The Face That Fills The Hole di nightswimming (/viewuser.php?uid=11000)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Remember Me ***
Capitolo 2: *** The Past Was Yours But The Future Is Mine ***
Capitolo 1 *** Remember Me ***
Remember me when you’re the one you always dreamed.
Il telefono squilla, e come è ormai proverbiale squilla nel momento meno opportuno possibile. Mi alzo in piedi sollevando una consistente nube di polvere e raggiungo il cellulare nella tasca di questi maledetti jeans troppo stretti – non prima però di battere una tremenda testata contro la trave portante del sottoscala.
- Porca troia! – ululo nel microfono, massaggiandomi la nuca dolorante.
- Buonasera, contessa... Le si è spezzata un’unghia, per caso? – ribatte una voce sardonica dall’altra parte.
- No, Alex, scusami, è che sto mettendo tutto negli scatoloni e in questo momento mi sto occupando del ripostiglio. Devi vedere il casino che c’é. –
- Immagino benissimo. –
- Ho inalato più polveri nocive negli ultimi dieci minuti che in dieci anni di sigarette. –
- Quindi un bel cancro non te lo toglie nessuno, ora! Così impari: fumare fa male. A proposito, mi sono scordato di nuovo gli orari del tabaccaio qua sotto, se domani mi porti un pacchetto di Gauloises rosse mi fai un vero piacere. –
Alzo gli occhi al cielo.
- Sì, tu però vedi di portare l’equivalente in denaro. Mi devi già una fortuna. –
- Sì, sì, certo. Disturbo, cara? –
Mi siedo sui talloni, incastrando il cellulare fra il mento e la spalla e apprestandomi ad aprire il primo vecchio, muffito, lercio scatolone che mi capita sottomano.
- Cambierebbe qualcosa se dicessi di sì? – rispondo, arricciando il naso sotto la minaccia di un imminente starnuto. Fottuta allergia.
- No. –
- Ecco. Avanti, parla. –
- Avrei bisogno di un favore. –
Starnutisco.
- Alex, ti devo ricordare che dopodomani mi sposo…? – mugolo tirando su col naso, gli occhi lacrimosi.
- Certo che no. Anche perché se ho capito bene io quello stesso giorno dovrei essere al tuo fianco, vestito come un pinguino un po’ checca, a reggere su un ridicolo cuscino di raso rosso quella paccottiglia che Julien ha avuto il cattivo gusto di scegliere come fedi nuziali. –
- Ehi, non tutto questo entusiasmo, mi raccomando!... – ribatto secca, strappando con un urlo di vittoria un pezzo di scotch caparbiamente intenzionato a restare attaccato allo scatolone per il resto dei suoi giorni.
- Dai, lo sai che sono semplicemente fuori di me dalla gioia, sposina. Ugh, sposina. Che orrore anche solo pensarlo. –
- Alex, va’ a farti fottere. Ma stavolta non prenderti il disturbo di farti pagare. –
- Vedi? Sei già una moglie frustrata e inacidita, e non ti sei ancora nemmeno sposata! –
- Alex… - ringhio, tuffando le mani in quello che sembra un mucchio di vecchi, orrendi vestiti di quando ero adolescente. Dio. Ma cosa mi era saltato in testa di andarmene in giro vestita così?
- …Il favore, sì. Dunque, ci sarebbe questo mio amico… -
- Come si chiama? – chiedo brusca, reggendo disgustata con gli indici tesi una gonna di velluto rosso che sarebbe andata niente male ad Anna Bolena il giorno della sua decapitazione. Dall’altra parte uno sbuffo infastidito riempie di rimbombi metallici la cornetta.
- Non ti provare a sbuffare, cretino. –
- Steve. Va bene? –
- Steve come? –
- Beh, belloccio, direi. Ma non il mio tipo – troppo grosso, troppi… –
- Alex, Dio mio… Il cognome! –
Ennesimo, insopportabile sbuffo condiscendente.
- Hewitt. Ti cambia la vita, ora che lo sai? – biascica con quella sua vocetta irritante.
- Sì, per tuo interesse, sì. E che cosa vuole questo egregio mister Hewitt dalla mia vita? -
- Un servizio fotografico. –
- Si sposa anche lui? –
- Ehi, bellezza, non è che ora che ti sposi tu la gente comincerà ad affollare le chiese e a pensare che il matrimonio sia una figata. Sei tu l’unica deficiente capace di farsi impalmare, per non dire altro, a ventiquattro anni - fattene una ragione. –
- Alex, sto per metterti giù con violenza e cattiveria. –
Lungo sospiro, stile “guarda-cosa-mi-tocca-sopportare”.
- Cazzi tuoi, hai ragione, io non sono che un umile testimone. –
- Se continui così tra poco non sarai più neanche quello. –
- Magari. Ehm, no, gli serve per lui e il suo gruppo. Stanno per far uscire un disco. –
- Come si chiama il gruppo? –
- E chi se lo ricorda… Un nome un po’ cretino, se non mi sbaglio… -
Alzo gli occhi al cielo.
- Oh, perfetto. – dico, sarcastica.
- Eh… Com’è che si dice quando una medicina non fa effetto? -
- Fregatura? –
- No… Ecco, mi è venuto! Placebo. Si chiamano Placebo. –
- Beh, meglio di Fregatura di sicuro. E per quale convincente motivo io dovrei mandare a monte il mio ormai settimanale pellegrinaggio dalla sarta per questi Placebo? –
- Perché Steve è un mio amico. –
- Perché, Ed? –
-… Perché il bassista non è niente male. –
Scuoto la testa, buttando alle mie spalle una camicia dalle improponibili maniche a sbuffo.
- Ah, ecco. Mi pareva. – mugugno, per niente sorpresa.
- E neanche il cantante. – continua lui, ignorandomi. - Ma avrebbe bisogno di una scala anche solo per farmi un pompino, troppo complicato. –
- ALEXANDER CLARKE! –
- E’ la verità! E’ alto meno di te! –
- Guarda che sei tu che sei alto due metri! Per forza che la maggior parte degli uomini ti sembra bassa! –
- Ti dico che questo è veramente uno gnomo. Comunque, bando alle ciance: mi fai questo favorino, bellissima, dolcissima, stupendissima Léa? –
- No. –
- Dai, non fare la troia. –
- Alex…!! Non ti permettere! –
- Tranquilla, che sei la cosa più lontana da una troia che possa esistere. Per questo ti posso chiamare così. –
- Bella soddisfazione. –
- Allora? –
- No. –
- Dai, pensa se diventano i nuovi Nirvana. –
- Chissà perché sono convinta del contrario. –
Breve silenzio. Riesco a sentire a distanza le rotelle del suo cervello ingranare disperatamente in cerca di un piano b.
- Avantiii… E’ un gruppo rock. Pure un po’ sull’alternativo-spocchioso andante, come piace a te. – uggiola infine. Io occhieggio con soddisfazione una sciarpa stranamente sobria che si intona alla perfezione col cappotto che ho comprato la settimana scorsa.
- Mmmh… - dico meccanicamente, distratta.
Sospirone metallico.
- Prometto di non mettermi la cravatta a righine verdi. – mugugna, di malavoglia.
Sorrido entusiasta senza riuscire a trattenere la mia gioia.
- Affare fatto! Tutto purché non mi si venga rovinata l’estetica matrimoniale! –
- Tu non sai neanche cosa voglia dire la parola estetica, deficiente. –
- Alle nove sotto casa mia, domani mattina? –
- E nemmeno quello sgorbio del tuo futuro marito! –
- Alle nove domani mattina, perfetto. Ciao, dolcezza. Ti voglio bene, tu me ne vuoi? –
- No. Troia. –
- Buonanotte. –
- Buonanotte, tesoro. –
Metto giù sorridendo e lasciandomi cadere pesantemente all’indietro, trascinandomi lo scatolone fra le gambe aperte. Qualcosa mi dice che non riuscirò a concludere un bel niente nemmeno stasera, maledetta me, la mia pigrizia e soprattutto quella suocera isterica che mi sono scelta come socio in affari.
Strofino le mani per darmi coraggio e immergo le braccia fino ai gomiti nei vestiti ficcati dentro a casaccio. Non è tanto la polvere che mi turba, benché senta di poter morire da un momento all’altro stroncata da uno shock anafilattico, quanto questa straniante fatica di dover archiviare la mia vita una volta per tutte. Scegliere cosa dovrò portarmi dietro nel nuovo appartamento mi spaventa: ci sono cose, qui dentro, che non tocco da anni, e non sono sicura di volerle ritirare fuori dallo scatolone e dal mio passato. Qualcuna mi ha fatto un gran male, se ricordo bene – è strano, è passato tanto tempo, tempo durante il quale mi sono obbligata a non pensarci e ci sono quasi riuscita. Nemmeno Julien, Julien il critico musicale, Julien con quel riccio che gli cade sempre sull’occhio, Julien dagli occhi grandi e neri e meravigliosi, insomma, Julien di cui sono innamorata e che dopodomani devo sposare è riuscito a farmi parlare di me scavando così tanto a fondo. So che la cosa l’ha ferito, so che, in qualche modo, si è sentito tagliato fuori e persino deluso, perché lui con me si è aperto come un fiore, come non aveva mai fatto con nessuno… Ma è come se qualcuno, dopo tanti anni, continuasse a sussurrarmi nell’orecchio non voltarti indietro e guarda avanti, perché è avanti che dovrai sempre andare.
Questo qualcuno mi è caro e famigliare, lo so bene, ma non voglio che riaffiori in superficie – obbedirgli mi basta.
D’un tratto tocco qualcosa di duro, uno spigolo, forse, e mi fermo per starnutire per la millesima volta ma soprattutto per la sorpresa. Rovisto con decisione. E’ qualcosa di quadrato… Un libro? Magari Il lupo della steppa, era il mio preferito, Dio quanto mi piaceva, quanto mi ci ritrovavo, quanto-
Le mie mani riemergono da sotto una giacca di pelle stringendo un quadernino azzurro. Socchiudo gli occhi: attaccato sul retro c’è un foglietto, ma è pieno di polvere, non riesco a capire se c’è scritto qualcosa. Ci soffio sopra. Starnutisco. Sì, c’è scritto qualcosa, in una calligrafia un po’ tremolante. Leggo.
