Kaizoku to no ryoko / Viaggiando con i pirati.

di KH4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caos nella parte bassa di Hanbai/ Arriva Azu. ***
Capitolo 2: *** Cercando un medico. ***
Capitolo 3: *** Preoccupazione materna. ***
Capitolo 4: *** A bordo della Thousand Sunny / La storia di Shion. ***
Capitolo 5: *** Fermento nell'ombra. ***
Capitolo 6: *** Sogni da realizzare. ***
Capitolo 7: *** Fermata improvvisa a Rocky Headland. ***
Capitolo 8: *** Imprigionata fra le mura di pietra. ***
Capitolo 9: *** Nella giungla profonda. ***
Capitolo 10: *** Un'uscita tanto vicina quanto lontana ***
Capitolo 11: *** Il gelido soffio punitivo della Regina dei Ghiacci. ***
Capitolo 12: *** Convocazione a Villa Altaria. ***
Capitolo 13: *** Di litigate apocalittiche e notizie tralasciate. ***
Capitolo 14: *** Suppressed awareness. ***
Capitolo 15: *** La città bianca di San Lorein. ***
Capitolo 16: *** Pieces of Memory: Stranger. ***
Capitolo 17: *** Pieces of Memory: Broken Ice Queen. ***
Capitolo 18: *** Pieces of Memory: Scar. ***
Capitolo 19: *** Spigolosi compromessi. ***
Capitolo 20: *** Stronger. ***
Capitolo 21: *** Promessa/ L'interrogatorio dell'arpia argentata. ***
Capitolo 22: *** Pericolo all'orizzonte. ***
Capitolo 23: *** Annuncio importante. ***



Capitolo 1
*** Caos nella parte bassa di Hanbai/ Arriva Azu. ***


Salve a tutti! A dispetto delle mie aspettative, vi porto il secondo capitolo con regolarità! (A stento ci credo, perché, ho le mani prese un po’ da tutte le parti). Prima di lasciarvi, voglio ringraziare chi ha lasciato delle recensioni per il mio primo capitolo: quattro recensioni non me le aspettavo di certo, eh eh! Spero me ne arriveranno molte altre col proseguire della storia!
 
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“Dannazione! Ma che diavolo ho fatto per meritarmi questo?!”
 
Era il colmo. Una situazione più insopportabile di quella, non le poteva capitare!
 
Sbuffando sonoramente, Azu poggiò le mani ai fianchi, continuando a camminare lungo l’ampio viale con passo inviperito.
Il suo umore, già poco incline all’essere paziente, era diventato più nero della pece stessa e man mano che continuava ad avanzare per quelle cavolo di vie, che fra l’altro, sembravano tutte uguali, le possibilità che si calmasse, divenivano sempre più inesistenti. Quando si arrabbiava, era pressoché impossibile instaurare una dialogo con lei: in quei casi, la sua irascibilità raggiungeva livelli spaventosi, mostruosamente sfioranti la morte. E dire che il suo aspetto, tutto fuorché brutto, le conferiva un’aria radicalmente diversa da quella di una iena in procinto di sbranare anche prede ben più grosse di lei: alla gente comune, appariva come una seducente ragazza dalla pelle nivea, alta, con capelli molto corti e scalati, attaccati alla base del collo, di un inconsueto ma intrigante color argento, che valorizzavano moltissimo i suoi occhi perlacei, dove facevano capolino un paio di sfumature azzurre. Ciò, unito a un corpo atletico, indossante abiti scollati e provocanti, era sufficiente ad attirare certi uomini vogliosi, i cui desideri venivano stroncati da un calcio in mezzo alle gambe, non appena questi tentavano di allungare troppo le mani.
 
Non che le attenzioni le dispiacessero, affatto. Ma se doveva divertirsi, voleva almeno che i suoi pretendenti fossero gradevoli fisicamente e che le comprassero regali adeguati, non certo delle paccottiglie di terza mano! Se c’era una cosa che la mandava veramente in bestia, era il ricevere della bigiotteria scadente: tanto valeva che le regalassero della plastica, se proprio non ci tenevano a spendere un soldo! Il suo bel visino meritava molto di più che semplici complimenti – anche se di quelli, comunque, non si stufava mai –
Ed era bene ricordare, che lei non si presentava come una volgare prostituta: erano gli uomini che, attratti da lei, si avvicinavano: tutto quello che faceva, era usare il suo charme femminile, evitando così di spendere preziosi denari. Fino a quel momento, aveva raccolto un considerevole numero di cene in ristoranti lussuosi, ma mai veri gioielli e la cosa un po’ la irritava.
 
A tali pensieri, scosse la testa nervosamente. Non era il caso di rinvangare sui appuntamenti passati, non in quell’istante. Stava perlustrando la città da troppo tempo e ancora non aveva trovato Shion e quell’idiota di suo fratello, che aveva avuto perfino il coraggio di farsi ferire come un pivello!
 
“Tutta colpa di quei pirati della malora!” sbottando così rumorosamente, finì per essere guardata da alcuni passanti “La prossima volta, anziché lasciarli in fin di vita, li ammazzo tutti!”
 
Furente, aumentò la propria andatura, picchiettando con foga il tacco delle scarpe sulla strada e borbottando frasi sconclusionate. Quei maledetti le avevano pure rovinato i suoi vestiti preferiti! Non osando toccare con più profondità l’argomento, stoppò la camminata, estraendo dalla tasca dei pantaloncini verdi, un piccolo foglio di carta bianco: rilassando i muscoli facciali, l’albina osservò attentamente il minuscolo oggetto muoversi nel palmo della sua mano, sino a spostarsi, con fare più tremolante, verso sinistra. Volgendo gli occhi nella medesima direzione, la ragazza assottigliò lo sguardo, placando in un sol colpo l’aggressività che l’aveva mandata su di giri fino a pochi secondi prima: la vivrecard di Shion stava puntando verso i bassifondi.
 
Bene, non è lontana.
 
Prendendo atto che la bambina non fosse lontana, l’animo di Azu si liberò di un grosso peso.
Nonostante fosse ancora piccola, Shion era una bambina piuttosto indipendente, a differenza di molti suoi coetanei. Non che i genitori la trascurassero, ma il suo voler agire anche a costo di sembrare più cocciuta del solito, era sufficiente da farle prendere ogni genere di iniziativa, senza che qualcuno le dicesse cosa fare. Si trattava di capacità ancora acerbe, data la sua tenera età, mosse per lo più dalla curiosità e dalla voglia di fare, ma molto ben avviate per una bambina che, vista la famiglia, sarebbe potuta anche passare per una rampolla capricciosa e viziata. Capacità a cui Azu aveva sempre attribuito una gran fiducia, la stessa che Shion, puntualmente, non mancava mai di farle sentire. Tuttavia, benchè fra loro ci fosse questo meraviglioso rapporto, basato su tanti di quei elementi che avrebbero fatto invidia a chiunque, niente poteva cancellare la preoccupazione che, in quel momento, stava ossessionando la ragazza dai capelli argentati: dopotutto, era la sua guardia del corpo ed era suo compito proteggerla da chiunque volesse farle del male. Cosa che Lars aveva fatto egregiamente, usando il suo corpo come scudo.
 
Spero almeno che non si sia fatto troppo male, quello scemo!
 
Lasciando momentaneamente da parte i possibili rimproveri che avrebbe scaricato senza troppi problemi sulle spalle del fratello, la ragazza balzò sul tetto più vicino e iniziò a correre verso la zona bassa di Hanbai, con la speranza di trovare la piccola il più velocemente possibile.




“Da questa parte! Ci siamo quasi!”
 
La strada in discesa si era fatta misteriosamente ripida e scivolosa, come se qualcuno l’avesse cosparsa d'olio. Shion correva a perdifiato, seguita a ruota dai nuovi amici, senza preoccuparsi di rallentare. I muscoli delle sue gambe e dei polpacci, erano talmente tesi da essere diventati duri quanto il marmo, infuocati a sufficienza, da farle percepire un consistente bruciore. Sebbene indossasse dei vestiti leggeri, il corpo della bambina era agitatissimo, lo specchio perfetto del suo animo ingarbugliato, ma ciò non le importava: aveva come il presentimento che, a breve, sarebbe successo qualcosa.
Non sapeva spiegarselo, ma come aveva convinto i ragazzi a venire con lei, una sorta di nodo inestricabile aveva iniziato a darle fastidio a livello del torace. Immediatamente, il viso di Lars si era fatto strada nella sua mente, con la stessa velocità di un lampo e, fra secondi interminabili e ansie crescenti, aveva compreso di dover tornare subito da lui. Sentiva che era in pericolo e più quella sensazione cresceva, più i suoi occhi azzurri si inumidivano.
 
Che quei pirati li avessero seguiti? Se fosse stato così…..
 
No! Sono sicura che Azu-chan li ha sconfitti! Pensò nel serrare ermeticamente le palpebre.
 
Che fossero in cento o in mille, nessun pirata o marine poteva competere con Azu quando si arrabbiava. L’averla vista più volte in azione - che si trattasse di un allenamento o di un vero e proprio combattimento-, aveva consentito alla certezza di far evaporare ogni forma di preoccupazione nei confronti della ragazza, ma il suo cuore di bambina, non le permetteva di guardare in faccia uno scontro reale, senza una nota di timore ad appesantirle l’animo. Anche in quel preciso frangente, il muscolo cardiaco batteva all’impazzata, esattamente quanto quello di un topolino pietrificato davanti a un gatto desideroso di papparselo: indubbiamente, se Azu fosse stata lì, non si sarebbe sentita tanto schiacciata dalla paura, ma, essendo sola, l’unica scelta che le rimaneva, era correre con tutte le sue forze verso quella locanda dove aveva lasciato Lars, con tanto di ferite tamponate provvisoriamente con una camicia scura.
 
“Ecco, ci siamo!!” esclamò, nel riconoscere la zona.
 
La frequenza dei loro passi aumentò non appena la piccola diede quell’annuncio.
Rufy l’affiancò subito, cercando di capire quale fosse la locanda menzionata. I muri sporchi e i tetti mezzi sfasciati si assomigliavano tutti, salvo qualche eccezione che, tuttavia, non si allontanava troppo dalla condizione di disgustosa miseria che caratterizzava quella zona della cittadella. Decisamente un mondo diverso da quello lindo e colorato da cui si erano appena allontanati.
 
Nello svoltare l’ultima curva, la bambina indicò un’abitazione incastrata fra altre due, appena più alte d’essa, con finestre strette e un porta piuttosto malandata. Fu sul punto di dire qualcosa, quando, improvvisamente, un botto assordante spaccò il muro della locanda, gettando macerie ovunque.
 
“Whaah! Ma che…!”
 
Fermatisi bruscamente, i quattro videro un agglomerato di polvere coprire il punto esatto dell’esplosione. Il muro si era come gonfiato dall’interno, per poi esplodere come un palloncino, disintegrandosi senza fatica e sollecitando le grida dell’oste, che subito si fecero sentire.
 
“Accidenti, che botto!” esclamò Rufy, sistemandosi il cappello di paglia, cadutogli sulle spalle per via della frenata.
“Sembra che l’esplosione sia partita dall’interno”, constatò Robin.
 
Anche aguzzando la vista, la polvere impediva a chiunque di vedere cosa fosse successo esattamente, ma la fortuna di avere una renna con un olfatto sopraffino nella propria ciurma, era un vantaggio che poteva tornare molto utile, in occasioni come quelle. Senza aspettare un solo secondo di più, Chopper mosse il piccolo nasino blu, annusando l’aria con minuziosità e scartando l’odore fastidioso della polvere, col fine di trovare quel che si nascondeva dietro ad esso. Anche a distanze considerevoli, il suo olfatto era comunque in grado di percepire la presenza delle persone e quante fossero. Come in passato, non gli fu difficile verificare se nei dintorni ci fosse qualcuno, ma come individuò un odore ben più pungente rispetto ai altri, alzò la testolina verso i suoi compagni, piuttosto allarmato. Seppur al momento fosse molto lieve, l’aveva riconosciuto all’istante.
 
“Chopper, che cosa senti?” gli domandò l’archeologa.
“Sniff, sniff….ci sono tre persone”, rispose lui, continuando ad annusare “Però, non so come, una sembra essere sparita.”
“Sparita?”
“Si, e….” si fermò un attimo, annusando con più attenzione. L’odore pungente era nuovamente comparso e, da semplice scia sfuggente, era divenuto più consistente, inspessendo così il sospetto del dottore “Ecco, adesso lo sento bene: c’è odore di sangue!” confermò.
 
Alla parola “Sangue”, gli occhi di Shion si allargarono per il terrore.
Il cuore mancò dolorosamente un battito, creando una mastodontica voragine, che subito si riempì di puro panico. Pareva che la sua piccola speranza si fosse appena frantumata a terra, ma con un rumore più sottile e cristallino del solito, completamente diverso da quello violento e rombante dell’esplosione appena udita. Alla fine, il brutto sentimento che l’aveva assillata fino a quel momento, aveva deciso di rivelarsi per quello che era: un pericolo abbastanza grande da intimorirla a tal punto, da paralizzarla fisicamente. Sapeva perfettamente quale fosse la stanza dove aveva lasciato Lars a riposare, lo sapeva perché, delle quattro stanze che avevano la finestra affacciata sulla strada, lei aveva preso quella in alto a destra. Non appena aveva svoltato il vicolo con i suoi nuovi amici, l’aveva subito individuata e lì, si era sentita rincuorata, nel constatare che tutto fosse ancora perfettamente normale. Ma il suo sollievo si era dissolto senza neppure avere il tempo di aggrapparvisi: l’esplosione aveva distrutto la finestrella, insieme a tutto quello che la circondava. Le voci di Rufy e dei altri avevano smesso di raggiungerla, a malapena riusciva ad udirle, talmente erano ovattate. Eppure..la parola “Sangue”, chissà perché, l’aveva sentita perfettamente.
 
“Lars…..Lars!”
 
Urlò il nome dell’amico con voce acuta, riprendendo possesso del suo corpo e decisa a correre verso la locanda con tutta l’intenzione di scoprire che cosa gli fosse successo, ma come si vide sfrecciare davanti a sè l’ombra azzurra e rossa di Cappello di Paglia, si fermò subito.
 
“Rufy?”
“Shion, resta con Robin e Chopper. Vado a vedere io.”
 
Fu un ordine serio e conciso, quello del ragazzo di gomma, del tutto inusuale, se si considerava il carattere vispo e la personalità ingenua rasentante l’idiozia, ma chi aveva avuto il privilegio di conoscere Monkey D. Rufy, poteva tranquillamente affermare che quel ragazzo, era tutto fuorché normale. In fondo, un semplice essere umano non sarebbe mai stato in grado di guadagnare una taglia di quattrocento milioni di Berry, senza aver fatto qualcosa di assolutamente fuori dal comune. Il carattere di Rufy era troppo dinamico perché si potesse controllare o addirittura modificare: se decideva di fare una cosa, la faceva senza il benché minimo ripensamento e questo suo modo fare, molte volte, aveva portato una considerevole valanga di guai ai suoi compagni, anche se alla fine, erano sempre riusciti a cavarsela egregiamente. Anche in quel frangente, se qualcuno gli avesse espressamente ordinato di fermarsi, lui non ci avrebbe badato: conosceva quella bambina di nome Shion da nemmeno un’ora e già era pronto ad aiutarla a salvare un suo amico. Solo lui poteva comportarsi in quella maniera.
 
Avanzando rapidamente, superò le macerie, i detriti, e anche una strana figura che si rivelò poi essere un pirata svenuto, con il sangue che gli usciva dalla bocca e gli occhi rivoltati dall’insù. Senza neppure chiedersi cosa ci facesse lì, allungò le braccia sino ad afferrare con le mani i bordi del buco creatosi, per poi lanciarsi dentro la stanza, incurante sul cosa ci fosse dentro.
 
“Ehilà? C’è nessuno qui?”
 
La stanza era nel caos più completo. Pareva essere stata ribaltata come un calzino e tutto lasciava presagire che li si fosse appena svolto uno scontro. La porta oscillava pigramente a destra e a sinistra grazie all’unico cardine che ancora la ancorava al muro, il solo armadio presente, era stato ridotto ad un ammasso di legname, nemmeno buono da riciclare come legna da ardere. Che dire poi dei muri: sembravano sul punto di ripiegarsi, tanto erano molli. Rimanendo sul ciglio dell’entrata, Rufy fece scorrere i propri occhi un po’ dappertutto, finché, non dischiuse la bocca in un espressione di puro ebetismo, nel vedere qualcosa che prima era occultato dalla polvere, la quale, finalmente, si stava degnando di sparire. Come aveva messo piede in quella stanza, la sua pelle di gomma era stata solleticata da un gelo tipico delle terre invernali, come se all’interno di quel piccolo spazio, la temperature si fosse abbassata senza preavviso. Non si trattava di semplici spifferi, ma di una presenza che si era instaurata lì dentro senza alcuna fatica e che aveva fatto rizzare i capelli a Rufy, tanto era gelida. Che si trovasse ancora lì o nelle vicinanze, niente aveva comunque impedito al pirata di accorgersi di quella stranezza appena emersa dal polverone: dopo aver mosso qualche passo, si fermò davanti a una statua di ghiaccio, che quasi arrivava a sfiorare il soffitto. Le sue pareti erano lisce e bagnate, fredde quanto bastava per ghiacciare il palmo di una mano con un semplice sfioramento, di un colore cristallino, simile in tutto e per tutto all’azzurro. I piccoli sbuffi biancastri che emergevano da essa, erano ben visibili all’occhio umano, così come lo era il pirata imprigionato al suo interno, completamente immobilizzato e con tanto di braccio armato di spada, alzato in aria.
 
“Accipicchia!” esclamò con occhi luccicanti “Che forza!”
 
Prese a toccare il blocco di ghiaccio da ogni angolazione, come a volerci trovare qualcosa di nuovo, sparando i suoi soliti commenti che, puntualmente, non mancavano di farsi sentire davanti a qualcosa che fosse estraneo al suo cervello. Fu nel sentire un flebile tintinnio proveniente alle sue spalle, che Rufy si gettò in un angolo della stanza, prima di essere investito da quello che era un fendente di spada. Il blocco di ghiaccio contenente il pirata, venne sbalzato via e lanciato nel corridoio senza alcuna fatica, dove si schiantò rumorosamente contro qualcosa che, inevitabilmente, andò in frantumi. Cappello di Paglia si issò immediatamente in piedi, vedendo che la porta e il muro che la circondava, erano stati completamente tagliati a meta, insieme a un quarto del pavimento. Se non fosse stato tanto veloce a spostarsi, pure lui, a quest’ora, sarebbe stato diviso in due.
 
“Fiuuu….ci è mancato poco”, sospirò sollevato, nel ripulire dalla polvere il prezioso tesoro prestatogli da Shanks.
“Già, ci è mancato veramente poco.”
 
Chiunque, nell’udire una voce sconosciuta, sarebbe sobbalzato, visto che fino a quel momento, l’assoluta certezza di essere soli, li aveva protetti ermeticamente. Era impossibile che qualcuno potesse essere sopravvissuto al mini tornado scatenatosi in quella stanza, rimasta in piedi per puro miracolo. Eppure, pareva proprio che lì ci fosse qualcun altro oltre a Rufy, un qualcun altro che, sicuramente, era l’artefice del fendente scagliato e che, con maestria impeccabile, aveva celato la propria presenza. Nonostante quella sorpresa, l’espressione del ragazzo di gomma rimase impassibile: la voce appena udita, indubbiamente maschile, stanca e strascicata, come se il proprietario facesse fatica a stare in piedi, era vicinissima a lui, alle sue spalle. Come posò lo sguardo sull’unico angolo della stanza rimasto fuori dalla sua visuale, Cappello di Paglia vide chiaramente che in esso c’era un letto, incredibilmente intatto.
 
Seduto su di esso, vi stava un ragazzo, con le gambe larghe e i gomiti appoggiati alle ginocchia, di modo tale che uno degli avambracci penzolasse nel vuoto. Il secondo arto era allungato in avanti, con le dita ben strette attorno ad un’impugnatura di spada finemente intarsiata, di un color grigio scurissimo e incatenata da un collana di perline violacee, partente dal pomo. I minuscoli disegni presenti, creati per abbellire la parte superiore dell’arma, rappresentavano dei sottili  fili d’erba, che si intrecciavano fra di loro con piccole foglioline, arrivando a coprire anche l’elsa, le cui punte arricciate – una rivolta in basso e una verso l’alto – imprigionavano due perline azzurre.
Il busto e la testa del giovane ciondolavano in avanti con fare stanco, come privi di sostegno. Una zazzera scalata e scompigliata di capelli argentati copriva parzialmente il viso del ragazzo, lasciando scoperta soltanto la bocca, leggermente piegata all’ingiù. Era affaticato, lo si vedeva bene: il tonico torace, si alzava e si abbassava ritmicamente, seguito da tutto il corpo, coperto da una leggera patina di sudore che ne metteva in risalto il pallido color roseo. I muscoli delle braccia erano così rigidi, che le venature quasi gli uscivano dalla pelle, tanto erano visibili. Per Rufy, non fu difficile individuare la causa di tutta quella spossatezza: attorno al suo fianco sinistro, era stata legata una camicia, che ora riluceva del sangue che aveva assorbito voracemente. Era difficile affermare con certezza quanto la ferita fosse profonda, ma il ragazzo non pareva risentire del dolore: sembrava più seccato per l’essere stato disturbato, che per il dolore che questa gli stava provocando.
 
“Ero convinto che di scocciatori ce ne fossero soltanto due”, proferì questo, tenendo sempre il capo ben abbassato “Come al solito, quella testona Azu non presta mai attenzione a ciò che fa..”, continuò.
“Eh?” Rufy non capì a chi si stesse riferendo e lo guardò con fare enigmatico.
 
Quel tipo sembrava sul punto di svenire, ma una vocina interiore lo esortò a non dare troppa fiducia a tale convinzione. Nonostante il pericolo esercitasse un certo fascino in persone che non vedevano l’ora di buttarsi a capofitto in quella che poteva essere un’avventura con i fiocchi, il pirata percepì nella voce di quello sconosciuto, qualcosa per cui valesse la pena calcare il cappello di paglia in testa sufficientemente perché gli occhi assumessero una sfumatura quasi scura. Quel piccolo gesto, venne interpretato dal secondo come un chiaro consenso e, nello stringere con più foga l’impugnatura della propria arma, sollevò il viso quanto bastava per scoprire gli occhi: due minuscoli pezzi di ghiaccio, socchiusi e animati da un magnetico luccichio.
 
“Bene”, disse con voce debole ma decisa “Vediamo di farti raggiungere i tuoi compagni.”




Quando la tensione schizzava alle stelle, il silenzio diveniva forse una delle cose più odiabili che potessero esserci. Era una sorte di quiete prima della tempesta, l’ultimo spicchio di sole prima del grande buio. Decisamente un momento che soleva dilungarsi troppo per chi invece, preferiva che si arrivasse subito al dunque. Durante quei minuti interminabili, le orecchie di Chopper erano sempre rimaste ben alzate, insieme al naso, pronto a cogliere ogni singola novità di quell’ambiente malmesso. Accanto a lui, Nico Robin confortava Shion, tenendola dolcemente per le spalle e rassicurandola con occhi materni. Non faceva che guardare lei e la locanda – o quel che ne rimaneva-, senza mai fermare la testa.
 
“Vedrai che il tuo amico sta bene. A modo suo, il nostro capitano sa quello che fa”, le disse nel leggere un ulteriore nota di preoccupazione nel viso della piccola.
 
La bambina avrebbe voluto rispondere, ma riuscì solo ad annuire e a volgere immediatamente la testolina verso l’edificio. Teneva le manine congiunte strette in petto, come a voler placare il potenziale spavento che, sicuramente, le sarebbe piombato addosso, non appena quella situazione di stallo fosse degenerata. Lo sentiva eminente, ma, nonostante ciò, sobbalzò violentemente nel vedere in prima persona il muro della locanda esplodere una seconda volta.
Il locandiere e quei pochi clienti che erano rimasti dentro, fuggirono via, senza neppure curarsi di sapere chi stesse facendo tutto quel casino, ma la piccola Shion aveva già intuito chi ne fosse la causa, almeno in parte: quel bagliore azzurrognolo, appena visibile dietro la coltre di polvere appena sollevatasi….. non poteva che appartenere a Saphira, la spada di Lars. Le sue emissioni possedevano un fascino e una potenza che, col tempo, era riuscita a contraddistinguere da qualunque altro colpo assomigliante, ma, seppur le avesse viste varie volte, l’incanto che quell’arma produceva, sapeva sempre come intrappolarle l’animo in uno stato di piena e profonda contemplazione. Tutto il suo corpo andava a intorpidirsi, come privato della sua massa, rinchiuso in una dimensione sospensoria, dipendente in una maniera totalmente assurda da quello spettacolo di luci e fendenti, rapidi quanto il vento. Ancora una volta, il suo potere di avvolgere ogni cosa, polvere compresa, e di imprigionarla così in una bara di ghiaccio, stava perfettamente funzionando su di lei, ora completamente immobile, nel mentre osservava coi suoi occhietti azzurri quei bagliori farsi più concreti, riempiendosi di sfumature cristalline e scintille biancastre. Combattevano e respingevano delle insolite fruste elastiche color pelle, che non erano altro che le braccia di Rufy, costretto a rispondere agli attacchi.
 
“Rufy!” il grido di Chopper si disperse in mezzo ai rombi che si agitavano a poca distanza da loro.
“Si direbbe che ci sia qualcuno con lui.”
 
Seppur la visuale non fosse delle più nitide, Nico Robin aguzzò la vista per poter osservare con più attenzione l’avversario del capitano.
Era un ragazzo alto, con un fisico asciutto e proporzionatamente ben scolpito. Le linee sottili del suo corpo scendevano verso un paio di jeans larghi e scuri, con l’orlo infilato dentro a dei scarponi neri aperti. Salvo una camicia stretta in vita, il busto era completamente scoperto, così come le spalle, sopra cui pareva tener appoggiato un oggetto dall’aspetto pesante. Come l’ultimo straccio di polvere si dissolse, la Bambina Diabolica colse la natura del misterioso oggetto con apparente passività, tipica del suo carattere tranquillo, ma nel far scorrere i suoi occhi azzurri su tutta la lunghezza d’esso, aggrottò le sopracciglia con fare guardingo: la spada di quel ragazzo – perché era una spada –, possedeva una lama che non poteva, in alcuna maniera, essere stata forgiata con del comune metallo. Di forma identica a quella di una sciabola, ma molto più grande, era di un azzurro intenso, lucente, quasi fosse bagnata. Identica in tutto e per tutto al ghiaccio. Emanava vapori freddi, visibili all’occhi umano, che si disperdevano in ogni direzione; la scanalatura era bianca, con insolite ramificazioni corte, che davano l’impressione che l’arma fosse viva, proprio come un cuore pulsante. Per quanti libri avesse sfogliato e per quante informazioni avesse immagazzinato nei suoi lunghi anni di studio, l’ultima archeologa di Ohara si ritrovò spiazzata davanti a quell’arma: le rifiniture sull’elsa, le decorazioni, il taglio della lama… nessuno di quei particolari le era noto, ogni centimetro di quella spada rappresentava un’incognita in districabile.
 
“Rufy, fa attenzione! Quella spada è pericolosa!” lo avvisò Chopper.
 
Come a voler concretizzare la sola certezza della compagna e senza sprecare ulteriore tempo, il Tenero Peluche avvertì il capitano del rischio che stava correndo. L’istinto animalesco gli consentiva di percepire con più sensibilità qualsiasi cambiamento circostante e il pericolo era uno di questi. Chopper se ne era sempre avvalso, in qualunque situazione potesse tornargli utile: bastava un minuscolo cambiamento nell’aria per fargli rizzare le orecchie, un niente per rompere l’equilibrio dell’ambiente circostante e dunque sollecitarlo a guardarsi intorno. Era sbigottito, con i zoccoli delle zampe ben calcati a terra, ma, a incutergli timore, non era quel ragazzo che ora si stava apprestando a scostare i propri capelli dal viso, bensì l’arma che reggeva con una facilità sulla spalla. La lama tagliente e bagnata riluceva come a voler dimostrare ai nuovi arrivati ,che con lei non si scherzava e che chiunque avesse provato a contestare le sue capacità, ne avrebbe pagato le conseguenze.

Cappello di Paglia, dal canto suo, era già ben conscio che quella spada azzurra, oltre a essere incredibilmente figa, fosse molto pericolosa. La manica destra della sua camicia rossa era stata tagliata e c’era mancato pochissimo che perdesse il braccio. Squadrò il suo avversario senza dimostrarsi arrabbiato o innervosito per quell’attacco fulmineo, ma lasciando che le gambe non perdessero la giusta elasticità, per un ulteriore scatto: seppur quel tipo non gli sembrasse cattivo, evidentemente ai suoi occhi, lui doveva esserlo. E a giudicare dall’ulteriore sguardo affilato che gli aveva appena lanciato, le cose stavano per peggiorare.
 
“Sei veloce, Cappello di Paglia”, mormorò quest’ultimo “Quasi non ti avevo riconosciuto. Questo mal di testa mi sta uccidendo…”
 
Nel passarsi una mano sul viso, tirò all’indietro i capelli ricadutigli in avanti, mostrando definitivamente il suo viso ai presenti. A incorniciare i due occhi blu ghiaccio, vi erano dei lineamenti pressoché perfetti, sottili, ma, al tempo stesso, marcati sugli zigomi, come a voler mettere in risalto ogni sua espressione mascolina. Le ciocche argentee sfioravano con delicatezza la pelle chiara delle guance, solcate da alcune perline di sudore che, nel loro discendere, delineavano i contorni e le linee del collo. Nico Robin e Chopper, da lontano, non potevano scorgere tutti quei particolari, così come non potevano immaginare cos’altro ci fosse. Shion non aveva certo bisogno di avvicinarsi per conoscere ciò che già aveva appreso tempo addietro: lei ormai ci si era abituata, tutte le sue domande avevano ricevuto una risposta che non implicasse ulteriore approfondimenti, almeno in quelle consentite, eppure, ogni tanto….le capitava di guardare il viso di Lars con una piccola nota di dolore.
 
E a scatenare tale sentimento, era quell’enorme cicatrice che squarciava il viso del suo amico. La ferita era diagonale, partiva poco più in basso dell’angolo destro della bocca, aprendosi nella risalita e tagliando così lo spazio che divideva gli occhi, per poi terminare sul lato sinistro della fronte. La pelle lì era rovinata, di un colore scuro e i ciuffi argentei la coprivano solo in parte. Le ragazze che spesso si avvicinavano a Lars, vedevano nella sua ferita qualcosa di irresistibilmente affascinante, un che di magnetico e provocante, come le diceva sempre Azu, ma lei, oltre a ciò, spesso ci scorgeva anche un frammento dell’anima dell’amico, quella particina di sé che ancora non era riuscita a svelare completamente. Era piccola, decisamente troppo per pretendere di sapere tutto, ma il non conoscere completamente una persona a lei cara era frustrante, la rendeva triste. Ancora una volta, fu la preoccupazione a destarla, facendole notare, che la camicia utilizzata come bendaggio provvisorio, oramai, era agli sgoccioli: seppur a distanza, non era così cieca da non notare che sui pantaloni di Lars si era formata una chiazza scura alquanto sospetta e questo la inquietò moltissimo. Fortunatamente, non era la sola ad averlo notato.
 
“Se sei venuto a cercare rogne, sappi che ho già dato il benservito ai due balordi di poco fa”, riprese Lars, poggiando la punta della spada per terra “E che non ti basterà allungarti per sfuggire ai miei attacchi. Ferito o meno…..” dovette sopprimere il dolore di una fitta per continuare “Sono uno a cui non ti conviene dare le spalle.”
 
Era evidente che il dolore e la fatica stessero consumando le sue ultime energie: il colore dei suoi occhi era sbiadito, sintomo che preannunciava un possibile svenimento, ma c’era la pura verità nelle sue parole e non avrebbe permesso a niente, perfino al suo stesso fisico, di venir meno a queste.
 
“Oi! Guarda che io non voglio mica combattere con te!” esclamò Rufy, raddrizzandosi “Sono qui per cercare un persona.”
 
Un Lars in piena forma, non sanguinante, e con tutti i sensi ben svegli, non avrebbe mai estratto dal fodero la sua preziosissima Saphira, senza prima aver compreso la ragione della situazione e tutto ciò che essa comportava. Se gli era concesso, preferiva non utilizzare la sua arma per futili ragioni: in fondo, il corpo a corpo era una lotta che non gli dispiaceva, ma, d’altro canto, essendosi allenato per diventare uno spadaccino, l’utilizzare la spada era un bisogno impellente quanto l’ossigeno. Era come un richiamo, un flebile sibilo, leggero quanto il tocco di una foglia. Resistere era impossibile, ma l’albino non era una persona che cedeva così facilmente al fascino dell’arroganza e dell’orgoglio, non si sarebbe mai permesso di fare sfoggio dei propri allenamenti come fossero dei numeri da circo.
 
Improvvisamente, i suoi occhi vacillarono per qualche secondo e rischiò di perdere l’equilibrio.
 
Dannazione…così rischio di morire dissanguato.
 
I colori e le linee dell’ambiente circostante si erano come liquefatte. I giramenti di testa si fecero sempre più incisivi e la tentazione di tenersi la testa, non fu mai tanto tentatrice. Non poteva cadere così facilmente, ma non poteva neppure pretendere che combattesse senza tener conto del buco che aveva al fianco. Percepì i propri muscoli vacillare, diventare molli, e se tale afflosciamento fosse arrivato a inibirgli le braccia e le dita, sarebbe stato spacciato.
Mille pensieri gli si accavallarono nella testa, ma non ebbe il tempo per riordinarli: come le palpebre divennero più pesanti, avvertì qualcosa di strano impadronirsi del suo corpo, privandolo, in un solo colpo, della volontà che esercitava su di esso.
 
Trois Fleur!
 
In un battito di ali, senza neppure avere il tempo di rendersene conto, si ritrovò con le braccia bloccate dietro la schiena, la spada a terra e il collo circondato da quello che era un braccio umano.
 
“Ma che diavol….ugh!”
 
Come aveva cercato di liberarsi, le braccia che lo tenevano fermo, avevano iniziato a spingere, costringendolo a contorcersi in una posizione scomoda e dolorosa. Troppo indebolito, finì per cadere a terra, con un’evidente smorfia di dolore dipinta sul viso.
 
Che diavolo è successo? Queste braccia…sono spuntate dal nulla!
 
Era incredulo: un conto era l’essere bloccato da una persona, un altro venire imprigionato da delle braccia spuntate magicamente sui gomiti e sulla schiena. Se fosse stato qualcuno, poco ma sicuro, non si sarebbe lasciato sorprendere così facilmente, anche se ferito. Domandarsi il “Come” e il “Perché”, forse, sarebbe servito a fare un po’ di luce sulla situazione, ma non ci voleva certo un genio per capire che, per Lars, la priorità era rimanere calmo e non compiere movimenti bruschi: la ferita gli bruciava da matti e più tempo rimaneva esposta, più aumentava il rischio di contrarre un’infezione. Il contatto con l’asfalto non servì a farlo stare meglio, ma, perlomeno, quelle misteriose braccia erano sparite e l’essere riuscito a rimanere seduto, poteva quasi considerarsi come un punto a suo vantaggio. Benché gli occhi lo stessero letteralmente pregando di potersi chiudere, si costrinse ad alzare la testa quanto bastava, per vedere chi gli stava davanti: la sua vista incrociò Cappello di Paglia, avvicinatosi senza alcuna paura di venire tagliato in due, una donna alquanto seducente, un curioso ammasso di pelo con le corna e…..
 
“Lars!! Stai bene?!”
 
Avrebbe riconosciuto quella vocina fra mille suoni senza senso. Non gli occorreva voltarsi per esserne sicuro, ma mosse ugualmente il capo, per infine guardare quella testolina bionda dai grandi occhi azzurri, che, a stento, tratteneva le lacrime: Shion era seduta al suo fianco, con le ginocchia premute contro la strada, le manine strette attorno al suo avambraccio e il labbro affondato nei denti. Il tremore dei suoi piccoli polpastrelli rosa toccò l’animo dell’albino, che non potè fare a meno di dischiudere le labbra in un sorriso rassicurante: quella bambina era tanto esuberante quanto sensibile, un cucciolo appena nato, che cercava di reggersi sulle proprie zampe senza l’aiuto di nessuno, ma comunque bisognoso delle dovute attenzioni, per crescere adeguatamente. Decisamente una creaturina adorabile, specie quando sorrideva o gonfiava le guance con fare indispettito. Non si meravigliò nel vedere dei grossi lacrimoni rigarle la pelle di quest’ultime: doveva essersi spaventata non poco per quello che era capitato, ragione per la quale, provò un forte senso di colpa nei confronti della sua protetta. Era pur sempre una bambina, ancora molto piccola per quelle responsabilità tipiche degli adulti e, per quanto cercasse di non dare a vedere la sua immensa preoccupazione, il suo corpo la tradiva in ogni suo gesto.
 
“Ehi, piccolina…..cominciavo a temere che non saresti più tornata”, mormorò, sorridendo.
“Mi…Mi dispiace, ma non sapevo cosa fare!” esclamò lei, piangendo “Nessun dottore voleva venire qua, avevano tutti da fare, e….e i-io….sigh….”
“Calmati, va tutto bene”, la rassicurò il ragazzo, accarezzandole la testolina “ Sei stata bravissima.”
 
Per qualche istante, il ricordo di Shion e della sua ricerca di un dottore, si era volatilizzato dietro una grossa e densa nube di fumo bianco. La spossatezza fisica e mentale, lo stavano trascinando in un baratro senza fondo e a malapena riusciva a stare in piedi sul ciglio. Ragionamenti, pensieri, immagini…tutto si stava ammucchiando o rompendo, senza che lui lo volesse realmente. Stavolta, non potè fare a meno di immergere la testa nei palmi delle mani e chiudere gli occhi, beandosi di quel poco sollievo sortito. Stoppò la mente, scordando quanto aveva presente in quel momento e rilassò i muscoli, espirando pesantemente nel mentre delle voci ovattate lo raggiungevano a fatica.
 
“Allora, Shion, è questo il tuo amico?” domandò Rufy.
“Si, è Lars”, confermò la piccola, scuotendo il capo vigorosamente “Non so perché ti abbia attaccato, ma ti assicuro che è una bravissima persona! Non farebbe del male nemmeno a una mosca!”
“Probabilmente deve aver scambiato Rufy per un complice di quel pirata”, ipotizzò la corvina, lanciando una veloce occhiata al farabutto poco distante da loro. “Un errore del tutto giustificabile, considerando il fatto che quello deve aver tentato di finirlo nel sonno.”
 
Se ne avesse avuto la possibilità, Lars avrebbe appoggiato la teoria di quella donna senza battere ciglio. Non era stato difficile per quel farabutto immaginare dove le sue prede si fossero andate a nascondere: Hanbai era l’isola più vicina della zona e, una volta chieste le dovute indicazioni, scoprire il necessario, era risultato più facile che forzare una cassaforte. Shion non aveva minimamente sospettato o pensato di essere stata seguita, ma, ormai, il problema non gravava più sulle loro esistenze, almeno quello: ora l’importante, era portare Lars in un luogo tranquillo e sicuro, dove potesse essere curato a dovere. Peccato soltanto, che Azu non si fosse fatta ancora sentire.
 
Azu-chan…dove sei?
 
Se prima non aveva nutrito alcun dubbio sull’incolumità dell’amica, ora il cuore della piccolina, stava iniziando nuovamente a battere con più insistenza. Nonostante si fosse ripetuta non poche volte che, per mettere i piedi in testa a una come lei, sarebbe servita la Marina intera, quella certezza che aveva di lei, stava venendo spintonata da dubbi maligni.
 
Inoltre Lars, seppur si stesse sforzando di non perdere definitivamente i sensi, non riusciva più a seguire il filo del discorso instaurato. La sua testa oscillava come fosse il pendolo di un orologio e tutto ciò che lo circondava, si era ridotto a una monotona spirale, che gli stava facendo venire la nausea. Tale era lo stordimento, che non percepiva neppure gli zoccoli di Chopper su di sé, seppur questi fossero freddi e gli avessero srotolato la camicia dal fianco.
 
“Allora, Chopper? Cosa ci dici?” domandò Robin.
“Uhm….la ferita non è profonda, ma si è allargata sui lati”, rispose la renna, con lo sguardo fisso sul buco, nel mentre, coi batuffoli di cotone, lo puliva “Non credo ci siano pericoli di infezione, ma ha perso molto sangue: devo portarlo subito in ambulatorio prima che peggiori.”
“Bene, allora è deciso”, decretò Rufy, nel guardare la piccola “Tu e il tuo amico Lars verrete con noi.”
“Eh? Ma, io……”
“Uh? Che c’è? Qual’ è il problema?”
 
Con fare titubante, Shion si fermò, abbassando lo sguardo. Se da una parte era contenta di spostarsi in un luogo più sicuro, dall’altra, sapeva di non potersi allontanare troppo.
Quel particolare le era sfuggito di mente e il ricordarsene, minò la sua sicurezza in un sol colpo. Come avrebbe fatto Azu a trovarla? Anche se quest’ultima avesse deciso di rovesciare l’intera isola, di certo non sarebbe arrivata a pensare che, fra tutte le persone a cui poteva chiedere, si fosse rivolta a dei pirati. Neanche a volerlo, si trovò a dover fare i conti con un nuovo bivio; era lampante che Lars necessitasse di cure, ma era altrettanto vero, che lei non poteva allontanarsi troppo, nel caso Azu fosse arrivata. Tra un colpo e l’altro, nonostante i botti fossero assordanti e gli spari costanti, la ragazza si era raccomandata di trovare un posto vicino al porto e se ora lei fosse andata addirittura dall’altra parte dell’isola……..
 
Non posso allontanarmi…Azu-chan mi ha detto di rimanere nelle vicinanze. Ma, Lars…..
 
L’indecisione le bloccò le parole all’altezza della gola, facendola tremare. Si chiese cosa potesse fare, in che modo potesse agire, se ci fosse una qualche alternativa, ma era evidente che non poteva prendere una cosa, senza prima rinunciarne ad un’altra. Per l’ingiustizia, strinse i pugni, corrucciando le labbra, come a voler trattenere un urlo. Se solo fosse riuscita a spiegarsi…
 
“Deve forse arrivare quella tua amica di nome Azu?” le domandò improvvisamente Robin, inginocchiandosi vicino a lei.
“Eh?”
“La tua amica Azu”, ripetè la donna, inclinando la testa “ Poco prima di venire qui, l’hai citata. Era con voi?”
 
Se non si fosse subito destata, Shion sarebbe rimasta con la bocca spalancata per un lasso di tempo indeterminato. Non ricordava di aver pronunciato il nome dell’amica, ma se l'archeologa glielo aveva appena detto, evidentemente doveva averlo fatto senza accorgersene. Come per magia, il blocco che aveva in gola scomparì, insieme a un piccolo pezzo di quel peso che le opprimeva l’ingenuo animo e questo la fece sentire meglio. Tuttavia, il sentire pronunciare il nome dell’albina, le fece tornare in mente ciò che esso comportava e la ragione per cui le sue gambe, non si erano ancora decise a muoversi.
 
“Io…le ho promesso che sarei rimasta vicina al porto”, spiegò “Se mi allontano, lei non riuscirà a trovarmi.”
“Ora è tutto chiaro.”
“Shion, ma chi è questa Azu?” domandò poi Chopper, finendo di disinfettare col cotone la ferita di Lars.
“E’ vero. Non ce l’hai ancora detto”, si aggiunse Rufy.
“Beh, come dire, Azu-chan è…”
 
Nell’alzare lo sguardo verso il cielo, in quel veloce attimo di raccoglimento, qualcosa catturò la sua attenzione. Immediatamente, anche Rufy, Chopper e Nico Robin posarono i loro occhi verso l’alto. L’immenso mare azzurro che stava sopra le loro teste e i tetti della parte bassa di Hanbai, era solcato da soffici nuvole color panna, che sguazzavano con fare insonnolito, nel mentre il sole si divertiva ogni tanto a sparire dietro ad esse. Si poteva perfino udire il flebile fischio del vento che si infilava fra le strette vie, sollevando qualche panno appeso. Sarebbe stato tutto perfettamente normale se, nel mezzo di quel cielo limpido, non ci fosse stato quel singolare puntino nero urlante.
 
“Ma che cos’è?” domandò la renna, muovendo le sue orecchie.
“Punta dritto su di noi”, mormorò Robin.
“Non sembra un cosciotto di carne”, borbottò Rufy, con faccia delusa.
“E’ arrivata….”, biascicò Lars, mezzo moribondo.
 
Guardarono l’albino, cercando di capire di che cosa stesse parlando, ma quello non si mosse o aggiunse altro. Il puntino nero si fece più grande, incurvandosi e assumendo una forma assomigliante al corpo umano, con strane urla ad accompagnarlo. Era ancora difficile capire cosa fosse, benché questo si stesse avvicinando ad una velocità inaudita: assottigliare lo sguardo era completamente inutile. Soltanto quando l’eco divenne più chiaro, Shion inclinò la testa, spalancò gli occhioni e indicò con l’indice il puntino urlante.
 
“Ma quella è….!”
“IMMMMMMBECIIIILLLLLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”
 
SBADABADAM!!
 
Ci fu un botto. Un esplosione tanto potente da distruggere la strada e spazzare via i presenti, assieme al polverone sollevatosi. Esclusa Nico Robin e Shion – aggrappatasi alla donna -, Rufy e Chopper finirono a gambe all’aria, insieme alle macerie. Le finestre degli edifici si ruppero in mille pezzi, le tegole di qualche tetto finirono per essere scaraventate in aria e la strada si ripiegò su sé stessa come fosse stoffa. Era stato tutto molto rapido, dinamico, abbastanza da portare alla totale distruzione l’intera parte bassa di Hanbai. Un terremoto non avrebbe potuto reggere il confronto con la furia distruttiva che era piombata dal cielo, ma nessuno avrebbe mai creduto che, a combinare un tale disastro, fosse stata una ragazza. Nessuno tranne il povero Lars…..
 
Se a quel mondo esisteva una persona che conosceva sotto ogni aspetto quella iena scatenata che, con la forza di un pugno, aveva disfatto mezza isola, quella era proprio lui.
 
“Eccoti qua, dannato idiota….”, sibilò Azu, avanzando a grandi passi verso il malcapitato, avente ancora la faccia spiaccicata nel terreno.
 
La sua voce femminile si era irrobustita per la rabbia, arrivando quasi a ruggire, enfatizzando le nervature pulsanti sulle tempie e sui vari muscoli delle braccia. Quando l’irascibilità della ragazza prendeva il sopravvento – il che avveniva molto spesso -, i tratti estetici che la identificavano come una graziosa fanciulla sparivano all’istante, ingrossandosi o cambiando radicalmente forma, il che rappresentava un serio pericolo per chi si trovava a stretto contatto e Lars lo sapeva meglio di chiunque altro…..
 
Chi mai avrebbe potuto conoscere Azu in tutte le sue isterie, se non il suo caro e “Adorato” fratello maggiore?
 
Con un grosso e fumante bernoccolo in testa – degno regalo della suddetta -, l’albino, ancora steso a terra, udì perfettamente i tacchi a spillo della parente farsi più acuti e frenetici. Quando poi essi si stopparono, avvertì tutto sé stesso venire tirato su con malagrazia; lì, la testa gli vorticò tre o quattro volte, moltiplicando la faccia incavolata della sorella, pronta a spaccargli i timpani con la sua squillante voce.
 
“Sei la solita irruenta”, le disse con la testa ciondolante all’indietro “Guarda che hai combinato…”
 
Che fosse in punto di morte o meno, per qualche insano motivo, la forza di rimbeccarla, non gli mancava mai.
 
“E SAI CHE ME NE FREGA! HO PASSATO UNA NOTTE INFERNALE E TUTTO PER COLPA TUA, CHE TI SEI FATTO FERIRE COME UN FESSO DA UN PIRATUNCOLO DA STRAPAZZO!!!” urlò lei, scuotendolo.
 
Dai suoi occhi perlacei, fuoriuscirono saette infervorate, che resero l’aria talmente elettrica da rizzarle i capelli.
Anche se avesse decapitato tutta Hanbai, sicuramente non si sarebbe sentita soddisfatta, non fino a quando il collo del suo amabile fratellone, non le fosse finito fra le mani. Non tenne minimamente conto del fatto che questo fosse ferito e sanguinante: i suoi denti erano talmente acuminati che, se solo lui avesse pronunciato una parola di troppo, lo avrebbe ucciso a morsi. Venire attaccati di sorpresa nel bel mezzo di una attraversata non era di certo una sorpresa coi tempo che correvano, ormai era quasi un’abitudine, ma quello che a lei stento sopportava, era il fatto che si fosse dovuta accollare tutto il lavoro pesante, perché il suo partner, che, per disgrazia, era anche suo fratello, si era fatto colpire come un novellino. Erano quelli i momenti in cui la sua irascibilità si faceva più sentire: lì, il desiderio di prendere quella sua testolina e di fracassarla contro una qualsiasi superficie solida, era incontenibile. Suo fratello aveva sempre da ridire sul suo comportamento e su quanto dovesse provare a essere un pochettino meno impulsiva. Non mancava mai di farle notare qualcosa e quando succedeva, volavano vasi, mattoni e, a volte, anche soldati. I rimproveri e le frecciatine erano una delle cose che più detestava a quel mondo: non sopportava di essere rimproverata o, peggio ancora, di essere trattata come una bambina. D’accordo, ogni tanto esagerava, ma era pur sempre umana e gli esseri umani, si sa, non sono perfetti!
 
“Quanto esageri….non eri tu quella che amava essere circondata dagli uomini?” le domandò sarcasticamente il fratello, ormai ridotto a un lenzuolo, tanto era bianco.
“Non sfottere, idiota!” e lo malmenò nuovamente "Quei bastardi schifosi mi sono rimasti incollati al sedere per tutta la notte!Avrei voluto vedere te, al mio posto!!”
“Non c’è bisogno di farne una tragedia. Sei qui ora, no?”
 
SBAM!
 
Un secondo bernoccolo si unì al primo e il bel viso di Lars, finì nuovamente nella polvere.
 
“Io faccio quello che mi pare e piace, E TU NON SEI NELLA POSIZIONE DI CRITICARMI!” strillò nel scuoterlo freneticamente avanti e indietro “E’ GIA TANTO CHE NON TI STIA IMPALANDO CON LA TUA SPADA! ADESSO DIMMI DOV’E’….!!”
“Azu-chan!”
 
Sentitasi chiamare, l’albina si fermò di colpo. La rabbia circolante nel sangue venne congelata e il torace di lei smise di alzarsi e abbassarsi ritmicamente, lasciando così che il viso riassumesse i suoi delicati contorni. Fu un cambiamento repentino e tempestivo, soprattutto per Lars, ancora ancorato a lei, ma, almeno, non più in pericolo di vita. Mollando la presa sul fratello – che cadde a terra come un sasso-, Azu si raddrizzò e posò gli occhi al di fuori del cratere creato: in mezzo alla confusione, vide colei che stava cercando.
 
“Shion! Stai bene, men…..ma chi sono quelli?”
 
Rimessisi in piedi, dopo essere stati sbalzati via bruscamente, Cappello di Paglia e i suoi compagni erano rimasti pietrificati nel vedere quella pazza dai capelli quasi bianchi, sballottare qua e là il ragazzo peggio di un povero e inutile straccio per pulire i pavimenti. Chopper, per la paura, si era nascosto dietro le gambe di Rufy, mentre Nico Robin, impassibile come sempre, aveva osservato la scena senza lasciar trapelare alcuna emozione dai suoi occhi azzurri. Soltanto la biondina aveva guardato il tutto con la faccia tipica di chi già sapeva come sarebbe andata: se tralasciava i vestiti corti e i tacchi, soltanto una come Azu poteva piombare giù dal cielo, colpire in testa il fratello, ridurre il quartiere peggio di un campo di battaglia e sbraitare come una forsennata, senza curarsi minimamente di tenere bassa la voce. Il suo essere indiscreta era instabile quanto il suo umore.

La felicità di Azu nell’aver ritrovato finalmente la piccina, si interruppe a metà strada non appena il suo sguardo si incrociò con quello del ragazzo col cappello di paglia: quei grandi e tondi occhi neri la stavano fissando come se fosse un’aliena e tale sensazione, raggiunse subito l’animo della ragazza, che squadrò male il tipo, storcendo la bocca e portando le mani ai fianchi.
 
“Che diavolo hai da guardare a quel modo? Non hai mai visto una ragazza?”
 
Odiava che la si guardasse con facce ebeti. Mica era una stralunata! L’avrebbe anche lasciato perdere, se non avesse notato che questo e gli altri due presenti, erano vicini alla piccola.
 
“Shion.” e tornò dalla bambina “ Mi dici chi sono questi e che ci fanno con te?”
“Loro? Sono i miei nuovi amici!” esclamò tutta contenta lei “ Lui e Rufy e questi sono i suoi compagni: Nico Robin e Chopper.”
 
Rufy? Nico Robin? Chopper? Com’è che quei nomi non le erano nuovi?
 
“Uhm….ma dov’è che li ho sentiti nominare?” si chiese nel mentre faceva tamburellare l’indice sulle labbra, con lo sguardo rivolto verso il basso.
“Sono i pirati della ciurma di Cappello di Paglia! Lui è il capitano!” rivelò la bambina, indicando Rufy.
“Ah, si, è vero”, disse l’albina nel darsi un leggero colpetto in testa “I pirati………….I PIRATI DI CHE COSA?!?!?!?”
 



Ho realizzato dei disegni di Azu e Shion grazie a delle basi su DA, spero vi piacciano!
http://ciril09.deviantart.com/#/d4881le         Shion.
http://ciril09.deviantart.com/#/d45nz9b        Azu.

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Capitolo 2
*** Cercando un medico. ***


Salve a tutti ragazzi, sono tornata e questa volta vi porto una storia dove ci sono i nostri cari pirati di Cappello di Paglia! Prima di lasciarvi alla lettura di questo primo capitolo, voglio solo avvertirvi di un paio di cosette, giusto per non creare problemi:
 
1)Gli aggiornamenti non saranno regolari; questa volta mi sarà molto difficile essere puntuale. Per chi ha letto “Giglio di Picche”, sa che sono sempre stata puntuale nell’aggiornamento, quindi chiedo scusa sin da ora se non sarò regolare. Dipende da come riesco a organizzarmi e dai stessi capitoli, visto che adesso il numero è inferiore a dieci. ^^”
2) Gli avvenimenti si svolgeranno dopo i due anni che i protagonisti hanno utilizzato per allenarsi, con la differenza che la battaglia di Marineford non si è verificata: la linea dei eventi da me sfruttata, è quella che ho descritto in “Giglio di Picche”, quindi, per farla breve, Ace è vivo, la battaglia principale si è svolta a Impel Down, e Rufy ha deciso comunque di posticipare l’incontro coi suoi amici. Tali notizie verranno soltanto citate. I vari dettagli verranno inseriti mano a mano nella fict, giusto per essere coerenti, ma chi volesse chiedere ulteriormente, può mandarmi un messaggio.
 
Detto ciò……………BUONA LETTURA! ^_^.
 
 
 
 
Hanbai era una delle molte isole del Nuovo Mondo.
Un placido territorio, se messo a confronto con i numerosi campi di battaglia presenti in mare, così tranquillo, che su di esso era stata edificata la classica cittadella la cui apparenza cercava di nascondere il marcio che non era in grado di estirpare: se da una parte sembrava una graziosa e ospitale meta turistica, piena di negozi, abitazioni linde, con balconi pieni di fiori e bella gente, dall’altra era in tutto e per tutto un postaccio, il cui lerciume era stato volutamente relegato nelle fondamenta, dove si aggiravano individui dal pugno facile. I borghi altolocati e le periferie vantavano un commercio di tutto rispetto, la cui punta di diamante era il gran mercato che ogni giovedì veniva allestito dai cittadini, decisamente un elemento troppo prezioso perchè lo si potesse dividere con chi ne avrebbe minato la bellezza.

Il gran mercato di Hanbai vantava una storia lunga quasi quanto la nascita della cittadella, ragione per cui veniva considerato con una sacralità quasi assurda. Lì non si vendevano comuni stoffe, cibarie o oggetti dalle strambe forme, ma veri e propri prodotti ricercati, dai più semplici ai più elaborati. Quasi tutti i compratori delle isole vicine, almeno due volte al mese, si dirigevano lì per acquistare le merci del posto, uniche nel loro genere e, per questo, molto apprezzate. La bellezza del posto, di quel suo specifico lato, era necessaria per ridurre il contrasto che la parte nera sottostante offriva. Con una morfologia molto simile a quella di un enorme collina, sulla cima dell’isola stava la zona commerciale, dove le abitazioni erano tutte costruite con mattoni color bianco gesso e le buone maniere erano all’ordine del giorno. A interrompere il candore d’essa vi era la parte bassa della cittadella, costellata di tetti rossi, piena di porti, locande squallide e vicoli dove spesso ci si appartava per qualche piacere fisico molto veloce. Disgraziatamente, non essendoci altri punti di attracco, tutte le navi erano costrette ad ormeggiare lì, dove i ladri ogni tanto solevano sbucare dal nulla per alleggerire le tasche dei turisti. Anche dei comuni pirati non avrebbero potuto fare altro, ma la ciurma di Cappello di Paglia vantava un navigatore che ne sapeva sempre una più del diavolo, il che era decisamente una fortuna, visto e considerato il grado di intelligenza di alcuni membri di quest’ultima.

Portandosi la mano dietro il collo, Nami scrollò i lunghi e ondulati capelli arancioni, rilasciandoli cadere lunga la schiena nuda. La cartina che teneva ben stretta fra le mani le era costata un’intera notte di lavoro, ragione per cui avrebbe approfittato di quella piccola sosta per recuperare almeno un paio d’ore di sonno. Mani e mente erano esauste; le ossa delle dita le dolevano per l’aver tenuto troppo a lungo la penna d’oca, ma conoscendo certe attitudini di alcuni suoi compagni, volle spendere le ultime energie rimaste per rivestire appieno il ruolo di colonna portante della ciurma. Oramai, farlo, era diventato peggio di un’abitudine.

“Il log pose ci impiegherà esattamente sette ore per registrare il magnetismo di quest’isola”, affermò davanti a tutti i suoi compagni “Il che significa che potremo riprendere il largo prima del tramonto e con vento favorevole, a quanto pare. Fortunantamente, qui non sembrano esserci basi della Marina, ma evitiamo comunque di farci notare. Hai capito, Rufy?”

Con fare rimproverante, puntò gli occhi su quello che era il suo capitano, un ragazzo diciannovenne con in testa un buffo cappello di paglia, che guardava da tutt’altra parte.
Monkey D. Rufy, in quei due anni di assenza dal mondo della pirateria, non pareva essere cambiato di una virgola: la sola differenza che saltava subito all’occhio erano i vestiti e una vistosa cicatrice a forma di “X” che gli squarciava il petto, ma nulla di più. Anche nel carattere non sembravano comparire delle novità: era sempre il solito pirata di gomma solare, ingenuo, vispo e desideroso di scoprire cose e posti a lui sconosciuti. Eppure, qualcosa di nuovo c’era: in una qualche maniera, era diventato più forte e coscienzioso, appropriandosi di quel pizzico di serietà capace di rafforzare ulteriormente le sue convinzioni. A parole era difficile da spiegare, poiché il soggetto stesso della questione era indescrivibile, ma fatto stava che Rufy, come tutti i suoi compagni, era maturato………anche se per la stragrande parte del tempo – come in quell’istante -, si comportava con impulsività a dir poco che esasperante.

“Rufy? Ma, insomma, mi stai ascoltando?!” sbottò Nami, alzando il tono della voce.
“Eh? Si, si, ho sentito. Hai detto di non farci notare. Sta tranquilla, andrà tutto bene.”

Il risponderle con quel suo tipico sorriso a trentadue denti, lasciava intendere perfettamente che parte del discorso appena fatto, non era stato sentito e appreso come lei sperava.

“Hai detto la stessa cosa quando ci siamo diretti all’isola degli Uomini Pesce e quasi finivamo per ammazzarci”, replicò arrabbiata la Gatta Ladra, sbuffando “Non mi va di ripetere l’esperienza, quindi, vedi di non fare di testa tua!”

La noncuranza del suo capitano sapeva sempre come innervosirla e in quel preciso momento, l’espressione beatamente sognante del ragazzo le stava facendo intendere che, anche se si fosse messa lì a spiegargli i mille e passa motivi per cui era importante che ogni tanto le acque rimanessero piatte, quello avrebbe si annuito, per poi tirare dritto con la mente completamente vuota di ogni buon consiglio fornito.
 
“Si, va bene, però adesso sbarchiamo!!” esclamò quest’ultimo, alzando le braccia al vento “Voglio visitare tutta l’isola!”
“E’ senza speranze”, sospirò sconfitta la rossa “Sanji, visto che devi comunque scendere per rifornire la dispensa, fammi il favore di tenerlo d’occhio.”
“Conta pure su di me, Nami-swan!!!” ululò il cuoco con l’occhio trasformato in cuore “Il tuo Sanji-kun non ti deluderà!”
“Tsk! Il solito idiota da quattro soldi”, borbottò assonnato Zoro.
“Che hai detto, razza di idiota?!”
“Hai sentito bene.”

Gamba Nera fu subito addosso all’ex Cacciatore di Pirati, che per tutto il tempo se ne era rimasto beatamente sdraiato sotto l’albero del ponte di coperta a schiacciare un pisolino. Siccome i loro litigi non sfociavano mai in veri e propri combattimenti all’ultimo sangue, il resto della ciurma li lasciava sfogare per bene senza mai intromettersi. Era sufficiente un niente per accendere la miccia, una piccolezza o, più facilmente, il comportamento esageratamente smielato del cuoco nei confronti delle sue compagne di viaggio.
Due anni trascorsi con dei Okama desiderosi di mettergli addosso vestiti svolazzanti, tacchi a spillo e pizzi alquanto imbarazzanti su di un corpo maschile, avevano reso Sanji estremamente sensibile alla vista delle belle donne, tanto che bastava un niente per provocargli una copiosa emorragia nasale. Sull’isola dei Uomini Pesce aveva praticamente sfiorato la morte almeno una decina di volte a causa di un numero considerevole di sirene che lo avevano accerchiato e coccolato come un principe, dando vita così a uno dei suoi sogni più ambiti. Un colpo troppo forte per il suo povero cuore di donnaiolo, che, con moltissima fatica, stava cercando di riadattarsi alle sinuose curve di Nami e Nico Robin. C’era ancora molto lavoro da fare visto che, davanti a qualunque estranea, il biondino perdeva letteralmente la testa – e anche qualche litro di sangue – ma, se non altro, davanti alla navigatrice e all’archeologa, riusciva quanto meno a mantenere quel contegno perso durante il soggiorno a Momoiro.

Tra un calcio e un fendente, i due vennero presto dimenticati dai loro compagni. Era inutile interromperli e, francamente, la Gatta Ladra non voleva spendere due pugni per dei casi patologici come loro, non in quel momento, non con la testa che rischiava di esploderle per le troppe pulsazioni.
 
“Se Sanji e Rufy scendono, allora voglio andare anch’io”, si fece avanti la tenera renna, con in spalla il suo bel zainetto azzurro “Ho giusto bisogno di nuovi ingredienti per le medicine. Robin, vieni anche tu?”
“Eh eh, certo. Sarà interessante”, rispose la bella archeologa.
“Robin-chwan!!” ululò il cuoco, fiondandosi ai suoi piedi come un prode cavaliere servente “Ovunque tu andrai, il tuo Sanji-kun ti seguirà, pronto a difenderti da ogni pericolo!!!”
“Cretino…”, borbottò lo spadaccino.

La velocità con cui l’espressione assurdamente innamorata di Sanji mutò, fu impossibile da cronometrare. Anche se Zoro lo avesse insultato con la sola forza del pensiero, in un modo o nell’altro il biondino avrebbe percepito l’aura di negatività nei suoi confronti anche se si fosse trovato a centomila miglia di distanza. La cosa era tanto stupefacente quanto assurda, ma non abbastanza degna di essere studiata e approfondita.
 
“Uff…” la povera navigatrice sospirò, scuotendo debolmente il capo “Qualcun altro vuole andare?” domandò poi al resto dell’equipaggio e lasciando così in disparte i due amici-nemici.
“Yohohoho! Penso che rimarrò a bordo, questa volta!” esclamò Brook, strimpellando la sua nuova chitarra.
“Anche io e Franky non scendiamo”, disse Usopp, con a fianco il mega cyborg dalle braccia smisuratamente lunghe “Dobbiamo terminare dei lavori al Soldier Dock System.”
“Già, vista la nostra ultima bravata sull’isola degli Uomini Pesce, sarebbe da pazzi girare con l’armamentario fuori uso”, concordò quest’ultimo, annuendo.

L’isola degli Uomini Pesce….

Il solo ripensarci, buttò Nami in un mare di ricordi piuttosto spiacevoli, coprendo i suoi occhi nocciolati di un sottile velo malinconico. Le era stato impossibile non ignorare il tatuaggio che per anni aveva dovuto portare come simbolo della sua sottomissione, e più aveva cercato di non pensarci, più l’oppressione l’aveva tormentata con visioni orribili riguardanti la sua infanzia. Se fosse stata la Nami di qualche anno addietro, impaurita da quei esseri dotati di una forza mostruosa, sicuramente non avrebbe avuto il coraggio di tirare fuori la grinta che l’aveva spronata a combattere a testa alta, insieme a tutti i suoi amici. D’accordo, il loro passaggio non era stato dei più tranquilli, anzi: si erano praticamente attirati le ire dei più brutti ceffi che ci fossero lì sotto, ma, anche se avessero avuto la possibilità di rimediare, di cancellare quanto combinato, di certo non lo avrebbero fatto: erano pirati, teorici nemici del Governo Mondiale, della Marina e di qualunque altra forma militare che aveva lo scopo di distruggere ogni forma di ribellione, anche quelle composte da Uomini Pesce, se necessario. Certe scelte comportavano determinate conseguenze, ma se non altro, Nami ora poteva dire di aver definitivamente riposto in un piccolo angolino della sua memoria il periodo vissuto al servizio di Arlong e di questo ne era fiera. La ladra che risiedeva dentro di lei e che l’aveva aiutata a sopravvivere per non pochi anni, non sarebbe più corsa dietro alle spalle di Rufy o dei altri suoi compagni, non avrebbe più esitato su campi nel quale era inesperta: due anni passati lontano dai suoi amici le avevano aperto gli occhi su un mondo ancor più grande e difficoltoso di quello che lei si era immaginata e, questa volta, non si sarebbe lasciata paralizzare dalla paura.

Guardandosi allo specchio, prima di tornare all’arcipelago Shabondy, si era ripromessa di riuscire dove in passato aveva fallito. Forse non si distingueva dal resto del gruppo per le sue abilità combattive, ma in fatto di navigazione non le si poteva criticare nulla, poiché era facilmente intuibile che senza di lei, il resto della ciurma, poteva già dirsi disperso in chissà quale parte del Nuovo Mondo. E non ci voleva certo un genio per capire che alcuni dei suoi compagni non fossero esattamente delle cime….

“Bene. Vedi di ricordartelo, Rufy: dovete tornare fra…..”
“Dai, Robin, sbrigati a scendere! Questo mercato deve essere incredibile!”

Ancora una volta, la ragazza rimase con il dito alzato, la bocca mezza aperta e le solite raccomandazioni tranciate a metà dalla fretta del moro, fermo ai piedi della passerella della Sunny e ansiosissimo di visitare l’isola. Le svariate venature che puntellarono le tempie della rossa non si poterono contare e mancava giusto un altro grammo di stupidità perché il suo pugno micidiale colpisse qualcosa o qualcuno.

Avesse almeno la decenza di farmi finire, quello scemo!

Sforzandosi enormemente di non esplodere, la rossa prese un bel respiro e buttò fuori l’ira accresciuta a tempo di record. L’esuberanza del suo capitano era impossibile da domare e lei, in quel momento, non aveva ne la voglia, ne la forza di mettersi a urlare rimproveri e raccomandazioni che, poco ma sicuro, sarebbero entrati da un orecchio e usciti dall’altro. Ci avrebbe pensato Robin; con lei, la situazione sarebbe rimasta dentro i caldi e sicuri confini dell’anonimato…….almeno così sperava.

Meglio non pensarci, si disse ancora nel mentre si massaggiava delicatamente i stanchi occhi.

Con la visione del proprio letto davanti a sé, la Gatta Ladra sospirò un’ultima volta, per poi dirigersi verso la stanza che condivideva con l’amica dai lunghi capelli corvini. Stette per salire le scale di legno quando, senza un motivo, Brook le si parò davanti, in tutta la sua ossuta presenza.

“Che c’è, Brook? Vuoi dirmi qualcosa?” gli domandò lei con voce stanca.
“Si, Nami-san, mi chiedevo se fossi così gentile da mostrarmi le tue mutandine.”

SBADABADAM!!

Un calcio in faccia atterrò seduta stante il musicista dalla vaporosa capigliatura afro, da cui spuntò un fumante e pulsante bernoccolo.
L’indignazione di Nami fu coperta dai suoi forti e calcati passi sulle scale, che si conclusero con la sonora chiusura della porta della propria cabina, sotto lo sguardo semi-impaurito di Franky e Usopp e quello mezzo addormentato di Zoro. A volte era davvero difficile comprendere il perché il Canterino si ostinasse a porre quelle domande perverse alla rossa, all’archeologa e a tutte le donzelle che gli capitavano sotto tiro: qualunque sua richiesta finiva con un calcio in testa, il che poteva mettere in serio pericolo l’integrità del suo preziosissimo afro. Eppure, lui ci provava sempre, indipendentemente dal rischio in cui poteva incappare. Pensare che si trattasse di pura e sana forza di volontà equivaleva schiantarsi contro degli scogli, perché di purezza, nelle sue intenzioni, non ce n’era la benché minima ombra.

Era uno scheletro maniaco, recidivo, con la fissazione della biancheria intima, che alternava buone maniera a puzzette e rutti. Ecco la verità.
 
“Yohohoho! Che dolore! Nami-san oggi è stata più violenta del solito!” si lamentò quest’ultimo, con gli occhiali dalla montatura a forma di cuore, completamente storti.




Zona Ovest della città bassa.
 
Le dieci erano scoccate da poco. I rintocchi delle campane avevano rotto il silenzio angoscioso regnante nella parte bassa di Hanbai per qualche secondo, senza però lasciare alcun segno del proprio passaggio. Il suono secco e distaccato del batacchio che colpiva l’interno della capanna non aveva nulla di armonioso e di curato: era già molto che il responsabile si ricordasse di non mancare al suo dovere. Benché il sole fosse sorto da un pezzo e la temperatura fosse piacevolmente gradevole, le stradine sostavano in una penombra fredda e poco rassicurante, che spinse la bambina a guardarsi intorno più di due volte, prima di decidere di mettere il naso fuori dalla porta della locanda. Le era bastato un solo sguardo per capire che quella zona non era sicura - incluse le scazzottate nei bar, intraviste nel mentre cercava un alloggio quanto meno decente-, ma, date le scarse risorse attuali, non aveva potuto fare altrimenti: Lars era stato ferito ed era un miracolo che entrambi fossero riusciti a giungere lì. La scialuppa su cui erano saliti aveva rischiato di lasciarli a mollo nell’acqua e, come avevano messo piede a terra, questa era colata a picco, con un bel buco nel mezzo.
 
Ok. E’ facile…è facilissimo, posso farcela. Devo solo correre e basta, si disse per la cinquantesima volta.
 
Deglutendo il più silenziosamente possibile, la piccola cominciò a far sporgere il proprio corpo al di fuori della locanda, senza staccare le rosee manine dal legno della porta. Ci aveva già provato in precedenza, ma,come un gatto aveva fatto cadere dei bidoni dell’immondizia, era subito tornata dentro col fiatone. Dire che fosse tesa come una corda di violino era un eufemismo, ma nessuno l’avrebbe potuta biasimare, vista la situazione in cui era immersa. Il posto non era dei migliori, affatto: l’odore delle reti da pesca, lasciate a cuocere sotto il sole, si mischiava a quello delle bettole maleodoranti, per non parlare poi dei vicoli, dove la spazzatura doveva raggiungere i tetti prima che gli abitanti si decidessero a spostarla. Ogni angolo trasudava di sporcizia e pericoli, due elementi a cui la bambina stava opponendo una faticata resistenza prossima al crollo. Nella sua piccola mente si stavano accavallando i ricordi del giorno prima, quando, durante quella tranquillissima navigata, la nave su cui viaggiava, era stata improvvisamente attaccata. Tutto si era svolto con troppa rapidità perché lei potesse ragionarci sopra, motivo per cui stava cercando di focalizzare la sua attenzione sulla priorità del momento: trovare dei medicinali per Lars o, meglio ancora, un medico disposto a curarlo. La vedeva dura, perchè i soldi che possedeva erano veramente pochi, ma tentare non le costava nulla e, inoltre, non avrebbe mai avuto il coraggio di tirarsi indietro: la vita del suo amico era nelle sue mani e lei avrebbe fatto di tutto pur di aiutarlo.
 
Che fosse impaurita o meno dai pericoli che sarebbero potuti balzare fuori da un momento all’altro, col cuoricino in piena frenesia, prese un bel respiro, strizzò gli occhi, e si gettò lungo la strada, muovendo le magre gambe con quanta più velocità possedesse.




“Wow! Quante bancarelle!” esclamò Rufy.
 
Gli abitanti del posto non avevano affatto esagerato nell’affermare che il mercato di Hanbai fosse il più fornito e il più bello di tutti quelli che gli stranieri avevano visitato sino ad ora. Rufy, Chopper, Sanji e Nico Robin, erano arrivati da poco meno di venti minuti e i venditori, abilissimi nel riconoscere gli stranieri, si stavano già adoperando affinché questi trovassero nelle loro merci qualcosa di così interessante, da indurli ad aprire il portafoglio. Inutile dire che se avessero lasciato carta libera al capitano, Nami li avrebbe linciati vivi e costretti a rimborsarla per il resto della loro vita, ma era impossibile non rimanere a bocca aperta davanti a quel susseguirsi di colori e oggetti così ordinatamente esposti. Gli stand non erano dei comuni mucchi di legno tenuti su con dello spago, ma piccolissime gallerie d’arte dove a ogni pezzo era stato dato una specifica collocazione, il che rendeva la presentazione ancor più gradevole alla vista. Il buon gusto per l’ordine era un requisito fondamentale se si voleva ottenere un posto al mercato e i cittadini davano sempre il meglio di loro, pur di stupire i clienti.
 
“Hanbai è molto famosa per i suoi commerci”, spiegò la corvina nel mentre avanzavano “I suoi prodotti sono richiesti in diverse isole, ragione per cui i mercanti, una volta al mese, devono recarsi in altre località per vendere quanto richiesto dai compratori. Per la maggior parte, si tratta di esportazioni riguardanti cibarie marine, ma ho sentito dire che anche le erbe medicinali sono molto ricercate.”
“Erbe medicinali?” al solo nome, gli occhi di Chopper si illuminarono “Davvero ci sono?”
“Pare di si”, gli rispose la donna, con un sorriso.
“Robin-chwan! La tua saggezza riempie il mio cuore d’amore!” ululò Sanji, vorticando intorno a lei.
“Sanji, ho fame! Prendiamo quella pinna di squalo gigante!” propose Rufy, indicando la bancarella del pesce con la bava alla bocca.
“Non cominciare! Hai fatto colazione appena due ore fa!” replicò il cuoco, irritato per l’essere stato interrotto nel suo elogio d’amore.
 
Nonostante i due anni di separazione, caratterialmente, nessuno di quei pirati pareva aver cambiato qualcosa nel loro stile di vita, ma per chi era troppo abituato a fidarsi delle prime apparenze, era difficile pensare alla possibilità che qualcosa fosse effettivamente successo. Era cambiata, la ciurma di Cappello di Paglia, fisicamente e anche un po’ emotivamente: la sconfitta contro Orso Bartholomew era stata dolorosa, umiliante, ma anche profondamente significativa per tutti quanti loro, sufficientemente perché realizzassero che non erano pronti per affrontare le insidie del Nuovo Mondo. Rufy l’aveva capito quando era riuscito a salvare Ace, dopo una fatica che era arrivata quasi a pretendere la sua vita, se non fosse stato per gli innumerevoli aiuti ricevuti. Era stato il primo, l’unico a comprendere che, un posto come il Nuovo Mondo, era una meta che necessitava ulteriore allenamento e quella rivelazione, gliel’aveva fornita proprio il desiderio di salvare il fratello maggiore. Seppur il suo spirito fosse immenso, la forza di cui disponeva non era stata abbastanza grande per proteggere i suoi compagni e i loro sogni, e lui non voleva più vederli scomparire sotto ai suoi occhi.  Il male provato ora era un semplice ricordo, il dolore e la stanchezza, nutriti dalla paura di perdere tutto, erano svaniti, ma nulla poteva cancellare l’eventualità che tutto ciò riaccadesse: se non fosse stato aiutato dalla ciurma di Barbabianca, da Bon-chan, da Iva-chan, e da tutti gli altri alleati trovati a Impel Down, forse, a quest’ora, ne lui ne Ace sarebbero vivi.
 
Non era stato facile scegliere, per niente, ma posticipare la partenza per il Nuovo Mondo era apparsa come l’unica soluzione plausibile, la più giusta. Con congedo silenzioso, i membri della ciurma di Cappello di Paglia si erano ritirati nel luogo scelto da Orso Bartholomew, leggendo nel messaggio lanciato dal capitano una volontà che tutti quanti avevano accettato senza alcuna replica.  Quei due anni erano stati tanto intensi quanto lunghi, ma ora erano di nuovo insieme e l’essere tornati a quella routine tanto mancata, si dimostrò essere un sollievo decisamente gratificante per ciascuno di loro.
 
“Eddai, Sanji….”, lo pregò Rufy.
“NO!” ruggì l’altro “Non mangerai nulla fino all’ora di pranzo!”
 
Abbozzando un altro sorriso, Nico Robin scostò un lunga ciocca corvina dalla sua guancia, per poi porgere la mano a Chopper, che senza troppi indugi, la afferrò.
 
“Vediamo di portare qualcosa alla nave o Nami ci sgriderà.”
“D’accordo.”




Zona Ovest della città bassa.
 
“Locanda de “il Pescatore Nero”: è questa.”
 
Con voce silenziosa e trionfante, una figura ingobbita sostava in un angolo buio, accompagnato da un altro suo simile, i cui piccoli occhi non si erano mai staccati dallo squallido locale. Puzzolenti e coi capelli unti, i due pirati – poiché erano tali –, si scambiarono un’occhiata complice, contornata da sogghigni spregiudicati e accarezzando le else delle proprie sciabole, come a volerle tenere calme fino al momento propizio. Avevano impiegato tutta la notte per trovare le loro prede e sarebbe stato un bel guaio se fossero tornati alla base con le mani vuote: sebbene fosse una loro iniziativa per ingraziarsi il capo – che, per precisare, non era al corrente della situazione-, fallire sarebbe stato alquanto deplorevole, poiché un sequestro di quella portata, non si sarebbe di certo ripetuto.
 
“Sarà un gioco da ragazzi”, affermò il primo con fare sprezzante “ Il ragazzo è ferito, quindi non ci vorrà niente a metterlo definitivamente fuori gioco e la marmocchia di certo non costituirà un problema.”
“Io aspetterei a cantare vittoria”, mormorò dubbioso il secondo.
“Ma che vai a blaterare?” ringhiò l’altro, guardandolo malissimo “E’ la nostra occasione per mettere le mani su un mucchio di soldi!”
“Lo so, ma hai visto con che facilità quel tipo ha sistemato i nostri compagni? E quella strega? Ha fatto fuori dieci uomini senza che noi ce ne accorgessimo. E’ evidente che li abbiamo sottovalutati.”
 
L’enfasi con cui il pirata illustrò il quadro della situazione era velata da un cenno di timore che, invece di diminuire, continuò a rimanere costante. Aveva appoggiato l’iniziativa del compare insieme a tutti gli altri, sicuro della sua riuscita: rapire una bambina, quella bambina poi, non rientrava nel progetto originale, ma la prospettiva di mettere le mani su un’ingente somma di Berry, prima dei tempi stabiliti, era stata sufficiente a farlo annuire con vigore. Sembrava facile, doveva esserlo, ma qualcosa era andato storto non appena avevano messo piede sulla nave: seppur fossero stati attenti, la fretta aveva fatto loro dimenticare che a difesa della piccola ci fossero due guardie del corpo molto speciali, la cui forza si era subito fatta sentire. In un modo o nell’altro, erano riusciti a ferire il ragazzo - distrattosi per proteggere la bambina -, ma in seguito si erano dovuti dividere, siccome quest’ultima e il ferito, erano scesi dalla nave e allontanatisi abbondantemente prima che se ne accorgessero. Per quanto il pirata stesse cercando di mettere in guardia il compagno, quest’ultimo non faceva altro che roteare le pupille e guardarlo con fare schifato nel mentre le dita tozze tamburellavano impazientemente sull’elsa dell’arma.
 
“Io aspetterei gli altri. E più sicuro….”
“Hai finito o devo tagliarti la lingua?” borbottò ad un certo punto “Cominci veramente a seccarmi.”
“Sto solo cercando di evitare che tu finisca a mollo nell’acqua senza vita: quei due non sono persone comuni.”
“Quei due”, sibilò l’altro puntandogli la lama della sciabola alla gola “Sono solo dei mocciosi, niente di più. Ci hanno colto di sorpresa, ma non ricapiterà: il ragazzo ha le ore contate e per quanto riguarda quella bastarda, sono certo che in questo momento starà desiderando di morire e a meno che tu non desideri fare la fine degli altri passeggeri della nave, ti consiglio di chiudere la bocca e di fare quello che ti dico, altrimenti non vedrai nemmeno l’ombra di un centesimo della parte che ti spetta”, sogghignò con una luce perversa nei occhi.
 
Coi sudori freddi a puntellargli la schiena, l’uomo annuì piano, per poi tirare mentalmente un sospiro di sollievo nel non percepire più la lama della sciabola sfregare contro la sua pelle.
 
“Andiamo. Abbiamo aspettato anche troppo”, disse l’altro incamminandosi verso l’entrata della locanda, con l’arma ben stretta in mano.




Mercato di Hanbai.
 
Una cosa facilissima da intuire riguardo Chopper, era la sua capacità di meravigliarsi anche davanti alla più semplice delle cose: avendo passato quasi tutta la sua vita in un castello, il mondo esterno rappresentava per lui una continua fonte di meraviglie indescrivibili, che lo spingeva a esternare i suoi sentimenti con un’enfasi tale da sprigionare tutta la sua ingenuità. Da più di dieci minuti, la piccola renna della Ciurma di Cappello di Paglia si trovava in uno stato di semi-adorazione per quella grande bancarella, il cui oggetto di vendita erano le tanto ricercate erbe medicinali di cui aveva sentito parlare pochi attimi prima.
 
Col cappello calcato sulla testolina pelosa, la renna aveva cominciato a girare intorno ai tavoli con estrema lentezza, esaminando con occhi da medico le erbe esposte, spesso accompagnate da piante intere o radici. Sotto ognuna di essa, vi stava un cartellino giallognolo, su cui era riportata una breve e saliente descrizione del prodotto, che comprendeva l’origine, il significato e l’uso di quest’ultimo. In un batter d’occhio, la conoscenza appresa sull’isola di Torino si risvegliò di colpo, ampliando la gioia del dottore, per tutte quelle rarità ammirate soltanto sui libri. Dietro al bancone principale, si poteva vedere perfettamente un ampio scaffale stipato di barattoli pieno d’acqua e alghe dai colori più sgargianti, che fluttuavano pigramente nel mentre il proprietario serviva i clienti. Accanto ad essi, riposti in ciotole di metallo, vi erano diversi mazzi di fiori secchi, tutti disposti a seconda della grandezza: il loro profumo giunse al naso di Chopper, che arrivò perfino ad alzarsi in punta di piedi per l’emozione. Sarebbe rimasto incantato per ore, da quei profumi, se non si fosse lasciato distrarre ulteriormente dalle erbe esposte sul bancone laterale.
 
“Che meraviglia! Non ne avevo mai viste così tante!” esclamò con occhi scintillanti, ignorando il sottofondo borbottante proveniente alle sue spalle “Ci sono le Acerole, le Amamelidi,…c'è perfino la Laminaria!” esclamò.
 
Tra le conoscenze acquisite grazie ai faticosi anni di studi, spuntarono fuori anche radici dalle particolari proprietà, che stuzzicarono immediatamente la sua curiosità medica. Sarebbe stato un delitto tornare alla Thousand Sunny senza aver preso qualcuna di quelle erbe, ma tanto forte era l’indecisione di Chopper, che più si guardava intorno, nel tentativo di identificare il possibile occorrente, più la confusione aumentava. Fu in un piccolo attimo di distrazione, che il cucciolo stoppò la sua mente per strabuzzare gli occhi: si sentì osservato e nel percepire quella sensazione pesargli sulle spalle, voltò automaticamente la testa sulla sua sinistra, per poi irrigidirsi ancora di più.
Seduta sui talloni e con le mani serrate sulle ginocchia, una graziosa bambina lo stava fissando intensamente: i corti capelli biondi - aventi un taglio quasi maschile, se non fosse stato per i due ciuffi laterali, leggermente più lunghi -,incorniciavano il suo visino rosato dai lineamenti tondi e sottili, mettendo in risalto le guance lievemente arrossate e gli occhi azzurri, assottigliati e stretti come a voler migliorare la propria vista. Come Chopper indietreggiò, il viso della bambina si sporse ancor di più, accompagnato da sussurrato mugugno indagatore, che si ruppe non appena queste gli domandò:
 
“Tu sei un medico?”
“Eh?” alla domanda, la renna sobbalzò impercettibilmente, con una goccia sulla guancia.
“Sei un medico o no?” gli domandò lei nuovamente.
“Ah..si, si, sono un med….ehi, che fai?!”
 
Dopo quel microsecondo di tentennamento, Chopper era riuscito finalmente a rispondere ma, senza neppure avere il tempo di finire, venne afferrato per un zoccolo e trascinato da quella bambina misteriosa.
 
“Whaaa! Lasciami! Si può sapere cosa vuoi?!” gridò nel mentre cercava di frenare l’avanzata ponendo resistenza.
“Devi venire con me!” gli rispose quella, guardando dritto davanti a sé.
 
Senza dar peso agli sguardi dei cittadini, la piccola aumentò la propria andatura, cercando di non  perdere la presa su quel buffo animale che rappresentava la sua ancora di salvezza. Lo aveva osservato per una mezzoretta abbondante, stupendosi di come riuscisse a riconoscere tutte quelle radici di cui lei manco sapeva il nome, nonostante il suo aspetto di tenero cucciolo peloso nascondesse perfettamente quel lato sapiente. Era perfettamente cosciente di starsi comportando male nei confronti di quella creatura, ma non appena la situazione si fosse calmata, gli avrebbe spiegato tutto quanto: al momento, era troppo agitata per vestire i panni della bambina educata, il pensiero di Lars, ferito e addormentato sul letto di quella angusta stanza, non ne voleva proprio sapere di lasciarla in pace.
 
Chissà poi se poi Azu-chan stava bene…..
Seppur avesse spudoratamente affermato che contro di lei, quei pirati avevano vita breve, la piccola era comunque in ansia anche per lei.
 
No! Ha detto che li avrebbe presi a calci nel sedere e che poi ci avrebbe raggiunti! Lo farà, ne sono sicura!
“Insomma, lasciami andare!!”
 
Con uno scatto repentino, la renna abbandonò la forma mista per assumere quella umana, liberandosi finalmente dalla presa dalla rapitrice. Quest’ultima, per lo sbalzo, cadde a terra, rimanendo a bocca aperta per quella trasformazione, insieme a una ventina di persone giratesi e i cui occhi erano usciti fuori dalle orbite. Queste, subito, si allontanarono con discrezione, per paura di brutta reazione di quello strano essere. Il loro comportamento era comprensibile, ragione per la quale, Chopper non si scompose e tornò alle sue solite dimensioni, sotto gli occhi della bambina, ancora a terra e momentaneamente muta.
 
“Scusami. Non ti volevo spaventare”, le disse sistemandosi lo zaino.
“Ma…ma…ma..ma tu ti sei gonfiato”, balbettò lei, indicandolo “E adesso… ti sei sgonfiato!”
“Si, ma non ti preoccupare: non voglio attaccarti. Solo, spiegami che cosa vuoi da me.”
Abbassando gli occhi in un attimo di esitazione, la piccola mormorò “Ecco, io….”
“Chooooooper!!!”
 
Le grida di Rufy spinsero i due a muovere le loro teste, giusto in tempo per vedere arrivare il ragazzo di gomma insieme a Nico Robin e Sanji.
 
“Ragazzi!”
“Eccoti qua! Ma dov’eri finito?” gli domandò Rufy “E lei chi è?” domandò poi nell’inginocchiarsi di fronte alla bambina.
“ A dire la verità…. non lo so”, rispose la renna .
“Come sarebbe a dire che non lo sai?” fece Sanji alzando il sopracciglio arrotolato.
“E’ una tua nuova amica?”gli domandò candidamente la donna.
 
Nel loro parlare, non si resero conto che la piccola li stava guardando con occhi sgranati e quasi increduli. Ancora a terra, non dava segno di volersi alzare e più i secondi passavano, più tutto quel che stava guardando, le sembrava troppo irreale per essere vero: non le era occorso molto per riconoscere nei nuovi arrivati alcuni membri di una delle ciurme più famose di tutto il mondo.
 
Non ci posso credere…..sono i pirati di Cappello di Paglia! Pensò completamente sconcertata.
 
Credette di stare sognando. Forse aveva battuto la testa e nemmeno se ne era accorta. O magari stava sognando ad occhi aperti. Se fosse stata un’illusione provocata da un bernoccolo, sicuramente sarebbe stata una delle visioni più incredibili della sua vita, considerato l’amore e l'incredibile ammirazione per il mondo piratesco. Anche scuotendo vigorosamente la testa, quelle persone non scomparirono ne si trasformarono in comuni mercanti e ciò fece si che il suo stupore aumentasse ulteriormente. Anche per un cieco sarebbe stato impossibile non riconoscere quella ciurma: era praticamente sulla bocca di tutti, le loro gesta avevano fatto il giro del mondo e lei quasi stentava a credere che alcuni componenti di tale banda fossero proprio davanti a lei, che stesse addirittura guardando in prima persona Monkey D. Rufy, il capitano, quello su cui era stata posta una taglia stratosferica. 
 
Se non calmava seduta stante il suo cuoricino di certo sarebbe esploso, ma come poteva tranquillizzarsi in un momento del genere?! Praticamente aveva tentato di rapire uno dei suoi compagni!
 
Oddio…e adesso cosa faccio? Come mi comporto?
 
Senza volerlo, si lasciò scappare un singulto e le ginocchia si mossero in un involontario tremolio. Se fosse stata in piedi, sicuramente le forze nelle gambe l’avrebbero lasciata al suo destino, senza più ripresentarsi. Tenuta da una parte dall’ansia e dall’altra da una pseudo paura, la gola della piccola si chiuse ermeticamente, rendendola talmente muta da dare quasi l’impressione che non stesse respirando.
 
“Insomma, Chopper, vuoi spiegarci che cos’è successo?” domandò nuovamente il cuoco.
“E’…….E’ colpa mia, scusate”, si fece avanti la suddetta nell’alzarsi in piedi per pulirsi la gonnellina azzurra “Volevo….volevo che venisse con me in un posto e non gli ho detto nulla. Il fatto è che mi serve un medico immediatamente: un mio amico sta male”, spiegò.
 
Di punto in bianco, il timore di essere punita da quei pirati e tutte le possibili conseguenze, svanirono sotto la sua preoccupazione, tornata a punzecchiarla con più foga. Quest’ultima aveva preso inspiegabilmente vita e, indignata per come lei la stava trascurando, si era fatta nuovamente sentire, ricordandole il perché stava girando tutta Hanbai. La sua forma e il dolore da essa provocato, ricordava perfettamente un punta spillo: piccolo, ma così acuminato da bucare la pelle e ogni altra cosa che si nascondesse sotto di essa. Era semplice immaginazione, quella dei puntaspilli, ma le sensazioni scatenate da questi era così vivida, che la piccola non potè far altro che accoglierla con le labbra strette fra i denti.

Senza aspettare che le venissero poste altre domande, la bambina illustrò molto velocemente l’accaduto, ritornatole in mente di punto in bianco: raccontò di come la nave su cui viaggiava fosse stata attaccata e di come in poche ore si fosse ritrovata insieme a Lars sulla spiaggia, dopo aver fatto esattamente come Azu-chan le aveva detto. Più parole fuoriuscivano dalle sue labbra, più l’ansia le martellava il cuore, alzandole il piccolo torace ritmicamente, come in preda a spasmi incontrollabili. Tornò indietro un paio di volte per aggiungere i dettagli dimenticati, gesticolando con le mani, incespicando su termini formulati male e tentando di ricostruire il quadro con una decenza quanto meno comprensibile, ma non si fermò: parlare si rivelò essere un metodo alquanto adeguato per scaricare la tensione e più suoni uscivano dalla sua bocca, più i  l’ossigeno tornava a riempirle i polmoni. Non sapeva di preciso perché stesse raccontando la sua vicenda a quei pirati, ma era così agitata e bisognosa d’aiuto, che oramai ogni porta offerta era buona. Aveva paura, ma non per se stessa: inspiegabilmente, quelle persone non le stavano trasmettendo violenza o arroganza. Parlare fu quasi istintivo e lei fu grata a quella spinta di coraggio trovata in se stessa: l’ammasso di pensieri e parole si stava districando, una novità che la rese più leggera nello spirito, seppur il grosso della matassa fosse ancora ben deciso a non andarsene.
 
Alla fine, dopo poco più di cinque minuti, espirò pesantemente sotto gli occhi dei quattro pirati, che, con sguardi differenti, l’avevano ascoltata.
 
“E’ da stamattina che cerco un medico, ma nessuno vuole venire nella parte bassa della città. Dicono che è troppo pericoloso e io non so più a chi chiedere. Per favore, è importante: Azu-chan non si è ancora fatta vedere e io non sono capace di curare le ferite di Lars”, disse nel guardare Rufy con aria visibilmente preoccupata.
 
Sperava veramente che l’aiutassero, non sapeva più dove sbattere la testa e mancava pochissimo perché le lacrime le pizzicassero gli occhi. I medici della zona alto locata erano troppo indaffarati per venirle incontro, ma forse era più corretto dire, che preferivano delegare i pazienti dei bassifondi ai colleghi che si erano stabiliti laggiù. La piccina non avrebbe esitato a rivolgersi a quest’ultimi se non fossero stati tanto infimi dal pretendere più soldi di quanti ne avesse per eseguire soltanto una visita. Di quelli poi, ne aveva pochissimi, quindi aveva puntato tutte le sue speranza su un fatidico incontro con qualche anima pia, pronta ad aiutarla. Anima che, a quanto pare, pareva aver trovato, seppur non del tutto corrispondente all’immagine mentale che lei si era fatta.
 
Monkey D. Rufy era una delle persona che mai si sarebbe sognata di incontrare da vivo, figurarsi  arrivare a chiedergli aiuto.
Però…….era quello che aveva appena fatto.
 
Il suddetto era rimasto per tutto il tempo inginocchiato di fronte a lei, ascoltandola e inclinando ogni tanto da una parte all’altra. Cogliere i suoi pensieri non era nelle priorità della piccola, ma come questi le sorrise ampiamente, appoggiando una mano sulla sua spalla, non sussultò o provò a divincolarsi: l’insolita scarica che le attraversò il corpo, rilassò ogni suo muscolo, impedendole di muoversi, ma non fu una sensazione negativa, tutt’altro…
 
Non possedeva nulla di elettrico o shoccante: era più simile a un’onda che si abbatteva dolcemente sulla spiaggia, rassicurante sotto ogni aspetto.
 
“Ok, ti aiuteremo”, sentenziò.
“Eh? Dite sul serio?” domandò meravigliata, riacquistando così il sorriso.
 
Nuovamente, credette di stare sognando, ma il sorriso slargato di Rufy non celava menzogne o false promesse: il che di rassicurante percepito pochi istanti prima, arrivò a toccarla un punto imprecisato del proprio animo, permettendole così di accogliere quell’aiuto che stava cercando con tanta ostinazione.
 
“Certo”, annuì Robin, per poi aggiungere “Però, sarà meglio avvertire Nami e gli altri: non vorrei che interpretasse male il nostro ritardo.”
“Ci penso io, mia adorata Robin-chwan!!”
 
Senza attendere ulteriormente, il cuoco si lanciò in una corsa vorticosa verso l’uscita della zona del mercato, spargendo cuoricini a destra e a sinistra sotto gli occhi attoniti dei presenti. La reazione del ragazzo lasciò interdetta pure la sconosciuta, che lo guardò sino a quando non fu sparito del tutto.
 
Che tipo strano… ha perfino un sopraciglio attorcigliato e all’incontrario. 
“Bene, andiamo!” esclamò Rufy alzandosi in piedi “Facci vedere dove sta il tuo amico,…ehm….ma com’è che ti chiami?” le domandò poi, inclinando la testa a destra, con le braccia incrociate.
“Già! Ancora non ci hai detto il tuo nome”, si aggiunse Chopper.
“E’ vero! Me ne sono dimenticata!” sobbalzò la piccola.
 
Dandosi una rapida sistemata alla maglietta bianca a maniche corte e ai capelli biondi, rimasti leggermente arruffati, la bambina tornò a guardare i nuovi amici, scattando sull’attenti, con la testa ben alzata e le mani congiunte dietro la schiena.
 
“Io mi chiamo Shion, tanto piacere!”  

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Capitolo 3
*** Preoccupazione materna. ***


Buon lunedì a tutti quanti! Chiedo scusa per il ritardo, mi spiace, ma mercoledì non ce l’ho proprio fatta ad aggiornare. Il fatto dei possibili ritardi l’avevo già fatto notare, ma volevo dire che sto pensando di cambiare giorno di pubblicazione, perché il mercoledì è troppo pieno. Non so ancora bene quando, perché ora come ora ho da fare, ma se mi riuscirà aggiornerò i lunedì, altrimenti, non appena avrò tempo. Quindi, se volete sapere come procede la vicenda, rimanete incollati a Efpfanfic! (scherzo, mica siete obbligati). Questo sarà un capitolo soft, una specie di parentesi, quindi non succederà nulla di particolare. Avviso, per chi ha letto “Giglio di Picche”, che qui comparirà un personaggio già citato nella storia precedente, ma mai nominato perché non gli avevo mai dato il nome. Per chi invece è nuovo, sarò felicissima di rispondere alle domande che mi verranno poste! ^^.

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“….….”
“Ancora niente, signora?”
“No, Madlene. Non ha ancora chiamato.”

Il tramonto si estendeva su tutta l’isola di Shirama, coprendola col suo inafferrabile  manto dorato. La luce soffusa colpiva ogni angolo dell’isola, colorandola con sfumature calde e cancellando i segni della mattinata e del pomeriggio: i bagliori che il sole emetteva, erano tanto forti da dare l’impressione che l’intera isola fosse avvolta in un grosso incendio apparentemente inestinguibile, con fiamme aventi tonalità quasi accecanti. Era complicato spiegare il perché un semplice passaggio naturale suscitasse così tanta attrazione: un tramonto era un tramonto, ma in esso vi era una magia che lo rendeva unico, diverso dal giorno e dalla notte. Una magia inspiegabile e immortale, capace di svegliare le emozioni di ogni persona esistente al mondo. Era uno spettacolo rilassante, un piccolo intervallo fra il giorno e la notte, che veniva interpretato dai residenti del posto come la campanella che annunciava la fine del lavoro giornaliero; se si faceva ben attenzione, si poteva udire il coro armonioso dei soldati che rompevano le righe, i cardini delle pesanti porte d’acciaio cigolare, le vele delle navi che venivano ammainate, il tutto trasportato dal fruscio del vento che smuoveva le fronde dei alberi.

Shirama, con le sue stradine che diventavano rosse quando il sole andava a riposare, con le sue giornate che oscillavano fra la tranquillità e il dovere, ospitava la base numero diciassette della Marina. Nel Nuovo Mondo, come nel vecchio del resto, il braccio della giustizia si era premurato di costruire dei piccoli fari che, uniti fra loro, formassero una rete funzionante e perfettamente organizzata. A dispetto di molte, la base numero diciassette era un autentico gioiellino, un perfetto esempio di come la collaborazione poteva essere il miglior collante per ogni cosa. Il lavoro si divideva in missioni, spedizioni, addestramenti e lavoro d’ufficio, tutto scandito e ordinato come se fosse stato scritto in precedenza su una tabella. La fatica non mancava, così come la responsabilità: la sveglia era prima dell’alba e come il sole baciava il terreno dell’ampio campo d’addestramento, il sudore compariva sui muscoli delle smilze reclute, venute lì per imparare il mestiere. Il profumo dei cibi delle cucine arrivava a stuzzicare gli stomaci di coloro che stavano immersi fra tomi voluminosi e pratiche cartacee da controllare e firmare, mettendo momentaneamente da parte l’aria salmastra proveniente dall’oceano. Le mura circostanti erano alte e spesse, controllate quanto l’edificio stesso e il porto, il quale disponeva di cinque navi equipaggiate al meglio delle loro possibilità.

Il vessillo della Marina - un enorme gabbiano blu - spiccava sulla facciata principale più della bandiera stessa, sventolante in cima al pennone come ulteriore incentivo per tutti coloro che erano allergici alla galera. Nessun pirata sano di mente avrebbe mai provato a rubare qualcosa dalla cassaforte della base: bisognava essere molto stupidi per cimentarsi in una simile impresa, oppure molto desiderosi di vedere una forca da vicino. Seppur piena di documenti, mappe e prove preziose, il prezzo che queste cose richiedeva era troppo elevato perché una persona si buttasse nel cimento, così, a occhi chiusi. Le finestre stavano troppo in alto per essere raggiunte, le pareti dell’edificio erano lisce e prive di appigli, per non parlare poi delle porte: sufficientemente solide da impedire che il nemico ci facesse un buco.

Per farla breve, una base della Marina era l’ultimo posto dove tentare un furto o un qualsiasi atto deplorevole e semmai qualche idiota ci avesse voluto provare, sicuramente la base numero diciassette non sarebbe stata una buona scelta. Ragione per la quale, gli unici civili del posto si sentivano perfettamente al sicuro.
Non c’era pericolo di venire attaccati da dei pirati, quindi, le preoccupazioni per quell’eventualità, stavano cautamente sotto la soglia dello zero. Ma questo non escludeva l’esistenza di altre preoccupazioni, nate da ragioni più personali….

“Forse avrà avuto una giornata pesante. Da quello che so, la signorina Shion sta visitando dei siti storici molto interessanti”, suppose la donna di nome Madlene, nel mentre teneva le mani appoggiate sulla stoffa del suo grembiule bianco.

Per lei, domestica da più di dieci anni, criptare le espressioni dei padroni di casa era diventata quasi una seconda mansione. Per quanto il suo viso mostrasse un’ancora piena giovinezza, l’esperienza acquisita era sufficientemente grande da renderla una veterana, ai occhi dei apprendisti.
Con il suo caschetto nero e la divisa da cameriera coordinata e sempre ben stirata, Madlene sapeva leggere con quei suoi occhi neri la preoccupazione della signora Milena, seduta sul balcone circolare di casa, con la schiena comodamente appoggiata al cuscino di una delle due grandi sedie bianche. Era il suo posto preferito, il suo angolino privato, dove la brezza marina soleva sbuffare con più dolcezza, accarezzandole la pelle e i lunghissimi capelli biondi, acconciati solamente durante balli o celebrazioni. Costruita nei pressi della più alta scogliera di Shirama, la villa dei signori Yokozomi spiccava come un faro nelle notti di tempesta: in qualità di unica abitazione civile presente sull’isola, poiché le restanti persone alloggiavano alla base della Marina, individuarla era facilissimo. Seppur maestosa esteriormente, l’interno non era avvolto in quel lusso sfarzoso dentro cui molti nobili solevano sguazzare: nelle stanze si respirava il buon gusto dell’estetica, della modestia, unito al tocco femminile della signora Milena, la cui inclinazione all’ordine era assai percepibile. I mobili, in legno scuro, si accompagnavano coi tappeti dai motivi intricati che erano stati disposti su alcuni pavimenti in marmo bianco, esattamente come il balcone. La superficie liscia e fredda si slargava ulteriormente anche alle pareti, dove quadri rappresentanti motivi floreali rendevano l’ambiente meno monotono, insieme a vasi e ad altri oggetti che, nel complesso, si intonavano con lo stile della stanza. Stando ben attenta a equilibrare bellezza e semplicità, la padrona di casa aveva fatto di quella villa il suo fortino, una casa a cui affezionarsi, un luogo caldo e sicuro dove far crescere la propria figlioletta. Il respirare la sicurezza e la tranquillità di quella parte dell’isola di Shirama, unite poi al loro stile di vita, le aveva sempre permesso di affrontare le giornate senza cruci o pensieri difficoltosi, ma quel giorno…….quel giorno era diverso.

Sospirando a occhi chiusi, l’elegante donna posò con grazia la tazzina di tè bollente sul piattino, per poi portare le mani sulla lunga gonna rosa del vestito, lisciandone le pieghe con silenziosa minuziosità. La voce calma e gentile di Madlene era rassicurante, ma i dubbi attanagliavano la sua mente a tal punto da impedirle di gustarsi l’aroma della sua bevanda preferita. Perfino il profumo dei pasticcini affiancanti la tazza non riuscivano a distrarla: i suoi occhi non facevano che guardare il piccolo lumacofono, l’orizzonte, e poi, nuovamente, l’apparecchio telefonico. Ogni altro evento non pareva essere grande abbastanza da farle voltarle la testa, quel piccolo oggetto stava esercitando su di lei un magnetismo assolutamente impossibile da distruggere. Il legame che li univa era troppo personale perché una qualunque e superficiale distrazione lo rompesse.

Tutto, in quell’istante, era privo d’interesse, per lei.
Il cuore della signora Milena era impigliato in domande e quesiti privi di risposte e più si chiedeva se la figlia stesse bene, più quel silenzio le pesava.
Portandosi una mano all’altezza del petto, sospirò nuovamente, con le palpebre calate sulle iridi azzurre, lasciando che l’altra si chiudesse in un pugno nel suo grembo; come il vento le solleticò le spalle, rabbrividì leggermente, lasciando che le sopraciglia si corrugassero in un’espressione infreddolita.

“E’ meglio rientrare, signora”, l’avvisò Madlene, posando uno scialle giallo chiaro sulle spalle della donna “Comincia a fare freddo.”
“Vai pure, io rimango ancora un po’ qui.”
“E’ sicura, signora?”
“Certo. Voglio rimanere a guardare per un altro po’ il panorama”, ripetè lei  “Vai, ti raggiungo fra qualche minuto.”

Venendo congedata con un sorriso, la cameriera abbassò il capo, per poi passare dalla porta finestra e dirigersi verso le cucine.
La signora Milena la osservò nel mentre si dileguava, ben conscia dell’incertezza presente sul suo volto. Per un solo istante, desiderò poter possedere una discreta parte della sua calma: forse, così, avrebbe evitato di riempirsi la testa di ipotetiche visioni dalla natura quasi insensata. Magari, avrebbe deciso di camminare lungo uno dei sentieri del parco, perdendosi nel verde e nel colore dei fiori che, con fare lento, si stavano avviando alla chiusura. L’enorme radura divideva la base della Marina dalla sua casa, creando una sorta di barriera che respingeva ogni tipo di rumore, riducendolo a un semplice e accettabile sibilo. Gli alberi costeggiavano i passaggi, creando immensi archi con le loro chiome e chiazze d’ombra sotto cui riposarsi. Ogni tanto, se si aveva fortuna, si potevano vedere dei piccoli e pelosi animaletti sbucare dal terreno: questi arruffavano la testa e prendevano ad annusare l’aria come a voler trovarci qualcosa di sfizioso. I biscotti che Shion prendeva dalla credenza erano un esempio perfetto, poiché la bambina soleva lasciarne qualcuno vicino alle buche che gli animaletti, ogni tanto, scavavano. Per la loro gioia e per il pieno rispetto che si aveva della natura presente, neppure un singolo cespuglio era stato sradicato: quel piccolo polmone verde era rimasto perfettamente integro, salvo lo stretto necessario per rendere i passaggi accessibili.

Il girare senza una meta precisa, come una sorta di viandante errante, l’avrebbe spinta a finire con i piedi immersi nella sabbia, dove, sicuramente, sarebbero stati privati del loro calore dalle onde dell’oceano. Il sollievo che provava ogni qualvolta lo faceva, le alleggeriva sia il corpo e la mente, inebriandola di un piccolo piacere personale che, in seguito, rigenerava le forze da lei consumate. L’essere una donna piuttosto in vista, implicava non poche presenze nell’ambito pubblico: l’amare la beneficenza rendeva la sua vita impegnativa, ma non piena abbastanza da farle trascurare il suo dovere di madre. In qualunque circostanza, la signora Milena sapeva sempre come ritagliarsi un piccolissimo spazio per sé, giusto per godere di quella pace costruitasi con tanta fatica. Senza, avrebbe finito per essere consumata da quelle stesse attività che lei svolgeva senza alcun obbligo.

“Guarda che se rimani fuori troppo a lungo, rischi di prenderti un bel raffreddore”, la rimbeccò una voce alle sue spalle.

Sorpresa da quella voce, la donna strabuzzò gli occhi, raddrizzando ancor di più la schiena. L’impiantare gli occhi sul cielo rossastro, sfumato qua e là da irregolari pennellate di giallo e arancione, le aveva impedito di udire gli irregolari passi della figura che, silenziosamente, le era arrivata alle spalle. A forza di guardare l’orizzonte aveva finito per distanziare la mente dalla realtà, rimanendo a contemplare il vuoto senza un motivo preciso. Voltandosi velocemente, dischiuse la sua bocca in un sorriso amorevole a quello che era suo marito, appena tornato dal lavoro.

Adelwine Yokozomi era a pochi passi da lei, in piedi, con un lungo mantello bianco e decorato che gli avvolgeva le spalle. Era un uomo vicino al raggiungimento dei cinquant’anni, con capelli corti e neri come le penne dei corvi, attraversati da riflessi bluastri. I baffetti – del medesimo colore della chioma-, erano fini e rivolti all’insù, accompagnati da una barbetta scura che, insieme ad essi, gli conferivano un’espressione ancor più seria quando la situazione diveniva pesante.

“Non ti ho sentito arrivare”, gli disse lei con voce addolcita.

L’ uomo sorrise, stendendo i lineamenti del viso e facendo sparire momentaneamente le piccole rughe che gli solcavano la fronte e gli angoli della bocca. Nonostante avesse trascorso – come sempre - la giornata in ufficio, i segni della stanchezza lavorativa parevano essere stati occultati da una magia, perché la moglie, seppur si sforzò di scorgerli, fallì miseramente. Con sguardo muto, la donna osservò il marito sporgersi in avanti, appoggiando il peso di tutto il corpo sul bastone da passeggio che teneva ben stretto nella mano destra, zoppicando quanto bastava, per arrivare a sedersi dall’altra parte del tavolo. Ogni qualvolta vedeva quell’aggeggio di legno, non poteva fare a meno di socchiudere gli occhi per la tristezza: quella visione, oramai, era entrata a far parte della loro vita, ma ogni tanto pareva rafforzarsi, lasciando che le loro menti, in special modo quella di lei, ricordassero il perché questa fosse lì.
Come l’uomo poggiò la schiena contro il soffice cuscino della sedia, sospirò con fare sollevato, distendendo i muscoli e lasciando ben intendere che quel accenno di dolore fisico, provocato dalla gamba, era finalmente svanito. Il bastone rimase poggiato all’arto compromesso, inerme, sotto lo sguardo della moglie, nella cui memoria era appena emerso il ricordo collegato a quell’oggetto: la stoffa dei pantaloni blu scuro poteva anche nascondere quella grossa cicatrice che ricopriva quasi tutta a gamba sinistra, ma nessuna barriera fisica o psicologica poteva modificare  o cancellare i fatti accaduti.

Adelwine un tempo era stato un soldato, un bravo soldato che era stato giustamente premiato e riconosciuto per le missioni svolte. Una persona corretta, un semplice marine con un futuro radioso davanti a sé….almeno così si pensava. Il suo incidente, era la prova che tutto al mondo era possibile, che fortuna e sfortuna erano forze instabili, indomabili, maligne e benigne allo stesso tempo. Lei stessa aveva compreso fin da subito quali sentimenti potesse aver provato il marito e sebbene fossero passati molti anni da allora, quel giorno si era scavato una buca così profonda nella sua mente, da risultare incancellabile. Era successo in un giorno qualunque, uno dei tanti: la routine lavorativa era stata spezzata da un’improvvisa esplosione che aveva allertato i presenti. Uno dei magazzini del Quartier Generale della Marina aveva preso fuoco. I barili contenenti la polvere da sparo si erano rovesciati, spargendo il contenuto ovunque. In un attimo, il fumo aveva inghiottito il magazzino, riducendolo in un ammasso deformato l’edificio, soffocando e bruciando alcuni dei presenti venuti a contatto con la polvere. Adelwine non era uno di quelli, ma come aveva udito il botto, si era precipitato dentro il magazzino cercando di fare il possibile, ignaro della trave che gli sarebbe caduta addosso. Il seguito non voleva neppure ricordarlo, poiché lo stava già guardando: vista l’impossibilità di utilizzare la gamba come prima, suo marito aveva deciso di servire la giustizia da dietro una scrivania, occupandosi di affari burocratici e azioni diplomatiche.

Non c’era stato modo di fargli recuperare completamente la mobilità persa e l’amarezza provata per il non poter più seguire i suoi compagni in battaglia, aveva influenzato non poco l’umore dell’ uomo. Si era visto costretto a rinunciare a quasi tutte le ragioni per cui aveva deciso di entrare nella Marine, ma il prendere atto che era ancora vivo e, soprattutto, che poteva ancora fare qualcosa, lo avevano riscattato. La sua vita ora ruotava attorno a viaggi, conferenze, assemblee, a lei e a sua figlia, il tutto scandito da un tempo ne troppo lento ne troppo veloce, ma comunque pretenzioso. Era cosciente di quanto fermento ci fosse attualmente, e quanta responsabilità chiedessero le Alte Sfere, ma, da brava moglie quale era, voleva far si che, almeno a casa, suo marito fosse tranquillo e sereno, senza preoccupazioni. Anche se, al momento, una preoccupazione c’era…….

“Non ha ancora chiamato, vero?” la domanda di lui fu sufficiente per dimostrare che già sapeva dove l’imminente discorso sarebbe andato a finire.

Inciampando nelle sue stesse reazioni, la donna annuì.

“Si”, disse poi “E’ da ieri pomeriggio che non ho più sue notizie.”
“Se ne sarà dimenticata. Può capitare”, suppose lui, allungando la mano verso il piattino dei pasticcini.
“Impossibile: ho detto ad Azu e a Lars di ricordarglielo tutte le sere”, replicò lei, per poi rivolgergli un’occhiata diversa “Adel, sono preoccupata.”
“Lo sei sempre, da quel che so”, ridacchiò lui.
“Non è divertente”, si indispettì la moglie “Nostra figlia è lontana da casa, è perfettamente naturale che io mi preoccupi: ancora mi chiedo come abbia fatto a convincerci.”
“Forse, inconsapevolmente, volevi darle fiducia”, azzardò l’uomo, nell’addentare un pasticcino.

Nonostante avesse pronunciato quelle parole come se rappresentassero una semplice supposizione, la franchezza che esse esprimevano era troppo solida per venir presa con superficiale leggerezza. Pensare che Aldelwine non fosse minimamente preoccupato per sua figlia era impossibile: chiunque lavorasse nella base numero diciassette, inservienti compresi, sapeva bene quanto quell’uomo – che poi era il capo- adorasse la piccina. Shion era tenera e curiosa, un cucciolino dalla testa dorata e arruffata che amava le esplorazioni e tutto ciò che nascondeva un lato enigmatico, addirittura leggendario. Il suo grande sorriso rifletteva la felicità e l’ingenuità tipica dei bambini di quella particolare età, addolcendo il cuore di chi lo guardava. Era difficile resisterle, specie quando mostrava quel suo faccino implorante, coi grandi occhioni azzurri spalancati e le guanciotte paffute: una sfida persa in partenza. La somiglianza con la madre, poi, era uno dei argomenti che subito venivano tirati in ballo. Per l’aspetto fisico, Shion aveva preso dalla madre: gli occhi azzurri quanto l’acquamarina, i capelli dorati e la carnagione rosea, appena sfumata quando veniva colpita dal sole, tutto. Messa insieme alla donna, pareva una piccola e graziosa bambola di porcellana, anche se con un taglio di capelli diverso. Eppure, tanta uguaglianza, finiva per cadere rovinosamente a terra quando entrava in gioco il carattere: la bambina, a differenza della madre, amava esprimere i propri sentimenti con molto ardore, faticando a controllarsi. Era un comportamento normale, considerata la sua tenerissima età, ragione per la quale, la più grande non la rimproverava con tanta veemenza.

La signora Milena, nonostante non fosse più nel fiore dei anni, emanava ancora una bellezza angelica, la cui sfioritura pareva essere molto lenta: le sottili linee incavate che attraversavano le sue guance e le appena visibili pieghe ai lati della bocca, rappresentavano gli unici segni visibili di quell’invecchiamento pigro e svogliato. Non c’era magnanimità da parte del tempo: semplicemente, la moglie del signor Yokozomi possedeva una bellezza tale, che non poteva consumarsi in un solo colpo. Era bella, molto bella, con una voce mielata ma non troppo, leggera come un soffio e calda quanto un piumone durante i rigidi giorni d’inverno. Coi suoi modi delicati sapeva gestire differenti situazioni, mantenendole su un piano perfettamente equilibrato. La sua era quasi un’abilità innata, ma che, in quel momento, non stava funzionando a dovere su sé stessa; Adelwine la vedeva preoccupata, con le mani chiuse a coppa intorno alla tazzina da tè, ora completamente fredda. Lo scialle bianco le copriva le spalle, proteggendola dai leggeri sbuffi ventosi che si divertivano a smuoverle il lungo vestito rosa e la chioma dorata. A giudicare da come aveva abbassato gli occhi e corrucciato le sopraciglia, doveva star riflettendo sulle parole dette da lui poco prima: indubbiamente, c’era qualcosa che lui voleva farle capire, qualcosa di cui lei già era a conoscenza, ma che, forse, inavvertitamente, aveva finito col seppellire con le sue ansie.

Infine, quando realizzò dove il consorte volesse andare a parare, sospirò impercettibilmente, tornando ad appoggiarsi, con espressione arrendevole, allo schienale della sedia.

“Pensi forse che io esageri con la mia preoccupazione?” gli domandò lei con un mezzo sorriso.
“Non più di tanto, ma è una cosa perfettamente normale”, le rispose il marito.
“Lo so, ma non posso fare a meno di chiedermi se stia bene”, replicò Milena, con sguardo affranto “Questo viaggio…l’essere così lontana da casa….so che dovrei essere serena, con lei ci sono Azu e Lars, ma non mi sento ugualmente sicura, sapendola così distante. Non ci riesco.”

Circa tre settimane. Questo era il tempo stabilito.
Per visitare i siti archeologici delle isole menzionate da Shion, sarebbero occorsi molti giorni giorni e questo le era stato ben spiegato. L’idea che sua figlia partisse senza lei o il padre non l’aveva entusiasmata: l’oceano era colmo di pericoli, forse addirittura troppi anche per Azu e Lars, le cui abilità combattive erano straordinarie. Un viaggio di quella portata era decisamente troppo per una bambina così piccola e, fin dalla prime parole, era stata ben intenzionata a farle capire le molteplici ragioni per la quale avrebbe dovuto desistere. Invece, contro ogni sua aspettativa, la sua figlioletta aveva mostrato loro un itinerario dettagliato su quello che avrebbe fatto, coi tempi di andata e ritorno, le località, e tutto quello che si poteva inserire in un viaggio come quello. Si era preparata al meglio, con una risposta a tutte le loro domande, impegnandosi a non far saltare fuori possibili falle che, poco ma sicuro, avrebbero permesso a lei e al marito di porre resistenza. Il fatto che fosse stata aiutata dai due ragazzi, nel preparare tutti quei fogli pieni di numeri e parole, era lampante, ma il vederla così decisa e motivata, aveva spinto il padre a darle il consento tanto sperato e lei, non potendosi tirare indietro, si era unita alla decisione del marito, seppur non del tutto convinta. Davanti a quel visino pieno di felicità, non aveva avuto il cuore di dire di no: non ricordava bene cosa fosse stato, ma nei occhi di Shion era come apparsa una lucina carica di determinazione, una piccola saetta desiderosa di mostrare tutto il suo valore.

La stessa che aveva convinto Adelwine a sorridere e ad annuire la sera in cui la figlia aveva chiesto il permesso per quel viaggio.

Non si trattava di un capriccio o di un’improvvisa voglia di uscire dall’isola, ma di una decisione presa con attenzione e anche riflessione. Shion, per quanto piccola che fosse, era molto precoce per la sua età, una qualità che metteva in risalto la sua testardaggine quando si parlava di leggende o storie mitiche: la sua convinzione che in esse ci fosse un fondo di verità, la spingeva a rispondere alle affermazioni del suo professore, il quale, non mancava mai di ripetergli quanto sua figlia avesse la testa dura. In quelle occasioni, le lezioni divenivano dibattiti quasi comici, perché l’insegnante veniva portato ad un livello di esasperazione tale, che il collo gli diventava tutto rosso, con numerose vene pulsanti a ingrossarlo.

“Glielo ripeto ancora, signorina Shion: fra leggenda e storia reale c’è una grande differenza. Perché un fatto possa essere dichiarato vero, occorre dimostrarne l’esistenza, servono delle prove, qualcosa che dimostri il suo passaggio. Le leggende non possiedono niente di tutto ciò, sono solo dicerie inventate”, aveva detto una volta il professore, un uomo con grandi occhiali a fondo di bottiglia e una barba tanto lunga da toccare il pavimento.
“Ma diventano fatti reali se si trovano le prove! Ed è cercando che si scopre se sono vere o no!” aveva replicato lei, dando prova di quanto il suo cervellino fosse ben sveglio.
“Giusta osservazione, ma le prove di cui lei parla sono per la maggior parte frutto dell’inventiva di persone ricercanti un po’ d’attenzione. Le prove a cui gli studiosi fanno riferimento e il metodo che io stesso addotto..” lì si era concesso un attimo per vantarsi “Si basano esclusivamente su oggetti come iscrizioni, testi, edifici, addirittura la stessa morfologia di un isola può contribuire alla ricerca. Non certo delle versioni trite e ritrite.”
“E i frutti del diavolo?”
“Cosa centrerebbero col nostro discorso?” aveva chiesto lui, nell’alzare un sopraciglio.
“Centrano tantissimo. Sono frutti magici, alcuni li considerano perfino dei miti, ma nessuno sa da dove provengano. C’è chi pensa che vengano addirittura da un altro mondo e lei non può dire di no, perché questa cosa è stata detta da questo studioso!” e fece vedere la foto dell’uomo raffigurata dietro la copertina del libro “Se questo signore ha detto che i frutti del diavolo possono provenire da un altro posto, non vedo perché non possano provenire da Endora!”
“Ancora con questa storia?!” aveva sbottato il professore, irritandosi “Signorina Shion, ammiro la sua fantasia, ma le ripeto che quell’isola non esiste. Lei non può basarsi unicamente su quel libro!” e additò il tomo che la piccola teneva avidamente fra le mani.
“Si che posso! E’ una prova!”

Sebbene il collo del vecchio fosse nascosto da quella lunga e folta barba grigia, Adelwine era riuscito comunque a scorgere le vistose venature gonfiargli la pelle, rendendola pericolosamente rossiccia. Le continue repliche di Shion non avevano fatto altro che contribuire alla loro crescita, portando il cervello di quest’ultimo a faticare immensamente per non esplodere. Si era puramente limitata a rinfacciargli quello che le aveva detto, utilizzando il tutto come uno strumento a doppio taglio. Un’altra cosina presa da lui. Nascosto nell’angolo con le braccia conserte, il signor Yokozomi aveva dovuto sigillarsi le labbra per non farsi scappare un qualche sbuffo divertito, ma il sentire sua figlia battibeccare con il professore, difendendo strenuamente le sue convinzioni, era un piccolo spettacolo che non si sarebbe perso per nulla al mondo.

“Non esiste! Non esiste!” aveva sbraitato quello.
“Invece si!”
“Invece no!!”
“Invece si!!!”

Aveva assistito a quelle lezioni una sola volta, così, per verificare in prima persona come l’andatura di esse si svolgesse e il vedere come sua figlia gonfiava le guance e faceva valere le proprie opinioni, lo aveva reso orgoglioso, anche se poi, le aveva detto di limitare le contestazioni, giusto per non portare all’esaurimento quel povero uomo. Non che fosse maleducata, ma era saggio, ogni tanto, rimanere dentro le linee dei confini prestabiliti, giusto per non sfociare in una vergognosa stupidità.
Alzandosi dalla sedia, l’uomo raggiunse la moglie, appoggiandole una mano sulla spalla, di modo tale che lei alzasse il viso e lo guardasse.

“Adel..”
“Devi avere fiducia in lei. Sai bene quanto me che Shion è una bambina molto curiosa e intelligente: impedirle di vedere il mondo sarebbe un grosso impedimento, da parte nostra.”
“Questo è vero, ma..e se le fosse veramente successo qualcosa? Non chiama e..”
“Milena, stai tirando su un polverone per una chiamata mancata. Se davvero ci fosse un problema, non pensi che Azu o Lars troverebbero un modo per avvertirci? Te lo ripeto: abbi fiducia in tua figlia e vedrai che domani mattina sarà lei stessa a chiamarti.”

La disinvolura scaturita dalla parole di Adelwine raggiunse l’animo tremolante della moglie in un batter d’occhio: l’influenza che queste ebbero su di lei, la calmarono poco a poco, inducendola a pensare con mente più lucida e razionale. Portandosi l’indice sulle labbra, la signora Milena riflettè sulla faccenda e quasi si stupì per come le cose le apparvero totalmente diverse: sua figlia era partita per un viaggio istruttivo, avente come mete diversi siti archeologici che rientravano nel suo programma di studi e accompagnata da Azu e Lars, le sue guardie del corpo. Da quando la nave su cui viaggiava era salpata, la piccola non aveva mai infranto la promessa fattale – quella di telefonarle una volta al giorno -, il che, l’aveva sempre rasserenata…..fino a quel momento.
Improvvisamente, le parve che la sua preoccupazione al riguardo fosse un po’ troppo eccessiva; non ci aveva fatto caso prima, ma ora che suo marito le aveva mostrato la via, la signora Milena si rese conto che se avesse continuato a manifestare una così espansiva ansia nei confronti della piccola, sarebbe potuta arrivare anche a tapparle le ali per sempre. La paura che si ripetesse quanto accaduto quando lei era ancora in fasce la terrorizzava e quella stessa emozione condizionava ogni sua scelta, oscurando tutto ciò che implicava un rischio superante i suoi standard. Adelwine comprendeva appieno il suo status emotivo, e di questo, non gliene faceva una colpa, ma desiderava far capire alla moglie che, a lungo andare, quel suo stesso atteggiamento le si sarebbe ritorto contro. Farsi condizionare così liberamente equivaleva perdere la propria libertà e l’uomo non voleva che sua figlia smettesse di inseguire i propri sogni per via dell’incertezza instauratasi dentro di lei.

