Un amore tra rose e spine

di Airi_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Broken Heart ***
Capitolo 2: *** Raso ***
Capitolo 3: *** Abducted ***



Capitolo 1
*** Broken Heart ***


Per un unico giorno d'amore
lasciato per sempre avrei l'oro del sole.
Per un'ora sola d'amore
sconfitto, trafitto, avrei dato il mio cuore.
Per un attimo solo d'amore
ridendo avrei dato il mio sogno migliore.
E pure così tu mi neghi il tuo amore
nè oro, nè cuore, nè sogno; mi lasci il dolore.

 

Quanto peso può reggere il cuore umano? Si può ricevere un colpo talmente forte da pensare di non volere un cuore mai, mai più?

 

E’ da tanto tempo che non rivedo il sole. Dopo la missione nel Paese della Nebbia, non vedo l’ora di tornare a casa per una serie di motivi. Posso rivedere la mia casa, posso rivedere mia sorella, posso rivedere il mio villaggio in generale, che mi manca ai limiti del possibile. Ok, ammetto che avevo valutato la possibilità di rivedere anche Naruto, ci avevo quasi sperato, ma sto cercando di non pensarci mentre affronto il viaggio di ritorno, perché preferisco non illudermi, preferisco pensare negativo, così che se effettivamente lo rivedessi, proverei sicuramente quella meravigliosa sensazione di leggerezza e improvvisa felicità.

Avvicinandomi al mio Villaggio, sento di nuovo quella strana sensazione, quel formicolio alla nuca che si prova ad essere osservati. Mi volto un paio di volte, ma non vedo altro che un’ombra leggermente sfocata che salta lontano, di albero in albero. Che qualcuno mi stesse realmente spiando? Mi concentro bene. Se qualcuno fosse qui, lo scoprirei sicuramente utilizzando il Byakugan. Impastando il chakra, però, avverto un fortissimo bruciore alle braccia, come se, nelle mie vene, il sangue scorresse mischiato a frammenti di vetro. Probabilmente sono talmente stanca che avrei bisogno di uno sforzo di energia enorme per usare una tecnica tanto impegnativa.

Mi riscuoto dai brividi dopo qualche minuto e vado avanti, decidendo di lasciar perdere dal momento che sono arrivata a casa.

Non appena varco la grande porta che introduce nel Villaggio della Foglia, tutto sembra ritornare alla normalità, finalmente. Tutto è al suo posto, dal negozio di fiori di Ino, ai grandi alberi sicuri che circondano tutto il Villaggio. Casa Hyuga si staglia alta e leggermente minacciosa come sempre, circondata da quella strana aura di imperiosità che mi fa sempre sentire fortemente impotente. Attraverso il giardino e il portico, diretta in camera di mia sorella Hanabi, che mi accoglie gridando e smanettando per gettarsi tra le mie braccia. Riesco a liberarmi dopo qualche minuto, dopo aver tentato inutilmente di farla interessare al racconto del mio viaggio. Mi aveva ascoltata per pochi secondi, poi era tornata a concentrarsi sui suoi giochi.

Mi faccio un lungo bagno rilassante per scaricare un po’ la tensione accumulata durante la missione, e poi mi fisso altrettanto lungamente allo specchio.

E’ vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima? Allora, perché i miei sono sempre così grandi e solitamente inespressivi? Di certo non esprimono bene tutto quello che provo dentro di me. Certe volte è come se la forza dei miei sentimenti fosse troppo grande anche per me, ma i miei occhi rimangono violetti, enormi e freddi.

Decido di non pensarci per il resto del giorno, e me ne vado un po’ a spasso per il Villaggio, covando la segreta speranza di imbattermi per caso in Naruto, che, rivedendomi dopo tanto tempo, deciderebbe magicamente che sono io l’unica donna della sua vita.

Mentre cammino tra quella folla di volti conosciuti, mi sembra che ognuno di loro, a suo modo, saluti il mio ritorno a casa. Loro non lo sanno, certo, ma io noto che mi accolgono diversamente dal solito. Un sorriso più caloroso, una pacca più affettuosa, uno sguardo più amico.

