Half a demon...half a human

di Usa_chan 10
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Me, the monster ***
Capitolo 2: *** Me, in your hands ***
Capitolo 3: *** Me, my silence, your answer ***
Capitolo 4: *** Me, just me ***



Capitolo 1
*** Me, the monster ***


Capitolo 1: Me, the monster

Silenziosamente la sabbia inghiottiva i miei passi, restituendoli ad un modo inferiore, segreto e incandescente. Come una sterminata chioma dorata, il deserto si scioglieva davanti a me, sotto e dentro di me, assetato e polveroso. La grotta nella quale ero solito riposare durante le mie fughe si stagliava a pochi metri di me, sorta dalla sabbia come un fiore azzurro in quella marea calda e tutta uguale. Non esisteva un’acqua tale da far spuntare un germoglio nel deserto. Non esisteva un acqua capace di dissetare il cuore ardente della sabbia. Sospirando mi rimisi in cammino, contando i passi perché il respiro ronzante del demone che dormiva nella mia testa per qualche minuto potesse essere zittito. Mi passai una mano sul viso. O almeno attutito.

Chinandomi per entrare nella caverna fredda, un liquido miraggio sospeso a mezz’aria sul respiro ardente del deserto, subito ebbi un involontario sussulto alla vista di un corpo riverso su una roccia irregolare, abbandonato come un sacco vuoto dal volto incrostato di sangue. Avanzai cauto fino a che non potei distinguere chiaramente una massa di capelli sporchi, dalle sfumature bluastre, due mani piccole ripiegate su loro stesse come artigli, i dorsi color ruggine e le unghie coperte di sabbia raggranellata e non mi resi conto che la cosa, la donna, stava singhiozzando indistintamente. Mi chinai ancora un po’ per capire dove, sotto quella miriade di ciocche nere, fosse finito il viso insanguinato che avevo visto poco prima, ma lei cominciò a muovere le braccia davanti a sé, come alla cieca. Le afferrai gli avambracci e la scossi piano. Lei si svegliò di soprassalto, gemendo, e cercò di allontanarmi, evidentemente disorientata. “Stai buona.” Dissi tentando di rassicurarla. “Non ti faccio niente.” Lei si irrigidì, era chiaramente atterrita, e aprì e chiuse le mani, come per afferrarmi a sua volta. Mi mossi molto lentamente e allentai la presa sulle sue braccia, dicendo a voce bassa. Riesci ad aprire gli occhi?” Lei schiuse le labbra secche e screpolate come per parlare, ed emise un sospiro secco, a vuoto. Scosse la testa, non riusciva a parlare?, e rabbrividì vistosamente.

Perplesso, cercai comunque di non agitarla più del dovuto e dissi cauto. “È tutto questo sangue.”

Lasciai andare le maniche della sua giacca e pescai da una tasca un fazzoletto. Ancora spaventata, lei allungò le mani e riuscì a posarle sulle mie, cercando di intuire i miei movimenti. La sua pelle era granulosa a causa della sabbia e odorava di ferro e lacrime. Trasalii quando i suoi palmi piccoli e freddi si appoggiarono sulle mie dita e si strinsero, bisognosi d’appoggio, su di me. Il cuore, impietrito, mi sobbalzò nel petto e si fermò dolorosamente. Lei toccava me, la bestia, il demone, il mostro, l’assassino, me, e cercava sicurezza.

Ripresi a muovermi con dolente lentezza e portai le sue mani sulla mia borraccia, poi versai un po’ d’acqua sul fazzoletto e feci per accostarlo al suo viso. Lei si ritrasse precipitosamente, allontanandomi le mani dai suoi occhi e io quasi risi amaramente: probabilmente aveva riconosciuto la mia voce, aveva visto in me l’involucro del demone tasso, il volto del mostro e adesso fuggiva, disperata. Eppure … Voglio soltanto toglierti il sangue dal viso, così potrai aprire gli occhi.” Tentai. Forse temeva che le facessi ancora del male, forse non mi conosceva. “No …” Squittì spingendo le mani sulle mie. Io sospirai sconfitto. Se non voleva che la toccassi avrei mandato a chiamare qualcun altro che la portasse al villaggio.

