Le Chimere, dodici anni prima

di Dew_Drop
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di una chimera che giocava a baseball ***
Capitolo 2: *** Di una chimera che aveva paura dei temporali ***
Capitolo 3: *** Di una chimera che impara a volare ***



Capitolo 1
*** Di una chimera che giocava a baseball ***


Cap I: Di una chimera che giocava a baseball






Disclaimer:
i personaggi appartengono ad Akira Amano. Nulla di ciò che è scritto è ovviamente a scopo di lucro.







< LE CHIMERE, DODICI ANNI PRIMA >




Cap I : Di una chimera che giocava a baseball (80+59)



“Non esistono persone normali
che giocano a baseball; però esistono
persone normali che ci provano”

Giovanni Gaspa




Hayato Gokudera appoggiò il borsone e alzò gli occhi sull’ingresso. Non era sicuro di voler bussare e l’istinto gli suggeriva insistentemente di lasciar perdere.

Tornare a Namimori dopo tutti quegli anni trascorsi in Italia era a dir poco traumatico. Se non fosse stato per l’invito diretto del Decimo, con molte probabilità non si sarebbe preso l’impegno di lasciare la cattedra di Pisa per due settimane, ed anzi l’idea di astenersi dal lavoro non l’avrebbe minimamente sfiorato. Eppure non aveva potuto far altro che accettare, anche se quel viaggio, più che una rimpatriata, per lui nient’altro rimaneva che un ordine del suo superiore. Tanto per digerire meglio la cosa.

Stava ancora rimuginando fra sé e sé, l’indice insicuro già appoggiato sul citofono, quando qualcosa – qualcuno? – gli si appese alla gamba. Abbassò gli occhi con un pericoloso fremito d’irritazione ad arcuargli il sopracciglio destro; ma cambiò del tutto espressione quando realizzò che l’oggetto non identificato in questione era una bambina dagli enormi occhi color nocciola. Lo fissava dal basso con la piccola bocca un poco spalancata, mentre le sue manine artigliavano spasmodicamente il tessuto del completo.

Gokudera sbatté instupidito le palpebre. Non gli erano mai andati a genio i piccolini, figuriamoci quelli che osavano stracciargli i vestiti. “E tu da dove spunti?” gli scappò, e scoprì con orrore che la voce gli tremava. E la colpa era di quegli immobili, sbarrati, spaventosi occhioni castani.

Oji.

“Prego...? Mi hai chiamato zio?”

La bambina rimase ancora un momento a fissarlo, quasi per accertarsi di non aver sbagliato persona. Il tempo di un altro strattone ai pantaloni e strillò, galoppando verso la portafinestra che dava sul giardino: “Oji!, oji!”

“Ehi! E adesso dove corri?” le gridò dietro Gokudera, attonito da tutta quell’improvvisa gioia. La bimba finì dritta tra le braccia di un giovane uomo uscito in quel momento nel cortile, e lì diede sfogo al suo gioioso annuncio:

 “Oji!, oj...!”

“Sì Himizu, ho capito, ho capito!”, e gli scappò una risata mentre sollevava in braccio la bambina.

L’italiano allora non ebbe più dubbi. Quella voce, quella risata così infantile, quel comportamento spontaneo...

“Ya-Yamamoto?” fu l’unica cosa che la sorpresa gli concesse. “Yamamoto, quella è tua figlia?”

“Confermato.”

“Accidenti” borbottò Gokudera, e si passò una mano dietro al collo con fare tutto d’un tratto imbarazzato. “Scusami, proprio non l’avevo riconosciuta. Da quanti anni non vengo qui? Due, tre...?”

“Quattro anni e due mesi” puntualizzò Yamamoto benedicendolo con un sorriso. Dopodiché fece un cenno verso l’interno. “Andiamo. Mia moglie ha preparato un pranzo per quattro, oggi.”

