Red Russian Blood - Rosso Sangue Russo

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Sai correre più veloce del vento? [Yeti] ***
Capitolo 2: *** A. Kimono ***
Capitolo 3: *** 1. Vuoi che scriva io per te? [Lampada] ***
Capitolo 4: *** 2. Non ti piaceva Pietrogrado? [Erba] ***
Capitolo 5: *** 3. Voi non avete freddo? [Quantità] ***
Capitolo 6: *** 1. Brilla da là sotto, la Luna? [Nero] ***
Capitolo 7: *** B. Harem ***
Capitolo 8: *** 1. Posso uscire, ora? [Armadio] ***
Capitolo 9: *** 1. Cosa significa ipocrisia? [Orchestra] ***
Capitolo 10: *** 1. Dimenticherò mai questo giorno? [Giornata]] ***
Capitolo 11: *** 2. Come mi chiameranno, allora? [Dimensione] ***
Capitolo 12: *** C. Rischio ***
Capitolo 13: *** 1. Tu vedi qualcosa? [Foschia] ***
Capitolo 14: *** 2. Mi lasci da solo, qui? [Zaino] ***
Capitolo 15: *** D. Pistacchi ***
Capitolo 16: *** E. Viola ***
Capitolo 17: *** 1. Dopo di questi ne verranno ancora? [Ultimo] ***
Capitolo 18: *** 2. Era davvero così necessario, tutto questo? [Salsiccia] ***
Capitolo 19: *** 3. Cosa vuoi tu, da loro? [Inghilterra] ***
Capitolo 20: *** F. Cartoccio ***
Capitolo 21: *** G. Tornello ***
Capitolo 22: *** 1. Tutto bene? [Bicchiere] ***
Capitolo 23: *** H. Raggi X ***
Capitolo 24: *** 1. Ti ricorda forse qualcosa? ***
Capitolo 25: *** 2. Sei triste, Michail? [Mondo] ***
Capitolo 26: *** I. Windsurf ***



Capitolo 1
*** 1. Sai correre più veloce del vento? [Yeti] ***


*Autore: Rota/Rota23
*Titolo: Red Russian Blood - Rosso Sangue Russo
*Fandom: Axis Powers Hetalia
*Personaggi/Pair: Ivan Braginski, OC, Un po' tutti; cenni di RussiaAmerica.
*Genere: Introspettivo, Storico, Generale, Drammatico
*Avvertimenti: Raccolta, Flash fic/One shot, Missing Moment
*Rating: Arancione
*Note: Questa raccolta vuole prendere in esame i volti che hanno trasformato la Russia nell'ultimo secolo, precisamente prima, durante e dopo la rivoluzione russa. Con "rosso sangue russo", quindi, voglio specificare specialmente le persone che tratterò, assieme al più conosciuto Ivan Braginski. Alcuni personaggi richiederanno più capitoli - in quanto più influenti - altri semplicemente verranno accennati.
Si presuppone che il punto di vista dal quale tutto parte è quello di Ivan. Gli eventi raccontati non seguono, esattamente, un ordine cronologico preciso, ma seguono tuttavia il corso delle vite dei vari personaggi.
Spero di non aver fatto pastrocchi con le note. Non sono abituata a metterle e davvero mi auguro di non aver reso ancora più confuso il tutto *//////* Per la precisione, ogni personaggio ha le sue note, che con il conteggio ricominciano a ogni nuovo ciclo. Ci sono Note, quindi, anche per singole fan fiction ù.ù''
Questo è l'ordine dei personaggi che verranno affrontati (L)
-Gengis Khan -> My Holy King
-Nicola II di Russia -> My Passionable Prince
-Grigorij Efimovic Rasputin -> My Pacific Villan
-Jakov Michajlovic Jurovskij -> My Blody Soldier
-Aleksandr Fedorovic Kerenskij -> My Right Minister
-Vladimir Ilyich Ulyanov o Lenin -> My Clamant Dreamer
-Lev Davidovic Bronstejin o Trotsky-> My Quick Fugitive
-Iosif Vissarionovič Džugašvili o Stalin -> My Cruel Moustache
-Garri Kimovič Kasparov -> My Revolutionary Player
-Michail Sergeevic Gorbacev -> My Free Politic
Il fatto che per ogni pg storico Ivan rivolga una domanda attorno alla quale gira tutto il discorso della mia fan fiction, non è un caso. Prima di tutto, considero Ivan depositario della stessa ingenuità di un bimbo, quindi, a rigor di logica, anche della stessa curiosità genuina del mondo. per questo lui chiede agli uomini tutte quelle cose. Eppure, nonostante sia ingenuo, Ivan non è stupido. Infatti, dopo le prime risposte, egli continua a domandare, fino ad arrivare al nocciolo della questione e a rivelare ogni cosa.
Questo processo non occorre quando si parla, invece, delle relazioni tra Nazioni varie.
Laddove adopero OC storici il titolo del capitolo è posto sotto forma di domanda, quando invece prendo i personaggi dell'opera originaria di APH i titoli sono semplicemente i prompt stessi.
La fonte principale da cui traggo tutte le mie informazioni è wikipedia, mi rifaccio essenzialmente a quanto affermato e scritto in quella sede.






Seconda classificata al Contest "History Collection" indetto dal CoS - Collection of Starlight
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My Holy King(1)
"Io vengo dal Barbaro Nord. Indosso le stesse vesti e mi sfamo dello stesso cibo dei pastori di vacche e dei mandriani di cavalli. Facciamo gli stessi sacrifici e ci dividiamo le ricchezze. Guardo alla Nazione come a un nuovo figlio appena nato e mi curo dei miei soldati come se fossero i miei fratelli..."





1. Sai correre più veloce del vento? [Yeti]



Aveva sognato, il Khan, terre immense dove non ci fossero barriere per il suo cammino.
Aveva sognato, il Khan, di fiumi così ampli da poter dissetare un intero popolo.
Aveva sognato, il Khan, che tutti gli uomini si inchinassero laddove egli passava.
Ma mai aveva immagino un bambino dall'aria curiosa e gli occhi chiari, che lo fissava come se fosse capace di sondargli l'anima fin nell'intimo.
Il figlio di Kiev(2) aveva lo stesso sguardo indomito della madre - sembrava sul punto di chiedergli qualcosa, ma si fermava a guardare gli stemmi che portava sul petto e le armi che teneva in mano.
Era da quando era entrato in quei territori che Temujin voleva incontrarlo.
Lo avevano portato lì come bottino di guerra, dopo il saccheggio della città(3), dopo che finalmente l'Orda d'Oro era riuscita ad arrivare in quel posto che tutti chiamavano "Europa". Prima di andare ancora più a Ovest, inoltrandosi in quei territori così esotici, così diversi.
Ed era bello, più bello di qualsiasi altra principessa che i suoi soldati gli avrebbero mai potuto portare. Perché Temujin sapeva chi si ritrovava di fronte: non gli era possibile confondere uno sguardo umano con lo sguardo di uno di loro.
Gli sorrise, sistemandosi meglio sul proprio piccolo trono. Accanto a lui, quasi compresso nella piccola tenda d'accampamento assieme alle armi e ai tesori del Khan, il cavallo reale nitrì piano, muovendo la coda. Battaglie e battaglie per una semplice corona e un potere che non aveva eguali su tutto il suo territorio. Il Khan aveva negli occhi la forza necessaria per guardare una Nazione in viso e non sentire nel corpo il giusto timore mortale.
Il bimbo alla fine parlò, indicando l'animale che l'uomo si teneva accanto, ignorando ogni altra cosa - l'aveva già vista abbastanza a lungo per rendersi conto che sì, era tutto vero.
-Sai correre più veloce del vento?-.
Il Khan si pettinò la lunga barba, tranquillo. Non c'era ragione di comportarsi altrimenti: la differenza tra schiavo e prigioniero stava proprio nel valore che si attribuiva a ognuna delle due categorie.
Ivan lo vide sorridere, quello strano uomo delle nevi(4) disceso da montagne lontane.
-Di più, di più del vento!-.
Il bimbo si mosse verso di lui, facendo lento qualche passo in avanti. I suoi occhi viaggiarono in ogni direzione, a vedere vecchi tesori materni in nuovi contenitori - e oggetti, cose che mai prima aveva visto, un mondo che sembrava così estraneo da risultare vagamente affascinante.
Ivan non aveva paura del Khan, non aveva paura degli oggetti che si portava appresso e di cui si faceva vanto.
Era un re, era il re più magnifico, e Ivan non aveva avuto molto spesso a che fare con gli orientali. Le sue porte ne toccavano le terre, ma nessuno l'aveva spinto a varcarle prima d'allora.
La sua arma ora era riposta nel fodero, e aveva il manico d'oro di brillanti e di pietre preziose. Luccicava, sembrava voler accecare.
Oltre agli oggetti, si rivolse all'uomo.
Aveva la pelle delle mani ruvida, come quella usata molto. Aveva combattuto, e si vedeva, aveva vissuto tanto come un uomo normale non può ambire.
Il piccolo russo non alzò neppure lo sguardo quando la voce ruvida e secca del Khan gli si rivolse, con la gentilezza tipica dei soldati.
-Posso raccontarti la storia di ogni cicatrice, se vuoi. Ma tu mi dovrai ascoltare!-.
Sollevò appena gli occhi soffermandosi sulla bocca dall'accento così strano. Ivan lo capiva, ma non se ne sorprese: lui capiva molte lingue, ne conosceva tantissime.(5)
-Io ascolterò le tue parole, grande yeti!-.
Non lo vide muoversi, ma indovinò un movimento di rigido controllo intorno alla bocca.
-Per te sono Gengis Khan.-
Il bimbo lo guardò con curiosità, attirato dal colore della barba e dalla sua lunghezza. Era come quella dei suoi contadini, ed era molto strano.
-Cosa significa Gengis Khan?-
-Significa capo...-.
Il bimbo ebbe un moto quasi di stizza - o forse ammirazione, forse orgoglio, forse ancora tutto quanto assieme - quando, dopo averlo indicato con un piccolo dito paffuto, indicò sé stesso, con la stessa forza con cui Temujin si era proclamato.
-Io sono Ivan, e Ivan significa che vivo per volere di Dio!-.(6)
Fu quando un sorriso lieve tornò a incurvare quelle labbra sottili che lo sguardo di Ivan si spostò più in su, attraverso la pelle tirata dell'uomo sulle guance, gli zigomi sporgenti e il naso schiacciato.
Aveva gli occhi del colore dei ghiacci.
-Anche io lo sono, Ivan!-.
Ivan riuscì a vedere una cicatrice anche lì, in quel poco spazio. Si alzò sulle punte, per guardarlo meglio, socchiudendo le palpebre per focalizzare con maggior precisione quanto stava guardando.
-Mi racconterai tante storie?-.
L'uomo aprì le braccia - e si poté sentire nella sua voce l'enfasi della soddisfazione e della magnificenza, sangue regale che non si smentiva mai, in nessuna situazione.
-Tutte le storie che conosco!-.
Allora, anche Ivan si aprì in un sorriso e lo imitò, mettendosi a ridere.

Fu il Khan il primo vero maestro di Braginski. Colui che gli insegnò l'arte del rispetto e della riverenza, la civiltà e il valore di ogni cosa
Fu quello yeti sceso dalle montagne a togliergli e a dargli tutto, assieme.
Un nome, una razza, una mentalità.
Poi non fu più Kiev, ma fu Ivan.(7)








Note
(1)Il Gengis Khan, chiamato così in quanto portatore del titolo onorifico significante "Sovrano Universale", consacrò sé e la propria famiglia a Tengri, divinità celeste suprema dei mongoli.
(2)La Rus' di Kiev fu uno stato medievale monarchico sorto verso la fine del IX secolo della dinastia dei Rjurik in parte del territorio della odierna Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia. Nelle fonti medievali viene chiamato Rus' oppure Terra di Rus'. Idealmente, quindi, fu "madre" di Russia, Ucraina e Bielorussia.
(3)1240, i mongoli saccheggiano la città di Kiev.
(4)Lo Yeti è una creatura leggendaria che si ritiene viva nell'Himalaya. È anche noto come abominevole uomo delle nevi, termine originato da una traduzione giornalistica errata dell'espressione in lingua nepalese Metoh Kangmi. Il termine Yeti deriva invece da yeh-teh che significa "Quella cosa là", l'espressione usata dagli sherpa per indicare la mitica creatura.
(5)Ho sempre immaginato che Ivan sappia molte lingue, essendo egli esteso e dovendo aver rapporti con mezzo mondo. Anche da piccolo, venendo comunque a contatto con molte popolazioni, doveva essere istruito in tal senso.
(6)Ivan significa letteralmente "Dio ha avuto misericordia".
(7)La città di Kiev non si riprese più dall'attacco mongolo, lasciando così spazio a Moscova e alla creazione - effettiva - della Russia.

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Capitolo 2
*** A. Kimono ***


A. Kimono



Ivan non aveva mai visto Kiku nelle vesti cerimoniali, in quelle di eventi importanti. Ultimamente, l'aveva visto solamente in una veste, e per quanto dovesse ammettere a forza che proprio non gli dispiaceva vederlo solamente in certi ambiti, non poteva però distogliere lo sguardo dagli abiti che ora, davanti a lui, stava indossando.
Era difficile definirlo elegante - era difficile definirlo comodo. Braginski non aveva le parole adatte per descrivere quanto stava guardando, il che lo rendeva lievemente a disagio, come se già tutta la situazione in sé non lo mettesse abbastanza sotto pressione.
Portò il proprio braccio in alto, per richiamare l'attenzione dei pochi presenti - ingoiò mezza imprecazione quando la spalla, ancora dolente, si fece sentire, urlandogli contro le peggiori cose. Francis lo fermò a metà, facendogli cenno di restare buono e tranquillo al suo posto: non era una buona posizione, la loro, e il francese sapeva che in situazioni simili era più saggio comportarsi in maniera circospetta e non schiacciare in faccia agli altri le proprie perplessità.
D'altronde, se ora si ritrovavano tutti lì, a lanciarsi occhiate piene d'odio e d'astio, era stata colpa principalmente di Ivan: aveva fatto lo stupido, credendo di giocare a qualcosa di divertente senza rendersi conto di quanto male facessero i graffi continui di Kiku, arrivando a rendersi conto del dolore solamente alla fine(1). Per questo ora erano lì, a New Hampshire(2), tutti e cinque assieme.
Dall'altra parte del tavolo, proprio davanti alla sua persona, oltre a Kiku c'era anche Arthur(3), che gli lanciava fin troppo spesso occhiate di supponenza - probabilmente, forte della stessa convinzione che rendeva Francis così abbattuto e deluso.
Ed era incredibile che, tutti quanti, stessero quasi ansiosamente aspettando le parole del padrone di casa.
Quello rise, tronfio della propria potenza e influenza, battendo forte le mani.
-Ora che siamo qui direi che si può fare la pace, giusto? Fate la pace, ragazzi!-.
Alfred non aveva una voce prettamente discreta, e la cosa rendeva nervoso Ivan, così abituato a silenzi prolungati e senza alcuna sosta. In più, l'uomo vestiva in maniera insulsa, sbattendogli in faccia quelle tanto decantate sincerità e purezza(4) con cui si riempiva la bocca spesso e volentieri e per le quali si sentiva autorizzato a dire e fare qualsiasi cosa gli aggradasse di più - anche arrivare a un trattato di pace vestito in borghese.
Loro erano composti, sulle loro sedie. Forse Francis portava un cappello eccessivo e più vistoso del consentito, ma nella norma risultavano discreti e a modo.
Kiku di più. Kiku indossava un "kimono" - Ivan si ricordò all'improvviso come quello strambo vestito si chiamasse, richiamando alla memoria eventi passati e storie già vissute. Ed era strano vederlo così, vederlo rigido e avvolto in tutta quella stoffa.
Pensò a Francis, e quasi gli chiese se fosse soltanto da lui in Russia che aveva portato quella cosa strana che lui chiamava moda.
Pensò a Arthur e quasi gli chiese se oltre all'amore infinito che avevano entrambi per il thé non gli avesse inculcato qualche altro sano principio anglosassone, già che c'era.
Pensò ad Alfred e proprio non gli venne voglia di chiedere nulla: era molto meglio se il modello occidentale - almeno, quel modello occidentale - non attecchisse all'anima già abbastanza influenzabile del Giapponese. O, quantomeno, che facesse meno danni possibile.(5)
Pensò, in realtà, che sarebbe stato bello se Kiku avesse sempre tenuto quel vestito addosso, o al massimo ne avesse cambiato il colore e lo avesse fatto più largo, giusto per riuscire a camminarci dentro.
I suoi occhi neri lo fissavano e Ivan se ne accorse abbastanza in tempo da non risultare insistente.
Gli porse la mano, come era costume da lui - eppure, lo guardò duro in viso, come chi sa di non doversi pentire di nulla.
Stessa identica razza. D'altronde, stesso identico padre.(6)
Anche Kiku si mosse, anche se lo fece alla sua maniera: nulla, a quel punto, doveva essere richiamo di una loro seppur difficilissima uguaglianza, neppure una cosa tanto semplice. Chinò la testa in avanti, socchiudendo gli occhi, per poi tornare eretto e guardarlo ancora in viso.
Era il suo consenso - che lasciò basiti tutti.
Il primo a riprendersi fu Alfred, che rise ad alta voce e sancì la fine del tutto.
-Bene! Allora è deciso! Pace!-.
Francis sospirò piano, Arthur ghignò in maniera evidente.
Ivan, semplicemente, fissò ancora gli occhi sulle pieghe del vestito.
Perché ogni cosa, nella figura di Kiku Honda, ora sapeva esattamente di Giappone.