La ragazza strinse la labbra e le leccò nel vago tentativo di inumidirle, ma quelle rimasero secche e assetate. Conoscendo il tormento della sete, inappagabile la mia, perché mi mangiava da dentro e non sapeva saziarsi di nulla, le chiesi speranzoso. Daccordo. Hai sete? Vuoi bere? Lei si tese di nuovo verso di me e io le accostai la borraccia alle labbra, incredulo di fronte alla presa salda delle sue dita sulle mie. Più la stringevo e più diventava calda, quasi che il sole del deserto che si era sciolto su di me, consumandomi fino alla fine, stesse filtrando anche in lei e la stesse contagiando. Quando smise di bere sorrise e un insolito calore mi si diffuse nel petto e sparì subito, come un barlume affogato nel buio. La stretta delle sue mani sulle mie si affievolì e io ne approfittai per cominciare a ripulirle gli occhi con il panno umido. Le sue palpebre lentamente si allentarono, le ciglia si staccarono le une dalle altre e lei bisbigliò flebile. Oh …”

Il suo viso, emergendo da quello spesso strato si sangue secco, assunse una tinta pallida e graziosa, ma dagli zigomi fino alle sopracciglia la pelle era lacerata da decine di ferite profonde e malfatte, dagli orli sciupati e infetti. Quando ebbi finito la voce morì in gola. Conoscevo il suo volto. Gli esami di selezione dei chunin mi tornarono dolorosamente alla memoria e così il suo volto, incorniciato da capelli scuri molto più corti di come non li avesse in quel momento, arrossato di timidezza. Era l’erede del clan Hyuuga, quella piccola Hinata con gli occhi grandi, spaventosi e profondi come pozzi. Di nuovo la risata amara mi tornò alle labbra. Uno Hyuuga senza il Byakugan era un pensiero innaturale e grottesco come quello di un uccello con le ali strappate. Inspiegabilmente, quando la vidi afflitta, schiacciata dalla consapevolezza, annientata dalla perdita della propria identità, non potei che deporre il fazzoletto ed estrarre delle bende da un’altra tasca. “Ah.” Riuscii a dire senza riconoscere la mia stessa voce. Sembra che ti serviranno degli occhi nuovi, vero?” Lei rimase ferma, perplessa, con le orribili cavità scarlatte socchiuse e stillanti piccole gocce di sangue. Quando cominciai a fasciarla lei si portò le mani al volto e la sua bocca si piegò all’ingiù per lo stupore, come se non credesse che fosse possibile che la vista le fosse restituita. O forse, pensai mentre la sollevavo e la conducevo fuori dalla grotta, verso il villaggio, forse credeva di non essere degna di una seconda possibilità.

Amareggiato, strinsi i pugni spostandomi velocemente attraverso le dune incandescenti, con il suo lieve peso come fardello e la sua testa sulla spalla.

 

IL MIO ANGOLINO <3: Hola lettorucci! Spero che siate tornati a con me in occasione della pubblicazione di questa cosina e che la apprezzerete! Mi sono davvero appassionata scrivendola, per cui non mi resta che augurarvi di fare altrettanto nella lettura u.u, fatemi sapere che cosa pensate di questo Gaara, ne sarei davvero felice J

 

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Capitolo 2
*** Me, in your hands ***


Capitolo 2: me, in your hands

Alle tue mani avrei lasciato il pugnale

affinché tu colpissi e annientassi la bestia;

alla tua volontà avrei lasciato il potere di decidere,

per me, per te, per quello che io non sono grado di fare;

al tuo amore che brucia come il sole,

avrei lasciato il compito d’incendiarmi il destino.

Sulle soglie della luce ti guardo ridere

e consolare e carezzare il mostro che ringhia e si dimena.