Sarebbe stato un rimpianto incancellabile, così come l’amara e vasta voragine che avrebbe bucato il cuore della moglie, se avesse deciso di non parlare del suo segreto alla figlia….

Purtroppo, quello era un argomento che nemmeno lui, per quanto amasse la donna, poteva comprendere nella sua interezza. La signora Milena lo sapeva bene, così come lo sapevano Azu e Lars, le cui opinioni al riguardo erano in perenne conflitto. Se la padrona di casa poteva contare sul sostegno del marito e il silenzio del ragazzo, con l’albina doveva fare il possibile perché la conversazione non cadesse su quel argomento. Ogni qualvolta i loro occhi si incrociavano, temeva di vedere in quelli perlacei della ragazza una scintilla scontrosa e rimproverante, pungente quanto la lama di una spada ben affilata, e seppur non le mancasse il coraggio di affermare che una simile faccenda non la riguardava, ella aveva comunque paura che la sua bambina scoprisse quella parte del suo passato che, talvolta, si divertiva a occupare i suoi sogni. Non era piacevole sentirsi rinchiusa in uno spazio stretto, col fiato corto e il cuore pronto a uscire prepotentemente dal petto, ma era così che si sentiva la signora Milena, erano quelle le sensazioni che provava non appena quel fatto le tornava in mente o le veniva sbattuto in faccia: parlare e dar voce alla verità aveva contribuito a farla stare un po’ meglio, ma il suo primo e unico interlocutore era stato Adelwine, l’uomo che le aveva donato una seconda vita, un futuro felice e sereno dentro cui vivere, non certo una bambina di appena undici anni.

Come avrebbe potuto prendere Shion e dirle che lei, sua madre, molti anni addietro, addirittura prima di conoscere suo padre, aveva avuto un’altra figlia e che l’aveva abbandonata? Come avrebbe potuto dirle che cosa fosse quella…persona? Come avrebbe potuto dirle una cosa del genere?

Le sue giustificazioni non sarebbero servite a nulla, perché trattavano di argomenti complessi da spiegare, una ragione più che valida, secondo la signora Milena, per rimandare il tutto a quando la piccola sarebbe diventata abbastanza grande da comprendere che cosa realmente la circondasse. Come se avesse intercettato i pensieri del marito, la donna chiuse gli occhi e strinse i pugni: per quanta acqua fosse passata sotto i ponti, niente era stato capace di cancellare le emozioni provate in quel periodo della sua vita, scolpito dolosamente nella sua anima e pesante come il più orrendo dei peccati. Neppure la felicità trovata poteva sollecitarla a vedere quell’incidente con occhi più consapevoli e morbidi, era qualcosa che stava troppo al di fuori della sua portata. Era ancora tutto lì, sepolto ma vivo. Si, aveva commesso un’ignobile azione, ma il tornare a quei giorni, il ricordare quel viso tondo e quelli mani che le porgevano delle margherite, faceva nascere in lei quella freddezza che da tempo credeva scomparsa. La odiava ancora quella bambina, lo ammetteva, e l’avrebbe odiata per il resto della sua vita: rappresentava quell’accanimento e quel tormento che le era stato riversato contro senza che potesse ribellarsi. Un legame disgustoso, impossibile da recidere. Non si era mai sprecata di chiedersi se fosse viva o meno: avendola lasciata a cinque anni, in mezzo a della gente che la pensava come lei, dubitava fortemente che ce l’avesse fatta.

Azu, che pareva aver dedotto tutti i suoi pensieri, si era sentita nauseata e furente: non si era aspettata una simile rivelazione.
Si era sforzata di capire, di comprendere il rancore, la sofferenza patita dalla donna, ma era stata costretta a rinunciare e a tacere per amore di Shion. Vedeva nella preoccupazione eccessiva per la figlia una sorta di via riparante, un modo perfetto sia per costruirsi l’immagine di madre amorevole e affettuosa, che per nascondere quel lato freddo e indifferente. Sperava di soffocare quel periodo della sua vita con la luce di quella che aveva adesso, ma l’albina, a quel gioco, non ci sarebbe stata per sempre e come lo sapeva la signora Milena, lo sapeva Adelwine: si aspettava la verità, tutta la verità, ma era ancora troppo presto per parlarne.

Il signor Yokozomi era perfettamente conscio di che portata fosse quella rivelazione e Shion era troppo piccola per sopportarne il peso: Azu taceva soltanto perché provava per la bambina un affetto smisurato, ma prima o poi anche lei avrebbe raggiunto il suo limite. Non era una sua parente e quella faccenda non la riguardava direttamente, ma la serenità di quella piccina le stava a cuore più di qualunque altra cosa e neppure l’allontanamento l’avrebbero fatta desistere. Fare finta di nulla, lasciare che quella pecca venisse posta in fondo alle priorità era quasi un obbligo, un obbligo fastidioso, ma che veniva rispettato con estrema naturalezza, poiché l’argomento non emergeva quasi mai. Adelwine non escludeva che, nel momento critico, sarebbero emersi dissapori, incomprensioni e litigi, ma, come si era appena detto, era ancora troppo presto per parlarne, sia per Shion, che per loro due.

“Tu…..”, mormorò poi la moglie “Riesci sempre a rimanere calmo, qualunque cosa succeda.”
“Perché, a differenza tua, sono fiducioso del fatto che mia figlia tornerà a casa senza neppure un graffio. Magari con un tatuaggio….”, ipotizzò lui, alzando la testa.
“Non scherzare, Adel”, lo fermò lei, rabbrividendo all’idea.

L’ uomo scoppiò a ridere, finendo così per disfarsi dei pensieri che si erano venuti a creare con quella conversazione. Stuzzicare la moglie con quelle possibili supposizioni era un modo molto divertente per alleggerire la tensione, specie se la rigidità della donna stava già scomparendo. Non gli sarebbe dispiaciuto sentire la risata cristallina della sua bambina, ma confidava nel fatto che, entro il mezzodì successivo, l’avrebbe sentita.
D’altro canto, l’avere fiducia in una figlia era un scelta migliore che scoprire la verità, specie per la piccola Shion, la quale sarebbe stata condannata a passare il resto della sua vita nella propria stanza se i genitori avessero scoperto che la reale meta del suo viaggio non era quella che aveva esposto, che la nave su cui viaggiava era stata attaccata e che i suoi nuovi amici facevano parte di una delle ciurme più note al Governo Mondiale.

Si, per il bene di tutti, era preferibile brancolare nel buio. 

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Capitolo 4
*** A bordo della Thousand Sunny / La storia di Shion. ***


Buon lunedì a tutti! Oggi sono puntuale e ho deciso, ufficialmente, di postare il lunedì! Ovviamente, se ci saranno ritardi sapete il perché, ma adesso passiamo al capitolo: ora che anche la terribile Azu ha fatto la sua entrata in scena che succederà? Buona lettura a tutti quanti e grazie per il seguire la mia storia.

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Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy.

Non appena la Gatta Ladra e il resto della ciurma avevano visto i nuovi arrivati, menzionati da Sanji, un insolito silenzio era calato sul ponte di coperta, rotto soltanto dalla stupidità maniacale di Brook, desideroso di vedere le mutandine della ragazza coi capelli argentati. Il montante destro rifilatogli era stato lautamente sufficiente a far zittire ogni altra sua richiesta, compresa quella che, come minimo, avrebbe dovuto spiegare la loro presenza sulla nave, ma il curare uno degli sconosciuti e il dileguarsi prima che le acque si agitassero troppo, avevano posto su di un piano secondario le presentazioni e tutto il resto. Come l’ago del log pose aveva ricominciato a muoversi, le vele della Sunny erano state spiegate, portando la ciurma sulla nuova rotta da seguire, col vento a spingerla e gli ultimi raggi solari a scaldarla, prima di cedere il posto alla luna e alle stelle.
Nelle stanze interne, in speciale modo nella cucina, vi era un brusio continuo, composto da domande, supposizioni e deduzioni messe sul banco. Tutti quanti erano curiosi di sapere qualcosa in più sui nuovi passeggeri e non vedevano l’ora di conoscerli più approfonditamente. L’attesa stava durando più del previsto a causa del medico di bordo, impegnato a prestare soccorso al ragazzo, ora profondamente addormentato in infermeria, con al capezzale la bambina e la ragazza più grande. Quando si trattava di curare tagli ed ematomi, il carattere del piccolo Chopper mutava radicalmente, divenendo inflessibile e rigido: non ammetteva visite fino a quando non era lui stesso a fornire il consenso e non permetteva a nessuno dei suoi compagni di saltare la convalescenza per andare ad allenarsi prima della completa guarigione. Questo Zoro ancora non l’aveva capito e, probabilmente, non si sarebbe mai sforzato di farlo, data la zucca dura con cui era nato, ma quando voleva, Chopper sapeva essere ostinato più di qualsiasi altro avversario sconfitto dallo spadaccino. Una ragione più che valida per non doversi preoccupare troppo per le sorti di quel ragazzo.

“Secondo voi, chi potrebbero essere?” domandò Usopp.
“Sicuramente dei viaggiatori. Non mi hanno dato l’impressione di essere del posto”, rispose Nami, con le braccia incrociate.
“Può darsi, però, mentre facevamo il giro per cercare un punto d’attracco, non abbiamo visto nessuna nave al porto”, ricordò Franky, comodamente seduto sul lungo divano.
“Yohohoho! Magari si trovavano lì da giorni”, suppose Brook. Il bernoccolo rifilatogli dall’albina era ancora perfettamente visibile, così gonfio che il cappellino nero ci era appoggiato sopra, dato che non riusciva a coprirlo.
“Questo lo escludo. Quando siamo andati al mercato, ho sentito alcuni pescatori affermare che per tutta la settimana non sono arrivate navi”, intervenne Nico Robin “Inoltre…” e alzò gli occhi azzurri dal tomo che reggeva fra le mani “La bambina ci ha spiegato che lei e i suoi compagni sono stati attaccati poco lontano da Hanbai e che hanno raggiunto l’isola con una scialuppa di salvataggio.”

L’archeologa ricordava benissimo l’agitazione e la preoccupazione elargita dalla piccola nel mentre cercava di spiegare l’accaduto.
Se lei e i suoi amici fossero stati più tempo in mare, sicuramente sarebbero giunti ad Hanbai in condizioni pietose e malaticce, ma, escluso il grande spavento della giovane e la ferita riportata dal ragazzo più grande, tutto il resto sembrava apposto. Chiudendo silenziosamente il libro, la Bambina Diabolica si chiese cosa avesse spinto una banda di pirati ad attaccare una nave turistica e subito le vennero in mente non pochi motivi per cui questi avessero commesso una simile azione. D’altro canto, anche loro erano dei pirati e un arrembaggio era considerato una cosa quotidiana quanto il giornale del giovedì. Ma perché spingersi a dare la caccia a dei comuni passeggeri, se lo scopo dell’assalto stava nel trafugare il carico merci? Anche Nami si era posta quella domanda e stava già spremendo le proprie meningi per trovare una giusta spiegazione, ma era innegabile, che senza la presenza dei diretti interessati e senza i dovuti indizi, nessuno di loro sarebbe arrivato alla soluzione finale.

Potevano limitarsi a semplici deduzioni, tratte da quel che vedevano e coglievano grazie all’intuito, ma nulla di più. Come a voler ulteriormente vanificare i loro tentativi, il profumo della carne arrosto che Sanji stava preparando, si mischiava alle conversazioni senza troppa fatica, stuzzicando i palati e annebbiando le menti, distorcendole dall’argomento che tentavano di spulciare. Inutile dire che Rufy avesse la bava alla bocca per l’impazienza e che mancasse pochissimo perché allagasse la cucina. Il secondo che si stava astenendo dal discorso era il vice capitano, seduto in un angolo, con le braccia e le gambe incrociate, tutto preso a meditare coi occhi chiusi; il rumore presente pareva non essere sufficientemente fastidioso a distrarlo dal profondo stato di concentrazione dentro cui si era auto-immerso. Si era isolato dal spazio circostante per entrare in una sorta di dimensione privata e rimanerci col fine di affinare il suo controllo. Ovviamente, qualora la nave fosse stata attaccata, avrebbe aperto gli occhi e sfoderato le spade seduta stante, pronto ad affrontare gli imminenti avversari: tutti i suoi sensi erano perfettamente attivi, neppure il più minuscolo dei cambiamenti gli sarebbe sfuggito.
Difatti, come udì la maniglia della porta della cucina abbassarsi, lo spadaccino scoprì la sola pupilla smeraldina rimastagli, puntandola verso l’entrata della stanza: vide Chopper, la ragazza grande e la bambina, fare la loro comparsa con passo calmo. Lanciò uno sguardo fugace al compagno, giusto per verificare cosa avesse da dire, ma poi passò ad osservare le altre due con più attenzione: la bambina era piccola, di minuta altezza, con un viso delicato e stanco, appena chino, i cui tristi occhi erano occultati da alcune ciocche della frangetta. Dava la mano alla ragazza albina come per assicurarsi che non si allontanasse da lei, rimanendole vicina il più possibile. Su quest’ultima, Zoro notò subito la bocca storta, perfetta per quel semi-broncio che teneva ben in mostra: aveva l’aria scocciata, più che altro seccata, abbastanza da far muovere quei suoi occhi ambigui su ogni persona presente in sala, lui compreso.

“Allora, Chopper? Come sta il ragazzo?” gli domandò Nami, alzandosi in piedi.
“E’ fuori pericolo. Ora deve soltanto riposare”, le rispose prontamente lui.
“Sentito, Shion? Adesso sei più serena?” le domandò l’archeologa, inginocchiandosi di fianco a lei.

Alla domanda, la suddetta sobbalzò. Era talmente presa dai suoi pensieri che non si era neppure accorta che la donna le si fosse avvicinata così tanto. Finì per guardarla con fare intimorito, titubante sulla risposta da dare, e con la manina stretta attorno a quella di Azu. Fino a quel momento, i suoi occhi non avevano fatto altro che guardare Lars, steso sul letto dell’ambulatorio e con il torace accuratamente fasciato: con o senza la benedizione del micidiale destro della sorella minore, il ragazzo alla fine aveva perso i sensi, indebolito dalla copiosa perdita di sangue e dall’incalzante spossatezza. Ancora si chiedeva come avesse fatto a resistere tanto, ad alzarsi e a brandire quella sua pesante spada, ora riposta al fianco del letto, ma più se lo domandava, e più la risposta diveniva talmente ovvia, da risultare quasi scontata. Seppur fosse piccola, era cosciente della forza di Lars e delle sue incredibili abilità: non era certo uno che si faceva mettere i piedi in testa. Semmai, era lui a mettere i suoi sulla testa di qualcun altro e questo valeva anche per la sorella, impossibile da sedare con dei comuni metodi ortodossi.

Riuscendo finalmente a calmarsi, Shion sciolse il suo viso in un sorriso grato e molto più tranquillo dei precedenti, annuendo vigorosamente all’archeologa, che ricambiò l’atto affettuoso. Si era lasciata dominare per troppo tempo dall’inquietudine e, sentita la diagnosi riferita dal dottore, non aveva più ragioni per cui essere triste: Lars stava bene e presto si sarebbe svegliato.

“Grazie mille, signor procione! Sei davvero grande!” ringraziò poi, guardando il medico.
“Ah ah, che dici! Ho fatto solo il…ehi! Io sono una renna!” esclamò l’animale, nel riprendersi dall’adulazione.
“Beh, procione o renna che sia, sei assolutamente adorabile!”  squittì l’albina nel prenderlo in braccio “Così soffice e peloso…hai un musino carinissimo!”

Con quei elogi rivolti al suo aspetto di tenero peluche, uniti poi ai grattini, fu inevitabile per il Divoratore di zucchero filato sciogliersi come un cioccolatino sotto al sole. Niente e nessuno poteva smontarlo come i complimenti: questi, sul suo carattere ingenuo e puro, sortivano un effetto silenziosamente disarmante, che non concedeva tempo alla resistenza emotiva della renna di elevarsi ,e dunque, di rispondere all’assalto. Bastava poco perché il suo corpo cominciasse a ondeggiare a destra e a sinistra senza alcun controllo e, ancor di più, per vederlo gongolare nel mentre tentava – vanamente – di resistere alle adulazioni. Se poi a riempirlo d’attenzioni erano delle belle ragazze, non c’era storia…….

“N-No, dai, smettila! Tanto non ci casco, ah ah!” Chopper era indeciso se provare a liberarsi o mettersi a gongolare del tutto.
“Che cucciolino delizioso!" continuò lei, grattandogli il pancino "Meriti tanti bei baci!”

Raggomitolato nell’angolo della depressione, il povero Sanji stava versando lacrime amare per quello che era costretto a sopportare: la vista di una bellezza dai capelli argentati che non l’aveva neppure preso in considerazione. Avrebbe preferito strapparsi gli occhi e farli sciogliere nell’acido pur di non dover guardare la renna venire coccolata e spupazzata da quello splendore: anche lui era tenero, carino e adorabile! Perché nessuna donna lo desiderava come Chopper? Perché il medico si e lui no?! Perché, nonostante le sue premure e le sue attenzioni, non poteva dare un morso alla torta? Il solo porsi quelle domande di importanza universale, gli fece desiderare quel nugolo di splendide sirene con cui aveva fatto il bagno e a cui aveva dovuto, dolosamente, separarsi per cause di forza maggiore. Mugugnando parole sconnesse e incomprensibili all’orecchio umano, il cuoco cominciò a invocare i nomi di Dio, Buddha e Allah, affinché questi lo mettessero al posto di quella riserva di cibo dal naso blu, la cui testa ora si trovava a strettissimo contatto coi morbidi seni della nuova arrivata.

“Che ingiustizia…a lui le coccole e a me niente”, piagnucolò il biondo nel mentre sprofondava in un’ancor più evidente buca depressiva.
“Oi, Sanji, è pronta la cena?” domandò Rufy.
“No! Non vedi che sto male? Non vedi che sto soffrendo per amore?!” sbraitò lui coi denti aguzzi.
“A me sembri il solito di sempre”, fu la risposta del capitano “Allora, questa cena? Io ho fame!”
“Anche noi, anche noi!” si unirono in coro Usopp, Brook e Chopper, ancora tenuto in ostaggio dall’albina.
“Piantatela, idioti!” ruggì Nami nel colpire le loro zucche vuote “Nel caso ve ne foste dimenticati, abbiamo dei ospiti! Comportatevi civilmente!”
“Ma per questo vogliamo la cena!” esclamò risoluto il ragazzo di gomma “Mangiando, festeggeremo i nostri nuovi amici.”

Che il motivo fosse uno o l’altro, ogni scusa era buona per strafogarsi di carne, secondo la logica di Monkey D. Rufy. Logica che in due anni non era cambiata di una sola virgola, a quanto sembrava.

“Comunque sia, penso che la sorella abbia ragione”, si fece avanti Franky, guardando poi le due ragazze. “Almeno i vostri nomi li vorremmo sapere.”

La cosa non parve spaventare troppo Shion; in fondo, la loro era una richiesta semplice , ma, stranamente, come aprì la bocca per presentarsi, non riuscì ad emettere alcun tipo di suono. Il groppo alla gola, formatosi per l’aver visto Lars in quelle condizioni, unito a tutto quello che aveva dovuto passare durante quelle ore, la stava ancora bloccando, seppur le premurose parole di Nico Robin l’avessero tranquillizzata. Voleva parlare, desiderava dire almeno un altro “Grazie”, ma quello strano intoppo interiore si stava ripercuotendo sul suo fisico, rendendole impossibile quel semplicissimo gesto. Azu, al contrario di lei, sprizzava sicurezza da tutti i pori: la sua siluette altezzosa non mostrava la benché minima esitazione, sostava in una posizione che gridava tutta la sua disinvoltura, piuttosto accentuata dai abiti corti e provocanti che indossava. Inutile dire che il suo punto di forza stesse nello sguardo perlaceo, le cui sfumature azzurrine guizzavano a destra e a sinistra quando lei ruotava gli occhi con quel suo fare frettoloso e a volte impreciso.
Era un colore piuttosto ambiguo, difficilissimo da trovare,  forse unico, ma perfetto per la sua carnagione e il suo temperamento battagliero, ardente e puntiglioso più di una lama infuocata: con esso, Azu scrutava le persone con ogni emozione a sua disposizione, assottigliando lo sguardo quando percepiva dei sospetti e addolcendolo quando udiva la voce di Shion. La gente finiva per immobilizzarsi, col sudore a rendere tutto più scivoloso e l’ansia a martellare contro le pareti cardiache: la loro anima veniva scandagliata e spogliata di ogni fronzolo senza che potessero opporsi, ma, per quanto incisivi fossero gli occhi indagatori dell’albina, i suoi giudizi, ogni tanto, si rivelavano grossolanamente generali, a volte un po’ campati per aria. Coi suoi occhi, Azu sapeva terrorizzare, incuriosire, attrarre ogni genere di persona – per la maggior parte maschi – e, sempre con essi, sostenere ogni genere di situazione come se fosse una scaramuccia qualunque.

“Sono d’accordo con Franky”, asserì il cecchino, annuendo.
“Yohohoho! Pure io!” si aggiunse il musicista dalla capigliatura afro.
“Siiiii!!!! Il mio cuore colmo d’amore si riprenderebbe all’istante se tu, mia splendida dea, ci deliziasti con il tuo nome!!!” ululò il cuoco nel prostrarsi ai piedi della nuova venuta.

La ragazza – lasciando finalmente andare il cucciolo - aggrottò il sopraciglio con fare sconcertato, per poi guardare il resto della ciurma e chiedere:

“Per caso ha battuto la testa o si droga?”
“No, è solo un idiota”, rispose Zoro.
“Chi sarebbe l’idiota, marimo da quattro soldi?!” sibilò il biondo.

Approfondire il perché quei due stessero cercando di staccarsi la testa a vicenda sarebbe stata un’autentica perdita di tempo e quindi, come sempre, vennero messi in un angolo, di modo che non dessero troppo fastidio.

“Tornando finalmente a noi…”, sospirò la Gatta Ladra “ Voi chi siete?”
“Semplici viaggiatori che hanno avuto la sfortuna di essere attaccati nel cuore della notte. Niente di più”, fu la pronta risposta dell’albina.
“E i vostri nomi sarebbero?” indagò Usopp, sporgendosi in avanti.
“Se ci tieni a saperlo, comincia a togliermi di dosso quel tuo lungo nasone.”

Inavvertitamente, il cecchino si era fatto un po’ troppo avanti, suscitando così l’irritazione della ragazza. Percependo un ostilità emergente, Usopp tornò sui suoi passi, sedendosi al tavolo insieme ai altri; lo sguardo tagliente di quella straniera non ammetteva repliche e lui, seppur non fosse più – totalmente-  un fifone di prima categoria, preferì fare il bravo e ubbidire. Il suo buon senso, sotto forma di vocina acuta e saggia, gli aveva suggerito più volte quando fosse il caso di mettersi al riparo e, intuendo quanto quella ragazza fosse calma, non mancò di darle ascolto.

Vedendo come l’indole ribelle dell’amica si stava imponendo, Shion volse il viso verso di lei, cercando di stabilire un contatto visivo che valesse più delle parole.
Era fin troppo conscia del fatto che Azu  avrebbe fatto di tutto per mantenere le distanze: lei non amava i contatti espansivi e indagatori e, in fondo, quelle persone erano dei pirati e chiunque, al posto suo, avrebbe fatto fatica a comportarsi diversamente. Era orgogliosa e testarda, incapace ad accettare una conversazione senza averne il comando, cocciuta sotto ogni aspetto, e quando decideva di fare una cosa, farle cambiare idea era un po’ come tentare di invocare la pioggia durante la siccità. La freddezza pungente che stava già mostrando non rientrava nel desiderio di attaccare briga, ma in quello di volerla proteggere da possibili sorprese, motivo per la quale la sua mano le teneva la spalla esterna. Con lei vicino, non aveva mai avuto paura; la presenza di Azu, insieme a quella di Lars, l’aveva sempre confortata e rasserenata in qualunque occasione, regalandole sonni tranquilli e sicuri. Se in quell’istante non era agitata, lo doveva all’amica e alla sua fermezza di spirito; ogni volta che fissava i suoi occhi bianchi, pericolosamente simili a delle perle, ci scorgeva sempre una luce carica di adrenalina, pronta a scendere in battaglia anche contro nemici invincibili.

Quella scintilla, per quanto piccola che fosse, unita al suo fisico slanciato, che non lasciava intravvedere alcun segno di debolezza o insicurezza, possedeva la forza di un uragano inarrestabile, e ogni qualvolta l’albina combatteva, Shion raramente riusciva a seguirla per più di tre secondi. Anche se la sua vista, col tempo, si era abituata, tutto quello di cui era capace stava nel cogliere delle macchie grigiastre, che andavano e venivano con la stessa velocità di una tempesta di fulmini. Non lasciava mai tempo agli avversari di sorprenderla, si imponeva sullo scontro con una grinta tale da aggiudicarsi la vittoria già a metà dell’opera. Al momento, non c’era pericolo che si scatenasse una battaglia, ma nonostante la gentilezza mostrata dai pirati di Cappello di Paglia, lo sguardo ferreo della ragazza lasciava ben intendere che non era intenzionata ad abbattere il muro che separava la sua fiducia da quella altrui. Le ciocche argentee le contornavano il viso, sfiorandole appena le guance chiare e appiccicandosi al suo collo come a volerlo solleticare. Teneva l’altro braccio piegato a “V”, con la mano poggiata al fianco e il bacino leggermente inclinato a destra. Nel dare sfoggio a quella posizione spavalda, Shion trattenne un mezzo respiro, comprendendo che se non si decideva ad aprire bocca, sarebbe potuto succedere di tutto.

Inevitabilmente, Azu avrebbe tirato dritto senza guardare in faccia nessuno, se non avesse percepito la manina della sua protetta strattonarle leggermente i pantaloncini verdi. Abbassando gli occhi, incontrò subito il suo viso, tutto concentrato in una supplica che le fece schiudere la bocca per lo stupore: stava cercando di dirle qualcosa, oltre al fermarsi.

“Azu-chan, ho già raccontato tutto a Rufy”, le mormorò infine.
“Eeeh?! Che hai fatto?!” esclamò quella coi occhi fuori dalle orbite.
“Scusami, ma mi serviva un medico per Lars….”, tentò di spiegare lei, intrecciando le dita con lo sguardo momentaneamente abbassato su di esse.
“E chiedere aiuto a dei pirati ti è sembrata una soluzione?! Ma come accidenti ti è venuto in mente?! Potevi venire rapita o peggio!” la rimproverò, calandosi in avanti col busto quanto bastava per troneggiare su di lei.
“Ma non è successo e poi loro sono buoni! Il procione ha curato Lars!” replicò la piccola, alludendo a Chopper.
“Ehi, ti ho detto che sono una renna!!” si aggiunse Chopper, indignato. Ma perché tutti quanto lo scambiavano per un procione o per un orsacchiotto? E dire che aveva pure le corna!
“Poteva comunque succedere!” esplose la ragazza “Nel caso te ne fossi già dimenticata, due tizi hanno cercato di fare la festa a Lars e se ti avessero trovata, di certo non ti avrebbero portato a casa!”

A una reazione del genere, Shion si era preparata. Non era la prima volta che si accapigliava con Azu per via di un qualche suo comportamento: episodi simili erano già avvenuti, anche se non di portata così elevata, e lei ci aveva sempre ricavato qualcosa, oltre che alla solita lavata di capo. Conosceva l’amica da troppo tempo per sbagliare a interpretare i suoi differenti toni di voce e quindi, anche in quell’occasione, non si mostrò minimamente intimorita da quel cambio d’umore. I suoi rimproveri erano giusti, non lo metteva in dubbio, sarebbe potuta andarle seriamente peggio se non avesse incontrato la ciurma di Cappello di Paglia, ma, al momento, lei non sembrava accorgersene, vista la foga impiegata per difendere le proprie ragioni. Da bambina quale era, chiedere aiuto era stata la prima cosa venutale in mente, e non avrebbe mai smesso di ringraziare quei ragazzi per la loro disponibilità: la preoccupazione per Lars aveva cancellato ogni altro pericolo dalla sua mente, spingendola a chiedere aiuto a chiunque, ignara delle conseguenze che la sua richiesta avrebbe potuto provocare. Aveva agito d’istinto, manipolata dall’ansia e dalla paura, che l’avevano condotta a quel classico “Colpo di fortuna” che capitava solo una volta nella vita: perché, si, era stava veramente fortunata a incontrare Rufy e non un mascalzone pronta a portarla via.

Azu, più grande e “matura” di lei, aveva compreso fin da subito la ragione che teneva in piedi le repliche della piccola, ma il timore che le sarebbe potuto succedere qualcosa, se non avesse, per l’appunto, avuto così tanta fortuna, stava lasciando ampio spazio ai rimproveri. Non le piaceva fare la voce grossa con lei, perché Shion, seppur avesse undici anni, riusciva sempre a sorprenderla con la sua perspicacia. Era una bambina sveglia, curiosissima, ma queste qualità si accompagnavano all’impulsività dei bambini della sua età e questa, forse, le sarebbe potuta costare la vita. In fatto di impetuosità, Azu era la maestra per eccellenza, ma fintanto che erano gli altri a farglielo notare – e quei “Altri”, era riferito in particolar modo al fratello maggiore –, tendeva sempre a sorvolarci sopra, poiché l’orgoglio che si ritrovava le impediva di accettare positivamente critiche costruttive. Ma questo non significava che non sapesse riconoscere i difetti altrui…

Notando come la bambina stesse stringendo le spalle, e da come le guance le si erano gonfiate, Azu espirò profondamente, chiudendo gli occhi per poi riaprirli lentamente. Se quell’idiota di Lars l’avesse vista perdere il senno davanti a Shion, le avrebbe fatto una ramanzina così grande che l’avrebbe schiacciata. E lei non ci teneva proprio a fare la figura della poppante, non davanti alla sua beniamina.

Sciogliendo la propria bocca in un sorriso, si inginocchiò davanti a lei, poggiandole le mani sulle spalle.

“Shion, sei stata brava, dico davvero. Ti sei comportata bene e hai fatto esattamente quello che ti ho detto, mai hai rischiato grosso chiedendo aiuto a dei pirati. Potevi anche incontrare persone completamente diverse da loro.”
“Ma, io….”
“La tua amica ha ragione”, si fece avanti il capitano.
“Rufy…” Shion rivolse i suoi occhi al ragazzo di gomma.
“Ti ha detto queste cose perché aveva paura che ti succedesse qualcosa”, le spiegò lui, inginocchiandosi vicino ad ella.

Guardando prima Cappello di Paglia e poi Azu, la biondina sentì il proprio animo pesarle dolorosamente. L’intervento del capitano era stato a dir poco che provvidenziale a placare la sua grinta e a far si che prendesse coscienza anche di quelle cose che prima si rifiutava di ascoltare. Le parole del ragazzo di gomma servirono a farle aprire completamente gli occhi, di modo che anche i contro della sua scelta venissero a galla. Davanti a lei, stavano dei pirati radicalmente differenti da quelli descritti dai libri che il suo tutore le faceva leggere: non avevano niente di quei disegni che ormai conosceva a memoria, salvo la bandiera col teschio. Lei, nella sua ingenuità, li aveva definiti “Buoni”, ma i pirati appartenevano a una razza che non possedeva nessun elemento accomunante con l’idea di bene che il Governo Mondiale, ogni santo giorno, cercava di rifilare alla gente. Non erano dei demoni assetati di sangue, ma nemmeno dei puri di cuore, poiché contrastavano la giustizia e vivevano al di fuori delle regole. Osservandoli uno a uno, comprese finalmente perché Azu avesse utilizzato quel tono severo, e si ritenne immensamente favorita dalla sorte: cosa sarebbe successo se, al posto della ciurma di Cappello di Paglia, avesse incontrato dei brutti ceffi? Cosa sarebbe capitato se fosse finita nelle mani di qualcuno di poco raccomandabile? Il sol pensiero la fece rabbrividire: non aveva mai pensato a una simile eventualità.

Rattristata, abbassò lo sguardo, trovando nei lembi della gonnellina azzurra qualcosa su cui focalizzare la propria concentrazione.

“Scusami, Azu. La prossima volta farò più attenzione”, mormorò poi guardandola con quel suo tenero visino dispiaciuto.
“Aaah, non fare quella faccia! E’ tutto a posto!” rise la ragazza dai capelli argentati, scompigliandole la testolina “L’importante è che non sia successo nulla di cui pentirsi.”
“Si. Grazie anche a te, Rufy.”
“Shishishi, ma di che? Siamo amici”, ridacchiò lui “Bene, adesso mangiamo!!”

Quale fosse al momento la reale priorità del gruppo, la mente del moro pareva averla messa dopo la parola “Cena”. Se proprio si doveva discutere di qualcosa, era meglio farlo dopo essersi riempiti la pancia con le prelibatezze di Sanji o, ancora meglio, nel mentre le si gustava; un’altra scelta derivante dalla logica di Monkey D. Rufy, la cui semplice mentalità aveva già fatto colpo sulle due ospiti. Replicare servì a poco, visto e considerato che anche il resto della ciurma stava cominciando a sentire i morsi della fame, quindi, quel che c’era da dire, venne ulteriormente rimandato. In pochi minuti, Azu e Shion si ritrovarono sedute attorno a un grande tavolo pieno di leccornie e piatti dai profumi stuzzicanti, gradevoli perfino alla vista. Erano tantissimi, uno più pittoresco dell’altro: fra l’omelette angelica, la bistecca di cactus, i sandwich, la pasta all’erba selvatica e i festini di carne, nessuna delle due aveva la benché minima idea da dove cominciare.

Ci volle qualche secondo di meditazione prima di lasciarsi andare e, così, buttarsi nella mischia; unirsi definitivamente a quella bella e vivace tavolata sollevò ancor di più l’animo della bambina, che si perse quasi subito fra le risate e le battute di alcuni membri della ciurma. I più divertenti erano il capitano, il buffo tizio col naso lungo, la renna – finalmente l’aveva riconosciuta come tale –, il gigante dalla testa rasata, avente tutto il corpo quadrato e metallico, e quel magrissimo e alquanto inquietante scheletro dalla capigliatura afro che aveva chiesto ad Azu di mostrargli la biancheria intima. Poi c’erano il cuoco, con un assurdo sopracciglio arrotolato e il tizio con le spade; il primo era veramente strambo, perché ogni volta che le sue due compagne parlavano, prendeva a ballare e a danzare per tutta la stanza. Il secondo, invece, era piuttosto taciturno e se parlava, lo faceva soltanto per prendere in giro il biondo.

Ancora un po’ e finiranno per bisticciare sul tavolo, pensò nel guardarli con la forchetta sospesa a mezz’aria, nel mentre quelli si lanciavano insulti su insulti.

Inutile dire che le più tranquille fossero la ragazza coi lunghi capelli arancioni e quella mora. Si capiva anche a occhi chiusi che erano più mature dei loro compagni, ma, ciò nonostante, non si astenevano dal divertirsi.
Shion, nel suo piccolo, si era chiesta più e più volte se stesse sognando, ma i suoi occhi non la stavano ingannando: era realmente in compagnia di una delle ciurme più note al mondo, stava veramente cenando e ridendo insieme a delle persone che lei aveva sempre trovato interessanti e affascinanti per quello che facevano. La pirateria era un mondo così diverso dal suo, tutto da scoprire, anche se molto pericoloso. Non conoscerlo, equivaleva a non prestare attenzione a ciò che succedeva nel mondo: ogni giorno, qualche fuorilegge era in prima pagina e non mancavano mai notizie riguardanti avvistamenti o catture. In quei anni, la corsa per trovare il famigerato One Piece si era fatta più ardita, ma la stragrande maggior parte dei pirati mostrava un’indole fortemente materialista, basata sulla legge del più forte e sul potere. Gli equilibri si stavano spezzando, il mare veniva solcato da ideali tutt’altro che romantici o sognatori. Una bambina come lei non se ne sarebbe mai accorta, ma il suo tutore, durante le molte lezioni impartitele, le aveva più volte spiegato che i pirati non guardavano in faccia a nessuno pur di arricchirsi. Si trattava di una realtà dentro cui molti erano costretti a vivere, purtroppo, ma lei era certa che non tutti i fuorilegge fossero così, che quella situazione spiegatale più volte, in verità, fosse solo una parte effettiva del quadro generale: un pirata non era soltanto questo, non rappresentava solo un mondo pericoloso, crudele o folle, non poteva, e la prova gliela stava fornendo Rufy, con tutti i suoi amici.

Non sono come gli altri, loro sono…sono dei bravi pirati, ecco!

Nel pensarlo, annuì vigorosamente. Li conosceva soltanto di nome e li ammirava per le grandi imprese svolte, ma era sicurissima che fossero molto più dignitosi di altri loro colleghi: insomma, non era da tutti devastare l’isola giudiziaria di Enies Lobby e svignarsela da un Buster Call. Magari, di persona, sarebbero risultati completamente diversi da come li vedeva ora, ma una vocina interiore le diceva di non preoccuparsi e di fidarsi delle sue convinzioni.

“Allora, Shion, che ne dici di raccontarci la tua storia?” le propose Nami, interrompendo momentaneamente la sua abbuffata.
“Eh? La mia storia?”
“Certo. Vogliamo conoscere te e i tuoi amici!” esclamò Rufy, ingoiando due cosciotti di carne insieme.
“Yohohoho! Se fosse possibile, io vorrei ancora sapere di che colore sono le mutandine della….”

SBONK!

La maniacale richiesta di Brook era stata sedata dalla navigatrice in un solo colpo, permettendo così che al primo bernoccolo se ne aggiungesse un altro. Il povero musicista non aveva neppure avuto il tempo di finirla, che già si era visto colpire con violenza inaudita, finendo con la capoccia ossea spiaccicata sul tavolo. La Gatta Ladra non sprecò neppure una sillaba per il suo compagno: il furore impresso nel suo pugno omicida, diceva tutto.

“Coraggio, Shion. Ti ascoltiamo tutti”, la esortò Sanji, posando sul tavolo le ultime portate.
“Uh…ok!”

Non si era neppure voltata per chiedere il consenso ad Azu, al momento impegnata a scolarsi un enorme boccale di birra.

“Dunque, per cominciare….”, mormorò coi occhi rivolti all’insù e l’indice tamburellante sulle labbra “Ah, giusto, devo presentarmi come si deve!” e si batté una mano in fronte “Mi chiamo Shion Yokozomi, ho undici anni e sono tanto felice di conoscervi! Sono nata sull’isola di Shirama e sono in viaggio con i miei amici Lars e Azu per raggiungere il regno di Kuzen.”
“Hai detto il regno di Kuzen?” l’espressione dell’archeologa, a quella rivelazione, si era fatta ancor più interessata.
“Lo conosci, Robin?” le domandò Usopp.
“Ne ho sentito parlare quand’ero insieme ai rivoluzionari. Si tratta di un piccolissimo regno caduto in rovina qualche anno fa, dopo che un terremoto ha diviso il palazzo reale dal resto dell’isola. Pare che l’intero sostegno economico dipendesse da una miniera che si trovava proprio nei pressi dell’edificio, ma fino ad oggi, non si hanno ancora delle fonti certe che aiutino a ricostruire l’accaduto”, raccontò lei, con sintesi pressoché perfetta.

Quel che la mora aveva detto era la verità, ma non tutta: le due ospiti, difatti, conoscevano dei particolari molto importanti riguardo quel regno e uno di questi, era divenuto il pilastro portante del loro viaggio.

“E com’è che volete andarci?” domandò Chopper.
“Siamo in missione di salvataggio”, gli rispose Azu, poggiando la schiena all’indietro e incrociando le braccia “Un amico di Shion le ha chiesto aiuto e noi stavamo andando giusto a fornirglielo. Questo  prima che quei imbecilli da quattro soldi decidessero di svegliarmi nel cuore della notte per essere presi a calci nel sedere. Ah, giusto per la cronaca…” e si puntò il pollice contro “Il mio nome è Azalea Gallower, Azu per gli amici e l’idiota che dorme in infermeria è mio fratello maggiore, Lars. Tanto piacere.”
“Azu-chwan! Il tuo nome è musica per le mie orecchie!!” ululò Sanji col sangue al naso.

Prontamente, la renna si premurò di attaccargli una flebo piena di sangue al braccio prima che collassasse del tutto. La sensibilità del cuoco era da tenere sotto stretta sorveglianza, specie se questo aveva un gruppo sanguigno molto raro; Chopper, dall’alto delle sue possibilità, al fine di evitare che l’amico incombesse in traumi amorosi troppo mortali, non poteva far altro che irrobustirlo con vitamine e trasfusioni, nella speranza che questo perfezionasse velocemente il suo autocontrollo davanti alle donne.

Per l’albina, quell’ennesima reazione era la prova definitiva che le occorreva per identificare il ragazzo col sopraciglio attorcigliato – ora intento a rifinire i dolci, sbuffando nuvolette di fumo a forma di cuore - come un malato cronico, la cui prolungata astinenza da donne aveva danneggiato il cervello. Quel cucciolotto che ora gli stava accanto -stando ben attento che la flebo non gli uscisse dal braccio -, le aveva detto che, solitamente, Sanji era un uomo fermo di spirito, il che era vero, poiché lei stessa l’aveva visto non più di cinque minuti fa coi suoi stessi occhi: severo e inflessibile con chi cercava di sgraffignare il cibo prima di pranzo e scrupolosissimo nella preparazione di manicaretti di prima classe, un cuoco in tutto e per tutto. Eppure….a vederlo così….non era certa se volerne approfittare o lasciar perdere…

Però…un bel ragazzo che cucina simili squisitezze non è da buttare via. Se poi fa di tutto per compiacere le donne….

Riflettendoci attentamente, Azu si ritrovò a prendere in considerazione anche il silenzioso spadaccino, finendo così per sfoderare quel suo sorrisino malizioso e divertito al tempo stesso. L’occasione era ghiotta, perché lei amava stuzzicare i bei ragazzi e ricevere le loro attenzioni, ma non era il caso di dare il cattivo esempio alla piccola Shion, che la stava osservando con molta perplessità. Senza volerlo, aveva cominciato a sghignazzare e mancava poco che si sfregasse le mani.

“Azu-chan, che ti prende?” le domandò poi la bambina.
“Eh? Niente, niente! Cose da grandi e che un giorno ti spiegherò per bene”, fu la sua risposta, nel mentre prendeva a riempirsi la bocca con le patate.

Sbattere gli occhioni non aiutò la bambina a comprendere un pochino di più a cosa la ragazza alludesse, il che fu un vero sollievo per l’albina. Era bene che certi argomenti non toccassero la mente della sua protetta, non ancora almeno; sua madre l’avrebbe linciata viva se avesse saputo che la figlia già pensava ai ragazzi o a roba del genere, ma parlare istintivamente era nel carattere di Azu, e, farla stare zitta, era un’impresa meritevole di ogni lode e riconoscimento. Il solo modo era darle una bel pugno in testa, azione in cui suo fratello maggiore era impareggiabile.

“Comunque…” e si voltò verso i pirati “Penso che sarebbe meglio se fosse Shion a parlarvi della questione, visto che l’idea è stata sua e voi sicuramente sarete curiosi”

Quanto più velocemente si sarebbe tolta dalla testa l’argomento “Maschi”, tanto meglio sarebbe stato per lei e per l’innocenza della bambina. Per sua fortuna, la manovra parve funzionare egregiamente: solo un cieco non si sarebbe reso conto di quanta trepidazione ci fosse nello sguardo di ciascun membro della ciurma di Cappello di paglia. Trovandosi nuovamente al centro dell’attenzione, Shion, senza un motivo apparente, finì per osservare Rufy; non seppe spiegarsi il perché di quel gesto, semplicemente aveva spostato il capo, come in cerca del suo consenso. Forse l’aveva fatto perché lui, in qualità di capitano, le desse l’autorizzazione di spiegarsi, ma una simile ipotesi era da scartare seduta stante: Rufy era un capitano speciale e come lei si ritrovò a incrociare le proprie pupille con quelle nere di lui, capì che non doveva aver paura di niente e che poteva raccontare tutto e di più. Le ispirava fiducia, amicizia, come tutti i membri della ciurma, il che sciolse quell’ultimo grammo di tensione rimastole in corpo, lasciando posto alla sua spigliatezza.

“Ecco, come vi stavo dicendo, io, Azu e Lars, siamo in viaggio per il regno di Kuzen: qualche mese fa, sono andata in visita su quell’isola ed è lì che ho conosciuto Chico. Ha la mia età e andiamo molto d’accordo.”
“Chico? L’amico che ha citato prima Azu?” domandò Nami, poggiando il mento sul dorso delle mani.
“Si, proprio lui. Lui è nato lì e suo padre è uno dei artigiani che lavoravano nei pressi del palazzo reale, vicino alla miniera principale. Purtroppo, dopo l’incidente, è stato costretto a seguire il sovrano in un altro territorio, per non perdere il lavoro. Anche gli altri sono partiti, mentre Chico e sua mamma sono rimasti lì, con gli altri abitanti.”
“Beh, fino a qui non mi sembra che ci sia nulla di che”, mormorò Zoro atono.
“Aw! Non essere così spigoloso, fratello! Lascia che la piccola finisca!” esclamò Franky, facendo poi il pollice in su a Shion. Per tutta risposta, Zoro sbuffò e chiuse nuovamente gli occhi.

Stranamente, nonostante il caloroso incoraggiamento da parte dell’uomo di latta, la suddetta pareva aver perso la voglia di parlare. Aveva abbassato la testa, socchiuso gli occhi e stretto le mani intorno alla gonnellina, fissandone le pieghe con un velo di tristezza a imbruttirle le iridi azzurrine. Non aveva perso la voce come prima, stavolta aveva scelto lei di rimanere zitta. Raccontando, era ovvio che quella parte sarebbe saltata fuori e, sebbene non la riguardasse personalmente, riusciva comunque a toccare il suo cuore di bambina sensibile. Sin dall’inizio del suo viaggio aveva pensato costantemente alla ragione per la quale si era decisa a cimentarsi in una simile impresa e il ricordarla, le aveva sempre dato la forza per non avere dei ripensamenti. Se con lei non ci fossero stati Azu e Lars, poco ma sicuro, i suoi genitori non le avrebbero mai concesso il permesso di lasciare la casa, seppur per un tempo limitato: suo padre era un uomo buono, così come lo era sua madre, ma quest’ultima, a volte, tendeva a essere troppo apprensiva nei suoi confronti.
Li adorava, voleva un bene dell’anima ad entrambi, ma per aiutare il suo amico era stata costretta a dire una bugia, una bugia grossa quanto il Quartier Generale della Marina. Considerando poi che, al momento, non viaggiava più sulla nave con cui era partita, la sua situazione non poteva certo dirsi stabile; non voleva mentire, specie ai suoi genitori, ma Chico aveva chiesto il suo aiuto e lei glielo aveva promesso. Infrangere le promesse era da vigliacchi e lei non lo era!

“Le promesse sono le prove di ogni giorno. Mantenerle ci rende quel che siamo, infrangerle significa distruggere la fiducia che le persone ripongono in noi.”

Suo padre aveva fatto di quelle parole il suo motto, la sua fede. Vederlo tenere alta quella convinzione, simile a una bandiera posta in cima all’albero maestro, le aveva sempre fatto brillare gli occhi per l’ammirazione. Ripetendosi più e più volte quella frase, Shion si era ripromessa di farcela, di aiutare Chico con tutti i mezzi possibili. Lars e Azu l’avevano lautamente aiutata nell’organizzazione e in alcuni preparativi fuori dalla sua portata, e adesso era lì, lontano da casa sua, dai suoi genitori……in un sala piena di famosissimi pirati che il Governo Mondiale agognava di poter giustiziare. D’accordo, quell’ultimo pezzo non era stato affatto previsto, ma non per questo avrebbe chiesto di essere portata a casa. Bambina o meno, la sua cocciutaggine cresceva di fianco a quella di Azu, già vistosamente rigogliosa.

“Che succede, Shion?” domandò Brook.
“Qualcosa non va? Non ti senti bene?” le domandò Chopper, avvicinandosi.
“No…sto bene”, sussurrò lei, decidendosi poi a rialzare la testa “Vedete, Chico….ha una sorella maggiore, Mya. Lei è….è stata lei a devastare il regno di Kuzen.”

Stupore e shock si mischiarono alla curiosità aleggiante nella stanza con rapidità fulminea, per poi riversarsi sui pirati, visibilmente colpiti per quella rivelazione.

“Com’è possibile? Scusa, ma il regno, da quanto ci ha detto Robin, è andato in rovina a causa di un terremoto”, disse Usopp, senza capire bene.
“Vero, e Robin-chan non sbaglia mai quando si parla di fatti storici”, aggiunse Sanji, accendendosi una delle sue amate sigarette.
“Nessuno ha mai detto che ha sbagliato, ma qui si parla di una vicenda avvenuta dopo il terremoto, non documentata e quindi, non resa pubblica”, spiegò Azu.
“Che tipo di vicenda?” domandò Chopper.

A quel punto fu necessario che a riprendere la parola fosse Shion, la prima a cui era stata raccontata la storia nei minimi particolari. Si trattava di un fatto segreto, una seconda catastrofe che aveva colpito involontariamente l’isola. Il succo era semplice, ma lei voleva comunque spiegare per bene ogni cosa, di modo tale che tutto combaciasse con quanto detto sino a quel momento. Era un compito complicato per una bambina della sua età, il cui vocabolario non era ricchissimo quanto quello di un adulto, ma lei volle comunque provarci, perché era giusto che terminasse ciò che aveva iniziato.

Smettendo di stringere la gonna, sciolse le spalle e prese un bel respiro, pronta a ricominciare, cercando di porre la sicurezza emotiva al di sopra della tristezza, che ancora riempiva i suoi occhi.

“Come già sapete, il palazzo reale, a causa del terremoto, è stato diviso dal resto dell’isola. Siccome la miniera e l’edificio erano tutto per questo regno, il re ordinò la costruzione di un ponte per ricollegare il pezzo d’isola staccato con la terra ferma. Sembrava procedere tutto bene, ma un giorno….è capitato l’incidente.”
“Con “Incidente”, ti riferisci al fatto che non è mai stato reso pubblico, giusto?” le domandò Nami, corrucciando  le sopracciglia.
La piccola annuì “Chico mi ha detto che è accaduto di notte: un mostro enorme ha attaccato il cantiere e il villaggio costruito nei pressi della spiaggetta. Nessuno ha visto bene cosa fosse, ma sputava strane fiamme verdi e sapeva anche volare. In poche ore, ha distrutto tutto e a quel punto, il re ha deciso di trasferirsi, portandosi via i lavoratori e chiunque volesse andarsene dal regno.”
“Un mostro? Che forza!” esclamò Rufy, con occhi luccicanti. Per lui, tutto ciò che non conosceva, era fonte di avventura.
“Io non direi….”mormorò Usopp deglutendo lentamente un grosso groppo in gola. Rabbrividì al pensiero di essere inseguito dalla bestia appena descritta e che questa se lo volesse pappare in un sol boccone.
“Yohohoho! Una cosa del genere mi farebbe sicuramente venire un colpo al cuore, ma io il cuore non ce l’ho più! Skull Joke!”

Anche il Divoratore di zucchero filato aveva preso a battere i denti. Il pensiero di essere catturato da un plotone di creature bavose e rivoltanti, gli fece rizzare tutto il pelo.

“Non è affatto “una forza”!” esclamò arrabbiata la navigatrice “Se non ci foste ancora arrivati, il mostro di cui parla Shion è la sorella maggiore di Chico!”
“Davvero? Quella ragazza si può trasformare?!”

L’emozione del capitano fece prudere le mani alla navigatrice, la quale si limitò a respirare profondamente  per poi passarsi una mano sul viso, giusto per nascondere i numerosi segni dell’arrabbiatura comparsile in faccia. Un argomento come quello necessitava di tatto, di comprensione, un insieme di sentimenti che non facessero pesare la situazione a chi la stava narrando, ma la delicatezza era qualcosa che Rufy non possedeva e che mai avrebbe posseduto. Non appena si parlava di mostri, nemici o robe per le quali lei avrebbe fatto volentieri dietro-front, il ragazzo di gomma partiva in quarta e trascinava il resto della combriccola in mezzo al pericolo. Il suo comportamento era un’autentica e inesauribile fonte di esasperazione per lei, sola e unica persona in grado di dirigere la nave, ma Shion, davanti alla reazione di lui, non rimase ferita. Non si trattava di noncuranza la sua, affatto, ma di qualcosa di indescrivibile, che, stranamente, l’aveva spiazzata e posta su un piano neutrale. Vi era un che di buffo nel volto di Rufy, decisamente impossibile da non notare: faceva venire voglia di unirsi alle sue risate, di partire con lui alla volta di qualche esplorazione assurda.

Comunque, non era il momento di perdersi: il fatto che Nami avesse rivelato quello che lei stava per dire, le aveva tolto una consistente parte di quel peso che aveva cominciato a opprimerla nel momento in cui aveva aperto bocca. Ora doveva arrivare in fondo da sola.

“Shion, puoi spiegarci meglio?” le domandò Robin.
“Certo. Non so bene come, ma Chico mi ha detto che lo stesso giorno dell’incidente, Mya aveva raccolto qualcosa che si era arenato sulla spiaggia. Ha parlato di uno strano melone tutto nero e io ho subito pensato che potesse trattarsi di un frutto del diavolo.”
“A pensarci bene è possibile” rifletté ad alta voce lo spadaccino “I frutti del diavolo provengono dall’oceano e se questo era di un colore strano, allora non ci sono altri dubbi.”
“Ma perché avrebbe attaccato il cantiere? Non ha senso…”
“Può darsi…”, intervenne Nico Robin, socchiudendo gli occhi “Che il suo potere sfugga al controllo di Mya. Si è parlato di una creatura grossa e volante, quindi è possibile che abbia ingoiato un frutto del diavolo appartenente alla categoria degli Zoo-Zoo e che l’istinto animalesco da esso scatenato, prenda il soppravvento su di lei quando più gli aggrada.”
“Non sapevo che esistessero frutti del diavolo incontrollabili”, si stupì Usopp.
“La tua è una reazione normale, considerando l’argomento. Sono molti i misteri che avvolgono i frutti del diavolo: nessuno sa da dove provengano, come nascano o quanti siano di preciso. C’è ancora molto da scoprire al riguardo”, continuò l’archeologa.

Nico Robin aveva pienamente ragione: i frutti del diavolo rappresentavano uno dei tanti enigmi esistenti al mondo. Erano rari, unici, capaci di fornire poteri straordinari a chi li ingoiava, il che bastava per renderli dei tesori ricercatissimi. Le informazioni rinvenute sul loro conto erano poche e ogni novità era considerata come una scoperta importante, utile per comprenderne meglio la natura. Il fatto che quella ragazza di nome Mya non riuscisse a controllare i poteri derivanti dal frutto mangiato, e che si trasformasse senza preavviso, era un’ulteriore prova di quanto questi potessero essere insidiosi; probabilmente, quando ciò accadeva, la sua coscienza svaniva o veniva inglobata e soggiogata dall’istinto dell’animale che il frutto reincarnava, costringendola a rimanere in un angolo buio fino alla completa soddisfazione. Qualunque fosse il modello Zoo-Zoo da lei ingerito, doveva essere particolarmente violento, forse uno dei più rari di quella specifica categoria. Ovviamente le sue erano solo ipotesi, ma la mente della Bambina Diabolica, quando si trattava di estrarre qualcosa da una matassa apparentemente indistricabile, era incapace a fermarsi: anche lei possedeva le abilità di un frutto del diavolo e, seppur in passato le avesse detestate, ora rappresentavano la sua barriera fra la vita e la morte.

La loro stessa esistenza era considerata da alcuni addirittura un mito, ma nel Nuovo Mondo vi erano pirati giunti all’apice della loro carriera anche grazie ai poteri da loro offerti. Non si trattava di magia o misticismo, ma di qualcosa che alla mente umana ancora sfuggiva, qualcosa di incomprensibile e complesso, a sua detta. L’alone di mistero che circondava quell’argomento si ergeva come un alto e spesso muro di nebbia indissolubile, che impediva a chiunque di scorgervi cosa si celasse al suo interno.
Portandosi il mento fra l’incavo dell’indice e del pollice, l’archeologa si immerse nelle sue riflessioni, unendo fra loro altre ipotesi e conoscenze apprese; sperava che un qualche collegamento saltasse fuori, ma, sfortunatamente per lei, niente di quant’era in suo possesso, era abbastanza esauriente per aiutarla.

“Comunque sia, se questa ragazza non riesce a controllare le sue capacità, sarà difficile che tu e i tuoi amici riusciate ad avvicinarvi all’isola”, constatò la Gatta Ladra “Potrebbe attaccarvi”, aggiunse perplessa.
“Per quello non c’è da preoccuparsi, abbiamo pensato a ogni evenienza”, la rassicurò Azu, nel far passare la punta del proprio dito indice sul bordo circolare del boccale di birra.
“Uh? E cos’è che avete in mente?” domandò la renna.
“E’ sempli…yamn!” tappandosi velocemente la bocca, Shion coprì un sonoro sbadiglio, per poi stropicciarsi gli occhi e sbatterli un paio di volte.
“Penso che sia arrivato il momento per te di fare la nanna”, le disse l’albina, circondandole le spalle col braccio.
“Ma non ho ancora finito di…”
“Non c’è bisogno che tu dica altro, Shion”, la interruppe Rufy “Ti aiuteremo.”
“Eh?” a quella affermazione, Shion strabuzzò gli occhi, incredula “Ma…dici sul serio? Non mi stai prendendo in giro, vero?”
“Shishishi! Perché dovrei ingannare i miei amici?” replicò sotto lo sguardo semi shoccato della ragazza dai capelli argentati.

Francamente non si era affatto aspettata che quel ragazzo offrisse il suo aiuto, così, su due piedi. Nessuno glielo aveva chiesto o domandato in modo diretto….aveva deciso lui, punto e basta. Da parte sua, Rufy era talmente ansioso di cominciare quel viaggio, che il sangue gli stava dando al cervello: bolliva e scottava, scorrendo nelle sue vene come tanti piccoli fiumiciattoli collegati fra di loro. Non rispondere alla chiamata gli era impossibile: se sul suo cammino si parava qualcosa, lui l’affrontava senza alcun ripensamento, imboccando addirittura la strada più difficile da percorrere; il cappello appoggiato alle sue spalle deteneva una promessa troppo importante perché la potesse raggiungere con trucchi e scorciatoie.

Shion non ne conosceva l’importanza, ne, tantomeno, la storia creatasi attorno ad esso, ma le bastò guardare il suo nuovo amico di gomma per comprendere che le avrebbe dato il suo aiuto anche a costo della vita: oltre l’allegria, in quelle tonde pupille nere guizzava una fermezza che non lasciava trapelare nulla, il che sollecitò la sua mente a credere ancor di più in quelle parole tanto gentili. Non la stava affatto prendendo in giro: il suo volerla aiutare partiva dal cuore e non c’era traccia di secondi fini o inganni a suo carico. Aveva detto che l’avrebbe aiutata e lo avrebbe fatto; quella semplice, ma tanto incisiva convinzione, rimbombò nella sua mente come il suono di tante campane messe insieme, avente il fine di convincerla, cosa che funzionò perfettamente. Recepito il messaggio, la bambina tirò fuori un sorriso così grande da splendere quanto il sole, per poi saltare in braccio al capitano, nel mentre lasciava che la sua allegria la contagiasse del tutto.

“Grazie! Grazie, grazie, grazie, grazieeeeeeeee!!” esclamò, stringendosi a lui “Non so davvero come ringraziarti, Rufy!! Sei il migliore!!!”
“Shishishi! Figurati, anch’io sono curioso di conoscere Chico e sua sorella! E voi, ragazzi?” domandò ai suoi compagni.
“Se ci sarà da combattere, non mi tirerò indietro”, affermò Zoro, senza scomporsi.
“Per me va bene. E’ un’ottima occasione per studiare da vicino la storia di un regno antico come quello di Kuzen”, sorrise Nico Robin.
“Risponderti di no sarebbe inutile. Forse, con un po’ di fortuna, ricaveremo qualcosa da questa storia”, sospirò Nami, per poi fare l’occhiolino a Shion.
“Yohohoho! Rallegrerò il viaggio con il mio soul!” trillò Brook, facendo suonare la sua nuova chitarra colorata.
“Bwhaaaaa!! Con una storia così triste non posso fare a meno di commuovermiiii!!” piagnucolò Franky, lavando con le sue lacrime la testa di Usopp “Quella poverina….tutta sola!!! Che tristezza!!!”
“Non sia mai che il sottoscritto neghi il proprio aiuto a una fanciulla in pericolo. Salverò la bella Mya-chan anche a costo della mia stessa vita”, decretò Sanji, con l’animo in fiamme.
“Anch’io mi renderò utile!” esclamò Chopper, alzando le zampine in aria “Usopp, anche tu, ovviamente, sei dei nostri, vero?”
“Ah ah ah ah ah! Ma certo! Dove vorreste andare senza il vostro amato e fidato capitano Usopp, eroe dei mari e terrore di ogni marine?!” sebbene non fosse più così tanto pessimista, l’atteggiarsi a “Invincibile guerriero dei mari” era un piacere che non si negava mai, specie se la renna era pronta a credere a ogni sua burla.
“Visto, Shion? Verremo tutti con te!” le disse Rufy tutto sorridente.
“Si, che bello!!” esclamò la suddetta, tutta contenta.

Lo conosceva di fama e basta. Di lui sapeva il nome, la taglia e le varie imprese compiute, nulla di più. Ma con quel viaggio, avrebbe avuto l’onore di vederlo in azione insieme alla sua ciurma, di scoprire come quei pirati vivessero le loro giornate e tutto quel che riguardava la loro fantastica vita piratesca. Per lei era come un sogno che si avverava, così bello da lasciare fuori inconvenienti, pericoli e preoccupazioni varie. Vedendola così felice ed esaltata – seppur ancora attaccata come una ventosa al collo di Rufy -, Azu addolcì leggermente il proprio sguardo, scuotendo il capo e passandosi una mano sulla frangia argentata: ecco cosa succedeva a non ascoltare le vocine interiori….
Lei non dava mai retta alle proprie, preferiva fare a modo suo, anche se incombeva nel rischio di sbattere la testa contro il muro. Il ronzio dato dalla voce della sua coscienza era un suono insopportabile per le sue orecchie, ma questa volta, non potè far altro che guardare in faccia alla realtà: se il destino aveva deciso di far incontrare la sua protetta con i pirati di Cappello di paglia, allora lei e suo fratello non avrebbero dovuto far altro che saltare sulla nave, prima che questa salpasse senza di loro.

Si erano già lasciati convincere dalla bambina a mentire già una volta, che poteva succedere?

“Hai sentito, Azu-chan?” le domandò la piccola afferrandole le mani “Ci aiuteranno ad arrivare al regno di Kuzen. Non è fantastico?”
“Certo, piccola. Se sei contenta tu, lo sono anch’io”

Davanti a quel sorriso, abbellito da quei grandi occhiolini luccicanti, l’albina non ebbe il coraggio di formulare una singola replica. Per distruggere una felicità tanto pura e scintillante sarebbe occorso un essere senza cuore, una vera e propria carogna, e lei, per nessuna ragione al mondo, voleva inimicarsi la sua piccola e tenera Shion. L’orgoglio e l’impulsività erano andati in sciopero quella sera e lei non sapeva bene come interpretare quell’avvenimento: doveva preoccuparsi o poteva andarsi a fare un sano e caldo bagno? Il guardare come alcuni della ciurma stavano facendo chiasso, le tolse la voglia e le energie di scegliere la prima opzione, optando così per la via più dolce e rilassante, che le avrebbe portato un bel sonno ristoratore. A Lars ci avrebbe pensato il giorno dopo: tanto dormiva……

Conoscendolo, prenderà la cosa con filosofia. Fa sempre l’uomo, lui, pensò accigliata.

Già se lo immaginava: tranquillo, rilassato, pronto a bacchettarla al minimo sclero. Il solo pensiero la sollecitò a sbuffare, arricciando il naso e corrucciando la bocca.
Pensare a suo fratello la faceva imbestialire, sempre.

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Capitolo 5
*** Fermento nell'ombra. ***


Salve a tutti quanti e buon lunedì! Prima di lasciarvi al capitolo, voglio ringraziare nuovamente tutti quanti che leggono e recensiscono la mia storia, siete veramente gentili. Volevo avvisarvi che, visto l’ inizio delle lezioni, il prossimo aggiornamento non potrebbe esserci: non so di preciso quanto aggiornerò perché mi manca anche la materia prima (i capitoli) e i miei tempi sono diventati ancor più stretti. Spero comunque do non farvi attendere troppo, ma ci tenevo comunque ad avvisarvi. Grazie mille e buona lettura!

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Deludere le aspettative di qualcuno non era mai una buona cosa, specie se quel qualcuno era un misterioso individuo incappucciato, la cui identità era tanto segreta quanto il suo stesso potere. Entrambi le parti ne soffrivano, perdevano qualcosa, e l’umiliazione si univa al disagio come una cantilena trillante e maligna. Che il fatto avvenisse in un modo o nell’altro, soltanto quando il guaio era compiuto ci si accorgeva della sua reale portata e quei ubriaconi, avevano appreso la lezione troppo tardi: avevano avuto l’ardire di definirsi pirati del Nuovo Mondo, facendosi abbindolare da un sacco pieno di monete d’oro senza neppure riflettere a cosa stessero andando incontro e ora, ne stavano pagando le conseguenze. Si erano lasciati ingannare dal luccichio del metallo e da quella voce calma e profonda che aveva promesso loro un ulteriore compenso, se avessero eseguito i suoi ordini senza fiatare e, soprattutto, senza mettere in scena azioni proprie. Il lavoro era facile, una bazzecola e con rischio zero, ragione per la quale avevano accettato su due piedi, già sentendosi il denaro sonante fra le dita tozze. Simili occasioni erano rare come l’acqua nel deserto e lasciarle volare via sarebbe stato un delitto: considerata poi la sua facilità, niente avrebbe impedito alla ciurma di eseguire l’incarico a dovere.

Eppure….qualcosa c’era stato.

Il semplice piano aveva contratto un’iniziativa imprevista, un problema nato dall’interno, che si era ingigantito a tal punto da mandare in rovina la loro missione in meno di due giorni. Di quel consistente gruppo di uomini, soltanto quattro erano riusciti a tornare da colui che li aveva ingaggiati e profumatamente pagati, ma forse avrebbero fatto meglio a dare retta alle loro coscienze, piuttosto che mostrarsi per quello che erano: una banda di piratuncoli lerci e vigliacchi. Dopo il depredare prede vulnerabili quanto una gazzella ferita, scappare era la loro specialità, ma l’attuale cliente era ben diverso da qualunque individuo incontrato sino ad ora. Era apparso davanti all’osteria dov’erano soliti ubriacarsi, invitandoli a seguirlo in quell’angusto posto dove il sole non filtrava e, sebbene fossero loro ad essere in maggioranza, la sua sola presenza li stava rendendo irrequieti quanto dei bambini al loro primo rimprovero scolastico; vi era qualcosa in lui che li stava sollecitando a non prenderlo sottogamba, a non tentare di aggirarlo con una qualche ciarla tirata su male. Ogni suo movimento era fluido e lento, circondato da un alone spettrale ed enigmatico, freddo e grigio come una nebbia incredibilmente affilata, ben differente e fin troppo distante dalle facce dei molti fessi che avevano depredato e lasciato in mutande.

“E così……..avete fallito, eh?”

Tremanti, i pochi sopravissuti annuirono, deglutendo l’ansia incastratasi in gola. Le minuscole fiammelle che corrodevano il legno delle torce ricoperte d’olio, illuminavano parzialmente quella che era una parte dei antichi sotterranei di una cittadina del Nuovo Mondo. Simile a una cantina stipata di botti di vino, la struttura giaceva inutilizzata per via di alcuni percorsi ostruiti; gli archi di pietra conservatisi, accompagnavano il terreno asciutto del posto, dove l’aria stantia si mischiava a un leggero filo d’ossigeno salato proveniente dal fondo. Da qualche parte doveva esserci un canale di scolo collegato al mare, ma al signor Incappucciato, una simile curiosità, non interessava, non in quel frangente. Il prediligere un posto così buio e ampio, inaccessibile a tutti, fuorché a lui, a una confortevole stanza d’albergo, derivava da una scelta strategica semplice, perfetta per le sue attuali esigenze.
Muovendo qualche passo verso i pirati, fece ondeggiare il lungo mantello nero a destra e a sinistra, coi lembi che sfioravano appena il terreno. Scorgergli il viso era impossibile; perfino la bocca e il mento erano occultati e ogni tentativo dei presenti di cogliere altri particolari, finiva col rimanere impigliati nel dubbio.

“E’ curioso”, continuò lui, girando intorno ai quattro, con le mani congiunte dietro la schiena “Dalle vostre parole, avevo capito che un simile incarico era cosa da poco e, in fondo, io vi avevo chiesto soltanto di seguire i movimenti della nave.”
“E-Ed è quello che abbiamo fatto, signore!” esclamò uno di loro “Abbiamo fatto esattamente come ci aveva chiesto….”
“Davvero?” lo fermò il signor Incappucciato, fingendosi dolcemente sorpreso “ E allora, ditemi, come mai siete tornati a mani vuote? Deve essere pur successo qualcosa, no?”

Di colpo, i pirati si zittirono, scambiandosi occhiate fugaci e spaventate. La voce gentile di quell’enigmatico individuo stava impaurendo i loro animi codardi senza l’alcun minimo sforzo. Lui sapeva, sapeva come si erano svolti realmente i fatti, sapeva tutto, ma voleva che fossero loro a parlare, e il tono affabile utilizzato, serviva specificatamente a creare un posto paradisiaco dove questi potessero riacquistare la ridicola spavalderia con cui avevano accettato l’incarico. Li invitava caldamente ad aprirsi, senza alcuna forzatura, come sotto ipnosi, ma, diversamente da questa, la coscienza rimaneva sveglia e sensibile, perfettamente aperta a ogni forma di contatto proveniente dall’esterno. Stava lasciando che si mettessero a loro agio, inducendoli a confidarsi con lui e ad aggrapparsi alle sue parole come fossero i soli appigli a loro disposizione. Molte erano le abilità del signor Incappucciato, tutte metodiche e utili, ma non vi era ombra di dubbio, che quella in cui nutriva più fiducia, era la sua stessa capacità oratoria, che, fino a quel frangente, non lo aveva mai deluso.

“In verità…signore, noi non volevamo, ma….”

Ecco, proprio come si aspettava.
Dischiuse la bocca con fare compiaciuto, godendosi il continuo incespicare del pirata nel mentre tentava di indirizzare la colpa su qualcuno che non rientrasse nei presenti. Era talmente patetico che a stento si tratteneva dal ridere. Influenzare persone del genere era così facile, che si perdeva subito il gusto di provarci: la fine di quella vicenda era scontata, poiché lui stesso l’aveva pianificata e non vi avrebbe di certo apportato modifiche. Detestava lasciare simili faccende in sospeso o interromperle, preferiva occuparsi personalmente di ogni scaramuccia, giusto per essere sicuro di non lasciarsi alle spalle eventuali tracce o errori. La sua cura per i dettagli era talmente ossessiva che poteva risultare patologica, per certi versi, una droga, ma, a questa particolare fissa, il signor Incappucciato non aveva mai attribuito troppo peso, fintanto che questa sua abitudine gli assicurava un sostanzioso vantaggio su ogni questione.

“Eravamo contrari all’iniziativa del capitano, glielo giuriamo!” raccontò il pirata, slargando le braccia “Ma lui ha detto che rapendo la bambina, avremmo potuto richiedere un cospicuo riscatto. E’ la figlia di un pezzo grosso della Marina e….”
“E avete pensato bene di fare i furbi e intascare più di quanto vi spettava, giusto?” proseguì lui, stoppando il suo giro e guardando i volti degli interrogati, imperlati di sudore.
“N-No, signore! Le assicuriamo che non volevamo approfittare della situazione! Il capitano…!”
“Il capitano…”, lo interruppe, riprendendo a camminare “Ha avuto quel che si meritava, insieme agli altri che l’hanno spalleggiato.”

Quell’affermazione tagliò il poco ossigeno presente, mozzando il respiro ai quattro sopravvissuti, che ebbero la terribile sensazione di trovarsi con un coltello impiantato alla base del collo; riuscirono a percepire il freddo della lama toccare le loro sudice pelli, affondare nelle vene pulsanti e bagnarsi del sangue che circolava freneticamente. La paura stava materializzando ogni loro pensiero, perfino il dolore, portandoli a credere seriamente di essere sul punto di morire, ma non lo erano. Almeno, non ancora…..

“Non mi piace chi fa di testa sua”, riprese il signor Incappucciato, calcando per bene le suole dei proprio stivali per terra “Specie chi deve eseguire dei compiti prestabiliti e con metà del compenso già intascato.”

A ogni suo passo, i pirati si stringevano fra di loro, coi corpi rigidi e gli arti dolenti. L’angolo paradisiaco, creato dalle dolci parole, si era appena frantumato in mille pezzi e ora, quel misterioso individuo, deluso dall’esito dell’incarico, si stava avvicinando con una lentezza tale da stroncare ogni loro tentativo di fuga. Era immobili, paralizzati, coi abiti impregnati dell’aria appesantita del posto e dal loro stesso sudore: le pelli lucide, coperte di peli sui avambracci, tremavano quanto le gambe, che a stento cercavano di non cedere davanti a una simile pressione. Il poveraccio che aveva trovato il coraggio di parlare più di una volta, si ritrovò a fissare con viso inorridito il signor Incappucciato, a pochissimi centimetri da dove stava, ma senza scoprirne il volto. Sebbene vedesse il nero davanti a sé, percepì gli occhi del misterioso cliente scrutarlo minuziosamente: se avesse deciso di punto in bianco di mentire, probabilmente ogni sua frottola sarebbe stata smontata ancor prima di essere detta, insieme a ogni altro genere di informazione rimasto in sospeso.

Pentirsi di non essersi ribellati al momento giusto era inutile; riavvolgere il tempo non era un’abilità umana, per quanto essa fosse molto desiderata. Se lui, e tutti gli altri, avessero avuto il coraggio di fermare il loro capitano, probabilmente a quest’ora si sarebbero ritrovati a bere in un bar, trangugiando cibarie e festeggiando come dei dannati per l’oro guadagnato. Avrebbero potuto divertirsi, godere di quella piccola fortuna fino al suo esaurimento, ma ormai era troppo tardi. Lo aveva capito solo in quel momento, che il loro ruolo, in quella faccenda, era già stato scritto. Tremarono ancor di più nel vedere il signor Incappucciato dare loro le spalle e sussultarono nel sentirlo sospirare, mentre muoveva debolmente il capo da una parte all’altra. Non erano stati scelti perché nel loro lavoro erano i migliori, figurarsi: erano stati scelti perché loro erano delle perfette pedine “Usa e getta”, buone per un uso breve, ma destinate a una fine indegna e dolorosa. Capirlo non li avrebbe salvati, ma forse chissà, poteva darsi che quell’uomo fosse disposto a concedere loro una seconda chance, un’occasione per rifarsi. Dopotutto, non era una possibilità da escludere,no ?

“Signore…” cominciò titubante il pirata “La prego, non….”

SLASH!

Impedendo al pirata di terminare, la freddezza grigia che avvolgeva il signor Incappucciato svanì sotto i suoi occhi, come fosse appena stata annullata. Divenuto un vento sfumato, velocissimo e inafferrabile, si era catapultato contro di lui e i suoi compagni senza permettere loro di estrarre la spada o il pugnale. Istintivamente, il fuorilegge che fino a quel momento aveva parlato, si era coperto gli occhi con le braccia, come a volersi difendere da quella strana corrente, il cui fruscio era tanto stridente da fargli accapponare la pelle. Strizzò le palpebre, serrò i pugni, ma non appena udì dietro di sé le urla strazianti dei suoi compagni, la paura lo inondò completamente. Il sibilo udito non era nuovo, così come non lo era quello zampillio consistente che arrivò addirittura a toccare il soffitto; li conosceva bene, quei rumori sottili, perché lui stesso, più volte, ne era stato il fautore, quando aveva avuto il coltello dalla parte del manico. Da bravo e stupido pirata d’osteria quale era, non si era mai fermato a riflettere sulle emozioni di coloro che venivano depredati dai lui e dai suoi compagni: la vista dell’oro offuscava ogni cosa, comprese le vite altrui, e il godere di quella superiorità drogava l’animo a tal punto da farlo sentire invincibile. In un’epoca dove il più forte prevaleva sul più debole, vincere diveniva una questione di vita; nel loro business, robette come i sogni erano qualcosa di scontato, ridotti per lo più a smaniosi desideri di ricchezza, ma individui come lui tendevano facilmente a dimenticare che niente a quel mondo era eterno, figurarsi una cosa come la fortuna. Nell’istante in cui aveva messo piede in quel sotterraneo, tutte le scappatoie e le via di fuga si erano chiuse ermeticamente, lasciandolo solo coi suoi colleghi, e adesso, la paura, quella vera, stava manovrando il suo corpo contro la sua stessa volontà.

Ogni tentativo di fermarsi fu inutile: le spalle e il busto ruotarono all’unisono, per poi essere seguiti dalle gambe. Seppur i muscoli del collo fossero rigidissimi, la testa si voltò senza alcuna opposizione. Come l’olfatto venne accarezzato da un forte odore di rame, l’uomo storse il naso e accartocciò la sua espressione, trasformandola in un grugno scuro e barboso. L’intensità del sangue si fece largo lungo le sue narici con prepotenza e, di colpo, aprì gli occhi, senza neppure sapere per quale diavolo motivo lo avesse fatto.
Per l’orrore finì col cadere a terra, strisciando e sbattendo con la schiena contro la prima colonna di pietra capitatagli; alla vista di tutto quel liquido apparentemente nero, la gola gli si seccò e il cervello smise definitivamente di fargli vedere immagini riguardanti la sua vita.

A pochi metri da lui, i suoi compagni giacevano a terra, in posizioni diverse, coi occhi rivoltati all’insù e i corpi squarciati come se fossero stati fatti di carta. Il signor Incappucciato stava nel mezzo, immobile e col suo mantello nero a proteggerlo dalle macchie di quel sangue color pece. Il pirata si lasciò scappare un mezzo grido quando vide la sua testa girarsi nella sua direzione. Non gli parlò, semplicemente avanzò verso di lui, esibendo al posto della mani qualcosa per cui l’uomo decise di schiacciarsi ancor di più contro la colonna: parevano essere delle spesse aste metalliche, lisce, con le punte acuminate e gocciolanti di sangue, lucenti per via dei bagliori soffusi delle fiaccole. Le larghe maniche del mantello le coprivano perfettamente, lasciando intravvedere soltanto un discreta parte dell’apice, sufficiente a mettere in guardia anche il più sprovveduto degli sprovveduti. Poco importava cosa fossero: quando il poveraccio si ritrovò il signor Incappucciato a sovrastarlo, con le braccia penzolanti lungo i fianchi, le domande cessarono di esistere.

“Pirati o meno, rimanete pur sempre della feccia inutile. Pensavate sul serio che vi avrei concesso una seconda possibilità, dopo questo fallimento? Tu e i tuoi stupidi compagni mi avete fatto perdere un sacco di tempo”, disse quest’ultimo “E sia dia il caso, che io, di questo, non ne abbia in abbondanza.”

Come stimolato da un elemento esterno, il subconscio del poveraccio impazzì, portandolo a compiere l’ultimo dei gesti estremi, nonché il più sciocco e inutile. Sfilando un pugnale da dietro la vita dei pantaloni, si scagliò contro il signor Incappucciato urlando, finendo, in men che non si dica, tagliato a metà da un fendente laterale di quell’asta lucente e affilata.

“Che illuso…”, sogghignò.

Come il corpo senza vita del pirata toccò terra, le braccia del signor Incappucciato tornarono alla normalità, riacquistando calore e mobilità. Non si premurò di verificare se fosse morto definitivamente: con il busto da una parte e le gambe dall’altra, era difficile che quell’incapace fosse vivo. Inoltre, l’aria dei sotterranei si stava facendo veramente insopportabile: con l’odore del sangue, poi, rimanere lì sarebbe equivalso a morire soffocati per le esalazioni mortali che si sarebbero appesantite ulteriormente con la presenza di quei sudici cadaveri.

Evitando di respirare la puzza, si avviò all’unica uscita a grandi passi, lasciandosi indietro quell’accozzaglia di errori che gli erano costati più di quanto pensasse. Affidare a quei pezzenti un incarico del genere era stata un’autentica sciocchezza! Aveva pianificato quel progetto in ogni suo punto, senza lasciare buchi scoperti e ora, senza nemmeno essere arrivato a metà, era costretto a fermarsi per colpa di una sua stessa decisione. Non poté che rimproverarsi per un simile atto. Nel salire i gradini smussati, si domandò come diavolo avesse potuto rivolgersi a gente del genere: forse la ragione stava nel fatto che quelli erano pirati di bassa lega, la cui esistenza non importava a nessuno, facili da manovrare e ancor di più, da far sparire. Contattare dei mercenari sarebbe stato troppo rischioso: era importante che la sua posizione non venisse contaminata da macchie colme di sospetto e individui come quelli tendevano a essere un po’ troppo invadenti, se non tenuti d’occhio adeguatamente. Tutto doveva procedere secondo il suo piano, tutto doveva svolgersi senza ulteriori intoppi, o farne le spese, sarebbe stato lui.




Uscito da quella specie di labirinto sotterraneo, il signor Incappucciato poté finalmente  riempire i propri polmoni di aria fresca, sotto la luce della luna piena. La città dormiva profondamente, con tutte le botteghe chiuse e lei vie deserte, scosse ogni tanto da qualche ululato canino. Nemmeno si era reso conto di essere rimasto là sotto per così tanto tempo, ma in un certo qual modo, si sentì sollevato di non doversi fare strada in mezzo ai civili: a lungo andare, si era abituato ai lunghi e sontuosi corridoi del mastodontico edificio dentro cui risiedeva, con il suo silenzio e gli angolini in ombra dove potersi fermare per qualche minuto. Era proprio dentro ad essi – e in parte, nella sua stanza – che aveva posto le basi del suo progetto, gettando ogni tanto un’occhiata fuori dalle ampie finestre attraversate dal sole. Ogni passo era stato studiato in tutte le sue angolazioni, ogni mossa pianificata con puntigliosità quasi nauseante; il signor Incappucciato non si era lasciato sfuggire nulla, perfino la più piccola delle alternative. Una persona meticolosa come lui amava tutto ciò che rasentasse la perfezione, o quanto meno, che ci si avvicinasse a sufficienza, e non c’era mai stata occasione che questi avessero fallito, se si escludevano quei disgustosi ubriaconi lasciati a marcire nei sotterranei.

Come aveva potuto abbassarsi a chiedere aiuto a individui così rozzi? Lui stesso non seppe rispondersi e si passò una mano sul volto coperto per doversi scrollare l’irritazione crescente.

Ben conscio dei tempi da rispettare - per non parlare dei doveri -, si incamminò lungo le vie secondarie, pregustandosi mentalmente il caldo e morbido letto che lo attendeva, insieme alle altre comodità conquistate grazie alla sua posizione. Dopo quei ultimi giorni sfiancanti, gli occorreva almeno una buona nottata all’insegna del riposo: non avrebbe concluso niente con un paio di occhiaie antiestetiche e le forze ridotte del cinquanta per cento. Escluso l’intoppo, tutto il resto procedeva alla perfezione, come da manuale, ma anche se si sforzava di non pensarci, era inevitabile che i suoi pensieri finissero con il tornare a quella questione: con quell’insensato attacco a sorpresa, i pirati aveva compromesso una parte saliente del suo piano, finendo per allarmare la mocciosa e le sue due guardie del corpo. Era impossibile che risalissero proprio lui, date le precauzioni messe in atto al fine di mantenersi nell’ombra, ma il timore che quei due ragazzi non considerassero quell’attacco una casualità, fece vibrare la sua sicurezza. Se non fosse stato un uomo di un certo rango, forse avrebbe ceduto al timore, a delle ipotesi tirate su dall’ansia, ma l’essere quello che era, lo stava spingendo a mantenere una passività degna del titolo che portava e a camminare senza alcun passo incerto: adesso, se voleva portare a compimento il proprio dovere, doveva muoversi con ancora più cautela e astuzia, anticipando qualsiasi mossa malvista e impedendo che i suoi impegni quotidiani non ne risentissero: sarebbe stato alquanto pericoloso se qualche subordinato si fosse accorto della sua negligenza a certi incarichi e, vista la sua puntigliosità, non era il caso di mancare al proprio dovere.

Il tempo era una l’unica variabile traballante in tutta la faccenda e lui si stava prodigando al fine di ottenerne di più, seppur il suo “Cliente” fosse alquanto impaziente. Accontentare una persona di quello stampo era un’impresa che meritava onori e privilegi molto speciali, e lui, era intenzionato a intascarsi quei vantaggi sino all’ultimo. Ma prima doveva riposarsi e ricomporsi. Un bagno per togliersi di dosso l’odore del sangue e un buon bicchiere di vino, prima di addormentarsi, erano quel che gli ci voleva.
Svoltò a destra con silenziosa eleganza, superando un alto lampione che illuminava un ristrettissimo spazio del marciapiede. Appena superato, stoppò la sua camminata, attirato da un leggerissimo e delicato profumo che attirò la sua attenzione. Era effimero, femminile, appena percepibile e gradevole all’olfatto, ma soprattutto, vicino a dove stava, praticamente alle sue spalle.

“Non immaginavo fossi un’amante delle passeggiate al chiaro di luna.”

La voce che aveva rotto il silenzio si accompagnò a una sommessa risata, talmente evanescente da essere paragonata al tocco della seta. Il signor Incappucciato non si scompose e si voltò con ferrea sicurezza verso quell’angolino buio che la luce del lampione non riusciva a dissipare.

“Ed io ti credevo più scaltra nel non farti notare, cara la mia cacciatrice di pirati”, replicò lui, ghignando elegantemente.

Ridendo con più maliziosità, Camiria uscì dal suo riparo buio per mostrarsi alla luce del lampione. Era una donna sulla trentina, alta, tanto affascinante quanto crudele, con corti capelli neri e mossi, accompagnati da due occhi d’onice ammalianti, abbelliti con dell’ombretto viola leggermente sfumato sui lati. Labbra e unghie erano dipinte di nero, in perfetta sintonia con il lungo e provocante abito scollato che indossava – anch’esso scuro –, il cui spacco vertiginoso arrivava quasi a toccare il fianco. Privo di spalline, il vestito fasciava alla perfezione il corpo sinuoso e sodo della donna, che, con camminata ancheggiante, si parò davanti al signor Incappucciato senza alcuna paura.

“Mi sottovaluti se pensi che io mi faccia sorprendere così facilmente”, ribatté lei, con fare soave e le palpebre socchiuse “E, comunque, non sei certo nella posizione per rimproverarmi: a quanto pare, il tuo bel piano ha appena contratto una falla.”

Sebbene fosse stato appena colpito in un punto dolente, l’uomo non mostrò alcun cambiamento emotivo e continuò a guardare la socia nel mentre inclinava la testa, in attesa di una sua risposta. Camiria era forse la donna più intrigante e maligna che avesse mai conosciuto, e quelle sole due qualità avevano fatto di lei una cacciatrice di pirati tanto famosa quanto temuta. Una persona di classe, calcolatrice, letale, e sfuggente come il vento, amante della solitudine e collezionista di trofei, la cui esistenza nel Nuovo Mondo era ritenuta quasi incerta per via delle sue apparizioni a dir poco fulminee. Il signor Incappucciato era l’unico che potesse vantare una certa conoscenza su di lei, seppur non approfondita: il loro era un puro rapporto di complicità, che soddisfaceva le necessità di entrambi, ma questo significava che lui la conoscesse come le sue tasche. L’aspetto di Camiria, il suo comportamento, il carattere, gli sguardi, i sorrisi…tutto lasciava intendere che amasse essere vista come una persona oscura, che preferiva tenere per sé i lati della propria personalità. Un enigma vivente, per farla breve. Amava intingere ogni sua movenza  di sensualità intrigante, apparendo e scomparendo come un fantasma, e il semplice fatto di essere considerata un’esistenza non del tutto sicura, in un qual modo, la eccitava a tal punto da mostrare tutto il suo sadismo a chi aveva la sfortuna di incontrarla.

Per quanto il signor Incappucciato fosse stuzzicato da quello specifico lato della donna, meritevole dei suoi complimenti, al momento, questo, non occupava il centro dei pensieri; il suo umore piatto veniva trasmesso con voce secca, dando prova della sua irritazione per l’intoppo creatosi. Seppur non lo vedesse in faccia, la corvina abbozzò uno dei suoi sorrisi maliziosi, accentuando così i femminili lineamenti che facevano di lei una creatura alquanto desiderabile.

“Si direbbe proprio che io abbia centrato il punto”, disse poi.
“Non è il posto adatto per parlarne”, replicò freddamente il signor Incappucciato.
“Lo so, qualche sonnambulo potrebbe sentirci”,  gli soffiò lei sulle labbra “Vieni con me. Staremo più comodi a casa mia.”




Come si sedette su quella grande e soffice poltrona di velluto scarlatto, il signor Incappucciato sciolse i propri muscoli, espirando con sollievo. La morbidezza delle imbottiture e dei cuscini coccolò i suoi arti, inducendoli a privarsi della tensione accumulata. Il sorso di vino rosso che poi si gustò, servì a farlo rilassare definitivamente. Il liquido dalle mille fragranze ondeggiava all’interno del fragile e finissimo bicchiere di cristallo che reggeva fra l’indice e il medio, con la coppa completamente appoggiata sul palmo della mano.
Appoggiando la testa sullo schienale, l’uomo dischiuse gli occhi sul salone, dove lui e la padrona di casa si trovavano: a illuminarlo, vi era solamente il fuoco del camino, le cui fiamme danzavano e crepitavano con movimenti vivaci e irregolari. Il mantello era stato lasciato in disparte, abbandonato momentaneamente sul lungo tavolo di legno scuro, coperto da una tovaglia bianca con ricami e su cui era appoggiato un vaso panciuto, pieno dei fiori preferiti della cacciatrice: delle deliziose campanule azzurrine, con leggere sfumature lilla. Notò con piacere che il buongusto della donna aveva trasformato quella vecchia magione, un tempo colma di buchi e ragnatele, in un’autentica dimora degna di un nobile e di questo, se ne compiacque, poiché anch’egli amava mobili e oggetti di una certa classe.

Fra quei candelabri dorati e il lungo divano rosso dai cuscini vaporosi, il signor Incappucciato trovò il buon gusto del decoro e della raffinatezza, entro i giusti limiti, ovviamente. Aveva avuto modo di conoscere gente dalle pretese a dir poco assurde, capaci di trasformare una semplice abitazione in un museo degli orrori, tanto l’arredamento arrivava a rasentare l’eccessività. Fortunatamente, in quella grande sala avente ampie finestre, dove la luna filtrava con la sua luce opaca, non vi era nulla per cui valesse la pena storcere il naso: le pareti bianche, per via del buio esterno, apparivano più scure, appena sfumate ai lati, data della grandezza della stanza. Il fuoco situato nel camino ballava sulla legna con movimenti sinuosi, producendo aloni arancioni che si espandevano sulle superfici più vicine ad esso e spingendo le ombre a rifugiarsi sotto i mobili o nei angoli più vicini. Una vista che ipnotizzò momentaneamente il signor Incappucciato, nel mentre un secondo sorso di vino gli scorreva giù in gola.

“Allora, Camiria, quanto sai di questa faccenda?” le domandò infine, volgendo lo sguardo sulla padrona di casa.

La cacciatrice di pirati, comodamente seduta sul suo bel divano, con le gambe accavallate, inspirò profondamente, sbattendo le lunghe ciglia e guardandolo con le palpebre socchiuse.

“Abbastanza perché tu la prenda con le pinze”, gli rispose affabile, nel sistemarsi poi con l’indice una ciocca arricciata “La piccina si è fatta degli amici piuttosto noti al Governo Mondiale e non credo che questi si lasceranno uccidere tanto facilmente.”

A quella risposta, il signor Incappucciato annuì debolmente con la testa: il porre una domanda simile a una donna capace di scoprire i più arcani segreti di un’organizzazione non poteva che essere una perdita di tempo. Ma per lui era quasi un obbligo accertarsi su tali questioni, una dipendenza che alla fine portava sempre in primo piano l’argomento che voleva intavolare. Sebbene la visita inaspettata di Camiria non rientrasse nei suoi programmi giornalieri, si sentì comunque soddisfatto per quella improvvisata, poiché la cacciatrice era esattamente quello di cui aveva bisogno.

La ciurma di Cappello di Paglia era un nemico piuttosto appariscente, estremamente noto alle autorità, nonostante i due misteriosi anni di assenza. Dopo il grande incidente avvenuto a Impel Down, Monkey D. Rufy era stato classificato come uno dei pirati più pericolosi al mondo, un ricercato di livello S. L’apprendere che quella mocciosa e le sue due guardie del corpo erano venute a contatto proprio con quella banda di pirati, gli aveva fatto fremere le mani pericolosamente, portandolo quasi alla tentazione di rompere qualcosa: aveva percepito chiaramente il suo potere vibrare, chiedere di essere usato, liberato dal suo controllo, ma si era trattenuto. Aveva respirato manciate d’ossigeno per placare il moto crescente dentro di lui, rilasciandolo nel momento in cui aveva deciso di sventrare quei sudici pirati da lui ingaggiati, senza alcuna esitazione. La faccenda aveva preso una piega inaspettata, questo era vero; d’altro canto, proprio non si aspettava l’entrata in scena di quella ciurma, ma non era il caso di darsi per vinti. Nel suo essere meticoloso, esisteva sempre una via secondaria che gli permetteva di ristabilire l’equilibrio perduto e tale alternativa, era rappresentata dalla donna che gli stava di fronte.

“Ragione per la quale mi rivolgo a te”, le sorrise amabilmente, poggiando il bicchiere di vino sul piccolo mobile circolare che affiancava la poltrona e sporgendosi in avanti “Avrai constatato con i tuoi stessi occhi che simili pirati richiedono particolari attenzioni e, data la nostra stretta collaborazione, sarebbe stato imperdonabile se non ti avessi coinvolta.”
“Generoso da parte tua”, fece lei, guardandolo attentamente “Potrei anche commuovermi, se non sapessi che il mio aiuto ti serve per non destare sospetti.”
“Oh, così mi offendi…”, le disse lui, fingendosi ferito al cuore “Tutto quello che voglio è che tu ti diverta un po’ con quei pirati.”

Camiria si astenne dall’approfondire l’argomento e si lasciò affondare nello schienale del suo divano, incrociando le braccia sotto il prosperoso seno. Il suo ospite, nonché socio, aveva le idee chiare sul da farsi e il suo comportamento le aveva appena fornito la prova schiacciante per affermare, senza ombra di dubbio, che era disposto a tutto pur di non ritrovarsi con le mani bucate. Dietro a quel viso apparentemente calmo e amichevole, si nascondeva un’ambizione maniacale e contorta, insaziabile sotto tutti i punti di vista. Lo scintillio sinistro che guizzava in quei suoi occhi metallici era inconfondibile, una sorta di marchio di riconoscimento. Di uomini smaniosi di potere, a quel mondo, ce ne erano a bizzeffe: tutti sicuri di ottenere l’impossibile senza alcuno sforzo. Pochi si distinguevano da quella massa di illusi e lei era ben felice di far parte di quella schiera ristretta: ambizione e intelligenza stavano fusi in un legame strettissimo, l’una attratta dall’altra, come fossero poli opposti, ma la prima tendeva sempre a sopraffare la seconda, rompendo in un sol colpo il delicato equilibrio instauratosi. Un esito inevitabile, se ci si credeva al di sopra di tutto e tutti, ma schivabile se sufficientemente abili a non farsi influenzare da entrambe le parti.

La differenza che poneva la cacciatrice di pirati su di un piano totalmente diverso dal loro, era l’avere alle spalle tutta una serie di fatiche e episodi che le avevano permesso di affinare la sua personalità e il suo stile di combattimento. Camiria era affascinante, potente, ma anche molto furba e calcolatrice, una stratega che, nel suo piccolo, sfruttava il proprio intelletto e i propri desideri quanto bastava, per ottenere ciò che voleva; aveva faticato, sudato e sputato sangue, a volte arrivando anche a sfiorare la morte, ma era sempre riuscita a uscirne vincitrice, seppur col corpo ammaccato, a volte. Le svariate cicatrici biancastre che ricoprivano la maggior parte della sua schiena ne erano la prova. Ciascuna di esse rappresentava un suo momento di debolezza, una superficiale distrazione che le era costata la vittoria. L’essere sempre stata attaccata alle spalle le aveva fatto guadagnare quei orribili segni che le deturpavano la pelle, ma, anziché nasconderli, lei li esibiva, senza alcuna paura: l’arrivare ad accaparrarsi la reputazione, quella reputazione che ora deteneva e custodiva come il più prezioso dei suoi trofei, aveva preteso i giusti sacrifici, spingendola a tirare fuori i lati peggiori di lei, i più freddi e crudeli che potessero mai esistere, eccitandola alla vista del suo stesso sangue e di quello delle sue future vittime. Fermarla prima che si sentisse appagata e soddisfatta era impossibile. Ulteriormente, il prediligere il lavoro solitario a quello di gruppo, implicava, da parte sua, una prudenza doppia, seppur possedesse non pochi assi nella manica; non era tanto sciocca da gettarsi sulla prima taglia sostanziosa su cui i suoi occhi si posavano, senza prima riflettere sul da farsi.

Ora, davanti a quell’uomo che lei aveva preso a chiamare scherzosamente “signor Incappucciato”, giusto per mantenere segreta la sua reale identità, acquisì la consapevolezza che la sua entrata in scena era già stata pianificata, ma non se ne meravigliò: era conscia del fatto che il socio, presto o tardi, avrebbe richiesto i suoi servigi e lei era ben intenzionata a prendersi una fetta di quella sostanziosa torta mostratale. Parole e spiegazioni erano inutili: conosceva i dettagli, l’obbiettivo, e tutto ciò che quel piano comportava, compresa l’attuale posizione dell’uomo. Non era propriamente corretto affermare che le sue mani erano legate, ma si trovavano comunque impegnate su di un altro fronte, che non poteva essere bellamente ignorato. Un motivo più che sufficiente per lasciare a lei l’altra parte del lavoro………

Alzandosi in piedi, Camiria depose il suo bicchiere di vino vuoto sul tavolino – esattamente come aveva fatto prima il suo ospite - e ancheggiò verso il signor Incappucciato, per poi posare le sue mani sulle sue gambe, sporgendosi in avanti quanto bastava perché lui ammirasse ogni dettaglio dei suoi splendidi occhi neri.

“Quello che vuoi…”, sussurrò lei “E’ farti bello agli occhi del tuo cliente e impedire che i tuoi colleghi ficchino il naso nei tuoi affari. Immagino che sarebbe un bel disastro, se si venisse a sapere che la pargola del signor Yokozomi viaggia insieme a Monkey D. Rufy.”

Tolse una delle mani dalle ginocchia di lui per farla vagare sul torace, incontrando così la stoffa ben stirata dei suoi vestiti; fermatasi a metà, prese a giocherellare con la cravatta, facendola passare fra le dita, carezzandola e stropicciandola, senza però danneggiarla.

“Mammina e papino saranno molto preoccupati per la loro figlioletta”, riprese lei con tono falsamente preoccupato “Potrebbero mandare un ammiraglio o due a prenderla, se non riceveranno presto sue notizie, e tu non vuoi che qualcun altro rovini i tuoi piani, giusto? Dobbiamo….” e alzò gli occhi verso di lui “Assicurarci che le acque rimangano calme, non ho forse ragione?”

Come vide il sorriso provocante della corvina allargarsi, il signor Incappucciato si ritrovò improvvisamente inchiodato alla poltrona. Non si trattava di una paralisi fisica, ma, più che altro, di una psicologica: nei occhi della cacciatrice di pirati si annidavano luci e sfumature di consistenza indecifrabile, richiamanti emozioni maligne e ingannevoli: vide il nero, ma anche il viola e un sottile velo biancastro che giocava a rendere i colori più chiari e sfuggenti, sintomo che il sadismo della donna era presente e pronto a farsi sentire. Senza volerlo, l’uomo di ritrovò spettatore di uno spettacolino ipnotico, pieno di fascino e mistero: Camiria stava esercitando una pressione silenziosa su di lui, invisibile al semplice occhio umano, ma percepibile sulla pelle. Cuore e polmoni gli si appesantirono ed ebbe l’impressione che il sangue avesse rallentato il perpetuo viaggio all’interno del suo corpo. Pareva che i muscoli si fossero afflosciati un po’ troppo, perché, come provò a chiamarli a sé, questi non risposero, tuttavia, sebbene tutto ciò potesse essere alquanto sgradevole da provare, il signor Incappucciato rimase calmo, come immune da quel peso: in realtà lo sentiva perfettamente, ma non era nulla per cui valesse la pena mettersi a combattere.

Non c’erano intenzioni omicide in quello sguardo incisivo e ammaliante, solo un forte desiderio di mettere le carte in tavola, di modo tale che i conti fossero equi. Le unghie laccate di nero di lei si astenevano dall’infilzargli le gambe, divertendosi a tamburellare ogni tanto sulla stoffa dei pantaloni senza una precisa ragione, nel mentre la donna gli scrutava il volto con insolito interesse. Il profumo delle campanule – il preferito della corvina– stuzzicò il suo olfatto, addolcendo i lineamenti di lui e portandoli a spiegarsi in un’espressione curiosa.

“Camiria, cosa vuoi insinuare con il tuo discorso?” le domandò tranquillamente.
“Assolutamente niente. Voglio solo ricordarti, caro il mio signor Incappucciato…” e lì si sporse ancora di qualche centimetro “Che io non sono uno dei tuoi tanti strumenti e che posso spezzarti le gambe quando mi pare e piace.”

Quel suo tenere in bella vista gli artigli era uno dei tanti lati della socia che piacevano al signor Incappucciato. Seppur la voce di lei fosse morbida e vellutata, nessuna delle sue parole nascondeva delle menzogne: Camiria era una donna di parola e ciò che prometteva, manteneva. Una ragione più che valida per non prenderla sottogamba.

“Oh, ma io non oserei mai servirmi di te”, le disse accarezzandole il mento con il pollice e l’indice “Dovresti averlo capito da tempo che se tentassi di fregarti, non ne ricaverei nulla.”
“Lo so, ma ci tenevo a fartelo ricordare.”

Raddrizzando il busto, la corvina prese il calice di cristallo dal tavolino, volgendogli poi le spalle e camminando sul tappeto dai disegni complessi che attutivano il rumore dei suoi tacchi a spillo.

“Per ora puoi tranquillizzarti”, affermò poi, dopo aver bevuto un sorso di vino “Mi occuperò personalmente di Cappello di Paglia e farò in modo che nessuno possa ricollegarti a questa faccenda. Mi occorrerà un po’ di tempo, ma non ti devi preoccupare: tu fai il bravo diplomatico e vedi che non mi arrivino addosso marine o ammiragli. Non mi prenderò alcuna colpa se oseranno intralciarmi.”
“Agisci come meglio credi, ma non sottovalutare questi pirati”, le consigliò lui, alzandosi dalla poltrona. “Come hai detto tu, sono molto noti al Governo Mondiale.”
“Ciò non significa che siano alla mia altezza”, replicò freddamente la padrona di casa.
“Uh uh, se la pensi così, allora non ho niente da temere.”

E senza una riverenza o un particolare saluto, il signor Incappucciato lasciò il salone, dirigendosi verso l’uscita speciale che la donna aveva appena creato col suo potere. Con quella sarebbe giunto ai suoi appartamenti in un batter d’occhio, mantenendo integro l’alibi creatosi e senza spendere energie inutili in un viaggio lungo e faticoso.
Assicuratasi che l’ospite non fosse più nella magione, Camiria si avviò verso il tavolo affiancato alla grande finestra, poggiandoci sopra il bicchiere vuoto. Sotto la pallida luce lunare, le campanule raccolte nel tondo vaso blu abbellivano con la loro semplice presenza quel lungo mobilio utilizzato esclusivamente da lei.

Erano il suo tocco personale, una punta di colore che aveva sparso un po’ ovunque, giusto per respirare un po’ di serenità, ogni tanto. Il loro profumo, leggero e delicato, si insinuava fra le piccole foglioline umide, incitando i boccioli ancora dormienti a schiudersi. Le radici sottili scavano nel terriccio fino a toccare il fondo del vaso, schiacciandosi a vicenda per occupare quanto più spazio possibile e mangiando quelle piccole gocce d’acqua che ancora non erano state del tutto assorbite.
Camiria amava quei fiori, erano di gran lunga i suoi preferiti, tanto da averne un ampio giardino interno a sua completa disposizione. Li trovava semplici, minuti, con due significati contrapposti che, fin dal subito, l’avevano affascinata: se da una parte, quei fiori erano sinonimo di speranza, dall’altra, richiamavano a sé immagini crudeli e maligne, per via del soprannome a loro dato: le campane dei morti.

Si credeva che nei loro campi ci vivessero spiritelli maligni, che il loro tintinnio portasse a una morte precoce, il che induceva molti a disprezzare quei fiori così belli. Era difficile pensare che a qualcosa di così piccolo e inoffensivo fosse dato un significato tanto macabro, ma era proprio quella peculiarità che aveva fatto si che questi divenissero i fiori prediletti della cacciatrice di pirati: erano la prova per eccellenza, che l’apparenza era solo una mera illusione, piena di fronzoli e ghirlande che servivano a coprire gli eventuali buchi. Le sue belle campanule erano piccole, graziose, dall’aspetto innocuo e pacifico, ma colme di malignità esattamente come lei. Aprendo il palmo di una delle sue mani, la donna accarezzò i loro petali con fare del tutto identico a quello materno, sorridendo furbescamente nel mentre le guardava con fare maliziosamente intenerito.
Un pirata con un taglia di ben quattrocento milioni di Berry…..oh, questo non se lo sarebbe lasciato proprio scappare.

Sarà interessante, si disse leccandosi le labbra Sarà veramente interessante.

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Capitolo 6
*** Sogni da realizzare. ***


Eccomi qua, buon lunedì a tutti quanti! Spero di non avervi fatto aspettare troppo, ma i miei impegni sono molteplici e il tempo è maledettamente tiranno, quindi, bando alle ciance e partiamo col nuovo capitolo! Buona lettura a tutti quanti e grazie mille a chi mi segue, siete dei tesori!!
 
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Era appena l’alba e la superficie dell’oceano era piatta e silenziosa. Gli scintillanti luccichii che i fasci solari producevano, venivano riflessi dall’acqua, creando bislacche pozze dorate che, messe insieme, davano vita ad un fiume spendente e assolutamente unico. Il blu scuro della notte prevaleva ancora, ma all’orizzonte si poteva già scorgere l’azzurro e il giallo del mattino, insieme a qualche nuvoletta che si divertiva a portare curiose sfumature rosee.
 
Sanji era già ai fornelli da almeno una decina di minuti. Con l’immancabile sigaretta e il grembiule allacciato alla vita, il biondo era sempre il primo ad alzarsi, poiché, in qualità di cuoco della ciurma, doveva preparare la colazione ai suoi compagni. La cucina era il suo regno, il fornello e le padelle i suoi strumenti, e l’amore per le fanciulle presenti sulla nave la sua ispirazione. Quando si parlava di cibo, Gamba Nera era il massimo esperto, perché non lasciava mai nulla al caso: valori nutrizionali, colore delle pietanze…. tutto veniva calcolato e studiato affinché i piatti fossero gradevoli sotto ogni aspetto. Mettendola a quel modo, poteva risultare un lavoro lungo, difficile, estremamente pressante per chi era alle prime armi, ma Sanji, oramai, non percepiva più alcuna forma di ansia durante il suo lavoro: gli insegnamenti e i calci del vecchio Zef erano serviti a tirarlo su così bene da fargli apprezzare qualsiasi fatica che riguardasse il campo culinario. Amore e passione, in cucina, erano i due ingredienti principali per eseguire alla perfezione anche la ricetta più complicata: certo, occorreva anche una profonda conoscenza dell’arte, la volontà di testare ingredienti particolari e sconosciuti, ma senza una motivazione più che valida alla base di tutto ciò, il risultato non poteva che essere povero e insipido. Se poi la molla che spingeva Sanji era quella di farsi bello agli occhi di Nami-san e Robin-chan, avrebbe anche cucinato con le mani dietro la schiena, pur di ricevere dei apprezzamenti dalle due ragazze.

Pre-immaginandosi tutta una serie di elogi e complimenti femminili a suo carico, il ragazzo cominciò a sbuffare dolci nuvolette di fumo a forma di cuore, nel mentre finiva di preparare l’impasto della torta.
Il caffè stava bollendo nella caffettiera, borbottando silenziosamente, insieme all’acqua del tè. Seppur questi fossero rumori molto leggeri, il cuoco della ciurma di Cappello di Paglia non udì lo scricchiolio della porta stante alle sue spalle. Se si fosse trattato di Rufy, questa sarebbe stata sbattuta con violenza, seguita dall’acuto “Ho fame!” del capitano e dal suo secco “No!”. Difendere la colazione dagli attacchi multipli di quella testa bacata era diventata un’abitudine giornaliera, quasi quanto il litigare con Zoro, ma, se non altro, ora non doveva più preoccuparsi che quello stomaco senza fondo rubasse di nascosto il cibo dal frigorifero: il lucchetto con la combinazione numerica era una difesa più che sufficiente a fermarlo, visto che il suo cervello non era abituato ad avere a che fare con pensieri matematici.
Si, Sanji non si sarebbe minimamente sorpreso se Rufy gli fosse arrivato addosso con la grazia di un ciclone, ma la porta, quella mattina, si era aperta con troppa delicatezza perché la si potesse paragonare all’entrata dinamica del capitano. I cardini cigolarono appena, zittendosi non appena la porta venne chiusa con silenziosità. Preso dal suo da fare, il cuoco non fece caso a null’altro che non rientrasse nelle sue mansioni, neppure a quei passi impercettibili, quasi impossibili da sentire. Tra i profumi di cui lui stesso era l’artefice e i pensieri idilliaci, lasciò che la seconda persona presente nella stanza appoggiasse i gomiti sul bancone che divideva la sala dalla cucina, di modo che le mani le sostenessero il mento. Non parlò subito, decise di guardare il ragazzo per un pochettino, tutto preso a cucinare, nel mentre si lascia sfuggire qualche affermazione stramboide sul suo immenso amore per le compagne. Dovette ammettere di non aver mai visto nessun uomo comportarsi a quella maniera: pareva che la semplice vista del gentil sesso lo rendesse tanto felice da ucciderlo, il che l’aveva subito incuriosita. Un conto era complimentarsi con una ragazza per la sua bellezza, ma un altro era il rivolgerle interi papiri colmi di venerazioni impensabili , il tutto servito con cuoricini e rose. Le era venuto istintivo pensare che quel tipo fosse drogato, ma il comprendere che quel suo comportamento non derivava da alcuna sostanza tossica, aveva stuzzicato la sua vena approfittatrice.
 
E quando un’occasione ghiotta stava così vicino, non si poteva non approfittarne, no?
 
Una torta con la frutta fresca delizierà il palato di Nami-san e Robin-chan, affermò mentalmente Sanji, nel mentre montava la panna E chissà che…
“Buongiorno”, gli disse qualcuno, con voce soave.
“Oh, buon….MELLORINE!!!”
 
Il flusso di pensieri del biondo si era interrotto per poter salutare chi stava alle sue spalle: Azu stava di fronte a lui, con indosso soltanto una camicia bianca e malamente allacciata.
Senza lasciarsi scappare la fatica con cui quella scollatura nascondeva il petto della ragazza, l’occhio di Sanji cadde immediatamente sulle rotondità pericolosamente sporgenti d’essa, dando il via all’ennesima emorragia nasale, che aumentò d’intensità quando il biondino si accorse che la ragazza, oltre alla camicetta, portava soltanto la biancheria intima. Essendo relativamente presto, gli altri dormivano ancora, quindi l’albina non si era minimamente preoccupata di indossare un paio di pantaloni. Se non ci fosse stato il bancone a dividere la visuale di Sanji da quelle gambe snelle e toniche, poco ma sicuro, quest’ultimo avrebbe accumulato nella sua scheda sanitaria un altro infarto, raggiungendo una quota alquanto inquietante.
 
“Azu-chwan, che sorpresa!” ululò lui, catapultandosi verso di lei “Ti sei alzata presto appositamente per venirmi a trovare? Che cara!!”
“Non esattamente”, disse lei con una grossa goccia dietro la testa.
 
Anche se lo avesse detto ad alta voce, quel biondino dalle sopraciglia attorcigliate era troppo fuori di sé per ascoltare una versione diversa dalla sua.
 
“Allora, mia adorata Azu-chwan, cosa posso fare per te? Come posso esserti utile, mia bellissima fata?” domando lui con tono smielato.
“Cosa puoi fare? Uhm…vediamo…”
 
Seppur conscia del fatto che il cuoco avesse l’occhio più puntato sul suo seno che sul suo viso, Azu sollevò per qualche secondo lo sguardo, fingendosi incerta sul che cosa chiedere, nel mentre uno dei suoi tipici sorrisini approfittatori faceva capolino sulle sue labbra. Non era certo la prima volta che veniva guardata con occhi sgranati e bava alla bocca, ma la differenza, lì, era che ci poteva guadagnare qualcosa che le riempisse lo stomaco vuoto. E difatti, la sua richiesta fu molto semplice…..
 
“Mi è venuta un pochino di fame”, rivelò lei “Non è che saresti così gentile da darmi qualcosina?” chiese con occhi innocenti “Anche un biscotto….”
 
Non ebbe neppure il tempo di finire, che si ritrovò davanti un vassoio colmo di leccornie coloratissime e con un profumino davvero invitante.
 
“Ecco a te, mia adorata!” esclamò il cuoco “Mangiane quanti ne vuoi, non fare complimenti!”
 
Se non lo avesse visto con i suoi stessi occhi, non ci avrebbe mai creduto: ancora una volta, le era stata data la prova che la stramberia non aveva limiti e che su quella nave, ne avrebbe trovata così tanta da riempirci almeno tre bastimenti interi. Sanji la guardava con fare sognante, come se fosse una dea luminescente e benevola, spargendo cuoricini ovunque, perfino sul soffitto. Se gli avesse chiesto di buttarsi da un ponte per dimostrarle il suo amore, sicuramente quel ragazzo lo avrebbe fatto, ma l’albina non era così smaniosa di testare la follia che affliggeva il cuoco.

Allungò una delle mani per afferrare con la punta del pollice e dell’indice un biscotto con scaglie di cioccolato, per poi addentarlo in tutta tranquillità. Sollevando un sopracciglio, lasciò che il proprio palato si sciolse davanti alla squisitezza di quel dolcetto: era davvero buono, squisito, e non potè fare a meno di prenderne altri due. Dopo un bel bagno rilassante e una dormita, non c’era niente di meglio che riempirsi lo stomaco con qualcosa di stuzzichevole; il suo corpo pareva rinato, ora che era stato privato dalla tensione e dalla sporcizia del giorno antecedente, una cosa che aveva contribuito a migliorare anche l’umore, più tranquillo e rilassato. Il calore dell’acqua, unito ai profumi dei sali da bagno, aveva provveduto a distenderle i muscoli indolenziti. La sofficità del materasso e delle coperte si era occupata di distenderle definitivamente ogni fibra del suo corpo, conducendola nel mondo dei sogni senza troppi problemi, lo stesso dentro cui stava Shion, ancora profondamente addormentata nella stanza che le era stata data insieme a lei. Inizialmente, aveva chiesto di poter dormire in infermeria, per fare compagnia a Lars, ma non era occorso molto per metterla a letto da un’altra parte: la piccola era crollata sul materasso del ragazzo dopo neanche mezz’ora di guardia. 
Azu dubitava sul fatto che si sarebbe svegliata presto, ma non lo escludeva totalmente: Lars, a differenza sua, non era in piedi e pimpante, il che voleva dire che la preoccupazione della piccina l’avrebbe tenuta in piedi per tutto il tempo che sarebbe occorso al ragazzo di svegliarsi. Quando voleva fare una cosa, Shion era capace di saltare il pranzo e la merenda, pur di non distrarsi, e visto che in ballo c’era la salute di Lars, sicuramente sarebbe rimasta al suo capezzale fino a quando lui non avrebbe aperto gli occhi. Un’altra dimostrazione di quanto la cocciutaggine di quella bambina fosse influenzata dalla sua.
 
“Squisiti. Davvero ottimi, questi biscotti”, disse poi, tornando a guardare il ragazzo.
“Oh, Azu-chwan, sei così…….”
 
Stavolta fu lui a venire interrotto e non fu certo un’interruzione verbale.
Era risaputo che Sanji, dopo due anni passati a sfuggire da quei orripilanti Okama, fosse diventato sensibilissimo al genere femminile e a qualunque cosa ad esso collegato: la sua era una malattia incurabile, a detta di Chopper, costretto a imbottirlo ripetutamente di sangue e ferro, nel mentre cercava di farlo riabituare a quella vista che per lui equivaleva alla luce del sole. Con la navigatrice e l’archeologa le cose erano tornare all’assurda normalità di sempre, ma con le straniere………..oh, apriti cielo!
Come Azu aveva allungato il braccio e preso ad accarezzargli la guancia con la mano, le arterie del cuore avevano smesso di pompare il sangue, i polmoni interrotto il loro regolare scambio di ossigeno e anidride carbonica, e il cervello smesso di mandare impulsi elettrici in tutte le parti del corpo. Pareva essersi appena verificato un blackout totale all’interno di Sanji, immobile nel mentre gli occhi perlacei della ragazza lo scrutavano con dolcezza maliziosa, facendo scorrere le dita sulla sua guancia.
 
“Sei proprio carino”, gli disse lei, accarezzandogli il pizzetto “Gli uomini che ci sanno fare in cucina sono i miei preferiti e tu saresti da sposare. Mi verrebbe voglia…”, e lì si sporse quanto bastava per arrivare a meno di cinque centimetri dal viso di lui “Di darti un bel bacio.”
 
Nella mente svuotata di Gamba Nera si udì uno sparo, seguito da una luce accecante e un coro celestiale appartenente al Paradiso, dal cui apice discese tutta una serie di creature dall’aspetto immortale: Principati, Arcangeli, Angeli, Dominazioni, Virtù, Potestà, Serafini, Cherubini, Troni……….Sanji si vide sfilare l’intero corteo angelico davanti agli occhi, nel mentre questi ripetevano con voce soave le parole dette da Azu, abbellite da squilli di tromba e coriandoli colorati. Neppure con le sirene gli era capitata una cosa simile - per quanto queste lo avessero coccolato -, ma i dolci ricordi legati all’isola degli Uomini Pesce stavano venendo pesantemente offuscati dal fatto che l’albina stesse giocherellando con il suo pizzetto e che fosse pericolosamente vicina alle sue labbra. Decisamente un contatto troppo intimo perché lui potesse resistere più di dieci secondi. Infatti….
 
“MELLORINE!!!”
 
STOMP!
 
Con le lacrime ai occhi, le mani congiunte, il naso sanguinante, e un sorriso ebete stampato in faccia, Sanji, cascò a terra senza neppure girare su sé stesso, rigido come una statua di pietra.
 
“Oh, poverino”, sghignazzò lei “Che….”
 
SBONK!
 
Il sonoro colpo in testa che Azu ricevette, interruppe la sua risatina, facendole correre il rischio di spalmare il suo bel nasino sul bancone. Con le mani impiantate nel legno lucido e l’irritazione crescente, l’albina alzò la testa con fare nervoso e tremante, già sapendo chi fosse stato a farle quello sgarbo.
 
“Tu guarda che modi…”, ringhiò lei, nel mentre si girava, coi denti digrignanti “E’ mai possibile che tu non possa essere più delicato?! Mi hai fatto male!”
“Ne dubito, con la testa che ti ritrovi…”, fu la replica del sospirante Lars, col torace fasciato e una mano appoggiata al fianco “E comunque, parlando di modi, io ho la decenza di avere dei pantaloni addosso.”
 
Quell’ultima puntualizzazione fece incrociare le braccia di Azu sotto il prosperoso seno, spingendola a voltare la testa e a storcere il naso. Ti pareva che non tirasse in ballo il fatto che fosse mezza nuda in una cucina estranea!
Lo detestava quando faceva così, specie perché sfruttava quei dieci centimetri d’altezza che lo differenziavano dalla sua statura per troneggiare su di lei come fosse un’autorità da rispettare. Sembrava che quella poca distanza enfatizzasse la posizione di Lars, ancora intorpidito per il sonno e per le cure ricevute; non ricordava perché accidenti si fosse alzato, ma la voce acuta della sorella gli stava facendo desiderare quelle soffici coperte da cui si era inspiegabilmente separato e, dal canto suo, Azu non faceva che domandarsi perché accidenti il fratello irrompesse sempre nei momenti meno opportuni.
La sberla rifilatale era una sorta di marchio di riconoscimento che, oramai, conosceva sotto tutti i punti di vista, ma che riusciva sempre a irritarla: l’albino aveva un tocco secco e deciso, la cui mira perfetta lo aiutava a colpire quel determinato punto della sua testa, che finiva sempre per dolerle quanto bastava per distrarla dall’azione che stava compiendo. Un’altra cosa che non sopportava del maggiore, oltre alle ramanzine.
 
Non volendo perdere quella sorta di pseudo scontro che si era appena creato, la ragazza dischiuse gli occhi perlacei, facendoli incrociare con quelli di Lars, la cui espressione mezza insonnolita lo aiutava a non prendere troppo sul serio le sue uscite. Gli occhi mezzi socchiusi e i capelli, più scompigliati del solito, indicavano che doveva essersi appena svegliato, una piccola constatazione che servì ad alleggerire l’animo della sorella, facendola sentire meglio. Nel profondo di sé, ma molto in profondo, Azu deteneva un’umanità piuttosto sensibile, che molto spesso, anzi, quasi sempre, esternava con azioni esagerate o pugni carichi di isteria. Non che non fosse capace di atti più controllati, ma il suo era un orgoglio piuttosto duro, cocciuto, con una volontà tutta sua, che si placava soltanto quando la ragazza aveva a che fare con la piccola Shion. Voleva bene a suo fratello e, sicuramente, sarebbe passata per un bugiarda se avesse affermato spudoratamente, davanti a tutti, di non essere mai stata preoccupata per lui, ma, piuttosto che ammetterlo, preferiva legarsi ad un ancora e gettarsi in fondo all’oceano.
 
“Se ti sei alzato esclusivamente per farmi la predica, puoi anche tornartene a letto. Sono venuta in cucina perché volevo prendere qualcosa da mangiare”, riprese lei, difendendosi.
“E come? Presentandoti in biancheria intima e stordendo questo tizio qua?” Lars indicò Sanji, ancora steso a terra col naso sanguinante.
“Senti chi parla! Tu mica ti lamenti quando le ragazze ti guardano allenarti a torso nudo!” replicò la minore, inviperita.
“E com'è che sai che le ragazze mi guardano allenarmi?” le domandò ingenuamente lui, abbassando il suo volto su quello di lei "Se non ricordo male, quando io mi alleno, tu preferisci stare d'altro capo dell'isola."
 
I lineamenti facciali del ragazzo avevano assunto una sfumatura maliziosa, che a stento si tratteneva dal mostrarsi interamente. Non era un segreto che Azu odiasse la meditazione, ragione per la quale, si dileguava sempre quando il fratello compiva quell’esercizio: l’idea di stare seduta e ferma era qualcosa di inconcepibile per la sua dinamicità, ma le tirocinanti presenti nella base della Marina numero diciassette consideravano quelle ore di allenamento il momento migliore per osservare il loro beniamino all’opera. Ok, lo doveva ammettere: suo fratello era un bel ragazzo, abbastanza da non passare inosservato. Che fosse per i capelli, il corpo, gli occhi o la cicatrice, Lars veniva guardato e considerato dal genere femminile come un figo di ghiaccio molto appetibile, il che la mandava su di giri, ogni qualvolta sentiva alle sue spalle quelle stridule risatine incapaci di contenersi. Già che c’erano, potevano fondare un fan club, se lo adoravano così tanto!
 
“Allora?” incalzò il fratello, sporgendo la testa in avanti "Sto aspettando."
“Umpf! Chi credi che le rispedisca a fare il loro lavoro?” domandò retoricamente, senza scomporsi “Non voglio che Shion senta parole indecenti, è ancora troppo piccola per queste cose!”
“Ma dai….e io che pensavo che la mia sorellina fosse gelosa”, fece divertito lui.
“Ma fammi il piacere!” strillò lei.
 
Fu molto tentata di mollargli un calcio negli stinchi, ma si limitò a strepitargli contro col viso rossiccio, e non certo per l’imbarazzo!

Gelosa di suo fratello………..ma per favore!
Chi accidenti si credeva di essere per trattarla come una mocciosa?! Solo perché fra loro c’erano tre anni di differenza non significava che lui ne sapesse più di lei.
 
Salvo il periodo passato ad allenarsi, erano sempre cresciuti insieme, imparando a conoscere ogni loro aspetto e abitudine come fosse un gioco d’abilità. Non c’era espressione, sfumatura o comportamento che Azu non sapesse riconoscere nel fratello, ma egli, in una qualche maniera a lei sconosciuta, riusciva sempre a esserle un passo in avanti, dando prova di quanta strada lei dovesse ancora fare prima di imparare a metterlo con le mani nel sacco. Sarebbero potuti andare avanti a scannarsi per il resto della giornata, ma Lars non se la sentiva di sprecare le appena ritrovate energie per prendere a padellate la capoccia della sorella minore: doveva capire se quello che aveva detto nel percorrere il corridoio di quella nave fosse esatto. Fino a quel momento, ogni cosa era rimasta avvolta dentro una spessa nebbia di indecifrabile consistenza e lui, ridotto al minimo delle sue prestazioni, non era riuscito a comprendere cosa realmente gli fosse accaduto attorno. Era fin troppo lampante che non si trovasse più in quella strada maleodorante, ma desiderava comunque conoscere i fatti per quello che erano, anche se un’idea in generale, al riguardo, se l’era già fatta. Il cogliere diversi elementi, semplicemente guardandosi intorno, aveva favorito la concretizzazione della sua ipotesi, portandolo a dedurre che il loro piano di viaggio avesse subito una grossa, ma necessaria svolta.
 
“Immagino che i nuovi amici di Shion si siano offerti di darci un passaggio”, mormorò nell’osservare la cucina “Hai raccontato loro come stanno le cose?” domandò poi alla sorella.
“Ci ha pensato lei, ma senza menzionare i sotterfugi inventati per non farci scoprire dai suoi genitori”, gli rispose lei, sistemandosi una ciocca argentea dietro l’orecchio “Dubito che la cosa rimarrà nascosta a lungo, ma non credo che a questi tizi importerebbe qualcosa: da quel che ho visto, non mi sembrano tanto normali.”
“Come se qualcuno a questo mondo lo fosse”, sospirò il fratello, soffocando uno sbadiglio.
 
