Kill bill vol.3 (Il ritorno di BabyKiddo)

di Jolene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo smacco ***
Capitolo 2: *** Ricordi dal diario di B.B. ***
Capitolo 3: *** MOSTRO E BAMBINA ***



Capitolo 1
*** Lo smacco ***


L’orologio segnava le nove e venti a San Antonio, Texas.

Il temporale infuriava più che mai.

Si sentiva il mare ruggire dalla spiaggia.

Una figura solitaria percorreva Walzer street.

La rossa, appostata ad un angolo della via, l’osservava attenta ad ogni minimo movimento.

Era un uomo attorno ai quarant’anni, con un impermeabile verde ed una borsa di pelle in stile professionale.

Continuava a guardarsi intorno come se temesse qualcuno, o qualcosa. La rossa guardò nel binocolo.

Sulla valigetta c’erano incise due iniziali.

La rossa riconobbe la grafia. S.M.

Quella puttana l’avrebbe pagata per quello che aveva fatto.

Estrasse la sua colt 25 e corse verso di lui.

L’uomo si accorse appena di essere inseguito, che cadde a terra con un’espressione stupita in faccia e una pallottola infilata nella nuca.

Nemmeno un paf. Silenziatore di ultima generazione.

La rossa gli sfilò la valigetta dalle mani e l’aprì.

C’erano un mucchio di fogli: contratto di possesso degli immobili, firma della società Nibasaka, finanziamenti della missione.

Cacciò dalla tasca il coltellino e lo piantò nella valigetta.

Strappò la copertura, c’erano dollari dappertutto.

Incastrò tutto nello zaino e si calò l’impermeabile sulla testa fradicia.

-Buonanotte baby-.

Driin driin driinn

- Cazzo, stò dormendo-

Driiin driin driin

- Dannazione!-

Sophie Melignant aveva passato una nottataccia.

Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, e alle cinque del pomeriggio aveva trovato di nuovo il sonno.

Aveva lavorato per tutta la notte su quelle scartoffie, testimonianze, su come evitare certi impacci, finchè ecco che qualcuno la costringeva ad alzarsi controvoglia.

Allungò la mano verso il cordless, abbandonato sul comodino.

- Qui est là?-

- Moi je suis quelle prostituèe de ta soeur. Ciao stronza, come và?-

- Cerchi rogne, B?-

- No, cercavo te veramente-

- Che vuoi?-

- Voglio parlare con te faccia a faccia-

- Sì? Mi dispiace ma al momento sono a Taiwan per una faccenda piuttosto complicata da sbrogliare. Non so quando ce la faccio a sbrigarmela-

- Non dire merdate alla rossa. Tu adesso sei comodamente stesa sulle lenzuola di seta della tua suite numero diciotto al terzo piano dell’ Angeles Hotel.-

- Eppure ti facevo più ingenua.. certo, per i tuoi diciannove anni sei bella tosta. Ah, preferirei che la smettessi con queste espressioni da popolo dei sobborghi-

- Io sono del popolo, tu sei aristocratica. Apri la porta.-

Sophie scese dal letto a piedi scalzi camminando sulla moquette, fino alla porta. Sollevò lo spioncino. La rossa sollevò il dito medio verso di lei.

- Ce la fai ad aprire o devo chiamare i pompieri?-

La porta si aprì. La rossa scaraventò Sophie a terra in un lampo e le torse il piede.

- Volevi fregarmi, ah?-

- No qui je ne..-

- E non parlare in francese!-

- Io volevo solo creare un accordo con lui. Non sapevo se potessi fidarmi del tutto di te.. dopotutto sei sempre sua figlia.. lascia il mio piede, ti prego!-

La rossa mollò la presa con uno strattone e la guardò fissa negli occhi con aria di sfida.

- Non me ne frega niente che tu non ti senti sicura, ma se fai di nuovo una cazzata del genere ti taglio tutte e due le gambe-

- Non lo farò-

- Brava, così devi fare. E adesso prima che me ne vada ti dico una cosa: io voglio che muoia quanto lo vuoi tu. Mio padre.. io lo amavo davvero, e lei me l’ha tolto dalle braccia.

