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di Hullabaloos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maschere Nere ***
Capitolo 2: *** Luce bianca ***
Capitolo 3: *** Ricerca ***
Capitolo 4: *** Dono ***
Capitolo 5: *** Leggende ***
Capitolo 6: *** I vari metodi per fare amicizia ***
Capitolo 7: *** Rifiuto ***
Capitolo 8: *** Il rosso e l'azzurro ***
Capitolo 9: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 10: *** Tutto scorre ***
Capitolo 11: *** Il suono del dolore ***
Capitolo 12: *** My sweet prince ***
Capitolo 13: *** All this time we were waiting for each other ***
Capitolo 14: *** Loneliness ***
Capitolo 15: *** La sottile linea nel cielo ***
Capitolo 16: *** L'acqua che scorre in te ***
Capitolo 17: *** La caccia ***
Capitolo 18: *** Time waits for no one ***



Capitolo 1
*** Maschere Nere ***


La Storia ha subito una deviazione.

Ciò che mi appresto a raccontare è realmente accaduto, non è solo mera fantasia. In quel mondo, lo spazio e il tempo sono staccati dal nostro, e le vite scorrono indipendenti dai mutamenti che avvengono nelle nostre terre. Forse è un altro pianeta, forse è un’altra dimensione, o più semplicemente puro frutto delle nostre menti. Non per questo è meno reale di ciò che vediamo.

Non sappiamo la sua ubicazione. Ci è concessa solo una conoscenza: che questi due mondi, il nostro e il loro, sono gemelli. Quando la materia non fu solo un concetto astratto e il tempo ebbe un senso, la linea della loro esistenza imboccò due vie distinte. Ma il cordone ombelicale che li lega non è mai stato reciso.

Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate.

 

 

 

Sangue.

Sangue dappertutto, sangue sui muri scrostati, sangue sulle assi marce del parquet, sangue che gronda da queste piccole mani bianche. Il fratellone piange e chiama i loro nomi. Mamma e papà non litigano più, sono abbracciati, ma sono distesi nel lago rosso. Mamma indossa la camicetta a fiori, quella che le piace tanto. Adesso però le rose si confondono e si mescolano nella pozza. Papà mi fissa, ma non mi vede. Il sangue gocciola sulla sua pupilla, ma l’occhio non si chiude. E mi fissa, mi fissa, non mi lascia nemmeno un secondo. E mille occhi rossi mi spiano dai muri scrostati e dalle assi marce del parquet. Voglio fuggire da qui. Guardo le mie mani sporche. E sembra che quel rosso non mi voglia abbandonare mai più.

 

 

13 settembre 1902. Nel pieno della Terza Crisi Globale. L’Europa Meridionale aveva risentito della brusca e improvvisa variazione climatica. Delle terre che si affacciavano sul Mediterraneo, una volta fertili e abbondanti, non rimanevano altro che colline brulle riarse dal sole. Le  sterpaglie ingiallite che vi crescevano erano seccate dal vento afoso proveniente dai deserti del sud. Le grandi città d’arte vennero abbandonate dai cittadini, che si riversarono in massa nelle campagne ai limiti delle steppe. Le metropoli, prima brulicanti di vita e commercio, erano allora solo gusci vuoti di calce e mattoni, l’ombra di loro stesse. Ormai, queste grandi glorie delle nazioni mediterranee erano diventati luoghi pericolosi, nell’ombra delle strade sudice e polverose si nascondeva la peggior feccia dell’esistenza umana, la più bassa risma di criminali e delinquenti. Nelle case diroccate dalle persiane sbarrate vivevano coloro che non potevano permettersi una nuova vita nelle campagne. Altri, nonostante ne avessero la possibilità, decisero di rimanere, per motivi che forse vanno al di là dell’immediata comprensione.

Un gracchiare ci distolse da questa miserabile vista. Un lento, continuo brusio, da cui nascevano voci e suoni, che si allungavano, si distorcevano, per poi venire nuovamente inghiottiti nel rumore. Dentro una vecchia mansarda, due ragazzi sedevano intorno a un vecchio tavolo. Da una fugace occhiata, stabilimmo che la loro età oscillava intorno ai vent’anni e, dai delicati tratti del viso, intuimmo uno stretto legame di sangue. Quello che sembrava essere il maggiore borbottava imprecazioni a mezza voce, armeggiando con la manopola di una radio che, un tempo, doveva essere l’orgoglio del salotto di qualche ricco borghese. Il giovane sbuffava e sputava insulti in dialetto, corrucciando le sopracciglia, innervosito dalla poca collaborazione dell’apparecchio. Di fronte a lui, un ragazzo dai capelli ramati, era intento a ripulire il piatto posto davanti a sé, portandosi alla bocca grandi forchettate di spaghetti, lanciando di tanto in tanto sguardi angustiati all’indirizzo del consanguineo.

Finalmente, la voce che uscì dalle vecchie casse riuscì a galleggiare fra le interferenze. Il moro si passò una mano sulla fronte imperlata dal sudore, maledicendo quella calura di fine estate. Si buttò stancamente sulla panca scricchiolante, rubando una forchettata dal piatto del vicino. Quest’ultimo tentò di avanzare una protesta, ma la mano del maggiore lo zittì, concentrandosi improvvisamente sulla voce che affiorava tra gli sfrigolii.

-Maschere Nere… Altre scomparse… Due corpi ritrovati… Quartieri alti… Chiesa di Sant’Anna-

Le parole vennero nuovamente risucchiate, l’apparecchio rantolò agonizzante, per poi spegnersi di colpo.

-Bastardi…-, sibilò il moro, sbattendo con violenza la forchetta sul bordo del piatto, producendo un familiare tintinnio di posate che cozzano sulla ceramica. Balzò in piedi, percorrendo il perimetro della soffitta a grandi falcate. Il più piccolo fissò intimorito il viso stravolto dall’ira del maggiore, che tirò un calcio violento al vecchio apparecchio radiofonico.

-Lovi, per favore calmati…-, pigolò, alzandosi lentamente e avvicinandosi al fratello. Il moro lanciò uno sguardo sprezzante al ragazzo, che arrestò la sua avanzata.

-…Calmarmi?-. Un sussurro, incredulità mista a sarcasmo. Proruppe in una risata sguaiata, folle.

-Tu mi chiedi di calmarmi…?-, ripeté canzonatorio, ridacchiando, con un ghigno beffardo che deformò i tratti delicati del viso. Il rosso tremò leggermente, mentre le lacrime pungevano ai lati degli occhi.

-Tu mi chiedi di calmarmi quando questi pezzi di merda ammazzano altra gente…?-

Di botto, non rise più. Il ghigno lasciò posto a una smorfia, gli occhi s’indurirono.

-Tu mi chiedi di calmarmi mentre questi assassini girano tranquilli per la città?-

Da ogni parola traboccava odio, ogni insulto era una miccia pronta a scoppiare.

-Gli stessi che hanno ammazzato mamma e papà e che camminano come se nulla fosse giù in strada?-

Sbatté con violenza il palmo della mano sul tavolo, gridando, sputando sillabe grondanti veleno. Nulla però ferì il giovane più degli occhi del fratellone: le iridi dorate, le stesse del padre, bruciavano, bruciavano di un fuoco nero, bruciavano su tutto ciò su cui si posavano.

-Smettila…-

Il moro spinse con violenza lontano da sé il più piccolo, che cadde a terra e sbatté con forza contro la panca di legno. Per un attimo, questo sembrò pentito di quel gesto, ma non lo aiutò a rialzarsi. Si voltò invece verso la finestra, che si affacciava sulla piazza della città decadente.

-Sai…-

La voce del maggiore riscosse il ragazzo semidisteso sul pavimento sudicio.

-… Vorrei tanto scendere in strada per ammazzarli…-

Un gemito uscì dalle labbra del rosso.

-…Vorrei farli a pezzi come hanno fatto con la mamma…-

L’odio lasciò spazio alla follia.

-…Smettila…-

-… E lo farei lentamente, facendoli soffrire tanto…-

-Smettila-

-… E riderò quando chiederanno pietà…-

-Smettila!-

-… E li sentirò urlare quando li taglierò, piano piano…-

-Smettila, smettila, smettila!-

Lovino si riscosse, sentendo le braccia del fratello che lo stringevano forte.

Era successo. Di nuovo. E lui stava ancora piangendo per lui.

Posò una mano dietro la testa del fratellino, per portarlo maggiormente a sé.

-Io le ho viste…-

Feliciano alzò gli occhi. Il moro guardò fisso un punto imprecisato dello stanzone. Strinse maggiormente le mani sulla camicia del fratellone.

-Lo so…-

Le parole stentavano a uscire, cercavano di spiegare un dolore troppo grande.

-Mamma e papà erano lì… E lui era accanto… E li fissava…-

-Si-

-E poi mi ha visto… Si è girato e se ne è andato, capisci…? Non una parola, né uno sguardo…-

Lovino scosse la testa, come se le sue stesse parole non fossero che discorsi vuoti, privi di significato. Sciolse forzatamente l’abbraccio, e si diresse velocemente verso la porta.

-Non li ucciderai, vero…?-

Il moro si bloccò, la mano pronta ad abbassare la maniglia.

-Non proverai a ucciderli, vero?-

La voce del rosso cercava una conferma che non sarebbe mai arrivata.

-Non rischierai la vita per vendicarti, vero?-

Il maggiore sentì il suo sguardo implorante scorrere sulla sua schiena.

-Esco. Non aspettarmi per cena-

Aprì la porta e se ne andò. E lo lasciò così, solo, in quella vecchia soffitta nel centro di Roma.

 

14 settembre 1902.

Ticchettio. Rumore di lancette. E ogni secondo che passava era una tortura. Feliciano era seduto sul materasso buttato con poca cura sul pavimento polveroso. Il tacco della scarpa consunta batteva sulle pietre ad un ritmo nervoso. Lanciava occhiate febbricitanti alla porta. La sera prima non l’aveva chiusa a chiave. Una pazzia, dato i numerosi casi di furti e omicidi nel quartiere. Ma in questo modo il fratellone sarebbe potuto rientrare quando avesse voluto. Con questa speranza, la sera prima si era addormentato sul suo giaciglio improvvisato, cadendo in uno stato di dormiveglia alternato da sogni agitati. E al risveglio la casa era ancora vuota. La porta ancora chiusa. E lui sempre solo. Ticchettio. E il tempo scorreva inesorabile.

Feliciano balzò in piedi, camminò più volte avanti e indietro, tendendo l’orecchio per captare il suono familiare delle suole che sbattevano lungo il selciato.

-Tornerà, tornerà, tornerà…-

Doveva essere così. Si portò un dito alle labbra, tormentandosi le unghie con i denti.

-Tornerà, tornerà, tornerà…-

Non poteva essere stato così avventato. Già altre volte si era talmente arrabbiato da uscire di casa sbattendo la porta, ma mai aveva trascorso la notte fuori. Il sangue uscì dalla tenera carne.

-Tornerà…-

E gli tornarono in mente gli occhi dorati divorati dal fuoco. Vide gli stessi occhi fissi su di lui, vitrei, immobili. Vide la pupilla rossa, vide il sangue che gocciolava e la ricopriva. Vide gli occhi di cinque anni fa.

-Tornerà…-

Passi sempre più veloci e pesanti. Il ritmo si fondeva con il rumore delle lancette del vecchio orologio. Ticchettio. E il tempo passava. E lui non era ancora tornato.

-Tornerà…-

Ticchettio. Lui non era tornato. E a nessun’altro importava.

Con un gesto veloce, la mano del ragazzo scaraventò l’orologio sul pavimento della soffitta. Respirava affannosamente. Il vetro si era incrinato, le lancette si erano fermate. Fissò per un istante il vecchio orologio, poi incredulo la propria mano, vergognandosi di quello scatto d’ira. Raccattò l’oggetto, uno dei pochi cimeli lasciati dal nonno, tolse la polvere che si era adagiata sulla vernice scrostata, come per scusarsi, e lo poggiò di nuovo sulla mensola.

Si tuffò sul materasso, alzando sbuffi di polvere. Quel silenzio era anche peggio del ticchettio. E l’immagine di quegli occhi dorati non voleva uscire dalla sua testa. Così prese la sua decisione. Infilò una mano sotto il giaciglio sudicio, tirando fuori un sacchetto colmo di monete d’oro. Era una cifra ragguardevole, i risparmi che il nonno gli aveva lasciato prima di morire. Afferrò un mantello appeso alla parete e si precipitò giù per le scale.

-Ti troverò…-

E lo avrebbe fatto a qualsiasi costo.

 

Quartieri alti, nei pressi della chiesa di sant’Anna. Il luogo dell’ultimo avvistamento delle Maschere Nere. Nonostante fosse mezzogiorno, quei luoghi erano impregnati d’oscurità. Alti edifici di pietre calcaree si alternavano ad alti archi che un tempo avevano lo scopo di sostenere il peso delle massicce pareti della cattedrale. Dopo il suo crollo, le curve architettoniche si protendevano minacciose verso il cielo azzurro, come arti staccati di un enorme organismo. Gli incroci delle case puzzavano di urina e di aria stagnante, le strade piene di buche, le pietre rubate per la costruzione di ripari pericolanti. Dagli stretti vicoli il buio s’agitava, gorgogliava, allungava le sue mani nere per afferrare la tua ombra. Loschi individui si riparavano dalla calura sotto le tettoie delle case, oppure sedevano sui gradini di vecchi edifici. Dai visi oscurati, solo un breve luccichio.

Feliciano strinse maggiormente il sacco di monete contro il petto, mentre la mano sbiancava intorno al colletto del mantello. Procedeva con passo malfermo lungo le strette vie, lanciando sguardi smarriti e impauriti verso i muri e gli abitanti di quella zona malfamata. L’istinto che gli urlava di scappare più lontano possibile lottava contro il desiderio di ritrovare il suo fratellone. Cercava di convincersi che la paura che gli stava attanagliando le viscere fosse del tutto infondata, solo frutto della sua mente stanca e provata. Ma qualcosa dentro di sé, qualcosa di istintivo, di animale, lo stava mettendo in allarme, una profonda inquietudine aleggiava intorno a lui. I sensi si erano acuiti, percependo presenze malvagie dietro di sé.

 Con la coda dell’occhio, vide due individui, già notati qualche incrocio precedente. Un altro uomo con una cappa nera calata sul viso, a un loro cenno, s’allineò sulla scia dei loro passi. Il ragazzo girò la testa di scatto, aumentando la sua andatura. Il gruppo non cercava più di celare la propria presenza. Feliciano sentì che il numero di suole che battevano sulla strada polverosa erano aumentate. Con il cuore che batteva all’impazzata, avanzava con ampie falcate verso il  bivio davanti a sé. Ma come imboccò la via a destra, vide avanzare verso di sé, un altro drappello di uomini dall’aria sinistra. Con il cervello impantanato nella sensazione vischiosa del panico, indietreggiò, correndo verso la strada che conduceva a sinistra. I due gruppi si erano fusi. E dallo scalpitio che rimbombava tra le alte mura, capì che lo stavano braccando. Il sangue scorreva veloce dentro di se, le tempie pulsavano violentemente, il respiro gli bruciava nella gola. Il piede incespicò in una buca, ma riprendendo un equilibrio precario, si precipitò in avanti, svoltando alla curva successiva. Si fermò di colpo. La strada si srotolava per qualche altro metro, per poi essere interrotta bruscamente da un muro che si ergeva dritto tra le due pareti. In trappola.

Si voltò verso la svolta. Gli uomini si stagliavano sul ritaglio di luce che proveniva dalla strada principale, con ampi ghigni che deformavano i visi in penombra. Lo stesso sguardo sanguinario del fratello. Si strinse maggiormente nel mantello, mentre istintivamente indietreggiava verso il muro. Basse risate uscivano dalle loro bocche, la malvagità delle loro azioni malcelata dalle cappe che adombravano gli occhi affilati.

D’un tratto, uno di essi si slanciò contro di lui e gli afferrò il braccio. Feliciano urlò, ma fu strattonato con violenza. Cadde in avanti. La borsa volò più giù, quelli nelle file addietro vi si lanciarono come bestie affamate. Qualcuno lo costrinse a mettersi in ginocchio, gli calò con poca grazie il mantello dal viso. Il gruppo si divise, ne emerse un uomo, probabilmente il capo, che si avvicinò con passo sicuro al corpo tremante del ragazzo.

Aveva lunghi capelli neri, sudici, la pelle indurita dal sole e dalla crudeltà degli occhi orientali. Una vista spaventosa per il giovane, che abbassò il capo, strinse così forte gli occhi da veder danzare sotto le palpebre luci biancastre.

-Alza la testa-.

La voce era metallica, tagliente, perentoria. Non voleva rincontrare quello sguardo in cui era scritto il suo imminente destino.

-Alza la testa!-

La violenza dell’urlo fece mozzare il fiato al ragazzo. Non vedendo cambiamenti, l’uomo avanzò di un passo, afferrò i capelli rossastri della nuca e li tirò violentemente indietro. Dalle labbra sfuggì un gemito di dolore, mentre sentiva il suo sguardo che forava la sua pelle come un milione di aghi.

Con occhi spaventati, Feliciano fissò con orrore il ghigno allargarsi sul viso incartapecorito, i denti affilati che brillavano sinistratamente. Un dito sporco percorse lascivo la linea della mascella. Da dietro di se senti uno sbuffo.

-Cosa ne facciamo di lui?-

Il viso del capo si allontanò. Il ragazzo non osava respirare, aspettando con angoscia il suo destino. L’orientale si strinse il mento tra l’indice il pollice, in una finta posa pensosa.

-Mmmh… Potremmo venderlo a uno dei bordelli su a nord, potrebbe essere scambiato per una donna. Ma scommetto che qualche vecchio maiale pagherebbe oro per vederlo in calzoni…-

Dal gruppo provenne qualche risata di divertita crudeltà.  

-Oppure…-

L’uomo afferrò il viso del ragazzo, tirando fuori dal mantello un coltello incrostato di sangue nero. Feliciano boccheggiò quando questo passò la lama fredda sulla guancia sudata.

-Potremo ammazzarlo e vendere gli organi…-

L’asiatico puntò la lama verso gli occhi del giovane, da cui scendevano due caldi rivoli salati che solcavano le guance.

-No…-

-Tanto con tutti i morti che ci sono nessuno si accorgerà di te…-

Nella sua mente apparve l’immagine di Lovino.

-No!-

Tentò di liberarsi, strattonò le  braccia tenute dietro la schiena. Il capo rise forte, sadismo compiaciuto trasudava da quei gracidii.

-No?-

L’uomo avvicinò il viso al suo, gli occhi più freddi della stessa lama.

-Cosa credi di fare?-

Alzò il pugnale, pronto ad affondarlo.

-Tanto morirai, qui e adesso!-

Feliciano chiuse gli occhi, chinando il capo, pronto a sentire il ferro gelido che affondava nel suo cranio. E aspettò, pochi ma interminabili secondi. Solo un urlò disumanò lo costrinse a riprendere coscienza di se. Alzò lo sguardo. L’asiatico spalancò gli occhi, mentre rivoli di sangue uscivano dalla bocca semi aperta. Si portò una mano all’altezza del petto, dove altro liquido vermiglio sgorgava copioso. Afferrò qualcosa. La sua mano stringeva un braccio che gli aveva attraversato la cassa toracica. Spalancò la bocca, tentando di gridare, ma l’arto che lo trafiggeva venne ritratto lentamente, provocando un fruscio umido di carne contro carne. L’uomo si accasciò a terra, dove si allargò una pozza di sangue. Feliciano vide i propri pantaloni strappati inzupparsi di caldo liquido denso. Sul vicolo calò il silenzio.

Dietro all’ammasso di delinquenti, erano apparsi una decina di figure umane, coperte da stracci maleodoranti. Ai loro piedi, i corpi agonizzanti di uomini colti alle spalle, che rantolavano e si dibattevano tra il sangue e le interiora.

Un urlo di terrore ruppe quel precario stato di quiete. Nel vicolo scoppiò il caos. Gli uomini dalle pelle tumefatta avanzavano, uccidendo e sventrando i ladri più vicini. I più coraggiosi snudavano pugnali e si avventavano sugli uccisori dei compagni. Vennero però uccisi a loro volta. Gli uomini vennero annebbiati dal panico, qualcuno cercò di sfondare la fila compatta degli assalitori, ma venne trafitto dalle mani immonde. Gli altri tentarono di fuggire dalla presa assassina, inutilmente.

Feliciano sentì il proprio aguzzino mollare la presa sulle sue braccia, così poté gattonare nell’angolo tra la parete del vicolo e l’alto muro. Davanti i suoi occhi, scene di inaudita violenza e crudezza si susseguivano, una dopo l’altra, senza fine. Le urla disperate dei ladri lo laceravano, il sangue schizzava sul suo viso e sugli abiti.

Durò tutto pochi minuti. Alla fine, nei canali di scolo delle strade scivolavano rivoli di sangue nero, le pietre erano coperte da poltiglia umana. L’aria era impregnata da un olezzo talmente penetrante che il ragazzo temette di rimettere di stomaco. L’ultimo rimasto vivo era lui, stretto nel suo angolo.

Lentamente, uno dei mostri si girò verso di lui. Feliciano incontrò il suo sguardo, e gridò. Quelle persone non erano vive. Sulla pupilla era calata una velo trasparente, vitreo, come quello della madre in quello stanzino di cinque anni fa.  Quello avanzò nella sua direzione, barcollando tra i resti dei delinquenti. Il ragazzo si girò, le mani cercarono disperatamente un appiglio nelle mura per poter fuggire, le dita si riempirono di graffi. Udì i passi arrestarsi. Si voltò lentamente, e vide la figura del morto vivente stagliarsi su di lui. Gemette, premendo il corpo nell’angolo, in cerca di protezione. Urlò, quando il palmo della mano omicida si aprì su di lui. Sentì l’odore di carne putrefatta entrare nelle sue narici, riempirgli la testa. E credette davvero di morire lì, in quel vicolo buio.

D’un tratto, un lampo di luce bianca. E vide la testa del morto rotolare fino ai suoi piedi. Prima di poter realizzare alcunché, il corpo dell’assalitore fu mutilato delle braccia, delle gambe, il petto fu ridotto a pezzi. Neppure un goccio di sangue uscì dal mostro, che crollò a terra come una torre sgretolata.

Così lo vide per la prima volta. Un figura fasciata da attillate vesti nere, sfilò la lunga spada bianca dai resti putrescenti dell’aggressore. Indossava una maschera nera.

 

Note d’Autrice

Ed eccomi tornata con un nuovo esperimento! Dopo aver scritto così tante storie che oscillano da scleri mattutini a demenzialità pura, ho deciso di dedicarmi a questa long fic, decisamente più impegnativa.

Allora, qualche precisazione: tutti i fatti descritti sono  puramente inventati, avvengono in una fusione tra mondo reale e immaginario (per esempio, non so se esiste qualche chiesa di sant’Anna a Roma!). Inoltre, l’atmosfera della storia sarà steampunk, ovvero,cosa sarebbe successo se nel passato ci fosse stata la tecnologia. Come in Full Metal Alchemist, tanto per capirsi. Inoltre, gli avvertimenti e il raiting potrebbero alzarsi, chi vivrà vedrà… Infine, l’assalitore del vicolo è un personaggio random, non è nessuno degli asiatici di Himaruya. Farò altre precisazioni nei capitoli successivi. Buona lettura e recensite in tanti!!! :D

 

 

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Capitolo 2
*** Luce bianca ***


Nonostante fosse stata sua intenzione sin dall’inizio incontrare gli assassini dei propri genitori, questo non lo preparò comunque alla vista della figura oscura che adesso era ritta di fronte a lui. La maschera ne copriva completamente il volto, e non permetteva d’intravedere neanche un singolo centimetro di pelle.

Feliciano rabbrividì dei tratti grotteschi del calco. Le sopracciglia corrugate, le rughe accentuate dalle ombre, la bocca deforme dalla dentatura animalesca, le corna caprine, nella loro immobilità, conferivano all’intero essere un’aura di fredda spietatezza.

La Maschera Nera sollevò lentamente un braccio. Il ragazzo si ritrasse, intimorito. Ma il gesto dell’uomo era volutamente lento, non brusco, non come avrebbe fatto invece un nemico. Feliciano ebbe l’impressione che la figura oscura gli desse il tempo necessario per capire e anticipare ogni sua azione.

Alzò il viso, nascosto sotto il mantello, rivolgendo la propria attenzione verso la mano guantata. L’uomo mostrò il palmo della mano, in un chiaro avvertimento: non muoverti. Senza aggiungere altro, la Maschera si girò, brandendo la candida spada con entrambe le mani.  Il piede destro indietreggiò, il petto fu proteso in avanti.

Il primo mostro si scagliò sull’uomo con ferocia inaudita. Feliciano, di riflesso, si sporse, urlando un avvertimento a colui che sembrava aver l’intenzione di difenderlo. Ma, con un’agilità soprannaturale, la figura oscura inclinò appena indietro il busto, evitando il braccio che avrebbe dovuto trapassargli il petto. Con il braccio sinistro, sollevò di scatto la lama sottile, tranciando l’aggressore all’altezza della vita. Il tronco del morto cadde poco più in là, mentre le braccia annaspavano alla ricerca della metà mancante. Con un affondo, la parte superiore del mutilato fu tagliata nuovamente in una simmetria inquietante. Gli arti caddero inerti lungo i fianchi.

L’uomo si voltò verso gli altri assalitori, rimasti interdetti dall’inusuale sconfitta di un compagno. Altri tre si staccarono dal gruppo, slanciandosi verso di lui con un ampio balzo, intenzionati a piombargli addosso dall’alto.

La Maschera alzò la lama verso il cielo e, con uno scatto fulmineo, si gettò in avanti. I corpi lacerati degli assalitori caddero con tonfi sordi sui ciottoli della strada.

Feliciano rimase strabiliato dalla leggiadra maestria con cui la figura riusciva a impugnare l’arma, muovendosi al contempo con estrema agilità. Trasalì, però, quando vide l’uomo circondato dai mostri in tutte le direzioni. Questi, consci del dislivello tra fra le loro forze, decisero di puntare sulla superiorità numerica. Ognuno si lanciò sull’avversario, protendendo le mani assassine.

In quel momento, Feliciano non seppe se quanto vide fosse reale o un semplice gioco di luce sulla nivea lama.

Sentì un battito. Spalancò gli occhi. La lama sembrò rilucere, per un attimo, di luce propria.

Un altro battito. Il ragazzo si tappò le orecchie con le mani. Inutile.

Un battito ancora. Lo sguardo smarrito vagò lungo le pareti scrostate, alla ricerca della fonte dei colpi sordi.

Era strano però, quel costante palpito: era caldo, profondo, radicato nel proprio essere. Pulsava nella sua testa, ma non era una sensazione estranea al proprio corpo. Un barlume di comprensione.

Feliciano poggiò il palmo della mano sul proprio petto con incredulità. Sotto la pelle, lo stesso ritmo, valvole che si contraevano e pompavano sangue.

Quel rumore era un cuore che batteva.

I suoi occhi tornarono fulminei sulla spada. Il pulsare denso di vita proveniva proprio dalla lama candida, a ogni tocco questa fremeva di pura energia bianca.

E lo sguardo seguì sbigottito la danza dell’arma e del padrone, che si fondevano in quel battito, un unico essere che tagliava e uccideva.

Ben presto, nel vicolo, calò nuovamente il silenzio. I resti degli esseri semi-umani giacevano su quelli delle loro vittime.

La Maschera Nera accarezzò la lama, immacolata nonostante le uccisioni, con apparente dolcezza, sussurrando parole in un idioma sconosciuto.

Con gesti calcolati e veloci, ripose l’arma nella fodera appesa al proprio fianco. Infine, volse lo sguardo verso il ragazzo accovacciato nell’angolo. O almeno, così  credette questo ultimo: da sotto le sopracciglia aggrottate, una sottile linea di pittura rossa tracciava i contorni di palpebre sbarrate, la pupilla completamente bianca, nel centro due piccole fessure.

La Maschera mosse lenti passi verso di lui. Il ragazzo rimase immobile e trattenne il fiato, quando l’oscuro individuo si accovacciò davanti a lui, allungando nuovamente il palmo della mano, questa volta in un gesto d’aiuto.

Scrutò la ruvida stoffa del guanto nero, poi i profondi solchi sul calco mostruoso.

La testa dell’uomo s’alzò di scatto, come se un pensiero improvviso gli attraversasse la mente. Poggiò le dita sottili sotto il gesso nero, per scostarlo dal viso e riporlo tra le pieghe del mantello.

Di tutto si sarebbe aspettato Feliciano, tranne quello che gli si parò di fronte.

Un giovane, non un uomo, si rifletteva nelle sue iridi. Una frangia nera, che venne scostata dalla fronte sudata con un gesto calcolato, copriva parte degli occhi dal taglio orientale. La pelle liscia, priva di rughe, piatta, se non fosse stato per le sopracciglia leggermente arcuate, in un accenno di preoccupazione.

Una faccia comune, nessun tratto particolare, neppure un particolare che potrebbe colpire un osservatore esterno. Un viso che chiunque potrebbe incrociare per le vie del mercato orientale nel quartiere est, lineamenti che sbiadiscono appena lo sguardo veniva distolto. Non certo la faccia che ci si aspetterebbe dal freddo assassino che poco prima aveva sterminato il branco di assalitori.

Solo gli occhi tradivano la prima impressione, qualcosa scorreva placidamente nelle iridi scure, qualcosa di profondo, di quieto equilibrio, di placida intensità.

Le labbra pallide si mossero, le parole uscirono in un italiano stentato, le sillabe scandite lentamente, le vocali volutamente più lunghe.

-Stai bene?-

La voce era misurata, né un sussurro, né un grido, ornata appena da un breve cenno di apprensione.

Feliciano era interdetto. Rimase lì, immobile, scrutando il viso del ragazzo e la mano ancora tesa verso di lui.

L’orientale non accennò ad alcun movimento, le iridi calme in placida attesa.

Non riuscendo a giungere a nessun altra conclusione, il rosso strinse incerto il palmo offertogli.

Il moro l’aiutò gentilmente ad alzarsi, e Feliciano si stupì nel constatare che il suo salvatore era alquanto basso, persino più di lui, che non spiccava certo per statura.

Nel suo angolo, l’assassino si era trasformato in un aggraziato gigante che uccideva i mostri spietati.

La Maschera sciolse delicatamente la presa sull’italiano, che barcollò per un istante, appoggiandosi al muro polveroso per riprendere il controllo sul proprio corpo.

L’orientale gli voltò le spalle, per portare una mano dietro l’orecchio, nascosto da lunghi ciuffi corvini.

Feliciano sentì distintamente un brusio, così simile a quello della sua vecchia radio nella soffitta muffita.

Il moro pronunciò sottovoce parole veloci nel suo idioma sconosciuto.

-Bonnefoy-kun, anata wa potaru o hiraku koto ga dekimasu ka? (1)-

L’italiano captò tra le interferenze e gli sfrigolii una roca risata maliziosa.

-Mon cher, mes portes sont toujours ouvertes pour toi…(2)-

Feliciano s’interrogò sul significato di quelle parole lascive, dalle sillabe arrotondate e cantilenanti, che ebbero il potere di sconvolgere la profonda quiete che avvolgeva l’asiatico: le sue pallide guance s’imporporarono violentemente, balbettii sconnessi uscirono imbarazzati dalla pallida bocca.

Improvvisamente, il ragazzo lo percepì.

Qualcosa stava mutando nell’atmosfera del vicolo.

Il velo d’immobilità, che prima aveva coperto lo sporco vicolo, venne increspato, e fredde correnti d’aria soffiarono nel mezzogiorno di un torrido pomeriggio romano.

Le molecole d’ossigeno vennero risucchiate in questo gelido flusso, si scontrarono, s’aggregarono, assunsero una propria iridescenza, parvero quasi tangibili.

Feliciano avvicinò un dito, intimorito e al contempo affascinato, verso quei baluginii vacui. Questi, però, fuggirono, scivolarono tra le dita, vorticarono in circolo, come pulviscolo.

All’improvviso, il flusso divenne più forte, le correnti convennero in un unico punto.

Lo spazio si distorse, sembrò lottare contro forze invisibili.

Le molecole argentee vennero trascinate nel gorgo creato dalle correnti, s’ammassarono al centro del vortice, attirate da una forza di gravità indipendente da quella terrestre, prendendo velocemente la forma di un piatto specchio lattiginoso.

Feliciano aprì la bocca, la richiuse, la riaprì, incapace di articolare qualsiasi aggettivo che potesse lontanamente descrivere il suo stupore.

Mentre boccheggiava, l’asiatico azzerò con pochi passi decisi la distanza che lo separava dal portale, si fermò solo quando il suo naso sfiorò la superficie lattea, e si voltò verso di lui.

L’italiano sentì quelle scure iridi scrutarlo, scavare, e toccare la parte più intima di sé. 

Era uno sguardo che annientava nella sua profondità.

Parlò nuovamente nel suo italiano stentato.

-Noi abbiamo le risposte che cerchi-

Senza ulteriore indugio, la figura dell’asiatico s’immerse nel mare bianco e scomparve.

Feliciano era ancora appoggiato alla parete del muro.

Tirò un lungo sospiro, si stupì: non si era neanche accorto di aver trattenuto il fiato.  

Fissò lo specchio perlaceo che, a quanto pareva, non era intenzionato a chiudersi, nonostante il passaggio della Maschera.

Sembrava proprio che l’asiatico avesse lasciato intenzionalmente una porta aperta per lui.

Barcollando fra i vari resti umani, si avvicinò alla pozza iridescente con progressiva sicurezza, la paura che si sostituiva alla curiosità.

Si trovò di fronte al vortice. Allungò nuovamente la mano verso le molecole che fluttuavano nella distesa biancastra. Un dito affondò nella sostanza baluginosa, senza incontrare alcuna resistenza. Era fredda.

Allontanò lentamente la mano. Un filo lattiginoso seguì il ritrarsi delle sue dita, s’allungò, s’assottigliò, per poi spezzarsi in piccoli bagliori, che continuarono a fluttuare nell’aria stagnante del vicolo. 

L’italiano lasciò cadere il braccio lungo il fianco, indeciso sul da farsi.

Dimentico del fratello, dimentico dell’aggressione, dimentico dei morti viventi, dimentico della morte sfiorata.

Dimentico perfino del fatto che il suo salvatore era un assassino.

Nella mente, solo una frase.

-Noi abbiamo le risposte che cerchi…-

Un sussurro, un pensiero martellante, che vagava indissolubile nella sua mente, come quelle molecole argentee.

Chiuse gli occhi. E fu come immergersi nell’acqua fredda del mare.

Nel vicolo buio, lo specchio liquido tremò, si rimpicciolì sempre di più, finché scomparve del tutto.

Solo poche iridescenze vaganti volevano suggerire agli osservatori che, in quella sporca via, realtà, fantasia e orrore si erano mescolati per un istante.

 

Oltre il portale, non c’era nulla.

Anzi, no, era vero l’esatto contrario.

Lì dentro, regnava il nulla.

Feliciano sbatté più volte le palpebre. Niente. Quel luogo era completamente buio, né una finestra, né una fessura da cui trapelasse un raggio di sole.

Cercò di camminare avanti, nella speranza di sbattere contro qualche parete, con lo scopo di cercare uno spiraglio da cui poter sbirciare all’esterno.

Il suo cuore perse un battito. Tentò di agitare gli arti, le mani provarono a tastare il volto, il petto, le braccia. Un panico viscerale s’insinuò nella sua mente.

Non aveva più un corpo.

Non era una sensazione d’intorpidimento, né di perdita di sensibilità, perché in quel caso avrebbe comunque avuto coscienza di sé, la consapevolezza di possedere ogni singola cellula del proprio essere.

In quella oscurità, lui era solo una concezione astratta, un pensiero, privo di una propria massa.

Con orrore, il ragazzo si accorse di aver perso anche il senso dell’olfatto e dell’udito.

Era orrendo quel vuoto. Anche il silenzio è un suono. Invece, lì dentro, o lì fuori, chissà, ogni percezione umana era annientata.

Quella era la vera essenza del Nulla.

Tentò di urlare, ma non sentì delle labbra aprirsi, una voce squarciare il fitto nero, orecchie udire l’eco. E la prospettiva di vagare per sempre in quel non mondo era insopportabile.

D’un tratto, nel buio, apparve un punto.

Galleggiava, irradiando un tenue bagliore, sopra le oscure onde del vuoto.

Da ogni direzione, particelle argentate sfrecciarono verso quella lontana entità evanescente e, come comete, lasciavano dietro di sé scie luminose. Danzarono in circolo, crearono un vortice, lo stesso che si era creato nello stretto vicolo di Roma.

Feliciano tentò disperatamente di raggiungere quello sbocco, fuori dalle acque scure e torbide, dove i suoi polmoni avrebbero potuto riempirsi di aria vitale. Spalancò gli occhi, se mai in quella dimensione li possedeva.

Dalla particella primigenia, uscì una mano.

Il ragazzo si sentì afferrare da dita forti, e trascinare fuori dall’oceano vuoto.

Poi, una luce abbagliante.

Lentamente, il ragazzo prese la coscienza di essere seduto su una superficie solida.

Inghiottì avido grandi boccate d’ossigeno, sentì il tessuto spugnoso espandersi nella gabbia toracica.

Voci, strilli e sussurri cozzavano fra loro, si scontravano violentemente contro le sue povere orecchie intorpidite dal silenzio.

Portò una mano a riparo degli occhi, non ancora abituati allo sbalzo tra il mondo nero e quello a colori.

La prima cosa che vide, furono due occhi azzurri, duri, freddi, terrificanti, a pochi centimetri da sé.

Questa volta, Feliciano sentì chiaramente un urlo isterico prorompere dalle proprie labbra.

In un punto imprecisato, s’udì una risata sguaiata.

- Bruder, Stoppen Sie erschrecken die Neulinge Sie mir! (3)-

Il ragazzo tentò di divincolarsi tra le possenti braccia del suo aguzzino, ma la presa ferrea non si allentò neanche un poco.

Scalciò, piagnucolò, strepitò. Si stava comportando proprio come un moccioso impaurito, ma non gli importava. Prima la terribile esperienza del Vuoto, poi trovarsi intrappolato nelle grinfie di un essere terrificante. Era decisamente troppo per lui.

E intanto teste si ammassavano intorno a lui, visi s’accalcavano sopra la testa del suo carceriere, mani scacciavano altri corpi ingombranti.

Feliciano tentò nuovamente di sgusciare fuori dai muscolosi avambracci, ma sentì la presa vigorosa di due palmi sulle sue guance.

Di nuovo i due occhi celesti si rifletterono nelle sue iridi dorate. 

- Vertrauen Sie mir (4)-           

Accento duro, consonanti cacofoniche, sillabe ruvide. Quella lingua non aveva nulla di armonico, di musicale. Eppure, Feliciano smise di dibattersi.

Quella voce, nella sua asperità, era forte, solida. Le pupille limpide, prive d’ombre, dirette.

Quegli occhi non potevano nascondere nulla, svelavano i gesti prima che fossero compiuti. E quelle mani grandi e forti trasmettevano calore e sicurezza.

L’italiano rimase incantato, inconsciamente ripose completa fiducia all’uomo che lo stringeva.

Questi pensieri, che turbinavano confusi nella sua mente, vennero spazzati via da una folata improvvisa, quando l’uomo estrasse qualcosa dalle pieghe del camice bianco: un cilindro metallico, una sonda lunga appena qualche centimetro, che luccicò sinistramente tra le dita dello sconosciuto. Con un gesto fulmineo, posizionò l’oggetto sospetto dietro il padiglione auricolare del rosso che, sgomento, avvertiva un brutto presentimento spandersi dal tubicino placcato.

D’un tratto, infatti, avvertì un dolore acutissimo nella carne delicata dietro l’orecchio, come se tanti piccoli aghi forassero la pelle sensibile.

Cacciò uno strillo acuto, ricominciando a dibattersi nella presa di quel mostro che lo aveva crudelmente ingannato. Di nuovo la risata di prima, un suono particolarissimo, quasi gracchiante.

-Fratello, sei proprio un bastardo!-

Un’altra voce s’intromise, più calda e dolce.

-Aaaahhh, non è terribilmente carino~?-

Nuovamente echeggiò una risata sguaiata.

-Antonio, frena i tuoi bassi istinti!-

-Ma Gilbert, non trovi che sia adorabile~?-

-Mai quanto il magnifico me!-

Le due voci erano scherzose, in confidenza.

-Nessuno definirebbe carino uno sporco ubriacone come te…-

-Come osi, brutto pedofilo!-

-Vuoi fare a botte?-

-Forza, fatti sotto!-

Feliciano lanciò uno sguardo perplesso ai due uomini che, lì vicino, lottavano giocosamente tra loro, tirandosi pugni e schiaffi fra allegre risate.

La sua attenzione fu bruscamente attirata da una robusta figura che, con  foga dirompente, gli si catapultò praticamente addosso, stringendo con foga la sua mano tremante tra le proprie.

-Non temere, ci sarà sempre l’eroe a vegliare su di te!-

Una promessa gridata ai quattro venti, impregnata di puerile entusiasmo, due occhi blu che brillavano di infantile eccitazione dietro lenti sottili.

Lo sguardo spaurito dell’italiano vagò ancora per la stanza. Un uomo dai lunghi capelli biondi sedeva mollemente su un divano accostato alla parete della stanza. Di tanto in tanto, poggiava le labbra sul cristallo di un bicchiere colmo di vino.

Ogni gesto era languido, lento, rivolto ad assaporare la bellezza e l’estasi di ogni istante.

Con un sorriso sornione, ascoltava divertito le frasi concitate e furiose dell’asiatico che gesticolava nervosamente davanti a lui.

-Ti pregherei profondamente di non aprire il portale nella sala principale, ti ho ripetuto già diverse volte di usare il laboratorio!-

Il moro, per quanto furioso, usava un vocabolario rispettoso, formale, gentile.

Nell’aria si espanse una leggera risata.

Il biondo portò una mano affusolata a coprire un sorriso malcelato, accavallando provocantemente le gambe.

-Ma mio piccolo fiore di loto, così non potrei giudicare adeguatamente la nuova mercanzia…-

Rivolse i torbidi occhi azzurri verso l’italiano.

-E direi che questa volta abbiamo scelto proprio bene…-

Se possibile, il moro arrossì ancora di più, tartagliando frasi sconnesse e cariche d’imbarazzo. Feliciano constatò che il biondo era l’uomo con cui la Maschera aveva parlato nel vicolo di Roma.

Riuscì a formulare solo questo pensiero, prima di sentire due forti braccia sollevarlo dal freddo pavimento, che lo portarono lontano da quegli sconosciuti, verso un corridoio secondario.

-Ma come, lo porti già via?-

-Lud, sei un guastafeste!-

-Eddai, aspetta un attimo!-

-Non ho testato ancora il nuovo articolo!-

-Fratellino, non te ne approfittare, eh!-

Solo a questo ultimo commento, l’uomo arrossì, borbottando qualcosa all’indirizzo del ragazzo dalla risata gracchiante.

Feliciano si ritrovò stretto contro l’ampio petto di quello strano individuo verso cui, per un breve momento, si era pienamente fidato. Era caldo, proprio come le sue mani.

Istintivamente, si rannicchiò maggiormente tra le pieghe del camice bianco.

Sentì di nuovo l’uomo sussultare, i suoi battiti del cuore accelerare leggermente.

E sul ragazzo calò la consapevolezza che, nonostante quello fosse un estraneo, nonostante non conoscesse nulla sul suo conto, nonostante il suo piccolo inganno, in quell’abbraccio, si sarebbe sempre sentito al sicuro.

Non seppe quanto tempo passò avvolto in quel piacevole calore, cullato dalle suole che percorrevano decise il pavimento del lungo corridoio.

Ad un certo punto, i passi cessarono.

Feliciano si riscosse dal proprio torpore. L’uomo si era fermato davanti a una porta. Lo depose delicatamente a terra, aiutandolo a ritrovare un equilibrio sufficiente a restare in piedi da solo.

Il ragazzo lo guardò interrogativo, ma il suo rapitore voltò la di scatto la testa, evitando il suo sguardo. Il rosso rimase involontariamente ferito da quel comportamento.

Poi, l’uomo indicò l’uscio davanti a loro.

-Entra-

Telegrafico, un messaggio chiaro e duro.

Si voltò. Con passi frettolosi, percorse velocemente a ritroso il percorso compiuto.

Feliciano fissò sempre più confuso la sua schiena allontanarsi, finché scomparve dietro un angolo.

Riportò gli occhi sulla porta.

Era stravolto. Gli avvenimenti dell’ultimo giorno si erano susseguiti uno dopo l’altro, a un  ritmo pressante e insostenibile. Orrori e meraviglie si erano accavalcati uno sopra l’altro, senza concedergli un attimo di respiro. E pensieri, paure e interrogativi si intrecciavano tra loro, fili sottili aggrovigliati in una matassa inestricabile.

Esasperato. Nessuna risposta, solo domande, domande, e ancora domande.  Voleva spiegazioni, voleva qualcuno che gli spiegasse cosa diavolo stesse succedendo.

Con questa nuova motivazione, mista a timore, Feliciano si apprestò ad abbassare la maniglia della porta.

 

(1)   Bonnefoy, riesci ad aprire un portale?

(2)   Mio caro, le mie porte sono sempre aperte per te… (chi vuole intendere intenda… NdA)

(3)   Fratello, smettila di spaventare i novellini con la tua faccia!

(4)   Fidati di me.

 

Note d’Autrice

 

Ecco a voi, dopo un lungo e difficile parto, il capitolo appena nato! Finalmente è apparso l’elemento soprannaturale, perciò ho cercato di rendere questo aspetto al meglio, senza scivolare nella banalità… Ho dato anche largo spazio a Kiku, un personaggio a cui tengo molto, come vedrete nel seguito. Come poi non mettere le battute maliziose del nostro mangia-rane preferito? E la parte finale del capitolo… Beh, in ogni long fic che si rispetti deve sempre essere presente un po’ di GerIta! L’unica cosa che un po’ mi secca sono le frasi in lingua straniera: nonostante siano poche, sono conscia che è molto scomodo andare a fondo pagina per leggere la traduzione. Inoltre, mi sono affidata a Google Traduttore, visto che l’unica lingua che conosco è l’inglese… .___.’’’ Perciò, se qualcuno noterà delle imprecisioni nelle traduzioni, me lo faccia sapere! Infine, ringrazio tutti coloro che hanno recensito o chi ha semplicemente letto, e spero che continuerete a seguirmi! :D

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Capitolo 3
*** Ricerca ***


La testa dell’uomo cozzò violentemente contro il muro scrostato. Un gemito di dolore sfuggì dalle sue labbra, aleggiò nell’aria putrida, ed evaporò nella calura di una via sudicia dei quartieri alti di sant’Anna.

Un pugno alla bocca dello stomaco. Il delinquente si piegò in due, sputò sangue sui ciottoli polverosi. Alzò gli occhi terrorizzati sul ragazzo che si stagliava minacciosamente su di lui. Iridi dorate bruciavano di rabbia, odio e collera lambivano la pupilla dilatata. Un demone. L’uomo tremò.

-Non lo ripeterò un’altra volta-

La voce ostentava una benevolenza che non le era mai stata propria. Una scarpa calò brutalmente sulla testa del ladruncolo, indugiando con crudeltà sulla carne viva delle ferite.

Il moro sibilò la stessa domanda, ripetuta già parecchie volte, aumentando ad ogni sillaba scandita con fredda spietatezza la pressione letale sulla testa del malvivente.

-Dove…-

Un lamento si levò sotto la suola.

-Diavolo è…-

Le ossa del cranio emisero sinistri scricchiolii.

-Mio fratello-

L’uomo urlò di dolore.

-Non lo so, non lo so!-, strillò disperato, facendo leva con i palmi delle mani sul pavimento sudicio della strada, sperando di alleviare il peso di quella presa mortale.

-Ho visto solo che gli Xi ‘Ong lo stavano seguendo, ma non so altro! Lo giuro!-

Lovino sbiancò.

Gli Xi ‘Ong. Il clan che controllava i più loschi giri d’affari di tutta la città.

Quando sentì la scarpa del ragazzo ritrarsi dalla sua pelle martoriata, il ladruncolo sospirò di sollievo.

Accadde in un attimo. Il tacco dei mocassini piombò sul suo naso. Prima del buio, l’uomo sentì con crudele lucidità l’osso cartilagineo spingersi all’interno, fino a bucare le cervella.

Lovino lo lasciò in quel modo, agonizzante in una pozza di sangue.

Si curò poco dell’impronte rosse che lasciava dietro di sé. Corse a perdifiato tra i vicoli, si spinse nelle strade più buie, s’inoltrò nei luoghi di maggior degrado.

Era stato uno stupido. Conosceva il suo fratellino. Avrebbe dovuto prevederlo.

Altri criminali, altro sangue, altre dita tremanti che puntavano verso nord.

Era bastata una sola notte di vagabondaggio tra le più squallide taverne di Roma a spaventarlo a tal punto da spingerlo a cercare le Maschere Nere.

Conosceva quel luogo, sapeva che quella via conduceva a un vicolo ceco. Si slanciò verso l’angolo, le piante dei piedi che bruciavano, il fiato che grattava lungo la gola secca.

Fratellino. Il suo unico fratellino. Quello che si preoccupava sempre per lui, quello che gli era stato sempre vicino, anche durante le sue sfuriate. Stupido, stupido, stupido.

Svoltò bruscamente, rischiando di schiantarsi contro il cantone appuntito.

Non poteva essergli successo qualcosa. No, impossibile. Lui non lo avrebbe mai permesso.

Alzò gli occhi, e s’arrestò di colpo.

-No…-

Non poteva essere arrivato troppo tardi.

Barcollò, cadde indietro. Si portò una mano tremante sulle labbra socchiuse.

Davanti ai suoi occhi lucidi, un’orgia di cadaveri mutilati marcivano nell’afosa calura del pomeriggio. Il sangue rappreso incrostava vesti sudice e sgualcite, densi rivoli neri colavano dalle bocche spalancate. Piccoli insetti camminavano sulle orbite bianche e immobili. Smorfie di dolori indicibili erano pietrificate dal velo gelido della morte.

-No…-

Lui non poteva essere arrivato in ritardo.

Si alzò con fatica, quelle sue stupide gambe che non riuscivano a sostenere l’intero peso del corpo. Con passo malfermo, si avvicinò ai morti imputriditi.

-Feliciano…-

Lui non poteva assolutamente essere arrivato in ritardo.

Si lasciò cadere in ginocchio, le gambe cozzarono contro ossa e arti mutilati. Le mani vagarono lentamente su quell’ammasso di carne putrefatta. Sfioravano visi emaciati, arti dalle ferite nere, scostavano leggermente i corpi irrigiditi. Cercavano con muto terrore un viso familiare.

-Feliciano…-

Un lampo di dolorosa pazzia inghiottì le iridi dorate. Lovino afferrò rabbiosamente un braccio separato dal proprio padrone, e lo lanciò dietro di sé. Ghermì una gamba, un piede, una testa, un busto, e li gettò più lontano che poté. Iniziò a scavare, con furia, le mani s’immergevano nell’immonda poltiglia.

-Feliciano!-

Le unghie grattavano e laceravano la pelle già martoriata dei cadaveri, sangue scuro schizzava sulla camicia, sui capelli, sul viso.

E cercava, e cercava disperatamente il viso del fratello tra i morti.

-Feliciano!-

Voleva vederlo vivo, ma frugava tra i corpi privi di vita.

In quel momento di delirio, la sua mente registrò distrattamente le fioche evanescenze che galleggiavano sopra di lui, bagliori troppo deboli per schiarire quell’oscurità.

 

Un palazzo abbandonato si affacciava sul vicolo in cui era in corso quella macabra ricerca. Due figure, sul tetto dell’antico edificio, osservavano l’affannarsi delirante dell’italiano.

-Ci è sfuggito…-

Un urlo straziante echeggiò nel vicolo sottostante.

-Lo so…-

Il ragazzino chiuse le piccole dita sulla mano calda del maggiore.

-Eppure era così vicino…-

La voce del moro tremò, l’ostentata noncuranza incrinata da note stonate di rabbia.

-Maledetta Aletheia…-

Fremette, scosso da leggeri tremiti. Le chiare pupille s’intorpidirono, piccole onde cremisi sommersero le iridi azzurre.

Un sussurro sommesso lo ridestò.

-No…-

Le dita sottili si strinsero sulla sua mano con dolce decisione.

-Non importa…-

Le scaglie vermiglie tremarono, per poi venire assorbite nuovamente dall’azzurro naturale della pupilla.

-Li cattureremo lo stesso…-

Il moro sospirò, il pollice accarezzò leziosamente la morbida pelle del tenero palmo.

-Tu mi sarai sempre vicino, vero Raivis?-

I suoi occhi scivolarono amorevolmente sulla figura minuta del bambino.

-Te lo già detto, Toris…-

Urla deliranti s’innalzavano da quel vicolo buio.

-Io non lascerò più andare la tua mano…-

 

L’entrata si aprì silenziosamente, un rettangolo di luce si piroettò lungo il pavimento della stanza. Una testa rossa si sporse oltre lo stipite, azzardò un’occhiata al suo interno. Il ragazzo aguzzò la vista, ma il buio era ancora troppo fitto. Osò allora spalancare completamente la porta, che questa volta cigolò sommessamente.

Feliciano rimase senza parole. Era entrato in una biblioteca. Ma non ne aveva mai vista una così. L’unico suo ricordo di un posto simile lo riportava indietro di parecchi anni, quando i genitori non erano ancora separati. Il nonno li aveva praticamente rapiti, lui e suo fratello, portandoli lontani dalla cucina in cui stava avendo luogo l’ennesimo violento litigio tra i due coniugi.

Fu così che i due piccoli furono sbattuti sul verde linoleum scadente di un’enorme stanzone. Un tempo quello era una chiesa sconsacrata in cui avvenivano incontri clandestini tra i gruppi malavitosi del quartiere. Catturati i criminali, i politici della città vollero dar mostra del loro impegno nel progresso culturale della bella Roma. Così, in meno di una settimana, fecero abbattere le pareti divisorie e sistemare un nuovo pavimento.

Feliciano non aveva alcun buon ricordo di quel luogo asettico, dei pochi romanzetti da quattro soldi e delle riviste sparpagliate con poca cura sugli scaffali metallici, della vecchia bibliotecaria che lanciava sguardi sprezzanti da dietro la montatura pacchiana degli occhiali.

Decisamente, le sue memorie non coincidevano con quello che gli si mostrava ora di fronte.

In quella stanza semi circolare, due enormi librerie assecondavano la dolce curvatura delle pareti, una destra e una a sinistra. Sulle mensole di mogano scuro, davano mostra di sé tomi dalla mole consistente, caratteri dorati incisi nel cuoio delle copertine, pergamene accuratamente arrotolate, documenti antichi che spuntavano da piccole cassette di ciliegio.

Il parquet era coperto da una coltre frusciante di fogli svolazzanti, appunti scribacchiati su pezzi di carta, pagine di libri aperti disposti secondo un disegno apparentemente casuale. Pile precarie di volumi che sfidavano le leggi della fisica e della gravità svettavano vicino agli scaffali colmi di letture.

L’intero insieme dei particolari donava alla stanza un’aura calda e intima, le sfumature e i dettagli suggerivano che la biblioteca era amata e vissuta, non come le sensazioni emanate dall’odore pungente di disinfettante dei corridoi dello stanzone della chiesa sconsacrata.

Il ragazzo avanzò lentamente fra gli ostacoli disseminati sul pavimento, avvicinandosi a una delle due librerie. Percorse con un dito i solchi delle lettere incise sul dorso di un antico manoscritto, si deliziò dell’odore di resina mista a inchiostro.

Gli occhi si posarono entusiasti su ogni piccolo capolavoro, e il ragazzo si stupì dell’enorme varietà di simboli, segni e ideogrammi presenti nella biblioteca, ogni codice era unico nel suo particolare alfabeto. Riuscì persino a individuare qualche opera legata alla sua terra madre. Tra questi spiccavano famosi trattati storici, saggi filosofici, scritti antropologici.

Feliciano seguì ancora docilmente la dolce curva degli scaffali. Solo quando lo sguardo si soffermò nel punto più lontano della stanza, dove la prima libreria s’interrompeva per dar seguito alla gemella, il ragazzo sobbalzò, notando un particolare di non trascurabile importanza, passato in secondo piano alla vista della bellezza della stanza.

Sotto lo zenit dell’arco formato dalle pareti, era posta una scrivania. O almeno, era ciò che l’italiano intuiva esserci sotto la montagna di pergamene srotolate, i plichi di fogli e le boccette d’inchiostro. Non che ci fosse nulla di strano in uno scrittoio, certo che no. L’unico problema era la figura che, con il suo peso, sovraccaricava ulteriormente il povero mobile, già ingombro di lettere e carte.

L’italiano rimase immobile, il respiro trattenuto, il dito che prima accarezzava le copertine antiche bloccato a mezz’aria. Con suo profondo sollievo, un lieve russare s’alzava da quell’individuo, segno che se la stava dormendo alla grossa.

L’italiano arrancò  faticosamente per avvicinarsi allo scrittorio, mosso da una strana audacia, non dovuta al coraggioso, ma dal bisogno impellente di risposte del momento. Poggiandosi sui bordi legnosi, studiò da vicino il viso del ragazzo profondamente addormentato.

Un braccio piegato fungeva da cuscino per la testa sormontata da due curiosi riccioli, mentre scompigliati ciuffi castani accarezzavano la fronte rilassata nel sonno. Il pollice della mano destra era posto a mo’ di segnalibro tra le pagine di un vecchio quaderno. La pelle abbronzata, i chiari pantaloni lisi e i pesanti scarponi marroni, oltre a donargli un’aria di trasandatezza, erano indizi che lasciavano trasparire una certa tendenza all’esplorazione e all’avventura. Le larghe spalle assecondavano placidamente il suo lento respiro.

