La vendetta di Cristina

di Simo90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


PARTE I


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Post: 1. Titolo: nuovo blog. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Torno online dopo altri tre mesi di “vacanza”. Nuovo sito e nuovo blog. Quello vecchio su splinder l’ho cancellato. Era diventato un covo di lunatici, ed ero stufa di rispondere alla solita domanda: se davvero credi a quello che scrivi, perché non credi anche alle scie chimiche? Agli omini verdi? Ai fantasmi? A Nibiru? E a non so quale altra cazzata.

Io credo solo a quello che ho visto con i miei occhi. E mi ricordo ogni dettaglio, ogni singolo dettaglio.

Prima di cancellare il vecchio blog ho salvato gli articoli e i commenti più interessanti. Magari li riproporrò. Non sono ancora sicura, non sono neanche sicura di pubblicare questo articolo. In fondo scrivo solo per sfogarmi, non per comunicare con altri. Per questo ho deciso che in ogni caso terrò chiusi i commenti. Se proprio volete parlare con me contattatemi via mail. Trovate l’indirizzo alla pagina “Chi sono”. Ma non fatemi perdere tempo con le stronzate, ché tanto non vi rispondo.

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Post: 2. Titolo: assenza (in)giustificata. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Il nuovo blog comincia alla grande, nessun articolo per due mesi. ^_^

Ho avuto da fare. Ho trovato un lavoro. È un po’ particolare, ve ne parlerò.
Sono stati due mesi tranquilli, “normali”, non ho mai sentito il desiderio, l’esigenza, di sfogarmi. Sono guarita? Non lo so, lo saprò da domani. Stasera smetto di prendere il risperdal e gli altri farmaci. Quelli che mi hanno prescritto durante l’ultima “vacanza”. Per forza, non posso lavorare rincretinita.

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Post: 3. Titolo: incubo di una notte di mezza estate. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Be’, un successo! Tre giorni senza quelle medicine di merda e ho subito qualcosa da scrivere. Quando finisco di vomitare l’anima.

L’ho sognata.

Il solito sogno, solo che ha scoperto che non abito più a casa dei miei. Mi ha seguita fin qui.

I suoi passi risuonavano sui gradini. Una rampa dietro l’altra. Mi sono chiusa in bagno: perché la porta è stretta, e lei non ci può passare. Certe volte mi domando se faccio ragionamenti così cretini anche da sveglia.
Ho sentito il frastuono di lei che sfondava la porta di casa, ho pregato che si affacciasse qualcuno sul pianerottolo. La signora dell’appartamento di fronte. Ha tre figli, o quattro. Bambini piccoli. Se si infilano sotto il letto e lei ha voglia di giocare prima di sbranarli passa abbastanza tempo e mi sveglio.

Ma non si deve essere affacciato nessuno, perché i passi sono continuati in corridoio. E l’odore è arrivato fino a me, anche se premevo l’asciugamano bagnato contro il naso.

Quando convivevo con Marco e gli hanno tagliato la luce, le verdure sono marcite nel frigorifero. Gli scarafaggi hanno deposto le uova nell’insalata putrida. Una mattina Marco ha spalancato lo sportello del frigo e ha spruzzato nel cestello per gli ortaggi mezza bomboletta di schiuma velenosa.
Si grattava le guance ispide della barba di giorni e diceva: «Vieni a vederli crepare, vieni!»
Gli insetti sono scappati fuori, gli sono saliti sui piedi nudi. Marco sorrideva. Io sono rimasta a guardarlo seduta sulla sponda del letto, la puzza che veniva dalla cucina mi faceva girare la testa.

Questa è la puzza di lei: un misto di decomposizione, sporcizia, sudore. Il tanfo di cose viscide che si dibattano mentre muoiono.

Lei colpisce la porta del bagno.

Il legno si gonfia, le venature si spaccano, la linfa cola sul pavimento. Le piastrelle si sciolgono in una massa di vermi bianchi. I vermi si intrufolano tra il terriccio umido; felci spuntano sotto il lavandino, intorno allo scarico della doccia. Funghi incrostano le tubature; la corteccia degli alberi copre le pareti, le chiome nascondono il soffitto. Le libellule ronzano nell’aria soffocante che precede il temporale.

Lei non abbandona mai il suo bosco. Il suo terreno di caccia.

Frugo tra l’erba cresciuta sulla mensola sotto lo specchio. Stringo le forbicine per le unghie. Conficco le due lame divaricate nel palmo, spingo nella carne finché mi sveglio.

Vi assicuro che è la maniera più dolce.

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Post: 4. Titolo: incubo parte seconda. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho vomitato nel cesso fino all’alba. Lei mi fa questo effetto.

Nota positiva: l’ultima volta ho rigettato solo bile gialla, e non sapevo fosse così efficace nello sgrassare. Non ho mai visto le pareti del water tanto lucide, dove sono passati i succhi gastrici il bianco splende come nelle pubblicità.

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Post: 5. Titolo: mamma è una stronza. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Magari il sogno – l’incubo! – di ieri dipende solo dalla tensione per la visita di mamma. Non sono riuscita a trovare scuse, me la devo sorbire. Saranno i soliti discorsi. Mi dirà che non mi può più lasciare l’appartamento, che deve affittarlo. Che se voglio vivere da sola, devo trovare un lavoro che mi mantenga e mi permetta di pagare l’affitto. Come se fosse facile.

Io le ricorderò che il dottor Falchi ha insistito sul fatto che debba essere indipendente, che può essere utile nella mia condizione. Poi la minaccerò che se insiste torno a vivere con Marco – che credo sia in galera, non importa.

Il solito, sempre il solito. Tanto a casa non ci torno.

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Post: 6. Titolo: un luminare. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Il dottor Cesare Falchi è famoso nel suo ramo. Si occupa di persone affette da disturbo asociale della personalità, ovvero di psicopatici. Ha anche contribuito ad affinare il test di Hare.

Il test di Hare determina se un individuo è uno psicopatico. Ti fanno un’intervista, scartabellano nel tuo passato e assegnano un punteggio da zero a due a venti fattori. Il punteggio massimo è quaranta, se arrivi a trenta sei psicopatico.

I fattori sono del tipo: “si annoia facilmente”, “manca di rimorso”, “ha un’esagerata opinione di sé”, “racconta bugie in maniera sistematica”, “non ha realistici obiettivi a lungo termine”, “ha una vita sessuale sregolata”, “non dimostra empatia”, e simili.

Se sei psicopatico rischi di finire in “vacanza” per il resto della vita, perché non esiste cura.

Ora la parte divertente!

Con un test così generico, uno psichiatra può far passare chiunque per psicopatico. Può rovinare la vita a chi gli pare. Il test di Hare sarebbe lo strumento ideale per uno psicopatico.

Durante una seduta l’ho fatto notare al dottor Falchi e lui è scoppiato a ridere. Il giorno dopo mi hanno tenuta ferma in quattro mentre mi infilava gli aghi nella pancia. In profondità. In modo che non rimanessero bruciature sulla pelle quando dava corrente.

Per fortuna sono svenuta quasi subito. Ma stai male anche i giorni successivi, vomiti sangue e ti pisci addosso.

Il dottor Falchi è uno psicopatico.

Ma non ho prove.

E poi sono pazza.

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Post: 7. Titolo: (non) sono pazza. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Secondo la polizia ho ucciso mia sorella. Anche secondo il dottor Falchi. Poi le perizie hanno dimostrato il contrario, ma il bastardo ha stabilito che ero pazza lo stesso.

Sapete perché?

Perché ho raccontato la verità.

Mia sorella l’ha uccisa lei.

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Post: 8. Titolo: dump diving. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Chi è lei? I lettori del vecchio blog lo sapranno già, gli altri lo scopriranno... un altro giorno. ^_^

Oggi voglio parlarvi del mestiere che faccio, perché è curioso. Io mi occupo di dump diving. Frugo nella spazzatura. Detta così pare che io sia una barbona, invece si tratta di un lavoro all’avanguardia.

Il lavoro me l’ha trovato Fabio, un “amico” di Marco. Era il periodo che Marco si era messo in testa di fare le truffe con i bancomat. Così ha conosciuto Fabio, un esperto di sicurezza informatica.