Note
(1)Parlo di tutta la mala organizzazione tattica e di base che mancava all'esercito russo durante tutto il conflitto
(2)Il trattato di Portsmouth, ovvero il trattato che sancisce la fine della guerra Russo-Nipponica del 1904-1905, si svolse in America, precisamente a New Hampshire.
(3)Sebbene mantenendosi neutrali durante il conflitto, la Francia sosteneva la Russia mentre l'Inghilterra sosteneva il Giappone.
(4)Non è una mia invenzione, fa parte del costume americano essere grezzi e gretti in tal senso.
(5)Riferimento molto velato alla Convenzione di Kanagawa, dove il Giappone fu costretto ad aprirsi al mondo - quindi a subire anche le sue influenze.
(6)Mia interpretazione. Il padre di Kiku/Giappone è "Mongolia", in quanto i Giapponesi sono di stirpe mongola. Il padre di Ivan/Russia è medesimamente Mongolia, o quantomeno lo è a livello culturale, giacché la struttura statale prima della Russia venne eretta su modello di quella Mongola, attraverso Gengis Khan.

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Capitolo 3
*** 1. Vuoi che scriva io per te? [Lampada] ***


My Passionable Prince(1)
"Un uomo forte non ha bisogno del potere; uno debole ne viene schiacciato"(2)




1. Vuoi che scriva io per te? [Lampada]




Il legno della nave scricchiolava tutt'attorno, producendo quasi un gemito costante, mentre l'imbarcazione procedeva lentamente attraverso l'oscurità; verso Nord, dove sarebbero sbarcati e poi avrebbero proseguito a terra.
Lo zarevic(3) non si lamentava, ma era evidente che stesse soffrendo in silenzio. Aveva la pelle del viso insolitamente pallida, ed era da troppo tempo che giaceva immobile nel suo letto, con le palpebre chiuse. In mano, aveva un foglio bianco, che ogni tanto si tendeva e scricchiolava quando il giovane rafforzava la presa delle dita attorno al suo esile spessore - nel momento in cui la nave si fletteva di lato per poi rimettersi in equilibrio sopra il pelo dell'acqua, o quando doveva fare una brusca manovra e si piegava in maniera fin troppo evidente.
La ferita alla testa ancora non gli dava pace, e trasformava tutto in un acuto dolore.
Ivan, seduto sopra uno sgabello ad assistere il suo erede, sentì un lieve moto di pena nei suoi confronti. Forse, lo sentì più verso il turbante bianco che gli fasciava la testa ancora dolorante. Pareva quasi che la nave stesse gemendo per lui.
-Vuoi che scriva io per te?-.
Il tono di Ivan era gentile, ma essenzialmente pratico: per quanto bene lo mascherasse - per quanto fosse abituato a gestire i propri reali sentimenti sotto una coltre di educazione palese - il suo più intimo desiderio era quello di spegnere la lampada e di vedere Nikolaj coricarsi al di sotto delle lenzuola. Era da quasi venti minuti che stava aspettando, immobile, che la nave e quel paziente si acquietassero.
Nicola, con fatica, volse il proprio sguardo sulla figura della sua Nazione. A chiedersi cosa mai Ivan ci facesse lì sarebbe stato solo perdere tempo: era suo compito seguirlo, come il proprio era quello di essergli fedele, nella vita e, specie, nella morte.
Ma queste cose un Russo lo sapeva anche senza che qualcuno glielo dicesse in maniera esplicita.
Ivan prese il foglio che Nicola teneva tra le dita, lasciando che l'uomo lo seguisse con lo sguardo mentre, con delicatezza, prendeva la lampada in mano e si sedeva al piccolo tavolo qualche metro più in là, prelevando il calamaio con l'inchiostro da un cassetto ben sigillato.
Nella penombra, sembrò che l'erede respirasse più regolarmente.
Ivan prese la penna in mano(4) e la sollevò, lasciando che la luce della lampada la illuminasse bene, per tutto lo spessore.
-Cosa vuoi che scriva?-.
Arrivò la voce dalle sue spalle - ferma, come aveva sentito poche volte; decisa, tanto che dovette ricordarsi per un attimo di star parlando con un figlio e non con un padre, con un erede ma anche con un futuro re.
-Voglio sposare Alessandra...-.
La nave scricchiolò di lato, e Nicola si interruppe per non offrire un gemito al vento.
Sulle labbra di Braginski si allargò quel tipico sorriso di meraviglia discreta, non invadente ma neppure troppo poco palese, mentre la testa della Nazione si volgeva a fissare una sagoma nera immersa nel nulla dietro di sé. Delle mani bianche avevano afferrato le lenzuola, e le tenevano neanche fossero un'ancora di salvezza.
-Alessandra, dici? La tedesca?-.
Certo che la ricordava: era stato lui a fargliela notare, sentendo come in lei il destino che poi si sarebbe compiuto sulle sue terre(5). Ivan era, un po' come tutti i russi, un po' come la stessa terra immensa e nostalgica di Russia, melodrammatico e fatalista nel suo più intimo essere - eppure quella tedesca gli era piaciuta davvero tanto.
Peccato che lo Zar non era stato molto d'accordo. Per questo ora sia lui che Nicola si ritrovavano lì.
Ivan vide il giovane fermo sul materasso fare un semplice cenno con la testa, quasi che la sicurezza di cui vantava o che voleva mostrare con tutte le sue forze non necessitava di niente se non di sé stessa. Probabilmente, aveva preso da Braginski più di quanto chiunque si potesse aspettare.
-Alessandra...-.
Ivan gli sorrise ancora, tornando al suo lavoro, tornando alla luce e al nero inchiostro.
Qualche attimo per scegliere le parole giuste, e la penna già grattava sul foglio.
-Ho capito, zarevic...-.

Poco dopo, la lampada fu spenta con un soffio delicato, e la nave tornò a ballare con grazia tra onde sinuose ed eleganti.






Note:
(1)Nicola fu denominato in vari modi. Nicola il pacifico durante gli anni del suo regno; Nicola il Sanguinario nella letteratura sovietica;  Nicola grande portatore della Passione nella tradizione russa. E da qui io prendo il suo pseudonimo.
(2)Citato in E. Heresch, Nicola II. Vita e morte dell'ultimo imperatore di Russia, come epigrafe, tratta dagli scritti originali dello Zar.
(3)Termine di origine slava per indicare il figlio dello Zar o, più avanti, l'erede al trono.
(4)Nella Russia arretrata della fine del 1800 non penso esistessero ancora le penne a sfera, per cui mi sono presa la licenza poetica di fornire a Ivan una penna da scrivere con tanto di inchiostro.
(5)Alessandra d'Assia e del Reno, futura consorte dello Zar, la cui relazione con l'erede fu osteggiata inizialmente da tutta la famiglia reale, tanto che Alessandro favorì la relazione del figlio con la ballerina Mathilde Ksesinskaja, relazione interrotta proprio nel viaggio di ritorno dal Giappone.

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Capitolo 4
*** 2. Non ti piaceva Pietrogrado? [Erba] ***


2. Non ti piaceva Pietrogrado?(6) [Erba]

 

Non si sarebbe detto, affatto, ma anche in Russia l'erba sapeva essere verde.
Era bello immaginare piedi di bambini calpestare quei prati e quelle lievi discese, magari inseguiti da qualche cane da caccia con il quale prendere confidenza per un futuro di giochi e di compagnia.
Nikolaj sembrava pensare questo - anzi, in realtà quasi lo dicevano le sue labbra, quasi lo si poteva vedere nel riflesso dei suoi occhi - mentre, lentamente, passeggiava per i viottoli di pietra bianca che si estendevano lungo tutto il suo giardino, rendendo accessibile ogni più piccolo lembo di terra.
Alix non c'era accanto a lui, si era fermata più indietro a cogliere qualche fiore sgargiante e profumato dalle mani del giardiniere. Ivan si chiedeva come una donna tanto pudica e riservata non potesse resistere alla bellezza intensa di una rosa rossa.
-Non ti piaceva Pietrogrado, Nikolaj?-.
Il nuovo zar non si voltò neanche verso Russia, sorridendo mesto in una direzione imprecisata - laddove doveva apparire Alix da un momento all'altro, ne era sicuro.
Sotto la suola della sua scarpa, un ciottolo candido fece rumore.
-Questo Palazzo(7) è la mia casa. A Pietrogrado, invece, c'è tutto il resto...-.
Ivan si fece un poco più insinuante, mentre si chinava nella sua direzione; vicino il viso, le mani dietro la schiena, neanche avesse di fronte un altro piccolo bimbo.
Ivan era bravo in queste cose: a mettere a disagio le altre persone. Normalmente lo faceva con le altre Nazioni, inspirando in loro una qual sorta di timore reverenziale - forse per la storia, forse perché, in effetti, nessuno mai era ancora riuscito a conquistare la Russia, e questo voleva dire molto.
Piano, quindi, Ivan scandì parole leggere, che come vento delicato andarono a punzecchiare la coscienza sopita del suo zar.
-Tutto il resto della tua vita, Nikolaj?-.
L'uomo sorrise, amaro, forse cercando un briciolo di commiserazione da mettere nel proprio sguardo. Fallendo, perché in realtà non c'era proprio nulla che potesse nascondere alla grande Russia.
Tuttavia, egli era lo Zar - e come tale doveva comportarsi.
Non disse nulla, lasciando che Ivan continuasse a parlare, facendosi più insistente.
La gentilezza crudele piegava la sua lingua, in una litania già corsa su innumerevoli bocche e che ora, nelle parole della propria Nazione, Nikolaj le sentiva più aspre e crude.
-La gente dice che hai semplicemente paura...-.
L'uomo fece un passo, avvicinandosi all'aiuola, dove risplendeva con forza un verde intenso, di erba appena bagnata, e l'odore era il medesimo.
In un qualche modo, sperava davvero che Alix comparisse al suo fianco, all'improvviso.
-Voi vi fidate delle dicerie o del vostro Zar?-.
Ivan si fece pensoso, a quel punto, nel guardare lo stesso pezzo di terra su cui cadeva lo sguardo dell'uomo.
Amava i fiori, questo era risaputo, così com'era risaputo quanto sempre avesse desiderato un giardino con un giardiniere capace abbastanza da mantenerlo vivo e salubre.
Il vento giocava con i fili verdi d'erba, passando delicatamente.
-Certo è che dopo Chodynka(8) si avrebbe da pensare, Nikolaj...-.
La domanda fu ripetuta, perché in cerca di una risposta precisa.
Nikolaj non era tipo di persona capace di lasciar correre qualcosa, anche la più piccola - e di questo doveva rendere conto specie a Russia, che teneva esattamente lo stesso comportamento nei suoi confronti.
Fu solo più lento nel pronunciare le parole.
-Voi vi fidate delle dicerie o del vostro Zar?-.
Ivan gli si fece più vicino, apprensivo.
Odiava vedere quella schiena ricurva, e intuiva che la nuova corona avesse un peso eccessivo per la testa del suo Nikolaj. La curvava in basso, laddove il fango sporca le suole di stivali eleganti, dove la più intima tradizione russa si insozza di terra e di villico.
Nonostante questo, però, non rifuggì i suoi doveri e le sue parole.
-Sarebbe meglio che voi riflettiate, mio Zar...-.
Lo Zar guardò in alto, sospirando mesto, rivelando solo a quel punto la sua paura.
Tanto Alix non sarebbe giunta se non a breve, e lui non avrebbe fatto vedere gli occhi ancora pronti al pianto.
-Cosa vuole, il mio Popolo?-.
Ivan sorrise triste - lo stesso sorriso di Nikolaj, la stessa amarezza nel tono, la stessa commiserazione nel constatare una realtà così semplice eppure così inarrivabile. Posto sotto gli occhi, persino un Oceano risulterebbe invisibile, e Nikolaj sapeva essere davvero cieco, alle volte. Proprio come Ivan.
-Probabilmente, uno Zar che non sappia solo sedere su un trono...-.

Un fiore venne calpestato dal passo imprudente della principessa, e il suo esile stelo spezzato a metà.
Nonostante questo, l'erba splendeva ancora al sole.
Di un verde come non si era visto mai in Russia.





Note:

(6)Leningrado (26 Gennaio 1924 – 6 Settembre 1991), o anche Pietrogrado (31 Agosto 1914 – 26 Gennaio 1924) e San Pietroburgo (6 Settembre 1991) con oltre 4,5 milioni di abitanti (2006), è attualmente la seconda città della Russia per dimensioni e popolazione nonché il porto più importante. È inoltre una città federale russa. Fondata dallo Zar Pietro il Grande presso il Mar Baltico, fu capitale della nazione durante il regno zarista, sede della Corte degli Zar ed oggi è uno dei principali centri artistici e culturali d'Europa.
(7)Palazzo di Alessandro, reggia situata a Carskoe Selo, vicino a San Pietroburgo. Residenza di Nicola II e della famiglia di questi. Il palazzo diventa reggia imperiale sotto spinta della zarina Alessandra, in quanto desiderosa di avere un'intimità propria. Questo "ritiro" creerà dissapori e attirerà sulla famiglia reale diverse antipatie della nobiltà, abituata a ben altri fasti.
(8)La tragedia di Chodynka fu il risultato di isteria collettiva che si verificò il 18 Maggio 1896, nei campi di Chodynka, a Mosca, durante i festeggiamenti successivi all'incoronazione come zar di Nicola II

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Capitolo 5
*** 3. Voi non avete freddo? [Quantità] ***


3. Voi non avete freddo? [Quantità]

 

Nikolaj non si ricordava come i treni potessero risultare tanto tristi - come piccole gabbie che si muovevano in direzioni prestabilite, argini oltre cui non era possibile scappare. Vista nella sua ottica, neppure il fasto del suo treno privato pareva illudere gli sguardi dei presenti, ma era caricato di una quantità non sopportabile di pesantezza e gravità.
Bastava una firma, e quel giorno(9) sarebbe finalmente giunto al proprio termine.
Anche ad alzare lo sguardo dal foglio davanti a lui pareva un'impresa ben difficile. Due uomini lo guardavano quasi credendo che con la sola intenzione la firma del loro sovrano potesse comparire proprio lì, al suo posto.
Nikolaj non ricordava come gli occhi dei suoi sudditi potessero contenere una tale quantità di devastazione, di miseria - forse perché, guardandosi allo specchio, ancora non si capacitava di vedere proprio un russo e non un semplice re.
-Voi non avete freddo?-.
L'ex- Zar volse lo sguardo appena a lato, dove un tremante e sconcertato Ivan guardava la scena e per la prima volta da quella mattina spiccicava parola. Probabilmente, non aveva ancora ben compreso cosa stesse succedendo.
Era accaduto troppo in fretta. Davvero troppo, troppo in fretta, e per una Nazione che si estendeva nello spazio era naturale estendersi anche nel tempo - tra Tedeschi, Austriaci e Ungheresi, Ivan non aveva più saputo da che parte guardare, se chiedere aiuto ad Arthur oppure semplicemente andare a piagnucolare dal suo zar, in preda alla sua medesima crisi isterica.
Ma neanche nelle proprie città Braginski aveva trovato pace.
Sembrava che ci fosse in fermento qualcosa, qualcosa che non veniva dall'Asia e neppure dall'Europa - qualcosa che veniva dentro gli stessi russi, ispirato come il soffio vitale da teorie rivoluzionarie venute da Ovest.(10) La gente parlava, urlava, riempiendogli le orecchie di parole che non comprendeva ma che, eppure, sentiva più forti che mai. Più forti persino degli spari delle baionette(11).
Quantità, quantità di grida nella sua testa. Da uscirne totalmente pazzo.
In tutta questa confusione di voci, Ivan aveva seguito il suo Zar laddove questi l'aveva portato.
In quel vagone dove un poco d'inchiostro avrebbe fatto finire tutto.
E forse per istinto, forse per ricordare a tutti che lui era proprio lì, dove la sua storia si faceva, Ivan aveva finalmente parlato.
Nikolaj gli aveva sorriso triste, quasi pieno di affetto paterno.
-Vuole il mio cappotto?-.
Braginski guardò quel povero vecchio, la lunga penna chiara ancora in mano, in alto.
Si leggeva tutta la stanchezza degli anni e degli avvenimenti - il tempo che, vittorioso, si dichiarava vincitore a ogni ombra sul viso e sul corpo.
La tradizione sarebbe finita con lui, continuando in quel macabro scintillio grottesco delle divise formali dei soviet.
Gli sorrise, cercando di essere sia rassicurante che convincente.
-No, mi accontenterò di stringermi nel mio...-.
Dovette intervenire uno degli uomini della Duma perché l'inchiostro, lentamente e con garbo, facesse il suo lavoro.
-Ora, se vuole firmare l'atto...-.
A Nikolaj non ci volle che qualche secondo per finire il tutto.
 