Non ha tenuto minimamente conto dei miei sentimenti. Per lei è importante solo quello che le riguarda. È piombata nella mia vita e ha distrutto tutto quanto.

Non si è mai curata davvero di me, se non per quel breve periodo d’ebbrezza dopo averlo ucciso.

Io voglio vendetta per Bill-

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Capitolo 2
*** Ricordi dal diario di B.B. ***


Riassunto capitolo precedente: La rossa uccide un uomo e s’impossessa di una valigetta che contiene importanti documenti che riguardano Sophie, l’interprete. Quindi và da Sophie e la minaccia. Cosa contengono quei documenti? Che rapporto lega Sophie alla rossa? Ma soprattutto chi è la rossa?

 

 

 

Dal diario di Baby Beatrix (B. B. Kiddo)

 

Avevo quindici anni ed ero costretta ogni mattina ad andare a scuola.

Non mi piaceva affatto, dover rimanere lì ferma su una sedia per nove ore al giorno.

Mi si addormentavano le gambe, e per ammazzare il tempo prendevo a calci il sedere di Andrei Novak che era seduto di fronte a me. 

I professori a malapena mi consideravano.

Erano in molti a pensare che fossi arrogante e strafottente, ma nessuno me lo aveva mai detto.

Mi davano sui nervi le persone che mi chiamavano Baby, che in realtà era il mio nome ma mi faceva vomitare.

 Non avevo mai preso a pugni nessuno, ma una volta avevo minacciato una ragazza del terzo anno nel bagno del primo piano con un coltello di plastica. Il giorno dopo avevo trovato un paio di ragazzi grandi e grossi ad aspettarmi al portone d’ingresso ed ero tornata a casa con un bel po’ di lividi dappertutto.

Mi piaceva da morire mettermi nei guai.

 Fare incazzare la gente era il mio passatempo preferito.

A volte durante le lezioni stuzzicavo la mia compagna di banco per farmi sbattere fuori.

Stare in giro per i corridoi era molto più piacevole che rimanere in classe.

Lì avevo conosciuto un ragazzetto nero magro come un filo che aveva una lingua che non finiva mai.

Però a differenza di tutta la merda che girava alla High street school, era proprio a posto.

 Si chiamava Jackson ed aveva un anno più di me anche se non lo dimostrava.

Ci divertivamo a bazzicare per i bagni delle ragazze e ad otturare i cessi.

Eravamo la piaga del custode, che una volta c’inseguì giù per le scale con in mano lo scopettone: avevamo svuotato il cestino della spazzatura sul banco di Jemima Wellson solo perché il suo nome non ci piaceva.

Un giorno entrammo alla prima ora e poi, con la scusa di andare in bagno ci andammo a fare un panino al Birger King per ritornare l’ora dopo. Il vice preside ci mise una sospensione per cinque giorni e pregò mia madre di andare a scuola.

Allora non avevo il minimo senso della responsabilità.

Mamma si chiedeva sempre dove fosse finita la piccola Baby, l’esserino piccolo e tiepido che le correva incontro quando rientrava a casa.

Ma la piccola Baby non esisteva più. Al suo posto c’era una Baby scomoda con i capelli rossicci e senza rispetto per niente e nessuno.

Jackson era il mio unico amico perché ci sopportavamo a vicenda. Dopo tre anni di lunga amicizia lui divenne il mio ragazzo.

C’erano parecchie bastarde che gli facevano il filo, ma non appena sentivano che stava insieme a me mollavano.

La mia fama era diffusa in tutta la scuola. Ne ero felice perché mi teneva lontana dalla feccia.

Jackson era l’unico e solo ragazzo della mia vita. Io non conoscevo il tradimento, non conoscevo l’odio, il sesso e nemmeno la gelosia.

Quello che mi animava nelle mie rappresaglie di ragazza non era l’odio ma il fastidio della mia diversità.