Fabio spiega a Marco come smontare gli sportelli del bancomat per sostituire il lettore di tessere. Ci prova almeno. Marco è fottuto idiota. Mi sembra di essere di nuovo a scuola, con il prof di mate che vuole insegnarci gli integrali quando metà della classe ha difficoltà con le quattro operazioni.
A un certo punto Fabio si incazza. Ma prima di andarsene mi osserva da capo a piedi. Mi lascia il suo biglietto da visita. «Abbiamo sempre bisogno di facce nuove.»

Quando lo chiamo, qualche settimana fa, non ho idea di che cazzo avesse in mente. Ma ho bisogno di un lavoro e non so fare niente.
Si scopre che il lavoro consiste nello sguazzare tra il pattume a scopo spionaggio. Le aziende non sempre sono abbastanza attente da bruciare i documenti, smagnetizzare gli hard disk, sfasciare gli stick USB, le memory card, i CD-R e i DVD-R. Spesso buttano via senza pensarci.
E qui intervengo io. Raschio i cassonetti e recupero ogni materiale interessante. Fabio mi paga una piccola cifra per qualunque reperto utile. Se poi le informazioni estratte si rivelano di pregio, ho diritto a un bonus.

Il mese scorso ho racimolato circa 600 euro lavorando un paio di ore a notte. Ho anche recuperato uno spremiagrumi elettrico funzionante e un quadro di arte astratta. Non ci capisco niente di pittura, ma mi piace.
Invece il dizionario enciclopedico di mitologia l’ho buttato. Era un bel volume, come nuovo, ma le pagine centrali erano appiccate tra loro, impastate di sperma. Vorrei proprio conoscere il demente pervertito che si masturba con un dizionario di mitologia.
Ripensandoci, no, faccio volentieri a meno.

L’altro ieri Fabio mi ha avvertita di stare attenta: i primi tempi è facile, perché sei una “faccia nuova”, pensano che tu sia una mignotta o una stracciona. Ma se capiscono quello che fai sono botte.

Mi ha detto che se voglio mi procura una pistola.

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Post: 9. Titolo: anniversario. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Sono passati cinque anni dall’incidente. Per la mamma è “l’incidente”. Per tutti è diventato “l’incidente”. Una disgrazia. Non è colpa di nessuno. Be’, quasi: io avevo bevuto troppo e allora ho trascinato mia sorella in cima alla collina, le ho staccato la faccia a morsi e l’ho buttata di sotto. Non prima di aver controllato l’orario dei treni, in modo che il corpo venisse travolto dall’intercity Bologna – Milano delle ventitré e quaranta.

No, no, no. Non è andata così. Anche la polizia ha cambiato versione.

Sono stati i cani selvatici. Sì, credo siano stati i cani. Io mi sono inventata una storia incredibile perché avevo bevuto troppo e non sono riuscita ad aiutare mia sorella. Dovevo proteggermi dal senso di colpa.

Oppure sono pazza. Ma questo lo sapete già! ^_^

Però, ok, devo ammetterlo: il senso di colpa ce l’ho. Sono rimasta impietrita mentre lei affondava i denti da squalo nel viso di Angela. Vero, non avrei potuto fare niente, ma il mio unico pensiero era scappare.
Il corpo di Angela si è afflosciato sulle foglie marce ed è scivolato giù. Lei lo accompagnava con lo sguardo. Io pensavo solo: “Oddio, non ti girare nella mia direzione, non ti girare nella mia direzione!”
Angela è rotolata tra gli alberi, lei l’ha seguita. Poi il rombo del treno, la luce abbagliante dei fari, il fischio dei freni.

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Post: 10. Titolo: come funziona il senso di colpa. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Mi sono vestita per andare al cimitero. Ho tirato su la tapparella e ho aperto la finestra per controllare se pioveva. Ho guardato giù, quattro piani più in basso. Il cortile interno è tappezzato di mattonelle sbrecciate. Una pianta rachitica spunta in mezzo al cemento.

Ho fatto due passi indietro e ho immaginato la scena: breve rincorsa, il piede destro sul calorifero sotto la finestra, il piede sinistro sul davanzale, e poi il salto. Cruciale è cadere di testa. E non mi sembra difficile.
Mi sono vista schiacciata al suolo, la fronte spaccata, il sangue e il cervello che si spargono sulle mattonelle.
Non ne sono sicura, ma credo che così si muoia subito. Impiccarsi, tagliarsi la gola, elettricità, veleno: soffri. Ma se ti rompi il cranio finisce tutto in un attimo. L’ho letto su un sito specializzato in suicidi. No, non quei siti da sfigati che ti propongono di parlare con uno psicologo, che ti assicurano che la vita è degna di essere vissuta, che ti minacciano con la prospettiva dell’Inferno. No, niente del genere, era un sito serio, che ti spiegava come farlo nella maniera migliore.

Nessun dolore. Nessun rimorso. La soluzione perfetta.

La prospettiva giusta è questa: suicidarsi è l’unica decisione di cui non potrai mai pentirti. I pazzi non sono quelli che ci provano, sono quelli che neanche ci pensano.

Sono rimasta a casa. Non vado a portare i fiori. Non oggi. Ché se incontro mamma finisce che mi ammazzo sul serio. E poi i fiori sono una cazzata, non ho mai capito perché portare fiori ai morti.

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Post: 11. Titolo: come volevasi dimostrare. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Mamma si è lagnata al telefono. Avrebbe voluto incontrarmi. Le ho detto che se viene qui a casa le picchio la porta sul naso e glielo rompo. Ha risposto che chiama i carabinieri.

Ma non lo farà. L’ultima volta che mi ha fatta incazzare sul serio le ho tirato la tazza del caffelatte in faccia: pronto soccorso e tre punti alla tempia. Si è presa un bello spavento a sentire il sangue che le colava nell’orecchio.

Così impara.

Adesso, se solo la smettesse di frignare!

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Post: 12. Titolo: lei. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

La chiamo sempre e solo “lei”. Perché non ha davvero un nome, esiste da prima dei nomi. Però nel corso della storia il nome più comune che le è stato attribuito è Artemide.

Sì, avete capito giusto, mia sorella è stata ammazzata dalla Dea Artemide.

State sghignazzando? Avete chiamato un amico a leggere il blog e intanto vi picchiettate la tempia? Sono pazza, vero?

Ficcatevi un palo su per il culo e andate a farvi fottere.

Bene.

Quelli che sono rimasti hanno diritto a una spiegazione più articolata.

Avete presente J. M. Barrie? Forse lo avrete sentito nominare, è l’autore di Peter Pan. Sì, quella stronzata con Trilly e Capitan Uncino. Ho visto il film da bambina e già allora mi aveva fatto schifo. Ma non importa, quello che importa è che Barrie ha scritto:
“Quando il primo bambino sorrise per la prima volta, la risata si spezzò in migliaia di frammenti che si dispersero nell’aria e questa fu la nascita delle fate.”
Non è una cazzata. Esistono creature soprannaturali nate dai desideri, dai sogni, dai pensieri, dai sentimenti degli esseri umani. Sono poco più di scintille nelle notti buie, quando le nubi nascondono la luna e le stelle. Sono un soffio di vita che si dissolve in fretta come è nato.

Esistono poi altre creature, che non sono nate dagli uomini. Creature plasmate da emozioni che non appartengono alla nostra specie. Creature nate dal respiro di esseri immensi e oscuri che abitano il cuore di tenebra delle galassie.

Gli scienziati la chiamano: radiazione termica dei buchi neri. Ignoranti. È il loro respiro, che giunge fino a noi, impregna la carne e dà vita a quelli che chiamiamo Dei.

Artemide è una di loro. Un mostro demente che uccide dall’alba del mondo. Il mostro che ha dato la caccia a mia sorella.

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Post: 13. Titolo: testimonianze. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Sul vecchio blog avevo preparato una pagina apposita per raccogliere testimonianze degli incontri con Artemide. Ho ricevuto oltre 500 commenti. E volete sapere una cosa? Siete tutti dei dannati bugiardi!

