Sunshine in Winter

di Guardian1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Il Primo Mese ***
Capitolo 5: *** Il Secondo Mese ***
Capitolo 6: *** Il Terzo Mese ***
Capitolo 7: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 8: *** L’Ultimo Giorno ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Premessa (che tutto sommato potete saltare) della traduttrice, cambiata in corso d’opera: I miei sentimenti per questa storia sono decisamente altalenanti. Sto lavorando agli ultimi capitoli, e non mi trovo più tanto d’accordo con la premessa che avevo scritto all’inizio, in cui dicevo che oggi non l’avrei tradotta.
Per evitare di contraddirmi ulteriormente, lascio a voi tutte le conclusioni, facendo presente che il primo capitolo di questa storia risale almeno al 2000. E che l’autrice l’ha scritta più o meno quando aveva dai sedici ai diciotto anni, nel bene (uno stile già così definito, voci dei personaggi forti e riconoscibili, delicatezza e profondità richieste dalle tematiche) e nel male (qualche sporadica ingenuità e caduta, stilistica e non).
Che piaccia o meno, che io mi decida o meno su quello che penso di questa storia, Sunshine in Winter è pur sempre Sunshine in Winter. Rimane una delle fanfiction storiche e più famose del fandom anglofono di FFVII, EVER, e tra le storie di quel periodo è una delle poche che oggi non sfigurerebbe (e non sfigura) affatto, con buona pace di tutti quelli che dicono che si stava meglio quando si stava peggio e su internet ci navigavano tre anime in croce. E se ha incontrato tanto successo e continua a farmi cambiare idea un motivo ci sarà.
Che dire. Buona lettura. <3
PS: ho deciso di tradurla facendo abbondante uso del passato prossimo per una ragione ben precisa, ma non sono molto sicura del risultato. Ditemi un po’ cosa ne pensate.




Sunshine in Winter


prologo






Io, Yuffie Kisaragi, sono sempre stata una viaggiatrice.

Forse è allora che si è messo in moto tutto questo terribile casino: in quella foresta, come se non stessi aspettando che loro, quando mi fecero un culo così e li bollai tutti come imbecilli, soprattutto lui-

Un attimo. Sarebbe stupido iniziare da lì. È troppo prima dell’inizio, e tutti cominciano sempre dall’inizio, no?

È sensato cominciare dall’inizio.

Come potrei iniziare? C’era una volta e trallallero?

“C’era una volta una ragazza di nome Yuffie, ma questa storia fa schifo, perché lo sanno tutti che le principesse delle fiabe sono bellissime, hanno gli occhi dolci e splendidi nomi fiabeschi come Aeris.”

Non funziona. Io non sono una principessa.

Sono solo una viaggiatrice.

… Sì, così può andare.




Sono sempre stata una viaggiatrice, fin dalla tenerissima età di quattro anni. La storia narra del mio amore per i nascondigli in posti stupidi mentre mia madre diventava pazza per cercare la sua preziosa figlia, o delle volte che andavo in esplorazione delle enorme soffitte in cui trovavo trovavo sempre qualcosa di luccicante con cui giocare. Le cose che luccicano hanno sempre avuto un ruolo molto importante nel mio universo, specialmente quelle cose luccicanti con cui mio padre mi lasciava giocare, tonde e luminose…

La storia narra che io abbia messo i denti su una All materia. Io lo nego con veemenza…

Sono sicura che fosse una semplice Restore.

Comunque sia, meglio uscire dal Viale delle Digressioni. Ho sempre preferito gironzolare, infilarmi in ogni spigolo e angolo dell’universo, piuttosto che starmene con le mani in mano a sorseggiare tè. Non mi piace aspettare che il mondo venga da me; sono io che vado dal mondo! Benvenuta, Yuffie Kisaragi!

Le cose non andarono così per molto, molto tempo.

In ogni caso, persino dopo aver salvato il mondo (con un aiutino da parte di Cloud eccetera), non so perché, ma c’era gente che si aspettava che tornassi alla vita di prima. Col cavolo! C’era ancora un mondo là fuori che aspettava le mie tasche, migliaia di materia da trovare, migliaia di montagne da scalare. Non avevo ancora un posto nella vita, perciò dovevo crearmene uno – avrei esplorato il mondo, l’avrei conquistato!

È andata avanti così per due anni, fino a quando ne ho compiuti diciotto. Viaggiare da soli non è certo uno scherzo; ho visto raramente i miei amici, e gran parte del mio tempo è ruotato attorno al mio unico mezzo di sussistenza – la materia. Compravo, portavo al master, vendevo. Nell’arco di un anno avevo racimolato una fortuna niente male. Poi ero pure taccagna, e ne spendevo solamente lo stretto indispensabile.

La vita da soli è triste e pericolosa, e mi cacciavo in innumerevoli guai di cui in seguito ridevo. Cicatrici, un’infinità; sia sulla pelle che sulla psiche…

Oddio, adesso parlo come un maledetto psichiatra. O come Red, o Vincent, o che so io. In breve, ero sola. S-O-L-A. Non andavo più a trovare i miei amici, non sembrava ne avessi mai il tempo o la voglia; Red era a Cosmo, e Cloud e Tifa erano a Junon ad aiutare Reeve che trafficava con le rovine della Shinra, e Barret e la sua bamboccia erano tornati a Corel. Cid era morto, Shera gli aveva avvelenato il tè (almeno, questo è quello che avrei voluto io; abitava ancora a Rocket Town, orribile come sempre, a fumare e inalare acido tannico come se fosse passato di moda. E lei l’aveva pure sposato! E aspettava un figlio da lui! Ugh! Salvatemi da queste orrende immagini mentali!).

Aeris dormiva letteralmente con i pesci, e per quanto riguarda Vincent… Ah, molto probabilmente anche lui dormiva con i pesci, solo non altrettanto letteralmente. A quei tempi avrei scommesso una generosa fetta delle mie materia che si fosse rinchiuso in quello spregevole, vecchio maniero per lasciarsi marcire nella bara. Non che sarebbe cambiato molto.

Io e Vincent: « Ciao, Vincent. »

« … »

Io e Vincent che marcisce nella bara: « Ciao, Vincent. »

« … »

Io e il vuoto pneumatico: « Ciao, Vincent. »

« … »

Visto? Qualcuno nota differenze? Io di certo no.

Mi stava bene vivere da sola. Non mi dava fastidio più di tanto. Almeno ero lontana da Wutai, e dai grandiosi sproloqui di mio padre su un mio sospirato ritorno definitivo per fornirgli un “Leader per Wutai, o quantomeno un erede Kisaragi.” Alla fine divenni così stufa di sentirlo blaterare a proposito di quel dannato leader-per-Wutai o peggio, dell’erede, che esplosi.

« Se ci tieni tanto ad un erede, sfornatelo tu! Perché puoi stare sicuro che non sarò io a trovartene uno! »

E fu così che cominciò un’altra Guerra di Wutai, e ci urlammo contro per circa due ore. Godo si fece parecchio rosso in volto, e vomitò parole come “Dovere!”, e “Onore!”, e “Maturità!”, e io mi limitai a rispondere con le litanie che avevo appreso dal mio caro Cid (fui molto grata a Cid, in quelle ore). Alla fine, gli gridai di andarsi gentilmente a sedere su una puntina e aspettare che io gli facessi un porcellino, e me ne uscii sbattendo la porta. Non fu molto maturo, ma oh, la soddisfazione…

Era successo due anni prima. Non vedevo la lacca rossa di Wutai da allora. E ne ero felice, felice!

Ma avrei potuto uccidere per una bella tazza di tè al gelsomino.

Tuttavia, la storia non comincia nemmeno qui. Sarebbe un inizio noioso, perché per i due anni successivi non ho fatto altro che vagabondare e uccidere mostri, come già sapete. Ma dopo due anni, la fortuna sembra avermi abbandonato…

Ero nel cuore della giungla, da qualche parte vicino Gongaga, credo. Ero costretta a tenermi alla larga dal mondo civilizzato perché nei dintorni delle città ci sono solo mostriciattoli da quattro soldi, tipo quelle deficienti rane cloni verdi della morte. Io volevo qualcosa di grosso! Avevo una buona Restore materia prossima al completamento, e con un altro po’ di fatica avrei potuto sbancare la grana. Grossissimissimo!

E qualcosa di grosso mi è capitato.

Doveva essere scappato da una caverna e simili, perché l’ultima cosa che piace fare ai draghi è scorrazzare nelle giungle. Amano le pianure; avevo pensato di essere al sicuro quando avevo superato il limitare della giungla che emanava quell’odore così inebriante. Ero felice e sicura di me, Conformer alla mano.

Non era molto che cacciavo quando ho sentito un pesante flap, flap, flap sopra di me. Mi sono elettrizzata all’istante; quei rumori appartenevano sicuramente a delle ali enormi e coriacee, e credevo di essere incappata uno di quegli enormi uccelli feroci. Armeggiando per inserire la materia nell’arma, mi sono precipitata allo scoperto per affrontarlo, gridando per attirare la sua attenzione.

Oh, se solo avessi tenuto la bocca chiusa! Avevo attirato sì l’attenzione del mostro, ma un ruggito lacerante mi fece tremare le ginocchia e alzare lo sguardo. Era un drago, un drago verde, non uno sputafuoco carino carino o uno scemissimo rettile volante, bensì un gigantesco drago alato…! Ero scovolta, ma non abbastanza da dimenticarmi di usare immediatamente le materia.

L’ho colpito con un incantesimo di tuono di terzo livello, ma più che male gli ho dato fastidio. Con il suo ruggito gassoso successivo ha dato fuoco a una buona porzione di giungla, il crepitio del fuoco mi assordava le orecchie. Poi la creatura è piombata addosso alla sua preda – io.

Dopodiché non ricordo molto, eccetto che mi sono voltata per tuffarmi nella parziale sicurezza offertami dagli alberi, sentendo la sua presenza opprimente contro di me e d’un tratto un dolore, un dolore acuto, intorpidente e lancinante artigliarmi la gamba sinistra.

Doveva aver provato ad afferrarmi senza successo; è però riuscito a ferirmi.

È stata proprio la giungla a salvarmi, alla fine. Sono caduta nel sottobosco, e il drago doveva aver avvistato una preda più grossa e più paffuta di me che era stata scoperta dal suo fuoco. Sono rimasta stesa lì a piagnucolare come un gattino in punto di morte, il corpo stordito dal dolore cocente e scoppiettante; sentivo qualcosa muoversi nella mia gamba in copiosi e pesanti torrenti.

Intontita, ho provato ad alzarmi, e il dolore mi ha fatto subito soffocare in un mare di vomito.

Ho finito di vomitare sul terriccio lì vicino, e alla fine, la consapevolezza che sarei morta da sola in una disgustosa giungletta, cibo per qualche stupida rana mutante della morte, mi ha fatto scoppiare in lacrime. Ho urlato il più forte possibile, e poi, quando il dolore si è intensificato troppo, ho perso misericordiosamente i sensi.




Ho sognato, nel mio sonno delirante e febbrile.

Ho sognato che Aeris mi teneva la mano, tutta vestita di verde, e mi diceva di stringere i denti perché il Lifestream non aveva ancora bisogno di me. Neanch’io avevo bisogno del Lifestream, ma la sua presenza era confortante. Fanculo la morte, le ho detto. La sua risata avrebbe potuto spezzarmi il cuore. Penso l’avesse già fatto.

Ho sognato che, sparita lei, al suo posto è comparsa mia madre. La confusione e il dolore stavano crescendo, e lei non parlava; mi ha accarezzato soltanto la fronte. Stavo cominciando a piangere per il dolore e la stanchezza e l’amaro desiderio che finisse tutto.

Ho sognato che arrivava Vincent; si è accovacciato vicino a me, artiglio alla mano. Mi ha afferrato la gamba prima che io potessi implorarlo di fermarsi, vi ha fatto un incisione, e io ho gridato e gridato e gridato.

Poi i sogni sono cessati.




« Penso stia rinvenendo. »

Oh, ma dai, ho pensato tra le vertigini, e poi mi sono accorta del dolore. La gamba sinistra mi bruciava da morire, e faceva male come non mai; era come se qualcosa me la stesse corrodendo. La mia lingua sembrava un calzino, ma questo non mi ha impedito di frignare rabbiosamente.

« Puoi somministrarle qualcosa, Akila? Io devo preparare il trattamento. »

Qualcuno mi ha stretto il braccio e poi ho sentito una siringa infilarsi nella mia vena. Il logorante dolore che ha seguito era come saltellare tra le margherite in confronto ai Tonberry che stavano presenziando al festival nella mia gamba.

« Come ti senti? »

A parlare era stata una voce gentile, di donna, quel genere di voce che ti chiedeva se gradivi il latte con i biscotti. Non ero però dell’umore per le voci gentili, o per il latte coi biscotti.

« Uda berda, » ho gracchiato, a voce roca e ansante.

Lei ha afferrato il succo.

« Beh, era prevedibile, cara. Sei finita in un bel guaio. »

C’era qualcosa sui miei occhi, fresca e umida, e così su tutta la fronte. Ho deglutito.

« Perché non ci vedo? » ho chiesto.

« Ecco, cara, hai avuto una febbre veramente brutta, e ora i tuoi occhi sono molto sensibili alla luce » ha risposto lei, evasiva. « Credo che sarebbe meglio se non ti togliessi quel panno per qualche ora. »

Ho sospirato e mi sono rilassata sul letto. Il sedativo con cui sono stata inforcata ha iniziato a far effetto, e il dolore stava sfumando; ero anche un po’ confusa, ma almeno il dolore stava svanendo. Ero così sollevata che ho pensato che avrei potuto saltare in piedi e ballare una giga gridando: “EVVIVAAA!”

Tuttavia, il suo tono vago mi ha reso morbosamente curiosa.

« Che cos’ha la mia gamba? È rotta? Mi fa un male cane, ma nel senso che davvero davvero davvero- »

« Posso immaginarlo. Hai perso molto sangue, e qualche muscolo si è strappato. E la tua ferita ha fatto infezione, e c’è mancato poco che morissi. Non sei nemmeno ancora del tutto fuori pericolo. »

« Grazie » ho bofonchiato.

« Suvvia, è un miracolo che tu sia sopravvissuta a tanto, con l’infezione e tutto; si è propagata per tutto il sistema sanguigno. » Beh, questo spiegava perché mi sentivo come uno stronzo al vapore. « E poi hai perso tanto di quel sangue… Oh, se quel Vincent così carino non ti avesse portato qui in tempo- »

Ho provato ad alzarmi, ma mi è venuto un capogiro e sono ricaduta giù. « Vincent? » ho squittito. Oh, per tutti i denti del diavolo, no. Dovevano esserci miliardi di Vincent là fuori. « Questo Vincent ha per caso i capelli lunghi scuri e gli occhi rossi e fa un po’ paura? » ho continuato, interdetta.

« Oh, non direi proprio paura, però sì, begli occhi davvero! » ha cinguettato l’infermiera. « Ahh, un ragazzo tanto beneducato, mi porta sempre i fiori la domenica- »

E qui è partita un’interminabile lista delle grazie di Vincent, e avrei scartato l’ipotesi che fosse Valentine se non fosse stata per la sua malinconica conclusione: « Anche se preferirei che fosse un po’ meno taciturno. »

Beh, chi poteva essere se non quel coglioncello. A Vincent è stato magnanimamente concesso di possedere uno o due minuti dei miei pensieri, che per la maggior parte si riassumevano nella frase “Perché è qui?” e altri cliché sullo stesso stampo. Nemmeno Mister Congiuntivite avrebbe potuto catturare la mia attenzione a lungo, e presto la mia mente è tornata alle mie condizioni: alla gamba che ricordava un pezzo di legno gonfio – un legno gonfio e dolorante.

Non riuscivo a sentirla per bene, ed era questo che mi spaventava; un dolore penetrante mi avrebbe assicurato che almeno ero tutta intera.

« Vado un attimo dal dottor Bannon, cara » ha trillato la donna. Grazie agli Dei.

Il rumore secco dei tacchi ha segnalato la sua annunciata e benaccetta dipartita, e ho tastato quello che avevo in testa. La benda bagnata è stata legata, ma per una ragazza che ha scassinato la sua prima serratura alla dolce età di cinque anni, cos’è un nodo?

L’ho tolto in men che non si dica e la luce del sole mi ha punto gli occhi. « Ah! » ho sospirato irritata. Cavoli, certo che il sole splendeva forte, anche se la stanza era tipicamente gongaganiana: mura di terracotta, fiori secchi alle pareti, aromi nell’aria, mobilio di legno. Ero sorpresa quanto delusa che non mi avessero ancora fatto roba figa, tipo riempirmi di impasto di occhio di rana salmodiando strane litanie attorno al mio corpo.

Ah, la vista mi era tornata. Era ora di ispezionare la mia gamba.

Ho sbattuto le palpebre.

Poi ho gridato e gridato e gridato e gridato e ho iniziato a muovermi come impazzita, e sono ruzzolata giù dal letto e c’era un dolore atroce che collegava la mia gamba al mio corpo che sembrava un’entità a parte e poi non c’è stato altro che il mio grido, acuto e dilaniante nella gola, prima che entrassero nella stanza per darmi un altro tranquillante e diventasse tutto grigio.




Oh, madre, che gli Dei mi assistano.

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Sunshine in Winter


capitolo uno






« Signorina Kisaragi, temo che le siano rimaste ben poche alternative sicure. Non glielo proporrei mai se non ne sentissi la necessità, ma credo che per la salvezza della sua vita dovremo ampu- »

« No. »

Suppongo che, di norma, il dottor Bannon sia un uomo gradevole. Ha un bel ceppo di capelli spenti e biondi, occhi castani, occhiali, e un tic nervoso a un occhio. A quanto pare, dopo il casino di Meteor ha aperto una clinica a Gongaga per conto di Reeve, come più o meno in ogni città del mondo. Ecco spiegata l’assenza della bella vecchia medicina religiosa di Gongaga. Non avrebbe potuto sbattermene di meno; anzi, a questo punto, avrei pagato qualunque somma per la cara vecchia medicina religiosa di Gongaga.

« Signorina Kisaragi, mi stia a sentire. » La sua voce era irremovibile. Che uomo paziente. « Quest’infezione si sta diffondendo in tutto il suo corpo; ora come ora potremmo amputare subito sotto il ginocchio. Ma lei è stata gravemente ferita e avvelenata; lei è incredibilmente debole e il numero dei suoi globuli bianchi si sta per ridurre considerevolmente a causa degli antibiotici che abbiamo usato per il veleno. Non ho altra scelta che, in buona fede, rimuovere la gamba infortunata prima che l’infezione si prenda anche la sua vita. »

« No. »

La strada da seguire era un tono vuoto, pacato e piatto. La strada grazie alla quale non avrei dovuto pensare. La strada grazie alla quale non avrei dovuto affrontare nulla. Lui ha attaccato con un tono implorante: « Signorina Kisaragi, è una questione di mesi. »

Silenzio.

« Signorina Kisaragi, lei morirà. »

Silenzio.

« A Junon hanno messo a punto delle protesi eccellenti, dall’aspetto perfettamente naturale » ha accennato, scambiando il silenzio per obbedienza.

Lo sapeva dove poteva ficcarsi le sue protesi?

« No. »

Lui ha aggirato lentamente il bordo del mio letto e ha avvicinato una sedia. Mi sono rigirata sulla schiena, lontano da lui.

« Morire per un’infezione batterica non è piacevole » ha mormorato. « Non posso dirle se sarà rapida o lenta. Se ha fortuna, la morte giungerà in fretta; in caso contrario, tirerà avanti, perdendo a mano a mano le funzioni del suo corpo, con una lentezza indicibile, inchiodata nel letto ad aspettare la morte- »

« Stia zitto! » ho urlato, e sono scoppiata a piangere.

Ma lui ha continuato a parlare. C’era una buona probabilità che un altro malessere mi portasse via; c’era una buona probabilità che verso la fine entrassi in coma. Non aveva neanche finito il suo discorso che già mi ero consumata gli occhi con le lacrime e mi davo a singhiozzi asciutti e a scatti, come il vagito di un neonato che fa i capricci. Alla fine è stato accompagnato fuori dall’infermiera, e ho sentito delle voci propagarsi lungo il corridoio; non importava. I singhiozzi non si sono interrotti, l’isteria, la gola che si chiudeva… Mi hanno fatto un’iniezione, credo, perché sono ripiombata nell’oscurità.




Dopo essermi svegliata, ho trovato del porridge, e del torbido succo d’arancia, e – Vincent. Si era seduto vicino a me, e a dispetto dei brontolii del mio stomaco è stato su di lui che mi sono concentrata innanzitutto.

Mi è sembrato esattamente lo stesso dell’ultima volta che l’avevo visto, quando ci dividemmo; ha cambiato vestiario, però, e ha domato i capelli d’ebano in una coda di cavallo. Di quello sono rimasta un po’ delusa; avevo sempre ammirato la lucentezza di quella fluente chioma nero-blu. I suoi abiti, benché neri quanto i suoi capelli, erano in qualche modo più normali di quelli che indossava anni fa. Comunque, dopo una sommaria ispezione, mi sono stufata di analizzarlo e sono andata dritto al sodo.

« Perché sei qui? »

« … Ci vivo » ha risposto lui con semplicità. « Ti ho portato la colazione. »

« Non la voglio » ho detto, mettendo il broncio. La mia gamba pulsava, martellava, faceva così male che sembrava non appartenere al mio corpo. « Morirò. Tanto vale che muoia di fame. »

« L’inedia è un processo lungo. »

« Oh, sparisci. » Ho afferrato il vassoio e ho cominciato a mangiare ciò che conteneva. Il porridge era dolce, ma aveva un retrogusto amarognolo che mi ha avvertito della presenza di qualche medicina spiaccicata dentro.

Dopo alcune cucchiaiate, ho notato che i suoi occhi erano ancora fissi su di me, e l’ho guardato indignata. « Ma che diamine ti fissi? Cos’è questa, la settimana de “guarda il moribondo di turno?” »

Allora ha incrociato i miei occhi, e per qualche ragione sono arrossita e ho dovuto distogliere lo sguardo. Maledizione, se non ho sempre odiato quei suoi occhi rosso scuro; hanno qualcosa al loro interno che mi tocca, che mi dice: “conosco tutti i tuoi segreti.”

« Tu non morirai, Yuffie. » Ha usato lo stesso tono vocale di sempre, flebile e delicato, ma rinsaldato da una punta di fermezza.

Io ho additato la gamba gonfia avvolta nelle bende, con tutte le sue sgradevoli ombre rosse e verdi, e i lividi violacei dove era visibile la pelle irritata. « Se vuoi un riassunto, va’ a parlare con quella faccia di merda del dottore. Ti racconterà tutto il processo passo per passo! »

« È solamente… preoccupato, Yuffie. È la tua unica possibilità concreta di sopravvivenza, ho sentito. »

« Non voglio vivere con una gamba sola » ho detto con calore. « Non voglio camminare con i bastoni, non voglio essere brutta! Tu non capisci! »

Ha sollevato il braccio, l’artiglio d’oro bruciato dai riflessi ramati.

« Non è la stessa cosa » ho praticamente singhiozzato per la frustrazione. La medicina nel porridge ha aspirato il dolore e quindi il mordente della mia rabbia, ma per contro sono sprofondata negli spasmi dell’auoto-commiserazione. « La mia gamba è la mia vita! Come posso combattere? Io sono una ninja! Ho bisogno di questa gamba. Io – io preferirei morire, e questa è la mia decisione, che diamine. »

Lui ha annuito, calmo e pacato. « Sì… è una decisione che sei libera di prendere. »

Ho agguantato il succo d’arancia e l’ho assaggiato. Troppo aspro per i miei gusti, ma almeno era liquido e fresco, e aveva un sapore fantastico, anche con quel retrogusto amaro. Che sollievo scoprire che Vinnie non mi avrebbe ingrossato le palle sull’aspetto che il mio corpo avrebbe acquisito da lì a nove mesi; certo, aveva la faccia depressa, ma a quella c’ero abituata e parlava senza dubbio più del nor-

« Tuttavia, tornerai a Wutai. »

Ho risputato una sorsata di succo nel bicchiere, inalando il sapore degli agrumi. Il mio setto nasale andava a fuoco, ma ero troppo stupita e arrabbiata per badarvi. « … Cazzo hai detto?! »

Lui non si è scomposto. « Poiché non hai ancora raggiunto l’età legale di ventun anni per poter badare a te stessa secondo la legislazione wutainiana, dovrai andare da tuo padre. Ti scorterò io per accertarmi che non cambi idea lungo il tragitto. Non prenderai una decisione del genere tanto alla leggera, Yuffie, non senza Godo. Asa, il saggio medico di Wutai, sarà in grado di eseguire ogni operazione chirurgica che ti servirà, e ti seguirà per tutto il resto. »

Asa è la saggia-cum-dottoressa di Wutai, che dimostra tremila anni (probabilmente ne ha di più) e ha fatto nascere più o meno tutti i componenti della città.

Ero troppo furibonda e sconvolta per parlare. La mia faccia si è fatta rossissima, e ho sputacchiato versi incoerenti, tremando di collera.

« Godo ne è stato informato » ha aggiunto con disinvoltura. « Cid arriverà in mattinata con la sua aeronave… Saremo a Wutai prima di domani pomeriggio. » E senza alcun saluto di commiato, si è alzato e si è diretto alla porta.

« Schifoso bastardo! »

Ho lanciato il bicchiere ormai vuoto alla sua schiena. La porta si è chiusa prima che potessi colpirlo, e il vetro si è frantumato in un milione di pezzi sul pavimento di terra.




Quella notte, invece di dormire, ho fumato di rabbia. Sono rimasta sveglia nella frescura serale e ho fissato lo sguardo fuori dalla finestra finché la prima pallida luce del sole non si è mostrata all’orizzonte, aspettando di sentire il ruggito familiare dei motori dell’Highwind che sfrecciava lontano fuori Gongaga. Oddio, quante ne avrei dette, a Vincent! Gli avrei strappato il braccio finto e l’avrei usato per bastonarlo a morte. Poi avrei trascinato il suo cadavere per un po’ e poi mi sarei messa a saltellargli sulla pancia e poi, e poi…

Con questi allegri pensieri, mi sono calmata un po’ e mi sono assopita.

Dopo quello che mi è sembrato meno di un minuto, mi sono svegliata perché qualcuno mi stava sbatacchiando letto; mi sono drizzata a sedere e mi sono stropicciata gli occhi.

« Porca puttana » ha grugnito una sagoma familiare, trainando il letto fuori dall’ospedale improvvisato in modo tutt’altro che delicato. « Vincent mi aveva detto che ti avrei trovato addormentata. »

« Fermati » mi sono lamentata flebilmente. « Rimettimi giù. Non salirò sulla tua orrenda aeronave, e se ci salgo Dio mi è testimone che vomiterò pure i polmoni, perciò faresti meglio a rimettermi dov’ero. »

Cid ha fatto un ghigno, ciccando la sigaretta di lato. « Ah! Ti piacerebbe, teppistella! Non appena ho saputo che saresti venuta sulla mia nave, ho capito che mi avresti vomitato dappertutto, così ti ho preso delle lenzuola di gomma. Bella gamba, comunque. »

« Ti odio. »

« Stronzate » ha detto lui, soprappensiero. « Ai miei tempi, a voi teppistelli non veniva data nessuna possibilità. Si segava la maledetta gamba e via. E cazzo, noi non si parlava mica di protesi – avresti dovuto vedere uno dei ragazzi che lavorava con me a ingegneria, alla Shinra. Quella testa di cazzo si tagliò tutta la mano e al suo posto ci istallò una lima per continuare a menare. Lo chiamavamo- »

« Mano-lima? » ho suggerito sarcastica.

Cid ha sbattuto le palpebre, poi ha spostato la sigaretta all’altro lato della bocca. « Nah, lo chiamavamo testa di cazzo. Avresti dovuto vedere che cosa faceva con quella sega. Però era divertente vederlo sbucciare le mele. »

Ho sospirato. Cid è lo stesso Cid vintage di sempre. Mi sono ripresa dal mio letargo e mi sono puntellata sui gomiti mentre lui mi portava alla sua nave, attraversando la strada velata di nebbia fuori Gongaga, vuota, immobile e silente come l’alba che si stava timidamente sporgendo da dietro le nuvole. « Dov’è Vincent? »

« È andato a prendere la sua roba. »

Questa notizia mi ha allarmato. « Pensavo che avesse intenzione di accompagnarmi e basta, non di rimanere lì. »

« Cazzo ne so io? Scommetto cinquanta gil che al PHS non sono riuscito a scucirgli più di quindici parole. » Mi ha trascinato sulla rampa – quella da cui mi ero appesa e sulla quale avevo fatto la ruota innumerevoli volte. Mi sono sentita un’invalida e completamente impotente.

« Invece ha straparlato con me » mi sono lagnata. « Ti giuro, non la smetteva più di parlare! Mi costringe ad andare a Wutai, mi dà ordini… Probabilmente non è Vincent. È uno zombie malvagio. »

« Vincent è sempre stato un cazzo di zombie malvagio. »

« Sì, ma questo nuovo è meno apatico. »

« Sono… lusingato, per un verso » si è intromesso asciutto Vincent, facendo la sua apparizione dall’altro capo della scalinata.

Cid ha sputato a terra la sigaretta e lo ha squadrato torvamente, spingendo il mio letto nella sua Highwind con uno scatto sorprendente che mi ha strappato un guaito non esattamente di piacere. « Cazzo! Maledizione, idiota! Smettila di spuntare dappertutto! »

Vincent si è voltato verso di me, guardandomi con i suoi scuri occhi di sangue, rivolgendomi domande senza usare la voce. Io ho grugnito e ho girato la testa – non avrei mai e poi mai parlato con un lurido pseudo-vampiro ficcanaso che mi avrebbe portato nell’ultimo posto in cui avrei voluto andare! Lui si è limitato a inarcare un sopracciglio corvino ed è tornato a Cid.

Cid ha assicurato il mio letto al ponte, dove non ho visto le lenzuola di gomma con cui mi aveva minacciato – al suo posto c’era però una grossa tinozza d’acciaio. « Se questa si azzarda a rigettare anche solo una caramella sul mio ponte, ti ficco la Gospel in un posto che non ti garberà » ha ringhiato a Vincent, che si stava sedendo nell’angolo più distante da noi.

Ho guardato fuori dalla finestra accanto al mio lettuccio e ho tirato su col naso. « Non mi sento male » ho detto altezzosa. « Non ci sarà bisogno che tu ferisca Mister Valentine. » A quello ci penso io.

« Misster Valentine » lo ha canzonato Cid, e ha iniziato una rapida conversazione con l’unico pilota che sedeva al suo posto con una rivista tra le mani.

Misster Valentine ha cercato a tastoni la tasca della sua camicia e poi mi si è accostato, infilandomi qualcosa nella mano.

« … Medicina » ha spiegato al mio sguardo diffidente.

Ho odorato con sospetto le pillole, e poi me le sono buttate in bocca, assaporando con i denti la loro amarezza e inghiottendole in fretta. Stavo già prendendo la mano con le pillole.

La nave ha fatto uno scarto e ho emesso un gemito sommesso mentre si alzava in volo, nascondendo il volto nell’odore di medicine stomachevolmente dolce del mio cuscino. Mi stava venendo sonno; quello stronzo di Vincent doveva avermi passato dei narcotici. « Bastardo » ho biascicato, ma lui era già svanito.

Col dolore – insieme ai sensi – che andava affievolendosi, mi sono sforzata di tenere gli occhi aperti e ho osservato le nuvole che comparivano man mano che ci avvicinavamo ai cieli. Il sole stava salendo, e mi ha scaldato il viso; è stata un’alba bellissima. Mi è venuto in mente che avrei dovuto razionare la luce del sole, adesso, dato che a quanto pare i miei giorni di luce solare erano contati…

Oh, piantala di essere una fallita tanto patetica, Yuffie Kisaragi.

Col sole dell’alba in faccia, Gongaga alle spalle e Wutai davanti a me, ho ceduto ancora una volta alla stanchezza e mi sono addormentata.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Sunshine in Winter


capitolo due






Il volo in aeronave probabilmente ha fatto schifo ed è stato pieno di scossoni, ma io non ne posso sapere nulla. Ho dormito per la maggior parte del tempo, principalmente grazie a Vincent Valentine, l’amico di ogni farmacista, che ha avuto la lungimiranza di drogarmi per farmi trascorrere l’intero viaggio in stato comatoso. È stato molto saggio da parte sua, dato che negli istanti di lucidità non ho fatto altro che rilasciare a gran voce commenti denigratori circa le sue vicissitudini sessuali, le sue preferenze sessuali, e quelli che avevano buone possibilità di diventare i suoi futuri partner sessuali (gli accoppiamenti con chocobo si ripresentavano con frequenza). Poi tornavo a dormire.

Mi sono svegliata quando qualcuno mi ha sollevato da terra, ma non sprizzavo esattamente gioia da tutti pori. Indossavo un’orrenda t-shirt lunga e un paio di pantaloni larghi, e non mi lavavo da giorni, e puzzavo di vomito e sudore – e altre cose. La gamba ha subito un movimento inaspettato e mi ha provocato una fitta, e io ho guaito.

« Che stai facendo? » sono sbottata contro il mio carceriere, irritata.

Vincent mi ha guardato. « Siamo arrivati a Wutai. Siamo appena fuori città… Non siamo ancora riusciti a montare niente per il tuo trasporto, perciò ti porto io. »

Ho portato gli occhi al cielo. Che tono così… stupidamente ragionevole! Però non avrei dovuto sopportare a lungo la sua ragionevolezza; presto si sarebbe tolto dai piedi e avrei potuto essere lasciata a morire in pace.

Abbiamo trovato una giornata assolata, calda come tipicamente è nel cuore di un’estate wutaiana; la polvere dal Da Chao lievitava spessa e fragrante nell’aria, e si mischiava al profumo dei sakura e dei languidi odori di pietanze che si stavano cucinando nelle varie case. Ho sentito il mormorio simile allo scroscio di un fiume delle donne del mercato che parlavano velocemente in wutaiano stretto, e ho sospirato.