Io e Jackson che eravamo considerati due canaglie eravamo forse gli unici cuori puliti lì dentro.

Quando compii quindici anni per la prima volta iniziai a considerare il mio corpo come quello di una donna.

Feci un paio di nuovi acquisti tra cui perfino una gonna di pelle per cui Jackson impazziva. Non ero alta come mia madre, ma avevo i suoi stessi piedi sproporzionati ed i suoi occhi distanti.

Tuttavia presto rinunciai a tutte queste cose.

Un pomeriggio, di ritorno dal rientro pomeridiano, mi fermai alla bancarella di braccialetti di Victoria Millows.  Pioveva a dirotto.

Avevo appena preso tra le mani un modello bellissimo, ma veniva cinque dollari, e non avevo con me che cinquanta miseri centesimi. Avevo speso già tutto alla fiera di Wellington e mia madre si era rifiutata di darmi altri soldi.

Allora una donna bruna con le lentiggini sulle guance mi si avvicinò. 

“Gran bel braccialetto”
disse con uno spiccato accento texano. Poi mi guardò e mi rivolse un sorriso affabile.

“Scommetto che ti starebbe molto bene addosso”
Io la guardai speranzosa

“Crede?”

“Certo, tesoro. Perché non lo provi?”
Io me lo misi subito attorno al polso e poi tesi il braccio verso di lei.

“Davvero bello! Sarei tentata.. quasi quasi lo compri anch’io.

Ma tu prendilo intanto, sono sincera, ti dona molto”

“Quanto viene, signora?”
La signora Millows le lanciò un’occhiata truce. La odiava visibilmente. 

In realtà non aveva mai amato neanche me, quindi non mi meravigliai.

“Cinque dollari, non sa leggere?”

“Veramente” feci titubante “ Non ho abbastanza soldi..”

La donna parlò subito senza alcuna esitazione:

“Allora lascia che ti dia i soldi! È davvero un peccato, quel braccialetto sembra fatto apposta per te”

Mi sentii al settimo cielo. Non mi sembrava possibile che fossi riuscita a convincere qualcuno con tale facilità.

“Grazie!”

“Comunque puoi chiamarmi Selma”

“Piacere, Baby”

Ci stringemmo la mano.

La donna diede i cinque dollari a Victoria fissandola con sprezzo e uscimmo insieme dal negozio.

La pioggia scendeva a catinelle.

Selma aprì il suo ombrello colorato e si strinse l’impermeabile in vita.

“Hai intenzione di tornare a casa senza l’ombrello??”

“Oh, non preoccuparti, non fa nulla. Mi sono già bagnata abbastanza”
” No, dai, insisto perché ti accompagni io. In fondo non credo abiti lontano da qui”

A quel punto l’avrei volentieri invitata a levarsi dai piedi.

Iniziava ad essere irritante, ed io a provare la comune sensazione di fastidio.

Sentivo che stavo per compiere un atto liberatorio, ma d’altra parte non avevo voglia di trattare male una persona che mi aveva fatto un favore.

“ No grazie, sono capace di tornare a casa da sola”

“Forse non hai capito”
Disse allora guardandomi negli occhi mentre mi prendeva per il braccio con delicatezza.

“Ti stò chiedendo di essere gentile con me come io lo sono stata con te”
Mi divincolai furiosa e le piantai il ginocchio nello stomaco con forza.

Lei si accartocciò per terra tenendosi lo stomaco.

Io fuggii a gambe levate, e non perché avessi paura di quella donna magra, piuttosto che qualcuno mi avesse vista.

Ma mentre svoltavo l’angolo mi accorsi che due figure alte in impermeabile mi stavano inseguendo.

Non capii da dove erano sbucate fuori.

Erano molto veloci. In un attimo mi raggiunsero.

Uno di loro mi mise una benda sulla bocca, l’altro mi prese per il petto.

Scalciai e provai persino a mordere, ma la persona che mi teneva ferma era molto più forte di me.

Mi caricò dentro una macchina scura che era appena apparsa con una sgommata degna di un rally.