Non l’avete davvero incontrata. Cercate solo delle scuse. Perché non avete chiuso bene il flacone dei farmaci e il piccolo Luca ha ingoiato metà pillole come fossero caramelle. Perché parlavate al cellulare, non avete visto i cartelli, e vostra moglie è rimasta impalata da un ramo quando la macchina è uscita fuori strada.

Perché eravate ubriache e quando la sorellina se ne è andata dalla festa da sola non l’avete seguita subito.

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Post: 14. Titolo: vestiti. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Durante la “vacanza” alcuni giorni mi vestivo di tutto punto. Il dottor Cesare Falchi mi spiegava che lo facevo solo per ingannare il personale.

Altri giorni rimanevo in pigiama. Il dottor Cesare Falchi mi spiegava che dovevo impegnarmi di più per dare valore al mio aspetto e alla mia vita.

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Post: 15. Titolo: spam. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Secondo Gmail, ho ricevuto questa mail quattordici mesi fa. Il testo dice  solo:

“Vuoi vendicarti?”

Non ho mai risposto. Mi puzza di spam: se dico che voglio vendicarmi ecco che posso farlo con appena 29,95 dollari! Acquistando un manuale che mi spiegherà come superare i miei problemi e trasformare le emozioni negative in energie positive.

Oppure è qualche svitato.

Forse uno svitato è meglio di niente.

Nell’ultimo periodo ho difficoltà a conoscere gente nuova. Ho persino preparato un discorso per gli interessati, nel quale definisco la mia professione come “archeologia urbana”, ma non ho ancora avuto modo di sfruttarlo. Gli uomini mi evitano, le persone mi evitano.

Magari puzzo e non me ne rendo conto.

La punta del cursore tentenna sul pulsante “rispondi”.

Al massimo se è uno svitato lo mando a fare in culo senza neanche incontrarlo.

>> “Vuoi vendicarti?”
“Sì”

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Post: 16. Titolo: regalo. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho trovato Fabio sul pianerottolo. Impettito come sempre, teneva in mano una scatola di scarpe chiusa dallo spago. Sul coperchio si aprivano due forellini.
«Non mi piace tenere animali per casa» gli ho detto.
Si è sistemato il nodo della cravatta e mi ha offerto la scatola. «Gli oggetti respirano.»

La scatola contiene una pistola e una manciata di proiettili.
«Non credo di avere i soldi per pagare» gli ho detto.
«È un regalo. Ti sarà utile.»

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Post: 17. Titolo: regalo (più tardi). Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

La pistola respira. Il calcio si contrae e si distende, le venature sul ferro pulsano come se il sangue scorresse al di sotto della ruggine. Mi sono scolata mezza bottiglia di vodka alla fragola e non è cambiato niente. La pistola era viva prima e lo è ancora adesso.

Sono pazza. Sul serio. Questa ne è la prova.

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Post: 18. Titolo: regalo (ancora più tardi). Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho infilato otto proiettili nel caricatore. L’ho spinto nel calcio della pistola, legno e metallo si sono deformati per accomodarlo. Mi sono puntata la pistola alla faccia, dritto in mezzo alla fronte. Ho piegato l’indice intorno al grilletto.

L’occhio si è spalancato allo sbocco della canna. L’iride viola, il bianco solcato da venuzze, la pupilla verticale. L’occhio ha lacrimato, una sostanza oleosa e nera. È colata tra le rughe del metallo, mi ha bagnato la mano.

Ho gettato la pistola contro lo sportello del frigorifero. Dopo il rimbalzo è scivolata sulle piastrelle della cucina. È finita sotto la credenza.

Come cazzo la tolgo da lì? Non vado certo a ficcare la mano nel buio. Spero di tirarla fuori spingendola con il manico della scopa. Se ci riesco la rimetto nella sua scatola di scarpe e la seppellisco. Ho già abbastanza problemi a prendere sonno senza armi demoniache in casa.

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Post: 19. Titolo: tomba. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Quando ero bambina avevo un gatto. Un micino con il pelo arancione. Mia sorella lo ha ucciso, lo ha chiuso in una scatola di scarpe e lo ha seppellito in giardino.

Me lo ha confessato due anni dopo che Pulce – così avevo battezzato il gattino – era scomparso. Angela aveva cercato di fargli il bagnetto nel lavello. Quando aveva aperto l’acqua Pulce era schizzato fuori, era caduto male e si era rotto una zampa. Per paura di essere sgridata dalla mamma, Angela lo ha nascosto nell’armadio, sotto le vecchie coperte. Finché Pulce non è morto soffocato.

Avrei voluto afferrarla per i capelli, schiacciarle la faccia contro l’asse da stiro e premere la piastra bollente del ferro sulla sua guancia. Non ne ho avuto il coraggio. «Un giorno la pagherai» le ho detto.

Ho letto da qualche parte che la tastiera di un PC è uno dei posti più luridi che si possano immaginare. Peggio di un cesso pubblico. La sporcizia si accumula sotto i tasti senza che ci accorga e alla fine la tastiera diventa un’incubatrice per ogni genere di germi.

Questa sera contribuisco un bel po’: mi sono lavata le mani, più volte, ma ho ancora terra sotto le unghie. Ho voluto scavare una buca profonda, prima di buttarci dentro la pistola.

Angela non mi ha mai indicato il punto esatto dove avrebbe seppellito Pulce. Forse non l’ha fatto, forse lo ha solo buttato in un cassonetto dei rifiuti. Forse uno di questi giorni me lo ritrovo zombie mentre frugo tra la spazzatura.

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Post: 20. Titolo: foto. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Oggi Fabio aveva due buste. La prima erano i soldi del mese – naturalmente mi paga in nero; la seconda conteneva fotografie. Le ho sparpagliate sul tavolo.

All’inizio non ho capito il senso, finché non ho trovato una foto del “luminare”. Il dottor Cesare Falchi. Le altre foto sono foto dell’appartamento dove abita. Esterno del palazzo, tromba delle scale, pianerottolo, ingresso, soggiorno, le varie camere. E foto del SUV che guida e del garage, foto del parcheggio dell’ospedale. Immagini satellitari prese da Google Maps del percorso che fa tutti i giorni per andare al lavoro. Dietro le foto sono segnati gli orari. E dietro la foto di Falchi:

“La giusta vendetta non sarà punita.”

Scritto in stampatello.

La bottiglia di vodka era ancora piena per un terzo. L’ho vuotata in un solo, lungo sorso.

Poi mi sono messa carponi, e ho allungato il braccio sotto la credenza. Ho tastato finché non ho sentito terra smossa sotto le dita. Ho percorso con i polpastrelli il profilo della canna, che spuntava tra le piastrelle. L’ho afferrata e ho tirato. Ho sradicato la pistola.

È incrostata di terriccio. In alcuni punti rimangono grumi ammuffiti di cartone, i resti della scatola di scarpe. Radici sottili avvolgono il grilletto.

Ho graffiato via lo sporco con le unghie.

Non mi stupisce che sia tornata da me. È uno dei vantaggi della pazzia.

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Post: 21. Titolo: tiro al bersaglio. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Sono seduta sui sedili in fondo all’autobus, la pistola avvolta in carta di giornale, nascosta in un sacchetto di plastica azzurro. Scendo al capolinea, scavalco il reticolato, cammino tra l’erba secca alta fino al ginocchio. Il ronzare delle libellule si sostituisce ai rumori del traffico. Fa caldo e non ho portato niente da bere. Trascino i piedi per tutta la mattina, vago per i prati incolti in cerca del luogo adatto.

La cascina diroccata emerge dalla sterpaglia, superato un canale di scolo. È circondata da uno steccato e i cartelli avvertono di non avvicinarsi perché il tetto è pericolante. Scritte fatte con la vernice spray si incrociano sull’intonaco che cade a pezzi. Numeri di telefono, offerte di sesso a pagamento, inni a Satana, parole senza senso. A caratteri cubitali, in inchiostro blu:

LA COSCIENZA È LA CANCRENA DELL’ANIMA.

Giro intorno alla costruzione. Sul retro mancano intere sezioni dello steccato. Entro nella cascina da una porta che pende attaccata a un solo cardine. L’interno è occupato da un solo locale. Al centro si innalza una montagna di calcinacci: il pavimento dei due piani superiori è franato. Tra i detriti spunta l’intelaiatura di ottone di un letto, l’anta dell’armadio, il pomello di un cassetto, pagine arricciate di un romanzo tascabile, schegge di vetro, i bracci contorti di un candelabro. La luce filtra da decine di buchi nel tetto, dove mancano le tegole.