Loro due erano un chiaro esempio di quanto la normalità fosse un termine altamente diverso da quello descritto in un vocabolario: Azu era capace di sradicare una quercia a mani nude e usarla come proiettile per affondare le navi, mentre lui, con la sua preziosa Saphira, sapeva trasformare una terra rigogliosa in una landa desolata e ghiacciata.
L’apprendere di essere ospiti della ciurma di Cappello di Paglia non lo aveva scomposto più di tanto: era perfettamente capace di percepire l’ostilità anche se questa si fosse trovata a cento miglia di distanza, ma, non avvertendo alcun segno di essa trasudare dalle pareti, si era detto che poteva anche lasciare la spada nell’infermeria. Sebbene il giorno prima avesse attaccato Monkey D. Rufy, non lo aveva fatto con cattiveria: l’ingente quantità di sangue perso, insieme alla spossatezza fisica e mentale, avevano annebbiato la sua mente, spingendolo ad attaccare il ragazzo con la convinzione che fosse un complice di quei due idioti che avevano avuto l’ardire di svegliarlo con il loro passo pesante. Era ben conscio di aver sbagliato, una ragione per la quale si sarebbe andato a scusare non appena il suddetto si fosse svegliato: a differenza di una certa testona, lui sapeva riconoscere quando sbagliava.
 
“Faresti bene a tornartene a letto”, gli suggerì la sorella “Non vorrei che quel peluche coccoloso dovesse venire a cercarti.”
“Sto bene”, replicò il più grande “Al massimo, è lui che avrebbe bisogno di un dottore.”
 
Nel volgere la testa al di là del bancone, i due albini videro che il cuoco era ancora a terra, con un colorito pallidissimo e la bocca piegata in un sorriso ebete. Tutto rigido e grigio come la pietra, Sanji era talmente immobile da risultare addirittura morto. E intanto, quanto stava sul fornello, bruciava senza che nessuno si adoperasse a rimediare.
 
“Effettivamente non sembra stare tanto bene”, notò Azu, inginocchiatasi di fianco al biondino, e tutta intenta a picchiettargli la guancia con l’indice “Sta pure sbavando”, borbottò poi, nel vedere il disgustoso fiumiciattolo bavoso che colava dalle sue labbra e che stava macchiando la camicia.
“Vorrei ben vedere. Ci mancava solo che gli spiaccicassi il tuo davanzale sul naso”, le disse Lars, nel mentre evitava che il cibo posto sui fornelli prendesse fuoco.
 
Contenendo l’irritazione, Azu afferrò per le caviglie il malcapitato, marciando ad ampi passi verso l’infermeria. Non era nemmeno mezzodì e già desiderava strangolare il fratello, fare a pezzi il suo corpo e spedirli in diverse parti del mondo per evitare che si ricongiungessero.




“Lars, che bello! Ti sei svegliato!”
 
Shion era  al settimo cielo: non appena aveva visto l’amico sorriderle, gli era subito corsa incontro, abbracciandogli la vita con la sua forza di bambina e venendo a sua volta ricambiata con un bel girotondo. Vederlo finalmente in piedi  aveva contribuito a dissipare ogni residuo di preoccupazione che ancora si ostinava a rimanerle attaccata, rendendo quella mattinata splendente ancora più radiosa.
La Thousand Sunny era, senz’ombra di dubbio, la nave più singolare e bizzarra che lei avesse mai visto, ragione per la quale, visitarla, fu quasi un obbligo. Con Franky – l’uomo di latta – e Usopp – quello col naso lungo -come guide, Shion ebbe modo di vedere da vicino quanto quella nave si differenziasse dalle altre, e non soltanto per i suoi colori sgargianti e la polena a forma di testa di leone pelucchioso. Se il tappeto d’erba fresca che rivestiva il ponte di coperta, con gli scivoli affiancati alle scale, l’aveva stupita, il resto la impressionò a tal punto da farla rimanere con la bocca aperta per più di quindici minuti: non le era mai capitato di vedere cose di quel genere e le aveva definite “Cose”, perché non sapeva in che altro modo chiamarle. In cima all’albero maestro era stata costruita una palestra, permettendo a Zoro – lo spadaccino coi capelli verdi -, di allenarsi e, contemporaneamente, di adempiere al suo compito di vedetta. Nami e Nico Robin disponevano di un elegante studio circolare, illuminato da ampie vetrate che filtravano il sole, fornito di scrittoi, libri e di un comodissimo mini-carrello elevatore che Sanji utilizzava per mandare loro dei spuntini. Questo, era ulteriormente collegato al salone-acquario, la stanza più suggestiva di tutte: non che non avesse mai visto un acquario, ma, insomma….un acquario su una nave era tutta un’altra cosa!
 
Inutile dire, che Franky aveva conservato il meglio per ultimo: il Soldier Dock System, coi suoi mezzi e le sue sorprese, aveva sorpreso la bambina a tal punto, da non riuscire a non chiedere al nuovo amico di farle fare un giro sulla Mini Merry II e nel sottomarino Shark. Il gioiellino ideato e costruito dal carpentiere era un sistema basato su un importante meccanismo rotante, situato all’interno della nave, che, a seconda del mare che si affrontava, permetteva di attivare diversi canali. Tale cambiamento, era visibile grazie ai numeri situati sulle fiancate della Sunny, che giravano in senso orario quando si decideva di utilizzare un determinato canale. Ma l’arma più potente di quell’arsenale stava nella poppa, dove vi era nascosta una piccola cabina, al cui interno era stato installato il propulsore che garantiva una fuga immediata dalla Marina e il libero utilizzo del cannone Gaon, arma micidiale che, come tutte altre, utilizzava la cola come carburante.
 
Shion era rimasta di sasso quando poi, aveva scoperto che anche Franky andava a cola: il Cyborg poteva mutare il proprio aspetto a seconda delle esigenze e, cosa ancora più incredibile, se gli si schiacciava il naso, la sua testa si riempiva di folte ciocche azzurre che lui acconciava con un piccolo pettine tascabile.
 
Era tutto bello, talmente entusiasmante che, per qualche secondo, la piccola aveva creduto di star vivendo in un sogno. Un bellissimo sogno piratesco, dove c’erano gli stessi pirati di cui possedeva i manifesti.
 
“Wow! Fantastico! Sei riuscita a tradurre anche questa pagina! Ma come fai?”
“Eh eh, sono un’archeologa. E’ il mio lavoro.”
 
Per una bambina solare come Shion, fare amicizia era più facile dell’imparare a camminare. Nel giro di quella mattinata aveva legato con ogni membro dell’equipaggio, scoprendo a grandi linee il loro carattere e le loro attitudini: Nami, per esempio, era il cervello del gruppo. Lo aveva realizzato subito fin dalla sera prima, per la sua serietà nel prendere in mano la situazione, ma nei suoi confronti, si era dimostrata molto gentile e disponibile, esattamente come Nico Robin, il suo nuovo idolo. Il conoscere una persona così bella e colta aveva subito fatto emergere in lei il desiderio di tempestarla di domande sulle leggende e sulle storie che più l’appassionavano, certissima che quest’ultima le avrebbe risposto senza alcun problema.
 
“Incredibile…”, mormorò la piccola, nel guardare i voluminosi tomi che circondavano la corvina “Davvero hai letto tutti questi libri?”
“Si. Ci sono ancora molte cose che devo imparare”, le disse al Bambina Diabolica “Ma vedo che anche tu ti dedichi a letture piuttosto impegnative.”
 
L’occhio attento della donna non aveva mancato di osservare il libro che Shion teneva ben aperto davanti a sé: era un volumetto dalla copertina consunta, scura e robusta, con le pagine già prossime all’ingiallimento e pieno di foglietti messi dalla bambina.
 
“E’ il mio libro preferito”, spiegò la piccina, prendendo fra le mani il tomo “Dentro c’è la storia del sogno che voglio assolutamente realizzare.”
 
Lei e Nico Robin erano sedute attorno a un tavolino al di fuori di fuori del ponte superiore. L’ombrellone, usato per fare ombra, riparava la donna e la piccola egregiamente, creando un piccolo angolo fresco.
L’archeologa non mancò di guardare la biondina con occhi più profondi, nell’istante in cui pronunciò la parola “Sogno”: la sua voce si era fatta più sicura, accentuata da quello sguardo che teneva fisso sul libro. Il solo vedere quei foglietti da lei inseriti, contenenti appunti, scritte e cancellature, le fece dedurre parte di quelle determinazione che Shion nascondeva dentro il suo corpo di bambina ancora in fase di crescita.
 
“E di che sogno si tratta?” le domandò lei, con voce gentile.
“……Prometti di non ridere?” aveva esitato prima di pronunciare quelle parole.
“Lo prometto”, le giurò, alzando la mano in segno di promessa.
 
Poggiando il libro sul tavolino, la bambina indugiò nuovamente, con gli occhi rivolti alla gonnellina. Ogni qualvolta che parlava delle sue intenzioni, del suo sogno, gli adulti le sorridevano, dicendole candidamente che una simile aspirazione era ammirevole, ma che col tempo, sarebbe svanita, sostituita da un obbiettivo più fattibile per il suo futuro. Altri, invece – ed erano per lo più alcuni suoi coetanei -, le ridevano direttamente in faccia, prendendola in giro, una cosa che più volte l’aveva spinta a gonfiare le guance e a spingere in acqua quei antipatici – anche se poi, pure lei ci finiva dentro -. Forse era vero, il suo sogno pareva veramente irrealizzabile, considerando il fatto che le sue basi erano poco più che una leggenda, ma lei ci credeva, più di chiunque altro, e questo le bastava per provarci con quanta più ambizione possedeva.
 
“Voglio trovare Endora”, disse poi.
“Endora?” Nico Robin alzò un sopracciglio con fare stupito.
“Si”, annuì la piccola, riaprendo il libro su una determinata pagina “E’ un’isola leggendaria che, secondo quanto c’è scritto qui sopra, si troverebbe da qualche parte nel Nuovo Mondo. E’ completamente immersa nel verde, incontaminata, ci sono piante rarissime e mai viste, e si dice che il suo equilibrio sia così delicato che basterebbe pochissimo per rovinarlo!” raccontò tutta eccitata “Nessuno l’ha mai vista o ci è mai stato, però alcuni studiosi hanno esaminato delle rovine sparse nel mondo e, secondo queste, il luogo sarebbe abitato dalle….”
“Epigee”, concluse la donna per lei.
“Esatto!” esclamò Shion, per poi sbattere le palpebre in segno di confusione “Ma….tu come fai a saperlo?”
“Te l’ho detto: sono un’archeologa e il mio lavoro prevede che studi ogni tipo di storia, leggende comprese.”
 
La vasta conoscenza di Nico Robin non si limitava soltanto ai Poigne Griffe, ma a molti altri campi che, messi insieme, formavano una vasta rete storica vecchia quanto il mondo. Endora era uno di questi.
 
Era un’isola leggendaria, come aveva detto Shion, sconosciuta, immersa nel verde, mai esplorata dall’occhio umano, ma avidamente ricercata dagli antichi per via del suo più grande tesoro: L’Imperior. Si trattava di un albero sacro, come Eve e Adam, preziosissimo, e con una storia tanto incredibile quanto plausibile. La due pagine che Shion stava guardando con tanta intensità raffiguravano un grande albero dalla grassa corteccia marrone, come quella di una quercia, con rami grossi e folti, che ricadevano in avanti quasi fossero quelli di un salice piangente. L’ambiente che lo circondava era scuro, con chiazze bluastre e azzurre, illuminato da un’indescrivibile e fiocca luce proveniente dall’alto. Stava su una specie di isolotto, circondato da un piccolissimo laghetto che era stato colorato con delle tempere ad acqua, insieme a quelle strane forme umane che ci danzavano sopra o che preferivano rimanere sdraiate. Erano le Epigee, menzionate poco prima nel loro discorso. Il loro aspetto era ignoto, ma quei pochi riferimenti che si avevano sulla faccenda, le descrivevano come spiriti luminescenti, purissimi, leggeri quanto una piuma e sfuggenti come le stelle. Le protettrici del Giardino Eterno, ecco com’erano state soprannominate.
 
“Dunque, se non ricordo male, qui dovrebbe esserci qualcosa su loro conto”, mormorò Nico Robin, sfogliando uno dei libri appartenenti alla pila che si era portata fuori “Eccole qui” trovata la giusta pagina, l’archeologa iniziò a leggere quanto c’era scritto “Le Epigee sono comunemente conosciute come le ninfe della terra, creature aventi un aspetto simile all’umano e strettamente legate agli elementi della natura. Sono esseri mitologici, collegate alle usanze dell’antichità di alcuni popoli, ma alcune testimonianze scritte, citano la loro comparsa in differenti parti del mondo. Non se ne conoscono le motivazioni, ma diversi ricercatori ipotizzano che queste abbiano abbandonato la loro terra d’origine per vedere cosa ci fosse al di fuori d’essa e che, visto il comportamento indegno degli umani, non si siano fatte più vedere. Molti suppongono che abbiano fatto ritorno alla loro isola, un luogo dove, secondo alcune ipotesi, risiede lo stesso spirito della terra, e che non ve ne siano più uscite, al fine di proteggerlo.
 
“Ecco, vedi? Lo dice anche qui!” esultò Shion, balzando in piedi “Secondo me le due cose sono collegate: il luogo d’origine di cui parla il tuo libro è sicuramente Endora e lo spirito della terra è senza dubbio l’Imperior! Gli alberi sacri sono considerati una sua emanazione e, anche se non si sa con certezza se quest’albero ci sia, esiste comunque una possibilità, vero Robin?”
 
“Eh eh, è una buona teoria da cui partire.”
 
L’archeologa non aveva potuto fare a meno di sorridere davanti a quella parlantina vivace ed eccitata. Shion era fermamente convinta di quel che diceva, trasudava felicità da tutti i pori e l’avere lei come mentore, la rendeva ancora più entusiasta: la sua ipotesi era perfettamente plausibile, seppur la versione dei due libri fosse diversa su alcuni punti, ma, sicuramente, non l’unica: poteva darsi che l’isola menzionata non fosse Endora e che lo spirito della terra, protetto dalle Epigee, non fosse specificatamente l’albero chiamato Imperior. Anzi, poteva addirittura non trattarsi di un albero, ma anche lei era portata a pensare che il tesoro delle ninfe fosse qualcosa di strettamente collegato alla terra. Era difficile affermare quale potesse essere la verità: di questa ce ne era una sola, ma le ipotesi erano tante, una più disparata dell’altra.
 
“Tu pensa che grande cosa sarebbe poterlo vedere!” esclamò la bambina girando su sé stessa, con fare sognante “Potrei essere la prima esploratrice a scoprire da dove provengono i frutti del diavolo! Sarebbe magnifico!”
“I frutti del diavolo?” la donna si lasciò sfuggire una nota interrogativa dalla propria voce.
“Si, non lo sapevi? L’imperior è l’albero da cui provengono i frutti del diavolo, è lui che li fa nascere”, rivelò lei, senza accorgersi di aver paragonato l’oggetto in questione a una professione umana.

Una simile rivelazione lasciò interdetta l’archeologa, sorpresa per quel particolare tanto importante. Il fatto che l’Imperior potesse essere l’albero che generava i frutti del diavolo, era una notizia che meritava di essere studiata e approfondita in tutte le sue angolazioni. Tra le molte lacune riguardanti quei frutti, la loro origine era forse uno dei punti più importanti di tutto l’argomento: si sapeva soltanto che venivano trovati in mare, nient’altro. Nessuno si era mai soffermato a pensare che questi potessero nascere come dei comuni frutti, il che aveva consentito a Shion di costruirsi una teoria tutta sua, incerta, ma avente una logica accreditabile. Orgogliosissima, la bambina dai capelli dorati le diede il suo libro, mostrandole tutto quel che c’era da sapere sui cosiddetti “Doni”, inizialmente simili a dei bitorzoluti e verdi bacelli: nel disegno appariva come puntini verdi piuttosto sbiaditi, dalla forma irregolare e grassa.
 
“Qui dice che, originariamente, i frutti del diavolo sono dei semplici semi e che, a seconda del tempo che necessitano, maturano e cambiano colore”,  narrò la più piccola, indicando le scritte presenti nella pagina successiva “Secondo l’esploratore che ha scritto questo libro, alcuni antichi li chiamavano “Doni” perché credevano che l’albero fosse un regalo della terra e che le Epigee fossero le sue guardiane, in quanto creature sensibili alla natura.”
“E dimmi un po’, come pensi che riescano i frutti del diavolo ad arrivare sulle altre isole, se Endora è così ben nascosta?” le domandò Nico Robin, appoggiando i gomiti sul tavolo, con quel suo bel sorriso incuriosito in vista.
“Canali marini”, rispose l’apprendista esploratrice, tutta raggiante “Secondo me, l’Imperior è nascosto in un grotta sotterranea, dove ci sono tutti questi passaggi collegati all’oceano. E’ un po’ come uno stagno, uno di quelli col salice piangente in mezzo alla pozza, proprio come si vede nel disegno”, cerco di spiegare “Quando il frutto è maturo, cade dal ramo e finisce in acqua, che lo trasporta in uno dei canali e lo fa andare nell’oceano. Come uno scompare, l’albero ne produce subito un altro. E’ così che funziona.”
 
Fra le pochissime certezze che si erano acquisite sui frutti del diavolo, c’era quella riguardante il loro strano ciclo vitale: se una persona in possesso di uno di questi periva, anche il suo potere scompariva nel nulla. E come quel particolare frutto del diavolo svaniva dal mondo, subito ne compariva un altro, identico, con gli stessi poteri, pronto a rimpiazzare il precedente. Nessuno aveva mai capito come ciò fosse possibile, ma una simile domanda non aveva mai interessato chi mirava soltanto a impossessarsi dei loro poteri: i Rogia erano i più ambiti per la devastazione che sapevano creare e per la questione dell’intangibilità, ma nessuno avrebbe mai sdegnato un Paramisha e uno Zoo-Zoo, se potente. Il loro ritrovamento erano una sorta di corsa dell’oro, dove non c’erano regole o giudici che sancissero dei limiti. Tutto era lecito. Se Nico Robin si fosse immersa pienamente in quell’argomento intricatissimo, non ne sarebbe uscita tanto presto: quando impegnava la sua mente a riflettere, le parole dei suoi compagni non riuscivano mai a raggiungerla, tanto si concentrava. La storia era il suo mondo e il scoprirne i segreti la sua passione, ma al momento era troppo presa dal sorridere davanti alla piccola Shion, nella cui testa stavano comparendo numerosi punti interrogativi. Subito, la piccola pensò che stesse ridendo di lei e delle sue supposizioni, e per questo, corrucciò le labbra e il nasino: eppure sembrava così interessata! Possibile che anche una celebre archeologa come Nico Robin, aperta a tutte le possibilità, considerasse Endora e le sue idee soltanto una sciocchezza?
 
“Tu non mi credi, vero?” brontolò piano.
“Non vedo perché dovrei farlo”, rispose lei, accarezzandole la testa “Trovo le tue supposizioni molto interessanti e realistiche. Hai lavorato esattamente come un bravo esploratore, non mi stupirei affatto se fossero vere al cento per cento.”
“Davvero?” Il modo in cui sgranò i tondi e brillanti occhi azzurri, intenerì ancor di più l’archeologa.
“Ma certo.”
“Evviva!” esultò tutta contenta, saltellando “Vedrai, un giorno dimostrerò a tutti che esiste! Diventerò la più grande esploratrice del mondo e gliela farò vedere a tutti, anche a quel brutto antipatico baffone occhialuto!” affermò coi pugni stretti, pregustandosi la faccia shoccata del suo professore.
 
Non le importava se ci avrebbe impiegato tutta la vita: avrebbe raggiunto la meta, costi quel che costi. Non avrebbe guardato in faccia a nessuno, sarebbe andata avanti a costruirsi la propria strada come stava facendo adesso. Già sognava di poter indossare il bel caschetto che teneva appoggiato sulla sua scrivania e di partire alla volta di misteri e terre da scoprire, ma il rumore proveniente dal suo stomaco placò tale fantasia in un sol colpo. Era scattata l’ora dello spuntino mattutino e il suo pancino lo stava reclamando ad alta voce, con tanto di borbottii. Bloccatasi con le braccia all’aria, Shion arrossì vistosamente: l’adrenalina che le scorreva nelle vene, accompagnata da tutte quelle emozioni eccitanti, aveva occultato ogni altro pensiero o bisogno, lasciando che tutta la sua concentrazione si focalizzasse sul suo nuovo idolo, ovvero Nico Robin. Con diverse goccioline a imperlarle la nuca, la piccola desiderò di poter tornare indietro nel tempo e bloccarsi prima che la sua pancia prendesse il comando. Non voleva fare cattiva figura con l’archeologa, la prima persona – oltre a Lars, Azu, e ai suoi genitori – ad averle creduto. Quella donna dall’aspetto enigmatico e gentile al tempo stesso, l’aveva colpita fin da subito, suscitando in lei un inarrestabile senso di adorazione. Sofisticata, bella, intelligente…..si, Nico Robin il genere di persona che le sarebbe piaciuto diventare un giorno. Non che non ammirasse Azu, ma l’ultima archeologa di Ohara vantava quella conoscenza storica che Shion tanto amava, conoscenza dentro cui sarebbe rimasta più che volentieri, se il suo stomaco non avesse cominciato a fare i capricci.
 
“Ah…..io…” tornata in possesso delle parole, la biondina si grattò la nuca senza guardare in faccia la nuova amica.
“Direi che è giunto il momento di fare un piccolo spuntino, che ne dici?” le domandò la più grande, chiudendo un libro.
“Si, ma non se Sanji………..”
“ROBIN-CHWAN!!!”
 
Con ancora il dubbio in mano, la bambina si fermò nuovamente, piuttosto sorpresa di sentire quella voce. Avvolto nel suo Love Tornado, Sanji turbinò verso il tavolo dove era seduta la compagna, per poi fermarsi e inginocchiarsi davanti alla donna, porgendole un vassoio pieno dei suoi sandwich preferiti, accompagnati da una caraffa piena di succo d’arancia. La sua comparsa suscitò non poco stupore nella piccola, che inclinò la testa nel non comprendere gli strani sproloqui del ragazzo più grande. Ancora non le era chiaro come mai il cuoco si comportasse a quel modo solo con le ragazze: con i maschi era severo e fermo, con lei gentile, ma con Azu, Nami e Nico Robin, sembrava perdere completamente la ragione.
 
Magari ha qualche malattia strana, aveva pensato una volta.
 
Per quanto ci avesse rimuginato sopra, non era stata capace di giungere ad alcuna conclusione. Così, non potendo far uso delle sue sole forze, aveva chiesto ai suoi nuovi amici il perché il biondo avesse simili attacchi ogni volta che vedeva una ragazza. Con sua grande sorpresa, aveva ricevuto la risposta dalla persona con cui più Sanji si accapigliava: Zoro. Lui era un tipo molto taciturno, intrigante – come l’aveva definito Azu -, che passava la maggior parte del tempo ad allenarsi e a dormire. Cosa significasse “Intrigante” poi, proprio non lo sapeva…….
 
Comunque, fatto stava che quando gli aveva domandato che tipo di malattia fosse affetto Sanji, lo spadaccino le aveva dato una risposta molto concisa.
 
“Rincretinismo acuto”, le aveva detto, con l’asciugamano sulle spalle “Uno senza speranze, in pratica.”
“Quindi è tanto grave?” gli aveva chiesto lei, un po’ preoccupata.
“Fra qualche anno lo potrai constatare coi tuoi stessi occhi”, e così era terminata la loro prima conversazione.
 
Non era del tutto sicura che il Rincretinismo acuto fosse una malattia a tutti gli effetti, ma il vedere come Sanji si stesse sciogliendo davanti all’archeologa, spinse Shion a tener buona la risposta datale da Zoro. Sarebbe stato più facile, se qualcuno si fosse degnato di spiegarle l’argomento a dovere, ma la questione “Uomini”, per lei, era e doveva ancora rimanere una proibizione fino alla maggiore età, sebbene Azu, ogni tanto, dispensasse affermazioni e consigli che lei, secondo Lars, non doveva mai prendere troppo sul serio.

Addentando uno dei panini, rimase a osservare la scenetta senza aprir bocca, sforzandosi di tradurre le diverse parti di quelle filippiche mai sentite prima.
 
“Mia adorata, la luce del sole non può essere minimamente abbagliante quanto la tua bellezza!” esclamò il cuoco, con una mano sul cuore e l’altra rivolta al cielo “Per te, ho preparato questi panini colmi del mio amore, che spero tu accetterai con gioia!!”
 
Nico Robin sorrise gentilmente, afferrando quanto le veniva porto con molta eleganza.
 
“Sei gentilissimo, Sanji. Grazie.”
“Questo e altro per le mie dee!” ululò.
“Mi sa tanto che Zoro ha ragione”, mormorò Shion “Forse Sanji soffre veramente di Rincretinismo Acuto.”
 
Seppur fossero distanziati, le orecchie del cuoco, nel sentire pronunciare il suo nome e quello di Zoro messi insieme, si erano raddrizzate immediatamente. I cuoricini che gli svolazzavano intorno scoppiarono come tanti palloncini e, ancora prima che la piccina potesse capirci qualcosa, si ritrovò col cuoco inginocchiato davanti a lei. Aveva un’espressione seria, con la sigaretta accesa e gli occhi puntati su di lei. Quando poggiò le mani sulle sue esili spalle, Shion credette di averlo fatto arrabbiare con la sua supposizione: eppure non l’aveva detto con cattiveria e nemmeno ad alta voce, come aveva fatto a sentirla?
 
“Shion, voglio che tu, adesso, mi ascolti attentamente”, le disse.
“Ok…..” annuendo pianissimo, la bambina strinse le labbra.
 
Era la prima volta che lo vedeva così fermo. Il silenzio calato enfatizzò la situazione, caricandola di una tensione talmente incisiva, da renderla palpabilissima. Shion non sapeva che cosa aspettarsi dal cuoco, ma qualunque cosa lui dovesse dirle, doveva essere molto importante.
 
“Questo lo dico per il tuo bene”, riprese poi “In qualunque situazione, non devi mai, mai, mai, credere alle parole di Zoro.”
“Eh?” per la sorpresa, una grossa goccia comparve a lato della tempia sinistra della piccina.
“Fidati, so quel che dico”, continuò lui, serissimo “Forse hai pensato di trovare il lui un punto di riferimento, ma non è così: lui nemmeno sa cosa sia l’orientamento. Quel deficiente di un marimo non è un buon modello da prendere in considerazione, finiresti per ricevere solo una cattiva influenza.”
 
Shion era allibita. I suoi occhi si erano ridotti a due punti neri piccolissimi, puntellati da tantissime goccioline azzurre che pendevano dalla sua testa come degli orecchini; Sanji pareva aver indossato i panni di un padre che avvertiva la figlia sui pericoli che poteva correre se, sulla sua strada, incontrava un maniaco. Ovviamente, la mente di lei non era arrivata a concepire quel paragone, tant’era paralizzata, ma il cuoco era fermamente deciso a spiegarle che lui, un gentiluomo di classe, non poteva essere in alcuna maniera paragonato a quel buzzurro dalla testa verde. Una bambina così piccola e graziosa non doveva assolutamente ricevere l’influenza di quell’affettatore ambulante, e mentre lui parlava e parlava, Shion si ritrovò ad annuire meccanicamente, incapace di dire o fare altro, con la convinzione che assecondare Sanji fosse la scelta migliore.
 
“Ok, Sanji”, riuscì a dire dopo aver ascoltato il suo monologo “Farò attenzione a quel che mi dice Zoro.”
“Brava, piccolina”, sorrise lui, nel farle “Pat-Pat” sulla testolina “Su, prendi un altro…..NON CI PROVARE, RUFY!!!”
 
Con prontezza degna del suo nome, il cuoco scattò verso il tavolino e pestò la mano di Rufy, emersa da dietro i cespugli e i vasi di fiori che decoravano il ponte superiore, pronta a rubare lo spuntino di Nico Robin e quello riservato a Nami. Shion, accortasi solo in quel momento del braccio allungato, fece scorrere i propri occhi su quest’ultimo, scoprendo che il capitano era seduto sulla polena della Thousand Sunny. Gamba Nera lo aveva bloccato in tempo, ben conscio di quanto danno potesse fare la fame del capitano, se posta davanti a una qualunque forma di cibo commestibile o meno.
 
“Ma, Sanji, io ho fame!” urlò quest’ultimo, ma senza alzarsi dalla polena.
“Fatti tuoi! Questo non è per……..BROOK, CHE DIAVOLO FAI?!?!”
 
Distrattosi, il biondo non si era accorto che il Canterino era arrivato sul ponte e che, in tutta tranquillità, aveva preso la porzione riservata a Nami, con l’intenzione di portargliela.
 
“Yohohoho! Nami-san, le ho portato del succo e dei panini!” la chiamò lo scheletro, dopo aver bussato alla porta dello studio “Visto che c’è, non è che mi fareste vedere le sue….?”
“FERMO DOVE SEI, PERVERTITO DI UNO SCHELETRO! NAMI-SWAN E ROBIN-CHWAN LE SERVO SOLO ED ESCLUSIVAMENTE IO!!!!”
 
In un nanosecondo, Sanji fu addosso allo scheletro parlante, battibeccandoci come se volesse accopparlo a suon di calci.
Quest’ultimo era stato uno dei primi con cui Shion aveva legato, oltre a Rufy: fra tutte le stramberie che quel viaggio avrebbe potuto riservarle, uno scheletro con un afro voluminoso era l’ultima cosa o essere che fosse, che si sarebbe sognata di vedere. Sapeva correre sul pelo dell’acqua, infilarsi in angolini strettissimi e suonare ogni genere di strumenti, privilegiando moltissimo il violino e la chitarra con cui aveva conquistato i cuori di miliardi di fan. A quanto pareva, era un sorta di divo del soul, e gli abiti eccentrici che indossava, rappresentavano il suo nuovo e personalizzato look. Tuttavia, nonostante l’incredibilità delle sue doti, anche lo scheletro, ogni tanto, si comportava insolitamente, seppur non in maniera delirante come il compagno: alternava buone maniere ad atti indecenti, come rutti o pernacchie, il tutto unito da un’insensata fissazione per il voler vedere la biancheria delle ragazze. Azu lo aveva definito “Uno sporco maniaco ossuto”, ma anche lì, al posto di una risposta, era emerso un bel punto interrogativo , accompagnato da una calda raccomandazione, che la invitava a non stargli troppo vicino.
 
“Mi sa tanto che lui soffre di una forma diversa di Rincretinismo acuto”, mormorò nel mentre Nami usciva e sedava lui e Sanji con un doppio cazzotto incrociato.
 
Vedendo che la sua nuova insegnante si stava godendo piacevolmente la sua pausa e ricordandosi che Lars era stato costretto da Chopper a tornare a letto, per evitare che gli saltassero i punti, la bambina decise di scendere sul ponte di coperta, con tutta l’intenzione di farsi un bel giretto. Avrebbe chiesto ad Azu di giocare con lei, ma l’albina era immersa nella vasca da bagno - per via dell’allenamento fatto - e gli altri pirati erano tutti occupati a fare altro. Tutti tranne Rufy, ancora seduto sulla polena: fissava l’orizzonte col cappello calcato in testa e le gambe incrociate, senza muovere un solo muscolo.
 
Chissà cosa fa…
 
Le sembrava che nel suo semplice osservare l’orizzonte ci fosse qualcosa di più profondo: non sapeva bene spiegarselo, era solo una sensazione scaturita dal suo animo. Roteando su sé stessa, corse verso lo scivolo e si precipitò sul ponte di coperta a gran velocità, per poi salire le scale e camminare a quattro zampe sui pochi scalini che servivano per salire sulla polena. Come appoggiò la mano sull’ultimo scalino, i suoi occhi incontrarono la faccia di Rufy, sorridente come sempre.
 
“Oi, Shion!” la salutò lui.
“Ciao, Rufy”, disse lei di rimando, per poi porgergli i panini presi dal vassoio “Tieni, sono per te.”
“Davvero? Grazie! Avevo proprio fame!”
 
Per una persona che non conosceva Rufy, il fatto che questo avesse ancora fame, dopo essersi spazzolato quattro colazioni consecutive, con tanto di furtarelli ai danni dei propri compagni, era qualcosa di assolutamente inconcepibile. La voracità del ragazzo era insaziabile, un buco nero camuffato da comune stomaco. Beh, proprio comune non lo era, visto che questo era di gomma. In realtà, di comune, Rufy aveva pressa poco niente, il che lo rendeva quello che era: uno dei pirati più in vista della Rotta Maggiore, con una bella taglia di quattrocento milioni di Berry sulla testa. Suonava ridicolo, perché a vederlo, dava tutt’altra impressione: se in quel momento, un qualche viandante lo avesse visto ingozzarsi come un’incivile con un panino, di certo non avrebbe trovato il coraggio di dire che fosse un buon esempio educativo, ma Shion non era intenta a costruirsi un’opinione dettagliata del suo nuovo amico, non in quel frangente.

C’era qualcosa che aveva attirato la sua attenzione, qualcosa appartenente al fisico del suo nuovo amico e che difficilmente poteva sfuggire all’occhio umano, considerata la sua grandezza.
Sporgendo la testa poco più avanti, la bambina ampliò la propria visuale, indirizzandola laddove voleva: corrucciò le sopraciglia per quello che vide, percependo un lungo brivido percorrerle la schiena. I suoi occhi azzurri erano puntati sul torace scoperto di Rufy, segnato da una vistosa cicatrice a forma di “X”, che lo avvolgeva quasi del tutto. La pelle d’essa era scura e piena di pieghe, con sfumature carnose che davano la forte impressione che la ferita volesse mangiarsi anche le poche parti rimaste sane. Il far scorrere le sue pupille sui contorni d’essa, spinse la biondina ad indietreggiare appena, intimorita dalle emozioni che si stavano affollando nel suo piccolo cuoricino: non era la prima volta che vedeva delle cicatrici, lei stessa se ne era procurate alcune giocando, ma si era sempre trattato di tagli e lividi che sparivano con un cerotto e un bacetto. Il solco che invece Rufy si portava a presso, aveva scavato nel suo corpo con tutta l’intenzione di ucciderlo, ma senza riuscirci. Abbassando per qualche istante lo sguardo, Shion si raggomitolò interiormente su sé stessa, cercando di scacciare quel batticuore ansioso che stava tentando di farla agitare in tutti i modi: anche il suo papà aveva una brutta cicatrice, e questo pensiero pareva essere diventato il motore di tutta quella catena di emozioni inarrestabili. Lui non si mostrava mai sofferente davanti ai suoi occhi, però lei non era così cieca da non intuire che, comunque, quella ferita causava al genitore un fastidio piuttosto difficile da ignorare.
 
“Rufy…”
“Ghi?” bofonchiò lui, nel mentre ingeriva l’ultimo panino.
“Come……Come te la sei fatta quella?” domandò nel tornare a guardare la cicatrice.
 
Non era riuscita a trattenersi, non ce l’aveva proprio fatta a non domandarglielo. Era come se qualcuno avesse dato un grosso pizzicotto al suo io interiore, al fine di spingerla a dar voce alla sua curiosità.
 
“Questa?” e si indicò la ferita “Allenandomi con Rayleigh-san. Mi ha portato su un’isola piena di mostri incredibilmente forti. Li avessi visti, erano alti come montagne! C’era perfino un leone gigantesco e se non fosse stato per il vecchio, sicuramente sarebbe riuscito ad uccidermi, shishishi!” sghignazzò lui, nel grattarsi il naso.
 
Per qualche secondo, Shion credette di aver visto male: davvero Rufy stava ridendo del fatto di essere stato quasi squartato da una Bestia Infernale? Sbattette gli occhi più e più volte, ma nulla cambiò: era tutto vero, compreso quello strano menefreghismo di Rufy sulla propria incolumità.
 
“Ma, Rufy, tu……….aspetta! Hai detto Rayleigh? Vuoi dire il grande Silvers Rayleigh? Il braccio destro di Gol D. Roger?? Il Re Oscuro???”
“Si, lui”, annuì il ragazzo.

Oddio, non poteva crederci. Mancò poco che scivolasse giù dalle scale e che capitolasse vicino al timone, ma la fortuna volle che, al posto di cascare come un peso morto, si pietrificasse per l’emozione, con tanto di bocca ampiamente aperta. Non si premurò neppure di chiedere a Rufy se quel che le aveva appena detto fosse una bugia: il volto del ragazzo rasentava la sincerità fatta a persona e, francamente, egli non aveva ragione per mentirle. Inoltre,  semmai avesse provato a raggirarla, lei lo avrebbe capito subito, dato che il suo nuovo amico era completamente negato nel raccontare bugie. Forse, per Cappello di Paglia, quella persona non era così importante, visto che ci aveva passato due anni insieme, ma per il resto dell’umanità, Shion compresa, il nome di quella persona era facilmente ricollegabile a una figura straordinaria, quasi intoccabile. La Pirateria vantava nomi che erano divenuti addirittura leggenda, tanto erano conosciuti e temuti, e Silvers Rayleigh era uno di quelli. Il braccio destro di Gol D. Roger vantava una reputazione e un potere che gli avevano conferito il titolo di Re, esattamente come il suo capitano. Alcuni lo credevano morto, altri lo pensavano nascosto da qualche parte, ma fatto stava che una personalità di spicco come quella, aveva lasciato al suo passaggio una scia così indelebile, da rimanere impressa addirittura nel mare stesso.

“Non ci posso credere, tu hai incontrato Silvers Rayleigh!” esclamò la bambina, completamente esterrefatta “E com’è? Cosa ti ha insegnato? Dai, dimmelo, voglio saperlo!”
“Beh, è uno che picchia duro”, le rispose Rufy, massaggiandosi la nuca “Molla certi pugni….”
 
Come scordarsi delle salassate di Haki rifilategli…..
 
“Incredibile…”, mormorò Shion, con gli occhi colmi di stelline luccicanti.
 
Poi, come fosse appena cascata dalle nuvole, la mente della biondina tornò a proseguire su quel filo logico da cui era partita. Aveva iniziato a parlare con Rufy per una ragione precisa, una ragione che il mondo intero non conosceva e che lei, vista l’estrema vicinanza, poteva scoprire. Il seguire così appassionatamente il mondo della Pirateria l’aveva spinta a crearsi un piccolo quaderno pieno di articoli, foto e ritagli di giornale, riguardanti i pirati che più la affascinavano. La ciurma di Cappello di Paglia era uno delle sue preferite e lo scoprire che, per un motivo sconosciuto, questa fosse misteriosamente scomparsa dall’occhio del mondo intero, l’aveva alquanto spiazzata. Moriva dalla voglia di scoprire quanto i giornali non erano stati in grado di spiegare e se avesse sprecato quell’unica occasione concessale, sicuramente lo avrebbe rimpianto per tutta la vita.
 
“Senti, Rufy…” e si fece nuovamente avanti “Mi dici perché per due anni non ti sei fatto più vedere? Tu e i tuoi amici siete spariti all’improvviso….”
“Te l’ho detto: per allenarmi, e ho detto la stessa cosa ai miei amici”, le rispose tranquillamente.
“Si, ma perché?” insistette “Perché siete spariti di punto in bianco?”
“Non è che siamo spariti, ci siamo solo momentaneamente ritirati”, le spiegò “Ho deciso che ci saremmo rincontrati più in avanti quando sono riuscito a salvare Ace.”
“Ace?” a quella risposta, la bambina batté nuovamente le palpebre “Cioè….ah, si, ora ricordo! Il grande incidente di Impel Down! Ne parlavano tutti i giornali!........Ma com’è che c’eri anche tu?”
“Beh, Ace è mio fratello maggiore e non potevo certo lasciarlo solo!” esclamò l’amico.
 
Ancora una volta, la piccola credette di aver udito male.
 
“Tuo…….fratello………maggiore?” pronunciò lei a scatti.
“Certo. Shion, tutto bene? Hai una faccia….”
 
Il viso paffuto della bambina era sconvolto dall’incredulità, non sapeva più da che parte girarsi. A forza di ricevere notizie sconvolgenti, sconnesse fra di loro, la sua testolina stava iniziando a fondere e a breve, dalle sue orecchie sarebbe uscito del fumo. Pensieri e immagini avevano iniziato a vorticare pericolosamente, cercando di sovrapporsi a vicenda, come a voler stabilire un primato e lei, nonostante stesse cercando in tutti i modi di porre ordine a queste, si ritrovò miseramente schiacciata e confusa più di prima.
 
“Ah….io….credo di essermi persa”, rispose lei, con fare ancora più meccanico.
 
L’incidente di Impel Down era stato uno degli eventi più clamorosi che fossero mai stati registrati. Un vergognoso smacco che la Marina e il Governo Mondiale erano stati costretti a ingerire forzatamente davanti alla supremazia dell’uomo più vicino a conquistare il trono lasciato libero da Gol D. Roger: Barbabianca. In quell’occasione, il nome dell’imperatore era risuonato nei cieli come un coro di cannoniere nel pieno della battaglia, distruggendo l’impenetrabilità della prigione più orribile del mondo e rovesciando i progetti orditi contro di lui. Sfidarlo senza prima buttare giù uno straccio di strategia equivaleva andare incontro a una sorte poco dignitosa, ma la Marina, al fine di ottenere da lui la più completa attenzione, aveva sfruttato a suo vantaggio un’esca portata come merce di scambio: il comandante della sua seconda flotta, Portuguese D. Ace, detto Pugno di Fuoco. La sua esecuzione avrebbe dovuto tenersi nel cuore di Marineford, dove la giustizia avrebbe atteso a braccia aperte l’arrivo del più antico pilastro che ancora teneva aperta la vecchia era. Era stato tutto organizzato nei minimi dettagli e il mondo stesso ne sarebbe stato testimone, ma qualcosa aveva provveduto a cambiare drasticamente i fatti, ancor prima che si verificassero: Barbabianca non era un uomo che ignorava il guanto di sfida lanciato, e questo, i cinque Astri della Saggezza, lo sapevano perfettamente, ma, nonostante il forte attaccamento a questa consapevolezza, il Re dei Mari, ancora una volta, si era dimostrato a dir poco imprevedibile, puntando direttamente ad attaccare la prigione dentro cui era rinchiuso il figlio. Nessuno di loro aveva compreso per quale motivo il pirata avesse deciso di cambiar rotta, così come nessuno aveva compreso come Monkey D. Rufy fosse riuscito a penetrare in quella fortezza a spirale, senza essere visto dal plotone di guardia messo fuori Impel Down.
 
Shion conosceva bene la vicenda, perché suo padre era stato uno dei diplomatici che avevano partecipato alle numerose assemblee tenutesi dopo il disastro; ricordava che era stato via per tre settimane abbondanti, senza avere la possibilità di sentirlo tutti i giorni.
 
In quell’occasione, non si era cercato solamente di ricostruire una prigione, ma di attutire il colpo inflitto e di ridurre la vergogna e il fallimento quanto bastava, perché la gente non sollevasse un polverone: l’immagine della Marina era stata deturpata, la stabilità del Governo Mondiale messa a dura prova, e tutto per colpa di alcuni pirati che avevano contribuito alla distruzione interna di Impel Down. Nell’ascoltare la versione di Rufy, raccontata con parole sintetiche e gesti manuali, Shion venne a conoscenza di quella parte di verità su cui da tantissimo tempo fantasticava: non si sarebbe mai aspettata che Orso Bartholomew avesse diviso la sua ciurma e che li avesse spediti su isole differenti.  E dire che sembrava una brava persona: quand’era andata col suo papà al Quartier Generale, per una breve visita, quell’enorme omone le aveva fatto compagnia, anche se non aveva spiccicato parola per tutto il tempo. Fatto stava che, col suo intervento, Rufy era finito su un’isola abitata da sole donne e che lì, avesse appreso che suo fratello stava per essere giustiziato.
 
“Scusa, Rufy, ma io continuo a non capire”, lo interruppe a un certo punto “Sei riuscito a entrare a Impel Down senza farti vedere e salvare tuo fratello. Perché non sei andato subito a cercare i tuoi compagni? Forte come sei, avresti potuto farlo benissimo!”
 
Quello era il nodo della questione che lei voleva afferrare e districare, ma, nella sua ingenuità di bambina, Shion non poteva conoscere il reale valore della sua domanda, ragione per la quale, non riuscì a comprendere l’espressione appena comparsa sul volto dell’amico: sorrideva, ma non con così tanta enfasi come le volte precedenti.
 
“Lo pensavo, ma non lo ero” le rispose “Non abbastanza da farcela da solo.”
“Uh?
 
Quei cinque secondi di silenzio vennero accompagnati da uno sbuffo ventoso, che si disperse nell’orizzonte.
 
“Non ho saputo proteggere i miei amici quando ne avevano bisogno….”, cominciò lui, sistemandosi il cappello di paglia con una sola mano “Ne ho salvato Ace da solo. Sono stato aiutato.”
“Ma ci sei comunque riuscito”, replicò la bambina.
“Si, ma non come volevo io.”
 
Dischiudendo le labbra, Shion rimase nuovamente incerta davanti alle parole di Rufy, i cui occhi erano momentaneamente occultati dal cappello. Non riusciva a cogliere il significato profondo delle affermazioni dell’amico, ma ne intuiva comunque la presenza, poiché il ragazzo stesso pareva essersi appena gettato in una sorta di buco nero pieno di ricordi e vicende passate. Lottando e continuando a resistere contro attacchi che erano stati capaci di piegarlo, era riuscito a salvare quella promessa fatta con suo fratello tempo addietro. Era caduto, aveva sputato sangue e inalato polvere, arrivando anche a portare il suo fisico a una condizione estrema, ma non aveva mai mollato, e tutto perché lui stesso non avrebbe potuto accettare di perdere una persona preziosa come Ace. Tuttavia, sebbene fosse riuscito nel suo intento, quella vittoria non era stata completamente sua: i compagni di Ace e il suo capitano erano intervenuti per aiutarlo e la loro presenza sul posto non aveva avuto bisogno di spiegazioni. Lo ammetteva: senza il loro aiuto, forse lui e il suo fratellone, non ce l’avrebbero mai fatta a uscire, ma non era quello che l’aveva impensierito per diversi giorni. Per quanta forza mostrata, per quanta grinta egli avesse utilizzato per ribadire la sua resistenza, ogni suo sforzo era stato annientato da una presenza che era entrata e uscita in scena senza neppure prendere parte attivamente al combattimento, lasciando che il suo passaggio venisse ugualmente notato da tutti quanti.
 
Portava lo stesso nome del bastardo che aveva sconfitto Ace, era colui che aveva gridato senza alcuna paura che i sogni, per quanto creduti folli o futili, non sarebbero mai svaniti.
Quella volta, Barbanera gli aveva dimostrato che, per quanta impulsività e rabbia potesse tirare fuori, niente di quanto aveva in mano sarebbe stato abbastanza potente da non essere respinto e ingoiato dalla sua oscurità. Col suo potere, lo aveva reso vulnerabile a quei colpi che solitamente non sentiva, sbattendolo a terra con vigore e mostrandogli un’impotenza mai percepita sulla propria pelle.
In quel momento, ricordando i volti terrorizzati dei suoi amici, Rufy aveva realizzato che la sua forza non era sufficientemente grande, che ne lui ne i suoi compagni erano pronti per andare avanti. Aveva affondato le unghie nei pantaloni quando aveva deciso la sorte del proprio equipaggio, ma non aveva potuto fare altrimenti e il Re Oscuro, trovandoselo sul ciglio della porta di casa, era già pronto a portarlo sull’isola di Rusukaina, al fine di addestrarlo a dovere sulle sue potenzialità ancora latenti.
 
Era stato un lavoro duro, più del dover imparare a controllare la propria elasticità, ma dopo il tempo pattuito, era potuto tornare nuovamente a rincorrere il suo sogno insieme a tutti gli altri, e questa volta, nessuno lo avrebbe fermato.
 
“Ci ho messo un po’ a capire come funziona l’Haki, ma devo dire che è utilissimo. Pensa un po’, io nemmeno sapevo che esistesse e che l’avessi!” ridacchiò lui.
 
Tralasciando il fatto che non sapesse cosa fosse l’Haki, Shion rimase comunque molto colpita da quanto il suo nuovo amico aveva dovuto sopportare, tanto che gli occhi le si inumidirono e dovette mordersi il labbro inferiore per trattenere un singhiozzo. Aveva rischiato di perdere suo fratello dopo che era stato separato dai suoi compagni e aveva scelto di non andare a cercarli per allenarsi e diventare più forte. Fosse stata al suo posto, non sarebbe mai stata capace di una simile decisione.
 
“Non sapevo che avessi dovuto affrontare tutte queste cose….”, mormorò lei, un po’ rammaricata per la propria insistenza “Però sono contenta che tuo fratello stia bene e che tu sia di nuovo con i tuoi amici”, aggiunse poi con più allegria.
“Shishishi, anch’io! Sono sicuro che lo incontrerò di nuovo, vuole rendere il suo capitano il Re dei Pirati!”
“Ed è quello che vuoi essere tu, vero? Tu vuoi diventare il Re dei Pirati, giusto?”
“Certo, è il mio sogno! Tu invece vuoi essere una escora….no, esploca…..”
“Esploratrice!” ridacchiò la bambina “Quando sarò un po’ più grande, partirò per cercare la mitica isola di Endora e la troverò! Vedrai, dimostrerò la sua esistenza a tutti quanti: ad Azu-chan, a Lars, al papà, alla mam…………………LA MAMMA!!!!!!!”
 
Il suo urlo fece volare via un gabbiano comodamente appollaiato sull’albero maestro. Così presa ed eccitata per tutto quello che le era accaduto, si era dimenticata dell’unica cosa veramente importante, a cui non poteva mancare di rispondere: la chiamata giornaliera a sua madre. Almeno una volta al giorno, la doveva chiamare, per farle sentire la sua voce, ma il destino aveva voluto che nella sua mente passasse tutt’altro. Se ne era completamente dimenticata e il realizzarlo, la fece ruzzolare giù dalle scale, nel mentre si gettava malamente sulla sua borsettina a tracolla, dentro cui teneva alcuni suoi effetti personali.
 
“Scusa, Rufy, devo fare un cosa! Ci vediamo dopo!!” gli urlò lei, nel mentre le teste di alcuni componenti della ciurma, compresa una Azu con indosso soltanto un asciugamano, la seguivano con lo sguardo.

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Capitolo 7
*** Fermata improvvisa a Rocky Headland. ***


Salve a tutti voi, spero stiate bene! Con questo capitolo, inizia finalmente la prima saga della storia, quindi vedremo i Mugiwara in azione. Mi auguro che vi piaccia, io coi combattimenti (anche se qui non ce ne saranno molti) ho sempre qualche tentennamento Buona lettura! (Spero non ci siano errori. L'ho controllato ma non si sa mai).

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Il nome Rocky Headland induceva i viaggiatori a pensare che l’isola in questione fosse un grosso promontorio, con tanto di faro appostato sulla sua parte più alta.
Un posto abitato come tanti altri. Invece, contro tutte le possibili aspettative, questo era ben differente dall’immagine mentale che una persona soleva creare con la propria fantasia: non lo si poteva neppure definire un’isola, tant’era diverso.

In pratica, si trattava di uno scoglio: uno scoglio alto più della Reverse Mountain, spigoloso, umido, spaccato in due da un fenomeno marino che, vista la natura sconosciuta, era stato classificato come una comune scossa di terremoto. Le due metà distavano una cinquantina di metri, se non di più, divise da un abbondante fiume d’acqua salata che l’oceano aveva riempito al momento della rottura. Benché una volta queste fossero state un tutt’uno solidissimo, il loro aspetto non poteva essere più che differente: la metà sinistra era coperta da un fittissimo e rigoglioso manto verde, ma la destra era nuda, grigia, tempestata da grosse buche irregolari. Su qualche sporgenza si potevano vedere degli alberi, ma erano secchi, con sopra frutti neri e raggrinziti.
Seguendo con fare lento la corrente, la Thousand Sunny si era infilata in quella mastodontica fessura, accompagnata dal cinguettare dei gabbiani, comodamente appollaiati nelle rientranze più alte. Il sole, per quanto strano che fosse, riusciva a illuminare il mezzo per più di un’ora, il che rendeva maggiormente agevole il transito della nave: Franky era al timone, che seguiva le direttive di Nami, i cui occhi nocciolati non si facevano sfuggire nessuna di quelle rocce appuntite, che spuntavano dall’acqua senza alcun preavviso. Nonostante la luminosità mattutina, di angoli nascosti e punti ciechi ce ne erano fin troppi, per i suoi gusti.

“E’ una vera fortuna che non dobbiamo fermarci a registrare il magnetismo. Questo posto è orribile”, bofonchiò lei “Franky, un po’ più a sinistra!”
“Aw! Ricevuto, sorella!”

Con gli occhiali da sole calcati sul naso, il Cyborg mosse il timone quanto bastava perché lo scafo della Sunny non incontrasse le punte degli scogli scorti dalla Gatta Ladra.

“Uffa, io volevo visitarla quest’isola”, mugugnò Rufy, con faccia delusa “Nami, sei proprio sicura che non possiamo fermarci?”
“Per la cinquantesima volta, ho detto di no”, ripeté esasperata “Il magnetismo di questo posto non è abbastanza forte da influenzare il log pose, quindi possiamo tranquillamente passare oltre, e poi guardati intorno: non ci sono spiagge o punti d’attracco e, per di più, se spostiamo la nave, rischiamo di farle fare quella fine.”

Puntando l’indice verso la parete di destra, la ragazza indicò diversi pezzi di navi, andate completamente distrutte. Erano resti di galeoni e di altre imbarcazioni più piccole, il cui unico punto in comune era stato lo schiantarsi contro le rocce; il loro legno era marcio, molle, coperto da alghe così sudice e viscide, da scivolare via da qualunque superficie.

“Yohohoho! Quei relitti mi ricordano un po’ la mia vecchia nave!” esclamò Brook.
“La tua nave era un relitto?” domandò Shion, con le braccia incrociate sulla balaustra.
“Si, e fino all’arrivo di Rufy-san, non l’ho mai lasciata. Mi è capitato che qualcuno venisse a farmi visita, ma scappavano via tutti prima ancora che potessi offrire loro una tazza di tè”, sospirò lui, nel mentre sorseggiava la calda bevanda appena menzionata.
“Chissà come mai…”, mormorò sarcasticamente Azu, a fianco della biondina.

Forse quel tipo se ne era dimenticato, ma il fatto di non avere più la pelle addosso, lo rendeva, come dire, abbastanza inquietante, specie se questo poi tentava di compiere delle piccole imboscate nel bagno riservato alle ragazze.

Evitando di pensare all’ultima visita inaspettata del musicista, l’albina distolse lo sguardo e lo rivolse al fratello, in piedi, con la schiena appoggiata alla porta della cucina e con la sua preziosa Saphira allacciata alla schiena. La cerniera del gilè nero era alzata fino a metà, di modo tale che parte del torace rimanesse scoperto; il colletto era alzato, sfiorato da diverse ciocche argentee, dritte come dei puntaspilli. Per quanto non lo desse a vedere, Azu era sollevata nel constatare che la ferita di Lars era definitivamente guarita e che lui non dormisse più in infermeria, ma quel che più la sorprese, fu il suo sguardo: pareva non avere nulla di diverso, solo…che le sembrava ancor più fermo del solito. A intervalli regolari, spostava le sue iridi glaciali a destra e a sinistra, in alto e in basso, su qualunque sporgenza o appiglio particolarmente vistoso, socchiudendo le palpebre come a voler migliorare la propria vista.

Che cercherà con quel fare guardingo? Si domandò la sorella, storcendo la bocca.

Conosceva bene quello sguardo e non poté fare a meno di sbuffare mentalmente: le espressioni multiple di suo fratello erano così maledettamente passive, apparentemente tutte uguali fra di loro….peggio di un libro di matematica! Comprendere cosa gli passasse per la testa, era qualcosa a cui aveva rinunciato tempo addietro, ben conscia del fatto che, se anche avesse avuto la facoltà di leggere nel pensiero, Lars sarebbe comunque riuscito ad averla vinta: e questo perché lui, a differenza sua, non andava in escandescenza e non esplodeva come un vulcano affetto di irascibilità cronica.
Lui sapeva esprimersi a dosi, mantenere la calma, parlare tranquillamente anche con persone che non meriterebbero altro che due ceffoni in faccia…..si, tutte quelle robe che esigevano un elevato concentrato di ponderatezza, e che lei preferiva risolvere a suon di pedate nel sedere. Non che non fosse dotata d’intelligenza, ma l’albina prediligeva i contatti diretti, molto diretti, vista la sua impetuosità. Anche se avesse provato a essere più posata e educata, il suo istinto ne avrebbe risentito all’istante, come costretto a una terribile astinenza. Azu viveva per esprimere il proprio furore, ma in quel preciso frangente, non capiva proprio perché suo fratello avesse quella faccia, così come non capiva perché quel sensuale spadaccino – con un fisico mozzafiato, perlopiù - passasse tutto il santo giorno ad allenarsi e a dormire.

Ecco qui un altro maniaco delle spade, aveva pensato, nello scoprire che a lui, il mondo femminile, non interessava minimamente.

Zoro, al momento, non si trovava nella sua palestra privata: era seduto sulle scale che conducevano alla cucina e all’infermeria, con entrambi gli occhi chiusi e le braccia incrociate. Strano da dirsi, ma incredibilmente vero, fra lui e l’albino, in quei pochi giorni, si era creata una silenziosa affinità, scaturita principalmente dalla loro passione per le spade. L’occhio dell’ex Cacciatore di Pirati – soprannominato così per la sua vecchia professione – era caduto fin da subito sulla spada che suo fratello soleva curare dopo ogni allenamento. La lama azzurra e lucente aveva attirato l’attenzione del vicecapitano senza alcuno sforzo, mostrando la sua essenza con parole mute, lasciandosi semplicemente guardare. Era una spada, un oggetto, quindi era piuttosto strano pensare che questa avesse preso un’iniziativa umana, ma, in qualche modo, era così: Saphira era una spada particolare, con un’anima indecifrabile e contorta che soltanto Lars poteva comprendere, anch’egli piuttosto ambiguo. Al di fuori della silenziosità e della gentilezza che elargiva nei confronti di Shion, l’albino, nel guardare le sue katane, aveva posto delle domande decisamente strane. Non prive di logica, soltanto diverse da quelle che uno come lui si aspettava di sentire.
 
“Wadoichimonji, Sandai Kitetsu e Suushui. Hai tre katane di cui andare fiero”, gli aveva detto il più grande, al loro primo incontro.

Lars aveva preso ad ammirare le armi di Zoro una ad una, scrutando le lame e le impugnature con occhi attenti e scorrevoli. Aveva cominciato con la Owazamono, la spada maledetta. Secondo la storia, tutte le armi forgiate dalla scuola Kitetsu, per una ragione sconosciuta, erano dannate. Quando l’albino aveva fatto scorrere le sue iridi glaciali sulla lama trasparente, un luccichio bianco e sfuggente era comparso nei suoi occhi: l’onda violacea che solcava l’arma, era il marchio di riconoscimento di quella scuola, impossibile da confondere. Mettendola da parte, si era poi concentrato sulla Suushui, meglio conosciuta come “Acqua autunnale”, appartenuta al samurai Ryuma. La lama nera, con quel suo spessore particolare, aveva istigato il lato sadico di Lars con uno schiocco di frusta: le spade aventi  le lame dello stesso colore del buio erano rare, potenti, difficili da sottomettere e da controllare. Un’autentica sfida contro il fato e la morte.

A ogni suo commento, Zoro non aveva potuto fare altro che annuire e aggiungere particolari appresi grazie agli insegnamenti della Via della Spada: Lars aveva ammirato le sue armi come a volerne capire il carattere, se fossero socievoli o chiuse agli estranei, e nel mentre cercava di instaurarci un dialogo, lo spadaccino non aveva fatto altro che tenere l’occhio smeraldino puntato su Saphira. Covava il desiderio di poterla sfiorare, di poter saggiare quella luce che la contraddistingueva da qualunque altra spada, ma, in un modo che al momento sfuggiva alla sua ragione, pareva che quella spada fosse…..viva, che lo stesse osservando, come lui stava facendo con lei. Era da sciocchi ritenere le spade come oggetti buoni solo a tagliare: queste esprimevano la fatica di chi le aveva costruite, possedevano un’anima che non aspettava altro che l’arrivo di un padrone che si dimostrasse degno di impugnarle. Lui stesso aveva impiegato non poco per controllare Shuusui, la cui forza era radicalmente diversa dalla preziosa Yubashiri, amaramente persa a Ennies Lobby, ma nello scandagliare attentamente la spada dell’albino….beh, francamente, era stato difficile esprimerci un giudizio, salvo il fatto che era un’arma a dir poco che meravigliosa.


“Perdonala. Saphira è piuttosto timida”, gli aveva detto Lars, notando il suo interesse.

A chiunque, al sentire una cosa del genere, sarebbe spuntato un grosso gocciolone dietro la testa, ma non al ragazzo dai capelli verdi, il cui ferreo sguardo non aveva smesso per un solo istante di studiare l’albino e la sua arma.

“Non fa nulla. Immagino non ami essere presa in mano dagli estranei”, constatò lui.
“Diciamo che ha una personalità piuttosto selettiva”, gli aveva risposto l’altro, guardando la sua Wadoichimonji “Ma vedo che anche tu hai un’arma che ti è particolarmente legata”, aggiunse poi, alludendo alla spada che teneva in mano” Tra tutte e tre, mi pare essere quella più vicina a te.”

L’espressione atona di Zoro, a quelle parole, era mutata quanto bastava perché un minimo di stupore si dipingesse sul suo viso. La linea curva della bocca si era alzata appena, lasciando che le labbra si socchiudessero nel mentre il volto sorridente di Kuina gli balenava in testa. La spada col fodero bianco, la Wadoichimonji……si, quella era la spada che più poteva capirlo. Apparteneva a colei che non era mai riuscito a battere e che mai avrebbe sconfitto, poiché ella, oramai, era troppo lontana per essere raggiunta.
Kuina era morta, scomparsa nel nulla, ma la sua spada era lì, insieme alla sua anima, che, silenziosamente, lo stava accompagnando verso quel sogno che aveva urlato davanti a tutti. Ne percepiva i tremiti quando era inquieta, la forza quando lui ne aveva bisogno e il sostegno quando la sorte si apprestava a buttarlo a terra. Era ridicolo, insensato, ma Zoro era conscio che Kuina, o meglio, ciò che era rimasto di lei, fosse racchiuso nella sua spada, e Lars, dal canto suo, non si sarebbe mai permesso di dubitare di quel legame indissolubile, la cui profondità andava oltre al semplice amore. Lo aveva capito, lo avrebbe sempre rispettato …… perché anche lui, con Saphira, percepiva emozioni umane, seppur non derivanti da una promessa importante come quella che il ragazzo dai capelli verdi aveva fatto alla sua più cara amica d’infanzia.


Nel rivangare velocemente in quel ricordo, Zoro rammentò di non aver mai chiesto a Lars in che modo fosse entrato in possesso della sua spada. Non che gli interessasse così tanto da arrivare a chiederglielo direttamente, ma il legame che l’albino deteneva con la sua arma, con la sua anima, esprimeva emozioni tutt’altro che effimere.
Sbadigliando vistosamente, si grattò la nuca con fare stanco, incrociando le braccia dietro la nuca e prendendo a guardare quell’incavo dentro cui stavano navigando.

Azu, che li aveva osservati per una considerevole manciata di secondi, sospirò pesantemente, appoggiando poi i gomiti alla balaustra e sostenendosi il viso con le mani: no, proprio non capiva che cosa avessero di tanto interessante le spade….

“Uhm….che cosa strana..”, borbottò il cecchino, osservando i relitti delle navi coi suoi speciali occhiali.
“Che cos’è che è strano, Usopp?” domandò Chopper.
“Quel albero maestro…”, mormorò, sporgendosi appena “Sembra che sia stato preso a pugni.”
“Eh? Dici davvero? Posso vedere?”

Come il Re dei Cecchini passò un binocolo alla bambina, Shion si mise sulle punte e utilizzò lo strumento datogli per guardare il punto che l’amico le stava indicando. Spalancò la bocca nel vedere coi suoi stessi occhi che l’albero in questione, appartenente a una delle tante navi schiantatesi ,era colmo di rientranze notevolmente grandi. Era come…si, era come se fosse stato tartassato a ripetizione da qualcosa avente una forza inaudita. Passandosi la lingua sulle labbra secche, la piccola assottigliò lo sguardo, scoprendo il segno di alcune nocche in differenti punti del tronco, piegato in più angolazioni e prossimo alla rottura.

“Usopp ha ragione”, disse poi “Quell’albero maestro sembra veramente essere stato preso a pugni. Guarda, Robin”, e passò il binocolo all’archeologa.
“Uhm….hai proprio ragione”, concordò lei, una volta osservati resti della nave “A giudicare dalle dimensioni e dal numero dei solchi, devono essere stati dei animali di grossa taglia”, constatò.
“Mostri marini, probabilmente”, buttò lì Azu, con tono annoiato “Non è mica un mistero che posti del genere ne siano infestati.”
“Eeeh?! Sul serio?! Dici che potrebbero saltare fuori da un momento all’altro?!” squittì Chopper, con le pupille fuori dalle orbite.
“Io non credo, ma quei colpi restano comunque un bel punto interrogativo…”, replicò silenziosamente Nico Robin, portandosi l’indice alle labbra con fare pensieroso.

In tutta sincerità, se mai quell’insenatura fosse stato un nido straripante di bestie abnormi, l’albina avrebbe ringraziato una qualche entità divina a lei sconosciuta, per averla salvata da quell’asperità mortale. Al di fuori del quotidiano allenamento, quei giorni erano stati relativamente tranquilli, un pò troppo per lei, incapace di stare ferma per più di dieci minuti. Chiudeva e distendeva le dita delle mani con fare frenetico, cambiando posizione in continuazione e percependo un fortissimo senso di costrizione che saltellava sul suo istinto con fare scherzoso. Si sentiva maledettamente oppressa, coi muscoli frementi e il fiato corto: ancora un po’, e avrebbe preso la rincorsa per lanciarsi sulla parete rocciosa di destra, scalarla a mani nude e buttarsi di sotto, una volta arrivata in cima. Certo, il suo umore sarebbe nettamente migliorato, se fosse riuscita semplicemente a capire cosa diamine passasse per la testa di Lars. Ma che accidenti aveva per fare quella faccia sospettosa?! L’ambiente era tranquillo, solare - certo, non dei migliori -, ma comunque con un bel silenzio che…..

“Ehi, che è stato?”

Un insolito rumore aveva distolto alcuni membri della ciurma dal loro guardare in avanti. Alcuni sassi erano scivolati già dalla parete di destra di Rocky Headland, cozzando rumorosamente da una parte all’altra, per poi finire in acqua. Un evento del tutto privo di significato, se non fosse stato per....

“Ah!”
“Che succede, Shion-chan?” le domandò Brook, affiancandola.
“Lassù…”, e indicò una sporgenza dalla punta spigolosa “Mi è sembrato di vedere qualcosa muoversi: era grosso e nero.”

Il punto a cui la piccola si stava riferendo era vuoto, deserto, come tutto il resto. Eppure..qualcosa c’era. Il percepire una strana presenza mise sull’attenti Azu, che schiuse leggermente la bocca, per placare il caos emotivo che le aveva fatto prudere costantemente le mani: nemmeno lei era tanto sciocca da non arrivare a captare quella sottile pressione che aleggiava nell’aria. Fino a quel momento non ci aveva dato troppo preso, ma lì intorno c’era decisamente troppo silenzio per i suoi gusti. Sebbene il verso dei gabbiani e il dolce sbattere delle onde fossero udibili, quei rumori, in confronto al vuoto che circondava la Thousand Sunny, non erano che suoni abbondantemente ovattati, facilissimi da allontanare dalla propria mente.

Rufy era sempre seduto sulla polena della nave, ma aveva cominciato a guardarsi intorno, calcando sulla testa corvina il prezioso cappello di paglia. Anche aveva notato qualcosa di strano, così come se ne erano accorti Sanji, Nami e Franky, intenti ad osservare le mura di Rocky Headland, fattesi stranamente ancora più alte e sinistre: gravavano su di loro come a voler cadere, toccando il cielo e dando l’impressione che questo fosse ancor più irraggiungibile. Il sole le rendeva nere, limitando la visuale dei pirati, i quali erano costretti, ogni volta che guardavano insù, a coprirsi gli occhi con una mano.

Nessuno, fino a quel dato frangente, aveva pienamente realizzato che un incavo del genere, poteva risultare una trappola a dir poco perfetta: c’erano solo due vie d’uscita, una delle quali era l’entrata, la cui rientranza non era sufficientemente larga perché la Sunny potessi compiere un giro su sé stessa. Le pareti rocciose di destra erano incredibilmente lisce, come se fossero state cosparse d’olio, colme di relitti e punte fastidiose sul fondo: quelle di sinistra, seppur libere, non presentavano alcun punto di attracco validamente accettabile. Mancava solo un bel plotone della Marina come comitato di benvenuto e sarebbero stati fregati su tutta la linea. Erano svantaggiati, con una mobilità altamente limitata e uno spazio privo d’ogni utilità pensabile. Nel passarsi una mano sul viso, Azu comprese di essere stata alquanto stupida: c’era una ragione più che valida se Lars era rimasto fermo e con lo sguardo rivolto a ogni singolo centimetro di quell’isola spezzata in due. Una ragione che lei aveva dimenticato, perché convinta che quel brutto muso di suo fratello non fosse capace di sciogliersi al di fuori di un contesto che non implicasse la presenza di Shion. Tra le innumerevoli espressioni del più grande, c’era quella che gli aveva visto dipinta prima, e che tutt’ora teneva ben in vista: l’assottigliare le palpebre quanto bastava perché le sue pupille si dimezzassero, era il suo modo personale per osservare un determinato oggetto, che suscitava in lui un forte sospetto. Ora, l’oggetto in questione, erano proprio quelle mura apparentemente innocue, e il sospetto del fratello maggiore, al loro riguardo, era decisamente troppo forte perché potesse essere scambiato per un banale errore.

Inviperita con sé stessa, Azu si diede nuovamente della cretina: come avesse fatto a non accorgersene prima, proprio non lo concepiva!
All’ennesimo rumore sfuggente, la testa del capitano, del cuoco e dello spadaccino, si girarono nella medesima direzione.

“Sembra che qualcuno, lassù, stia correndo…”, osservò Zoro, portando la mano sull’impugnatura della Wadoichimonji.
“Non mi sembrano passi umani”, si aggiunse Sanji, accendendosi una sigaretta.

La presenza di un persona, su di un’isola del genere, era praticamente impossibile, specie poi nella parte destra di essa: era spoglia, priva di sostentamento naturale e, sicuramente, d’acqua dolce. Ma questo non significava che lì non ci fosse qualcun altro. I passi uditi da Gamba Nera erano pesanti, veloci, ma non quanto quelli di un comune essere umano. Inoltre, parevano essere più di due le gambe che correvano….se poi si trattava realmente di gambe.

Senza perdere tempo, l’albina puntò i propri occhi perlacei su diversi punti delle mura spoglie, flettendo le gambe e irrigidendo le dita delle mani. La speranza di superare quell’isola indenni, aveva ormai levato le tende, lasciando spazio a un’alternativa più dinamica e pericolosa: la tensione elettrica che stava irrigidendo tutti quanti loro, nave compresa, sgorgava dalle pareti rocciose peggio di un fiume in piena. Usopp, regolandosi gli speciali occhiali, afferrò saldamente la sua fionda Kabuto, affiancato da Brook, il quale continuò a guardarsi intorno senza cavare un solo ragno dal buco. La navigatrice e l’archeologa si fecero vicine, scambiandosi occhiate complici e annuendo fra di loro, senza aver bisogno di dar voce ai loro pensieri: viaggiavano insieme da così tanto tempo, che oramai era diventato facile interpretare certi gesti e sguardi, e questo valeva anche per gli altri: un minimo cenno di capo del capitano, e tutti erano pronti a fare quel che era giusto fare, che fosse ragionevole o insensato. Una cosetta che anche Azu e Lars avevano insegnato a Shion, corsa dal ragazzo e aggrappatasi ai suoi pantaloni.

“Si direbbe proprio che abbiamo compagnia…”, affermò sottovoce l’albino, portandosi il braccio dietro la schiena, per poi rinchiudere le dita attorno l’impugnatura di Saphira.

Forse era stato frutto di un’illusione creata da quel attrito crescente, ma le orecchie di alcuni dei pirati avevano distintamente sentito una sorta di ringhio sommesso fuoriuscire dalle pareti.

Le macchie nere menzionate dalla bambina non si erano ancora viste, ma ella era certa che si stessero nascondendo dietro le rocce, e quel rumore appena sentito ne era la prova. La tensione sviluppatasi non faceva altro che premerle sui polmoni, accorciandole il fiato e facendole battere il cuore quanto quello di un topolino impaurito. Gli irregolari buchi che rovinavano lo scoglio su cui tutti aveva concentrato la propria attenzione, stava esercitando su di lei un forte ascendente, impedendole di guardare il ponte di coperta o di lasciarsi cullare dal flebile battere delle onde. Avrebbe tanto voluto sottrarsi da quel tremendo silenzio, scandito da strani rumori che, via via, stavano divenendo più incalzanti, ma le sue gambe si rifiutavano di muoversi, così come le braccia e la testa, invasa da pensieri e immagini indecifrabili. Finì per serrare le palpebre e serrare con più forza le dita, affondandole nei larghi jeans di Lars, la cui voce la stava aiutando a non lasciarsi prendere totalmente dal panico.

“Sta tranquilla, Shion. Ci sono io”, le disse lui, accarezzandole la testolina “Rimani vicino a me e andrà tutto bene.”

Come avvertì il caldo braccio dell’albino circondarle le spalle, la piccina strabuzzò gli occhi, percependo i propri muscoli disfarsi della tensione. Fu una reazione che sfuggì al suo controllo emotivo, completamente libera dal suo volere, ma che venne ugualmente apprezzata, considerato l’enorme sospiro che ella emise. Le vie respiratorie tornarono a riempirsi d’ossigeno, privandola di quel minuscolo fastidio che le aveva punzecchiato incessantemente il torace e aiutandola a riconquistare quel minimo di mobilità che le occorreva per poter guardare l’amico. Non si aspettò di vedere nulla di nuovo dal solito, poiché conosceva Lars molto meglio delle sue cosiddette “Ammiratrici”, ma, come a voler giocare con lei, il fato la spinse a rimanere imbambolata davanti a quelle piccole sfere di ghiaccio, che altri poi non erano che gli occhi del ragazzo: erano ferme, prive di quella dolcezza con cui le aveva parlato pochi secondi prima e di ogni singola forma di esitazione o incertezza. Con i ciuffi che ricoprivano parzialmente la cicatrice - ferita che gli sfregiava il viso -, e la linea della bocca leggermente piegata all’ingiù, Lars appariva come un essere incapace di provare sentimenti umani, freddo più del ghiaccio dei suoi stessi occhi e di qualsiasi isola invernale presente al mondo.

Lui…era il tipico ragazzo a cui bastava poco per fare colpo, che veniva osservato, ammirato, ma mai avvicinato. Amava immergersi nei suoi pensieri, estraniando chi non voleva e alzando le sue difese schive contro chi non gli aggradava, mostrando la sua gentilezza a chi invece sapeva come prendergli il cuore. La barriera che occultava alcuni sprazzi della sua esistenza era inespugnabile, solida, impossibile da dissipare o attraversare. Shion non sapeva che dietro ad essa ci fossero delle cose riguardanti la vita di Lars; cose che, perlopiù, lui non le aveva mai detto, poiché non poteva comprenderne la reale importanza. L’effettivo peso di queste gravava ancora sull’animo del ragazzo quanto un omicidio commesso a sangue freddo e il ricordarne l’origine, non lo aveva mai aiutato a deporre il tutto in un angolo. Era qualcosa che non riguardava la piccina, che si affacciava su un periodo di vita dove lei non era ancora presente, e, quindi, teoricamente, inaccessibile alle sue domande. Conosceva poco, quasi niente, ma non era mai stata colpita dall’impellente desiderio di conoscere nei minimi dettagli la vita di Lars, il che, era veramente strano, vista la sua innata curiosità per tutto ciò che non riusciva a comprendere: la verità era che, ogni volta che guardava l’amico, ogni volta che scorgeva in lui quello sguardo inespressivo, freddo e schivo, la sua coscienza prendeva vita e le imponeva categoricamente di non immischiarsi. Non era al corrente di tutta la verità che lo circondava, ma la paura che lui decidesse di lasciarla, superava qualsiasi sua curiosità al riguardo: Lars non era un ragazzo scontroso, amava semplicemente prendersi  i suoi spazi personali quando ne aveva bisogno, ma era indubbio che per lei avrebbe sorriso con la più grande delle sincerità. Era buono, gentile e premuroso, e a Shion bastava.

In quel momento, avrebbe  tanto voluto dirgli che non aveva paura – non così tanta come pensava –, ma come scorse qualcosa cascare dal cielo, il respiro le si spezzò in gola e, rimpicciolendo le pupille, alzò il braccio in alto, urlando la presenza di quella cosa che, con fare rapidissimo, si stava facendo pericolosamente più grande.

“Attenti! Ci viene addosso!” urlò Nami.

L’oggetto nero - che poi si rivelò essere un grosso albero – sfrecciò verso di loro, con le radici rivolte verso il basso. Ancor prima che Zoro potesse scattare, e dunque tagliarlo, Rufy balzò in aria e lo distrusse con un solo pugno, riatterrando sul ponte di coperta, nel mentre grossi pezzi di legno cadevano in acqua. Non ci fu tempo di gioire, perché come l’albero venne disintegrato, il ringhio sommesso udito in precedenza si fece più intenso, moltiplicandosi ed espandendosi in tutto l’incavo che divideva Rocky Headland.

“Whaaaah! Ma che cos’è?!” domandò Chopper, sobbalzando per lo spavento.
“Non ne ho idea, ma sicuramente non è qualcosa di bello”, rispose Sanji.
“E’ strano. Il rumore è provenuto soltanto dalla parete di destra”, osservò Nico Robin.

Nel puntare le sue iridi acquose sul lato menzionato, la Bambina Diabolica corrucciò il proprio sguardo, piegando le braccia nella sua consueta posizione d’attacco. Vide le macchie nere menzionate da Shion muoversi, sfumate per la loro stessa rapidità, ma non fece neppure in tempo a capire che cosa fossero, che subito un altro pericolo proveniente dal cielo minacciò di affondarli: caddero altri oggetti, ma forse era più corretto affermare, che questi fossero stati scagliati da qualcuno, vista l’incredibile velocità con cui sfrecciavano. In men che non si dica, la ciurma di Cappello di Paglia si ritrovò a respingere una raffica di massi e alberi di differenti missioni, tutti ben decisi a ridurre la loro bella nave a un colabrodo.

“Arrivano!” avvisò Usopp, prendendo la mira con la propria fionda.
“Non so chi ci sia dietro, ma col cavolo che lascerò che questa nave venga rovinata!” affermò Franky, per poi esclamare: “Strong Hammer!”

Il violento pugno scagliato dal carpentiere squarciò l’aria circostante, creando un’onda d’urto così potente da respingere alcuni tronchi in procinto di strappare le vele.

“Eeeeeek! Se ci colpiscono, è la fine!” strillò Brook, con le mani scheletriche appiccicate a quella che un tempo era stata la sua faccia.
“Invece di perderti in ciance inutili, dacci una mano! Parage Shoot!” rimproverando il Canterino, Sanji colpì alcuni dei massi con una serie di calci veloci e precisissimi.

Quell’assurda pioggia continuava a minacciare la Thousand Sunny, pericolosamente traballante fra le onde createsi. Nami aveva afferrato il timone per cercare di mantenerla il più stabile possibile, sperando che quell’attacco finisse al più presto. Con un disequilibrio così vistoso e uno spazio assai ristretto, governare una nave di quelle dimensioni richiedeva uno sforzo e un’abilità superiori alla norma, requisiti che alla Gatta Ladra non mancavano, ma che, se spinti oltre al loro limite, sarebbero crollati come un castello di carte mal costruito. Serrando la mascella, la ragazza dai lunghi capelli arancioni fu costretta a puntare i piedi a terra più volte per non scivolare: di movimento ce ne era a sufficienza da far finire tutti quanti con le gambe all’aria, ma fintanto che la situazione era a loro vantaggio, la navigatrice mantenne il sangue freddo e la mente lucida, senza mai allentare la presa sul timone.

Alle sue spalle, lo schianto in acqua dei massi, lo spezzarsi del legno e gli echi dei colpi dei sui compagni, si susseguivano ritmicamente, senza cambiare ordine: riconobbe la raffica di pugni di Rufy, le stelle di piombo di Usopp, le lame taglienti di Zoro, per non parlare delle grida di battaglia di Azu, che rompeva a mani nude le rocce come se fossero fatte di cartone. Udì anche il sibilo della spada azzurra di Lars e quando tutto sembrò finalmente cessare, ebbe un altro motivo per impallidire e montare in fretta e furia il suo bastone Clima Sansetsukon.

Rufy, di qualche passo più avanti a lei, spalancò gli occhi e la bocca in tutta la loro lunghezza, ammirando quello strano essere che era atterrato sul ponte di coperta, dopo aver evitato i loro attacchi: era un gorilla, un enorme gorilla nero, dal muso arcigno e con le braccia cariche di muscoli. Nessuno di loro lo aveva visto scendere, poiché erano stati troppo occupati a impedire che la nave subisse danni, e questo aveva permesso all’animale di giungere sul ponte di coperta al momento più opportuno. Armati e con la guardia ben alzata, i pirati di Cappello di Paglia squadrarono il nuovo arrivato con pupille assottigliate, ben restie dal considerare la creatura come qualcosa di pacifico, seppur questa, teoricamente, avrebbe dovuto esserlo. Vi era qualcosa in essa che non ispirava nulla che si avvicinasse alla pace: le nocche scure erano consumate, piene di tagli che si dilungavamo sulle dita e sui avambracci, aprendosi in solchi dalle sfumature rossastre. Il pelo era scuro, sporco e spettinato in più punti, ma non vi era dubbio che, l’aspetto fisico più evidente fossero gli occhi: piccoli, tondi e pericolosamente scontrosi. Come mosse quest’ultimi sulla gente che gli stava attorno, il gorilla sbuffò indispettito, prendendo a battere violentemente i pugni sul ponte di coperta.

“Ehi, ehi, EHI!” urlò Franky coi denti aguzzi “Vedi di piantarla, ammasso di pelo!”

Quello, per tutta risposta, continuò imperterrito, ringhiando ed emettendo sonori sbuffi dalle narici.

“Chopper, riesci a capire cosa sta dicendo?” domandò Nico Robin.
“A grandi linee….”, mormorò “E’ molto arrabbiato, sembra che stia chiamando qualcuno”, disse infine la renna, sforzandosi di comprendere il linguaggio della bestia.

Una delle abilità di Chopper era il saper comunicare con qualsiasi animale, essendo anch’egli tale. Poteva tradurre ogni tipo di linguaggio, perfino quelle delle formiche, ma in quel momento, il suo tenero musino era contratto per l’impegno a cui quel gorilla lo stava sottoponendo: era furente, un fatto fin troppo chiaro, ma in una maniera così indicibile da rendere il suo muso schiacciato ancor più brutto di quanto già non fosse. Il dolce pelucchiotto tentò di avvicinarsi con cautela, cercando di instaurare una qualche forma di dialogo, ma quando riuscì a far luce su alcune parole dette da questo, puntò subito gli occhi in alto, indirizzandoli verso le sporgenze più vicine alla loro nave e mancò poco che la mascella gli si staccasse dal resto della faccia.

“Kyaaaa! Ma quanti sono?!” si domandò Usopp, coi occhi fuori dalle orbite.
“Wow! Che forza!” esclamò Rufy, stringendo i pugni “Sono tantissimi!”

Nuovamente, l’attenzione dei presenti cadde su uno dei due pezzi dell’isola, quello più malmesso. Le diverse sporgenze della parte destra di Rocky Headland non erano più vuote e grigie, ma piene di gorilla, tutti identici a quello che era salito per primo sulla Thousand Sunny, salvo per la grandezza. Come quest’ultimo si colpì l’addome, mostrando i lunghi canini, anche gli altri lo imitarono, strepitando con diversi ringhi acuti e scrollando le ampie spalle.

“La cosa si fa interessante”, sogghignò Zoro, certo del fatto che quelle bestie si stavano preparando ad assaltarli.
“Finalmente! Era ora che succedesse qualcosa di interessante!” sospirò sollevata Azu, battendo i pugni “Credevo mi sarei riempita di ragnatele a forza di fare la bella statuina!”
“Ma vi sembra il caso di entusiasmarvi?!” strillò Nami “Quelli vogliono affondarci!”

Benché la situazione non fosse da sottovalutare, la mentalità di alcuni membri dell’equipaggio aveva imboccato una strada totalmente differente da quella imboccata dalla navigatrice, ma ciò non significava certo che si sarebbero fatti mettere i piedi in testa dai loro avversari. Difatti, come quelli balzarono addosso alla nave, apparendo come tanti puntini neri sotto la luce del sole, la battaglia vera e propria si scatenò senza che ci fosse un arbitro a dare il via. Alzando un muro di fumo con i suoi proiettili speciali, il Re dei Cecchini conquistò la prima mossa per i suoi compagni, che sfruttarono la confusione per attaccare i molteplici animali. Seguirono fendenti a mezzaluna di vari colori, uniti da pugni e nuvole cariche di elettricità, che, nel loro insieme, gettarono al di là della balaustra un piccolo, ma consistente, gruppetto di gorilla. Questi, da parte loro, si dimostrarono incredibilmente coriacei e testardi, con una forza tale da riuscire a parare perfino il micidiale destro di Chopper.

Accucciata a terra in un angolo, Shion cercò di farsi più piccola di quanto già non fosse, per evitare di farsi vedere.

“Resta nascosta fino a quando non ti chiamo io”, le aveva detto Lars, prima di respingere con Saphira l’assalto di uno di quei bestioni.

C’era troppa confusione per vedere in che modo il combattimento si stesse svolgendo. Gli occhi azzurri della bambina scorgevano ombre oblique e frammentate, che si mischiavano fra di loro, uscendone completamente trasformate. Con le mani strette attorno alla sua borsa a tracolla e il cuoricino frenetico, provò a sporgere la testa di qualche centimetro appena, ma un forte boato la fece nuovamente rannicchiare su di sé come fosse un riccio. Si tappò la bocca per non tossire e deglutì quanto le bruciava in gola senza emettere fiato, per paura di venire scoperta: data le mancate abilità combattive, era l’unica che non poteva contribuire alla difesa della Sunny e anche se la cosa le dispiaceva, non poteva far altro che incitare mentalmente i propri amici e augurare loro la vittoria.
Come si stropicciò gli occhi per la visuale offuscata, Shion li batté più volte nel vedere una di quelle ombre fuggiasche avanzare verso di lei. Il pensiero che potesse essere Azu o Lars non la sfiorò neppure, tant’era ovvio che quell’immagine scura fosse fin troppo grossa per essere ricollegata ai suoi due amici. Battendo il sedere all’indietro, strinse ancor di più la borsa al proprio petto, con la bocca tremante e le ginocchia afflosciatesi misteriosamente: la paura di essere stati vista, l’aveva bloccata e, per qualche secondo, la sua mente si rifiutò di ricevere qualsiasi impulso da trasformare in un utile pensiero. Serrando ermeticamente le labbra, la piccina pregò che, qualunque cosa ci fosse davanti a lei, non l’avesse vista, che venisse distratta da qualcosa’altro, ma come comprese che questa non avrebbe cambiato direzione, scattò in piedi e abbandonò fulmineamente il suo nascondiglio.

Si arrampicò sulle scale senza guardarsi indietro, rischiando di inciampare sui suoi stessi passi nel mentre tentava di raggiungere la cucina, il locale più vicino, ma, come afferrò il pomello e aprì la porta, si fermò di colpo, impietrendosi.
Le sarebbe bastato un singolo passo per entrare, un piccolo movimento, ma il suo corpicino si era inevitabilmente bloccato, annullando ogni genere di azione che, in situazioni normali, avrebbe compiuto senza troppi problemi. Immobile e coi muscoli congelati, la piccola emise un gemito strozzato nel percepire un alito caldo e denso solleticarle il collo.
Come avvertì il ringhiare della bestia, il cui muso era affiancato al suo orecchio, la piccola iniziò a tremare, con un fortissimo bruciore ai occhi.

“Shion!”

La voce allarmata di uno dei membri della ciurma la raggiunse, ma lei, spaventata com’era, non seppe distinguerla. L’ombra che la ricopriva interamente stava alle sue spalle e come girò parzialmente il viso, si ritrovò faccia a faccia con due occhi scurissimi, così neri da non avere la pupilla.

“Shion, spostati da lì!!”

Gli sbuffi del gorilla che le stava alle spalle erano così profondi da arrivare a smuoverle alcune ciocche dorate. Le iridi azzurrine di lei caddero sulle profonde cicatrici che avevano tagliato più volte il viso della creatura, ora di fronte a lei, col pelo ritto. Si ritrovò ipnotizzata, contro la sua volontà, incapace di distogliere lo sguardo da quelle orripilanti ferite rimarginate più e più volte a causa delle infezioni. L’animale era mostruosamente grande, la sua sola ombra bastava ad oscurarla, e più i suoi tondi occhietti la guardavano, più la bambina sentiva le spigolose pareti della paura stringersi intorno a lei. Vista la semplicità con cui quest’ultimo la stava tenendo in pugno, era facile pensare che la piccina sarebbe rimasta sua succube fino a quando questo non fosse scomparso, ma non fu così: per una qualche strana ragione, forse data da quel minuscolo briciolo di lucidità non ancora spento, Shion si ridestò improvvisamente dalla trance dentro cui era caduta. Spinta dall’istinto, riagguantò il pomello della porta abbandonato in precedenza per tentare di chiudersi dentro, ma l’animale fu più svelto di lei, e con un solo pugno, sfondò l’entrata della cucina, per poi afferrarla e sollevarla, prima ancora che riuscisse ad allontanarsi.

“Aaaah!!!! Lasciami andare!!! Mettimi giù!!!” urlò lei, cercando di smuovere le dita che le tenevano imprigionata la vita.

Senza darle retta, il gorilla ruggì ancora, per poi prendere la rincorsa e lanciarsi verso la sporgenza più vicina della parte destra di Rocky Headland.

“Dannata bestiaccia, dove pensi di portarla?!”

Col sangue che pompava a mille, Azu si lanciò verso la balaustra con tutta l’intenzione di seguire l’animale e di scuoiarlo vivo. Aveva approfittato della loro distrazione per attaccarli di soppiatto, una mossa del tutto inaspettata. Lars non era stato tanto stupido da tenere Shion in bella vista, figuriamoci se commetteva un errore del genere: vista la rapidità con cui i fatti erano successi, l’aveva nascosta nel primo posto reputato abbastanza sicuro e lontano dal loro combattimento, ma quell’ammasso di peli ambulante aveva sfruttato la confusione per agire indisturbato e, adesso, si stava accingendo a portare Shion chissà dove. Il sol pensiero che quella bestiaccia le facesse del male, la irradiò di una rabbia tale da rendere ogni suo movimento più veloce e letale. Come due di quei animali le si pararono davanti, caricò entrambi i pugni con tutta la grinta necessaria, ma prima ancora che potesse stenderli, intervenne Lars, che le spianò la strada con un solo fendente.

“Pensaci tu”, le disse velocemente, per poi respingere l’ennesima ondata, decisa a buttarlo per terra.
“Ovvio! Geppou!

Dando sfoggio della sua impeccabile passeggiata lunare, Azu cominciò a calcare l’aria e a saltare a destra e a sinistra con grande velocità. Aveva fatto in tempo a vedere su quale sporgenza il gorilla si fosse fermato e se ne meravigliò, poiché questa era una delle più alte, dove, probabilmente, i gabbiani facevano il nido.

Quei cosi sono agili! Esclamò mentalmente.

Dandosi una spinta più potente delle altre, l’albina compì un grande salto, che la fece sfrecciare in alto come fosse un proiettile umano: l’aria prese a pungerle la pelle, ma ella non si preoccupò ne di quell’inconveniente, ne di qualunque altra cosa potesse nuocerle al momento. Era quasi arrivata, quando, tutto ad un tratto, si vide passare di fianco un braccio di carne smisuratamente allungato.

“Ma che acc….Rufy?!”

Cappello di Paglia la superò di netto, incapace di interrompere lo slancio preso per arrivare a quella determinata altezza. Guardando davanti a sé, Azu notò che una delle braccia del ragazzo era attorcigliata attorno alla sporgenza che lei stava mirando di raggiungere: giungendovi, il capitano lo srotolò senza alcuna fatica, facendolo schioccare rumorosamente e poggiandolo al fianco.

“Nami e gli altri cercheranno un’altra strada per raggiungerci”, le disse una volta che anche lei fu arrivata “Andiamo a cercare Shion.”
“D’accordo, ma non separiamoci: ho il presentimento che se lo facessimo, finiremmo per non uscire più”, affermò l’albina, entrando nella cavità insieme al ragazzo.




“Lasciami! Lasciami andare!! Si può sapere dove mi vuoi portare?!”

All’interno di quei cunicoli tutti attorcigliati fra di loro, la vocina di Shion rimbalzava sulle pareti rocciose come se queste fossero elasticizzate. Il gorilla che la stringeva per la vita non faceva che correre freneticamente da una parte all’altra, saltando e compiendo balzi in ogni direzione, sballottandola peggio di una bambola di pezza. Ignorava le sue grida e correva con a presso altri suoi simili, che, pian piano, si dividevano e procedevano in differenti percorsi. Per quanto si sforzasse di guardarsi in giro, tutto quello che la piccina vedeva, era solo il grigio delle pietre e il nero del loro fondo apparentemente invisibile: l’essere tenuta a quel modo e fatta roteare con maniere alquanto brusche, le stava provocando un bel mal di testa, impedendole di mettere a fuoco i dettagli del posto. La cosa strana, era la discreta visibilità presente nelle gallerie, sufficiente a impedire agli abitanti del posto di sbattere la capoccia contro qualche spigolo, ma questo era l’ultimo dei problemi di Shion, inconsapevole sul suo destino.

Dimenarsi era inutile, come il gridare o lo strepitare: più scendevano in profondità, più la sua voce andava a frammentarsi in minuscole parti, finendo miseramente per essere cancellata dal silenzio. Quando il gorilla finalmente si fermò, lei aprì gli occhi, scuotendo leggermente la testina bionda: erano arrivati a destinazione, almeno così sembrava, ma tutto quello che Shion riuscì a vedere, fu una grande buca circolare, le cui dimensioni occupavano buona parte di quella sorta di stanzetta, scavata dalla forza della natura. Non capì perché l’animale si fosse fermato proprio in quel punto, ma come questo sollevò il braccio che la teneva, per poi piegarlo leggermente all’indietro, un minuscolo sospetto le balenò in testa.

“Ehi, no…asp…aaaaahh!!!”

Fu inutile tentare di parlare, perché come l’animale prese ad abbassare l’arto, le sue dita nere sciolsero la presa che esercitava sulla sua esile vita, lanciandola in avanti con una debole spinta. L’oppressione a cui era stata soggetta scomparve all’istante, ma come il galleggiare in aria si trasformò in un pericoloso precipitare verso l’ignoto, la bambina cominciò a gridare con tutta la forza che aveva, per poi tacere nell’istante in cui il suo corpo venne inghiottito dal buio di quella buca.

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Capitolo 8
*** Imprigionata fra le mura di pietra. ***


Buon venerdì a tutti quanti. Ecco a voi l’aggiornamento tanto atteso ( si fa per dire, ^^). Vi lascio subito al capitolo, sperando che vi piaccia. Buona lettura a tutti quanti. Ah, giusto per non dimenticarmi: in fondo troverete il link dove potrete vedere il disegno di Lars, per chi fosse interessato a vedere come l’ho creato.

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Come i gorilla se ne furono andati, il silenzio riassunse il controllo su Rocky Headland.
Tutto tornò al proprio posto, come se niente fosse successo, come se quella pioggia di massi e alberi non avesse mai attentato all’incolumità della Thousand Sunny, il cui unico danno era la porta sfasciata della cucina. Un piccolo torto che Franky aveva tutta l’intenzione di restituire a quelle bestiacce nere. Ancora non era stata fatta luce sul perché quegli scimmioni li avessero attaccati con così tanta violenza: ricollegare il tutto a una semplice questione di territorialità pareva non essere sufficiente, secondo le opinioni di alcuni. La loro irruenza si era spenta troppo in fretta e questo era stato notato da tutti: insomma, se avessero davvero voluto impedire alla nave di proseguire, non se la sarebbero svignata senza prima infliggere pesanti danni a quest’ultima. Si trattava di un fatto che meritava una spiegazione più che esauriente, ma, al momento, la serietà dei membri della ciurma era tutta concentrata sul voler portare la nave alla più vicina sporgenza della parte sinistra dell’isola.

Shion era stata rapita da quei gorilla e Rufy e Azu erano gli unici che li stessero inseguendo. In una qualche maniera che ancora non era chiara, i restanti pirati dovevano trovare una via che permettesse loro di arrivare dal capitano e dall’albina, e, considerata la possibilità che quelle bestie potessero tornare alla carica, Nami aveva dato l’ordine di puntare verso lo scoglio meno ripido e con più aperture facilmente raggiungibili.

Posando più volte l’occhio sulla ricca vegetazione che ricopriva il lato sinistro di Rocky Headland, Lars cercò di trovare un qualsiasi passaggio che fungesse da ponte fra i due enormi pezzi dell’isola, ma senza risultati soddisfacenti: fra di essi c’era troppa distanza e saltare sarebbe equivalso al suicidio. Qualunque fosse stata la causa che aveva aperto in un solo colpo il territorio, questa aveva cancellato ogni possibilità di riattacco, allontanando drasticamente le rispettive parti, il che non aiutò il pensare dell’albino, ricercante una maniera plausibile per raggiungere sua sorella. Nascondeva dietro quella sua impenetrabilità di ghiaccio la tensione che stava tentando di soggiogarlo, ma il suo autocontrollo era troppo saldo perché si facesse sorprendere da pensieri mal costruiti. L’allenamento a cui si era sottoposto, aveva implicato un così ferreo controllo del proprio animo, che il concentrarsi o l’isolarsi mentalmente, oramai, erano azioni diventati più facili del prendere sonno. Con Saphira riposta nella sua custodia di pelle consunta, l’albino espirò con gli occhi chiusi, richiamando a sé tutte le forze. Era calmo, saldo di spirito, con gli arti svegli, pronto a riprendersi la sua Shion: sebbene lei, nel suo piccolo, riuscisse sempre a fare la sua parte, rimaneva pur sempre una bambina, e non si poteva di certo pretendere che combattesse a mani nude contro quello schieramento imbufalito di gorilla. Senza contare, poi, che quelli non erano comuni gorilla…….

Respingerli era stato difficile, visto il poco spazio che il ponte di coperta della Sunny offriva: benché ampio, questo non era l’ideale per un combattimento di massa.
Difatti, imponeva delle costrizioni involontarie, ma anche se si fossero trovati in uno sconfinato prato verde, niente avrebbe posto in secondo piano l’incredibile forza che quegli esseri avevano tirato fuori; sin dal primo urto violento, Lars aveva avvertito qualcosa di anormale, in quelle bestie, che l’aveva costretto a puntare i piedi per terra, corrucciando le sopracciglia argentate. Come la sua spada si era scontrata con le grandi mani di uno di quei gorilla, egli aveva percepito i fasci muscolari di quest’ultimo indurirsi sostanziosamente, come se al posto della carne fosse subentrata la pietra. Aveva spinto così tanto, per respingerlo, che ancora i suoi polpacci non si erano liberati da quell’incandescenza tipica di un grande sforzo. Non sapeva spiegarselo, e, francamente, capirlo, non gli interessava: la sua priorità era salvare Shion e l’avrebbe fatto anche se fosse significato sterminare un’intera colonia di scimmie nere formato extralarge.

Per il momento, non poteva far altro che lasciare il grosso della situazione a sua sorella e procedere insieme agli altri, mantenendo la calma di sempre e confidando nella speranza che la sua protetta fosse ancora intera: perdere la testa o cedere all’impulso di gettarsi a braccia aperte verso il pericolo, sarebbero serviti soltanto a fargli rotolare la testa giù da un pendio, e la cosa, anche semplicemente detta, non suonava molto gradevole.

“Nami, guarda laggiù. Possiamo attraccare in quel punto”, suggerì Usopp, indicando una sporgenza poco lontana.

La rientranza in questione era larga, leggermente elevata, ma priva di ostacoli che potessero minacciare lo scafo della Sunny.

“Uhm…si, si può fare”, mormorò lei, guardando il punto menzionato dal cecchino con il binocolo “Sanji, gira il timone di circa quaranta gradi a sinistra.”
“Subito, Nami-chwan!” rispose il cuoco, obbedendo alla navigatrice.
“Uhm...la parete sembra essere considerevolmente liscia…” mormorò la ragazza, studiando attentamente la loro meta “Franky, ci serve una scala”, aggiunse poi, rivolgendosi al carpentiere.
“Aw! Considerala già fatta, sorella!” esclamò il Cyborg, con le mani già munite di attrezzi, gli occhiali neri calcati sul naso metalli e l’immancabile sorriso a trentadue denti.
“Spero tanto che Shion stia bene”, disse Chopper, con occhi preoccupati.

L’assalto aveva tenuto tutti quanti occupati, lui compreso. Nessuno si era aspettato una simile svolta, perché, in tutta sincerità, non l’avevano considerata come qualcosa di concepibile. Il Tenero Peluche si sentiva un po’ in colpa per il non essere riuscito a intervenire in tempo: in fondo, quei gorilla, erano pur sempre animali come lui, e proprio non si capacitava come non fosse riuscito a comprendere quel che avevano detto. In ciascuno dei suoi amici, c’era una piccola nota di amarezza per quella minuscola sconfitta, ma nessuno di loro si stava mostrando affranto, per niente: tenevano la testa alta, elargendo una padronanza e una sicurezza delle loro azioni talmente ineccepibile, che chiunque avrebbe creduto che il rapimento della bambina non li avesse toccati.
Ma non era così, non lo era: il fatto che una loro amica, una bambina, perlopiù, fosse appena stata sequestrata sotto i loro occhi, senza che potessero fare nulla, stava esortando tutti quanti a non arrendersi all’evidenza. Assistere ad un Zoro e a un Sanji che collaboravano per sistemare la vela maestra, senza prendersi a schiaffoni, era la prova più lampante e assurda che potesse dimostrare la veridicità di quel atteggiamento. Potevano litigare, fare a cazzotti o tentare di affogarsi a vicenda, ma facevano parte di una ciurma e, quando serviva, erano pronti a collaborare senza fiatare………quasi.

In realtà qualche bisticcio volava sempre, ma era una cosa gestibile, se Nami rimaneva nei paraggi.

“Che ne pensi, Robin?” domandò poi la Gatta Ladra, avvicinandosi all’archeologa “Secondo te potrebbero esserci altri animali di quella stazza?”

Da qualche minuto, la Bambina Diabolica era immersa nelle sue riflessioni, tutta presa a studiare a occhio nudo la morfologia di quello scoglio coperto di muschio, che poi era la parte sinistra di Rocky Headland: oltre alla ripidezza, la immaginò colma di sentieri pendenti, scoscesi e irregolari, ostacolati dalla natura e da ciò che essa nascondeva. Forse al suo interno avrebbe scoperto qualcosa di più sui gorilla che li avevano attaccati, ma fintanto che si limitava ad osservarla esteriormente, poteva giungere a poche conclusioni.

“Può darsi, ma non posso dirlo con certezza. Se vogliamo avere una panoramica più ampia, dovremo salire in alto, ma il vero problema sarà trovare il sistema per arrivare dall’altra parte. La distanza è grande”, rispose lei.

Nami annuì col capo, senza smettere di pensare alla bella salita che li attendeva: la prospettiva di attraversare una giungla non era delle più rosee, meno che mai se questa era infestata da insetti che lei trovava a dir poco rivoltanti, ma visto che il capitano era partito in quarta per salvare Shion, loro non potevano certo stare lì a fare le belle statuine fino al suo ritorno. Che razza di figura ci avrebbero fatto?

“Yohohoho! Nami-san, ci siamo”, l’avvertì  Brook.

La nave aveva raggiunto il punto di attracco. L’ancora venne gettata acqua, di modo che questa rimanesse ferma anche con la corrente che tentava di spingerla in avanti. Franky, con impeccabile precisione e tempismo, aveva quasi concluso la costruzione dello scheletro della scala: saldava i grossi chiodi e avvitava le diverse aste d’acciaio senza incappare in alcun errore, dando prova di quell’ineguagliabile bravura che aveva potenziato nel corso dei due anni trascorsi a Barjimoa. Difatti, non occorse molto tempo prima che terminasse la sua opera e la fissasse alla parte rocciosa.

“Aw! Ecco fatto, sorella! Una scala SUPER!” esclamò lui, battendo i pugni per terra, per poi unire le braccia nella sua leggendaria posa di uomo libero e orgoglioso.
“Bene: adesso, prestate attenzione”, e lì, la rossa si rivolse a tutti i compagni “Non sappiamo se anche questa parte dell’isola sia abitata da animali feroci, quindi, è importante che nessuno di noi abbassi la guardia, e, soprattutto, che……dove accidenti è Zoro?!?”

La ragazza non aveva neppure fatto in tempo a finire la frase, che già avevano iniziato a piovere problemi.
Se non era il capitano a creare scompiglio, era il vice, che, già di suo, era una mina vagante d’incommensurata imprevedibilità.

“Lassù”, rispose Chopper, indicando con la zampina.

Sarebbe stato troppo chiedere una partenza tranquilla, organizzata e coordinata. Sarebbe stato decisamente paradisiaco che, per una santissima volta, tutto fosse andato secondo le strategie di Nami. La poverina ci sperava sempre, giusto quel pochettino per non apparire troppo pretenziosa, ma il destino, da bravo rompiscatole quale era, pareva divertirsi a vederla delusa o amareggiata, quando tutto il suo operato si riduceva a una serie di improvvisazioni tirate insieme a tempo di record.
Non appena la navigatrice depose lo sguardo sulla cima della scala costruita dal carpentiere, vide una ben distinguibile testa verde, armata di katane, che si stava apprestando ad inoltrarsi nella foresta.

“QUELLA TESTA D’UOVO SENZA CERVELLO!!!” urlò lei, con una dentatura del tutto identica a quello di uno squalo “QUALCUNO LO FERMI PRIMA CHE FINISCA CHISSA’ DOVE!!!”




“Uhg……..”

Buio.
Era l’unica cosa che vedeva e che era stata capace di percepire attorno a sé. La circondava interamente, occultando il resto e privandolo di ogni colore e forma, ricordi compresi.
Per Shion fu come aprire gli occhi – benché questi, in realtà, fossero ancora chiusi. Non rammentava come fosse finita lì o da quanto tempo ci si trovasse: la sua coscienza, o meglio, un minuscolo granello di essa, si era appena svegliata grazie all’odore pungente della polvere incastratasi nelle sue narici, riportandola nel mondo dei vivi, con un contorto starnuto.

A seguito di quel fastidio, venne il dolore: una fitta fastidiosa, di quelle che spingeva la gente a tenersi la ferita con entrambe le mani e a stringere i denti con tutta la forza che si disponeva. Appallottolarsi su sé stessa forse non sarebbe stato tanto utile, ma la bambina avrebbe comunque voluto farlo, giusto per muovere i muscoli e il resto del corpo, giacenti in uno stato confusionale e spossato, pesante quanto quello che le opprimeva la testa. Contro cosa fosse schiacciata, non lo sapeva, ma, stranamente, non era ne freddo, ne duro, anzi: in un qual modo, sotto di lei stava qualcosa di morbido, ma anche di spigoloso e…ruvido?

Corrugando la fronte e dischiudendo la bocca in un debole mugugno, strizzò gli occhi con l’intenzione di uscire da quel baratro dentro cui era stata lanciata senza preavviso, avvertendo chiaramente l’indolenzimento dei propri arti. Sebbene fosse atterrata su qualcosa di non eccessivamente solido, il suo corpicino era comunque piuttosto fragile, essendo ancora in fase di crescita, quindi, risentire di certi colpi, era una cosa naturale.
Impegnandosi, dischiuse lentamente le palpebre, svelando le sue iridi azzurrine ancora disorientate: vide sfocato per qualche istante, ma poco a poco, riuscì a schiarire la propria vista e a riconoscere le forme tozze e appuntite di quello che aveva l’impressione essere un muro di roccia.

“Ohi, ohi…che botta.”

Messasi seduta, si massaggiò con entrambe le mani, la testolina dolorante, gemendo, nel toccare poco al di sopra della fronte, un piccolo bozzo coperto dai capelli. Doveva esserselo fatto quando…..già, quando se lo era fatto?
La sua memoria stava ancora vacillando, privandola degli ultimi momenti di coscienza vissuti poco prima di assopirsi dentro quello strano buio. Sbattendo le palpebre, si guardò in giro, scoprendo di trovarsi all’interno di una buca rocciosa, con mura alte poco più di sette metri. Un piccolo barlume proveniente dalla sua mente, la fece sussultare impercettibilmente: era stata gettata lì dentro da quel gorilla!

Apprendendo quella piccola rivelazione, i frammenti di memoria, sparsi a casaccio nella sua mente, cominciarono a riunirsi e a comporre il filo degli eventi momentaneamente spezzato, dissipando i residui dello stordimento fisico: era stata presa da quell’animale, sballottata come un giocattolo e, infine, buttata nell’attuale buca, senza un ragionevole motivo. Evidentemente, l’essere atterrata di testa, doveva averle fatto perdere conoscenza, il che avrebbe spiegato la dolorosa presenza di quel bernoccolo pulsante. Eppure, sotto di lei, non sentiva nulla di compatto: l’aveva percepito prima, ma, essendo troppo frastornata dal colpo, si era convinta che fosse stata solo una sua impressione. Come guardò in basso, rimase molto sorpresa, tanto che emise un “Oh!” meravigliato, per quello che vide: per farla breve, era seduta su una collinetta di vestiti, borse, vasi, e ciarpame vario, che, nel loro insieme, le avevano fatto da cuscino. Un mucchio piuttosto consistente di robe di vario stampo, aperte, svuotate, ricoperte di polvere e buttate lì come fossero spazzatura. Con sua grande gioia, Shion, nel far roteare i suoi occhi, scorse la sua adorata borsettina a tracolla gialla, a pochi centimetri da lei: allungò le manine per afferrarla e, come l’ebbe presa, la controllò minuziosamente, senza scoprirci sgualciture o strappi. Anche gli oggetti al suo interno erano a posto.

“Meno male, è tutta intera!” esultò, stringendola “Però, adesso…”, e guardò dubbiosa la parete “Io come faccio a uscire?”

Considerata la sua minuta statura, era assai improbabile che sarebbe riuscita a sbucare fuori con un semplice salto. Indossando la tracolla, la piccola osservò quanto la circondava con i pugni stretti in petto e le ginocchia sbucciate: il muro era circolare, alto, pieno di bozzi di varie grandezze e privo di ulteriori vie che non implicassero la sua scalata. Una bella gatta da pelare. Avvicinandosi alla parete, la bambina alzò il capo con fare preoccupato, socchiudendo gli occhi per il leggero bruciore che le sbucciature le stavano provocando: non aveva idea per quanto tempo fosse rimasta svenuta, ma, in cuor suo, non voleva rimanere lì dentro per sempre.

Doveva andarsene, fuggire……..ma come?

Istintivamente, compì un piccolo balzò e si aggrappò a uno spuntone rotondo che sporgeva dal muro, cercando di issarsi. Fece appello a tutte le sue energie disponibili, ma finì per battere il sedere cinque volte, prima di comprendere che scalare una parete rocciosa non era esattamente come arrampicarsi su di un albero; lì non c’erano Azu-chan o Lars pronti a prenderla, nel caso si fosse appoggiata male. Senza contare, che, presto o tardi, quei gorilla si sarebbero fatti nuovamente vivi…….
Non ne era sicura, ma il timore che quelli tornassero, la stava già spaventando non poco.

Cosa posso fare? Si domandava lei Che faccio?

Non era ancora impaurita a tal punto da ritrovarsi col fiato corto e il torace tartassato da battiti incontrollati, ma l’essere tesa e con gli occhi lucidi, stava già facendo si che la sua serenità diminuisse drasticamente: era in trappola, bloccata in chissà quale parte dell’isola e circondata da quei grossi animali capaci di sradicare un intero albero con un solo braccio. Nel rammentare l’aspetto di uno di questi, le parve di avvertire sul suo collo l’alito umido e caldo della creatura che l’aveva afferrata per la vita: quel muso nero, contratto per la rabbia e deturpato da orribili cicatrici, l’aveva guardata con sguardo penetrante, legandola con la sua stessa paura. Non era riuscita a muoversi o a respirare, ritrovandosi nella sua mano senza neppure accorgersene: aveva provato a scappare, a lottare, ma era stato tutto inutile. Non era stata sufficientemente veloce, e adesso era lì, in attesa di un qualcosa di cui nemmeno sapeva il nome.

Abbassando il mento con espressione sconfitta, finì per inginocchiarsi e abbracciarsi le gambe con le braccia, nascondendo il viso nelle ginocchia. Un groppo alla gola tentò di uscire prepotentemente dalla sua bocca, ma lei lo ricacciò indietro, appallottolandosi ancora di più: era spaventata, timorosa, e debole quanto un cucciolo smarrito. Non era in grado di saltare sull’aria come faceva Azu-chan, ne forte come Lars, e questa minuscola consapevolezza le pesò dolorosamente, perché, in quel momento, desiderò poter essere come loro: capace di uscire da un problema con le sue sole forze. La sua ammirazione nei confronti dei due albini era fondata su ciò che questi sapevano fare, sui limiti umani che infrangevano con una facilità a dir poco mostruosa. Facevano sembrare tutto così facile, ma, in realtà, la loro dimestichezza nei combattimenti, era frutto di anni di duri allenamenti che non si erano ancora conclusi. Per quanto fosse brava a cavarsela in determinate situazioni, quella era troppo lontana dalla sua portata, dalle sue stesse abilità. Era una bambina di undici anni, con scarsissime – praticamente inesistenti- capacità di combattimento e poche speranze di uscire di lì.

Indubbiamente, si sarebbe arresa all’evidenza se non avesse aperto gli occhi su quel ciarpame sopra cui era seduta: la guardò con distrazione, col vuoto aleggiante in testa, quand’ecco, l’illuminazione! Una piccola lampadina si accese nella testolina della biondina, facendola scattare in piedi con un espressione di puro stupore dipinta sul viso: sotto di lei erano accatastate robe di vario genere, che, alla prima impressione, poteva risultare solo della spazzatura, ma Shion, nel momento in cui si disse che poteva ancora fare qualcosa, ci vide qualcosa di molto più utile. Solo perché, in apparenza, tutti quei oggetti erano rotti e un po’ malmessi, non significava che non potessero essere utilizzati una seconda volta: bastava solo cercare.
Senza formulare ulteriori pensieri, si gettò su un mucchio a caso, iniziando a scavare e a rovistare con l’adrenalina a surriscaldarle il sangue: era certa, che lì in mezzo, da qualche parte, potesse esserci un oggetto di valida utilità, qualcosa che fosse vicino a una scala o una corda. Gattonò in ogni direzione, sfilando roba di ogni forma e dimensione, rigirandola fra le mani e gettandola alle proprie spalle, se non ritenuta idonea al suo scopo.

“Questo no, questo nemmeno, questo neanche….uffi! Ma qui è tutto rotto!” esclamò lei, col viso impolverato.

Indispettita, gonfiò le guance, ma senza smettere di scavare. Sebbene nessuno di quei oggetti fosse riuscito a conservare la propria integrità, dopo che i gorilla li avevano maneggiati, la bambina proseguì nel suo piccolo operato, con la paura ricacciata nel suo misero angolino nero e spoglio; anche a costo di farsi male alle mani, avrebbe continuato a rovistare senza sosta. Prima poi avrebbe trovato qualcosa, ne era sicurissima!

“Uhm..no, non va bene…..ah, trovato!” esultò.

Era arrivata al punto di mettersi a cercare da un’altra parte, quand’ecco, che da sotto una moca del caffè piuttosto malconcia, spuntò la manica di una camicia di un marrone sporchissimo: non era esattamente la corda che lei sperava di trovare, ma le andò bene ugualmente, così come furono graditi gli altri vestiari, scovati successivamente. Senza chiedersi perché vestiti del genere si trovassero lì – come tutta l’altra roba, del resto -, la piccina si risedette a terra, cominciando a legare fra di loro i capi trovati, esattamente come alcuni marine di Shirama le avevano insegnato: avere un papà che gestiva una base militare della Marina, implicava visite alquanto fruttuose, per un’aspirante esploratrice quale era lei.

“Dunque, questo va così, questo invece..ok…ecco, è pronta!”

Esclamando, balzò in piedi e alzò le braccia al cielo, tenendo ben stretta fra le mani una personalissima corda fatta di vestiti.
Era un po’ sudicia, ma abbastanza lunga da permetterle di scalare la parete. Ora che il mezzo era stato creato, non rimaneva altro da fare che sbrogliare l’ultimo problema: trovare il sistema per appendere uno dei due estremi fuori dal buco. Da dove si trovava Shion, era impossibile vedere cosa ci fosse all’esterno della buca e lanciare a vuoto un estremo della corda, sarebbe stata solo una perdita di tempo. Scartò anche il soffitto, posto ancor più in alto della sporgenza che voleva raggiungere, quindi, si concentrò sulla parete che aveva già tentato di scalare in precedenza: bitorzoluta e deforme, presentava numerosi appigli e rientranze, che gli occhietti della biondina reputarono immediatamente validi alla sua causa.

L’intensità con cui guardò le sporgenze andò a intensificare la sua forza di volontà, irrobustendola di ulteriore sicurezza.

Forse posso usare uno di quelli, si disse, nel corrucciare la linea della sua bocca.

Era fattibile, tutto stava da come riusciva a tirarsi su.
Non sarebbe stato tanto difficile, vista l’esperienza che vantava come arrampicatrice sugli alberi: non era la stessa cosa, se lo era già detto, ma, fra il battere il sederino e il rimanere lì, in attesa che quei gorilla tornassero alla carica, preferiva di gran lunga farsi qualche livido.
Avvolgendosi la corda attorno a una spalla, fece per recuperare la borsa a tracolla – tolta per avere maggiore mobilità nella ricerca -, ma, come allungò il braccio per prenderla, notò che anche qualcos’altro  stava cercando di compiere la sua medesima azione: era una manina piccola e nera, grande quanto la sua, rugosa e fredda. Con un grosso punto interrogativo in testa, Shion alzò la testa quanto bastava, per far combaciare i suoi occhi con quelli di una buffa creaturina, che la stava guardando col muso immobile e zitto.
Era una scimmietta, una scimmietta  grande quanto un cane di piccola taglia, che la fissava intensamente con due minuscoli occhietti neri e tondi. Il suo aspetto si avvicinava a quello di una bertuccia, ma le dimensioni appena più ridotte e la graziosità del muso, la escludevano da quella famiglia; il pelo del manto era di un bel rosso scuro, con un ciuffo disordinato in testa e una voluminosa coda soffice ondeggiante a destra e a sinistra. Come i suoi occhi e quelli azzurri della bambina si erano incontrati, questa aveva ritratto le braccine, ma senza scappare, quasi avesse trovato in lei qualcosa di ancor più interessante di quella borsa a cui stava puntando.

“Ciao”, fece Shion, con le sopracciglia alzate e la borsa ben stretta fra le braccia “Tu chi sei?”

Pose quella domanda con naturalezza, come se, davanti a sé, al posto di quella creatura, ci fosse una persona in carne e ossa.
Non aveva provato paura nel vedere quella manina scura e paffuta tentare di prenderle la borsa, al contrario; si era stupita di trovare in quella buca qualcun altro oltre a lei, e che, forse, era rimasto a osservarla per tutto il tempo. Così presa dal voler cercare una maniera per uscire, si era guardata in giro frettolosamente, osservando solo ciò che credeva di vedere, mettendo da parte il restante.
Dal canto suo, nemmeno quella piccola scimmietta pareva turbata, nonostante fosse stata colta sul fatto: anche se avesse avuto la capacità di esprimere i propri pensieri con la lingua umana, probabilmente se ne sarebbe stata zitta, come in quel preciso momento. I suoi occhietti fissavano Shion, ma, ogni tanto, divagavano sulla borsa che la bambina stringeva fra le braccia: le sue pupille interrompevano il contatto visivo con la bambina a intervalli irregolari, cedendo il posto allo smuovere delle labbra, arricciate e piegate in strane contorsioni.
Se non fosse stato per il leggero borbottio proveniente dalla sua pancia, la biondina non avrebbe mai capito la ragione di quelle facce assurde e insensate.

“Hai fame?” domandò Shion “Aspetta, forse ho qualcosa…”

Aprendo la sua borsa, la bambina immerse la mano al suo interno, cominciando a frugare e a spostare i vari effetti personali che si portava sempre dietro. Inclinando la testolina a destra e poi a sinistra, la scimmietta le si avvicinò, sino ad appoggiare le zampe anteriori sulle ginocchia di lei, con fare speranzoso. La biondina non badò a quel contatto e continuò a cercare, finché non trovò quello che faceva al caso suo: un sacchetto di biscotti fatto appositamente per lei da Sanji.

“Tieni”, le disse lei, porgendo all’animale uno dei dolci “Sono buonissimi.”

Spinta dai crampi dello stomaco, la scimmietta, inizialmente, allungò il muso, annusando e osservando il dolcetto, per poi prenderlo e divorarlo in pochissimi secondi. Non occorse molto prima che questa saltasse in braccio a Shion e le svuotasse l’intero sacchetto, senza chiederle il permesso.

“Urca, avevi proprio fame…”, mormorò stupita la bambina, nel mentre guardava la creaturina sorridere beatamente.

Se non altro, uno dei due era contento. Nell’osservarla massaggiarsi il ventre peloso, ora ben riempito, Shion non poté fare a meno di domandarsi cosa ci facesse una scimmia di taglia così piccola in mezzo a quei gorilla: forse quest’ultimi non erano la sola specie presente, forse, da qualche parte, c’erano altri animali, ma lei, durante quel tragitto tortuoso e altamente movimentato, non aveva visto nessun’altro. Che stessero nascosti per evitare di incontrare i gorilla? E poi, che ci facevano con tutte quelle cose, se le accatastavano lì dentro? La sua curiosità stava dando forma a tutti quei quesiti a cui avrebbe tanto voluto trovare una risposta, ma lo stringere la corda d’abiti creata da lei stessa, la spinse a scuotere la testa e ad alzarsi da terra, poggiando l’animale a terra.

“Devo uscire di qui”, si disse risoluta, chiudendo i pugni.

Posando i bei occhi azzurri sulla parete circolare, rinnovò la sua decisione con ancor più convinzione: aveva lasciato da parte ogni forma di incertezza o paura, desiderosa di compiere quella piccola sfida e vincerla con tutte le sue forze… peccato solo che, ancora, non sapesse bene come fare. Gli spuntoni adocchiati in precedenza, erano solidi a sufficienza da reggere il suo peso, ma rimaneva comunque il problema di legare un’estremità della corda a uno d’essi. Se solo ci fosse stata un’altra persona con lei…..

Già….un’altra persona!

L’idea che le balenò in testa fu piuttosto strampalata, ma non del tutto insensata: aveva disperatamente bisogno di un aiuto, giacché lo scalare a mani nude la parete, le aveva provocato solo botte e tonfi dolorosi e, per quanto assurdo e illogico che fosse, tutta la sua speranza era appena cascata sulle spalle di quella creaturina che le stava ai piedi, sazia per lo spuntino offertole.

Si, era ridicolo da pensare, ma la bambina non aveva molte altre scelte a sua disposizione e scartarne anche solo una, le sarebbe potuta costare anche la vita.

“Ehm….ok, proviamo…”, si disse.

S’inginocchiò davanti alla scimmietta, non del tutto sicura di quell’intenzione appena partorita dalla sua testolina. Cercare di instaurare un dialogo con una scimmia e, ancor di più, farsi capire da quest’ultima, richiedeva requisiti fuoriuscenti dalle capacità umane, magari poteri sovrannaturali che venivano conferiti soltanto a persone il cui destino era legato alla salvezza del mondo intero. Assurdità a parte, Shion era consapevole che la riuscita del suo intento era pericolosamente incerta, ma confidava nel fatto che, avendo ceduto all’animale i suoi ultimi biscotti, questo le venisse incontro.

“Allora… puoi aiutarmi?” le domandò, con molta lentezza “Puoi prendere questa corda e…si, insomma, legarla lassù?”, e indicò un punto non del tutto preciso della buca.

Per tutta risposta, la scimmietta sbattette gli occhi e inclinò la testa più e più volte, osservando la bambina andare nel pallone e mettersi le mani fra i corti capelli dorati, per i vari tentativi che stava cercando di formulare con quanta più decenza possedeva. Farfugliava più con sé stessa che con l’animale, e, man mano che proseguiva, il suo intento di spiegarsi, divenne sempre più intricato e complesso, peggio di quelle odiose e lunghe definizioni che il suo tutore le imponeva di imparare a memoria. All’apice della sua confusione, Shion abbassò il capo arruffato e fumante, con fare sconsolato, finendo per sospirare pesantemente. La grande goccia pendente dietro la sua nuca simboleggiò la sua ridicolaggine, per quel tentativo malriuscito.

Alla fine aveva combinato un così disastroso groviglio verbale, che perfino un sordo se ne sarebbe accorto!

“Uffi, e ades….whoa!!”

Nel mentre si stava domandando in che altro modo poteva agire, il bell’animaletto rosso le era balzato addosso, rischiando di farla cadere all’indietro.
Questo si appiccicò alla sua faccia come una ventosa, agitando le mani rugose e sbattendo la coda con freneticamente, facendo scontrare la sua soffice pelliccia col viso di Shion, affondato nel pelo del suo ventre. La piccola provò ad afferrarla con entrambe le mani, ma senza alcuna successo: la creaturina non faceva altro che agitarsi e sgusciare via dalle sue mani peggio di un’anguilla. Quando finalmente quella le si tolse di dosso – saltando giù dalla sua schiena -, Shion poté prendersi un’ampia boccata d’ossigeno. Subito, si girò indispettita verso la scimmia: le avrebbe detto che non era stato affatto carino saltarle addosso in quella maniera,  poiché lei le aveva gentilmente ceduto i suoi biscotti, ma quella piccola indignazione, pronta a essere tradotta verbalmente, rimase sospesa, per poi essere immediatamente cancellata.

Il solo vedere la sua corda di vestiti essere trascinata verso la parete e fatta risalire fino all’uscita, riaprì la porta di quella minuscola speranza che, poco prima, aveva decretato fallita. La scimmietta stava scalando la parete a suon di balzi, mostrando un’agilità impressionante negli arti: apriva e chiudeva i palmi delle sue quattro mani – o zampe che fossero -, afferrando la roccia e issandosi ancora più in alto, grazie a un dondolio sempre maggiore. Arrivata in cima, ella sparì per qualche istante dalla visuale di Shion, avvicinatasi alla parete per poter afferrare la corda che ora penzolava. Non credeva possibile che quanto appena visto, fosse vero, tant’era incredula, ma come udì un leggero strillo proveniente da sopra la sua testa, seguito da uno strattone per verificare se la corda fosse stava effettivamente legata a un macigno situato al di fuori della buca, un enorme sorriso comparve sul suo viso, rendendo ancor più luminosi i suoi occhi.

“Regge! La corda regge!” esclamò.

Non poteva davvero crederci! Quella scimmia l’aveva capita!