Lo sguardo del rosso indugiò ancora su altri dettagli, per questa storia insignificanti, su cui non mi attarderò a scrivere. Dico solo che l’italiano continuò a fissare il misterioso individuo, indeciso sul da farsi. Probabilmente l’uomo che lo aveva accompagnato fin lì non aveva previsto questo particolare.

Feliciano indietreggiò lentamente, deciso a non destare l’addormentato dal suo sonno profondo.

Non aveva previsto, però, che il tacco delle proprie scarpe schiacciasse qualcosa di morbido, di vivo, che dimostrò il proprio disappunto emettendo acuti lamenti e conficcando i lunghi artigli sulla sua povera schiena.

L’italiano cacciò uno strillo di sorpresa e di dolore. Dibatté furiosamente le braccia, allungò inutilmente le mani  dietro le spalle, compì alcune giravolte su sé stesso.

Nell’agitazione, tuttavia, andò a sbattere contro alcune pile precarie dei tomi precedentemente citati. Troppo tardi il rosso si accorse di essere travolto da una rombante valanga cartacea.

Dopo che la forza di gravità ebbe compiuto il suo corso, Feliciano si ritrovò semi sommerso da libri e libelli, mezzo intontito dalla caduta di qualche manoscritto dalle considerevoli dimensioni sulla sua povera testa.

In quel mentre, la figura dormiente si era svegliata di soprassalto. Gli occhi verdi, ancora velati dal sonno interrotto bruscamente, vagarono alla ricerca della fonte di tutto quel chiasso.

Un piccolo gatto bianco, intanto, balzò tra le sue braccia abbronzate, raggomitolandosi sul suo grembo, emettendo lunghi miagolii lamentosi e frustando furiosamente la folta coda.

Quando il suo sguardo smeraldino incrociò quello dorato del ragazzo, ancora schiacciato dal peso della cultura, strabuzzò leggermente gli occhi.

-Sei arrivato…-

Invece di accorrere in soccorso al poveretto, iniziò a frugare tra i fogli della scrivania.

-Tu devi essere…-

La frase rimase in sospeso per vari istanti, durante i quali l’uomo misterioso alzava, sbirciava, accantonava carte e documenti, uno dopo l’altro. Dopo che la sua ricerca parve non dare frutti, si voltò lentamente verso l’italiano.

-Emh… Potresti dirmi come ti chiami…?-

Il rosso fissò perplesso gli occhi stralunati di quel tipo. Il velo di sonnolenza non aveva ancora abbandonato le sue pupille. D’un tratto, si chiese se quel velo di torpore calato sulle chiare pupille non fosse in realtà il loro abituale aspetto.

-Feliciano…-

Lo strano ragazzo parve riscuotersi da qualche strano pensiero. Scosse la testa arruffata e si rilassò sulla sedia, accarezzando distrattamente il gatto accomodato sulle sue gambe.

-Bene Feliciano…-

Uno stanco sorriso cordiale si allargò sul viso abbronzato.

-… ti do il benvenuto all’Aletheia-

 

Note d’Autrice

Siamo già al terzo capitolo, che meraviglia! E vedo che le persone che leggono la mia storia e la mettono tra le seguite stanno aumentando, sono commossa!!!

*profondo inchino*

E dopo gli ossequi, ecco il commentino a fondo pagina! Inizialmente, questo capitolo doveva solamente contenere il dialogo tra Feliciano e Heracles, ma mi sono resa conto che, tra descrizioni degli ambienti e spiegazioni sulla trama, il tutto diveniva decisamente troppo pesante. Così ho deciso di spezzarlo in più momenti. Ebbene sì, oltre alla ricomparsa di Lovino, entrano in scena altri due personaggi importantissimi per la storia! Nel prossimo capitolo, non solo apparirà un altro nuovo personaggio, che farà urlare di entusiasmo molte sue fan, ma ci saranno finalmente alcune delucidazioni sulla trama. Ah, per la parola Aletheia… Più tardi spiegherò accuratamente il suo significato. Detto questo, seguitemi ancora, e alla prossima puntata! :D

*musichetta di fine spettacolo, il sipario cala sul set tra lanci di rose, monete e scones (?)*

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Capitolo 4
*** Dono ***


Arthur Kirkland marciava, con passo furente, lungo le strade fuligginose di Londra.

Tirò un calcio stizzoso a un sassolino, che rimbalzò sull’asfalto acciottolato, scontrandosi con il muro annerito della via deserta. La luce artificiale tremò nella gabbia vetrata degli alti lampioni, il flusso elettrico instabile lungo i sottili fili ramati. Con la sola compagnia del pungente vento che gli sferzava le guance arrossate, il biondo attraversava in solitudine il fitto buio della notte inglese.

Le mani sprofondate nello stretto cappotto, la testa infossata dentro la morbida sciarpa scozzese, il busto inclinato davanti, le scure sopracciglia aggrottate, il tacco dei bassi stivali che batteva con stizza lungo il pavimento lastricato. Le iridi verdi lampeggiavano, scoccavano lampi di rabbia e disprezzo.

In quel momento, trovava irritante la luce instabile di quegli stupidi lampioni che brillavano a intervalli discontinui, quelle stupide folate gelide che intirizzivano le mani nei morbidi guanti di pelle, anche quelle stupide pareti scurite dal denso fumo industriale. Persino la grossa tracolla nera che sbatteva ritmicamente contro il suo sedere lo stava irritando, rinfacciandogli instancabilmente la causa del proprio malumore.

-Bloody wanker…-

Già, non esisteva nessun termine coniato in millenni di civiltà più adatto a descrivere il proprietario del pub, giù a Benefit Street, quel botolo lardoso sudaticcio che, senza troppi preamboli, lo aveva sbattuto fuori dal locale con un bel calcio in culo. Semplicemente per aver ritenuto i testi delle sue canzoni troppo volgari e le melodie troppo spinte.

Arthur sbuffò. Se dipendesse da gente come lui, nelle birrerie verrebbero trasmessi gli ultimi successi dei Side Country Fields, l’orchestra paesana che aveva deliziato le anziane coppie ballerine all’ultima festa contadina a Charlensburg.

E per colpa delle divergenze artistiche tra lui e quel maiale costretto nei suoi completi di tweed, aveva perso ogni possibilità di esibirsi nei locali del quartiere.

L’inglese imprecò contro la ristrettezza mentale e la bigotteria degli abitanti londinesi. Lui era semplicemente il figlio di una nuova rivoluzione, in cui la musica era rabbia, la musica era rifiuto, la musica era un grido di suoni e parole che colpivano, attaccavano, non ti lasciavano scampo.

Cosa diavolo ne poteva sapere quel nano obeso, pelato e ipocrita di queste cose?

Il biondo fumava, bolliva nella propria rabbia. E quella sera anche loro lo infastidivano più del solito.

Da dietro gli angoli, sui tetti dei tristi edifici, sbucando dalle grondaie arrugginite, bisbigliavano, mormoravano, si sporgevano oltre i muri, gli lanciavano brevi occhiate, lo seguivano fluttuando.

Nonostante fosse abituato sin dall’infanzia alla loro presenza molesta, in quell’occasione il loro vago pedinamento, la loro ritrosa essenza, la loro vicina lontananza, lo facevano imbestialire.

Si fermava, e loro si fermavano. Iniziava a correre, e loro lo inseguivano trascinati da una misteriosa corrente. E si limitavano a osservarlo, malamente nascoste dietro ripari improvvisati.

Arthur intravedeva chiaramente quelle piccole particelle argentate, quei baluginii fosforescenti, che si aggregavano in figure ariose, i fiochi bagliori delineavano tratti umani.

Ormai non tentava neppure più di avvicinarsi. Come avanzava un passo nella loro direzione, le figure perdevano la loro parvenza umana, si disintegravano in piccole evanescenze, per poi rifugiarsi tra le tegole dei tetti e i comignoli delle case.

Arthur cercò d’ignorare la loro vicinanza petulante, aumentando la propria andatura.
Forse sarà stata la rabbia mal contenuta in quel piccolo corpo, saranno state le basse imprecazioni rivolte al mondo intero, sarà stata l’inquietudine provocata dalle figure fluttuanti.

Fatto sta che l’inglese non sentì i passi che lentamente aumentavano e si avvicinavano sempre di più.

E quando si voltò allarmato per un rumore sospetto, fu troppo tardi.     

 

-Il mio nome è Heracles Karpusi-

Aveva detto proprio così l’uomo, seduto comodamente sulla sua poltrona.

Dopo quell’affermazione, passarono vari momenti di silenzio, durante i quali il bibliotecario attese l’avvicinarsi dell’italiano.

Constatando, però, che la mole e la quantità di manoscritti che lo sommergevano era decisamente troppa per essere rimossa da un solo paio di braccia, aiutò il poveretto a sgravarsi da quel peso opprimente.

Data la vicinanza, Feliciano era in grado di studiare con più accuratezza la figura dello strano individuo: era alto, più di quanto aveva constato vedendolo seduto. Il corpo era slanciato, ben proporzionato. La pelle brunita risaltava sul bianco scolorito della maglietta sgualcita, e il tessuto sformato del colletto lasciava intravedere, ogni volta che questo si inginocchiava per alzare pile di tomi pesanti, il guizzo dei pettorali appena accentuati. Il fisico ben modellato, però, faceva a pugni con il vestiario scialbo, i pantaloni lisi e polverosi, gli scarponi consunti  e sporchi. Un osservatore esterno poteva racimolare queste osservazioni superficiali per trarne poche conclusioni: che il ragazzo non prestasse troppa importanza alla cura del proprio aspetto, ma ciononostante riuscisse a mantenere la propria atleticità.

Ciò che però frastornava, confondeva e stordiva il suo occhio imparziale, era il viso: la linea della mascella era troppo delicata per un uomo maturo, il naso troppo tenero, le guance troppo paffute. Era come se qualcuno, divertendosi a giocare a dio, avesse staccato la testa a un povero ragazzino per attaccarla su un corpo già adulto.

E gli occhi. Quegli occhi erano grandi, sproporzionati per un volto maschile, perfettamente incastonati tra quei tratti infantili. Erano di un verde delicato, come quelle delle foglie d’ulivo che il nonno curava amorevolmente nel proprio giardino. E proprio come quelle ondeggiavano lievemente al soffio delle dolci correnti marine, il suo sguardo leggero vagava attraverso le cose, non si posava realmente su qualcosa, le iride chiare sembravano catturate da qualcosa di trasparente e vacuo, immerso nelle acque turchesi dei propri pensieri.

Uno scarpone schiacciò accidentalmente la mano dell’italiano.

-Ouch!-

-Eh, oh…? Oh, per Giove! Scusa, scusa, ti ho fatto male…?-

Feliciano strinse le palpebre, massaggiandosi dolorante la mano lesa. Aveva mancato di notare che quegli occhi obliqui ispiravano anche una sensazione di intorpidimento e vacuità.  

Il rosso fece leva sul braccio per alzarsi dal letto scomodo di carte e inchiostro.

-Aspetta, ti do una mano!-

L’italiano fu felice del palmo offertogli come sostegno. Come però si slanciò in avanti per afferrarlo, lo sguardo sonnolento fu attraversato da un guizzo di vitalità. Il ragazzo ritrasse allarmato la mano, con un agilità scovata chissà dove. Feliciano, trovandosi senza un appiglio, si sbilanciò, cadendo in avanti e sfrittellandosi il naso sul duro parquet.

-Per Diana, scusa, scusa! Non volevo…!-

Questo si voltò rapidamente, raggiungendo la scrivania ingombra in due balzi. Mentre il rosso si massaggiava il naso dolorante, osservò confuso l’affaccendarsi agitato del ragazzo, che frugava febbrilmente tra i vari plichi di fogli e documenti accatastati. Finalmente, estrasse trionfante da sotto una montagnola di foglietti spiegazzati un paio di guanti di pelle scura. Con aria soddisfatta, tornò dall’italiano, offrendo di nuovo il suo aiuto, questa volta con la mano coperta da uno strato di cuoio.

C’è chi avrebbe potuto ritenere offensivo quel gesto, ma Feliciano semplicemente si chiese il perché indossare un accessorio simile dentro a una biblioteca. La questione fu temporaneamente accantonata, e alla fine si trovò con le suole ben ancorate al terreno.

Heracles si abbassò nuovamente sui cumuli di libri sparsi sul pavimento, ammucchiandoli alla meno peggio in nuove cataste improvvisate. Intanto, indicò distrattamente con un dito un punto imprecisato dietro di sé.

-Puoi accomodarti, se vuoi, tra poco ti raggiungo…-

Mentre il ragazzo era impegnato nel tentativo apparentemente impossibile di dar un parvenza d’ordine alla stanza, Feliciano lanciò occhiate perplesse alle varie sedie che spuntavano da mucchi di fogli e foglietti volanti. Su ognuna di esse, però, svettavano pile di tomi e manoscritti mastodontici. Di certo l’italiano non voleva ripetere l’esperienza di poco fa. Optò quindi per uno sgabello appoggiato sotto l’unica finestra che, probabilmente, si affacciava sul luogo in cui era posto quello strano edificio.

Qualcosa, però, non andava. Avvicinandosi lentamente, Feliciano vide oltre il vetro appannato solo azzurro. Né una sagoma arborea, né contorni di edifici, né una presenza umana. Solo il celeste solcato da vaporosi sprazzi bianchi. Probabilmente quel luogo era posto su una montagna altissima, o sui prati di una valle che si estendeva per chilometri. Ma, per un momento, la sua mente fu attraversata da un pensiero impossibile. Sembrava quasi che…

Un “no!” rimbombò improvvisamente tra le pareti di mogano. Prima di poter appoggiarsi al davanzale della finestra, la mano del bibliotecario afferrò bruscamente la sua spalla, tirandolo indietro con uno scatto violento, cercando di allontanarlo dal vetro trasparente. Il ragazzo, però, non aveva calcolato adeguatamente la propria forza, cosicché l’italiano perse l’equilibrio, per trovarsi poi a gambe all’aria e con un forte mal di testa.

Decisamente, la vicinanza di quell’individuo non giovava alla propria salute.

-Oddio, scusa, non volevo farti cadere…!-

Lo afferrò velocemente sotto le ascelle, lo sollevò in piedi come si fa a un bambino, dette rapide pacche ai suoi vestiti per togliere la polvere del pavimento.

-Perdonami, perdonami, ma è meglio che tu non guardi ancora fuori…-

Sempre più confuso dal suo strambo comportamento, Feliciano si lasciò accompagnare docilmente su una poltroncina collocata di fronte alla scrivania stracolma di pergamene.

Finalmente seduto, il rosso vide il giovane buttarsi stancamente sul suo precedente luogo di sollazzo, sbuffando sonoramente. 

Passarono quindi alcuni istanti di silenzio carichi di aspettativa, o almeno era così per Feliciano. Fissò intensamente il ragazzo seduto di fronte, mentre scribacchiava velocemente strani segni e simboli su un piccolo quaderno. Improvvisamente si bloccò, alzò lentamente la testa e lo guardò interrogativo.

-… Cosa ci fai ancora qui?-

Feliciano tentennò.

-I-io, io, io...-, balbettò incredulo. Già, cosa ci faceva lui in quel posto?

-Io non lo so!-, urlò infine stravolto, -Io cercavo solamente il fratellone, poi quegli uomini incappucciati mi hanno inseguito, e bum! sono caduto, e uno mi stava per infilzare, ma poi sono arrivati quei mostri, e pam! li hanno ammazzano tutti, e dopo la Maschera Nera, zick!, zack!, li ha tutti tagliuzzati, e lo specchio, e poi il vuoto, e poi… e poi…-

L’italiano gesticolava frenetico, dalla bocca solo sillabe incomprensibili, si affaticava a descrivere quello che la propria mente non aveva avuto tempo di assimilare.

Infine crollò esausto, s’allungò sulla sedia, lo sguardo esausto vagò lungo gli scaffali d’ebano.

-…Cos’è l’Aletheia?-, bisbigliò.

Heracles rimase un po’ scioccato da quella reazione delirante. Ma, incrociando le mani sotto il mento, s’apprestò a rispondere.

-L’Aletheia-, disse quello con un sorriso, -è questo posto…-

S’interruppe.

-Anzi, l’Aletheia sono quei ragazzi che hai incontrato poco fa, sono io…-, e qui poggiò il palmo della mano sul proprio petto, -…ma soprattutto, sei tu-

Feliciano guardò spazientito il dito abbronzato puntato sul proprio cuore.

-Si, ma cos’è? Cioè…-, tacque un secondo, alla ricerca delle parole giuste, -… qual è il suo scopo…?-

Heracles incrociò le mani sul grembo, alzò gli occhi, assumendo una posizione pensosa.

-Vediamo…-, strinse il mento tra le dita, - …in pratica, noi raccogliamo i Possessori, prima che li trovino gli schiavi del Bokor…-

Il ragazzo si compiacque della propria risposta esauriente, ma l’espressione incerta sul viso del rosso gli fece sorgere qualche dubbio riguardo la sua chiarezza.

-Possessori…?-, ripetè Feliciano flebilmente.

Heracles annuì energicamente.

-Certo, coloro che posseggono il Dono!-

Quello aggrottò le sopracciglia, in uno sforzo supremo di comprendere quel guazzabuglio di parole incomprensibili.

-E cosa sarebbero questo Dono?-, chiese esasperato.

Il bibliotecario lo fissò perplesso.

-Come…?-

Si sporse in avanti.

-Tu non sai ancora quale Dono possiedi…?-

L’espressione sconvolta dell’italiano non necessitava di una conferma.

Heracles si risedette, la fronte corrugata, immerso in qualche misterioso pensiero. Fissò un punto vago davanti a sé, accarezzando distrattamente il gatto sonnecchiante sul suo grembo.

-Hai già attraversato il portale di Francis?-, chiese infine.

Nella mente dell’italiano si visualizzò l’immagine del biondo che poco prima aveva assistito languidamente alla sfuriata dell’asiatico. Annuì debolmente.

-Ecco…-

Un piccolo sorriso di trionfo si dipinse sul castano.

-Quello è il suo Dono…-

Una breve pausa carica di pathos.

-…Il Dono dello Spazio-

Heracles sorrise compiaciuto. Sorriso che scomparve di fronte agli occhi smarriti del più giovane. Si sporse di nuovo.

-Ma davvero non sai di possedere il Dono?-

Feliciano scosse il capo stancamente.

Il ragazzo portò le lunghe dita abbronzate a massaggiarsi le tempie, immerse in una profonda riflessione.

-Ma tu sei stato attaccato dagli schiavi del Bokor, no…?-, chiese allora dubbioso.

L’italiano lo fissò perplesso.

-Bokor? Cos’è il Bokor?-

-Ah, il Bokor…-

Heracles sorrise placidamente.

-... é semplicemente colui che vuole uccidere tutti i Possessori-

 

Arthur urlò. O almeno così credette.

Era immerso in un’oscurità senza fine, il buio dietro gli occhi chiusi.

In realtà non voleva seguirlo, anche se lo aveva salvato. Mentre quello uccideva tutti quei mostri, avrebbe voluto scappare, correre verso casa, aprire le porte e buttarsi nel letto. Come spengere terrorizzato la radio durante il programma I racconti del terrore di Poe, rannicchiarsi tra le calde coperte, e bearsi di quel senso di calore protettivo, rendendosi conto della infondatezza di quelle minacce e della propria sciocca paura.

Ma lui non era uno spettatore, non era uno dei tanti che stava assistendo distaccatamente a un dramma che si stava compiendo su un palco. Lui era lì. I mostri erano reali, il sangue caldo, gli arti tagliati sensibili. E quando in quella strada buia rimasero solo lui e il misterioso assassino, pensò fosse l’occasione buona per darsela a gambe.

Solo quello che successe dopo gli impedì di scattare in piedi e correre a perdi fiato fino a Boniface Avenue. Inizialmente non ci badò. Fin da piccolo era stato circondato da quelle strane evanescenze. Ma quando queste iniziarono ad avvicinarsi, sfrecciargli accanto, attraversarlo, capì che qualcosa non tornava. E rimase impietrito quando vide quegli stessi bagliori argentei, gli stessi delle figure umane opalescenti, vorticare, ammassarsi, prendere la forma di uno specchio.

Fissò incredulo quella sostanza sconosciuta, ma non ignota, emanare barbagli di luce fredda, riflettere i pallidi raggi della luna.

E lo strano ragazzo lo invitò a seguirlo, e si era immerso in quel lago d’argento.

Lui non voleva andare, davvero. Solo che forse si era presentata l’occasione di capire un mistero che aleggiava e brillava intorno a lui fin dalla nascita.

Come sprofondò nello specchio, se ne pentì. Lui era loro. Non conosceva la fonte di tanta sicurezza, ma sapeva di essere diventato una di quelle figure umane che lo seguivano ovunque. E ne fu terrorizzato. Quello era il mondo in cui esse vivevano? Loro dovevano sopportare un’esistenza così, senza corpo, senza sensazioni, senza tempo? Non poteva sopportarlo, non poteva sopportare oltre.

Urlò. Ma onde di buio lo soffocarono, riempirono polmoni che lui non aveva.

Lui non era più niente.

 

Note d’Autrice

Allooooooooora! Angolo precisazioni inutili e futili!

La nuova corrente musicale di cui parla Arthur è il punk. Si, lo so che è degli anni ’70 e ’80, ma io adoro troppo Iggy versione musicista! E quindi, si, il suo strumento musicale è proprio quello che state immaginando.

*saltella per la stanza facendo riff improponibili su una chitarra immaginaria*

Poi! Benefit Street è un omaggio alla famosa casa stregata di Lovecraft, e I racconti del terrore di Poe… Beh, è per il grande Edgar! Per gli altri nomi inglesi… Boh, li ho inventati, ma facevano molto British! XD

Rileggendo ora il colloquio tra Heracles e Feliciano, ho constato che in realtà non ho spiegato un bel nulla… .___.’’ Vabbé, nel prossimo capitolo prometto solennemente che avrete maggiori delucidazioni! Per ora posso dirvi che Aletheia è un famoso termine greco, e il Bokor è una tipica figura del folklore haitiano.

Alla prossima!

 

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Capitolo 5
*** Leggende ***


- Vuole uccidere…-

Feliciano non riuscì a terminare la frase. Heracles non si scompose di fronte alla reazione sconvolta del rosso, le chiare iridi fluttuavano tranquille sulle superfici dorate della biblioteca, il viso paziente adornato da un piccolo sorriso sornione.

-Cosa vorresti dire con questo?-

L’italiano si sorprese della voce stridula che uscì dalle proprie labbra.

-Proprio quello che ho detto-, rispose il castano, -il Bokor è in grado, con mezzi a noi sconosciuti, di cogliere l’essenza delle anime altrui. Quando tra queste capta la presenza del Dono, crea nuovi schiavi per scovare tali persone e ucciderle…-

Quel piccolo ghigno saccente aleggiava ancora sul viso abbronzato. Heracles sembrava compiacersi dell’incredulità del proprio ospite, si beava nel ruolo di mentore in cui si era calato.

-Ma perché…?-

-Mh?-

Il rosso scattò in piedi, sbatté violentemente i palmi sulla scrivania. Varie bocchette d’inchiostro oscillarono, alcune rovesciarono il loro contenuto sul polveroso ripiano di mogano.

-Perché mai vorrebbe ucciderci?!-

Il bibliotecario non capì il motivo di quello sguardo rivoltigli, carico di ferita incomprensione. Sospirò. Si alzò lentamente, aggirando lo scrittoio. Raggiunse le mensole scure colme di manoscritti, il dito vagò sicuro tra i vari titoli delle opere, alla ricerca di qualcosa impresso nella propria memoria tattile.

-Ti sei mai posto il quesito sul perché dell’esistenza di tante credenze popolari su creature magiche, o di leggende su uomini dai poteri straordinari, o sulla quantità di opere scritte al riguardo?-

Feliciano guardò confuso il dito abbronzato che accarezzava dolcemente le lettere dorate dei libri. Dove voleva andare a parare con una domanda del genere? Nonostante la propria perplessità, si risedette sulla poltrona, e rifletté seriamente sul quesito appena esposto.

-Credo che tutto dipenda dalla superstizione e dall’ignoranza, forse sono un tentativo per spiegare ciò che l’uomo non riesce a comprendere. O forse con le leggende si cerca di gonfiare la fama di qualche antica famiglia. Oppure semplicemente è tutto frutto della fantasia di uno scrittore…-

Era quel genere di pensieri su cui si riflette di notte, negli istanti che precedono il sogno, in cui il sole non rischiara la nostra mente e dove le domande esistenziali non sembrano inutili e sciocche. Una sorta di momento magico di staticità in cui solo gli interrogativi sull’uomo e sull’esistenza stessa sembrano muoversi nella densa oscurità. 

-Almeno, questo è quello che penso…-

Feliciano non avrebbe mai previsto di rivelare a qualcuno pensieri così intimi e notturni.

Heracles sorrise.

-Io invece credo che dal nulla non possa crearsi nulla…-

Il rosso non proferì parola, e ciò invogliò il bibliotecario a continuare.

-Sai, una volta ho letto un’opera di uno scrittore interessante… Si chiese come mai queste leggende su mostri spaventosi, che secondo te non sono altro che farneticazioni di contadini o deliri di un povero scrittore, possano incutere tanto timore e angoscia anche a coloro che sono devoti unicamente alla razionalità e alla logica…-

Feliciano continuava a non capire.

-Sempre secondo questo illustrissimo scrittore, tali orrori sarebbero addirittura più antichi della razza umana stessa. Come dire, anche se noi non ci fossimo, questi esisterebbero lo stesso-

Quel discorso non aveva assolutamente senso. Questo pensò Feliciano. Ma tale consapevolezza non impedì a un brivido freddo di percorrergli subdolo la schiena.

Finalmente, il castano s’illuminò, ed estrasse un enorme volume, agli angoli consunto, tenuto insieme alla meno peggio da una sottile cordicella dorata. La scura copertina non era sormontata da alcun tipo d’incisione, escludendo il sottile strato di polvere adagiato sul cuoio antico. Questo tornò soddisfatto allo scrittoio, lasciando cadere il pesante tomo sul povero mobile, che protestò con un penoso gemito scricchiolante.

-Si, ma tutto questo cosa c’entra con il Dono?-

Heracles lanciò uno sguardo sornione verso il rosso, che s’agitava spazientito sulla sedia traballante.

-Voglio solamente farti comprendere che nessuno conosce né l’origine di questo potere, né chi fu il primo Possessore…-

Feliciano constatò che, effettivamente sì, il bibliotecario si divertiva un mondo a palesare la propria sapienza, con frasi cariche di pathos e termini ricercati.

-Sai il significato della parola Aletheia?-

Il rosso scosse la testa. Quello non aspettava altro.

-È ciò che l’uomo ha cercato da secoli e secoli…-

Feliciano trattenne il fiato.

-… la Verità-

Il silenzio del giovane fu un incipit a continuare.

-Proprio per questo è stata creata questa, come potrei definirla, organizzazione, per studiare un mistero che è gemello a questo mondo-

Feliciano scalpitò.

-Si, ma insomma, cos’è il Dono?-

-È presto detto-, ricominciò l’altro con nuova enfasi, -Sin dalla nascita della scrittura, sono fioriti sempre più racconti su uomini e donne dalle doti straordinarie, di maghi, streghe e fattucchieri-

Heracles riprese fiato.

-Da un ciclo che scorre ininterrotto dalla preistoria, vengono fuori esseri umani dotati di un potere superiore-

Allargò le braccia teatralmente.

-E questi sono i Possessori-

Il castano s’infervorò di nuova passione di fronte all’espressione incantata del rosso, che ormai pendeva dalle sue labbra.

-Inizialmente, gli uomini s’interrogarono sull’assenza di una regola precisa con cui il Dono si manifestava. A volte si presentava da padre in figlio, a volte scompariva per generazioni, a volte si svelava in famiglie prive di antenati che possedevano un tale privilegio. Per cui nacque la convinzione che la Divinità concedesse parte della propria potenza esclusivamente agli uomini dall’animo puro. Per questo, questi poteri vennero chiamati i Doni-

-Mentre nell’era cosiddetta pagana, i Possessori potevano vivere la loro forza con relativa naturalezza, l’avvento delle grandi religioni monoteiste pose l’inizio alla loro persecuzione. Secondo questi culti-, e qui il castano si rabbuiò, -il potere poteva derivare unicamente da Dio, per cui, le forze misteriose non legate alla presenza divina, erano da considerare, per logica d’esclusione, legate al Male-

Heracles sospirò mestamente.

-È proprio in questo periodo che ebbero luogo Le Grandi Cacce alle Streghe, per non parlare dei migliaia di roghi dei papiri più vecchi sull’Antica Conoscenza…-

All’improvviso, una nuova luce baldanzosa brillò nelle iridi verdi.

-Già in questi secoli oscuri, scienziati studiavano questi poteri, mandando avanti esperimenti nascosti alle Forze Vaticane. E finalmente, nel XIX secolo, venne fondata l’Aletheia-

Feliciano faticò a riconoscere in quegli occhi eccitati il velo di torpore che fino a poco tempo fa li rendeva talmente apatici e distanti.

-Qui vennero accolti tutti i Possessori che necessitavano di un rifugio, destinati altrimenti a una vita di miseria e dolore. Studiosi da tutto il mondo accorrevano per incontrarli e scoprire insieme i risvolti di questo segreto arcano. C’era chi sosteneva ancora che il Dono fosse un omaggio del grande Dio a ricompensa del valore dell’uomo, altri sostenevano che fosse una combinazione estremamente rara di geni, altri ancora ritenevano di essere giunti a una nuova evoluzione dell’essere umano. A prescindere della propria ideologia, comunque, ognuno si distaccava dal luogo comune secondo cui questo potete fosse legati al Diavolo. D’altro canto, i Possessori aiutavano volentieri questi scienziati, grazie ai quali potevano vivere un’esistenza tranquilla. Eravamo come una grande famiglia…-

Gli occhi smeraldini si distaccarono momentaneamente dal presente, sulle iridi liquide, galleggiavano a pel d’acqua malinconia e vividi ricordi.

-Questo prima della ricomparsa del Bokor…-

Nel silenzio sospeso di questa ultima frase erano racchiusi memorie dal sapore dolceamaro. Feliciano assaporò quel momento di dolce tristezza che emanavano le palpebre socchiuse del ragazzo, rapite dal vorticare del pulviscolo dorato della stanza.

Dopo qualche istante, il rosso allungò una mano, scuotendo delicatamente quella del ragazzo seduto di fronte. Questo si riscosse, la mente compì un rapido viaggio verso il presente.

-Ma cos’è questo Bokor?-, chiese sommessamente per l’ennesima volta.

Heracles sospirò. Sgusciò dalla delicata presa dell’italiano, e con un gesto fulmineo, spalancò l’enorme tomo che aveva posato sull’antico ripiano. Una piccola nube di polvere s’alzò dalla superficie dello scrittoio, mentre il bibliotecario sfogliava febbrilmente le consunte pagine del manoscritto. Infine, lo girò, in modo che il rosso potesse osservare le figure rappresentate sulla carta sgretolata.

Piccole miniature, storie tratteggiate con una sicure linee scure, intrecciandosi in un esotico e arcaico stile di pittura. Alte figure avvolte da ampi drappeggi e adorne di lunghe piume d’uccello erano chine sui piccoli usci di capanne stilizzate. Il loro viso scuro era deformato da un ghigno demoniaco, gli occhi animaleschi ridotti a due fessure. Nell’immagine che seguiva, gli stessi loschi individui raccoglievano in minuscole boccette una misteriosa aura che scaturiva dalle abitazioni fangose. Poi, l’ultima vignetta. Feliciano sobbalzò. Passò un dito incredulo sulle sottili linee ondeggianti che andavano a  creare una figura che, un tempo, doveva essere stata umana. Rimase senza parole.

-Mai sentiti nominare gli Houngan o le Mambo di Haiti, meglio conosciuti come Bokor?-

Feliciano scosse il capo, troppo concentrato sui lampeggianti occhi d’inchiostro che lo fissavano con vacua mostruosità.

-Secondo il folklore haitiano, sull’isola dimorava una setta di stregoni in grado di manipolare l’anima umana. O meglio, di rubarla agli abitanti dell’isola-, raccontò con tono lugubre, - Bastava che questi si nascondessero nei pressi della casa della vittima. Poi, con la magia, risucchiavano la loro energia vitale dentro ampolle stregate. In questo modo, il corpo, privo della propria forza, cadeva in uno stato comatoso, che rasentava la morte-

Il bibliotecario puntò il dito sulla seconda figura. Continuò la narrazione.

-I parenti del malcapitato, credendolo deceduto, provvedevano alla sua sepoltura. Così, questo si trovava ancora vivo, per quanto questo termine non sia appropriato a descrivere quello stato, sepolto sotto la terra-

Feliciano sentì la pelle accapponarsi sotto la leggera camicia.

-Dopo settimane, mesi, o addirittura anni, il Bokor tornava sopra la sepoltura del presunto morto, stappando la boccetta con l’essenza vitale. Da quel momento, lo sventurato perdeva la possibilità di tornare nel mondo dei vivi, la propria energia dispersa per sempre, e veniva condannato a schiavitù eterna, finché il proprio corpo, lasciato marcire per secoli, si sarebbe disintegrato, insieme alla propria anima-

Feliciano capì. Lanciò uno sguardo sbalordito alla figura mostruosa stampata sul vecchio papiro.

-Così nascevano quelli che per i nativi hanno il nome di Astral, o di Jardin, oppure, come vengono più comunemente chiamati…-

-Zombi…-, concluse Feliciano in un sussurro.

Il castano annuì.

-Come avrai già capito, tutte queste credenze o rituali ramificati nella mente superstiziosa degli indigeni, nascondeva una ben più profonda verità…-

Heracles piantò il suo sguardo in quello dell’italiano.

-In quell’isola, per chissà quale ragione, continuavano a nascere discendenti del Dono più potente mai esistito-, mormorò, -il Dono del Male-

-Non pensare che gli antichi coniarono questo nome per sciocche ragioni legate alla religione o alla morale-, si affrettò a precisare, -semplicemente era destino che, chiunque possedesse tale Dono, andasse volontariamente incontro alla propria rovina-

Heracles lanciò l’ennesimo sorriso saputo verso l’italiano.

-Sai che secondo molti filosofi greci, il peggior difetto umano è la presunzione?-

Senza dar tempo al proprio interlocutore di rispondere, proseguì il proprio monologo.

-Questi Possessori, giocando con la vita altrui, innalzavano loro stessi, ponendosi  persino alla pari degli Dei. Per questo iniziarono ad abusare di tale potere, approfittandosi dei poveri popoli superstiziosi e creando interi eserciti personali. Va inoltre detto che, mentre molti Doni erano già stati catalogati e studiati accuratamente…-

-Aspetta un momento-, lo interruppe l’italiano, -in che senso erano già stati catalogati? Vuoi dire che-

-Esatto-, sbottò un po’ irritato il castano, interrotto nel bel mezzo della propria orazione, -Ti ho mentito riguardo a una cosa, ovvero sulla totale imprevedibilità dei Doni. In realtà, ognuno di essi possiede un proprio ciclo-

Lo sguardo smeraldino guizzò innervositola un oggetto a un altro, ansioso di tornare al filone principale della storia.

-L’unica certezza che possediamo è che lo stesso Dono non può presentarsi in due persone che vivono contemporaneamente nella stessa epoca. Alla morte di un Possessore, il potere può manifestarsi immediatamente in un altro essere umano, oppure scomparire per un lasso di tempo molto variabile, da secoli a millenni, per poi ripresentarsi improvvisamente in un’ altra epoca, comunque…-, un gesto secco della mano guantata pose fine a questa piccola parentesi, -lasciami terminare il mio discorso-

-Dunque, stavo dicendo. Ogni Bokor era talmente geloso del proprio potere, da non rivelare a nessuno la modalità con cui prendeva controllo dell’anima dei morti. Così facendo, oltre ad aumentare il proprio potere, accrebbe il sospetto e il timore dei popoli confinanti, che temevano un’imminente invasione. Ebbero per questo luogo, per lunghi anni, sanguinose guerre, e il conseguente sterminio degli stregoni haitiani-

Il castano assunse un’aria  teatralmente afflitta.

-Ogni nascituro che lasciava presagire il possesso di questo terribile potere, veniva immediatamente ucciso. Dopo decenni, sembrò che il seme del Dono del Male fosse stato definitamene estirpato, e nell’isola, e più in generale nel mondo, per secoli non nacque nessun Possessore maligno, tanto che questa antica conoscenza venne quasi completamente distrutta dai roghi e dall’inaffidabilità della memoria-

Heracles sprofondò nella propria sedia.

-A partire dalla nascita dell’Aletheia, un nuovo Bokor entrò in scena, dopo secoli di silenzio. Nessuno sa chi sia, nessuno sa il perché, ma il suo unico scopo sembra quello di debellare dal Mondo l’esistenza dei Possessori. E questo è quanto-

Il bibliotecario emise un lungo sospiro. Si stirò sulla comoda poltrona, proprio come il gatto acciambellato sul suo grembo. Esaurita l’euforia del racconto, il noto velo di freddo torpore calò nuovamente sulle chiare iridi.

Feliciano meditava. Cercava di assemblare un complesso quadro d’insieme, tentava di far combaciare ogni singolo evento con l’analoga scoperta. Ma una domanda premeva impellente sulla lingua, un quesito che lo riportava indietro di cinque anni, in una lontana stanzetta nei pressi di Roma, e a due corpi distesi in un lago di sangue.

Ma prima che potesse proferire parola, il bibliotecario s’alzò e, ondeggiando, si avvicinò a un alto scaffale posto sulla destra. Scostò alcuni vecchi documenti, dietro a cui era accuratamente nascosto un involucro di panno e corde. Heracles sciolse gli stretti nodi, lasciando scivolare a terra con noncuranza il tessuto cencioso. Con muto terrore, Feliciano osservò lo scintillio sinistro del macete che il castano stringeva con presa salda tra le mani guantate.

-Sai…-, si rivolse a lui con impassibilità, voltando lentamente la testa nella sua direzione, - è davvero seccante che tu non conosca ancora il tuo Dono…-

Il rosso, di riflesso, scattò in piedi. La sedia cadde con un tonfo ovattato sulle pagine aperte di antichi manoscritti. Heracles mosse lenti passi verso l’italiano, oscillando, ma con andatura sicura.

-Senza conoscere il proprio potere, si rimane vulnerabili ad attacchi nemici…-

Le chiari iridi erano nuovamente velate, non lasciavano trapelare alcunché, né un bagliore, né una scintilla. Feliciano pensò confusamente, mentre indietreggiava, che quegli occhi, privi di emozioni, erano più spaventosi della stessa fredda lama puntata su di lui.

Sbatté contro gli scaffali dell’alta biblioteca, le mensole di mogano traballarono, alcuni volumi caddero sul pavimento. Il rosso non riusciva a distogliere lo sguardo terrorizzato da quello spettacolo terribile.

-Dovrò usare metodi drastici…-

Un sussurro atono, prima dello scatto. Feliciano ebbe appena il tempo di registrare il flettersi degli avambracci muscolosi, il macete impugnato con saldezza, un fendente pronto ad abbattersi sulle sue carni.

-Spero solo che tu non muoia nel tentativo!-, ruggì.

Feliciano chiuse gli occhi. Se mai Heracles avesse avuto ragione, se mai lui fosse davvero un Possessore, ora sperava con tutto il cuore che qualche forza sconosciuta lo sottraesse da quella fine certa.

E quando sentì un improvviso spostamento d’aria, e un sonoro clangore metallico, aprì di scatto gli occhi con sorpresa incredulità, credendo veramente che qualche stregoneria fosse uscita dal proprio corpo per proteggerlo.

Con un misto di sollievo e delusione, vide l’asiatico di poco prima  brandire la katana nivea, che in quel momento strideva, collideva con il macete del castano. Questo ultimo balzò indietro, abbassò incurante la propria arma, appoggiandola distrattamente contro la parete.

-Heracles!-, sbottò indignato il moro, -Si può sapere cosa diavolo ti passa per il cervello?!-

Feliciano rimase stupito del linguaggio con cui il piccolo giapponese si rivolgeva all’altro. Rammentava perfettamente la sfuriata con il biondo, in cui le sue parole, nonostante fossero infervorate da caldo sdegno, erano state pacate e gentili.

-Oh, sei tu Kiku…-

Tono fintamente sorpreso, la piattezza della voce che tradiva il prefabbricato moto di stupore.

-Credevo che ti stessi facendo ancora torturare da Francis..-

Kiku avvampò a quell’affermazione buttata casualmente lì.

-B-basta con le tue stupidaggini-, balbettò imbarazzato, -devi venire subito nella sala principale!-

Il castano gli rivolse un muto interrogativo.

-Abbiamo problemi con il nuovo arrivato-

 

Note d’Autrice

 

Rieccoci qua nell’angolino delle precisazioni!

Dunque, l’illustrissimo scrittore di cui parlo è Charles Lamb, e il pezzo della sua opera Le streghe e altri terrori notturni posta come prefazione all’Orrore di Dunwitch di Lovecraft, è stata la scintilla che ha spinto la mia mante malsana a scrivere questa storia.

Aletheia significa davvero “verità” in greco, e per quanto riguarda i filosofi che giudicano la presunzione il peggior difetto dell’uomo… Boh, credo che lo dicano un po’ tutti… :S

A proposito delle leggende haitiane… Nulla è inventato, quanto ho scritto è puro folklore di Haiti. Se siete interessati, ecco un interessantissimo link: http://it.wikipedia.org/wiki/Zombie

Sono consapevole del fatto che questo capitolo non sia particolarmente dinamico, ma mi sembrava necessario scrivere almeno un capitolo di spiegazione… Comunque, tranquilli! Con il questo, è ufficialmente chiusa la fase d’introduzione, e dal prossimo inizierà la storia vera e propria, con i primi incontri, le amicizie, i dissapori, e chissà, forse nascerà qualcos’altro… *ghigno malefico*

Infine, vi comunico la mia decisione: data la confusione causata dai miei aggiornamenti sballati, pubblicherò ogni settimana un solo capitolo, più precisamente di lunedì.

Detto questo, spero che continuerete a seguirmi in tanti! :D

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Capitolo 6
*** I vari metodi per fare amicizia ***


Feliciano attraversò il corridoio con il fiato corto, preceduto dalle ampie falcate del bibliotecario e i rapidi passi del giapponese. L’italiano arrancava faticosamente dietro i due ragazzi, ancora scosso dall’ennesimo assalto, in cui aveva rischiato nuovamente di morire. La rapidità con cui si erano susseguiti gli eventi, da quando aveva messo piede dentro l’Aletheia, era stato tale da impedire al rosso di ragionare su quanto era successo e su ciò su cui era venuto a conoscenza. L’unica cosa che in quel momento parve essere più logica, in quell’enorme groviglio di immagini e pensieri che sgomitavano contendendosi un breve comparsa e un po’ di attenzione, era seguire le figure che avanzavano lungo lo stretto corridoio.

Feliciano capì di essere giunto nella stanza del portale, quando all’orecchio giunse una nota risata sguaiata gracchiare divertita. Sbirciò sopra le spalle dei due ragazzi, che si erano arrestati improvvisamente.

A pochi passi da loro, Francis, questo era il nome tanto ripetuto dall’asiatico, era raggomitolato sul pavimento, ed emetteva striduli guaiti piagnucolosi. Entrambe le mani tremanti erano portate a coppa a coprire il naso. Dalle dita serrate gocciolavano rivoli di sangue.

-Q-quel frocetto… Il mio naso! Il mio bellissimo naso!!-

Osservando con terrore i palmi insanguinati con occhi lucidi e spalancati, lanciò improperi più o meno velati, intervallati da lugubri lamenti, forse un po’ ingranditi, contro colui che aveva osato sfregiare la bellezza del suo splendido volto. Poco più là, sedevano i due uomini che poco prima s’azzuffavano scherzosamente, ora intenti a lanciare occhiate divertite al biondo agonizzante, tracannando alcool.

-Sarà anche un frocetto, ma ti ha steso con una sola mazzata!-

L’albino scolò tutto d’un sorso il liquido ambrato dall’alto boccale, deglutendo rumorosamente. Sbatté poi la pinta sul ripiano accanto a sé, alitando un sospiro fortemente deliziato. Il moro vicino a lui, stringeva col pugno destro un grosso bicchiere, limitandosi a sorridere allegro. Lo sguardo dell’italiano proseguì ancora lungo il pavimento, fino a notare una figura schiacciata contro il muro.

Due lampi rabbiosi lo inchiodarono sul posto.

Un ragazzo appiattito contro la parete stringeva spasmodicamente una grande e nera custodia contro il petto. L’italiano non capì se tale gesto era intenzionato a frapporre l’enorme astuccio a protezione tra lui e il branco di sconosciuti radunati nella stanza, oppure si trattava di un tentativo disperato di proteggere il suo prezioso contenuto.

Il petto, avvolto da un attillato giubbetto nero, s’innalzava e s’abbassava a un ritmo irregolare, sembrava scoppiare dentro lo stretto tessuto di pelle. La piccola bocca ingoiava enormi quantità di ossigeno, esalava bassi sibili. Le gambe magre, costrette in fascianti jeans scuri, erano divaricate, leggermente piegate, pronte a scattare e ad attaccare. Da biondi ciuffi scompigliati, spiccavano due piccole orecchie, completamente ricoperte da paccottiglia e metalli argentati. Alcune lunghe ciocche schiarite s’appiccicarono alla fronte sudata, nascondendo in parte due buffe e scure sopracciglia, che sormontavano due fuochi smeraldini. Niente a confronto con il verde delicato di Heracles, tanto simile alle dolci foglie d’ulivo. Quelle iridi brillavano, avevano una propria fluorescenza, erano attraversati da una potente corrente elettrica. Gli occhi erano sbarrati, la pupilla dilatata. E a Feliciano balzò in mente la figura di un felino, che soffiava contro il presunto nemico, mostrava i piccoli denti, le orecchie abbassate, il lucido pelo irto, la coda che sferzava minacciosamente l’aria.

-C-cosa diavolo è successo qui?!-, esclamò allarmato il giapponese.

L’albino proruppe in una nuova risata sguaiata.

-Appena sei corso via, il ninfomane qui presente-, ghignò indicando il francese ancora disteso a terra, -ha avuto la splendida idea di…-, e qui lasciò temporaneamente il boccale per scimmiottare il biondo, -“testare il nuovo articolo”-

Sghignazzò, mentre il compagno accanto a lui rise caldamente dell’ottima interpretazione dell’amico.

-A quanto pare però, il novellino non ha gradito la strizzatina…-, e qui seguì l’esempio del vicino, imitando le movenze di Francis, - “a quel culo sodo da favola”–

L’albino si portò una mano sugli occhi, cercando di trattenere le lacrime causate dal troppo ridere.

-Credo che al ragazzino siano saltati un po’ i nervi -, ululò tra uno scoppio di riso e l’altro, -visto che gli ha sfracellato quel coso nero sulla faccia!-

E i due non si trattennero più, sghignazzarono convulsamente, il moro batté più volte il pugno sul tavolo, le spalle scosse da risate incontrollate.

-Che amici di merdaaaaaaaah…-, gemette il francese, rotolandosi sul pavimento.

Apparve in quel momento la figura trafelata e imponente dell’uomo che aveva accompagnato l’italiano fino alla biblioteca. Il cuore di Feliciano perse un battito. E non perché in quell’enorme mano era stretto il tubicino metallico dall’aspetto mostruosamente innocuo. Il corpo, avvolto da un bianco camice, si bloccò di fronte a quell’inusuale spettacolo. Gli occhiali dalla scura montatura scivolarono leggermente sul naso.

-Ma che diavolo state combinando?!-

-Ehilà, Lud! Appena in tempo per goderti lo spettacolo!-

Il biondo lanciò uno sguardo scocciato nella direzione di quella voce gracchiante.

Il viso dell’inglese saettò da una faccia all’altra, drignando rabbioso e mostrando i piccoli canini.

Heracles sospirò. Con un gesto perentorio, intimò a tutti i presenti di  stare indietro. Una mano guantata fu portata dietro l’orecchio, e Feliciano vide distintamente un dito che premeva un piccolo bottone.

L’italiano trattenne il respiro, quando il bibliotecario avanzò qualche lento passo nella direzione dell’inglese. Questo quasi stritolò il nero involucro stretto tra le braccia. Il rosso credette addirittura di sentire un basso ringhio.

-We won’t hurt you. Sorry for that french idiot.  We won’t hurt you.  We have the answers you’re looking for. We won’t hurt you… (1)-

Quelle parole, pronunciate in qualche lingua sconosciuta, ripetute più volte così da trasformarle in una sommessa litania, avevano un che d’ipnotico.

L’inglese non abbassò la guardia, fulminò il castano con lampi verdastri.

- We have the answers you’re looking for. We won’t hurt you… We have the answers you’re looking for. We won’t hurt you… -

Il biondo vacillò leggermente. Feliciano sovrappose sui due la figura di un incantatore che ammaliava un serpente con dolci parole.

Sempre cantilenando queste due frasi, Heracles si bloccò di fronte al ragazzo, ancora guardingo. Almeno non ringhiava più.

Improvvisamente sbottò, sputando sillabe velenose.

-Where the fuck am I?! Who the hell are you?! Why am... (2)-

-Follow me, and you’ll have the answers (3)-

L’inglese fissò sospettoso la mano avvolta nel tessuto di pelle scura che lo invitava a seguirlo. Lanciò uno sguardo al viso del castano. Non leggendovi alcuna minaccia, mosse con ritrosia un passo nella sua direzione. Heracles si voltò, avviandosi lentamente lungo il corridoio che conduceva alla propria biblioteca. Fece segno a colui che Feliciano aveva capito chiamarsi Ludwig. Questo lo seguì impettito, non degnando di alcuna considerazione i presenti. L’italiano rimase perplesso, perfino un po’ ferito da ciò, sperando in almeno un incrocio di sguardi. Intanto, l’inglese si era staccato riluttante dalla propria parete. Percorse a testa bassa la breve distanza che lo separava dal corridoio, scoccando fredde occhiate verso gli sconosciuti, intimando loro di non avvicinarsi. Infine, la snella figura scomparve tra le fitte ombre del varco.

-Che animale selvatico!-, esclamò l’albino, sorseggiando di nuovo dal boccale di birra.

-Ohi, Francis! Hai trovato pane per i tuoi denti!-, sorrise allegro il moro.

Il francese, intanto, avendo constato con sollievo che nessuna cicatrice avrebbe deturpato il proprio splendido viso, aveva fermato l’emorragia con un fazzoletto di pizzo. Adesso era seduto accanto ai due amici, il naso appena gonfio e arrossato.

-Tsk, si vede che siete degli incompetenti in questo campo…-, disse il biondo saccentemente, la voce leggermente nasale a causa della botta,  -quello era un segno! Era la reazione di confusione scatenata dal sentirsi sopraffatti dalla mia leggiadra bellezza, di fronte alla potenza dell’Amore! In realtà, il ragazzo è già bello che cotto di me!-

-Quindi-, ridacchiò il moro, -quando ti tirerà un bel calcio al tuo amichetto nelle mutande, sarà la conferma del suo folle Amore?-

E giù a sghignazzare. Il biondo incrociò altezzoso le braccia, voltando indignato la testa. Ma il broncio s’incrinò leggermente quando l’albino gli allungò un sottile bicchiere colmo di vino. Il francese si girò verso i due, afferrando il calice e sorridendo.

-Lo sapete che siete proprio due carogne?-, si rivolse loro, il tono addolcitosi.

-Anche io ti voglio bene, francese da strapazzo! -, sghignazzò l’altro con voce stridente.

Il moro scoppiò in una calda e allegra risata, passò le braccia sulle spalle degli amici e li tirò con forza verso di sé.

-Aiut…! Antonio, soffoco! Togli queste manacce…-

-Aiuto, soccorso! Antonio è arrapato!-

Feliciano guardò con un piccolo sorriso i due che tiravano cazzotti, più o meno lievi, sullo stomaco del moro, tra risate e smorfie.

-Ehi, tu!-

Il rosso alzò di scatto lo sguardo. Il dito del ragazzo dai capelli bianchi puntava nella sua direzione. Portò il proprio indice su di sé, in una muta richiesta di conferma.

-Si, proprio tu!-, batté ripetutamente il palmo della mano su una sedia accanto a sé, invitandolo a sedersi.

Feliciano fissò timidamente i tre sorrisi rivoltigli. In ognuno, leggeva qualcosa di strano, qualcosa da cui numerose volte il fratello lo aveva messo in guardia. Ma il miglior pregio dell’italiano era quello di avere fiducia nel resto del mondo. Peccato a volte si rivelasse anche il suo peggior difetto. Comunque, trotterellò fino al basso sgabello, e vi ci sedette.

Una braccio, lo stesso che brandiva un boccale colmo di birra, gli circondò le spalle, e due accese iridi cremisi si riflessero nei suoi occhi.

-Come ti chiami, ragazzino?-

Feliciano sorrise timido, di fronte a quegli occhi giocosi.

-F-Feliciano…-

-Allora Feliciano…-, esclamò quello, aumentando la stretta dell’abbraccio, -… se aspetti che Ludwig faccia la prima mossa, arriverai a un’età in cui non potrai più fare certe cose-

Il rosso spalancò la bocca, il ghigno del ragazzo, ricco di sottintesi, s’allargò.

-Ma tranquillo, ho visto mio fratello, e scommetto tutte le casse d’alcool di questa vecchia catapecchia che non aspetta altro che tu gli salti addosso!-

Ridacchiò, mandando giù altra birra. Feliciano abbassò gli occhi, le guance s’imporporarono di un tenero colorito roseo.

-Gilbert-, disse sconsolato Francis, scuotendo drammaticamente la lunga chioma bionda, -sei più sboccato di una sgualdrina di porto…-

Il moro scostò bruscamente l’albino, che cadde a gambe all’aria sul pavimento, travolgendo Feliciano in un caldo abbraccio.

-Awwwwww~! Non è così carino quando arrossisce~?-

Il ragazzo si strofinò sulla guancia del rosso, mentre una mano gli carezzava dolcemente la testa. Feliciano rimase perplesso da questo comportamento talmente esplicito, ma non lo scostò, trovando piacevole che qualcuno dimostrasse la simpatia nei suoi confronti così apertamente. Che dietro quella stretta non si celasse il semplice moto d’amicizia, il giovane non lo capì. Un nuovo braccio circondò la vita dell’italiano.

-Ah, l’Amore…-, declamò ispirato il biondo, mentre la mano indugiava sul suo fianco, -esiste cosa più meravigliosa dell’Amore?-

Una testolina bianca sbucò di nuovo da dietro i due, tirando uno scappellotto al moro, e sfoderando un sorriso poco rassicurante.

-Comunque, su qualunque cosa, puoi contare sempre su di me!-

-E me!-

-E anche me!-

-Veglierò sempre su di te, non hai di che preoccuparti!-

-Conta anche su di me!-

-Anche io!-

-Saremo come… i tuoi fratelli maggiori!-

-Fratelli maggiori!-

-Esattamente!-

Il viso dell’italiano s’illuminò, un radioso sorriso s’allargò teneramente sulle gote arrossate.

Kiku osservò sulla soglia il rosso che si unì agli sghignazzi sguaiati dei tre con una chiara risata cristallina.

Sospirò mestamente. Feliciano non sapeva che si era scavato la fossa con le proprie mani.

 

Sentì in lontananza il suono di schiamazzi, di urla stridule, di risate. I suoni giungevano confusi alle proprie orecchie, smorzate dalle quattro fredde pareti bianche in cui era confinato. Sorrise. Qualcuno si stava divertendo un mondo. Rimase a lungo ad ascoltare quei suoni, un vivace frastuono che irradiava calda luce luminosa, che infondeva vita e felicità nelle sue membra intorpidite.

Un pensiero improvviso. Avrebbe potuto sfondare la porta, correre sul lungo corridoio che si materializzava nei suoi ricordi, e unirsi all’allegra combriccola.

Ma un’antica memoria, s’intromise prepotentemente, inghiottì quelle dolci illusioni. E rivide le urla, le grida di terrore, uomini e donne che s’accalcavano per sfuggire alla morte, corpi mutilati che agonizzavano tra pozze rosse, i gemiti lamentosi dei morenti. Ricordò la sua folle corsa, le lacrime che bruciavano come fiumi infuocati sulle guance, il fumo che gli riempiva i polmoni. E vide tutti coloro che gli avevano dato la forza di sorridere nuovamente cadere per proteggerlo. Ma non si fermò, corse, e corse ancora. Voleva salvare almeno lui. Pregò, supplicò, non sapeva neanche bene chi, che almeno lui venisse risparmiato.

E dopo quegli occhi dorati, che lo  avevano sempre fissato con dolce amorevolezza, che lo avevano incoraggiato a non scivolare nuovamente nell’oblio, fissarlo vitrei, immobili, spenti, ricordò solamente l’urlo che diruppe dalla propria bocca, straziante, che raschiò violentemente la propria gola, lacerò le proprie orecchie, le proprie carni, il proprio cuore. Poi, la memoria si frantumò. Come piccoli lampi di colore cremisi, raccolse immagini di sangue, carne, fiamme. E poi il bianco, quel bianco che lo riportava indietro, su quelle alte montagne innevate, quando lo incontrò per la prima volta.

Si sdraiò nuovamente, e fissò il soffitto. Abbandonò il proprio intento. Sorrise. Dopotutto, anche quella candida prigione non era poi così male.

 

-Allora!-, esordì l’albino, -io sono Gilbert il Magnifico, mentre questi due teste di cazzo-, indicò con sufficienza i due uomini accanto a sé, -sono Francis e Antonio, due segaioli incallit-

Il ragazzo fu zittito da un forte calcio che colpì violentemente il suo stinco. L’albino si portò le mani alla parte lesa, coprendo d’insulti il biondo, che pareva non gradire la descrizione esposta su di sé.