L’aria puzza di polvere e di rancido. Come se sotto i calcinacci qualcosa di biologico stesse marcendo. Come se lei fosse passata di qui.

Scarto la pistola e la sfilo dal sacchetto, indietreggio di due passi, stringo il calcio con la mano destra, punto la canna verso un punto nella montagna di detriti. Dove spunta l’angolo di una cornice.

Premo il grilletto.

Il rinculo mi fa alzare il braccio, il boato dello sparo echeggia tra le pareti scrostate. Lacrime nere gocciolano dalla bocca della canna.

Mi arrampico sulla catasta di detriti, attenta a non strapparmi i jeans. Il proiettile ha colpito la cornice nel punto esatto dove avevo mirato. Ha disintegrato le due asticelle di legno, i moncherini sanguinano. Raccolgo sul polpastrello dell’indice una goccia di liquido rosso e denso. Lecco il dito. Sì, sangue.

Mi apposto lungo la parete di fondo del locale, la schiena contro il muro. Alzo la pistola e miro a un mattone. Chiudo gli occhi.

Fuoco!

Batto le palpebre. Il mattone non esiste più, polverizzato. Macchie rosse sporcano i calcinacci tutto intorno.

Scoppio a ridere.

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Post: 22. Titolo: pianificazione. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho fatto qualche ricerca su Internet. La pistola potrebbe essere uno tsukumogami, un oggetto che acquisisce un’anima dopo cento anni di utilizzo. Questi spiriti non sarebbero malvagi, a meno che il proprietario dell’oggetto non voglia sbarazzarsene.

Merda! Mi sa che ho proprio cominciato male il mio rapporto con la pistola.

Ma non è così importante, non intendo usarla. Almeno per ora. Mentre tornavo dalla cascina mi è venuta in mente la giusta punizione per il dottore. Non si merita di morire in maniera pulita.

Dannato psicopatico. E poi sarei io quella pazza!

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Post: 23. Titolo: le piccole soddisfazioni della vita. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Batto le nocche sul finestrino del SUV. Il dottore lo abbassa. Strizza gli occhi, ha il sole in faccia.

«Cristina?»

Gli punto la pistola contro il muso. «Spegni il motore e passami le chiavi. Fai piano.»

«Cristina, cosa–»

«Non farmi incazzare! Le chiavi, subito!»

Il cuore mi martella nel petto, a ogni battito il sangue pulsa nelle dita strette intorno al calcio della pistola. Sento il sangue pulsare nella pistola, come se fosse parte di me. Le lacrime nere si mescolano con il sudore, gocciano dal polso.

«Muoviti!»

Sfila le chiavi e me le porge, gliele strappo di mano. Giro intorno all’auto e salgo dietro. Mi accomodo sul sedile posteriore. Spingo la canna della pistola contro la nuca del dottore. «Adesso ti ridò le chiavi, tu metti in moto e guidi fino a dove ti dico. Non aprire bocca.»

Non sono scema, questa scena l’ho vista in un sacco di film. Se lo lasci parlare, lo psichiatra ti riempie di dubbi, cerca di convincerti che stai sbagliando, magari insinua che sei pazza.

Non mi faccio fregare. E appena scendiamo ho pronto un bel rotolo di nastro adesivo per imballaggi. Nastro spesso e resistente, che usano persino per riparare le pale degli elicotteri.

In ogni caso questo post è meglio se non lo pubblico.

Lego le mani dietro la schiena del dottore, dopo averlo imbavagliato con il nastro adesivo. Lo pungolo in mezzo alle scapole con la canna della pistola. Camminiamo tra gli steli secchi. La cascina spunta all’orizzonte, tra la foschia del mattino.

Il pozzo è sul retro. Do un calcio alla tavola di legno che copre l’apertura. Tanfo di cibo andato a male. Il dottore si volta verso di me, mugugna nel bavaglio. Raccolgo un sasso e lo colpisco al volto.

Crolla a terra, un filo di sangue gli scende dalla fronte e cola tra la barba grigia e bianca. Accenno al pozzo con la pistola. «Rialzati e salta dentro. Altrimenti prima ti massacro e poi ti ci butto io.»

È stato un lavoraccio. Gli ho rotto il naso e gli zigomi, gli ho ficcato i pollici negli occhi, gli ho spezzato le dita delle mani. Non perdeva conoscenza, continuava a dibattersi e a gemere.

Io non l’ho mai fatto. Mi mordevo la lingua e stavo zitta. Non gli ho mai dato la soddisfazione di gridare per il dolore.

Psicopatico senza dignità.

Il casino è stato spingerlo perché cadesse di gambe, ci ho impiegato ore. Sono rimaste macchie di sangue sulle pietre del pozzo e sul terreno duro. Le ho coperte con un po’ di sterpaglia.

Tornando a casa ho vomitato in un cestino per la carta straccia.

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Post: 24. Titolo: notizie. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho passato la sera a cambiare canale. Mi sono sorbita sei telegiornali diversi, compresi due di piccole televisioni locali. Nessuno parla del dottore. Non hanno ancora denunciato la scomparsa? Non ho idea di come funzionino queste cose. Però meglio così: più passa il tempo più le indagini diventano difficili.

Cazzi loro.

Ormai ho la pistola in mano da più di sedici ore. Ho timore ad aprire le dita, ho la sensazione che se lo facessi la pelle rimarrebbe appiccicata al calcio. Il che è assurdo. Assurdo persino per me. Lo stesso non voglio provare.

Questa notte non vado al lavoro.

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Post: 25. Titolo: simbiosi. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Ho la pistola appiccicata alla mano da tre giorni. La pelle intorno alle unghie si è gonfiata ed è diventata nera. Ha lo stesso odore di un dente cariato. Macchie di ruggine chiazzano il dorso della mano fino al polso, se cerco di grattarle via cola fuori pus biancastro. Non muovo più le dita, tranne l’indice che posso distendere o piegare intorno al grilletto.

Viticci pendono dalla pistola. Fili sottili che si agitano come i tentacoli delle meduse. Alcuni filamenti si sono attorcigliati al braccio.

O almeno così appare guardando attraverso un bicchierino pieno di whiskey. Sono tre giorni che bevo, vomito, guardo i telegiornali. Non parlano del dottore.

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Post: 26. Titolo: test. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Non esiste blog senza un post in cui si risponde a qualche stupido test!

Chi sei dove sei nata qual è il tuo colore preferito chi eri in una vita precedente a che età l’hai fatto la prima volta quale personaggio di harry potter vorresti essere hai mai torturato e ucciso qualcuno?

Andate a farvi fottere.

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Post: 27. Titolo: nuove foto. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Suona il campanello. Mi avvicino alla porta senza fare rumore, la pistola dietro la schiena. Apro il battente di due dita. Fabio. Non lo aspetto oggi. Credo. Non so che giorno è oggi.

«Cosa vuoi?»

«Uno dei miei clienti è rimasto molto impressionato dal tuo comportamento.»

Spalanco la porta. Gli punto l’arma al petto. «Piantala con le stronzate. Chi cazzo sei? Per chi lavori?»

La mano di Fabio scorre sotto il risvolto della giacca. Faccio scivolare il dito sul grilletto. Lui rallenta i movimenti. Estrae la solita busta. Me la porge.

Scuoto la testa. «Non voglio più niente da te. Mi licenzio.»

Fabio si stringe nelle spalle. Lascia cadere la busta sullo zerbino. Si volta e scende le scale. Il battito di tacchi delle sue scarpe di pelle nera risuona sempre più debole. Quando non lo sento più, mi chino a raccogliere la busta.

La tengo ferma con la mano buona e strappo il bordo con i denti.

Immagini di lei.

In alcune è ripresa da lontano, è poco più di una macchia grigia contro le ombre della foresta. Come quelle foto dell’abominevole uomo delle nevi, che potrebbe essere un orso polare, come un pupazzo di neve, come una semplice illusione ottica, una forma inconsueta tra le distese di ghiaccio.