Stringendo maggiormente le mani attorno ai vestiti intrecciati, la piccola chiuse la bocca e alzò la gamba sinistra per far appoggiare il piede alla parete.
Con una spinta, venne il sinistro e poi ancora il destro, seguito dalle mani e le braccia, i cui muscoli si irrigidirono immediatamente, nell’istante in cui si ritrovò sospesa verticalmente in aria. Puntando gli occhi sulla cima, le parve molto più lontana di quanto le fosse sembrato, e questo pesò ai suoi arti tremolanti, tesi e duri per via dello sforzo a cui lei stessa li stava sottoponendo. Era difficile, molto, e più si prodigava per diminuire la distanza che la separava dalla libertà, più il calore che stava avvolgendo i palmi delle sue mani, aumentava drasticamente. Si ritrovò a respirare irregolarmente, gonfiando le guance rosse e trattenendoci dentro l’ossigeno; per evitare che i suoi piedi si staccassero dalla roccia, era costretta a farli strusciare contro di essa, avanzando più lentamente di quanto andasse. No, non era facile come molti, lei compresa, avevano immaginato: aveva appena toccato il punto che sanciva metà del suo percorso e già il suo visino era tutto paonazzo.

“Gnnnnn!! Che….fatica…!” mugugnò faticosamente, con i denti affondati nel labbro inferiore "Non è...gnnnn!! Come salire su un albero!!"

Mai come in quel momento, desiderò di saper utilizzare il Geppou.
Era pronta a scommettere tutti i risparmi del suo salvadanaio che, impararlo, doveva essere decisamente più facile che scalare una parete con una corda di abiti lerci, ma la fatica di quel preciso istante, stava omettendo tutta una serie di implicazioni che, indubbiamente, avrebbero visto il suo maialino di plastica viola – ovvero il suo salvadanaio - sgonfiarsi come un palloncino. Con quel pensiero frullante in testa, Shion continuò a salire, osservata da quella pelosa scimmietta, i cui ciuffi in testa si divertivano, ogni tanto, a ricaderle sui occhi. Seduta a terra, ma con la coda voluminosa ben alzata, la creaturina se ne stava ferma a guardare in basso, distogliendo gli occhietti, di tanto in tanto, per captare in anticipo la presenza di quegli scimmioni, sicuramente rintanati nelle zone più interne. Non sarebbe di certo uscita da uno dei suoi nascondigli, se non avesse avuto la certezza che i suoi simili – molto più grossi e cattivi di lei – non fossero stati sufficientemente lontani. Vivendo in quel labirinto di pietra, fatto di gallerie e buchi scavanti a mani nude, la piccola scimmia Cresta di Fuoco – questo era il suo nome completo – aveva imparato a sfruttare quei silenziosi intervalli al meglio delle sue possibilità, sia per procurarsi del cibo, sia per dormire, organizzando quel poco tempo a sua disposizione, in azioni semplici, ma rapide. Una strategia degna di un’accettabile dose d’intelligenza, ma era innegabile che, a rendere l’animale tanto scrupoloso, fosse il suo stesso istinto di sopravvivenza.

“Ci sono…ci sono, ci sono!”

Con un ultimo sforzo, Shion allungò di scatto una delle sue due braccia per afferrare il bordo della buca; stringendo le dita attorno ad esso e appoggiando i piedi su di una roccia sporgente, si diede la spinta necessaria per tirarsi su e, quindi, finalmente, uscire dalla sua prigione.

“Anf….ce…ce l’ho fatta…”, mormorò “Evviva, ce l’ho fatta!” e con le braccia alzate in aria, si lasciò cadere in avanti, sfinita.

Finì con la pancia schiacciata contro il pavimento, ansimando per la fatica, il bruciore alle mani, e quelle vampate di calore che la sua pelle emetteva a sbuffi irregolari. I battiti del suo cuore rimbombavano contro la roccia con così tanta frenesia da risultare dieci volte più percepibili del normale; i muscoli delle gambe erano tesi e tirati, necessitanti di qualche minuto di riposo, prima di sostenere tutto il peso del corpo. Era stata dura, ma ce l’aveva fatta: aveva usato il cervello- come le era stato insegnato - ed era riuscita a uscire da quella sorta di fossa, senza aspettare l’intervento dei suoi amici.

Una piccola vittoria di cui poteva andare fiera, ma, purtroppo, non quella definitiva: alzando la testolina, vide davanti a sé un unico, grande cunicolo, che si slargava sul fondo, diramandosi in più parti. Sebbene fosse riuscita a evadere dalla buca, non poteva ancora dichiararsi in salvo, perché, ad aspettarla, c’era l’intero interno della montagna, insieme a quei gorilla arrabbiati.
Trovare una via di fuga, così, su due piedi, era un’impresa piuttosto ardua da compiere al primo tentativo, ma nel mettersi seduta, Shion cercò di farsi ulteriormente coraggio: la paura messa da parte poco prima, stava tornando a solleticarle l’animo, facendole ben notare che quei cosi erano intorno a lei, e che potevano sbucare fuori da ogni angolo. Era come camminare su di un campo minato, con gli occhi bendati e senza possibilità di scelta, salvo quella di mettersi tranquillamente seduta e aspettare che Azu-chan o Lars venissero a prenderla, ma Shion, in quel posto, non ci voleva stare un secondo di più: le dava fin troppo disagio e lo stesso pareva per quella scimmietta rossa che l’aveva aiutata ad uscire.
Se ce l’aveva fatta a uscire da quella fossa, allora sarebbe riuscita anche a trovare la strada per tornare alla nave. Come si spolverò gli abiti, per poi sistemarsi meglio la borsa e dunque avanzare verso quel tunnel grigio, l’animale le fu subito accanto, trotterellando tranquillamente.

“Facciamo attenzione a non fare troppo rumore o ci sentiranno”, le bisbigliò Shion, nel mettersi l’indice sulle labbra.
 
 

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           Lars.

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Capitolo 9
*** Nella giungla profonda. ***


Buon pomeriggio a tutti voi! E anche questa settimana, vi porto il nuovo capitolo ^^. Fintanto che riesco ad arrivare a venerdì, ne approfitto. Un grande ringraziamento a tutti quanto voi che leggete!

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“Levatevi dalle scatole, bestiacce! SONO DI FRETTA!!”

Le grida di Azu echeggiavano lungo i cunicoli di pietra, interrompendo bruscamente il flebile e appena impercettibile gocciolare dell’acqua di rugiada.
Correva a perdifiato giù come una forsennata, senza mai rallentare, seguita a ruota da Rufy scatenato quanto lei. Entrambi si stavano aprendo la strada con il solo uso delle mani, senza porsi il problema dell’orientamento: per quanto fosse difficile scegliere quale dei numerosi tunnel prendere, i due ragazzi erano presi da tutt’altro, per mettersi seduti e ponderare su tale questione. Quegli enormi gorilla li stavano ostacolando in ogni maniera, cercando di rendere ancor più angusto e stretto lo spazio a loro disposizione. Erano pochi, ma estremamente coriacei, coi muscoli di pietra e i denti aguzzi, il che li rendeva dei avversari assolutamente fighi per Cappello di Paglia.

Attaccavano con brutalità, ruggendo e facendo tremare la pietra circostante; la loro inarrestabilità sfilava in bella vista a ogni loro attacco, cozzando contro tutto ciò che li circondava. Indubbiamente, avrebbero portato avanti lo scontro fino all’esaurimento fisico, se la loro indole animalesca non li avesse illuminati su di un fatto molto lampante: quei due invasori, benché fossero di stazza inferiore, stavano distruggendo le loro difese e i loro attacchi con una forza pari alla loro, se non superiore. I pugni cicatrizzati venivano parati e ricambiati, la loro territorialità messa sempre più a rischio…in pratica, stavano perdendo su tutti i fronti, e, dall’alto della loro primitività, non avevano potuto fare altro che indietreggiare volontariamente. Con passi pesanti e grugniti ansimanti – senza contare poi la grande sorpresa dei due ragazzi -, i padroni della parte destra di Rocky Headland avevano lasciato spazio a un profondo silenzio, contornato dal flebile e alquanto suggestionante suono del vento che riempiva ogni angolo del posto. Luminosità e temperatura scendevano man mano che ci s'inoltrava in quella tana tortuosa, provocando brividi alla pelle umana e rendendo tutto ancor più uguale di quanto già non fosse. L’ambiente non forniva nulla che potesse essere considerato un punto di riferimento: tutto era grigio, bagnato, freddo, umido….un posto dove Azu non avrebbe passato mezzo secondo in più, se, a costringerla, non ci fosse stata una causa di forza maggiore.

Avanzando con passo svelto e spavaldo, l’albina teneva puntati i suoi occhi perlacei sulla vivrecard di Shion, alzandoli di tanto in tanto per evitare di finire col naso spiaccicato da qualche parte: il modesto pezzettino di carta, per tutto il tragitto, aveva continuato a trascinarsi verso il basso, quasi volesse scappare dal palmo della ragazza, tanto si agitava, ma poi, aveva iniziato a raddrizzarsi, cercando di mettersi in piedi. Nel suo osservarlo accuratamente, Azu vide la punta di esso cercare una stabilità al momento traballante, indicante l’alto e nessun’altra direzione. 
Un simile cambiamento non mancò di essere notato: rappresentava una svolta, poiché, dalla direzione, sembrava proprio che Shion stesse venendo nella loro direzione, ma la guardia del corpo non si scompose, ne mutò lo spirito battagliero dipinto sul suo viso. Poteva darsi che quegli animalacci della malora la stessero spostando apposta, giusto per rendere la loro ricerca ancor più difficoltosa. Una mossa che avrebbe fatto di loro delle belle pellicce per il suo guardaroba, se la sua ipotesi si fosse rivelata giusta.

Se provano anche solo a darle un morso, li scuoio vivi, pensò fermamente convinta.

Aumentò il passo, svoltando a destra e senza minimamente preoccuparsi di guardare se Rufy fosse dietro di lei o al suo fianco. L’idea che quella piccina fosse chissà dove, in quale accidenti di buco, impaurita e tremante, stava cancellando ogni altro pensiero dalla sua testa, al fine di averla completamente libera per le sue attuali priorità, ovvero:

Salvare la sua pucciosa protetta e strangolarla di abbracci.
Prendere a calci nel sedere quelle scimmie e fare di loro dei capi che enfatizzassero la sua vanità.
Ultima, ma non meno importante, sfottere suo fratello.

D’accordo, la terza non era strettamente necessaria, ma ci stava comunque bene.

Ogni occasione era buona per ribattezzare che lei non era inferiore al parente, in particolar modo quella, visto l’attuale vantaggio, ma mai si sarebbe permessa di trasformare il rapimento di Shion nell’ennesima sfida personale contro Lars. L’adrenalina pompava nelle sue vene come il sangue nel cuore, spronandola a tirare avanti e a compiere le azioni più disparate: sollevare un gorilla di duecento chili a mani nude e scaraventarlo contro altri suoi simili, era qualcosa che poteva risultare tanto impensabile quanto spaventoso, specie se a farlo, era una ragazza.

Nessuno avrebbe contestato l’invincibile forza di Azalea Gallower, ma ella, al momento, non era affatto interessata a dimostrare tale tesi. Shion aveva la priorità su tutto quanto.

“Bene, stiamo andando nella direzione giusta”, affermò lei, nel guardare la vivrecard della bambina “Anche se si sta muovendo, dovremmo riuscire a sbarrare la strada a quegli animali prima che si allontanino troppo. Rimani vicino, Rufy, questo posto è peggio di un labirinto e, francamente, più tempo ci passo e più mi viene voglia di demolirlo, capito?.....Rufy? Ru…”

Anche se l’albina avesse continuato a parlare, Cappello di Paglia non le avrebbe comunque risposto, e questo perché, quando si aveva a che fare con lui, bisognava tenere a mente una sola e semplice regola: non si doveva mai, mai, mai, ma proprio mai, perderlo di vista.
L’alzare lo sguardo e il volgerlo alle sue spalle, per poi scoprire di essere sola come un cane, fece cadere la mascella della ragazza a terra, allungandole le pupille e rendendo la sua espressione ancor più sbalordita. Così presa a guardare la vivrecard di Shion e immersa nel proprio flusso di pensieri, Azu non aveva fatto caso a quella piccola particolarità, che l’aveva accompagnata sino a quell’istante: lì c’era silenzio, decisamente troppo, considerati gli abitanti del posto e la persona con cui ci era entrata. Un tipo come Rufy era abituato a esplorare una nuova isola senza alcun genere d'imposizione, arrivando anche a cantare filastrocche stonate nel bel mezzo di una giungla, pur di esprimere la sua allegria, e sebbene ciò fosse talmente fastidioso da rendere più digeribile il pestaggio a suo carico, era la sola garanzia che permetteva ai suoi compagni di ciurma di non perderlo. Un solo essere umano negato del benché minimo senso dell’orientamento – ovvero Zoro –, era sufficiente.

“Maledizione!!! E ora dove si è cacciata, quella testa di gomma?!” sbraitò l’albina, battendo i piedi per terra.

Era troppo bello che stesse andando tutto liscio. Figurarsi se il fato non confabulava contro di lei!
Ringhiando coi denti chiusi, si scompigliò la zazzera argentata freneticamente, digrignando mugugni incomprensibili, ma ben carichi di esasperazione.

E pensare che sono stata proprio io a volere che la giornata si movimentasse, si ritrovò a pensare, sbuffando così tanto da sollevare la sua stessa frangia.

L’attuale livello di esasperazione aveva appena oltrepassato il punto di non ritorno. Azu non era mai stata una ragazza che credeva alle predizioni, così come non aveva mai creduto che i propri pensieri potessero prendere forma e ricaderle in testa, ma, a saperlo prima che finiva in quel modo, non si sarebbe mai azzardata ad aprire la bocca. Poteva lagnarsi quanto voleva, ma ormai il guaio era fatto, e a lei, povera anima disperata, non restava altro da fare che trovare il ragazzo di gomma e astenersi dall’accopparlo. Come si era detta prima, Shion aveva la priorità su tutto quanto.

Voltandosi completamente, prese a ripercorrere i propri passi, finché non udì qualcosa: un colpo, seguito da un tonfo molto pesante.

“Rufy.”

L’albina cominciò a correre, scorgendo sulla parete di destra una rientranza circolare che prima le era sfuggita: il ragazzo doveva esserci entrato, perché, come Azu vi si addentrò, avvertì i suoni farsi più forti. Stava combattendo, ne era sicura: quei ruggiti animaleschi non potevano di certo appartenere al capitano. Difatti, quando uscì dal tunnel percorso, si ritrovò in un altro di quei condotti rocciosi, identico in tutto e per tutto a quello che si era appena lasciata alle spalle, ma con un Rufy avente i pugni alzati e un gorilla steso a terra.

“Eccoti qua! Si può sapere che diav….?!”
“ Sta giù!”

L’indignazione di Azu, mischiata a un forte prurito alle mani, s'interruppe di colpo. Aveva tirato dritto verso l’amico, incurante del fatto che avesse abbassato la propria guardia. Vedere la faccia del capitano aveva portato il suo nervosismo all’apice, accecandola su quanto la circondava, compreso l’enorme scimmione comparso alle sue spalle e pronto a colpirla al collo. Non se ne era accorta, e, come udì l’ordine di Rufy, successe qualcosa.

Non comprese subito cosa fosse capitato: la sua mente, a un certo punto, aveva come smesso di funzionare, spenta da qualcosa che non era la sua volontà. Era calato il buio e la sua coscienza era stata colpita con violenza, traballando pericolosamente verso il nulla. Come avesse fatto a resistere, neppure lei sapeva dirselo, poiché quel colpo stava rimbombando dentro di lei con l’uguale intensità di tanti echi incapaci di susseguire un ordine crescente. 
Nel riaprire gli occhi - senza neppure ricordare per quale ragione li avesse chiusi -, Azu si ritrovò seduta a terra, col fiatone e in uno stato d'intorpidimento così acuto che pareva quasi le fosse stato tolto l’ossigeno dal sangue. La vista doveva essersi annerita per qualche istante e il ricordo di Rufy, che teneva un braccio piegato sul fianco e l’altro ben teso in avanti, col palmo della mano aperto, era l’unica cosa che al momento riusciva a rimembrare decentemente.

Ma che diavolo….è stato? Pensò lei, con la mano sulla gola, cercando di placare gli ansimi.

Le sue braccia erano tese, come le gambe, tremanti per qualcosa che superava di gran lunga l’emozione scaturita dalla paura. Non c’erano immagini a cui aggrapparsi, solo quella strana sensazione che, ad un certo punto, l’aveva trapassata da parte a parte senza lasciarle ferite mortali, ma scuotendola con così tanto vigore da farle quasi perdere i sensi. Era frastornata, con il corpo emotivamente sfatto e inibito. Sul piano fisico era intatto, privo di segni o lividi, il che la sbalordì ancora di più, poiché, per arrivare a provare una simile spossatezza, avrebbe dovuto combattere per sette ore di fila, se non di più. Lei era una che non demordeva neppure se si trovava sul punto di morire, capace di portare il proprio corpo in condizioni pietose, pur di dimostrare che non era una femminuccia, ma in quel preciso istante……. non sapeva che cosa pensare.
Neppure una scossa elettrica avrebbe potuto fare danni così ingenti e lasciarla senza fiato a quella maniera.

“Oi! Tutto bene?” le domandò Rufy.

Le ci volle qualche secondo per riuscire ad alzare la testa quanto bastava e dunque guardare in faccia il ragazzo di gomma.

“Ehi..”, rantolo lei, mandando giù in gola l’ennesimo ansimo "Che…accidenti hai...combinato?”
“Uh? Oh, scusa, non volevo colpire anche te”, le disse lui, portandosi una mano sulla falda del cappello “ Di solito faccio attenzione, quando uso l’Haki. Rayleigh-san mi ha insegnato come si fa e…”
“Che?” biascicò l’albina, massaggiandosi le tempie “Di che stai parlando?”
“Dell’Haki”, rispose Rufy, con semplicità “Tu non ce l’hai?”

Se ce l’aveva? Manco sapeva che cosa fosse.
Era la prima volta che lo sentiva nominare. Durante gli anni d’addestramento, si era impegnata a sviluppare alla perfezione le proprie capacità fisiche, portandole a un livello fenomenale grazie anche all’apprendimento delle Roku-shiki, di cui ora vantava una certa maestria. Mancava di una certa precisione e controllo in alcune di queste, giacché preferiva utilizzare quelle con cui più si sentiva a suo agio, ma non era una pecca così grande da metterla in pericolo di vita: le svariate ore passate ad allenarsi servivano appositamente a tenerla in forma e ad aumentare la destrezza appresa in tenera età. C’era stato quell’attimino in cui aveva dovuto applicarsi mentalmente – periodo molto cupo, data la sua grande avversità nei confronti dello stare seduta e dello studio - , ma alla fine, era arrivata a ricoprire la posizione attuale, dando prova di quanto una ragazza potesse fare, se ben decisa a dimostrare agli uomini che anche il gentil sesso poteva prendere a calci nel sedere pirati e gentaglia varia.

Aveva studiato, sudato……ma quel cosiddetto “Haki” menzionato da Rufy, le era completamente estraneo. Il nome non si ricollegava ad alcuna voce imparata e questo perché si trattava di un’energia talmente grande e complessa, da poter essere vista e appresa soltanto in mare aperto. Era la volontà di far risplendere le proprie convinzioni di luce viva, donando a esse una solidità capace di distruggere qualcosa di concreto come un’intera flotta navale. Era ciò che poteva arrivare a spezzare il cielo, dividere le acque e far tremare la terra con un solo battito di ciglia, una forza diversa da quella fisica, potente e nobile quanto il sogno che la muoveva. Non esisteva una definizione che spiegasse il suo funzionamento, ed era difficile credere che una cosa del genere esistesse, eppure, quando Azu vide il gorilla che aveva cercato di attaccarla, non scorse alcun segno di contusioni o ematomi: era semplicemente steso a terra, con gli occhi rivolti all’insù e la bava alla bocca, come tramortito da un martello invisibile.

“L’hai messo al tappeto…col tuo Haki?” domandò lei, nel gattonare vicino all’animale e accertandosi nuovamente che il ragazzo non lo avesse effettivamente preso a pugni in faccia.
“Certo. Stava per piombarti addosso”, le rispose lui, con ancor più evidente ingenuità.

Per il capitano non poteva apparire più normale di così, ma per l’albina, l’argomento “Haki” era divenuto un oggetto degno di approfondimento, che avrebbe chiarito non appena la loro missione di salvataggio si fosse conclusa. Mente liquefatta a parte, nessun torpore o indebolimento le avrebbe fatto dimenticare che Shion era in pericolo. Una visione che la fece saltare in piedi con energie nuove e pronte a essere utilizzate.

“Beh, Haki o non Haki, grazie per l’aiuto”, disse lei, ripulendosi le ginocchia “Sarà meglio proseg…”
“Azu-chan? Sei lì?”

Il silenzio stavolta fu rotto da qualcosa di più dolce: una vocina tenera e incerta si era fatta largo fra quelle mura, arrivando a solleticare l’udito dell’albina, la quale, schiuse la bocca e guardò Rufy come a voler accertarsi di non essersi sbagliata. Lo riteneva pressoché impossibile, poiché avrebbe riconosciuto quella voce anche se si fosse ritrovata in mezzo a una folla rumorosa, ma non voleva che il suo subconscio le avesse giocato qualche scherzo, vista l’attuale fretta.
Cappello di Paglia si guardò subito attorno, finché non arrivò a scorgere in cima alla parete di destra, poco prima di toccare il soffitto, una piccola rientranza dalle forme irregolari. La vocina si fece ancora sentire e lì, Azu, non poté non parlare.

“Shion? Shion, sei tu?”




“Toglimi le mani di dosso, dannato cuoco da strapazzo!” strepitò Zoro.
“Lo farei, se tu avessi la decenza di rimanere in piedi per più di tre secondi!” replicò Sanji, nel mentre cercava di alzarsi.
“E da quando in qua il tuo equilibrio dipende dal mio?!”
“Da quando Nami-san mi ha chiesto di starti dietro per evitare che tu faccia di testa tua! Hai idea di quanti problemi ci avresti creato, se ti fossi perso come al tuo solito?!”
“Ma che vai a blaterare, idiota?! Io non mi perdo mai!”
“Raccontala a qualcun altro!!”

Lo scoglio sinistro di Rocky Headland era completamente avvolto da un fittissimo strato vegetale, selvaggio in ogni punto. Esattamente come Nico Robin aveva ipotizzato. Non c’erano segni di civilizzazione o i più rudimentali tentativi, sintomo che quel posto non era mai stato esplorato. Trovare luoghi del genere era raro di quei tempi: la Marina aveva acquisito la brutta abitudine di piazzare un avamposto in qualunque territorio civilizzabile, e questo arrivava a comprendere paludi, grotte, e anche vulcani in piena eruzione. Il fatto che Rocky Headland fosse fuori dalla portata dei militari era un autentico sollievo, ma non completamente, considerata la piega che gli eventi stavano prendendo: il rapimento di Shion pareva essere stato soltanto il preludio di quella lunga serie di vicissitudini che attendeva la Ciurma di Cappello di Paglia. Al di là della splendida rigogliosità, la parte sinistra di Rocky Headland, come ogni foresta si rispettasse, implicava la presenza di certi fattori naturali alquanto fastidiosi: primi di tutti, i moscerini.

Piccoli, snervanti...si appiccicavano alla pelle peggio della colla!

Come avevano messo piede nella giungla, i ragazzi erano stati letteralmente assaltati da interi stormi di quegli insetti, finendo per prendersi a sberle a vicenda. Fra tutti, era stato Usopp a rimetterci maggiormente: nel vano tentativo di scacciare quei maledetti esserini, Franky aveva finito per mollare una manata contro il naso del cecchino, mostrandogli un cielo pieno di tantissime stelline luccicanti.
Non era stato il loro migliore inizio, ma, d’altro canto, se era la natura stessa a ostacolarli, poche erano le possibilità di procedere senza intoppi: il tasso di umidità stava al di sopra della norma, molto accentuato dal fatto che le folte fronde degli alberi e dei cespugli evitavano al cielo di illuminare l’interno, chiudendo il tutto come fosse una cupola. I loro tronchi erano incurvati, assomiglianti a degli archi, con i rami pendenti a destra e a sinistra, che andavano a intrecciarsi con altri loro simili per dare vita a chiome più grandi e resistenti. Il terreno era scivoloso, coperto da un’incolta erba alta che arrivava a solleticare il collo dei pirati, intenti ad attraversarla e a non rimanerci impigliati: strusciava contro le loro pelli come fosse una cinta di cuoio spessissima.

Cosa dire poi della mobilità….
Attraversare quel pantano umido, molliccio, avente la consistenza delle più putride melme che fosse mai state messe insieme, stava rendendo l’attraversata estremamente complicata. Arrancando col sudore che imperlava le loro fronti, i pirati di Cappello di Paglia, col valido aiuto delle loro braccia, cercavano di farsi largo in quella natura incontaminata, il cui silenzio era continuamente interrotto dalle imprecazioni di Zoro e Sanji, le cui cadute stava rallentando la già lenta andatura.

“Per la miseria, l’erba è altissima”, disse Usopp “Attenti a dove mettete i piedi.”
“A giudicare dalla temperatura del terreno, dovremmo trovarci nella parte più interna della foresta”, constatò Nico Robin.

La fanghiglia non era più bollente e maleodorante come lo era stata pochi attimi prima: stava iniziando a perdere calore, raffreddandosi gradualmente.

“Che fossimo dentro o fuori, la cosa non cambierebbe: questa umidità mi sta facendo arrugginire le giunture!” borbottò Franky, con Chopper appoggiato su una delle sue mastodontiche spalle.

Quel clima afoso era decisamente troppo per il povero dottore, bloccato in uno stato di semi-incoscienza, per via della calura che la sua stessa pelliccia gli stava arrecando.

“Yohohoho, concordo con te! Questo caldo è così insopportabile, che fra un po’ mi si scioglieranno le ossa!”

Come trovassero la forza di parlare, era un vero mistero. Quell’afa superava il sole cocente dei deserti di Alabasta, una ragione in più per chiudere la bocca e conservare l’ossigeno. Il fatto di trovarsi in una zona con poca pendenza, bastava a far intuire ai loro cervelli che avevano ancora parecchia strada da fare prima di arrivare a una sufficienza altezza e dunque escogitare un piano per passare dall’altra parte. La Gatta Ladra aveva già in mente un’ideuzza, ma era necessario fare un passo alla volta, specie se c’era il rischio che anche quella parte d'isola, fosse abitata da animali feroci. Per il momento non se ne erano visti, il che era un bene, giacché la loro mobilità stava venendo messo a dura prova da quella fanghiglia: in alcuni punti, la sua densità era tale, che dovevano per forza prendersi le gambe con le mani e tirarle su a più non posso, per riuscire a liberarle.

“Risparmiate il fiato e continuate a camminare”, borbottò Nami, passandosi il dorso della mano sulla fronte “Con un simile livello di umidità, non è il caso di rimanere qui più del dovuto. Dobbiamo proseguire e salire più in alto, dove il terreno è secco e l’aria è più respirabile.”
“Aw! Meglio secco che questa calura! I miei arti stanno iniziando a scricchiolare e i capelli non ne vogliono sapere di stare su!” esclamò il Cyborg, nel sistemarsi, per l’ennesima volta, il suo impeccabile ciuffo da “Vero uomo”.

Neppure impiastricciarsi la testa di gel era servito a tenere integro il suo orgoglio estetico: l’intruglio chimico stava colando incessantemente sul collo del carpentiere, lasciando che la chioma azzurrina si afflosciasse in avanti.

“La vegetazione è così fitta che rende uguale ogni angolo di questo posto. Non mi stupirei se stessimo girando in tondo”, disse l’archeologa.
“Che?!? Cioè, noi stiamo arrancando in questo schifo di fango da ore, e tu vieni a dirci solo adesso che forse siamo ancora al punto di partenza?!?!” esclamò Usopp, con gli occhi fuori dalle orbite.
“A….Aiuto……”, biascicò Chopper, completamente intontito “Mi gira la testa……”
“Yohohoho! Se fosse così, rischieremmo di rimanere imprigionati qui per sempre e di morire per colpa del caldo e della sete. Sarebbe davvero orribile, anche se sono già morto!” ridacchiò Brook.
“Vedi di farla finita con le tue stupide battute!” strillò Nami, nell’assestargli un destro impeccabile “E VOI DUE, PIANTATELA DI LITIGARE!” urlò rivolta al cuoco e allo spadaccino, rimasti per l’ennesima volta indietro, a causa dei loro battibecchi.
“Ha cominciato lui!” esclamarono all’unisono.

E ti pareva che non si comportassero come due bambini dell’asilo! Possibile che, in quei benedettissimi anni passati ad allenarsi, i loro cervelli non avessero compiuto un minimo di progresso? Certo che era possibile: si stava parlando di Zoro e Sanji.
Anche se avessero avuto a loro disposizione un intero secolo per maturare psicologicamente, sarebbe bastato che quei due si guardassero in faccia per regredire allo stadio infantile dentro cui sguazzavano.

La navigatrice sospirò pesantemente, battendosi una mano sul viso e sperando ardentemente che almeno il capitano non stesse facendo più danni di quanti lei si stesse già prefigurando.

“Sono i soliti id….!”

Riprendendo a camminare, Nami poggiò un piede in avanti, ma senza trovarvi la giusta stabilità: il terreno si era infossato all’improvviso, avvolgendosi attorno al suo piede e spingendola a traballare pericolosamente, senza neppure avere il tempo di tendere le braccia ai lati. Tentare di rimanere in piedi fu inutile: era troppo in bilico perché potesse raddrizzarsi da sé e non c’erano appigli a cui aggrapparsi. D’istinto, la ragazza chiuse gli occhi, pronta a vedersi coperta di fango dalla testa ai piedi, ma, contro ogni sua aspettativa, non avvenne nulla di quel che aveva previsto: anziché sentire il lerciume macchiarle la pelle, si ritrovò come sospesa a mezz’aria, con i piedi poggiati per terra, ma ancora in bilico. Il realizzare di non essere caduta, l’aiutò ad accorgersi di quella presa salda e rassicurante che le stava cingendo le spalle, sostenendo il suo peso senza risentirne.

“E’ tutto a posto?”

Dischiudendo le palpebre con fare incerto, la ragazza vide il volto di Lars guardarla attentamente. Le iridi ghiacciate di lui si stavano accertando che non si fosse fatta male e lei, nel osservarle di sfuggita, ne percepì tutta la fermezza: non vi era alcun briciolo di tensione in esse, così come non ve ne era nei muscoli. Solitamente il fisico di una persona risentiva quando doveva sostenere quello di un altro individuo: un leggero tremolio proveniente dagli arti, il viso contratto per la fatica……….segni tipici dello sforzo, facilmente riscontrabili in ciascun essere umano. Nami, da brava e scrupolosa osservatrice quale era, avrebbe notato subito quei piccoli dettagli, se Lars li avesse manifestati. Ma il punto era, che il ragazzo non emanava alcun tipo di vacillazione: sosteneva il suo peso come se nulla fosse, esattamente come aveva percepito in precedenza.

“Sta molto attenta: il terreno non è affidabile”, l’avvertì placidamente.
“Ah, si….ti ringrazio”, gli disse lei, nel mentre, con il suo aiuto, recuperava l’equilibrio.
“Oi, bell’imbusto!! Non ci provare con Nami-san!!” gli urlò dietro Sanji, intento a rimettersi in piedi e con Zoro che cercava di fare altrettanto.

L’albino ignorò il cuoco, così come la Gatta Ladra, grata al ragazzo per averle evitato una rovinosa caduta nel fango. Era stato talmente veloce da non averlo neppure sentito arrivare e lei, benché non fosse una combattente esperta quanto Rufy o gli altri, durante il periodo passato ad allenarsi, aveva imparato a percepire discretamente la presenza di una o più persone vicine a lei. Una piccola abilità che le permetteva di schivare e anticipare gli attacchi dei suoi avversari, senza che i suoi compagni corressero in suo aiuto.
Era qualcosa di cui poteva andare orgogliosa, perché, fra le tante cose che si era ripromessa di fare, vi era quella di non doversi più affidare ciecamente alla forza del capitano o dei suoi compagni. Per tanto tempo, troppo, aveva lottato ai margini della battaglia, limitandosi a un supporto secondario e lasciando il grosso ai suoi amici. Lì, il suo ruolo di navigatrice, inevitabilmente, perdeva valore e importanza, lasciandola disorientata e in balia di chi invece sapeva come agire.

Era sempre stato così, fin dai sui primi furti.
Aveva sempre fatto affidamento alla sua furbizia e al suo bel visino per uscire da situazioni intricate, ma per quanto affinate fossero le sue doti di ladra, Nami, a un certo punto del suo viaggio, si era resa conto di non poter continuare ad andare avanti a quel modo: non aveva senso affrontare il pericolo, se poi si lasciava che fossero gli altri a demolirlo.
Quante volte era stata salvata da Rufy, Zoro o Sanji? Quante volte aveva necessitato di un piccolo aiuto, laddove le sue abilità di combattente venivano annullate? Tante, tantissime. Saper gestire e creare eventi climatici diventava inutile, se non si aveva un po’ di agilità nella gambe, per questo, oltre allo studiare la tecnologia di Weatheria, la navigatrice aveva dedicato del tempo anche all’esercizio fisico.

Certo, non era arrivata a toccare i livelli del capitano, ma l’affrontare gli Uomini Pesce senza farsi salvare la vita, era stato alquanto gratificante. Era diventata forte, capace di badare pienamente a sé stessa e di avvertire la presenza di un nemico o di una qualunque persona alle proprie spalle……….ma con Lars, qualcosa non aveva funzionato.

Era stato talmente veloce, talmente rapido, che non era neppure riuscita a sentirlo arrivare, e questo le fece ulteriormente notare, che il suo livello di percezione non era ancora così elevato come le altre sue qualità. Nel guardarlo avanzare, immerso nei suoi pensieri, Nami si rese conto di quanto il ragazzo, fino a quel momento, fosse stato silenzioso: parlava quando lo riteneva necessario e, per il resto del tempo, se ne rimaneva tranquillo in un angolo, con quel suo volto apparentemente taciturno e serio. Lo avrebbe definito una persona fortemente schiva, forse addirittura scorbutica, se non avesse notato la gentilezza che dimostrava nei confronti di Shion; il vedere come interagiva amorevolmente con la piccola, faceva cadere ogni sorta di dicerie malevoli a suo carico, lasciando ampio spazio a un giudizio più positivo: Lars appariva freddo – anche grazie al suo aspetto -, ma era una persona su cui si poteva fare affidamento in ogni occasione, che osservava la situazione con fare silenzioso e agiva se qualcosa stava prendendo una piega storta.

Come in quel momento……

“Fermi”, ordinò lui, tendendo il braccio sinistro lateralmente.
“Che succede?” domandò la rossa.

Per una ragione strana, al momento inafferrabile, nella palude pareva essere subentrato un drastico cambiamento. Era invisibile ma palpabile, e sia Zoro che Sanji se ne erano accorti insieme all’albino, seguiti poi velocemente da Franky, Usopp, Nico Robin e Brook. I loro occhi vagarono con le lingue zittite, lasciando fuori dalla loro attenzione quel caldo asfissiante e qualsiasi altra fatica che, fino a qualche istante prima, li aveva visti respirare pesantemente.

“Abbiamo compagnia” sussurrò poi Lars, assottigliando lo sguardo e puntandolo sugli alberi che stavano davanti a loro.




“Shion, come stai? Sei tutta intera?” domandò Rufy, con le mani poste lateralmente alla bocca.
“Si, sono solo un po’ ammaccata”, le rispose lei, dall’altra parte della parete.

Azu e Rufy si trovavano davanti ad un grande muro di pietra, dietro cui la vocina di Shion risuonava debole ma chiara, grazie alla modesta apertura posta in cima, che lasciava passare i suoni senza ovattarli o rovinarli.

“Meno male…”, sospirò l’albina, sollevata “Ok, piccola, non muoverti da lì. Veniamo a prenderti.”

Il sentire la voce della sua protetta aveva immediatamente alleggerito l’animo della ragazza, riempiendolo di sollievo benefico: neppure la più potente delle medicine sarebbe stata capace di farla stare così bene. Polmoni e arterie si erano immediatamente irrobustiti di sangue e ossigeno, liberandola da quel filo di tensione che aveva fastidiosamente indolenzito il suo corpo. Forze a lei rubate inconsapevolmente, tornarono a loro legittimo posto, scaldandole i muscoli e rinvigorendole lo spirito battagliero. Si sentì come nuova, fresca e leggera: ogni sorta di preoccupazione, compresi i dubbi e pensieri rivolti alla salute della biondina, erano evaporati, lasciando posto al desiderio di volerla avere vicino a sé.

“Dobbiamo trovare un modo per arrivare dall’altra parte”, affermò risoluta, guardando con aria di sfida, la roccia che la divideva dalla sua protetta.
“Potremmo passare da lì”, propose il capitano, indicando la fessura con l’indice.
“Uhm…..” l’albina osservò il passaggio con diffidenza, inclinando al testa e storcendo la bocca “Non mi convince molto, sembra stretta”, mormorò poi.
“Proviamo!”

Allungando le braccia, Cappello di Paglia afferrò la rientranza del muro, per poi attaccarsi ad essa con il resto del corpo. Tirandosi su appena, cercò di infilare la testa e le spalle facendo leva sulla sua gommosità, ma dopo nemmeno dieci minuti, fu costretto a tirare il collo all’indietro e a estrarre la testa con un sonoro “Pop!”

“Niente da fare, non ci passo!”
“Te l’avevo detto. Su, scendi, provo a sfondare il muro. Shion, fatti da parte!”

Allentando la tensione dalle spalle, Azu puntò i piedi per terra, facendo roteare il bacino e caricando il suo micidiale destro sul fianco: un paio di pugni, a sua detta, sarebbero bastati.
Colpì la parete con un perfetto diretto, provocando una scossa che la fece vibrare con moto circolare, aprendo la pietra e tagliandola in più parti. Le crepe arrivarono a diramarsi fino al soffitto, spingendolo a contorcersi su sé stesso e enfatizzando il tremore creato dall’albina, bloccatasi all’istante, per come il pavimento sotto i suoi piedi si era messo a ballare.

“Whaaa! Azu-chan, qui trema tutto!!” esclamò spaventata Shion.

Imprecando mentalmente, la ragazza cancellò dalla propria mente l’intenzione di sferrare il secondo attacco. Il piccolo terremoto cessò dopo pochi attimi, ma sia lei che Rufy erano arrivati a intuire l’incredibile fragilità di quella roccia. Probabilmente, il fatto che la montagna fosse stata riempita di galleria e buchi, aveva contribuito a diminuirne la solidità, portando i due ragazzi al punto di partenza. Shion era ancora dall’altra parte del muro, vicinissima ma irraggiungibile, e nessuno dei due aveva idea di come arrivare da lei senza che dei macigni cadessero sulle loro teste.

“Fiuu! Ancora un po’ e ci crollava tutto addosso!” esclamò Rufy, battendo la mano suo prezioso cappello, di modo da tale da pulirlo dalla polvere cadutagli sopra.
“Bleah, che schifo!” esclamò l’albina, ripulendosi i capelli e le braccia “Ma quanta accidente di polvere mi è caduta addosso?!”

Con faccia stizzita, Azu si liberò dai detriti e dalla sporcizia attaccatesi dopo la scossa da lei provocata. Detestava essere sporca, aveva un certo limite che teneva sempre ben sotto controllo, salvo quando combatteva: in quei casi, le era difficile mantenersi perfettamente in ordine come soleva apparire, era una cosa pressoché impossibile. In quei cruciali momenti, se si fosse concentrata sul suo aspetto, avrebbe concesso al proprio avversario una vittoria spudoratamente facile. Vittoria che, poco ma sicuro, il suo orgoglio le avrebbe fatto pesare per tutta la vita. Quando s'impegnava, la stridula vocina della sua coscienza sapeva essere più saccente e irritabile di quella di Lars. Una tortura lenta come la morte.

Era una bella ragazza, molto affascinante e seducente, ma in simili situazioni, il mettere da parte la propria vanità era un obbligo inevitabile: apparire disordinata la faceva arrabbiare, ma perdere miseramente…….
No, era preferibile non toccare quel tasto. L’albina era consapevole di quanto uscisse disfatta da un combattimento, ma, per le restanti occasioni, non vedeva ragioni sufficientemente valide per cui non dovesse mostrare ai suoi potenziali ammiratori quanta femminilità possedesse. Amava riceve attenzioni e gioielli come qualsiasi femmina esistente al mondo, apprezzando gli uomini che le evitavano di aprire i portafogli e omaggiandoli se questi le regalavano i migliori amici che una ragazza potesse chiedere: i diamanti. Non era mai arrivata al punto di portarsi a letto i suoi ammiratori, considerato il decoro da mantenere e la reputazione. In fatto di uomini, era molto selettiva: solo ragazzi dai vent’anni insù, ben piazzati fisicamente, e, molto importante, capaci di istigare la sua maliziosità. Ok, come stile di vita lasciava alquanto desiderare, ma, in fondo, a quel mondo, chi era perfetto?

“Bah! Lasciamo perdere”, borbottò lei, finendo di sistemarsi “Shion, riesci ad arrivare all’apertura e a passarci dentro?”

L’albina non sapeva di preciso quanto quella rientranza fosse lunga ma, a occhio e croce, era abbastanza larga da farci passare un bambino. Una bambina, nel loro caso. Dall’altra parte, la biondina, da prima, si guardò intorno, per poi prendere a saltare nel tentativo di raggiungere la rientranza, ma senza riuscirci.

“Non posso, Azu-chan. E’ troppo in alto, non ci arrivo”, le disse lei.
“Dannazione…”, sibilò la più grande, assottigliando lo sguardo “Sarebbe tutto più facile se lo potessimo demolire, questo muro del cavolo...”

Se prima non aveva idee, ora non possedeva neppure un benché minimo straccio di queste. Aveva le mani legate e il saperlo, non fece altro che renderla più indisponente nei confronti di quella barriera naturale tutta grigia. Rufy, dal canto suo, ci aveva provato a infilarsi in quella benedetta apertura, ma per quanto il suo corpo potesse essere malleabile, non lo era a sufficienza da permettergli di strisciare dall’altra parte, il che lo portò a incrociare le braccia e a guardare la rientranza con la linea della bocca leggermente all’ingiù, in quella sua tipica espressione pensierosa.

“Uhm….visto che non possiamo sfondare il muro, tanto vale proseguire e cercare il canale giusto”, disse ad un certo punto “Non credo si possa fare altro.”
“Che? Scherzi? Hai idea di quanto ci impiegheremo a trovare la giusta via?” sbottò la ragazza, voltandosi verso il ragazzo.
“Lo so, però, se non possiamo abbatterlo, ne passarci in mezzo, mi spieghi come facciamo ad arrivare dall’altra parte?”

Rufy aveva perfettamente ragione: non c’era modo di togliere quella parete senza che il soffitto crollasse. Se volevano arrivare nello stesso tunnel di Shion, dovevano proseguire, ma la preoccupazione della ragazza, nei confronti della piccola, stava rendendo incerte le sue scelte. Non si era dimenticata dei abitanti di quel pezzo d’isola, ed era per tale ragione, che non voleva abbandonarla. Tuttavia, era anche vero, che se fosse rimasta lì e quelli fossero arrivati, non avrebbe potuto muovere un muscolo. Aveva ragione Rufy, e lei lo sapeva.

“Oi, Shion!” la chiamò il ragazzo “Adesso cerchiamo un’altra strada. Tu resta lì e aspettaci.”
“Va bene!” rispose la bambina.
“Aspetta un momento, Rufy”, lo fermò l’albina “In giro ci sono quei gorilla, non è una buona idea farla restare lì. E se quelli poi arrivano?”
“Oh…..giusto!” e batté un pugno sul palmo della mano “Shion, trovati un posto sicuro e restaci fino al nostro arrivo! Meglio?”

Tempo tre secondi, e Azu spiaccicò una delle sue mani contro la fronte, coprendo le già emergenti nervature pulsanti. Come accidenti faceva quel ragazzo a uscirsene con frasi tanto leggere? Mica era un gioco, quello!

“Ggggnnnfhhh…!!” trattenere i propri ringhi fra i denti non era mai stato tanto difficile “Rufy, non è questo il punto...”, sibilò lei, con voce tremante per l’irritazione.
“Azu-chan, non ti preoccupare per me!” esclamò Shion “Posso farcela a trovare una via d’uscita, so badare a me stessa e Red mi darà una mano.”
“Lo so che puoi farcela, ma….un momento! Chi è Red?”
“Il mio nuovo amico!” rispose lei, tutta contenta “E’ una scimmietta carinissima, mi ha aiuta…..”
“GROARRRRRR!!!!!!”

Un poderoso e inquietante ruggito strappò violentemente la serenità dal cuore dei presenti. Il silenzio fu spaccato, per poi essere sostituito da uno molto più pesante, carico di tensione, dove sottili e sommessi rumori provenienti dal basso cominciarono ad agitarsi. La scimmia Cresta di Fuoco rizzò il proprio pelo, alzando la coda più in alto che poté e ringhiando contro il tunnel da cui, insieme a Shion, era venuta: il buio stante sul fondo parve addensarsi  e nel guardarlo, la bambina cominciò a respirare irregolarmente, tenendo le mani strette attorno alla tracolla della sua borsa, nel mentre l’animale dischiudeva la bocca e mostrava i canini.

Erano loro, erano i gorilla. E stavano arrivando.

Col cuore impazzito, immaginò che questi le piombarle addosso, furenti per l’aver scoperto che era fuggita dalla buca dentro cui l’avevano buttata; il solo pensiero di trovarseli a una distanza inaccettabile le fece sbattere la schiena contro la fredda e umida parete che prima Azu aveva tentato di sfondare.
Boccheggiare, in cerca di ossigeno, spinse la sua gola a irrigidirsi. Si ritrovò più impaurita di prima, tanto da non riuscire nemmeno a chiamare i due amici, in allerta dall’altra parte del muro.

“Merda, stanno arrivando”, sibilò Azu, alzando la guardia “Shion, trova un nascondiglio alla svelta!”
“A-Azu-chan….”, balbettò la piccola “H-Ho paura…”

A malapena riusciva a scandire le parole, tanto avvertiva il tremore paralizzarla. Gli occhi le bruciavano e anche se avesse voluto sbatterli, le sue palpebre si rifiutavano di abbassarsi. Temeva il peggio, la concretizzazione del suo attuale incubo: vedere uno di quei grossi animali dal muso arcigno. La sola stazza di quella bestia le aveva impedito di muoversi per un periodo di tempo incalcolabile e l’immaginarsi i suoi occhietti neri, non l’aiutò a disfarsi da quell’orribile sensazione che le stava restringendo le vie respiratorie. Red, ai suoi piedi, aveva smesso di ringhiare, per attaccarsi a una delle sue gambe e guardarla con preoccupazione, squittendo come a volerla incitare a muoversi.

“Shion, è tutto ok”, le disse improvvisamente Rufy “Fa come ti ha detto Azu e andrà tutto bene.”
“Ma, Rufy, io…”
“Veniamo a prenderti subito, promesso!” le giurò lui “Tranquilla, non ti lasciamo sola.”

Le stava chiedendo di fidarsi di lui, delle sue parole.
Nonostante la vasta gamma di desideri che poteva esprimere, includente  la comparsa di un’immediata uscita da quel postaccio, Shion non desiderò altro che vedere il sorriso di Rufy. Fu qualcosa di immediato e istintivo, a cui voleva aggrapparsi prima che il panico la soggiogasse completamente. Stava sorridendo, ne era sicura, e lei lo voleva vedere, perché era sicurissima che questo l’avrebbe rincuorata senza esibirsi in gesti eclatanti o salti mortali. Fin dal primo istante, aveva capito che quando il ragazzo sorrideva, era pronto a compiere ogni genere d’azione, anche la più pazza, per quanto impossibile o impensabile che fosse. In quel modo, sanciva una promessa che alla fine manteneva sempre, rispettando la fiducia datagli e dimostrando che gli si poteva affidare la vita altrui. La bambina non aveva alcun dubbio su quella peculiarità che rendeva Cappello di Paglia così particolare, e il sentirlo incoraggiarla, la rese consapevole del fatto  che anche lui le stava dando fiducia, che anche lui aveva visto qualcosa in lei per cui valesse la pena aprirsi, sebbene, per una persona vispa come lui, l’elargire la propria amicizia con una stretta di mano arrivava anche a includere chiunque nella cerchia, compresi animali divoratori di uomini.

No, non doveva piangere, ne avere così tanta paura. Rufy le aveva appena promesso che sarebbero venuti a prenderla subito e lei non doveva dubitare della parola datale dal capitano. Non c’era motivo di mettersi a piangere o di rannicchiarsi a terra. Che venissero pure, quei brutti animali! Tanto lei non si sarebbe fatta prendere!

“Shion? Sei ancora lì?” le domandò il ragazzo.
“Si”, rispose lei, tirando su col naso e asciugandosi col dorso della mano le lacrime “Non preoccupatevi per me, sto bene. Adesso vado a cercare un riparo. Voi state attenti ai gorilla.”
“Semmai è il contrario. Quelle bestiacce hanno le ore contate”, replicò l’albina, facendo scroccare le nocche.

Detto ciò e senza perdere tempo prezioso, Cappello di Paglia e Azu partirono alla volta di quella discesa buia e stretta che era stata ad attenderli fino a quel momento.
Dall’altra parte del muro, Shion si sistemò al meglio la tracolla, prese in braccio Red e, con fare risoluto, guardò il passaggio che le si prostrava davanti.

“Non ci faremo prendere, Red. Non ci faremo prendere.”

E iniziò a correre.

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Capitolo 10
*** Un'uscita tanto vicina quanto lontana ***


Salve a tutti. So di non aver postato per più di due settimane, e mi spiace. Ho avuto dei problemi che ancora mi impensieriscono e che riguardano anche questa storia: ho pensato di smettere, e non mi sento tutt’ora sicura di voler continuare, ma non mi sembrava giusto lasciare inconclusa la prima saga, visto che mancano due capitoli: uno è questo, l’altro giovedì prossimo, poiché venerdì ho un impegno. Dopo ciò, interromperò nuovamente per le vacanze di natale: durante questo periodo, rifletterò nuovamente sul da farsi, perché ancora non so bene come muovermi, visto che non ho scritto molto e i miei capitoli scarseggiano. Nel caso riprendessi, pubblicherò solo due volte al mese, almeno per avere più tempo per gestire il tutto. Grazie a tutti voi.

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“Non muovete un solo muscolo”, ordinò Zoro.

Il superare una fanghiglia appiccicosa e densa come quella appena attraversata, poteva considerarsi un autentico sollievo, se il terreno su cui si aveva messo piede, non si divertiva a far sprofondare le proprie vittime come succedeva con le sabbie mobili. Il sentiero piano era stato sostituito da uno in salita, la cui ripidità aumentava a ogni centimetro: il più delle volte, bisognava gattonare per evitare di rotolare verso il basso. L’umidità perdurava sulle spalle dei pirati, facendo sentire tutto il suo peso e danzando invisibilmente sui loro corpi intenti a guardare in avanti, col sudore che rendeva le loro pelli più lucide. L’unica nota positiva, era il sentiero fattosi più largo: finalmente si riusciva a vedere il cielo e il sole, un vantaggio che aveva comportato anche il ritrovamento di quell’ossigeno tanto agognato, seppur la calura fosse ancora attaccata alle loro gambe. Fra tutti, Chopper era quello che più aveva gradito la migliore respirabilità, ora capace di reggersi sulle proprie zampine, senza il pericolo di collassare nuovamente.

Erano saliti, si stavano avvicinando alla loro meta, ma non poteva dire di essere tranquilli.

Tra l’avanzare e il cercare di risparmiare fiato, un piccolo rumore aveva fatto sì che la foresta desse il suo primo segno di vita.
Lars l’aveva avvertito per primo, seguito da Zoro e Sanji, nonostante si trovassero nel mezzo di uno dei loro irreversibili bisticci; in pochi secondi, tutti avevano preso coscienza che un posto del genere, non poteva non essere abitato da qualcosa e il sostenere quei molteplici occhietti, nascosti nella radura, nel mentre uscivano dalla fanghiglia, aveva rinforzato la loro convinzione. Erano stati osservati e seguiti silenziosamente, accompagnati dal fruscio delle foglie, in un misto di curiosità e allerta che aveva vietato l’accesso a ogni attacco bellico: il Divoratore di zucchero filato- più vicino al mondo animale dei suoi amici - non aveva percepito tracce ostili o istinti aggressivi rivolti a loro carico, e questo aveva spinto i ragazzi a continuare sulla loro strada, facendo del loro meglio per non avvertire il peso dell’essere guardati. Vista la mancata ostilità, non c’era ragione per cui fermarsi e approfondire la conoscenza di quello scoglio, ma i suoi abitanti non erano stati – e non lo erano attualmente - del medesimo parere, poiché l’essere ignorati da delle creature prive di pelliccia, non era considerato, nella loro semplice mentalità, una cosa tanto carina.

Nel giro di pochi secondi, i pirati di Cappello di Paglia erano stati circondati da un enorme branco di scimmie dal manto rossissimo, con grosse ciocche di pelo ricadenti sui loro musi color carbone e code voluminosissime. Sostavano sui grossi rami degli alberi, in varie posizioni, mostrando le loro differenti grandezze e fissando i nuovi arrivati con bocche storte e sopracciglia corrucciate. La maggior parte erano di media grandezza, ma una ristretta cerchia alternava esemplari grandi quanto un cucciolo di gatto e altri che, invece, arrivavano a sfiorare l’altezza di Brook. Di queste ultime, ce ne erano soltanto cinque.

“A quanto pare, non gradiscono essere ignorate”, affermò Sanji, facendo scorrere l’occhio sulle padrone di casa.
“Chissà da quanto tempo ci stavano osservando...”, si domandò Nami.
“E chi lo sa?” mormorò Usopp, con fare guardingo “Da come ci osservano, si direbbe che non vogliano farci passare.”
“Aw! Non penso che un branco di scimmie possa fermare una ciurma super come la nostra!” esclamò megasorridente il Cyborg.
“E’ meglio se tiene bassa la voce, Franky”, gli consigliò Lars “Questi animali hanno qualcosa di strano.”
“Yoho? Che intendi per strano, Lars-san?” domandò il Musicista, senza capire le parole dell’albino.
“Quelle”, intervenne lo spadaccino, col suo tono atono.

Facendo un cenno con la testa, Zoro aveva appena indicato un tronco a poca distanza da loro: era grosso, robusto, e sarebbe passato come un qualunque tronco d’albero, se non fosse stata per quella particolarità che lo sfigurava. La sua corteccia marrone era tempestata di strane macchie nere, di bruciature aventi la forma di grandi cerchi creati da una specie di piccola e controllata esplosione. Guardandosi bene intorno, era possibile notare altri alberi nelle medesime condizioni: intatti, ma con parti annerite. Una chiara dimostrazione di quanto il fuoco, fra tutti gli elementi naturali, fosse il più vistoso. A lui bastava poco per farsi notare: un tocco leggero, una piccola vampata di fumo nera e grigia, un bagliore accecante e rossiccio…soleva creare e lasciarsi alle spalle questo e altro, quasi lo divertisse essere colpevolizzato.

Era stato il fuoco a provocare quelle bruciature, nessun altro avrebbe mai trovato qualcosa che dimostrasse l’esatto contrario, ma quello che stava lasciando interdetti gli sguardi dei pirati, non erano le bruciature in sé, quanto le forme di alcune di esse. Quegli aloni neri, sfumati sui lati, non si limitavano a semplici sfericità deformi: essi avevano la forma di piccole mani, dai contorni irregolari e quasi scomparsi. Mani piccole, che si alternavano ad altre più grandi….esattamente come quelle appartenenti alle scimmie che li stavano squadrando dall’alto della loro posizione.
Volgendo nuovamente gli occhi di ghiaccio su di loro, Lars provò a cercare quella particolarità che rendeva sicuramente quegli animali, diversi dai loro simili: studiò le loro zampe, il ciuffo afflosciato in più parti che ricadeva sul muso, le espressioni incerte sul da farsi…….non lasciò fuori nulla, ma alla fine di quella meticolosa analisi visiva, si ritrovò sconfitto e con le mani più vuote di prima. Non c’era nulla di nuovo, se non una più evidente curiosità da parte di quelle creature, che potesse aiutarlo. 

Era sicuro che quelle bruciature fossero strettamente collegate con gli animali, peccato solo che non sapesse quale filo conduttore unisse i due elementi.

“Di qualunque cosa siano capaci, è meglio non farle agitare”, si limitò a dire, con voce bassa “Potrebbero attaccarci anche senza un motivo apparente.”
“Dubito che lo farebbero, Lars. Le scimmie Cresta di Fuoco sono una specie pacifica. Non abbiamo nulla da temere”, intervenne Nico Robin.
“Cosa? Sai che cosa sono, Robin?” domandò sorpresa la Gatta Ladra.
“Ho letto qualcosa al riguardo”, fu la risposta sorridente dell’archeologa.

In men che non si dica, tutti gli sguardi furono puntati su di lei, pronta a spiegare quel che sapeva.

“Le scimmie Cresta di Fuoco sono una specie molto rara e particolare”, cominciò lei, sistemandosi gli occhiali sulla fronte “Vengono chiamate in questo modo, perché pare che siano in grado di trasformare la loro pelliccia in fuoco puro, zampe e muso compresi, lasciando gli organi e il sistema circolatorio completamente illesi.”
“Questo spiegherebbe il perché di quelle bruciature sui alberi”, mormorò Sanji.
“Esatto, ma non è la loro unica caratteristica. Secondo alcuni ricercatori, questi animali sono molto intelligenti, riescono a comprendere il linguaggio umano senza la benché minima difficoltà e, inoltre, possono vivere più di cento anni, se si nutrono adeguatamente.”
“Più di cento anni?”  Chopper era semplicemente allibito “E come si fa a capire quanti anni hanno?”
“Eh eh, per te non penso sia un problema, visto che puoi parlarci, ma per gli esseri umani come noi, è possibile riuscirci grazie alla loro grandezza: più una scimmia Cresta di Fuoco è grande, più anni ha, il che le rende delle prede molto ricercate dal mercato nero. Una di loro, anche se piccola, può valere quasi due milioni di Berry.”
“Accidenti, è tantissimo!” esclamò Usopp, slargando la propria bocca “Li ci vedrei i Nobili Mondiali a devastare questo posto per catturarle”, aggiunse disgustato.
“Già, non credo che si farebbero tanti problemi”, concordò la Bambina Diabolica, socchiudendo le palpebre.

Per nessuno dei presenti fu difficile immaginare fino a che punto la depravazione e l’avidità dei Draghi Celesti potessero arrivare; avevano visto con i loro stessi occhi come questi si trovassero perfettamente a loro agio durante le aste di Shabondy, dove a tutto, umani e creature compresi, veniva dato un prezzo. Si trattava di persone potenti, autorevoli, crudeli e superficiali nei confronti della vita altrui. Quel che vedevano, volevano. Quel che odiavano, lo cancellavano. Tutti i loro capricci venivano soddisfatti con uno schiocco di dita, senza che nessuno li rimproverasse o li criticasse, perché loro appartenevano ad un élite così prestigiosa da considerare gli esseri umani come una qualunque merce di scambio. Stavano all’apice di una gerarchia ristretta che aveva scritto la storia sin dalla più arcana delle antichità, secondo la legge, ma era indubbio che fossero le persone più inutili mai esistite a quel mondo, poiché il semplice fatto di possedere un titolo che li considerava addirittura “Santi”, li esentava dall’assumere ogni forma di responsabilità.

Lo sapevano bene, e il disgusto nauseante per tale argomento, fece sì che Nami chiudesse in un sol colpo quella piccola parentesi aperta. Siccome quelle creature erano ben intenzionate a non lasciarli in pace, e che, a detta della compagna, potevano capirli verbalmente, la Gatta Ladra appoggiò le mani ai fianchi, reputando saggio chiarire un paio di argomenti che, sicuramente, li avrebbero aiutati a proseguire.

“Se la situazione si può risolvere civilmente, non vedo perché non dobbiamo accontentarle”, disse lei, per poi guardare il medico della ciurma “Forza, Chopper, tocca a te.”
“Ricevuto!” squittì lui, scattando sull’attenti.

Zampettando col cappello ben calcato sulla testa, la renna si avvicinò all’albero più vicino, sollevando lo sguardo e stabilendo un contatto visivo con una delle scimmie più grosse. Iniziò a parlare con assoluta normalità, senza alcun tipo d'impappinamento, e, in pochi minuti, trattò la loro vicenda con buona sintesi, facendo rientrare tutti i dettagli della vicenda e collegandoli come se fossero un tutt’uno; non che ci volesse molto, ma era importante che quella scimmia capisse che non avevano alcuna intenzione di attaccarle o arrecare danno alla loro preziosa e afosa casa. Quand’ebbe finito, la creatura, rimasta ad ascoltarlo per tutto il tempo, balzò giù dal suo ramo e iniziò a parlare a sua volta, nel tipico linguaggio animalesco che soltanto uno come Chopper poteva comprendere e tradurre. Un sorrisino soddisfatto compare sul volto di Nami, estremamente conscia del fatto che le informazioni che la renna stava raccogliendo, sarebbero tornate subito utili alla loro causa.

“Allora, Chopper? Che ti ha detto?” domandò Zoro, una volta che l’amico fu tornato da loro.
“Ecco, dopo che gli ho spiegato perché ci troviamo qui, si è un po’ agitata”, disse lui.
“E’ vero. Ora che lo dici, ha fatto una faccia strana”, si ricordò Usopp.

Ad un certo punto della conversazione, l’animale aveva strabuzzato gli occhi, saltando sul posto e sbracciandosi come se avesse appena visto qualcosa di incredibilmente spaventoso.

“E perché avrebbe reagito così?” domandò Brook.
“Per i gorilla Pugno di Roccia, quelli che ci hanno attaccato prima”, riprese Chopper “Mi ha detto che quando l’isola era ancora intera, questi entravano nel loro territorio per procurarsi il cibo, per portarlo nella loro parte di territorio, quella di destra. Il terremoto ha isolato i gorilla dalla loro solita zona di approvvigionamento e li ha resi così aggressivi da attaccare chiunque. Loro non ci sono mai andate tanto d’accordo, però sono sicure che se quelli tornassero qua, finirebbero col distruggere le loro case.”
“Il che svela la ragione per cui ci sono così tanti relitti accatastati agli scogli della parte destra di questo posto”, arrivò Franky “Non potendo raggiungere questa foresta, attaccano le navi passanti, affondandole e derubandole di cibo. Aw! Decisamente una brutta situazione!” esclamò poi, annuendo.

Anche se il Cyborg era solito lasciarsi andare a pianti corali, quando udiva una storia triste, questa non l’aveva spinta a mettersi sulle ginocchia e a nascondere l’enorme faccia nella mano meccanica.

“Ma perché rapire Shion?” domandò Sanji “Che io ricordi, i gorilla sono animali vegetariani….”
“Non questi, purtroppo”, intervenne mesta Nico Robin. Il suo viso già abbronzato, si era fatto inspiegabilmente più scuro “Solitamente, i gorilla Pugno di Roccia si cibano di foglie e frutta, ma se allontanati dalla loro zona di cibo, divengono estremamente violenti, attaccando chiunque o trascinando le prede nelle loro tane per mangiarle in un altro momento.”
“Prede? Mangiarle? Cioè, quelle bestiacce….SI VOGLIONO PAPPARE SHION E POTREBBERO FARE LO STESSO CON NOI???” ululò il Re dei Cecchini, con gli occhi fuori dalle orbite.

Con quello strillo, le scimmie cominciarono a gridare impazzite, ma senza spostarsi dalle loro postazioni, limitandosi semplicemente a saltare e a battere i pugni sui loro toraci rossi.

“Idiota! Cosa combini!” sibilò Nami, tirandogli l’orecchio “Vuoi forse scatenare un pandemonio?”
“Non penso che cambierebbe qualcosa, visto che per salvare Shion, faremo un bel baccano”, seguì lapidario Lars, avanzando verso l’animale con cui Chopper aveva appena parlato “Anche se ci impegnassimo per passare inosservati, dubito che lo abbiano fatto mia sorella e Rufy.”

Bastava essere a conoscenza dell’impulsività dei due ragazzi, per rendersi conto che lo scontro con quei bestioni sarebbe stato tutt’altro che tranquillo e pacifico.
Figurarsi se poi, sua sorella si metteva a riflettere per trovare una strategia meno devastante dei suoi pugni, mentre quegli animali si accingevano a pestarla a dovere. No, Lars aveva tutte le buone ragioni del mondo per lasciar perdere la diplomazia e le maniere gentili. Inoltre, per il semplice fatto di aver preso Shion sotto i suoi occhi, egli non era disposto a concedere alcun tipo di grazia, specie se quelle bestie avevano cattive intenzioni nei confronti della sua protetta. Nell’ inginocchiarsi davanti all’animale, rimasto fermo a guardarlo, nel mentre veniva verso di lui, l’albino aveva fatto lavorare il proprio cervello grazie alle informazioni ricevute, unendole ai sospetti e alle deduzioni che aveva colto nel suo primo scontro: momenti fugaci si fusero a frasi dette con spontaneità, incastrandosi fra di loro senza alcun intoppo e conferendo forma concreta alla teoria che già bolliva in pentola.
Aveva capito il perché quei gorilla fossero stati denominati “Pugno di Roccia”: tutto stava nei fasci muscolari. Quando questi attaccavano, i loro muscoli s'indurivano a tal punto, da diventare solidi come la pietra, rendendo i loro assalti più violenti e massicci del normale. Non erano avversari comuni o indifesi come i pupazzi inanimati per allenarsi, ma bestie pronte a tutto pur di averli sotto i denti. Una prospettiva poco rosea, ma da cui non si sarebbe tirato indietro.

“Indicami la zona più sporgente di questo posto. Devo arrivare dall’altra parte”, ordinò Lars, senza alcuna esitazione.

Le emozioni dell’albino non erano presenti in quel momento. Nei suoi occhi, non faceva che riflettersi il luccichio di un’intenzione chiara e ferma quanto la presa che esercitava su Saphira, ancora addormentata nella sua custodia di pelle. L’illeggibilità del suo volto aveva indossato una maschera decisa e silenziosamente pronta a compiere anche azioni che sarebbero anche arrivate a ferire mortalmente il proprio nemico. Dissuaderlo o anche solo pensare a tale intento, sarebbe stato da sciocchi e nessuno dei presenti, al momento, aveva una valida ragione per fermarlo, nel mentre avanzava lungo un piccolo sentiero che saliva sulla sinistra. La sua domanda aveva trovato una risposta esauriente nel giro di dieci secondi, senza minacce o ricatti: l’essere stato conciso e l’aver utilizzato un tono di voce che non ammetteva repliche o bugie, aveva spinto la scimmia a indicargli col dito la via richiesta, reputando saggio non fare arrabbiare quel essere umano avente strani capelli grigi lucenti. Che fosse paura, quel che le aveva fatto tremare la spina dorsale, ella non ci teneva a saperlo. Lasciò che andasse verso il sentiero indicato, insieme agli altri suoi simili, mostranti una certa fretta di uscire dalla radura.

“Seguiamolo”, ordinò la navigatrice.
“Ogni tuo desiderio è per un nome, Nami-swan!!!!” cinguettò Gamba Nera, volteggiando intorno alla rossa.
“Tze! Il solito babbeo…”, borbottò Zoro.
“Ti ho sentito, imbecille!” tuonò il cuoco.
“Yohohoho! Chopper, non rimanere indietro!” gli disse Brook.

La piccola renna era l’unica a non essersi mossa, e il motivo fondante pareva essere la grossa scimmia Cresta di Fuoco, che le aveva fatto cenno di avvicinarsi nuovamente. Questa gli sussurrò qualcosa, per poi tornarsene tranquillamente sul suo albero e sparire insieme alle altre.

“Che cosa ti ha detto?” gli domandò Nico Robin, avvicinandosi al dottore.
“Beh, ecco…”, esitò il compagno, con diversi goccioloni sul muso “ Ha detto che possiamo agire come meglio vogliamo, a patto che i gorilla non invadano il loro territorio. Se succederà, daranno fuoco alla nostra nave e tanti saluti.”
“Che simpatiche…”, ridacchiò ironicamente Usopp, con il serio timore che quelle potessero farlo veramente “Ma non erano una specie pacifica?”




Correva.
Correva in continuazione, incapace di fermarsi.

Le gambe le dolevano e la gola le bruciava per via dell’ossigeno che veniva respirato e trasformato in anidride carbonica a tempo record. I muscoli erano tesi e bollenti, costretti a lavorare ad un ritmo frenetico e costante a cui non poteva sottrarsi. Era l’adrenalina a spingere questi e tutti gli altri organi del suo corpo, sollecitati ulteriormente dalla paura di quel momento, ma benché tutto quel lavoro le stesse provocando un discutibile fastidio fisico, Shion non volle fermarsi, ne guardarsi le spalle.
Il pericolo la stava inseguendo, nascosto nell’ombra che si lasciava dietro ogni volta che tirava i pugni in avanti e batteva i piedi per terra; boccheggiando, la bambina esortava il proprio corpo a stare dietro a quello di Red, di pochi passi più avanti a lei, intento a seguire quel leggero spiffero d’aria pura che aveva annusato ad un certo punto del percorso. Non aveva idea da quanto tempo si fosse separata dalla voce di Rufy e Azu-chan, ma era logico che, al momento, la sua mente fosse presa da tutt’altro. Dalle viscere di quel labirinto stavano risalendo ruggiti e ansimi che le facevano accapponare la pelle, seguiti da strani rumori molto veloci, intenti a picchiare il terreno come a volerlo infossare.

I gorilla si erano accorti della sua fuga, così come si erano accorti della presenza dei suoi amici. Due ragioni più che sufficienti per vederli arrabbiati più di prima e per non fermarsi proprio in quell’istante.

Il cuore le batteva forte per lo sforzo e per quella paura che stava cercando con tutta sé stessa di cacciare via: non ricordava di essere mai stata tanto agitata in vita sua e l’immaginarsi l’alito di quei animali sul collo, esattamente come era accaduto pochi attimi prima che questi la rapissero, non l’aiutò a calmarsi. Le era occorso tantissimo per uscire da quella buca e adesso, se si fosse fatta riprendere, avrebbe vanificato ogni suo sforzo, compresi quelli del capitano e dell’albina.

Non posso deluderli, io ho promesso! Si disse, correndo con ancor più foga.

Lei sarebbe diventata la più grande esploratrice di tutti i tempi, quella che avrebbe provato l’esistenza di Endora. Glielo aveva detto Rufy, e un’esploratrice non doveva avere dei pericoli che le si paravano di fronte, anche se questi erano il quadruplo di lei. Era ancora una bambina che necessitava di cure e attenzioni, ma già in possesso di una carica vitale sufficientemente grande, da permetterle di badare a sé stessa in diversi ambiti. Si, le mancavano la mamma e il papà, ma non voleva tornare indietro, non con Chico che l’aspettava per aiutare sua sorella. Aveva fatto un promessa, un impegno troppo importante perché decidesse di lasciare perdere, ed era proprio per la preziosità di quest’ultimo, che non poteva gettare la spugna così facilmente. Ora, tutto quello che doveva fare, era trovare una via d’uscita: al resto, avrebbe pensato più in là.

Stava salendo da minuti interminabili e la penombra si era leggermente diramata, segno che, da qualche parte, doveva esserci un cunicolo che dava sull’insenatura. Ad un certo punto, dovette frenare la sua corsa: Red si era fermato davanti ad un bivio e si era levato sulle due zampe posteriori per poter meglio percepire la pista che stava seguendo.

“Allora, Red…..anf….da che parte?” domandò la bambina, con la schiena piegata in avanti, le ginocchia incrociate e le mani poggiate ad esse.

Per tutta risposta, l’animale guardò prima a destra e poi sinistra, per poi guardare nuovamente nella direzione iniziale e indicarla con euforia saltellante.

“Sinistra.”

Entrambi ripresero a correre, evitando di dare troppo peso ai ruggiti dei gorilla e alla loro stanchezza. La scimmia Cresta di Fuoco correva con agilità assurda, arrivando anche a rimbalzare sul soffitto più di una palla pazza, seguito da Shion, che faceva del suo meglio per non perderla di vista. L’animale non stava spingendo al massimo della sua velocità appositamente per adattarsi a quella dell’amica, ma, nonostante ciò, procedevano senza intoppi, guidati dal suo fiuto e sostenuti dal fatto che Azu-chan e Rufy li avrebbero trovati prima di quelle bestiacce. Fu nel svoltare l’ennesimo angolo, che gli occhi della biondina si scontrarono prepotentemente con una forte luce giallastra. Dovette proteggersi il viso con le braccia, fermandosi nuovamente, ma una volta passato il bruciore, guardò in faccia quel fascio solare che rendeva perfettamente visibile ogni dettaglio di quel cunicolo. I polmoni le si riempirono d’aria fresca e leggera, radicalmente diversa da quella stantia e un po’ umidiccia di prima, donandole un sollievo inaspettato. Red aveva preso a tirarle la mano, squittendo e saltellando per la gioia, indicando quella benedetta uscita che stavano cercando da tanto, ma lei non fece altro che rimanere immobile, con l’espressione più ebete e sconcertata che avesse mai potuto indossare. E tutto perché non si era accorta fin da subito, di quanto fossero stati forti quei segnali di cui lei nemmeno aveva avvertito la presenza.

“Ce l’abbiamo fatta…”, mormorò incredula, per poi prendere in braccio la scimmia “Si! Ce l’abbiamo fatta! Red, ce l’abbiamo fatta!”

Roteò su sé stessa, tenendo le braccia ben alzate e con l’animale euforico quanto lei. L’uscita era lì, davanti a lei, del tutto priva di ostacoli che rendessero impossibile il suo raggiungimento. Fu tale la sua contentezza, che le gambe cominciarono a formicolarle, accompagnante da una stranissima voglia di ridere che la incitarono a percorrere quei ultimi metri mancanti. Senza esitare, si lanciò contro quella luce calda e accecante, e come la attraversò, Shion si convinse che, finalmente, quel brutto incubo era giunto al termine.

Ma la luce, come molte cose a quel mondo, possedeva un lato che la gente chiamava “Ingannatore”. Faceva parte della natura di tutto ciò che esisteva al mondo – cose, animali, individui... - e soleva rivelarsi sempre nei momenti meno desiderati, proprio perché amava enfatizzare la distruzione emotiva di una persona, quando questa era all’apice della felicità. Funzionava così, il suo meccanismo non conosceva alternative, per questo era tanto odiato. La povera e ingenua Shion, aveva dimenticato quanto il destino potesse essere crudele e imprevedibile: aveva creduto di essere ad un passo dall’afferrare la libertà, di essere riuscita a fuggire definitivamente dal pericolo, ma nel comprendere che la parte di strada da lei compiuta non era che la minore, cadde sulle ginocchia sbucciate, accorgendosi che di vie d’uscite, non ce ne erano mai state, che quel fascio di luce, per quanto bello e luminoso che fosse, non sarebbe mai stato alla sua portata.

Si trovava troppo in alto per essere toccato. Troppo irraggiungibile, esattamente come la parte sinistra di Rocky Headland.

Lo spiazzo su cui si ritrovò, era appena più grande dei altri, privo di passaggi e abbastanza in alto da spingerla a schiacciarsi contro la parete rocciosa. La distanza era talmente elevata, che come sporse la testa per guardare giù, riuscì a scorgere la Thousand Sunny –ridotta a un quasi invisibile puntino - solo per via dei suoi sgargianti colori.
Ritirandosi più indietro, la bambina rimase accucciata a terra, senza neppure provare a cercare quel ipotetico e invisibile sentiero che collegava i due scogli, preferendo chiudere gli occhi e serrare le labbra. Volle convincersi che non fosse vero, che quello non fosse un vicolo cieco, ma il cinguettare dei gabbiani, unito agli echi del vento entranti e ai tremiti dati per l’essere esageratamente in alto, la costrinsero ad accettare la realtà per quello che era. L’aria non faceva che entrare e uscire dalle buche scavate dai gorilla, producendo strani e inumani lamenti che rimbalzavano flebilmente contro le dure pareti. Una suono davvero angosciante per Shion, costretta a vedersi sbattere in faccia tutte le porte che, per qualche secondo, le avevano dato l’illusione di avercela fatta. Non poteva scendere, poiché la roccia era bagnata e fin troppo ripida: anche se avesse avuto la sua corda di stracci, non sarebbe cambiato nulla.

Stavolta era bloccata su tutti i fronti.

Come sentì la mano di Red appoggiarsi sulla sua corta chioma tremante, Shion sollevò la testa piano, rivelando quello che era il faccino più deluso del mondo intero. Impolverata e con gli occhi lucidi, tirò sul con naso, lasciando che la scimmietta si accomodasse nell’incavo delle sue gambe.

“Mi sa tanto che adesso siamo nei guai, Red”, disse lei sconsolatamente, prendendo a scostare i ciuffetti rossi che offuscavano la vista del nuovo amico.

La scimmia annuì debolmente, emettendo un gridolino flebilissimo e deluso. Anche lei aveva capito che la situazione, invece di migliorare, era peggiorata.
Stavolta non c’era una montagna di cianfrusaglie da cui trarre una valida utilità, ma solo un enorme vuoto e quello spuntone sopra cui entrambi erano intrappolati. Strizzare il cervello più di quanto non fosse già stato fatto, non aveva alcun senso: di idee non ce ne erano, la mente di Shion era sgombra e più lei si sforzava di farla funzionare, meno aiuti riceveva.
Ma questo non voleva dire che le proposte altrui non fossero accettabili: dall’alto della sua intelligenza, Red incrociò le braccia pelose, corrucciando le labbra rugose e chiudendo gli occhi contemporaneamente, assumendo quella tipica posa pensante che gli umani solevano tirare fuori, quando doveva riflettere su qualcosa di importante.

Alla fine di quella lunga e profonda meditazione – durata circa otto secondi -, Red cominciò ad agitare le mani nere, cercando di attirare l’attenzione di Shion con versi concitati  e frettolosi. La bambina, rimasta stupita per come l’animale si fosse comportato, batté le palpebre più volte, nel mentre l’amico continuava a gesticolare e a mimare quelle che sarebbero potute passare come azioni.

“Saltare?” domandò lei, ad un certo punto, con le sopracciglia alzate “Non credo che sia una buona idea. Hai visto quanto siamo in alto? Ci schianteremo!”

Rispondere all’animale, dopo aver capito chiaramente quale fosse il suo suggerimento, avrebbe lasciato interdetto chiunque, vista la diversità della lingua e la differente posizione sulla scala evolutiva. Eppure Shion l’aveva fatto e continuò senza problemi, senza chiedersi come ci riuscisse: leggeva negli occhi di Red, nei suoi semplici e frenetici moventi, delle parole che, messe insieme, formavano un volere preciso, un volere che, a quanto pareva, stava traducendo tranquillamente, per quanto assurdo che fosse. Seguiva i suoi movimenti con le labbra socchiuse, muovendo il collo e sbattendo le ciglia dei suoi luminosi occhietti azzurri, quando questo le proponeva qualcosa di impensabile.

“Volare?!” esclamò poi, allibita, all’ennesima proposta del nuovo amico “Ma, Red, io non so volare, non ce le ho le ali!”




“Che mi venga un colpo! E’ Shion!!”
“Davvero? Dov’è?!”

L’esulto di Usopp rimbombò nel vuoto, richiamando i suoi compagni, intenti a ispezionare quell’ampio spazio privo di alberi e cespugli.
Era un terreno di media ampiezza, una sorta di zona neutra, dove la vegetazione non aveva mai messo piede. Uno spigolo che si era formato con la rottura dell’isola, baciato costantemente dal sole e da nient’altro. I passi dei pirati di Cappello di Paglia lo stavano percorrendo in lungo e in largo, dopo che quella grande scimmia Cresta di Fuoco lo aveva indicato senza troppi giri di versi. In tutta franchezza, avevano sospettato un attacco a sorpresa, un inganno, vista l’eccessiva protezione che quegli animali nutrivano per la loro casa, ma, fortunatamente, non c’era stato bisogno di sguainare le spade o di creare un temporale che le cacciasse a suon di fulmini. Sebbene queste non avrebbero faticato a dare fuoco alla Thousand Sunny, nel caso i gorilla fossero riusciti a mettere piede nel loro territorio, nessuno dei pirati si era mostrato preoccupato o intimorito da un possibile fallimento; anche se si fossero messi a pianificare scrupolosamente il divenire, proprio per evitare il concretizzarsi dell’avvertimento dato dalle creature, come al solito, avrebbe finito per l’andare allo sbaraglio, passando sopra a tutto e a tutti. Esattamente come una brava ciurma di pirati doveva fare.

Regolando con più accuratezza i proprio occhiali da vista, il Re dei Cecchini vide la esile figura di Shion seduta su una grossa sporgenza dalle punte smussate, in compagnia di una di quelle scimmie dal pelo rosso. La cosa lo lasciò di stucco, ma, salvo quella novità, non c’era null’altro che dovesse essere reso pubblico.

“Sembra che stia bene, ma è bloccata lassù e non può scendere”, riferì.
“Non ci sono altri cunicoli o delle via da cui possa passare?” domandò Lars, avvicinandosi a lui.
"A parte quello da cui presumo che sia uscita, nessuno”, rispose Usopp, nel passargli i suoi occhiali “E’ finita in un vicolo cieco.”

Indossando l’accessorio preferito dal cecchino, l’albino vide la sua protetta ferma, con le ginocchia raccolte e un viso incerto sul da farsi. Anche se impolverata e con qualche sbucciatura, stava sicuramente pensando a una maniera per scendere, aiutata dal quel buffo animale che le si era appena appollaiato sulla spalla, avente la sua stessa espressione corrucciata e pensierosa. L’avrebbe chiamata all’istante, se soltanto la distanza fra i due scogli non fosse stata così immensa: con molte probabilità, il suono della sua voce si sarebbe disperso nell’insenatura. Era sollevato di poter constatare con i propri occhi che la piccina stava bene, ma non totalmente, considerato il fatto che Azu e Rufy non erano con lei e che lui non aveva ancora escogitato una maniera per raggiungerla….

“Dobbiamo raggiungere quella sporgenza”, decretò Nami, leggendogli nella mente “Franky, pensi di poter fare qualcosa?”
“Aw! Nessun problema, sorella!” esclamò lui, alzando il pollice all’insù.
“Yohohoho! Franky, non è che voglia dubitare delle tue capacità, ma quello spuntone è un tantino lontano”, gli fece notare il Canterino.
“Credo che Brook abbia ragione: anche a me sembra….”

Le osservazioni del medico e dello scheletro finirono per essere completamente ignorate: il carpentiere era già all’opera, armato di assi di legno, chiodi, e dell’immancabile cassettina degli attrezzi, sempre a portata di mano. Chiedergli se poteva costruire una scala o un ponte, per lui, era un vero piacere, ma il sentirsi dire che la sua futura opera poteva non essere edificabile, lo spronava a dimostrare il contrario. Franky era fatto così: niente era impossibile per un carpentiere super come lui. Da grande uomo libero e virile quale si proclamava, sapeva dare vita a costruzioni indescrivibili, che lasciavano senza fiato chi lei guardava. Richiesta la sua grande abilità, l’uomo meccanico, con il suo acconciato ciuffo azzurro e gli occhiali calcati sul naso metallico, prese a lavorare con ritmo frenetico, arrivando a sdoppiarsi, tanto era veloce: da una parte batteva i chiodi, dall’altra segava le assi….distinguere l’originale era impossibile.

Nel giro di cinque minuti, il ponte stava già prendendo vita, dimostrando ancora una volta la bravura di uno dei migliori carpentieri di Water Seven.

“Whoo! Continua così, Franky!” esclamò Chopper con occhi scintillanti.
“Certo che ci impiegheresti di meno, se non stessi lì a rifinire i dettagli”, bofonchiò Sanji, nel mentre si fumava una sigaretta.
“Oi, cuoco! Io non critico il tuo lavoro, tu non criticare il mio! Io non lascio mai le cose a metà!” esclamò il carpentiere, senza smettere di armeggiare coi propri arnesi.
“Volete tenere bassa la voce, per favore?” domandò stizzita Nami.
“Siiii, amore mio!!! Ogni tuo desiderio è un ordine!!” cinguettò Gamba Nera, turbinando intorno a lei.
“Non si può certo dire che manchiamo di dinamismo”, ridacchiò compostamente Nico Robin.

La Gatta Ladra evitò di spendere ulteriori parole e tornò a concentrarsi sull’orizzonte, ignorando le assurde domande di Brook riguardo la cena e il poderoso russare dello spadaccino, beatamente sdraiato per terra, con le braccia dietro la nuca e le gambe accavallate. Se non si allenava o non stava ad affettare i marine, era difficile che facesse qualcosa che non fosse diverso dal ronfare. Si era abituata ai modi di fare dei suoi amici, le loro stranezze era diventate così passabili che, ormai, non se la prendeva più di tanto, salvo qualche volta, dove un pugno o un calcio erano doverosi al fine di porre un limite alla stupidità umana. Aveva imparato a lasciar correre, comprendendo che il dare peso a ogni azione insensata finiva solo col stancarla: se non li si poteva battere, tanto valeva unirsi a loro, ed era quel che aveva fatto Nami, dimostrandosi un pochino più accondiscendente su certe scelte. A forza di stare a stretto contatto con Rufy, era inevitabile che anche lei, forse l’unica, oltre a Nico Robin, ad avere un minimo di intelligenza stabile, fosse finita per essere inglobata da quella filosofia semplice e assurda quanto lo stile di vita del capitano. A volte lo riteneva impossibile, ma non sarebbe mai arrivata a pensare che quella scelta presa tempo addietro, fosse sbagliata per lei.

La sua vita era garantita da Rufy, lei stessa gliel’aveva affidata e, fino a quel momento, il ragazzo non l’aveva mai delusa. Non aveva mai mancato di darle ciò che a lei serviva per stare bene e di questo, ne era sempre stata grata, perché, anche nelle piccolezze, Rufy sapeva sempre come agire e farle tornare il sorriso. Certo, se quel testone facesse attenzione, ogni tanto, lei non starebbe lì a chiedersi se stesse bene o meno….

“Dovresti scioglierti di più”, le consigliò Lars, ad un certo punto.
“Eh? Come hai detto?”
“Sei tesa”, continuò lui, con le braccia conserte e lo sguardo rivolto verso il vuoto “Preoccupata per il tuo capitano?”
“Cosa? No, figurati!” rispose la rossa velocemente, alzando le mani in segno di difesa “Quello non muore nemmeno se lo ammazzi.”
“Guarda che non succede niente se dici di “Si””, le disse calmo, guardandola di traverso “Non c’è nulla di male a domandarsi se una persona stia bene o no.”

Immediatamente, Nami chiuse la bocca, incapace di replicare e con gli occhi bloccati. L’albino la stava osservando tranquillamente, senza una ragione apparente per cui dover scavare nei meandri del suo cuore e tirare così fuori argomenti per la quale lei avrebbe dovuto difendersi strenuamente. Non che ce ne fossero, di temi intimi, ma la Gatta Ladra, comunque, non riuscì a proseguire nel dialogo: le parole del ragazzo non nascondevano doppi fini o tranelli, le sue erano state delle semplici osservazioni, dei suggerimenti. Aveva risposto frettolosamente, come se le parole del nuovo amico avessero cercato di farle dire qualcosa da lei ritenuta impensabile. Non era preoccupata per Rufy, per niente: lo aveva visto uscire malridotto da situazioni ben peggiori. Malridotto, ma vivo. Per quale motivo doveva penarsi per la sua vita? No, no, non era preoccupata per lui………..però, non poteva fare a meno di domandarsi se non stesse compiendo qualche pazzia.

Era perfettamente conscia di quanto l’impulsività di Rufy non avesse limiti: quando combatteva, il ragazzo era capace tutto, anche di caricare a testa bassa e di farsi del male, pur di colpire l’avversario. Era una strategia stupida, perché se il ragazzo avesse speso qualche minuto in più a riflettere sul da farsi, avrebbe sicuramente trovato un modo per vincere anche senza procurarsi ferite inutili. Purtroppo, il suo capitano era una persona molto istintiva e convincerlo a cambiare idea, quand’egli aveva già deciso cosa fare e come agire, era qualcosa che neppure lei era stata in grado di sventare. Ne era cosciente, ma, in quel momento, parve che lo sguardo di ghiaccio di Lars avesse fatto emergere in lei quei dettagli che non si mai presa la briga di sondare con accuratezza, poiché il saperne l’esistenza, le era sufficiente. Preoccuparsi per Rufy era una cosa normale: chi non si domandava se il proprio capitano stesse bene, nel mentre combatteva fino alla morte per portare tutti loro in salvo? Le lo aveva fatto, lo faceva, e lo avrebbe fatto ancora, ma senza mai perdere l’assoluta convinzione che lui sarebbe tornato dai suoi compagni. Rufy tornava sempre per loro, e la sicurezza di Nami stava lì, insieme alla sua forza, la sua tenacia, e a tutto ciò che la rendeva il navigatore della ciurma.

Se lui crollava, anche lei finiva a terra, come una marionetta senza i propri fili a sorreggerla.
Era preoccupata per Rufy? Si, lo era, e lo sarebbe sempre stata, perché il suo capitano era un inguaribile incosciente.

“Allora? Sei preoccupata?” le domandò nuovamente Lars.
“Può darsi. E’ talmente impulsivo che non vede i danni che si procura”, sospirò lei “E tu?” gli domandò “Non sei preoccupata per tua sorella?”
“Azu? Oh, ma lei…non muore nemmeno se l’ammazzi”, le rispose lui, con sorriso furbesco.
“Mi suona familiare”, e anche lei sorrise egualmente.




Stava pensando, riflettendo profondamente, decidendo il da farsi.
Gonfiava le guance paffute e storceva il nasino con fare indispettito, stringendo le labbra e sbattendo le palpebre più e più volte. Dall’alto delle sue attuali scelte, Shion era impossibilitata a fare molte cose, salvo l’inventarsi una soluzione per scendere da quella sporgenza sopra cui era seduta insieme a Red, appoggiato comodamente sulla sua spalla. Pensava e ripensava, con braccia e gambe conserte, e l’udito solleticato dal cinguettio dei gabbiani in sottofondo. Le bruciature sulle ginocchia avevano smesso di dolerle, lasciandole addosso solo un leggero alone caldo, a cui non stava dando neppure peso, tanto era presa nel confabulare con sé stessa. Neppure il costante pulsare del bernoccolo riusciva a distoglierla da tale attività: cercava in tutte le maniere possibili di farsi venire in mente un’idea, di costruirne almeno la metà, ma a forza di vedere le sue iniziative stroncate, la sua volontà era a un passo dal varcare il confine che la separava dalla esplosione.

E infatti…..

“Uffa! Non mi viene in mente niente!” esclamò portando le braccia in aria.

Esaurito l’urlo, abbassò il capo e affondò le mani nell’incavo creato dalle sue gambe, sospirando delusa. Neppure il frugare nella sua bella e gialla borsa aveva portato a qualcosa di utile. Si strofinò gli occhi, cercando di non cedere al bruciore che li aveva invasi, insieme a quella spossatezza che, pian pianino, stava appesantendo i suoi arti: era stanca, la piccola Shion, ma non voleva cedere, si rifiutava di farlo. Si impose di resistere e di far funzionare il suo cervellino per trovare una maniera quanto meno sensata di scendere, ma la sua testa aveva preso a ciondolare pericolosamente in avanti, invogliandola a stendersi e a riposarsi. Era diventata troppo grande per l’aver bisogno del sonnellino pomeridiano, ma quelle ore, due o tre che fossero, l’avevano talmente sfinita, da prosciugarle ogni energia. Sarebbe stato bello dormire un pochettino, il suo subconscio stava cercando di convincerla a cedere, ma il sibilare ringhioso di Red scacciò il sonno in un batter d’occhio, facendola balzare in piedi, con la borsa stretta fra le mani.

“Che c’è, Red?”

C’era timore nella sua voce, un timore sottile e sussurrato quanto la sua stessa domanda. Red le stava dando le spalle, col pelo rizzato e i canini ben in vista, davanti a quel cunicolo ombroso e  apparentemente vuoto. Sfruttando l’invisibilità nera e le ombre del tunnel, qualcosa stava arrivando verso di loro, conscio del fatto che entrambi non potevano assolutamente fuggire. Camminava con fare lento e pesante, quasi strascicato, e i suoi grugniti fecero deglutire la bambina, che compì un piccolo passo indietro, nel riconoscere quel ansimo successivo. Sperò di sbagliarsi, di stare sognando, ma come vide il muso arcigno e sfigurato del gorilla fare capolino dall’ombra del tunnel, la piccola riuscì a malapena a tenere per sé un gemito strozzato.

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Capitolo 11
*** Il gelido soffio punitivo della Regina dei Ghiacci. ***


Buon pomeriggio a tutti! Come vi avevo già avvertito settimana scorsa, ho postato il capitolo di un giorno d’anticipo. Con questo, stoppo di nuovo la storia, sia per le vacanze di natale che per altri impegni che mi impediscono comunque di postare per ancora una settimana. Non posso che augurare buone feste a tutti e che questo capitolo, concludente la saga di Rocky Headland, possa piacervi. Recensite in numerosi!

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“Aaahh! E’ terribile, siamo nei guai!” strillò Usopp.
“Che succede?”  domandò Zoro, appena svegliatosi.
“Guardate con i vostri occhi!”

I guai avevano la pessima abitudine di rendere le situazioni ancor più esasperanti di quanto già non fossero. Si divertivano a farlo, quasi fosse un gioco, ma erano i soli a guadagnarci, poiché gli altri erano costretti a sottostare alle loro regole, in quanto a “Giocatori”. Orchestrati o no, era difficile credere che questi avessero una volontà propria e delle condizioni: il mondo non era nato con forze divine predisposte a organizzare la vita di esso e dei suoi abitanti, così come non era nato per vivere nella più totale delle tranquillità. Doveva sempre esserci qualcosa che rompesse la monotonia, che vestisse i panni di un peso equilibrato e utile quanto il bene, seppur questo non fosse desiderato e amato come il primo.

I guai non erano fatti per essere benaccetti, e quello che la ciurma di Cappello di Paglia avevano appena contratto, era forse il peggiore che potesse capitare.

Frugando velocemente nella sua borsa, il Re dei Cecchini aveva lanciato ai suoi compagni diversi binocoli, di modo che potessero verificare con i loro stessi occhi quanto la piccola Shion fosse in pericolo. Uno di quei bestioni neri era di fronte a lei, con l’intero corpo bloccante la sola via d’uscita che la piccina avrebbe potuto utilizzare. Il tempo, già stretto di suo, divenne più sottile e fragile, pericolosamente vicino a un punto di rottura irreversibile e la spiegazione di Nico Robin su quegli animali e sulla loro violenza, fecero sì che questo subisse una strizzata così incisiva, da costringere tutti loro a impiegare nuove forze per far fronte a quella situazione. Nessuno osò pensare alle terribili conseguenze che sarebbero capitate, se non avessero agito all’istante.

“Eeeeekk! Shion-chan rischia di diventare come me!!” strepitò Brook, con la mascella completamente spalancata "Cosa facciamo? Cosa facciamo?!"
“Qui non c’è un minuto da perdere! Oi, Franky, a che punto sei con quel ponte?!” domandò Sanji.
“Sto andando più veloce che posso!”

Il Cyborg stava lavorando a doppia velocità, sospeso in aria e con la costruzione sopra la metà del percorso stabilito. Il ritmo frenetico del lavoro stava surriscaldando le sue mani metalliche, ma senza indurlo a smettere. Il gruppo era appena dietro di lui, sospeso sopra di un vuoto che avrebbe garantito una morte rapida a chiunque fosse caduto di sotto, ma il ponte di Franky, per quanto stesse venendo edificato velocemente, non sarebbe mai crollato: la qualità dei materiali e la bravura del carpentiere, fungevano da cemento per qualsiasi sua opera.

"Allora, accelera!” gli ordinò Nami “Robin, pensi di poter colpire quell’animale?”
“Purtroppo no, è troppo distante”, le rispose la donna.

L’archeologa ci aveva provato fin da subito, a tentare una manovra diversiva che concedesse ai suoi compagni un po’ più di tempo, ma il potere del frutto del diavolo Fior-Fior, per quanto temibile che fosse, funzionava entro un determinato raggio d’azione e, sfortunatamente, la sporgenza sopra cui si trovava la bambina, era al di fuori di esso.

“Cercherò di colpirlo con Kabuto”, si fece avanti Usopp, placatosi dallo spavento, nel mentre armeggiava con la sua fionda gigante “Franky, tu continua a finire il ponte: ci penso io a intrattenere quel bestione!”




Shion era terrorizzata. Di nuovo.
Quella giornata si stava riempiendo di tanta paura, troppa per una bambina della sua età: se non fosse stata per la sua gioventù e la perfetta salute, si sarebbe presa un infarto di prima categoria. La sfortuna la perseguitava senza tregua, lasciandola respirare giusto il tempo per convincersi di non avere più nulla di cui temere, seguita a ruota da un’incalzante ansia che le impediva di vedere che cosa le sarebbe accaduto nei secondi successivi.

Lo scorgere i lineamenti spessi e tozzi di quel grosso animale, uscito dall’ombra del cunicolo, l’aveva fatta indietreggiare istantaneamente, con le labbra strette e le ginocchia tremanti. Bastò poi un suo grugnito, per farla inciampare. Cadde rovinosamente, battendo il sedere, ma senza mai distogliere le iridi azzurrine da quelle color pece dell’animale. Consapevole del vuoto che si trovava al di là delle sue spalle, non osò strisciare. Fu l’unico pensiero razionale che riuscì a formulare, nonostante il panico e l’agitazione la stessero scombussolando completamente: gli altri, erano come stati inglobati da una foschia grigiastra, capace di inibire emozioni, sentimenti, e tutto quel che poteva offrirle una qualche forma di sollievo. All’ennesimo ringhio dell’animale, un altro pezzo della sua coscienza finì per disperdersi nell’oblio, oscurando quanto la circondava e imprigionandola in una zona ancor più stretta di quella sporgenza. I canini giallastri e incredibilmente lunghi del gorilla ne mordicchiavano le labbra nere e sporche, inumidendole di una saliva biancastra dall’aspetto disgustosamente denso. Guardarli e soffermarsi su di essi, fu un grosso errore, perché Shion non riuscì più a distogliervi lo sguardo. Concentrarsi su altro le risultò impossibile: ogni parte di quella bestia era sudicia e coperta di ferite deformi, dai colori scuri e disgustosi.

 Era in trappola. Stavolta, non c’erano vie di fuga.

“Lars……..Azu-chan……..”

Il sussurrare i nomi dei due albini fu istintivo, un impulso dettato dal suo cuoricino impaurito. Per quanto avesse promesso di non avere paura e di essere coraggiosa, non ce la fece a muoversi e a reagire; tutto il corpo tremava vistosamente e più quella figura nera gravava su di lei, più si sentiva minacciata. A difenderla, c’era soltanto Red, un esserino dal pelo rosso, che, fisicamente parlando, non poteva in alcuna maniera competere con un gigante del genere. Era troppo piccolo per battersi, le sue braccia magre sarebbero state spezzate senza alcuno sforzo. Eppure, per quanto le speranze fossero scarse, la scimmia Cresta di Fuoco non mostrava il benché minimo segno di timore: ringhiava contro l’avversario, affondando le dita nel terreno e facendo volteggiare la voluminosa coda senza paura che questa le venisse afferrata e strappata.
Col pelo ritto e i canini ben in vista, Red sembrava deciso a dare battaglia a quell'energumeno, che con denti digrignanti e occhietti malvagi, lo squadrò con quanta più cattiveria potesse esprimere. Erano nemici naturali, due poli opposti che necessitavano di scontrarsi per sopravvivere, e per quanto la scimmia più piccola avesse sempre preferito la fuga alla lotta, ora il suo istinto esigeva qualcosa che le desse una giusta soddisfazione animalesca. I suoi polpastrelli neri divennero sempre più incandescenti e la sua pelliccia, fattasi ancora più rossa, cominciò a emettere piccoli sbuffi di vapore invisibile, distorcenti l’aria circostante e così ampi da sollevare i ciuffi che le ricoprivano il muso.

Percependo il cambiamento, il bestione inarcò le folte sopraciglia, mostrando la sua dentatura appuntita con ancor più vigore: quel che sentiva non gli piaceva per niente, l’aveva già sperimentato in passato e il ricordarlo, alimentò la sua rabbia. Per il disgusto, le cicatrici che gli tempestavano il muso cominciarono a pulsare dolorosamente. Irrigidendo i muscoli e i tendini, il gorilla Pugno di Roccia serrò le mani e sbuffò dal naso, scrollandosi le spalle muscolose.

“Red, fa attenzione!” lo avvertì Shion.

Stava per attaccare, ne era sicurissima.
Provò ad avvicinarsi all’amico, ma come il nemico batté i pugni per terra, la bambina dovette puntare le mani per non rotolare all’indietro. Lo aveva fatto apposta, a colpire il terreno; anche l’animaletto aveva dovuto attaccarsi alla roccia per non perdere l’equilibrio, e, approfittando di quella distrazione, la bestia scattò in avanti, pronto a colpirlo col braccio levato. Shion riuscì solo a vedere quest’ultimo accingersi ad attaccare Red, ma come spalancò gli occhi e la bocca per gridare, una piccola esplosione costrinse lei e il gorilla a proteggersi il viso con gli arti superiori. Non si trattò di uno scoppio ad ampio raggio, ma di qualcosa di molto più piccolo e contenuto, che, tuttavia, vide la bambina nascondere la testa e cercare di difendersi al meglio delle sue possibilità. Udì il ruggito furente del gorilla smuoverle i capelli e tutta una serie di rumori a lei sconosciuti infierire sull’animale come mai era successo. Riusciva a sentirli, erano vicinissimi a lei e il fatto che non avesse percepito su di sé nulla di quanto si era immaginata, la esortò a togliere le mani dalla testa e a guardare quel che stava succedendo.

C…Canne di bambù?

Fu strano e insolito. Pensò che la vista le stesse facendo qualche brutto scherzo, ma lo stropicciarsi con forza gli occhi, la aiutò a realizzare che l’oggetto del suo pensiero era più che mai vero. Quelle che vedeva, erano realmente delle canne di bambù!

Emerse misteriosamente dal terreno, si erano poste in mezzo a Red e al gorilla, fungendo da barriera vegetale. Ancorata a terra, la bambina era a dir poco stupefatta: un miscuglio di stupore e d'incredulità congelò la sua paura, spingendola a guardare quelle spesse canne verdi con incredibilità e a domandarsi nuovamente se fossero reali. Il bambù non era una pianta capace di crescere così velocemente, men che meno, in grado di sbucare dal nulla per impedire che un animale di duecento chili prendesse a pugni il suo nuovo amico, ma il vederlo con i propri occhi, privò quelle certezze di buona parte della loro stabilità, attribuendo una maggiore credibilità allo strano fischio che aveva preceduto l’esplosione.
La piccola esplosione non era la sola cosa che le orecchie di Shion avevano colto. In un primo momento non ci aveva fatto caso, troppo bloccata emotivamente per accorgersi di altro, ma poi…lo aveva sentito.

Un fischio. Un altro. E un altro ancora.

Erano succeduti con cadenza regolare, partiti da un punto lontanissimo che lei non poteva vedere. Li sentiva ancora, li vedeva colpire il gorilla in diversi punti, costringendolo a indietreggiare e passando oltre alle canne senza sbagliare direzione. Più guardava quella scena e meno capiva, ma se solo si fosse girata, avrebbe compreso che la speranza da lei creduta scomparsa definitivamente, in realtà, stava cercando di arrivare il più velocemente possibile da lei. Delle voci la stavano chiamando, i loro echi tentavano costantemente di raggiungerla, di attirare la sua attenzione, ma il vedere il gorilla disfarsi delle canne di bambù, nonostante quegli strani proiettili fumanti lo stessero ostacolando , la distolse dal chiedersi se avesse sentito bene o se si fosse immaginato tutto.

Ruggendo più forte di prima, l’animale saltò, oscurando con la sua mole mastodontica il sole. Nel vederselo arrivare addosso, Shion si pietrificò del tutto, non riuscendo neppure ad appallottolarsi su sé stessa e a chiudere gli occhi. Così ben ancorata a terra da una sua stessa emozione, la bambina vide tutto con più lucidità, avvertendo il proprio respiro e i battiti del cuore farsi estremamente palpabili all’udito. Ogni immagine parve più nitida e colorata, particolarmente accurata in quei dettagli su cui lei non aveva mai riposto l’attenzione, ma era inevitabile che i suoi occhi azzurri fossero sbarrati su quell’animale sospeso sopra di lei, le cui braccia pelose erano rivolte in avanti, col solo obiettivo di afferrarle il collo.
Avrebbe potuto scappare, tentare di spostarsi, rotolare lateralmente, ma strane corde invisibili le avevano allacciato la vita e le caviglie, impedendole ogni sorta di movimento.

Assumendo quella forma, la paura tornò definitivamente a esercitare il suo forte ascendente, e lei, per quanto fosse sveglia e consapevole, non riuscì a opporsi al suo volere.
Fu nel sentirsi spacciata, che la sorte decise di venirle nuovamente incontro; tutto si svolse rapidamente, ma non abbastanza da impedirle di vedere la scena. Il gorilla Pugno di Roccia era sopra di lei, con le zampe aperte e le dita frementi di prenderla: mancarla, sarebbe stata impossibile. Il grosso torace peloso era ben in vista, completamente scoperto, e fu proprio nel volerlo far sembrare ancor più imponente, che egli commise il suo errore. Sotto lo sguardo della bambina, una strana palla arancione lo colpì proprio nel mezzo, sbalzandolo via dalla traiettoria presa.

“Cosa….?”

Con un tonfo assordante, l’animale cadde di schiena, guaendo furiosamente per il dolore e tenendosi il torace fumante e bruciacchiante per l’ustionata riversatagli contro. Il non essere più alla sua portata, liberò Shion dai lacci che la tenevano imprigionata, permettendole di mettersi in piedi: fu un sollievo inaspettato, ma anche molto gradito. Quasi restia a guardare la bestia che pochi attimi prima aveva cercato di farle del male, abbassò i propri occhi per riporli su quella bislacca figura che le stava davanti.
Era di media grandezza, ferma, con un ruggito più acuto e leggero di quello pesante e ansimante del gorilla Pugno di Roccia. Il suo atterraggio morbido e coordinato ne aveva mostrato i movimenti leggeri e quasi impercettibili, di un peso sconosciuto. Ringhiava con la guardia alta, battendo i piccoli pugni neri sul terreno, lasciando Shion in balia di mille pensieri non collegabili fra loro, nel mentre guardava quella cosa emanare fuoco. Si, qualunque cosa fosse, stava andando a fuoco!

“Red? Ma…sei tu?” riuscì a domandare.

Lo chiese con titubanza, ma senza dubbi al riguardo. Era impossibile che si trattasse di un essere o di una persona estranea: lì c’erano solamente lei, il gorilla e il suo nuovo amico. Il suo aspetto – occhi e versi  esclusi – era radicalmente diverso dal normale, ma la bambina lo aveva riconosciuto fin dal primo sguardo. Non c’erano stati ragionamenti o indizi in particolare che l’avessero aiutata ad arrivare a quella deduzione: lo aveva semplicemente avvertito dal profondo di sé.

“Red…”, lo chiamò ancora “E’ tutto a posto?”

L’animale squittì in segno di approvazione, calcando la posizione di guardia e assottigliando le pupille. Sprizzava sicurezza e spavalderia da ogni centimetro del corpo, quasi volesse combattere per alimentare l’istinto appena risvegliato. La soffice pelliccia rossa era stata sostituita da un manto infuocato color giallastro, dove fiammelle dalle sfumature arancioni e rosse guizzavano vivacemente, bruciacchiando il terreno e riscaldando l’ambiente attorno all’animale. La coda era diventata ancor più voluminosa e a ogni suo movimento, spargeva a destra e a sinistra minuscole scintille dorate. I ciuffi, che prima gli ricadevano sul muso, erano diventati un tutt’uno, rizzandosi in alto come una piccola fiaccola contornata da un leggerissimo filo di fumo.

Sebbene fosse passato del tempo dall’ultima volta che aveva assunto quella forma, Red non aveva mai dimenticato come si faceva: era insito nel suo essere, in quella parte che aveva lasciato assopire volontariamente per sopravvivere. Si trattava di una peculiarità della sua specie, che permetteva a tutte loro di diventare delle torce in grado di confrontarsi anche con bestie corazzate o aventi una mole superiore alla loro. Nessun altro primate era in grado di trasformare il proprio manto e renderlo talmente intoccabile da rimanerci ustionato, ed era questa prerogativa a rendere molto cauti i gorilla Pugno di Roccia. Loro vantavano una forza spaventosa, dei muscoli così duri da poter spezzare anche le ossa di un gigante, ma come tutti gli altri animali presenti nel mondo, temevano il fuoco. Ne odiavano il bagliore, così intenso e accecante da bruciare gli occhi, le spire, capaci di corrodere le loro pellicce e di strappare le carni che si nascondevano sotto ad essa, per non parlare poi del calore, talmente soffocante da chiudere le vie respiratorie in un battito di ciglia.

Detestavano le scimmie Cresta di Fuoco in ogni loro aspetto e abitudine, non c’era mai stato nulla su cui potessero andare d’accordo. E quell’odio grottesco, privo di limiti e di regole, era consistentemente ricambiato: difatti, quando il primo si rimise in piedi, apparve ancor più furibondo di prima, ma questa volta, a dargli man forte, fu un suo simile, la cui testa sbucò da fuori il tunnel con fare minaccioso.

“Oh, no! Ci hanno trovati!” esclamò Shion.

Forse Red poteva vedersela con uno di quei bestioni, ma di più….oh, era già molto che quello spuntone riuscisse a sostenere tutto il loro peso. Non occorse molto tempo prima che il nemico, supportato da altri suoi compagni, balzasse addosso a lei e a Red: la scimmia Cresta di Fuoco accrebbe la fiamma che portava sopra la testa, come a voler riaffermare la sua ferma convinzione di non retrocedere, ma era fin troppo lampante che contro tre avversari del genere, neppure lei, per quanto forte potesse essere, non ce l’avrebbe fatta.

“Red!!!”

L’urlo della biondina fu seguito da un suo rapido scatto verso l’animale; voleva prenderlo e portarlo via, evitare che si scontrasse con quei gorilla e che si facesse male, ma ancor prima di avere la possibilità di avvicinarsi, le venne negato il diritto di posare i piedi per terra. Con la mano rivolta a Red, avvertì qualcosa stringerle la vita, sollevandola con estrema facilità. Non ebbe il tempo di guardare o capire: la vista le si annerì e per lei fu automatico rannicchiarsi con le braccia al petto e strizzare le palpebre a più non posso.
Udì il rimbombare di botti inconsueti, il sibilare delle lame….tutti rumori già presenti nella sua memoria per via dell’ambiente in cui era cresciuta. Poteva dire di essere stata cullata dal suono dei cannoni, ma ciò nonostante, una parte di lei si rifiutò categoricamente di guardare che cosa stesse succedendo. Tremava tutto, sembrava che fosse appena scoppiato il finimondo.

Poi, arrivò quella voce……..

“Tutto a posto, piccola?”

Nel mezzo di quell’orchestra di rumori contrapposti, il suono gentile e caldo di quella voce svegliò l’animo di Shion, inconsapevolmente assopitosi in un lungo e silenzioso sonno. Disorientata per quel brusco spostamento, rimase ancora un po’ con gli occhi chiusi, aspettando che quel vorticare le passasse. Era stata fin troppo sballottata e visto che la sua resistenza era giunta agli sgoccioli, le occorreva qualche secondo per riprendere padronanza dei propri muscoli. In quella specie di antro sicuro dentro cui era finita, avrebbe potuto riposare quanto voleva: non vedeva nulla, ma il calore che quello esprimeva e che si riversava sulla sua pelle, era confortevole e traboccante di affetto. La avvolgeva come un soffice piumino invernale, regalandole un senso di protezione a dir poco rassicurante, che appianò ogni sua paura. Quella voce non le era nuova e fu nel collegarla a un viso a lei conosciuto, che aprì lentamente gli occhi e li levò in alto quanto bastava, per  guardare in faccia chi le aveva parlato.

“Lars….sei tu”, mormorò lei, con tono stanco.

L’albino le sorrise con ancor più dolcezza, accarezzandole delicatamente la chioma dorata. Solo in quel momento, la bambina si rese conto di essere fra sue le braccia: la sua testa era appoggiata al torace di lui e le ginocchia sbucciate erano appoggiate su una delle sue due ginocchia di lui. La sola mano con cui la reggeva, era stretta attorno alle spalle, in un presa ferma e delicata.

“Lars..”
“Tranquilla, adesso sei al sicuro”, la rassicurò lui.

A poca distanza fra loro, Sanji e Zoro stavano in piedi davanti all’entrata della galleria. Il cuoco teneva le mani infossate nelle tasche dei pantaloni neri, affiancato dallo spadaccino, indossante la sua preziosa bandana verde scuro. Con un paio di calci e qualche affondo ben eseguito, i due avevano appena vanificato l’attacco dei tre gorilla, respingendoli all’interno della loro tana con una facilità a dir poco disumana. Shion, con ancora la visuale un pochettino appannata, non aveva idea di che cosa i suoi amici avessero fatto, ma di qualunque cosa si trattasse, erano stati talmente veloci nell’eseguirla, che le nemmeno l’aveva vista.

E poi – quesito ancor più importante-, da dove erano venuti?

“Queste bestiacce non sono proprio quello che mi aspettavo: sono dure e stoppose. Con ingredienti del genere, non ci posso ricavare nulla di decente”, borbottò Gamba Nera, accendendosi una sigaretta.
“Puoi sempre ritirarti, nessuno ti obbliga a stare qui”, gli disse l’ex Cacciatore di Pirati.
“Hai paura che scopra che sei una mezza calzetta? Tanto lo so già”, lo provocò il biondo.
“Tze! Ti piacerebbe, ma se non ci avessi fatto caso, ho steso un gorilla più di te”, gli fece notare lo spadaccino.
“Non dire cretinate. Ti ricordo che quello mezzo cieco, qui, sei tu.”
“Meglio aver perso un occhio, che il proprio orgoglio di uomo.”
“E con questo cosa vorresti insinuare?!” domandò Sanji, con la tempia già pulsante.
“Nulla, nulla..”, sbuffò Zoro, per poi guardarlo storto “Caro il mio signor principe dei travestiti….”
“ADESSO BASTA! IO TI AMMAZZO!!”

Il colpire il cuoco in quel punto ancora maledettamente fresco, aveva fatto traboccare il vaso che ne conteneva la pazienza. In men che non si dica, i due ragazzi furono così presi dallo scambiarsi occhiatacce e insulsi, che l’ambiente si surriscaldò, arrivando addirittura a essere contornato da fiamme gigantesche, simboleggianti quel loro astio inestinguibile. A prescindere dal fatto che il lungo periodo passato ad allenarsi, era servito non solo a maturare fisicamente, ma anche intellettualmente, quei due non erano cambiati di una virgola, tanto erano recidivi. Non ardevano dal desiderio di uccidersi come succedeva nei campi di battaglia o di colpirsi con l’intenzione di ferirsi seriamente, questo no, ma litigavano con una costanza tale, da renderli pericolosamente simili a una vecchia coppia di sposi inaciditi.

E’ proprio vero: Dio li fa e poi li accoppia, pensò l’albino, incapace di esprimere un giudizio diverso da quello.

E intanto, quei due continuavano imperterriti nella loro interminabile e insensata crociata.

“Cuoco da strapazzo!”
“Marimo da quattro soldi!”
“Cretino rimbambito!”
“Testa di verza dei miei stivali!”
“Fanfarone in….oi! Che hai sotto i piedi?”
“Eh?”

Seguendo l’indice del vicecapitano, Sanji sollevò il piede destro, notando di star pestando qualcosa di peloso. Inarcò il sopracciglio arrotolato nello scoprire che era la testa di una scimmia rossa, stesa a pancia in giù e con gli arti lateralmente tesi.

“Non è mica una di quelle scimmie Cresta di Fuoco?” domandò Zoro, sfilandosi la bandana verde e allacciandosela al braccio.
“Già. Che ci fa qui?”
“Sanji! Stai pestando Red!”, esclamò Shion, correndo verso il cuoco.
“Red?” domando lui, nell’afferrare per la collottola la bestiolina “Questa cosa è tua?”
“Certo! Oh, Red! Guarda che brutto bernoccolo che ti sei fatto…”, mormorò la piccola, prendendo l’animale in braccio.

La povera scimmietta era svenuta, con gli occhi a spirale, la bocca semichiusa, e tantissime banane che le danzavano sopra la testa; non doveva essere stato affatto piacevole ricevere una pedata dietro la nuca, specie se data da Sanji, improvvisa e impossibile da anticipare.

“Non preoccuparti, ha solo perso i sensi”, le disse Lars, osservando da vicino l’animale “Con del ghiaccio dovrebbe rimettersi.”
“D’accordo, se lo dici tu, mi fido”, disse la piccina, guardando con apprensione l’amichetto peloso.
“Ehi, laggiù! Ci sentite?!?”

La squillante voce di una quinta persona, più lontana rispetto a loro, attirò immediatamente l’attenzione, spingendo i presenti a voltare la testa in direzione del vuoto. Shion rimase a bocca aperta nel vedere i restanti componenti della ciurma di Rufy, sospesi sopra un ponte che stava venendo costruito a tempo di record. Per finirlo, Franky stava lavorando come un forsennato, mentre gli altri stavano alle sue spalle, in attesa di poterli raggiungere.  Mancavano ancora una decina di metri perché questo unisse le due parti di Rocky Headland, ma Sanji, Zoro e Lars non avevano potuto aspettare il suo compimento, visto il pericolo che aveva aleggiato sopra la testa della biondina: dando prova della loro agilità, avevano compiuto un enorme salto dal ponte che il Cyborg stava edificando, piombando sulla sporgenza al momento giusto. I rimanenti membri dell’equipaggio, non così capaci di un’azione tanto clamorosa, erano rimasti al loro posto.

“Sono gli altri!” esclamò felice la bambina “Sono gli altri!”
“Bene, Franky ha quasi finito il ponte”, mormorò Lars.
“Shion! Stai bene?!” la vocina preoccupata di Chopper fu la prima a farsi sentire.
“Si! Tutto a posto!” rispose lei, sventolando il braccio.

Dire che era contentissima di vedere tutti i suoi amici era un eufemismo: mancava pochissimo perché saltasse sul posto, tanta era l’adrenalina che le scorreva nelle vene. Quelle poche ore passate nel labirinto sembravano essersi prolungate appositamente per farle sentire la mancanza dei suoi nuovi compagni di viaggio, ma l’attesa, alla fine, era stata lautamente pagata, e Shion non poteva sentirsi più sollevata di così. Il suo corpo era leggero quanto una nuvola, svuotato di tutta quella paura che si era divertita a farla tremare, e soltanto l’arrivo di Azu-chan e Rufy avrebbe reso quel momento assolutamente perfetto.
Trovò a dir incredibile che i suoi nuovi fossero riusciti a costruire addirittura un ponte per arrivare da lei, perché, insomma, una costruzione del genere era pressoché impossibile da realizzare, vista l’enorme distanza fra le due parti dell’isola. Eppure, loro ci erano riusciti, e questo perché, come aveva ben imparato, la parola “Impossibile”, per gente come loro, non esisteva.

Ma quei tanto odiati guai, purtroppo, parevano non volersene andare……

“Dobbiamo spostarci da qui. Non è un buon posto per combattere”, asserì Sanji, battendo la punta della scarpa contro il terreno e guardando quest’ultimo, ritenendolo inadatto per ospitare un combattimento di massa.
“Franky, vedi di darti una mossa! Quelle bestiacce torneranno alla carica da un momento all’altro!”, esclamò Zoro, avvertendo dei rumori sospetti agitarsi dal fondo del tunnel.

L’implacabilità coriacea di quegli animali non era sfuggita all’attenzione dello spadaccino, vigile e attento su ogni dettaglio che poteva rivelarsi utile in battaglia. Il suo occhio smeraldino scrutò le tenebre della rientranza senza alcuna fatica, muovendosi con certezza cieca, conscio di un qualcosa che, molto presto, sarebbe arrivato a fare loro una visita. Non era il tipo che si metteva a cantare vittoria per un colpo ben assestato o che abbassava la guardia con facilità, ragione per la quale non aveva ancora riposto le sue spade nei foderi. Fra i componenti della ciurma, era quello più bravo a percepire vibrazioni negative, i pericoli eminenti, e durante l’addestramento speciale, aveva irrobustito quella sua capacità ancor di più, assottigliandola e privandola di imperfezioni. Non era nulla che potesse essere ricollegabile ad un’abilità innata: il voler diventare lo spadaccino migliore del mondo imponeva una via severa e dura, piena di scelte apparentemente ingiuste, ma necessarie. Una via che imponeva l’attenzione su tutto e tutti, anche quando si dormiva. Una delle prime lezioni che s'imparava fin dai primi giorni, che si inoltrava nel proprio essere, fino a diventare qualcosa di automatico e impercettibile.

Lo sfiorare le katane con la punta delle dita, era l’abitudine che Zoro aveva preso quando captava il riorganizzarsi del nemico: come uno strano boato risalì lungo il tunnel, il ragazzo strinse con decisione l’elsa della spada di Kuina, seguito dallo sguardo serio di Sanji e Lars, che aveva posto dietro di sé Shion.
Data la ristrettezza di quel pezzo di roccia, un attacco di massiccia consistenza sarebbe stato difficile da respingere, ma le sfide suicide erano le preferite di Zoro, che non mancava mai di ghignare ogni qualvolta le difficoltà aumentavano. Erano pronti a ricevere la seconda ondata, a imprimere nei crani di quei gorilla quanto avessero sbagliato a mettersi contro di loro, quand’ecco che, dall’interno del cunicolo, giunse uno strano eco: era diverso dai precedenti, non assomigliava per nulla all’ansimare dei gorilla o al loro battere i pugni sulla roccia. Cresceva a dismisura, salendo e abbattendo ogni sorta di ostacolo che tentava di fermarlo, con una grinta così palpabile da trasformare la serietà dei ragazzi in incertezza.

“Viene in questa direzione”, mormorò Gamba Nera, piegando leggermente le gambe “E a grande velocità.”

Nessuno dei presenti, per quanto impegno ci stessero mettendo, riuscì a capire che accidenti stesse capitando all’interno di quell’intricato ingarbugliamento di cunicoli, ma la confusione era così elevata, che il terreno sotto i loro piedi iniziò a vibrare pericolosamente. Ipotizzarono l’arrivo di una creatura mai vista fino a quel momento, ma come riuscirono a cogliere un grido di battaglia, in mezzo a quel già ben evidente fracasso, Zoro sciolse le proprie spalle, arrivando a sospirare e a scuotere debolmente la testa.

“Il solito casinista…”, borbottò.

Per un millesimo di secondo, aveva pensato che la sua testa gli stesse facendo un bello scherzo, ma come udì nuovamente quella voce stridula e al potente, lo spadaccino, insieme al cuoco, si riappropriò di quella piccola consapevolezza che aveva momentaneamente dimenticato. Si stupì di sé stesso, perché scordarsi del fatto che il capitano si trovasse all’interno della parte destra di Rocky Headland, equivaleva a ignorare un potenziale pericolo, sebbene il suo aspetto fisico negasse quella possibilità. A giudicare da come quel tremolio stesse aumentando d’intensità, Rufy si doveva star scatenando come un pazzo, ma neppure ciò stupì più di tanto Zoro: conosceva l’indole del ragazzo di gomma come le sue tasche – non che ci volesse molto – e, d’altro canto, se fosse stato al suo posto, non si sarebbe di certo trattenuto. Se un nemico sbarrava loro la strada, lo abbattevano, punto e basta, senza porsi domande sulle conseguenze o altro. In momenti del genere, i ripensamenti potevano essere fatali, e questo ragionamento era pienamente condiviso anche da Azu, i cui urli battaglieri stavano mettendo a dura prova i timpani di tutti quanti loro.

Il solo sentirla bestemmiare con la finezza di uno scaricatore di porto, obbligò Lars a passarsi una mano sul volto; anche se si fosse messo dei tappi nelle orecchie, la voce della sorella gli sarebbe arrivata forte e chiara comunque, tanto il suo volume era alto.

Che dire poi dei modi…..
Su quelli, sarebbe stato capace di scriverci un tomo di almeno cinquecento pagine.

L’avere un aspetto alquanto delicato e femminile occultava con maestria quel suo carattere intrattabile, irascibile e, a volte, materialmente egoista: non che non avesse dei lati buoni, ma Azu tendeva a cogliere le occasioni fortuite e a sfruttarle per i propri fini, il che lo costringeva puntualmente a domandarsi se fossero effettivamente fratelli. Non stette a pensare in che modo fosse arrivata a prendere a calci i gorilla Pugno di Roccia, giacché non occorreva un’indagine accurata per scoprire che alla base di ciò, non vi era una ragione particolarmente significativa: se una persona, cosa o animale la guardava male, lei contraccambiava con sfacciataggine altrettanto provocante, dando il via a una serie di liti a sfondo disastroso. E come a voler concretizzare quella sua certezza, la parete rocciosa stridette vistosamente, contorcendosi più volte su sé stessa: profonde e spesse crepe comparvero sulla sua superficie ruvida, aprendosi e dividendosi in più parti come una gigantesca ragnatela avente diversi punti d’incontro.

“Lars…” Shion lo chiamò con titubanza “Non ti sembra che sia…?”

Ci fu un colpo e la parete tremò.
Ne arrivò un altro e questa parve gonfiarsi dall’interno.
Al terzo,  le mura scoppiarono come un palloncino, provocando un boato assordante e scatenando lo spavento e la paura di chi si trovava proprio sotto a quell’esplosione. Volarono rocce e un sacco di detriti di consistenza indecifrabile, ma anche diversi gorilla Pugno di Roccia, che precipitarono nel vuoto senza neppure emettere un ruggito. Quanti fossero esattamente nessuno lo seppe dire, ma non occorse un genio per comprendere che quegli animali fossero incappati in qualcuno avente i muscoli più duri dei loro. Come il resto della ciurma, stanti ancora sul ponte in costruzione, videro emergere dalle macerie un energico Rufy, seguito da una Azu alquanto scocciata, ogni loro supposizione trovò una più che fondata verità.

“Yatta!! Siamo fuori!!!” esultò il ragazzo, alzando le braccia in segno di vittoria.
“Era anche ora!” sbuffò la ragazza, ripulendosi dalla polvere “Quelle bestiacce mi stavano facendo veramente incavolare. Certo che potevi evitare di rubare loro la carne!” lo rimproverò lei.
“Shishishi, scusa, ma mi era venuta fame e ho pensato che a prendere un cosciotto non succedeva niente!” sghignazzò lui, con la refurtiva in mano.
“Non succedeva niente?! Ma non dire cavolate! Se non avessi sfondato il muro, a quest’ora non saremmo qui a discutere del fatto che tu abbia il cervello nello stomaco!”
“Tu te la prendi troppo! Siamo fuori, no?”
“Ma non è questo il…!”
“IDIOTA!”

SBONK!

Sul punto di esprimere la propria indignazione, la zucca dell’albina, insieme a quella del moro, venne colpita da un pugno emerso dall’ombra, la cui forza bastò a farla cadere con la faccia in avanti. Per entrambi fu inevitabile picchiare il viso contro il pavimento, ma questa era la giusta punizione per l’aver agito nuovamente d’impulso, poiché, nello sfondare la parete rocciosa, avevano bellamente ignorato l’ipotesi che, al di fuori di essa, potesse esserci qualcuno come Zoro, Sanji, Lars, Shion e Red. I primi due, emersi dalle macerie come due reduci di guerra, avevano colpito la nuca del capitano senza alcuna esitazione, continuando nel loro operato a suon di calci e pugni, nel mentre Lars, con un singolo destro, aveva mandato al tappeto la sorella, a terra, con un bel bernoccolo pulsante in testa, e tutta presa a insultare il parente.