Con una spinta, Antonio fece ruzzolare Gilbert sul pavimento, ancora piegato per il dolore, puntellando i gomiti sul tavolino, trovandosi così a pochi centimetri dal viso dell’italiano.

-Ehi, Feli, posso chiamarti Feli vero?, non è che per caso hai un fratello, magari gemello?-

Feliciano tentennò, mentre due chiari occhi allegri brillavano gioiosi. Di nuovo quella strana luce.

-Beh…-, titubò, -avrei un fratello appena un po’ più grande di me, e la gente dice che ci somigliamo molto…-

Abbassò lo sguardo, tormentandosi le piccole mani.

-Ma è splendido!-, esclamò lo spagnolo, -Fantastico, favoloso, straordinario! Perché non me lo presenti, eh? Potremo uscire tutti e tre, che ne dici?, tu, io e il fratellone, potremo fare un giretto, mi potreste invitare a casa vostra, e dopo magar-

Questa volta, due pugni si abbatterono in contemporanea sulla zucca del moro, che si accovacciò a terra piagnucolando, massaggiandosi penosamente i lucidi capelli scuri.

-Ma siete idiotiiiiiiii?-, frignò, imbronciandosi.

-Devi stare molto attento ai suoi adescamenti!-, affermò l’albino.

-Per qualsiasi ragione al mondo, non devi assolutamente rimanere da solo con lui in luoghi bui e deserti-, aggiunse il francese.

-Hai proprio un bel coraggio…-, borbottò il moro, arrancando verso il proprio sgabello.

-E nessuno di voi ha fratelli?-, domandò allegramente il rosso, dondolandosi sulla sedia.

-Come ho già detto-, ridacchiò l’albino, -quella bestia bionda quattrocchi è il mio dolce, piccolo fratellino, ma cosa ci vuoi fare-, sospirò teatralmente, tornando a sorseggiare l’amata birra-, tutte le doti migliori sono toccate al maggiore-

-Fratellino??-, esclamò stupito l’italiano, - non si direbbe, tu sei molto più basso e gracile di lui-

Va detto, a difesa dell’italiano, che quelle parole innocenti non erano state pronunciate con intento provocatorio, era solo un semplice pensiero che aveva attraversato la sua mente ingenua.

Gilbert si strozzò nella sua stessa birra, si batté un pugno sul petto, tossì convulsamente. Gli altri due scoppiarono in una risata fragorosa, dando allegre pacche sulla schiena di Feliciano, che rimase perplesso di fronte a quella, almeno secondo lui, inaspettata reazione.

-Ahahahahah, mi spiace Gilbo, ahahahah, anche Feli ha visto che sei una mezza calzetta, ahahahah!!!-, strillò lo spagnolo tra le lacrime e gli sghignazzi.

Il rosso era confuso.

-Mio piccolo fiorellino, hai toccato un tasto dolente…-, ridacchiò il biondo.

-IO NON SONO BASSO-, avvampò l’albino, la baldanza sostituita dall’orgoglio intaccato, -È QUEL MOSTRO DI LUD CHE È SPROPORZIONATAMENTE ALTO!!!-

-Mi dispiace…-, disse sommessamente l’italiano, dispiaciuto di aver fatto arrabbiare il suo nuovo amico.

-Non preoccuparti, ahahah… Feli…-, esalò lo spagnolo, cercando di riprendersi dall’attacco di’ilarità, asciugandosi con un dito una lacrima che sfuggiva al lato degli occhi, - Non sei il primo, ahah… A dire che il Magnifico è una mezza seg-

Un boccale di birra si frantumò sulla testa del moro.

-Ma sei completamente rincretinito?!-, strepitò lo spagnolo.

Un pugno lo colpì in pieno petto. Feliciano osservò allarmato le iridi cremisi incendiarsi.

-Va bene, va bene, break, break!!-, esalò Antonio senza fiato, mentre qualche risata esausta sfuggiva ancora dalle sue labbra.

L’albino si risedette, fumava d’irritazione. Il biondo ridacchiò.

-Ma adesso parliamo di cose serie-, disse mellifluo il francese, -è tradizione che i membri più anziani siano i primi a presentare i propri Doni-

Gilbert sobbalzò.

-Emh, io dovrei andare a prendere un’altra birra…-, farfugliò, facendo per alzarsi.

-E dai, Gilbo, rimani ancora con noi…-, sorrise sornione il moro.

-Si, Gilbert, per favore!-, pregò il rosso.

Lo sguardo dell’albino vagò tra quelle due facce, la prima che se la rideva sotto i baffi, l’altra dolcemente supplichevole. Sbuffando, si risedette.

-Allora-, cominciò Francis, -piccolo topolino, hai di fronte a te il Possessore del Dono dello Spazio!-, s’inchinò teatralmente.

-Io, invece,-, s’intromise allegramente Antonio, -sono il Possessore del Dono del Tempo!-

Feliciano guardò ammirato il moro con gli occhi sgranati.

-In altre parole-, si pavoneggiò quello, -posso arrestare il tempo in qualsiasi momento, e nessuno se ne accorgerebbe!-

-Davvero?!-

-Si, ma si limita solo a quello-, intervenne l’albino con voce maligna, -Non può modificare nulla e non può intervenire su niente, quindi è totalmente inutile-

-E cosa mi dice di te, caro Gilbert?-, soffiò cattivo il moro, -Perché non dici a Feliciano il tuo Dono?-

Il ragazzo s’irrigidì. Scoppiò a ridere, ma l’italiano notò che quella risata era leggermente forzata.

-Al Grandissimo Gilbert non è toccato un Dono qualunque-, gridò con voce stranamente stridula, - Io sono il Possessore del Dono del Magnifico!-

-Eh?-, chiese confuso Feliciano.

-Tutte balle-, cantilenò il biondo con voce insinuante, -ha inventato questo nome perché quello del suo Dono non è abbastanza figo-

-Stai zitto!-

-In realtà il suo nome reale è…-

-Zitto!-

-… il Dono della Scelta-

L’albino s’avventò sul biondo, cercando inutilmente di tappargli la bocca.

-Non ci vedo nulla di male…-, disse esitante Feliciano.

-Ecco, tu si che capisci qualcosa-

-Ma non sai del soprannome che ha sostituito l’originale con il passare dei secoli?-

-Tappati quella fogna!-

-No-, rispose perplesso il rosso.

L’albino fece un ultimo tentativo di mettere K.O. il francese, inutilmente.

-È stato ribattezzato con il Dono dell’Esca-

Gilbert s’agitò.

-È UN DONO NOBILISSIMO, E VOI SIETE DEGLI IDIOTI!!- 

-Perché questi nomi?-

-In pratica, lo stupido ha il potere di manipolare l’attenzione dell’avversario, e ha la possibilità di concentrare l’interesse su di sé, o optare per essere ignorato-

-Insomma-, concluse con sorrisetto il moro, -in battaglia o decide di fare l’esca, oppure di scappare come un coniglio-

-SIETE DELLE LURIDISSIME TESTE DI CAZZO, CANAGLIE, ASSASSINI, TRADITORI DEI PARENTI E DEGLI AMICI…-

Antonio afferrò l’albino da dietro la schiena, per evitate che questo s’avventasse sui loro poveri corpi. Francis, portò una mano a coprire un piccolo ghigno.

-Dovessi vedere la sua faccia quando il capo gli ha comunicato il nome del suo Dono…!-

Feliciano lo fissò perplesso.

-Cosa?-

-Si, insomma-, Francis gesticolò, -diciamo che tutti, appena entrati nell’Aletheia, ricevono, come dire, una specie di battesimo, in cui il capo comunica ad ognuno il nome del D-

L’italiano lo interruppe.

-Ma nessuno mi aveva detto che ci fosse un capo qui dentro!-

Il biondo sbuffò.

-Non è che lo abbia proprio detto esplicitamente, ma tutto un’insieme di cose fanno capire che si tratti proprio di lui. Per esempio, lo stesso nome Aletheia è greco, e lo sai che Heracles è nato ad Atene?-

-Ma come…? Cioè, come fai a dire che qui c’è un capo, se neppure sai chi sia…?

-Non è che non so SE ci sia-, lo corresse, -Nessuno sa CHI sia, è stato lo stesso Heracles a dire che tra noi si nasconde il capo-

Francis incrociò le mani sotto il mento.

-Devi sapere che cinque anni fa, la sede dell’Aletheia è stata distrutta. Solo un membro è sopravvissuto, e ha costruito questa nuova baracca-, e qui batté il palmo sul tavolino, come per provare la propria affermazione. Intanto, i due litiganti si erano calmati, e ora sedevano esausti sulle sedie.

-Anche se questo si considera il capo, ha deciso di aiutarci nell’ombra, e di prendere il comando dell’organizzazione solamente in situazioni di assoluta necessità-

Francis sorrise illusorio.

-O almeno, così ha detto quello sciroccato di Heracles. Il fatto stesso che sia stato lui a pronunciare queste parole, lo rende molto sospetto-

-Heracles non è uno sciroccato, né tanto meno il capo dell’Aletheia-

Una voce indignata fece voltare tutti i presenti. Il giapponese era stato per tutto il tempo in piedi sulla soglia, ascoltando i loro discorsi in disparte. Feliciano si stupì. Non aveva mai visto l’asiatico con quell’espressione furiosa, che poco si confaceva alla naturale quiete delle iridi scure.

-Come no-, ghignò Gilbert, -il fatto che si blocchi in mezzo ai corridoi e rimanga impalato come uno stoccafisso a fissare il vuoto è solo una casualità…-

-Oppure quando lo troviamo addormentato in mezzo ai corridoi!-, aggiunse Antonio.

-E quegli stupidi guanti? Non se li toglie neppure durante la cena, manco fosse m-

-Belschmidt-kun, Carriedo-kun, non siate così malevoli nei suoi confronti!-

-Stai tranquillo, piccolo fiore di loto-, intervenne malizioso Francis, -nessuno toccherà il tuo Heracles…-

Il giapponese avvampò.

-L-lui n-non è il mi-

-No?-, incalzò, -non mi è mai sembrato di sentirti chiamarlo Karpusi-kun…-

Da dietro, un coro di “Heracles, Heracles!”, pronunciati con una vocina vagamente effeminata, seguirono le roche risate del biondo

-L-le vostre insinuazioni sono del tutto errate. E ora, scusatemi, devo andare-

Dopo un breve inchino, ciabattò velocemente via, sparendo nell’ombra del lungo corridoio.

-Tsk, non so chi dei due sia più sciroccato…-, sibilò maligno Gilbert.

Feliciano si rattristò di quel commento. A lui l’asiatico piaceva, lo aveva addirittura salvato dagli zombi. Nella sua mente, aveva perfino accantonato il fatto che fosse un assassino.

-Allora, Feliciano!-, Antonio spezzò l’atmosfera pesante formatasi, -ancora non ci hai detto il tuo Dono!-

-È vero! Forza, sputa il rospo!-

Tre facce incuriosite si sporsero verso il suo viso, spintonando, per poi accalcarsi una sull’altra.

-Beh, ecco…-, Feliciano fissò imbarazzato i tre visi trepidanti.

-Mmhh?-

-…veramente, Heracles non è riuscito a scoprire il mio Dono…-

Silenzio. Tre paia di occhi strabuzzarono. Due di queste scattarono sull’albino, che sbiancò, per quanto fosse possibile. Gilbert si sporse verso il rosso, cupe iridi cremisi indagatrici lo trafissero, lo scrutavano accigliate. Poi, lentamente, si ritrasse.

-Ancora…!-

L’albino si sedette di schianto sullo sgabello, portandosi una mano incredulo a sostenere la fronte.

-Non è possibile…-, sussurrò Antonio.

Feliciano osservò allarmato le loro espressioni sbalordite.

-Vuoi dire che sei stato attaccato dal Bokor, ma non hai idea di quale sia il tuo Dono?-

Ancora quella domanda, la stessa rivoltagli da Heracles.

-S-sì-, balbettò. Aveva detto forse qualcosa di sbagliato?

-Perché? Cosa c’è di male?-, domanda, con una certe nota isterica nella voce.

-Ludwig…-

-Cosa?-

-Non sei stato il primo…-, sussurrò cupamente l’albino.

-Anche Ludwig è un Possessore senza Dono-

 

 

(1) Non ti faremo del male. Scusa per questo francese idiota. Non ti faremo del male. Noi abbiamo le risposte che cerchi.

(2) Dove cazzo sono? Chi diavolo siete? Perché sono…

(3) Segui me, e avrai le risposte.

 

Note d’Autrice

 

E dopo il finale accompagnato dalle lugubre note di Psycho, o la Sinfonia del Destino, o qualunque cosa volete voi, eccoci qua al sesto capitolo!

*Trombette e coriandoli*

Raramente mi sento soddisfatta da un capitolo come lo sono con questo, per tre bellissimi motivi: primo, Arthur ha fatto la sua comparsa nell’Aletheia, e ha già messo in chiaro alcune cosette con Francis ( >:D ); secondo, è arrivato il Bad Touch Trio!!!!, e specialmente Gilbert, che io amo alla follia!; e, infine, una nuova presenza ha iniziato a innalzare la propria voce… E proprio questo, insieme al mio piccolo caro prussiano, è un personaggio che adoro tantissimo! :3 Per non parlare del fatto che pian piano si intravedranno nuove relazioni tra gli ignari membri dell’organizzazione, muhahahah!!!

Piccola nota: nonostante tenga molto alle traduzioni, ho deciso di lasciare intatto il –kun di Kiku. Quindi non è un’imprecisione non voluta, ma una scelta dovuta a sottolineare la formalità del giapponese.

Che altro dire, oggi è iniziata la scuola… (sob)! ç___ç Spero quindi di portare in questo giorno, con il settimo capitolo, un po’ di consolazione sulla faccia dei poveri studenti!

Grazie ancora per mi preferisce, chi mi segue, chi mi ricorda, e anche chi mi legge soltanto, ma ricordate! Le recensioni sono la linfa vitale per ogni scrittore. Orsù dunque, scrivete, scrivete, scrivete, per fare contenta un povera scrittrice in piena crisi pre-trimestrale. Alla prossima! :D

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Capitolo 7
*** Rifiuto ***


-Col cazzo che rimarrò in questo fottuto buco di fogna!-

-Kirkland-kun, per favore…-

-Zombi, stregoni, magia! Ma ti rendi conto di quante cazzate escono dalla tua bocca?!-

-Adesso vedi di calm-

-Vaffanculo, io non mi calmo! Mi avete portato qui con la forza, e ora mi impedite di andarmene?!-

-Verament -

-Stai zitto! Voglio andarmene immediatamente da qui!-

Era da quando il bibliotecario aveva terminato la propria arringa, che l’inglese stava dando di matto. Inutili erano stati i tentativi di calmarlo da parte del giapponese e il tedesco, la sua rabbia sembrava inesauribile.

Heracles era rimasto tutto il tempo comodamente seduto sul proprio trono, le mani incrociate davanti a sé, gli occhi imperturbabili anche di fronte a quello scatto di’ira.

-Non possiamo fare altrimenti-, disse semplicemente quello, -non solo per la tua sicurezza, ma anche per quella dell’intera città, che sarebbe altrimenti attaccata da orde di-

-Non mi importa un cazzo di quella città!-, sbraitò il biondo, -e non mi importa niente della vostra guerra! Perché mai dovrei spaccarmi il culo per quel Ba-, Be-…-

-Bokor-, lo corresse distaccatamente, -e sarebbe meglio che cominciasse a importartene, visto che tu possiedi il D-

-Stai zitto!-, urlò, tappandosi le orecchie, stringendo gli occhi, nel vano tentativo di ignorare il presente.

-Invece apri bene le orecchie-, continuò quello, -tu possiedi il Dono della Morte, e non è un potere qualsiasi. Solamente tu, in tutto il mondo, sei in grado di vedere le anime dei defunti…-

-No!-, strillò.

-…le anime dei defunti che non hanno accettato la propria morte. Se non parteciperai a questa guerra, gli spiriti aumenteranno, sempre più infelici, riuscirai addirittura a percepire la loro tristezza, e questo, oltre a portarti via dalla tua vita, ti condurrà alla pazzia-

Arthur barcollò, il viso contratto in una smorfia sofferente.

-Heracles…!-, tentò di fermarlo Kiku.

-Quindi, volente o nolente, tu rimarrai qui, e se non parteciperai alla battaglia, almeno eviterai di mettere in pericolo altre migliaia di persone-, concluse con calma.

Il biondo si voltò di scatto, aprì la porta, per poi sbatterla con violenza.

Corse a perdifiato lungo quel dedalo di corridoi, alla ricerca di una via d’uscita da quel luogo, da quella situazione, da quell’incubo.

-No, no, no…-

Una svolta, poi un’altra. Non si fermò, neanche quando sentì bruciare la gola, i polmoni accartocciarsi, le gambe cedere. Non poteva fermarsi, non poteva rimanere lì, non voleva. Ma ad un tratto le ginocchia si piegarono contro la sua volontà, cadde disteso lungo il freddo pavimento. E rimase per qualche istante così, concentrandosi unicamente sul proprio respiro affannato. Ma niente servì, nulla lo distolse dalla consapevolezza di essere lì. Sbatté violentemente un pugno sulla dura superficie. Rabbia e dolore urlarono, e riempirono la sua testa di un amara verità.

 

Un grido.

 E un altro, e un altro ancora.

Era inutile tapparsi le orecchie. Quel suono terribile sgusciava tra le dita, ed entrava prepotentemente nella sua testa. Lo conosceva. Era l’urlo di chi non poteva più scappare, era la consapevolezza di essere giunti alla fine.

Si graffiò disperatamente i lobi, i padiglioni auricolari, tentando forse di sopraffare quel rumore infernale con il dolore delle carni lacerate, magari strapparseli direttamente per impedire che i ricordi l’affogassero come un fiume in piena.

E gridò, tentando di sormontare il dolore di quelle memorie di sangue.

 

-Cosa diavolo ti passa per la testa?!-

-Mh?-

Heracles alzò gli occhi dal mucchio di fogli sparsi sul parquet. Dopo la fuga dell’inglese, come se nulla fosse, aveva congedato il tedesco, e aveva iniziato a raccattare i papiri e gli antichi manoscritti disseminati per la stanza.

Il castano non capì perché il moro lo stesse fissando così. Tornò ai suoi libri.

-Gli ho semplicemente esposto la situazione-, disse con una tale noncuranza, che fece gelare il sangue nelle vene al giapponese, -prima o poi l’accetterà-

-Ma non possiedi un briciolo di tatto?!-, sbottò indignato, -non tutti sono come Carriedo, Bonnefoy e Beilschmidt! Alcuni hanno bisogno di tempo per capire, tempo per accettare!-

-Non capisco perché ti arrabbi così tanto-, rispose atono il castano, -ho semplicemente detto la verità!-

-Ecco, la verità!-, sbottò con ira il giapponese. Parve pentirsi quasi subito, e si ricompose. Non smise però di fissare l’uomo con sguardo risentito.

-Tu pensi che tutto si limiti a questo? La nuda, cruda, fredda verità? Non pensi che abbiamo strappato quel ragazzo dalla sua città dopo essere stato attaccato dai Jardin, per poi portarlo qui e poi parlargli di partecipare a una guerra di cui non sa nulla?!-

Per un attimo, il bibliotecario assottigliò gli occhi. S’alzò, il velo calato sulle chiare iridi s’ispessì, come uno strato di ghiaccio.

-La verità è l’unica cosa su cui possiamo contare, è unica, e non tradisce mai. Se uno stupido adolescente illuso ne rimane accecato, non è certo una mia colpa-

-E per la tua verità, rinunceresti anche alla tua umanità?-, disse il moro ironico.

Il greco rimase per qualche secondo in silenzio.

-Se necessario, sì, lo farei-

Un tesa atmosfera di tensione avviluppò i due corpi, ritti uno di fronte all’altro.

Kiku sospirò rassegnato. Si diresse verso l’uscita con passi silenziosi. Prima di uscire, rivolse un ultimo sguardo nella sua direzione. Il bibliotecario parve leggervi tristezza e delusione. Kiku chiuse delicatamente la porta. Appena sentì i suoi passi venire inghiottiti dal silenzio, Heracles scaraventò con violenza i fogli che aveva raccolto contro la parete. Il velo d’apatia tremò per un breve istante.

Poi i suoi occhi vagarono per gli scaffali delle due biblioteche di mogano. Lui aveva i suoi libri. Non gli serviva altro.

 

Kiku percorse trafelato il labirinto di corridoi, fino a trovare l’inglese steso a terra, immobile. Lentamente si avvicinò a quella figura, accovacciandosi accanto.

-Kirkland-kun…-, sussurrò preoccupato il moro, avvicinando lentamente la piccola mano verso la chioma bionda.

Con uno gesto fulmineo, un braccio scacciò quell’imminente contatto fisico.

-Lasciami in pace…-, mormorò, lasciando cadere pesantemente l’arto privo di volontà sul pavimento. Kiku ritrasse la mano, ma non si allontanò.

-Kirkland-kun-, riprovò, -mi scuso per il comportamento inaccettabile di Heracles-

Nessun movimento fece intuire che lo avesse realmente sentito. Kiku continuo, non scoraggiandosi.

-Non è una cattiva persona, ma è talmente perso nel suo mondo ideale da risultare a volte un po’ troppo diretto…-

L’inglese alzò lentamente la testa.

-Solo un po’…?-, mormorò ironicamente.

Kiku sorrise.

-È talmente preso dalle sue macchinazioni che non si accorgerebbe neppure se una bomba scoppiasse sotto il suo scrittoio-

Arthur esalò una piccola risata stanca. Alzò lentamente la testa, le verdi pupille lucide vagarono su quel minuto volto.

-Io sono Kiku Honda-, si presentò il moro, inchinandosi a mani giunte, alla tipica maniera giapponese. L’inglese rimase un po’ perplesso da tutto quel rispetto, abituato solamente ai calci in culo di tutti i proprietari di pub di Londra.

-A-Arthur…-, s’affrettò a rispondere, stupendosi della voce arrochita dagli urli. Si schiarì la gola.

-Arthur Kirkland-

-Lo sapevo già-, disse il moro. Poi arrossì.

-C-cioè, solo perché Heracles mi aveva riferito il tuo nome prima di venire a Londra, non perché, sai, capisci, cioè…-

Il moro s’impappinò nelle su stesse parole.

-Va bene, va bene, ho capito-, cercò di calmarlo il biondo, alzando i palmi delle mani, come a segno di resa.

Nonostante tutto, quel piccoletto, anche con i suoi formali convenevoli e la timidezza di una dodicenne, gli sembrò la persona più gentile e buona di quella brancata di matti.

 

Kiku si offrì di accompagnarlo fino alla stanza in cui, per chissà quanto tempo, avrebbe dormito.

Superato un primo momento di sollievo dovuto alla presenza del piccolo giapponese, Arthur tornò con i piedi per terra, e la rabbia tornò a bollire dentro di lui.

-Scusa Kiku…-, iniziò il biondo.

L’asiatico si voltò.

-Si, Kirkland-kun?-

Il biondo tentennò un attimo.

-Anche tu sei stato costretto a rimanere qui?-

I frettolosi passi del moro s’arrestarono per un brevissimo momento.

-Devi sapere che mio nonno fu uno studioso dell’Aletheia, perciò ho vissuto dall’infanzia con la consapevolezza di possedere il Dono-

L’inglese fissò la piccola figura che camminava spedita senza mai voltarsi.

-Anche dopo la sua morte, anzi, proprio per la sua morte, ho deciso di rimanere qui-

Il giapponese si bloccò, e si girò di colpo, puntando le sue iridi scure in quelle dell’altro ragazzo.

-Kirkland-kun-, iniziò con tono terribilmente serio-, non pretendo di sapere come ti senti, non mi permetterei. Ma vorrei esporti cosa penso di tutto questo: nessuno vuole una guerra, neanche quello sciocco di Heracles-

Arthur rimase meravigliato dalla profondità di quegli occhi, dalla saggezza che stillava dalle iridi di mogano.

-Ma per quanto dolorosa essa sia, è l’unico modo che abbiamo per far sì che altri nostri amici non vengano uccisi. E io combatterò, persino dando la mia vita, per aver la certezza di salvare coloro che amo-

Improvvisamente, il moro afferrò una maniglia incastonata sulla parete. Arthur sobbalzò. Non si era neppure accorto di essere arrivato di fronte a una porta.

-Questa è la tua camera, spero sia di tuo gradimento-, s’inchinò, -a presto-

E, come era apparso, sparì tra le ombre dei corridoi.

L’inglese rimase qualche momento imbambolato, meravigliato da quello spirito saggio che sembrava uscito da una favola di Jakob e Wilhelm Grimm. Si riscosse, dandosi dell’idiota, decidendosi a entrare nella propria stanza.

Era una camera ordinaria, un letto, un comodino, una lampada. Andò ad aprire le ante dell’armadio. Normali camice e pantaloni. Lo sguardo percorse ogni singolo centimetro della stanza.

Si buttò di slancio sul letto, le molle cigolarono sommessamente per il peso improvviso. Afferrò il cuscino, lo strinse tra le mani, il viso si tuffò nella sua morbidezza.

Lì dentro non c’era davvero nessuna radio che trasmetteva gli ultimi racconti di Poe, e le coperte non donavano alcun calore protettivo. Realizzò finalmente di non trovarsi in un incubo. Scaraventò il guanciale verso l’armadio. La testa cadde stancamente sul giaciglio, sprofondando tra le coperte dal colore indefinito. Rifletté su tutto.

Il Dono della Morte. Gli veniva da ridere. Da quando quei cosi fluttuanti potevano essere una minaccia per un potente stregone? Questi pensieri lo riportarono alle fredde parole del bibliotecario. Strinse rabbiosamente le lenzuola, fino a che le nocche sbiancarono. Era tutto così assurdo, così irreale, sembrava veramente di essere entrati ne I racconti dell’orrore. E si rese conto di essere in trappola.

Ringhiò sommessamente. A lui non importava nulla né del Bokor, o come diavolo si chiamava, né dei Doni, né tanto meno dei Possessori. Lui voleva semplicemente tornare a casa, scrivere i suoi testi, suonare la sua musica.

Ma d’un tratto gli balenarono in mente le parole di Kiku. Salvare coloro che amo. Sorrise amaramente. Non poteva certo dire di possedere un motivo nobile quanto quello del giapponese.

Dal misterioso rapimento del proprio fratellino, sua madre non faceva che piangere sulle vecchie camice di Peter. Suo padre usciva sempre più spesso per non dover assistere al dolore straziante della consorte. Sospettava perfino che avesse un’amante. Allo scoccare dei diciotto anni, Arthur aveva preso baracca e burattini, e si era trasferito in un sudicio monolocale nel centro di Londra, con il riscaldamento rotto e le vecchie tubature arrugginite che perdevano, per non parlare del treno dell’una e quarantacinque che puntualmente lo faceva svegliare di soprassalto nel cuore della notte. Ma qualunque posto era un paradiso a confronto dell’aria gelida che si respirava in famiglia. Sospirò mestamente. Salvare coloro che amo.

-Merda…-, mormorò.

-È esattamente quello che ho pensato di te vedendoti entrare-

Arthur sobbalzò. Si girò di scatto, e per poco non gli venne un colpo.

Un bambino, anzi un adolescente, era seduto sopra l’armadio, con le gambe accavallate, lo sguardo astioso rivolto verso di lui. E fin qui non ci sarebbe nulla di così straordinario. Solo che il ragazzo non era umano. Era uno spirito.

Scese dalla propria postazione, per galleggiare fino a fissarlo con disappunto dall’alto, anzi, dal basso della sua esigua statura.

L’inglese rimase a bocca aperta. Piccole ciocche di capelli danzavano davanti agli enormi occhi che in quel momento lo scrutavano con ostilità. Arthur notò che possedeva i tipici tratti efebici del Nord. Si stupì di questo. Nelle altre figure balugginose le particelle aree si ammassavano quel tanto da formare il calco di un corpo umano, le linee del viso appena abbozzate. Ma soprattutto, nessuna di queste aveva osato avvicinarsi così tanto a lui. Invece, quel ragazzino gli si parava arrogantemente davanti, i dettagli del volto finemente cesellati, i capelli sembravano fini fili d’argento.

L’eterea figura sbottò, con una vocina infantile.

-Dove diavolo sono finiti Niels? E Mathias? E Berwald, Tino, Peter e Hanatamago?-

Arthur era talmente sconvolto da quella voce sottile, che sembrava veramente uscire da una bocca di un vivo, che non prestò attenzione alle parole, nemmeno al sentir pronunciare un nome fin troppo noto. Rimase semplicemente lì, a bocca aperta, come un idiota.

-Ehi, brutto sopracciglione, prima entri in camera mia, e poi non mi dici neppure che fine hanno fatto gli altri?-

Una vena pulsò sulla fronte del biondo. Accantonò tutti i pensieri e le domande sugli spiriti. Sopracciglione. L’ultima persona che aveva osato chiamarlo così era un compagno di classe delle superiori, arrivato secondo alle gare sportive organizzate dal club d’atletica. Lo sventurato si ritrovò all’ospedale con venti punti di sutura, più ematomi ed escoriazioni vari.

-Cosa diavolo hai detto, marmocchio con il moccio al naso?-, sibilò l’inglese, alzando pericolosamente un pugno.

-Problemi, vecchio?-, disse con il classico tono petulante dei bambini, -La verità fa male, vero sopracciglione?-

Questo era troppo. Caricò un gancio, e lo sparò con l’intento di colpire il petto del bambino, in modo da fargli molto, molto, molto male. Si scordò momentaneamente che si trovava di fronte uno spirito, probabilmente il proprio pugno avrebbe attraversato il corpicino argenteo.

Fissò invece inorridito il proprio braccio sprofondare nell’essenza liquida dei vacui bagliori. Quella sensazione. Immergersi in un nero mare freddo. E i ricordi di quell’orribile vuoto balenarono fulminei nella sua mente. Ritrasse allarmato la propria mano, fili lattiginosi rimasero attaccati alla pelle del giubbetto, poi si dissolsero in tante piccole molecole galleggianti.

Il ragazzetto rise divertito dalla sua espressione sbalordita.

-Ehi, vecchio! Non sai neanche tirare un pugno come si deve?-

-Maledetto…!-

Questa volta, il bambino evitò il calcio che altrimenti sarebbe sprofondato nella sua testa. Sempre sghignazzando, balzò verso la parete su cui era poggiato l’armadio.

-Ci becchiamo in giro, sopracciglione!-

D’un tratto, la figura si sgretolò, la linea del corpo si confuse, parve disperdersi in tante gocce argentate. In un istante, l’evanescenze attraversarono la parete, non lasciandovi alcuna traccia.

Arthur rima se lì impalato, con pugno alzato, un insopportabile prurito alle mani, e con una voglia matta di picchiare qualcuno.

 

Il silenzio, finalmente. Nessuno gridava più, nessun lamento lo raggiungeva. Sospirò sollevato. E gli occhi tornarono ad immergersi nel bianco delle pareti. E tornò in quello stato d’incoscienza, nel quale la mente galleggiava nel vuoto, alcun pensiero lo turbava, uno stato in cui sogno e realtà si mescolano, creando una dimensione d’irreale conforto.

 

Note d’Autrice

*Fan di Heracles circondano l’Autrice brandendo minacciosamente maceti*

Stop…!Alt...! Ferm…! Posso spiegare! Io ADORO Heracles, semplicemente quello che ho scritto è la mia personale visione del nostro caro, piccolo e dolce greco! Comprendetemi! çoç

*Fugge via*

Mmmh, non c’è molto altro da dire, se non che amo sempre di più Kiku alla follia, che la misteriosa presenza ancora non si è rivelata, ma soprattutto hanno fatta la loro comparsa i Nordici!!!

*Coriandoli e trombette*

E si, entreranno in scena molti altri personaggi, con l’andare del tempo! Comunque, spero che continuerete a seguirmi in tanti, e mi raccomando, recensite, recensite! Farete felice una povera studentessa alle prese con la depressione post prima settimana di scuola! A lunedì! :D

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Capitolo 8
*** Il rosso e l'azzurro ***


Feliciano rimase senza parole. Gilbert sospirò.

-Anche lui-, mormorò l’albino, -è stato attaccato dai Jardin, ma al momento del Battesimo del Nome, Heracles non è riuscito a cogliere in lui alcuna traccia del Dono-

L’italiano non sapeva più cosa pensare. Sin dal primo sguardo, una forza misteriosa lo spingeva a entrare in contatto con quell’uomo, un vento magnetico, che lo esortava a cercare qualcosa in lui, non sapeva esattamente cosa. E poi la scoperta del Dono, che realmente un Dono non era, che li accomunava. Se questa fosse una semplice coincidenza, un elemento che si aggiungeva a quel misterioso impulso di contatto, non avrebbe potuto stabilirlo.

-In attesa che il suo potere si sveli, continua a dare una mano con gli apparecchi elettronici e le parti meccaniche giù al laboratorio-, aggiunse il tedesco.

Antonio, dopo il breve momento di perplessità, scoppiò a ridere.

-Il che è stata una vera fortuna, visto che il nostro capo, con tutti i libri che ha letto, non riuscirebbe a distinguere un motore da un mietitrebbia!-

Francis sorrise maliziosamente.

-Lo sai che è stato proprio Ludwig a creare il TEC?-, aggiunse orgoglioso Gilbert, come se lui avesse un merito speciale nelle azioni del fratellino.

-Eh?-

-Quella specie di spara chiodi che con cui ci ha infilzato tutti-, spiegò, scostando le ciocche candide per rivelare il maligno tubicino metallico.

-Non è stato per nulla piacevole-, si lamentò il biondo con voce melodrammatica, -questo stupido coso di ferro ha deturpato la mia bellissima pelle!-, e per aggiungere una leggera nota di pathos, portò la mano affusolata sulla fronte, in una posa tragica che ha reso famosa qualche nota attrice dei boulevard francesi.

-Sempre meglio di quando lo sciroccato era l’unico traduttore-, sogghignò l’albino, poi si rivolse al rosso in tono confidenziale, -anche se conosce tutte le cazzo di lingue di questo mondo, immaginati il risultato…-

-Ti ricordi di quando Alfred per poco non ci rimetteva l’osso del collo?!-, saltò sù il moro, con voce esaltata.

-È vero, è vero!-, strillò Gilbert, -gli aveva chiesto dove fosse il cesso, e lui lo mandò nella cantina con le scale rotte e la luce spenta!-, scoppiò a ridere.

-Una gamba rotta e una vescica quasi scoppiata!!!-, urlò lo spagnolo.

I due quasi caddero dagli sgabelli per la violenza delle risate.

Feliciano non s’aggregò a quell’allegra ilarità a cui si era aggiunto il francese, ma continuò a rimuginare pensoso. Un solo pensiero che rimbalzava tra le pareti della sua testa.

-Ehi, ragazzino!-, s’illuminò l’albino, -perché non vai a fare quattro chiacchiere con il mio fratellino?-

Tre ghigni si voltarono simultaneamente verso di lui.

-Giusto, perché non lo raggiungi al laboratorio?-

-Avrete tante cose su cui parlare…!-

-Esatto! Avete così tanto in comune…-

-Sembrate fatti l’uno per l’altro!-

Il rosso guardò stupito le tre testoline che si erano protese verso di lui. Tentennò.

-Siete sicuri che non lo disturberò…?-, sussurrò timido.

Una risata gracchiante proruppe dalle labbra sottili dell’albino.

-Non dire cazzate, ragazzino! Quel bestione non aspetta altro!-

Feliciano arrossì.

-Che cazzo ci fai ancora qui? Vai, vai!-

-Il laboratorio è di la, non puoi sbagliarti!-

-Coraggio, passerottino, apri le ali e vola verso i prati verdi…!-

L’italiano balzò in piedi.

-A-avete ragione! Forse lui ha le risposte che cerco!-

-Esatto, piccolo frugoletto!-

Corse con rinnovato ottimismo verso il varco del corridoio. D’un tratto si fermò di botto, si girò verso il tavolo in cui i tre se la ridevano sotto i baffi, e rivolse loro un enorme sorriso.

-Grazie di tutto quanto!-, urlò prima di riprendere a correre a perdifiato.

-Corri, Feli, corri!-

-Piccola rondine, lasciati trasportare dal vento dell’Amore!!-

-Ragazzino, non smontarmelo troppo, eh!-

Quando i tre sentirono il rumore dei passi affievolirsi, si scambiarono un’occhiata d’intesa.

-Gilbert-, disse solennemente Antonio, prima di alzarsi, -tira fuori le scorte d’alcool per le grandi occasioni…-

Francis rise maliziosamente.

-…stasera si festeggia-

 

-…Jones-kun?-

Da sotto l’ammasso informe di coperte a stelle e strisce proveniva un violento rantolare, che avrebbe tratto in inganno anche i biologi più rinomati nel campo scientifico e con esperienza decennale sulle spalle. Dalla stazza dell’essere che si agitava tra le fresche lenzuola e bassi ringhi prodotti dal medesimo, chiunque avrebbe avuto il timore di entrare in una stanza in cui stava avvenendo una riunione di grizzly americani.

Beh, non che si scostasse poi così tanto dalla verità.

-…Jones-kun?-, provò ancora il giapponese scrollando delicatamente una spalla di quello strano individuo profondamente addormentato.

-Jones?-, tentò ancora il piccolo asiatico. Come unico risultato, il tizio mugugnò infastidito, voltando la schiena a colui che disturbava il proprio sonno.

-Jones!-, esclamò quello, un po’ scocciato. Con un rapido gesto, che nulla aveva da invidiare ai migliori prestigiatori, sfilò dalla presa stritolante del dormiente le coperte su cui era impressa la bandiera americana.

Il ragazzo, di tutta risposta, borbottò, ma gli occhi non ne vollero sapere di aprirsi.

-Jones-kun, svegliati!-

Kiku spinse con tutte le sue forze quella massa ingombrante. Riuscì a farla rotolare, non un’impresa da tutti, finché cadde dal letto per atterrare sul pavimento.

L’asiatico emise uno stanco sospiro, sperando finalmente di parlare con l’americano. Ma quando circumnavigò il giaciglio, spalancò la bocca. Il ragazzo continuava ostinatamente a dormire e, anzi, il russare era aumentato d’intensità.

Questo era decisamente troppo. Anche la sua pazienza aveva un limite.

Fu così che il giapponesino si arrampicò sul materasso, mettendosi con qualche difficoltà in piedi. Fissò la figura del ragazzo sotto di sé, che ronfava ignaro del suo imminente destino.

-Mi dispiace profondamente, Jones-kun…-, sussurrò, prima di lanciarsi a bomba sullo stomaco del suddetto.

L’americano strabuzzò gli occhi. Tossì violentemente, portandosi una mano allo sterno. Con respiro rantolante, tastò la superficie sotto sé. Qualcuno gli passò gli occhiali, e lui l’inforcò velocemente. Davanti a sé, si materializzò la nitida immagine dell’asiatico che s’inchinava a non finire.

-Kiku, sei tu…-

-Mi dispiace, Jones-kun, ma non riuscivo a svegliarti, ne ho provate di tutte, e allora…! Oh, mi dispiace, mi dispiace profondamente di averti spaventato…!-

Il ragazzo rimase perplesso di fronte all’agitarsi del moro. Scoppiò a ridere, in una stridula risata.

-Ahahahah! Un americano non ha paura di niente! Piuttosto…-

Lanciò un’occhiata alle lancette dell’orologio poggiato sul comodino. Scattò in piedi.

-Cazzo, Kiku, perché non mi hai svegliato prima?!-

-Ci ho provato-, gemette il moro, -più volte, anche prima di partire, e poi dopo essere tornato, ma poi ho sentito delle urla dalla sala principale e-

Il ragazzone corse da una parte all’altra della stanza, raccogliendo i primi vestiti che riusciva ad afferrare, mettendoseli addosso.

-Lo sai che voglio essere sempre il primo a vedere i nuovi membri!-

-Mi dispiace, mi dispiace!-, si scusò ancora l’asiatico, seguendolo in tutti i suoi spostamenti.

-Non importa-, disse, saltellando su un unico piede, cercando contemporaneamente di infilare la gamba negli ampi pantaloni militari, -dimmi solo dov’è adesso-

-È nel secondo corridoio della sala est-, rispose trafelato il piccoletto, -ma stai attento, è appena ar-

-Perfetto!-, strillò allegro l’altro, mentre ingaggiava una lotta con lo scollo dell’enorme maglietta bianca, che non ne voleva sapere di passare per la testa, -andrò subito a trovarlo!-

Finalmente, si avventò sulla porta, aprendola con enfasi. Una piccola mano, però, lo trattenne.

-Per favore, Jones-kun, non esagerare-, s’agitò quello, -è ancora sconvolto da tutto quello che sta succedendo, e-

Il ragazzo lo guardò stupito per un breve momento, per poi scoppiare nuovamente a ridere.

-Non preoccuparti, Kiku-, esclamò sorridendo, -Gli eroi esistono per questo!-

Il giapponese non poté altro che seguire ansioso l’americano catapultarsi nei corridoi dell’area est.

 

Feliciano s’azzardò a imboccare il corridoio sulla destra. Constatando che questo portava a un altro bivio, optò per tornare sui suoi passi. Tornò all’incrocio precedente, ma si ritrovò ad osservare tre varchi, ognuno l’esatta copia del vicino. Quale aveva percorso per arrivare lì?

Va bene, pensò l’italiano, non farti prendere dal panico, il fratellone Antonio ha detto che bastava andare a dritto, quindi prenderò sempre l’imbocco centrale! Auto convincendosi della validità del proprio ragionamento, attraversò di corsa la volta designata, solo per ritrovarsi nuovamente all’ennesimo incrocio. Ma questo continuò a correre, attraversò altre porte, intestardendosi, persuadendosi che andando sempre dritto, finalmente sarebbe incappato in qualche sbocco. Dopo che le piante dei piedi iniziarono a bruciare, però, qualche dubbio iniziò a sorgere sul successo del proprio piano.

Stremato, si fermò. Ansimò, le mani poggiate sulle ginocchia a sostenere il peso del corpo, le gambe piegate e tremanti..

Doveva assolutamente trovare quell’uomo. Non sapeva per quale motivo quel pensiero lo ossessionava così tanto. Ragionandosi sopra, non riusciva a raccogliere indizi concreti su cui basare una giustificazione plausibile. Ma sentiva il bisogno impellente di parlare con lui, inconsciamente credeva, o meglio, aveva la certezza che il loro incontro avesse un senso, che fosse, in qualche modo, necessario e inevitabile.

Era strano, era come se qualcosa, nella sua testa, fosse rinchiuso dietro un portone, e adesso scalpitasse, ruggisse, supplicasse di essere liberato. Questa entità oscura, a lui totalmente nuova e sconvolgente, pareva acquietarsi solo con la presenza del biondo.

Anzi, non era esattamente così. La lontananza sembrava soffocarlo, una corda invisibile e intangibile era annodata intorno al proprio collo, un dolore incomprensibile, quasi incorporeo, lo rinchiudeva in un mondo in cui dondolava sospeso nel vuoto sopra un’enorme voragine, con il solo appiglio del cappio stretto alla gola. La vicinanza di Ludwig, era un filo sottile, tanto labile, sospeso da un estremo all’altro di questo profondo baratro, su cui i piedi tentavano d’issarsi, per un breve e fuggevole momento di sollievo.

Tutto questo non era chiaro nella mente confusa del ragazzo, dove paura, stanchezza e ossessione mulinavano in vortici violenti e caotici.

Si lasciò scivolare lungo la parete, per riprendere fiato e ragionare sul da farsi. Chiuse gli occhi, tirando profondi sospiri, tentando la calmare la frenesia che agitava le proprie membra.

E lo sentì per la prima volta.

Non esistevano parole per descriverlo. Avrebbe potuto usare esempi, similitudini, metafore, immagini che evocassero suoni, colori ed emozioni, inutilmente. Semplicemente, lo sentiva.

Vedeva, per così dire, la sua posizione. Più precisamente, captava vagamente la sua essenza.

Feliciano s’alzò barcollante, serrando gli occhi. Era una vibrazione, un suono sintonizzato tra le due menti. Era una mappa, una luce che guidava nel buio. Era un sesto senso, che presagiva la sua presenza. Eppure, non era niente di tutto questo. Nessun rumore giungeva al proprio orecchio, nessuna immagine si materializzò nell’oscurità delle sue pupille, quella presenza non era una semplice intuizione. Lui aveva l’assoluta certezza di riuscire a sentirlo.

Guidato da questo flusso sconosciuto, Feliciano varcò titubante un arco, poi un altro, e un altro ancora. Sentendo che questa corrente diventava sempre più intensa, riprese a correre, svoltando con rinnovata sicurezza angoli e bivi.

Ecco, forse aveva trovato l’immagine che si accostava di più alla realtà. Era come se loro due fossero in un illimitato campo magnetico, una volontà sconosciuta sembrava volere congiungerli, una forza ignota li voleva unire, più la lontananza diminuiva.

E così attraversò androni, corridoi, svolte, sentendosi sempre più attratto dal proprio polo contrario. Finalmente, sboccò in un lungo corridoio che, a differenza dei precedenti, aveva una leggera andatura curva. Feliciano notò che la parete alla propria destra non era perpendicolare al pavimento, ma era leggermente conca, come se qualcuno avesse spinto il muro verso l’esterno.

E, per la prima volta, apparvero delle finestre. Più che finestre, somigliavano più ad oblò, come quelli delle grandi barche ormeggiate al porto vicino alla casa del nonno. All’italiano tornò in mente l’avvertimento del bibliotecario.

È meglio che tu non guardi ancora fuori.

Cosa avrà voluto mai dire? S’avvicinò incuriosito e timoroso al vetro, e dedusse che quello doveva essere uno dei corridoi più esterni dell’edificio. Magari, per quella strana forma dei finestrini, si trovava su un vascello, chissà.

S’affacciò. Fuori, in effetti, tutto era azzurro. Ma era strano. Era di una piattezza irreale, nessuna onda s’infrangeva sulla nave, la spuma bianca sembrava morbida e vaporosa. Assomigliava tanto a…

Feliciano inorridì. Urlò, cadde a terra, tremò violentemente.

Non era possibile, era totalmente impossibile. Stava impazzendo sicuramente.

Si portò le mani tremanti tra i capelli, gli occhi sbarrati, i denti battevano.

Cosa diavolo stava succedendo?

Tentò di urlare di nuovo, ma dalla gola secca uscì solo un suono strozzato.

Improvvisamente, una mano lo afferrò gentilmente alla spalla.

-Vargas-kun?-

Il rosso voltò la testa di scatto, trovandosi a specchiare in due profonde iridi scure.

Il giapponese, ancora imbambolato sulla soglia della porta dell’americano, era accorso fin lì sentendo grida vicine.

L’italiano puntò un dito tremante verso l’oblò.

-L-lì fuori…! St-stiamo per cadere! Non c’ è più acqua!-

S’aggrappò disperatamente al kimono dell’asiatico, con gli occhi sbarrati da folle terrore.

-Vargas-kun, calmati, è tutto normale, non c’è da pr-

-Normale…! Siamo sospesi nel vuoto! Stiamo per precipitare, moriremo, moriremo tutti…!-

Perché lui era così calmo? Non capiva, non riusciva a capire. Forse si stava prendendo gioco di lui. Forse stava davvero andando fuori di senno.

Tremava violentemente, le mani aggrappate disperatamente a ciuffi rossicci che gli coprivano il viso. D’un tratto, il giapponese lo afferrò per le spalle, e lo scosse con forza.

-Vargas-kun, smettila, ho detto di calmarti!-, alzò la voce, per sovrastare i suoi vaneggiamenti.

Feliciano si ritrovò di nuovo immerso nella placida saggezza di quegli occhi.

Smise di balbettare sillabe sconnesse, ma ancora leggeri tremiti scuotevano i piccoli arti. L’espressione dell’asiatico si addolcì.

-Non stiamo precipitando, stiamo solo volando-, sussurrò con tono comprensivo.

-V-volando…?-, balbettò quello flebilmente, temendo di non aver solo immaginato quella parola.

-Certo, controlla tu stesso se vuoi, oh, riesci ad alzarti?-, aggiunse gentilmente il moro.

Feliciano, ancora incredulo, s’aggrappò al bordo sporgente di un oblò, e fece leva sulle gambe traballanti.

Lo sguardo indugiò un poco sull’intonaco delle pareti, reticente a posarsi sul vetro trasparente. Forse avrebbe in quel caso avuto la conferma della propria follia. Si voltò verso il moro, come a chiedere una ulteriore conferma.

-Non avere paura-, lo incoraggiò.

Dopo un breve tentennamento, lasciò che gli occhi puntassero verso l’esterno. E la meraviglia lo liberò dal terrore.

Il cielo non era quello che fissava il giorno, sdraiato sul tetto della casupola a Roma.

A quei tempi, laggiù, sembrava uno sconfinato soffitto sul mondo, la carta azzurrina che appendeva sopra il presepe a Natale. E le nuvole erano macchine che correvano su quella chiara superficie.

Lassù, invece, erano immersi in quel celeste che li circondava, era tutto intorno a loro. Sembrava di nuotare in un mare infinito, senza coste e senza confini. Era come vivere la differenza tra il colore steso sulla tela e il tuffo nella ciotola di pigmento. E le nuvole! Sembravano bambini di vento che si rincorrevano, allungavano le mani per prendersi, e poi lasciarsi nuovamente, mescolarsi per un istante, e allontanarsi subito.

Quello spazio sconfinato dava le vertigini, dava un senso di libertà e di assoluto che mai un uomo potrebbe provare stando con i piedi ancorati al suolo.

Di nuovo, sentì una presa salda sul braccio. Non si era neanche accorto di essersi avvicinato così tanto al vetro, il naso quasi sfiorava la superficie fredda.

-Ma stiamo veramente volando…? Cioè, proprio come uccelli…?-, mormorò, non riuscendo a capacitarsi di un miracolo simile.

Quello annuì con un sorriso.

-Vieni-, lo invitò ad avvicinarsi a un oblò poco distante. Fissò il punto indicato dal piccolo dito.

E di nuovo rimase senza parole. Fuori, almeno quattro enormi ali vibravano sulle correnti d’aria, si spiegavano, per poi abbassarsi con leggiadra forza. Si libravano tra le nuvole, solcavano il cielo, e Feliciano vide il robusto tessuto che univa il loro scheletro metallico gonfiarsi al vento sferzante.

L’italiano carpì appena le parole che uscirono dalla bocca del giapponese.

-Sai, per i nuovi arrivati è sempre un trauma scoprire la reale sede dell’Aletheia, per questo aspettiamo qualche giorno prima di rivelare loro questo segreto, anticipandoli adeguatamente-

Il rosso si sentì tirare dalla manica della camicia: Kiku voleva mostrargli qualcos’altro. Con reticenza, si staccò da quello spettacolo incredibile.

Il moro camminava con il suo consueto passo frettoloso, e Feliciano gli stava dietro a fatica.

-Come è possibile tutto questo?- rantolò lui, cercando di raggiungere quella piccola figura snella.

-Cosa intendi, Vargas-kun?-

-Come è possibile che un colosso come questo possa volare? E come fanno a muoversi quelle ali?-

L’italiano non poté vedere il piccolo sorriso che si allargo sul volto minuto.

-È proprio ciò che ti voglio mostrare…-

Non ci volle molto,infatti, prima che il moro s’arrestasse di colpo, rischiando quasi di essere travolto dall’italiano. Dopo aver ritrovato un equilibrio stabile, il rosso vide uno stretto e lungo corridoio che si srotolava alla sua destra.

Il giapponese svoltò, questa volta procedendo lentamente, seguito prontamente dal rosso, rimasto stupito da quel piccolo passaggio.

Soffermandosi sotto l’arco dell’ingresso, aveva aguzzato lo sguardo, cercando d’intravedere la forma del corridoio indicatogli. Ma questo era talmente inghiottito dalle tenebre, che era impossibile distinguerne il fondo. Solo osservando per alcuni istanti quella spessa coltre oscura, riuscì a distinguere una leggera opalescenza in lontananza, minuscoli punti di calda luminescenza che costellavano la parete sinistra immersa nel nero. E mentre l’italiano si lasciava condurre dal moro, udì un basso rombo, un vago mugghio, e un rombante ma discontinuo ruggito. Questi suoni aumentavano parallelamente all’aumentare dei bagliori violenti che si piroettavano sulla parete opposta.

Il giapponese si fermò, completamente investito dal riverbero rovente, incoraggiando l’italiano con un dolce sorriso. Questo lo raggiunse, un po’ titubante, un po’ curioso.

E lo vide.

Non si sarebbe dovuto stupire più di tanto, viste i ripetuti e meravigliosi miracoli a cui aveva assistito quel giorno. Non fu però così.

Se poco prima aveva paragonato l’edificio volante a una possente e regale aquila che sferzava il cielo, quel luogo non potava essere altro che il cuore pulsante dell’enorme creatura.

La prima cosa che vide oltre l’immenso portone trasparente, fu un gran fuoco, una gigantesca torre di fiamme che respirava, lingue purpuree e vermiglie lambivano e frustavano per un istante il pavimento, per poi ritrarsi, assorbite dal nucleo ruggente sospeso nell’immenso androne. E di nuovo quei guizzi cremisi si protendevano, mille braccia ondeggianti di energia infuocata accarezzavano il suolo, rimpicciolendosi subito in un nucleo di luce accecante. E sul soffitto, infinite bocche si contraevano, aprendosi ritmicamente sul cielo azzurro, inghiottendo le correnti, e serrandosi di botto. Il vento era sangue pompato dalle valvole, l’ossigeno nutriva la fiamma, che s’innalzava nuovamente, estendendosi fino allo spasmo.

-Non ne so molto, ma il piccolo Belschmidt-kun mi ha istruito su alcuni nozioni base sulla chimica…-, sussurrò Kiku, osservando con dolce comprensione la bocca spalancata e gli occhi incantati di Feliciano.

-Semplicemente, viene sfruttata la  varietà di gas presenti nel cielo. Quelle fessure hanno il compito di lasciar passare all’interno le quantità giuste di elementi per far nascere questo fuoco-, continuò mettendosi accanto all’italiano.

-Purtroppo non conosco tutti gli elementi per darti una spiegazione completa sui precisi meccanismi di questo Grande Fuoco. Tempo fa, il piccolo Belschmidt-kun mi spiegò pazientemente tutti i processi della combustione, ma disgraziatamente non ero a conoscenza dei tanti termini scientifici che-

Feliciano aveva smesso di ascoltare da un po’ le parole sommesse dell’asiatico: aveva colto uno strano riflesso sul vetro, o almeno così sembrava quello strano materiale, dell’enorme portone.

Kiku non si accorse dello spostamento dell’italiano, tanto era preso a parlare dall’assoluta supremazia del “piccolo”  Belschmidt-kun in qualunque campo scientifico.

Il rosso si avvicinò alla parete opposta, su cui la luce calda del Grande Fuoco danzava sull’intonaco. Qualche metro più in là, aveva intravisto un’altra porta semi aperta. Con passo felpato, la raggiunge, e ne sbirciò l’interno.

La stanza era completamente vuota. Nessun elemento andava a decorare le grigie pareti, escludendo l’enorme vetrata che copriva interamente la parte nord, offrendo quello spettacolo di azzurro e spumoso bianco che lui aveva potuto ammirare solo da un piccolo oblò.

Ma ciò che catturò il suo sguardo fu un oggetto, posto solitario al centro del salone.

Un pianoforte. Uno come tanti, laccato di nero, i bianchi tasti lucidi, un piccolo sgabello lì accanto. La chiara luce proveniente dall’esterno, riluceva sul legno lucido, e riempiva l’intera stanza di bianca luminescenza, un forte contrasto con il buio del corridoio.

Feliciano ritirò la testa.

Aveva una strana sensazione, come di aver disturbato la perfezione di un piccolo ritaglio di cielo, di aver deturpato la perfezione e l’equilibrio creato dall’azzurro e dal pianoforte.

Con passi rispettosi, indietreggiò. Kiku continuava a parlare, ignaro di starsi confidando con il vuoto. L’italiano sospirò, e si girò, con l’intenzione di riunirsi con il proprio interlocutore.

Ma si bloccò nuovamente.

Ora, sia grazie al forte riverbero arancione del Grande Fuoco, sia per la stretta striscia di luminescenza proveniente dal grigio salone, poteva scorgere il fondo dello scuro corridoio. Questo terminava con due gigantesche ante metalliche, che coprivano interamente il muro. Le anse erano bloccate da una lunga catena di ferro. Come se non bastasse, uno spesso palo era infilato tra le maniglie, cosicché nessuno, se mai ci fosse qualcuno oltre la porta, potesse uscire.

Feliciano fissò con improvvisa inquietudine i due battenti. Cosa diavolo c’era dietro di esse? Sembrava quasi che tutto quel metallo servisse a proteggere qualcosa. O impedire a quel qualcosa di raggiungerli. Avanzò un passo in quella direzione. Perché quelle catene? Un altro passo. Perché quell’enorme sbarra? Si allontanò dai ritagli di luce delle due stanze. Perché tutto ciò?

D’un tratto, si sentì agguantare un braccio. Si girò, per trovarsi di fronte due iridi allarmate.

-Vargas-kun, si è fatto tardi. Dobbiamo andare-

Il piccolo asiatico tentò di trascinarlo via, ma l’altro s’impuntò.

-Cosa c’è li dietro?-, chiese a bruciapelo.

-Nulla!-, quasi urlò il moro, una nota di panico nella voce.

L’italiano non riusciva a capire.

-Allora a  cosa servono le catene, la sbarra e-

Feliciano si fermò.

Due iridi lo guardavano supplichevoli, la superficie scura agitata e intorpidita.

-Ti prego, Vargas-kun-, lo pregò, -non chiedermi altro. Non avrei dovuto neanche portarti qui-

L’italiano si sentì in colpa, per aver provocato ancora quella reazione nel più piccolo.

-Promettimi che non verrai mai più da solo-, implorò ancora quello.

L’altro tentennò.

