Sogni sparsi

di deliradubbiosa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nell'Italia fascista ***
Capitolo 2: *** Davanti alla TV ***
Capitolo 3: *** Freddie ***
Capitolo 4: *** Pietre ***



Capitolo 1
*** Nell'Italia fascista ***


Viareggio - la stazione ferroviaria negli anni '30 Pictures, Images and Photos
Se Alice non avesse sbagliato traversa, sarebbe arrivata dritta dalla donna (una Regina?) che la aspettava e non nel Paese delle Meraviglie.
Io lo so, e lo faccio. La seconda a sinistra, non la prima. Erbetta fresca, funghi rossi a pois bianchi e famiglie di coniglietti. Tutto molto fiabesco, non c'è che dire.
Ad accogliermi all'arrivo c'è la direttrice di un hotel di lusso che mi porta dentro e mi spiega i miei compiti - lavoro lì. Con qualche gaffe stile Charlie Chaplin, ma a colori, ogni tanto, ma me la cavo.
Le mie colleghe mi avvisano: non bisogna salira al piano superiore dell'hotel, succedono cose strane. Mi incuriosisco e progetto di salire; le mie colleghe mi accompagnano.
Le scale sono state bloccate col nastro dei lavori in corso, sul quale è stampata la scritta "area socialmente" qualcosa. Dai colori crema e rosso scuro dell'hotel si passa al grigio della scala. Saliamo e anche noi diventiamo in bianco e nero.
Mi aspetto di trovare il luogo deserto, così mi viene quasi un infarto quando vedo degli uomini, in bianco e nero anche loro, che parlottano... sembrano impegnati in temi di elevato spessore culturale, come nei caffé durante l'Illuminismo. Si bloccano quando ci scorgono. Mi fanno il segno della svastica: io ricambio. C'è anche un segno di "ammonizione", cioè di disaccordo.
"Ora li ammonisco", fa una mia compagna.
"Sei matta, vuoi farti ammazzare? Ferma!", sussurro concitatamente.
Entriamo con fare disinvolto nella stanza grigia, poi ci appiattiamo alle pareti.
A un certo punto, tutti si voltano verso le scale: Mussolini fa la sua entrata trionfale, in divisa. Ad immortalarlo, al centro della sala, c'è il primo fotografo beneventano (di cui non ricordo il nome e sul quale ho svolto infruttuose ricerche).
Io e le mie colleghe ci nascondiamo dietro a fogli e giornali, per due ragioni: innanzitutto, non vogliamo essere riconosciute in giro da quei tizi e, in secondo luogo, non vogliamo passare alla storia come sostenitrici del fascismo.
"Perché non ci mandano via, visto che siamo donne?", chiede qualcuna.
"Le donne esano ammesse", rispondo: almeno, mi sembra di aver letto qualcosa del genere da qualche parte.
Dopo un po' il duce se ne va e anche noi non vediamo l'ora di fuggire: gli uomini ci guardano male. Ad ogni modo, ci troviamo fuori. Eccoci qui, in piena Italia fascista.
Studiamo come non farci riconoscere.
"Non ci hanno visto granché", dice una.
Mi tocco i capelli rossi. "Forse dovrei tingerli, è un colore troppo riconoscibile".
Le mie amiche mi accompagnano da un parrucchiere (beh, più che altro un barbiere) che mi guarda come se avessi parlato arabo. "'Tingerli'? Cioè?"
"Come, cioè?" Lo guardo a mia volta confusa. Poi capisco. "In America è una cosa normale. Forse qui non si fa ancora". Tiriamo fuori il nuovo mondo, và. Non so neanche se è stata inventata, la tintura per capelli.
"Sei stata in America?", chiede il parrucchiere.
"Una mia parente emigrata me ne ha parlato in una lettera, ma per me una persona che ha abbandonato la patria è come morta", rispondo assecondando il protezionismo mussoliniano.
Usciamo di fretta dal salone in cerca di nuove idee. Guardando un cartello con su stampato un 8, una mia collega dice: "Ci manca un uomo!"
La mia prima percezione è che voglia camuffare il numero 8 da uomo. Andiamo invece in cerca di abiti maschili, di un cuscino per fare la pancia e quindi bilanciare il seno e di un paio di baffi finti. Per qualche ragione, ora che una di noi è camuffata da uomo, ci sentiamo irriconoscibili e al sicuro.
Per controllare di non essere apparse in nessuna foto scattata in presenza di Mussolini, ci rechiamo in una specie di emporio a comprare un giornale. Chiedo all'emporista delle uova (per maggiore tranquillità: non deve sospettare che ciò che ci interessa davvero è il quotidiano).
"Uova"?, ripete lui, immerso nella lettura di una rivista.
"Sì, uova", ripeto.
Il tizio stacca da un pannello sul muro una bambola senza testa e la butta sul bancone. Deve essere una nuova marca di giocattoli, la Uova.
La mia compagna vestita da uomo chiede acidamente: "Da queste parti sapete cos'è un Corriere della Sera?"
L'emporista ci getta un giornale. Troviamo l'articolo che ci interessa, ma la foto è tagliata e noi non compariamo.
Usciamo, ma non siamo ancora tranquille. E' ormai sera; ci rechiamo in un altro emporio, gestito da un signore ben più cordiale, che ci presenta alcune interessanti specialità gastronomiche. Purtroppo nessuna basta per ŧutte, così rifiutiamo e ci limitiamo a chiedere il Bollettino Fascista. Non compaiono nostre foto. Perfetto.
La scena torna a colori; sono nel camerino di un negozio vintage. Mi sfilo un vestito degli anni '30, e con esso tutte le immagini in bianco e nero.
~Maria}