Ad un certo punto sento una gran confusione provenire dal chiosco del ramen, e subito il mio cuore perde un battito. È mai possibile? Sto per incontrarlo davvero alla fine? Con il passo un po’ malfermo mi dirigo da quella parte, ostentando nonchalance. Voglio che stavolta vada bene. In mille altre occasioni occasioni ero inciampata, caduta, avevo sbattuto contro qualcosa o qualcuno, mi ero pestata i piedi o li avevo pestati ad altri, qualcuno mi aveva spinta perché ero rimasta imbambolata. Tutto questo perché la mia maledetta vergogna mi impedisce di formare pensieri articolati e quindi al cervello non arrivano più gli ordini: camminare, muovere le braccia, schivare gli oggetti, respirare. Allora l’ossigeno non raggiunge le cellule e cado a terra come un sacco vuoto. Ma stavolta no, stavolta giuro che…non riesco a terminare la frase, perché un’altra voce giunge alle mie orecchie. “Naruto!” grida, poi scoppia a ridere. Rimango per un istante incapace di formulare qualsiasi pensiero. Poi il mio cervello cerca automaticamente una giustificazione. Ma sì, sono compagni di squadra, può essere che siano andati a mangiare del ramen insieme, no? Mi avvicino a loro quel tanto che basta, giusto in tempo per vedere i loro volti vicinissimi, in quello che sembra…quello che doveva essere…il mio primo bacio.

Stranamente, dopo aver preso coscienza di quell’immagine, ho l’immediato istinto di voltarmi, le guance in fiamme, sentendomi in imbarazzo per aver scoperto che il ragazzo che più amo al mondo, la persona che ha il potere di rendermi felice e triste allo stesso tempo, invincibile e vulnerabile, che mi ha fatta piangere, urlare di dolore e di gioia, che mi ha fatta svenire tante di quelle volte che non le conto più nemmeno con tre mani, che ancora continua a farmi venire il batticuore, che anche adesso, qui, fa pizzicare i miei occhi, che mi ha disintegrato il cuore completamente, e poi lo ha aggiustato, per disintegrarlo ancora e ancora e ancora, la persona alla quale avevo fatto un giuramento di amore eterno con i petali delle rose da bambina, abbia potuto trovare un’altra. Un’altra che sia l’unica, un’altra che sia la sola, un’altra che non sono io.

Poi, tutta la mia attenzione si concentra sull’albero che ho davanti. È un’enorme quercia, che ricordo di aver sempre visto nel Villaggio, i cui rami spessi si stagliano altissimi nel cielo, come sorreggendo i rami più piccoli. Non capisco subito perché il mio cervello si sia fossilizzato su quell’albero, fino a che un ricordo mi ritorna alla mente, violento e dolorosamente nitido. Mi getto più velocemente che posso sull’albero e tiro fuori un kunai. Cerco il punto esatto sotto le foglie che coprono la parte inferiore del tronco e mi avvento sulla corteccia, graffiandola più forte che posso con la lama del kunai. Quando ho finito, la scritta non si vede quasi più. Chissà se qualcuno l’ha mai vista, chissà se quel “Naruto + Hinata <3” è mai stato portato alla luce.

Mi volto di nuovo verso il chiosco, con il kunai ancora in mano e il respiro affannoso. Davanti a me riesco a distinguere solo solo una nebbiolina bianca che mi offusca la vista, e non sento altro che un ronzio, probabilmente proveniente dalla mia testa, che all’improvviso si è fatta pesantissima. Tento di respirare normalmente, anche se il mio cuore batte talmente forte che perdo qualche palpitazione. Ad un certo punto, non riconosco da quanto tempo sono qui, Sakura si volta verso di me, sorridendo. Non appena mi vede però, quell’espressione rilassata svanisce, come scivolandole via dal volto, lasciando il posto ad uno sguardo sorpreso e…colpevole?

“Hinata” leggo il mio nome nel movimento delle sue labbra, perché il suono mi giunge qualche secondo dopo. “Hinata” ripete, avvicinandosi. Io mi immobilizzo, smettendo persino di respirare. Sakura si ferma, la mano tesa verso di me, senza dire una parola. Mi volto e sto per andarmene, quando sento anche la sua voce, proveniente dall’interno del chiosco :”Sakura, con chi stai parlando? Perché continui a perdere tempo?” Lei inspira con forza, e grida “Naruto, stà zitto” poi la sento avvicinarsi a me. Mi volto giusto in tempo per evitare una sua carezza sulla spalla. Lei rimane per qualche secondo con la mano in aria, come prima, senza sapere bene che dire. Me ne vado prima che abbia il tempo di aprire la bocca o di toccarmi di nuovo, prima che Naruto abbia il tempo di uscire e di vedermi in quel modo, prima che il mio cuore si spezzi del tutto.