Mangiarono attorno a quello che pareva un tavolo da cerimonia. Himizu si stancò ben presto di fare la brava bambina e schizzò in giardino dopo essersi sorbita le doverose raccomandazioni del padre. Riguardo quest’ultimo, era incredibile quanto il tempo non l’avesse scalfito: certo era più alto, i suoi lineamenti più marcati ed asciutti, ma nello sguardo era rimasto il caro, vecchio baseball freak di sempre. Il modo in cui rideva era già di per sé l’indiscutibile indizio del ragazzino che continuava a vivere sotto le spoglie di quel corpo fattosi terribilmente maturo. Gokudera lo sbirciò più volte, durante il pranzo, colse il suo sorriso di sempre, quell’aria di eterno bambino. La cosa gli strappò una serenità anormale, una sensazione di calore familiare che nemmeno l’Italia gli aveva mai concesso. Per quanto di prima battuta avesse ritenuto assurda l’idea di farsi ospitare dall’idiota per l’ultimo giorno di permanenza in Giappone, in quel momento quasi gli dispiacque d’aver alloggiato in un hotel fino a quel pomeriggio.

Takeshi Yamamoto, anni ventisette, sposato, con una figlia, era un giocatore di baseball. Uno sportivo, intendiamoci, con il piccolo difetto di avere rapporti con la mala italiana, in quanto anche in quel futuro che si erano procurati avevano deciso di seguire Tsuna sotto allo stemma dei Vongola. Era ovviamente, questo, un particolare che i più ignoravano, ma che loro erano costretti a tenere in considerazione. Non che quello fosse un periodo di conflitti – al contrario potevano persino permettersi il lusso di una seconda occupazione e di una casa propria -, ma i cavalloni dell’esistenza li avevano spinti su rive straniere fra loro. Gli unici rimasti a Namimori, a onor d’esempio, erano Yamamoto e il Decimo. E be', Hibari Kyoya, ma non c'era da stupirsi.

Fu mentre discutevano al tavolo, terminato il pasto, che squillò il telefono. Yamamoto non si alzò, anzi fece un cenno all’ospite per accordargli il permesso di rispondere. Sorrideva. Gokudera si allungò dalla sedia, arraffò la cornetta, se la portò distrattamente all’orecchio:

“Pronto? Qui casa Yamamoto.”

“Gokudera-kun? Gokudera, sei tu?”

“Ju-Juudaime!”

Sarebbe stato impossibile non riconoscere quella voce. Gokudera sbirciò il sorrisetto di Yamamoto e si mise più comodo sulla sedia: “Juudaime, sì, sono io.”

Il suo battito era accelerato. Non si aspettava di sentirlo e questa era certo la causa dell’esaltazione che gli stritolava l’anima. Tsuna non era cambiato, affatto: poco importava che il timbro della sua voce si fosse indurito, poco importava che anche lui fosse cresciuto. Il Boss era rimasto il Boss.

“Gokudera-kun, vi aspetto davanti alla scuola media, come da programma. Hibari-san ci ha concesso la visita.”

“Kyoya, avete detto?”

“È il preside, ora, sai?”, e la linea gli restituì una limpida risata. “Non esiste occupazione migliore per un tipo come lui.”

Il Guardiano rise con lui. “Ben detto, Juudaime! Allora... allora a più tardi. Ah, posso...?”

“...puoi?”

“...concedermi un approccio confidenziale, se non dispiace?”

Tsuna rise di nuovo e a Gokudera bastò questo.

“Non vedo l’ora di rivedervi” concluse con un sorriso, e riattaccò.


* * *


Dodici anni prima...


Mi chino su di lui e gli bacio il collo. Sento la sua pelle fremere sotto al velo della pioggia, le dita farsi improvvisamente più rigide. Con quel gesto gli rubo un brivido, ne avverto lo squisito tremore sulle labbra.