“Se non che io purtroppo sono fatto così, non sopporto questa contentezza, che dopo un po’ mi diventa odiosa e insopportabile e ributtante, e devo rifugiarmi disperato in altre atmosfere, possibilmente passando per le vie del piacere ma, in caso di bisogno, anche per le vie del dolore”.
Ammutolisco, mi alzo in piedi di scatto e picchio un’altra testata sul soffitto.
*
In cucina stappo una bottiglia di vino con un gesto quasi omicida e mi riempio un bicchiere fino all’orlo, lo guardo come se mi stesse dicendo qualcosa di complicato e lo butto giù in tre sorsi. Lo riempio di nuovo, lo guardo come se stesse persistendo a dirmi qualcosa di complicato che io continuo a non capire e lo vuoto in altri tre sorsi. Lo riempio una terza volta, lo bevo fino a metà e dopodiché stramazzo sullo sgabello cercando con una mano nervosa il pacchetto di sigarette sul tavolo.
Lo trovo. Me ne accendo una, la finisco in poche, brusche boccate. Me ne accendo un’altra con il mozzicone acceso e mi tiro forte una ciocca di capelli che dovrei tagliare perché dopodomani mi sposo e devo essere una bomba, sì, come ha detto Alex, una bomba.
Devo essere bellissima, ed è meglio che cominci adesso. Quindi per favore vediamo di chiudere il rubinetto. Niente piagnistei, grazie. Le lacrime rischierebbero di rovinare il trucco che non ho.
Mi trattengo, non so come, e decido che è meglio distrarsi per non ripiombare nel ridicolo melodramma di cui mi ritrovo d’un tratto protagonista. Cercare i Fregatura, sì, insomma, quei Placebo su internet per vedere chi cazzo sono potrebbe essere una buona cosa. Sì, perfetto.
Mi siedo davanti al computer sempiternamente acceso e digito Placebo. Non trovo nulla, ma è ovvio, Cristo, sono ancora dei signori nessuno, una delle tante band new wave che si assomigliano tutte e che si potrebbero vendere al mercato al mazzo, Dio, non ci-
Oh, ecco, grazie signori nessuno: vi ho trovato, mi avete salvato il sistema nervoso. Vediamo un po’ chi siete.
Steve Hewitt, perfetto, quello belloccio ma troppo grosso per piacere ad Alex, Stefan Olsdal, boh, chissà chi sei, ah sì, sei questo palo della luce biondo che invece piace ad Alex, eccome se gli piaci, altrimenti pigro com’è non si scomoderebbe mai, Brian-
Mi blocco. Ammutolisco – sta diventando un’abitudine, ormai.
Mi alzo in piedi di scatto e mi massaggio meccanicamente la testa, come se avessi appena preso una terza testata contro un’immaginaria trave del mio salotto.
- Questa è… Bella. Bella davvero. – gracchio.
La botta si sente tutta, comunque.
*
Torno in cucina ed ebbene sì, svuoto la metà del bicchiere che avevo lasciato in sospeso e me ne verso pure un quarto. Sono ufficialmente brilla. Accendo un’altra sigaretta e frugo nel mobiletto sotto il bancone per cercare qualcosa di forte che mi dia il colpo di grazia. Tequila, fantastico, vado matta per la tequila, se riuscissi a trovare del seltz e un po’ di sciroppo di qualcosa sarebbe davvero… Troppo tardi, sto già bevendo a canna.
Sbatto la bottiglia sul tavolo, tossendo e sputacchiando tequila dappertutto perché non la reggo, dannazione, mi piace ma non la reggo e non l’ho mai retta. Mi viene di nuovo da piangere.
Mi appollaio mestamente sullo sgabello e lancio uno sguardo obliquo al quadernino azzurro che giace abbandonato poco distante.
E’ un segno? mi chiedo, continuando a fissarlo come fossa una mina inesplosa che non trovo il coraggio di disinnescare. Se non è un segno questo… mi rispondo subito, battendomi una mano in fronte.
Afferro la bottiglia di tequila e il pacchetto di sigarette con una mano e prendo con qualche esitazione il quaderno e l’accendino nell’altra, dirigendomi al piano di sopra.
I segni sono importanti, dice una voce molto lontana nella mia testa. La mia.
O quella di Brian, forse.
*
Poggio la tequila a lato del letto, come se potesse d’un tratto trasformarsi in un fido cane da guardia. Arriccio le dita dei piedi e, respirando forte, mi rigiro il quaderno tra le mani con aria critica. Tiro al petto le ginocchia e lo poggio ben chiuso sulle lenzuola tirate. Tormento un angolo.
Non riesco ad aprirlo.
Sporgo il braccio per cercare la tequila, la trovo, bevo un lungo sorso e tossendo mi lascio andare indietro sul cuscino. Palpeggio il comodino per scovare le sigarette e me ne accendo una – forse riuscirò nell’impresa di morire soffocata dal fumo e non dovrò più preoccuparmi di sembrare una vigliacca perché non riesco non dico a leggere, ma neanche ad aprire il mio diario del liceo. Che bello.
Sbuffo, infastidita. Non potrà essere peggio di un altare e della famiglia di Julien in lacrime che si scaglia ad abbracciare mia madre compita e impeccabile nel suo vestito a fiori, no? No.
Resto in silenzio per un minuto o due, dopodiché apro il diario lasciando che il fruscìo della carta mi solletichi le orecchie. Tiro un’altra boccata e comincio a leggere.
Note: dopo mesi che se ne stava nel cassetto, mi sono decisa a pubblicarla :D
Dovrebbe essere la mia versione romanzata della vita di Brian prima dei Pacebo, filtrata dagli occhi di una persona che gli era vicino. Maneggiare Léa è più facile di quanto pensassi *-* E’ un personaggio che davvero mi piace descrivere, e caratterizzandola mi sono divertita molto. (Fondamentalmente, è un’isterica XD E anche il suo amico XDDD)
Il secondo capitolo è già quasi finito, poi ci dovrebbe essere il terzo e poi fine. In my mind è già tutto scritto e la cosa mi rende entusiasta perché Santo Cielo, capita così raramente XD
A presto :***
P.S. Il titolo è un brano di Peeping Tom, mentre la frase d’apertura è – ça va sans dire – Special Needs.
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Capitolo 2 *** The Past Was Yours But The Future Is Mine ***
QUESTA
E’ LA PRIMA SIGNIFICATIVA PAGINA BIANCA
SEVERAMENTE
VIETATO SCRIVERCI SU
Solo
per
pazzi!!!
Brian,
sai leggere?
No
Beh
sì
E’
che mi faceva
tristezza la pagina bianca
29
agosto 1988
Non
riesco. Non voglio. Non voglio e non riesco. Perché
Lo
so che dobbiamo. Lo so che devo. Ma non cambia nulla.
Perché
diavolo scrivo? Io detesto i diari, mio padre mi obbligava sempre a
scrivere cosa
avevo fatto durante la giornata, e io lo odiavo, quindi
perché
Dopo
La
mamma ha già tirato fuori tutto, anche le foto. Ci sono
tutte. TUTTE. Tutte
quelle di famiglia.
Perché,
mamma? Non ha senso. Ce ne siamo andate per un motivo, lo stesso motivo
che
rende crudele e grottesco tenere quelle foto sulla credenza. Togli
almeno
quella del matrimonio, sei così bella, lì, e
anche papà e bellissimo, Dio,
basta, basta, basta, basta basta basta basta basta
30
agosto 1988
Non
riesco a dormire, i dischi sono ancora impacchettati, mi fa male il
naso, mi
sono stufata di piangere e mi è venuta la bella idea di
ricominciare a
scrivere. E’ tardissimo e il silenzio che
c’è in questa stanza è come un
cuscino premuto sulle orecchie. Non ho voluto stare in camera con la
mamma, non
stanotte. Sapevo che non l’avrei fatta dormire.
Mi
sento prudere dappertutto: è perché voglio
muovermi, muovermi e andarmene.
Vado
via
Dove
vado?
Mattina
–
veramente un’orrenda mattina
La
mamma è uscita presto per comprarmi gli yogurt, ci ha messo
un po’ perché ha
fatto fatica a trovare il supermercato. Persino la luce è
grigia in questo
posto: filtra dai vetri tirati a lucido con l’energia appena
sufficiente a far
brillare il cucchiaio dei cornflakes. Non sono ancora mai uscita da
quando siamo
scese dalla macchina, neanche per portare fuori il cane. Devo prendere
una
boccata d’aria fresca oppure impazzisco.
Ma
si può chiamare aria fresca quella di ***, Lussemburgo?
Orrendo
pomeriggio
No,
non si può.
Almeno
i dischi sono fuori. Ascolto Bob Dylan, Ramona
come closer shut softly your watery eyes, una delle mie
preferite. Ne ho fisicamente
bisogno.
Mamma
sta facendo il bagno al cane. Ride, urla e lo insulta perché
l’ha schizzata
tutta e di vestiti ne abbiamo portati dietro pochi, se cominciamo
macchiandoli
di eau de chien butta male. Ride
ancora.
Come
accidenti fai?
Io
compilo il mio modulo di iscrizione di scuola e fumo in casa in barba
al tuo
divieto. So che ora come ora non hai la forza di rimproverarmi, e mi
sento ad
un tratto prepotente e insensibile, ma subito dopo penso che non me ne
importa
proprio niente.
Orrenda
serata
Fa
un freddo maledetto e siamo ad agosto. Cristo santissimo, odio questo
posto!
Marcel
poggia il suo musone nero sul grembo della mamma e guarda con lei la
tv,
gettandomi canini sguardi di rivalsa dall’altro lato del
divano. La mamma è mia anche
stasera, dice tutto
soddisfatto.
E
tienitela,
rispondo io
facendogli una linguaccia, è
così
ottimista nonostante tutto che mi fa venire voglia di giocare a biglie
con le
perle delle sue collane.
La
scuola comincia il primo settembre. Il solo pensiero di andarci mi
frustra già.
Che me ne faccio di un ultimo anno gettatomi addosso così,
alla rinfusa, senza
amici e senza nessun appiglio? A che serve?
Ho
chiesto alla mamma di poter dare gli esami da privatista, ma non
l’avessi mai
fatto!
“Non
devi isolarti, pulcino, la scuola è una simulazione di vita
vera. E’ noiosa ma
ti serve”.
Ah,
‘fanculo.