Corro senza guardarmi indietro. Non so bene neanche dove sto andando, perché non ragiono lucidamente, e non scorgo la strada davanti a me. O meglio, gli occhi riescono a vederla, ma il cervello si rifiuta di registrare le immagini. Forse è per questo che non lo vedo e gli finisco dritta addosso. Alzo gli occhi verso il suo volto, cercando di riconoscerlo, ma tutto il suo viso rimane nell’ombra degli alberi sotto ai quali ci troviamo. “Dove sono?” chiedo in un soffio, più a me stessa che a lui. La figura si sposta leggermente, e, per un attimo, il sole colpisce i suoi occhi, neri e lucenti. “S-Sasuke?” so che è una sciocchezza, che se n’è andato da tempo, ma quegli occhi non mi ricordano che lui. “Sasuke. Sei tu?” chiedo di nuovo. Non risponde, spicca un balzo e si allontana, tra gli alberi.

Non so cosa fare. Se fosse stato Sasuke probabilmente non si sarebbe mostrato in quel modo, eppure c’era qualcosa in quella persona, qualcosa che inequivocabilmente mi fa pensare a lui. E poi, se fosse veramente chi penso che sia, adesso sarei costretta a tornare indietro e parlarne con Naruto o con Sakura. Pensare a loro spalanca di nuovo la voragine che ho nel petto, e mi convinco che mi sto sbagliando. Non può certo essere lui. Se n’è andato.

Adesso il mio corpo ha perso tutta la sua leggerezza, anzi, è come se un peso enorme mi sia stato posto sulle spalle, che già mi fanno male, come indolenzite. Probabilmente tutto il mio corpo sta provando dolore, ma nulla, nulla è comparabile alla voragine che infuria dentro al mio petto.

Tornando a casa, le lacrime che mi annebbiano la vista, tutto nel Villaggio mi sembra fuori posto. Il negozio di fiori di Ino è troppo colorato, e gli alberi che circondano il Villaggio sembrano troppo scuri e minacciosi. La gente non mi guarda più con sorrisi calorosi, ma, quando passo, si volta, come se non si accorgesse di me. D’altra parte, mi rendo conto improvvisamente, quasi nessuno si accorge di me.

Quando sono troppo vicina per tornare indietro, mi accorgo di essere quasi arrivata. Mentre osservo casa Hyuga, un nuovo peso mi crolla addosso, al pensiero che, appena entrata, mio padre mi costringerà a raccontargli tutta la mia missione, ogni singolo dettaglio compreso. La luce in camera di mia sorella è già accesa, e io potrei arrampicarmi sul muro ed entrare dalla finestra, in modo da evitarlo, ma, quando sono salita fin proprio in cima, sento la sua voce che mi richiama indietro. Mi lascio quasi cadere a terra, sicura che il mio corpo sia abbastanza pesante anche per sprofondare, se non mi trattenessi. Mio padre mi segue rigidamente in casa. Prima di entrare alzo lo sguardo al cielo e la luce del tramonto, dolorosamente brillante e fin troppo vicina, mi fersce gli occhi. È da tanto tempo che non rivedo il sole.

  

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Capitolo 2
*** Raso ***


Raso

“Tu sei così,
frammento mio di quotidianità,
che puntualmente vivi la mia vita
che al primo freddo mi riscaldi l'aria intorno.
La notte fredda sarà
sotto un parato di stelle
la luna imbiancherà
gocce che rigano il viso
le raccoglierà
lucide e chiare
un mare senza onde è tanto grande, navigando senza vele.
Ecco è così
che riempio poche ore della vita…”

Raso (Mina)

Era una mattina di primavera, ma nel paese della sabbia non si potevano vedere né odorare i colorati fiori dalle mille sfumature, non si poteva ammirare la loro bellezza e spensieratezza, non si poteva godere di un angolo di paradiso regalato dalla natura.

Si poteva vedere soltanto la sabbia, granelli di polvere marroncina e nera che svolazzavano liberi tra le strade di Suna portati da un venticello caldo ma sufficientemente tiepido, considerando il clima quotidiano del paese.

La luce accecante illuminava le case del Villaggio, facendo ombra su di una piccola figura che non riusciva nemmeno a godere di quella luminosità quantomeno apparente: era un bambino dai capelli rossi che camminava solo per quelle strade ormai deserte, considerata l’ora di pranzo, ma lui non aveva un posto dove andare.

Si aggirava per il Villaggio della Sabbia con la testa china ed una piccola anfora in ceramica sulla schiena, trascinando il proprio corpo per quelle vie che non sembravano appartenergli più di tanto.