La strada taceva, addormentata sotto il respiro costante del villaggio immerso nell’oscurità fresca e piacevole della notte. Tirai un calcetto ad un sasso dalla forma irregolare, che filò via, rimbalzò e si fermò, incuneandosi in un angolo buio. Alzai lo sguardo sulla finestra dell’ospedale e mi guardai intorno, ostentando una disinvoltura che non sentivo mia, lanciando occhiate indifferenti alla tenebra gommosa che si accostava con impertinenza alle macchie gialle di luce artificiale ai piedi dei lampioni. Più lontano, anche il deserto, immerso nel tepore del proprio immane sospiro, scintillava con minor vigore, appisolato contro gli orli del villaggio.

Mi appoggiai con la schiena al muro caldo di una casa e alzai gli occhi fino a poter incontrare lo sguardo scintillante e indiscreto di una solitaria stella, sfuggita non so come alla ricciuta mano delle nuvole grigie e sospirai. Avevo tentato per tutto il giorno di occuparmi dei miei impegni di Kazekage con la massima concentrazione, eppure un rivoletto d’ attenzione continuava a sfuggirmi dalle mani e a correre lungo i muri della camera di Hinata, ad immaginarla sola e impaurita, circondata da mura sconosciute e da ombre altrettanto ignote per lei.

Scivolai fino a sedermi a terra e mi presi la testa tra le mani: più mi sforzavo di soffocare la voce del demone che insistentemente cercava di convincermi del fatto che ero nato per uccidere, che il grido acuto del mio stesso dolore, inudibile a tutti, non poteva essere placato che con il sangue altrui, che non ero altro che un mostro, infine, sempre e solo un mostro, più quella si faceva penetrante e convincente.

Affondai entrambe le mani nella consistenza granulosa della terra e strinsi le dita con forza, ma mi resi conto di essermi tagliato solo quando avvertii il bruciore provocato dalla polvere che penetrava nella ferita. Mi guardai il palmo della mano destra, pieno di sangue, e rintracciai un grosso pezzo di vetro rotto, dai bordi irregolari e seghettati. Il mostro sogghignava, divertito dal mio dolore e dalla mia sorpresa e il senso d’impotenza e di frustrazione in me cresceva. Era lui, il demone, il mio padrone e io non potevo che obbedirgli, non ero che una sciocca marionetta tra i suoi artigli, con le braccia e le gambe vuote di volontà come un bambola di pezza vecchia e senza cuciture. Strinsi le palpebre con gli occhi annebbiati dal pianto e da un dolore incomprensibile, incommensurabile, invincibile e la mia mano si serrò attorno all’angolo liscio del pezzo di vetro. Con dita tremanti mi sollevai la manica, tirandola verso l’alto fino a quando non l’ebbi fermata sulla spalla, graffiandomi con le unghie nella frenesia di sollevarla di più, poi strinsi con forza l’angolo di vetro e lo spinsi a fondo contro la pelle del mio braccio. Trascinai il lato tagliente dal polso all‘incavo del gomito, premendo con forza sempre maggiore, poi lo lasciai cadere a terra e guardai nauseato gli slabbri della ferita che come argini sfatti e mortalmente pallidi si allontanavano uno dall’altro e si colmavano di sangue, prima in minuscole gocce scintillanti, poi in una sottile linea scarlatta. Per un solo istante le labbra della ferita rimasero collegate da quel rivoletto color rubino, poi il sangue debordò a destra e a sinistra della ferita e cominciò a rotolare lungo il mio braccio, rompendosi in piccole perle leggermente ovali. Appoggiai il pollice e l’indice sui lati del taglio e lo richiusi: altre gocce stillarono dall’apertura sanguinante e colarono velocemente verso il basso. Allontanai le dita una dall’altra e la ferita si allargò e si riempì ancora di sangue. C’infilai l’indice dell’altra mano e poi me lo passai sull’avambraccio, sporcandomi di rosso. Asciugai una fila di goccioline dal gomito e mi guardai il polpastrello per un momento prima di schiacciarlo contro la guancia dipingendo una linea spessa e irregolare. Continuai ad intingere il dito nella ferita fino a quando non fu asciutta ed ebbe smesso di sanguinare, poi, esausto, lasciai andare la testa in basso. L’euforia e la folle adrenalina di sentirmi finalmente padrone del mio destino, consapevole, vivo, mi avevano reso sordo al dolore provocato dalla ferita che solo ora iniziava a bruciare come accesa.