Seguito
dell’orrenda serata
Sono
uscita per la prima volta, portata al guinzaglio da Marcel per tutta la
strada.
Schiere e schiere di rispettabili casette con davanti un rispettabile
giardino,
munite di rispettabili staccionate e rispettabilissime cassette della
posta.
Fisso con disgusto i vetri splendenti di questi blocchi identici uno
all’altro
e mi viene voglia di spaccarli tutti. Sono uguali ai nostri.
Marcel
ulula alla luna per un paio di secondi, poi si rende conto anche lui di
essere
ridicolo e mi guarda con scarsa convinzione.
-
Bello schifo, eh? – gli dico, rabbrividendo nella giacca di
pelle.
Riprende
ad ululare. Cretino.
Questa
orrenda
serata non finisce mai
Il
tabaccaio più vicino è a quattrocentoventinove
passi da qui, li ho contati. Ci
sono arrivata davanti ed era chiuso.
Ci
scommetto pure che a me non le vendono, dovrò mandarci la
mamma che farà un
sacco di scene perché lei non fuma e non vuole che la gente
pensi che fumi. Che
bello schifo davvero.
Mancherò
di
fantasia ma che notte orrenda
Perché
non riesco a dormireeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
Dormo,
basta, mi sono stufata anche di non riuscire a prendere sonno. Rimetto
su
qualcosa sul giradischi. Nights In White
Satin.
C’è
qualcuno che ha già tentato di suicidarsi con i Moody Blues
in sottofondo o
potrò vantarmi nell’aldilà di essere
stata la prima?
30
agosto 1988
Mi
ha svegliato uno snervante susseguirsi di rintocchi che ho cercato
inutilmente
di ignorare, non riuscendoci. Abbiamo una graziosa chiesetta di fianco
–
graziosa dal punto di vista dell’architettura, sia chiaro,
questa faccenda
della sveglia obbligata alle dieci e mezza di ogni maledetta domenica
per il
richiamo a messa mi fa andare su tutte le furie.
Già
non riesco a dormire, e adesso ci si mettono pure le campane!
Più
tardi
Inutile,
non sono riuscita a riaddormentarmi. Ho leggiucchiato un po’
a letto e dopo mi
sono risolta ad uscire con la bestiaccia per andare a prendere il
giornale alla
mamma e una brioche per me – non che non voglia prenderla
anche per lei, è solo
che non la mangia, di mattina ha lo stomaco chiuso.
L’edicolante
è stato diffidente ma educato, il barista invece mi ha
squadrato con malcelata curiosità.
Sono
la nuova arrivata, dopotutto, in un posto piccolo come questo una
faccia
sconosciuta dev’essere un bel trauma.
Marcel
trotterella giulivo al mio fianco, anticipandomi di diverse falcate
– inutile,
non ci si riesce proprio a inculcargli di stare al passo, nemmeno mio
padre c’è
mai riuscito.
Mi
chiedo se il papà pensi al cane, di tanto in tanto. Marcel
non ha mai smesso di
adorarlo; oggi l’ho sorpreso ad aspettare zampe riunite
davanti alla porta, e
il pensiero che avrebbe aspettato invano mi ha fatto salire le lacrime
agli
occhi. Sono andata in cucina e ho fatto risuonare i biscotti nella sua
scatola.
Lui è subito venuto a mangiarne uno.
Spero
si rassegni un giorno a capire che non tornerà
più - spero soprattutto di
riuscire a farlo io.
Un
pochino più
tardi ancora
Sono
uscita a fumare una sigaretta nel portico e mi sono soffermata a
guardare la
gente che usciva da messa. Sono tutti distinti signori in completo da
lavoro e
eleganti signore in gonna, camicetta e giro di perle: a prima vista non
sono
riuscita a distinguere i ragazzi dagli adulti, perché si
vestono uguali. Ci
sono pochi bambini e di conseguenza c’è poco
rumore. Regna la compostezza e il
decoro, persino nell’erba tagliata all’inglese che
costituisce il praticello
antistante alla chiesa.
Ho
tirato una lunga boccata e ho sentito entrarmi nei polmoni il fumo
della
sigaretta e tutta la pesantezza che ristagna nell’aria di
questa cittadina. I
suoi abitanti sembrano non sentirla: chiacchierano serenamente,
inconsapevoli
di essere guardati e persino un po’ odiati da me. Nessuno
ricambia le mie
occhiate, nessuno mi nota, e chi di sfuggita mi nota non si interessa
alla mia
persona.
Sono
un’estranea, una straniera, una di fuori. D’un
tratto mi viene l’inspiegabile paura
di restare tale per tutta la mia permanenza qui.
La
sigaretta, partecipe del mio sconforto, mi si spegne in bocca. Tiro
fuori
l’accendino per riaccenderla e d’un tratto mi sento
qualcosa addosso, come un
tocco leggero ma insistente, e alzo la testa verso la folla radunata
davanti
alla chiesa.
Un
ragazzo mi fissa, l’aria a metà fra il corrucciato
e l’incuriosito. Sostengo il
suo sguardo.
E’
basso, di corporatura nervosa, e anche se è almeno a dieci
metri riesco a
vedere che ha gli occhi molto chiari – verde, forse, o
azzurro pallido. E’
vestito in giacca e cravatta come tutti gli altri, ma sembra volersi
convincere
che nonostante il freddo sia pur sempre estate e tiene i primi due
bottoni
della camicia slacciati. C’è un che di volutamente
trascurato nel suo
abbigliamento che lo rende particolare, facendolo spiccare in mezzo
alla
piccola folla che lo circonda. Continua a fissarmi, una mano piantata
con
decisione nella tasca sinistra dei pantaloni; con l’altra si
riavvia distrattamente
i capelli, all’apparenza indeciso su cosa fare. Ad un tratto
capisco.
Non
fissa me. Fissa il mio accendino.
Faccio
sprigionare la scintilla in un gesto di intesa, sorridendogli. Non vedo
che
faccia fa perché si gira ad un tratto a salutare una bella
signora dai capelli
rossi e i lineamenti severi che probabilmente è sua madre
– c’è qualcosa di
simile nella forma del viso, nel modo fluido di muoversi. La guarda
allontanarsi, aggrottando le sopracciglia, poi si gira di nuovo verso
di me e
muove un passo in avanti con aria seria. Ne fa un altro, e un altro
ancora,
infine decide di tentare una camminata continua e mi si avvicina con
lentezza
studiata.
Scendo
i gradini del portico, mettendo insieme un sorriso più
prudente di quello di
prima – dopotutto, non è che lui mi abbia mostrato
alcun segno di benevolenza.
Ora che è più vicino vedo con chiarezza che ha
gli occhi verdi, lucidi e seri.
Porta i capelli leggermente più lunghi degli altri ragazzi
che ho visto, in
un’onda graziosa che pare quasi femminile.
-
Devi accendere? – gli chiedo, in tono sommesso. Non so
perché ma non riesco a
parlare come vorrei.
Lui
sembra soppesare con attenzione la mia domanda, manco fosse una
proposta di
matrimonio, poi ficca di nuovo la mano nella tasca e ne estrae un
pacchetto di
Gitanes.
-
Grazie. – risponde, secco ma non maleducato, sfilandosene una
e mettendosela in
bocca con un gesto brusco come il suo tono di voce. Porgo la mano per
accendergliela ma lui mi sfila l’accendino e provvede da
solo. Quando me lo
ridà, sento le sue dita sfiorarmi impercettibilmente. Sono
calde.
-
Prego. – rispondo, e subito dopo mi schiarisco la voce per
farla uscire più
decisa. Lui mi fissa con aria sospettosa.
-
Sei nuova di qui, vero? – chiede, espirando una lunga scia di
fumo dalle
labbra. Dio, ho sempre desiderato fumare così
scenograficamente.
-
Sì. – rispondo, battendo a disagio una delle mie
sigarette sul pacchetto. Lui
continua a fissarmi con metodo, squadrandomi attentamente e quasi
clinicamente,
dopodiché si rimette la Gitane in bocca e mi porge una mano
pallida e un po’
tozza.
-
Brian. – si presenta, e ora la sua voce è un poco
più accomodante. Persino i
suoi occhi sembrano in qualche modo più caldi.
Stringo
la sua mano con un sorriso sincero.
-
Léa. –
-
Léa come?
– chiede, sciogliendo subito
la stretta.
-
Brian come? – ribatto automaticamente io, aggrottando le
sopracciglia. Lui
esita un attimo e poi sorride, piegando le labbra in una smorfia
ironica.
-
Brian Molko. Ma sono l’unico Brian in città, non
mi puoi confondere con nessun
altro. – dice, in un buffo tono a metà fra il
lieve e il presuntuoso. Ha una
voce incredibilmente nasale.
-
E come potrei. – rispondo in un accesso di impudenza che
rischia di sembrare
più provocatorio di quanto in realtà lo sia. Lui
spalanca gli occhi fulminandomi
con lo sguardo, sorpreso, poi ridacchia, schermandosi il viso con la
mano che
regge la Gitane. Mi accendo la sigaretta per nascondere il fatto che
sono
arrossita.
-
Di Léa invece ce n’è
un’altra, e per la cronaca mi sta sulle palle. Si chiama
de Renal e si dà un sacco di arie. Tu invece
saresti… -
-
Leclerc. –
Sorride
di nuovo, poi fa un passo indietro e alza la mano con la Gitane per
salutarmi.
-
Beh, ci vediamo a scuola, credo. O sei così sovversiva da
non frequentare neanche
quella, oltre alla santa funzione domenicale? – mi chiede, il
viso illuminato
dalla luce grigia di questo sole impietoso mentre esce
dall’ombra del portico.
Mi sforzo di sorridergli: male, è come pensavo, qui non
andare a messa equivale
a portare un cartello sul petto con su scritto “amo attirare
l’attenzione”.
-
Ci vediamo a scuola. – sottoscrivo, nervosa. Lui annuisce in
segno di assenso e
mi volta le spalle per andarsene, lasciando a terra il mozzicone della
sua
Gitane.
Lo
guardo allontanarsi da solo, ignorato dai ragazzi che ancora sostano
chiacchiericci davanti alla chiesa.
Un
altro diverso, malgrado tutto?
Pomeriggio
KISS ME WHERE THE SUN DON’T SHINE
THE PAST WAS YOURS BUT THE FUTURE IS MINE
YOU’RE ALL OUT OF TIME.