Gokudera si scosta da me con veemenza, si volta. Il colpo della mazza da baseball che cade nella fanghiglia risuona nel tuonante scrosciare dell’acquazzone.

“C-che accidenti stai facendo, Yamamoto?”

“Hayato...”

“Era questo il tuo obiettivo sin dall’inizio? Questo?!”

Abbasso gli occhi a pugni stretti. Certo non posso negare le sue parole, almeno non in quella situazione, soprattutto perché è proprio la situazione in sé a spiegare tutto. Che mi sono offerto di insegnargli il baseball in vista del torneo di fine anno; che nonostante il maltempo ci siamo accordati per quel giorno; che non ho fatto altro che aspettare il momento in cui lui mi avrebbe dato le spalle, per prendergli le mani e stringere insieme la mazza. Ma che poi non ci ho più visto, per colpa della pioggia sui suoi vestiti, sui suoi capelli. Per colpa insomma di tutta quella vicinanza che da tempo rincorro nell’immaginazione. E adesso quello che tanto ho inseguito si è ribellato e mi fissa con furiosi occhi smeraldini.

“Ma si può sapere che diavolo ti ha preso? Ehi...? Ohi, idiota!”

Ascoltare è troppo impegnativo. Evito lo strattone che segue all’ennesimo richiamo ignorato, so quanto lui possa essere violento. Eppure non mi limito ad afferrarlo per il colletto e per la spalla, incurante della sua disapprovazione.

Oh no.

L’animalesca reazione di Gokudera viene soffocata dal mio bacio incredibilmente possessivo. Ad incorniciare il silenzio, il borbottio della pioggia.
Ascolto il suo cuore pietrificarsi.

Io, l’invasato del baseball, che lo tengo immobile con un’arroganza del tutto inaspettata, con quel gesto d’affetto egoista. Egoista perché non corrisposto.
Gokudera si divincola, sguaina tutta la sua rabbia. Solo dopo avermi assestato un pugno sulla mandibola, spedendomi platealmente a terra, riesce a liberarsi e ad indietreggiare in fretta, quasi rischiando di inciampare.

“Stupido! Sei uno stupido, Takeshi!”

Takeshi.

Keshi.

Mi pare che il mio nome rimbalzi sulle invisibili pareti del senso di colpa. Mi porto una mano alle labbra, asciugo un rivolo di sangue. Nei miei occhi si legge l’assoluta incredulità, come se nemmeno io stesso mi renda conto di quanto accaduto. Come ho potuto baciare Gokudera senza nemmeno riflettere? In che modo la mia chimera si è trasformata in quella prepotenza assurda? Alzo gli occhi mentre le dita affondate nella fanghiglia si chiudono, incapaci di contenere il fremito della voce:

“Hayato... ti chiedo scusa.”

Gokudera si azzanna il labbro guardandomi sprezzante dall’alto. È un gesto intraducibile, forse il figlio di Rabbia e Sconcerto, prontamente riflesso nei pugni che si serrano a tenaglia.

“Stammi lontano” soffia irritato. Poi mi volta le spalle e si allontana a passo di marcia sotto la pioggia battente. Non voglio seguirlo.


* * *

_Il Piccolo Ritaglio_

Che dire? Tre capitoli, ognuno dedicato ad un momento presente e ad uno passato, ognuno focalizzato sul rapporto fra due di questi tre amici del cuore. Essendo un'amante delle 8059, non potevo non scrivere qualcosa a riguardo già nel primo capitolo.
Il nome "Himizu" è nato da una piccola fusione: "hime" è "principessa", "mizu" invece "acqua". Mi piaceva l'idea di dare un nome simile alla piccina del nostro Yama-senpai. Riguardo Gokudera... be', mi piaceva vederlo come professore a Pisa. Averlo io un prof così *-* Ho approfittato di questa fic per coronare i sogni dei personaggi: Takeshi è un giocatore di baseball professionista, Hibari il preside della Namimori. Penso mi ringrazieranno a vita v_v Ah, non prendo in considerazione i fatti riguardanti la Famiglia Shimon, proprio perché quando ho scritto questa fic non ero a conoscenza della nuova serie.
Non so quando pubblicherò il secondo capitolo - che ritengo assai fluffuso -, forse aspetterò una settimana o qualche piccolo commento... anche critiche per l'amor del cielo, ma insomma mi piacerebbe avere qualche parere, dal momento che, dati i risvolti inaspettati del contest, non posso riceverne dalla giuria - che però ringrazio di cuore.

