atteggiamenti espliciti.

Samuel, che sembrava conoscere la sala come se fosse casa sua, aprì con disinvoltura la porta, guidandola all’interno.

Ginny sbirciò dentro, col cuore che batteva forte per la tensione.

Era una piccola stanza con una libreria, un armadio, un paio di poltrone e nient’altro; né più né meno che un piccolo studio.

Ginny da una parte si sentì sollevata che non ci fosse nessuno; dall’altra, era un po’ irritata del modo che aveva Malfoy di fare ogni cosa perfettamente, senza lasciare traccia, senza sospetti. Con tutta probabilità, aveva già strappato informazioni più che sufficienti e le stava già ridendo alle spalle pensando a quando si sarebbero trovati a colloquio con Rodolphus.

Improvvisamente, sentì un paio di mani sulle spalle.

-         Allora – fece con aria strana Samuel. – stai meglio? –

Era chiaro che non aveva creduto minimamente alla sua storiella del malore.

Ginny deglutì, voltandosi meccanicamente ed arretrando.

-         Sì, decisamente – fece.

Lui la guardò. Ginny cercò di reprimere l’istinto di scappare via più veloce del vento e decise che per un attimo avrebbe dimenticato cos’avrebbe fatto lei stessa, e di comportarsi come se fosse un’altra persona. Con l’infelice nome Peonia Thomas.

-         Senti – cominciò, con un sorriso un po’ troppo tirato. Lui le si avvicinò e lei tentò con tutte le sue forze di non fare un passo indietro. – cosa… cosa pensi farà Scrimgeour con i giganti…? –

Prima che potesse aggiungere altro, Samuel la baciò.

Non le piacque per niente, anzi; per quanto le riguardava, era come tenere le labbra premute contro un canotto.

Prese a baciarle il collo e Ginny cercò di fare finta di niente, come se fossero in una normale conversazione.

-         Credevo… credevo che… avrebbe cercato di tenerseli buoni contro Voldemort – azzardò.

Samuel non sembrava molto interessato. Ma, forse per farla tacere, le rispose.

-         I giganti staranno dalla parte di chi offre di più – mugugnò, impegnato per i fatti suoi.

-         Sì, beh… e cos’ha offerto Scrimgeour? – chiese lei, sentendosi vicina alla meta e cercando di non pensare ad altro.

-         Loro hanno chiesto assistenza, difesa e integrazione – mormorò lui, slacciandosi la cravatta. – lui ha detto di sì. Ma ovviamente ha mentito, se mi capisci: i giganti integrati? Una proposta ridicola. –

-         Quindi… - fece Ginny, aggrottando le sopracciglia, improvvisamente illuminata. – se scoprissero che è una bugia… -

-         Impossibile. L’importante è che non lo scoprano dalla parte oscura, ma ormai è fuori discussione: i giganti saranno talmente sicuri con noi che non vorranno nemmeno parlarci, con gli altri. E loro come vuoi che lo vengano a sapere? E ora, se non ti spiace… -

Stava per togliersi la camicia, quando la porta si aprì.

Un uomo baffuto li guardò senza batter ciglio.

-         Samuel, ti vuole Weasley, urgente. –

Il ragazzo imprecò.

-         Quel rompipalle di Weasley – borbottò, riannodandosi la cravatta di malavoglia. Si voltò a guardarla. – tu rimani qui, Peonia, non scappare. –

Ginny annuì docilmente, mandandolo a quel paese nella propria mente.

La porta si chiuse e lei rimase sola nella stanza.

Bene, ora doveva solo trovare il modo di scappare senza essere vista.

Si era appena alzata, quando sentì un gran botto ed un’imprecazione.

Si voltò e dalla sorpresa inciampò sui suoi stessi piedi, oscillando e rischiando di cadere all’indietro.

Dall’armadio era uscito di colpo Malfoy, con qualche (ma non troppi) capello fuori posto e la camicia bianca mezza sbottonata e l’aria più incazzata del solito.

-         Weasley – tuonò. – si può sapere perché sei venuta qui nonostante sapessi che la stanza era già occupata, razza di deficiente? –

Ginny era talmente a bocca aperta e divertita che per un attimo non riuscì a parlare. Poi si lasciò scappare una risata, guardandolo. Malfoy la fissò come se volesse strozzarla.

-         Malfoy, sbaglio o sei veramente sbucato fuori dall’armadio, così all’improvviso? – disse, piegata in due dal ridere. – o magari sei un Molliccio molto credibile? -

-         Tu hai una risata così irritante che se non fossi una donna ti prenderei a schiaffi personalmente. –

-         Oh, che paura, starò tutta la notte a guardare l’armadio nel terrore che ci esca il malvagio Uomo dell’Armadio. –

Malfoy la fissò, tra lo spaventosamente infastidito e, inaspettatamente, il leggermente divertito.

Ammesso e non concesso che la Weasley fosse minimamente dotata di un cervello pensante, a volte tirava fuori delle cose… boh. Molto spensierate, in effetti.

E se la rideva pure, come se non fossero nel bel mezzo di una ‘missione pericolosa’.

Questo era già di per sé strano: non aveva mai visto una (seppure improbabile) Mangiamorte ridere in quel modo.

Oh, vabbè, andiamo.

Era solo perché era scema.

-         Comunque, che ci facevi lì? –

-         Ah, hai smesso di ridertela immotivatamente? – fece Malfoy sprezzante. – stavo aspettando la mia, vogliamo chiamarla ‘fonte’, quando vi ho sentito arrivare. Hai la voce talmente stridula che si sente a metri di distanza. –

Ginny lo ignorò.

-         E così hai pensato bene di nasconderti nell’armadio – fece, con l’aria di chi trattiene una sonora risata.

Malfoy la fissò con odio.

-         Weasley… - cominciò, minacciosamente, ma venne interrotto da delle voci dall’esterno.

-         Ci dev’essere un errore, Rebecca, sono sicuro che qui dentro non ci fosse nessuno quando io e Peonia siamo entrati… - stava dicendo la voce di Samuel.

-         Mi pare molto strano… - disse una voce femminile sconosciuta.

-         Certamente – fece zelante, purtroppo, la voce di Percy.

Con sommo orrore, Ginny e Malfoy riconobbero anche la terza voce.

-         Se pensi che sia così degna di fare la mia conoscenza, Samuel… - disse Scrimgeour.

I due si guardarono.

Non potevano essere lì insieme né da soli; Scrimgeour poteva riconoscere Malfoy, Percy poteva riconoscere Ginny.

Guardarono entrambi l’armadio.

-         Non ci pensare nemmeno, non c’è posto per tutti e due! – sibilò Malfoy quando ci si buttarono dentro, appena in tempo prima che la porta si aprisse.

L’anta dell’armadio lasciava uno spicchio minuscolo aperto, da cui Ginny, in una posizione innaturale, completamente schiacciata tra la fine dell’armadio ed il petto di Malfoy, riusciva a vedere il gruppo appena entrato.

-         Non c’è nessuno… - commentò Percy.

-         Forse Peonia è andata a prendere una boccata d’aria – fece Samuel, visibilmente imbarazzato.

-         Weasley – fece Scrimgeour sedendosi. – ti dispiace andarmi a prendere qualcosa da bere? Voglio rimanere a riposare qui per un po’. –

Ginny s’irrigidì. Per un po’? Per un po’ quanto?

Vide Samuel e ‘Rebecca-vogliamo-chiamarla-fonte’ andarsene con un Percy un po’ stizzito di essere usato come cameriere.

Scrimgeour sbadigliò e chiuse gli occhi per appisolarsi.

Era una situazione assurda. Non potevano rimanere lì.

Ginny cercava di tenersi lontana da Malfoy il più possibile, ma risultava molto difficile, considerato che erano ristretti in un metro e mezzo scarso di spazio, nonostante l’armadio fosse sufficientemente alto da permettergli di stare in piedi.

Le si stava informicolendo un braccio e pur di non stare così vicino a Malfoy le passò per un attimo per la testa di saltare fuori, al diavolo tutto; sì, vabbè, ma non poteva.

Fece un movimento cauto per cambiare posizione al braccio; la parrucca le si impigliò in una gruccia e cadde con un minimo rumore.

Guardò ghiacciata attraverso la fessura, ma Scrimgeour teneva ancora gli occhi chiusi.

-         Cretina – sibilò a voce bassissima Malfoy.

Per qualche motivo, lui aveva di nuovo quella sensazione dei muscoli irrigiditi e del fiato corto, il che poteva essere dovuto all’assurda posizione in cui si trovava oppure no.

Incrociarono gli sguardi nella penombra e per uno stranissimo attimo si dimenticò perché aveva abbassato gli occhi. Si riprese subito.

-         Ci dobbiamo Smaterializzare – le disse chinandosi leggermente ad un orecchio parlando a voce più bassa possibile.

Ginny, per uno stranissimo attimo, non capì quello che le stava dicendo ma solo che si era chinato al suo orecchio ed era paurosamente, paurosamente, paurosamente vicino. Ci mise qualche istante a riprendersi.

-         Sentirà il rumore – protestò Ginny.

-         Per allora ce ne saremo andati. –

-         E’ una pessima idea. –

-         Ne hai una migliore o vuoi continuare a rompere? – bisbigliò Draco, secco.

Ginny tacque per un attimo, furiosa; se solo ricordava quello che aveva pensato poco prima si sentiva davvero una cretina.

-         Ho la bacchetta legata al polpaccio – disse sottovoce con una vena di vendetta. – come pensi che riesca a prenderla senza potermi muovere? –

Draco la guardò, gelido.

-         Prendi la mia e facciamola finita – disse.

-         E dove sarebbe? –

-         Legata dietro la cintura. –

-         Tieni la bacchetta là dietro? C’è gente che ci ha rimesso le chiappe, sai? –

-         Riesci almeno a fingere di avere un cervello per un attimo? – sibilò Malfoy.

Ginny alzò cautamente le braccia, cercando di non urtare nulla coi gomiti. Poi arrossì.

-         Non so se voglio fare questa cosa – farfugliò.

Malfoy roteò gli occhi.

-         Weasley, se non la finisci non ti faccio arrivare al castello intera. –

Ginny schioccò piano la lingua, scettica. Cercando di mettere a fuoco nonostante il buio, circondò Draco con le braccia nel tentativo di trovare il nodo per slacciare la bacchetta.

Quell’idiota aveva pure fatto il doppio nodo, perfetto. Aveva le unghie poco affilate e le mani immotivatamente sudatissime, il nodo le sfuggiva continuamente.

-         Non farti strane idee – minacciò, più tesa che mai, col viso premuto contro il petto di Draco.

-         Fino a prova contraria, sei tu che hai le mani in strane posizioni – fece lui, prima di potersi trattenere. Il fatto era che tormentare Ginny era proprio soddisfacente: se la prendeva sempre.

Infatti, arrossì furiosamente e, non potendo fare altro per vendicarsi, gli diede un pizzicotto alla schiena.

Draco sussultò impercettibilmente.

-         Ma sei completamente rincretinita? – sibilò. – tanto vale mettere su uno spettacolo, visto che sei tanto ansiosa di farti scoprire. –

-         Se non mi irritassi, non mi comporterei così. –

-         Se non ti comportassi così, non mi irriteresti. –

Finalmente riuscì a sciogliere il nodo ed a prendere la bacchetta.

Erano stati i due minuti più lunghi della sua intera esistenza.

Arretrò le braccia lentamente, facendo ancora attenzione a non urtare nulla, ma ormai aveva il cervello totalmente in tilt.

Doveva essere dovuto all’ambiente chiuso e…

Oh. Per favore.

Non era affatto per quello, vero?

Dannazione. Ma non esisteva un modo per liberarsi di… di quella specie di ossessione? Non poteva essere come con tutti gli altri, che quando si pensava ‘fine’ lo era davvero?

Alzò lo sguardò verso di lui, con aria accusatoria, in silenzio.

-         Me la passi o no quella maledetta bacchetta? – fece lui, scocciato.

Ginny ridusse gli occhi a due fessure.

-         Sai, Malfoy, inspiegabilmente – bisbigliò. – odio ancora tutto di te. –

Gli passò la bacchetta. Lui la prese, ma non fece nulla.

Abbassò lo sguardo grigio e freddo su di lei, senza assumere alcuna espressione particolare.

-         E allora? –

Ginny ormai odiava anche se stessa. Questa era la sua massima reazione.

In fondo, non si aspettava nient’altro, no?

-         E allora… -

Ma non finì mai la frase.

Chissà cosa, chissà quale forza oscura mosse Draco in quel momento, molto più in fretta dei suoi pensieri e decisamente più in fretta della ragione.

Si chinò a baciarla. Dimenticando completamente di essere stipato in un armadio con Scrimgeour fuori che russava.

Gesto che, in effetti, poteva anche essere considerato, oltre che irresponsabile, idiota, assurdo, insensato, incosciente… spensierato.

Ginny sentì un brivido che non avrebbe mai considerato familiare, sebbene non fosse la prima volta che lo sentiva.

La cosa assurda di quello che sembrava matematicamente certo accadesse tra loro, era che era sempre preceduto da una folle quantità di interrogativi, di perché, perché, perché, con una considerevole irritazione da parte di entrambi, ma alla fine si arrivava sempre, sempre, sempre a quel punto. Ginny circondò il suo collo con le braccia, dimenticandosi di stare attenta a non urtare niente. Socchiuse inconsciamente le labbra per approfondire il bacio.

Draco era ormai completamente lanciato: sembravano passati millenni dall’ultima volta in cui la sua mente era stata così tranquillamente priva di pensieri e non gli andava affatto di smettere.

Però, quando si allontanò leggermente per respirare, di colpo si rese conto che effettivamente non era quello né il posto né il momento. E probabilmente nemmeno la persona.

Smaterializzò se stesso e Ginny e nel giro di pochi istanti si sentì cadere sul terreno freddo fuori dal castello.

L’aria fredda della notte gli riempì i polmoni. Il castello era immerso nel buio, a parte qualche luce di candela accesa in poche stanze. Fuori, il silenzio più assoluto: le sentinelle del turno di notte non erano ancora arrivate.

Istintivamente, guardò verso Ginny, alzandosi ed aggiustandosi la giacca. Lei aveva i capelli ridotti ad una ammasso arruffato, il trucco un po’ sbavato e l’aria molto più normale rispetto a quando era tutta in tiro comprensiva di parrucca. Si tolse le scarpe col tacco, cercando di rialzarsi e stabilire un equilibrio e poi incrociò il suo sguardo.

La sua espressione era tra lo spaventato ed il preoccupato; Draco non potè fare a meno di notare ancora la differenza tra l’espressione teatralmente sfacciata che ultimamente sembrava di cercare di tenere ogni giorno. Certo era che, se non tentava di sembrare una vera Mangiamorte, aveva gli occhi molto più azzurri.

Draco non azzardò nemmeno a chiedere nulla a se stesso; qualunque fosse stata la domanda, non avrebbe accettato la risposta.

Ginny aprì e chiuse la bocca a intermittenza, senza emettere alcun suono.

Cosa diavolo doveva dire? Cosa diavolo doveva fare? Che decisione aveva preso? Nella sua testa sentiva solo un gran casino, e cercare di fare ordine era come sgomitare in mezzo ad una folla inferocita; inutile e doloroso.

Forse, disse una vocina che per qualche motivo riuscì a sovrastare le altre, dovresti cominciare a riflettere sul motivo per cui sei venuta qui.

Spia dell’Ordine della Fenice.

O magari no… per Harry.

E allora perché ogni singolo giorno negli ultimi due anni non sei mai riuscita a dormire bene, nemmeno accanto ad Harry?

Per quale motivo hai abbandonato tutto?

Se pensi che esista una ragione per abbandonare tutto quello di cui hai vissuto finora, tutto quello che ti ha permesso di stare bene, di sorridere, di ridere, di scherzare, sei fregata.

Vuol dire che di ‘questo’ te ne importa di più di tutto il resto, sai?

E quando hai qualcosa a cui tenere, ma tenere davvero, non te la godrai mai.

Nel costante terrore di perderla.

Sai?

-         Non… - disse, con la voce strana e spezzettata come se avesse la gola asciutta. – … non voglio rovinarmi la vita. –

Malfoy la guardò, l’espressione impercettibile come sempre.

E fu davvero strano, ma qualcosa da qualche parte dentro quel mare grigio di freddezza e menefreghismo e cattiveria, qualcosa tremò.

- Non farlo, allora. – disse, infine.

Ginny deglutì, la gola più secca che mai.

-         Una volta, Malfoy, mi hai chiesto cosa volessi io da te – mormorò, cercando di sostenere il suo sguardo. – e all’epoca ti risposi che non volevo assolutamente niente. Ora però le carte in tavola sono cambiate. La mia risposta non è più valida. –

Malfoy la guardò con superiorità. Con calma, prese istintivamente una sigaretta dal pacchetto che aveva nell’interno della giacca; mentre l’accendeva, si rese conto che improvvisamente solo l’idea di fumare gli dava la nausea e la gettò ancora spenta.

-         Bene – replicò. – allora, cosa vuoi tu adesso da me, Weasley? –

Ginny non riuscì a metabolizzare bene la risposta. Fece due incertissimi passi verso di lui. Si sentiva un po’ ridicola.

-         Voglio che da così – disse, assumendo un’espressione cupa. – passi a così. – e fece un sorriso sghembo alzando bene gli angoli della bocca con le dita per fargli capire.

Draco inarcò le sopracciglia, stupito. Fece un ghigno.

-         Ti rendi conto che quello che dici non ha senso? –

-         Non è necessario che abbia senso per te. –

La faccia di Ginny era talmente decisa che quasi non gli venivano più in mente frecciatine per destabilizzarla, dalla sorpresa. La guardò passargli davanti fiera di sé come una prima donna (atteggiamento piuttosto grottesco per una coi capelli così informi ed i piedi nudi sull’erba) e fece qualcosa di molto strano. Alzò la mano e le afferrò il polso; lei si voltò, improvvisamente pallida: doveva aver impiegato tutte le sue energie per fare tutto quel discorso teatrale, e ora non sembrava nemmeno più tanto sicura.

Il gesto di Draco fu per lui tanto istintivo quanto prendere la sigaretta dall’interno della giacca. Solo che questo non gli dava la nausea.

Non fece nulla di eclatante, comunque; per interminabili secondi fece scivolare la sua presa lungo il suo polso, il palmo, le dita, i polpastrelli, fino a lasciarla del tutto.

Ginny sentì un gran freddo.

Se l’infelicità è il prezzo per raggiungere la felicità, forse ne vale la pena.

Forse ne vale la pena.

Sai?

 

 

 

**

 

Eccomi! Naturalmente in ritardo! Mi autosevizierò._. Scusate ma sono stati mesi abbastanza impegnati e qua il lavoro procedeva a spizzichi._.  Poi è spaventosamente lungo.___. Comunque, non ho niente di particolare da dire su questo capitolo (a dire la verità, forse c’era qualcosa… ma mi dico sempre che lo dirò alla fine e puntualmente mi dimentico, ovvio… fatemelo notare se c’è qualcosa di strano, eccoXD).

Invece una cosa che mi ricordo di dover dire è che siete tutte troppo gentili°o° Ma veramente! Cioè, avrò anche a che fare con gente che più che esseri umani mi sembrano dei bipedi, ma voi siete davvero troppo carine>_< Vi ringrazio tantissimo! In modo particolare Meggie(L) che ha fatto il video Draco/Ginny>_< Non smetterò mai di riguardarlo! Ma anche a tutte le altre, vi adoVo (e cup, non vedo l’ora di vedere –gioco di paroleXD- la tua fanart°o° postala al più presto che friggo! Mentre posto questo capitolo però mi è venuto in dubbio, tu sei in periodo di esami ora? Ho paura di aver frainteso e sto postando il capitolo ora e magari è proprio una distrazione –cosa comprensibilissima, in periodo di studi per me risulterebbe interessante leggere il manuale di istruzioni del pc come distrazione… nel caso, scusami°__°)! Mi fate piacerissimo, se vi trovate un camion di cioccolato fuori dalla porta sappiate che ve lo mando io (e se siete allergiche vi mando qualcos’altro, oh!).

Una scusa doverosa va alla povera Cri, cui ho violentemente derubato della figura di Rodolphus nello scorso capitolo! Come ho potuto? E’ che lì non era di fondamentale importanza… spero che in questo capitolo possa soddisfarti e portare avanti Spuntino di Mezzanotte (che mi surclasserà, me lo sento!).

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto (nonostante sia un po’ cupo). La fic si avvicinerà alla fine? Boh? Forse sì, non lo so proprio! Vedremo… comunque, spero che durante l’estate il lavoro procederà più rapido (ma sì, ma sì). Nel frattempo, vi auguro delle bellissimissime vacanze estive (o inizio diXD). Grazie ancora tanto(L)

A presto!

 

Miwako__

 

 

 

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Capitolo 11
*** IF YOU WANT TO ***


IF YOU WANT TO

IF YOU WANT TO.

 

 

 

[Se vuoi.]

 

"I wanted to be like you,                                                 "Volevo essere come te,
I wanted everything.                                                        
volevo tutto
So I tried to be like you,                                                   
così ho provato ad essere come te
And I got swept away.                                                    
 e sono stata spazzata via

I didn't know that it was so cold and,                              
non sapevo fosse così freddo e
You needed someone to show you the way.                    
che avevi bisogno di qualcuno che ti mostrasse la via
So I took your hand and,                                                 
perciò ho preso la tua mano e
We figured out that,                                                         
abbiamo scoperto che
when the tide comes I'll take you away.                          
quando si alzerà la marea ti porterò via

If you want to I can save you,                                         
se vuoi posso salvarti
I can take you away from here.                                       
posso portarti via di qui
So lonely inside, so busy out there,                                  
così solo dentro, così impegnato fuori
And all you wanted was somebody who cares."              
e tutto ciò che volevi era qualcuno che ti stesse vicino."

 

 

 

-         Sarà meglio che ti sposti di lì, sta iniziando a piovere. –

 

Ron alzò lo sguardo, come ricadendo dentro se stesso da un lungo volo. Sentì una goccia di pioggia cadergli sul naso, e poi un’altra sulla guancia, e rapidamente prese a piovere forte; si spostò nella veranda, rimanendo teso come se avesse inghiottito un manico di scopa, lo sguardo basso.

 

Il signor Granger gli porse una tazza del servizio da tè.

 

-         Tieni – fece, sedendosi sulla sedia a dondolo e stringendosi nella giacca di tweed da casa. – ci è avanzata un po’ di cioccolata ed è meglio farla sparire prima che mia moglie la butti via… -

 

Ron guardò il contenuto scuro della tazza e non ne sentì alcuna voglia. Aveva lo stomaco chiuso, sentiva freddo e aveva i polpastrelli insensibili.

 

Era una primavera fredda.

 

Tenne la tazza in mano per riscaldarsi i palmi.

 

- Eri qui stamattina – gli disse il signor Granger, dondolandosi tranquillo fissandolo con gli occhi color cioccolato. – ora sono le cinque del pomeriggio. Sei qui da più di dieci ore con dodici gradi e solo una felpa addosso. Quando ti ho chiesto di concedere dello spazio non era esattamente questo che intendevo. -

 

Ron tacque, ma arrossì. Sentì un brivido di freddo e starnutì, senza riuscire a trattenersi.

 

Cercò di mantenere un minimo di dignità tirando su col naso ed allontanandosi il più possibile dall’uomo, ma la veranda era stretta e fuori tuonava.

 

Rimasero in silenzio per diversi imbarazzanti minuti. Il signor Granger parve meditare a lungo, dondolandosi e guardando la pioggia che cadeva come cercando di trarne ispirazione.

 

Ron si sentiva più imbarazzato che mai; fosse stato una specie di eroe dei romanzi avrebbe trovato qualcosa di drammatico e brillante da dire. L’avrebbe colpito e l’avrebbe portato dalla sua parte.

 

Certo, se fosse stato un eroe dei romanzi non avrebbe combinato un casino del genere.

 

Certo, era solo Ron Weasley.

 

A volte faceva tutto schifo.

 

Alla fine, fu il signor Granger il primo a parlare.

 

-         Una volta tradii mia moglie – disse, senza preavviso.

 

Per poco Ron non si affogò con la sua stessa saliva.

 

-         Come? – fece, prima di riuscire a mantenere un contegno.

 

Il signor Granger non parve farci caso; anzi, sembrava molto concentrato.

 

-         Sì. Oh, è stato molto tempo fa. E’ una cosa che fanno molti ragazzi… anche le ragazze.non sono da meno. Diciamo che il tradimento è una nuvoletta che tende a minacciarti per tutta la vita. Da giovani è sperimentazione, da meno giovani è un assicurarsi di non starsi perdendo niente di meglio. Alla mezza età è tentativo di ricordarsi la fase di sperimentazione. Oltre si è troppo stanchi e troppo impauriti e la voglia di tradire sparisce. –

 

Ron si trovò ad immaginare la grottesca scena di una via, o vita, costellata di millemila tentazioni e trasalì.

 

-         Quando tradii mia moglie – continuò il signor Granger, esaminando con attenzione un lembo di tweed. – con cui all’epoca mi ero appena sposato, mi sentii in colpa per giorni, tanto che non dovette impiegarci molto per strapparlo dalla mia stessa bocca. Mi tirò un intero servizio da tè. – si tirò su una ciocca di capelli grigi vicino all’orecchio, mostrandogli una piccola cicatrice. – teiera del latte. – spiegò, senza badare alla faccia atterrita di Ron. – naturalmente disse di non volermi vedere mai più. E naturalmente io feci finta di non sentire. Ora, a raccontarlo ho l’aria tranquilla, ma all’epoca ero talmente preso che non pensavo ad altro. Mi presentavo tutti i giorni a casa sua pregandola di perdonarmi e lei puntualmente non si faceva vedere, e se si faceva vedere era per mandarmi a quel paese. A dire la verità, fu davvero stoica nel suo ignorarmi. Chiunque altra avrebbe ceduto almeno un po’. –

 

Ron, suo malgrado, era cupamente interessato. Fuori continuava a piovere e la cioccolata si era raffreddata, ed ora era imbevibile.

 

Il signor Granger inarcò le sopracciglia, quasi stupendosi di quanto riusciva a ricordare.

 

-         Continuò così per un sacco di tempo. Mesi. Qualsiasi regalo le facessi mi tornava perentoriamente indietro. Il suo ignorarmi era in un certo senso il mio carburante: probabilmente non ero mai stato innamorato di lei tanto quanto lo fui in quel periodo, il che, se ci pensi, è piuttosto buffo, o tragico, a seconda dei punti di vista. –

 

Ron non capì subito la sottile insinuazione. Provò l’istinto di protestare, ma le parole come al solito gli si bloccarono in gola. Non riusciva a dimenticare che lui era il padre di Hermione.

 

Era un po’ come se i membri della famiglia Granger gli incutessero geneticamente timore.

 

-         Beh, ma nonostante tutto… è finita bene, state pur sempre insieme, no? – azzardò Ron, posando la tazza fredda sul davanzale della finestra e stringendosi nelle spalle per il freddo.

 

Il signor Granger aggrottò le sopracciglia, voltandosi.

 

-         A dire il vero, no – disse, tranquillo. – non stavo parlando della madre di Hermione. –

 

Ron aprì la bocca e la richiuse, a intermittenza, scioccato.

 

-         Cioè… vuol dire… -

 

-         Quello con la ragazza di cui ti parlavo era stato un matrimonio lampo di quelli che fai in un colpo di testa quando sei un giovane senza cervello – affermò, scrollando le spalle. – in seguito scoprii che non era nemmeno valido agli occhi della legge. Avrei dovuto capire che quello non era un prete vero. Comunque – riprese allegramente, come se Ron non gli boccheggiasse davanti come un pesce rosso dallo shock. – quando mi mollò, mi mollò sul serio. Alla fine, lasciai perdere, col cuore e l’orgoglio calpestati e presi ripetutamente a calci come un bambino con gli occhiali in una di quelle scuole del Bronx. In seguito, ebbi la fortuna di incontrare quella che poi sarebbe diventata la mia seconda moglie, o meglio, la mia legalmente accettabile moglie, e non impiegai molto tempo a dimenticare l’altra. –

 

Ron dovette appoggiarsi alla parete per riuscire a ragionare con una certa lucidità. Pensava che il signor Granger, con l’aria seriosa che aveva, così… così… così dentista, avesse passato l’esistenza in una… biblioteca o qualcosa del genere. E invece era stato uno di quei figli dei fiori senza mutande degli anni sessanta. Magari aveva vissuto in una roulotte.

 

-         Poi, quando Hermione avrà avuto neanche un anno, l’ho incontrata di nuovo, per caso – continuò il signor Granger, bello calmo. – naturalmente il rancore era passato ed eravamo entrambi impegnati, però mi chiese di bere un caffè, così, in amicizia. Mi beccai un asciugacapelli in testa, da Elizabeth, questa volta – gli mostrò un segno in mezzo ai pochi capelli sulla fronte. – ma dopo avermi avvertito in modo così ragionevole, mi lasciò andare. Prendemmo un caffè e la nostra chiacchierata non durò più di un’ora. Provai una strana sensazione, perché tanto per cominciare non impazzivo a vederla, anzi, guardare una caffettiera mi avrebbe fatto lo stesso effetto; inoltre, non avevamo molto da dirci. Mi disse che stava per sposarsi eccetera eccetera. Mi disse anche che all’epoca era stata davvero furiosa con me. Ma, cosa che da giovane non avevo minimamente immaginato, anche molto disperata. Mi disse che si era fatta i pianti più lunghi che ricordasse e che in un certo senso era stato un bene che l’avessi tradita, perché, sue stesse parole, ‘amori così ti deteriorano’. Mi resi conto che lei era stata innamorata di me molto più di quanto lo ero stato io di lei. Insomma, alla fine entrambi eravamo… contenti che io l’avessi tradita. Poteva capitarci di peggio, se non l’avessi fatto. –

 

Ron non riusciva più a seguirlo. Cosa diavolo voleva dire? Si complimentava con lui per aver tradito sua figlia? Voleva dire che ‘la stava deteriorando’? Che se l’aveva tradita c’era un motivo?

 

All’improvviso non provò più tanto affetto fraterno nei suoi confronti, ma s’irritò.

 

-         Secondo me – fece, mandando giù il timore. – secondo me lei l’ha detto solo perché non voleva pensare di doversi pentire di qualcosa. –

 

Il signor Granger si voltò a guardarlo, e invece di assumere un’espressione contrariata come Ron si era aspettato, parve sinceramente interessato.

 

-         Tu dici? Continua – fece, facendogli un cenno con la mano.

 

-         Ecco – incespicò il ragazzo, sempre più rosso in zona orecchie. – se… se davvero era così innamorata di lei non poteva dimenticarlo così facilmente, anche con gli anni. Ma ormai… ormai rifiutando in modo così testardo lei, signore, sapeva di aver perso un’occasione per essere… non so, per essere, magari, felice. Se si fosse resa conto che era così, poi, era la fine e sarebbe sempre stata infelice, perciò… perciò ha preferito credere che fosse meglio così. Ma io credo… credo che devi cogliere le occasioni. –

 

Anche se sono l’ultimo a farlo, naturalmente.

 

Il signor Granger lo ascoltava con attenzione, continuando a dondolarsi, irritando un po’ Ron.

 

-         Le cose… le cose si deteriorano quando non hanno via di scampo – disse, più infervorato. – e secondo me… anche i vicoli ciechi hanno via di scampo. Se non puoi andare avanti, arrampicati. -

 

Okay, non era esattamente farina del suo sacco, ma papà glielo diceva sempre quando erano piccoli.

 

Il signor Granger annuì lentamente, pensieroso.

 

-         Certo che arrampicarsi è molto più faticoso e pericoloso che tirare dritto, sai? – replicò. – c’è chi non ne ha voglia. Chi non ne ha abbastanza forza. Possono esserci un sacco di ragioni. –

 

-         Però c’è anche chi ne ha, di voglia. E di forza – affermò Ron, distogliendo in fretta lo sguardo quando l’uomo lo guardò.

 

-         Oh, lo so che tu ce ne hai, Ron – fece il signor Granger, alzandosi improvvisamente. Il ragazzo sussultò, preso alla sprovvista. – e non ti ho raccontato quella storia per convincerti che non ce la farai, solo per farti capire che ci sono altre prospettive, altri punti di vista, altri ‘the end’ per una storia. Tu mi stai simpatico e fosse per me ti lascerei entrare, ma capisco anche mia figlia e per dirla schiettamente mi dispiace molto più per lei che per te. –

 

Ron si sentì un verme.

 

Il signor Granger gli diede una pacca sulla spalla.

 

-         Ti ricordo che mi hai firmato un accordo, secondo cui, in un caso come questo, non saresti stato assillante. Immagino che al momento della firma non immaginassi nemmeno lontanamente che la situazione potesse verificarsi davvero, e questo ti fa abbastanza onore e ti risolleva di qualche centimetro dalla... ehm… ‘melma’ in cui sei affondato tradendo mia figlia. Tuttavia, mi aspetto che questo accordo venga rispettato. Non puoi stare fuori a morire di freddo costringendo Hermione a stare dentro a morire di mancanza d’ossigeno. Sarà banale, ma il tempo è la risposta. E per tempo non intendo qualche ora, o un giorno o una settimana – disse, lanciandogli un’occhiataccia. – ma un vero periodo per riflettere e condurre le proprie vite normalmente. Anche ai guerrieri feriti in battaglia è concesso del tempo per ristabilirsi completamente; t’immagini se si facessero mettere due cerotti e via, di nuovo a combattere? Non combinerebbero un bel niente. Lascia che entrambi vi disinfettiate un po’ più a fondo e vi curiate per bene… così magari non rimarrà nemmeno la cicatrice. Non ti pare? –

 

Ron non sapeva cosa ribattere.

 

Una parte di lui avrebbe voluto mandarlo a quel paese e dirgli che non poteva lasciare passare del tempo, che conosceva Hermione, che lei se le lasciavi anche solo qualche minuto cominciava a pensare e a pensare e a pensare e magari pensava male di lui e gli si allontanava sempre di più.

 

Poi si rendeva conto che lui stesso stava diventando impossibile.

 

Era arrivato al punto in cui voleva impedire ad Hermione di pensare.

 

Doveva essere impazzito. La follia stava tessendo una ragnatela attorno a lui, pronta a divorarselo.

 

E di colpo, capì che sì, doveva prendersi un po’ di respiro.

 

Doveva prenderselo davvero.

 

-         Io… - disse, avvampando. – io… va bene. Però… se le capita… -

 

-         Non credo dirò niente ad Hermione da parte tua – lo interruppe il signor Granger, mesto.

 

Ron si sentì ancora più abbattuto.

 

-         Sì, beh… allora, ecco… sappia solo che io… io sono davvero… sempre… -

 

-         Lo so – fece il signor Granger, con una strana aria intenerita. – se mi capiterà… più avanti riferirò il messaggio. –

 

Il ragazzo annuì amaramente, starnutì, si asciugò con la manica della giacca e lanciando un ultimo sguardo alla porta che era rimasto fermo ad osservare al freddo nelle ultime dieci ore, si Smaterializzò.

 

 

 

Hermione stava raggomitolata sotto le coperte fissando la finestra.

 

Fuori pioveva e sembrava fare davvero freddo. Che aprile da schifo.

 

Sua madre aveva fatto sparire dalla sua camera scatoloni e valige, ed attualmente la sua camera risultava innaturalmente disordinata e spoglia.

 

Poco male. Al momento non aveva voglia né di leggere né di niente.

 

Il suo sguardo correva continuamente alla finestra.

 

Si alzò in piedi per l’ennesima volta, trascinandosi dietro il piumone, con un cespuglio intricato al posto dei capelli, e posò la fronte sul vetro freddo, guardando verso la veranda di sbieco. Nessuno.

 

Allo stesso tempo si sentì sollevata e devastata.

 

Si era svegliata tardi quella mattina (il che già di per sé per lei era molto strano, ma aveva pianto fino alle due di notte più o meno, consumando più fazzoletti che durante l’influenza di un mese che aveva avuto a dieci anni) e si era trascinata alla finestra per chiudere le tende, e l’aveva visto. Seduto sulle scale nella veranda, a fissare la porta con gli occhi azzurri stanchi e i capelli più spettinati del solito e i vestiti del giorno dopo. Sembrava non aver chiuso occhio e, col freddo che faceva, ad un passo da un raffreddore colossale.

 

E una parte di lei aveva pensato che gli stava bene, che si meritava pure di peggio.

 

L’altra parte aveva avuto un tuffo al cuore e le aveva sussurrato all’orecchio che un’occasione, solo una, non si nega a nessuno.

 

Un’altra parte ancora diceva che un’occasione era già andata sprecata.

 

E alla fine aveva finito per arrabbiarsi di nuovo e chiudere le tende di scatto rischiando di strapparle. Non solo l’aveva fatta piangere tanto da consumare lacrime per una vita intera, ma la stava anche facendo diventare schizofrenica.

 

Non aveva fatto niente per meritarsi questo. Era stata sì un po’ rompipalle e a volte insopportabile e spesso intransigente e molti aggettivi che cominciano con ‘in-‘.

 

Ma non… non era sicura di meritare questo.

 

La cosa odiosa dell’essere traditi era che era qualcosa che sì spaccava il cuore a pezzi, ma non era un qualcosa che potevi vedere, contro cui potevi prendertela e urlare. Era una consapevolezza, una presenza nell’aria che non sopportavi e ti stava attaccata ovunque come granelli di sabbia, e non c’era modo di lavartela via del tutto.

 

Con gli occhi stranamente gonfi e pesanti, si accorse che stavano bussando alla porta.

 

Si trascinò ad aprire.

 

Sua madre la guardava sorridendo con la sua dentatura perfetta.

 

-         Ti ho portato del brodo! Ti sei provata la febbre? – disse pimpante, mentre Hermione si buttava sul letto ricoprendosi col piumone fino alla testa.

 

-         Non ho la febbre – grugnì la figlia.

 

-         Ma te la sei provata per esserne sicura? –

 

-         Non ne ho voglia, e neanche di mangiare, scusa. – disse con voce catacombica da sotto il piumone.

 

La signora Granger posò il piatto col brodo senza fare una piega.

 

-         Domani mattina hai una lezione, se non sbaglio – disse. – hai intenzione di andarci? –

 

Hermione socchiuse le palpebre da sotto il piumone.

 

Già, le lezioni. L’università. Gli esami. La vita normale.

 

Ti passo a prendere dopo le lezioni…

 

Strinse le palpebre.

 

-         Non lo so – disse, a voce alta, per sovrastare i propri pensieri.

 

La signora Granger tacque un attimo.

 

-         No, se non hai la febbre tu ci andrai, eccome – riprese, improvvisamente severa.

 

Hermione ebbe un fremito di irritazione.

 

Riemerse dal piumone per voltarsi a guardarla.

 

-         Mamma, ho detto che non lo so. Se voglio, ci vado, se non voglio, non ci vado. –

 

Sua madre scosse la testa imperterrita.

 

-         Ci andrai, invece, perché domani sarà un giorno come gli altri e in un giorno come gli altri non ti ho mai visto saltare una lezione. –

 

Hermione la fissò, carica di frustrazione.

 

In un giorno come gli altri…

 

Cosa poteva saperne?

 

Il suo ‘giorno come gli altri’ non coincideva con quello della figlia da quando Hermione aveva undici anni.

 

Da allora, da più di sette anni, il suo giorno come gli altri consisteva nel vedere le facce rassicuranti dei suoi due migliori amici, al di là di tutto.

 

Se lo sentiva dentro che da quel momento le cose cambiavano.

 

Se lo sentiva dentro che non avrebbe più avuto giorni come gli altri.

 

-         Insomma, Hermione – fece sua madre, di colpo, sedendosi ai piedi del letto. – credimi, tu devi tentare di reagire. Non ne uscirai, altrimenti. Devi fare fatica per assicurarti le cose migliori, lo sai. –

 

Hermione si lasciò di nuovo andare sotto il piumone e chiuse gli occhi.

 

-         Sono troppo stanca per fare ancora fatica. - mormorò.

 

La signora Granger annuì.

 

-         Ma sei troppo forte per non poterti riprendere. Più scendi, più sarà difficile risalire… perciò comincia adesso a risalire, tesoro. Non tutto di un colpo, poco a poco. –

 

Hermione non rispose e finse di essersi riaddormentata.

 

Sentì sua madre mettere un coperchio sul piatto perché non si raffreddasse, raccogliere un fazzoletto dal pavimento e aprire la porta.

 

-         Penso che Ronald ti voglia davvero molto bene. E penso anche che sfortunatamente siamo tutti sbagliati. Io credo che dovresti tenere conto anche di questo, quando ti alzerai e deciderai cosa fare della tua vita d’ora in poi. –

 

Lei ascoltò la porta che si chiudeva, gli occhi aperti.

 

Siamo tutti sbagliati.

 

 

 

Rodolphus inarcò le sopracciglia, piacevolmente sorpreso.

 

Ginny distolse lo sguardo, irritata.

 

-         Non pensavo che ci saresti riuscita – affermò con schiettezza l’uomo. – dici che ti sottovaluto? –

 

Lei si alzò con una smorfia.

 

-         Posso andare, ora? –

 

Rodolphus assunse un’espressione fintamente delusa.

 

-         Che fretta! Trovato qualche passatempo nel castello? –

 

Ginny lo fulminò con lo sguardo.

 

Non aveva fatto colazione, a Oliver stavano crescendo i denti da latte perciò era stato tutta la notte un continuo piagnisteo, Tinker era impegnato tutta la mattina, non aveva lavato i capelli ed era tesa come una corda di violino.

 

Ci mancava solo l’umorismo mangiamortesco a farle venire il latte alle ginocchia.

 

-         Sì, ho messo su una coltivazione di cervelli – ringhiò, prima di riuscire a bloccarsi. – dato che qui ne siete piuttosto sforniti. –

 

Rodolphus non fece una piega, mentre si accendeva una sigaretta.

 

-         Capisco – disse, assorto. – bene, con te ho finito. Sei stata davvero fortunata. Mi ero già visto di doverti punire. Mi sarebbe davvero spezzato il cuore ad infliggerti la Cruciatus. –

 

Ginny aveva già la maniglia sulla porta, ma istintivamente si voltò aggrottando le sopracciglia.

 

-         Perché avresti dovuto infliggermi la Cruciatus? – fece, diffidente.

 

Rodolphus afferrò un libro dalla scrivania.

 

-         Niente, niente – mormorò sfogliandolo, vago.

 

Ginny gli lanciò un’occhiataccia. Beh, non aveva certo voglia di approfondire i pensieri perversi di quell’uomo il cui scopo nella vita verteva nel portare al potere un pazzo megalomane con un serpente velenoso di tre metri come animale domestico.

 

Sospirò, uscendo.

 

Sì, va bene, era un po’ nervosa. Un po’ molto.

 

Il fatto era che già il fatto di dover andare a ‘colloquio’ con Rodolphus sulle informazioni carpite la sera prima l’aveva messa in agitazione. In più si stava verificando una cosa molto strana: non solo non riusciva a dormire nemmeno quando Oliver smetteva di piangere, ma ogni volta che voltava l’angolo nel castello il suo stomaco faceva le capriole e più di una volta si era ritrovata a fissare il vuoto senza un motivo preciso.

 

Diamine.

 

Comunque, questo non significava assolutamente niente; il rincretinimento doveva per forza far parte del vivere con tutti quei Mangiamorte che le scivolavano intorno. Non poteva pretendere di mantenere del tutto la sua sanità mentale in un ambiente del genere.

 

Si fermò, di colpo. Si era dimenticata dove stava andando.

 

Guardò l’orologio. Otto e quarantatrè. Presto. Non c’erano molti Mangiamorte in giro.

 

Girovagò senza meta per un bel po’. Quanti corridoi. Che muri scrostati… e…

 

Si rese conto di essere una completa cretina alle otto e cinquantasette.

 

Moriva dalla voglia di vedere Draco Malfoy. Era fisicamente impossibilitata ad andare avanti se non lo vedeva, almeno di sfuggita.

 

Ma non sarebbe andata strisciando da lui, no. Chissà poi cosa si sarebbe messo in testa. La sola idea la riempì di orrore. Non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione.

 

Tanto più che non aveva capito molto bene cos’era successo la sera prima. E non era nemmeno sicura che lui avesse capito.

 

Erano…? O forse…?

 

Ginny vide il suo riflesso su uno specchio in un corridoio e per un attimo riflettè mestamente.

 

Eccoti, miserabile Ginny Weasley, di nuovo in campo, di nuovo a tormentarsi, di nuovo a mangiarsi le unghie, di nuovo nella cacca, di nuovo innamorata, sostanzialmente.

 

Questo la rese ancora più nervosa e fece un salto di sei metri quando incrociò tre Mangiamorte che spuntavano da un angolo.

 

-         Vado a Nocturn Alley a prenderti qualcosa per disinfettare le ferita – stava dicendo la voce stridula di Pansy Parkinson.

 

-         Stavolta devi averla fatta grossa per esserti meritato una punizione del genere – commentò quello che riconobbe essere il ragazzo apprendista che aveva visto pochi giorni prima.

 

Ginny per poco non inciampò quando vide che il terzo Mangiamorte, che non rispondeva, era Malfoy.

 

Incrociò per una frazione di secondo il suo sguardo da sotto il cappuccio della veste.

 

Era molto pallido, persino per i suoi standard cadaverici, il viso imperlato di sudore e le parve che una ciocca di capelli biondi sfuggita al cappuccio fosse macchiata di sangue.

 

I tre la superarono, Pansy le diede uno spintone fingendo di non riuscire a passare.

 

Ginny non riuscì a irritarsi; li guardò che andavano verso la camera di Malfoy. Lui non sembrava in grado di reggersi in piedi, visto che l’altro apprendista sembrava tenerlo su dalla spalla destra.

 

Okay, cosa poteva essere successo nelle cinque ore o poco più in cui non si erano visti per ridursi così?

 

Ora era davvero nervosa.

 

 

 

Harry si sentì tirare per le guance e seppe che sarebbe stato una pessima giornata.

 

Socchiuse gli occhi, irritato, e vide Luna a dieci centimetri dalla sua faccia che gli sorrideva allegra.

 

-         Che guance morbide! – disse. – sai che secondo i Tulipes marsigliesi solo le persone pure hanno la guance morbide? -

 

-         Ma non mi dire – fece Harry, togliendosi distrattamente dalla faccia le mani di Luna e alzandosi barcollando, troppo assonnato per arrabbiarsi. Prese gli occhiali dal comodino con un sospiro pesante.

 

Non aveva voglia di alzarsi, non aveva voglia di stare in casa, non aveva voglia di uscire, non aveva voglia di andare a lezione, non aveva voglia di pensare a ieri, non aveva voglia di programmare niente, non aveva voglia di pensare.

 

Appunto, pessima giornata.

 

Andò in cucina mentre Luna lo seguiva e parlava delle radici inglesi dei Tulipes, che a quanto pare erano rarissimi nanetti dotati di grande intelligenza che vivevano nei tulipani e capeggiavano un esercito di api, nella cui esistenza credeva praticamente solo lei e forse qualche irrecuperabile al San Mungo.

 

Mentre beveva direttamente dal cartone del latte, guardandola, quasi si strozzò.

 

-         Ehm, Luna – fece, aggrottando le sopracciglia. – perché oggi sei vestita… -

 

Stava per dire ‘normale’, ma forse era un po’ offensivo.

 

Del resto, non aveva memoria di averla mai vista così: un paio di sobrissimi blue jeans, anonime scarpe da ginnastica e un’innocentissima camicia bianca (forse un po’ troppo larga per lei, sembrava l’avesse rubata dall’armadio del padre), i capelli spaventosamente lunghi sciolti.

 

-         … così, eh, elegante? –

 

Luna non sembrava particolarmente entusiasta del suo look, guardandosi con aria inespressiva.

 

-         Ah – poi le brillarono improvvisamente gli occhi. – ah, è vero! Harry! Ma certo! –

 

Harry si guardò intorno, sconcertato.

 

-         Cosa? –

 

-         Oggi devo andare in un posto babbano, per questo mi sono messa così, ma non è questo l’importante! – fece, sbrigativa. – non avevo pensato! Puoi venire anche tu! Oh, ci divertiremo un sacco! –

 

Harry sentì l’istinto di arretrare.

 

-         No, sì, cioè, cosa… dove devi andare? –

 

Luna ormai saltellava sul posto, troppo emozionata per ascoltarlo del tutto.

 

-         Mars ha trovato un lago dove probabilmente c’è un nido di Bellule per il mio articolo sul Cavillo, che di giorno pullula di babbani, ma tanto le Bellule si mostrano solo all’alba… oh, devi venire assolutamente! Sarà uno spettacolo splendido! –

 

Sentì di essersi cacciato in un impaccio. Era decisamente troppo depresso per fare qualcosa.

 

Era anche vero che la sola idea di passare tutta la giornata solo a guardare il soffitto e a pensare a come avrebbe mai potuto riguadagnarsi la fiducia di Ron, senza mai trovare una soluzione, lo terrorizzava.

 

-         Vorrai dire le… le Libellule – gli venne da dire, giusto per distogliere l’attenzione.

 

Gli occhi enormi lo fissarono con trepidazione.

 

-         Perché mai dovrebbero chiamarle Libellule, se sono belle? Per questo si chiamano Bellule. Personalmente non ne ho mai vista una, ma mio papà dice che una volta una gli ha rubato un orologio ed è volata via prima che riuscisse a guardarla bene, ma era bellissima. Ma t’immagini? Un’intera famiglia di Bellule, qui vicino a noi! Preparati! Vestiti da babbano, eh! -

 

-         Ma… -

 

Ma Luna era già scivolata fuori dalla porta.

 

Harry si chiese se fosse impazzito, ma una parte di lui gli disse che tanto valeva seguirla.

 

Al momento era l’unica amica che aveva, no?

 

 

 

Ginny andava avanti e indietro nel corridoio da venti minuti. Nonostante il corpo dolorante le pregasse di andare a stendersi e schiacciare un pisolino, era sicura che la curiosità non le avrebbe permesso di chiudere occhio.

 

Sul serio. Cioè, cosa poteva aver combinato, Malfoy? Stava benissimo quando l’aveva mollata davanti al portone senza una parola, quella notte. Che fosse partito per un’altra missione da cui ovviamente Rodolphus l’aveva esclusa? Eppure era strano, perché Malfoy non le era sembrato intenzionato ad uscire nuovamente dal castello.

 

Fece appena in tempo a nascondersi dietro uno scaffale di libri, quando si aprì la porta della camera di Malfoy.

 

Ne uscì Pansy, naturalmente, con la veste annodata, a quanto pareva pronta per uscire.

 

La vide guardarsi intorno circospetta e si nascose meglio. A volte aveva l’impressione che la Parkinson lo sentisse, quando lei era in giro. Ma questo era impossibile, in fondo non era un cane, ci somigliava soltanto.

 

Il corridoio cadde nel silenzio. Non c’era più nessuno in giro.

 

Ginny uscì dal suo nascondiglio, diffidente.

 

Si avvicinò alla porta.

 

Esitò, la mano a mezz’aria.

 

Si era ripromessa di non tornare strisciando…

 

Sì, però ora la situazione era diversa. Non poteva mica fare finta di niente.

 

E invece sì, poteva e doveva. Era il Mangiamorte style.

 

Ma in fondo lei non era una vera Mangiamorte, no? Era un’ingenua apprendista.

 

Ciò non toglieva che quello era proprio tornare strisciando.

 

Aveva messo e tolto la mano dalla maniglia una trentina di volte, quando quella si piegò da sola e la porta si aprì, facendola scattare all’indietro come un gatto.

 

Malfoy la guardò con le palpebre socchiuse, un braccio sullo stipite e l’aria di non stare affatto bene.

 

-         Smettila e deciditi, Weasley. – disse, secco.

 

Ginny aprì e chiuse la bocca come un pesce rosso lentigginoso.

 

-         Come sapevi…? – tossicchiò arrossendo perfino in zona orecchie.

 

-         Se dentro è buio e fuori c’è la luce, è naturale che veda la tua ombra fare avanti e indietro da sotto la porta, razza di idiota – disse Malfoy, tornando con l’aria un po’ instabile nella sua stanza.

 

Ginny decise che, visto che era stato lui ad aprire la porta, quello non era tornare strisciando. Lo seguì e si accorse che aveva davvero chiuso tutte le tende e acceso una sola candela sulla scrivania.

 

Malfoy si sedette sul suo letto prendendo la bacchetta dal comodino. Ne fece uscire uno spruzzo di luce argentea e la passò sul braccio che, si accorse Ginny scioccata, era coperto di tagli col sangue ancora vivo.

 

-         Cosa diavolo ti è successo? – chiese, avvicinandosi per vedere meglio le ferite.

 

Malfoy la bloccò con lo sguardo.

 

-         Sfortunatamente non ti riguarda… cazzo – disse, a denti stretti, mentre una delle ferite più grosse si riapriva.

 

-         Può riguardarmi se me lo dici. Confidati pure sinceramente. – gli sorrise incoraggiante lei.

 

Lui la guardò cupo.

 

-         Weasley, questo tuo nuovo life style mi fa venire l’orticaria – disse. – possibile che tu non abbia niente da fare? Inseguire conigli o lucidare l’argenteria? –

 

Il sorriso conciliante di Ginny s’incrinò un po’. Diavolo, quanto la faceva incazzare.

 

Okay, calma. Non gli avrebbe dato corda, ecco.

 

-         No, al momento no – fece, allegramente. – mentre aspettiamo che tu ti decida a confidarti e smetterla di essere così incazzoso, cosa bisogna fare per curare queste ferite? –

 

-         Stare zitti – replicò Malfoy, afferrando una garza da un cassetto e stringendosela attorno al polso.

 

Ginny, mentre prendeva la bacchetta, gli urtò ‘accidentalmente’ una ferita aperta.

 

I pochi incantesimi curativi che conosceva li aveva imparati al corso preparatorio per entrare all’addestramento degli Auror di Harry e Ron, e le riuscivano anche piuttosto deboli. Ma meglio quello che non fare niente confermando a Malfoy la sua incapacità.

 

 

 

Draco la guardò, scocciato.

 

Si era già visto di passare un pomeriggio a letto ad agonizzare come al solito, in quelle occasioni, con qualche molto saltuaria visita di Pansy.

 

Ma a quanto pareva la Weasley ci si era messa proprio d’impegno, qualsiasi cosa tentasse di fare: e non parlava solo del modo ridicolo in cui stava districando le garze come se fossero un gomitolo di cotone.

 

Tutta quella sua aria impegnata, quel suo agitarsi improvvisamente per lui, quell’improvviso voltafaccia rispetto a quando si ignoravano ben poco cordialmente… a dire il vero, era tutto un po’ troppo repentino per lui. Si era tenuta giustamente a distanza per tutto quel tempo, e se si incrociavano si ringhiavano contro come cane e gatto.

 

Ora, lei sembrava aver lasciato perdere quella commedia.

 

Non che la cosa gli facesse né caldo né freddo; non è che non fosse in grado di controllarsi, come qualche anno prima.

 

Anche se, francamente… un certo effetto glielo faceva. Ma stop.

 

-         Allora, confessi? Cos’hai fatto, stanotte? – fece improvvisamente la Weasley, senza alzare lo sguardo, strappando con aria davvero poco esperta le garze, che le si sfilacciarono un paio di volte tra le dita.

 

Draco roteò gli occhi.

 

-         Confesso di aver dormito egregiamente, stanotte – fece lui.

 

In effetti, era stata la prima notte da tempo che aveva dormito senza mai svegliarsi e senza alzarsi sudato e col respiro irregolare dopo uno dei suoi strani incubi.

 

Ginny roteò gli occhi, imitandolo. La vide sforzarsi di guardarlo dritto in faccia, determinata.

 

Draco inarcò le sopracciglia.

 

-         Vuoi praticarmi Legilimanzia? –

 

Ginny sussultò leggermente, come se si fosse distratta; poi lo fissò con aria forzatamente sfacciata.

 

-         Perché no? – fece. – che ne sai che non posso? –

 

A Draco venne da ridere.

 

- Perché sono sicuro che da voi ‘Auror’ non la insegnano. –

 

- Non sono mai stata un Auror. –

 

- Ma avresti voluto. Meglio ancora, se è il corso che anche San Potter segue. –

 

Ginny lo guardò, furiosa, e arrossì leggermente.

 

Draco ricambiò lo sguardo, impassibile.

 

Non saprai mai mentire.

 

 

 

Ginny strinse la bacchetta.

 

Non aveva mai praticato Legilimanzia, ed in Occlumanzia non se la cavava un granchè. Quanto potevano essere diverse, le due cose?

 

-         Bene. Proviamo. Visto che non ti decidi a dirmelo, scoprirò da sola come ti sei ferito – si sentì dire, mentre una voce dentro di sé si chiedeva sconvolta cosa stesse cercando di dimostrare.

 

Malfoy inarcò un sopracciglio con la sua fastidiosa aria ironica.

 

-         Non ho tempo da perdere con queste tue manie di grandezza, Weasley. Faremo Legilimanzia quando sarà il momento, durante l’addestramento. –

 

Ma Ginny aveva già coraggiosamente preso le bacchetta e puntata contro Malfoy, che su fermò con la garza a mezz’aria, l’aria spazientita come un fratello con la sorellina piccola.

 

Tuttavia, posò le garze e la fissò.

 

Ginny sudava freddo. Lupin aveva praticato su di lei Legilimanzia, per Occlumanzia. Doveva solo riprodurre quello che gli aveva visto fare un sacco di volte.

 

Malfoy continuava a fissarla con gli occhi grigi, in attesa. Ginny aveva la gola secca.

 

Si concentrò.

 

-         Pensi che ce la faremo per quando andrai in menopausa? – fece il ragazzo.

 

Ahah. Molto divertente, Malfoy.

 

Ora era sinceramente motivata.

 

-         Legilimens. – pronunciò, a voce bassa.

 

Fu molto, molto strano e veloce.

 

Tutto le si oscurò, davanti agli occhi, come se fosse svenuta, eppure aveva la consapevolezza di essere cosciente e con gli occhi aperti; poi ebbe un rapidissimo flash, come se avesse nella testa un televisore che funzionava a scatti, e fece appena in tempo a vedere un lampo di luce rossa da una bacchetta, una voce che gridava qualcosa e la visione inquietante della pelle del braccio bianco di Malfoy che si lacerava.

 

Poi ebbe una sensazione molto simile a quando qualcuno ti mette all’improvviso le mani davanti agli occhi e si ritrovò nuovamente faccia a faccia con Malfoy.

 

A questo punto, Malfoy le lanciò un’occhiata furiosa.

 

- Chi l’avrebbe mai detto – fece, ironico. – che fossi diventata abbastanza forte da leggere nella mente. Sicura di essere una Weasley? –

 

- Chi gridava? – chiese Ginny, ignorandolo con una strana apprensione che le stringeva la gola. Aveva come la sensazione di riconoscere quella voce.

 

- Non… ti… riguarda – disse Draco, ad ogni parola alzandosi, facendo qualche passo e aprendo la porta indicandole l’uscita.

 

- Malfoy, qualcuno ti ha scagliato una Cruciatus. E’ stato un Auror? Dove? Perché? – fece Ginny, senza muoversi, posando confusa la mano sulla scrivania.

 

Si accorse di aver messo il palmo su qualcosa di piccolo e bollente. Alzò di scatto la mano e sul legno della scrivania tintinnò la fede d’oro, che passò da un colore paonazzo al normale splendore freddo. Sul suo palmo pulsava il segno tondeggiante impresso come uno stampo infuocato.

 

Ebbe una fitta da qualche parte nel petto. Le fedi nuziali dei maghi non potevano venire toccate se non dai coniugi e dalle persone fidate. Se un individuo di sesso opposto, a patto che avesse intenzioni ambigue, toccava la fede di uno degli sposi, quella bruciava e si rendeva intoccabile.

 

Per un attimò le si seccò la gola.

 

Aveva deciso di non lasciarsi intimorire da questo.

 

Aveva deciso. Aveva deciso.

 

Aveva intenzioni ambigue.

 

Ma dovette ripeterselo diverse volte prima di distogliere faticosamente lo sguardo.

 

E quando alzò gli occhi, Malfoy non guardava più lei, ma Pansy. Appena arrivata sulla soglia con un sacchetto in mano.

 

La ragazza si tolse il cappuccio con lentezza, un po’ pallida, come se stesse prendendo tempo per controllarsi e non strozzare Ginny. La fissava con uno sguardo così freddo che perfino Ginny, che ricambiava lo sguardo a testa alta, non riuscì a trattenere un brivido.

 

-         Seguimi – disse, semplicemente, voltandosi.

 

Ginny eseguì d’istinto. Rivolse uno sguardo incerto a Malfoy, e lui la guardò imperturbabile con i suoi occhi grigi, appoggiato alla parete come se non riuscisse a reggersi.

 

Poi, inaspettatamente, afferrò il braccio di Pansy.

 

-         Non è il caso di fare delle scene – disse, la voce ferma e calma come al solito.

 

La ragazza non battè ciglio.

 

-         Non è assolutamente mia intenzione. E’ stato Rodolphus a chiedermi di chiamarla, nient’altro. –

 

Malfoy la scrutò per un lungo momento, poi la lasciò andare.

 

Ginny si ritrovò ad odiarli, entrambi. Odiava l’atmosfera che c’era tra loro. Odiava che usassero solo poche parole per parlarsi, come se non servisse altro per capirsi. Odiava che si conoscessero così bene. Odiava che Malfoy non avesse aggiunto altro.

 

Odiava che si fidasse di lei.

 

Alla fine, si ritrovò a seguirla senza che Malfoy si scomponesse minimamente. Le chiuse la porta alle spalle come se da lì in poi la cosa non lo riguardasse.

 

Ginny e Pansy camminarono lungo diversi corridoi.

 

Proprio mentre Ginny si chiedeva quale scopo avesse la loro camminata, senza alcun preavviso Pansy si voltò, la bacchetta stretta in mano, e la Schiantò di colpo.

 

La cosa fu talmente improvvisa che per un attimo Ginny non sentì nemmeno il dolore del balzo all’indietro, ma sentì chiaramente quello della botta contro la parete mentre cadeva a terra. Si rialzò traballante, estraendo la sua bacchetta.

 

-         Sei impazzita?! – fece, i capelli davanti agli occhi.

 

Pansy aveva cambiato totalmente espressione da quando era in presenza di Malfoy. Ora, pensò Ginny, si rivelava per come davvero si sentiva: furibonda.

 

-         Piccola sgualdrina – ringhiò, tenendo alta la bacchetta. – cosa stai tentando di fare? Non ne hai avuto abbastanza dall’altra volta? Perché diavolo ronzi continuamente intorno a Draco? Qual è il tuo fottutissimo scopo? –

 

La ragazza s’inumidì le labbra, prendendo tempo. Non avrebbe certo dato spiegazioni esaurienti a Pansy Parkinson.

 

-         Volevo solo sapere come ha fatto a ferirsi così tanto in così poco tempo – fece Ginny. Il palmo della mano le pulsava.

 

Pansy la osservò per un lungo momento.

 

-         Sei scema come sembri? – chiese, sprezzante. – guarda che è quello che sicuramente ti toccherà tra poco tempo. Uno di questi giorni fallirai, e io farò richiesta a Rodolphus di partecipare personalmente alla tua punizione. –

 

-         Punizione? – fece Ginny, senza abbassare la bacchetta nonostante non capisse bene di cosa stesse parlando.

 

-         Poverina, ti tengono all’oscuro per non farti tanta paura? – rise Pansy, con un’orribile vocetta infantile spaventosamente simile a quella di Bellatrix. – ogni volta che in una missione un Mangiamorte sbaglia, o non porta le informazioni che l’Oscuro Signore ha richiesto, Rodolphus o chi per lui ti punisce. Con la Maledizione Cruciatus. Il tempo varia a seconda della gravità del tuo errore. Spero ne farai uno di dimensioni colossali, Weasley. –

 

Ginny tacque per un momento, immagazzinando freneticamente tutte quelle informazioni.

 

Dunque era in questo che consistevano le ‘punizioni’.

 

I Mangiamorte che si facevano del male tra di loro. Come animali.

 

La paura, non la fedeltà, era l’incentivo a non sbagliare più.

 

La sola idea l’inorridì tanto che per qualche secondo non ebbe parole. Pensò a Malfoy.

 

-         Ma Malfoy le informazioni ce le aveva… ne sono sicura. – fece, cercando di riappropriarsi di un po’ di dignità.

 

Pansy schioccò la lingua.

 

-         Non questa volta – replicò, sbrigativamente. – un semplice colpo di sfortuna che non si ripeterà. Non ha fatto in tempo ad interrogare la sua fonte ma ci era vicinissimo. Quello che mi stupisce è che tu te la sia cavata. –

 

Ginny si sentì gelare. Certo che non ce l’aveva fatta.

 

Era piombata lei nello stanzino. Non gli aveva lasciato il tempo di trovare alcuna informazione che potesse servirgli.

 

Era colpa sua.

 

-         Ti avverto, Weasley – continuò Pansy, fissandola. – non voglio più vederti stare attorno a Draco. Ti controllerò, ti seguirò e ti farò del male, se sarà necessario. Non lo riporterai indietro. Non ti permetterò… di cambiarlo in alcun modo. –

 

Abbassò la bacchetta con cautela. Ginny sentiva il respiro affannoso per la tensione, ma senza distogliere lo sguardo da Pansy per la tensione, la imitò.

 

-         Come puoi – le disse, inaspettatamente. – come puoi accettare che lui sia così, ora? Non vedi il suo sguardo? Non vedi che non sente alcuna emozione, che non tiene a niente, che non è legato a nulla? –

 

Pansy la guardò.

 

-         Le emozioni – disse, lentamente. – non sono un pregio, sono una debolezza. Lui non vuole essere debole e non lo voglio essere nemmeno io. Se cambiasse idea spontaneamente, lo seguirei. Lo seguo sempre, ad un passo di distanza – la guardò nuovamente, in modo strano. – non permetterti di avvicinarti più di un passo. –

 

Ginny avrebbe voluto replicare in tanti modi, ma aveva come l’impressione che con la Parkinson fosse fiato sprecato: era come parlare con un soldato che seguiva follemente il suo capitano.

 

Pansy si voltò, ponendo fine alla conversazione. Lei la osservò camminare lungo il corridoio, e le parve di vederla strofinarsi la mano sugli occhi, prima di voltare l’angolo.

 

Ginny guardò il palmo della sua mano: un segno tondo rosso bruciava sul palmo, sparendo molto lentamente.

 

Anche a lei venne voglia di strofinarsi gli occhi.

 

Siamo tutti sbagliati.

 

 

 

Mars non si sforzò molto per nascondere la sua espressione disgustata quando vide Luna accompagnata da Harry. Lo fissò come se fosse uno scarabeo stercorario nascosto nel suo zaino.

