Dell'arte della guerra

di Satomi
(/viewuser.php?uid=29664)

Disclaimer: Questo testo proprietā del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dā diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disciplina. ***
Capitolo 2: *** Versatilitā. ***
Capitolo 3: *** Precisione. ***
Capitolo 4: *** Potenza. ***



Capitolo 1
*** Disciplina. ***


Disciplina

 Il Corsaro, avendo veduto in un angolo della stanza una spada, [...] l’aveva presa e dopo aver saggiato l’elasticità della lama se l’era appesa al fianco
mormorando:
“Acciaio di Toledo: darà da fare al castigliano.”
da “Il Corsaro Nero”, settimo capitolo

 

Quando la malinconia giunge a offuscargli l’animo, la mente del signore di Ventimiglia corre al passato: alla vita di un tempo, al castello abbandonato in nome di una sacra vendetta.
Ne ricorda ancora le vaste sale, gli austeri ritratti appesi al muro, le armi di famiglia che i fratelli minori guardavano con giovanile ammirazione.
“Follie” pensava già allora il cavaliere.
Lui non si era mai curato di vecchi cimeli né aveva eletto a sua favorita un’arma in particolare, curandola con l’amore che si conviene a un oggetto pregno di storia.
“Follie” pensa ancora il Corsaro Nero.
Sovente si è ritrovato a cambiare spada e non ne ha mai risentito.
Sovente ha fissato la sua lama spezzata col disappunto di un guerriero che si ritrova disarmato, non col dispiacere di un nobile che vede andare in frantumi un cimelio di famiglia.
Sovente ha fissato la striscia in mano sua con l’occhio critico di chi ricerca un degno prolungamento del suo braccio. Una lama sottile e equilibrata che dia pieno sostegno a quella che, per il Corsaro, è la sua prima e vera arma.
La Scherma.
La Disciplina cui si è votato e in cui si è sempre distinto.

Emilio di Ventimiglia ha fatto della scherma la sua arma letale.
E quando qualcuno, sia esso amico o nemico, lo ricorda come valente e terribile spadaccino, lui sorride.
Perché nulla l’ allieta più che il veder riconosciuta la propria destrezza.


[240 parole]

 

 Note dell’autrice: nel corso di quattro capitoli (4-7) de “Il Corsaro Nero”, Emilio di Ventimiglia cambia per ben tre volte la propria arma: dopo lo scontro in taverna con don Gamara y Miranda gli si spezza la spada che rimpiazza prontamente, e senza batter ciglio, con quella del suo avversario appena ucciso; arma che finisce per spezzarsi anche durante il duello coi cinque baschi, e in questo caso accetta la sciabola che Carmaux gentilmente gli offre; infine, prima dello scontro con il conte di Lerma, abbandona tale arma in favore di una lama trovata in casa del notaio, decisamente più consona al duello.
Pensando a certi romanzi in cui viene data molta importanza a una certa spada (che spesso ha anche un nome), il comportamento del Corsaro mi ha fatto riflettere: sa adattarsi alle esigenze e non è attaccato a una lama in particolare, indice di maturità e esperienza. Perché la sua vera arma è appunto la scherma, quella scherma italiana che nel XVII secolo era la migliore e la più temuta.
Appunto tecnico: la striscia è una lama sottile dall’elsa elaborata, diretta discendente della spada da lato, e usatissima nel Seicento. Non mi sembra improbabile che fosse appunto questa l’arma prediletta del Corsaro Nero.

Note di introduzione alla raccolta: se dicessi che da tempo avevo in mente questa raccolta o cose del genere mentirei. La verità è che l’idea mi è venuta leggendo “Go Rin no Sho” di Ellie_x3, una raccolta del fandom di Hakuouki dedicata al rapporto tra i protagonisti e le loro armi.
Un ringraziamento doveroso a quest’autrice, dunque, cui non posso che dedicare il mio lavoro (sebbene il mio fandom le sia ignoto).
Satomi

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Versatilitā. ***


Versatilità

 “Va’ a disarmare il biscaglino che ho ucciso; in mancanza d’altro è buona anche una navaja.”
“Con vostro permesso vi offro la mia sciabola, capitano; io so adoperare quei lunghi coltelli.”
da “Il Corsaro Nero”, quinto capitolo

 

Da che si ricordi non c’ è stato un momento della sua vita in cui non abbia lottato.
Il giorno stesso della sua nascita per uscire dal ventre della madre.
Durante le innumerevoli zuffe che coinvolgevano lui, i suoi fratelli e gli altri bambini del paese.
Nelle prime risse in taverna dovute all’ ubriachezza, alla spacconeria, al sorriso conteso di una bella fanciulla.
Da che si ricordi la sua mano non è mai stata libera da un’ arma: una pietra raccolta dalla strada o un bastone erano più che sufficienti per ammaccare qualche osso.
Ma quando mette piede alla Tortue Carmaux è lesto a far sua una nuova consapevolezza.
Bastoni e pietre non bastano più.