Quando Ivan riaprì finalmente gli occhi sull'effettiva realtà che sconvolgeva il suo Paese, la quantità di nomi che gli vorticavano in mente si era ridotta all'unità o poco più.(12)
Niente più confusione in testa - niente più Zar, niente più Nikolaj.
Solo, uno straccio rosso e un martello in mano.
Credente, credente di una nuova religione.
 



Note:
(9)Il 14 Marzo 1917 Nicola II decide di abdicare; Il 15 marzo, giorno in cui è ambientata la mia fan fiction, nel suo vagone privato e in presenza di due deputati della Duma, lo zar firma il manifesto dell'abdicazione.
(10)Marxismo, vale a dire socialismo. Marx era tedesco, per questo motivo il "soffio" dell'ideologia comunista viene da Ovest rispetto alla Russia.
(11)Non è tanto una considerazione politica sull'efficacia del socialismo in Russia, quanto una constatazione. E' stato grazie all'ascesa dei bolscevichi che la Russia si è ritirata dalla Guerra.
(12)Di Lenin, di Trosky e di Stalin parlerò avanti più amplamente e nel dettaglio.
 

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Capitolo 6
*** 1. Brilla da là sotto, la Luna? [Nero] ***


My Pacific Villan(1)

"Credo, spero nella pace. Stanno preparando un orribile misfatto, ma noi non ne siamo partecipi"(2)

 

1. Brilla da là sotto, la Luna? [Nero]

 
La melma del Neva(3) si stendeva placida lungo tutto il pelo dell'acqua, ballando assieme alle onde calme che bagnavano gli argini come in una culla - prima avanti, poi indietro; prima avanti, poi indietro.
Un corpo riemerse in mezzo al tutto, più nero della fanghiglia che galleggiava, rendendo il posto più putrido di quanto già non fosse da solo.
Si vide un mantello nero e una faccia totalmente bianca e gonfia, da spettro.
Ivan guardava in silenzio, mentre il fiume trasportava quel che rimaneva di Rasputin e lo depositava ai suoi piedi. Non aveva visto tanto spesso un morto affogato, era un fenomeno abbastanza raro lassù in Russia.
Braginski aveva visto Grigorij annaspare, prima di sparire tra i fluttui, immerso in un'ombra che si stagliava oltre la sua figura.
Era stato quindi risucchiato tutto quanto: ogni parola detta e ogni parola non detta, ogni intenzione e ogni azione, ogni pensiero e ogni gesto, ogni capacità effettiva e ogni buon proposito.
Fissando le stesse labbra che avevano incantato lui e Alessandra, Ivan chiese qualcosa che non avrebbe mai osato rivolgere a chicchessia - ma Rasputin era qualcuno di cui potersi fidare, giusto? Non solo Aleksej(4) gli doveva la vita.
-Brilla da là sotto, la Luna?-.
Non ottenne risposta, le labbra non si mossero né si schiusero più di quanto già non fossero.
Però, gli occhi del mistico si rivolsero direttamente al cielo, e quasi Ivan ne fu irritato, senonché, seguendo proprio la traiettoria suggerita dall'uomo, non poté ammirare la Luna pallida, uscita dalle nubi nere in cielo.
Faceva freddo.
Il corpo dell'uomo si fermò sulla sponda, intrappolato nei capelli e nella barba alle piante morte, più nere che verdi. Non c'era ancora nessuno lì, a prenderlo.
Ivan gli vide le mani al di sotto dell'acqua, pallide e bianche anch'esse, gonfie di acqua. Non trovò la forza di sorridere, almeno quella volta.
Ma si abbassò, piegandosi verso il russo, inclinando lo sguardo alla tristezza.
-Dimmi, brilla là sotto la Luna? Perché se così non fosse sarebbe molto triste...-.
Nessuna risposta, nessuna parola. Rasputin era diventato muto.
Un sospiro, una smorfia di stanchezza. Poi ancora silenzio.
Braginski si alzò dopo qualche istante, lasciando che la Luna illuminasse il suo cammino: avrebbe chiamato qualcuno per portare via quel cadavere lercio e nauseabondo.
 
Bastò una brezza più convinta perché ogni cosa, di nuovo, ricadesse nell'ombra più nera.
 
Note
(1)Villan in quanto, come sempre nella sua vita si è rimarcato, egli è di umili origini. Pacifista in quanto strenuo oppositore della Prima Guerra.
(2)Telegramma del 19 luglio 1914, mandato da Rasputin ai sovrani in riferimento nella Prima Guerra Mondiale
(3)La morte di Rasputin è decisamente degna di nota. Affogato nel Neva, entro il quale era stato gettato, dopo essere stato avvelenato e dopo che gli fu sparato per due volte di seguito.
(4)Ultimo zarevic, unico figlio maschio di Nicola II e Alessandra
 

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Capitolo 7
*** B. Harem ***


RRB - harem
B. Harem








Sadiq aveva sempre provato un forte disagio nel guardare Russia negli occhi.
Ivan era un ragazzino, sia nei lineamenti del viso che nel modo di comportarsi - e di fronte a chi viveva da tanti anni, non poteva essere altrimenti.
Anche quando aveva cambiato abito, dopo la Grande Guerra, non era cambiato nulla se non, forse, il nome con il quale preferiva essere chiamato.
Ivan Braginski rimaneva sempre Ivan Braginski. Il primo nemico a Nord- Est, per Sadiq.
E non era la stessa sensazione che il turco provava nel guardare Arthur, o Francis, o Alfred o anche Yao. Il desiderio di forza e potenza era il medesimo, lo riconosceva, perchè era lo stesso che provava anche lui, nel guardare verso l'Asia o verso la stessa, civile Europa.
Gli occhi di Ivan Braginski avevano quel qualcosa in più che sempre li aveva messi l'uno contro l'altro, a litigare per qualche pezzo di terra proprio sul Caucaso - dove la Turchia si estendeva stanca, come un gatto sonnecchiante, e dove la Russia faceva sentire i suoi sibili da serpe, senza pudore.
Era forse per la familiarità con cui si facevano la guerra, era forse per la consueta rabbia che riservavano l'uno nei confronti dell'altro.
Sadiq credeva che, se mai avesse chiesto a qualcuno, sicuramente avrebbe scoperto di vedere Ivan nella stessa maniera con cui lui lo guardava.
Ma non importava, il vero odio non ha vere ragioni d'essere.
Gli occhi chiari del russo lo squadravano sempre, pieni di desiderio pacato e tranquillo, di chi sa attendere anche mille anni prima di allungare una mano e afferrare braccia, gambe, collo e testa. Lasciandogli provare come la stessa sensazione di una donna qualsiasi all'interno di un Harem. Uno dei tanti, un numero imprecisato sulla pelle di un prigioniero.
Rabbrividiva, ogni volta, davanti a questi occhi chiari.
Rabbrividiva, ogni volta, senza però spostare il proprio sguardo, unicamente spinto dall'orgoglio.

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Capitolo 8
*** 1. Posso uscire, ora? [Armadio] ***


rrb - armadio
My Blody Soldier(1)
"I Romanov non avevano intuito nulla"(2)



1. Posso uscire, ora? [Armadio]




Aveva sentito degli spari, forti e terribili, fendere l'aria per poi creare un silenzio che faceva ancora più male. Jakov aveva detto di non temere nulla, aveva detto di non agitarsi nel caso di rumori del genere. Ma l'aveva detto ai propri soldati e non a Ivan.
Nascosto in quell'armadio, spinto in quella stanza più dalla propria volontà che non da un ordine - Jakov gli aveva proibito l'accesso, ma lui era stato più testardo - Braginski si era acquattato in basso, in un angolo. Si tappava le orecchie, fissando il niente che lo circondava.
Era stato gentile, Jakov. Aveva trattato lo Zar non come uno schiavo ma come un prigioniero. Era stato gentile. Forse per questo che il primo colpo - Ivan l'aveva visto attraverso la fenditura tra le due ante di legno - era partito proprio da lui, arrivando preciso a Nicola.
Lui aveva chiuso gli occhi, Alessandra non aveva avuto neanche il tempo di respirare.
Sebbene nascosto lì dentro, in quell'armadio di cui non ricordava neanche l'esistenza, sentiva chiaramente l'odore di sangue che cominciava ad alzarsi da terra, assieme alla puzza di polvere da sparo.
Ci furono passi nell'immobilità generale, verso di lui. Un russo lo aveva sentito - nel peso che il gesto appena compiuto avrebbe avuto sulla storia di quella Nazione e nei suoi cittadini tutti. A Ivan si strinse il cuore quando vide un'ombra fermarsi davanti al suo nascondiglio, e non riuscì ad alzare il viso da terra quando sentì chiaramente la voce di Jakov rivolgersi a lui, quando ancora le ante erano chiuse.
Pareva gentile, come sempre era stato. Pareva forse anche preoccupato, ma era probabile che ancora non si fosse ripreso dal rinculo forte che aveva fatto vibrare tutto il suo braccio.
Doveva far male, uccidere una persona.
-Braginski?-.
Ivan non tremò nella voce, ma impiegò qualche istante a rispondere. Vide, alzando la testa, gli occhi chiari dell'uomo brillare di una strana luce sinistra.
In mano, aveva ancora la sua arma.
-Posso uscire, ora?-.
L'altro sorrise, lasciando abbastanza spazio perché Ivan potesse uscire da lì e far vedere, ancora una volta, la propria faccia a tutti i russi.
-Potete uscire, mia Russia...-.

Quando le ante dell'armadio si aprirono - con uno scricchiolio che sapeva davvero di vecchio e desunto - parve illuminarsi per la prima volta agli occhi di Ivan un nuovo mondo.
Un mondo che cominciava proprio sulla pila dei cadaveri degli ultimi Romanov.







Note
(1)Semplicemente, Jurovskij fu esecutore materiale dell'eccidio dei Romanov. Da qui il titolo della fan fic a lui dedicata.
(2)Dalla nota di Jurovskij, E. Radzinskij, L'ultimo zar. Vita e morte di Nicola II, pg 443

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Capitolo 9
*** 1. Cosa significa ipocrisia? [Orchestra] ***


My Right Minister(1)



1. Cosa significa ipocrisia? [Orchestra]




Erano in tanti ed era come se parlassero tutti assieme - come un'orchestra che non conosceva spartito o sinfonia alcuna. Anche il posto era adatto, in effetti: il Teatro(2) era grande e spazioso, e sicuramente le sue pareti erano abituate a sentire suoni anche ben più forti di quelli che ora dovevano sopportare. Peccato che, almeno per quanto intuiva Ivan, quei suoni striduli nulla avevano a che fare con le melodie che potevano provenire da una tuba o da un violoncello.
Aleksandr, seduto al suo posto d'onore, era visibilmente teso. Di tanto in tanto le sue mani tornavano ai braccioli delle braccia, stringendo forte il legno scuro della sedia; ogni tanto, invece, andavano al mento, congiungendosi sotto di esso e sostenendo quindi il capo.
Ma la tensione fu massima sul suo viso quando prese la parola un uomo in evidente veste militare, non esattamente giovane, che riuscì a zittire tutti e a esprimersi chiaramente.
Ivan non capì tutti i termini che egli usò, urlando quasi in direzione sua e di Kerenskij - per quanto uomo di cultura, Braginski era più pratico nell'utilizzo della vanga e del rastrello -, ma vide chiaramente il giovane Ministro accanto al suo posto che più passava il tempo più sbiancava dall'indignazione e più i suoi muscoli si tendevano.
-Che cosa sta urlando quell'uomo?-.
Quell'uomo era il Generale Kornilov(3), e Kerenskij lo sapeva bene - l'aveva scelto egli stesso per quel posto che ora rivestiva, con tutta la boria e la sicurezza dei militari. Le sue parole erano sicure, piene di precisa e ferrea volontà. Stava facendo ciò che Kerenskij aveva sempre temuto, ciò che avrebbe per forza di cose incrinato il fragile equilibrio su cui il Governo Provvisorio si basava e proliferava.
Stupidamente, Kerenskij si diede la colpa del proprio fallimento.
Sorrise amaro alla Nazione, senza però rivolgergli direttamente lo sguardo.
-Semplice ipocrisia, signor Braginski...-
Ivan gli si avvicinò con il viso, sussurrando piano - per non disturbare l'attenzione generale che ora vorticava attorno al militare.
-Cosa significa ipocrisia?-
-Significa nascondere nelle parole più significati...-
-Ed è male?-
-Sì, perché il significato di quello che si dice è diverso da quello che si vuole intende...-
Ivan sorrise, guardando il proprio Ministro. Il Generale aveva fatto una pausa, e ora riprendeva il suo discorso mentre ancora tutti gli altri tenevano gli occhi incollati alla sua persona.
Alcuni di loro erano in viso come il Ministro - austeri, pieni di biasimo - ma una buona fetta pareva più spinta a trovare gradevoli, quelle parole insinuanti. Ivan si chiese fondamentalmente il perché.
-E tu, Aleksandr, dici la verità?-.
Lui finalmente lo guardò in viso, sembrava non si capacitasse di tutti quei dubbi. Come se fosse lui, il rivoluzionario!
-Sono un politico! Io gioco con verità e parole?-
-Quindi la tua risposta è no...-
Il gioco di potere così come la linea divisoria tra potere personale e potere politico Ivan non la comprendeva ancora bene - troppo tempo assuefatto dalla corona, credeva semplicemente che certe cose fossero giuste e necessarie, a questo mondo, come assolutamente inevitabili. Di intrighi di palazzo ne aveva già anche visti, per questo conosceva bene quale bramosia spingeva gli esseri umani attorno ad uno scettro o a un simbolo che li legittimasse in tutto e per tutto.
Ma erano nuove le idee, erano nuovi i concetti, era nuovo tutto, e Braginski desiderava semplicemente mettersi di nuovo sul campo.
Kerenskij lo guardò grave, cercando di far intendere con un tono maestoso la gravità della cosa.
-Ivan, lei crede in me?-
Ivan gli sorrise dolcemente, con lo stesso tono sicuro che aveva sempre rivolto a tutti gli uomini della sua terra.
-Credo in chi mi vuol bene e sarebbe pronto a tutto per me...-
Kerenskij si girò verso di lui, pieno di foga in corpo. Dimenticò, per qualche istante, tutto quello che aveva su quella terra, dimenticò persino Kornilov e il suo assurdo discorso, dimenticò qualsiasi cosa. Lui era un russo, e come tale ora si doveva comportare.
-Io sono quel tipo di persona! Questo significa essere un politico!-.
Partì un applauso. il Generale aveva finito il suo discorso, e Ivan ne aveva sentito sì e no una parola e mezza. Poco importava, aveva capito benissimo cosa avesse voluto dire.
Sorrise ad Aleksandr, poggiandogli una mano sulla spalla ancora tremante.
-Tu mi piaci molto, Kerenskij. Vedi di non morire!-.
L'orchestra di voci festanti, attorno ai due uomini, suonò all'improvviso una fanfara maestosa, piena di nuova forza per il futuro - illusione, illusione matrigna di un attimo.(4)









Note
(1)Kerenskij fu Ministro della Giustizia durante il Governo provvisorio; da qui il suo titolo.
(2)Il 12 Agosto 1917 nel Teatro Grande di Mosca, si riunì per volere del Governo, un'assemblea di circa 2000 parsone, scelte dal Governo stesso, poi denominata "Consiglio di Stato"
(3)L'intervento di Kornilov durante il Consiglio fu uno dei momenti culminanti. Egli chiese apertamente poteri dittatoriali allo scopo di salvare la Russia dai bolscevichi rinfacciando al governo di non rifornire a sufficienza l'esercito e di non essere capace di riportare la calma nel paese.
(4)Il Governo Kerenskij cadde quello stesso Ottobre sotto i colpi dei Soviet e della Rivoluzione Russa.