In altre foto la si vede da vicino. La pelle ruvida simile a carta vetrata, composta da un manto di minuscole scaglie ossee; le branchie sul collo, che filtrano l’aria e rilasciano esalazioni velenose; le fauci spalancate sulle file parallele di denti, zanne più lunghe di un palmo; gli occhi tondi e neri, senza iride, senza palpebra, due cavità oscure.

Nelle leggende Artemide caccia armata di arco. Ma questo accadeva millenni fa, adesso si aggira usando le frecce come lance. Non ha più eleganza, si muove gobba strascicando i piedi callosi. Un cane idrofobo. E i cani rabbiosi si ammazzano con un colpo in testa.

Sollevo la pistola. I viticci hanno scavato nella carne del braccio e si sono incuneati sotto la pelle. Strisciano in avanti, verso la spalla. Non mi dà fastidio. È giusto così.

L’ultima foto è di nuovo presa da Google Maps. La posizione di Artemide è segnata da una croce. Dietro la foto:

“In guerra non conta chi ha ragione, conta solo sopravvivere.”

Scritto in stampatello.

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Post: 28. Titolo: un sogno si avvera. Data: senza data. Categoria: nessuna. Etichette: nessuna. Stato: bozza.

Se state leggendo queste parole significa che sono morta.

Wow! Ho sempre sognato di scrivere una frase del genere! ^_^

Ho impostato il programma che gestisce il blog in modo che pubblichi tutti gli articoli tra 48 ore. Se non sarò tornata chiunque potrà leggere questi post e pensarne quello che vuole. Se invece riuscirò ad ammazzarla, be’, non credo avrò più motivo per scrivere, né ci tengo ad avere pubblicità, perciò cancellerò gli articoli e nessuno saprà mai che questo blog è esistito.

I viticci della pistola sono arrivati al collo. Non so cosa accadrà quando strisceranno fino al cervello. Ma non me ne preoccupo. Rileggendo quanto ho scritto nelle ultime settimane devo concludere senza ombra di dubbio che sono matta come un cavallo.

Nessun dubbio a riguardo. Nessuno.

Ho anche pensato che forse niente di tutto questo è reale. Forse sono in una cella imbottita, la saliva che mi cola dal mento, lo sguardo allucinato. Intrappolata in un labirinto di fantasie indotte dai farmaci. Ma anche se fosse così, non sarebbe una condizione diversa da quella di qualunque essere umano: marionette di carne manovrate da forze oscure e aliene.

Quel che sia.

Questa notte parto.

Non ho rimpianti.



FINE PARTE I

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Capitolo 2
*** Parte II ***


PARTE II


Le felci crescono tra le spaccature nel cemento lungo la volta del tunnel. L’umidità si condensa sulle foglie, goccioline piovono sul cadavere steso a terra.

Abbasso la torcia, il fascio di luce si frammenta sull’acqua sporca che scorre intorno al corpo. La ferita va dalla spalla destra allo sterno. L’artiglio di Artemide ha strappato la tuta da lavoro dell’uomo e gli ha squarciato il petto. Escrescenze grigie e porose, simili a funghi, infettano i bordi della lacerazione; radici filiformi si diramano tra il sangue, palpitano nell’assorbire il nutrimento.

Illumino la faccia del morto. Erba spunta dalle orbite vuote degli occhi, larve gonfiano le guance, muffe biancastre punteggiano la fronte e il naso. La mandibola manca: Artemide deve averlo baciato e gli ha portato via metà bocca.

Sulla parete del tunnel, dietro il cadavere, la Dea ha tracciato un groviglio di simboli. Ideogrammi cinesi o giapponesi. Le incisioni lacrimano sangue, scie rosse che scendono sui mattoni. Quando la polizia ha interrogato gli invitati alla festa, un ragazzo ha dichiarato che le ultime parole di Angela, prima che si allontanasse dalla villa, sono state: “La verità è nel sangue.”

La mattina dopo c’era sangue dappertutto, un fiume di sangue dalla cima della collina giù lungo il pendio fino ai binari. Il muso della locomotiva ne era coperto, sui tronchi degli alberi era rimasta una linea vermiglia all’altezza del ginocchio, a ricordare il punto più alto della piena.

Il primo a soccorrere Angela è stato un infermiere che viaggiava nella carrozza di testa dell’intercity. Ha detto che la faccia di Angela non c’era più, i segni delle zanne una corona frastagliata impressa sulla carne. E dalle ferite continuava a sgorgare il sangue.

Giro la torcia. Il bosco di Artemide soffoca la galleria fin dove arriva la luce. A metà strada la Dea ha divelto la rete di ferro che bloccava il tunnel. Il cartello “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori” pende sbilenco, l’angolo in basso a sinistra immerso nell’acqua.

Le ultime parole che mi ha detto Angela, in cima alla collina, quando l’ho raggiunta, sono state: “Sei una puttana.”

Il sudore mi cola dalla fronte, pizzica gli occhi. Il tanfo di putrefazione stringe la gola. A ogni respiro vorrei chinarmi a vomitare. Gli stivali sciaguattano nei liquami; lo stesso rumore dei palmi e delle ginocchia che pestano le piastrelle del cesso, bagnate di piscia. In questi anni qualche nozione di psicologia l’ho imparata, e qui si tratta di un classico caso di proiezione: se sei una puttana fai finta che il problema lo abbia un’altra, per esempio accusando tua sorella.

Mi infilo tra le maglie della rete, gli spuntoni ritorti artigliano il braccio che regge la pistola. Le cisti si spaccano, il pus cola sulla carne incancrenita. Sembrano gocce di sperma.

Chissà quale sapore ha il pus-che-assomiglia-allo-sperma?

Mi viene da ridere. Quell’idiota di Marco e le sue idee del cazzo. Un giorno intasa il pavimento della cucina di scatoloni, ognuno contiene venti flaconi di pasticche. Marco ha buttato via gli ultimi soldi che ho mendicato da mamma per comprare la merce. Gliel’ha venduta un suo ex compagno delle medie, e gli ha fatto un “prezzo speciale” perché gli deve un favore. Prendo un barattolo, le scritte sbavate sull’etichetta dicono che quella roba fa assumere alle secrezioni maschili il sapore di mela. «Rivendiamo al doppio» gongola Marco. «Stavolta facciamo i soldi». Svito il tappo, verso sul palmo una manciata di pasticche. «Ma razza di coglione, queste sono solo mentine. Mentine. Cristo santo.»

Per fortuna il braccio ha perso sensibilità da ore, da quando sono arrivata all’impianto di depurazione. Il sangue pulsa solo nell’indice che carezza il grilletto. I viticci della pistola non si muovono più, non si sono arrampicati fino al cervello. Si sono aggrovigliati intorno alla carotide e si sono fermati lì. Non c’è niente da fare, la gente mi evita, non vuole conoscermi troppo da vicino, faccio schifo persino ai tentacoli di un demone.

Il tunnel si allarga a imbuto, sfocia in una sala circolare. A intervalli regolari lungo la parete si aprono gli imbocchi di altre cinque gallerie. Il fascio della torcia passa da un’arcata buia alla successiva. Niente erbacce, niente funghi, niente rampicanti. Il bosco di Artemide si esaurisce ai miei piedi. Dirigo la luce a esplorare il soffitto. Incrostazioni verdastre tra i blocchi di pietra, ruggine sulle tubature. Niente felci, niente liane, niente insetti.

Cammino verso il centro dello slargo. Il pavimento digrada, deve avere la forma di un piatto fondo. Pochi passi e i liquami salgono alle caviglie, a metà strada sfiorano il polpaccio.

Dove sei scappata? Non puoi prenderti mia sorella e sparire così. Non è giusto. Quella puttana di Angela mi ha fatto soffrire per anni e non è giusto che... Il geyser esplode alla mia destra. Mi giro di scatto, la torcia e la pistola puntante verso gli spruzzi che ricadono sull’acqua. Il palmo di una mano mi copre la bocca e il naso, le dita stringono la guancia. L’odore di olio lubrificante mi riempie le narici.

Fiato caldo, rovente, alla base del collo, accanto all’orecchio. «Shh...» sussurra la voce. «Non ti muovere. Vorrei farlo qui, ma lei potrebbe tornare.»