-Promettilo, per favore!-

Feliciano annuì mestamente. Kiku tirò un profondo sospiro di sollievo.

-Vieni-

Si voltò, incamminandosi verso la luce proveniente dai lontano oblò.

-Ti condurrò dal piccolo Belschmidt-kun-

 

Passi.

Alzò leggermente la testa dalla sua posizione supina.

Era un po’ sorpreso. Era passato parecchio tempo da quando qualcuno era giunto fin lì.

 E i passi si avvicinarono.

Si mise a sedere, concentrandosi su quei brevi e secchi rumore. Poi questi si bloccarono. Parole concitate, una leggera nota di panico, poi nuovamente il silenzio. I passi si allontanarono, per poi venire inghiottiti dal silenzio.

Sorrise.

 Fu grato a quelle persone, chiunque esse fossero, per averlo lasciato nuovamente solo.

Ora poteva scivolare di nuovo nel suo mondo bianco di sogni e oblio.

 

Note d’Autrice

 

*Suono di trombe*

Finalmente, dopo una lunga agonia e un lungo periodo di convalescenza, il mio vecchio, caro, tanto odiato, ma ancor più amato computer è tornato!! Alèèèè!!

Dopo questa piccola parentesi che non interessa nessuno, rieccomi qua.

Questo capitolo è ancora più di transizione dei precedenti, ma ci tenevo molto a descrivere alcuni luoghi dell’organizzazione, perché in futuro avranno un ruolo fondamentale nel corso della storia.

E sì, anche se in questo mondo esistono tecnologie ultra mega avanzate, ancora nessuno aveva azzardato la proposta di una macchina volante. Mah…

Nessuno si era scordato di Alfred, vero??? Povero piccolo, credo di averlo ignorato per un po’... Ma rimedierò, soprattutto nel prossimo capitolo, in cui avverrà il primo incontro tra l’americano e l’inglese, muhahahaha!

Beh, credo di non avere altro da dire. Grazie ancora a tutti coloro che continuano a leggermi! Ma voglio sempre ricordare di lasciare un commentino piccino piccino picciò, quanto basta per farmi andare in brodo di giuggiole!

A lunedì! :D

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Capitolo 9
*** L'inizio della fine ***


The world is a vampire, sent to drain
secret destroyers, hold you up to the flames
and what do I  get, for my pain
betrayed desires, and a piece of the game

Le parole scivolavano tra le sue labbra, impregnando le sillabe di rabbiosa amarezza. Proprio da un sorriso, che tale poi non era, queste uscivano con violenta voluttà, le palpebre socchiuse, elettricità che nasceva dalle verdi iridi e dalle corde accarezzate dalle bianche dita.

Then someone will say what is lost can never be saved

Aveva preso la sua chitarra, dopo essere stato lasciato dallo spirito bambino. Imprecò, costatando che quella fottuta topaia non avesse neanche una presa. Ma, in fondo, non gli importava. La sua musica, prima che per gli altri, era per sé. Anche senza pubblico, lui avrebbe continuato a suonare, perché la sua voce, le sue parole, non erano che una pallida proiezione delle sue emozioni, era un tentativo di intrappolare pensieri turbinosi e travolgenti in statiche sillabe vuote. Il suo vero grido era quel suono stridente, distorto, potente, le sue corde vocali erano quei fili argentati che sfiorava, pizzicava, amava, muovendo in questo modo le corde della propria anima.

Despite all my rage I am still just a rat in a cage
and I still believe that I cannot be saved

Eppure quel giorno quel grido era ridotto a miseri e deboli trilli, non c’era energia in quelle corde vibranti. Ciò aumentava il senso di soffocamento  che lo avvolgeva, solo la propria voce come tramite con la rabbia. E la frustrazione e l’impotenza erano le parole che sputava furiosamente tra gli acuti arpeggi.

Avrebbe continuato così per chissà quanto, solo lui, la sua chitarra e la sua rabbia. Solo che qualcosa lo sottrasse dalla presa vischiosa della sua ira.

Un rumore.

Un rumore, travolgente, ritmico, che aumentava d’intensità ogni istante che passava. Era come avere una valanga alle calcagna pronta a travolgerti.

Arthur si alzò allarmato, poggiò lo strumento delicatamente vicino al letto, si avvicinò all’uscio, pronto ad abbassare la maniglia e rivelare la fonte di tanto chiasso. Peccato che la suddetta porta venne aperta violentemente dall’esterno. L’inglese poté constatare che la porta era di puro legno massello, vista la botta piuttosto dolorosa sul proprio naso, alquanto violenta aggiungerei, talmente tanto da farlo ruzzolare all’indietro.

Quel poco che riuscì a vedere nei quei brevi instanti d’intontimento, fu una grossa, e questo concetto fu più volte sottolineato nella sua mente, grossa figura in pantaloni militari e maglietta bianca dei marines.

Due iridi azzurrissime, talmente chiare e limpide, che nulla avevano da dividere col cielo plumbeo di Londra. Solo questo particolare riuscì a registrare. Quell’individuo, infatti, si guardò intorno con sguardo interrogativo, portandosi l’indice a grattare la tempia destra, assumendo un’aria tra lo scocciato e un’impazienza che l’inglese non poté far a meno di definire infantile.

-…Ma Kiku aveva detto che era qui…-, borbottò, un po’ indispettito, avanzando un passo sicuro verso l’interno della stanza. Solo un gemito fece abbassare il suo sguardo. Una delle sue sneaker aveva schiacciato con poca grazia un ragazzo fasciato in pelle e tessuti attillati. Lo sguardo ceruleo s’illuminò di eccitato entusiasmo.

-Tu sei il nuovo arrivato??, strillò, catapultandosi al capezzale del biondo, ancora steso per terra.

-Io sono Alfred, Alfred Jones, e sono l’eroe che salverà il mondo dagli zombi!!-

Questa ardente ammissione fu seguita da una risata stridula, esagitata, totalmente fastidiosa, o almeno così penso il biondo. Ma chi diavolo era quel bamboccio che lo aveva praticamente travolto, e ancora non si decideva a togliere quella fottuta, lurida scarpa da ginnastica puzzolente bellamente piazzata sul suo giubbotto nuovo?!

Mentre la furia anglosassone montava dentro di lui, pronta a esplodere, quel tizio, dal quoziente intellettivo probabilmente di poco superiore agli esemplari meno evoluti di amebe, avvicinò il proprio viso a quello del biondo, una vicinanza che l’inglese riteneva eccessiva, inopportuna e imbarazzante.

Quell’individuo lo fissò, senza pudore, imbambolato, e Arthur sentiva su di sé quello sguardo terso, nitido, e si sentiva andare a fuoco. Quasi distolse gli occhi dal troppo candore di quelle iridi, era insopportabile. Dopo che lo strambo individuo aveva probabilmente fatto uno schizzo di ogni singolo particolare del suo volto, così pensò l’inglese, si scostò leggermente, e uno strano sorriso si allargò sul suo viso.

-Uao…-, soffiò con voce roca. L’inglese fu scosso da uno strano tremito.

-Incredibile…-, aggiunse ancora, con quel tono basso, che nulla aveva a che fare con la risata stridula di poco prima. Arthur trattenne il respiro, ma non seppe il perché.

-Ho contato ben duecentosettantatre peli delle tue sopracciglia, mentre le persone comuni ne hanno appena un centinaio! Non è straordinario?-

La mascella dell’inglese si scardinò, mentre il ragazzone lo guardava con sguardo sinceramente ammirato.

Nei secondi che passarono, Arthur ebbe il tempo di constatare tre cose: primo, l’idiota sapeva almeno contare; due, la sua voce era la cosa più irritante che avesse mai sentito; e tre, gli aveva dato del sopracciglione. Sopracciglione.

Lo strano ragazzo sbatté con violenza il sedere sul duro pavimento, dopo che il biondo si era alzato improvvisamente dalla sua posizione supina.

-Ehi, ma che ti prende??-, strillò quello, massaggiandosi con espressione addolorata la parte lesa.

Pietrificò, però, quando incrociò lo sguardo del nuovo arrivato.

-Sopracciglione…-, mormorò, come rivolgendosi a sé stesso.

Alfred gelò dello sguardo totalmente folle del biondo. Questo si avvicinò al letto e, con sommo orrore dell’americano, staccò rabbiosamente la tastiera di legno con un solo colpo. Compiuto questo gesto sovraumano, si girò lentamente, le iridi verdi che lampeggiarono verso l’eroe tremante, un ghigno poco rassicurante sul piccolo volto.

-Mi hai chiamato sopracciglione…?-

Alfred balzò in piedi, notando una stana aura radunarsi dietro quella figura minuta. Si catapultò fuori dalla porta, appena in tempo per evitare il pezzo di puro legno massello, che sfrecciò pericolosamente vicino al proprio orecchio destro.

Correndo lungo il corridoio, sentì le imprecazioni e gli urli isterici del biondo affievolirsi sempre di più.

Sbuffò seccato. Heracles lo avrebbe spedito a comprare un letto nuovo, e lo avrebbe fatto sfacchinare sulla parete dall’ala est, perforata da un oggetto legnoso non ben identificato.

 

Kiku lo aveva lasciato davanti a una porta, quella che lo avrebbe condotto all’interno del laboratorio dell’organizzazione. Lo aveva scongiurato per l’ennesima volta di non tornare più al Grande Fuoco, e soprattutto di non farne parole con nessuno. Poi, se ne andò, sempre con il suo passo frettoloso e ansioso.

Feliciano tornò di nuovo a guardare il legno dell’uscio.

I pensieri, le domande vennero momentaneamente accantonate.

Lo sentiva.

Sentiva ancora quella sensazione, la consapevolezza della presenza dell’uomo oltre la porta.

Vacillò per un attimo, mille dubbi, un senso di nervosismo, titubanza, gli impediva di abbassare quella maniglia. Ma il richiamo era troppo forte, era una corrente inarrestabile. Così si decise, e oltrepassò il varco con passo esitante.

Quello a cui si trovò di fronte fu un’enorme stanza completamente ingombra di enormi apparecchi metallici che vibravano, fredde luci elettriche che brillavano, cavi che serpeggiavano lungo il pavimento, tubi di lamiera che si snodavano sul grigio soffitto, tremanti, che sbuffano a intervalli irregolari rarefatti vapori biancastri. I macchinari pulsavano, emettevano brevi trilli, leggerissimi fischi, le piccole luci erano i loro occhi stropicciati nella penombra ferrigna.

Feliciano avanzò qualche passo, alzando lo sguardo, perdendosi nel seguire l’intricato labirinto di tubature e fili elettrici che percorrevano l’alta volta. Rischiò anche d’inciampare lungo qualche cavo che attraversava il suolo grigiastro. Andò a sbattere contro un bancone, colmo di strani oggetti, utensili, arnesi complicati, cacciaviti e piccole lenti adagiati con cura sulla superficie del tavolo. Li avrebbe appena degnati di uno sguardo, troppo concentrato a seguire le trame dei fili appesi ai muri, come liane in una foresta, e a seguire la sequenza di luci e colori dei grandi computer. Improvvisamente, però, vide alcuni di quegli orribili tubicini metallici che avevano infilzato la sua povera tenera carne. Non poté trattenersi da una smorfia a quello spiacevole ricordo. Si protese verso questi aggeggi, venendo investito in pieno dalla luce accecante di una lampada posizionata sopra di esse. Quei cosi non erano ancora completi, la rivestitura metallica era aperta, se ne intravedevano le interiora luccicanti percorse da sottilissimi cavi e conche metalliche.

Feliciano rimase stupito da quella minuscola complessità, dai componenti elettronici infinitamente piccoli, eppure così precisamente posizionati. Inconsciamente, allungò un dito per toccare quel rivestimento dai riflessi così freddi.

Ma, d’un tratto, una mano l’afferrò, e lo spinse indietro.

-Fermo! -

L’italiano si voltò di scattò, gli occhi sbarrati.

E si trovò di nuovo davanti a quelle iridi azzurre che, sebbene nascoste dalla grossa montatura nera degli occhiali, riuscivano a penetrarlo con tutta la loro forza.

Il rosso sussultò, il cuore perse un battito. Mentre il biondo si chinò su quei minuscoli tubicini, trafficando con pinze e sottili bisturi e assicurandosi che nulla avesse rovinato il lavoro di lunghe notti insonni, Feliciano non distolse neppure un attimo gli occhi da quella possente figura avvolta in un camice bianco.

La sentiva quella forza. E la morsa che attanagliava il suo stomaco parve sciogliersi, il filo su cui era precariamente sospeso sulla voragine sembrò prendere consistenza, un ponte d’invisibile energia sembrò avvolgerlo, per impedirgli di cadere in quella oscurità.

E poteva percepire, quell’energia, era quasi tangibile, concreta, e più diminuiva la distanza tra loro due, più diventava potente. Quel dolce magnetismo impellente, che lo trascinava con rinnovato vigore verso lo scienziato, ma che, parallelamente, alleviava quello strano senso d’incompletezza.

E rimase così, incantato, a fissarlo, mentre quelle grandi mani, con accuratezza, lavoravano su quei minuscoli capolavori metallici, i gesti precisi, controllati, gli occhi fermi, decisi, che seguivano le piccole viti che s’incastonarono perfettamente nello strato sottile di lamiera.

Con uno scatto inaspettato, il tedesco posò sul bancone le piccole pinze, e si voltò verso di lui. Uno sguardo duro, freddo, un’espressione arcigna, severa.

Il rosso abbassò gli occhi, sentendosi per qualche strana ragione intimorito.

-Cosa sei venuto a fare qui?-

Feliciano si vergognò di sé stesso: quella domanda, così diretta, priva di dolcezza, lo aveva fatto vacillare.

Incrociò le braccia dietro la schiena, il capo chino, pentendosi della foga con cui si era precipitato lì.

-Ecco… Io…-

Il biondo incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta, quelle chiare iridi che lo trafiggevano. Perché era andato lì? Si sentiva ridicolo, la vergogna strisciava nelle sue viscere, che si arrampicavano su inconsistenti ragionamenti per giustificare la sua presenza.

Infine, buttò fuori il primo pensiero che riuscì a cogliere.

-So che sei un Possessore senza Dono…-

Era, in effetti, uno dei motivi che lo avevano spinto a cercare quel dannato laboratorio, scoprire quella curiosa coincidenza. Vide però con sconforto che il biondo si accigliò ancora di più, le labbra si assottigliarono.

-Te lo ha detto Gilbert, vero?-

Sospirò stancamente, e con espressione irritata si appoggiò con entrambe le mani al tavolo dietro di sé.

Feliciano abbassò maggiormente il capo, desiderava semplicemente scappare da quella stanza, nascondersi. E si maledì per averlo fatto arrabbiare.

-E anche io sono un Possessore senza Dono…-, pigolò, gli occhi nascosti da lunghi ciuffi rossastri.

Quell’unica frase voleva essere la sua semplice spiegazione, la soluzione di tutto, che desse un senso a quell’incontro, e che lo riscattasse agli occhi dell’uomo.

Il tedesco, per un breve momento, parve stupito, le sopracciglia si arcuarono leggermente, la bocca abbandonò la curva dritta e dura di poco prima, e le labbra si schiusero appena.

Feliciano azzardò ad alzare gli occhi, rassicurato da quella reazione, forse le sue parole avevano fatto breccia dentro l’uomo.

Quello, però, si ricompose subito, gli occhi sgranati tornarono duri, la linea momentaneamente ammorbidita della mascella si contrasse nuovamente, e non sembrò accennare a nessun tentativo di commentare quell’ultima rivelazione.

-C’è altro che vuoi dirmi?-

Feliciano sussultò.

Perché, perché si stava comportando così? Era stato uno stupido. Lui voleva semplicemente vederlo, sentire semplicemente la sicurezza che emanava la sua sola presenza. Chiedeva di poter essere almeno un’ombra, per poterlo seguire, senza disturbarlo, beandosi semplicemente della sua ignara compagnia. Il solo pensiero di allontanarsi era insostenibile, la voragine diventava più profonda e spaventosa, il suo ponte precario si stava sgretolando.

-Veramente, io…-

Piegò leggermente una gamba, il peso del corpo sostenuto dalla metà destra, la punta della scarpa andava a tormentare ripetutamente un punto del freddo pavimento, in un gesto carico di imbarazzo e indecisione.

-Io volevo…-

Perché la sua voce stava tremando? Era veramente uno stupido, non voleva mostrarsi a lui così, in tutta la sua incapacità.

-I-in realtà volevo farti tante domande…-

Gli occhi si serrarono disperatamente dietro i ciuffi ramati.

-Davvero, e ci tenevo tanto…-

Perché era così? Sentiva le mani tremare, le strinse con forza.

-Solo che adesso non mi vengono in mente…-

Si sentiva sull’orlo delle lacrime. Non aveva il coraggio di guardarlo in faccia.

Sentì un sospiro.

-Allora puoi andartene…-

Il rosso trasalì a quelle parole. Uno schiaffo sarebbe stato meno doloroso di quella fitta al cuore.

Serrò i denti, gli occhi s’inumidirono.

-…e quando ti saranno tornate in mente, potrai tornare qua-

Feliciano spalancò gli occhi, e alzò di scatto la testa. Un piccolo, quasi impercettibile sorriso era apparso sul volto del biondo. E quelle iridi non lo fissavano più con crudele freddezza. Sembrava quasi che il ghiaccio che li copriva si fosse sciolto, e non rimaneva nient’altro che l’azzurro, lo stesso celeste terso, privo di ombre che gli rivolse all’uscita dal portale. Solo che qualcosa si era aggiunto, non sapeva neanche cosa, una nota di morbidezza, un che di dolce.

-Davvero?-, sussurrò ancora incredulo il rosso, -Posso tornare?-

Il tedesco voltò la testa, evitando d’incrociare il viso illuminato teneramente, gli occhi dorati spalancati e brillanti.

-Si, si, certo-, borbottò, leggermente imbarazzato.

-Quando voglio? Non ti disturberò?-, chiese l’italiano sempre più felice, un sorriso bellissimo che si allargava sul viso.

-Eh? Oh, si, certo!-

Feliciano si sentì scoppiare di felicità, non sapeva perché, era qualcosa che sorse spontaneo, irrefrenabile. Agitò le mani, cercò di articolare qualche frase di senso compiuto, sillabe confuse e eccitate uscivano dalle labbra.

Infine, fece un piccolo inchino, e si precipitò fuori dalla porta. Non fece in tempo a vedere il viso del biondo, che seguì la sua figura minuta attraversare l’intrico di fili elettrici.

Ma poi, il tedesco intravide i visi di tre noti, fin troppo noti, purtroppo, idioti, che varcano la soglia del laboratorio appena l’italiano sparì dalla sua vista.

Il trio di sciagurati aveva portato con sé una ragguardevole scorta di alcolici, che agitavano tra sghignazzi, risate e pacche sulla schiena.

L’albino berciò, alzando un braccio nella sua direzione, lo stesso che stringeva tre bottiglie di birra.

-Allora, bestia! Lo hai distrutto, vero?-

-Mmmhh, nel laboratorio! Non ci avrei mai pensato…!-

-Vogliamo sapere tutto, e quando dico tutto, intendo TUTTO-

-Com’è con un italiano??-

-Ehi, ehi, non farmi quella faccia da verginello!-

-Il piccolo passerotto ha spiccato il volo??-

-Che cazzo è quella faccia da stitico?! -

-Non è che ti ha smontato troppo??-

-Capiscilo, è talmente spompato da non riuscire a parlare!!-

Lo scienziato avvampò. L’albino ridacchiò compiaciuto, non prima che una chiave inglese rischiasse di spaccargli la sua magnifica zucca.

-ANDATEVENE SUBITO VIA DI QUI!!!-

-Eddai, non fare così!-

-Non bisogna aver paura dell’Amore, bisogna VIVERLO-

-Queste cose puoi dirle al tuo fratellone, eh?-

-ABBIAMO SOLO PARLATO, IDIOTI!!-

-…-

-COSA C’è?!-

-…-

-Non è possibile…-

-…-

-…Noi te lo abbiamo spedito qui…-

-…praticamente te lo abbiamo buttato tra le braccia…-

-…E l’unica cosa che pensi di farci è parlare…-

-…-

-Lud, lasciatelo dire, ma sei proprio un coglione…-

 

S’aggrappò con entrambe le mani sul muro sudicio della viuzza. Le gambe tremavano violentemente, carne putrefatta impregnava i suoi vestiti, sentiva con orribile consapevolezza i lembi di pelle incrostati sotto le proprie unghie. Quel terribile olezzo di morte penetrava violento dentro le narici,  talmente acre, sembrava insinuarsi fino dentro le ossa, sporcava il suo intero corpo, la sua anima.

Tutto il suo corpo era allo stremo, ma quegli occhi non smettevano di bruciare.

Non c’era.

Non era fra quei corpi.

Avanzò un passo fuori dal vicolo, tremante, barcollante, ma mosso da una strana decisione disperata.

Non era lì.

Il suo viso non era fra quei morti.

Aveva controllato ogni faccia marcita al sole, ogni singolo corpo sventrato.

E lui non c’era.

Le gambe stavano cedendo, ma non si fermò. Doveva andare.

Non c’era altra soluzione. Non era stato ucciso. Quindi non poteva altro che essere stato catturato dalle Maschere Nere.

Doveva essere così.

Drignò i denti, quello stupido corpo, debole. Doveva andare, subito, doveva cercarlo, lo rivoleva con sé, ora.

E lo avrebbe trovato, a qualunque costo, non gli importava come, ma ci sarebbe riuscito, non sapeva cosa gli sarebbe costato, ma non gli interessava.

Lui voleva solo indietro il suo fratello.

-Feliciano…-

Sapeva di non avere altre vie di fuga.

Lo avrebbe riavuto. A qualunque costo. 

 

Note d’Autrice

 

Uhuhuhuhuhuh! Ahahahah! Eheheheheh! Momento fangirl! *__*

Potrò mai sentire in lontananza gli urli e i sospiri di coloro che hanno letto la parte GerIta?

Quanto adoro questi due, solo così cicciosi!

*gorgheggia indecentemente. Un tomo abbastanza consistente di Anatomia parte dalla stanza della sorella e la colpisce sulla zucca*

Ahio! Va bene, va bene, la finisco con i miei vaneggiamenti!

Prima di tutto, mi scuso per il ritardoso mega ultra indecente ritardo, non sapete quante ne ho dovute passare! Ma dopo tante peripezie, sono riuscita a salvare la mia piccola storia dalle grinfie dei circuiti di quel catorcio del mio computer. Come premio per la vostra pazienza, ho deciso che oggi farò un’eccezione pubblicando prima!

Per quanto riguarda l’incontro tra Arthur e Alfred… Sinceramente, non mi convince tanto: primo, non credo di aver descritto adeguatamente la scena; secondo, non riesco a capire se si capisca il fatto di aver lasciato trapelare intenzionalmente qualche indizio sul Dono di Al! Ma ho riletto così tante volte questo pezzo, che non saprei cos’altro aggiungere… Boh, andiamo avanti!

Riappare nuovamente Romano, yeah! La mia cara sorellona (che ancora non ho perdonato per il lancio di libri universitari sulla mia Magnifica testa) dice che sta nascendo un personaggio molto affascinante rispetto all’anime. Ovviamente, ho iniziato nuovamente a gorgheggiare, con consequenziale secondo bernoccolo causato dal peso della cultura…

Terminando! La prima parte della storia è UFFICIALMENTE conclusa, cioè tutta la descrizione dei vari incontri nell’Aletheia avvenuto il 13 settembre 1902. Come direbbe lo scrittore Murakami Haruki, tutto è avvenuto nell’arco di una notte. Dal prossimo capitolo inizia la seconda parte, in cui avverrà un salto temporale.

Ah, la canzone che canta Arthur è “Bullet with butterfly wings” dei Smashing Pumpinks. Ho deciso che durante la storia farò suonare al nostro musicista molti artisti che mi ispirano particolarmente.

Detto questo, credo di aver finito. Ringrazio ancora tutti i miei lettori e che mi ricorda, segue e preferisce! Ma voglio sempre ricordare di lasciare un commentino piccino piccino picciò, quanto basta per farmi andare in brodo di giuggiole!

A lunedì! :D

P.S. Chi cerca musica di sottofondo da accompagnare alla lettura dei capitoli, basta che vada sul mio account di LiveJournal, dove troverà i link!

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Capitolo 10
*** Tutto scorre ***


-Lo hai visto?-

-Dove?-

-Lì, in fondo al locale-

In quella sudicia locanda, tre uomini confabulavano fra loro, avvolti in sudice vesti, i volti torvi e scuri. Uomini di strada, gentaglia, che dopo un furto e una rissa si riunivano in quel buco per un bicchiere di liquore scadente.

Oggi però non sghignazzavano sull’ultimo allocco che avevano adescato in fondo alla strada.

Seduti al bancone sporco e polveroso, si lanciavano sguardi perplessi, timorosi, le orbite giallastre dilatate, alla ricerca di una figura seduta a un tavolo poco più in là.

L’uomo più a destra, con molta discrezione, indicò il ragazzo, oggetto della loro discussione, con un dito adunco e raggrinzito, mentre l’altra mano andava a nascondere il viso sudato tra le pieghe del cappuccio del mantello consunto.

-Cosa? Sarebbe quel moccioso?-, sbottò l’altro con incredulità.

Il primo lo zittì immediatamente, gli occhi impauriti saettarono sul ragazzino, per constatare con enorme sollievo che la distanza impediva lui di captare i loro discorsi.

-Sei un idiota…!-, sussurrò il primo.

-Che ho detto?-

-Vuoi per caso trovarti una pallottola in mezzo alla fronte? Lui non si farebbe tanti scrupoli…!-

-Non dite cazzate! Quel finocchietto non sa neanche cos’è una pistola!-

-Lo vedi che sei proprio un’idiota…?-

-Ehi, stronzo…!-

-Quello che tu chiami finocchietto è arrivato da Roma fino qui a nord, attraversando i territori di guerra tra gli Stati del centro!-

-Cosa?-

-Lo sentito dire anch’io! È passato senza neppure un graffio nel territorio della Confederazione Etrusca durante l’assalto delle contee dell’Est!-

-Com’è possibile…?-

-E ha ammazzato tutti i disgraziati che gli si sono parati di fronte!-

-Vedrai che non durerà molto…-

-Che vuoi dire…?-

-Non senti le chiacchiere ?-

-Quello chiede sempre delle Maschere Nere!-

-Eh?-

-Fa sempre così…-

-… Prima entra in una città, chiede informazioni sulle Maschere Nere, e se non gli piace la risposta, ti ammazza-

-Finirà con un coltello alla gola…-

-Già!-

-Chi mette loro i bastoni tra le ruote si ritrova la testa staccata dal corpo prima di chiedere altro!-

I tre sghignazzarono all’unisono, compiacendosi di quella ghiotta prospettiva.

Intanto, però, non sentirono i passi che si avvicinano a loro.

-Scusate…-

Gli uomini si voltarono, per poi sbiancare alla vista di due iridi dorate incandescenti, ma ancor di più per un pugnale puntato sulle loro gole.

Un ghigno, pazzia.

-Potreste gentilmente rispondere alle mie domande?-

 

Lo aveva fatto, infine. Quel momento sarebbe arrivato, lo sapeva. Ma nulla lo aveva preparato, nessun indizio aveva anticipato quella domanda, nulla che lo rendesse pronto. E, dopo tre mesi, in cui aveva atteso quelle parole con angosciante consapevolezza, ora Feliciano era di fronte e lui, e attendeva la sua risposta.

-Hai ucciso tu i miei genitori?-

Era rimasto per un attimo interdetto, lì in mezzo a quel corridoio. Per alcuni secondi non riuscì a incrociare il suo sguardo, temendo cosa avrebbe potuto leggervi. Sapeva cosa era successo, era stato necessario, per il suo bene, su questo era sicuro. Non aveva rimpianti per quello che aveva fatto, eppure in quel momento si crucciava, si tormentava, chiedendosi se non ci fosse stata un’alternativa, una via di fuga, qualcosa che avrebbe potuto evitare, qualcosa che avrebbe potuto salvarli.

Sospirò. Il passato non sarebbe cambiato, nonostante avesse deciso di pentirsi dei suoi gesti. Forse era un bene che quella domanda lo avesse colto di sorpresa. Non avrebbe così avuto il tempo di esporre un discorso che, in fondo, sarebbe stato solo farcito di scuse. Avrebbe detto la verità, e si sarebbe preso le proprie responsabilità.

-Si-, sussurrò. Chinò la testa, in attesa della reazione dell’altro. Lo avrebbe perdonato, qualunque cosa avrebbe fatto, anche se avesse gridato, anche se lo avesse insultato, anche se lo avesse preso a pugni. Invece, udì un flebile bisbiglio.

-Perché?-

Rimase un poco in silenzio. Non voleva mentire, non voleva giustificarsi. Lui non era pentito. Era consapevole che, se fosse potuto tornare indietro avrebbe fatto la stessa cosa. Era un assassino, e doveva subirne le conseguenze.

-Il Bokor li aveva trasformati in Jardin-, disse sommessamente, -secondo Heracles, sospettava già che tu possedessi il Dono, per questo li ha trasformati per ucciderti-

Dalla sua posizione, Kiku non riusciva a vedere il viso dell’italiano.

-Sono stato inviato per ucciderli, e così ho fatto. Non cercherò di giustificare il sangue che ho versato, non sarebbe giusto nei tuoi confronti. Non ti chiedo di perdonarmi. Sappi solo che non passa giorni che non chieda perdono a tutte le vite, a tutte le anime che se ne sono andate per colpa mia-

Chinò maggiormente la testa, pronto a ricevere la giusta punizione per le sue azioni.

Fu sorpreso di udire una lieve risata. Non era allegra, né triste, né di scherno. Era lieve, leggera, un balsamo per il groppo che gli stringeva la gola. Sembrava quasi… di sollievo.

Alzò lo sguardo. Si, stava ridendo, con gentilezza, e dolcezza. Le iridi erano lucide, umide, una lacrima sfuggì, colò dall’oro delle iridi, e percorse solitaria la guancia. Quel dolce suono continuò, mentre un palmo andava ad asciugarsi la pelle, stropicciando gli occhi.

-Meno male-, disse alla fine, tirando impercettibilmente su con il naso, -Sono… Adesso sono felice…-

Kiku non capì.

-Tu… Tu non mi odi…?-

Il rosso scosse lentamente il capo. Gli rivolse un dolce sorriso.

-No, Kiku. In tutti questi anni ho sofferto, ma ho sofferto perché non capivo, non capivo il motivo della loro morte. Mi chiedevo il perché, stavo male per un dolore che non aveva senso. E vedevo come mio fratello non si dava pace per questo. E mi sentivo solo, mi chiedevo perché questo stava capitando proprio a me, ma ora-, il suo sorriso si illuminò, -ora so che in realtà sono stato fortunato, che senza te io non potrei essere qui, e non avrei potuto conoscere gli altri. In fondo non ero solo…-

Kiku lo guardò ancora incredulo per qualche istante. Poi, lentamente la linea delle labbra si incurvò.

-Tu sei una persona molto buona, Vargas-kun-, e s’inchinò.

Il rosso rise, un palmo ancora stropicciava un occhio, le pupille ancora bagnate.

-Oh!-, l’italiano sembrò ricordarsi di qualcosa, -Devo andare, Lud mi aspetta nel laboratorio!-

Kiku vide la figura snella precipitarsi lungo i bui corridoi. Era davvero una persona buona, non aveva mentito. Non si sarebbe mai scordato di tutti i delitti di cui si era sporcato, ma l’italiano, in quel momento, aveva reso più sopportabile il suo fardello. Belschmidt-kun era davvero fortunato che qualcuno così si fosse legato così tanto a lui. Il rosso non perdeva occasione per far visita al nuovo amico nel laboratorio, e i due passavano ore insieme lì dentro. Era felice che il giovane tedesco, così solitario, ma che reputava come giusto e giudizievole, avesse trovato un’amicizia talmente profonda.

Ciabattò via, il viso nuovamente sereno, la mente acquietata. Aveva una grande voglia di the. Si diresse quindi verso la cucina, con l’intenzione di concedersi una pausa, grazie a quella deliziosa bevanda. Varcata la porta della stanza, si sorprese di trovarvi un ragazzo biondo, appoggiato mollemente al ripiano di scuro mogano, assorto nei suoi pensieri, gli occhi distanti, e una tazza fumante nella mano destra. Si ridestò appena udì i passi lievi del giapponese. L’inglese gli rivolse un breve sorriso, educato ma sincero.

-Buongiorno, Kiku-

-Buongiorno, Kirkland-kun-

Arthur aveva rinunciato a convincere l’asiatico ad abbandonare le formalità, ma soprattutto di smetterla con i suoi inchini, inutilmente. Socchiuse gli occhi, un po’ divertito. Dopotutto, quella era una parte intrinseca di lui, un colore indelebile della sua anima, una veste che lo calzava alla perfezione. Poteva affermare che, per quel poco tempo trascorso con lui, senza di essa, non sarebbe più stato lui stesso, qualcosa sarebbe stonato, davanti a lui non ci sarebbe Kiku, ma solamente una copia inesatta e imperfetta.

-Earl Grey?-, chiese il giapponese, ponendo gentilmente la teiera sopra il fuco, sminuzzando con cura alcune erbe.

-No-, rispose l’altro incrociando le braccia, -Gunpowder-

Punto essenziale tra loro, era quell’insana passione per il tè. Passavano ore così, in quella grande cucina, sorseggiando esotici infusi, parlando, con voce calma, distesa. A volte invece non pronunciavano una sola parola, cullandosi in quell’atmosfera di calda intimità.

Kiku era l’unica persona lì dentro con cui Arthur si sentiva davvero in sintonia. Era come se le loro menti fossero legate, le parole a volte non servivano, semplicemente alcuni gesti rivelavano all’altro ciò che pensava. L’inglese vedeva nell’altro un qualcosa a cui in parte e, segretamente, aspirava. Certo, non capiva come potesse essere così remissivo e perché tollerasse tutte quelle angherie, specialmente subite da quel trio di idioti, e la placida accettazione con cui ognuno si approfittava di lui, senza che il diretto interessato lo comprendesse, di essere considerato alla stregua dello schiavo. Lui non lo avrebbe mai sopportato. Ma in lui intravedeva qualcosa, una sorta di muta saggezza, le iridi scure sembravano scavare in fondo al mondo, comprendendone la verità e accentandola con serenità. Lui era la roccia su cui le cascate versavano, infrangevano le loro correnti impetuose, era un albero che aveva germogliato rigoglioso sulla montagna, che si piegava dolcemente ai venti più forti, era colui che accoglieva con un sorriso che, avendo compreso i loro sbagli, tornano sui loro passi. Era tutto questo ma anche di più.

Era nata questa loro reciproca connessione, comprensione, e Arthur pensava di aver trovato qualcuno che gli somigliava così straordinariamente, qualcuno che spogliato dei particolari si sarebbe riflesso della sua stessa essenza.

E questa impressione si era rafforzata, quando il giapponese gli aveva rivelato per la prima volta il suo Dono, appena una settimana prima.

 

-Io sono il possessore del Dono dell’Anima-

La tazza, contenente Orange Pekoe fumante, si bloccò a mezz’aria. L’asiatico sorrise della reazione sorpresa dell’inglese.

-Hai mai sentito parlare dell’animismo?-

Arthur abbassò gli occhi, le mani sfregarono tra loro nervosamente.

-Emh… Forse…-

Kiku non smise di sorridere.

-Non preoccuparti, Kirkland-kun, è un termine moderno con cui gli studiosi hanno classificato qualcosa che esiste da sempre-

Il moro reclinò la testa, lo sguardo si perse sul bianco intonaco del soffitto.

-Tu credi in Dio, Kirkland-kun?-

Gli occhi del biondo tremarono per un istante, ma poi tornarono a lampeggiare.

-No-, affermò con rabbia risoluta, -perché se ci fosse , non lascerebbe esistere quello che solo io posso vedere-

-Ti capisco-, mormorò l’altro, -conosco il tuo Dono, ma-, alzò la testa, puntò le iridi in quelle dell’altro, -non pensi che ci sia un po’ di Dio in tutto quello che ci circonda?-

L’inglese rimasse senza parole, era rimasto di nuovo intrappolato. La figura dell’asiatico divenne inespressiva, quasi eterea.

-Non credi che noi, esseri umani, simili a Dio, possiamo trasmettere la nostra energia a ciò a cui teniamo maggiormente, a ciò che amiamo, rendendo ciò che è morto vivo?-

Arthur non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi di ossidiana.
-Io posso fondermi con questa energia, legare la mia anima a essa, e usarla per combattere-

Ad un tratto, il sorriso del giapponese parve diventare malinconico e triste.

-Non capisco il motivo per il quale la mia Shimai continua a vivere per me. Ogni volta la prego di unirsi alla mia anima le prometto che il nostro legame sarà per sempre puro. Invece continuo a sporcare la sua lama con il sangue…-

Abbassò la testa, scuotendola appena, ma le sue iridi  erano ancora immerse in una liquida tristezza.

-No!-

Il moro alzò di nuovo lo sguardo. Trovò quello sicuro dell’altro.

-Non puoi dire questo, non dopo quello che mi hai detto tre mesi fa-

Il giapponese spalancò gli occhi.

-Non sei stato tu a dire che combattere è doloroso, che nessuno vorrebbe essere obbligato, ma questo è l’unico modo, no? Questo è l’unico modo per proteggere coloro che amiamo! E che non ti saresti mai fermato!-

Arthur non si accorse di essersi alzato, talmente era stata la foga delle sue parole. Kiku lo fissava a bocca aperta. Poi scoppiò a ridere, delicatamente, portando una manica del kimono a coprire la bocca. L’inglese Arrossì di botto, si buttò sulla sedia, incrociò le braccia e voltò la testa imbarazzato.

-Questo è almeno quello che penso…-, borbottò.

-Grazie-, lo interruppe l’altro, -Kirkland-kun…-

Trascorsero così i minuti che passarono non in un silenzio imbarazzo, ma in una sorta di muta complicità.. D’un tratto, Arthur alzò il viso.

-Ancora non mi hai spiegato una cosa-

-Dimmi, Kirkland-kun-

-Ma perché indossi sempre quella orribile maschera? Cioè, è una tecnica per spaventare i nemici o roba simile…?-

L’inglese si spaventò, quando vide la testa del moro schiantarsi violentemente sul duro legno del tavolo. Allarmato, chiamò il suo nome con preoccupazione. Tutto quello che ottenne fu una bassa litania lamentosa.

-…Perché dicono tutti così… La maschera del guerriero giapponese… Non è orribile… è la mia preferita…-

Quando Kiku iniziò a dondolarsi avanti e indietro, il biondo capì di aver commesso una terribile gaffe. Optò quindi per una saggia ritirata nella sua camera.

 

-Sarà solo una mia impressione, ma mi sembra che le tua sopracciglia siano diventate più grosse-

Il piccolo fantasma ridacchiò con aria dispettosa, appollaiato sopra l’armadio, sua postazione preferita. Arthur cercava di ignorare i commenti maligni pizzicando con maggior intensità le corde della chitarra e cercando di ascoltare solo la sua voce elettrica. Nulla però serviva a bloccare quell'irresistibile impulso omicida nei confronti del ectoplasma.

A quanto pare, il nuovo hobby del ragazzino era di quello di importunarlo con parole cattive e perfide frasi sulle sue beneamate  sopracciglia, oltre a quello di accusarlo di aver ingiustamente preso possesso della camera dei suoi compagni. Anzi, non faceva che chiedergli che cosa avesse fatto ai suoi amici, e perché da tempo non tornavano più da lui. Quando il biondo gli domandava per l’ennesima volta chi diavolo fossero questi fantomatici compagni, riusciva semplicemente a ottenere una lista senza senso di nomi, di chiara derivazione nordica.

Inutili erano stati i tentativi di estrapolargli altre informazioni: come il fantasma capiva che il biondo non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando, iniziava la ruota senza fine di insulti e malignità.

All’improvviso, il bambino s’interruppe nel ben mezzo di un impropero piuttosto pesante, che riguardava un certo deretano anglosassone e un manico di scopa. La figura argentata tremò leggermente, le pupille opalescenti si dilatarono, la piccola bocca finemente cesellata si dischiuse. Il corpicino parve storcersi, prima a destra, poi a sinistra. Infine, si dissolse in tante particelle luminescenti, che vorticarono un istante, per poi confluire verso la parete opposta e scomparire.

Arthur sapeva cosa significava, già altre volte era successo.

Altro dettaglio insopportabile della convivenza con lo spirito, oltre a quello di manifestarsi solamente in quella stanza, era di scomparire alla presenza degli altri, con un'ovvia unica eccezione.

Il biondo fissò la porta della stanza, ancora non munita di serratura a causa di quel piccolo incidente con quell'idiota di un americano.

Rabbrividì.

Sperò ardentemente che sull’uscio si presentasse chiunque, bastava che non iniziasse a blaterare di patriottismo e pistole.

Quando la porta fu aperta, però, l’inglese pensò che in fondo avrebbe preferito Alfred “Iosonouneroe” Jones.

Appoggiato mollemente allo stipite, in una posa che doveva essere vagamente provocante, c'era Francis Bonnefoy, suo personale perseguitatore e stalker. Per qualche oscuro meccanismo della sua mente perversa, l’inglese sembrava essere diventato il suo unico centro d’interesse, e non mancava di sottolinearlo con sguardi lascivi, sorrisi allusivi, e mani che sfioravano accidentalmente parti del suo corpo che il diretto interessato considerava off limits.

Ovviamente, Arthur non faceva che manifestare la sua irritazione per queste attenzioni non volute con occhiate fulminanti, bassi ringhi e, nella peggiore delle ipotesi, con lancio di oggetti intenti a provocare al francese maggior dolore possibile. Questo di certo non lo aveva scoraggiato, e infatti eccolo lì a far scivolare lentamente le torbide pupille blu lungo la longilinea figura dell’inglese, ancora seduta sul pavimento.

-Sei tu…-

-Mon amour, anche io ho sentito terribilmente la tua mancanza!-

Sbuffò, ignorando la causa di tutti i suoi mali, o almeno così lo considerava in quel momento, che si avvicinò a lui, si distese sul pavimento, in modo da poter ammirarlo interamente mentre pizzicava le corde della chitarra. Sostenendosi la testa con un braccio puntellato sul pavimento, l’altro, languidamente appoggiato sul fianco, socchiuse gli occhi, osservando il viso dell’inglese che cercava di concentrarsi solamente sulla sua melodia elettrica.

-Piccolo angelo, sei estremamente affascinante quando suoni…-

Una frase buttata lì, che ebbe il potere di far arrossire di botto l’altro biondo.

-Z-zitto, idiota! Non dire cretinate!-, sbottò l’altro, scaldandosi.

-Non potrei mai mentire, mio piccolo fiore…-, sussurrò roco, -Potrei rimanere ore solo ad ascoltarti…-

Arthur tentennò, ma continuò sostenuto a evitare il suo sguardo

-Per favore, continua a cantare, la tua voce è oltremodo meravigliosa…-, ammiccò.

L’inglese sorvolò volutamente su questo ultimo particolare, e pensò.

In effetti, proprio poco fa aveva avuto l’ispirazione per una nuova canzone, ed era riuscito a inserire le parole nella melodia poco prima che l’intruso facesse irruzione nella stanza. Nonostante continuasse a sostenere che i suoi testi, le sue note erano semplicemente per se stesso, gli avrebbe fatto piacere che qualcuno lo ascoltasse.

Riprese nuovamente la sua chitarra, e si posizionò.

-Questa l'ho scritta poco fa-

Era una frase secca, un’affermazione. Non aspettava una conferma, era un implicito avvertimento. Il sorriso del francese si allargò.

-Sono tutto orecchie, mon chere…-

L’inglese, serissimo, puntò le iridi verdi in quelle del suo personale spettatore.

-Si chiama “God save the queen”-

Il francese sorrise saccente, mentre Arthur attaccò con il primo riff.

God save the queen. Ridacchiò tra sé. Sicuramente sarebbe stata una canzone tutta “oh che bella l’Inghilterra, gli inglesi, la regina e le tazzine di tè”.

Tutto si sarebbe aspettato, tranne quello che uscì dalla bocca del biondo.

God save the queen
The fascist regime
They made you a moron
Potential H-bomb
Il sorrisetto saputo si congelò. Guardò con crescente stupore il ragazzo seduto davanti a sé strimpellare con forza quelle corde metalliche, le dita che violente raspavano sulla tastiera, la voce carica di energia rabbiosa.

God save the queen
'Cos tourists are money
Our figures head
Is not what she seems
Francis tremò, seriamente spaventato. Aveva notato un cambiamento nell’espressione dell’inglese, lento, ma costante, ma soprattutto terribile. Le labbra si incurvarono in un ghigno, gli occhi si assottigliarono, le iridi brillanti sembravano essere percorse dalla stessa elettricità trasmessa dalle sue parole, un’energia potente, tangibile, affascinante, ma pericolosa a toccarsi.

When there's no future
How can there be sin
We're the flowers in the dustbin
We're the poison in your human machine
We're the future you're future

La perplessità del francese accrebbe sempre di più.

Arthur aveva assunto quell’aria pericolosa, quella ribellione, quel piacere quasi sadico nel calcare e sottolineare i dettagli più scuri e turpi del mondo, che assumeva quando era in procinto di scaraventargli qualcosa addosso. E questo non portava mai niente di buono.

God save the queen
We mean it man
And there is no future
In England's dreaming
No future no future
No future for you
In una sorta di confuso imbarazzo, guardò le ultime note che si estinguevano fra le dita del musicista.

Questo trasse un profondo respiro, appoggiò delicatamente lo strumento accanto a sé. Infine alzò gli occhi, uno sguardo pieno di trepidazione, che tentava di nascondere dietro una palese smorfia di disinteresse.

-Allora…?-

Francis fece finta di non capire.

-Eh?-

Arthur sbuffò.

-Come era??-

Francis cercò di sfuggire da quella situazione spiacevole.

-Cosa?-

-Hai capito, no?? La canzone! La canzone, come era??-

Beh, forse era troppo chiamarla canzone, pensò il francese. Ridacchiò forzatamente, passandosi nervoso una mano fra i lunghi capelli. Sfortunatamente, pareva che Arthur non avesse intenzione di lasciar cadere quel argomento.

.Ehr…  Ecco, si… Diciamo che, umh, si, ecco… era, diciamo, emh, molto originale-

Il biondo sospirò sollevato, vedendo il musicista gonfiare il petto inorgoglito.

-Certo-, esclamò l’inglese, -certo che è originale! Come potrebbe essere altrimenti??-

Sempre più perplesso, Francis vide Arthur gesticolare frenetico con le mani, una strana energia che inondava il piccolo corpo, mentre spiegava che quello era il futuro della musica, i testi erano rivoluzione, erano la verità, descrivevano il mondo di merda in cui vivevano, erano poesia.

Francis poteva affermare che, essendo un accanito lettore di Baudelaire e simili, Arthur aveva decisamente coraggio a chiamare quell'accozzaglia di suoni e parole poesia.

Quel fiume di parole che dirompeva da quelle piccole labbra carnose, su cui da qualche minuto di era catalizzata l’attenzione del francese, si interruppe, visto che il chitarrista nella foga, aveva fatto volare via accidentalmente dalle mani il piccolo plettro, che si andò a infilare precisamente sotto il letto.

L’inglese, imprecando, si alzò dalla sua posizione scomoda, lamentandosi delle gambe indolenzite, per poi avvicinarsi a grandi falcate al proprio giaciglio.

Francis per poco non morì per emorragia nasale, quando con lo sguardo seguì l’inglese piegarsi e infilarsi quasi completamente sotto la rete del materasso, unica parte del corpo non infilata sotto quello stretto luogo sudicio era quel piccolo sedere sodo che lo aveva fatto impazzire fin dal primo momento. Francis vide estasiato quelle fantastiche natiche dimenarsi, mentre il loro possessore cercava di allungarsi per raggiungere il pezzo di plastica disperso.

Il francese si trovò di fronte a un dilemma amletico: rischiare la propria incolumità, ma soprattutto la perfezione del suo volto, per un fugace piacere così appagante, o rinunciare e rimanere con questo rimorso per tutta la vita.

Il biondo si accorse di aver già preso la sua decisione quando le gambe, autonomamente, lo avevano portato davanti alla tastiera di legno.

 

Feliciano saltellò felice verso la cucina, con l’intenzione di cucinarsi qualcosa per placare la propria fame. Canticchiando aprì la porta della stanza, bloccandosi d’un tratto.

Di fronte a sé, Francis era stravaccato su una sedia, la testa all’indietro, e un pezzo di carne di discrete dimensioni adagiato sulla pelle.

-Fratellone!-, si catapultò il rosso al suo capezzale, -cosa ti è successo??-

Il biondo tolse la bistecca dalla faccia, rivelando un grosso livido bluastro che ne copriva interamente il lato destro. Vedendo l’italiano, si rischiaffò la carne sull’occhio colpito.

-Mia piccola rondinella-,  mormorò stancamente quello, -non è niente-

-Oh, fratellone!-, rispose l’italiano preoccupato, -come è successo??-

Sospirò.

-Vedi, piccolo mio-, rispose il biondo platealmente,- ci sono alcune cose per cui vale la pena lottare…-

Feliciano lo guardò confuso.

-E ne è valsa la pena?-, chiese innocentemente.

Il rosso vide uno strano sorriso allargarsi sul volto emaciato del biondo.

-Oh si-, sussurrò roco, -non sai quanto…-

 

Note d’Autrice

 

Ed eccomi tornata qua dopo una settimana di lunga agonia! Yeeeeeeh!

Allora, come avrete ben capito, dall’inizio della storia sono passati già tre mesi, e in questo capitolo sono stati descritti i rapporti che si sono creati tra i membri, per questo è così poco dinamico.

Primo, Lovino. Oh, Lovino! Inizio a compiacermi di me stessa per come sta venendo fuori questo personaggio. Comunque, per essere più chiari: il piccoletto, convincendosi che il fratellino non poteva che essere stato rapito dalle Maschere Nere, parte da Roma per andarlo a cercare, attraversando il centro Italia, zona a quel tempo pericolosissima, impossibile da percorrere da soli. Ma il caro italiano, data la sua natura, umh, un pochino violenta, è riuscito a sopravvivere, procurandosi una certa fama. Dove lo porterà il suo desiderio ossessivo di rivedere Feliciano?

Poi! Kiku. Kiku, Kiku, Kiku. Beh, non c’è molto da dire, tranne che lo adoro sempre di più! <3 Ah sì, la gaffe di Arthur consiste semplicemente in questo: in Giappone quella maschera è la tradizionale parte di una armatura samurai. Kiku la indossa sempre perché l’adora e la trova bellissima. L’inglese gli chiede perché mette sempre qualcosa di così brutto e spaventoso. Povero. ;(

L’Earl Grey, il Gunpowder e l’Orange Pekoe sono tipi di tè.

Francis, Francis, Francis… Non puoi certo comparare i Sex Pistols con Baudelaire, sono tipi di poesia completamente diversi!! E la tua scelta, seppur comprensibile, di tastare il dolce deretano di Arthur, ti ha portato alla rovina…

Eh si, lo so, sono cattiva. Siete confuse, vero? UsUk o FrUk? Essendo malvagia, non ve lo svelerò, muhahahahahah!!! *_*

Non mi resta che salutarvi!

Alla prossima! :D

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Capitolo 11
*** Il suono del dolore ***


Alfred gonfiò le guance. Sbuffò sonoramente, imbronciandosi, le gambe incrociate sul letto dell’inglese.

-Arthuuuuur! Sei così noioso!-

Si distese di schianto sul materasso allargando le braccia. Sbuffò. Di nuovo.

-Arthuuuuuur!-

-STAI ZITTO, IDIOTA!-

-Ma io mi sto annoiando!-

-Se è così, quella è la porta-

-Dai, Arthur! Non fai che stare sempre chiuso qui dentro a strimpellare!-

-Ti faccio notare che nessuno ti obbliga a restare qui! E ora stai zitto-

L’americano assottigliò gli occhi, scrutando l’espressione concentrata del biondo. Le dita affusolate correvano lungo i tasti, carezzavano con decisa delicatezza le corde della chitarra. La lingua rosea spuntava dalle labbra sottili, i muscoli contratti per lo sforzo. Le iridi erano fisse su qualche schema assurdo di note e arpeggi impresso nella memoria.

Certo che a volte avrebbe voluto strappare quella diavoleria elettronica dalle sue mani. Insomma, tutte le volte che andava a fargli visita, lo trovava così, seduto sul pavimento, accovacciato, completamento assorbito dai suoni distorti ed elettrici di quei fili metallici. E lui non poteva fare altro che stare in un angolo a osservarlo. Doveva ammettere che quello spettacolo era affascinante, dopotutto. Mai aveva visto alcuno dedicarsi anima e corpo in qualcosa. L’inglese sembrava vivere per quella musica, per quel pezzo di ferro e legno inanimato. E poteva intravedere la determinazione, la passione, il sentimento di cui le iridi verdi brillavano, e tutto questo era incanalato lungo le corde vibranti. Era un momento in cui l’intera figura emanava fascino e attrattiva. Ma per questo veniva a essere sacrificata l’attenzione che, inconsciamente, voleva su di sé.

-Arthur! Mi. Sto. Annoiandooooooooooo!-

-VUOI CHIUDERE QUELLA FOTTUTA BOCCA, DANNATO IDIOTA!-

Alfred sbuffò. Ancora.

-Ma Arthur, da quanto sei così noioso?-

-DA QUANDO MI HANNO COSTRETTO A RIMANERE RINCHIUSO IN QUESTO BUCO DI MERDA!-

Alfred lo fissò perplesso, per un breve istante. Poi scoppiò a ridere, di quella risata che l’inglese definiva irritante oltre ogni limite.

-Ma come?? Noi siamo coloro che devono salvare il mondo!-

La musica cessò bruscamente. Arthur si voltò lentamente, gli occhi lampeggiavano minacciosamente.

-Devono…?-

L’americano parve non accorgersene, ma, anzi, annuì, con aria soddisfatta.

-Certo! Perché noi siamo degli eroi!-

Un’altra risata risuonò per la stanza. Ma questa volta non era allegra, era amara, divertimento malato, perverso. E soprattutto non era uscita dalla sua bocca.

-Eroi…!-, esclamò l’inglese beffardo, il volto deformato da un ghigno cattivo.

Alfred restò turbato dal mutamento che subirono i suoi occhi: due fessure scintillanti, socchiuse in curve maligne.

-E dimmi, eroe-, sottolineò questa parola con voluta malizia, -chi ti ha mai chiesto di farlo?-

L’americano s’irrigidì.

-Come sarebbe a dire?-, si alzò dal letto, -perché qualcuno deve farlo, no?-

Il sorriso malevolo si accentuò.

-Perché?-, soffio ironico, -Vuoi qualcuno che ti lodi per questo? Vuoi forse folle che ti idolatrino e che chiamino implorando il tuo nome?-

Le braccia tremarono lungo il busto, i pugni si strinsero.

-Perché noi possiamo!-, ribatté rabbiosamente l’altro, -Se noi non lo facessimo, chi altro lo farebbe?-

-Certo-, rispose subito l’inglese, -ma questo non costituisce un valido motivo-

Alfred fece un passo indietro, non sapendo cosa controbattere, mentre Arthur lo guardava con soddisfatta perfidia.

Non riusciva a comprendere il motivo di tanta cattiveria. Loro erano i Possessori, i predestinati che avevano ricevuto il Dono! Loro erano degli eroi! E gli eroi salvavano le persone, no?

Fissò la persona ancora accovacciata sul pavimento. Quello non era Arthur. Nonostante la lampante somiglianza fisica, quello non poteva essere l’inglese che poco prima suonava con tutto il cuore. Quegli occhi, quel ghigno, quell’ombra che attraversava il volto e le chiare iridi non gli appartenevano.

-Ti credi un eroe-, continuò quello, -io vedo solo davanti a me un moccioso troppo cresciuto, esaltato, che crede di conoscere il mondo, e spara cazzate senza sapere realmente di cosa sta parlando-

-NO!-

Marciò verso di lui, s’inginocchiò, le mani puntate sul pavimento, a pochi centimetri dalle gambe del biondo, il viso vicino a quello dell’altro, i denti digrignanti.

-E cosa dovremmo fare allora? Vedere migliaia di persone che muoiono, mentre noi ce ne freghiamo? Noi che abbiamo questo potere, non dovremmo fare niente??-

Il respiro divenne pesante. Arthur continuò a sorridere.

-Non capisco perché ti preoccupi tanto della gente-, risposte con calma agghiacciante, sempre quello strano scintillio perverso negli occhi, - cosa ha fatto la gente per te? Ti ha mai aiutato quando eri in difficoltà? Ah, dimenticavo-, si batté una mano sulla fronte, un’imitazione palesemente fasulla di un gesto di dimenticanza, -Tu non sei mai stato in difficoltà, no? Sei il figlio normalissimo di una famiglia normalissima con un normalissimo lavoro!-

Perché quell’ironia pungente? Perché quelle frasi intenzionate proprio a ferirlo? L’afferrò per la collottola della camicia.

-E allora dovrei diventare come te??-, sputò fuori senza pensare, -un fallito che critica il mondo, che odia tutti, ma che non fa altro che suonare la sua stupida chitarra senza fare un tentativo di cambiare??-

Arthur s’irrigidì per un secondo. Poi gli occhi cambiarono nuovamente. Le iridi s’assottigliarono ancora di più, ma il verde lampeggiò, fu attraversato da una scarica elettrica, il ghignò si trasformò in un basso ringhio.

-Cosa ne puoi sapere tu…-, bisbigliò lentamente.

Alfred si pentì subito di quello che aveva detto. Non lo pensava realmente. Non sopportava però quell’Arthur. L’inglese che conosceva era disilluso, sì, ma non era così volutamente malvagio.

