Il Bar di Stoccolma

di SFLind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quelle pantofole rosso cremisi ***
Capitolo 2: *** La ragazza del Bar ***



Capitolo 1
*** Quelle pantofole rosso cremisi ***


IL BAR DI STOCCOLMA
 
1. QUELLE PANTOFOLE ROSSO CREMISI
Se non sbaglio una volta qualcuno disse che non si realizza un sogno rimanendo a contemplarlo nel letto.
 
Ma nel caso non si avesse un sogno… In quel caso, il detto varrebbe lo stesso?
 
Una domanda che sorge spontanea ogni mattina nella mia testa, che nel frattempo si angoscia per una prematura venuta del giorno e per il suono irritante della sveglia, che, instancabilmente, continua a suonare.
Fino a due mesi fa, la mattina non riuscivo nemmeno a fare colazione. Preparare il caffè non era un valido motivo per alzarsi cinque minuti prima, ma avevo risolto il problema comprando una di quelle macchinette automatiche. Basta impostare l’orario la sera prima e il gioco è fatto.
Alle 7.33 la macchina da caffè puntualmente trilla, ed è lì che non posso più gongolarmi.
E’ ora di alzarsi.
La giornata è iniziata anche per me.
Mi alzo mettendo giù un piede alla volta, e allo stesso modo infilo alla cieca le pantofole pelose che mia sorella mi ha “gentilmente” regalato il Natale scorso.
Completamente imbottite di pelliccia, quelle pantofole rosso cremisi sono l’unica cosa che mia sorella mi abbia mai regalato a Natale in diciotto anni della sua vita. Dentro vi aveva fatto cucire il mio nome in lettere dorate.
Eva.
Un’idea carina in effetti per farsi perdonare diciotto anni di regali mancati, ma non abbastanza per farmi cambiare idea sulla sua stranamente improvvisa voglia di venirmi a trovare nel bel mezzo di un gelido inverno svedese.
Indimenticabile era stata la sua chiamata di qualche giorno prima, quando insistentemente aveva cominciato ad affermare che un po’ di compagnia mi avrebbe fatto bene, e che vederla girare per l’appartamento mi avrebbe fatto sentire di nuovo a casa.
Una fastidiosa fitta allo stomaco.
Nessuno aveva mai parlato di volersi sentire come a casa.
Anzi, sinceramente, mai più mi sarei voluta sentire come a casa.
Nonostante io adori la mia famiglia, non posso non accusarla del fatto di avermi limitato eccessivamente nella mia convivenza con loro.
Le mie scelte sono state troppo spesso rifiutate e sottomesse, i miei atteggiamenti criticati e le mie aspirazioni respinte.
E’ anche vero che mia sorella non ha niente a che fare con il mio astio verso la parte dominante della famiglia, la parte dei “capostipiti”, per così dire. Considerando che poi lei è perfino due anni più giovane, non se ne è mai interessata particolarmente.
Ma qualcosa è cambiato, all’improvviso.
Dopo diciotto anni, ha comprato delle pantofole e ci ha fatto incidere il mio nome. Dopo diciotto anni, mi ha regalato qualcosa a Natale. Dopo diciotto anni, avrebbe voluto farmi sentire a casa.
Semplicemente “amore fraterno”?
Non ci avrei creduto nemmeno se fosse stato vero.
Dubitare dell’onestà della propria sorella, nemmeno questo è amore fraterno, ma se fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
 
Nella cucina regna quel profondo e forte odore di caffè, che bollente aspetta impazientemente di essere versato nella tazza. La mia solita tazza, comprata con poche corone in un negozietto nella vecchia città.
Di enormi dimensioni, interamente nera, ai bordi due fluorescenti linee rosse, al centro un grande teschio da pirata. Certamente non una bella tazza, ma da sempre da alla mia colazione un senso di amabile e ordinata quotidianità. Bere il caffè in quella tazza, solo e soltanto mia, mi ricorda che sono a casa da sola, è mattina e dovrei andare a lavorare. Ma principalmente che questa mia routine, è una scelta che ho preso io, da sola. Non c’è nessuno che la mattina possa venire a svegliarmi buttandomi giù dal letto, senza farmi realizzare un valido motivo per farlo. Niente Mamma, niente Papà onnipresenti. Nessun narratore onnisciente a raccontare la mia storia. Solo io, la mia casa, le mie pantofole e il mio caffè.
E Stoccolma.
                                                           