Seppellii lo sguardo nella sabbia della strada per nascondere una lacrima incandescente che rotolandomi sul viso sembrava scorticarmi e consumarmi la carne, e mi affondai le dita tra i capelli. Per un momento, quel che bastava per rivedere quel curioso bagliore che si era liberato dal sorriso di Hinata, per un momento solo avevo creduto veramente che avrei saputo fare altro che ferirla, che avrei potuto in qualche modo salvarla, che io, la bestia, il demone, il mostro, lassassino, che io avrei saputo cosa fare perché lei avesse una seconda possibilità. L’ombra insonne che ribolliva in me sogghignò beffarda e sputando il suo veleno denso e invincibile sulla mia coscienza già annerita dai suoi stessi lacci, lo disse ancora e ancora e ancora.

Mostro.

Un’altra lacrima scaturì bruciando dai miei occhi e rotolò giù, fino al centro della terra.

 

Spostai il peso della giara che portavo sulla schiena e le diedi un colpetto con l’indice. La sabbia al suo interno mulinò e gorgogliò e rispose al mio chakra scivolando fuori dall’apertura sulla sommità del contenitore per solidificarsi in una scaletta che mi condusse fino a quella finestra. Erano cinque giorni che continuavo a tornare davanti all’ospedale senza avere la forza, il coraggio, la crudeltà di entrare e vedere Hinata. Tanto meglio per lei, mi dissi esitando un’ultima volta prima di entrare, dalla mia vicinanza non poteva venirle che male.

Entrai infine senza difficoltà e soprattutto senza far rumore e mi accostai al letto. Hinata dormiva con i capelli disposti attorno alla testa come una pozza scura e lucida, le bende strette attorno alle palpebre non più bianche della sua pelle e le labbra violacee nella poca luce che riusciva a filtrare dalla finestra. Rimasi immobile per diversi minuti, cercando di non respirare, con gli occhi socchiusi e il silenzio della camera che mi premeva contro le orecchie, poi mi accucciai vicino a lei, sul pavimento, e allungai leggerissimamente un dito contro il dorso della sua mano. Prima di toccarla la guardai per accertarmi che stesse dormendo, e visto che non si muoveva e respirava con regolarità appoggiai l’indice sulla sua pelle caldissima. Mi avevano detto che aveva ancora la febbre quella mattina, nonostante mi fossi preoccupato che avesse le cure migliori in assoluto, ma anche così non potei fare a meno di trasalire. A mente fredda mi sarei reso conto che era il contatto con lei addormentata ad avermi fatto sussultare, ma in quel momento lo attribuii alla sorpresa e alla preoccupazione per averla sentita ancora così calda.

Mi occorse qualche secondo per riuscire a toccarla ancora, ma quando lo feci, quando appoggiai di nuovo la punta delle dita sul suo polso solcato da lievi venature azzurre, mi accorsi di quanto stupida fosse stata la mia paura di ferirla: mai, in nessun modo io avrei saputo farlo. Ascoltavo il mio cuore gridare, affondato da qualche parte dalle parti della giara sotto un mare ardente di sabbia, al solo pensiero. Strinsi pian piano tutte le dita attorno alla sua mano e il dolce calore della sua pelle sembrò riuscire a sciogliere il macigno che mi oscillava nel petto, schiacciando il mio cuore e incastrandosi in ogni respiro. “Hinata.” Dissi a voce bassissima, solo per sentire come il suo nome suonasse nella camera silenziosa. Mi sembrò quasi che uno spiraglio di sole avesse stracciato l’oscurità e fosse rotolato nella stanza e mi venne da sorridere.