Verso
sera
Do
uno sguardo alla divisa che sono andata a comprare oggi pomeriggio.
E’ quanto
di più anonimo e scialbo abbia mai visto, come si
confà alla sua natura e al
suo scopo – quello di renderci tutti uguali: camicia bianca,
cravatta grigia,
gonna a pieghe grigia, cardigan grigio e scarpe nere.
In
pratica con questa roba addosso sembrerò un topo gigantesco,
ma pur sempre con
una buona famiglia alle spalle, Dio ce ne scampi. Semplicemente
ridicolo.
Non
ho mai portato l’uniforme prima. I soldati portano
l’uniforme.
Significa
forse che mi devo preparare a una guerra?
31
agosto 1988
Ho
dormito con la mamma. Non ce la facevamo più a evitarci.
Dopotutto, non è colpa
sua almeno quanto non è colpa mia.
Ha
sentito Maurice, dovrebbe riuscire a raggiungerci ad ottobre.
E’ un bene:
almeno così lei sarà più serena e si
sentirà meno sperduta – sempre che lo sia
davvero, dietro la sua solita irritante corazza di donna con la
situazione in
mano.
Quanto
a me, non so che pensare. Sto in casa la maggior parte del tempo come
se avessi
paura di perdermi qualcosa, ad esempio l’arrivo imprevisto e
provvidenziale di
un benevolo visitatore.
Anche
se in papà ormai ho smesso di sperare. Vorrei tanto che mi
chiamasse stasera
per augurarmi buon fortuna per domani…
Ma
anche se non lo fa, chi se ne importa. Prima mi metto in testa come
stanno
davvero le cose e meglio è.
Dopo
pranzo
Se
mamma spera di risollevarmi l’umore facendomi il risotto ai
funghi, si illude
senza speranza – ma nondimeno apprezzo il tentativo. Molto.
Quasi
quasi me ne riscaldo un altro piattino, muoio di fame.
Due
piatti dopo
Ho
mangiato così tanto che sento come dovere morale quello di
uscire a fare una
passeggiata con Marcel, altrimenti so che brucerò
all’Inferno nel girone dei
golosi.
Ma
in fondo, pensandoci bene, non ho colpa: per quale altro peccato si
potrebbe
mai sperare di bruciare all’Inferno in questo buco di posto?
Pomeriggio
di
una noia mortale
Ho
ottenuto dalla mamma di poter fumare in camera, a patto che tenga
sempre le
finestre aperte. Grazie a Dio. Non c’è
nient’altro da fare qui se non leggere,
mettere su dischi, strimpellare un po’ la chitarra e fumare
una sigaretta dopo
l’altra. L’augusta genitrice ha avuto il buon gusto
di riconoscerlo e la
diatriba sul mio lassismo si è logicamente afflosciata su
sé stessa.
Peccato,
una discussione è pur sempre un po’ di vita.
Vedrò di farle saltare i nervi stasera
a cena invertendo le posizioni delle posate a tavola – queste
cose la fanno
andare fuori di matto.
Notte
troppo
silenziosa
Mi
fa male la pancia e non riesco a capire se è a causa del
nervosismo per domani
o dei quattro piatti di risotto. Avanzo l’ipotesi di un mix
mortale fra i due e
mi rigiro nelle lenzuola e nella frustrazione, senza pace.
Fuori
dalla finestra vedo le luci della chiesa accese. E’ uno
spettacolo molto bello.
Mi
alzo dal letto, metto su Martha di
Tom Waits e piango le mie buone lacrime rivolte alla federa del cuscino.
Nel
momento in cui gli occhi mi si chiudono ripenso al ragazzo della
chiesa, Brian
o come si chiamava, e mi chiedo se domani lo incrocerò per
davvero oppure no.
E’ un dubbio stranamente pacificante, che invece di
aggiungere ansia me la sottrae,
è quasi una fantasticheria puerile da fiaba.
D’un
tratto mi sento illusoriamente ed illogicamente meno sola.
1
settembre 1988
Non
riesco a mangiare. Lo stomaco è un blocco di granito. Mi
sento come se qualcuno
avesse costretto nel mio esofago un gatto molto arrabbiato.
Mamma
mi bacia ed abbraccia. Papà non si è fatto
sentire, quello stronzo egoista.
Mi
vergogno di avere così paura di una cosa così
normale come il primo giorno di
scuola: perché non è nervosismo, è
proprio sacro terrore, è un’ansia divorante.
Come
accidenti faccio a uscire di casa?
E’
finita
Meno
traumatico di quanto pensassi. Dopotutto è una scuola
privata, mica un lager
nazista.
La
parte più difficile è stata passare attraverso il
cortile e su per le scale: mi
sentivo tutti gli occhi addosso. Arrivata sulla soglia della classe mi
sono
bloccata sul posto e una coppia di ragazze sottobraccio mi ha urtato
per
entrare. Ero rigida come una statua di marmo, praticamente concorrevo a
diventare parte dell’architettura scolastica.
-
Resta o scappa via, signorina? – sento sussurrarmi
d’un tratto all’orecchio. Mi
volto come fulminata da una scossa e vedo davanti a me una signora
sulla
cinquantina molto piacente, che mi sorride e mi tende con aria complice
una
cartella che ha l’aria di pesare dieci chili e una pila di
libri. – Resti, non
se ne pentirà. E già che c’è
mi appoggi questi sulla cattedra. –
Annuisco
un po’ stranita barcollando per il peso della
ventiquattr’ore. Quella che
deduco essere la mia professoressa gira i tacchi e va a chiudere la
porta, ma
all’ultimo sguscia dentro il ragazzo della chiesa, Brian. Le
rivolge un sorriso
sfacciato.
-
Buongiorno, prof. – cinguetta, sistemandosi la cartella a
tracolla. Lei gli fa
un brusco cenno che significa muoviti e stira le labbra in una smorfia.
-
Buongiorno, Molko. Vedo che anche quest’anno persiste a
ritenere che sia il
mondo ad essere in anticipo e non lei in ritardo. –
Brian
riduce di un poco il suo sorriso e si dirige in secondo banco,
incrociando il
mio sguardo e alzando gli occhi al cielo.
-
Allora, - esordisce la donna sedendosi con un sospiro e aprendo il
registro con
un gesto secco, - primo settembre millenovecentottantotto, prima ora,
che
bello, forse l’unica occasione in cui posso affermare con
sicurezza che siete
freschi e predisposti all’attenzione. – Si sistema
gli occhiali sul naso
sorridendo fra sé e sé. Io, per la cronaca, sono
ancora impalata di fianco alla
cattedra, a mio agio più o meno come San Sebastiano durante
il martirio. – E
una nuova studentessa. Nome e cognome? –
-
Léonie Leclerc. – gracchio, gli occhi fissi sul
legno della cattedra. Lei prende
nota accuratamente sul registro, annuendo soddisfatta,
dopodiché mi indica con
un gesto svogliato l’unico posto libero rimasto, quello in
seconda fila accanto
alla finestra. – Le risparmio la tortura di dover dire
qualcosa su di sé. Io ne
avevo il disgusto, quand’ero a scuola. –
La
ringrazio mentalmente con tutto il cuore e schizzo in secondo banco.
Accanto a me
è seduta una ragazza con una faccia simpatica piena di
lentiggini e con un naso
molto grazioso, che mi sorride con vago disinteresse. La prof finisce
di
sbrigare la burocrazia, dopodiché si sfila gli occhiali e mi
guarda con
benevolenza.
-
Vicino a Marlene, così, subito e senza preparazione. Sei
stata sfortunata. – enuncia
in tono divertito. La ragazza pare non prendersela e sorride
educatamente. – Ma
vedrai che è solo la prima impressione. Sembra dittatoriale,
in realtà è solo
deliziosamente primitiva. –
Ricambia
il suo sorriso con aria di intesa. E’ evidente che la mia
compagna di banco è
una delle predilette. Comincio a pensare che forse è il caso
di raccomandare
l’anima a Dio.
Dall’altro
lato dell’aula, Brian osserva distratto la mano tesa che
Carole Marlene mi
tende presentandosi.
-
Ah, per lei, Leclerc: mi chiamo Geraldine Thierry, sono la vostra
professoressa
di francese. Per voi tutti: l’ultimo anno è
impegnativo, sappiatelo - ma come
sosteneva saggiamente Seneca, il meglio dei piaceri è alla
fine. Buon lavoro. –
Lo
stomaco si è rilassato e di conseguenza ho una fame
allucinante. Ora che ci
penso sono a digiuno da stamattina presto.
Continuo
dopo.
Dopo
La
Thierry, dicevo, è strana come il Natale alle Hawaii ma mi
piace. E’ in gamba,
è ironica, è svampita come le vecchie dive anni
’30 e il suo modo di spiegare è
a dir poco ipnotizzante.
Peccato
che costituisca una fortunata eccezione nel corpo docenti. Quella di
matematica
e fisica ha una voce che perforerebbe i timpani a un sordo e non ha
palesemente
più voglia di insegnare nulla a chicchessia; quella di
scienze ha dei capelli
che sembrano essere stati pareggiati da una ghigliottina ed
è la classica prof
maniaca della perfezione che si appunta tutto su uno di quei
stramaledetti
quaderni ad anelli, dalla marca dei tuoi vestiti all’umore
che avevi nel giorno
in cui sei stato interrogato. Ha esordito dicendo che siamo
già in ritardo col
programma – ci tengo a ricordare che oggi era il primo giorno.
Grazie
a Dio l’orario era ridotto – solo tre ore
– e alle undici era già tutto finito.
Appena uscita dal portone ho messo mano alle sigarette con un gesto di
sollievo, ma proprio mentre raggiungevo l’accendino in tasca
mi sono sentita stritolare
il braccio da una morsa prepotente.
-
Che fai? – mi sibila Brian all’orecchio, e sono le
prime parole che mi rivolge
dall’inizio della giornata, - Non intenderai sputtanare
così la tua buona
impressione del primo giorno. –
-
Ma che… - provo a protestare, inutilmente: mi interrompe
subito.
-
Qua se fumi non sei visto di buon occhio, soprattutto se non sei ancora
maggiorenne. –
Strabuzzo
gli occhi. Brian sospira condiscendente e alza gli occhi al cielo.