 

Certo, come al solito non incuteva grande timore: la sua concezione di ‘vestirsi da babbani’ consisteva in giacca e cravatta, che risultavano quantomai grotteschi nel bel mezzo di un campeggio sul lago poco lontano da Londra.

 

-         Non sembri molto entusiasta – fece il cugino di Luna, mentre lei si divertiva a cercare un posto dove accamparsi.

 

-         Non lo sono – ammise Harry, e non aggiunse altro, godendosi con una sorta di disperata perversione l’espressione scioccata del ragazzo.

 

Il lago era splendido; certo, non da togliere il fiato come quello di Hogwarts ma pur sempre degno di nota. Famiglie babbane campeggiavano lì attorno con dei camper, mocciosi si rincorrevano in costume da bagno sulle sponde del lago mentre i genitori sistemavano delle griglie per preparare la cena.

 

-         Qui, qui! – sentenziò Luna dopo un po’, esaltata più che mai. Aveva trovato un posto dall’aria sinistra sotto un salice piangente. A Harry per poco non finì un ramo in un occhio mentre si avvicinava dubbioso. Si guardò intorno con esasperazione: c’era dell’acqua stagnante. Magari le zanzare lo avrebbero divorato e posto fine allo schifo di momento che stava vivendo.

 

Mars sistemò con un colpo di bacchetta tre sacchi a pelo.

 

Harry lo fissò.

 

-         Dormiremo all’aperto? –

 

Contando che erano in piena primavera, di notte sarebbero agghiacciati.

 

-         Certamente. Io e Luna dobbiamo passare un esame di Astronomia – fece Mars, annoiato.

 

Harry inarcò le sopracciglia.

 

-         Pensavo non frequentaste… -

 

-         Sì, ma per essere iscritti all’ordine dei giornalisti magici bisogna superare un paio di prove, per poter scrivere in ogni campo. Anche se è solo una formalità, visto che entrambi lavoreremo comunque solo al Cavillo… se non fallisce… -

 

Harry si stupì di tanta concretezza.

 

-         C’è questa possibilità? –

 

-         E’ dall’epoca in cui pubblicarono quella tua intervista che non vendiamo molto – tagliò corto Mars.

 

Harry non si sentiva sinceramente preoccupato per la situazione del Cavillo. Al momento era troppo preso dalla sua personale depressione per preoccuparsi di altro.

 

Passeggiò lungo la riva del lago, lanciando uno sguardo a Luna mentre tirava fuori un blocco di appunti e Mars montava un telescopio di dimensioni preoccupanti.

 

Se pensava che di solito, se stava sulla riva di un lago, era in compagnia di Ron ed Hermione si sentiva male.

 

In un impeto rabbioso, pensò che era tutto inutile. Il suo destino era perdere, in un modo o nell’altro, tutto quello cui teneva.

 

Ron non aveva più intenzione di parlargli. Chissà quando sarebbe riuscito a scambiare qualche parola con Hermione.

 

E Ginny se n’era andata.

 

Aveva lasciato fuori dalla mente il pensiero di Ginny più che poteva, ma ora che era di pessimo umore non aveva più nemmeno le forze per farlo.

 

Non ne aveva avuta alcuna notizia. Inutile chiedere ai membri ‘adulti’ dell’Ordine: secondo loro, era meglio avere minori contatti possibili nei primi tempi, per poi contattarla quando, presumibilmente, lei si sarebbe solidamente integrata. In ogni caso, se lei fosse stata gravemente ferita, l’avrebbero per forza saputo: Lupin aveva praticato un incantesimo sull’orologio dei Weasley, che non segnava più tutta la famiglia in pericolo mortale, ma si rivelava più preciso. E nelle ultime settimane la lancetta di Ginny era sempre risultata su ‘al lavoro’.

 

Harry, col tempo, si era accorto di non essere troppo in ansia per lei; si era dimostrata in grado di sopportare questo ed altro. Lui e perfino Ron, in cuor suo, la ritenevano abbastanza in gamba da sapersi comportare anche in quella situazione.

 

Il risultato comunque era che ora Harry era pressoché solo, anzi, peggio: in compagnia di due svitati alla ricerca di una famiglia di fate.

 

 

 

Ron ricevette un gufo da Fred e George che gli annunciavano furiosi il suo licenziamento e gli dicevano di non cercare mai più il loro aiuto, se le sue intenzioni erano di farsi assumere per poi non presentarsi mai al lavoro.

 

Lui guardò la lettera con aria assente, l’accartocciò e la buttò.

 

Aveva girovagato senza meta per Diagon Alley, come se servisse a qualcosa; e, più per abitudine che per altro, era finito a sedersi in un aula a lezione, una delle rare volte in cui era in orario.

 

Harry non c’era. Lui occupò la sedia accanto a sé con giacca e borsa, in modo da isolarsi perfettamente.

 

Doveva aspettare.

 

Doveva aspettare.

 

Ma quanto? Quanto era il tempo giusto? Perché il signor Granger ne aveva parlato come qualcosa di facile, di intuitivo? Lui non lo sapeva, quant’era il tempo giusto. Giorni? Settimane? Mesi?

 

Non era sicuro di poter resistere dei mesi. E non era neanche sicuro di essere mentalmente stabile.

 

Quando stava con Hermione, anche quando erano solo amici, non aveva mai provato sensazioni del genere: poteva passare un sacco di tempo senza che si rivolgessero la parola. Ora sembrava diverso, forse perché stavolta era sicuro che fosse colpa sua. Non riusciva a togliersela dalla testa.

 

Possibile che fosse come diceva il signor Granger, l’ho amata di più quando l’ho persa?

 

No; non lui.

 

Ma ora, come poteva sperare di fare una vita normale con Hermione continuamente nella sua testa?

 

-         Ron… -

 

Cloe lo guardava cautamente con la borsa in spalla.

 

-         Posso sedermi solo un attimo? –

 

Il solo rivederla fece riaffiorare le pessime sensazioni di quando si era risvegliato in quella camera sconosciuta, quella fottutissima mattina; e no, avrebbe voluto dirle, non poteva sedersi neanche un attimo, perché al momento la vita faceva già abbastanza schifo senza metterci pure la sua espressione affranta.

 

A Cloe comunque non sembrò importare la risposta. Spostò le cose di Ron e si sedette con sguardo preoccupato.

 

- Stai bene, Ron? Hai saltato due lezioni, ieri. –

 

- Alla grande. – fece lui, inespressivo, aprendo un libro.

 

Cloe lo guardò ancora più preoccupata, accorgendosi che il libro era al contrario.

 

-         Senti, so che forse non hai voglia di tornare sull’argomento… ma devi sapere che ho sgridato Rachel fino a non aver più voce. Non devi preoccuparti, è solo una stupida; non capisce la gravità di queste cose perché per lei è un passatempo. C’è un sacco di gente come lei in giro. Gente stupida. –

 

-         Gente come me. – si sentì dire Ron, quasi involontariamente.

 

Cloe si sporse verso di lui, le sopracciglia aggrottate.

 

-         No – disse. – tu non sei come Rachel… per te è stato diverso. Già il fatto che ora hai quella faccia dimostra che è stato solo… un atto di leggerezza, ma che non hai un carattere leggero. Sono cose che purtroppo capitano… ecco, sono debolezze. E’ normale avere delle debolezze. –

 

Ron emise un grugnito senza significato.

 

-         Ma a parte questo, con la tua ragazza va tutto bene, vero? Credimi, nel giro di qualche giorno tutto ti sembrerà… -

 

-         Ci siamo lasciati – tagliò corto Ron, fissando il libro senza vederlo.

 

Caspita.

 

Ora che lo diceva… era davvero assurdo.

 

Lasciati. Come se fossero stati due bambini che si tenevano per mano saltellando nel prato, e all’improvviso avessero smesso di tenersele.

 

Lasciati. Come se si fossero dato un appuntamento e poi uno dei due fosse dovuto correre via per un impegno.

 

Lasciati. Come se si fossero abbandonati a vicenda sull’autostrada. In due autostrade diverse.

 

Era una parola così stupida che gli veniva da ridere istericamente.

 

Cloe sembrò ammutolire. Si lasciò andare sulla sedia, guardando dritto davanti a sé, come per metabolizzare bene la cosa.

 

Lei ama lui. Lui ama l’Altra. Supponendo che l’Altra non ami più Lui, significa che bene o male Lei ha qualche possibilità.

 

Il problema è che nessuno capisce mai chi è Lei e chi è l’Altra.

 

-         Hai tentato di…? –

 

-         Pietosamente – fece Ron, cupo.

 

Cloe tacque, osservando il professore che entrava, gli occhi annebbiati.

 

Non esiste nessuno al mondo che non abbia debolezze.

 

Vogliono essere tutti a meno di un passo dalla propria debolezza, più vicino, più vicino, così che te ne accorgi, se qualcuno la scopre, se qualcuno te ne vuole privare, perché è strano ma ci tieni, alla tua debolezza.

 

Eppure nessuno vuole essere debole.

 

Cloe guardò Ron.

 

Siamo tutti sbagliati.

 

 

 

Ginny si fissava la mano e pensava che era da poco tempo lì ma era già stata marchiata due volte.

 

Alzò lo sguardo verso il lago su cui tramontava il sole e per qualche motivo assurdo sorrise. Si voltò indietro e vide Hogwarts che si stagliava dietro di lei, deserta come un castello fantasma.

 

Hermione si sedette accanto a lei con la veste da Mangiamorte.

 

-         Cerca di vederla dal mio punto di vista. – disse, fissandola con disprezzo.

 

Ginny non capiva.

 

Cercò di dire qualcosa ma Hermione si specchiò sul lago e lei vide il riflesso di Pansy Parkinson che la osservava.

 

-         Cerca di vederla dal mio punto di vista. – ripetè con una voce agghiacciante, tombale.

 

Ginny si alzò di scatto.

 

-         Ma cos’ho fatto? - urlò, poi si accorse che la cravatta della sua divisa diventava verdeargento ed indietreggiò.

 

-         Non devi pentirti – disse una voce.

 

Ginny si voltò ed improvvisamente Hogwarts, il lago, Hermione e Pansy sparirono.

 

Era immersa nel buio e nel silenzio. L’unica cosa che riusciva a vedere era se stessa.

 

Lei sapeva a chi apparteneva quella voce, ma meno la voleva sentire più il perverso desiderio di ascoltarla aumentava.

 

-         Tutto cambia – disse la voce, calma.

 

Ginny guardava in alto cercando di vedere qualcosa, e distoglieva sempre lo sguardo da se stessa.

 

-         Io no – disse, in un sussurro appena udibile, all’oscurità sopra di lei.

 

-         Tu sei già cambiata – rise la voce.

 

A Ginny sembrava di impazzire.

 

Voleva vedere qualcos’altro. Non sopportava tutto quel buio, era soffocante.

 

Non voleva vedere solo se stessa.

 

Le mancava il respiro.

 

Da un punto indistinto davanti o dietro di lei, comparve qualcosa di pallido.

 

Le mani in tasca, Tom le sorrideva.

 

-         Tutto cambia – le disse dolcemente, e la sua voce le sembrò più vera che mai.

 

Ginny indietreggiò.

 

Hai preso una decisione, lo sai?, disse una voce che somigliava spaventosamente alla sua, mentre Tom la osservava con uno sguardo di commiserazione.

 

Tu sei cambiata, lo sai?

 

Non era vero, voleva soltanto…

 

Tu hai brutte intenzioni, lo sai?

 

Non era vero, non era vero, non era vero!

 

Tu hai una debolezza, lo sai?

 

Si svegliò di colpo e sentì Oliver che piangeva mentre Tinker gli preparava da mangiare tutto allegro.

 

-         Fatto un buon pisolino, signorina Ginny? –

 

Lei non rispose e con la manica della veste si asciugò il sudore che le imperlava la fronte.

 

 

 

-         Guarda, Harry, la costellazione del goblin! –

 

Harry aprì gli occhi per la centesima volta. Luna, stesa sul sacco a pelo accanto a lui (inutile chiedersi come facesse a non avere freddo), indicava il cielo con gli occhi sporgenti che luccicavano.

 

Mars stava seduto su uno sgabello lì vicino, a guardare attraverso il cannocchiale segnando ogni tanto qualcosa sulla carta, tutto concentrato (senza mancare di lanciare occhiatacce a Harry, comunque).

 

-         Affascinante – borbottò Harry, mettendosi gli occhiali definitivamente. Inutile tentare di dormire; avrebbe dovuto immaginare che non lo avrebbe lasciato in pace un attimo. Sembrava notare qualcosa di fantastico in ogni angolo.

 

Luna abbassò il braccio e rimase con la bocca mezza aperta a fissare il cielo con espressione un po’ sciocca.

 

Harry sentì una ciocca dei suoi capelli solleticargli il naso, ma era troppo stanco per fare qualsiasi movimento, perciò si limitò a guardare anche lui il cielo in silenzio.

 

Chissà se Ron era andato a lezione? Chissà cos’aveva pensato, non vedendolo? Chissà se Hermione stava bene e se la sentiva di parlare?

 

Luna, senza alcun preavviso, gli piazzò una manata sulla fronte.

 

-         Smettila di ronzare – gli disse, rimettendosi le mani sulla pancia.

 

Harry la fissò, basito.

 

-         Guarda che non ho fatto nessun rumore. –

 

-         Bugiardo – disse lei, agitando le mani di nuovo per aria. – sento la tua mente ronzare e non si riesce a sentire il silenzio, per niente, proprio. –

 

-         Ma ero in silenzio! – replicò Harry, ormai un po’ irritato.

 

-         Dico il silenzio vero, invece ti sento pensare e macinare pensieri e i pensieri ronzano un sacco, non lo sai? Se li sento ronzare io da qui, come fai tu a sentire il silenzio, eh? – disse, voltandosi a guardarlo come se stesse dicendo delle cose sensate a ragion comune.

 

Harry tacque, scocciato.

 

Non ne poteva più. Aveva sbagliato a voler andare lì per distrarsi. Tanto al disastro che aveva fatto continuava a pensarci, e non riusciva proprio…

 

Si beccò un’altra manata sulla fronte.

 

-         Non ronzare, mi distrai! – esclamò Luna.

 

-         Ma non stavo facendo nulla! –

 

Luna si voltò di nuovo a guardarlo.

 

-         Tu pensi un sacco, Harry, troppo, dico io – qui Mars emise uno sbuffo dubbioso. - stacca quel ronzio dei pensieri e sarai più tranquillo. Così sentiremo le Bellule quando arriveranno… -

 

-         Guarda che non posso mica smettere di pensare… -

 

-         Sì, invece! Guarda me. –

 

Harry la osservò mentre guardava il cielo con espressione tranquilla. Passò qualche secondo nel silenzio più totale.

 

Poi Luna si voltò, soddisfatta.

 

-         Visto che non ho ronzato? Prova tu –

 

-         Quello è troppo melodrammatico per volere davvero smettere di pensare, Luna – commentò Mars, segnando qualcosa sulla carta.

 

Luna guardò stupita Harry.

 

-         Sei melodrammatico? -

 

-         Assolutamente no! – disse Harry con un po’ troppa foga.

 

-         Allora, prova. –

 

Harry sbuffò ma annuì, pur di essere lasciato in pace. Si sistemò meglio nel sacco a pelo scomodo, osservò il cielo imitando l’espressione di Luna.

 

Forse, non tutto era perduto. Se avesse convinto Hermione che doveva, doveva dare un’altra possibilità a Ron, lui l’avrebbe magari perdonato? Ma come avrebbe fatto? Aveva visto l’espressione di Hermione, e non sembrava intenzionata a…

 

Luna si mise a sedere di scatto e si chinò su Harry inondandogli il viso coi capelli e prima che lui se ne rendesse conto aveva accostato l’orecchio al suo.

 

-         Che stai facendo?! – si dimenò subito Harry, ma Luna gli bloccò il braccio.

 

-         Tu devi proprio smetterla di ronzare – disse Luna, come se stesse proprio sentendo un distinto ronzio fuoriuscire dall’orecchio sinistro di Harry. – ascolta me. –

 

Harry si sentiva talmente intrappola che fra un po’ soffocava. Era talmente agitato che sudava freddo; avrebbe dato qualsiasi cosa per spostarsi di lì e prendere una boccata d’aria fresca. Oltre i capelli di Luna notò lo sguardo preoccupato di Mars, il quale però non disse nulla, limitandosi a monitorarlo.

 

Harry si rese conto che Luna non parlava più e dopo un po’ smise di tentare di dimenarsi e molto lentamente e faticosamente i suoi muscoli si rilassarono. Erano immersi nel silenzio più totale, come poteva essere solo un lago immerso nell’oscurità della notte.

 

Per un po’ sentì il suo respiro infastidito, poi si abituò e non lo sentì più. Ascoltò dall’orecchio sinistro di Luna, sentendosi più ridicolo che mai. Non sentì alcun ronzio, ovviamente. Non riusciva a vedere la sua espressione, perciò non capiva se lo stesse prendendo in giro, se si fosse addormentata di colpo o fosse proprio un po’ matta. Rimase immobile.

 

A poco a poco, si sentì intorpidito, come se stesse prendendo sonno a occhi aperti. Poi successe una cosa davvero strana: per un tempo indefinito, la sua mente si scollegò totalmente. Fu assurdo e quasi inspiegabile; era come se improvvisamente non avesse più una mente e dentro la sua testa regnasse il silenzio e sentisse i suoi sensi e il silenzio.

 

Era proprio la sensazione che si prova dopo aver sentito a lungo un ronzio: liberatorio.

 

-         Visto? – disse Luna trionfante, allontanandosi all’improvviso e rimettendosi stesa.

 

Harry era ancora un po’ perplesso: poco a poco la sua mente riprese a ronzare, anche se più piano.

 

-         Quale magia hai… ? –

 

-         Magia? No, la bacchetta me la sono dimenticata a casa – fece Luna allegra, come se fosse normale lasciare a casa la propria unica arma di difesa in tempo in cui i Mangiamorte spuntavano da tutte le parti. – è una cosa che faceva la mia mamma quando mi spaventavo. Una volta ho trovato un Trentottocchi in un calzino e mi sono spaventata un sacco (naturalmente non sapevo, come ora, che sono innocuissimi) e lei mi disse che dovevo solo scollegare la mente che mi diceva di avere paura e rimettermi in contatto con la parte istintiva di me che sapeva di non dover aver paura. –

 

Harry considerò la cosa e si sentì un po’ in colpa per essere stato così brusco con lei; in fondo aveva buone intenzioni.

 

Mars, che li osservava di sottecchi pronto a saltar su al minimo segno di apprezzamento da parte di Harry, sentenziò che era ora di appostarsi.

 

Luna saltò su, eccitata; Harry si rialzò faticosamente, stanco morto. Si appostarono dietro ad un cespuglio, due maghi ed una strega inginocchiati in modo ridicolo per chissà quale motivo.

 

Il sole stava sorgendo piano sopra il lago. Si mostrò prima qualche millimetro, che spennellò il cielo di rosso scuro, mentre la costellazione del goblin si faceva sempre più fioca.

 

Harry era talmente soprappensiero che sussultò quando Luna lo riscosse e fece un rumoroso ‘shht’ che avrebbe svegliato l’intero bosco se ci fosse stata anima viva lì attorno.

 

Sul momento, non capì il motivo di cotale agitazione; poi si accorse che dal centro del lago qualcosa stava scivolando sull’acqua lentamente, formando quattro linee curve o arricciate, come se ci danzasse sopra un pattinatore invisibile.

 

Luna gemette di gioia come una bambina piccola davanti ad un’enorme casa delle bambole quando le quattro cose minuscole si fecero più vicine. Harry dovette pulirsi gli occhiali per riuscire a vedere da così lontano.

 

All’apparenza, sembravano proprio semplici libellule che sbattevano rapide le ali scivolando sull’acqua. Ma a guardarle bene, ma veramente bene, così bene da farsi male agli occhi, ci si accorgeva che avevano le ali di colori assurdi mischiati insieme. La più grande aveva le ali rosso e oro.

 

Mars battè il cannocchiale con la bacchetta trasformandolo in un piccolo binocolo che porse a Luna. Lei lo prese senza staccare gli occhi dagli esserini, usò il binocolo e si mise una mano davanti alla bocca, con le guance rosse di gioia.

 

Porse il binocolo a Harry, e quando lui lo prese perplesso temette che Luna si sarebbe messa a piangere, ma a quanto pareva non ne aveva alcuna intenzione; con entrambe le mani davanti alla bocca, aveva gli occhi tondi e azzurri che sorridevano più che mai.

 

Harry guardò attraverso il binocolo. Così si vedevano distintamente, e perfino lui rimase impressionato.

 

Lui ci aveva cupamente scherzato sopra, ma quei quattro cosini sembravano davvero una famiglia di fate: avevano corpi asessuati ma di fattezze che ricordavano quelle umane. Due erano più grandi e le altre più piccole; una grande ed una piccola avevano le ali doppie, ed istintivamente pensò che dovevano essere i maschi. L’unica cosa del loro corpo che si vedeva distintamente erano le gambette leggiadre, le braccia esili e gli occhi a mandorla enormi e colorati. Stavano lì a rincorrersi sull’acqua e lui si sentì così strano che temette di aver subito un po’ troppo l’influenza di Luna.

 

Notò che il sole si era spostato appena appena, ma le Bellule stavano già tornando verso il centro del lago.

 

-         Non le fotografi? – bisbigliò Harry.

 

Mars lo guardò male e Luna lo fissò, scandalizzata.

 

-         Le spaventerei – disse.

 

-         Ma il tuo articolo… penseranno tutti che tu stia dicendo… - delle gran cavolate, concluse mentalmente.

 

-         Non ha importanza – disse lei. – io l’ho visto. Lo so che è vero. A cosa mi serve una foto? –

 

-         Ma… -

 

-         Tu ci credi che esistono le Bellule? – gli chiese, di colpo.

 

Harry la fissò, stranito.

 

-         Certo, ora, ma… -

 

-         Mars ci crede, io ci credo, tu ci credi. Siamo già in tre a crederci! Ci sono cose vere in cui non crede nessuno. Direi che così le Bellule sono un’affermata verità! – disse, sorridendo raggiante mentre le guardava sparire sott’acqua al centro del lago.

 

Harry non sapeva più cosa dire, poi se lo lasciò sfuggire.

 

-         Ma sei davvero come sembri? – chiese, poi tacque, sentendosi un po’ cattivo.

 

Mars lo fulminò con lo sguardo. Luna, invece, non parve per nulla turbata. Ci pensò su.

 

-         Sembro come sono. – rispose con un gran sorriso svanito nel suo stile.

 

Harry la guardò ancora e fu ancora più strano che vedere le Bellule che sorgevano dal centro di un lago all’alba, perché sentì che la sua testa riprendeva a ronzare; ronzava e ronzava che non c’era storia, che lei sembrava ed era davvero favolosa.

 

 

 

Ginny lucidava i candelabri con tanta foga che come minimo si sarebbero sciolti sotto la sua pressione. Ogni tanto passava qualche Mangiamorte che l’additava divertito, e Bellatrix era quella che se la rideva più di tutti. Date le condizioni di Malfoy, il quale ovviamente non si era degnato di farle sapere un bel niente, e la cui stanza era monitorata dalla Parkinson pronta ad attaccarla al primo passo falso, aveva saltato l’allenamento e Bellatrix, con sommo divertimento, l’aveva spedita a fare quel lavoro inutile.

 

Ricordò di aver pulito dei candelabri a Hogwarts, quando era in punizione, una volta, e che subito dopo…

 

Spezzò a metà una candela passandoci per sbaglio il panno per lucidare con inquietante forza. Comunque, non aveva importanza; tanto non aveva sonno, e le sue intenzioni di dormire erano quantomai limitate. Se il suo destino era vivere un incubo ogni notte, meglio stare svegli; sebbene nemmeno la realtà fosse tanto lontana da una specie di incubo decisamente sgradevole.

 

Bagnò il panno nel secchio e si accorse di aver finito il sapone, il che significava una lunga e interminabile passeggiata fino allo sgabuzzino. Sbuffò, passandosi una mano sotto il naso, talmente sporca di polvere che starnutì quattro volte mentre percorreva mestamente il corridoio.

 

Se una sola volta avesse potuto fare una fattura a Bellatrix o Rodolphus, una volta sola, anche una piccola ma molto fastidiosa, stava pensando, osservando distrattamente le pietre delle pareti che gocciolavano di umidità. Girando l’angolo, stava giusto pensando a quale tipo di fattura avrebbe fatto più andare fuori di testa un Mangiamorte e soprattutto su chi avrebbe preferito farla, accorgendosi della larga scelta, quando si sentì tirare per un polso tanto forse che per un attimo pensò di essere stata risucchiata da un buco nero e cacciò un urlo.

 

Dietro l’angolo, Malfoy la guardò come se fosse pazza.

 

-         Ti pare il caso di urlare? Hai la tachicardia? – chiese, inarcando un sopracciglio.

 

Ginny aprì e chiuse la bocca a intermittenza ed a quel punto ce l’aveva davvero, la tachicardia, ma non lo avrebbe detto nemmeno sotto tortura.

 

Erano vicini molto di più di un solo passo.

 

Nella mente di Ginny non esitò a partire un viaggio mentale dei più fantasiosi, e stava giusto cominciando a sentirsi un po’ lusingata (insomma, era lui che l’aveva attirata in un angolo, no?), quando Malfoy le porse qualcosa.

 

-         Solo tu potevi essere così stupida da perderlo – disse, mentre Ginny prendeva in mano l’oggetto leggero.

 

Era l’anello di Avery. Già… non si era accorta di non averlo più, agitata com’era stata nelle ultime ventiquattr’ore. Le doveva essere sfuggito dal dito quando si era messa a trafficare con le garze per dare inutilmente una mano a Malfoy.

 

-         Oh. – disse, sentendo il viso bruciare.

 

-         Cerca di non seminare altri tuoi oggetti personali nel mio spazio vitale. –

 

Ginny gli lanciò un’occhiataccia.

 

-         Vai a prenderti una boccata d’aria, Malfoy, chissà che i tuoi restanti neuroni non siano ancora recuperabili. –

 

Si aspettava una rispostaccia delle sue e già si stava preparando a come rimbeccarlo, ma Draco sorrise e senza preavviso si allungò verso di lei e la baciò.

 

Lo shock fu tale che le mani di Ginny rimasero immobili a mezz’aria in posizione da litigata per un bel po’; poi ne perse del tutto la sensibilità, come se improvvisamente la sua esistenza si riducesse alle labbra fredde di Draco sulle sue.

 

Sospettava che l’effetto di tutto ciò fosse assuefazione irreversibile, perché si accorgeva che era la terza volta che lo baciava (sì; teneva il conto) e si sentiva sempre di più come se non potesse farne a meno; e il suo corpo resisteva sempre di meno, sempre di meno.

 

Da parte sua, Draco non aveva certo idea di quante volte si fossero baciati (perché diavolo tenere il conto?) ma già il fatto che improvvisamente gli fosse venuta una gran voglia di restituirle l’anello di Mangiamorte di persona, quando avrebbe benissimo potuto mandare qualcun altro, era già molto, molto preoccupante. Non era colpa sua, comunque; aveva il pieno controllo della situazione. Cioè, poteva smettere quando voleva.

 

Era che non voleva.

 

Non voleva perché quando baciava Ginny era come uscire da una discoteca dopo che la musica ti ha martellato la testa: senti ancora un po’ il rimbombo, ma sempre di meno, sempre di meno, ed a poco a poco il silenzio occupa la tua mente e sei finalmente tranquillo.

 

Ginny sentì le mani di Draco passare sotto la veste e sotto la maglietta, e quando le sue dita innaturalmente gelide raggiunsero la pelle del ventre, avvertì il bacino farsi istintivamente più vicino al suo, mentre approfondivano il bacio.

 

Quasi le fecero male i muscoli quando si costrinse a indietreggiare leggermente.

 

-         So di ripetermi, ma non puoi fare così, non quando ti pare e dove ti pare… - balbettò, arrossendo furiosamente.

 

Draco la degnò di un rapido sguardo, ma poi riprese a baciarla sul collo, lentamente.

 

-         Vo… voglio dire – farfugliò Ginny, che cominciava a dimenticare le regole base della grammatica. – non crederai mica di potermi usare e poi buttare via? –

 

Draco trattenne per sé un ghigno; al momento non aveva granché voglia di farla incazzare, non era mica scemo. Smise un attimo di baciarla e la guardò.

 

-         Ti farebbe sentire meglio se dicessimo che anche tu usi me e hai la facoltà di buttarmi via? – disse, alzando lentamente le mani percorrendo la schiena di Ginny che trattenne stoicamente un brivido.

 

-         Beh, un pochino – mormorò lei, chiudendo gli occhi mentre Draco le sfiorava la clavicola con le labbra.

 

Se pensava che solo quella mattina camminava a stento dopo una sessione di Cruciatus punitiva e ora aveva quasi tutte le ferite rimarginate e… beh, e tutto il resto, bisognava ammettere che aveva lodevoli capacità di ripresa. A proposito, doveva scusarsi per avergli fatto subire la punizione…

 

Draco tornò alla sua bocca.

 

Magari dopo, sì.

 

-         Dove diavolo sei finita, Weasley? – strillò la voce di Bellatrix.

 

Ginny e Draco si separarono ad una velocità ammirevole, proprio mentre la donna voltava l’angolo.

 

Sbattè le palpebre, guardandola.

 

-         Stai facendo una pausa, Weasley? – canzonò Bellatrix, con aria fintamente ingenua.

 

-         No, io… ho finito. – fece Ginny, raccogliendo le forze. Ogni centimetro della sua pelle si stava concitatamente lamentando per quella violenta interruzione.

 

-         Bene, allora sparisci dalla mia vista – buttò lì sbrigativamente lei. Fece un cenno esageratamente educato a Draco e girò sui tacchi.

 

Dato che la ragione di Draco si stiracchiava dopo quella fastidiosamente piacevole parentesi, si rese vagamente conto che nello sguardo di Bellatrix c’era qualcosa che non andava. Era una donna folle, ma era da due anni che vedeva le sue espressioni da pazza, e quella era sospetta.

 

Comunque, al momento gliene fregava meno di zero. Stava per reclamare la sua boccata d’aria personale, quando con una strabiliante e piuttosto rara ondata di irritazione si accorse che probabilmente Pansy lo aspettava in camera già da dieci minuti.

 

Mai aveva avuto meno voglia di tornare in camera.

 

Senza sentire il bisogno di dire una parola, fece per andarsene.

 

-         Ehi! – disse Ginny. – ma ti pare il modo di fare di una persona normale? Dì qualcosa, almeno! –

 

Malfoy roteò gli occhi, voltandosi.

 

-         Perfetto – fece, calmo. – che ne dici di ‘non portare la biancheria intima la prossima volta’…? –

 

Ginny gli diede un calcio negli stinchi insospettabilmente potente.

 

-         Ma vai a farti un giro, vai! – disse, tutta rossa in faccia e con l’aria indignata.

 

-         Che suscettibile… -

 

-         Guarda, se il nostro rapporto deve essere basato sull’usa-e-getta, ti getto subito, Malfoy, non ho problemi! –

 

Lui, suo malgrado, sorrise e per un folle attimo le parve che il sorriso raggiungesse un pochino anche gli occhi grigi.

 

-         Se cambi idea sul prodotto – fece, ironico. – la mattina presto vado nelle cucine, dato che nessuno ha mai voglia di usarle, così evito numerose rotture di coglioni con gente che vuole fare conversazione alle prime luci dell’alba. Forse dovresti cominciare a svegliarti prima, Weasley, invece di poltrire tutto il tempo. –

 

Ginny stava per protestare, poi lo guardò.

 

Oh, beh.

 

-         Se mi viene fame, forse – fece, vaga, mentre le si rivoltavano le viscere.

 

-         Ti verrà – sorrise lui, ambiguo, girò sui tacchi e se ne andò, mollandola lì appoggiata alla parete.

 

Con tachicardia a livelli preoccupanti, la pelle che ribolliva e l’impellente bisogno di una doccia molto, molto fredda.

 

 

 

Hermione ricevette un gufo da scuola e lo lesse solo perché se non l’avesse fatto lei, l’avrebbe intercettato sua madre.

 

Le annunciavano che quello stesso pomeriggio era convocata per l’iscrizione al T.O.M.O. (Tirocinio Obbligatorio per Medimaghi Ordinari) al San Mungo.

 

Le tremò un po’ la mano.

 

Aveva aspettato quel momento per un sacco di tempo, emozionata alla sola idea, e ora non le dava alcuna sensazione. Un post scriptum al termine della lettera recitava che se non si fosse presentata in tempo per l’iscrizione, avrebbe dovuto attendere l’anno successivo per la prossima sessione.

 

Non ne aveva voglia, non voleva uscire, non voleva ripercorrere le stesse strade, non voleva vedere le stesse pareti, non voleva che…

 

Più scendi, più sarà difficile risalire.

 

Deglutì. Non voleva nemmeno scendere più di così.

 

Fuori non pioveva più ma il cielo era plumbeo e triste e le sembrava di vedere dentro se stessa.

 

Non poteva farsi condizionare la vita da lui, le disse una voce che non aveva mai sentito.

 

In fondo… Ron aveva sempre fatto come gli pareva. Perfetto.

 

Se non gli piaceva sufficientemente così, non sapeva proprio che farci.

 

Si alzò lasciando finalmente il piumone, seppure con un’espressione dolorante e l’impressione di non essere per niente convinta. Anzi, non ci credeva proprio, al suo traballante menefreghismo, ma tanto prima o poi sarebbe dovuta uscire da quella stanza e affrontare il fatto che lei e Ron si erano lasciati.

 

Lasciati… che espressione idiota. Come fossero stati legati da delle corde tutto il tempo, come se ora che era slegata si sentisse meglio.

 

Si guardò allo specchio. I suoi capelli erano più cespugliosi che mai, aveva gli occhi quasi pesti come se l’avessero presa a schiaffi. Se si fosse presentata così, l’avrebbero immediatamente ricoverata.

 

Raccolse i capelli, con la bacchetta fece comparire del ghiaccio e lo fece scivolare un po’ sotto le palpebre, come aveva fatto Ginny una volta, dopo aver litigato con Harry.

 

Ginny avrebbe saputo cosa fare. Ginny avrebbe preso Ron e lo avrebbe schiaffeggiato e avrebbe urlato e avrebbe pianto e avrebbe mangiato montagne di gelato e cioccolato e consumato mille cubetti di ghiaccio e l’avrebbe vissuta davvero, la sofferenza, poi l’avrebbe presa a calci e buttata via per sempre.

 

Voleva saper fare anche lei così. Sapere quello che sentiva e accettarlo perché se lo sentiva era giusto, perché se lo sentiva era parte di lei.

 

Lei non era stata nemmeno capace di piangere davanti a lui.

 

La sua mente rifiutava l’idea di mostrarsi debole, ma forse non era il modo giusto… forse, se fosse stata più sensibile, lui non l’avrebbe... fatto.

 

Si guardò, gli occhi un po’ meno gonfi.

 

Ron mi ha tradita, si disse, fissandosi e sentì immediatamente le lacrime che spingevano per tornare.

 

-         No, per oggi basta – disse con voce un po’ spezzata al suo riflesso.

 

Le lacrime premevano ancora un po’ ma gli occhi non bruciavano più.

 

Prese la bacchetta, si Smaterializzò, si sentì tirare per l’ombelico e in un attimo i suoi piedi erano di nuovo sul pavimento, quello lucido del San Mungo.

 

Si avvicinò al banco delle informazioni.

 

-         Per l’iscrizione dei T.O.M.O.? – chiese, ostentando tranquillità.

 

L’addetta non alzò nemmeno lo sguardo, masticando un chewin-gum.

 

-         Sala d’attesa, prenda il ticket per avere il cartellino identificativo ed il suo orario di compresenza col primario – fece, annoiata.

 

Hermione, la schiena più dritta possibile, andò nello stanzino della sala d’attesa e vi trovò una decina di tirocinanti in fila verso un tizio sulla cui testa una piuma si affrettava a trascrivere i dati delle carte d’identità sul cartellino identificativo.

 

Prese il ticket (la carta dello scontrino disse ‘ahi’ mentre lo strappava ed il distributore si agitò turbato) e si mise in fila con un sospiro.

 

Fortunatamente, la cosa fu abbastanza veloce e scorrevole.

 

Quando era ormai seconda, si rese conto che stava fissando con aria assente i capelli rossicci del tizio davanti a lei (che quando si era voltato, poco prima, le aveva fatto prendere un colpo: non doveva ancora superato un’infelicissima parentesi acneica) e cercò di prestare attenzione al fatto che stava per diventare tirocinante al San Mungo: avrebbe dovuto essere emozionata, ma naturalmente non c’era verso di sentirsi perlomeno un essere umano invece che uno straccio.

 

-         Il mio orario coincide col mio settimanale allenamento di pluffing – protestava quello col lato oscuro della luna al posto della faccia.

 

-         Sì, beh, siamo tutti impegnati, il mio è a un minuto di distanza dall’allenamento di Quidditch, e posso farci qualcosa oltre a spaccarmi la schiena per fare entrambe le cose per bene? – replicò il ragazzo dei cartellini, affibbiandone uno con una certa violenza e facendogli cenno di andarsene.

 

Lato Oscuro della Luna borbottò irritato ma se ne andò.

 

Hermione prese il respiro e porse la sua carta d’identità.

 

-         Hermione Granger, Università per la Medimagia e la Guarigione, Dipartimento di Diagon Alley – disse, meccanicamente.

 

-         Sam Falk, Associato, in corso per la Specializzazione di Guarigione – mormorò stancamente il ragazzo, porgendo la carta d’identità di Hermione alla piuma che prese a scrivere ossessivamente. Sembrava distrutto; sotto gli occhi nocciola c’erano un paio di occhiaie piuttosto evidenti. – anch’io mi sono laureato a Diagon Alley, è una buona scuola. –

 

-         Già. –

 

Tacquero, mentre la piuma finiva di trascrivere i dati della carta d’identità e cominciava a scrivere l’orario.

 

Sam, porgendogliela, guardò istintivamente la scuola frequentata.

 

-         Oh, anche tu di Hogwarts – disse, guardando un pò lei un po’ la piuma.

 

-         Già. –

 

-         E così hai smesso l’anno scorso –

 

-         Già.... –

 

-         Allora magari ti ho già vista. Oggi ho già iscritto quattro Corvonero, tre tassorosso e sei Grifondoro, di altri anni, naturalmente. In che casa eri? –

 

-         Grifondoro. –

 

Sam sembrava troppo stanco per continuare la conversazione. Le porse un foglio e il cartellino.

 

-         Stai attenta a non perdere il cartellino identificativo e controlla che l’orario non coincida con quello delle tue lezioni, in caso provvederemo a cambiarlo – disse, meccanicamente. Poi parve risvegliarsi. – hai detto che hai finito l’anno scorso? Granger, giusto? –

 

Hermione sbatté le palpebre, perplessa. Stava già mettendo via le sue cose, pronta per tornare a casa ad autocommiserarsi.

 

-         Non sarai mica la Granger di quell’assurdo articolo della Gazzetta sul Torneo Tremaghi di quattro anni fa? –

 

Bruciava d’irritazione al solo ricordo.

 

-         Se intendi quel penoso tentativo di Rita Skeeter di trovare quello che non c’è, sì, sono io, perché? –

 

Sam fece un sorriso e gli si formò una fossetta sulla guancia.

 

-         All’epoca ero al settimo anno in Corvonero. Non mi candidai per il Torneo, ma lo seguii nei minimi dettagli. Incredibile come Potter riuscì a sopportare tutta quella pressione. Adesso che ci penso, mi sa che tu eri quella ragazzina coi denti grandi che girava sempre con lui e quell’altro tizio alto coi capelli rossi… -

 

Hermione sentì che era ora di levare le tende.

 

-         Che memoria. Beh, ora… -

 

-         Beh, eravate come i Tre Moschettieri, era difficile non notarvi. –

 

Suo malgrado, le venne un sorriso un po’ triste.

 

-         I Tre Moschettieri… hai genitori babbani che ti hanno costretto a leggerlo? –

 

Sam inarcò le sopracciglia.

 

-         A dire il vero, è il mio libro preferito. Solo il nonno è babbano, comunque. Non ti piace il genere? –

 

Hermione lo guardò, accigliata.

 

-         No, al contrario – fece, un po’ esitante. – al contrario. Sebbene abbia detestato… -

 

-         Il seguito, vero? Un disastro, mi è crollato il mito. A quel punto, ho trafugato un po’ di Agatha Christie dalla libreria di mio nonno e, accidenti, non devo nemmeno aver dormito per finire… -

 

-         Omicidio sull’Orient Express – disse lei istintivamente.

 

Sam annuì vigorosamente.

 

-         Una chicca… -

 

-         Senti, chicca, ti dispiace muoverti, c’è gente che vorrebbe tornare a casa – fece il tirocinante dietro ad Hermione, sbuffando.

 

Sam lo fissò.

 

-         Chiunque tu sia, non hai idea della giornata che ho passato oggi. L’unica cosa che mi rallegra è che so che è scritta anche nel tuo patetico futuro di topo di biblioteca, come tutta la povera gente in questa stanza. Perciò chiudi quella fogna e lasciami lavorare. –

 

Hermione inarcò le sopracciglia vedendo come l’altro si zittiva.

 

Sam si rivolse verso di lei.

 

-         Senti, Hermione, non so perché ma a pelle mi stai simpatica, non so, mi dai la sensazione di una che non fa solo finta di leggere. –

 

-         Non lo faccio, infatti – disse lei, sforzandosi di sembrare un po’ più allegra.

 

-         Appunto. Io sarò l’assistente del primario nel tuo orario, perciò se hai bisogno di qualcosa fai un fischio – la guardò un attimo. – bisogno di qualcosa tipo nutella. Sembri averne un bisogno davvero disperato. Conosco un posto dove farciscono tutto di nutella, anche i bastoncini di pesce… anche se ti sconsiglio di provarli. –

 

Hermione si stupì di tanta gentilezza e pensò fosse educato annuire e fare una risatina di circostanza.

 

Quando si allontanò non si sentiva molto meglio di quando era entrata, ma per la prima volta da due giorni non aveva pensato a Ron per più di cinque minuti.

 

 

 

Bellatrix teneva il volto basso e le ginocchia sul pavimento duro e freddo.

 

-         Credo che sia il momento, mio signore – disse, con una punta d’impazienza sulla voce.

 

Lo sentì fare qualche passo attorno alla poltrona e vide la mano ossuta scivolare lungo il tavolo di legno antico.

 

-         Non avere fretta, Bellatrix – disse lui, mellifluo. – non avere fretta. E’ necessario procedere con la cautela con cui si procede quando ci si avvicina sempre di più ad un punto debole; che è sostanzialmente ciò che stiamo facendo. –

 

Bellatrix teneva imperterrita lo sguardo basso.

 

-         Mio signore, non voglio mancare di rispetto – disse, esitante. – ma il tempo stringe e non possiamo aspettare i comodi di… -

 

-         Aspetteremo quanto sarà necessario – tagliò corto lui. – manca poco, credimi; molto poco. Ma è una situazione che non ammette errori: non voglio che il piano venga rovinato per la tua mancanza assoluta di sensibilità – fece una risata fredda.

 

Lei annuì, nervosa.

 

-         Sì, mio signore. – disse, ubbidiente.

 

-         Rodolphus ti dirà quando procedere. Nel frattempo, tu sta a guardare questo splendido spettacolo. –

 

Bellatrix sorrise tra i capelli neri.

 

-         Sarà davvero interessante – continuò lui, passando accanto alla finestra. – vedere come le debolezze di questi piccoli arroganti emergeranno tutte insieme come schegge di legno sull’acqua, portandoli verso la loro distruzione. Davvero interessante… -

 

Lei si inchinò ed uscì dalla stanza.

 

Il problema è che nessuno lo ammetterà mai,

 

ma siamo tutti sbagliati.

 

 

**

 

Ehilà! Postfazione brevissima perché scrivo da un punto internet al mare: lo noterete soprattutto perché la grafica è diabolicamente sfasata (orrore!): scusatemi, qui Word è qualcosa di mitologico e sconosciuto; provvederò a modificare il tutto quando tornerò a casa dal mio pc. Ci tenevo a pubblicare questo capitolo nonostante non sia riuscita a terminarlo l'11 Luglio (quinto film! Adorato! Ma non c'entra, non c'entra._.), prima dell'uscita del settimo libro (oh-oh-OH!). Non posso rispondere per il motivo di cui sopra ai commenti (mi dispiace tra l'altro un sacco-_- ma qui Internet costa, cielo°_°); lo farò tornata a casa eccetera eccetera. Spero che nonostante tutto apprezziate il capitolo e vi ringrazio per i commenti dell'altra volta! Grazie mille*_*

Per ora è tutto, direi!

A presto!

 

Miwako__

 

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Capitolo 12
*** Chaos - first part ***


CHAOS – FIRST PART

CHAOS – FIRST PART.

 

[Caos – prima parte.]

 

 

“They say an end can be a start                     “Dicono che una fine può essere un inizio
Feels like I've been buried yet I'm still alive   
mi sento come se mi avessero seppellito vivo
It's like a bad day that never ends                  
 è come una brutta giornata che non finisce mai
I feel the chaos around me                              
 sento il caos intorno a me
A thing I don't try to deny                               
 non tento di negarlo
I'd better learn to accept that                         
 bisogna che impari ad accettarlo
There are things in my life                              
ci sono cose nella mia vita

 that I can't control                                          che non posso controllare
They say love ain't nothing but a sore            
 dicono che l’amore non è altro che sofferenza
I don't even know what love is.”                      
io l’amore non so neppure cos’è.”

 

‘If I ever feel better’, Phoenix.

 

 

 

Ginny si svegliò due ore prima dell’alba, e senza avere minimamente sonno, come alla sua prima gita ad Hogsmeade.

Si disse che doveva avere bevuto troppo caffè, ultimamente; tralasciando che nelle ultime ventiquattr’ore non ne aveva toccata una goccia, ovviamente.

Si guardò allo specchio circa ventiquattro milioni di volte e per ventitré si fece e disfece la coda ai capelli. Oliver, che tanto dormiva più o meno tre ore a notte, la fissava allegramente, battendo le manine tutte le volte che Ginny fissava il proprio riflesso con aria disperata.

Sì, beh, inutile cercare di fingere che non fosse in pessime condizioni ultimamente. Non è che avesse a disposizione i migliori prodotti di bellezza sul mercato, eh.

Comunque, tutto ciò non aveva assolutamente senso: era solo un’innocente e probabilmente noiosa colazione. Non c’era niente di cui preoccuparsi, poteva anche andarci con… i peli sulle gambe, sì. Tanto.

Vabbè, però non va bene farli crescere troppo, giusto? Giusto. Perciò si depilò, così, perché lo richiedeva la sua estetica personale.

-         E’ un caso che mi sia svegliata presto, okay? – disse a Oliver, che mandava risolini dalla culla.

Tinker comparve poco dopo con il latte caldo per il bambino, stupendosi di trovarla alzata.

-         Ginny, c’è qualche problema? – chiese l’elfo domestico guardandola mentre si esaminava la faccia ad un centimetro dallo specchio.

-         Eh? Ah, certo! – fece, saltando all’indietro, con aria talmente ipocrita che persino Tinker sembrò assumere un’aria dubbiosa, ma non fece commenti. – soltanto… puoi tenere d’occhio Oliver per… per un po’, stamattina? –

Tinker annuì solenne.

-         Me lo ha ordinato il signorino oggi stesso. –

Ginny si bloccò.

-         Oh. –

-         Ha detto a Tinker che sapeva che Ginny avrebbe avuto bisogno di me. –

La ragazza si lasciò sfuggire uno strano sorriso soddisfatto che subito nascose dietro un colpo di tosse indifferente.

-         Bene. –

-         Ha detto anche di dire a Ginny – ci pensò su un attimo, come se volesse ricordarsi le esatte parole. – di ‘non perdere tempo a cercare pateticamente di migliorare l’irrecuperabile’. –

Il sorriso di Ginny si spense e si sentì tanto irritata che vide le sue orecchie allo specchio tingersi di una spaventosa tonalità di rosso.

-         Bene. – fece, a denti stretti, lanciando l’elastico sul letto.

E lei che si era tanto preoccupata… per un suo estetismo personale, certo. Forse anche per altro, ma in minima percentuale.

Comunque, se il principe faceva tanto l’altezzoso si sarebbe beccato quello che passava il convento.

Si era messa sia la veste che la biancheria intima. Ecco.

Il sole stava appena albeggiando, fuori; Oliver sonnecchiava docilmente tra le braccia di Tinker, perfettamente nel ruolo di balia. La salutò con la mano come se fosse normale che lei prendesse e se ne andasse in giro per il castello alle cinque e mezzo del mattino.

A dire il vero, non aveva una chiara idea di dove si trovassero le cucine: tuttavia avrebbe fatto con estremo comodo, che Malfoy non pensasse che si affrettava ad arrivare a quello che non era nemmeno un appuntamento, ma un incontro puramente casuale.

Ricordò Hogwarts e pensò che probabilmente anche le cucine di quel castello dovevano trovarsi ai piani bassi.

Il castello era perfettamente deserto e non c’era alcun rumore. Una fortuna, perché spiegare a qualcuno la sua presenza lì in giro non sarebbe stato facile.

Se la prese un po’ troppo comoda: riuscì a trovare le cucine dopo più di mezz’ora. Bisognava scendere in una maledetta botola con una scala a chiocciola; l’aveva scoperta cadendoci sopra mentre guardava le pareti in cerca di indizi.

Fece un maledetto casino scendendo giù per le scale col sedere, e si fece anche parecchio male; arrivò sul pavimento gambe all’aria e capelli e ragnatele sulla faccia.

Draco la fissò come se fosse la visione più patetica che l’uomo potesse concepire, cosa che probabilmente era; i sogni di Ginny in cui lei arrivava in uno scintillio di capelli rossi svanirono come pezzi di vetro rotto dopo un incantesimo Reparo.

-         Che grazia. – si limitò a commentare il ragazzo, voltandosi per prendere un bricco di caffè fumante da un fornello.

Ginny si affrettò a tornare in piedi, scrollandosi di dosso le ragnatele e riavviandosi i capelli all’indietro con la faccia in fiamme.

-         Se magari avessi avuto l’accortezza di dirmi dove diavolo erano queste cucine, forse non ci sarei caduta dentro. – replicò lei, digrignando i denti.

Draco si versò tranquillamente il caffè nella tazza; ovviamente ne aveva preparata una solo per lui.

-         Non ne sarei tanto sicuro. Avanti, Weasley, te l’ho detto che non voglio problemi a quest’ora del mattino. Non so come fai ad avere tanta energia già a quest’ora. –

Ginny fece per protestare, ma sarebbe stato inutile, e poi aveva fame.

Con aria ancora un po’ diffidente, si avvicinò al tavolo perfettamente pulito a cui lui si era appena seduto, come se si aspettasse di cadere in un’altra botola.

Draco Malfoy faceva colazione in silenzio, con centoventicinque millilitri di caffè nero, senza zucchero, ed una manciata di raffinati biscotti secchi che sembravano appena sfornati.

Ginny sgranò gli occhi.

-         Tutto qui? Questa è la tua colazione? –

Lui alzò lo sguardo per lanciarle un’occhiata gelida.

-         Hai qualche problema di vista, ultimamente, Weasley? –

Ginny guardò di nuovo il caffè e i biscotti perfettamente distribuiti in un piatto.

-         Sei proprio un principino. – disse, stringendo le labbra per non ridere apertamente.

Draco posò seccamente la tazza, fissandola.

-         Prego? –

-         Dove sono i toast? Dov’è la pancetta? Dove sono i pancakes, la marmellata e il burro? –

Lui la guardava sbattendo le palpebre come se stesse cercando di capire da che pianeta venisse.

-         Intendi tutta quella roba che farebbe andare un anemico in coma diabetico? –

Ginny strinse le palpebre.

-         Intendo tutta quella roba che fa di una colazione una vera colazione, principino. –

-         Weasley, se non la pianti di chiamarmi così potrei considerare l’idea di farti del male per puro divertimento. –

Ma lei non lo ascoltava; si era messa ad aprire ogni sportello della dispensa, il frigo ed i cassetti, tirando fuori tutto quello che trovava e mettendolo disordinatamente sul tavolo.

Draco avvicinò a sé la tazza di caffè, esasperato, guardandola armeggiare con un vasetto praticamente nuovo di marmellata di ciliegie giunta da chissà dove.

Dopo una decina di minuti, la tavola era imbandita e Ginny, soddisfatta, si sedette (facendo attenzione a mettersi al capo opposto del tavolo, anche se non era sicura di sapere perché).

Draco era effettivamente del tutto fuori posto in mezzo a tutte quelle cose allegre e zuccherose, che fissava con sospetto.

-         Ti verrà la dissenteria. – sentenziò, gelido.

-         Aspetta e spera. – fece Ginny con un sorriso ironico, spalmando la marmellata su una fetta di pane.

Era strano che il castello fosse fornito di tutta quella roba; si era aspettata di trovare tutto ammuffito. Comunque, non faceva una colazione decente da secoli e quel buon odore di caffè la fece sentire meno tesa.

Silenzio.

Oh, non poteva sopportarlo. Non potevano stare così in silenzio. Malfoy ovviamente era perfettamente a suo agio, e questo contribuiva a innervosirla.

-         Assaggia qualcosa, Malfoy, rischi che possa piacerti. –

Lui alzò lo sguardo grigio e parve voler dire qualcosa con uno strano ghigno, ma poi tacque, sempre con quel sorrisetto stampato in faccia che le provocò uno scompenso tale che il pane le si sbriciolò tra le dita.

Dandosi della cretina, lo osservò prendere cautamente una fetta di pane bianco, il vasetto di marmellata ed un coltello. In un silenzio immacolato, si preparò il toast con un’espressione piuttosto disgustata.

-         Questa roba è rivoltante, si appiccica ovunque – si lamentò e Ginny, ancora una volta senza prestargli il minimo ascolto, si rese conto che effettivamente era la prima volta che vedeva Malfoy mangiare.

Cioè, che lo guardava veramente mentre mangiava; c’erano stati i banchetti a Hogwarts, ma tra il periodo in cui non gliene fregava un accidente di lui e quello in cui… beh, comunque sarebbe parso sospetto a chiunque che lei si mettesse a fissarlo nel bel mezzo della Sala Grande.

Non che ci fosse niente di speciale nel vederlo mangiare, era assolutamente normale, se non un pelo più altezzoso ed impostato di una persona normale che fa colazione.

Però, chissà… proprio perché era normale, quotidiano, ne rimase talmente affascinata che si risvegliò solo ad un’ulteriore lamentela del ragazzo.

-         E’ troppo zuccherosa! Come diavolo fai a mangiarla! – esclamò con una smorfia, posando immediatamente la fetta di pane ed alzandosi per andare verso il lavello a pulirsi le dita.

Ginny rise, per niente preoccupata, prendendo la tazza vuota del suo caffè ed andando a posarla sul fondo del lavello mentre Malfoy apriva il rubinetto irritato.

-         Si vede che sei abituato male – disse inarcando le sopracciglia divertita, bagnandosi una mano sotto il lavello e facendo uno scatto che gli fece arrivare schizzi d’acqua sulla camicia.

Malfoy si guardò cupamente per poi voltarsi verso Ginny con espressione ironica.-

-         Weasley, ultimamente mi irriti più del solito. –

Lei rise nonostante la sua occhiata gelida guardandolo mentre cercava di sistemarsi la camicia un attimo prima immacolata.

Lo sguardo le cadde sulle sue mani. Si accorse con uno strano sussulto che non aveva messo la fede.

Non ce n’era traccia.

Fu davvero assurdo perché le parve che la sua mente si annebbiasse parecchio; provò un tale impeto di qualcosa terrificantemente simile ad una strana forma d’affetto che a stento riusciva a pensare razionalmente.

La sua mano prese quella di Draco come guidata da una forza oscura.

Lui si fermò, ed alzò lo sguardo, impassibile.

Ginny non sapeva assolutamente da dove le venisse tutto ciò, fatto sta che era lì che gli aveva preso insensatamente la mano, e poi la portava al viso, socchiudeva le labbra e baciava la punta del suo anulare.

Era fredda e sapeva di zucchero.

Una persona normale si sarebbe forse mostrata un po’ perplessa, o perlomeno avrebbe avuto una parvenza di reazione; ovviamente Draco non fece una piega. Si limitò a ricambiare il suo sguardo senza espressione, eppure Ginny avrebbe giurato di vederlo avvicinarsi impercettibilmente.

Lei provò un brivido freddo, tornando lentamente alla realtà. Ma certo; Draco Malfoy era abituato a ben altro. Ricordava il modo in cui i Mangiamorte spesso si facevano ‘strada’ per avere informazioni.

Ginny Weasley dei sobborghi campagnoli non poteva certo reggere il confronto.

All’improvviso Draco le circondò il polso con le dita.

Nonostante le apparenze, dentro di lui erano in atto cose mai viste ma soprattutto mai sentite. Faticava fisicamente a trattenersi dall’essere molto più impetuoso, perciò per qualche attimo si costrinse a rimanere assolutamente immobile per poter mantenere la mente un minimo fredda.

Maledetta Weasley. Non poteva liberarsene, non poteva farne a meno, non poteva controllarla. Già all’epoca del loro celebre errore, due anni prima, si era accorto di quanto fosse pericolosa; non perché fosse una femme fatale o chissà che, anzi, pur avendo degli occhi così era davvero imbranata ed un minimo tonta. Ma quando era nei paraggi, era come se proprio quell’imbranata gli versasse intorno benzina gettandovi casualmente un fiammifero sopra. Il che era assurdo, considerato che con nessun’altra persona al mondo gli succedeva, nemmeno con donne molto più belle, affascinanti e sensuali di lei.

E poi, quei due anni di convinta separazione appena passati… beh, sembravano amplificare un po’ il tutto.

- Allora – disse con un sorrisetto, più per tentare di placarsi che altro. – cosa dici, anche questo potrebbe piacermi? –

Si aspettava un’occhiataccia e invece, senza alcun preavviso, lei si mise in punta di piedi e lo baciò lentamente all’angolo della bocca.

Draco sentì i muscoli contrarsi.

Diamine.

-         Perdonerò le tue stronzate, perché sono convinta che non sei così cattivo come sembri. – disse Ginny, con un groppo in gola, lasciandogli la mano.

Doccia fredda. Urgeva una doccia fredda.

Lui fece un ghigno facendo un passo verso di lei.

-         Infatti lo sono di più. – replicò, inarcando un sopracciglio.

A quel punto non parve voler sentire alcuna risposta da Ginny; era decisamente troppo.

Si chinò a baciarla con impeto tale che lei per reggersi in piedi dovette fare un passo all’indietro.

Prima che potesse rendersene conto, la sollevò con le braccia facendola sedere sul tavolo.

Sentì come se succedesse a chilometri da loro una tazza infrangersi per terra.

Più baciava Draco, più aveva il fiato corto e più sentiva ogni parte sensibile della sua pelle in piena fibrillazione, più sentiva i vestiti pesanti e troppo caldi, come se fossero un peso.

Lui parve leggerle nel pensiero (e, stordita com’era, se avesse voluto avrebbe benissimo potuto farlo) e staccandosi solo per poche frazioni di secondo dalle sue labbra le tolse la veste da Mangiamorte.

Le mani di Ginny, che ormai avevano una loro volontà, vagavano lungo la schiena contratta di Draco; senza chiedere alcun permesso, si spostarono sul suo petto e le dita si appropinquarono al primo bottone della sua camicia.

Quando se ne accorse, con un immane sforzo si costrinse ad abbandonare le sue labbra, mentre stringeva i pugni per impedire alle sue dita di fare qualsiasi cosa.

-         Spero vivamente che tu non pensi di… - improvvisamente si sentì molto scema ed arrossì furiosamente. – di… di. Insomma, qui. –

Le labbra di Draco erano arrossate e la bocca di Ginny le reclamava a gran voce, ma si trattenne.

Lui la fissò con gli occhi grigi ed il respiro affannoso, per un lungo attimo di silenzio.

-         Mi sorge un dubbio – disse, squadrandola. – siamo entrambi adulti, qui, vero? –

Ginny sbatté le palpebre.

-         Cosa… cosa vorresti dire? –

Draco roteò gli occhi come se stesse parlando con una cerebrolesa.

-         Per caso ti sei mantenuta casta e pura da allora? – disse, senza tanti mezzi termini.

Non che la cosa gli dispiacesse, comunque.

Ginny però sgranò gli occhi, come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie.

-         Mi hai davvero chiesto quello che credo tu mi abbia appena chiesto? – chiese, rossa quanto i suoi capelli.

-         Nonostante ti riesca difficile crederlo, Weasley, la domanda non è frutto di una mia personale perversione bensì di semplice statistica. Non vedo altri motivi per cui in un momento del genere tu debba metterti a fare tante cerimonie. –

Ginny sgranò gli occhi ancora di più.

-         Tante cerimonie? – ringhiò. – va bene la storia del rapporto usa-e-getta, Malfoy, ma non ho mai detto che sarei stata disposta ad assecondare ogni tuo desiderio in qualsiasi luogo e momento. Specialmente luogo. –

Draco fece un gesto irritato come se stesse ascoltando qualcuno di particolarmente noioso.

-         In tutto ciò hai accuratamente evitato di rispondere – disse, freddo.

Ginny lo fissò, incredula, in silenzio.

Draco si sentì più infastidito che mai. Non gliene fregava un bel niente, e comunque non era una novità: era ovvio che Potter, dopo anni di castità forzata, appena trovata una povera scema disponibile se la sarebbe scopata come un riccio.

Benissimo; la cosa non lo toccava minimamente, considerato che lui, di donne, poteva averne quante ne voleva, anche contemporaneamente, ad uno schioccar di dita.

Improvvisamente strane immagini di Potter e la Weasley cominciarono ad arrivargli al cervello con una velocità ed un’accuratezza allarmanti. Il che era assurdo oltre che piuttosto raccapricciante.

-         Appurato questo, direi che l’atteggiamento da preziosa è abbastanza fuori luogo per una donna vissuta come te. – disse, squadrandola dall’alto in basso come se di colpo non l’attraesse poi tanto.

Ginny era semplicemente basita. Un attimo prima era… era… beh, diamine, era ‘qualcosa’ che sicuramente finiva con ‘eccome’. E l’attimo dopo, solo perché lei aveva avanzato la richiesta di non abbassarsi a farsi travolgere su un tavolo di una cucina dispersa in mezzo al nulla, eccoli che si fissavano con odio.

-         Non sono preziosa, sono normale, Malfoy, parola che evidentemente non fa parte del tuo piccolo dizionario tascabile. –

-         Non ci trovo niente di normale nell’andare con uno con la faccia sfigurata. –

Ginny fece per replicare piuttosto pesantemente, poi si bloccò.

Lo fissò: lui ricambiava lo sguardo con la solita aria boriosa.

Poi lei non poté proprio impedirselo. Sorrise.

-         Malfoy – disse, piano. – sono quasi sicura di sbagliarmi, ma, accidenti… è un uccello? È un aereo? O tu ti stai un attimo comportando come una persona… non riesco nemmeno a dirlo… un po’… gelosa? –

L’espressione di Draco non fece trapelare niente tranne che sommo disprezzo ed una grande quantità di insofferenza.

-         Ma finiscila. –

-         Giurerei di averne visto un barlume nei tuoi occhi proprio un attimo fa. – mormorò Ginny, quasi con interesse scientifico.

Malfoy cominciava a sentirsi parecchio seccato.

-         Weasley, mi stai spegnendo ogni barlume di… -

-         Nel remoto caso che ci abbia preso, e fatico a crederci perfino io, ci tengo a ricordarti che tra i due quello sposato sei tu, quindi è inutile che fai lo stizzoso. –

Draco sospirò pesantemente. Che tortura questa specie di donna. E chi gliela cavava più quell’idea dalla testa.

-         Sì, ma almeno io ho un po’ più di buon gusto nella scelta, come dire. –

Ginny imitò senza volere il suo sospiro pesante e si fissarono.

Corpo e mente non riuscivano a trovare un punto d’accordo: da un lato, voleva solo stare zitta e seguire allegramente il naturale corso delle cose. Dall’altro, non poteva mica farsi mettere i piedi in testa così, ecco. Cioè, proprio non era da lei, non ci riusciva.

Quando Draco fece un passo indietro facendo in modo che tra loro non ci fosse più alcun punto di contatto, fece involontariamente un suono lamentoso appena percepibile.

-         Direi che abbiamo avuto abbastanza agitazione per essere solo le sei del mattino. Torna a giocare con le bambole, Weasley. – mormorò secco.

Non che non avesse fatto fatica a staccarsi da lei; in fondo si era già infilato nella strada giusta da un bel po’, come dire. Però, per la prima volta nella sua vita, al momento non riusciva proprio a concentrarsi con maestria solo ed unicamente sul sesso, il che era quantomai preoccupante.

Ginny, che si sentiva piuttosto scema lì seduta sul tavolo, scese facendo attenzione a non far cadere altro. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di sembrare delusa, ecco.

-         Lasciando perdere per un attimo questa parentesi, Malfoy, sbaglio o dovrei fare allenamento di qualcosa? –

Malfoy le prestava un’attenzione così minima, mentre calpestava senza pietà i pezzi di tazza rotta sul pavimento andandosene, che a Ginny venne una gran voglia di tirargli quei capelli perfettamente pettinati. Lui si limitò ad annuire con un gesto spazientito, risalendo le scale.

-         Alle cinque, Weasel. –

Ginny ridusse gli occhi a due fessure guardandolo sparire.

Che odio.

Comunque le mani le tremavano ancora.

 

Il praticantato la prese completamente. Il che, tutto sommato, fu ovviamente un bene, nonostante ormai non avesse il tempo di pensare ad altro e più che di cibo vivesse di caffè e una scorta di agghiaccianti barrette al muesli gentilmente offertale da sua madre. Suo padre la guardava con tenerezza quando crollava la sera sul divano e di Ron presto non se ne fece più parola.

-         Tu non sei normale – disse Sam un giorno di inizio Giugno, sbattendo la cartella pazienti sulla scrivania della saletta riservata agli infermieri.

-         Tieniti i tuoi commenti per quando avrò dormito più di quattro ore. – replicò Hermione, spuntando maniacalmente dei nomi dalla cartella.

Sam si tolse il camice e lo gettò nel suo armadietto.

-         Nessuno qui dentro ha bisogno che una tirocinante faccia tutto il lavoro che fai tu. Ti sei già attirata l’antipatia di metà reparto, stai rubando il lavoro ai Medimaghi di ruolo. –

-         Non esageriamo – disse lei, distrattamente, senza alzare lo sguardo.