“Brutto imbecille, ma che cavolo ti passa per quella testaccia? Se ci tieni così tanto ad essere aperto in due, dimmelo subito, che così comincio a squartarti da parte a parte!” lo minacciò lei, lanciandogli occhiate a dir poco che assatanate e tenendosi il punto colpito.
“A parte il fatto che non ci riusciresti nemmeno se io fosse legato come un salame, vedi di usare un linguaggio più decente in sua presenza”, la rimproverò lui.
“Ma di che…oh!”

Scostandosi di poco, l’albina vide la testolina di Shion fare capolino da dietro le gambe di Lars, e subito, la sua voglia di artigliare il collo del fratello corse a nascondersi nell’angolo più remoto della sua coscienza, lasciando il giusto spazio ad un imbarazzo sfornito di scusanti. Per quanto le fosse altamente difficile trattenersi dallo sclerare contro Lars, Azu aveva sempre cercato di rientrare nei limiti consentiti dalla decenza, quando nei paraggi c’era la sua tenera protetta: non arrivava a cambiare radicalmente atteggiamento, si limitava soltanto a evitare che paroline di troppo giungessero alle orecchie della bambina, sebbene i suoi sforzi di non contaminare la mente di quest’ultima incombessero in moltissimi buchi nell’acqua.

“Shion, tesorino!”, esclamò lei, in pieno panico per la mancanza di giustificazioni “Lo sai che scherzo, non potrei mai fare una cosa simile a Lars, eh eh…!”

La sua risata meccanica servì a soffocare il pensiero omicida che la ragazza stava già creando con la sua mente. Sarebbe stato meglio prendere quella bambolina e spupazzarla fino alla sfinimento, dando voce al suo grande sollievo, ma vista la figuraccia fatta, il suo istinto aveva fatto i bagagli, lasciandola sola soletta e costringendola a trovare un modo alternativo per uscire da quella sua entrata dinamica, costatale l’ennesimo bernoccolo in testa.

“Non fare quel faccino sconvolto, dai! Io voglio bene a Lars!” aggiunse velocemente, con tono forzatamente rassicurante, per poi prenderla in braccio e pensare freneticamente:
Ti prego, non chiedermi cosa significhi “Squartare”, ti prego, non chiedermi cosa significhi “Squartare”, ti prego, ti prego, ti prego…..

Nonostante Shion non sapesse leggere nella mente altrui, vide la disperazione di Azu colarle già dal viso e pregarla in ginocchio come mai aveva fatto in vita sua: contò esattamente quindici goccioloni pendenti, prima di pensare che, nella sua irruenza, l’amica non l’avesse fatto apposta a far cadere quei massi sopra le loro teste. Era stato un bel botto, ma in sua difesa era intervenuto Lars, quindi non aveva motivo di avercela con l’albina: conosceva molto bene la sua dinamicità, per questo le sorrise e annuì come per dirle che andava tutto bene.

Solo che avrebbe tanto voluto chiederle che cosa significasse “Squartare da parte a parte”……

“Razza di testa bacata! Volevi forse ammazzarci?!” urlò Zoro, rivolto ad un Rufy ancora vittima del pestaggio suo e del cuoco.
“Shishishi, non farne una tragedia, Zoro”, rise lui, incurante dei colpi datigli “Anche se ti fosse arrivata addosso una montagna, non saresti mica morto!”

Per tutta risposta, gli arrivò un altro calcione, inferto da un Sanji furente  e poco incline alla sua disinvoltura.

“Solo perché tu sei di gomma, non significa che lo siamo anche  noi!” lo rimproverò quest’ultimo, con denti aguzzi “Vedi di mettertelo bene in testa!”
“Uffa! Non capisco perché ve la prendiate tanto…”, si domandò il capitano, inclinando la testa e incrociando le braccia.

Dio solo sapeva quanto le mani dell’ ex Cacciatore di Pirati e di Gamba Nera stessero fremendo per la voglia di sedare definitivamente il capitano e quella conversazione dai risvolti patetici e apparentemente irrisolvibili. Nami non ci avrebbe pensato due volte a porre fine a quella stupidaggine e probabilmente lo avrebbe fatto anche a suon di urlate, se a precederla, non ci fosse stato quel immenso ruggito, amplificato dall’apertura creata dall’albina.

All’istante, tutti quanti puntarono gli occhi sul cunicolo slargato.

“Non promette nulla di buono”, proruppe Zoro.
“A giudicare dal baccano che stanno facendo, direi che sta per arrivarci addosso l’intero branco”, constatò Lars “Devono aver sentito l’esplosione.”
“Stai insinuando che è colpa mia?” domandò Azu, squadrandolo malissimo.
“Vedi qualche altra pazza isterica qui in giro?”, le chiese lui, senza guardarla.
“Come ti permetti, razza di...!”
“Parole”, le ricordò il fratello, alludendo allo scricciolo dorato aggrappato ai suoi pantaloni.
“Tu…..b-brutto……gnnfff!!!” dovette girarsi per non far vedere quanto il suo viso si fosse deformato per l’indignazione.

Lo avrebbe strangolato, oh, se lo avrebbe strangolato!
Odiava quando la incolpava e non la guardava neppure di striscio, non lo aveva mai sopportato. Avrebbe fatto i salti gioia se le fosse stata concessa la possibilità di infliggere uno dei suoi cazzotti sulla testa del fratello, ma la presenza della piccola e dolce Shion la vide costretta a gonfiare le guance e a ricacciare in gola tutti gli epiteti venutile in mente, compreso anche quel ghigno vittorioso che vide di sfuggita sul volto del più grande.

Ridi, ridi pure. Verrà il giorno in cui te le farò pagare tutte, giurò lei.
“Azu-chwan, non essere arrabbiata! Il tuo Sanji ti capisce meglio di chiunque altro!” esclamò lui, tentando di abbracciarla.
“Fuori dai piedi! Non è il momento per le smancerie!” e lo sedò con una gomitata sul naso.

Ci mancava pure che quel cuoco desse di matto e cercasse di avvinghiarsi a lei peggio di un polpo.

“Fatela finita, stiamo per ricevere visite sgradevoli”, ricordò Zoro a tutti quanti loro.

Le scosse a cui il terreno era sottoposto divennero più accentuate. La deduzione di Lars aveva appena trovato il suo più valido fondamento, mettendo maggiormente in allarme tutti quanti: il boato prodotto dal colpo di Azu si era propagato in ogni galleria scavata dai gorilla Pugno di Roccia, riempiendone anche gli angoli più  angusti e giungendo alle orecchie degli animali come una minaccia da sradicare assolutamente. Ai padroni della parte destra di Rocky Headland non piacevano gli estranei, tantomeno quelli che si prendevano la libertà di invadere il loro habitat, ma l’aver rapito Shion aveva spinto i ragazzi a dimostrare che non erano disposti a diventare la loro prossima cena. Purtroppo, anche solo osservando la sporgenza su cui erano riuniti, era inevitabile che, se avessero ingaggiato uno scontro con quelle bestie, sarebbero caduti di sotto. A giudicare dai cori ringhianti che stavano risalendo dall’interno della montagna, il branco doveva essere alquanto corposo, il cui peso, con ogni probabilità, avrebbe portato al crollo della sporgenza.

“Andiamocene via”, ordinò Rufy, con tono irremovibile.

Non potevano restare un solo secondo di più e come il capitano ebbe detto la sua, anche Nami e gli altri compresero che era ora di battere in ritirata.

“Torniamo indietro!” esclamò la Gatta Ladra.
“Ma Franky non ha ancora finito il ponte, come faranno Rufy e gli altri a passare?” domandò Chopper.
“Esattamente come hanno fatto la prima volta: saltando!” rispose lei.
“Che?! E io avrei questo bellissimo ponte per niente?!” strillò il carpentiere, smettendo di martellare.
“Non penso sia il momento di discuterne”, replicò Nico Robin, sistemandosi gli occhiali da sole.
“Yohohoho! Concordo con Robin-san!” si aggiunse Brook “Chissà cosa potrebbero fare quelle bestiacce con le mie povere ossa…”
“Smettila di pensare alle tue ossa e datti una mossa!” sbottò Usopp, per poi voltare la testa “Ragazzi, sbrigatevi!”

L’arrivo dell’intero branco era imminente e data l’incompletezza del ponte, il capitano e gli altri non ebbero altra scelta che affidarsi alle loro gambe e alla forza che risiedeva in esse, per riunirsi ai compagni. Un fuoco di copertura avrebbe fatto ben poco, vista la poca mobilità che il ponte offriva, e considerato l’enorme vuoto che stava sotto di loro, neppure le nuove tecniche del Re dei Cecchini e le scariche elettriche della Gatta Ladra sarebbero servite a qualcosa.

“Shion, aggrappati forte a me”, ordinò l’albina, stringendo saldamente la vita della bambina.
“Ok!”

La piccola ubbidì e si premurò anche di far lo stesso con Red, al sicuro fra le sue braccia.

“Andiamo!”

Dovevano affrettarsi, Cappello di Paglia e gli altri, ogni granello di tempo che perdevano, andava a vantaggio dei loro nemici. Il solo sentire quei ruggiti farsi sempre più incalzanti, spinse la bambina dai capelli dorati a chiudere gli occhi e ad affondare le dita nella maglia dell’amica con quanta più forza aveva, cercando di non far cadere Red. Aveva più paura di quelle bestie che del burrone stante sotto di lei: il solo percepire il balzo compiuto da Azu, unito alla gravità che rendeva il suo corpo ancora più pesante e al vento sferzante, le diede un insolito sollievo. Il sapere di starsi allontanando da quel posto, aiutò il suo fisico a resistere, a non cedere nuovamente a quella paura che si era divertita a strapazzarla. Era stata presa, sballottata e gettata in una fossa come fosse una bambola di pezzo di poco conto, ma era riuscita a cavarsela egregiamente, dando prova che, a forza di impegnarsi, si poteva raggiungere qualsiasi obiettivo: aveva stretto i denti, arrivando a impolverarsi e a sbucciarsi le ginocchia, - per non parlare poi di quel bel bernoccolo nascosto dalla frangia -, e tutto senza mai arrendersi. Il semplice fatto di aver reagito davanti alle avversità, anziché essere rimasta in quella fossa a piangere, era la prova concreta che lei, Shion Yokozomi, era una bambina molto più coraggiosa di quanto il suo grazioso aspetto desse a vedere.

Come le punte dei suoi piedi toccarono terra, riaprì gli occhi velocemente, balzando già dalle braccia di Azu per correre con le proprie gambe, ma il cogliere la figura di Lars, molto più distante dalla sua, la distolse da quell’intenzione.

“Lars?”

A differenza di tutti quanti loro, l’albino si era limitato a percorrere tre quarti del ponte costruito, per poi fermarsi a poco meno di dieci metri dallo scoglio sinistro di Rocky Headland. Dava a tutti quanti la schiena, rimanendo perfettamente immobile e con lo sguardo di ghiaccio puntato sui medi puntini neri che si stavano ammassando fra di loro, cercando di saltare sul ponte.

“Whaaa! Ma che vuole fare?!” strillò Chopper, mettendosi le zampine sulle guance.
“Aw! Il fratello non avrà mica intenzione di affrontarli tutti?”
“Si direbbe proprio di si”, fu la risposta pacata di Nico Robin.
“E’ fuori discussione!” esclamò la Gatta Ladra “Lars, vieni via da….!”
“Sta tranquilla, Nami, va tutto bene.”
“Cosa?”

Fra tutte le persone che potevano uscire con un’affermazione del genere, Shion era la più insospettabile. Forse perché era piccola, ingenua e incapace di misurare certe cose col giusto metro: eppure, nel sondare il suo visino dai lineamenti paffuti, la navigatrice, con sua grande sorpresa, non vi trovò alcuna traccia di paura o preoccupazione. La bambina era tranquilla, molto tranquilla, sicura di un qualcosa che lei e gli altri stavano sottovalutando per via della faccenda sempre più pericolosa, ma non le si poteva di certo fare una colpa: lei non conosceva la forza di Lars. Nessuno di loro ne era al corrente, nessuno di loro sapeva cosa il ragazzo fosse capace di fare, ma Shion si, per questo si era sentita in dovere di rassicurare i suoi nuovi amici.

“Non ti preoccupare”, le disse la piccina, per poi sorriderle “Anche se non lo da a vedere, Lars è fortissimo, il migliore di tutti.”
“Nessuno lo mette in dubbio, Shion, ma quei gorilla sono decisamente troppi anche per lui”, fece notare Usopp, con in mano l’inseparabile fionda Kabuto.
“Non essere ridicolo. A questo mondo c’è di peggio”, lo rimproverò Azu, incrociando le braccia.

Anche se non stette ad approfondire la sua opinione, l’albina fece intendere che era sufficiente credere alle parole di Shion per stare sereni.
Lei, insieme alla bambina, era la sola a conoscere quanto suo fratello potesse diventare temibile, se decideva di fare sul serio. Lei stessa aveva sperimentato quella verità sulla sua pelle, e il posare i suoi occhi perlacei sull’arma del parente, la sollecitò ad assottigliare lo sguardo. Non le era mai piaciuta quella spada: il filo della lama, l’impugnatura…..non c’era dettaglio di quell’arma che non le fosse mai andato a genio. La sensazione che le dava, ogni qualvolta la sua lama arrivasse a sfiorarle il collo, era veramente orribile. Era successo poche volte che Lars la utilizzasse in allenamento, ma lei, con la sua insistenza, lo aveva costretto a dimostrarle quella verità che lei credeva una semplice burla, finendo miseramente al tappeto e con gli arti tremanti. Oh, si, Saphira le faceva accapponare la pelle, ma non certo per l’eccitazione del pericolo. Non era una comune arma, questo lo aveva compreso fin da subito, ma il non coglierne l’anomalia, la spingeva a guardarla con sospetto, addirittura con timore, nonostante di tempo ne fosse passato molto.

Sembrava che fosse……viva. Emanava un alone gelido e vasto, percepibile soltanto quando Lars ne afferrava l’elsa. La lama iniziava a splendere di un flebile bagliore azzurro, inumidendosi e rendendo più appariscente la pallida scanalatura: vibrava e pulsava come se al suo interno ci fosse un cuore, inspessendosi a ogni battito.
Le dava i brividi vederla fuori dalla sua custodia. Nella sua bellezza, c’era qualcosa di gelidamente profondo, un sentimento che solo suo fratello poteva cogliere e far suo, vista la disinvoltura armoniosa con cui la maneggiava.
Cacciò in gola un groppo piuttosto grosso quando vide il più grande sfilare Saphira dalla sua custodia, affondando le unghie nelle proprie braccia: un brivido le corse lungo la schiena, accarezzandole la pelle con un sospiro gelido e fugace. Si odiò nel percepire i propri muscoli irrigidirsi, era qualcosa che le dava tremendamente fastidio, che le strappava la sicurezza dalla carne. 

E’ sveglia, pensò lei, nell’ammirare la collana di perle violacee che abbellivano l’impugnatura di quell’arma.

Avvertì il sibilo della sua lama come un canto melodioso e malinconico.
Intorno a loro, il silenzio era calato: pareva che lo stato d’animo della spada avesse contagiato i presenti, placando ogni loro dubbio e lasciando al di fuori l’ambiente circostante, compreso Rufy: a dispetto delle sue uscite meravigliate, il pirata da quattrocento milioni di Berry se ne stava tranquillamente con le braccia incrociate, il cappello ben calcato in testa, e la linea della bocca appena curvata all’ingiù. Non aveva bisogno di spiegazioni, schemi o altro per arrivare a capire che quello che stava a cui stava per assistere, non assomigliava a nulla di quanto già visto.




“Sono in parecchi…..bene.”

Se c’era una cosa che a Lars non piaceva, era il dover forzare la mano quando il nemico stava sotto di una somma numerica da lui ritenuta inferiore. Se possibile, cercava di terminare i combattimenti prima che giungessero a quel punto di non ritorno, poiché esso implicava l’entrata in scena del potere di Saphira: non era un’abilità da sfoggiare come il più costoso dei diamanti o un potere nato per enfatizzare la spacconeria di chi lo utilizzava, ma un onore da utilizzare con rispetto e saggezza. Dall’alto della sue grandi doti di spadaccino, Lars aveva sempre fatto leva sulle sue sole capacità, piuttosto che affidarsi completamente a quella forza mistica nascosta nel cuore della spada. Non la disprezzava, questo mai, ma Saphira era un’arma dal temperamento gentile e solenne, freddo e profondo allo stesso tempo, esattamente come lui, la cui calma era l’immagine perfetta di uno specchio d’acqua, illuminato dalla luce lunare.

Il solo impugnarla, lo rendeva sempre cosciente del perché fosse lì, del perché era lui, e non un altro, a impugnarla. Apriva quella parte di lui estranea al mondo, quello spicchio vissuto lontano da sua sorella e che lo aveva reso una persona degna di avere sulle proprie spalle un’ulteriore vita, ma sebbene fosse stata una sua scelta, questa non era rimasta esente da conseguenze alquanto sgradevoli. Aveva pagato un prezzo amaro ma, al contempo inevitabile, vista la sua “Natura”. Un prezzo che sorgeva con i ricordi assopiti, tentando di trascinarlo e inglobarlo in un’ombra buia e senza vie d’uscite.

“Non è stata una mossa intelligente quella di rapire Shion sotto i miei occhi, sapete?” domandò flebilmente ai quei gorilla, ormai prossimi a raggiungerlo “Proprio per niente….”

I vapori gelidi evaporanti da Saphira, uniti a quel suo bagliore azzurrognolo, trapassarono l’istinto animalesco degli animali, colpendoli in profondità e scuotendoli come solo un forte pericolo poteva fare. Nel loro piccolo, realizzarono di stare andando incontro a qualcosa contro cui non avrebbero avuto speranze, che se non fossero tornati subito indietro, sarebbe stata la fine. I loro ruggiti acuti si fecero scoordinati, così come i vari tentativi di frenare quella corsa frenetica: battendo le zampe, si ammassarono fra di loro, minando pericolosamente la stabilità del ponte incompleto, la cuì resistenza a quel peso, stava iniziando a cedere.

“Un po’ tardi per ripensamenti”, mormorò lui, sollevando la spada con il solo braccio sinistro.

Potevano provare a scappare quanto volevano: tanto, non avrebbe fatto alcuna differenza, perché la Regina dei Ghiacci li avrebbe comunque raggiunti.

Nocturne Chant: Ice Breath!

Con velocità incalcolabile, l’albino roteò su sé stesso, poggiando una gamba all’indietro, per poi compiere un secco mezzano dritto. Tagliando l’aria verticalmente, dalla spada venne a prodursi un attacco devastante, che imprigionò l’intero ponte e i gorilla stessi sotto una sorta di manto azzurro luminescente. Il bagliore prodotto, costrinse i pirati di Cappello di Paglia a ripararsi gli occhi con le braccia, ma quando questo si spense, tutti loro trovarono assolutamente impossibile non rimanere esterrefatti per quello che videro: esclusa quella minuscola porzione di ponte stante alle spalle di Lars, il resto era stato completamente rinchiuso da uno spessissimo strato di ghiaccio dalle sfumature bluastre, lo stesso che Rufy aveva visto la prima volta ad Hanbai. Freddo, con una superficie liscia e brillante, contornato da scaglie dorate per via dei raggi solari……….si, non c’erano dubbi.

Soltanto Saphira poteva creare e plasmare a suo piacimento tale elemento, e il solo ripeterselo, fece traballare la spavalda sicurezza di Azu.

“Visto? Ve lo avevo detto che Lars è fortissimo!” esclamò Shion.

Salvo il capitano, completamente euforico, il resto della ciurma era attonita.

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Capitolo 12
*** Convocazione a Villa Altaria. ***


Bentrovati, ragazzi! Spero abbiate passato bene le vacanze e che vi siate riempiti il pancino di tanto panettone! Ecco per voi il primo aggiornamento dell’anno! Ho solo una cosetta da dirvi prima di lasciarvi: al solito, i miei aggiornamenti non saranno regolari, ho deciso inoltre di fare due aggiornamenti al mese e basta, ma sempre di venerdì. Non posso fare altrimenti al momento. Grazie di tutto e buona lettura!

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Lussuosa, ricca, splendida.
Solo questi termini potevano avvicinarsi ad esprimere la bellezza dell’unica magione presente a Kulina, piccola isola avente il pregio dell’isolamento urbano.

Sir Maximilian Altaria non amava la folla, così come detestava il chiacchiericcio di quest’ultima, troppo fastidiosa per le sue delicate orecchie. Non aveva mai capito perché la plebaglia dovesse essere così indisciplinata e caotica: era già terribile non farsi contaminare dal loro sudiciume, ma sopportarne perfino le voci……oh, quanta pazienza bisognava avere.
Lui amava il silenzio, quello profondo e soave che si poteva trovare soltanto in luoghi remoti e inaccessibili a tutti, unica ragione che l’aveva spinto a comprare quell’isola senza neppure prendere in considerazione altre più grandi e prive di animali da sterminare. Una scelta che aveva, come dire, fatto emergere dei dissapori con San Charlos, ansioso di comprare lo stesso territorio, ma del tutto incapace di conquistarsi qualcosa che richiedesse un pizzico d'intelligenza. Un esito scontato per un uomo come Sir Maximilian Altaria, il cui cervello vantava non poca materia celebrale.

D’altro canto, l’unica cosa che aveva in comune con San Charlos, era il titolo di “Nobile Mondiale”, nient’altro.

Il collega dal moccio colante era riconducibile a un essere incapace di porre un limite ai suoi stessi capricci: comprava la merce che destava in lui un interesse immediato, per poi sbarazzarsene nel giro di una settimana, sbuffando con sonora insoddisfazione. Il suo era uno sperperare insensato, che si consumava regolarmente nelle aste umane dell’arcipelago Shabondy, eventi dove anche lui, ogni tanto, soleva presentarsi. Erano interessanti, con tanto di merce di primo ordine, ma non sempre rispondenti alle sue esigenze; l’avere dei gusti particolari lo differenziava dal resto degli aristocratici che, periodicamente, s'incontravano all’arcipelago. Shabondy era un parco dove quelli come loro potevano dettare legge alzando semplicemente l’indice, decidendo sulla vita degli altri come se i loro stessi proprietari non ne avessero il diritto. Era un gioco divertente, facile da imparare, ma lui non era disposto a perdervisi dentro: essere un Nobile Mondiale apriva le porte su molti fronti, su di un mondo che i comuni esseri umani non potevano neppure avere il lusso di immaginare, ma, in mezzo a tanto splendore, bisognava stare attenti a non cadere in quella che, lentamente, poteva diventare una mania inarrestabile.

Sir Maximilian Altaria era un collezionista, un’amante delle unicità, ma, a dispetto dei suoi colleghi, preferiva vedere cosa ci fosse al di fuori del solito territorio di caccia. Viveva per quella ristretta categoria che includeva persone, animali o oggetti che, nella loro ambiguità, sapevano suscitare in lui quello smanioso desiderio di possesso: autentiche rarità che gli avevano sempre garantito un modesto successo, quando decideva di invitare qualche ospite nella sua magione.
Perché affannarsi per l’acquisto di un essere umano in buono stato, quando si poteva ottenere molto di più semplicemente cercando ? Questo era il punto intorno a cui roteavano le concezioni di Sir Maximilian, unico e solo capo della casata degli Altaria.
Non si mischiava con gli altri suoi colleghi, non soddisfaceva la propria ingordigia nella quantità: lui amava definirsi “Fine”, per il semplice fatto che i suoi gusti, in fatto di scelta, erano molto più eleganti e sobri degli altri. La pazienza era la madre della sua fortuna: lui sapeva valutare prima di agire, non si riempiva le tasche di superfluità, faceva suo soltanto ciò che lo poteva soddisfare completamente.



Camminando nel bel mezzo di quel lungo corridoio, adornato di tutta una serie di oggetti esotici e distinti, l’Ammiraglio di Divisione, Tetsu Kinzoku, lanciò diverse occhiate all’ambiente circostante: come ogni altra ala della villa, quel passaggio era di una sontuosità ammirevole, pieno di luce, valorizzante l’ocra, l’oro, il rosso e il color crema, usati per dipingere il soffitto a cupola e il muro sinistro, riempito da piccoli tesori argentati e pittoreschi, portati lì da posti lontanissimi. Il lato destro, decorato da una serie di colonne di marmo cesellate, dava sul giardino interno, un modesto spazio floreale dove il Nobile Mondiale soleva passare alcuni dei suoi pomeriggi, accompagnato dal suono melodioso dell’arpa che la sua personale servitrice creava e dal lento scrosciare dell’acqua proveniente dalla fontana costruita al centro.

Il buon gusto non gli manca, pensò l’uomo, nel concentrarsi sul flebile eco che i suoi passi producevano.

Sebbene non fosse la prima volta che si recava a Villa Altaria, l’ufficiale non poté fare a meno di spendere un piccolo giudizio su quell’edificio tanto ricco: l’esoticità che esso emanava, era impossibile da ignorare, e Testsu Kinzoku non era il genere di persona capace di far scivolare via qualcosa che lui stesso trovava affascinante. Lui amava l’estetica, non aveva mai mancato di ribadire a se stesso quanto un minimo di decoro fosse indispensabile per non sfigurare. Tendeva a essere puntiglioso nel ricercare il giusto equilibrio fra le cose, in ogni piccolezza possibile, ed era grato che almeno il Nobile Mondiale che stava cercando di soddisfare, fosse una creatura avente quella sua stessa caratteristica: la sua decisione di smantellare Villa Altaria - originariamente un palazzo appartenuto ad un ricco sultano di un terra ormai dimenticata -  e di ricostruirla mattone su mattone su quell’isola tropicale, era la prova a cui lui si rifaceva sempre per confermare più e più volte quella consapevolezza.

Purtroppo, il ricordare quel dettaglio, fece si che la sua mente cominciasse a focalizzarsi sul perché si era dovuto recare in fretta e furia al cospetto dell’uomo: nemmeno l’ammirare l’interno di quella magione e perdervisi in un discorso contemplante lo avrebbe distolto da quel che temeva. Corrucciò la fronte per quanto lo attendeva, come se una fitta di natura misteriosa gli avesse appena attraversato la scatola cranica. Maximilian Altaria era, diversamente dagli altri Nobili Mondiali, una persona dal temperamento calmo e paziente, una qualità su cui lui aveva giocato le sue carte fin dall’inizio. Dall’alto della sua benevolenza, quell’uomo poteva conferire onore e prestigio col solo battito delle ciglia, a patto che gli venisse dato quel che desiderava, senza troppi tentennamenti e intoppi, e lui, sfortunatamente, di quei dannati imprevisti, ne aveva già avuti.
L’aver ricevuto quella chiamata improvvisa, dove la voce del cliente esigeva di vederlo senza alcuna scusante, lo aveva spinto a prendere un profondo respiro e rispondere alla chiamata. Sistemarsi al meglio la divisa e sfoggiare il migliore dei suoi mantelli bianchi non lo avrebbe esentato dalle parole che stavano già rimbombando nella sua testa, ma confidava nel fatto che la sua capacità oratoria, unita all’astuzia di Camiria, gli avrebbe fatto guadagnare un altro po’ di tempo.



Come le ampie porte intarsiate della sala principale di Villa Altaria si spalancarono, Tetsu Kinzoku si ritrovò al cospetto di Maximilian Altaria.
Sebbene la stanza fosse grande e l’ufficiale riuscisse a distinguere soltanto la forma del corpo del Nobile Mondiale, era come se il viso di quest’ultimo gli fosse stato a meno di un centimetro di distanza. Una visione tanto riluttante da incrinare lo sprezzante portamento che lo contraddistingueva dai suoi colleghi.

Ad ogni passo che compiva, percepiva lo sguardo dell’aristocratico pesare sul suo corpo, ma nonostante ciò, non abbassò la testa nemmeno di mezzo millimetro: non era così vigliacco da farsi intimorire da una persona, sebbene questa disponesse del potere di porre fine alla sua vita come meglio gli aggradava. Al momento, il suo titolo, le sue doti, tutto ciò che lo rappresentava, valeva meno di zero. I numerosi drappelli di seta colorata che pendevano dal soffitto e che creavano, con i loro intrecci, piccoli arcobaleni, avevano più probabilità di ricevere giudizi positivi dal padrone di casa, così come il paesaggio, il pavimento lucido e i meravigliosi tappeti persiani sopra cui aveva appena messo piede.
Lui non era che un elemento contrastante di passaggio, pronto a giocare le proprie carte e a puntare tutto si di esse.

“Ben arrivato, Tetsu. Ti stavo aspettando”, lo salutò l’uomo, alzando il braccio in segno di benvenuto.

Come ebbe attraversato tutta la sala, l’ufficiale della Marina s'inchinò e abbassò il capo in avanti, mostrando la dovuta umiltà, per poi rimettersi in piedi e guardare il padrone di casa. Maximilian Altaria stava davanti a lui, comodamente semi-sdraiato su una quantità indescrivibile di soffici cuscini e in compagnia delle sue più avvenenti danzatrici, indossanti tessuti colorati e quasi trasparenti. Grasso, completamente calvo, e con la pelle ruvida come la carta vetrata, fissava con i suoi occhietti color azzurro sporco il nuovo arrivato, mettendo in mostra il doppio mento molliccio che debordava dalla larga tunica decorata. Il naso era gobbo, appuntito, orribile come la linea della bocca, incurvata all’ingiù come fosse annoiata.

Una visione disgustosa, ma a cui Tetsu Kinzoku doveva portare il dovuto rispetto.

“Vostra eminenza, è un piacere vederla”, affermò quest’ultimo “Sono venuto il prima possibile.”

Il Nobile Mondiale mugugnò qualcosa, ma senza parlare concretamente. Raddrizzando il collo, alzò le braccia flaccide dai cuscini, per poi battere le mani grassocce due volte: immediatamente, le ancelle sedute alla base della pila dei cuscini si alzarono in piedi, disponendosi davanti ad essa, per poi iniziare a ballare armoniosamente, accompagnate da una musica in sottofondo. Dietro le tende rosse che coprivano la parete di sinistra, si udì un leggero fruscio, seguito dalla comparsa di cinque domestici, che, velocemente, misero a disposizione del padrone di casa tre vassoi pieni delle sue pietanze preferite; come il tutto fu disposto, questi tornarono da dove erano venuti, senza emettere un singolo fiato per paura di essere puniti.

Cogliendo il cenno sbrigativo che questo fece con la mano, l’Ammiraglio di Divisione si accomodò sui cuscini, ma evitando di assaggiare quei datteri dall’aspetto alquanto dolciastro, che spiccavano per via del velo di zucchero che li ricopriva. Simili cibarie non gli erano mai andate giù.

“Non sono per niente soddisfatto di come stai gestendo la situazione, Tetsu”, cominciò Sir Maximilian Altaria, prendendo dal vassoio argentato uno dei datteri portati “Ci stai mettendo più tempo del previsto e la mia pazienza non è illimitata.”

Sebbene il suo tono fosse calmo e gli occhi puntati sulle danzatrici, le cui movenze lente e sensuali emanavano un fascino ipnotico, era innegabile che la contrarietà del Nobile Mondiale fosse tutta rivolta a Tetsu Kinzoku, conscio che, provare a intortare quel vecchio, sarebbe stata un’azione sconsiderata e suicida.

“Lo so bene, eminenza, e ha tutte le ragioni per farmelo notare, ma deve riconoscere il fatto che, fino a questo momento, non l’ho mai delusa”, disse egli.
“Infatti è l’unica ragione per cui non sei ancora stato spedito a Impel Down”, replicò con nonchalance l’uomo, guardandolo dritto in faccia “Sei l’unico che meriti le mie attenzioni, mi hai sempre soddisfatto egregiamente e sarebbe un peccato se tu fallissi proprio adesso.”

L’Ammiraglio di Divisione capì subito dove il suo cliente voleva andare a parare e tacque. Accompagnato dai movimenti delle fanciulle e da quella musica leggera e melodiosa che si era propagata per tutta la sala, la mente dell’uomo volò a quella meta che da tempo ambiva e toccava soltanto con il pensiero: la promozione.
Nonostante i suoi meriti, i suoi successi, i superiori non gli avevano mai riconosciuto i requisiti adatti per avanzare nella loro complessa e intricata scala gerarchica; svariate, erano state le volte in cui aveva proposto la sua candidatura, ma nessuna di quelle occasioni gli aveva concesso quello che più sperava, il che lo aveva visto fremere di rabbia diverse volte. Da troppi anni si stava dando da fare perché gli fosse dato il giusto compenso per il lavoro svolto e lui, in tutta franchezza, era stanco di aspettare che qualcuno si decidesse a valutare le sue qualità; se non avesse preso la situazione fra le mani, chissà quando avrebbe intravisto il concretizzarsi del proprio sogno. Lasciare fare ai piani alti equivaleva a rimanere un Ammiraglio di Divisione per tutta la vita e una simile prospettiva non rientrava nei suoi piani futuri, per niente: meritava quella promozione più di chiunque altro, la pretendeva a ogni costo, e Sir Maximilian Altaria lo aveva capito sin dal loro primo incontro.

Un uomo ambizioso era disposto a tutto pur di ottenere ciò che voleva e lui, in qualità di Nobile Mondiale, aveva il potere di scavalcare la giustizia e qualunque altra forma di autorità inferiore alla sua. Poteva realizzare quel che più aggradava a Tetsu Kinzoku, a patto che lui esaudisse alcune sue esigenze. L’ufficiale della Marina, ora in sua compagnia, era un uomo dalle mille risorse, che si era meritato la sua fiducia, dunque un desiderio da esaudire, ma perché lui decidesse di aprire quella porta che il marine sognava di spalancare, doveva soltanto portargli quel che al momento occupava il centro dei suoi pensieri.

“Ti piacciono le mie danzatrici?” gli domandò il Nobile Mondiale, ad un certo punto della conversazione.
“Sono meravigliose”, rispose sinceramente l’ufficiale.

Non aveva bisogno di mentire: quelle giovani ragazze erano una più bella dell’altra, con pelle d’avorio, occhi magnetici e fisici snelli. Degli autentici gioielli che si muovevano con grazia inusuale, accarezzando l’aria e facendo ondeggiare i propri corpi con movimenti delicati e sinuosi.

“Sono tutte sorelle, originarie dei Deserti Rossi”, riprese  il più anziano, addentando il dattero preso in precedenza.
“Una terra molto lontana, da quel che so.”
“Precisamente, come la Montagna punta di Cielo, terra originaria delle uniche due tigri bianche esistenti al mondo, di cui sono il proprietario. Ricreare su quest’isola una porzione del loro habitat è stato indispensabile per la loro sopravivenza e lo stesso discorso vale per le mie delicate rose verdi: le Viridiflora sono estremamente rare e difficili da coltivare…..e questi sono solo alcuni esempi dei miei possedimenti.”

Benché fosse attento a ogni singola parola detta, Tetsu Kinzoku non capì dove il padrone di casa volesse arrivare. Non gli aveva chiesto un opinione sulle sue danzatrici per puro caso, Sir Maximilian Altaria non era un uomo che si dilettava dal balzare da un argomento all’altro, lasciando il precedente inconcluso. Da un angolo remoto della sua coscienza, l’ufficiale della Marina apprese di essere appena finito su di un terreno fortemente instabile, condizionato dall’umore e dalla decisioni di quel Nobile Mondiale, la cui bocca era impiastricciata di zucchero.

“Sai perché ti ho detto questo, Tetsu?” domandò poi quest’ultimo, voltandosi verso di lui, con l’ennesimo dattero dolciastro ben stretto fra le dita salsicciose.

Il suddetto era incerto se rispondere affermativamente o meno, ma il brivido che fece vibrare la sua spina dorsale, lo incitò a non deglutire con troppa rumorosità. Normalmente, il suo autocontrollo avrebbe congelato ogni forma di paura o esitazione, ma in quel preciso istante, Tetsu Kinzoku vide perfettamente la sua vita appesa ad un filo sottilissimo. Un filo che il Nobile Mondiale reggeva fra le sue dita tozze e grasse, insieme a tutto quello per cui lui aveva e stava lavorando faticosamente.

“Io amo godere di quel che questo mondo ci offre, ma amo ancor di più il possedere qualcosa che nessun’altro potrà mai avere. Non provo interesse nel riempire la mia villa di roba inutile e schiavi inetti: ogni mia proprietà proviene da un luogo diverso, riveste un ruolo preciso e non compie null’altro al di fuori di esso. Quello che manca a tipi come San Charlos è la selettività, il saper scegliere con cura i propri tesori. Non credi anche tu, Tetsu?”
“Assolutamente”, asserì l’ufficiale della Marina.

Sir Maximilian Altaria mosse il capoccione con fare compiaciuto, per poi riprendere il discorso interrotto.

“Le collezioni sono molto più che un futile hobby”, affermò “Sono uno stile di vita, un marchio per noi Nobili Mondiali. Io non voglio essere paragonato agli altri o possedere qualcosa che anche loro possono ottenere, io voglio rarità, preziosità che siano uniche  nel loro genere. Per questo motivo…”, e assottigliò quei suoi piccoli occhietti a palla “Esigo che tu mi porti al più presto quella ragazza di nome Mya: un’umana capace di trasformarsi in un drago deve assolutamente fare parte della mia collezione.”

L’irremovibilità con cui pronunciò quelle parole, sottolineò per l’ennesima volta, quanto grandi fossero le sue intenzioni  nel volere ciò che bramava. Da tempo la sua collezione gli appariva povera e vuota quanto l’insoddisfazione insediatasi nel suo orgoglio: le passeggiate nel verde lussureggiante di Kulina non bastavano più, così come non bastavano più le note armoniose dell’arpa che la sua suonatrice componeva per lui, gli animali in suo possesso e i piatti cucinati dai cuochi. Tutto ciò conservava il suo fascino, un valido motivo per non liberarsene, ma era giunto il momento che Maximilian Altaria aggiungesse qualche novità alla sua collezione: voleva qualcosa di speciale, di grandioso, qualcosa che neppure lui avrebbe osato immaginare. Un’esistenza pressoché indicibile, in poche parole. Aveva cercato, mandato i suoi esploratori a raccogliere informazioni in ogni parte del mondo, e quando uno di questi aveva fatto ritorno con la notizia che voleva sentirsi dire, aveva spalancato a tal punto la bocca da mettere in risalto i diversi strati del doppio mento. L’eccitazione assopita, era tornata a sfregargli le mani, istigando il suo egoismo a pretendere quella preziosità con immediatezza irreale.

Una ragazza avente il potere di trasformarsi in un drago. Un’abilità dovuta ad un frutto del diavolo, forse al raro Rogia modello Drago-Drago di cui aveva letto molti anni addietro, ma pur sempre rientrante nella categoria dentro cui lui sguazzava felicemente.

Il solo immaginare le scaglie nere e lucenti di quella creatura e le zanne scintillanti quanto i diamanti, lo fece fremere intensamente; no, non avrebbe sopportato l’idea di vedersi soffiare così, sotto i propri occhi, quella che poteva essere la gemma più splendente della sua collezione, specie da quel viscido e piagnucolante omino quale era San Charlos. La giovane Mya era destinata a lui, così come quel potere che la costringeva a rimanere isolata dal resto dell’umanità.

A domare quel suo lato selvaggio, che sfuggiva addirittura al suo controllo, ci avrebbe pensato lui stesso.

Tetsu Kinzoku, nel mantenere stabile il contatto visivo con quegli occhi acquosi, comprese di avere ancora del tempo per soddisfare la richiesta del suo cliente: non glielo aveva detto esplicitamente, ma egli sapeva bene che il Nobile Mondiale, per quanto potente che fosse, non avrebbe trovato nessuno altro così maledettamente capace e disposto a infrangere le regole per lui. D’altro canto, neppure egli poteva permettersi il lusso di compiere chissà quale azione libera: per quel successo sopra cui aveva sognato a lungo, doveva tenere la testa bassa e mostrarsi come l’unico essere in grado di compiacere Maximilian Altaria, uno dei Nobili Mondiali più potenti che fossero in circolazione.
Ognuno aveva bisogno dell’altro per ottenere il proprio scopo, ragione per la quale, la segretezza su quel loro tacito accordo era e doveva rimanere assolutamente intoccabile. Purtroppo, l’unico fattore che poneva il Nobile Mondiale su di un gradino nettamente più alto del suo, era il potere di privarlo di ogni cosa che lo identificasse come un Ammiraglio di Divisione: se falliva, era morto.

“Basta così”, gracchiò l’uomo, battendo le mani.

Le danzatrici si fermarono immediatamente, inchinandosi in segno di rispetto e sparendo dalla vista del loro padrone, sazio di quei datteri che subito vennero portati via da un servitore rimasto nascosto per tutto il tempo.

L’ufficiale della Marina capì che la sua visita a Villa Altaria era giunta al termine. Una notizia che vide il suo corpo inebriarsi di un grosso senso di sollievo. Con impeccabile eleganza, si alzò in piedi, inchinandosi al cospetto del Nobile Mondiale e avviandosi all’uscita col mantello svolazzante: quand’egli dava un ordine, era bene obbedire, giacché contrariarlo, poteva costare addirittura la vita. Dall’alto della sua posizione, Tetsu Kinzoku non poteva permettersi di scherzare, non con un uomo di quel calibro, quindi, non gli restava altro da fare che compiacerlo, ma senza risultare sfacciatamente ridicolo. Sir Maximilian Altaria non era affatto uno stupido e quando decideva di imprimere nella testa dei propri servitori una lezione, usava parole semplici, ma cariche di una verità così nitida da fare veramente paura.

“Tetsu…”, lo chiamò quest’ultimo, mentre egli stava per varcare la soglia della stanza “Voglio quella ragazza e la voglio al più presto. Deludimi e ne pagherai le conseguenze.”



“Allora, signor Ammiraglio di Divisione, com’è andata col tuo cliente?”

Era giunto nella sua bella cabina da pochi minuti, poiché l’imbarcarsi lo aveva visto dare specifiche disposizioni ai suoi subordinati; una partenza rapida e indolore, ma comunque bisognosa delle giuste indicazioni.

Se fosse stato possibile, avrebbe evitato certe formalità, ma Tetsu Kinzoku era un uomo che amava troppo l’apparire, in quanto modello e superiore degli uomini che ora stavano portando la sua nave a Marineford; salvo casi di assoluta emergenza, non voleva essere disturbato per nessuna ragione al mondo. Il chiudersi la porta e il liberarsi del regale mantello bianco della propria uniforme lo aveva visto passarsi una mano sul viso stravolto, riflesso dal vetro dello specchio: i suoi capelli nero grigiastri, solitamente tirati indietro, saltellavano da tutte le parti, seguiti dalla barbetta avente lo stesso colore, stropicciata quanto la sua faccia, provata per l’età che avanzava inesorabilmente.
Guardando gli zigomi sporgenti, il naso aquilino e quelle sottili pieghe che scavano le sue guance disgustosamente ceree, Tetsu Kinzoku sapeva di aver perso la sua rinomata impeccabilità, a causa di quel suo frenetico da fare. Lo sciacquarsi la faccia nella bacinella che teneva sulla cassapanca, insieme allo specchio e agli asciugamani, gli era servito per lavare via più di quanto pensasse di avere: necessitava di un attimo di tregua, lo pretendeva.

Le tre ore che lo separavano dal Quartier Generale gli sarebbero servite per far riposare le proprie membra scombussolate e per bere quel buon bicchiere di vino che era stato costretto a lasciare in disparte poco prima di arrivare a Kulina. Era sicuro che il conforto della propria cabina, unito alle fragranze del liquore scarlatto, lo avrebbe aiutato a fare il quadro della situazione, a eccellere come non mai, senza inceppamenti o errori. Aveva pensato questo, poco prima di percepire una sonora vibrazione dalla tasca dei pantaloni e sentire la voce della cacciatrice di pirati accarezzargli l’udito.

“Non dovresti chiamarmi. Lo sai, no?” le domandò retoricamente lui, tenendo la voce bassa.
“Certo che si. Non sia mai che qualcuno venga a sapere di noi due o della tua seconda identità, caro il mio signor Incappucciato”, sussurrò maliziosamente lei “Ma ero curiosa di sapere l’esito del tuo colloquio privato. In fondo, la faccenda riguarda pure me.”

Non le si poteva dare torto e l’uomo ne era consapevole, tanto che non replicò davanti alla sagace risposta di lei. L’anticipare le sue intenzioni era un’abilità che Camiria sfruttava spesso quando aveva a che fare con lui; le permetteva di non perdersi in inutili chiacchiere e discorsi stupidi, una maniera comoda e pratica per arrivare subito al nocciolo della questione. La corvina era ben conscia del fatto che chiamare il suo complice, in momenti come quelli, poteva risultare compromettente per entrambi, ma il suo conoscerne le abitudini l’aveva spinta, intelligentemente, a chiamare nell’unico istante in cui sapeva di trovarlo completamente solo, in balia di qualche pensiero strategico.

Comunque fossero andate le cose, non sarebbe trascorso molto tempo prima che lui si facesse vivo, ma lei aveva deciso di anticipare i tempi, giusto per portarsi avanti con lo sviluppo del piano. Una scelta che, non venne del tutto disprezzata dall’uomo, desideroso anch’egli di porle alcune domande.

“Ebbene? Qual è il verdetto?” incalzò lei, ridacchiando sommessamente “Ti ha sgridato?”
“No. Mi ha solo fatto ricordare quanto la mia vita dipenda dal successo di questa missione”, rispose lui tranquillamente, sedendosi sulla sua poltrona “Nulla che già non sapessi.”
“Immagino, ma dal tuo tono seccato di prima, sarei tentata a dire che hai avuto paura”, azzardò la collega malignamente.

La stretta attorno al bicchiere di vino si accentuò di colpo, portandolo a deformare la linea della bocca in un movimento involontario.
Camiria seppe di aver fatto centro, perché il silenzio creatosi, seppur poco, fu la prova che le diede conferma di quanto supposto: anche il grande Ammiraglio di Divisione, Tetsu Kinzoku, conosciuto per la sua incrollabile compostezza, conosceva l’inquietudine e il dubbio. Le sarebbe piaciuto punzecchiarlo con ancor più crudeltà, per tastare la profondità di tali sentimenti, ma preferì fermarsi lì, giacché l’emozione provata dall’uomo non poteva essere vista come una colpa: soddisfare un Nobile Mondiale comportava mettere sul tavolo delle trattative la propria vita e, in tutta franchezza, neppure lei avrebbe osato tanto. Ma Tetsu Kinzoku era un uomo stanco di aspettare che la fortuna girasse dalla sua e, vista la sua bravura nel gestire più affari contemporaneamente, non aveva trovato nulla di così clamoroso nel compiacere nuovamente quel cliente che, se fatto contento, gli avrebbe dato tutto quello che voleva.

La sua bravura nel condurre quella doppia vita era tanto scorretta quanto ammirevole: nel gestire loschi traffici, favori, e altri lavoretti che garantivano agli aristocratici un tenore di vita splendente come il loro titolo, adempiva al suo dovere di ufficiale della Marina con impeccabile perfezione. Una simile condotta, se scoperta, gli sarebbe stata fatale, ma lui non era il tipo di persona che faceva tutto questo per puro divertimento o perché sicuro di non essere scoperto: mirava alla potere per poter esercitare con ancor più fermezza quella giustizia che lui aveva deciso di imporre a tutti coloro che si sarebbero opposti al suo volere. Al diavolo il duro lavoro e la lealtà! Nessuno si sbatteva sul serio per ottenere quello che gli spettava, erano i più furbi ad eccellere e a farsi largo. I tempi erano cambiati, la forza era la sola leva che muovesse quanto era stato costruito sulle isole; non c’era morbidezza o flessibilità, solo i più forti, i più astuti, potevano prevalere sugli altri, e il medesimo discorso valeva anche per la Marina, la cui gerarchia non lasciava posto a elementi incapaci o privi delle doti richieste. Certo, la giustizia doveva differenziarsi come modello per eccellenza di virtù e correttezza, ma Tetsu Kinzoku, come molti prima di lui, ne aveva scoperto un’utilità a dir poco subdola. Che fossero contadini, marine o pirati, gli uomini erano tutti uguali, mossi da desideri avente la stessa natura, la stessa intensità e lo stesso desiderio di concretizzazione.

C’era del marcio fra le immacolate mura del Governo Mondiale, del marcio che garantiva la sicurezza di un numero considerevole di segreti scomodi alle Alte Sfere e che permetteva a uomini di dubbiosa moralità di impugnare un titolo con disgustosa facilità. I vertici agivano in un determinato modo solo per poter controllare con polso rigido quanto stava sotto ai loro piedi, ma non era nulla che la gente comune già non sapesse. Lui stesso era diventato marine per rivestire una comoda e pratica posizione di privilegio, senza che nessuno venisse a dargli rogne a suon di cannonate. La sola e unica differenza che vi era fra lui, uomo dall’immacolata divisa, e dai pirati, stava nel fatto che la giustizia non aveva bisogno di scusanti, se ogni tanto peccava di comportamenti poco consoni al suo nome. Ogni mezzo era lecito, in quella corsa per la tutela del bene assoluto.

E, in proposito, lui aveva già messo gli occhi sul mezzo che lo avrebbe elevato al di sopra di tutti….

La gloria che Sir Maximilian Altaria gli avrebbe conferito, sarebbe stata piena soltanto quando avrebbe posto le mani su di quell'oggetto che aveva richiesto numerose ricerche e accertamenti, la cui stessa esistenza era qualcosa di ambito, ma, allo stesso tempo, di temuto. Sì, si sarebbe servito proprio di quella carta nascosta per realizzare tutte le sue ambizioni, perché gli avrebbe conferito un potere capace di scombussolare gli stessi assi governativi. Da che mondo è mondo, tutto si riconduceva al potere: che un ideale fosse nobile o meno, alla fin fine, il potere lo trasformava in qualcosa di così incredibilmente grande, da perdere ogni moralità. E lui lo voleva, lo voleva con tutto sé stesso.

“Non tirare troppo la corda, Camiria”, l’avvisò solennemente, allentando la presa sul bicchiere “Potresti pentirtene.”
“E tu non minacciarmi”, replicò lei “Non penso sia necessario ripeterti che le promesse che faccio, mantengo.”

Il solo rammentarlo, fece di Tetsu Kinzoku un uomo ancor più snervato da quella giornata, e in quel preciso momento, di ulteriore tensione, lui non ne voleva. Lanciò un’occhiata alla bottiglia di vino rosso che troneggiava sul tavolino vicino a lui, guardandola come se contenesse la scappatoia da tutti i suoi attuali problemi: poteva diventarlo, se avesse deciso di trangugiarne l’intero contenuto, ma riflettendoci con scrupolosa lucidità, preferì rifiutare tale possibilità, giacché non voleva ritrovarsi la mano infilzata da schegge di vetro. Un rumore del genere avrebbe attirato qualche suo subordinato, senza contare poi lo spreco di vino e l’ingrossamento della sua tempia pulsante.

“So bene di cosa sei capace, per questo ti ho chiesto di aiutarmi”, le disse poi, appoggiando la nuca contro lo schienale della poltrona “Ma, sai, sarebbe un vero peccato se una cacciatrice esperta come te, facesse una fine indecorosa.”
“La tua premura mi colpisce dritta al cuore”, sospirò lei, con finta commozione.
“Cerco solo di essere gentile con la mia più stretta e amata collaboratrice”, si giustificò lui, sorseggiando un po’ di vino “Piuttosto, come procede dalle tue parti?” continuò poi, cambiando argomento.
“Tutto bene, i preparativi sono quasi ultimati”, rispose lei, arricciandosi una ciocca corvina con l’indice “In questo preciso istante, mi trovo sull’isola su cui dovrebbero approdare i nostri cari pirati. E’ un posto ben fortificato, con un muro circolare a difendere la cittadella, ma fattibile.”
Perfetto per la mia entrata in scena, pensò subito, con nota eccitata.

Dei semplici mattoni non potevano impedirle di oltrepassare il muro con la sua speciale abilità, figurarsi le guardie! Aveva perso il conto di quante volte fosse passata lì sotto e loro manco l’avevano vista.

Doveva star camminando lungo il presunto muro difensivo da lei citato, perché il picchiettare dei suoi tacchi a spillo era continuo e ovattato. Il signor Incappucciato non aveva idea di quale fosse il piano ideato dalla collega, né lo stratagemma con cui avrebbe costretto Cappello di Paglia a seguirla come un cagnolino obbediente, ma Camiria non era una donna che andava interrogata: lei adocchiava le sue prede, le marchiava, per poi porle al centro dei suoi pensieri e sfinirli lentamente, passo dopo passo. Agiva così, quella donna avvolta da un mistero intricato quanto un labirinto, con la stessa pazienza di un lupo in attesa dell’unico pasto che vedrà per il resto della vita.
Capirla, era sia facile che difficile, lasciava scoperto l’ovvio, ma impedendo che il restante venisse illuminato dalla luce del sole. Il suo cuore non vibrava per la trepidazione, le sue mani non sudavano per l’accrescersi della tensione…

Il solo fatto di essere capace di aspettare per intere settimane il proprio obbiettivo senza battere ciglio, spiegava una delle mille e passa ragioni per la quale era una delle cacciatrici di pirati più abili e astute che ci fossero sulla piazza.

“Abbia fiducia in me, signor Incappucciato”, gli disse lei, volgendo gli occhi verso il cielo “Presto avremo di che essere felici.”


 
http://ciril09.deviantart.com/gallery/31659168#/d41mb8t      Camiria.

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Capitolo 13
*** Di litigate apocalittiche e notizie tralasciate. ***


Buonasera a tutti. Fra stanchezza e scarsità di argomenti di cui discutere, vi lascio al capitolo, sperando che possa piacere a chi mi segue. Un abbraccio a tutti quanti ^^.



Silenzio.
E’ qualcosa che si ama e si odia allo stesso tempo.

Una stranezza della vita, che si sogna di avere quando non c’è e che si vuole scacciare quando si impone con troppa prepotenza. Sulla Thousand Sunny, era qualcosa di veramente inconcepibile, di inesistente, a cui perfino Nami aveva rinunciato, vista l’impossibilità di reprimere definitivamente le orchestre sinfoniche di Rufy o le genialate che la vedevano costretta a fare entrare in scena i suoi micidiali cazzotti: quando il capitano decideva di fare baraonda, che si trattasse del semplice pescare o di giocare con Chopper, Usopp e Brook, lo faceva sempre in grande stile, spingendola a sbattere la porta del suo studio e a tirare fuori il demonio che scaricava la propria rabbia su quelle teste bacate, che non avevano altro di meglio da fare che rendere ancor più faticoso il suo studiare. Una situazione esasperante, troppo perché provasse a cimentarsi in qualcosa che non fosse l’abituarsi a quel baccano: dopo immani tentativi andati a vuoto, la navigatrice si era rassegnata a cambiare la ciclicità delle giornate. Ormai, era perfettamente in grado di immergersi nel suo lavoro senza che la stupidaggine di qualcuno di sua conoscenza arrivasse a infastidirla, così come lo erano Nico Robin, con le sue acculturate letture, Franky, con i suoi lavori in officina, e Sanji, le cui mani erano sempre indaffarate in cucina.
 
L’andazzo quotidiano che si respirava sulla nave era un concentrato di dinamicità e allegria che contagiava chiunque decidesse di salirci, impossibile da ignorare e cancellare. Conviverci tutti i santi giorni, forse, agli occhi dei comuni mortali, poteva essere sfiancante e insopportabile, ma per pirati come loro, l’essere allegri davanti a ogni avversità era un modo per non sentirne il peso. Ovviamente, vi erano giornate dove il calore del sole era tanto piacevole da indurli a schiacciare un pisolino sul tappeto d’erba fresca o dove il pescare, diveniva un’attività più tranquilla, fintanto che all’amo non abboccavano mostri marini. Dei piacevoli attimi di quiete, per farla breve.
 
“C’è calma, oggi”, notò Nico Robin.
“Già”, asserì Nami, senza distogliere lo sguardo dalla cartina che stava disegnando.
“Forse un po’ troppa, visti i nostri standard”, aggiunse la donna.
“Vero anche questo, ma non ci vedo niente di strano: Rufy  sta pescando, Chopper è nel suo studio, Zoro e Sanji non si stanno scannando ….qualunque cosa stiano facendo gli altri, possono procedere tranquillamente, a patto che non facciano saltare in aria la nave.”
 
A quella risposta, la Bambina Diabolica ridacchiò sommessamente: la Gatta Ladra stava lavorando così scrupolosamente alla sua ultima cartina, che neppure i lamenti del capitano l’avrebbero potuta distrarre. Non negava che fosse alquanto insolito navigare con quel genere di calma piatta: insomma, un Rufy inattivo o interessato ad argomenti che non fossero il cibo o l’esplorazione di una nuova isola era qualcosa di tanto clamoroso, quanto il vedere lo spadaccino e il cuoco andare d’amore e d’accordo, ma proprio perché era cosciente di ciò, che la bella rossa non si era stupita di quella quiete. Non sarebbe durata ancora a lungo, presto sarebbe arrivato qualcosa a romperla e lei, in fatto di previsioni, non sbagliava mai. L’unica ragione per la quale non si stava preparando psicologicamente all’evento, era l’esperienza acquisita lungo le rotte, unita alla lezione più importante di tutte: in mare aperto, tutto è possibile, specie se si è in compagnia di un capitano scapestrato come Monkey D. Rufy.
Preferì sorvolare sulle mille e passa idee strampalate che quest’ultimo poteva tirare fuori, poiché la mente del ragazzo, tendeva a sfuggire alla sua stessa comprensione, ma nel mentre stava per apporre le ultime modifiche alla sua opera, ecco che arrivò il famoso “Punto di rottura”………
 
“ADESSO BASTA! STAVOLTA TI AMMAZZO, FOTTUTA SCIMMIA DEL CAVOLO!!!”
 
Come quell’urlo esplose, i gabbiani appollaiati sul tetto della vedetta volarono via, l’acqua tremò, e si udì il doloroso “Ahia!” di Usopp, che, per lo spavento, si era schiacciato un dito col martello. In seguito a dei passi frenetici, la porta che conduceva agli alloggi venne sbattuta con violenza, ma riuscendo miracolosamente a non staccarsi dai cardini che la univano al muro: Red schizzò fuori alla velocità della luce, compiendo un balzo enorme per evitare il placcaggio di un’Azu indemoniata, rincorsa a sua volta da una disperata Shion, che stava tentando di salvare l’animale prima che l’albina potesse acchiapparlo. Cosa fosse successo precisamente, nessuno dei presenti poté dirlo, ma a giudicare dall'odore di bruciato proveniente dagli abiti della ragazza - anneriti e pieni di buchi -, fu facile dedurre che questa si fosse accapigliata, per l'ennesima volta, con quella scimmia.
 
“Fermati, razza di piccola carogna piromane!!!” strillò la ragazza.
“Azu-chan, calmati! Non l’ha fatto apposta!”
 
Per quanto Shion ci provasse, la furia dell’albina era troppo grande perché questa si decidesse di ascoltarla.
 
“Hanno bisticciano ancora”, constatò la Bambina Diabolica, chiudendo il suo libro.
“Che? Ma è la quinta volta!” esclamò Usopp, soffiando sul dito ferito.
“Yohohoho! Quei due sono più litigarelli di Zoro-san e Sanji-san!”, si unì a loro Brook, sbucato da chissà dove.
 
Non era neppure mezzogiorno, ma quei due stavano già cercando ardentemente di sbranarsi a vicenda.
Intervenire sarebbe stato inutile: dopo i primi due tentativi, i ragazzi avevano capito che quando Azu s'infuriava, fermarla prima che si sbollisse del tutto, era un’impresa in cui solo suo fratello Lars aveva pieno successo. La soluzione migliore era ignorarla, continuare nel proprio operato facendo finta di niente, ma Shion non poteva di certo rimanere seduta nel mentre l’amica cercava di scuoiare vivo il povero Red, arrampicatosi sull’albero maestro per poter strepitare senza paura contro la più che mai incavolata albina. Non era la prima volta che i due litigavano e per quanto entrambi le volessero bene, era proprio il contendersi la simpatia di quest’ultima, ad aver dato inizio alla loro diatriba personale….
 
“No, no, no e NO!”
“Per favore, Azu-chan…”
“Ho detto di no! Questo coso rimane qui, punto e basta!!”
 
La ciurma di Cappello di Paglia, insieme ai suoi nuovi amici, aveva appena fatto ritorno alla Thousand Sunny. Liberarsi di quei maledetti gorilla Pugno di Roccia era stato piuttosto impegnativo, ma il contributo di Lars aveva provveduto a chiudere la faccenda senza che nessuno di loro stesse a preoccuparsi di un possibile ritorno degli animali. Salpare da Rocky Headland sarebbe stato facile, giacché tutti i problemi erano stati risolti, ma al momento di salire sul ponte di coperta - e dunque di lasciare un certo esserino a terra - la pace duramente conquistata, era andata a farsi benedire….
 
“Non capisco perché tu te la prenda così tanto, Azu”, si era fatto avanti Rufy, con le braccia incrociate dietro la testa “Che c’è di male se Red vuole venire con noi? E’ simpaticissimo!”
 
Alle parole del capitano, l’animale emise un gridolino felice.
 
“C’è di male che è una scimmia! E le scimmie sono animali impiccioni, pieni di pulci, irriverenti, e questa ha perfino il dono di ridurre in cenere ogni cosa che tocca!!”
“Mi suona familiare…”
 
La frecciatina lanciata da Lars a danno della sorella, non aveva mancato di colpire l’orgoglio di quest’ultima, colpendola nel suo punto più vivo.
 
“Non ti ci mettere anche tu, scemo!” ruggì lei, ben propensa a tirargli un pugno in testa “E tu vedi di staccarti di lì! SHION E’ MIA!!!”
 
Il dare in escandescenza e il diventare rossa quanto un pomodoro, erano caratteristiche sempre state presenti nell’indole di Azu. Lars e Shion lo sapevano bene, ma c’era da dire che quando la ragazza perdeva completamente le staffe, assomigliava pericolosamente a una ciminiera pronta all’esplosione atomica. Chopper, Usopp e Brook avevano provveduto a distanziarsi adeguatamente da lei, tremante e col fumo fuoriuscente dalle orecchie, mentre gli altri erano rimasti al loro posto, incuranti di quanto potesse essere pericoloso avere a che fare con un’albina prossima all’impensabile. I suoi occhi perlacei, infervorati per la rabbia, non avevano fatto altro che lanciare saette contro quell’ammasso di pelo rossiccio, rimasto per tutto il tempo in braccio alla bambina e attaccatole peggio di una ventosa. Il problema era che anche la piccina era restia a lasciarlo andare e ordinare a Zoro di tagliarlo a metà non aveva portato ad alcuna svolta decisiva, visto che la persona in questione, non aveva mosso un solo muscolo per darle una mano.
 
“Eh eh! Si direbbe proprio che Shion gli piaccia”, sorrise Nico Robin, inginocchiandosi vicino alla bambina.
“Già, ma credo che portarla via dalla sua casa non sia una buona idea”, si aggiunse Nami “Prendersi cura di un animale simile non è facile, anche perché dubito che possa adattarsi a un ambiente domestico.”
“Ecco, appunto!” al solo sentire la navigatrice darle man forte, l’albina tornò alla carica, annuendo vigorosamente “Questo animale non è un giocattolo, Shion! Non puoi prenderlo e portarlo via come se niente fosse!”
“Ma io non voglio portare via Red contro la sua volontà, è lui che vuole venire con me”, replicò la piccina.
“Come no! E adesso mi verrai a dire che è stato lui a chiedertelo!”
“Certo!”
“Ma non essere ridicola! Le scimmie non parlano la nostra lingua!” esclamò lei, per poi aggiungere “Men che meno quelle cocciute!”
 
Nel sibilare quell’ultima frase, la ragazza si era leggermente abbassata, tenendo le mani sui fianchi e cercando di primeggiare su quegli occhietti tondi che la stavano fissando con fare imbronciato. La creaturina si era degnata di staccarsi dall’incavo posto fra la spalla e il collo di Shion, sondando i presenti con una panoramica generale e sbattendo pigramente la soffice coda rossastra: di umani non ne aveva mai visti – salvo quelli che erano stati masticati e digeriti dai gorilla Pugno di Roccia -, ma quei tipi non emanavano alcuna pericolosità, il che le era sufficiente per reputarli accettabili e dunque concentrarsi sull’unica nemica che la voleva separare dalla nuova amica.
 
I pirati si stupirono non poco vedendo la scimmietta chiudere gli occhi, mormorare qualcosa a bassa voce, e girarsi con muso sdegnato.
 
“Ma che ha detto?” domandò Sanji, osservando quest’ultima farsi beatamente coccolare da Shion.
“Beh, per essere precisi: “Urla pure quanto vuoi, brutta strega isterica, ma io rimango con Shion, che a te piaccia o no!”” rispose Chopper, postosi dietro le gambe di Rufy e, successivamente, arrampicatosi sulla sua schiena, per l’aver visto spuntare dai capelli della ragazza un paio di corna vistosamente appuntite.
 
“Strega…isterica……..a me?!?!?!?”  
 
E lì, tutti quanti, nessuno escluso, arretrarono di un passo. La consapevolezza di stare per assistere ad un tentato omicidio, fece si che ognuno di loro si ponesse al riparo prima di venire coinvolto. La piccola scimmia Cresta di Fuoco aveva osato troppo, si era permessa di calpestare l’opinione di Azu - le cui unghie avevano raggiunto una spaventosa lunghezza -  e di sfidarla, pensando che fosse una comune mortale che si sarebbe arresa davanti alla sua cocciutaggine. Purtroppo, non era così, e il vedere come quell’aura nera, fuoriuscente dall’albina, si stava espandendo, fece si che Red cominciasse seriamente ad avere paura per la propria vita. Shion era estremamente conscia del fatto che, se non veniva fermata in tempo, l’amica avrebbe finito per sollevare a mani nude la Thousand Sunny per il puro piacere di sfogarsi. Quando bruciava l’ultimo confine che la separava dalla pazzia, era in grado di compiere qualsiasi cosa, e con “Qualsiasi cosa”, intendeva proprio qualsiasi cosa. Fu inutile volgere gli occhi a Nami, Nico Robin, Sanji o agli altri presenti: loro non potevano fare niente, non erano mai stati abituati ad avere a che fare con lei. Non le rimaneva che una sola scelta….
 
“Lars….”
 
Il pigolare il nome del ragazzo con un flebile sussurro e un faccino rasentante la tenerezza assoluta, era l’ultima delle risorse di Shion, la sola che avesse una qualche possibilità di riuscita. Lars era l’unico, fra tutti, che avesse il potere di placare Azu-chan in ogni situazione, e il ricevere da lui un sorriso rassicurante, le diede la validissima speranza a cui stava cercando di aggrapparsi. Era sempre stato molto gentile con lei, non aveva mai mancato di darle quel sostegno che tanto apprezzava: si era sempre rivelato una colonna portante fatta interamente di sicurezza, un amico preziosissimo, e in quel momento, la piccina era certa che egli avrebbe fatto il possibile per raffreddare i bollenti spiriti della sorella.
 
“Sei peggio di una bambina, Azu”, proruppe lui, sbuffando.
“Come, scusa? Chi sarebbe la bambina?!”
 
Il tono della parente sarebbe stato capacissimo di spaccare i timpani anche a un gigante, tant’era acuto.
 
“Tu. Stai tirando su un polverone per niente”, continuò il fratello, puntandole l’indice contro il naso.
“Per niente? Lars, forse non ci hai fatto caso, ma questo coso è una scimmia e….!”
“E non vedo dove stia il problema”, la interruppe, incrociando le braccia “Non che sia in disaccordo sul fatto che una simile creatura non è un animale da compagnia: è vero, ha bisogno del suo ambiente per crescere, di una determinata dieta, ma non puoi ignorare che abbia salvato Shion e che si sia affezionato sinceramente a lei.”
“Non lo ignoro, figurati, ma spiegami dove accidenti vuoi arrivare!”
“Ah, che pazienza…”
 
Nemmeno con uno schemino ben fatto, con tanto di frecce e colori, l’albino sarebbe riuscito a far intuire i propri pensieri alla sorella. Quando si imputava, il cervello di lei si rivestiva di una barriera antisfondamento, che non lasciava passare nulla che potesse andare contro le sue idee.
 
“Quello che voglio dire, è che devi rassegnarti. Tutto qui”, sentenziò dopo un lungo espiro.
“………Vorrai scherzare, mi auguro.”
“A differenza tua, io non parlo mai a vanvera. Potrei anche stare qui a spiegarti la mia sincera opinione, ma dubito fortemente che tu mi ascolteresti fino alla fine, quindi te lo dirò in poche parole: lascia che sia Shion a prendersi cura di questa creatura e piantala con gli isterismi da vecchia zitella inacidita.”
“Vecchia zitella…INACIDITA?!?”
“Si.”
 
Chiunque avrebbe provveduto immediatamente a saltare nella prima scialuppa visibile e ad allontanarsi alla velocità della luce, prima che Azalea Gallower decidesse di usare l’albero maestro della nave per spedire in orbita il fratello maggiore. Chiunque, tranne Shion Yokozomi. Ascoltate le parole che desiderava voler sentire, la bambina elargì un enorme sorriso: l’albino non le avrebbe mai dette, se non confidasse tanto nelle sue capacità e nella sua giovane responsabilità. A dispetto dell’età che dimostrava, Shion era una bambina molto diligente, che si prendeva cure delle proprie cose con minuziosa attenzione. Certo, Red non era un animale come gli altri, ne un oggetto che si potesse lasciare su uno scaffale:  Lars, nel suo discorso, aveva specificato che questo avrebbe richiesto delle attenzioni particolari, ma ciò non la spaventò. Lei adorava gli animali, le erano sempre piaciuti – come a tutti i bambini, del resto - e siccome Red l’aveva salvata ed era diventato suo amico, lo avrebbe accudito senza fargli mancare niente.
 
Sfortunatamente, l’albina non aveva ancora abbandonato il piede di guerra, poiché fra lei e quella sottospecie di piromane primitivo, si era istantaneamente creata un’antipatia senza precedenti. Era necessario ricorrere alla maniere forti e Lars sapeva esattamente quale carta giocare.…
 
“Suvvia, sorellina…”, avvicinandosi, le mise un braccio intorno alle spalle, per poi mormorarle malignamente “Non vorrai mica che dica a Shion cosa è successo ai suoi adorati criceti, vero?”
 
Da quel punto in poi, la cocciutaggine di Azu aveva subito un forte tracollo. Non si era ben capito quale fosse il succo degli epiteti fulminanti rivolti a Lars, ma egli, da quanto era stato possibile dedurre, doveva aver toccato un tasto non dolente, ma dolentissimo, per l’orgoglio della sorella. Questo, unito al tenero faccino supplicante di Shion, aveva fatto si che la sua opposizione crollasse definitivamente, per la grande gioia della scimmietta e della bambina.
 
A distanza di una settimana e mezzo da quel giorno, Shion aveva dimostrato di sapersi prendere cura di Red senza aiuti o consigli troppo complessi: a esseri sinceri, non era occorso documentarsi eccessivamente, perché l’animale mangiava di tutto – carne compresa -, dormiva vicino alla bambina e amava giocare con lei, Rufy – il secondo da lui preferito -, Usopp, Chopper e Brook. Era estremamente curioso, ma anche intelligente, con un linguaggio che Shion comprendeva come se fosse umano, il che le permetteva di avvertirlo sul cosa doveva e non doveva fare, come, per esempio, non avvicinarsi alla cucina di Sanji, non disturbare Zoro o Lars quando si allenavano, e via dicendo. Piccole e semplici regole che gli avrebbero garantito un soggiorno senza grane……peccato solo che a minare l’allegro giocare, ci fosse lei, Azu, ribattezzata “La strega da eliminare e distruggere”.
Fra tutti quanti, la persona che Red meno sopportava e a cui aveva dichiarato guerra aperta, era proprio l’albina, più che mai desiderosa di venderla al mercato per intascarsi i due milioni di Berry che, secondo Nico Robin, erano il prezzo base per un esemplare di scimmia Cresta di Fuoco: bastava uno sguardo, la semplice presenza nella stanza, ed era inevitabile che uno dei due finisse per attaccare l’altro. La maggior parte di quelle trecentocinquantasette liti già avvenute, era da attribuire alla ragazza, ma ciò non significava che Red fosse esente da certi misfatti: come possedeva un lato tenero, dolce, amichevole, con tanto di aureola sopra la testa, ne aveva uno altrettanto contorto, affino e diabolico, da piccolo genio del male, tutto volto a rendere impossibile la vita della ragazza. Anche quel giorno, aveva innescato l’ennesimo piano a carico dell’avversaria, ma scoprendo a sue spese quanto questa potesse diventare terribile, se le si bruciavano i vestiti.
 
“Avanti! Scendi da lì sopra, piccolo sgorbio sputafiamme! Questa volta ti rado a zero quella tua pelliccia e te la faccio mangiare per cena!!” strepitò l’albina, agitando i pugni.

Red strillò a sua volta, mostrando i piccoli canini e rizzando il pelo al massimo della sua estensione.
 
“Azu-chan, non l’ha fatto apposta!” esclamò nuovamente la bambina, nel pararsi davanti all’albero sopra cui l’animale si era rifugiato “E’ stato un incidente!”
“Incidente un corno!” ribatté lei, per poi indicarsi “Secondo te, darmi fuoco mentre dormo, è un incidente?!?”
“No, però…..tu non sei stata molto gentile con lui”, mormorò la piccola, guardandosi momentaneamente  le dita intrecciate “Lo chiami sempre con nomi brutti e gli fai i dispetti.”
Lo so, ma c’è una bella differenza fra lo sfottere e l’attentare alla vita altrui! Avrebbe tanto voluto dire lei.
 
La sola ragione per cui si era astenuta dal dare voce ai propri pensieri, era il visino di Shion: paffuto, tenero e stracolmo di un’innocenza accecante. Il cogliere quella particolare espressione, pronta a colpirla con la potenza di un’onda anomala, l’aveva paralizzata sul colpo, sollecitandola a prepararsi psicologicamente per quel seguito che sarebbe stato alquanto micidiale per il suo ego. Era perfettamente consapevole che cosa fosse quello sguardo, di che genere di entità si trattasse, per questo non mancava mai di ripetersi di essere forte, di non cedere così miseramente, perché, se c’era una cosa che poteva veramente farle venire dei colossali sensi di colpa, era il dolcissimo e rattristato faccino della sua protetta. Quando la biondina la supplicava, le sue guance divenivano rossicce, gli occhi le si riempivano di lucine e i lineamenti facciali si facevano più morbidi: un concentrato di coccolosità da spupazzare assolutamente. Poteva abbattere un intero branco di mostri marini affamati, combattere con una gamba rotta contro cento e passa avversari, forse anche arrivare ad ammettere – per pochissimi millesimi di secondo – di voler bene a quella testa bacata di suo fratello, ma non poteva vincere contro il visino supplicante di Shion.
 
Non poteva, era inconcepibile! E il peggio, era che sospettava seriamente che Lars la stesse istruendo cosicché potesse usare quella sua abilità come una vera e propria arma.
 
Guardandola, vide la linea della sua bocca corrucciarsi, le sopracciglia piegarsi e le manine stringersi in pugni.
Oddio, ecco che arrivava……
 
“Ti prego, Azu-chan…”, la blandì lei, con quella sua vocina mielosa e sottile “Perdonalo.”
“Senti, Shion, io…..”
“Ti prego.”
“Ma….”
“Ti prego, ti prego, ti preeeeeeeeego”, continuò lei pianino.
“Shion…”, e cercò seriamente di imporsi.
“Ti voglio tanto bene, Azu-chan!”
 
Ecco! Era finita! Kaput, sayonara, tanti saluti alla sua integrità!
Come poteva.....cioè, come accidenti si faceva a dire di “No” a quel faccino rasentante la pucciosità estrema? A stento riusciva a trattenersi dal mangiarlo di baci! Come da manuale, crollò seduta stante, abbassando la testa e sospirando sconsolata, incapace di resistere a quei grandi occhioni azzurri, che la stavano guardando intensamente. Una tecnica conosciuta, ma sempre infallibile, quella della bambina: non a caso, era la stessa che aveva utilizzato dopo che Lars l’aveva amorevolmente minacciata.
 
Lars….
Il solo pensare a come quel infame sfregiato l’avesse colpita e affondata, le mandò il sangue al cervello. La facilità con cui riusciva a metterla nell’angolo, con cui la costringeva a scegliere la via da cui tentava di scappare, era qualcosa che, in ventidue anni di vita, non aveva mai incontrato una singola vittoria a suo carico. Non stette neppure a rifilargli una delle sue occhiatacce ultra-assassine, tanto stava cercando di non dare a vedere quanto stesse trasudando di impulsi omicidi: si era creduta in una botte di ferro, per poi scoprire che invece il caro fratellone sapeva tutto, compreso il suo aver lasciato accidentalmente aperta la gabbietta del criceto di Shion nel mentre ella era via con i suoi genitori. Una piccola distrazione poteva capitare, era comprensibile, ma c’era una sostanziosa differenza fra il lasciare aperta una gabbietta e il lanciare fuori dalla finestra un criceto per l’averle morso un dito. Così erano scopersi i due successivi animaletti di Shion, per un totale di tre vittime disperse o pappate da qualche gabbiano passeggero.
 
Convincere la bambina che i suoi tre criceti – non comprati tutti insieme, ma a distanza di un anno – fossero andati nel paradiso degli animali, sempre quando lei partiva per un breve viaggetto con i suoi genitori, era stata l’impresa più ardua ed eclatante della sua intera esistenza. Sarebbe letteralmente morta, se la sua adorata protetta avesse scoperto che cosa fosse realmente accaduto e Lars, da bravo diavolo ricattatore, ne era fin troppo consapevole.
 
Dannato musone dei miei stivali! Verrà il giorno in cui me le pagherai tutte! Pensò adirata, con vistosi nervi pulsanti  sulla tempia.
“Azu-chan? Tutto a posto?”
 
A forza di rimuginare su quanto il parente fosse sadico e meschino, l’albina si era estraniata dal mondo esterno un po’ troppo a lungo: Shion stava sempre davanti a lei, ma con Red appollaiato sulla sua spalla destra, tutto deciso a non muoversi da tale posizione.
 
“Eh? Si, si, va tutto bene, non preoccuparti! Ero solo sovrappensiero, eh eh!” si affrettò a dire, per poi aggiungere frettolosamente “Piuttosto, non è forse ora che tu chiami la mamma, tesoro? Sono quasi le dieci e un quarto.”
“Oh, giusto! Grazie per avermelo ricordato!” esclamò la biondina, con faccia stupita “Vieni, Red.”
 
Accompagnata dalla scimmia Cresta di Fuoco, la piccina si diresse a grandi passi verso le camere, sparendo silenziosamente dietro la porta del corridoio: come previsto, l’animale non mancò di essere squadrato da capo a coda dall’albina, prima che questo sparisse con la sua beniamina.
 
Ti tengo d’occhio, sacco di pulci!
 
Anche se lo sguardo non era stato ricambiato, ella ci teneva comunque a sottolineare la sua supremazia e il suo ruolo nella vita della bambina: a differenza sua, lei non rischiava di essere cacciata per via della pelliccia, e qualora i signori Yokozomi avesse acconsentito a Shion di tenere quell’affare, non le avrebbe permesso di accaparrarsi tutto il suo affetto. Quello stroppolino dorato era solo suo!
Sebbene fosse passato del tempo dalla vicenda di Rocky Headland, la bambina non aveva ancora parlato di Red ai suoi genitori: preferiva farlo di persona, direttamente, poiché discuterne al lumacofono non sarebbe stata la stessa cosa. Una scelta saggia, la sua, ma nonostante l’appoggio, Azu non mancava di rivolgere continue preghiere alle entità divine risiedenti nei cieli, affinché queste la benedissero con la cacciata di quella bestiaccia dei suoi stivali.
Dubitava che queste avrebbero esaudito il suo desiderio, ma fintanto che la speranza rimaneva l’ultima a morire, lei avrebbe continuato a crederci.
 
“Ehi, Azu”, la chiamò Nami.
“Uh? Che c’è?”, domandò lei, nel mentre la navigatrice le si avvicinava.
“Forse è solo una mia impressione, ma ho notato che la madre di Shion è una persona molto apprensiva.”
“Beh, che ti aspettavi? Sua figlia si trova in mare aperto, lontana da casa e in compagnia di pirati ricercati dal Governo Mondiale. E’ normale che si preoccupi”, le fece notare Usopp, alzando le spalle.
 
Salvo quell’ultima cosetta che, per il bene di tutti, non doveva arrivare alle orecchie di nessuno, il Re dei Cecchini aveva ragione: qualunque genitore sarebbe stato in ansia, sapendo il proprio figlio lontano da lui.
 
“Questo lo so, però….non vi sembra un po’ eccessivo? Voglio dire, se si trattasse di mia figlia, anch’io sarei preoccupata, ma non credo che arriverei a chiamarla con così tanta costanza.”
 
Ponendo sul tavolo quell’osservazione, alcuni componenti della ciurma non poterono far altro che aggrottare le fronti e riflettere su tale osservazione. Nami non era una persona che apriva la bocca inutilmente e questo era risaputo: l’aver dato voce alla sua opinione, fece si che anche gli altri arrivassero a quella piccola verità che lei, già da tempo, aveva colto e osservato con minuzia, per quanto piccola che fosse. La preoccupazione di una madre era qualcosa di perfettamente naturale e logico, che non aveva limiti, ma la Gatta Ladra, ascoltando alcuni tratti delle conversazioni fra Shion e sua madre, aveva percepito una nota a dir poco esagerata; nulla di eccessivamente asfissiante, ma comunque anormale. Mettersi un golfino di lana con quel caldo era solo una delle innumerevoli raccomandazioni che aveva udito casualmente, se non la più leggera. D’accordo che, in mare aperto, il clima cambiava facilmente, ma non era un giustificazione sufficientemente valida per far imbacuccare Shion da capo a collo. Doveva esserci dell’altro, per forza.
 
“Nami-san, non devi angosciarti”, le disse Sanji “Le madri sono sempre preoccupate per i propri figli. Vedrai che quando avremo anche noi dei bambini, ti comporterai allo stesso modo!” esclamò poi, con tono melenso.
“Bah! Secondo me, è solo la tua immaginazione”, buttò lì Zoro, appena sceso dalla vedetta dopo il quotidiano allenamento mattutino.
“Non contestare Nami-san, troglodita!” esclamò Sanji, infervoratosi all’istante.
“Cerchi rogne di primo mattino, idiota di un cuoco?” sibilò lo spadaccino.
“Yohohoho! Suvvia, non litigate”, ridacchiò Brook.
“Zitto, tu!” esclamarono all’unisono i due, già pronti a darsele.
 
Dall’alto del suo unico tentativo, il Canterino reputò saggio non intromettersi ulteriormente nell’ennesima crociata scatenatasi fra i suoi compagni: la furia di quei due mostri disumani avrebbe potuto mettere a repentaglio la strepitosa voluminosità del suo afro, per non parlare poi della seconda vita donatagli dal frutto Yomi-Yomi.
 
“Effettivamente, ora che ci penso bene…”, si fece poi avanti Nico Robin “L’atteggiamento della signora Milena mi è parso piuttosto smodato. Azu, puoi dirci qualcosa al riguardo?”
 
Nonostante sentisse distintamente gli occhi della maggior parte della ciurma su di sè, l’albina non si scompose e scacciò quell’insistente pressione con rapidità: sbuffò sonoramente, incrociando le braccia dietro la testa e incamminandosi verso l’interno della nave, infischiandosene della domanda posta dall’archeologa.
 
“Azu, ma dove….?”
“Di come si comporta la signora Milena non mi interessa, ma se ci tenete tanto a saperlo, chiedete a Lars. Ne sa quanto me”, fece lei, con tono sbrigativo e senza voltarsi.
 
Era preferibile che non esternasse l’irritazione che stava già corrodendo la sua calma interiore. Non la sapeva gestire, quella particolare forma di rabbia: presentava una sottigliezza incisiva, una natura affilata e spigolosa, capace di un impatto molto più potente della grottesca esplosione in cui lei incappava quando i nervi le saltavano definitivamente. Aveva un sapore amaro quanto il veleno, le montava dentro come fosse un peso da espellere il prima possibile, ma le cui conseguenze erano talmente disastrose, da essere irreparabili. Le era già capitato di provare quel brivido, quella sensazione lenta e fastidiosa che le irrigidiva i fasci muscolari, per poi bruciarli e accartocciarli come palline di carta. Con la sua disinvoltura e la lingua sempre pronta a dire quel che pensava, Azu non avrebbe avuto alcun problema a rispondere a quella domanda, ma l’essere cosciente del fatto che, a seconda delle risposte dei suoi amici, sarebbero emerse in lei determinate memorie, la spinse ad allontanarsi con ancor più sveltezza. Non ci teneva a mostrare il proprio viso, non con quello che c'era dipinto sopra; le sarebbe stato impossibile trattenere un’imprecazione pesante e veramente offensiva.
 
E per quanto grande che fosse la sua indignazione, rendere pubblico quel fatto non l’avrebbe aiutata a stare meglio.
 
“Che le è preso?” si domandò Chopper.
“Non fateci caso. E' lunatica”, fu la risposta di Lars, fattosi avanti dopo l’uscita della sorella “Cambia atteggiamento in continuazione.”
“Se è per quello che ho fatto notare, mi dispiace”, si scusò Nami, mortificata.
“No, rilassati: te l’ho detto, è semplicemente lunatica”, la rassicurò l’albino, sventolando pigramente la mano “Per quanto riguarda l’apprensione della signora Milena, c’è una valida giustificazione. E’ un po’ personale, ma visto che l’argomento è stato tirato in ballo, forse mi conviene raccontarvi tutta la storia.”
“Fai pure, ti ascoltiamo”, lo invitò caldamente la Bambina Diabolica.
 
Salvo Zoro, tornatosi ad allenare dopo aver concluso la scaramuccia col cuoco, e Rufy, seduto sull’amata polena, il restante era curioso di conoscere quella piccola verità che stava per essere svelata. Rilassato e per nulla preoccupato dell’eventualità che Shion potesse sbucare fuori dal nulla, il ragazzo appoggiò la propria schiena all’albero maestro, sedendosi e incrociando le braccia in quella sua consueta posizione di riposo: sarebbe stato breve, conciso ma specifico, poiché odiava dilungarsi su particolari e dettagli che rischiavano di rovinare il filo del discorso.
 
“Vedete, circa una decina di anni fa, in una città del Nuovo Mondo, si è svolto un dibattito importante, dove il padre di Shion presenziava come membro onorario. Non so di che cosa si trattasse nello specifico, ma pare che giocasse un ruolo fondamentale per un progetto riguardante dei futuri accordi politici. Il suo consenso ne avrebbe sancito l’attuazione, ma alcuni membri del consiglio erano contrari al suo giudizio e tentarono di fargli cambiare idea in più occasioni, giusto per salvare qualche tornaconto personale. Inutile dire che si oppose, così quelli, per incentivarlo a rivedere la sua scelta, sequestrarono Shion.”
“Che??? Hanno sequestrato Shion-chan????”
 
Se mai Brook avesse avuto gli occhi, questi sarebbero schizzati fuori dalle orbite.
 
“Non urlare, stupido! Vuoi farti sentire?!” lo rimbeccò Nami, sedandolo con un pugno.
 
In quella sua eccentricità smisurata, lo scheletro parlante possedeva il dono di farsi sentire nelle situazioni meno opportune: fra pernacchie, rutti e domande inopportune sulla biancheria intima, aveva collezionato più calci in volo di qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra. Anche gli altri erano rimasti sorpresi per quella rivelazione, ma avevano avuto il buon senso di borbottare come uno sciame di api nel pieno del lavoro, piuttosto che mettersi a gridare con la mascella del tutto spalancata.
 
“E’ successo quando lei aveva poco meno di un anno, perciò nessuno glielo ha mai raccontato”, riprese Lars “Io e Azu ci stavano ancora addestrando, per questo non eravamo presenti, fatto sta che i diplomatici contrari alla scelta di suo padre, avevano ordinato ad alcuni dei loro uomini di rapirla e tenerla in ostaggio fino alla fine del dibattito. Prima dell’inizio della riunione, riuscirono a penetrare in casa e a prendere la piccola dalla culla, ma fortunatamente furono arrestati prima che avessero il tempo di lasciare l’isola. Il dibattito si concluse nel migliore dei modi, ma la vicenda ha traumatizzato così tanto la signora Milena, da renderla eccessivamente protettiva nei confronti della figlia. Quando io e Azu completammo l’addestramento, fummo assoldati da lei e dal marito, in qualità di guardie del corpo: conoscevamo già i genitori di Shion, sono stati proprio loro a permetterci di sviluppare le nostre potenzialità, anche se la signor Milena ha avuto un ruolo più rilevante. Proteggere la loro figlia è l’unica maniera che abbiamo per sdebitarci e lo facciamo con piacere: Shion è come una sorella, quindi…..”
“BWHAAAAAAAAAAAAAHHH!! CHE STORIA TRISTE! CHE ORRIBILE AVVENTURA PER QUELLA PICCINA!!” piagnucolò Franky, inondando il ponte con enormi lacrime di coccodrillo.
“E’ vero!!” si unirono a lui Chopper e Usopp, senza più degnarsi di mantenere il loro contegno di pirata.
 
Nami non ci provò neppure a porre fine a quel teatrino, tant’era presa a dire la sua a Nico Robin. Era risaputo che il carpentiere, nonostante avesse un corpo totalmente modificato, possedesse un cuore sensibile alle storie tristi, profonde o altamente ridicole che fossero. Bastava un niente e lui, come tributo per quella storia, componeva una canzone con la sua chitarra, omaggiando cose tipo la libertà di essere uomo e la nostalgia di momenti epici, vissuti in tempi lontani. I classici, per farla breve. Chopper, per il suo animo ingenuo e puro, capace di credere a tutto e a tutti, si era lasciato intenerire fin da subito, esternando la sua emotività senza alcuno sforzo insieme ad Usopp, dando vita a uno dei molteplici quadretti comico-patetici che solevano far cascare a terra anche la più seria delle questioni.
Erano fatti così, non li si poteva cambiare, e nel loro comprendere, erano uno peggio dell’altro……..
 
“Un brutto episodio, non c’è che dire..”, affermò Sanji, inspirando una lunga boccata di fumo “Ora capisco perché la dolce Azu-chan se ne è andata: non sopportava l’idea di dover mostrare le sue lacrime davanti a me. Che ragazza sensibile!”
 
Raggiunto il massimo grado dell’idiozia, perfino uno come Lars, apparentemente impassibile e ponderato, si ritrovò a sgranare gli occhi e a guardare il cuoco con le sopracciglia inarcate. Nonostante fosse abituato ad avere a che fare con l’illogicità disumana di Azu, quel tipo apparteneva a una categoria completamente diversa, indefinibile sotto tutti i punti di vista. Dall’alto della sua sanità mentale, Lars non osò domandarsi che genere di intricati meccanismi muovessero la tonda testa del biondo, tanto era certo che il rifletterci gli avrebbero fatto fumare il cervello per lo sforzo: i casi senza speranza non andavano capiti, ma presi per quello che erano, e a lui bastava Azu, problematica quanto il conflitto fra pirati e marine. Lei era la complessità fatta a persona, l’irascibilità che soleva benedirlo con dei calci sugli stinchi, quand’egli sottolineava quanto le sue uscite fossero pericolosamente simili a delle stupidate campate per aria.
 
Provare a metterla in mezzo a quel compatto gruppetto fuori di testa, era un esperimento di cui non avrebbe mai voluto vedere l’esito.
 
No, meglio evitare…., si disse lui, passandosi una mano nei capelli argentati e sospirando.
 
Aveva già una grana a cui pensare e doveva risolverla prima che si ingigantisse ulteriormente, una ragione più che sufficiente per alzarsi e raggiungere una certa albina di sua conoscenza, prima che decidesse di radere al suolo qualche stanza. Come avanzò verso la porta dietro cui, pochi minuti prima, era sparita Azu, questa venne nuovamente aperta da una trotterellante Shion, avente un bel sorriso stampato sul viso e seguita da Red.
 
“Shion! Tutto a posto con tua madre?” le domandò Chopper, zampettando verso di lei.
“Si. Mi ha detto di fare la brava e altre cose”, rispose lei, per poi corrugare la fronte “Ma…come mai siete tutti riuniti qui? E perché Franky sta piangendo?”
 
Il cecchino e il dottore avevano stoppato i loro piagnistei, ma il povero carpentiere nemmeno ci aveva provato, tanto la storia lo aveva toccato.
 
“Ah, non farci caso, adesso gli passa”, le rispose Nami velocemente.
 
Urgeva cambiare argomento prima che il compagno di latta decidesse di stritolare Shion in uno dei suo abbracci spigolosi e le riducesse le ossa in un mucchietto di polvere.
Posando i suoi occhi nocciolati sulla borsa che la bambina teneva avidamente fra le braccia, la mente della Gatta Ladra si illuminò su un altro punto interrogativo che ancora non aveva trovato risposta. Tra le molte spiegazioni ricevute, si erano aggiunte alcune osservazioni interessanti, che le avevano come messo un fastidioso tarlo nelle orecchie: era come se la natura di una qualche sua attuale conoscenza le sfuggisse dalle mani, come se ci fosse un collegamento invisibile fra più punti, che continuava a rimanere occultato dal suo blocco mentale.
 
C’era qualcosa, di tutta quella questione, che mancava all’appello.
 
“Ascolta, Shion, volevo chiederti una cosa sulla tua missione”, disse rossa, attirando l’attenzione della piccina “E spero che tu possa rispondermi.”
“Uh? Certo, Nami. Cos’è che vuoi sapere?”
 
Alla piccola piaceva quando la gente le chiedeva delle cose; adorava potersi rendere utile.
 
“Riguarda il tuo volere aiutare la sorella di Chico, Mya”, riprese la più grande “Hai detto che ha ingerito un frutto del diavolo e che non riesce a controllarne il potere. Come pensate di aiutarla tu, Azu e Lars? Se si dovesse presentare l’occasione, sarete costretti a combattere contro di lei.”
“Oh, ma non ce ne sarà bisogno!” esclamò lei, con allegra prontamente “Ti posso assicurare che non ci attaccherà: al momento, Mya si trova nel palazzo reale del regno di Kuzen, l’isolotto, e quello è un posto speciale, dove riesce a mantenere le sue sembianze umane.”
“Davvero? ”
 
Quella minuscola rivelazione sortì un effetto benefico sull’animo della rossa: in tutta franchezza, l’idea di combattere contro una ragazza, la cui volontà era soggiogata da quella di un frutto del diavolo, non la allettava molto. Si trattava di una vicenda diversa, dove non c’era un nemico pronto a farli fuori, ma una persona avente bisogno di aiuto.
 
“Si”, annuì la più piccola, riprendendo a parlare “Il nostro problema stava nel trovare un modo per portarla fuori dal palazzo, senza che si trasformi. Per questo, prima di partire, ho preso questo.”
 
Immergendo la manina all’interno della sua borsetta gialla, Shion trafficò col suo interno per qualche istante, sino ad estrarne una scatolina di metallo scuro. Era piccola, quadrata, con gli angoli arrotondati e stante comodamente nei palmi delle mani della bambina, intenta ad aprirla con l’apposita chiave. Fra tutti i vari effetti personali che si era portata dietro, quello, oltre al suo libro preferito, era il più prezioso: il suo contenuto rappresentava la salvezza per la sorella di Chico, la soluzione che il suo amico aveva tanto cercato e che lei era ben intenzionata a portargli. Provò uno strano effetto nell’aprirla prima del dovuto, specie davanti ai suoi amici pirati: la cautela con cui mosse le dita, fece si che il sangue iniziasse a scorrerle più velocemente, imporporandole le guance e surriscaldandole le orecchie. Era emozionata, tanto che la lingua le si asciugò insieme alla gola. Non le era mai capitato nulla del genere e il venire circondata dalla curiosità che trasudava dai suoi compagni di viaggio, curiosi di scoprire che cosa ci fosse di così interessante dentro quel cofanetto che si stava accingendo ad aprire, la rallegrò ancor di più. Spiegare a parole cosa stesse effettivamente provando, era difficile, ma per certe cose, era sufficiente uno sguardo o un sorriso, nulla di più.
 
“Dai, Shion! Facci vedere!” la esortò Rufy, con occhi luccicanti.
 
Come aveva intuito che la bambina avesse qualcosa da mostrare, il capitano era balzato giù dalla polena con un solo salto.
 
“Si, un momento”, disse lei “Però, è meglio se ti allontani.”
“E perc…..”
“Rufy!” esclamò Usopp.
“Io l’avevo avvertito”, mormorò la piccina, socchiudendo la scatolina di metallo.
 
La domanda di Cappello di Paglia era scemata in un mugugno intontito e ubriaco, seguito da un sordo tonfo sul ponte coperto d’erba: nell’istante in cui Shion aveva aperto del tutto il cofanetto, i muscoli del suo corpo si erano liquefatti, facendolo cadere a terra, completamente prosciugato di ogni forza. Fu una reazione che lasciò Nami, Franky, Sanji e Usopp a bocca aperta, attoniti nel vedere anche Brook e Chopper stramazzare al suolo, dopo essere diventati improvvisamente incapaci di reggersi in piedi. La sola a non essere caduta era stata Nico Robin, ma soltanto per il fatto che il cuoco, da galantuomo quale era, non si sarebbe mai permesso di negare il proprio aiuto a una delle due compagne.
 
“Tutto bene, Robin-chan?” le domandò premuroso lui, tenendola per le spalle.
“Si, grazie”, rispose a fatica lei.
 
La semplice vista dell’oggetto riposto nella scatolina di metallo della bambina era stata sufficiente perché il corpo dell’archeologa e degli altri suoi compagni reagisse istantaneamente alla flebile emanazione che esso scatenava. I muscoli, sgonfiati della loro tonicità, si rifiutarono di rispondere alla volontà dei propri padroni, il cui fiato accorciato si accompagnava a quel lieve giramento di testa, che dava loro l’impressione di essere diventati più pesanti. La lucidità della mente oscillava pericolosamente verso un annebbiamento sia visivo che psicologico, rafforzato da una sgradevole sensazione di svenimento. Erano liberi di provare a muoversi, di ribellarsi e recuperare quella parte di sé temporaneamente inibita, ma per quanto debole o incisiva che fosse, l’emanazione che li rendeva inermi, stava esercitando un ascendente troppo incisivo perché lo ignorassero: nessuno dei loro tentativi avrebbe contratto un buon esito, fintanto che l’oggetto causante del loro improvviso malessere fosse rimasto a stretto contatto con le loro pelli.
 
Shion lo teneva in mano, nascosto in quel contenitore di metallo che aveva lasciato parzialmente aperto, cosicché non facesse stare nuovamente male i suoi amici. Svettava come un piccolo gioiello al sole, in attesa di essere ammirato e giudicato. Non era particolarmente appariscente o elaborato: era spoglio, semplice, privo di quelle decorazioni che gli artisti solevano aggiungere per buon gusto estetico. Un semplice bracciale circolare, spesso, dalla superficie liscia e con i contorni sottili, avente una rientranza sufficientemente grande per farci passare un polso. Poggiava su di un soffice fazzoletto bianco, messo apposta per evitare che l'accessorio non cozzasse fra gli angoli. Non possedeva nulla che lo rendesse particolarmente interessante, tuttavia, come il sole vi depose sopra uno dei suoi raggi, questo risplendette di una luce sinistra, rivelando un bagliore giallastro nel mezzo di quel grigio metallico minuziosamente osservato.
 
“Ehi! Ma questa non è algamatolite?” domandò Usopp, studiandola da vicino.
“Algamatolite? Intendi la pietra capace di inibire i poteri del frutto del diavolo?” domandò Franky.
“Si, proprio quella”, gli rispose Nami.
 
Non poteva esserci dubbi al riguardo: ci avevano avuto a che fare così tante volte, che oramai potevano dire di conoscerla come le loro tasche. L’algamatolite, nella sua apparente innocuità, era un nemico mortalmente pericoloso per la ciurma, specie per il capitano, l’archeologa, il medico e il musicista. Si trattava di un minerale fuori dal comune, più duro del diamante stesso e contenente l’essenza dell’oceano, un potere antico e misterioso, capace di annullare quello che i frutti del diavolo conferivano alle persone che li ingerivano. Appianava ciò che era ritenuto maligno, restituendo, con un semplice tocco, l’umanità e la vulnerabilità omesse da quest’ultimo.
La Marina non si faceva scrupoli a utilizzarla e a forzare il proprio reparto scientifico perché sfornasse in continuazione nuovi congegni o armi che permettessero la cattura dei ricercati più coriacei. Strategia e bravura fallivano miseramente davanti all’impeto del Nuovo Mondo e dei pirati che lo solcavano: il solo pensare di catturare anche solo uno di questi, senza portarsi dietro almeno un po’ di quel minerale, era da pazzi.
 
Allungando la mano verso il cofanetto, Nami prese il bracciale, rigirandolo fra le dita e osservandone ogni centimetro, quasi volesse trovarci dei difetti, ma era rarissimo che quel metallo presentasse imperfezioni: difatti, nell’accarezzare col polpastrello dell’indice i sottili lineamenti d’esso, la Gatta Ladra non trovò nulla di sospetto.
 
“Non mi posso sbagliare: questa è proprio algamatolite”, dichiarò infine, nel riporre l’oggetto nella scatola di metallo “Shion, come hai fatto a procurartela?”
“L’ho presa di nascosto dall’armeria”, rispose prontamente lei, chiudendo il piccolo contenitore “Lì ci sono un mucchio di oggetti fatti con questo minerale: ho preso il bracciale perché so che annulla il potere del frutto del diavolo senza far sentire affaticata la persona che lo indossa. Sicuramente non ci faranno caso, se ne manca uno all’appello!” ridacchiò.
“Armeria?” la navigatrice sbatté le palpebre per ben due volte “Tu hai accesso a un’armeria?”
“Certo. Quando vado a trovare il mio papà, ci faccio sempre un giro, per salutare i signori che ci lavorano.”
 
La piccola apprendista esploratrice, nella sua schietta e naturale ingenuità, non si  rese minimamente conto di quello che aveva appena scatenato. Lei era orgogliosissima del suo papà ed era sempre felice di parlarne, peccato solo che, nella sua contentezza, avesse omesso un importante particolare, la cui natura stava già insospettendo le menti del gruppo. Facendo leva sui ricordi e sul racconto di Lars, nella mente di Nami venne a crearsi un dubbio atroce. Dall’insieme, alcune parole si collegarono ad altre, stabilendo e rendendo ancor più chiara quella relazione che cercava da tempo, ma di cui aveva percepito soltanto una flebile presenza. Che si stesse sbagliando? No, impossibile. Le sue previsioni erano sempre azzeccate, poiché, a differenza della stragrande maggior parte della ciurma, lei il cervello lo usava sempre. Era difficile che quella ipotesi fosse errata o contenesse errori, ma per quanto le sarebbe piaciuto sbagliarsi, la ragazza si sentì in dovere di porre quella domanda che aveva cominciato a ronzarle pericolosamente in testa.
 
Non ne avrebbe fatto una colpa a Shion, se, quanto pensava, si fosse rivelato autentico: con tutto quello che le era successo, era già moltissimo che non fosse rimasta traumatizzata per il brutto episodio avvenuto a Rocky Headland e tartassare quella piccina, su di un argomento che nemmeno aveva nascosto volontariamente, sarebbe stata un’autentica cattiveria.
 
Comunque, doveva sapere.
 
“Shion, senti, ti posso chiedere che lavoro fa il tuo papà?”
“Come?”
“Il lavoro del tuo papà”, ripeté Sanji, nell’appoggiare i palmi delle mani sulle ginocchia “Non ce l’hai mai detto.”
“Penso di saperlo io”, si fece avanti Nico Robin, incrociando le braccia “Yokozomi è il cognome di un noto diplomatico della Marina, che di recente si è occupato di alcuni congressi riguardo il commercio marittimo. Se non sbaglio, il suo nome dovrebbe essere Adelwine, Adelwine Yokozomi. Dico bene, Shion?”
“Si, è lui. E’ proprio il mio papà!” esclamò lei, annuendo vigorosamente “Non ve lo avevo detto?”
 
Da come le mascelle di alcuni toccarono il tappeto d’erba, non appena le parole “Papà” e “Marina” vennero a galla insieme, era evidente che quell’informazione era stata bellamente omessa. Mancò poco che la lingua di Chopper, allungatasi a dismisura, si attorcigliasse attorno alle gambe ossute di Brook, appena rimessosi in piedi, dopo la botta presa per la vista dell’algamatolite. Provare a esprimere la loro opinione a parole fu vana, perché queste erano incastrate in gola come fossero un unico groppo, lasciando ampio spazio allo stupore facciale. La piccola Shion si ritrovò a sondare uno a uno i loro volti con fare incerto, sospettando che quanto detto con tanta allegria, per loro, significasse qualcosa di molto più serio. E lo era, perché la posizione del suo adorato papà, per loro, rappresentava un pericolo costante, un pericolo contro cui combattevano quasi tutti i giorni.
 
Mi sa….che me ne sono dimenticata, pensò subito, con la nuca tempestata di goccioloni penzolanti.
 
L’arrivarci, la rese immediatamente consapevole di quanti guai sarebbero potuti capitare, se avesse tardato a informarli: avrebbe dovuto dirlo fin dall’inizio, per evitare che i suoi amici la guardassero come un’aliena venuta dallo spazio, ma, come al solito, la sua testolina aveva divagato su altro. Prima Lars, poi la questione di Chico e Mya….si, aveva tralasciato molti particolari della sua vita - salvo il cognome e l’età -, ma prendersi la testa a pugni non sarebbe servito a porre rimedio alla sua sbadataggine.
 
Una terribile timore le trapassò il cuore da parte a parte: e se adesso….. avessero deciso di rinunciare ad aiutarla?
 
“Rufy…”, pigolò lei, con Red che la guardava col muso preoccupato “Scusa, se non te l’ho detto, mi è passato di mente. Ti prego, non buttarmi fuori dalla nave!” esclamò poi, congiungendo le mani, insieme alla scimmia Cresta di Fuoco, messasi anch’ella a pregare.
 
Era sinceramente dispiaciuta per quella dimenticanza e chiedere scusa era il minimo che potesse fare. Non lo aveva fatto apposta, ma quei ragazzi erano così disponibili con lei, che non poté fare a meno di sentirsi in colpa. Usopp, Brook e Chopper erano dei compagni di gioco divertentissimi. Franky, con i suoi balli strambi, la faceva sempre ridere. Sanji era gentilissimo con lei, le cucinava i suoi piatti preferiti tutte le sere e Zoro, a modo suo, sapeva come essere socievole. Che dire poi di Nico Robin e Nami: loro la aiutavano con i suoi studi, mostrandole quanto impegnarsi fosse gratificante.
 
E Rufy…….
Beh, lui era, si, insomma……era Rufy.
 
Troppi erano gli aggettivi che potevano descriverlo e stare lì, ad elencarli, avrebbe richiesto almeno una giornata intera. Per lei era un amico speciale, fuori dal comune, con un sorriso talmente grande da risultare incancellabile. Parlava senza essere influenzato da concetti esterni o nozioni scientifiche, seguiva il cuore e basta, proprio come un bambino. Ciò nonostante, era molto più maturo di quanto desse a vedere: aveva un modo tutto suo di agire e pensare, basato su un metro che non faceva distinzioni, e questo, nella sua semplicità, rivelava quella profondità d’animo che l’aveva colpita fin dall’inizio. Per lui, non c’era niente di più importante che realizzare il proprio suo sogno e l’incolumità dei suoi amici, una ragione più che valida per mettere in gioco la sua stessa vita. Il peso di quel ruolo era grande, essere capitano significava farsi carico dei propri compagni, dei loro sogni, di tutto ciò che poteva renderli felici o tristi. Sebbene fosse un aspetto apparentemente irrilevante, in realtà, era più prezioso di qualunque tesoro, in quanto fungeva da collante per ogni brutta situazione. Forse Rufy, col suo aspetto o il suo modo pensare, non sarebbe mai stato visto come un “Normale capitano”, ma era proprio il suo essere sé stesso che teneva insieme tutta la ciurma: non mancava mai di sorridere, di guardare avanti a sé senza rimpianti o di fare qualcosa che nessun’altro si sarebbe mai permesso di compiere.
 
Era fatto così, questo era Monkey D. Rufy, lo strampalato pirata col cappello di paglia.
 
“Scusa, Rufy”, fece di nuovo la bambina, guardando il ragazzo, per poi rivolgersi agli altri “E scusatemi anche voi. Mi sp….”
“Shishishi! Ma di che cosa, Shion?” ridacchiò lui, scompigliandole i capelli dorati “Non c’è nulla per cui tu debba scusarti!”
“……..Davvero? Cioè, non devo scendere dalla nave?” domandò allibita.
“E perché mai dovresti farlo? Io ho un nonno che fa il marine, ma non mi ha impedito di diventare un pirata!” esclamò lui, lasciando da parte i mesti ricordi di quel vecchio pazzo che soleva legarlo e abbandonarlo nella foresta per notti intere “E poi, scommetto che tuo padre è un grande!”
“Oh, si! Lo è!” replicò la piccina, ridestandosi “Lui è il migliore! E’ un tipo tosto, come te!”
“Che figata! Voglio conoscerlo!” affermò con due stelle a posto degli occhi.
“MA SEI MATTO?! QUELLO TI ARRESTA!” gli urlarono in coro i compagni, esclusa una Nico Robin ridacchiante.

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Capitolo 14
*** Suppressed awareness. ***


Buonasera e buon venerdì a tutti! Mandando un mega saluto a tutti quelli che mi seguono, vi lascio alla lettura del quattordicesimo capitolo!



Era scesa nel magazzino della Thousand Sunny dopo averla percorsa tutta quanta, senza sapere bene dove andare.
Aveva camminato in continuazione, con la sola intenzione di non volersi far vedere, mentre tentava goffamente di ricacciare dentro di sé l’indignazione crescente. Se fosse rimasta un minuto di più sul ponte di coperta, avrebbe rischiato di trasformarsi in una iena pronta sbranare il primo malcapitato passatole vicino. Lo sapeva perfettamente, nessuno poteva conoscerla meglio di sé stessa, e quando le capitava, necessitava di rintanarsi in un posto isolato, lontano da tutto e tutti, senza diventare più scorbutica del solito. Il magazzino di una nave pirata non era esattamente il posto migliore del mondo, né quello da lei desiderato: le gambe ce l’avevano portata senza che lei avesse voce in capitolo, ma, pensandoci attentamente, quelle mura stipate di provviste erano esattamente quello che faceva al caso suo. Così ben imbottite, davano l’impressione di isolare quel grande spazio dal resto del mondo.

Stendendosi su di un grosso sacco di grano, Azu incrociò le braccia dietro la nuca, cominciando a guardare il soffitto in silenzio, senza esprimere un personale giudizio: centinaia di pensieri stavano affollando la sua mente e lei neppure ci stava provando a metterli in ordine. Non sarebbe servito a nulla, poiché niente di quanto aveva, sarebbe divenuto qualcosa a cui potesse rifarsi.
Lei era fatta così: caotica dentro e fuori, incapace di essere sensibile, delicata e fine più del tempo dovuto. Tendeva a divagare facilmente, perdendosi nelle proprie riflessioni anche quando qualcuno le parlava e finendo così per dare voce al proprio istinto. Inevitabilmente, si accorgeva troppo tardi dei suoi errori e quando ciò succedeva, sbuffava e arricciava il naso, sostenendo il proprio orgoglio e cercando di non dare a vedere quanto avesse torto marcio. Una strategia che aveva accumulato una considerevole quantità di buchi dell’acqua, per non parlare poi delle salassate che Lars le rifilava. Quelle proprio non le sopportava, ma, ancora di più, detestava lo sguardo di ghiaccio di suo fratello: le dava la sgradevole sensazione di venire aperta in due, studiata e vivisezionata come una rana da laboratorio, per poi essere chiusa e messa in un armadio ad ammuffire.

Non c’era maniera di descrivere quanto detestasse il parente quando faceva il saccente, per questo, aveva levato le tende prima che potesse dirle qualcosa. Voleva il silenzio, voleva starsene tranquilla e sbollire la cosa senza nessuno che le ponesse stupide domande. Non poteva dirsi arrabbiata, no: quanto covava all’interno del suo animo non era ancora sfuggito al suo controllo emotivo. Era acerbo, alle prime fasi, un agglomerato di ricordi e parole che, tempo addietro, l’avevano vista indignata e scandalizzata come non mai. Un flebile respiro di quel che aveva già affrontato e ingoiato per amore di quella bambina dai capelli dorati a cui era tanto affezionata. Si, perché tutta la sua sopportazione, il suo silenzio, era unicamente per Shion, la cui felicità era la sua. Vederla sorridere e giocare con allegria era come ammirare un piccolo sole lucente nel grande cielo azzurro, e lei non desiderava altro che questo continuasse a splendere per sempre. Ma come poteva, come poteva fare finta di niente, quando quello che sapeva, stava cercando di risalirle in gola peggio di un conato di vomito?
Non era giusto, né in un verso, nè in un altro e il doversi trattenere la faceva impazzire, torturandola lentamente e con diligenza. L’insopportabilità le rodeva come una roccia di lava incastonata nel torace, bruciandole la pelle man mano che affondava nei muscoli: la sensazione che quei ricordi le donava, era dolente, nauseante, e per quanto il guardare il soffitto stesse diventando un’attività interessante, niente le impedì di sbuffare sonoramente.
 
“Ma tu guarda. Non pensavo che ti avrei trovato proprio qui.”
 
Il sentire quella voce calma e pacata, non fece altro che rendere ancor più nero l’umore di Azu, la quale non si degnò di guardare chi fosse appena entrato. Sapeva benissimo chi era, avrebbe riconosciuto la voce di Lars anche se fosse stata cieca, sorda, zoppa e muta. Una ragione in più per continuare a osservare il soffitto e perdersi nei suoi particolari. L’ultima cosa che voleva, era instaurare un dialogo con il più grande, che, nel frattempo, aveva chiuso la porta senza emettere alcuno scricchiolio. Dall’alto dell’esperienza accumulata, l’albina era perfettamente conscia di non poter vincere contro Lars, specie in uno scontro verbale: era una causa persa in partenza, l’ennesimo colpo basso al suo orgoglio. L’essere distaccata o, quanto meno, provare a mantenere un comportamento degno di una persona calma, era l’unica soluzione a cui poteva aggrapparsi, sebbene fosse un’impresa il solo provarci.
 
Lei non era Lars, ma pur di non perdere la faccia e di convincerlo a lasciarla in pace, era anche disposta a slogarsi l’intera mascella.
 
"E’ tutto a posto?”
 
Ecco che partiva con la domandina inquisitoria……
 
“Certamente, non vedo per quale motivo non dovrebbe esserlo”, rispose lei, con fare impeccabile e perfettamente calmo.
 
Poteva resistere, fintanto che non lo guardava in faccia.
 
“Non sai mentire”, la ammonì lui, incrociando le braccia.
“Certo che so farlo!”, ribatté la ragazza, mettendosi istantaneamente seduta.
“Oh, allora devo essere un pessimo osservatore, perché mi è sembrato il contrario”, proseguì il parente, con quel ghigno vittorioso che tanto la faceva imbestialire.
 
Tempo tre secondi, e l’albina si diede della stupida rincretinita: ma che accidenti! Si ripeteva mentalmente di mantenere un certo decoro e poi si faceva scoprire su due piedi?! Si sarebbe presa a schiaffi da sola.
Adesso che aveva spianato la strada a suo fratello, quello non si sarebbe fermato manco si fosse messa a pregarlo in ginocchio. Odiava quel suo intrufolarsi nei crucci emotivi altrui: come individuava uno spiraglio, vi si annidava dentro, uscendo soltanto quando aveva compiuto il proprio dovere di “Voce della verità”, ma quello che la faceva veramente incavolare, era che questo non si impegnasse nel farlo. Non prendeva una persona e la costringeva a parlare, no: lui non era quel genere d'individuo che s'impicciava dei fatti altrui, si occupava solo ed esclusivamente di lei. Avere le attenzioni del proprio fratello maggiore era qualcosa di asfissiante per lei, perché il suo modo di guardarla e giudicarla la metteva in soggezione: i suoi occhi di ghiaccio la immobilizzavano, impedendole di scherzare sull’argomento o di sfuggirci. La costringeva a stare dov’era, a parlare, sebbene lei la pensasse diversamente. Scandagliava le sue emozioni fino a denudarle, mostrandole con quanta semplicità il suo pensiero fosse smantellabile e facilmente influenzabile da particolari parole. Bastava poco perché lui la spogliasse di quelle assurde difese con cui cercava di tagliarlo fuori e a lei non piaceva, perché la costringeva a guardare in faccia quelle stesse sensazioni che soffocava regolarmente col suo temperamento. Non temeva di affrontare la realtà, ma solo di mostrarsi debole davanti a certi aspetti della vita.
 
“Avrai preso un abbaglio, caro il mio bel fratellone”, gli disse lei, ridestandosi, per poi tornare a sdraiarsi con le braccia incrociate dietro la testa “Io sto benissimo. Avevo solo voglia di riposarmi un po’.”
“Nella stiva della nave?”
“E’ un magazzino”, puntualizzò lei.
“Che si trova nella stiva della nave”, replicò con ancor più precisione l’albino.
“Quello che ti pare!” sbottò infine, chiudendo gli occhi “Ora, cortesemente, vuoi lasciarmi riposare? Sono piuttosto stanca.”
 
A essere sincera, una dormita non le avrebbe fatto tanto male. Quel dannato di Red l’aveva quasi spinta a tirare fuori il peggio di sé, per non parlare poi dei suoi allenamenti. Il suo corpo, oramai, era abituato a sopportare ogni tipo di fatica, ma questa soleva presentarsi quando si dimenticava di avere certi limiti. Per quanto le riguardava, Azu sarebbe stata capace di allenarsi per giorni interi, se il suo corpo fosse stato esente dal provare dolore o spossatezza.
Strusciando la schiena contro il sacco di grano, la ragazza vi si accoccolò meglio, già percependo il torpore pesarle sugli occhi e rilassarle gli arti. Strano da dirsi, ma quel coso era comodo: forse, ciò era dovuto al fatto che la punta di soddisfazione personale che le saltellava sull’animo, stava rendendo quel momento così perfetto, da farle sembrare tutto ancor più piacevole. Aveva appena sentito la porta chiudersi e il silenzio calare, quindi, con sua grande gioia, Lars doveva aver alzato i tacchi. Si sarebbe messa a ballare sulle mani se fosse stata di umore decente, ma visto che doveva ancora seppellire il restante della matassa, preferì concentrarsi sul bel sonno che intendeva farsi. Niente l’avrebbe distolta dal godersi il meritato riposo, salvo quella improvvisa quanto stretta presa, che le afferrò saldamente il braccio per tirarla su e dunque metterla seduta.
 
Un’imprecazione mentale si accompagnò alla sua espressione furente, nell’istante in cui vide lo sguardo fermo e impassibile di Lars.
 
“Ma che modi!” esclamò lei, inviperita “Si può sap….!”
 
Gli avrebbe urlato volentieri addosso, ma come il maggiore le prese il mento fra le dita, qualcosa le ordinò di stare zitta. Era avvenuto quel contatto che lei tanto detestava, quel tocco da cui non riusciva mai a sottrarsi: le iridi acuminate di Lars la trafissero con precisa impassibilità, impalando sul posto la sua ostinazione e facendo evaporare il suono della sua voce senza alcuno sforzo. Era libera di provare a liberarsi, la sua volontà non era stata toccata, ma non era comunque in grado di muoversi come voleva. Il magnetismo che lo sguardo di suo fratello emanava, era qualcosa di assolutamente unico e inimitabile.
 
“Tu non sai mentire”, le fece nuovamente notare “Quindi, ti ripeto la domanda: è tutto a posto?”
 
Se la ragazza avesse avuto sotto mano uno specchio o un qualsiasi pezzo di vetro, le sarebbe stato possibile vedere una tremolante vacillazione attraversarle gli occhi, la stessa che ora stava vedendo riflessa in quelli di Lars: seppur chiarissimi, con un’appena accentuata sfumatura azzurrina, questi stavano mostrando un disagio che la ragazza trovò incredibilmente identico al suo. Era come un libro aperto sulla pagina più intima e personale della propria vita, una parte che non voleva che nessun altro, oltre a lei, vedesse. Purtroppo, a suo fratello, era difficile nascondere qualcosa. Lasciava passare scaramucce superficiali, ma non le questioni che vedevano entrambi coinvolti. Sapeva come e quando agire, senza calcare l’aria con la sua assidua presenza. Riprendere costantemente un problema non lo faceva di certo scomparire, ma quando esso pareva sul punto di esplodere o pronto a corrodere l’animo dentro cui risiedeva – quello di lei, per l’appunto -, Lars compariva dal nulla, zittendo il suo ego con il solo sguardo.
 
Di fronte alla domanda dell’albino, la ragazza percepì la propria ostinazione fermarsi a metà strada, lasciandola muta e impotente. In qualunque altra occasione, non si sarebbe fatta troppi problemi a prendere per il colletto il fratello e scaraventarlo nell’angolo, ma adesso….no, non poteva, non con lui così maledettamente serio. Le aveva bloccato ogni via di fuga, ogni tentativo di evasione. Non stava affatto scherzando, nella sua voce c’era tutto tranne l’ironia. Poteva vincere o, meglio ancora, svignarsela? Decisamente no. Non ci era mai riuscita e di certo lui non le avrebbe concesso la grazia, non con quello che stavano per affrontare: l’unica cosa che le rimaneva da fare, che doveva fare, era abbassare la cresta…..
 
“Perché mi poni domande di cui già conosci la risposta?” gli domandò poi lei, disfacendosi della sua presa.
“Spero sempre che tu mi risponda decentemente”, le rivelò lui.
“Tsk! Faresti meglio a rinunciare.”
“Se lo facessi, saremmo entrambi nei guai.”
 
E con quell’ultima replica, cadde nuovamente il silenzio. Uno di quei silenzi di stallo, anticipatori della grande tempesta, dove tensione, parole e sentimenti, si mescolavano fra di loro con irrazionalità, ma cercando di dare vita a una ordine quanto meno decente. Era inevitabile, predestinato, e i due albini ne erano fin troppo coscienti: sebbene fosse stata la ragazza a innescare tutto, con quella sua improvvisa fuga dal ponte di coperta, il maggiore sapeva che quel momento, alla fine, sarebbe accaduto. Era solo questione di tempo. Tutti, lui compreso, arrivavano al punto di sfogarsi per qualcosa: tenersi tutto dentro e fare finta di nulla non era mai una buona scelta, perché si finiva solo per fare del male a sé stessi. Azu aveva raggiunto il suo punto critico, ma piuttosto che parlarne con lui, era disposta a tagliarsi la lingua. Non si trattava di un argomento nuovo alle sue orecchie, men che meno una di quelle cavolate adolescenziali che, per grazie divina, si era risparmiato. No, lui conosceva sua sorella, le sue abitudini, le sue preferenze e anche quando decideva di abbuffarsi di torta farcita di pesche e gelato: se aveva scelto di rifugiarsi in un angolo remoto e lontano da altri esseri umani, la ragione non poteva che essere quella. Per quanto potessero scandagliare il tutto, la questione, nella sua generalità, non sarebbe mai cambiata, perché loro non potevano metterci le mani direttamente sopra. E la rabbia di Azu stava proprio lì, nell’impotenza, nell’annuire con la testa abbassata, facendo finta di niente.
 
“Hai intenzione di fissarmi per tutto il santo giorno o ti decidi a dirmi qualcosa?” sbuffò lei, rifilandogli un’occhiataccia.
“Sei ansiosa che ti faccia la predica?”
“Non sfottere. E’ solo che prima mi libero di te e prima potrò dormire in santa pace”, rispose “Quindi, vediamo di farla finita subito.”
“Come vuoi, ma visto che dovremo comunque stare qui sotto per un po’, potresti cominciare a dirmi cosa, questa volta, ti ha fatto andare su di giri.”
 
Azu si rabbuiò nuovamente, stringendo le spalle e guardandosi le punte dei piedi. Era logico che ad avere “La prima mossa” fosse lei. Altrimenti, in che altro modo sarebbe potuta iniziare quella tortura psicologica?
Accavallò le gambe e inspirò profondamente, ma senza schiudere le labbra. Che il succo della questione fosse uno solo era evidente, e d'indecisioni, sul come partire, lei non ne aveva. Non era una persona con i peli sulla lingua, se voleva dire una cosa, anche la più cattiva, la diceva senza troppi preamboli. Neppure lei seppe spiegarsi il perché avesse esitato: come il pensiero formulato le arrivò sulla punta della lingua, cacciarlo fuori fu facilissimo.
 
“La sua ansia…”, mormorò lei, storcendo la bocca “La trovo…asfissiante.”
“Saresti preoccupata anche tu, se tua figlia fosse lontana da casa. L’ha detto pure Nami.”
“Non me ne frega niente di quello che ha detto Nami o chiunque altro” affermò seccamente “Sai cosa intendo dire, così come so che anche tu la pensi esattamente come me.”
“Può anche darsi, ma io non cambio umore di punto in bianco e me ne vado senza prendermi la briga di dare una spiegazione. La gente non è stupida, Azu, specie Shion. Lei per prima si accorge quando c’è qualcosa che non va in noi”, la rimproverò con tono ancor più freddo.
 
Il fatto di averla colpita su di un tasto così dolente, fece scattare la molla che teneva buono il fremere nervoso dell’albina. Come il sacco di grano rotolò a terra, il colletto del gilè nero di Lars venne strattonato con violenza dalla sorella, in piedi davanti a lui, con la morte dipinta sul viso.
 
“Proprio per questo me ne sono andata!” sibilò a denti stretti lei “Pensi che io sia talmente stupida da non capire, che se Shion scoprisse che la sua tanto amata madre ha avuto un’altra figlia prima di lei e che ha avuto il coraggio di abbandonarla, ne rimarrebbe completamente distrutta?! Oh, ma certo! In fondo, fra i due, sei tu quello intelligente!” esclamò, con ironia pungente “Sei tu che vesti i panni della brava guardia del corpo, mentre io sono quella che deve essere ripresa come una bambina, perché è incapace di stare zitta al momento opportuno! Beh, caro mio, voglio dirti una cosetta al riguardo: forse non sarò una persona riflessiva come te, forse non sarò capace di tenere a freno la lingua, ma so benissimo quanto questa faccenda segnerebbe Shion, non credere che io non tenga alla felicità di quella bambina, perchè non è così!”
 
Ecco il nodo della questione.
Era inevitabile che saltasse fuori, così com’era inevitabile che Azu scattasse e tirasse fuori quella rabbia che stava cercando di nascondere con la sua diffidenza. Aveva aspettato troppo perché continuasse a fare finta di niente, ed era già molto che i suoi occhi non le stesse bruciando per un pianto represso: non che lei dispensasse lacrime con facilità, era fin troppo orgogliosa e dura per farlo, ma quella faccenda la faceva sempre imbestialire, da qualsiasi angolazione lei decidesse di affrontarla. Il sapere la rendeva irascibile, tesa come una corda di violino, e al minimo cenno, doveva correre via per evitare che Shion scoprisse quella parte di lei che tanto detestava. Era obbligata a farlo, così come lo era Lars, ma lui non aveva problemi a controllarsi: era compito suo proteggere la sorella da sé stessa, perché le parole, nella maggior parte dei casi, contenevano più veleno di quanto ne avesse un serpente a sonagli e lei tendeva a dire tutto quello che pensava senza mezzi termini.
 