Grazie per essere arrivato in fondo xD
Bye-bii,

Dew_








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Capitolo 2
*** Di una chimera che aveva paura dei temporali ***


Cap II: di una chimera che aveva paura dei temporali





Disclaimer:
i personaggi appartengono ad Akira Amano. Nulla di ciò che è scritto è ovviamente a scopo di lucro.



 Cap II : Di una chimera che aveva paura dei temporali (59+27)

 

“È questa sera che non posso

sopportare  la solitudine”

Albert Camus

 


Doveva essersi soffermato troppo a lungo nei suoi occhi, perché dopo qualche attimo di silenzio Gokudera arricciò il naso:

“Ho qualcosa che non va? Sono spettinato, forse?”

Yamamoto si ridestò dai propri pensieri e scostò gli occhi dallo specchietto retrovisore. “Tranquillo” si affrettò ridacchiando quasi imbarazzato, “no, stavo solo meditando di mio.”

Spense il motore e scesero dalla vettura. Sì, si era decisamente fatto prendere dai ricordi e l’esperienza non era stata certo piacevole. Era come se non avesse mai visto realmente la strada, durante il tragitto, bensì la visione di quell’episodio

(pioggia, labbra, respiro)

a cui da anni fuggiva. Stava ancora digerendo "quel che fu”, intento a far scattare la sicura della macchina, quando Gokudera si allontanò a passo concitato. Solo alzando gli occhi si accorse che Tsuna era già lì.

Nemmeno lui era cambiato. O almeno, secondo il suo criterio di valutazione che prendeva in esame lo sguardo, forse Tsuna era l’unico fra tutti a non essere cambiato di una virgola, come se il tempo non fosse trascorso. Solo osservandogli l’anima attraverso le pupille si riusciva a vedere il ragazzino capriccioso che era stato. Se ne stava appoggiato al muro del cortile con un candido sorriso in volto e il colletto della camicia lasciato volutamente più largo a scudo dell’afa estiva. Salutò Yamamoto con un cenno del capo, poi si scostò dal muretto per ricevere Gokudera. Inspiegabilmente però il Guardiano si fermò a qualche metro da lui, con un palpito nello sguardo e un sorriso tremante appena abbozzato sulle labbra.

“Ju-Juudaime.”

“Gokudera-kun.”

Forse era la luce bianca del sole, eppure al Boss parve di indovinare un velo lucido negli occhi di chi aveva di fronte.

“Juudaime, non sono degno di essere il vostro braccio destro” concluse Gokudera in tono ora fermo, sebbene i suoi occhi sorridessero. “Sono stato assente così a lungo...”

“Ancora con questa storia?” si intromise Yamamoto, passando un braccio attorno alle spalle del Guardiano della Tempesta. Gli spettinò festosamente i capelli indirizzando a Tsuna un occhiolino: “Tsuna, è l’emozione, cerca di capirlo.”

“N-non sono emozionato, idiota!”

“Toh, sei arrossito!”

Ta-Takeshi Yamamoto!”

Il Decimo scoppiò a ridere. La sua risata rapì l’attenzione di Gokudera, che si scrollò di dosso il braccio del compagno e azzardò un passo verso il Boss, grattandosi impacciato la nuca: “C-chiedo scusa per l’incompetenza del mio collega.”