Arrivò dinnanzi ad una piccola piazzetta e vide due bambini all’incirca della sua età che giocavano felici con una piccola pallina colorata: sorridevano e correvano allegri e così anche il piccolo si avvicinò a loro con cautela, mostrando sul volto un accenno di felicità.

- Posso giocare con voi? –

Disse con voce pacata ma che lasciava trasparire un poco di gioia, mentre i suoi occhi di un verde acqua limpido e puro ammiravano la bellezza della felicità impressa nel volto di quei bambini.

Questi gli sorrisero e fecero per passargli la palla con cui stavano giocando quando ad un tratto arrivò un ragazzo di qualche anno in più di loro, il quale lo squadrò con aria severa e quasi aggressiva mentre la sua fronte si corrugava ed assumeva una smorfia di disgusto.

- Ehi tu, vattene da qui! Non sei il benvenuto! -

Il suo tono di voce era aggressivo e imponente, quasi come avesse voluto ferirlo con le sole parole ed il bimbo dai capelli corti e rossicci si lasciò intimorire da quell’arroganza, socchiudendo le mani e portandosele al petto.

- Ma… Io… -

Aveva cercato di scusarsi il piccolo indifeso quando il ragazzo dalla parte opposta si infuriò brutalmente: il bimbo dagli occhi puri e misteriosi restò ancora più impaurito da quello sguardo e atteggiamento così aggressivo e quasi cattivo nei suoi confronti, senza che lui potesse fare nulla per rimediare o modificare quel maledetto destino ormai scritto per lui.

- Tu sei un mostro, non devi stare qui!! -

E dette quelle parole con maggior impeto gli aveva lanciato due kunai dritti in viso, come avesse voluto davvero ucciderlo e mentre gli occhi del piccolo tremavano e si riempivano di terrore, una barriera di sabbia si alzò dinnanzi a lui proteggendolo da quel gesto mortale.

Il ragazzo allontanò i bambini da quella piazza e con uno sguardo stupito e prese a correre nella direzione opposta, mentre il piccolo rossiccio restava immobile nella sua posizione: un’ombra del sole lo invadeva mentre la sabbia che lo aveva appena salvato pian piano si diradava, permettendogli di vedere ancora una volta la sua solitudine più infima.

Mentre a stento tratteneva le lacrime e sul suo viso si dipingeva la tristezza più totale, il bambino si avvicinò al centro della piazzettina e si chinò leggermente per raccogliere un oggetto colorato e rotondo: i bambini, nel fuggire da lui, si erano dimenticati della loro palla e l’avevano abbandonata lì.

La guardò come fosse parte di lui, come gli assomigliasse: entrambi soli, entrambi abbandonati per paura e timore insensati.

Percorse altre vie di quel villaggio sino a raggiungere una piccola collinetta di sabbia dalla quale vedeva tutta Suna, quasi dall’alto, come se potesse controllarla, come se potesse decidere cosa fare di quel paese che non sembrava capire i suoi sentimenti ma piuttosto rifiutarli.

I suoi occhi si riempirono di lacrime ed un pianto incessante lo pervase, mentre la tristezza e la disperazione lo costrinsero a gettare quella pallina che vanamente sembrava potergli donare un po’ di felicità lontano il più possibile da lui, come volesse allontanare quell’oppressione da sé.

Mentre piangeva, sentì una mano piccola e calda appoggiarsi alla sua spalla con fare delicato.

- Ehi, Gaara, che ci fai qui tutto solo? -

Il bambino si voltò verso quella voce infantile ma fraterna e scorse la figura snella e solare di sua sorella: i suoi quattro codini si muovevano leggermente sospinti dal vento fresco mentre i suoi occhi di un verde brillante sembravano illuminare l’oscurità che lo invadeva.

Gli sorrideva con fare materno e lui non poté che sopprimere il pianto, mentre ancora qualche lacrima gli solcava il volto.

- Nessuno mi vuole, sorellona… -

Aveva detto piagnucolando, mentre il suo cuore aveva deciso di calmarsi lentamente ed abbandonarsi a quella pace tanto attesa.

La ragazza rimase stupita di quelle parole, ma dopo qualche attimo si sedette dietro il fratello minore e lo abbracciò con amorevolezza, trasmettendogli tutto il calore e l’affetto che provava per lui, come a cercare di consolarlo in quella situazione che lei conosceva bene.

- Non è vero Gaara! Noi ti vogliamo bene! -

Gli disse con un sorriso ampio sul viso luminoso mentre dietro di lei si faceva avanti la figura del fratello marionettista, ovvero Kankuro, il quale aveva un sorriso beffardo sul viso che tuttavia voleva trasmettere soltanto amore verso quel fratellino emarginato senza pietà.