-         E com’è che abbiamo trovato una Barretta Acneica in mezzo a tutte quelle tue cose al muesli? –

-         Niente di grave – fece lei, grattandosi la testa come se stesse tentando di concentrarsi su un calcolo.

Sam la squadrò dall’alto in basso con disapprovazione, afferrando il suo borsone.

-         Ma dico, non hai una vita tua al di fuori di qui? Che ne so, amici, un uomo eccetera, come tutte le ragazzine della tua età? –

Hermione gli lanciò un’occhiataccia senza rispondere. Sam alzò le mani in segno di resa.

-         Sì, vita privata off limits, lo so – mormorò. – comunque, io, al contrario di te, per quanto adori lo stacanovismo, so qual è il limite e quando è ora di staccare, dato che chiunque quando è troppo stanco comincia a fare degli errori. Perciò me ne vado a prendere una boccata d’aria fresca. –

-         Bene. – replicò lei, prendendo un libro di dimensioni preoccupanti dall’armadietto.

Sam roteò gli occhi, prendendole il libro di mano.

-         Ehi, sto preparando un esame! – protestò Hermione, cercando di riappropriarsene.

-         Lo so, e pure io, ma ripeto, ti ammalerai se continui così. Tu hai bisogno di quella dose… -

-         Non sono ancora così disperata da voler fare uso di droghe – fece lei, indignata.

-         Sto parlando della dose di nutella gentilmente offerta da me in persona secoli fa, che tu non hai ancora accettato, signorina Woodhouse – disse Sam, con una smorfia.

Hermione sospirò profondamente e si sentì girare la testa. Aveva terribilmente sonno, la pressione bassa, pochi zuccheri nel sangue ed un peso che traballava un po’ troppo. Ma ultimamente aveva perso ogni contatto col suo corpo, lo ignorava bellamente. Si costringeva a tour de force che avrebbero distrutto un cavallo. La sua mente reagiva in un modo che le piaceva: talmente piena di cose che ormai faticava a concentrarsi su qualcosa che non fosse lo studio o il praticantato. E la sera non aveva mai il tempo di pensare che subito si addormentava.

Era la soluzione migliore.

-         La cosa veramente anormale è l’esistenza di un ventenne con una così ampia conoscenza dei romanzi austeniani. –

-         Sì, prendi in giro, chissà che una risata non ti stenda definitivamente. Nel caso, una brezza di vento ti porterà via e perderemo ogni tua traccia, perciò promettimi che mi regalerai la tua libreria. –

Hermione, suo malgrado, sorrise, seguendolo docile. Sam era praticamente l’unico essere umano con cui aveva discussioni pseudo leggere e pseudo personali da più di un mese, escludendo i suoi genitori. Al lavoro si era inimicata praticamente tutti per le sue manie perfezioniste, all’università pure; ma tanto non aveva bisogno né voglia di quel tipo di cose.

Finalmente era riuscita ad arrivare ad un punto tale di impegno che non pensava al fatto che non sentiva i suoi due migliori amici da settimane (con Harry apparentemente senza motivo; era come se entrambi fossero rimasti talmente scioccati da non avere nemmeno il coraggio di parlarsi tra loro).

E a Ron non ci pensava mai.

Il pensiero era nascosto da qualche parte; sapeva che c’era, era come una biglia che rimbalzava di qua e di là in uno spazio vuoto.

Lo sentiva, ma non per questo doveva ascoltarlo.

-         E’ qui dietro l’angolo – fece Sam, quando uscirono per le strade di Diagon Alley.

Sam era avanti con gli studi ed a un passo dalla licenza per Medimagia. Al San Mungo aveva una fama talmente rispettabile che era praticamente sicuro che avrebbe lavorato lì di ruolo. Era uno che non si risparmiava, che spesso non dormiva per studiare e litigava con i colleghi per avere giustizia e si occupava dei suoi pazienti con tanta intensità che si sarebbero detti suoi parenti; ma se uno moriva, era la persona più distaccata del mondo e non traspariva alcun sentimento dal suo viso stanco, ma poi lo trovavi nello spogliatoio con la testa tra le mani. Eppure in genere era un tipo allegro e disponibile, il tipo che anche se lo odi non puoi fare a meno di amarlo anche un po’.

Hermione avrebbe voluto essere come lui. E forse un po’ lo era.

-         Allora, è il momento di raccontarmi i tuoi problemi – disse Sam, addentando voracemente il suo panino dolce alla nutella. Aveva saltato il pranzo per assistere un paziente appena arrivato al San Mungo dopo l’attacco di un centinaio di Doxy.

-         Non ho problemi – disse Hermione, guardando con circospezione il suo frappè riflettendo su cos’avrebbe detto sua madre se l’avesse vista intaccare la sanità della sua dentatura con tutto quello zucchero.

Sam la guardò con quei suoi occhi segnati dalle ore di sonno perso.

-         Nessuno che lavori volontariamente venti ore al giorno non ha problemi – disse. – nel periodo più difficile della mia vita non ho fatto altro che lavorare per due mesi evitando quasi sempre di dormire. –

Hermione non se lo figurò in un momento molto difficile: sembrava sempre così rilassato, perlomeno psicologicamente; uno ‘a posto con se stesso’, sicuramente.

-         Perché, cosa ti era successo? – chiese, più per distogliere l’attenzione da sé che altro.

Sam ricambiò lo sguardo inarcando un sopracciglio.

-         Tu fai la misteriosa e poi chiedi a me di rivelarmi? –

Hermione scrollò le spalle.

-         Scusa, ma davvero la mia vita non è niente di speciale. –

-         E prima? –

-         Prima di cosa? –

-         Ci dev’essere stato un ‘prima’, perché tu hai la faccia di un ‘dopo’. –

Lei sbattè le palpebre mentre Sam la fissava con aria vissuta.

-         La faccia da… -

Si bloccò, guardando oltre la spalla di Sam.

Il ragazzo la guardò per un attimo, poi si voltò indietro, verso l’ingresso.

Trascinato da Luna (che si notava visti gli orecchini a forma di campane e le inquietanti scarpe da giullare), Harry stava entrando con un altro ragazzo piuttosto strano che non conosceva.

Hermione non sapeva perché si sentisse così a disagio, o perché le sarebbe venuto spontaneo nascondersi. In fondo, loro due non avevano ufficialmente litigato, no?

Però… era strano. Senza…

Senza.

-         Oh, è lui la causa del tuo stacanovismo? – domandò Sam, guardando con interesse da lei a Harry.

Hermione tornò sulla terra e si obbligò a rivolgersi a Sam.

-         Nessuno è la causa del mio stacanovismo… -

Lanciò un’occhiata fuggevole al gruppetto e con una stretta allo stomaco si rese conto che Luna l’aveva vista e stava scivolando verso di loro.

Harry guardò Hermione. Anche lui non sembrava essere al massimo della forma, era più smilzo e scarmigliato del solito.

Era cambiato tutto così in fretta, senza preavviso.

-         Ciao, Hermione! – sorrise allegra Luna, facendo tintinnare gli orecchini. – è da un sacco che non ti si vede! -

Hermione si sforzò di biascicare qualcosa in risposta ad occhi bassi. Luna non parve notare l’imbarazzo della cosa, tanto più che continuò a ciarlare per una considerevole quantità di minuti, mentre l’altro ragazzo con un abbigliamento ancora più strano a vederlo da vicino se ne andava a prendere dei toast; quando si decise ad alzare furtivamente lo sguardo, vide Harry guardare Sam con aria perplessa.

Per qualche motivo si sentì agghiacciare.

-         Ah, ehm, scusate – si affrettò a dire. – Sam, questi sono Luna e Harry, andavamo… a Hogwarts insieme. –

Cioè, questa era la sua spiegazione? Era così che descriveva anni di battaglie e di fatica e di indecisione…

-         Ragazzi, questo è Sam, sta finendo il praticantato al San Mungo per Medimagia. –

Luna guardò Harry con sincero interesse come se si aspettasse da lui chissà quale reazione, il che era assolutamente insensato; infatti il ragazzo si limitò a stringere la mano di Sam (il cui sguardo corse veloce alla sua cicatrice, ma non disse nulla) e a rivolgersi finalmente direttamente a lei.

-         E così… adesso sei praticante al San Mungo? – chiese, con aria così impacciata che sembrava non si conoscessero.

-         Già, io… è quasi un mese… -

-         Sì, beh… -

-         E… tu che fai? –

-         Ho un esame all’inizio della prossima settimana, perciò… -

-         Oh, sì, capisco… quindi… -

-         Già, infatti. –

Sam sbatteva le palpebre dubbioso. Harry ed Hermione si guardavano ed in realtà entrambi volevano chiedersi la stessa cosa.

Ma tu, ci hai parlato?

-         Io e Harry e Mars abbiamo visto le Bellule il mese scorso! Dovevi vedere la sua faccia, sembrava quasi che non ci credesse! - esclamò Luna all’improvviso, come se stesse continuando un discorso avvenuto nella sua testa.

Hermione fissò Harry e lui scosse la testa con aria esausta, curandosi di non farsi vedere da Luna; infatti, quando lei si voltò a guardarlo raggiante lui annuì con decisione come se la cosa lo elettrizzasse al solo ricordo.

Improvvisamente la stranezza di tutto ciò la colpì: che ci faceva Harry costantemente in giro con Luna come se niente fosse? Non che normalmente la disprezzasse, però in genere faceva più o meno di tutto per non starci troppo insieme. Per qualche motivo le venne in mente Ginny.

Perciò, insomma, era inutile che Harry guardasse da lei a Sam con quell’aria accusatoria.

Lei avrebbe potuto fare lo stesso, no?

Ma certo.

-         Noi ci mangiamo un toast alla nutella! Non ti chiedo di venire con noi perché forse sarebbe imbarazzante. – esclamò Luna senza la minima traccia di impaccio.

Harry tossì, guardò un’ultima volta Sam, poi Hermione, la salutò appena e Luna lo trascinò per la manica dall’altra parte del locale.

Solo allora Hermione si rese conto che aveva tenuto per tutto il tempo i muscoli della schiena contratti.

Si rilassò contro lo schienale sentendo un leggero mal di testa.

-         E così non è lui la causa del tuo stacanovismo? – la risvegliò Sam, di cui per un momento si era dimenticata l’esistenza.

-         No. – ripetè lei stancamente.

-         Però lui sa. – fece Sam, pulendosi velocemente le mani con il tovagliolo e guardandola con aria maliziosa.

Hermione ricambiò lo sguardo ed improvvisamente sentì tutta la fatica del mese crollarle addosso.

E con quella le piombò addosso anche una grande, travolgente, disperata voglia di vedere Ron.

Non avrebbe pianto, ma si sentiva come se per tutto il mese non avesse fatto altro.

-         Sì, lui sa. – disse piano.

Sam annuì, ordinò un altro frappé e l’ascoltò.

 

Ron si svegliò che aveva la testa sul libro, la schiena semi bloccata in una gobba e una pagina del quaderno degli appunti completamente zuppa di caffè. La tazzina giaceva a pezzi per terra, evidentemente rotolata giù.

Alzò lentamente la testa, si staccò dalla guancia il post-it che ci era rimasto appiccicato e si trascinò stancamente in bagno.

Si guardò allo specchio.

Trentaquattresimo giorno senza Hermione.

Dio, era veramente patetico sapere il numero esatto. D’altra parte, ultimamente la sua vita accademica era stata talmente serrata, causa esame imminente, che tendeva a programmare tutto come faceva Hermione per lui, prima, e la sua mancanza si sentiva decisamente, dato che lui non era in grado di programmarsi un bel niente; si ritrovava dei finesettimana in cui era letteralmente sommerso dalle cose da fare. Hermione faceva sempre in modo di lasciarglieli liberi, i finesettimana.

Non che l’aiuto gli mancasse: certo, nonostante lui ed Harry frequentassero le stesse lezioni non si guardavano né tantomeno parlavano mai, sedendosi agli antipodi dell’aula, ma c’era pur sempre Cloe che si prodigava con incredibile gentilezza a dargli una mano con gli appunti e con i compiti e con i caffé; Ron non si era fermato a chiedersi cosa potesse significare tutto ciò, ovviamente.

Pensava solo che al momento era molto sensibile alla gentilezza, perciò non riusciva a far altro che essere riconoscente.

Uscì e guardò il salotto praticamente vuoto, con qualche scatola agli angoli, uno straccio, dei vestiti, delle briciole e bottiglie di Burrobirre sparse qua e là.

Aveva deciso di vivere per un po’ nell’appartamento che… sì, beh, quello. Almeno finché non fosse scaduto il pagamento, e mancavano due settimane o giù di lì. Allora, si era detto, lo avrebbe lasciato per ritornare alla Tana.

Non pensava di essere stato masochista a decidere di stare un po’ di lì, nonostante mancasse il letto e fosse un mese che dormiva su un tappetino per terra vittima degli spifferi. In fondo era già stata pagata; certo, una parte anche da Hermione…

Evitava di pensarci, ma segretamente sperava di non dover lasciare quell’appartamento. Sapeva cos’avrebbe significato. Sapeva che una volta lasciato non ci sarebbe più ritornato.

Anche se… era decisamente troppo sperare che le cose si risolvessero magicamente nelle successive due settimane.

Sentì bussare alla porta e sbattè le palpebre come se si fosse riaddormentato.

Inciampò su una bottiglia mentre andava ad aprire.

-         Ti sei svegliato adesso? – disse canzonatoria quella che per un attimo agghiacciante gli parve la voce di Hermione. Sbattè di nuovo le palpebre e vide Cloe che gli sorrideva con due tazzone di caffè in mano.

La lasciò entrare.

-         Già – disse sbadigliando. – ho studiato fino alle cinque e devo essere crollato. Mi verrà la scoliosi. –

-         Come a tutti i grandi geni – replicò Cloe, mettendosi seduta per terra a gambe incrociate come se fare colazione per terra fosse assolutamente normale.

Ron si sedette stancamente mettendo da parte l’incarto vuoto di un sacchetto di patatine.

-         L’altro giorno mi avevi portato le ciambelle – disse, guardandosi intorno contrariato. – dove sono le mie ciambelle? –

Cloe scosse la testa bevendo il suo caffè.

-         Oggi niente ciambelle perché fra poco è ora di pranzo. –

Ron fece una smorfia sofferente.

-         Non voglio pranzare, voglio le ciambelle! –

Cloe inarcò le sopracciglia.

-         Sicuro di non voler pranzare con David Buckley? –

Per poco Ron non s’affogò.

-         Non intendi Buckley l’allenatore dei Chudley Cannons! –

-         Personalmente non conosco altri David Buckley che potrebbero interessarsi a te. –

-         Perché diavolo dovrebbe interessarsi a me? –

Cloe sorrise trattenendo a stento un’espressione raggiante.

-         Gli dev’essere capitato sottomano qualche video di qualche tua partita domenicale – fece, con aria casuale. – mi pare abbia detto a mio padre che ‘quando smetteranno di tremargli le mani, questo ragazzo sarà un giocatore con la gi maiuscola’. –

Ron la fissò vacuo.

-         Con la gi maiuscola… - poi si riprese. – ma… come… tu…? –

Cloe finì lentamente il suo caffè.

-         Hai bisogno di distrarti un po’. Quando ebbi una crisi di nervi a causa dello studio, mi dissero che la cosa migliore era avere un nuovo obiettivo. Tu hai bisogno di un nuovo obiettivo. – lo guardò, e tacque.

Ma Ron beveva il suo caffè con aria assente.

-         Dei Chudley Cannons… -

Cloe fece un sospiro e sorrise di nuovo.

-         Non dico che ti prenderà dentro la squadra, per quello ci vogliono anni, lo sai. Però lui conosce un sacco di gente nell’ambiente. Potresti finire in serie B senza nemmeno accorgertene. –

Ron sorrise.

Non riusciva ad essere entusiasta quanto voleva.

La parte migliore della cosa sarebbe stato parlarne con Harry ed Hermione.

Ora rimaneva solo una soddisfazione praticamente inesistente.

-         Allora, incravattati e usciamo. Al ristorante a cui abbiamo appuntamento fanno un ottimo soufflè. –

-         Mi devo mettere la cravatta? – si lamentò Ron.

Cloe fece un’espressione perplessa.

-         Sì, perché? – chiese, senza capire.

Già, lei non lo sapeva che odiava la cravatta.

Che se avesse potuto non se la sarebbe mai messa.

Istintivamente guardò le scarpe col tacco di Cloe.

Era solo che… lui non era tipo da cravatta.

 

Luna, stesa lunga sul pavimento con il frappé alla nutella in mano, guardava Harry, seduto su una sedia a leggere la Gazzetta del Profeta, al contrario.

Mars giocava concentrato con la televisione di Harry come se fosse qualcosa di molto innovativo.

L’unico rumore erano le voci confuse dei vari canali, il frappé lungo la cannuccia e ogni tanto Harry che voltava la pagina.

-         Sai, Harry – disse all’improvviso Luna, continuando a guardarlo al contrario. – da qui il tuo giornale è dritto. –

Solo allora il ragazzo si accorse che effettivamente aveva le pagine al contrario; ci mise un attimo per rendersi conto che non aveva ovviamente letto una sola parola.

Si affrettò a metterlo a posto, con un sospiro; stava degenerando. Era ai livelli di Luna col Cavillo.

Non aveva idea che rivedere Hermione dopo tanto tempo sarebbe stato tanto imbarazzante. In fondo non avevano nemmeno litigato, loro. Cioè, era sicuro che con un po’ di buona volontà si sarebbe riusciti a riavere un dialogo normale.

Ma quando l’aveva vista, la cosa che gli era venuta in mente di dire era una sola.

Ma tu, l’hai sentito?

Anche se era certo di no. Altrimenti non se ne sarebbe andata in giro con quella fronte aggrottata ed un ragazzo dall’aria sveglia che sicuramente Ron non avrebbe approvato.

La verità era che ora come ora...

-         Ma se ti mancano tanto perché non ci parli? –

Gli enormi occhi azzurri di Luna lo fissavano al contrario.

-         Cosa? –

-         Hai l’aria di uno che ha appena perso il proprio diario segreto. –

-         Oltre che qualche rotella – sentì Mars borbottare piano.

Harry li ignorò. Non aveva minimamente voglia di confidarsi o mettersi a fare il ‘melodrammatico’ come diceva Mars. Bene o male era abituato a sentirsi solo, quindi ci stava benissimo.

Comunque, gli occhi di Luna continuavano a fissarlo e se gli occhi di Luna ti fissano così, non riesci minimamente a concentrarti.

-         Siete davvero molto strani – osservò Luna, facendo un gran rumore con quella dannata cannuccia.

Harry avrebbe potuto rispondere con una facilità spaventosa, ma preferì tacere.

-         Davvero molto strani – ripetè assorta la ragazza, aggiungendo al rumore della cannuccia il tintinnio degli enormi orecchini. – se tu e Ronald e Hermione vi volete bene perché non vi parlate? -

-         E’ complicato – si lasciò sfuggire Harry, spazientito.

Vide con la coda dell’occhio Mars scuotere la testa con commiserazione.

-         Come mai? – chiese Luna, rimanendo imperterrita stesa per terra. – cosa vuol dire? –

-         Vuol dire che non è semplice. – rispose Harry, cominciando a sentirsi irritato.

-         Il mio papà dice che voler bene è la cosa più semplice del mondo perché anche gli animali ed i babbani lo sanno fare. –

-         Non è quello il punto. –

-         Se hai sbagliato e ti scusi le persone che ti vogliono bene ti perdonano. – disse Luna, sbattendo le ciglia.

Non era quello il punto.

Non era quello il punto!

-         Luna, preferirei non parlarne. –

-         Bene, perché è proprio ora di andare – fece Mars, spegnendo la tv ed alzandosi, facendo un cenno a Luna.

Lei si limitò a fissarlo salutandolo con la mano.

Mars, con una pazienza ammirevole le fece un altro cenno.

-         Vieni anche tu, Luna? Il Cavillo… -

-         No, oggi non ne ho tanta voglia, sai. Preferisco stare qui. –

Mars s’irrigidì.

-         Ma io devo… -

-         E’ vero, Mars, tu hai l’intervista all’allevatore di Scorpioratti! Perché hai aspettato tanto, arriverai in ritardo! –

Il ragazzo sembrava non credere alle proprie orecchie. Guardò Harry dubbioso. Era ovvio che aveva non poche esitazioni a lasciarla lì; ma d’altronde Potter sembrava girato male (come al solito, si potrebbe aggiungere), quindi non potevano esserci grandi pericoli.

Col muso, Mars uscì. Luna si voltò di nuovo a guardare Harry.

-         Harry, ma perché vuoi sempre stare solo? –

Il ragazzo chiuse il giornale con uno scatto.

Non avrebbe voluto, ma…

-         Io non voglio stare da solo, ma casualmente mi ci ritrovo e già che ci siamo perché non completi la cosa andando a fare… qualsiasi cosa tu devi fare fuori di qui? –

Luna non parve ferita.

Si limitò a fissarlo con gli occhi azzurri e si mise a sedere. Dall’armadio uscì Soffiartigli facendo le fusa.

-         Ma io penso che se stai da solo ti senti ancora più triste. – disse lei. Sembrava più preoccupata per lui che del fatto che aveva appena tentato di cacciarla in malo modo.

-         Non vedo come possa andare peggio di così. –

Luna scuoteva la testa, confusa.

-         Non capisco. –

Harry alzò lo sguardo, cupo.

-         Cos’è che non capisci? –

-         Tu hai tante persone che ti vogliono bene, eppure rimani spesso solo perché sembra sempre che non ti si possa avvicinare, perché sei così triste. Eppure hai tante persone che ti vogliono bene. – ripeté, come se fosse una verità scientifica.

Di colpo, Harry si sentì molto meno arrabbiato, ed il senso di colpa lo colpì come una pugnalata.

Tu hai tante persone che ti vogliono bene.

Mentre lui a scuola, bene o male, stava sempre insieme con Ron ed Hermione, le persone migliori che gli potesse capitare di incontrare, Luna stava quasi sempre sola.

Eppure era molto più allegra di lui.

-         Sì, beh – borbottò, un po’ intestardito sulle sue posizioni. – non è che facciano i salti mortali per dimostrarmelo. –

-         Come farebbero? Il bene non si vede mica – disse Luna, sbattendo le palpebre sorpresa dall’ingenuità di Harry.

-         Ma… -

-         Ginny mi ha sempre detto che ti vuole un sacco di bene e anche Ronald, lei ha detto che lo sa perché è suo fratello. Hermione, il professor Lupin, il tuo padrino, mamma e papà Weasley… tutti quanti ti guardano in modo fantastico, come mai non lo vedi? –

Harry si sentì molto strano. Molto stupido, anche.

Ginny.

Ron.

Hermione.

Tutti ti guardano in modo fantastico…

-         Sì, ecco – mormorò, impacciato, sentendosi per qualche motivo avvampare. – sì… forse. –

Luna sorrise annuendo convinta.

Harry continuava a sentirsi molto, molto strano. Non avrebbe saputo descrivere bene la cosa, sapeva solo che riguardava tutto un insieme di cose e di rimescolamenti allo stomaco e di Luna che faceva quella faccia convinta e di lui che si rendeva conto di quanto a volte riusciva a perdere di vista tutto quello che contava davvero.

-         Ehm… sono sicuro che ci sono tante persone che vogliono bene anche a te, Luna. – disse, a disagio.

Lei fece spallucce facendo tintinnare ancora gli orecchini.

-         Sì… forse. – disse, sorridendo di un sorriso appena meno convinto di prima.

Harry si sentiva seriamente in imbarazzo, ora. Aveva totalmente dimenticato lo scombussolamento dato dall’incontro con Hermione e voleva solo cenare e andare a dormire sentendosi un cretino.

Si alzò in piedi ancora più impacciato.

-         Allora, ehm – borbottò. – frittelle? –

Luna batté le mani.

-         Col formaggio fuso! –

Harry fece per scavalcare il punto in cui lei era seduta, proprio nel bel mezzo dell’appartamento, quando non vide più nulla.

La cosa fu talmente improvvisa che inciampò e cadde per terra facendosi un gran male al ginocchio.

-         Ma porc… è vero, è giovedì sera – disse, a denti stretti, agitando le braccia cercando qualcosa con cui rialzarsi.

-         Oh, visto che buio? – esclamò Luna, lì vicino, che più che spaventata sembrava deliziata. Sentì i suoi orecchini tintinnare a pochi centimetri di distanza. – è perché oggi non c’è la luna. O uno stormo di Aquilotteri che la oscurano. –

Harry tentò di non rispondere. Non vedeva niente di niente, entrava appena un riflesso di luce dalla finestra mezza chiusa; doveva andare ad aprirla.

Fece pressione per terra per tentare di alzarsi, ma si accorse che non c’era il pavimento ma la mano incredibilmente piccola di Luna. Dava l’impressione di potersi spezzare da un momento all’altro.

Stava per ritrarre la sua, quando si sentì ancora più strano di prima. Non ne aveva gran voglia, di ritrarla.

Il che era assurdo, perché se l’avesse lasciata lì una frazione di secondo in più poi la cosa non sarebbe più sembrata casuale.

Oddio. Era patetico, illogico, inverosimile. Cioè, lui non stava bene, quella sera.

Era Luna, diamine. Luna Lunatica Lovegood. Una folle fatta e finita.

E poi se ne rese conto.

Non lo pensava più.

Non ci credeva minimamente che fosse una folle fatta e finita. Un attimo lo pensava almeno un pochino, e l’attimo dopo, puff, niente.

L’unica cosa in cui credeva al momento era che era diversa perché era migliore di tutti quanti.

Ecco, insomma. Ma era lui quello che lo stava pensando?

Nel buio non riusciva bene a misurare le distanze, così almeno si sarebbe giustificato successivamente; fatto sta che un momento era lì come un cretino accovacciato per terra, e il momento dopo in qualche modo, in qualche incredibile modo, era là e le aveva sfiorato appena le labbra con le sue.

Solo quando la luce impietosamente si accese si accorse che teneva gli occhi chiusi.

Si ritrasse con uno scatto tale che si sarebbe detto stesse camminando sui carboni ardenti.

Oddio. Era impazzito, non c’era altra spiegazione. La sua testa era andata, bye bye.

Era… doveva essere un disastro, ora. Un disastro.

Si sforzò di guardare Luna, provando quasi male agli occhi. Magari non se n’era accorta, era stata una piccola cosa, fuggevole.

Lei non aveva assunto particolari espressioni; aveva solo le sopracciglia inarcate, i soliti occhi sgranati e l’aria leggermente sorpresa. Lo guardò.

-         E’ strano, Harry, ma ho appena avuto l’impressione che tu mi abbia baciato. –

Se n’era accorta.

Disastro, disastro, disastro.

Come poteva evitare ogni responsabilità della cosa? Come poteva far finta di nulla?

Nel panico più totale, balbettò.

-         Oh, ehm, uh… davvero, eh? –

Luna sembrava ancora sorpresa come se fosse seriamente indecisa a credere che se lo fosse immaginato.

-         Ma l’hai fatto, per caso? –

Harry, terrorizzato, la fissò con occhi vacui.

-         Uh… cosa? –

-         Baciarmi, penso. –

-         Oh… baciarti, cosa? –

Cielo, com’era scemo. Non era nemmeno capace di prendersi le responsabilità di dire ‘sì, ma non significa nulla’.

Nella speranza che non significasse veramente nulla.

Luna sembrava decisa a fare chiarezza sulla cosa come se stesse facendo un esperimento di pozioni molto delicato.

-         Ho detto, è vero che mi hai baciato o me lo sono immaginato? – disse, a voce più alta, come se fosse sordo.

Harry suppose che non ci fosse modo di spuntarla.

-         Già, ecco… io… sì. L’ho fatto. Scusa. –

Luna sbatté le palpebre con maggiore disinteressata sorpresa.

-         Oh. – mormorò. – e come mai? –

Harry si sentiva stremato.

-         Ecco… non lo so. – e fece uno sguardo nella speranza che si accorgesse delle implicazioni della sua risposta vaga.

-         Oh. – ripetè Luna, inarcando le sue sopracciglia come se invece la risposta la soddisfacesse pienamente. – oh. Okay. Ho fame, mettici anche il prosciutto sulle frittelle! – aggiunse, come se niente fosse.

Harry si affrettò ad annuire e scappare in cucina.

Vi si chiuse dentro appoggiando la schiena alla parete, distrutto.

Non aveva mai baciato una ragazza senza che lei gli piacesse molto.

Oh, no. Per favore. Cavolo.

Non è che adesso si era innamorato di Luna Lovegood?

 

Guardava suo padre sottoposto alla Cruciatus.

-         Ti ho mai dato il permesso di fallire? – diceva il Signore Oscuro.

Bellatrix aveva una smorfia in viso come se trattenesse le risate solo per rispetto alla sorella che le stava accanto, pallida come non mai ma senza una traccia di lacrime sul viso.

La sua mano fredda era ad un centimetro da quella altrettanto gelida di sua madre, ma non si toccavano.

Si limitavano a guardare Lucius piegato in due sul pavimento che urlava, in silenzio.

Lui sentiva il sudore imperlargli la schiena, ma non osava muoversi.

Il Signore Oscuro disse qualcosa che lui non riuscì a distinguere, come se le sue orecchie fossero improvvisamente offuscate da un brusio che gli altri, impassibili, non sentivano.

In tutto quel brusio riusciva soltanto a sentire il respiro affannoso di suo padre, distrutto, steso coi muscoli rilassati sul pavimento, che si riprendeva.

L’espressione sul suo volto non mostrava il minimo rancore verso il suo torturatore; sembrava quasi riconoscenza.

Nessuno si mosse in aiuto dell’uomo, nemmeno Narcissa, sebbene stringesse le mani come se si stesse trattenendosi dallo scagliarsi in avanti.

Il Signore Oscuro se ne andò lanciando un’occhiata scarlatta verso di loro e lui provò un impulso, quasi rabbioso. Invece s’inchinò mentre lui se ne andava seguito da Bellatrix.

Non appena la porta si chiuse dietro le sue spalle, Narcissa si lanciò su Lucius aiutandolo a sedersi, ma lui rifiutò la sua mano tremante con un gesto brusco, allontanandola.

Rimasero seduti sul pavimento senza dirsi una parola, senza alcun punto di contatto, sotto il suo sguardo.

Improvvisamente sentì una pressione sul polso e scattò all’indietro, tirando indietro il braccio.

Ginny lo guardò con gli occhi azzurri, la mano ancora a mezz’aria.

-         Draco? –

Gli occhi neri di Pansy lo fissavano.

Draco scattò a sedere sul letto, col respiro un po’ irregolare.

-         Scusami – fece Pansy. Era accucciata ai piedi del suo letto, ancora in vestaglia. – mi avevi detto di svegliarti a quest’ora… -

-         Lo so – tagliò corto lui, scendendo dal letto per afferrare la sua camicia.

Non gli succedeva poi tanto spesso di fare questi sogni che lo lasciavano col respiro strano per un bel po’; ma quando succedeva lo mettevano di pessimo umore.

Pansy ormai si era accorta dei suoi sonni non troppo tranquilli e con una scusa o con l’altra lo svegliava sempre.

-         Ultimamente non ci mandano spesso fuori – mormorò Pansy, le braccia incrociate sul petto per il freddo. – pensi significhi qualcosa? –

-         No. – rispose secco Draco, mettendosi l’orologio al polso.

Invece sì, pensava significasse qualcosa. Non sapeva cosa, ma non gli piaceva per niente. Il fatto era che ultimamente Bellatrix aveva l’aria soddisfatta e Rodolphus lo scherniva meno del solito.

E questo significava sicuramente qualcosa.

Sebbene, in effetti non si era impegnato affatto per scoprirlo. Nelle ultime settimane le sue occupazioni (se non lo mandavano fuori dal castello per le ‘missioni’, cosa che come Pansy diceva accadeva sempre più raramente) erano state nel tutto superflue.

La ‘colazione’ del mese prima non si era ripetuta: la Weasley, com’era facile immaginarsi, non riusciva più di una volta ogni secolo a svegliarsi così presto; il che da una parte era una fortuna perché per qualche motivo, il giorno dopo, mentre lui beveva tranquillamente il suo solito caffè, era capitata Pansy nei paraggi con l’ufficiale scusa di voler prendere chissà cosa dalla dispensa alle sei del mattino.

Dal quel momento, Draco aveva capito che lei sapeva. Nonostante come Mangiamorte fosse abbastanza abile, Pansy non era molto brava a mentire quando si trattava di questioni che considerava personali.

Comunque, lei non aveva proferito parola, né tentato di protestare. Si era limitata a comportarsi come al solito, forse con un atteggiamento un po’ più costruito. Draco non si preoccupava per lei: il tradimento non era esattamente una stranezza tra i Mangiamorte. Bastava pensare ad un tipo come Rodolphus, che andava apertamente in giro per il castello con la donna di turno e se incrociava Bellatrix si salutavano tranquillamente.

O anche suo padre. Quando Draco aveva otto anni, una volta a Malfoy Manor si era alzato per chiamare Tinker ed aveva incrociato per il corridoio una donna sconosciuta con una splendida vestaglia di seta che gli aveva passato la punta delle dita con le unghie laccate di rosso sui capelli per poi sparire nella camera dei suoi genitori in pieno pomeriggio. Sua madre in quel momento era fuori a coltivare le rose bianche del giardino.

Vedevano ma non parlavano; erano donne che sapevano di essere privilegiate. L’anello lo avevano loro.

Pansy baciò Draco sulle labbra mentre usciva dalla sua stanza silenziosamente.

Lui si tolse la fede.

E poi, diciamolo. Ultimamente non è che fosse esattamente concentrato sulle macchinazioni del Signore Oscuro o sui problemi relazionali nel castello.

Aveva l’allenamento con la Weasley tutti i giorni, ma nonostante questo non è che combinassero poi molto, visto che in giardino c’erano sempre Mangiamorte ovunque l’occhio posasse.

E Bellatrix la tormentava continuamente dandole i compiti più assurdi sotto il suo sguardo critico; il risultato era che ora lui un po’ ribolliva, totalmente dimentico del fastidio che aveva vagamente sentito alla ‘colazione’.

Tutt’altro.

 

 

 

**

Eccomi di nuovo! Salve a tutti! Finalmente non devo aggiornare in fretta da un pc di fortuna ma sono al mio fidato portatile. I tempi di aggiornamento non sono stati dei migliori, tutto considerato, ma insomma._. Devo innanzitutto dire che avevo progettato di andare parecchio avanti con questo capitolo, quindi l’aggiornamento non era minimamente programmato; poi mi sono resa conto che se davvero avessi aggiunto quello che volevo, sarebbe stato lungo, lunghissimo, praticamente due capitoli, quindi sono ricorsa alla pratica formula in due parti per ovviare al problema. Così separato dovrebbe essere a posto, ma se vi sembra incompleto mi spiace._. Spero di aver scelto la soluzione migliore°_°” Di buono c’è che la seconda parte è già ad un buon punto, ciò significa che il prossimo aggiornamento è vicino!

Poi, volevo appropinquarmi a rispondere in modo dignitoso a quelle ragazze stupende che commentano*_* Ora che si può fare con calma, ecco>_<

Funkia, muhahah, ecco, l’altra volta non sono stata granché buona ma stavolta un qualcosina di è combinato! E Oliver secondo me non è stata una tua impressione, era proprio scomparso dalla mia mente per lasciar posto alle altre faccendeXD Che scriteriata! A proposito, spero di aver fatto ‘abbastanza’ in fretta stavolta°_° Io non mi so dare un termineXD Non voglio subire la cruciatuuusXD

Cri, tu sai già cosa penso! O no? E vabbè! Comunque adesso con Spuntino di Mezzanotte che imperversa non riesco più a pensare a Rodolphus seriamente, senza grembiule… ‘hai rovinato tutto>_

Seiryu, ma grazie a te, che bel commento, mi commuovo*_*

Cup, ahah il commento passo passo mi è piaciuto un saccoooXD Ehi, anch’io voglio un Draco in cucina, altro che storie*_* E invece in cucina il meglio che posso trovare è il gatto che cammina sulla tavola <- attenzione: glielo lascia fare!... Poi era da un po’ che volevo dirtelo, bravissima all’esame di maturità, accidenti*___* Complimentissimi, ne sarai orgogliosa! Che invidia di cotanta genialità*_* A proposito, i disegniiii! Salvati immediatamente sul mio piccì ovviamente, sono così belli*_* Molto dark il primo e *adorabile* il secondo! Che brava>_______<

Edvige86, oh, ma come sei gentile._____. Ho ricevuto il tuo commento in un momento un po’ così e mi hai fatto sentire tanto meglio! Per i ‘misteri’ (spero che ci sia almeno un pelo di misteroXD)… credo che già dal prossimo capitolo si potranno avere almeno un paio di rivelazioni, eh eh! <- ma ci sarà da fidarsi?!

AyaCere, XDD! Sposiammmmoci! Ma vorrai mica un accordo prematrimoniale con tutte le clausoline in piccolo? Vabbè, va bene lo stesso, oh, una proposta di matrimonio non si rifiuta! *si va a preparare* Sì, in fondo chi se ne importa delle macchinazioni di Voldy? Lui stia pure a giocare al Cattivo, noi vogliamo l’hot action!XD <- me lo dico da sola, ma del resto è poi quello che finisce che vado a cercare quando voglio leggere una fic! Che vergognaXD

Hermione93, io poi sempre mi domando quale sia il tempo giusto di aggiornamento (non che poi cambierei molto, immagino… sono comunque una fannullona… *si nasconde*), stavolta spero di non aver fatto un ritardo esagerato (come mio solito, gh!)*___*” Grazie!

Evan88, caspita, ti ringrazio tantissimo.___. Non ho parole se non che mi fai molto contenta>_<

Meggie, ah, come mi è piaciuto il tuo discorso su Ron/Hermione. Credo che influenzeranno un po’ anche in futuro il mio modo di vedere certi tipi di relazioni, già ora è una cosa che noto… e se riesco a fare la mia parte in quanto a ‘tributo’ sono sollevata, ma davvero, perché poi magari si ha sempre paura di non essere fedeli al personaggio e allora si sfalda un po’ tutto._.

Buffy91, quando qualcuno mi dice di aver letto tutta UMC rimango sempre a bocca aperta°_° Non posso che inchinarmi mestamente, anche se me lo dico da sola è parecchio lunga come fic, insommaXD Anche se così forse SdM si capisce meglio! Per quanto riguarda Draco e Ginny… beh, ecco*_*

Dira, come dicevo prima, dirmi che sono almeno un po’ riuscita a stare in canon è uno dei complimenti migliori che mi si possano fare, perciò ti ringrazio tanto. Per quanto riguarda Cloe, sin da quando ho pensato a lei ho sempre creduto che non poteva essere né del tutto negativa né del tutto positiva… a questo proposito mi appello alla (un po’ sdoganata, lo ammetto, ma pur sempre vera, secondo me) frase del beneamato Sirius nel quinto film ‘c’è un po’ di luce e un po’ di oscurità in ognuno di noi’… poi si vedrà solo alla fine, immagino, che tipo di persona è lei (ne parlo così distaccatamente perché sinceramente ha una vita sua separata da quello che vorrei fare, alla fineXD mi succede spessoXD). Ah, quella parte del rapporto tra Hermione e Phoenix non è molto chiaraU_U Comunque no, la maledizione è stata una vendetta nei confronti di Hermione per il suo disinteressamento (il che alla fine dimostra che Phoenix in fondo era altrettanto disinteressato a lei).

Il video Ron/Hermioneç_ç Sto cercando in tutti i modi di caricarlo su YouTube, facendomi aiutare da un sacco di gente, ma ancora non riusciamo a spuntarla! Non ne vuole sapere, nonostante il file non sia così grande… comunque sto riprovando, appena ci riuscirò farò un tale urlo di sollievo che lo saprà mezzo mondo!

JiuJiu91, ‘lo scopriremo solo vivendo’XD… mi sa che concordo perfettamente su tutto, e a malincuore pure sull’egoismo di Harry… naturalmente gli voglio tanto bene per via di questa sua imperfezione, ma insomma._. Io comunque mi appassiono a questi commenti passo passo, annuisco come una scema davanti al pcXD

Bene, spero di essere stata molto esauriente e poco rompipalle, cosa che ultimamente per qualche motivo mi riesce tanto bene!XD

Se posso, posso?, vi ri-ringrazio tutti quanti, davvero. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

A presto!

 

Miwako_

 

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Capitolo 13
*** Chaos - second part (defeat) ***


CHAOS – SECOND PART (DEFEAT)

CHAOS – SECOND PART (DEFEAT).

 

 

[Caos – seconda parte (sconfitta).]

 

 

 

 

“You know I don't want to be clever           “Sai, non voglio essere intelligente
To be brilliant or superior                         
   brillante o superiore    
True like ice, true like fire                          
 vero come il ghiaccio, vero come il fuoco
Now I know that a breeze                             
ora so che un colpo di vento

can blow me away                                        può spazzarmi via
Now I know there's                                      
 ora so che c’è

much more dignity in defeat                         molta più dignità nella sconfitta

 than in the brightest victory                        che nella migliore vittoria
I'm losing my balance on the tight rope     
 sto perdendo l’equilibrio sulla corda tesa
Tell me please, tell me please,                      
dimmi ti prego, dimmi ti prego,

tell me please...                                             dimmi ti prego…

If I ever feel better                                        se mai dovessi sentirmi meglio
Remind me                                                  
 ricordami

 to spend some good time with you              di passare un pò di tempo piacevole con te
You can give me your number                     
puoi darmi il tuo numero
When it's all over I'll let you know.”          
quando sarà tutto finito ti chiamerò.”

 

 

Phoenix, ‘If I ever feel better’.

 

 

 

 

-         Scusi, dove posso trovare Sam Falk? –

Hermione alzò lo sguardo. Quel giorno lavorava allo sportello informazioni.

Un ragazzo con gli occhi scuri e i tratti molto regolari la guardava interrogativo.

-         Un attimo – disse Hermione, alzandosi dalla sedia per avere una visione migliore della sala d’attesa. Lo vide accanto al primario che prendeva appunti mentre questo parlava ad un gruppo di praticanti del secondo anno.

-         Lo trova laggiù – disse, mentre Sam si staccava dal gruppo sistemando gli appunti nella borsa e stiracchiandosi.

Il ragazzo annuì, ringraziò e lo raggiunse; Hermione, in mancanza di meglio da fare (aveva già esaurito tutti i suoi compiti d’ufficio in mattinata), li guardò mentre discutevano vicino alla macchina del caffè. Sam più che altro ascoltava mentre l’altro parlava scuotendo spesso la testa.

Ad un certo punto Sam annuì con disprezzo, disse qualcosa e l’altro con aria offesa girò sui tacchi e sparì nell’ascensore del piano.

Sam scrollando le spalle si diresse verso Hermione, che provvedette a fingere di non aver visto nulla.

Il ragazzo sbatté il borsone di libri sul tavolo.

-         Ma tu, Hermione, hai idea di quanto possa essere fastidioso un fratello? –

Lei sorrise.

-         Sfortunatamente no. Problemi? –

Sam fece un gesto frettoloso.

-         Niente che una sana iniezione di neuroni non potrebbe sistemare. – sorrise. – adesso stacchi, vero? -

-         Solo per tre ore. Vado a casa a cenare, dormo, torno. – disse Hermione, togliendosi il camice del personale e ripiegandolo nella sua valigetta.

Sam sospirò ma evitò il solito predicozzo su quando il troppo lavoro è esagerato. Non se lo poteva permettere, in fondo: negli ultimi due giorni aveva lavorato quasi il doppio di lei. In effetti, Hermione cominciava a pensare che anche lui avesse qualcosa su cui non voleva riflettere.

-         Che ne dici di un panino al roastbeef? –

Lei annuì. C’era un bar che ne faceva di buonissimi poco lontano da casa sua e ci mangiavano spesso se staccavano di sera; Sam tirava sempre tardi e la accompagnava ovunque le occorresse, più che altro perché non sembrava mai che avesse una gran voglia di tornare a casa.

Quanto a lei, meno rimaneva sola con i suoi pensieri, meglio era.

Si Materializzarono in un vicolo deserto vicino al bar, mangiarono tranquillamente il panino e chiacchierarono del più e del meno. Sam era sempre così carino e gentile che tutte le volte se ne stupiva, considerato che era anche intelligente; non sapeva che fossero possibili tali livelli di perfezione. Una volta Sam aveva perfino incontrato sua madre, la quale, manco a dirlo, era letteralmente impazzita per lui e ne parlava spesso come ‘quel bel ragazzo serio cui piaci tanto’ per poi sdilinquirsi in complimenti di varia natura, mentre Hermione si limitava ad annuire prestandole solo mezz’orecchio.

Le aveva fatto un lavaggio del cervello tanto potente che in momenti di debolezza anche lei aveva la vaga sensazione che Sam avesse un piccolissimo debole per lei, ma la cosa le pareva talmente assurda che non ci prestava la minima attenzione. Non ne era sicura, ma da qualche parola qua e là aveva avuto l’impressione che Sam avesse una specie di fidanzata ufficiale che non vedeva mai per i suoi impegni al praticantato. Insomma, la signora Granger si doveva accontentare di aver messo soltanto una fastidiosa pulce nell’orecchio di Hermione. Un’altra.

Sam l’accompagnò come al solito fino ai gradini sotto il portico di casa sua. Le luci erano spente: i suoi genitori erano ad una festa di beneficenza.

Il ragazzo guardò l’orologio.

-         Siamo stati velocissimi – disse. – adesso potrai dormire, tutto sommato, almeno due ore. –

-         Sì, beh, non è che abbia bisogno di molte ore di sonno. –

-         Noi comuni mortali, invece, adesso andiamo a dormire, e a lungo. –

Hermione annuì divertita.

-         Buonanotte. Ah, le pratiche Boyd… -

-         Già sistemate. –

-         … ah. Oh, pure l’operazione del signor Truman… -

-         Prenotata, assicurata, riferita. –

Lei inarcò le sopracciglia.

-         Sei veramente la perfezione. –

Sam sorrise con aria furba.

-         Sì, questa è la prima impressione. Notevole, eh? –

Poi assunse una strana espressione.

La guardò fisso, tacendo. Hermione fece per dire qualcosa, poi aggrottò le sopracciglia e cominciò a sentirsi terrorizzata. Non aveva una varia esperienza alle spalle, ma quello non era mica ‘lo Sguardo’, vero? Quello da Davanti alla Porta di Sera?

Non poteva essere. La voce di sua madre le strillava in testa senza che lei riuscisse a concentrarsi.

Sam fece un passo in avanti, continuando a fissarla.

Il cuore cominciò a batterle all’impazzata ma non per lui.

Le vennero in mente un paio di occhi azzurri e il fatto che non avevano mai avuto bisogno di guardarla in quel modo, non avevano avuto bisogno dello Sguardo, o forse non se n’era mai accorta perché in quel momento era sempre stata troppo agitata per pensare a qualcos’altro se non a reggersi in piedi.

Le gambe erano saldissime.

Sam era a dieci centimetri da lei con una mano alzata verso i suoi capelli.

-         No, non è il caso! – esclamò Hermione di colpo, fece un passo indietro ed inciampò sul primo gradino dell’ingresso traballando pericolosamente e cadendoci sopra.

Sam aveva l’aria semplicemente basita.

-         Non è il caso? – ripeté, fissandola con gli occhi sgranati. Abbassò la mano con decisione sui suoi capelli, prese qualcosa e gliela mostrò. – non sapevo ti piacesse tenere falene nei capelli. –

Hermione sussultò per la sorpresa, rialzandosi. Nella mano di Sam si agitava una piccola falena marroncina.

-         Probabilmente ti si è impigliata nei capelli quando sei andata nell’archivio per depositare le cartelle mediche… oh, santo cielo! –

Hermione smise per un attimo di sentirsi un’idiota, rossa come un peperone, mentre Sam lasciava libera la falena e rideva di colpo, divertito.

-         Che… c’è? – borbottò Hermione, ancora parecchio confusa da prima.

-         Tu un attimo fa hai pensato che stessi per baciarti, vero? Mi hai lanciato lo Sguardo Insofferente in risposta allo Sguardo. –

Hermione si sentì presa talmente in fallo che per un attimo non riuscì a parlare, accaldata.

-         Io… no, non ti ho lanciato nessuno Sguardo Insofferente! –

Sam se la rideva alla grande, battendole una mano sulla spalla con compassione.

-         Eccome! Oh, Hermione, mi commuove la tua ingenuità. Quel ragazzo cui pensi sempre è talmente fortunato che mi vengono le lacrime agli occhi a pensarci. –

Lei aggrottò le sopracciglia, un po’ offesa. Gli aveva confidato di… beh, tutto quanto. Ma gli aveva fatto promettere di non dire mai più niente sull’argomento. E questo era un momento anche più delicato.

Sam si calmò, continuando a farle un gran sorriso.

-         Non ti preoccupare, Hermione, non cercherei mai di approfittare di un tuo momento di debolezza. Sebbene… -

Lasciò la frase in sospeso per un po’.

Hermione, ancora un po’ scombussolata, si limitò a guardarlo in silenzio.

Sam sospirò, come se stesse parlando con se stesso.

-         Beh, dai, in fondo tu mi hai confidato una cosa molto privata – disse, ancora quasi a se stesso. La guardò dritto negli occhi. – ora anch’io ti faccio una confessione, ma devi giurare di non farne più parola. Possibilmente neanche con me, ma soprattutto con gli altri. Giuri? –

Hermione, presa in contropiede, annuì confusa.

-         Ah, beh, certo. –

Sam annuì, con aria di crederle.

-         Dicevo, sebbene… sicuramente mi innamorerei alla follia di te e cercherei di allontanare dalla tua testa Quello Là, se non fossi omosessuale. –

Hermione ci mise talmente tanto ad assimilare l’informazione che rimasero in silenzio per un tempo che parve interminabile. Una macchina suonò il clacson in lontananza.

Poi lei tornò a guardarlo, scioccata.

-         Ah. – disse, e basta.

Sam sorrise, con l’aria di sentirsi molto più rilassato di prima.

-         Sai, Hermione, non che l’abbia confessato a molte persone, ma tu sei sicuramente la prima che mi risponde semplicemente ‘ah’. –

Hermione arrossì.

-         Ehm… scusa, ma… tu… io… tu non sembri proprio… -

Improvvisamente Sam tornò serio.

-         Appunto, nessun altro deve saperlo, okay? E’ molto importante. – sospirò, guardandosi le punte delle scarpe con improvviso interesse. Per la prima volta, nella penombra, a Hermione parve di vederlo arrossire leggermente. – i miei genitori non fanno che sognare il giorno in cui mi sposerò e avrò dei bambini. Con una donna, naturalmente. Tu gli piaceresti sicuramente – sorrise un po’. – ecco, non ho intenzione di preoccuparli, per loro la mia ‘condizione’ sarebbe uno shock, e già sono più anziani della media, e mi hanno sempre aiutato molto… pagato gli studi con i doppiturni al lavoro, si sono occupati di me anche quando ero un po’ troppo grande per esserne così dipendente… non si meritano una notizia del genere. –

Hermione lo ascoltava impressionata. Sam non reggeva il suo sguardo, ma parlava con grande determinazione. Non aveva idea che lui potesse essere ancora più perfetto di quello che già aveva dimostrato, invece evidentemente lo era, perché ora parlava in quel modo e si sentiva com’era faticoso per lui.

Sam osò lanciarle uno sguardo.

-         Anche quel ragazzo che è venuto stasera al San Mungo… -

-         Oh – fece Hermione, portandosi una mano alla guancia, stranamente elettrizzata. – non è tuo… tu e lui…? –

Sam agitò una mano come a voler scacciare un’idea molesta e si grattò la fronte, più imbarazzato di quanto l’avesse mai visto. Era carinissimo, proprio ora.

-         No. Oddio, almeno non più… è un po’ difficile da spiegare. Diciamo che lui è poco comprensivo perché, essendo in una situazione familiare peggiore della mia, per lui uscire allo scoperto non è stato poi tanto difficile. E ora preme anche me per farlo, cosa che non sono assolutamente disposto a fare. –

Hermione era un po’ scossa, ma tutto sommato era molto più grande il sollievo di sapere che Sam non aveva tentato di baciarla. Anzi, ora che sapeva delle sue inclinazioni, le piaceva anche di più.

-         Stai tranquillo – disse, cercando di non lasciar trapelare il suo shock. – non ne farò mai parola con nessuno. –

Sam alzò definitivamente lo sguardo nocciola e le sorrise in modo che le sembrò molto tenero.

-         Lo so. –

 

Quella mattina, Harry si svegliò con le viscere che gli si rivoltavano ed inizialmente non ne capì il motivo, poi si ricordò. Inorridì.

Cioè, l’unica cosa che poteva sperare era che Luna durante la notte fosse caduta dal letto e ciò le avesse provocato un’amnesia permanente. Poi gli venne in mente che nemmeno quello era possibile, visto che viveva in un appartamento con i cuscini al posto del pavimento. Maledetta.

Si trascinò di stanza in stanza, evitando di pensare che di lì a poco era costretto ad uscire; aveva già saltato abbastanza lezioni, e con l’esame imminente non era consigliabile marinare anche per i suoi errori idioti.

E meglio non pensare al fatto che qualcosa di molto perverso dentro di lui gli stava dicendo a gran voce che stava dando per scontato fosse un errore. Avrebbe volentieri rotto il naso a quello che ha inventato la frase va’ dove ti porta il cuore. Evidentemente non aveva mai conosciuto una come Luna.

Alla fine, con la faccia scura, uscì dall’appartamento di soppiatto. Doveva ammettere che tutta quell’agitazione lo straniva un po’: era stato tanto tempo apatico che non si ricordava cosa si provasse ad avere l’adrenalina in corpo. Forse stava diventando scemo.

Chiuse la porta sul pianerottolo piano, come se fare rumore potesse essere un errore fatale; stava giusto mettendo le chiavi in casa e occhieggiando verso le scale quando, naturalmente, dalla porta accanto se ne uscì Luna.

Era ancora più assurda e bardata del solito, considerando che fuori era primavera inoltrata: una sciarpona di dimensioni preoccupanti la copriva fino al naso, tanto che era quasi irriconoscibile a parte gli occhi azzurri come al solito sgranati. La vide mettere le chiavi di casa nella tasca dell’enorme poncho di lana che solo a guardarlo avrebbe fatto venire i sudori ad un orso polare.

Ovviamente lo vide.

-         Oh, buongiorno, Harry! – esclamò da sotto la sciarpa, scivolando verso di lui come un enorme gomitolo di lana.

-         Ah… ehm… ciao – balbettò lui, un po’ senza parole. Però si sentiva più tranquillo. Luna non era una di quelle ragazze che si comportano in modo strano dopo che uno ha violato i sacri limiti dell’amicizia uomo-donna: o almeno non si notava la differenza, considerato che si comportava sempre in modo strano. – hai… freddo, per caso? –

I capelli biondi di Luna scossero in un accenno di negazione da sotto la lana.

- Però sto andando ad una visita di controllo – mormorò lei, con la solita voce sognante. – credo di essere malata. –

Harry sbatté le palpebre.

-         Non sembri malata – disse, sinceramente. – sei stata male? –

Luna annuì con aria molto seria e solenne.

-         Oh, sì, dev’essere qualcosa di terribile… secondo me, devo aver preso il Morbo dello Pterocorallo, in primavera è molto diffuso, ed è micidiale! –

Harry tentò in tutti i modi di sembrare colpito. La vide estrarre un block notes da quella che parve una delle tasche misteriose del poncho.

-         Per non farmi trovare in preparata dal Medimago, mi sono scritta tutti i sintomi! – esclamò la ragazza, molto fiera di sé, mentre cominciavano a scendere le scale.

-         Lodevole – mormorò Harry ascoltandola solo con mezzo orecchio.

Ora che stava con lei, si sentiva molto più rassicurato; non era davvero possibile che si fosse innamorato di lei. Non che non fosse carina e tutto il resto, ma non era mica il suo tipo. Cioè, bastava guardarla: il Bambino Sopravvissuto e Lunatica col Morbo dello Pterocorallo? Per favore, avrebbero fatto ridere i polli. E poi, lui aveva ormai stabilito il suo genere, no? Nella sua non particolarmente esaltante ma rispettabile vita sentimentale, aveva pur sempre rivelato un certo gusto, una certa selettività. Cho e Ginny avevano effettivamente qualcosa di ricollegabile, volendo, anche se non era sicuro di sapere cosa. Certamente entrambe non gli si erano mai presentate davanti con i capelli volontariamente sparati per aria.

Rimaneva pur sempre il cosiddetto Prescelto. Qualcuna che gli faceva il filo, al corso, c’era eccome. Insomma, un po’ di scelta ce l’aveva, no? Quindi non si poteva neanche dire che dovesse usare un ripiego.

E con questo chiuso l’argomento, okay?

- Certo, il Morbo dello Pterocorallo dovrebbe provocarmi anche dei bozzi sulle chiappe, che non ho – stava dicendo Luna, pensierosa. – e dire che è uno dei sintomi principali. –

Sentendosi un po’ in colpa per non averla minimamente ascoltata, Harry intervenne con vaghissimo interesse.

-         E allora, quali sintomi hai? –

-         Beh, sono partiti da ieri sera e sono durati tutta la notte e anche stamattina! – esclamò Luna, sgranando gli occhi in modo impressionante. Prese a sfogliare il suo blocnotes. – allora, ieri sera ho avuto i crampi allo stomaco – cominciò. – non troppo doloroso, ma era come se ci fosse qualcosa dentro che si agitava! Per poco non ho pensato di aver erroneamente ingoiato un Falenottero, ma in quel caso a quest’ora sarei già schiattata. – ignorando l’espressione orripilata di Harry, continuò. - poi, quando sono andata a letto, ho cominciato ad avere freddo e caldo, freddo e caldo, e mi agitavo e mi agitavo ed il risultato è che non ho dormito per niente! E’ terribile non dormire – disse, scuotendo la testa indignata.

Harry si sentì vagamente strano, aveva come un presentimento, ma continuò ad ascoltare Luna, perplesso.

-         Poi – riprese Luna, agitando le braccia da sotto il poncho. – stamattina non ho mangiato, non avevo proprio appetito! E io mangio sempre i biscotti ripieni la mattina, anche quando ero piccola! Lì mi sono spaventata, e mi sono guardata allo specchio ma niente, a parte… guarda, lo vedi? –

Si fermò di fronte a Harry, e col pollice e l’indice si tirò palpebra e sotto palpebra allargando un occhio in modo assurdo.

Harry era basito.

-         Cosa dovrei vedere? – balbettò, facendo istintivamente un passo indietro.

-         Gli occhi! Sono molto, molto strani!- esclamò convinta lei, lasciando grazie al cielo che l’occhio rientrasse nelle orbite. – sbrilluccicano come se qualcuno ci avesse gettato dentro la porporina. – disse, continuando a scuotere la testa come se non riuscisse a raccapezzarcisi.

Effettivamente avevano qualcosa di strano; era una cosa appena percettibile, sottilissima, che se lei non gliel’avesse fatto notare non avrebbe nemmeno colto. Era proprio una specie di sospetto sbrilluccichio involontario.

-         L’ultimo sintomo che ho annotato – disse Luna, con fare professionale. – è stato proprio prima quando ci siamo visti: una cosa raccapricciante, proprio, tutto lo stomaco in un rivoltamento che non mi era mai capitato di sentire, tipo capriola! Dev’essere una malattia grave – concluse la ragazza, richiudendo il blocnotes con aria preoccupata.

Harry non poteva crederci. Cioè, non poteva essere. Gli sembrava di vivere una vita parallela o un’esperienza soprannaturale o una di quelle cose che la gente nei documentari racconta con aria ancora terrorizzata.

Però poteva anche sbagliarsi, eh.

-         Non hai nient’altro? – chiese, disperato.

Luna scosse la testa.

-         No, ho annotato tutto! – fece, offesa.

-         Mal di gola? –

-         No. –

-         Mal di testa? –

-         No. –

-         Febbre? –

-         No. –

-         Giramenti di testa, raffreddore, moccio diffuso? –

-         No, no e no, anche se ultimamente, riguardo al moccio, mi è capitato… -

Harry si fermò sul posto. Erano all’ingresso del palazzo e le mani gli sudavano freddo.

-         Senti, Luna – la interruppe, con uno strano groppo alla gola come se ci fosse rimasto incastrato un sasso. – io non penso ci sia bisogno di andare dal medico, per questo. –

Luna sbatté le palpebre guardandolo da dentro la sciarpa.

-         Ma perché? Potrebbe essere grave, sai. Se il Morbo dello Pterocorallo… -

-         Dubito anche che si tratti del Morbo dello Pterocorallo. –

-         E cosa potrebbe essere, allora? – chiese lei, sinceramente interessata, fissandolo.

A Harry le mani sudavano un sacco, immotivatamente. Le agitò per farci aria, senza successo.

Lei continuava a fissarlo, interrogativa.

Oh, cielo. Non poteva. Magari era tutto un clamoroso ed agghiacciante errore, su. Però…

Insomma, ragioniamo. Lo stomaco sottosopra, i crampi, la mancanza d’appetito e di sonno e gli occhi che sbrilluccicano, il tutto senza alcun altro problema fisico, sono i sintomi di quale malattia?

In quel maledetto ingresso faceva maledettamente caldo.

-         N… non ne sono certo sicuro – balbettò Harry, emotivamente distrutto. – ma… non credo sia una cosa per cui si debba andare da un medico. Da uno psichiatra, forse – aggiunse sottovoce, avvilito.

Luna lo guardò con un sopracciglio inarcato.

-         Penso che andrò comunque dal Medimago di famiglia – replicò, fissandolo con aria compassionevole. – non voglio mica attaccarla anche a te o a Mars! – disse.

E trotterellò via, mollandolo lì come un idiota.

Subito si sentì assalire dall’agitazione e battè ripetutamente la fronte contro la parete, guadagnandosi parecchie occhiate spaventate da un gruppo di bambini che uscivano dal palazzo per andare a scuola.

C’erano ottime probabilità che gliel’avesse già attaccata, quell’odiosa malattia virale per cui non si facevano gli anticorpi, ma ti colpiva spietatamente, la carogna, più e più volte e tu non potevi farci proprio niente, in balia del virus come un bamboccio.

Se era stato colpito in pieno con Cho e poi con Ginny, non poteva sperare di uscirne indenne, ora.

 

In realtà, David Buckley si era rivelata un’emerita delusione.

Era uno degli uomini più noiosi che l’umanità avesse conosciuto; già dalla prima volta che Ron l’aveva incontrato, il suo cervello si era disconnesso vagando per prati fioriti mentre lui parlava con quella sua voce lenta e pallosa.

Tanto più che, inspiegabilmente, l’aveva voluto incontrare a pranzo più di tre volte in poco tempo, sempre sotto lo sguardo orgoglioso di Cloe; lui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di evitarsi tutte quelle chiacchiere pallose, d’altra parte lei era sempre così gentile con lui che non poteva dimostrarsi scortese.

E poi, insomma, era David Buckley; se c’era uno che poteva aprirgli le porte del dorato mondo del Quidditch, era lui.

- Domani avrai una partitina, da quel che so – aveva detto il giorno prima con la sua solita puzza sotto al naso. Ron odiava il suo modo di chiamare gli incontri domenicali ‘partitine’, ma annuì.

Il signor Buckley gli lanciò uno sguardo pregno di significato.

-         Allora penso che mi ritaglierò un po’ di tempo per venire a vederti. –

Il sorriso di Ron si spense immediatamente. Cloe sbatté le palpebre trattenendo l’emozione.

-         Ah, ehm – balbettò il ragazzo. – ma… cioè… non so se… è solo… una partitina…  ecco… -

-         Sciocchezze, sciocchezze – agitò una mano il signor Buckley. – la signorina Shefferd mi accompagnerà, vero? –

-         Certamente – disse Cloe con un sorriso da un orecchio all’altro.

A Ron mancava poco che girasse la testa.

Non voleva assolutamente giocare sotto lo sguardo critico di Buckley. Si sarebbe rivelato come il pessimo giocatore che era e l’avrebbe deriso per sempre e non avrebbe più potuto nemmeno comprare una rivista di Quidditch senza vergognarsi di mettere le sue indegne mani su quello sport.

-         Ma io… -

-         Cerca di fare del tuo meglio – gli strizzò l’occhio l’uomo. Si alzò dal tavolo. – ah, e nel caso ti sentissi un po’ nervoso… - dalla tasca della giacca firmata estrasse una boccetta con un liquido blu elettrico molto denso e gliela porse. - … questo ti aiuterà. Con questo, puoi diventare Viktor Krum in persona. –

Ron prese la boccetta semplicemente basito. Buckley gli sorrideva furbescamente e Cloe, un po’ infastidita, non disse nulla.

Beh, tanto, ormai. In fondo quello che non uccide, fortifica.

Se non uccide.

 

Ginny urlò.

-         Stupeficium!

-         Protego!

Scaraventata all’indietro, lo odiò profondamente.

Draco fece un ghigno accarezzando la bacchetta come se stesse affilando un coltello. La guardò rialzarsi barcollando.

-         Te l’avevo detto che non sarebbe stato facile, Weasley. Solo ora si fa sul serio, sai? –

Ginny fece una smorfia.

-         Hai solo dei colpi di fortuna epocali, Malfoy. –

L’allenamento, in effetti, più passava il tempo più si faceva intenso e faticoso. Non sapeva cos’avrebbe dato per passare una giornata intera senza cadere per terra gambe all’aria.

Va bene, forse Malfoy l’aveva battuta in duello una o due o tre o massimo quattro volte, cosa che non faceva che ricordarle, ma era meglio che lui si credesse un gran genio della magia oscura piuttosto che sapesse la verità; e cioè che lui la deconcentrava per ben altri motivi. Meglio non pensare a quanto l’avrebbe presa in giro.

Ora che la primavera era scoppiata ed il tempo era gradevole e il tramonto arrivava sempre più tardi, quel maledetto castello pullulava più che mai di Mangiamorte in ogni dove. Senza contare la Parkinson, a cui avrebbe volentieri strappato i capelli a mani nude solo perché esisteva, che doveva aver stretto un patto col diavolo ed in cambio della sua enorme idiozia aveva ottenuto il potere dell’onnipresenza. Davvero, spuntava nei posti più impensabili: Ginny ormai vedeva in giro più lei che Draco. Il suddetto mister simpatia non pareva farsene affatto un problema, e il fatto che ogni momento in cui per pura casualità erano soli da qualche parte e Ginny faceva un passo verso di lui con i nervi che solleticavano, Pansy spuntasse da dietro l’angolo facendole prendere un infarto non lo turbava minimamente. Anzi, Ginny aveva l’orrendo sospetto che, fosse stato per lui, anche se Pansy fosse spuntata un minuto più tardi, e cioè a situazione già degenerata, la cosa non glia avrebbe fatto né caldo né freddo.