Casa…

« Portami indietro » ho implorato all’improvviso, aggrappandomi a Vincent, con la gamba che penzolava come una pietra lungo il suo braccio. « Portami indietro. Non voglio stare qui. »

Lui mi ha fissato con i suoi occhi rossi senza espressione, e mi è venuta voglia di prenderlo a pugni nel petto. Maledizione! Non volevo stare lì, non volevo mostrarmi malata, non volevo ostentare il fallimento che ero diventata alle persone che mi avevano cresciuta e addestrata. Vincent non ce l’aveva un cuore, da qualche parte? Probabilmente no – solo una pietra. O un nodulo automatizzato.

Percuotere il suo torace mi ha spompato e mi sono accasciata contro di lui, quasi nascondendo il viso sporco e graffiato nella sua spalla, concentrandomi sul dolore stridente per non dover vedere le facce sbigottite della mia gente mentre attraversavamo la strada principale. La vasta gamma di odori e rumori, tutti dolorosamente familiari, mi ha investito completamente, e dalla debole cretina che sono in questo periodo, mi è venuta voglia di piangere.

Ho sentito uno scoppio, e alzando la testa all’insù ho assistito al decollo dell’Highwind, che ha svettato nel cielo blu. Il mio cuore ha saltato un battito. « Che cazzo sta facendo, se ne va? » ho domandato, notando finalmente lo zaino che Vincent portava a tracolla.

« Tornerà più avanti » ha risposto in tono piatto. « Io ti aiuterò a sistemarti per qualche giorno. »

« Oh, assolutamente fantastico. Vincent Valentine, la stella a tutto tondo e l’eroe infermiera. Qualcuno mi faccia l’eutanasia. »

« Yuffie. »

Ho girato di scatto la testa.

Mio padre mi attendeva al centro del viale, le braccia leggermente protese, e due chiazze bianche tra i capelli neri tempestati di grigio. Il suo volto era liscio, eccetto per la vaga impressione di rughe attorno agli occhi che sorgeva quando sorrideva; mi ha guardato come se fossi un antico tesoro, e poi mi ha raccolto a forza dalle braccia di Vincent, parlando freneticamente in wutaiano.

« Due anni » ha biascicato a denti stretti. « Due lunghi anni, Yuffie, senza farmi sapere nemmeno se eri viva o morta, o imprigionata – ti abbiamo cercato per tanto tempo ma siamo riusciti a reperire soltanto voci della tua morte – e adesso, eccoti qui… »

« A un passo dalla morte. Non cominciare con i sentimentalismi, Godo. Sono venuta qui per tirare le cuoia. »

« Sei una ragazza molto sciocca » mi ha rimproverato severamente.

« Grazie. »

Mi ha squadrato, esasperato, la morte laser negli occhi, e io ho risposto con uno sguardo altrettanto truce fino all’educato colpo di tosse di Vincent.

Godo ha annuito cupamente. « Andiamo da Asako. »

Mi ha restituito a Vincent come un sacco di patate, e io ho gracchiato furiosa per tutto il tragitto fino a casa di nonna.




Urgono delle precisazioni: Asako non è la mia vera nonna. Ma tutti, a Wutai, la chiamano nonna Asako. Ha fatto nascere quasi tutti noi ed è vecchia quanto le colline, sebbene non ci sembri; ha un viso bellissimo, anche se ormai sono visibili i segni dell’età, e ha dei capelli splendidi. Sono bianchi come la neve e le arrivano fino ai fianchi, benché li tenga quasi sempre legati in una crocchia strettissima; quand’ero bambina la aiutavo a lavarli, con il suo shampoo speciale al miele…

Ormai è tutto nel passato. Vincent mi ha portato dentro e Asako ha fatto aspettare Godo fuori. Per fortuna – non aveva ancora visto per bene la mia gamba rovinata.

« Ma che ti sei fatta? » ha chiesto, nel momento stesso in cui Vincent mi ha trascinato nella sua capanna. « Ragazza, non posso ricucire tutto! »

« Ciao anche a te, nonna » ho salutato mitemente.

« Niente “ciao nonna” con me » è sbottata; ma i suoi occhi si sono addolciti. « Hmph… Figliolo, me la metteresti stesa sul letto, per piacere? »

« “Figliolo?” » le ho fatto eco, assolutamente deliziata, guardando il suddetto “figliolo.” « Vincent, figliolo? Mi piace. Okay, figliolo, mettimi delicatamente giù, se mi fai male alla gamba ti stacco la testa, bravo fi- » Vincent qui mi ha bloccato con un tetrissimo-sguardo-della-morte-appositamente-creato-per-piegare-Yuffie-al-suo-volere. « -okay, okay, sto zitta, però smettila di guardarmi così, okay? Oddiiiio, se gli sguardi potessero uccidere… »

Ho distolto vistosamente gli occhi mentre Asako tirava su la gamba pulsante e cominciava a rimuovere le bende, facendomi salire un groppo in gola. La gamba puzzava di carne andata a male, e mi sono sfidata a non guardarla il più tempo possibile; alla fine, ho ceduto.

Era gonfia e multicolore, verde-gialla-rossocarminio, con delle venature di pus dove gli artigli avevano affondato. C’erano dei segni verde scuro dove si trovavano le mie vene, e faceva male solo a guardarla: due volte più grande del normale, assomigliava più a un pezzo di carne morta che a una gamba. Riuscivo a sentire il cuore che pulsava sangue verso l’arto, nel tentativo di pomparne dove non avrebbe più potuto arrivare. Asako ha aperto un cassetto e, con un’aria professionale, ha tirato fuori un coltello.

« Sei una stupida, mia dolce Yuffie-chan » ha mormorato con gentilezza. « Potrei togliertela subito e aiutarti a rimetterti in sesto in una settimana. »

« No, nonna, e questa è la mia ultima parola. »

« Molto bene, allora. Vincent, potresti trattenerla? »

« Nani? »

« Ah… Non sarebbe meglio sedarla, prima di cominciare? »

« Non voglio che si abitui a queste robe moderne. Poi mi diventa drogata di pillole. Trattienila. »

Ho sentito le braccia forti di Vincent sulle spalle e ho cominciato a dimenarmi per il panico. Asako mi ha stretto con fermezza la caviglia e mi ha guardato dritto negli occhi. « Non essere sciocca, Yuffie. Ti metterò soltanto degli impacchi di erbe. Prima però devo assorbire il pus. Non ci vorrà molto » ha spiegato, avvicinandomi una bacinella.

« O-okay » ho replicato, titubante. Solo un taglietto. Potevo farcela. « Ma non c’è bisogno che l’Uomo Nero mi trattenga. »

« Invece sì » ha insistito, irremovibile. « Ora, al mio sei, ti aprirò le ferite, d’accordo? »

« Nooo! Non ci casco di nuovo. L’hai già fatto quando mi dovevi togliere i denti. Arrivavi al “due” e tiravi. »

Lei ha scosso la testa. I suoi occhi castani erano così dolci e teneri, la tonalità precisa della cannella; era facile fidarsi. « No. Ho bisogno che stavolta tu sia preparata. Conterò fino a sei, e al sei, voglio che tu tenda i muscoli. Hai capito? »

Era una spiegazione valida, perciò ho annuito.

« Pronta? Uno… due… »

Ha infilato agilmente il coltello nel primo squarcio tumefatto. Io ho gridato per il dolore allucinante e ho morso la mano a qualcuno – forse a me stessa, all’inizio mi era impossibile pensare – mentre Asako faceva scivolare il pus nella bacinella. Ricordo di aver cominciato a delirare, di averle dato della schifosa bugiarda; poi lei ha proceduto con la seconda e ho rosicchiato disperatamente la carne. Dopo quella che è sembrata un’eternità, ho alzato lo sguardo, gli occhi sbarrati. Asako stava stipando qualcosa di fresco, verde e pastoso nelle ferite aperte, e Vincent era intento a medicare una mano sanguinante.

« Mi spiace » si è scusata Asako in tono conciliante. « Sa essere piuttosto selvaggia quando vuole. Vuoi una benda? »

« No, nonna » ha declinato lui distrattamente. Cavoli, era la nonna proprio di tutti. « Smetterà di sanguinare a momenti. »

« Non è stata colpa mia » mi sono difesa, confusa. « Sei tu che sei stato abbastanza cretino da ficcarmi la mano in bocca. »

« Se non l’avessi fatto sembrava ti saresti morsa la lingua. »

« Ci avresti guadagnato. Sarei rimasta in silenzio per qualche giorno. »

« … Peccato non averci pensato prima… »

« Fate i bravi, bambini » si è intromessa con gentilezza Asako, finendo di bendare la mia gamba. Adesso era molto più fresca, e tutto quel doloroso quanto irritante calore se n’era andato; forse si stava pure sgonfiando. Sembrava messa molto meglio. Ho visto un barlume di speranza – forse non tutto era perduto.

Godo era entrato silenziosamente, e ora stava avanzando verso Asako. « Adesso la porto a casa » ha dichiarato fermamente.

« Io dormo a casa mia » ho specificato. Dormire da lui, come no! Volevo soltanto strisciare nel mio letto e abbracciare la mia collezione di logori peluche e piangere fino alla morte. « Mi avete portato a Wutai, ma che io sia dannata se dormirò nel tuo grande, brutto guscio butterato. »

« Yuffie- »

« Penso sia più saggio che Yuffie dorma a casa sua, per stanotte » lo ha interrotto Vincent. « Così potrà riambientarsi meglio. »

I due uomini si sono guardati fissi negli occhi, una gara di volontà. Una roccia contro un’altra roccia.

« Per stanotte » ha accettato infine Godo. Nessuno poteva a reggere gli occhi rosso sangue di Vincent per troppo tempo, nemmeno mio padre. « Poi traslocherà in casa mia. »

« Col cazzo che trasloco in casa tua! »

« Sì! Traslocherai in casa mia, o ti spacco a metà quel culo che ti ritrovi! »

« Godo! »

Asako ha gettato le braccia al cielo. « Fuori » ha detto teatralmente. « Tutti quanti. Non posso sopportarvi per un secondo di più. Vincent, rimani con Yuffie e dalle le sue medicine. Yuffie, fa’ tutto quello che ti dice Vincent. Godo, fa’ tutto quello che ti dico io. »

« Sì, nonna » abbiamo risposto all’unisono, risentiti.

« Bene. Adesso, fuori di qui. »




Ero seduta accanto alla finestra, a guardare la luna, nella casa completamente buia salvo qualche fioca luce che proveniva dalle poche lampade della mia stanza, a sorseggiare il tè assolutamente ripugnante che mi ha prescritto Asako. Ero alquanto fiera di me – l’avevo vomitato solo una volta.

Quando siamo arrivati la mia casa era un porcile tremendo sprofondato nella polvere, ma Vincent “Mulinello” Valentine, dallo snob che è, l’ha immediatamente ripulita in cinque minuti e mi ha spedito a fare un bagno compreso di spugnatura. È anche riuscito a scovare da qualche parte qualcosa da farmi mangiare per cena e a darmi dei vestiti puliti, con mio grande imbarazzo. Nessuno conosce il significato del dolore finché non si ritrova davanti un vampiro con la faccia impassibile vestito dalla testa ai piedi di nero che gli tende un pigiamino e un paio di mutande, dicendo: « Dopo mettiti questi. »

Era una specie di madre, solo… uomo. E… cioè, frena, non è corretto. Non era materno, non era affettuoso, era solo… Vincent. Un Vincent che però sapeva dove trovare il cassetto della mia biancheria. Di questo avremmo dovuto parlare presto.

Ha provato ad abbozzare qualche assurda proposta circa il pernottare in albergo, ma io l’ho guidato nello scantinato e gli ho mollato un paio di coperte in più che avevo. Non poteva rifiutare. Chi avrebbe potuto? In fondo, ho uno scantinato figo. Era pieno di materia e anche di qualche trappola puccia con cui avrebbe potuto giocare. Se voleva delle gabbie, era il posto perfetto.

I miei gatti si erano nutriti. La casa era pulita. Io ero pulita. Io mi ero nutrita. Vincent si era nutrito. Vincent era pulito. (Credo. Non avrei controllato.)

Che posticino squisitamente accogliente. Come diamine mi era saltato in testa di andarmene via?

« Guardi le stelle? »

« Hmm. » Non ho dovuto neanche voltarmi. « Il cielo stellato di Wutai non ha pari al mondo. Non è bellissimo? »

Lui lo ha studiato a lungo e dopo un po’, come se avesse meditato davvero su quella singola frase, ha annuito. « Sì. È bellissimo. » Lo ha detto così, come se fosse il vangelo uscito da una bibbia. Nessun aggettivo superfluo. « Ora vai a letto? »

Io ho posato la tazza vuota sul davanzale. Mi aveva scaldato, svuotato e stancato indicibilmente. « Sì, penso di sì. Oddio, è stata una lunga giornata. » Ho fatto per alzarmi, stringendomi alla sedia per sostenermi.

Vincent mi ha preso in braccio prima che potessi tentare di zoppicare fino al letto, portandomi nell’altra stanza e scostando le coperte prima di ripormici dentro. « Non poggiare nessun peso su quella gamba. Se ti senti male chiamami. »

« Allora sarà un’unica chiamata continua. Vai a nanna, Vincent. Dormirai nel letto o ti appenderai a testa in giù alle tubature? »

Lui mi ha fissato con espressione incolore.

« Va bene, va bene. Buonanotte, Vincent. »

« … Buonanotte. »

È sparito nelle scale, spegnendo le lampade lungo il cammino.

Sono rimasta sveglia per un po’, con la sensazione delle sue braccia ancora addosso. Non venivo toccata spesso dagli uomini, e nonostante Vincent occupasse un posto molto basso nella graduatoria degli uomini, io non sono fatta di pietra. Insomma, non mi dava fastidio che mi prendesse in braccio tanto spesso. Aveva anche un che di ero-

Non se ne parla. Rotolando sulla schiena con un sospiro, ho annotato mentalmente di non bere mai più il tè di Asako. Innescava reazioni strane, nel mio cervello.

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Capitolo 4
*** Il Primo Mese ***


Sunshine in Winter


il primo mese






Sapete, Vincent è una persona affascinante. Parlare con lui o imparare a conoscerlo ha sempre suscitato reazioni forti in me, vuoi per la rabbia allibita contro l’intero universo che permette a certe persone di fare cose come quelle ad altre persone, vuoi per l’impulso di acchiapparlo per le spalle e scuoterlo fino a fargli sputare tutto il dolore che aveva imbottigliato dentro.

Da questo punto di vista siamo due persone incredibilmente differenti, quasi due poli diametralmente opposti. Come Wutai e Icicle Inn. O Midgar e la Città degli Ancient. Bianco e nero, estate e inverno, e qualsiasi altro contrasto di questo tipo. Lui è introverso e io sono estroversa, una maniera elaborata per dire che lui è silenzioso da morire e io sono una rompiballe. Vincent tiene per sé tutti i suoi pensieri e la sua merda complicata, mentre io li grido e li mostro al mondo come fossero medaglie sul petto. Lui non viene ferito perché non dice niente a nessuno. Io non vengo ferita perché dico tutto a tutti e così nulla può cogliermi impreparata.

… Nessuno di noi due vuole essere ferito. Somiglianza numero uno.

Io mi infurio come una tempesta, il momento prima sono solare e quello dopo mi ritrovo a sguazzare in uno zampillo di ira incontrollata e nera come un incubo, che poi scema di nuovo in soffici nuvole bianche. Vincent è più come un vulcano, che ribolle lentamente sotto terra prima di esplodere all’infinito e senza più freni quando non ce la fa più a contenersi. Ci arrabbiamo entrambi, ma apparentemente questa è l’unica emozione che lui ostenti volentieri; per il resto, è come bloccato dietro una sorta di parete che nessuno può penetrare. Ma, come ho detto, ci arrabbiamo entrambi, perciò è un comportamento normale, credo? Umano?

Forse è questo che mi interessa tanto. Sono sempre stata curiosa come un furetto selvatico, e lui dà l’impressione di un muro che nasconde diecimila cose veramente allucinanti. Non è una bella impressione. Ho voglia di frantumare la parete e oltrepassarla solo per vedere se mi brucerò. È per questo che ho sempre trovato interessante Valentine. Voglio squarciarlo per studiare i suoi meccanismi, le sue ragioni di vita, i suoi bisogni, e contemporaneamente lasciarlo intatto. È l’esatto contrario della vecchia Yuffster, ma intravedo dei lampi, lì – dentro di lui – che in un certo senso mi ricordano me stessa.

… Oddio. Devo essere malata, se blatero a tal punto. Di questo passo, mi comprerò un cazzo di mantello e mi verrà il feticcio del rosso. Sto già usando delle brutte metafore, il che vuol dire che sono già mezza andata.

Comunque, torniamo a roba più interessante dei miei deliri che non mi prenderei mai la briga di riferirgli. Penso le abbia già intuite. Insomma, quando vivi in una bara per un botto di anni, devi esaurire ogni tipo di pensiero, ne? Forse è per questo che sta sempre zitto. Non ha più niente di cui parlare!

… Sono un’idiota, vero? Sì, lo penso anch’io.




« Aghhhhh » è stato il mio gemito incoerente, prima del sagace: « Uhhhhhnnn » e dell’articolato: « Oh, santi numi. »

Sono molte le cose non propriamente divertenti che ho fatto in vita mia. Ho combattuto contro i mostri, combattuto contro gli uomini, combattuto le calamità venute dal cielo, combattuto contro gli angeli con un’ala sola. In questo periodo, sto avendo a che fare con il mostro più feroce di tutti: il desiderio irrefrenabile di vomitare nel mio bagno tutto quello che abbia mai mangiato. I conati asciutti mi tormentavano le costole, la nausea mi assaliva anche dopo aver rimesso tutto quello che avrei mai potuto rimettere. Non avevo più niente da buttare fuori.

Il mio stomaco mi ha smentito e dopo l’ennesimo colpo di tosse mi sono sporta sulla tazza di porcellana screziata di marrone, per poi appoggiarmi alla parete con un lamento sommesso. Di questo passo i denti mi si sarebbero sciolti per gli acidi del mio stesso stomaco e mi avrebbero seppellito con una dentiera.

« Yuffie, dove sei? »

Mi è salito il panico e il mio stomaco ha trovato immediatamente qualcos’altro di cui sbarazzarsi. « Sono in bagno » ho strillato. Maledizione! Ero riuscita a nascondere per settimane il fatto che non ero in grado di assimilare niente di quello che mangiavo indossando abiti sformati e cercando di ritardare la tabella di marcia del vomito fino a quando lui non usciva (lo stronzo. Non. Dormiva. Mai.), e se Vincent l’avesse scoperto mi avrebbe portato da Asa talmente in fretta da non sollevare neanche un granello di polvere.

La sua mano ha cercato la maniglia, fermandosi quando l’ha trovata bloccata. « Che stai facendo? »

« Un bagno. »

Silenzio, e poi il sospiro che ultimamente faceva tanto spesso; molto probabilmente si stava massaggiando le tempie. « Yuffie, tu non ti stai facendo un bagno. »

« E tu che ne sai, eh? Hai la vista a raggi x? Perché in questo caso fuori da casa mia, pervertito. Pensa te, con tutte le volte che ti ho permesso di guardarmi vestita tu eri lì a spiarmi attraverso i vestiti- »

« Yuffie, so che non ti stai facendo un bagno perché la tinozza dell’acqua è ancora appesa al gancio qui fuori. Poi non so come avresti potuto entrare in una vasca con la tua gamba. Pertanto, dev’essere una bugia. »

« Beh, DOH! » Se avesse continuato a tormentarmi così avrei vomitato subito, e tanto piacere se poteva sentirmi o meno. Oh, cazzo, che male. Vaffanculo, Vincent Valentine.

Con una fatica immane e un rapido ripasso di pensieri anti-vomito, la voglia di rimettere è diminuita, e ho cercato innocentemente di tirare la catena del vecchio gabinetto rachitico prima di sbloccare la serratura, scivolando fuori con tutta la grazia consentita da un paio di stampelle. Me le ha fabbricate Godo. Non aveva proprio niente di meglio da fare. « Visto? Di che ti preoccupi? Ero al cesso, santissimo cielo. Stai diventando paranoico e iper-protettivo. »

Vincent alla fine ha smesso di far finta di dover partire e ha traslocato in via semi-permanente nella mia casetta. Secondo Asako l’ha fatto perché era preoccupato per la mia incolumità. Secondo me o era completamente rincoglionito o era un masochista in erba. Si era trovato un bel lavoretto a Gongaga, e mi ha raccontato che lì era stato abbastanza felice, esperienza insolita per lui. Perché dire addio a tutto ciò per fare da baby-sitter a un cadavere sboccato che non si impegnava a nascondere la propria ingratitudine?

Ha anche iniziato a portare qualche vecchio vestito di Godo, di quando mio padre aveva degli addominali veri, per inserirsi nella comunità. Quando se ne andava in giro vestito dello yukata tradizionale, con i capelli legati in una coda, c’erano molte donne wutaiane che senza dubbio reputavano si stesse integrando bene e probabilmente giocherellavano con l’idea di farlo integrare ancora meglio. (Non io.)

« Beh, ci sarebbe un ragazzo che ha il permesso di lasciare le scarpe sotto il mio letto quando gli pare » ha detto una volta Asako giuliva.

Ho arrancato fino al bancone della cucina e ho buttato giù un sorso d’acqua per togliermi il sapore disgustoso dalla bocca. Maledizione, quelle stampelle non funzionavano più. Avevo l’impressione che il dolore si stesse diffondendo fino all’anca. Si propagava, si propagava, proprio come aveva detto Bannon. Dannato dottore, perché doveva avere ragione?

« Chdett- » Ho deglutito. « Che ha detto nonna sulla mia cura? »

« Devi prendere delle nuove pillole contro l’infezione. Asako voleva che le prendessi subito – dice che il veleno sta cominciando a propagarsi. »

Tsk. Asako. Non ho ancora nemmeno zoppicato di fronte a lei. Probabilmente sente il dolore a distanza di continenti.

« Come una brutta malattia venerea. » Mi sono stiracchiata e mi sono afflosciata dolorosamente sulle mie stampelle. « Che cosa deprimente, Vincent. »

Lui mi ha teso la mano, con dentro tre tonde pillole bianche. « Prendi queste. Ti aiuteranno a non svenire quando ti muovi troppo. »

Le ho ingollate subito e ho bevuto un altro po’ d’acqua, osservando attentamente i suoi occhi. Usava parole tremende, ma rimaneva una creatura scolpita nel marmo, che mi guardava costantemente come per assicurarsi che non crollassi a terra da un momento all’altro.

« Oh, Dio! » Ho sentito per sbaglio il sapore amaro delle medicine e mi è venuto da tossire, strozzandomi nel tentativo di deglutire. « Ugh! Ha un sapore di merda! Perché le medicine devono avere sempre il sapore degli scarti industriali? » Ho visto i suoi occhi scintillare, l’approssimazione vincentiniana più vicina all’accenno di un sorriso, e gli ho fatto un patetico colpo di tosse in faccia, bevendo ancora di più. « Sei orribile. Hai fatto in modo che avessero questo saporaccio di proposito. Ci godi. »

« … Ai tempi che furono ne ho prese parecchie anch’io, Yuffie. » Si è seduto sulla poltrona vicino al mio letto, la sua consueta tana; ho la sgradevole sensazione che ogni tanto venga a guardarmi mentre dormo. « Non hanno mai avuto un buon sapore. »

« Pillole? » La mia curiosità si è accesa immediatamente. « Tu? E quando? »

La sua titubanza era palese. « I Turk devono seguire uno stretto regime. »

Ora, la cosa si faceva interessante. Se non parlava mai della sua vita, parlava ancora di meno di quando era un Turk. Lo vedevo bene come Turk: pacato, implacabile, letale. Mi sono avvicinata barcollante alla poltrona e sono precipitata sul letto, ignorando la fitta alla gamba. « Vitamine e cose così? »

« Sì. E sostanze stimolanti. » Mi è parso già pentito di avermelo detto, gli occhi persi altrove, ai giorni in cui aveva indossato la divisa. « Quella parte del lavoro non mi è mai piaciuta… Perché ti interessa tanto? »

« Boh. » Mi sono azzardata a tirargli una ciocca di capelli con la mano; a onor del vero, ormai la sua prima reazione non è di ritrarsi non appena qualcuno ha l’impudenza di toccarlo. Forse perché sa che non dovrà sopportarmi ancora per molto. « Volevo solo sapere com’eri all’epoca. Portavi la divisa blu? E come avevi i capelli? Indossavi una cravatta? »

« Sì, corti, sì. »

« Hai ucciso un botto di gente, giusto? Gli tagliavi subito il gozzo o avevi uno stile schifoso che prevedeva la rasatura completa della vittima a cui lasciavi un solo ciuffo di capelli sulla testa? Portavi delle cravatte divertenti? No, frena, tu sei Vincent, tu non sei divertente. Cioè. Eri divertente allora? »

Lui ha sospirato. « Sì… hm… nessuno dei due, no e no. Saresti un’ottima interrogatrice. »

« Ooh! Hai fatto una battuta! Udite udite, Vincent ha fatto una battuta! Non era granché, ma resta pur sempre una battuta! »

Vincent mi ha fissato intensamente.

« Scusa. So che non ti va di parlarne. »

« Ricordarlo non mi piace, Yuffie » ha chiarito gentilmente. « Quello del Turk non è un lavoro nobile, né facile, e nemmeno tanto buono. È una parte della mia vita che preferirei lasciarmi alle spalle. » Ha spostato gli occhi sopra la mia testa, nel vuoto. « Anche se sarò un assassino addestrato per il resto della mia vita, farò tesoro degli istanti in cui riuscirò a non pensarci. »

Wooooooooooow! Accidenti, un discorso!

« Beh, non hai la faccia da assassino. » L’ho guardato seriamente. « Nemmeno con quei capelli scuri, e gli occhi rossi, e quel grosso artiglio, e lo sguardo del tipo sto-per-ucciderti che – cioè, hm, in effetti… »

« Spavento le persone. »

« Non me » gli ho assicurato. « Nulla mi spaventa più, ormai. »

Per qualche ragione, ha fatto lo sforzo di alzare la mano buona e darmi qualche pacca enigmatica sulla spalla. « Allora sono sulla buona strada. Asako vuole vederti a pranzo. Perché non ti fai un bagno? »

« Stai per caso dicendo che puzzo? »

« … Sì. »

« Sai, Vincent, gli amici mentono se necessario. »

« Ah. Allora non puzzi. »

« … Ti odio. »

Due battute in un giorno! Era la sua giornata!




Come già detto, è affascinante – sia da ascoltare che da guardare. Oh, non in quel senso; insomma, è bello e tutto quanto (ma rimane sempre Vincent), solo che ogni volta che lo osservo con cura c’è qualcos’altro di lui che vorrei conoscere. Chi gli ha fatto quella cicatrice in particolare? Perché ripone le mani in questo modo? È il fantasma di un tatuaggio quello che ho appena visto? Un sacco di cose.

Forse è che quando sei bloccato in un posto solo, a lungo, con le stesse persone, comincia a ossessionarti la dissezione delle cose più piccole. E quando hai un piccolo orologio della morte sulla testa, hai lo stimolo feroce di scoprire il perché di tutto adesso invece che in un vago futuro.

Nessuno avrebbe mai classificato me e Vincent come amici, suppongo. Avrebbero detto, beh, Yuffie fracasserà le ultime rotelle di Vincent, e lui la farà impazzire con i suoi lunghi silenzi depressi. Oltretutto, il mio passato si riassume sostanzialmente nell’aver imparato a rubare molto e nell’aver sopportato la mia trappola turistica camuffata da città, mentre ha più morte, sangue, desiderio e passione lui di un romanzetto rosa con un protagonista di nome Biff. Non abbiamo niente in comune…

A parte il fatto che siamo molto ostinati. Così ignoriamo il fatto che sono più fastidiosa di un barile di scimmie e che lui è più angst di una ragazza nella pre-adolescenza, e decidiamo di andare d’accordo per il gusto di farlo.

È per questo che ho pensato che dovrebbe tornarsene a casa. Fra tutti i miei amici, di tutta l’AVALANCHE, lui è l’ultima persona che avrei voluto mi vedesse appassire. Non voglio che sia la mia badante, che mi guardi sciogliermi nella polvere. Non potrebbe ricordarmi per com’ero una volta, invece di vedermi diventare un fagotto di costole e materia?

Costole e materia – ah! Ecco cosa sono diventata. Sono passati i giorni in cui mi guardavo allo specchio e mi convincevo di aver raggiunto la maturità. Il mio corpo adesso è tornato quello di quand’avevo dodici anni: gambe sottili come due stuzzicadenti (beh, uno stuzzicadenti; l’altro era talmente gonfio da sembrare quasi normale), vita e fianchi volatilizzati, e un seno che pare fuori posto, un qualcosa di sano e pieno appiccicato a una bambina. Ho perso anche il mio colorito. Sembro schifosamente grigia.

Mia madre era così prima di morire.

A quel tempo non si poteva neanche sperare in una cura per una polmonite doppia, e verso la fine ricordo che somigliava a uno spaventapasseri, con i suoi bellissimi capelli lunghi premuti flosci e pesanti sul cuscino; i suoi polsi erano ancora più esili dei miei, e una volta ricordo che qualcuno urlò: « Oh, Michiko, che brutto modo per morire. »

Potrei scegliere la strada altruista: ordinargli di andare a casa per non assistere a una brutta, lenta morte. Per non dargli altre ragioni per espiare l’ennesimo stramaledetto peccato del cazzo e rattristarlo per il resto della sua fin troppo lunga vita. Per risparmiargli un fardello carico di dolore.

Ma io sono Yuffie Kisaragi, e sono nata egoista. E, tutto sommato, preferisco che sia lui a tenermi la mano più di ogni altro. Spero che tu ce la possa fare, amico mio.

… Ho divagato ancora. Non ho mai potuto rimanere attenta per più di cinque secondi.

E chi se ne frega!




« Yuffie, non stai mangiando. »

Ho sollevato il capo, sorpresa. Non pensavo avrebbe potuto accorgersene. Ho usato le mie tecniche speciali perfezionate durante l’infanzia, quando mio padre e mia madre mi volevano costringere a mangiare le verdure.

« Io… non ho molta fame, nonna. Ho fatto un abbondante colazione. »

Asako ha abbassato una bacchetta e ha inarcato un liscio sopracciglio bianco prima di rivolgersi a Vincent. « È vero? »

« L’ho vista preparare degli spaghetti stamattina. »

Oh, buon per Vincent. Poi è uscito e li ho vomitati. « Visto? Ho mangiato! Smettila di cercare di farmi da mamma! Sto una meraviglia! »

« Stai continuando a bere il mio tè? »

Sì, anche se non funzionava esattamente più. « Posso alzare il dosaggio, nonna? Sento dolore. »

« Mezza tazza. Non di più. Hai preso le pillole? »

« Sì. Sapevano di merda, nonna. »

Lei ha tirato su col naso. « Mi pare ovvio. I dottori pensano che delle buone medicine debbano avere un saporaccio. Ho sempre pensato che le mie fossero deliziose. »

« Non quel tè » ho borbottato, rimodellando gli spaghetti in forme interessanti.

Vincent si è voltato verso di me, spingendo fermamente il piatto verso le mie bacchette. « Yuffie, mangiane solo un po’. Per favore? » ha aggiunto, senza che ce ne fosse bisogno.

Forse potevo farcela. Oddio, se avevo fame. Mi pizzicava lo stomaco e lo sentivo restringersi, ma allo stesso tempo sapevo che se ci avessi messo qualcosa dentro mi sarei ritrovata a esaminare di nuovo i miei succhi gastrici. Il sangue mi pulsava nelle vene in modo innaturalmente forte, rendendomi irritabile.

Ho avvicinato con cura il piatto alla bocca, imprigionando una piccola porzione di spaghetti e mettendomeli tra le labbra. Mastica mastica mastica. Cerca di ingoiare-

L’unica difesa è stata sputare immediatamente gli spaghetti, cadendo dalla sedia e sbattendo sul pavimento. Non faceva più tanto male; il dolore alla mia gamba era come il battito palpitante di un tamburo il cui ritmo si era fuso inesorabilmente alla mia mente, per sempre. Sono rimasta sdraiata a terra in preda a conati di vomito asciutti finché non è arrivato Vincent a raccogliermi, un po’ maldestramente perché aveva preparato le braccia a un peso molto maggiore. Ero leggera come una piuma. Costole e materia, costole e materia-

« Portala qui » ha sbraitato Asako. Riuscivo a malapena a sentirla mentre chiudevo gli occhi, stordita e semi-svenuta. « Mettila sul letto, Vincent. »

Lui ha eseguito. Non poteva fregarmene di meno; proprio com’è già successo un milione di altre volte nelle ultime settimane, volevo soltanto morire e farla finita, volevo smetterla di essere stanca, malata e completamente, terribilmente patetica, smetterla di vedere gli occhi di sangue di Vincent perforarmi dovunque andassi, come se stessero cercando di scrutare il mio male; volevo smetterla di prendere medicine e pillole. Era una specie di castigo? Per aver annientato Sephiroth? Per non essere riuscita a salvare Aeris? Per essermi avvicinata tanto a Jenova? Cazzo, forse era soltanto la pena che mi spettava per tutte quelle volte che sono andata ai distributori automatici e ho rubato le bibite intrufolandoci la mano dentro-

Dalla gola mi è sfuggito un rumore tenue e lamentoso, un bizzarro tipo di risata.

« Le sta venendo una crisi isterica » ha borbottato nonna, sbottonandomi la camicia prima di prendere un coltello e tagliare con decisione le tre vestaglie che mi sono messa perché nessuno si accorgesse della mia mancanza di forma. « È – Dei misericordiosi! Poco più che un mucchietto d’ossa! Vincent, da quanto tempo non riesce più a ingurgitare cibo? »

« Non ne ho idea. » La sua voce era grave. « Deve aver cercato di nascondermelo. Penso l’abbia fatto anche stamattina. »

« Sembra non mangi da tantissimi giorni! E non ne ha parlato con nessuno! Pazza! Stupida bambina! » Con mia grande sorpresa e non poca disperazione, Asako è scoppiata a piangere.

Ho insinuato le mie mani tra le sue, spalancando le palpebre e sorridendole debolmente, mentre la nausea rifluiva. « È tutto a posto, nonna. Non piangere… Però ti prego, non dire nulla a papà, sì? »

« Probabilmente lo ucciderebbe quanto sta uccidendo te » ha ansimato violentemente, asciugandosi gli occhi, e facendo scorrere le dita sulle mie costole troppo grandi e sullo stomaco lievemente rigonfio, arrabbiato per non essere stato nutrito. Ho sentito fremere le ossa fragili quando è arrivata alle bende sulla mia gamba.