Un respiro più profondo mi avvertì che Hinata si era svegliata, così lasciai la sua mano e rimasi in silenzio. “Gaara?”Disse però lei sorprendendomi. Si tese verso di me e allungò le mani per cercarmi, così io mi sporsi e mi lasciai prendere. “Come sapevi che ero io?” Le chiesi appoggiando il viso alle sue mani. Lei sorrise dolcemente accarezzandomi le guance. “Profumi di buono.” Rispose mettendosi a quattro zampe e venendo più vicino. “È già mattina?” Mi chiese accoccolandosi contro di me. Io la strinsi di riflesso, come avevo imparato a fare quando mi veniva vicina e sospirai “No.” Dissi semplicemente cercando di farla tornare a letto.

Hinata si rannicchiò, da brava, sotto le coperte, ma continuò a tenermi la mano. “Non riuscivi a dormire?”Mi chiese ancora, tirandomi verso di sé. Io mi inginocchiai e appoggiai la guancia contro il suo petto. “Lo sai che il demone m’impedisce di dormire.” Le risposi amaro, passandomi involontariamente la mano sulla ferita al braccio, che lentamente si cicatrizzava sotto la fasciatura. Hinata si spostò verso il bordo del letto e io pensai che volesse allontanarsi da me, invece mi sentii trascinare verso di lei e mi sorpresi. “Se resti con me ti veglierò io.” Disse con voce dolce, scostando le coperte.

Senza sapere come, qualche secondo dopo ero sdraiato vicino a lei, la testa appoggiata al suo seno caldo e gli occhi che si chiudevano.

Per la prima volta dopo anni, pensai mentre scivolavo nel sonno, il demone dormiva silenzioso e nelle orecchie e fino in fondo all’anima non sentivo che il battito del cuore di Hinata e il suo respiro che mi cullava conducendomi in un luogo sicuro e senza incubi. Le sue mani stringevano il mio destino con tenerezza e il mio cuore, lo avevo trovato appoggiato vicino al suo qualche giorno prima, canticchiava quieto tra le sue dita calde e non gridava più.

 

 

IL MIO ANGOLINO <3: Hola lettorucci! Allora, cosa pensate del nuovo capitolo? La parte in cui Gaara si taglia è stata molto difficile da scrivere per me, perché volevo che fosse abbastanza intensa da coinvolgere chi legge e da farlo entrare fino in fondo nella sofferenza di Gaara. Lo so che c’è una certa inesattezza, teoricamente tra la pelle del Kazekage e il resto del mondo ci sarebbe quel dettagliuccio della custodia di sabbia … spero mi concederete la licenza poetica! Grazie a tutti quelli che sono venuti a leggere e a chi ha recensito, spero che mi darete un parere in molti, al prossimo capitolo, ciao!!

 

 

  

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Capitolo 3
*** Me, my silence, your answer ***


Capitolo 3: Me, my silence, your answer

 

In silenzio e disparte posso gustare

il tossico infuocato del mio esilio.

In silenzio e solitudine posso cercare

crudele la ragione che mi avvelena il cuore.

In silenzio e meraviglia, posso sapere

che la tua mano mi raggiunge, e per sempre m’impiglia

come flebile fiamma al cerchio delle tue ciglia.

 

 

 

Per Hinata quel giorno sarebbe stato molto importante: era il primo giorno in cui aveva avuto il permesso di uscire dall’ospedale e di fare una passeggiata con gli occhi scoperti, così ero andato a prenderla portando una camelia bianchissima.

La trovai in camera mia, seduta sul letto con la spazzola di Temari in mano che si pettinava i capelli con estrema lentezza. La guardai per qualche minuto senza parlare, poi entrai cautamente e mi avvicinai. “Buongiorno raggio di sole.” Le dissi inginocchiandomi davanti a lei e porgendole il fiore. Hinata sorrise arrossendo e mi sorprese con il suo sguardo luminoso e bellissimo, anche a dispetto del lieve senso di disorientamento che dava il colore diverso delle sue iridi. La guardai inclinare la testa di lato e annusare la camelia che le avevo portato con un sorriso così bello da darmi le vertigini e presi la sua mano nelle mie per baciare la punta di ogni dito. La sua risata imbarazzata e lieve mi fece alzare lo sguardo e sorridere a mia volta, con il cuore colmo di felicità liquida e calda. “Sei bellissima.” Riuscii a dire prima che il desiderio di baciarla mi spingesse a premere le labbra sulle sue e a stringerla a me. Le sue mani s’infilarono tra i miei capelli e mi accarezzarono a lungo, mentre il vestitino azzurro pallido le si arricciava attorno alle cosce lasciandole scoperte.