-TU NON SAI NIENTE DI ME!-

L’inglese scacciò violentemente la mano che ancora lo stringeva. Si alzò di scatto, puntò le iridi rabbiose in quelle del ragazzo. Le gambe erano divaricate, il busto proteso in avanti, le braccia tremavano violentemente.

-NESSUNO HA MAI FATTO NIENTE PER ME!-, urlò, gli occhi improvvisamente lucidi, -NESSUNO MI HA MAI AIUTATO QUANDO LI CERCAVO, PERCHÉ ORA DOVREI SALVARE LE STESSE PERSONE CHE MI HANNO SBATTUTTO PER STRADA??-

Alfred rimase immobile, steso sul freddo pavimento, mentre il corpo dell’altro era scosso da forti tremiti. Le lacrime pungevano lungo le ciglia bionde.

L’inglese si portò una mano a coprire il viso.

-Vattene via…-

L’americano non si mosse.

-VATTENE VIA!-

Si alzò di scatto dalla sua posizione rannicchiata, e corse verso la porta, senza mai voltarsi, con impressa nella mente gli occhi colmi di solitudine di Arthur. 

 

Antonio correva più velocemente che poteva lungo il corridoio che portava al salone centrale: a quanto pare Francis aveva deciso di stappare una bottiglia di Pessac-Léognan del ’53 come consolazione del mancato resoconto di un certo tedesco “incapace di lasciarsi trasportare dal vento dell’Amour” su travolgenti rapporti interpersonali con gli italiani. Gilbert aveva deciso di dargli man forte facendo spuntare dal nulla un’intera cassa di birra doppio malto proveniente da Berlino.

Lo spagnolo aumentò l’andatura con l’unico pensiero in testa di passare la nottata con gli amici in allegre attività che non comprendevano di certo una tranquilla partita a carte.

Sorpassò la porta che conduceva alla biblioteca di Heracles. E l’avrebbe lasciata presto alle spalle, se non avesse udito un basso brusio rabbioso. Si bloccò, tornò silenziosamente sui propri passi. L’uscio era appena socchiuso, così poté constatare, con una rapida sbirciata, che il greco e il giapponese, ritti uno di fronte all’altro, stavano avendo una discussione tutt’altro che pacata. Sogghignò: chissà quale era l’argomento del loro diverbio. Accantonò per un momento l’idea di raggiungere gli amici a far baldoria, accovacciandosi dietro lo stipite: il tentativo senza successo di farsi raccontare dal piccolo Belschmidt particolari succulenti su Feliciano lo aveva lasciato a bocca asciutta, quindi sperava di rimediare ascoltando quella che, secondo la sua personalissima opinione, poteva rivelarsi un colloquio dai frutti particolarmente succulenti.

-Non puoi chiedermi questo!-, esclamò Kiku, il corpo percorso da tremiti, -Non posso uccidere qualcuno solo per questo!-

Il moro giurò di aver visto il bibliotecario alzare esasperato gli occhi.

-Vuoi che ti ricordi l’improvviso picco di morti avvenute nelle città in cui è passato? E tu sai che non possono essere state tutte causa sua, non sarebbe umano-

-Lo so!-, sbottò l’asiatico, accaldandosi sempre di più, -ma non posso uccidere qualcosa che non sia uno Jardin!-

Il castano lo guardò con aria annoiata.

-Lo sai che ovunque vada non fa che chiedere delle Maschere Nere? Il Bokor continua a farlo seguire dagli Jardin-

-Ma mi hai appena detto che è talmente veloce nello spostarsi da averli disorientati!-

-Non capisci?-, replicò esasperato, -Se lasciati liberi, gli zombi sono senza controllo. Se non troveranno lui, uccideranno tutti coloro che riusciranno a trovare-

Kiku vacillò.

-Senza contare-, aggiunse il greco, -che prima o poi il Bokor si stancherà, e provvederà lui stesso a eliminarlo-

Il giapponese non fiatò. La labbra del castano si tirarono in un breve sorriso, ma gli occhi restarono distanti.

-Oltre a salvare tante vite, non pensi che sia più magnanimo finirlo senza farlo soffrire?-

-NON USARE QUESTI GIOCHETTI CON ME!-, urlò all’improvviso l’asiatico, alzandosi in punta di piedi per la foga.

Lo spagnolo, dietro lo stipite, sobbalzò. Mai, da quando era entrato nell’Aletheia, lo aveva sentito alzare la voce oltre a un sussurro. Anzi, non lo aveva mai visto assumere altro comportamento se non quello di semplice remissività.

Lo stesso Kiku sembrò stupito della propria reazione. Il dito puntato verso il viso del bibliotecario si bloccò, e lentamente scese, insieme al braccio, lungo il fianco.

-Non usare questi giochetti con me-, ripete, questa volta in un bisbiglio irato, -non usare le mie parole come se ti importasse davvero…-

Il sorriso del castano lentamente si spense, tornò a essere una linea piatta.

-Puoi usarla per essere a posto con la tua coscienza, però. Fatto sta che devi ucciderlo-

Il giapponese boccheggiò, le gote arrossate, il respiro pesante. Antonio pensò addirittura di trovarsi di fronte un’altra persona.

-Ma non sai neppure chi è!-, esclamò di nuovo, -Non lo conosci, non sai neanche il suo nome! Come puoi vivere con il dubbio di aver mandato a morire una persona che forse non ha fatto nulla di male?!-

-Hai ragione-, rispose pacatamente il greco, -Non non la minima idea di chi sia, i suoi spostamenti sono rapidi e imprevedibili-

Seguì un momento di silenzio, in cui l’asiatico attendeva trepidante che il compagno continuasse.

-Per questo ho fatto chiamare l’Informatore, lui ci dirà tutti i dettagli. Dovrebbe arrivare tra poco…-

Antonio non riuscì a vedere la reazione del moro. Sentì dei passi in lontananza, e un basso canticchiare. S’affrettò a nascondersi in un angolo in cui gli archi si dividevano i due passaggi. Voleva assolutamente vedere come sarebbe andata a finire.

 

La donna scrutava il viavai di uomini, donne, bambini, carri, merci e bestiame dietro il suo bancone di legno. Come vigilante alle porte della città ne aveva viste parecchie di persone, di volti. Ognuno sembrava recare inciso una propria storia, caratteri talmente minuscoli nascosti tra i pori della pelle. Ma ogni volta che i suoi occhi attenti incrociavano qualcuno, questo abbassava lo sguardo, si stringeva il cappuccio e tirava avanti.

Quel giorno il sole picchiava particolarmente forte, e il calore emanato dalle grosse pietre che costituivano la strada maestra che portava dentro il paese emanavano una calura insopportabile. Anche quel pomeriggio era seduta dietro il suo bancone, cercando d’individuare eventuali nemici. Le recenti guerre nei grandi ducati del centro Italia avevano portato all’infiltrazione nei paesi avversari di spie e mercenari. Si passò una mano sulla fronte imperlata dal sudore, si scostò i capelli scuri dalla fronte. Sperava che il suo turno finisse prima possibile, per tornare a casa del figlio: la mattina era stata costretta a lasciarlo a casa nonostante fosse da molti giorni malato. Si sentiva una madre terribile, ma i suoi superiori non avevano voluto sentire ragioni.

Sbuffò per l’ennesima volta, mentre lanciava sguardi indagatori alle file disordinate che si accalcavano verso il ponte levatoio. Improvvisamente si sentì tirare per la manica dell’uniforme. La testa scattò verso destra, allarmata. Si stupì, però, di trovarsi di fronte una bambino, anzi, un ragazzino: doveva avere più o meno l’età del suo piccolo Giacomo.

Era avvolto in un pesante mantello scuro, ma il cappuccio era scivolato dalla testa arruffata. Stava singhiozzando, i pugni stretti tentavano di asciugare le lacrime che solcavano le guance paffute.

La donna si chinò verso di lui.

-Ehi piccolo-, disse quella con voce sorpresa, -cosa ti è successo?-

Il bambino tirò su con il naso, gli occhi azzurri lucidi e arrossati.

-H-ho perso la mamma…-

Ricominciò a singhiozzare forte.

La sguardo duro della donna si addolcì, e le labbra si allargarono in un sorriso di tenerezza.

-Vieni-, esclamò, scompigliando delicatamente la chioma castana del piccolo -Ora andiamo a cercare la tua mamma!-

L’ufficiale tese la mano verso il bambino. La donna si chiese perché, improvvisamente, sul viso di quella povera creatura si disegnò un’ombra che, scioccamente, per un istante le parve così poco umana.

 

Il bambino camminò deciso verso il ragazzo che, per tutta la scena, lo aveva controllato da dietro un carro parcheggiato qualche metro più là.

-Hai fatto come ti ho detto?-, lo accolse abbracciandolo il moro. Il ragazzino non parve scomporsi, ma conservò la propria impassibilità.

-Si, Toris-, sussurrò atono, -ora lei sarà i nostri occhi, e ci riferirà tutto-

Il maggiore lo baciò sulla fronte con dolcezza.

-Bravo Raivis-, un bacio sulla guancia, -sei proprio un bravo bambino-

Il moro si alzò dalla sua posizione accucciata. Protese una mano verso di lui.

-Andiamo?-

Il bambino fissò con freddezza quella scena così ironica. Afferrò il palmo offertogli, e insieme si incamminarono verso la via principale che li avrebbe condotti più a nord.

 

Uno scatto improvviso. La pupilla saettò a destra. Una pallottola traforò la sagoma umana, nel punto preciso in cui doveva essere posto un ipotetico cuore di cartone.

Un guizzo impercettibile. Con un gesto fulmineo, la pistola fu puntata verso la silhouette di uno zombi. La testa cartacea saltò via.

Si slanciò in avanti, evitando la scarica di piombo e polvere da sparo provenienti da chissà dove. La traiettorie dei proiettili erano talmente confuse che nessun umano sarebbe riuscito a intercettare la loro provenienza.

Un breve lampo nel buio dal soffitto. La pupilla guizzò in alto. Una pallottola partì dalla sua Colt Navy, centrò in pieno il punto i cui delicati e sottilissimi cavi elettrici che azionavano automaticamente i tamburi e i grilletti si incrociarono. La scintilla provocò un’esplosione che distrusse completamente i mitra perfettamente camuffati.

L’occhio destro si mosse automaticamente verso sinistra, percependo l’esatto istante in cui una figura di zombi era issata improvvisamente su. La mano estrasse una seconda pistola dal fodero. Il finto Jardin fu ridotto in briciole ancor prima che si fosse completamente alzato.

L’occhio destro percepì l’imminente cambiamento di luce proveniente dal basso. Balzò appena in tempo in dietro per evitare che una raffica di ferro sparata dal pavimento lo traforasse.

Corse verso l’ampia parete nord della stanza da allenamento, sparando, evitando, schivando, slanciandosi.

Tutto purché la sua mente non tornasse a quello che era successo poco fa. Gli occhi di Arthur bruciavano nei suoi pensieri, le sue lacrime lo scottavano.

Si nascose rapidamente dietro un angolo, mentre una mitragliatrice vomitava raffiche di acciaio che sfioravano il suo orecchio sinistro.

Quello che bruciava più di tutto, però, erano state le sue parole.

Digrignò i denti. Saltò oltre il suo precario nascondiglio, esattamente prima che il cemento fosse sfondato dalla violenza dei colpi. Corse a perdifiato verso la parete opposta.

Loro erano degli eroi! Loro avevano poteri che nessun umano avrebbe mai potuto avere! Perché mai sarebbero dovuti nascere con il Dono, se non per difendere gli altri? Che senso avrebbe tutto ciò, altrimenti?

Continuò a correre. Non si voltò, quando puntò l’arma dietro di sé. La pallottola colpì precisamente il sistema di raffreddamento dei cannoni. Le palle di ferro implosero prima che fossero lanciate verso di lui.

E sarebbero dovuti rimanere in un angolo, al sicuro, mentre la gente veniva sterminata?

Si girò, affrontando, la tempesta di piombo che stava per travolgerlo.

Con che coraggio avrebbe potuto semplicemente vivere?

Puntò le due pistole verso la cascata di metallo che lo avrebbe trapassato.

Uomini e donne che sarebbero morti per il loro disinteresse?

L’occhio destro guizzò impazzito, seguendo ogni singola traiettoria.

Gente innocente che implorava l’arrivo di un eroe che non sarebbe mai arrivato?

Il dito premette il grilletto.

Solo loro sarebbero rimasti in piedi sopra una montagna di morti?

Ferro che colpiva il ferro, pallottole che piovevano inerti sulla sua testa.

E per cosa avrebbero vissuto allora?

Il silenzio calò d’improvviso.

Alfred ansimò pesantemente. Contemplò lo spettacolo di fumo, polvere da sparo, cenere, cemento bruciato della sala d’allenamento.

Sospirò pesantemente. Mosse un passo verso la porta.

Si bloccò di colpo. Una scarica di dolore attraversò i suoi nervi, e trafisse il suo occhio destro.

Urlò. Le pistole gli caddero dalle mani. Era come un centinaio di aghi che infilzavano l’orbita, tormentandola e indugiando sui nervi sensibili.

Rantolò, stringendo spasmodicamente i palmi delle mani sulla parte destra del viso, cercando di superare quel momento di crisi.

Cadde in ginocchio, il mondo cominciò a girare intorno a lui. Era peggio di qualunque tortura, era come fiamme incandescenti che attraversavano i tessuti, arrivando ruggenti alla pupilla.

Il petto si alzava irregolarmente, il respiro era affannoso. Strinse le palpebre, attendendo che la corrente di sofferenza scemasse.

Rimase steso per un tempo impreciso. Una mano si scostò dal viso, la fissò. Fece una smorfia. Sangue. Aveva di nuovo esagerato.

Si buttò nuovamente sul pavimento, la schiena indolenzita dal duro cemento.

Socchiuse gli occhi, fissando il soffitto. Bianco. Piatto. Quella sarebbe stata la sua vita, senza il Dono. Un semplice umano che trascorreva il tempo prestabilito sulla Terra, per poi diventare polvere e essere dimenticato.

Passò una mano sulla guancia, rigata da rivoli di liquido rossastro che colava dall’orbita destra.

Lui era un eroe. E anche Arthur doveva accettarlo.

 

Gilbert arrancava lungo il corridoio. Non lo avrebbe mai ammesso, ma quella enorme cassa colma di birra era troppo pesante anche le sue magnifiche braccia. Sbuffò, irrigidendole, nel tentativo di stirare i muscoli intorpiditi.

D’un tratto,la sua attenzione fu attirata da una figura che correva dalla sua direzione opposta. Con sorpresa si rese conto che si trattava di Antonio, e si domandò perché stesse percorrendo la strada contraria che non lo avrebbe di certo condotto alla sala principale, dove avevano organizzato una bella riunione alcolica.

-Ehi, testa di cazzo!-, latrò sguaiatamente, -Francis ha riprovato a incu-

-Gilbert!-, urlò quello di rimando, superandolo e senza voltarti, -devo andare, rimandiamo a un’altra sera!-

-COSA?!-, gridò indignato l’albino, -E LA SBRONZA COLLETTIVA?!-

-Mi dispiace Gilbooooooooooooo!-

La voce calda e allegra dell’ispanico divenne sempre più flebile, inghiottita dall’intrigato labirinto di passaggi.

Gilbert, indispettito, lasciò cadere la cassa, che si schiantò al suolo con un sonoro tonfo. Pestò i piedi per terra, imprecando contro l’amico. Continuando a borbottare, afferrò una bottiglia di birra e, con qualche difficoltà, la stappò con i denti. Ingoiò tutto d’un fiato il liquido ambrato, e si beò della sua freschezza che scivolava lungo la gola. Si asciugò grossolanamente la bocca con una manica, riflettendo sull’improvviso impegno di Antonio.

Scommetteva su tutta la propria Magnificenza di aver intravisto un lampo, a lui ben noto, negli occhi verdi del moro. E questo non poteva che portare guai. Sogghignò: magari stava per succedere qualcosa d’interessante.

S’incamminò lungo il corridoio, abbandonando la cassa di alcolici. Se ne sarebbe occupato qualcun altro. Lo sguardo cremisi scivolò lungo le pareti. Il tedesco non sapeva esattamente cosa fare, a causa di quell’idiota i piani della serata si erano guastati.

Si fermò, intravedendo un buio corridoio sulla destra. Non si era accorto di essere arrivato nell’ala nord dell’Aletheia, quella in cui si trovava il laboratorio e le sale di controllo. Un ghignò poco rassicurante si formò sul suo candido viso. Quel giorno il fratellino lo aveva invitato, più o meno, a non avvicinarsi alla sala del Grande Fuoco, visto che si sarebbe intrattenuto a riparare alcuni contatti elettrici della porta vetrata d’accesso. E se c’era Ludwig, non poteva non esserci anche Feliciano. Si leccò le labbra, pregustando un passatempo molto divertente.

Imboccò dunque lo stretto corridoio con un sorriso strafottente e l’andatura sicura. Rimase deluso, però quando davanti al vetro che emanava barbagli arancioni non trovò nessuno: probabilmente quel segaiolo del fratellino aveva già terminato il tutto.

Sbuffò nuovamente, calciando con rabbia il muro. E adesso? La testa vagò, soffermandosi distrattamente sulla porta semi aperta del grande salone grigio. Non sapeva molto di quella stanza. Dopotutto, non frequentava molto quel luogo, anzi: lo aveva visto di sfuggita il prima giorno in cui era entrato nell’organizzazione. Fece per tornare indietro, quando si bloccò.

Captò qualcosa. Grazie al suo Dono, la Scelta, aveva sviluppato una sorta di sesto senso, quello di poter percepire molto vagamente la presenza umana, una specie di istinto animale. La voce malevola di Antonio gli rimbombò in testa, l’istinto del coniglio. Scosse la testa per cacciare quel pensiero irritante.

Si voltò, gli occhi vagarono alla ricerca di quel qualcuno che si trovava vicinissimo a lui. Infine, le iridi cremisi si posarono su due enormi portoni metallici, sbarrati con lunghe catene. Spalancò la bocca. Mai aveva notato quelle due enormi ante, forse a causa dell’oscurità del corridoio.

Si avvicinò, questa volta con passo meno sicuro. Appoggiò un orecchio al freddo materiale. Non si sentiva alcun suono. Eppure era sicuro: c’era qualcuno oltre quella barriera.

Batté il pugno più volte.

-Ehi!-, esclamò, -c’è qualcuno?-

 

Sbarrò gli occhi. Un rumore. Un altro. Qualcuno lo chiamava. Fissò inorridito la porta bianca. Il rumore non cessava. Si strinse le gambe al petto. Gli occhi sbarrati, terrorizzati. E quel martellare continuava, ancora, e ancora.

-No…-, sussurrò, la voce arrochita. Da quanto tempo non parlava?

-Vattene…-

 

Sgranò gli occhi.

Una voce. Flebile, forse era stata un’illusione. Bussò con più forza.

-Ehi!-, gridò, -ci sei? Mi senti?-

 

Tremava violentemente. L’uomo fissava la porta con muto terrore.

Chi era? Cosa voleva? Lui voleva solamente essere lasciato da solo. Voleva solo smettere di pensare, scivolare nell’incoscienza, nel dolce buio. Un’onda di ricordi, immagini, suoni, dolore lo travolsero.

Si tappò disperatamente le orecchie, le palpebre strette con forza. Quei colpi erano il passato che tornavano a bussare alla sua porta.

-VATTENE VIA!-

 

La mano si fermò, pronta a percuotere nuovamente le ante metalliche.

Un urlo.

Questa volta lo aveva udito chiaramente.

Gilbert fu inondato dalla curiosità.

Chi c’era dietro il portone? E perché quelle catene?

-Riesci a sentirmi?-, insistette, -Chi sei?-

 

Scosse con violenza la testa. Non voleva sentire più quella voce.

Perché? Perché dopo tanto tempo qualcuno veniva a disturbare il suo mondo bianco?

La voce continuava a chiamarlo.

-Smettila…-

Sangue. Rivedeva quel sangue, quel sangue che bagnava il suo viso, le sue mani. Ancora quella voce.

-Basta…-

E rivide il sangue sul suo viso morto, gli occhi dorati che lo fissavano vitrei, immobili, una scintilla della loro dolcezza che resisteva alla morte.

E quella voce continuava a chiamarlo.

Le unghie si conficcarono nella carne delle orecchie.

Quella voce era sangue, quella persona era sangue.

-BASTA!!-

 

Sentì di nuovo quel urlo, un urlo di un uomo, indubbiamente. Sorrise speranzoso, non seppe perché. Ma all’improvviso, il sorriso scomparve.

Gridò. S’accasciò a terra, la testa stretta tra le mani. Gridò, ancora, un urlo straziante.

Cos’era? Le dita vagarono tra le ciocche candide, disperate, senza pace.

La sua testa. Sentiva come se la sua testa fosse stretta in una morsa d’acciaio. La presa si faceva sempre più forte, qualcosa stava cercando di comprimerla, di schiacciarla, di sgretolarla.

Gli occhi sbarrati, le dita che tentavano di afferrare quelle braccia invisibili che lo stavano uccidendo. Ma le lunghe falangi bianche afferravano solo aria, e ciocche candide che venivano tirate furiosamente, come per distrarsi da un dolore maggiore.

Respirò pesantemente, cercò di concentrarsi. Il Dono. Doveva usare il Dono. Ignoralo, ignoralo, prima che ti distrugga. Gridò ancora, angosciato. Quel dolore era un mostro, un mostro dai mille tentacoli, che viscidi lo avvolgevano, lo stritolavano, penetravano dentro di lui. Il Dono, pensò, concentrati sul Dono!

S’agitò, si dimenò in quella presa viscosa, che si attorcigliava  sulle sue membra come tentava di liberarsene. S’impose di concentrarsi solo sulla Scelta, ne andava della sua sanità mentale. Lentamente, sgusciò fuori dalle spire oscure di quella sofferenza serpentina.

Si ritrovò steso sul pavimento, il petto che si alzava irregolarmente, gli ansiti che uscivano veloci dalle sue labbra. Ignora, si ripeté, ignora, ignora, ignora. Barcollando, si alzò in piedi, e tentò di raggiungere l’uscita. La paura lo stava confondendo, sbatté più volte lungo le pareti. Finalmente, raggiunse lo sbocco. Iniziò a correre, senza fermarsi, senza voltarsi verso quel buio in cui per un attimo aveva intravisto l’inferno.

 

Note d’Autrice

 

Alfred, Alfred, ma te le vai proprio a cercare!!! E con questa scena inizia una nuovo capitolo di Underneath!!!

*squillo di trombe, il pubblico applaude (?)*

A questo punto non credo siano necessarie altre spiegazioni sul Dono di Alfred, forse aggiungerò qualcosa in seguito. Le pistole del piccolo Al sono Cold Navy: http://it.wikipedia.org/wiki/Colt_Navy

Uuuuh, le vicende iniziano a intrecciarsi! L’Aletheia, Romano, i Jardin! Cosa mai succederà? Nel prossimo capitolo la faccenda si complicherà ulteriormente, visto che entrerà in gioco un nuovo personaggio!

Infine, Gilbo, il mio amore <3! Povero, lo faccio soffrire così tanto… Su, su, ormai dovreste cominciare a capire chi si nasconde dietro le porte!!!

Ah, ultima cosa: la poliziotta è un personaggio puramente random.

Detto questo, non mi resta che salutarvi!

Alla prossima! :D

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Capitolo 12
*** My sweet prince ***


Dalla sua posizione, Antonio poteva vedere esclusivamente la schiena del nuovo arrivato, entrato dentro la stanza saltellando spensieratamente.

Il primo pensiero fu chiedersi perché una ragazza tanto carina come quella si trovasse dentro all’Aletheia. Con sommo stupore, però, sentì la sconosciuta parlare, rivelando una voce sottile, acuta, maliziosa, ma indubbiamente maschile.

-Heracles!-, esclamò quello, -Cioè, sei totalmente una favola! Però, tipo, dovresti cambiare il tuo look, voglio dire, è così scialbo, un bel ragazzo come te, cioè, che spreco!-

Lo spagnolo soffocò una risata contro il palmo della mano. Il nuovo arrivato aveva un modo buffissimo di esprimersi, le movenze vagamente effeminate, ogni frase accompagnata da frivoli gesti della mano, ogni affermazione era seguita dallo scuotimento teatrale dei lunghi capelli biondi.

-Buongiorno, Feliks-, rispose piatto il greco, che non sembrava minimamente toccato dal commento del ragazzo.

-Lukasiewicz-kun-, mormorò Kiku, accennando a un breve inchino.

-Kiku!-

L’uomo, che aveva capito chiamarsi Feliks, si voltò verso il giapponese, la lucida chioma scostata con un fluido movimento. Spalancò le braccia, avvicinandosi tra una falcata e un movimento di anche.

-Dio, Kiku! Cioè, il tuo stile, tipo, è meraviglioso! Sai, davvero, questi kimono, sono favolosi! I vestiti, vero, orientali vanno molto di moda, tipo, quest’anno!-

Antonio rischiò realmente di strozzare nelle sue stesse risa. Ma quante parole uscivano da quella bocca, che ora si atteggiava in un delicato broncio? Lo spagnolo giurò addirittura di intravedere una traccia di lucidalabbra su quella piccola smorfia scherzosa.

-Feliks-, disse piatto Heracles, tentando di attirare l’attenzione del biondo, che stava ispezionando i colori dell’hakama del giapponese, con enorme imbarazzo di quest’ultimo.

-Tu sai perché ti abbiamo chiamato, vero?-, sventolò una mano con gli onnipresenti guanti di cuoio.

-Ovvio, tesoro!-, trillò quello, scostandosi con un gesto mellifluo le ciocche chiare dal lato del viso, -Cioè, non sarei, tipo, un informatore, altrimenti! Ma…-, si accostò al bibliotecario sculettando, -hai la merce che cerco, vero?-, sussurrò.

Il greco, senza fare una piega, indietreggiò, circumnavigò il perimetro della scrivania colma di fogli, ed estrasse da sotto di essa una valigetta. Antonio spalancò gli occhi.

-Ecco-, disse il castano, sbattendo la borsa rigida sulla superficie ingombra di libri e alzando così una piccola nube di polvere, -quello che stai cercando-

Lo sguardo smeraldino di Feliks saettò sulla valigetta. Con veloci passi di danza percorse la distanza tra la sua attuale posizione e il suo obbiettivo, trepidante. Con gesti veloci, fece saltare la serratura, e aprì il coperchio.

Antonio sentì un urletto acuto trapassargli i timpani.

-O. Mio. Dio! Cioè…! È… è…!-

-Pura seta, importata dall’oriente-, commentò atono il greco.

Lo spagnolo vide il biondo sfilare delicatamente un lungo abito rosso, il tessuto vermiglio scivolò dal cuoio della valigetta, toccando graziosamente il pavimento polveroso.

Feliks se lo appoggiò delicatamente contro il petto, accarezzò deliziato i pizzi bianchi che ne adornavano il colletto e le maniche a sbuffo, i grandi occhi chiari percorrevano estasiati ogni centimetro dello stretto corpetto.

Gongolò qualche istante, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra. Poi, dal principio lentamente, e senza una traiettoria precisa, iniziò a girare su se stesso, ridendo, una risata ovattata delicata, che si sparse leggera nel pulviscolo dorato della stanza.

Antonio fissò decisamente senza parole il ragazzo compiere cerchi sempre più ampi, apparentemente immerso e concentrato in un mondo tutto suo. Il lungo strascico vermiglio volteggiava intorno l’esile figura, come una voluminosa coda di volpe. Il moro vide gli altri due uomini scambiarsi un’occhiata silenziosa: il giapponese sembrava profondamente preoccupato, mentre Heracles… Beh, era difficile decifrare quelle pupille apatiche e smorte.

Infine, il bibliotecario pose una mano guantata sulla spalla del biondo, interrompendo il suo sogno a occhi aperti, ponendo fine a quell’atteggiamento totalmente fuori luogo.

-Hai ricevuto la tua paga-, sussurrò il castano, -ora dacci le informazioni che ci servono-

Il biondo lo fulminò con lo sguardo, colpevole di averlo bruscamente riportato alla realtà. Si imbronciò, la bocca si serrò in una smorfia infantile, femminea.

Sbuffando teatralmente, avanzò verso la scrivania, e cacciò via con un sol gesto i fogli che l’ingombrarono. Infine, si sedette sopra, accavallando le gambe provocamene.

-Il ragazzo ha compiuto, pensate, un lunghissimo viaggio, iniziato da Roma e che lo ha portato, tipo, a toccare tutte le città dello Stato della Chiesa-, esordì il biondo, attorcigliandosi distrattamente una ciocca intorno a un dito affusolato, - fino ad attraversare tutti i territori centrali della penisola. Si è soffermato in tutte le città, specie in quelle più affollate, sapete, quelle in cui stanno avvenendo tutte quelle rivolte popolari, no?, E in ognuna è entrato nei peggior circoli di malavita per sottrarre informazioni sulle Maschere Nere-

Antonio intravide la figura dell’informatore parlare, senza sosta, come se si trattasse semplicemente di gossip. Dall’altro canto, gli altri due uomini sembravano non perdere una singola parola che usciva da quelle labbra lucide, gli occhi fissi e concentrati.

-Secondo i miei agenti, ha alloggiato in centri commerciali come Akragas, Firenze, Pisa, Amalfi, per più di tre giorni. Il ciclo è stato sempre lo stesso: l’incontro con i malviventi, l’interrogatorio, e l’uccisione di questi ultimi-

-La cosa che ha turbato i cittadini è che, nell’arco di poche ore dalla partenza del nostro uomo, il tasso di scomparse si incrementa vertiginosamente. Coloro che sono stati trovati da questi misteriosi individui non potevano neanche essere più considerati umani-

Kiku emise un piccolo, basso singhiozzo. Feliks annuì, con l’aria di chi la sapesse lunga.

-Ovviamente, secondo i pochi testimoni, che sono stati stranamente uccisi poco dopo, le vittime sono state seguite da strani esseri barcollanti, maleodoranti, e a volte addirittura hanno intravisto una strana figura incappucciata…-

-Il Bokor-, concluse il bibliotecario.

-Esatto!-, applaudì deliziato l’informatore, -sagace come sempre, Heracles caro!-

Il giapponese, che sembrava crucciarsi da vari minuti, emise un flebile mormorio.

-Scusami, Lukasiewicz-kun, ti ringrazio per le tue informazioni, ma-

-Sappiamo già tutto questo-, lo interrupe brusco Heracles, -vogliamo sapere qualcosa su questo uomo-

L’informatore parve prendersela, date le braccia che si incrociarono stizzosamente al petto, e il capo che si voltò di scatto di lato.

-Ultimamente sta vagando per i territori del ducato di Parma, e pare che stia indugiando lì da una settimana, e sembra intenzionato a dirigersi a nord-est-, sputò fuori.

Kiku prima lanciò un’occhiataccia al bibliotecario, poi tentò un altro approccio.

-Scusa se siamo insistenti, Lukasiewicz-kun, ma vorremo sapere anche qualcosa sulla sua identità, sei l’unico su cui possiamo fare affidamento…-

Il biondo parve addolcito da quelle parole, dato che si voltò di scatto verso di loro, lo sguardo smeraldino di nuovo eccitato.

-È proprio questa la parte più interessante!-, esclamò, dondolandosi avanti e indietro, - questo uomo, anzi, poco più che un ragazzo, è partito tre mesi fa da Roma, e già questo dovrebbe esservi familiare…-

Il biondo lanciò un’occhiata allusiva ai due interlocutori, che parvero cogliere qualcosa nelle sue parole.

-No?-, insistette maliziosamente, -Neanche se vi dico che il suo nome è Lovino…-

Una pausa carica di tensione, in cui i volti dei due uomini parvero illuminarsi.

-…Lovino Vargas?-

 

Quello che stava facendo non era per nulla magnifico, ne era pienamente consapevole. Ma non poteva che indugiare, andare avanti indietro, crucciarsi, di fronte a quel piccolo corridoio buio.

Insomma! Lui era Gilbert, l’uomo più meraviglioso che avesse posato piede sulla Terra! Eppure non poteva che passare davanti a quel misero androne oscuro, avanzare un passo verso l’atmosfera scura, indietreggiare lentamente, riniziare a  marciare lì intorno, tornando nello stesso punto, come in un ciclo infinito.

Digrignò i denti frustato. Non poteva accettare il fatto che lui, proprio lui, fosse fuggito con la coda tra le gambe, guaendo pietosamente, e rifugiandosi tra le coperte del suo letto, come qualunque moccioso.

Nuovamente, tornò sui suoi passi, nervoso, agitato. Era normale, continuava ripetersi, chiunque avrebbe reagito così, non hai colpe, ogni persona normale sarebbe scappata. Nessuno, però, sano di mente, sarebbe tornato in quel luogo.

Lo sguardo cremisi scivolò tra le spire di quella aria pesante opprimente. Tra quella fitta nebulosa rivide i tentacoli, che penetravano dentro di lui, lo invadevano lo laceravano.

Rabbrividì. Sapeva di dover tornare là. Una curiosità spasmodica, ossessionante malata, lo spingeva verso quelle ante di metallo.

Tirò un profondo respiro, strinse le palpebre. Trattene il fiato, come qualcuno che si preparasse a immergersi nelle oscure tenebre di un oceano, e s’inoltrò tra le volute nerastre.

 

-Il fratello di…-

Kiku non riuscì a continuare, le parole morirono in un gemito soffocato, una manica del kimono a coprire una piccola smorfia sofferente. Lo sguardo fissò incredulo la figura dell’Informatore.

-… di Vargas-kun?, il nostro Vargas-kun…?-

Il biondo ridacchiò deliziato, compiaciuto per aver scatenato quella reazione di stupore grazie a una notizia così succosa.

-Tesoro-, esclamò, una mano che vezzeggiava l’orlo della casacca di pizzo, -le mie informazioni sono, tipo, sicurissime. Cioè, manda tutte le spie che vuoi, ruba tutti i documenti che vuoi dei registri romani. Ovvio, avrai la conferma che Lovino Vargas è il fratello di Feliciano Vargas!-

Gli occhi scuri saettarono verso il bibliotecario, supplici. Parevano pregarlo, di scongiurarlo, forse per quel discorso interrotto poco fa.

Ma il greco non si accorse di quelle iridi puntate sul suo viso. Seduto su una sedia emersa dalle cataste di libri, aveva incrociato le mani, il mento poggiato su di esse, la fronte corrugata, gli occhi verdi più distanti del normale, immersi in qualche profonda riflessione.

Infine, alzò la testa, molto lentamente.

-Puoi darci la conferma più assoluta che l’uomo che stiamo cercando sia Lovino Vargas, e che questo stesso Lovino Vargas sia fratello di Feliciano Vargas, il ragazzo membro dell’Aletheia da circa tre mesi?-

Feliks sbuffò, un po’ scocciato dalla sua diffidenza.

-Tipo, l’ho già ripetuto! Quante volte dovrò dirlo?? Si, lui è-, e sottolineò questa ultima parola con un gesto stizzito-, e ripeto, è il fratello del vostro ragazzo!-

Heracles annuì, più una conferma per se stesso che per il suo interlocutore.

Sprofondò nella sedia, lo sguardo vagò assente lungo le pareti della stanza.

-Ho capito-, sospirò stancamente, -grazie di tutto-

-Se è così-, il biondo si slanciò dalla scrivania, atterrando delicatamente sul pavimento, -tipo, vi saluto!-

Saltellò allegramente verso la porta, pronto ad abbassare la maniglia.

-Aspetta un attimo-

Lo voce del greco bloccò la mano a mezz’aria. Uno strano silenzio calò sulla sala.

-Feliks-, disse apaticamente quello.

-Dimmi, tesoro-, rispose l’Informatore, senza però voltarsi.

Heracles si alzò dalla sedia.

-Hai nessuna informazione sulla vera identità del Bokor?-

Le piccole spalle del polacco, incorniciate da lunghe ciocche bionde, si irrigidirono.

Da dietro la stipite, Antonio vide chiaramente la presa sulla maniglia farsi più stretta, tanto che le nocche sbiancarono. Come un lampo, le labbra del ragazzo si dischiusero, s’incurvarono verso il basso, emisero silenziose parole di dolore e tristezza. Ma, come quella ombra comparve, così fu risucchiata da una risata frivola e leggera.

-Mi spiace tesoro-, cinguettò, prima di chiudere la porta dietro di sé,-ci vorrà molto più di un vestito per scoprirlo!-

Antonio scattò, iniziò a correre verso il corridoio opposto, prima che l’Informatore scoprisse la sua presenza.

Non aveva capito molto quel discorso, dopotutto, era affari che riguardavano Heracles.

Sorrise, compiendo ampie falcate verso est.

Bene, a quanto pare il piccolo Feliciano aveva veramente un fratello, un fratello di cui ora conosceva l’ubicazione, un fratello straordinariamente simile a lui.

 Uno strano ghigno si formò sul viso abbronzato del moro, che percorreva a tutta velocità la distanza che lo separava dalla sala principale.

 

L’albino camminò, il capo chino, rifiutandosi di osservare le strette pareti, che parevano costringere chiunque le percorresse verso un’unica direzione, senza vie di fuga. Fu costretto ad aprire gli occhi, però, quando sentì i piedi cozzare contro qualcosa di duro, un lieve clangore metallico risuonò nella sua mente come il suono del diavolo. Con gli occhi sbarrati, ripercorse le porte grigiastre, gli anelli della catene, le sbarre.

Tentennò di nuovo. E ora?

Cercò di controllare il tremito delle mani. Tanto valeva tentare, ormai giunto lì. Sarebbe stato guardingo, e avrebbe usato la Scelta appena avesse avvertito le spire di dolore avvolgerlo di nuovo. Facendosi coraggio, bussò delicatamente.

-Ehi…-

Sentì qualcosa muoversi, frusciare, rumore di vestiti strofinati.

-…cosa vuoi? Vattene…-

Con una certa eccitazione, del tutto immotivata, sentì di nuovo quella voce. Era impastata, le parole articolate con fatica, come quelle di un ubriaco.

-Non voglio farti alcun male…-, tentò l’albino.

Una risata provenne da dietro le ante. Gilbert sentì la pelle sotto la felpa accapponarsi.

Quel suono aveva qualcosa di strano: era roco, ma questa non era una caratteristica naturale, era come se la gola si sforzasse dopo una lunga inattività. Ma non fu questo a impressionarlo: la voce era, se era possibile usare questo termine, bambinesca. Eppure qualcosa stonava: nessun bambino avrebbe potuto pronunciare un verso così ambiguo, quella risata non trasmetteva spensieratezza e purezza ma, anzi, sembrava addirittura di scherno.

-Tu non potresti farmi alcun male~-

Quella contrapposizione, il tono dolce e infantile, e il contenuto di quelle frasi, fece tremare il tedesco.

-Forse dovresti preoccuparti un po’ più per te~-

Gilbert fece quello che faceva sempre quando si sentiva attaccato: rise spavaldo, nascondendo il tremito della voce dietro sicurezza ostentata.

-Tu non sai con chi stai parlando!-, berciò, -io sono Gilbert, il Magnifico!-

Un momento di silenzio, in cui il tedesco si pentì amaramente del suo gesto: si sarebbe aspettato da un momento all’altro un attacco di quel mostro invisibile.

Invece, lasciato completamente di stucco, risentì quella risata.

-E dimmi, signor Magnifico-, disse allegro, -come ti difenderesti se ti attaccassi di nuovo, e questa volta ti uccidessi~?-

Gilbert rimase in silenzio, inquietato da quella falsa innocenza.

Passarono così vari minuti, in cui nessuno dei due pronunciò parola.

-Ehi, Magnifico-, si udì di nuovo la voce, con una nota che pareva vagamente allarmata, -sei ancora lì…?-

L’albino si rese contò di essere di fronte un bivio: poteva ignorarlo, girare i tacchi, percorrere più chilometri tra lui e quella maledetta porta, e lasciarsi tutto quello alle spalle; oppure… Oppure.

-Sì, sono qui-

La voce parve sollevata.

-In che anno siamo?-

Gilbert spalancò la bocca, basito. Una domanda davvero inaspettata. Si chiese da quanto tempo fosse chiuso là dentro.

-Siamo nel 1902, dicembre 1902-

Sentì chiaramente provenire dalla porte opposta un suono strozzato, quasi un sussulto.

E il silenzio calò nuovamente.

Gilbert rimase lì impalato, indeciso sul a farsi. Non sapeva neanche perché si trattenesse ancora lì, non ce ne era motivo. Questa consapevolezza lo colpì come uno schiaffo in pieno volto.

Barcollò, indietreggiò.

-Io…-, balbettò, la mente in prende alla confusione più totale.

-…devo andare-

Poco più di un sussurro, non fu neppure sicuro che l’uomo lo avesse sentito.

Girò le spalle, e senza guardarsi indietro, si precipitò fuori da quel incubo.

-Signore…?-

La voce era incredula, costernata, non capiva.

-Signor Magnifico?-

Perché se ne era andato?

-Signore?-

Perché disturbarlo, per lasciarlo di nuovo solo?

-Signore!-

L’incredulità lasciò posto al terrore.

-Signore!!!-

Al terrore sopraggiunse il dolore.

-Gilbert!-

Batte le mani sulle enormi ante che, parvero nella loro immobilità crudeli di fronte agli eventi.

-GILBERT!-

E la voce continuò a chiamarlo, e le volute di ombra furono inconsapevoli testimoni del dramma che, da lì o poco, li avrebbe resi protagonisti.

 

Il piccolo giapponese si torceva le mani, mentre il bibliotecario, emettendo un lungo e stanco sospiro, si alzò dalla sedia, scrollandosi dagli ampi pantaloni kaki la polvere della stanza.

Gli occhi di Kiku lo scrutavano, ansiosi. Perché quel silenzio? Non capiva di quella strana aria assorta, quella strana ruga che gli solcava la fronte, di solito liscia e marmorea.

Stancamente, il castano si diresse verso lo scrittoio.

-Kiku-, disse buttandosi sull’ampia poltrona dietro il mobile.

La testa dell’asiatico scattò verso quella figura, dalle linee così forti, che pareva essere però prosciugata di tutta la sua vitalità. Il gatto bianco saltò sul grembo del ragazzo, che accarezzò il candido pelo con le mani guantate.

-Non ucciderlo…-, sussurrò, totalmente atono.

Un sorriso pieno di speranza illuminò il giapponese. Forse, nonostante tutto, in quel corpo scorreva ancora un briciolo di emozioni?

-…almeno per ora-

I muscoli del viso, prima sciolti in un caldo sorriso, s’irrigidirono.

-Voglio delle spie che lo seguano, voglio un completo resoconto di tutti i suoi viaggi e un costante aggiornamento delle sue soste delle città.-, mormorò, gli occhi fissi in un punto imprecisato della parete.

Kiku tentenno, per poi esalare un’una unica frase.

-… cosa hai in mente…?-

Il greco ignorò bellamente quella domanda.

-…dobbiamo essere pronti all’attacco del Bokor…-

Kiku non insistette. Conosceva abbastanza quel testone, e sapeva che non si sarebbe mai confidato se non avesse avuto la completa certezza delle proprie teorie.

All’improvviso, un pensiero gli attraversò la mente.

-Aspetta-, disse il moro concitato, -e tutti gli altri? Quelle persone uccise dagli zombi? Se Vargas-kun continua a viaggiare, altra gente verrà uccisa!-

Heracles continuò ad accarezzare il morbido mano del gatto, che emetteva fusa soddisfatte.

Kiku odiava quel silenzio. Lo aveva sempre odiato. Era un silenzio che colmava le loro distanze, spingendolo sempre più lontano da lui.

-…per ora non possiamo fare altro per loro…-, disse semplicemente il bibliotecario.

Kiku aprì la bocca per ribattere, una mano si alzò fulminea, un gesto in procinto di accusarlo. Ma poi, lentamente, venne abbassata, fu abbandonata mollemente lungo il fianco.

Guardò tristemente il ragazzo, che sembrava essersi completamente distaccato dal presente, gli occhi che vedevano e non vedevano, che attraversavano le assi di legno della sua biblioteca.

Quelle iridi, vuote e colme di nulla, distruggevano la sua speranza che rinasceva ogni giorno.

 

 La porta fu aperta con energia, ne emerse una esile figura bionda. Fischiettando, Feliks chiuse l’uscio con un calcio, mentre ammirava il nuovo vestito di seta rossa che teneva stretto tra le braccia. Saltellò fino al letto, distese quella seta così lucida, così bella, sulle coperte di velluto color salmone. Emise un breve strillo acuto, portandosi i palmi delle mani sulle guance accaldate, ancora incredulo: finalmente lo possedeva, quanti mesi, quante conoscenze aveva dovuto usare per ottenerlo!

Lo riafferrò, non riuscendo ad abituarsi a quella sensazione assolutamente fantastica, la stoffa che liscia scivolava con dolcezza contro i polpastrelli. Saltellò lungo l’ampia stanza, cantando, fischiando, felice oltre ogni dire.

Finché lo sguardo non cadde su quella fotografia.

Lentamente, le parole, l’entusiasmo scemarono, le labbra tese in un sorriso gioioso si chiusero. Le gambe, le braccia, le mani, prima in movimento, in febbrile agitazione, si abbassarono. L’Informatore fissò da lontano quel pezzo di carta e inchiostro, custodito in una semplice cornice, sul piccolo comodino vicino al letto.

Feliks girò la testa, rivolse uno sguardo enigmatico verso l’abito nuovo, per poi abbandonarlo tra le lenzuola sfatte.

Si avvicinò al mobile di noce, e, con delicatezza, come se si trattasse di un oggetto fragilissimo, prese quella immagine, le iridi verdi, prima brillanti, fissavano ora due bambini che sorridevano agli ignari spettatori, la loro felicità per sempre intrappolata tra il vetro e la carta.

Un ragazzino, o una ragazzina, difficile capirlo, dai capelli biondi, intrappolati in due alte code, lanciava uno sguardo malizioso al bambino che stringeva con forza tra le piccole braccia. Il povero malcapitato scuoteva il caschetto castano, e le iridi azzurre erano rivolte verso l’obbiettivo.

Feliks continuò a fissare l’immagine, scattata appena dieci anni fa, la fronte si corrugò, le dita strinsero con forza il portafotografie.

Non riusciva a distogliere gli occhi dalla figura minuta seduta accanto a quello che non era altro che se stesso nel passato. Non riusciva a smettere di fissare quel sorriso gentile, comprensivo, del bambino che aveva conosciuto tanto tempo addietro, non riusciva a sovrapporre quel viso tanto amato alle voci che giungevano alle sue orecchie.

Scosse la testa, ma lo sguardo era ancora incatenato a lui.

Possibile che fosse vero? Perché, perché lui?

Sussultò, quando sentì un improvviso rumore.

La testa scattò verso la porta, dove aveva sentito chiaramente dei colpi, come se qualcuno avesse bussato.

Appoggiò il portafotografie sul comodino con delicatezza, lanciando al suo indirizzo un ultimo sguardo affettuoso.

Poi, la sua espressione cambiò completamente. Con velocità sorprendente, afferrò un pugnale nascosto tra le ampie maniche della casacca di pizzo, e si avvicinò guardingo all’uscio. Il lavoro di Informatore aveva alcuni svantaggi, quali varie aggressioni da parte di coloro che preferivano che certe voci rimanessero segrete.

In punta di piedi, s’accostò al legno laccato, un’aura fatta di tensione copriva completamente i suoi muscoli. Con lentezza, sbirciò attraverso lo spioncino.

Il pugnale cadde sul pavimento, provocando un lieve clangore.

Non era possibile.

Con uno scatto fulmineo spalancò la porta. Gli occhi si sgranarono.

Era lui. Occhi azzurri, capelli castani.

Gli occhi gli si inumidirono.

Era proprio lui. Era cresciuto, ma non poteva che essere lui.

Il suo amico. Il suo migliore amico. Il suo migliore amico, scomparso dieci anni fa, senza lasciare alcuna traccia.

-Toris…-, bisbiglio Feliks, due lacrime che gli rigarono le guance accaldate.

L’uomo non mosse un muscolo.

-TORIS!-, urlò il biondo, slanciandosi e abbracciandolo con foga. Anche in quel momento il castano rimase completamente immobile, non proferì parola.

Il polacco strinse spasmodicamente l’amico contro di sé, singhiozzando senza controllo, alternando le lacrime a frasi sconnesse.

-Lo sapevo, lo sapevo che non potevi essere morto…! Io, io ho sempre sperato…! Toris, scusami, Toris, scusami di aver smesso di cercarti…! Toris!-

Infine si scostò, tentò di asciugarsi il viso con i palmi della mano, quel liquido salato che usciva dagli occhi, che in quel momento brillavano, luccicavano non della solita luce maliziosa, ma questa volta di felicità, di pura felicità.

-Dio, scusami…! Io, io…! Non so cosa mi sia preso…!-

Rise, mentre le lacrime non volevano smettere di uscire.

Il ragazzo ancora non parve aver intenzione di muoversi.

-Cosa fai lì impalato?? Forza, entra!-

Travolto da nuovo entusiasmo, lo strattonò per la manica del lungo mantello nero, e lo strascinò dentro casa, chiudendo dietro di sé la porta.

Sorrideva, sorrideva perché non ne poteva farne a meno, mentre lo conduceva all’interno dell’abitazione, raccogliendo dal pavimento qualche vestito abbandonato qua e là, e parlando a raffica, come un fiume in piena.

-Dopo tutti questi anni…! Tutti al villaggio ti avevano cercato, gli uomini hanno perlustrato il bosco, prosciugato tutte le dighe, setacciato il ritrovo dei lupi! Ma sembravi, tipo, volatilizzato, cioè scomparso nel nulla! Erano degli incompetenti, ecco cosa pensavo, come era possibile non riuscire a trovare un bambino in una città così piccola??-, si abbassò per raccogliere una gonna di raso e chiffon, -Appunto, mi sono dato da fare anche io! Ho iniziato a cercarti dappertutto, sai, proprio ovunque! Mi sono messo, tipo, in viaggio, per capire se in qualche villaggio vicino ti avevano visto! Pensa, non sono mai riuscito a trovare informazioni su di te, ma incappavo in così tante voci incredibili, di fatti misteriosi, sconosciuti, che la maggior parte della gente ignorava!-, qui tolse un paio di collant che pendevano da un’alta lampada, -E man mano che procedevo, entravo in possesso di un numero sempre, sempre più grande di notizie! A un certo punto, mi sono detto: “Ehi, Feliks, perché non sfrutti tutta questa tua conoscenza?”! Cioè, capito?? Grazie a te, ho trovato pure la mia vocazione!-

Rise, portandosi una mano alla bocca, mentre spintonava il ragazzo da una parte all’altra della stanza.

-Per questo mestiere, bisogna anche essere dotati, però…! Pensa che a volte mi sono imbattuto in voci davvero ridicole! Tipo, avrai sentito parlare delle Maschere Nere e dei morti viventi?-

Si voltò per vedere il suo viso, ma non si accorse dell’ombra che gli attraversò gli occhi. Si rigirò e continuò, inarrestabile.

-Ecco, proprio quelli! Cioè, la gente ne parla in continuazione! Non fa che dire “Ho visto un morto qui, un pezzo di cadavere là, un losco individuo dall’altra parte”. Davvero, le persone sono tali pettegole, amano inventare notizie! Pensa, che alcune continuano a sostenere di aver visto un ragazzo dai lunghi capelli castani e dagli occhi azzurrissimi che comandava questi morti viventi!-

Rise, di nuovo. Ma, per qualche strana ragione, questa volta il suono era più forzato, leggermente incrinato, un dubbio cacciato con tutte le proprie forze dal cuore.

-Non ci crederai mai, ma, tipo, per un brevissimo istante, credevo che stessero parlando proprio di t-

La sua ultima parola morì in un fiotto di sangue che uscì dalle labbra.

Per una seconda volta, sgranò gli occhi. Incredulo, si tastò allarmato il petto, da cui sentiva provenire uno strano calore.

Sussultò, quando sentì una lama spuntare tra le sue carni. Una terribile consapevolezza, la coscienza che il suo cuore, quel muscolo che pompava vita, era stato trafitto, lo assalì in tutta la sua crudeltà. E una verità ancora più orribile, più dolorosa della stessa fredda lama, lo colpì quando si girò.

Toris teneva stretto tra le mani il pugnale che poco fa aveva lasciato cadere all’ingresso. Lo stesso pugnale che adesso lo stava uccidendo.

Rantolò, quando quello spinse il coltello più in profondità.

-Perché…?-

Il pugnale, con una singola e fulminea mossa, fu estratto dalla sua schiena. Feliks si accasciò sul pavimento, dal cuore sbocciò un fiore vermiglio.

-Perché, Toris…?

Una mano strinse spasmodicamente il muscolo che, disperato, batteva più forte, in una inutile corsa contro il buio.

-PERCHÉ?-

Quegli occhi lacrimanti urlavano, gridavano, più di quanto ormai gli permettevano le sue forze, che fuggivano via inesorabilmente.

-PERCHÉ TORIS?-

Prima che potesse dire altro, il Bokor squarciò la sua gola con un solo gesto. La testa si reclinò indietro innaturalmente, il sangue guizzò, inondò il mantello scuro.

Per un interminabile momento, gli occhi del polacco fissarono quelli del ragazzo davanti a sé, rividero l’amico di dieci anni fa, e piangevano, piangevano lacrime di incomprensione, di dolore e di sangue.

Finalmente, la testa si accasciò sul suo letto di petali rossi, in una pozza di liquido cremisi. Il castano lanciò il pugnale sul cadavere del suo unico vero amico.

-Mi spiace, Feliks…-, sussurrò, girandosi, suggellando per sempre il loro ultimo incontro.

-… ma ho trovato qualcuno più importante da proteggere-

 

Note d’Autrice

 

Ehi, ragazzi, perché mi guardate così? Eh-ehi, perché, mi state legando…? O.O Perché tirate fuori quelle asce…? ALT, NO, FERM…! AAAAAARGH!!!

No, davvero, non uccidetemi! ç.ç Io ADORO Feliks, la prima volta che l’ho visto ho esclamato: “Cavolo, Feliks is a fuckin’ sexy bitch!!!”. In pratica, quindi, lo adoro. Ma essendo io un’anima diabolica contorta, mi piace far soffrire i miei personaggi preferiti. MOLTO. Per favore, non odiatemi per questo!!! ç__ç

Comunque, per l’amor della chiarezza, ecco una delucidazione: durante l’incontro con Kiku e Heracles, Feliks ha saggiamente glissato sulle domande sul Bokor, concentrandosi esclusivamente su Lovino. Questo perché aveva sentito delle voci che descrivevano la figura del Bokor, e questa coincideva straordinariamente on quella del suo migliore amico scomparso dieci anni fa. L’Informatore vuole credere con tutto il cuore che queste voci siano false, ma tutti sappiamo come è andata a finire! (sob)

Ah, il titolo del capitolo, “My sweet prince”, è una canzone dei Placebo, bellissima, che vi consiglio di ascoltare mentre leggete l’ultima parte del capitolo. PIANGERETE, ve lo assicuro.

Detto questo, vi saluto, alla prossima! :D

P.S. Avete capito chi è nascosto dietro la porta, vero?

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Capitolo 13
*** All this time we were waiting for each other ***


-E QUESTO COSA DIAVOLO VORREBBE SIGNIFICARE??-

Kiku non dovette chiedersi da chi fosse pronunciata quella frase, grondante d’ira, scoppiata d’un tratto tra i bassi brusii.

Il giapponese vide Francis nascondere un sorriso malizioso dietro le lunghe dita affusolate, lanciando uno sguardo significativo al proprio vicino, un’occhiata che stava a significare che non ci si sarebbe potuto aspettare niente di meno da parte di Arthur Kirkland.

Sentì anche un leggero sbuffo spazientito provenire dalla sedia accanto, e vide Alfred gonfiare le guance, come un bambino capriccioso.

Ma la sua attenzione fu rivolta subito al bibliotecario. Lo conosceva bene, troppo, e sapeva che, se non sopportava qualcosa, era proprio quella di essere interrotto nel mezzo di una arringa.

-Come ho già detto-, riprese Heracles, una leggera sfumatura di irritazione tra le parole piatte, -il pericolo di un attacco improvviso da parte del Bokor sta aumentando vertiginosamente. È necessario quindi che tutti noi prendiamo i necessari provvedimenti-

Le iridi, di un pallido verde scialbo, questa volta, scivolarono su tutti i volti dei presenti, riuniti nella sala principale.

-Per questo, è indispensabile che tutti voi impariate l’utilizzo bellico del vostro Dono. Inoltre, specialmente i nuovi arrivati-, e gli occhi si soffermarono sul viso irato dell’inglese, -hanno l’obbligo di procurarsi e specializzarsi nell’utilizzo di un’arma, nel caso d’inesperienza  nell’impiego del suddetto Dono-

Una risata sguaiata partì da in fondo alle file. Alfred s’agitò sulla sedia, percorso da un fremito eccitato. Estrasse dalla fondina le sue fidate Colt Navy, e iniziò a rotearle, utilizzando l’indice come perno.

-E CHE CAZZO ME NE FREGA DI ALLENARMI! IO NON PERDO CERTO TEMPO IN QUESTE CAZZATE!-

Kiku vide il bibliotecario roteare gli occhi esasperato. D’un tratto, però, la scenata dell’inglese fu interrotto da una voce melliflua.

-Mio piccolo passerottino, non essere in imbarazzo-, uno sguardo allusivo si adagiò sul viso del chitarrista, -non tutti hanno esperienza nel maneggiare pistole…-

Il tono provocante, il sorriso provocante, la gamba accavallata provocantemente, fecero andare a fuoco le guance del ragazzo. Dal fondo della stanza eruppe di nuovo quella risata rauca e rozza.

-Ma non preoccuparti…-

Arthur sentì una mano scivolargli languida lungo la coscia.

-…con un po’ di allenamento si può rimediare a tutto…-

Francis non poté prevedere che, nonostante la palese incapacità nell’ambito delle armi di fuoco, l’inglese avesse una precisione e una potenza tale da riuscirlo a scaraventare qualche metro più in là, semplicemente sbattendogli con poco grazia la sedia pieghevole, su cui era seduto poco fa, sulla mascella.