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Capitolo 10
*** 1. Dimenticherò mai questo giorno? [Giornata]] ***


My Clamant Dreamer

"Abbiamo alzato ora la bandiera bianca della resa; innalzeremo più tardi, su tutto il mondo, la bandiera rossa della nostra rivoluzione "(1)

 





1. Dimenticherò mai questo giorno? [Giornata]



Era Aprile(2) e si poteva notare dai cappotti che la gente indossava. Di lana spessa, ma meno spessa che due mesi prima.
Era Aprile - primavera appena iniziata, un nuovo ciclo che affrontava daccapo il proprio percorso - e già aria nuova si poteva respirare, tutt'attorno. Già nuove espressioni era dipinte sui visi della gente.
Ivan era in strada, accanto a lui un uomo camminava lesto dall'aria più che euforica, obbligandolo quasi a correre per stargli dietro.
La gente che incontravano per la via li salutavano in maniera cordiale, sorridendo apertamente e senza nessun imbarazzo. Sulle loro labbra c'era un'aspettativa strana, quella stessa aspettativa che aveva riempito le loro bocche di urla e le loro mani di fazzoletti da sventolare in aria non più di una settimana prima. Ivan se la ricordava ancora, tutta quella gente ammassata al porto(3), e si domandava come fosse possibile che dopo tutti quei giorni fossero ancora così felici.
La Guerra non era ancora finita, di cibo ce n'era davvero poco, e Ivan stesso era stremato da tutto il lavoro che doveva svolgere presso lo Zar e presso l'esercito. Se un attimo prima doveva correre a Carskoe Selo da Nikolaj e il piccolo zarevic ammalato, quello successivo si ritrovava in Ungheria a cercare di non far retrocedere troppo le proprie truppe. La Guerra non era quel tipo di gioco divertente e rilassante che si era aspettato.
Tuttavia, era andato al porto, quel giorno - avevano fatto così tanto rumore, per quel piccolo uomo, avevano cianciato così tanto, gridato così tanto, urlato così tanto che lui era divenuto talmente curioso da non poter resistere.
Confuso tra la folla, aveva visto il vagone arrivare con tutto quell'assurdo strillare di metallo e ferro vecchio. Poi l'aveva visto scendere, e senza rendersene conto aveva cominciato a urlare assieme alla folla.
Non era alto, non era magnifico, non era neanche nobile - ma il piccolo Vladimir aveva parole in gola più forti ed in corpo più energia che il suo stesso esercito.
-Dimenticherò mai questo giorno?-.
L'uomo lo guardò, sorridendo. Tronfio di una fiducia incondizionata, trattava la Nazione quasi fosse un suo pari.
-Non credo proprio, Russia! La Rivoluzione non è cosa che si dimentica!-.
Ivan lo guardò perplesso, come era abituato a guardare chi non portava titoli o nomi importanti. Non che non avesse mai avuto a che fare con gente di umile discendenza, tuttavia pochi si erano comportati da folli, durante la sua storia. Quell'agitazione che permeava da tutto lo rendeva inquieto, eccitato e sull'attenti.
-Quelli della Duma si arrabbieranno...-.
L'altro rise, senza essere troppo canzonatorio - o almeno, provandoci.
-Che si arrabbino pure! La loro ira non cambierà il giusto corso delle cose!-.
Ivan sorrise incerto, facendo un passo più lungo degli altri per arrivargli ancora a fianco.
Dalla tipografia alla casa dell'uomo c'era un bel pezzo di strada, in effetti.
-Io credo che tu abbia ragione, Vladimir...-.
L'uomo si fermò, e lo fissò gravemente per qualche attimo.
-Chiamatemi Lenin, Russia.-
-Fa tanta differenza un nome o un altro? Io ti ho conosciuto come Vladimir...-.
L'uomo assunse un'aria il più solenne possibile - la stessa aria che aveva avuto giorni prima, di fronte a tutti quei contadini venuti ad acclamarlo. Era impossibile, così, non starlo a sentire, pendere dalle sue labbra neanche fosse divenuto un messia disceso dal cielo.
Russia era turbato dalla sua figura, intimamente: neanche lo Zar gli faceva questo effetto.
Ma non si ribellò, non si allontanò. Di colpo, ogni cosa sparì, e il suo piccolo mondo divenne di quell'uomo.
-Ma ora sono Lenin! Russia, deve imparare quale sia la forza delle parole, perché è proprio contando su tale forza che noi vinceremo!-.
Allora Ivan gli concesse un sorriso e un cenno del capo accondiscendente, pensando che alla fin fine aveva perfettamente ragione. E che magari anche lui poteva cambiare nome(4), come aveva fatto Vladimir.
-Farò più attenzione, Lenin...-.

Per quanto la storia si faccia da secoli, per quanto la storia non si interessi dei singoli uomini ma delle semplici popolazioni, Ivan imparò l'importanza delle piccole cose - come giornate, attimi, parole.
E nella storia rossa di quegli anni, ci furono giorni che non gli fu possibile più dimenticare.








Note
(1)Lenin commentando la firma del trattato di pace di Brest-Litovsk del 1918; citato in Antonio Pugliese, Alta marea, Editrice Sud, Napoli, 1955
(2)Il 7 Aprile 1917 Lenin pubblica le "Tesi di Aprile", contenente un programma in dieci punti per i bolscevichi.
(3)Il 3 Aprile Lenin giunge a Pietrogrado attraverso il famoso "vagone piombato", tornando dall'esilio in Europa.
(4)Riferimento all'URSS.

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Capitolo 11
*** 2. Come mi chiameranno, allora? [Dimensione] ***


2. Come mi chiameranno, allora? [Dimensione]




Ivan aveva sempre avuto una vaga idea di cosa la gente comune intendesse per compleanno.
Gli uomini avevano un inizio - quindi necessariamente anche una fine, una ben sancita dimensione all'interno dei secoli - e per ricordarsi il passare del tempo, forse per scandire meglio qualcosa che non poteva essere quantificato, segnavano date e avvenimenti, periodi e intervalli. Quello più comune era, appunto, il compleanno: decretava l'inizio, l'inizio di qualcosa di importante o comunque notevole.
Per Braginski il concetto del tempo non poteva essere uguale a quello degli uomini, lo intuiva egli stesso.
La sua non era stata una vera e propria nascita, così come quella di Kiev non era stata una vera e propria morte. In realtà, Ivan pensava che alla base di tutto stava la diversa dimensione del vivere, tra uomo e Nazione. Un uomo viveva senza la sua Nazione, ma una Nazione non poteva vivere senza i suoi uomini, frutto com'era della loro volontà, dei loro sogni e della loro determinazione.
Era anche vero che gli uomini potevano cambiare, che l'aspetto preponderante di una società era mutevole così come era mutevole il concetto di norma e di legge. Ma era l'anima a rimanere la stessa, il nocciolo più intimo, e questa legava uomini e Stati in un vincolo unico che non si sarebbe potuto mai spezzare.
Per questo Ivan non si arrabbiò né forse si sorprese quando Vladimir gli annunciò che, da quel giorno(5), il suo nome non era più "Russia" ma sarebbe stato un altro, più grandioso e magnifico, che meglio si adattasse alla dimensione nuova che aveva assunto, nel resto del mondo. In realtà lui già ne era al corrente, un altro uomo glielo aveva detto, ma sapeva quanto Vladimir ci tenesse a tenere un rapporto speciale con lui, come se fosse un maestro spirituale - e in effetti, negli ultimi anni, era stato davvero così. Ivan non faceva alcuno sforzo nell'accontentarlo in quelle piccole cose, rendendosi conto solo dopo di come un singolo uomo potesse avere più importanza di un intero popolo.
Nella penombra, quindi lo guardò un po' perplesso, pieno di latente curiosità.
-Come mi chiameranno, allora?-.
Lenin sorrise, nel buio della sua piccola stanza privata, lontana dalle glorie di Capo di Partito, e come se brindasse con un calice invisibile, alzò la mano sinistra al cielo e fece un gesto strano - di saluto.
-Unione Sovietica! Ecco come ti chiamerai!-.
Un nuovo nome e una nuova data di compleanno. Forse tutta quella euforia e quella fretta di gioire serviva a nascondere ciò che ieri Ivan aveva dovuto subire(6), ma la nuova URSS si sentì orgogliosa della propria nuova immagine, baldanzosa in quel vestito nuovo che ora stava indossando.
Aveva pianto, versando lacrime sulle proprie croci(7) e su divise bianche di neve(8), ma ora avrebbe riso, conscio di essere unico al mondo.
Vladimir tossì, piegando un poco il braccio irto nell'aria e tornando a quella forma tanto umana che aveva assunto negli ultimi giorni.(9) Ivan non provava pena per quell'uomo, ne aveva visti morire troppi per riuscire ancora a sentire compassione. Certo era che provò tristezza, più di quanta se ne sarebbe aspettata: la forza del sogno di Vladimir aveva segnato peggio di ogni cicatrice il corpo di Braginski, e questa era una cosa che neppure l'enorme dimensione del tempo tutto avrebbe potuto mai cancellare, nella nuova Russia.
Ivan si alzò dal proprio posto, trafficando con il proprio nuovo cappotto per qualche istante. Dopo qualche minuto, riuscì a tirar fuori da una tasca interna niente di meno che una bottiglia di vodka chiara e due bicchieri - metodo russo per guarire ogni malanno sia del corpo che dello spirito. Con un sorriso, gliene porse uno, per poi riempirlo a metà. Il suo si accontentò di riempirlo tutto.
Un brindisi, vero, sollevando in alto mani e anime.
-All'Unione Sovietica!-
-Al nuovo te!-.





Note
(5)Precisamente il 30 Dicembre, ovvero il compleanno di Ivan Braginski secondo Himaruya.
(6)Riferimento ai fatti più sanguinari dei cosiddetti Terrore russo e Comunismo di Guerra.
(7)Riferimento al massacro dei clericali e di tutti gli uomini legati a culti religiosi, attuato dallo stesso Lenin nel 1922
(8)Riferimento alla Guerra civile tra soviet e "armate bianche", fedeli all'impero zarista.
(9)Il 25 Maggio 1922 un ictus che comporta un parziale deficit del lato destro del corpo lo colpisce, come primo attacco della sua malattia; solo il 2 ottobre comincia a tornare all'attività ma il 16 dicembre subirà un secondo attacco, il 23 dicembre riprende forze e lucidità ma le sue condizioni si aggravarono progressivamente, dal 6 marzo 1923 non è più in grado di comunicare, fino alla completa paralisi ed  alla morte il 21 gennaio 1924

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Capitolo 12
*** C. Rischio ***


C. Rischio






Il colpo secco dell'accetta divise in due, con forza precisa, il piccolo tronco di legno massiccio, lasciando che le due metà cadessero poi a terra, tra le neve candida.
Tino si sta preparando per affrontare l'Inverno(1). Accanto a lui, una piccola pila di tronchi ancora da tagliare si ergeva silenziosa, assistendo con contegno alla scena.
Un altro tronco venne diviso, velocemente, mentre una nuvoletta di vapore opalescente lasciava la bocca del finlandese per condensarsi in aria e poi svanire nel nulla - assieme al gelo che non si vedeva ma si sentiva.
Tino si stava preparando per affrontare un altro Inverno. Appoggiato alla parete di legno della sua baracca - dove sarebbe partito quel giorno stesso per andare a cacciare qualche alce(2) per i mesi a venire - stava il suo fucile dalla scura impugnatura di mogano, perché non era ancora finito il tempo in cui poteva dirsi abbastanza tranquillo da uscire senza averlo con sé.
L'indipendenza era una cosa che rubava i sogni alla notte, eppure preferiva mille volte l'insonnia che sopportare ancora il peso di un qualche freddo padrone.(3)
Un altro tronco viene diviso, velocemente, anche se casa Väinämöinen sarebbe stata per qualche tempo priva di ospiti: il suo padrone non era dell'idea che fosse bello farsi trovare impreparati.(4)
Quando Eduard sarebbe tornato da lui, avrebbe saputo come accoglierlo nel migliore dei modi.
Tino si stava preparando per affrontare un ulteriore Inverno. Si era portato alcuni vestiti appresso - non aveva potuto fare a meno di portare anche quelli vecchi, assieme alla storia dei tempi che furono, assieme al dolore di mille e più giorni passati sotto il gioco di dominatori diversi. Per quanto amore gli occhi freddi di Berwald potessero provare, per quanto amore gli occhi terrificanti di Ivan potessero dimostrare. E le mani, e le carezze, e i momenti passati assieme.
Tino aveva più paura in quel momento di correre il rischio(5) di non sapere più chiamare il luogo giusto casa.
Non era scappato quando Raivis, Toris e lo stesso Eduard erano stati ripresi dal signor Braginski - con quella stupida scusa, arrangiata per caso, di volerli proteggere con le sue forti braccia. Solo, aveva protetto sé stesso, sapendo quanto dovesse essere stato pronto nel momento dell'effettivo bisogno.
Si strinse nel proprio giaccone, guardando appena lontano - la lama del suo strumento era conficcata nel legno, in profondità.
Niente, al di là del grigio della nebbia. Intravide, forse, un sorriso benevolo, tra i fiocchi candidi che cadevano come neve dal gelo.
Rabbrividì, continuando a tagliare i pezzi di tronco.

L'Inverno alla fine arrivò.
E, portando con sé i rumori delle bombe che cadevano come impazzite, si espanse fino a Helsinki, facendo gelare tutto.(6)






Note
(1)Metaforicamente parlando, faccio riferimento al Generale Inverno e quindi anche a Ivan. Non metaforicamente parlando, si sappia che gli Inverni in Finlandia sono terribili, arrivano a diverse decine di gradi sotto zero.
(2)Una cosa tipicamente finlandese, la caccia alle alci.
(3)La Finlandia, come Nazione Indipendente, è nata solo nel 1917. Prima fu soggiogata a Danimarca, Svezia e Russia.
(4)Riferimento alla paura effettiva della Nazione riguardo il fatto che, dopo l'invasione tedesca della Polonia, infatti, Stalin, con la scusa di voler difendere gli Stati baltici dalle mire di Hitler, aveva occupato militarmente l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. Successivamente questi stati, dopo la parentesi dell'occupazione nazista, furono accorpate all'interno dell'ordinamento giuridico dell'Unione Sovietica.
(5)Il tema del "rischio", nella mia fanfic, si lega implicitamente a quello della "preparazione al rischio".
(6)Riferimento esplicito al cosiddetto "Incidente di Mainila", dove si effettuò un bombardamento da parte dell'esercito dell'URSS del villaggio russo di Mainila (nei pressi di Beloostrov), per il quale il governo sovietico accusò la Finlandia, dando iniziò così alla cosiddetta "Guerra d'inverno".

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Capitolo 13
*** 1. Tu vedi qualcosa? [Foschia] ***


My Quick Fugitive(1)

"La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla di ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore."(2)

 

 

1. Tu vedi qualcosa? [Foschia]

 

Stava calando la notte, sull'antica Russia.
Quel che ancora si scorgeva del sole, oltre la nebbia bassa delle praterie, stava lentamente scivolando al di là dell'orizzonte, verso l'Europa, oltre Mosca e il confine più estremo.
Dalla terra battuta dei campi si innalzava un rumore di quiete, un profumo di contadino e di lavoro. Non molto era cambiato da quando lo Zar era caduto - ma forse, era ancora troppo presto per vedere davvero qualche risultato in tutte le regioni della Nazione.
Pazienza, ci voleva pazienza. La fretta non è solo cattiva consigliera: erige castelli di fumo che non durano se non al minimo soffio di vento.
E ciò che Lenin vide grande, aveva bisogno di valide e massicce fondamenta.
-Tu vedi qualcosa?-.
Ivan interruppe il momento di meditazione, rubando lo sguardo di Lev al tramonto. Nonostante la sorpresa, l'uomo conservava quell'aspetto distinto che la divisa militare non poteva far altro che esaltare ancora di più.
Lev aveva negli occhi ogni colore della battaglia.
Non sorrise, burbero e pratico come sempre era stato.
-Non molto, oltre la foschia...-.
Ivan gli si fece vicino, incrociando come lui le braccia al petto e guardando lontano.
Attorno a loro, soldati di ogni colore e livello si muovevano come piccole e operose formiche in ogni dove, cercando di dare un certo tipo di ordine alle loro movenze. Non sarebbe passato molto che avrebbero dovuto far vedere sul campo quanto valeva il loro addestramento e la forza di ogni loro credo.
Lev non aveva timori a riguardo; seppur non sapesse tutto, quel che sapeva lo sapeva bene.
Prese i propri occhiali tra le mani, ci alitò sopra e li pulì con un fazzoletto candido preso dal taschino. E mentre non vedeva nulla - nebbia attorno al suo capo - si rivolse ancora a Ivan.
-Tu per caso sai dove sono?-.
Ivan sapeva a chi si stava riferendo.
Ai nemici - o semplicemente a quelli che, per un motivo o per l'altro, ora non stavano dalla parte loro e dei rossi. Tutti erano nemici, tutti erano amici: Braginski preferiva chiamarli con altri appellativi, prima di rischiar di fare confusione.(3)
Il giovane gli sorrise, facendo vagare lo sguardo sulle sue mani e sul movimento che stava compiendo, lentamente. Lui vedeva benissimo ogni cosa, a differenza di tutti loro.
-Non c'è uomo che calpesti la Russia di cui non sappia...-.
Lev inforcò le lenti e le rimise al suo posto; parlò chiaro e preciso, come al solito.
-Molto comodo, essere una Nazione...-.
L'altro alzò le spalle, senza in realtà aggiungere una gretta indifferenza alla passione di quelle parole: non era toccato dalle critiche di un uomo, quanto piuttosto avrebbe potuto essere irritato da quell'eccessiva baldanza. Tuttavia, sebbene gli occhi di Lev non vedessero bene e non riuscissero a giudicare bene,(4) le sue parole erano qualcosa di incredibilmente fuorviante e seducente, persino per uno come Ivan.
Per questo, lui conservava la simpatia necessaria per quell'ometto saputo.
-Dipende dai punti di vista. Ho pianto più lacrime di quante voi tutti assieme possiate mai fare...-.
L'altro sbottò, rivolgendosi a lui con una semplice occhiata.
-Ma esisti e sei ancora qui! E qualsiasi cosa succederà domani, sarai sempre qui!-.
-Questa tu la ritieni una cosa bella?-.
Il Commissario(5) ci impiegò parecchio tempo per rispondere, a quel punto.
Ma il rancio chiamava anche per lui, e i suoi soldati stavano urlando già da qualche minuto, per richiamarlo.
Così, ebbe un'altra occasione per essere più spiccio e pratico possibile.
-Foschia o meno, tu sei in grado di vedere oltre. Non sai quanto vorrei avere questa tua capacità!-.
Giusto o sbagliato. Retto o storto.
Ragione o torto.
Alla fine, l'errore di Ivan poteva essere anche perdonato. L'errore degli uomini - l'errore di Lev - proprio no. E la foschia fisica e ideologica non avrebbe aiutato nel giudizio del singolo,(6) nell'immediato come nel futuro prossimo.
Braginski socchiuse gli occhi, guardandolo gentile.
-Sono belle parole, le tue...-.
Ivan sorrise, mentre Trotsky lo prendeva sottobraccio e lo portava via, all'interno della tenda - dove un odore di zuppa fece dimenticar loro persino tutto il resto.