Testuali parole: guarda che qui è ordinaria amministrazione, cretina.

Cretina. A lei.

Se dopo il mese di assoluto piattume il desiderio di saltargli addosso non fosse stato più forte di quello di spaccargli la mandibola con un sinistro, Draco avrebbe dovuto finalmente preoccuparsi del suo bel faccino.

Lui guardò l’orologio.

-         Basta, il mio tempo a tua disposizione è decisamente terminato. Mi domando se imparerai mai a duellare con un uomo. –

Ginny gli lanciò un’occhiataccia, mentre percorrevano il cortile verso l’entrata, sotto, naturalmente, l’occhio vigile di Pansy che evidentemente non aveva trovato posto migliore per leggere un’enciclopedia ammuffita che lo stipite dell’ingresso.

-         Io so duellare come un uomo –

-         Oh, ti prego, Weasley, risparmiami i tuoi epigrammi femministi, mi fai venire i cali di vitamine. –

-         Weasley! – disse una voce melliflua.

Accanto a Pansy, all’entrata, si materializzò Rodolphus, con un sorriso tutto zucchero che non prometteva niente di buono. Le fece cenno di seguirlo.

-         Oh, perfetto – borbottò Ginny, irritata, accelerando il passo per stargli dietro.

Draco la guardò sparire dietro il portone. Pansy gli corse in contro come un cagnolino e sorrise maliziosa.

-         Senti, Draco, che ne dici di passare una bella serata delle nostre completamente in camera? Oggi c’è la temperatura perfetta per… -

In un impeto strano, Draco scrollò le spalle, gelido.

-         Certo. –

Pansy parve quasi sorpresa della totale facilità nel convincerlo.Ultimamente era più la fatica di solleticargli l’idea e in ogni caso le cose non funzionavano granché bene neanche quando l’aveva convinto.

Nel frattempo, Ginny zoppicava (causa storta del giorno prima: odio reiterato nei confronti di Malfoy) dietro Rodolphus.

-         Insomma, cosa c’è? – sbottò alla fine.

Rodolphus si voltò verso di lei con le sopracciglia inarcate e l’aria innocentemente sorpresa.

-         Come, è il momento che aspettavi con tanto ardore, Ginevra. Oggi, nel caso tu sia valutata all’altezza, avrai la possibilità di salire di grado. –

Ginny si bloccò nel bel mezzo del corridoio, sentendo il sangue sparirle dalla faccia.

-         Cosa? Dici… per diventare… Mangiamorte a tutti gli effetti? –

Rodolphus annuì annoiato e riprese a camminare, ignorando il suo shock.

Ginny per un attimo non riuscì a muoversi, poi riprese a corrergli dietro.

- Ma… e tutti gli altri apprendisti? Non dovrebbero essere Giudicati anche loro? -

Rodolphus sospirò profondamente come se fosse una bambina particolarmente assillante.

-         Mi pare evidente che il Signore Oscuro ritiene che tu sia pronta per il Giudizio prima degli altri apprendisti. –

Ginny era semplicemente basita e, a dire il vero, un po’ spaventata. Chiunque ci avrebbe fiutato qualcosa di strano.

-         Non ha senso! – disse, continuando ad affannarglisi dietro. – Dra…. Malfoy e la Parkinson sono qui da molto più tempo di me. Se loro non ce l’hanno fatta in due anni, com’è possibile che io ci riesca in due mesi? –

Rodolphus si fermò davanti ad un imponente portone dei sotterranei da cui lei non era mai passata. Si sentì gelare quando lui si voltò a guardarla, le palpebre socchiuse sugli occhi così neri che le pupille non si riuscivano a distinguere dall’iride.

-         Ecco a te, Ginevra. – disse, semplicemente.

Di colpo, lei sentì il Marchio bruciare come non l’aveva mai sentito.

Rodolphus la lasciò passare e le chiuse la porta alle spalle.

Lei si ritrovò in una sala dal pavimento di marmo; era avvolta nella penombra, illuminata soltanto da una fiaccola in un angolo, accanto ad una grande poltrona.

Si sentì cedere le ginocchia quando Nasini, sibilando, le passò accanto alle caviglie sfiorandola appena.

-         Ginevra Weasley. – disse una voce oltretombale. Notò le lunghe dita bianche sul bracciolo della poltrona e per diversi istanti non riuscì a respirare.

Proprio ora, proprio adesso, davanti al ne-mi-co.

Ti ricordi?

Lui si alzò in piedi e per un attimo i loro sguardi s’incontrarono e per un attimo Ginny pensò che non sarebbe uscita viva di lì.

Poi capì che doveva inchinarsi e lo fece; non lo guardò più negli occhi.

Vigliacca!

-         Rodolphus ti ha dunque insegnato la buona educazione da Mangiamorte? – rise Voldemort. Rimase in silenzio guardandola. Lei fissava i propri piedi. – mi fa piacere, mi fa piacere. Ma basta con i convenevoli: sarai stupita di subire il Giudizio così presto, vero? –

Ginny osò alzare un attimo lo sguardo.

-         Sì. – disse, con voce sufficientemente ferma.

-         Non sono certo persuaso del fatto che tu sia fisicamente ed intellettualmente pronta al ruolo – continuò il Signore Oscuro. – ma… ho sempre pensato che ci fosse qualcosa in te… vogliamo chiamarla una marcia in più. In fondo, chi può saperlo meglio di me, che ho visto negli angoli più profondi della tua anima, dove nemmeno tu sei mai arrivata coscientemente? –

Ginny strinse le dita.

Quello era un delirio di onnipotenza. Lui che credeva di conoscerla meglio di quanto potesse lei stessa? Era forse così che raccoglieva stuoli di assurdi ammiratori?

Voldemort camminava per la stanza con estrema tranquillità.

-         La natura umana è davvero affascinante, sebbene per pochi aspetti. Ho avuto l’infelice compito di lambire ed esplorare i più remoti angoli di molte anime. Non ne ho trovata una che non fosse in putrefazione. Sono tutte così banali… tutti i sogni, o le speranze, perfino le cattive abitudini e le follie, per quanto all’apparenza sembrino tanto diverse, sono tutte riconducibile alla stessa noiosa radice. Nessuno è riconoscibile perché nessuno è diverso. Non la trovi una cosa irritante? –

Ginny la trovava la cosa più lontana dal suo pensiero che si potesse formulare, ma tacque, il fuoco che le ardeva in gola.

-         Ma, anche se mi dispiace riconoscerlo, in te ho avuto la sensazione che, per quanto banale, ordinaria e mediocre tu effettivamente sia, forse qualcosa della tua anima in putrefazione era recuperabile. Per questo ho sempre considerato un gran peccato che tu decidessi di morire dalla parte degli stupidi. Ma ti sei ravveduta, giusto? –

Ginny annuì in fretta; ma le era parso di sentire una nota di derisione in quelle ultime parole.

Voldemort, effettivamente, a quel punto rise.

-         Ti sei lasciata trascinare dalle mie parole, vero? Tutto cambia, no? Dovevo immaginare che la cosa ti sarebbe rimasta impressa, avversa ai cambiamenti come sei. Oh, e poi – aggiunse, con un tono ancora più divertito. – non dimentichiamo il fattore più importante del tuo salto di qualità: il giovane Malfoy. Davvero sorprendente. –

Lei sapeva che la cosa non poteva non essergli giunta alle orecchie, ma ora che glielo sentiva dire, con quella voce da oltretomba, si sentiva male. Si sentiva esposta.

-         Certo, avere tra le mie file qualcuno che prova sentimenti tanto puri mi turba un po’, perché negarlo? Ma come si dice, si combatte il fuoco col fuoco. –

Lo vide avvicinarsi con la coda dell’occhio e per un attimo smise di respirare.

Il Signore Oscuro le si fermò davanti, alzò una mano, le prese il mento tra le dita e le alzò il viso.

Non avrebbe mai dimenticato quelle dita: erano la cosa più fredda e simile a follia, paura e rabbia condensate che avesse mai sentito.

Aveva semplicemente il terrore di incontrare quegli occhi rossi; invece, quando vi fu costretta, davanti a lei c’era il viso infelicemente familiare di Tom. I capelli neri e lucidi, gli occhi carbone, i lineamenti regolari e la pelle lattea. Sentì gli occhi che le si inumidivano al ricordo.

Non-voglio-essere-sola!

Scrivimi.

Non hai bisogno di compagnia… tu hai bisogno solo di te stessa.

Credimi.

Vorrei poter ridere sinceramente.

Non potrai mai conoscere nessuno, mai!

Perché perdere tempo, allora?

Lui le sorrise.

-         Il Giudizio può fare male – le disse. La fissò intensamente. – ma solo con esso, solo ed unicamente con esso, potrai dire di conoscere veramente chi sei, cosa vuoi, di cosa hai paura, cosa sei disposta a sopportare e quali sono i tuoi limiti. Ti do la possibilità di essere libera; dal legame con questo castello, se non altro. Di te stessa non potrai mai liberarti. –

Alzò la bacchetta verso la sua tempia. Ginny annuì.

Saprò guardare dentro di me.

Cerca solo di non aver paura di quello che vedrai.

 

Ron era tutto fresco e pimpante come non si sentiva da secoli.

Quella domenica mattina era per lui di vero e proprio splendore: si sentiva invincibile.

Camminava lungo lo spogliatoio, tra i compagni di squadra basiti, senza riuscire a star fermo.

-         Vinceremo! – esclamava continuamente fissando gli altri giocatori con gli occhi sgranati e le pupille dilatate. – nessuno mi può fermare! – urlava, per poi ridacchiare e colpire affettuosamente chiunque gli capitasse sott’occhio con un lembo dell’asciugamano.

Alla fine lo cacciarono fuori con una scusa, ma lui si limitò a sedersi su una panchina continuando a ridacchiare e guardando dentro la boccetta ora vuota che Buckley gli aveva regalato.

Non era proprio vuota, pensò sorridendo beatamente, ecco lì una gocciolina… che ora va di qua… ora di là… ora di qua… ora di là…

-         Ma che diamine stai facendo? –

Attraverso il vetro della boccetta vide il riflesso deformato di Cloe, che lo fissava a bocca aperta.

-         Esperimenti di fisica – rise lui, mettendosi la boccetta in tasca e facendole cenno di avvicinarsi.

La ragazza, diffidente, fece qualche passo verso di lui.

-         Sicuro di stare bene? Hai preso quella roba che ti ha dato Buckley? Ron, forse non… -

-         Oh, sì, sì! Molto, molto vero. E’ meglio del caffè! Molto, molto meglio. Mi sento benissimo! –

Cloe lo guardò rassegnata. Ormai il danno era fatto, e David Buckley aspettava l’inizio della partita tra gli spalti, e quella era la grande occasione di Ron.

A essere schietti, c’erano più possibilità che Ron si dimostrasse abile giocatore in quello stato, piuttosto che nel suo consueto panico puro.

Istintivamente, gli mise una mano tra i capelli per metterli in ordine.

-         Va bene, Ron, solo per questa volta. Fai del tuo meglio, e controllati, per favore. –

Ron le sorrise beatamente, con gli occhi socchiusi, nella tranquillità più totale.

Cloe inavvertitamente arrossì un po’.

Ron annuì.

-         Sei davvero molto carina e intelligente, Cloe – disse, alzandosi barcollante, continuando a ridacchiare. – ma non potevo innamorarmi di te? Che sfiga, che sfiga… - continuò a ridere.

Cloe assunse un’espressione seria, guardandolo. Non disse nulla; si limitò ad osservarlo mentre rientrava nello spogliatoio.

Si guardò le dita e rimase lì, in silenzio, finché non sentì il fischio d’inizio partita.

Il resto rasentava l’assurdo.

Ron salì sulla sua ‘favolosa scopa nuova’, con un sorriso a trentadue denti come se quel giorno non si discutesse la carriera lavorativa dei suoi sogni. Andò al suo solito posto, davanti agli anelli, e la partita continuò per una buona ora tra le sue evoluzioni spesso esagerate, ma inaspettatamente efficaci: per la prima volta in vita sua, non aveva mancato di parare un solo tiro.

Ringalluzzito ancora di più da ciò, roteava sulla scopa come se non vosse a dieci metri da terra, facendosi pure riprendere dall’arbitro per ‘comportamento non sportivo’. Ripresa che ebbe un’altra volta, quando cominciò a litigare con uno dei Battitori avversari, che gli aveva tirato un Bolide addosso, seppure accidentalmente. Ron, tutto preso dalla partita e completamente andato di cervello, evidentemente, aveva urlato parole irripetibili aggiungendo sul finale un gestaccio, beccandosi un avviso di squalifica. David Buckley scuoteva la testa e Cloe non sembrava poter credere ai suoi occhi.

Ma il peggio venne dopo, quando il Battitore, ancora leggermente turbato dal vago disprezzo che Ron aveva coloritamente espresso nei confronti di sua sorella, cominciò a cercare di colpirlo col Bolide ogni volta che poteva. Ron gli faceva le smorfie ogni volta che lo schivava.

Poi salutò un gruppo di ragazze sugli spalti più vicini che, pur essendo venute a tifare per la squadra avversaria, avevano evidentemente cambiato idea e urlavano complimenti, e fu questione di un attimo: si scoprì che una delle ragazze era la sorella del Battitore e Ron si beccò un Bolide talmente potente che perse i sensi.

L’ultima cosa che vide fu la faccia sudata del Battitore infuriato.

L’ultimo pensiero che formulò fu che avrebbe preferito vedere un viso carino.

 

Harry si trascinò faticosamente su per le scale.

Aveva passato tutta la mattinata in biblioteca, nel vano tentativo di riuscire a fare qualcosa di produttivo che non fossero scarabocchi sul tavolo o ventagli di carta, il che peraltro non era per niente virile. Era stanco e molto deconcentrato; a dire la verità, non riusciva mai nemmeno a concentrarsi abbastanza per capire perché era deconcentrato.

Lanciò un’occhiata, guardingo, al pianerottolo del suo piano; grazie al cielo, nessuna traccia di scampanellii o stivali da cowgirl. Sinceramente, stava cercando di stare lontano da casa il più possibile anche… beh, per quello. Sarebbe probabilmente stato tentato di nascondersi dentro un sacco della spazzatura pur di non incontrare Luna. Ora capiva come si sentiva Voldemort con lui.

La cosa odiosa era che razionalmente non voleva assolutamente vederla, non dopo quell’assurda conversazione che avevano avuto; sperava di sbagliarsi, ma se avesse avuto ragione, come avrebbe reagito Luna capendo che la sua non era affatto una malattia?

Una parte di lui, una parte molto strana, però moriva dalla curiosità di sapere la reazione. Il che era assurdo, perché non gli interessava minimamente, proprio.

Si affrettò ad avvicinarsi alla porta e fece per aprirla con la bacchetta, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, spuntò dal nulla Soffiartigli, facendo un tale chiasso con le fusa che Harry non potè nemmeno fingere di non averlo notato (sospettava che in quel caso avrebbe riportato parecchie escoriazioni prima di riuscire a sfuggirli).

Harry si chinò con un sospiro ad accarezzargli la testa, e Soffiartigli chiuse gli occhi tutto contento.

-         Sei rimasto chiuso fuori, eh? – gli disse Harry, lanciando l’ennesimo sguardo furtivo alla porta dell’appartamento di Luna. Sbattè le palpebre. Eccolo, adesso si metteva anche a parlare con gli animali. Un assurdo incrocio per di più.

Fece per alzarsi ma si accorse che qualcosa pendeva dal collarino rosa di Soffiartigli (a quanto pare, a Luna non importava minimamente che fosse un maschio). Era una minuscola pergamena arrotolata. Harry la prese, perplesso.

Harry, seguilo!

C’era scritto.

Nient’altro. Comunque, a giudicare dall’inchiostro profumato ai mirtilli, aveva come la sensazione di sapere chi l’avesse scritto.

Come se gli avesse letto nel pensiero, Soffiartigli miagolò, alzò la coda e prima che Harry se ne rendesse conto stava scendendo le scale. Vedendo che non lo seguiva, l’animale soffiò facendo un gran rumore e scoprendo i denti, perciò il ragazzo, semplicemente basito, si affrettò a seguirlo.

Soffiartigli lo condusse giù per le scale che aveva faticosamente salito, fuori dall’ingresso del palazzo (due ragazzini, entrando, guardarono Harry perplessi mentre lui apriva la porta a Soffiartigli come un fattorino) e per strada.

Lui cercò di non far caso agli sguardi stupiti dei passanti che vedevano questo ragazzo fatto e finito seguire a ruota una specie di piccola tigre. Soffiartigli svoltò poi in un vicolo cieco con una bella buchetta della posta rossa fiammante e miagolò forte. La buchetta era un po’ strana, a dire il vero;

oddio, molto strana. Era forse un enorme naso di plastica quello che spuntava al posto del buco per infilarci le buste?

Sopra, un post-it: stringi il naso.

Harry sbattè le palpebre. Okay, la cosa non poteva continuare. Doveva ignorare tutto ciò, tornare a casa e fingere che il mondo fosse un posto popolato di persone normali.

L’unico problema era che Soffiartigli continuava a fissarlo, seduto compostamente. Aveva il sospetto che se si fosse azzardato a girare i tacchi, avrebbe potuto dire addio alle sue capacità motorie.

Con un sospiro molto, molto, molto pesante, tolse il post-it e sentendosi molto, molto, molto cretino, strinse il naso ai lati come se volesse farlo soffiare.

Invece, senza il minimo preavviso, si sentì tirare forte per l’ombelico, vorticare come se l’avessero ficcato nel familiare tubo minuscolo ed in poche frazioni di secondo si sentì ricadere per terra, quasi sul morbido. Sbattè anche un po’ la testa contro quella che riconobbe come un’altra buchetta della posta identica; solo che al posto del naso c’era quello che assomigliava in modo agghiacciante ad un enorme sopracciglio.

Prima che potesse stupirsi ancora di più di tutto ciò, un profumo inusuale lo raggiunse. Era odore di sale. E di mare, in effetti. Cioè, non che sapesse che odore avesse il mare, visto che i Dursley non è che si fossero esattamente prodigati per portarcelo, ma il pensiero gli venne naturale, dato che si era accorto che il terreno morbido era sabbia e di fronte a lui si stagliava una lunga spiaggia deserta, e a non più di dieci metri l’orizzonte grigio-azzurro del mare calmo.

Si alzò, scrollandosi granelli di sabbia di dosso e pulendosi gli occhiali teso come una corda di violino. Pensò subito di essere caduto in qualche strana trappola; deformazione professionale. Poi, però, notò qualcuno che gli veleggiava incontro.

-         Sei arrivato, sei arrivato! – gridò Luna tutta allegra, cercando di farsi sentire nonostante il gran vento freddo che tirava. Nonostante questo, non era più imbacuccata, anzi; era a piedi nudi e con un vestito arancio troppo largo per lei che le svolazzava intorno.

-         Sono arrivato dove? – fece Harry, sentendosi improvvisamente esausto. In effetti, vedendola, non si era più sentito agitato e nervoso come nelle ore in cui aveva temuto di vederla, il che era assurdo, ma forse era un buon segno, ecco. O magari no.

-         Al mare! – esclamò Luna, con un sorriso paziente, facendogli segno di seguirla.

-         Di questo mi ero abbastanza accorto – mormorò Harry irritato, mentre si avvicinavano alla riva e il vento si faceva più forte e freddo. – ma è lecito sapere perché? –

Luna si voltò a guardarlo con i capelli biondi che le sventolavano intorno come se avessero vita propria.

-         Così. – disse, sbattendo le palpebre.

-         Come, ‘così’? –

-         Avevo proprio voglia di vedere un po’ di mare! –

-         Ma si muore di freddo! –

-         E’ il bello del mare inglese! –

-         Il bello del mare non dovrebbe essere che è caldo? –

Luna aggrottò le sopracciglia come se il ragionamento di Harry somigliasse molto a quello di un minorato mentale.

-         Certo che no. Il bello del mare è che ci puoi andare! – disse, cominciando a inseguire un’onda e scappando quando tornava, come fanno i bambini piccoli.

Harry la guardava a distanza, sentendosi stranamente vecchio.

-         Se è per questo, potresti andare dove vuoi, teoricamente. –

-         Appunto! Questo è il bello, no? – esclamò Luna, guardando i propri piedi che al momento affondavano nella sabbia bagnata fino alle caviglie.

A Harry il significato di tutto ciò non era molto chiaro (il che gli succedeva un po’ troppo spesso, ultimamente), ma preferì non approfondire. Fece per sedersi pazientemente, ma Luna lo guardò con disapprovazione.

- Vieni ad affondare i piedi! – protestò.

- Ho le scarpe, Luna, non posso. –

- Toglitele. E non dimenticare i calzini – replicò lei, come se gli stesse dando dei consigli preziosissimi.

Harry non sapeva perché diavolo lo stesse facendo, considerando poi che era tutto un tremito per il freddo; tuttavia ubbidì, abbandonando le proprie scarpe insabbiate poco lontano e mettendosi vicino a Luna. Un’onda gelida gli travolse i piedi che subito cominciarono ad affondare nella sabbia.

-         E’ una delle cose migliori del mondo! – urlò Luna sopra il chiasso del vento.

Harry alzò gli occhi al cielo.

-         Non è spiacevole – borbottò.

Rimasero in silenzio per un po’ e Harry aspettava continuamente di sentirsi a disagio, teso, con una gran voglia di scappare, e possibilmente orripilato, ma si sentiva perfettamente. Non gli era mai capitato di sentirsi perfettamente.

Quanti momenti perfetti ci sono concessi?

Harry tossicchiò.

-         Allora, ehm – fece. – cosa… cosa ti ha detto il medico? –

-         Ah, sì! – esclamò Luna, tenendo le palpebre chiuse con un gran sorriso, come se per metà stesse ascoltando lui ma per l’altra metà fosse lontana anni luce. – dice che non ho nulla; forse avevo mangiato troppe frittelle. Non mangiarne mai troppe, Harry, sono micidiali! –

Harry sospirò. Di sollievo. Aggrottò le sopracciglia, guardando il mare.

Avanti. Su. Sentiti sollevato.

Oddio. Non si sentiva per niente sollevato.

Anzi, era un po’, come dire… non era mica un pochino deluso?

Con orrore, si rese conto che si era fatto un viaggio mentale tutto da solo. Si era praticamente autodefinito come un’indigestione di frittelle.

La guardò, ma lei teneva ancora gli occhi chiusi, tutta tranquilla. Come poteva essere così tranquilla? Nessuna ragazza avrebbe chiuso gli occhi con quell’aria serena, in una situazione del genere. Doveva essere nervosa, almeno un pochino.

Invece no. Lo ignorava abbastanza, a dire il vero.

In poche frazioni di secondo cominciò a sentirsi irragionevolmente abbattuto. Il che era al di là di ogni spiegazione, perché non si erano detti praticamente niente.

Era sempre lui, era sempre Harry Potter solo che adesso aveva i piedi che affondavano nella sabbia, cosa cambiava?

Poi, come se fosse stato qualcun altro a farlo, osservò perplesso la propria mano sinistra appoggiarsi sulla spalla di Luna e si sentì inclinare verso di lei e per la seconda volta la baciò.

Senza alcun preavviso, una lettera scritta, nulla. Era peggio che posseduto, era come se fosse stata una cosa naturale, come allontanarsi dal fuoco quando ti scotti, come ridere quando ti fanno il solletico, come chiudere gli occhi quando ti baciano.

Un’onda particolarmente fredda gli inondò le caviglie inzuppando l’orlo dei pantaloni, ed istintivamente e tornò alla sua posizione iniziale, forse un pochino più scostato da lei.

Luna aprì quasi subito le palpebre. Non lasciò passare nessun mezzo secondo di sgomento generale o di silenzio consapevole, ma si voltò e guardare Harry con le sopracciglia aggrottate.

-         Stavolta sono proprio sicura che mi hai baciato! – disse, come sfidandolo a dire il contrario.

Harry non aveva molte forze che gli rimanevano e si sentiva anche un po’ troppo accaldato, perciò si limitò a farfugliare un ‘lo so’ parecchio strozzato.

Luna lo guardava come se fosse la bestia più rara e bizzarra che le fosse capitato di vedere.

-         Ancora non capisco perché. Perché? Tu lo sai? – chiese, con aria indagatrice.

-         Ehm… non ne sono molto sicuro… -

Oh, andiamo, Harry Potter. Doveva cercare di avere un po’ di savoir-faire. Un minimo di virile senso della responsabilità, suvvia.

Tossicchiò e tacque.

Ma Luna non mollava.

-         Ma avrai pure qualche idea – poi il suo viso s’illuminò come se avesse fatto una scoperta sensazionale. – o forse è una cosa che fai normalmente? –

-         Assolutamente no! – fece Harry, esasperato. – è che… -

-         Forse sei malato – annuì Luna con convinzione.

Harry sgranò gli occhi.

-         E cosa c’entrerebbe? Bisogna essere malati per baciarti? – chiese, prima di riuscire a fermarsi.

-         Beh, alcune ragazze del mio anno me lo dicevano! – esclamò Luna, senza la minima traccia di imbarazzo.

Harry tacque un attimo, fissandola. Provò un tale moto di rabbia che se ne stupì lui stesso, e che dimostrava una sola cosa, probabilmente.

La sua smania eroica che lo affliggeva un po’ da sempre si era risvegliata. E quando voleva fare il cavaliere dalla sfavillante armatura… beh, era andato.

-         E va bene, Luna – disse, determinato.

Lei sbattè le palpebre.

-         Cosa? –

-         Va bene. Credo… - oddio, che sofferenza doverlo ammettere. – … credo proprio… credo di essermi accidentalmente… cioè. Credo di essermi innamorato di te. –

C’erano un po’ troppi ‘credo’, e quell’’accidentalmente’ era decisamente poco romantico, ma non gli venne in mente niente di meglio.

Luna lo fissò come se fosse matto.

-         Scusa, ma in che senso? – chiese, ancor più circospetta di prima.

Harry non poteva crederci.

-         Come, ‘in che senso’? –

-         Innamorato in che senso? –

-         Cos… nel senso comune del termine! –

-         Cioè, amore amore? –

-         Che diavolo significa ‘amore amore’? –

-         Amore amore tipo Cenerentola? –

La situazione era talmente assurda che Harry scoppiò a ridere.

-         Beh, io non sono per niente un principe e credo che nella realtà le scarpette di cristallo sarebbero decisamente scomode e non ci potresti correre per una scalinata intera, ma sì, intendo… quell’amore lì. –

Luna parve molto perplessa. Guardò il mare come se non sapesse più bene come se potesse darle risposte più soddisfacenti di Harry.

-         Uhm, nessuno mi ha mai amato dell’amore amore di Cenerentola. – mormorò, sempre più perplessa.

Harry sospirò e pensò a quanto gli faceva rabbia che Luna pensasse che non fosse ‘amabile di un amore amore tipo Cenerentola’. Il che di per se era quanto mai folle, ma fastidioso.

-         Ma quindi, adesso deve succedere qualcosa? – chiese Luna, ancora poco convinta, tornando a guardarlo.

Harry cercò di non spazientirsi.

-         No. Cioè, non necessariamente. –

-         Dovrei dire qualcosa io? – chiese Luna, quasi più a se stessa.

-         Non necessariamente! – ripetè Harry, agitando le mani terrorizzato.

-         Tu mi piaci proprio un sacco, Harry – disse la ragazza, senza nemmeno lasciargli il tempo di prepararsi psicologicamente. – ma non so mica come si fa a capire se si ama tipo Cenerentola. –

Harry continuava ad agitare le mani.

-         Non è necessario che io lo sappia, non mi aspetto assolutamente… -

-         Ti sei mai provato una calzamaglia, Harry? Se sì, ti sta bene? – chiese Luna, perfettamente seria.

Il ragazzo non sapeva cosa rispondere. Si limitò a scuotere la testa, fissandola.

-         Luna – fece, sforzandosi incredibilmente. – non devi assolutamente dirmi niente. Cioè, non ho particolari intenzioni. Sono cose che, suppongo, si dicono e basta, ecco. Poi non è mica necessario che tu mi dici qualcosa. E’ solo una… una specie di… dichiarazione. Si chiama dichiarazione per questo, perché è solo… solo un’affermazione. Non richiede risposta. –

Luna sembrò pensarci su. Poi fece spallucce come se improvvisamente l’argomento non la interessasse più di tanto.

-         Comunque, quella cosa del bacio non l’avevo mai fatta! – disse, entusiasta come se stesse parlando delle giostre. – non era per niente spiacevole. Non so se dipenda da te. –

Okay, c’era decisamente molta strada da fare. Però, stranamente, la cosa non lo scocciava affatto.

-         Vabbè, se poi vuoi altre dimostrazioni, io direi che sono disponibile. – disse con aria modesta, ma Luna non rise ma annuì con aria interessata come se stesse riflettendo se comprare o no una bella borsa.

-         Perché no? Oh! – esclamò poi, all’improvviso.

-         Che c’è? – chiese Harry, di colpo spaventato. Non è che adesso diceva qualcosa di incredibilmente imbarazzante e lui non avrebbe saputo rispondere?

-         Ho fame!- sentenziò, cominciando a risalire la spiaggia.

Harry, basito, si affrettò a recuperare le proprie scarpe e le trotterellò dietro.

-         Ma come… -

-         La passaporta-sopracciglio ci riporterà a Diagon Alley! Andiamo a casa tua, Harry, perché io non ho niente da mangiare! –

-         E cosa diavolo mangiamo, che anch’io non ho praticamente nulla? –

Luna annuì con aria saggia.

-         Ho voglia di frittelle! E non moderare le porzioni. –

 

Ron si risvegliò dolorante.

Sentiva la palpebra gonfia e la testa che pulsava.

Il liquido blu gli circolava ancora dentro, ma in misura molto più lieve.

Si guardò attorno: le pareti della stanza erano di un bianco accecante e c’era una gran puzza di alcol e medicine. Attorno a lui c’erano varie persone malandate, uno con un becco di fenicottero al posto del naso, una donna con dei serpenti al posto dei capelli, uno con le gambe senza ossa, un altro non faceva che ridere e sembrava non riuscire a fermarsi; un altro ancora si svegliava e si addormentava in continuazione.

Si rese conto di essere su una sedia a rotelle e provò a muovere le gambe: ci riusciva e non aveva particolarmente male. Evidentemente la parte superiore del corpo era più malandata. I gioielli Weasley erano salvi.

-         Oh, ti sei svegliato, finalmente – disse brusco l’allenatore della sua squadra, che sedeva su una panchina accanto a lui. Si alzò subito. – tu, Weasley, sei un concentrato di guai. Maledetto me che ti ho preso in squadra. Ci hai fatti squalificare dal torneo, brutto cretino! –

Ron cercò di aprire la bocca in segno di stupore, ma gli faceva troppo male, perciò fece solo una smorfia.

-         Ma non è colpa mia! – mugolò. – è stato quello là a colpirmi… -

-         Non c’entra nulla! – ringhiò l’allenatore. – quando sei svenuto, e tu sia dannato per essere così idiota da prendere per il culo gli altri giocatori nel bel mezzo di una partita importante, i medimaghi in campo ti hanno visitato e per le cure immediate hanno dovuto analizzarti rapidamente. E guarda caso ti trovano delle sostanze eccitanti nel corpo! Ma dico, cosa ti dice il cervello? E’ così che superi le tue fottute paure, Weasley, facendoci buttare fuori a calci nel culo dal torneo perché sei troppo insicuro per farcela da solo? –

A Ron faceva male la testa. Era confuso.

Era vero… quella roba blu, lo sapeva, non poteva essere qualcosa di molto legale. Però non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che lo potessero scoprire.

Si era sentito così invincibile…

Si era sentito davvero… davvero come una volta. Davvero.

-         E ora guardati, tutto pesto al San Mungo e senza uno straccio di posto né nella mia squadra, né altrove – continuò l’allenatore, con un tono di voce più calmo. – se te lo stavi chiedendo, Buckley se n’è andato a metà partita. E no, non era molto soddisfatto. –

Lo guardò intensamente. Ron non parlava; fissava insistentemente gli orli delle maniche della divisa da Quidditch.

L’allenatore sembrò calmarsi definitivamente.

-         Senti – disse, secco. – non dico che ti butto fuori definitivamente. Ma ultimamente le tue prestazioni sono state molto, molto incostanti. Sei evidentemente il tipo di giocatore che si fa condizionare dalla vita privata: atteggiamento molto artistico da parte tua, ma non puoi permetterti di essere artistico in una squadra di serie C. Ti sospendo per un po’, così magari metti a posto la vita e la testa – non ricevendo risposta, continuò, mettendosi la giacca per uscire. – una ragazza bionda che era alla partita ha inseguito Buckley per farlo ‘ragionare’, comunque. Non so come andrà; ha detto che verrà qui non appena possibile. Credo di faranno una visita di controllo e poi ti manderanno a casa. Da qui in poi te la senti di cavartela da solo? Ho altri giocatori da far sbollire. –

Ron annuì, gli occhi vacui. L’allenatore sospirò, gli fece un cenno con la testa e se ne andò dalla sala d’aspetto.

E così, aveva nuovamente fallito.

Cominciava a incazzarsi. Era dunque questo il suo destino? Fallire ovunque volesse arrivare? In tutto ciò che gli importava davvero?

Era questo il suo destino?

Allora, se l’avesse saputo prima, avrebbe volato più basso.

Se l’avesse saputo prima, tanto per cominciare non sarebbe mai diventato amico di Harry. Del Ragazzo-che-è-sopravvissuto? Ma scherziamo? Si rischia di diventare un po’ troppo speciali in compagnie così speciali. Avrebbe potuto fare come tutti gli altri, credere alle dicerie su di lui, ridere di lui quando gli altri lo facevano, adorarlo quando gli altri ritenevano fosse il momento.

Se l’avesse saputo prima, non avrebbe mai e poi mai sperato di giocare a Quidditch. Si sarebbe limitato a guardarlo, ad attaccare qualche poster alla parete e far ammuffire le scope nello sgabuzzino.

Se l’avesse saputo prima, non avrebbe nemmeno pensato alla carriera da Auror. Lui, un Auror? Uno con T in Pozioni? Uno che non ne voleva sapere di compiti, di G.U.F.O., ma sarebbe stato a poltrire sotto il sole tutto il pomeriggio?

Ah, e non dimentichiamolo: se l’avesse saputo prima, non si sarebbe assolutamente innamorato di Hermione.

Cioè, di Hermione, la migliore della classe, quella dei punti in più, quella intelligente, coraggiosa, saggia e tutto il resto. Se l’avesse saputo prima, probabilmente a lei non ci avrebbe pensato nemmeno di striscio: sarebbe passato dritto da Lavanda e via per varie sue fotocopie per tutta la vita, e di Hermione dopo scuola non avrebbe più avuto traccia, né gli sarebbe importato, e lei sicuramente non l’avrebbe nemmeno invitato al suo matrimonio con un genio della Medimagia o di Pozioni o quello che era, o comunque con l’uomo vincente che sicuramente dopo una prima esitazione avrebbe fatto carte false per fare parte della vita di una così.

E invece, eccotiquialSanMungotuttopesto.

Non aveva bisogno di specchi per sapere quanto sembrasse umile e idiota.

E’ che non si può saperlo prima.

Non si può, e basta.

Mettitelo in testa, così forse, forse, un giorno, per sbaglio, ti capiterà di fare la scelta giusta.

-         Scusi, nome e cognome, per favore. –

Ron alzò lo sguardo cupo. Un ragazzo con gli occhi nocciola ed una cartella in mano, con un camice verde, lo guardava interrogativo.

-         E perché mai? – chiese istintivamente, brusco.

Il ragazzo sorrise, perplesso.

-         Per l’accettazione, amico. Siamo in un ospedale e tu hai bisogno di essere curato, ma ho bisogno dei tuoi dati per farlo. Okay? –

Che irritante. Ron ruotò gli occhi, che gli fecero istantaneamente un gran male.

Sconfitto su tutta la linea, proprio.

-         Ron…ald Weasley. Ronald Weasley. – sospirò, mesto.

Il ragazzo scrisse sulla cartellina qualche lettera, poi sgranò gli occhi e alzò lentamente lo sguardo su di lui.

-         Scusa, puoi ripetere? –

Ron cominciava a perdere la pazienza.

-         Ronald Weasley. – ringhiò, scandendo bene le parole.

Il ragazzo finì di scrivere.

-         Sì, io… qualcuno verrà immediatamente a prenderti. – disse, con un tono fastidiosamente elettrizzato.

Ron lo guardò scivolare via, sempre più cupo.

E’ che non si può saperlo prima…

 

-         Her-mio-ne! – squillò la voce di Sam.

La ragazza abbassò lo sguardo verso la porta. Si trovava nel bel mezzo di un archivio fatto di armadietti stretti stretti, pieno di vecchie cartelle impolverate, e aveva gli occhi lucidi per l’allergia; stava cercando la cartella di un paziente di qualche anno prima per conto del primario, in bilico su una scaletta malferma.

Il bel viso di Sam fece capolino dalla porta.

Ora che sapeva… beh, la verità su di lui, Hermione si rendeva conto che era una bella perdita per il popolo femminile.

-         Oh, Sam, non eri all’accettazione? – non ascoltò la risposta. – dammi una mano, temo che da un momento all’altro questa roba potrebbe crollarmi addosso… -

Sam non le prestava la minima attenzione. Tirò fuori la bacchetta e rimandò indietro le cartelle; prima che Hermione potesse protestare, la fece levitare dalla scaletta posandola delicatamente sul pavimento.

-         Ehi, che fai? Sto lavorando, il primario ha detto… -

-         Ehm, senti, io ho una cosa urgente da fare… uhm, fuori – disse Sam, sbattendo innocentemente le palpebre. – mi sostituiresti un attimo all’accettazione? Un attimino solo solo? –

Hermione alzò gli occhi al cielo.

-         Sam, scusa, ma sono oberata dal… -

-         Ti prego! – la supplicò Sam con gli occhi che brillavano. – devi. Ti prego. Lo faccio dopo io quello che devi fare. Ti prego… Hermione… ti prego…. – fece, assumendo un’espressione addolorata.

Hermione sospirò, fingendosi addolcita. Si grattò la testa spettinandosi i capelli già piuttosto incolti.

-         Okay, okay – fece per avviarsi fuori dall’archivio.

Sam storse il naso.

-         Vai così, non ti dai nemmeno un’aggiustatina? –

Lei lo fulminò con lo sguardo.

-         Sam, va bene che mi tiri giù da una scaletta mentre tento di fare il mio lavoro, va bene che mi chiedi di sostituirti nel tuo ruolo, ma non venire a pungolare sulle condizioni della mia faccia che non è proprio aria! –

Sam alzò le mani in segno di resa. Percorsero insieme il corridoio fino alla porta a vetri che dava sulla sala d’ingresso.

Hermione si voltò di colpo, facendo sussultare Sam.

-         Che c’è? – chiese il ragazzo, spaventato.

-         Perché diamine mi segui, se hai ‘una cosa importantissima da fare fuori’? – fece Hermione, squadrandolo.

-         Io… riflesso condizionato, emani un’aura di naturale rispetto. –

Hermione ridusse gli occhi a due fessure.

-         Non sarà che c’è ancora quel tipo con cui stai e vuoi che io lo mandi via per te? Perché, guarda, lo trovo veramente immaturo… -

-         No, no, ti assicuro! –

Hermione mise la mano sulla maniglia della porta, rivolgendo lo sguardo attraverso il vetro.

-         Sì, cert… -

Poi lo vide e Sam, anche se avesse detto qualcosa, non sarebbe stato ascoltato.

Vide Ron seduto su una sedia a rotelle, la testa bassa con i capelli rossi tutti spettinati. Aveva un occhio pesto e si fissava le mani, di pessimo umore. Aveva la divisa da Quidditch e parecchi lividi dappertutto.

Ora, era più di un mese e mezzo che non lo vedeva.

Più di un mese e mezzo.

Inutile dire che l’effetto era sconvolgente.

Lui era lì e lei era lì.

Non riusciva più a respirare.

Mollò la maniglia e si appoggiò contro la parete, fuori dalla vista dei pazienti nella sala d’attesa.

Le gambe le cedevano.

Pensava non le avrebbe fatto quell’effetto.

Rivolse lo sguardo verso Sam. Lui indietreggiò istintivamente. Non l’aveva mai vista così spaventata e contemporaneamente furiosa come ora.

-         Non so quanto riuscirò a contenere la rabbia, ora. – fece, la voce ridotta ad un sussurro.

Sam sorrise cercando di sdrammatizzare.

-         Contienila. –

-         Non puoi. –

-         Non posso cosa? –

Hermione sembrava non avere più la capacità di comporre frasi di senso compiuto. Si portava la mano destra prima alla bocca, poi ai capelli, poi al collo, come se avesse un fastidio, un caldo diffuso; a Sam sembrò più pallida e magra di quanto l’avesse mai creduta in grado.

-         Tu… tu non ti rendi conto – balbettò la ragazza, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, ma fissando il vuoto come se stesse parlando da sola.

Sam si grattò la testa. La faccenda era più delicata di quanto pensasse, evidentemente; questa era veramente cotta, non c’era altra spiegazione. Gli fece una tenerezza tale che gli scappò una risatina.

Hermione si voltò di scatto verso di lui.

-         Stai ridendo? Beh – fece, cominciando a ricomporsi. Deglutì. – beh, visto che la cosa ti diverte, vacci tu da quello lì. Io non ci voglio avere niente a che fare. –

-         Hermione – la richiamò Sam, serio. – siamo in un ospedale. Devi prestare servizio a chiunque. E’ una delle prime cose che ti insegnano a Medimagia. –

-         Sì, ma non sono in servizio – farfugliò Hermione, continuando a tormentarsi i capelli. Ogni tanto il suo occhio sbirciava, forse involontariamente, verso la porta a vetri.

La cosa che più le dava fastidio era che, dopo un mese e mezzo, le sue sensazione avrebbero dovuto essere più lucide. Ed in effetti lo erano: solo che non erano di puro distacco o indifferenza, ma di lucida e genuina e pura emozione, quella che non sapresti descrivere meglio, quella delle famose ‘farfalle’.

Era rimasto questo, dentro di lei, nonostante tutto.

E le dava fastidio, le dava fastidio, perché dopo un tradimento bisogna sentirsi oltraggiati per sempre, giusto?

Sam la fissò.

-         Senti, Hermione, è inutile che ti dica che non sei la prima né sarai l’ultima a subire un tradimento, eccetera eccetera. Potrei addirittura dirti che un giorno potresti essere tu la colpevole, ma ne dubito per il semplice fatto che tendi ad agitarti parecchio già nelle situazioni normali; se ti trovasse a dover tenere due redini, credo che soffriresti di extrasistole croniche. Ma il punto è, al di là di tutto, tu mi hai raccontato come sono andate le cose, e io penso che nel tuo caso ci sia del salvabile da salvare. Prima di tutto eravate amici, no? E non ti ho mai, mai sentita dire che questo tipo sia una persona cattiva. Non gli hai indirizzato neanche una parolaccia e la trovo una cosa su cui riflettere. –

Hermione abbozzò un sorriso, l’aria abbattuta.

Sam annuì con aria consapevole.

-         Vai e scoprirai, Granger. Non ci è dato altro modo, nella vita. –

Hermione sospirò profondamente, a lungo.

Francamente, si sentiva un po’ scema a fare tanti drammi. Era o non era una ‘donna matura’?

Evidentemente, no. Perché aveva un groppo in gola e le farfalle, maledette. E ora si era anche dovuta subire la ramanzina (purtroppo, centrata) di uno che aveva probabilmente problemi molto più complicati dei suoi.

-         Io… sono impresentabile – le sfuggì di bocca, e si sentì talmente cretina che quasi le veniva voglia di piangere. Diamine, non pensava che l’avrebbe mai detto.

Sam, infatti, le scoppiò a ridere in faccia.

-         Non ti si addice per niente una frase del genere! – le diede una pacca robusta sulla spalla e una spintarella.

E va bene. Sarebbe andata. Sì. Cosa poteva mai succedere? Aveva visto Ron praticamente tutti i giorni da otto anni, se era rimasta illesa allora, poteva farcela anche adesso; anche se le tremavano le mani. Le strinse intorno alla cartella di Accettazione che Sam le porse.

Posò le mani sulla maniglia della porta, un brusio scomposto che le navigava nella testa.

-         Hermione – la chiamò Sam. Lei si voltò.

Lui la fissava intensamente.

Poi, all’improvviso, le fece l’occhiolino.

-         Gran bel pezzo di ragazzo, comunque! –

Questo sì che la confortava.

 

Ron cominciava ad essere infastidito da tutto quel chiasso. Insomma, se la sala d’attesa era piena di feriti, com’è che erano tutti in vena di chiacchierare? Non dovevano, di norma, rantolare sottovoce in fin di vita? Okay, forse erano lì proprio perché non erano casi urgenti, ma comunque…

-         Cos’hai combinato, stavolta? –

Ormai era talmente abituato a scambiare quella voce con quella di altri, che non ci fece nemmeno caso; se era pazzo, accettava di buon grado la sua pazzia.

Però poi alzò lo sguardo sulla persona di fronte alla sua sedia a rotelle e pensò che proprio lì, proprio adesso, gli sarebbe venuto un arresto cardiaco.

Quella non era una sua proiezione mentale.

Quella era davvero Hermione, a due, due passi da lui.

Gli occhi, di nuovo cioccolato, ricambiavano il suo sguardo con familiare impazienza. Teneva una cartellina in mano ed aveva addosso un camice verde. Aveva i capelli spettinati e ad una ciocca sulla spalla era appeso un piccolo frammento di polvere arrivato da chissà dove.

Mai, mai come in quel momento notò tutto, tutto di lei.

Sul momento, gli uscì un rantolio non meglio identificato, che sarebbe stato molto adatto ad una persona in fin di vita. Si schiarì la voce un paio di volte.

Un mese e mezzo di non-Hermione terminava, seppur temporaneamente.

Si sentiva come quegli animali che, dopo tanto tempo di cattività, vengono messi in libertà. E’ una cosa buona, ma abituarsi è difficile e viene da essere diffidenti.

-         Cosa… cosa ci fai qui? – chiese, con la voce più ferma che gli riuscì.

-         Faccio praticantato per Medimagia – disse Hermione, cercando di mantenersi molto professionale. – lavoro qui per un po’. –

Lesse nervosamente la sua cartella. C’era l’identificazione di Ron ed un biglietto scritto in tutta fretta da qualche dottore.

-         ‘Ferito in ambito sportivo’… cos’è successo? – chiese, evitando semi-involontariamente di guardarlo.

Ron era ancora talmente sbalordito che faceva due occhi così, cosa che ovviamente non aiutava Hermione a sentirsi a proprio agio.

-         Io… problemi ad una partita di Quidditch – balbettò. – ma… ma… -

-         Seguimi. – fece Hermione, voltandogli le spalle.

Lui non ebbe il tempo di dire o fare nulla, che la sedia a rotelle si mosse automaticamente dietro la ragazza; lei aprì la porta a vetri lasciandolo passare (con una costante espressione basita), poi lo precedette lungo il corridoio.

Ron, nonostante avesse vagamente fantasticato su un possibile incontro con Hermione, non ricordava minimamente cosa avrebbe voluto dire. Sapeva solo che lui era lì, lei era lì, dopo un mese e mezzo, ed era, caspita, sconvolgente.

Voltarono in un silenzio tesissimo in un piccolo ambulatorio, con appese alle pareti tutti quei disegni di organi e ferite che non vorresti mai vedere.

Hermione sentiva il cuore batterle talmente forte, mentre prendeva uno sgabello per sedersi di fronte a lui, che quasi sembrava non battesse più.

-         Dinamiche dell’incidente? – chiese, col suo miglior tono da Medimago, estraendo la bacchetta da una tasca del camice.

Ron sbattè le palpebre. Era così inebetito che per un attimo non si ricordò neppure la sua domanda.

-         Ehm… credo di averci messo un po’ troppa foga – disse. – un tizio mi ha preso in antipatia e… beh, l’ultima cosa che mi ricordo è che mi ha colpito un Bolide. Devo essere caduto dalla scopa… -

Ma Hermione non lo stava ascoltando; leggeva rapidamente la cartella con le sopracciglia sempre più aggrottate.

-         Perché qui dice che hai assunto il Tiropralin? – chiese, accendendo la punta della bacchetta con un sussurro.

Ron aprì e chiuse la bocca a intermittenza, incapace di parlare. Non ci voleva la scala per capire che si riferiva alla Boccetta Blu. Dalla sua espressione, non doveva essere una cosa buona.

-         Sì, ehm… me l’hanno, come dire, prestato per darmi un po’ di coraggio. C’era un talent scout tra gli spalti. –

Hermione alzò lo sguardo su di lui. Ahia.

-         Che cos’hai fatto? Vuoi dire che non te l’ha prescritto un Medimago competente? –

-         Ehm… no, non che io sappia. –

-         Hai assunto il Tiropralin senza averne alcun bisogno fisico? – gli occhi di Hermione si infuocavano sempre di più; persino le sue guance assunsero un po’ di colore.

Ron avvertì la familiare stretta allo stomaco di quando sapeva di aver sbagliato ma non poteva fuggire.

-         Sì, ecco, io pensavo fosse una pozione semplice, che ne so, tipo la Felix Felicis! – tentò di difendersi.

Hermione lo fissava con aria scandalizzata.

-         Ron, il Tiropralin è una pozione che viene somministrata ai pazienti che hanno subìto uno shock psicofisico tale da non essere nemmeno in grado di alzarsi da un maledetto letto! Perché ti fidi di tutto quello che ti danno? –

-         Ma… -

-         Non lo voglio sapere, razza di disgraziato. Tieni bene aperti gli occhi. –

Messo alla strette, ubbidì ed Hermione, alla luce della bacchetta, gli esaminò l’occhio destro tenendo la palpebra ferma con l’indice.

Per un breve attimo nessuno dei due disse niente.

Era il primo incontro ravvicinato.

Hermione riusciva a sentire il profumo familiare dei suoi capelli, ma fissò imperterrita il suo occhio.

Ron sentì i riccioli della ragazza che gli solleticavano il braccio, ma non osò muoversi.

Quanti momenti perfetti ci sono concessi?

Poi Hermione si ritrasse.

-         Pare che l’effetto sia quasi svanito – annunciò, con un sospiro irritato. – lo sai che nelle persone normali può causare problemi seri al sistema nervoso? Potevi arrivare qui col battito accelerato a chissà quanto. –

Ron evitò qualsiasi commento e pregò che non glielo controllasse.

Ma Hermione riprese la bacchetta e gliela puntò sull’occhio pesto; in un attimo era tornato normale. Fece la stessa cosa con alcuni altri lividi superficiali.

Ron la osservava mentre lavorava e continuava a pensare disperatamente che doveva dire qualcosa.

Dì qualcosa!

Ma come al solito, lei lo precedette.

-         E così, c’era un talent scout, eh? – fece, nervosamente. – e, a parte questo tuo exploit di follia, com’è andata? –

Ron abbassò lo sguardo.

-         Non molto bene. Quella roba mi ha fatto parecchio sbacchettare, perciò… -

-         Solo un idiota come te poteva pensare di farla franca in modo così becero. – lasciò la bacchetta su un comodino lì accanto e da un cassetto prese una fasciatura. – e gli esami? –

-         Ne ho uno tra poco. – rispose Ron, guardandola mentre districava tutto quel tessuto bianco.

-         Ah, sì. Ho… incontrato per caso Harry, di recente, e me l’ha accennato. –

Ron la guardò, contrariato.

Ah, bene. E così lei e Harry si erano visti. Senza di lui. Non che la cosa gli importasse.

Hermione gli prese all’improvviso il polso e per la sorpresa lui sobbalzò; poi si rese conto che non era una cosa spontanea, era il suo lavoro. Doveva rimanere calmo, diamine, un po’ di savoir faire.

Glielo distese lentamente, si sentì una specie di crack e Ron urlò di dolore.

-         E non piagnucolare! – lo sgridò Hermione, con cipiglio severo.

Gli fasciò il braccio in modo che stesse a penzoloni sul petto. Lo squadrò da capo a piedi.

Maledetto. In tutto quel tempo, lei si era completamente deperita, e invece lui era carino come al solito.

Distolse lo sguardo e si alzò dallo sgabello.

-         Bene, abbiamo finito. La fasciatura la puoi togliere tra due giorni; però continua a prendere questi antibiotici per dieci. –

Strappò dalla cartella la sua ricetta. Ron la prese tra le mani, impacciato, guardando la firma di Hermione. Non pensava l’avrebbe mai vista in una ricetta medica per se stesso.

Si alzò in piedi e grazie al cielo le gambe gli reggevano; la sedia a rotelle di sua spontanea volontà andò a poggiarsi ordinatamente alla parete.

Silenzio.

Oddio, panico.

Hermione non riusciva a reggere la tensione emotiva, perciò si mosse svelta verso la porta.

-         Hermione – disse istintivamente Ron, senza formulare un pensiero sensato. Lei si voltò, deglutì.

-         Cosa? – chiese, con finta disinvoltura.

Già, cosa, Ron?

Era passato abbastanza tempo, come diceva il signor Granger?

Poteva…? No, perché, se era stato doloroso resistere dal parlarle quando erano ognuno per i fatti propri, ora era addirittura straziante.

Ma in fondo, al diavolo il tempo, no?

Vai e scoprirai.

-         Ho… ho assaggiato il caffè che fanno al bar al piano di sopra, una volta – farfugliò il ragazzo. – ed è… una brodaglia immonda, imbevibile. Tu ti droghi di caffè… non… non ti fa mica bene bere quel veleno, in fondo, no? Perciò… secondo me non sarebbe una cattiva idea se ti portassi… ipoteticamente, domani, a prendere un vero caffè. Con la… mochia. –

Hermione lo fissò.

Sprizzava di gioia da tutti i pori, ma non poteva, non poteva assolutamente mostrarglielo, né a lui né tantomeno a se stessa. C’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò.

D’altra parte, è inutile negarlo. Il tempo cura davvero le ferite, almeno un pochino. Nel senso, un mese e mezzo prima non riusciva a guardarlo in faccia senza provare l’istinto di gridargli contro o piangere.

Ora lo guardava in faccia, e l’unica cosa che sentiva erano i suoi occhi azzurri e i brividi che ancora le davano.

E poi il suo ragionamento sul caffè aveva un senso, tutto sommato.

- Si dice ‘moka’ – disse, infine. – e, ehm… non so… non ho molti momenti liberi… dovrei controllare… potrebbero chiamarmi in qualsiasi momento… -

Questo non era proprio vero. Non era mica un Medimago di ruolo, non la chiamavano per le emergenze, a meno che non fossero di massa, cosa che non era mai successa.

Ron guardò l’orologio.

-         Che ne dici di questo, di orario? – chiese, totalmente inconsapevole del conflitto interiore di Hermione.

Hermione finse di guardare l’orologio e di ponderare la cosa.

-         Sì… cioè… immagino possa andare. Nel caso io sia libera. –

-         Nel caso tu sia libera. – le sorrise.

Oddio, quel sorriso no, l’arma letale.

Non aveva certo intenzione di cadergli direttamente tra le braccia, perciò era meglio sgombrare.

-         Ho molto da fare – farfugliò. – quindi… -

-         Oh, certo. –

-         Tu puoi… -

-         Ah, okay… -

-         Sai, dove…? –

-         Sì, non… -

-         Okay. –

Si guardarono.

-         E’ molto strano – disse Ron, istintivamente.

Hermione aveva già un piede fuori dalla porta.

-         Sì, beh… è una questione di riabituarsi. – borbottò, e filò via più veloce del vento.

Ron sorrise come un ebete, da solo nell’ambulatorio.

Aveva detto ‘riabituarsi’, giusto?

Inutile cercare di elencare tutto ciò che una parola del genere, dopo tante settimane, evocava in lui.

 

Ginny non si sentiva né era effettivamente diversa, ora che era una Mangiamorte a tutti gli effetti.

Forse perché non riusciva a ricordare assolutamente nulla del Giudizio, e la cosa la sbalordiva ancora al pensiero.

Sapeva solo che si era risvegliata, quella mattina, nella sua stanza, mentre Tinker giocava con Oliver. Per un attimo aveva addirittura pensato ad un brutto incubo; ma il Marchio bruciava, e quando era uscita, un po’ perplessa, aveva incrociato Bellatrix, che l’aveva guardata con disprezzo.

-         Non ti tratterò mai come mia pari, Weasley – le aveva detto, passandole accanto.

Lei scavava nella sua memoria, ma proprio non riusciva a ricordare. L’ultima reminiscenza arrivava a quando Voldemort le aveva puntato la bacchetta alla tempia; lei aveva visto qualcosa, di molto confuso ma anche familiare, ma non riusciva proprio a capire cosa.

Aveva cercato Rodolphus per chiedere spiegazioni, ma si era come volatilizzato dal castello, e non se ne parlava di chiedere a Bellatrix.

Perciò rimaneva lì come una scema, seduta sulla collinetta di fronte al castello ma fuori dalla vista dei suoi abitanti. Nonostante tutto, continuava a pensare che quello fosse uno dei migliori tramonti che le fosse capitato di vedere.

-         E’ la verità? – chiese la voce fredda per eccellenza.

Alzò lo sguardo e vide Draco con una sigaretta tra le labbra. La guardava, in attesa.

-         Credo di sì. – rispose Ginny, irrigendendosi non appena lui si sedette lì accanto, né troppo lontano né troppo vicino.

Draco rimase in silenzio, continuando a fumare. Era parecchio che non lo vedeva farlo. Aveva la fede al dito.

Il pensiero la colpì come un sasso alla testa: era appena stato con Pansy. Lo sapeva. Aveva sviluppato una strana sensibilità; come un istinto animalesco in grado di farle percepire le altre donne. Forse si diventa un po’ così, in un miscuglio di strabiliante paranoia e gelido realismo, quando si è l’amante.

Si voltò verso il tramonto, cercando di controllare la rabbia che le montava dentro.

-         Cosa ne pensi? – gli chiese, cercando di non permettere ai suoi pensieri di averla vinta. Certo mettere il muso a Malfoy non l’avrebbe portata da nessuna parte. Non in un rapporto usa-e-getta.

Draco prese una lunga boccata; poi rilasciò il fumo, guardando il tramonto.

-         Da quando in qua ti interessa quello che ne penso? – chiese, tranquillo.

-         Non ho detto che mi interessa, ma tu hai tutta l’aria di stare per dirlo, perciò preferirei una cosa rapida ed indolore. –

Lui si voltò a guardarla con quegli occhi grigi, paralizzanti.

Tutte le volte si stupiva, inconsapevolmente, che quello sguardo tanto superiore a volte si abbassasse su di lei.

-         Penso che ti sei cacciata in casini più grandi di te. Penso che non hanno in mente niente di buono, per te. Penso che sia arrivato il momento di filartela. –

Ginny sbattè le palpebre, presa alla sprovvista.

-         Cosa… in che senso? –

Draco spense la sigaretta sull’erba.

-         Ti è perfettamente chiaro il significato. –

-         Dovrei andarmene, è questo che stai dicendo? –

-         Dovresti. –

Ginny era talmente sorpresa e arrabbiata che non aveva parole. Adesso, all’improvviso, le diceva di andarsene?

Proprio ora che… proprio ora…

Insomma, era appena diventata Mangiamorte! Se non era un buon segno quello.

Okay, in realtà sentiva anche lei che c’era qualcosa che non andava.

Ma spesso si dicono certe cose solo per il gusto di contraddire gli altri; era ancora un’emerita immatura.

-         Io non me ne andrò affatto! – esclamò. – sono diventata Mangiamorte. Mi hanno accettato. Faccio l’allenamento regolarmente, se anche stessero tramando qualcosa contro di me, saprei perfettamente… -

-         Bene. – fece Draco, sbadigliando vagamente.

Ginny era sempre più sorpresa.

-         Ma non hai appena detto… -

-         Weasley – la interruppe lui, secco. – io ti ho avvertita. Il mio dovere morale, per quanto non mi ci applichi spesso, l’ho assolto pienamente. Da ora in poi, tu sei assolutamente libera di fare quello che vuoi. E’ questo il bello, qui: decidi tu se vivere o morire. Io non c’entro niente. –

La rabbia era ancora più forte.

-         Quindi il tuo dovere morale di suggerisce semplicemente di divertirti a spaventarmi per poi lasciarmi cuocere nel mio brodo? – chiese lei, a denti stretti.

Lui sospirò pesantemente.

-         Non mi ‘diverto a spaventarti’ – replicò. – non ora, perlomeno. Ti ho detto quello che penso. Quanto al tuo brodo, penso che tu ci sguazzi dentro già da un bel po’. –

Ginny si alzò in piedi.

-         Cosa vorresti dire? -

Si voltò di nuovo a paralizzarla con lo sguardo.

-         Che sappiamo entrambi che sei una Mangiamorte fasulla, ma ti ostini a fingere che vada tutto bene e di stare recitando la tua parte alla grande. Non oso immaginare quanti capricci avrai fatto per convincere i tuoi adorabili amici a consentirti di venire qui a rischiare l’osso del collo. A dire la verità, è da allora quale assurdo meccanismo del tuo cervellino ti abbia spinto a venire qui. –

Lei fece una strana espressione, e Malfoy s’interruppe un attimo, squadrandola.

Fu un momento davvero bizzarro.

Poi, Ginny si riscosse, furiosa.

-         Io pensavo ti fosse perfettamente chiaro. –

Draco si alzò, sospirando con la sua solita calma strafottente.

-         Anch’io pensavo ti fosse perfettamente chiaro che non era il caso. -

Dio, faceva parecchio male. Era una conversazione terribile, e voleva concluderla con tutta se stessa, ma non riusciva a fermarsi, non riusciva a fermarsi.

-         E me lo dici solo ora? –

Lui fece una risatina di scherno.

-         Mi pareva di averlo reso piuttosto evidente quando mi sono sposato – disse, mostrandole proprio davanti agli occhi l’anello.

Ginny guardò prima l’anello e poi lui, stravolta. Non c’era il minimo dubbio o dispiacere nel suo sguardo.

In quel momento, proprio allora, le venne talmente da piangere che le mancò il respiro.

Ma ricacciò indietro le lacrime, con sforzo sovrumano.

Era una Mangiamorte, ora.

Istintivamente, quasi senza rendersi conto di ciò che faceva, gli afferrò la mano, gli strappò l’anello dal dito e lo lanciò lontano, giù per la collina.

Draco non tentò di fermarla; si limitò a fissarla, anche quando lei tornò a guardarlo.

-         Non è altro che un pezzo di metallo – disse, con voce leggermente malferma.

Non lo pensava veramente, ma era questo l’atteggiamento da tenere

E allora accadde qualcosa che la prese totalmente alla sprovvista.

Malfoy si arrabbiò.

-         Tu sei una deficiente completa, Weasley – le disse, a denti stretti. – tu non ti rendi conto… -

Lei non si rendeva conto!

Non si rendeva conto di quanto la situazione si facesse pericolosa ogni secondo che passava.

Lo guardava con quegli occhi azzurri e quello sguardo artificiosamente superiore, ma non si rendeva conto. Pensava di sapere tutto, di avere la situazione sotto controllo, ma era completamente ed inesorabilmente fuori controllo.

E non se ne rende conto.

Ma la cosa che più lo faceva incazzare, era che lui aveva fatto pure un tentativo di aprirle gli occhi. Ma non poteva sbattersene? Tanto, era destino che quella finisse definitivamente nei guai; se non ora, un domani. E invece eccolo lì, che se la prendeva, se la prendeva davvero e non si ricordava l’ultima volta che era stato arrabbiato di una rabbia non fine a se stesso.

-         Ho tutto sotto controllo – mormorò Ginny, deglutendo.

E ti pareva.

Draco strinse i pugni.

-         Tu finirai come lei – le disse, e poi si bloccò, come se non fosse riuscito a fermare le parole.

Lei lo fissò, perplessa.

-         Lei chi? – chiese, squadrandolo.

Draco si tirò indietro i capelli con una mano, distogliendo lo sguardo.

Il corridoio, le rose bianche, le unghie laccate di rosso, le carezze, le lenzuola, le grida, gli sprazzi di luce rossa, i singhiozzi, le lacrime, gli sguardi freddi…

-         Finirai a non avere più un cervello con cui pensare – le disse alla fine, guardandola dritto negli occhi. – finirai sottomessa. E quando ti sarai pentita, non potrai più tornare indietro. –

Ginny lo guardò e sentì un nuovo impulso a piangere, diverso da quello di prima, però.

Era come quando si era trovata nel ricordo di Malfoy, e aveva sentito un inesplicabile groppo in gola.

Senza alcun preavviso, gli si avvicinò, posò una mano sul suo collo freddo e l’orecchio contro la parte sinistra del suo petto.

Lui s’irrigidì come al solito, e sbuffò, ma non si mosse.

Ginny chiuse gli occhi.

-         Secondo me si sente qualcosa – disse, allontanandosi da lui e sorridendo un po’ in imbarazzo. – non si è ancora fermato del tutto. –

Draco sospirò pesantemente, con una smorfia infastidita.

-         Piantala – fece, secco. – non c’entra niente. –

-         C’entra, invece – disse Ginny, tesa, ma continuando a sorridere. – perché io sono diversa e tu sei diverso e la situazione è diversa. E non mi è mai interessato molto tornare indietro. E non c’è alcuna possibilità che io mi lasci sottomettere da te! – aggiunse con tono divertito.

Lui la guardò.

Ecco, ora avrebbe avuto proprio una gran voglia di baciarla, ma mica poteva essere spontaneo.

No, un momento; faceva parte del suo sacro libero arbitrio fare ciò che voleva.

Perciò si chinò a baciarla.

Ginny si sentì come se riprendesse aria dopo un lunghissimo tempo di apnea.

Strinse tra le dita un lembo della sua veste sul petto.

Draco si tirò indietro di qualche millimetro come se volesse chiuderla lì e andarsene e le labbra di Ginny per un tratto seguirono le sue, completamente trasportata; poi lui sembrò cambiare idea e tornò a baciarla profondamente. Lei gli circondava il collo con le braccia e solo allora, sicura che lui non l’avrebbe vista, si sentì gli occhi umidi.

Quando lui si allontanò davvero per riprendere fiato, lei si passò violentamente il braccio sugli occhi cercando di non farsi notare.

-         Seguimi, Miss Purezza – le disse, bruscamente, cominciando a scendere la collinetta dalla parte del castello.

Perplessa, Ginny si affrettò a trotterellargli dietro ed approfittò del momento per asciugarsi per bene gli occhi. Vedeva un po’ appannata la schiena di Draco che la precedeva e non riusciva a spiegarsi perché diavolo piangesse.

Era che ora era talmente felice… eppure una delle poche sicurezze della vita è che non puoi esserlo sempre.