- Ehi stai piagnucolando ancora, fratellino? Guarda che se continui così finirò per diventare io l’emarginato sociale di casa! -

Aveva scherzato con fare beffardo e per quanto tutti e tre sapessero che quella battuta contenesse in realtà molte verità, Gaara lasciò che un leggero sorriso gli comparisse in viso, come una speranza di un futuro più sereno e amorevole.

Guardò i visi sorridenti dei suoi fratelli e per una volta nella sua vita si sentì… Caldo. Provò un senso di armonia verso quel mondo che non aveva mai sentito prima: sentiva l’affetto dei suoi fratelli e la loro vicinanza, dopo tanto tempo, non lo faceva più sentire solo, ma quasi a casa.

Kankuro gli si sedette affianco, osservando insieme a lui il magnifico tramonto prematuro che si stava manifestando nel cielo rossastro, mentre la luce pian piano calava sul Villaggio della Sabbia.

Anche Temari aveva lo sguardo fisso su quel magnifico spettacolo che la natura gli aveva donato ed i suoi occhi brillavano di un affetto sincero e puro, mentre le sue esili mani stringevano ancora il corpo del fratellino davanti a lei, come a volergli far capire che non fosse solo, che loro c’erano.

Gaara osservò i visi dei suoi fratelli e mentre un sorriso pieno di gioia e speranza si dipingeva sulle sue labbra, voltò il viso in direzione di quel sole rossastro che sembrava volerlo salutare con un dono magico e sincero, ovvero se stesso.

Ancora ricordo quel momento, ancora ricordo di quella mia infanzia bruciata e rapita all’affetto e all’amore.

Io non provavo nulla, non potevo provare nulla e questo mi aveva sempre allontanato dalla realtà, da cosa fosse davvero importante nella vita.

Ero sempre rimasto solo, sempre emarginato, sempre escluso e temuto per qualcosa che non mi apparteneva e di cui non avevo colpa…

Ma a quanto pare non avevo diritto di parola in merito e questo bastava per rendermi un mostro.

Ora sono seduto sulla stessa collina, la più alta nei dintorni del villaggio della Sabbia mentre osservo Suna che si lascia trasportare nel sonno della notte, abbandonando quel rossore intenso e tenue allo stesso tempo che ha accompagnato la mia malinconia per così tanto tempo.

Sono il Kazekage, sono diventato il capo di questo paese e potrei fare qualsiasi cosa:

potrei decidere di prendermi una rivincita su tutto,

di vendicarmi del male che mi è stato fatto,

di far soccombere tutti coloro che hanno odiato un bambino impuro che non poteva difendersi da se stesso…

Ma non l’ho fatto e mai lo farò, perché io ho qualcosa per cui vale la pena di tentare di amare.

- Ehi, Gaara, che ci fai qui tutto solo? -

Sorrido leggermente mentre quel tiepido calore di una volta mi riscalda nuovamente l’animo, come se nulla fosse cambiato da quel momento.

Mi volto verso il viso limpido di mia sorella: è cresciuta, è diventata una jonin esperta e bellissima, una delle più ammirate e temute, la mia alleata più fedele e amata…

Eppure, ai miei occhi resta ancora quella Temari serena e gioiosa che mi aveva pian piano allontanato dall’oscurità, facendomi sentire meno solo e abbandonato ad un destino ingiusto: lei sì, mi ha insegnato che il fato può essere cambiato, che noi siamo artefici del nostro destino, che possiamo decidere della nostra vita, se solo lasciamo che l’amore la prenda per mano l’accompagni nella sua breve e fugace esistenza.

Mi sorride in modo più contenuto rispetto a quella volta, ma nonostante il grande cambiamento avvenuto in noi da quel giorno, come allora lei si siede accanto a me e mi sorride, ammirando il tramonto ed i suoi impareggiabili colori.

L’ha visto miliardi di volte, questo sole, eppure continua a venire qui, a starmi vicino, a rivivere con me ciò che eravamo e ciò che siamo…

Prima che io possa parlare, lei si volta verso di me e mi dona un sorriso semplice ma sincero, mentre i suoi occhi brillano di quella luce pura e questa volta anche i miei si lasciano illuminare dai raggi del sole.

- Tu non sei solo, Gaara. -

Mi dice con voce rilassata e sincera, come se non fossimo più il Kazekage e la sua guardia del corpo più fidata: no, siamo soltanto Gaara e Temari, due fratelli, due animi che insieme hanno lottato e insieme sono cresciuti: insieme hanno conosciuto l’affetto ed il calore dell’amore.