Un lieve rossore gli coloriva il volto e un sorriso comicamente infantile gli allungava le labbra. Era un invito più che convincente. Tsunayoshi Sawada si avvicinò e lo strinse in un abbraccio fraterno.

Solo in quel momento, con il mento appoggiatto sulla spalla della persona cui teneva più al mondo, Hayato Gokudera chiuse gli occhi e si concesse una lacrima.


* * *

Dodici anni prima...


“Oh, sei tu, Gokudera-kun.”

“Signora Sawada.” Varco l’uscio sfilandomi il giubbotto rosso. “Come sta il Decimo?”

“Voi ragazzi e i vostri soprannomi” mi risponde lei chiudendo la porta e volgendomi un gran sorriso. “È già sotto le coperte.”

“Ma come si sente?”

“Oh mio caro.” Mi guarda con una mano sulla guancia. “Gokudera, sei tanto gentile. Vorrei che si sentisse meglio, ma...”

“Nessun problema, signora Sawada. Mi prenderò io cura di lui mentre lei è fuori di casa.”

“Non mi stupisce che tu sia il suo miglior amico.”

“Io...? Migliore amico?”

Forse sono stato colto impreparato perché la donna si lascia sfuggire una risata intenerita. “Tsuna lo ripete spesso, mi parla così tanto di te.”

“Oh....” biascico, ma mi trovo vittima di un brivido bollente che mi accende le guance. “I-io ne sono onorato, dico sul serio.”

“Posso andare tranquilla. Grazie ancora, fa’ come se fossi a casa tua!”

La signora Sawada pesca la borsetta ed esce. Adagio il giubbotto su una cassapanca vicino alle scale e ne approfitto per sbirciare una finestra: il cielo si è fatto ingombro e l’atmosfera è di uno sgradito ed acquoso color giallognolo. La brezza della sera promette tempesta. Dopo aver buttato un’occhiata all’esterno, salgo in silenzio al piano superiore.

È un bene che tutti quanti – Reborn, la stupida mucca, Fuuta e in particolare quella sottospecie di donna di Bianchi – siano fuori, ognuno impegnato in affar propri: il Decimo ha bisogno di riposare e una mandria di creature rompiscatole non sarebbe il massimo per lui. Giunto davanti alla sua camera, schiudo appena la porta e butto un occhio dentro.

L’intimità della stanza, sfumata delle delicate dita di una lampada da tavolo, profuma del torpore del sonno. Sposto lo sguardo.

Il Decimo sta già dormendo. Sento il suo respiro regolare scandire l’ansante scorrere del tempo. Mi infilo nella piccola lama d’ingresso che mi sono permesso e mi accosto al letto chinandomi appena su di lui.

Il Boss è così angelico mentre dorme, nulla a che vedere con la potenza di cui si serve in battaglia. Così ingenuo, tiepido, bambino. Gli passo una mano sulla fronte facendo attenzione a non svegliarlo e avverto i frizzanti brividi delle febbre. Il mio volto si accortoccia in un’espressione di disagio, ma torna a sorridere quando rimbocco con premura le coperte.

“Sarò subito di ritorno, Juudaime.”

Mi imbuco nella doccia, complice l’invito della signora Sawada a fare come se fossi a casa mia – ammesso e non concesso che un tetto io l’abbia mai avuto -, e quando torno nella camera, con i capelli ancora umidi e la canottiera infilata per metà, mi accorgo che il Decimo ha le sopracciglia corrucciate e si agita nel sonno. Non posso vedere oltre: l’alta temperatura lo sta torturando e un braccio destro che si rispetti farebbe di tutto per sconfiggere anche quell’inanimato avversario che attenta alla salute del superiore. Il nemico potrebbe persino essere una chimera, ma a mio avviso l’uomo fedele deve sempre porre in primo piano le proprie mansioni. A costo della vita.