 
                                
                                         
L’orologio segna le 7.40 am, ho appena finito il mio caldo e amaro caffè, nella mia nera tazza da pirata, in questa mia e silenziosa casa a Stoccolma.
Ho ancora venti minuti, poi comincerò a recitare il mio solito copione. Qual è la trama della storia? Un bar, la sua unica cameriera nel turno diurno e i suoi clienti.
Uno stile di vita un po’ monotono lo so, ma “chi non ha ali non può volare alto”.
Avessi capito prima che scappare sarebbe stato possibile, mi sarei impegnata di più e probabilmente adesso avrei un lavoro decente o per lo meno starei studiando all’Università. Prima di sogni ne avevo, e anche tanti, ma adesso ne manca perfino il ricordo.
Mi sarebbe piaciuto essere un’artista, forse.
 
7.43 a.m., sono in ritardo di tre minuti sulla tabella di marcia, devo fare in fretta. Alle 8.00 a.m. inizia il turno. Alle 8.00 a.m., mance e sorrisi di cortesia cominceranno a riempire le tasche del mio grembiule marrone.
“Dovresti trovarti un ragazzo, hai bisogno di un po’ di movimento, sorella mia!” – Questo è quello che più e più volte mi ero sentita dire alla cornetta del telefono da mia sorella dopo il mio trasferimento lontano da casa.
Non dispiaceva nemmeno a me l’idea, ma mi reputo una persona troppo pigra e apatica per una relazione stabile. Per lo meno, questo è quello che negli anni mi è stato detto, gridato contro o semplicemente, quello che dopo anni e varie storie credo di aver compreso.
Generalmente iniziavo bene, mostravo il lato migliore di me. Ma poi c’era sempre qualcosa che andava storto. Improvvisamente cresceva la noia e l’indifferenza verso il ragazzo in questione. Dopo poco, anche il sesso diveniva una concessione, privo di piacere personale. Poi l’ultimo stadio, i litigi e i sospetti. Automaticamente venivo accusata di essere interessata a qualcun altro, un qualche mio amico, con cui magari temporaneamente avevo maggiore piacere a passare le mie giornate.
“E io avrei un altro? Ma cosa diavolo pensa questo? Non ho tanto tempo da perdere così!”.
Questo è quello che pensavo. Relazione per me è sempre stato sinonimo di “peso di troppo”.
Le giornate passano più tranquille quando non si ha nessuno a cui pensare. Quando sei tu a scegliere a chi o cosa rivolgere le tue attenzioni. Quando non c’è quella sottointesa costrizione che ti limita ad una persona sola per più e più tempo. E che per inerzia fa in modo che questo tempo si prolunghi giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto.
“Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il problema è che non le incontri.”, Charles Bukowski, non per niente il mio scrittore preferito.
Leggendolo, le mie stranezze divenivano meno anormali, e magicamente diventavo un’ordinaria ventenne ribelle. Anzi, un’ordinaria ventenne ribelle, sola e lontana dalla vita di sempre. Fuggita con se stessa in una città lontana. Una città che si era sempre e solo limitata a sognare.
Sola e senza ragione.
Avevo tutto quello che mi sarebbe mai potuto servire. Era lì, in Francia. Denaro, casa, lavoro e amici. Ma vivere all’insegna della famiglia e del “rispetto per i più grandi” per il resto della mia esistenza, non era nei piani. E mai lo sarebbe stato. A me sarebbero bastati amore e libertà, e se li avessi avuti, allora sì che sarei rimasta a casa.
Ma io non potevo far altro che sognarli.
E ormai sognare era diventato noioso.
Ma poi chi lo sa. Chi lo sa perché ho scelto Stoccolma.
 