Ed era spaventata da una sensazione particolare, che non le era mai capitato di sentire: pensò, fuggevolmente, che per tenersi quel momento, per tenerselo stretto e non farlo scappare mai, sarebbe stata disposta a fare qualsiasi cosa.

E si sa, quando si è ‘disposti a qualsiasi cosa’ per tenersi qualcosa, finisce che perdi tutto il resto.

Il sorriso ebete le cominciò a sparire quando si accorse che stavano percorrendo un sentiero, o meglio, un insieme informe di cespugli lungo un lato del castello che non aveva mai notato; cercò di evitare i rametti più appuntiti, ma inciampò due o tre volte, le si macchiò la veste e le si infilò un’enorme foglia secca nei capelli. Naturalmente, quando ne uscirono, Draco aveva la solita aura di perfezione da principino appena alzato. Ginny lo guardò astiosamente mentre si toglieva un insetto dall’aspetto molto dubbio dalla spalla.

Draco si voltò verso il lato più in ombra del castello, e solo allora la ragazza si accorse che c’era una porta.

-         Oh, posso considerarmi privilegiata perché mi fai vedere il tuo nascondiglio? – chiese saltellandogli intorno.

Il ragazzo roteò gli occhi irritato, aprendo la porta con la bacchetta.

-         Non è il mio nascondiglio – fece, secco. – l’ho trovato per caso. –

Ginny sbirciò dentro.

Era una stanza non troppo grande; avrebbe potuto essere una specie di magazzino, un pelino più lussuoso per via di una grande finestra con antiche e pesanti tende di velluto blu scuro che comunque non aveva una gran vista, limitandosi alla boscaglia che avevano appena attraversato.

C’era un gran affollamento di mobili e l’aria che profumava di legno. C’erano armadi ammassati alle pareti, tessuti strappati su vecchie scrivanie, un paio di divani inservibili e che avrebbero potuto benissimo appartenere a secoli prima. Ginny non potè proprio impedirsi di notare, in fondo alla stanza, il letto con le gambe laccate d’argento e le raffinate sbarre con le cime a forma di pomelli antichi; sembrava uscito da una rivista d’arredamento.

-         Lo sapevo. – sentenziò lei, voltandosi a guardare Draco. – alla fine mi hai portato nella tua alcova. –

Draco sospirò pesantemente ma sembrò non riuscire a trattenere un sorriso (che trasformò prontamente in un ghigno).

-         Come sei esperta, Weasley. Cos’è, il tuo sogno segreto? –

-         Ovviamente. Non sai quante volte ho scritto ‘Miss Malfoy’ sul mio diario, sognando ad occhi aperti. –

Contrariamente ad un’espressione esasperata come suo solito, Draco scoppiò a ridere e Ginny sentì una fitta al cuore, guardandolo.

Quanti momenti perfetti ci sono concessi?

-         Beh, speriamo che tu non l’abbia scritto sul diario del Signore Oscuro, allora. – fece lui, avvicinandosi a lei di un passo.

Ginny lo fissò e avvertì che le gambe tremavano.

-         Proprio tu scherzi su questo? –

Draco le si avvicinò ancora di un passo e lei si sentì derubata di quasi tutto l’ossigeno. Draco non aveva un profumo particolare, notò, costringendosi ad usare a dovere l’apparato respiratorio. Pensava che un tale principe avesse montagne di acqua di colonia da uomo che non deve chiedere mai addosso; invece non aveva proprio alcun profumo, nulla di caratteristico, nulla almeno che lei potesse percepire distintamente.

Forse era proprio fatto di ghiaccio, allora.

-         Non ti aspettare – disse Draco piano, con le labbra a pochi millimetri dalle sue. – degli scrupoli da me. –

Ginny resistette con grande forza d’animo alla tentazione di avvicinarsi. Aveva i muscoli talmente tesi che si sentiva come se stesse sollevando un masso.

-         Allora aspettateli tu, da me. – mormorò.

Draco ghignò e riempì la distanza tra loro.

Come faceva ad avere la pelle sempre così gelida?

Quando gli portò le dita lungo il collo e la nuca, si sentì rabbrividire come se improvvisamente fosse uscita di casa.

Eppure non era una brutta sensazione; era più uscire di casa e vedere nevicare ed avere tutta la giornata libera per potersela godere per bene.

In qualche modo, entrambe le loro vesti finirono a terra, e più o meno la stessa fine fecero anche la camicia bianca di Draco e la maglietta di Ginny. In qualche modo che lei non sarebbe mai riuscita a ricordare si ritrovarono sopra quel letto antico, tanto che per un attimo le sembrava di essere in un film in costume. Quando si lasciò cadere di schiena sul telo bianco mentre Draco la baciava sulle labbra e con le dita riusciva ad arrivare dove voleva con sconcertante maestria, Ginny si separò un attimo da lui per guardarlo con espressione dubbiosa.

-         E se ora ti dicessi che sono allergica alla polvere e qui ce n’è troppa? – fece, simulando un colpo di tosse.

Draco la guardò con gli occhi grigi come se parlando avesse interrotto la sua preziosa concentrazione.

-         Allora trattieni il respiro. – le disse, tuffandosi di nuovo sulle sue labbra prima che Ginny aggiungesse altro ad un sorriso.

Tanto, aveva come l’impressione che anche trattenendo il respiro non le sarebbe successo nulla di male. Era come tutte quelle assurde banalità che quando non si è innamorati fanno ridere e inorridire: le sembrava impossibile che esistessa qualche altro posto al mondo oltre quella stanza. Si vede che il mondo è proprio questione di punti di vista.

All’improvviso, Draco si fermò, con sommo disappunto di ogni singola particella del corpo di Ginny; lui teneva la testa appoggiata all’incavo del suo collo – avvertì un brivido accorgendosi delle sue labbra accostate alla sua clavicola – perciò non riusciva a vederne l’espressione.

-         Ginevra – disse talmente piano e inaspettatamente che per un attimo non si ricordò nemmeno di essere lei.

La cosa la colse talmente di sorpresa che sussultò e sentì l’adrenalina salirle a straordinaria velocità lungo la spina dorsale.

-         Sì? – provò a dire, ma le uscì più una specie di strano suono roco, come se non sapesse più parlare.

Lui rimase fermo ed in silenzio per qualche infinito attimo, poi alzò il viso e la guardò e Ginny avrebbe voluto fotografare quello sguardo grigio e fare in modo che non lo vedesse nessun altro.

Draco sembrò esitare – esitava? – ancora una volta, poi chiuse le palpebre e le riaprì.

-         Niente – disse alla fine. – volevo vedere la tua espressione mentre lo dicevo. – fece un ghigno e si chinò di nuovo a baciarla.

A Ginny rimase uno strano groppo in gola come se le mancasse qualcosa, ma ormai i sensi avevano preso il sopravvento sulla sua mente e non riusciva a formulare un pensiero sensato, perciò si limitò a sospirare forte e poi a trattenere il respiro.

Non m’interessa, ora, se mi manca il respiro.

 

Harry si svegliò di soprassalto nel cuore della notte, come se qualcuno lo avesse scosso; invece era come al solito nel suo appartamento immerso nel silenzio, al buio. L’unica luce che filtrava dalla finestra era quella delle luci notturne di Diagon Alley.

Inforcò gli occhiali e per poco non cacciò un urlo quando si ritrovò a due centimetri dalla faccia di Luna, che dormiva beatamente, a bocca semiaperta come i bambini piccoli.

Radunando faticosamente i ricordi, con un moto di sollievo gli venne in mente: erano tornati dalla spiaggia dopo quella surreale conversazione, avevano mangiato frittelle (ormai era quasi diventato bravo a farle, senza bruciarle proprio del tutto; comunque, inspiegabilmente Luna adorava perfino quelle carbonizzate, e sembrava pure sincera) e si erano addormentati guardando la tv sul letto come se non fosse successo niente di più anomalo del solito tra loro. Ovviamente, Luna era totalmente ignara del fatto che ora non era più consigliabile che passasse la notte tutta tranquilla sul letto di Harry, ma pazienza.

Il ragazzo riappoggiò la testa sul cuscino e socchiuse gli occhi guardando Luna.

Era la millesima volta che lo pensava, ma era proprio tanto, tanto, tanto tempo che non si sentiva così tranquillo. Era davvero tanto che non si sentiva ‘perfettamente’. Talmente tanto che sospettava di non esserlo mai stato.

Sospirò, chiuse gli occhi per riaddormentarsi e poi successe tutto.

Si sentì strattonare per le spalle, un osso del braccio scrocchiò e sentì una fitta di dolore; delle voci cominciarono a urlare, l’appartamento si riempì di tante luci di bacchette, vide la scia dei capelli di Luna che veniva a sua volta strattonata e in meno di un secondo qualcuno gli aveva sfilato la bacchetta dai jeans, gli teneva dolorosamente i polsi dietro la schiena impedendogli qualsiasi movimento e spingeva la punta di una bacchetta alla tempia.

-         Come stai, Potter? Ti vedo in forma – gli rise una voce all’orecchio. Era Lucius Malfoy.

Riuscì a distinguere abbastanza bene anche le altre persone nella stanza, nonostante i cappucci. Tre altri Mangiamorte stavano lì con le bacchette puntate. Uno teneva ferma Luna strattonandole i capelli e lei aveva l’aria non spaventata, ma parecchio stupita.

-         Cos’è, adesso mi tendete le imboscate notturne? – sibilò Harry, stringendo gli occhi per il dolore al braccio.

-         Ci piace sorprenderti – rise ancora Lucius. – comunque, anche tu non scherzi, Potter. – lanciò un’occhiata a Luna. – ti sei fatto grande, eh? –

Harry sentiva il cuore a mille, ma cercò di mantenersi calmo. Però non vedeva modo per liberarsi della stretta di Malfoy e riprendere la bacchetta che giaceva sul pavimento.

-         Sì, ma tu mi fai ancora schifo – disse Harry, a denti stretti.

Lucius rise, ma aumentò la presa sui suoi polsi facendolo sussultare dal dolore.

-         Lo dirai direttamente al Signore Oscuro, allora – sibilò. – è ora di un bel faccia a faccia. –

Harry si sentì gelare. Avrebbe dovuto prevederlo? Che prima o poi sarebbero venuti a prenderlo?

Perché non aveva accettato quando Lupin lo aveva supplicato di accettare una scorta? Perché aveva voluto fare il cavaliere dalla sfavillante armatura ancora una volta?

-         Perfetto – affermò. – ma lasciate lei. –

Lucius rise tanto forte che gli spaccò quasi i timpani.

-         Non sei esattamente nelle condizioni per poter trattare! - ed alzò la bacchetta.

Poi, all’improvviso come tutto era successo, la situazione si ribaltò.

Soffiartigli spuntò da dentro all’armadio soffiando come quindici gatti insieme; si attaccò alla gamba di Lucius come una sanguisuga, tirando fuori dalle zampe una quantità impressionante e assolutamente anormale di artigli lunghissimi, affondandoli nella carne della sua caviglia. L’uomo urlò di dolore e cadde a terra: Harry ne approfittò per precipitarsi a riprendere la bacchetta, saltò sul letto ed il più velocemente che potè Schiantò i due Mangiamorte liberi che rimbalzando sulla grossa libreria ne vennero inondati con un gran fracasso; poi puntò la bacchetta contro il Mangiamorte che teneva Luna, il quale sembrò tentennare, col cappuccio un po’ scostato. Harry si accorse che era una ragazza molto giovane.

-         Lasciala – le ordinò.

-         No, Rose, non ti azzardare! – urlò Lucius, tentando di rialzarsi.

Harry spostò la bacchetta sull’uomo.

-         Non sei esattamente nelle condizioni per poter trattare! – ringhiò. Tornò a puntarla contro la Mangiamorte. – lasciala! –

Luna sembrava totalmente estranea alla cosa; guardava dall’uno all’altro come se fosse capitata in un telefilm particolarmente avvincente.

La Mangiamorte fece per allentare la presa, ma Malfoy si rialzò e prese la bacchetta puntandola contro Luna e urlò.

-         Te ne pentirai subito, Potter! Avad... –

Harry non seppe il cosa, il come, il perché di quello che accadde dopo. Seppe solo che era stato uno dei momenti più spaventosi della sua vita e che la sua mente e il suo corpo agirono da soli e la bacchetta si era mossa contro Malfoy automaticamente e dalla bocca era venute spontanee le parole, spontanee, calme e determinate.

-         Avada kedavra! –

E una luce verde e Malfoy che cadeva a terra come un fantoccio di pezza e l’urlo rabbioso di uno dei due Mangiamorte che si era ripreso, e Luna che finalmente era, libera, in un angolo della stanza, e la Mangiamorte che gli puntava la bacchetta contro e diceva qualcosa che non riuscì a sentire in quel rumore.

E poi sentì un gran freddo, la bacchetta che gli scivolava via dalle dita e soltanto buio come se tutte le luci di Diagon Alley si fossero spente.

 

Il Signore Oscuro si voltò verso Bellatrix, che teneva la testa piegata in un rispettoso inchino come sempre.

-         Molto, molto bene – disse, con un ghigno soddisfatissimo. – davvero eccellente. Porgi i miei sentiti complimenti a Rose Lewitt, allora. Una vera perla tra Mangiamorte inconcludenti come Malfoy. Ma non importa: ora è nelle nostre mani. –

Rimase in silenzio, a gustarsi le sue stesse parole che aleggiavano nell’aria come qualcosa di sacro.

Bellatrix osò alzare un attimo lo sguardo.

-         Rodolphus chiede se dobbiamo dirlo al figlio. –

Il Signore Oscuro, camminando lentamente per la stanza come se si stesse godendo ogni singolo secondo, parlò con voce melliflua.

-         Oh, è certamente necessario! – rise. – deve sapere come suo padre è stato incapace sia nella vita che nella morte. Ma che fretta abbiamo, in fondo? Aspettiamo solo un poco. Perché il giovane Malfoy possa gustarsi qualche ultimo momento di tranquillità, così lo rimpiangerà meglio quando le cose precipiteranno; e maturerà un senso della perdita molto più profondo. Tanto più quando saprà che è stato il buon vecchio compagno di scuola Potter a farlo! –

Il Signore Oscuro sembrava deliziato, e Bellatrix pendeva dalle sue labbra guardandolo con ammirazione.

-         E ora che Potter è nelle nostre mani… non sarò certo l’unico ad odiarlo. – continuò. – chissà se Potter sarà felice di incontrarsi la sua, sarà lecito dire ‘antica’?, fiamma? –

Bellatrix ridacchiò.

-         Riferisco a Rodolphus, mio signore. – affermò, arretrando verso la porta.

Il Signore Oscuro annuì, gli occhi rossi trionfanti.

Quanti momenti perfetti ci sono concessi?

 

 

 

**

Eccomi! Okay, avevo promesso che la seconda parte era praticamente già un’opera compiuta, poi mi sono resa conto che non era poi tanto compiuta e, beh, non sono stata esattamente fulminea, è vero>_> Uffa!

Posto rapidamente, e non ho il tempo di dire nulla o fare alcun commento, diamine! Scusatemi! Potrei anche postare in un momento meno caotico ma ci tenevo a concludere la cosa il prima possibile.__. La prossima volta prometto che sarò più accurata <- qualcuno ci crederà?...

Io come al solito vi posso solo ringraziare tantissimo di quello che dite nei commenti perché siete adorabili e in certi momenti sentire certe cose mi sostiene, come capita a tutti. Perciò sappiate che avete un ruolo di rilievo nel mio umoreXD <- credo che la prima settimana di scuola mi abbia già fuso il cervello…

Spero che questo capitolo (metà capitolo, ma penso più lungo dell’altro? O forse no?) vi sia piaciuto!

A presto!

 

Miwako__

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 14
*** Till music slows down and fade ***


PUPPET

TILL MUSIC SLOWS DOWN AND FADE.

 

Finché la musica non rallenta e si ferma.

 

 

 

 

 

 

“Into another day                                           “Un altro giorno
They open the box and play                             
loro aprono la scatola e giocano
Watching me turning round and round
            guardandomi girare e girare e girare

 till music slows down and fade                        finché la musica non rallenta e si ferma
I am a ballerin dancing for silver string         
 sono una ballerina che balla per un nastro d’argento
I should never have listened                            
non avrei mai dovuto ascoltare

to promises for my dreams                               le promesse per i miei sogni
Hey son no matter what they'll say                 
ehi, ragazzo, non importa cosa ti diranno

go far away”.                                                   scappa via”.

 

 

Yael Naim, Puppet.

 

 

 

Passò le dita su una ciocca di capelli biondi che gli accarezzava la nuca.

Il silenzio era irreale, il tempo immobile. Il respiro, l’unica traccia della colonna sonora per quel momento.

Certo che chi l’avrebbe detto che dietro quel viso bianco, le ciglia lunghe e le labbra pallide ci fosse un caratteraccio del genere. E che fosse uno col sonno profondo, poi.

Non potè fare a meno di pensare che se lui si fidava a dormire così tranquillamente… beh, magari ci doveva essere un motivo. Doveva.

Ginny respirava a fondo il profumo di quell’istante, che sapeva di pelle, di stanze antiche, di lenzuola lasciate a lungo nell’armadio.

Proprio quando richiuse le palpebre per un attimo, sentì delle voci da fuori.

Aprì gli occhi. Draco non si era svegliato. Richiuse gli occhi. Le voci, concitate, continuavano. Li riaprì. Non avrebbe voluto lasciare quel posto mai, mai più: se poi si svegliava, lui se ne sarebbe andato via di corsa.

Ma le voci continuavano, e le sorse il dubbio che potessero trovarli lì.

Sgusciò fuori dalle lenzuola il più silenziosamente possibile. Raccolse una camicia senza prestare tanta attenzione se fosse la sua o quella di lui, infilò la veste e le scarpe e aprì la porta lentamente.

Fuori, oltre i cespugli che nascondevano il ‘rifugio’ c’era una piccola folla di Mangiamorte e sembravano trionfanti come pazzi.

Si avvicinò il più possibile, cercando di non farsi vedere. Nessuno, comunque, sembrava prestare attenzione a niente che non fosse al centro della folla. Qualcuno rise sguaiatamente.

- Fatevi indietro, idioti – sbottò Rodolphus. Ginny riuscì a intravederlo per un attimo. Era l’unico che sembrava scuro in volto.

Il gruppo abbassò la voce e la concitazione diminuì. Gli cedettero il passo facendosi di lato.

Se avesse dovuto pensare alla cosa più improbabile da vedere in quel momento, in quell’istante in cui si sentiva tutto fuorché ansiosa, preoccupata o tesa, in cui anzi, per la prima volta da mesi, si sentiva veramente e genuinamente se stessa, la sua immaginazione non sarebbe riuscita ad andare così oltre come l’immagine che le passò davanti agli occhi: fu talmente strano e veloce che per un attimo dimenticò di trovarsi in mezzo ai cespugli con un’aria sicuramente molto sospetta.

Bellatrix trascinava Harry tenendolo stretto violentemente per il colletto. Aveva le mani legate dietro la schiena; non portava gli occhiali e respirava affannosamente mentre le gambe, evidentemente messe fuori uso da un incantesimo, sfregavano contro la ghiaia di fronte al portone del castello. I suoi occhi – era stranissima la sensazione nel rivederli dopo tanto tempo – non tradivano alcuna emozione a parte il dolore di ferite nascoste. Non poteva parlare (sicuramente un altro incantesimo). Lui, Rodolphus e Bellatrix sparirono quasi subito dietro il portone e lei si sentì raggelare; non ebbe comunque il tempo di formulare alcun pensiero. Vide altri Mangiamorte trascinarsi dietro una ragazza, di cui non riuscì a intravedere il viso; scorse solo una familiare massa di capelli biondi lunghissimi.

Il cuore le batteva così forte che per un attimo non riuscì a respirare.

Era il momento, quindi.

Perché proprio ora?

Non… non ora.

Lei… ora… non poteva andare da lui, non poteva smascherarsi, non ora.

E allora sentì un brivido lungo la schiena.

‘Non poteva smascherarsi, non ora’?

Non poteva smascherarsi per Harry, per il ragazzo che aveva giocato un ruolo tanto importante nella sua vita da sognarlo la notte, che le aveva salvato la vita, che le aveva permesso di volergli bene nonostante fosse una dannatissima nevrotica?

Non era che, a forza di fingere di essere ‘dalla parte opposta’, ci era passata sul serio?

Sul momento non se ne rese conto, raggelata com’era dai pensieri più cupi; ma vide comunque un Mangiamorte parlare con una Pansy che era corsa fuori dal castello poco prima, e che nella frazione di un secondo le stava venendo incontro.

Istintivamente, Ginny indietreggiò. Come aveva fatto a vederla?

Ma poi si rese conto che non l’aveva affatto vista. Stava semplicemente venendo da quella parte, con tale decisione che sembrava avesse percorso quel sentierino segreto milioni di volte.

E lo ha fatto, sussurrò una vocina nella sua testa.

Non ebbe la prontezza di nascondersi abbastanza bene; quando cominciò a muoversi, Pansy l’aveva già vista. Si bloccò e la fissò, con un’espressione che non era né sorpresa e che non sembrava però aspettarsi di trovarla lì. Non lasciò passare alcun momento di silenzio tra loro.

- Chiama Draco e fallo venire immediatamente nel castello – disse Pansy, secca.

Ovviamente, lei sapeva che Ginny non si trovava lì tra i cespugli per caso.

Ginny la fissò, deglutendo. Ma se sapeva, come poteva, come poteva sopportare che lei fosse lì?

Come poteva accettare di dividere Draco con lei?

E poi la vocina: anche tu l’hai accettato.

- Perché? –

Pansy la guardò con rinnovato disprezzo.

- Harry Potter ha ucciso suo padre. – disse.

E lo disse gustandosi le parole, osservando lentamente l’espressione di Ginny cambiare, la sua pelle impallidire.

- Visto che ci tieni, perché non glielo dici tu? – mormorò Pansy tormentandosi una ciocca di capelli neri tra le dita. Alzò uno sguardo interrogativo verso di lei. – ho come l’impressione che questa volta però il tuo sguardo da cerbiatto servirà a ben poco. Ma forse con te non si arrabbierà. – sorrise.

Sapeva esattamente che sarebbe stato il contrario.

Ginny rimase immobile. Troppe, troppe cose tutte insieme.

Nella testa le vorticavano le immagini di poco prima, e quelle vaghe e spaventose di lei che diceva a Draco di suo padre. Il suo sguardo grigio… aveva la sensazione che non gliel’avrebbe più rivolto.

Le venne in mente un vecchio ricordo: lei e lui sulla torre di Astronomia, lui che scherzava e fingeva di buttarla giù e lei che si aggrappava a lui più forte che poteva.

Era così, ora? Quando avesse saputo, com’era possibile scollegare il pensiero di Harry da lei? E se lui non avesse più scherzato? Come poteva aggrapparsi a lui più di quanto in tutti questi mesi aveva fatto, se lui non avesse più voluto?

Pansy lasciò andare la propria ciocca di capelli e per la prima volta la guardò senza ironia né particolare disprezzo. Quasi come una sua pari, forse.

- Se decidi di abbandonare tutto per lui, abbandoni tutto per lui. E basta. Non ti deve rimanere niente della vita precedente. Non puoi avere lui e tutto il resto. Semplicemente non puoi permettertelo. – fece una pausa. – ma la cosa che più mi fa incazzare è che pensi che tutto sia possibile, anche ora. Che tu penserai: in fondo, è pur sempre un ragazzo come gli altri. Ma sei diventata tu stessa diversa dagli altri nel momento stesso in cui hai rinunciato ad una sola cosa, anche apparentemente insignificante, per lui. Hai avuto un assaggio di quella che sarebbe la tua vita con lui: una continua rinuncia. –

Ginny la guardò e vide che, mentre estraeva una sigaretta dalla tasca, la mano le tremava. Eppure la voce era rimasta ferma tutto il tempo.

- Ma allora perché… - fece per dire.

- Perché volerlo. – la interruppe Pansy. – Già. Perché. – aspirò il fumo lentamente. La luce della cenere rossa era un puntino indefinito nella penombra. – perché sa che non è necessario amare. E l’uomo che ama smette di farlo. Perché tanto siamo destinati all’insoddisfazione e a chiedere sempre di più, sempre di più; mentre lui non ti chiede niente di più di quello che sei – certo non per generosità, ma perché sa giudicarti – e tu non devi osare chiedere a lui più di quello che è: così conosci già il tuo destino, e non puoi essere deluso in alcun modo. –

Ginny la fissò e deglutì. Anche le sue mani tremavano.

- E questo – cercò di fare la voce spavalda. – sarebbe un matrimonio? Vivere nella sua ombra costantemente, senza avere nemmeno un barlume di speranza che le cose cambino, e che così com’è cominciata sarà per sempre? –

Pansy inarcò un sopracciglio e spense la sigaretta a metà sotto la suola del mocassino nero.

- Questo non è un matrimonio – fece. – questo è il matrimonio. La differenza tra noi e te è che noi ne siamo coscienti. Ma è inutile che ci guardi dall’alto della tua presunta nobiltà d’animo: le cose cattive non le facciamo solo noi. Io ho fatto del male a moltissima gente che non conoscevo; ma non abbandonerei mai e poi mai Draco, a qualsiasi prezzo. Non mi pare che tu abbia fatto lo stesso con san Potter. – schioccò la lingua e soltanto per un momento si godette l’effetto che le sue parole ebbero su Ginny. Poi girò i tacchi, le fece il gesto di sbrigarsi e pochi secondi dopo era sparita dietro il portone del castello.

Ormai, fuori, era rimasta solo lei. Nascosta tra i cespugli come una scema.

E va bene. Non poteva farsi fregare da un’accozzaglia di banalità da malvagio dei cartoni animati dette da Pansy-faccia da carlino-Parkinson. Se era stata zitta la maggior parte del tempo non era stato perché in fondo riteneva parzialmente vere le cose che lei aveva detto. E non pensava nemmeno di essersi completamente sbagliata su Draco, o di non conoscerlo affatto.

Non lo pensava.

Eppure, ora, pensare di tornare da Draco la terrorizzava.

 

Inutile dire che Molly rimase scioccata quando Ron le portò spontaneamente i suoi panni da lavare. C’erano magliette che non vedeva da almeno sei mesi, ed aveva ragione di pensare che lui le avesse lasciate in fondo al cesto della biancheria per un tempo più o meno identico.

- Era tantissimo che non mi venivi a trovare – piagnucolò la donna, sventolando la bacchetta. – tanto quell’appartamento non te lo puoi permettere ed alla fine del mese sarai costretto a farti sfrattare. Invece di dilapidare tutti quei soldi, non era meglio tornare subito qui alla Tana? –

Ecco, era esattamente per quel motivo che ultimamente non l’andava a trovare. Insomma, era o no un lavoratore? Sì, cioè, più o meno. Aveva lavoricchiato dai suoi fratelli. Comunque era arrivato in ritardo di un’oretta massimo quattro volte; ed era semplicemente ridicolo che proprio i gemelli facessero la ramanzina a lui. E ci mancavano solo le lamentele di Molly.

- Oh, cielo – fece improvvisamente la donna, squadrandolo mentre si sdraiava sul divano in silenzio. – non uscirai mica con una ragazza? –

- Oddio, mamma – mugolò Ron voltandosi a pancia in sotto tentando di soffocarsi col cuscino.

- Tesoro, non c’è niente di male – cinguettò lei. – anche se non so se ci sono altre brave ragazze in giro. Oddio, scusa. Intendevo dire che spero sia una brava ragazza. –

Ron la lasciò cianciare. Guardò l’orologio di nascosto. Mancava un’ora e cinquantasei minuti. Gli sembrava di dover affrontare un esame: aveva lo stomaco in subbuglio, voleva mangiare ma anche vomitare, non riusciva a stare fermo nella stessa posizione per più di tre secondi e gli sembrava che il tempo più passava più si raddoppiava.

Doveva essere un momento privilegiato di contatto con la sua parte femminile: il che non era un granché considerato che doveva virilmente affrontare un appuntamento. Sì, virilmente: sarebbe arrivato in orario, non con quindici minuti di ritardo eh-mi-ero-appisolato-un-momento come al solito; non si sarebbe seduto nel posto con la vista migliore ma le avrebbe anche offerto la sedia; le avrebbe offerto qualsiasi cosa volesse dalla carta, e di certo non avrebbe dimenticato il portafoglio a casa come al solito e non l’avrebbe costretta a pagare anche la sua coppa per bambini triplo cioccolato con panna; uscendo l’avrebbe aiutata a infilarsi la giacca senza commentare quanto quel colore fosse opinabile sulla sua carnagione e se per caso fosse ingrassata; l’avrebbe riaccompagnata a casa e come un vero gentleman avrebbe aspettato di vederla entrare dopo averle dato un affettuoso bacio sulla guancia, senza ovviamente insistere che rimanesse fuori ancora cinque minuti e poi ancora cinque per pomiciare. Vestito sobriamente, con il suo ciuffo sexy davanti agli occhi, sarebbe parso perfetto. Adatto a lei, se non altro.

- Ecco, mettiti questa – disse sua madre finendo di asciugare con la bacchetta una maglia perfettamente bianca. – fa risaltare quei tuoi occhi che la mamma ti ha generosamente regalato. –

Ron sospirò profondamente ma non commentò; sospettava che se avesse parlato gli sarebbe venuto fuori un singhiozzo nervoso. Si tolse la cara, vecchia maglietta arancione con una stampa sbiadita di un giocatore di Quidditch ed indossò quella pulita, sentendosi inondare di un profumo indefinito di biancheria lavata e asciutta. Si allacciò meglio le scarpe e si trascinò (poteva ancora trascinarsi; all’appuntamento, ovviamente, avrebbe camminato come un vero… un vero… insomma, un vero gentleman, sì) allo specchio. Ciuffo sexy, okay. La maglia era talmente pulita che sembrava risplendesse di luce propria e per un attimo gli parve di rivivere quel sogno assurdo che aveva fatto quando era in coma. Ed Hermione gli aveva stretto la mano e lui l’aveva sentita e poi era svanita.

Razza di maledetto, maledetto idiota, cretino.

Nello specchio comparve all’improvviso il riflesso di sua madre che, prima che potesse fermarla, si bagnò un dito di saliva e gli pulì un angolo della bocca dove, era sicuro, non c’era assolutamente niente prima.

- Mamma – si lamentò lui con voce strascicata.

- Sei proprio un bel ragazzo – sospirò sua madre. – ma soprattutto buono. –

- Sì, va bene. –

- So che le cose sbagliate che fai, non le fai per cattiveria. –

- Eh, vabbè, okay. –

- Personalmente ti perdonerei ogni cosa. –

Bene, ora basta amene chiacchiere con mamma chioccia. Leggermente ammorbidito (ma continuando ad essere virile, eh) abbozzò un bacio frettoloso sui capelli di sua madre e la salutò.

La paura di sbagliare era follemente forte; in fondo, lo sapeva che non tutti erano disposti a perdonargli ogni cosa.

 

Finì che Hermione era al bar un’ora prima dell’orario accordato.

Era evidente che non aveva mai letto alcun manuale che descriveva minuziosamente quanto fosse seducente che una donna ritardasse di un quarto d’ora facendo fremere d’attesa l’uomo. Così in realtà quando sarebbe arrivato Ron sarebbe stata non al primo, ma al quarto caffè; il che forse era un bene, dato che essendo astemia non poteva affondare il proprio panico puro nell’alcol.

Si era imposta di non perdere tutto il resto della sua esistenza a scegliere come vestirsi; aveva finito per mettersi quello che si metteva ogni santo giorno, camicia e blue jeans. Meglio che lui non pensasse che si era messa in tiro. Per quanto la riguardava, stava andando a bere un caffè con un conoscente. Un lontanissimo parente addirittura.

Sua madre: - Se fosse un parente, tesoro, non avresti passato la notte in bianco pulendo tutta la casa e facendo un rumore tale da tenere svegli sia me che tuo padre. –

Sì, vabbè, banale sindrome premestruale, mamma.

Aveva scelto il tavolo vicino alla vetrina; sulla strada passava tanta gente che rientrava dal lavoro. Osservò una coppia di ragazzini entrare parlando ad alta voce. Lei rise a qualcosa che lui stava dicendo; lui le toccava con aria casuale la spalla e quando si andarono a sedere ordinarono una fetta di crostata di fragole e due forchette.

Guardò l’orologio: ancora quaranta minuti. Doveva avere l’aria veramente stupida lì da sola con la tazza di caffè e le unghie tutte rovinate per il nervosismo. Guardava fuori ma non vedeva, com’era ovvio, alcuna famigliare testa rossa.

Cominciavano a venirle dei dubbi. Forse era meglio andarsene, ora che era ancora in tempo.

Diamine: ma cosa si sarebbero detti, poi? Un appuntamento doveva durare in media dalle due alle tre ore. Era un tempo interminabile. I commenti sul tempo lei non li sapeva fare. Non con lui, se non altro. Non le era mai capitato di aver paura di momenti di silenzio, con lui.

Ed era tutta colpa sua se ora ce l’aveva.

Eppure, anche se c’era quella parte della sua testa che le diceva che era scema a stare lì ad aspettare uno che in quel momento sentiva quasi come uno sconosciuto, c’era un’altra parte che non ce la faceva più ad aspettare. Perché non era affatto uno sconosciuto; e, lo aveva già pensato, quello che lui aveva fatto avrebbe tolto valore ad ogni cosa, ogni momento passato insieme se lui in fondo fosse stato uno sconosciuto. Eppure, sperimentando quel mese senza di lui, si era accorta che anche quando non era sola, quando aveva mille cose da fare, lei di fatto si sentiva sola. Ma non sola nel senso di separata dagli altri, ma sola come amputata di qualcosa. Ed era insopportabile, insostenibile e la ferita non si rimarginava, non si rimarginava mai e si sentiva sempre più anemica.

Era vero che non poteva stare né con lui né senza di lui.

Ed in tutto quel tempo non aveva ancora trovato una soluzione al problema.

Incapace.

- Scusa? – disse una voce, distogliendola dai suoi pensieri. La ragazzina della crostata di fragole la guardava con aria interrogativa. – posso prendere la sedia? E’ libera? –

Hermione si riscosse; evidentemente la coppia aspettava una terza persona.

- Ah – balbettò. – veramente… -

Ma sì, e dagliela quella sedia. E scappa più forte che puoi prima che sia troppo tardi, prima che ti faccia di nuovo male…

La ragazzina, vedendola tentennare, fece per prendere la sedia; ma una mano la fermò.

- Ehi, io non riesco a mangiare in piedi. Fila via, bimba – fece Ron, guardandola come una mocciosa.

La ragazzina si affrettò ad allontanarsi un po’ scioccata.

Hermione parlò istintivamente, per abitudine.

- Piantala di essere maleducato. –

- Stavi per svendere la mia sedia! –

Si stupirono loro stessi di tanta disinvoltura. Lui si sedette; aveva la punta delle orecchie rossissime.

Hermione gli diede una rapida (e totalmente disinteressata, sia ben chiaro) occhiata. Distolse quasi subito lo sguardo fingendo di essere molto interessata al cerchio bagnato di caffè lasciato sul tavolo dalla sua tazza. Maledetta Molly Weasley: gli aveva fatto mettere la maglia risalta occhi. Beh, la cosa non le interessava affatto, comunque. Lui la guardò. Non le interessava affatto, chiaro?

Erano quindici minuti prima dell’ora fissata per l’appuntamento.

- Sei in anticipo – disse lui, smettendo di guardarla e leggendo il menù con le sopracciglia aggrottate come se fosse un saggio di biomedicina.

- Ah… beh, avevo il pomeriggio libero. Anche tu sei in anticipo. –

Silenzio.

Ron si nascose dietro il menù, cercando di darsi una calmata. Lei, istintivamente, fece lo stesso.

Sbirciando da sopra la lista delle torte, lui la guardava incerto trovando qualcosa di leggero da dire. Insomma, andiamo: non è che non sapesse fare conversazioni leggere. Bastava pensare alle conversazioni che aveva avuto con Lavanda, tipo. Quando facevano conversazione. Non spesso. In effetti, non se ne ricordava molte.

Abbassò lo sguardo proprio quando fu lei a sbirciare lui.

Hermione posò il menù all’improvviso e lui quasi cadde dalla sedia.

- Senti, ho poco tempo e pochi soldi – disse lei fingendo un’annoiata tranquillità. – perciò prenderò solo un caffè. –

Delusione profonda. Così non andava. Hermione era campionessa olimpica di velocità in bevitura del caffè. Se ci fossero state olimpiadi del genere, ovvio. Lui sarebbe stato campione di resistenza e sarebbe diventato famoso come colui che aveva mangiato più di duecento pancakes e l’avrebbero intervistato e…

Ma a cosa diavolo stava pensando?

- Guarda che i soldi per pagare ce li ho io – sentenziò con molta dignità.

Hermione lo guardò come se stesse parlando ochese.

- Sì, bene – fece distrattamente.

- Dico sul serio! – esclamò lui sgranando gli occhi.

- Certo che dici sul serio. Ma io voglio solo un caffè – e aggiunse, a voce più bassa – anche perché non voglio ritrovarmi a lavare i piatti. –

Ron non poteva crederci. Questo minava profondamente il suo orgoglio. Cos’è, solo lei poteva essere la lavoratrice della coppia?

Sì, che poi: della coppia.

- Hermione, insisto – le disse con fermezza abbassando il tono di voce per farsi più uomo.

- Che? –

- Ho detto che insisto! – sbottò lui prima di riuscire a trattenersi.

Hermione sospirò molto, molto profondamente e guardò scettica la carta.

- Va bene, allora… prendo una fetta di cheesecake. –

- Oh! –

- ‘Oh’ che cosa, Ron? –

- Pensavo avresti preso la crostata al cioccolato. –

Hermione lo fissò.

- E invece prendo una fetta di cheesecake, grazie. –

- Perché in effetti qui hanno come cavallo di battaglia la crostata al cioccolato. –

Hermione era incredula. Stavano davvero discutendo di piccola pasticceria?

- Bene, allora perché non te la prendi tu? –

Ron aggrottò le sopracciglia. Davanti al cibo aveva momentaneamente dimenticato come si comportano i gentlemen.

- Perché, in effetti, l’altro cavallo di battaglia è il brownie con le uvette. –

- Ma è una caffetteria o una stalla, con tutti questi cavalli? –

Ron non l’ascoltò, anche se pensò che tutta questa ironia tagliente non era esattamente romantica e riappacificatrice.

- Quindi, dico, pensavo, potresti prendere la crostata così io prendo il brownie… -

- E vuoi piluccare dal mio piatto? Ma tu te lo scordi. –

- Ma perché? – piagnucolò lui.

- Ma perché – gesticolò Hermione - anche se tutta questa roba sta sulla carta e anche se tutta ti piacesse, non vuol dire che la puoi prendere tutta! Cioè, è una lista di possibili scelte e non puoi averle tutte, devi scegliere definitivamente e senza cambiare idea ogni minuto! –

Vabbè: si era lasciata un attimo trasportare.

La cameriera arrivò proprio in quel momento ed Hermione pregò che non le chiedesse niente anche se la sua faccia era viola per l’imbarazzo.

Tra parentesi, solo allora Hermione notò lo strategico ciuffo spettinato sulla fronte. Si obbligò ad ignorarlo. Aveva sfoderato l’artiglieria pesante, ma la cosa non le interessava minimamente.

Tanto più che, in effetti… non era da Ron non menzionare subito il problema se gli premeva sul serio. Ed il problema non era stato menzionato. Avevano parlato di torte.

Improvvisamente le si parò davanti una possibilità che, in maniera egocentrissima, non aveva mai considerato: che lui non volesse affatto tornare ‘con lei’.

Con orrore, si rese conto che le dita le tremavano e le nascose sotto il tavolo.

E se… tutto sommato, volesse solo riallacciare i ponti e stringere di nuovo amicizia?

E se era ritornata l’amica?

Il solo pensiero la faceva sentire come se non riuscisse a respirare. Si ricordava cosa significava essere sua amica e volergli bene ma vederlo con le altre, e lui che non si capiva se le voleva bene e a volte sembrava quasi di no.

Essere semplicemente sua amica sarebbe bastato, ma solo se avesse potuto abbracciarlo ed essere abbracciata da lui e baciarlo ed essere baciata da lui e sentire il suo profumo sui propri vestiti e non doverlo dividere con nessuna, nessuna, nessuna.

Il che, tuttavia, non era esattamente il ritratto di un’’amica’.

- Volete ordinare? – chiese la cameriera, guardando Hermione in modo strano.

- Sì – esclamò all’improvviso Ron, chiudendo la carta con uno schiocco. – voglio la crostata al cioccolato! – disse deciso, a voce così alta che diversi altri clienti si voltarono, compresa la coppietta di ragazzini accanti. Ridacchiarono, ed Hermione avrebbe voluto sprofondare.

- Bene! – fece la cameriera con un sorriso ironicamente entusiasta.

- Visto che so decidere? – ghignò in direzione di Hermione.

Per la prima volta da quando era arrivato, la guardò bene negli occhi e lei ovviamente resse il suo sguardo.

Ebbe una familiare fitta allo stomaco.

Come aveva potuto tradirla.

Come.

Erano giorni e giorni e giorni e notti e notti e notti che ci pensava. Eppure non riusciva a ricordare cosa gli fosse passato per la testa in quel momento. Proprio non se lo ricordava. Va bene, era ubriaco, ma qualcosa doveva aver pur pensato, anche di irrazionale. Ma cosa?

Logicamente, il fatto che lei, nonostante loro si conoscessero da così tanto tempo, non avesse voluto fare l’amore con lui, l’aveva ferito. Perché il messaggio che lei gli mandava, pur non volendolo, era ‘non mi fido ancora del tutto di te’.

E lui si sentiva offeso, perché avrebbe dovuto fidarsi.

E invece, col senno di poi, aveva avuto pienamente ragione lei a non fidarsi.

Ed era questa la verità, ed era questo che gli dava la sensazione che lei fosse lontana, lontanissima ora.

E lui, ora, si sentiva ancora troppo, troppo se stesso. Troppo ancora inadatto.

- Hermione. – Ron sentì la propria voce uscirgli di bocca come se non fosse la sua.

Lei continuò a reggere il suo sguardo. A fatica.

Tesoro, non piangere, se piangi è finita, se piangi è finita, le aveva inaspettatamente detto sua madre quella mattina. Era incredibile che non le avesse impedito di incontrare Ron, in effetti. Non aveva fatto alcun commento, il che era ancora più strano, aveva solo detto quelle parole e le aveva messo i capelli dietro le orecchie.

Però lei guardava Ron che la guardava ed aveva così paura, ed il silenzio era così pesante ed il silenzio non era mai stato pesante tra loro.

Una volta si erano stesi sull’erba ad Hyde Park e lei stava leggendo un romanzo di Hanif Kureishi mentre lui guardava ammirato le biciclette. Stavano in silenzio. Eppure era in quei momenti che si sentiva davvero invicibile, davvero sicura, davvero felice.

Era stato in silenzio, con lei?

Perciò ora gli occhi azzurri di Ron le facevano venire voglia di piangere.

Ron se ne rese conto solo quando lei abbassò la testa fingendo di cercare qualcosa nella borsa. Ed Hermione non guardava mai nella borsa.

- Ehm… stai bene? –

Lei continuò a frugare.

- Ma certo, ovvio che sto bene, sto meglio di bene – sbottò secca.

Lui la guardò impotente mentre gesticolava facendo un tale chiasso che perfino qualcuno ai tavoli vicini si voltò a guardarla.

- Cosa… cosa cerchi? –

Hermione lo guardò solo per un attimo e allora Ron ebbe la certezza di vedere gli occhi lucidi.

Il che fu una vera coltellata.

- Niente. Non cerco nulla. Senti… io devo proprio andare a casa. –

Fece per alzarsi, ma lui la bloccò per un braccio. Lei si arrabbiò.

- Insomma, Ron, che cosa vuoi da me? Se vuoi riappacificarti per sentirti meno in colpa, mi dispiace ma non mi interessa affatto. E se non ti senti in colpa, tanto meglio per te. Io sto benissimo. Ho il lavoro che volevo, studio quello che volevo, sono circondata da persone che mi piacciono. Non ho alcun problema, perciò se ti faccio pena, puoi anche metterti il cuore in pace. –

La sua voce non era convincente per niente.

Ma Ron non aveva mai avuto così tanta paura di lasciarla andare come in quel momento.

- Hermione… io… lo sai che non… non sono affatto bravo a parlare. Specie delle cose serie, io… proprio non ci riesco. Voglio dire… quando dovevo fare il discorso al matrimonio di Bill e Fleur ho fatto la battuta di un uomo entra in un caffè: splash. Tu c’eri, ti ricordi. –

- Mi ricordo – borbottò Hermione, fissandolo, le sopracciglia aggrottate e gli occhi ancora lucidi.

- Ecco. Lo so che a voi ragazze piacerebbe uno che per farsi perdonare faccia dei bei discorsi,  dica ‘mi manchi’ e regali i fiori e porti a vedere un’eclissi e scriva poesie e dedichi canzoni. E so che uno così forse sarebbe più adatto a te e io invece non ne sarei affatto capace. Però, Hermione, anche se non sono adatto a te, io… penso comunque a te. E anche se non ti dico ‘mi manchi’, è comunque più o meno quello che sento adesso. E anche se non m’inginocchio e ti chiedo ‘perdonami’, vorrei lo stesso che lo facessi. –

Hermione lo guardò. Lui e i suoi stupidi discorsi da scemo. Perché quelli erano discorsi da scemo. Lei non era certo il tipo di ragazza che aveva bisogno di essere inseguita per sentirsi felice. Voleva solo essere rispettata, punto, e di rispetto lui le aveva mancato.

Però.

E anche se non ti dico ‘mi manchi’, è comunque più o meno quello che sento adesso.

Però…

Penso comunque a te.

Conosceva Ron da otto lunghissimi anni, che avevano passato praticamente sempre insieme.

Sapeva che era buono, anche se un po’ scemo.

Nonostante la quantità devastante di difetti, era il ragazzo più buono che avesse mai conosciuto.

E purtroppo, io gli voglio bene.

Hermione aprì la bocca per dire qualcosa.

Poi entrambi sussultarono sentendo contemporaneamente un leggero formicolio alla base dell’anulare della mano destra.

Era un richiamo dell’Ordine.

Il che era davvero strano. Era un bel po’ che non usavano quel modo per riunirsi; serviva solo per le emergenze.

I due si guardarono.

- Dobbiamo andare – disse lei. Ron le lasciò il braccio.

Il cielo era grigio, ed in lontananza si sentivano dei tuoni.

 

- Bene, bene, bene – Rodolphus gli camminò intorno come se fosse una bizzarra opera d’arte.

Harry non poteva muovere un muscolo. L’incantesimo lo teneva completamente immobile e muto. Con la coda dell’occhio riusciva a vedere Luna, la cui espressione più che spaventata o arrabbiata era di leggera sorpresa.

Bellatrix spuntò da dietro le spalle di Rodolphus con uno sguardo entusiasta. Rodolphus era stranamente serio e pallido, senza la solita aria baldanzosa.

- Ma guardati – fece la donna – come sei cresciuto. Certo, non sei in ottima forma. Chi può sapere se tua madre sarebbe fiera di te adesso? –

Harry tentò di muoversi con tutte le sue forze, ma era completamente inerme.

Luna sbatté le ciglia.

- Bellatrix – sbottò Rodolphus. – ora basta. –

Il sorriso della donna si spense ma obbedì.

Harry osservò attentamente Rodolphus sudando freddo; l’uomo ricambiava lo sguardo. La mente del ragazzo lavorava frenetica; non aveva idea di come sbrogliare la situazione. Legato dall’incantesimo era come se fosse senza alcun potere; ed in ogni caso, non poteva fare mosse avventate con Luna nelle mani dei Mangiamorte. Motivo per cui avevano preso anche lei, presumeva.

- Pensavi di riuscire a sfuggire con le tue sole forze ad una decina di Mangiamorte, Potter? – disse Rodolphus, fermandosi per guardarlo bene negli occhi. – pensavi davvero che questo non sarebbe mai accaduto? Che, alla fine, non saremmo riusciti a catturarti? – fece una pausa. Gli altri Mangiamorte lo ascoltavano con un silenzio innaturale. Tutti sembravano avere paura.

Lucius era sempre stato il Mangiamorte con cui Rodolphus aveva legato di più.

Non erano amici – come si poteva essere amici in quelle circostanze? – ma lo erano stati, ai tempi della scuola.

Lo erano stati, quando avevano duellato contro Sirius Black e James Potter vicino al Platano Picchiatore; lo erano stati quando si erano arruolati nell’esercito del Signore Oscuro.

Rodolphus abbassò lo sguardo sulle mani di Potter junior; erano quelle le mani che avevano ucciso Lucius Malfoy?

- Eppure ora sei qui – continuò. – e – fece un sorriso quasi pazzo. – tu non hai idea, oh, non hai davvero idea di quanta voglia io abbia di ucciderti con le mie stesse mani. Ma i progetti dell’Oscuro Signore sono altri, probabilmente migliori dei miei. Ma sappi, Potter – e lì Rodolphus parve davvero sul punto di estrarre la bacchetta, ma si trattenne – sappi che farò in modo di farti soffrire il più possibile. Tu e chi ti sta intorno, finché non ti avrò ripagato il debito che ti devo dal momento in cui hai ucciso Lucius. –

Estrasse la bacchetta e per un attimo Harry temette il peggio; invece si sentì come se i muscoli del viso si rilassassero e si accorse di essere in grado di parlare.

- Dì qualcosa, Prescelto – rise Rodolphus. Era strano vederlo così scostante, lui che era sempre stato più freddo e razionale della moglie. – qualche ultima preghiera? –

- Sono… – fece Harry, con la voce un po’ roca. – sono felice… di averlo fatto. –

Rodolphus ricambiò il suo sguardo di sfida e gli altri Mangiamorte non si mossero, vagamente raggelati.

L’uomo non ebbe alcuna reazione; si voltò dalla parte del muro come per evitare di guardare qualcosa di disgustoso.

- Portatelo via. –

- E… - azzardò uno dei Mangiamorte indicando Luna. – e di lei che ne facciamo? –

Rodolphus si voltò a guardarla. Poi guardò Harry.

- Lasciatela a me – disse infine l’uomo, senza distogliere gli occhi da Harry. – e se Potter tenterà di scappare, o dirà o farà qualcosa di sbagliato, come ha fatto ora… la ucciderò. In maniera molto lenta. In modo che si renda conto di chi è la causa della fine della sua esistenza. –

Prima che Harry avesse tempo di dire qualcosa, lo trascinarono via con una forza tale che sentì l’osso della spalla quasi lussarsi.

Non riuscì nemmeno a vederla in faccia per capire se, stavolta, avesse paura.

Fuori pioveva sempre più forte.

 

Ginny si sentiva come se stesse camminando in un incubo.

Tutto era così ovattato, così orribile, così lento.

I tuoni del temporale le rimbombavano nella testa e si sentiva impazzire.

Con il cappuccio della veste calato sui capelli e le mani che tremavano, attendeva in fondo al corridoio. Aveva seguito il gruppo di Mangiamorte cercando di non farsi notare; come immaginava, avevano portato Harry e Luna nella stanza di Rodolphus, dov’era stata anche lei quando aveva contrattato il proprio passaggio a Mangiamorte.

Istintivamente si sfiorò il braccio. Sotto i vestiti, lo sentiva come se bruciasse, c’era il Marchio Nero.

Lei aveva abbandonato Harry, era vero.

Ma non lo avrebbe fatto ora.

A volte… era come se si dimenticasse di non essere una vera Mangiamorte. Le loro regole non doveva seguirle davvero.

Ma lei era dell’Ordine della Fenice. In fondo, anche Draco… anche lui lo sapeva.

Deglutì. Non poteva pensare a lui senza provare una stretta angosciante al cuore.

Improvvisamente sentì la porta aprirsi e si nascose dietro l’angolo del corridoio. Il gruppo di Mangiamorte che scortava Harry le passò tanto vicino che per un attimo pensò che l’avrebbero vista sicuramente; invece scesero le scale diretti in una parte del castello in cui non era mai stata. Di Luna neanche l’ombra.

Ma perché avevano preso anche Luna?

Riusciva a malapena muoversi per il nervosismo; proprio quando era riuscita a fare un passo, sentì ancora dei passi dalle scale e rivide gli stessi Mangiamorte tornare indietro, ma senza Harry.

Migliaia di domande le vorticavano in testa. Voldemort avrebbe tentato di ucciderlo subito? Dove diavolo l’avevano portato, nel frattempo?

E ora, cosa doveva fare, lei?

Fissava le scale ormai vuote, il corridoio deserto, immobile e terrorizzata.

Ebbe un momento di cedimento.

Le venne in mente che in fondo avrebbe potuto voltarsi e non scendere quelle scale, avrebbe potuto tornare da Draco ed attutirgli il colpo della morte di suo padre, avrebbe potuto sopportare la sua rabbia e chiudere gli occhi e le orecchie e non guardare né ascoltare più nessuno tranne lui.

Forse sarebbe stata felice. Era stata felice quando lui l’aveva baciata. Più felice che mai.

E avrebbe potuto semplicemente tornare da lui.

Avrebbe potuto.

Tu finirai come lei…

E quando ti sarai pentita, non potrai più tornare indietro.

Non puoi avere lui e tutto il resto.

Amava Draco. Lo amava tanto che a volta faceva un po’ male, anche se non gliel’avrebbe detto perché se no si montava la testa.

Ma…

Ma era ad Harry che voleva bene. E Draco lo sapeva, in fondo: lei non si sarebbe mai sottomessa a lui.

Neanche quando avrebbe tanto voluto farlo.

 

Aprì gli occhi e sentì un brivido di freddo.

Il che era strano, perché lui non aveva mai freddo.

Guardò le lenzuola vuote accanto a sé, il cuscino stropicciato. Istintivamente allungò la mano sul copriletto e sentì che era freddo, come se fosse stato abbandonato già da molto tempo.

Si portò a sedere sbadigliando e osservò la stanza innaturalmente silenziosa.

Indossò la camicia con calma.

Era parecchio infastidito, in effetti. Non si era mai permesso di dormire nel vero senso della parola con una donna. Stavolta se n’era dimenticato; dettagli. Da qui a essere mollato lì come una prostituta di bassa lega ce ne passava, però.

Stranamente, in parte la cosa lo faceva sorridere.

Proprio in quel momento sentì la porta aprirsi e si voltò con un ghigno trionfante, pronto a sfotterla.

Invece dei lunghi capelli rossi intravide i corti capelli neri di Pansy.

Il ghigno si dissolse.

- Cosa vuoi? – sbottò, brusco.

Pansy gli si avvicinò senza dire una parola, guardandolo come se non l’avesse appena trattata come una pezza da piedi.

Lui si alzò in piedi di scatto e ripeté: - che diavolo c’è? –

Pansy mise una mano sul suo collo nonostante lui cercasse di tirarsi indietro; e quasi con la forza lo costrinse ad ascoltare quello che lei gli sussurrava all’orecchio.

- Mi dispiace, Draco – mormorò. – Harry Potter ha ucciso tuo padre. –

Lui la respinse con tanta violenza che lei non riuscì a reggersi in piedi e cadde per terra. Non parve ferita né offesa. Strinse il labbro inferiore tra i denti e lo guardò.

- Che cazzo stai dicendo? – chiese il ragazzo alzando la voce.

Lei si mise a sedere sul letto, con gli occhi inaspettatamente lucidi.

- Mi dispiace, Draco. –

- Me ne fotto se ti dispiace, voglio sapere che cazzo stai dicendo, cosa ti stai inventando e perché diavolo lo stai facendo. –

Pansy nascose il viso tra le mani trattenendo un grosso sospiro.

- Mi dispiace – ripeté per l’ennesima volta, la voce attutita dalle mani. – tuo padre faceva parte della squadra per rapire Potter. C’è stato uno scontro, non era solo, e in un momento di distrazione degli altri… tuo padre si è trovato senza copertura… e Potter gli ha lanciato un avada kedavra. –

Draco la fissava. Le sue pupille erano microscopici punti in un mare di grigio nebbia.

Dalle finestra penetrò la luce rapida di un lampo seguita dal tremore del tuono.

- L’hanno preso? – disse, con voce più bassa.

Pansy tolse le mani dal viso e lo guardò.

- Rispondimi! – ruggì lui, tanto che perfino Pansy arretrò ed impallidì, atterrita.

- Sì – si affrettò a dire. – sì, Potter è nelle prigioni. –

Draco indossò la veste ed infilò le scarpe alla velocità della luce, e si diresse con passi minacciosi verso la porta.

Pansy lo afferrò per un lembo di veste.

- No, Draco – disse, chiaramente tirando fuori tutto il coraggio di cui era capace. – se lo incontri, lo uccidi. –

- Queste sono le mie intenzioni, Pansy – disse Draco. Perfino il suo viso di solito diafano era leggermente arrossato dalla rabbia.

Gli venivano in mente un sacco di immagini sconnesse.

Se stesso con suo padre quando lui l’aveva denigrato. Se stesso nel tentativo di compiacerlo. Se stesso nel deluderlo.

Suo padre che l’aveva schiaffeggiato, deriso, trattato da schifo, ignorato.

Non l’aveva mai guardato con orgoglio, eppure quante volte Draco si era sentito orgoglioso di lui?

Perché era diventato Mangiamorte, se non nella speranza di arrivare, un giorno, al suo livello?

E sua madre.

Sua madre, quella creatura incredibilmente fragile e dallo sguardo assente, che aveva subito volontariamente ogni tipo di angheria da parte di suo marito, sopportando, sopportando, sopportando.

Sopportando perché aveva voluto farlo, nonostante tutto.

Sua madre, ora, doveva essere distrutta.

Draco sentiva il proprio respiro spezzarsi.

Harry Potter.

Non lo aveva mai odiato tanto come in questo momento.

- Ti prego – fece Pansy. – questi non sono i progetti dell’Oscuro Signore. Dobbiamo aspettare. Non lascerà tuo padre invendicato. –

Per qualche motivo scoppiò a piangere.

Draco la fissò.

- Che il Signore Oscuro si fotta! –

Pansy strinse le palpebre, sicura che stavolta avrebbe ricevuto uno schiaffo che le avrebbe fatto sanguinare il labbro.

E in effetti Draco alzò il braccio, ma ebbe la sensazione di non riuscire a muoverlo.

…io sono diversa e tu sei diverso e la situazione è diversa…

E non mi è mai interessato molto tornare indietro.

Il ragazzo abbassò il braccio.

Per un momento Pansy ebbe la stranissima sensazione che le accarezzasse i capelli, in un movimento impercettibile. Aprì gli occhi pieni di lacrime, sorpresa.

- Hai detto che Potter è nelle prigioni? – disse Draco, con voce neutra. Non la guardava.

- … sì. –

- Qualcuno lo controlla? –

Pansy lo fissò, come se poco a poco capisse.

- … in realtà, no. C’è già un incantesimo molto potente sulle prigioni e chi non è autorizzato non può avvicinarsi. E lui è immobilizzato. –

Draco guardò l’ennesimo lampo che scaturì dalla finestra.

Pansy provò una fitta strana allo stomaco. Con cautela, gli appoggiò una mano sul polso.

- Si sistemerà tutto – mormorò, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte. – si sistemerà tutto. –

 

Ginny scese le scale così lentamente che le parve che non finissero mai.

Scendeva, scendeva, scendeva, ed il passaggio era sempre più buio, sempre più stretto, e l’unico rumore era lo schiocco del fuoco nelle fiaccole appese alle pareti, e i suoi passi.

Quando il piede si posò sull’ultimo gradino, Ginny alzò finalmente lo sguardo, con il cuore che batteva incontrollato.

Davanti a lei si stendeva un corridoio stretto, largo a malapena per una persona; uno di quei posti che fanno mancare l’aria anche senza essere claustrofobici. C’era un intenso odore di muschio e muffa.

Il corridoio, seppure tanto lungo, aveva solo una fiaccola, che si trovava accanto a lei. La prese e la mise davanti a sé. Le mani tremavano più di prima.

Alla sua sinistra c’erano delle prigioni piccole, anguste e terrificanti. E deserte. Senza finestre, senza letti, senza sedie. Solo stanze quadrate e vuote e minuscole.

C’era solo silenzio.

Ginny si sentì mancare il fiato pensando al peggio.

 

Harry sentiva la testa pesantissima e la bocca impastata. Le braccia erano indolenzite a forza di stare coi muscoli tesi dietro la schiena.

Era immerso nel buio, e l’unica cosa che sentiva era il suo respiro. Arrivò al punto che non riusciva più a capire se aveva gli occhi aperti o chiusi. Qualcosa gli camminava sulla gamba che non poteva muovere.

Per la prima volta da tanto tempo, si sentiva davvero senza speranza.

Da solo non poteva scappare. E non era sicuro che l’avrebbe fatto, anche potendo: l’ultimatum di Rodolphus riguardo a Luna era stato chiaro e certamente sincero. Ma forse l’avrebbe uccisa comunque.

Il solo pensiero lo faceva impazzire tanto che quasi sperò di essere assorbito da quel buio e non doverci più pensare.

Pensò a Luna e al fatto che se non si fosse trovata con lui non l’avrebbero presa.

Pensò a Hermione che avrebbe sicuramente saputo trovare una soluzione.

Pensò a Ron che sarebbe stato in grado di sdrammatizzare perfino in una situazione del genere.

Pensò che Ron ed Hermione non gli erano mai mancati tanto come in quel momento, e che forse la vita non aveva poi lo stesso significato se Ron l’odiava e Hermione odiava Ron e non avevano saputo superare quell’ostacolo.

Proprio quando credette di essersi addormentato, o di essere svenuto, si rese conto di avere gli occhi perfettamente aperti. E se ne accorse perché vide una luce fievole e tremolante riflessa contro la parete umida fuori dalle sbarre.

Sbatté le palpebre ma, nonostante fosse in grado di muovere la bocca, non riuscì a dire nulla. Era tutto così innaturale che pensava di stare sognando.

Rimase a fissare la luce riflessa sul muro che tramava, tremava e secondo dopo secondo si faceva sempre più vicina. Qualche attimo dopo sentì dei passi e sulla parete vide un’ombra.

Harry deglutì piano, sentendo tutti i muscoli del collo dolergli; cercò di appiattirsi ancora di più contro il muro, per quel poco che poteva muoversi.

Fuori dalle sbarre, con una lentezza esasperante, vide prima la fiamma di una fiaccola, poi una mano sottile che la reggeva.

Rimase immobile nel suo angolo al buio, nel più completo silenzio, anche quando la vide.

Sul momento non la riconobbe, un po’ per il buio, un po’ per la confusione, un po’ perché, stranamente, era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere lì.

Ginny fece luce sulla sua prigione e l’ombra delle sbarre si stagliò contro il viso di Harry, e la luce della fiamma fu talmente forte che per un attimo lui dovette stringere le palpebre.

Poi riaprì lentamente gli occhi e vide il familiare riflesso di capelli rossi, gli occhi azzurri che lo fissavano più lucidi che mai e le labbra strette.

- Harry – provò a dire lei, ma la voce le si spezzò quasi subito.

Lui aprì la bocca e la richiuse, sentendosi come se avesse nuovamente sbattuto la testa.

Ginny lo guardava ed il respiro le si mozzava in gola.

- Per un attimo ho temuto che… - la voce svanì in un sussurro.

Era davvero Ginny?

Era così tanto, tanto tempo che non la vedeva, che Harry si sentiva come se lei appartenesse ad un’altra vita.

Eppure era così lei, la sua voce, le sue mani. L’unica cosa diversa era quella veste nera che la faceva sembrare parte del buio della prigione.

- Ginny – riuscì finalmente a dire, rilassando un poco i muscoli della schiena.

Ginny appoggiò la fiaccola al muro e si avvicinò di più alle sbarre, stringendole tra le dita come se pensasse di poterle rompere con la sola forza delle mani.

- Stai bene? – gli chiese, con la voce ancora spezzata.

Harry la guardò e disse un roco – sì. Più o meno. –

Lo sguardo verde di Harry la fece sentire a disagio. Era come se con quel solo sguardo potesse leggere le mille cose che erano successe da quando si erano separati.

Era ferito e sudato in viso. Le mani legate dietro la schiena dall’incantesimo erano voltate in maniera innaturale. La prigione sarebbe stata piccola anche per un animale; se lei avesse allungato una mano, avrebbe potuto toccarlo.

- Come ti hanno preso? –

- Mi hanno teso un agguato a casa… di sorpresa. Hanno preso anche Luna. –

- L’ho vista mentre la portavano – Ginny si trattenne dal chiedergli perché avessero preso anche lei. – Ron ed Hermione? –

Gli occhi di Harry evitarono i suoi.

- Non lo so. Non erano con me. –

- Ma pensi che l’Ordine sia stato avvertito? –

- Ginny – la interruppe Harry, così forte che la sua voce risuonò per un attimo lungo il corridoio deserto. – non so niente di Ron ed Hermione. Io… è da qualche tempo che non so niente di loro. –

Ginny si rabbrividì. Il tono della sua voce nascondeva molte cose; ma non era certo il momento né il luogo di chiedere spiegazioni.

Improvvisamente suo fratello le mancò tanto che le venne una stretta al cuore.

- Forse – riprese Ginny, esitante. – forse riesco a liberarti. –

- Rodolphus ha detto che ucciderà Luna se cercherò di scappare. E in ogni caso, non riuscirei ad andare tanto lontano. Dobbiamo aspettare che l’Ordine arrivi. –

- Ma potrebbero ucciderti nel frattempo – protestò Ginny, spaventata. Non era quella la risposta che si era aspettata. Per qualche ragione, pensava che avrebbe trovato il modo di liberare Harry con facilità, che lui sarebbe scappato e lei…

E lei no.

- Non lo faranno. Io… ho come l’impressione che Voldemort abbia in mente qualcos’altro, prima. –

Rimasero in silenzio.

- Ma Harry – fece Ginny, stringendo ancora di più le sbarre. – io non posso lasciarti qui in questo modo. –

Harry la guardò e per un secondo le parve diversa. Più esitante.

Aveva una sensazione sgradevole. Come se sentisse che la Ginny che conosceva lo avrebbe liberato comunque, qualsiasi cosa lui avesse da dire al riguardo.

C’era qualcosa della facilità con cui portava quella veste.

 Il ragazzo deglutì ancora.

- Infatti io vorrei… vorrei che facessi una cosa per me. Vorrei che trovassi il modo di liberare Luna. E poi scappate. Non importa dove, andate il più lontano possibile da qui. L’Ordine arriverà. –

Ginny si sentì raggelare.

- Ma… - era come se avesse qualcosa bloccato in gola. – Harry, non posso farlo. –

Ebbe paura.

Paura di come stava reagendo.

Paura perché Harry la guardava in quel modo.