Il letto è stretto per due persone, ma ciò non mi fa rinunciare al mio proposito. Mi stendo al suo fianco e cerco la sua mano sotto alle coperte. Forse non dovrei farlo, forse non è un comportamento molto professionale. Eppure mi sento in dovere di condividere la malattia con chi per primo mi ha curato dalla mia insaziabile solitudine. O forse ancora è solo il mio bisogno di affetto dopo il pugno che ho assestato a quell’idiota?

Idiota. Yamamoto Takeshi.

Non voglio pensarci. Intreccio le dita nelle sue e ascolto il sorriso che gli si stende sulle labbra.

Fuori, il guizzo del primo lampo annuncia il bussare della pioggia sulla finestra.

“Gokudera-kun.”

“Juudaime. Non siete in condizione di parlare, pensate solo a riposarvi.”

“Gokudera-kun... arigatou.”

Si addormenta sulla mia spalla senza tremare. Resto sveglio a lungo per vegliare su di lui. Mi sembra di avvertire i primi sintmi della febbre, il calore del suo corpo divenire i miei brividi.

Ma è giusto così.

* * *

_Il Piccolo Ritaglio_

Ho litigato parecchio con NVU per questo capitolo è_è Il codice html è bastardo, quando vuole. Tutta colpa della mia decisione di ingrandire i caratteri. Umpf è^é
Eccovi il secondo capitolo. Più breve del primo. Mi sono particolarmente affezionata a questa seconda parte dato che, almeno a parer mio, è quella uscita meglio - quella più fluffusa, ammettiamolo, forse è per questo che mi piace òWò Eccovi quindi la mia ideale 5927: dolce dolce, non yaoieggiante come l'8059. Ce li vedo proprio bene, io, questi due, bossU e right-hand man, poi ovviamente la parola va a chi si fermerà per un commentino.
Nel prossimo, my ladies, vi svelerò invece la mia concezione di 8027 *faccia poco rassicurante* °D ..no scherzo, niente yaoi, mi dispiace v_v
Alla prossima e grazie a chi è arrivato in fondo!


Dew_





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Capitolo 3
*** Di una chimera che impara a volare ***


Cap II: di una chimera che impara a volare





Disclaimer: i personaggi appartengono ad Akira Amano. Nulla di ciò che è scritto è ovviamente a scopo di lucro.

CAP III : di una chimera che impara a volare ( 80+27 )

 

“Credo che se si guardasse sempre il
   cielo, si finirebbe per avere le ali”

              Gustave Flaubert

 

Gokudera si congedò dall’abbraccio solo dopo essersi assicurato di aver versato il necessario. Molto probabilmente era stato quel ricordo, così vivamente richiamato dal presente, ad aver causato una reazione simile.

Lasciarono la vettura di Yamamoto posteggiata sul marciapiede e varcarono assieme il cancello della scuola media.

Namimori Middle School.

Fu solo una sensazione, ma avvertirono distintamente il trillare del Carillon de Westminster, il vociare degli studenti, la bretella dello zaino svogliatamente passata sulla spalla. Era strano far parte di una scolaresca invisibile, riflessa solo dai ricordi che cozzavano con insistenza contro il silenzio nei corridoi. Nelle aule tutto era uguale, eppure così brutalmente diverso. Tutti i luoghi della loro adolescenza erano stati spogliati dall’incedere del tempo. Passarono in tutte le classi che avevano occupato; si trattennero solamente nella 1-A.

Era bello fingere di essere studenti, come una volta. Gokudera non si fece problemi ad accomodare i piedi sul banco, sorridendo alla risata di Tsuna, e Yamamoto si imboscò in fondo alla classe con un sorrisetto birichino in viso:

“Mi sento più giovane di un bel paio d’anni!”

“Idiota”, lo pizzicò il braccio destro scoccandogli un’occhiata però ironica. “Devi ficcarti nella zucca che prima o poi imboccherai la strada per la vecchiaia.”