« Non ne avevo idea. » Era la voce di Vincent. Solitamente era profonda, ma adesso si era abbassata talmente tanto da diventare quasi impercettibile. « Ho fallito- »

« Chiudi il becco, Vincent! Di che stai parlando? Non è stata colpa tua, stupido cretino. » Ho provato a mettermi a sedere, ma poi mi sono accorta che ero un po’ mezza nuda e sono arrossita. « Oddio! Due stracci da mettermi addosso no? »

Vincent mi ha riabbottonato la camicia seduta stante: mi ha sfiorato le costole a ogni bottone, riuscendo nel compito con una rapidità ammirevole per aver usato una mano sola e facendomi vergognare il doppio.

« Stai vomitando tutto quanto? » mi ha domandato dolcemente Asako, scostandomi i capelli scuri dalla fronte.

Ho annuito. « Non riesco a trattenermi. Ci ho provato. Non funziona. »

« Beh, non c’è da meravigliarsi se il tè non è più efficace. Devi prenderlo a stomaco pieno. »

« Morirò, Nonna? »

« Se non ricominci a mangiare al più presto? Direi proprio di sì. E non è bello morire di fame. »

« Almeno sarebbe una morte più rapida di un’infezione di drago » ho detto io, funerea.

Ho sentito un dolore acuto al polso quando me l’ha agguantata, forte. « Sei una sciocca, Yuffie-chan. Pensi che ti lasceremo morire così facilmente? Così in fretta? Scordatelo! Togliti questi stupidi pensieri dalla testa e smettila di usarli per ferire chi ti sta attorno. »

Come se fossi tornata una bambina piccola, ho chinato il capo, mortificata.

« Cosa facciamo, Nonna? » Ancora una volta Vincent, flebilmente, e non senza un po’ di preoccupazione.

« Preparerò dell’altro tè. E le cambierò le bende, almeno. » Oh, evviva. Altri tagli. Ho sperato che le mani di Vinnie fossero pronte. « Poi starà a lei. Il tè aiuterà, ma deve farsi venire fame e smetterla di credere che rimetterà tutto. La nausea è per tre quarti suggestione, Vincent Valentine. »

Lui ha annuito, delicato e fluido.

« I cinici non si dovrebbero mai ammalare, allora. Ecco perché Cid è così in salute, anche se beve e fuma come una ciminiera- »

« Zitta, tu. » Ha cominciato a srotolare le bende e ho afferrato subito la mano buona di Vincent. « Dopo, Vincent, portala a casa. »

Penso di star iniziando a immaginarmi le cose, ma le dita di Vincent contro la mia mano mi sono sembrate ancora più tese e nervose delle mie.




I giorni seguenti potrebbero essere considerati più o meno come i più agghiaccianti della mia vita. Peggio del primo riassestamento del dolore alla gamba; peggio di quando campeggiavamo al Northern Crater, ascoltando gli ululati dei mostri; peggio di quella volta che caddi dal Da Chao e non mi sfracellai al suolo perché i pantaloncini si erano impigliati a un ramo e rimasi immobilizzata per un paio d’ore prima che mio padre mi trovasse. D’altra parte, quando ti trovi di fronte a un dolore che ti annebbia la mente, ti sembra sempre peggio delle volte precedenti – e all’epoca era stato abbastanza triste essere trovata a dieci anni attaccata a un ramo mentre mi sgolavo, per poi piangere fino a non sentirmi più gli occhi mentre mio padre mi portava a casa.

Provavo a mangiare, ci provavo davvero. Ci provavo più che potevo, ma anche costringermi a ingoiare generava altro dolore e nausea e mi faceva vomitare ancora. Bevevo il tè di Asako, stavo sul letto quasi tutto il giorno come se muovermi potesse aggravare in qualche modo la nausea, e mi sono beccata un raffreddore per via dell’impotenza mio sistema immunitario.

Stupido, maledetto corpo!

Vincent era un’ombra costante al mio fianco, che mi porgeva tinozze e le portava via, guardandomi intensamente quando cominciavo a sudare freddo. Il veleno e la fame si univano in un unico glorioso dolore che mi portava a delirare nel sonno, facendomi rigirare, piangere e graffiare a sangue. Lui mi stringeva le mani per non farmi picchiare da sola, come con un malato mentale. Vincent era la mia camicia di forza.

Sarà durato solo una settimana, ma a me sono sembrati una dozzina di anni, e penso di essere invecchiata tanto. Verso la fine ero certa di star per morire (cosa altamente probabile), e scuotevo la testa ogni volta che Vincent mi portava da mangiare. Dormire tantissimo mi è stato utile, un po’, ma il sonno a volte traboccava delle allucinazioni provocate dal veleno nel suo scorrere nelle vene febbricitanti.

Malata, sudata e scheletrica, rimanevo immobile con la pelle che mi faceva male, passando costantemente dalla veglia al sonno. Non riesco neanche a spiegare in cosa incappassi nelle mie visioni – vecchi ricordi, recenti ricordi distorti, i semplici orrori naturali che i bambini piccoli evocano sotto le coperte. Immaginatevi un po’, Yuffie Kisaragi in ginocchio così, quando nemmeno le WEAPON avevano potuto sperare di arrivare a tanto?

Penso che la cosa che ho desiderato di più in quei giorni fosse alzarmi, frugare tra le cose di Vincent, e farmi saltare in aria le cervella con la Death Penalty. Probabilmente la mia balia aveva già preso le dovute precauzioni a queste mie idee, ma non ha mai perso la calma con me, neanche una volta; mi teneva la mano quando singhiozzavo e mi impediva di farmi del male quando dormivo. Non deve aver dormito molto nel suo tristissimo e noiosissimo lavoro di Yuffie-sitter a tempo pieno. Non ce l’avrei mai potuta fare da sola.

« Yuffie. »

La voce veniva da lontano, ma il lento flusso dei sensi che riaffioravano mi ha rassicurato che non si trattava dell’ennesimo incubo; ho sentito qualcosa sulle labbra. Non sapendo bene cosa stessi facendo o anche cosa diamine stesse accadendo, ho aperto la bocca e ho assaggiato con la lingua quel qualcosa, giusto il necessario.

Era una mela, calda, ricoperta di zucchero e di certe spezie familiari di cui non riuscivo a ricordare il nome. Un momento, cannella… Sì. Cannella.

« Me le faceva mangiare mia madre. » Vellutata e morbida, la sua voce era come musica. « Quand’ero piccolo e stavo male. Me le sbucciava, perché mi piacevano solo così. »

Ho lasciato che la dolcezza dello zucchero e il calore del frutto accarezzassero la mia bocca, che fino pochi istanti prima ricordava un sacco di ghiaia.

« Quand’ero malato, e quand’ero infelice, da piccolo… andava sempre tutto via. Mangia un poco, Yuffie, per favore… »

Beh, chi se ne frega. Tanto sono vicina alla fine. Perché no? I miei denti si sono calati con difficoltà, ma ho staccato un pezzo, e l’ho masticato molto lentamente. Tanto dolce, morbido e fragrante com’era, non è stata molto dura, e ho tossito quando ho inghiottito quel primo boccone. Solo gli Dei sapevano quanto volessi mangiarla, più di ogni altra cosa, e sebbene sentissi già le prime contrazioni del mio stomaco, ho serrato i pugni per aiutarmi a combatterli.

Le sue dita erano calde, e mi hanno aiutato a mangiare, spronandomi a tenere duro. « Ero molto più piccolo di te, di dieci anni, e penso che tu sia molto più forte del bambino che sono stato. Mi cadevano le cose di mano – e di buono avevo solo la mira. »

Sono riuscita finalmente ad aprire gli occhi. I suoi erano decisi, imploranti, e il suo volto era preoccupatissimo. Aveva una camicia nera con le maniche rimboccate, e i suoi lunghi capelli erano sciolti a dispetto del blando tentativo di tenerli a posto con una bandana bianca. Stringeva un piattino nell’artiglio vicino alla pancia, ed era seduto sul mio letto. Con molta fatica, ho staccato un altro morso, perché ogni volta che lo facevo il suo viso si rilassava un po’ di più. Non avevo mai sentito Vincent parlare tanto, o visto il suo volto mostrare tanta emozione, o essere così gentile.

« Sì… così, Yuffie. » Un altro po’, lentamente, finché non ho finito la fetta. « Mangia. »

Lo sforzo mi stava uccidendo, ma ho aperto di nuovo le labbra quando mi ha porto l’ultimo. Mangiavo come un micetto inerme, dalla sua mano; non era una cosa romantica, come si potrebbe pensare, ma uno mero tentativo di vivere. Dopo un po’ non ne gustavo neanche più il sapore, perché le lacrime mi stavano scorrendo sulle guance. Non so nemmeno perché. Forse perché era così delicato, così non-Vincent, che non potevo non piangere.

Una volta finito tutto quello che aveva da darmi mi ha asciugato le lacrime con il dorso della mano mentre deglutivo. « Vomiterai? »

No. Ho scosso la testa.

Mi ha risposto con un cenno triste del capo. La crisi era stata scongiurata, e la Vincentudine stava tornando furtivamente al suo posto. « … Sono fiero di te. »

« G-grazie » ho squittito, patetica.

I miei occhi avevano voglia di chiudersi. Ero talmente stanca.

« Dormi. Io rimarrò qui. »




È stato allora che ho capito di amarlo. Non amore romantico, non precisamente, perché quello era troppo banale e sciocco per ripagarlo di tutto quello a cui aveva rinunciato per stare al mio fianco; non penso che fosse una cosa fisica, quella che provavo. Solo amore, nella sua forma non diluita, e gratitudine, e – è impossibile descriverlo: è solo la consapevolezza che hai trovato quel qualcuno che hai voluto per tutta la tua vita. Non fraintendete – non era il genere di sentimento che si riserva al proprio amante. Era più… argh! Perché devo essere così atroce con le parole?

Perdonatemi. Fatevi l’idea sbagliata se volete. L’unica cosa che sapevo, prima di disperdermi in un torpore libero dal delirio, era che Vincent Valentine era la persona che preferivo al mondo.

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Capitolo 5
*** Il Secondo Mese ***


Nota dell’autrice: Prima di proseguire, vorrei solo dire che ho alcuni dei più fighi recensori del pianeta. Senza tutti voi, sarei strisciata nella mia minuscola tana e avrei probabilmente passato il resto della mia vita a, non so, scrivere fanfiction su Minesweeper (non che le fanfiction su Minesweeper non siano estremamente affascinanti). Questa fanfic deve molto a quelle persone pazienti che hanno aspettato nei lunghi mesi tra il mio blocco, e vorrei soltanto farvi un applauso. Grazie a tutti dal profondo del mio cuore.
Oh, e come sempre, grazie anche a Piett, il mio indegno beta-reader buono a nulla, che ha corretto con voce tonante e sdegnosa.




Sunshine in Winter


il secondo mese






Di solito, nelle fiabe, quando la ragazza si busca un grave malanno e viene poi salvata dalla sua pervicacia da un cavaliere in scintillante armatura, già dalla mattina dopo dà una svolta epocale alla sua vita alzandosi tutta fresca e pimpante, pronta a continuare per la sua strada, perché come tutti saprebbero per istinto, quello è il primo giorno del resto della sua vita!

Nella realtà? Sono rimasta costretta a letto per due settimane a ingollare minuscole porzioni di brodo di pollo mentre il mio stomaco rattrappito si riabituava a farsi nutrire. Vincent stava sempre al mio fianco e mi imboccava con un cucchiaio, e mi portava al bagno, e mi lavava. Sì, mi ha visto nuda, e mi ha toccato nuda, e all’occorrente mi spogliava e mi rivestiva. E si tratta probabilmente della cosa più umiliante e meno romantica che mi sia mai capitata. Per me, per la ragazza un tempo così fieramente indipendente da vagabondare sola per il mondo con solo qualche Materia per compagnia, potermi adesso spostare soltanto se portata in braccio da qualcuno era tutto fuorché divertente o eccitante.

In quei giorni, io e Vincent abbiamo formato una sorta di relazione parassitica. Sostanzialmente non avevamo altra scelta, perché io sopravvivessi. E lui era così buono con me che penso di aver pianto qualche volta, mentre lui cercava di non farmelo pesare, sminuendo il fatto che ormai ero così debole da non potermi neanche più lavare da sola. Non che avessi ego rimasto anche solo per essergli grata – la prima volta ero così agghiacciata che all’inizio non riuscivo neanche a parlare per la vergogna, e lo odiavo e odiavo me stessa ancora di più e mi dicevo che sarebbe stato meglio se il drago mi avesse mangiata e fosse finita lì.

« Yuffie. » Ricordo ancora il calore della sua mano buona che mi passava il sapone sulle spalle con una spugna mentre l’altra era salda sul bordo della vasca come a stabilizzarla. Non ricevendo risposta, le sue uniche parole sono state un flebile: « Togli le braccia. »

Io mi sono rifiutata, ostinata, guardando fisso di fronte a me, insolente nella mia indifferenza.

« Fa male? »

Ancora silenzio.

« Yuffie? »

« Non indosso nulla » sono scoppiata infine, la voce esile, fiacca e lagnosa.

« Capita quando ci si fa il bagno » ha replicato Vincent in tono asciutto, ritraendo però la mano. « Ti mette a disagio che io ti veda nuda? »

« Sono bruttissima » sono sbottata, « brutta e… » e non voglio che sia proprio tu a vedermi così ma l’hai già fatto ed è quello che detesto più di ogni altra cosa.

« Sei magrolina » ha commentato in tono leggero, « ma niente male. »

Ho fatto un suono roco, il mio equivalente di una risata, notando un’increspatura divertita attorno alla sua bocca e rilassandomi un po’. « Valentine, menti come un orologio mezzo rotto. »

« Anche tu » ha ribattuto enigmaticamente, rimboccandosi ulteriormente le maniche fin sopra i gomiti e riempiendo una brocca con l’acqua della vasca. Quando me l’ha versata sulla testa ho emesso un piccolo miagolio, guardandolo storto tra le frange gocciolanti. Senza darmi retta, ha iniziato a insaponarmi i capelli con una mano, scostandomi le ciocche bagnate dagli occhi, e assicurandosi che nemmeno una bolla vi entrasse. All’inizio ho mezzo pianto per l’umiliazione, ma dopo un po’ le lacrime che stavano minacciando di rigarmi le guance erano di un amore disperato che non riuscivo nemmeno a comprendere a dovere.

Con grandissimo sforzo ho alzato una mano e afferrato la spugna tra le dita fiacche. Lui, dal gran cavaliere che era, ha distolto lo sguardo dal mio petto, ma io ero già distrutta. Non aveva più importanza che mi vedesse nuda o il seno, non me ne fregava più niente; e così mi sono sentita ancora peggio, perché la poca stima che avevo del mio aspetto era ormai rifluita nello scarico. Penso che Vincent lo sapesse, grazie al suo bellissimo e benedettissimo sesto senso su di me.

« … Mi dispiace. »

« Per cosa? » Le mie dita armeggiavano con la spugna, il braccio già iniziava a farmi male ma sono riuscita a usarla, piano, goffa.

« Che sei nuda. »

« Non importa. Non più. Non è che… stai urtando la mia sensibilità o altre menate. »

« È indecoroso » ha protestato gentilmente, « Dal momento che ormai siamo entrambi adulti. »

Mi considerava adulta. Il mio cuore ha saltato un battito. Se me l’avesse detto prima, prima di tutto questo casino, mi sarei fatta tatuare le sue parole sul petto, e magari avrei annunciato al mondo che sì, finalmente Vincent Valentine considerava Yuffie Kisaragi un’adulta, e per la cronaca, l’apocalisse è alle porte. « Tanto per te è acqua passata » l’ho preso in giro, la voce un po’ incrinata ma mio malgrado un sorriso sulle labbra. Era una vittoria di per sé. « Non subisci più il fascino delle ragazzine. »

« Ma se faccio fatica a toglierti le mani di dosso » ha detto Vincent fingendosi impassibile prima di concedermi uno dei suoi piccoli sorrisi, brevi e bellissimi, di quelli che affioravano talmente di rado che veniva difficile credere che la sua faccia potesse assumere un’espressione del genere. Ma quando accadeva era come il sorgere del sole.

« Questa è la cosa più carina che tu mi abbia mai detto » gli ho risposto, e poi mi ha tremolato il labbro inferiore e sono scoppiata a piangere.




Con molta fatica ho ripreso il controllo delle mani e ho ricominciato a muovermi, sebbene lentamente – e di solito dopo troppi passi mi accasciavo a terra, esausta, in un cumulo sgraziato. Quando Vincent se n’è accorto mi ha confinato a letto, dove ho scoperto presto che c’è un motivo se noi storpi morenti abbiamo tanta voglia di morire al più presto – non c’è niente da fare oltre a starsene immobili a sentire dolore.

Ho rispolverato le lezioni di cucito dalla mia infanzia e non avendo niente di meglio da fare mi sono messa all’opera, vendicandomi infilzando il filo in un innocente brandello di soffice cotone da ricamo. Spesso prendevo il mio Conformer e lo tenevo tra le braccia, passando le dita sul metallo brillante e chiedendomi se avrebbe volato mai più dalle mie mani. Altre volte guardavo la luce del sole che vi si rifletteva sopra, per ore. All’inizio Vincent si è innervosito vedendomi tra le mani qualcosa di affilato, ma cosa mai avrei potuto farci? Per il tempo che mi lasciava sola al massimo avrei potuto perpetrare violenze ai danni del mio cuscino. Stava con me quasi ogni ora del giorno, grattandomi le dita del piede della gamba ferita perché il sangue non vi scorreva più come avrebbe dovuto, massaggiando il mio corpo avvizzito, raccontandomi storie, spazzolandomi i capelli.

Manco a dirlo, ero talmente annoiata che ero annoiata più che a morte. Ero annoiata di una noia zombieana. La mia noia avrebbe dovuto dormire in una bara nella cantina di un vecchio maniero per un fantastiliardo di anni tanto faceva schifo. La mia noia era così totale che mi girava attorno in un loop infinito e alla fine anche essere annoiata mi ha annoiato. Prima erano tante le cose su cui non mi soffermavo, ma ora ogni movimento sembrava avere un’importanza enorme, e fissavo il soffitto tratteggiando miseramente i giorni in cui avevo saltellato felice come una Pasqua all’aria aperta.

La malattia patina di rosa i vecchi ricordi. Mi ero addirittura convinta che al Northern Crater mi fossi divertita un casino e che i Tomberry fossero morbide creaturine da strapazzare di coccole.

« Yuffie » ha detto un giorno Vincent vivacemente, all’improvviso. « Torno a Gongaga per un po’. »

« Tu cosa? » ho chiesto, palesemente angosciata. « Te ne vai? Cioè- »

« Si tratterà solo di un paio di giorni. Mi hanno fatto presente certe questioni. »

« Ah » ho bisbigliato, tristissima.

« Viene Cid con l’Highwind. Ho messo le tue cose in valigia. Siamo in pieno inverno, perciò non dovrebbe essere troppo pericoloso. »

« Ah. »

Silenzio.

« Le mie cose in valigia?”

Vincent ha inarcato un sopracciglio, come stupito e meravigliato, quando invece comprendeva fin troppo bene il mio stupore. La mia infermiera era uno stronzetto dispettoso, e che sia benedetto il suo piccolo cuoricino demoniaco. « Non vuoi venire? »

Ho chiuso la mano debole e ho dato un pugno all’aria, esultante. « Yuuuppiiiiii! »

« … Lo prenderò per un sì. »

Mi sono messa a sedere così in fretta che Vincent quasi è trasalito, gli occhi in fiamme, cercando di risistemarmi la coperta. « Voglio vedere cosa mi hai preparato! Ti sei ricordato di mettermi da parte una busta per il vomito? Vomito sempre sull’aeronave di Cid. E ti sei ricordato il mio chocobo di lana? Non posso andarmene senza il mio chocobo di lana. E una sciarpa – lì farà freddo – e i guanti, e le mie medicine, e- »

« Yuffie, calmati. » Mi ha poggiato le dita sulla fronte, poi sulle guance, controllandomi il polso. « Ti farai venire la febbre. »

« Fanculo la febbre. » Stavo praticamente saltellando; solo il dolore martellante e sommesso ormai naturale alla gamba mi ha impedito di alzarmi e fare la ruota per tutta la stanza. Però ho fatto qualcosa di poco meno grandioso: ho gettato le braccia al collo di Vincent e, esuberante come non ero da tantissimo tempo, gli ho dato un bacio sulla guancia. « Oh, Vincent, grazie! »

Si è liberato delicatamente dalla mia stretta, ma sapevo che era contento; lo leggevo nella linea delle sue labbra. Conoscevo a memoria il suo viso, ormai; ogni tanto mi sentivo come un mix YuffieVincentInUno. Troppo vicini per essere amici o amanti o cellule diverse. Un giorno mi venne la paura che gli avrei voluto tanto bene che mi avrebbe risucchiata, e sarei finita sotto la sua pelle.

« Hai bisogno di un po’ di movimento. Asako ha il timore che possano formarsi grumi di sangue sulla ferita. »

« Non posso credere che nonna Asa abbia perme- »

« È stata lei a raccomandare- »

« Che mi dici di- »

« Godo non ne è felice. »

Finivamo l’uno le frasi dell’alto? Non me n’ero neanche accorta. Fanculo finire sotto la sua pelle. Presto sarei diventata un altro aspetto di Valentine e sarei andata a far compagnia alla Galian Beast, solo meno avvenente e briosamente carina.

« Papà può andare a farsi fottere » ho detto compiaciuta.

« Ti avverto un’altra volta – viaggeremo in aeronave. »

« Il più grande mezzo di trasporto mai inventato dall’uomo. Ricordami di dare a Cid un bel bacio in bocca quando lo vedo. E di farmi abbracciare la ringhiera. »

« Ti darò un sonnifero per il viaggio » mi ha spiegato gentilmente. « Perdere altri liquido a questo punto potrebbe rivelarsi un enorme passo indietro. »

« Sì, dottore. O dovrei dire “papi?” Sei un po’ di tutti e due. Più infermiera. E chef. E intrattenimento generale. »

« E consulente viaggi » ha replicato lui sarcastico, ma l’idea che avesse fatto una battuta ha lanciato il mio umore alle stelle, più in alto dei fuochi d’artificio. Oh, oh, felicità. Yuffie the bomb.

Tutto questo l’ho detto anche a Vincent. Lui è parso sconcertato, e difatti mi ha misurato la temperatura e mi ha ordinato di sdraiarmi di nuovo per non farmi salire la febbre. Ma chi se ne fregava della febbre o della tosse asinina o di una broncopolmonite. Stavo andando a Gongaga!

… La malattia fa pensare cagate. Io non faccio eccezione.




« Cid, ti amo. »

Fedele alla meravigliosa e sacrosanta parola di Vincent, il mio biglietto per scappare da Wutainferno è arrivato dopo una settimana. Sempre per essere fedele alla sua parola, mi è venuto il mal di testa solo per l’entusiasmo, tanto palpabile che avrei praticamente potuto pisciarmi nei pantaloni (notevole uso della lettera “p”). Mi facevano male le ossa e quando avevo freddo mi battevano i denti, ma l’idea di un cambiamento di scena mi ha fatto così bene che persino Vincent si è rilassato un po’ – abbastanza da non spiarmi ogni secondo, almeno. Alleluia.

Il mio biglietto, che stava fumando uno dei suoi bastoncini cancerogeni e non sembrava assai scalfito dal mio bellerrimo sorriso e dalle costole che mi si vedevano attraverso la camicia, si è rivolto Vincent. « Sei pronto? »

« Ti ho amato dal primo momento in cui ti ho visto. »

« … Sì. »

« Cazzo, straparli sempre un sacco, eh? »

« Per me eri come un dio, un dio ispido, rozzo, pazzo, vecchio, non-esattamente-pulito, biondo e lamentoso. »

« … »

« Sembri in salute. Deve farti bene stare dietro ai mocciosi. »

« Ti ho mai raccontato del mio amore per la regale maestosità della tua aeronave? È per questo che ogni volta, tipo, ci vomitavo. La benedicevo. Un po’ come i comuni mortali fanno con lo champagne, solo più schifoso. »

« … Hm. »

« Se solo tu non fossi già sposato, ordinerei a Vincent di piegarmi il ginocchio per mettermi nella posizione corretta e chiederei la tua mano seduta stante, sai. »

Espressioni offese sono apparse sui volti di entrambi. Ah, ecco che si univano nel loro fattore comune: l’umiliazione a cui li assoggettavo.

« Strano, vomitavo sempre carote. Non mangiavo mai carote. »

« … Almeno sappiamo che la laringe di merda le funziona ancora. »

« Dicevo, l’Highwind è, tipo, la cosa più figa che sia mai stata creata. Ti giuro che quella volta che ho detto che era un vecchio ammasso di bulloni che sarebbero stati più utili se usati come rinforzo al reggiseno di Tifa non dicevo sul serio. E nemmeno lei avrebbe dovuto minacciarmi di prendermi a calci. È un adorabile vecchio ammasso di bulloni. Vero, Vincent? Eh? Eh? »

« … Quand’è che la mettevi a dormire?”

« … Presto. »

« Voi due mi fate schifo » ho detto loro con astio, e poi, allungandomi dalle braccia di Vincent, ho catturato il pilota in un abbraccio goffo e imbarazzato. Odorava di gasolio e sigarette. « Vieni qui, vecchio caprone. Sapevo che non sarei morta senza prima aver rivisto la tua brutta faccia. »

« Odio questi sentimentalismi del cazzo » ha grugnito Cid, ma suo malgrado mi stava accarezzando maldestramente la schiena, la mano che scivolava per spingermi in avanti. È esploso in una serie di vili parolacce quando ha sentito muovermi tra le braccia di Vincent. « Maledizione, ragazzina. Sei trasparente. »

« Ho il fegato sexy? »

« Tu non hai mai avuto niente di sexy. »

« Tu sei attratto solo dalle cose che hanno una leva e un indicatore del carburante, brutto vecchiardo succhia-sigarette. »

Lui si è districato con attenzione da me, come se avesse potuto rompermi con un gesto troppo brusco. Lo sguardo nei suoi occhi era di degradante orrore, e ho provato a gonfiare le guance scarne. Non dispiacerti per me, Highwind. Niente pietà da te. « Chiudi il becco e salite a bordo della mia maledetta nave » ci ha intimato prima di ripercorrere a grandi falcate il ponte della sua mostruosità di metallo.

Vincent ha obbedito, con la sua andatura curiosamente fluida che mi faceva ondeggiare il meno possibile quando camminavamo insieme, la gamba fissa davanti a noi come un brutto cannone. Avevo cominciato ad indossare pantaloni larghi che potevo togliere con facilità; non perché avessi bisogno di tenere al caldo quella cosa, ma perché non mi piaceva ricordarmi della sua orrenda presenza gonfia e maligna. Era come se fosse gravida di qualcosa che voleva far partorire a me.

Mi hanno messo in piedi lo stesso letto improvvisato dell’ultimo mio soggiorno sull’Highwind. Ho contemplato docilmente le coperte prima di porgere il braccio a Vincent, che stava già preparando la siringa ipodermica. (« Non puoi usare la Materia? » avevo piagnucolato all’inizio. Lui mi aveva risposto in tono secco che non si fidava della magia di qualunque tipo quando si trattava di medicina; se si guardava la lunga lista di varie cose orride che gli erano accadute a causa di Hojo, non gli si poteva dar torto. « E le pillole? » avevo piagnucolato con maggiore tristezza. Risposta lapidaria: non bastavano più. I draghi sono ammirevoli; quando vogliono infettare qualcuno, lo infettano davvero. Un grande applauso per voi, fottutissime lucertole.) All’inizio vomitavo quando c’erano di mezzo gli aghi, in una sottospecie di rituale primitivo alla “metti dentro-butta fuori”. Adesso, avrei potuto fischiettare qualche canzoncina mentre Vincent trucidava le mie vene.

« Svegliami qua- »

« Quando il tranquillante esaurirà l’effetto e non prima » mi ha interrotto severamente, iniettando con abilità molte sostanze tanto simpatiche nel mio braccio. Subito il getto felice e meravigliosamente intorpidente delle droghe si è impadronito di me, con la solita sensazione leggermente orgasmica e di stordimento che scalzava il dolore, che andava lentamente affievolendosi. Sono ricaduta all’indietro, tirando le lenzuola fino al mento. « Hai bisogno di riposare. »

« Se il sonno potesse curarmi, avrei messo la parola fine a questa storia settimane fa » ho mormorato con calore, la voce pesante e la vista che incominciava a offuscarsi. Vincent stava frugando in una delle borse che si era buttato in spalla, poi mi ha rimboccato efficientemente le coperte e ha riposto con cura il mio stupido chocobo di lana vicino al mio collo.

« … Vincent, non davanti a Cid… » ho cercato di biascicare, ma mi sono spenta come una lampadina.




Morte e rinascita.

Dicono che dormire è questo, no. Lo dicono anche di una marea di altre cose. Tramonto. Alba. Vomito. Sesso.

(Non che avessi voglia di pensare a niente di questa roba, ultimamente; quando sputi muco verde e anche la più semplice emozione ti impuzzolentisce di sudore, c’è il rischio di svenire ripetutamente eccitandoti anche solo un po’.)

Vincent che mi infilava sotto le coperte, Vincent la prima cosa al mattino. Morte. Rinascita. Vincent. Naturale come respirare.

Dio, ogni tanto mi chiedevo perché, come fosse potuto succedere. Perché Vincent si prendeva cura di una ninja strepitante, rigurgitante e morente che aveva incontrato per poco tempo (per salvare il mondo, d’accordo, ma non è che ci fossimo lasciati un’impronta l’uno sull’altro) e che non aveva apprezzato nemmeno tanto? Pensava che avessimo qualcosa in comune? Lui, senza età, senza tempo, bellissimo, incapace di morire. Io, minuscola, poppante, brava a urlare e incapace di vivere.

Non mi doveva niente. Gli avevo salvato la vita un milione di volte, sì, ma lui aveva fatto la stessa cosa per me e così pure Tifa e Cloud e Aeris (dolce Aeris cosa succederà quando verrai a portarmi via) e Red e Barret e Cid e Cait. Ero una qualche estensione della sua pallosissima penitenza, una cosa da sbrigare per l’espiazione del suo peccato?

Non mi piaceva quest’idea. Non ero granché come penitenza. Se avesse voluto aggraziarsi le forze che governano il mondo avrebbe dovuto premermi un cuscino sulla faccia.

Penso troppo. Perché mai mi stavo facendo questo? Avevo smesso di indagare sulle ragioni di Vincent Valentine molto tempo fa.

L’ultima cosa che vedo la sera. La prima cosa che vedo al mattino. È come un miscuglio contorto di madre-amante-padre-divinità.

Che schifo glorioso. La Yuffie di due anni fa avrebbe considerato tutto ciò una tortura con l’acqua. Io l’adoro. Giovane Yuffie, dove sei sparita? Stai crescendo o stai scomparendo proprio come me?




Quando mi sono svegliata, ero nell’ospedale del dottor Bannon con Vincent seduto accanto al mio letto.

Ora, questo che mi ha fatto trasalire. Quando si parla di déjà vu.

Se ne stava su di poltroncina scomoda e ho visto che, sorpresa sorpresa, aveva rimesso mano al suo guardaroba di Nero-Dio-Perché-Non-Lo-Capisci-Che-Sono-Depresso. Cioè, che non si dica che Vincent non sia figo in nero, ma penso che lo svilisca un po’. Mettetegli addosso una di quelle toghe blu scuro di cotone e un paio di pantaloni bianchi come quelli che portava a Wutai e, sì, yum.

… Oh, andiamo. Il mio corpo sarà pure morto ma il mio sensore roar non lo è affatto. Permettetemi di rifarmi almeno gli occhi.

Aveva una pistola tra le mani. La Death Penalty. Luccicava come argento vivo ed emanava un sottile aroma di polvere da sparo; evidentemente doveva averla appena ricaricata. Aveva la solita cintura per la pistola attorno alla vita, e quando ha visto che mi stavo svegliando, l’ha inforcata con perizia al suo posto. Adoro quando impugna le pistole. Diventano vive tra le sue mani, e se le rigira tra le dita buone come se fossero parte di lui, l’argento si armonizza con l’ottone dorato del suo artiglio, bellissimo e mortale. E a rischio di esplosione, proprio come lui.

Invece della colazione, stavolta Vincent conosceva il copione: mi ha porto immediatamente dell’acqua e un autentico cocktail di pillole che ho ingoiato in tutta fretta prima che cominciassero nausea e dolore. Poi mi ha dato un po’ di succo d’arancia, troppo aspro per i miei gusti, ma fresco e liquido, una bella sensazione sulla gola asciutta.

« … Come ti senti? »

« Una merda secca. »

« Stai bene quel tanto che basta per farti portare in braccio? »

« Come potrei spostarmi altrimenti? » Non soltanto era amante, madre e divinità, ma pure mezzo di trasporto. « Sicuro. »

Mi ha indicato una tinozza di acqua calda mentre io lottavo con i vestiti e mi ha dato del sapone e una spugna, posandomi su un’altra sedia per farmi lavare. Si è voltato perché mi voleva bene, ma sapevo che in qualche modo mi teneva comunque d’occhio per essere pronto nel caso qualcosa fosse andato storto.

Ho cominciato a passare l’acqua calda sulle articolazioni, rilasciando qualche sbuffo sibilante e profondo ogni volta che mi abbassavo sulla gamba malandata. Il volo non le aveva fatto bene; era più rossa di prima. Le tracce del veleno si erano arrampicate in una spirale su tutta la coscia e sul fianco; qualche diramazione si intravedeva anche intorno allo stomaco: piccole, taciturne, letali. Erano quasi belle, davvero. Ho deciso che se sopravvivo mi devo troppo fare un tatuaggio così.

« Perché ti sei preso la pistola? »

« Ho trovato le mie munizioni. » Si è stretto nelle spalle. « Andava pulita. »

« … Ehi, Vinnie? »

Lui ha risposto con un rumoretto gutturale per farmi capire che stava ascoltando.

