Ali nere

di BrokenArrow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In gabbia ***
Capitolo 2: *** Circostanze ***
Capitolo 3: *** Sotto la pioggia ***



Capitolo 1
*** In gabbia ***


 
L’odore. Quando aprii gli occhi, l’unica cosa che sentii fu quell’ odore pungente di sangue fresco, il mio sangue. Sentii un dolore lancinante lungo tutta la schiena, la testa pesante e stordita. Con i pochi sensi che mi erano rimasti capii di essere appeso a qualcosa.
Ma non ebbi la forza di muovermi, di reagire. Delle catene d’acciaio mi tenevano legati i polsi, le caviglie, tutto quanto il corpo. Ero sospeso a mezz’ aria, in gabbia, come un uccello non più libero di volare e, come se non bastasse, ero a petto nudo e avevo freddo. 
La realtà in cui mi ritrovai fu completamente estranea ai miei occhi. Ma sentivo una sensazione inspiegabile, di colpa. E questa colpa, di cui mi ero macchiato inconsapevolmente, gravava su di me come un marchio eterno e indelebile. 
Mi chiesi se ci fosse un destino peggiore della morte… non lo sapevo. 
L’uomo che mi aveva ridotto in questo stato non lo conoscevo ma intuivo fosse potente. Potevo solo vagamente immaginare ciò che mi aveva fatto pochi minuti prima nella penombra silenziosa. Aveva sussurrato parole confuse, deboli, somiglianti a formule magiche e solenni, apparentemente senza senso. Eppure quelle parole, nello stesso tempo in cui venivano pronunciate, le sentivo bruciare sulla mia pelle come braci ardenti. 
Con grande sforzo riuscii ad aprire gli occhi ma tutto ciò che vidi fu l’oscurità. C’era solo la luce della luna che entrava dalle inferriate di un’enorme grata e si proiettava sul pavimento, come una scacchiera di ombre. 
La mia testa era affollata di ricordi e immagini troppo confusi da ricomporre, come in un semplice puzzle. Tutto quello che era successo e che non riuscivo a ricordare sembrava il ricordo di un sogno, lontano ed evanescente e troppo estraneo per sembrare reale. 
Ricordai solo la voce di un uomo che mi aveva sorpreso alle spalle, dicendomi che me l’avrebbe fatta pagare cara, ma non ero riuscito in tempo a girarmi per vedere il suo volto, che qualcosa mi aveva colpito alla testa. 
Nel breve arco di tempo in cui ero ritornato cosciente mi ero ritrovato legato in questa cella e mentre l’uomo aveva pronunciato quelle parole incomprensibili, avevo sentito la mia schiena dilaniarsi e un dolore indescrivibile mi aveva fatto urlare, attraversandomi tutto il corpo come una scossa elettrica, fino a che non avevo perso di nuovo i sensi. Ora mi avevano lasciato solo e ferito, in questa stanza buia.
Il silenzio rotto dal mio respiro irregolare e dal battito frenetico del mio cuore. Sentivo il sangue scivolare lungo la schiena pizzicandomi le ferite aperte, per poi cadere a terra senza alcun rumore. Mi parve di avere il corpo svuotato da quanto ne avevo perso. 
Prima il dolore era lentamente diminuito ma ora stava inspiegabilmente aumentando. Sapevo che quasi sicuramente stavo morendo ma non volevo pensarci. La morte si sarebbe presa cura di me, scivolando tra le pareti, pronta ad accogliermi. Avrebbe fatto cessare l’agonia e il dolore in cui ero immerso. Così pregai che arrivasse il più velocemente possibile, ma non fu come speravo.
Minuto dopo minuto, nello stesso momento in cui il dolore raggiunse il suo apice, sentii le forze ritornare e all'improvviso mi resi conto, con orrore, che qualcosa stava iniziando a crescere sulla mia schiena. Sentii la pelle spaccarsi, come se fossi stato attraversato da una crepa profonda. Il movimento interiore che fecero le mie ossa mi fece contorcere dal dolore. 
Ero completamente spiazzato. Non sapevo se questa fosse la morte, ero solo consapevole che il mio corpo si stava trasformando, percosso da violenti spasmi e tremiti. 
I pori della mia pelle avevano cominciato a dilatarsi e nello stesso istante in cui le catene cedettero e caddi per terra, ebbi la sensazione di avere la schiena pesante. 
Mi sentivo diverso. Le ferite si erano rimarginate in pochissimo tempo. 
Confuso, mi avvicinai brancolando nel buio verso la luce lunare riflessa sul pavimento gelido. Quando la mia ombra si rifletté per terra, fui spaventato e incredulo di ciò che vidi, come un cieco che vede il mondo per la prima volta. 
All’ altezza delle spalle, dall’ incavo delle scapole, spuntavano un paio di ali nere. 
"Ma cosa…" Le mie parole uscivano a stento, soffocate dall’ orrore che provai in quel momento. Impotente di fronte a quell’ ombra che non mi apparteneva, mi piegai a terra e sbattei forte i pugni. Lacrime amare che non potevo fermare, scesero a fiotti, impregnando la pietra opaca. 