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Capitolo 2
*** Davanti alla TV ***


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Appena finito un film alla TV, inizia uno speciale di Super Quark per un chiarimento sul film. Ospite di Alberto Angela c'è Alessandro Baricco (in realtà è più simile a un Piero Angela coi capelli lunghi) che si accinge a spiegare alcuni fenomeni elettromagnetici presenti nel film. Prende dunque in mano una catena dagli anelli torti, la elettrizza con un macchinario e fa notare, riprendendola in mano ("senza guanti isolanti", penso, accovacciata sul divano in pigiama), che l'ultimo anello, tondo e semiaperto, non si è chiuso. Infilando l'altra estremità della catena nell'anello tondo, questo si chiuderà (primo piano: il mix tra Baricco e Piero Angela è davvero brutto!). "Baricco" spiega che il fenomeno è dovuto all'uguale distanza del centro dell'anello tondo dai "raggi" degli anelli torti. Interviene poi un'attrice molto carina e molto insignificante in un fasciante abito nero a dire non so più cosa. Dice poi che avrebbe paura, ma lo dice quasi ridendo, per intendere che si troverebbe in imbarazzo.
Ciò di cui avrebbe paura è probabilmente un gioco a cui si sottopongono Alberto Angela e Alessandro Baricco: loro e l'attrice si trovano ora all'aperto, pur rimanendo al contempo in studio. E' notte e su un vasto prato sorge un castello alto più o meno quanto una persona, davanti al quale c'è un'area pavimentata. Il gioco consiste nel camminare all'indietro premendo le mattonelle giuste per far abbassare il ponte levatoio.
Terminata la prova, la scena torna in studio e i tre discutono del ruolo del magnetismo nel gioco.
Ad esso si sottopone poi anche l'attrice: il suo imbarazzo ha una certa classe - non è poi così insignificante come mi era apparsa in studio.
A questo punto vengo svegliata.

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Capitolo 3
*** Freddie ***


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Sono una bambina, per ora, coi capelli rossi ricci ricci, una nuvola voluminosa. Sono a un banchetto nuziale, in una stanza stretta e lunga dell’’hotel Royal’, che combatto per mangiare una fetta di melone seguendo il Galateo. Tutto ciò che è successo prima (un casino con gli abiti da cerimonia mio e dei miei, dall’aspetto campagnolo, che presentavano tutti lo stesso taglietto e che abbiamo dovuto cambiare) non ha importanza. Mi trovo seduta all’estremo della tavolata che dà le spalle all’entrata, che a sua volta dà su un cortiletto di pietra bianca, simile a quello di una chiesa, sopraelevato come del resto il ristorante e con due scalinate ai lati.
A un tratto la musica si ferma e il cantante cade con un tonfo dietro di me.
E’ Freddie Mercury. E’ morto.
Un attimo, e una cameriera vestita di nero con grambiule e cuffietta bianca l’ha già messo in una bara, ancora aperta, dietro di me, di traverso.
Finché mio padre mi fissa (sono tornata diciassettenne), non ho il coraggio di avvicinarmi più di tanto. Penso alla vita dissoluta dell’uomo dietro di me e recito una preghiera per lui. Poi penso: “Addio, Freddie. Ti ho voluto bene”. Neanche fossi stata la sua amante o qualcosa di simile.
Finalmente mia madre trascina fuori mio padre (noto che l’uscio della stanza è buio e ha forma a edicola, come una cappella funeraria, e sento i mormorii della gente commossa sul cortile), così posso avvicinarmi alla bara. Le labbra di Freddie, ancora vestito per il palco nel suo celebre completo giallo e deposto nella stessa posizione in cui è caduto, mi tentano, ma mi figuro la scena di me e i miei al termine di una visita ginecologica (da notare che, anche se credo di poter contrarre l’AIDS di Freddie per via salivare, rimango consapevole nell’immaginare la scena che prenderlo non è così semplice), con la dottoressa che ci comunica che ho contratto il virus e i miei che mi guardano sconvolti, increduli e preoccupati, e io che non so dare spiegazioni – questa immagine è tutto ciò che riesce a trattenermi. Volto il viso non di Freddie, ma di di Farrokh Bulsara, e mi accontento di baciargli la guancia, già solcata da un fitto reticolato di profonde rughe.