« Che succederà quando il veleno arriverà al cervello? »

« Non lo sentirai. » Mi è dispiaciuto per lui. Di solito le mie Morbose Domande sulla Morte non partivano prima di mezzogiorno.

« Ah. » Mi ha fatto sentire a disagio di colpo, e mi sono strofinata distrattamente le costole. « … Perché? »

« Quando raggiungerà il midollo spinale non sentirai praticamente più nulla. »

Mi è caduta la spugna per lo shock. La sua voce era quasi sardonica e fredda; si è avvicinato per raccogliermi la spugna, gli occhi miti come un’alba. « Sarò paralizzata? »

« Non preoccuparti. » Quasi inconsciamente mi ha spostato una ciocca di capelli dietro l’orecchio per pulirmi il collo. « Immagino che per allora sarai entrata in coma. »

Gli ho restituito uno sguardo d’orrore, chiedendomi perché fosse così apertamente, tranquillamente crudele. Ero pronta a sbloccare una sfilza di imprecazioni molto cattive contro di lui, ma mi sono immobilizzata non appena l’ho guardato negli occhi.

Stava piangendo, gli occhi rossi umidi sembravano sangue, e ha spazzato furiosamente via le lacrime dalle palpebre non appena ha capito che cosa stavo guardando, per impedirmi di vedere. Leggere quella sofferenza così viva nei suoi occhi era peggio che se l’avessi visto singhiozzare. Stordita, mi sono fissata i piedi e mi sono accorta che era da molto che non riuscivo a muovere le dita del piede della gamba rovinata.

« Quando succederà? » ho sussurrato.

« Il dottor Bannon crede tra un paio di mesi o giù di lì. » Avrebbe dovuto fare l’attore, Vincent. Se pure avesse pianto la sua voce sarebbe rimasta impassibile, liscia come il burro.

« Sarò sveglia? »

« Sì. »

Mi sono voltata verso di lui e ho aperto le braccia. Era parecchio che avevo smesso di badare alla mia eventuale nudità. Lo stesso valeva per Vincent, ovviamente, e mi ha accettato senza indugio, trascinandomi in un abbraccio insaponato e imbarazzato. Le mie braccia si sono serrate attorno alle sue spalle, e ho immerso le mani nei suoi capelli e il volto contro il suo collo mentre tremavo. Ho sentito un tremore sotto la sua pelle in corrispondenza della mia guancia, sotto la pelle chiara come la panna che celava il suo unico mezzo per urlare. Forse non hai età, Vincent Valentine, ma dentro ti funziona ancora tutto. Incluso il tuo cuore.

« Non voglio morire, Vinnie » ho bisbigliato, e non mentivo.

La sua mano buona ha trovato la mia destra, avvolgendola come per proteggerla. Avrebbe potuto fracassarmela se avesse voluto, stringendo le forti dita affusolate e consumando le mie. « Non morirai. »

Allora avrei potuto credergli. Per il suo calore e il suo atteggiamento protettivo e questo suo lato emotivo che mostrava solo a me, e per quanto dentro fossimo simili, carne, sangue e umanità nonostante lui fosse un vecchissimo Turk addestrato e io una giovane ninja appena scampata all’adolescenza. Mio carissimo, carissimo, stupidissimo amico dalle parole contate.

Ma, chiamatemi cinica, questa volta non ci sono riuscita. Lo amavo tanto quanto sapevo che non era Dio, e che non aveva alcun potere su chi vive e chi muore. « Voglio che tu mi uccida prima che raggiunga il midollo. »

Il suo corpo si è irrigidito.

« Prendi la Death Penalty. Boom. So che puoi farlo senza farmi male… »

« Yuffie, maledizione. » Aveva una voce stanchissima, senza un filo di rabbia. Ho iniziato a capire quanti anni abbia davvero. « Chiedimi tutto ma non questo. »

« Scusa » ho detto immediatamente, pentita, e sono scoppiata a piangere insieme a lui, e dopo pochi secondi ci siamo ritrovati a tremare insieme in una massa informe di disperazione.

Qualcuno ha bussato alla porta, e se non ha spezzato l’incantesimo quantomeno lo ha affievolito; Vincent si è divincolato gentilmente dalle mie braccia per andare a rispondere. Ho bagnato la spugna nell’acqua e mi sono messa a sciacquarmi, tamponandomi la faccia per non lasciare nemmeno un segno delle lacrime e inumidendomi i capelli che per fortuna erano puliti per evitare che mi si rizzassero in testa in uno schifo di cresta. Fiera di me stessa, sono riuscita ad acciuffare i vestiti puliti che Vincent mi aveva preparato e me li sono infilata tra mille contorsioni, dondolando dalla sedia al letto per potermici sedere ad aspettarlo.

Alla fine, ha chiuso la porta ed è tornato a guardarmi. Aveva delle bolle di sapone sulle spalle, e ho ridacchiato un po’ quando se l’è spazzolate di dosso.

« Sei pronta? »

« Sempre » ho risposto superbamente, alzando le braccia e stringendomi con sicurezza a lui.

« … Torniamo a casa mia, allora. Penso che ci sia qualcosa che forse vuoi vedere. »




« Devo chiudere gli occhi? » gli ho chiesto quando siamo arrivati davanti alla sua casetta, quasi fuori di me per la trepidazione.

« Se vuoi. »

« Partecipazione zero come al solito » mi sono lagnata, ma ho chiuso comunque gli occhi, per prolungare la sensazione. « Dimmi quando posso riaprili. »

Ho sentito una porta che si apriva, e poi un’altra ancora, e mi ha poggiato su una cosa morbida e vagamente lisa. Un divano. Sentivo delle voci soppresse a fatica. « Vinnie? Posso aprirli adesso? »

Ho sentito l’ampio sorriso nella sua voce: « Suppongo di sì. »

Li ho riaperti, e sono rimasta in un silenzio di sasso per almeno un ottavo di secondo prima di riuscire a strillare: « Tifa! Cloud! » con un tono di voce che probabilmente ha spaventato tutti gli uccelli che nidificavano al villaggio per almeno vent’anni.

Si è scatenata un’immediata agitazione. Mi hanno preso in braccio, mi hanno dato pacche sulla schiena, mi hanno cosparso di baci – Tifa – e mi hanno strofinato la schiena – Cloud – in un brusio rapido, confuso, vivace e chiassoso in cui non sono riuscita ad afferrare una sola parola dei saluti precipitosi.

« -Oh, Yuffie- »

« -trattato bene?- »

« -così contenta di- »

Essere di nuovo con quei due ha fatto riaffiorare una nostalgia schiacciante; se non avessi riso tanto sarei scoppiata a piangere. Tifa odorava di profumo e di legno bruciato e di lei e poi c’era Cloud, i capelli schiariti come sempre e gli occhi sgranati, quegli occhi che erano come un mare di fuoco, due paia di mani piene di calli sulle mie e due sorrisi ugualmente stupendi e lenti. Tuttavia, sul bel viso di Tifa si è dipinta della mortificazione; mi ha riportato con cura sul sofà da dove mi avevano soffocato di abbracci e ha scrutato torvamente Cloud. « Fai piano! »

« Eri tu quella che le stava frustando la schiena, Tif » ha controbattuto lui in tono tiepido, grattandosi il collo. « Oh, e ciao ancora, Vincent » ha aggiunto dopo averci riflettuto.

« Ommioddiommiodiommiodio » è stata l’unica cosa che sono riuscita a blaterale, sbalordita, guardando i loro sorrisi beoti e fissando di nuovo Vincent. « Come- »

« Avevo detto loro che saresti passata da queste parti » ha spiegato dolcemente.

« Non ci vediamo da anni, Yuff » ha detto Tifa. « Dio, sei così- »

« Repellente? » ho suggerito io.

A seguire, breve silenzio.

« Non sapevamo stessi male fino a questo punto » ha risposto lei imbarazzata. « Perché non hai mai scritto? »

« Non c’ho pensato » ho detto sinceramente. « E poi non sto tanto male, Lockheart. »

« Ma no » è intervenuto Cloud, gli occhi azzurri di mako puntati sulla mia gamba. « Come ci è venuto in mente. »

L’ho guardato male. « Mi rimetterò, okay? Sembro peggio di come sono in realtà. »

« Sanno tutto, Yuffie » La voce vellutata di Vincent fluttuava dalla cucina, dov’era sparito.

« Ah. Allora questa è una specie di ultima visita? »

Hanno sussultato entrambi.

« Morirai, eh? » ha fatto Cloud in tono incolore, come se stesse parlando del tempo.

« Così pare, caro il mio Strife. »

« Tu capisci che sarò molto incazzato se tu muori. »

« Puoi venire con me nel Lifestream. »

« Puoi scommettere il tuo piccolo culo ossuto che lo farò. »

« Stai prendendo lezioni da Cid o sbaglio? »

« Possiamo non parlarne? » ha domandato Tifa, vagamente disperata, facendo scivolare una mano tra le mie. « Devo recuperare un sacco di cose con Yuffie, Cloud. »

Si sono scambiati uno Sguardo. Così tante parole inespresse; riuscivo praticamente a sentire il loro litigio mentale sull’argomento. Evidentemente avevano lo stesso problema che era sorto tra me e Vincent – la capacità innata di parlare senza parole. Alla fine, comunque, Cloud ha indietreggiato e si è accomodato nella poltrona di fronte.

Buffo, davvero. Non mi sarei mai aspettata che la casa di Vincent avesse qualcosa di così ordinario come le poltrone. Era ammobiliata proprio come tutte le altre case di Gongaga, minuscola e calda con tanto di arazzi alle pareti, anche se a onor del vero era un po’ più austera.

« Mi piacciono i tuoi capelli » si è complimentata Tifa durante la nostra conversazione, tirandomi delicatamente una delle ciocche nere che pendevano sulle mie spalle.

Ho fatto una faccia bruttissima. « Dovrei chiedere a Vincent di tagliarli. Sono sempre arruffati. »

« Ma tu e Vincent vivete davvero insieme? » Questo era Cloud. « Lo stai mandando fuori di testa, presumo? »

« Gli piacerebbe! » Ho sogghignato, incrociando le mani sul grembo. « E no, è lui che mi sta facendo impazzire. Non riesco mai a farlo stare zitto. Tutto il santo giorno non fa altro che parlare, parlare, parlare. Dico che avremmo dovuto lasciarlo in quella bara e sprangargliela. »

Si è levato un verso scorbutico dalla cucina.

« Certo che siete cambiati » ha commentato l’esperta di arti marziali, ridendo.

« Davvero? » ho chiesto subito, deliziata. « In che senso? »

« Tu sembri più grande. »

« Non gasarti, però » ha avvertito Cloud. « Io ti darei dodici anni. »

« Grazie per essere sempre così come sei, cazzone. »

« Posso vedere… » I suoi occhi sono scivolati sulla mia gamba.

« È ricoperta di bende. » Mi sono protesa, trasalendo appena, per scostare il cotone che copriva la gamba, mostrando l’arto gonfio avvolto nel lino. « Non si vede niente, ma potrei sempre toglierle- »

Vincent mi ha squadrato molto male quando è rientrato nella stanza per portare a Cloud e Tifa delle tazze fumanti di caffè; io mi sono imbronciata e lui mi ha porto una tazza del mio orripilante tè alle erbe che puzzava come veleno. « … ma non lo farò. »

« Deve farti molto male. » La mano di Tifa ha strizzato la mia e il cuore mi è svolazzato in petto; avevo dimenticato quanto potesse essere meravigliosa, quanto conforto potessero donare quei dolci occhi color del vino. « Sei incredibilmente coraggiosa. »

« Nah » ho bisbigliato, in modo che il mio costante compagno non potesse sentire. « Vincent fa tutta la roba “coraggiosa” per me. »

Poi abbiamo parlato. Vincent no; lui se n’è rimasto in un angolino della stanza, prima di spostarsi in un altro angolino, presumibilmente per badare ad altre faccende. Quasi non l’ho notato, completamente assorbita dal piacevole chiacchiericcio di Cloud e Tifa. Erano venuti via chocobo da Junon, che a quanto mi hanno raccontato si è trasformata dalla tana di un sorcio rannuvolata dall’inquinamento in un centro scoppiettante di calore, turismo e felicità, dove Tifa gestiva un albergo-bar e entrambi aiutavano a fare piazza pulita dei mostri e si dedicavano agli strani lavori che Reeve procurava loro, ed erano molto felici. Ampiamente superati i vent’anni, e Tifa era ancora una delle donne più belle che avessi mai incontrato insieme a Aeris Gainsborough; le uniche rughe che assediavano il suo volto erano quelle attorno alla bocca, per i troppi sorrisi. Cloud possedeva ancora tutta l’esuberanza giovanile dei suoi ventun anni, come tendono a fare tutte le persone bionde, e sembrava il più giovane di tutti; i capelli erano una spudorata sfida alla forza di gravità come sempre, ma doveva aver cominciato a farseli crescere. Era ancora un guerriero in ogni accezione del termine, anche solo dal modo in cui si sedeva. Io ho raccontato loro delle storie su com’era vivere con Vincent, omettendo il sangue, il dolore e il vomito, e sono riuscita a strappare a Tifa delle risate genuine.

Ogni tanto li ho sorpresi a scrutarmi con occhi spalancati e confusi, come se fossi una psicopatica che aveva detto una parola di troppo. Sono cambiata tanto? O sono cambiati loro? Era perché non ero più carina e solare? Avevo ancora la mia vivacità esuberante, questo lo sapevo. Però veniva guastata dalle guance scarne e dalla tosse che mi torturava quando ridevo, quindi spesso, e dalla stanchezza che mi ha inchiodato ai cuscini del divano. Ero ancora molte cose, ma non ero più una bambina. La malattia mi ha invecchiata, nel fisico e molto probabilmente nello spirito.

Bizzarro. Perché io mi sentivo ancora una sedicenne.

Vincent è tornato, dopo un po’, ha visto le mie guance infervorate di felicità e si è accigliato. Guastafeste. « Credo che Yuffie debba riposare. »

« Sì, infermiera » ho sospirato. Tifa ha sollevato un sopracciglio, stupita che avessi ceduto tanto facilmente.

« Cloud e io dobbiamo tornare indietro » ha detto dolcemente. « Per farcela prima del tramonto, almeno. Però è stato bellissimo rivederti, Yuffie. »

« Sono sicura che dev’essere stato noiosissimo parlare con me, Tiffster. Grazie a voi per aver trovato il tempo di venire a farmi visita. »

« Ci sei mancata, Yuffie. » Era Cloud, e non l’avrei mai detto, aveva gli occhi seri.

« Ci stai provando con me? »

Lui si è chinato in avanti e mi ha scompigliato molto cortesemente i capelli. « Rimettiti in sesto, Yuffie. Questo è un ordine. »

« Signorsì. » Ho sporto le braccia per farmi abbracciare di nuovo da Tifa, calda e morbida, e poi sono ripiombata nel familiare calore di Vincent. « Mi scriverete, vero? E mi telefonerete sul PHS? »

« Promesso » hanno trillato all’unisono, e Tifa si è ritratta per baciarmi la guancia. « Prenditi cura di te, Yuffie. Anche se a quanto pare Vincent se la sta cavando bene. »

Vincent è parso gratificato.

Mi ha concesso di salutarli con la mano dallo stipite della porta mentre scomparivano nel paese, fino ai confini dove avevano legato i chocobo, prima di riportarmi dentro. « Come diamine sei riuscito a farli venire? »

Ha inarcato un liscio sopracciglio d’ebano. « Quando hanno sentito quello che ti era successo, volevano venire. Tifa mi aveva scritto un bel po’ di tempo fa; però era un brutto periodo e dubitavo che tu volessi vedere qualcuno in quel momento. » Abbiamo percorso un breve corridoio per giungere alla sua camera da letto, spartana, con un letto, un armadio, una mensola per le pistole mezza vuota e poco altro. Il letto era di lana, ho starnutito quando mi ci ha adagiato sopra. « Ho pensato che avessi voglia di vederli. »

« Sono stati carini » ho detto con aria sonnolenta. « Sono contenta di essere riuscita a vederli. »

« Pensando che sarebbe stata l’ultima volta? »

È sopraggiunto un silenzio imbarazzato. All’improvviso non avevo più molta voglia di dormire.

« Non voglio fare il pisolino » ho annunciato, tetra. « Posso avere le mie medicine e un libro, Vinnie? »

« Un libro? » Era leggermente perplesso. « Non ho molti libri che potrebbero interessarti, Yuffie. »

« Dammene uno sulle materia o le armi e simili. Sai, con delle figure su cui posso sbavare. » Mi sono sistemata sui cuscini. « Che cosa devi fare qui? Dove dormi tu? Io dormo qui? Se mi addormentassi ora starei sveglia tutta la notte, te l’assicuro. »

Vincent ha memorizzato le domande, com’è abituato a fare. « Va bene: devo sistemare un paio di cose e chiudere delle questioni in sospeso; sul divano; sì; capisco. » Ha aperto l’armadio e ha iniziato a frugarci dentro. « Devo anche prendere delle cose. E mandare delle lettere. »

« Siamo industriosi come apine. » Mi ha avvolto in un’altra coperta. « Non preoccuparti, Vince, prometto di non prendere la febbre e morire. E la mia medicina? »

« Te l’ho sciolta nel tè. Vuoi degli antidolorifici? »

Ho annuito con entusiasmo.

Vincent ha sospirato. « Preferirei che ci andassi più piano. »

« Quando stai come me, Vinnie, ti viene da ingurgitare quelle cose come caramelle. »

Lui è scomparso, per poi riapparire con una manciata di pillole, un bicchiere d’acqua e un paio di grossi tomi con titoli come Materia – Dallo stato grezzo alla raffinazione e Evocare. Entrambi parevano vecchi di tremila anni ed erano con buona probabilità assurdamente datati, ma aprendone uno ho scoperto che le figure luccicanti c’erano davvero.

Vincent ha aspettato che ingoiassi le pillole e poi, sorprendendomi, si è avvicinato per sfiorarmi la fronte con la bocca. Le sue labbra erano morbidi e un po’ fredde, ma non in modo sgradevole; ho alzato gli occhi per guardarlo, le guance rosa di piacere e imbarazzo. « È stata una lunga giornata » ha mormorato, all’apparenza imbarazzato quanto me, ma più risoluto. « Non affaticarti, Yuffie. »

Ho appoggiato il bicchiere sulla superficie del comodino, sentendomi improvvisamente minuscola tra i cuscini vaporosi e le coperte grandi, piccola e debole. « Grazie, Vincent » ho borbottato con voce roca.

Se n’era già andato. Ho aperto Evocare alla pagina tre, ma poi mi sono addormentata immediatamente. Ho sognato cose strane.




Quando mi sono svegliata, non ci vedevo. Mi ha assalito momentaneamente il panico, ma poi mi sono resa conto che era notte fonda e quindi era normale; la mia mano è andata a tentoni in cerca della lampada, e dopo parecchie imprecazioni le mie dita gonfie si sono imbattute nell’interruttore.

La luce ha illuminato un Vincent dagli occhi molto assonnati, in una sedia che doveva aver trascinato sino al letto; ovviamente è trasalito per il risveglio tanto brusco e ha cercato subito di far finta che stare lì fosse normale.

« Perché non sei sul divano, idiota? » ho domandato in modo confuso.

Vincent ha cambiato posizione, a disagio.

Decidendo di sollevarlo dalla sua miseria, ho sfoderato uno Sguardo, uno dei suoi con cui avevo fatto pratica allo specchio. « Santo cielo, Vincent Valentine, non startene lì imbambolato a fissarmi. Non sopporto di vederti dormire su una schifosissima sedia. Sdraiati sul letto. »

Mi ha studiato con sospetto, ma ha obbedito al mio ringhio; si è rifiutato di infilarsi sotto le coperte ma si è sbottonato la camicia per esibire la sua buona volontà. Ho spento la luce.

Siamo rimasti in silenzio e al buio per qualche minuto. Sentivo ancora il peso del libro sotto le mani.

« … Come ti senti? »

« Diiio, perché me lo chiedono tutti? Credevo fosse ovvio. » Sono scorbutica quando mi sveglio. Denunciatemi pure.

È caduto un altro silenzio. Mi sono venuti i sensi di colpa. Non volevo alienare Vincent. Ma tanto lui conosceva il mio umore come le sue pistole.

« È ancora gonfia? »

« … Sì. »

Mi ha preso una mano. Le mie dita ci hanno messo un po’ a piegarsi e curvarsi tra le sue come se avessi l’artrite. « Ti prendo un po’ di pomata per aiutarti. »

« Non importa. »

« Importa a me. »

« Tanto tra due mesi non sentirò più le mani. »

« Tre mesi » mi ha corretto subito lui; l’ho sentito irrigidirsi al buio.

« Hai parlato con Bannon? »

« … Vuole che ti porti da lui domani. »

Io sono rotolata via, liberando la mano e dandogli la schiena. « … Non mi va. »

« Yuffie- »

« Ormai non c’è niente e nessuno che possa aiutarmi, no? Anche se mi tagliassi questa stupida gamba non cambierebbe nulla, il veleno è già entrato in circolo e non possiamo espellerlo. È per questo che rimani, Vincent, perché sai che morirò? »

Mi ha agguantato fulmineamente la spalla, costringendomi a guardarlo. Riuscivo a vedere i suoi occhi nonostante il buio, quasi brillavano. Un brivido mi ha percorso la spina dorsale; lui se n’è accorto, ha allentato la morsa, ma non l’intensità della sua espressione.

« Secondo te è per questo che resto, Yuffie? »

Non gli ho risposto per un bel po’. « … Avresti dovuto lasciarmi morire in quella foresta, Valentine. »

« … Non ti lascerò mai morire senza combattere. »

Tutta la mia irritabilità e la mia infelicità sono svanite e mi sono contorta goffamente verso di lui, nascondendo il volto nel suo collo, così grata che avrei potuto scoppiare in lacrime. « Oh, Vincent. »

« Andrà tutto bene. » Mi ha accarezzato maldestramente la schiena. Oh, quanti padri e madri avranno fatto una cosa del genere con i loro bambini, con al posto della speranza la consapevolezza che l’unica cosa che potessero fare fosse proteggerli fino all’ultimo respiro?

« Sei sicuro? » Minuscola. Infantile.

« Sicuro. » Un genitore che consola, asciugando via il dolore. Tutto passato, Yuffie, per sempre. « Fidati di me. Dormi. »

Avevo singhiozzato e pianto a non finire, non mi erano rimaste più lacrime e neanche sofferenza. Potevo solo nascondere la faccia nel suo petto che profumava di cenere e scintille. « Notte notte » ho mormorato, come avevo sempre fatto con mio padre; « Ti voglio bene, Vin’- »

« Buonanotte, Yuffie. » Avrebbe potuto essere Godo, solo molto più giovane; aveva la stessa voce sottilmente nobile, bella e melliflua – ma ero sempre consapevole, dolorosamente, meravigliosamente, che era Vincent. Mentre mi lasciavo andare al torpore, l’ho sentito arruffarmi i capelli, e la sua lingua ha accarezzato parole che dubito avesse pronunciato da decadi: « Ti voglio bene. »

Come un genitore a un figlio, forse, ma era il mondo.





Il giorno dopo non c’era più; nulla di insolito. Aveva lasciato una nota sul cuscino nella sua bellissima calligrafia, annunciandomi che sarebbe passato nel pomeriggio per portarmi da Bannon (ugh), e che probabilmente nel frattempo avrei dovuto riposare. Mi sono riappropriata della mia copia di Evocare ai piedi del letto e mi sono messa a sfogliarlo.

Shiva – Ramuh – Knights of the Round – Phoenix –


Sfere rosse familiari. Le conoscevo tutte. Bla, bla, bla. Cacchio, avrei potuto scriverlo io. Forse sarebbe stata un’ottima scelta lavorativa. Ho dato una scorsa all’ultima pagina.

Spiriti Non Verificati – Appendice


Ho fatto scorrere un dito sulla lista. Aden, Adiel, Aesculapius-


Il mio dito si è fermato e ho letto il testo.

Aesculapius (Asklēpiós)


Stato: Non Verificato


Spirito libero (non ancora catturato), mitica reliquia dei nomadi che solevano abitare le caverne sulle Montagne di Icicle. Ulteriori informazioni sono andate perdute quando la popolazione nomade è morta nell’era della Febbre della Tundra. Avvistato dai viaggiatori dispersi nella zona; appare più di frequente sotto forma di serpente o di uomo con un mantello. Tratta guarigioni, reumatismi, claudicazione, storpi, infezioni e veleno. Sebbene non sia stato verificato né smentito, si dubita della sua esistenza o viene considerato un avvistamento remoto di Ashura. Pagine 60, 61, 89.



Ho riletto il paragrafo. Tratta guarigioni… storpi, infezioni e veleno.


Ho sentito qualcosa salirmi in gola e l’ho riconosciuto, dopo tanto tempo, come speranza.





Nota costernata della traduttrice: EEEEEEHMMMMM
Sunshine in Winter finirà negli annali per la pubblicazione più lunga di sempre, tra me e l’autrice xD
… Ma poi come fa strano vedere la considerazione di Cloud (e di Cloud e Tifa!) del fandom negli albori degli anni duemila, addirittura qui c’ha la “youthful exuberance” xD Dà da pensare.
A presto, spero giuro eeeeehr :/

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Capitolo 6
*** Il Terzo Mese ***


Sunshine in Winter


il terzo mese






Siamo andati a vedere il dottor Bannon prima di partire. Continuava a terminare le frasi molto rapidamente, lasciandole palesemente incompiute per cercare di essere cortese. Poco male; potevo completarle io per lui.

« Adesso le somministrerò queste pillole, e questi, hm, tranquillanti, per il prossimo mese. » Dopodiché, pupa, sei tanto ma tanto fottuta. « Dopo un certo tempo potrebbe trovare difficile camminare a causa della sua spina dorsale… » … quando si scioglierà e comincerà a uscirti dalla schiena! « Le raccomando una serie di esercizi che il signor Valentine può aiutarla a compiere. » Mangio micetti per sport. « La trovo in ottima forma. » Per un paziente terminale avvelenato, tesoro. « Sono sicuro che potrà beneficiare di una pacifica, uh… »

Il silenzio si è teso nell’aria e d’improvviso mi ha fatto molta pena. Doveva essere diventato medico di recente, e non era abituato alla frustrazione di un malanno incurabile. E punto a suo favore, non mi aveva sganciato il grande Io-L’avevo-Detto. Mentre balbettava e incespicava sulle parole, era ovvio che odiasse questa parte del suo lavoro.

Ma questo non significa che lo stronzo mi piacesse di più.

« Non mi piace assumere tranquillanti » ho borbottato, avvilita solo un po’.

« Non c’è altro che…? » Vincent ha dato voce a quello che stavo per chiedere. Lo sapeva anche lui che non c’era.

« La medicina a base di erbe non è abbastanza forte » ha risposto schiettamente Bannon, e ho apprezzato il fatto che non stava spezzando lì la frase per ripartire poi come un motore difettoso, « anche se fino a questo momento ho avuto fiducia nelle doti di Asako Guirasame. Forse potreste provare con un po’ di mahocine cetrinide. »

Il mio cervello non stava seguendo, ma quello di Vincent sì. « Vuole somministrarle della calentura? » ha domandato debolmente, nominando una droga di prima categoria. « Per farla delirare? »

« Viene usata a scopi medicinali, e- »

« E lei noooooon mi darà quella robaccia, doc. Vada per i tranquillanti. »

« Bene » ha detto lui, in tono incolore. « Signor Valentine, le dispiacerebbe seguirmi nella mia farmacia? »

Vincent si è alzato e ha fatto quanto detto, ma il dottor Bannon si è fermato un istante per guardarmi.

« Signorina Kisaragi? »

« Hm? » Ho girato la testa verso di lui; mi stavo mordicchiando l’interno di una guancia.

« Mi- »

Cazzo. Stava cercando di dire che gli dispiaceva. Mi sono schiarita la gola. « Non ci vedremo mai più. »

Mi è parso sul punto di aggiungere qualcos’altro; poi ha chinato la testa con una nuova risolutezza e ha imitato Vincent.

Siamo partiti per Wutai quasi subito dopo.




L’autunno nel mio paese natale, la morte dell’anno. Non sono una ragazza da autunno. Io sono per l’estate, quando le cose sono pigre e in pieno corso, e fa tanto caldo che nemmeno le formiche si disturbano a mettere le antenne fuori dal formicaio e quelle adolescenti dicono alla regina di andare a fare in culo. Ogni cosa è viva, e quando una brezza leggera soffia su tutto nel modo giusto, vedi il mondo respirare. Quand’ero più piccola il cuore mi si gonfiava tanto anche solo stando seduta su un albero a guardare Wutai vivere attorno a me, pensando che non avrebbe resistito.

L’autunno è la fine di tutto questo, più uggioso dell’inverno, con la vegetazione che invecchia e gli animali che si prodigano nella costruzione di tane e si preparano per una lunga, noiosa stagione di gelo. La monotonia cosparge il suolo sotto forma di foglie ramate sporche di terriccio e si sente il tanfo della dolce putrefazione delle piante. Quand’ero più piccola mi infilavo tra le foglie con indosso i maglioni di lana che mi facevano le zie, slabbrandoli tanto da renderli irriconoscibili con le punte affilate e tenaci delle fronde degli alberi.

Credo che Vincent potrebbe essere un ragazzo, o meglio un uomo, da autunno. Ha ripreso lo yukata, mischiandosi delicatamente nel paesaggio con il suo materiale ruvido, i capelli sistemati in una treccia accuratamente irregolare che le mie dita artritiche impiegano anni a realizzare. Ogni tanto, quanto lavoravo sulle ciocche lui si voltava verso di me per l’accelerarsi del mio respiro; non c’era pericolo. Amavo i suoi capelli, morbidi, bellissimi e angosciosamente perfetti – mi ricordavano in modo davvero inquietante e incestuoso-lo-so quelli di mia madre. Avevo voglia di nasconderci la faccia e inspirare il suo odore, il profumo dolce di pulito fuso con la polvere della montagna. All’ombra degli alberi sembrava tanto Wutaiano che mi aspettavo estraesse un wakizashi dal nulla da un momento all’altro, mettendosi a tirare di scherma al crepuscolo. Lui è la morte dell’anno. Cammina perpetuamente nella morte. È la vita che si intreccia fino a sparire; non ha nulla della sterile delicatezza dell’inverno, è quel momento di trepidante preparazione al lasciarsi andare che caratterizza la stagione.

Tutta questa morte mi ha caricato dello strano bisogno di stargli vicino. La voglia di premere un orecchio contro il suo petto per ascoltare il suo cuore a volte ha la meglio. Non ho mai avuto tanta paura come quando l’ho guardato, chiedendomi quanto fosse lento e regolare il suo cuore, e lui mi mi ha preso per il mento e si è abbassato per farmi posare la testa sul suo torace. Era lento. Stranamente lento. Ho alzato gli occhi, inarcando un sopracciglio.

« Cuore modificato » ha spiegato concisamente.

« Ewww » ho fatto io vivacemente, rovinando allegramente il momento. « Ma che schifo, Vincent. Perché batte più lento? »

« I battiti sono più forti, per questo ne servono di meno. » Ha allungato due dita sul mio collo, verificando il mio. « Il tuo è più veloce, ma comunque sotto la media. È una buona cosa. »

« Hai altri organi assurdi? »

« … Migliorie al cervello. »

« Ewwww. »

« … Migliorie alla vista… »

« Ewwwww. »

« Maggiore efficienza nell’utilizzo delle materia dovuta all’incremento di ghiandole; un sistema respiratorio più funzionale; un orecchio dietro il collo e due milze. »

« … Okay, adesso sfotti. »

Lui è rimasto impassibile. « E tre stomaci. »

« Ora puoi anche stare zitto. »

« E cinque gole. »

« Tutte le tue cinque gole possono tacere. »

« Trasudo una sostanza viscida quando ho paura. »

« Per tua informazione, sei rivoltante. »

« Ho una sacca per le uova incorporata nella coscia. »

« Vincent, ti vomito addosso. »

« E un piede tarocco. »

« Vincent! »

Credo di avere una cattiva influenza su di lui. Credo che potrei adorarlo.




… resti di sacrifici sono stati rinvenuti sull’altare; tuttavia, è ancora da stabilire se i rituali e la possibile evocazione di Aesculapius avessero luogo all’interno del tempio stesso o in un altro impianto. Molti documenti religiosi, che avrebbero potuto essere illuminanti in questo senso, furono incendiati come parte del processo di purificazione dopo la febbre, inconsapevolmente…

Lo leggevo fino a farmi sanguinare gli occhi e a ricordare perché mi addormentavo sempre a scuola.

… frammenti di materia ritrovati al…

… punto di coagulazione a nord-est del…

… ad ogni modo, nessuno di essi è stato ritrovato…


I risultati della mia ricerca non erano esattamente buoni. Dieci miliardi di persone erano andate a cercare Aesculapius prima che io facessi i miei piani. E non avevano trovato una mazza. Però c’era questa vocina nella mia testa che bisbigliava: “Provaci, Yuffie. Provaci.”

… prodotto un’elevata quantità di “Heal” e “Restore” materia. Non abbastanza, comunque, da giustificare l’ipotesi che la zona fosse un tempo un centro di culto dello spirito Guaritore, tanto che in molti sostengono che sia stato sorvolato un luogo chiave, ma con tutta probabilità Aesculapius altro non era che una figura religiosa primitiva, piuttosto che un potente spirito da evocare…

Non dovrei mai dare ascolto alle voci nella mia testa. Sono le stesse che mi dicono di rubare la roba. Ero sicura di avere un demone al posto della coscienza.

… con l’estinzione della tribù giasonica, la più vicina al centro interessato, si è persa ogni possibile traccia, e gli unici indizi riguardanti la verità celata dai racconti ci vengono da qualche sporadico antenato…

Ho progettato di partire a metà autunno. Qualche giorno in più e avrebbe potuto essere troppo tardi.

È andata a finire che tanto era già troppo tardi.




Siamo rimasti in casa quell’autunno. Lasciavamo aperte le finestre per far passare la brezza dei fiori estivi che appassivano, ma a parte le volte in cui lui mi metteva a sedere alla luce del sole non uscivo. Vincent era fissato con la storia che dovevo stare abbastanza tempo alla luce del sole; conteneva una qualche vitamina pallosa o che so io. Mi sentivo come una pianta in vaso; strano che non mi abbia innaffiato.

