D'amore, di morte e di altre sciocchezze

di In Vere Venenum
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutti morimmo a stento ***
Capitolo 2: *** Della morte, dell'amore ***



Capitolo 1
*** Tutti morimmo a stento ***


Tutti morimmo a stento

di Venenum

 

 

Il mare sta per trangugiarsi la mia anima. Riverisco l’ultimo istante che mi separa dal perdono. Non riesco a percepire nessun soffio, sono rinchiuso in una sentenza di morte: non comprendo la mia condanna, ho assolto una mezzosangue.  

Navigo in codeste acque perché ho peccato e non ho mai scontato abbastanza questa assurda ipocrisia; rivoli di sangue rappreso si attaccano a me, mi strappano il cuore a mani nude, si impadroniscono della mia mente e mi obbligano a bestemmiare; giacché, per loro, rappresento l’antagonista del teatrino che hanno inventato in tempi remoti, quando la tolleranza era quantificata dalle loro risate malvagie, figlie della purezza portata in grembo dal male.  

“Tu non sei un purosangue”, urlano, “Tu non meriti il tuo titolo, non meriti l’onore dovuto”, odo l’eco di un dispregiativo oramai affibbiatomi; corolle morte mi ricoprono con l’odore della loro crudeltà. 

Ho fame di peccato e voglio tornare da lei.

E tu, padre, non potrai mai riconoscere ciò che mi ha condotto verso codesta scelta, perché codesta propensione si è riversata su di me e codesto veleno mi contrista; la primavera era la mia stagione preferita, la primavera non si nega a nessuno.

 “Il potere ti è grato”, mi dicono.

Impiccheranno il mio amore, tuttavia nella mia testa vi sarà sempre lei. 

Lei, che ho a lungo svilito.

Lei, che tuttavia rimase al mio fianco anche in inverno.

Io perdono le disgrazie che le ho accidentalmente e volutamente procurato. 

Perché questo è un amore sbagliato.

 “Vuoi essere assolto o condannato?”, mi chiedono.

 “Ho già scelto la mia sentenza; ho assolto una mezzosangue e ora mi condannate, voi purosangue. Non vi porterò rancore, perché sono un codardo. E se potrò salvarmi, lo farò. Io assolvo al di sopra di me, condannate lei per avermi reso infedele al mio credo”.

Lei, che tuttavia ho ucciso.

Lei, che tuttavia mi ha salvato.

 

 

Draco Malfoy si risvegliò in un bagno di sudore e con dei graffi estranei sul petto nudo, ove si adagiava un raggio argentato. Durante quel viaggio temporale inesistente, aveva provato l’angoscia della fine; l’attimo che precede il pentimento, il millesimo che distrugge ciò che si è costruito.

“Draco, che succede?”.

“Un incubo. Incubo di una notte di mezza estate”.

Hermione sorrise e gli diede un bacio sulla fronte, accortasi del malessere che evidentemente lo stava pervadendo. 

“Nessun dorma”.

Draco non volle ricambiare quel gesto, non la sfiorò delicatamente com’era solito fare, perché, dinanzi all’irrequieta morte, aveva mostrato il marcio che annientava i suoi organi.

Prima di tornare e riposare, Draco desiderò marchiarla, lasciarle un avvertimento, perché anche Hermione aveva scelto; l’aveva accettato, si era sottomessa al sangue per sconfiggere l’anima. 

Perché li legava la morte, ancor prima dell’amore.

Tuttavia, quando Draco provò ad avvicinarsi al viso di Hermione, sospese il suo desiderio: non era ancora giunta l’ora del bacio di Giuda.

 

 

 

«Poi scivolammo nel gelo 

di una morte senza abbandono, 

recitando l’antico credo

di chi muore senza perdono».

La ballata  degli impiccati, De André.

 

 

Tutti morimmo a stento, De André. 

Il potere ti è grato/Vuoi essere assolto o condannato?/Io assolvo al di sopra di me – questa è una imprecisione,
il testo originale è stato modificato ai fini della storia -, Sogno numero due, De André.

Incubo di una notte di mezza estate, Dylan Dog ^36

Nessun dorma, Turandot, Giacomo Puccini. 

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Capitolo 2
*** Della morte, dell'amore ***


Della morte, dell'amore

di poison spring

 

 

La curva tenera delle sue labbra mentre pronunciava un appena udibile era una rosa in boccio che si schiudeva alla vita. Lui aveva chinato il capo, per cogliere la risposta alla sua domanda e sentirsela sulla bocca, denti, lingua e labbra fresche e fragranti come petali. 