Mentre prima avevo sentio le forze ritornare, ora non ne possedevo più, nemmeno un briciolo. Mi sentii come un contenitore senza alcuna utilità, svuotato da quella triste verità che ora mi apparteneva e che mi avrebbe segnato per sempre. 
Ora lo sapevo... destino peggiore della morte era la dannazione eterna.
 
 
۞
 
Mi ero trasformato in una creatura non terrena, costretta a vivere nell’ ombra. Mentre prima non potevo credere alla magia, ora ero costretto a farlo. La sentivo dentro di me come un seme che mette radici solide e che germoglia in poco tempo. 
Non potevo credere a ciò che ero diventato. Gli angeli non potevano esistere. Esistevano solo nella Bibbia ed erano i messaggeri di Dio. Rimasi immobile per un po’, poi provai a muovere le ali. Le spiegai e con un piccolissimo sforzo ondeggiarono avanti e indietro. 
Non so come ma ci riuscivo, e senza fatica. Il mio sguardo era fisso nel vuoto, perso, distante. 
A stento riuscivo a credere di essere io a muovere il mio corpo e che a farlo non fosse qualcun altro. 
Mi chiesi per quanto tempo sarei dovuto rimanere qui dentro, ma decisi di non aspettare una risposta. Mi alzai su un ginocchio e subito mi sollevai da terra con un lieve battito d’ali. Fui circondato da un turbinio di piccole piume nere che caddero, ondeggiando lente sul pavimento. 
Mentre salivo sempre più in alto verso la grata, mi sentii avvolto da un silenzio magico e altisonante. 
Arrivai di fronte ad essa e, concentrando tutta la mia forza, scrollai le sbarre che cedettero all’ istante come prima avevano fatto le catene in cui ero avvinghiato, come fossero diventate di gomma piuma. Scaraventai a terra la grata che fece un rumore sordo. Il passaggio era stretto ma riuscii comunque a passare piegando le ali. 
Sebbene volessi andarmene da quel posto, mi sedetti un istante sull’ orlo del varco che mi ero aperto per contemplare l’alba nascente che avevo di fronte. Appoggiai la testa al muro e chiusi gli occhi. 
I raggi solari sfioravano all’ orizzonte la vegetazione della foresta che si estendeva per molti chilometri. Il tepore del sole ancora dietro le montagne mi inondò il viso, accompagnato da piccoli e leggeri soffi di vento. Tutto intorno a me non era cambiato di una virgola, la natura procedeva incessante il suo corso. 
Mi alzai in piedi e, facendo un passo nel vuoto, mi lasciai precipitare in basso ma quando arrivai a meno di un metro da terra con un battito d’ali spiccai il volo. Sapevo dove il vento mi avrebbe condotto: prima che il sole sorgesse sarei dovuto tornare a casa. Mi spinsi in alto, nascondendomi dietro le nuvole dense, segno di una pioggia imminente. 
Volare era una sensazione mai provata prima da qualunque essere umano. Sentivo tutti i pori della mia pelle più rarefatti come se il mio corpo stesso fosse diventato della stessa sostanza dell’aria in cui ero immerso. Provavo una sensazione di libertà assoluta ma mi sentivo avvolto da un velo di tristezza. Non sapevo se sarei stato capace di controllare la “trasformazione”. 
C’era un pensiero costante che più di tutti mi preoccupava: la paura di rimanere solo per tutta la vita. Forse sarei stato costretto a nascondermi per sempre lontano dal mondo in cui ero nato, dalle persone tra le quali avevo vissuto, ma non volevo pensarci per il momento. 
Sospeso in cielo, tra una nuvola e l’altra, vidi tutta Salem ancora addormentata. Tra un gruppo di case vicino al centro scorsi la mia; mi precipitai giù in picchiata e in meno di un secondo atterrai in giardino. Avevo acquisito una velocità e un’agilità sbalorditive e questo mi permetteva di rimanere quasi invisibile all’ occhio umano. 
Raggiunsi con passo felpato la porta sul retro, nella veranda che dava su un affluente del fiume Willamovit. Sotto il porticato c’era un vaso di terracotta con delle maestose orchidee bianche. Lo spostai da una parte e sotto di esso vi trovai la chiave di riserva. Nascondiglio vecchio stile ma sempre efficace. 
Entrai in casa goffamente per via delle ali che passavano a fatica nella stretta porta. Nella penombra cercai l’interruttore della luce e lo accesi. Dopo aver appoggiato la chiave sulla mensola dell’ingresso, tirai un sospiro di sollievo: finalmente ero a casa. 
Mi diressi verso la mia camera da letto. Rinunciai a fare una doccia, tanto non ci sarei entrato. Sconfitto dalla stanchezza, mi lasciai cadere sul letto come un peso morto, senza cambiarmi. Le ali erano piuttosto ingombranti anche se, steso sul letto, era come se non ci fossero mai state. 
Le lancette della sveglia segnavano le cinque del mattino. Mi rigirai nel letto più volte cercando di dormire, ma quella foto sul comodino mi stava tormentando ormai da troppo tempo, costringendomi a non distogliere lo sguardo. Raffigurava i miei genitori ed era stata scattata in giardino dal sottoscritto, un giorno d’estate. Osservai il viso mia madre sbiadito dal tempo ma ancora così vivo che, dopo aver piantato in giardino una miriade di fiori dall’ odore quasi nauseante, aveva un’espressione soddisfatta e sorridente, quasi a suggellare quel suo piccolo trionfo. Mio padre invece le stava dando un bacio amorevole sulla guancia, come premio del lavoro svolto. Quel ricordo di un anno fa mi invase come un ondata tiepida di calore. Li avevo immortalati così, in quella posa perfetta, in quel piccolo gesto quotidiano. Felici. 