Yamamoto rise. Il Decimo fece scivolare gli occhi su di lui e colse la falsità di quella gioia. Takeshi era sempre stato così: rapiva la tristezza degli altri e se la caricava sulle spalle, per poi mascherarla coraggiosamente con quell’atteggiamento spensierato grazie al quale era sempre rimasto il punto di riferimento di tutti. Un po’ come la pioggia, che lava via la sofferenza altrui pur rimanendo essa stessa il simbolo di un’incredibile solitudine. Indovinò un velo di disagio nel suo sguardo.

Come se ci fosse qualcosa, sotto quel sorriso, a sporcare la sua serenità.

Come quella volta, dodici anni prima.



* * *


Dodici anni prima....


Mi è sempre piaciuto fare il tragitto scuola-casa con Yamamoto. Lui è il tipo che ti infonde serenità solo a guardarlo, e so di potermi fidare. La fedeltà e l’amicizia sono i titoli della sua vita quotidiana. Non vedo come non ci si possa affezionare alla sua tenerezza.

Eppure oggi è stranamente silenzioso. Di norma ha tante cose da raccontarmi,

(“Eh, Tsuna? Sei guarito?”)

e invece oggi cammina muto accanto a me, con una mano nella tasca dei pantaloni e l’altra infilata sotto alla bretella della sacca da baseball.

“Ya-Yamamoto?”

“Uhm?”

Mi pesca con la coda dell’occhio. Ho quasi paura di domandare, ma il chimerico desiderio di vederlo sorridere è troppo grande.

“Yamamoto, c’è qualcosa che non va?”

“Chi, io?”

Si ferma con gli occhi color nocciola spalancati e le labbra arricciate in quella sua buffa espressione di stupore. Poi azzarda un sorriso e la sua voce si fa spaventosamente dolce: “No, Tsuna. Va tutto alla perfezione, grazie.”

“Se c’è qualcosa che posso fare... che vuoi dirmi....”

“La tua è tutta la Super Intuizione di quel gioco di ruolo?”, mi domanda, e poi gli sfugge una risata di striscio. Quando si calma, la sua mano corre dietro al collo. “Si tratta di Gokudera.”

“Go... Gokudera-kun?”

Non pensavo mi rispondesse. Yamamoto è spontaneo con gli altri ma quasi mai sincero con se stesso. A volte è persino riservato. Non si capisce mai cosa passi dietro a quei sorrisi e a quel suo apparente buonumore. Ci appartiamo nel parco, lui a dondolare sul seggiolino dell’altalena e io seduto in cima allo scivolo. Abbiamo lasciato le borse e le sacche vicino alla giostra.

Mi racconta di quello che è successo con Hayato e quasi mi sorprendo. Non mi aspettavo che Takeshi provasse un sentimento così forte per quell’autoproclamato braccio destro. Lo ascolto senza dir nulla, appollaiato sulla cima del mio nido, e quando capisco che è tutto gli rifilo un sorriso.

“Yamamoto. Lo sai, no?, com’è fatto Gokudera.”

“Sì, hai ragione.”

“Però anche lui è capace di grande tenerezza” riprendo facendo ciondolare il braccio nel vuoto. “Quando ho avuto la febbre, si è offerto di trascorrere la notte con me mentre la mamma era fuori.”

“Dici sul serio?”

“Mai stato più sincero di così. È che Gokudera... Gokudera non ama quando sono gli altri a regalargli affetto. Perché ha paura e non sa come comportarsi.”

“Tsuna...”

“Andrà tutto bene. Sono sicuro che farai la scelta giusta.”

Le lame del tramonto illuminano il suo nuovo sorriso. Mi sento meglio anche io.

Sono fiero della nostra amicizia. Takeshi Yamamoto è forte, un genio. Se veramente fossi il Cielo gli consentirei di volare, e non avrei paura di cadere perché al mio fianco ci sarebbero lui e Gokudera. Questo mi riempie il cuore.