-
Vieni con me - dice, con un evidente sforzo di pazienza, abbrancandomi
per la
seconda volta.
Mi
riporta dentro l’edificio, su fino al secondo piano, poi
spinge una porta a
maniglia e mi conduce giù per quella che sembra una scala
anti-incendio. In
fondo alla suddetta scala, perfettamente silenziose, Carole e la
Thierry fumano
a distanza ravvicinata.
-
Leclerc, anche lei qui a perder tempo? – mi apostrofa la
prof, tirando una
lunga boccata della sua lunga e sottilissima sigaretta. Io arrossisco.
Lei mi
sorride: sembra quasi intenerita, in una qualche maniera rigida e un
po’ snob.
-
Veramente… -
-
Bene, qualcun altro a cui scroccare. Ottimo. Mi stai già
più simpatica. – mi
interrompe Carole, rivolgendomi un sorrisino malizioso. Ha
l’aria di volermi comunicare
che la mia prima impressione su di lei non dev’essere stata
proprio
superlativa.
Brian
ridacchia e tira fuori una delle sue Gitane. Io lo seguo a ruota,
impacciata.
-
Di dove sei, Leclerc? – mi chiede la Thierry, brusca.
– Direi di Parigi, a
giudicare dall’accento. – completa subito senza
darmi tempo di rispondere.
Interrompermi dev’essere diventato il nuovo sport nazionale.
-
Sì, è esatto. – replico timidamente.
Carole ridacchia e muove le mani in
maniera scema.
-
Oh la la. – mi schernisce, ma pur sempre sorridendomi.
-
Che ci fai in questo buco di posto, se vieni da lì?
– mi apostrofa Brian, gli
occhi velati di qualcosa che non riesco bene ad interpretare. Emetto un
verso
di sorpresa e inciampo sulle parole. Non mi va per niente di parlarne.
-
Questa tua boccaccia, Molko, devi fare in modo di ridimensionarla prima
che tu
vada all’università. – lo bacchetta la
Thierry, lo sguardo fisso su di me. I
suoi occhi sembrano quasi comprensivi. Brian fa spallucce e si appoggia
al
corrimano con fare svogliato, la sigaretta penzoloni dalle labbra. Io
sono
ghiacciata dal disagio. – Altrimenti la vedo dura. –
-
Sempre che ci vada, all’università. –
ribatte lui a voce bassissima. Carole
sogghigna.
-
Sempre che ti ci prendano, all’università.
– butta lì, casuale. Brian le
rivolge un’occhiataccia.
-
Se sono così scemi da prendere te, non vedo
perché non dovrebbero accogliere me
a braccia aperte. –
-
Buon pomeriggio, ragazzi. – li interrompe la Thierry,
spegnendo la sigaretta
sul metallo freddo di un gradino. – Domani spiego, quindi
siete pregati di
portare i libri di testo. – Ignorando i loro commenti
insofferenti, si tira giù
gli occhiali sul naso e mi rivolge uno sguardo inquisitore. Io
rabbrividisco
intimamente. – Leclerc, ancora benvenuta. –
La
guardiamo aprire la porta e scomparire lungo il corridoio con
un’oscillante
camminata altezzosa.
Dopo
quest’attimo di innaturale stasi Carole si appoggia sulla
ringhiera accanto a
Brian e mi occhieggia divertita.
-
Bel tipo, eh? – dice, soppesandomi attentamente con gli occhi.
-
Sì. – rispondo, turbata. –
Ma… Perché fuma qui? E’ una prof.
Può fare quello
che vuole. –
I
due, sempre più inquietantemente simili al gatto e alla
volpe, ridacchiano.
-
Qui nessuno può fare quello che vuole. E poi, la Thierry non
è vista di buon
occhio né dal preside né dagli altri docenti. Non
se la sente di tirare troppo
la corda. –
-
Perché? – chiedo, incuriosita.
-
Primo: vota dalla parte sbagliata. Capisci cosa intendo. Secondo:
è divorziata.
–
-
Orrore, disgusto, supremo affronto. – lo spalleggia Carole,
profondendosi in un
susseguirsi di smorfie.
-
E terzo… Vive con la sua cameriera. – conclude
Brian, in tono volutamente
scenografico.
Io
apro e chiudo gli occhi un paio di volte, confusa.
-E
che c’è di male? –
-
Diciamo che la gentile signorina non le fa solo le pulizie. –
sussurra enfatica
Carole.
-
O altrimenti diciamo che è sempre molto diligente nella cura
della camera da
letto. – sogghigna Brian. Improvvisamente capisco.
-
La Thierry è… Lesbica? –
Carole
schiocca la lingua, soddisfatta.
-
Fanno la spesa insieme. – elenca Brian, gli occhi verdi
brillanti di riverenza.
E’ evidente che se la Thierry non è amata
dall’istituto nella sua interezza, è
semplicemente idolatrata da questi due.
–
Vanno insieme a concerti, mostre, conferenze, gite all’aria
aperta. E,
ciliegina sulla torta, non si perdono una santa messa nemmeno dovesse
crollare
il mondo. –
-
Il prete non sa mai dove guardare quando le saluta. –
ridacchia Carole.
Dopo
quest’ultimo scambio di battute finiamo di fumare le nostre
sigarette in
silenzio. Usciti dall’istituto Brian ci saluta distrattamente
e prosegue dalla
parte opposta a casa mia. Carole, invece, fa un pezzo di strada con me
– abita
un isolato più avanti – e passa i cinque minuti
che distano dalle nostre
abitazioni a sputare su tutto e tutti, sparlando con raffinata perfidia
in
particolar modo dei nostri compagni di classe (“frigidi
deficienti, teste di
cazzo figlie di chissà quale inutile diplomatico, sporchi
spioni”, ecc. ecc.).
Arrivato il momento, mi saluta con un lezioso bacio sulla guancia e mi
dice che
d’ora in avanti possiamo fare la strada insieme –
sempre che io abbia voglia di
svegliarmi alle sette come fa lei, perché un lusso a cui
assolutamente non può
rinunciare è la colazione al bar. Io annuisco, stranita ma
contenta.
Mi
piace. Ha l’aria di essere tremenda, ma qualcosa mi dice che
lo è solo con
quelli che odia. E io, al momento, se ho capito bene, dovrei trovarmi
dalla
parte giusta della sua barricata.
Sera
A
cena mamma mi ha chiesto com’è andata a scuola.
Non ho saputo bene cosa
risponderle, e lei ha preso la mia incertezza come un brutto segno ed
ha subito
cominciato a sommergermi di rassicurazioni.
Non
è andata male, almeno credo. Brian e Carole sono molto
interessanti – a dirla
tutta, mi affascinano molto, singolarmente ma ancora di più
in coppia. Il loro
rapporto è molto strano: intimo ma in qualche modo
sprezzante, tenero ma anche prepotente.
Dev’essere successo qualcosa fra loro.
Magari
sono stati addirittura insieme.
Spero
di arrivare a conoscerli meglio. Il resto della classe sembra un
manipolo di
zombie upper-class, con le tasche piene di soldi e la testa di
ragnatele.
A
letto,
insonne, guarda un po’
I toss and turn, I can’t
sleep at night.
Più
che il testo di Tainted Love sembra la storia della mia vita in questa
città.
2
settembre 1988
Porto
giù il cane prima dell’appuntamento con Carole. Mi
sono svegliata molto prima
di quanto fosse necessario. Ho una paura assurda di indisporla in
qualsiasi
modo.
Après
la classe
Conosciuti
gli altri professori: desolazione e sconforto. Meno male che
c’è la Thierry –
oggi ha cominciato a spiegare Stendhal, una meraviglia. Ha dato da
leggere “Il
Rosso e il Nero” per dopo le vacanze dei Morti. Io e Brian
eravamo gli unici ad
averlo già letto.
La
Thierry ci ha sorriso annuendo fra sé e sé, come
immagino faccia ogni volta che
è soddisfatta. Carole accanto a me ha sbuffato sonoramente.
La
parte più interessante della giornata, però,
è stata la colazione. Carole ed io
ci stavamo apprestando a pagare quando Brian è entrato di
corsa, guardandosi
alle spalle con aria infuriata.
La
mia nuova amica ha alzato gli occhi al cielo. – Bene, si
ricomincia. – ha
commentato sottovoce, e Brian l’ha fulminata con lo sguardo.
Aveva un vistoso
graffio lucido di sangue proprio sotto l’occhio sinistro e il
labbro
leggermente tumefatto.
Ho
spalancato gli occhi.
-
Che ti è successo? – ho chiesto, preoccupata. Lui
mi ha fissato con un lampo di
fastidio negli occhi.
-
Sono caduto. – ha detto sottovoce.
-
L’hanno menato. – l’ha subito corretto
Carole, beffarda, cercando le sigarette
nella cartella. – Menare Brian è uno dei
passatempi preferiti di questa città,
subito dopo il karaoke del venerdì sera. –
-
Sta’ zitta. – è sbottato lui, stringendo
il tavolo sotto le nocche fino a
farsele diventare bianche. Era pallido di rabbia, e in quel modo il
graffio
risaltava il doppio sul suo zigomo chiarissimo.
Ho
frugato anch’io nella borsa per cercare i fazzoletti.
– Tieni -, gli ho
sussurrato, porgendogliene uno. Brian mi ha guardato con aria strana,
quasi
fossi uno strano tipo di insetto e non un essere umano come lui, poi,
arrossendo per l’ira e forse anche per
l’umiliazione, l’ha accettato mugugnando
un secco grazie.
L’ho
guardato pulirsi mentre una ciocca dei suoi capelli scendeva a
mo’ di sipario
sulla sua guancia livida. Dall’altro lato del tavolo, Carole
faceva lo stesso,
le sopracciglia aggrottate e gli occhi brillanti di una luce crudele.
-
Non hanno capito l’antifona neanche quest’anno,
quegli stronzi. – ha mormorato,
più a sé stessa che a noi.
Brian
ha ridacchiato aspramente. – Si vede che il karaoke del
venerdì sera non è più
divertente come una volta. -
Carole
gli ha sorriso di malavoglia. Sembrava quasi fiera di lui, dopotutto.