Se mai qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il vero amore, avrei risposto che i miei genitori erano per me il vero significato della parola amore. Un amore che chiunque avrebbe sognato, compreso me. Duraturo, costante e che non avevano potuto trasmettermi a lungo, ma solo per qualche breve anno di felicità. 
Mi avevano lasciato solo, senza preavviso. Un incidente d’auto li aveva uccisi entrambi mentre erano di ritorno dalla California per le loro nozze d’argento. Si erano lasciati dietro la solitudine, ormai diventata parte del mio essere. Una rabbia smisurata mi aveva assalito quando lo seppi da mio zio Jared, qualche ora dopo l’incidente. 
Ero in casa ad aspettarli mentre guardavo un noioso film alla tv, ma un brutto presentimento mi avvertì, quando non li vidi tornare. E così arrivò quella telefonata che aveva rotto il silenzio nel soggiorno e alla quale ci misi un po’ a rispondere. 
Man mano che rievocavo quei ricordi ancora così vivi nella mia mente sentii le palpebre pesanti e a poco a poco, senza accorgermene sprofondai nel sonno, evadendo per un po' dalla realtà.
 
۞
 
Hayden non poteva sapere che, lontano, nel magazzino in cui era stato imprigionato, un uomo era entrato nella cella con due rottweiler al suo fianco, bramosi e affamati. 
Fuori era ormai giorno e dei trasparenti raggi di luce entravano esuberanti dalle inferriate della cella. L’uomo aveva un espressione indecifrabile dipinta sul volto, lo sguardo fisso sulle catene scardinate e sulle piume nere, immobili sul pavimento.
"Il pasto è saltato, miei cuccioloni..." Lasciò andare i due cani che subito si lanciarono sulle piume rimaste, litigandosele brutalmente. 
Davanti a tanta ferocia l’uomo sogghignò compiaciuto e si girò di spalle allontanandosi, seguito immediatamente dai due mastini trotterellanti. 
Le piume ridotte ormai a un cumulo di resti quasi inesistenti.

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Capitolo 2
*** Circostanze ***


 
 
Quando mi risvegliai il sole aveva già investito gran parte della mia camera con i suoi sottili raggi di luce che filtravano dalla persiana. Non mi sentii per nulla riposato, ero solo un po’ meno stanco di prima. Mi girai su un fianco e guardai l’orologio sul comodino: l'una passata, troppo tardi per andare a scuola. Mi misi supino e rimasi per un po’ a fissare la parete azzurro chiaro davanti a me, con affisso un poster dei Pantera di qualche anno prima.
Avrei voluto essere come quel pezzo di carta. Era rimasto lì, intoccabile. Il corso del tempo non lo aveva trasformato, magari era un po’ ingiallito, ma era ancora lì, come sempre, incurante del mondo.
Phil, il cantante della band metal, mi squadrava e sembrava volesse urlarmi qualcosa, incitarmi ad alzarmi e a continuare a vivere, come avevo sempre fatto, anche se con una piccola eccezione: ora ero cambiato, qualcuno mi aveva affibbiato un paio di ali, come se non avessi già abbastanza problemi. Stufo di girarmi i pollici, decisi di ascoltare Phil. Feci per sedermi sul letto e mi accorsi delle piume nere sparse sul letto solo dopo averle toccate. Un pensiero lampante mi passò in mente. Mi sfiorai la schiena e per la prima volta dopo la notte trascorsa, sorrisi.
Le ali erano scomparse e io non le avevo sentite chiudersi dentro di me. Com’era possibile? Ora ci capivo ancora di meno. Forse mi sarei potuto controllare in qualche modo. O forse la mia trasformazione era legata alla notte, mentre di giorno sarei ritornato il ragazzo di sempre, quello che suscitava pietà ogniqualvolta incrociasse lo sguardo di qualcuno che sapesse. Il ragazzo bravo a scuola e quasi sempre composto, simpatico alla gente e forse un po’ invidiato. Tutto sarebbe stato come prima, come se quelle ventiquattro ore fossero state cancellate per sempre dalla faccia della terra. Non potevo saperlo, ma soprattutto mi spaventava il fatto che non ero in grado di prevedere quando mi sarebbero rispuntate le ali e lo avrei scoperto soltanto quando sarebbe venuto il momento.
Sfiorai una piuma nera, la presi e l’osservai attentamente nel palmo della mia mano. Non potevo credere che una piuma tanto liscia e fragile, simile a quella di un corvo, fosse diventata tutto a un tratto parte del mio corpo.
Sentivo agitarsi dentro di me emozioni contrastanti. Non potevo negare che ciò mi suscitasse frustrazione e rabbia ma, pur essendomi estraneo questo nuovo corpo, volevo fuggire dalla monotonia che mi attanagliava già da troppo tempo. Forse sarebbe stata questa novità inaspettata a spezzare i miei giorni, sempre più uguali e ripetitivi.