La stilettata al fianco mi mozza il respiro. Nello spasmo le dita si aprono, la torcia cade nell’acqua. Buio.

 

* * *

 

Gli occhi di plastica di Batuffolo mi fissano dal pavimento. L’orsetto di peluche siede sghembo sulla moquette, il fianco contro la gamba della scrivania. Angela si accovaccia sui talloni accanto all’animale di pezza. Gli raddrizza il papillon, dà una spazzolata con la mano al pelo marrone. Raccoglie Batuffolo e lo sistema sul seggiolone. Si volta verso di me. «L’avevi fatto cadere entrando in camera.» Sorride. «Sbandavi un po’. Fortuna che ti hanno impedito di guidare!»

Strizzo gli occhi. Il volto di mia sorella è sfumato, fuori fuoco. Mi passo le dita sul viso, l’occhio destro è chiuso, gonfio. Sfioro il naso e pulsa di dolore. Ho la bocca impastata, la gola secca.

Cristo come sono conciata. Ma devo scendere dal letto e andare in bagno, mi scappa e non voglio pisciarmi addosso. Spingo il palmo sul lenzuolo, sollevo la testa. La stanza rotea intorno a me. Nel vortice Angela allunga la mano, la preme sulla spalla, mi rimette sdraiata. «Stai lì che sei strafatta.» Si morde il labbro inferiore. «E poi mi sa che hanno esagerato.»

Angela si gira, i lunghi capelli biondi le ricadono sulla schiena. Apre il sacchetto della fumetteria che ho posato sul comodino. Ci sono i manga del mese, li ho comprati questa mattina e non neanche fatto a tempo a sfogliarli perché ero appena rientrata quando ha telefonato Roberto e... mi scoppia la testa.

Fruscio di pagine. Angela scorre l’ultimo numero di Strawberry Panic, lo ributta sugli altri. «Certo che anche tu le rogne te le vai proprio a cercare.»

«Cos...» A muovere la bocca i denti e le gengive mandano fitte atroci. Tocco le labbra con dita tremanti. Sui polpastrelli rimangono gocce di sangue. E in più mi sono buttata a letto vestita. Magari con ancora addosso le scarpe sporche di terriccio. Mamma si incazzerà.

Angela sospira. «Adesso ci manca solo che non ti ricordi più quello che ti è successo. Sarebbe un casino.» Mi scosta una ciocca dalla fronte. «Lo sai che ti voglio bene, non voglio darti un’altra lezione.»

Il lampadario brucia di fuoco bianco, mi ferisce gli occhi. La tapparella è abbassata. È sera, o notte. E il giorno appena trascorso è nebbia. Nebbia e sofferenza.

«Sempre che tu non stia facendo la furba» continua Angela. «Non te lo consiglio, perché la prossima volta che sento Roberto farti un complimento non te la cavi con così poco. Finisci all’ospedale. O ci finisce la mamma.»

La voce di Roberto al cellulare, puoi venire? tua sorella si sente male, sì è qui da me, no, non credo sia grave, non ti preoccupare, forse ha solo bevuto troppo, vieni a prenderla.

Angela si stringe nelle spalle. «In ogni caso adesso che si è tolto lo sfizio penso non ci saranno più problemi.»

 

«Chi dorme non sente il mal di denti.» La mano mi afferra il mento, mi piega il viso da una parte e dall’altra. «Però devi considerare che non c’è amore senza dolore.»

Batto le palpebre. L’ombra di un uomo si delinea contro la luce smorta della lampada appesa al soffitto. L’uomo è in piedi di fronte a me. Puzza di polvere da sparo, di carne bruciata. Di olio lubrificante.

Linee scure rigano l’intonaco gonfio di umidità delle pareti. Tracciano il profilo di mobili, o di pannelli di controllo per apparecchiature industriali. Devo essere in una delle centraline abbandonate. E questo stronzo... no, non è Fabio. Veste allo stesso modo, stesse scarpe, stessi pantaloni, stessa giacca, stessa cravatta color pelo di topo, ma questo qui non è magro, questo è grosso. I muscoli tendono il tessuto della camicia, le spalle larghe sfiorano i muri.

E io sono seduta con il culo sulla pietra gelida, appoggiata a un tubo che sbuca dal pavimento. Le mani dietro la schiena devono essere legate, non le muovo. Posso solo far scorrere le dita della mano buona sul ferro della pistola. Do uno strattone. Fitta ai polsi. La corda – cristo, quanto l’ha stretta! – taglia la carne. Le dita si bagnano di liquido caldo. Serro la bocca per non urlare.

L’uomo si tira su le maniche della giacca. I gemelli d’oro ai polsini della camicia scintillano. «Ho una buona notizia e una cattiva notizia.»

«Sei un collega di Fabio? Non lavoro più per lui. Fottiti.»

«La buona notizia è che non intendo violentarti, lo so che ti dà fastidio.» Il tizio sfila la spilla a forma di lupo che ha appuntata al risvolto della giacca. Si gratta con l’ago i capelli. Ammira le scagliette di forfora che rimangono appiccicate.

Questo è messo peggio di Marco.

Il tizio pulisce la spilla sui pantaloni. «Scusa, mi prudeva. Dicevo che la cattiva notizia è che farà molto più male. È sempre così: pena non meritata fa molto male.»

Gli occhi del tizio non hanno iridi, sono due cavità scure. Il nero formicola oltre le orbite, si espande sulla faccia, come si allarga una macchia di inchiostro sulla carta. Sono gli stessi occhi di lei. «Sei uno di loro, non è vero? Un Dio?»

Il tizio si gratta il dorso della mano, già coperto da crosticine. «Dannate pulci.» Le unghie sporche spaccano le croste, il sangue macchia di rosso il polsino della camicia. «Mi chiamano Marte, ma non ha importanza. Piuttosto lo sai che una volta il prurito non andava via, non andava via, non andava via e mi sono grattato la nuca fino a perforare il cranio? Il giorno dopo c’era questo liquido verdognolo e colloso che mi scendeva lungo la schiena.»

Marte si passa la mano sul collo, sfrega le nocche sui capelli dietro la testa. «Allora ho preso uno spiedo e l’ho infilato nel buco. Ma non ci ho cavato un solo ragno. Siamo resistenti, non sono riuscito a distruggermi il cervello prima che i danni si riparassero da soli.»

«Non ho niente contro di te, sono venuta per Artemide. Lasciami andare.»

La mano di Marte mi afferra di nuovo la faccia. Chiude le dita sulla mandibola, i denti scricchiolano. «Dio ama parlare con chi ama tacere. Perciò stattene un po’ zitta.» Mi sbatte la testa contro il tubo, la inclina verso l’alto e la riabbassa, a forzare un cenno di assenso.

Figlio di troia. Ma se ha voglia di blaterare, meglio così. Con il caricatore inserito il calcio della pistola si gonfia e il metallo si crepa. Se strofino la corda sul bordo frastagliato di una delle crepe...

«Il mio problema è che vorrei essere come lei.» Marte gesticola verso le pareti della stanza. «Artemide ha finito di soffrire. Non ha più coscienza, non sa che dovrà rimanere su questo pianeta di merda per milioni di anni, in simbiosi con un corpo di carne. Ma io non ce la faccio, non ce la faccio più.»

Gli occhi di Marte si dilatano, nella tenebra decine di zampe lunghe e sottili si dibattano. «Sai dove ho recuperato questo corpo? Era di un prigioniero russo dell’Unità 731. I giapponesi gli hanno portato via l’intestino e i reni senza anestesia, come esperimento. Lo hanno infettato con il colera e la tubercolosi. Io me ne sono appropriato quando stava per crepare, speravo che la sofferenza lo avesse reso pazzo.»

Marte disfa il nodo della cravatta, apre la giacca, sbottona la camicia. Striature purulente solcano i muscoli, i segni delle unghiate ancora visibili dove si è grattato. Cicatrici si sovrappongono sulla pancia. «Era una buona idea, se non che la via per l’Inferno è lastricata di buone intenzioni. Non solo non era impazzito, ma mi sono ritrovato senza metà degli organi interni e come noto un sacco vuoto non sta in piedi.» L’unghia di Marte ripercorre uno sfregio verticale che parte dall’inguine. I bordi della vecchia ferita si separano. Marte si ficca la mano nello stomaco. La estrae, tra le dita una massa di carta putrefatta. «Mi sono cacciato in corpo un po’ di libri per fare volume.» Ghigna alla sua battuta del cazzo. «I primi che ho trovato. Alcune copie di un’enciclopedia dei motti e dei proverbi.»