Ero sola e senza ragione.
 
O forse no. Forse non del tutto.
Forse è proprio per brama di libertà che sono andata via. Forse, è per brama d’amore che ho lasciato la Francia. Ma certamente l’amore di cui parlo, non racconta di un ragazzo.
E’ di Stoccolma che sono da sempre stata innamorata.
Non ci sarebbe stato ragazzo in grado di farmi sentire come quando sono sola nel mio piccolo appartamento, guardando fuori dalla finestra, ammirando la città in tutto il suo fascino.
Nessun ragazzo mi avrebbe reso tanto felice quanto mangiare uno di quei dolci tradizionali che spesso il proprietario del bar in cui lavoro, a fine giornata mi offre. O bere quei lunghi caffè girovagando per la città nel tempo libero. O andare in giro a chiedere informazioni giù nella metropolitana.
Nessun ragazzo ci avrebbe mai nemmeno provato.
 
Lentamente mi dirigo verso il bagno. Faccio un piccolo sforzo per aprire gli occhi. Mi guardo allo specchio. Voglio vedere se la mia faccia è ancora la stessa, la stessa di ieri o dell’altro ieri, se sarà la stessa che troverò domani.
Completamente identica.
Non credo di avere un fascino ordinario. Con il tempo ho maturato la concezione di essere una ragazza di bell’aspetto, di un interesse singolare, ma soprattutto soggettivo, dato che poi nessun ragazzo si è mai fatto avanti dal mio arrivo in città.
Al caffè spesso mi sento osservata, ma non saprei dire se positivamente o meno. Mi sorridono sia le ragazze che i ragazzi. Ma il modo in cui lo fanno è diverso.
Le ragazze mi sorridono come un adulto sorride ad un bambino che ha appena smesso di piangere. Ma non so se lo fanno con superbia o simpatia.
I ragazzi come si sorride ad una compagna di banco del liceo. E non so se lo fanno con attrazione o empatia.
Forse sono le lentiggini. Forse sono i capelli rossi. Forse sono le guance rosee.
Forse mi fanno apparire più piccola ed infantile di quanto io non sia.
Forse appaio troppo timida.
O forse solo trasparente.
Molto probabilmente non attiro l’attenzione e basta.
Sicuramente sono solo la ragazza del bar.
E sinceramente, va benissimo così.
 
Sciacquo il viso con dell’acqua fredda. Ho bisogna di svegliarmi, è quasi ora.
Lentamente tolgo il pigiama, rimango in biancheria. Il bagno è freddo, e non oso toccare la mia pancia, già troppo tesa per la fastidiosa sensazione di gelo.
Ancora lo specchio.
Sono dimagrita, noto con piacere e disgusto allo stesso tempo.
I miei piedi si godono il calore delle pantofole rosse mentre mi dirigo verso l’armadio.
Un paio di jeans scuri, un maglione marrone. Non ho bisogno d’altro.
Spruzzo un po’ di profumo. La vaniglia è il mio aroma preferito.
Mi dirigo verso il cassettone dell’intimo, lo apro. Vado sul classico, è lunedì mattina.
Slip e reggiseno nero.
I jeans freddi m’innervosiscono ulteriormente, ma il contatto dello spesso maglione con la mia pelle con un brivido riporta tutto, il mio corpo e i miei nervi, alla normalità.
Torno in bagno, guardo il riflesso nello specchio dei miei occhi, intenti a domandarsi anche oggi se vale la pena truccarsi.
La risposta è quella di ogni giorno. No.
Un rossetto color carne e del mascara. E’ tutto.
Sto per uscire dal bagno, ma mi volto ancora verso l’altra Eva, quella nello specchio.
Non riesco a non fissarle i capelli. Lunghi e troppo arruffati, le vanno continuamente in faccia.
Un semplice rimedio. Prendo un elastico per capelli ed ecco scendere dalla sua spalla destra una treccia rossa.
Adesso si, sono pronta. Finalmente un sorriso di sollievo. Anche oggi ce l’ho fatta, ho cominciato la mia giornata.
Esco correndo dal bagno e mi dirigo serena verso l’ingresso.
Devo scegliere le scarpe, così do uno sguardo veloce alla finestra. Nevica.
Bene, infilo gli stivali panna imbottiti di pelliccia color miele e il piumino beige.
Do un ultimo sguardo allo specchio prima di uscire, penso che vestita così non potrei andare da nessun’altra parte se non in un bar, dato che anche fuori mi scambierebbero per una cameriera.
Avvolgo la sciarpa bianco panna intorno al collo, i guanti mi scaldano già le mani e il berretto mi copre interamente la chioma rossa.
Sono le 7.57 a.m., e sono pronta ad uscire.