I suoi rimproveri, i suoi “amorevoli” pugni in testa e quelle occhiatacce lapidarie, servivano a porle il freno che lei non aveva e mai si sarebbe la briga di costruirsi: non nascondeva che, ogni tanto, avesse dispensato scappellotti per il solo piacere di ribadire la propria posizione, ma questi non erano nulla in confronto alle discussioni che l’albina aveva avuto con la signora Milena. Tre di quelle erano bastate per rendere il loro rapporto instabile, pieno d'incrinature, coperto da una finta e passabile collaborazione: uno squallore splendente, tenuto su solo per la felicità di quella bambina che entrambe amavano. Cucire quanto strappato o anche solo tentare di ritrovare quei punti d’incontro, ora persi nel vuoto, non erano intenzioni più realizzabili, perché le opinioni di ambedue si respingevano costantemente. Mutare un giudizio estremo non era una cosa facile, e Azu era fermamente decisa ad attaccare la diffidente freddezza della signora Milena con tutta sé stessa: una madre che abbandona una bambina così piccola al suo destino, solo per il suo sangue sporco, non merita null’altro che il disprezzo. Questo credeva.
 
Per lei non esisteva nulla di più crudele a quel mondo, era una cosa che le aveva sempre fatto accapponare la pelle per la nausea, ma Lars, per quanto comprendesse le sue opinioni, la doveva comunque fermare: l’ostinazione che accecava l’albina era così abbagliante, così accecante, da coprire i punti di vista che lei nemmeno si  sognava di prendere in considerazione. Testona com’era, si rifiutava categoricamente di includere novità nelle sue convinzioni, ma lo faceva soltanto perché, in quel contesto, lei era vista come una mina altamente instabile, pronta a esplodere nel momento meno opportuno: la feriva essere vista in quella maniera, il cuore le sanguinava di dolore e lei, per nascondere il tutto, alzava la voce, stringeva i pugni, e dava voce ai propri pensieri. Azalea Gallower era molto vulnerabile su ciò, per tale ragione Lars si premurava sempre di intervenire prima dell’irreparabile: aprirle gli occhi sulle sue certezze, era la sola scelta che aveva per calmarla, anche se egli era perfettamente cosciente del fatto che la sorella non avrebbe mai accettato le sue vedute.
 
“Io non ti reputo una stupida”, le disse piano “Ne penso che tu non sia in grado di capire la faccenda. Ritengo solo che il tuo giudizio sulla signora Milena sia troppo affrettato e involontario.”
“Cos’è? Adesso ti metti a difenderla?” le domandò lei, senza staccare le proprie dita dal colletto del suo gilè.
 
Riecco che partiva ad attaccarlo…
Dal profondo di sé, lo spadaccino si lasciò sfuggire un sospiro divertito: si comportava proprio come una bambina e, nonostante lei stessa lo avesse ammesso, era come se in quel momento se ne fosse completamente dimenticata.
 
“No, io non sto dalla parte di nessuno”, le rispose atono, poggiandole le mani sulle spalle “E’ solo che non voglio vedere Shion affrontare qualcosa di così grande prima del dovuto.”
 
Fra tutte le risposte che l’albino avrebbe potuto scegliere, quella era la sola che si adattasse al suo carattere e alla sua personalità. Apparentemente, sembrava non appoggiarsi ad alcuna base, ma come Azu colse l’assenza di luce negli occhi del più grande, riuscì a percepire quella sorta di calore fraterno che lui stava cercando di trasmetterle: i suoi occhi di ghiaccio avevano perso il loro solito vigore, quel bagliore dalle sfumature sinistre capace di far vacillare chiunque tentasse di attaccarlo, lasciando ampio spazio a una distesa di neve infinita e colma di vuoto interiore. Non era mai successo che suo fratello perdesse la propria fermezza, così, di punto in bianco, e Azu non era pienamente convinta di ciò: lui stava su un piano differente da suo, un piano più umano, se così si poteva chiamare. Non si nascondeva dietro l’orgoglio, non tirava giù mezzo mondo per una qualche superficiale stupidata, lui era……Lars.
 
E lei, in qualità di sua sorella minore, avrebbe dovuto – teoricamente – conoscerlo meglio di chiunque altro. Ma allora, perché non riusciva a capire? Perché il volto di suo fratello era così diverso dal solito? Il non riscontrare quell’espressione nel suo personale vocabolario mentale, fece si che l’incertezza risucchiasse l’adrenalina presente nel sangue di lei, calmandola quanto bastava perché allentasse la presa sul colletto nero di lui. Rilassò le sopracciglia e schiuse le labbra senza emettere alcun suono flebile, ma senza giungere al perché di quel crucio appena emerso. Doveva forse capire qualcosa? Certo che si. Lei, più di tutte le persone che conoscevano il ragazzo, avrebbe dovuto intuire fin da subito la ragione per cui il fratello era appassito tanto velocemente. Avrebbe dovuto, quanto meno, sapere che cosa si nascondesse nell’animo dell’albino, ora scuro e profondo come gli abissi dell’oceano.
 
Fremette non appena le dita di suo fratello accentuarono languidamente la presa sulle sue spalle: quel semplice contatto fra pelli fraterne la bloccò sul posto, lasciando che un brivido percorresse tutti i suoi muscoli. Se solo fosse riuscita a distogliere lo sguardo dal suo…….
 
“Io capisco il tuo disappunto, Azu, non è una cosa su cui si possa chiudere un occhio, ma sbagli a credere di essere l’unica ad aver ragione”, riprese lui con molta eloquenza.
“Che….” era così scombussolata che non riuscì neppure a formulare la domanda.
“Ti ostini a guardare la cosa solo da un verso e non è così che funziona”, continuò lui “E’ vero che la signora Milena ha commesso un terribile sbaglio e che forse, nel suo fare beneficienza, cerca un modo per cancellare il passato, ma devi considerare il fatto che noi, in tutto questo, siamo dei semplici spettatori: lei ha pagato un prezzo altissimo ed è molto probabile che dovrà pagare ancora per come sta agendo adesso. Tu sai a cosa mi riferisco.”
 
Fu come se un timore di natura sconosciuta si fosse appena dissolto, donando sollievo a chi era stato in pena per tanto tempo. La mente di Azu si aprì insieme ai suoi occhi perlacei, luminosi e intrecciati con quelli del fratello, uniti in un tutt’uno inscindibile. Arrivò a toccare quella parte di verità con le sue mani, non trovandovi nulla per cui valesse la pena lottare verbalmente: era tutto lì, esattamente come Lars aveva detto. Nella sua limpidezza, quella storia mostrava una cruda realtà che, silenziosamente, si era fatta largo indisturbata, contornata da un dolore e da una frustrazione che nessuno dei due aveva mai provato. La signora Milena aveva vissuto una terribile esperienza in quello che avrebbe dovuto essere il momento più felice della sua vita e nessuno poteva comprendere pienamente che cosa avesse subito, neppure suo marito. Figurarsi loro, poi, che neppure facevano parte della sua famiglia, per quanto vicini che fossero. A prescindere dal legame instaurato con Shion, loro non erano i suoi fratelli effettivi, ma semplicemente le guardie del corpo. Nemmeno sarebbero dovuti venire al corrente di un fatto tanto personale, ma il destino aveva voluto far si che i loro animi scoprissero quel piccolo segreto affilato quanto le lame di una forbice: se questa avesse reciso i preziosissimi fili che legavano la piccina a tutte le persone a lei care, tutto il suo mondo avrebbe perso valore e importanza, distruggendole il cuore senza alcuna pietà.
 
Lo sapeva Lars, lo sapevano i signori Yokozomi, così come lo sapeva Azu….
 
Ma era proprio il sapere che rendeva nervosamente inquieta quest’ultima: odio, indignazione, paura e indecisione smettevano di susseguire un ordine decente non appena si chiedeva cosa sarebbe successo, quando il momento fatidico sarebbe arrivato. Era lì che la sua lucidità riacquistava potere e lasciava che la rabbia s'innalzasse al di sopra di tutto: cosa le faceva credere che la signora Milena avrebbe riaperto quella vecchia ferita, solo per essere completamente sincera con sua figlia? Che garanzie c’erano, al di fuori della parola data?
No, Azu era fermamente convinta che la donna non avrebbe mai trovato il coraggio di parlare con Shion, per questo c’era tanto attrito fra di loro. Entrambe temevano le sue reazioni e la ragazza, emotivamente confusa, non sapeva se prendersela per il silenzio della madre o per il senso di amarezza che provava ogni qualvolta vedeva il tenero sorriso della bambina: dirle la verità, come giusto che fosse, o continuare a tacere per non segnarla?

Ogni volta che se lo chiedeva, la risposta scivolava via dalle sue mani e l’albina non poteva far altro che abbassare la testa e nascondere gli occhi dietro la frangia, come in quel momento.
 
“Lei non glielo dirà mai. Ha troppa paura per farlo”, mormorò roca lei, “Shion ci odierebbe tutti quanti e nessuno la potrebbe biasimare. Scoprire che le abbiamo mentito su una cosa del genere, dopo che le è stato insegnato a non dire bugie per non ferire le persone a lei care, la spingerebbe a perdere la fiducia in tutto quello che crede. E io mi odierei a morte per questo.”
“Allora, cos’è che vuoi realmente fare?”
 
Quella era la domanda portante, quella su cui si reggeva tutta la loro conversazione.
 
“Io…”, iniziò incerta “Io…io non lo so. Non so cosa pensare, non ho idea di come comportarmi. So solo che quando sento la signora Milena preoccuparsi a quel modo per Shion, il sangue mi bolle nelle vene.”
 
Infine era crollata. Il suo orgoglio l’aveva lasciata alla deriva, debole e prosciugata di tutte le forze che, fino a quell’istante, l’avevano tenuta in piedi: probabilmente sarebbe caduta a terra, se Lars avesse tolto le mani dalle sue spalle. Quella sua ultima incertezza non aveva l’amaro sapore della sconfitta, ma, ugualmente, Azu si sentì a disagio, appesantita dalla sua incapacità in tutto ciò: al di fuori del parlare, del dire la sua, non vi era nulla che le permettesse di cambiare quello che desiderava, e ne era sempre stata cosciente. Il suo combattere contro quello che riteneva ingiusto, era la sola scelta a sua disposizione, la sola maniera per non guardare in faccia quella realtà che tanto la confondeva, ma per quanto grandi fossero i suoi sforzi, questa usufruiva unicamente della sua presenza, per incrinare la sua spavalderia. Il percepire la propria ostilità sgonfiarsi, liberando il sangue da quell’effetto inquinante, le permise di tornare a respirare con la regolarità perduta: non si era minimamente accorta di quanto il suo corpo fosse stato teso e tirato. Muscoli e nervi avevano lavorato così freneticamente che, adesso, stavano chiedendo pietà per via di quella spossatezza interiore che si era appena appoggiata su di loro: era incredibile quanto grande fosse il potere accecante dell’istinto.
 
Soltanto riprendendo il controllo di sé stessa, l’albina riacquistò le forze necessarie per  guardare ancora una volta suo fratello in faccia: solo lui conosceva l’esatta vulnerabilità che si celava dietro il suo comportamento grottesco, la fragilità emotiva che emergeva soltanto quando non sapeva più a che cosa aggrapparsi. Azu era istintiva, manesca, irascibile, ma anche una ragazza, un essere umano e, come tale, incapace di ignorare i propri sentimenti o sopprimerli a lungo. Se proprio doveva cedere davanti a qualcuno, preferiva farlo con Lars, da soli, dove nessun altro poteva interferire: lasciando da parte i loro bisticci, il fratello non era così stronzo da andare a dire ai quattro venti quanto diventasse sensibile, in quei particolari momenti. Anche perché, nel caso si fosse permesso, lei lo avrebbe ringraziato con un poderoso e amorevole calcio sugli stinchi.
 
Dal canto suo, Lars si lasciò scappare un effimero sorriso gentile: era raro che vedesse la vulnerabilità di sua sorella a distanza così ravvicinata, tanto che non riuscì a mantenere la serietà con cui l’aveva inchiodata sin dall’inizio.
 
“Che hai da sorridere?” gli domandò lei, guardinga.
“Niente, ma è bello constatare che sotto la scorza da scaricatore di porto hai un minimo di sensibilità femminile. Sono quasi tentato ad abbracciarti”, ghignò lui.
“Provaci e ti stacco a morsi i gioielli di famiglia ”, lo minacciò “E’ già tanto che tu non mi abbia attaccato qualcosa con quelle tue sporche manacce”, terminò poi, dandogli un leggero spintone.
“Non parlarmi come se fossi un appestato. Ti ricordo che fra i due, l’animale sei tu.”
 
L’ennesima frecciatina irrobustì l’aura omicida dell’albina, che squadrò con ancor più cattiveria il fratello, incurante dell’effetto delle sue parole.
 
“Stai rischiando grosso, sappilo”, si limitò a dire lei “E comunque, io stavo parlando di una cosa seria.”
“Lo so, ma non vedo cos’altro puoi aggiungere”, le disse lui, dandole le spalle e avviandosi verso la porta “Se ci pensi bene, puoi darti da sola le risposte che cerchi.”
 
Ancora una volta, l’enigmaticità del più grande, le riempì la testa di tanti punti interrogativi. Quello era uno dei tanti momenti dove la logicità del fratello pareva contorcersi più del solito, stritolandole il cervello come fosse la pezza usata per lavare il pavimento: prima vestiva i panni dell’inquisitore supremo, poi quelli del misterioso….. non sapeva mai se le stesse fornendo il pezzo mancante per completare il puzzle o se stesse cercando di trovare una maniera più fine ed elegante per ricordarle quanto ci godesse a metterla in difficoltà.
 
“Ti costa tanto illuminarmi?” sbottò lei, incrociando le braccia e guardandolo male “Mi hai costretto a vuotare il sacco, adesso abbi la decenza di svelarmi la tua brillante visione.”
 
Pretendere che capisse su due piedi cosa stesse pensando non era richiesta plausibile e facilmente accettabile per il cervello della ragazza, spazientita e poco incline ai giramenti di parole. Poteva arrivarci benissimo da sola, era una cosa che già sapeva, ma toccava a Lars ricordargliela.
 
“Non potremo proteggere Shion per sempre, questo lo sai”, le disse, senza guardarla in faccia “Un giorno diventerà adulta e partirà per realizzare il suo sogno e nessuno di noi potrà impedirglielo. E’ giusto che veda il mondo per quello che è, che cosa sia realmente, così com'è giusto che affronti momenti e decisioni difficili: non sappiamo se sua madre le dirà la verità o meno, ma questo non ci autorizza a interferire così profondamente nella sua vita. Per quanto io le voglia bene, non sono un suo parente, non ho il diritto di assumermi la responsabilità di un compito non mio, ma se arrivasse anche ad odiarmi per l’aver appoggiato il silenzio di sua madre, non l’abbandonerò, perché la sola cosa che non smetterò mai di fare, è sostenerla e non farla mai sentire abbandonata. Shion merita di vedere il mondo con i suoi stessi occhi e questa prima esperienza le servirà per affrontare a testa alta tutti i pericoli futuri, compreso un ipotetico incontro con la sua sorellastra.”
“Ipotetico incontro con la sua sorellastra?!” mancò pochissimo che l’albina si strozzasse con la saliva “Ma che accidenti vai….?”
“Tu credi che sia viva quanto lo siamo noi. Non è forse così, Azu?”
 
La bloccò con la sua voce profonda e ferma, rinchiudendo la sua vene ribelle in una prigione di ghiaccio, nata col semplice contatto visivo. La penombra del magazzino accentuò l’azzurro pallido che colorava gli occhi di Lars, enfatizzandone il bagliore indecifrabile che conferiva al suo viso più impassibilità e delicatezza. I lunghi fili argentati dei suoi capelli cadevano dritti, sfiorando la pelle nivea e il colletto del gilè con flebili tocchi. La cicatrice che gli deturpava il volto parve spiccare in maniera insolita, quasi si fosse scurita appositamente perché gli occhi perlacei di Azu si concentrassero su di essa: vi era un contrasto terribile fra la pelle liscia delle guance e quella rossastra e spiegazzata di quest’ultima. La frangia la copriva in parte, ma non vederla era impossibile. Per le donne come lei, una simile ferita era paragonabile a una profonda incrinatura su di una bambola di cristallo: offuscava la sua bellezza, rendendola un mero oggetto destinato a finire in un cestino. Succedeva questo, agli oggetti che perdevano valore, ma Lars non era minimamente paragonabile a una statuina: lui era una persona e quella cicatrice, benché profonda, evidente, impressa su di lui con una cattiveria a cui la stessa era estranea, lo rendeva ancor più magnetico e contorto di quanto già non fosse.
 
Come lo vide afferrare la maniglia della porta, l’albina ebbe il sentore che quella conversazione, ormai, fosse arrivata agli sgoccioli: ancora poche parole e sarebbero tornati alla luce del sole come se niente fosse successo, lasciando che solo una delle due coscienze riflettesse con più attenzione sull’accaduto. Lars non aveva bisogno di isolarsi da qualche parte per scoprire che nessuno dei due avrebbe potuto compiere un gesto significativo in tutta quella faccenda: per quanto vicini a Shion, il loro ruolo era marginale, delimitato, ma ciò non significava che si sarebbero allontanati dalla piccola. L’avrebbero sempre sostenuta, incoraggiata nelle sue scelte, lasciando che afferrasse e vivesse la sua vita senza costrizioni e rimpianti.
 
Anche quando lei li avrebbe guardati con gli occhi pieni di lacrime….
 
“Non è che credo che sia viva. E’ solo una sensazione”, mormorò l’albina, per poi proseguire “Tu…pensi sul serio che sia possibile?”
“Chi lo sa…”, sospirò il ragazzo “Nessuno può dirci con certezza cosa ci riserva il futuro.”
“Ma non dici sempre che sta a noi pianificarlo?”
“E’ vero, ma questo non ci esenta da sorprese”, ridacchio sommessamente lui.
 
Stette per mettere il piede fuori dal magazzino, quando sentì distintamente le dita di Azu afferrargli i capelli e tirarlo leggermente indietro.
 
“Che cosa c’è, adesso?”
 
La faccia dell’albina aveva un che di dubbioso e indagatorio. Non lo mollava, gli stava letteralmente tirando i capelli con tutta l’intenzione di non lasciarselo scappare.
 
“Senti un po’, tu…”, e gli puntò l’indice contro “Fai tanto la predica su come devo comportarmi, ma anche tu pecchi un po’, in fatto di discrezione.”
“Di che parli?” domandò il fratello, realmente sorpreso per quella nota.
“Parlo del fatto che Shion non è l’unica ad accorgersi quando uno di noi ha qualcosa che non va”, rispose lei “Quindi, prima di tornare dagli altri, ti dispiacerebbe dirmi che cavolo ti passa per quella testaccia? E’ tutto il giorno che sei mogio!”
 
Il fatto che anche Azu usasse i suoi occhi non solo per rifilargli occhiatacce o maledizioni, colpì l’animo di Lars, che preferì tenersi quella scoperta per sé. Insultare l’intelligenza della sorella non era consigliabile, vista la forte instabilità emotiva appena provata, ma, in sincerità, fu sorpreso di quella considerazione tanto sfacciata, perché era vera. Per gran parte di quelle pigre e sonnolenti ore, se ne era rimasto tranquillo sul ponte, a guardare il mare come fosse un gufo ansioso di artigliare il primo topolino capitato sotto il suo becco. L’increspare del mare e i caldi raggi solari che li stavano accompagnando, avevano condotto il suo lungo e silenzioso pensare fino a quel momento, ma senza permettergli di comprendere la natura di quella curiosa tensione nata dal profondo di sé: sfuggiva dalle sue mani senza che lui avesse il tempo di afferrarne anche solo un lembo, si divertiva a stuzzicarlo con soffi caldi e furtivi, lasciandolo davanti a una serie di bivi, il cui fondo era profondissimo. Non era confuso, ma come il calore incandescente della cicatrice divenne un discutibile fastidio, corrugò le sopracciglia e la bocca in un’espressione sofferente, sconcertando la minore.
 
“Lars?”
 
Non era normale che si comportasse così, non lo era affatto.
Il chiamarlo, lasciò trapelare quella minuscola nota d'incerta preoccupazione cresciuta a tempo di record dentro di lei, che la spinse a sciogliere la presa sui capelli del maggiore, sperando che non scappasse via in un momento tanto delicato: seppur consapevole che egli non fuggisse dai problemi o da domande compromettenti, l’albina era all’oscuro delle intenzioni del fratello, il cui volto era semicoperto dalle lunghe ciocche argentate. In qualunque altra occasione, non avrebbe esitato a farlo girare su sé stesso, per poi imporgli un interrogatorio di primo grado, ma la vista parziale della sua cicatrice, inspiegabilmente tintasi di un rosso scarlatto, la fece desistere da quell’intenzione: credette che stesse sanguinando, che il sangue stesse macchiando il viso del fratello, ripassandogli i contorni degli zigomi con impeccabile e accurata precisione.
 
Sapeva che era solo frutto della sua mente, una semplice illusione, ma benché di ferite lei ne avesse viste a bizzeffe, la cicatrice di Lars colpì una delle sue parti più scoperte, esattamente quella dove risiedeva l’affetto per il fratello. Oh, non avrebbe mai ammesso nemmeno davanti alla morte in persona di avere a cuore le sorti di quel rompiscatole, ma ignorare quell’inespressività angosciatamente penetrante, era un gesto troppo grande perché rientrasse nella capacità del suo orgoglio.
 
“Lars”, tentò ancora lei, con più decisione “Che ti passa per la testa?”
 
Doveva sapere.
Un cenno, una parola mal assortita, un segnale fatto col fumo …qualunque cosa andava bene, ma doveva sapere. Mai si era ritrovata preda di un desiderio tanto impellente, un desiderio riguardante Lars, poi! Era ridicolo, poiché la sua scorza - dura quanto il cemento - non lasciava spazio a sdolcinatezze o affetti bambineschi che neppure a sette anni si era permessa di dispensare, ma vedere suo fratello ridotto a quello stato……beh, era spiazzante.
 
Dì qualcosa, accidenti! Pensò lei, cercando di tenere a bada la propria impazienza.
 
Sarebbe stato tutto più facile se l’aria aleggiante non fosse stata tanto spinosa. Le sembrava di star mandando giù dei ricci di mare!
 
“Lars..”, ripeté per la terza volta “ Parli da solo o devo aprirti la bocca io?”
 
A questo punto, tanto valeva che gli cacciasse una mano giù in gola e gli strappasse con la forza quanto desiderava sentire. Lo avrebbe fatto, poco ma sicuro, ma il guardare in faccia Lars, finalmente intenzionato a risponderle, cancellò quell’intenzione dalla sua mente.
 
“Ricordi. Tutto qui”, si limitò a dirle tetro.



“Terra in vista!”
 
Il megafono collegato alla vedetta-palestra espanse la voce di Zoro senza ingrossarla di suoni rumorosi e ovattati. Il ponte di coperta si riempì di passi frettolosi e irregolari, seguiti da esclamazioni e domande irrefrenabili, che non vedevano l’ora di trovare la giusta risposta. Approdare su una nuova isola era a dir poco emozionante e Rufy, in piedi sulla polena della Thousand Sunny, era sempre il primo a esprimere quell'allegro furore.
 
“Chissà che isola è..”, si domandò eccitato Chopper, aggrappatosi alla balaustra per vedere meglio l’imminente meta.
“Non ne ho idea”, mormorò  Usopp, regolando il cannocchiale “Però, sembra molto grande e….wow! E’ bianca! Tutta bianca!” esclamò, slargando così la mascella.
“Un’isola tutta bianca?! Fai vedere!” fece il capitano, sceso dalla sua amatissima postazione, per tentare di prendere il cannocchiale del cecchino.
“Anch’io, anch’io!” si unì Shion, assieme ad un Red saltellante.
 
Nami reputò impossibile che un’intera isola fosse unicamente bianca. Benché avesse visto più stranezze di qualsiasi altro essere umano e viaggiasse con esseri che appartenevano a tale categoria, le riuscì difficile immaginarsi un’isola di un solo colore. Avrebbe capito se si fosse parlato di un territorio invernale, ma il clima era troppo caldo perché potesse verificarsi una consistente nevicata.
 
“Uhm….vista da qui, sembra veramente che sia tutta bianca”, mormorò lei, usando il suo binocolo “Ma è solo un'impressione: ci vorranno ancora una quarantina di minuti perché si riesca a vederne i particolari.”
“Aw! Speriamo che abbiano la cola, laggiù! Devo assolutamente fare rifornimento!” esclamò Franky, incrociando le braccia.
“Pure io. Il frigorifero è quasi vuoto”, aggiunse Sanji.
 
Seppur le scorte non fossero ancora finite, il cuoco della ciurma si era già premurato di compilare una lista mentale di tutto quello che gli occorreva. Con un capitano che mangiava cinque volte al giorno, era essenziale che le dispense fossero sempre piene di ogni genere alimentare, seppur questo significasse dover spendere buona parte del denaro che la Gatta Ladra amministrava diligentemente. Uno stomaco di gomma e un appetito grande quanto quello di cinquecento uomini messi insieme comportava il rischio di doversi ridurre a una misera dieta di sardine o a un forzato digiuno ed era una prospettiva che nessuno voleva sperimentare.
 
“Yohohoho! Che fortuna! Avevo proprio bisogno di sgranchirmi le gambe! Non mi sento più i muscoli!” esclamò  Brook.
“Ma, Brook, tu non ce li hai più i muscoli. Sei già morto”, gli fece notare Shion.
“Oh, già….è vero! Me ne ero dimenticato! Yohohoho!” ridacchiò quello, mentre la piccola lo guardava spaesata.
“Non farci caso, Shion. A Brook piace sempre scherzare sulla sua condizione”, le disse Nico Robin.
 
L’annuire con tutta una serie di goccioloni dietro la nuca fu la sola risposta che la piccola riuscì a dare. Nonostante avesse fatto conoscenza con quei pirati e ci navigasse, non riusciva ancora a comprendere certi loro comportamenti: il Canterino era un personaggio pittoresco, con quella sua forma particolare di Rincretinismo acuto – malattia che affliggeva con più gravosità Sanji -, ma se da una parte provava una forte simpatia per certe sue buffe uscite, dall’altra, faticava a capire il senso di alcune sue battute. Lasciando perdere quel dilemma, la bambina cercò con gli occhi Lars e Azu-chan, appena arrivati sul ponte: così presa a giocare con Red e Rufy, si era accorta solo in quel momento che, ad un certo punto, i due erano scomparsi all’interno della nave. Chissà di che avevano parlato…..
 
“Che succede? Stiamo per attraccare?” domandò l’albina.
“Si, abbiamo avvistato un’isola dove potremo fare rifornimento”, le rispose Chopper.
 
All’istante, gli occhi della ragazzi si illuminarono per la notizia.
 
“Finalmente!” esultò lei, prendendo in braccio il medico e strizzandolo “Un’isola civile dove potrò strafarmi di shopping! Non vedo l’ora di metterci piede!”
 
Ancora una volta, la piccola renna si ritrovò col muso schiacciato contro il prosperoso seno della ragazza, completamente euforica per lo sbarco imminente. Non esisteva niente di più idilliaco di un grazioso negozietto pieno di abiti e accessori, per dare una svolta a quella giornata dall’inizio burrascoso. Considerato il misero numero di capi salvato nell’attacco antecedente all’arrivo a Hanbai e il discorso avuto con Lars, aprire il portafoglio e alleggerirlo di contante era l’unica soluzione capace di sollevarle l’umore.
 
“Azu…non…..respiro….coff!” soffiò Chopper, incapace di liberarsi dalla stretta amorosamente mortale della giovane.
“Oh! Scusa, cucciolino!”, gli disse lei, strofinando il suo naso contro quello blu di lui “Per farmi perdonare, ti comprerò un bel camice tutto nuovo. Vedrai, sarai il medico più puccioso di tutti gli oceani.”
 
Non servirono altri complimenti per far sciogliere il Tenero Peluche in quel suo gongolare ondeggiante. Era più forte di lui, non ce la faceva a resistere alle lusinghe e per Azu era una vera goduria coccolare quel dolcissimo batuffolino marrone dai grandi occhioni. Purtroppo, non si poteva dire la stessa cosa di Sanji, geloso fino al midollo spinale per come lui veniva ignorato dalla bella albina.
 
“Non è giusto….a me mai niente”, piagnucolò il biondo, battendo i pugni per terra “Ma perché?!”
“Perchè sei un cuoco pervertito che sogna in continuazione e mai toccherà nulla”, gli rispose Zoro, sbucato alle sue spalle e senza che nessuno lo sentisse arrivare.
“CHI TI HA CHIESTO QUALCOSA?!”
 
Mancava solo una delle loro ennesime litigate per completare in bellezza la mattinata, ma nessuno si preoccupò di gioire di tale fatto. Non era qualcosa che meritasse un sospiro di sollievo.
 
“Spero tanto che sia una bel posto da visitare e che ci siano un mucchio di cose da vedere”, disse Shion emozionata “Questa è la prima isola che Red vede e deve essere bella per forza. Tu che dici, Rufy?” domandò poi all'amico "Sarà bella, vero?"
“A me basta che ci sia un sacco di carne da mangiare”, fece Cappello di Paglia “Ma sono sicuro che ci divertiremo!”
“Non sperarci”, si fece avanti Lars “Sarà già tanto se ci lasceranno attraccare.”
 
La silenziosa e alquanto atona entrata in scena dell’albino, esortò tutti quanti a guardarlo con sorpresa.
 
“In che senso? C’è forse la Marina?” domandò Usopp.
“No”, rispose il ragazzo, senza districare le proprie braccia.
“E di che dovremmo preoccuparci, allora?” chiese Zoro “Hai già avuto a che fare con quel posto?”
 
Nessuna delle domande poste, era stata tanto fatale quanto quella, ma l’animo dello spadaccino dai capelli argentati non vacillò, ne retrocedette davanti alla paura di parlare. Quel minuscolo puntino bianco aveva le fattezze di una memoria mal digerita, e nonostante questo non fosse ancora ben visibile, Lars non aveva bisogno di avvicinarsi per avere la prova che gli occorreva per dare fondo ai suoi sospetti.
Non avrebbe mai potuto averne su quel luogo. Troppo limpide erano le immagini che incorniciavano quel nome fremente di essere pronunciato dalle sue labbra e che i pirati attendevano di conoscere.
 
“Si chiama San Lorein. E’ dove mi sono allenato”, rivelò.  

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Capitolo 15
*** La città bianca di San Lorein. ***


 
 
San Lorein.
Città Bianca del Nuovo Mondo.
Un’isola come tante altre, ma con una natura troppo schiva e diffidente per accettare all’interno delle sue salde mura qualcuno che non ne conoscesse la reale importanza.
 
Quella lezione, Lars, l’aveva provata sulla propria pelle fin dal primo giorno.
San Lorein era restia ad aprirsi a chi non voleva, troppo attaccata a quello che ne aveva permesso la nascita e troppo altezzosa per guardare chi stava al di sotto dei suoi standard. Non era un mondo che si addicesse ai deboli, né a chi confidava nel mezzo dei due estremi, per questo aveva eretto a propria difesa una spessa e solida barriera come quella. Nel profondo di sé, posando le chiare iridi su quel ben evidente edificio maestoso, avente fattezze identiche a quelle di una reggia, con tanto di colonne greche, l’albino avvertì distintamente un pezzo della propria coscienza tuffarsi in un mare di ricordi vastissimo. La cicatrice bruciò nuovamente, picchiata da un tocco invisibile e accompagnata da un gelido fremito che vibrò contro i suoi vestiti.
 
“Sei a casa, Saphira...”, mormorò lui, socchiudendo gli occhi e lasciando che la frangia li nascondesse parzialmente.
 
La Regina dei Ghiacci pulsò nuovamente, impaziente e quasi desiderosa di uscire dalla custodia di pelle consunta dentro cui era riposta. Biasimare il comportamento di un oggetto, di una spada, perlopiù, sarebbe apparso insensato, contro ogni logica umana, ma le armi di quel genere non avevano nulla che le rendesse comuni: Saphira, insieme alle sue sorelle, non era fatta per essere “Letta” da tutti e Lars lo sapeva.
A lui era stato riservato il trattamento di chi non era originario del posto, aveva provato l’indifferenza, sentito voci e visto sguardi dubbiosi e malfidati, ma non gli era mai pesato: non era andato lì per farsi accettare, ma per plasmare quella pietra allo stato grezzo meglio conosciuto come “Talento”. Il varcare la soglia della città era stata una sua scelta, ma mai avrebbe pensato di tornarci. Il soffermarsi su uno di quei numerosi frammenti che galleggiavano nella sua mente, gli costò una fitta più incisiva al viso: se anche avesse provato a distrarsi, il suo corpo lo avrebbe fatto rinsavire all’istante.
 
Tutti quanti, animali compresi, vivevano un'esperienza che segnava la loro vita: non importava cosa fosse, ma come riuscisse a scolpirsi negli animi e li rendesse dannatamente vulnerabili. Nella sua generalità, un trauma poteva condizionare una vita intera, e questo non perché si era presentato al momento meno opportuno, ma perché il suo perdurare rievocava, oltre a immagini sfuggenti, un assaggio di quei sentimenti crudi e aspri, creduti appassiti con il passare del tempo.
Non c’era alcuna intenzione maligna, niente a cui i fatti potessero ricollegarsi ad un volere divino: era semplicemente il destino. Benché fosse solito affermare che i soli artefici del futuro fossero le persone, la vita era e sarebbe sempre rimasta il mistero più imprevedibile di tutti: la si poteva pianificare nei minimi dettagli, ma ci sarebbe sempre stato qualcosa che ne avrebbe incrinato l’apparente perfezione. Niente a quel mondo era liscio e limpido come la superficie di uno specchio, la vita non si riduceva certo a una monotona e grigia spirale ripetitiva; eppure, se da una parte si poteva essere grati per quell’imprevedibilità, dall’altra, bisognava essere anche capaci di accettarla, per quanto dura e ostica questa potesse essere. Lars lo aveva fatto, e non soltanto perché non aveva avuto altre possibilità, ma perché riteneva giusta già di suo quella decisione. Più il vento si abbatteva contro il suo volto, inoltrandosi fra i suoi capelli argentati, più la sua mente si apriva su quella consapevolezza mai spenta; la percepiva perfettamente, insieme a quell’unica e salda catena che si stava formando grazie ai propri frammenti memonici.
 
Era tornato. Non volontariamente, ma era tornato.



I bambini sono creature molto più sveglie di quanto si pensi. Hanno un metro diverso da quello degli adulti, un occhio più ingenuo e libero, con tanto di bocca incapace di stare zitta davanti a qualcosa che sembra sbagliato. Sono degli esserini curiosi, teneri e anche dispettosi, a cui è impossibile negare la propria attenzione. Shion rientrava in quella schiera sia perché era una bambina, sia perché non era affatto una stupida.
 
Lei lo capiva, quando una cosa non andava per il verso giusto.
 
Quando sua madre le preparava la sua torta preferita, significava che suo padre, per alcuni giorni, non sarebbe rincasato.
Se Azu alternava calma a nervosismo - più del solito, s'intende -, era perché non aveva abbastanza soldi per comprarsi qualcosa di carino.
Quelli erano solo esempi banali, scorci di una vita che aveva imparato a guardare attentamente e a memorizzare. Funzionava così: lei osservava tutto ciò che le interessava e invogliava la sua curiosità, e questo arrivava a comprendere anche il lento strisciare di un paffuto e peloso bruco verde, smanioso di mangiarsi una grossa foglia. Le piaceva sentire l’erba sotto i piedi, il sole sulla pelle, e quello che non conosceva, voleva scoprire. Imparare era una sorta di garanzia, una sicurezza per lei, che manifestava sempre con una domanda generica e spontanea. Per tale ragione, quando qualcosa non andava, sapeva sempre a cosa rifarsi e a cosa appoggiarsi.
 
Eppure...nonostante la parola non le fosse mai mancata, ora sentiva di non dover parlare.
 
L’abisso che si era posto fra lei e la schiena di Lars pareva aver anticipato l’arrivo dei gelidi venti dell’inverno e tale era la sua grandezza, da impedire l’accesso a qualunque sentimento o emozione che si avvicinasse la felicità. Il dubbio ballava sul cuore della biondina con passo svelto e delicato, lasciandola in balia di una domanda a cui non sapeva darsi risposta e che temeva di porre: lo aveva sentito pronunciare il nome di quell’isola, ma non vi era stata alcuna vivacità, nessun interesse….solo una voce tetra e dalla leggerissima sfumatura nostalgica. Del tutto nuova per la piccola Shion, che si ritrovò a guardare Lars con la vana speranza che lui si girasse verso di lei e le sorridesse come sempre. Ma tutto quello che vide, fu la schiena di lui, dove stavano quella larghe spalle a cui lei si aggrappava sempre quando la portava in braccio, dopo una giornata passata a fare di tutto e di più. Le spalle che lei cercava sempre di raggiungere e di toccare, senza un motivo apparente, e che ora, sembravano più lontane che mai.
 
Lars, sei triste?
 
Come se lo chiese, il cuore le si strinse inaspettatamente. Non le fece male, non più di tanto, ma, ugualmente, serrò i pugni in petto, abbassando il mento e ignorando il fatto che Red fosse ai suoi piedi e che stesse guardando lei e il ragazzo con fare perplesso. Se solo avesse saputo esattamente cosa stava succedendo, forse non avrebbe sentito quel peso opprimerle il corpo, ma arrivare a capire quale intricata storia si nascondesse dietro le mura di San Lorein e dietro gli occhi di Lars, era un’impresa che le sue semplici doti deduttive di tenera undicenne non potevano risolvere da sole. Non le piaceva vedere l’amico così diverso da solito, sembrava quasi che non volesse avvicinare nessuno, neppure lei, e questo favorì l’ulteriore approfondimento di quella voragine creatasi fra loro due, per nulla paragonabile alle innumerevoli sbucciature che si era procurata qualche anno addietro, quando aveva voluto imparare ad andare in bicicletta senza le rotelle. Aveva quasi paura a scoprire cosa si celasse sotto la frangia dell’albino, ma il cogliere lo scintillio pulsante di Saphira, fece tremare le sue ginocchia e a far si che il groppo incastratosi in gola, sparisse all’instante. Così presa a osservare Lars, non si era accorta della sua spada, in bella mostra davanti ai suoi occhi, ora sgranati e con le piccole labbra socchiuse per come quest’ultima stava agendo. Non faceva che brillare, emettere bagliori sempre più frenetici, sibilando una melodica e innaturale nenia che si lasciava trasportare ben volentieri dal vento. Sottile e flebile come un ago di vetro, fu una novità per Shion, che si incantò nell’ascoltare quel suono lento e richiamante paesaggi freddi e desolati come le Tundre. Era la prima volta che udiva qualcosa del genere e mai avrebbe pensato che una spada riuscisse a mozzarle il respiro con tanta facilità.
 
Ma si era sbagliata. Come un qualunque bambino della sua età, aveva scoperto che c’era sempre una prima volta per tutto.
 
 
 
“Whoaa!! Non avevo mai visto un’isola del genere!” esclamò Chopper, con gli occhioni luccicanti.
 
Che un posto fosse differente da un altro non era un segreto così grande e complesso. Ognuno aveva le sue peculiarità, si differenziava per qualcosa che lo rendeva tale, per questo, la gente, era sempre curiosa di visitarla. Che fosse una pietanza, uno specifico luogo o un negozietto, le persone necessitavano di soddisfare quella piccola nota di curiosità e aggiungerla alla loro collezione.
 
Ma San Lorein era veramente diversa.
A prescindere da che cosa fosse caratterizzata, il suo solo aspetto esteriore era sufficiente a far intendere agli stranieri, che non era una meta turistica zeppa di negozi dentro cui si poteva stare per delle ore senza comprare nulla. Per esempio, nessuna isola bisognosa di turismo avrebbe circondato i propri confini di spesse mura alte più di quattro metri, con tanto di vedette. Non occorse scandagliare gli ampi spiazzi della spiaggia per cercare dei pontili: salvo uno strato bianco e granelloso - denominato sabbia -, seguito da un praticello a chiazze, adornato da qualche masso, non c’era niente che si avvicinasse a una costruzione umana. Una vera e propria miseria, in confronto allo splendore che gli occhi della ciurma di Cappello di Paglia, ospiti compresi, stavano ammirando con colpita sincerità.
 
“Pazzesco! E' davvero un’isola tutta bianca! Dai, attracchiamo subito!” ordinò Rufy.
“Abbi un attimo di pazienza, stiamo ancora cercando di trovare un punto che ci permetta di arrivare a riva senza intoppi”, gli disse Nami “Con un fondale così basso, dobbiamo stare attenti a non far incagliare la nave.”
“Sarebbe tutto più facile se ci fosse un porto”, arrivò Usopp “Ma qui non ne vedo neppure uno.”
“E’ una cosa piuttosto insolita”, mormorò pensierosa Nico Robin.
“Yohohoho! Magari si sono dimenticati di costruirlo! Anche a me capita di dimenticare le cose, ma forse è perché non ho più il cervello! Yohohoho, skull joke!” ipotizzò scherzosamente Brook.
“Questo spiega molte cose”, fece Sanji, intento a fumarsi una delle sue sigarette.
 
Demenza a parte del Musicista, la ricerca di un approdo si stava rivelando più lunga del previsto: era veramente strano, non si era mai vista un’isola totalmente priva di porti o di pontili, almeno uno dei due doveva esserci per forza, per i rifornimenti e cose varie. Invece niente, vuoto assoluto, e alla ciurma non restava altro da fare che circumnavigare l’isola, nella speranza di trovare un buon punto dove gettare l’ancora. Tuttavia, l’operato stava dando continui esisti negativi e tutto quello a cui i pirati potevano rifarsi, giusto per ammazzare il tempo, era osservare l’esterno della nuova città raggiunta. Era difficile capire su quali progetti fosse stata costruita, ma non occorreva un esperto per coglierne la completa diversità dai territori precedenti: la muraglia che rinchiudeva la città era mastodontica, spessa, con omini che ci camminavano sopra a intervalli regolari. Guardie, con molte probabilità, che forse li avevano già avvistati. C’era da sperare che non venissero accolti con lance, fucili o affini vari, sebbene fosse un’usanza a cui avevano fatto il callo, ma una simile preoccupazione non riusciva minimamente a intaccare l’euforia di Monkey D. Rufy, a pochi passi dal lanciarsi fuori babordo, per balzare direttamente sulla spiaggia. Misteri e pericoli attiravano la curiosità Cappello di Paglia, quanto la carne sapeva fare con il suo appetito; per lui, tutto equivaleva a una missione esplorativa avente il fine di ottenere l’ennesima avventura mozzafiato, ma a giudicare i movimenti accurati e attenti di quelle piccole sagome nere, sarebbe stato più saggio non cimentarsi in colpi di testa troppo espansivi.
 
Con la sua altezza, quel recinto roccioso impediva agli estranei di sbirciare al suo interno, lasciando intravvedere solo dei tetti sbiaditi e quel solo edificio su cui gli occhi dei pirati erano costantemente puntati. Era l’unica cosa che non si poteva nascondere o occultare: spiccava troppo in alto perchè non lo si vedesse, ed era troppo imponente perché non lo si guardasse. Stava nel mezzo della città, con una struttura a più piani, ma, data l’ancora ampia distanza che li divideva, era complicato scorgerne i dettagli.
 
“Pazzesco! Quel palazzo è addirittura più grande di quello di Bibi!” esclamò il cecchino, regolando meglio i suoi occhiali “Chissà chi ci abita…”
“Forse un nobile”, ipotizzò la rossa, sistemandosi una ciocca di capelli, con gli occhi nocciolati puntati sul paesaggio “Edifici del genere, di solito, appartengono a personaggi di spicco e solo Re o Nobili Mondiali possono permettersi un lusso del genere.”
“Potrebbe essere”, si fece avanti l’archeologa, con espressione dubbiosa “Ma non saprei, quel palazzo non mi da l’impressione di essere una reggia.”
“Io invece spero tanto che lì dentro ci abiti un re, perché così ci sarebbe una bellissima principessa che aspetta solo MEEEEEEEE!!!!!” ululò il cuoco, cominciando a roteare all’impazzata, col naso sanguinante.
“Whaaa!! Sanji, no! Fermati!  Franky, bloccalo!!” ordinò il medico, preparando all’istante una delle sue siringhe.
“Subito! Su, vieni qua, tu…”, obbedì il carpentiere, agguantando il compagno e portandolo al cospetto della renna, già pronta ad intervenire.
 
Quando non si avevano camicie di forza a disposizione, le grandi braccia del carpentiere più cool di tutti i mari tornavano sempre utili, specie se si doveva tenere fermo un tiracalci lunatico come Sanji Gamba Nera. Gli scatti di cui il biondo soffriva, erano troppo esplosivi perché delle comuni cinte di cuoio riuscissero a trattenerlo, e siccome non lo si poteva segregare a vita nell’infermeria, il Tenero Peluche si era dovuto spremere le meningi, al fine di trovare un sistema per stabilizzare i sempre più allarmanti livelli di adrenalina dell’amico. Imbottire una persona di tranquillanti non era esattamente una mossa saggia – seppur questi fossero totalmente privi di effetti collaterali -, ma il corpo di Sanji possedeva un metabolismo estremamente bisognoso di cure particolari, poiché la semplice vista di una donna mandava nel caos più completo i suoi organi - cuore, cervello e vasi sanguigni in particolare -.
 
“Tienilo fermo, Franky, altrimenti non riesco a inserirgli l’ago nella vena”, disse l’animaletto.
“Aw! Tranquillo, non scappa”, gli assicurò l’amico “Avanti, fai il bravo e fatti fare l’ignizione……”
“SHIRAOSHI!! VOGLIO TORNARE DALLE SIRENEEEE!!!!!!!” ululò il cuoco, con il viso completamente blu.
 
La pateticità di quel momento da manicomio fu accolta con un minuscolo giudizio e messa in un angolo, giusto perché non interrompesse la minuziosa ricerca di un approdo, ma, nemmeno a farlo apposta, qualcosa successe. Nessuno ci aveva fatto caso, in quanto quella cosa era ormai scontata: perfino Shion aveva imparato che, a seguito degli smielati deliri amorosi di Sanji, seguiva la voce seccata di Zoro, la cui intromissione scatenava l’ennesimo bisticcio della giornata. Vederli o sentirli ringhiare come dei cani davanti all’ultima fetta di carne rimasta, era un’abitudine a cui nessuno dava più importanza, tanto si era inserita nella routine quotidiana, ma quando l’ammonimento assonnato dello spadaccino non arrivò, fu proprio Rufy ad alzare la testa e a guardare il ponte di coperta, con la fortissima sensazione che ci mancasse qualcosa di assolutamente vitale.
 
“Ehi, dov’è Zoro?”
 
La domanda era semplice, niente di così straordinariamente complesso da richiedere la completa attenzione degli altri, ma come Nami si girò per indicargli il punto esatto dove aveva visto il compagno per l’ultima volta, non ci trovò nulla. Lo spadaccino era sparito.
 
“Che sia salito su in vedetta a schiacciare un pisolino?” si domandò Nico Robin, con lo sguardo rivolto all’abitacolo privato del compagno.
 
Avendo imparato a conoscere le abitudini di tutti, la bella archeologa si era detta che se il vicecapitano non era con loro, forse se ne era andato laddove poteva dedicarsi ai suoi allenamenti o a una delle sue saltuarie pennichelle. Lui non sprecava mai del tempo prezioso a fare qualcosa che non rientrasse nei suoi programmi e il dormire come un ghiro in ogni parte della nave – e nelle più svariate ore della giornata -, per quanto potesse apparire pigro e senza significato, per lui, era il solo modo per ricaricarsi e conservare le energie future. Sarebbe stato alquanto strano vederlo cimentarsi in qualcosa di diverso dal sollevare pesi superanti i settecento chili, ma almeno lo avrebbero saputo vicino a loro, sulla nave, giacché si sapeva quanto apocalittico potesse diventare il suo piccolo problemino dell’orientamento...
 
“Qui non c’è!” esclamò il Re dei Cecchini, salito sopra l’albero maestro, per controllare se fosse nella vedetta-palestra.
“Aw! Non è nemmeno in cucina, nel magazzino o in camera”, si aggiunse il Cyborg.
 
Con Sanji sedato al punto giusto, non c’era stato più bisogno che lo tenesse fermo. La sola presenza della tenera renna era più che sufficiente.
 
“Yohohoho! Non è nemmeno nei bagni e nella camera delle ragazze”, arrivò per ultimo Brook, sbucando dal nulla “Ho controllato anche nei cassetti, ma c’erano solo questi intimi col pizzo!” e sbandierò la refurtiva come fosse un bottino di guerra dal valore inestimabile.
 
SBADABADAM!!
 
“Chi ti ha autorizzato a entrare nella nostra camera?!” tuonò la navigatrice, dopo aver steso lo scheletro con un calcio ben assestato.
 
Come da copione, quello rise, ed esclamò qualcosa sul fatto che lui stava semplicemente cercando il compagno e che per essere sicuro di non tralasciare niente - siccome Zoro era capace di infilarsi anche in un camino -, aveva reputato saggio controllare anche negli armadi privati delle ragazze. Una spiegazione che vide la Gatta Ladra portarsi una mano fremente alla tempia, nel mentre la Bambina Diabolica la incoraggiava a non disperarsi.
 
Porta pazienza, si disse, prendi un bel respiro e ingoia tutto.
 
Aveva perso il conto di quante volte si fosse ripetuta quella frase, così come non ricordava il momento preciso in cui l’effetto di essa si era definitivamente consumato. Sicuramente doveva essere stato secoli addietro, perché già percepiva la propria irritazione appianarsi e sparire silenziosamente. Una novità per lei, avente la mente rivolta a quello che poteva essere un grosso problema. La sparizione di Zoro era allarmante: con chiunque altro non ci sarebbero stati problemi – escluso il capitano -, ma lo spadaccino era un caso che doveva essere preso con le pinze, essendo lui un soggetto altamente “Estremo”. Bravura nel maneggiare le spade e fermezza nelle decisioni importanti a parte, il compagno era una mina vagante, un concentrato esplosivo di guai pari solo a Rufy, con un senso dell’orientamento discutibile e su cui lui non si prendeva mai la giusta responsabilità.
C’era da preoccuparsi se quello scemo non si trovava sulla nave, perché, a meno che fosse diventato tanto piccolo da mettersi a dormire in un pentolino, l’unica ipotesi rimasta – seppur veramente impensabile -, era che fosse sceso dalla nave e si fosse diretto a nuovo sull’isola.
 
Possibile? Certo. Quando si parlava di Zoro, tutto, ma proprio tutto, era possibile. L’unica nota positiva, era che la situazione non poteva peggiorare.
 
“Lars! Non trovo Azu-chan da nessuna parte!” esclamò allarmata Shion, correndo verso l’albino.
 
Come non detto.
 
 
 
“Ma che accidenti…..ma si può sapere come cacchio ci siamo finiti qua?!”
 
Era la settima volta che Azu si poneva quella domanda, sbuffando per l’incomprensione esasperante che quella situazione stava creando. Chiunque altro, nella sua posizione, avrebbe reagito in egual maniera, ma questo l’aiutò ancor meno a realizzare come fosse stato possibile per lei e per quella testa di verza, ritrovarsi su quell’isola ancor prima che la nave fosse approdata. Impossibile? Assurdo? Completamente insensato? Certo che si, ma dannatamente reale.
Il rumore dei propri passi e le voci mormoranti delle persone che li guardava passare, erano fin troppo evidenti perché potessero essere messe a tacere con un semplice ordine mentale. Inoltre, sebbene non si stesse guardando intorno, sapeva di avere gli occhi della gente puntati addosso. Se solo si fosse fermata a prendere un bel respiro, forse si sarebbe accorta dell’effettivo peso della loro attuale situazione, ma l’albina era troppo concentrata a guardare la nuca di Zoro per concentrarsi su altro. La colpa era sua! Sua e del suo stupido voler bere del sakè a metà mattinata!
 
Non era normale, per niente, ma non era quella la cosa che tanto stava facendo disperare il cervellino della ragazza; anche lei, in qualche suo attimo d’isterismo, si era scolata qualche birra alle otto di mattino. Quello che realmente le stava attorcigliando le corde vocali, era che lo spadaccino, per cercare il suo beneamato sakè, aveva deciso di scendere in magazzino, ma, chissà come, era finito per trovarsi sulla spiaggia dell’isola che stavano raggiungendo, con lei appresso, che manco capiva come accidenti avesse fatto quello lì a perdersi sulla sua stessa nave!
 
Tu guarda quanta bella mercanzia sprecata! Pensò lei, nello scandagliare con amarezza il profilo del ragazzo che le stava davanti.
 
Non esistevano dubbi sul fatto che Roronoa Zoro fosse un figo pazzesco su cui si era già fatta non pochi pensierini sconci: con quel fisico marmoreo che allenava ogni santo giorno, unito al viso da “Cattivo ragazzo”, era molto difficile non esprimere un giudizio esplicito e Azu, da brava intenditrice, aveva stilato un rapporto completo al riguardo. A differenza di Sanji – che non era male, ovviamente -, Zoro era più mascolino, rude, arrogante, fermo di spirito, severo con sé stesso e con gli altri. Un vero uomo in tutto e per tutto, sempre cosciente di quello che voleva e di come ottenerlo. Nel suo minuzioso scandagliare, l’albina non si era lasciata sfuggire nulla di quanto il ragazzo dava a vedere ed era stato quel suo aspetto intimidatorio e truce, a farla scattare. I ragazzi aventi l’orgoglio mischiato al sangue erano i suoi preferiti, perché si avvicinavano al suo carattere e l’ex Cacciatore di Pirati, in tutta franchezza, meritava un premio per il solo fatto di esistere in qualità di esemplare maschio per eccellenza. Appariva inattaccabile, troppo ligio alle sue spade e alla via da lui scelta per concedersi distrazioni, ma la ragazza, sicura delle sue capacità, si era convinta di potergli fare allentare la presa, di metterlo con le spalle al muro, giusto per giocare un po’. In fondo, escluso Rufy, tutti gli uomini erano predatori, quindi, secondo il suo brillante ragionamento, era questione di tempo prima che riuscisse a farlo crollare.
 
Tempo che, però, non si era mai deciso a scadere.
 
Le pesava ancora, quel fallimento, perché….si, era veramente uno spreco! Insomma, neppure un cieco avrebbe mostrato tanta resistenza davanti a certe provocazioni, ma Zoro, più duro della roccia, manco l’aveva guardata; ok, non aveva fatto nulla di sconcio, per buona etica e per non traumatizzare Shion, però un minimo di attenzione avrebbe potuto anche concedergliela!
 
“Uhm…questo posto non mi è nuovo”, borbottò il ragazzo dai capelli verdi, stoppando la sua camminata.
“Certo che non ti è nuovo! E’ la sesta volta che ci passiamo!” esclamò l’albina, tirandogli una manata sulla nuca “Ammettilo che ti sei perso!”
“Non dire idiozie, so benissimo dove siamo”, replicò istantaneamente lui “E’ il tuo urlare che mi impedisce di concentrarmi.”
“Che cos……ma non dire cretinate!” esplose la ragazza “Non è il mio urlare che ci sta facendo girare in tondo come dei cretini, ma il tuo schifoso senso dell’orientamento e la tua insana voglia di sakè a quest’ora! Se tu avessi la decenza di ascoltarmi, eviteremmo di stare qui a discuterne!”
“Quante storie solo perché ho sbagliato strada un paio di volte!” sbottò lui, cominciando ad alterarsi.
“Non sono state un paio di volte, fidati. E comunque, se proprio non ci tenevi a darmi retta, cosa cavolo ti costava chiedere delle indicazioni?!”
 
Questa era la domanda più importante di tutte. Zoro fu quasi schifato dal sentirsi chiedere una cosa del genere, tanto che appoggiò le mani ai fianchi e guardò Azu con fare rimproverante.
 
“Uno spadaccino che si rispetti non chiede mai aiuto: riesce sempre a trovare la giusta via da sé.”
“E lo scalare il palazzo più alto di questo posto ti è sembrata la giusta via?” domandò lei, esasperata.
“Mi serviva un punto alto per trovare la spiaggia. Se tu mi avessi lasciato fare, a quest’ora saremmo con gli altri.”
 
……No, cioè! Le stava dando la colpa? Stava dando la colpa a lei e a quel minimo di buon senso che era riuscita a tirare fuori, nonostante tutto?!
Grandioso! Questa le mancava!
 
Nessun uomo – salvo Lars – si era mai rivelato tanto snervante, ma lui era nato per farla impazzire, era scritto nei suoi geni di fratello maggiore, quindi non si trattava di nulla per cui dovesse stupirsi. Quello che le stava facendo letteralmente fumare le orecchie, era la completa demenza della logica di Zoro: se si escludevano braccia, gambe, testa, carattere e mascolinità, il rimanente era una mentalità che non esisteva né in cielo, né in terra. Non era ai livelli di Rufy – salvo qualche comunanza che rendeva il loro rapporto capitano/ vicecapitano estremamente affiatato -, ma il suo modo di fare sembrava non conoscere mezzi termini, ed era proprio questo a far impazzire Nami. Se non altro, ora l’albina poteva dire di comprendere perfettamente lo stato d’animo della navigatrice: la crapa di Zoro era talmente dura da spaccare il granito con la più delicata delle carezze e questo era sufficiente per ricevere i pugni rinsaventi della compagna. D’accordo, anche lei, se l’occasione ne avesse imposto la stretta necessità, si sarebbe messa a cercare un punto sufficientemente elevato che le permettesse di trovare la strada per la spiaggia: ogni tanto saltava sui tetti, ma mica andava a scalare il primo edificio di cento e passa metri come se niente fosse!
 
Ma chi me l’ha fatto fare di seguire questo maniaco delle spade? Si domandò poi, mettendo da parte la voglia di contestare quest’ultimo.
 
Più se lo chiedeva, più la voragine apertasi nella sua mente si approfondiva, ma se fosse stato solo quello il problema della giornata, molto probabilmente, la ragazza ne sarebbe stata anche contenta.
 
“Voi due! Fermatevi immediatamente!”
 
Lo sproloquio mentale dell’albina ebbe termine non appena quell’ordine secco e deciso, fece girare la sua testa e quella dello spadaccino. Troppo presi a pensare a come orientarsi fra quelle innumerevoli vie, non si erano guardati in giro abbastanza da cogliere gli sguardi increduli e indignati degli abitanti del posto, gente attaccata a vedute incredibilmente limitate: il semplice fatto di passeggiare nelle loro strade, parlando a voce alta e, per di più, con abiti alquanto “Variopinti”, aveva fatto scattare il senso civico di alcuni negozianti, corsi immediatamente ai ripari, prima che potesse accadere qualcosa d'indecoroso.
Il piccolo plotone che stava marciando verso i due ragazzi era ordinato e compatto, con uomini aventi il viso serio e gli occhi puntati su di loro. Indossavano una divisa bianca, con tanto di guanti e copricapo che lasciava libero soltanto il volto: gli unici decori erano i bottoni, gli orli e le rifiniture dell’uniforme, di un colore identico a quello dell’oro. Sulle spalle, sfoggiavano un ampio mantello con l’interno rosso, stesso colore base dello scudo che reggevano con tanta solennità, su cui era incastonata una grossa e luccicante ala d’argento.
 
“E questi che voglio?” si domandò Zoro a bassa voce, inarcando un sopracciglio.
 
Era fin troppo lampante che quei soldati fossero venuti per loro; camminavano con passo regolare e coordinato, stringendo saldamente l’impugnatura del pesante spadone che portavano al fianco destro e impedendo che la punta toccasse terra. Azu storse la bocca nel vederli allinearsi intorno a loro, ma non si mosse unicamente per via di quel sospetto che, man mano che i secondi passavano, diveniva più consistente.
 
Si, avrei fatto meglio a restarmene sulla nave, pensò lei, incrociando le braccia.
 
Solo volgendo gli occhi su alcuni degli abitanti, notò come questi li stessero osservando dall’alto in basso. La cosa non le piacque per niente: evidentemente, dovevano aver scambiato lei e Zoro per del vomito vivente, perché il disgusto che trasudava dai loro occhi si abbinava soltanto a quel paragone.
 
“Chi pensate chi siano?”
“Come hanno fatto ad entrare? Perché le guardie non li hanno fermati subito?”
“Guardate cosa indossa quella ragazza! Che orrore, è praticamente nuda! Non ha il minimo senso del pudore!”
 
Quelli e altri commenti vari, entrarono nelle orecchie dell’albina e alimentarono la fornace della sua alterità con la stessa facilità con cui il fuoco divampava grazie al petrolio. Nemmeno si degnavano di tenere bassa la voce, tanto volevano spettegolare, ma giusto qualche altro commento, e allora si che la sua lingua tagliente avrebbe cominciato a esprimere la propria opinione.
 
“Devono essere stranieri, non c’è ombra di dubbio!” affermò una delle donne.
“Come pensate che abbiano trovato la nostra isola?” domandò una seconda
“Non lo so, ma spero che Master Eliah sia già stato informato della loro presenza”, rispose quella che, senza ombra di dubbio, doveva essere la più spocchiosa “San Lorein non potrebbe sopportare una seconda onta, non dopo che la Regina dei Ghiacci è finita nelle mani di quell’esterno.”
“Per carità! Non parliamone!”
 
Era sul punto di lasciare libera quella sua parlantina incontrollabile come giusto che fosse, ma il sentire quel nome, quel semplice appellativo, fu sufficiente perché la lingua le si annodasse. Quella donna aveva appena detto…. Regina dei Ghiacci?
No, non poteva essere…
 
Pensò a uno sbaglio, una casualità, un nome come un altro: in fondo, un nome poteva ricollegarsi a tante cose, a tanti significati, a un mucchio di cose che non si conoscevano. Eppure… lei sapeva, sapeva meglio di chiunque altro, che “Regina dei Ghiacci” era un soprannome che poteva essere dato soltanto a un particolare oggetto, così come sapeva che di San Lorein ce ne era una sola. Ne aveva sentito parlare poche volte, due al massimo, ma come il suo eco cominciò a rimbalzare fra le pareti della sua mente, quello di “Regina dei Ghiacci” divenne ancora più concreto , solidificandosi con alcune delle sue emozioni più profonde.
 
Comprese che quel posto avrebbe fruttato loro non pochi grattacapi, ma non ne era ancora del tutto certa. Urgeva togliersi quel dubbio all’istante.
 
“Ehi, cornacchie”, chiamò lei, attirando l’attenzione delle suddette “ La “Regina dei Ghiacci” di cui state parlando, è la spada Saphira, vero?”
 
Le donne sussultarono per come erano state chiamate, tanto che le pieghe rugose delle più anziane si fecero maggiormente marcate. Doveva essere la prima volta che venivano chiamate “Cornacchie”, perché mancò pochissimo che i loro occhi rotolassero a terra.
 
“Che orrore!” esclamò la donna più in là con gli anni “Come osi rivolgerti a noi, con questo linguaggio rozzo e impertinente?!”
“Oh, non ci vuole molto: ho parlato con gente più brutta di voi”, rispose lei, con disarmante disinvoltura “Anche se questa, almeno, si degnava di dirmi le cose in faccia, invece di sparlare alle mie spalle senza neppure provare a tener bassa la voce. E già che ci sono…..”, aggiunse subito, prima che una delle donne o chiunque altro potesse replicare “Piuttosto che andare in giro conciata come una suora votata alla castità perenne, mi rado la testa a zero e divento un uomo.”
“Come?!”
“Avete sentito bene.”
 
Le parole uscite dalla bocca rasentavano la pura verità e nemmeno sotto tortura avrebbe abbassato la testa davanti a quelle tizie, che ancora si ostinavano a guardarla come una passeggiatrice. Si, lo avrebbe fatto: avrebbe rinunciato alla sua stupenda chioma e sostituito le sue prosperose bocce con un bel pacco in mezzo alle gambe. Tutto, pur di non dover mai vestire come quelle tipe. Ma si erano viste? Ci voleva un bel coraggio per andare in giro conciate a quella maniera e andarne fiere!
Erano delle mummie, delle autentiche suore con tanto di cappello! Nessuna sana di mente, con un caldo del genere, sarebbe andata in giro tutta imbacuccata, ma evidentemente la loro sanità mentale doveva essere andata a quel paese ancor prima che nascessero, se avevano il coraggio di guardarla con la ferma credenza di avere ragione sul suo riguardo. D’accordo, il suo modo di vestire era un tantinello sguaiato, ma sarebbe stato crudele, da parte sua, nascondere il bel fisico che aveva: mica si allenava come una forsennata per nascondere il proprio arsenale sotto una tenda!
E poi, giusto per essere esaurienti, i suoi abiti rispecchiavano quel pizzico di personalità che quelle donne indubbiamente non avevano; un’affermazione fin troppo facile da confermare, poiché gli occhi perlacei dell’albina ne stavano fissando la prova fondante. Quelle tre donne…no, tutte le donne presenti, indossavano lo stesso vestito: un lungo abito bianco con il collo alto, le maniche strette, e un cappello con velo, che lasciava libera soltanto la faccia. Il fondo della gonna era minuscolo, con un piccolo spacco messo appositamente per rendere più agevoli i movimenti. Non c’era nessun decoro, a differenza dei soldati, solo un catenina argentata avente un ciondolo a forma di ala. La stessa ala ritratta sugli scudi.
 
“Signorina, è pregata di rimanere in silenzio”, le consigliò vivamente una delle guardie, facendosi avanti “E questo vale anche lei, signore”, aggiunse poi, nel guardare Zoro.
“Come?”
“Veda di non fare domande: noi soli abbiamo diritto a farle, in qualità di guardie reali di San Lorein”, continuò l’uomo, cercando di farle notare che sia lei che lo spadaccino, erano stati circondati.
Di bene in meglio, pensò il ragazzo.
 
Per quanto stessero cercando di sottolineare la loro superiorità numerica, l’occhio smeraldino dell’ex Cacciatore di Pirati non si era lasciato intimorire da quelle parole pronunciate con visibile autorità. Individui del genere, agivano insieme perché incapaci di un’azione singola e di esprimere una volontà stante al di fuori di quella del gruppo; infatti, non gli occorse molto per individuare, in quella ristretta massa, un paio di sguardi incerti e abbassati, con tanto di mani serrate spasmodicamente attorno all’impugnatura dello spadone.
Dei novellini. Non c’era altra spiegazione. Zoro ne avrebbe avvertito la presenza anche se questi non gli fossero stati sotto al naso. Tendevano a spiccare per qualche eccessività, il loro stesso corpo li tradiva senza che potessero farci qualcosa, tant’era meccanico e calcato. Quello che era venuto ad accoglierli, doveva essere un plotone d’addestramento: i soli che avessero una certe dimestichezza e disinvoltura nell’agire, erano gli uomini della prima fila, compreso quello che aveva rivolto loro la parola.
 
“Immagino che voi siate soliti visitare le città altrui senza alcun problema, ma qui a San Lorein la questione è molto diversa”, proseguì quest’ultimo, prendendo a camminare con le mani dietro la schiena “La sicurezza della nostra città è una priorità che abbiamo il compito di proteggere a qualunque costo e l’accesso a stranieri come voi non è consentito, se non con un permesso dato dai nostri anziani e rispettati saggi e da Master Eliah. Io dubito fortemente che voi possediate questo tipo di autorizzazione, pertanto, ditemi come avete fatto a entrare.”
“Scavalcando il muro”, rispose semplicemente lo spadaccino.
“Impossibile. I nostri avamposti vi avrebbero notato”, replicò l’uomo velocemente “Datemi una spiegazione più completa.”
 
Un brusio di sottofondo si levò dal basso verso l’alto, andando a stuzzicare l’udito di entrambi i ragazzi, piuttosto spazientiti per come quell’uomo stesse dettando leggere sui loro diritti. I mormorii della gente, poi, non furono di alcun aiuto, giacché erano disgustosamente simili a colpi dati alle spalle.
 
“Allora? Sto aspettando” incalzò lui.
“Calma. Hai così tanta fretta di sbatterci fresco?” lo provocò Zoro, con ghigno strafottente.
“Può darsi. Dipende solo da voi”, gli rispose la guardia, inarcando le sopracciglia.
“Oh, fa anche il duro”, arrivò Azu, fintamente colpita “Secondo me, non vede l’ora di andare dal suo capo per dirgli che ha fatto il bravo soldatino.”
“Vi conviene abbassare il tono della voce: non siete nella posizione di divertirvi”, li intimo lui, sibilando.
“Potremmo dire la stessa cosa di voi”, replicò furbescamente l’albina, avanzando verso le altre guardie “Per quanto belle che siano le vostre divise, non credo proprio che vi aiuterebbero a maneggiare quegli spadoni che vi portate dietro. Specie i vostri compagni laggiù”, e indicò le file dentro cui stavano leve troppo fresche per essere gettate in un combattimento aspro “Finireste solo per rimediare una figuraccia e non penso che vogliate una brutta macchia sul vostro curriculum, dico bene?”
 
Il vedere i novellini fare il possibile per non abbassare gli occhi, fece gongolare l’orgoglio vistosamente gonfio della ragazza. Aveva fatto centro, e anche Zoro se ne compiacque.
La guardia, ancora ferma e rigida come una statua, fu scossa da tremiti incontrollabili, dettati da quel sentimento crescente che stava contraendo i lineamenti del suo viso in maniera a dir poco spaventosa. I nervi pulsanti della tempia, si riempirono di sangue caldissimo, pronto a esplodere da un momento all’altro, se questo avesse ricevuto un ulteriore smacco alla propria persona. La sfacciataggine di quei due stranieri era qualcosa di mai sperimentato, ma che non gli fece perdere di vista il proprio compito: San Lorein andava protetta da individui come quelli, la cui presenza nella città e le ragioni al riguardo, erano sconosciute. Ne andava di un onore che nessun forestiero, anzi, che nessuna persona avrebbe mai potuto comprendere appieno. La storia che stava alle basi della loro isola era di una preziosità unica, pertanto, loro, che erano stati incaricati di preservare le difese di quella antica e sacra cittadella, non potevano farsi abbindolare dalle provocazioni di chi pensava di trovarsi in un qualunque luogo di svago.
 
“Qui perdiamo solo tempo. Andiamo, Azu”, disse Zoro.
“Fermi! Non potete…!” cercò di fermarli la guardia.
“Che sta succedendo?”
 
Quel brusio di sottofondo, innalzatosi come un polverone e lento quanto il lavorare delle api, cadde immediatamente. Non diminuì gradualmente o perse intensità: sparì in un solo colpo, lasciando qualche rimasuglio giusto qua e là. L’intero plotone, prima intento a non farli passare, si mosse automaticamente, dividendosi in due gruppi omogenei  e posizionandosi  ai lati della strada, insieme ai passanti, intenti a guardare il nuovo arrivato con rispetto e sollievo. Sia Azu che Zoro, non poterono trovare che strana quella reazione, ma il percepire una camminata regolare e sempre più vicina, cancellò istantaneamente quel momento di confusione iniziale.
 
Verso di loro stava avanzando qualcuno: un ragazzo alto, giovane, con una postura dritta e autorevole, segnata da un viso perfetto e serio al tempo stesso. Un individuo che colpiva con una semplice movenza, nato perché gli altri lo guardassero senza una ragione precisa in testa. Non appena fu più vicino, l’albina e lo spadaccino ne scorsero i capelli nocciolati, scalati e dai riflessi luminosi, con ciuffi scompigliati e ricadenti ai lati delle guance chiare. Con la coda nell’occhio, Zoro vide che alcune ciocche erano state legate in una coda bassa, ondeggiante sulla schiena. Indossava abiti diversi da quelli delle guardie e degli abitanti, segno che non apparteneva a nessuna delle due classi: portava un lungo cappotto di pelle rossa che gli arrivava fino alle caviglie, dove spiccava la base degli stivali neri, toccanti le ginocchia. I pantaloni attillati, erano di un marrone scuro, che si abbinavano alla parte superiore del completo, un elegante gilè dalle tonalità più chiare rispetto ai pantaloni, elaborato e con rifiniture arricciate; sotto d’esso, stava una camicia bianca di cui si intravedeva qualche lembo del colletto, e un fazzoletto color ocra legato al collo. Era avvenente, con lineamenti fini e un portamento fermo e sicuro: la gente lo guardava passare con ammirazione, arrivando anche a osservare come il fondo di quel suo lungo cappotto rosso ondeggiasse a ogni suo passo, eppure….vi era qualcosa in lui che stonava.
 
Un particolare invisibile, una nota stonante nel mezzo del brano, forse nascosta dietro a quegli occhi blu cobalto dall’incalcolabile profondità o da quel viso magro da cui Azu stava cercando di trarre qualcosa di utile; non lo percepiva con chiarezza, era solo un sospetto aleggiante, molto simile a un flebile profumo, il che la indusse a pensare di starsi sbagliando, che fosse una sua semplice impressione. Ma non era così, non lo era affatto, e questo bastò per far tacere la sua natura ribelle e quella di Zoro, caduta nell’adocchiare la fine e pregiata intarsiatura di quell’impugnatura argentata che sbucava da sotto il soprabito scarlatto di quell’individuo.
 
“Vedo che abbiamo visite”, constatò quest’ultimo, interrompendo la sua camminata proprio a pochi passi dalle guardie e da loro “Capitano, perché non sono stato informato?”
“Chiedo perdono, Master Eliah”, si scusò umilmente il suddetto, abbassando la testa “Siamo stati avvertiti della loro presenza da alcuni abitanti e volevamo assicurarci che non avessero commesso qualche reato…”
“Reato?” ripeté Azu, scandalizzata “Stavamo solo cercando l’uscita di questo posto!”
 
Non aveva potuto fare a meno di trattenersi: lei e Zoro non avevano fatto proprio niente di cui essere accusati – salvo lo scalare quel maledetto muro per del maledettissimo sakè -, ma, evidentemente, il cervello di quello scemo – e delle cornacchie mummificate-  doveva essersi guastato alla grande, se continuavano a ritenerli dei criminali dai gusti vestiari sconci e poco consoni al loro ambiente sacro e privo di vizi.
Il capitano si alterò per come era stata interrotto, al punto di essere tentato di urlarle in faccia, nonostante la presenza del suo superiore. Aveva sopportato abbastanza, l’insolenza di quella straniera aveva infranto tutti i limiti della sua pazienza in un solo colpo, ma ancor prima di aprir bocca, il braccio di quello strano ragazzo si frappose fra lui e l’albina, mostrandone la mano inguantata.
 
“Non si scaldi, Capitano”, gli disse eloquentemente “Le ricordo che il regolamento di San Lorein è molto severo nei confronti di chi attua violenza nel mezzo della città.”
“Questo lo so benissimo, Master Eliah, ma questa ragazza….”, tentò di spiegarsi l’ufficiale.
“Questa ragazza…”, lo interruppe “Cercava solo la via d’uscita. Se davvero avesse commesso un qualche danno all’interno della città, insieme al suo compagno, avrei provveduto io stesso alla loro cattura. Non hanno mentito sul fatto che hanno scalato le mura esterne per entrare, le vedette me lo hanno confermato più volte.”
 
Ascoltando attentamente, l’ex Cacciatore di Pirati contratte il sopracciglio destro. Quel ragazzo era venuto a conoscenza della loro entrata ancor prima di essere trovati dal plotone. Perché, allora, non li aveva fermati subito?
 
Questa storia non mi convince per niente, pensò lui.
 
Fu nel valutare tutti i passi compiuti, che lo spadaccino costruì il suo piccolo ma sensato ragionamento. Da quello che aveva potuto vedere e constatare, i cittadini e i soldati attribuivano un valore altissimo alla sicurezza della loro città; una ragione più che sufficiente per erigere quello spesso muro che lui e Azu avevano scalato con modesta facilità. Avevano evitato le guardie e si erano inoltrati nelle vie senza porsi troppi problemi, ma nonostante quel ragazzo avesse affermato che la loro presenza era stata rivelata da più tempo, li avevano fermati soltanto da pochi minuti. Che non li avesse ritenuti un problema urgente? No, figurarsi: Zoro peccava in orientamento, ma non era così stupido come Sanji soleva affermare saltuariamente. L’essere arrivati fino a quel punto non poteva ricollegarsi a un colpo di fortuna, tantomeno alla loro bravura. Qualcuno – molto probabilmente quel tizio col cappotto rosso – li aveva lasciati entrare apposta, come certo che non avrebbero fatto nulla di grave…
 
Ma anche lì, la spiegazione pareva non essere reperibile.
 
“Non preoccupatevi, queste persone non sono qui per farci del male”, rassicurò poi il castano, placando il silenzioso vociare della gente “San Lorein non si è mai lasciata sottomettere da nessuno e non sarà certo una lingua tagliente a sfregiarne le difese. Anche se si tratta della lingua di una Gallower”, aggiunse con un sibilo divertito, rivolto all’albina.
 
Stavolta toccò a Azu a essere scossa e non fu l’unica. Attorno a lei si innalzò un vorticare considerevolmente più pesante del primo: colmo di occhi spalancati e sussurri fugaci, veniva alimentato da sentimenti intrisi di disgusto, facce inorridite e inconsapevoli del perché si trovassero ancora lì. Un agglomerato crudo e spigoloso come pochi. L’aveva chiusa in uno spazio circolare piuttosto limitato, dove la sua incomprensione non trovava sbocchi o vie che le permettessero di capire. Non si sentì male, ne provò l’irrefrenabile desiderio di mettere a tacere quelle persone: era ferma, bloccata sul posto, con gli occhi perlacei fissi su quel ragazzo dallo sguardo bluastro, che le si stava avvicinando con un sorriso sfrontato e crudele, nel mentre il resto veniva completamente tagliato fuori dalla realtà. Il sospetto avvertito pochi istanti prima tornò a farsi sentire con più incisività, mostrandosi per qualcosa di realmente fondato e da cui stare ben attenti. Non indugiò, ne abbassò lo sguardo: per quanto oscura fosse la natura di quel presentimento da lei percepito, neppure da morta avrebbe chinato la testa di propria volontà.
 
Si era accorta di come l’aveva guardata, si era sempre accorta di quelle rapide occhiate che le aveva lanciato, ma fu soltanto quand’egli prese delicatamente fra le dita una delle sue ciocche argentate, che comprese cosa quell'Eliah avesse osservato con tanto interesse: non il suo viso, non il suo corpo o i suoi occhi, ma i suoi capelli argentati.
 
“Dimmi un po’…”, mormorò lui, giocherellando con la sua ciocca grigio lucente “Tu sei la sorella minore di Lars, vero?”
 
 
 
Rufy era entusiasta. I suoi tondi e nerissimi occhi brillavano per lo sfrenato desiderio di andare a esplorare quella città che s'intravvedeva oltre il grande muro circolare, eretto a sua difesa. Sceso dalla sua postazione preferita – la polena della Thousand Sunny - , guardò l’orizzonte con quella sua voglia incontaminata di fare quello che sentiva, ma rimanendo ben fermo, conscio di quanto Nami fosse già arrabbiata per la scomparsa di Zoro e Azu. Sebbene morisse dalla voglia di correre giù dalla passerella, aveva deciso di aspettare tutti gli altri, giusto per evitare una delle terribili punizioni che la compagna soleva infliggergli: una volta - per sbaglio, s'intende -, aveva rovinato una delle sue cartine e lei aveva ordinato a Sanji di non dargli da mangiare per tutto il resto della giornata. Un supplizio pari ai pugni di Rayleigh-san.
Come un leggero sbuffo ventoso smosse la folta chioma dei mandarini della Gatta Ladra, Rufy si calcò in testa il prezioso cappello di paglia, assicurandosi che il laccetto non si allentasse.
 
“Rufy.”
 
Spostando lo sguardo in basso a destra, il ragazzo vide la testolina di Shion fare capolino dietro il suo corpo.
 
“Oi, Shion!” la salutò allegramente “Pronta per visitare l’isola?”
“Eh? Si, certo……”, mormorò lei incerta e interrompendo il contatto visivo.
 
Stranito per la mancanza d’allegria nella bambina, Cappello di Paglia batté le ampie palpebre un paio di volte, inclinando la testa gommosa lateralmente e incrociando le braccia; arrivò anche a piegare all’ingiù la linea della propria bocca, nel tentativo di capire che cosa avesse la piccola, ma tutto quello che ottenne, fu altro silenzio.
 
“Che c’è, Shion? Non sei contenta che scendiamo?” le domandò.
“Uh? No, sono contenta. E’ solo che….”, esitò un attimo, prima di rispondergli “Ecco….Lars ha una faccia strana. Triste.”
“Una faccia triste?” ripeté il capitano.
“Si, da quando abbiamo avvistato l’isola. Ho provato a parlargli e mi ha detto che va tutto bene, ma io sono sicura che ha qualcosa. Anche Red lo sospetta”, rispose lei, accarezzando la soffice scimmietta, appollaiata sulla sua spalla.
 
In effetti, era molto difficile comprendere che cosa stesse passando per la testa di Lars. La sua espressione facciale era complicata da interpretare, giacché era quasi sempre la stessa. Torcendo il collo quanto bastava, per vedere il suddetto guardare l’orizzonte da una delle balaustre della nave, Cappello di Paglia iniziò a mugugnare, cercando di far partire gli ingranaggi di quel suo cervello, creduto cascato nello stomaco fin dalla tenera età.
 
“Tu che dici, Rufy?” gli domandò la piccina, vedendolo così concentrato.
“Uhm…forse non ha mangiato come si deve a colazione”, ipotizzò, dopo una lunga e attenta occhiata.
 
Ricordava di aver preso cibo da tutte le parti, ma non da quali piatti. Alcuni dovevano essere stati quelli di Nami e Nico Robin, perché Sanji l’aveva preso a calci immediatamente, ma proprio non rammentava se avesse preso qualcosa da quello dell’albino.
 
“Non credo che sia per quello..”, mormorò la bambina “Ma, davvero le persone diventano tristi se non mangiano abbastanza?” gli domandò ingenuamente.
“Ah, non lo so, ma io lo sarei sicuramente!” esclamò lui “Una volta…..”
“….Rufy? Cosa c’è?”
 
Improvvisamente, l’amico si era zittito: aveva puntato per puro caso gli occhi sulla spiaggia, aprendoli al massimo, nel tentativo di vedere meglio quel qualcosa che aveva immediatamente paragonato a una grossa ombra colorata.
 
“Mi sembra che stia arrivando qualcuno”, disse poi, portandosi la mano alla fronte, per evitare che la luce del sole lo infastidisse.
“Sul serio?”
 
I versetti striduli di Red e il suo saltellare sulla spalla dell’amica, attirarono l’attenzione degli altri, spingendoli a guardare il punto che l’animale stava indicando forsennatamente. Sembrava un insieme di persone, identificate tali solo per la presenza di un pallido rosa in mezzo al bianco dei loro abiti, tutte vicine fra di loro e guidate dal solo elemento che non vestisse panni chiari: una strana figura con un lungo cappotto rosso.
 
“Saranno una decina, non di più”, affermò Usopp, regolando gli speciali occhiali che portava sempre addosso.
“Pensate che ci vogliano attaccare?” domandò Chopper, tenuto in braccio dall’archeologa.
“No, solo riportarci un’idiota” sibilò Nami, nerissima in volto.
 
Che fosse a un metro o a mille chilometri di distanza, la testaccia verde di Zoro era e sarebbe sempre rimasta inconfondibile.
 
“Vedo la bellissima Azu-chwan!” ululò Sanji, con l’occhio allungato e la lingua in fuori “AZU-CHWAN!!!!”
“Datti una calmata, fratello! Rischi di rovinare la Sunny!” lo rimproverò Franky.
 
Legato con corde spessissime e incatenato all’albero maestro della nave, la mobilità del povero cuoco era ridotta ad una misera serie di volteggi con la testa. Chopper non aveva potuto fare altrimenti, vista l’esagerata reazione con cui il cuoco se ne era uscito.
 
“Yohohoho! Forse è un comitato di benvenuto!” azzardò Brook.
“Non ne sono sicura”, mormorò Nico Robin “E’ probabile che ci abbiano avvistati mentre circumnavigavamo l’isola. Forse non gradiscono di stranieri nella loro terra.”
“Più che gradire, non vogliono proprio averci niente a che fare”, intervenne lapidariamente Lars “San Lorein detesta le persone che vivono fuori dalle sue mura.”
“Cosa? Ma, Lars, allora è vero che ci sei già stato”, arrivò Nami, molto sorpresa.
 
Non ci fu il tempo per spiegare. Il puntino scorto in lontananza era diventato un compatto e ordinato plotone bianco, fermatosi davanti alla passerella della Thousand Sunny, senza emettere alcun fiato.  Shion riconobbe la chioma argentata di Azu quasi subito, ma preferì tenere la bocca chiusa e aggrapparsi ai pantaloni di Rufy, rimasto fermo al suo posto. Tutti quegli strani signori erano così seri, che sembravano fatti di pietra. Perfino a Red non piacquero: lanciando un’occhiata ai nuovi arrivati, mise in mostra i suoi piccoli e affilati canini, ma senza infiammare la propria pelliccia. Dovevano essere cattivi o poco simpatici, perché la biondina sapeva bene che la scimmia Cresta di Fuoco non ringhiava mai contro qualcuno che le andasse a genio. Più di tutti, pareva avercela con il tizio in testa al plotone; quello che, anziché guardare Rufy, aveva catturato l’attenzione di Lars con un ghigno che Shion non poté che definire “Maligno”.
 
“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui: Lars Gallower”, disse quest’ultimo, lasciando che i suoi occhi si facessero più grandi.
“Ciao, Eliah”, ricambiò pacato l’albino.

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Capitolo 16
*** Pieces of Memory: Stranger. ***





Lars Gallower era sempre stato considerato “Un genio dal talento invidiabile”.
Una di quelle persone che si guarda a lungo e che non si riesce a capire, il cui giudizio si limita a uno sguardo silenzioso o indagatore. Una sorta di pecora nera – argentata, nel suo caso – che spicca in mezzo al gregge bianco come un elemento da tenere d’occhio, ma non certo per dei reati commessi in precedenza.

A prescindere dal colore dei suoi capelli, dalle impalcature che reggevano il suo cervello e dalla sua stessa taciturnità, Lars non era mai stato una persona così stramba da cui tenersi a distanza. Seppur non possedesse una personalità caotica e spasmodicamente espansiva come quella della sorella minore, aveva goduto di un'infanzia tranquilla, colma di amicizie e animata da tutta una serie di sfide impensabili a cui la parente lo aveva sottoposto in continuazione. Lei era la sola a non aver realizzato quanto fosse profondo l’abisso che la divideva dal fratello, per questo, con quel suo faccino gonfio e sporco di polvere, lo aveva sempre sfidato a qualsiasi gioco venutole in mente; tuttavia, che si trattasse di una corsa, di una lotta o di una gara di resistenza, lei aveva sempre perso, ritrovandosi con sbucciature, sbuffi, e l’ennesima sconfitta a suo carico.

Non fare il superiore! Tanto riuscirò a batterti! Gli ripeteva ogni volta, prima di ficcare la testa sott’acqua per l’ennesima sfida lanciata.

C’era sempre stata competizione, fra lui e Azu, una competizione infantile e scandita da giochi inesistenti o tirati su al momento. Niente di metodico o di complesso, solo un semplice rituale che riempiva le loro giornate al meglio. Affondare le dita nella sabbia e lasciare che le onde le rinfrescassero, era stata una quotidianità impressasi insieme al sole tropicale e ai ghiaccioli alla menta che avevano consumato durante le sere estive. Le classiche piccolezze che per i bambini al di sotto dei dieci anni, rappresentavano i primi tesori della vita. A Lars erano sempre piaciuti quegli sprazzi, nonostante si comportasse con più ponderatezza dei suoi coetanei: loro lo vedevano come “Il leader che nessuno del gruppo avrebbe mai sconfitto”. Lo pensavano e lo avevano sempre affermato con ingenua sicurezza, perché agli occhi dei bambini, tutto ciò che sfuggiva alla loro acerba intelligenza era sinonimo di forza e stupore.

Ma era sbagliato dire che Lars Gallower fosse forte.
Lui era speciale.

Speciale non perché fosse piuttosto maturo per la sua minuta età, ma perché quando impugnava un bastone, era impossibile capire da che parte attaccasse. Si fondeva con esso e i movimenti fluidi, creanti immagini semi-trasparenti dell’oggetto, riuscivano sempre a confondere chi credeva di poter rompere tale barriera.
Quello era il talento invidiabile di Lars, scorto dagli occhi azzurri della signora Milena e ritenuto meritevole di essere coltivato a dovere.



“San Lorein?”
“Esattamente.”

La prima volta che lui e Azu avevano incontrato la signora Milena, non avevano potuto fare a meno di pensare che fosse bellissima. Erano piccoli, sette anni appena compiuti, con i piedi scalzi e umidi dell’acqua di mare, completamente impreparati a una visita del genere. Quella donna dai lunghi capelli dorati veniva spesso sull’isola, ma non avevano mai pensato di riuscire a vederla da così vicino e che questa si sarebbe addirittura seduta nel salottino della loro piccola e semplice casetta. La mamma, per l’occasione, aveva tirato fuori la sua migliore tovaglia e una teiera di porcellana decorata, con tanto di tazzine combinate; non erano mai stati poveri, ma avevano sempre preferito tenere le cose belle per occasioni speciali, come i compleanni. Però, quel giorno, era doveroso accogliere la signora Milena come fosse una regina, e non soltanto per dimostrare una calorosa ospitalità. Quando lei gli si era rivolta, Lars aveva realizzato di non essere abbastanza presentabile: insieme a capelli spettinati, indossava solo dei pantaloncini azzurri, lunghi fino al ginocchio, e una canottiera. Si era accorto di avere anche le mani impolverate, per questo le aveva chiuse frettolosamente.

“E’ un’isola molto lontana da qui e poco conosciuta per via della sua riservatezza”, aveva ripreso lei, constando di aver attirato la sua attenzione “Purtroppo, questo è tutto quello che so al suo riguardo, ma se tu decidessi di intraprendere la carriera di spadaccino, penso che non esista luogo più adatto a te.”

Era stato difficile credere che un’occasione tanto inaspettata fosse capitata proprio a lui, ma l’incontro con il signor Eliorath, un anziano individuo dalla schiena incurvata e con barba, baffi e ciglia folte, aveva definitivamente sancito quella svolta di vita. Dietro al suo viso di tranquillo bambino dai lineamenti tondi, era cominciato a crescere qualcosa d'incontrollabile: curiosità, stupore….forse una delle due o entrambe, non ne era mai stato sicuro. La sua unica certezza, era che l’offerta postagli, gli avrebbe consentito di rispondere a quel richiamo che sentiva ogni qualvolta brandiva un’impugnatura che assomigliasse a quella di una spada.

La casa e la famiglia non gli sarebbero mancati. I legami che lo univano a questi non si sarebbero spezzati facilmente, ma come il buon signor Eliorath gli aveva raccomandato, prima di prendere il largo, nulla di quanto lo aspettava, sarebbe stato facile.

E tutto perché lui era un “Esterno”.



Un lieve tepore solleticò le caviglie nude di Lars, non appena i suoi piedi affondarono nella sabbia sbiadita che riempiva la spiaggia di San Lorein. Così asciutta, chiara, e priva di colori aggiuntivi, non si avvinava per nulla a quella che si era lasciato alle spalle. Non c’erano alghe trasportate dalle onde, conchiglie o frammenti d’esse con cui iniziare una collezione: c’era solo sabbia.

“Eccoci arrivati, Lars. Questa è San Lorein, casa mia.”

Senza chiedergli se fosse pronto o gli occorresse una qualche spiegazione, il signor Eliorath gli aveva preso la mano e lo aveva condotto davanti all’entrata della cittadella. Con i suoi semplici vestiti da bambino e un viso stante sul calmo, il piccolo albino guardò quelle alte mura bianche coprire la città e chiuderla dentro un grande cerchio apparentemente impenetrabile. Nessuna bocca spalancata, nessun arto frenetico…Lars osservò quel che aveva davanti a sé con una solennità silenziosa, rispecchiante la sua maturità precocemente sviluppata. L’accentuare la presa sulla mano ossuta e parzialmente rugosa dell’anziano signore, al momento dell’apertura, fu un riflesso automatico, così come il piccolo respiro trattenuto in gola: negare le proprie emozioni era qualcosa che neppure da grande avrebbe potuto apprendere pienamente.
Come il cigolio dei cardini cessò di stridere, Lars mosse il suo primo passo all’interno di San Lorein, incurante della luce che lo travolse. I suoi occhi chiarissimi cercarono di guardare gradualmente quella elegante e linda cittadella, di coglierne le particolarità più evidenti, ma la sola ampiezza della strada stava vanificando il suo intento. Vide bianco, tanto bianco, forse troppo, ma adeguatamente bilanciato dalla presenza di piccoli sprazzi colorati quali i fiori posti sui balconi delle piccole botteghe, la merce che la gente disponeva suoi banconi con precisa accuratezza, gli eleganti lampioni scuri posti ai lati della strada, per non parlare poi degli stendargli scarlatti e dorati che spiccavano sugli alti e sontuosi torrioni. Avrebbe studiato quest’ultimi con più curiosità, se il suo stomaco, sollecitato da un invitante profumo di panini dolci appena sfornati, non lo avesse riportato alla realtà.

“Eh eh! Si direbbe che tu abbia fame”, ridacchiò l’anziano, guardando Lars posare una delle sue mani sulla pancia “E’ normale, dopo un viaggio lungo come il nostro. Tranquillo, fra poco potrai mangiare: dobbiamo solo aspettare l’arrivo di mio figlio…oh, eccolo!”

Dall’alto del suo essere un bambino attento a tutto ciò che lo circondava, Lars aveva notato subito con quanta riverenza gli addetti del portone si fossero rivolti al signor Eliorath, nel momento in cui era entrato insieme a lui. Gli uomini si erano inchinati, lo avevano chiamato con uno strano nome che, probabilmente, doveva indicare una carica importante, senza importunarlo con stupide domande o quesiti dalla risposta scontata, ma guardando lui con sconcertamento. Che la sua presenza non fosse stata calcolata? Probabile, perché seppur avesse interrotto il contatto visivo quasi subito, riusciva ancora a sentire i loro occhi puntati sulla sua schiena. Non facevano male, erano solo pesanti. Fastidiosamente pesanti.
Guardò velocemente i propri abiti – pantaloncini neri e una maglietta azzurra a maniche corte -, ipotizzando che il problema potesse essere lì, in quei panni privi della beltà che, invece, trasudava dalle tuniche decorate degli abitanti del posto, ma scartò subito tale idea, giacché la riteneva troppo banale. La ragione poteva stare nei suoi capelli, in quelle ciocche argentate che condivideva con sua sorella, partita anche lei, ma per una destinazione diversa. Loro erano albini, come la mamma: non avevano tratti fisici scuri o grossolani, ma occhi chiarissimi e pelli pallidamente rosee, enfatizzate dalle loro guance paffute. Non erano come gli altri bambini - esteticamente parlando -, e fu nell’arrivarci, che Lars rammentò di non trovarsi più a casa sua, ma su di un suolo alquanto ostico alle presenze estranee.

“Bentornato, padre.”

Elijah Van Incardine salutò il parente con voce profonda, stringendo la mano con fermezza controllata e decisa. Gli occhi chiari di Lars videro un uomo alto, un gigante per lui, con indosso un lungo cappotto scarlatto, da cui faceva capolino l’impugnatura argentata di una spada che catturò immediatamente la sua attenzione. Non aveva mai visto qualcosa di così bello ed elaborato, pieno di arricciature raffinate e che risplendesse così tanto al contatto con la luce del sole. Niente a che vedere con la spada di legno costruita con la pazienza e il coltello da cucina di sua madre.
Provò a sfiorarne la punta con il dito, ma come questa si allontanò, alzò immediatamente lo sguardo verso l’alto, sapendo di essere stato colto in flagrante. Si ritrovò a fare i conti con due occhi blu cobalto molto severi, incorniciati da scuri capelli nocciolati e spessi zigomi, coperti da una corta barba. Non lo conosceva, non lo aveva mai visto, ma Lars colse immediatamente quella pungente nota di freddezza che l’uomo gli lanciò all’istante, carica di una diffidenza tale da non lasciare spazio a possibili ripensamenti. Non aveva ancora emesso fiato, ma seppe di non aver fatto una buona impressione, perché, nonostante egli lo avesse squadrato per pochi secondi, pareva essersi già fatto una chiara idea sul suo riguardo.

“Dunque, questo…..”, cominciò l’uomo più giovane, rivolgendosi al padre “E’ l’allievo che ti sei portato dall’esterno.”
“Esatto, Elijah”, asserì l’anziano.

Un lungo sospiro seguì quella tranquilla affermazione, detta senza titubanze o domande aggiuntive. Elijah Van Incardine chiuse gli occhi per qualche secondo, prima di tornare a guardare in faccia il padre, molto più sereno di lui. Nonostante le repliche e i dissensi mostrati per quel viaggio insulso, il figlio non aveva potuto fare nulla per opporsi alla decisione dell’anziano: visitare qualche isola non era contro le regole della città, ma il Master aveva sempre ritenuto simili proposte alquanto compromettenti per la sicurezza del popolo. Non che suo padre fosse tanto sconsiderato da mettere in pericolo l’intera città; in fondo, era stato il suo predecessore. Solo non aveva gradito scoprire la ragione di quella decisione, ora davanti a lui in tutta la sua concretezza.

“Non può seguire l’addestramento con gli altri”, disse immediatamente, senza curarsi della possibile reazione del bambino “In verità, non dovrebbe neppure trovarsi qui. Sai che il regolamento non prevede l’inserimento di nuovi allievi.”
“E tu sapevi bene che sarei tornato con qualcuno da allenare. Sono vecchio, ma non rincitrullito, Elijah. Non tentare di ingannarmi”, replicò il signor Eliorath, senza scomporsi.
“Non ti voglio ingannare: conoscevo fin dall’inizio le tue intenzioni, ma sai bene quanto me che i saggi non approveranno la tua scelta e il suo inserimento.”
“Può darsi, ma se non ricordo male, sono anch’io un saggio e sono anche il tuo diretto superiore, in quanto capo del consiglio. Il piccolo rimane e seguirà l’addestramento come tutti”, decretò sotto gli occhi della gente, riunitasi per la curiosità.
“E’ uno straniero. Non lo accetteranno mai ”, sibilò l’uomo, assottigliando le pupille.

La noncuranza mostrata dall’attuale Master di San Lorein avrebbe fatto piangere qualunque bambino, ma non Lars. Il signor Eliorath lo aveva avvertito che la sua posizione, all’interno della città, sarebbe stata molto diversa da quella degli abitanti. Lo aveva informato ancor prima di partire, prima di chiedergli se fosse sicuro di volerlo seguire, ma lui non ci aveva ripensato: non gli erano occorsi minuti supplementari o una camera silenziosa per riflettere doverosamente. Aveva semplicemente detto di “Si” per la seconda e ultima volta. Per quanto il suo acerbo torace gli dolesse, a causa delle parole e degli sguardi del signor Elijah – per non parlare di quelli degli spettatori -, non sarebbe andato a raggomitolarsi in un angolo e a sperare che una nave venuta dal cielo lo riportasse a casa. Se Azu fosse stata presente, chissà quante gliene avrebbe urlate dietro…

D’altro canto, neppure il signor Eliorath era intenzionato a gettare la spugna, sebbene il tono del figlio fosse riluttante a ogni replica.

“E’ un bambino come tutti”, continuò il saggio, guardando il piccolo albino con un sorriso “Si chiama Lars e ha più talento di quanto tu possa immaginare.”
“Questo lo stabilirò soltanto io”, ribatté il Master, incrociando le braccia.

Il prendere in mano quella situazione era stata l’unica scelta che si fosse presentata a Elijah Van Incardine, Master di San Lorein e responsabile dell’addestramento degli allievi scelti per l’anno accademico.
Lui era il coordinatore, supervisionava tutto ciò che rientrava nelle tabelle predisposte insieme agli altri istruttori, ma rispondeva al volere dei saggi che formavano il consiglio di San Lorein, un’autorità di supporto che basavano le proprie decisioni sull’antica e protetta storia della città. Il signor Eliorath, in quanto capo di tale gruppo, era riuscito a ottenere il consenso per far entrare Lars nella loro accademia, seppur con non pochi dissapori al riguardo; a detta dei suoi colleghi, si trattava di uno strappo alla regola troppo pericoloso, un azzardo nei confronti della tradizione, ma il buon uomo aveva fatto loro notare che si trattava di un bambino e che, una volta finito l’addestramento, sarebbe ritornato alla sua patria, con la promessa di non venir meno agli insegnamenti che gli sarebbero stati impartiti. Un altro punto su cui si era discusso e che aveva visto la fine solo dopo diverse ore.

Nel mezzo di quei corridoi sontuosi, colmi di oggetti mai visti e di soffitti alti e stretti, Lars era stato osservato e sballottato come un orsacchiotto di pezza. Non ricordava quanto tempo fosse stato in piedi, nel mentre il signor Eliorath discuteva del suo soggiorno a San Lorein; si era perso a guardare i raggi solari che filtravano dalle ampie vetrate delle finestre colorate, negli echi delle persone che udiva in lontananza, per non parlare poi dei giardini, abbelliti da fontane aventi incastonati cherubini, arpe e fiori. Non aveva mai colto la presenza di colori scuri o ombre troppo dense negli angoli: c’era sempre una finestra o un’apertura che lasciava passare la luce del sole, spezzettata in riflessi colorati dai vari cristalli attaccati ai lampadari.

Tutto lì era luminoso, tranne i suoi dieci anni futuri, duri quanto il polso di Elijah Van Incardine.

Non gli era mai andato a genio, lo aveva capito fin da subito, così come aveva ben capito che qualsiasi sua azione sarebbe stata misurata con metro ancor più rigido, data la sua provenienza. Non per questo, però, si era lasciato spaventare: riluttanza a parte, Elijah Van Incardine gli aveva concesso una possibilità per dimostrare la veridicità delle parole del padre, una possibilità mal digerita, considerata la sua posizione all’interno di quella piccola e ristretta elite di giovani scelti.



Essere stranieri era un male. Nella lunga e onorata storia di San Lorein, gli “Esterni” non avevano mai ricevuto il permesso di toccare il sacro suolo della terra delle spade. Se sì, probabilmente gli antichi saggi avevano provveduto a cancellarne le tracce. Lars se lo era ripetuto un milione di volte da quando aveva iniziato l’addestramento e si premurava di ricordarselo ogni qualvolta veniva guardato con la coda nell’occhio o tenuto lontano dagli altri suoi compagni. I bambini del posto provenivano da famiglie benestanti, fedeli a San Lorein e istruite sulle sue leggi, ma anche dalle modeste periferie, dove si svolgevano i lavori artigianali. Essere scelti era un onore, perché l’addestramento rappresentava una sfida di sopravivenza a lungo termine, dove il traguardo rappresentava la gloria più alta di tutte, ma a questa, Lars, non sarebbe mai potuto arrivarci, seppur le sue abilità fossero notevolmente considerevoli.

Lui era uno straniero, un “Esterno”, e questo implicava l’entrata in gioco di tutta una serie di motivazioni per cui lui doveva essere grato al signor Eliorath per averlo accettato, bla bla bla……

“Ehi, tu.”

Aveva appena infilato un enorme cucchiaio colmo di zuppa in bocca, quand’ecco che un trio di ragazzini si avvicinò al suo tavolo. Si trovava a mensa e come tutti i giorni, pranzava nel tavolo in fondo, lontano dagli altri allievi. Alzò lo sguardo con normalità, senza stupirsi del perché quei tre fossero venuti a trovarlo: dubitava che avessero deciso di andare contro la volontà della loro città e dei loro genitori, quelli volevano solo testare la sua pazienza, e nell’unico momento di ristoro della giornata.

“Che cosa c’è?” domandò lui, dopo aver ingoiato il boccone e posato il cucchiaio nella ciotola.

Si augurò che non stessero per chiedergli chissà quale stupidata, ma quelle che per lui erano domande inutili e superflue, per gli altri suoi coetanei erano informazioni di vitale importanza.

“Dalle tue parti hanno tutti i capelli bianchi?” gli domandò il primo, col sopraciglio inarcato.

Per l’appunto…

“Solo mia madre e mia sorella, che io sappia”, rispose lui “E poi, i miei capelli sono argentati, non bianchi”, sottolineò.

Avrebbe dovuto aspettarsi quella domanda. Da com'era stato guardato, gli era parso un po’ strano che qualcuno non si fosse fatto ancora avanti per chiedergli come mai i suoi capelli avessero quel colore tanto inusuale. I tre si scambiarono delle occhiate poco convinte, borbottando a bassa voce e mettendolo in disparte, per poi riagguantarlo come fosse un pallone.

“Bianchi o no, mio padre dice che quelli come te devono essere tenuti lontani dalla nostra terra”, affermò un secondo, guardandolo come fosse colpevole di un omicidio.
“Già! Tu non puoi stare qui”, arrivò il terzo “Quindi, non darti tante arie. Sei qui solo perché l’ha voluto il saggio Eliorath!”

Un’altra cosa detta e ritrita. Da quando aveva iniziato ad addestrarsi, era stato attaccato da ogni genere di accusa, compreso quanto fosse ingiusta e disgustosa la sua presenza. Ogni scusa era buona per rammentarglielo, ogni momento era propizio per ricordargli che se avesse agito, Master Elijah lo avrebbe punito severamente. La possibilità concessagli c’era, ma era debole, fragile, vulnerabile a tutto e solo le sue scelte lo potevano proteggere. I suoi capelli erano bislacchi, diversi da quelli degli altri, con riflessi metallici abbastanza lucenti da fare invidia a quelli lunari. Sua madre li portava lunghi e ondulati, senza niente che li rendesse ancor più femminili. I suoi, invece, erano più corti: gli incorniciavano perfettamente il viso, abbinandosi ai suoi occhi color ghiaccio, che guardavano il mondo a testa alta, senza lasciarsi trarre in inganno da chi lo voleva vedere ringhiare con la fronte attaccata alla terra. Era solo un bambino a cui piaceva giocare e mangiare i suoi piatti preferiti fino ad avere la pancia piena, ma tutto ciò aveva dovuto lasciarlo indietro, a casa. Nella sua silenziosa maturità, permise che quei commenti scivolassero via, trasportati dalla ragionevole coscienza sempre sveglia e che mai lo avrebbe abbandonato.
Lo volevano provocare, si vedeva fin troppo bene quanto desiderassero buttarlo nell’angolo e dargli addosso, ma l’albino non era così stupido da cedere a provocazioni tanto banali e ripetitive.

“Io non mi sto dando delle arie”, dichiarò tranquillamente, guardandoli con le palpebre socchiuse a metà.
“Menti”, replicò il primo.
“Come fai a dirlo?”
“Perché gli stranieri sono tutti bugiardi. Tu sei uno straniero, dunque sei un bugiardo”, rispose il secondo, con fare saccente.
“Sì, un bugiardo che si crede più bravo di noi solo perché ha battuto qualche nostro compagno a duello”, arrivò il terzo.

Era impossibile che la questione non vertesse su quell’argomento; le facce contratte e gli atteggiamenti di chi non ammetteva repliche lasciarono intuire il resto della conversazione, scritta con largo anticiponel grande libro del destino. La foga di voler schiacciare Lars stava nell’invidia che quei tre covavano nei confronti del suo talento, venuto fuori giusto in tempo perché la fiducia del signor Eliorath fosse pienamente ricompensata. Lars era bravo, molto bravo, e si era distinto negli esercizi e nei duelli che Master Elijah organizzava almeno due volte alla settimana. Un momento di verità dove i muscoli e la mente si fondevano con la lama.

Ancora adesso, le mani dell’albino erano piene di fiacche, con tanto di ginocchia doloranti e occhi appesantiti dal sonno poco sereno, ma, oramai, quasi non ci faceva più caso: un mese era un lasso di tempo più che sufficiente per adattarsi e capire come muoversi. Purtroppo, c’era sempre qualche recidivo che voleva, anzi, che doveva parlargli male. E per quanto la cosa non fosse nuova, difendersi adeguatamente gli sarebbe costato caro….

“Io dico che hai barato”, buttò lì il primo.
“Non l’ho fatto”, replicò loquacemente l’albino.
“Tanto non ti crediamo. Tu sei un bugiardo”, ribatterono gli altri due, supportati dal silenzio a cui gli altri bambini stavano dando appoggio.
“E i bugiardi non mangiano con noi”, riprese il primo, afferrando la scodella con dentro il cibo ormai freddo di Lars “Vai via! Noi non ti vogliamo qui…”
“Che succede?”

La mano del bambino, quella che reggeva saldamente la ciotola di Lars, rischiò di allentare la presa e lasciare cadere a terra l’oggetto. La voce intromessasi non apparteneva a un adulto, ma fece si che quei tre bambini la smettessero di importunare l’albino, molto più sorpreso di quanto i suoi occhi dessero a vedere: dal centro della sala, vide avanzare un bambino della sua età, un bambino che conosceva solo di nome e fama, con cui non aveva mai parlato. Arrivò alle spalle degli altri suoi tre coetanei con la stessa silenziosità di un’ombra, sollecitando un sussurrato vociare mai sentito.

“Eliah, sei tu!” esclamò il primo, girandosi in fretta e furia.
“Non si riesce a mangiare con tutto questo rumore. Che state facendo?” domandò il nuovo arrivato, per poi porre gli occhi bluastri su Lars.

Come avvertì su di sé lo sguardo di quell’altro bambino, l’albino si raddrizzò per vederlo meglio. Aveva una zazzera scompigliata in testa, di un color nocciola piuttosto chiaro, occhi bluastri, le mani appoggiate ai fianchi e il viso leggermente inclinato a destra. Il rumore del loro bisticcio lo aveva attirato con lo stesso effetto che il miele sortiva su di una vogliosa ape, e come ripose il suo sguardo sugli altri tre, questi sussultarono appena, come se davanti a loro ci fosse stato Elijah Van Incardine in persona.

“Insomma, mi dite che sta succedendo?” domandò ancora, spazientito per l’attesa prolungata.
“E’ colpa sua! Ha iniziato lui e noi lo stavamo rimproverando”, mentì spudoratamente il primo, puntando il dito contro un tranquillo Lars, appena trasformato in un’ideale vittima sacrificale.
“Vero!” si aggiunsero all’unisono gli altri due.

Che novellini….
Fossero stati almeno credibili.

L’albino non sprecò fiato al riguardo e si astenne dal sospirare con esasperazione. Poteva difendersi benissimo, replicare che lui non aveva fatto altro che starsene buono buonino a mangiare il suo pranzo e che quelli avevano deciso, di punto in bianco, di tirargli la scodella in faccia, ma non lo fece: il cervello non gli mancava, però non voleva ridicolizzare quei tre solo perché erano negati a mentire. Inoltre, non era il tipo che perdeva le staffe e saltava addosso agli altri con tutta l’intenzione di fargli rimangiare ogni singola parola sputata. Azu lo avrebbe fatto, ma lui era Lars, e fintanto che non disonorava pubblicamente la sacralità di San Lorein, alla sua permanenza non si sarebbe aggiunto nient’altro che non fossero sguardi freddi, bisbigli taglienti e via dicendo. Anche con cento testimoni a suo favore e prove schiaccianti che ne dimostrassero l’innocenza, la sua posizione non sarebbe cambiata, per questo quei tre volevano a tutti i costi che venisse punito.
Lui era bravo con le spade, ma era uno straniero, perciò, se avesse commesso qualcosa, Master Elijah non ci avrebbe impiegato molto a punirlo e a ricordargli quanto fossero sgradite le persone provenienti al di fuori del loro muro.

-Se almeno evitassero di dire certe stupidate...-, pensò lui.

I suoi accusatori si stavano sbracciando come degli ossessi, nemmeno se nella mensa fosse appena scoppiata una rivoluzione. Eppure, quel Eliah…..non sembrava particolarmente preso dal racconto, anzi: doveva aver intuito che i suoi compagni non glie la stavano raccontando giusta.

“E dovrei credervi?” domandò per l’appunto, dopo l’interminabile spiegazione dei coetanei “Ho visto benissimo che siete stati voi a cominciare.”
“Ma, Eliah, lui….”
“Niente “Ma”. Non è così che ci si comporta. Se avete tante energia da spendere, andate ad allenarvi, piuttosto.”

Non occorse altro perché quelli abbassassero la testa e ubbidissero senza fare troppe storie. Perfino gli altri bambini chiusero le loro bocche e cercarono di zittirsi più del dovuto. Preferirono rimandare il chiacchiericcio a dopo, quando le acque fossero state più calme. Difatti, successe: per le restanti ore della giornata, Lars venne circondato da mormorii ripetitivi e scoordinati fra di loro, tutti domandanti il perché Eliah avesse preso le sue difese. Fra il correre, lo schivare, e il compiere tutta una serie di esercizi che vide i suoi polmoni completamente svuotati, l’albino arrivò al tramonto con i muscoli sfibrati e tremolanti, tanto che dovette attaccarsi alla fontanella per non cadere. Ingoiare acqua era la sola maniera che avesse per alleviare la fatica di quella giornata, dimostratasi più dura delle precedenti e anche a costo di congelarsi le labbra, avrebbe riempito la sua pancia fino a quando non sarebbe scoppiato.

Si sciacquò le ginocchia, le braccia e il viso con foga, cercando di togliersi di dosso la calura, la polvere, e anche alcuni rivoli di sangue colanti da qualche taglietto. Prima andava a letto, meglio sarebbe stato, perché l’indomani non sarebbe rimasto a dormire fino a mezzogiorno.

“Ciao.”

Aveva appena finito di strofinarsi le guance, quand’ecco che, per la seconda volta, si ritrovò faccia a faccia con quel ragazzino dai capelli color nocciola.

“Ciao”, fece a sua volta.
“Ti chiami Lars, giusto?”
“A-ah.”

Diretto e senza giramenti di parole. Proprio come aveva intuito.

“Scusa per come si sono comportati gli altri”, riprese lui, alludendo a quanto era accaduto a pranzo “Sono degli stupidi. Fanno tanto i superiori, ma in realtà si vedeva benissimo che erano gelosi di te.”

L’ovvietà con cui pronunciò l’ultima aggiunta diede conferma ai pensieri di Lars, intento a fare mente locale di quanto aveva appena ascoltato e detto. Quel bambino era sincero, non c’era nulla che potesse dimostrare il contrario, nonostante i raggi soffusi del tramonto gli stessero oscurando il viso, conferendo al terreno un inconsueto color arancione. Però…proprio non capire che cosa ci facesse lì.

“Non fa nulla”, disse ancora l’albino, tirandosi fuori dai suoi stessi pensieri.
“Io sono Eliah”, si presentò l’altro, senza indugiare troppo.
“Si, lo so. So chi sei.”

Che il campo d’addestramento fosse particolarmente suggestivo sotto la luce del tramonto o che le punte dei suoi capelli argentati gocciolassero a cadenza regolare, niente di questo e altro avrebbe potuto distoglierlo dal fatto che davanti a sé aveva niente di meno che il figlio di Elijah Van Incardine, il migliore allievo di tutto l’anno accademico. Una coincidenza troppo bislacca per i gusti di Lars: non credeva nelle superstizioni e non si era mai preso la briga di controllare se sotto il suo letto ci fosse l’uomo nero. Che il figlio del Master di San Lorein si trovasse lì, con lui, e che gli stesse rivolgendo la parola, era un dato di fatto, ma ciò non ne spiegava la ragione. Cosa poteva volere il rampollo della famiglia più altolocata di tutta San Lorein da lui?

“Hai bisogno di qualcosa?” domandò poi, cercando di trovare una risposta al suo quesito.
“Sì, voglio battermi con te”, rispose schietto l’altro.
“Come”
“Non hai sentito? Ho detto che voglio battermi con te.”

Un duello? Lì? Con lui? Aveva picchiato la testa o cosa? Era fuori discussione.
Non si poteva fare in alcun modo e se Lars fosse stato costretto a spiegare il perché, avrebbe trovato più di una valida spiegazione al riguardo. Seppur riuscisse a muoversi decentemente, il suo corpo era piuttosto dolorante. Aveva imparato ad allargare la propria soglia di sopportabilità ogni qualvolta si presentasse un esercizio più duro del precedente, ma da bambino in fase di crescita quale era, pretendere di muoversi e agire come un adulto era ancora qualcosa che non gli era concesso. 
E, in tutta franchezza, al momento, non era un duello quello che più desiderava.

“Uh? Cosa c’è?” domandò Eliah, con cipiglio interrogativo, notando l’espressione corrucciata dell’albino.
“E’ meglio se non ti fai vedere con me. A tuo padre non sto tanto simpatico”, rispose atono e infilandosi le mani in tasca “E se qualche compagno ci vede, può fare la spia.”
“E’ il tuo modo di dirmi che hai paura?” lo provocò lui, con un pizzico di spavalderia.
“No, è il mio modo di dire che sono stanco e non voglio passare la notte a fare piegamenti sulle ginocchia.”

Si rese conto troppo tardi di aver lasciato libera la lingua più del dovuto. Il sentirsi tutto tirato e rigido aveva fatto sì che il suo autocontrollo scemasse, anche se di poco. Non era scoppiato come un palloncino per la troppa aria, ma si sarebbe spiaccicato la mano sulla fronte se soltanto avesse potuto, giacché vide il coetaneo spalancare gli occhi e la bocca in un solo colpo.

-Sono finito-, pensò lui.

Poteva già dire addio alla bella dormita e al cuscino che lo attendevano con trepidazione…..

“Capisco….allora, che ne dici di venire a cena da me?” gli propose subito Eliah, per nulla toccato.

Si stava già immaginando di veder volare via il suo comodo giaciglio, quand’ecco che la seconda domanda del bambino dai capelli color nocciola lo fece cascare dalle nuvole. Fu normale fissarlo con fare stralunato e sospetto, perché, sinceramente, non era il genere di risposta che si sarebbe aspettato. Uno spavaldo come lui, che gli chiedeva di battersi senza troppi problemi, avrebbe insistito, mostrando un’indole testarda e sfrontata, magari. Era così che funzionava. Questo invece aveva accolto la sua risposta e aveva sfoderato il……..com’è che lo chiamava sua sorella? Ah, si! Il piano B.
Lei lo usava sempre, pur di non dargliela vinta. Era l’asso nella manica che, irrimediabilmente, si rivelava un colossale buco nell’acqua. Di tutti quei suoi strampalati tentativi per vincere, non ne ricordava uno che avesse funzionato, ma il punto era che Eliah non era Azu: lui sembrava sapere bene come agire, il che spinse Lars a mettere ancor più in pericolo la sua già traballante posizione.

“Tu sei strano”, affermò.
“Perché ti chiedo di batterti con me e poi di venire a cena?”
“Sì.”
“Può darsi, ma io non ci vedo nulla di strano a volerti conoscere.”

Un piccolo stormo di colombi si librò in aria, volando verso le alte torri di San Lorein, mentre il sole si apprestava ad andare a dormire. Numerosi boccioli multicolore cominciarono a chiudersi su sé stessi e le prime luci dei lampioni fecero la loro comparsa nelle strade ancora imbottite di gente. Il campo d’addestramento era vuoto, deserto, libero per Lars ed Eliah, ancora presi a fissarsi. Dopo quella rivelazione, la mente dell’albino parve ricevere una botte così stordente, da fargli perdere il filo del discorso. Si dimenticò del dolore che sortiva sul suo corpo, del calore, delle gocce che gli picchiettavano la pelle, e anche delle lievi pulsazioni provenienti dai palmi delle sue mani.
Voleva soltanto chiedere più di quanto normalmente gli fosse concesso, sfondare la barriera del silenzio. Era perfettamente consapevole di non avere il permesso, che se il padre di Eliah li avesse visti insieme, ne avrebbe pagato le conseguenze, ma, nonostante la terribile prospettiva, Lars non si lasciò scoraggiare. Sì, non era molto convinto delle intenzioni di Eliah e chiedere sarebbe stato già tanto, vista la sua posizione: non erano molte le cose che poteva fare, si era adattato appositamente per restare, ma quel tipo era uno che non demordeva, questo lo aveva capito semplicemente guardandolo.

“Hai un modo buffo per volermi parlare”, disse Lars “Sei ancora più strano.”
“Mai quanto i tuoi capelli”, replicò l’altro, avvicinandosi “Posso toccarli?”
“No.”

Se c’era una cosa che mal sopportava più delle critiche ai suoi capelli, era che glieli si toccassero in continuazione. Mica era un pupazzo.

“Vieni con me, allora”, insistette Eliah.
“E se non volessi?”
“Ti scompiglio i capelli e dico a tutti che sei un fifone”, lo ricattò lui, ghignando e appoggiando le mani ai fianchi.
“E’ una minaccia?” domandò Lars.
“No, ma così ho deciso e tu non hai scelta.”
“E perché dovrei farlo?”
“Perché fra cinque minuti mio padre passerà a controllare che tutti gli allievi siano a mangiare e se non ti trova, farai una brutta fine. Io sono esente, visto il nonno mi ha invitato a cena e lo stesso vale per te, ma se salta fuori che non eri a casa mia o a mensa, chissà cosa ti faranno quei vecchi barbuti.”

Per un attimo, gli era parso di parlare con la sorella: le domande e le risposte erano pressoché identiche, tutto il dialogo era un quadro già affrontato e vissuto. Poi, infastidito dall’indolenzimento del suo corpo, si ricordò che Eliah non era Azu e il sentire la sua risposta, lo ammutolì di colpo. Soltanto guardandosi attorno, Lars comprese che si era fatto più tardi del previsto e che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere la mensa. Sarebbe stato inutile sperare in un ipotetico ritardo di Master Elijah, poiché egli era assai scrupoloso in tutto ciò che faceva e organizzava, quindi, non gli rimaneva altra scelta se non seguire Eliah ed evitare di passare la notte al campo, sulle ginocchia, col vento a picchiettargli contro la schiena e lo stomaco vuoto.

Come i rintocchi delle campane si espansero nell’aria – e prima ancora che potesse dire “Si” o “No” -, Eliah gli afferrò vigorosamente il polso, trascinandolo in una corsa trafelata verso una corta rampa di scale pietrose.

“Sbrighiamoci! Mio padre sarà qui a breve!”

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Capitolo 17
*** Pieces of Memory: Broken Ice Queen. ***





Fra tutte le persone presenti a San Lorein, Eliah Van Incardine era, senz’ombra di dubbio, l’ultima con cui Lars avrebbe pensato di stringere amicizia.
Era il migliore della classe, colui che si era guadagnato un così autorevole rispetto da parte dei suoi compagni, da essere considerato un piccolo leader capace di porre ordine quando si veniva a creare scompiglio. Un bambino abilissimo con la spada, veloce, disciplinato, ma insolitamente privo di preconcetti nei suoi confronti. Unico fattore – oltre all’aspetto giovanile e all’assenza di barba – a differenziarlo dal padre, Elijah Van Incardine.

Il venire “Salvato” e poi invitato a cena dalla punta di diamante dell’accademia era stato strano, specie perché Eliah lo aveva trascinato per mezza città come fosse un pupazzo malandato, senza neppure attendere una sua risposta. Ricatto a parte, quello era stato l’inizio di tutto. Da quella sera in avanti, si era susseguita una catena di eventi a cui Lars non si era preparato, ma che fece sua prestissimo, tanto il richiamo era forte. L’essere stato avvicinato da una persona desiderosa di conoscerlo meglio, di essergli amico, gli aveva permesso di afferrare quella mano invisibile che lui aveva cancellato dalla sua mente fin dal primo giorno d’addestramento. Per un attimo, aveva quasi scordato quanto fosse piacevole parlare con qualcuno, ridere o stare in compagnia, ma il riappropriarsi di quella sensazione perduta glielo aveva riportato alla mente, insieme a tutto il resto.
Abitare a San Lorein era difficile. Il suo aspetto richiamava moltissimo quello di un castello dai riflessi cristallini e lucenti, scintillanti sotto ogni aspetto: un posto da favola, ideale per i sogni di bambine ancora credenti al principe azzurro, ma duro e freddo quanto i diamanti che rilucevano sotto il sole. Esigeva la fedeltà e la perfezione, due elementi che Lars non poteva dimostrare pienamente. La prima, perché egli non era nativo di quella terra. La seconda, perché non esisteva, non nella maniera in cui gli abitanti la intendevano. Secondo il Master, i saggi e il resto della popolazione, lui non poteva comprendere l’importanza di essere un cittadino di San Lorein, e, in tutta franchezza, all’albino non era mai interessato capirlo. Non aveva accettato la generosa offerta del signor Eliorath con il preciso scopo di diventare un fedele suddito di quel piccolo e isolato pezzo di terra: lo aveva fatto per divenire lo spadaccino che desiderava essere fin dalla tenera età.

L’affinità che legava lui e la lama era ancora allo stato grezzo, aveva bisogno di allenamenti massacranti e valori sacri quanto la vita stessa, per questo, ogni giorno, s'impegnava per compiere anche il più piccolo dei passi. Non lo faceva per dimostrare qualcosa o per una persona in particolare, ma unicamente per se stesso. Maneggiare una spada….no, sentirla vibrare sotto i polpastrelli, riuscire a catturarne l’indole e far sì che questa la accettasse….ecco qual’ era il suo sogno.

Eppure…stava sbagliando.
Nel voler dare vita a quel desiderio, aveva dovuto tener conto che non era ben accetto a San Lorein, e questo lo aveva spinto a ignorare certi comportamenti che avrebbero visto sua sorella brandire una scopa e pestare tutti all’istante. La sua presenza non era gradita, per tale motivo aveva cancellato l’ipotetica possibilità di farsi un’amicizia, arrivando quasi a dimenticarsi quanto quella singola parola fosse importante per un bambino. Eliah gli era piombato addosso come un fulmine a ciel sereno, esibendo un approccio che gli aveva fatto storcere il sopracciglio e le labbra, poiché il ricatto non si poteva considerare una valida alternativa al “Ciao, vuoi fare amicizia con me?”.
Era deciso, sicuro di sé, a volte un po’ un capetto, ma anche sincero e molto attaccato alla sua terra natale. Un tipetto che non si lasciava mettere i piedi in testa da niente e da nessuno.



“Ok, non c’è nessuno.”

Due scalini dividevano Lars ed Eliah dal Saidan, il preziosissimo chiostro del palazzo di San Lorein, costruito in onore del fondatore della città: Rahel. 
Appiccicati a una delle ampie colonne cesellate che ornavano i lati delle scale e della stanza, i due bambini si guardarono nuovamente attorno, giusto per essere sicuri di non aver lasciato tracce. Era un bene che Eliah avesse deciso di venire lì di notte, perché il blu scuro delle colonne si enfatizzava con quello del cielo, rendendo le ombre ancor più grandi e scure. Il pavimento sopra cui posarono i loro quatti passi - dopo essersi nuovamente accertati che non ci fossero guardie nei paraggi -, era di un bianco lucidissimo, contornato da chiazze di luce lunare che ne mostravano la superficie liscia e completamente pulita. Volendo, ci si sarebbe potuti specchiare. Posto all’apice del palazzo, con tutta San Lorein al proprio cospetto, decorata con stendargli aventi sopra il simbolo per eccellenza della città – un’ala argentata -, un soffitto ad arco pieno di bellissimi e raffinati mosaici, il chiostro racchiudeva il fulcro della storia e della tradizione dell’intera isola. Era il cuore del palazzo, la stanza dove veniva custodito il prezioso dei tesori.

Seguendo la figura attenta di Eliah, Lars avanzò lungo il corridoio semibuio, guardandosi attorno e faticando a non rimanere rapito dalla bellezza d’esso; era illuminato sufficientemente, abbastanza perché si facesse un’idea sul posto, ma l’amico non lo aveva portato lì per fargli ammirare i mosaici, il paesaggio o che altro. Non avrebbe rischiato tanto, se dietro non ci fosse stata una valida ragione. 

“Lars, vieni! Dai!” lo incitò quest’ultimo, già arrivato alla meta.