Alfred, di fronte a quella scena, scoppiò a ridere, di quella sua risata bambinesca e squillante.

-Ha ragione Artie!-, esclamò del tutto candidamente, -Guarda me! All’inizio, non sapevo da che parte cominciare, ma ora…! Per quanto riguarda pistole, non mi batte nessuno!-

Per quanto possibile, Arthur arrossì ancora di più. Ma possibile che quell’idiota non avesse capito cosa intendesse quel decerebrato francese??

Da dietro, nelle ultime file, si sentì un tonfo: Gilbert era caduto dalla sedia, e la sua mascella stava seriamente rischiando di slogarsi.

L’inglese lanciò uno sguardo furioso prima all’indirizzo del francese che, nonostante l’intontimento della botta, continuava ad ammiccare, poi verso Alfred, che non pareva intenzionato a smettere di sorridere, a quanto pare del tutto ignaro delle oscenità appena pronunciate.

Infine, con passo furente, si avviò verso l’uscita, fumando come una pentola a pressione.

Francis scattò in piedi, rincorrendolo.

-Aspetta, mio piccolo fioreeeee…!-

L’americano li fissò, incredulo, scomparire tra le ombre del corridoio, per poi scattare in piedi e catapultarsi nella loro direzione.

Kiku vide Hercles tirare un sospiro di sollievo, e sembrò intenzionato a sedersi sulla sedia posta dietro di lui. D’un tratto, le iridi chiare scattarono verso la prima fila di sedie: Feliciano, con aria crucciata e molto imbarazzata, aveva alzato incerto una mano, e ora fissava il bibliotecario, in attesa di un suo cenno.

-Dimmi, Feliciano-

L’italiano abbassò gli occhi, sfregò tra sé i palmi delle mani sudate, le gote leggermente arrossate.

-Emh, si… Ecco, volevo chiedere se, insomma…-

Prendendo un po’ di coraggio, alzò la testa, indugiando un poco sull’espressione assolutamente inperscrutabile del castano.

-Coloro che non hanno un Don-, volevo dire, che non sanno usare il Dono, cosa dovrebbero fare…?-

-Motivo in più per allenarsi-, rispose prontamente l’altro, -e motivo in più per imparare a utilizzare un’arma. Ludwig ti aiuterà nella scelta-

Il rosso emise un gemito: in tutta la sua vita, non aveva mai toccato lame, lance, o qualsiasi creato appositamente per ferire. Non aveva neanche la forza necessaria per utilizzare correttamente il coltello a tavola, incapacità che lo portava a chiedere lamentosamente l’aiuto del tedesco.

E proprio verso il tedesco lanciò uno sguardo di supplica, come un silenzioso invito a far ragionare il bibliotecario. Da dietro le lenti, intravide un severo cipiglio, ma la linea dura delle labbra si sciolse per un secondo un piccolo sorriso di incoraggiamento.

-Se avete finito di blaterare-, esordì con poca grazia l’albino, alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi rumorosamente, -io mi tolgo dalle palle!-

Varcando l’androne del corridoio, sentì indistintamente una ultima esortazione del castano ad allenarsi di più. Quando fu a distanza di sicurezza, il sorriso strafottente morì sulle labbra, che ora pendevano verso il basso. Sbuffò, affondando i pugni nelle tasche dei pantaloni.

Allenarsi di più, ma figuriamoci! La sua magnifica persona non aveva bisogno certo di una ulteriore dose di lavoro! La sua mente era già abbastanza affaticata da…

Scosse la testa, scacciando quel pensiero che era in procinto di sbocciare. Andò alla disperata ricerca di qualcosa su cui rimuginare, tutto pur non cadere di nuovo dentro quella voce che lo ossessionava. E si ritrovò a pensare ad Antonio e Francis.

Un piccolo ghignò si riformò sul bianco viso. Lui, insieme a quei debosciati dei suoi migliori amici, era, modestamente, uno dei migliori guerrieri che l’Aletheia avesse avuto l’onore di possedere! Quella riflessione, stranamente, ne strascinò con se un’altra. Ora che ci pensava, neanche quel giorno Antonio si era presentato. Ma diavolo si cacciava da una settimana a quella parte?

 

Lovino indugiò un poco su quel viso sporco, rugoso, la bocca spalancata, priva di denti, grondante sangue, la pupilla che, lentamente, ruotò, le orbite che ormai mostravano solo il bulbo giallastro percorso da sottili capillari.

Degnò quel pezzente di un ultimo sguardo carico di disprezzo. Aprì i pugni che stavano stringendo i lembi della camicia sudicia. Il corpo fetido dell’uomo si afflosciò sul pavimento della locanda, tra i resti della maggior parte della banda.

Lentamente, alzò gli occhi, che incontrarono quelli dei pochi compari che, addossati alle zozze pareti, tremavano violentemente. L’italiano storse il naso. Spazzatura. Nessuno di quei morti di fame sapeva nulla. Ancora.

Drignò i denti, un lampo di pazzia attraversò le iridi dorate, qualcosa che inchiodò quei miseri umani sul loro posto. Alcuni di loro piagnucolarono, altri chiesero sommessamente pietà per la loro vita. Questo mandò solo più in bestia il moro. Pezzenti. Straccioni. Canaglie. Non avevano dignità, stavano strisciando, si mostravano in tutta la loro inutilità.

Con quella maschera di follia, avanzò di un passo verso di loro, furioso, gli occhi che bruciavano. I criminali si strinsero più tra loro, come a cercare un riparo di carta di fronte alla tempesta.

Un ghigno maligno, insano, si dipinse sul viso del ragazzo, mentre alzò su di loro il pugnale.

Nulla li avrebbe risparmiati. Questo pensava. Eppure, si fermò, di botto.

Una risata, allegra, solare, squarciò la tetraggine della stanza.

L’italiano si voltò, sconvolto. Mai, fino a quel momento, nessun altro suono aveva mai spezzato quel ciclo infinito, nessun altro rumore all’infuori delle grida, dei sospiri sofferenti , del sangue che rigava le sue mani.

Rimase a bocca aperta, quando capì che quella risata era indirizzata proprio a lui.

E lo vide lì per la prima volta.

Seduto al bancone , entrambi i gomiti poggiati sullo sporco legno, una mano che accarezzava  un boccale incrinato. Un ragazzo dagli occhi verdi che sorrideva.

Non c’era dubbio. Stava guardando proprio lui. Lo fissava, uno strano sorriso sul volto. Strano, non seppe dire subito il perché. Forse il perché andava cercato semplicemente nella linea di quella bocca. Dietro non vi era scherno, malizia, malvagità. Ma non era neanche qualcosa che trasmetteva un immediato senso di pura felicità, di esultanza. Era il semplice gesto di curvare le labbra verso l’alto, nessun motivo comprensibile che lo spingesse a farlo.

-Che cazzo hai da ridere?-, sbottò, dimenticandosi momentaneamente delle canaglie addossate al muro.

Il ragazzo, al bancone, sembrò un poco stupito. Poi, sentì ancora quella risata calda, solare, nata senza uno scopo se non quello di diradare la tetraggine di quella stanza sotterranea.

-Non volevo offenderti-, disse, con un tono cordiale, e non abbandonando quel fottutissimo sorriso, -sono solo venuto qui a parlarti-

Lovino girò la testa, e sputò per terra. Lo guardò di nuovo. Lo trovava irritante, da morire. Cosa diavolo aveva da ridere, anche dopo che gli aveva risposto in quel modo?

-Se sei un altro lurido generale delle armate del Centro-, sibilò, di nuovo quel sorriso folle sulle labbra, -puoi anche riferire ai tuoi superiori questo-

E qui alzò il dito medio, scoppiando sguaiatamente a ridere.

-E digli anche che non entrerò mai nei vostri fottuti eserciti!-

Gli lanciò uno sguardo di sfida. Voleva proprio vedere se aveva ancora il coraggio di ridere. Ma quello cosa fece? Esatto, rise, rise!

Lovino assottigliò gli occhi. Lo odiava, lo odiava, lo odiava come non poteva credere di odiare.

-No, no-, scosse la testa quello, non toccato minimamente dalle sue parole, -sono un semplice viaggiatore, e vorrei parlare con te-

L’italiano lo guardò dall’alto in basso. Si, era muscoloso, ma non avrebbe avuto problemi a ucciderlo. Aveva affrontato avversari peggiori. Ma l’uomo sembrò scoraggiato dal suo comportamento ostile, anzi, continuava a ridere, cordiale. Si chiese se non lo stesse prendendo in giro.

-Tsk! Non ci sarebbe neanche gusto ad ammazzarti!-

Come poteva uccidere un idiota che continuava a sorriderti anche dopo averlo minacciato? Irritante, irritante, decisamente.

Lanciò un ultimo sguardo sprezzante verso i criminali, che per tutto il tempo avevano assistito tremanti a quello scambio di battute. Questi si rannicchiarono più che poterono contro la parete, iniziano a lamentarsi. Già, proprio spazzatura.

Mosse un passo verso le scale, che lo avrebbero ricondotto tra le strette viuzze della città. Fu fermato di nuovo da quel fastidioso individuo.

-Ehi, aspetta!-, balzò in piedi, -ho detto che devo parlarti!-

L’italiano neanche si voltò, ma sibilò poche parole, in cui impresse tutta la crudeltà di cui era capace.

-Non mi abbasso a parlare a sacchi d’immondizia come te-

Si aspettò di sentir di nuovo quella risata. Invece, niente si mosse dopo le sue parole.

Stupito, si voltò. Questa volta, il volto dell’uomo sembrava sinceramente dispiaciuto.

Lovino si sorprese, ormai era convinto della limitatezza delle sue espressioni facciali.

Questo, sospirando, tornò a sedere, il dito percorse il contorno scheggiato del boccale. Sembrava proprio triste.

-Eppure volevo solo aiutarti-, mormorò mestamente.

-Aiutarmi?-, rise ironicamente l’italiano, -come può un idiota come te essermi d’aiuto?-

Il tono di scherno, però, si spense quando sentì le sue ultime parole.

-Io posso aiutarti a trovare tuo fratello-

 

 

-…e infine sostituisci al codice binario del terzo quadrante la nuova formula bilaterale. Se avrai qualche rigetto dalla scheda madre del processore, avvertimi immediatamente-

Feliciano osservava con curiosità quel ragazzo che annuiva remissivo di fronte agli ordini impartiti da Ludwig. Eduard von Bock. Durante il suo periodo di permanenza nell’Aletheia, aveva visto raramente la figura di quello strano individuo, e in tutte le occasioni lo aveva trovato chino sul computer, obbedendo docilmente alle istruzioni impartite dal tedesco.

Terminata la loro conversazione, l’estone si diresse trafelato verso la fine del corridoio. Feliciano si chiese il perché di quegli occhi costantemente sbarrati, il volto pallido, il corpo che tremava violentemente ogni qualvolta qualcuno notasse la sua presenza.

La mente dell’italiano si allontanò però da quel quesito, concentrandosi nuovamente sull’uomo davanti a sé.

-Ehi, Lud! È già la terza volta in questa settimana che torniamo qua!-

Il tedesco arrossì, ma, per fortuna, questo particolare fu nascosto dal forte riverbero del fuoco che, violento, colpiva il suo viso. Quelle parole erano state pronunciate dall’italiano con totale candidezza, mentre si dondolava avanti e indietro, osservando il biondo chino davanti ai meccanismi delle porte del Grande Fuoco.

Era stata una semplice osservazione, quella del rosso, ma il tedesco aveva pensato, per un attimo, che Feliciano avesse voluto sottolineare quella loro relazione, così, come dire, difficile da definire. Per certi versi ambigua, incerta, un sentimento che oltrepassava il confine con il quello vicino per un breve istante, per poi tornare indietro, come le onde del mare. Beh, l’unica parola che osava associare a quel legame era, sicuramente, speciale. Dopotutto, da quell’incontro di tre mesi fa, praticamente avevano vissuto in simbiosi: dove era uno, ecco spuntare all’altro accanto. Non che questa vicinanza gli dispiacesse.

-Umh, è vero…-, borbottò imbarazzato il biondo, cercando di distogliere la mente da quell’ultimo pensiero, concentrandosi sull’intrigato sistema di isolamento del portone.

Non che ci fosse nulla di male in quelle parole, si trovò a pensare. Per quanto quell’italiano potesse essere chiassoso, sfacciato, invadente, maldestro, piagnucolone, incapace, pasticcione, goffo, logorroico, incompetente, e… Emh, cosa voleva dire poi?

Udì distrattamente il motivetto che il rosso aveva iniziato a canticchiare, gironzolando lì intorno, allontanandosi di pochi metri, ma tornando sempre al suo fianco.

Per qualche strano motivo, però, quando quello strano ragazzino non era accanto a lui, sentiva la sua mancanza. Cioè, non che gli mancasse. O forse si. In realtà, non lo sapeva neanche lui. Quando vedeva quel buffo ciuffo spuntare dietro l’angolo, sentiva una parte di lui che, non sapeva spiegarlo razionalmente, lo aspettava. Non poteva trovare parole che spiegassero questo fatto scientificamente, lui che aveva eletto la razionalità come via suprema da seguire. Ciò che intendeva era che notava distintamente la sua assenza. Non era solo perché ormai era abituato ad avercelo sempre tra i piedi: era una presenza costante, era come respirare, è qualcosa che è sempre presente, una sapienza inconscia. Eppure nella realtà questo qualcosa è talmente scontato, da diventare invisibile, impalpabile.

Tuttavia, quando l’italiano scompariva, sentiva un improvviso vuoto dentro sé, tutto intorno. Esattamente come se fosse nato con una dolce melodia, un ronzio gentile che in cui era immerso sin dal primo respiro. Ma nel momento in cui la musica cessava, si fermava, la strada che percorreva priva dell’appiglio sicuro prima così ovvio e naturale.

-Certo che questi cosi sono davvero complicati!-

A Ludwig venne quasi un colpo quando sentì la voce di Feliciano accarezzargli la pelle dell’orecchio. Cercò di ignorare più possibile il viso del ragazzo, che si era chinato per vedere meglio l’intrigato intreccio di fili metallici che componevano il meccanismo di compressione della stanza. Il tedesco sentiva chiaramente la sua presenza accanto a sé, persino il calore del suo viso, ora tanto vicino al suo.

Intravide quelle iridi dorate sgranate seguire affascinate la sicurezza con cui le sue mani si muovevano tra quegli aggeggi freddi e scintillanti.

-Lud, ma perché ultimamente torniamo sempre qua~?-

Lo scienziato fu felice di immergersi in qualsiasi discorso, basta che lo distogliessero da quegli occhi, che lo fissavano con sfacciataggine e candidezza, inconsapevoli.

Alzò un dito, lo puntò verso la grande colonna di fuoco che respirava.

-Vedi quel fuoco?-, la sua voce bassa accompagnò un nuovo ruggito del Fuoco, -può raggiungere migliaia di gradi, una temperatura sufficiente a ridurre in cenere chiunque osasse minimamente avvicinarsi-

Gli occhi dorati seguirono la linea forte della mascella, continuarono verso il braccio muscoloso, si appigliarono lungo l’indice, per poi stazionarsi sulla colonna bruciante.

-Per questo è necessario che controlli ogni giorno le porte. Dentro la stanza, le pareti sono rivestite di un materiale resistentissimo, ma se ci fosse una falla nel sistema di isolamento, tutta la nave esploderebbe. Vedi quel bottone?-

L’indice si spostò su un quadrante al lato dell’entrata.

-Le porte in realtà sono due, una che precede di qualche metro l’altra. Con quel bottone si apre la prima. Varcata la prima soglia, questa si chiude autonomamente dopo pochi secondi. Poi, è necessario aspettare trenta secondi in questo piccolo spazio, per dare il tempo al sistema di raffreddamento di sigillare completamente l’interno dell’Altheia dalla Sala del Fuoco. Solo allora, si può aprire la seconda porta e entrare-

-Aspetta-, lo interruppe il rosso, -ma non hai appena detto che se qualcuno si avvicinasse al fuoco sarebbe ridotto in cenere?-

Ludwig sorrise, rilassandosi. Solamente parlando di meccanica e di scienze si sentiva tranquillo e sciolto, la lingua che articolava difficili discorsi, senza dover pensare ai sentimenti di qualcuno o alle conseguenze di qualcosa.

-Kiku ti ha già detto che il fuoco si può creare attraverso quelle bocche, vero? Aprendosi a un ritmo prestabilito, nella stanza si crea la combinazione di gas necessario a far nascere il fuoco-

Feliciano annuì.

-Ma secondo la chimica, la combustione lascia degli scarti. Anche per il Grande Fuoco, si creano tante particelle di vapore che, condensandosi lungo la parete, a lungo andare rendono impossibile la stessa combustione-

-Intendi quindi… l’acqua…?-, chiese incerto l’italiano.

-Esattamente. Per questo è necessario che, periodicamente, la nave atterri, per dare tempo alla stanza di asciugarsi per la prossima combustione. Questo avviene circa…ogni cinque, sei mesi, e, appunto, manca poco al prossimo atterraggio…-

Feliciano annuì, la bocca semiaperta, ammirando tutta la potenza di quelle lingue infuocate, ascoltando meravigliato il ruggito proveniente dalle lastre di vetro.

Con un sospiro, Ludwig chiuse il pannello di metallo. Raccolse i propri strumenti, li chiuse dentro una valigetta di cuoio. Infine si alzò, passando una mano sul collo indolenzito.

-Andiamo-, disse semplicemente, avviandosi verso la luce del corridoio principale.

Feliciano sorrise. Ludwig sentì e non sentì quella melodia risuonare nella sua mente, pronta a seguirlo ovunque.

-Si!-

 

Se ne erano andati, pensò.

Si era imposto di ignorare quei suoni, lasciarli scivolare, come una brezza gentile, innocua.

Gattonò verso le ante. Perché non poteva tornare tutto come prima? Fino ad allora non gli importava più nulla di coloro che gli si avvicinavano, inconsapevoli. Non gli importava più niente. Eppure, da quel giorno…

Appoggiò un orecchio al freddo metallo, rimanendo in ascolto, sperando di risentire quella voce.

Forse avrebbe dovuto chiedere a quelle persone, là fuori? Perché le aveva lasciate andare?

Si scostò lentamente, barcollando tornò nel suo angolo.

Prima che quella voce lo richiamasse, lui era come morto. E come i morti, aveva il conforto del sonno.

Sentì un piccolo ago conficcato nel cuore.

Perché riportarlo alla vita, per poi lasciarlo da solo?

Strinse le gambe contro il petto, infossando la testa nella calda lana. E aspettò, finché le tenebre, misericordiose, lo riavvolsero.

 

 

Note d’Autrice

 

Buongiooooorno a questo giorno che, si sveglia oggi con meeeeeee! Buongiorno al latte e al caffèèèèèèèè, buongiorno a chi non c’èèèèèèèèèèè!

*un libro di anatomia random (ma anche no) colpisce la capoccia dell’Autrice*

Ahio! Va bene, va bene, ho capito, passo subito al commento!

Che dire, se non che i capitoli diventano sempre meno dinamici? .___:’’’ Vabbè, prometto che tra pochissimi capitoli, i fatti diventeranno molto più interessanti! (e per interessanti intendo sangue, sbudellamenti e sciocchezzuole simili)

Beh, è apparso un nuovo personaggio. Strano. E si, è proprio Estonia. Che ruolo avrà nella storia? Lo scoprirete presto!

Piccolissima precisazione: Romano nomina gli eserciti dei paesi del Centro. Spiegazione: ormai il piccolo Romanito si è fatto una certa fama, e ai comandanti dei ducati farebbe molto comodo in guerra un pazzo assasin- emh, un combattente freddo e razionale.

Vedo che stanno spuntando sempre più ipotesi sull’identità dell’uomo misterioso… Bene, bene, continuate a spremervi le meningi!!!

Il titolo del capitolo viene dalla canzone dei One Republic, “All this time”. Che ci posso fare, quando c’è un po’ di GerIta divento una romanticona! >.< Una scelta casuale? Io dico proprio di no!

Emh, e ora arriva una brutta notizia. Ho deciso di spostare le date di pubblicazione: invece d ogni lunedì, pubblicherò l’1 e il 15 di ogni mese. Questo perché, oltre ai miei impegni sempre più crescenti, vorrei avere il tempo di scrivere capitoli più corposi, altrimenti non arriverò mai al punto!

Su, su, non fate quelle facce! Per farmi perdonare, ecco un regalino:

http://leroro1805.deviantart.com/gallery/31291750

http://hullabaloo1805.livejournal.com/

Non sono niente di che, ma spero che vi facciano piacere!

Detto questo, alla prossima! :D

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Capitolo 14
*** Loneliness ***


Nel buio della propria stanza, Gilbert si rigirò tra le lenzuola, ancora, ancora, e ancora. Con uno sbuffo, calciò via le coperte, e si mise seduto sul materasso. Passò entrambi i palmi delle mani sul viso, soffermandosi sugli occhi, stropicciandoli e disegnando ampi cerchi sulle palpebre.

Aveva fatto di nuovo quel sogno. Si stirò, si scompigliò i capelli. Dopo quell’ultimo incontro con-, cioè, dopo che si era ritrovato casualmente di fronte a quelle ante di metallo, sognava. Sognava ogni volta il proprio passato.

Sospirò seccato, si ributtò stancamente sul cuscino. Non capiva cosa diavolo stesse succedendo, non era mai successo. Da quando aveva lasciato Berlino per entrare nell’Aletheia, mai le sue notti erano state interrotte in quel modo. E non sapeva neanche il motivo. La sua vita di prima non gli mancava per niente.

Eppure… Sentiva che c’era qualcosa in quei sogni. Era come se qualcuno, da qualche parte, gli volesse dire qualcosa. Quel susseguirsi di immagini e suoni confusi sembrava suggerirgli qualcosa: forse un particolare, un gesto, non lo sapeva. L’unica consapevolezza, seppur ancora incerta  e tremante nella sua mente, era la certezza che quei sogni non erano casuali. Quando riviveva le emozioni provate di fronte a quella porta di ferro, una sensazione, un deja-vu, si faceva largo dentro di sé.

Si raggomitolò su un lato, e davanti gli occhi socchiusi, rivide davanti a sé il se stesso di tanti, tanti anni fa.

 

-Gilbert, questo è il tuo fratellino, non è meraviglioso?-

Gilbert vide quel fagotto tra le braccia della madre, che scostava con amorevolezza i lembi del lenzuolo che avvolgevano il neonato. Gli avevano detto che si chiamava Ludwig.

Si sporse, si alzò in punta di piedi per riuscirlo a vederlo meglio.

Il suo primo pensiero fu chiedersi perché ci fosse stata agitazione per il suo arrivo: era solo un coso grinzoso, rosa, che non faceva altro che aprire e chiudere le piccole mani, e gorgheggiare.

Rimase, però, incantato quando quello si voltò verso di lui. Non aveva mai visto qualcosa di tanto bello: due specchi lucenti lo guardavano, limpidi, chiarissimi, abbaglianti.

Aprì la bocca, meravigliato. Si ricordò in quel momento di aver allungato le mani, di essersi sbracciato per riuscire a prenderlo. Nella sua mente di bambino di sei anni, sentiva il diritto di prendere quella cosa, quella cosa così meravigliosa, voleva per sé quei due specchi. Ma la madre si scostò, strinse il fagotto al petto, allarmata.

-No, Gilbert, sei ancora troppo piccolo!-

Gilbert spalancò la bocca, iniziò a urlare, strepitare. Si sentiva la vittima di una terribile ingiustizia. Di fronte all’egoismo infantile, nessuna ragione, nessun discorso logico aveva speranza.

Il ricordo che seguì era terribile: con una mossa inaspettata, una mossa che la madre non aveva previsto, afferrò il fagotto, lo strinse a sé, e iniziò a correre e saltare per la stanza. Rideva, mentre la madre si affannava a seguirlo. Si fermava per qualche istante, il tempo necessario alla donna a sperare di poterlo raggiungere. Poi, come questa alzava le mani verso di lui, il bambino sgusciava via, strillando gioiosamente. Infine, ricordò l’improvvisa entrata del padre.

Uno schiaffo violento, che ebbe la forza di fargli perdere l’equilibrio, e per un attimo tutto divenne buio.

La prima cosa che rivide, fu la madre che stringeva a sé il neonato, che aveva iniziato a piangere disperatamente.  E vide gli occhi del padre. Quello sguardo di cui ogni figlio aveva il terrore: il disprezzo, la consapevolezza della delusione.

Quel primo ricordo era così vivido dentro di sé, perché era stato l’esatto momento in cui aveva iniziato a odiare suo fratello.

 

Suo padre era un ambasciatore, perciò Gilbert aveva a disposizione appena qualche mese per fare amicizia con gli altri bambini, per poi doverli salutare frettolosamente. Dopo il terzo trasferimento dalla nascita di Ludwig, smise di tentare. Passava tutti i giorni a ciondolare per casa, con la madre che non aveva occhi altro che per il fratellino.

Lo odiava sempre di più. Lui non gridava mai, non correva mai, non andava mai male a scuola, non faceva mai arrabbiare mamma e papà. Li sentiva i grandi, non facevano altro che chiedere a mamma e papà come avessero fatto ad avere uno come lui: lui era cattivo, disubbidiente, maleducato. E poi vedeva lo sguardo di suo padre, in cui rivedeva i commenti dei grandi.

Così passarono parecchi mesi, forse anni, in quella inerzia, in quel odio.

Ma un pomeriggio tutto questo cambiò.

Era seduto sul davanzale della finestra, ne era sicuro. Stringeva al petto un ginocchio, l’altra gamba ciondolava pigramente, sfiorando il pavimento. Dall’altra stanza sentiva la madre che elogiava il fratellino: anche quel giorno la maestra si era congratulato con lui.

Assottigliò gli occhi, tirò un calcio al muro, rabbioso.

Improvvisamente, la sentì. Alzò la testa, scattò verso il vetro della finestra. Una melodia, bellissima, proveniva da fuori. Si sollevò, le mani si appoggiarono sul davanzale, la fronte si accostò al freddo vetro.

Nell’altro palazzo, separato dall’ampia strada, un ragazzo suonava, seduto al suo pianoforte.

Il bambino socchiuse la bocca.

Il ragazzo, una figura esile, fasciata in abiti eleganti, aveva gli occhi socchiusi, le labbra erano morse delicatamente. Non sapeva come, ma poteva intravedere dietro le lenti dei sottili occhiali le palpebre che vibravano leggermente, il viso che si corrucciava un poco, le mani che danzavano, correvano, carezzavano i tasti bianchi.

Fissò quella figura, così delicata, dondolarsi, come trasportata dal dolce vento di quelle note. E la melodia era dolce, bella, triste. Era come il miele, era come vedere un tramonto, era come ridere tra le lacrime. Questo era quello che confusamente pensava mentre si sporgeva sempre di più contro lo specchio.

Quello divenne il suo appuntamento quotidiano. Era il suo personale spettacolo, era convinto che quel ragazzo suonasse solo per lui. Aveva qualcosa di magico, era un uccello che rinchiuso nella sua gabbia che cantava, raccontava della sua tristezza, un po’ malinconico, un po’ orgoglioso. Era come una favola, era come la donna rinchiusa in una torre inaccessibile, che affidava le sue speranze alla propria voce e al vento.

Gilbert si convinceva che un giorno sarebbe uscito, avrebbe salito le scale fino al terzo piano, avrebbe aperto la porta, e finalmente lo avrebbe incontrato. E gli avrebbe chiesto perché suonava tutti i giorni, perché la sua melodia era così bella, ma così triste. E si cullava in queste illusioni, continuando ad ammirarlo da lontano.

Un giorno, però, qualcosa cambiò.

Si affacciò alla finestra come tutti gli altri giorni, ma subito avvertì un cambiamento, un particolare che si era aggiunto a quel quadro pittoresco.

Una ragazza, dai lunghi capelli castani, era in piedi sul marciapiedi, sotto la finestra del pianista. Gilbert assottigliò gli occhi, per studiarla meglio. Indossava abiti poveri, da proletari, e tra le mani aveva un mazzo di fiori, grande e colorato. Vide che affondava il viso tra i delicati petali rosa, e con sguardo sognante ammirava il ragazzo che, ignaro, suonava la sua melodia.

Il bambino si stupì di se stesso: aveva immaginato di provare qualche sentimento come l’invidia, la gelosia, il senso di possesso, proprio come quando era nato il fratellino. Ma non avvenne niente di tutto questo. Inconsciamente, senza averne una reale consapevolezza, il bambino pensava che quella scena era proprio bella. Quei due, un ragazzo e una ragazza, erano due elementi che bilanciavano perfettamente il tutto. La strada, la finestra, il rumore dei passanti, il profumo dei fiori, la musica, lo sguardo della ragazza. Quella sconosciuta così immersa in quelle note, che si lasciava accarezzare dalla melodia, incurante di coloro che le passavano accanto. Lei vedeva solo lui, sentiva solo lui. Il ragazzo, incosciente di tutto questo, prigioniero in una cupola di vetro, cantava dei suoi amori e delle sue pene, e la musica sembrava essere nata solo per lei. I due erano delle pennellate di argento, una leggera polvere d’oro che si adagiava sul grigiore dei tetti viennesi.

E quella scena continuò per chissà quanto tempo. Gilbert si accontentava di guardarli da lontano, non osando incrinare quella perfezione di vetro. Sentiva di stare condividendo qualcosa con quella ragazza. Lei era parte di quel magnifico quadro, che solo lui pareva in grado di vedere e ammirare.

Ma niente dura per sempre. In un giorno come tanti, tornò ad affacciarsi alla finestra, ma la melodia era scomparsa. Il pianoforte ora non era più avvolto di dolce magia, ora che il pianista non c’era più. Era lui il mago che incantava quei semplici tasti bianchi? Gilbert si chiese che fine avesse fatto. E la ragazza continuò a tornare, aspettando che lui suonasse per lei. Passò almeno una settimana, e la ragazza aspettò ogni giorno che il suo musicista tornasse. Poi, scomparve anche lei.

Gilbert non seppe mai dove fossero andati, se alla fine si fossero incontrati, se lei gli avesse rivelato il loro piccolo segreto. Chissà. A Gilbert piaceva sognarli, lui che continuava a suonare il suo pianoforte, e lei che finalmente lo ascoltava. Ma seduta accanto al suo pianista.

 

Dopo altri mesi di assoluta inerzia, Gilbert si stancò.

Nessuno, né sua madre, né suo padre, si era accorto del suo piccolo segreto. Anzi, non si erano accorti minimamente di lui. Tutti gli occhi erano addosso al fratellino, ormai diventato uno studente perfetto, un figlio ammirevole, un modello per tutti i ragazzi. E la sua rabbia e la sua invidia crebbero a dismisura. Desiderava essere lui il centro dell’attenzione, voleva smettere di essere ignorato, di essere invisibile.

E tutto questo alla fine scoppiò. E si accorse che qualcosa era cambiato dentro di lui. Se si sforzava, poteva veramente essere il centro dei loro sguardi. Non sapeva come questo era successo, cioè, era nato da un giorno all’altro, ieri non c’era, e oggi, PUF! Non doveva fare altro che concentrarsi sul suo desiderio, sul quel desiderio smodato d’attenzione, e subito le loro teste si giravano verso di lui.

Inizialmente, non si rese neanche conto di possedere un vero e proprio potere, talmente era contento del suo nuovo successo. La felicità era talmente tanta, che non realizzò pienamente che quel loro interesse non era come quello rivolto al fratellino: Ludwig era sommerso da complimenti, carezze baci; lui era inondato da rimproveri, grida, parole di disprezzo. Ma non gli importava. L’unica cosa che contava era che lo guardassero, lui, solo lui. E godeva di questa sua centralità, tutto ruotava di nuovo intorno a lui, come quando erano solo loro tre.

Ben presto, però, si stancò anche di quel surrogato di affetto, e capì che, non appena avesse smesso di esercitare quella pressione, i due genitori lo avrebbero degnato di un ultimo sguardo carico di risentimento, per poi tornare da quel piccolo bastardo.

E un nuovo sentimento nacque in lui: il disprezzo per quei due esseri umani. Ormai non li considerava più madre e padre, ma semplicemente due persone con cui era costretto a vivere e spendere buona parte della giornata.

Desiderò quindi diventare di nuovo invisibile a loro. E non fu poi tanto sorpreso nello scoprire di essere in grado di fare anche quello. Ora nessun insulto poteva più raggiungerlo. Si convinse che stare da solo fosse la cosa più meravigliosa del mondo.

 

Nel suo diciottesimo anno di vita, la famiglia si trasferì e tornò dopo tanti anni a Berlino. Il padre era convinto che Ludwig dovesse studiare nelle migliori scuole della loro terra natia.

Gilbert aveva smesso da un pezzo di esercitare il proprio potere, riteneva che fosse inutile sforzarsi per delle persone tanto inutili. Cercò di passare meno tempo possibile in quella casa, rifugiandosi nelle birrerie del quartiere. In quei luoghi poté soddisfare il suo desiderio, la sua mania di egocentrismo. Attirava a sé sempre più persone, e si inebriava finalmente di quel bagno di folla.

Una sera, poi, li incontrò. Avevano detto di chiamarsi Antonio e Francis. Per una straordinaria coincidenza, anche loro erano figli di due ambasciatori, rispettivamente della Spagna e della Francia, ora risedenti a Berlino.

Per la prima volta nella sua vita, aveva incontrato due persone che desiderava con tutto il cuore non perdere. Fu il più grande sforzo che avesse mai fatto: usò interrottamente per chissà quanti giorni il suo potere, per il terrore che, ancora una volta, sguardi carichi d’odio lo distruggessero. Non avrebbe potuto sopportarlo.

Dopo qualche giorno, crollò, non poteva durare per sempre, ne era consapevole, per quanto cercasse di negarlo a se stesso. Eppure, quando rialzò la testa, loro erano ancora lì, gli sorridevano, probabilmente Francis fece qualche commento malizioso sulla sua faccia stupita, e Antonio sicuramente scoppiò  a ridere.

Da quel momento iniziò il momento più bello della sua vita: finalmente non doveva sforzarsi perché qualcuno lo guardasse, non doveva gridare per essere ascoltato. Così venne a conoscenza delle loro storie.

Antonio, proprio come lui, era odiato da entrambi i genitori. Proveniva da una famiglia di Granada, e discendeva da una lunga serie di antenati divenuti famosi esponenti della classe ecclesiastica. Per questo, la religione era un fattore profondamente radicato tra i propri parenti, che ostentavano una integrità assolutamente eccezionale.

O almeno, così doveva apparire all’esterno. Così, egli quando confessò al padre di essere omosessuale, rischiò di essere sbattuto fuori per strada. Solo per conservare la facciata di famiglia felice, aveva deciso di sopportare la sua presenza in casa. Nulla però gli impediva, nel privato, di manifestare tutto il suo disgusto verso la sua decisone, come la chiamava lui, “di essere un lurido depravato, un ateo che brucerà all’inferno”.

Gilbert si chiese il perché del suo carattere, così allegro, spensierato, solare. Quando gli pose la domanda, Antonio lo fissò stupito, per poi scoppiare a ridere. La risposta fu semplice: la vita è troppo bella per rimuginare sulla tristezza.

Francis, invece, non aveva questi problemi. Lui poteva liberamente passare da una donna conosciuta la sera stessa, a un uomo abbordato poco prima, per tornare poi a chiacchierare con loro, con una naturalezza sorprendente. Sogghignando, il francese si proclamò l’amante del bello e del piacere. E soprattutto, si riteneva fortunato rispetto ai due: lui non aveva di mezzo due genitori pronti a frenare le sue voglie. I due erano troppo impegnati nelle serate nei teatri, nei boulevard, nelle serate di gala, per preoccuparsi della crescita del proprio figlio. Questa assenza di affetto pareva non toccarlo minimamente: tirato su da qualche balia, era cresciuto nella totale libertà, senza costrizioni, senza regole, assolto da obblighi.

Con quei due singolari individui, passò molto tempo nelle birrerie di Berlino, e sentì dopo tanto tempo, per quanto possibile, di essere un ragazzo normale tra i due suoi migliori amici.

 

Il suo primo incontro con gli zombi non fu così traumatico come sarebbe stato per gli altri. Furono assaliti in un vicolo, dopo una piccola zuffa con dei balordi che lo avevano attaccato insieme ad Antonio e Francis. I tre non fecero neanche troppe storia quando Kiku, dopo aver sterminato i morti viventi, li invitò all’Aletheia.

Perché no? A chi importava se tutte quelle storie erano vere o no? Era un modo di andarsene da quella fottuta città, e da quei bigotti dei loro genitori. Per i tre, l’unica cosa importante, era non essere divisi. Mai più.

 

Si stupì, dopo un anno dal suo ingresso nell’organizzazione, di ritrovarsi di nuovo davanti a Ludwig. Dal suo ingresso nell’Aletheia, era riuscito a dimenticare la sua vita precedente. Quell’apparizione gli fece ricordare gli sguardi dei genitori, e ripensò al fatto che quei due non avevano fatto nulla dopo la sua scomparsa. Nessuna preoccupazione, nessun allarmismo. Per questo, non accolse il fratello con il dovuto entusiasmo.

Lo sfogo, gli insulti, la sua rabbia, si bloccarono, quando Ludwig lo pregò di ascoltarlo. E, per la prima volta in vita sua, si sentì in colpa. Negli anni trascorsi fra quelle quattro mura viennesi, così odiate, era talmente immerso nel suo auto compatimento, nel suo volontario esilio, nella convinzione di essere nel giusto, di essere lui quello che stava subendo un’ingiustizia, che non si era accorto di niente.

Il suo fratellino stava soffocando, letteralmente. Dopo tanti anni in cui aveva dovuto sostenere quel ruolo che altri gli avevano imposto, stava per crollare. In tutti quegli anni aveva cercato sostegno nell’unica persona che avrebbe potuto capirlo, suo fratello maggiore. Quando, però, tentava qualsiasi approccio, si  trovava di fronte a un muro, costruito da odio e tristezza. Certe volte, respirare diventava persino impossibile. I suoi genitori erano talmente presi nella congettura del suo futuro, che comprendeva un posto sicuro nella burocrazia, accanto al padre, erano talmente sicuri di conoscere il loro figlio, da non riuscire a vedere quel bambino, quel bambino vero seduto davanti a loro che abbassava gli occhi ogni qualvolta sentiva simili discorsi. Il padre era talmente intento a lodare la sua parlata sciolta, la sua estroversione, il suo carattere comunicativo, qualità necessarie per diventare un perfetto ambasciatore, da non accorgersi di quello stesso bambino, senza un amico, sempre chiuso in casa, immerso tra libri di meccanica, chiavi inglesi, fili elettrici.

E Gilbert conobbe anche il perdono. Capì che, in fondo, quel ragazzone biondo, il suo fratellino, non era così diverso da lui. Sorrise, un peso che si volatilizzava, si disintegrava. E capì che la propria vita non poteva essere più bella di così.

 

Arthur sbuffò stizzito, palesando il proprio sdegno. Le braccia incrociate, la testa voltata di lato, le sopracciglia aggrottate, la posa vagamente altezzosa.

Si maledisse per essersi fatto convincere così facilmente. Perché aveva chiesto a quello stupido francese per quale assurdo motivo avrebbe dovuto imparare a impugnare una stupida spada? Fatto che aggravava poi il tutto era che sempre quello stupido francese sopracitato aveva promesso di essere il suo personale maître d'armes. Avendo soppesato con cura quei due particolari, aveva decretato la discussione chiusa.

Si ricredette, però, sentendo ciò che l’altro ribadì.

-Mio piccolo raggio di sole, sarebbe davvero un peccato se uno sporco Jardin mi privasse della tua preziosissima presenza...-

Tralasciò lo sguardo volutamente malizioso che gli lanciò, e riflettè sul fatto che, in effetti, un po’ di auto difesa non gli avrebbe fatto male. Se poi avrebbe usato le nozioni acquisite contro uno zombi maleodorante o contro il proprio mentore, si disse, la differenza era irrivelante.

Per questo si trovava dentro una delle innumerevoli stanze da allenamento dell’organizzazzione, spalmato contro una delle pareti di cemento grigio.

Si rifiutava di incontrare gli occhi di quel depravato, che adesso lo guardavano lascivi, anche se un poco spanzientiti.

- Arthùr, non pensi sarebbe opportuno avvicinarti un  po’... ?-

L’inglese lo fulminò con lo sguardo.

Non voleva ammettere che, oltre a trovare la sua presenza fortemente fastidiosa, sentiva che la propria posizione fosse quanto più appropriata in quella situazione. Non aveva paura delle avanches dell’uomo, no di certo, ma credeva che tenere la schiena incollata alla parete fosse un ottimo modo per prevenire tale eventualità.

Se ne convinse ancor di più, osservando guardingo il modo con cui il francese vezzeggiava le due spade che stringeva delicatamente tra le mani, la posizione vagamente provocante, una gamba piegata dolcemente, il peso del corpo poggiato sull’altra anca.

Francis sospirò, scuotendo teatralmente la lunga chioma.

-Per quanto possa godere della tua sola presenza, vorrei almeno che ti staccassi da quel muro-

Se lo sguardo avesse potuto incenerire, del francese non sarebbe rimasto altro che cenere sparsa al vento.

-O forse hai paura di non farcela, mon colombelle... ?-

Francis sorrise nel sentire un basso ringhio.

Poteva vantarsi di essere un ottimo osservatore del comportamento umano. Aveva colto nell’inglese una sorta di contraddizione: il ragazzo cercava di calzare contemporaneamente la veste da lord e da ribelle, con la conseguente contrapposizione di atteggiamenti, idee, reazioni. Nonostante disprezzasse i bassi istinti che animavano coloro che lo circondavano, anche lui rimaneva invischiato in questi stessi sentimenti.

Vide l’inglese marciare verso di lui, furibondo, e strappargli dalla mano l’elsa di una delle due spade.

-Direi che possiamo cominciare…-, esordì il francese, accarezzando allusivo la lama luccicante.

Provava un senso di perfido compiacimento nell’osservare gli scoppi d’ira del ragazzo.

Gli girò le spalle, allontanandosi lentamente, ancheggiando un po’, ponendo con eleganza un passo dopo l’altro.

-Vedremo subito se hai la stoffa dello spadaccino…-, continuò, con quello strano accento morbido, le parole vellutate, le vocali volutamente allungate.

Arthur digrignò i denti. Non lo sopportava. Quei movimenti felini, la voce bassa e morbida, quegli sguardi maliziosi.

-…per brandire bene una spada sono necessarie grazia…-

Strinse spasmodicamente l’elsa della spada tra le mani. Come si permetteva? Qualcuno come lui si permetteva di insegnare a lui?

-…agilità…-

Si credeva forse superiore a lui? La spada tremò tra i pugni chiusi. Lo odiava, profondamente, tanto. Pensava di poterlo trattare così? Un qualcosa, più un impulso che un vero e proprio pensiero, gli attraversò la mente. Uno strano sorriso gli si formò sulle labbra. Le iridi si accesero di nuovo di quella luce elettrica.

-…astuzia…-

Arthur non si era neppure accorto di aver iniziato a camminare lentamente verso di lui. Un obbiettivo, ancora non completamente emerso dalla nebbia della rabbia, gli si era infilato dentro, gli si era conficcato nella mente.

Improvvisamente, prese la coscienza di stare correndo, la spada stretta tra le mani. Francis era sempre più vicino. Le braccia, comandate da una forza propria, alzarono la spada, un fendente pronto a calare sul corpo inerme del francese.

Avvenne tutto in un attimo. La lama, che avrebbe dovuto abbattersi sulle carni dell’uomo, si conficcò sul freddo pavimento. Arthur sgranò gli occhi, trovandosi a atterrare, invece che sul suo cadavere, sul vuoto, sul semplice cemento della stanza.

D’un tratto, sentì qualcosa colpirgli da dietro la giuntura delle ginocchia. Le gambe, per riflesso, si piegarono, e l’inglese si trovò disteso sul suolo. Non fece in tempo a realizzare cosa diavolo fosse successo, che percepì un peso adagiato sulle sue gambe e un’altra lama che si conficcò sul terreno, davanti al suo viso. Boccheggiò, vedendo la fredda lucentezza del metallo a pochi millimetri dai suoi occhi. Sentì un caldo liquido solcargli la guancia.

Incredulo, si voltò. E si ritrovò il viso del francese vicinissimo, il solito sorriso sornione che coronava il viso incorniciato da lunghi riccioli scomposti. Arthur non capiva. Incapace di proferire parole, vide galleggiare intorno al corpo di Francis piccole luminescenze lattiginose. Spalancò gli occhi. Il francese si era avvicinato ancora di più, prendendogli il mento in una mano. Sentì la sua lingua leccargli la ferita sulla guancia. Tremò, quando lo vide ritrarsi con voluta lentezza, e con la stessa calma leccarsi le labbra soddisfatto.

-Ma la cosa più importante…-, sussurrò, -è stare alle regole del gioco, mon chere…-

 

 

Note d’Autrice

 

Si, lo so, sono in ritardo ABNORME.

Purtroppo, questo è un periodo un po’ così così (leggere: schifoso). Per questo, anche per i prossimi capitoli, le date di pubblicazione saranno un po’ sballate, ma farò il possibile per aggiornare.

Allora, torniamo a noi! Oh, baby Gilbo! <3 Si, l’avrete capito, l’adoro, l’adoro da matti! E sono comparsi altri due personaggi! Semplici comparse? Chissà…

Beh, il momento FrUk CI STAVA, già già.

Boh, non saprei che altro dire, se non che vi ADORO.

Grazie mille per tutti coloro che mi recensiscono e mi leggono, ma soprattutto sopportano i miei ritardi!

Alla prossima! :D

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Capitolo 15
*** La sottile linea nel cielo ***


Il ragazzo urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Le mani vagavano sul viso, incapaci di trovare pace. Un urlo rauco, disperato, uscì dalla bocca, un buco nero da cui usciva inarrestabile una piena di dolore. Un altro spasmo. Le pupille, iniettate di sangue, erano coperte da una patina lucida, l’azzurro delle iridi tremò, gorgogliò, sembrò crearsi un vortice oscuro, da cui nascevano spire vermiglie. Un altro urlo. Le vesti, furono strappate dalla rabbia, e i brandelli raggiunsero i resti dello scuro mantello, dilaniato poco fa. Gridava, nel tentativo di alleviare quella sofferenza irradiata in ogni singola cellula. Ma era inutile. Si sentiva cadere in pezzi, la propria pelle incartapecorirsi, rattrappirsi, come un foglio che si contorceva tra le fiamme. Ancora una fitta. Sbarrò gli occhi. Preso dalla furia, afferrò con disperazione il bordo del tavolo davanti a sé. Il legno, inizialmente, s’incrinò leggermente, piccole screpolature percorsero tutta la sua lunghezza. Una nuova fitta. Un latrato disumano, e il mobile di quercia si sgretolò letteralmente tra le sue dita. Sentiva la propria voce raschiare lungo la gola, sbatteva confuso contro le pareti della stanza, senza riuscire a trovare un attimo di tregua.

-RAIVIS!!-

Percorse con le mani la pelle lasciata scoperta dalle vesti lacere e cadenti. Le unghie solcarono il candore del torace, delle braccia, del viso.

-RAIVIS!!!-

D’un tratto, due piccoli palmi gli afferrarono i lati del viso. Nonostante la vista fosse offuscata dalle lacrime, vide quel viso paffuto, quei capelli arruffati, quegli occhi grandi.

-Sono qui, Toris, sono qui-

Il ragazzo lo strinse in un abbraccio stretto, soffocante.

-Raivis, fa male…-, sussurrò, la frase rotta da singhiozzi.

Sentì una piccola mano circondargli, con qualche difficoltà, il petto glabro.

-No, non è vero-

-Si, invece!-, ribatté il castano, stringendo spasmodicamente il mantello nero del bambino, -sto bruciando dappertutto…-

-Sshhh…-

Toris sentì le piccole dita che gli carezzarono dolcemente i capelli.

-Non fa così male…-

-Ma…-

Il bambino gli afferrò delicatamente entrambe le mani, e se le portò sulle guance calde.

-Tu non stai provando dolore, no?-

Il petto del castano, che prima si alzava e abbassava impazzito, lentamente, tornò a un ritmo regolare. Le spire cremisi furono riassorbite dal blu. Toris osservò amorevolmente il bambino, che adesso stava posando le sue manine sulle sue gote. Si immerse nei suoi occhi chiari.

-Tu sai di chi è la colpa di questo Toris, vero?-

Il castano era troppo immerso in quelle iridi per dare una risposta lucida.

-Si…-

-Dillo…-

-…-

-Toris, dillo-

-Aletheia…-

La presa si strinse un po’.

-Esatto, è tutta colpa loro, Toris, è colpa loro se ti senti così-

Il lituano lo avvolse, sentì il viso caldo del bambino poggiato al proprio petto.

-Li ucciderò tutti, Raivis-, gli baciò i capelli, -lo farò per noi due-

Il ragazzo tornò a sorridere, sentendo quel peso caldo all’altezza del cuore, che invece che farlo sprofondare, lo alleggeriva. Non si accorse, però, che quel calore proveniva non da un bambino, ma da qualcosa più simile a una statua di ghiaccio, che scrutava silenziosamente il buio della stanza.

 

Uno scatto, un luccichio di lame, un forte clangore.

Antonio vide il viso dell’italiano deformato, un ghigno folle che si allargava sui dolci tratti del viso. Ma gli occhi erano il vero specchio di questa follia: l’oro delle iridi si mescolava al nero della pupilla, dilatata a causa dell’adrenalina. Il colore dorato si mescolava in vortice pericoloso di pura pazzia con l’oscurità della propria anima, questa nera forza bruciava, palpitava.

Le due spade, il pugnale dell’italiano estratto con uno scatto fulmineo dalla camicia e il fioretto sfilato dalla fascia alla vita dello spagnolo, collidevano, tremavano, facevano scaturire scintille metalliche.

-Sei proprio un figlio di puttana…-, gongolò Romano, la voce instabile, il ghigno maligno che si accentuava sempre di più, -con quel sorriso del cazzo sembravi solo un idiota…-

Affondò con maggiore forza il pugnale. La fredda lama sfiorava la gola scoperta del moro.

-…e hai avuto anche il coraggio di venire qui con quella lurida faccia a parlarmi di mio fratello!-.

Dalle labbra i canini scintillavano, da quelle stesse labbra uscivano quelle parole, impregnate di folle goduria, di folle dolore.

Imprimendo forza all’elsa, Antonio riuscì a staccarsi e a scaraventare il ragazzo lontano da sé. Lovino atterrò qualche metro più in là, il sorriso maligno che scintillava nella penombra del locale.

-…ora tu mi dirai dove è Feliciano…-

L’italiano avanzò verso la spagnolo, l’andatura barcollante, come un ubriaco, come una danza perversa, insana.

-E POI TI AMMAZZERÒ, BASTARDO!!!-

Dopo il ruggito, seguì un potente fendente, diretto alla gola del moro. Questo fece in tempo a buttarsi verso i tavoli alla sua destra. Lovino atterrò sul bancone, che si spaccò di netto. Si alzò una fitta nube di polvere e schegge.

-…non sarebbe forse meglio fermarsi a discutere…?-, propose l’ispanico, accovacciato sotto un tavolo, tentando un sorriso timido.

Un piccolo brivido gli percorse la schiena, quando vide l’italiano, il viso adombrato da ciuffi scomposti, estrarre con una semplice mossa il pugnale conficcato in profondità tra i miseri resti del banco. Poi, con lentezza esasperante, si voltò verso di lui. Poggiò una guancia sulla spalla, il gioco di luci e ombre che accentuavano quel ghigno demoniaco, le pupille, ora piccolissime, nere, tremolavano, le pupille erano iniettate di sangue.

-…che ne dici se prima ti ammazzo…?-

Antonio sgattaiolò appena in tempo tra l’intrigo di gambe legnose, prima che queste fossero distrutte in mille pezzi.

Il moro si slanciò verso l’uscita, comprendendo che, rimanendo lì, non avrebbe ottenuto altro che un conto salatissimo per il rimborso dell’intero mobilio. Sentì un ruggito dietro di sé.

-FERMATI!!-

Corse verso la strada, dribblando donne, bambini, mercanti e carri . Lanciò uno sguardo dietro di sé. Una chioma scura, un’ombra spintonava tra la folla, sbraitando e maledicendo i passanti.

Tornò a guardare davanti a sé. Gli occhi cercavano frenetici un luogo di riparo.

Si sentì un forte rumore, come uno squillo di tromba, e un improvviso trambusto. La folla si divise in due ali, lasciando libera la strada. Il mistero fu spiegato dall’arrivo di una carrozza, appartenente al signore del luogo. Gli abitanti chinarono il capo , si abbassarono con reverenza, mentre i cavalli della diligenza erano lanciati a tutta velocità lungo la stretta via.

Antonio colse l’occasione al volo, aspettando che il rumore degli zoccoli sul selciato si avvicinasse. Con un balzo, atterrò sulla scaletta posta sotto la porta che conduceva all’interno del cocchio. Vide la faccia basita dell’italiano, che lo vide sfrecciargli da sotto il naso. Il moro tirò un sospiro di sollievo, credendosi al sicuro.

D’un tratto, sentì un sibilo. Si voltò curioso. La lama del pugnale si conficcò nel legno finemente decorato della carrozza, a pochi millimetri dal suo viso. Se la cosa lo scioccò non poco, rimase decisamente sorpreso nel vedere Lovino scaraventare a terra un uomo qualunque dal suo destriero, salire sulla sella  e fiondarsi a tutta velocità verso di lui. Antonio, consolandosi, colse solo un lato positivo in tutta quella faccenda, deducendo che il ragazzo fosse disarmato.

Poi, un altro pugnale rischiò di conficcarsi precisamente in mezzo alle sue gambe, centrando per fortuna il ferro della scaletta. Il moro fissò a bocca aperta l’italiano estrarre l’ennesima lama dal gilè di pelle. Ma da dove diavolo spuntavano tutte quelle armi??

L’ennesima stilettata che per poco lo evirò, fece capire allo spagnolo il bisogno di trovare un riparo più efficiente. Con qualche difficoltà, si issò sulla tettoia.

Intanto, per la strada era nato un grande caos dovuto a quella scena decisamente inusuale. Persone correvano, alcuni gridavano, isterici, guardie del signorotto si erano lanciati alla ricorsa dei due folli.

Nel frattempo, Antonio cercò di mettersi in piedi, impresa non facile, dato il vento che sibilava minacciandolo di scaraventarlo via da un momento all’altro. Agitando le braccia, infine, trovò un suo equilibrio.

D’un tratto, intravide, a poche centinaia di metri, un’ antica chiesa gotica, stranamente isolata dagli altri edifici.

Un sorriso si formò sul viso abbronzato. Senza fermarsi a valutare adeguatamente la situazione, spiccò un balzo verso la facciata di pietra. Si trovò così a penzolare nel vuoto, le mani che stringevano l’architrave sporgente del portone. Tirandosi su, poggiò le piante dei piedi sullo stretto passaggio.

Guardò di sotto. Sorrise compiaciuto. Lovino, furibondo, dopo essere sceso dal destriero, aveva iniziato ad affondare due pugnali nel legno delle due spesse ante del portone, issandosi su con la sola forza della braccia, nel vano tentativo di una scalata rocambolesca lungo la facciata. L’italiano sbraitava, sbuffava, comprendendo l’inutilità del suo gesto, continuando nonostante tutto ad piantare quelle lame nella quercia. Ad Antonio veniva da ridere di fronte a quel scena che, in effetti, aveva qualcosa di comico.

Il sorriso, però, scomparse dal suo viso, quando il legno del portone, cedendo sotto la furia del ragazzo, si sfracellò letteralmente sotto il suoi colpi. Il Possessore sbarrò gli occhi, incrociando lo sguardo del ragazzo,ora acceso da soddisfatta perfidia. E con terrore, lo vide fiondarsi all’interno dell’antico edificio. Non gli ci volle molto a capire che in pochi minuti avrebbe raggiunto il rosario di vetro posto sopra l’architrave, magari grazie all’ausilio di una scala.

Si guardò intorno, frenetico. L’unica via di fuga possibile in quel momento era proprio sopra di sé. Trasse un profondo respiro. Infilò una mano tra le crepe della murata. Dopo qualche tentativo andato a vuoto, riuscì a trovare un appiglio anche per i piedi. Con enorme sforzo, si spostò non più di qualche metro lungo la facciata crepata. Appena in tempo.

Sentì un rumore di vetro in frantumi. Guardò giù. Dal finestrone circolare cadde una pioggia di cristalli colorati, che si riversarono sulla strada sottostante. Dall’incavo tondeggiante sbucò fuori una testa. Antonio fece appena in tempo ad arrivare alla linea divisoria tra una parete all’altra, prima di vedere quelle iridi brucianti conficcarsi sul suo viso.

I muscoli cominciavano a dolergli. Antonio lanciò uno sguardo alla sua destra. La chiesa, essendo a croce cristiana, era composta da due assi perpendicolari. Fortunatamente, si trovava a breve distanza dall’ala destra, un prolungamento architettonico di livello più basso rispetto alla navata principale.

Con enorme sforzo, si arrampicò fino al basso tetto e, infine, riuscì a sedersi a cavalcioni sullo stretto passaggio che divideva le due superfici spioventi.

Tirò un sospiro di sollievo, passandosi una mano tra i capelli, ciuffi scuri che si appiccicavano alla fronte imperlata di sudore.

Poi, un grido. Alzò di scatto la sguardo. Il rumore di vetri infranti accompagnò la figura dell’italiano che si tuffò proprio verso di lui. Lo spagnolo saltò in piedi, indietreggiando velocemente, prima che un pugnale avesse la possibilità di trafiggergli il petto. Per un istante barcollò, gli stivali di pelle che slittavano lungo la sottile linea del tetto.