Rimanevo seduta per lunghe ore, tiravo su la maglia e giù i pantaloni di cotone per studiare il mio corpo. I marchi tondeggianti del veleno si erano attorcigliati su di me come l’edera su una quercia; avevano seguito le vene della coscia e della pancia, e stavano strisciando sulla gabbia toracica, dritti il cuore. Una morte lenta. Una piccola vite avanzava lentamente verso la mia ascella. Avevo l’abitudine di guardarle e rabbrividire finché Vincent non mi aggomitolava in una coperta e mi dava il tè cattivo di Asako, contro le mie deboli non proteste. Ho scoperto che il suo scopo era prevenire la febbre, bloccarla. Prima non sapevo esattamente a cosa servisse la febbre. Il mio corpo si riscaldava continuamente nel tentativo di distruggere l’infezione, che viveva alla mia temperatura corporea e magari sarebbe morta se esposta ad una maggiore. Ma questa non era un’infezione comune, e avrei bruciato come un legnetto asciutto se il mio corpo avesse preso il controllo.

Ancora mordevo le dita di Vincent ogni volta che nonna mi apriva la gamba. Ancora la solita coniglia.

Il mio ritmo sonno-veglia è mutato drasticamente, e non so proprio quand’è che Vincent dormisse. A volte dormivo tutta la notte; a volte di giorno. A volte dormivo dalle cinque alle tre del mattino. Mi svegliavo sempre con lui che mi scrutava, irrigidita dal sonno e dalla malattia, e gli facevo delle piccole fusa di soddisfazione mentre mi massaggiava via tutta la tensione. Mi si arricciavano le dita, la schiena si piegava, e la gamba buona si tendeva. Non toccava mai la gamba malandata, non troppo; faceva un male cane. L’unica volta che ci ha provato ho pianto come una bambina.

Mi sono svegliata di nuovo alle tre del mattino, in un buio tenue, il cielo blu scuro trapuntato di stelle. Lo vedevo dalla finestra. C’era anche la luna, un’esile mezzaluna crescente d’argento. O era gibbosa? Non ricordavo; Vincent una volta si è seduto accanto a me e mi ha spiegato tutto quello che c’è da sapere sulle fasi lunari, ma l’unica cosa che mi era rimasta impressa era il fatto di aver riso per ore come una maniaca per la parola “gibbosa.”

Eh, eh. Scimmie.

« Buongiorno, Yuffie. » La sua voce era purissimo velluto luminoso. « Come ti senti? »

« La schiena, Vinnie. » Ho gli occhi, facendo mente locale del mio corpo. « Mi fa male la schiena. » Non era esatto, visto che più che altro non riuscivo a sentirla. Non riuscivo a sentire neanche i fianchi. Mi sentivo come un blocco di marmo nero. Ho cercato di dimenare le dita dei piedi; si sono mosse, per quanto a fatica.

Lui mi ha rigirato, alzando la maglia di cotone madida di sudore per praticare la sua magia sulla mia schiena. Le sue dita lunghe mi hanno sbrogliato i nodi sul collo, suscitando un lungo, flebile sospiro di sollievo, e poi ha tolto le mani.

« Non smettere » ho mormorato mezz’addormentata.

« … Yuffie, non ho smesso. »

Mi sono immobilizzata.

« Ho le mani sulla parte inferiore della tua schiena. »

« Non le sento. Stamattina devo essere intirizzita. Probabilmente a breve partiranno fortissimi formicolii. »

Ha lavorato un po’ sul mio corpo. Riuscivo a sentire le sue mani spostare la mia pelle da quel punto, ma per il resto niente.

« Va meglio? » ha chiesto dopo un po’.

« No. »

Standomene sdraiata lì, al buio quasi totale, con addosso le sue mani che non riuscivo neppure a percepire, ha iniziato a salirmi paura.

« … Questo l’hai sentito? »

« Non ho sentito nulla. »

« Ti ho appena dato un pizzicotto. » La sua mano è scivolata sulla mia gamba, dove sentivo ancora qualcosa. « Riesci a- »

« La gamba la sento, però- »

« Ti sei fatta male la schiena e- »

« Te l’avrei detto, Vinnie- »

« Voglio che provi a sederti. »

Mi ha rigirato nuovamente sulla schiena. Il mio cervello ha ordinato alla mia schiena di piegarsi e a tutta la piccola magia del mio sistema nervoso di tornare a sprizzare scintille, di farmi sedere. Ho ansimato nei vari tentativi, come un pesce, contorcendomi, arcuando il collo e scalciando la gamba per cercare di trascinarmi in avanti. Era come se avessi un peso invisibile sui fianchi e sulla schiena; le parti inferiori non rispondevano e stavano mandando a puttane il resto della mia spina dorsale. Non riuscivo a sedermi.

« Vincent » ho biascicato col fiatone, « Vinnie, io – io non riesc- io- »

« Forza, Yuffie. » Un incoraggiamento così gentile, che nascondeva un qualcosa di acuminato che urlava. « Puoi farcela. »

« Non ci riesco » ho piagnucolato. « nonciriescononciriescononciriescostupidoddiomoriromoriromorir- »

Deciso ed efficiente, mi ha dato uno schiaffo. Non uno schiaffo leggero, uno schiaffo abbastanza forte da farmi vedere le stelle e buttare la testa all’indietro. Senza tanti preamboli, mi ha rimesso prona, armeggiando con la mano buona, e ha fatto una cosa alla mia spina dorsale che sono stata lieta di non poter sentire. Ho potuto solo piangere lacrime silenziose e infelici, poi ho sentito tutta l’aria uscirmi dai polmoni quando lui mi conficcato un pugno nell’area dei reni. Il mio pianto si è ridotto a piccoli singhiozzi infantili e sorpresi di dolore. Ho creduto sinceramente che mi odiasse in quel momento. Che mi odiasse perché ero malata e che mi odiasse perché non miglioravo e mi odiasse perché stavo morendo, che mi odiasse per tutto, che mi odiasse e basta. Poi mi ha rivoltato lentamente – le vertigini – e mi portato in una posizione seduta lui stesso, la faccia contratta in una maschera mortuaria di dolore. I suoi occhi sanguinavano di rosso. Era il nostro colpo di grazia. La mia schiena ha ceduto; i miei nervi hanno ceduto; quanto manca al resto? La morte si forma a strati. Io stavo scivolando sempre più in basso, in basso, in basso-

« Vado a prendere Asako. » La voce di velluto aveva cambiato tessuto, era diventata ruvida e scabra.

« No » è stato il mio gemito istantaneo. « Vinnie no, ti prego. Resta qui. Non lasciarmi. Non ancora. »

Mi ha raccattato fra le sue braccia e ha riposto le lunghe gambe sul lato del letto. Era ancora buio e non c’era un solo accenno di sole, nessuna macchia di grigio a est. Mi ha sorretto e mi ha portato la tazza alla bocca mentre bevevo il tè tiepido che mi aveva preparato, sorso dopo sorso. Piangevo e bevevo, il petto preso da convulsioni, lui mi ha asciugato con l’indice le goccioline che mi sfuggivano.

Non avrei camminato mai più. Non avrei corso mai più. Non sarei mai andata a cercare Aesculapius ed ero già morta.

« Pensavo che prima di arrivare a questo » ho detto, un gorgoglio di acido tannico e saliva, lacrime e sudore, « sarebbero passati mesi! »

« … Non è tutta la tua schiena. Non saprei dire con precisione cosa è stato colpito, non sono un esperto, ma- »

« Ma non posso camminare, non posso sedermi, non posso - non posso fare niente, Vincent! Sono un – una – una maledetta mongoloide! Una ritardata! Una storpia! »

« No, sei ancora Yuffie. » ha ribattuto, in tono tanto esausto.

Per qualche ragione, quelle parole mi hanno calmato un po’, o almeno hanno solleticato la mia fantasia quel che basta per farmi ridere nel tè e sbuffarmelo sulle guance. Ho accettato e ho buttato giù l’ultimo sorso amaro che mi ha porto. Ha afferrato il portapillole dal tavolo vicino al mio lettino improvvisato con inconsapevole naturalezza e ha schiacciato la medicina con l’artiglio per versarmela nel tè. Stupefacente, la destrezza con cui si giostrava con quella cosa. Ho preso la tazza in silenzio, avvertendo il sapore delle pillole, facendo una smorfia.

« Respira » mi ha istruito gentilmente, vedendomi soffocare, andare in iperventilazione. Mi metteva tanta claustrofobia, stare al buio, nel calore delle sue braccia. « Inspira. Espira. Inspira. Espira. »

Ho preso delle boccate d’aria, parzialmente sorpresa di me stessa. La vecchia Yuffie non avrebbe permesso a nessuno di dirle come fare le cose; e invece adesso Vincent mi diceva come respirare, e io accoglievo i suoi consigli con gratitudine, come se lui fosse la ragione per cui l’ossigeno mi entrava nei polmoni. Alla fine la barriera si è sciolta e ho respirato di nuovo liberamente.

Il tè era finito, erano rimaste solo delle erbe pesanti sul fondo della tazza. Le ho rivoltate tristemente. Vincent ha riposto la tazza sul mobile.

« Adesso andiamo da Asa. » ha imposto, in una voce che non ammetteva repliche. Mi ha preso in braccio, la mia schiena era come marmo. Ora c’era un po’ di luce, quella delle stelle, e ho visto che era a torso nudo e indossava ancora solo i pantaloni della tuta, i capelli legati disordinatamente sopra la testa. Era bello abbastanza da spezzarmi il cuore quando ha aperto la porta facendo entrare l’aria fredda della notte, senza disturbarsi a mettersi una maglia o a trovarmi dei pantaloni, e ha sceso gli antichi gradini di pietra sotto casa mia.

Ricordo di aver pensato che la luna era effettivamente gibbosa.




Nonna, che non era Dio, non ha potuto farmi un cazzo, ma quello lo sapevamo fin dal principio. Abbiamo costruito un fermo per la schiena perché potessi stare in una posizione seduta senza afflosciarmi in un ammasso di gomma. In fin dei conti era Vincent che mi trasportava a destra e manca, quindi le cose non cambiavano più di tanto, ma adesso dovevo essere sostenuta quasi costantemente e avevo ormai poco tempo da passare da sola. Vincent mi svegliava tante volte per rivoltarmi; dopo un po’ ho imparato a ignorarlo e a rimanere addormentata.

Mi lagnavo ininterrottamente della cosa. Questo sembrava risollevare il morale chi mi stava intorno.

A papà si sono ingrigiti i capelli. Se non dormivo, al pomeriggio Vincent mi portava come di consueto a casa sua e rimanevamo seduti insieme a guardare i suoi pesci e i laghetti artificiali, parlando col nostro silenzio. I suoi capelli non erano bianchi e puri come gelato alla vaniglia stile Asako – erano grigi come le ceneri consumate della legna. Non mi ero accorta di quanto in fretta stesse invecchiando. Avevo l’orribile sensazione di conoscere la causa.

Stavamo sulla panchina. Per me c’era una poltrona con le cinghie, ma la scartavo quasi sempre perché troppo umiliante, preferendo stravaccarmi per terra. Papà voleva che la usassi e avevamo avuto un piccolo ma assai rinvigorente diverbio sull’argomento. Alla fine gli ho poggiato la testa sulla coscia, sdraiata sulla panchina, a respirare il suo odore di linfa di denti di leone e a guardare il cielo e il suo naso.

« Vecchio, i peli del naso ti stanno diventando grigi. »

« Come tutto il resto. »

« Dovresti depilarteli. »

« In inverno mi tengono le narici calde. »

« Sei un vecchiaccio disgustoso e decrepito. »

« E tu una figlia degenere e ingrata. »

È caduto un altro lungo momento di silenzio. Una densa nuvola di cotone grigio correva veloce sopra di noi. Il cielo era del colore del ghiaccio artico. Vincent era da qualche altra parte in giardino, quasi sicuramente grato di potersi congedare per un po’ dalla mia presenza. Allungando un po’ il collo mi pareva di poter vedere il braccio del suo yukata.

« Yuffie » ha detto Godo all’improvviso, con voce dolce e molto bassa. « Dobbiamo parlare. »

« Spara. »

« Come ben sai, ti ho ceduto formalmente il governo di Wutai prima della tua partenza. In tua assenza il mio ruolo è stato quello di reggente. »

« In realtà no, non lo sapevo. » Non ci avevo neanche pensato. Lady Kisaragi. Tanto mi ci chiamavano già.

« Possibile che non stai mai attenta? Yuffie, è una questione molto importante, quindi per piacere, apri bene quelle sciocche orecchie e ascolta, per una volta. »

Ho aperto quelle sciocche orecchie e ho ascoltato.

Mi ha accarezzato i capelli. Un gesto così tenero da mettermi immediatamente sul chi vive. « Yuffie, ogni leader di Wutai, se non ha figli o figlie, deve scegliere un erede prima di morire. »

« Se io muoio, non tornerai tu a essere il leader? »

« In teoria. Potrebbe succedere. Ma sarebbe il caso peggiore. Non puoi scegliere me legittimamente come tuo erede – se lo facessi, la cosa potrebbe essere vista come una presa di potere da parte mia, e qualcun altro potrebbe tentare di diventare lord, dicendo che tu non eri nel pieno delle tue facoltà. La gente vuole un erede giovane. Sarebbe meglio che tu scegliessi qualcuno adesso – uno dei tuoi cugini, forse – una persona giovane. »

« Shake? Chekov? »

« Loro sono servitori, Yuffie. Giovane. Stavo pensando ad Arin, o forse a Kaede- »

« Papà! » sono esplosa subito. « Arin non vuole governare Wutai! » Era il mio cugino timido, che attualmente lavorava al Turtle’s Paradise per poter guadagnare i soldi necessari per trasferirsi a Junon. In quelle rare occasioni in cui avevamo parlato, avevo sempre avuto l’impressione che non volesse affatto diventare leader di nulla. « Odierebbe il lavoro. E Kaede è una cretina. Si farebbe sposare da chiunque volesse impadronirsi del potere. »

« Lo so » ha ammesso mestamente. « Ma dev’esserci un erede. Perché credi che volessi tanto dei nipoti da te? »

« Perché eri un vecchio, lurido sadico! »

« I tuoi parenti più piccoli sono fin troppo giovani » ha proseguito piano. « E con quello che probabilmente ti rimane da vivere, permettimi di essere schietto, non riusciranno mai a essere pronti entro la tua dipartita da questa valle di lacrime. » La sua voce si era indurita. Stava cercando di non piangere, forse. « Potresti semplicemente scegliere Arin come intermediario, che possa cedere a sua volta il potere quando giungerà il momento opportuno, magari- »

« Allora è così che finisce la dinastia dei Kisaragi? In un manipolo di custodi? »

« » è sbottato all’improvviso. « Finisce con la morte prematura della Lady perché è stata abbastanza idiota da girare il mondo per Dio sa quanto tempo ignorando i suoi compiti, da farsi mordere da un baka nemakki velenoso, e da avere l’accortezza di morire quando a suo padre già rimanevano pochi anni di vita. Tutto quello per cui abbiamo lavorato e che abbiamo conseguito potrebbe sbriciolarsi nel nulla se tu ci lasci senza un capo! »

Sul giardino è sceso il silenzio.

« La gente vuole una persona nobile » ho mormorato.

« Sì. »

« Forte. »

« Sì. » ha ripetuto lui, malinconico.

« Che non abusi del potere. »

« Sì. Yuffie, cosa stai- »

« Approvata da me. »

Il sospetto gli ha scurito gli occhi. « Yuffie- »

« E che, elemento da non sottovalutare, duri un po’. Ehi, Vincent » ho strillato, facendo leva sulla gamba di mio padre per provare a tirarmi su. Lui mi ha tenuto su immediatamente. « Vinnie, vieni qui. »

Lui ha smesso di studiare le rose e si è accostato, elegantissimo, gli occhi interrogativi. Mio padre mi stava fissando come se avessi appena innescato una bomba a orologeria.

« Yuffie? »

« Vincent? Quanto sangue wutaiano hai nelle vene? »

Lui ha corrugato la fronte pensando alla risposta, curvando le labbra in sorrisetto sardonico. « … A tredici anni ho lavorato in un takeaway. »

« Perfetto. Papà? Scelgo lui. »

« Yuffie, non puoi scegliere lui come tuo erede! »

« … Yuffie, non puoi scegliere me come tuo erede. »

Lo hanno detto nel medesimo istante. Che spalle comiche.

« Come hai fatto a sentirmi dall’altra parte del giardino? » ho sbraitato a Vincent, sospettosa, poi sono tornata a Godo. Forse aveva davvero un orecchio dietro il collo. « Senti. Vincent è bravo. Alla gente piace e anche lui ha fatto parte dell’AVALANCHE – più di lui c’è solo quel dannato di Cloud Strife, ma lui non saprebbe guidare un villaggio neppure a pagarlo, già è tanto che riesca a spazzolarsi i capelli senza perdere il pettine. »

« Se si spazzola i capelli perché dovrebbe usare un pettine? »

« Beh, ti ho appena detto che è idiota. »

« Yuffie! » La voce di Vincent lasciava trasparire un po’ di panico. « Yuffie, io… io non ho la più pallida idea di come si guidi un villaggio, un – una città! Non voglio quel genere di potere. Voglio essere lasciato in pace » ha concluso lamentosamente.

« Peggio per te. Vincent, se non posso scegliere te, non posso scegliere nessuno. Vuoi che Wutai muoia con me? Vuoi che le morti siano due anziché una? » Ho serrato le mani in due pugni, torcendo le labbra in una smorfia che preannunciava il pianto. « Quando morirò, lo so già cosa ne sarà di te. Ti rinchiuderai di nuovo nel tuo loculo, o te ne tornerai a Gongaga a vivere in una casetta senza mai parlare a nessuno – e questo se va bene. Potresti anche andare alla Cascata dove passeresti il resto dei tuoi giorni a leccare la muffa dei muri e a compiangerti perché non solo hai lasciato morire Lucrecia, ma hai lasciato morire pure me. » Qui ha indietreggiato. La diceva lunga! La rabbia immediata che gli si è formata negli occhi era difficile da sopportare, ma ho incalzato. « Stai facendo tutto questo solo per farti del male, Vincent? Vuoi vedermi morire? Vuoi sentirti in colpa per la mia morte per le prossime dieci ere geologiche? Non ti permetterò di usarmi per una cosa simile. Mai e poi mai!
« Perciò, Vincent Valentine, in qualità di Lady Kisaragi, con la mia parola legalmente vincolante ti proclamo mio erede e Lord al posto mio. Ti adotto anche come Shinobi; il tuo onore è il nostro onore; il tuo disonore il nostro disonore. » La mia voce è rifluita nella cadenza tonante dei rituali. Mio padre osservava la scena, sgomento, ma ormai era troppo tardi. Vincent aveva tutta l’aria di aver appena inghiottito una rana che gli scendeva giù scalciando. « Il tuo sangue è il nostro sangue. Questa famiglia è la tua famiglia. Tu sei Kisaragi Vincent. »

I miei logori polmoni avevano già esaurito l’ossigeno, e così ho dovuto prendere un bel respiro per riempirli. Amen.

Godo e Vincent sono stati colpiti da muta apoplessia e sono morti sul colpo. Beh, almeno credo che gli sarebbe piaciuto. O forse l’ictus stava venendo a me. Dalla faccia, sembrava che Vincent morisse dalla voglia di diventare Chaos per strangolarmi.

All’improvviso, mio padre si è sputato in mano. « Ne sono testimone » ha sussurrato in wutaiano cadenzato, « e lo dichiaro vincolante. »

Io ho sputato nella mia. « Ne sono testimone » ho bisbigliato, « e lo dichiaro vincolante. »

Abbiamo guardato Vincent. Molto, molto lentamente, lui si è sputato in mano, e ce le siamo strette. Mi sono chiesta per un attimo perché non si potesse usare qualcosa di meno disgustoso per i patti vincolanti, tipo vomito o sangue arterioso.

« Ne sono testimone » ha brontolato, la voce dalle parti dei piedi. « e – e lo dichiaro vincolante – e – Yuffie- »

Ha incrociato i miei occhi. Erano colmi di rabbia, e azzardato risentimento, e di una cosa talmente tenera, giovane e insicura che non me ne fregava più niente.

« Se dovessi vivere » ho iniziato, e non sapevo perché l’avevo detto così, ma solo che d’un tratto mi sentivo tanto vecchia, più di lui – merda, tanto non sapevo neanche cosa stavo dicendo, era nella mia voce, non nelle parole – « se dovessi vivere, lo farei per te, Kisaragi Vincent. »

Lui mi ha abbracciato, con tutto lo sputo. Godo si è alzato e ha avuto il tatto di lasciarci quel momento privato e appiccicoso. Avevo la testa sulla spalla di Vincent, e non so cosa stesse pensando. Kisaragi Vincent. Aveva un suono perfetto. Come se finalmente l’avessi assorbito e l’avessi reso parte di me, per tutta l’eternità.

« Ti voglio bene, sai » ho detto piano.

Vincent mi ha guardato. Nei suoi occhi senza tempo c’era qualcosa di così ventisettenne che la mia bocca si è sciolta in un sorriso.

« Il tuo amore, Yuffie, è una cosa feroce. »

Nel battito di quel secondo ho pensato che mi avrebbe baciato. Aveva le mani calde, a sostegno della mia inutilizzabile schiena, il corpo premuto con cautela contro la gamba pulsante. All’improvviso non era più Vincent, un vecchio sessantenne nel corpo di un uomo giovane; era l’altra parte di me, vivo, appassionato e cristallino. Nessun demone. Nessuna ferita.

Invece mi ha sollevato e si è messo in piedi. « … E francamente, fa cagare. »

« Vincent! Vincent! Hai detto “fa cagare!” »

Mi ha stretto le mani attorno con un sospiro. « … Sì, Yuffie. »

« Hai usato un esempio di cultura pop! Oh, Vincent! » Ho drizzato la testa. « Sta arrivando la Meteora? Perché, dico, hai appena detto “fa cagare.” »

« … Sì, Yuffie. »

« E l’hai usata nel senso figurato, non in quello proprio, ché te l’avrei pure potuto abbonare un “io cago nella tazza,” no, tu hai detto proprio “fa cagare,” un’espressione popolare per descrivere negativamente qualcosa! »

Ha portato gli occhi al cielo in un gesto disperato alla “perché a me?”, e siamo rientrati in casa a lavarci le mani. Beh, a fargliele lavare a entrambi.

« … L’hai detto veramente! »

« … , Yuffie… »




Buffo come vadano a finire le cose.

E quanto poco tempo passa dal lutto alla gioia, dai sorrisi alle lacrime, dal dolore all’adolescenza. Per me ormai la vita era come un filo che si accorciava velocemente, un lasso di tempo da terminare, ogni fibra del mio essere era ricoperta dallo strato spesso e lucente della mortalità. Avevo un erede. Avrei dato il mio trono a Vincent dopo la mia morte. Lo avrei avuto con me sino a quando il cuore non mi avesse ceduto e fossi partita verso la grande Capanna di Materia che sta nei cieli. Adesso faceva parte della mia famiglia – che figata pazzesca. Avevo tante cose.

Un salto dal lutto alla gioia. Dalla speranza alla delusione più nera. Ero stata così impaziente di scivolare via mentre suonava il mio canto del cigno per poi tornare intera, radiosa, guarita, Aesculapius. Dio, come avevo anche solo potuto pensare che io sarei riuscita dove milioni di altri non avevano potuto, loro che avevano tempo, risorse e salute a disposizione? Sarei morta.

Non volevo morire adesso. Non in silenzio. Non con eleganza.

Mio padre mi aveva raccontato-

Nessuno muore con eleganza, Yuffie, o con dignità – sono tutte bugie. Tua madre… nelle ultime ore… ha rifiutato ulteriori cure e mi ha implorato di portarla fuori per farla morire. Con dignità.

È morta che sputacchiava e ansimava, incapace di muoversi, implorandomi con gli occhi di non farla morire, Yuffie. È morta senza dignità. È semplicemente morta sotto i raggi del sole. Non esiste l’eleganza quando abbandoni tutto – e raramente – se non mai – e qui di sicuro non ci sarà mai… I Kisaragi muoiono in battaglia. Non perché sia una morte dignitosa – ma perché almeno ha la misericordia di essere rapida, e perché nessuno si aspetta eleganza da un campo di battaglia…


Avevo letto e riletto i paragrafi riguardanti Aesculapius (e Ashura) tanto da impararli a memoria, poi avevo depredato la biblioteca di mio padre per ricercare altre informazioni. Le avevo sfogliate sul letto, nelle notti piovose, tenuta su dai cuscini. C’era pochissimo su questo maledetto spirito! Alcuni libri lo liquidavano come diceria, altri lo dichiaravano un fatto. Avevo studiato ogni libro – ogni tomo sulla materia, ogni volume di geografia. Vincent non aveva ancora capito una ceppa della ricerca del mio miracolo, per quanto diamine fossi stata esplicita – avevo spillato tutti i resoconti, le cartine e gli articoli, e li avevo tenuti nascoste sotto il materasso. Dopo me la ridevo istericamente, al pensiero di essere riuscita a fare tutto da sola come ai vecchi tempi.

E adesso? Non potevo camminare e stavo appassendo in fretta. Senza la regolare dose di medicine – medicine che proprio non sapevo come scegliere e amministrare da sola – avrei potuto tirare le cuoia entro una settimana. Mi serviva più tempo per cercare Aesculapius. Ero malata da quasi quattro mesi – anzi, di più – e solo avendo fortuna avrei potuto viverne altri due. La mia vita era come uno straccio che mi veniva strappato da sotto ai piedi, ed ero già caduta sul sedere facendo il botto. Ero ricaduta nello stesso tipo di depressione che avevo sperimentato nel primo periodo della malattia a Wutai: qualunque cosa Vincent potesse fare, io mi limitavo a dormire, e quando mi svegliavo ero tetra e taciturna.

Perciò, per recitare un ultimo amaro addio alle mie speranze, ho deciso di bruciare tutti i tabulati che avevo racimolato su quelle stupide montagne, su quello stupido spirito e su quelle stupide cartine e poi di dare un bacio alle ceneri prima di buttarle. Essendo io un emerita deficiente, ho chiesto a Vincent di prestarmi la Fire materia.

« Perché odi così tanto la geografia delle montagne di Icicle? » mi ha domandato mitemente, scrutando i fogli, le mappe e i punti che avevo segnato, i sentieri da percorrere.

« Tu dammi quella cavolo di materia » ho bofonchiato. « Voglio mandare tutte queste stupidaggini all’inferno. »

Lui ha scartabellato i rapporti con un sopracciglio inarcato. « Perché? »

« … Prometti di non ridere di me? »

« Lo giuro. »

Mi si sono accasciate le spalle e ho incrociato le braccia. « … Volevo andare a cercare uno spirito da evocare, uno spirito che guarisce dai veleni. Non so perché ho pensato che potesse funzionare. Sarà stato soltanto uno di quei sogni impossibili, un ultimo tentativo dettato dalla disperazione. »

« Aesculapius. » Non mi aveva praticamente neanche ascoltato, aveva continuato a sfogliare. « Tu… tu volevi andarlo a cercare? »

« Sì. »

« Anche la Shinra l’ha cercato. Quand’ero un Turk… »

« Mi spiace se mi sono emozionata tanto per una stronzata, allora. »

Ha fissato il mio viso infelice e tirato, con le ossa che sporgevano. « È per questo che eri così allegra, Yuffie? Prima… della schiena? Volevi trovare questo spirito? »

« Volevo vivere. »

Lui è rimasto in silenzio per un bel pezzo.

« Se neanche la potente Shinra ha trovato qualcosa, » ho deciso facendo spallucce, « suppongo che dovrei essere lieta di non averci provato. Probabilmente sarei soltanto morta tra le montagne. Però, in realtà, sarebbe meglio crepare in mezzo a tutta quella neve. Tempo pochi istanti diventi un ghiacciolo, non marcisci o altre cose schifose… »

Altro momento di silenzio. Lui è andato nella mia piccola cucina per versarsi e bere un po’ di tè, gli occhi rosso sangue a un milione di chilometri di distanza. Sembrava che stesse riflettendo con tanta intensità che quasi gli fumava il cervello.

« Yuffie » ha detto alla fine, a bassa voce. « Non ho mai detto che la Shinra non ha trovato niente. »

Il mio cuore si è fermato.

« Hanno trovato… hanno trovato tracce, hanno… »

Ho proteso una mano e l’ho agganciato per la vita, gli occhi che ardevano. Anche se il braccio era debole, l’ho trascinato verso di me con più forza che potevo, praticamente cadendo dal letto. « Vincent Valentine, tu mi porterai su quella montagna che ti piaccia o no. »

« Yuffie, la tua schiena… »

« Tu puoi portarmi in braccio. »

« … Si gela. »

« Metterò una giacca in valigia. »

« È pieno di mostri. »

« Dammi una pistola. »

« Tuo padre. »

« E tu non dirglielo. »

« Ci sono una mezza dozzina di cose che potrebbero ucciderti nelle tue condizioni… »

« Che ci provino. »

« … »

« Hai sentito sì o no la proposizione “che ti piaccia o no?” »

« Fammi indovinare » ha ricapitolato in tono pesante, mentre lunghe ciocche di capelli neri come l’ebano si liberavano della coda ordinata che aveva sulla nuca e gli sfioravano le guance. « Alla fine ti ci porterò, vero? »

« Puoi scommetterci, baby. » Avevo le guance rosse come pomodori, e non riuscivo a staccarmi quel sorrisone dalla faccia. Un passo, per tornare dalla delusione alla speranza. « Mi ci porti davvero? »

« Certo, Yuffie. » Un sorriso ironico gli ha stirato i lineamenti mentre una sua mano scivolava dietro la mia inutile schiena per sorreggermi. « Io non infrango le mie promesse. »

« Quale promessa? »

« Una che ho fatto a me stesso, per assicurarmi che tu vivessi. »

« Oh, Vin. Non so cosa farei senza di te… » Gli ho stretto le braccia al collo, appoggiandogli la guancia sulla spalla. « In realtà vuoi che non muoia solo per non essere costretto a diventare Lord Vincent, stronzo » ho aggiunto affettuosamente.

« Esatto. »

Gli ho dato un bacio sulla guancia, anche se quasi quasi mi sarebbe piaciuto ficcargli la lingua in gola e giocare a hockey con le sue tonsille spinta soltanto da gratitudine. Però forse sarebbe stato esagerato. In quel momento mi sembrava il mio angelo vendicatore, gli occhi cremisi tranquilli. Non riuscivo a credere che avesse acconsentito con tanta facilità, che mi ci portasse davvero, che ci sperasse. Non potevo non trovare Aesculapius dopo una tale dimostrazione di fiducia. « Vivrò, Vincent. Lo giuro! Vivrò! »

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Capitolo 7
*** Capitolo Tre ***


Nota della traduttrice: nell’originale i tempi verbali in questo capitolo si comportano in modo un po’ bizzarro, ma non completamente insensato. Non è la prima volta che mi capita con quest’autrice, in realtà, e anche stavolta ho provato a rimediare integrandoli e facendo il cambio solo nei punti in cui risultasse più coerente. La scelta del passato prossimo è stata fatta soprattutto in vista di questo capitolo, per rendere meno brusca la transizione. Spero di non aver fatto troppi casini.
Ci sono inoltre (forse più del solito) giochi di parole assolutamente intraducibili, che ho dovuto cambiare anche radicalmente, ma il significato è quello. Eeeeeeh.

Nota dell’autrice: a Tochira, che ha fatto asserire alla Yuffie che è in me che Vincent stava scompaginando la sua routine; a Demeter, che mi ha ricordato una cosa che avevo completamente dimentic- uh, cioè, messo da parte; e a tutti i miei calorosi, incoraggianti e incredibili recensori, cui voglio dire che non è finita finché non è finita davvero e che prima o poi vi ringrazierò tutti per la vostra eterna, entusiasta gentilezza e per la vostra pazienza divina. ^.~




Sunshine in Winter


capitolo tre






Ho sempre adorato sgattaiolare via nel cuore della notte.

Non c’è nulla che possa reggere il confronto. C’è quel senso di attesa quando la sera ti sdrai nel letto senza dormire e sai, tu sai che ehi, stai per partire e domani mattina tutti avranno un gattino tra i piedi. Ti vesti di nero da capo a piedi. Cammini in punta di piedi sulle assi del pavimento senza un perché, visto che tuo padre non vive nemmeno più in casa con te. Corri sui tetti degli altri, solo perché puoi farlo…

… quando sarebbe stato molto più pratico uscire dalla porta sul retro di casa tua e oltrepassare a piedi la foresta, come era intenzione di Vincent Valentine.

« Senti, è una questione di stile » gli ho fatto notare, tremante di eccitazione e tanto speranzosa da avere il mal di pancia. « Cioè, a te va bene, tanto tu ti saresti vestito comunque di nero, caro il mio Mono-Valentine, ma io, io me ne vado con… con… con i vestiti sbagliati. Non è lo stile giusto. »

« Yuffie, lo stile giusto sarà portarti nella foresta e sperare che non incontriamo nulla di più feroce di me. Cid ci aspetta dall’altra parte di modo che Godo non senta l’Highwind e mangi la foglia. Francamente, la mangerà domattina e dubito che mi perdonerà mai per quello che sto facendo. »

« Vincent, tesoro, non esiste nulla più feroce di te – e guardala così: se non dovesse perdonarti, non dovrai mai regnare su Wutai. »

« Non che io lo voglia. »

« Dai, Vinnie. » Mi sono tirata a sedere; era tardo pomeriggio. Guardavo Vincent preparare le valigie, col sole d’autunno che gli convertiva i capelli in pece liquida mentre piegava con tutte le premure i miei vestiti invernali. Stavamo bevendo il tè; mi sono allungata a fatica verso il comodino per posare la tazza vuota. « Non sarà poi tanto maaaaaargh! »

Vincent mi ha impedito giusto in tempo di rovesciarmi completamente dalla poltrona imbottita e siamo finiti tutti e due per terra in un doloroso gomitolo starnazzante, con lui schiacciato di schiena da me, premuta sul suo petto. Non ho sentito un gran male – la mia gamba malandata non era stata nemmeno sfiorata – perciò sono scoppiata a ridere e ho ignorato il fatto che ero appena caduta da una sedia perché il mio corpo non funzionava. Con un sospiro sofferto, lui si è messo a sedere portandomi con sé, tenendomi sulle gambe mentre infilava una bustina di pillole in un giubbotto.