L’albino sussultò, riprendendo la concentrazione momentaneamente perduta. Solo in quel momento, si accorse che il fondo del Saidan era avvolto da una tenue luce arancione. I suoi occhi chiari scorsero delle piccole e guizzanti fiammelle consumare quello che, con molte probabilità, doveva essere il legno di alcune torce appese alle colonne di fondo. Eliah non continuava a far altro che agitare il braccio, esortandolo ad avvicinarsi, e quando gli fu nuovamente a fianco, spalancò gli occhi: il chiostro terminava in una forma ampia e circolare, completamente occupata da una fontana poco profonda, dove l’acqua cristallina ondeggiava pigramente, accompagnata da piccoli e chiari petali rosati.

Stette per dischiudere la bocca e chiedergli perché ci avesse tenuto tanto a portarlo lì, quand’ecco che guardò nel mezzo e rimase stupito per quel vide.

“Questo è…..?”
“Quello che volevo mostrarti”, concluse l’amico, notando quanto fosse rimasto sorpreso “Sei con noi già da un bel po’, mi sembrava giusto che tu sapessi.”

Anche dopo aver superato i dieci anni, Lars era ancora tenuto all’oscuro di molte cose. Futili o no, quel poco in suo possesso gli bastava, ma Eliah era d’opinione contraria: anche se non era nato a San Lorein, l’albino meritava comunque di conoscere quel che a lui e a tutti gli altri allievi era stato insegnato fin dal principio.

Al centro della fontana stava un grosso piedistallo marmoreo, avente sopra di sé cinque giovani ancelle, tutte scolpite in posizioni diverse. Tre erano in piedi - una al centro, con le altre due poste a destra e a sinistra -, mentre le restanti due erano sedute: una aveva le gambe immerse nell’acqua, l’altra stava in ginocchio. Tutte avevano espressioni differenti, ma ad accomunarle, era il fatto che tenessero delle armi fra le braccia.
Lars le osservò attentamente una a una. 

La prima al centro era l’unica a essere vuota: una delle braccia era tesa in avanti, con la mano aperta e lo sguardo fiero e sicuro. 
La seconda a destra, con gli occhi chiusi e la bocca piegata in un sorriso, porgeva quello che era un grosso arco bianco, con flettenti spessi e punte arricciate. La corda – un insieme fine di stoppini e fili attorcigliati fra di loro -, luccicava debolmente, insieme alle piccole e curate intarsiature azzurrine.  
Proseguendo verso il basso, vi era la terza ancella, le cui mani e la guancia sinistra erano delicatamente appoggiate sui bordi di uno scudo massiccio. Il grigiore pallido del metallo si mescolava ai risvolti smeraldini che spiccavano per la loro consistenza. Al centro, in una piccola rientranza circolare, era incastonata una pietra lucente, di un verde scuro molto ammaliante.
Passando sulla sinistra, Lars si concentrò sulla quarta fanciulla, colei che se ne stava in ginocchio e col capo leggermente piegato verso il pavimento. Si appoggiava a fatica allo spesso manico bianco di una grossa alabarda, la cui base e le rifiniture erano dorate. L’apice terminava con una lama avente la forma dipartita in tre punte affilatissime: le due laterali erano piccole, mentre quella centrale era più grossa e lunga. Un’arma che, forse, sarebbe stato saggio porre nelle mani della prima ancella, anziché in quella seduta.

Fu lì, che Lars osservò l’ultima statua rimasta, la terza che stava in piedi.

Guardandola, ebbe quasi l’impressione che fosse girata di schiena, tanto appariva distante dal compatto gruppetto: era la sola ad avere gli occhi chiusi e un viso inspiegabilmente assopito. Sorreggeva con le magre braccia la sola arma rimasta, una spada dall’irreale lama azzurra, con l’impugnatura intarsiata e avvolta da una collana di perle violacee.

“Mio padre mi ci ha portato poco prima che iniziassi l’addestramento”, raccontò Eliah, messosi seduto e attirando l’attenzione dell’albino “Qui la gente non può venirci, è vietato. Solo i saggi possono, oltre al Master e al neoeletto, ovviamente.”
“Neoeletto?” domandò Lars, distogliendo momentaneamente lo sguardo dalla statua.
“Il nuovo Master. La persona a cui vengono riconosciuti i diritti per entrare in questa stanza”, specificò l’altro. 
“Intendi l’allievo che viene proclamato vincitore al torneo conclusivo?”
“Proprio quello.”

Da quel poco che era riuscito a cogliere durante le lezioni, Lars aveva scoperto l’esistenza di un test finale a cui tutti gli allievi dovevano sottoporsi, una volta compiuti i diciassette anni: si trattava del Grande Torneo, la prova più ardua e complicata dell’addestramento, dove tutto, virtù comprese, veniva osservato e giudicato dagli occhi imparziali dei saggi di San Lorein e dal Master stesso. L’evento si svolgeva nell’arena principale, un enorme stadio circolare, secondo solo al palazzo della città. Di tutta la faccenda, Lars aveva compreso soltanto questo, ma non era così ignorante da non arrivare a intuire che dietro a tanta scrupolosità da parte dei maestri, c’era qualcosa di molto più simbolico. Eliah lo aveva portato lì perché apprendesse il loro sapere, lo stesso di cui lui cominciava a intravvedere i contorni, seppur molto sfumati. Posando nuovamente gli occhi sul piedistallo, si concentrò sulla statua in mezzo, la sola che fosse sprovvista di un’arma. Subito gli venne in mente Elijah Van Incardine: sebbene l’avesse incontrato poche volte, l’albino era certo che la spada che l’uomo teneva legata al fianco, con quella lunga lama color rubino, provenisse proprio dal chiostro. Era troppo particolare perché fosse frutto del lavoro di un comune fabbro, chiunque lo avrebbe notato.

Però, per quanto si stesse sforzando, non riusciva a cogliere la connessione fra essa, il torneo e quella stanza; succedeva qualcosa di unico, fino a lì ci era arrivato, ma che cosa, nello specifico, proprio non lo immaginava………


“Senti, Eliah….”, cominciò a un certo punto “E’ qui che tuo padre ha preso la sua spada?”
“Si, il giorno stesso che ha vinto il torneo. Il nonno lo ha portato qui insieme agli altri saggi ed è stato in quel momento che Magdala lo ha scelto, ma mia madre non fa che ripetermi che non poteva andare diversamente”, gli rispose il coetaneo.
“In che senso?”
“Beh, la Domatrice Scarlatta ha sempre scelto mio nonno e altri membri della mia famiglia, quindi era scontato che facesse lo stesso con mio padre”, riprese lui, tutto sorridente “Noi Van Incardine abbiamo una reputazione da difendere, per non parlare del titolo: si può dire che la nostra storia sia intrecciata a quella di San Lorein, visto che la maggior parte dei suoi Master provengono dalla mia famiglia, ma non è certo un segreto: noi….”

S'interruppe bruscamente, come se lo avesse appena punto uno scorpione.
Lo aveva fatto ancora. Per la trentesima volta, Eliah aveva ceduto al suo orgoglio, lasciando andare la sua lingua e colpendo il povero Lars, vittima frequente di quel suo difettuccio. Accorgersene prima che l’albino decidesse di mollarlo lì fu provvidenziale: d’accordo, adorava la sua famiglia, lo aveva capito, ma raccontarne ogni singolo gesto, in piena notte, e con il rischio di essere puniti……
Almeno il mal di testa se lo voleva risparmiare.

“Ho… parlato troppo, vero?” domandò poi Eliah, accorgendosi dell’espressione lunga e mogia dell’albino, nel mentre la nuca gli si riempiva di numerosi goccioloni.
“Mi stavo giusto chiedendo se ficcarti la testa sott’acqua o mettermi a dormire, visto che sembravi intenzionato a raccontare l’intera storia della tua famiglia”, rivelò Lars.
“Umpf! La tua è tutta invidia”, fu la pronta replica di Eliah, che alzò la testa con fare strafottente “Noi Van Incardine siamo i migliori spadaccini di tutto il mondo.”
“Lo so, l’hai detto tante volte. Ora, però, mi dici qualcosa che non so?” chiese lui, alludendo molto chiaramente all’argomento attorno a cui continuava a girare, ma senza avvicinarsi.
“Eh eh! Ok, è giusto!” ridacchiò l’amico.

Il venire di nascosto nel chiostro lo aveva sempre eccitato moltissimo, tanto che a stento tratteneva le proprie gambe dal saltare come delle molle impazzite. Eliah era bravo e diligente, ma anche curioso e pieno di fantasia: lo stare lì, ai piedi della fontana del Saidan, era un rischio trasudante di emozione e adrenalina inesauribile, vivo e forte come il suo sogno. Amava addentrarsi nella cucina di casa sua per prendere di nascosto qualche biscotto, starsene sdraiato sulle tegole di una delle torri più alte per vedere le stelle o correre lungo le mura che proteggevano la sua città, erano delle piccole libertà dentro cui coinvolgeva anche Lars, le cui repliche avevano cessato di esistere nell’istante in cui l’indole dell’amico vi si era posta pesantemente sopra. Ovunque andasse, lo portava con lui, gli faceva vedere di tutto e di più, riservando il meglio per ultimo. Il chiostro non era che un’altra chicca di quella città che lui non avrebbe mai potuto visitare completamente, se Eliah non avesse deciso di buttarlo già dal letto all’una del mattino. 

“Di preciso, nessuno sa quando la nostra città è stata costruita: la storia che mi ha raccontato mio padre e mio nonno, e che è scritta nei manoscritti che i saggi custodiscono nella loro biblioteca, risale a un periodo buio, il più grande e orribile che la nostra isola abbia mai subito”, cominciò a raccontare il bambino dai capelli nocciolati.

I manoscritti di San Lorein erano tanto preziosi quanto delicati: dei rotoli impolverati con lettere nere e svolazzanti, scritte su carte dai bordi dorati, giusto per rendere la consistenza più luminosa. Disegni dai colori densi si alternavano a passi intrisi di disperazione e confusione, deboli e prossimi al tracollo. Ripetitivi, per certi aspetti: quei versi poetici tentavano di interrompere la circolarità di quella spirale mortale dentro cui la città era finita, ma senza successo.

“Il cielo era sempre nero, il mare in tempesta, con onde altissime e capaci di spazzare vie un’isola….la nostra casa era circondata e non c’era niente che si potesse fare. La disperazione che dilagava nelle vie risucchiava ogni speranza: i Senza Volto si sono accaniti sulla mia gente senza un motivo, portando il caos ovunque.”
“Senza Volto?” ripeté Lars. Non ne aveva mai sentito parlare.
“Demoni provenienti dagli abissi marini”, spiegò l’amico, volgendogli lo sguardo “Ombre che hanno perso la propria anima quand’erano in vita. Sono condannate a trascorrere l’eternità negli angoli più profondi e remoti dell’oceano.”

Sebbene Eliah non avesse provato quell’esperienza sulla propria pelle, parlava e trattava la faccenda con solennità adulta e rispettosa, quasi fosse una ferita fresca. Aveva letto i contenuti dei manoscritti fino a memorizzarne le parole, soffermandosi sui disegni e cercando di creare mentalmente un’immagine che rispecchiasse quelle frasi sbiadite e conservate con la massima premura. I suoi occhi non risentivano più del bruciore per la troppa fatica, così come la sua mente, impregnata di tutto ciò che riguardava la sua terra natia. Fra le molte informazioni che riguardavano San Lorein, la storia della sua nascita era la parte che più lo prendeva, che lo spingeva assiduamente a intrufolarsi di nascosto nel Saidan. Non c’era nulla che avesse tralasciato, aveva imparato a memoria tutto lo scibile possibile, quasi sperando di trovarvi qualcosa che lo spronasse ad andare avanti, a continuare quella ricerca.

“Come siano arrivati in superficie è sempre rimasto un mistero” riprese subito, tornando a guardare il piedistallo e le statue “Mio nonno dice che sono stati attratti dalla luce del sole e dalla vitalità della nostra isola, per questo ci hanno attaccato con tanta violenza.”
“Capisco. E poi che cos’è successo?” domandò l’albino, abbracciandosi le ginocchia. La storia cominciava a interessargli non poco.

Eliah esitò qualche secondo, abbassando lo sguardo di poco, ma rialzandolo quasi immediatamente.

“Anche se i Senza Volto vigilavano in continuazione, un giorno, un fabbricante d’armi di nome Rahel riuscì a ingannarli e a fuggire dall’isola. Scappò lontano, in posti sconosciuti e mai visitati, finché non raggiunse le terre proibite: i Picchi del Mondo. Si dice che siano inaccessibili a qualunque essere umano, ma Rahel riuscì a scalarli e a catturare le anime degli elementi naturali.”
“Le anime degli elementi?” quasi subito, Lars colse il collegamento che c’era fra il santuario e la storia che l’amico gli stava raccontando “Aspetta. Quindi, queste armi sono…"
“Hai capito bene. Cioè, non è che sono proprio gli elementi in carne ed ossa...”, tento di spiegare il bambino, con la fronte aggrottata “Il manoscritto è piuttosto vago, ma da quello che ho capito, su ogni Picco risiedeva un elemento naturale di questo mondo: fuoco, ghiaccio, fulmine, terra e vento. Rahel è riuscito a prenderne un pezzettino, a plasmarlo, ecco come ha creato le armi.”

Aveva letto centinaia di miglia di volte quel passaggio, ma Eliah si ritrovò ugualmente costretto a gonfiare le guance e ad alzare la testa, in cerca di una qualche illuminazione che lo aiutasse a spiegare il concetto. Anche lui ci aveva piegato un po’ a comprendere come si fossero svolti i fatti, il che gli era costato più di un’intrufolata notturna. Distogliendo lo sguardo dall’amico, Lars si concentrò sul piedistallo, facendo scorrere il suo occhio chiarissimo su ciascuna delle armi che le ancelle reggevano: sia per i colori, che per la forma, non potevano essere considerate dei meri strumenti. Brillavano di una luce propria, i fuochi nelle torce ne enfatizzavano gli scintilli come tante piccole stelle.

Eppure….c’era qualcosa che stonava.
Un vuoto rappresentato dall’ancella di sinistra, quella stante in piedi, la cui postura dava l’impressione che non volesse farsi vedere in faccia. L’albino ne era stato subito rapito o meglio, era stato rapito dall’arma che quest’ultima abbracciava delicatamente con volto sereno e distaccato. Era la spada azzurra, quella con l’impugnatura avvolta dalla collana di perline; per uno strano motivo…era spenta. La pelle della fanciulla era insolitamente più scura delle altre e la spada pareva profondamente addormentata, tanto la lama era celata dietro un leggerissimo velo d’ombra che neppure la fiocca luce riflettente delle torce riusciva a dissipare. Le altre erano appariscenti, lei no, ma a Lars piacque più dell’arco, dello scudo, della lancia e della spada che Elijah Van Incardine brandiva.

Era bella, e si ritrovò a contemplarla più del tempo dovuto, permettendo a Eliah di accorgersi che non lo stava minimamente seguendo.

“Lars? Ehi, Lars! Lars!!”
“Eh?”
“Ma ti sei incantato?! Guarda che io non ho ancora finito!” sbottò lui.
“Scusa, non volevo. Che stavi dicendo?”

Il bambino dai capelli nocciolati sbuffò sonoramente, rilassando le guance come due palloncini gonfiati inutilmente.

“Che quando Rahel ha fatto ritorno qua, ha utilizzato le armi da lui forgiate per sconfiggere i Senza Volto. Una volta battuti, li ha incatenati e relegati sul fondo marino, costringendoli a sostenere il peso dell’intera isola come punizione per averla fatta quasi inabissare. Grazie al suo aiuto, la nostra città è tornata a vivere e fu ribattezzata dai saggi di allora San Lorein, dopo che Rahel venne eletto come Primo Master.”
“Il Primo Master? Dunque, è stato lui a dare il via alla tradizione”, mormorò l’albino.
“Si. “Master” è il titolo che viene dato al guerriero più forte di tutta San Lorein, colui che è stato riconosciuto e accettato da una delle sacre armi di Rahel. Lui è stato il solo a usarle tutte cinque insieme, ma non avendo avuto eredi, i saggi hanno dovuto trovare un modo per far si che la tradizione continuasse senza che gli insegnamenti di Rahel venissero dimenticati.”
“L’accademia e il Grande Torneo, giusto?” arrivò Lars, cominciando a vedere con più nitidezza l’intero quadro.
“Già. Col tempo, le prove si sono fatte più impegnative, per verificare se i candidati fossero accettabili non solo nella forza, ma anche nello spirito. I Master che sono succeduti a Rahel, hanno sempre impugnato una sola delle cinque armi, ma è sempre stato sufficiente per tenere a bada i Senza Volto. Sai, loro riescono a sentirci e se avvertono che una delle armi che li ha messi in ginocchio è sveglia, rimangono al loro posto, senza provare a fuggire. E’ importantissimo che San Lorein abbia sempre un Master e che i tesori del nostro fondatore rimangano al sicuro nel Saidan. I Senza Volto temono il santuario e il Master, ma se una sola delle armi dovesse venire portata al di fuori delle mura della nostra città, loro potrebbero approfittarne.”
“Capisco….”, mormorò Lars, con sguardo vacuo e socchiuso.

L’interesse suscitato da quella storia sembrava essere stato strappato via dal suo corpo con un colpo silenzioso e invisibile. L’eccitazione di Eliah si scontrò pesantemente contro quel muro appena emerso, ma non cercò di demolirlo con stupore o rimproveri; gli apparve fin troppo chiaro il perché il suo amico fosse appassito così all’improvviso e questo gli fece abbassare quel larghissimo sorriso stampato sopra la faccia.
Non aveva mai parlato di quell’argomento, ma centrava troppo perché non saltasse fuori. Gli stranieri a San Lorein non erano i benvenuti, in quanto non appartenevano a quella terra e non potevano abbracciare l’eredità lasciata dal grande Rahel, ma oltre a ciò……non c’era nient’altro per cui dovessero essere trattati come dei vermi. Lars lo aveva capito, ma la sua voce, fra quelle mura immacolate, non aveva e mai avrebbe avuto un qualche valore: non era una mentalità cattiva, quella degli abitanti, ma troppo radicata in un singolo pezzetto di storia attorno a cui erano stati costruiti fatti e avvenimenti tutti ripetitivi fra di loro. Per ogni singola persona residente a San Lorein, tutto questo era sacro, giusto, un tesoro da proteggere e che lui non poteva considerare con egual metro. Sebbene fosse trascorso non poco tempo dal suo arrivo e fosse cresciuto non soltanto fisicamente, la mente del giovane Gallower non era ancora in grado di elaborare una riflessione di quella portata, ma nonostante ciò, riuscì a intuirne l’intensità.

La gente aveva a cuore la propria città. Lui, in quanto estraneo, era visto come una persona diversa e dunque incapace di comprendere il perché della loro eccessiva preoccupazione. Un ragionamento semplice e conciso, ma le cui spigolosità non potevano urtarlo: ormai si era irrobustito a dovere, senza contare che poi, adesso, aveva Eliah come amico…

“Lars?” era assente da un po’ troppo perché l’amico continuasse a non farci caso “Ehi, Lars, tutto….?”
“Senti, Eliah”, parlo lui, ma continuando a guardare davanti a sé.
“Si?”
“Perché quella spada è così diversa dalle altre?", e indicò l’arma che tanto gli interessava. 
“Eh? Che dici?” Eliah batté le palpebre confusamente.
“Guardala bene”, insistette “Non vedi che è spenta?”

Soltanto volgendo lo sguardo confuso sulla statua indicata dall’amico, il bambino dai capelli nocciolati comprese che cosa significassero le sue parole. Era vero: la spada azzurra - insieme all’ancella - era spenta, avvolta in una penombra soprannaturale, ma egli non se ne stupì affatto. D’altro canto, conosceva tutta la storia di San Lorein, con dettagli e retroscena compresi.

“E’ normale, tranquillo”, lo rassicurò “Da che io sappia, Saphira ha sempre avuto quell’aspetto.”
“E’ il suo nome?”
“Sì. Saphira, la Regina dei Ghiacci. Ogni arma è stata battezzata con un nome e un titolo: Magdala, la spada di mio padre, è la Domatrice Scarlatta. Erath è lo Scudo della Terra, Baranshi, l’Alabarda Tonante, e infine Aritles, l’Arco del Vento. Tutte quante loro sono state brandite dai precedenti Master, tranne Saphira. Per una ragione sconosciuta, lei non ha mai riconosciuto nessuno che potesse essere degno di impugnarla, per questo è spenta.”
“Nessuno?” Lars ne fu piuttosto sorpreso “Dici sul serio?”
“Già, è sempre stato così. Magdala, Erath, Baranshi e Aritles hanno sempre dato un forte segno di vitalità, ma Saphira....è un autentico mistero”, rivelò lui “I saggi pensano che durante lo scontro con i Senza Volto, Rahel abbia finito per consumarne tutto il suo potere e che lo spirito che l’animava, sia tornato al proprio Picco. Comunque sia, i nostri antenati hanno voluto rendere omaggio anche a lei, per questo si trova qui.”
“Quindi, l’ultimo che l’ha impugnata….. è stato il Primo Master.”
“Esatto.”

Lars era senza parole. Se Eliah gli avesse chiesto di esprimere un’opinione al riguardo, avrebbe risposto con un lungo e interminabile silenzio. Indossava la solita maschera di vetro, riflettente la sua pacata serenità interiore, ma questa si era persa in una contemplazione mai fatta e provata, totalmente rivolta a quella particolare spada.

Saphira….
Anche il nome gli piacque moltissimo.
Lo ispirò, senza un “Come” e un “Perchè”, spingendolo a osservarla e a coglierne le diversità lampanti e nascoste. Non brillava come le altre, non era stata impugnata quanto le compagne, ma ai suoi occhi apparve diversamente, più bella di qualunque spada avesse mai visto. Lo pensò istintivamente, senza vergognarsene o correggersi, perché mai aveva sperato di vedere qualcosa di così enigmatico, ma anche di angosciosamente triste. Era strano da dirsi, figurarsi il solo pensarlo, ma Saphira sembrava tristemente rabbuiata, chiusa in se stessa. Che fosse quell’alone scuro a conferirle quell’aria funebre?

“Un giorno, diventerò anch’io un Master”, asserì decisissimo Eliah, stroncando il riflettere di Lars “Sarò il migliore di tutti e proteggerò San Lorein da ogni male.”
“Sei ripetitivo. Hai detto questa cosa almeno un centinaio di volte. Pensi che sia sordo?” borbottò l’albino, guardandolo torvo.
“No, ma ci tengo a ricordartelo, in qualità di mio braccio destro!”
“Ancora con questa storia? Te l'ho già detto: anche che se siamo amici, non ti farò da spalla”, replicò lui, sbuffando “Vuoi forse che i saggi si buttino dalla torre più alta della città?”

Come scordare le loro facce rugose davanti al fatto che, a malapena, riuscivano a sopportare la sua presenza…

“Tsk! Quelli sono solo dei vecchi barbosi!” brontolò Eliah, storcendo il naso” Il capo è il Master e quando lo sarò diventato, nessuno ti dirà più niente!”
“Sempre che non lo diventi io”, scherzò Lars. Gli scappò una risata nell’immaginarsi la scena: tutti gli abitanti di San Lorein sarebbero finiti con le gambe all’aria.
“Impossibile: sono molto più forte di te. Lo dimostrano le vittorie a mio carico”, replicò tranquillissimo l’altro, alzando il mento.
“Sarà, ma oggi ho vinto io nel corpo a corpo”, fece notare l’albino, guardando l’altro sottecchi "E anche ieri e l'altro ieri."
“Pura fortuna."

Sarebbe andato avanti fino a quando il sole non fosse sorto, tanto ci teneva a sottolineare che, un giorno, avrebbe realizzato il suo sogno. L’eccessiva fiducia nelle sue capacità non conosceva limiti e nell’ascoltarlo, Lars fu nuovamente accarezzato dalla tentazione di prendergli la testa e spingerla sott’acqua, ma si limitò a sospirare sconsolatamente: nonostante Eliah parlasse e non si fermasse neppure davanti a tutti i muri del mondo, l’albino non poteva mentire a se stesso, non su quell’indefinibile sensazione che gli rilassava i muscoli e cacciava via i brutti pensieri.

“E’ meglio andare, adesso. Il cambio di guardia è fra poco”, affermò l’altro, rendendosi conto dell’ora tarda.
“Ok.”

Alzatisi in piedi, scivolarono lungo le scale in punta di piedi, guardandosi in giro minuziosamente e assicurandosi che il passaggio fosse libero.

“Ehi, Lars”, lo chiamò l’amico, poco prima di scattare.
“Che c’è?” l’albino vide l’amico girarsi, con un grosso sorriso stampato in faccia.
“Io e te saremo amici per sempre, qualunque cosa succeda!”



Eliah teneva veramente a Lars. Era suo amico, il suo più caro e sincero amico.
Non vi era nulla dietro la loro amicizia e questo spingeva entrambi a comportarsi senza rigidità o titubanze. A dire la verità, nessuno dei due trovava difficoltà nel spiegarsi reciprocamente il perché di questo o quello. Eliah li ignorava e Lars faceva altrettanto, esibendo il suo talento e i suoi occhi di ghiaccio come aveva fatto sin dal primo giorno. Nonostante si fosse preparato a quei duri anni che lo attendevano, non avrebbe mai pensato che qualcosa potesse cambiare. Ma si era sbagliato: la sua permanenza era arrivata a metà del tempo concesso, e via via che si consumava, ogni risveglio si faceva più faticoso e difficile da digerire. Le basi da apprendere erano state assimilate, le spade di legno riposte nei bauli: i combattimenti si erano inaspriti, il fiato accorciato e il cappio stretto al suo collo, ispessitosi. Gli anni restanti erano pochi e tanti a seconda da come li si vedeva e Lars Gallower immaginava il suo traguardo come il momento più importante di tutti. Non sarebbe rimasto a San Lorein, non era il suo posto; al di fuori di quelle mura, lo attendeva sua sorella e una vita differente da quella che gli abitanti del posto conducevano. Eliah poteva dire e fare quel che voleva, ma, in fondo al suo cuore, sapeva che l’albino se ne sarebbe andato.

Era orgoglioso di essere un Van Incardine, non mancava mai di dispensare la propria altezzosità al riguardo: il peso del suo stesso cognome lo spronava a eccellere in continuazione, quasi mosso da un’adrenalina inesauribile e bollente come la lava di un vulcano in piena eruzione. Nelle sue parole c’era sempre una nota sfrontata, un pizzico di strafottenza che spesso lo rendeva detestabile, ma Lars sapeva bene che Eliah non era cattivo o, peggio ancora, la copia sputata del padre.
Conoscerlo di persona e fare parte del suo mondo, gli aveva ricordato quanto un amico potesse fare bene all’anima e quanto potesse essere facile superare le difficoltà della giornata. Non era come gli altri bambini della sua isola natale, Eliah era fatto di uno stampo tutto suo: testardo, arrogante, sicuro di sé e fedelissimo alla sua patria. Un vero Van Incardine.

E forse…il problema era sempre stato solo quello.

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Capitolo 18
*** Pieces of Memory: Scar. ***




Lo scrosciare della pioggia era intenso e continuo, con tuoni nascosti nelle nuvole grigie e onde smorzate dal vento. Un tempo insolito e orribile per San Lorein, sempre baciata dal sole e da un clima piacevolmente temperato.  Faceva quasi senso vederla in quello stato, tutti i suoi meravigliosi giardini si stavano riempiendo di acqua e fango e le mura, pesantemente bagnate, erano diventate scurissime. I rintocchi delle campane si facevano largo fra le vie, accompagnando i cadenzati passi di ogni abitante della città; le mani di tutti reggevano dei semplici fiori bianchi, cercando di non stringerne il gambo esile e morbido. Gli occhi erano abbassati, pieni di lacrime che venivano versate silenziosamente e che si mischiavano con l’acqua piovana. La marcia era lenta e lunga, tutta concentrata su una candida bara dagli ornamenti dorati che sfilava al centro del corteo, su cui sopra era stato steso un raffinato telo rosso avente ricamato il simbolo di San Lorein, la preziosa ala argentata che tanto vantava.

Era accaduto l’impensabile, una perdita mai successa.
Il Master era scomparso. Elijah Van Incardine era morto.

Seduto su di un lungo divano, in uno dei tanti corridoi del palazzo, Lars non faceva che contare le gocce picchiettanti sull’ampia vetrata che gli stava davanti. Dall’alto dei suoi quindici anni, quello era l’unico passatempo trovato che non lo distogliesse troppo dai pensieri attuali: pensava a Eliah, a sua madre e al signor Eliorath, ma senza riuscire a comprenderne appieno il dolore. Una cosa che lo fece sentire un verme. Elijah Van Incardine si era sempre mostrato duro nei suoi confronti, per certi versi crudele, ma era il padre del suo migliore amico e in quel momento non poté che essere dispiaciuto per lui, sicuramente vicino alla tomba del parente per l’ultimo saluto.

“Lars, sei qui.”

La voce stanca e roca del signor Eliorath attirò l’attenzione dell’albino, stupendolo per il fatto che l’anziano signore fosse a pochi metri da lui e non insieme alla sua famiglia. Si appoggiava a fatica al suo bastone, come se un dolore indescrivibile gli avesse attanagliato le gambe ossute e atrofizzate, ben nascoste sotto l’abito da cerimonia leggermente bagnato sul fondo. Il viso era sciupato, tirato e con tante rughe ad appesantirne le palpebre semichiuse e assonnate. Osservandolo sedersi vicino a lui, Lars lo vide emettere un lungo e profondo espiro dal naso, seguito da un silenzio scandito dal rumore della pioggia. Subito, la confusione lo assalì e non volendo rischiare di dire o fare qualcosa di offensivo, s'impegnò a cercare nei proprio pantaloni qualcosa di straordinariamente interessante. Avrebbe dovuto dire qualcosa, una parola di conforto; la bolla formatasi nella gola non faceva altro che ingigantirsi, battendo contro i suoi denti per il voler uscire, ma non era certo che, parlando, avrebbe alleggerito la condizione emotiva del signor Eliorath.  
Un fulmine si gettò in mare, squarciando il cielo e illuminando parzialmente il corridoio. Il bagliore giallastro svanì in pochissimi secondi e non appena l’ultimo rombo svanì, la bocca dell’albino si dischiuse.

“Mi dispiace per suo figlio”, disse Lars, con voce sottile “Non sapevo che fosse malato…”
“Come tutti, ragazzo. Come tutti…”, mormorò rammaricato il signor Eliorath, visibilmente distrutto per il rientrare nel gruppo di quelle persone che era rimasto all’oscuro della verità.

I Van Incardine erano conosciuti e apprezzati per molte qualità, ma andavano a braccetto con un orgoglio troppo smisurato per una sola e unica persona. Elijah Van Incardine si era sempre mostrato come un uomo d’onore, severo ma giusto, in grado di sprigionare e calibrare il potere di Magdala con impeccabile precisione. La gente lo ammirava per tutto questo e per come vigilava sulla città, passeggiando fra le sue vie e proteggendone i confini. Osservando attentamente il suo sguardo vigile e il portamento fiero, nessuno sarebbe mai arrivato a pensare che una malattia dalla natura misteriosa ne stesse consumando il corpo, ma era successo. Tutto si era svolto troppo rapidamente perché la gente o i familiari potessero accorgersi del suo viso pallido e imperlato di sudore, dei suoi occhi infossati o di quel sospettoso tremolio che gli avvolgeva le mani quando impugnava la Domatrice Scarlatta. Si era sempre mostrato forte, Elijah Van Incardine, abbastanza da non contorcere il suo viso in smorfie sofferenti. Nessuno aveva scorto cambiamenti in lui, neppure il signor Eliorath, più amareggiato del fatto di non essersi accorto delle condizioni fisiche del figlio che di averlo perso. Un padre conosceva i propri figli meglio di chiunque altro, anche se questi tendevano sempre a nascondere qualcosa della propria personalità: era una sorta di potere che si acquisiva una volta diventati genitori e che si irrobustiva con gli anni, ma il signor Eliorath, in quel preciso istante, osservando lo scrosciare della pioggia, pensò semplicemente di essere venuto meno al suo dovere di padre.  

“Ti sono grato per essere amico di mio nipote”, mormorò dopo quel lunghissimo attimo di silenzio “Non fa che parlare di te, in continuazione.”

Per tutta risposta, Lars mormorò un “Grazie” imbarazzato.

“Mio figlio non ha mai visto di buon occhio la sua amicizia con te, ma immagino che tu lo sappia già”, riprese l’anziano signore “E non ti nascondo che abbia rimproverato duramente Eliah per questo.”

Lars non si sorprese di quelle parole, ma inclinò ugualmente lo sguardo verso il basso. Con quindici anni appena compiuti, sembrava aver preso definitivamente controllo di tutte le proprie facoltà mentali già ben sviluppate, compresa una maggiore lucidità riguardo quelle consapevolezze che spesso cercavano di fargli perdere sicurezza: in quanto figlio del Master di San Lorein, Eliah non avrebbe mai dovuto avere a che fare con lui, se non durante gli allenamenti. Era l’orgoglio della classe, la punta di diamante che riusciva sempre a distinguersi in ogni situazione e questo, insieme ad altre ragioni etiche, avrebbe dovuto evitare qualsiasi contatto con lui, lo straniero dai capelli argentati. Ma era capitato e non per volere di Lars: Eliah si era fatto avanti, Eliah aveva preteso di conoscerlo e sempre Eliah aveva più volte affermato quanto fosse importante per lui averlo come amico. Era stato punito? Probabile, conoscendo la severità del padre, ma il fatto di avere il suo stesso carattere gli impediva categoricamente di lasciar perdere tutto, sebbene potesse risultare un’offesa nei confronti del proprio cognome.
Nel profondo di sé, Lars era felice di avere un posto speciale nel cuore dell’amico, lo era sempre stato, ma come un  secondo fulmine squarciò il cielo, si ricordò di quanto ora quest’ultimo stesse soffrendo e di come lui fosse impotente davanti alla sua tragedia. Aveva un sentore, un nodo all’altezza dello stomaco che non riusciva a sciogliere in alcuna maniera e sebbene fosse perfettamente al corrente che altri non era che una sensazione scaturita dalla sua stessa mente, strinse con forza la maglia all’altezza del busto.

“Lars…”, lo chiamò poi il signor Eliorath, alzatosi in piedi e direttosi alla finestra.
“Si?”
“Noi Van Incardine….siamo molto testardi”, gli rivelò dopo una sfuggente esitazione “Siamo sempre i primi a scendere in battaglia e gli ultimi ad andarcene e non lasciamo mai che le nostre convinzioni incontrino dubbi. Io lo sono stato per molto tempo, Elijah pure e so che Eliah, presto, mostrerà più apertamente questo temperamento. Gli eventi di questi ultimi giorni lo influenzeranno parecchio”, affermò poi, dopo un’altra esitazione “Non ne ho la certezza, ma so che per lui, ora, sarà più difficile di prima. Sai quanto ci tiene a diventare un Master.”
“Si, signore. Lo so.”

Come far finta di non sapere quale fosse il sogno più grande di Eliah, quando quest’ultimo ne parlava in continuazione? Perfino il Saidan, se avesse ricevuto il dono della parola, lo avrebbe confermato. Il signor Eliorath conosceva bene i desideri del nipote in ogni dettaglio e angolazione, ed era lì che stava la sua preoccupazione: escludendo la bravura, il desiderio e l’incrollabile fedeltà, Eliah era ancora un ragazzino di quindici anni, scombussolato dalle proprie emozioni e troppo giovane perché gli fossero date delle responsabilità più grandi delle sue spalle. Fra i candidati era certamente quello che aveva più possibilità di diventare il prossimo protettore della città, ma era ancora troppo presto per esprimere un giudizio al riguardo, anche se era un Van Incardine; attaccati o meno alle tradizioni, gli altri saggi non erano capaci di prendere decisioni alla leggera, senza contare che non si sarebbero mai permessi di anticipare il grande torneo e la cerimonia solo perché, per la prima volta, San Lorein era senza Master. Come situazione rimaneva grave, ma accelerare i tempi non avrebbe fatto altro che portare ulteriore scompiglia in città, mettendo suo nipote con le spalle al muro e violando quelle tradizioni a loro tanto care.

“Lars..”, lo chiamò nuovamente, ma girandosi verso di lui “Devo chiederti un grosso favore.”
“Mi dica.” Il ragazzino non ne fu totalmente sicuro, ma gli parve che il signor Eliorath lo stesse supplicando.
“Mancano due anni alla tua partenza”, cominciò l’anziano, avvicinandosi a lui e posandogli le mani rugose sulle spalle “Fino ad allora, vorrei che tu continuassi a rimanere amico di mio nipote e che gli insegnassi quello che noi Van Incardine.. .no”, si corresse “Che tutti quanti noi abbiamo dimenticato.”

Lars sbatté le palpebre un paio di volte, senza capire il perché di quella richiesta. Inarcò pure le sopraciglia, ma questo non l’aiutò comunque a cogliere che cosa stesse dietro al viso solenne e stanco del signor Eliorath.

“Quello che avete dimenticato?” ripetere a bassa voce quella frase non lo aiutò comunque a capire cosa intendesse il signor Eliorath.
“Sono sicuro che Eliah ti abbia raccontato in che modo la nostra tradizione sia cominciata”, disse lui, riprendendo molto velocemente il discorso “Magari le mie parole non avranno senso adesso, ma se osserverai con attenzione questi due anni, ti renderai conto che i Senza Volto non sono mai stati realmente sconfitti. Non conta quello che dicono le pergamene o i libri: ormai loro si sono talmente insediati nella città da essere invisibili. Perfino Eliah, nonostante la tua vicinanza, non riesce a vederli…"

L’amarezza con cui pronunciò quelle parole lasciò trapelare una minima parte di quella colpa che appesantiva il suo anziano cuore, provato da un tempo che non aveva avuto pietà neppure per lui. Lasciando che i fulmini stracciassero il cielo come fosse carta, Lars lasciò che il signor Eliorath continuasse, incapace di fermarlo o di chiedere qualcosa; sebbene tutto ciò sembrasse assurdo, in una piccola e remota parte della sua coscienza, egli capì che non lo era e che da quel momento in poi, tutto sarebbe stato diverso. Sia per lui, che per Eliah.
Aveva questo sospetto, lo percepiva crescere, ma non gli avrebbe permesso di attaccare il legame d’amicizia che c’era fra lui e l’amico, che rendesse quest’ultimo diverso da quello che era. Il fatto che non riuscisse a vedere i Senza Volto era eclatante, perché non ci voleva poi molto a immaginarlo con una spada in mano, pronto a cacciare chiunque volesse rovinare la sua isola. Non ci avrebbe pensato due volte a farlo, ma quelle creature tanto odiate da San Lorein erano qualcosa di più fittizio che un semplice pezzo di storia dell’isola; Lars ne aveva avuto il sospetto fin dall’inizio.

“Stia tranquillo: glieli farò vedere io, anche a costo di rompergli la testa”, affermò improvvisamente il ragazzo, con placidità.

Un leggero sorriso rincuorato fece capolino sulle labbra del signor Eliorath, il cui viso cereo, sotto i colpi dei fulmini, appariva ancor più scolorito del solito.

“Mi fa piacere sentirtelo dire”, mormorò, con sorriso affaticato.



Aveva detto che si sarebbe prodigato a far aprire gli occhi a Eliah con quella sua solita faccia piatta e sicura che faceva tanto incavolare sua sorella. Sembrava dare per scontato la reale portata di quell’impresa, ma Lars non si era mai permesso di valutare le cose con un solo e unico metro: Eliah aveva una capoccia più dura della sua, il che era sufficiente per richiedere tutta la sua buona e santa pazienza. Quando s'imputava, fargli cambiare idea o illustrargli quelle conseguenze che il suo istinto tendeva a occultare era un’impresa pressoché impossibile, poiché niente pareva essere abbastanza creditabile da farlo riflettere sulle proprie decisioni. Prima o poi Eliah sarebbe incappato in un muro più solido della sua testa e Lars voleva provare quanto meno a fermarlo prima che si ritrovasse a terra con un bernoccolo di colossali dimensioni. Ci aveva già provato in passato, e tutte le volte aveva incassato una sconfitta che lo aveva costretto a camminare a carponi per raggiungere il dormitorio, rimanere appiccicato al soffitto per evitare che le guardie beccassero lui e l’amico o cercare di trovare l’uscita delle gallerie sotterranee di San Lorein. Chiari esempi che dimostravano quanto fosse facile per Eliah trascinarlo dove voleva e quando più gli aggradava.

Erano amici, quasi fratelli, ma l’affrontare i giorni successivi alla morte di Elijah Van Incardine fece scoprire a Lars quanto poco bastasse perché anche il più solido dei mondi si capovolgesse.
Aveva detto che si sarebbe prodigato a far aprire gli occhi a Eliah con quella sua solita faccia piatta e sicura che faceva tanto incavolare sua sorella, ma non poteva, non più. In breve tempo, ebbe modo di scoprire quanto Eliah somigliasse al padre, quanto il suo carattere vivace e solare potesse diventare freddo e distaccato come quello del parente. Fu un cambiamento repentino e crescente, che vide porre un’altissima barricata fra lui e il ragazzino. Non c’era stato un “Perchè” o una spiegazione al riguardo, un momento che costringesse entrambi a guardarsi in faccia e parlare apertamente, solo un distacco silenzioso di cui Lars comprese la ragione: conosceva troppo bene Eliah per pensare che avesse fatto finta di essere suo amico o che lo avesse sempre e solo considerato un “Passatempo”, così come ne conosceva l’ambizione e la gioia nell’appartenere alla casata dei Van Incardine. Essere forte come il padre e diventare un Master eccezionale quanto lui rappresentavano il sogno di tutta una vita, ma con un peso tale da costringerlo a trasformare tutto ciò in un dovere nei confronti di San Lorein.

La città era senza un Master. I saggi e suo nonno si impegnavano perché la tranquilla quotidianità della gente non ne risentisse.
Sua madre, una donna di grande forza morale, cercava di non dare a vedere quanto la morte improvvisa del marito l’avesse ferita.
Nessuno gli aveva chiesto o imposto qualcosa, nessuno lo aveva forzato, ma Eliah si era comunque prodigato a far sì che il consiglio vedesse in lui un’ancora di salvezza per quell’orribile situazione, diventando la coppia sputata del padre - salvo i ghigni strafottenti che aveva preso a lanciargli giusto per ricordargli la sua posizione -.

Era cambiato tutto e senza che Lars potesse intervenire. Tagliato fuori, l’albino si era ritrovato isolato più che mai, con solo i suoi pensieri e quelle poche visite al Saidan. Non era lo stesso senza Eliah, ma andarci era diventato un bisogno impellente, tanto che il suo cuore batteva spasmodicamente contro la gabbia toracica quando ci pensava. Salire lentamente gli scalini gli accorciava il fiato, lasciando che le pulsazioni nelle vene fossero più percepibili: Il suo corpo impazziva, veniva colto da una strana tensione, con tanto di brividi quando si sedeva e posava gli occhi sull’unica delle cinque armi presenti che attirasse la sua attenzione. Non ricordava di preciso quanto tempo avesse passato a guardare Saphira, ma considerati tutti i pensieri fatti, le riflessioni - e anche qualche curiosa battuta su d'essa - , doveva essere tantissimo. Riuscire a comprendere la sua diversità e tutto ciò che si nascondeva in questa, era la più grande e personale sfida che Lars si fosse mai imposto: a dispetto di quel poco che aveva scoperto al suo riguardo, l’albino era sicuro che Saphira non fosse spenta come tutti quanti pensavano. Gli bastava chiudere gli occhi davanti al piedistallo per immergersi in un inconsueto sprofondare dove sentiva quel minuscolo richiamo che, sempre più spesso, gli attraversava la spina dorsale. Aveva imparato quella sorta di “Rituale” a memoria, scandagliandone i dettagli e appropriandosene come se fosse sempre stato suo: abbassate le palpebre, i fuochi che illuminavano il Saidan e il loro crepitare, svanivano nel nulla, insieme al blu della notte e allo zampillio della fontana. Un insolito freddo si attaccava alla sua pelle, avvolgendolo interamente nel mentre avvertiva gli abissi marini gorgheggiargli intorno. Era tutto buio, ma poi, ecco che lo sentiva: il debole suono di una goccia d’acqua che s’infrangeva in un grandissimo oceano, seguito da un flebile bagliore azzurrognolo scintillante e sfuggente come una lucciola. Lars non era mai riuscito ad afferrarlo.

Non c’erano parole, immagini, eppure vi era una fine sintonia, una comprensione che l’albino percepiva giorno dopo giorno, sempre più palpabile, più viva.
Fu questo a non fargli pesare troppo il cambiamento di Eliah e l’atteggiamento nei suoi confronti. Per quanto il suo viso fosse diventato imperscrutabile, non avrebbe esitato se questo avesse deciso di spiegargli tutto e di ricominciare da capo. Ma per questo, ormai, era troppo tardi: i due anni erano volati e ognuno doveva andare per propria strada. Lars aveva avuto il buon senso di rimanere sulla sua e di proseguire senza mai abbassare la testa, arrivando così al suo ultimo giorno a San Lorein……



Festa. Tripudio. Felicità.
San Lorein ne era piena, tanto da traboccare come un vaso per la troppa acqua. Era un giorno clamoroso, quello, dove migliaia di colori e grida eccitate accoglievano il nuovo Master della città. Eliah Van Incardine era il nuovo capo dell'isola, ora sfilante fra le vie, seguito dagli altri allievi dell’accademia. Alla fine le preghiere della gente erano state esaudite. Il grande torneo lo aveva visto eccellere e la cerimonia all’interno del santuario si era svolta senza intoppi o imprevisti: inginocchiatosi davanti al piedistallo, il neoeletto era stato giudicato e accettato dalla Domatrice Scarlatta, Magdala, la cui lama rossa ardeva con splendore sfacciatamente superbo. Era un giorno felice, pieno di ragioni per cui uscire di casa e alzare le braccia al sole, ma Lars non rientrava in quella schiera che comprendeva tutta l’isola. Non che non fosse felice di andare via da San Lorein, solo che non sapeva esprimere bene che cosa stesse provando in quel preciso momento. Diventato ancora più maturo di quanto già non fosse a quindici anni, l’albino aveva finito di raccogliere i suoi effetti personali e di metterli nella sacca da viaggio; la nave che lo avrebbe riportato a casa non era ancora arrivata, mancava ancora un’oretta e mezza al suo approdo, quindi aveva tutto il tempo per farsi un ultimo giretto panoramico.

Sprecando un piccolo commento al riguardo di quella stanza che aveva condiviso con altri compagni per lungo tempo, il ragazzo s'incamminò verso l’uscita: attraversò qualche corridoio e il campo d’addestramento, vuoto e silenzioso come poche volte, salendo i gradini con la mano destra affondata nella tasca e la sinistra artigliata ai lacci del sacco che era appoggiato alla sua schiena. Le ciocche argentate gli solleticavano il collo e le ciglia degli occhi, ma senza arrecargli fastidio: non aveva mai pensato di tagliarli, gli piacevano così. Fra le molte cose a cui pensò - oltre al chiedersi cosa fosse diventata sua sorella e come stesse sua madre -, Lars pose lo sguardo verso gli edifici centrali di San Lorein. Là il vociare era alto, sintomo che Eliah doveva trovarsi in quella zona.

In un suo flebile sospirare, sorrise per il fato del coetaneo, dedicandogli un veloce augurio prima di voltarsi e dirigersi verso il porto. Seppur l’avesse sconfitto durante la finale, Lars non aveva motivo di avercela con Eliah: non gli era mai interessato vincere quel torneo, non era una cosa che lo riguardasse, non quanto a Eliah, fattosi valere più di chiunque altro. Un secondo posto non era nulla di cui vergognarsi, ma a breve quello sarebbe diventato un semplice ricordo: il porto lo aspettava e anche se, con tutta probabilità, non ci avrebbe trovato nessuno, avrebbe pazientato fino all’arrivo della nave. Prendere la via più larga gli parve la scelta più sensata: almeno si sarebbe risparmiato un’esauriente razione di occhiatacce, mormorii e affini, per non parlare dell’altezzosità del consiglio. Avrebbe fatto un piacere a tutti, lui compreso.

“Sei già pronto a partire, vedo.”

L’improvvisa comparsa del signor Eliorath, fece sì che gli occhi di Lars si alzassero di qualche millimetro, giusto per vedere in faccia l’anziano signore. Ci aveva rinunciato a capire come accidenti facesse a sbucare fuori dal nulla e senza che lui ne avvertisse la presenza.

“Non dovrebbe trovarsi qui. Eliah avrà mandato qualcuno a cercarla”, gli disse il ragazzo con placidità.
“Lo so, ma ho pensato che sarebbe stato bello permetterti un’ultima visita al santuario. Non avrai creduto che non mi sia mai accorto di tutte le volte che ci sei andato, spero.”
“Mi sembrava strano che le guardie si volatilizzassero di punto in bianco….” con un mezzo sorriso stampato in faccia, l’albino scosse debolmente la testa.

Il signor Eliorath sorrise, distendendo quelle lunghe e folte sopracciglia bianche che ricoprivano parzialmente i loro occhi.

“Coraggio, andiamo. Sono sicuro che le farà piacere salutarti”, affermò poi il saggio.

Quel “Le” fu sottolineato talmente bene, che Lars non faticò a realizzare che il signor Eliorath sapeva tutto. E  con tutto, intendeva dire proprio tutto. Non c’era nulla di cui stupirsi, quell’anziano signore era tanto calmo quanto imprevedibile, abbastanza perché lui non perdesse il controllo quando ci aveva a che fare. Non era un caso che fosse venuto proprio lì, nel giorno più importante di suo nipote. Lars ne era fin troppo sicuro, poiché l’anziano aveva compiuto la medesima azione durante il funerale di suo figlio. Un ricordo che fece tornare a galla il fallimento con Eliah.

<>, pensò nel salire i gradini che conducevano al Saidan, aiutando temporaneamente il signor Eliorath.

Non aveva mai portato rancore al neoeletto, nè lo aveva odiato per come aveva preso a trattarlo dopo l’incidente. Rimproverava solo se stesso per non essere stato l’amico che Eliah, invece, era stato per lui. Andarsene in silenzio era una sorta di regalo di buona fortuna per il regime, sebbene avrebbe ottenuto i pieni poteri una volta compiuti i diciotto anni. Poteva quasi dire di essere felice per lui…ma il sentore che tutto quel che circondava Eliah, che tutto quello che il ragazzo aveva ottenuto possedesse una qualche imperfezione, lo teneva sveglio più che mai. Lui sapeva tutto, ci era arrivato, cogliendo quella verità che avrebbe colpito l’orgoglio irascibile di Eliah nel suo punto più scoperto. Ne aveva colto la semplicità, i meccanismi e le sfumature che la rendevano così dannatamente reale, ma crudele per un Van Incardine, specie per Eliah, paragonabilissimo a un libro aperto .
L’avvertire il pigro smuoversi dell’acqua della fontana ruppe il suo riflettere, portandolo a guardare il piedistallo che stava al centro. Vederlo di giorno era tutta un’altra cosa: i dipinti del soffitto erano più chiari e con colori vivaci, non c’erano ombre o fuochi ad animarle. Per la cerimonia erano stati portati anche dei fiori, i cui petali erano sparsi un po’ dappertutto.
Lars appoggiò la sacca a terra, raggiungendo il signor Eliorath, messosi sul bordo della fontana e con la schiena leggermente curva. Stava solo aspettando che lui si avvicinasse, che gli venisse vicino cosicché da parlargli senza ricorrere a inutili ripetizioni: l’albino non avrebbe faticato a introdursi nel santuario un’ultima volta, ma l’essere stato portato lì dall’anziano era un fatto che avrebbe lasciato chiunque perplesso, poiché non avrebbe dovuto trovarsi lì. Era fin troppo lampante che stesse progettando qualcosa, e stava a Lars scoprirlo, sebbene qualche sospetto già ce l’avesse …..

“Allora...”, cominciò lui, una volta che fu accanto all’anziano “A che genere di prova vuole sottopormi?”
“Pensi che ti abbia portato qui per saggiare le tue abilità di spadaccino?” gli domandò.
“No, quelle ha già avuto modo di giudicarle al torneo”, rispose il ragazzo, con le mani infossate nelle tasche “Lei è una persona magnanima, ma che non fa mai nulla se non per accertarsi di qualcosa, altrimenti non si sarebbe mai permesso di piantare in asso Eliah nel suo giorno più importante.”

Una rocca e flebile risata increspò le labbra rugose del signor Eliorath, sorpreso per l’essere stato preceduto sul tempo e scoperto così velocemente. Riuscire a cogliere di sorpresa quel ragazzo era impossibile.

“Hai ragione, non ti ho portato qui per vedere come maneggi una spada. In realtà, volevo solo chiederti perché non hai combattuto seriamente contro Eliah.”
“Cosa le fa credere che non abbia fatto sul serio?”
“Suvvia, Lars! Sono vecchio, ma non cieco! Dimmi come stanno realmente le cose”, ridacchiò il signor Eliorath.

La domanda indiretta e l’esclamazione successiva costrinsero il cuore dell’albino a stringersi e a riprendere il proprio lavoro dopo un lungo e interminabile secondo. Il suo viso non si deturpò e non sentì l’impellente bisogno di serrare i pugni per l’essere stato scoperto. In tutta franchezza, si sarebbe stupito di più se uno come il signor Eliorath, sempre ben attento anche alle piccolezze, non se ne fosse accorto. Il suo timore lo aveva concentrato su Eliah, la cui foga durante la finale lo aveva spinto a difendersi e a schivare i suoi molteplici affondi, senza contrattaccare con tutta la sua forza. Era istintivo, ma non stupido, e si sarebbe reso conto seduta stante se qualcosa non fosse andato come aveva programmato: regalargli spudoratamente la vittoria lo avrebbe solo adirato, fatto sentire un debole, cosa che non era, per questo Lars si era impegnato affinché quel combattimento non risultasse facile. Non era un comportamento degno di uno spadaccino, ma aveva avuto un valido motivo per agire in quella maniera.

“Che posso dire….sono un codardo”, rispose con noncuranza lui, massaggiandosi il collo “A qualcun altro avrei potuto raccontare che non mi interessava vincere quanto Eliah o che lui era talmente forte da indurmi a pensare che fosse inutile provare a impegnarsi, ma non l’avrei mai data a bere a suo nipote. Se c’è una cosa che so, è che odia i favoritismi e chi lo lascia vincere senza impegnarsi. Io ci ho provato a fare sul serio, ma… credo di essermi lasciato convincere delle mie stesse bugie, per questo ho perso. Ed è meglio così.”
“Perché? Non ti sarebbe piaciuto essere un Master?” lo stuzzicò l’anziano.
“No, e se proprio ci tiene a saperlo, questo è un altro motivo per cui Eliah ha vinto: lui ha a cuore le sorti della sua città, io no”, fu la risposta secca dell’albino.
“Ma questo non significa che tu non tenga a qualcosa di altrettanto importante, dico bene?” lo inchiodò il signor Eliorath.
“Non mi faccia domande di cui sa già la risposta”, lo liquidò velocemente il ragazzo, con lo sguardo nascosto dalla frangia.

Se il signor Eliorath era tanto bravo a capire anche le questioni più buie, Lars eccelleva nell’uscirne senza intoppi o incastri. Che Eliah lo avesse allontanato, deriso o sbattuto nella polvere, non gli era mai importato; non aveva problemi ad ammettere schiettamente che per qualche istante aveva esitato davanti a lui, ma anche se avesse fatto in tempo a riprendersi, non sarebbe mai riuscito a sopraffare il desiderio dell’ex amico. Lui voleva proteggere San Lorein, la sua storia e gli stessi abitanti che ora lo acclamavano come un salvatore, come nuovo Master. Ma a Lars importava di Eliah come persona e il signor Eliorath lo aveva capito, perché non c’era mai stato nessun’altro capace di interessare suo nipote a quella maniera. Lars era speciale, con un’umanità diversa da quella degli abitanti della città e non era il solo a essersene accorto…

Come una scarica elettrica attraversò le sue tempie da parte a parte, ogni pensiero su quell’amicizia che egli ancora considerava preziosa evaporò all’istante. L’albino alzò di scatto la propria testa, cogliendo un’anomalia fra le ancelle stanti sul piedistallo e sussultando per l’incredulità: seppur fosse poco visibile, c’era un bagliore azzurrognolo che fino a quel momento aveva visto saltuariamente solo ed esclusivamente nella sua testa. Balenava dietro le altre ancelle a intermittenza, ma senza aumentare o diminuire e fu nella sua costanza, nel voler scoprire da dove questo proveniva, che Lars si accorse che la scanalatura della Regina dei Ghiacci, la sua lama e perfino l’elsa, stavano pulsando come un unico cuore.

“Ero qui quando ha iniziato a reagire. Più precisamente…”, mormorò il signor Eliorath “Quando tu ed Eliah avete iniziato a combattere.”

A nulla valsero le spiegazioni del signor Eliorath: Lars era troppo preso dalla spada dalla lama azzurra, dalla sua energia vitale, per concentrarsi su qualcos’altro. Lo scintillare di Saphira si rifletteva nelle sue iridi color ghiaccio, attente a non lasciarsi sfuggire neppure la più piccola delle sfumature. La collana di perle violacee era tutta illuminata, come appena pulita. L’elaborata impugnatura pareva essere stata privata di quell’invisibile ruggine che ne aveva deturpato le decorazioni e le pietre incastonate nell’elsa. Sulla lama c’era tanto da dire, ma poche erano le parole che potessero descriverla adeguatamente: gonfi e vaporosi aloni di gelo bianco danzavano intorno ad essa, innalzandosi e mischiandosi con il sottile strato di aura azzurra che dimostrava quanto San Lorein si fosse sbagliata per tutto quel tempo.

La Regina dei Ghiacci era più viva che mai, finalmente libera dalla lunga prigionia soporifera.
Un paragone con Magdala o le altre armi era fuori discussione: era così maledettamente diversa dalle altre da dare l’impressione di essere stata forgiata da qualcun altro. La spada di legno di un suo amico e i dolci dell’emporio della sua isola natale non erano mai state delle cose per cui Lars avesse dovuto stringere i pugni, arricciare le guance e riempire gli occhi di lacrimoni: non era mai stato un bambino tanto egoista da voler qualcosa a tutti i costi, neppure con la Domatrice Scarlatta, il cui aspetto fiero lo aveva sorpreso sin dalla prima veduta. Ricordava ancora bene, quel giorno, ma il desiderio di allora non poteva essere minimamente paragonabile a quello che, adesso, stava roteando freneticamente nella sua cassa toracica.
Il canto malinconico accarezzava i suoi sensi, lasciandosi ascoltare e insinuandosi in quegli angoli che spingevano la gente a socchiudere gli occhi per non dover far vedere le proprie lacrime. Lars riusciva a capirla e ne era così assuefatto da essersi completamente distaccato dall’ambiente circostante: quella sottilissima e appena percettibile affinità che si era creata nell’arco di quei due anni stava finalmente uscendo allo scoperto. E solo lui poteva sentirla.
Mandò a quel paese dove fosse, con chi e cosa avrebbe rischiato: voleva solo sentire per intero quanto udiva, toccarlo, se possibile. La sua coscienza non concesse spazio a nient’altro, lasciando che le sue gambe scivolassero all’interno della fontana. I jeans gli si appiccicarono addosso e gli scarponi neri si riempirono come due spugne, ma anche se fosse stato sul punto di affogare non si sarebbe preso la briga di nuotare verso la superficie: avanzò di qualche passo, sempre con gli occhi puntati sulla spada, vicinissima a lui e alla mano che aveva allungato nella sua direzione. Un sospiro mozzato fuoriuscì dalle sue labbra, quando avvolse le proprie dita attorno all’impugnatura: chiudere gli occhi lo avrebbe aiutato a non provare tanta esitazione, ma l’imporsi di guardare lo spinse a ruotare il polso e a sfilare lentamente la spada dalle mani dell’ancella di pietra, fino a puntarne l’apice verso il soffitto.

Non era fredda come si era sempre immaginato. Non era pesante o ingombrante come qualunque altra arma di grosso taglio, nè creditabile come un qualcosa che potesse essere comodamente riposto in una cesta o in una comune armeria. Era diversa, troppo perché non suscitasse un insano desiderio di possessione.



Secondo le sacre scritture custodite nella biblioteca di San Lorein, le armi di Rahel avevano una loro personalità, una volontà quasi umana, per quanto assurdo potesse sembrare. Dalla personalità selettiva e ristretta, assomigliavano a un quintetto di sorelle estremamente complicato da avvicinare e capire, ma era indubbio che Saphira, fra tutte, fosse la più solitaria. I saggi non si erano mai posti l’obiettivo di scoprire se ci fosse un’altra spiegazione dovuta al suo “Spegnimento”, avevano sempre preferito concentrarsi sulla tradizione lasciata dai loro antenati e dal Primo Master, dimenticando l’impossibilità di bloccare un fenomeno inarrestabile quale era il cambiamento.
Nello sfilare dalla statua la Regina dei Ghiacci, Lars aveva bellamente ignorato quanto quel gesto gli sarebbe costato: i suoi occhi, le sue mani, la sua mente…ogni singola parte di lui si era congiunta a quell’affinità che aveva unito la sua anima e quella di lei in un tutt’uno indissolubile. Toccare con mano propria la lama azzurra e tastarne la freddezza gli aveva permesso di cogliere aspetti impensabili, immagini paragonabili a ricordi frammentati, echi di tempeste di neve appartenenti ai suoi luoghi di origine e perfino emozioni. Tutto in un solo e lunghissimo istante. Quell’intrecciarsi di sensazioni e animi, inscindibile come il bisogno di relazionarsi per non cadere nell’apatia più sconfortante, era la cerimonia che si svolgeva nel Saidan: chi veniva riconosciuto vincitore e accettato da una delle cinque armi sacre di Rahel, veniva investito automaticamente del titolo di “Master”, l’onorificenza più alta di tutte.

Eliah l’aveva ottenuta, Lars altrettanto. Ma San Lorein non era disposta ad accettare quella situazione.



“E’ inammissibile!”
“Avremmo dovuto aspettarcelo che sarebbe successo qualcosa di irreparabile!”
“Eliorath, come hai potuto?!”

Sconcerto, indignazione e incredulità aleggiavano nella sala delle riunioni, dove la voce dei saggi era intrisa di sgomento per l’assurdità della situazione. Affondavano le unghie nei braccioli delle poltrone, scuotendo la testa e le barbe come a voler scacciare quanto avevano visto e sentito, ma senza successo. La tradizione a cui tanto erano attaccati aveva appena subito un tracollo di proporzioni gigantesche: in quel giorno di festa non avrebbero dovuto esserci problemi, anzi! La sola spina nel fianco che avevano sopportato a lungo se ne sarebbe dovuta andare in silenzio, senza lasciare la benché minima traccia del proprio passaggio. Ma non era stato così.

“Vedete di calmarvi, non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi”, disse eloquentemente il signor Eliorath, alzandosi in piedi.
“Calmarci? Eliorath, qui la faccenda è seria e la responsabilità è solo tua!”, lo incolpò un collega, puntandogli il dito contro “Hai condotto quel ragazzo nel nostro santuario, gli hai permesso di impossessarsi di una delle sacre armi di Rahel!”
“Lars non ha fatto nulla per cui debba essere incolpato. E’ stata Saphira a sceglierlo, esattamente come Magdala ha fatto con Eliah”, replicò l’anziano.
“Scelto? Quello? Ma….non essere ridicolo!” sbottò un terzo, dopo un attimo di esitazione “E’ impossibile! Il potere della Regina dei Ghiacci è estinto da secoli, chiunque sarebbe stato capace di brandirla!”
“No, non lo è. Sapete bene quanto  me che le sacre armi di Rahel hanno il potere di respingere chi tenti appropriarsene ingiustamente. Lars non avrebbe avuto alcun modo di rubare nessuna di queste se non fosse stato ritenuto degno e il fatto che Saphira lo abbia scelto, significa che non ha mai esaurito il proprio spirito vitale: se non ha mai dato alcun segno di manifestazione è perché nessuno dei precedenti Master possedeva i requisiti necessari per impugnarla. Converrete con me che non è il vincitore a scegliere la propria arma, ma il contrario.”
“Questo è vero, Eliorath, ma il punto è che l’improvvisa manifestazione di Saphira è troppo allarmante”, si fece avanti un altro saggio, con voce più calma degli altri “Tu chiedi di non preoccuparci, ma un simile avvenimento non è mai accaduto: insomma….due Master!” esclamò poi incredulo “E’ successo che il torneo si concludesse con uno spareggio, ma anche in quelle occasioni c’è sempre stata una sola spada. Due Master con due spade differenti è grave.”
“Bada a come parli: quello straniero non ha alcun diritto di essere considerato un Master”, sibilò un collega, con le pupille assottigliate “Eliah è stato scelto per primo, ha tutti i requisiti e le credenziali per proteggere San Lorein, per non parlare del fatto che ama la sua gente. Non c’è paragone.”
“E come agiamo?” domandò un altro “Non possiamo togliere con la forza la Regina dei Ghiacci dalle mani di quel ragazzo, è stata lei a designarlo come suo padrone. Sfideremmo la sua decisione!”
“Per non parlare delle tradizioni!”
“Costringiamolo a restituircela, allora: barattiamo la sua libertà in cambio della spada. Cederà di sicuro!” propose uno.
“Ne dubito fortemente.”

Il vociare incongruente dei saggi fu interrotto dall’intervento di Eliah, appena entrato nella sala senza che nessuno se ne accorgesse.

“Dieci anni passati ad addestrarsi, nonostante i vostri sforzi per farlo desistere, non l’hanno mai spaventato. Lars è troppo testardo per accettare le nostre condizioni e privarlo della libertà macchierebbe di disonore la nostra città”, spiegò il giovane, avanzando solennemente verso il centro della stanza.
“Concordiamo con voi, Master Eliah, ma non possiamo permettere che quello straniero porti fuori dai confini di San Lorein una delle armi sacre di Rahel. Sarebbe una catastrofe…”, mormorò uno dei saggi, coprendosi il volto con mano tremante.
“Lo so perfettamente, conosco la storia”, replicò placidamente il ragazzo, sedendosi al suo legittimo posto “Ma come ho detto prima, costringerlo a restare non gioverebbe a nessuno di noi, tanto meno a lui.”

Un brusio allibito e sconcertato pizzicò le bocche degli anziani, incapaci di comprendere le intenzioni del giovane neoeletto. Nessuno di loro avrebbe mai messo in discussione l’attaccamento che Eliah Van Incardine provava nei confronti dell'isola, ma in quel momento i suoi pensieri parevano sostare su di un piano completamente diverso da loro: il portamento fiero e lo sguardo concentrato sulle mani inguantate e intrecciate lasciavano intuire che avesse già riflettuto a dovere sulla questione e che ne avesse trovato la giusta soluzione.

“Dunque, Master Eliah, che cosa suggerite di fare?” gli domandò infine il primo saggio.
Il suddetto rimase in silenzio per qualche istante, poi dare la sua risposta “E’ molto semplice: lasceremo che Lars Gallower se ne vada da San Lorein.”
“Come?! Master Eliah, non potete dire sul serio!”
“Non lo direi, se non lo fossi”, continuò il giovane, osservando tutti quanti loro con fermezza degna di un regnante “E comunque, non ho ancora finito.”

Il signor Eliorath si rabbuiò all’istante, per come quella situazione si stava evolvendo. La sua voce aveva perso autorità, la sua stessa presenza non era più calcolata tanto la sua opinione era debole. Eppure non era l’essere ignorato a fargli temere il futuro: nel far incrociare di sfuggita i suoi occhi sbiaditi con le pozze bluastre del nipote, vi scorse un luccichio profondo e distaccato, emanante una freddezza mai vista sino a quel momento. Ciò gli fece stringere i pugni, conscio di quanto i suoi colleghi pendessero dalle sue labbra e di quanto poco avrebbe potuto fare al riguardo.

“E’ una decisione sofferta, quella di lasciare che una delle nostre preziose armi venga portata fuori dai confini di San Lorein, ma su cui noi non abbiamo voce in capitolo: lo spirito di Saphira non deve essere giudicato diversamente solo per il fatto che si è risvegliato dopo così tanto tempo e costringere Lars Gallower a rendercela con la forza potrebbe innescare qualcosa di gravoso per la nostra città”, riprese Eliah “Qualcosa di impensabile.”

I respiri mozzati degli anziani, uniti al dilatamento delle loro palpebre, gonfiarono l’ego del neoeletto, ma senza che questo lo compiacesse: lo stare seduto a quel tavolo, lo stesso tavolo di suo nonno e di suo padre, era una responsabilità di cui solo ora riusciva a percepire nettamente il peso. Era grande quanto il potere acquisito, ma nonostante la gioia per aver raggiunto la posizione prefissata, non se ne sarebbe mai lasciato ammaliare come uno stupido.

“Mi rendo conto…”, continuò poi, chiudendo gli occhi “Che privare la nostra città di uno dei suoi tesori potrebbe esserci fatale, ma in qualità di nuovo Master, userò la mia stessa vita per compensare questa mancanza. La getterò via, se questo servirà a impedire che i Senza Volto tornino a incutere terrore fra di noi, quindi non abbiate timori. Non sono solo io ad avere il dovere di rassicurare la gente.”

Quell’ultima aggiunta seppe di rimprovero, ma gli anziani non replicarono. Lo scandalo emerso li aveva fatti quasi dimenticare del loro ruolo all’interno della piccola e chiusa società di San Lorein, di quanto la gente fosse vulnerabile e bisognosa di conforto. Accolsero con colpita approvazione le parole del giovane Master, ma non ebbero di che stupirsi: i Van Incardine vantavano una storia tutta loro, un onore che chiunque avrebbe voluto toccare anche solo una volta.
Se Elijah Van Incardine avesse potuto vedere il figlio ne sarebbe stato orgoglioso, ma il signor Eliorath, al momento, non vide altro che un’ombra inappropriata sul volto del nipote.



L’aria che si respirava nella grande arena sapeva di cenere. Era pungente e fastidiosa quanto le nuvole di polvere che volevano accecargli gli occhi. Mozzava il suo respiro irregolare, affaticato e preso a conservare le dovute energie per difendersi da quei fendenti rossastri che volevano trapassargli il torace senza troppi complimenti. Sembrava non esserci sportività, in tutto ciò, e non ce ne era, perché quello era tutto fuorché uno scontro amichevole.
Deglutendo una sostanziosa quantità d’ossigeno sporco, Lars riaprì la bocca e serrò la mascella, spingendo le braccia in avanti per respingere l’ennesimo attacco di Eliah. La lama azzurra di Saphira era tutto ciò che lo divideva da quella di Magdala, la cui incandescenza era insopportabile. Non c’era il bisogno di chiedersi il perché di tutto questo, né del perché quello che un tempo era stato il suo migliore amico, lo stesse aggredendo con tanta foga. Sapeva abbastanza da non parlare, giacché tutto era fin troppo intuibile.

“Che ti succede, Lars? Dov’è tutta la tua bravura di spadaccino?” lo provocò Eliah duramente, puntando Magdala contro “Non dirmi che sei già stanco.”

Si era deciso di risolvere la questione con un combattimento. San Lorein non era mai stata vittima di una faccenda di quel tipo e considerate le tradizioni, Eliah aveva scelto la sola soluzione che potesse comunque dare un briciolo di soddisfazione alla propria città. Davanti all’ennesimo scherno, Lars si astenne dal rispondere, chiudendo la bocca e rimanendo a guardare il coetaneo. Il suo volergli regalare un “Addio indimenticabile” lo aveva insospettito dall’inizio, perché era dalla morte del padre che Eliah non gli rivolgeva la parola.

“Deve esserci una valida ragione se la Regina dei Ghiacci ha scelto proprio te! Avanti, fammi vedere!” esclamò poi il Master, puntandogli Magdala contro.

La gente urlava da ogni direzione, incitava il Master con voci incoraggianti, cercando di buttare giù lui col solo sguardo. Il sole picchiava sulle loro schiene con la stessa intensità di due martelli messi insieme e il tempo sembrava aver deciso di prendersi una pausa a lungo termine. Era tutto dinamico e snervante, ma nulla di sufficientemente rilevante per la mente di Lars, concentrata su ben altro fronte: la leggerezza di Saphira e i suoi sbuffi gelidi gli rinfrescavano la fronte sudata, donandogli quel minuscolo granello di sollievo a cui stava cercando di incollarsi al fine di non perdersi. Era un po’ come se lo stesse rassicurando, ma sebbene le dita di lui fossero ben serrate attorno al manico di ella e gli occhi fossero puntati sulla figura battagliera di Eliah, dentro di sé non sapeva cosa fare.
Il suo corpo si muoveva, ma interiormente…era indeciso. No, forse era meglio dire in conflitto. Quello stesso sapere che gli impediva di reagire diversamente bloccava ogni sua capacità, abilità di spadaccino comprese. Non stava facendo sul serio, non ci riusciva…non poteva. E tutto perché dietro a quel viso furente che lo stava attaccando instancabilmente, dietro a quella verità realizzata, scorgeva quel qualcosa per cui valesse la pena credere nel passato, in quel bambino che, un tempo, era stato il suo più caro amico.
Non stava facendo sul serio, ma non perché non ci riusciva….e il ripeterselo servì solo a fargli chiedere scusa a Saphira per l’aver ceduto così spontaneamente, a ricordargli che in fondo al cuore era più codardo di quanto si fosse professato.

Ne era dolorosamente cosciente, così tanto da allentare la solidità della sua parata e farsi colpire in pieno viso.

“Porterai il disonore che hai arrecato sulla nostra città per tutta la vita.”

Furono le ultime parole che senti pronunciare da Eliah, prima che la testa gli si aprisse e lo costringesse a sorreggersela per il male.
 
 




Lo so, è da una vita che non aggiorno e mi scuso per l’immenso ritardo, ma sono affetta da uno studio matto e disperatissimo che mi concede poco tempo per tutto e quando riesco a prendermi un attimo di respiro, faccio ben poco. Mettiamoci poi un esame che sto preparando da tutta una vita e che darò fra sette giorni e fate voi un po’ i conti. Un saluto a tutti quanti voi (spero di poter aggiornare presto, ma prima, giustamente devo dedicarmi all’uni….). Un abbraccio!

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Capitolo 19
*** Spigolosi compromessi. ***





“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui: Lars Gallower.”
“Ciao, Eliah.”

Era sorprendente quanto la voce e il volto di una persona potessero essere così fastidiosamente incisivi; lo scatenare dei ricordi assopiti e il riportarli a galla senza tralasciare dettagli era qualcosa che coglieva impreparato anche il più calcolatore degli individui. Nel suo piccolo, Lars era riuscito ad alleggerire il colpo solo grazie al fatto di aver riconosciuto sin dall’inizio quelle sponde bianche e spoglie sopra cui aveva camminato otto anni addietro.

Otto anni…e la cicatrice gli doleva come se fosse stata la prima volta.
La sensazione della pelle che viene tirata e squarciata scavò l’interno della sua mente, riempiendola di dolore e facendo subentrare l’incandescente bruciore che poi gli era colato sulle guance, caldo e rosso come il sangue che aveva tinto la sua vista.
Pulsava da morire, picchiava tanto da volergli aprire il cranio.
Era la stessa di allora, la stessa e identica sensazione provata quel lontano giorno, non era cambiato proprio nulla. Tutto, perfino quegli striminziti ciuffi d’erba verdastra che spuntavano alla base di alcune rocce. Non era niente di cui stupirsi; San Lorein era sempre stata terribilmente allergica a qualsiasi novità non pertinente alle proprie tradizioni, ma se gli fosse stato concesso un solo desiderio, Lars avrebbe preferito di gran lunga non vedere Eliah, almeno non così presto. Pretendere di non vederlo affatto era impossibile, non quando il suddetto era il Master di San Lorein, autorità indiscussa e a cui non si poteva sfuggire. Tenere testa a quelle pozze bluastre che lo stavano guardando con sorriso beffardo gli diede un assaggio di quanto il loro soggiorno sarebbe stato inospitale e poco piacevole. Una consapevolezza che doveva condividere con Rufy e i suoi compagni prima che Eliah decidesse di prendere seri provvedimenti nei loro confronti.

“Sono molto sorpreso di vederti”, parlò quest’ultimo, avanzando di qualche passo “Quando ho trovato questi due a gironzolare per le vie della città non pensavo certo di incontrare te, ma considerato che non tutti a questo mondo hanno i capelli argentati, un piccolo sospetto me lo sono comunque tenuto.”

Bugia. Finzione. Completa distorsione della verità. Eliah aveva subito riconosciuto in Azu quella sorella di cui gli era stato tanto parlato e come le schioccò una velocissima occhiata, rivolse nuovamente la propria attenzione su quella vecchia conoscenza che non vedeva da svariati anni.

“E’ piuttosto strano che tu sia qui. Di tua spontanea volontà, per giunta”, riprese “Ne deduco che la ragione dipenda dai tuoi compagni di viaggio.”
“Infatti. Siamo solo di passaggio”, affermò l’albino.
“Lo immaginavo. Anche perchè, che io ricordi……”, ridacchiò con sottile malignità beffarda “Ti ho esiliato”, aggiunse poi, guardando la cicatrice che spiccava sotto alcune ciocche argentee dell’albino.

Era come se gli stesse dicendo “Ti dona molto, sai?”.

Fu impossibile non leggere negli occhi del Master quel consistente senso di soddisfazione. Neppure durante gli ultimi minuti trascorsi a San Lorein aveva sfoggiato così tanta arroganza: l’essere visibilmente compiaciuto dello sbrego che gli aveva quasi fatto saltare via un occhio - e il cui pulsare non cessava minimamente di diminuire -, stava rendendo momentaneamente più accettabile la presenza di altre persone sul suolo della sua isola, ma non era niente per cui bisognasse gioire: un Van Incardine non andava mai sottovalutato ed Eliah aveva giocato la carta dell’esilio unicamente per sottolineare quanto la sua posizione, la posizione di Lars Gallower, fosse pericolosamente a rischio. Una situazione che necessitava dovute spiegazioni, ma troppo carica di tensione per pretenderle subito, senza contare poi l’enorme svantaggio dei pirati; l’essere stati avvistati ancor prima di scendere dalla nave aveva permesso al Master di organizzarsi e di prevenire un’eventuale scenata di panico da parte del popolo. Non poteva sapere chi stesse arrivando di preciso, ma la sua perspicacia e il fatto di aver avuto un incontro più che ravvicinato con sua sorella – sempre incastrata fra i soldati insieme a Zoro – gli aveva concesso il privilegio di fare due più due e dunque sfruttare la parente e lo spadaccino come un ottimo pretesto d'incontro.
Inconsapevolmente, gli avevano offerto su di un piatto d’argento un’entrata in scena degna del nome che portava.

Bloccata fra quegli uomini in divisa, Azu se ne stava in silenzio, insieme ad un Zoro stante a braccia conserte. Nonostante la moltitudine di quelle teste le offuscasse la visuale, riuscì a distinguere i pirati, Shion, suo fratello, e soprattutto l’altro ragazzo che aveva giocherellato con i suoi capelli senza che lei avesse il tempo di prenderlo a schiaffoni. Il cogliere nel suo aspetto una nota stonante sembrò concederle un ulteriore barlume di coscienza, una natura ancor più sconcertante di quanto si fosse immaginata: la voce rassicurante di quel tizio aveva appena dato mostra di una facciata ancor più crudele della precedente, divertita, ma senza essere troppo incisiva o pesante da ascoltare. Conosceva Lars o meglio, conosceva parti di lui che lei manco aveva ipotizzato e lo stava attaccando con gradualità, sottolineando una qualche differenza di cui soltanto loro due erano consapevoli. Nonostante la sorpresa per come quella situazione si era creata, Azu afferrò il nome di San Lorein come fosse una palla al balzo, ricordando lo sdegno delle cornacchie incontrate e di come avevano parlato della Regina dei Ghiacci. Erano due cose troppo simili, troppo vicine fra loro perché non vi potesse esserci un qualche collegamento da fare e l’espressione dipinta sul volto di Lars ne era la prova schiacciante.

Lars… ma che razza di casino hai tirato su? Si chiese, cercando volutamente di mettere a tacere quella microscopica punta di preoccupazione, emersa dall’altrettanto minuscolo angolo emotivo, dedicato al fratello.

Quei due si stavano scandagliando a vicenda e non c’era niente di pacifico o di amichevole nei loro sguardi, almeno non in quello di Eliah. Non erano neppure passate due ore e quel tipo già le stava sullo stomaco. Non si era gettato addosso al parente, non lo stava attaccando con assidua ripetizione, ma quel suo modo di fare sottile e vagamente colpevolizzante stava calcando su di un peso che Lars si era sempre portato addosso e che lei stava iniziando a scorgere solo in quel frangente. La parola “Esiliato” era stata sufficiente perché la sua mente cominciasse a porsi domande sul misterioso periodo d’allenamento di suo fratello e su che cosa questo fosse essenzialmente consistito. Doveva essere successo qualcosa di tremendo per scatenare quella nauseante e insopportabile tensione elettrica che le stava punzecchiando le mani e la lingua. Qualcosa che, molto probabilmente, era collegato alla bella spada di cui Lars si prendeva morbosamente cura.

Ci mancava solo che saltasse fuori un’altra diavoleria come Saphira, sbottò mentalmente, cercando di non dare a vedere quanto la cosa le seccasse.

Non odiava la spada di Lars, ma la sensazione che le dava sulla pelle riusciva a scuoterla irrimediabilmente. Le dava i brividi, come se fosse più viva di un essere umano, e lo scoprire l’esistenza di un altro oggetto capace di tale influenza, ridusse di qualche centimetro la sua spavalderia. E mentre lei si dannava per non pensare a quanto diventasse piccola davanti a quello stuzzicadenti azzurro, Eliah inclinò il viso e guardò il consistente gruppetto, sorvolando su ciascuno con occhio rapido e dettagliato.

Quando Shion fu guardata da quel tale, affondò le dita nei jeans di Rufy, accostandosi ancor di più alle sue gambe. Era bastato che le iridi di quel ragazzo si posassero su di lei per tenderla come una corda di violino, ma nonostante ciò non ruppe quel brevissimo contatto visivo: sebbene il cuore le palpitasse incessantemente e quegli occhi bluastri fossero alquanto suggestivi, non ebbe paura. Sentiva di non dover distogliere lo sguardo, di essere forte, il che la spinse a corrucciare la fronte e le labbra in quella che fu la sua più impegnativa espressione di sfida. Espressione lautamente supportata da Red, le cui braccia pelose erano attorcigliate al suo collo.  

“Conoscendo Lars, immagino non vi abbia detto chi sono”, disse poi il ragazzo, rivolgendosi ai pirati con tono più cordiale “Mi presento: il mio nome è Eliah Van Incardine, Master di San Lorein. Cosa vi porta da noi?”
“Il log pose”, si fece avanti Nami, mostrando il cinturino e la bolla incastonata “Dobbiamo aspettare che registri il magnetismo di quest’isola, se vogliamo riprendere la nostra rotta.”
“Impossibile, dovete andarvene immediatamente: gli stranieri non sono ammessi qui”, decretò il capitano della guardia, per poi sibilare a bassissima voce “Figurarsi dei mostri….”
“Ehi! Piano con le offese!” esclamò Usopp.
“Non disturberemo, lo promettiamo”, giurò Chopper “Tanto non dobbiamo fare rifornimento, vero Robin?”
“No, siamo a posto”, confermò la bella archeologa.
“Eeeh?! Ma io voglio visitare la città, non vedevo l’ora!” si lamentò Cappello di Paglia “E poi non siamo stranieri! Siamo pira….!”
“Taci, idiota!”

SBONK!

Mancò pochissimo che quella situazione già traballante si trasformasse in una tragedia irreparabile. Spiattellare con nonchalance di essere un pirata non era la mossa migliore per convincere la gente a lasciarli entrare nella propria città, figurarsi poi presentarsi come il futuro Re dei Pirati. Grazie al cielo Rufy non l’aveva detto, ma solo perché Nami aveva avuto il buon gusto di sedarlo prima che quella sua boccaccia di gomma li costringesse a partire senza che il log pose avesse registrato il magnetismo del posto.

“Ahia! Nami, perché l’hai fatto?” domandò il capitando, tenendosi il grosso bernoccolo spuntato dalla cima del suo cappello di paglia.
“E hai anche il coraggio di chiederlo?!” sibilò furibonda la rossa.
“Yohohoho! Nami-san, diventi ogni giorno più terrificante! E dire che ne ho viste di cose terrificanti, anche se gli occhi non ce li ho più!” ridacchiò Brook, tenendosi quel che rimaneva della pancia.

Nonostante il rigoroso allenamento impartito sin dalla giovane età, le guardie trovarono veramente difficoltoso rimanere impassibili davanti a quello spettacolo. Con la loro mentalità limitata e chiusa, vedere qualcosa che non rientrava all’interno delle loro mura equivaleva a identificarlo come appartenente al mondo dal quale volevano tenersi alla larga. Il sentire parlare quella strana creatura con le corna e il naso blu li aveva visti strabuzzare gli occhi, per non parlare poi dell’entrata in scena dello scheletro ridacchiante.
Mostri. Demoni dell’esterno. Non poteva esserci altra spiegazione plausibile. Non esistevano animali in grado di parlare, così come non potevano esistere scheletri viventi o uomini pompati di metallo con tanto di colori sgargianti. Doveva essere per forza opera di qualche strano potere maligno, ma anche se non ci fosse stata alcuna entità a cui collegare quelle peculiarità così strambe, di certo non avrebbero cambiato idea al loro riguardo. Il capitano delle guardie dovette fare appello a tutta la sua integrità per non lasciarsi ipnotizzare da quel manipolo squinternato e stante fuori dai canoni insegnatigli, ma era davvero difficile ignorare il polverone che stavano sollevando. Imporre le leggi scritte di San Lorein era la sola maniera a sua disposizione per affrontarli e garantire la sicurezza dei cittadini, già in allerta per colpa di quei due tizi che avevano messo bellamente in discussione la sua autorità.

Non potevano permettere in alcun modo il crearsi di disagi civili.

“Lo ripeterò ancora una volta”, disse, riprendendo la parola “Dovete andarvene imme…..”
“Capitano, ritorni al suo posto”, lo fermò Eliah, prima che potesse terminare la frase “Non è questo il modo di accogliere i nostri ospiti.”
“Ospiti?” l’uomo non poté fare a meno che mostrarsi stupito per l’uscita del proprio superiore “Master Eliah, noi…”
“Il magnetismo di San Lorein è registrabile in due giorni e mezzo, un lasso di tempo più che ragionevole per tutti quanti noi”, riprese il ragazzo, “Capisco il vostro sdegno e mi fa piacere che mettiate sempre la sicurezza della città prima di qualunque altra cosa, ma converrete con me, capitano, che due giorni e mezzo non sono nulla in confronti a dieci anni, no?”

Lo schioccare un’occhiata appuntita e furtiva fu l’ennesimo colpo che Lars incassò senza emettere fiato, troppo intento a riflettere sulla sospettosa cordialità di Eliah. Aveva i suoi buoni motivi per osservare quel quadro con fare guardingo, ma per quanto l’ex amico fosse restio a trattare con degli stranieri, non li avrebbe mai attaccati senza un motivo apparente. Il problema però era che lui non era considerato più come uno straniero, ma come “L’esiliato possessore della Regina dei Ghiacci”, il che poteva rivelarsi problematico, conoscendo l’indole dei Van Incardine.

“Shion”, disse poi Lars, rivolgendosi alla piccola “Voglio che tu rimanga sulla nave fino al mio ritorno.”
“Perché?” chiese la piccola, stupita “Io voglio venire con…”
“Fa come ti ho detto e non discutere”, sibilò seccamente. L’occhiata fredda e lapidaria soppressero bruscamente qualsiasi altro tentativo di replica.

Un singulto sfuggì dalle labbra della bambina, rimasta con gli occhi sgranati nel sentire la voce dell’amico così diversa dal solito. L’eccitazione di visitare quell’isola le scivolò via dalle mani come un getto d’acqua, riempiendo le sue iridi azzurrine di vacillazione. Stringere le spalle e rannicchiare le braccia al petto fu immediato e istintivo, un gesto dato da quel battito cardiaco che le sfuggì nel lasciar rimbombare la voce di Lars nella propria testa.
Non le aveva mai parlato a quel modo, non con una voce simile. Era sempre stato gentile con lei. Perché ora non poteva seguirlo?

“E’ meglio che anche voi rimaniate sulla nave”, consigliò Nico Robin a Chopper, Brook e Franky “Se gli stranieri non sono ammessi all’interno della città, il vedere voi potrebbe causare dei problemi.”
“D’accordo. Vi aspetteremo qua”, acconsentì il Divoratore di zucchero filato, annuendo.
“Aw! Non c’è problema! Ne approfitterò per apportare qualche modifica al nostro armamentario!” esclamò il Cyborg “Naso lungo, mi dai una mano?”
“Sì, non mi va tanto di scendere”, asserì il cecchino.
“Yohohoho! Per me va bene!” assentì Brook.

La loro “Vistosità” non rappresentava nulla che potesse farli sentire offesi o esclusi. Chopper, più di tutti, sapeva perfettamente che cosa significasse venire messo da parte, ma aveva imparato che il tentare di assomigliare ad un esser umano non era così importante come aveva sempre creduto, se non poteva aiutare chi lo aveva accettato per quello che era. Franky non aveva mai avuto problemi a professarsi libero e orgoglioso per com'era riuscito ad assemblarsi o per la sua tendenza a indossare rigorosamente delle mutande elasticizzate: era un uomo troppo “Super” per porsi crucci interiori di quel genere. Quanto a Brook, il suo essere uno scheletro gli offriva più vantaggi di quanti gliene fossero stati concessi da vivo. Senza contare poi, la sua mania di scherzare sul fatto che fosse già morto una volta.
Aspetto fisico a parte, erano buonissimi, ma l’accoglienza elargita imponeva di saggiare il terreno con cautela e vedere se poteva esserci una qualche alternativa che non lasciasse indietro i compagni.

“Coraggio, seguitemi”, disse Eliah, mettendosi alla testa del plotone “Sarò felice di condurvi nel nostro palazzo.”



Visitare una nuova città è sempre emozionante. Ci si guarda intorno con frenesia, sforzandosi di allungare il collo per trovare qualcosa di cui nemmeno si conosce il nome, correndo addirittura il rischio di sbattere la faccia contro un palo. Guardare non è un reato che implica il venire considerati colpevoli, ma l’essere osservati con occhi stretti, guardinghi e con tanto di bisbigli poco lusinghieri, trasmette le stesse sensazioni.

Rufy camminava davanti ai suoi amici, tranquillo e con gli stessi occhi scintillanti di un bambino di fronte a un enorme parco giochi. Non era minimamente toccato dal flusso di negatività che vorticava attorno a lui e ai suoi compagni, meno sereni e più attenti a come le bocche sibilanti della gente si muovevano in sincronia. Il silenzio, poi, scandito soltanto dal rumore dei loro passi, non aiutava di certo a sciogliere quella rigidità insinuatasi nei loro muscoli e nelle loro ossa. Ostentare un volto dai lineamenti sicuri e per nulla desiderosi di contrarsi in una qualche smorfia involontaria non era niente che richiedesse capacità al dì sopra della media, ma perfino Nico Robin dovette ammettere che quella faccenda cominciava a essere piuttosto pesante. Neppure l’affrontare la Marina a muso scoperto o senza piano era mai stato così snervante.

“Un’accoglienza davvero calorosa, non c’è che dire”, bisbigliò sarcasticamente quest’ultima.
“Ci guardano come se fossimo loro nemici. Quel capitano non scherzava quando ha detto che gli stranieri non sono i benvenuti”, mormorò Sanji.

Benché fra la folla schiacciata ai lati della strada ci fossero anche delle donne, l’essere coperte da capo a collo impediva a Gamba Nera di perdere la testa e fiotti di sangue recuperabili solo con massicce dosi di flebo. Un problema in meno a cui pensare, dato che il medico era rimasto sulla nave.

“Che forza, questa città! Chissà com’è la carne qui!” si domandò Cappello di Paglia.
“Rufy, per favore, abbassa la voce”, gli sussurrò all’orecchio Nami “Non vedi come ci osservano tutti?”
“Uh? E che problema c’è, scusa? Ci guardano perché sono curiosi!” le disse con sicura ovvietà.
“Io non credo proprio…”

Non occorreva chissà cosa per smantellare la risposta di Rufy e trasformarla in qualcosa che meglio combaciasse con la realtà, ma la Gatta Ladra non se la sentì di contraddire il capitano, non in quel momento. Gli era vicino, abbastanza da distinguere i filamenti della sua casacca rossa e scorgerne eventuali imperfezioni. Mai avrebbe pensato di poter essere gelosa del modo di fare di Rufy, ma le era troppo difficile negarlo: la spensieratezza del suo capitano, la sua allegria, la sua stessa semplicità nel giudicare gli altri, erano qualcosa di assolutamente inattaccabile, che gli consentiva di respingere ogni genere d’insulto o malevolenza. Quella gente poteva parlare all’infinito, come meglio credevano: tanto a Rufy non sarebbe mai interessato nulla che non rientrasse nelle sue curiosità. Ma Nami era diversa, era più coscienziosa e attenta a certe cose, per questo non ce la faceva proprio a ignorare il comportamento di quelle persone.

“Non posso crederci! E’ tornato!” li sentì dire. Stavano parlando di Lars.
“Con che coraggio si fa vedere? E con altre persone, per giunta!”
“Che cosa vorranno da noi?”
“E chi lo sa?”

Non era la prima volta che lei e i suoi amici si trovavano nel bel mezzo di una spirale interminabile di commenti, frecciatine e sussurri appuntiti quanto l’ago di un punta spillo, ma l’incompatibilità con quel posto, unito al buon senso di non dare in escandescenza, stava favorendo il declino delle sue difese emotive. Nami non avrebbe ceduto tanto facilmente, ma l’enorme voragine creatasi all’interno d'esse cominciava a darle fastidio. Concretizzare i propri pensieri sarebbe stata una mossa più che legittima, ma inappropriata alla loro posizione: si era accorta fin troppo bene di come Lars e quel tale di nome Eliah si fossero guardati e non le occorreva ponderare sul da farsi per realizzare che un solo gesto sconsiderato sarebbe costato non poco.

Certo che se si degnassero di tenere un po’ più bassa la voce…., pensò, dopo aver udito un commento piuttosto fastidioso sulla giacca aperta di Robin.

Possibile che non avessero niente di meglio da fare che parlottare su come lei e l’amica fossero vestite? Cominciare a chiedersi seriamente quanto accidenti fosse lunga quella benedetta strada fu un quesito che Nami prese con tutta la serietà di cui era stata donata sin dalla nascita. Se proprio non poteva contestare quelle donne, tanto valeva impegnare il proprio cervello in qualcosa che la costringesse a non pensare ad altro.

“Non capisco perché Master Eliah li abbia fatti entrare in città. Chi ci garantisce che non siano dei ladri?” continuarono quelle.
“Santo cielo, guardate quella ragazza dai capelli rossi: è completamente svestita!”
“Che indecenza! Indossare simili stracci...!”
“Oi! Dateci un taglio!”

Prossima a immergersi mentalmente nel compito prefissatosi, ecco che quella voce a lei terribilmente familiare la scosse, facendole aprire gli occhi e dischiudere la bocca per la sorpresa. Non aveva valutato quell’ipotesi, quella possibile svolta, per tale ragione la Gatta Ladra si ritrovò a guardare Rufy con incredulità, giratosi verso un piccolo e compatto gruppo di donne.

“Rufy?”
“Non mi piace di come state parlando della mia navigatrice. Nami può indossare quello che vuole”, lo sentì dire, con le mani sui fianchi e un tono tanto rimproverante quanto fermo.

L’approfondirsi del silenzio accentuò l’affermazione di Cappello di Paglia, come se volesse farla spiccare più di qualunque altra cosa presente. Lo scioccare quelle donne, tanto da zittirle per come si erano permesse di parlare, lasciò ancor più allibita Nami, momentaneamente ipnotizzata da come il capitano si fosse imposto sul pubblico. Gli erano bastate poche parole perché quel fastidioso vociare venisse meno. Poche parole, insieme a uno sguardo alterato con tanto di bocca rivolta all’ingiù, perché quella gente arretrasse di un passo, completamente sbigottita. Nessuna traccia di Haki, nessuna sfumatura che ne identificasse la presenza. Solo un gesto incapace di ammettere repliche. La capacità di Rufy di lasciare il segno ovunque andasse, era una delle tante cose inspiegabili che rendevano il ragazzo unico nel suo genere. Non era una persona capace di mentire o minimizzare il proprio comportamento: faceva tutto a suo modo ed era un dato di fatto più che lampante.

Nessuno dei suoi amici allargò le proprie mascelle per lo sconcerto e nemmeno Azu e Lars, sebbene non fossero parte integrante del gruppo. Era bastato davvero pochissimo per capire che uno come Rufy era ingestibile sotto tutti i sensi, ma la rossa non se la sentì proprio di rimproverargli per l’ennesima volta quanto la sua impulsività fosse pericolosa. Non era andato a setacciare ogni angolo dell’isola in cerca del cosciotto di carne più grande da addentare e non aveva lasciato tutti quanti loro col timore che potesse combinare l’ennesimo cataclisma. Era lì, a pochi centimetri, con la sua schiena che la separava dagli occhi malevoli della gente, la stessa che – per un abbondante paio di secondi – fu tentata di toccare col palmo della mano. Magari non aveva detto quelle parole con un sentimento superante l’amicizia, però…l’aveva comunque protetta.

“Tutto a posto, Nami! Adesso non ti daranno più fastidio”, disse lui, rivolgendosi a lei con il suo mega sorriso.
“Eh? Cosa?” trasalì la ragazza.
“Ho detto che è tutto a posto. Guarda che l’ho noto se non stai bene o no, sai?”

Le occorse qualche secondo supplementare per realizzare che il viso del capitano era talmente vicino al suo da permetterle di percepire alcuni dei suoi ciuffi neri sfiorarle la fronte. Rufy le si era avvicinato senza che lei se ne accorgesse, senza malizia o doppi fini, non come un certo cuoco che stava sclerando vistosamente alle loro spalle. Lui era estraneo sul che cosa ci fosse dopo l’amicizia, ma il tastare di prima persona come non avesse esitato a difenderla, il sentire quella piacevole sensazione pervaderle cuore e guance mentre guardava sottecchi quella schiena più larga e forte della sua, l’aveva rasserenata e mozzato il respiro come mai in vita sua.
Ora che era un po’ più lucida, avrebbe negato qualsiasi evidenza, ma nell’angolo più profondo del suo animo non poté negare che, per qualche istante, aveva davvero provato il desiderio di appoggiare il suo palmo tremante sulla schiena del capitano.
Per vedere se era reale, per vedere se era vero e non uno dei tanti sogni a cui da piccola si era aggrappata costantemente. Aveva avuto il dubbio, ma l’enorme sorriso di Rufy era troppo luminoso perché fosse solo il frutto di una sua immaginazione.

“Lo so. Grazie, Rufy”, gli disse lei, annuendo.
“Shishishi! Ecco, così va meglio!” ridacchiò lui, nel vederla sorridere “Dai, andiamo!”




“Da questa parte, prego.”

Eliah aveva slargato il braccio destro per fare pressione su un portone color marrone chiaro, intarsiato da sottili ed eleganti linee intrecciate fra di loro. La biblioteca del palazzo di San Lorein era di una bellezza sconvolgente, una reliquia avente ampi soffitti ad arco, lunghe finestre a campana – con tanto di vetrate colorate - e quadri raffiguranti persone dalle ampie vesti svolazzanti. La luce del sole la illuminava interamente, riflettendosi sulle librerie di mogano lucidissimo, sopra cui era riposto tutto il sapere di San Lorein. La sua storia, le origini, i nomi dei Master…tutto era stato scritto su grandi tomi dalle pagine ingiallite, avvolti in copertine dure e consunte che ne indicavano la fragile antichità. Nel suo osservare, Nico Robin scorse anche delle pergamene, diari e intere pagine riposte sotto vetro. Ogni cosa era in perfetto ordine, senza alcun grammo di polvere, sistemato con un’organizzazione che la lasciò molto impressionata, seppur stesse ammirando il tutto da una ristretta zona circolare, con un paio di divanetti e un minuscolo tavolo nel mezzo.  Perfino Nami era rimasta colpita per come quell’ala fosse particolarmente fine. Non era la prima volta che visitava luoghi sontuosi come i palazzi, ma dovette ammettere che quell’ala, i corridoi attraversati, le scale e i giardini intravisti parzialmente, non avevano nulla in comune con la casa di Vivi o la reggia di Re Nettuno. Aleggiava un’atmosfera differente, uno stile rispecchiante un tempo completamente diverso, antico - per usare termini giusti -, ma non era nulla che potesse interessare le mente di Rufy, troppo impegnato a piegare i propri colli all’indietro, e quella di Azu, insolitamente calma e con gli occhi guardinghi.

“L’accesso alla biblioteca è vietato a tutti, salvo a me e al consiglio, ma vista la situazione, farvi attendere in aree pubbliche non è una buona idea”, disse il Master “Siete pregati di non toccare nulla, di non prendere nessuno dei libri e di non uscire fino al mio ritorno”, aggiunse poi con più serietà.
“E se volessimo sgranchirci le gambe?” domandò Sanji.
“Astenetevi. Lo dico per la vostra sicurezza e per i compagni che avete lasciato sulla nave”, rispose Eliah “Siamo delle persone pacifiche, ma gli stranieri non ci sono mai andati a genio, men che meno quelli con un aspetto ambiguo.”
“Franky, Chopper e Brook sono normali quanto noi”, affermò Nami, immettendosi nella conversazione.
“Dal vostro punto di vita, non dal nostro. Avere a che fare con personalità così particolari non ci capita tutti i giorni, specie con qualcosa che crediamo sia inesistente”, si giustificò il Master.
“Non ce ne eravamo accorti”, mormorò la Bambina Diabolica.

Scoprire velocemente che una città così bella fosse sorretta da persone incapaci di accettare le diversità, ostili e non esitanti a giudicare qualcuno basandosi solo sull’aspetto, aveva fornito una panoramica generale su quanto quei due giorni e mezzo sarebbero stati lunghi e difficili da digerire. Se Gamba Nera avesse potuto almeno fumarsi una delle sua amate sigarette, anziché tartassarne il pacchetto stante nella tasca dei suoi pantaloni, il suo umore avrebbe compiuto un balzo di qualità più che rincuorante. Certo, avrebbe ottenuto risultati migliori andando a sbavare dietro a qualche sottana attillata, ma il suo Mellorine-radar non aveva adocchiato niente che si avvicinasse a un paio di gambe flessuose o a un balconcino prosperoso e sodo. Il biondo non era tanto scemo da non comprendere che se vedeva anche solo l’ombra di una donna perdeva sangue e testa contemporaneamente, ma piuttosto che andare contro la sua stessa natura, preferiva morire. E se doveva rimetterci le penne, voleva farlo a modo suo: guardando tutte le donne del mondo come un pervertito di prima categoria.

Ma, pensieri perversi a parte, al cuoco non sarebbe affatto dispiaciuto inalare l’odore acre della nicotina di una delle sigarette che si portava sempre dietro: se ne fumava sempre una quando doveva  valutare e riflettere adeguatamente su qualcosa che richiedeva un particolare metro di giudizio e in quel frangente,  sarebbe stata la soluzione perfetta per smuovere quello strano senso di costrizione che si era appollaiato sulle spalle di tutti quanti loro. Il solo che non risentiva di quel forte senso d'inadeguatezza – escludendo il capitano - era Lars; lui non aveva problemi, giacché i dieci anni passati a San Lorein lo avevano immunizzato da qualsiasi sua sorpresa.  La gente non sprecava certo il suo tempo in applausi o cascate di fiori, specie per delle persone con cui non volevano avere niente a che fare. Al massimo, si divertivano a tagliuzzare la faccia altrui.

Lanciando il proprio sguardo sulla figura di Eliah, l’albino ne colse l’incrollabile sfrontatezza con cui soleva calcare la propria posizione. Non si nascondeva dietro a mormorii impercettibili o ampie distanze di sicurezza: il volto del Master di San Lorein era lo specchio cristallino del suo carattere, poco incline alle novità e il cui tono elegantemente arrogante stava sottolineando quanto fosse stretto il raggio d’azione di ciascuno di loro. Ironicamente, quel lungo cappotto rosso sembrava mettere in risalto non solo ogni suo movimento, ma anche le parole, il sorriso, e il taglio di quelle pozze bluastre che stava tenendo d’occhio con affinata discrezione.
Non c’era niente di cordiale nel suo comportamento: se era intervenuto personalmente, era per via del titolo che portava e per evitare grane alla sua gente, ma lo scoprire che fra gli stranieri ci fosse proprio lui, aveva fatto scattare quell’antica molla di competitività rimasta quieta per tutto il tempo. Ed era quello a rendere i suoi pensieri così lunghi e intricati…

“Vi prego di mantenere la calma e di essere ragionevoli”, riprese Eliah, alzando le mani in segno di difesa “Posso capire il vostro disappunto, ma ci terrei a mettere in chiaro la situazione: noi abbiamo le nostre regole, la nostra prassi, e se io avessi deciso di seguirla alla lettera sicuramente non vi trovereste all’interno della biblioteca.”
“Se per questo ti aspetti un “Grazie”, campi male” affermò stizzita Azu, incrociando le braccia sotto il prosperoso seno.
“Eh eh! No, figurati, non mi permetterei”, ridacchiò il ragazzo, con leggerezza “Vedete, il punto è che noi stiamo su due fronti completamente diversi e immagino che sappiate bene chi fra i due è il più svantaggiato, no?”
“Eliah, vieni al sodo”, tagliò corto Lars.

Che fosse studiato o casuale, il suo girare intorno al nocciolo della questione non stava giovando alla pazienza dello spadaccino dai capelli argentati, avente ora un più diretto contatto con gli occhi blu dell’altro maestro di spade. Niente d'incisivo o troppo intenso perché il discorso venisse rotto senza una ragione, ma sufficientemente concreto perché sancisse la necessità di una conversazione privata.

“Quello che voglio dire….”, riprese il ragazzo, tornando a guardare i pirati “E’ che due giorni e mezzo, a prescindere dal fatto che siano lunghi o meno, rappresentano comunque un periodo che ci vedrà sulla stessa barca. Escluso oggi, rimane un giorno e mezzo prima della vostra partenza, quindi sarebbe conveniente venirci tutti quanti incontro.”
“Intendi ospitarci in questo palazzo a patto che non mettiamo piede in città, giusto?” intuì Nami.
“Molto arguta, hai indovinato”, si complimentò Eliah “In qualità di Master di San Lorein, è mio dovere assumermi ogni responsabilità che riguardi la città e questo include anche la sicurezza dei cittadini. Se vi vedessero girare liberamente fra le vie potrebbero nascere forti dissapori ed è una prospettiva che non gioverebbe a nessuno, ne a me ne a voi.”

Si avviò verso la porta d’entrata, lasciando che il fondo della giacca rossa si aprisse e venisse sollevato di qualche centimetro. Il distogliere lo sguardo non fu una scelta voluta, ma inevitabile, poiché altre faccende lo attendevano urgentemente.

“Parlerò al consiglio affinché anche i vostri amici possano raggiungervi. Fino ad allora, vi raccomando di essere molto prudenti e di non ficcare il naso in stanze al dì fuori di questa. Quanto a te, Lars…”, e voltò parzialmente il volto “Ti dispiacerebbe seguirmi? Mio nonno vorrebbe salutarti.”
Il signor Eliorath?

In tutta franchezza, Lars non avrebbe mai pensato che l’anziano fosse ancora vivo. Ne aveva un buon ricordo, siccome non aveva mai dimenticato quanto fosse importante nella vita di Eliah. Lo era stato anche per lui, più di quanto le apparenze dessero a vedere, e sapeva che il legame fra egli e il nipote era troppo saldo perché quest’ultimo non facesse tutto il possibile per esaudire le sue richieste. Non faticò a immaginare quanta forza Eliah avesse utilizzato per respingere la riluttanza che gli albergava dentro, ma, evidentemente, il pensiero di suo nonno era stato più incisivo del suo orgoglio.

“Lars?”
In silenzio, l’albino si era incamminato verso l’entrata che dava sul corridoio, fermandosi a pochi passi dal Master.

“Tranquilli, torno presto”, dopodiché, si chiuse la porta alle spalle e seguì Eliah.



“Allora, voi che ne pensate?”

Chiedere una qualunque opinione fu spontaneo quanto il guardarsi in faccia dubbiosi. Di accoglienze ne avevano ricevute parecchie, di belle e brutte, ma non si erano mai fatti dei problemi al riguardo, giacché la vita piratesca implicava tutto un groviglio di assurdità pittoresche. Eppure, lì…..era tutto troppo diverso perché decidessero di volgere la testa altrove. La gente era inquadrata. Fastidiosamente e irreversibilmente inquadrata. Lo era fino alla nausea e non occorrevano anni per capirlo: ciascuno dei pirati era stato guardato con la puzza sotto il naso, scandagliato e criticato come fosse un obbrobrio inguardabile. Non era la prima volta che ricevevano un benvenuto piacevole quanto un coltello impiantato nel fianco, ma, insomma… il modo con cui li avevano guardati dall’alto in basso, i bisbigli taglienti e la premura di nascondere i bambini…tutto rasentava un’esagerazione allucinante, un comportamento basato unicamente su un sapere superficiale e allergico ad ulteriori approfondimenti.

Fra movimenti fluidi e parole eleganti, Eliah non ci aveva impiegato molto a spiegare quanta differenza si frapponesse fra loro e San Lorein, quanto meglio fosse per loro adeguarsi, fintanto che stavano sotto la sua giurisdizione. A saperlo prima, se ne sarebbero rimasti sulla Thousand Sunny, tutti insieme, perché era veramente impensabile che persone di quello stampo potessero sciogliersi con uno spettacolino divertente o con un buon boccale di birra. Chissà poi che disastro, se questi avessero scoperto che erano dei pirati ricercati dal Governo Mondiale e dalla Marina…

“Io dico di fare marcia indietro e tornarcene alla nave”, decretò Sanji, annuendo con convinzione “E’ evidente che non gli piacciamo e che non hanno intenzione di cambiare idea. Aspettiamo che il log pose registri il magnetismo dell’isola e ce ne andiamo.”
“Non possiamo, non subito almeno”, asserì Nami “Anche se la cosa non mi va a genio, è meglio per tutti quanti seguire il consiglio di Eliah e non dare troppo nell’occhio. Abbiamo già fatto una cattiva impressione senza muovere un solo muscolo e se dovessero scoprire chi siamo, chiamerebbero la Marina all’istante.”
“Non credo che lo faranno. Anzi, non credo nemmeno che abbiano i mezzi per farlo o che conoscano il Governo Mondiale”, affermò tranquillamente la compagna.
“Uh? Come fai a esserne così sicura?” le domandò Rufy, risistemandosi la testa.
“Beh, le mie sono solo ipotesi…”, cominciò lei, mentre si avvicinava a una di quelle elaborate pagine tenute sotto vetro “Ma quando mi trovavo insieme ai rivoluzionari, ho avuto accesso alla lista di tutti i paesi che sottostanno alla grande alleanza fondata dal Governo Mondiale. Anche se si trattava di una copia, era molto recente e conteneva i nomi di alcune isole presenti nel Nuovo Mondo.”
“E questo centra qualcosa, Robin-chan?” domandò Gamba Nera.
“Penso di sì. Facendo un calcolo approssimativo, la grande alleanza generata dal Governo Mondiale include più del novanta per cento delle isole abitate, dei regni e dei villaggi presenti nella prima metà della Rotta Maggiore. Solo una cerchia ristretta è stata esclusa, ma si tratta perlopiù di zone selvagge, che include anche quelle inesplorate e sconosciute. In questi due anni, ho memorizzato tutti i nomi delle isole che hanno accettato di collaborare con il Governo Mondiale e San Lorein non rientra fra queste.”
“Credi che faccia parte del gruppo non rientrante nell’alleanza?” le chiese Nami.
“E’ plausibile, ma non ne sono del tutto sicura: ho studiato attentamente il nome e le coordinate di ogni territorio di quella lista e ho notato che anche le isole non abitate sono state comunque identificate. Questa San Lorein, invece, sembra non esistere da nessuna parte e forse la ragione sta nella sua stessa storia.”
“Effettivamente, questo spiegherebbe il comportamento esagerato delle guardie e degli abitanti, il che giocherebbe a nostro vantaggio: se davvero non hanno contatti con l’esterno o con la Marina possiamo stare tranquilli, ma ancora non capisco come Lars possa conoscere questo posto: non penso proprio che lui e Azu-chan siano nati qua”, parlò Sanji, guardando di sottecchi l’albina, immersa in un profondo e imperscrutabile silenzio di tomba, con le braccia incrociate e il viso rivolto alla grande porta della biblioteca.
“Non lo credo neppure io, ma Eliah si è rivolto a lui con molta familiarità, quindi deve esserci qualcosa sotto”, sospettò la rossa.
“Beh…  Può darsi che la faccenda abbia a che fare con Saphira”, arrivò l’archeologa, senza distaccare gli occhi azzurri dal documento che stava accuratamente traducendo.
“La sua spada?”
“Sì. Questa pagina parla di una leggenda che risale ai tempi della fondazione di San Lorein e di alcune spade che sarebbero il suo tesoro più prezioso. Può darsi che la spada di Lars sia una di quelle.”
“Sì, ma questo non spiegherebbe il perché di tanto astio. Rufy , tu che ne pensi?” domandò Nami.
“Uhm…. non mi interessa”, rispose con nonchalance.
“Cosa? Rufy, guarda che stiamo parlando di una cosa seria!” lo rimproverò la rossa, appoggiando le mani ai fianchi.
“Lo so, ma non mi interessa”, replicò tranquillamente lui “Io voglio solo che gli altri ci raggiungano, non ci tengo tanto a sapere quello che la gente di qua pensa o meno. E non credo che a Lars farebbe tanto piacere se ci impicciassimo.”

Non era del tutto vero che al ragazzo di gomma non interessasse il giudizio della gente. Potevano parlare male di lui quanto volevano, scaricargli addosso intere vagonate di epiteti, ma nessuno doveva permettersi di offendere i suoi amici. Il valore delle loro vite era incalcolabile, ma non occorreva certo un metro per capire che Rufy avrebbe dato la vita stessa per proteggerli tutti quanti. Il disinteresse per Lars non era dato da una qualche antipatia con lui o da una qualche stupida preferenza: a prescindere dal fatto che Rufy nemmeno conosceva il significato di “Preferenza”, la sua più grande abilità – escluso l’allungarsi e il sapersi infilare settantacinque cosciotti di carne in bocca senza sputarne fuori neanche uno -, era proprio quella di capire gli amici. Un “Capire” di cui tutti i membri dell’equipaggio avevano largamente beneficiato. A volte non servivano neppure le parole: uno sguardo, un’intuizione… e Rufy decideva se era meglio insistere fino allo sfinimento oppure chiudere la bocca e continuare a elargire una cieca e disarmante fiducia. A conti fatti, non abbandonava mai nessuno, ne era totalmente incapace, neanche se la sua fosse stata una patologia: così aveva “amorevolmente” incastrato ogni suo compagno. La sua testardaggine non conosceva limiti di decenza e manifestazione, ma per lui l’importante era che tutti stessero bene. Nami lo sapeva, Nico Robin e Sanji pure, quindi non si sprecarono a insistere sulla faccenda: se il capitano dava un ordine, lo si eseguiva.

“Uf! Certo che aspettare è davvero noioso!” brontolò poi “E poi ho fame! Sanji, mi dai qualcosa?”
“Non ho niente”, borbottò il cuoco, con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni.
“Bugiardo. Lo so che hai del cibo, ne sento il profumo!” replicò il capitano, additandolo.
“Spiegami dove accidenti lo starei nascondendo!” esclamò a denti aguzzi il biondo, per poi guardare voltare la testa verso una finestra aperta “Probabilmente qualcuno starà cucinando. Anche se non sembra, si è quasi fatto mezzogiorno”, ipotizzò poi, percependo un sottile e delicato profumo di carne.
“E noi siamo ancora qua. Senti, Azu, tu non….Azu?”
“Dov’è finita?”

Fu il caso a far notare ai presenti che l’albina era svanita nel nulla. A giudicare da com'era rimasta in disparte durante la conversazione, era ipotizzabile che avesse preferito tenere per sé i propri pensieri, ma un’indole ribelle come quella dell’albina non era capace di mettersi seduta e fare la brava bambina più del tempo stabilito.
E la porta aperta biblioteca ne era l’assoluta conferma.




Guardare con occhi semichiusi le larghe spalle di Eliah e chiedersi quando si sarebbe deciso a fare la prima mossa era un dovere a cui Lars avevano cominciato a rispondere non appena la porta della biblioteca si era chiusa. La frettolosità non apparteneva a un Van Incardine, era sinonimo d'impazienza e di una possibile compiutezza che avrebbe arrecato solo danno a quell’illustro cognome, ma questo non rappresentava di certo una qualche forma di sollievo: la lingua serpeggiante del Master di San Lorein stava aspettando il momento giusto, riflettendo adeguatamente sulle parole da utilizzare e sulle domande da porgli. Dal corridoio inondato di luce che stavano percorrendo alle stanze del signor Eliorath non occorreva molto tempo, ma Eliah non aveva paura di prendersela comoda: sarebbe stato capace anche di fermarlo sull’ultima soglia da varcare pur di non lasciarlo esente da ulteriori colpi.

“Te lo devo proprio dire, Lars: non mi sarei mai aspettato di rivederti, dopo tutto questo tempo”, gli rivelò per l’ennesima volta il ragazzo, senza voltarsi o fermarsi “In compagnia di gente così bislacca, poi…”
“Mi pare di averti già detto che sono di passaggio. E, particolari o meno, quei ragazzi sono una compagnia decisamente più gradevole di certa gente di qua.”
“Lo avevo intuito, visto che ti è sempre piaciuto stare da solo”, replicò con placidità velenosa “Devono essere proprio speciali per aver attirato la tua attenzione.”
“Abbastanza da chiederti di smetterla con questa pantomina e parlare seriamente.”

Inscenare una stupida commediola dove si rivangavano i bei vecchi tempi andati o stupidate impensabili non era nelle intenzioni di Lars, figurarsi poi in quelle di Eliah. Non gli interessava che cosa diavolo il Master di San Lorein stesse confabulando o quanto acidi sarebbero stati i commenti della gente a suo carico, ma Rufy e gli altri dovevano rimanere fuori da tutta quella faccenda, così come Azu e Shion. Quell’isola non gli aveva mai concesso la grazia, per modo di dire, e a lui non era mai interessato riceverla: tuttavia, non voleva vedere messo in mezzo qualcuno che non aveva fatto nulla.

“Come sei serio…”, sospirò, dopo essersi lasciato scappare una risata divertita e giratosi con le mani sui fianchi “Cosa ti fa credere che io stia fingendo?”
“Eliah, piantala con le domande inutili e parla: hai qualcosa contro di me, non è una novità, ma mi auguro che tu abbia il buon gusto di non mettere in mezzo quelle persone solo perché le conosco o perché sono sbarcate a San Lorein. A prescindere dal fatto che non si addirebbe al titolo che porti, il benvenuto della tua gente è stato più che sufficiente.”

Generalmente e da quanto ricordava, essere un Master non significava soltanto “Potere” o “Prestigio”, ma anche “Responsabilità”. Un obbligo nei confronti del popolo, dell’intera città e del rigido protocollo che si tramandava da immani secoli e a cui ogni Master doveva rifarsi per ogni evenienza. Che ci fosse un santo o tiranno a ricoprire il titolo più ambito e importante di tutta l’isola, questo era costretto a rispettare i sacri scritti che reggevano la semplice - ma ben radicata - politica di San Lorein, supportata dal consiglio dei saggi. In fatto di devozione, Eliah era a dir poco impeccabile, ma non era una notizia capace di suscitare sorpresa in chi già aveva avuto a che fare con questo lato del suo carattere. Il Master era la guida, il modello a cui rifarsi e da cui bisognava trarre il giusto esempio, e la sola ragione plausibile che spiegasse il perché gli abitanti non avessero impugnato sassi, forconi e spade, era unicamente perché Eliah non aveva ancora espresso il proprio giudizio.

“Rilassati, non ho mica detto di volerli rinchiudere nelle nostre prigioni. Almeno…queste sono le mie intenzioni”, mormorò, assottigliando le proprie pupille.
Cogliendo uno scintillio poco rassicurante negli occhi blu di Eliah, Lars tese momentaneamente i propri muscoli, per poi farli rilassare come se nulla fosse accaduto. Aveva ragione a credere che il coetaneo stesse macchinando qualcosa, non era stato tanto idiota da pensare che questo avesse messo da parte l’ostilità di punto in banco perché colpito da un’illuminazione divina. Un Van Incardine era capace di molte cose e lo sfruttare le occasioni senza fuoriuscire dal protocollo era solo un’altra abilità che si aggiungeva alla già lunga lista.

“Lars…”, lo chiamò poi, compiendo due passi in avanti “Tu sai come funzionano da noi le cose, vero? Sai che ogni questione deve essere messa sul tavolo delle trattative e discussa con il consiglio, no?” gli domandò retoricamente “Questa non fa eccezione, anzi”, e lo guardò con più incisività “E’ decisamente una situazione che va presa con l’estrema cautela.”
Come il cercare di tagliarmi la testa? Anche quella faccenda ha richiesto il parere dei matusalemme? Lars ringraziò il cielo di averlo dotato di un autocontrollo fuori da qualsiasi norma, altrimenti quell’elegante e sontuoso corridoio si sarebbe ridotto a un mucchietto di detriti e cemento.

Per quanto il tenere in pugno le sorti di un piccolo gruppo di persone esterne lo allettasse, Eliah Van Incardine non si sarebbe mai permesso di porre il proprio divertimento prima della sicurezza della città. Prendeva il suo dovere con il massimo dell’attenzione e quanto stava dicendo rasentava la pura verità. Una verità che, tuttavia, si stava stringendo attorno alle sue spalle.

“Ho permesso a degli esterni di entrare a San Lorein”, riprese, incamminandosi verso la finestra, con le mani dietro la schiena “E può darsi che il consiglio non sia tanto magnanimo da permetterne il soggiorno all’interno della città. La mia autorità è indiscutibile, ma è mio compito prendere atto delle opinioni dei saggi, però tu, fra i tuoi amici…”, e lo guardò di traverso, con quel sorrisino che non lasciava presagire nulla di buono “Sei l’unico che conosce bene le nostre usanze, pertanto potresti  agevolare la faccenda.”
“E sentiamo, in che modo?”

Si odiò istantaneamente per l’aver fatto quella domanda idiota e prevedibile, ma prima o poi Eliah lo avrebbe comunque reso partecipe dell’idea che gli bazzicava in testa, quindi tanto valeva levarsi il dente immediatamente. Al sol vedere le labbra del ragazzo incurvarsi in un più accentuato sorriso sospetto, il senso di costrizione che gli attanagliava le spalle si accentuò, sfregando sulla sua pelle come carta vetrata. Era bloccato su tutti i fronti, e quando i loro occhi si ritrovarono nuovamente coinvolti in quello scambio indefinibile di ricordi rotti e segreti di cui solo loro due erano a conoscenza, si arrivò a toccare quel punto a cui Eliah desiderava ardentemente arrivare.

“Un duello di spade. Io e te. Come numero di chiusura dell’esercitazione di domani.”

Non poteva esserci una condizione più perfetta di quella. Era semplice, deducibile e grande abbastanza perché vedesse tutti quanti soddisfatti. Anche se vi fossero state a disposizione altre scelte, Eliah avrebbe comunque optato per quella, molto più appariscente e combaciante con le proprie necessità. Sì, perché, al dì fuori del proprio ruolo, non c’era nulla di male a soddisfare qualche grammo del proprio orgoglio di spadaccino. Purtroppo Lars non aveva a sua disposizione tutta una serie di alternative valide che lo tirassero fuori da quell’impiccio: escludendo il tempo richiesto dal log pose per registrare il magnetismo di San Lorein, era indispensabile che nessuno venisse a conoscenza che Rufy e gli altri fossero dei pirati. Non c’erano apparecchi o strumenti che favorissero una comunicazione a distanza e anche se non gli sarebbe dispiaciuto vedere la mascella di quei vecchi barbagianni cadere a terra mentre la banda di Cappello di Paglia faceva saltare in aria una delle loro preziosissime statue, era meglio evitare l’innescarsi di catastrofi o pandemoni con la “P” maiuscola.

Eliah sapeva come calcare la mano e permettergli di sfruttare ancor di più quella situazione sarebbe stato un grosso errore da parte sua.

“Immagino di non potermi tirare indietro”, sospirò l’albino.
“Immagini bene. E’ un ordine del Master di San Lorein e sai che non puoi discutere”, puntualizzò il ragazzo.
“Non non ne avrei la benché minima intenzione nemmeno se non ci fosse in gioco l’incolumità di qualcuno a me vicino” disse Lars sorpassando Eliah, per terminare quella porzione di corridoio rimanente “Qualunque cosa faccia, l’avresti sempre vinta tu. Se non hai altro da dirmi, vado da tuo nonno. L’ho fatto aspettare anche troppo.”

Scivolò dietro l’angolo con silenziosità assolutamente impercettibile, astratta quanto un’ombra. I raggi solari, caldi e bianchi come fasci di seta, intensificarono i riflessi argentati dei suoi capelli e di quel profilo che si eclissò quasi istantaneamente dalla vista di Eliah, rimasto con la fedele Magdala a guardare l’albino fino alla sua scomparsa. Rincontrare dopo tutti quegli anni il volto di Lars Gallower non lo aveva sorpreso a tal punto da lasciare trapelare un’emozione poco consona alla propria posizione, ma il fremere della Domatrice Scarlatta e lo scintillio che ne aveva attraversato la lama rossastra erano stati troppo vibranti e intensi perché non lo esortassero a stringere il pugno inguantato e a sfruttare l’occasione fornita dal destino. Il luccichio che aveva attraversato l’arma si era placato, appianando il veloce pulsare della spada: tutto si era svolto con rapidità, in un battito imprendibile, ma Eliah aveva imparato a conoscere ogni singola peculiarità di Magdala fin troppo bene per non comprendere quanto quel brusco cambiamento fosse rilevante.

Presto ogni cosa tornerà al proprio posto, si disse, stringendo l’impugnatura argentata e rifinita di quest’ultima.

Nessuna accondiscendenza, nessun ripensamento o inutile dubbio. Un Master non poteva concedersi nessuna forma di esitazione. L’obiettivo era messo bene a fuoco nella sua mente, così preciso e dettagliato da corrispondere unicamente con la sua determinazione. Si trattava solo di proteggere la propria gente, tutto lì.

“Ehi, dico a te, signor Master”, lo chiamò una voce femminile.

Come il giovane Van Incardine si voltò per vedere chi avesse attirato la sua intenzione, si ritrovò a osservare la sinuosa e tonica figura di Azalea Galower, a pochi metri da lui, con le braccia incrociate, la testa leggermente inclinata e le labbra leggermente incurvate verso il basso. Una sorpresa che gettò dell’amaro sul suo umore e su quel rispetto che lui prendeva con una serietà a dir poco maniacale.

“Posso aiutarti?” le domandò poi, evitando di chiedersi che cosa accidenti avesse spinto la sorella di Lars a varcare la soglia della biblioteca senza il suo esplicito permesso.


Inumidendo la bocca e arricciando il naso, la bella albina gli schioccò un’occhiata altezzosa, a cui Eliah rispose con fare muto, limitandosi semplicemente ad aggrottare la fronte.

“Vorrei scambiare due paroline con te, se non ti dispiace.”