-
Tieni -, gli ha detto poi, ironica, allungandogli la sua trousse, -
fatti
bella. E copriti quel segnaccio. –
Brian
si è truccato in silenzio davanti a noi, con perizia e
attenzione: prima il
fondotinta, per cancellare le tracce dello scontro, poi con mia grande
sorpresa
anche la matita per gli occhi e un leggero velo di ombretto. Quando ha
rialzato
lo sguardo su di me – uno sguardo nuovo, non più
umiliato, non più ferito, ma
lucido di orgoglio e di consapevolezza – sono ammutolita. Era
bellissimo. Non
che non fosse bello anche prima, ma ora era… Magnetico. Una
calamita naturale.
-
Visto com’è più carina se si trucca un
po’? – ha commentato maliziosa Carole,
risvegliandomi dalla mia momentanea trance. Si è sporta sul
tavolino per
guardarlo più da presso, con aria critica: Brian le ha
scoccato un bacio a mezz’aria
e lei si è messa a ridere. – Solo che, se prima
che non eri imbellettato ti sei
già preso un paio di pugni, dopo scuola che tornerai a casa
così bella ti
faranno sputare tutti i denti. – lo ha avvertito, tirando
fuori il portafoglio.
Brian
ha ripreso in mano lo specchietto ed ha concesso un lungo, languido
sguardo a
sé stesso.
-
Che mi importa. –
Sentivo
che lo pensava davvero. Che niente, neanche la paura del dolore,
nemmeno la
vergogna di essere additati per strada, poteva scalfire la splendida
armatura
di cui si era appena rivestito.
Sera
Mi
sono accorta di non aver ancora parlato di Carole come lei si
meriterebbe.
Rimedio subito.
Carole
Marlene ha da poco compiuto diciassette anni, ed è molto
piccola, minuscola a
dir la verità; porta i capelli castano chiaro cortissimi, da
maschio, con un
grande ciuffo di un colore leggermente più chiaro a velarle
la fronte. E’ piena
di lentiggini e ha gli occhi di un verde meraviglioso, quasi acqua.
Pratica
pallavolo da anni e non ha un filo di grasso corporeo manco a cercarlo
col
microscopio. Ha un naso perfetto, sbarazzino – in poche
parole è molto bella,
in una maniera tutta sua, ruvida e vistosa.
Le
piace la musica ska, porta la divisa scolastica il doppio
più attillata di
tutte noi e quando non è a scuola volteggia con leggerezza
su tacchi alti
almeno sette centimetri. E’ irascibile, prepotente, cinica,
vanitosa e molte
volte perfida; possiede un’intelligenza selvatica che non si
fonda né su grandi
letture né su alcuno specifico tipo di cultura, ma che
è formidabile. Ha sempre
la battuta pronta. Va molto bene in matematica, le piacciono uno o due
filosofi
non particolarmente complicati, detesta l’inglese e stenta un
po’ in francese,
sebbene sia adorata dalla Thierry. In classe passa il tempo a sbuffare,
sbadigliare, rifarsi le unghie dietro l’astuccio e rimirarsi
nello specchietto
che ha attaccato sul sottobanco; poi, qualche volta, si riscuote e
butta lì un
pensiero geniale senza nessuno sforzo. Persino i suoi neuroni sono
capricciosi.
Last
but not the least, è stata la prima volta di Brian.
-
E Brian è stata la mia. – mi ha confidato oggi,
tornando da scuola, mentre le
chiedevo come si erano conosciuti (alle elementari: Brian si
è trasferito qui
quando aveva cinque anni). – Era un periodo, quello, quando
avevamo quattordici
anni, in cui i suoi erano via per lavoro e casa sua era sempre vuota.
Siamo
stati insieme un anno, e per quello che mi ricordo ci siamo divertiti.
Ci
volevamo bene. – ha concluso, addolcendo il tono e volgendo
lo sguardo a terra,
come se un po’ si vergognasse. – Ma in fondo era
una cosa dettata più dalla
solitudine che da altro e per questo non è durata
granché. Eravamo molto
piccoli. Forse è stato tutto po’ troppo prematuro,
sesso compreso. -
-
Ho avuto ragazzi molto più importanti di lui, che ho amato
molto di più e con
cui non ho conservato nessun tipo di rapporto, ma con lui ho fatto di
tutto per
continuare ad averlo. Era troppo importante come persona – ed
è un grande
stronzo, lasciatelo dire, ma d’altronde anch’io lo
sono – io lo sapevo e non ho
voluto perderlo. Se non vuoi perdere una cosa non la perdi e basta, ci
fai
attenzione e te la tieni ben stretta. Lui ha cercato di fare resistenza
e io
non gli ho lasciato gioco. Ecco perché litighiamo in
continuazione: lui sente
ancora di aver subito un sopruso. Ma chissenefrega. E’ stato
molto meglio così per
entrambi, non solo per me. – Mi ha lanciato uno sguardo
improvvisamente maturo,
profondo, doloroso, non da lei. – Questo posto è
un inferno. Bisogna restare
uniti, altrimenti si soccombe. –
Gli
ho chiesto dei pestaggi di cui è vittima Brian. A quanto
pare sono veramente un
rito comunitario.
-
Quei figli di puttana lo menano da sempre. – ha detto,
rabbiosa, accendendosi
una sigaretta.
–
Perché è basso e anche perché
è sempre andato molto bene a scuola. Poi, beh, tu
ovviamente non lo conoscevi prima di arrivare qui, ma il piccolo Bri
quando io
e lui abbiamo cominciato a frequentarci era di fatto un fanatico
religioso. – Mi
ha guardato come se mi stesso porgendo un succulento boccone di un
qualche cibo
prelibato. – Catechismo per ore, giorno dopo giorno, e
lezioni private col
parroco. Pare fosse molto bravo – si diceva in giro che
avesse la vocazione, e
sua madre impazziva di gioia. Ha sempre voluto che diventasse prete. Ma
Brian,
beh… Diciamo che dopo essere stato con me ha capito che non
conveniva così
tanto rinunciare ai piaceri terreni. – Ride, soddisfatta.
– E meno male. Ha
piantato baracca e burattini, e ora va solo a messa, come tutti noi.
Però se
glieli chiedi sa ancora una montagna di versetti della Bibbia a
memoria. Mi
diceva sempre che era una meraviglia, la Bibbia, che certi pezzi
facevano
piangere. E che dentro ci sono anche un sacco di porcate. –
Fa una pausa per
tirare una lunga boccata, giochicchiando col fumo che le esce in grandi
nuvole
dalle labbra. – E poi, ovviamente, da quando ha cominciato a
truccarsi i guai
si sono raddoppiati. –
-
Perché lo fa? – le ho chiesto, e la mia voce
è suonata terribilmente infantile
persino a me stessa.
Carole
ha fatto spallucce.
-
Quando ha cominciato a fare teatro e a truccarsi in scena ha capito il
potenziale del suo viso, evidentemente. Da lì non ha
più smesso: si piace solo
così. E io sono d’accordo – è
molto più sexy con gli occhi e le labbra
truccati. –
-
Ma è… Insomma… -
Carole
mi ha lanciato uno sguardo fintamente perplesso.
-
E’ gay? Chi lo sa. Per me deve ancora capirlo lui stesso. Ma
non mi ha mai
parlato di un ragazzo di suo interesse. – Mi guarda con gli
occhi brillanti di
malizia, un po’ insinuanti. – Perché
tutte queste domande? Ti piace Brian, per
caso? –
E
io, non so come, non arrossisco. Piuttosto mi metto a pensare.
Carole
scoppia in una risata divertita e tirandomi una gomitata mi dice che la
risposta non è così difficile.
Silent
night
Tento
di venire a capo di questi maledetti esercizi di trigonometria. Una
tortura.
Intanto
ascolto Van Morrison, per indorare un po’ la pillola. Someone Like You.
Sentirsi
soli è un’arte, dopotutto.
7
settembre 1988
Sono
stati giorni così pieni e incasinati che non ho mai avuto
tempo di scrivere
nulla. E’ da mercoledì che vado a letto alle nove
e mezza, completamente
distrutta: ricominciare scuola mi fa sempre quest’effetto.
Divento spossata,
inconcludente e anche un po’ lamentosa.
Sono
successe un sacco di cose. Ho preso il mio primo voto – un
otto in inglese: la
prof è simpatica, un po’ troppo accademica, e
fascista persa per giunta, ma
simpatica – mi sono iscritta a pallavolo con Carole e ho
aiutato a preparare la
casa per l’arrivo di Maurice. Sì, arriva Maurice.
Il 15 ottobre.
Alla
fine, a conti fatti, sono contenta: non è mai stato il tipo
da cercare di
rimpiazzare il papà. Non mi fa impazzire ma è un
uomo perbene, e ci fa molto
ridere – e la mamma ha bisogno di ridere. Per cui il suo
arrivo è
legittimamente annoverato nella lista degli accadimenti positivi.
Brian
è venuto qua a casa – la Thierry ci ha assegnato
un’esposizione sulle opere
minori di Stendhal: pare faccia sempre così con le cose che
non ha tempo o
voglia di spiegare – e ha conosciuto la mamma. Inutile dire
che se l’è
conquistata in quattro secondi netti. Si sono subito messi a parlare di
Parigi,
che Brian adora, e di libri e di teatro e di Jean Cocteau e di Marcel
Proust (“Ah,
avete chiamato il cane in suo onore? Non mangerà solo
madeleines, spero!” “Ah
ah ah, divertente, Brian, che cosa spiritosa!”) e di mille
altre cose.
In
più, Brian è educatissimo e questa è
una delle cose che manda la mamma in brodo
di giuggiole. A tavola sembrava un piccolo Lord Fauntleroy. Abbiamo
chiacchierato allegri per tutto il pranzo, poi l’ho
prontamente sottratto alla
logorrea della padrona di casa e l’ho portato in camera.
Alla
vista della chitarra si è illuminato.
-
La suoni? – mi ha chiesto, sinceramente stupito. Io ho fatto
un gesto vago con
le mani.
-
Sarebbe più corretto dire che la maltratto. – ho
ammesso. Lui mi ha rivolto uno
sguardo sospettoso.
-
Non ci credo. – mi ha provocato, con una smorfia.
-
Fai male, sono un vero disastro. – ho ribattuto, impassibile.
-
Fa’ sentire. – ha insistito, caparbio.
-
Agli ordini. – ho ceduto, di malavoglia.
Mi
sono sistemata la chitarra in grembo e ho pensato a cosa suonargli.