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Capitolo 2
*** La ragazza del Bar ***


3. LA RAGAZZA DEL BAR;

Velkommen”.
Questa è l’insegna che trionfa sul modesto zerbino posizionato all’ingresso di casa Schonen.
Piccolo e quasi insignificante, da il benvenuto a chiunque passi da quella porta, e un po’ di nostalgia a chi invece lo guarda di sfuggita, uscendo dall’uscio, immaginando il momento in cui lo si guarderà di nuovo al ritorno.
Così un ragazzo entra a testa bassa nell’ascensore condominiale. Il viso immerso nella sciarpa azzurra, i capelli biondi coprono le orecchie e gli occhi, di cui non si riesce a distinguere il colore, ma che è impossibile non capire siano chiari.
Nel suo aspetto esile e gracile sembra ancora più piccolo, in quel largo ascensore.
Abita al quinto piano di un palazzo a Karlaplan, nella capitale svedese, e come ogni giorno si diverte a leggere le istruzione d’emergenza, aspettando di arrivare al piano terra.
Uscendo dall’ascensore incontra una ragazza, lo fissa insistentemente.
Che nervoso.. Che c’è da guardare in questo modo..” pensa infastidito, ma declina con un dolce sorriso, che nessuno oltre a lui sa essere falso.
Chissà a quante persone rivolgerà quel sorriso ogni giorno. Chissà quante gli crederanno. Chissà quante capiranno che sono solo bugie.
 
Ma può considerarsi una bugia qualcosa che viene fatta solo per far sentire meglio una persona?
 
Esce di casa come ogni giorno a passo lento. Ama quell’aria fredda.
 
Respirala.
Ti rigenera.
 
Oggi non ha lezioni, passerà la sua giornata così come viene, a suo piacimento.
Sono solo le 9.00 del mattino, che potrà mai fare a quest’ora? Nemmeno lui lo sa.
Ha raggiunto la piazza. Un grande albero di Natale piantato nel mezzo la sovrasta. E’ enorme, sì, ma spoglio.
Sembra guardarlo solo di sfuggita per poi andare a sedere su una panchina vuota lì intorno, ma in realtà l’immagine di quell’albero è ancora lì fissa nella sua testa. Ne è affascinato forse.
E’ colpito dalla sua semplicità. Da come s’imponga anche senza tante decorazioni.
Il giornale letto quella mattina in prima pagina vantava una critica per l’annuale allestimento della piazza, quest’anno considerato un totale fallimento.
Ma no, secondo lui è perfetto.
E’ lì, solo, in quella piazza, proprio come lui. Le persone lo fissano, come fissano quel grande abete.
Non si vergognano di essere notati, osservano e basta. Con sorpresa e sdegno allo stesso tempo. Con curiosità e indignazione.
Tutto questo lo diverte.
Studia Psicologia, studia le persone. Vorrebbe studiare se stesso, ma non sa in che modo. Forse un giorno arriverà a scoprirlo, oppure troverà qualcuno che lo faccia al suo posto.
Un vecchio uomo si siede improvvisamente sulla stessa panchina. Quell’impulsività dei movimenti lo sorprende, mentre un odore forte e nauseante lo colpisce forte allo stomaco, rilasciandoli in bocca un sapore orribile.
E’ alcool.
Il signore non parla. Non guarda. Non si volta. Fissa anche lui l’albero.
Ha il viso paonazzo e i capelli sudici. Bruscamente tira fuori un sigaro e con insopportabile non curanza lo accende.
Si sorprende a fissarlo. Detesta la maleducazione. Con non-chalance si alza e senza parlare se ne va.
Ha di nuovo gli occhi bassi e il viso affondato nella sciarpa.
Ha stranamente freddo alle mani, nonostante i guanti e le tasche in cui sono ben riparate dalla neve e dal ghiaccio.
Forse è meglio entrare in un bar, ne approfitterà per fare colazione.
Si sta avvicinando alla galleria commerciale Feltoversten, ma all’angolo nota un piccolo bar mezzo vuoto.
Provare non costa niente” pensa, dirigendosi verso l’ingresso di quel bar dalla strana insegna “I’ve been there”.
I’ve been there.. Non ne afferro il senso..”.
Di fronte alla vetrine cerca di spiarne l’interno, sembra carino, nulla di speciale, accogliente.
Poi concentra il suo sguardo sulla sua immagine riflessa.
Oggi deve essere molto freddo, le sue gote sono rosse e i suoi occhi blu sembrano più scuri. Il giaccone nero gli arriva fino alle ginocchia, lo fa sembrare più basso.
Improvvisamente si accorge che le clienti sedute al tavolo dietro il vetro lo fissano in malo modo, o imbarazzate. Non sa dirlo.
Sente di nuovo il fastidio alle mani, dalle dita congelate.
Ok, basta. Entriamo adesso.. Prenderò un caffè..”.
 