In quel rifugio caldissimo e profumato di donna, di Hinata, più di tutto il suo corpo, la mia mano si soffermò in più di una carezza e le mie dita premettero e strofinarono e affondarono con delicatezza, fino a quando la sua schiena non s’inarcò, armoniosamente e senza strappi, quasi che lei stesse ballando sulla fluida melodia inventata dai nostri corpi vicini.

Il suo respiro affannato mi solleticava l’orecchio e il collo e il suo seno tremava al ritmo del suo cuore contro il mio petto. Un calore sconosciuto, simile a quello del sole, ma meno violento e certamente più intenso, mi si sciolse attraverso il sangue in tutto il corpo e spaventò il demone che uggiolando si ritirò negli anfratti più neri della mia coscienza, ferito e atterrito da quel sentimento che non conosceva e non sapeva gestire.

“Hinata.” Sussurrai stringendola forte a me. “Hinata Hinata Hinata.” Lei rise piano e mi baciò il collo. “Anche io.” Rispose in un soffio.

 

Fuori faceva caldo, ma lei non si lamentava. Si teneva alla mia mano con fiducia, sorrideva, ascoltava, sorrideva, chiedeva, sorrideva, coglieva un fiore e me lo appoggiava sopra l’orecchio e sorrideva ancora. Chi c’incontrava rimaneva un momento turbato e stordito dalla sua presenza, per i suoi splendidi occhi uno diverso dall’altro e per la fitta e spessa rete di cicatrici bianche che le incorniciava lo sguardo, rendendolo quasi insostenibile, eppure nessuno, nemmeno uno risparmiò un sorriso grato a quella splendida donna che aveva placato l’assordante grido di dolore e rabbia del demone, che aveva guarito e accarezzato il mostro, che aveva riscattato l’assassino e restituito la speranza del Kazekage al suo villaggio.

“Hinata-sama.” Dicevano chinando la testa. “Hinata-sama.” E sorridevano di gioia. “Hinata-sama.” E il mio cuore ringraziava, ringraziava, ringraziava.

 

A sera tornammo a casa e lei si lasciò cadere sul letto con le braccia aperte e un sorriso che le danzava sulle labbra appena tese. La guardai dalla porta della stanza senza dire nulla, poi mi allontanai e controllai se Temari e Kankuro fossero rientrati e li trovai intenti a cenare in cucina. Hinata ci raggiunse poco dopo e si sedette vicino a mia sorella con un sorriso.

Qualcosa aleggiò a lungo sul tavolo, quella sera, tra me, i miei fratelli e la donna che amavo, ma allora era ancora troppo pieno di dubbi e troppo spaventato per cercare di trattenerlo chiamandolo per nome, anche se so che Hinata lo prese per me, per se stessa, per quelli che ancora non eravamo. Io lo seppi solo dopo, quando mi accorsi che anche chiuso nel mio silenzio avevo assaporato la risposta sulle sue labbra e l’avevo vista brillare sulla sua pelle, solo anni dopo, quando appoggiata tra le mie braccia sull’orlo sfolgorante di una sera d’estate, Hinata mi disse ridendo che avremmo avuto un figlio e io lo sentii spaccarmisi dentro e invadermi e far sgorgare, gioiosa e inarrestabile, una fonte d’oro nel fondo buio del mio cuore e quella notte, rivolto al mio sonno buio e sereno, a mia moglie, a mio figlio, a lungo lo chiamai amore, amore, amore.

 

IL MIO ANGOLINO <3: Hola lettorucci! Siamo quasi alla fine della ff! spero che questo capitolo vi piaccia e ringrazio fin da ora chi leggerà e chi recensirà …. Grazie a tutti!!