Qualcosa di
facile: ne andava della mia faccia.
Ho
pregato che gli piacesse Johnny Cash e ho accennato un ritmo blues.
I hear the train a’coming,
it’s rolling down the bend, and I ain’t seen
the sunshine since I don’t know when, ho cominciato a cantare col mio accento un
po’ scadente. Lui
mi ha
sorriso e si è messo a tenere il tempo con il piede.
I’m
stuck in
Folsom Prison, and time keeps draggin’ on, si
è aggiunto lui, imitando
perfettamente il vocione country che si adattava meglio alla melodia, e
in
perfetto americano, but that train keeps
a’rolling, all down to San Antone.
Gli ho annuito sinceramente
ammirata e abbiamo ricominciato a cantare insieme: when
I was just a baby, my mama told me son, always be a good boy,
don’t ever play with guns, but I shot a man in Reno, just to
watch him die…
When I hear that whistle blowing, I hang my head and cry.
A
quel punto siamo scoppiati a ridere. Era la prima volta che lo vedeva
farsi una
risata vera: sembrava quasi un bambino.
-
Sei bravo! – gli ho detto, sistemando un po’ le
chiavette, – Hai una voce non
male. Io squittisco come un topo, invece. Non ho praticamente orecchio.
–
-
Non è vero. – mi rassicura lui, e gliene sono
grata. – Tu almeno sai suonare.
E’ difficile? – mi chiede, occhieggiando la
chitarra con riverenza.
-
Difficile? No, affatto… Sono solo un paio di accordi.
–
-
Mi insegni? – mi chiede lui tutto d’un fiato,
un’espressione entusiasta sul
viso. Io strabuzzo gli occhi, sorpresa.
-
Insegnarti… Io? Ma non so suonare davvero! –
-
E cos’avresti fatto poco prima, allora? –
-
Io… Io so solo un paio di accordi! –
-
E’ tutto quello che ti chiedo. Dai, non ti ci
vorrà mica la magistrale! –
Insomma,
abbiamo passato tutto il pomeriggio a suonare, cantare e parlare di
musica. E’
un fan sfegatato dei Dead Kennedys, chi l’avrebbe mai detto.
Gli piacciono
molto anche Janis Joplin e Leonard Cohen, e i Pixies e i Sonic Youth e
Billie
Holiday. Mi dice che i negozi di dischi qui sono molto poco forniti e
io
inorridisco, letteralmente.
Frughiamo
un po’ nella mia collezione e gli occhi gli prendono di nuovo
a brillare. Torna
a casa con un fascio di lp sottobraccio e nessuna conoscenza in
più per quanto
riguarda Stendhal.
Va
bene, vorrà dire che dopodomani in classe improvviseremo sul
momento. Per
fortuna abbiamo già letto tutto quello che c’era
da leggere e dobbiamo solo fare
un ripasso veloce.
Non
mi va di fare brutta impressione sulla Thierry: è
l’unica professoressa della
cui opinione mi importa.
Più
tardi
Brian
ha chiamato a casa, sviolinando con mia madre per cinque minuti buoni
prima che
lei si decidesse a passarmelo. Mi chiede se possiamo continuare le
lezioni: mi
viene da rispondergli che sarebbe più efficace se io gli
scrivessi quel pugno
di accordi che so su un foglio e glieli dessi da imparare a memoria, ma
poi
penso che l’occasione è troppo ghiotta per
lasciarsela sfuggire e gli dico di
sì.
Quando
chiude la conversazione metto giù la cornetta, la ritiro
subito su e chiamo
immediatamente Carole. Ho bisogno di un consulto.
Dopo
la telefonata
con Carole
Dice
che non è il tipo da provarci in maniera così
grezza e scontata. Quello che
pensavo anch’io.
Dopotutto
il modo in cui guardava me non era assolutamente paragonabile al modo
in cui
guardava la chitarra.
Mi
addormento sorridendo. E’ stata una bella giornata.
9
settembre 1988
Dopo
scuola – una noia, il lunedì la Thierry ci fa solo
un’ora – si è consumata una
scenetta interessante. Ho scoperto chi picchia Brian: è il
solito gruppo di
trogloditi da film, con più muscoli che cervello. Fanno
parte del club di
basket – anche questo un evidente segno di
originalità.
Dovevo
andare al supermarket a prendere qualcosa per il pranzo,
così mi sono
incamminata con Brian nella direzione opposta alla solita; appena
svoltato
l’angolo un manipolo di ragazzi alti due metri seduto a
fumare sul muretto dei
giardini pubblici si è accorto di noi e ha cominciato a
sfottere Brian, che si
è limitato solamente ad accelerare il passo. In un secondo
ci avevano
circondati, tre contro due. Uno, magro e biondissimo, non sembrava
molto
convinto e ci lanciava sguardi pieni di vergogna – ma gli
altri hanno subito
cominciato a spintonare Brian e a provocare me.
Lui
è diventato di ghiaccio, pallidissimo e immobile, ma
immagino che il fatto che
ci fossi anch’io gli abbia fatto salire il sangue alla testa.
Alla prima spinta
un po’ più violenta ha reagito con un pugno ed
è scoppiata la rissa. Mi sono
messa in mezzo tentando di separarli, e così anche il
ragazzone biondo, ma è
servito a poco: lo stavano massacrando.
Non
ci ho visto più e ne ho voltato uno di forza, assestandogli
un calcio mirato
alle caviglie e facendolo cadere a terra di peso. Tutti, Brian compreso
– che
era pieno di sangue e con la camicia strappata - si sono bloccati e mi
hanno
fissato con aria di assoluto sconcerto.
-
Nove anni di judo. – ho detto semplicemente. – E
tre di aikido. – ho aggiunto,
nel caso le cose non fossero sufficientemente chiare.
Si
sono allontanati in pochi minuti. D’altronde, il loro
giocattolo era diventato
inutilizzabile: Brian era ancora a terra a stringersi le costole come
se avesse
paura che gli stessero per schizzare via dal corpo da un momento
all’altro.
Il
ragazzo biondo si è voltato a guardarci, ancora stupefatto.
Gli ho fatto un
cenno di ringraziamento, grata dell’aiuto che ci aveva dato
almeno in forma di
resistenza passiva, e lui mi ha ricambiato timidamente.
-
Stefan! –, l’ha richiamato subito uno dei suoi
compagni, la voce piena di
rabbia, - muoviti! –
Lui
ha obbedito ed è corso loro dietro senza più
voltarsi. Io mi sono chinata ad
aiutare Brian, che tremava un po’ per lo spavento. Pur con
tutte le botte che
aveva preso aveva ancora voglia di sfoggiare la sua proverbiale smorfia
acida.
-
Nove anni di judo. – mi ha detto, sputando un po’
di sangue.
-
Esatto. – ho annuito io.
-
E tre di aikido. –
-
Precisamente. –
-
E dirmelo prima…? –
Siamo
scoppiati a ridere – almeno, io l’ho fatto; lui ci
ha provato ma gli faceva
troppo male.
15
settembre 1988
Il
tempo scorre lento, ma scorre. Senza troppa fatica.
Dopo
scuola vado praticamente ogni giorno a casa di Brian, che è
sempre vuota, a
studiare – se così si può dire. Carole
ci raggiunge spesso.
La
madre di Brian, una donna cortese dal bel volto spigoloso e le mani
gelide,
soffre spesso di emicrania e passa ore intere chiusa in camera nel buio
più
completo; esce solo per dare qualche indicazione alle cameriere in
vista dei
pasti. Suo padre è sempre via per lavoro, suo fratello
è andato a vivere con
sua moglie un paio di anni fa.
Brian
di conseguenza passa moltissimo tempo da solo, in questa casa enorme
dai mobili
in legno scurissimo e dalle argenterie luccicanti. Vorrei potergli
credere
quando dice che non ne soffre, che è meglio così,
che almeno quei rompicoglioni
dei suoi genitori non lo perseguitano con quella o
quell’altra richiesta: ma
non ci riesco. Percorre i corridoi come un animale in gabbia e tratta
tutto
quello che tocca o guarda con un senso di alienazione che sa quasi di
odio.
-
Vuoi qualcosa? – mi chiede, percorrendo la cucina in tre
passi svogliati. – Un
bicchiere d’acqua, della spremuta… eh…
cibo di qualsiasi tipo o quasi,
cioccolato, per di più… -
Mi
sorride sventolando per aria una barretta di fondente al novanta per
cento. Io
gli sorrido di rimando e scuoto la testa.
-
Un bicchiere d’acqua va benissimo, grazie. –
Saliamo
come al solito in camera sua. Di norma sua madre bussa ogni
mezz’ora per
offrirci qualcosa - o meglio, come mi ha chiarificato Brian in tono
estenuato
la prima volta che sono venuta da lui, per controllare che non facciamo
cose strane, che vanno dal fumare
una
canna al sesso spinto - ma questo pomeriggio non succede. Copio da lui
gli
esercizi di goniometria che non mi sono venuti, cioè tutti,
dopodiché mi stendo
sul suo letto mentre lui si appollaia sul davanzale a fumare una
sigaretta.
Come
sempre c’è Hunky Dory in
ripetizione
continua sul giradischi.
-
Carole viene? – gli chiedo sovrappensiero, sfogliando una
rivista che ho
trovato sotto il cuscino.
Brian
fa spallucce.
-
Io le ho detto di venire quando le va. E’ capace di arrivare
anche alle sette,
se la conosco bene. –
Mi
sorride furbo. – E io la conosco molto bene. –
Deglutisco.
-
Eh sì. – rispondo, rituffando il naso nella
rivista.
-
Comunque, sabato suo fratello grande fa una festa a casa sua.
– continua lui,
espirando uno sbuffo di fumo e abbracciandosi le ginocchia con il
braccio
libero. – Lei ha detto che possiamo venire. –
Rialzo
lo sguardo su di lui, curiosa.
-
Carole ha un fratello? –
Brian
annuisce come se si trattasse di un’ovvietà.
-
Due, Tomas e Jacques. Non te l’ha mai detto? –
Arrossisco,
delusa, e non dico una parola. Dopo tante le chiacchierate che ci
eravamo fatte
mi ero illusa di esserci entrata veramente in confidenza – e
invece…
Brian
sembra accorgersi del mio disagio e tenta di rimediare.