La prima cosa da fare era senza dubbio scoprire chi fosse l’artefice di tutto questo; sapevo benissimo che non sarebbe stato per nulla facile ma la presi come una sorta di sfida nella quale avrei combattuto sotto forma di un nuovo essere. In un certo senso mi sentivo più sicuro e potente di quanto non lo fossi mai stato prima e questa certezza mi tranquillizzò un po’.
Mi alzai dal letto e con passo strascicato raggiunsi il bagno. Guardandomi allo specchio vidi il me stesso di sempre e anche questa evidenza mi rassicurò un poco. M’inondai il viso di acqua gelida, convinto che questo fosse il miglior modo per togliermi la spossatezza di dosso, ma funzionò ben poco. Ne approfittai per farmi una doccia che riuscì a svegliarmi del tutto. Mi asciugai velocemente i capelli sistemandomi i neri ciuffi ribelli che ogni mattina trovavo sempre nelle posizioni più strane. Presi dall’armadio una camicia azzurra e me la misi lasciandola leggermente sbottonata.
Il mio stomaco brontolò, protestando per la fame, perciò raggiunsi il soggiorno, accesi la tv e mi fiondai in cucina per prepararmi delle uova col bacon. Ci misi un attimo, soddisfatto delle doti culinarie ereditate da mia madre, anche se preparare due cose in croce non era un impresa da eroe, ma prima o poi qualcuno avrebbe avuto l’onore di apprezzare i miei piatti, ne ero certo. Mi sedetti nel tavolo del soggiorno e, mentre degustavo la colazione che mi ero cucinato, fui catturato dalla notizia che stavano dando al telegiornale locale. Una giornalista poco esperta stava annunciando un omicidio.
"Trovata una donna venticinquenne sbranata da due rottweiler nei pressi di Boundary Street a Salem. I mastini dopo aver aggredito anche un passante, ora in gravi condizioni, sono fuggiti senza lasciare tracce. La donna è stata trovata dissanguata in mezzo a un mare di piume bianche. Non è ancora stato svelato il motivo di questa particolare circostanza, che si crede sia stata una coincidenza, sta di fatto che le autorità stanno facendo il possibile per ritrovare i due mastini e un possibile colpevole dietro a questa macabra vicenda."
Seguiva poi una fotografia della donna con sotto scritto il suo nome: Clare Geralds. Era bionda, con una pelle diafana e ancora giovane e sorrideva, forse anche troppo, alla morte che l’aveva reclamata.
Spensi la tv e rosicchiai il bacon, pensando a quella strana circostanza in cui era stato ritrovato il cadavere di quella donna: in mezzo a un mare di piume, aveva detto la giornalista. Nel caso non si fosse trattato di una coincidenza che nesso avevano delle piume con un omicidio? Senza contare che non era stato visto un assassino vero e proprio ma solo due mastini con istinti omicidi.
Nel caso ci fosse dietro un assassino, allora si sarebbe trattato di uno schizofrenico che si era voluto divertire un po’. Nel caso fossero stati esclusivamente i due cani ad aggredirla, allora si sarebbe solo trattato di pura casualità, seppure insolita. Forse degli uccelli assassini avevano banchettato sul suo corpo. Scrollai la testa. Era una spiegazione poco plausibile e troppo fantasiosa. Mi sforzai di pensare ad altro, ma non ci riuscivo. Quella notizia mi aveva lasciato un vago senso di inquietudine e turbamento.
Il silenzio del soggiorno era rotto dal ticchettio incessante e monotono dell’orologio a pendolo accanto alla libreria, cosa che faceva aumentare il mio disagio.
l tempo passava e non riuscivo a togliermele dalla testa. Piume. Le stesse che ora erano diventate parte di me. La mia testa si riempì di supposizioni e ipotesi a cui nemmeno io volevo credere e a cui non volevo dare ascolto. Sperai che si trattasse solo di una coincidenza. Chiusi gli occhi per concentrarmi e lo ripetei più volte nella mia testa. Solo una coincidenza, una fottutissima coincidenza. Ma anche dopo averlo ripetuto cento volte, non mi sentivo affatto convinto.
Stavo sgombrando il tavolo quando i miei pensieri furono interrotti bruscamente da qualcuno che bussò forte alla porta. Andai ad aprire, sperando di non trovarmi davanti il solito venditore di cianfrusaglie inutili o peggio ancora un falso mendicante.
“Ehilà! Come andiamo, Hayden?” Mio zio Jared mi salutò con un sorriso smagliante stampato in faccia.
“Ciao zio, a che devo l’onore di questa visita?” chiesi, sarcastico.
“Vedo che sei sempre di buonumore!” mi rispose, con un sorriso per niente turbato.
“Volevo sapere come stavi, tutto qua.” Eccola. La domanda che tutti quelli che incontravo mi facevano sempre e a cui rispondevo sempre mentendo, che stavo bene, ma a lui non potevo mentire.
“Come vuoi che stia? Non c’è affatto bisogno che tu me lo chieda…” dissi, cercando di mantenere un tono educato. Ma era difficile.
“Hai ragione, scusami. Allora? Hai intenzione di farmi entrare o mi lascerai qui per sempre?”