Io gli ho appoggiato la testa sulla spalla, spingendomi dentro di lui e sentendo i muscoli flettersi sotto la sua pelle a ogni movimento. Odiosamente scomodo. Era bellissimo. « Che facciamo se guarisco? » ho chiesto per la milionesima volta. C’è gente che chiede cosa potrebbe fare in caso di vincita della lotteria; io chiedo della mia salute.

La sua guancia mi ha sfiorato i capelli quando lui si è abbassato un po’, attento a non spostare me e quindi il mio disgustoso arto gonfio mentre aggiungeva l’indumento a uno zaino. « Molte cose, suppongo, Yuffie. »

« Io mi comprerò dei vestiti nuovi. Che mi mettano in mostra le gambe. Hai presente, tipo minigonne e pantaloncini corti e, sai che ti dico, perché tanto disturbo, andrò in giro nuda per una settimana. »

Un rossore gli ha macchiato le guance, e come cosa era un po’ stupida dal momento che mi aveva visto nuda ventimila volte. Non era esattamente la vista più erotica del mondo, se non si era necrofili e appassionati di cadaveri molto freschi. D’altra parte, però, lui aveva dormito per trent’anni in una bara…  « Ne sono convinto. »

« Tu che farai? Usciamo fuori a festeggiare, giusto? »

« Naturalmente. »

« Come? »

Lui ha soppesato la risposta per un po’. « … Ti porterei a fare un’escursione alla cascata che nasce dal Li Xue » ha iniziato, nominando le colline brulle un po’ a sud di Wutai. « Potremmo sederci in cima, accanto alle rocce, a guardare l’acqua scrosciare giù. »

« E potremmo mangiare il gelato. »

« … Sì, potremmo mangiare il gelato. »

« Che gusto? »

« Variegato al fudge » ha replicato prontamente. Dio, quest’uomo ha così tante sfaccettature che toccandolo potrei tagliarmi. È un ex-Turk, ha sangue di demone, è un pluri-pluri-omicida, un amante respinto e un peccatore paranoico devoto all’auto-flaggelazione, ma riesce ancora a trovare l’umanità necessaria per apprezzare il variegato al fudge.

Cioè, da cotanto angst ci si aspetterebbe una preferenza per menta e scaglie di cioccolato.

« Lo mangeremmo con i cucchiaini? »

Lui ha increspato le sopracciglia, voltando la testa verso di me e passandomi distrattamente un dito sull’osso sporgente dello zigomo. La mia carne è talmente tirata sulle ossa che sono come un aquilone sul telaio. La mia anima inizia a desiderare di scappare dalle catene imperfette che la legano alla terra. C’è un pericoloso pezzo di me che vorrebbe soltanto dormire. « Come altrimenti vorresti mangiarlo, il gelato? »

« Con le dita. Lo scavi con le dita e lo mangi con le mani che ti si fanno tutte appiccicose, ti si sporca metà faccia e passi la mezz’ora successiva a succhiartelo dalle l-la-labbra- » Sono esplosa di nuovo in accessi di tosse e ho voltato la faccia per sfogarli sul cotone celeste della maglia abbottonata. Si è screziata di rosso. Mi ero rotta ancora una volta la gola; o forse era il sangue delle piaghe nello stomaco, dimentico sempre.

Le dita di Vincent mi hanno pulito il liquido rosso dalle labbra, quasi senza accorgersene. Siamo così impregnati di morte che ormai non è più una gran cosa. « Cosa faremmo dopo aver mangiato il gelato, Yuffie? » ha incalzato gentilmente.

« N-nuoteremmo nel f-fiume. » I miei attacchi di tosse possono durare ore. « E-e-e-e ci asicug-gheremmo sulle rocce. E… »

Mi ha pulito la bocca, ripetutamente. Le convulsioni snervanti si sono smorzate. « E? »

« E poi… » Mi sono spremuta le meningi per visualizzare la zona. Non ci vado da anni. « E poi andiamo a mangiare i mirtilli dai cespugli, se sono maturi, e li mangiamo anche se non lo sono, e poi ci sediamo lì vicino con i crampi allo stomaco che durano ore e probabilmente vomitiamo tra i cespugli. Almeno, io lo farei, e tu diresti: “… Non avresti dovuto mangiarli, Yuffie, ti avevo detto di non farlo” e mi massaggeresti la schiena. »

Inconsciamente, lui ha cominciato davvero a massaggiarmi la schiena, poi ha smesso non appena resosi conto di ciò che stava facendo. Io ho mosso la schiena con impazienza perché ricominciasse, e lui ha eseguito, benché più lentamente. « Prometto di non lasciarti mangiare i mirtilli acerbi. »

« Non saranno acerbi. Questa è la mia fantasia futura, capito? Saranno perfetti. Avrò la bocca coperta di macchie viola. Non avranno nemmeno insetti. Poi ci spogliamo e rimaniamo in mutande – beh, almeno io, e nella mia fantasia futura, ti prenderò a calci con tutte e due le gambe per far spogliare anche te – e poi andiamo a nuotare nell’acqua e lì proverò a catturare i pesci senza mai riuscirci. Poi torniamo a casa, giusto? »

« Giusto. » Le sue dita mi hanno strofinato la parte superiore della schiena; quella inferiore non le sentiva. « E guarderemmo il tramonto. »

« Rosso, oro, viola, e arancione. »

« Certo. »

« Vinnie, se guarisco- »

« Quando, Yuffie. »

« Okay, okay, pedante – quando guarisco, posso farti mettere un completino sexy e portanti a un ristorante di Junon? »

I suoi occhi rossi erano così confusi. Ha delle ciglia notevolmente lunghe. « Lo troveresti divertente? »

« Già! E poi farei il trucco della mousse al cioccolato. »

« … Ho paura di chiedere… »

« … È quando ti sfido a una gara a chi mangia più scodelle di mousse al cioccolato, poi io ne mangio troppe e vomito. Ovunque. »

« … Yuffie, per quale motivo tutti i tuoi sogni includono il vomito? »

Io ci ho pensato su. « Boh. È che è questo che succede nella vita reale. Okay, niente vomito. Io vinco la gara e tu mi devi portare a casa in braccio perché sono talmente piena di mousse al cioccolato da non riuscire a muovermi. Così va bene? »

I suoi occhi brillavano, come una notte stellata d’estate. « Va benissimo. » Ha chiuso la zip dello zaino ormai pieno, e dentro vi ho intravisto il bagliore di uno dei suoi revolver. Un paio di giorni fa mi ha insegnato a sparare. Il rinculo mi ha praticamente fatto esplodere la faccia.

« … Vincent. »

« Yuffie. »

« Tu non torni a Gongaga se guarisco, vero? »

Lui ha battuto lentamente le palpebre. « Io… no, Yuffie, ci sarò, voglio essere partecipe. »

« Ma prima o poi? »

« Yuffie » ha detto sardonicamente il mio tiratore scelto, « stai vendendo la pelle dell’orso talmente prima di averlo ucciso che adesso vuole una percentuale. »

« Però? » ho insistito.

« … Però… sì. Se tu lo volessi. Potresti non volerlo dopo… dopo che sarai guarita. »

« Io ti vorrò sempre. »

« Allora anch’io ti vorrò sempre, se lo desideri. »

Non sapevo cosa ci fossimo appena detti, ma avevo la sensazione che se avessi starnutito il mondo avrebbe potuto sgretolarsi. Per tutti gli Dei, perché tutto quello che dice Vincent dev’essere per forza una specie di metafora. Se gli chiedi se preferisce tè o caffè lui attacca con i deliri sul sole che sfavilla sulla neve delle montagne. Ma suppongo sia meglio di un “…”, che è quanto avrei ricevuto in risposta un anno fa o giù di lì. O di una lugubre associazione tra il peccato e la caffeina.

« Sempre è un sacco di tempo. Hai messo pure il mio chocobo di lana? »

« Non dimenticherei mai Chocobo di Lana. »

« Allora è tutto pronto, vero? » Mi sono ributtata tra le sue braccia, sentendomi di colpo intontita e pronta a rannicchiarmi contro di lui prima di addormentarmi. « Non so come farò a dormire stanotte, Vince. »

« Io sì » ha mormorato, alzandosi e avanzando di qualche passo per adagiarmi sul letto. « Ti ho ho corretto il tè con dei sonniferi. »

« Stronzo » sono riuscita a biascicare, e credo di essermi addormentata ancora prima che tutto diventasse nero.




Ci sono innumerevoli tipi di amore. Quello tra me e Vincent non saprei neanche classificarlo.

Quando ero bambina leggevo le fiabe e pensavo che l’amore sarebbe stato il Principe Azzurro. Il mio amore sarebbe stato un pezzo di figo. Il mio amore avrebbe litigato con me incessantemente, e avremmo avuto passione, e sesso e tutta quella roba lì, con un pizzico di infuocata lussuria e forse un po’ di angst a condire il tutto. Dunque il Lieto Fine, forse un paio di figli che sarebbero stati le fotocopie mie e di Principe Pezzodifigo. Poi…

Poi cosa? Yuffie Kisaragi, Extraordinaire Ladra Di Materia e… Casalinga Madre di Due. Qualcosa dentro di me avrebbe gridato per sempre di andare nella giungla senza Pezzodifigo per tornare a viaggiare.

O forse no? Non so più cosa voglia la mia anima. Mettere su casa? Riportare la mia vita a ciò che era stata, un vagabondare inconcludente? Sbarazzarsi del mio corpo e unirsi al Verde? Dei, avrei avuto la possibilità di scegliere? Avrei avuto una fine? Sapevo che il Lifestream esisteva, ma mi sarebbe piaciuto? Credevo di no – non senza Vincent.

Vincent…

Il mio amore per lui è incontrollabile, perché non posso impedirgli di gonfiarsi dentro di me come il nettare in un fiore, e perché non mi importa più se lui mi corrisponde nel modo sbagliato, finché rimarrà mio per sempre. Mio. Dentro di me. Uno, solo, tutto. Non so bene se mi importa di qualcosa o se c’è un modo giusto e un modo sbagliato di amare qualcuno; lui si è radicato in me a tal punto. È… non so come descriverlo, non pienamente, non nel modo in cui andrebbe descritto. È come se la tua ombra si mettesse d’improvviso a parlare… è come se un albero prendesse radice attorno al tuo cuore e germinasse. È… è come se Vincent fosse il Lifestream, per me. Non credo che il paradiso possa essere meglio di questo. Sono vicina alle lacrime e vorrei poterlo esprimere nel modo giusto, perché non so cosa voglio. Sono davvero innamorata di Vincent? Voglio fare l’amore con Vincent? Essendo vergine, non saprei spiegare benissimo la mia passione, o anche solo se è quel tipo giusto di passione che ti lascia senza fiato. Quando qualcuno ti tocca nuda giorno dopo giorno, quel tipo di lussuria immediata non è facilmente traducibile. Il pensiero… il pensiero di essere nuda nel modo giusto, però (giusto?), tra le sue braccia, tra le sue braccia anch’esse nude, beh… Brividi freddi. Ah. Sono ancora un’adolescente. Mi piace.

Non significherebbe nulla, però. Sarebbe soltanto l’ennesima nota nella nostra sinfonia a cento corde. L’amore è sempre così? Lui amava così? Riuscivo a capire ciò che Vincent provava quasi sempre, ma non nei miei confronti. Tremendamente disorientante.

Non voglio andarmene senza baciarlo.

Lo bacerò come una ragazza bacia il ragazzo per cui ha una cotta. Lo bacerò come una donna bacia un uomo, un uomo che ama. Lo bacerò come un soldato bacia un altro soldato quando sono nelle trincee e uno di loro sta per esplodere per un incantesimo di fuoco di alto livello. Lo bacerò come si baciano due amici, dolcemente e sulla bocca, i corpi così in sintonia da trasmettere un simbolismo diverso. Lo bacerò come un credente potrebbe baciare la sua divinità, e come un bambino potrebbe baciare il suo tutore.

Lo bacerò come Yuffie Kisaragi vuole baciare Vincent Valentine quando a guardare c’è soltanto lui. Almeno questo glielo devo.

… Ti prego, Altissimo, mio Dio. Se devi prendermi, non farmene andare senza prima aver detto ciò che voglio dire.

Perché mi adeguo?




Per le overdose, affidatevi pure a Vincent. Mi sono svegliata solo al mattino mentre lui mi trasportava nella foresta, il cielo notturno ancora intatto tra le cime degli alberi mentre mi accoccolavo meglio nel tepore delle sue braccia. Poteva portare me e due zaini pesanti e avere comunque un volto sereno e praticamente celestiale. Sentendomi muovere, Vincent mi ha stretto più al sicuro contro il suo petto.

« Fai schifo » ho esordito risentita. « Volevo essere sveglia per la nostra fuga. »

« Lo so. »

« E mi hai drogato lo stesso. »

« Adesso stiamo scappando, no? »

« Sì, ma questa è la parte migliore. Hai incontrato mostri? »

« Mi sarei dovuto mettere davvero d’impegno per trovarne. »

« E non ci hai nemmeno provato? »

Il tragitto fino all’Highwind è stato così breve da non sembrare neanche un viaggio; Cid ci aspettava sulla sommità della collina, una piccola stella arancione nel buio a segnalare il punto in cui fumava. C’era qualcosa nel suo viso – non so cosa fosse, ma anche Vincent l’ha notato – che lo ha immobilizzato quando ha raggiunto la plancia. Non ha fatto domande; si è soltanto voltato verso di noi.

Ha spostato il peso da un piede all’altro, e alla fine ha preso una sigaretta e ha sputato nell’erba. « … Sei un gioiellino » si è complimentato con me.

« Sì, di bigiotteria. »

La battuta è morta nell’aria e dopo un po’ si è ficcato la sigaretta dietro l’orecchio, puntando gli occhi azzurri su Vincent. « Ho provato a dirglielo, Valentine, diamine. »

« … Che cosa? » Lui mi ha rigirato tra le braccia come una neonata.

« È che Strife e quella stramaledetta di Tifa, le anime belle, non hanno voluto sentire ragioni, si sono lasciati trascinare- »

« … Avevamo deciso che- »

La sigaretta gli è schizzata via dalle dita. « Lo so che avevamo deciso che non l’avrei detto, che cazzo! Ma stanno lì a parlarmene ogni santo giorno e una volta Shera si è fatta scappare una parolina e poi il segreto è così poco segreto che non posso farci più niente. »

Io ho cambiato posizione, a disagio, guardando di viso in viso e reprimendo un altro colpo di tosse sconquassante. Da quando le notti erano diventate così fredde? « Vinnie? Cid? Qualcuno potrebbe gentilmente darmi una tazza di che-diamine-sta-succedendo? »

Cid ha scosso la testa, disgustato, infilandosi le mani nelle tasche e dirigendosi con passo pesante verso la prua dell’aeronave. « Andate dentro » ci ha gracchiato, la voce che tagliava l’aria agitata sommessamente dal vento notturno. « Ricordate – adesso fate bei sorrisoni da ebeti. »

Io mi sono tirata su con difficoltà tra le braccia di Vincent, avvolgendo i bastoncini sottili di ossa e pelle attorno al suo collo per arrampicarmi meglio e fissare tra le sulfuree luci abbaglianti dell’interno della nave. La luce mi ha accecato, per un attimo, avendo gli occhi troppo sensibili, ma non appena si sono abituati ho sbattuto le palpebre.

« Oh mio Dio! E voi che ci fate qui? »

Erano tutti lì. Dal primo all’ultimo. Tifa, un po’ tanto compiaciuta di sé, la felicità che trasudava da ogni poro della sua pelle, e Cloud seduto sullo sfondo ad arrotare la Buster Sword; Barret, del colore del caffè, che mi sorrideva stupidamente come se fossi la barzelletta più bella del mondo mentre armeggiava con qualcosa nella schiena di un ghignante Cait; e Red, sulle zampe posteriori e dignitoso. Dolore dolore dolore oh il mio cuore si stava per spezzare dalla confusione e dalla gratitudine. I loro occhi si sono posati tutti su di me come se fossi una cosa orrenda per la vista, una carcassa, straziata e lacera – poi quello sguardo è sparito come se non fosse mai esistito e sono rispuntati i sorrisi.

Stupidi cretini. Chi poteva non adorarli?

« Abbiamo saputo che avevi bisogno di fare una gita tra le montagne » ha spiegato Cloud, mite e mellifluo. « Siamo venuti ad accompagnarti. »

« Insomma, solo per l’aspetto scenico » è intervenuta Tifa. Degli stramaledetti pupazzi gemelli, quei due.

Vincent si era congelato alle mie spalle. Sentivo la tensione nel suo torace e non capivo perché; ho cercato di ignorarla. Magari la sua era solo sorpresa e stava cercando di esprimerla attraverso ampi periodi di “…”.

« Red. Ragazzi. Oh… »

A dispetto della reazione del mio vampirico compagno, avevo comunque voglia di piangere; Tifa mi si è avvicinata e le ho sorriso come meglio ho potuto. « Oh, perché diavolo l’avete fatto? »

« Come se avremmo mai potuto perderci questo momento, Yuffie? » La voce di Red era ancora tanto dolce.

« È un’avventura, no? » ha fatto Barret. « L’AVALANCHE ti rivolterà come un calzino! Mica possiamo permetterti di farti precipitare a te e al tuo puzzoso culo wutaiano quando non puoi fare una benemerita min- »

« No. »

Tutte le teste sono scattate verso Vincent, lasciando me. Probabilmente è stato un sollievo.

« Eh? » è stata la domanda intelligente di Cloud.

« Questo non è il momento di discuterne. » La sua voce era tagliente come una frusta. Che accidenti gli era preso? Cid nel frattempo è risalito dalla rampa, si è posizionato un po’ dietro l’ex-Turk. « … Highwind. Porto Yuffie sul davanti per anestetizzarla. Se per favore- »

C’è stato un immediato brusio di protesta, l’unica cosa a fermare Vincent era la mia mano che era corsa a tirargli la coda di cavallo più forte che potevo. « Vinnie, no! Voglio parlare con loro durante il viaggio! Oh, eddai! »

« Valentine, non potete farcela senza di noi » ha sottolineato Cloud, avendo finalmente afferrato il senso delle parole di Vincent. « Senti, siamo messi meglio, va bene? Sarà una passeggiata, sappiamo come muoverci. Sarà- »

Vincent mi ha depositato tra le braccia di Cid come un mucchio di vestiti. « No. Dobbiamo consultarci. Porta Yuffie davanti, per favore, non c’è bisogno che partecipi- »

È stato solo allora che la mia ansia si è trasformata in orrore vero e proprio. « Che cosa?! » ho tuonato, colta da un attacco di tosse per lo stupore. « Vincent! Voglio che restino! Non farli andare via! Vincent! » Cid aveva già cominciato a portarmi con aria grave verso il ponte, allontanandosi dagli altri. Io mi sono dimenata come un gatto. « Fermo! Fermati, maledizione! Vincent! »

Lui mi ha gettato un’occhiata, gli occhi di sangue che bruciavano. Io piangevo come una tredicenne. Cloud stava già urlando contro Vincent, con la sua voce da Grande Capo Cattivo, e non potevo sovrastarlo. Il mio cuore batteva con incontenibile disperazione, impotente e genuinamente spaventato. Ho provato ad alzare il volume della voce per ripristinare in parte il mio vecchio strillo normale, la gola che graffiava in protesta.

« Basta! Vi – vi – vi- »

L’attacco di tosse ha la meglio. La forza che mi rastrella il petto è come un terremoto, le mie placche tettoniche che cozzano, il mio corpo che cerca di squarciarsi. Cid emette una lunga litania di parolacce mentre mi abbraccia forte e sento l’odore e il sapore del fumo delle sue sigarette; sto morendo, morendo, sto tentando di liberarmi. Lui cade in ginocchio per stringermi e mi tuffo all’indietro, la parte inferiore del mio corpo inerme e senza vita ma la gamba e le braccia si contorcono e gli occhi roteano nella mia testa e vedo cose bianche. Volto la testa di lato e sputo fuori rumorosamente, vergognosamente, ignobilmente, fottutamente vomito, solo che il fluido che esce è troppo sottile e viscoso e liquido per essere null’altro che una lunga, scivolosa bava di sangue. È quello che faccio sempre, no? Tutto è diventato un vuoto e nero nulla e le mani di Vincent, sono sulle mie, sono leggera come le fate, Vinnie-




« Ti ho pottato delle rose. Dal giaddino. »

Sono i fiori del primo inverno, di un rosa appena accennato, ricoperte di spine che pungono le mani più piccole. Le stringono mani forti e indurite, che non si pongono il problema delle spine, ma fanno attenzione alle morbide mani bianche che accettano da loro le rose con tanta serietà. Quelle non hanno più sangue da dare.

« Grazie. » La voce è pura, dolce e esile, come lei. « Fiori dal mio fiorellino. Me lo vai a prendere un vaso? Butta le calendole di quello là, stanno appassendo ed è perfetto. Grazie, piccola mia. »

« Fuori fa feddo. » Prova a fare conversazione. « Mamma, devo mettello propio il cappotto di Nami? È tutto vecchio e grigio e 'chifoso. »

« Sì, amore. Mi spiace tanto; le mie dita non hanno potuto fartene uno nuovo, quest’anno. » Sembra tanto dispiaciuta da essere perdonata per sempre. « Te ne farò comprare uno da tuo padre durante uno dei suoi viaggi commerciali. »

« Può essere rosso? » Adora il rosso.

« Sarà rosso come le fragole e i tramonti, fiorellino, più rosso di quanto mai potrai desiderare. »

Le mani si torcono in grembo. « I tuoi polmoni stanno meglio? »

La verità. « Non lo so. »

« Miglioreranno, sì? »

Una bugia. « Sì, tesoro. »

« Pecché devi stare meglio per il Festival. I budini come li fai tu non li fa nessuno. »

« Mi fai troppi complimenti, fiorellino mio. Gli Dei si arrabbieranno. » Ha un sorriso incredibile. « E così pure nonna Asako, che è una cuoca assai più brava. »

« Non è vero » la difende lealmente. « Tu sei molto più brava. Devo andare, mamma, ho lezione. Con Shake. »

« Dopo verrai a trovarmi? »

« Okay. » Il bacio sulla guancia, la corsetta veloce. « Ti voglio tanto bene, mamma. »

« Ti voglio bene, Yuffie. »





Sono rinvenuta e al mio risveglio stavo fissando due occhi azzurri spalancati come il cielo, e ho sbattuto le ciglia, completamente spaesata. Cid si è spostato la sigaretta all’altro angolo della bocca con impazienza; non era accesa.

« Dio, ragazzina » ha borbottato. « Ho pensato che mi fossi crepata addosso. »

« P-pure io. » È riaffiorato il ricordo dell’accaduto. « Cid, che cazzo succede? A che gioco sta giocando Vincent? Lo spirito sarà molto più facile da trovare se siamo in tanti, è pazzo se rifiuta la loro offerta, io- »

Avrei dovuto capire allora. Credo che avrei dovuto saperlo sin dal primo momento.

« Shhh, piccola, è solo un malinteso » mi ha tranquillizzato Cid. «Sai com’è Valentine, ha già un asso nella manica. Quel coglione di Cloud dovrebbe solo- »

« Nessuno mi dice niente. » Il dolore mi ha inondato il viso, abbruttendo i miei tratti. « Mi tratta ancora come se avessi dodici anni. »

« Perché ti comporti ancora come se li avessi » ha commentato acidamente. « Che Dio mi assista se avrò figlie come te. »

« Come sta il tuo piccoletto? »

« Kain? » I suoi lineamenti si sono addolciti, lievemente. « Ieri è rimasto con la testa incastrata in un barattolo. Abbiamo dovuto imburrargli tutta la testa per farla uscire fuori. »

Il che, ovviamente, mi ha fatto ridere tanto forte da farmi male alla schiena. « Segue già le orme del padre, eh? »

« Oh, ma chiudi quel cesso. »

« Con quella bocca mica ci baci Shera, vecchio s-stronzo dai capelli di petrolio? Oddio! Tu ti rendi conto che tuo figlio inizierà a dire parolacce prima dei dieci anni? »

Cid è parso virtuosamente imbarazzato. « Non posso dire parolacce » ha confessato. « Devo sganciare cinque gil come multa nella Giara delle Parolacce. »

Incapace di trattenermi, ho riso ancora più forte.

« Piccola Yuffie? Posso parlarti? »

Ho smesso bruscamente di ridere. « Sono tutta orecchi, Highwind. Quelle funzionano. »

« No, cioè- » Sembrava frustrato. « Oh, merda, io… »

« Non sai che vuoi dire? »

« Già. »

« Succede sempre anche a me. »

A quel punto mi ha guardato, calmo e tranquillo, e l’ho visto come il pilota che era il padre di un bambino e l’uomo dai molti sogni, di cui alcuni pure avverati. Si era lamentato aspramente di me, parlava in modo spicciolo, mi aveva buttato con la faccia nella sabbia e mi aveva rialzato ogni volta che ero caduta. Volevo bene a Cid, ho realizzato di colpo. Gli volevo un bene dell’anima. Se solo fossi stata in grado di-

Ehi, perché cazzo non avrei dovuto? Nessuno dovrebbe mai trattenere la lingua quando c’è qualcosa che va detto.

« Ti voglio bene. » Gli ho sorriso, e ho avuto il privilegio di vedergli cadere la sigaretta dalle labbra precipitosamente dischiuse.

« Colpo basso. » La sua voce era un bisbiglio duro, e il cielo si è riempito all’improvviso di gocce di pioggia. « Gli uomini vanno preparati per certe cose. »

« Tu mi vuoi bene, vero? » La mia voce era una cosa tenue, minuscola, da gattina. Ho capito che l’unica cosa che io abbia mai voluto dalla mia vita è essere amata.

« Secondo te? » ha chiesto. Io l’ho esaminato un po’, la barbetta ruvida che gli accarezzava le guance, i capelli biondi che stanno già assumendo il grigio dell’Highwind. « Oh, che Dio mi assista sul serio se mai avrò delle figlie irritanti, maleducate, cocciute e idiote come te, Kisaragi! »

« Spero che prendano da me e siano belle quanto scurrili » ho mormorato. « Spero che i maschi vengano a dirti che vogliono fare i ballerini in bar rozzi, e che le ragazze vadano in giro in tuta e siano convinte che i jeans siano un’espressione di stile. »

« Ti voglio bene » ha borbottato, in un basso così grave da andare quasi perduto, e ho capito che per tutta la mia vita lo sono stata.

Un altro viso è entrato nel mio campo visivo, un viso troppo familiare per i pensieri. Il volto di Vincent era teso come una corda di violino, e in mano aveva una siringa piena di tranquillante. Sapendo esattamente cosa significasse, mi sono rannicchiata.

« Ma che- » ha iniziato Cid.

« Lascia perdere. » Oddio, non vedevo quella furia da, penso, anni- « Yuffie, il braccio- »

Io l’ho guardato in maniera significativa e basta.

« Per favore, Yuffie, dopo capirai » ha detto laconicamente. « Dopo. Per favore. Cid? Siamo in ritardo. »

Non so perché mi sentissi tanto tradita in tutto e per tutto. Non sapevo cosa stava succedendo. Mi sentivo un po’ come se il nucleo del mio mondo si stesse disgregando e spappolando, e il mio cervello, mi rendeva così difficile pensare, non potevo far altro che guardarlo. Lui mi ha sollevato personalmente il braccio, controllando la siringa, e io ho distolto gli occhi.

« 'Notte, piccola » Cid si è rimesso la sigaretta in bocca e ha grugnito, tornando al ponte.

« 'Notte » ho brontolato in risposta, e l’ago è scivolato nella vena del braccio sinistro perché il destro aveva vene minuscole e chiuse e mi sono addormentata, desiderando di poter avere con me Cloud, perché anche se lui mi aveva portato da Sephiroth sapendo che probabilmente saremmo morti tutti, almeno ce lo aveva detto.




Mi sono risvegliata in molti posti.

Una volta ho dormito su un albero e sono caduta durante la notte, devo aver preso una bella botta alla testa, ma quando mi sono svegliata avevo un sacco di stupide rane mutanti della morte sulla pancia. Era stato abbastanza divertente, dopo che avevo smesso di urlare e mi ero pulita le interiora di rana dalle mani nude. In realtà non penso che quella storia faccia ridere. Dovevate esserci.

Sono una viaggiatrice. Credo che parte della ragione per cui sono rimasta a girare il mondo per tanti anni è che amavo essere tanto indipendente. Ho imparato prima a gattonare che a parlare. È tutta una questione di indipendenza. D’altra parte, ho imparato a lanciare delle scintille contro i gatti con la Lightning materia di mio padre prima di imparare a formulare delle frasi di senso compiuto o a non infilarmi il cibo nel naso, ma è il pensiero che conta, giusto?

Ma quando mi sveglio stavolta sono in una piccola tenda buia e fuori soffia il vento, imponente, freddo e pungente. Sono al riparo e penso che il mio corpo sia caldo, profondamente annidato in un cumulo di coperte, ma dentro sono gelida come il ghiaccio. Vedo Vincent, che accudisce un piccolo sistema di riscaldamento meccanico e biascica imprecazioni vecchio stampo a bassa voce. Si volta e si accorge che sono sveglia, poi torna al suo marchingegno, le dita spaccate e sanguinanti e i capelli ancora pieni di neve.

Lo fisso a lungo. Merda. « Siamo… dove? » domando stupidamente.

« Siamo arrivati. »

« Ma cosa- »

« Hai dormito durante il viaggio. »

« E- »

« Ti manda i suoi migliori auguri. »

« Io- » Ricomincio a tossire violentemente, torturando il mio corpo, gli occhi che roteano nella testa mentre aspettiamo entrambi pazientemente che finisca. Mi ci vuole un po’ per riprendermi, e percuoto molto flebilmente le coperte, desiderando che non fossero così pesanti, o doppie, o qui ad avvilupparmi. « Vincent, io- »

« Medicina » mi interrompe, lapidario. La medicina è diversa dal solito, l’usuale assortimento di aghi conficcati nelle braccia, ma niente compresse. C’è tè caldo, però, acquoso, dolce, con il retrogusto intenso della menta peperita. Il mio respiro si placa, da rumoroso e affannato com’era prima, nel glaciale stridore di denti del vento ululante. Mi ribolle nei polmoni.

Piego la testa all’indietro sui cuscini ammucchiati, con una bella sensazione di calore indotta dai farmaci che si propaga per il mio corpo, e apro gli occhi quando noto qualcosa. Il mio battito sembra strano; troppo veloce, un ritmo diverso, che danza al tempo dei tamburi di guerra.

« Vincent » lo chiamo infine, lenta, pronta e misurata. « Come cercheremo Aesculapius in questa tormenta? Sai, sulla mappa, avevo localizzato delle caverne, avremmo dovuto nasconderci lì- »

« Bloccate » ribatte, in tono piatto e lento.

« Bl- ma che significa? Vincent, io non ci capisco più un cazzo di quello che fai! Hai mandato via tutti i miei amici – che sono pure amici tuoi, brutto, brutto stronzo ingrato – e un’Earth materia può superare qualunque tipo di ostruzione, lo sai pure tu, avevi paura delle valanghe? Ah, per forza, altrimenti non avresti scacciato la nostra personale AVALANCHE! »

Cade un momento di silenzio. Per chi?

« Vincent? »

La sua voce è pesante e tenue come la neve fuori. Posso scorgere il suo viso illuminato dall’altalenante luce elettrica, e lo studio per un attimo. Le doppie sopracciglia scure come il carbone, capelli d’ebano tirati via dal viso dal sudore. Un viso pallido un po’ screpolato dal freddo; il naso forte, dritto, elegante. Gli zigomi alti e la mascella a forma di diamante, netta, delicata e bella. Gli occhi rossi come il sangue sulle rose e le pupille nere come il peccato. « Sì? »

« Che sta succedendo? »

Anche lui mi osserva a lungo, e si rizza a sedere. Ha una maglia a maniche lunghe rimboccate fino ai gomiti, e si intravede la sottile canottiera termica nella zona vicino al collo e agli avambracci. Le mani, forti, segnate e capaci, sbucciano gli strati di coperte – c’è un foglio di stagnola che usavo quando andavo in campeggio sui monti, ci saltavo sopra perché faceva dei rumori troppo belli – e con le dita fa scivolare il tessuto sottile del mio top di cotone madido di sudore giù per le spalle, fermandosi all’altezza delle costole. Oddio, ew, mi si sono ristrette le tette, vero? Non lo so, non mi guardo sotto quest’ottica né ci penso da un’eternità. Sono malata da… quello che sembra tutta la vita.

Sono ammaliata. Le piccole linee curve del veleno sono salite, sopra le protuberanze dure del mio torace, e se sollevo il mento, arrivavano anche più su. Sulla schiena e sulla spina dorsale, penso. Si riuniscono tutte sulla destra, al centro, una piccola massa irrequieta e spasmodica. Il mio cuore mormora ancora un battito. Sono arrivate lì. Il drago è nel mio cuore.

Questo pensiero mi scatena un altro attacco di tosse. La mano di Vincent si posa sulla mia bocca, quando mi sdraio ne viene fuori sporca di muco insanguinato. « Quanto ancora? »

« Qualche giorno. » La voce gli esce a forza, e guardare i suoi occhi è un’agonia. Tutto è un’agonia, mi rendo conto; è come se ci fossero due me stessa, il mio corpo e ciò che fa di me me. La me è separata dal corpo da qualche filo, e a volte ricordo che i fili esistono, e quella taglia il corpo e lo pugnala dall’interno.

« Aesculapius? »

« La caverna è bloccata. » È afflitto.