-
Ah, ma non preoccuparti, lei è fatta così.
Finché non le piombi in casa
pretendendo di sapere un po’di
più della
sua vita, stai sicura che lei di sua spontanea volontà non
ti dirà mai nulla. –
dice, frettoloso.
Gli
faccio un sorriso un po’ troppo debole.
-
Nessun problema, in fondo ci conosciamo da pochissimo. –
Sfoglio la rivista per
dare l’impressione di essere naturale. –
E’ che sono stata spesso a casa sua, e
non ho mai incontrato nessuno… -
-
Tomas è più grande di noi, vive con un
coinquilino. Jacques invece ha gli
allenamenti di nuoto ogni pomeriggio. – mi informa lui,
saltando giù dal
davanzale e venendo a sedersi sul letto di fianco a me. –
E’ normale che tu non
li abbia mai incrociati. La festa è a casa di Tomas,
comunque. E’ un tipo
simpatico. Certo, ci saranno i suoi compagni di facoltà e
basta, ma noi ce ne
staremo per i fatti nostri e andrà tutto bene. –
Si
stende di fianco a me e io mi sposto un po’ di lato per
fargli spazio. Mi
sorride.
-
Carole va a momenti, l’avrai capito. Un secondo la ami alla
follia e il secondo
dopo vorresti prenderla a schiaffi. – mi dice, e il suo
è un tono quasi tenero.
Arrossisco di nuovo.
-
Non me la sono presa. – sussurro, dimostrando in questo modo
di essermela presa
eccome.
-
Nooo, infatti. –
Mi
tira una spallata.
-
Ha un carattere molto forte. – ribatto. – Ma con me
è sempre stata molto
carina. Non fosse per lei non avrei amiche, qui. –
-
Non ho detto che è una strega sempre. – ride lui,
ravviandosi una ciocca di
capelli. – Ho detto che è una strega qualche
volta, e che quando lo diventa
bisogna ignorarla. Ma appena beve un po’ diventa la persona
più simpatica e
affettuosa del mondo: vedrai alla festa. Ti si appiccica addosso e non
si
stacca più finché non fai qualcosa. –
Sorride,
mordicchiandosi l’unghia del pollice e fissando il soffitto
con aria strana. Io
mi incuriosisco subito.
-
E tu che hai fatto? – chiedo, stropicciandomi il lenzuolo fra
le mani.
Brian
si stende sulla schiena.
-
Io l’ho baciata. – Gira il viso verso di me,
ghignando. – Ma non ha funzionato,
quella volta. Si è attaccata ancora di più.
–
Ridacchio.
Brian si gira su un fianco e mi guarda fisso con la guancia appoggiata
a una
mano, gli occhi un po’ lucidi.
-
Carole ti ha detto che siamo stati insieme o ti ha taciuto anche questo
dettaglio
della sua vita? – mi chiede, in tono lento e prudente.
Un
brivido mi corre lungo la schiena, qualcosa a metà fra il
terrore e
l’eccitazione.
-
Sì, me l’ha detto. –
-
Mh. E’ che ti ha detto? –
-
Che… Che siete stati insieme un anno. – Mi mordo
un labbro. Non so che
accidenti dovrei dire adesso, in fono era una conversazione
privata… - Che vi
volevate bene. –
Brian
annuisce convinto.
-
Corretto. –
-
Basta. Tutto qui. –
-
Non ha fatto commenti sulla nostra prima volta? Voi ragazze non gettate
strilli
di gioia quando vi confidate queste cose? –
Mi
tiro su sui gomiti, indispettita.
-
Perché, voi uomini invece? Che girate col righello in tasca
per misurarvelo
anche quando siete al liceo? –
Brian
si rivolta sulla schiena e comincia a ridere.
-
E infatti è molto più divertente essere donna.
Voi subite l’atto sessuale… Ma
avete un ottimo modo per vendicarvi: spettegolare in giro a tutto
spiano e
distruggerci la reputazione. – Mi lancia uno sguardo
ammiccante. – Uno spasso,
no? –
-
Noi non subiamo un bel niente! –
Brian
fa un gesto pigro con una mano come a voler scacciare una mosca.
-
Hai capito cosa intendo. –
-
E non spettegoliamo in giro, se ci teniamo! Ma che immagine ti sei
fatto del
sesso femminile? Che siamo tutte cheerleader deficienti?! –
Mi
tira un pizzicotto.
-
Guarda guarda, l’orgoglio di genere. Quanto sei permalosa!
–
Ricambio
il pizzicotto.
-
Tu in compenso sei veramente fastidioso. – gli dico, cercando
di beccargli la
pancia - non riuscendoci, mi limito a fargli il solletico.
Brian
rimane immobile.
-
Non lo soffro. – afferma, fiero, lanciandomi uno sguardo di
sfida.
Inarco
un sopracciglio.
-
Da nessuna parte?... – chiedo insinuante, girandomi su un
fianco per
fronteggiarlo meglio.
Siamo
vicinissimi.
-
No. – sussurra.
Provo
a colpirgli il petto, non ci riesco, riprovo con un braccio, non ci
riesco, mi infastidisco,
mi metto in ginocchio e provo con il collo - lui si mette a sedere di
scatto e
mi immobilizza abbracciandomi, bloccandomi le braccia lungo il corpo, e
io
cercando di dibattermi perdo l’equilibrio e gli cado addosso.
Riapro
gli occhi che ho chiuso d’istinto e i suoi sono a un
centimetro dal mio naso.
Sento il suo respiro rapido sulla bocca.
-
L’abbiamo fatto qui. – mi dice, continuando a
stringermi gli avambracci, e la
sua voce è seria e concitata e piena d’urgenza
come non gliel’ho mai sentita
prima. – Quando i miei non c’erano. E’
stato bellissimo e credo di non aver mai
avuto il coraggio di dirle quanto l’ho adorata, in quel
momento e in tutti i
mesi che sono seguiti. – I suoi occhi sono enormi,
chiarissimi, quasi
spaventati. – Tutte le volte che le ho detto che la
amavo… Ma cosa vuol dire ti
amo a quattordici anni? Nulla. E quando è finita non sono
mai riuscita a
confessarle quanto è stata importante per me, come amica,
come ragazza, come
compagna. Ora so che ero innamorato… Due anni fa non lo
sapevo. E lei forse non
lo saprà mai. –
Mi
stringe più forte. Mi sento il viso in fiamme e non capisco
cosa sta
succedendo. Non capisco perché sta dicendo queste cose. Non
capisco perché le
sta dicendo a me. Non capisco perché me le sta dicendo sul
suo letto. Non
capisco perché mi sento tremare anche se lui mi sostiene.
Trattengo
il respiro come se stessi per tuffarmi.
E
in quel momento bussano alla porta.
18
settembre 1988
Carole
mi ha salvato da non so nemmeno io cosa. Però mi ha salvato
– è entrata, ha
chiesto con tono malizioso se aveva interrotto qualcosa e Brian ha reindossato la sua solita
maschera
arrogante in meno di un secondo.
-
Ci stavamo facendo il solletico. – ha proferito nel tono
più normale del mondo,
rovesciando la testa all’indietro per guardarla in faccia.
Io
mi sono divincolata con più naturalezza possibile e mi sono
alzata in piedi
pregando che le gambe mi facessero il favore di reggermi.
Carole
mi ha squadrato con aria esperta.
-
Ricordo cosa è successo l’ultima volta che mi hai
fatto il solletico, Bri… - ha
scandito lentamente, passandomi davanti con aria furba e andandosi a
sedere
accanto a lui, che stava ancora sdraiato sul letto.
-
Non so di cosa tu stia parlando. – ribatte calmissimo Brian,
sorridendole
cortese.
Carole
gli riavvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La vedo
rivolgergli uno
sguardo che mi urta per quanto è intimo, privato, loro – per quanto è
tenero e appassionato allo stesso tempo.
-
Vado un attimo in bagno. – articolo a fatica, e quando torno,
dopo essermi
sciacquata la faccia e aver domandato bruscamente al mio riflesso nello
specchio che cazzo fosse successo cinque minuti prima, Carole
è in piedi di
fianco alla scrivania che litiga con Brian riguardo al fatto che lui
non voglia
passarle i compiti di goniometria.
-
Ah, Léa. – si interrompe appena mi vede entrare
nella stanza. – Mio fratello
Tomi dà una festa sabato. Ci sei? –
Note
dell’autrice:
ah, scrivere
dell’adolescenza più fatua e cretina, fingendo di
non esserci più dentro <3
Mi
perplime (che verbo brutto XD) il modo in cui ho raffigurato questi tre
sedicenni tutti ormoni, ma mi perplime in un modo che mi piace. Spero
solo che
lo stile di scrittura non annoi, visto che, appunto, parlando di
sedicenni, e
utilizzando come mezzo il diario di uno di questi, ho “volato
basso” – non nel
senso che se voglio scrivo la Divina Commedia XDDD, ma piuttosto nel
modo di
rappresentare le emozioni. Ho cercato di essere un pochino
superficiale,
insomma – superficiale nel senso di moderatamente immatura,
come lo si è in
genere a sedici anni, con migliaia di eccezioni - ma senza farli
sembrare dei
bimbiminkia XD, e ovviamente facendo pronunciare a Brian i soliti
discorsi
commoventi sull’amore che mancavano dai tempi immemori di
Just Like Chelsea
Hotel *si vergogna* *ama teen!Brian, che nella sua testa ancora non
è un cinico
bastardo*
Rileggendola
mi sembrava un po’ semplicistica, ma l’ho scritta
tutta d’un fiato in un
momento in cui la concentrazione e l’intraprendenza erano
alle stelle e io ero
esaltatissima :D Detto in due parole, ormai non ho sbatti di cambiarla,
visto
che è lunga chilometri XD, ma d’altro canto il
risultato mi soddisfa. Un pochino
XD, non troppo, visto che
come sempre la rilettura è estremamente irritante.
La
scritta in grassetto del pomeriggio del 30 agosto è un pezzo
di She Bangs The
Drums degli Stone Roses <3, mentre la canzone che Brian e
Léa cantano
insieme è Folsom Prison Blues di Johnny Cash. I gruppi che
Léa cita come i
preferiti di Brian sono davvero alcuni dei suoi preferiti.
Altro
da dire? Boh è_é
Grazie
a chiunque leggerà <3
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