Dietro di noi si erge la figura ormai imponente di Kankuro, il quale fissa il sole calante con la stessa intensità di una volta, mentre il suo sguardo va unendosi a quello di mia sorella in quell’unica e vera direzione.

Questa volta non ho bisogno di osservare i loro visi, non ho bisogno di accertarmi che siano uniti e volti ad un unico obbiettivo, ad un'unica via.

Guardo il tramonto con occhi speranzosi mentre i flebili raggi di luce questa volta non esitano a illuminarmi il viso, mettendo in risalto i miei occhi chiari e, questa volta, più puri che mai.

Respiro a pieni polmoni quel momento di pace e serenità, mentre il mio animo si quieta e si anima di una calore puro ed intenso: questa volta anch’io posso guardare il tramonto, verso un’unica direzione, verso la mia vera vita, verso l’affetto e l’amore.

Temari e Kankuro, i miei fratelli, mi hanno salvato da quell’oscurità, mi hanno trasmesso il loro calore e condotto sino ad una via più vera, dove finalmente solitudine ed oscurità possono tramontare lasciando spazio alla luce limpida della luna che non teme di mostrare il suo colore e la sua luminosità.

Capitolo di: ellacowgirl in Madame_Butterfly 

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Capitolo 3
*** Abducted ***


 

Come la sabbia e il cielo dei deserti roventi,

Sordi entrambi ad ogni voce d’umana sofferenza,

Come il giuoco dell’onda nel viluppo dei venti,

Ella si stende e si snoda con piena inifferenza.

 

I suoi limpidi occhi sono pietre stupende,

E nella sua natura allegorica e strana,

Dove l’antica sfinge un cherubo asseconda,

 

Fra l’acciaio e i diamanti l’oro e la luce splende

D’un eterno splendore come una stella vana..

(“Quando passa” C. Baudelaire)

 

Quando riprendo conoscenza sono ancora legata, bendata, imbavagliata e stesa a terra su un pavimento sudicio. Respiro pian piano, ma la polvere riesce ugualmente a risalirmi attraverso le narici fin nella gola e a farmi tossire. Mi muovo goffamente mugolando fino a quando non sono sdraiata su un fianco e sfrego uno contro l’altro i miei polsi legati e formicolanti a causa del mancato afflusso di sangue; la testa mi pulsa ritmicamente, facendo riecheggiare i suoni soffocati che avverto attorno a me e provocandomi un dolore insistente e penetrante. La guancia, rimasta a lungo a contatto con il pavimento freddo, reca impressi i segni dei miei denti e mi duole orribilmente. Sbuffo via un poco di polvere dal viso e sospiro profondamente: se solo questa mattina non mi fossi alzata dal letto, penso, mi sarei risparmiata un sacco di grane, non ultima quella di essere rapita da un ninja pazzoide che mi ha rinchiusa da qualche parte in una stanza fredda che puzza di umidità e gocciola, gocciola, gocciola …

 

Aprii gli occhi con qualche difficoltà, sfidando un flebile raggio di luce solare che penetrava obliquamente attraverso le tende socchiuse e cascava pendulo sul mio viso e mi voltai per dare le spalle alla finestra. Un’alba nebbiosa e bianchiccia si svegliava sopra gli alberi del villaggio e s’infilava dispettosa attraverso i vetri, disturbando un sonno che avrei voluto poter prolungare per sempre. Affondai la testa nel cuscino, cercando di soffiare via il senso di pesantezza che aveva ricominciato a gravarmi sul petto nel momento in cui avevo aperto gli occhi, ma riuscii solo a mordicchiare la federa bianca, così rinunciai e richiusi gli occhi, sperando di addormentarmi quanto prima. Speranza vana.

Mi rigirai nel letto ancora per una mezz’ora, indecisa se alzarmi o no, ma infine optai per la prima scelta e mi misi lentamente seduta. La stanza diveniva sempre più chiara man mano che il sole si liberava dell’impaccio dell’ombra degli alberi, delle montagne, delle mura del villaggio e riversava la sua luce aranciata sulle mura della mia camera. Peccato che io non riuscissi a vedere che ombre nel mio immediato futuro.