“Vorrei tanto lasciarti qui sulla porta, ma dato che sei il mio tutore e visto che io sono molto “intelligente”, mi tocca proprio farti entrare.”
“Che nipote simpatico che ho!" disse, ridendomi in faccia. "A proposito, non hai ancora fatto aggiustare il campanello…” Mi guardò di traverso, con un tono di lieve accusa e rimprovero.
“Prima o poi lo farò.”
“Ah…se non ci fossi io” stava finendo la frase ma io lo interruppi.
“Già, se non ci fossi tu…” gli dissi con un sorrisetto, lasciandogli illudere il seguito della frase. Accennò un sorriso, mostrando due piccole fossette, una caratteristica di famiglia.
Lo feci entrare e subito si accomodò sul divano. Si guardò intorno per un po’ ad ispezionare la casa come un assistente sociale poi sfogliò una rivista di moto che lasciò perdere quasi subito.
Mi sedetti anch’io sul divano di fronte a lui e l’osservai di nascosto per un istante. Sembrava tormentato da pensieri irraggiungibili e impenetrabili che sembrava non volessero lasciarlo in pace. Si guardò un po’ intorno e il suo sguardo si soffermò sul pianoforte a coda davanti alla vetrata che dava sulla veranda. Sapevo cosa stava per chiedermi.
“Non l’hai più suonato?” mi chiese. Gli occhi ancora fissi sul pianoforte. Sembrava ipnotizzato.
“No…” risposi. Tornò improvvisamente a guardarmi come se avessi schioccato le dita davanti ai suoi occhi e lo avessi risvegliato dalla trance in cui era immerso.
“E’ davvero un peccato, lo sai? Hai sempre avuto un talento speciale per la musica e tuo padre se n’era accorto.”
Non risposi. Non sapevo proprio cosa dire. Non avevo più toccato quel pianoforte da dopo l’incidente dei miei genitori. Nonostante questo, amavo suonare più di ogni altra cosa. Ogni volta che suonavo, le singole note scaturite dai tasti neri e bianchi formavano una melodia bellissima dentro di me che mi toccava l’anima. Suonare era la cosa che più mi faceva sentire vivo. Ma come potevo sopportare quella sensazione di angoscia e smarrimento ogni volta che il mio sguardo si posava su quel pianoforte? Ricordai la prima volta che avevo iniziato a suonare: la mia prima lezione. Mi apparve come in un sogno: proprio là, davanti a me, vidi un bambino eccitato, seduto sulla seggiola nera, che spingeva con le sue dita sottili dei tasti a caso, impaziente di incominciare la lezione e un uomo alto, con gli occhiali, in piedi accanto a lui, una mano appoggiata delicatamente sulla sua spalla, segno che la lezione stava per incominciare. Come potevo scacciare via quei ricordi dalla mia mente? Semplicemente non potevo, ecco.
Accortosi del mio lungo silenzio, zio Jared decise di cambiare discorso e mi spiazzò con questa domanda, diretta e tagliente come un rasoio.
“Sei sempre sicuro di voler vivere qui da solo? Non è che per caso hai cambiato idea?” Il suo volto era pieno di speranza.
“No, rimango della stessa opinione: questa è la mia casa e non ho intenzione di andarmene. E’ stata una mia decisione, se non ricordo male.” gli dissi, pronto e sicuro di quello che dicevo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospirò.
“Lo so che sei un ragazzo che nei momenti difficili si chiude in se stesso e non vuole l’aiuto di nessuno. Sei sempre stato così fin da quando eri piccolo, ma la solitudine non ti fa bene. Potresti venire a vivere con zia Gin, Ian e me...” Questa proposta me l’aveva fatta un miliardo di volte e io, un miliardo di volte, gli avevo risposto di no.
Non volevo far parte di un’altra famiglia. Ormai la mia l’avevo già persa con la morte dei miei genitori. Non sarei mai riuscito a vivere con i miei zii e il mio cuginetto. Sebbene fossero miei parenti e fosse giusto stare con loro, non ce la facevo ad accettare la sua proposta, senza contare lo spiacevole inconveniente che mi era capitato la notte scorsa. No, era proprio impossibile.
“Mi dispiace, ma non ho intenzione di venire a vivere con voi. Mi stai chiedendo troppo.”
“Ok, scusami se te lo chiedo così tante volte, è che non voglio che tu possa pensare che ti stia abbandonando dopo quello che è successo. Lo so che hai diciannove anni e se potessi ti porterei subito da me.” Aveva gli occhi colmi di disperazione e la voce quasi gli si spezzò, ma continuò a parlare. “A parte questo, quando vorrai venire a vivere con noi, sarai sempre il benvenuto.”
Nemmeno per lui era facile superare la morte di suo fratello. Quell’apparente normalità avvolta in una palla di cristallo, con cui aveva oltrepassato la soglia di casa mia, ora si era frantumata in tanti pezzi che non riusciva più a ricomporre.
Mi sentii in colpa per come mi ero comportato con lui, la persona che più si preoccupava per me e la più cara, così rimediai subito.