« Ti arrendi tanto facilmente? » All’improvviso sono furiosa. Questo è l’uomo che mi ha cullato fra le braccia e mi ha detto che avremmo vinto. Questa è la ragione per cui ho tenuto duro tanto a lungo. Lui e la sua speranza. « Figlio di puttana, la caverna- »

« L’ho bloccata io stesso » L’afflizione si tramuta in piombo. « Ho accompagnato qui gli scienziati della spedizione Aesculapius. Abbiamo bloccato la caverna. Dentro non c’era niente, solo un altare, nessuno spirito. Il vero luogo di culto era al di sotto della montagna e non l’abbiamo mai trovato. Allora l’abbiamo bloccata e l’abbiamo lasciata così. Ordini Shinra. »

Il Pianeta fa una rotazione su se stesso. « Hai mentito. Non c’è mai stato niente lì, vero? I libri avevano ragione. Tu mi hai mentito. »

« Ti prego. » Ha i lineamenti accartocciati, straziati. « Yuffie, non costringermi a- »

« Dire bugie? Bugie bugie bugie? Bu, gi, e. Che ne dici di una bella dose di bugie? Se non vuoi, puoi sempre mentire. Ti sei impigliato nella tua stessa ragnatela di bugie, eh? » Vedo tutto con perfetta chiarezza e il mio stesso veleno mi sgorga fuori dalla bocca. « Non volevi nessun altro in questo viaggetto perché loro avrebbero capito subito che non era vero. E quindi Aesculapius era una bugia e adesso morirò qui. Erano tutte bugie, Vinnie? Hai semplicemente continuato a raccontarmi stronzate per non farmi andare a dormire e farla finita prima, vero? » Il cuore mi rotola nel petto come un uccello morente che sbatte le ali. Imito il suo tono incolore e basso. « “Non ti lascerò morire, Yuffie.” Bugia. “Andrà tutto bene, Yuffie.” Bugia. “Ti voglio bene, Yu-” »

Mi dà una botta.

Non è uno schiaffo, è un colpo forte, mi arriva duro sulla bocca, per arrestare il flusso di vile, sudicio dolore, e rimango immobile con lo sguardo vitreo. Lui ansima, brutale come un animale, gli occhi fuori di sé.

« Come puoi dirmi questo? » riesce a dire, con voce bassa e grave. « Come, quando sai che la tua vita mi è più cara della mia, di… di ogni altra cosa, e come puoi dirmelo mentre sta succedendo questo – mentre sai cosa sta succedendo? Ti credevo più- » Non riesce più a parlare né io posso ascoltarlo, perché tremo senza aver freddo. Prendo dei profondi respiri singhiozzanti e tossisco, il mio cuore palpita e capisco che sta per cominciare un altro attacco e lui va a rovistare negli zaini e mi apre a forza la bocca, riponendo una minuscola pillola sotto la mia lingua che fa scoppiare tutto in uno strano delirio senza braccia e gambe.




Sua madre – seduta lì a fare il bucato, mentre lei si raddrizza sul bancone e guarda le bolle. La scena è sbagliata; dovrebbe avere sei anni, e invece ne ha diciannove, è gonfia e magra. Le mani di sua madre sono immerse nella schiuma fino ai polsi, l’acqua è imbrunata dal sangue.

« Mamma » chiede, sognante, notando che il sangue viene tutto dai polsi di sua madre, e che cola dolce e appiccicoso. « Com’è la morte? »

« È come chiedere come cantano le stelle, mio bene. » Sua madre continua a strizzare pazientemente i vestiti.

« Fa male? »

« Fa sempre male. »

« Mi sento come un uccello in un sacco buttato a fiume, mamma. »

Si volta a guardarla, divertita. « Allora becca il sacco e vola via, fiorellino. Se puoi scegliere tra affogare e volare, vola. »





Passano ore prima che riacquisti lucidità, nonostante a me siano sembrati cinque secondi. Lo guardo, sbatto le palpebre, sentendomi lenta, intontita e pesante, la lingua rigonfia e troppo grossa. Mi è bastato uno sguardo a lui per capire che tra noi c’è ancora rabbia, acuminata, asciutta e disperata.

La neve fuori infuria ancora, e non riesco a capire se è notte o giorno. Morire su una montagna nella neve. Non male, in realtà. Morire su una montagna durante una violenta tormenta non ha niente da invidiare a “morire nella pioggia” e a “colpo di pistola nel bel mezzo di una parata.” Sono sempre stata un po’ attratta da “in battaglia” o “per esplosione causa incidente con le materia,” o “per asfissia causata dai gil durante una tempesta anomala in cui sono piovuti soldi,” ma me lo farò bastare.

« Cosa mi hai dato? »

« … Un farmaco per il cervello » risponde. « Mahocine cetrinide. Calentura. »

Lo fisso. Grazie che non sento dolore, ma solo un vago pizzicore agli arti, un confortante tepore. « Quella roba sputtana il tronco cerebrale. Sai, ho sentito di più gente morta per quello che per- » Lui mi trucida con uno sguardo significativo, ma io lo ignoro. « E poi dove diamine l’hai trovata? »

« Bannon. Ha detto che ti sarebbe servita prima di morire. » La sua voce è di plastica. Senza emozioni.

Ormai sono un caso perso. Se questa roba gliel’ha passata Bannon, significa che progettava questa cosa da mesi. « Che stronzo. Sai sempre cos’è meglio per me, vero? Mi hai riportato a Wutai, hai deciso le cure che dovevo ricevere, hai fatto protrarre questa cazzo di malattia per mesi e mesi e- » Lui serra le mani, ma io sbuffo, la voce debole, la bocca che perde sangue. « Vuoi picchiarmi di nuovo? »

Vincent fa di peggio. Qualcosa gli gocciola sulle guance e atterra sulle sue mani. Sta piangendo.

« Ti ho guardato » dice furiosamente, « per mesi. Ti ho guardato morire. Ti ho guardato appassire e sparire. Ogni notte ti ho guardato dormire e ti ho guardato sanguinare. Ti basta questo? … Non toccavo qualcuno da anni e tocco te, e qualunque cosa faccia, non funziona nulla. Troppe volte ti ho salvato da una febbre che ti faceva impazzire e non sentivi neanche, e sarebbe stata una morte indolore, e dovrò espiare questa colpa per tutta la mia vita. Non so cosa fare. Io. Non. So. Cosa. Fare. »

« Perché? Perché mi hai portato qui se sapevi che comunque non c’era speranza? »

« Perché non sapevo cos’altro fare. Quando l’hai scoperto – di Aesculapius – avevi questa luce negli occhi che si era estinta mesi fa, Yuffie… Io… E quando è arrivato Strife, lui avrebbe rovinato tutto. In cerca di un miracolo che non è mai esistito. Come me. » Vincent scuote la testa, rannicchiandosi su se stesso, stringendosi le braccia al corpo slanciato e sputando, i denti digrignati con forza. Oh, madre mia, mai un demone, solo un essere umano. « E fa un cazzo di male, in ogni cellula, in ogni parte di me. »

Adesso sto singhiozzando anch’io, con lui, con ogni parte di me. Come se potessi biasimare lui o lo sguardo perso nei suoi occhi quando per tutto questo tempo è stato solo confuso quanto me, con la differenza che lui ha eretto una facciata di coraggio e uno strato di ghiaccio. « Oh, Dio » piagnucolo. « Ho tanta paura, Vinnie. Ho tanta paura. Per favore, non arrabbiarti con me, non sono arrabbiata con te, sto male- »

Lui si scioglie tra le mie braccia e ci abbracciamo, un gomitolo fitto di lacrime, le sue che ricadono sulle mie spalle mentre lo stringo a me più forte che posso. Almeno adesso posso morire con lui, da sola, il mio ultimo respiro sarà con quest’uomo. Profuma di metallo incandescente e sudore e sta tremando. L’amore che ho dentro di me è come una supernova, una stella dentro una gabbia, viva, che brucia fino a farmi esplodere.

« Non lasciarmi » prega in un bisbiglio, con voce rotta.

« Non voglio, non ho mai voluto, Dio, Vincent- » Chino la testa per poter spingere la fronte contro la sua, le lacrime che scivolano calde e pesanti sulle nostre guance, si mischiano. « Non voglio morire, Vincent. Non voglio, ma sta succedendo, lo sento che sta succedendo e, e, non c’è abbastanza tempo- »

« Mai abbastanza- »

« Volevo solo dirti- »

« Tanto da dirti- »

« Ma sono stata così cogliona- »

Lui ritira un po’ la testa da me. È così giovane. Il mio killer professionista, il mio Turk, nel corpo a stento un uomo, in realtà, ma invecchiato dalle lacrime. La cosa migliore della mia vita. « Ne è valsa la pena. Ne è valsa la pena perché c’eri tu. »

« Yuffie. » Vincent rabbrividisce, gli occhi si socchiudono, e riesco praticamente a sentire il suono del suo cuore. La tempesta fuori ha smesso. Oh, fantastico. Arriva il momento della mia morte e il tempo deve per forza sbolognarmi l’anticlimax del cazzo. Fortuna che non arriverò mai al matrimonio. Probabilmente ci sarebbe stato un terremoto. « Tu… mi hai fatto sentire come se… valessi più di quello che sono. »

« Tu vali più di quello che sei » bisbiglio, ancora piangendo, affettuosa. « E sai una cosa, non so che diamine sto dicendo, e mi è uscita parecchio stupida, ma tu sai che cosa intendo, vero? »

Lui annuisce, deglutendo.

« Vieni… vieni qui, Vincent. Stringimi. »

Ci incastriamo come i pezzi di un puzzle, le sue lunghe gambe distese sulle coperte, abbracciati nell’aria fresca della tenda. La sua faccia si insinua sotto la mia, sui cuscini, la sua mano sul mio collo, due dita sul battito cardiaco. Danza, corre e salta, ma c’è ancora, e so quanto lui ne ha bisogno. Oh, Altissimo, oh, mamma, oh, Aeris, sto morendo, morendo, vi prego, solo un altro po’, datemi tutto il tempo del mondo per questa cosa e poi me ne andrò. Stronzi. Non so come funzioni il Lifestream, ma qualcuno mi sentirà quando lo raggiungerò. « Vinnie? Mi ascolti? »

« … Con tutto il mio cuore. »

Mi sposto un po’, goffamente, il corpo in confusione. « … C’era una ragazza di nome Yuffie. Era stupida. La sua mente era così concentrata su un solo binario che non avrebbe neanche dovuto permetterselo, quel binario. Avrebbe dovuto avere un sentiero fangoso e stretto, ricoperto di rane. Era molto rumorosa e fastidiosa, benché incantevole e sexy allo stesso tempo, e ha avuto l’onore di contribuire alla salvezza del mondo. Perché, ovviamente, è questo che fanno le Yuffie. Ha incontrato un uomo di nome Vincent, che provava a fare il possibile per non essere visto come un uomo, perché dentro non si sentiva tale, poiché molto tempo prima gli erano successe delle cose che l’avevano fatto sentire un demone. Un po’ come Yuffie dentro non si sentiva una guerriera, o furba, o mai abbastanza. Vincent per reazione si fingeva il demone che credeva di essere, diciamo, non un uomo, e Yuffie per reazione si fingeva furba e una specie di guerriera e meglio di quello che era, che non era molto, ma almeno si salvavano le apparenze. »

La mia voce tentenna. « Non parlavano mai molto. Sapevano solo l’uno dell’esistenza dell’altro. E poi un giorno, dopo la salvezza del mondo e quando tutto avrebbe dovuto avere un lieto fine, Yuffie si ammala e questo Vincent la protegge perché è questo che fanno i Vincent, presumo. Proteggono le Yuffie. E lui si comporta da uomo, anche se lei diventa più stupida ogni ora che passa perché ha tanta paura di essersi molto ammalata e di morire, ma lui la aiuta. E lei si rende conto che lui non è un demone, e non fa paura, è la cosa più meravigliosa al mondo, ed è felice. »

Ancora silenzio, gentile, quieto silenzio, appena una pausa per rimettere in ordine i nostri pensieri.

« E poi vissero per sempre felici e contenti » conclude Vincent dolcemente.

« Il lieto fine è per gli orsi e le principesse. »

« E allora qual è il nostro finale? »

« Un po’ tragico, dalla piega che hanno preso le cose. »

Le sue dita mi accarezzano il collo, calde, tenere, agili. Nella sua voce ci sono lacrime, mesi e mesi di lacrime. « Vincent ha fallito. E quando lei morirà, lui passerà il resto dei suoi giorni a svegliarsi ogni mattina e a chiedersi perché lui non possa seguirla. »

« No » nego con decisione. « Non esiste, Kisaragi Vincent. Vincent si sveglierà ogni mattina chiedendosi cosa mangiare a colazione, o magari se il marrone è il nuovo nero, o se i mantelli sono davvero passati di moda. »

Lui scuote la testa.

« Allora abbiamo una fine di merda, sai. » Avvito le dita nei suoi capelli, bellissimi, neri come la notte e lucenti come scarabei e la pelle. « Vincent? »

« Sì? »

« Com’è l’amore? »

Lui si lascia scappare un sospiro, e io ho difficoltà a inspirare aria. So che dovrei sentirmi il corpo caldo, sentirmi avvampare, e che adesso dovrei perdere i sensi, ma così non è. I centri del mio dolore sono stati disinnescati. « È come… sentire un calore dentro. Che nulla può portarti via. Che ti porti nel cuore, e per cui faresti qualunque cosa. Uccidere, combattere, morire. È intensamente bello e porta sempre anche tanto dolore, perché si prende il tuo sangue. Ma è come… i proiettili, e i fiori, e i raggi di sole d’inverno. »

Le mie mani si serrano tra i suoi capelli. « Portami fuori » lo prego.

Lui non controbatte che congelerò, o che è sciocco, nemmeno chiede il perché. Mi infagotta, apre tutti i legacci e mi porta fuori nella neve pulita e bianca, tra le sue braccia.

È giorno. Mattina, credo. Mattina appena nata dalla notte, tanto che in alto il cielo è di un profondo velluto blu con qualche stella, ma il sole è chiaro e la luce fioca e splendida. Lui cammina fin sul ciglio del dirupo e si siede bruscamente nella neve, incurante del freddo, per permettermi di vedere il cielo e guardare lo strapiombo a picco in cui si riversa l’abisso nuvoloso sotto di noi. Il mondo è troppo bello per gli occhi umani. Sempre stato.

Ecco, adesso sì che ci siamo.

Mi spingo indietro, leggermente, accucciata tra le sue braccia, per stare guancia a guancia con Vincent. Lui è più bello del paesaggio che non degna nemmeno di uno sguardo, gli occhi fissi su di me, che divorano famelicamente ogni linea del mio viso come per stamparlo nella memoria.

« Ti amo, Vincent. Sempre. »

Altre lacrime, che quasi si ghiacciano sulle sue guance, il vento che gli arruffa i capelli. « Ti amo, Yuffie. Sempre. »

Mi ha amato da sempre, vero? Il suo amore ha gridato la propria esistenza ogni giorno, in ogni azione, ogni volta che mi ha preso in braccio o mi ha accarezzato i capelli e mi ha dato le mie medicine e mi ha regalato quei piccoli, minuscoli sorrisi che scottavano. « Preferiresti non amarmi? Fa male, un male cane. »

« Ne vale la pena, mia Yuffie Kisaragi. Ne è sempre valsa la pena. Ogni istante, ogni giorno. »

« Dopo un discorso come quello, spero tu sia preparato a baciarmi. Non si dicono frasi del genere senza prendersi la briga di limonare la persona in questione, Vincent Valentine. »

« Kisaragi » corregge, e io sono fiera e sofferente e lui mi bacia. Le nostre labbra si sfiorano come farfalle, delicate, e io sono goffa, non so che sto facendo, ma di colpo tutto viene da sé. Le sue labbra sono gelide ma la sua bocca è la cosa più calda che mi sia mai appartenuta, il mio cuore grida il suo nome quando il bacio diventa duro, appassionato, bisognoso, mentre sentiamo l’uno il sapore dell’altro, l’ultimo e il più solitario. Mi bacia tanto da lasciarmi senza fiato, muoio dentro di lui, cerco di rubargli l’aria dalla bocca con gli occhi chiusi più che posso, e so che presto svenirò per una febbre che non posso sentire. Non importa. Mi sta baciando come se fosse l’unica cosa che conta. Riconosco il sapore del mio sangue sulla sua lingua.

Quando si discosta, sono passati mille anni e qualche battito irregolare. Gli sorrido, un sorriso pieno e radioso, e lui ne abbozza uno in cambio. È solo per far vedere, mio stupido, nobile Vincent, perché nei suoi occhi ci sono lacrime e le sue mani mi hanno stretto i polsi tanto forte che penso si siano incrinati.

« Di’ a mio padre che gli voglio bene. » Le mie dita si arricciano attorno alle sue, flosce, deboli. « E pure ad Asako. E agli altri. A tutti gli altri. Credo di voler bene a tutti. Tranne a Cid. » Oh, Cid, tu lo sapresti cosa sto per fare. « A lui di’ che può andare all’inferno, okay? »

Lui annuisce, un cenno rigido, trattenuto e secco.

« Adesso lasciami. »

« Che cosa? » Gli occhi cremisi si sbarrano immediatamente, nervosi, no. Non vuole lasciarmi andare. Ti amo ti amo ti amo. « Yuffie- »

Comincio a divincolarmi dalle sue braccia, il vento che mi sferza gioiosamente il viso, strattonandomi i capelli filiformi e lunghetti. « Lasciami, Vince. Per favore. Ultimi desideri, okay? Voglio che tu vada al Li Xue e mangi i mirtilli per me, e ti faccia venire il mal di pancia, e spiaccichi il fango tra le dita dei piedi, e ascolti le noiose storie di guerra di mio madre, e voglio che mi lasci le braccia. »

« Che stai- » Già lo sa.

Sta diventando arduo parlare, o anche solo concentrarmi. Vertigini. « Volare, Vincent. Sono una ninja. I cadaveri sono troppo pacchiani. »

Ha il cuore negli occhi. Sa che sono terrorizzata. Malvolentieri, allenta le dita dai miei polsi, le lacrime che cadono come pioggia. « … Buonanotte, ninja. »

« 'Notte, vampy. » Gli faccio un ghigno, arrogante e caloroso, e cado all’indietro. « Whoo-hoo, si parte! »

È come volare, le braccia e le gambe che si allargano, abbracciare le stelle e il cielo blu e tutto quello che contiene, precipitare senza ali in un baratro. Lui mi lascia, io lo lascio e mi inarco, sono stata addestrata a cadere e atterrerò a quattro zampe. L’ultima cosa che vedo sono ali di Chaos, l’aria grida.

E Vinnie, è come i proiettili-

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Capitolo 8
*** L’Ultimo Giorno ***


Sunshine in Winter


l’ultimo giorno






Era verde. È stato questo il primo impatto che ho avuto: verde. Tiepido, tenue e chiaro, brillante, tempestato come da lucine nel buio, che tingevano quel buio delle più profonde tonalità della foresta.

Ed era caldo. Tutto era caldo. Il mio cuore era caldo. Era come stare sdraiati in una vasca con l’acqua calda come il tè – ero sdraiata nell’acqua. Mi lambiva i polsi come olio e galleggiavo, senza peso, lo sguardo meravigliato perso nel verde.

Allora era così essere morti. Era quasi un sollievo, in realtà, essere morta, anche se a dirla tutta mi aspettavo… di più. Era come incontrare qualcuno di famoso e rimanerne delusi. Ehi, Lifestream, pensavo fossi più alto di persona.

Pigra, mi sono rigirata nell’acqua, e mi sono accorta di una serie di cose:

Era verde. Era caldo. Ero nuda.

I miei occhi si sono concentrati finalmente sul tetto della caverna, che baluginava di piccole luci verdi che parevano stelle, tristi e strane… Non saprei dire. Stupende. Accoglienti. Odio le caverne; le odio le odio le odio, ma questa aveva qualcosa di diverso.

Una luce proveniente dal lato opposto a me mi ha ferito gli occhi, costringendomi a sbattere le ciglia dalle quali è sgocciolata un po’ d’acqua. Mi sentivo pesante, stordita, mi sentivo pulsare a un qualche ritmo interno, che non era quello del mio cuore.

Somigliava tremendamente, curiosamente, all’essere vivi.

Vivi…

Non potevo essere viva. Il ritmo dentro di me ha accelerato. No. Sarebbe stato troppo il colmo. Dopo quella caduta – dopo essermi sentita morire – non potevo essere viva. No. Non mi sentivo viva.

« Non lo sei » ha confermato qualcuno, « ma neanche sei propriamente morta. »

Con un mezzo squittio e uno schizzo mi sono immersa sotto l’acqua, calpestandola goffamente con un piede, voltandomi e rotolando maldestramente su e giù come una mela esposta al calore. Lì, su una riva rocciosa nella penombra, tra luce verde e pietre fumanti, c’era un uomo.

E c’erano dei serpenti.

Dozzine di serpenti. Centinaia di serpenti. Serpenti. Io odio i serpenti. Erano stranamente silenziosi, le spire cozzavano sulle squame senza nemmeno un fruscio, attorcigliati in semicerchio intorno a… intorno a un uomo. Faceva male guardarlo, percepirlo, perfino; indossava una lunga veste bianca, insanguinata sul davanti, e aveva i capelli radi e brizzolati. Aveva un volto senza età, senza tempo, raggrinzito e giovane, che non era esattamente un viso. Solo… della pelle, un involucro, che rivestiva qualcosa d’altro; come un uovo e il tuorlo.

Di colpo mi ha preso un certo terrore. L’unica cosa che mi ha impedito di perdere il controllo della mia vescica era che non ne avevo una, il che è coerente essendo io me ed essendo io un po’ morta.

« Aesculapius » ho realizzato, e ho alzato il capo.

Nel tetto della caverna c’era una crepa, un’apertura, da dove dei massi di roccia erano precipitati nell’acqua. Uno strato di neve e ghiaccio aleggiava sul buco, smorzando i raggi di sole, ma sforzandomi riuscivo a vederci attraverso.

Ero caduta da .

Mentre morivo.

« Non è che un nome » ha replicato in tono asciutto, « ma è un nome al quale sono avvezzo. »

Lo fissavo, cercando di venirne a capo. « Tu non sei uno spirito, di’ la verità. In realtà sei Dio o qualcosa di simile. Hm, sono sempre stata devota agli spiriti di Wutai, ma sono sinceramente aperta a nuove idee, perciò se stai pensando di spedirmi nelle eterne cavità più profonde e ardenti dell’inferno, vorrei solo dire che tanto quel cavolo di Da-Chao non mi è mai piaciuto, ti fa una sega, tu sembri molto- »

« Sono certo che gli dei piangono lacrime amare e cristalline alla tua pietà. » Aesculapius ha sospirato e si è seduto su una roccia, stringendo un’asta in una mano e soppesandomi mentre pestavo l’acqua. « Sai, non ho mai un attimo di pace, qualche perfetto imbecille deve sempre venire a morire alla mia porta ogni migliaio di anni. »

Mi sono offesa. « Ero occupata a tirare le cuoia, grazie tante. Non era mia intenzione finire nella tua stupida caverna. »

« Sì, invece » ha ribattuto stancamente. « O almeno, lo voleva il tuo amico laggiù. »

Mi sono girata. Sotto l’apertura che il ghiaccio stava industriosamente coprendo si annidava una figura cenciosa che avevo scambiato per una pietra; era Chaos, era Vincent, ingobbito e sospeso in aria, rigido e silente come un cadavere. Non era morto, lo capivo dal battito cardiaco che risuonava nei muri, a differenza di me, ma Vincent-

Mi ha preso quando la luce dietro i miei occhi si stava spegnendo tremolando e ha spalancato le ali e ha gridato nelle vallate e non sei mai stato bravo a lasciar andare le cose mai Vinnie non potevi nemmeno quando te l’avevo detto io e i tuoi artigli mi hanno attraversato le mani quando hai raccolto il mio cadavere come un floscio sacchetto di piume-

Mi sono tirata in piedi, malferma, su una gamba sola, sopra una roccia nel lago sotterraneo. Il mio corpo era aggrovigliato dal vapore, mi sono fissata le mani: erano squarciate al centro, tanto che due buchi irregolari scoprivano la carne e le ossa. Del sangue mi insudiciava le mani e i polsi, ma non scorreva; era bloccato, come se fossi bloccata perpetuamente nell’attimo della rottura.

« Mi ha salvato la vita? »

« No, wutaiana. Stavi solcando la soglia della morte quando sei caduta dal mio soffitto. Tuttavia, non hai esattamente superato il punto di non ritorno. Ti muovi puramente grazie alla magia, e non puoi rimanere a lungo in questo stato. »

L’ho guardato dai buchi nelle mani, dato che era un’esperienza che di sicuro non avrei rivissuto mai più. « Ma che schifo. È la cosa più schifosa che abbia mai visto. » Titubante, ho allungato un dito e ho pungolato alcune delle ossa spezzate. Non ho sentito niente di che; solo quella sensazione intorpidita e non veramente dolorosa di quando si muove un dente prossimo alla caduta. « Non mangerò mai più. Oh, ora come ora vomiterei troppo se avessi uno stomaco. Ma dappertutto. Un festival del vomito. »

« … Non ti sei ancora capacitata pienamente della situazione, non è così. »

« Guarda, ti posso vedere dai buchi. Oh, Dei, non potrò mai più giocare a cucù settete. Guarda, ci passa pure la lingua. Ynnrraaaaarr. Ehi, ci passa pure l’acqua. »

« Yuff… ie? »

Mi sono voltata. Il Chaos precedentemente privo di sensi si stava rintanando nella forma normale del mio bello e consunto Vincent, gli occhi annebbiati; perdeva sangue, ma le ferite aperte si stavano richiudendo davanti ai miei occhi come se nulla fosse. Un uomo più debole sarebbe morto. Aveva i capelli appiattiti sulla testa, e la camicia e la giacca erano ormai un ricordo – avevamo tutti imparato che trasformarsi in un enorme demone-dei-dentini con la bava alla bocca nuoceva ai suoi vestiti – ed erano stracci decorativi appesi al suo petto. I pantaloni gli erano un po’ esplosi, ma nel complesso aveva ancora una parvenza di decoro. Stava inoltre fissando il mio corpo nudo e bagnato come se fossi una specie di dea rinata.

Non esiste nulla di più caldo, meraviglioso e bello dell’espressione con cui mi ha guardata.

« Vincent! » Sono slittata giù dalla roccia e ho riso, tracciando una scia di bolle, la gamba putrida rigida, legnosa e misericordiosamente insensibile mentre mi sbracciavo nel verde. Mi ha raggiunto con qualche forte bracciata e mi ha stretto come se non volesse più lasciarmi andare, nascondendo il viso tra i miei capelli.

« Yuffie » ha mormorato. « Sono appena morto mille volte. »

« Io solo una. Pensa te. »

La faccia gli si è prosciugata di ogni traccia di vita e mi ha afferrato le spalle spingendomi un po’ indietro, esaminandomi da capo a piedi, le dita che vagavano immediatamente dalla spalla esile al collo. Ha corrugato la fronte, poi si è morso un labbro; un tic nervoso. Stava cercando un battito, ma non riusciva a trovarlo; ha visto le mie mani e ha sgranato gli occhi, ricordando, tirandole fuori dall’acqua per fissare i grossi buchi congelati poco prima che il sangue zampillasse.

« Che figata, eh? » ho commentato con spirito. Me le sono portate agli occhi e l’ho sbirciato dai tagli. « Cucù. »

Mi ha rivolto il più glaciale dei glaciali Sguardi di Vincent, raggelandomi fin dentro le ossa. Nel suo viso c’era dolore vero, e quel qualcosa di vicino alla disperazione che era perpetuamente stampato sui suoi lineamenti ai tempi del mantello rosso, delle pistole e dell’AVALANCHE, mentre cercavamo Jenova.

« Scusa » ho biascicato, vergognandomi improvvisamente, assalita di nuovo dai sensi di colpa e dalla tristezza. « Scusa, Vincent. »

« No. » La sua voce era pietrificata dal dolore. « No, no, no, no. Non lo permetterò. Non fallirò con te. »

« Non hai fallito. » Anche la mia voce era un po’ scossa. « Vincent, sei stato così meraviglioso con me, è stato più di quanto potessi sopportare- »

« Scusate? »

Ci siamo voltati entrambi verso un corrucciato Aesculapius. A Vincent si è mozzato il fiato; io ho fatto un cenno brutto con la testa e l’ho zittito con un dito. La sua mano si è intrecciata bisognosa alla mia, che ho lasciato cadere giù, e ci siamo avvinghiati l’uno all’altro come bambini. « Siete tutti e due assai commoventi, ma mi tocca fermarvi adesso per paura di perdere la testa e sentire l’impulso di farmi esplodere. Santo Bahamut, succede più di quanto si pensi. »

« Perché non sono ancora passata dall’altra parte? »

« Perché io ti ho fermato. »

Mi è salito il cuore in gola. Non osavo guardare Vincent, che aveva serrato la mano sulla mia; sapevo si sarebbe ritrasformato da un momento all’altro in una delle sue forme demoniache, scagliandosi sullo spirito a minacciare la sua vita o la morte.

Ho deglutito. Non mi sembrava una buona idea. « C’è una buona ragione? »

Aesculapius mi ha lanciato un’occhiata molto penetrante, calcolatrice. « Sono in pochi a poter veramente riportare in vita i morti, wutaiana. La rianimazione è una cosa; la resurrezione ne è un’altra. »

Io non sono riuscita a ritrovare la voce, ma Vincent sì. « E tu, allora? »

« Io sono uno di quelli che può veramente riportare in vita i morti. »

Chiudendo lentamente gli occhi, ho nascosto la testa sotto il mento di Vincent e ho contato fino a dieci senza respirare. Poi l’ho alzata di nuovo e ho fissato dritto negli occhi lo spirito, con quel suo viso chiaro come la carta e i tratti orgogliosi cesellati nella pietra. « Puoi riportarmi in vita? »

« No. »

« Perché no? » Riuscivo a sentire la rabbia montare dentro Vincent, pericolosa. « Perché? »

« Credi che non morirebbe di nuovo? Il suo apparato è intasato dal veleno e dall’infezione; il suo corpo è deturpato, è menomata e fuori uso. »

« Tu sei uno spirito di guarigione e non puoi farci niente?! »

« … Beh, sì, posso » ha ammesso lo spirito antico. « Vi stavo solo prendendo in giro. Non immaginate la noia, a starsene sigillati qui senza nessuno con cui parlare oltre a un branco di serpenti. Metà di questi serpenti non esiste neanche, sapete, ho creato un’illusione per dare l’impressione che ce ne siano un sacco. Che poi che razza di serpente sano di mente vivrebbe in una caverna di montagna circondata dalla neve? »

Se fossi stata uno spirito, avrei voluto essere Aesculapius.

« Noi non siamo in vena di scherzi » ha sbraitato Vincent, ostile. Ho saputo d’istinto di non essere compresa in quel noi. Noi aveva una motosega, la schiuma alla bocca e viveva nella testa di Vincent.

« Siete in vena di qualunque cosa decida di fare, sbaglio? » ha osservato con semplicità. « Non sono magnanimo. Vengo sempre ricompensato per i miei servizi. Dammi poi una buona ragione per guarire la ragazza. »

« Perché sarei molto contenta se lo facessi? » ho suggerito, ignorando la gomitata di Vincent nelle costole.

« No. »

« Perché vengo lì e ti prendo a calci se non lo fai? Perché hai una veste da donna? »

« No. »

« È la prima volta che incontro uno spirito con un problema di identità sessuale. A parte forse Ramuh. »

« No. Anche se mi trovi d’accordo su Ramuh. »

« Per favore? »

Aesculapius ha disteso la schiena contro una roccia, guardandoci. « Dipende » ha risposto con tono mellifluo, « da cosa sei disposta a pagare. Voglio qualcosa di prezioso da te. »

« Materia? Gil? » ho chiesto speranzosa. « Puoi averle tutte e tutti se vuoi. Giuro, ne ho a vagonate, potrestici rotolartici sopra tutto il giorno- »

« Qualcosa di prezioso. » I suoi occhi mi hanno trafitto. « Materia e gil non li hai qui né ci tieni davvero. Ho preso molte cose in passato. Voci; grazie; primogeniti appena nati; gioielli, bigiotteria. Ho preso la bellezza. Ho preso l’anima. Il mio prezzo è alto, Yuffie Kisaragi. »

« Come fai a sapere il mio – lasciamo perdere. »

Aesculapius si è avvicinato al laghetto e ci si è inginocchiato dentro, le mani poggiate sul pelo dell’acqua, continuando a studiare l’infelice duo composto da me e dall’ex-Turk dai capelli scuri. Che gran quadretto che dovevamo fare: io un cadavere, le costole che sporgevano dalla pelle e il colorito blu-grigio-biancastro, le labbra probabilmente grigie e giganteschi buchi nelle mani, aggrappata a un Vincent sporco di sangue, che si stava mordendo a morte il labbro inferiore e aveva la mano d’oro scaldata dall’acqua, intento a stritolare uno dei miei polsi nel tentativo di avvolgermi in un abbraccio protettivo. Le sue dita ancora percorrevano esitanti il mio braccio in cerca delle vene, dei battiti, di qualunque cosa. Oh, Vinnie, Vinnie, non potevo morire adesso, perché adesso aveva il cuore spezzato, ma dopo si sarebbe polverizzato e lui mi avrebbe seguito immediatamente nelle tenebre. Per amore, stavolta, e lealtà, non per meri sensi di colpa.

Avevo la sensazione, nel profondo dell’abisso delle acque, che avesse finito di espiare.

« Sai » ha ripreso Aesculapius, sommessamente, « forse sarebbe meglio se ti lasciassi morire. La vita, per gli esseri umani, non ha alcun senso, è sadica e dolorosa. Non appena uscita da qui ti verrà qualcos’altro. Prima o poi tornerai a essere una con il Pianeta. La morte è sollievo, pace, calore. Non si soffre mai. Non ci si ferisce mai. La vita è come un coltello che taglia la lingua. Una volta hai scelto la morte. Qual era il senso della tua vita, prima, Yuffie Kisaragi? »

« Una volta ho scelto la morte e l’ho rimpianto come non ho mai rimpianto qualcosa. Mai. »

Si è rivolto a Vincent. « Tu puzzi di immortalità, Chaos. Puoi dire sinceramente che la vita è dolce? Che la vita è meglio del lasciarsi andare, che il mondo non è pieno di infelicità, odio e panico? »

« Sì » ha detto Vincent con voce fievole. « Perché nonostante quello che dici sia vero, il mondo è anche bellissimo. »

« Un tempo volevi morire e farla finita con tutto. »

« … »

« Ipocrita. »

« … »

« Se la lasciassi morire, non soffrirebbe mai più. Si prenderebbero cura di lei. Se tu la lasciassi andare, non dovresti più preoccuparti più di lei, o temere il suo dolore. Potrà avere ciò che non può essere tuo. »

La sua mano buona si è stretta di più sul mio polso. « Il mondo è cupo e crudele, spirito. Sono pronto a convenire in questo. »

« Però? »

« … Lei mi ha dato un senso. » Ha serrato la mascella. « E ha bisogno di essere viva per poterne trovare uno a sua volta. »

Come ho già detto, Vincent Valentine è una persona affascinante. Può farti compagnia per mesi di fila, mentre tu gli vomiti, gli muori, gli piangi, gli strilli e gli gridi addosso, ma riesce comunque a sostenere che così facendo gli hai dato la grazia.