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Capitolo 4
*** Pietre ***


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In realtà non sono più sicura che si tratti di un solo sogno, anzi, probabilmente si tratta di tre sogni staccati. Tuttavia, la somiglianza delle atmosfere mi induce spontaneamente ad unirli.
E' mattina. Sono in un bus scolastico,non molto diverso dagli autobus di linea - forse un po' più piccolo. Il cauto arancio dell'esterno e i sedili rosso scuro si fondono nella mia mente con il grigio da giorno piovoso che scorgo dai finestrini. Sono con una bambina delle elementari, una ragazzina delle medie e una maestra (io ho la mia età e non ha molto senso la mia presenza lì); ci troviamo, l'una accanto all'altra, in piedi, aggrappate alle sbarre, nonostante i posti a sedere siano vuoti. D'altra parte, il tragitto è breve: siamo dirette verso i luoghi storicamente o paesaggisticamente rilevanti del mio paese. Di tutti, ne ricordo uno.
Siamo in una zona di montagna - ma, parliamoci chiaro, tutto il mio paese è costituito da zone di montagna. Il cielo è limpido, c'è tanta pietra, dal selciato - il terreno era pavimentato o asfaltato - spunta erbetta fresca (cielo!, mi sembra di essere Virgilio o qualcuno del genere a scrivere qualcosa di bucolicheggiante come "erbetta fresca", ma, per quanto mi ripugni usare un'espressione simile, era proprio erbetta fresca). L'oggetto della nostra attenzione è una non meglio definibile roccia marmorea, squadrata, poco lavorata o resa ruvida dal tempo, su un fianco della quale, leggermente inclinato, stanno pietre quadrate, in file, sulle quali era probabilmente inciso qualcosa. La struttura, per quanto singolare, in apparenza non presenta particolari motivi perché ce ne interessiamo; a quel punto, la maestra chiama un prete. Nel mio inconscio, i preti sono depositari di antiche conoscenze e tradizioni: tale penetrata convinzione, seriamente messa in difficoltà di recente per cause che non sto a spiegarvi, mi deriva dalla lunga permanenza nel mio paese di un parroco, ora morto, che ha messo tanta passione (che termine ipocrita, passione! Sembra proprio che oggi non sia in grado di scrivere qualcosa di passabile) nel suo ruolo da finire per trascenderlo e per conoscere il mio paese meglio dei suoi abitanti. Il prete, insomma, solleva una lastra di pietra che copre la fila di sassi più bassa - eccoci iniziate ai segreti del paese come i membri di una misteriosa setta -, poi la maestra toglie l'ultima pietra a destra di tale fila, che, ci spiega con un tono da vecchio saggio, è denominata "pietra di san Tommaso": tolta quella, è possibile muovere le altre come nel gioco dei Quindici e creare spazi vuoti in cui inserire altre pietre "o, ad esempio, un quadro" (e ne incastra uno, anch'esso molto bucolico, ma un po' più alpino, come esempio). La lastra viene rimessa al suo posto, sulla fila più bassa, a suggellare il segreto.
Non ricordo esattamente cosa succede dopo: mi resta solo l'immagine di una ferita sulla mia gamba, fattami inciampando su del filo spinato in un'occasione di una parata stile Columbus Day, e di una casa vicina dall'atmosfera marroncina in cui sono entrata per curarmi. Le mie compagne, maestra compresa, prendono a deridermi a tal punto che mi allontano, orgogliosa e risentita.
Sono in giro per il paese, è pomeriggio, si avvicina il tramonto. Va detto che tutte queste cose che vedo non sono disposte né appaiono come nella realtà, ma sono vicine, in una stradina secondaria, solo pietra e intonaco. Stavolta i punti chiave non sono i luoghi rilevanti del punto di vista culturale, ma quelli che mi danno l'idea di una spensieratezza felice - il campetto di calcio, l'anfiteatro in cui i ragazzini giocano a pallone e dove, nei nero tardi pomeriggi invernali, mi è tanto caro andare a delirare con la mia migliore amica, le case dove andavo a giocare da piccola, i gruppetti di adolescenti che parlano attorno a una moto. Contemplo tutta questa meraviglia di un grigio quasi bianco, appena rosé-lavanda per il tramonto - anche il cielo è grigio, ma più vicino all'azzurro cupo che assume verso sera che a una giornata piovosa. Non sono sola, ma non ricordo chi c'è con me: una ragazza, comunque.
Infine, sono in un labirinto di pietra, una pietra di colore più scuro e intenso che negli altri sogni. Un ragazzino che conosco, con una maglia rossa, mi conduce fuori con una leggiadria tale che mi sembra stia inseguendo una farfalla.

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