Per qualche breve istante, calò il silenzio più assoluto. Solo il fischio del vento e il loro respiro affannato. Antonio vide il viso di Lovino accendersi di quella luce sinistra, dovuto al senso di compiacimento, di una vittoria sicura, del raggiungimento di una meta tanto agognata. Notò l’assottigliarsi degli occhi, la pupilla di nuovo dilatata, come una bestia pronta all’attacco.

Lo spagnolo alzò le braccia, mostrando i palmi della mani, prorompendo in una risatina nervosa.

-Ahahahah, emh… Eccoci qua…-

Sobbalzando, osservò il movimento deciso con cui il ragazzo avvicinò il pugnale al viso, i muscoli contrarsi sotto la camicia attillata.

-…Eheheh… Quale momento migliore per una bella chiacchierata…?-

A quanto pare neanche quel secondo tentativo funzionò. La lingua rosa leccò serpentina le labbra, che schioccarono poi soddisfatte.

-…Emh, che ne diresti allora di abbassare quel giocattolino…?-

Le ultime parole gli morirono in gola. Ebbe appena il tempo di sfilare nuovamente il fioretto dalla cintura stretta alla vita, prima che la lama del ragazzo si abbattesse su di lui. Un’altra volta, come nella locanda, lo scaraventò lontano da sé. Questo, però, non perse tempo, e si  rigettò sul moro.

-Ascoltami!-

La voce dello spagnolo aveva assunto un tono più serio, il sorriso bonario era scomparso.

-Io non voglio combattere!-, evitò un affondo, -Voglio solo parlare con te!-, parò una stoccata, -Tanto più che la nostra posizione non è delle migliori!-

L’ultima affermazione fu pronunciata con un sorriso, un tentativo di mostrare la propria sincerità. Capì che fu un gesto inutile, quando una pugnalata rischiò di squarciargli il petto.

-Ehi, non sto scherzando, potresti farti seriamente del male!-

Con grande abilità, lo spagnolo parò tutti gli affondi dell’italiano, i piedi che scivolavano con sicurezza lungo la labile linea del tetto, i passi che si muovevano in una decisa danza di guerra, la spada che ruotava, affondava, apparentemente senza difficoltà.

Poi, all’improvviso, inaspettatamente, Lovino si abbassò, ruotò l’anca, un calcio colpì le ginocchia di Antonio. Lo spagnolo, colto di sorpresa, si sbilanciò, oscillando pericolosamente. Con un urlo, l’italiano balzò su di lui, pronto ad affondare la lama. Ma si trovò i polsi intrappolati dalla presa dell’uomo: questo, la schiena appoggiata sullo stretto cammino del tetto, non avendo la possibilità di indietreggiare, aveva atteso il suo arrivo.

Ora Lovino era sopra di lui, mentre cercava di liberarsi da quella forte morsa, imprecando, agitando le braccia, ringhiando.

-Ti piace giocare sporco, eh?-

Lovino spalancò gli occhi, quando sentì la punta degli stivali dello spagnolo appoggiarsi sul suo petto. Prima che potesse accorgersene, si trovò scaraventato contro la parete della chiesa.

Per un breve istante, il fiato gli si mozzò, quando il suo corpo si scontrò contro la dura pietra. Si ritrovò a cavalcioni sul tetto, il fiato corto, tossendo, catturando l’ossigeno a grandi boccate. Maledetto. Alzò il viso. Lo spagnolo era in piedi, la spada in mano, in posizione di guardia, quello stupido sorriso, quell’odioso sorriso sul volto.

-Peccato che a me piaccia giocare pulito!-

Lovino, mentre ancora ansimava, rannicchiato in cima a quella chiesa, strinse convulsamente lo stoffa della camicia all’altezza dello sterno. Drignò i denti, sentì il sapore del sangue in bocca. Maledetto. Lo stava sfidando. Lo odiava. Quel sorriso. Si stava prendendo gioco di lui.

Lo spagnolo, giocosamente, gli fece segno di avanzare.

-Allora? Non volevi ammazzarmi?-

L’italiano sbarrò gli occhi. Stronzo. Figlio di puttana. Lo stava deridendo. Sentì una fredda stilettata nel suo orgoglio, una punta gelida che squarciava il suo autocontrollo, che lacerò quella sottile linea che ancora lo separava dalla pura follia.

Con un grido disumano,quasi animalesco, si alzò di scatto, afferrò un pugnale, corse verso il suo avversario. Voleva toglierlo. Voleva togliere quel fottuto sorriso, quell’irritante sorriso, quel sorriso così fuori luogo in quel momento, o almeno per qualcuno che stava duellando in bilico sul transetto di una cattedrale.

Voleva squarciargli il viso, vederlo rigarlo di sangue. E colpiva, agitava la lama fredda, cercava di raggiungere quelle labbra, voleva squarciarle, creare un sorriso di carne lacerata. Eppure, a ogni attacco, ecco pronta la contromossa. Nulla serviva tentare finte, mosse inaspettate, attacchi a sorpresa. Lo spagnolo sembrava prevedere ogni suo singolo movimento, come se riuscisse a leggergli la mente, come se captasse le sue intenzioni semplicemente osservando il guizzo delle sue pupille dilatate. Ogni fendente era parato con tale naturalezza, con tale facilità, come se i suoi pensieri fossero un libro aperto. Questo non fece che aumentare la sua rabbia, la sua forza, la sua pazzia. I suoi affondi divennero sempre più violenti, più brutali, più diretti. Gli stridii, i clangori,  il rumore della spada che cozzava, che si scontrava con l’altra lama, gli riempì la testa, nessun pensiero razionale, solo quel pezzo di carne davanti a lui da triturare, trafiggere, uccidere.

Lo spagnolo sembrò cedere di fronte a quella furia, indietreggiando sempre di più, fino a giungere al limite dello stretto passaggio.

Un ghigno deformò il viso di Lovino, i canini scintillarono, eruppe in una risata sguaiata. Le armi si scontrarono di nuovo. Le spade, a contatto tra loro, tremavano violentemente. Di nuovo, Antonio lo spinse lontano da sé. Ormai è inutile, pensò l’italiano, fissando con perfida soddisfazione l’uomo, che in quel momento sembrò barcollare sul ciglio del tetto, un piede che scivolò nel vuoto e che, per un momento, rischiò di farlo cadere.

Lo sguardo folle del ragazzo indugiò solo un istante, pregustandosi l’imminente vittoria.

-Non hai più scampo…-

Ridacchiò, perverso, mentre lo spagnolo lanciò un’occhiata dietro di sé, rabbrividendo leggermente. Nessuno si sarebbe potuto salvare da quella altezza.

Prima che lo spagnolo tornasse a guardarlo, Lovino si avventò su di lui, il braccio alzato, il pugnale pronto a affondare.

Avvenne tutto in un istante.

Antonio si abbassò di colpo, evitando così di essere colpito.

In quell’istante, una terribile consapevolezza.

Aveva preso troppo slancio, credeva di scontrarsi contro il corpo dell’uomo. Vide con terrore il proprio corpo sorpassare quello dell’ispanico. Vide il vuoto sotto di sé. In quell’attimo, il suo cuore si fermò. Sospeso nell’aria, un pensiero, veloce come un fulmine, lo colpì in tutto la sua crudeltà.

Stava per cadere.

Un grido disperato eruppe dalla sua gola, mentre sentiva la forza di gravità trascinarlo giù.

In quel piccolissimo lasso di tempo, ne ebbe coscienza: stava per morire. Quella constatazione era la più dura, la più feroce: tra poco si sarebbe schiantato contro il suolo, avrebbe sofferto, sarebbe scomparso.

E come un lampo, rivide il suo viso, lo rivide quell’ultimo giorno, nella loro soffitta romana. E avrebbe gridato il suo nome, se non avesse sentito il fiato essere risucchiato dal vuoto. Si sentì morire ancora prima di toccare terra, quell’istante in cui il cuore fu stretto da una morsa crudele. Chiuse gli occhi, la sua immagine ancora impressa nella retina.

Stranamente, nessun dolore sopraggiunse. Che la morte sia così, totalmente indolore?

Lentamente aprì gli occhi. Preferì non averlo fatto. Vide il proprio corpo, le proprie gambe, oscillare sul vuoto, mosse dal vento, che fischiava nelle sue orecchie.

Cacciò un urlo. Si aggrappò maggiormente, per istante a quel braccio. Spalancò gli occhi. Un  braccio?

Alzò la testa. Due mani stringevano spasmodicamente la manica della sua camicia. Le pelle scura si era sbiancata sulle nocche a causa dello sforzo. Il suo sguardo proseguì lungo le braccia, i muscoli in tensione, gonfi, finché non giunse al volto.

Gli si bloccò il respiro.

Il viso dello spagnolo era sopra di sé, a una così breve distanza. Finalmente, quello stupido sorriso era scomparso. Per qualche strano motivo, però, questo non lo rese felice, non si sentì fiero di aver raggiunto quella piccola vittoria.

Lo aveva salvato. Stava per cadere, e lui aveva fermato la sua caduta. Poteva lasciarlo andare, lasciare che si sfracellasse al suolo, e invece lo aveva salvato.

Era così confuso, il cuore batteva come impazzito, il suo rumore era così assordente gli riempiva la testa, tanto che non riuscì a capire nulla di quello che stava uscendo da quelle labbra. Carpì solo il tono allarmato, perché?, la preoccupazione che agitava il suo corpo, le sue labbra che fremevano, gli occhi che fissavano i suoi cercavano di comunicargli qualcosa.

Si sentiva stordito, i suoni giungevano ai suoi orecchi ovattati, distorti, come se si trovasse sott’acqua.

Appena si accorse che Antonio, facendo leva sulle gambe, lo tirò su, finché non fu di nuovo sul tetto. Senza forze, si accasciò sulle tegole. Quel senso di morte, di fine imminente, di completo annientamento, la coscienza di essere scappato per un pelo da tutto questo, lo avevano completamente svuotato.

Sentì due braccia che lo strinsero a sé, una mano che gli accarezzò i capelli con delicatezza, come per consolarlo.

Per la prima volta in vita sua Lovino sentì il bisogno di essere consolato, di essere protetto, non di proteggere. E con le mani sia aggrappò con disperazione alla casacca dell’uomo, affondando il viso nel tessuto ruvido della camicia. Si accorse solo allora di stare tremando violentemente, ma non gli importava. Voleva semplicemente godersi ancora per un poco quel caldo abbraccio, quella sensazione momentanea, ma così potente, di sicurezza, quella strana convinzione che tutto si sarebbe aggiustato.

Sentì quella grande mano calda che accarezzava con dolcezza la sua schiena, e bisbigli, parole di conforto sussurrate nell’orecchio, che non comprese, ma che lo avvolsero come una calda coperta.

-…tutto si sistemerà, va bene…? Ti racconterò tutto…-

 

-Ehi, a cosa stai pensando?-

Lovino si riscosse dal quel torpore. Non si era neppure accorto di essersi perso nei suoi pensieri. Rivolse uno sguardo all’uomo seduto di fronte a lui. Di nuovo quel sorriso idiota, senza senso, parcheggiato dietro un piatto di qualche schifezza servita in quel locale. Voltò la testa stizzosamente.

-Tsk, pensavo a quanto sembri stupito, anche quando mangi-

Ovviamente, lo spagnolo rise, ancora un raggio di sole che schiariva l’oscurità di quella locanda. Gli sorrise, prima di tornare il suo pasto.

Lovino teneva ostinatamente il viso rivolto a testa. Dopo un poco, però, lanciò un’occhiata di sottecchi all’uomo. Quello, del tutto ignaro, continuava a trangugiare cibo, sempre con quel sorrisetto.

L’italiano posò una mano sulla guancia, il gomito che gli sosteneva la testa, ovviamente ostentando il proprio disinteresse, imponendosi di non guardando. Ma, costando che gli occhi non facevano che scivolare davanti a sé, sbuffò irritato, afferrando la forchetta posta accanto al suo piatto, e iniziando a giocherellare svogliatamente con i pomodori sul suo piatto. Infine, disse, cercando di dare una certa indifferenza al proprio tono.

-Senti, tu…-

-Mh?-

Antonio sollevò la testa mentre ancora masticava un boccone. Lovino ruotò la forchetta, e indicò con la posata lo spagnolo con aria annoiata.

-È da almeno due settimane che non facciamo altro che mangiare in queste catapecchie…-

Lo spagnolo aveva l’unico pregio di mostrare interesse per tutto quello che usciva dalla bocca del più piccolo. Aveva posato il coltello, le mani stese sul legno del tavolo, gli occhi curiosi fissi in quelli dell’altro.

-Hai ragione-, disse cordiale, sorridendo nuovamente.

Lovino distolse lo sguardo.

-E ancora non mi hai detto niente di mio fratello. Cioè, oltre al fatto che non è in pericolo e che si trova bene…-

-Esatto-

Adesso Antonio, proprio come lui in precedenza, aveva poggiato il viso su una mano, le palpebre socchiuse, le iridi puntate unicamente sull’italiano. Quest’ultimo replicò leggermente scocciato.

-Quando andrà ancora avanti questa storia? Sono stanco della merda che servono in questo posto!-

Lo spagnolo alzò la testa dal palmo della mano, spalancò leggermente la bocca, gli occhi si sgranarono appena, come se fosse sorpreso. Poi scoppiò nuovamente in quella calda risata.

Lovino si innervosì per quella reazione. Non gli sembrava di aver detto nulla di insensato, no?

-Che cazzo hai da ridere?-, sbottò quello.

L’ispanico si passò un dito sotto la palpebra sinistra, catturando una lacrima, le spalle ancora scosse dalle risate.

-Oddio, scusami Lovi, ma non posso proprio farlo…!-

Il ragazzo si innervosì ancora di più per quel nomignolo. Era pronto a contro ribattere con qualcosa di molto poco gentile. Ma poi sentì queste parole.

-…perché poi non avrei altro scuse per incontrarti…!-

L’italiano boccheggiò per qualche istante. Antonio sorrise per quella reazione, molto dolce a suo parere. Questo pensiero venne barrato da una linea rossa appena un istante dopo. Una forchetta si conficcò con violenza sul legno, precisamente nel punto in cui, pochi istanti fa, era distesa la sua mano, che lui aveva repentinamente ritratto. Lanciò uno sguardo sbalordito al ragazzo di fronte a sé.

Aveva nuovamente il viso poggiato sulla mano, la testa, rivolta alla sua destra, un cipiglio irritato.

-…non iniziare a sparare cazzate…-

Antonio sorrise comunque, vedendo la piccola mano del ragazzo tremare leggermente.

 

Fissò le due ante di ferro, la bocca semi aperta, gli occhi sgranati.

Non poteva essersi sbagliato. Aveva sentito qualcuno bussare. Indugiò. Forse se lo era immaginato? Dopotutto, racchiuso tra quelle quattro mura bianche, nulla aveva avuto più senso. Momenti di veglia si alternavano a quelli di sonno, tutto aveva contorni sfocati. Quanto tempo era passato da quando aveva sentito quella voce? Giorni, mesi, anni? E se l’avesse semplicemente immaginata?

Sobbalzò. Qualcuno aveva bussato di nuovo. Un sussurro roco, incerto.

-…ci sei…?-

Trattenne il fiato.

-…Gilbert…?-

Gattonò fino alla porta, poggiò le mani sul freddo metallo.

-…Si, sono io-

L’uomo sorrise, una felicità immensa lo riempì. Era tornato, era tornato! Se ne era andato, ma era tornato! Un’ombra gli attraverso gli occhi. Già se ne era andato… Una dolorosa rabbia montò lentamente dentro di lui.

-Perché se andato via…?-

Strinse i pugni.

-Perché sei corso via…?-

Nessuna risposta arrivò dietro la porta. L’uomo si allarmò. Se ne era andato di nuovo?

-Gilbert, ci sei?-

Tastò freneticamente la fredda superficie. Perché lo aveva detto? Si era arrabbiato, se ne era andato, andato!

-…ci sono-

Fissò la porta, incredulo. Tirò un profondo sospiro di sollievo. Meno male, era ancora lì. Ormai non gli interessava più che lo avesse lasciato solo, voleva che rimasse lì.

-…volevo raccontarti di un sogno-

L’uomo alzò la testa, guardò le ante scintillanti, come se potesse vedere attraverso di loro il suo interlocutore.

-Un sogno…?-

Un momento di silenzio. Poi la voce roca continuò, insicura.

-…lo faccio ogni notte, da quando sono stato qui-

E la voce iniziò a raccontare della storia di un bambino, un piccolo bambino che viveva in una grande casa. I genitori lo odiavano, i grandi lo odiavano, e lui odiava tutti. Il bambino cercava solo un po’ di affetto. Inizialmente, obbligò suo padre e sua madre a volergli bene, ma capì presto che all’amore non si poteva ordinare. Poi, alla fine, incontrò due persone speciali, che lo amarono per quello che era.

L’uomo si appoggiò alla porta e si lasciò cullare da quel lento gracchiare. Le immagini descritte da quel basso bisbiglio di dipinsero sulle bianche pareti. Chissà perché, quella storia lo colpì. I genitori lo avevano odiato. Per qualche strano motivo, gli balenò davanti gli occhi l’immagine di una casa di legno, dispersa in mezzo alla neve delle montagne. Vide una donna che piangeva, un uomo che picchiava un bambino in lacrime. E poi quelle iridi solari, che sciolsero il ghiaccio intorno a lui. Scosse violentemente la testa. No, non ora, non voleva pensarci. E si concentrò semplicemente su quelle fioche parole. Cercò di immaginarsi la figura del loro possessore.

D’un tratto, il raccontò finì. Dopo un attimo di esitazione, continuò.

-…non so perché ti ho raccontato tutto questo. Non so nemmeno perché sono tornato, ecco…-

Sentì uno sbuffo, sembrava che il ragazzo, oltre la porta, si stesse sforzando.

-…semplicemente, mi sembrava giusto dirtelo, boh, non lo so…-

L’uomo sorrise, stringendosi le gambe al petto, tuffando il mento tra la morbida lana.

-Sai, a me piacciono i sogni…-

Oltre il portone, non sentì nulla.

-Nei sogni puoi fare qualunque cosa, nulla è impossibile, e anche se succede qualcosa di brutto, sai che tutto andrà bene!-

L’entusiasmo scemò in un sorriso triste.

-Peccato che debbano finire prima o poi…-

Calò un momento di silenzio. Il ragazzo sembrò riflettere sul significato delle parole dell’altro.

All’improvviso, l’uomo si girò verso le ante, come se non ci fosse tutto quel ferro a dividere i due.

-Ehi, la sai una cosa…?-

-Cosa?-

L’uomo tornò a fissare il bianco davanti a sé, sorridendo.

-Spero che il sogno che stiamo vivendo adesso non finisca mai~-

 

 

 

Note d’Autrice

 

Ebbene si. Sono tornata. Non ci speravo neanche più. Ma eccomi di nuovo qua a rompervi l’anima, dehihihu!

Comunque… Non so se lo avete notato, ma mi sono divertita come una matta a descrivere l’inseguimento tra Lovi e Anto, non so perché, ma mi tornava in mente il grande capitan Jack Sparrow che correva con la sua andatura molto virile! Leggere poi di questi due con in sottofondo “The god of melodicspeedmetal” di Hetaoni… beh, gasa, e parecchio.

Boh, non saprei che altro dire. Devo pubblicare. DEVO PUBBLICARE.

Per questo, ci vediamo presto (spero)! :D

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Capitolo 16
*** L'acqua che scorre in te ***


-Tu saresti in grado di fermare il tempo?-

Lovino inarcò un sopracciglio, scettico. Le labbra dello spagnolo si alzarono.

-In qualunque momento io voglia-

L'italiano sorrise ironicamente.

-Ma davvero?-

Antonio annuì energeticamente. L'altro non capì se avesse preferito tralasciare il suo tono volutamente sarcastico, o se più semplicemente non fosse arrivato a cogliere una tale sottigliezza. Con molta probabilità, pensò, la secondo opzione era quella giusta.

-Certamente! E posso decidere per quanto sospendere lo scorrere dei minuti, sai non c'è assolutamente limite a questo Dono, potrei anche aspettare anni!-

-E tu mi vuoi far credere che, anche in questo momento, potresti fermare tutto senza che nessuno si accorgesse di niente?-

Lo spagnolo sorrise affabilmente al compagno. Lovino storse la bocca, abbassò lo sguardo per concentrarsi sull'ardua impresa di tagliare un pezzo di carne nel suo piatto.

-Antonio, vai a fanculo-

Il diretto interessato di quelle parole aprì sconcertato la bocca, mentre il ragazzo portò un boccone fino alla labbra, masticandolo poi con calma.

-Come, credi che ti stia mentendo?-

Uno sguardo eloquente cacciò dalla sua mente qualunque dubbio.

Lo spagnolo sbatté le mani sul tavolo.

-Lovi, devi credermi, ti sto dicendo la verità!-

L'altro continuò tranquillamente a dedicarsi al suo pasto, giusto un nervo che pulsò nel sentire quell'insopportabile nomignolo. Lo spagnolo continuò, preso da una grande veemenza.

-Allora credi che io sia un bugiardo?-

-Quanto credo che tu sia un idiota, qual'è la cosa peggiore?-

Antonio sbuffò, ma non si arrese.

-Ti sto dicendo la verità! Come credi che io abbia potuto evitare tutti i tuoi colpi?-

Il ragazzo alzò la testa di scatto. L'ispanico, felice di aver catturato la sua attenzione, iniziò a gesticolare febbrilmente.

-Come avrei potuto parare tutti quei fendenti, senza sbagliare neanche una mossa? Fermavo il tempo, capito?, il tempo! Potevo prevedere ogni tuo spostamento e decidere con tutta calma la contromossa!-

Lo sguardo del giovane si incupì. Ricordava perfettamente quell'istante di vuoto, quel senso opprimente di una morte certa. Innervosito, fece un segno seccato con la mano, come a voler chiudere il discorso.

-Se quello che dici è vero, perché non me lo dimostri?-, ammiccò allora, un ghigno saccente.

-Fai qualcosa, sposta qualche oggetto, insomma, roba del genere-

-Non posso-, rispose l'altro con aria abbattuta, tornando lentamente al proprio posto, -riesco a fermare il tempo, ma non posso interferire con esso-

-Allora-, sentenziò il ragazzo con aria scocciata, -la questione può ritenersi conclusa-

Prima che la posata potesse portare alle sue labbra un alto pezzetto di carne, Antonio balzò di nuovo in piedi, gli occhi accesi di nuova eccitazione.

-Aspetta, forse posso provarlo!-

Lovino grugnì esasperato, iniziando a pensare di passare alle maniere forti per potersi godere un fottuto pranzo in pace.

-E allora forza, illuminami, illuminami! Come cazzo faresti?-

L'italiano però, fu percorso da un brivido, quando vide il volto dell'altro concentrarsi su di lui. Gli occhi erano puntati nei suoi, non un solo muscolo si mosse da quell'espressione assolutamente concentrata.

Il ragazzo si sentì improvvisamente a disagio, per un istante pensò anche di mollargli uno schiaffo. Qualunque cosa che lo smuovesse da quella situazione.

Dopo pochi istanti, però, l'uomo tornò a sorridere. Si risiedette, con aria soddisfatta.

Lovino, offeso da quello strano comportamento, incrociò stizzosamente le braccia al petto, lanciando all'altro uno sguardo di fuoco.

-Embè?-, sbottò quello, -che avresti scoperto?-

Lovino trattenne il fiato, quando l'uomo si allungò sul piatto, stendendo un braccio verso di lui. Il ragazzo chiuse gli occhi di scatto, un riflesso dettato da una strana sensazione, una miscela di tensione, terrore, si , proprio terrore, e qualcosa di sconosciuto, una morsa che lo strinse alla bocca dello stomaco.

Le palpebre, alla fine, si aprirono leggermente, quando sentì un lieve tocco sul petto. Alzò la testa, confuso, trovandosi di fronte un sorriso più radioso del solito.

-Proprio qui-, e l'uomo ritoccò la camicia dell'altro, all'altezza del cuore, indugiando sul tessuto ruvido. Un altro brivido.

-Ho sbirciato qui. Hai una sua foto lì, vero?-

Lovino sgranò gli occhi, mentre l'altro tornò al suo posto, poggiando il viso su una guancia, il gomito puntellato sul legno del tavolo.

L'italiano tastò proprio il punto indicato. Sentì sotto la stoffa grinzosa quel rumore familiare, di carta consunta che scricchiola sotto le dita. Strinse leggermente la camicia all'altezza dello sterno. Lo sapeva, sapeva di avere quella fotografia, la teneva sempre lì, all'altezza del cuore, come un ricordo, come una promessa.

Rivolse uno sguardo un po' stupito e un po' irato verso l'uomo che in quel momento era intento a sorseggiare tranquillamente il liquore dal suo boccale.

-Ma come diavolo...?-

Scrutò il suo viso abbronzato. Lo spagnolo si limitò a posare di nuovo lo sguardo su di lui. Semplicemente, sorrise. Era un gesto allusivo, di comprensione, una frase senza parole che diceva: “non lo dirò a nessuno”.

Le dite contratte si rilassarono, lasciarono andare la stoffa che proteggeva il sorriso del fratello. Sbuffò, seccato, e afferrò nuovamente le posate e tornò a mangiare. Antonio sorrise divertito nel vedere il ragazzo affondare con violenza il coltello nella carne, infierendo su un povero animale già morto.

-La smetti di fissarmi?-, sbottò l'italiano senza neanche alzare gli occhi su di lui, -Va bene! Ti credo! Adesso sei contento?-

Lovino sentì un impulso omicida impossessarsi delle sue membra, quando Antonio portò l'indice sulla guancia, iniziando a grattarsela, alzando contemporaneamente gli occhi e assumendo un'aria pensosa. Cioè, lo stava prendendo in giro o stava realmente meditando su ciò che aveva detto?

Poi, l'ispanico tornò a guardarlo, questa volta con uno sguardo che non prometteva nulla di buono.

-In effetti, ci sarebbe qualcosa che mi renderebbe contento...-

Prima che potesse rendersene conto, l'uomo l'aveva afferrato per il braccio, e adesso lo stava trascinando verso l'uscita del locale.

-COSA DIAVOLO STAI FACENDO, IDIOTA???-, sbottò allarmato l'italiano, agitandosi per liberarsi dalla sua presa.

Antonio si voltò verso di lui. Lovino avrebbe voluto staccare a morsi quel fottuto sorriso.

-Sono stanco di queste locande polverose! Perché non facciamo un giro al paese? Ho visto un bel mercato qui vicino! Potrei cucinare io, per una volta! Potremmo comprare dei bei pomodori! E poi fare un bel piatto di pasta!-

Lovino mostrò tutto il suo disappunto per quella proposta, continuando a sbraitare e inveire contro l'uomo che, dall'altra parte, lo trascinò letteralmente fuori dallo sporco salone.

Si voltò suolo per rivolgersi al padrone del locale, rimasto basito da quella scena vicino al bancone.

-Lasci il conto alla solita persona!-

Detto questo, si voltò portandosi appresso quel dolce peso, noncurante delle parole ben poco aggraziate che uscivano dalla sua bocca.

Sorrise, però, quando sentì la presa del ragazzo ricambiare la sua. Lovino si chiese se quell'uomo riuscisse a captare che i suoi pensieri, sarebbe stato imbarazzante e avrebbe dovuto ucciderlo. Ma non poteva fare a meno di pensare che quella grande mano che lo stava tenendo era davvero calda.

 

Era sul punto di scoppiare.

In altri momenti avrebbe lasciato perdere, ma non ora. Troppe cose si erano accavalcate una dopo l'altra.

Prima di tutto, gli allenamenti con Francis. Una sensazione fastidiosa, viscida, come serpenti contro la pelle, lo attanagliava. Era quasi come l'umiliazione. Forse più simile alla sorpresa, qualcosa del genere. Non se lo aspettava, ecco tutto.

Precedentemente, aveva visto il francese come un debosciato, un pervertito, uno che giocava solo con la lingua e le parole, nulla di più. Era difficile sovrapporre quell'immagine con quella di uno spadaccino, un maestro di spade che più volte nei loro duelli lo aveva messo alle strette, aveva fatto cadere la sua spada lontano con un colpo decisivo, e infine aveva puntato beffardo la lama a pochi centimetri della sua pelle scoperta, come a sottolineare la sua superiorità.

Si portò stancamente una mano sugli occhi, mentre quella voce petulante gli trapanava i timpani.

Ecco, forse dentro di sé sentiva davvero l'umiliazione. Quando mai lui, Arthur Kirkland, si era sentito superiore a lui? L'uomo, senza difficoltà, lo aveva sconfitto più volte. Con quell'arma volteggiava con sicura noncuranza, parava con semplicità i suoi affondi violenti. Solo dopo lunghi minuti, stanco di tutto quello, come un gatto che gioca con il topo, con una stoccata, faceva volare la sua lama a qualche metro di distanza.

Digrignò i denti.

Il peggio però doveva ancora arrivare.

Lui distrutto, il francese fresco come una rosa, uscirono dalla sala allenamenti. Sentì degli scoppi. D'istinto, si voltò verso quei rumori. Quasi tutte le stanze d'allenamento avevano pareti trasparenti. E lo vide.

Vide Alfred che, con una velocità e una precisione assurda, volava con sicurezza tra raffiche di pallottole. Si era spaventato, senza accorgersene, e si era allungato verso la porta della stanza. Francis lo aveva trattenuto per un braccio. Si ricordò di essersi voltato, rivolgendo uno sguardo rabbioso verso l'uomo. Il francese lo aveva guardato con sufficienza attraverso il vetro. L'americano aveva fatto scoppiare contemporaneamente due cannoni. Con parole lapidarie, il biondo disse semplicemente che quello era il suo Dono e che non c'era bisogno di preoccuparsi.

La mano che in quel momento parava i suoi occhi si strinse in un pugno. Intanto quella voce continuava, sempre più irritante.

Di nuovo quel ricordo tornò nella sua mente. Alfred che si muoveva tra quelle cascate di piombo, la sua vita in pericolo, ma i suoi occhi pieni si sicurezza.

Sentiva quella come la sconfitta più grande di tutte. Alfred. Il ragazzone senza cervello. Il bambino adulto. Gli tornarono in mente quelle iridi chiarissime, cristalline, così limpide.

Nel loro primo incontro, aveva pensato subito all'acqua. Bastava semplicemente immergervi dentro la mano per toccare la vera essenza della sua anima. Quella immagine bruscamente fu sostituita dall'uomo che maneggiava le due pistole, che distruggeva con crudele precisione due mitra che vomitavano su di lui scariche di metallo. Gli balenarono davanti quei due occhi, il riflesso freddo delle lenti.

Si morse le labbra con rabbia.

Era stato uno stupido. Aveva fatto come tutti gli altri, aveva guardato solo la loro immagine esteriore. Aveva fatto la stessa cosa che le persone facevano a lui. Giudicare. Si era creduto forse migliore di loro? Alfred e Francis, che riuscivano a combattere senza ripensamenti. In quel momento si sentiva più vulnerabile ed esposto che mai.

Sperava, tornato in camera, di fare ordine nella sua mente in subbuglio. Invece, aveva ritrovato di nuovo quel moccioso. I loro incontri si svolgevano sempre nello stesso modo, in un ciclo infinito: lo insultava, lo insultava, e lo insultava ancora, per poi iniziare a vaneggiare su fatti inesistenti e su persone sconosciute, accusandolo con frasi prive di significato.

Eppure, lentamente, ci aveva fatto l'abitudine. Prima di tutto, andava contro i suoi principi picchiare un bambino. E poi, beh, essendo lui un ectoplasma, era difficile fare concretamente qualcosa.

Ma non quella sera. Non chiedeva altro a quel maledetto fantasma che un paio d'ore di riposo. Quella vocina squillante stava nuovamente ridacchiando, soffermandosi su parti del corpo dell'inglese e commentandole con apprezzamenti non proprio benigni.

Il biondo strinse spasmodicamente tra le mani il cuscino. Perché? Perché a lui? Aveva fatto qualcosa di male? E proprio ora, proprio ora...!

Un cuscino mancò di qualche centimetro il bambino appollaiato sull'armadio, provocando un rumore sordo contro la parete.

La frase ingiuriosa del ragazzino si bloccò a metà. Girò lentamente la testa contro l'oggetto lanciato, che scivolò lungo la parete. Rivolse poi stupito lo sguardo verso l'inglese. Fino ad allora, non aveva mai risposto così violentemente alle sue parole.

-Stai zitto...-

Il biondo ansimava, il petto si alzava velocemente, gli occhi assunsero di nuovo quell'elettricità, una scarica che ebbe il potere di far ammutolire il bambino per qualche secondo.

Quest'ultimo scoppiò in una risata sguaiata.

-Qualche problema, vecchio? Hai litigato con il marito?-

Vedere il bambino che dispensava baci al vuoto tra sospiri e guaiti fu la goccia che fece traboccare il vaso.

-STAI ZITTO!-

L'urlo squarciò il silenzio che aleggiava per i corridoi. Il fantasma, questa volta seriamente intimorito, sgranò gli occhi violacei, proprio come farebbe un bambino di fronte a una sgridata di un adulto.

Il biondo si era alzato dal letto. I denti digrignavano, poteva sentire distintamente il rumore dei canini contro gli incisivi, un rumore simile a lame che stridevano.

-Che cazzo vuoi...-

Un'ombra attraverso le iridi verdi, che fremevano, lanciavano lampi.

-CHE CAZZO VUOI DA ME?-

Con impeto, si portò una mano sul petto.

-HO FORSE MAI FATTO QUALCOSA? HO FATTO QUALSIASI, FOTTUTISSIMA COSA PER MERITARMI QUESTO?-

Con un gesto secco tagliò l'aria, come una risposta lapidaria e retorica alla propria domanda.

-COSA, COSA! COSA DIAVOLO VUOI DA ME? DEVO STARE IN QUESTO BUCO DI MERDA, SENZA CHE IO LO VOGLIA, E DEVO ANCHE SENTIRTI FRIGNARE?-

Il fantasma si corrucciò, le pupille lattiginose si dilatarono, gonfiò le guance. Lui era un bambino, e come tale percepiva quell'attacco come un'ingiustizia ingiustificata.

-Non sei tu quello che dovrebbe essere arrabbiato!-

Come al solito, la rabbia dell'inglese si sostituì a freddo cinismo. Incrociò le braccia al petto, alzò un sopracciglio, ironico.

-Ah no?-

-No!-, ribatte pronto il ragazzino. Forse non se era accorto, ma era sceso dall'alto mobile, avvicinandosi così tanto al biondo, come non aveva mai fatto prima.

-Sei tu quello che si è preso la stanza del mio fratellone senza chiederglielo! E scommetto che sei sempre stato tu a fare qualcosa a Mathias e agli altri!-

-Vedi, piccolo idiota-, rispose l'altro un sorriso falso quanto cattivo, -io non so chi cazzo siano queste persone che continui a ripetermi. Questa stanza è mia, di nessun altro-

-NO!-

L'immagine evanescente del bambino tremò per un istante.

-QUESTA CAMERA È MIA E DEL FRATELLONE! E TU TE LA SEI PRESA!-

-No, moccioso-, continuò l'altro, un freddo riflesso nelle pupille, -questa camera è stata assegnata a me da Heracles. Non c'è nessun fratellone e compagnia bella. E non dovresti esserci neanche tu-

-SILENZIO!-

Piccole bolle lattiginose ruotarono vorticose intorno al piccolo ectoplasma.

-LORO TORNERANNO, E TI BUTTERANNO FUORI A CALCI!-

Una risata spietata proruppe dalle labbra dell'inglese.

-Torneranno? Non è un bel po' che stai aspettando?-

Di nuovo l'immagine del bambino parve perdere solidità.

-Non ti rendi conto che non c'è nessuno qui a parte noi? E se ci fossero, perché dovrebbero tornare per un fantasma?-

Il fantasma sbarrò gli occhi.

-...fantasma...?-

Arthur rimase sorpreso. Si, fantasma. Perché quell'espressione?

Vide il bambino portarsi lentamente le mani tra i capelli. Il viso si trasfigurò mostruosamente. Sembrava che fosse stata gettata acqua sui colori di un dipinto, e che adesso questo gocciolasse miseramente verso il basso.

-...cosa stai dicendo...?-

Il terrore aumentò, mentre vedeva gocce argentate colare dalle iridi opalescenti. L'inquietudine però scaturiva dal sorriso incerto, frastagliato, che lottava per non essere immerso dalle lacrime.

-...io non sono morto...-

La figura minuta parve gorgogliare, mescolarsi. Arthur indietreggiò. Qualcosa di orribile. Non seppe se fosse si o no un'allucinazione, ma gli parve che le labbra del bambino si stirassero in un sorriso deforme, che gli angoli della bocca arrivassero alle orecchie. Rideva.

-...e loro torneranno...-

Poi, tutto si bloccò. L'aura tetra che prima era calata come una pesante coltre su di loro sembrò squarciarsi. Il bambino lanciò sguardi smarriti intorno a sé, allarmato. Infine, le iridi si puntarono verso la porta. Passarono pochi istanti. Il fantasma si scompose in tante piccole particelle scintillanti e con un vortice trapassò la parete dietro di sé.

Arthur neanche si era accorto di essersi appiattito contro il muro. Neanche si era accorto di aver trattenuto il respiro. Cosa diavolo stava succedendo?

Sentì un rumore. Lo sguardo si posò atterrito sul legno dell'uscio. Un deja-vu. Aveva già sentito una volta quel suono, come di una valanga che stava per travolgerlo.

Esitante, allungò una mano verso l'entrata della stanza. Con uno scatto, ritirò indietro il braccio. Appena in tempo. La porta si aprì violentemente, il legno sbatté contro la parete, tanto che l'uscio rischiò di scardinarsi.

La schiena tornò a premere contro la parete. Una voce squillante.

-Artie!-

Arthur sgranò gli occhi. Sull'uscio della porta c'era Alfred. Con il suo sorrisone idiota. Con la faccia da bambino. Gli occhi d'acqua. Nella sua mente balenò nuovamente il luccichio metallico degli occhiali. Lo scintillare malvagio delle due pistole. Lo splendere di lacrime argentate su colori pastello gocciolanti.

-C-che cosa vuoi??-

La voce che uscì dalla sue labbra era più alta di quanto fosse sua intenzione.

Qualcosa fu portato a pochi centimetri dal suo viso. L'inglese rimase interdetto per qualche istante. Fissò quell'oggetto tanto vicino a suoi occhi con aria stralunata. Era un pacchetto avvolto da carta argentata. Senza capire, guardò l'americano. Si era piegato, a mo' d'inchino, entrambe le braccia allungate verso di lui, le mani che stringevano la misteriosa scatola. La testa era semi nascosta, ciuffi biondi che a tratti coprivano il viso. Vide distintamente che il ragazzo gonfiò le guance, leggermente arrossate. Chissà perché quel gesto infantile lo colpì così tanto.

-Mi dispiace che tu ti sia arrabbiato!-, esclamò all'improvviso, tenendo la testa infossata tra le spalle. Quella frase era stata pronunciata tutta d'un fiato, come se fosse costata un grande sforzo.

-Non volevo farti arrabbiare!-, continuò con la sua voce acuta, i ciuffi biondi che ciondolavano, seguendo i movimenti concitati delle larghe spalle, -Francis mi ha detto che per farsi perdonare serve un regalo!-

L'inglese socchiuse la bocca, esterrefatto. Alfred non accennava ad emergere dal nido formato dalle sue braccia muscolose.

Alla fine, le labbra dell'inglese si sciolsero in un sorriso carico di affetto. Socchiuse gli occhi, le palpebre vibrarono leggermente. Le iridi, prima duro cristallo, divennero liquide, un mare verde increspato da una strana luce.

Con entrambe le mani, l'inglese strinse delicatamente il pacchetto, sollevandolo dai palmi del ragazzo chino davanti a lui.

Quest'ultimo alzò la testa, incerto.

-Sei ancora arrabbiato con me...?-

Arthur lo guardò. Stava ancora gonfiando le guance, le sopracciglia leggermente corrucciate, i ciuffi che ricadevano disordinatamente sulla fronte. Sorrise ancora. Si, un bambino. Perché sicuramente quello era il vero Alfred. Non era quello che aveva visto poche ore prima. Non era quello straniero che maneggiava con sadico compiacimento le due pistole, non era quello che nascondeva il riflesso malvagio di sé dietro un paio di lenti. Forse era una parte piccolissima di lui, forse era una entità che prendeva possesso del suo corpo sul campo di battaglia. Senza sapere il motivo, Arthur sapeva che quel ragazzone che lo stava fissando con trepida attesa era il vero Alfred. Lo vedeva attraverso l'acqua.

-Idiota, certo che non sono arrabbiato...-, sussurrò l'inglese mentre scartava il piccolo impacco, una strana nota di dolcezza nella voce.

Quella calda aura che si era formata intorno a loro si spezzò, quando il biondo finalmente aprì il regalo. Un oggetto metallico e lucido scintillava beffardo tra la seta blu.

-Alfred...-

La voce dell'inglese si fece bassa, pericolosamente bassa.

-...cosa diavolo sta a significare questo?-

L'americano vide l'altro sollevare la piccola lama, stringendola tra due dita. Non capì la sua espressione, un misto tra disgusto, incredulità e rabbia. Soprattutto rabbia.

-Francis ha detto che la cosa che ti sarebbe stata più utile in questo momento fosse un rasoio!-, scoppiò in una bambinesca, irritante risata.

Alfred s'interruppe bruscamente quando vide il viso del biondo adombrarsi. Aveva già vissuto un'esperienza del genere. Se lo rammentò troppo tardi, deglutendo rumorosamente. Vide con terrore la lametta piegarsi tra le dita dell'inglese, fino a spezzarsi. Il rumore echeggiò come un colpo di sparo.

-Mi hai forse chiamato sopracciglione...?-

 

-Il Dono della Vista?-

Alfred si massaggiò delicatamente la fronte, su cui spuntava un bernoccolo dalle ragguardevoli dimensioni.

Gonfiò di nuovo le guance e aggrottò le sopracciglia, un po' seccato per quella reazione violenta, a suo parere, del tutto ingiustificata.

I due, dopo una pacata discussione, si erano decisi a parlare seriamente. L'inglese seduto sul bordo del letto, il petto leggermente proteso in avanti, l'americano sul pavimento a gambe incrociate, proprio di fronte a l'altro.

-Quindi tu puoi vedere tutto?-

Dimentico della sua arrabbiatura, Alfred mostrò un sorriso a trentadue denti.

-Certo! Io vedo ogni cosa! Posso vedere ogni singolo movimento di ogni singola persona! Nulla può sfuggirmi!-, e qui picchiettò il dito sulla montatura degli occhiali, come a sottolineare il concetto, -Insomma, sono proprio come un supereroe!-

Scoppiò di nuovo a ridere, il petto che si gonfiava di orgoglio. Un nervo spuntò per un istante sulla fronte dell'inglese. Stupido bamboccione senza cervello.

-E questi allora?-

Un dito andò ad accarezzare la montatura metallica degli occhiali. Per qualche strano motivo, l'americano socchiuse la bocca, come se fosse sorpreso.

-Questi?-

Si sfilò le lenti, porgendole all'inglese. Questo li presi, iniziandoli a rigirarseli tra le dita.

-Questi mi servono!-

Di nuovo una risata fragorosa e infantile. Poi il ragazzo accostò le gambe al petto, le circondò dalle braccia e iniziò a dondolarsi.

-Heracles mi ha detto che ogni uomo dalla nascita ha un occhio che usa di più e che quindi diventa più forte-, appoggiò il mento sulle ginocchia, -mentre l'altro, come dire, s'impigrisce-

L'inglese avvicinò le lenti al viso, e non gli sfuggì un particolare: la parte destra non aveva lo stesso riflesso che emanava normalmente il vetro. Sembrava quasi di plastica.

Rivolse uno sguardo interrogativo all'americano, che ancora dondolava avanti e indietro. Senza occhiali, e con un'espressione che rasentava la serietà, sembrava molto più maturo.

-Per questo alcune persone usano bende per sforzare l'occhio “pigro”, così da vedere bene da entrambe le parti-

Alfred si voltò, guardando in viso l'inglese. Gli rivolse un sorriso indecifrabile.

-Capisci quindi che il mio occhio sinistro non potrà mai raggiungere il livello di quello destro-

Solo allora Arthur colse un altro particolare del viso dell'altro: l'occhio destro era l'acqua, quell'acqua che lo aveva così tanto sorpreso. Ma il sinistro non possedeva un'eguale limpidezza, era opaco, come se...

-Hai un occhio cieco...?-

L'americano sbuffò, una mano scompigliò i ciuffi alla base della nuca. Gli occhi vagarono sulle pareti. Emise un basso mormorio. Sembrava stesse cercando le parole giuste.

-...Non è che sia proprio cieco-, disse infine, tornando a sorridergli con un sorriso smagliante, -solo che con questo non riuscirei distinguere tra te e Francis!-

Scoppiò nuovamente a ridere. Arthur non proferì parola. Non capiva perché la prendesse così alla leggera. In pratica, l'occhio destro stava succhiando energia da quello sinistro. Non si accorse di aver esplicitato il proprio pensiero.

-Non dovresti prendere la cosa così alla leggera-

Alfred smise di ridere. Incrociò lo sguardo mortalmente serio dell'altro.

L'americano mugolò, un'alta nota che uscì dalle labbra chiuse, mentre gli occhi si alzarono verso il soffitto in un moto di esasperazione.

-Dio Artie, sei talmente noioso!-

-Cosa??-

-Ma tu non ridi mai??-

-Come ti permetti, brutto i-

L'inglese non poté terminare la frase. Capì in quel brevissimo istante che Alfred gli aveva afferrato un braccio e, con uno strattone, se l'era trascinato addosso.

Dopo un primo attimo di disorientamento, constatò di essere sulle gambe dell'americano. E, soprattutto, era sormontato dal viso del suddetto americano, su cui campeggiava un ghigno ben poco rassicurante.

-Ma cosa diav-

Le parole gli morirono in gola, quando l'altro gli ficcò i pollici in bocca, iniziando a tirare verso l'alto gli angoli delle labbra.

-Forza Artie, sorridi! È facile, dai!-

L'inglese gli afferrò entrambe le braccia, cercando di estrarre quelle invadenti falangi dalla propria bocca.

-Togli queste luride mani dalla bocca!-

Il suo farfugliare irato fu accompagnato da una serie di calci disperati, un tentativo da parte del ragazzo di liberarsi dalla morsa soffocante dell'altro.

-Brutto idiota, mi fai male!-

L'americano scoppiò di nuovo a ridere.

-Dai, Artie, fai un sorrisino, daiiiiiiii!!!-

-Ho detto di togliermi quelle luridissime zampaccie di dosso!-

-Dai, un sorriso! Che ti costa?-

-Alfred, seriamente, se non mi lasci andare, giuro che...-

Non riuscì a finire la frase.

Repentinamente, l'americano aveva intrufolato le mani sotto la camicia dell'altro. In quell'attimo, la mente di Arthur si bloccò. Sentiva i polpastrelli che correvano veloci lungo la pelle, soffermandosi all'altezza del petto. Indugiarono lì, accarezzando un poco le costole che sporgevano leggermente.

L'inglese posò gli occhi sul viso del suo aguzzino. E il ghigno che vi vide sopra non gli piacque per niente.

-Non oserai...!-

Osò. Le dita percorsero velocemente la zona sensibile sotto le ascelle, dei fianchi, poi del collo.

Non ne poté fare a meno. Il suono gli risalì lungo la gola. Tentò di trattenerlo, serrando le labbra.

Inutile. Proruppe in una risata senza freni. Si contorse tra le braccia del suo torturatore, cercando di sottrarsi a quelle mani giocose. Minacce si mescolavano a risa sguaiate, schiamazzi, ingiurie velate. Arthur scalciò con tutta l'energia che aveva in corpo. Stranamente, il suo obiettivo non era più quello di liberarsi.

Le risate si intrecciarono, salirono alte e leggere lungo le pareti della stanza. Si, leggere era la parola giusta. Perché, dopo aver pregato Alfred di aver pietà di lui della sua milza, e dopo essersi accasciato esausto, si sentiva proprio così. Si asciugò le lacrime con un dito. E, fissando il soffitto, ascoltò il suono del proprio cuore che lentamente si acquietava.

Forse quell'idiota aveva ragione. Bisognava ridere ogni tanto. Inconsciamente, un sorriso si dipinse sulle sue labbra. Provava una strana sensazione, come un breve momento di tregua, di pace con il mondo, dimentico dei jardin, dei Doni, della morte, di tutto.

Sempre sorridendo, spostò lo sguardo dal candore del soffitto verso l'americano. Si stupì di incrociare quelle iridi fisse su di lui. Ma c'era qualcosa di strano: Alfred aveva perso tutta la sua allegria. Non c'era più quel ghigno sul suo volto, ma una strana smorfia: le labbra erano stirate, come dopo aver assaggiato qualcosa di amaro. E l'acqua non era più cristallina. Se in quel momento vi avesse immerso una mano, era sicuro che non sarebbe riuscito ad afferrare i suoi pensieri. Le iridi si erano incupite, come se ciò che le turbasse si fosse depositato sul fondo di quella stessa acqua.

Arthur scattò a sedere, rendendosi conto di essere ancora sulle gambe dell'altro. Alfred continuava a fissarlo con una strana e cupa intensità. L'inglese avrebbe voluto gridargli di smetterla. Tra loro due sentiva la presenza di qualcosa di sleale. Non era giusto che quegli occhi potessero farlo sentire così nella loro sfacciata trasparenza.

D'un tratto, l'americano pose il palmo aperto della mano dietro la schiena dell'altro. Senza preavviso, Arthur si sentì schiacciato contro il suo petto. Confuso, rivolse uno sguardo interrogativo verso Alfred. Questo aveva affondato il viso nell'incavo del suo collo.

Era una strana posizione quella in cui si trovava l'inglese: a cavalcioni sulle gambe di quello strano ragazzo, lo stesso che lo stava stringendo disperatamente a sé e che si nascondeva nel candido colletto della sua camicia senza pronunciare una parola.

Arthur non sapeva cosa fare. Teneva le braccia sospese, non riuscendo a decidere se abbracciarlo a sua volta o respingerlo. Passò così diversi minuti, l'inglese non seppe quanti. Gli sembrava di stare vivendo in una dimensione in cui il tempo si era sospeso.

-Stai attento a Francis-

Lo sguardo smarrito di Arthur scattò sull'americano. Quell'improvviso mormorio fu seguito dallo stringersi spasmodico delle mani dell'altro sulla sua schiena.

-Come...?-

-Non mi piace. Lo conosco, è così. È pericoloso-

L'inglese continuò a fissare quella nuca bionda sulla sua spalla. Aveva le orecchie arrossate.

-Non capisc-

-Non mi piace-, ripeté l'altro ostinatamente, -è una cattiva persona. Mi dà i brividi-

L'inglese ripensò a Francis. Certo, aveva i suoi difetti, molti difetti, ma non dava l'impressione di essere malvagio.

-Non credi di stare esagerando? Forse-

-No-

Arthur era sempre più sorpreso di quelle interruzioni piccate.

-Ogni volta che lo vedo mi vengono i brividi. È la verità! Il modo con cui ti guarda! Non saprei neanche definirlo. É... è...-

Affondò maggiormente nella sua spalla.

-È disgustoso. Orribile. Sembra un serpente. Sembra che il suo sguardo ti strisci sempre addosso. Orribile-

L'inglese sentì la presa stringersi ulteriormente. Era strano. Quanto volte lo aveva detto? Di fronte a lui non poteva che pensarlo. Sembrava che non lo volesse più lasciare andare.

-Alfred, io-

-Promettilo-

Quella singola parola sembrava una disperata richiesta di comprensione.

-Promettilo, non andare più da lui-

Arthur rimase in silenzio. Vide le orecchie arrossarsi ancora di più

-Promettilo-

L'americano sentì d'un tratto le braccia dell'altro intorno a sé.

Era una risposta?, pensò Arthur. Non lo sapeva. Però sentiva che era la cosa giusta da fare. Perché era quello che desiderava fare. Abbracciarlo. Non sentiva altro che il suo respiro e il battito del suo cuore. Rimbomba nella sua testa, amplificato, ingigantito, come se avesse appoggiato l'orecchio sul suo petto. Davvero, davvero strano. Aveva l'impressione che Alfred gli stesse insegnando qualcosa. Prima le risa, poi l'abbraccio. Improvvisamente, come mai era successo prima, li desiderava entrambi.

 

-Ancora una volta, Vargas-kun-

Feliciano lanciò uno sguardo carico di disperazione verso il vetro della stanza. Sapeva che Ludwig si trovava proprio dietro a quella barriera trasparente e li stava osservando.

Non ce la faceva più. Avrebbe voluto mollare tutto e tornare dallo scienziato.

Cacciò un grido, quando vide la lama sopra di lui, pronta a colpirlo. Chiuse gli occhi. Un clangore metallico. Fece appena in tempo a veder la propria spada scaraventata lontano da un colpo di katana di Kiku. Rimase immobile, solo gli occhi seguirono la parabola compiuta dalla povera arma. Feliciano osservò il suo scintillio metallico, nascosto dall'ombra formata dall'angolo della stanza. Povera spada, pensò sconsolato l'italiano, cosa aveva fatto per meritarsi di essere impugnata da uno come lui?

Sentì un sospirò davanti a sé. Kiku si era tolto la maschera con un gesto calcolato, tenendola tra le dita. Feliciano sentì tutto il peso dello sguardo preoccupato che gli rivolse il giapponese.

Sarebbe stato meglio che lo avesse sgridato. Lo sapeva, lo sapeva di essere un incapace! Perché insistere? Perché continuavano a quello stupido allenamento?

Si ricordò quando Kiku glielo aveva, per così dire, proposto. Era sicuro di aver lanciato quello stesso sguardo supplice verso Ludwig. Allora, per un momento, il tedesco sembrava aver vacillato, per poi assumere nuovamente un'aria fredda e distaccata. È per il tuo bene, aveva detto. Chissà perché, in quelle parole il ragazzo sembrò leggere crudeltà ingiustificata. Quel pensiero fu però scacciato via non appena Ludwig, senza essere visto da Kiku, gli aveva stretto dolcemente un braccio, come un atto di incoraggiamento.

-Controllerò dalla sala comandi-, aveva aggiunto, precedendolo lungo il corridoio.

Quella poca sicurezza che aveva acquisito grazie a quelle parole si dissolse quando si trovò una spada tra le mani e la Maschera Nera di fronte. Chiese se quel terribile strato di cera, legato a ricordi così spiacevoli, fosse davvero necessario. Una voce distorta provenne da dietro la maschera: è per il tuo bene, è per personificarmi con il tuo nemico.

È per il tuo bene. Feliciano cercò di convincersene, mentre Kiku lo invitò a raccogliere di nuovo la spada e a concentrarsi. Come un automa, l'italiano ubbidì. Riprese la posizione di guardia, le gambe che tremavano un po'. Con un fruscio terrificante, Kiku calò nuovamente la maschera sul viso. La Maschera Nera. Una corrente gelida e oscura sembrava scaturire da quei tratti grotteschi, penetrando dentro di lui e soffocandolo.

-Pronto, Vargas-kun?-

È per il tuo bene, si ripeté, mentre vide la sagoma del giapponese avvicinarsi. È per il tuo bene. Chiuse di nuovo gli occhi. Un altro clangore metallico. Aprì sorpreso gli occhi. Aveva ancora in mano la spada. Guardò con incredula felicità le sue mani, poi Kiku.

-Ha-hai visto?! Ce l'ho fatta! Ce l'ho f-

Feliciano fece appena in tempo a stringere nuovamente l'arma. Kiku calò su con un altro fendente.

-Concentrarti!-, gridò l'asiatico in quel crescere pressante di colpi, -non abbassare la guardia! Forza!-

Non ce l'avrebbe fatta, non poteva farcela contro di lui. Feliciano ne era convinto, mentre con panico crescente cercava di parare alla meno peggio gli assalti dell'altro. Non posso farcela!

All'improvviso, vide quella lama nivea sopra di sé. Aveva appena indietreggiato per evitare un affondo! Aveva il busto ruotato, non avrebbe fatto in tempo a portare la propria arma davanti a sé! Lo avrebbe colpito!

La spada gli scivolò tra le dita. Sentì il rumore metallico contro il duro pavimento. Un suono che sembrò protrarsi nello spazio per un tempo lunghissimo. Chiuse ancora gli occhi, portò le braccia a coprirsi il viso, una vana protezione dettata unicamente dall'istinto.

Voleva che tutto finisse. Non voleva più vedere le armi, la Maschera Nera. Voleva Ludwig. Solo a lui pensò confusamente, mentre sentiva l'aria tagliata dalla katana.

Improvvisamente, si sentì afferrare ed essere lanciato lontano. Capì poi di non essere stato colpito.

Due paia di braccia lo tenevano stretto. Non dovette neanche aprire gli occhi. Sapeva chi lo stava stringendo. Sentiva la corrente magnetica essere diventata così forte da annullarsi, come due poli opposti che si uniscono. Aveva la sicurezza di conoscere ogni singolo centimetro di quel petto contro cui era appoggiato, ogni singolo centimetro delle braccia che lo stavano proteggendo. Sentì un cuore battere all'impazzata. Non seppe definire se fosse il proprio o dell'altro.

-Vargas-kun!-

La voce allarmata di Kiku parve provenire da lontano, da un altro mondo. Sentì i passi frettolosi e nervosi, tipici del giapponese, precipitarsi verso di lui.

Poi udì uno strano suono, un qualcosa che sferzò l'aria. I passi si erano arrestati. Avrebbe voluto rimanere ancora in quel caldo rifugio. Eppure aprì gli occhi. Era proprio Ludwig. Ma ebbe paura. Il viso era completamente stravolto da qualcosa, forse la rabbia, che ne deformava i tratti, che ne induriva lo sguardo.