Quando la porta si apre, una campanella suona, la ragazza intenta a  servire un tavolo infondo alla sala, volge la coda dell’occhio verso di lui, e immediatamente torna a concentrarsi sulle ordinazioni.
Nota un tavolino più piccolo e due sedie. Decide che siederà lì.
Prende un giornale dall’ingresso, giusto per comportarsi normalmente. E’ solo e non ha nient’altro da fare, anche se quella stessa mattina di giornali ne aveva letti abbastanza, senza rimanere colpito da nessuna notizia.
Siede, toglie giubbotto, sciarpa e guanti. Infila un paio di occhiali dalla montatura nera e prende il piccolo menù marrone eretto su quel piccolo tavolo nero.
Quanti tipi di caffè..” nota impressionato. Troppi forse, perché possa scegliere.
Perché possa conoscerli tutti.
Per qualche minuto il suo sguardo salirà dal basso verso l’alto di quel menù per parecchie volte, e scenderà verso il basso altrettante.
Uno solo lo ispira particolarmente, o almeno, è il nome che lo colpisce maggiormente.
Frappuccino Italiano al caramello. Caffè, latte, panna, caramello.. una bomba calorica! Bah.. Opterò per un caffè lungo..”. Forse un po’ amareggiato per il doversi accontentare di un amaro caffè, guarda fuori dalla finestra. E’ tutto bianco, nevica e le persone lottano contro un vento gelido.
Poggia il menù, incrocia le dita e vi poggia la fronte. Sente ancora freddo. Gli occhi bassi, odia portare gli occhiali.
Ha un leggero mal di testa, gli pulsano le tempie. Pensa che dovrebbe comprare un cappello.
Arriva una ragazza con dei grossi occhiali marroni. E’ lì in piedi di fronte a lui, un block notes e una matita in mano. Non gli rivolge lo sguardo, fissa solo la sciarpa, accidentalmente caduta per terra. La ragazza si piega e la raccoglie, poi la poggia sulla sedia in modo che non possa scivolare ancora. Si ricompone e senza parlare lo guarda, infine sorride.
Questa volta è lui a fissarla. Questa volta però non sorriderà. Ordinerà il suo caffè e basta.
La cameriera continua a non parlare, ma non manda via il sorriso. E’ sempre lì, sul suo viso lentigginoso.
Un visino da bambina, maglione a collo alto e grembiule marroni. Due occhiali che le cerchiano gli occhi cervoni.
China la testa, annota l’ordinazione e gira i tacchi.
Lui continuerà a fissarla da dietro, ne comincerà a delineare i difetti fisici.
E’ troppo magra, il viso smagrito e scarno, i capelli troppo rossi.. Fisicamente non è niente di che.. Sorride come una bambina..”, continuerà con metodica freddezza.
Toglie gli occhiali dal viso con inconscia superbia.
Non sopporta la monotonia. Non tollera le persone ordinarie. Odia qualsiasi routine. Detesta le mode e chi ciecamente le segue, chi non si distingue dalla massa.
Risultato: quella ragazza del bar non gli era altro se non indifferente, invisibile.
Divertito dalle sue stesse deduzioni aspetta il suo caffè, insieme a cui vedrà tornare quell’apparente bambina troppo cresciuta.