Allora la mia vista iniziò a vacillare.

Persi la conoscenza sul sedile di un’auto.

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Capitolo 3
*** MOSTRO E BAMBINA ***


Mi ritrovai accasciata su un pavimento sporco di terra.
Vicino a me non c’era nessuno.
Mi alzai in piedi a fatica, con la testa dolorante.
Ero in una stanza deserta, una sala fresca e ombrosa con pavimenti di terracotta.
C’era una finestra molto ampia che si affacciava su una distesa solitaria.
Compresi di trovarmi nel bel mezzo della campagna texana vedendo un paio di cavalli che ingurgitavano del fieno, poco più avanti.
Provai ad aprire la finestra ma non ci riuscii.
Poi lessi un cartello messo di proposito sul davanzale: “Se provi anche a graffiare questa o altre finestre considerati morta”
Diedi un’occhiata alla stanza. Era un po’ soggiorno un po’ cucina.
Sul piano cottura c’era una scatola di corn’n’flakes mezza spiaccicata, mentre notai sul tavolo un pezzo di carta bianca intestata a Beatrix Kiddo, 31 Washington boulevard, Dallas.
C’era scritto: “Non avrai mai più indietro tua figlia.
Preparale una tomba perché è già morta.
La vendetta è un piatto che si gusta freddo, Kiddo”.
E poco più sotto recitava: “ Da Minnie Driver, la sorella della tua peggior nemica”
Cosa voleva dire quel biglietto?
In quel momento pensai che davvero sarei morta, che davvero avrei dovuto pentirmi dei miei peccati.
Mi trovavo nel bel mezzo di un deserto, e nessuno sapeva dove fossi nemmeno approssimativamente.
Abbandonai il biglietto dove l’avevo preso e mi sedetti sul divano con le molle rotte.
Non volevo pensare, non volevo pensare ma l’angoscia mi attanagliava.
Non riuscivo nemmeno a piangere.
Rimasi per mezz’ora immobile e fissa come una statua.
Poi sentii il rumore di un lucchetto che si apriva.
Un uomo spalancò la porta, seguito da una donna alta e bionda e da un altro uomo più anziano.
La donna aveva un paio di occhiali scuri.
Se li tolse quasi subito. 
Mi squadrò da capo a piedi
“E’ lei di sicuro”
Poi si rimise gli occhiali e sparì di nuovo fuori dalla porta insieme all’uomo più anziano.
“Controlla che non faccia stronzate” disse al più giovane mentre si chiudeva la porta alle spalle.
Faceva un gran caldo lì dentro.
Avevo sempre sopportato a stento di dover stare ferma e zitta a stretto contatto con altra gente.
Quando qualcuno mi era vicino sentivo continuamente il bisogno di fare qualcosa, muovermi, insultare parlare o darle di santa ragione.
La mia classe di trenta alunni in quattro mura mi aveva sempre angustiata.
Ma ancora di più mi agitava il fatto di dover stare così vicina ad uno sconosciuto.
L’uomo che aveva il compito di sorvegliarmi mi si era seduto di faccia. 
Non potevo vedere i suoi occhi perché indossava un paio di ray-ban con le lenti doppie.
Tuttavia intuivo il suo sguardo fisso su di me.
Prese un pacchetto di lucky strike rosse e s’infilò in bocca una sigaretta.
Si alzò, fece qualche passo verso la cucina, poi ritornò.
Aveva in mano uno di quegli aggeggi con l’imboccatura del gas per accendere i fornelli delle vecchie cucine.
Lo avvicinò alle labbra e si accese la sigaretta.
Aveva fattezze messicane, labbra carnose e viso appuntito.
I capelli scuri erano raccolti in una coda.
Era di corporatura piccola e magra, e nonostante tutto gli spuntavano dalle braccia dei muscoli ben modellati.
Mia madre mi aveva insegnato che un uomo può diventare malvagio perché ha perso l’anima, ma una donna la cattiveria ce l’ha nell’animo.