 

Note

(1)Trotsky è "fuggitivo" in quanto uno dei primi - e sicuramente più in vista - perseguitati dal regime attuato da Stalin.
(2)Tratto dal testamento di Trotsky, scritto poco prima di essere ucciso.
(3)Parlo qui della Guerra Civile che si è svolta in Russia subito dopo la rivoluzione, che vide la parte "bianca" filo-zarista contro la parte "rossa" bolscevica.
(4)Mi riferisco a Stalin, la cui amicizia con Trotsky fu evidentemente rivalutata da questo quando Stalin lo mandò prima in esilio e poi lo fece uccidere da sicari in Messico, dove si era rifugiato.
(5)Trotsky fu eletto Commissario del Popolo alla Guerra durante la Guerra Civile, carica che gli permise di essere l'artefice della vittoria rossa contro la parte bianca.
(6)Fu attuato nella prima URSS stalinista un forte anti-trostkismo ideologico, in quanto oppositore e promotore di idee in netto contrasto con la linea politica del Partito.

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Capitolo 14
*** 2. Mi lasci da solo, qui? [Zaino] ***


2. Mi lasci da solo, qui? [Zaino]




Fretta: la si poteva leggere in tutto, nella persona di Lev.
Anche solo nelle parole che usava verso la propria moglie - con la quale era sempre stato un marito gentile e caro - traspariva la tensione del momento, come un morbo che tutto alterava rendendolo marcio e putrido.
Paura: la si poteva leggere in tutto, nella persona di Lev.
Lui che era sempre stato un uomo passionale ma mai impulsivo, ora non sembrava badare tanto a cose fini e delicate come la ragione e la giusta misura. Gli avevano dato poco tempo, e lui riusciva a contare ogni singolo attimo in cui i suoi piedi ancora toccavano suolo russo.
Rabbia: la si poteva leggere in tutto, nella persona di Lev.
Perché non c'è niente di più svilente per un uomo che crede vedere crollare i propri sogni a causa dell'immane forza di un sogno ben più potente del proprio. Non pensava di aver torto - non l'avrebbe mai pensato, neanche in punto di morte si sarebbe ridotto a rinnegare sé stesso - ma trovava frustrante dover sottostare a quella maniera al proprio più terribile nemico.
Ivan, grazie a lui, aveva capito di dover star più attento in casa che al di fuori di essa, ma in quella situazione, mentre lo guardava mettere quanto poteva in uno zaino piccolo e malandato, muovendosi velocemente, certo Braginski non si sentiva il cuore di fargli notare l'ovvio.
Fu preso, ad un certo punto, dallo sconforto.
-Mi lasci da solo, qui?-.
Lev si fermò - un solo misero istante - per guardarlo in viso, triste, quando aveva ancora le mani nel piccolo contenitore, atte a infilare in quanto meno spazio possibile una giacca particolarmente preziosa di ricordi e di storia personale.
Poi riprese il proprio lavoro, sbottando con un certo fastidio.
-C'è sempre Iosif,(7) qui con te...-.
Lo zaino fu chiuso con un suono secco di cerniera tirata, ma prima che Ivan riuscisse a dire qualcosa per controbatte, prima che Ivan formulasse il solo pensiero dell'irritazione di fronte a tutto quello, Lev gli sorrise sotto i baffi, pieno di selvaggio furore, e lo guardò esattamente come quando aveva cavalcato per lui di fronte alle Armate Bianche dello Zar.(8)
Il tempo passava, ma c'erano cose che non potevano essere costrette in un piccolo spazio, neanche con l'esilio.
-Ma non ho intenzione di abbandonarti a lui, non ti preoccupare...-.
Ivan chiuse la bocca, senza sentire più la necessità di aggiungere alcunché. Non c'era bisogno, non a quel punto.
Lev riuscì ancora una volta a borbottare, pieno di risentimento che sfociava, quasi, nella riverenza nei suoi confronti:
-Rimango sempre un russo, e russi lo si è fino alla propria morte!-.
Ivan si chinò verso di lui, con le mani dietro la schiena. Sembrava un inchino, ma in realtà non lo era affatto: Ivan non si sarebbe mai messo al pari di un suo abitante. Si stava semplicemente abbassando, perché il sorriso sulle sue labbra fosse più sincero e così risultasse al cuore di chi lo guardava.
Lev, dopotutto, gli stava simpatico.
-La vedrò prima della fine, signor Trotsky...-.
Lev sorrise davvero, prima di incamminarsi verso la porta d'ingresso e quindi uscire.
-Questa è una promessa, mia dolce Russia!-.(9)









Note
(7)Stalin, ovviamente.
(8)Riferimento alla Guerra Civile.
(9)Promessa ovviamente non mantenuta, in quanto Lev Trotsky morirà in esilio in Messico, assassinato da una spia stalinista.


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Capitolo 15
*** D. Pistacchi ***


D. Pistacchi

 

«La aurora nos unió sobre la cama,
las bocas puestas sobre el chorro helado
de una sangre sin fin que se derrama.

Y el sol entró por el balcón cerrado
y el coral de la vida abrió su rama
sobre mi corazón amortajado. »(1)

 

Antonio inspirò una boccata di fumo grigio, mentre la testa del suo sigaro si colorò di rosso fuoco - carminio, accesissimo.
Il suo fu un lungo respiro, interrotto solamente dalla mano che si alzò dal fianco e recuperò il mozzicone scuro, buttandolo poi a terra, sotto la suola ruvida della scarpa.
Un altro cadavere che diventava cenere sotto la destra, un altro cadavere che impotente si spegneva di fronte alla sinistra.(2)
Lui sorrise, rilassato pur in mezzo alla polvere, lisciando il lungo fucile che teneva tra le mani, assolutamente certo di potersi permettere ancora qualche minuto di tranquillità senza che qualcuno gli venisse a chiedere aiuto.
Soldato o brigante che fosse, non sarebbe stato disposto ad ascoltarlo prima di allora.
-Spagna, ho fame...-
Antonio non riuscì a sorprendersi completamente quando, vestito di tutto punto e con ancora il berretto a oscurargli gli occhi e lo sguardo, scorse proprio dietro un angolo buio la figura massiccia di Ivan Braginski.
Era da giorni che gli stava col fiato sul collo, più o meno come un'ombra tremendamente impicciona.
Eppure, Antonio riuscì a non farglielo pesare - non troppo, almeno nelle intenzioni iniziali.
Gli sorrise, invitandolo con un gesto della mano ad andargli vicino. No, non l'avrebbe morso quella volta.
-Sei anche qui, Russia?-(3)
Ivan lo guardò circospetto, nascondendo la mani in tasca.
L'insistenza che rivolgeva alla sua persona era velata dal sospetto di ricevere un altro sgarbo - com'era successo non che poco tempo prima, a Barcellona e nella stessa Madrid(4) in cui ora si trovavano entrambi.
Oh, il verde degli occhi di Antonio era diventato così cupo, quei giorni...
Braginski però si fece avanti, di un sol passo, senza perdere l'opportunità di puntualizzare su un punto focale.
-Non mi chiamo più Russia. Sono sempre stato qui...-
Antonio gli sorrise, accondiscendente.
Lui, di bambini e infanti, ne aveva già trattati a sufficienza per capirne almeno lontanamente i processi mentali, per questo sapeva perfettamente che non bisognava dare troppo corda a certe cose.
Frugò nella tasca del proprio abito, cercando con energia qualcosa. Non lo guardò in faccia, distratto, mentre continuava a parlargli.
-Mi segui, forse?-
Non lo vide sorridere, incuriosito dal suo movimento così frettoloso.
-Proprio sempre, Spagna...-
Un altro passo, nel silenzio rilassato che intercorse tra i due.
Madrid, attorno, era silenziosa come non lo era stata da parecchio tempo. Eppure era guardinga, protesa verso quell'attesa tipica degli animali braccati che si arrischiano ad abbeverarsi.
Spagna non trovò quello che cercava nella propria tasca, tuttavia fu con un altro sorriso che estrasse da lì un sacchetto ruvido, appena pesante.
-Guarda, ho questo per te. Ti piacciono tanto, non è vero?-
Lo buttò a Ivan che riuscì a prenderlo al volo.
Nell'aprirlo, gli scivolarono sul palmo tanti piccoli frutti dalla pelle rugosa e dal colore verde malato.
Ivan sorrise, gentile, in direzione di Carriedo, cominciando a mangiarne alcunii.
-Sono buoni i pistacchi... Mi piacerebbe mangiarli sempre!-
L'altro lo guardò intenerito per qualche istante, prima di guardare il vuoto e perdersi in un cielo sgombro di nubi - in alto, almeno il sole splendeva ed era unico, senza la minima ombra a ridicolizzare la sua perfetta unità.
-Sarebbe bello, sì...-
Alla fine, Ivan cedette.
Con un altro passo gli fu abbastanza vicino da sedersi e rimanergli accanto, mentre continuava a mangiare i suoi pistacchi con appetito.
La prima volta che li aveva assaggiati non era stato tanto tempo addietro - ed erano buoni, erano stati buoni nell'immediato momento.
Antonio non seppe mai dire con certezza quale fosse il motivo per cui Ivan era così propenso ad aiutarlo, in un modo tutto suo che ricordava tanto il capriccio esagerato di un bambino che pretende d'avere amici. Non che la cosa potesse dispiacergli, non che fosse infelice, ma il sospetto pungeva. Certo, per poi essere scacciato via dal solito sorriso ottimista.
Come si poteva sospettare di quel sorriso tanto puro e innocente? Spagna non sapeva come perdonarsi di una tale svista, davvero.
Ad un certo punto, Ivan si rivolse ad Antonio con un sorriso ampio. Le sue mani, ormai, erano vuote.
-Spagna, tu vorresti diventare uno con me?-(5)
L'altro sorrise, alzandosi da terra e riponendo per qualche istante il fucile. Comincio ad aprirsi la camicia povera, buttando via il berretto scialbo che aveva indossato fino a quel momento.
-Ah, magari a questo ti risponderò un'altra volta, che ne dici?-
Braginski si ripulì le mani dal sale, senza considerare la figura di Antonio che, pian piano, si stava rivestendo.
-Sì, aspetto la tua risposta...-
Quando fu pronto, Antonio si inchinò a terra e riprese in mano il proprio fucile, imbracciandolo saldamente.
Salutò con un sorriso nuovo Ivan, inclinando appena il cappello della divisa franchista che indossava.
-Ora scusami, ma devo proprio andare. Mola(6) non è un uomo tanto paziente...-
Anche Lovino, anche Lovino stava aspettando: non era proprio il caso di farlo attendere, specie dopo quanto era successo a Guadalajara.(7)

 









 

Note

(1)Garcia Lorca, Noche del amor insomne. Lorca fu vittima di uno dei primi rastrellamenti effettuati durante la prima fase della guerra civile spagnola, per questo motivo mi sembrava efficace l'idea di mettere proprio una delle sue poesie ad aprire questo capitolo.

(2)Ho insistito sulla contrapposizione di "destra" e "sinistra" in quanto quella che rappresento è una guerra civile, una frazione all'interno della nazione spagnola, e non tanto per effettive questioni politiche.

(3)Alla guerra civile spagnola partecipò, in termini di contingenti e di appoggio politico palese, anche la neo nata Unione Sovietica.

(4)Riferimento alle altre battaglie svoltesi durante la guerra civile, dove la parte repubblicana soffrì gravi e pesanti attacchi dalla parte franchista.

(5)L'URSS, con l'appoggio alla Spagna repubblicana durante la guerra civile, dimostrò al mondo di aver rinunciato al progetto iniziale de "il socialismo in una sola nazione", cominciando a modificare la propria politica estera in maniera espansionistica.

(6)Generale franchista a capo dell'offensiva messa in atto il 31 Marzo per riprendersi Bilbao.

(7)Battaglia presso Madrid dove il contingente Italiano/fascista fu brutalmente sconfitto.

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Capitolo 16
*** E. Viola ***


E. Viola


 

Un'esplosione proruppe in un botto assordante ad alcuni metri di distanza, costringendo Ungheria a coprirsi il viso e la testa con il braccio nudo, riparandosi in malo modo dalle schegge vaganti.

Il drappo viola(1) che, solo, la copriva, scivolò piano lungo il fianco, lasciando scoperto un poco di corpo in più.

Sanguinava ancora, copiosamente.

-Non ti devi preoccupare, fra poco finirà tutto...-

Elizabeta guardò Ivan in volto, cercando una qualche malizia nei suoi lineamenti che potesse odiare, a cui potesse dare la colpa di tutto quello. Non ne trovò - non aveva mai trovato niente, sul volto apatico di quel bambino troppo cresciuto.

Con un sospiro stanco e sconfitto, appoggiò la schiena al carro armato(2) dietro di lei, cercando di pulirsi da tutta la fuliggine e la polvere che le insozzavano il viso.

Sentiva i cingolati proseguire, inarrestabili, nonostante le urla e le preghiere della gente. La piazza, ormai, era piena solo di cadaveri.

Braginski prese un lembo del drappo e le coprì le spalle, premuroso solo a quel punto, come verso quell'animale che ha tentato la fuga e, ripreso, deve essere invogliato a restare con qualche carezza e alcune attenzioni dolci. Prima, le aveva strappato i vestiti di dosso con ferocia, e la mano della donna ricordava ancora nel palmo squarciato la violenza con cui aveva usato colpirla, armato della sua falce e del suo amato martello.(3)

Adocchiò di lato, con la coda dell'occhio: la sua padella non era così distante da essere irraggiungibile. Ma era sporca di fango e di terra, di sangue e di fluidi non chiari - di Piazza, per una volta. La donna fu tentata di allungare la mano per prenderne il manico, resistere ancora a quello sguardo così benevolo da far irritare anche la più calma delle creature viventi. L'orgoglio bruciava in gola, raschiando con crudeltà. Ma nello stringere le dita, si ritrovò solamente a gemere con più forza.

Quindi, Elizabeta riprese a piangere, e il fuoco delle case e dei palazzi tutt'attorno divenne quasi più forte all'improvviso. Lente e tranquille, in un paradosso che vede l'anima pura dimorare con calma persino all'Inferno, le lacrime lavarono lo sporco, cadendo a terra.

E Ivan le sorrise, rassicurante, prendendole il viso tra le mani.

-E' tutto finito, mia cara...-

La baciò piano, in un tocco fugace che sapeva di ritrovato - la pecorella smarrita, al suo rientro, non era così bella che nei ricordi soffusi di chi la cercava con affanno.

L'avvolse quindi nel telo scuro, sollevandola in un abbraccio possessivo e stretto, come le sbarre fredde di una gabbia.

-Ora possiamo tornare a casa assieme!-

Elizabeta lo vide sorridere, mentre si stringeva con le mani ancora rosse alla divisa perfetta che indossava. Singhiozzò forse quando si accorse di non sentir più nulla, al di là del dolore.

 





 

Note

(1)Il viola è, nella liturgia sacra, uno dei colori del lutto.
(2)Parlo della "Rivoluzione Ungherese" del 1956, dove ogni controversia fu sedata con il pugno di ferro, e dove il detto "Stalin schiacciò la rivolta" non fu solo metaforico ma supportato dall'uso di carri armati.
(3)La falce e il martello sono, ovviamente, i simboli del Comunismo che Ivan arreca con sé.