I grumi di carta impastati di sangue sfuggono dalle dita distese, cadono sui miei stivali. Tengo lo sguardo fisso su di lui. Intanto sfrego il calcio della pistola contro la corda.

Il Dio della Guerra si riveste. «Allora ho pensato: se non ti aiuta la provvidenza, affidati alla scienza. Niente più trasferimenti come capita, ho incaricato i miei collaborati di cercare con attenzione un candidato ideale.»

Mi prende per i capelli. «Tu sei pazza. Sei nata con le sinapsi incasinate, avrebbero dovuto premere un cuscino sul tuo muso da bambina e soffocarti. Ma sono felice che non sia andata così. In più hai dimostrato di sopportare la simbiosi con uno di noi, anche se la pistola è solo un frammento minuscolo di un Dio.»

La mano scende a carezzarmi il viso. Si posa sullo sterno. «Sarà doloroso, ma un po’ per uno non fa male a nessuno. Naturalmente alla fine morirai.»

La pelle del Dio si increspa e si spacca. Dalle lesioni sbucano zampe lunghe e affusolate. I ragni neri si divincolano per sgusciare fuori. Gli otto occhi di ognuna delle creature luccicano, i peli sull’addome vibrano. I ragni si accavallano uno sull’altro, uno nell’altro.

Il primo ragno percorre il braccio disteso del Dio. Si alza sulle zampe posteriori, protende quelle anteriori verso il mio volto. I minuscoli artigli alle estremità degli arti mi carezzano il mento.

Tenebra.

L’essenza di Marte e degli altri Dei fluttua nello spazio interstellare. Esistono dai primordi del cosmo, e continueranno a esistere fino alla morte dell’universo. Sono creature perfette. Ignorano lo scorrere del tempo, ignorano cosa sia la vita e ignorano che possa terminare. Finché propaggini dei loro corpi lunghi miliardi e miliardi di chilometri non hanno lambito l’atmosfera terrestre. L’essenza si è fusa con esseri di carne e sangue; gli Dei sono entranti in simbiosi con gli uomini.

E la coscienza degli uomini ha infettato l’animo degli Dei.

Da allora gli Dei hanno cercato un significato per la loro esistenza e non lo hanno trovato. Hanno vissuto di piaceri e illusioni, ma senza mai scordare del tutto la loro condanna: un’esistenza eterna senza scopo. L’unica salvezza è la pazzia. O il suicidio.

 

Il boato riverbera nella stanza, lo scossone scuote le pareti, fa perdere l’equilibrio a Marte. Il Dio scivola, colpisce di schiena il muro alla sua destra. I ragni tornano a rifugiarsi sotto la sua pelle. Il secondo scossone fa tremare l’intera stanza, calcinacci piovono dal soffitto, la luce della lampada sfrigola; batto la nuca sul tubo, schegge di vernice mi cadano sul viso.

«Non adesso!» grida Marte. «Vattene! Ho già giocato abbastanza con te. Un bel gioco dura poco!»

I cardini del portello in fondo alla camera saltano via. Il battente di metallo piomba all’interno, solleva una nuvola di polvere. Artemide colpisce con gli avambracci gli stipiti e frantuma il cemento, allargando l’apertura. La Dea dischiude la bocca, le zanne scintillano, rivoli di bava le bagnano il muso. Le branchie esalano gas che puzza di aglio.

Marte si volta ad affrontare la Dea. Tiene la cravatta in mano per un’estremità, come una frusta. Fulmini blu crepitano lungo la stoffa. «Non farmelo ripetere un’altra volta! Vattene o questa volta ti faccio a pezzi! A buon intenditore, poche parole.»

La corda che mi lega il polso non si sposta più, deve essere rimasta impigliata tra le creste di ferro del calcio della pistola. Do uno strattone,  e un altro. La pressione si allenta, le fibre si stanno sfilacciando.

Artemide entra nella stanza. Stringe l’asta della freccia nella zampa destra. Alza l’arma all’altezza della spalla. La punta di selce della freccia mira al cuore di Marte. La Dea farfuglia, una cantilena che ricorda il ritmo della poesia. Ma le parole sono versi gorgoglianti.

La cravatta schiocca davanti al naso di Artemide. La Dea ringhia, indietreggia. Membrane traslucide slittano a proteggerle gli occhi. Artemide spinge sulle gambe deformi e balza in avanti. Marte si scansa, ma non ha spazio, la punta di selce gli trafigge la spalla, penetra nella carne. Sangue e ragni neri sgorgano dalla ferita. Artemide afferra Marte alla gola con l’altra zampa. La Dea picchia Marte contro la parete, spalanca le fauci.

Il Dio della Guerra sorride. «Non tutto il male viene per nuocere. Meglio un dottore morto che un–» Le zanne di Artemide si chiudono di scatto. La Dea agita la testa da una parte e dall’altra, strappa via la faccia a Marte. Il corpo del Dio si affloscia. Artemide si getta su di lui.

La corda cede e libero le mani. Mi tiro in piedi, attenta a non fare rumore.

Artemide intanto divora il corpo di Marte. Gli ha squarciato il petto con la punta della freccia, ha divelto le costole, e ora affonda il muso nella cassa toracica. I ragni neri galleggiano nel lago di sangue che si allarga intorno al cadavere. Le lunghe zampe sono contratte, accartocciate contro l’addome.

Allineo la tacca di mira della pistola alla testa della Dea. Artemide si irrigidisce, alza piano il muso, lo gira verso di me. Una poltiglia di ossa triturate e filamenti di carne le cola dal mento. Le branchie pulsano veloci, gli sbuffi di gas ammorbano l’aria. Le prime felci crescono ai margini della pozza di sangue, grappoli di funghi incrostano il soffitto sopra la Dea.

Il dito si piega intorno al grilletto. «Hai ammazzato mia sorella. Non si meritava di andarsene in quella maniera. Non dopo tutto quello che mi ha fatto. Hai rubato la mia vendetta!»

Faccio fuoco. Una, due, tre volte. I proiettili trafiggono il cranio della Dea. Schizzi di sangue mi bagnano il viso e i vestiti. Premo ancora il grilletto, e ancora. L’occhio sinistro di Artemide sparisce e al suo posto sboccia un fiore vermiglio. Il secondo proiettile spappola l’altro occhio.

La Dea barcolla. Le ginocchia le cedono. Crolla sul fianco, schiaccia sotto il suo peso il cadavere di Marte. Gli artigli perdono la presa sulla freccia, che rotola via dalle dita callose.

Esalo un profondo respiro.

La vendetta è compiuta.

 

Tra il sangue degli Dei, brilla una luce gialla. La spilla di Marte. Un lupo d’argento lanciato in corsa, il manto striato d’oro, gli occhi due rubini. Mi chino per raccoglierlo.

Le fauci di Artemide scattano. Si chiudono sulla pistola. La Dea tira indietro la testa, la carne marcia del braccio si sfalda. Trancia l’arto all’altezza del gomito.

Troia bastarda.

Mentre la Dea si rialza, le sue ferite si rimarginano. I lembi di pelle si fondono a coprire le fibre muscolari che si ricongiungono. Le zanne rotte ricrescono, gli occhi si riaprono.

Arretro di un passo, il tacco poggia su...

Mi lancio a terra e afferro l’asta della freccia. La zampata di Artemide mi sfiora i capelli. Ficco la punta di selce nel ginocchio della Dea. La punta trancia i tessuti, senza resistenza, come aveva fatto con Marte. La Dea urla, il latrato di una cagna.

Indietreggio verso la porta scardinata. Artemide mi segue zoppicando. Fa guizzare le dita artigliate, le colpisco il dorso della zampa con la freccia. La Dea mugola e ritrae il braccio, le dita pendono inerti.

Perdo sangue e pus e siero dal braccio tranciato e credo mi rimanga poco prima di crepare ma non sento dolore. Posso combattere. Posso ammazzarla sul serio!