Una donna è un essere molto più complesso e pericoloso.
Quando diceva queste cose mi veniva l’istinto di spiaccicarle la testa contro il muro.
La volta che ci provai mi ritrovai per terra con tutte le ossa indolenzite.
Il messicano si sedette al mio fianco. Mi diede in faccia un’alitata che sapeva di sigaro e cointreau.
Aveva le mani abbandonate tra le gambe e mi fissava.
Non resistetti.
“ Che guardi?” gli dissi.
Strinse gli occhi.
“Tu, che guardi”.
Eravamo lì da tre secondi ed io già non sopportavo la sua faccia. 
“Vaffanculo, sono io che ho fatto la domanda e tu rispondi”
Lui invece non rispose. Si limitò a tirar sù un altro po’ di fumo.
“Che hai? Ti hanno mozzato la lingua?”
Mi osservò. I suoi occhi spaziarono in un lampo rosso.
Forse si chiedeva cosa maledizione ci facesse lì a fare il cane da guardia ad una stronza del genere.
Forse si aspettava di godersi finalmente una ricompensa per tutti i suoi lavori sporchi.
Forse si chiedeva che fine avesse fatto la sua ragazza che non sentiva da mesi.
Forse pensava alla casa che avrebbe comprato con il suo guadagno poco onesto.
“Quanti anni hai?”
 mi chiese
“Non sono cazzi tuoi”
Mi posò la mano sulla gamba.
Non me l’aspettavo.
Gliela scansai rabbiosa come un bastardo di strada.
Tentò di afferrarmi il polso ma io gli mollai un pugno con l'altra mano.
Allora mi lanciò in faccia il portasigari.
Provai a schivarlo, ma mi prese la mascella e parte dell'orecchio.
Per un momento mi sentii come immersa in una sostanza calda e densa.
Le palpebre scivolarono giù senza volerlo.
Battei la tempia contro lo spigolo del tavolino, e quando riaprii gli occhi ero lunga distesa sul tappeto.
La mia testa era in fiamme.
Sentivo tutti i nervi tendersi per il dolore.
Il messicano mi spinse i polsi a terra e mi premette un ginocchio sullo stomaco.
Tossii.
A malapena mi tenevo sveglia, riuscivo appena a respirare.
Sentii i miei capelli morbidi sparsi sul tappeto scuro insudiciarsi di acari e polvere.
Il dolore alla testa si faceva meno intenso e più diffuso.
Quando mi premette la guancia ferita contro il pavimento, ogni forma di tenace ribellione sparì dal mio corpo.
Lui prese a sbottonarmi la camicetta frettoloso.
Tentai di oppormi con le braccia ma non sentivo più il sangue scorrerci dentro.
Ero diventata una bambola di pezza e non riuscivo a fare nulla.
Il mio viso era diventato rosso per lo sforzo di muovermi, di fare qualcosa.
Ma la caduta aveva rallentato tutti i miei sensi.
Era come vedere ogni cosa in flashback.
"Lasciami!"
Mi aveva sbottonato la camicetta e già mi sollevava la gonna.
La vergogna e la rabbia m'invasero.
"Lasciami!"
Mi vergognai di me stessa. Possibile che mentre lui si tirava giù la cerniera dei jeans non fossi capace di fare niente di più che gridare come una bambina?
"Lasciami!"
TUMTUMTUM
Il cuore mi batteva come un tamburo. Non volevo, non volevo, non volevo!
Non riuscivo ad allontanarlo, perchè non potevo essere forte come lui?
Perchè le mie braccia non erano in grado di reagire?
"Ti prego, no.."
Premette il suo corpo contro il mio così forte che mi mozzò il respiro.
Strinsi forte gli occhi che mi bruciavano.
Una lacrima grossa e calda mi scivolò in bocca senza che riuscissi ad evitarlo.
Un singhiozzo mi serrò la gola.
Il messicano mi tappò la bocca con la mano.
"Stà zitta, piccola stronza"
Mi riscossi, ma non servì a nulla.
Il mio corpo non mi sarebbe mai più appartenuto.

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