Paura perché anche se era legato e rinchiuso, una parte di lei voleva dire… no, ti prego.

Non chiedermi questo.

- Cosa… - il ragazzo sentì per un’improvvisa fitta alla spalla. – cosa non puoi fare? Lasciarmi qui o scappare? –

Ginny aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono.

- Senti, Ginny – fece il ragazzo, chiudendo gli occhi mentre un rivolo di sudore gli scendeva lungo la tempia. – non intendo fare finta di non sapere il motivo per cui sei venuta qui. Ma ora non si tratta più di noi, o di te o di me. Voglio solo che la porti via e ti assicuri che si trovi al sicuro. E non voglio che la lasci sola. Non ti chiedo di farlo per me, ma per favore, fallo. –

Ginny non riuscì più a trattenere le lacrime. Le sfuggì un singhiozzo e la vista le si offuscò come se fosse scesa la nebbia.

- Harry – singhiozzò. Allungò la mano tra due sbarre riuscendo a raggiungere il suo viso. Era lì, ora. Era reale, ora.

Era il momento di decidere da che parte stare, no?

Sapeva che sarebbe arrivato; ma era ancora così impreparata.

Così senza risposte.

Ma probabilmente la risposta più vera era quella che le sarebbe uscita di bocca in quel momento.

- Mi dispiace – disse con voce rotta. – io… certo che lo farò. Però… per favore, non pensare mai più che io non farei qualsiasi cosa per te. Lo sai che… che io ti ho sempre voluto così tanto bene che… - la voce si spezzò e non riuscì più a dire niente.

No.

Non era stata abbastanza tempo ‘la Mangiamorte’ per poterlo diventare.

O forse non poteva diventarlo sin dall’inizio.

Nel momento in cui aveva visto Harry al primo anno correre verso il binario nove e tre quarti il suo destino aveva preso una piega diversa.

Harry sentì riaffiorare dentro di sé qualcosa che non sentiva da tanto tempo.

In qualche modo sapeva che quello era l’effetto che Ginny gli provocava, e gli avrebbe sempre provocato.

Ma nient’altro.

Chiuse gli occhi e lasciò che la pelle della sua guancia assorbisse il calore della mano di Ginny.

Le pareti tremarono dopo un tuono.

Ginny si voltò all’improvviso, sicura di aver sentito dei passi.

Ma il corridoio era vuoto.

 

Quando Ron ed Hermione seppero che Harry era stato preso dai Mangiamorte in un primo momento pensarono ad uno scherzo di cattivo gusto.

Inutile dire che Lupin non scherzava su questi argomenti.

- Purtroppo non avremo il tempo che ci sarebbe servito per attaccare il castello dove si nascondono i Mangiamorte e probabilmente Voldemort stesso – disse, in piedi a capo del tavolo a cui erano seduti tutti i membri dell’Ordine. – ma la nostra priorità è salvare Harry, ed è ciò che faremo. –

Ron non ascoltò molto di quello che seguì.

Non faceva che pensare all’ultima volta che aveva visto Harry.

Alle cose che gli aveva detto.

In questo momento, non so neanche che cosa voglia dire essere felice e spero che sarà così anche per te.

A come si era sentito ferito, a come lo aveva ferito.

Mi dispiace davvero, Ron. So cosa vuol dire avere il terrore di perdere qualcosa a cui si tiene.

Sì che lo sapeva, e Ron sapeva che lui lo sapeva, solo che… era così arrabbiato… così cattivo, in quel momento.

Cos’aveva fatto Harry da quel momento in poi?

Improvvisamente gli sembrava assurdo essere lì seduto ad un tavolo, con una tazza di tè davanti e si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento.

Tutti si voltarono a guardarlo mentre usciva dalla stanza sbattendo la porta.

 

Hermione guardò Ron uscire dalla stanza e fece il gesto istintivo di alzarsi.

Ma Lupin la guardava, tu no, tu non puoi essere così impulsiva, e si trattenne, stringendo i pugni sul tavolo e continuando a fissare la porta.

- Attaccheremo nel giro di poche ore – continuò l’uomo. – il tempo di organizzare le truppe. Poco a poco i rinforzi arriveranno. Abbiamo fatto passare il messaggio a chiunque si sia alleato con noi in questi mesi. Ma… non saremo tanti. Non quanti sono loro. –

Si levò un brusio.

- Ma… non sarebbe forse il caso di aspettare di diventare di più? E’ un suicidio andare già oggi – obiettò qualcuno.

Hermione avrebbe voluto schiaffeggiarlo; ma se si fosse mossa sarebbe uscita.

- Lo ripeto – replicò Lupin, secco. – la nostra priorità è salvare Harry. E più aspettiamo, meno probabilità abbiamo di trovarlo vivo. –

Hermione strinse di più i pugni.

- Se qualcuno non se la sente, libero di rifiutare. –

Lei alzò lo sguardo. Nessuno si mosse.

Lupin si alzò.

- Bene – disse, pallido in viso più che mai. – è deciso. Preparatevi a partire. –

Hermione scattò subito in piedi ed uscì ancora prima che gli altri si alzassero.

Se Harry fosse morto in quella situazione, non se lo sarebbe mai perdonato. Mai.

Non con quelli che avrebbero dovuto sostenerlo di più che lo avevano abbandonato perché erano degli stupidi. Perché avevano litigato tra loro e avevano voluto coinvolgere anche Harry.

Di fronte alla prospettiva di non vedere Harry mai più… tutto quel litigio diventava così opaco, superfluo, sciocco.

Ron stava seduto sulle scale fuori dalla sala della riunione con gli occhi che fissavano per terra, un po’ più scuri del solito.

Non alzò lo sguardo quando lei arrivò davanti a lui.

Hermione gli si sedette accanto in silenzio.

La gente gli passava davanti, tutti parlavano dell’imminente attacco, andavano a casa a salutare le famiglie, a prendere le bacchette, a piangere magari.

Solo loro stavano zitti, e così rimasero fino a quando la piccola folla non si fu diradata completamente e alla base erano rimasti solo loro.

- Sai, qual è la cosa che più mi fa arrabbiare? – fece improvvisamente Ron.

Hermione si voltò a guardarlo.

- Cosa? –

- Che mi ero completamente dimenticato che lui è il Prescelto. Se lo avessi fatto, mi sarei comportato diversamente. –

- Ah… ma no, non credo. –

Ron la fissò.

- E perché? –

- Non saresti stato tu. E a Harry in fondo non piacciono quelli che lo trattano come se fosse di vetro perché è il Prescelto. –

- Non gli piacciono? – Ron inarcò un sopracciglio, ricordando alcuni episodi di Harry-megalomania.

Hermione roteò gli occhi.

- Forse solo un po’. Ma il punto è – disse. – stando con Harry, una pianta assassina ti ha quasi stritolato le ossa quando avevi undici anni, eppure hai continuato ad essere suo amico. –

Ron, suo malgrado, sorrise.

- Sì, del resto è risaputo che ‘amicizia è non portare rancore anche se ti hanno quasi ammazzato a causa sua’. –

Rimasero ancora in silenzio.

- Sai, Hermione – riprese Ron. – ora che ci penso, non dovresti essere tu a consolarmi, ma io. –

Lei fece spallucce.

- Sta’ tranquillo, l’ho sempre saputo che tra me, te e Harry quella che ‘porta i pantaloni’ sono io. –

Ron fece una smorfia. Si alzò.

- Lasciamo perdere. Come al solito ci tocca il lavoro sporco. Andiamo a salvare quel paraculo. –

 

Ginny uscì dalla prigione scossa come se fosse appena caduta dal letto.

Aveva la testa confusa, era preoccupata ed in certi momenti aveva la netta sensazione che se non manteneva il controllo, sarebbe scappata nella ‘sua stanza’, ci si sarebbe chiusa dentro e atteso… qualcosa.

Ma, ovviamente, aveva fatto una scelta.

Il solo pensiero le faceva venire voglia di piegarsi a terra e piangere, piangere, piangere.

Ecco, qualcosa dell’atteggiamento della ‘donna Mangiamorte’, l’aveva acquisito, forse.

Ma non lo fece; nel corridoio vuoto si tolse la veste, gettandola in uno sgabuzzino, e si legò i capelli. Così era meno impacciata nei movimenti nel caso avesse dovuto correre.

Tentando di tenere la sua mente vuota e lucida, il primo istinto fu di andare a cercare Luna dove l’aveva vista sparire, cioè nell’’ufficio’ di Rodolphus.

Ma, per qualche motivo, quella possibilità le parve… improbabile. Rodolphus non teneva prigionieri nelle sue stanze. Rodolphus poteva fingere di tenere prigionieri nelle sue stanze. Poteva perfino farlo credere agli altri Mangiamorte; dopotutto la sua etica era ‘non fidarti di nessuno’, giusto?

E così, guidata da chissà quale sesto senso che non sapeva di possedere, salì le scale che portavano ad un altro largo corridoio.

Tutto il castello era silenzioso e vuoto in maniera sospetta. Era come se tutti si fossero volatilizzati.

Meglio, pensò Ginny, un po’ titubante.

Di una cosa sola si sentiva piuttosto sicura: Luna era stata nascosta in un posto un po’ improbabile da immaginare. Ovvero nella stanza di Bellatrix.

Si trovò presto lì davanti. All’improvviso si chiese cosa fare. Se Bellatrix era dentro, non poteva certo piombare e batterla con facilità; il solo pensiero la faceva rabbrividire, quella era una pazza.

D’altra parte, non c’era tempo per aspettare di vederla entrare o uscire.

Mise la mano sudata sulla maniglia e spinse la porta, che si aprì facilmente.

Ginny trattenne il fiato, ma nessuno Schiantesimo le piombò addosso.

La stanza era piccola, angusta e senza finestre, il letto senza lenzuola e senza cuscino. Non c’era da aspettarsi niente di più insolito da Bellatrix.

Per un attimo temette di aver completamente sbagliato supposizione, guardando la camera vuota e spoglia.

Poi si accorse di sentire chiaro un respiro regolare.

Estrasse la bacchetta, guardandosi intorno. Camminando per terra le parve di urtare qualcosa, ma non c’era nulla. Si abbassò e fece il gesto di afferrare l’aria: invece afferrò il Mantello dell’Invisibilità di Harry e comparve Luna seduta per terra, immobilizzata, con i capelli per aria e senza un orecchino.

Ginny le tolse l’incantesimo.

- Luna, stai bene? – chiese, abbassandosi verso di lei.

- Sì – fece la ragazza, per niente sorpresa di vederla.

- Sei ferita? –

- No. –

- Riesci ad alzarti? –

- Sì. -

Come al solito, non era molto loquace.

Ginny la prese per il polso e cercò di trascinarla verso la porta, ma lei oppose resistenza.

La ragazza si voltò a guardarla.

- Che c’è? Non riesci a muoverti? –

Luna la fissò con quegli enormi occhi scrutatori cui non era più abituata.

- Dove dobbiamo andare? –

- Stiamo scappando, Luna. Ti porto via. –

Luna scosse la testa. Ginny s’irritò: non era proprio il momento per aver a che fare con Lunatica Lovegood.

- Non è una buona idea. –

- Luna – la interruppe Ginny, tagliente. – se non scappiamo, probabilmente ti uccideranno. E anche me, non appena scoprono che ho tentato di aiutarti. E Harry non scappa, se prima non sa che sei al sicuro. –

Le fece una strana impressione dirlo, ma Luna rimase impassibile.

- Ma Ginny – fece Luna, guardandola. – non possiamo scappare. –

- Perché? – esclamò Ginny, non riuscendo a fare a meno di alzare la voce.

- Perché lei è ancora qui. –

Luna si voltò a guardare con occhi vuoti verso la porta.

Ginny seguì il suo sguardo e raggelò. Appoggiata allo stipite, Bellatrix, la guardava a braccia incrociate, con un’espressione più raggiante che mai.

- Ciao, piccola Mangiamorte. Hai messo la veste a lavare? –

Ginny non riusciva a muoversi. Non c’erano vie d’uscita a parte la porta.

- Ma guarda, sei venuta a fare due chiacchiere con un’amica? – continuò Bellatrix, sbattendo ironicamente le ciglia.

Ginny, non sapendo che altro fare, le punto la bacchetta contro.

Bellatrix la guardò come se le stesse puntando contro una paperella di gomma.

- Prima di agitare al tua bella bacchetta giocattolo, credo dovresti sentire un paio di cose. –

Ginny aggrottò le sopracciglia, sospettose.

- Quali cose? –

Bellatrix fece un sorriso folle. Estrasse la bacchetta ed alle sue spalle, penzolando per aria, comparve Tinker con in braccio Oliver. Li lasciò cadere a terra con un tonfo e il bambino scoppiò a piangere. L’elfo aveva le ossa di due dita dei piedi spezzate.

- Tinker! – gridò Ginny, poi guardò Bellatrix. – cosa c’entra… -

- Perché non racconti a questa ragazzina quello che hai detto anche a me? –

Tinker era pallido, quasi grigio. Oscar continuava a singhiozzare tra le sue braccia magre e gli occhi tondi guardavano Ginny pieni di lacrime.

- Tinker non voleva mentire a Ginny. Tinker deve obbedire alla famiglia, ma non voleva mentire a Ginny. –

Ginny non capiva. Ma Bellatrix aveva un’espressione così soddisfatta che non presagiva niente di buono.

- Tinker non vuole dare un dispiacere a Ginny, Tinker le assicura che in realtà il signorino… -

- Piantala – gridò Bellatrix, dandogli un calcio. Tinker si raggomitolò per evitare che colpisse anche Oliver. – e parla. –

Tinker tirò su col naso facendo un gran chiasso, e accarezzò Oliver sulla testa cercando di calmarlo.

- Tinker… Tinker in realtà sa da dove viene il bimbo. Lo sapeva sempre, ma Ginny si sarebbe arrabbiata se Tinker avesse detto la verità. –

Ginny aveva un pessimo presentimento.

- Arrabbiata? Arrabbiata con chi? –

Tinker la guardò, triste.

- Col signorino – singhiozzò, ormai piangendo quanto Oliver.

Ginny deglutì.

- E perché avrei dovuto? –

L’elfo guardò per terra, fissando le sue dita spezzate.

- Perché… perché il signorino ha ucciso i genitori del bimbo. Erano babbani – aggiunse, come se fosse una giustificazione.

Lei sul momento non riuscì neanche a crederci e lo guardò scettica. Chissà cosa architettava Bellatrix facendogli dire quelle cose.

- Tinker, questo bambino lo abbiamo trovato nel bosco. Ai suoi genitori potrebbe essere successo qualsiasi cosa… come fai a dire… -

- Il signorino ha dovuto passare una prova… Tinker era con lui. Il signorino deve uccidere i babbani, è quello che deve fare… e loro vivevano qui vicino, nel bosco… non ci eravamo accorti del bambino. Quando il signorino ha ucciso i genitori era troppo tardi. Tinker ha nascosto i loro corpi e allora si è accorto che c’era anche il bambino, vivo… ma non l’abbiamo ucciso. –

Ginny aprì la bocca, sentendosi come se il sangue avesse smesso di scorrerle in corpo. Non uscì alcun suono ed incrociò per sbaglio lo sguardo trionfante di Bellatrix.

Ma chi potrebbe abbandonare un bambino così piccolo nella foresta?

Potresti cortesemente smetterla di preoccuparti di cose che non ti riguardano?

Lui era stato così impassibile…

Cos’hai fatto al collo?

Improvvisamente capì i graffi. Avevano opposto resistenza, no?

Ehi, Malfoy… non dire a nessuno del bambino.

Non vedo perché dovrei.

Perché, perché non aveva detto subito la verità?

Perché aveva lasciato che lei credesse…

Aveva lasciato che lei credesse che in fondo lui non avrebbe ucciso. Egoisticamente, lei aveva creduto che non avrebbe ucciso… non dopo di lei.

Improvvisamente si sentì come se fosse in un incubo da cui non riusciva a svegliarsi, ma lo voleva, lo voleva con tutte le sue forze.

Voleva uscirne, voleva non avere più a che fare con queste persone, voleva ritrovare l’equilibrio mentale che aveva ottenuto stando con Harry, voleva disinnamorarsi di una persona che non conosceva affatto.

Tutto sommato… forse l’immagine che lei aveva di Draco se l’era costruita da sola. Era stata tutta un’invenzione della sua fantasia.

Così si spiegava perché, anche al di là dell’essere Mangiamorte o no, non erano in grado di stare insieme per più di pochi mesi.

- La cosa… la cosa non mi interessa – tentò di dire Ginny il più dignitosamente possibile. – non vedo proprio perché debba interessarmi. –

Bellatrix fece un sorriso sghembo.

- Forse dovrebbe… in fondo tu non ti consideri una sgualdrina. O magari lo sei diventata, stando qui? Anche se… non hai creduto di essere veramente una Mangiamorte, vero? –

Ginny la fissò, in silenzio.

Bellatrix si guardò le unghie sporche, con aria di finta casualità.

- Credi veramente che il Signore Oscuro si fidi di una che fino a due giorni fa era membro dell’Ordine? Sappiamo tutto di voi. Di quello che fate, di quello che progettate. Siamo più forti di voi, e più deduttivi, evidentemente. Veramente credevate che fosse possibile mandare una spia tra noi, solo perché quel cretino di Draco ha lasciato che ti infiltrassi nella sua vita? –

Improvvisamente Ginny non fu più tanto sicura di volerla ascoltare.

In fondo, sapeva che loro sapevano. Ma questa improvvisa arringa di vittoria… aveva una sensazione strana.

Le sembrava costruita apposta, costruita da tempo.

Prima che potesse muovere la bacchetta, senza alcun preavviso Bellatrix le crollò accanto come spinta da una forza bruta, in uno scintillio di luce rossa, perdendo i sensi.

Dietro le sue spalle, qualcuno aveva lanciato uno Schiantesimo.

Era Draco.

Ginny non seppe dire niente. Non volle dire niente, in realtà.

Un grazie era stupido. E tutto sommato, se lo meritava?

Lui la fissò in silenzio, come aspettando che lei dicesse qualcosa.

Ma Ginny non riusciva nemmeno a guardarlo. Non riusciva nemmeno a pensare… Oliver piangeva così tanto che le sembrava che la testa le scoppiasse.

- Andiamo, Luna – fece Ginny con una voce un po’ più tremante di quanto si aspettasse. Sperò che le gambe la reggessero in piedi.

La ragazza rimase ancora immobile.

- Che c’è, adesso? – fece, quasi disperata.

- Non possiamo uscire – disse la ragazza, rivolgendole uno sguardo ovvio.

Ginny la fissava e si costringeva a non guardare verso Draco, anche se riusciva a sentire la sua presenza quasi fisicamente.

- In che senso? Cosa dovremmo fare, secondo te? –

- Intendo che proprio non possiamo. Penso ci sia un incantesimo attorno al castello. –

Ginny la guardò. Non le credette, e di forza la prese per il braccio e la trascinò nel corridoio.

Senza volere, incrociò lo sguardo di Draco che fu tanto forte da impedirle altri movimenti.

- Guarda che Lunatica Lovegood ha ragione. Non si può uscire né entrare. –

Dicendolo, prese fuori dalla tasca della veste una sigaretta e se l’accese. Ginny non poteva crederci.

La tenerezza che aveva provato ultimamente nei suoi confronti pensando che, in fondo, non era colpa sua se era venuto su un po’ stronzo, che era recuperabile, che in fondo il cuore gli batteva in petto… tutto svaniva poco a poco dalla tua testa e dal suo cuore, come un’impronta sulla riva del mare.

- E allora tu? – disse, cercando di essere più gelida per quanto si sentisse disperata.

Eppure notò che le dita di Draco che reggevano la sigaretta non stavano ferme. Era come se tremassero impercettibilmente… e le sue labbra erano più pallide del solito.

- Io sono stato autorizzato. –

- Perché? –

- Perché il Signore Oscuro mi ha appena concesso l’onore di uccidere Harry Potter. –

Ginny si sentì quasi mancare, così tanto che dovette lasciare il braccio di Luna ed appoggiarsi al muro.

Non si sentì mai girare la testa come in quel momento.

- Tu non lo farai – disse, con una voce che non le parve nemmeno la sua.

- Sì, beh… lo devo fare. E lo voglio anche. Immagino che tu conosca il motivo. –

Ginny voleva urlare. Non poteva stare succedendo, non poteva.

Non riusciva a guardarlo negli occhi, il suo sguardo passava dalla sua fronte bianca, alle mani, le dita, la sigaretta, la veste.

Come poteva solo poche ore prima essere stata così, così vicina a lui ed ora averne una paura folle?

- Draco, ascolta. E’ stato tuo padre a tendere un agguato a Harry. Siete voi a fargli la guerra. Lui si è difeso. Ha fatto quello che avresti fatto anche tu se fossi stato in lui. Cerca di ragionare… -

Queste ultime parole ebbero su di lui l’effetto della peggiore delle provocazioni. La guardò col suo sguardo più gelido, perfino arrabbiato, e lui non si arrabbiava mai nel senso comune del termine, non era mai furioso.

Eppure, ora lo era. Buttò a terra la sigaretta con un gesto violento, senza spegnerla.

- Ragionare? Sì, mi sembra un’ottima idea. Perché no? Su cosa vogliamo ragionare, Ginevra Weasley? Sul fatto che sei voluta per forza venire qui come se fosse un gioco, sul fatto che hai voluto per forza tirare fuori da sotto terra una cosa morta e sepolta, sul fatto che mi hai causato solo problemi, sul fatto che ero disposto a sorvolare perché ho pensato, cazzo, magari questa ci riesce veramente a diventare una con le palle. Ragioniamo sul fatto che ora a guardarti si direbbe che una scelta l’hai presa, e hai scelto di stare dalla parte di chi ha ucciso mio padre. Benissimo, non mi aspettavo di meglio da te. Ma prendi atto che ora siamo definitivamente nemici, Weasley. E ringrazia che lo so e pur avendoti davanti a me non ti ho ancora ucciso. –

Ginny stavolta lo guardò per davvero. Non avrebbe pianto.

Eppure non si era mai sentita così triste.

Eppure non aveva mai provato la sensazione di non sapere, non sapere, non sapere assolutamente che fare.

- Se tu… se tu vuoi a uccidere Harry… prima devi vedertela con me. – fu l’unica cosa che riuscì a dire, col groppo in gola.

Draco aveva le labbra bianche e la gola secca e la testa gli faceva malissimo e non riusciva a smettere di guardarla, come se in qualche modo potesse cambiare, così, all’improvviso.

Sapeva che sarebbe arrivato questo momento.

Ma era così impreparato come poche volte in vita sua.

- Era questo che in fondo volevi? Che ti uccidessi? –

Ginny strinse le labbra. Il ricordo di quella volta in cui l’aveva quasi fatta cadere dalla torre di Astronomia era così lontano. E le sembrava tutto così diverso.

Sentiva che se ora fossero stati su quella torre… lui l’avrebbe lasciata cadere.

E lei non si sarebbe aggrappata a lui.

Ginny alzò la bacchetta davanti a sé, facendo arretrare Luna, che la fissava con occhi grandi e disse qualcosa che lei non riuscì a sentire. Tinker stava nascosto dietro la porta col bambino in braccio che aveva smesso di piangere e li guardava senza capire.

Istintivamente, anche Draco estrasse la bacchetta.

Non avevano bisogno di guardare le rispettive bacchette; continuavano a fissarsi negli occhi, come se il successivo gesto dell’altro fosse stampato nell’iride.

- Ti sei convinta che un Mangiamorte non cambia, ora? – disse Draco a denti stretti, ostentando un ghigno. Un rivolo di sudore gli percorse la tempia.

Eppure una parte di lui tremava ancora.

Non voleva ucciderla. Non voleva, non voleva, non voleva.

Ma lei era un’altra, ora. Senza veste, era tornata ad essere quell’insopportabile Grifondoro di sempre. Era stato lui a immaginare che non lo sarebbe rimasta.

Era stata una fantasia.

La verità stava in quelle mani che stringevano le bacchette, in quegli occhi che si guardavano circospetti, in quella paura di morire da un momento all’altro, nel modo in cui lei aveva detto ‘Harry’, nel modo in cui era disposta a morire per Harry, nel modo in cui lui la odiava, la odiava tantissimo per questo.

- No, non sono convinta – rispose Ginny, cercando di ricacciare indietro delle lacrime che venivano da chissà dove. – non sono convinta per niente. Tu hai ucciso, ma se me lo avessi permesso io avrei ucciso quella parte di te che non ti permette di vivere. –

Draco la guardò con gli occhi più grigi che mai.

- Hai l’occasione di farlo adesso, allora. – disse, alzando la bacchetta di fronte a sé in posizione d’attacco.

Ginny aggrottò le sopracciglia cercando di trattenere cose che avrebbe voluto dirgli, ma che l’avrebbero resa debole ai suoi occhi.

Ma perché, anche adesso, io non riesco a pensare di fare a meno di te?

Le mani le sudavano tanto che la bacchetta le scivolava quasi di mano.

Sapeva che non sarebbe stata lei a ucciderlo.

All’improvviso, un altro sprazzo di luce rossa quasi l’accecò, e vide Draco sussultare e sbattere violentemente contro il muro del corridoio.

Ginny non capì finché non guardò dietro di sé, in cima alle scale, dove Harry, con una bacchetta in mano, con le spalle abbassate per il dolore ed il viso sporco di sangue incrostato, la guardò.

- Harry! – gridò lei. – come hai fatto… -

- Non lo so – fece il ragazzo. – mi sono svegliato e potevo muovermi. E la porta della prigione era aperta. La cosa non mi pia… - prima che potesse finire la frase, ricevette a sua volta uno Schiantesimo che lo mandò dritto contro un armatura, che con un gran chiasso si smontò sopra di lui graffiandolo ovunque.

Draco si era rialzato e teneva la bacchetta pronta.

- Potter, non mi sembri in forma – gridò.

Ginny guardava da una parte all’altra e si sentiva perfettamente inutile e terrorizzata. Guardò Luna, come se fosse la sua ultima speranza, ma lei sembrava impegnata a guardarsi intorno, persa in chissà quali pensieri.

- Sono abbastanza in forma da ammazzarti – fece Harry, mandando un incantesimo di rimando che Draco schivò per un pelo.

Ginny gridò il nome di Harry un paio di volte, come se servisse a qualcosa, ma i due ragazzi non facevano che guardarsi come due leoni prima di sbranarsi a vicenda.

Luna le toccò il braccio talmente all’improvviso che sussultò.

- Ginny – disse. – siamo solo noi quattro in questo castello, ora. –

La ragazza aprì la bocca ma non disse niente.

Si guardò intorno.

Tutto era deserto, ancora più di prima. Il silenzio ora era davvero troppo sospetto.

Guardò nella stanza da dove era uscita e si sentì gelare.

Il corpo di Bellatrix non c’era più. E così pure Tinker e Oliver.

C’erano solo loro, ora.

- Io penso che non sia un caso. – disse Luna, facendo spallucce come se la sua opinione non importasse poi tanto.

Gli occhi verdi di Harry e quelli di grigi si fissavano senza sosta e le mani si stringevano di più attorno alle bacchette.

Le venne in mente una cosa. Una volta aveva letto da qualche parte una storia di una ragazza che moriva per proteggere qualcun altro. All’epoca, non ci aveva riflettuto granché: è ovvio che, se ci tieni davvero, quel sacrificio lo fai, no?

Ma se devi scegliere a chi vuoi più bene, per chi vuoi sacrificarti?

La vita è una pistola con una sola pallottola. Non hai altre cartucce da sprecare, solo una.

Nel giro di pochi istanti, uno dei due avrebbe pronunciato un avada kedavra.

Mentre lei guardava?

No, non era nella sua indole.

 

Rodolphus osservava le finestre del castello da una collina lontana qualche centinaio di metri.

- E così Harry Potter morirà? Ma perché non per mano vostra, se posso chiederlo? –

Il Signore Oscuro sorrise con gli occhi iniettati di sangue.

- Ma certo, Rodolphus, che morirà per mano mia. –

L’uomo evitò di guardarlo, tenendo sempre la testa bassa, ma aggrottò le sopracciglia.

- E come farete? Abbiamo evacuato il castello apposta… -

- Sì, in effetti un po’ mi dispiace di non poterlo fare materialmente. Del resto, non vedo perché prendersi dei rischi inutili. Considerato che io vedo tutto attraverso gli occhi del giovane Malfoy. E poi così è molto più interessante. Una vittoria al cento per cento, giocata proprio come hanno voluto loro. Distruggendosi completamente da soli. –

Rodolphus annuì, pensieroso.

- Ma, scusate se oso, e se la ragazza non si comportasse come previsto… -

Il Signore Oscuro rise.

- Oh, lo farà. Dimentichi che l’ho conosciuta nel momento in cui si è più reali, meno costruiti. E’ questo il bello della situazione che abbiamo costruito: una squisita prevedibilità per noi, e l’assoluta incoscienza per loro. –

Rodolphus osservò Bellatrix che rideva probabilmente al pensiero di ciò che accadeva nel castello, e poi tornò a guardare quelle finestre attraverso le quali solo il Signore Oscuro poteva vedere.

Lucius sarebbe stato fiero di suo figlio, stavolta.

Improvvisamente, un grido si levò da sotto la collina e Rodolphus andò con lo sguardo verso il cortile del castello, dove aveva lasciato gli altri Mangiamorte.

Prima che potesse dire qualcosa, il Signore Oscuro fece schioccare la lingua irritato.

- Sono arrivati gli amichetti di Silente – disse, sprezzante. – vai e tienili occupati. Comunque, non ci vorrà ancora molto. –

Aveva piovuto tutto il giorno e solo ora le nuvole si erano diradate.

All’orizzonte il sole si abbassava in un tramonto tra i più belli che si possano vedere, di un rosso così sfolgorante da sembrare un enorme incendio divino.

Quando il sole si fosse risollevato, il giorno dopo, una cosa era certa: tutto sarebbe stato diverso.

 

 

 

 

 

**

 

 

Ehmmmmm…

Sì, sono proprio io. Tornata. Con un pelino di ritardo. Proprio un pelino (mi dicono che non posto da settembre dell’anno scorso… l’unica cosa che posso dire è EHM).

Che posso dire oltre a inchinarmi a trecentosessanta gradi e urlarvi un enorme ‘mi dispiaceeee’ sperando nel vostro perdono? Le motivazioni del mio ritardo ci sono, e a mia discolpa devo dire che seppure non abbia pubblicato, ho scritto, però con mooolta lentezza. Davvero, sorry, io stessa detesto quando le fic non continuano per secoli, ma questa volta era necessario; spero nella vostra magnanimità (e uso anche un parolone per impressionarvi, si sa mai XD).

Come forse avrete intuito, ci avviamo verso la fine della storia. Credo di poter dire con sicurezza che questo è il penultimo capitolo della storia (ah, e non perché mi sono stufata, ma perché l’avevo programmato fin dall’inizio… forse è per questo che mi ci è voluto tanto per scriverlo). Nel frattempo è uscito il settimo libro (AAAAAAH) perciò la mia fic si è definitivamente trasformata in una ‘storia parallela’ alla serie di HP. Spero che possa continuarvi a interessare comunque.

Ringrazio TANTISSIMO tutti quelli che mi hanno scritto chiedendomi che fine avessi fatto, perché non scrivevo più eccetera. Non avete idea di quanto ruolo abbiate giocato nella stesura di questo capitolo, perché l’incoraggiamento è il nutrimento di chiunque faccia un’attività affascinante ma anche emotivamente stressante come scrivere. E anche chi mi ha semplicemente commentato con rassegnazione. Grazie davvero. Graaaaaazie.

Okay, ora smetto di dirlo (grazie).

Spero non vi siate completamente dimenticati di questa storia, vabbè XD

Forse non è stato il più avvincente commento post-capitolo della storia, ma se avete altro da chiedermi fatelo XD E ancora: scusate l’indegno ritardo.

A presto (non fate quelle facce…)!

 

Miwako__

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** We are just ash in a jar - till the end 1 ***


WE ARE JUST ASH IN A JAR – till the end 1.

 

“Only priests and pounds can save us now    

Only a sign from God

Or a hurricane can bring about

The change we all want

And we've done it again

This trick we have

Of turning love to pain

And peace to war

We're just ash in a jar

 

So turn and turn again

We are calling in all the ships

Every traveler please come home

And tell us all that you have seen

Break every lock to every door

Return every gun to every draw

So we can turn, and turn again…”

 

All Thieves, Turn and turn again.

 

 

Avrebbe visto tutto passare davanti ai suoi occhi?

L’odore del prato, gli occhi di sua madre, il profumo del bucato appeso ad asciugare, il ronzio delle zanzare di notte, il vento, la neve, le scarpe rotte, le risate, i singhiozzi, le strette al cuore, i salti di gioia, la paura, la noia, i maglioni, l’inverno e l’estate e l’autunno e la primavera, gli spaghetti al sugo e la cioccolata calda, i biglietti di San Valentino ed i regali di compleanno, le punizioni, i baci voluti e non voluti, gli abbracci veri e quelli falsi, l’amore e l’odio e l’amicizia e l’invidia, la timidezza, le esitazioni, il rumore delle lenzuola che sfregano tra loro, la sensazione di quando si sfiorano i piedi nudi di chi è vicino a te nel letto, i momenti di calma e l’agitazione?

Eppure, no: niente di tutto questo. Non poteva vedere niente perché aveva gli occhi pieni di lacrime, e se anche avesse potuto scorgere qualcosa in quella nebbia opaca, non avrebbe visto altro che occhi grigi e occasioni perse, e vite diverse che avrebbe potuto vivere. Tutto tranne il presente era accettabile.

Se esistevano mondi paralleli, magari ora lei ora faceva il bagno in una vasca piena di bolle; lui sarebbe entrato nella stanza con le braccia incrociate e quel ghigno e avrebbe detto qualcosa di sgradevole e lei avrebbe fatto finta di non sentire e lui si sarebbe avvicinato per urlarglielo bene nelle orecchie  e lei ridendo l’avrebbe tirato per la cravatta facendolo cadere nella vasca. Lui si sarebbe infuriato e lei avrebbe riso, e sarebbe andata così per sempre, o almeno per quanto il cuore le avrebbe detto che andava bene così, che quella era la sua strada.

Ma ormai la strada che percorreva era tutt’altra, e il mondo era ora e la vita era adesso, con le mani sudate e tremanti strette attorno alla bacchetta, lo stomaco rivoltato, e non vedere niente, niente di lui che esitasse, che le facesse cambiare idea.

“Perché non lo fai, Weasley? Non è per questo che sei venuta qui?”, fece lui, guardandola sprezzante e inespressivo, anche se più pallido del solito. La bacchetta ancora puntata contro Harry.

“Se tu lo farai, io lo farò… a te la scelta”, replicò Ginny, con una voce così debole che non le parve nemmeno la sua.

Sembrava che passassero minuti, ore; e poi mesi e poi anni.

Eppure l’istante decisivo fu talmente rapido da sembrare accelerato.

Ginny non aveva fatto che pregare dentro di sé, fino alla fine, che qualcosa cambiasse. Invece, come spesso accade, niente cambiò. Niente lo fece vacillare e lei capì che non l’avrebbe mai visto esitare, per niente, ma soprattutto per nessuno.

Lo vide alzare la bacchetta e seppe che era tutto finito. Seppe che dal momento in cui la luce verde fosse scaturita dalla bacchetta di Draco lei ci si sarebbe buttata contro, perché Harry aveva più valore di qualsiasi altra cosa e lei non era che una spettatrice che aveva voluto per forza far parte dello spettacolo, come una stupida.

Ma la luce verde non scaturì dalla bacchetta di Malfoy. Fu un attimo: la vide sfrecciare da sopra la propria spalla, tagliare l’aria come la lama di un coltello, e colpire Draco dritto nel petto come un pugno ben assestato.

Ginny si sentì come se non avrebbe mai più potuto respirare. Negli occhi di Draco le pupille si ridussero a due puntini talmente piccoli che parvero scomparire in una pozza di nebbia grigia. Poi cadde a terra con un tonfo sordo e tutto tornò immobile.

Ginny avrebbe voluto buttarsi di lui, gridare, voltarsi, fare qualsiasi cosa invece che rimanere così, ferma con ancora la bacchetta sollevata, senza che l’aria passasse attraverso i suoi polmoni, come una statua.

“Mi dispiace, Ginny”, disse la voce di Harry, distorta e ovattata come se lei avesse del cotone nelle orecchie, “ ma lo sai che non avevo scelta.”

Non se ne accorse nemmeno quando mosse un passo tremante in direzione del corpo senza vita di Malfoy. Non gli sembrava neanche vero, sembrava uno scherzo.

Le veniva da vomitare.

Mosse qualche passo in avanti senza ascoltare ciò che Harry le diceva, cose che sembravano insensate, ora. Si sentì ricadere con violenza sulle ginocchia; ma non provava dolore. Era una strana sensazione, in effetti: era come se non sentisse altro che un fischio, un fischio fortissimo, e non lo sentiva solo con le orecchie, ma con tutto il corpo: le attraversava il viso, il collo, i polmoni, lo stomaco, l’inguine e le gambe e le punte dei piedi. Con le dita che praticamente erano diventate insensibili al tatto, toccò un lembo della camicia di Draco: sotto la pelle era talmente gelida che perfino lei poteva sentirla.

Ginny, dobbiamo andare, prima che arrivino gli altri Mangiamorte”, diceva la voce di Harry, sempre più distorta, “dobbiamo andare…

Ma per lei non ricordava l’esistenza di altri posti dove andare.

Ricordava solo lenzuola calde e camice bianche, pavimenti lucidi e sorgenti di acqua calda. Poi ricordava anche cose che non esistevano, bolle di sapone in una vasca che non era mai stata sua.

Ginny… dobbiamo andare”.

Ma lei chiuse gli occhi e pensò che non avrebbe mai, mai, mai più smesso di piangere.

 

Non fu poi tanto difficile individuare il castello, anche nel temporale e nella pioggia battente.

Era proprio come uno si immagina un castello che sarebbe stato teatro di una battaglia dagli esiti incerti: avvolto nella semi-oscurità, con i lampi che si stagliavano a tratti nel cielo e i tuoni che facevano tremare la terra.

“Qualunque cosa succeda, la nostra priorità è trovare Harry e portarlo via sano e salvo”, gridò Lupin da sotto la veste impregnata di pioggia, la bacchetta stretta nella mano bagnata, cercando di sovrastare il rumore della pioggia sulla terra e dei tuoni, “non state troppo uniti ma non separatevi. Se vi prendono da soli…”, non finì la frase, non ce n’era bisogno. La sua voce, forse per lo sforzo di gridare, o forse no, tremava.

Un lampo squarciò il cielo seguito da un tuono che li fece sobbalzare tutti. Erano una settantina, forse cento. Contro chissà quanti Mangiamorte. In un territorio che non conoscevano.

Nessuno parlava.

Ron teneva stretta la bacchetta e trascinava i piedi con le scarpe piene di acqua e i capelli fradici che gli si erano appiccicati alla fronte. Guardava il castello, non guardava mai per terra. Là dentro c’era Harry. C’era Ginny. Tutto poteva essere recuperato, risolto. Poteva risolversi tutto per il meglio… poteva risolversi tutto per il meglio. Doveva.

Si voltò a guardare Hermione, alla sua destra. Non le vedeva il viso a causa del buio e della veste e del cappuccio, ma intravedeva la sua figura un po’ bassina, tutta esile e fradicia, e quando un lampo esplose in cielo riuscì quasi a intravedere i suoi occhi. Terrorizzati.

Si sentì stringere lo stomaco.

E se…

E se invece non fosse andato tutto bene?

Se tutto non si fosse risolto per il meglio?

Ancora una volta gli tornò il pensiero che, lo sapeva, lo avrebbe tormentato per sempre in ogni caso.

Lui voleva bene a Harry, gli voleva bene con se fosse nato con lui, come se fosse un fratello, ma anche di più, perché era anche suo amico. E certo voleva bene a sua sorella, e il solo pensiero che fosse vissuta in quel castello lo aveva perseguitato ogni notte.

Ma non poteva impedirsi di pensare, se lei, se lei dovesse morire

Il ricordo che lui le avrebbe lasciato di sé: egoista, stupido, traditore, bugiardo, inaffidabile, ipocrita, egocentrico, vanitoso, ottuso, ordinario, irresponsabile, insicuro, superficiale.

Ecco cos’era, ecco chi era Ron Weasley.

E tutti quei giorni, tutti quei giorni che avrebbero potuto passare insieme, quei giorni in cui avrebbero potuto mangiare giapponese sul pavimento del loro appartamento, circondati dagli scatoloni dei libri di Hermione e dai poster ancora arrotolati di lui. Tutti quei giorni che avrebbero potuto passare a fare progetti – lui che voleva fare un graffito hiphop sul muro e lei che gli diceva che aveva vent’anni non quindici – che poi non avrebbero messo in atto perché tanto litigavano, tutti quei giorni che avrebbero potuto passare a gironzolare per Londra, a stendersi sull’erba del prato a leggere fumetti facendo le voci, a provare i caffè di ogni quartiere, a provare a dare da mangiare agli scoiattoli – e lui che subito si spazientiva perché non si avvicinano mai, ad andare in quei posti con quei grandi schermi in cui fanno vedere i film, vecchi però, e lui si addormentava sempre e lei lo sgridava perché durante la proiezione aveva russato e lei si era imbarazzata tantissimo…

Tutto quel tempo.

Tutto quel tempo non gli era mai sembrato così fondamentale.

Giorni, ore, minuti perfetti se n’erano andati senza nemmeno effettivamente esistere e non poteva che incolpare se stesso.

Ed ora, sotto la pioggia, con l’incertezza di quello che sarebbe stato di loro, se questa era solo una delle tante battaglie che avevano combattuto insieme o era l’ultima o la prima. Ora, lui si chiese se era pioggia o se gli veniva un pochino da piangere, solo un pochino, meno male che era buio se no sai che vergogna, che razza di soldato era, Harry lo avrebbe preso in giro a vita.

Quando finalmente si decise a ignorare la stretta al cuore e le gambe un po’ instabili e a smettere di fissare Hermione come se si volesse imprimere nella testa quel profilo per bene, perché non si sa mai, sentì delle dita sottili stringergli il polso e poi circondargli la mano, stringendo forte forte.

Hermione non lo guardava e con il rumore della pioggia era difficile capire quello che diceva a voce bassissima, tanto che lui si avvicinò inconsciamente per sentire.

“Ron, tu sei un cretino e io pure, perché non so se queste cose si possono perdonare, voglio dire, se perdonare vuol dire dimenticare non ti perdono, non ti perdono Ron, io ti odio, ora, però, ecco, ora io ho anche un po’ di paura e… non so, in questa prospettiva non riesco a…

Ecco, come al solito non riusciva a esprimersi senza fare un monologo. Hermione non si sopportò in quel momento. Ma aveva la nausea ed era tutto così innaturale, come se stesse vivendo uno di quegli incubi in cui non sei proprio te stesso, cioè, lo sei, però è come se ti guardassi dall’esterno e pensi, cavolo, non vorrei proprio essere nei miei panni, adesso.

Ron la guardava ma lei, nel buio, non riusciva a vederlo. Perché non riusciva a vederlo? E se non ci fosse più riuscita?

La voce le si spezzò.

“Ecco, io in un’altra situazione non te lo direi mai, ma… ora come ora, io ho paura e… di tutti i pensieri che ho nella testa, quello più insistente è che anche se non ti perdono e ti odio, Ron, io ti voglio bene e non voglio che tu muoia e ti odierei ancora di più se morissi.”

In realtà, non voleva dirlo così; ma questo era il meglio che potesse fare. A volte pensava che lei non era proprio adatta a Ron: per lui ci voleva una che in questa situazione gli si buttasse tra le braccia dicendo che non importava il passato, che lo perdonava e che lo amava.

Ma lei non lo perdonava, non sapeva neanche come si facesse a capire quando perdoni qualcuno – quando lo ami ancora, quando provi qualcosa, quando non provi niente? - eppure al tempo stesso gli stringeva forte quella mano grande grande e ruvida e si sentiva come se non fosse umanamente in grado di lasciarlo più.

Ron la fissò e, come al solito, non seppe cosa fare. Guardò verso la collina e intravide una figura di Mangiamorte.

Tutto il gruppo si fermò, alzando le bacchette.

Al Mangiamorte se ne affiancò un altro. E un altro. E un altro, un altro, un altro…

Erano centinaia e aspettavano. Aspettavano che si avvicinassero abbastanza per colpirli.

La mano di Hermione stava stringendo tanto la sua da fermargli la circolazione. Lui gliela strinse ancora più forte di rimando e per un attimo le trattenne il braccio, le si avvicinò mentre tutti i membri dell’Ordine passavano loro accanto con le bacchette pronte.

Hermione, forse non è il momento, ma ti volevo chiedere un appuntamento allo stesso bar dell’altra volta, perché volevo assaggiare anche la crostata di ciliegie e poi lì fanno il caffè è buono, no? Che ne dici, ti andrebbe, domani?”

Lei lo guardò da sotto il cappuccio, con i capelli che le gocciolavano sulla faccia.

“… sì”, sussurrò, senza voce, “sì, può andare, insomma.”

“Anche se mi odi?”

“Sì.”

“Bene. Allora è deciso”, non lo vide ma sentì che sorrideva.

A Hermione strinse la gola e pianse in silenzio, però sorrise, anche.

“Okay”, disse, “okay”.

 

Avrebbe visto tutto passare davanti ai suoi occhi?

Il giardino vuoto, le stanze enormi e deserte, i capelli biondi, i mezzi sorrisi, gli schiaffi, le litigate dei suoi genitori, i singhiozzi di sua madre, le porte che sbattevano, le mani gelide da far male, i brividi di freddo, la paura e l’indifferenza, le mancanze, la solitudine, la solitudine, la solitudine; il corridoio, le rose bianche, le unghie laccate di rosso, le carezze, le lenzuola, le grida, gli sprazzi di luce rossa, i singhiozzi, le lacrime, gli sguardi freddi; tanti sorrisi falsi e qualcuno vero, le torri di astronomia, tanti letti diversi, le mura umide, gli occhi azzurri, gli anelli al dito troppo stretti, i respiri lenti e tranquilli, soddisfazioni vere e soddisfazioni false, non pensare a niente e avere un chiodo fisso, i pomeriggi, il gelo, le nuvole?

Draco non conosceva i suoi limiti. E questo poteva essere un vantaggio, perché poteva spingerlo anche oltre essi, e non sempre era un fiasco. Ma d’altra parte, quando superi i tuoi limiti ti fai del male, punto. Altrimenti non ne avresti, di limiti, e tutti potrebbero fare qualsiasi cosa, senza conseguenze.

Un tempo il non essere in grado di uccidere era stato un limite, per lui. L’aveva superato, poi, semplicemente provando. Uccidere sconosciuti sotto costrizione non era poi tanto difficile: bastava stringere bene gli occhi quando il loro pensiero andava a tormentarlo, ogni singola notte, nei momenti che precedono il sonno ed il sublime oblio.

Uccidere Harry Potter non poteva essere tanto peggio. Tanto per cominciare, della vita di Potter gliene fregava anche meno di quella di uno sconosciuto. Vederlo puntargli la bacchetta contro era così irritante da fargli venire voglia di farlo subito, senza nessun classico commiato da cattivo.

L’unica variante era che anche Ginny Weasley gli stava puntando la bacchetta contro: la stessa persona che fino a qualche ora prima aveva dormito vicino a lui. E non c’è niente di più intimo di dormire con qualcuno. Per dormirci insieme, Draco Malfoy doveva fidarsi così tanto da essere diventato totalmente cieco, imbecille, partito di testa, per lui era come dare all’altra persona un coltello e invitarlo allegramente ad affondarglielo nel collo.

Tutto sommato, vista come era andata a finire, aveva fatto bene durante la sua vita a non lasciare che nessuna dormisse nel suo letto.

Non poteva dire sinceramente che non si aspettava che Ginny Weasley sarebbe tornata a fare la buona; sì, era stato evidente, ma si era divertito a pensare il contrario. Gli veniva da ridere: alla fine tutto quello che pensava sul genere umano si rivelava vero, no? Un momento abbassi la guardia e il momento dopo sei morto.

Chissà se anche suo padre aveva pensato la stessa cosa, poco prima…?

“Perché non lo fai, Weasley? Non è per questo che sei venuta qui?”, si sentì dire. Era soddisfatto di come gli era uscita bella fredda la voce; e dire che dentro si sentiva come se avessero appiccato fuoco ai suoi organi interni.

La mano era ben ferma sulla bacchetta, era pronto a lanciare l’incantesimo. L’avrebbe fatto. Sotto lo sguardo di Ginny Weasley.

Dio, quanto la stava odiando in quel momento. La odiava tanto che se avesse potuto l’avrebbe scrollata, schiaffeggiata. Odiava tutto di lei: odiava il modo che i suoi occhi avevano di fissarlo, odiava il suo pallore innaturale, odiava la lacrima che le scendeva sulla guancia, odiava la sua mano sulla bacchetta puntata contro di lui, odiava le sue spalle irrigidite che proteggevano Harry Potter. Odiava tutto di lei.

“A te la scelta”, gli disse, con la voce ridotta ad un patetico pigolio.

Lui strinse involontariamente la mano sulla bacchetta.

Poteva essere un ottimo compromesso, no? In fondo, si aspettava qualcosa di diverso, da lei, dalla vita, da se stesso? Sua madre sarebbe stata fiera di lui, anche se forse avrebbe pianto.

Visto? Avrebbe addirittura avuto una persona che avrebbe pianto per lui. Una sola persona, esattamente come per suo padre.

Era arrivato solo, aveva vissuto solo, se ne sarebbe andato solo.

Ginny Weasley l’avrebbe davvero ucciso?

Beh,  in fondo, la cosa che gli era sempre piaciuta di lei era che era l’unica persona di cui non era in grado di prevedere il passo successivo.

La guardò un’ultima volta. Lei ricambiò lo sguardo. In quel momento non era bella come lo era stata sempre, mentre era con lui, aveva i capelli appiccicati alla testa, rivoli di sudore lungo il collo e le labbra tanto bianche da essere quasi sparite.

Eppure anche adesso, anche adesso che tutto finiva, anche quello che non era mai iniziato, anche adesso non riusciva a convincere il suo cuore a smettere di battere.

Alzò la bacchetta. Vide Ginny trattenere il respiro.

Forse in un’altra vita, tutto sarebbe stato diverso.

Potter imitò il suo gesto e per un lungo attimo nessuno si mosse, nessuno fece nulla, nessuno disse niente.

Una sola persona.

Fu un attimo: l’incantesimo scaturì dalla sua bacchetta dritto verso Potter. La luce verde sfrecciava nell’aria come scosse elettriche lungo la superficie dell’acqua; ma Harry non fu raggiunto.

Draco sentì il rumore di una bacchetta che cadeva e rotolava nel pavimento umido, mentre la luce spariva nel petto di Ginny Weasley.

I suoi capelli rossi rimasero come una macchia nell’aria, per un istante, prima di distendersi a terra con il corpo immobile.

Gli occhi erano chiusi e l’espressione della bocca non era come quelle di tutti quelli che erano stati uccisi da un Avada Kedavra; era tranquilla.

Draco la fissava a distanza, immobile. Udì distrattamente la sua bacchetta che gli scivolava dalle mani.

Prima che potesse muovere un muscolo, si sentì sbattere con violenza contro il muro, tanto forte che sentì il rumore stridente di un osso che s’incrina.

Harry Potter lo aveva afferrato per la camicia, fissandolo con uno sguardo che non gli aveva mai visto prima: sembrava impazzito. Gli diede un pugno sul viso e Draco sentì i capillari del naso rompersi e il sangue scivolargli sulle labbra con un sapore ferrastro.

“Cos’hai fatto! Cos’hai fatto!”, gli gridava contro, così forte che la sua voce rimbombava in tutto il castello, “ come hai potuto, sei…”, e gridava e gridava e gridava, e Draco si lasciava scuotere come un peso morto, e si lasciava prendere a pugni e sentiva il sangue scendergli dal naso e dalle labbra, ma non si muoveva e fissava Potter negli occhi per non guardare oltre le sue spalle, dove s’intravedeva una macchia rossa che non riusciva e non voleva mettere a fuoco.

Poi, Harry smise di urlare e di scuoterlo. Era pallido e magro e col respiro affannoso, pronto con una mano a colpirlo nuovamente in viso. Ma non lo fece.

“Come hai potuto…”, disse in un sussurro. Lo lasciò, abbandonando le braccia lungo i fianchi.

Draco non era sicuro del tono che avrebbe avuto se avesse risposto.

E infatti rimase immobile e non disse niente.

 

Ginny si stese sulla sabbia respirando a fondo l’aria salata. Qualche granello le si infilò tra le dita dei piedi e tra i capelli.

Avrebbe potuto stare così per sempre.

Poi però qualcuno le diede un pizzicotto un po’ violento al polpaccio.

“Ahia!”, aprì gli occhi. Draco la fissò con quel suo solito mezzo sorrisetto con la fossetta all’angolo della bocca.

“Non l’ho fatto apposta”, fece, sarcastico.

“Imbecille. Stavo così bene…”.

“Ti entrerà tutta la sabbia nelle chiappe”, replicò lui. Lei lo colpì alla spalla con tutta la forza possibile.

“Che male”, sorrise lui, minimamente dolorante, “che ci vuoi fare, Weasley, se sono più forte di te?”

Ginny fece una smorfia.

“Più forte di me, sì, ma guardati con quelle braccia rachitiche. Sembra che tu sia cresciuto al buio.”

Draco inarcò le sopracciglia, ironico.

“Magari è così.”

“Se fossi cresciuto in casa mia a quest’ora saresti bello, alto e sano come i miei fratelli.”

“Anche stupido, dunque.”

“Per quello ci hanno già pensato i tuoi.”

Draco le diede un altro pizzicotto molto doloroso.

“Ahia! Non ti hanno nemmeno insegnato a rispettare le ragazze!”

“Perché dovrei rispettare le ragazze?”

“Perché siamo creature delicate come un fiore.”

“E tu ti includi nella categoria?”

Ginny lo fissò disgustata. Ma una ciocca di capelli biondissimi che gli ricadde sulla fronte contrastava con i suoi occhi grigi e, come le accadeva a volte da quando lo conosceva, si bloccò in completa contemplazione. Certo, un po’ mentiva quando diceva che non era bello – anche se deboluccio lo era, in fondo – ma non voleva accrescere il suo già strabordante ego.

“Senti, ‘Malfoy’”, gli disse, avvicinandosi a lui col viso. Lui fece il suo solito scatto all’indietro, cosa non molto carina da fare con una ragazza, però lei lo sapeva, o almeno le piaceva pensare di saperlo, che lui era così, che gli piaceva stare nella sua solitudine. Però a volte la lasciava avvicinare, un pochino.

“Che vuoi?”, sbottò lui, ma non la allontanò nemmeno quando lei posò una mano sulla sua, che poggiava sulla sabbia. Non le strinse la mano, ma non la scacciò nemmeno. Questo le faceva sempre aumentare i battiti del cuore, anche quando aveva quello sguardo indifferente, anche quando le parlava male.

“Pensi che sia un po’ stupida a…

“Sì.”

“Lasciami finire, idiota! Pensi che sia un po’ stupida a…”, fece una pausa, abbassando lo sguardo. Poi tornò a guardarlo negli occhi, “a credere che forse, un giorno, tutto tornerà a posto e, forse… non so, forse…

Draco la fissò col suo solito sguardo indifferente.

“Sì”, rispose, “penso che sia un pensiero stupido.”

Ginny lo guardò.

“Però forse non penso che tu sia stupida. Non del tutto. Anche se, diciamolo, sei testarda come un mulo. E non nel senso buono del termine. Sei stronza, spesso. E anche imbranata. E a certe cose non ci arrivi se non te le si spiega più volte. Ah, e poi non ti fai mai i cazzi tuoi. E sei anche una discreta rompicoglioni…

“Non riempirmi così di complimenti, non è da te.”

Draco fece un sorrisetto e lei ebbe quasi l’impressione che si fosse avvicinato di un millimetro.

“Però, tutto sommato, no. Non credo che tu sia stupida…

Ginny sorrise, non di un sorriso felice, però le venne spontaneo.

Certo, era tutto innaturale. E c’era solo sabbia e mare intorno a loro e l’aria era ferma come se anche il tempo lo fosse.

Certo, non poteva durare per sempre quel momento. Oppure sì. Ma cos’era meglio?

Tornare alla realtà che non le piaceva, ma che era più reale della sabbia, del mare e della sua mano gelida, o rimanere lì, e lasciare che il tempo si fermasse?

Se avesse aperto gli occhi, cosa avrebbe visto, ora?

 

Avrebbe visto tutto passare davanti ai suoi occhi?

Numero dodici Grimmauld Place, i serpenti, lo sgabuzzino, il suo riflesso nello specchio sporco, la faccia paonazza di zio Vernon, la foto di sua madre, il muro tra il binario nove e dieci, Hagrid e la sua capanna e il suo ombrello, la barba bianca e gli occhiali a mezzaluna di Silente, Sirius e i progetti di vivere insieme, l’album di fotografie, il primo bacio, il Boccino, Ginny e i suoi capelli rossi e i suoi occhi azzurri e le sue lentiggini sul naso. Ron e le sue smorfie e quando gli metteva le bombette puzzolenti sotto il letto e il suo russare la notte che non lo faceva dormire però era quasi tranquillizzante, Hermione e i suoi capelli tutti ricci e le sopracciglia inarcate e il sorrisetto sapientone… poi Luna, i cuscini sul pavimento, le frittelle, il bacio irreale, quello sguardo sorpreso che era un po’ come dare il primo bacio, dormire insieme comodi comodi perché in fondo quel letto era un po’ grande per lui solo.

Harry aveva rischiato tante volte di morire, ma non aveva mai visto niente di tutto questo. Era anche vero che non c’era mai andato così vicino.

Ora c’erano loro quattro, in quel corridoio con quel silenzio irreale, lui contro Draco, Draco contro di lui, Ginny contro Draco – e la sua espressione, un’espressione che non aveva mai visto su Ginny, come se stesse soffrendo fisicamente in quel gesto, soltanto tenendo la mano un po’ sollevata a stringere la bacchetta, soltanto così, sembrava che camminasse sul fuoco a piedi nudi - e Luna che li guardava, gli occhi turchesi che passavano dall’uno all’altro. Non sembrava spaventata, però era più bianca del solito e soprattutto non si muoveva; era completamente immobile, sembrava quasi non respirasse, era come se in lei il tempo si fosse fermato.

Malfoy”, riuscì a dire Harry, quasi senza respiro, “abbassa la bacchetta. Ti conviene.”

Lui fece un ghigno.

“Non voglio debiti con te, Potter”, replicò, “in special modo un debito di sangue.”

Draco”, intimò Ginny, con la mano e la voce che tremavano.

“Se per farla finita con questa storia, oltre a tuo padre devo uccidere anche te, posso farlo, Malfoy”, gli disse, mentre un rivolo di sudore gli scendeva lungo la tempia.

Non era vero. Un conto era uccidere un uomo che, era certo, non aveva niente dentro di sé se non smanie di potere, malvagità e sostanzialmente vuoto.

Un conto era guardare dritto negli occhi Draco Malfoy, che seppure odiasse smisuratamente, conosceva da sempre, da quando aveva cominciato a vivere a Hogwarts, da quando in un certo senso era cominciata la sua vera vita e, anche se come antagonista, anche lui era stato parte di essa. E sapeva che anche Malfoy era vuoto dentro, e quando Ginny aveva fatto la follia di dargli confidenza la prima volta aveva pensato che fosse uscita di testa, ma poi ci aveva pensato.

Ed era vero, forse da qualche parte dentro Malfoy, nei meandri della sua anima fredda, se ne aveva una, tra risentimento, omicidio, rabbia, invidia, cattiveria e odio, forse si nascondeva qualcosa che non fosse proprio così terribile, qualcosa che si poteva recuperare almeno.

Uccidere Draco Malfoy con queste premesse, guardandolo, sotto lo sguardo di Ginny che sembrava sul punto di gelare, era tutt’altra cosa.

“Allora, Potter?”, chiese Malfoy, alzando la bacchetta.

“Allora, Malfoy?”

Fu tutto molto veloce. Neanche il tempo di rendersene conto e Malfoy gli scagliava contro l’Avada Kedavra, Harry faceva lo stesso, Ginny impallidiva fino quasi a sparire e poi, inaspettatamente, Luna gli scostava il braccio con la bacchetta proprio nel momento in cui ne usciva l’incantesimo, la bacchetta girava per aria e puntava proprio contro di lei, che per un attimo ghiacciò, immobile, e poi cadde a terra.

Silenzio. Soltanto lo schiocco della bacchetta che cadeva per terra.

Malfoy lo fissò, indifferente, continuando a puntargli contro la bacchetta.

“Potevi almeno risparmiarti questa scena e sacrificarti per una volta in vita tua, Potter”, disse, buttando uno sguardo sprezzante sul corpo immobile di Luna, “invece sei disposto a sacrificare chiunque per te stesso, proprio come me. Quasi mi dispiace ucciderti adesso.”

Harry non riusciva più a respirare. Non ricordava più come si facesse, in effetti. L’aria gli si bloccava dentro, non riusciva a entrare.

Ginny, bianca, si inginocchiò per terra accanto a Luna e le toccò un braccio quasi a voler constatare che fosse davvero fredda. Alzò la testa a guardare Harry.

Harry…”, gli disse, con gli occhi pieni di lacrime, la bacchetta ancora puntata contro Malfoy, ma il braccio ormai completamente senza forze.

Harry non si accorse di come cedevano le sue gambe e sentì solo vagamente le sue ginocchia sbattere sul pavimento di pietra.

Era questo, dunque, il destino del Prescelto.

Non riusciva nemmeno a guardarla, lei, riusciva solo a intravedere quei lunghi capelli biondi con le treccine piccole e i nastrini qua e là.

Chiuse gli occhi e sentì che stavolta si arrendeva davvero.

Malfoy pronunciò la formula ad alta voce, quasi a voler annunciargliela.

Se avesse aperto gli occhi, cosa avrebbe visto, ora?

 

Un lampo lasciò intravedere l’espressione folle di Bellatrix che urlava e tutto accadde naturalmente, come una battaglia di quelle antiche, con le spade e le frecce, tutti correvano e urlavano, e i Mangiamorte si mischiavano ai membri dell’Ordine, e lampi di luce rossa e verde e gialla schizzavano da una parte all’altra come piccole letali stelle cadenti.

In quella folla qualcuno la spintonò e non riuscì più a tenere stretta la mano di Ron, che scivolò via.

Hermione si guardò intorno terrorizzata, la bacchetta alzata, i pensieri nella testa, l’affanno nel respiro, non capiva più niente, chi erano i Mangiamorte e chi erano i suoi compagni, avevano tutti la veste nera e il cappuccio, poi c’era quella pioggia violenta sembrava fatta di proiettili. E non riusciva più a vedere Ron, non riusciva più a vedere nessuno dei suoi.

Poi, qualcuno le lanciò uno Schiantesimo e lei cadde all’indietro, sbatté la schiena contro svariate persone e sentì chiaramente una costola spezzarsi. Piombò sull’erba bagnata urlando di dolore.

La persona che le aveva lanciato lo Schiantesimo le si avvicinò.

Intravide i lineamenti di Rodolphus Lestrange.

“Non dovevi essere la più brava, Hermione Granger?”, gridò, “crucio”.

Si sentì come se il corpo le andasse a fuoco. Tutti i nervi stringevano come se ogni muscolo avesse un crampo e urlava, poi finì anche il fiato per urlare e si raggomitolò su se stessa mentre il fango le affondava nei capelli.

“Chissà cosa ne penserebbe il tuo amico Harry Potter se sapesse la fine che stai per fare?”, rise Rodolphus, “peccato che non lo saprà mai. Crucio”.

Hermione urlò ancora e si sentì come se tutto, non solo la costola, le si spezzasse dentro.

Ma la cosa che più le faceva male era che non aveva mai avuto paura come ora, paura e consapevolezza al tempo stesso, lo sapeva, sapeva che non ce l’avrebbe fatta, sapeva che invece di cercare la mano di Ron avrebbe dovuto tenere la bacchetta pronta, che in un piccolo errore si nasconde la catastrofe, che ora stava pagando. Eppure ancora pensava a quella mano, mentre urlava e le lacrime di dolore le scendevano dagli occhi mentre si contorceva per terra, pensava a quella mano e qualcosa dentro di lei stava meglio.

Lei aveva stretto quella mano.

Crucio”.

Urlò.

Lei aveva stretto quella mano e non aveva più poi tanto freddo o tanto dolore.

Quell’appartamento era bello, luminoso, poteva contenere tutti i suoi libri e i poster di Ron, certo lei avrebbe dovuto pulire continuamente perché lui lasciava sempre in giro le sue cose e non c’era verso di fargliele mettere al loro posto; sicuramente però quando veniva la sera avrebbero mangiato la pizza davanti alla televisione e lui avrebbe alzato il volume per impedirle di studiare ma lei si sarebbe chiusa le orecchie e avrebbe continuato lo stesso; di notte avrebbe sentito il profumo dei capelli di Ron sul suo cuscino e il calore del suo respiro sul collo mentre dormiva e quando lei avrebbe avuto un incubo lui l’avrebbe guardata tutto assonnato, le avrebbe riso in faccia per le sue paranoie e le avrebbe accarezzato per circa due secondi prima di tornare a russare.

Hermione non sentiva più il corpo e i suoi sensi erano quasi del tutto inattivi. L’unica cosa che riusciva a sentire era come un boato, ma sapeva che non era fuori, che nessuno poteva sentirlo.

Sarebbe riuscita ad aprire gli occhi, ora?

 

Ron alzò la testa verso il cielo ed ebbe la sensazione più strana che avesse mai provato. Era come se sentisse un boato, ma silenzioso, come un terremoto, ma immobile, però era più dentro di sé, ma tutti lo sentivano.

Tutti, intorno a lui, si fermarono. Cadde un silenzio innaturale, interrotto solo dalla pioggia e dai tuoni.

Qualcuno gridò, “Crucio!” ma dalla posizione in cui era – combattendo contro un Mangiamorte di cui non riusciva a vedere il viso, ma non gli importava – non riusciva a vedere da dove venisse, tutto intorno a lui era una macchia di facce che non riconosceva, bacchette, vesti neri e pioggia, pioggia e pioggia.

Poi il silenzio venne interrotto da un brusio sempre più alto.

“Che cazzo succede?”

“Cosa diavolo…

E tutti che muovevano le bacchette. Ron approfittò della distrazione del suo avversario per lanciare uno Schiantesimo.

Niente.

Dalla sua bacchetta non uscì niente.

Era come agitare un pezzo di legno.

Riprovò.

Niente.

Niente di niente.