“Sono contento che ci sia tu con me, zio.” Lui subito si illuminò, sapendo che ero stato sincero. Un sorriso attraversò il suo viso. Dopodiché si alzò di scatto. Aveva incominciato a raccogliere i pezzi di vetro della sua palla di cristallo.
“Bene, ora sarà meglio che vada,” mi abbracciò forte, “Ian mi aspetta per la partita a scacchi, è un portento quel ragazzo!” esclamò, orgoglioso di suo figlio, come tutti i padri del resto. Sorrisi tristemente. Come mio padre.
Zio Jared assomigliava un sacco a lui. Aveva gli stessi capelli corvini, che avevamo ereditato un po’ tutti in famiglia, e le folte sopracciglia nere. Anch’io assomigliavo un po’ a mio padre, a parte gli occhi chiari che avevo ereditato da mia madre. Mio zio invece gli assomigliava persino nel carattere: era sempre ottimista e spensierato.
Seguii zio Jared fino all’ingresso e prima di varcare la soglia sobbalzò di colpo, facendo sussultare anche me che gli ero dietro.
“Ah! Quasi dimenticavo, hai sentito dell’omicidio della scorsa notte? Quello operato da due rottweiler? incredibile, non è vero?” Sussultai ancora, non appena sentii di quale omicidio si trattava.
Per un po’ di tempo zio Jared mi aveva fatto dimenticare la vicenda e ora era proprio lui che me la faceva tornare in mente.
“Sì, l’ho visto mezz’ora fa alla tv.” Risposi, con aria falsamente indifferente.
“E’ sconcertante che una cosa del genere sia accaduta proprio a Salem! E poi quelle piume trovate intorno e sul corpo di quella donna… uno cosa dovrebbe pensare?” mi chiese con aria interrogativa e piuttosto indagatrice come se da me si aspettasse veramente una risposta.
“Non ne ho la minima idea.” dissi secco. In realtà un’idea ce l’avevo, ma era veramente azzardata e non osavo esporla.
“Nemmeno io, ci vediamo, Hay.” Uscì dalla porta.
“Ciao, zio.”
“Stammi bene, d’accordo?” mi disse, apprensivo, mentre era già sul marciapiede della strada.
“Ci proverò.” gli risposi accennando un sorriso forzato e chiusi la porta. Mi appoggiai con la testa ad essa, gli occhi fissi sul soffitto. Restai in attesa, i passi di zio Jared che si allontanavano sempre più. Passò un minuto, poi due. Chiusi gli occhi esausto e sospirai, scivolando giù fino a terra.
Mio zio aveva ragione, ero solo. La mia vita sociale si era ristretta a casa e scuola. Uscivo sempre meno spesso, se non per le cose necessarie come comprare da mangiare, andare a scuola, fare benzina e solo altre cose di prima necessità. Certe sere, quando non riuscivo a dormire, uscivo di casa, salivo sulla mia moto e sfrecciando come un pazzo raggiungevo la costa, fino ad arrivare a Lincoln City. Amavo quel posto, soprattutto amavo camminare sulla spiaggia, resa selvaggia dalle onde furiose del mare che minacciavano di inghiottire le case costruite sulla sabbia, e dalle scogliere impervie a strapiombo sul mare. C'erano volte in cui mi fermavo per ore a contemplare il moto infinito di quelle onde, inspirando piacevolmente la fresca aria della notte. In quel posto apparentemente perfetto, spesso perdevo la cognizione del tempo e capitava che rimanessi semplicemente ad ascoltare, tutta la notte, per poi ritornare a casa all’ alba. Amavo quelle notti insonni, fuori di casa, perché il posto in cui mi trovavo era esattamente dove avrei voluto essere in quel momento, lontano dal mondo e da tutti. Senza un'anima viva nel raggio di chilometri. Solo io e il mare.
Però zio Jared aveva ragione: mi stavo chiudendo sempre di più in me stesso. Una tartaruga nascosta nel suo guscio che non aveva la minima voglia di uscire allo scoperto, ecco cos’ ero diventato. Sapevo che sarei peggiorato e questo non lo volevo di certo, ma non trovavo più una ragione per cui valesse la pena vivere. Per chi dovevo alzarmi ogni giorno e vivere la mia vita? Per i miei zii, per i miei amici, certo, ma per chi altri? Per me stesso? Avevo smesso di pensare a me stesso già da un bel po’.
Sentii un lieve pizzicore negli occhi: senza accorgermene era scesa qualche lacrima. Mi asciugai velocemente con la manica della camicia. Non volevo sfogarmi in questo modo. Dovevo trovare un modo per liberarmi da questa angoscia ormai divenuta quasi sempre presente. Non volevo restare in questa situazione per sempre, avrei trovato un modo.
Mi convinsi di ciò e andai in camera mia. Pescai una felpa a caso dall’ armadio e per prima cosa decisi di uscire.
Con decisione sbattei forte la porta, lasciandomi alle spalle la casa che ormai era diventata la mia tomba.