Sospirai sempre oppressa da quella sensazione di pesantezza in tutto il corpo, mi lavai e mi vestii, poi mi diedi un’occhiata nello specchio del bagno. Una sconosciuta con gli occhi scuri e gonfi mi fissò di rimando, senza espressione, e io mentalmente la insultai per la sua inettitudine. Stupida, stupidissima Hinata. Se solo non fossi stata così debole da avere il terrore folle di dichiararti, come se un rifiuto potesse ucciderti!, forse adesso Naruto starebbe baciando te. Bacerebbe te tutto il giorno. Rabbrividii al pensiero e mi allontanai dal bagno e dallo specchio gallegiando in uno stato indefinibile tra l’abbattimento estremo e il sollievo di aver sfogato su quell’immagine riflessa un po’ della mia frustrazione.

Uscii dalla finestra per evitare d’incontrare mio padre e mi diressi lentamente verso la magione dell’Hokage: dovevo incontrare Tsunade-sama per fare rapporto riguardo alla missione, così mi diedi due colpetti sulle guance e mi stampai un sorriso falso e forzato in faccia, senza la minima speranza d’ingannarla. Quella donna sapeva rivoltarti come un calzino con una sola occhiata.

 

Tsunade capì subito che qualcosa non andava e probabilmente, essendo la maestra di Sakura, sapeva esattamente di cosa si trattasse, ma, con molta delicatezza, evitò l’argomento e si limitò a registrare il mio rapporto e a farmi sapere che per il momento non aveva missioni da affidarmi. La pregai di informarmi quanto prima se ci fossero state novità e mi congedai.

Uscivo dall’ufficio camminando rapidamente a testa bassa quando andai a sbattere violentemente contro qualcuno.

Inorridita, riconobbi prima di tutto il suo odore, caldo e attraente, qualcosa a metà tra il profumo del miele e quello di una giornata di pioggia carica di fulmini, poi la sua ombra si proiettò fino in fondo a me, trapassandomi gli occhi e il cuore come una pugnalata, poi il suo sguardo mi attraversò dolorosamente e mi bruciò l’anima. Infine la sua voce, da migliaia di chilometri di distanza, chiamò il mio nome e mi strappò da quella confusa caligine nella quale la sua presenza mi aveva gettata.

“Hinata.” Sì, era quello il nome. Alzai gli occhi cercando di non svenire, forzandomi a sostenere il suo sguardo e sorrisi debolissimamente, tanto che fui certa che lui non se ne fosse accorto. Naruto. Risposi, ma la mia voce non uscì. Naruto Naruto Naruto Naruto Naruto. Nemmeno un suono. Sospirai sconfitta e accennai un altro sorriso smorto, prima di allontanarmi ignorando i suoi richiami. Avrei fatto per sempre così, mi dissi uscendo dalla magione. Avrei ignorato per sempre la loro presenza, schivato i loro sguardi, mi sarei nascosta alla loro vista, rubando il mio dolore ai loro occhi. Alzai lo sguardo per incontrare la vacua luminosità del cielo lucido e caldo di sole e strinsi gli occhi per fermare una solitaria lacrima incandescente. E un giorno sarei guarita e tornata alla luce. La lacrima mi gocciolò sulla guancia e rotolò giù giù giù.

Camminai senza fare caso a dove stessi andando, ciondolando attraverso il villaggio ancora deserto, ma la calma apparente della strada e lo stordimento provocato dal mio dolore mi confusero e annebbiarono il Byakugan, rendendomi del tutto cieca e vulnerabile. Stupida, stupidissima Hinata. Un colpo secco alla nuca e caddi come un sacco vuoto, senza minimamente essere in grado di difendermi o di fermare l’aggressore.

 

Un tocco viscido sul braccio mi sveglia e mi fa trasalire e ritrarre. Striscio sul pavimento scivoloso fino a trovare il muro coperto di una sostanza appicicosa e mi siedo appoggiandovi la schiena. La cosa che mi ha sfiorato il braccio sussurra e sibila e mi si avvinghia alla gamba, muovendosi sinuosamente. È fredda, squamosa e forte. Un serpente. Cerco di allontanarmi, ma ho le caviglie legate insieme e non riesco a muovermi, così scivolo lateralmente e quasi cado di nuovo a terra. Punto i palmi delle mani legate contro la parete sudicia e riesco a rimettermi seduta, ma il serpente continua a stringere le spire attorno alla mia caviglia e sale lentamente fino al ginocchio. Gemendo di disgusto e paura comincio a muovere le mani alla cieca, ma i miei movimenti impacciati provocano come risposta un sibilo d’avvertimento repentino e spaventoso, così rimango immobile più che posso, cercando di controllare il tremito del mio corpo. La bestiaccia striscia e si avvolge, risalendomi lentamente sulla coscia, fredda e inarrestabile. Sta per toccarmi la pancia quando sento sferragliare qualcosa alla mia destra e un soffio d’aria fresca interrompe il continuo esalare dei miasmi putrescenti della fanghiglia sul pavimento. Il sottile alito di vento si smorza e una mano allontana il serpente da me prima che dei passi vellutati e silenziosi si facciano sentire nella stanzetta umida.