« Allora cosa sei disposta a pagare, Kisaragi? Qual è la cosa che ti è più preziosa di ogni altra? »

Ho guardato Vincent e ho visto il pensiero prendere corpo nella sua testa mentre gli usciva dalle labbra.

« Me. » Vincent lo ha fissato dritto negli occhi senza esitare. « Prendi me. Usa la mia vita come pagamento per la sua. »

« No! » l’ho aggredito immediatamente. « Vincent, è stupido! Io ti amo! Tu sei il mio senso! Tu sei il mio tutto! Non voglio vivere senza di te, non posso e non lo farò e- »

« Molto nobile » ha concesso Aesculapius; poi, facendomi praticamente liquefare di sollievo, ha aggiunto: « ma impossibile. Non può dare te, che non sei suo. Non sei nato dalla sua carne e lei non ti possiede. »

Ah, si vede quanto poco ne sapesse lui. Un legame eterno e reciproco. Cominciavo a capire perché Vincent fosse saltato dietro di me.

La mia mente correva. Che altro avevo di prezioso con me? Niente. Niente mi era stato prezioso nell’ultimo anno o giù di lì se non Vincent, e la vita, e non potevo pagare con la mia vita perché sarebbe stato da coglioni. Avrei offerto il mio primogenito, ma sarebbe stata una proposta vuota e priva di significato; al momento non me ne fregava molto dei figli. Il mio corpo. Non ero bella in nessun modo, forma e maniera, quindi questo non potevo darlo; non avevo mai fatto tesoro di nulla eccetto le mie doti come ninja-

-Non glielo proporrei mai se non ne sentissi il bisogno, ma credo che per la salvezza della sua vita dovremo ampu-

« Sì » ha detto Aesculapius, profondamente soddisfatto. « Adesso ci siamo. »

« La mia gamba » ho detto lentamente. « Tu vuoi la mia gamba. »

« Dammela. »

« Non so, vuoi venirtela a prendere? » Sono rimasta un attimo in silenzio. « Cioè, che te ne fai? A parte che ne verrebbe fuori proprio un bel fantoccio. »

« Toglila. » I suoi occhi scintillavano. « Toglila e dammela. »

Vincent si è guardato l’artiglio, poi è tornato a me.

« Che stronzone perverso » ho borbottato. « Scommetto che gli altri spiriti ridono di te alle tue spalle e dicono che sei inquietante. Scommetto che ti ubriachi alle feste e ci provi con Shiva. Grazie che poi ti rinchiudono in questa caverna quaggiù. Scommetto che è perché puzzi. »

« La sua gamba » è intervenuto Vincent piano, « per la guarigione. »

« E sia. »

« Può sentire dolore? »

« Adesso sì. »

Tutti i miei centri del dolore si sono aperti in una gloriosa sinfonia di agonia e mi sono artigliata a Vincent, gli occhi che mi roteavano fin dentro la testa, gorgogliando mentre il fuoco mi si riversava nelle vene dentro cui ribolliva sangue che non si muoveva. Il mio cuore non poteva pompare; il mio corpo era fermo in una stasi, salvo il dolore, perciò ero rannicchiata al sicuro nello stato di morte.

Oh, Dei, avrei dovuto morire, avrei dovuto morire, volevo morire, faceva male male male male male. Volevo svenire ma non potevo; non potevo far altro che sentire, la pelle sensibile e sofferente mentre Vincent mi raccoglieva tra le braccia, guadando la sponda oltre Aesculapius, mormorando dolci versetti di conforto e frasi senza senso mentre, tenero come una madre con il figlio appena nato, mi adagiava sulla roccia.

« Quasi tutto finito, Yuffie, andrà tutto bene, resta immobile – resta immobile… sarà tutto finito. Tutto finito. » Mugolii. « Non posso tranciarla con questo. Merda. Yuffie – devo partire da sopra il ginocchio, altrimenti ti spaccherei la pelle. Puoi fare sì con la testa? Va bene? Sì? »

Le sue dita si sono curvate sulle mie, e mi ha fatto male, e appena prima che iniziasse gli ho sentito mormorare: « Merda, Lucrecia, ti prego, aiutami. »

Il dolore, dopo un po’, si è tramutato in sollievo. Visto che mi faceva male dappertutto, dalle mani che non sanguinavano al corpo che non moriva agli organi che volevano spegnersi ma erano congelati in un istante, tutto si è dissolto in un qualcosa di cui a stento mi rendevo conto quando Vincent si è accovacciato davanti a me e ha lacerato l’osso con l’artiglio affilato come un rasoio mentre io gridavo e gridavo e gridavo.

Sembrava, sostanzialmente, che qualcuno mi stesse strappando la gamba con attrezzi imperfetti.

Dopo un po’ è finita. La ferita non perdeva sangue. Il povero Vinnie aveva fatto il meglio che poteva, ma il suo viso era comunque adombrato dai sensi di colpa quando ha dato il brutto arto allo spirito, passandoglielo, rifiutandosi di allontanarsi troppo da me.

Sorridendo, Aesculapius ha buttato la gamba in acqua. È diventata rosso intenso come il sangue e l’arto è sparito. « Fatto e finito. Portala nelle acque, Valentine. »

Vincent mi ha preso tra le sue braccia, mentre mi contorcevo, e ho guardato il suo viso per quella che mi è parsa un’eternità. Ne avevamo fatta, di strada, io e lui. Mi aveva dato la sua forza, la sua debolezza e le sue lacrime, un qualcosa che fino a due anni prima neanche sapevo che avesse fisicamente. Mi è venuto il fiatone, anche se non respiravo, solo per l’abitudine di reagire così agli stridori del mio sistema nervoso. Lui ha ricambiato lo sguardo, gli occhi cremisi incommensurabili, e mi sono accucciata di più contro il suo petto quando ha raggiunto l’acqua.

« … Meglio che funzioni » ha avvertito cupamente.

« Abbi fiducia, Chaos. »

Quando le acque mi hanno finalmente toccato, quando Vincent ha sollevato i piedi dal fondale basso e mi ha lasciato galleggiare con gli occhi chiusi, tutto si è illuminato. Era mia madre al mattino, che mi sfiorava la fronte e la spalla per svegliarmi e poi mi raccoglieva tra le mie braccia, facendomi volteggiare per aria mentre io davo voce assonnata al mio scontento. Era mio padre, che mi arrotolava lentamente le prime fasce attorno alle mani nei miei primi passi sulla strada per diventare una ninja. Era Aeris, la mano sulla bocca che cercava di soffocare delle risatine mentre mi sorrideva, calda e radiosa. Era tutto ciò di bello che abbia mai provato, e la pressione nel petto ha iniziato a crescere finché non sono scoppiata in una risata spezzata-

Il primo battito del mio cuore ha risuonato forte come una campana, e le acque erano calde come dei raggi di sole e un grembo materno, e sono rinata davanti agli occhi stupefatti di Vincent.

E l’ultima cosa che ho sentito è stato un borbottio: « Io non puzzo. »

So che morirò, un giorno. Solo che quel giorno non sarà oggi.




Quando mi sono svegliata, faceva molto freddo.

« Dai, Yuffie » mi stava chiamando qualcuno gentilmente, una voce familiare come un tè caldo in una notte fredda. « Svegliati. »

« Lasciami dormire 'n altro po’, Vinnie » mi sono lamentata stancamente. « Non è giusto. »

C’era – qualcosa – nella sua voce. « Svegliati. »

Mi sono svegliata, e il ricordo di ciò che era successo mi ha percorso la schiena in un brivido-

L’aria era gelida ed ero un po’ indolenzita, come quando ci si sveglia, un pizzicore diffuso in tutto il corpo che lo manteneva stranamente caldo. Ho sbattuto lentamente le palpebre, il bianco abbacinante che mi feriva gli occhi.

Non avevo più dolore.

Ho dato un’occhiata a Vincent, e poi alla neve attorno. Eravamo nel mezzo di un campo di neve qualsiasi, e mi teneva stretta a sé più vicino che poteva – non ero più nuda; avevo la fatiscente maglia di cotone macchiata di sudore e i pantaloni larghi di prima, di quando ero volata giù dalla montagna. Una delle gambe dei pantaloni sventolava all’aria, libera e vuota, e mi sono sentita di colpo goffa e inerme come un neonato.

« La mia gamba » ho detto, e non so perché ma delle lacrime mi hanno punto gli occhi.

« Guarda. » Anche se il vento ci frustava, si è voltato per provare a diminuirne la potenza contro di me. Era anche lui mezzo svestito, esposto alla neve, al ghiaccio e al gelo polare; ciononostante, era stranamente caldo come me.

Il dono di Aesculapius. Non saremmo morti lì. Rimboccandomi la gamba dei pantaloni, abbiamo esaminato il moncone alla mia coscia: era liscio e pulito come se avessi ricevuto la ferita dieci anni prima. « Starà bene. »

« Ma… » Mi sono guardata le braccia e ho sbarrato gli occhi. Prima, sembravano due stecchi; adesso avevano riacquistato la vecchia forma sicura pugno-pugno-para, dai muscoli snelli e forti. Ho controllato convulsamente il resto del mio corpo. Non c’era più traccia del veleno. La mia pancia non era più il risvolto gonfiato dalla fame: era piatto e tonico, e la gamba buona – l’unica gamba – era nettamente definita come prima dell’incidente. E il mio petto…

« Guarda! » ho strillato. « Alleluia! Ho le tette! »

Vincent ha declinato l’invito, cercando solo di tenermi ferma mentre mi dimenavo, mi tendevo e gorgogliavo tra le sue braccia come un torrente, tanta era la gioia. Si limitava a guardarmi in faccia, gli occhi di sangue intensi, mentre il mio intero corpo esplodeva momentaneamente in un’espressione di felicità. Mi sono bloccata, di nuovo pensierosa e preoccupata, fissando il moncone sgraziato.

« Vincent, Vinnie, non camminerò mai più. »

« Sì che camminerai » ha controbattuto, e la semplicità e la fiducia delle sue parole mi hanno fatto credere. « Proprio come io ho imparato a impugnare di nuovo una pistola, e a sparare. »

« Eri mancino » ho realizzato.

Mi ha spostato su un fianco, sollevando l’artiglio d’oro, i raggi di sole che si riflettevano sulla sua superficie. « Non è così male. E ho imparato, anche se è stato molto, molto difficile. Mi dicevo che era calzante. Un artiglio per un mostro. »

« Secondo me è sexy. Attraente. Tra l’altro, l’oro va con tutto. »

A quel commento ha riso, una risata improvvisa e divertita.

« Pensi che ne facciano di verdi? » Ho sbatacchiato le ciglia, sconsiderata, lui che voltava il viso verso il mio con un sorriso che ancora gli si scioglieva sulle labbra. Ho dovuto deglutire, la gola improvvisamente secca: lui era di una bellezza che fermava il cuore. Vincent Kisaragi; mio. Credo fosse mio. « L’oro proprio non si addice ai miei vestiti. »

« Te ne prenderemo una verde. »

« Anche se saremo costretti a verniciarla? »

« Anche se saremo costretti a verniciarla. »

Mi sono stretta a lui, precaria, la guancia che si rinfilava nell’incavo familiare tra il suo collo e la sua spalla, mentre respiravo il suo profumo. Molto lontano, ma in avvicinamento, c’era il rombo di un aeronave.

« … Ecco che arrivano Strife e Highwind » ha osservato Vincent, mezzo rassegnato. « Ci avranno cercato tutta la notte. »

« Ehi! » Gli ho lasciato andare il collo per sventolare le braccia in alto; ha dovuto tenermi dritta per non farmi rovesciare nella neve. « Quaggiù, stronzi! »

Anche la mia vista era migliorata. Era tutto in rilievo: le montagne, il leale azzurro del cielo, l’Highwind che sbuffava lentamente nella nostra direzione e i capelli di Vincent agitati dal vento. Quando mi sono voltata verso di lui, mi stava guardando, divorando di nuovo il mio viso con gli occhi come quando mi ero gettata dalla montagna. Ho sentito, d’istinto, che mi avrebbe fatto patire le pene dell’inferno per quell’acrobazia.

O forse no. « Che guardi? » ho chiesto, con un pizzico di timidezza.

« Te. »

« Sono tanto brutta? »

« Yuffie. » E la sua voce era profonda, con una nota roca, di quelle che mi arricciavano le dita dei piedi e mi annodavano lo stomaco mentre il cuore palpitava – e stavolta, non per agonie riconducibili alla medicina. « Tu sei la cosa più bella che abbia mai visto in vita mia. »

Ci hanno trovato che ci baciavamo, scambiandoci vita con la bocca, più e più e più volte come se non avessimo mai dovuto fermarci.

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Sunshine in Winter


epilogo






E allora.

Non dirò: “E poi abbiamo vissuto per sempre felici e contenti!” perché così non è stato. Non subito. Perché chi mai potrebbe vivere felicemente con me? Cago il cazzo per ogni cosa, dalle condizioni meteorologiche alle scarpe agli aggiornamenti delle pistole, e dopo un po’ persino l’impassibile Vincent si ritrova a combattere con l’impulso di darmi una mazzata verbale sulla testa.

Ma sto saltando un po’ troppo avanti.

Potrei dire che la più grande festa mai avvenuta sia stata organizzata subito sull’Highwind, perché è vero, festa intramezzata da lunghe chiacchierate con Reeve-tramite-Cait sulle protesi dopo che avevo dichiarato che volevo un Gamba-Fucile come il Braccio-Fucile di Barret. Ho poi desistito perché nonostante l’idea di sparare proiettili ogni volta che prendevo a calci qualcuno mi sembrasse parecchio figa, avrei probabilmente finito con l’ammazzarmi da sola. Un peccato, perché durante qualche cena lunga e tediosa sarebbe stato un bello scherzo sparare nei piedi dei commensali che mi stavano antipatici. Cid e io abbiamo tentato un virile abbraccio distaccato prima di cedere e avvinghiarci forte l’uno all’altro, con lui che mi ha issato tranquillamente su tra le sue braccia borbottando con voce roca: « Pensavo che non avrei più rivisto la tua faccia di merda. »

E nessuno ha inarcato un solo sopracciglio nel vedere che Vincent non ne voleva sapere di mettermi giù e mi portava in giro come una bambina invece di lasciarmi stare seduta. Ci tenevamo per mano e non ci siamo accorti che ci perdevamo spesso l’uno negli occhi dell’altro finché Cloud e Tifa non hanno cominciato a fare dei perforanti fischi lupeschi. Ho avuto il mio primo momento di spavento quando ho sentito la nausea e mi è tornato tutto, il terrore e la depressione, ma lui mi ha stretto la mano mentre diventavo verde e afferravo la ringhiera e, come dire, i conati non dovrebbero essere romantici.

Tutto mi pareva splendido, fresco e diverso, perché non lo vedevo da mesi e mesi. Mi era pesato come una decade, essere malata, e mi sono resa conto che anche prima, nei miei viaggi per il mondo, non mi ero mai presa veramente il tempo di guardare qualcuno, e mi sono entusiasmata per le cose più piccole – « Tifa, i capelli ti sono cresciuti tantissimo! » e « Red, sei sexy come non mai – le piume stanno tornando di moda? » e « Cloud, ma le tue tette! Sono enormi! » che però ho detto solo perché mi buttasse a terra e mi facesse il solletico.

Avevano paura di toccarmi, all’inizio, temendo che mi sarei rotta, sapendo che quando ero in piedi – oh Dei, quanto era meraviglioso, stare in piedi! – non sarei riuscita a tenere l’equilibrio a lungo prima di ricadere in un piccolo e frustrato ammasso di arti. Questo però non mi ha impedito di saltare giù dalla sedia per gettarmi di peso sul pavimento, facendo sobbalzare angosciosamente Vincent, camminando come un granchio per tirare le gambe alla gente o per sbirciare sotto la gonna di Tifa. Hanno capito che ero la vecchia, infrangibile Yuffie quando ho tirato la coda di Red di nascosto, strappandogli un ululato, e ho lottato con lui come un tempo finché Vincent non mi ha trascinato fuori e mi ha dato un buffetto sul naso.

Pure lui veniva trattato diversamente. Anche se ricadeva ancora in crisi impotenti di “…”, lo avvicinavano più spesso, trovando più semplice fargli domande. Probabilmente perché avevano capito che dopo tutto quel tempo a farmi da infermiera niente avrebbe potuto davvero infastidirlo più, tutto sommato.

E ho bisbigliato ferventi e frequenti preghiere di ringraziamento a Aesculapius, sulla falsariga di: « Grazie infinite, travestito in gonnella. »

Credo mi abbia sentito.

Quando siamo tornati a casa, mi sono scoppiate le orecchie per i pianti di sollievo bilaterali e lo spietato incontro di grida con cui mi hanno accolto mio padre e Asako. Godo non riusciva a smettere di toccarmi, come se forse non fossi davvero reale e si sarebbe svegliato da un momento all’altro, e credo proprio che sia stata l’unica volta in tutta la sua vita in cui avrebbero potuto trovarlo morto e prostrato ai miei piedi – piede – per poggiare una guancia su un ginocchio e piangere: « Mia figlia. » Ero più su di giri di una fattona dopo dieci dosi di calentura, a galleggiare in un mare d’amore.

E non credo ci fosse persona più sorpresa – quando mi ha visto, trionfante, giunta lì per prendere le misure per le protesi – del dottor Malachi Bannon, che in segno di saluto ha ricevuto il mio medio e l’invito ad andare a farsi una sega.

« Mi spiace, signorina Kisaragi » ha detto seccamente, mentre Vincent portava gli occhi al cielo dalla disperazione. « Mia madre mi ha sempre detto che se l’avessi fatto sarei diventato cieco. »

Non erano verdi, comunque – le protesi; erano di acciaio brillante, completamente inumane, aste lisce e lucenti, incorporate alla gamba in una maniera che permetteva la rimozione completa, volendo, lasciando il moncone e un impianto permanente d’acciaio in cui inserirle. Reeve in persona ha contribuito alla loro progettazione, sistemando i fili con le lunghe e perfette mani da ingegnere mentre flettevo le mie nuove dita.

« Vuoi che le metta a posto? Carne finta? »

« Nah » ho risposto, estremamente soddisfatta. « Mi piace nuda. »

La mia prima ruota è stata nei boschi fuori Junon, e le mie lacrime sono cadute sul suolo come pioggia. Yuffie Kisaragi, ninja di Wutai, aveva finalmente ritrovato se stessa.

Sono un po’ come un vaso, un vaso rotto. Cadendo mi sono frantumata e qualcun altro ha avuto l’onere di raccattare i pezzi e incollarli, solo che qualche imbecille ne ha perso uno per strada e mi hanno dovuto rattoppare. Adesso sono senza dubbio un vaso dall’aspetto strambo, tutto crepato e con un pezzo che non apparteneva al modello originale, ma sono più interessante così.

E poi, l’uomo che mi ha superincollato la pensa così, e io lo amo.

E nemmeno è stata quella l’unica cosa che ho fatto a Junon. Non appena uscita dalla porta, per il mio primo viaggio all’aperto con le protesi, ancora con un po’ intimorita dal camminare, mi sono dimenticata della paura e ho trascinato Vincent in uno studio di tatuaggi. Ho preso block-notes e matita e mi sono sbizzarrita, poi ho mostrato il disegno al tatuatore.

Si è grattato lentamente la testa, un sopracciglio alzato. Aveva delle basette molto curate. Ho voluto istantaneamente delle basette, poi mi sono ricordata che non potevo farmele crescere, essendo una donna. « Sei sicura, piccolina? Questo è un lavoro grosso. Farà un male cane. »

Ho ostentato uno dei miei sorrisi privi di allegria, stirato e masochista. « Mettimi alla prova. »

E, ovviamente, mi ha fatto male cane quando è passato sull’osso e Vincent mi ha tenuto la mano – con quella vera, e l’ho reputato un bel gesto, perché credo di avergli dislocato quasi tutte le dita. L’inchiostro era blu scuro come un livido di notte, e l’ho trovato adeguato; una volta finito, avevo delle spirali che risalivano la coscia fino alla pancia, passando per il fianco, piccole, silenziose e letali. Le curve del veleno, ricreate perfettamente dalla memoria.

« Cicatrici di guerra » ho spiegato a Vincent, quando mi ha chiesto perché.

E quando sono guarita e il tatuaggio ha smesso di prudere ho messo Vincent in tiro – una camicia rosso sangue, pantaloni neri, quegli stupendi capelli lunghi pettinati scrupolosamente da me e legati sulla nuca – ed è venuto talmente gnocco che mi stupisce che non una donna sia venuta a proporgli in quattro e quattr’otto di contribuire con quel materiale genetico alla sua prossima generazione. Io ho scelto una gonna corta di modo che tutti potessero vedere ogni dettaglio della mia gamba artificiale, e magari pure le mutande se mi piegavo troppo, e mi sono gustata ogni stramaledetto minuto.

No, non ho vomitato. Mi stavo prevedibilmente innamorando dell’idea di mangiare cibo e farlo restare giù.

Per riuscirci ci è voluto il lungo inverno, che ho passato a imparare di nuovo a muovermi a dovere con la mia grazia, finché non ho battuto mio padre a man basse ancora una volta con il Conformer che riluceva letale nella mia mano. Vincent mi ha stracciato, ma perché ho avuto pietà di lui. Sul serio.

Abbiamo bruciato tutte le vecchie lenzuola, e ci siamo sbarazzati delle medicine, e abbiamo spogliato la mia vecchia casa fino a liberarla di ogni traccia o odore di malattia. Mentre ero distratta, Vincent aveva disabilitato le mie trappole rendendo abitabile lo scantinato, e quando me ne sono accorta mi sono imbronciata. Vivere in una casa in cui non potevo intrappolare vittime ignare in qualsiasi momento sarebbe stato ostico per la mia mente.

In primavera, mi ha portato a fare un’escursione alla cascata che sgorgava dal Li Xue. Ho raccolto delle giunchiglie lungo il sentiero e me le sono infilate dietro le orecchie e tra le cinghie del top, e poi ne ho messa qualcuna pure nella parte posteriore della sua camicia mentre lui era girato, e ci siamo messi a sedere sulla cima accanto alle rocce, a guardare l’acqua cadere. Abbiamo mangiato variegato al fudge che ci colava dalle dita l’uno dell’altro, finendo tutti appiccicosi, soprattutto io, che con metà faccia sporca di fudge ho passato la mezz’ora successiva a succhiarmelo dalle labbra.

Dopo, non abbiamo subito nuotato nel fiume, perché il gelato aveva in realtà scatenato qualcosa di alquanto diverso. Mi sono leccata il dolce cioccolato appiccicoso dalle labbra e poi, per pura pignoleria, ho iniziato a leccarlo dalle sue, e qui le cose ci sono meravigliosamente sfuggite di mano. Siamo finiti sulla sponda erbosa vicino alla cima della cascata, lui che mi toglieva lentamente i fiori dai vestiti, e poi con vaga titubanza i vestiti stessi, iniziando molto delicatamente a-

Di quello non parlerò. Ma ricorderò per sempre, per sempre il profumo delle giunchiglie schiacciate.

Dopo abbiamo nuotato nudi nell’acqua e ho esaminato l’uva spina acerba con incantata intensità mentre ci asciugavamo a riva. Ho provato a catturare i pesci con le mani, senza successo.

Pensa te.

Alla fine, quando mio padre si è ritirato in tarda estate con le api che fluttuavano pesanti sui germogli, Vinnie è diventato per davvero Lord Vincent Kisaragi di Wutai. Tuttavia, nella stessa cerimonia, anch’io sono stata incoronata Lady Yuffie Kisaragi di Wutai, con un matrimonio per non rendere la cosa sconveniente.

« Avevi fatto il pensierino di sposare qualcun altro? » ho domandato imperiosa al mio ex-Turk quando ha aperto la bocca per protestare. Benché abbia negato con un broncio – sì! Con un broncio! – ha mantenuto un’espressione molto contrariata finché non siamo stati proclamati marito e moglie, come se l’avessi colpito sulla testa con il Conformer e l’avessi trascinato nella mia caverna.

Ci siamo sposati sotto luminosi raggi di sole, e avevo vent’anni. L’intero villaggio – città; oh, quanto era diventata grande la mia Wutai, ero così orgogliosa che avrei potuto scoppiare – è venuto a guardare la sedia del potere passare a me e Vincent, e ci siamo stretti le mani promettendo di amarci, rispettarci e onorarci. Asako si è lamentata del periodo di tempo fin troppo ristretto che ha avuto per occuparsi del mio vestito di nozze. Era verde, blu e viola, mentre lui pareva quasi a disagio in rosso, arancione e zafferano; per una volta, non indossava abiti pronti per un funerale, comprensibilmente una nuova esperienza.

Perché sto parlando dei vestiti? Ho passato l’intera cerimonia ignara di qualunque cosa che non fosse il suo viso, il calore delle sue dita legate alle mie mentre Godo gli diceva di chinarsi a baciarmi.

Cloud e Tifa hanno festeggiato più di tutti, venendo a baciarci le guance come da rito con dei sorrisetti furtivi sulle labbra, come se avessero organizzato in qualche modo l’intera vicenda. Quando Cid è venuto con Shera e il piccolo e vivace Kain, che non camminava mai se poteva saltellare, e non saltellava mai se poteva fare lunghi e pericolosi balzi in avanti che lo facevano cadere sulla bionda testa, lui stava tirando su col naso.

« Piange sempre ai matrimoni » ha accennato teneramente Shera nello stesso istante in cui lui sbottava con la voce rotta: « Ho una malattia all’occhio, ecco che c’ho! »

Amore. Mi sentivo traboccare d’amore, sul punto di tracimare. Ne era valsa la pena, ogni momento, e non avrei più patito quella fame da proiettile esploso di quando avevo vagato disperatamente per il pianeta alla ricerca di un senso per la mia vita a base di materia.

Più tardi, quella stessa notte, la notte delle nostre nozze, siamo andati alle rocce di Li Xue e abbiamo guardato il tramonto: rosso, oro, viola, e arancione.

« Non riesco a credere a quante materia ho ricevuto come stupidi regali di nozze » mi sono mezza lagnata, appoggiando felicemente la guancia sulla sua spalla. « È un pregiudizio molto stereotipato e prevenuto. »

« … Non ricordo di averti visto scontenta quando Cloud ti ha presentato la sua Knights of the Round masterizzata. »

« Con quella cucciolina ci dormo la notte » ho specificato entusiasta.

« Yuffie? »

« Sì… amore? » Quelle parole sapevano di nuovo sulle mie labbra.

« Pensavo… a una cosa. »

« Cerca di evitare. Ti vengono le rughe. »

Mi ha cinto la vita con un braccio. « Una volta, mi hai raccontato una storia. Non ha mai avuto una fine. »

« E vissero per sempre felici e contenti. »

« Come hai detto, il lieto fine è per gli orsi – e le principesse. »

« Beh, è vero. »

« Credo che dovrebbe avere una fine. »

« Va bene. » Ho dimenato le dita dei piedi. « E come la finiamo, allora? »

« E vissero per sempre felici e contenti » – e mi ha stretto tra le braccia, familiare e caldo, cullandomi e proteggendomi molto più a lungo di quanto mi servisse in apparenza – « mia principessa wutaiana. »

Non si può non amare una persona che ti dice melensaggini zuccherose come queste.

« Ti amo, Vincent Valentine. »

Sono sempre stata una viaggiatrice. È ciò che faccio. Solo che ci ho messo un sacco di tempo per imparare che il viaggio del corpo non è nulla senza ad accompagnarlo il viaggio dell’anima.

E abbiamo vissuto per sempre felici e contenti. Sebbene lui non fosse un orso.




fine







Nota dell’autrice: È finita!

Mi sono divertita proprio tanto a scrivere questa storia. Penso si notasse. Il che non significa che non ci siano stati punti in cui non mi stavo divertendo, perché non sapevo quale sarebbe stata la fine neanche in fase di scrittura. Ho iniziato a scrivere Sunshine in Winter perché a mia madre è venuta una trombosi venosa profonda, un coagulo di sangue – l’avrete immaginato – nella gamba. C’era un’ottima possibilità che morisse, e come un qualche inconscio sfogo di frustrazione, è nata questa storia. Mia madre è sopravvissuta, perciò in seguito sono stata libera di strillarle contro, litigarci e augurarle la morte, da brava adolescente; sono una persona molto riconoscente. Ti voglio bene, mamma.

Però sì. Nel corso dell’ultimo anno o giù di lì hanno avuto luogo concitate discussioni tra me e il mio stimato beta-reader, che è anche mio fratello. I fratelli sono i migliori beta-reader del mondo. Si sedeva al computer e gridava incoraggiamenti come: “Stupida pezza di merda, Yuffie questo non lo direbbe mai” e “Vincent è una sagoma di cartone. Dagli una personalità prima che diventi la storia di Yuffie The Personality Vampire. Oh, e fai schifo, e non sai scrivere, e sei stata adottata.”

La discussione sul finale si è svolta come segue:

Io: “Allora, come la finisco SiW?”
Lui: *pensieroso* “Beh, Yuffie può essere rapita dall’Uomo che corre, e Reno può scoprire che l’antagonista principale femminile è in realtà la moglie da cui si è separato.”
Io: “Sei completamente inutile. E mamma non ti ha mai voluto bene.”

Ora, per i ringraziamenti promessi, perché questa fanfic è stata alimentata dalla Mountain Dew, dalla venerazione delle mie bambole di Yuffie e Vincent nella speranza che gli elfi scrivessero il capitolo successivo, e – in maniera più significativa – dai miei recensori. Mi rendo conto che questa serie di note sta diventando più lunga di alcune delle mie fanfic, ma siate clementi; devo dirlo.

Per e grazie a:

Lascerei un messaggio a tutti, ma non credo che potrei dirvi qualcosa di abbastanza significativo. Solo… grazie, grazie a tutti. Ci sono alcuni di voi che sono stati con me e con questa fic per anni; conosco i vostri nomi e vi ringrazio dal profondo del mio cuore. Prendete tutti un grosso biscottone.

Per Yuffie Valentine, che per prima l’ha accettata in un archivio e l’ha apprezzata, e detiene la mia più profonda ammirazione.

Per i fan di Yuffie di ogni dove, e per i fan di Vincent, perché lo sapete che siete troppo fighi.

Piett/Andrew, grazie per essere un fantastico fratello e un fantastico beta, e per avermi lasciato un primo brandello di critica costruttiva (attraverso un nome falso. Tim?!) … Rimani comunque un coglione. E ho mentito quando ho detto che eri un buon fratello, fai cagare. Non credetegli, la storia della mousse al cioccolato è una menzogna. … Okay, non è vero, ma questo è un segreto tra me e voi, va bene, ragazzi?

E grazie alla libertà, all’amore, alla caffeina, e all’equivalente di tutti del chocobo di lana!

- Guardian



Note della stimata (?) traduttrice: JEEZ, CHE PARTO. xD Non voglio nemmeno andare a vedere la data di pubblicazione del primo capitolo su SoaP, penso mi vergognerei troppo xD
Miei eventuali commenti sulla storia rischierebbero di essere lunghi e incoerenti, per cui stavolta vi grazio. Dico solo che, se anche a tratti sono stata molto incerta su questa storia, alla fine sono molto contenta di averla tradotta. È stato stimolante, e ora posso dire di aver tradotto un vero mostro sacro del fandom di FFVII. Ora mi manca solo una fic di Frank Verderosa o qualcosa degli anni '90 e poi posso anche morire.
Altre cose che may or may not interessarvi:
• come da rito per tutte le mie traduzioni, ho dato una risistemata ai vecchi capitoli, togliendo passati remoti YOU FUCKERS e aggiustando qua e là vari dettagli. Quindi ora è davvero riveduta e corretta forever e spero non ci siano altri errori e incongruenze perché non la controllerò mai più e BASTA SALVATEMI DA ME STESSA *sclera e muore*.
• Yuffie parla molto come parla in originale. Nel senso. Per fare un esempio, parole come “gross” e “gawd” erano caratteristiche anche dei suoi dialoghi di gioco, e non avendo noi una traduzione ufficiale dell’originale mi sono dovuta accontentare di tradurli più o meno sempre allo stesso modo per lasciar intravedere almeno la coerenza della voce di Yuffie (nella fattispecie variazioni su “schifo” per “gross,” “oddio/diiio” per “gawd”).
• in questa storia ci sono dei reperti “storici” del fandom inglese di Final Fantasy VII, ormai completamente irriconoscibile e frammentato. Ogni battuta di Cid, per esempio, che io in italiano ho esplicitato per coerenza stilistica, contiene almeno un “@#$%”, rispettando le singolari scelte della traduzione originale. Oppure ci sono parole giapponesi a caso (va detto, nel contesto di Wutai che le giustifica ampiamente), oppure ci sono commenti su Cloud che oggi fanno impressione per quanto è tristemente deviato il personaggio nell’immaginario collettivo. Non parlo nemmeno del Cloti come coppia serena e affiatata perché, ecco, lo sappiamo tutti perché xD
• questa storia in originale è finita esattamente dieci anni fa, il 25 ottobre del 2002. PAURA.
• Sunshine in Winter è sempre stata una delle poche storie mai scritte in cui questo pairing non mi fa digrignare i denti con astio, anzi. E questo nonostante i suoi limiti e nonostante non sia nella maniera più assoluta il mio genere.
Penso sia più che altro perché Guardian scrive la Yuffie migliore di sempre, in salute e in malattia, cosa che mi fa perdonare e amare più o meno tutto.
• spero vi sia piaciuta. E anche se non rispondo sempre a tutti personalmente perché mi sembra di invadere uno spazio non propriamente mio, vi ringrazio anche per i complimenti sulla traduzione vera e propria, sono sempre benaccetti e incoraggianti :)

Alla prossima,
youffie

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