 

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Capitolo 4
*** Me, just me ***


Capitolo 4: Me, just me.

 

Rincorrerò il tuo profumo come il vento e le foglie,

cercandoti agl’incroci di questo mondo che sfolgora

e s’infiamma, se solo ci sei.

Rincorrerò il luccichio dei tuoi occhi

come la scia e l’argento di una stella,

piegandomi al gesto della tua mano

che alla vita mi richiama e ringrazia.

 

 

 

Il bambino era piccolissimo, quasi come una bambola, ed era rosso e raggrinzito come una prugna secca. Quando lo vidi la prima volta pensai che aveva due polmoni fenomenali e un solo ciuffo di capelli attaccaticci sulla fronte, che gli mancavano i denti, e che sembrava una rana, non un bambino e che era innegabilmente la cosa più bella che io avessi mai visto.

Quando lo presi in braccio per la prima volta lui tenne gli occhi chiusi, serrati, e sgambettò infastidito. Pensarlo come mio figlio mi dava ancora la vertigini e nello stesso momento mi gonfiava nel petto una bolla di istinto protettivo che minacciava di squarciarmi da dentro.

Takumi. Il nome lo aveva scelto Hinata, brandendo uno di quegli insopportabili libriccini pre-parto che leggeva in compagnia di Temari sui significati dei nomi dei bambini, ma più lo pronunciavo e più mi sembrava appropriato. Mare che apre la terra. Mi aveva spiegato mia moglie sorridendo estasiata con una mano premuta sul pancione e gli occhi persi, quasi riuscisse già a vederlo, ad indovinare che espressione avrebbe avuto quando lo avremmo chiamato con quel nome, come sarebbe stato tenerlo in braccio e stringere le sue mani minuscole nelle nostre.

Mentre mi dirigevo verso il lettino su cui era stesa Hinata, bellissima ed esausta, lo guardai sperando che aprisse gli occhi, ma lui si limitò a mugolare indistintamente come uno strano animaletto pelato e strinse le mani piccolissime sull’asciugamano. Lo deposi tra le braccia di sua madre e come percorso da una scossa elettrica, o svegliato alla vita dalla sua vicinanza, lui spalancò le palpebre grinzose su due iridi violette, prive di pupille, così chiare da sembrare bianche. Hinata sussultò leggermente alla vista di quella specie di sogno, ammaliata dal fiore del Byakugan che rinasceva nel deserto, e poi sorrise.

Mare che apre la terra. Pensai baciandole la fronte e rispondendo al suo sorriso tenero e umido. Erano loro che continuavano ad aprire con forza, scavando con le unghie e con i denti, l’abisso d’amore che si era spalancato nel mio cuore da quando avevo incontrato Hinata.

Incredibilmente, lo spazio che prepotentemente si erano aperti in me mi aveva reso più simile a quello che ero stato prima di tutto, prima di Gaara, del mostro, del Kazekage, del marito e del padre che ero diventato.

Guardai mio figlio addormentarsi tra le braccia di mia moglie, i loro lineamenti che si rincorrevano e si specchiavano gli uni negli altri, e li tenni entrambi appoggiati sul mio cuore che cantava, mentre fuori dalle finestre scendeva un’altra notte limpida e sicura, filtrata dalla luce tremula delle stelle e rischiarata dall’intenso brillio degli occhi di Hinata, che allora e per sempre, come in un’eterna promessa, sapevano placare lassordante grido di dolore e rabbia del demone, guarire e accarezzare il mostro, riscattare lassassino e restituire la speranza del Kazekage al suo villaggio.

 

 

IL MIO ANGOLINO <3: Hola lettorucci! Siamo arrivati proprio alla fine J Grazie a tutti quelli che hanno seguito e recensito per aver letto anche questa storia! Ci sentiamo alla prossima, ciao a tutti <3 Un ringraziamento speciale e Chihuahua che ha recensito tutti i capitoli, facendomi piangere ogni volta … grazie mille cara <3

 

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