 

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Capitolo 3
*** Sotto la pioggia ***


 
Salem non si poteva considerare una metropoli come Portland, ma aveva comunque il suo ben da fare. Era una della città più dinamiche di tutto l’Oregon, di fatto era la capitale e contava circa 150.000 abitanti. Sorgeva nella fertile Willamette Valley, una delle aree agricole più produttive al mondo e il soprannome che venne dato alla città fu “Cherry City”, la cosiddetta “città delle ciliegie”. Casa mia si trovava vicino al centro, esattamente su uno degli affluenti del fiume ed era una di quelle costruzioni risalenti all’epoca vittoriana. La mia famiglia e i miei antenati vivevano in quella casa fin da quando si insediarono le prime comunità di coloni nel 1840 e quando la zona era abitata solamente dai nativi.
Mentre attraversai un vasto viale alberato, le foglie autunnali sotto i miei piedi scricchiolarono al contatto, secche e rumorose. L'autunno è sempre stata la mia stagione preferita, con quelle foglie dai colori caldi e di per sé vivaci, ma allo stesso tempo spenti, perché immersi in un’atmosfera tetra e silenziosa. E’ una stagione che induce alla riflessione, che mormora nel soffio del vento e scricchiola nelle foglie cadute.
Col mio solito passo veloce, in poco tempo arrivai in centro e decisi di vagare senza una meta, trasportato dalla marea dei passanti. Mi piaceva osservare la gente, sbirciare nei loro sguardi, nei loro atteggiamenti, e a volte provare a carpire i loro stati d’animo, la loro essenza. Ho sempre pensato che le persone sono come biglie colorate: ognuna ha il suo colore, la sua sfumatura, la sua luce. Sono diverse, eppure tutte della stessa forma e apparentemente uguali. Ma non appena guardi più a fondo, dentro il vetro, ti accorgi che ognuna di esse ha dentro di sé qualcosa di speciale, che la rende unica e diversa da tutte le altre. Mentre camminavo osservai queste persone, e purtroppo mi resi conto che esse mi passavano accanto, incuranti l’una dell' altra, compreso me. Ognuna di loro aveva la sua vita e di quella degli altri pareva non interessare a nessuno. C’era chi correva all’ ultimo minuto per non rischiare di perdere l’autobus o il taxi. Chi usciva dai supermercati e dai negozi con borse piene della spesa o chissà cosa. Uomini e donne d’affari che vestivano in giacca e cravatta sempre col cellulare all’ orecchio. E poi c’erano famiglie, coppie, delle persone così legate da essermi estranee. Tutti avevano un ruolo importante o meno in questo mondo e io sentivo di non farne più parte, soprattutto dopo quello che era successo. Loro erano così umani e io mi sentivo così diverso…
C’era una sola persona che in questo momento avrebbe potuto essermi di conforto, che mi avrebbe sempre accolto a braccia aperte: Matt, il mio migliore amico. Frequentavamo entrambi le stesse lezioni alla North Salem High School e avevamo lo stesso gusto in fatto di musica.
Quell’ anno, un giorno di maggio, avevamo marinato la scuola con Kyle e David, altri due nostri compagni di scuola, per andare al concerto dei Guns N’ Roses a Portland, infischiandocene che il giorno dopo ci sarebbe stato il compito in classe di matematica. Avevamo evitato quello che sarebbe stato altrimenti uno schifo. Col primo treno che ci era capitato ci recammo sul posto del concerto e dopo una notte indimenticabile eravamo tornati la mattina dopo, esausti per il viaggio. Quella sì che era stata una notte pazzesca, una delle migliori. Alzai gli occhi: il cielo infinito era ora ricoperto da nuvoloni grigi. Fra poco avrebbe incominciato a piovere e sarei dovuto rincasare al più presto, ma non mi importava. I temporali qui a Salem, e in tutto l’Oregon, erano micidiali. Arrivavano all’ improvviso e non facevi in tempo a ripararti sotto qualcosa, che ti ritrovavi già bagnato fradicio, dalla testa ai piedi. Decisi di ignorare il rombo dei tuoni che, prepotenti, iniziavano a farsi sentire. Continuai a camminare più veloce verso la zona dove abitava Matt. A un certo punto fui attirato da una lattina di birra abbandonata per la strada e iniziai a calciarla a destra e a manca, ma dopo qualche minuto mi stancai e la lasciai in pace. In giro c’era pochissima gente e i negozi si erano svuotati. Sembrava che la città si stesse preparando a una catastrofe naturale, mentre in realtà stava soltanto cercando di evitare un po’ di pioggia innocua.
Stavo attraversando un incrocio quando dal cielo incominciarono a cadere leggere gocce di pioggia che subito dopo qualche secondo diventarono sempre più forti, fino a formare delle impetuose cascate d’acqua. Ecco cosa intendevo per temporale dalle nostre parti. Tirai su il cappuccio della felpa e un fulmine squarciò il cielo etereo e grigio, seguito dal brontolio sommesso e profondo del tuono.
Ora si che mi sentivo meglio, sotto la pioggia e circondato dal rumore dei tuoni: corrispondevano esattamente al mio stato d’animo. Sembrava quasi che capissero come mi sentivo.
Il freddo si fece più intenso e fui costretto ad accelerare un po’ il passo. Le gocce di pioggia insistenti mi colpirono ripetutamente dappertutto.
Ero ancora in una delle strade principali quando, appena girato l’angolo, che dava su High Street, non feci in tempo a scansarmi che qualcuno mi arrivò addosso, ansimante. Una ragazza minuta mi arrivò in pieno petto. A metà tra l’imbarazzo e la sorpresa si staccò subito e fece un passo indietro.