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Capitolo 17
*** 1. Dopo di questi ne verranno ancora? [Ultimo] ***


My Cruel Moustache(1)
« Stalin è morto.
Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità.
Il Capo dei lavoratori di tutto il mondo si è spento ieri sera a Mosca alle 21:50 »(2)

 

 

1. Dopo di questi ne verranno ancora? [Ultimo]

 

Le dita nude della mano si strinsero intorno all'impugnatura dell'oggetto, producendo il suono tipico del cuoio duro strofinato da pelle altrettanto dura.
La lunga frusta ancora conservava sul proprio corpo i segni del sangue altrui - sangue di non uno, non due, non tre, troppi uomini per essere contati.
Ivan aveva guardato in basso per tutto il tempo, mentre davanti a lui sfilavano gli uomini arrestati in quei giorni, rei di non aver confessato con le buone quanto dovevano e presso chi dovevano.(3) Uno dopo l'altro, gridando in egual maniera e strepitando tutti quanti - alla stessa maniera dei maiali sgozzati. Ivan non si era divertito affatto a far schioccare la frusta sulle loro schiene. Neppure quando si era ritrovato davanti dei Cechi, degli Ucraini o uomini di qualsiasi altra nazionalità che non fosse la sua.(4) Dopo qualche tempo, si scoprì con una certa sorpresa di essere semplicemente estraneo alle loro invocazioni.
Il giovane arrivò stremato vicino a Iosif(5), e lo guardò a fatica in faccia, con espressione più stanca di quella di un vecchio che non vede l'ora di farla finita. E poche volte, nel corso della propria vita, una Nazione aveva avuto il privilegio di sentirsi tanto spossata dentro senza davvero comprendere il motivo di tale sentimento.
Era strano, Ivan, ma così sarebbe stato sicuramente molto più utile a Stalin che avente una vera e propria coscienza.
Braginski quindi si rivolse al Segretario(6), con la speranza in cuore di aver visto l'ultimo di quei carcerati agonizzanti. L'indifferenza era una cosa, ma neppure Ivan sapeva fino a quanto il sorriso pietrificatosi sulle sue labbra avrebbe resistito lì, imperturbabile a qualsiasi cosa esterna.
-Dopo di questi ne verranno ancora?-.
Stalin lo guardò solo di sfuggita, notando con un certo disgusto l'oggetto che ancora teneva tra le mani: la sola idea di avere qualcosa di loro vicino a sé lo riempiva di stizza.
-Solo il necessario!-.
Ivan lo guardò sconcertato, conscio che quella non era propriamente una risposta alla sua domanda.
Cercò di essere gentile, ma col viso macchiato di sangue era davvero un po' difficile risultare educati. Si rassomigliava più a dei pazzi privi di controllo.
Ivan, d'altra parte, cercava solamente una ragione per poter far bene il suo lavoro, come qualsiasi altro russo.
-Cosa significano queste tue parole?-.
Iosif lo guardò ancora, senza però riuscire a resistere per più del tempo della prima occhiata, e al medesimo modo si rivolse ancora a lui.
-Che non ti fermerai finché non ti darò ordine di farlo!-.(7)
Ci fu silenzio, per qualche istante, rotto solamente dal cadere impavido di una goccia di sangue dalla frusta al pavimento.
No, Ivan non accettava questa sentenza - non la capiva, non la comprendeva, e come un bambino, quindi, non l'accettava di principio.
Iniziò a lamentarsi, borbottando sottovoce, sconsolato.
-Non voglio, non voglio più...-.
Come si contano le pecore quando si vuole a tutti i costi prendere sonno, così Ivan aveva contato tutte le persone che erano state processate - e poi, sotto i suoi ferri e sulle sue forche, erano morte.
Stalin gli prese la spalla con la mano dalla presa salda e lo scuoté dalla sua dormiveglia, non senza usare una certa energia.
Lo voleva sveglio, lo voleva pronto - per il Partito, per il Partito!
-Questo è necessario. Bisogna far pulizia, anche all'interno del Partito. Questo è necessario!-.
Necessario. Necessario. Necessario.
Anche a ripeterlo all'infinito, nella propria testa, Ivan non comprendeva il senso di quelle parole.
E come un bambino Ivan si ribellò alla cosa, cercando di levarsi dal proprio cuore quel peso che sentiva sempre più incombente, che non comprendeva e per cui aveva paura. Era stanco, e non aveva più voglia di giocare a quell'assurdo gioco pieno di grida. Gli stava dando più noia di quanto non si sarebbe mai aspettato.
Ed era tutta colpa di Iosif.
-Perché allora non li frusti tu? Non li torturi tu? A me fanno male le mani!-.
L'altro lo rimproverò aspramente, quasi fosse logico e naturale cosa differenziava Stalin da Ivan.
Ruvido, come il cuoio consumato del manico della frusta.
Ruvido, come la pelle lacerata dell'ultimo testimone obbligato che davanti a un Ivan inconsapevole aveva urlato una colpa fittizia.
-Non essere sciocco! Io non posso, ho altri impegni! Non sono un aguzzino!-.
Braginski provò a ribattere, aprendo la bocca alla replica ma riuscendo solamente a stringere di più la propria frusta. Spaesato di fronte a tanta violenza.
-Io...-
-Vanja(8), ora torna al tuo lavoro!-.
Ivan ingoiò saliva a vuoto, guardando una maschera di cera al posto di un viso umano.
Intravedeva nell'ombra una ragione per la quale tornare a sorridere - perché il sangue sa essere più caldo dello stesso sole e la devozione sa essere più bella e profumata degli stessi girasoli.
Intravedeva nell'ombra, e questo lo fece ghignare, lasciandosi indietro ogni gentilezza troppo saputa.
Nell'aria, schioccò la frusta, imitando un crudele gesto che, di lì a qualche minuto, sarebbe stato ripetuto fin troppe volte.
-Tutto questo è necessario... Per il Partito...-.

L'ultimo, l'ultimo uomo, alla fine di tutto, fu proprio Stalin.







 

Note
 

(1)"Baffone" era il soprannome con cui ci si riferiva a Stalin, specie in Italia.
(2) "L'Unità", 6 Marzo 1953, prima pagina.
(3)Parlo, essenzialmente, delle Grandi Purghe. Con questo termine si intende una vasta repressione nell'URSS della seconda metà degli anni trenta, voluta e diretta da Stalin dopo l'omicidio di Kirov [1], per epurare il partito comunista da presunti cospiratori. La repressione, eseguita in gran parte per via extragiudiziale o comunque con procedimenti sommari, colpì anche semplici cittadini, non iscritti al partito, considerati ostili al regime.
(4)L'espansionismo russo si estese anche ad altre Nazioni, tra cui le Repubbliche Baltiche, l'Ucraina e la Bielorussia. Ovviamente, le grandi purghe, estese al concetto di "pulizia dell'opposizione politica in ogni sua forma" comprende anche persone di questa nazionalità.
(5)Stalin, di nome, fa Iosif.
(6) Stalin, nel 1922, fu nominato Segretario Generale del Comitato Centrale.
(7)E' noto come Stalin avesse un carattere grezzo e piuttosto grossolano, nonché borioso e altezzoso, cosa che lo mise anche in contrapposizione allo stesso Lenin, durante la vita di questi.
(8)Diminutivo russo del nome Ivan.

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Capitolo 18
*** 2. Era davvero così necessario, tutto questo? [Salsiccia] ***


2. Era davvero così necessario, tutto questo? [Salsiccia]



 

L'odore di marcio che aveva impregnato l'aria aveva riempito i polmoni di Ivan e lì si era stanziato, avvinghiandosi a ogni singola cellula del corpo perché il ricordo netto di quanto visto non fosse dimenticato giammai.
Quel giorno, presentandosi davanti a Stalin per fare il suo rapporto, di ritorno dalle terre occidentali della sorella maggiore, Braginski puzzava di morto come ben poche altre volte.
Iosif non si trattenne dal palesare una smorfia quasi disgustata, senza domandarsi a quel punto donde veniva tutto quel fetore - non valutandone la causa ma solo la provenienza, in un atto d'indifferenza tremendo che non sfuggì all'altro russo.
Per eliminare i kulaki come classe non è sufficiente la politica di limitazione e di eliminazione di singoli gruppi ma è necessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti economiche della sua esistenza e del suo sviluppo.(9)
Così Iosif gli aveva detto, direttamente, e così lui aveva creduto. Lenin stesso aveva parlato, tempi prima, di livellare ogni incongruenza, di rendere uguali tutte le differenze.
Ma che fossero tutti disgraziati come ora erano davvero i kulaki, Ivan stentava a crederlo.
Non riuscì a trattenersi - forse nel ricordare il volto della sorella stravolto dalla fame e dalle lacrime, o forse quella maledetta salsiccia di carne umana(10) che una donna gli aveva offerto, vaneggiando per la strada, quando stava tornando a casa dopo l'ennesima requisizione di grano.
-Era davvero così necessario, tutto questo?-.
Non avrebbe pianto, così come non era riuscito ad andare dalla sorella e abbracciarla, mentre lei batteva a terra i pugni e chiedeva un po' di pane, solo un po' di pane.
Non era riuscito a darglielo, e ora non aveva intenzione di emettere alcun lamento d fronte al proprio Commissario.
Quello sbottò, rimescolando sulla propria scrivania i fogli che stava leggendo. Altri rapporti, altri fastidi, altra gente che si lamentava e altra gente che moriva.
Noia, noia, noia.
A Ivan non serviva leggere per sapere tutte quelle cose - lui semplicemente le sentiva dentro di sé - ma era anche chiaro quanto i due non fossero di natura simile.
Non lo guardò neppure.
-Di sicuro non era necessario che tu venissi con questa puzza nauseabonda sui vestiti! Cambiati che devi ancora lavorare! Ho una faccenda da farti sbrigare, giù in Europa. Non puoi certo presentarti così di fronte alle altre Nazioni!-.
Ivan chinò il capo dopo qualche secondo di silenzio, ricordando a malapena il sapore di carne buona sulle labbra. All'improvviso, gli venne fame.
-No, certo che no...-.



 

Note

(9)J.Stalin, Questioni di leninismo, Roma, 1945. Per "kulaki", qui si intendono gli Ucraini, chiamati così in quanto etichettati come "classe meglio abbiente" dal Partito Comunista sovietico e per questo vessati.
(10)Ovviamente, che fosse davvero esistita una cosa del genere è impensabile - e la stessa Wikipedia la mette come fonte non accertata - ma io l'ho personalmente usata nella dimensione in cui testimonia a che livello fossero giunti gli Ucraini per la fame e la carestia - Holodomor, 1932-1933 - indotta dalla repressione russa.

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Capitolo 19
*** 3. Cosa vuoi tu, da loro? [Inghilterra] ***


3. Cosa vuoi tu, da loro? [Inghilterra]

 

Nessun russo che si rispettasse poteva affermare, senza ombra di dubbio, di amare l'Inghilterra.
Se fosse astio indotto oppure semplice e veritiero, se fosse risentimento per qualche fatto dimenticato e passato o paura per quello che sarebbe venuti dinnanzi, se fosse timore per una nuova corrente di pensiero e di vita che dall'Est estremo aveva corso per tutta l'Asia e non si era fermata neanche di fronte alle porte sbarrate dell'Europa civilizzata, Ivan Braginski non sapeva davvero dirlo - così come neppure un qualsiasi inglese avrebbe definito con una parola precisa cosa mai lo spingesse a contrapporsi con così evidente tenacia di fronte al colosso russo.
Il fatto era che, ancora prima che tutto fosse iniziato, l'Inghilterra era lì, a contrapporsi con forza e a tentare di rallentare il passo col macigno della sua disapprovazione.
Era successo in Giappone(11), era successo con Lenin(12), era successo con le Armate Bianche(13). Era successo un po' troppe volte, sia per Ivan sia per Stalin.
Ora erano davanti a loro, consci di una medesima influenza che avrebbero potuto esercitare l'uno sull'altro. Era come se, dopo tanto tempo, fossero riusciti a guardarsi in faccia nascondendo tutto il ribrezzo che provavano reciprocamente.
Ma, dopo tutto, non si poteva parlare esattamente di odio, tra quelle due Nazioni - chi vive così a lungo è difficile che riesca a provare sentimenti tanto forti come quello, e sia Arthur che Ivan lo sapevano davvero bene.
Forse, era davvero fastidio, come se Arthur si fosse accorto che quel sassolino nella scarpa che era la Russia ora fosse diventato un po' troppo grande per essere ancora ignorato, mentre Ivan aveva ben chiaro in testa come quell'insignificante isoletta avesse praticato un'egemonia su scala mondiale e per questo sarebbe stato suo preciso compito ridimensionare le sue mire.
Non potevano più ignorarsi, nel bene come nel nel male.
Braginski sorrise quando Kirkland, senza nascondere una smorfia nell'incrociare lo sguardo con lui, si chinò verso il proprio Primo Ministro(14) e gli borbottò qualcosa.
La Conferenza doveva ancora iniziare, e loro si trovavano in quella stanza tutti assieme, come avendo modo di studiarsi vicendevolmente, quasi fossero stati animali da caccia. Non era contata la prima volta che si erano riuniti(15) - tutti loro, precisamente tutti loro - a sedersi su sedie forse troppo vicine le une alle altre. Ogni volta era una sfida. Ogni volta, una lotta per scorgere punti deboli presso i quali attaccare e quindi affondare senza pietà.
I due russi si raccolsero in un angolo discreto, mentre attorno a loro la gente parlava allo stesso modo guardingo e confabulava alla stessa maniera sospettosa.
E mentre Stalin guardava altrove - più o meno verso ciò che concerneva l'America e tutto il suo bagaglio economico - il cappello di Ivan si mosse in basso, coprendogli gli occhi e quindi lo sguardo chiaro.
-Cosa vuoi tu, da loro?-
-Quello che è giusto per me e quello che è proporzionale alla mia forza!-.
Sotto quei baffoni, si poteva intuire un sorriso arrogante, così tipico della persona di Iosif che, davvero, Braginski non ci fece caso.
Voleva solo capire il perché si trovassero tutti lì piuttosto che sul campo di battaglia a dar mazzate sul capo a Germania e a suo fratello.
Ma Stalin, per quanto inizialmente reticente, aveva cambiato idea ben presto, e gli aveva detto quanto fosse importante avere altri alleati potenti al di là del Reno(16) e quanto, in realtà, avere qualcuno a Est con cui accerchiare il nemico non fosse una cosa così disonorevole come sembrava.
Ivan gli aveva creduto - era diventato bravo, in questo - ma non per questo era diventato meno curioso.
Per esempio, non si era mai spiegato come mai l'Inghilterra avesse sempre avuto l'irresistibile tentazione di seguirlo in ogni suo passo. Lo trovava imbarazzante, se non affascinante, come quesito.
A Teheran l'aveva seguito ovunque, neanche fosse stato lui il tedesco e le sue spie avesse cospirato alla loro vita.(17)
Guardò ancora Arthur, che gli rispose con un'occhiata di quelle che non promettono buone cose - per nulla. Gli sorrise, apparentemente affabile.
-E che cosa vogliono loro, da te?-
-Quello che si sono meritati con il sudore della loro fronte e il sangue dei loro soldati!-.
Stalin era come lui. O meglio, lui era come Stalin.
Trovavano entrambi divertente quell'affaccendarsi immane di tutte le altre Nazioni di fronte a quanto era successo dentro i confini della Russia.
Sembrava quasi che una nube rossa fosse apparsa a oscurare i cieli d'Europa - e chi l'aveva sempre comandata ora tremava di paura, nel timore dell'arrivo di una pioggia biblica di sangue e pestilenza.
-Siamo quindi di natura uguale, noi e loro?-.
Stalin rise, cattivo, poggiando quindi una mano sulla spalla di Ivan. Lo guardò, quasi commiserandolo.
-Ah, non credo proprio Ivan! Ti pare che così sia?-.
Lui fece una smorfia e si allontanò un poco, con un passo indietro.
Con la coda dell'occhio, stava ancora fissando Kirkland.
-Non lo so, io poco li sopporto, non spreco tempo a pensare a queste cose...-
-Fai bene, fai davvero bene! La nostra forza è ben superiore alla loro! Senza di noi, la Germania dominerebbe l'intera Europa!-
-Ma perché allora ci vogliono male, Stalin?-
-Hanno paura, Ivan. Perché non accettano ancora che saremo noi, i loro padroni! Ma non ti preoccupare, a ogni cosa il suo tempo...-.
Una sirena suonò, il borbottio finì quasi all'improvviso. La Conferenza stava iniziando.
A quel punto ogni uomo divenne politico, ogni rancore messo in un angolino per far spazio a qualcosa di incredibilmente più ingombrante: l'orgoglio di poter pretendere qualcosa.
Così, per un attimo il sorriso di Ivan parve veramente sincero e quello di Arthur davvero gentile. Salvo però, forse, stringere troppo la mano nel mezzo, proprio lì dove ogni cattiva intenzione si sarebbe dovuta trasformare in un più costruttivo progetto collettivo.

 

 



 

 

Note

(11)Faccio ovviamente riferimento alla guerra Russo-Nipponica già citata, svoltasi all'inizio del Novecento.

(12)Inghilterra e altri paesi Europei avevano osteggiato il ritorno di Lenin in patria in quanto temevano che egli, come abile politico, avrebbe ritirato la Russia dalla Guerra e quindi avrebbe lasciato scoperto il suo fronte contro i Tedeschi.

(13)L'Inghilterra aveva finanziato le Armate Bianche contro quelle Rosse durante la guerra civile in Russia, temendo apertamente l'avanzata comunista.

(14)Winston Churchill, capo di Governo del Regno Unito presente alla conferenza di Jalta.