 

La notte, soli in riva al Lago, ogni sfumatura sottintesa negli sguardi che si lanciavano, trovava compimento e naturale conclusione. Tra loro, sarebbero sempre state poche parole, taglienti come lame a segare l’anima da cui sgorgava un sangue che non era puro, non era sporco, era solo rosso, come le rose e l’amore. 

 

Avevano imparato a riconoscere ogni cosa dell’altro dall’arco di un sopracciglio sollevato, da una ruga di concentrazione in mezzo agli occhi, dal fugace sorprendersi a fissarsi a vicenda. Tra gli scaffali della Biblioteca, il leggero sfiorarsi di mani quasi distratte, attimi rubati al tempo del mondo in cui accantonare la faida atavica che li separava. Cercarsi tra la folla e chinare il capo su un libro, con l’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio. 

 

Non si erano mai dati appuntamenti. 

 

La nebbia, respiro del Lago, li avvolgeva, proteggendoli dalla vita che li aveva voluti nemici sin da quando erano nati. Lì, le loro dita si erano unite in un disegno stranamente complementare, lì lei si era buttata addosso il suo maglione, persino con noncuranza. Qualche ricciolo scuro si era incagliato tra i fili di lana grigia, fondendosi con la trama del tessuto. Allo stesso modo, in silenzio, le loro vite si erano intrecciate tra loro, tenute insieme da fili invisibili come una ragnatela e altrettanto resistenti. 

 

Avevano imparato che certe volte, le labbra vanno usate per baciare e non per parlare. Che le distanze tra loro erano fatte di parole - purosangue, sanguesporco - e potevano essere colmate solo dal silenzio. Che il vuoto, la terra di nessuno che li aveva sempre separati non era un deserto, ma un giardino in attesa della pioggia. 

 

Pioveva.

 

Veniva giù a secchiate, l’acqua dal cielo, gelida come la solitudine, scrosciante come un applauso. 

 

Si erano ritrovati - trovati - sotto un albero imprecisato, ai bordi delle acque scure increspate dal temporale. D’altra parte, non avrebbe potuto essere altrimenti: ci voleva una tempesta per mettere a tacere quella continua delle loro vite in contrasto. Nella luce strana del cielo infuriato, che sbiadiva i colori violenti che li vedevano avversi, neppure le loro divise erano così differenti. Meno ancora lo erano apparse, quando, unite in un unico ammasso colpito di taglio da un raggio di luna, avevano giaciuto poco lontano dai loro corpi avvinghiati sotto quello stesso albero, ore, giorni, settimane dopo quel primo incontro.

 

“Ieri” pensava lui, rievocando l’afrore di sole della sua pelle. Gli si era offerta nonostante stentasse a controllare il tremito delle proprie membra, piantandogli il viso nel collo, le dita nelle spalle e un lamento tra l’orecchio e l’anima quando lui era affondato dentro di lei, con il fiato corto e troppe parole, troppo stupide, esalate come un respiro trattenuto troppo a lungo. 

 

Mai un appuntamento, prima di allora. Avrebbe dovuto saperlo, che certe tradizioni non vanno infrante alla leggera.

 

“Verrai?”.

“Sì”.

 

Non sarebbe arrivata mai, non più. Non dopo che lo stesso Lago che gliel’aveva donata se l’era portata via, restituendo pochi, poveri resti. Quattro stracci e un mucchio d’ossa. Eppure lui non avrebbe mai smesso di aspettarla, mendico per cent’anni di una porta a cui bussare.

 

Qualcuno diceva che nei pressi del Lago albergasse un fantasma, ma forse era solo la Luna, che giocava a truccare da spettro il suo riflesso di latte cagliato.

 

 

«E come tutte le più belle cose,

vivesti solo un giorno, come le rose».

 

Fabrizio De Andrè, La Canzone di Marinella.

 

Della Morte, dell'amore, cita Tiziano Sclavi
L’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio - De Andrè, Il Bombarolo

Quattro Stracci, canzone di Francesco Guccini

Mucchio d’Ossa (Bag of Bones) romanzo di Stephen King

Cent’anni [...] bussare, parafrasi della Canzone di Marinella, F. De Andrè

 

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