Il coltello. Arma semplice in apparenza ma che richiede forza, agilità non comune e una buona dose di fortuna.
E lui sa bene di non peccare in nessuna delle tre.
La navaja. Il mero attacco bruto si trasforma in una danza letale, accompagnata dal drappeggio del serapè.
E lui, dietro allenamento, ha imparato a far danzare quel suo corpo robusto e tarchiato.
La sciabola. Guardia semplice e comoda, lama larga, l’ ideale per chi si lancia all’ abbordaggio.
E Dio solo sa il sangue di quanti spagnoli ha bevuto la sua.
La spada. Parata e affondo, botta e risposta, una disciplina elegante e mortale insieme, specie se il proprio maestro è il Corsaro Nero.

Carmaux ha imparato a far sua qualunque cosa abbia una lama.
E quando alla fine di una battaglia vede il nemico a terra nel suo stesso sangue, lui sogghigna.
Perché nulla lo compiace più che il riconoscersi lupo tra gli sciacalli.

 
[270 parole]

 

Note dell’autrice: nel corso dei primi tre romanzi del Ciclo delle Antille (di cui è comprimario), Carmaux mostra un senso di adattamento alle situazioni che ha dell’incredibile. Che debba travestirsi da notaio e uscire in Maracaibo in piena notte, fingersi morto dopo uno sparo e strisciare come un serpente, usare dei grossi massi come surrogato di palle di cannone, ha sempre l’idea giusta al momento giusto.
E questa sua adattabilità (o versatilità che dir si voglia) riguarda anche l’uso delle armi che ha imparato a fare sue.
Sia nell’adattamento cinematografico del 1976 (dove è interpretato da un bravo Sal Borghese, forse uno dei pochi attori che salvano il film dalla mediocrità) che nella versione animata di Orlando Corradi (fedele al romanzo, pur con le sue libertà) Carmaux lavora più di coltello che di spada, mentre generalmente lo spadaccino della coppia è Wan Stiller; cosa strana, forse per marcare le differenze tra due personaggi che nei romanzi sono molto simili.
Salgari, però, lo dipinge anche come ottimo schermidore, specie in “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero” (dove però, con mio rammarico, si fa fregare dal capitano Valera. Ma sorvoliamo v.v).
Ne approfitto per ringraziare Chandrajak e Ellie_x3 per le precedenti recensioni. Quest’ultima merita un ringraziamento speciale perché, pur non conoscendo il fandom, ha inserito la raccolta tra le preferite e le seguite.
Satomi

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Precisione. ***


Precisione

 Wan Stiller [...] allungò rapidamente l’archibugio e lasciò partire il colpo.
Lo spagnuolo, colpito in pieno petto, lasciò cadere lo spadone, allargò le braccia e cadde addosso ai compagni che gli stavano dietro.
La palla lo aveva fulminato.
da “La Regina dei Caraibi”, quarto capitolo

 

Ha diciassette anni quando per la prima volta prende in mano un archibugio. Ne percorre con le mani ogni imperfezione e ne saggia il peso con le braccia che minacciano di piegarsi, prima che uno scapaccione di Bok lo riporti alla realtà.
Da quel momento quella sarà la sua sola arma di difesa, il suo solo mezzo per procacciarsi di che vivere.
L’amerà, il cuore gonfio di orgoglio, quando una palla ben aggiustata andrà a segno.
E l’odierà quando, tornato a mani vuote da una battuta di caccia, dovrà starsene in un cantuccio con lo stomaco brontolante - “Chi non coglie non mangia, ragazzo.”
Passeranno tre anni prima che Wan Stiller impari a usare davvero quello strumento che si nutre di piombo e polvere. E prima che, spinto da voglia di ricchezze e avventure, ne rivolga la canna verso bersagli ben diversi dai bufali selvatici di Santo Domingo.
Bersagli umani.

L’amburghese osserva Carmaux, energico e scattante, che tempesta il nemico di una grandinata di botte.
Lui no. Lui, dietro gli insegnamenti di Bok, ha imparato a misurare i colpi.Se il primo non coglie la preda, il secondo la farà fuggire.”
Ha imparato a dosare le energie.Chi spreca le forze lascia spazio al nemico.”
Ha imparato a perfezionare le sue azioni. E ad andare sempre a segno.

Wan Stiller ha fatto della precisione il suo cavallo di battaglia.
E quando al termine dello scontro gli avversari sono stati inchiodati o fulminati, lui sospira.
Perché nulla lo solleva più che l’aver ancora un altro giorno da vivere.
 