E, guardandosi intorno, si accorse che accadeva a tutti. Mangiamorte, membri dell’Ordine…

Nessuno riusciva più a mandare un incantesimo.

“Cosa cazzo sta succedendo, merda, fate qualcosa, non è possibile…

Non vi fermate, non vi fermate, combattete a mani nude se necessario!”, sentì gridare la voce di Lupin, che sembrava incredibilmente lontano da lui.

Prima che potesse rendersene conto il Mangiamorte lo precedette e gli saltò addosso, entrambi caddero a terra, ricevette un pugno sul naso che gli deviò il setto e fece schizzare un rivolo di sangue per terra. Urlò per il dolore e colpì di rimando, a caso, però sentì un osso del Mangiamorte incrinarsi sotto le sue dita e in attimo gli fu sopra e lo colpì senza nemmeno guardarlo, più forte che poteva, sentendo che se non lo guardava in faccia sarebbe riuscito anche ucciderlo proprio lì, a mani nude.

Poi però sentì dietro di sé un rumore metallico, una sorta di ‘clic’, come una piccola rotellina.

Si guardò alle spalle, il sangue che usciva dal naso e gli si rapprendeva sul mento, il fiatone e il sapore di ferro in bocca.

Bellatrix era a due passi da lui, la bacchetta in una mano, una Colt nell’altra; quest’ultima puntata contro di lui.

Sapeva cos’era perché una volta aveva visto un film alla tv di Harry. Un poliziesco, gli aveva detto lui, e inutile dire quanto lo intrigasse l’idea che i babbani fabbricassero manualmente delle armi in cui inserire una pallina che poi poteva anche uccidere. Così aveva chiesto qualche informazione in più alla banca dati più facile da consultare, cioè Hermione, la quale però l’aveva guardato malissimo e costretto a passare un noiosissimo pomeriggio in biblioteca. Che però gli aveva fruttato la lettura di un libro babbano sulle armi da fuoco, e per noia aveva finito per impararsi tutti i modelli. E ora ne aveva una davanti.

Quando aveva visto il film aveva riso, perché anche se ti colpiscono con una pistola, con la magia una ferita così semplice si cura in un attimo.

Ma senza magia?

Senza magia si muore, come i babbani.

“Solo perché sono purosangue non significa che non sappia maneggiare un’arma babbana quando ne ho bisogno”, disse Bellatrix, con un sorriso da pazza che le andava da un orecchio all’altro. Gli si avvicinò ancora mentre il Mangiamorte malridotto si allontanava trascinandosi, con una risatina.

Bellatrix appoggiò la cima della canna alla sua fronte. Lui non si mosse, la fissava e respirava.

Bellatrix alzò il mento, fiera.

“Ti sto facendo un favore Ronald Weasley”, disse, “ti faccio raggiungere Harry Potter ed Hermione Granger, adesso.”

Ron chiuse gli occhi.

Avrebbe visto tutto passare davanti ai suoi occhi?

 

Luna si guardò intorno. Guardò Harry, Ginny e Draco, immobili, tutti che si puntavano la bacchetta l’uno contro l’altro. Immobili, erano come statue. Tornò a guardare Harry.

Fece qualche passo nella sua direzione e lo guardò bene, da vicino. Gli occhi verdi, inespressivi, trasmettevano comunque delle sensazioni: disperazione, paura. Appoggiò incerta una mano sul suo polso abbassandogli dolcemente il braccio e gli prese la bacchetta. Fece lo stesso con Ginny e Draco Malfoy.

Ma tutti rimasero immobili con la stessa espressione, come se il tempo si fosse fermato.

“Dimmi, Luna Lovegood, sono proprio curioso di saperlo: come mai sei immune a un incantesimo come questo?”

Luna si voltò sbattendo le ciglia e vide Voldemort, bianco e con gli occhi rossi; aveva un aspetto spaventoso eppure lei non abbassò lo sguardo ma continuò a fissarlo come se fosse un tale qualunque.

“Non so, ma penso che sia come quando hai paura di una cosa in maniera irrazionale, e cioè che se non ci credi veramente non hai più paura.”

Voldemort rise.

“E tu, ovviamente, non ci credi.”

“Beh, tutto questo è meno reale di un sogno molto irreale. Quindi non ci credo.”

La sua voce era tranquilla. Si sedette perfino per terra a gambe incrociate, a guardare Voldemort come avrebbe guardato un barbone.

Lui fece una smorfia di disprezzo.

“Devo ammetterlo, tu sei un dettaglio a cui non avevo pensato.”

“Nessuno pensa mai a me, devo dire.”

Gli sorrise. Lui estrasse la bacchetta con estrema calma, le mani scheletriche.

“Senti, Signore Oscuro”, disse lei, “preferirei che lasciassi stare Harry. E gli altri.”

Voldemort rise ancora di gusto.

“E perché mai?”, replicò, “in fondo, nessuno di loro ti considera. E quando lo fanno, è per deriderti. Non penso certo che tu possa fermarmi, però vorrei evitare scene patetiche in cui sono costretto a ucciderti. Quando, lo sappiamo… sei abbastanza forte da stare dalla mia parte. Al contrario di Ginny Weasley.”

“Sapevi, Signore Oscuro, che i sogni che si fanno durante la fase REM, cioè la fase più profonda del sonno, sono i più importanti, quelli che manifestano proprio l’inconscio, quelli che non ti ricordi quando ti svegli? E’ come se la nostra testa durante il giorno archiviasse inconsciamente delle persone, delle paure, dei desideri, e poi tac, le mettesse in scena nel teatro del cervello durante la notte. Però non è mica reale. Questo è alla base dell’incantesimo, no?”

Un momento di silenzio.

“Certo. Ma qualcosa di reale c’è sempre. Qualcosa c’è sempre.”

“Quindi speri che il reale stia nel fatto che Harry venga ucciso?”

“Speravo che tu lo immaginassi, rimanendo vittima dell’incantesimo”, sorrise Voldemort, “ma non importa. L’importante è che Harry Potter, anche se sarà ancora vivo, rimanga da solo.”

Luna sbatté le palpebre, guardandolo.

“Perché una cosa è vera solo se ci credi veramente. E se loro credono veramente di morire, o c’è una minima parte di loro che lo vuole…

“Saranno morti. Tutti, metà. Lo scopriremo tra poco.”

Ma… non so, hai considerato le conseguenze?”

Basta chiacchiere”, sbottò Voldemort all’improvviso, puntandole la bacchetta contro, “per te la morte è reale, ora.”

Luna si alzò in piedi, con un’espressione triste.

“A me non interessa molto morire oppure no”, disse, “ma loro sono persone buone. Quindi ti chiedo ancora se puoi, per favore, lasciarli in pace.”

Voldemort non sembrava ascoltarla.

“Ah, è vero”, aggiunse Luna, “l’effetto collaterale dell’incantesimo è che credendo solo a quello che si vede, ed essendo reale solo quello che si crede… in un posto così la magia non può esistere. Certo, tu e io siamo coperti perché siamo consapevoli dell’incantesimo… ma quindi come faranno i tuoi Mangiamorte? Li hai avvertiti?”

“Ovviamente”, replicò Voldemort, con una voce oltre tombale. Alzò la bacchetta: “addio, Luna Lovegood, saresti stata perfetta per il mio plotone, anche con quella tua aria svampita. Avada Kedavra”, gridò, con una voce che sembrava venire dall’inferno.

La luce verde corse, veloce come elettricità pura, verso Luna.

Lei la seguì con lo sguardo fino a che, a pochi centimetri dal suo viso, non si dissolse.

Voldemort la guardò, gli occhi in fiamme.

“Non hai considerato”, gli disse, tranquillissima, “che sotto questo incantesimo, conta quello a cui credi. Se io adesso decido di credere che con un Avada Kedavra non mi puoi uccidere, non succederà.”

“Questo non è possibile.”

“Tutto è possibile!”, rise Luna, spalancando le braccia. I suoi capelli cominciarono a sollevarsi come sotto l’effetto di energia statica, “tutto è possibile a questo mondo. Io credo a tutto, a qualsiasi cosa, in effetti”, una luce cominciava a scaturire dai palmi delle sue mani, sotto gli occhi sgranati e iniettati di sangue di Voldemort, “anche che io ti possa sconfiggere con poteri che nella realtà non avrei, ma che credo di avere, proprio ora. E credo che Harry sopravvivrà. Non so se sia vero, ma io ci credo davvero. Io ci credo. Tu, invece… a cosa credi?”

Voldemort non ebbe tempo di rispondere e nessuno seppe mai a cosa credeva, se effettivamente c’era una parte della sua anima morta ricoperta di uno scheletro che credeva a qualcosa.

Ma Luna Lovegood, lei aveva sempre creduto a tutto, per quanto assurdo che fosse, per quanto improvabile e improbabile, credeva a tutto, alla vita, alla morte, alla reincarnazione, al paradiso, ai sogni, agli incubi, ai mostri, alle favole, ai giornali, alle storie, ai libri.

In effetti, non c’era niente di più assurdo che Luna Lovegood che sconfiggeva Lord Voldemort, il Signore Oscuro, con un semplice incanto Patronus. Se qualcuno l’avesse sentito prima, avrebbe riso, e certamente non ci avrebbe creduto.

Eppure una luce argentea avvolse la stanza. Una luce così intensa da essere insopportabile, una luce così intensa da fare rumore nel silenzio.

L’importante era crederci.

 

Ebbe una strana sensazione di déjà-vu quando sentì la sabbia sotto il palmo della mano.

Si tirò su a sedere e si massaggiò la testa, come se si aspettasse che gli facesse male.

Ma stava bene, benissimo in effetti.

Si guardò intorno: mare, sabbia, mare, sabbia.

Si alzò in piedi.

Sì, c’era già stato lì.

Solo che stavolta era diverso. Nessuna tentazione di andare in mare. Sentiva solo il desiderio di rimanere lì, rimanere lì e non pensare a niente e non sentire niente.

Non aveva paura.

Sentì una mano sottile sulla spalla.

Si voltò di scatto con gli occhi che si illuminavano, come se si aspettasse qualcosa.

Davanti a lui c’era Cloe, i capelli biondi sciolti sulle spalle e la pelle innaturalmente trasparente e gli occhi chiari che lo fissavano.

“Ron”, gli disse, con una voce lontana lontana, “Ron, stai bene?”

Ron era confuso e fece un passo indietro.

Cosa… perché tu…

Ma lui non sembrava nemmeno ascoltarlo.

“Ron, non voglio che tu te ne vada senza saperlo”, gli disse Cloe con gli occhi che si riempivano di lacrime, “non voglio che tu te ne vada.”

Ron era sempre più confuso. Perché lei? Perché lì?

Io… io non capisco. Cloe, tu non dovresti essere qui…

Cloe gli prese tra le mani entrambi i polsi.

“Ma non capisci? Io sono qui per te, Ron.”

Ma… ma tu non dovresti, io non…

“Ron, non voglio che tu rimanga solo adesso. Se io me ne andassi, tu rimarresti solo.”

Lui tirò indietro le mani istintivamente.

“Non è vero.”

“E’ vero. Tu devi accettare i cambiamenti. Tu devi vivere. Non è ancora il momento di andartene.”

Ron fece due passi indietro.

“Continuo a non capire, Cloe, che fai qui? Io…”, si sentì un po’ soffocare, “tu non dovresti essere qui, dovrebbe esserci Hermione, Hermione dovrebbe essere qui.”

Cloe lo guardò, poi chiuse gli occhi disperata, come se non trovasse le parole.

“Ron, io sono qui per te”, ripeté, “non voglio che tu rimanga solo.”

“Non rimarrò solo!”, urlò il ragazzo, spazientendosi, “Hermione dovrebbe essere qui.”

Cloe gli si avvicinò di qualche passo.

“Ci sono io, ora.”

Ron si sentiva così confuso che la testa cominciò a girargli. Era come se avesse inghiottito mille sonniferi e non riuscisse a svegliarsi. Si sentiva pesante, ma non trovava le forze nemmeno di lasciarsi cadere a terra. Cloe appoggio la mano destra sul suo collo, con espressione buona.

“Non avere paura. Ci sono io, ora.”

E Ron aveva ancora paura, ma non sapeva di cosa, era terribile, non respirava eppure viveva, non aveva più il tatto ma sentiva la mano di Cloe sulla sua guancia. Non riusciva a pensare ma al tempo senso non faceva che pensare, in realtà a una sola parola.

Hermione, Hermione, Hermione, Hermione, Hermione, Hermione.

“Ti aiuterò io adesso”, disse Cloe, o almeno così gli parve, perché di fatto lei non mosse le labbra.

Al contrario gli si avvicinò ancora di più, gli occhi azzurri piantati nei suoi, le labbra sempre più vicine.

Hermione, te lo dico adesso, senza preamboli, perché l’ultima volta a forza di tormentarmi, non sono riuscito a dire nulla. Io ti amo.”

Beh, ma cos’è poi tutta questa preoccupazione per quello che pensa la mia famiglia? Non vorrai mica sposarmi? No, perché non sono sicuro di riuscire a sopravvivere per sempre con te che mi martelli di lamentele.” 

E’ molto strano”, “Sì, beh… è una questione di riabituarsi.”

“Non c’era bisogno della sfera di cristallo per capire che rischiavi di cedere alle tentazioni. E’ che io… io ho davvero sperato che non cedessi. Ho davvero sperato…

Come sempre, era lei, era lei il suo chiodo fisso, e se quelli erano i suoi ultimi momenti prima di morire, beh, tutto tornava, perché la sua vita era partita con lei, aveva rischiato la vita con lei, e ora moriva pensando a lei. Nella confusione, tutto questo, per una volta, lo faceva sentire sollevato.

Le labbra trasparenti di Cloe si erano appoggiate sulle sue da una frazione di secondo o forse da tanto, qual era la misurazione del tempo in quel mondo parallelo?, ma lui sollevò le braccia, che sentiva pesantissime, e l’allontanò prendendola per le spalle.

“So imparare dagli errori”, disse più a se stesso che a lei, “io so imparare dagli errori. Sono un deficiente, ma so imparare dagli errori.”

Non seppe bene cosa successe, dopo. Soltanto, Cloe sparì, il viso inespressivo.

 

E i pensieri, le immagini, le urla, le armi, la paura, il dolore, la battaglia, il sangue, la pioggia, i tuoni, la magia, tutto sparì, in un’onda di luce bianchissima e accecante, come se tutto fosse esploso in una silenziosa nube di cristallo.

Tutto sparì, e l’ultimo rumore che si sentì erano i passi di una lepre che si allontanava.

 

L’ospedale San Mungo non era mai stato così affollato. Mai, neanche la prima volta, tanti anni prima, quando era iniziato l’incubo della guerra.

Ora arrivavano gufi da ogni finestra portando lettere preoccupatissime di parenti, c’erano Medimaghi e infermieri che correvano dappertutto, apprendisti e di ruolo, c’erano feriti e medicature, ogni reparto era un delirio, si sentivano urla e pianti dappertutto ed i primari riuscivano a stento a mantenere l’ordine.

Il decesso di Remus Lupin e Ninfadora Tonks fu dichiarato alle ore 5,32, proprio quando smise di piovere e il rumore dei tuoni si allontanava, lasciando nell’aria fredda odore di foglie umide e di fango.

Nel corso dell’ora che seguì, quando cominciò a spuntare il sole e gli uccellini cominciarono a cantare, fu il momento di Shacklebolt, Avery, Podmore, Greyback, Jones, McNair, Lux e Rodolphus Lestrange.

Gli eserciti sia dei Mangiamorte che dell’Ordine della Fenice erano stati dimezzati.

In tutto quel rumore, in tutta quella disperazione e quella folla di persone ferite e parenti, c’era un’ala dell’ospedale irrealmente silenziosa. Era stata riservata ai membri dell’Ordine della Fenice che ancora respiravano.

Arthur Weasley arrivò correndo, con il fiatone e i capelli e i vestiti bagnati di chi è stato a lungo sotto la pioggia. Una manica della veste strappata lasciava intravedere del sangue tumefatto. L’occhio sinistro era chiuso, gonfio e violaceo.

Arthur!”, gridò Molly Weasley, rompendo il silenzio della sala d’attesa. Fino a un attimo prima stava singhiozzando tra le braccia di Elizabeth Granger, che era più pallida allora di quanto non lo fosse mai stata.

“Molly, ho fatto prima che ho potuto”, disse Arthur in un soffio, prendendo la moglie tra le braccia, “hanno preso prima i feriti gravi. Eravamo tantissimi, c’era una tale… una tale confusione… io… i nostri figli, non li ho visti… mi dispiace…

Molly singhiozzò più forte contro il suo petto.

Arthur guardò, impotente, Alexander Granger, che aveva le guance scavate e le borse sotto gli occhi.

“Arthur”, disse l’uomo, tenendo la mano della moglie, “li hanno trovati. Sono qui.”

Il signor Weasley lasciò per un attimo la moglie.

“Li voglio vedere. Li voglio vedere!”, gridò, guardandosi attorno come se si aspettasse che potessero spuntare da dietro una porta.

Il signor Granger posò delicatamente la mano di Elizabeth Granger sul suo grembo, e lasciò le due donne sedute, in silenzio.

“Non possiamo entrare, ma si possono vedere”, disse in un sussurro all’uomo.

Percorsero un breve corridoio stretto e bianco che odorava di antibiotico e arrivarono in un’altra sale priva di sedie, con una porta sulla sinistra, ed un vetro-finestra accanto ad essa.

La scena che vide attraverso il vetro quasi fece fermare il cuore di Arthur Weasley.

Il vetro lasciava intravedere quattro stanze separate da muri di cartapesta, in modo che dall’esterno si potesse vedere ogni letto, ognuno circondato da una diversa équipe di medimaghi, ma senza che le stanze fossero tra loro comunicanti.

Nella stanza all’estrema sinistra, c’era Ginny Weasley, i bei capelli rossi tagliati cortissimi e con in cima alla testa una grossa medicazione.

Poi c’era Ron Weasley, un braccio ingessato, un occhio tumefatto come quello del padre e una medicazione alla testa più grossa di quella della sorella.

Poi c’era Hermione Granger, i capelli ricci sparsi sul cuscino, abrasioni e graffi sulla pelle di ogni parte del corpo, il viso, il collo, le braccia e le mani.

Infine, c’era Luna Lovegood. Sembrava più magra che mai, come le fosse stata risucchiata via l’anima; però non aveva ferite, solo un’evidente ustione al collo. Aveva un’espressione tranquilla.

Tutti dormivano con gli occhi serrati.

“Come stanno?”, chiese immediatamente il signor Weasley, cercando disperatamente con la mano un muro a cui appoggiarsi.

Il signor Granger si prese un attimo prima di rispondere, come se non avesse le forze per parlare.

 Ginny ha battuto forte la testa, non sanno dove. Non è stata medicata in tempo perché quando sono arrivati i medimaghi la zona del castello era completamente ‘anestetizzata’ dalla magia. Ma pensano che, se arriva al mattino, starà bene.

A Ron hanno sparato con una pistola babbana. Pare abbia lottato prima, per questo ci sono altre ferite. Il proiettile però non è entrato nella testa, ma ha ferito solo la parte superiore della testa. Pensano che il cervello non sia stato toccato, il che è un vero miracolo. Un vero miracolo.”

Prese il respiro.

Hermione… Hermione”, si interruppe un attimo, come se improvvisamente non trovasse le parole, “Hermione è stata torturata molto a lungo, quindi il suo corpo è estremamente debilitato. Ha avuto due arresti cardiaci da quando l’hanno portata qui.”

Ci fu una lunga pausa silenziosa.

“Neanche con la magia riescono a evitarli…

Deglutì, poi prese ancora un grande respiro e riprese a parlare.

“Luna Lovegood sta fisicamente bene, a parte un’ustione. Però non si sveglia”, si inumidì le labbra, “nessuno si sveglia più, anche se non sono gravi. Nessuno si sveglia.”

Arthur Weasley gli sfregò la spalla senza sapere cosa dire o cosa fare. Riusciva solo a guardare quei ragazzi giovanissimi, a guardarli e a non capire, a non capire perché non erano loro, i grandi, a stare lì. Perché erano sempre stati loro a finire in ospedale, anche se erano molto più forti di loro.

Rimasero in silenzio per tanto tempo ancora, mentre il sole sorgeva e le nuvole sparivano dal cielo, mentre un nuovo giorno cominciava.

 

Si svegliò con il fiatone come se fosse stato in apnea. Tentò immediatamente di mettersi a sedere, ma sentì uno scricchiolio alla schiena, un dolore acutissimo e gridò.

“Si è svegliato, si è svegliato, oddio, si è svegliato”, urlò subito una voce femminile familiare.

Lui cercò di mettere meglio a fuoco le immagini mentre delle mani esili e ancora più fredde delle sue gli stringevano il braccio.

Narcissa Malfoy lo guardava e gli accarezzava le guance, facendolo rabbrividire di freddo. Aveva gli occhi tutti rossi e la pettinatura scomposta. Non l’aveva mai vista con la pettinatura scomposta.

Draco, come ti senti? Riesci a parlare? Non muoverti. Riesci a dirmi qualcosa? Mi riconosci?”

Draco si sentiva pulsare la testa e aveva ancora la vista non completamente a fuoco a causa del dolore alla schiena, ma mugolò: “certo che ti riconosco”. Con poca forza, sottrasse la mano dalla stretta di sua madre. La donna lo guardò, mentre nella stanza entrava un infermiere. Gli riprese la mano con fermezza costringendolo a non ribellarsi.

“Accusi qualche dolore in particolare?”

“Ho un fottuto dolore alla schiena, non riesco a muovermi, certo che ho un dolore in particolare.”

L’infermiere dagli occhi nocciola inarcò le sopracciglia e scrisse qualcosa sulla sua cartellina.

Draco”, disse Narcissa, fingendo di non aver sentito, “per poco non ti si spezzava la spina dorsale. Chi ti ha ridotto così?”

“Signora, lascerei perdere questi dettagli”, tagliò corto l’infermiere, “comunque, suo figlio sta bene. Ora che è sveglio deve solo bere la pozione che ho lasciato sul tavolo e in dieci minuti le sue ossa saranno a posto.”

“Quanto ho dormito?”, chiese Draco, cercando inconsciamente una finestra. Ma la stanza era tutta pareti.

“Tre giorni”, rispose Narcissa col fiato corto, “tre lunghissimi giorni. Draco, non hai idea… di quanto… pensavo che non ti saresti più svegliato… pensavo che anche tu…

Draco sentì di colpo lo stomaco rivoltarsi. Improvvisamente uscì dallo stato di semi-incoscienza in cui si trovava e si ricordò tutto. Ebbe un forte senso di nausea e una gran voglia di vomitare.

“Sono passati tre giorni?”, chiese, con tono piatto.

“Sì”, fece Narcissa, esitante.

“Che è successo?”

La donna lo guardò, come se stesse considerando se fosse il caso o no di parlarne adesso.

Abbassò la voce come se non volesse che l’infermiere, che ormai usciva dalla stanza, la sentisse.

Greyback… Rodolphus… il Signore Oscuro…”, esitò ancora, “abbiamo perso”, disse infine.

Draco si sentì completamente indifferente alla notizia. In fondo non gli interessava minimamente.

“E?”

Narcissa lo guardò senza capire.

Draco… Rodolphus è morto. Non voglio farti stare peggio, ma…

Rodolphus era uno stronzo ed è morto da stronzo. Non è questo che mi interessa.”

Narcissa lo guardò come se non lo riconoscesse.

Cosa… cosa ti interessa, allora?”

Draco non rispose. Già, che cosa gli interessava? Tanto le risposte già ce le aveva. Anche troppe.

Stavolta lo stimolo di vomitare fu troppo, prese un secchio e rimesse.

Draco, non stai ancora bene, prendi la medicina e riposati”, Narcissa fece per alzarsi.

“Harry Potter?”, tossì Draco, sentendosi malissimo, “voglio sapere di loro.”

La donna annuì con espressione grave. Draco capì che stava pensando che volesse sentire come era morto l’assassino di suo padre.

“Pare che Potter sia vivo. Ma l’hanno ricoverato in un’ala dell’ospedale a cui non ha accesso nessuno. E nessuno l’ha ancora visto. Quella feccia dei suoi amici stanno anche loro in un’area riservata. Ho visto i Weasley”, disse questo nome con disprezzo, poi fece un sorrisetto, “non mi sembravano per niente contenti. Qualcosa di buono l’abbiamo fatto…

Draco ebbe un altro conato, ma non disse nulla. Ingoiò la medicina tutta d’un fiato e si ridistese sul letto, sentendosi improvvisamente stanco. Guardò i lunghi capelli biondi di sua madre che le ricadevano sulla spalle.

Aveva esaurito le sue forze.

 

Ron Weasley si svegliò quello stesso giorno, a pomeriggio ormai inoltrato. Il primo suono che udì, un po’ in lontananza in effetti, fu il grido di sua madre fuori da un vetro trasparente, dei passi e poi lei e suo padre che gli piombavano a fianco urlando cose sconnesse, il suo nome. Avevano il viso pallido e gli sembravano dimagriti.

Tutto quel rumore dopo tanto sonno lo stordì.

Io…”, disse, ma si accorse di avere la voce tutta impastata.

“Ron, non ti sforzare, tesoro”, disse Molly Weasley singhiozzando, “non ti sforzare. Grazie, grazie, grazie, ti sei svegliato, grazie…

Ron non riusciva a radunare le idee. Si guardò le mani, come se si aspettasse di vederle sporche di sabbia, o di fango, o di sangue; e invece niente. Aveva solo qualche problema a muovere la destra.

“Non riesco a muovere la mano”, disse, cominciando ad agitarsi.

Suo padre e sua madre si scambiarono uno sguardo.

“Ron, ti hanno sparato”, disse il signor Weasley, con tono calmo, “ma non sei stato colpito per miracolo. Il proiettile ti ha solo sfiorato… ma è possibile che tu abbia subito delle lesioni. Ci hanno detto che era possibile che non riuscissi a muovere degli arti. Purtroppo non si può risolvere con un incantesimo sulle ossa, perché è dovuto al cervello… ma vedrai che starai bene.”

Ron si guardò il braccio, quello non si mosse se non impercettibilmente.

Ma ora non gliene importava proprio niente del suo braccio.

Hermione? Harry? Ginny? Luna? Come stanno? Dove sono?”

“Ron, calmo”, gli disse suo padre, “ti sei appena svegliato. Devi riposarti ancora un po’.”

“Ho dormito per giorni, sono sveglissimo”, replicò lui, cercando di mettersi a sedere, “come stanno?”

La signora Weasley guardò il signor Weasley come se non sapesse cosa dire, e lui sospirò.

Ron, se pensava di aver mai avuto tanta paura in vita sua, sapeva che questo momento raggiungeva il picco della paura.

Voleva che gli rispondessero e al tempo stesso c’era una parte di lui che non voleva.

Forse non voleva sentire.

“Harry sta bene, ha solo una gamba rotta che fatica ad accomodarsi, ma può camminare. Ora si trova in un’ala a parte e lo stanno sommergendo di cure e controlli. Anche Luna si è svegliata. Quella ragazza è incredibile. E’ stata lei a sconfiggere Colui che non deve essere nominato… Voldemort. Ci ha liberati tutti. Eppure non ne vuole nemmeno sentire parlare. Li vado a chiamare, vuoi? Penso che potrebbero…

“Papà, non mi hai risposto ancora del tutto”, disse Ron, sentendo che non riusciva a respirare, “Hermione? Ginny?”

Si guardarono negli occhi a vicenda.

“ Papà”, gli disse il ragazzo, “dimmelo. Sono abbastanza grande ormai.”

No, non era abbastanza grande, ormai. Non lo era affatto, ora si sentiva più piccolo che mai in effetti. Si sentiva debolissimo, si sentiva un bambino, avrebbe solo voluto abbracciare sua madre e non ascoltare proprio nulla e magari piangere, anche.

Ma lui non era un bambino, non doveva esserlo, non più.

“Tua sorella non si è ancora svegliata. Ha battuto forte la testa ma inizialmente non sembrava grave”, disse Arthur. Molly singhiozzò e lui le appoggiò una mano sulla spalla proseguendo, “eppure è anomalo che non si sia ancora svegliata. Ma del resto… del resto anche tu non ti svegliavi. E ora stai bene.”

Era talmente tanto tempo che non vedeva Ginny che non riusciva nemmeno a immaginarsela, ora, a poca distanza da lui, in un letto, come lui.

Guardò suo padre, che respirò profondamente.

“Anche Hermione non si è ancora svegliata”, rimase in silenzio, come se non sapesse come continuare.

Ron odiava, odiava questi silenzi. Li odiava.

“Ron, Hermione è stata torturata per molto, molto tempo. Il suo fisico, i suoi organi… sono molto indeboliti, e così il suo sistema immunitario. Non reagisce alle pozioni o agli incantesimi. Continua a dormire e… capita spesso, specie di notte, che debbano rianimarla. Ecco.”

Ron scese immediatamente dal letto, il braccio destro che gli penzolava senza vita sul fianco.

“Ron, che fai!”, urlò sua madre.

“Devo scendere. Sto benissimo. Dov’è?”, gli girò un po’ la testa mentre scendeva dal letto e la spalla gli faceva un po’ male, ma non si accorse praticamente di nulla.

I suoi genitori si guardarono ancora, senza sapere bene cosa fare.

“Ron, devi rimanere in osservazione”, disse debolmente Molly Weasley, “non puoi andartene in giro, guarda, sei diventato pallidissimo, sei ancora debole…

In effetti, gli veniva un po’ da vomitare. Ma per tutt’altre ragioni.

Si diresse verso la porta e dovette cercare di aprire la porta con la mano sinistra.

Poi, inaspettatamente, suo padre lo afferrò per il braccio con una presa che non permetteva repliche.

“Ron, per favore”, disse, con una voce stranamente autoritaria, “ti capisco. Però non lo vedi che fai fatica a stare in piedi? Non riuscirai a fare due

passi. Non puoi debilitarti così. Ti capisco… ma siamo stati e siamo ancora così in ansia…

Ron guardò sua madre, anche se la vista gli si annebbiava un po’ e cominciava a sentire il bisogno di sedersi.

Gli dispiaceva per i visi distrutti dei suoi genitori, gli si stringeva il cuore, ma loro non avevano idea, non avevano idea di quanto lui stesse male al pensiero di Hermione. Non ne avevano idea.

Nonostante ciò, gli occhi lucidi di sua madre, la debolezza e la stanchezza permisero al padre di trascinarlo nuovamente verso il letto.

“Ron, vedrai che andrà tutto bene”, disse il padre, “e già fra pochi giorni potrai…

Suo padre continuava a dire cose senza senso. Tra pochi giorni… cosa ne sarebbe stato di lui, di lei, tra pochi giorni?

Il solo pensiero era così insopportabile che gli provocava delle fitte allo stomaco.

Suo padre smise di guardare e lo guardò tristemente, come se seguisse perfettamente il flusso dei suoi pensieri.

“Penso che non siamo le persone più adatte per te in questo momento”, gli disse, appoggiandogli una mano sui capelli, come quando era piccolo, “vuoi vederli, i tuoi amici?”

Ron fissava le pieghe che prendeva il lenzuolo sopra le sue gambe.

“Devi chiedere a loro se vogliono vedere me”.

Suo padre non poteva sapere tutto quello che era successo con Harry nei dettagli; qualcosa però doveva sapere perché capì subito che con ‘loro’ intendeva proprio Harry.

Con che faccia poteva guardare Harry, ora?

Lui, che l’aveva abbandonato completamente?

Lui, che non era mai stato consapevole come ora di quanto fosse sua unica responsabilità il crollo dei rapporti con Harry… con Hermione.

Era lui la rovina di se stesso. Niente vittimismi, solo fatti.

E lui aveva scaricato le sue colpe su Harry, le sue frustrazioni e le sue paure su Hermione.

Cosa gli rimaneva, ora?

 

Quando Harry vide Arthur Weasley corrergli incontro nel corridoio dell’ala d’ospedale che Luna chiamava ‘l’ala del principe’, a cui in pratica avevano accesso solo lei, i medimaghi e i Weasley, pensò davvero che non poteva sopportare brutte notizie.

Non poteva sopportare un’altra morte, un’altra vita che avrebbe potuto salvare invece di cadere nella trappola di una stupida illusione.

Non poteva sopportarlo.

Luna, che nonostante fosse più bianca e debole del solito stava sempre nell’’ala del principe’ a sommergerlo di chiacchiere, tutt’altro che profonde, stava leggendo il ‘Cavillo’ quando l’uomo arrivò.

“Harry, Luna, Ron si è svegliato”, la voce gli si incrinò un po’, come se lasciasse andare l’emozione che prima aveva trattenuto, “si è svegliato”, disse a voce più bassa, sorridendo un po’.

Harry non era stato capace di prevedere come avrebbe reagito alla notizia che Ron fosse morto. Ma non era stato nemmeno capace di prevedere come avrebbe reagito in caso contrario.

L’ultima volta che aveva visto Ron era stato quando avevano litigato.

Inutile dire che, se uno dei due se ne fosse andato lasciando le cose come stavano, l’altro sarebbe stato incazzato per la vita.

Ora che sapeva che stava bene, però, gli mancavano le parole.

Harry non diceva nulla, seduto con le mani che stringevano le stampelle di legno con cui doveva momentaneamente aiutarsi a camminare.

Luna si alzò in piedi, battendo le mani.

“Harry, hai sentito? Ma è fantastico! Hai visto, te lo dicevo io che Ronald stava bene, no, voglio dire, dopo che uno ha passato un giorno a vomitare lumache mica può farsi scalfire così facilmente! Harry, alzati, no? Non è il momento di fare il pigro. Andiamo tutti a trovare Ronald.”

La cosa che era vagamente irritante di Luna era che non si preoccupava minimamente delle condizioni di salute di Harry, al contrario di tutti gli altri, che lo ricoprivano di attenzioni.

Lo tirò per la camicia con uno strattone poco femminile, e lui si alzò incerto cominciando ad arrancare dietro a Arthur Weasley.

Harry guardò cupo Luna e lei lo guardò di rimando sbattendo le ciglia.

“Santo cielo, Harry, un po’ di brio. Sono sicura che vorresti saltare di gioia.”

La cosa buona di avere Luna accanto era che gli tirava fuori quel poco di positivo che c’era in lui, e che era geneticamente programmato a nascondere.

Certo che avrebbe voluto saltare di gioia.

Avrebbe voluto saltare di gioia anche quando si era svegliato e Luna era lì accanto e gli aveva fatto un sorrisone nonostante le fasciature e le bruciature e gli aveva detto ‘bentornato’ come se fosse rientrato in casa, in una casa bella però, non come quella in cui era abituato a rientrare dai Dursley. Avrebbe voluto saltare di gioia rendendosi conto che Luna che moriva era stato solo uno scherzo del suo cervello, e in effetti tutto tornava, perché in quel momento gli era proprio difficile immaginare Luna che moriva.

Avrebbe voluto saltare di gioia e stringerle le mani e sorriderle.  E raccontarle quello che aveva visto, e dirle quanto questo significava dei sentimenti per lei; e confessarle quanto aveva pensato e ripensato a Ron, Hermione e Ginny in quelle notti insonni che avevano seguito il suo risveglio; avrebbe voluto dirle quanto si sentiva felice e al tempo stesso terrorizzato all’idea di vedere Ron, ora, ed era per questo che non diceva niente e che era cupo.

Avrebbe voluto, ma non ce la fece.

A Luna non parve importare. Non le importava se non le prendeva la mano o non le diceva quanto era felice che fosse viva e quanto era orgoglioso di lei e anche un po’ imbarazzato per non essere stato lui a proteggere lei; non le importava di passare quelle notti insonni a leggergli le leggende divulgate dal ‘Cavillo’, a raccontargli di quando da bambina era entrata in un armadio dentro al quale aveva trovato un bosco innevato; non le importava, come se già sapesse tutto quello che doveva sapere.

Harry a volte sospettava che gli leggesse dentro. Del resto, di poteri nascosti ne aveva.

Davanti alla porta della stanza di Ron, Harry fu preso dal panico.

Il signor Weasley si voltò a guardarlo.

“Harry”, gli disse, “so che hai già fatto tanto e anche di più per la mia famiglia. E non sarò mai in grado di ringraziarti abbastanza”, fece una pausa, “ma devo chiederti… devo chiederti anche il favore di stare vicino a Ron, ora. Ci sono cose che un genitore non può sapere del figlio e che solo un amico può capire. Tu sai tutto di lui e per questo puoi farlo stare meglio.”

Le sue parole erano chiare e Harry si sentì improvvisamente investito di una grande responsabilità.

Sapeva delle condizioni di Hermione. Una delle ragioni che lo avrebbero tenuto sveglio per molte notti ancora.

Luna, inaspettatamente, si avvicinò al suo orecchio e bisbigliò.

“Penso si riferisca a Hermione. Quindi togliti dalla faccia quell’espressione triste, okay? Le persone tristi non si sentono tanto meglio vedendo altre persone tristi.”

Lo strattonò nuovamente per la camicia – come se fosse quasi scocciata dalla sua lentezza nel deambulare - aprendo la porta della stanza.

Harry prese il respiro ed entrò.

Ron era steso sul letto, con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. Quanto la signora Weasley vide Harry e Luna entrare, gli sorrise tristemente e uscì dalla stanza.

Poi, per qualche ragione, Luna diede un pizzicotto a Harry e uscì anche lei.

Il silenzio della stanza era innaturale.

Harry zoppicò con le stampelle fino ad una sedia, dove si lasciò cadere distrutto.

Guardò Ron che teneva imperterrito gli occhi chiusi; non poté fare a meno di notare quanto bene riconoscesse quando fingeva di dormire.

“Allora?”, disse Harry, riuscendo in qualche modo a tirare fuori la voce, “hai deciso di tornare ad onorarci della tua presenza?”

Non voleva essere così duro. Eppure.

Ron non disse nulla, anche se la mossa rapida delle palpebre lo tradì.

“Immagino che tu sia ancora incazzato con me”, fece Harry, senza uno scopo particolare. Voleva solo riempire quel terribile silenzio. “Ci sarai rimasto male quando hai scoperto che Voldemort non era riuscito a farmi fuori!”, rise nervosamente.

“Oh, Harry, ma vaffanculo”.

Ron aprì gli occhi e finalmente si voltò a guardarlo negli occhi.

Per quanto bene lo conoscesse, Harry non gli aveva mai visto quell’espressione.

Ovviamente sai che non è così.”

Harry tossì, ancora più nervoso e abbassò lo sguardo per fissare le stampelle.

“Beh, non è che ti sei comportato come se…

“Ma insomma, adesso ti devo pure spiegare che stupidamente ho creduto di avere tutto il tempo per fare pace con te? O con chiunque altro? Okay, sono uno stupido. Tanto me lo ricordano tutti.”

Silenzio.

Harry tornò a guardarlo, facendo una smorfia.

“Oh, ti prego. In questo momento sembri me.”

“Beh, in qualche modo devi avermi pure influenzato in tutto questo tempo.”

Ancora silenzio.

Harry capì che tutto il panico e l’orgoglio all’idea di fare pace erano stati inutili.

Avevano già fatto pace, da molto tempo.

Ron gli sembrò così stanco.

 Ron… non ti preoccupare… ecco…”, farfugliò, sentendosi un idiota, “andrà… tutto bene. Si aggiusterà tutto.”

“Pensavo che fossimo a tanto così dal fare pace, ma in realtà credo che non mi perdonerà mai veramente.”

Harry aprì e chiuse la bocca, senza sapere cosa dire. Ron guardava dalla parte opposta, verso la parete. Chissà se i suoi genitori gli avevano detto che era la parete che lo separava da Hermione.

“Gliene hai fatte talmente tante che ormai credo sia geneticamente programmata per perdonarti.”

Ron rise, ma tristemente.

“Sì, ma ora come ora non me ne frega un cazzo che mi perdoni, se poi muore. Preferirei che vivesse odiandomi, allora. Questo preferirei.”

Harry non lo aveva mai sentito parlare di Hermione in questi termini, e in qualche modo la cosa gli strinse il cuore tanto che avrebbe volentieri barattato la sua capacità di camminare per far sentire a Hermione queste parole.

Avrebbe voluto dirgli, ‘Hermione non morirà’, e tanti altri bei cliché da utilizzare in questi momenti. Ma sapeva che sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti e nei confronti dei suoi sentimenti per Hermione che, a quanto pare, andavano oltre a quelli che aveva immaginato.

Poi, a Harry venne in mente una storiella che Luna gli aveva raccontato la notte precedente. Gli venne un’idea.

“Diamine, ma perché le dici a me queste cose? Che c’entro io?”, fece all’improvviso, alzandosi, “dille a lei.”

“Genio, ma non lo vedi come piange mia madre ogni volta che mi muovo? Per colpa di questa lesione al cervello o quel che è non mi posso muovere. E in fondo… non so. Credo di non sentirmela.”

Ron si vergognò tantissimo a dirlo. Non lo avrebbe ammesso con nessun’altro, nemmeno con se stesso.

Harry si appoggiò alle stampelle, inarcando le sopracciglia.

“Ovvio, non vogliamo certo che il tuo cervellino subisca ulteriori lesioni”, replicò, “dicevo che potresti che ne so, scriverle.”

“Come se potesse leggere quello che scrivo.”

“Beh, anche se andassi lì da lei non potrebbe né vederti né sentirti.”

“E poi si arrabbia sempre quando faccio degli errori di ortografia. Una volta le ho lasciato un post-it sulla finestra della sua camera e lei me l’ha rispedito con gli errori corretti con la penna rossa.”

“Penso che per stavolta non ti darà il voto.”

Ron aggrottò le sopracciglia, facendo un gran respiro, come se stesse considerando la cosa.

“Sì, ma lo sai che… non sono mica uno che scrive. Alle donne, poi. Non penserai mica che possa mettermi lì a…

“Mica le devi scrivere una lettera d’amore – santo cielo, non riesco a immaginare quanti strafalcioni faresti. Piuttosto, scrivile qualcosa di breve, che ne so, qualsiasi cosa, due righe. ”, prese un blocchetto di fogli 5x5cm dal comodino ed una penna bic e glieli mise accanto alla mano destra immobile.

“Sì, ma come faccio a scrivere, che non mi funziona la mano destra?!”

“Ron, piantala. E scrivi con la sinistra, no? Tanto la tua grafia non è un granché in ogni caso.”

Vaffanculo.”

“Non c’è di che. Ci penso io a recapitarglieli, tanto con le mie agili gambe arrivo ovunque.”

Ron sospirò. Guardò il blocchetto di fogli. Prese la penna con la mano sinistra, un po’ incerto.

Harry lo guardò.

Sapeva che quella non era la soluzione.

Che da un momento all’altro scrivere bigliettini poteva non avere più alcun senso.

Che forse avrebbe visto sul viso di Ron altre espressioni ben più tristi di ora.

Ma ora, come suo migliore amico, l’unica soluzione che aveva trovato era stata distrarlo nel momento in cui più ne aveva bisogno.

Per la prima volta era lui ad aiutare Ron e non viceversa.

E per la prima volta si sentì un po’ meglio e gli venne voglia di sorridere.

 

Draco Malfoy venne dimesso dall’ospedale due giorni dopo il suo risveglio. Le ferite si erano praticamente rimarginate e le ossa erano tornate al loro posto. Rimaneva un indolenzimento alla schiena e un po’ di nausea di cui i medici non riuscivano a capire la ragione.

Beh, non ci voleva un medico per capirlo. Era nauseato da qualsiasi cosa, dalla luce dell’ospedale, l’odore delle stanze, il rumore dei passi nei corridoi, il fruscio delle lenzuola che sembravano di cartapesta; il pasto immangiabile, la voce di sua madre che gli parlava, il suo profumo, gli oleandri che gli metteva accanto al letto anche se lui li detestava, i fiori.

Quando gli dissero che poteva tornare ‘a casa’, non sapeva esattamente quale sarebbe stata questa casa, che per gli ultimi anni era stato il castello di Voldemort. Sua madre lasciò intendere che sarebbero tornati a Malfoy Manor per un po’.

Uno di quei giorni vennero anche due autorità del Ministero della Magia per fargli delle domande. A quanto pareva, sulla sua testa pendeva un’accusa dello Stato per aver partecipato alle attività dei Mangiamorte. Era inoltre sospettato di una certa quantità di omicidi a sangue freddo.

Nel giro di una settimana sarebbero cominciati i processi contro i Mangiamorte; il suo cadeva di venerdì, un giorno orribile per essere processati. Probabilmente sarebbe finito ad Azkaban, dove erano stati introdotti nuovi organi di controllo vista la pericolosità dei Dissennatori.

Narcissa Malfoy si era già attivata per trovare un avvocato in grado di difendere al meglio il figlio. Finora, non appena avevano sentito il suo nome, tutti i migliori avvocati di Diagon Alley si erano rifiutati di collaborare, anche per cifre davvero esorbitanti.

Tutto sommato, andare in prigione poteva essere una soluzione all’aridità della sua vita per come sarebbe stata dal momento in cui avrebbe messo il piede fuori dal San Mungo.

Seppure non fosse da lui, aveva riflettuto molto e dormito poco in quelle notti di ospedale.

Aveva riflettuto su come era stato sempre schiavo di suo padre; su come, al tempo stesso, lo idolatrasse anche ora che era morto. Aveva riflettuto su come non avesse mai ottenuto niente che gli avesse fatto sentire che la sua vita era importante e degna di essere vissuta. Lo studio non gli era mai interessato, la strada era sempre stata spianata; l’idea di avere degli amici lo infastidiva. Era troppo abituato a non fare nulla per lavorare. Non aveva mai fatto fatica a stare con le donne e il sesso era stata praticamente l’unica attività tipicamente adolescenziale che avesse compiuto.

E ora, avrebbe dovuto, come dire, ‘reinserirsi nella società’?

Sì, la prigione forse era la soluzione migliore. Non sperava in niente, del resto.

Draco, andiamo? Senti ancora male alla schiena? Allo stomaco?”

Draco ignorò sua madre, mentre lasciavano finalmente quella stanza d’ospedale e le sue rose bianche.

Non poteva negare di aver riflettuto molto anche su Ginny Weasley.

Molto.

Il che era stupido, perché non è che lui pensasse molto alle persone, più che altro a se stesso. In altre condizioni non avrebbe fatto altro che pensare a se stesso.

Per la prima volta, però, non gliene importava nulla di se stesso.

Non si può dire che pensasse a lei nel modo in cui una persona innamorata pensa ad un’altra, e nemmeno con la tristezza di una persona che vuole almeno un po’ di bene ad un’altra.

In lui, specie di notte, affioravano più che altro ricordi. Scatti della sua mente, i capelli rossi e il sorriso, la risata un po’ sguaiata e quell’aria sempre così inspiegabilmente protettiva nei suoi confronti. Affioravano un sacco di frasi, un sacco di momenti, anche lontanissimi, come quando l’aveva quasi lasciata cadere dalla Torre di Astronomia anni prima, o anche recenti, come quando lottavano e lei faceva così palesemente finta di essere una Mangiamorte.

Ecco, se c’era una cosa che lo faceva veramente irritare del fatto che quella stupida fosse morta, era che non avrebbe mai saputo veramente perché si era presa la briga di passare tutti quei mesi a giocare alla Mangiamorte. Per poi morire uccisa, per di più.

Uccisa da lui.

Draco, se hai la nausea possiamo fermarci”, gli disse la signora Malfoy, fermandosi nel bel mezzo dell’ala delle accettazioni, “sei pallido”.

Detto da lei era quasi comico, sembrava che non sapesse che lui era bianco di natura. Del resto, avevano passato più tempo insieme in quei giorni che durante tutta la loro vita.

Al San Mungo le acque si erano un po’ calmate; non c’era più la folla in preda al panico del giorno successivo alla battaglia. Certo tante stanze erano piene e c’era molta gente in giro ma Draco non ci fece caso.

Non ci fece caso fino a che, voltando l’angolo verso l’uscita, lui e sua madre non si trovarono faccia a faccia con Harry Potter.

Fu un momento orribile. Per una manciata di secondi nessuno parlò, ma Draco pensò per un momento che sua madre gli si sarebbe buttata addosso per strangolarlo. In fondo, quel ragazzo aveva ucciso suo marito.

Per qualche motivo, Narcissa Malfoy si controllò. Strinse le dita sottili contro il palmo della mano, Draco lo vide chiaramente; ma in qualche modo riuscì a superarlo senza dire niente.

Quanto a Draco, ora che tutto era finito e che sarebbe comunque andato in prigione, non aveva certo intenzione di abbassarsi a mostrare a San Potter Sulle Stampelle quanto lo detestasse. A dire il vero, ora come ora gli era del tutto indifferente.

Draco seguì la madre in silenzio, andando oltre Harry, che non faceva che fissarlo con fastidiosa insistenza.

Proprio dopo pochi passi, quando Draco stava per uscire dall’ospedale dalla porta a vetri, sentì Harry dire qualcosa.

“Ma guardati, come ti sei rimesso in fretta. Sei proprio uno stronzo fino in fondo. Almeno potresti fingere che ti dispiaccia.”

Draco circondò la maniglia con la mano. Non gli interessava affatto fare uno scambio di battutine con Harry Potter. Aveva un fortissimo senso di nausea.

“Non so proprio quale sia il motivo per cui sei nato.”

E va bene, non poteva sopportare che Harry Potter si sentisse libero di dire quello che gli pareva.

Si voltò, cercando di trattenere il voltastomaco.

“Hai finito di rivolgermi la parola, Potter?”

Harry lo guardò. In realtà, al contrario di quanto mostrava il suo tono tagliente, non sembrava voler attaccare briga.

Sembrava solo stanco, come se non avesse dormito.

“Non m’interessa rivolgerti la parola, Malfoy”, gli disse, “trovo solo deprimente come possano esistere persone come te.”

“Persone come me”, ripeté Draco, sprezzante.

“Persone come te che, anche quando sono state sconfitte, non lo ammettono”, Harry tacque per un attimo. Poi gli si avvicinò in modo che solo lui lo sentisse, “non so cosa Ginny vedesse in te, ma lei è una intelligente e ti ha dato fiducia. Non capirò mai perché. Pensavo che perfino una persona come te, dopo tutto questo, fosse in grado almeno di andare a vedere come stava. Ma immagino che sarebbe come chiederti di toglierti quell’espressione gelida perennemente stampata sulla tua faccia.”

Draco aveva sentito abbastanza.

Nonostante non avesse minimamente intenzione di dirlo ad alta voce, si lasciò sfuggire le parole.

“Beh, parlare con i morti non salverà la mia anima.”

Harry lo fissò e Draco pensò che ora, almeno, sarebbe stato zitto.

Harry continuò a fissarlo sbattendo le palpebre, fece per parlare e poi tacque ancora.

“Probabilmente no”, disse infine.

Malfoy annuì in silenzio. Si voltò verso l’uscita. Aprì la porta. Mise un piede fuori.

“Oh, al diavolo”, Harry Potter, inaspettatamente, gli bloccò la porta con una stampella. Draco era pronto, a questo punto, a passare alle mani. Tanto ormai in prigione ci doveva andare.

Malfoy, per un attimo ho pensato che sarebbe stata una vendetta perfetta ma, cazzo, io non sono come te. Chi diamine ti ha detto che Ginny è morta? Non è morta. E prega che non lo sia mai o ti uccido con le mie stesse mani.”

In un primo momento, Draco Malfoy fu seriamente convinto che Harry lo prendesse per il culo, una specie di sadico addio, giusto per ricordargli che lui era stato altrettanto stronzo con lui.

Poi, però, si rese conto che San Potter non faceva questo genere di scherzi.

Davanti al silenzio di Malfoy, Harry inarcò le sopracciglia.

“Allora non lo sapevi veramente…”, fece, “…beh, ora hai due possibilità. Puoi uscire da questa porta e non avere più a che fare con nessuno di noi, mai più. Il che mi farebbe più che felice, davvero. Oppure puoi vederla, dato che credo che lei avrebbe passato le notti al tuo capezzale e glielo dovresti. Ma sappi che i Weasley in questo momento non sono molto ben disposti verso di te. Però so quanto ci terrebbe Ginny a vedere che le mostri un po’ di considerazione… quando si sveglia… sperando che si svegli.”

Draco Malfoy rimase sulla porta per qualche secondo.

Ora che non era più un Mangiamorte non sapeva quale ruolo avrebbe dovuto interpretare nella sua vita.

Ma la nausea gli era passata.

Nonostante sua madre lo chiamasse da fuori, lui lasciò la porta e, per la prima volta in vita sua, Draco Malfoy seguì Harry Potter.

 

Lo sguardo di Draco Malfoy incrociò quello dei signori Weasley e non ci volle più di una frazione di secondo prima che Arthur si alzasse dalle sedie della sala d’attesa, urlò cose che Draco non riusciva a sentire – perché il suono era così attutito, le immagini così lente e quasi da incubo? – e gli si avvicinava con il pugno alzato e gli occhi rossi di vecchie lacrime.

Harry urlava sulla voce di Arthur, diceva qualcosa tipo “per favore, lasciate che entri”, ma Draco non li ascoltava, era come se a cosa non lo riguardasse, come se gli insulti e gli sguardi non fossero completamente rivolti a lui. Mentre Potter  cercava di calmare i Weasley, Draco guardò verso la vetrata che dava sulla stanza di Ginny Weasley.

La ragazza magra e pallida stesa su quel lettino fatto di coperte ruvide non sembrava Ginny Weasley. Aveva le guance troppo scavate, e dov’erano le lentiggini?

E dov’erano i lunghissimi e folti capelli rossi? E le palpebre chiuse nascondevano il colore degli occhi – dovevano essere verdi, giusto?

Draco sentiva ancora meno le voci degli altri, ora. Si avvicinò a pochi centimetri dal vetro freddo.

Quei capelli rossi così corti, da ragazzino, ricordavano una versione molto più giovane di Ginny. Ora che la vedeva più da vicino, riusciva a riconoscere qualche lentiggine bianca sulla pelle ancora più bianca. Le mani erano stese lungo i fianchi. Draco ebbe la certezza che era lei vedendo la forma dell’osso dei suoi polsi. Il palmo della sua mano li aveva toccati tante volte ormai.

Si sentiva sollevato? No. Speranzoso? Figuriamoci.

Come al solito, non si sentiva nulla.

L’unica cosa di diversa dal solito, era che aveva voglia di stare lì più che in ogni altro posto.

Lui non deve permettersi di stare qui”, stava dicendo Arthur Weasley a Harry, quasi singhiozzando, “non deve permettersi”.

Draco si voltò verso di loro, guardò la sala d’attesa. Individuò la sedia nel punto opposto della stanza rispetto ai Weasley, vi si sedette. Li accanto c’era una vecchia copia della Gazzetta del Profeta; la prese e cominciò a leggere.

Il silenzio era calato nella stanza. Tutti lo fissavano.

Non… non puoi stare qui”, disse il signor Weasley, la voce un po’ più bassa, “ehi. Dico a te”.

Malfoy alzò lo sguardo grigio dal giornale.

“Quando mi stancherò”, disse, gelido, “me ne andrò.”

Il signor Weasley fece per dire qualcosa, ma chissà per quale motivo non ci riuscì e tacque.

Harry non sapeva se aveva fatto bene a portarlo lì. Non sapeva neanche perché l’aveva fatto.

Forse perché aveva ricordato lo sguardo di Ginny quando parlava di Malfoy. Ci doveva essere qualcosa di lui di buono, qualcosa che nessuno riusciva a vedere. Qualcosa che solo lei vedeva. Doveva esserci.

E se c’era, doveva essere Ginny a vederlo, quando si fosse svegliata.

Ovunque lei fosse in quel momento, Harry sperava che la presenza di tutti loro, lì, davanti a lei, la riportasse indietro.

 

Non hai idea di quanto fosse CATTIVA la torta che mi hanno dato oggi per dessert! Ma chi cucina al San Mungo, tua madre???!!!

 

A proposito di Tua Madre, ci crederesti che mi ha portato dei biscotti e mi ha perfino augurato di tornare a muovermi presto? Ma ci credi? Secondo me ci gode a vedermi costretto a letto. Tipo, che per lei è il KARMA. Glielo leggo negli occhi: hai dormito tutta la tua vita fino a mezzogiorno? Adesso stai a letto anche se non vuoi, MUAHAHAH.

 

Ah, stanotte non riuscivo a dormire e mi sono ricordato che dovevamo andare ai fuochi d’artificio a Londra! Ci siamo dimenticati totalmente! P.S. Hai notato come ho fatto bene lo spelling di ‘fuochi d’artificio’? P.P.S. Ho controllato sull’Oxford Dictionary of English.

 

Non riesco a dormireeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee.

 

Mi hai dato buca per il caffè…

 

E’ ora di svegliarti! Credo che tu non abbia mai dormito tanto in tutta la tua vita. Dico, proprio sommando le notti in cui hai dormito. Eddai!

 

Oh, diamine.

 

Dopo una settimana, le infermiere del San Mungo cominciarono a trovare divertentissimo il fatto che ogni giorno il comodino di Hermione Granger fosse sommerso di post-it. Arrivarono addirittura ad occuparsi di riordinarli loro stesse, quando dovevano spostarli per somministrarle le medicine.

Ormai i foglietti riempivano un cassetto intero.

Ogni giorno, più volte al giorno, Harry li portava e li metteva accanto al letto di Hermione.

Lei non si mosse mai, neanche per un attimo. Neanche le palpebre.

I signori Granger erano ospiti in un albergo vicino all’ospedale, ma di fatto vivevano nella sala d’attesa davanti alla stanza di Hermione. Spesso si facevano compagnia con i Weasley, anch’essi ormai in pianta stabile in ospedale; ma più che altro stavano tutti in silenzio.

Luna portava degli oleandri bianchi in camera di Ginny, dei girasoli in camera di Hermione.

Anche se non era compito suo, con la bacchetta le sistemava i capelli e faceva un sacco di chiacchiere. Harry stava perlopiù in silenzio a guardarle.

Ron non poteva ancora alzarsi, anche se, avevano detto i medici, presto sarebbe stato in grado di muoversi e forse lo avrebbero addirittura dimesso dal ricovero, con la promessa di tornare per la fisioterapia al braccio che ancora faticava a muoversi e con cui non poteva scrivere. Ormai la sua calligrafia con la sinistra era quasi comprensibile, però.

La signora Granger faceva spesso visita a Ron, cosa che lo imbarazzava tantissimo. Quella donna manteneva sempre quel cipiglio freddo e un po’ sprezzante, ma invece di stargli lontano spesso se ne stava lì nella sua stanza, anche in silenzio. Non chiacchieravano molto. Lei cuciva con l’uncinetto, lui scriveva.

Fortunatamente Ron non vedeva Draco Malfoy, o l’agitazione gli avrebbe impedito di concentrarsi. D’altra parte, però, non si sentiva così arrabbiato con lui come avrebbe voluto. E in fondo sapeva anche perché.

Lui sapeva che non sarebbe potuta andare avanti così per sempre, in uno stato di tale speranza e relativa tranquillità.

Lo capì il giorno in cui finì il quarto blocco di post-it e sentì una sirena suonare fuori dalla sua stanza e qualcuno che correva.

Si alzò sulla schiena e rimase immobile, gli occhi fissi davanti a lui ad ascoltare le voci attutite dai muri.

“Presto!”

“Chiamate il medico…

“Tenete la porta chiusa.”

Hermione!”

“Signori, non potete entrare!”

La penna gli cadde dalla mano, scivolò sulle lenzuola e finì per terra con uno schiocco.

Ron Weasley non si sentì mai mancare il respiro come in quel momento. Era come se improvvisamente non ricordasse più come mandare fuori l’aria.

Si scostò le coperte con il braccio rotto; gli fece così male che una fitta lo fece sudare istantaneamente.

Scese a piedi nudi sul pavimento freddo; aveva già il fiatone e la vista gli si annebbiò un po’ mentre fissava il muro accanto al suo letto.

Deglutì mandando indietro una fitta di dolore – tutte le ossa, sentiva tutte le ossa scricchiolare -  appoggiò i palmi delle mani contro il muro ruvido. Oltre quel muro c’era Hermione, c’erano le voci e i passi e c’era il destino e c’era o la vita o la morte.

Appoggiò l’orecchio contro il muro e chiuse gli occhi, che gli bruciavano un po’. Ma non pianse; non era più un bambino.

Le gambe non gli reggevano più e si sedette a terra, la schiena e la nuca appoggiate al muro.

Ad ascoltare.

Con gli occhi chiusi.

Non aveva mai pensato a quanto fosse delicata la vita. Mai come in quel momento, nemmeno durante il combattimento, nemmeno quando aveva rischiato lui stesso di morire.

Non aveva mai pensato a quel momento, a quel momento che separava l’esserci dal non esserci più.

Si era così abituati a dare per scontato la presenza, l’anima, il corpo, che la morte era qualcosa di impensabile.

Si rese conto che la morte di se stessi non esisteva. Esisteva la morte degli altri: quella era la vera morte.

Quel momento che separava l’esserci dal non esserci più…

Sentì che se nel mondo terreno avesse potuto scambiare la propria vita con quella di Hermione l’avrebbe fatto; perché l’importante non era che si vedessero ancora, che lui lo perdonasse, che gli stringesse ancora la mano, che lui potesse baciarla di nuovo. L’importante era lei, era lei che esisteva e basta.

Probabilmente era questo che la gente stupidamente chiamava ‘amore’. Solo ora, appoggiato al muro a pregare chiunque, a pregare e basta, poteva dire che esisteva, anche se non era una parola, anche se era troppo un cliché.

E che non era bello come tutti dicevano, ora. Non era bello, ora, che non poteva fare niente, che poteva solo stare seduto oltre un muro con ancora mille cose da dire, mille cose da scrivere.

Chiuse gli occhi e respirò.

 

Luna gli strinse la mano. Forte forte, come se pensasse che sarebbe scappato.

I medici abbassarono la tenda sulla vetrata della stanza di Hermione così che nessuno vedesse quello che stavano facendo.

Avevano parlato di ‘arresto cardiaco’. Hermione era così debole che il cuore riusciva più a pompare il sangue per tutto il corpo. Il che era assurdo, perché il cuore era il suo muscolo più forte.

I signori Granger erano più pallidi che mai. Per terra c’era ancora il lavoro all’uncinetto di Elizabeth, incompleto.

Harry non aveva mai sentito il tempo passare lento come in quel momento. Era come se tutto si fosse fermato, come se tutto andasse indietro invece che avanti, era peggio di un incantesimo.

Guardò Luna, che fissava la tenda chiusa con le sopracciglia aggrottate e la determinazione negli occhi.

“Harry, parla con lei”, gli disse, senza voltarsi a guardarlo, “nella tua testa, parla con lei.”

Harry deglutì.

“Non penso possa sentirmi. Non ora.”

Luna strinse ancora più forte la sua mano.

“Tutti possono sentirci.”

Harry la guardò.

Luna…

“Credici per un momento. Anche se non è vero… credici.”

Harry la fissò ancora per un momento.

Insieme guardarono verso la tenda chiusa e le parlarono.

Che lei potesse sentirli o no.

 

Un vento né freddo né caldo le arruffava i capelli.

Hermione aveva i piedi immersi nell’acqua della riva.

Si sentiva così tranquilla… eppure ricordava che un tempo aveva avuto paura. Ora non ne aveva.

L’acqua era così calma, così tiepida; non come quella del mare vero, troppo fredda, che ti fa venire la pelle d’oca; e la sabbia non nascondeva conchiglie che facevano male alla pianta del piede, era sottile e morbida come seta.

Guardò davanti a sé, il mare piatto, splendido, che si fondeva con il cielo.

Camminò ancora per qualche passo, finché l’acqua le raggiungeva le ginocchia. Aveva quasi sonno.

Poi, però, ebbe la sensazione di essere chiamata. Sentì quasi il suo nome, il suo nome che aveva quasi dimenticato per un momento.

Il vento si fece ancora più forte mentre si voltava indietro.

 

Ron, seduto per terra, teneva la testa tra le mani.

 

 

 

 

 

 

 

*

 

Ed eccomi di nuovo qui… in maniera molto politica ho fatto tante promesse e alla fine… ho pubblicato con un tale ritardo. Abbiate pazienza, se ci siete ancora a leggere, ormai lo sapete come sono…

Comunque, la cosa positiva è che sentivo che questa fan fiction andava finita, anche se questo significava che dovevo separarmene, e la cosa mi faceva un po’ paura. E’ stato molto complesso; alla fine, poco a poco, ho scritto un capitolo finale di cinquanta pagine.

Ho preferito non sciropparvele tutte in una volta (ripeto, se ci siete ancora per leggerle e non vi siete dimenticati – anche giustamente! – di questa fic). Posto oggi questa parte, già di per sé abbastanza densa (sorry) e posterò l’ultima parte (ci tengo a sottolineare, già scritta, finita, completata, nel caso vi passasse per la testa che è tutta una scusa per rimandare il finale finale all’anno prossimo xD) fra una settimana, cioè la vigilia di Natale, come ‘regalo’, apprezzabile o no (che ansia!).

Un grazie e uno scusa a tutti (tanti) quelli cui avevo detto ‘questo mese lo finisco, promesso’ – in buonissima fede tra l’altro – senza mai farlo davvero.

Beh, ecco qui. Ho fatto ciò che potevo con ciò che avevo dentro in questo periodo.

Come sempre, la mia speranza maggiore è che vi possa piacere e vi faccia provare quello che ho provato nel scriverlo.

A prestissimo (per davvero, questa volta)!

 

Miwako

 

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Capitolo 16
*** We are just ash in a jar - till the end 2 ***


WE ARE JUST ASH IN A JAR – till the end 2.

 

 

 

 

 

I medici uscirono dalla stanza molto più lentamente di come ci erano entrati. Nessuno alzò la tenda.

Uno di loro venne verso i signori Granger; era inespressivo, come tutti i medici quando devono dire qualcosa di importante.

Harry e Luna erano lontani da loro, ma li fissarono mentre parlavano.

Il medico gesticolò pacatamente con le mani, tenendo una cartella in mano.

La signora Granger scoppiò a piangere.

Il signor Granger chiuse piano gli occhi e l’abbracciò.

Harry aveva la nausea.

Il medico se ne andò senza guardarli.

I signori Granger si abbracciavano piangendo.

Luna prese il viso di Harry tra le mani costringendolo a guardarla, come se dovesse dire qualcosa.

Eppure non disse nulla, ma si limitò a guardarlo negli occhi.

Come se fossero rimasti solo loro due al mondo, si guardarono per un tempo infinito, come se quella fosse l’ultima occasione per farlo.

“Ce l’ha fatta”, disse il signor Granger a bassa voce, come se non riuscisse a parlare, “il cuore ha ripreso a battere. Ce l’ha fatta.”

Luna gli sorrise guardandolo negli occhi.