 

* * *

 

Il silenzio che seguì alla risata di Yamamoto fu lo stesso che li accompagnò per gran parte di quel tragitto. Tsuna avvertì una mano adagiarglisi sulla spalla.

“Juudaime.”

“Gokudera-kun.”

“Mi dispiace, ma... credo di dover andare.”

Il Guardiano della Pioggia levò gli occhi verso di loro, mentre il Decimo si alzava e scoccava uno sguardo all’orologio da parete. “Le quattro” disse.

“Tra quaranta minuti devo essere in aeroporto. Il taxi che ho chiamato è già qui sotto”, e fece un cenno verso la finestra. “Ho preferito così, so bene che voi e Yamamoto siete molto impegnati. Non voglio rubarvi tempo... E non posso nemmeno posticipare la partenza. Devo tornare a Pisa il prima possibile.”

Tsuna annuì. Era un gesto riassuntivo in cui si colse l’amara patina della tristezza. Uscirono assieme dopo aver rivolto un’ultima occhiata all’aula. Yamamoto si armò di chiavi e si diede da fare per scaricare il bagaglio dell’italiano. Quando il borsone fu adagiato nel cofano del taxi, Gokudera scivolò nell’abitacolo senza chiudere la portiera.

“Juudaime. Yamamoto. Prometto che non starò più assente così a lungo.”

“Non ci sarebbero problemi” gli rispose il Decimo sorridendo tiepido. Gli porse la mano e il suo fidato braccio destro accettò di buon grado la stretta. “Fa’ buon viaggio, salutaci l’Italia.”

Si scambiarono un sorriso. Fu allora che Yamamoto, atteso che i due si congedassero dal gesto, porse al Guardiano della Tempesta un biglietto piegato in due.

“Questo è un piccolo ricordo, vecchio mio. Mi sembra giusto consegnartelo.”

Gokudera gli sfilò il foglietto dalle dita e sembrò sul punto di dire qualcosa. C’era una luce strana negli occhi di Takeshi, l’indizio di un sorriso sincero. Ma prima che potesse parlare, il taxista montò al posto di guida e gli lanciò un’occhiata dallo specchietto retrovisore:

“Gomenasai, signore, sarebbe meglio andare. Non posso permettermi in eterno la doppia fila.”

“Oh, certo. Mi scusi” borbottò spaesato il passeggero, e chiuse la portiera. Poi guardò fuori dal finestrino: Tsuna e l’idiota avevano alzato le mani per rivolgergli un silenzioso ma accorato arrivederci. Gokudera abbassò gli occhi ed aprì il biglietto. Le sue dita furono percorse da un fremito incondizionato. La calligrafia era quella di Yamamoto.

“Scusami per quel giorno. Hai paura dell’affetto altrui e io non l’avevo capito. Mi accontento di baciarti con l’anima. Quand’è che riprendiamo ad allenarci per il torneo di fine anno, allora, testa di spaghetti? Takeshi.... Yamamoto.”

Non si era nemmeno reso conto d’averlo mormorato. Gli scappò un sorriso e, levando di nuovo lo sguardo, distese le dita sul vetro per abbracciarli da dietro quella barriera invisibile.

Sarebbe tornato.

Sarebbe tornato per stare con loro, per giocare agli studenti, per sentirli ridere. Per soddisfare quelle stupide ma dolci chimere di dodici anni prima.



* * *

_Il Piccolo Ritaglio_

Finalmente un aggiornamento che non mi dà problemi *tira sospiro di sollievo* NVU è stato obbediente u_u
E con questo chiudo il sipario su questa fic. Ho sempre visto Tsu-kun e Yama-senpai come una gran coppia di amici e confidenti intimi, nulla di più. Poi ovviamente sono modi di vedere il mondo.
Spero col cuore che queste tre capitoletti siano stati di vostro gradimento. Vi lascio con un arrivederci, grazie per aver letto *^*



Dew_






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