“Sono contento che tu ti sia svegliata.” Sussurra piano una voce nota. Sasuke! Esclamo spontaneamente, ma il bavaglio che mi chiude la bocca mi distorce la voce e si mangia vocali e consonanti, così sembra solo che io biascichi mugolii incomprensibili. “Non agitarti.” Dice con lo stesso tono di voce, avvicinandosi. Spaventata, comincio a muovermi arretrando perché non mi tocchi, ma lui ride sommessamente, mi afferra con sicurezza e mi toglie il bavaglio. “Se fai la brava ti scopro anche gli occhi” Ispiro con la bocca cercando di mantenere la calma e Sasuke continua a ridacchiare. “Brava.” E come promesso scioglie il nodo che ferma la benda sui miei occhi.

Mentre cerco di abituarmi alla flebile e verdognola luce della stanza, certamente un sotterraneo a giudicare dalle tubature arrugginite e gocciolanti che coprono il soffitto, lui mi fissa intensamente accucciato davanti a me, la pelle bianchissima quasi brillante nella semioscurità della mia cella. Il suo sorriso luccica come le zanne del serpente acciambellato poco distante da noi ed è altrettanto pericoloso e viscido. Mi ritraggo ancora un poco, spaventata dalla fissità del suo sguardo nel mio e lui sogghigna perfidamente. “Non avere paura. Hai bisogno di qualcosa? Vuoi mangiare? Hai sete?” La fame e il bisogno di bere mi rendono debole e vorrei rispondere di sì, però quando apro la bocca sento la mia voce rispondere. “Slegami.” Sasuke smette di sorridere, si rialza, mi afferra malamente per un braccio e mi appoggia su una vecchia sedia di legno sgangherata, che scricchiola quando mi siedo e dondola dandomi l’impressione di essere sul punto di spaccarsi. “Questo non posso proprio farlo.” Mi spiega passeggiando per la stanza. “Vedi, non ho dubbi riguardo al fatto che i tuoi occhi straordinari sarebbero in grado di trovare il punto debole di queste vecchie mura e le tue abilità ti permetterebbero di uscire con facilità dal mio piccolo nascondiglio.” Mi lancia un’occhiata in tralice, trafiggendomi con il suo sguardo cupo e continua. “Per questo non posso slegarti. Però mi piacerebbe che tu mangiassi qualcosa e che bevessi anche. Vedi, non voglio che tu muoia per errore.” Rimane un momento in silenzio, pensoso. “Credo proprio che manderò qualcuno a farti compagnia.” Conclude infine soddisfatto. Vorrei rimanere chiusa in un dignitoso silenzio, ma prima che lui esca e mi lasci da sola, sibilo. “Non un serpente.” Lui si ferma sulla porta e torna indietro a recuperare quello che mi si era arrampicato sulla gamba. “Non un serpente.” Ripete uscendo. Tendo le orecchie per cercare di sentire il suo passo che si allontana, ma non percepisco altro che il suono ovattato e assordante del silenzio che si gonfia, pulsa e respira attraverso i corridoi di quel lurido scantinato.

Solo pochi minuti dopo che Sasuke mi ha lasciata, la porta si pare di nuovo ed entra un’altra persona, ma io non riesco a vederla fino a quando non si sposta dal fascio di luce accecante di una lampada che pende nel corridoio e si avvicina a me. È magrolina e piuttosto brutta e ha i capelli di un colore acceso, rosso mi sembra. Si china su di me e mi squadra attraverso un paio di occhialini neri e sottili e poi sentenzia acida. “Cosa ci troverà Sasuke di interessante in te rimane un mistero.” Scrolla le spalle e mi afferra per un braccio. “Andiamo, puzzi di muschio da fare schifo.” E con estrema naturalezza mi conduce fuori dalla cella attraverso un corridoio malamente illuminato, cercando di controllarmi senza avvicinarsi troppo ai miei vestiti incrostati di roba verde. Se non fosse che sono stata rapita, che ho fame, sete, il corpo indolenzito e la testa che pulsa e che una strana ragazza con un colore di capelli assurdo mi sta portando chissà dove, credo che potrei anche mettermi a ridere. 

capitolo di: Airi_

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