Sorridente, servirà prima tutti gli altri tavoli precedenti al suo, parlerà con i suoi clienti e saluterà quelli che vanno. E ancora con quell’ordinario sorrisino arriverà a servire anche lui, poggiando l’enorme tazza di caffè bollente su quel piccolo tavolo scuro, dove lui, ignorando lei, continuerà a leggere il suo giornale con non curanza e con totale disinvoltura. Poi lo abbasserà per degustare la sua scelta, sorprendendosi però di trovare anche un morbido muffin con scaglie di cioccolato al fianco.
Vorrebbe dire di non aver ordinato alcun muffin, ma la cameriera ha già lasciato lo scontrino ed è tornata a servire un altro tavolo.
Su quel pezzo di carta numerata non vi è alcuna traccia di un dolce, solo le trenta corone di caffè lungo con una zolletta di zucchero.
Non oserà toccare quel muffin. Lo lascerà lì a raffreddare sino alla fine, aspettando che qualcuno venga a riprenderselo. Rimarrà lì per altri venti minuti, prima che la stessa cameriera, appena liberata da un po’ dei clienti che intanto, passata l’ora di punta, saranno usciti, tornerà al tavolo per prendere il conto. Sorprendendosi però di trovare ancora lì sia il muffin che il ragazzo a cui lo aveva lasciato.
La ragazza rimane lì in piedi a fissare il dolce, chissà con quali pensieri nella testa. Un po’ dispiaciuta forse per il vederlo ancora lì intero.
Lui le ricorda distaccatamente di non aver pagato per un muffin.
- Non si preoccupi, è un omaggio della casa.. Con questo freddo non riceviamo molti clienti, e mi dispiacerebbe dover finire per portare a casa tutto ciò che rimane. Era appena uscito dal forno.. Vuole che lo riscaldi adesso? – dice allora lei, tornando gentilmente a sorridere.
Ma lui non ha voglia di aspettare ancora. Lui non ha ordinato quel muffin.
-No, grazie.. Lo mangerò più tardi, sarà freddo comunque. Arrivederci – risponde lui alzandosi dalla sedia e prendendo quel freddo muffin in mano.
Poi declinerà con un formale sorriso, un insolito, enigmatico e falso sorriso, che sfoggiato sul suo viso assume sempre un’aria ironicamente angelica.
Ma questa volta non sortirà l’effetto desiderato, questa volta vedrà soltanto spegnersi il vivace verde degli occhi della cameriera e sparire il sorriso da quel volto lentigginoso.
Rimane lì in piedi, indeciso se dirigersi verso la porta, nervosamente imbarazzato com’è, o restare curiosamente a capire cosa è inconsciamente scattato tra i due.
Ma lei non si farà tanti problemi. No, lei chinerà la testa e tornerà a rifugiarsi dietro il suo bancone, con lo sguardo basso. Come un cane torna alla sua cuccia dopo essere stato rimproverato.
Lui davvero non capisce, anche se vorrebbe. Si sorprende stranamente interessato alla situazione, ma non può rimanere. Ha salutato ormai e ha detto che se ne sarebbe andato, forse un giorno sarebbe tornato per un altro caffè. Ma nemmeno lui ne ha la certezza.
Non crede di doversi dispiacere, dopotutto lui ha solamente sorriso.
Dopotutto,è solo la ragazza del bar.
 

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