 

Ron si risvegliò che era steso sul letto. La luce al neon non dava alcuna indicazione su che ora fosse, ma a giudicare dal silenzio che avvolgeva l’ospedale doveva essere tarda notte.

Harry e Luna dividevano la stessa sedia vicino al muro. Erano mezzi addormentati; a Luna scendeva anche un po’ di bava dall’angolo della bocca.

Harry si accorse quasi subito che Ron era sveglio e si mise dritto sulla schiena.

“Ti ho tirato su io da per terra”, gli disse, “sei pesante come un sacco di cacca.”

Ron non disse nulla.

Harry lo squadrò.

“Ron”, gli disse, “puoi anche smettere di fare quella faccia. Si è svegliata.”

 

Draco Malfoy detestava l’odore di sporco e malato che circondava gli ospedali.

Odiava la miseria e le faccette afflitte che si aggiravano attorno a lui.

Nonostante ciò, Harry Potter lo vide ogni giorno, ogni singolo giorno in quella sala d’aspetto. Era sempre sveglio, sempre; a volte si chiedeva se ci fosse un momento, di notte o di giorno, in cui chiudesse le palpebre, anche solo per un attimo.

Non che si facesse mancare niente: si comportava da principino come sempre. Tinker era praticamente sempre lì per portargli cuscini per farlo stare comodo; non che si mettesse mai comodo, anzi: sembrava costantemente sull’attenti.

I Weasley, specie Arthur, lo guardavano con estremo sospetto e non gli si avvicinavano mai; ma avevano smesso di lamentarsi della sua presenza.

Per il resto, lui se ne stava lì, senza rivolgere né lo sguardo né la parola a nessuno, senza mostrare il minimo segno di stanchezza o di compatimento; la cosa assurda era che era proprio davanti alla vetrata da cui si vedeva Ginny, ma non la guardava mai. Perlopiù se ne stava lì a piluccare quello che Tinker gli preparava da mangiare e a leggere un libro o il giornale. Harry era abbastanza sicuro che in tutto quel tempo non avesse mai parlato se non per dare qualche ordine in modo gelido a Tinker.

Harry non aveva comunque la minima intenzione di avvicinarlo. Lui aveva fatto il suo dovere; fosse stato per Harry, Malfoy avrebbe potuto anche sparire per sempre dalla sua esistenza. Ma Ginny aveva rischiato la vita per quello lì. Continuava a chiedersi la ragione.

A vederlo così, con quell’espressione sprezzante costantemente stampata in faccia, sembrava che rimanesse per costrizione.

Ad ogni modo, si avvicinava il giorno in cui l’avrebbero processato e quindi portato via dall’ospedale anche di forza.

Ginny doveva, doveva svegliarsi prima di allora.

Doveva.

 

 

La prima cosa che sentì Hermione quando si svegliò fu il gorgoglio del proprio stomaco. Poco poetico, ma tipico.

Poi vide sua madre che l’abbracciava e la baciava su tutta la faccia e il padre che faceva lo stesso.

 Hermione, tu non sai… non sai… ho avuto così tanta paura…”, diceva sua madre.

Urgh…”, farfugliò. Sentiva la bocca impastata come se avesse mangiato colla.

“Non ti sforzare. Ti porto qualcosa da mangiare? Qualcosa di liquido così lo stomaco non fa fatica.”

Hermione si sentiva girare la testa da tutte quelle parole. 

Il padre, con gli occhi lucidi, uscì per andare ad avvertire i medici.

Hermione respirò profondamente.

“Ci hai fatto spaventare così tanto.”

Hermione sorrise un po’. Si sentiva debolissima.

Gli… gli altri…”, mormorò, sentendo il cuore battere due battiti in più del dovuto.

“Non ti agitare”, disse subito la madre, che a gestire queste situazioni non era mai stata brava, “stanno tutti bene”. Non le disse di Ginny. O di chi era caduto durante la battaglia.

Hermione sorrise un po’ di più, chiudendo gli occhi. Stavano tutti bene… stavano tutti bene.

Riaprendo le palpebre si accorse per la prima volta della pila altissima di fogli gialli che inondava il comodino vicino al suo letto.

“Cos’è?”

Elizabeth Granger assomigliava molto alla figlia. Non era né dolce, né romantica né sognatrice; preferiva le cose concrete, amava essere diretta e piangeva solo per le cose gravi. Non era fragile ma era insicura. Ai gesti simbolici preferiva la concretezza.

Eppure, niente le aveva mai toccato il cuore come tutti quei post-it che si erano accumulati nella stanza di sua figlia, giorno dopo giorno. Non li aveva letti, ma non era necessario farlo per capire quanto un’azione così, volendo, sciocca, fosse incredibilmente importante.

“Posta per te”, disse alla figlia, cercando di mantenere un tono distaccato, “i tuoi amici erano molto preoccupati per te.”

Non intendeva fare il nome di Ron Weasley, non ancora. Era strano, ma aveva paura di agitarla soltanto nominandolo.

Hermione allungò la mano sul comodino sentendo i muscoli delle braccia indolenziti. Prese un post-it piegato in due e lo lesse.

 

There is a house built out of stone
Wooden floors, walls and window sills
Tables and chairs worn by all of the dust
This is a place where I don't feel alone
This is a place where I feel at home

 

Fissò il foglietto stringendolo forte tra le dita.

Un giorno stavano bevendo la cioccolata calda con la panna montata in Kensington Street.

Finalmente stai un po’ zitta. A cosa devo questo piacere?

… stavo ascoltando questa canzone.

Mh.

E’ bello il testo, no?

Non è il mio genere.

Il tuo genere… tipo lo sbattere di una pentola contro un’altra.

So che mi rispetti ma non dimostrarmelo continuamente. Comunque, troppo melensa. Di quando in qua sei così melensa?

Non c’è niente di melenso in una canzone che parla di casa.

Lui aveva riso abbassando gli occhi azzurri sulla tazza di cioccolato fumante.

Forse è vero.

Hermione prese e lesse un altro post-it. E poi un altro, e un altro, e un altro…

Erano pensieri, citazioni, pezzi di canzoni, appunti, liste, cose da fare, barzellette, definizioni del dizionario, recensioni di film che avevano visto, piccole cronache di una giornata…

Hermione, come sua madre, non era né dolce, né romantica né sognatrice.

Preferiva le cose concrete, amava essere diretta e piangeva solo per le cose gravi. Non era fragile ma era insicura.

Ma dovette chiudere gli occhi per qualche minuto per impedirsi di versare anche solo una lacrima di fronte alla madre che l’aveva vista piangere altre volte, negli ultimi anni, la maggior parte per un solo, unico motivo.

La verità era che le azioni concrete erano molto più importanti di questi gesti simbolici, che non sarebbero certo stati cento, duecento post-it scritti con una calligrafia orribile a scioglierle il cuore o a farle dimenticare.

Ma era anche vero che se ‘concreto’ era qualcosa che si potesse toccare, respirare, assaggiare… beh; allora, niente di veramente importante era concreto.

Non le ci vollero più di tre ore, durante le quali fu visitata, nutrita, tenuta a stretto controllo da sua madre e visitata da Harry e Luna a più riprese, per terminare di leggere i post-it.

Aprì l’ultimo, o meglio il primo in ordine cronologico; una parte di lei sapeva già cosa c’era scritto.

Lo lesse e, ora che per un momento era sola, si permise di stringerlo in una mano affondando una lacrima nel cuscino.

 

Ginny Weasley aprì gli occhi.

Si sentiva strana.

Come se le mancasse qualcosa.

Si guardò intorno. Era in una stanza d’ospedale. Non sentiva odori. Provò a toccare le lenzuola che le coprivano il ventre. Non riusciva ad avvertirne la ruvidezza.

Non aveva freddo, né caldo; non sentiva alcun rumore.

Scese dal letto, un po’ spaventata. Nella stanza non c’era nessuno, solo oleandri senza profumo.

Si guardò le mani e le braccia. Erano intatte; non capiva perché non sentiva nulla.

Guardò il letto e sussultò, ma non sentì la sua voce urlare.

Per un attimo non riconobbe la ragazza con i capelli corti stesa sul letto come se stessa. Se ne accorse solo dopo averla guardata attentamente.

Provò a dire qualcosa; nessun suono uscì dalla sua bocca.

Provò a toccare il braccio del suo corpo, ma non avvertì niente, come se toccasse aria.

Si guardò di nuovo intorno. Aveva la sensazione terribile di non respirare; eppure non ne sentiva neanche il bisogno. Era la cosa più strana che avesse mai sentito.

Pensò di essere morta; eppure qualcosa le diceva che ancora non lo era.

Guardò davanti a sé: c’era una vetrata che dava su un corridoio.

Vide sua madre e suo padre che parlavano e bevevano caffè da bicchieri di carta. Vide Harry con le stampelle, che li salutava con espressione seria.

Li chiamò con tutte le sue forze ma loro non si voltarono.

Poi vide Malfoy.

Se ne stava seduto con la sua solita espressione impassibile. Era più pallido che mai; anche le labbra non si riconoscevano più in mezzo a tutto quel bianco. I capelli biondi erano perfettamente pettinati; leggeva un libro di quattrocento pagine.

Ginny posò la mano sul vetro, senza ovviamente sentirlo, fissando Draco con tutte le sue forze. Provò a chiamarlo ma, come immaginava, fu inutile.  Lui non alzava lo sguardo.

Rimase a guardarlo per un tempo che le parse infinito. Forse pochi minuti, forse ore, forse giorni.

Ogni tanto lui voltava pagina, ma non alzava mai lo sguardo.

Alza quel maledetto sguardo, pensava Ginny tutto il tempo.

Era strano. Normalmente si sarebbe fatta prendere dal panico dato che nessuno la vedeva o la sentiva.

Tuttavia, era calma. Era come se avesse tutto il tempo del mondo.

L’unica sensazione che provava, era rabbia.

Dunque, non era morto.

Era lei che si trovava in quella specie di limbo infernale.

E lui se ne stava lì come se nulla fosse. Probabilmente si sentiva anche molto magnanimo solo per il fatto di starsene lì seduto davanti alla stanza dove lei se ne stava bellamente tra la vita e la morte.

Gli fece una smorfia attraverso il vetro, ma lui continuava a leggere.

Che legame si era creato tra loro. Erano maghi e lui non riusciva nemmeno a sentire la sua presenza. Harry l’avrebbe fatto.

Eppure, accanto alla rabbia, sentì dentro di sé o a quello che rimaneva di sé, una sensazione di calore. Era vivo. Era vivo e non riusciva a distogliere lo sguardo da lui. Come sempre.

Forse, era proprio così che doveva andare. Se l’era scavata da sola, la fossa. Non era forse stata lei a pensare, anche solo inconsciamente, ‘io darei la vita per lui’? Ecco, era stata subito servita. Su un piatto d’argento.

Il fatto che lui se ne stesse al suo capezzale non la colpiva proprio per niente. Ormai lo conosceva abbastanza per capire che dentro quell’involucro ghiacciato c’era uno straccio di umanità, seppur piccolo, che gli provocava di quando in quando brevi sprazzi di sensi di colpa. Ed era per questo che se ne stava lì.

Quello che pochi mesi prima avrebbe scambiato per… affetto non era altro che pura normalità di essere umano. Beh, non voleva certo la sua umanità, dopo avere ricevuto soprattutto merda proprio da lui.

Glielo disse ad alta voce.

All’improvviso, lui alzò lo sguardo e la guardò dritto negli occhi, o almeno lei ebbe questa sensazione.

Ginny sussultò. Si guardarono.

Un profumo intenso di oleandri bianchi le penetrò le narici.

 

Venerdì mattina Ginny Weasley si svegliò.

Lo venne a sapere praticamente mezzo ospedale: d’altronde, era l’ultima degli ‘eroi’ che avevano combattuto nella battaglia contro Voldemort a svegliarsi.

Sua madre quasi ebbe un attacco isterico quando vide che le sue palpebre si aprivano.

Ginny non si sentiva né particolarmente bene né particolarmente male; era come se avesse dormito molto ma anche molto poco. E poi continuava ad avere la sensazione che le mancasse qualcosa.

La sala d’attesa si riempì di medici e di parenti, anche non suoi. Un’infermiera chiuse la tenda davanti alla vetrata per evitare di dare spettacolo.

Ginny fu visitata a lungo prima di vedere i suoi genitori. I medici non avevano espressioni particolarmente incoraggianti, anche se le sorridevano. Le ascoltarono tutte le pulsazioni possibili, le dissero di stare tranquilla, le diedero delle medicine. Ma lei colse degli sguardi preoccupati e non capiva perché.

Non si ricordava moltissimo della sua esperienza extrasensoriale, in realtà. Aveva più che altro la sensazione di essere andata molto vicino alla morte. Poi aveva in testa la presenza di Malfoy aldilà del vetro, ma non disse nulla a nessuno perché forse se l’era sognato.

La prima cosa che sperò fu che non se lo fosse sognato.

Mentre prendeva le medicine sentì le voci dei suoi genitori e del medico attutite dalla porta. Sentì sua madre singhiozzare. Poteva essere una cosa grave oppure no, sua madre piangeva sempre.

Ovviamente venne inondata di baci anche se alla signora Weasley fu intimato di non mettere la figlia sotto stress.

Ginny, non puoi immaginare quanto noi, tutti noi fossimo preoccupati”, le disse sua madre quando si calmò, “si erano svegliati tutti… e io pensavo…

Sua madre tacque e lo sguardo di Ginny cadde su suo padre, che la guardava serio, senza parlare.

“Che cos’hanno detto i medici?”, chiese lei, con la voce roca dopo tanto tempo che non parlava.

Arthur Weasley avrebbe preferito non parlarne ora; ma guardò sua figlia. Scarna, con i capelli da ragazzino ma gli occhi sempre così determinati da incutere quasi timore. Era forte come una roccia, lei.

Ginny, forse non è il caso di parlarne adesso”, buttò lì.

“E’ il caso se fai quella faccia”.

Il fatto di essere stata in coma non l’aveva ammorbidita per niente.

Arthur sospirò.

“Non c’è modo di dirtela in modo tenero, ma l’importante è che non ti agit…

“Vai, parla, papà.”

Lui la guardò.

“Non hai più poteri”, disse, tutto d’un fiato, “per il momento, almeno”.

Ginny lo fissò.

“Che significa?”, chiese, e poi tossì. Ma lo sapeva benissimo.

Ecco cosa sentiva che le mancava.

“Non è detto che non li recuperi”, si affrettò a dire la signora Weasley, lanciando un’occhiataccia al marito, “ma sei stata investita dall’incantesimo di… Voldemort con più potenza degli altri. A te i poteri non sono ancora tornati… ma torneranno.”

Ginny sbatté le palpebre.

“Quindi ora… non ho alcun potere?”

I suoi genitori tacquero.

“Non posso fare niente?”

Ancora silenzio.

Non aveva bisogno di risposte. Ma elaborare la cosa non era facile.

Sono… praticamente babbana.”

Questo sì, era un duro colpo.

“Li riavrai, i tuoi poteri”, disse subito suo padre, riacquisendo un po’ di ottimismo, “vedrai. E se… beh, e se non succederà… non importerà.”

Importava, invece, importava moltissimo.

Ginny chiuse gli occhi. Non avvertiva niente scorrere dentro di sé.

Nessuna magia.

 

Le autorità vennero a prendere Malfoy nel momento esatto in cui Ginny Weasley fu dichiarata fuori pericolo.

Lei l’aveva vista aprire gli occhi; solo un attimo prima aveva alzato lo sguardo dal libro per chissà quale motivo, e lei aveva aperto gli occhi.

Subito dopo un’infermiera aveva chiuso la tenda.

Ovviamente tutti nella sala d’aspetto furono presi da un attacco di stupidità acuta. Persino Tinker saltava e piangeva di gioia, finché Draco non lo zittì con un calcio.

Improvvisamente si sentiva stanco. Chissà da quanto tempo non dormiva? Non se lo ricordava più. Era in uno stato abbastanza catatonico, come se fosse stato ibernato fino ad allora.

Harry vide per primo due omoni grossi entrare nella sala d’aspetto e dirigersi verso Malfoy.

Draco non fece una piega e li trattò come se fossero suoi servitori. Non oppose alcuna resistenza, non rivolse più lo sguardo alla stanza, non sorrise, come se non ci fosse nulla da festeggiare.

Harry ebbe quasi voglia di chiedere se poteva rimanere quel tanto che bastava per… beh, farle visita.

Ma prima ancora che potesse dire qualcosa, Malfoy e i due del Ministero se ne andarono senza la minima esitazione, e Tinker dietro di loro.

 

Tutti non facevano che chiedere a Ron perché non fosse subito corso a fare visita a Hermione.

Ormai era fuori pericolo da un giorno e tutti i Weasley, Harry e Luna erano andati a farle gli auguri, a portarle i fiori, i cioccolatini iperproteici e le patatine fritte di straforo.

Eppure, se avesse voluto, Ron avrebbe potuto farsi mettere sulla sedia a rotelle e farsi portare da lei.

“Ma quanto sei stronzo?”, gli disse Harry all’ora di cena, mentre Ron beveva la zuppa facendo un rumore sgradevole, “giuro, io non ti capisco.”

Ron lo guardò. Aveva acquistato molto più colore e le lentiggini sul naso splendevano come stelline.

“Non posso andarci in questo stato. Devo prima rimettermi in forze.”

Harry lo fissò come se fosse deficiente.

“Credo che le interessi di più che tu ti faccia vedere piuttosto che del tuo aspetto fisico. Ci stai facendo una pessima figura. Dopo tutta quella scena del post-it, eri l’idolo di tutti e adesso sei calato di millemila punti. Si aspettavano che ti saresti… precipitato.”

Ron gli porse la scodella della zuppa.

“Ancora”, disse, “comunque, no. L’importante è che ora stia bene, no? Non intendo fare niente di teatrale.”

Era vero.

Ora che sapeva che Hermione era fuori pericolo, si sentiva improvvisamente rinato. Non sapeva se erano i medicinali – probabilmente no -, ma si sentiva in gran forma. Nonostante ciò, ancora non riusciva a muovere il braccio e per camminare aveva bisogno o delle stampelle o della sedia a rotelle.

Non aveva certo bisogno di farsi vedere miseramente ferito per perdere ancora di più la faccia con Hermione.

Sì, forse era un atteggiamento assurdo e anche incredibilmente infantile.

Anzi, probabilmente non era per quello che non andava a fare visita a Hermione.

Forse la verità era che si era cagato talmente sotto quando aveva creduto che morisse che aveva capito quanto la cosa fosse seria.

Nel senso: ora aveva la certezza che lei era la persona più importante al mondo per lui. Il che la metteva, nei suoi confronti, in una posizione di estrema forza. Non che non fosse sempre stata la donna dominatrice, ma ora anche lui ne era cosciente.

E, beh… ora che lo aveva realizzato, non era sicuro di poter sopportare uno sguardo di pena da parte sua.

Quindi, faceva quello che faceva sempre quando c’era un problema: procrastinava.

“Fossi in lei ti riempirei di botte”, gli disse Harry, riempiendogli la scodella in malo modo.

Ron riprese a mangiare.

Non era pronto per vederla; e non era per i gesti incredibilmente romantici.

Che, tradotto, significava che se la stava ancora facendo sotto.

 

Hermione rilesse parecchie volte i post-it di Ron, ma più li leggeva, più si innervosiva.

Ancora di più la innervosiva il fatto che non si facesse vedere.

Eh, beh, certo, non poteva aspettarsi mica un gesto carino. Solo quell’ammasso di pezzi di carta.

Vigliacco.

Ogni volta che si apriva la porta sussultava, ed ogni volta non era lui.

Ovvio. Razza di deficiente.

L’infermiera le servì la cena su un vassoio.

“Allora, qualche notizia dal tuo ragazzo?”

Hermione la fulminò con lo sguardo.

“Prego?”

“Quello alto alto con i capelli rossi. Il tuo ragazzo. E’ venuto a farti visita, finalmente?”

Hermione la fissò, gelida.

“Quello non è il mio ragazzo. Lungi da me. Mai più. Mai più nella vita!”

L’infermiera si sforzò di sorriderle e fuggì.

Hermione divorò la zuppa che due o tre fagioli caddero per terra.

Se lui pensava che lei avrebbe ceduto e sarebbe andata lei, se lo scordava.

Non avrebbe ceduto.

 

Ron guardò il muro che separava la sua stanza da quella di Hermione.

Le gambe non gli facevano più tanto male. Era fisicamente in grado di andare da lei.

No. Non ancora. Troppa ansia.

 

Hermione fissava il muro che separava la sua stanza da quella di Ron.

Si chiese come diavolo avrebbe giustificato tutto ciò. Lei cominciava a sentirsi malissimo, comunque, e anche vagamente tendente al pianto.

Nonostante avesse avuto più volte la tentazione di bruciarli, rileggeva i post-it costantemente.

 

Il fisioterapista aiutò Ron a scendere dal letto e lo informò che presto sarebbe stato dimesso e avrebbe cominciato le sessioni di fisioterapia al braccio.

Harry lo fissava.

“Stai meglio di me adesso.”

Ma non c’era modo di convincerlo.

 

“Signorina Granger, lei ha una capacità di ripresa straordinaria”, le disse il medico, chiudendo la sua cartella, “solo due giorni fa ha avuto un arresto cardiaco, eppure si guardi adesso, com’è in forze.”

In effetti, la rabbia le aveva dato le energie che le servivano per riprendersi.

“Non ci vorrà molto prima che venga dimessa”, disse il medico, “però non si strapazzi”.

Quando uscì dalla porta, la signora Granger le sorrise.

“Non è fantast…

“Basta! E va bene.”

Prima che sua madre potesse fermarla, Hermione, con il camicie bianco dei malati, scese dal letto e si diresse verso la porta.

 

Ron stava facendo il sudoku, senza grandi risultati, quando si aprì la porta.

“Spero che tu mi abbia portato quel dolce con dentro le mandorle, Linda”, disse, senza alzare lo sguardo dal giornale.

“Tu, tu stai facendo il sudoku”, disse Hermione, avvicinandosi al suo letto a passo spedito (a dire il vero non stava benissimo e si sentiva un po’ girare la testa, ma non l’avrebbe di certo ammesso).

Il giornale gli cadde di mano.

Hermione era più magra e pallida e debilitata del solito, ma le guance erano rosa, i capelli scuri erano folti e indistricabili come al solito, gli occhi vivi – e, nel caso specifico, furiosi – come sempre li aveva visti.

N-no”, disse Ron, anche se non si ricordava nemmeno la domanda – gli aveva fatto una domanda?

Cominciò a sentire le orecchie ribollire. Questo lo prendeva alla sprovvista.

Hermione si sedette nella prima sedia che riuscì a prendere, per fermare i giramenti di testa.

Finalmente riuscì a metterlo bene a fuoco. La guardava con quella sua solita faccia da scemo, gli occhi azzurri sbarrati. Eppure non poté fare a meno di pensare, per un momento soltanto, a quanto anche solo il suo profumo – di cui la stanza era pieno – le fosse mancato… prima, durante, dopo la battaglia.

“Ho avuto un arresto cardiaco. Ti è capitato di sentirlo dire?”

S-sì”, farfugliò Ron, “ma…

“Dopo tutte le scene… e quei post-it… non che la cosa mi interessi, ma ti è passato per l’anticamera del cervello che non dovessi essere io a venirti a vedere – che poi, guardati, stai meglio di un bambino – ma che mi aspettassi…

“Ecco, ma…

“Non ho veramente parole. Come devo interpretare la cosa? E io poi, ovviamente, vengo qui e mi aspetto anche che tu mi dica qualcosa di sensato! Ovviamente sono sempre io ad aspettarmi qualcosa di sensato. Ovviamente…

Ron si ricordò che aveva promesso di smetterla di fare il bambino.

Così fece la prima cosa che pensò un Uomo avrebbe fatto: buttò il sudoku a terra, scese dal letto con quell’orrendo pigiama coi maialini che gli aveva regalato sua madre, si chinò su di lei e l’abbracciò, zittendola.

Calò il silenzio nella stanza per qualche secondo.

Hermione aveva la testa appoggiata al suo petto. Lui  aveva quell’orrendo pigiama coi maialini che gli aveva regalato la signor Weasley. Ma quel profumo così familiare…

“Non pensare di fregarmi così”, disse lei, la voce attutita dalla stoffa del pigiama di lui. Si sentiva un gran caldo alla faccia e fu contenta che lui non la potesse vedere.

“Mi dispiace, Hermione, ma mi sentivo troppo brutto per venire a farti visita”, le disse inspirando forte tra i suoi capelli.

“Ma se sei sempre brutto”, mentì lei.

Lui accusò il colpo, sentendosi un pochino colpito nell’ego, ma non disse niente.

Aveva in mente un sacco di cose da dirle ma improvvisamente gli mancavano le parole. Sapeva di averla irritata da morire portandola a essere lei a venire da lui.

Ma del resto era sempre stato così. Era lei che lo aiutava a fare le cose intelligenti.

“Forse un giorno ti dirò che me la sono fatta sotto quando ho creduto che tu stessi per morire, e che ho pensato che sarei morto volentieri al posto tuo, e che il pensiero di averti fatto… male e non potermi scusare per i prossimi quindici milioni di anni mi faceva venire la nausea.”

Il cuore di Hermione aumentò un po’ i battiti, ma lei non disse niente.

“E che scrivere sui post-it era l’unico modo per farmi sentire un po’ meno inutile, e che non sarò mai capace di dirti certe cose a voce. E che stavo malissimo all’idea che tu non avessi più occasione di vergognarti di me e dirmi che sono scemo e arrabbiarti anche se… ehi, certe volte non me lo merito… comunque. Un giorno queste cose te le dirò. Ma non oggi, perché…

… sono troppo in imbarazzo, avrebbe voluto dire, ma era troppo da femminuccia.

“… perché non anch’io non ho veramente parole.”

Hermione non disse niente per molto tempo. Solo, quasi senza accorgersene, le sue braccia andarono a circondare la schiena di Ron e lei si sentì mancare il respiro.

Perché niente di tutto quello era certo solo poco prima, perché tutto avrebbe potuto essere diverso, perché avrebbe potuto prendere mille strade e invece aveva preso quella, perché la vita è troppo piena di possibilità e di occasioni e coincidenze e perché quel momento, proprio quel momento in cui abbracciava il suo migliore amico alto alto con il pigiama con i maialini, era frutto di un’incredibile concatenazione di eventi, di possibilità, di occasioni e di coincidenze.

Così incredibile che non poteva essere casuale, che non poteva essere senza significato, che per lei aveva un significato.

Ron si abbassò a guardarla, la fronte che toccava la sua. Hermione arrossì; era tanto tempo che non si avvicinava così a quello sguardo azzurro.

…Quante volte dovrò vergognarmi di te?”

“Cercherò di limitarle il più possibile.”

Ron faceva fatica a respirare e quasi non si rese conto di quanto le stesse stringendo forte le spalle, così sottili sotto le sue mani.

Se pensava che solo alcune ore prima lei era stata dietro un muro, o anche più lontana, chissà dove, si dava del deficiente da solo.

“Approfitti del fatto che di fronte alle cose gravi le altre cose diventano meno importanti”, disse Hermione, non sapendo dove trovava la testardaggine di parlare ancora, “ma poi quando tutto tornerà a posto tu tornerai come prima e io anche e non ci sopporteremo…

Ron sorrise.

“Tanto non ci siamo mai sopportati.”

Hermione aprì la bocca per dire qualcosa ma non disse nulla.

Perché non le veniva più in mente nulla da dire. Perfino i dolori e gli indolenzimenti ai muscoli erano passati.

Ron la guardò.

Hermione lo guardò.

Oh, al diavolo.

Le labbra di Ron si posarono sulle sue ed erano così morbide e calde che le sembrò di tornare a casa dopo aver corso nel bel mezzo di una bufera.

Ecco perché era riuscita a stare lontana da lui per tutto quel tempo. Il rancore le aveva fatto dimenticare come fosse quando la baciava.

Ora se lo ricordava.

 

 

I sat down on the street and took a look at myself,
said, "Where you going, man? You know the world is headed for Hell
Say your goodbyes if you've got someone you can say goodbye to"

I believe the world is burning to the ground
Oh well, I guess we're gonna find out
Let's see how far we've come
Let's see how far we've come

Well I believe it all is coming to an end
Oh well, I guess we're gonna pretend
Let's see how far we've come
Let's see how far we've come

 

Due mesi dopo.

 

“Un po’ più a destra, signorina Weasley. Ecco, sì. Signor Potter, potrebbe…? Perfetto, sì! Ragazzi e ragazze alternati. Fantastico! Sorridete un po’… signor Weasley, potrebbe smetterla di ridere?”

Ron sbuffò con aria tormentata. Si tirò indietro i capelli con la mano sinistra.

“Che fastidio, sempre la stampa… dovrebbero pagarmi.”

“Chi sarebbe disposto a pagare te per una fotografia sulla Gazzetta?”, disse Hermione facendo una smorfia, “al massimo Harry o Luna o Ginny.”

“Ahia”, fece Harry, “qualcuno mi ha pestato il piede.”

Luna distolse lo sguardo, “io non sono stata!”

“Mi si sta informicolendo il braccio”, si lamentò Ginny sistemandosi il foulard sopra i capelli corti.

“Almeno tu lo senti il braccio”, piagnucolò Ron agitando flebilmente il braccio destro.

“Ma piantala.”

Il fotografo della Gazzetta sollevò la testa dalla macchina fotografica, con espressione esasperata.

“Signori, vi prego, vorrei riuscire a fare una fotografia decente entro oggi”, disse a denti stretti.

Tutti cercarono di mantenersi seri.

Ogni sforzo fu inutile; la foto che uscì sull’edizione della Gazzetta del Profeta del giorno successivo vedeva Luna con gli occhi storti, Harry con gli occhiali appannati per chissà quale motivo, Ginny che si sistemava la fascia per l’ennesima volta, Hermione che guardava male Ron e Ron che agitava il suo braccino ferito. Ed era la versione migliore.

Nonostante ciò, anche a distanza di due mesi dalla battaglia gli ‘Eroi’, come li avevano soprannominati i media, erano richiestissimi dai giornali e fioccavano le interviste su di loro.

Rispetto ai primi giorni la loro ‘fama’ si era affievolita ma l’ego di Ron ci avrebbe messo molto più tempo a sgonfiarsi. Se ne andava in giro con gli occhiali da sole convinto che se li avesse tolti le masse lo avrebbero riconosciuto e osannato.

Alla fine del deludentissimo servizio fotografico, che si era tenuto nell’ingresso dell’edificio del Ministero della Magia, i ragazzi si rilassarono. A vederli adesso sembravano molto più in forma rispetto a poche settimane prima: il braccio di Ron, checché ne dicesse lui stesso, era in via di completa guarigione; le cicatrici di Hermione, oggetto di mille e più paranoie, sarebbero presto sparite e aveva preso peso a forza di mangiare a casa dei Weasley (“Hermione, mangia che ti devi ristabilire” era una frase che avrebbe sentito anche quando fosse stata in ottima forma); Harry non aveva più bisogno delle stampelle e aveva perfino ripreso a giocare a Quidditch qualche volta; Luna era perfettamente in forma come al solito. L’unica che non aveva l’aria molto più sana era Ginny, che sembrava ancora uno scricciolo, anche se la sua carnagione aveva un colorito molto più roseo.

I suoi poteri non erano ancora tornati. Nessuno lo sapeva tranne i suoi amici e la sua famiglia.

Era strano fare tutto come una babbana. Teletrasportarsi appoggiandosi a qualcun altro; lavare i propri vestiti a mano; riordinare la propria camera senza la bacchetta. Poi si sentiva scema con quei capelli.

Tutti i giorni comprava la Gazzetta del Profeta; ma non per vedere se stessa o la sua intervista. Saltava subito alle pagine di un processo che si dilungava ormai da sessantasette giorni.

 

“Ron, ma che ore sono?”, chiese Hermione.

“Ma boh. Undici?”

Hermione spalancò gli occhi.

“Dovevamo essere a casa alle dieci e mezza!”

Ron sbatté le palpebre.

“Ah, già…

“Come ‘ah, già’? Quello già ci odia…

Hermione ultimamente aveva i nervi a fior di pelle, come se non fosse già abbastanza indisponente di per sé. Era solo perché il mese prima Ron aveva scoperto che la casa, di cui prima della battaglia aveva dato alla vendita, poteva essere recuperata. Questo aveva spedito Hermione in un delirio burocratico da cui forse non sarebbe uscita mai più: convinta che loro stessero antipatici al proprietario con il loro tira-e-molla, adesso ogni volta che si incontravano per firmare le carte per la rivendita cominciava a sudare circa sei ore prima dell’appuntamento.

La decisione di tentare nuovamente la strada della convivenza dopo così poco tempo da quando si erano rimessi insieme era stata frutto di lunghissime, lunghissime ponderazioni (almeno da parte di Hermione; a Ron erano bastati circa due secondi e mezzo). Quello che Hermione aveva capito era che: uno, doveva accettare il fatto di essere quasi imperdonabilmente innamorata di Ron. A questo, per quanto volesse, non c’era modo di sfuggire. Due: Ron era innamorato di lei, a detta sua, anche se lei non capiva proprio perché. Tre: erano entrambi persone piene di difetti e vagamente psicolabili. Lei – anche se non lo avrebbe mai ammesso – aveva qualche mania di controllo… vabbé, qualcuna di troppo. Lui nessuna. Lei era insicura, lui anche di più. Dopo tutti quegli anni era il caso di accettare il fatto che non sarebbero mai andati d’accordo. Che lui era vanesio e vanitoso e che lei doveva imparare a stringere il guinzaglio quando doveva, ma non stringerlo troppo.

Di ferite aperte ce n’erano ancora. Quando baciava Ron si sentiva meglio che in qualsiasi altro posto al mondo; ma questo non cancellava il pensiero che lui aveva baciato anche qualcun’altra, e si chiedeva se l’aveva fatto allo stesso modo… ma quando aveva deciso che non ce la poteva fare a stare senza di lui aveva accettato di convivere con questi pensieri.

Non era detto che tutto fosse perduto. Non era detto.

E voleva scoprire com’era il seguito.

Quanto a Ron, non c’era molto da discutere, per lui, né liste da fare: la sua unica ragione per convivere con lei era, beh, lei stessa. E come si era sentito quando aveva pensato di perderla. Quello non l’avrebbe dimenticato mai.

Quella sera, Hermione portò a casa uno scatolone di libri.

“Prima tornata.”

Ron lanciò uno sguardo alla stanza. C’erano talmente tanti scatoloni che non si vedevano le pareti.

“Hai mica pensato di lasciare qualcosa a casa dei tuoi?”

“Ho lasciato la maggior parte a casa dei miei. E… ma cosa sono questi?”, Hermione sgranò gli occhi, raccogliendo un pezzo di stoffa da terra, “calzini?”

“Ah, già, me li sono tolti quando sono tornato, mi davano fastidio”, disse Ron distrattamente, mentre guardava le istruzioni della televisione come se stesse leggendo un manuale in arabo.

Hermione glieli mise sotto il naso e lui si ritrasse.

“Te li faccio mangiare i tuoi calzini. Nel caso non te ne fossi accorto, non sono tua madre né la tua geisha e non raccoglierò la tua sporcizia dicendoti ‘bravo’, quindi vedi di non lasciarla in giro.”

Ron sospirò pesantemente e si mise i calzini in tasca.

“Vedrai che presto ti abituerai a fare la mogliettina amorevole”, disse a bassa voce.

“Che hai detto?”, lo fulminò lei.

“Niente.”

Rimasero in silenzio. Lei prese il cappotto e se lo infilò.

Ron alzò gli occhi dalle istruzioni.

“Ma dove vai?”

“Come dove vado? A casa. Cioè, a casa dei miei.”

“Ah”, Ron la guardò come un cagnolino bastonato, “ma ci hanno portato tutti i mobili”.

Hermione ricambiò lo sguardo, sbattendo le palpebre.

“Eh, e allora?”, chiese, infilandosi i guanti.

Ron fece un’espressione addolorata, ma lei rimase impassibile.

“Pensavo che potessimo inaugurare la casa.”

“Ronald, non possiamo inaugurare la casa. Non è ancora ufficialmente nostra, ci daranno le copie definitive delle chiavi domani. I mobili ce li hanno portati solo perché io li ho pregati di lasciarci portare avanti col lavoro, ma non siamo autorizzati a dormire qui.”

Ron gattonò verso di lei e le afferrò il lembo dei jeans mentre lei si abbottonava il cappotto.

“Non se ne accorgeranno maiiiii”, piagnucolò Ron.

Okay, era un attimo infantile. Le sue promesse di diventare uomo a volte tentennavano un po’, come ora. Oh, insomma.

“E’ una questione di principio”, fece Hermione, muovendo il piede per scrollarsi Ron di dosso.

Era una questione di principio; ma soprattutto aveva una paura folle. Non di Ron – ovviamente, a chi poteva fare paura quello – ma più che altro di se stessa.

Ultimamente, come non le capitava da molto, ogni volta che Ron la toccava, anche casualmente, o la guardava, anche solo sorridendo, si sentiva un po’ strana. Quando Ron la baciava, voleva baciarlo di più.

Immaginava fosse normale, perfino per lei. Ma aveva il terrore. Ormai aveva creato in Ron un’aspettativa tale che probabilmente sarebbe stata in ogni caso una delusione e il solo pensiero le faceva diventare il viso di una tonalità rosso-viola.

Ron la guardò, completamente ignaro del film che Hermione si stava facendo. Ormai era talmente abituato a rispettare certi limiti, con Hermione, che in realtà la cosa non gli era nemmeno passata per la testa per quella sera… okay, forse un pochino, ma senza troppa paranoia. Gli sarebbe bastato stare un po’ a dormire con lei dopo tanto tempo. Svegliarsi – o meglio, essere svegliato – con il suono di lei che si lavava i denti e gli intimava di fare lo stesso.

Hermione sospirò.

“E sia.”

Ron gongolò, anche se un po’ stupito di aver raggiunto il risultato sperato così in fretta.

Hermione si tolse il cappotto, i guanti e le scarpe e guardò l’ora.

“Però domani mi devo alzare presto per andare all’apprendistato”, disse, andando in bagno per mettersi il pigiama con l’inquietudine che le agitava lo stomaco.

Ron si sentiva un po’ strano. In realtà non si era preparato all’evenienza che Hermione rimanesse davvero. Si mise in piedi e guardò il salotto con un sospiro; c’era un tale casino che non aveva voglia di mettere in ordine nemmeno con la magia.

Trascinò i piedi nudi fino alla camera da letto e si fermò sulla soglia. Quel giorno avevano portato il letto. Era un normale letto a due piazze – ovviamente erano già state messe le lenzuola con la magia – ma gli incuteva un gran timore. In effetti loro due in tutto quel tempo avevano dormito insieme solo per qualche ora, magari su un divano; ma quel letto era loro. La signora Granger non sarebbe venuta a scrollarli dal sonno gridando come un’isterica (forse).

Ron si buttò sul letto com’era, con la tuta da ginnastica, e annusò il cuscino come un bambino.

Era quasi in dormiveglia quando sentì il materasso piegarsi alle sue spalle; sentì Hermione puntare la sveglia, togliersi l’orologio da polso e slegarsi i capelli. Poi la sentì mettersi sotto le coperte con un brivido di freddo mal trattenuto e spegnere la luce.

Non avevano chiuso le persiane e la luce della luna e della città filtravano dalla finestra creando una bella penombra.

Ron sbadigliò sentendosi meno agitato. Ma sì, avrebbe dormito e pace.

Si voltò verso di lei e nella penombra la vide con le palpebre chiuse. La guardò per qualche attimo e senza accorgersene le si avvicinò un pochino.

“Oddio, ma che è?”, tirò subito indietro le gambe dopo aver sentito qualcosa di gelido contro la caviglia.

Hermione aprì gli occhi.

“Eh?”

“Ma erano i tuoi piedi, quelli?”

Hermione lo fissò.

“Senti, non è colpa mia se ho i piedi freddi. E’ perché non faccio attività sportiva.”

“Dio, non sai che paura, pensavo ci fosse un animale”, non poté finire la frase che Hermione lo colpì poco delicatamente al petto.

Ron rise e istintivamente intrecciò le proprie gambe con quelle di Hermione. Lei si sentì improvvisamente avvampare.

“Spero almeno che tu ti sia depilata le gambe. Non vorrei essere ferito stile carta vetrata nel bel mezzo della notte.”

Hermione si innervosì (ma si chiese davvero se si era depilata). Ron rise ancora e si abbassò sotto le lenzuola per prendere il polpaccio di Hermione, sollevare un lembo del pigiama e sfiorarle la caviglia con la mano.

“Apparentemente l’hai fatto”, disse, “allora avevi architettato tutto!”

“Se non la pianti di molestarmi me ne vado a dormire in uno scatolone. E’ già l’una di notte, santo cielo”, fece Hermione con tono esasperato.

Okay, in realtà non era affatto esasperata e non aveva affatto sonno. Le mani grandi e calde di Ron le circondarono la vita ed era talmente vicina a lui che sentiva il battito del suo cuore e il suo respiro regolare.

Mai, mai nella vita si era sentita così al sicuro.

I capelli di Ron le solleticarono il naso e lei sollevò il viso. Lui le diede un bacio sulle labbra. Respirarono. Lui la baciò ancora, stavolta socchiudendo la bocca. Il cuore di Hermione andava a mille, tanto che per un attimo pensò che le sarebbe venuto un altro arresto cardiaco.

Gli mise una mano sul collo e lui le si avvicinò ancora, baciandola sulla mandibola. La sua mano andò inconsciamente verso i suoi fianchi.

“Allora devo fidarmi di quei post-it?”, bisbigliò Hermione in un momento in cui riprendevano fiato. Lo vide aprire gli occhi nella penombra. Come facevano a essere così chiari anche al buio?

“Assolutamente”, disse lui facendole il solletico nella schiena. Lei rise.

E si fidò. Perché Ron non scriveva mai, meno che mai quello che pensava o quello che provava, eppure l’aveva fatto.

E si conoscevano da talmente tanto tempo che entrambi sapevano cosa significava.

 

Draco Malfoy era detenuto nel carcere di Azkaban, che aveva subito delle trasformazioni dopo la fuga dei Dissennatori. Lì si trovavano praticamente tutti quelli che erano in attesa di condanna certa per collaborazione con il Signore Oscuro.

I giornali seguivano molto ogni processo, specie quello di Bellatrix Lestrange, che aveva tentato di suicidarsi tre volte nella sua cella. Più in sordina quello del giovane Malfoy, contro cui sostanzialmente c’erano tutte le prove e i testimoni del mondo, con i più l’accusa di aver ucciso due babbani. I Mangiamorte si rimbalzavano la colpa a vicenda nella speranza di ottenere delle abbreviazioni della pena e in molti testimoniarono contro Malfoy, definendolo ‘uno dei principali sostenitori e collaboratori di Lord Voldemort, assieme con Bellatrix e Rodolphus Lestrange’.

Dicevano che l’avrebbero condannato all’ergastolo; ma la famiglia Malfoy aveva abbastanza soldi da permettersi un avvocato che gli facesse accordare la minore pena possibile. Si trattava comunque di circa vent’anni.

Ginny cercava articoli su di lui praticamente ogni mattina mentre faceva colazione; raramente non ne trovava.

Più di una volta aveva avuto la tentazione, se non quasi il bisogno, di parlargli durante le ore di visita. Ma ogni volta si rendeva contro che, senza poteri, avrebbe dovuto chiedere a qualcuno di accompagnarla ad Azkaban. E non sapeva proprio a chi chiedere un favore del genere.

E poi, in fondo, dato che lui era effettivamente rimasto ad aspettare che lei si svegliasse in ospedale, avrebbe anche potuto degnarsi di scriverle. Il suo indirizzo lo sapeva.

Ma in due mesi, due dannatissimi e lunghissimi mesi, non arrivò proprio niente nella sua posta. Era come se non si conoscessero affatto. Non la considerava una casualità; più un’intimazione.

In realtà, avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe bastato andare avanti con la propria vita, evitando di guardare il Marchio Nero che rimaneva lì all’altezza dell’inguine. I giornali erano venuti a sapere della ‘spia dell’Ordine’ e presto era stata inserita nel gruppo di ‘Eroi’ anche se non era minimamente la sua intenzione.

Si chiese se ogni tanto Malfoy leggeva la Gazzetta; quel giorno la foto dei cinque eroi troneggiava in prima pagina.

Quello stesso giorno il destino, o meglio, gli ufficiali del Ministero, bussarono per l’ennesima volta alla sua porta.

Come le aveva detto suo padre, probabilmente sarebbe stata chiamata a testimoniare. Lei non ci aveva creduto più di tanto. Invece, a quanto pareva, qualcuno tra i Mangiamorte aveva parlato di ‘relazioni’ intrecciate tra ‘il signor Malfoy e la signorina Weasley’.

“Ovviamente la sua immagine non ne sarà assolutamente danneggiata”, disse uno degli ufficiali bevendo il tè nel salotto della Tana. Ginny si tormentava una ciocca di capelli, “quindi è necessaria la sua partecipazione, onde evitare che possa essere… diciamo… ‘accusata’ di qualche cosa. Meglio togliersi il problema. La sua famiglia ha un avvocato?”

E così, non dovette nemmeno fare lo sforzo di andare a Azkaban: l’udienza si sarebbe tenuta nel tribunale del Ministero della Magia.

Non aveva mai avuto a che fare con l’ambiente dei tribunali, ma già sapeva che lo detestava. Il suo avvocato, un amico del Ministero di suo padre, non faceva che tartassarla, e quando gli ufficiali le facevano delle domande spesso rispondeva lui per lei. La cosa le dava un tale fastidio che ad un certo punto smise di tentare di parlare e si estraniò.

Prima di uscire di casa, quella mattina, dopo aver assicurato a tutti che non c’era affatto bisogno che fosse accompagnata, le fu fatta una predica, per l’ennesima volta, su quello che poteva dire e quello che non poteva dire.

Il che era assurdo visto che le avevano assicurato che la sua testimonianza non sarebbe stata poi così importante nel complesso del processo. In realtà sospettava che, qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stata analizzata nei minimi dettagli.

Inutile dire che, mentre usava la passaporta per arrivare al Ministero, si sentiva il cuore in gola e le viscere che si strizzavano. Insomma, non belle sensazioni. C’era anche una parte di lei che si sentiva frivola, perché la sua agitazione non derivava affatto dal fatto di testimoniare ad un processo che sarebbe stato sbattuto sul giornale il giorno dopo.

Si chiese se l’avrebbe incontrato prima – se l’avesse incontrato che gli avrebbe detto? – immaginava il suo sguardo, come se lo vedesse ora, mentre camminava verso il suo avvocato al centro dell’ingresso del Ministero.

Gelido e distaccato, come sempre. Anche se ormai non la ingannava più.

Il suo avvocato la guidò parlando tantissimo attraverso scale e corridoi. Ginny vide il suo riflesso in una porta a vetri: era pallida e aveva l’espressione più terrorizzata di quando non si sentisse. Quei capelli corti erano orribili e sua madre l’aveva costretta a mettersi il vestito nero dei funerali.

“Mi raccomando, non si lasci trasportare nelle risposte, stia molto attenta a ciò che dice, misuri ogni singola parola”, stava ciarlando il signor… come diavolo si chiamava? Beh, insomma, l’avvocato, spingendo la porta a vetri.

Dentro all’aula c’erano tantissime persone, più di quante non avesse immaginato. C’era perfino un giornalista. La fecero sedere nelle panchine del pubblico, qualcuno le disse che l’avrebbero chiamata ‘loro’.

Improvvisamente si sentì incredibilmente sola. Lì sulla panchina fredda mentre tutti parlavano, alcuni discutevano; lei fissava la sedia dove sarebbe stata chiamata a testimoniare.

Non se l’era mai chiesto: cos’avrebbe detto?

“Ecco che entra la difesa”, bisbigliò qualcuno; il giornalista scattò una fotografia col flash.

 

Draco ne era certo; nemmeno il suo avvocato l’avrebbe difeso, se avesse potuto. Il fatto era che lo pagava ogni mese più di quanto guadagnasse in un anno di processi, ed era abbastanza viscido da sorpassare sulla sua evidente colpevolezza.

Ormai conosceva quell’aula di tribunale come le sue tasche; si sedeva sempre alla panchina della difesa, stava lì a giocherellare con la penna senza prestare molta attenzione a quello che dicevano intorno a lui. A volte testimoniava rispondendo a monosillabi. Non leggeva mai il giornale.

Era quasi comico che in carcere non sentisse minimamente la differenza rispetto a quando stava a Malfoy Manor, o al castello di Lord Voldemort. In fondo era sempre stato in prigionia in entrambi i posti.

In fondo, ad Azkaban le comodità per lui non mancavano: bastava avere una manciata di soldi da mettere in tasca a qualcuno che avesse autorità, e ti ritrovavi in una stanza singola ampia e tinteggiata, dove ti portavano i pasti in camera e avevi un sacco di libri da leggere. Non aveva praticamente contatti con il resto dei prigionieri; sempre grazie a qualche mancia riusciva a fare un’ora d’aria solitaria, quando gli altri in genere erano già rientrati in cella. La sua vita ora consisteva sostanzialmente in mangiare, dormire, camminare. Praticamente quello che aveva sempre fatto. Gli mancava un po’ il sesso, quello sì, ma per ora resisteva.

Quella mattina, come ogni altra mattina da due mesi, bevve il caffè senza zucchero, mise la camicia e la cravatta. Venne puntualmente prelevato dalla sua stanza e trasportato dalle guardie fino al Ministero, in silenzio. Lì incontrò il suo avvocato, con cui scambiò a dir tanto due parole, e insieme andarono verso la porta a vetri che ormai conosceva bene.

Sì, sapeva che quel giorno Ginny Weasley avrebbe testimoniato. Sì, era curioso di vederla. Ma più che altro curioso, nient’altro. Non moriva all’idea di non vederla né era agitato all’idea di farlo. Per lui due mesi erano praticamente un’eternità e lei era un ricordo lontano.

Ecco, queste convinzioni crollarono nel momento esatto in cui entrò in tribunale.

Ginny lo guardò tentando di fare un’espressione impassibile, ma non ci riuscì, come sempre.

Lui le lanciò uno sguardo veloce – lei piegò la testa come per salutarlo – lui distolse lo sguardo e sedendosi al suo posto le voltò le spalle.

Quei capelli così corti le stavano malissimo; ma tutto sommato non era più così brutta come quando era in coma. Anzi, si era ripresa piuttosto bene, insomma.

Malfoy sbuffò; qualcosa dentro di lui si era involontariamente mosso. O era il caffè o lei aveva ufficialmente un potere su di lui.

Possibile che si sentisse perfettamente bene quando era in carcere da solo, con una pena di minimo vent’anni sulla testa, con una vita praticamente buttata nel cesso, ma si sentisse una merda nel momento esatto in cui incrociava il suo sguardo?

Bene, se così doveva essere, non l’avrebbe guardata affatto.

“Entra il giudice.”

 

Ginny disse quello che si sentì di dire. Più di una volta il suo avvocato le lanciò delle occhiatacce, soprattutto quando le chiesero se considerava Draco Malfoy una persona socialmente pericolosa e lei rispose seria di no. Qualcuno rise nel pubblico e lei si morse le labbra per non ridere.

Il giudice la odiò profondamente. Forse perché praticamente ogni volta che parlava rispondeva ironicamente e faceva ridere tutti. Ovviamente le chiesero se avesse avuto una relazione con Malfoy. Lei fece un lungo silenzio teatrale durante il quale tutti sembrarono trattenere il respiro.

Malfoy la guardò come se fosse deficiente.

“… sì”, disse alla fine, “sarà anche per questo che posso dire che il signor Malfoy è totalmente incapace di provare sentimenti umani di natura. Magari non è nemmeno colpa sua.”

Tutti risero, tranne l’avvocato di Ginny.

“Signorina Weasley, un processo non è un gioco o uno show”, sbraitò lui quando l’udienza fu tolta, “poteva rimetterci anche la sua innocenza con quelle risposte. Ringrazi che ormai la sua immagine è abbastanza solida grazie ai suoi amici e difficilmente la processerebbero.”

Ginny roteò gli occhi facendo attenzione che non la vedesse. Aveva ben altro a cui pensare. Ad esempio, era stata una sua impressione o perfino Draco aveva sorriso – anche solo per un momento, anche solo di soppiatto?

A volte, durante l’udienza, aveva l’impressione che lui fosse leggermente più umano del solito. Non si illudeva che dopo tutto quello che era successo le cose potessero cambiare… che potesse, tipo, vivere una vita normale. Era appurato che le cose non sarebbero mai state normali.

“Senta, avvocato”, lo interruppe Ginny, senza ascoltarlo minimamente, “pensa che ci sarebbe modo di parlare con Malfoy prima che venga portato ad Azkaban?”

Non sapeva da dove le venisse tutto quel coraggio. Forse era la burrobirra che aveva bevuto per colazione – per darsi forza – che cominciava a fare effetto, o forse poco a poco tornava ad essere l’impulsiva che sfortunatamente per lei era sempre stata.

L’avvocato la guardò inorridito.

“Non mi sembra proprio il caso”, farfugliò, “l’ultima cosa che vogliamo è che si pensi che lei sia ancora in rapporti con…

Ginny lo tirò per la giacca, vedendo che Malfoy se ne stava andando dall’aula – ovviamente, senza rivolgerle il minimo sguardo – accompagnato dalle guardie.

“Si sbrighi, si sbrighi”, disse, “è pagato o no?”

Ma…

“Hop!”

L’avvocato, molto tristemente e sudando anche un po’, le passò davanti e con mille esitazioni andò a fermare le guardie ai due lati di Malfoy.

Ginny li vide parlare per qualche secondo, gesticolare. Dopo un po’ Malfoy la guardò, inarcando le sopracciglia con la sua espressione, che nella varietà di combinazioni dei suoi due muscoli del viso veniva catalogata sotto ‘ironica sorpresa’.

Dopo altri cinque minuti, l’avvocato, che ormai sudava da ogni poro, tornò verso di lei.

“Va bene, ma solo dieci minuti”, disse asciugandosi la fronte con un fazzoletto, “le ripeto che non è una buona idea…

Forse l’avvocato senza nome aveva ragione. Ma in quel momento le sembrava un’ottima idea.

Passò prima in bagno cercando di appiattirsi i capelli. Sembrava Pippicalzelunghe senza codini.

Oh, beh, pazienza.

 

Le fu indicata una stanza che veniva usata come saletta ristoro. Prese il respiro ed entrò.

Malfoy alzò lo sguardo, seduto all’unico tavolo della stanza.

Era una sua impressione o sembrava cresciuto?

“Guarda guarda chi muore dalla voglia di vedermi”, disse con un sorrisetto.

Era una sua impressione.

Ginny si sedette davanti a lui dall’altro capo del tavolo, nervosa ma decisa a nasconderlo.

“A proposito di morte”, disse sbattendo le ciglia, “volevo proprio farti le mie congratulazioni per la tua non-morte. Sai, durante la battaglia…

“Ah, anch’io ti faccio le mie congratulazioni per la tua non-morte, ma soprattutto per il tuo non-coma”, replicò lui, “avevi dato a tutti l’illusione che finalmente ti saresti tolta dalle palle”.

Ginny fece una smorfia. Non se l’era proprio immaginata così, la conversazione.

Draco la guardò negli occhi e lei fece veramente fatica a reggere il suo sguardo. Diavolo, era fuori allenamento.

“Ho saputo che sei diventata babbana”, ghignò.

Ginny avvampò. Questo era un po’ il suo punto debole. Era molto suscettibile al riguardo.

“Non sono diventata babbana”, disse lei, “ho momentaneamente perso…

“… sei diventata babbana. Come ci si sente, inutili?”, la interruppe lui.

Improvvisamente Draco aveva una gran voglia di offenderla. Perché l’aveva costretto a vederla da vicino? Perché diavolo non lo lasciava in pace? Stava diventando quasi inquietante. Prima lo inseguiva tra i Mangiamorte. Poi lo inseguiva in tribunale. Il tutto per non dirgli niente di interessante ma soprattutto per non dargliela praticamente mai.

Era praticamente una stalker. Avrebbe fatto mettere un ordine di restrizione su di lei, pensò.

“Abbastanza, grazie”, fece Ginny, ironica, “e al pensiero che uscirai di prigione quando avrai passato i quarant’anni come ci si sente? Impotenti?”

Draco sorrise. Diamine, aveva dimenticato quanto fosse divertente.

“Tutt’altro”, rispose, “dubito che mi ci sentirò mai.”

“Come no, la speranza è l’ultima a morire”.

Si guardarono, in silenzio.

“Cinque minuti”, disse qualcuno da fuori.

Improvvisamente, senza alcun preavviso, Ginny fu colta da un attacco di panico. Non si ricordava nemmeno più perché aveva voluto fare questa cosa.

Cioè, ora diceva due cazzate, lui l’avrebbe guardata male, lei se ne sarebbe andata arrabbiata, e poi? Tornava a casa e… preparava da mangiare? Insomma, continuava la sua vita come se nulla fosse?

“Come mai non mi rinfacci che sei stato lì durante il mio coma?”, non avrebbe voluto dirlo, ma le uscì spontaneo.

Lui scrollò le spalle, annoiato.

“Tra tutte le cose che potrei rinfacciarti, questa non mi sembra efficace”, tagliò corto.

Ginny sospirò, abbassando lo sguardo. Poi lo rialzò. Decise di dire tutto quello che le passava per la testa. In fondo, non sapeva se avrebbe avuto un’altra occasione per parlargli.

“Quindi sono la persona più importante per te?”

Draco la fissò, gelido.

“Prego?”

“Sai, l’incantesimo durante la battaglia, la tua teatrale non-morte, la mia… si vedevano morte solo le persone più importanti.”

Lui tacque, guardandola dritto negli occhi.

“Non risponderò a questa domanda senza il mio avvocato”, disse con una smorfia infastidita.

Dio, era proprio antipatico come la merda. Però lei si sentì… un po’… contenta, per la prima volta da molto tempo.

Tacquero ancora per un po’.

Ginny alzò di nuovo lo sguardo.

“Sai che quando uscirai di prigione sarò una donna di mezz’età, presumibilmente con marito e prole a seguito?”

Draco rise.

“Non mi aspetto niente di meglio da te”, replicò.

“Ridi pure. Ma probabilmente tu sembrerai più vecchio di quello che sarai e anche grasso.”

“Spero di no. Ad Azkaban c’è anche una palestra. Non avendo un cazzo da fare tutto il giorno è più probabile che mi dia al body-building.”

Ginny, anche se non voleva, scoppiò a ridere.

Draco la guardò.

“Non fare troppi figli, o il sangue dei Weasley non si estinguerà mai.”

Il sorriso di Ginny si affievolì.

Non le piacevano affatto quei discorsi, anche se li aveva iniziati lei.

La verità è che non la faceva per niente ridere il pensiero di se stessa con un marito e con dei figli mentre Malfoy faceva body-building, o quel che era.

Non le piaceva per niente. Era stupido, forse, ma era così.

Qualcuno aprì la porta e una delle guardie infilò la testa dentro.

“Dobbiamo andare”, disse.

Malfoy si alzò, aggiustandosi la giacca.

Ginny si sollevò faticosamente.

“Sei consapevole di avermi fatto perdere tempo per niente, Weasley?”

“Come se non avessi davanti a te tutto il tempo del mondo”.

Draco rise. Non rideva mai come una persona normale, nel senso, sinceramente – però era già la seconda volta che lo vedeva perlomeno ridacchiare. Cosa che al tempo dei Mangiamorte era impensabile.

Le piaceva. Forse poco a poco sarebbe riuscito a smuovere anche il resto dei muscoli della faccia.

Malfoy si girò e si diresse verso la porta.

Ginny trattenne il respiro.

No, va bene, non ce la poteva fare.

Lo seguì, gli si parò davanti, gli afferrò un lembo della cravatta.

“Guarda che se pensi che ti aspetterò ti sbagli di grosso”, gli bisbigliò minacciosamente, “guarda che anche se sono una donna ho comunque intenzione di scopare come un riccio. Non farò e disferò la tela in tua attesa”.

Draco inarcò le sopracciglia sentendo l’atmosfera che si faceva leggermente elettrica. Perfino la guardia tossì e socchiuse la porta rendendosene conto.

“La tela?”

“Lascia perdere. Voglio dire, se credi che farò la donna del focolare pensando al tempo che fu, ti sbagli.”

“Oh, lo so che sei una donna moderna.”

Fanculo.”

Draco ghignò.

Le afferrò con entrambe le mani i polsi delle braccia. Riconosceva quelle ossa come se fossero le sue.

Ginny non allentò la presa sulla sua cravatta. Poteva sentire il profumo di acqua di colonia sulla sua camicia.

“Non ti agitare, Weasley”, le sussurrò, “vedrai che al momento giusto verrò a rovinare il tuo matrimonio come tu hai fatto col mio. Magari anche prima di quanto pensi, col mio avvocato strapagato: sai, c’è anche la buona condotta…

Ginny lasciò la presa della cravatta.

“Il tuo matrimonio era una farsa. Non l’ho rovinato io.”

Draco la fissò ironico.

“Continua a crederlo, Ginny Weasley”, disse lasciandole i polsi e allontanandosi da lei con un po’ di sforzo, “ma la verità è che sei passata al lato oscuro molto tempo fa, e ormai ci sei dentro. Non credo che abbiamo ancora finito di rovinarci la vita a vicenda.”

Le lanciò un ultimo sguardo grigio, questa volta divertito.

Ginny lo guardò uscire dalla stanza e girare l’angolo scortato dalle guardie.

Rimase in quella stanza per qualche minuto.

Si sentiva svuotata completamente, ma in senso buono. Nel modo in cui ti senti subito dopo aver fatto l’amore un po’ violentemente, ecco.

Non credo che abbiamo ancora finito di rovinarci la vita a vicenda.

Ma senti questo stronzo. Spero che marcisca in quella sua fottutissima cella lussuosa, pensò Ginny.

Poi però, senza accorgersene, sorrise.

Il Marchio Nero era ancora sulla sua pelle, e probabilmente non se ne sarebbe mai andato.

Forse era vero che lei era passata al lato oscuro molto tempo prima. Aveva venduto la sua anima al diavolo la prima volta che aveva desiderato di baciare Draco Malfoy.

E adesso… beh, ormai il patto era stretto.

Se inferno doveva essere, tanto valeva prepararsi a bruciare.

 

 

I don't know how to begin
'Cause the story has been told before
I will sing along I suppose
I guess it's just how it goes

And now those sprangs in the air
I don't go down anywhere
I guess it's just how it goes
The stories have all been told before

But if you don't char
The light won't hit your eye
And the moon won't rise
Before it's time

But I don't know how it will end
With all those records playin'
I guess it's just how it goes
The stories have all been told before
I guess it's just how it goes
The stories have all been told before
I guess it's just how it goes...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

**

 

Oops, so che avevo ditto VIGILIA XD Vabbè, è che non avevo ancora scritto i ‘ringraziamenti’ (cioè questi) XD Sorry! Ad ogni modo, prima di tutto, Buon Natale!

E così finisce anche questa fan fiction, pubblicata per la prima volta nel Marzo 2006… nel bel mezzo della mia gioventù – adesso sono quasi quattro anni più vecchia! Argh! Inutile dire che terminarla se da una parte mi dà soddisfazione come tutte le cose terminate con impegno, dall’altra mi mette un po’ di nostalgia… se penso che quando scrivevo non avevo ancora idea di come sarebbe finito Harry Potter mi sembra così strano! Immagino sia proprio il bello dei libri, che al contrario dei film ti accompagnano per un periodo della tua vita.

Ma cosa sto dicendo, che c’entra?! Volevo solo ringraziare tuttissimi per le recensioni ricevute per l’ultimo capitolo in particolare, in tutta la fan fiction in generale. Le vostre osservazioni sono sempre costruttive e intelligenti, alcune mi sono rimaste impresse mentre scrivevo – anche se di solito faccio di testa mia, anche inconsapevolmente, alcuni vostri commenti mi hanno influenzato molto nel stilare il finale… immagino di non poter accontentare tutti, quindi ho cercato di scrivere quello che la storia richiedeva come finale, come i fanwriter sapranno ci sono momenti in cui i personaggi e il racconto assumono vita propria. Alcune cose sono state lasciate in sospeso volutamente, forse perché trovo che, come diceva Penelope Cruz in Vicky Cristina Barcelonaonly unfulfilled love can be romantic” (l’amore romantico è quello che resta inappagato), e io sostituirei qui ‘love’ con ‘i racconti’ (XD).

Che dire? Vi ringrazio tutti, dal primo all’ultimo. Senza i vostri commenti incoraggianti non sarei mai riuscita a portare avanti un ‘progetto’ così intricato, né a trovare la forza di continuare a scrivere. Dopotutto un racconto esiste solo se esistono lettori che lo leggono – almeno secondo me XD

Grazie, grazie, grazie. Le canzoni che mi hanno accompagnata mentre scrivevo – come forse già dissi non riesco a scrivere senza una musica ispirante – per molte delle quali devo ringraziare Cri che me le ha fatte conoscere quando mi lamentavo “voglio una canzone ispiranteeeeee” - mi ricorderanno questa fic ogni volta che le riascolterò. Questa fan fiction è stata un rifugio dove sfogare sentimenti che non sarei mai stata in grado di sfogare altrove; e spero che lo sia stata anche un po’ per voi, per quei minuti che ci vogliono a leggere una storia e a staccare un po’ dallo stress della vita reale.

Forse questa fan fiction avrebbe potuto essere scritta da qualcun altro che non fossi io, ma non sarebbe mai stata scritta senza di voi e il vostro sostegno, su questo non ho dubbi.

Vi auguro un buon Natale, un buon Capodanno, buone feste in generale, ma soprattutto che possiate provare tante emozioni che vi facciano arrivare a fine giornata, o alla fine di questo 2009, pensando che ‘è questa la vita che voglio vivere’. Penso sia il migliore augurio che possa fare!

Come regalino vi lascio la compilation di tuuuutta la fan fiction, ovviamente per me fondamentale XD Nel caso vogliate farvi un giro su youtube!

Grazie a tutti.

 

 

Miwako, aka Jo

 

 

Here without you – Three Doors Down

Here I am – Marion Raven

He’s simple, he’s dumb, he’s the pilotGrandaddy

No oneAly&Aj

Vienna – Billie Joel

Kiss from a rose – Seal

Erase and rewind – The Cardigans

SpaccacuoreSamuele Bersani

Every me, every you – Placebo

Glittering cloudImogen Heap

All you wanted – Michelle Branch

If I ever feel better – Phoenix

Puppet – Yael Naim

Turn and turn again – All Thieves

To build a home – Cinematic Orchestra

The story – Norah Jones

How far we’ve come – Matchbox Twenty

 

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