(15)La conferenza di Jalta è la seconda di tre conferenza che i tre Stati - URSS, Regno unito e USA - discuteranno nel corso della Seconda Guerra mondiale. Prima ci fu la Conferenza di Teheran (28 Novembre - 1 Dicembre 1943) e poi ci fu la Conferenza di Postdam ( 17 Luglio - 2 Agosto 1945).

(16)In poche parole, al di là della Germania.

(17)Riferimento all'Operazione Long Jump, nome in codice di un complotto fallito orchestrato nel 1943 dalla Germania nazista per eliminare i "Tre Grandi" (Stalin, Winston Churchill,Franklin Delano Roosevelt) durante la loro partecipazione alla conferenza di Teheran.

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Capitolo 20
*** F. Cartoccio ***


F. Cartoccio

 

 

Come un cartoccio, brucia il corpo umano, avvolto in un telo candido e da lingue di fuoco rosso.

Come un cartoccio, l'organismo implode in se stesso, secca la pelle e incenerisce gli organi all'interno. E diventa nero, nero di morte, nero di nulla.

Come un cartoccio, che scricchiola quando lo si tocca con mano titubante, Adolf Hitler(1) lasciava la terra in nuvole di grigio fetore marcio.

 

Dietro la schiena, Berlino occupata strillava di voci straniere - festanti di gioia, festanti di vittoria. Qualche scoppio di fucile e qualche clacson allegro, mentre persino le strade facevano silenzio.(2)

Davanti al viso, i due fratelli tedeschi erano in ginocchio, entrambi. E con il contegno dei sconfitti onorevoli non guardavano per terra ma direttamente il suo viso, aspettando con dignità il successivo colpo alla testa tanto violento da far loro perdere i sensi.

Gilbert sanguinava già dalla tempia e dalla fronte: era stato il primo che Ivan aveva attaccato, con tutte le sue forze.

Ma invece di compiacersi nell'ammirare chi l'aveva fatto così tanto penare, da Stalingrado(3) in avanti, il signor Braginski cercava qualcosa, ansioso nell'animo.

Non avrebbe consegnato nelle mani dei suoi pochi soldati vivi solo una bandiera da bruciare e qualche casa malconcia, sopravvissuta per miracolo alle bombe e ai carri armati inglesi e russi.

Voleva Adolf - l'orgoglio stesso di quella Germania colorata di nero.

I giornali stranieri avevano detto che era morto, che si era suicidato in un buco scavato nella terra assieme a una donna e a qualche ufficiale.(4) Anche se così fosse stato - perché lui non ci credeva e non ci voleva assolutamente credere, in alcun caso -, era desiderio di Ivan vederlo, sconfitto nella sua limitatezza di piccolo uomo.

Perché la faccia se la ricordava, e bene(5). L'espressione spavalda ma pratica e spiccia anche - per certi versi ricordava quella di Iosif(6), se non che il tedesco si limitava nel palesarsi pubblicamente tanto indegno.

Voleva, ora, ricordare anche la sconfitta dipinta nei suoi occhi. Per sempre, così da poterla raccontare.

Sorridendo cordiale, si chinò in avanti a chiedere ancora a Gilbert, mentre un soldato tirava la fune che legava i suoi polsi in una morsa stretta, con quella sua vocetta acuta e tanto fastidiosa che sembrava fatta apposta per irritare le altre persone.

-Vorrei sapere dove si trova il signor Adolf...-

Oh, se Gilbert non rise fu solo per miracolo - o per la paura che, invece di una punizione diretta a lui, si potesse eseguire la suddetta sul corpo già martoriato del fratello.

Si limitò a ghignare, reduce da secoli di guerra contro Ivan, da secoli in cui aveva potuto comprendere quale fosse il limite della pazienza del russo.

-Sei arrivato tardi, Russia! Quel nanetto baffuto è già bello che morto! Non c'è più, l'ho ucciso io! Non potrai neanche giocarci come volevi! Pensa un po': ho bruciato il suo corpo pur di non farlo prendere da te! Divertente, vero?-

E quindi, aveva potuto comprendere anche quale fosse il limite da varcare con ampio passo.

Non ebbe tempo di sfoggiare ancora quella espressione indomita che un calcio lo colpì in pieno viso, facendogli sputare sangue e un dente.

Dunque, era vero quanto Churakov(7) aveva sostenuto, quando gli aveva riferito di aver trovato il corpo del Fuhrer.

Ivan non impiegò un solo attimo in più per riflettere sul da farsi. Avvicinandosi alla finestra della piccola stanza, affacciandosi quindi da questa e vedendo - dall'alto di tre piani di palazzo - quanto sciamava in piazza e quanto accadeva per le strade, riuscì lo stesso a sorridere.

Avrebbe issato una bandiera rossa, entro quel pomeriggio. Proprio lì, in quell'edificio così alto.

Sarebbe stato più che sufficiente come simbolo di quella disfatta totale.

Si rivolse ai suoi uomini, guardando loro e al contempo i due prigionieri, ancora chinati a terra.

-Facciamo vedere a questa feccia quali sono le esatte conseguenze di una guerra contro i russi...-

Aveva un ghigno sadico in viso - uno di quelli che usa come suppellettile l'eleganza e l'educazione, marcio così internamente da far venire il capogiro - e Ludwig tremò di paura quando lo costrinsero ad alzarsi e a dirigersi fuori, subito davanti a Ivan.

La sentiva dentro, la distruzione di Berlino. E come il fuoco che divora la pelle ma non uccide l'uomo, percepiva il dolore lambire tutto il suo petto.

Terribile, peggio di una tortura.

-Su, andiamo. C'è tanto da vedere...-



 

 

Note

(1)Adolf Hitler (Braunau am Inn, 20 aprile 1889Berlino, 30 aprile 1945) è stato un politico austriaco naturalizzato tedesco,Cancelliere del Reich (Reichskanzler) dal 1933 e Führer della Germania dal 1934 al 1945. Fu Führer del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), noto con il nome abbreviato di Partito Nazista, e il principale ideologo del nazionalsocialismo.
(2)La battaglia di Berlino fu lo scontro finale del
teatro europeo della seconda guerra mondiale. A partire dal 16 aprile1945, l'Armata Rossa sferrò il grande attacco sulla linea dell'Oder per distruggere le forze tedesche poste a difesa del cuore della Germania e conquistare la capitale del Reich; dopo scontri molto aspri, dure perdite per entrambe le parti e alcuni disperati tentativi di resistenza delle raccogliticce e disomogenee forze tedesche, i sovietici, in netta superiorità numerica e di mezzi terrestri e aerei, riuscirono a portare a termine la loro missione, a distruggere o catturare il grosso delle forze nemiche ed a circondare e conquistare Berlino (2 maggio 1945).
(3)Con il termine battaglia di Stalingrado (in
russo: сталинградская битва[?], traslitterato: Stalingradskaja bitva, intedesco Schlacht von Stalingrad) si intendono i duri combattimenti svoltisi durante la seconda guerra mondiale che, tra l'estate del 1942 ed il 2 febbraio 1943, opposero i soldati dell'Armata Rossa alle forze tedesche, italiane, rumeneed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd), sul fronte orientale.
(4)Hitler, il 30 Aprile 1945, durante la Battaglia di Berlino, si suicidò assieme all'amante con un colpo di rivoltella.
(5)Riferimento al patto Molotov-Ribbentrop.
(6)Iosif Stalin.
(7)Ivan Churakov, capo della SMERSH, trovò il corpo del Fuhrer nel Fuhrerbunker.

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Capitolo 21
*** G. Tornello ***


G. Tornello(1)



 

Uno a uno.
Ci si metteva in fila in maniera ordinata, aspettando il proprio turno, senza credere di poter andare avanti senza gli altri o di arretrare lasciando qualcuno indietro.
Ivan guardava la metropolitana sfrecciare in un tunnel nero, sparendo nell'ombra arrecando con sé tutte le luci che la illuminavano. Andava più veloce dei cavalli, andava più veloce dei treni. Sembrava un bruco, che mangiava la terra senza però risputarla fuori una volta digerita. Non capiva ancora se gli piaceva davvero o meno, se l'esaltazione del momento doveva essere considerata come fondata oppure era solo frutto della novità.
Ma almeno era utile.

Uno a uno.
Ci si poteva guardare in faccia l'uno all'altro, a questa maniera. E che tu fossi magro, che tu fossi grasso, che tu fossi alto o fossi basso, uomo o donna, bambino o vecchio, invalido o meno.
Ivan era salito sulla metropolitana, dopo aver aspettato pazientemente il suo turno dietro un giovane con la stampella. Lui non aveva più la gamba, ed era stato un problema quando aveva dovuto superare il tornello - prima la gamba artificiale, poi lui supportato da più mani. Braginski non aveva detto niente, troppo curioso anche solo per essere impaziente. E aveva sorriso, come un moccioso, quando finalmente l'aveva vista fermarsi davanti a sé.
In pochi c'erano assieme a lui. I russi non amavano le novità - erano diffidenti, come animali in gabbia, rispetto a ogni nuovo elemento che si palesava ai loro occhi. Prima giudicavano, poi magari accettavano.
Ma Ivan doveva dare almeno il buon esempio, perché sarebbe stato più semplice così che tartassarli di percosse sulla schiena. C'era ancora un'insana fiducia che i russi provavano nei suoi confronti - almeno a giudicare da quanti ancora non fossero scappati da lui, a gambe levate.
Per quanto occidentale, la metropolitana era una cosa che avrebbe potuto far loro piacere.

Uno a uno.
In una massa non si riconoscono gli sguardi della gente, che rifuggono nella forza di chi crede che cento sono meglio di dieci, mille sono meglio di venti. Tutti uguali, in una fila che livella persino l'orgoglio.
Ivan si aggrappò con forza al palo di sostegno che era stato piantato in mezzo al vagone, guardandosi attorno con aria curiosa. C'erano i sedili a lato, ma era sicuro che non sarebbe riuscito a stare abbastanza fermo da rimanere seduto. C'era, nell'aria, odore di ferro, e dovette strizzarsi le orecchie quando, alla fermata successiva, la metropolitana si fermò: faceva fin troppo rumore, per i suoi gusti. Ma guardandosi attorno, nel vedere il nome della fermata appena raggiunta, si accorse di aver passato ben più di due isolati nel giro di pochi minuti.
Sorrise, tutto contento.

 

Uno a uno.
In quel posto dove l'individualismo pareva l'ultima delle opzioni possibili, l'uguaglianza di ogni uomo veniva ribadita dal rumore meccanico - sempre identico, sempre uguale a sé stesso - che nel passare si produceva, scattando nel meccanismo gli ingranaggi giusti.

 




 

Note
(1)I tornelli furono utilizzati nei trasporti pubblici russi a partire dal 7 Novembre 1958 - agli inizi della Guerra Fredda - esclusivamente per controllare gli accessi al sistema metropolitano sotterraneo di Mosca.

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Capitolo 22
*** 1. Tutto bene? [Bicchiere] ***


My Revolutionary Player(1)

 

 

1. Tutto bene? [Bicchiere]

 

 

Garri deglutisce, poggiando il bicchiere mezzo vuoto accanto alla scacchiera - proprio lì, dov'è il suo posto.

Ha occhi soltanto per i suoi pezzi, e non sente il naturale silenzio che gli si è creato attorno come un fastidio, qualcosa che potrebbe seriamente stonare in tutto quello se non fosse che chiunque, tra i presenti, ha il terrore solamente di respirare troppo forte.

Non è una cosa che si vede tutti i giorni, quella. Persino Ivan, che di partite di scacchi ne ha viste a bizzeffe negli ultimi anni, riesce a percepire cosa significhi una scena simile.

Deep Blue(2) resta fisso, in silenzio, mentre Garri pensa alla sua prossima mossa. Contando l'ultimo, è da quasi dieci minuti che rimane immobile in quella posizione, con lo sguardo puntato proprio sulla sua torre, le mani appoggiate al mento.

Almeno contro Anatolij(3) ogni tanto sorrideva, mandando qualche messaggio spavaldo al proprio avversario - sempre stato così, Garri, esattamente come la sua tattica di gioco: pronto all'azione, in procinto di cambiare il mondo con una semplice mossa del proprio cavallo - ma davanti a quel suo avversario non muove le labbra né scandisce parole. Quasi sia una macchina egli stesso.

E gli occhi del mondo sono lì, puntati sul suo indice e sul suo pollice. Specialmente il mondo russo - specialmente il mondo americano.

Ma quando Ivan vede il bicchiere di Kasparov completamente svuotato dall'ennesimo sorso dell'uomo, prende la brocca dell'acqua e lo serve, in silenzio, cercando di non alterare per nulla il corso veloce che porta allo srotolamento mentale di tattiche e di mosse.

Così Spasskij(4) gli ha sempre descritto la cosa - il perché gli scacchisti rimangano immobili a fissare nel vuoto per così tanto tempo prima di allungare la mano e di muovere la giusta pedina. Così Ivan ha sempre creduto, anche dopo che il suo campione era stato battuto.

Niente, del mondo degli scacchi, si può dire definitivo. La morte di un pedone non implica la morte di chi lo muove. anche se Boris non è esattamente della stessa opinione - ma Ivan lo capisce, quanto l'umiliazione freni le mani e irriti la mente, rendendola incapace.

Garri è ancora lì, a guardare una casella vuota sul campo. Neppure l'acqua nel bicchiere si muove, cristallina e limpida come la vuole lui.

Finalmente, Garri si muove - la pedina avanza, e lui può alzare lo sguardo mentre il pubblico ricomincia a respirare.

Sembra quasi inutile chiederlo: Kasparov sorride appena, cercando di non sembrare troppo ottimista nel bel mezzo di una partita. Ma Ivan è lì lo stesso, accanto alla sua persona con ancora la brocca in mano.

-Tutto bene?-

Garri si volta verso la sua Nazione, vedendola con gli occhi spalancati di chi è curioso ma non osa palesarlo. Perché impugnare un bastone e uccidere fisicamente una persona è molto diverso che piegare l'orgoglio di un intero Popolo restando seduto e composto sopra una sedia scricchiolante.

Nonostante tutto, neppure Ivan si è abituato all'emozione di una guerra in miniatura.

Garri sorride, prendendo il bicchiere tra le dita e porgendolo gentilmente a Braginski. Pare abbia il fiatone.

-Ho solamente un po' sete, grazie...-

Deep Blue, dietro di lui, pare pensare velocemente - al suono freddo di qualche bip incolore.

 

Note

(1)Kasparov ha fatto parte attivamente dell'opposizione politica nell'URSS e lo è nella Russia moderna di Putin.
(2)Deep Blue era un computer prodotto dall'IBM progettato per giocare a scacchi, che disputò due partite - una vinta e una persa - con il Campinone del mondo in gara Kasparov
(3)Anatolij Karpov, storico avversario di Kasparov
(4)Anche egli scacchista russo, sconfitto da Robert Fischer in uno storico scontro durante la Guerra Fredda

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Capitolo 23
*** H. Raggi X ***


H. Raggi X

 

 