«Avanti, bastarda, che comincio a divertirmi.»

La Dea carica, la bocca dischiusa sulle centinaia di denti affilati. Mi inginocchio, lei mi è addosso, le pianto la freccia sotto la gola. Spingo finché la punta non trapassa la nuca. Mi sposto di lato mentre la Dea crolla muso in avanti.

Sciami di ragni neri strisciano fuori dalle lacerazioni. Traballano sulle lunghe zampe, cadono sul fianco. Rimangono immobili, i minuscoli occhi opachi e senza vita.

 

* * *

 

Tiro fuori dal sacco un altro cane morto e lo sbatto sul tavolaccio di legno. Infilo il cacciavite tra le fauci dell’animale e faccio leva per aprirgli la bocca. Raccolgo la pinza e gli strappo i denti. Li butto nella ciotola, già piena a metà di piccole zanne.

Lavoraccio di merda, in più ho già i capelli tutti appiccicaticci di sangue e peli. Ma mi servono altri denti. Devo incollarne un po’ anche sulla seconda ganascia semicircolare della tagliola, o non viene bene.

Do un calcio al sacco, le carcasse di altri due cani rotolano sul pavimento. Ancora oggi e sarà sufficiente. Allora la trappola per Angela sarà pronta. Vedrai che festa che ti faccio, sorellina.

 

Rimanere sdraiata sull’erba umida, con il vento freddo che mi appiccica addosso i vestiti sudati e imbrattati di sangue, mi sembra proprio un’idea idiota. Mi beccherò l’influenza.

Ma se mi rimetto in piedi svengo. È già successo. Da quando sono sgattaiolata fuori dal tombino ho perso i sensi almeno un paio di volte. E poi non saprei in che direzione trascinarmi, non so più dove si trovi la statale.

Sono così stanca.

Risalire la scala a pioli fino in superficie è stata una tortura che potevo risparmiarmi. Forse l’unica soluzione è abbassare le palpebre. Chiudere gli occhi. Non riaprirli più.

«No, no!» squittisce una vocina. «Spalanca gli occhioni, sono proprio curioso di osservare la tua espressione quando mi vedrai.»

Le raffiche gelide disegnano onde sul prato, scuotono i rami degli alberi che delimitano la radura. Fra i tronchi spuntano le pareti curve delle vasche di depurazione; la vernice bianca scrostata, le ringhiere delle passarelle insozzate di ruggine. Il sole tramonta dietro le piante, il disco arancione e gonfio. E io non ho sentito alcuna voce, perché non c’è nessuno, e non sono pazza. Non lo sono più. La pazzia l’ho lasciata dietro di me, in un lago di sangue e ragni morti.

«Questo è molto curioso» riprende la vocina. «Hai un modo di ragione tutto tuo. Interessante.»

Ali membranose velano la luce del sole. La creatura si mantiene a mezzaria davanti alla mia faccia. L’omuncolo volante indossa un cappotto sfilacciato e sul cranio ipertrofico un colbacco con la stella dell’armata rossa. Le orecchie si muovono a scatti come antenne in cerca della ricezione migliore.

Gli occhi sono senza iride. Due pozzi di tenebra.

Mi viene il vomito. «Non potete lasciarmi perdere? Perché anche tu sei un cazzo di Dio, giusto?»

L’omuncolo infila la manina nella tasca del cappotto, prende una caramella e la succhia. «Uh, uh. Ma io sono diverso dagli altri. Io non mi annoio perché sono sempre curioso.»

«Quanto ne sono felice.» Volto la testa di lato. Bende fasciano il moncherino del braccio. «Sei stato tu?»

«Stavi morendo. Ti ho salvata perché volevo scoprire come sono andate le cose. Due di noi sono morti, non capita spesso.»

«Ti racconterò.» Non si può neanche crepare in pace. Me ne torno a casa e bevo vodka alla fragola finché non crollo. Voglio dimenticare tutta questa storia. «Ti racconterò. Ma non oggi, oggi non ce la faccio.»

«Non importa.» L’omuncolo indica le orecchie. «Percepisco le correnti elettriche nel tuo cervello.»

Batte le ali e si solleva in volo. Mi scavalca, i piedini producono un suono ovattato quando toccano il suolo dietro la mia testa. «E per i dettagli più minuti farò da solo.»

L’ombra dell’omuncolo si allunga sul mio viso. Il trapano che l’omuncolo stringe tra le manine vibra, la punta ruota velocissima. Il ronzio mi fa battere i denti.

L’omuncolo spinge la punta contro la mia fronte.

 

* * *

 

Mamma regge lo specchio davanti a me, lo inclina a destra e a sinistra perché possa osservare da ogni angolazione il mio cranio rasato. Quattro viti perforano l’osso frontale e tengono ferma la placca di metallo. Il rettangolo di acciaio è montato sopra l’arcata sopracciliare destra, all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Se li avessi.

Mamma posa lo specchio sul comodino e mi sistema i cuscini dietro la schiena. «Non ti preoccupare, il professore dice che quando i capelli ricresceranno non si noterà.»

Accenno di sì con la testa. Certo mamma, non si noterà. Come se me ne fregasse qualcosa! Le lenzuola bianche mi danno la nausea, e mi dà la nausea l’armadio bianco e le pareti bianche e la dannata porta bianca sempre chiusa. E lei si pensa che me ne freghi qualcosa dei capelli!

«Voglio tornare a casa» biascico. Ho difficoltà a parlare, e in più mi sbrodolo ogni volta che apro la bocca. La saliva sfugge dalle labbra, gocciola sul camice. Non posso neanche pulirmi, non con il polso legato alla sponda del letto. Sono stata giorni senza mangiare, sperando di sfilare la mano scheletrica, ma i bastardi non hanno fatto altro che stringere di più il laccio di cuoio.

Mamma mi asciuga le labbra con un fazzoletto di carta. «Adesso riposati.» Raccoglie dal comodino il bicchiere pieno a metà di acqua. Una sostanza giallastra che puzza come orina di gatto frizza in superficie. «Su, bevi le medicine.»

«Angela meritava anche di peggio.»

Le dita di mamma tremano, il bicchiere le scappa di mano, si infrange sulle piastrelle immacolate. La piscia di gatto le bagna le scarpe. Mamma strappa una manciata di fazzoletti di carta dalla confezione, si accovaccia per pulire.

«Lasci stare, signora.» Il dottor Falchi entra nella stanza, le mani affondate nelle tasche. «Chiamo l’infermeria.»

Si avvicina al letto, si china su di me. Sorride, senza aprire la bocca.

Chiudo gli occhi.

 

Mamma se ne è andata. Le ombre della sera hanno tinto la stanza di grigio. Il dottor Falchi ha trascinato una seggiola accanto al letto. Mi osserva da ore, immobile. Aspetta che l’analgesico che mi hanno dato a pranzo esaurisca il suo effetto.

Con la mamma non dovevo dare segni di sofferenza. Non troppi almeno. Altrimenti c’era il rischio che mi facesse ricoverare da qualche altra parte. Non che in fondo cambierebbe niente, ma se mi liberassero anche solo per pochi minuti... il sito dedicato ai suicidi aveva un paio di pagine su come ammazzarsi in fretta. Non ho dimenticato le istruzioni.

Le gengive tornano a formicolare intorno ai denti strappati. Signora, ha spiegato il dottor Falchi alla mamma, mentre io ero stordita dai farmaci, spesso le malattie mentali sono causate da infezioni batteriche. E l’unica soluzione è estirpare la sede di origine dell’infezione: denti, ovaie, colon.

Il fastidio alle gengive cresce, diventa un picchiettare inteso. Ficco le unghie nel palmo e irrigidisco i muscoli del viso. Non devo cambiare espressione, oppure...

«Possiamo cominciare.» Il dottor Falchi si alza, tra le mani dondolano i fili elettrici, i lunghi aghi saldati alle estremità tintinnano gli uni conto gli altri. «Come le spiegavo la volta scorsa, ognuno di noi supera l’orrore di vivere in modo diverso. A me basta poco per tirare avanti.»

Gli occhi del dottore ardono di nero. «Il vantaggio di essere il Dio del Dolore.»

 

 

 

FINE

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