[260 parole]

 

Note dell’autrice: non ci sono molti particolari che, nei romanzi del ciclo, differenziano Wan Stiller dal suo migliore amico. Nell’ultimo capitolo di “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”, durante lo scontro con l’ufficiale spagnolo, Salgari lo definisce “più flemmatico del francese, quantunque non meno valente di lui”: mentre Carmaux attacca con rabbia il capitano Valera e non lesina parole e stoccate, lui rimane fermo al suo posto e dosa i colpi (doti che lo faranno vincitore per ben due volte).
Inoltre, come Salgari ci dice ne “Il Corsaro Nero”, sappiamo che è stato bucaniere: da questo si deduce un’ottima esattezza di tiro che, credo, si sia riversata anche nell’arte della scherma; pochi colpi precisi che vadano a segno inchiodando l’avversario, piuttosto che uno sciabolare furioso. Devo dire, però, che Salgari non approfondisce mai questa precisione o perlomeno non l’evidenzia come invece ho fatto io; diciamo che mi è sempre riuscito facile immaginare Wan Stiller come eccellente archibugiere (dote che contraddistingueva solitamente i bucanieri).
Per quanto riguarda i particolari della sua giovinezza sono stati del tutto inventati da me, al pari di Bok, il suo maestro bucaniere.
Approfitto di queste note per ringraziare Crow F che mi ha recensito e ha inserito questa raccolta tra le preferite. È sempre piacevole scoprire che vi sono altri salgariani in giro ^_^
Satomi

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Potenza. ***


Potenza

 “Un momento” disse Moko.
Con uno strappo violento aveva staccata una traversa della tavola, una sbarra di legno molto massiccia e molto grossa, un'arma terribile nelle mani di quell'atleta.
“Ecco una mazza che fa per me” disse. “Mi servirà a sbarazzare il terreno dagli avversarii.”
da “La Regina dei Caraibi”, diciottesimo capitolo

 

Quelli come lui non hanno un’anima.
Una verità di comodo che ha unito molti: re che si credono padroni del mondo, mercanti convinti che tutto abbia un prezzo (anche un uomo), prelati che pensano di avere in mano la verità universale e di poter decidere cosa sia creatura di Dio e cosa feccia.
Moko sa che è colpa loro se la sua gente è stata strappata alle sue radici per trovare la morte in mare o in terra straniera. Sa chi incolpare se lui stesso è stato ridotto a merce di mercato, con le mani di potenziali compratori a toccarlo ovunque e la voce di un untuoso bianco a decantarne le doti.
Per tanto tempo ha odiato la sua forza erculea, i suoi muscoli possenti che ne hanno fatto schiavo ambito da molti.
Ora non più.

“Ecco un uomo che potrà giovarmi.”
Ripensa alle parole del Corsaro, suo nuovo e ultimo padrone che riconosce l’utilità della sua forza ma rispetta la sua persona.
“Grazie, compare!... Mille fulmini!... che grandinata!...”
Ripensa alle parole di Carmaux, suo nuovo e inaspettato compagno che ammira la sua forza ma lo tratta da pari.
E questo l’esorta a non lesinare colpi, a spingere i suoi possenti muscoli fino allo stremo.
Perché ora ha il riconoscimento che merita e sa dove rivolgere il suo odio.

Moko ha imparato a sfruttare appieno la potenza del suo braccio.
Ma quando il nemico fugge al suo solo cospetto o giace col cranio spaccato da un colpo di mazza, lui tace.
Perché nulla l’opprime più che il rendersi conto di ciò che è diventato e perché.
 

[270 parole]

 

Note dell’autrice: nei primi due romanzi del ciclo in cui compare (per poi scomparire inspiegabilmente in “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”), Moko ci viene presentato come un erculeo africano dalla forza sovrumana, il degno candidato a chiudere il quartetto protagonista di corsari.
Io però sono certa che più degli altri, anche più del Corsaro, abbia alle spalle un passato terribile. Un passato fatto di schiavitù, di frustate, di dolore nel vedere i propri parenti e amici cadere perché, al contrario di lui, non hanno ricevuto un dono simile da Madre Natura.
Salgari non ce lo presenta come un uomo feroce, anzi: ne “Il Corsaro Nero” dice che i suoi lineamenti hanno un qualcosa d’ingenuo e infantile; qualcosa che fa pensare a un gigante buono, aggiungo io.
Per questo ho voluto sottolineare il fatto che Moko è stato plasmato dagli eventi che penso l’abbiano segnato, come tanti altri africani. Che però non hanno avuto la fortuna di imbattersi in un padrone nobile e in due compari fracassoni che fanno riferimento al colore della sua pelle con una sorta di ironia affettuosa; e che sono pronti a ridere e scherzare con lui senza problemi.
Un dettaglio assai poco verosimile, ma Salgari è anche questo. Ed è per questo che lo si ama.

E siamo all'ultima flash della raccolta.
Ringrazio ancora una volta Ellie_x3 per la sua decisiva spinta ispiratrice e tutti gli altri che mi hanno seguito, letto e recensito.
Satomi

Ritorna all'indice


Questa storia č archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=788194