Buio, attorno. La Luna si vedeva oltre il vetro spesso della cupola che copriva la testa, immersa in un placido mare scuro, a navigare tranquilla mentre il tutto le vortica attorno.
Un sorriso contento - entusiasta - si allargò sul viso di Alfred, mentre con il dito indicava l'oggetto da cui si era appena allontanato.
-Ivan, vieni qui! Corri! C'è una cosa che devi vedere!-
Ivan sollevò appena lo sguardo dalle carte sotto le sue mani: ne aveva aperte tante, su tutto il pavimento, giammai stanco di varcare i confini dell'umano attraverso la conoscenza di quel profondo nero che era lo Spazio.
Senza esitazione, arrivò accanto all'americano, guardando nel telescopio cosa mai ci fosse di così interessante che lui avesse rilevato.
Il segnale captato rivelava, alla vista allenata ed esperta del russo, una coppia di nane bianche.
Ivan sorrise, senza volgere lo sguardo ma mantenendo ben fissi gli occhi sulla lente.
-Che belle...-
Alfred si rivelò come sempre tronfio anche solo nel tono, mentre gonfiava il petto, felice della scoperta. C'erano voluti parecchi mesi, prima di avvistare la coppia di stelle, e ora che finalmente era riuscito a rilevarle, voleva che anche il russo riuscisse a mirarle con la giusta calma.
D'altra parte, oltre a essere orgoglioso delle proprie capacità naturali, era anche contento.
-A te sono sempre piaciute tantissimo, le nane bianche!-
Ciò che non mancava a Ivan era proprio la teoria, lo studio profondo e minuzioso che aveva fatto di tutto.
Era nella pratica che, forse solo per sfortuna, marciava dietro ad Alfred, con passo sempre incalzante.
Infatti Braginski piegò leggermente il sorriso all'ingiù, guardandolo come se avesse appena detto una sciocchezza - la stessa aria di sufficienza che normalmente mostrava a chi non era neppure degno di stargli appresso.
-Beh, è perché sono molto belle...-
Alfred gli diede corda, senza notare l'incrinatura polemica nella voce di lui.
-Sì! Quando sono in due sembrano ballare assieme!-
Ivan si lasciò trasportare dal suo evidente entusiasmo, divertito a sua volta.
Le nane bianche, quale meraviglioso esempio di armonia naturale.
-Vorticano, attratte l'una dall'altra...-
Alfred mimò in maniera efficace - tremenda - l'impatto vertiginoso e mortale tra i due asteroidi, a quel punto, neanche fossero aeroplanini da guerra.
-E poi si schiantano addosso, alla fine!-
Alla fine, le mani planarono in basso, cadendo nel vuoto.
Ivan ci restò male, a vedere le sue mani inermi, quindi le prese e le sollevò ancora, cercando di dare una valenza morale alla loro degna fine.
Tenero, dolce, come chi ha preso troppo a cuore la questione per riuscire a rinunciare alla metafora che si cela dietro parole dirette.
-Quando hanno capito che è bene farla finita...-
Ci fu un attimo di silenzio.
Attorno, ogni cosa rimase immobile, ad aspettare.
Ci fu un'espressione stranita sul viso di Alfred, nel raccapezzarsi di quanto stava accadendo.
-Ivan...-
-Sì, Alfred?-
Ma solo per qualche secondo, giusto l'attimo per dare l'illusione.
Poi il sorriso ebete e tronfio tornò a trionfare sul viso giovane dell'americano.
-Gli eroi non uccidono: gli eroi salvano!-
Ivan tentennò appena, prima di lasciare le sue dita con un sospiro lungo. Tornò quindi al telescopio, dove ancora stavano - immobili in un'immagine vecchia di giorni - stelle bianche e splendenti.
I raggi x, alla fine, erano stati quella meraviglia in grado di far diventare tutto un poco più piccolo - un poco più umano, intimamente.
-Non c'è niente da salvare, Alfred...-
Alfred lo guardò, con una sola punta di rammarico nella voce.
-Ne sei davvero sicuro?-
L'altro sorrise, nel volerlo rassicurare e allontanare al tempo stesso.
Loro si sarebbero uccisi a vicenda, illuminando l'universo con un'esplosione di luce silenziosa.
Sarebbe stato bello, potersi sentire stanchi come due stelle che hanno condiviso un'intera esistenza.
Ivan soffiò, prima di tornare a guardare lontano nel tempo e nello spazio.
-Sì...-

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Capitolo 24
*** 1. Ti ricorda forse qualcosa? ***


My Free Politic(1)

«Oggi molti Paesi socialisti stanno cercando le forme del passaggio ad una qualità nuova della loro vita e al consolidamento della società sulla base dello sviluppo del potenziale della democrazia socialista»(2)

 

 

1.Ti ricorda forse qualcosa? [Jeep]

 

 

Non capitava tanto spesso che Ivan mettesse piede in terra straniera di sua volontaria sponte - o quantomeno, che lo facesse con il chiaro intento di non attaccarne e sopraffarne le genti o umiliarne i politici.
Michail, però, sembrava così interessato a tutto quello che era davvero difficile dirgli di no, anche solo una volta.
Lui era diverso, e non quel tipo di diversità che faceva paura alle menti semplici, ma quel tipo di diversità investita da una magnificenza e una autorità senza nome.
Aveva solcato il mare dell'Oceano, andandogli dietro, fino a giungere in quella terra proprio in mezzo tra lui e l'America - forse, Islanda era nata apposta per questo, come barriera invisibile che segnava il confine ideale tra lui e Alfred.
Fu affascinato per qualche istante da questa sua stessa supposizione, almeno finché non vide apparire, sulla strada, macchine in lontananza.
Non era tanto che gli americani amassero il ritardo, era piuttosto che i russi veneravano l'anticipo. Per questo Gorbacev aveva così insistito per arrivare sul posto a quell'ora, neanche fosse stato l'ospite egli stesso.
In piedi davanti all'edificio adibito al loro incontro - in piedi, ad aspettare, assieme a Russia e al silenzioso Islanda - guardava con singolare apprensione quell'orizzonte che si faceva sempre più vicino.
Politici, portaborse e militari.
Ivan ebbe quasi un singhiozzo di sorpresa quando vide quella macchina - proprio quella macchina - rallentare nel piccolo spiazzo di fronte alla scalinata, vomitando poi persone in divisa.
A casa sua le jeep ancora non erano arrivate. Troppo americane, per i gusti orientali russi. Troppo occidentali, per quel sentimento di tradizionalismo bigotto che sempre aveva caratterizzato ogni strato sociale dell'URSS.
-Ti ricorda forse qualcosa?-
Nella piccola folla che si stava radunando, a pochi metri da lì, Michail riconobbe l'uomo per il quale era venuto.
Nella piccola folla che si stava radunando, a pochi metri da lì, Ivan riconobbe la Nazione poco discreta per la quale aveva fatto la fatica di ingoiare ogni arroganza.
Reagan sorrise ad Alfred, in un'intesa complice che univa solo Nazioni e i loro Primi Ministri.
Gorbacev, tuttavia, non conservava la minima esitazione quando si rivolse alla sua Russia, adocchiando i mezzi di trasporto che venivano schermati da tutti quei corpi.
-Qualcosa sì... Ma è quel qualcosa che noi stiamo tentando di estirpare, proprio qui!-
Il ricordo di un passato d'armi e di fuoco, la memoria di una guerra senza nome il cui peso si trascinava per troppo tempo.
Di piccoli bisticci anche Ivan non ne poteva davvero più.
Il piccolo gruppo di americani avanzò verso di loro - e dietro le spalle Islanda finalmente fremette, carico del compito di paciere che si era prefissato. Scrutava attento ogni mossa dei presenti.
Braginski si preparò a sorridere, guardando Alfred come se fosse lieto di incontrarlo.
-Tu pensi che sia meglio questo?-
Michail allungò il braccio lungo il fianco - le sue mani, fino a quel punto, erano state incrociate sulla schiena - preparandosi così al primo vero incontro con Reagan.
Lui sorrideva davvero, orgoglioso della sua posizione in quel momento.
Fu un solo cenno della testa: non osava spostare lo sguardo da Ronald neanche per un solo istante.
-Non nella misura in cui si protrarrà ne futuro. Io credo, Ivan, che loro possono imparare da noi quanto noi da loro. Non dimenticarlo mai: questo concetto sta alla base di ogni pace!-
Ivan sorrise ad Alfred, stringendogli calorosamente la mano.
 

La jeep venne portata via, parcheggiata in un garage che non fosse visto da alcuno.
Lontano, assieme a un passato che veniva smembrato, pezzo a pezzo.


 






Note

(1)Ho ritenuto di dargli questo nome in quanto egli, attraverso una politica estera piuttosto particolare, è riuscito a far riconoscere all'URSS la libertà dei Paesi soci di auto- determinarsi.
(2)"Manifesto di Gorbacev per la Democrazia dell'Est"

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Capitolo 25
*** 2. Sei triste, Michail? [Mondo] ***


2. Sei triste, Michail? [Mondo]




Ivan guardava quella porta con la stessa pena con cui un bambino osserva i resti inermi e immobili del disastro a lungo desiderato e appena compiuto. Come con una sorta di colpevolezza consapevole, in fondo.
Gorbacev era al di là del legno scuro: la Nazione si era rifiutata di incontrarlo, in quei giorni, proprio per mettere a punto ogni cosa. Solo allora era andato da lui, trovandolo però irato come ben poche altre volte.
Ma d'altronde, il mondo era proprio dietro le sue spalle, e non ci avrebbe rinunciato, neanche se questo voleva dire litigare con Michail.
Sospirò, appiattendosi contro la superficie orizzontale e mettendo l'orecchio contro il legno, cercando di captare qualche movimento al di là del suo spessore.
Sembrava che l'uomo non stesse neanche respirando - giusto, pensava lui, per fargli un dispetto.
Eppure aveva mandato via le guardie che aveva posto attorno all'edificio, proprio perché così nessuno li avrebbe potuti disturbare.
Nulla, la porta restava chiusa e l'uomo al suo interno.
Sospirò ancora, Ivan, poggiando la fronte sulla superficie.
-Sei triste, Michail?-
Nessuna risposta dall'altra parte - Gorbacev rimaneva immobile nelle sue posizioni.
Ivan tese i tendini delle mani, afferrando e stringendo l'aria pesante che sentiva addosso.
-Non poteva essere altrimenti, Michail...-
Nulla, solo lo scricchiolare della suola sotto le scarpe - perché la vergogna di bimbo non era così sicura da rimanere immobile.
In realtà, Braginski crede in ogni singola parola che pronuncia, ma è come dover rendere conto di cinquant'anni di dormiveglia a qualcuno che ha tentato di porvi rimedio con tutte le proprie forze e non ci è riuscito.
Umiliante da entrambe le parti.
Ma non aveva più il coraggio di scappare, a quel punto.
-Io vado con Alfred. Ho deciso così...-
Nulla, solo il respiro che si faceva più pesante ogni parola in avanti, sospirata oppure pronunciata con sicurezza.
La cosa alternava, proseguendo veloce - e Ivan chiuse gli occhi, perchè tanto non c'era proprio niente da guardare, lì vicino.
-Non puoi farci molto, devi solamente accettarlo...-
Quasi sorrise, nell'alzare il viso in alto, mentre parlava al silenzio.
Magari Michail sarebbe stato contento nel sentire che lui era contento, magari sarebbe riuscito a contagiarlo, magari a fargli cambiare idea.
Credeva che Yeltsin sarebbe stato tanto contento, se ci fosse davvero riuscito.
Lo credeva, e allora continuò.
-Sai? Io l'ho fatto! Ho capito da che parte sta il Mondo! Sta al di là di ogni frontiera che io posso erigere!-
Alfred glielo aveva fatto vedere. E Gilbert, che era scappato - e Ludwig, che per trent'anni non si era mai stancato di chiamare il fratello al di là del muro che li divideva. E Ucraina, che ancora perdeva sangue da quelle piaghe orrende che aveva su tutto il corpo. E Jugoslavia, che si stava facendo a pezzi sotto i suoi occhi. E la fame, e la solitudine.
Ma Alfred, soprattutto Alfred.
Ivan sospirò ancora, senza cedere.
-Michail, io non posso essere il Mondo ma posso farne parte... Possiamo farne parte, tutti quanti!-
Nulla, a parte forse il rumore lontano di una sedia che si muoveva.
Ivan appoggiò la mano alla porta, facendole passar sopra le dita coperte dal guanto.
-Michail, esci da lì, parlami ancora...-
La porta si aprì, con un suono secco.
E Ivan, ancora prima di essere felice, fece un passo all'indietro, vedendo finalmente Michail comparire sulla soglia.
Aveva una faccia provata, una faccia stanca. Ma con la voce ferma, tese la mano e riuscì a sorridergli, nel modo più paterno che gli fu possibile.
-Togliti quel cappotto, Ivan. Il tempo dei cambiamenti è dunque arrivato!-

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Capitolo 26
*** I. Windsurf ***


I. Windsurf





C'è rumore di mare, nell'aria, quando Ivan decide che sdraiarsi sull'asciugamano colorato di blu e giallo - sulla spiaggia di sabbia fine e ambrata - non equivale a morte certa per la sua pelle bianca e sensibile.
C'è rumore di mare, e Braginski può giurare senza remore che c'è anche l'odore, del mare e di salsedine che, come le onde, gli arriva al naso in zaffate abbondanti, senza che lui abbia la reale intenzione di porvi una barriera contro o ne sia in qualche modo infastidito.
Guarda l'ombrellone che Alfred gli ha dato, prima di correre verso l'acqua con in mano la sua tavola personale, urlando come un bambino pieno di gioia.
In tutta sincerità, non si ricorda di averlo mai visto così felice. E forse, pensa, è per il fatto che il sole brilla nel cielo senza che nulla lo accompagni. E forse, pensa, è per il fatto che oltre a lui, su quella spiaggia, ci stanno una quantità imbarazzante di altri stupidi americani con la mania del windsurf e dei ghiaccioli alla menta. E forse, pensa davvero a lungo, è per il fatto che lo vede per la prima volta in abiti non ufficiali, senza la necessità di minacciarlo di morte con una pistola tra le mani per averlo fermo e zitto.
Ivan allunga le gambe in avanti, cominciando a mettersi la crema protettiva. E' fredda al contatto, ma con tutta quell'afa non gli fa che piacere. Non è mai riuscito a credere, davvero, che un'estate potesse essere così calda - ma Alfred gli aveva detto che no, in estate fa così caldo che si può andare in giro nudi e mangiare ghiaccioli tutto il giorno e avere ancora caldo. Lui, il russo, ci crede ora, ed è quasi felice di essersi lasciato convincere. Quel quasi riguarda il numero di zanzare che aveva dovuto sopportare in cambio della sua ammissione, in aggiunta all'imbarazzo iniziale che ha provato quando si è ritrovato mezzo nudo di fronte all'americano.
Ma l'altro ha riso, e allora tutto si è risolto.
Alfred, pensa Ivan, ha una maniera tutta sua di risolvere le faccende internazionali. La maggior parte delle volte ride e fa come se il Mondo non esistesse, l'altra parte delle volte invece lo guarda, ride ancora e gli si para davanti come a dire che il Mondo è suo e Ivan non ne diventerà mai padrone. E la cosa sembra così tanto un tira e molla tra due amanti litigiosi che persino Arthur ha smesso di arrabbiarsi perché quei due bambini non lo ammettono nei loro giochi.
Ivan ride a sua volta, a pensare come Alfred abbia monopolizzato così tanto la sua vita negli ultimi anni. Prima c'è stato Francis, c'è stato Arthur e c'è stato Yao - anche Kiku, in realtà, e ogni tanto Tino e Berwald.
A cavalcare sulla superficie degli eventi, lasciando che la Storia passi sotto i suoi piedi e lui ne esca sempre indenne, beh... Alfred è un maestro, in questo. La Storia la fa l'Europa - quella Europa che per l'amor di Dio ci pensa troppe volte a lasciar stare il più ingombrante dei suoi figli Oltremare - ad Alfred basta averne il possesso completo.
Non per niente, lui ha inventato il windsurf.
Braginski ride quando vede il corpo morbido di Alfred cadere in mezzo alle onde e sgusciare poi da sotto la sua superficie con mille spruzzi d'acqua salata. Lo trova divertente, perché Alfred è abbastanza maldestro da essere spassoso persino ai suoi occhi. L'americano lo sente, si volta e lo guarda, sorridente: senza occhiali sul naso il suo profilo è anche meglio, in effetti.
Ivan chiude il barattolo della crema e si poggia alle mani, indietro. Molta gente lo guarda, incuriosita dalla sua stazza e dal pallore della sua pelle. Nessun americano in salute è come lui, tutti dicono tra borbottii ed esclamazioni nascoste. Ivan sorride gentile a tutti loro, senza distinzioni di sorta: una volta non era così aperto e sincero, pareva nascondersi a sua volta dietro un dito. E forse Alfred ha un poco di ragione quando glielo fa notare, tra un panino e l'altro, insieme a un'esclamazione non troppo intelligente e un rutto.
-A me piace la coca cola, a te la vodka. Non pensi che si possa vivere vicini ugualmente? Non ti discriminerò certo perché non apprezzi la sana cucina!-
Ride. Alfred ride molto spesso. Ivan ha imparato a sorridere assieme a lui, cercando di non essere altrettanto rumoroso o fastidioso. Ritiene anche di aver fatto passi da gigante. D'altra parte, gli piace sentire qualcosa che non sia l'infuriare del vento contro le finestre, ogni tanto.
Scorge Alfred che riemerge dall'acqua, portandosi appresso la tavola legata alla caviglia. Gli trotta accanto, fermandosi vicino al suo asciugamano.
E' tutto bagnato, ma non sembra farci tanto caso quando urla nelle orecchie di Ivan.
-Ti va di venire un po' in acqua?-
Ivan guarda l'oggetto che tiene tra le mani, quasi sia un trofeo d'alta classe - e sì, pensa a quanto sia tipicamente americano essere orgogliosi delle più piccole stupidate che si possano trovare a quel mondo.
Quindi sorride, mentre fa notare l'ovvio ad Alfred.
-Non so andare sulla tavola...-
L'altro ride, evidentemente non scoraggiato da quell'abbozzo di rifiuto.
Mai che ci possa essere al mondo qualcuno in grado di sfuggirgli.
-Nessun problema! Ci pensa l'eroe a insegnarti! Non diventerai mai bravo come me, ma con un po' di impegno forse riuscirai a essere decente!-
Gli tende la mano, amichevole e rassicurante.
Quella stessa mano che l'ha minacciato di morte tante, tantissime volte, stringendo armi diverse o scettri diversi.
Quella stessa mano che non ha mai imparato a implorare pietà, forte di un orgoglio che è così simile al suo che quasi Ivan si chiede come sia possibile, che esistano due corpi a separarli a tale maniera.
Quella stessa mano che, in realtà, ha stretto più volte per motivi non esattamente bellici e militari.

Ivan sorride, portandosi la mano alle labbra per un tocco fugace e poi lasciandosi condurre in mare.
Una tavola da surf in mano, un peso in meno sulla coscienza - il cuore, nel petto, libero e leggero.

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