Un braccio era teso. Feliciano seguì la retta immaginaria che nasceva da esso. Il palmo della mano era aperto, in un chiaro segno di arresto. Gli occhi proseguirono. Trasalì. Kiku. La calma serica, la quiete trasmessa da quelle superfici nere solitamente così lisce, era turbata, increspata. Le iridi scure si spostavano ansiose dal suo viso a quello di Ludwig.

-COSA DIAVOLO TI SALTA IN MENTE?-

La voce del tedesco risuonò come un tuono, un eco che si espanse per la stanza, consumandosi poco a poco. Dietro di sé lasciò un silenzio assoluto.

-VOLEVI FORSE AMMAZZARLO?-

Le mani dell'italiano strinsero con forza il camice che copriva il petto dell'altro. Sentì la voce tremula del giapponese.

-Io... Credevo che forse avesse capito il ritmo, io... Mi dispiace-

Kiku chinò la testa, le mani bianche che si torcevano tra loro.

Feliciano avrebbe voluto consolarlo, dire che non importava, che non era colpa sua, era lui l'incapace. Ma si sentiva prosciugato. Lui non sapeva impugnare una spada, sparare con un fucile. Lui non era fatto per la guerra. Eppure ci era dentro fino al collo e avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma tutto questo dove lo avrebbe portato? L'unica cosa che desiderava ora era stare tra le braccia di Ludwig. Era bello. Era caldo e si sentiva al sicuro. Non capiva però perché le mani del tedesco tremassero così violentemente.

Ludwig forse non glielo avrebbe mai detto. Di come aveva visto la lama calare sulla sua testa. Di come aveva spalancato la porta e si fosse gettato su di lui, trascinandolo lontano da quell'arma maledetta. Non aveva avuto nessuna esitazione. Il solo pensiero che avesse potuto morire lo aveva terrorizzato, semplicemente. E in quel momento lo teneva stretto a se, più vulnerabile di quanto non lo avesse mai visto. Lo sentiva tremare impercettibilmente.

In quel momento, fece una promessa a sé stesso. Non lo avrebbe più fatto avvicinare ad un'arma. Non gli importava niente dei jardin. Lo avrebbe protetto lui. Non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male.

In quel momento, nessuno, immerso nei propri pensieri, si era accorto della porta che si era lentamente aperta, e tanto più della figura che l'oltrepassò. Questa, lanciando sguardi nervosi e atterriti ai presenti, si avvicinò guardinga verso lo scienziato, ancora accovacciato sull'italiano. Si fermò a pochi metri. Tremava leggermente.

-Emh... S-signor Beilschmidt...-

-COSA C'È?-

Per poco al povero Eduard non caddero a terra tutte le cartelle che stringeva al petto. Con le mani scosse da un tremito incontrollabile, si sistemò gli occhiali scivolati lungo il naso.

-Si-signore, il computer ha-ha-ha stabilito il luogo e la data di atterr-r-r-raggio per la Stanza de-de-del Fuoco. I-il vapore acqueo, ricorda? I-i-i dati sono stati appena stampati!-

Ludwig alzò di scatto la testa, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa. Una bassa imprecazione gli sfuggì dalle labbra. Si portò l'indice e il pollice sulle tempie, massaggiandole delicatamente. Sembrava stesse riordinando le idee. Poi, rivolse un breve sguardo verso Feliciano, ancora stretto tra le sue braccia. Un piccolo sorriso spuntò all'angolo della bocca. Infine, disse stancamente poche parole all'estone.

-Posa i fogli sul mio banco da lavoro. Appena potrò prenderò provvedimenti...-

Eduard annuì energeticamente. Sicuro che il tedesco non avrebbe detto altro, si piegò un poco e indietreggiò fino all'uscita, senza dare mai le spalle al gruppo, in un buffo ed eccessivo gesto di riverenza. Alla fine, chiuse la porta dietro di sé. Si accasciò contro di essa, tirando un lungo respiro e chiudendo gli occhi.

-Quanto tempo ci rimane?-

Quella voce così vicina e del tutto inaspettata fece trasalire il povero estone. Ancora una volta, rischiò di far cadere sul pavimento tutti i documenti. Alzando lo sguardo, sgomento, riconobbe la figura di Heracles che lo fissava con aria vagamente interrogativa.

-S-s-signor Karpusi!-, balbettò sorpreso.

Gli occhi opachi scivolarono dal suo viso fino al suo petto, indugiando sui fogli stretti al petto dell'altro. Li indicò.

-Quelli sono i dati per l'atterraggio?-

Il ragazzo seguì il dito del bibliotecario, guardando confuso la massa cartacea che stringeva a sé.

-Questi? Beh, si, ma-

In meno di un istante, l'estone si trovò a stringere il vuoto. Si guardò in torno, allarmato, per poi notare quegli stessi documenti tra le mani di Heracles. Aprì la bocca, una protesta per quel comportamento incomprensibile. Ma decise di mordersi la lingua.

Intanto, il greco sfogliava velocemente quella valanga di dati impressi sui fogli, annuendo e mugugnando ogni tanto.

-E così l'atterraggio è previsto per domani pomeriggio?-

Eduard annuì lentamente, cercando di evitare il suo sguardo. Heracles continuava a fissarlo, senza proferire parola. L'estone iniziò a sudare freddo. Che cosa voleva da lui? Era solo venuto a consegnare quei dannati fogli!

Con suo enorme sollievo, il bibliotecario gli restituì i documenti.

-Ora va'-

L'uomo fu felice di ubbidire. Ma prima che potesse andarsene, il greco lo afferrò per un braccio. -Aspetta un attimo-

Eduard si voltò, sempre più atterrito. Heracles estrasse un libro dal mucchio di fogli.

-Cos'è questo?-

Il ragazzo riniziò a tremare.

-È-è-è un semplice manuale di meccanica!-, esclamò, un'affermazione che assomigliava più a una giustificazione.

Heracles lo sfogliò svogliatamente. Si, in effetti sembrava un comunissimo manuale. ”Tecnica e procedimento per lo sviluppo dell'idrostatica”. L'uomo lo richiuse con un tonfo.

-Bene, lo terrò io-

Eduard rimase in silenzio, non capendo ma non osando commentare.

-Ora puoi andare-

Non se lo fece ripetere due volte. L'estone si girò, senza più voltarsi, fuggendo a capofitto per il corridoio. Heracles lo vide scomparire nel buio delle arcate. Poi tornò a fissare la porta della sala allenamenti. Dal viso non traspariva nessuna emozione. Con lentezza, afferrò la maniglia e l'abbassò, aprendo così un piccolo spiraglio. Non intrufolò la testa per sbirciare dentro la stanza.

-Kiku, vieni qui-, disse semplicemente, richiudendo l'uscio.

Poi rimase lì davanti a quella parete, immobile. Aspettava. Sapeva che Kiku, prima o poi, sarebbe venuto da lui.

E, infatti, la porta si riaprì silenziosamente. Il giapponese la chiuse dietro di sé, attento a fare meno rumore possibile. Non appena si girò, si trovò schiaffato sul petto un voluminoso tomo. Alzò gli occhi verso l'altro.

-Ma cos...?-

-Dì a Feliciano di portarmi questo libro domani-, lo interruppe subito il greco, -è importante per me-

L'asiatico si rigirò tra le mani il volume, come alla ricerca di qualche indizio. ”Tecnica e procedimento per lo sviluppo dell'idrostatica”. Aggrottò le sopracciglia, perplesso. Decisamente non il genere di lettura a cui si dedicava il bibliotecario.

-E, Kiku-

Heracles posò una mano sulla spalla dell'altro, stringendola un poco. Kiku ebbe l'impressione che lo stesse sondando.

-Ho bisogno di parlarti. Fa in modo di venire prima dell'arrivo di Feliciano-

Kiku sostenne il suo sguardo. Sarebbe stato chiaro a chiunque, solo con un breve sguardo, che fosse successo qualcosa in quella stanza. La pelle dell'asiatico era innaturalmente pallida, gli occhi leggermente lucidi

Heracles continuò a fissarlo. La patina delle iridi chiare rimase liscia e immobile.

-È tutto-, concluse in un sussurro atono.

Kiku abbassò lentamente la testa. Rimase qualche istante immobile, indeciso. Poi, silenziosamente, così come era venuto, rientrò nella stanza allenamenti.

Il bibliotecario tornò a scrutare la porta, come se tra le rughe di quel legno antico fosse nascosto un segreto arcano. Infine, si voltò, dando le spalle a tutto.

-È giunto il momento, palià-, sussurrò.

 

 

 

Note d'Autrice

 

Rieccomi qua dopo anni e anni di inattività!

*si compiace della propria rima mentre si strappa la barba dal mento*

Sto diventando monotona, ma scusate il lunghissimo ritardo, me tapina! çoç

*si prende a martellate*

Ma, come si dice, inutile piangere sul latte versato! Quindi, mi lancio in alcune brevissime considerazioni.

Alfred. La spiegazione dell'occhio “pigro” è qualcosa che mi riguarda da vicino. Trauma infantile! Ho dovuto sopportare quella stupida benda sull'occhio per non so quanti anni! Maledetta... Ma consolati, Al, in questo capitolo ti ho fatto ripagare tutte le tue pene... <3

Poi! Palià. Significa “vecchio”in greco. A chi si sta rivolgendo Heracles? Ma, soprattutto, cosa diavolo sta architettando? Riguarda l'Uomo Misterioso? O magari Toris e Raivis?

Si, ufficialmente, dal prossimo capitolo, inizierà il momento “Splatter&Azione a gogò”! Accorrete numerosi!

Beh, credo di aver detto tutto! Mi raccomando, lasciate un commentino piccolo piccolo, mi farete oltremodo felice!!! çvç

Ringrazio tutti coloro che mi commentano e mi seguono! Alla prossima! :D

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Capitolo 17
*** La caccia ***


La biblioteca dell’Aletheia, una tarda mattina

Heracles era di fronte a una delle sue ampie librerie, sfogliando distrattamente un tomo estratto a caso dagli scaffali. Tutto era immobile. Solo ogni tanto quella quiete era interrotta dal guizzo della lingua sul pollice e dal fruscio delle pagine girate. L’atmosfera era quella di un pigro pomeriggio di domenica, in cui il tempo scorre più lento del solito e si trascorrono ore interminabili a crogiolarsi nel dolce far nulla. Le iridi opache si alzavano di tanto in tanto dalle parole d’inchiostro per osservare il pulviscolo dorato della stanza, senza un motivo apparente.

All’’improvviso qualcuno bussò alla porta. Il bibliotecario girò la testa verso l’uscio di scuro mogano. Osservò per qualche istante il libro che ancora stringeva in mano. Poi, come se nulla fosse, lo lasciò cadere a terra. Il libro si mescolò al resto delle paginette e degli appunti che costituivano il pavimento della stanza. Il greco si prese tutto il tempo necessario per dirigersi con calma verso l’entrata, facendo attenzione a porre un piede dopo l’altro in zone sgombre dalla presenza di plichi precari di volumi. Infine, dopo un tempo lunghissimo, abbassò la maniglia.

-Buongiorno Heracles-

Kiku, proprio come aveva previsto. Sapeva di poter sempre contare sulla lealtà del giapponese. Questo lo guardava in silenzio, probabilmente attendendo che l’altro lo invitasse a entrare nella biblioteca.

-Kiku, vai a fare del tè-

Non era il genere di frase che il moro si sarebbe aspettato. Corrugò le sopracciglia con fare perplesso.

-Del tè?-

Heracles continuò a fissarlo. Probabilmente si stava domandando quale fosse la difficoltà nel comprendere una frase dalla costruzione grammaticale così semplice.

-Mi hai chiamato qui solo per fare del tè?-

Heracles alzò le mani con lentezza per poi posarle sulle spalle del ragazzo. Kiku sentiva quelle iridi opache su di lui. Inespressive, come al solito. Il suo viso sembrava una statua coperta da un sottile strato di pelle.

-Abbiamo molto di cui discutere-

La voce assolutamente monocorde e insipida non faceva che accentuare questo paragone.

-Penso che il tè sia qualcosa di ideale in queste occasioni-

Kiku era dubbioso. Scrutò il volto dell’uomo. Si chiese se stesse scherzando. Ma ormai conosceva Heracles come le proprie tasche ed era certo che non era tipo da lasciarsi andare a burle e battute. Il breve silenzio che seguì convinse l’asiatico a seguire il comando dell’uomo con una scrollata di spalle.

“Qualcosa di ideale in queste situazioni?”, ripensò il moro, mentre sollevava il bollitore fischiante dal fuoco.

“Questo non è qualcosa che di solito esce dalla bocca di Heracles”

Il bibliotecario se ne fregava delle situazioni e delle buone maniere: mirava esclusivamente al proprio obiettivo e ogni suo gesto era finalizzato al raggiungimento di un determinato scopo.

Scosse la testa, avviandosi nuovamente verso la biblioteca. In mano aveva un vassoio su cui traballavano un poco due tazze e una teiera. Dopotutto, anche il greco era umano, no?

“Magari ha semplicemente voglia di qualcosa di caldo”

Mentre posava il prezioso carico sullo scrittoio colmo di libri e polvere, il moro si impose di smettere di occupare la propria mente con questi pensieri superflui.

Come protese il braccio verso il recipiente con l’intenzione di versare la bevanda, fu bloccato da il movimento repentino della mano dell’altro.

-Siediti-

Il castano prese la teiera e versò con lentezza il liquido nelle tazze.

-Faccio io-

Kiku, sempre più confuso, non obiettò. Ora più che mai era impaziente di ascoltare ciò che l’altro doveva dirgli. In quei pochi istanti in cui l’asiatico si voltò alla ricerca di una sedia, il greco fece scivolare repentinamente della fine polverina bianca in una delle due tazze.

Finalmente, entrambi si accomodarono, Kiku su uno sgabello, Heracles dietro la sua scrivania. Per un po’ sorseggiarono il liquido fumante in silenzio.

L’asiatico osservò il bibliotecario: questo si limitava a guardare di fronte a sé con aria assente, alzando ogni tanto il braccio per portare la fredda ceramica alle labbra. Sembrava il solito Heracles, ma il giapponese sembrò cogliere uno strano particolare nella sua espressione, qualcosa che increspava il suo usuale velo di indifferenza.

Kiku provò una crescente sensazione di disagio. Si mosse un poco sulla sedia, spostando il peso da un lato all’altro. Fu colto di sorpresa quando il bibliotecario finalmente aprì bocca.

-Come procede l’allenamento dei nuovi arrivati?-

Kiku rimase in silenzio, soppesando la domanda. Una semplice richiesta, del tutto lecita. Eppure era stata posta come una semplice frase di circostanza. Iniziò lo stesso a parlare. Qualunque cosa per sciogliere la tensione formatasi nella stanza. Descrisse i progressi dell’inglese, di come ormai sapesse maneggiare discretamente le spade, nonostante fosse palese la mancanza di un vero e proprio talento. Con un po’ di imbarazzo, provò a riferire dell’assoluta incapacità di Feliciano di afferrare saldamente un qualsiasi tipo di arma, cercando di trasmettere il messaggio con parole più clementi e gentili.

Heracles annuiva. Kiku credeva di trovarsi di fronte a un vecchio giocattolo inceppato, l’unica azione di cui era capace resa perpetua. Ebbe l’impressione che l’altro in realtà non stesse ascoltando una singola parola di quello che stesse dicendo. Per quanto fossero imperscrutabili i suoi occhi, non poté non notare gli sguardi che di tanto in tanto lanciava alle ombre della stanza che lentamente si accorciavano per dare spazio alla luce del giorno.

 

Feliciano arrancava lungo il corridoio, strascicando un piede dopo l’altro. Una mano tentò di coprire uno sbadiglio troppo rumoroso e troppo grande. Mugolando, il ragazzo si stropicciò gli occhi assonnati. Si massaggiò lentamente un fianco, i dolori dell’allenamento del giorno precedente che comparivano nuovamente: non poteva contrarre un muscolo senza sentire una fitta di dolore che si irradiava in tutto il corpo.

Feliciano osservò con astio il volume che stringeva tra le mani, la causa di quella levataccia mattutina: “Tecnica e procedimenti per lo sviluppo dell’idrostatica”. Idrostatica… Ma cosa diavolo servirebbe l’idrostatica? Ma soprattutto, cosa importava al greco dell’idrostatica?

Sospirò rassegnato, lasciando ciondolare il braccio e facendo dondolare il volume su e giù. Si chiese lamentosamente perché il bibliotecario aveva assegnato a lui un incarico tanto seccante. Non avrebbe potuto semplicemente restituirlo a pranzo, quando sicuramente si sarebbero incontrati?

Immerso in queste elucubrazioni, s’appresto a girare all’ennesimo incrocio di volte.

Ma improvvisamente si fermò. Semi nascosto dall’ombra del corridoio, vide un piccolo gatto bianco. Era immobile, vigile e lo stava scrutava con i suoi grandi occhi gialli.

-Ehi!-

L’italiano si abbassò, protendendo amichevolmente un braccio verso l’animale.

-E tu cosa ci fai qui?-

Prima che l’italiano potesse accarezzargli la testolina, il piccolo felino indietreggiò. La mano si bloccò a mezz’aria. Il gatto continuò a fissarlo. Non sembrava intimorito: semplicemente lo guardava.

D’un tratto, il gatto si voltò e schizzò a tutta velocità lungo il corridoio, scomparendo nel buio. L’italiano seguì la linea di quella insensata quanto rapida fuga. Sospirando ancora, si rialzò e procedette nuovamente verso la biblioteca.

“Sicuramente”, pensò, “non sono l’unico ad avere iniziato male la giornata”

 

Eduard premette le tempie tra i palmi delle mani. Un gemito di dolore sfuggì dalle sue labbra, risuonò come un eco per la stanza semi buia. Si accovacciò contro il muro, il viso coperto da uno strato di sudore freddo.

“Hai fatto come ordinato?”

Un altro lamento, più acuto dei precedenti, rotolò fuori dalla gola arrochita dalle troppe grida.

-Si-, uggiolò l’estone.

“Il posto è quello prestabilito?”

Il ragazzo scosse violentemente la testa, nella speranza che quella voce maledetta gli uscisse dalla testa.

“RISPONDIMI!”

Quell’urlo sembrò lacerargli le carni, ridurgli il cervello in poltiglia. Si strinse disperatamente la testa, si rannicchiò contro la parete mentre guaiva e balbettava.

“RISPONDI EDUARD!”

-Si, si, basta!-, strillò, quelle fitte che rischiavano di farlo impazzire, -Ho fatto tutto quello che mi hai ordinato!-

Il dolore che lo opprimeva sembrò allentarsi per un poco. L’estone compianse la propria misera condizione: il tremare incontrollabile gli impediva di reggersi sulle proprie gambe e il sapore salato delle lacrime e del muco ricopriva le sue labbra screpolate.

“E l’altro ragazzo, il fratello… è in quella città, vero?”

-Si…-, sussurrò Eduard, quell’unica parola così difficilmente distinguibile tra i balbettii sconnessi.

La voce sembrò scomparire. Eduard chiese se fosse tutto finito.

 “Eduard…”

Un suono strozzato uscì dalla sua gola.

“Devi fare in modo che i Possessori escano dalla sede per cercarlo”

Eduard alzò di scattò la testa, pietrificato.

-M-ma è impossibile!-, tartagliò, un sorriso incerto che apparve frastagliato sul volto pallido.

-Come farò da solo a-

Il resto della frase fu inghiottito da nuovi spasimi. Gridò, gridò con quanto fiato aveva in gola. Attendeva che quella tortura scemasse, perché sapeva che la Voce era così crudele da non donare neanche il ristoro dell’incoscienza.

“Forse non capisci la tua situazione”

Lo scienziato, frastornato dai propri urli, distinse questi pochi sibili.

“Tu sei mio, io posso farti quello che voglio. Con uno schiocco di dita posso anche ucciderti. È questo che vuoi?”

Quella tortura era terribile. Era come se la propria testa fosse trapassata innumerevoli volte da lame infuocate.

“È QUESTO CHE VUOI EDUARD?”

-No!-, urlò, -No, no, no! Farò tutto quello che vuoi! Ora, basta, BASTA!-

Il dolore cessò definitivamente. Mentre piangeva silenziosamente, i denti che battevano senza controllo, la Voce sembrò lasciare un ultimo messaggio, come un pensiero sfuggente.

“Ricordati Eduard”, quel suono si frammentò in sillabe scomposte, “Non puoi più sfuggirmi…”

 

Kiku continuò a tormentarsi le mani: una strana tensione aveva iniziato a impossessarsi delle sue membra. Di tanto in tanto lanciava brevi occhiate al bibliotecario: questo aveva addirittura abbandonato il tentativo d’instaurare una conversazione, limitandosi a fissare il vuoto. La tazza di tè era ancora stretta tra le mani. L’uomo era congelato in quella posizione di chissà quanti minuti.

Il giapponese si dondolò nervoso sulla sedia. L’istinto gridava di lasciare quel luogo il prima possibile. Ma una strana inquietudine lo inchiodava alla sedia, sentiva una strana sensazione, forse un presagio, qualcosa di imminente che lo stava minacciando, come una spada appesa sopra la propria testa.

Qualcosa interruppe il filo dei suoi pensieri. Sobbalzò quando vide il gatto bianco di Heracles comparire misteriosamente davanti ai suoi occhi.

“Come ha potuto entrare nella stanza così silenziosamente?”

Il piccolo animale balzò nel grembo del proprio padrone, si strofinò contro la sua vecchia casacca, miagolando soddisfatto. Il greco parve scuotersi dal suo stato di torpore. Osservò per qualche instante il gatto che alla fine decise di accoccolarsi meglio sulle sue gambe.

Dopo un tempo che parve infinito, il bibliotecario parve aver elaborato ciò che era successo intorno a sé. Iniziò ad accarezzare distrattamente il piccolo felino, mentre le sue iridi si inchiodarono finalmente in quelle scure dell’altro.

-È giunto il momento, Kiku-

Kiku sentì nuovamente quella strana sensazione strisciargli nello stomaco.

Cercò di scrutare nello sguardo dell’altro: non vide altro che la sottile pellicola di un guscio vuoto.

 

Feliciano alzò gli occhi ed esultò: vide a qualche metro l’ultima svolta che lo avrebbe condotto finalmente alla biblioteca. Si sarebbe potuto liberare da quello stupido libro, schiacciare un pisolino e poi andare a trovare Ludwig nel laboratorio! Con questo ultimo pensiero che lo rallegrò ulteriormente, si precipitò verso quella fatidica porta con un sorriso sulle labbra.

-Sei un mostro, Heracles!-

L’italiano si bloccò nella sua posizione, la mano pronta ad abbassare la maniglia. Quell’urlo non era forse di Kiku?

-Il mostro non sono io, Kiku-

L’altro non poteva essere che il bibliotecario. Avrebbe riconosciuto ovunque quella voce monocorde, quasi surreale ed estranea a qualsiasi corpo umano.

-I mostri sono là fuori e sono aumentati. Una crescita esponenziale, e sai cosa questo comporterà-

Felicitano tentennò. Forse sarebbe dovuto tornare più tardi, dopo che i due avessero risolto le loro questioni.

-Heracles, ascolta-

Felicitano percepì che qualcosa non andava: la voce del giapponese era implorante e disperata.

-Appena un mese fa hai fatto la scelta giusta, lo hai lasciato vivere! Perché proprio ora…?-

Ma non era solo questo. Le parole erano strascicate, ingarbugliate. Non vi era qualcosa di strano nelle sue frasi, ma in come le pronunciava. La lingua aveva difficoltà a muoversi, il respiro era spezzato.

-Un semplice esperimento-

-Un… Esperimento…?-

-L’ho lasciato agire liberamente. Era mia intenzione capire se il Bokor lo riteneva una minaccia tale da muoversi personalmente per sopprimerlo-

Felicitano non conosceva il soggetto di quella conversazione. Eppure sentì un brivido percorrergli la pelle. La voce del greco era come una lama, anzi, come un bisturi: freddo, asettico, ma ugualmente spaventoso e letale.

-A quanto pare, egli ritiene che il soggetto non sia abbastanza pericoloso. Per questo, reputa sufficiente l’intervento dei Jardin. Ormai ti sarai reso che da ogni angolo di strada ne spuntano nuovi nugoli. E se non l’uccidiamo adesso, le città si trasformeranno in veri e propri vespai di zombi-

-Non possiamo, non possiamo!-

Rumore di mani che sbattono sullo scrittoio colmo di volumi.

-Non posiamo ucciderlo! Noi difendiamo persone come lui! Non ha senso combattere questa guerra se uccidiamo persone innocenti!-

Feliciano non ce la faceva più: voleva capire cosa diavolo stava succedendo lì dentro. Così,  deglutendo nervosamente, abbassò con delicatezza la maniglia. L’uscio produsse solo un leggero cigolio che fece però saltare il cuore in gola al ragazzo. L’italiano gettò un’occhiata: vide Kiku ritto davanti alla scrivania, le mani che stringevano spasmodicamente il bordo di mogano. Feliciano si spaventò: il volto del giapponese era eccessivamente pallido, quasi cereo, il corpo era scosso da forti tremiti e sentiva il suo respiro affannoso che riempiva il momentaneo silenzio della stanza.

Indeciso sul da farsi, il rosso lasciò vagare ancora lo sguardo. Sobbalzò: Heracles, seduto dalla parte opposta dello scrittoio, sembrava guardare proprio nella sua direzione!

“Impossibile!”, si disse l’italiano, “non c’era modo che da quella posizione mi possa scorgere!”

Trattene il fiato, finché, con suo enorme sollievo, le iridi del bibliotecario scivolarono di nuovo sul viso tremante del giapponese.

-Questa tua affermazione è del tutto insensata, Kiku. Devo forse ricordarti che tutti i Jardin che hai ucciso sono state persone innocenti?-

Kiku tentò di ribattere, ma Heracles lo interruppe.

-Non abbiamo scelta, dobbiamo ucciderlo. Non voglio ripetermi ancora. È già stato tutto deciso. Ludwig ha già fatto atterrare la nave-

Feliciano ricordò la sera precedente: Ludwig correva frenetico da una parte all’altra del laboratorio, imprecando contro il greco che aveva insistito nell’anticipare l’atterraggio per la pulitura della Stanza del Fuoco.

-Heracles…-

Un sussurro timoroso e angosciato provenne dal moro.

-…dove siamo…?-

I suoi ansiti diventavano via via più pesanti. Il viso del greco era imperscrutabile.

-È la città dove attualmente soggiorna il soggetto, una città a nord della Confederazione Etrusca-

-Ti prego, Heracles…ci deve essere un modo…-

-Finisci il tuo inutile dramma, Kiku-

Ora Feliciano ne era sicuro. Heracles lo stava proprio fissando.

-Questo è il giorno…-

Il greco si alzò. Pronunciò quella frase come un oratore di fronte a una platea.

-…in cui Lovino Vargas morirà-

Silenzio.

Le parole, le frasi, le immagini, tutto quel guazzabuglio incomprensibile parve unirsi e seguire un unico filo conduttore.

Un tonfo. Il libro era scivolato dalle sue mani.

Confusione. La porta era spalancata. Era stato lui ad aprirla? Non importa.

Vide gli occhi sgranati di Kiku, due pozze nere su una distesa bianca. Poi seguì lo sguardo di Heracles. Sulla sua patina verde lesse ciò che l’uomo voleva che facesse. Questo combaciava perfettamente con ciò che aveva intenzione di fare.

Non lo deluse.

Indietreggiò, voltò le spalle alla biblioteca e iniziò a correre.

Doveva salvare suo fratello.

 

-No…!-

Kiku si slanciò verso la porta. Aveva frainteso, doveva fermarlo, aveva letto sul suo viso le sue intenzioni, sarebbe morto!

Come il suo piede poggiò sul pavimento, Kiku ebbe appena il tempo di provare un brevissimo senso di vuoto, come se qualcuno avesse tolto l’appoggio ai propri passi. Un momento terribile, di sospensione, in cui ti si mozza il respiro e il cuore pare fermarsi.

Sentì le gambe cedergli e in un momento si ritrovò steso sul pavimento, il proprio corpo che non rispondeva ai suoi ordini. Gli oggetti parvero sbiadire, i contorni mescolarsi e creare un caotico insieme di linee, macchie e colori. Provò a parlare, ma ciò che uscì dalla propria bocca furono suoni privi di senso. Un buio denso e pesante calava inesorabilmente sulla sua mente. Cercava inutilmente di lottare contro di esso, ma sentiva le proprie forze che andavano scemando.

D’un tratto vide gli sporchi stivali del greco davanti i suoi occhi. Alzò lo sguardo, confuso. Era forse un’allucinazione, o quello che vide sul suo volto era una pallida ombra, un germe stentato di un’emozione?

Non lo seppe mai. Una pesante coltre d’oscurità ricoprì i suoi pensieri. Sprofondò in un sonno profondo e senza sogni.

Heracles vide il corpo drogato del giapponese accasciarsi scomposto tra le pagine dei propri amati libri.

-Dormi per un po’, Kiku…-

 

Il bibliotecario chiuse lentamente la porta dietro di sé.

La mano indugiò un poco sulla maniglia. Kiku era dall’altra parte, svenuto. Sentiva la presenza fisica di quel corpo come se non ci fosse una barriera di legno a separarli.

La fronte liscia del bibliotecario s’increspò per un secondo. Un attimo, nulla di più. Con una nuova maschera, si voltò definitivamente per compiere il proprio dovere.

Come decise di muoversi, la sua attenzione fu catturata da un uomo che correva verso di lui in una chiara condizione di agitazione e confusione. Riconobbe Eduard, l’assistente di laboratorio assunto cinque anni fa. Non appena l’estone vide il greco, gli corse incontrò, sommergendolo con sillabe tartagliate pronunciate gesticolando nervosamente.

-Signore…! L’atterraggio…! Siamo, siamo… in pericolo! Si, in pericolo! Dobbiamo scendere tut-

-Zitto-

Lo scienziato si bloccò. Non seppe perché, ma quella semplice parola sembrava possedere un velo di minaccia. Il volto del greco era imperturbabile.

-Ascoltami bene, non lo ripeterò un’altra volta-

Eduard deglutì.

-È una questione della massima importanza e ho bisogno della tua completa collaborazione. Ci siamo intesi?-

L’estone annuì, incerto.

-Feliciano è scappato alla ricerca di suo fratello. Deve aver premeditato questa fuga da molto e tempo e ha atteso l’atterraggio mensile della nave. Rischia di attirare a sé gruppi di Jardin, mettendo in pericolo la propria vita e quella degli abitanti della città. Ordina a tutti i Possessori di uscire e andare a cercarlo-

Eduard lo guardò confuso, aprì più volte la bocca senza emettere un suono. Cercava di fare una somma delle parole dell’altro, delle sue intenzioni, del proprio piano.

-Cosa ci fai ancora qui?-

Lo scienziato si spaventò. Quel basso sibilo era stato pronunciato proprio dal greco, sempre così indifferente? Con crescente terrore, vide il viso del greco trasformarsi: una fredda maschera cadde per lasciar posto a un viso trasfigurato dall’ira. Nessun cambiamento poteva essere più mostruoso.

-MUOVITI!-

Eduard sobbalzò, si sistemò con mani tremanti gli occhiali, balbettò un incerto “si”, ciabattò velocemente lungo il corridoio.

-Aspetta-

L’estone si fermò. Un muto e insensato terrore lo convinse che il greco avesse scoperto tutto.

-Non preoccuparti per Kiku. Lo avvertirò personalmente-

Dopo che lo scienziato, letteralmente, fuggì, Heracles si concesse un lunghissimo sospiro. Qualcosa si sfregò contro la sua gamba. Abbassò gli occhi. Vide delle iridi dorate fissarlo. Tremò. Per qualche assurda ragione, quel colore lo riportò indietro nel tempo.

palià

Si guardò le mani. Vide quei guanti, quei guanti che possedeva da così tanti anni, quei guanti che continuava a indossare giorno e notte per una semplice promessa fatta a un morto. Quante volte aveva desiderato di toglierseli e porre fine a quella tortura interminabile?

-Sei felice adesso, vecchio?-

Il gatto inclinò la testa. Forse si chiese il motivo per il quale si era meritato quella frase sprezzante. Forse non sapeva neanche di aver risvegliato vecchi dolori sepolti sotto tonnellate di libri e inutili giustificazioni.

 

Francis correva a perdifiato. Sentiva i propri passi rimbombare per l’alte volte del corridoio e il cuore che batteva furiosamente. La Stanza del Fuoco. Era lì che avrebbe trovato sicuramente Gilbert, sapeva che era il luogo dove l’amico sgattaiolava a ogni buona occasione.

Svoltò, rasentando lo spigolo della parete. Vide l’entrata del corridoio buio e i lontani bagliori che disegnavano nell’oscurità sfocati vortici fiammeggianti. S’addentrò tra le tenebre senza indugio.

-Gilbert!-

Si stupì nel constatare che quelle parole fossero uscite dalla propria bocca: in esse coglieva il panico e l’angoscia che lo stavano attanagliando. Quell’eco sembrò storcersi nell’atmosfera densa, rimbalzò sulle pareti per tornare alle sue orecchie come un suono distorto e sinistro.

Superò la porta trasparente, dietro cui il cuore della nave respirava grandi torri di fuoco. Intravide il fondo del corridoio e finalmente lo trovò: l’albino era seduto, una spalla appoggiata al muro e le gambe strette al petto. Quelle iridi rosse erano come due piccoli fuochi che costellavano il buio e in quel momento lo fissavano sorpresi e, non ne era sicuro, molto irritati.

-Francis!-

Decisamente irritato, la sua voce gracchiante inspiegabilmente più aspra.

-Cosa diavolo ci fai qu-

Una sfumatura nel buio, un movimento registrato dall’occhio in un attimo. Per istinto, Gilbert alzò le braccia per afferrare al volo ciò che il francese gli aveva lanciato contro. Abbassò lo sguardo, trovandosi ad abbracciare la propria spada. Alzò gli occhi sull’altro, le sopracciglia aggrottate, la bocca leggermente aperta. Francis si era nuovamente voltato. Rapidi gesti, armoniosi nonostante trasparisse da essi ansia e agitazione. Il biondo alzò un braccio, puntò il palmo aperto della mano davanti a sé.

-Francis, che cazzo sta suc-

Le parole dell’albino furono inghiottite da un cupo fischio proveniente da sopra la propria testa. Sentì misteriose correnti d’aria che soffiavano intorno a lui e che gonfiavano i suoi vestiti. D’un tratto, la forza delle correnti aumentò, costringendolo ad abbassarsi per non essere trascinato avanti.

-Che cazzo sta succedendo, Francis?-, gridò sopra quel frastuono.

 I venti iniziarono a confluire davanti al palmo teso del francese, formando un piccolo vortice.

-Non c’è tempo per spiegare!-

Lentamente, come piccole isole luminose, particelle di luce bianca apparvero nell’oscurità e si lasciarono catturare dai flusso della spirale.

-Feliciano è fuggito!-

Il rumore era insopportabile. I venti parvero accavallarsi, ululare come bestie rabbiose, i corpuscoli fluorescenti cozzavano tra loro, onde luminescenti si scontravano come un mare in tempesta.

Gilbert tentò di superare quel caos.

-Fuggito?-

-Si, fuggito!-, ruggì il biondo, che tentava di dominare quella frattura nello spazio.

-È scappato ed è corso in città! Sta attirando su di sé tutti i Jardin! Rischia di farsi ammazzare!-

Il globo sospeso davanti alla mano di Francis parve acquistare densità. Le correnti iniziarono a vorticare intorno a questo punto, i corpuscoli lattei si addensavano al centro. Era come assistere alla nascita di un piccolo universo.

-Ma cosa… Perché?-

-Non lo sappiamo!-, gridò Francis frustato.

Gilbert non poté vedere la smorfia carica di sofferenza che si disegnò sul volto dell’altro.

-Ma quella città è invasa da Jardin, non si è mai vista una cosa simile, finirà ammazzato se non lo troviamo!-

La creazione del portale era al suo apice. Lo specchio di pura materia si andava ad allargare ogni secondo che passava, emanando bagliori argentati lungo il corridoio buio.

Gilbert cercò di fare ordine all’interno della sua mente. L’improvvisa interruzione, la notizia della scomparsa dell’italiano, il Dono dello Spazio, tutto era successo troppo velocemente! Solo allora l’albino riuscì a cogliere dei bassi sussurri provenienti dietro la superficie a cui si stava appoggiando.

-Gilbert…? Gilbert, che succede?-

Il ragazzo lanciò una fugace occhiata al francese: era concentrato sull’ultimazione del portale, e comunque il sibilo delle correnti impediva all’altro di cogliere quelle parole bisbigliate. L’albino tornò a voltarsi verso le ante. Posò una mano sulla fredda superficie metallica, come se quel contatto fosse rivolto all’individuo celato oltre ad esse.

-Sono qui-

-Jardin? Ha detto Jardin, vero? Gilbert!-

Il ragazzo fissò il freddo metallo, confuso. Cosa era quella strana reazione? E come faceva l’uomo a conoscere i Jardin?

-Non ti preoccupare, me ne occuperò in un attimo e-

-No, ti prego!-

Il suo sguardo cremisi perforava le ante che gli si ergevano davanti, come se riuscisse davvero a vederlo oltre quella barriera fisica.

-Non i Jardin! Non andare, non andare!-

Una risata strafottente fu risucchiata dall’ululato delle correnti.

-Tu stai dimenticando chi sono!-

Gilbert batté una mano sul petto, un ghigno che percorreva il pallido viso.

-Io sono Gilbert, il Magnifico, e nulla potrà farmi del m-

-Gilbert!-

Il richiamo dell’amico lo fece voltare. Lo specchio era pronto, si stagliava davanti a lui come un mare dai fondali brillanti. Vide l’amico estrarre la spada dalla cintura stretta alla vita. Francis si voltò, fece segno di muoversi, e si immerse nelle acque argentate.

Gilbert sapeva che il tempo era scaduto. Rivolse un ultimo sguardo alla porta metallica, una fuggevole carezza alla sua superficie, una frettolosa promessa.

-Tornerò presto-

L’albino balzò in piedi e si gettò nel lago senza fondo. S’immerse nel Nulla e scomparve.

-Gilbert, Gilbert!-

L’uomo continuava a chiamare il nome dell’altro. Batteva con forza i pugni contro le fredde ante di metallo. Inutile. Se fosse stato nel pieno delle sue forze avrebbe sfondato quella porta maledetta e lo avrebbe fermato. Il rimorso di essersi lasciato indebolire nel corso degli anni lo colpì per la prima volta. Si accasciò contro il muro, privo di forze. I Jardin erano ancora vivi. Lui… lui credeva di averli uccisi tutti!

Un barlume di dolore. Un frammento di ricordo impresso a fuoco nella sua mente stanca e confusa. Fiamme. Sangue. Morte. Occhi dorati. Vuoti.

-No…-

Si portò il viso tra le mani. Perché tutto gli sfuggiva come sabbia tra le dita? Un’altra persona che se ne andava e moriva e lui troppo lontano per proteggerla. Voleva uscire. Voleva andarsene da quel luogo, disperatamente. Non avrebbe mai creduto che potesse nascere di nuovo in lui questo desiderio. Ma ora sentiva che aveva qualcuno che aveva bisogno del suo aiuto.

 

 

Note d’Autrice

 

PERDONOOOOOOOOOOO!!!!

CHIEDO SCUSA PER L’IGNOBILE RITARDO SONO UNA PERSONA ORRIBILE, UNA CANAGLIA, UNA DISGRAZIATA, LA FECCIA DELLA SOCIETÀ PERDONO PERDONO PERDONO ASDJFGHBKOGPKVPLF IUVUIODCDH!!!

*personaggio random che da una schiaffo all’Autrice e la fa rinsavire*

Emh, dicevo.

Cari lettori e lettrici.

Chiedo venia per il ritardo mostruoso.

Beh, è tutto ciò che ho da dire. Potrei stare a scrivere tante scuse per giustificarmi, ma non lo farò.

Spero che semplicemente vi godiate il diciassettesimo capitolo di Underneath! :D

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Capitolo 18
*** Time waits for no one ***


Era iniziato tutto con quelle poche e semplici parole.

-Non sembriamo proprio una famiglia?-

Ricordo che tutti si voltarono verso il piccolo Peter, in piedi sulla panca su cui era seduto fino a pochi secondi prima. Da quale misterioso affranto della sua  piccola mente fosse uscita quella bizzarra domanda, non lo sapevamo. L’inglesino osservò ogni singolo viso dei presenti al tavolo, gli occhi azzurri grandi e brillanti e le braccia spalancate. Non ottenendo risposta, per cercare conferma alla propria teoria, si voltò verso il timido sorriso di Tino.

Dopo un breve silenzio di perplessità una fragorosa risata ci riscosse tutti. Mathias posò il boccale di birra con un tonfo e batté più volte le mani come un bambino eccitato.

-Si! Mi piace, mi piace come idea!-

Colpì più volte i palmi delle mani sul tavolo producendo un fracasso infernale. Alcuni membri dell’Aletheia si voltarono verso di noi. Vidi la donna dai lunghi capelli sorridere alla nostra direzione tirando la manica al proprio marito. Il pianista incrociò il mio sguardo, aggrottando lo sguardo in segno di disapprovazione. Adocchiai anche quello strano ragazzino che percorreva sempre i corridoi della sede coperto da quella enorme sciarpa. Qualcuno accanto a lui lo ammonì con un forte accento orientale.

-Ivan, non è buona educazione fissare le persone!-

Il bambino distolse gli enormi occhi viola dal loro gruppo per correre dietro alla figura dai capelli corvini.

D’un tratto, un lampo mi distolse da quella contemplazione. Vidi il pugno di mio fratello abbattersi con violenza inaudita sulla zucca di Mathias.

Sommerso dall’urlo di dolore del danese captai la voce di Niels sussurrare seccata:

-Comportati da adulto-

Il fratellone fece scomparire immediatamente quella minima traccia di emozione. Si rimise composto, le braccia posate sulle cosce.

-Idiota-, aggiunse tranquillamente.

-Niels, ma che ho fattoooo?-, piagnucolò Mathias, arruffandosi i capelli.

-Cretino-

-Ma Niels!-

-Insomma!-

Peter gonfiò le guance cercando di attirare nuovamente l’attenzione.

-Facciamo la famiglia si o no?-

Mathias balzò di nuovo in piedi.

-Niels farà la vecchia scorbutica, tanto per corporatura siamo proprio l-

Un nervo sulla fronte del fratellone. Brutto segno. Un tonfo e il danese si ritrovò piegato in due. Mi aveva sempre sorpreso questa sua vena autolesionistica.

-Uffaaaaa! Mi volete ascoltareee!-, piagnucolò Peter.

Con grande sorpresa di tutti noi, Berwald si mosse: si voltò lentamente e posò una mano sulla spalla di Tino con la sua solita espressione cupa.

-Mh-

Il finnico parve tanto stupito quanto intimorito.

-Tu sarai mia moglie-

Il viso del ragazzo passò per tutte le variazione di rosso e di viola. Tentò a divincolarsi e a torcersi per sottrarsi dalla presa dell’altro, lanciando contemporaneamente alti lamenti carichi d’imbarazzo.

Mathias lanciò loro uno sguardo allusivo. Ormai per nessuno era un mistero cosa ci fosse tra i due. Peter lì fissò imbambolato per poi ridere allegro. Si buttò fra i due abbracciandoli entrambi al collo.

-E allora sarò il vostro bambino!-

Mathias applaudì, deliziato.

-Si, si! E io sarò il fratellone!-

Seguì una piccola baruffa tra il danese e l’inglesino per decidere chi avrebbe dormito quella sera insieme ai genitori.

Sorrisi, osservando quella strana combriccola seduta intorno a quel tavolo.

Niels, il fratellone che mi aveva consolato e mi aveva stretto a sé in quella notte di tanti anni fa in cui una barca di Jardin ci rapì dal nostro villaggio a Nord.

Mathias, il capitano della barca che ci raccolse in mare dopo che l’imbarcazione degli zombi era affondata.

Tino, il cui vero Dono era stato quello di aver fatto sorridere per la prima volta Berwald.

Berwald, l’uomo cupo che aveva rischiato la vita per salvare Tino dall’attacco dei Jardin.

Peter, il misterioso ragazzino strappato dalla propria famiglia londinese e portato al sicuro all’Aletheia.

-Eirik, Eirik! Mi stai ascoltando?-

Tante storie, tanti ricordi, tanti dolori. Eppure ci trovavamo tutti i giorni lì a quel tavolo, come una piccola riunione di amici e parenti, ridendo, scherzando, dimenticando, riempiendo gli spazi vuoti del nostro cuore con un po’ di calore ed affetto.

-Insomma, Eirik! Vuoi rispondere?-

Sorrisi. Non era quello che in effetti faceva una famiglia? Sostenersi a vicenda?

Guardai ogni loro singolo viso, i miei amici, i miei compagni, i miei fratelli.

Calò il sole. Per l’ultima volta.

Le macerie della sede dell’Aletheia erano bagnate dal sangue del mio sangue. Quel poco di calore che avevano trovato i nostri cuori si dissolse nel freddo gelo dell’alba.

 

-Torneranno? Non è un bel po' che stai aspettando?-

-Non ti rendi conto che non c'è nessuno qui a parte noi? E se ci fossero, perché dovrebbero tornare per un fantasma?-

-...fantasma...?-

-...cosa stai dicendo...?-

-...io non sono morto...-

-...e loro torneranno...-

 

Arthur era seduto sul letto, la schiena poggiata contro il muro e le gambe incrociate, tenendo tra le mani l’amata chitarra elettrica. Le dita scivolavano lungo i tasti, stranamente impacciate. Tentava di concentrarsi solamente sulla sensazione dei polpastrelli che percorrevano le corde metalliche, ma dallo strumento provenivano solamente accenni di musiche, accordi stonati, melodie interrotte di botto.

Sospirando, lasciò perdere. Poggiò con delicatezza la chitarra accanto a sé. Portò le ginocchia al petto e li circondò con le braccia. Sbuffò nervosamente. Provò a voltarsi verso l’armadio.

Era ancora lì.

Distolse subito lo sguardo. Fece sprofondare il viso tra le braccia incrociate e, cercando di non farsi vedere, sbirciò nuovamente verso l’alto.

Era sempre seduto lassù. Era così da giorni. Precisamente da quello strano incontro con Alfred. Ricordava perfettamente il momento in cui l’americano si era allontanato, finalmente consapevole della strana posizione in cui si trovavano. Rivide quel sorriso impacciato e quel cenno di saluto, poi lo scatto della porta che si chiudeva dolcemente. Ripensava anche a se stesso, a come rimase fermo, intorpidito da uno strano calore che gli percorreva il corpo e da un piacevole e tiepido disordine nella testa. Lentamente si alzò, sentendosi un poco stordito. Poi lo vide.

Trasalì. Dal buio degli alti angoli della stanza, due occhi lo stavano fissando. Due sfere opalescenti che emersero con lentezza estenuante dall’oscurità. Prima il viso, il petto, poi le braccia e le gambe. Il fantasma fluttuò un poco, sospeso nell’aria come un ritaglio di carta. Iniziò a muoversi, trasportato da un vento inesistente. Danzò nel vuoto come una foglia di autunno e con la stessa tristezza graziosa di adagiò sopra l’armadio.

Qualcosa non andava. Arthur guardò nuovamente quegli occhi. Specchi di luce opaca. Pezzi di vetro incastonati in un viso di bambola. Lì il fantasma si lasciò andare e lì rimase immobile per giorni. Appena scorgeva l’inglese entrare nella stanza incatenava il suo sguardo al viso dell’altro, muovendo lentamente la testa in totale silenzio. Quelle pozze liquide così distanti perse in un lontano passato.

Arthur si portò una mano davanti agli occhi. Perché tornava in quella stanza? Non sopportava quello sguardo. Era terribile, non voleva diventare così. E si sentiva in colpa per quello che aveva detto.

“Davvero non sapeva di essere morto?”

Aveva un brutto presentimento. Un qualcosa gli stava sfuggendo, eppure sapeva che doveva assolutamente capire. Tutti i muscoli erano all’erta, sentiva le spalle dolergli per la tensione. Lanciò uno sguardo al ragazzino.

Un altro particolare lo inquietava maggiormente. La figura del fantasma non era più definita come un tempo. Adesso appariva come quelle fioche ombre evanescenti che lo avevano sempre seguito dalla sua nascita. I fini capelli argentati, le piccole narici, le labbra serafiche non erano più dettagli perfettamente cesellati da uno scultore. I tratti del viso erano smussati, come se le intemperie lo avessero consumato. Le linee delicate del piccolo corpo ondeggiavano rendendo il fantasma simile a un semplice riflesso dell’acqua. Da esso piccole gocce luminose si staccavo e fluttuavano come bolle di latte. Quelle piccole particelle si erano sparse per la stanza e sembravano piccole mani che lo carezzavano e bocche che sussurravano e sospiravano.

-Sono morto…-

Arthur alzò di scatto la testa. Quello che aveva sentito era davvero un sussurro?

-Io sono morto-

No, non si era sbagliato. Aveva visto le piccole labbra formare quelle due semplici parole.

Il fantasma sembrava testare quelle parole, come se ne assaporasse il gusto amaro sulla lingua. Si guardò le mani, forse capendo per la prima volta perché la propria pelle fosse così diafana.

-Sono morto-, ripeté con la voce leggermente rotta.

L’inglese vide con terrore gocce di luce rotolare da quegli occhi chiari. Lacrime?

-Fratello…-

Arthur si appiattì contro la parete. Le luci sospese nel vuoto iniziarono a vorticare sempre più velocemente. Sfrecciavano accanto al suo viso, lasciando dietro di sé una scia argentata. Sembravano riunirsi in quel punto sopra l’armadio.

-Fratello!-

Le particelle bianche sfrecciavano così veloci da produrre un fischio acuto. Il vento causato dal loro movimento sembrava quello di una bufera. Arthur guardò atterrito una piccola sfera crearsi davanti al fantasma. Adesso le comete si congiungevano lì, venendo inglobate da quella massa bianca. Man mano che le luci venivano assorbite, quel globo in miniatura aumentava di densità e rimpiccioliva.

La mente dell’inglese fu attraversata da un lampo di comprensione. Balzò in piedi e si lanciò disperatamente verso la porta.  Troppo tardi.

Il piccolo sole bianco implose. Un’enorme luce bianca si espanse avvolgendo tutto quello che incontrava.

Sentì nuovamente quella sensazione. Lui non esisteva. Lui era il Buio. Lui era il Nulla.

 

Alfred stava correndo verso la stanza di Arthur. Il cuore gli batteva all’impazzata, l’eccitazione che faceva vibrare ogni singola cellula del suo corpo. Feliciano era scappato e si era precipitato in un vespaio di Jardin. Un enorme sorriso comparve sul suo volto accaldato. Finalmente avrebbe avuto l’occasione di mostrare ad Arthur quanto valeva. Con un pizzico di perfidia pensò al dislivello tra loro due in campagna. L’inglese se la cavava, certo, ma quella era la sua prima battaglia!

Si perse in una fantasticheria in cui lui, l’eroe, salvava l’altro circondato da zombie.

D’un tratto, un urlo squarciò il silenzio. Il suo cuore si fermò per un istante.

Arthur. Quella era la voce di Arthur! E proveniva dalla sua stanza!

L’americano iniziò a correre più forte che poté.

-ARTHUR!-

Aprì con violenza la porta. Si bloccò.

-Cos…?-

Il varco della camera era completamente coperto da un portale. Non erano forse simile a quelli creati di Francis? Allungò una mano e la immerse con cautela in quello specchio. La ritrasse di scatto con una smorfia. Non c’erano dubbi: quella sgradevole sensazione era inconfondibile.        

Ma cosa diavolo ci faceva un portare nella stanza dell’inglese? Quella non poteva essere opera di Francis, sapeva che si era già precipitato in città insieme a Gilbert! Chi aveva allora creato quel varco?

S’agitò. Cosa doveva fare? Doveva raggiungere gli altri! Ma Arthur? Non si era sbagliato! L’urlo era di Arthur e proveniva proprio da dentro il portale! Gli era forse successo qualcosa? Era stato risucchiato dalla massa bianca?

-Ma la battaglia…-

Lui era l’eroe! Avrebbe dovuto salvare migliaia di persone! Eppure stava esitando lì davanti per il destino di una singola!

Si fermò. Guardò fisso la superficie lattea. Non poteva negare: nella sua mente sapeva già cosa fare. Trattene il fiato e si gettò tra quelle acque fredde.

Il perché una sola vita gli sembrò più importante di tutte quelle altre al mondo, beh, questo non se lo sapeva spiegare.

 

Feliciano sentiva il petto scoppiargli. Correva per i vicoli della città senza un percorso preciso da seguire. Strade, vicoli, svolte. Tutte queste gli passarono davanti agli occhi come un confuso ammasso di mattoni e calce senza senso. Era dentro un labirinto senza uscita. Ma non poteva fermarsi. Non poteva, non dopo aver sprecato così tanto tempo.

Urlò il suo nome.

Ogni respiro era una tortura, il fiato gli raschiava la gola, ma questo non lo avrebbe fermato.

-Lovino!-

Il suo grido si propagò nella via, ribalzò sulle pareti e lo colpì in tutta la sua disperazione.

Strade, strade e ancora strade. Tutte uguali, tutte, tutte!

Sentiva che le gambe avrebbero ceduto da un momento all’altro. Strinse i denti e continuò nella sua folle corsa. Non c’era più tempo, non poteva, non poteva!

-LOVINO!-

Nulla gli rispose, la sua voce si disperse tra onde che s’infrangevano sulle pietre del porto su cui era appena arrivato.

 

Antonio sollevò gli occhi: Lovino si era improvvisamente irrigidito e aveva alzato gli occhi dal suo piatto.

-Cosa c’è, Lovi?-

-Non lo hai sentito?-

L’italiano si alzò di scatto dalla sedia. Restò immobile, i muscoli tesi, gli occhi fissi davanti a sé.

-Sentito cosa?-

Lovino sembrò irritarsi, ma non rispose. Lo spagnolo si girò e cercò di intercettare cosa avesse catturato lo sguardo dell’altro. Non riuscì però a capire cosa trovasse di così interessante nelle crepe di una parete ammuffita. Lasciò vagare lo sguardo un po’ più avanti: figure losche lanciavano occhiate curiose interrogandosi sullo strano comportamento dell’italiano. Non osavano posare gli occhi sulla sua figura per poco più di qualche secondo e tornavano così a fissare il proprio boccale. Antonio si permise un piccolo sorriso: la fama dell’italiano lo precedeva.

Si voltò nuovamente, guardando l’altro: era sempre nella stessa posizione.

All’improvviso sentì il tavolo tremare per un attimo. Rivolse uno sguardo confuso al ragazzo: Lovino aveva gli occhi sgranati e il viso pallido.

-Lovi, cosa…?-

Poi lo sentì. Tese l’orecchio: un rumore, anzi, una voce. Una voce straziante che si prolungava per qualche secondo per poi ricadere nel vuoto. Gli sembrava così familiare, come se fosse di…

Capì.

-Lovino!-

Allungò una mano per afferrargli il braccio. Troppo tardi: Lovino si era già precipitato tra i tavolini della locanda, travolgendo chiunque intralciasse il suo cammino.

-No!-

Antonio si precipitò verso l’altro.

-Lovino, aspetta!-

L’italiano non si fermò, continuò a correre come un forsennato verso la lunga scala che lo avrebbe condotto all’esterno.

No, no, no!

-Lovino, fermati!-

Quella voce là fuori continuò a urlare.

Doveva fermalo! La città era piena di Jardin…! Smettila, smettila di urlare! Così li avrebbe attirati tutti fuori…! No…!

 

Lovino spalancò la porta ed emerse dalla buia locanda. La forte luce del giorno lo ferì. Si portò una mano a pararsi gi occhi. Cercò di lanciare uno sguardo al di là delle dita aperte.

Non poteva essersi sbagliato. Sentiva il battito nel cuore rimbombargli nella testa. Doveva essere lì, da qualche parte…!

-Lovino!-

Si voltò. Gli mancò il respiro. Era lui. Non un tratto familiare nel viso di uno sconosciuto, non un mantello sospetto che voltava velocemente un angolo della strada.

-Feliciano…-

Un sussurro quasi incredulo. Sentì gli occhi inumidirsi. Senza accorgersene, mosse lenti passi verso il fratello, per poi correre a perdifiato. Anche l’altro si slanciò nella sua direzione.

Voleva stringerlo a sé, sentire il suo corpo, scacciare quella stupida paura che insinuava malignamente nella sua mente che quello non fosse che l’ennesima ombra.

-Feliciano!-

Non lo avrebbe più perduto. Non sarebbe più scappato. Non lo avrebbe più lasciato andare. Avrebbero vissuto per sempre nella loro piccola soffitta romana.

D’un tratto, suo fratello si fermò di botto. Come se il tempo fosse rallentato, lo vide sgranare gli occhi, il sorriso risucchiato in un’espressione di puro terrore. Il suo braccio si alzò, il dito indicò qualcosa dietro le sue spalle. Ebbe appena il tempo di vedere quell’unica, terribile parola sulle sue labbra prima ancora del suono della sua voce. Sentì il grido di Antonio dietro di sé. Un forte odore di carne putrefatta colpì le sue narice.

-LOVINO, ATTENTO!-

 

 

Note d’Autrice

 

Ebbene sì, ci siamo.

La grande battaglia sta per iniziare.

Chi sono coloro che hanno attaccato alle spalle Lovino? Gli altri riusciranno a salvarlo in tempo? Tutto questo era nei piani di Heracles? E come è collegato Eduard in tutto questo?

E poi, cosa è successo nella camera di Arthur? Che fine ha fatto l’inglese e l’americano? Perché il portale è così simile a quello di Francis?

Tutto questo nella prossima puntata! :D

*l’Autrice scompare tra nuvole di fumo*

Ah, il nome del capitolo è preso dalla canzone Illuminated degli Hurts che consiglio di ascoltare leggendo il capitolo.

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