“Scusa!” sussurrò senza fiato, come se avesse appena corso per chilometri. Dopodiché alzò immediatamente lo sguardo per vedere chi fossi. Rapito da quella voce imbarazzata, incrociai un paio di occhi verdi.
Rimasi di sasso. Quei lineamenti dolci e marcati allo stesso tempo, le labbra sottili, le folte sopracciglia scure e i folti capelli, tutto di lei mi suggeriva di averla già incontrata. E cosa forse ancora più strana, mi sentivo irrimediabilmente attratto da quella ragazza che mi stava di fronte, aspettando che dicessi qualcosa. Era assurdo e incomprensibile. Una forza invisibile ma potente mi teneva inchiodato lì, davanti a lei, come se la forza di gravità fosse aumentata di colpo sotto i miei piedi. Quasi non riuscii a parlare.
“Figurati.” Risposi dopo un po’, più turbato del dovuto.
Avevo la voce tremante e il respiro mozzato. Sperai che lei non se ne accorgesse. Cercai disperatamente di controllare le mie emozioni e con grande sforzo abbozzai un sorriso che lei ricambiò. Ero riuscito a malapena ad aprire bocca che mi era già passata di fianco e aveva incominciato a correre, diretta verso una meta a me sconosciuta e bagnata fradicia dalla testa ai piedi. Sentii il desiderio di seguirla, ma non lo feci.
Continuai per la mia strada, ma poi ebbi l’irresistibile impulso di girarmi un’ultima volta, prima che scomparisse per sempre alla mia vista. Con grande sorpresa notai che anche lei si era voltata e mi stava fissando.
Ma fu un attimo e continuò a correre più veloce che mai per la sua strada, fino a quando svoltò in un angolo e sparì completamente alla mia vista.
Provai disperatamente a ricordare qualcosa sul perché di quella strana sensazione di averla già vista da qualche parte. Mi concentrai con tutto me stesso. Anche se poteva sembrare solo una strana sensazione e niente di più, volevo comunque esserne sicuro. Chiusi gli occhi e fissai nella mia mente quel suo viso angelico (l’angelo ero io, che ironia eh?).
Come un fulmine a ciel sereno, ricordi vivi e temporaneamente sepolti riaffiorarono nella mia mente. Frammenti di scene accadute la sera prima affollarono la mia testa senza che io potessi fermarle. Vidi una casa in fondo a una strada, forse di periferia, che non conoscevo affatto, e vidi me stesso, trasportato verso di essa come se a muovere il mio corpo non fossi io, ma qualcun altro.
Come per quella ragazza avevo sentito un attrazione quasi mistica provenire da quel posto. Qualcosa di misterioso mi costringeva ad andare avanti e a non voltarmi indietro per nessun motivo.
Notai distrattamente quello che forse era un magazzino abbandonato, vicino alla casa. Tutta la mia attenzione era però rivolta alla veranda di quella casa, alla ragazza seduta su una panchina di legno e così assorta nella lettura di un libro, sotto la debole luce di una lanterna appesa sotto il porticato, e che avevo sbirciato affascinato da dietro un cespuglio, fino a quando lei non aveva alzato di scatto la testa verso la mia direzione, avendo percepito la mia presenza. Quella stessa ragazza che se ne era andata con la stessa velocità con cui era apparsa.
Era stato l’ultimo ricordo vivo e presente nella mia mente mentre di ciò che accadde immediatamente dopo ricordai solo quel terribile colpo alla testa, lo stesso che mi risvegliò in una realtà ben diversa e più terribile della precedente: nella cella in cui ero stato imprigionato per qualche oscuro e incomprensibile motivo. In qualche modo quella ragazza doveva essere implicata in quello che mi era successo la sera prima e forse col suo aiuto avrei scoperto qualcosa in più. Non potevano essere solo banali coincidenze. Dovevo tentare.
Improvvisamente il suono di un clacson mi riportò in strada. Una camion si fermò di colpo a qualche centimetro di distanza da me. Senza accorgermene ero finito in mezzo alla strada, proprio al centro delle due corsie e per poco non ero stato investito. Ci era mancato davvero poco.
“Stai più attento, ragazzo! Vuoi forse farti ammazzare?” La voce rozza ma bonaria del camionista mi rimproverò, preoccupato forse più per se stesso che per la mia incolumità.
“Mi scusi…”
Dove avevo la testa? Mi scansai e lui ripartì lasciandosi dietro una nuvola grigia di gas. Se volevo farmi ammazzare di sicuro non avrei scelto di suicidarmi in questo modo così doloroso, non che avessi intenzione di farlo, ma era il mio stesso corpo che aveva deciso di andarsene tranquillamente in mezzo alla strada per farsi investire. Stavo cominciando a non credere più alle coincidenze.
E se era questo il mio destino? Se l’incontro con quella ragazza misteriosa era già stato prestabilito? A poco a poco, dentro di me, si stavano facendo strada queste strane idee. E ultima, forse la più importante, forse la più inconcepibile: e se il fatto di essere un angelo implicasse la parola “immortalità”? Chi poteva dirlo, se non il destino a cui ormai mi ero completamente affidato?
 

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