Angolino dell’autrice:
Sono così in ritardo che penso che le scuse non mi salveranno dal lancio dei pomodori, ma mi scuso comunque perché ormai mi è impossibile aggiornare decentemente, tutt’al più che sono anche a corto di ispirazioni. Quindi, qui venite voi: cosa vi piacerebbe vedere in futuro? Se avete preferenze o idee su quello che vi aspettate o meno, o che vorreste vedere, fatemelo sapere. E’ molto probabile che aiuterete me e le mie idee mezze abbozzate.Un saluto a tutti quanti!

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Capitolo 20
*** Stronger. ***





Obbedire non era mai stato il forte di Azalea Gallower, nossignore.
Era una certezza seconda solo alla morte, una scommessa che neppure il più furbo dei furbi avrebbe accettato con la pretesa di vincere. Significava perdere ancor prima di iniziare e scavarsi la fossa con le proprie mani, se quest’ultima poi aveva una buona ragione per tirare dritto e passare sopra a chiunque tentasse di fermarla. A volte neppure esisteva, questa fantomatica ragione, o era talmente insensata o idiota, che la ragazza nemmeno si prendeva la briga di illuminare la gente con cui aveva a che fare. Troppo pigra per farlo.

Sparire dalla biblioteca era stata l’ennesima e più recente stupidata che si fosse auto-impartita, e fintanto che si appellava al suo “Faccio quello che mi pare, come mi pare e quando cavolo mi pare!”, non c’era pericolo che provasse rimorsi di coscienza o che decidesse di fare la brava bambina.
In fondo, il suo stile di vita era tanto aperto e colmo di superficialità, che questo non era che il minimo: se una persona, un oggetto o un’isola non le andavano a genio, Azu era perfettamente capace di liquidare il tutto senza ripensamenti, con un distacco emotivo da far paura. Quanto alle eccezioni – rarissime -, si trattava soltanto di prendere un bel respiro e trattenere il fiato per cinque secondi abbondanti, ma a prescindere dal fatto che la pazienza della ragazza peccasse di abbondanza, non era così stupida da non accorgersi dell’evidenza.
Sin dalla prima occhiata, l’albina aveva capito che un così poco lasso di tempo non le sarebbe mai bastato.

San Lorein poteva anche essere un leggendario regno dei cieli divini o un’isola antica quanto il mondo stesso, ma puzzava di antiquato e stantio, e se non si fosse venuto a creare quel punto d’equilibrio che l’aiutava a non dare di matto, poteva anche andare a quel paese, per quello che gliene importava. Con le persone era un po’ diverso, perché non le poteva certo prendere e gettare in un cestino – non subito, per lo meno -: tralasciando le sue maniere manesche, era una ragazza socievole, che non si tratteneva dal dispensare una bella risata in compagnia di qualcuno che le andava a genio e che non avrebbe esitato a difendere le persone care. Non le interessava sapere cosa cavolo passasse nella testa di quella gente, con quale mentalità vivessero le loro giornate o il perché si ostinassero a indossare quelle orrende tuniche bianche: riuscire a seguire suo fratello e quel Eli o come accidenti si chiamava, senza farsi beccare come una novellina, era stato il suo unico pensiero. Aveva concentrato tutti i suoi sforzi per fondersi con la colonna che la nascondeva dagli occhi dei due ragazzi e le era mancato pochissimo per arrivare a trattenere l’ossigeno; data la sua tendenza a essere rumorosa, celare la propria presenza era un’abilità che spesso le mal riusciva, specie se l’inseguito era Lars, ma il realizzare che quel tipo dai capelli nocciolati non si era accorto del suo spionaggio e che suo fratello se ne era andato senza voltarsi indietro, le aveva permesso di segnare un punto alla sua autostima.

Dal canto suo, Eliah Van Incardine dovette ammettere che la sua ospite si era dimostrata piuttosto scaltra: non gli era mai capitato di essere pedinato senza che se ne rendesse conto, il che gli fece intuire la sua anormalità. I suoi occhi erano troppo vispi e sfacciatamente sfrontati per appartenere a un debole.

Una Gallower in tutto e per tutto, pensò lui, ricordando le volte in cui Lars gli aveva parlato della sorella.

Non l’avrebbe neppure considerata la sorella dell’albino, se non fosse stato per i capelli. Non percepiva alcun punto in comune col fratello, nessuna somiglianza sul piano caratteriale e sui modi di fare: erano completamente diversi, tanto che non si astenne dal pensare che quella avesse più probabilità di essere imparentata con qualche animale selvatico del mondo esterno, che con un comune essere umano. Il venir guardato con fare spavaldo, la bocca storta e le mani appoggiate su candidi fianchi scoperti, era una provocazione alla sua autorità, già messa in discussione dalla libera uscita che la ragazza aveva effettuato senza la dovuta autorizzazione. Non poteva tardare ulteriormente alla riunione col consiglio, non con novità del genere in mano, ma gli fu fin troppo facile intuire la ferrea volontà della ragazza e quanto poco fosse disposta a rimandare o attendere un momento più propizio.

“Immagino a grandi linee quanto tu sia impegnato”, cominciò quest’ultima “Quindi, mi limiterò a rubarti giusto un paio di minuti, se per te va bene.”

Come se realmente le importasse dove doveva andare o per quale motivo…
Eliah lesse anche questo sul suo viso, ma era talmente palese che non ci badò più di tanto.

“Chiedi quello che vuoi, te lo meriti”, le concesse gentilmente.
“Per non essermi fatta beccare da te o da mio fratello?” domandò lei, col sopracciglio inarcato.
“E’ raro che mi si arrivi alle spalle senza che me ne accorga”, ammise il Master con sincerità “E poi, non vedo per quale motivo non dovrei stare a sentirti.”
“Sei gentile, ma evita di fare il carino con me: non sono mica nata ieri”, sbottò l’albina, incrociando le braccia “Rispondi solo alle mie domande e basta.”
“Come preferisci. Allora, di che cosa vuoi parlarmi?”
“Semplice: di mio fratello”, gli rispose prontamente “Voglio sapere tutto.”
“Sii più specifica.”
“Tutto”, ripeté lei “Il suo legame con questo posto, il vostro odio nei suoi confronti…scegli tu. Basta che vuoti il sacco.”

Se Lars fosse stato presente, anzi, se si fosse anche solo accorto del suo pedinamento, non ci avrebbe pensato due volte a placcarla, legarla, imbavagliarla e metterla dentro a una botte di vino. Sua sorella aveva il brutto vizio di autodistruggersi con le conseguenze della sua stessa cocciutaggine, di prendere in mano una semplice questione e trasformarla in una crociata grande quanto un transatlantico. Toccava le cose e le faceva esplodere, anche con l’intenzione più nobile e sincera di cui fosse capace. Il poveraccio ci aveva rinunciato a capire come un simile tocco potesse essere tanto devastante, ma se davvero si fosse accorto di sua sorella, non avrebbe mai permesso che lei ed Eliah rimanessero da soli e nello stesso corridoio. Purtroppo le condizioni del signor Eliorath avevano sbaragliato qualsiasi altra possibile priorità e ora i suddetti si stavano reciprocamente studiando. Molto probabilmente, se Azu avesse afferrato anche solo un terzo della reale profondità di quello che pretendeva di sapere, forse non avrebbe trovato così impellente il desiderio di pedinare quei due e scoprirsi a uno di questi con assoluta nonchalance. Quella faccenda era molto più grande di quanto desse a vedere e implicava consapevolezze che lei ignorava e mai avrebbe potuto capire pienamente, sicché si ostinava a tirare avanti a modo suo. L’aver nascosto a dovere la propria presenza fino al momento dovuto era stato l’unico suo asso nella manica non previsto da Eliah, la cui mente aveva già delineato la prevedibilità del suo carattere; la sfrontatezza dell’albina era considerevole, quasi ammirevole, ma non esente da lacune e difetti grandi quanto la sua testardaggine. Lei stessa era cosciente di essere una persona impulsiva e con quanta facilità quel tale lo avesse capito, ma non gliene importava un fico secco: non aveva passato gli ultimi minuti appiccicata a quella dannata colonna per essere rispedita in biblioteca a becco asciutto.

“E così vorresti sapere che cosa lega tuo fratello alla nostra isola…”, fece lui, ruotando il busto verso la finestra e avvicinandovisi “Beh, un po’ me lo aspettavo. Lars non è esattamente una persona che va a sbandierare ai quattro venti i suoi affari privati.”
“Questa non è una novità. Ora, dimmi qualcosa che non so”, pretese lei, appellandosi ancora una volta alla poca pazienza donatale alla nascita.

Seguì i movimenti di Eliah con attenzione scrupolosa, partendo dai cadenzati e lenti movimenti del lungo cappotto di pelle rossa, fino a scorgere uno scintillio rosso e argentato che le fece socchiudere le palpebre. Un piccolo raggio di sole lo illuminò per pochissimo e il brivido che calcò sulla sua spina dorsale assottigliò pericolosamente la sua concentrazione.

Merda!

Imprecò mentalmente, dandosi della cretina per l’essersi lasciata cogliere così alla sprovvista.
Ci aveva visto giusto: Eliah aveva una spada simile a quella di suo fratello, se non che il senso di disagio che l’aveva appena toccata era diverso: Saphira la congelava sul posto, assorbendo il suo calore corporeo e lasciandola rigida e vittima di brividi sempre più lenti e crescenti. Quella invece l’aveva semplicemente trapassata da parte a parte in un solo colpo, bruciandole le viscere interne e gli organi. Una sensazione che non le piacque neanche un po’.

“Prima di parlare, rispondi alla mia di domanda, Azalea Gallower”, parlo poi il Master, guardandola con la testa girata verso di lei “Quanto sai sulla spada che Lars si porta dietro?”
Una domanda su Saphira? Che cosa centrava con quello che aveva chiesto?
“Non molto. So che il suo soprannome è Regina dei Ghiacci e che può comandare quell’elemento e plasmarlo”, rispose.
“E ti è mai capitato di vederla sveglia?”
“Un paio di volte. Ha importanza?”
“Molta, perché è evidente che dovrò spiegarti parecchio, se vuoi avere un’idea chiara di che cosa significhi vivere qui da noi”, le rivelò lui, incrociando le braccia.

Parlava come se volesse accrescere una presunta paura all’interno del suo cuore, come a volerla far cadere vittima dell’insicurezza, ma le uniche cose che all’albina sarebbero potute cadere, erano le braccia, e non certo per la paura. Ma davvero quel cretino era convinto di ridurla a una femminuccia tremante e incapace di reggersi sulle proprie gambe, con solo un pietoso avvertimento? Che dilettante.

“Fai pure con calma. Non ho impegni”, acconsentì la ragazza, esibendo un grazioso e sfrontato sorrisetto.





La stanza del signor Eliorath si affacciava su un bellissimo giardino floreale, dove l’anziano soleva passare gran parte del suo tempo. Passeggiare per le vie gli era sempre piaciuto, ma le ossa delle sue gambe si erano assottigliate parecchio in quegli ultimi anni, troppo perché si mettesse a correre e saltare come invece facevano i giovani allievi dell’accademia. Camminava ancora, così come adempiva al suo compito di membro del consiglio, ma non doveva sforzarsi eccessivamente o spingere i propri arti laddove non potevano più. Era vecchio e aveva accettato l’inevitabile ciclicità del tempo con tutte le sue possibili conseguenze, salvo le amare brodaglie con cui aveva regolare appuntamento almeno una volta al giorno. Sia a venti che a ottantacinque anni suonati, Eliorath Van Incardine avrebbe sempre trovato la forza di strizzare la faccia rugosa davanti a quei preparati a base di acqua e verdure insipide; sua nuora gliele preparava quotidianamente perché preoccupata solo per la sua salute, su questo non si discuteva, ma nel caso la vecchiaia non fosse riuscita a portarlo alla tomba, ci avrebbero pensato quelle minestre.
Quella mattina era a letto, con le coperte che gli arrivavano fino alla pancia, numerosi cuscini ad ammorbidirgli la schiena e una larga e decorata veste indosso. La porta della sua stanza era chiusa, ma lui ne fissava comunque la maniglia con silenziosa insistenza: i suoi occhi erano diventati molto resti a rimanere aperti più del dovuto, ma il pizzico di trepidazione guizzante come una piccola onda ne impediva la chiusura, incentivandoli a non distogliere l’attenzione. Le notizie erano dilagate velocemente, arrivando ai suoi appartamenti come una ventata d’aria inaspettata. Era questione di minuti, massimo di un’ora: il suo intuito non sbagliava mai su certe cose e quando sentì qualcuno bussare, si limitò semplicemente a dire:

“Avanti, è aperto.”

I cardini della porta cigolarono leggermente, mentre questa si apriva parzialmente.
L’anziano si rallegrò nel vedere entrare la persona di cui i ricordi avevano cominciato a riaffiorare solo pochi minuti prima. Lars si era irrobustito dall’ultima volta che l’aveva visto, ormai era un uomo in tutto e per tutto. Se ne rese meglio conto quando il ragazzo avanzò di qualche passo, uscendo dalla penombra che investiva il corridoio.

“Salve signor Eliorath”, lo salutò l’albino.
“Lars, ragazzo mio, ne è passato di tempo. Non rimanere in piedi, avvicinati”, lo invitò cordialmente, col sorriso sulle labbra.

Non aveva avuto dubbi su chi avesse potuto suscitare tanto scalpore fra i corridoi del palazzo. Le parole si erano ripetute freneticamente, quasi sul punto di esplodere e considerando l’accoglienza riservata, il signor Eliorath si sentì in dovere di offrire al ragazzo una lunga, sana e immediata boccata d’ossigeno. Neanche farlo apposta, il suo sguardo si riversò sull’evidente cicatrice che segnava il volto dell’albino, appena sedutosi sulla sedia dove solevano sostare sua nuora o suo nipote. Il contrasto con la pelle chiara e quella rossastra era evidente: tirata e deturpata, quella parte di viso spiccò abbastanza perché il suo saluto si trasformasse in una mesta constatazione.

“Ti ha lasciato un bel segno, vedo.”
“Niente che non sia guarito con riposo, garze e disinfettante”, lo rassicurò placidamente Lars, accomodandosi meglio contro lo schienale della sedia “Lei come sta?”
“Oh, che posso dirti…sto invecchiando, ancora”, gli rispose, alzando di poco le spalle “E la cosa comincia a seccarmi. Solo perché una persona non riesce più a reggersi in piedi come una volta non significa che la si debba rinchiudere in una stanza e aspettare che passi a miglior vita, ma a quanto pare..”, e cercò di issarsi meglio “Non sono nella posizione per replicare.”

Una smorfia di dolore s'impresse sul suo viso. Cercò di accoccolarsi meglio fra i cuscini, ma solo con l’aiuto dell’albino il fastidio svanì. Per quanto la situazione lo scocciasse, il signor Eliorath sapeva benissimo quanto il suo minuto corpo fosse diventato gracile; per evitare scricchiolii o dolori muscolari che appesantissero le sue ossa, ogni suo movimento era lento e strascicato, a volte addirittura esitante.

“Sì, non è più come un tempo…”, mormorò poi quest’ultimo, appoggiando la nuca su uno dei cuscini.
“Non deve dimostrare nulla, signor Eliorath, meno che mai a me”, gli disse il ragazzo, risiedendosi sulla seggiola.
“Oh, non era nelle mie intenzioni”, ridacchiò flebilmente lui intrecciando le dita “Piuttosto, perché non mi dici che cosa ti ha riportato qui da noi e come mai sei in compagnia di un gruppo di pirati? Personalmente, non credo che siano brutali, vista la tua presenza, ma giusto una mezz’ora fa le guardie hanno dato l’allarme a causa di un uomo che stava tentando di scalare il palazzo. Devo forse preoccuparmi?”





“Salvatore? No, scusa: hai proprio detto “Salvatore”?”
“Esatto.”

Quaranta minuti e diciassette secondi.
Era il tempo trascorso dall’inizio di quella discussione e un record per la pazienza di Azu, più piatta di un mare senza vento. Tra il cercare di seguire il filo del discorso e il capire se quanto le stava venendo detto avesse fonti storiche attendibili o fosse una scemata colossale, i suoi neuroni si stavano avviando al surriscaldamento. Le loro vocine acute e sofferenti le rimbombavano in testa come tanti campanelli asfissianti e lei non poté fare altro che stropicciarsi l’incavo degli occhi e maledirsi per la quarta volta di seguito; aveva chiesto a Eliah di raccontarle tutto, col risultato di trovarsi invischiata in una lezione su vita, morte e miracoli di San Lorein.

Una genialata che la sua perfida coscienza le avrebbe rinfacciato per il resto dei suoi giorni.
Ma perché diavolo non rifletteva prima di agire?

“Senti, apprezzo il fatto che tu voglia rendermi partecipe della storia della tua città, ma non è quello che mi interessa”, riuscì a dire, dopo che un altro dei suoi neuroni aveva fatto i bagagli e se l’era squagliata. Fra demoni, saggi e un’accademia per apprendisti spadaccini, tutto il suo sistema nervoso stava seriamente prendendo in considerazione il suicidio.
“Lo so, ma è indispensabile perché tu abbia un’idea chiara di tutta la faccenda”, si giustificò placidamente il ragazzo, staccando la propria schiena dal muro.

Non si erano spostati da quel corridoio nemmeno per cercare un posto più appartato e comodo. Azu se ne stava lì, con le braccia incrociate, lo sguardo perennemente puntato sul capo dell’isola e quell’agonia verbale che le impediva di concentrarsi su altro.

“Rahel e il suo operato stanno alla base di una lunga tradizione che onoriamo e rispettiamo da secoli”, spiegò lui, cominciando a passeggiare lentamente “Salvando l’isola dall’orlo della distruzione, ha stabilito un ordine che abbiamo il dovere di proteggere e tramandare alle generazioni future, ma non è la sola cosa che ci ha lasciato.”

Fermatosi appositamente, Eliah scostò con la mano il proprio cappotto, rivelando la spada che portava appesa al fianco.
Azu la guardò senza timore, riuscendo a respingere l’ondata di malessere che percepì distintamente roderle la pelle.

Eccola lì, la diavoleria rossa.
L’impugnatura, le guardie crociate e perfino la coccia erano avvolti da disegni rappresentanti spirali intrecciate che sporgevano addirittura fuori dalla base. Si univano inestricabilmente, formando un disegno che non riuscì bene a delineare; magari non avrà avuto una collana di perline che la rendesse più vistosa, ma l’eleganza di quel motivo era comunque notevole. L’argento prevaleva solo in alcune rifiniture; il resto era scarlatto, di un rosso sangue battuto solo dal rubino incastonato nel pomo. La lama, lunga e affilata, sotto la luce del sole, era lucida quanto uno specchio, con riflessi che ne schiarivano il colore in tantissime sfumature. Eliah l’aveva impugnata appositamente perché lei ne vedesse il totale e incandescente splendore, perché si facesse un’idea di quanta diversità ci fosse fra il suo mondo e quello esterno, ma Azu si limitò semplicemente a stare zitta e immobile.

“Il Master non è soltanto una persona che ha il dovere di difendere la città, ma il guerriero scelto da una delle cinque armi sacre. Vincere il torneo finale ed essere giudicati idonei dai saggi è solo una parte della cerimonia”, riprese poi “Perché il campione acquisisca a pieni diritti il titolo di Master, deve superare la seconda parte della cerimonia, quella che si tiene nel santuario di questo palazzo.”
“E in che cosa consiste, quest’altra prova?” domandò l’albina.
“A un’accettazione spirituale.”
“Una cosa?”
“Un’accettazione spirituale”, ripeté il castano, riponendo al proprio fianco la preziosa Magdala “Un confronto che prevede il crearsi di un legame fra l’anima del vincitore e lo spirito di una delle cinque armi. Magdala, Erath, Baranshi, Aritles e Saphira sono diverse sia nell’aspetto che nella personalità: hanno caratteri e poteri differenti e come tali, scelgono solo una persona che abbia un’anima idonea con almeno una di loro. Dopo Rahel, nessun’altro Master è riuscito a farsi accettare da tutte e cinque le armi, ma era sufficiente che il campione intrecciasse il proprio spirito con anche solo una di queste per garantire l’armonia della città.”
“Quindi, se ho capito bene…”, ricapitolò Azu, unendo tutte le informazioni assimilate “I soli che possono brandire queste armi e che possono ottenere il titolo di Master, sono i guerrieri che vincono il torneo finale e che superano questa accettazione spirituale, giusto?”
“Precisamente. Si tratta di una tradizione che San Lorein tramanda unicamente alla sua gente. Un’arma per un solo Master.”
“E mio fratello, allora? Lui ha Saphira e non è nemmeno di queste parti.”

Arrivati a quel punto, per Azu fu impossibile non chiedere che tipo di relazione ci fosse fra Lars, Saphira e l’intera città. Aveva ascoltato per filo e per segno tutto quello che Eliah le aveva detto, tutto ciò che bisognava sapere per non arrivare impreparati a un compito in classe su San Lorein, ma ora pretendeva di conoscere la verità che stava dietro il periodo d’addestramento del fratello. Ne doveva aver passate di cotte e di crude, indubbiamente, ma nel suo costruirsi un’idea mentale riguardante ciò, Azu non dimenticò di tener conto di una cosuccia che la accomunava al più grande: la caparbietà.
Lars Gallower preferiva gli approcci diplomatici a quelli maneschi, rifletteva almeno cinque volte prima di fare una cosa e vantava un controllo emotivo e razionale che lei non avrebbe mai posseduto. Era freddo, pacato e di poche parole, quasi le relazioni umane lo disgustassero, a volte addirittura inquietante, ma soprattutto testardo. Lo era eccome, solo in una maniera più sottile della sua, quasi strategica. Non si passano dieci anni su un’isola come San Lorein senza una buona ragione: quella di Lars era il voler diventare uno spadaccino degno di nota e se aveva sopportato quello che stava facendo venire a lei un esaurimento totale, non era certo merito della sua pazienza!
No, no, lì era tutta questione di testardaggine. Suo fratello accettava le sfide per vincerle, ed era capace anche di tenere sott’acqua la testa e affogare, pur di farcela. Sottostava a tutte le regole, non fiatava, ma s'impuntava e vinceva, e questo perché aveva un orgoglio smisurato.

Ma questo non era sufficiente per capire.
La lacuna che galleggiava nella testa di Azu era ancora lì, vuota e insoddisfatta. Tutto ruotava attorno all’accademia, al torneo finale, alla cerimonia d'iniziazione e a quella leggenda che vedeva al proprio centro cinque armi uniche al mondo. Una sola arma per un solo Master, questo le aveva appena detto Eliah. Ci poteva essere un solo capo, una sola persona scelta sia dalla gente che da uno dei cinque tesori di Rahel, così doveva essere. Ma così non era stato con Lars, il cui possesso di Saphira lo poneva su un piano terribilmente vicino a quello di Eliah.
Quella spada l’aveva insospettiva fin dal primo giorno, ma l’alto muro del silenzio che l’albino tirava su a ogni suo interrogatorio, le aveva sempre impedito di saperne di più al riguardo. Che fosse chiaro! Non era affatto preoccupata per il fratello! Solo non trovava giusto rimanere all’oscuro di qualcosa che le stava contorcendo le viscere per l’acidità! Era sbagliato, e anche se avesse scoperto chissà quale arcano segreto irrivelabile, mica avrebbe fatto la spia – sempre se questo non le avesse fruttato un qualche e irripetibile vantaggio…-.

Con un’idea molto generale su Eliah Van Incardine, la ragazza si aspettò di vedergli fare qualcosa per la quale la sua pazienza le avrebbe chiesto in ginocchio di alzare i tacchi e andare a scolarsi un doppio whisky. Gli individui superbi e sprezzanti di sé rientravano in quel vasto bagaglio culturale maschile che aveva avuto modo di conoscere da vicino negli ultimi anni, quindi, qualunque occhiata quel tale le avrebbe schioccato, di certo non l’avrebbe colta impreparata.

Salvo quella.
Sfogliando velocemente la propria lista mentale e non trovando alcun riscontro, la sicurezza dell’albina vacillò sensibilmente: dopo che si era lasciato attrarre momentaneamente dalla bellezza del giardino stante fuori dalla finestra, il castano le aveva rivolto uno sguardo imperscrutabile, troppo normale e composto perché le concedesse quella piccola e sperata soddisfazione personale. Che diavolo significava?

“Come ti ho già spiegato, qui a San Lorein gli stranieri non sono benaccetti, ma le vedute di mio nonno sono sempre state più accondiscendenti rispetto a quelle degli altri suoi colleghi, tanto da permettersi di uscire dalla città più volte”, raccontò “Nessuno glielo ha mai rimproverato, in passato è stato un valente Master e un saggio condottiero, per questo si è sempre pensato che le sue decisioni avesse un particolare fine.”
“E che centra questo con mio fratello?” domandò l’albina.
“Centra molto, te lo posso assicurare”, le giurò caldamente, incrociando le braccia “Il consiglio e mio padre erano al corrente che mio nonno avrebbe portato un allievo da inserire nell’accademia. Ovviamente la cosa fu molto discussa, perché si trattava di chiudere un occhio sulle leggi, ma alla fine tuo fratello venne ammesso all’accademia. Certo, la decisione non ha riscosso esiti positivi, ma mio nonno aveva una buona ragione per insistere sulla faccenda.”

Parlò dell’anziano parente con rispetto, mettendo in evidenza l’ammirazione che aveva sempre covato fin dalla tenera età, ma passandoci oltre con velocità disarmante, quasi non gliene importasse. Una supposizione del tutto falsa, se si considerava il fatto che Eliah era attaccato al nonno più di quanto desse a vedere in apparenza.
Riflettendo su quella prima parte, Azu si concentrò meglio sulla possibile ragione che aveva mosso quel tale, il signor Eliorath, a sfidare la sua stessa terra natia: non aveva molte idee in testa, ma se era andato a scegliere Lars voleva dire che aveva visto in lui qualcosa di speciale, magari quel talento che lei trovava noioso e senza senso.

Affettare tutto e tutti….ma che gusto c’è? Si era chiesta migliaia di volte.

Fare a botte a mani nude era molto più soddisfacente! L’adrenalina che schizzava dalle vene, i muscoli che bruciavano per la smania di essere strapazzati, per non parlare dei brividi eccitati che le pungevano la pelle quando la situazione la costringeva a stare con le spalle al muro. Dio, quanto avrebbe pagato per avere un ring e un centinaio di uomini da massacrare!
Amava quel mix di sensazioni e impazziva per il sapore del suo stesso sangue quando le bagnava le labbra; risvegliava la parte più contorta e sadica del suo istinto, spronandola a combattere con foga disumana e impareggiabile, niente a che vedere col mondo delle spade, dove il controllo della propria forza fisica era qualcosa di disgustosamente maniacale. Quei coltelli formato gigante non le erano mai andati a genio, ma su suo fratello avevano sempre esercitato un fascino magnetico e se ci teneva a fare luce sull’alone di mistero che svolazzava sopra la testa del più grande, doveva reprimere temporaneamente il suo dissenso per le lame.

“Fra tutti gli allievi, tuo fratello era uno dei più forti. Secondo solo a me, se vogliamo essere precisi, ma non voglio annoiarti con dettagli che a te di certo non interessano”, fece sbrigativo il Master, intuendo la fretta della sua ospite.
Ecco, bravo: vai avanti, lo incitò mentalmente lei. Anche se la tentazione di prenderlo per il codino e lanciarlo fuori dalla finestra era forte, doveva resistere.
“L’ultimo incontro del torneo finale lo disputammo io e Lars”, andò avanti lui “Vincendo, venni portato nel Saidan, dove superai la cerimonia di iniziazione e assunsi il titolo di Master, insieme alla custodia di Magdala. Ci furono dei festeggiamenti, come da tradizione, ma quando mi accorsi dell’assenza prolungata di mio nonno, la cerimonia di tuo fratello si era già conclusa.”

Nella sua sintesi pressoché concisa e perfetta, Azu ricollegò ogni parola a quanto aveva assimilato, riuscendo addirittura a immaginare il contesto. Fu automatico e immediato, di una facilità disarmante e indescrivibile. E non era ancora finita….

“Due cerimonie riuscite e due maestri di spade. Non era mai capitato che due armi sacre manifestassero la loro volontà allo stesso tempo”, mormorò il ragazzo, lasciandosi scappare una flebile risata “Il consiglio dei saggi era sconvolto, restio a credere che Lars fosse stato scelto da una delle cinque armi di Rahel, da Saphira, per giunta.”
“Per via della sua...ehm...silenziosità?”

In mezzo a quegli argomenti farciti di dettagli sonnolenti e noiosi quanto la vita di un bradipo, le notizie riguardanti Saphira erano le sole che riuscissero a venirle subito in mente. Che quella spada fosse un’anomalia bella e buona l’aveva capito immediatamente, e grazie ai dettagli aggiuntivi forniti dall’elegantone che le stava di fronte, ora ne aveva la prova concreta.

“Secondo la leggenda, la Regina dei Ghiacci ha perso tutto il suo potere per aiutare il nostro fondatore, per questo non ha mai manifestato la propria volontà davanti ai miei predecessori”, narrò Eliah “Gli anziani supposero che Lars l’avesse rubata, ma non era un’ipotesi plausibile: dormienti o no, le armi di Rahel respingono qualunque persona indegna, pertanto non rimase altro da fare che accettare la veridicità della versione di mio nonno. La  seconda cerimonia di iniziazione si era svolta regolarmente, ma viste le circostanze e la posizione di tuo fratello…”, e tergiversò giusto un paio di secondi “Non potevamo non prendere dei provvedimenti.”

Vedendolo passarsi diagonalmente l’indice sul viso, Azu strizzò le labbra convulsamente. Il suo sguardo perlaceo s'immobilizzò lì, riluttante all’idea di focalizzare la propria attenzione su qualunque altra cosa che non fosse il nauseante e insopportabile ghigno di quel tizio, amabile quanto uno spigolo nel fianco.
Aveva capito, altroché se aveva capito. La mano di Eliah non si era mossa casualmente, aveva compiuto quel semplice gesto per calcare il suo ruolo in quella faccenda, enfatizzandone l’importanza. Doveva pur essere stato qualcuno, Lars non era così rimbambito da inciampare nelle stringhe dei suoi stivali. Era lei quella che non guardava mai davanti a sé e che sbatteva il naso contro un muro o una palma. Era lei la distratta, non quel perfettino di suo fratello, la cui meticolosità non conosceva limiti.

“L’hai sfregiato tu.”

Quel mormorio uscì dalla sua bocca flebilissimo, appena incredula e sbigottita.

“Non potevamo togliergli con la forza Saphira, saremmo andati contro le leggi di San Lorein”, le disse con ovvietà il Master, allontanandosi di qualche passo dalla finestra “Inoltre, dovresti sapere bene quanto tuo fratello sia irremovibile: neppure il mettere in gioco la sua libertà l’avrebbe fatto desistere.”
“E così l’hai sfidato a duello”, affermò l’albina, riacquistando sicurezza.
“Non c’era altra scelta.”
“E’ forse una giustificazione, la tua?”
“Considerala come meglio credi, ma credimi se ti dico che quella cicatrice è il minore dei mali che poteva capitargli”, le confessò “La sua ammissione è costata non pochi strappi grattacapi e andarsene con uno dei nostri tesori, senza prendere provvedimenti, non era....”

Doveva aver spiegato quella faccenda almeno un migliaio di volte, perché la disinvoltura e l’assoluta mancanza di particolari emozioni nella voce, erano alquanto impeccabili. Parlava bene, troppo bene, e Azu lo aveva constatato, tanto da arrivare al punto di non farcela più. Il pugno era partito all’improvviso, a una velocità che pochissimi avrebbero intercettato. Lo sfregare delle proprie nocche contro la liscia lama rossa della spada di Eliah era vibrante quanto il tremore incazzato delle sue labbra - dolorosamente tenute in ostaggio dai suoi denti - e di tutto il resto del corpo, ansimante e incandescente. Il signorino era riuscito a salvarsi la faccia e di questo Azu non fu affatto contenta: la bolla di indefinibile consistenza che le stava bruciando in petto era scoppiata , ma il senso d’oppressione le pervadeva ancora gli arti chiedeva ancora e ancora.

“Se hai finito con le stronzate, ora toccherebbe a me”, sibilò lei, ritirando lentamente il pugno e raddrizzandosi. 

La sua voce era quanto di più spaventoso potesse esistere al mondo ed era assolutamente restia a trattenersi.

“Io e mio fratello…. ci sopportiamo a malapena”, ringhiò, in un ansimo pesante e mal controllato “E l’idea di avere qualcosa in comune con lui mi fa vomitare, ma se vi ho seguito, è perché voglio mettere in chiaro una cosa: di quello che mi hai rifilato negli ultimi minuti, la storia della tua isola, della tua città, non me ne frega un bel niente. Puoi anche essere il capo di questo posto, il Dio indiscusso, ma solo io ho l’autorità per infierire su Lars, quindi vedi di imprimerti bene in testa le mie parole, perché le ripeterò una volta sola”, e lì lo guardò con occhi colmi di scintille omicida “Tu azzardati a fare anche un solo passo di troppo , a toccare la mia di gente, e io smonterò la tua preziosa isoletta pezzo per pezzo, a cominciare da questo palazzo. Credimi.”

In vita sua, Eliah Van Incardine, non aveva mai avuto il piacere di assaporare una minaccia. Ne conosceva il significato, ma la sua inesistenza a San Lorein – come molte altre cose -, gli aveva sempre dato un vago senso di vuoto. Non necessariamente colmabile, ma comunque presente, e il parare il gancio sinistro dell’albina glielo ricordò. L’avvertire il proprio corpo venire spinto all’indietro di quasi un metro all’indietro, lo vide alzare la testa e schioccare uno sguardo strafottente a quella ragazza dall’indole suscettibile e intrattabile, riponendo Magdala al proprio fianco.

“Lo trovi divertente?” 
“La tua minaccia? No, si capisce benissimo che non avresti problema a radere al suo San Lorein, se te ne offrissimo la possibilità. Ma anch’io ci terrei a precisare un’ultima cosa, prima di lasciarti.”
“Cosa? Che devo stare attenta a non farti perdere la pazienza?” lo provocò l’albina, appoggiando le mani a fianchi e storcendo il sopracciglio con arroganza “Non pensare di farmi paura: noi Gallower siamo di parola e non ci facciamo spaventare dal primo che passa. Men che meno da uno come te.”
“Io dico che dovresti, invece”, replicò seccamente lui, osservandola con occhi taglienti e voce fredda “Ti aiuterebbe a essere meno cieca e stupida.”
 “Che cos…?!”
“Hai volutamente ignorato il mio ordine e sei uscita dalla biblioteca”, la bloccò prontamente “Mi hai seguito e hai preteso che ti spiegassi perché tuo fratello è tornato da te con una cicatrice sul viso e, infine, minacciato di non toccare i tuoi cari. Se c’è una cosa che ho imparato a rispettare è il coraggio delle persone, ma credimi anche tu, quando ti dico che potrei non rispondere più di me stesso, se proverai a fare del male agli abitanti di quest’isola.”

Stavolta per Azu, fu impossibile replicare.
Ci provò, si strinse il collo con la mano destra e provò ad urlare, ma niente: la lingua si era ribellata alla sua volontà, annodandosi da sola e impedendole di prolungare quello scambio di minacce aperte. Ne riprese possesso solo dopo che Eliah se ne fu andato, inchiodandola al pavimento con sguardo assassino.

“Dannato bastardo!” imprecò infine, astenendosi a fatica dal colpire il muro a lei più vicino.

Mai si era sentita tanto umiliata in vita sua. I pugni le tremavano per il forzato contenimento, accompagnati da un respiro smorzato e irregolare. Non era la fine che si era immaginata, per nulla: avrebbe dovuto concludersi tutto a suo favore, con la sua sorprendente e alquanto concisa minaccia, non con quell’orribile senso di insoddisfazione e una minaccia a proprio carico. Il trovarsi sola, frustrata, in quell’accidente di corridoio e con ancora appicciata addosso una considerevole quantità di tensione elettrica da smaltire, non fece altro che rafforzare il suo desiderio di andarsi a scolare tutto il liquore stipato nelle dispense della Thousand Sunny.

La via più rapida e semplice per mettersi a ballare nudi in strada, decretò, stupendosi di avere ancora la forza di accingere al sarcasmo.

Memore delle disgustose e doloranti conseguenze che seguivano a una bevuta con i fiocchi, l’albina inspirò profondamente. Aveva appena minacciato di morte il Master di San Lorein, inimicandoselo per bene e fregandosene delle conseguenze.  Era pentita? Neanche un po’. La sua parte l’aveva fatta, ma ora doveva escogitare una maniera per impedire che la situazione degenerasse.

Peccato solo che non avesse uno straccio di idea da cui partire.





Gli umani sono esseri davvero complicati.
Almeno, questo avrebbe detto Red, se avesse avuto il dono della parola. Da intelligente scimmia Cresta di Fuoco quale era, sapeva capire più di quanto una persona normale potesse pensare, compiendo gesti che altri suoi simili, invece, trovavano contorti e difficilissimi. Quelle come lei potevano distinguere un frutto marcio da uno buono senza assaggiarlo, organizzare attacchi strategici multipli e anche ideare trappole contro i loro più grandi nemici, i gorilla Pugno di Roccia. Cose semplici, indispensabili per la sopravvivenza del gruppo e di vitale importanza quanto la memoria, ma non estendibili a tutti i campi; in quanto animali, le scimmie Cresta di Fuoco possedevano spiccate abilità, indubbiamente, ma non erano in grado di comprendere l’intricata profondità che rendeva gli esseri umani così diversi da loro, così complicati.
Red non aveva fatto fatica ad ambientarsi fra di loro, si era subito trovato bene, imparando a non mettere dappertutto le sue zampe pelose: i pezzi di carta di Nami e Nico Robin, gli assurdi oggetti metallici multiformi di Sanji e quelli lunghi e affilati di Zoro erano solo alcuni dei molti tabù impostigli per la propria incolumità. Non li doveva assolutamente toccare, specie quando i proprietari li usavano; non che non avesse mai provato a guardarli da più da vicino e ad annusarli come era solito fare con tutto quello che gli capitava in mano, ma Shion era stata chiara e lui non voleva certo correre il rischio di perdere il posto sulla spalla destra di lei. Viveva, mangiava e dormiva lì sopra come se ci fosse stato incollato forzatamente, guerreggiando morbosamente contro quell’acida strega isterica che cercava i tutti i modi di spellarlo vivo. Fosse stato quello il problema attuale, della bella Sunny sarebbe rimasto soltanto un piccolo e grigio mucchietto di cenere, ma gli insuccessi che stava attualmente incassando non riguardavano l’ennesimo accapigliamento con quella stupida rompiscatole.

Shion era lì, di fronte a lui, seduta sull’altalena del ponte di coperta e con il visino più triste che il genere umano avesse mai visto. Un muro incrollabile per il povero Red e per il suo super ciuffo a banana, identico a quello di Franky, ora disfatto; se lo era fatto da solo, con il pettine che il carpentiere gli aveva generosamente regalato insieme a uno dei migliaia occhiali da sole che questo custodiva gelosamente in una scatola sotto il letto. Lui ci aveva provato, a capire che cosa avesse di tanto strano la padroncina da renderla così mogia e poco giocherellona, ma neppure l’inclinare a destra e a sinistra la testa col rischio di svitarla o il compiere acrobazie sul ponte e il rugoso contatto con le sue zampe, appoggiate sopra le ginocchia scoperte della piccina, avevano sortito particolare effetto. Sì, gli umani era veramente troppo complicati, per i suoi gusti.

“Allora?”
“Niente. E’ ancora lì.”
“Yohohoho! E se provassi a suonarle qualcosa?”
“Non penso che funzionerebbe.”


Da un’abbondante mezz’ora, Chopper, Usopp, Franky e Brook si stavano scervellando sul come sollevare il morale di Shion. Fra invenzioni da ultimare, piccole mansioni – e un progettino in dirittura d’arrivo -, avevano fatto a turno per sorvegliarla, nel caso avesse deciso di fare qualcos’altro che non fosse il dondolarsi pigramente sull’altalena, ma senza vedere miglioramenti nel suo umore: stava seduta con lo sguardo fisso sui fili d’erba e non prestando attenzione al balletto improvvisato di Red. I quattro membri della ciurma rimasti a bordo non riuscivano a spiegarsi come fosse stato possibile che la loro piccola amica avesse perso, di punto in bianco, tutta la sua vivacità, perché non era mai capitato che questa sprofondasse in un’improvvisa e così evidente apatia. Era stato fin troppo facile accorgersi di quel cambiamento, ma non altrettanto il farsi coraggio e cercare di identificare quale fosse il problema che tanto la assillava. Il suo faccino roseo era il ritratto per eccellenza di chi aveva bisogno di una risposta, ma non un semplice “Si” o “No”: una risposta lunga, rivelatoria, un’illuminazione che le facesse apparire tutto più chiaro.

Questo, i pirati lo avevano capito, ma nonostante la loro sincera e buona volontà, Shion non aveva accennato ad aprirsi: sembrava preferire di gran lunga il rimanere chiusa a mo’ di riccio, anziché giocare o fare qualcosa che rendesse meno pressante l’attesa. Con il tramonto quasi del tutto consumato, Rufy e gli altri sarebbero dovuti tornare o avvisarli, ma all’orizzonte non si intravvedeva ancora nessuno; c’era solo il sole, il cielo arancione, un mucchietto di nuvole mangiucchiate e un Roronoa Zoro reduce da un intenso allenamento.

“Si può sapere cosa state facendo?” domandò lo spadaccino, passandosi l’asciugamano attorno al collo “Che ha Shion?” domandò poi, guardando nella medesima direzione dei suoi compagni.
“E’ triste, non lo vedi?” gli fece notare Usopp.
“Perché?”
“Non lo sappiamo”, bisbigliò Chopper, con vocina preoccupata.
“Chiedeteglielo”,  suggerì il ragazzo.
“Non ce lo vuole dire”, arrivò Brook.
“Lasciatela perdere, allora.”
“Aw! Fratello! Come puoi essere così insensibile davanti al viso rattristato della sorellina?!” esclamò Franky, indignato.
“Se non vuole parlare, non vedo motivo per cui intromettersi”, sbuffò l’ex Cacciatore di Pirati, incrociando le braccia “Però, se ci tenete così tanto a sapere che cos’ha, potete sempre costringerla a sputare il rospo.”
“Costringerla? Ma che razza di mostro sei?!” strillò il Re dei Cecchini, con i denti aguzzi.
“Cattivo!” lo rimproverò il Tenero Peluche, agitando le zampette.
“Gorilla affettatore”, rincarò la dose il Cyborg.
“Yohohoho! Buzzurro!” si aggiunse per ultimo il Canterino.
“E DATECI UN TAGLIO!” esplose il ragazzo, alterandosi vistosamente.





“Palla! Palla! Torna qui!”
“Shion, dove vai? C’è la discesa! Shion!”

A nulla valse l’avvertimento di Azalea Gallower, quattordicenne, e neo guardia del corpo della piccola Shion Yokozomi, di appena tre anni. I pomeriggi di inizio Luglio erano troppo soleggiati per rimanere chiusi in casa a fare la muffa, specie per una bambina iperattiva e tutta felice di poter finalmente uscire all’aria aperta. Shion correva a destra e a sinistra, lanciando e afferrando al volo il suo nuovo pallone blu adornato di stelline bianche, senza prestare attenzione a null’altro. Abituatasi a marine e omaccioni che avevano provato spudoratamente a palparle il sedere, Azu faticava a starle dietro: i bambini erano di tutt’altro stampo e anche con tutta la buona volontà del mondo, le sue braccia non sarebbero mai riuscite ad acchiappare  quella piccola trottola ambulante. La bambina era troppo presa a giocare per accorgersi della sua fatica, ma come lanciò la palla in alto, la sua bocchina rosea si schiuse leggermente, sospendendo momentaneamente l’allegria: il suo giocattolo stava scendendo a terra, ma lontano da lei, verso la discesa che portava alla spiaggia.

“Palla! Palla!”

Inutili furono i suoi richiami: la palla rimbalzò un paio di volte, per poi rotolare via. Con il suo grazioso vestitino a fiorellini e le mani tese in avanti, Shion cominciò a correre giù per la discesa, muovendo il più velocemente possibile le sue corte gambette. La palla rotolava con sempre maggiore velocità e nonostante l’impegno della piccola - e il suo buffo chiederle di fermarsi -, la distanza fra lei e l’oggetto era troppo grande.

“Aspetta, palla! Asp…Whaaa!!”

Attorcigliatasi i piedi per il correre senza controllo, la bambina finì per sbilanciarsi e cadere in avanti. Fu una fortuna che il sentiero non fosse pieno di sassi o detriti, ma il capitombolare a quella velocità non la esentò dal procurarsi delle belle sbucciature su ginocchia, gomiti e mani.

“Ahia….”, pigolò con voce rotta.

Era finita a faccia in giù. Avvertì il dolore quasi subito: da semplice pizzicore, divenne un bruciore persistente e calcato sulle parti picchiate. L’accorciarsi del fiato e il gonfiore degli occhi per le lacrime si intensificarono non appena riuscì a mettersi seduta, scoprendo che anche il suo bel vestitino aveva risentito del volo. Si era sporcato e strappato, ma la bimba non ci badò e affondò i palmi incandescenti e pulsanti nella gonna impolverata, stringendo le labbra a più non posso; non era la prima volta che cadeva, ma non si era mai fatta tanto male come in quel momento e non occorse molto prima che cominciasse a piangere per il dolore.

“Ahiaaa…sigh, m-mamma…whaa…!”
“E’ tua?”

Il singhiozzare incontrollato diminuì  non appena la bambina si accorse della grossa ombra che la riparava dal sole. Quasi le si annodò la gola nel vedersi porgere il giocattolo creduto perso e non mancò di sbattere gli occhi per l’incredulità: la sua palla era lì, a pochissimi centimetri dal suo nasino, sorretta da uno strano signore che lei non aveva mai visto.

“Allora, piccina: è tua questa palla?” le domandò gentilmente il misterioso individuo.

I secondi passarono, ma Shion non si mosse ne parlò. Con le spalle strette, la boccuccia chiusa e gli occhi immobili, era troppo presa a non riprendere a piangere per dare importanza al fatto che quel tipo era un perfetto sconosciuto e  che aveva la faccia semi-bendata. Un dettaglio notato, ma che non vinse contro il dolore pulsante, che le fece riprendere quel pianto sospeso precedentemente.

“Hai proprio fatto una brutta caduta”, constatò il sorridente sconosciuto, arruffandole amorevolmente la testolina dorata.
“Sniff….whaa…voglio il papà…!”, singhiozzò lei, con i pugni stretti e vicini alle guance.

Lo sconosciuto si fece scappare un altro fievole sorriso; non era esattamente l’inizio che si era prefissato, ma non era neppure così irrimediabile come molti lo avrebbero visto. Appoggiò l’enorme zaino a terra, estraendone una borraccia e un grosso fazzoletto bianco; bagnando d’acqua quest’ultimo, prese in braccio la piccola, tamponandole i graffi e le ferite con attenzione, lasciandola anche sfogare per benino. Fu una buona mossa: pochi istanti dopo, attenuata la botta, gli occhioni azzurri di Shion erano nuovamente puntati su di lui.

“Va meglio?” le domandò lui.

Lei annuì debolmente, ma senza spiccicare una parola.

“Cos’è, di colpo hai perso la parola?”

Stavolta, la piccola rimase a fissarlo, senza neppure muovere di mezzo centimetro la testa.

“Dì un po’, sai che è pericoloso correre in discesa?”
“S-Si, ma la mia palla non voleva fermarsi. Non mi ascoltava”, cercò di giustificarsi lei, con vocina ancora rotta.
“Ah, ma allora la lingua ce l’hai ancora”, ridacchiò il più grande.

Shion provvide a tapparsi immediatamente la bocca, suscitando l’ilarità dello sconosciuto; se sua madre avesse saputo che stava dando confidenza a un perfetto estraneo, sicuramente le avrebbe fatto una ramanzina con i fiocchi, ma il gran pianto e l’indolenzimento del suo corpicino le avevano fatto venire un mal di testa troppo pesante perché riuscisse a concentrarsi su più cose contemporaneamente. Inoltre, le bende che coprivano il viso di quel signore che poi non gli era sembrato così vecchio e i suoi occhi color ghiaccio, non lasciavano spazio a null’altro.

“Perchè hai la faccia tutta bendata?” domandò per l’appunto.
“Sono caduto”, gli rispose placidamente l’individuo.
“Non ci credo. Gli adulti stanno sempre attenti a quello che fanno”, fu la replica della bambina.
“Si vede che non sono un adulto normale.”
“E’ perché hai i capelli grigi? Anche Azu-chan ce li ha e lei è tanto distratta!”

Ricordava quel momento perfettamente. Era uno dei pochi che fossero completi, con tanto di particolari e dettagli che una bambina di tre anni non sarebbe mai riuscita a tenere a mente, ma Shion era speciale, troppo sveglia e attenta per dimenticare qualcosa o qualcuno che le stava tanto a cuore. Lars faceva parte dalla sua vita da troppo tempo, non poteva cancellarlo su due piedi, non era una persona qualunque su cui si potesse tirare una riga e via. Scordare la prima volta che lo aveva incontrato, il suo volto bendato, gli occhi dello stesso colore del ghiaccio……no, non ne sarebbe mai stata capace. La sua voce carezzevole e gentile l’aveva sostenuta in ogni momento, giungendole al cuore come un suono caldo e sicuro. In quanto figlia unica, era bello avere tutte le attenzioni dei propri genitori, ma il vivere su un’isola della Marina comportava anche dei limiti, quali l’amicizia: salvo qualche bel viaggetto, tutta la sua vita si concentrava a Shirama, nella base numero diciassette, con la sua famiglia e la sua istruzione privata.
Azu-chan e Lars erano i suoi più grandi e unici amici: due presenze ampiamente consolidate nella sua vita, perfettamente alla pari con la sua mamma e il suo papà. E la tristezza che imbrigliava ogni singolo centimetro della sua piccola anima ingenua , era la prova di quanto tenesse al legame che li univa.
Aveva trascorso le ore successive allo sbarco stando seduta sull’altalena, dondolandosi ogni tanto, ma senza uscire da quell’antro profondo e silenzioso dentro cui si era rintanata. Capire le era impossibile, così come l’aggrapparsi a qualcosa di allegro e sorridere con spontaneità; l’apatia dipintasi sul suo viso respingeva ogni tentativo, inibendo la vivacità che avevano sempre reso particolarmente luminoso l’azzurro dei suoi occhi. L’arrivo a San Lorein si era rivelato radicalmente diverso da come se lo era aspettato e il freddo comportamento di Lars l’aveva fatta indietreggiare da qualsiasi intenzione venutale in mente. Non c’era stata alcuna spiegazione o una frase che la rassicurasse: solo un ordine conciso e riluttante ad accettare repliche. Una novità sconcertante per lei, abituata a ben altro tipo di voce.

Lars era stato duro, più silenzioso del solito, ma dopo quanto aveva visto, Shion non aveva avuto più bisogno di chiedere il “Come” e il “Perché”. Non era ancora brava a formulare ragionamenti complessi o lunghi, però non era così piccola da non accorgersi di quello che le stava intorno, specie se si trattava di persone che conosceva sin dalla più tenera età. Che quell’isola bianca rappresentasse una qualche memoria dell’amico, questo lo aveva realizzato, ma non era stato lo scoprire quell’inaspettato legame o il repentino cambiamento dell’albino a farla rabbuiare sino a quel punto. L’aveva scossa, certo, ma il venire messa da parte e il non riuscire a fare niente….quello le pesava veramente.
Il rimanere sulla Thousand Sunny con il solo e misero compito di fare la brava e aspettare, le aveva aperto gli occhi su una realtà che si era sempre limitata a guardare fino ad un certo punto: Lars l’aveva aiutata così tante volte, che lei era sicura che un giorno all’altro avrebbe ricambiato il favore, dimostrandogli di essere diventata forte. Sognava di viaggiare ovunque ci fosse un indizio che contribuisse alla ricerca di Endora, di scoprire le meraviglie che ancora si nascondevano all’occhio umano; non aveva mai mostrato cedimento davanti all’insistenza del suo professore, aveva sempre sostenuto le sue idee con tutta la testardaggine di cui era capace, rivelandosi l’avversario più cocciuto che quel vecchio bacucco avesse mai incontrato. L’ostinarsi era il suo modo di mettere in risalto quella vivace grinta che aveva ereditato da suo padre, un punto a favore di cui era sempre andata orgogliosa, in un certo qual senso.

Eppure….la facilità con cui era stata lasciata indietro, con la quale era stata messa da parte, aveva distrutto quella certezza in un solo colpo.
Non era per cattiveria che l’albino le aveva detto quelle cose, ma il sentirsi negare la possibilità di fare qualcosa, di essere d’aiuto, andò a rafforzare ulteriormente quel malessere interiore. Sembrava divertirsi a sottolineare quanto poco potesse fare una bambina di undici anni, alle cui spalle vantava già un paio di rapimenti - di cui uno era all’oscuro -, e il ricordare l’abissale differenza che stava fra le sue capacità e quelle dell’albino, la fece sospirare per l’ennesima volta.

“Oi, com’è che hai quella faccia?”

Al sentirsi chiamare, Shion sobbalzò all’istante, facendo scattare la testa all’insù con la stessa velocità di una molla-giocattolo. Zoro era di fronte a lei, con l’occhio severo e autoritario puntato sulla sua testolina e su quella di Red, nascostosi fra le sue gambe.

“Ciao, Zoro”, lo salutò piano la bambina, asciugandosi velocemente gli occhi umidi col dorso della mano.
“Allora? Che ti succede?” le domandò nuovamente il più grande.
“N...Niente. Voglio solo stare un pochino sola”, rispose lei, titubando appena.

Dedicandole un altro paio di secondi, lo spadaccino la osservò ancora, interpretando il suo lungo silenzio come un non voler continuare a parlare. Era troppo sudato e assetato per fare qualcosa che non fosse il passarsi l’asciugamano sui muscoli e, in tutta franchezza, preferiva impiegare il proprio tempo in qualcosa di più redditizio di una lunga conversazione. L’immagine del sakè comprato dal cuocastro gli ronzava in testa sin da quando aveva messo giù i pesi e vista l’assenza di quest’ultimo, una bevuta coi fiocchi non gliela toglieva nessuno.

“Zoro.”
“Che c’è?” il solo sentirsi chiamare, mandò letteralmente in fumo il suo progetto.
“Se tu….se tu avessi un amico, ma non riuscissi ad aiutarlo…”, iniziò Shion, incespicando con le dita e con le parole “Cosa faresti?”

Come se quella fosse stata una domanda a dir poco indicibile, il ragazzo torse il collo verso la bambina, aggrottando la fronte abbronzata.

“Si, ecco….”, continuò lei “A me piacerebbe aiutare una persona, perché so che non sta bene, ma quando ci ho provato…..”
“Non ci sei riuscita, giusto?”
La bambina annuì debolmente “La guardavo da un po’…sapevo ce c’era qualcosa che non andava, però sapevo anche che non è bello impicciarsi delle cose degli altri. Io volevo…volevo solo….”

Era cosciente di doversi spiegare un pochettino meglio, ma la sua voce si rifiutava di obbedirle. L’immagine di Lars era impressa nella sua testolina e non accennava a volersi schiodare; le emozioni, i sentimenti, tutti i ricordi costruiti erano lì, insieme a quello sconfinato affetto che la univa al ragazzo. Le regalavano un piacevole tepore all’altezza del torace, un sollievo che si accompagnava sempre a un suo piccolo e sincero sorriso. Un dono che aveva provveduto a sostituire la sua curiosità col volere vedere sempre sereno l’albino e sua sorella. Le bastava questo, cosicché la loro amicizia durasse per sempre, ma lo scoprire la propria debolezza e quel brutto peso che la opprimeva aveva oscurato e oscurava tutt’ora quei bei momenti passati. Non riusciva a dargli un nome adatto, era inesprimibile, nonostante lo percepisse nitidamente; calcava la mano in ogni suo angolo emotivo, la scoraggiava e annebbiava ogni soluzione a cui potesse arrivare.

E poi, c’era quella domanda che la spaventava....

“Zoro, secondo te sono debole?” chiese timidamente la piccina, amareggiata.

Seguì un silenzio dalla durata interminabile, dove l’occhio smeraldino del pirata la suggestionò così tanto da farla riprendere a parlare.

“Ecco, io ho… sento come un peso”, confessò lei, indicandosi il minuto torace “E’ così strano, sta sempre nello stesso punto e non riesco a toglierlo. Mi viene ogni volta che penso a La…cioè, a quella persona, ma non so come si chiama…”, si corresse subito “Tu lo sai?”
“No. Non mi è mai importato dare un nome alle cose. Se vanno contro al mio obbiettivo, le affronto e basta. L’esitazione mi costerebbe la vita”, le rispose concisamente.

Il che sottointese l’inutilità del suo cruciarsi per qualcosa di così apparentemente invalicabile. Parlare non era il forte dell’ex Cacciatore di Pirati, ma Shion capì all’istante cosa volesse dirgli con quella frase: era debole agli occhi del ragazzo. La cosa la ferì più di quanto avesse previsto e neppure il ringhiare di Red e il vociare indignato del resto della ciurma – opportunatamente nascosto dietro l’albero maestro - le sollevò il morale.
Zoro non conosceva mezze misure: lui era un tipo che preferiva l’azione al riflettere, l’immediato al prolungato. Un modo di fare che andava a nozze con quello del capitano. L’orgoglio e l’istinto di spadaccino si mischiavano con le sferzate scintillanti che le sue lame producevano negli scontri, caricando l’aria di tensione elettrica e scintillii di colori indescrivibili. Combattere con le proprie spade, allenarsi morbosamente come solo un pazzo devoto alla propria scelta sapeva fare, equivaleva a respirare. Il sangue si scaldava, gonfiandosi di adrenalina e tutto il corpo diventava più leggero, troppo se non si faceva attenzione. Una sensazione palpabilissima, che vibrava ogni qualvolta il ragazzo stringeva l’elsa delle proprie katane, da tenere attiva con la propria ostinazione. La sua intera esistenza si riduceva a ben poche cose, tutte importanti, tutte riunite su quella nave. Ma c’era una domanda che poteva incrinare quell’ammirevole costanza. Una domanda così naturale e spontanea che Shion non aveva faticato a formulare nella sua piccola e pensierosa testolina.

“Esitare è pericoloso..”, mormorò fra sé e sé. Poi, alzò la testa automaticamente “Ti è mai capitato di farlo? Di esitare?”
“Come a chiunque”, le rispose, grattandosi distrattamente la chioma verdastra “Con la differenza che ho imparato a tenere lontano il lusso di concedermelo.”

Anche uno come lui, che non si era mai tirato indietro o rifugiato in una qualche realtà illusoria, aveva sperimentato a proprie spese quanto le parole – in particolare, quelle più salde e importanti – potevano venire spezzate.

Mihawk era stato il primo a mostrarglielo, Orso Bartolomew il secondo.
Entrambi maledettamente forti, entrambi maledettamente irraggiungibili e fin troppo capaci di rompere le sue due più solide promesse. Lo spadaccino più forte di tutti gli oceani aveva squarciato la sua carne e la sua presunzione con un solo fendente, costringendolo ad aprire gli occhi su quanto lavoro dovesse ancora fare per realizzare il sogno suo e di Kuina, mentre l’altro lo aveva fatto scomparire da Shabondy, sancendo quella seconda sconfitta che, teoricamente, non avrebbe mai dovuto verificarsi.
Era stato umiliante, devastante e, cicatrizzate o meno, quelle ferite influivano tutt’ora sulla sua volontà.

“Cos’è? Pensavi che non fosse possibile?” le chiese Zoro, notando l’espressione incredibilmente sorpresa di lei.
“Ah…io…si”, ammise lei, arrossendo e gesticolando nuovamente con le dita “Io vi ho sempre visti così forti….” si interruppe nell’accorgersi di come l’occhio smeraldino dello spadaccino la stava osservando con maggiore autorità; sapeva di tacito rimprovero e provvide a legarsi la lingua.

Nonostante volesse un mondo di bene al suo papà e al lavoro che faceva, il mondo piratesco l’aveva sempre affascinata. Sua madre era sempre stata contraria a parlarne, considerava quella realtà pericolosa e piena di persone spregevoli, ma questo non aveva impedito alla bambina di avere un quadernino pieno di foto segnaletiche e ritagli riguardanti i fuorilegge che più l’affascinavano. Aveva sempre ammirato i pirati di Cappello di Paglia, ma non aveva mai riflettuto sul fatto che anche loro fossero degli esseri umani.

“Scusami, Zoro, io non…”, tentò di rimediare la piccina.
“Non devi: due anni fa la pensavo esattamente come te”,  la fermò lui.
“Eh?”
“Pensavo di essere forte, abbastanza da sconfiggere qualsiasi ostacolo mi si parasse davanti”, le rivelò, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei “Ho giurato sul mio onore e a Rufy che non avrei mai più perso contro qualcuno. Ne valeva del mio sogno e di una promessa che ho fatto a una mia amica, ma venendo a meno sia a questa che a quella fatta al capitano, non ho fatto  altro che deludere me stesso.”

Mandare al diavolo il proprio orgoglio di uomo, chinare la testa davanti a quello che rappresentava il suo più grande ostacolo per la realizzazione del proprio sogno e riconoscerne la superiorità era stato necessario e bruciante allo stesso tempo . Lo aveva fatto di sua spontanea volontà, senza nessuno che gli puntasse una pistola alla tempia, con la chiara consapevolezza di dover mettere da parte la propria testardaggine per poter migliorare come desiderava.

“Però, adesso sei qui”, mormorò Shion “E sei forte.”
“Lo sono perché voglio esserlo”, le rispose severo. Poi, con un gesto del tutto inaspettato, allungò il braccio verso di lei e le picchiettò il dito indice contro la fronte “Piagnucolare non ti servirà ad aiutare le persone che ti stanno a cuore. Non stare a chiederti cosa puoi fare, concentrati su cosa sai fare e impegnati di conseguenza. Diventa più forte.”
“Concentrarmi…su cosa so fare?” ripeté, scandendo lentamente le parole dettele.
Diventare più forte?

Se non si riusciva in una cosa, ci si riprovava ancora e ancora. Impegnarsi e non arrendersi, capire e far proprio l’errore commesso. Questo significava migliorarsi, diventare più forte, ma nonostante ciò le fosse stato ben insegnato, a Shion suonò come qualcosa di nuovo e di mai udito prima.

“Scusa, Zoro, non ti seguo bene…”, si mostrò confusa lei.
“Ognuno di noi ha il proprio ruolo, su questa nave”, cercò di venirle incontro lui “Io sono uno spadaccino perché ho deciso di seguire la via della spada e se venissi meno a questo stile di vita, disonorerei  me stesso e i miei compagni. Sono quello che sono per le scelte che faccio e per quello che so fare ed è questo che mi permette di essere forte e proteggere gli altri della ciurma. Tu sei tu per le stesse ragioni, devi solo capire cosa puoi fare con quello che hai.”
“Quello che ho?”

Corrucciò il visino rosato, intensificando lo sforzo contro quel disordine che regnava nel suo minuto corpicino; c’era un continuo accavallarsi di sensazioni strane, parole e tutta una serie di cose che Shion non riuscì neppure ad afferrare in maniera grossolana e generale. Stava con le spalle al muro, senza niente che la potesse aiutare, senza qualcosa che le permettesse di comprendere quali, fra le poche cose che sapeva fare, fosse la più giusta per aiutare Lars. Il puro e innocente affetto che serbava nel suo cuoricino scalpitante non faceva altro che imporle quel riflettere mai sperimentato, quello scavare in se stessa al fine di trovare la risposta a tutte le sue preoccupazioni. Chiedere aiuto non era ammesso: le sfumature verdastri che dipingevano l’occhio smeraldino di Zoro erano riluttanti all’idea di qualsiasi appoggio o indizio che le facilitasse il compito. Perfino Red se ne era accorto.

“Penso di aver capito quello vuoi dire” esordì poi la piccola, col morale più allegro e saltando giù dall’altalena “Grazie, Zoro! Ci rifletterò su!” e corse via con la scimmia Cresta di Fuoco appresso.
“Buon per lei”, bofonchiò quello, massaggiandosi il collo.
Se non altro, ora poteva dedicarsi alla ricerca del sakè in tutta tranquillità. Conoscendo quel dannato cuoco riccioluto, doveva aver sicuramente imboscato le bottiglie in uno dei nascondigli segreti della cucina.
“Zoro.”
Non era nemmeno arrivato a metà della rampa di scale, che il ragazzo dovette girarsi e guardare il visino di Shion sorridergli.
“Adesso che c’è?” brontolò lui.
“Secondo armadietto a destra dei fornelli” disse lei, con le mani dietro la schiena.
“Eh?” e la guardò con la fronte aggrottata. Ma che accidenti voleva dire?
“Ha un doppio fondo”, gli rivelò la piccola “E’ lì che Sanji nasconde il sakè, ma non dirgli che te l’ho detto io.”
Un  grato e furbesco ghigno fece capolino sulle labbra del pirata “Sarò un tomba”, le assicurò.
 
 



Un aggiornamento prima delle vacanze natalizie mi sembrava giusto, visto che è da una vita che non aggiorno questa storia. Chissà che durante le vancanze non mi venga la giusta ispirazione. Auguro a tutti voi un felicissimo Natale e un indimenticabile Capodanno! A presto!

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Capitolo 21
*** Promessa/ L'interrogatorio dell'arpia argentata. ***





Quando le luci del tramonto lasciarono definitivamente il posto alla sera, il palazzo di San Lorein arrivò pericolosamente a sfiorare l’illusione di essere l’incarnazione della pace. Niente voci, niente passi… niente di niente. Il massimo che si poteva sentire, era il piacevole zampillio delle fontane, il battito d’ali dei pochi colombi ancora fuori dai loro nidi e il respiro mozzato di Lars.
L’albino si stava allenando, come ogni giorno, non curandosi del tempo trascorso. Si era trovato uno spiazzo interno e aveva impegnato il suo corpo in una serie di esercizi che ancora non avevano stancato i suoi muscoli tesi e incandescenti. Sarebbe stato più comodo andare al campo d’addestramento, ma considerata la sua posizione aveva preferito rimanere nei paraggi ed accertarsi che le acque rimanessero piatte fino all’indomani. I pochi pensieri che gli vorticavano in testa sortivano lo stesso effetto di una doppia carica di adrenalina, ma era abbastanza padrone di se stesso da convogliare il tutto e dargli sfogo anche in un piccolo angolo del palazzo come quello.
Oltretutto, a breve sarebbero arrivati anche gli altri e voleva verificare di persona lo status della situazione.
Non avrebbe mai pensato di tornare a San Lorein, ne avrebbe immaginato che il viaggiare con Rufy ce lo avrebbe involontariamente riportato, eppure adesso era lì, di nuovo. E con in programma un combattimento con Eliah, per giunta! Scosse la testa, appoggiando il pollice e l’indice della mano destra a terra, per poi issarsi su e iniziare una sessione di verticali.
Doveva concentrarsi, sfruttare tutta la sua astuzia per assicurare che quei due giorni scivolassero via come l’olio. A meno che le previsioni del tempo non annunciassero un’eminente pioggia di giornali, l’isola era completamente tagliata fuori dal mondo intero e con il signor Eliorath dalla sua parte, il suo vantaggio assicurava già metà dell’impresa.

“Ciao.”

Stava per compiere la quarantasettesima flessione in verticale, quando Shion lo chiamò. Era poco distante, ferma sulla cima di una cortissima rampa di scale e con l’orlo della gonna azzurra tenuto in ostaggio dai suoi pugni. Una piccola presa di coraggio di cui cercava sempre di avvalersi per non cedere e continuare imperterrita a difendere una qualche sua convinzione.

“Che ci fai qui? Ti avevo detto di aspettare il mio ritorno”, le disse, lasciando cadere in avanti il proprio peso e tornando a sorreggersi con le sole gambe.
“Lo so, ma un soldato è venuto a dirci che potevano scendere e…”
“Non dovevi comunque venirmi a cercare, da sola perlopiù”, la rimproverò duramente, dandole le spalle per raccogliere il gilè nero “Se non ci sono io, devi stare con Azu e fare quello che ti dice.”

Freddo, conciso e tagliente. Altri aspetti nuovi per Shion, che aprì la bocca per dire qualcosa, ma che chiuse subito, abbassando lo sguardo e rialzandolo dopo poco. I suoi occhietti erano come impazziti, indecisi se parlare fosse giusto o sbagliato, e in tutto ciò, la sua gonnellina azzurra era ancora tenuta strettamente in ostaggio. Un inizio quanto mai disastroso, ma sembrava niente in confronto a quello che stava per arrivare; Lars era molto intuitivo e nella sua esitazione lesse tutto quello che gli occorse per inclinare il viso e guardarla con cipiglio indagatore.

“Azu non c’era, vero?”

E dopo alzato e abbassato gli occhi per l’ennesima volta, la bambina annuì.

“Quella cretina…!” si ritrovò a sbottare il ragazzo, in un sibilo che conteneva a malapena la sua rabbia.

Strinse il pugno e serrò la mascella, lasciando che la frangia argentata nascondesse la sua voglia di tirare uno scappellotto alla sorella. Stavolta niente gli avrebbe impedito di svitare la testa a quella sconsiderata, ma a perdere di punto in bianco le staffe non ci avrebbe giovato nessuno, in primis lui e alla buona razione di problemi appioppatigli addosso.

“Shion, sai che non voglio che vai in giro da sola in posti che non conosci”, sospirò con voce più rilassata.
“Sei arrabbiato?” pigolò la piccola, sempre con la testa raggomitolata nelle spalle.

I loro occhi si incrociarono di nuovo, ma dalle labbra di Lars non uscì alcun suono. Nessun “Si” e nessun “No”. Solo silenzio. Non c’era mai stato così tanto disagio fra di loro e nel mordersi il labbro inferiore, la bambina sentì qualcosa montarle dentro.

Piagnucolare non ti servirà ad aiutare le persone che ti stanno a cuore. Non stare a chiederti cosa puoi fare, concentrati su cosa sai fare e impegnati di conseguenza. Diventa più forte.

Le parole di Zoro erano state ferme, autoritarie e concise. Perfette per quella scrollata di cui aveva tanto bisogno. Nessuna gentilezza, nessuna carezza o consiglio dato con un buon cucchiaio pieno di miele: solo uno spintone in avanti e tanta polvere da cui rialzarsi. Lars adesso era come un altissimo muro dalla fine non definita. Lei non poteva abbatterlo con la forza bruta, ne era stata dispiaciuta, ma nessuno poteva impedirle di offendersi per come lui la stava ignorando. Quello strano montare era la sua rabbia ridotta ad un sempre più intenso corrugamento della fronte e se la tratteneva un altro po’, rischiava di scoppiare come un palloncino.

Accidenti! Va bene che aveva solo undici anni e non poteva ancora affrontare certi argomenti, ma c’era un motivo preciso se i suoi voti di alunna privata erano alti!

“Lars?” Tentò ancora, pronunciando il nome del ragazzo velocemente, quasi a voler evitare che la sua  voce si lasciasse sfuggire quanto stava pazientemente trattenendo.
“Hey…”

Aspettò un secondo, due, tre…nove…
Al cinquantesimo secondo passato a guardare la grande schiena di Lars, sperando che le sue larghe spalle larghe muscolose si girassero verso di lei, Shion inspirò così tanto ossigeno dal naso che le narici le si gonfiarono e arrossarono all’unisono. Mollò la gonna per piegare le braccia e serrò ancor più i pugni sotto il mento. Voleva la guerra? E avrebbe avuto la guerra.

“Insomma! Non fare finta di non sentirmi e guardarmi!”

Un piccolo stormo di colombi scappò via, spaventato, e tutto il resto parve appiattirsi come soleva fare l’erba sotto il soffio del vento. Aveva strillato forte abbastanza da trasformare il suo piccolo viso in un tondo e luminescente pomodoro, ma era riuscita ad ottenere quello che voleva: gli occhi di Lars erano tutti per lei, con i loro spicchi azzurrini e le sfumature color neve. Gelidi, severi e con tanta imperscrutabilità a riempirli.

“Io lo so che lo sei. Arrabbiato, intendo”, riprese con decisione “Puoi fare finta di niente, non parlarmi più e ignorarmi se vuoi, tanto non cambierà niente: tu sei e rimarrai sempre il mio migliore amico, e…e non mi importa di nient’altro!!”

Urlò così forte che le sue corde vocali rischiarono di staccarsi.
Si rese conto di quello che aveva fatto una manciata di secondi dopo, con le nocche completamente sbiancate e il respiro accelerato. Sussultò pesantemente, perché gli occhi di Lars erano ancora lì, a guardarla, con una strana e sinistra luce a illuminarli e a bloccare qualsiasi suo pensiero.
L’aveva combinata grossa, in tutti i sensi, e l’essersi tolta un peso dalla coscienza non la stava aiutando a non volersi fare piccola come una formica e nascondersi da qualche parte. Il coraggio era scivolato via fin troppo rapidamente, intimidito da tutto il gelo che Lars trasmetteva con il semplice sguardo. Non era mai stata abituata a vederlo tanto a lungo ed ebbe l’impressione che questo, con la sua uscita, si fosse arrabbiato ancora di più.

Quando poi lo vide salire lentamente le scale, non poté evitare di prendere il labbro inferiore delle labbra con i denti. Il suo cuoricino scalpitava peggio di un puledro imbizzarrito, come se stesse per ricevere il più grande rimprovero della sua vita, e neppure seppe come fece a nascondere il timore dietro alla cocciutaggine. Si ritrovò ad aspettare ancora, con più ansia, ma quando Lars fu sul suo stesso piano e le si inginocchiò davanti, le ci volle tutta se stessa per non mollare la presa sul proprio labbro e tenere alto il suo broncio da battaglia, mentre questi posava una delle sue mani sopra la sua testolina dorata.

“Hai imparato ad essere insistente, eh, Shion?” le domandò con un sospiro divertito.
“Certo, se fai finta di non sentirmi…”, borbottò lei, abbassando gli occhi e gonfiando contemporaneamente le guance “Solo perché sei bravo a combattere, non significa che non devo preoccuparmi per te.”
“Non ho mai detto questo.”
“Invece si e non mi importa! Anch’io posso essere forte e difenderti!” scattò lei, scuotendo energicamente la testa.

Adesso poteva permettersi di distogliere lo sguardo. La tempesta era passata, Lars era tornato a sorridere e il suo piccolo mondo aveva ritrovato il giusto equilibrio. Shion ne era sicura e le bastava, anche se non tutto si era sistemato e le cose dettele da Zoro faticavano ad apparirle del tutto chiare. Si era ripromessa di rifletterci su, per capire cosa effettivamente l’amico avesse voluto dirle, ma poi era scesa dalla nave e aveva pensato bene di trovare Lars anche a costo di  farsi guardare male da ogni singolo abitante di San Lorein. In parte ci era riuscita, perché tutta la scorta di soldati che li aveva condotti a palazzo e una buona manciata di curiosi sembravano non aver mai visto una bambina con una scimmia a presso - anche se a scatenare il panico totale ci aveva pensato Brook -, ma al momento non ci aveva fatto caso.

“Tu sei mio amico. Il mio migliore amico”, ripeté subito, con i pugni tremanti “ E gli amici si difendono sempre. Se tu puoi farlo con me, perché io no?” domandò poi.

Gli occhi lucidi di Shion assomigliavano pericolosamente a tantissime pietre d’acquamarina frammentate. Lars li aveva visti diverse volte in quello stato, ma i ricordi associati rievocavano soltanto delle brutte cadute e non riuscì a trattenersi dal sorridere: era arrabbiata e anche frustrata, eppure non avrebbe mai potuto chiedere miglior forma di rincuoro di quella. 

“Hai ragione, scusa”, le sorrise, nel prenderla in braccio “Dimentico sempre con chi ho a che fare. D’ora in poi starò più attento.”
“Ecco, tienilo a mente”, borbottò lei, mordendosi il labbro inferiore.
“Ehi, non ti metterai mica a piangere, adesso”, ridacchiò l’albino.
“C..Certo che no!” esplose lei, scuotendo il capo e voltando la testa “Sono grande e i grandi non piangono! Fallo tu, se vuoi!”
“Sicura, Shion?”

Anche se fosse riuscita a fare la sostenuta e a tirare su il naso per più di cento volte senza mai asciugarselo, Shion non sarebbe mai stata in grado di resistere quando Lars pronunciava il suo nome con così tanta gentilezza. Senza accorgersene, nascose il visetto arrossato e bagnato nell’incavo del collo dell’albino, rannicchiandosi contro di lui e singhiozzando silenziosamente, non appena sentì la grande mano di lui accarezzarle i corti capelli dorati.

“Hai avuto paura che me ne andassi per sempre, vero?” le domandò lui piano.
“Un…un pochino”, ammise la protetta con voce sottile e rotta “Sei sembrato così lontano e credevo che …”
“Lo so.”

Era come se fra loro due si fosse alzato un muro alto quanto il cielo e spesso più della terra stessa. Per la prima volta la sua voce non era riuscita ad attirarne l’attenzione, si era spenta, trasformandola in un’ombra. Aveva avuto paura, Shion, paura di perdere Lars, la sua sicurezza e il senso di protezione che le infondeva. Non c’era nessuno che con un semplice sguardo o sorriso potesse capirla meglio di lui, c’era una complicità affiatata e radicalmente diversa da quella che aveva con il padre, la madre e Azu-chan. Era freddo, di poche parole e con una glacialità negli occhi da far rabbrividire chiunque, ma con lei era sempre stato gentile, comprensivo anche con gesti silenziosi e non voleva perderlo. Per nessuna ragione al mondo, voleva vederlo allontanarsi e non tornare mai più.

“Non voglio che tu te ne vada via”, sussurrò lei.
“Starò con te fino a quando ne avrai bisogno”, la rassicurò lui, stringendola un po’ di più “Quando sarai pronta per inseguire il tuo sogno dovrai cavartela con le tue forze, ma ricordati che non sarai mai da sola: avrai tutta la nostra fiducia ovunque andrai e qualunque strada deciderai di percorrere. Fino allora, ti proteggerò sempre, d’accordo?”
“S…Sì”, fu la debole risposta della bambina, che ancora si ostinava a rimanere col viso nascosto.
“Andiamo: come faccio a esserne sicuro, se non mi fai neppure vedere un sorriso?” ridacchiò lui.

Shion non avrebbe voluto staccarsi da dov’era e neppure alzare la testa di mezzo millimetro, ma se era Lars a chiederlo lo avrebbe fatto volentieri. Adesso era tutto a posto, completamente.
Alzando pigramente la testolina, si asciugò gli occhi arrossati con il dorso della mano, per poi sorridere davanti allo sguardo sereno dell’albino.

“Ecco, così va meglio.”




Era andata così. Un veloce scambio di parole e tutto si era sistemato. Nel suo piccolo, Shion aveva fatto intuire a Lars quanto aveva di più caro nei suoi confronti, riuscendo a distrarlo dalla tensione che neppure tutti esercizi compiuti sotto la luce del sole erano riusciti a smaltire. A volte bastava semplicemente essere rassicurati perché tutto rallentasse e anche se un tipo freddo come l’albino sembrava non averne bisogno, in realtà ne necessitava come qualunque altro essere umano.
Una volta riunitisi con gli altri, il problema scomparve definitivamente dietro l’euforia della cena. Un’intera giornata passata a San Lorein avrebbe fatto desiderare a chiunque che un meteorite le si schiantasse contro e che Eliah bruciasse per l’eternità fra le fiamme dell’inferno, ma la buon’anima del signor Eliorath aveva avuto l’accortezza di trasformare la cena in un momento festoso, dove la ciurma di Cappello di Paglia potesse divertirsi.

“Sugoi! Questa carne è buonissima!” esclamò Rufy
“Ehi! Era la mia!” protestò Shion, rubando per ripicca dal piatto del ragazzo di gomma delle patate.
“E quelle erano mie!” si lamentò il capitano, rubando per la seconda volta un'altra fetta di carne appartenente alla piccola.
“Smettila e mangia il tuo di cibo!” esclamò la piccola, puntandogli la forchetta contro.
“Solo se non rubi il mio!”
“Ma hai cominciato tu!” 

E in men che non si dica,  i due cominciarono a duellare con le posate.

“La nostra principessina ha ritrovato il buon umore”, constatò Sanji, dall’altra parte del tavolo.
“Già, sono contento! Anche Red ne è felice”, aggiunse Chopper, lanciando una veloce occhiata alla Scimmia Cresta di Fuoco, tutta presa a dar man forte alla padroncina.
“Yohohoho! Sono così euforici, che mi è venuta voglia di cantare!” esclamò Brook, salendo sul tavolo con la sua chitarra.
“Aw! Dacci dentro, testa d’osso!” lo appoggiò Franky, pronto ad accompagnarlo con il suo ukulele.
“Siii! Suonaci qualcosa!” arrivono Usopp e Chopper, levando le braccia in alto.
“Fermi lì! Niente musica!” sentenziò Nami, bloccando il tutto sul nascere.
“Ma, Nami! Che festa è senza musica?” protestò il capitano, distraendosi dalla sua pseudo lotta a suon di forchettate con Shion.
“Questa non è una festa e non siamo qui per fare baldoria!” gli ricordò con uno dei suoi scappellotti “Siamo ospiti e non del tutto desiderati, perciò diamoci una regolata!”

La birra portata di nascosto non sembrava essere stata sufficiente se Nami era ancora abbastanza lucida da rimproverare Rufy e gli altri. Salvo il fatto che anche da ubriaca sarebbe stata comunque capace di governare la nave nel mezzo di una tempesta, la navigatrice sembrava aver dormito su un letto di chiodi, tanto era rigida e poco incline dal lasciarsi andare. La cosa non le andava giù, perché non era certo una persona incapace di divertirsi quando l’occasione capitava al volo, ma quel posto proprio non riusciva a digerirlo, non ce la faceva essere completamente spensierata come gli altri, e sapeva che col suo atteggiamento rischiava di rovinare l’unico attimo felice di tutta quell’orrenda giornata.
Appoggiandosi allo schienale della sedia, sospirò con gli occhi chiusi, per poi riaprirli immediatamente nel sentire una mano rugosa appoggiarsi sul dorso di una delle sue. Alla sua destra, il signor Eliorath le sorrise con cordialità.

“Tranquilla, Nami. Non c’è bisogno di alcuna formalità”, la rassicurò l’anziano, divertito dalla situazione creata “Era da una vita che non partecipavo a una cena così movimentata.”
“Bisho? Fo gige aie gui! (Trad: Visto? Lo dice anche lui)” mugugnò il ragazzo di gomma, con la bocca piena.
“Rufy! L’hai fatto ancora!” strillò Shion nel vedersi portare via un altro pezzo di carne conquistato duramente.

Attingendo a tutta la sua pazienza, la rossa si astenne dal rispondere, preferendo sorvolare sulla mancanza di educazione del capitano e sullo strambo balletto che Chopper, Usopp e Franky stavano eseguendo. Li guardò giusto per tre secondi prima di sospirare una seconda volta e arrivare alla conclusione che era inutile preoccuparsi più del dovuto. Anche lo sguardo verde-acqua di Nico Robin, seduta alla sinistra di Shion, le suggerì di non prendere troppo sul serio la loro condizione e di lasciarsi trasportare dalla corrente. 

“Se proprio volete fare festa, aspettiamo almeno Azu. Non è ancora tornata”, concesse lei.
“E’ vero. Non c’era neppure quando siamo arrivati. Chissà dov’è finita…”, si domandò Usopp, guardando la porta della stanza.
“L’ultima volta che l’abbiamo vista, era in biblioteca con noi. E’ da lì che l’abbiamo persa”, ricordò Nico Robin “Lars, tu non l’hai vista?”

Seduto a pochi passi dal signor Eliorath, l’albino sollevò le palpebre pigramente, come se lo sforzo gli costasse più del dovuto. Era difficile capire che cosa gli passasse per la testa, ma di certo non era preoccupato per la sorte della sorella: chi meglio di lui conosceva quell’inguaribile testona?

“No, ma non è il caso di allarmarsi. Vedrete che tra un po’ arriverà”, rispose lui, incrociando le braccia.
“Sei sicuro? Guarda che è via da un bel po’”, gli fece notare il Cyborg, alzando gli occhiali col pollice.
“Decisamente troppo”, si inserì Gamba Nera, espirando una lunga boccata di fumo “Con tutti i malintenzionati che ci sono, non vorrei che fosse stata aggredita.”
“Yohohoho! Molto improbabile! Il destro di Azu-san è assai incisivo!” esclamò il Canterino, memore delle periodo passato in infermeria, a causa del suo voler spiare a tutti costi la suddetta mentre si faceva la doccia.

Sorvolando sul siparietto che ritraeva sua sorella come una furia indemoniata capace di spedire all’obitorio chiunque pensasse di palparle il sedere, non c’era da stupirsi se quest’ultima non si vedeva ancora: San Lorein si era fatta conoscere subito, gli abitanti pure, e il carattere dell’albina non passava di certo inosservato. Perfino la piccola Shion stava nutrendo dei timori, seppur la sua testa fosse rimasta bassa. Azu era tutto fuorché silenziosa e lo scoprire il suo goffo pedinamento si era rivelato tanto facile quanto capirne le intenzioni; anche se non fosse riuscita a ottenere qualcosa lo avrebbe costretto a parlare, dandogli il tormento fino a quando non si fosse sentita soddisfatta o usando la sua testa come un punching ball. Sperare che accettasse un suo silenzio o una risposta ponderata e riflessiva era fuori discussione, la sua impulsività la accecava su molte cose – comportamento compreso -, ma a controbilanciare tutti i suoi difetti c’erano i pregi, quelle qualità che l’albina nascondeva in fondo al cuore, dietro all’orgoglio e agli sbuffi, al fine di non apparire sdolcinata e mielosa; lo avrebbe linciato vivo, se solo avesse osato proferire parola al riguardo.
Con quanto era accaduto in quelle ore, non era sicuro di voler sapere che cosa Azu avesse detto a Eliah o che cosa avesse combinato, ma il suo sesto senso gli suggeriva di non perdere d’occhio la porta della sala e di prepararsi all’impensabile.

“Non dovete preoccuparvi, vi dico”, ripeté Lars calmo “Mia sorella è una testa calda, su questo non ci piove, ma non rischierebbe di spedirci tutti in prigione per orgoglio personale.”
Non da lucida, almeno, intervenne subito la sua scettica coscienza.
“Uhm….se lo dici tu, Lars”, mormorò dubbioso il Tenero Peluche.
“Tranquillo, Chopper! Azu è una tipa tosta, figurati se si fa prendere da qualcuno!” esclamò convinto il ragazzo di gomma.
“Grazie per la fiducia, Rufy.”

La porta si era aperta senza cigolare o stridere, cosicché nessuno se ne rendesse subito conto. Azalea era finalmente tornata, ma qualcosa in lei non quadrava per niente e non si trattava certo del fatto che tutti avessero iniziato a fare baldoria senza aspettarla. Oh, no: per farle tirare fuori quella faccia e quel tono di voce, occorreva qualcosa di veramente diabolico, la personificazione di una crudeltà che la costringesse a sopprimere ogni sorta di istinto assassino. Non era furente, non era nera come la morte e pronta a sbriciolare qualunque cosa fosse capitata sotto i suoi occhi. Era cento volte peggio di quel che sembrava.

“Azu-chan….ma che hai combinato?” sussurrò Shion, con Red che, con occhi grandi quanto due palle da biliardo, stava mostrando a tutti i presenti il contenuto della sua bocca.
“Niente, tesoro. Assolutamente niente”, rispose lei, cercando di mantenere un tono di voce dolce e controllato.
“Yohohoho! A me non sembra “niente”, replicò il Canterino.
“Quello è tanto!” boccheggiò il Tenero Peluche, completamente allibito.
“Aw! Super tanto!” esclamò il Cyborg, alzando di poco i suoi occhiali da sole.

Una semplice ma terribile occhiata assassina fece correre il medico e il musicista dietro l’enorme corpo del carpentiere, diventato anch’egli blu per come era stato guardato.

“Lasciali perdere, Azu, scherzano”, intervenne Nami, cercando di distrarla “Il fatto è che ci stavamo chiedendo perché ci mettessi tanto ad arrivare…”
“E perché indossi un coso buffo come quello!”, esclamò Rufy, alle spalle della navigatrice “Sembri un pinguino, ah ah ah ah!”
“Rufy!!!!”  gli sibilò la ciurma intera – esclusa l’archeologa e lo spadaccino -.
“Che c’è? Ho solo detto…”

SBADABADABAM!!!!!

Ahi, ahi….stavolta è arrabbiatissima…, pensò la piccina, nascondendo Red fra le sue braccia e osservando il povero e in fin di vita Cappello di Paglia mentre l’albina andava a sedersi nell’unico posto libero rimasto.

La situazione era tragica, pericolosamente vicina a innescare il pandemonio del secolo e nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo. A conoscere una come Azu non ci si metteva molto, la sua era una delle personalità più semplici e facili da inquadrare. Era solare, vivace e non avrebbe esitato a offrire una delle sue due braccia per aiutare un amico in difficolta, ma il vero problema, l’unico, era il gestirla. Fra controllo e irascibilità esisteva una labilissima linea di confine che l’albina non conosceva, oppure, molto più probabilmente, che aveva distrutto così tante volte da rendere vano ogni possibile tentativo di ricostruzione. Il suo era un essere disordinato, squilibrato ed esplosivo e l’essere saltata dentro – di sua spontanea volontà – in uno di quei lunghi e stritolanti indumenti bianchi, doveva esserle costato più di quanto si osasse pensare, perché il suo sguardo omicida non ammetteva sarcasmi o battutine di alcun tipo.

“Bell’abito”, sghignazzò il fratello.
“Vuoi fare compagnia a quello scemo?” Domanda secca e pungente. Decisamente da bollino rosso.
“Che cattiveria. Guarda che il mio era un complimento”, si finse offeso il ragazzo.
“Ci crederò quando gli asini voleranno. E tanto per la cronaca, mi aspettavo un minimo di riconoscenza da parte tua”, replicò lei, borbottando.
“Per l’aver deciso di farti suora o perché ammetti  finalmente che mi vuoi un pochino bene?”
“Adesso non allarghiamoci”, lo fermò lei, andando a sbattere contro quel ghigno che tanto avrebbe voluto prendere a cazzotti “Non credere che mi sia conciata in questo modo per farti fare qualche risata. E’ solo che non mi va di essere etichettata come una poco di buono.”
“Conoscendo la tua umanità nei miei confronti, è già qualcosa”, si accontentò l’albino, memore dell’enigmaticità affettiva della parente “Ah, prima che me ne dimentichi…”
“Cosa?”

SBONK!

Con movimento fluido e velocissimo, Lars colpì la testa della sorella con un sonoro pugno.

“Ahia! Si può sapere perc …AHIA!!” un secondo pugno seguì il primo con la stessa intensità “MA CHE CACCHIO TI DICE QUELLA TUA TESTACCIA?!? MI HAI FATTO MALE!!” sbraitò quella tenendosi le parti colpite.
“Il primo è per avermi seguito di nascosto. Il secondo per aver lasciato Shion da sola”, la illuminò lui, placidamente “Osi affermare il contrario?”
“NO, MA C’ERA BISOGNO DI ESSERE COSI’ BRUTALI?!”
“Forse si o forse no, ma mi andava comunque.”
“E CHE ACCIDENTI DI RISPOSTA SAREBBE?! E POI SAREI IO LA VIOLENTA!” tuonò sempre più imbestialita lei.

Il viso era così rosso e tirato che di sicuro le nervature sul collo coperto erano pronte ad esplodere, ma la fortuna volle che l’ira dell’albina scemasse grazie ad una lunga serie di pesanti ansimi e occhiate assassine. Nessuno dei presenti avrebbe avuto il coraggio di avvicinarsi e tentare un approccio.

“D’accordo, va bene: mi sono distratta”, rantolò lei “Ma invece di prendermi in giro per come mi sono conciata e di picchiarmi, pensa a un modo per non rimetterci la pelle domani.”
“Perché? Che succede?” domandò Franky, incuriosito.
L’albina aggrottò immediatamente le sopracciglia “Come? Questo scemo non ve lo ha detto?”

Tutti scossero la testa, in segno di negazione, e la ragazza sbuffò per la milionesima volta.

“Ne parla tutta la città: a quanto pare, domani si disputerà un combattimento fra Eliah e questo tizio qui”, e indico il fratello col pollice.
“Un combattimento? Che figata!” esclamò Rufy, con le stelline al posto degli occhi “Zoro, partecipiamoci!” affermò poi, decisissimo, guardando il vice semisdraiato contro una colonna a bere sakè.
“Perché no? Un po’ di movimento è quello che mi ci vuole”, rispose lui, interessato.
“Mi spiace, Rufy, ma è un incontro fra me e Eliah soltanto” lo bloccò Lars “Ti toccherà assistere e basta.”
“Che????” la sua faccia rasentò la delusione assoluta “Oh, pazienza! Sarà comunque divertente!”
“Certo che tu ci metti davvero poco a riprenderti…”, osservò Usopp. Cinque minuti prima era a terra in fin di vita e adesso sprizzava eccitazione da tutti i pori.

Neanche uno squadrone di bulldozer agguerriti sarebbe stato capace di sfondare il sorrisone di Cappello di Paglia, ma non era qualcosa su cui indagare: l’incrollabilità di Rufy era grande quanto la sua abilità nel fare casino nei posti meno consoni. Ma non era il capitano a essere il vero punto della situazione: la notizia di quel combattimento così imminente suscitò una gran sorpresa, perché Lars non aveva aperto bocca al riguardo.

“Lars…”, lo chiamò il signor Eliorath, volgendo debolmente la testa verso il ragazzo “Hai davvero accettato la sfida di mio nipote?” sembrava quasi titubante a conoscere la risposta.
“Non è una proprio una sfida, ma un modo per abbellire il numero conclusivo dell’esercitazione”, gli rispose quello, senza farlo aspettare troppo “E no, non sono stato forzato”, aggiunse velocemente.
“Perchè mi è difficile crederti?” gli domandò l’anziano signore, ridendo con roca amarezza.

Era impossibile che Lars avesse raccolto il guanto di sfida senza essere sollecitato a dovere e non sarebbe stato da Eliah non sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Stringendo le sottili dita attorno al suo bastone, il signor Eliorath chiuse lentamente gli occhi, rinunciando al voler scoprire quali fossero i meccanismi che muovevano tutto quel quadro indefinibile. Vecchio e stanco com’era, non sarebbe riuscito a prevalere su nessuno dei fronti, e questo perché conosceva quei due ragazzi meglio di chiunque altro.

“Ma chi è questo Eliah?” chiese Chopper.
“E’ quel ragazzo che si è presentato alla Sunny. In poche parole, è il capo della città”, spiegò sinteticamente Sanji.
“Yohohoho! E Lars-san dovrà battersi con lui? Mi tremano le ossa al sol pensiero!” esclamò lo scheletro,
“Non essere ridicolo, Brook! Lars è cento volte più forte di qualsiasi spadaccino! Nessuno può batterlo!” asserì convintissima Shion, scattando in piedi.

La vocina della biondina rimbalzò elasticamente sulle pareti, guadagnandosi l’attenzione meritata. Tutti guardavano lei e quel broncio che sosteneva con cocciuta caparbietà, appoggiato amorevolmente dal muso corrucciato della Scimmia Cresta di Fuoco. Di colpo, prevalse l’imbarazzo: troppi occhi le erano puntati addosso e quel silenzio tombale cominciò a irrigidirla quanto un manichino. Arrossì  e si sedette di botto quando poi colse furtivamente gli occhi di Lars guardarla con quell’accenno di sorriso che le rivolgeva spessissimo. Le parve passata un’eternità dall’ultima volta che lo aveva visto.

“Voglio dire, perché non dovrebbe vincere? E’ forte e…whaa!” cercò di spiegare, prima che il Cappello di Paglia le arrivasse di spalle e iniziasse a scompigliarle i capelli.
“Rufy!” strillò lei, per come l’amico la stava conciando “Perché mi ha….ahi! Ahi!”

Come se scompigliarle i capelli non fosse bastato, il ragazzo di gomma prese a tirargli le guance scherzosamente.

“Ahio! Rufy, mi hai fatto male!” si lamentò lei, massaggiandosi le parti pizzicate.
“Shishishi! Lo so, ma non puoi fare il tifo per Lars con quella brutta faccia!” se ne uscì quello, bello sorridente.
“Non stavo facendo una brutta faccia”, replicò la piccina “Lo so che devo essere allegra, però mi chiedo se ci lasceranno guardare l’incontro: queste persone non sono tanto gentili.”
“Shion ha ragione. Considerata la calorosa accoglienza, non abbiamo tutta la libertà personale di questo mondo e lo stare relegati in questo palazzo, sa un po’ di arresti domiciliari ”, asserì il cuoco.
“E’ ovvio: vorranno evitare che qualcuno faccia l’idiota con tutte le donne dell’isola”, disse lo spadaccino.
“O che un buzzurro come te devasti la città”, replicò prontamente il biondo, schioccando uno sguardo di sfida al compagno.

Un tranquillo pasto serale non sarebbe stato lo stesso senza che i due cominciassero a sfottersi a vicenda.

“Hai così tanta voglia che ti pesti, cuocastro?” gli domandò Zoro.
“Tzè! Pensi ancora che mi faccia battere da un marimo come te?” gli rimandò Sanji.
“Se è per questo l’ho già fatto, numero sette.”

A quell’ultima uscita, il nervo pulsante di Gamba Nera si gonfiò ancora di più. Dio, come lo odiava quando tirava in ballo quella stupidata…

“Solo perché sei arrivato prima di me all’arcipelago Shabondy, non significa che sei il migliore. E poi ”, e lì si infervorò sul serio “Vuoi dirmi come diavolo hai fatto a trovare quel sakè?!?”

Sanji sapeva perfettamente che quelle quattro bottiglie di liquore provenivano da uno degli scomparti segreti della sua cucina, ma si rifiutava di credere che uno come Zoro – capacissimo di perdersi anche dentro un camino – fosse riuscito a trovarle senza devastare l’abitacolo.

“Tu hai i tuoi segreti da cuoco, io ho i miei da spadaccino”, si limitò semplicemente a dire il ragazzo.
“Che?!”

Buzzurro o meno, Zoro era pur sempre un uomo di parola, e nello scoccare una fulminea e complice occhiata a Shion, le assicurò che non avrebbe spifferato il suo nome per nessuna ragione al mondo. In fondo, era utile avere qualcuno che ti dicesse dove quell’imbecille del cuoco nascondeva i liquori.

“Comunque sia….”, e Nami dovette alzare la voce per elevarsi al di sopra del litigio fra i due compagni “Rimane il fatto che non possiamo muoverci come vogliamo. Fino a quando il log pose non avrà registrato il magnetismo di San Lorein non potremo tornare alla nave.”
“Oh, mia cara, per quello non c’è problema”, intervenne il signor Eliorath “Potete sbrigare tutte le vostre faccende senza alcun problema. Ovviamente, non prima di aver assistito all’esercitazione.”
“Sicuro che possiamo?” domandò Franky, scettico “Da quello che ho capito io, sembra essere una cosa riservata…”
“Non esattamente: ho letto sui documenti della biblioteca che queste esercitazioni rientrano nelle attività più note dell’accademia e che rappresentano una sorta di festività molto in vista e aperte al pubblico, quindi anche a noi, visto che non si accenna nulla sulla presenza di stranieri”, intervenne Nico Robin.
“ Uhm…vedo che qualcuno ha dato un’occhiata ai nostri libri”, osservò l’anziano signore.
“Ho solo letto le pergamene esposte, tutto qui”, si difese l’archeologa, alzando le mani.
“Bene, è deciso: domani andiamo tutti a fare il tifo per Lars!” sentenziò il capitano dei pirati, levando le braccia al cielo “Ci divertiremo un sacco!!”



I lussuosi bagni del palazzo di San Lorein erano principalmente conosciuti per la grandezza e l’eleganza. Occupavano un’intera ala dell’edificio e le acque profumate che ne riempivano le vasche avevano il potere di ammansire addirittura un’aragosta prossima alla bollitura. Scioglievano ossa e muscoli dolcemente, alleggerendo il corpo da qualsiasi forma di impurità che lo avesse appesantito ed era raro che qualcuno, dopo un soggiorno dentro di essi, ne uscisse indifferente. Considerato l’utilizzo limitato, forse tanta eleganza era sprecata per un posto del genere, ma Nami, Nico Robin e Azu erano troppo occupate a godere dei benefici purificatori di quel piccolo d’angolo di paradiso per far lavorare le loro menti su simili faccende. La vasca era grande, il suono dell’acqua fuoriuscente da una delle sfarzose fontane a forma di leone a dir poco rilassante e, cosa ancora più gratificante, niente ragazzi fra i piedi.

“Che meraviglia! Finalmente un po’ di tranquillità”, disse la rossa, lasciandosi dolcemente sprofondare dentro l’ acqua fino alle spalle.
“Niente scioglie la tensione meglio di un bagno”, arrivò l’archeologa, alzando di qualche centimetro la testa verso il soffitto.
“Concordo”, si limitò l’albina, tutta presa e massaggiarsi la pelle tonica con del sapone liquido alla menta. Non c’erano parole abbastanza elogianti per descrivere il sollievo provato una volta riuscita a saltar fuori da quell’abito strangolatore “E poi è l’ideale per parlare di affari di cuore”, aggiunse subito dopo, lanciando un’occhiata maliziosa a Nami.
“Che affari di cuore?” domandò la suddetta, cogliendo all’istante lo strano sguardo di Azu.
“Oh, Nami cara! E' inutile che fai la finta tonta: sei tra amiche. Ammettilo, dai” sghignazzò la più grande avvicinandosi a lei.
“Di grazia, che cosa dovrei ammettere?” aggrottò la fronte, infastidita per quell’insistenza di cui lei ignorava le fondamenta.
“Ma che sei cotta di Rufy, ovvio”, le rispose placidamente lei.
“C-Cosa?! Ma, Azu, come ti viene in mente?! “ scattò la navigatrice, raddrizzandosi istantaneamente.
“Non provare a fare la commedia con me, tanto non ci casco. Vi ho osservati abbastanza da avere prove sicure e poi io non sbaglio mai su certe cose”, continuò quella.
“Sarà, ma questa volta hai preso un abbaglio con i controfiocchi: io non sono innamorata di Rufy!” sillabò la ragazza.
“Uhm…ma davvero?” Azu tornò alla carica, sfoggiando un sorriso a trentadue denti immacolato, beffardo e pure saccente “Eppure la tua reazione mi è sembrata l’esatto contrario. E poi c’è il viso a tradirti”, continuò lei, picchiettandole la guancia congestionata con il dito indice, mantenendo alta e fiera l’espressione di chi la sa lunga e ha già capito tutto.
“Si dia il caso che ci troviamo in un bagno termale e che l’acqua sia piuttosto calda. Aggiungi i vapori e ti sarà chiaro perché sono tanto rossa”, replicò fermamente lei, allontanando con la mano l’indice dell’albina.
“Forse, ma intanto comincia ad ammettere che ti ha fatto piacere essere difesa da Rufy”, incalzò la più grande.
“Ora capisco perché hai voluto che Shion facesse il bagno prima e non con noi”, borbottò la Gatta Ladra, guardandola con occhi storti.
“Non tentare di cambiare argomento e sputa il rospo.”

Nami sbuffò, indispettita per come l’incalzante ostinazione dell’albina stesse mandando all’aria il suo momento di relax. Non c’era proprio niente per cui valesse la pena interrogarla fino all’esasperazione, ma la più grande era convinta oltre l’inverosimile della sua teoria, tanto da ricamarci sopra un’improponibile e strampalata storia. Lei cotta di Rufy? Vero quanto il suo odio per il denaro. Era impensabile, non concepibile e non perché ai pirati fosse proibito amare: semplicemente, Rufy e quel tipo di sentimento non sostavano sullo stesso pianeta.
Si parlava di due forze quasi estranee fra di loro, molto travisate, ma la bella navigatrice, volendosi salvare da quell’arpia argentata il prima possibile, evitò di rimuginarci sopra a lungo.

“Guarda che non c’è proprio nulla di cui discutere”, sbuffò, rilanciando all’albina uno sguardo per nulla toccato dalle sue provocazioni “A Rufy non piace la gente che offende o deride i suoi amici e darebbe la vita per difenderci tutti quanti. Ognuno sulla nave ha il proprio compito e Rufy, in qualità di capitano, deve prendersi cura di noi, anche se come hai ben visto, lo fa a modo suo. L’episodio di oggi non è certo un eccezione: si è messo in mezzo perché non voleva che io e Robin venissimo maltrattate, tutto qua” spiegò con impeccabile controllo emotivo “Dico bene?” domandò poi alla suddetta, rivolgendosi a lei quasi volesse ottenere un maggiore supporto.
“Certo, però lui ha nominato soltanto te, non me o Azu”, puntualizzò placidamente la donna.
“Robin!” e la guardò come a volerle dire “Ti ci metti pure tu, adesso?!”
“Vedi? Anche lei se ne è accorta”, ghignò la ragazza, accavallando le gambe e ignorando lo sguardo ultra-omicida che la rossa le lanciò “Ma, in fondo, posso capire perfettamente la tua esitazione.”
“Che intendi dire?”
“Beh, se non sbaglio, Rufy non è esattamente il prototipo di fidanzato ideale. E’ più piccolo di te, mangia come una fogna, si comporta peggio di un bambino e credo che l’unica forma d’amore che conosca sia per il cibo. Per non parlare poi della sua mancanza d’educazione e galanteria. Decisamente un caso senza speranza.”
“Il tuo è un giudizio troppo superficiale”, si ritrovò a dire Nami, leggermente infastidita.
“Può darsi, ma non è colpa mia se mi piacciono uomini di tutt’altro stampo. E, come ti ho già detto, capisco benissimo le tue titubanze: avrei anch’io le tue difficoltà, se…”
“Non è certo per i difetti di Rufy che io es…!!”

Anche bloccandosi prima della fine di quella frase, niente impedì ad Azu di esibire un’espressione di puro e assoluto trionfo. Ci era cascata. Si era lasciata trascinare dalle circostante ed era caduta come un’ingenua in quella stessa trappola di cui aveva fiutato la presenza sin dall’inizio. Non era da lei lasciarsi intortare a quella maniera, in quanto nessuno era abilissima a ripulire le tasche altrui e a incastrare chi provava a fregarla, ma arrivare quasi a dire che non erano le mancanti buone maniere del capitano a fermarla….

“Questa me la paghi!” sbottò, alzandosi in piedi e fasciandosi il corpo con l’asciugamano.

No, no e no! Lei non era innamorata di Rufy, poco ma sicuro. Era una ridicolaggine che non poteva stare ne in cielo ne in terra e quella testona di Azu non l’avrebbe passata liscia per averle quasi fatto confessare una cosa che neppure….
Le si infiammò il viso per quanto pensò e il caldo aleggiante in bagno, stavolta, non c’entro niente.

“Non avrai esagerato?” le domandò Robin, sentendo la porta sbattere.
“Nah! Vedrai che tra qualche settimana mi ringrazierà!” affermò Azu, intrecciando dietro la nuca le braccia.

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Capitolo 22
*** Pericolo all'orizzonte. ***




Saaaalve…lo so, non sono ritardo: sono in stramegaritardo! più di tre mesi senza un aggiornamento, salvo la nuova one-shot di Roger e Rouge ma proprio questa fic non ne vuole sapere di collaborare e andare avanti. Sono arrivata a un punto da cui non riesco più a smuovermi e mi spiace perché comunque alle mie storie ci tengo…uffa! E a volermi ulteriormente complicare la vita, ho iniziato una fic su D Gray Man. Va beh…baldo agli indugi e auguro a tutti buona lettura!
 


L’indomani arrivò in fretta e furia, quasi impaziente di cominciare. La grande arena di San Lorein si era riempita con trepidazione malcelata di tutti gli abitanti dell’isola, il cui vociare eccitato era poco incline a fare silenzio. Gli spalti erano stati completamente occupati, i fuochi accesi, e gli stendargli scarlatti non facevano altro che sventolare vivacemente, mossi dalla brezza marina. Con un cielo sgombero dalle nuvole e un sole splendente, la giornata non poteva che essere l’ideale per un duello di spade.

“Wow! Che forza!” esclamò Chopper, con la testa piegata all’indietro.
“Questa arena è enorme, non ne ho mai vista una del genere”, si stupì Usopp, guardandosi ben intorno.
“Si vede che prendono queste esercitazioni molto sul serio: c’è tutta la città”, notò Sanji, adocchiando il continuo affluire sugli spalti ancora sostanzialmente occupabili, con la sigaretta fra le labbra e il profumo della nicotina dolciastra a salirgli su per le narici.
“E’ naturale: questi incontri sono occasione di spettacolo, tutt’al più se vi partecipa anche il Master di San Lorein”, disse Nico Robin, con ovvietà gentile e pacata.
“Su questo non ci piove”, mormorò Nami, incrociando le braccia sotto il prosperoso seno.

Nonostante la gente avesse creato un enorme buco appositamente per distanziarsi da loro, l’udito della Gatta Ladra era sufficientemente fine da cogliere anche i commenti più lontani. Vista da fuori, l’arena non appariva così grande come invece era ben constatabile dall’interno: con la sua forma circolare, i fuochi ad ardere su strategici pilastri e il campo di battaglia pronto all’uso, era l’edificio più importante di tutta l’isola dopo il grande palazzo. L’esercitazione non era ancora cominciata, ma la gente non faceva altro che discutere sull’esito di quell’incontro inserito all’ultimo minuto, la novità che già stava sulla bocca di tutti e che si divertiva a ballare con frenesia incontrollabile.
La trepidazione che si percepiva nell’aria presupponeva di per sé che quell’evento non avrebbe avuto nulla di uguale ai precedenti, ma nessuno degli spettatori sembrava particolarmente allarmato da quella diversità tanto palpabile e a un occhio esperto quale era quello di Nami, ciò non era sfuggito.

“Danno tutti per scontato che vincerà Eliah”, continuò la navigatrice “Mi domando se sia realmente bravo come dicono.”
“Lo sapremo solo guardando il combattimento. A parlare sono bravi tutti”, borbottò Zoro, sdraiato per terra e con l’occhio smeraldino ermeticamente chiuso “Svegliatemi quando quei due cominciano.”
“Eh? Zoro, vuoi davvero metterti a dormire adesso? Zoro? Oi?” La domanda di Shion non ricevette alcuna risposta: l’ex Cacciatore di Pirati stava già russando alla grande, infischiandosene se il suo ronfare fosse fonte di disturbo.
“Shishishi! Non farci caso, Shion: se una cosa non gli interessa, Zoro non ci presta mai attenzione!” esclamò al suo fianco Rufy.
“Tsk! Ma tu guarda questo qui…si mette a dormire come se niente fosse!”, brontolò invece Azu, tirando con l’indice il colletto del vestito “Dannazione! Che cacchio mi è venuto in mente di mettermi questo coso?!”
“Yohohoho! Azu-san, se vuoi ti aiuto a togliertelo, così mi fai vedere di che colore sono le tue mutandine!” si offrì Brook.
“Tieni le tue dita ossute lontano dai miei fianchi!!” strillò quella, scaraventando via il Canterino “E VOI VEDETE DI PIANTARLA, MOCCIOSI! AL PROSSIMO COMMENTO SARANNO DOLORI E NON PENSIATE CHE LA SOTTANA DELLA MAMMA VI SALVI!!!!”

La sfuriata dell’albina spaventò a morte Usopp, Chopper e tre ragazzini che si stavano divertendo a deriderla con bisbigli che lei aveva captato fin dal primo istante. Nessuno dei presenti aveva osato calcare la mano sulla faccenda, tant’era lampante che la già scarsissima pazienza della ragazza si era consumata ancor prima che sorgesse il sole.
Azu era al limite della sopportazione, bastava un niente per farle rizzare i capelli come un gatto infuriato: delle sue buone intenzioni che l’avevano mossa a fare quel mastodontico sacrificio – come lo aveva definito lei stessa - non ne era rimasta traccia, ma per puro orgoglio aveva deciso di portare avanti quel supplizio con la sola intenzione di dimostrare che una Gallower mantiene sempre e comunque la parola data. Lars poteva dire quello che gli pareva, ma niente le avrebbe fatto ammettere che il decidere di indossare quel coso partiva dal non voler far ricadere ulteriori disgrazie sulla capoccia del maggiore: calma e pazienza erano scivolate via dal suo corpo già da tempo e quei pochi grammi di concentrazione sopravvissuti ai suoi innumerevoli scatti d’ira si stavano adoperando al massimo delle loro possibilità per evitare che la padrona si strappasse selvaggiamente il vestito di dosso.
Sarebbe bastato un altro piccolo commento o una chissà quale stupidata per far sì che non rispondesse più delle proprie azioni, ma se sprecava il poco fiato che quel micidiale bustino stretto attorno al torace le concedeva appena, non ne avrebbe avuto per urlare contro il fratello e quello, purtroppo per lei, era l’unico svago che quello sputo d’isola poteva offrirle senza fare troppe storie.

“Bah! Lasciamo perdere!” sbuffò poi, appoggiandosi sgraziatamente sullo spalto “Tutto questo stress di primo mattino mi ha fatto venire fame….”
“Non ti preoccupare, Azu-chwan: ho qui quello che fa per te!” cinguettò il cuoco, esibendo un bel cestino carico di frutta, succo d’arancia, e panini imbottiti “Uno spuntino leggero e fresco per le mie dee e la nostra principessina”, affermò poi nel volteggiare verso di lei, Nami, Nico Robin e Shion.
“Uh! Sembrano appetitosi!” Rufy fece per allungare la mano verso quelle invitanti leccornie, ma il piede del biondo si mise in mezzo.
“Giù le mani, pozzo senza fondo! Questi sono solo per Nami-san, Robin-chan, Azu-chan e la piccola Shion-chan!”
“Ma io fame! Per fare il tifo servono tante energie e le energie si prendono dal cibo! Devo pur fare qualcosa mentre aspetto!” protestò il capitano, cercando di arrivare al bottino.
“Girati i pollici, se ti annoi tanto, ma sta lontano da questo cestino!!!”

Il brontolare dello stomaco di Rufy rispose al posto del suo proprietario, tribolando con un’intensità maggiormente offesa per l’essere trascurato a quel modo. Era stato un ragionamento incredibilmente sensato, quello di Cappello di Paglia, semplice come il suo carattere, ma non sufficientemente efficace da convincere il cuoco a essere magnanimo  e dunque accontentarlo: era difficile, anzi, praticamente contro natura che Sanji permettesse che il cibo preparato per le sue muse ispiratrici venisse toccato dalle mani lerce degli altri cavernicoli della nave, come li definiva lui.

Shion guardò entrambi distrattamente, tornando a osservare con rinnovata insistenza il centro dell’arena.

Uffa! Ma quando iniziano? Io voglio vedere Lars adesso, brontolò mentalmente, gonfiando le guance e regalando piacevoli grattini alla nuca di Red.

Non le andava di aspettare, anche se il primo squillo di tromba l’avrebbe fatta inevitabilmente sobbalzare.  Voleva vedere Lars entrare nell’arena e urlare a squarciagola il suo nome con un tifo sfegatato. Quello era il primo torneo di spade a cui assisteva, ma aldilà dell’eccitazione, l’ansia le stava giocando un brutto tiro, inchiodandola sullo spalto con uno strano mal di pancia. Un’indefinibile ingarbugliamento emotivo di proporzioni bibliche si agitava dentro di lei e cresceva man mano che i suoi pensieri si focalizzavano unicamente sull’albino e sul suo incontro.
Eliah non l’aveva convinta sin dal primo istante. C’era qualcosa nei suoi occhi bluastri che la intimoriva e il non sapere di preciso il perché di quell’orribile sensazione, le faceva temere per l’incolumità del suo amico.

Se solo fosse potuta rimanere con lui fino al momento fatidico…..




“Ti avverto, idiota: azzardati a perdere e ti faccio il culo a strisce, chiaro?!”
“Un incoraggiamento più affettuoso no, eh?”
“T’ammazzo se muori!!!”

La voce incavolata di Azu era la sola udibile in tutta la zona riservata all’entrata secondaria dell’arena. Spiccava stridulamente, in tutta la sua irascibile suscettibilità, sintomo inconfutabile che i nervi della ragazza erano già saltati e che al minimo segno di provocazione avrebbe dato di matto.
Tutti gli allievi erano già dentro a prepararsi e a giudicare dal forte vociare che si sentiva, le tribune dovevano essersi riempite per benino, cosa che all’albina dava già parecchio fastidio, sicché avrebbe dovuto farsi largo a suon di gomitate pur di raggiungere la postazione data a Rufy e agli altri. Il rimanere col fratello fino all’ultimo momento non era stato certo un atto caritatevole partito da quel cuore che lei stessa aveva già definito troppo accondiscendente; per quanto le riguardava, indossare quel coso, con tanto di copricapo imbarazzante, era la regina assoluta delle umiliazioni, ma Shion non poteva andarsene in giro da sola, non una seconda volta, così come la sua povera nuca non poteva supportare altri scappellotti da parte del fratello maggiore.
Quindi, non le restava altro da fare che augurare buona fortuna al parente nel solo modo a lei consentito: a suon di minacce corporali.

“Lars..sei sicuro di dover entrare adesso? Il tuo incontro è l’ultimo, c’è tempo…”, aveva pigolato la bambina.  

La sua manina aveva stretto quella del più grande sin da quando erano usciti per dirigersi all’arena e ancora adesso non accennava a lasciarlo andare.
Oltre a non potergli fargli compagnia fino all’inizio del duello, Shion aveva scoperto con gran rammarico che l’amico aveva ricevuto l’ordine di entrare nell’arena prima che iniziasse l’esercitazione e di rimanere nello spogliatoio riservatogli fino al suo turno. Opera di Eliah, sicuramente.
Ma perché quel tipo ce l’aveva tanto con Lars? Shion proprio non riusciva a capire che cosa potesse essere successo fra lui e il suo amico, ma anche se fosse saltato fuori che Lars era colpevole di chissà quale reato, di certo non sarebbe stata così stupida da guardarlo sotto una luce diversa. Era fuori discussione che la sua ammirazione per l’albino svanisse con un semplice schiocco di dita.

“Mi spiace, ma preferisco che voi due raggiungiate gli altri e rimaniate con loro fino alla fine”, le disse lui, accarezzandole la testolina “Quindi, adesso, fai la brava e assicurati che Azu non combini casini.”
“Ok.”
“Ehi: vorrei ricordarti che tra le due, la guardia del corpo la faccio io”, si intromise la ragazza, con voce seccata.

Su quello ci si sarebbe potuto discutere per ore intere, forse per anni, considerando il soggetto in questione, ma Lars preferì finirla lì, con uno di quei sorrisi rassicuranti che spesso e volentieri avevano il potere di confondere e zittire chi gli stava vicino. A volte era davvero difficile capire che cosa passasse per la testa dell’albino, il suo modo di fare oscillava sempre fra semplicità ed enigmaticità;  non gli piaceva mai parlare troppo e a un dialogo lungo e noioso, preferiva le risposte monosillabiche o le occhiate intense che sempre riuscivano a trasmettere a grandi linee la sua opinione su qualcosa.
Anche in quel sorriso a cui Shion rispose con un altro c’era tutto quello che occorreva per non andare oltre alla conversazione, ma quando il ragazzo le diede le spalle per entrare nello stadio, la bambina non riuscì a fare a meno di chiamarlo nuovamente.

“Lars?”

Il ragazzo voltò all’indietro la testa, squadrandola con le sue iridi color ghiaccio.

“Fallo nero!” esclamò poi la piccola, con l’espressione più battagliera che una undicenne come lei poteva permettersi.

E ancora una volta, senza parole o silenzio troppo duraturi, lui le regalo un sorriso carico di fiducia e riconoscimento.





“Whaaa! Calma! Calma! Calma!” Scuotendo la testa, Shion si diede dei colpetti sulle guance “ Così non va, non va per niente!! Fiducia, fiducia, fiducia!!!”
“Oi, Shion! Che ti prende?”
“Eh? Cosa?”

Così presa dai suoi ricordi e troppo agitata, la bambina aveva finito per estraniarsi dalla realtà per l’ennesima volta. Ultimamente la sua testolina prendeva e partiva per altre dimensioni con una facilità mostruosa e se non fosse stato per quella voce amica, che ridusse il suo pensare a un mucchio di pezzettini colorati, ci sarebbe rimasta per chissà quanto. Sobbalzò non appena si rese conto che i visi di Rufy, Chopper, Usopp, Franky, Red e Brook avevano accerchiato il suo e la stavano sondando  con occhi indagatori e spalancati al massimo.

"Che c’è?” Domandò lei, guardandosi intorno “Stanno per iniziare?”
“No, però è da un bel po’ che ti chiamavamo e non ci rispondevi”, le disse il cecchino “ Poi hai anche cominciato a darti i pugni in testa…”
“Ah…scusate! Mi sono distratta, eh eh”, ridacchiò, prendendosi fra i pollici e gli indici delle mani le due ciocche sbarazzine che le toccavano le guance.
“Yohohoho! Sei emozionata, vero?” domandò il Canterino “Lo sono anch’io, sai? E’ da così tanto che non assisto a uno spettacolo che non sia il mio, che il cuore mi batte all’impazzata…anche se io il cuore non ce l’ho più da un pezzo! Yohohoho! Skull Joke!” e prese a volteggiare su una gamba sola.
“Sei preoccupata per Lars?” le domandò Chopper.
La piccola batté gli occhi un paio di volte, per poi annuire “Un po’, però… sono anche tanto eccitata!” confessò poi tutta felice, stringendosi le braccia con le mani “E così strano: ho la pelle d’oca e mi viene voglia di saltare!” esclamò poi, balzando in piedi “Lars sta per combattere e io lo vedrò in azione! Pensavo che non mi sarebbe mai capitata l’occasione e invece…!”

Senza neppure finire la frase, si mise a saltellare sul posto come una piccola molla.
Non sapeva descrivere l’emozione del momento. Da una parte c’era tutta quella gamma di pensieri che la tendeva come una corda di violino, dall’altra l’incommensurabile gioia che la travolgeva davanti a qualsiasi evento nuovo e non ancora scoperto. Shion non era mai stata capace di dedicare uguale attenzione ad entrambe le parti, sebbene non avesse mai potuto fare a meno di astenersi dalle loro influenze: era un lavoro troppo faticoso e dispendioso per una bambina come lei, scopertasi più propensa a lasciarsi trasportare dal momento e viverlo col cuore in trepidazione.
Dall’imbronciata era passata ad essere pensierosa, preoccupata e infine euforica senza accorgersene. Un tripudio di radiosità che avrebbe fatto invidia anche al sole, per il tanto splendore trasudante dal suo visino splendente.

“Non vedo l’ora che cominci!” trillò ancora.
“Shishishi! Pure io! Sarà divertente!” si unì Rufy “A proposito, Franky, è tutto pronto?” domandò al carpentiere.
“Aw! Certo che sì, capo! Aspettiamo che l’amico venga fuori e diamo il via alle danze!” esclamò il Cyborg, alzando il pollicione.
“Cos’è che è tutto pronto?” domandò Shion.
“E’ una sorpresa che abbiamo preparato apposta per Lars. Aspetta e vedrai”, le rispose Usopp, facendole l’occhiolino.




San Lorein. Entrata del palazzo.

“Eccellenza, dobbiamo sbrigarci. L’esercitazione comincerà a breve”, avvisò la guardia “E’ proprio sicuro di voler andare a piedi?”
“Certamente. Ho forza a sufficienza da reggermi in piedi”, gli rispose l’anziano, sorridendo.
“Come preferisce.”

Appoggiandosi saldamente al suo bastone, il signor Eliorath, scortato da due guardie, si avviò lentamente verso la via principale. Si era attardato più del dovuto, scordandosi che l’esercitazione sarebbe iniziata avrebbe fra pochi minuti; lo stare all’interno del Saidan gli faceva sempre perdere la cognizione del tempo e quel giorno non aveva fatto alcuna eccezione. La sua mente aveva divagato un po’ più del dovuto, venendo destata dalle grida provenienti dall’arena della città, ma con un po’ di fortuna sarebbe giunto in tempo per vedere l’ultimo incontro.
Con passi regolari e impercettibili, era quasi arrivato a metà della piazza circolare, quand’ecco che i suoi occhi si assottigliarono lentamente, come accecati da un raggio di sole.

“Signor Eliorath? Signore, che…..?”

La guardia rivolse il viso in avanti, agguantando all’istante l’elsa della propria spada, seguita dalla seconda. La piazzetta che stavano attraversando era deserta come il resto della città, silenziosa e pulita come se fosse stata appena costruita. Era grande a sufficienza per permettere a chiunque di memorizzarne anche i più piccoli dettagli, a partire dai vasi di fiori posti in angoli strategici e gli stendargli rossi e dorati appesi per la ricorrenza, quindi, individuare una qualche anomalia, un elemento nuovo, sarebbe risultato facile anche per la persona meno sveglia di quel mondo.
Fermo dov’era, il signor Eliorath osservò la sconosciuta avvicinarsi con passo leggero e ancheggiante. Era una donna, senz’ombra di dubbio: indossava un lungo vestito nero e scollato, perfettamente abbinato al colore dei suoi corti e scompigliati capelli. Stava attraversando la strada a pochi metri da loro, senza degnarli di un singolo sguardo.

“Ferma dove sei, straniera!” le ordinò il soldato, sguainando la spada.

Destata dai propri pensieri, Camiria si fermò quasi subito, rivolgendo la sua attenzione alle uniche persone presenti oltre a lei.

“Ma guarda un po’. E io che ero convinta di aver messo a nanna tutti i soldatini”, sorrise soavemente, con la mano appoggiata al fianco.
“Non muovere un solo passo, straniera, e dimmi come hai fatto ad eludere la sorveglianza!” parlò nuovamente la guardia, con quanta più voce aveva.

La bella cacciatrice corrugò le sopracciglia e le labbra dipinte di nero in un solo gesto, per poi distendere il tutto in un nuovo e sinistro sorriso.

“E’ un vero peccato che sia una città così bella”, sospirò poi, dando la schiena agli uomini e osservando gli edifici che la circondavano “Quasi mi dispiace doverla rovinare…”
“Rispondi alla mia domanda!” si infervorò la guardia, senza aver ascoltato l’ultima aggiunta.

Non si sarebbe fatto problemi ad attaccarla, anche se si trattava di una donna. Le regole di San Lorein erano chiare e dovevano essere rispettate, a prescindere dalla situazione e dalla persona che le sfidava, ma se quell’uomo tanto attaccato al suo dovere avesse visto con i suoi occhi il prezzo che i suoi colleghi avevano pagato per l’aver sottovalutato quella donna, forse avrebbe reagito diversamente…

“E va bene! Se con le buone non funziona…!”

Con passo veloce e la spada sguainata, la guardia avanzò verso Camiria, ma quando fu sul punto di agguantarla per il braccio, la donna scomparve dalla sua vista, lasciandolo inebetito.

“Dov…?!”
“Kufu, kufu…dietro di te.”

Sentì solo quella lieve risatina sussurrata a pochi centimetro dal suo orecchio. Poi un rumore secco, dolore…e il nulla.  
Il signor Eliorath si ritrovò a guardare con occhi fermi e impietriti uno dei suoi uomini cadere a terra, senza capire come fosse successo. Quella donna si era mossa a una velocità che mai aveva visto sino a quel momento.

“Che uomo patetico…”, la sentì sibilare divertita.

La guardia rimasta al fianco dell’anziano non si era mossa di un solo millimetro. Anche se non la stava guardando, il signor Eliorath ne percepì il tremore fisico, palesemente trattenuto a stento.  A differenza dei suoi occhi stanchi, quelli del secondo uomo adibito alla sua scorta erano riusciti a scorgere giusto un’ombra che prendeva il braccio sinistro del suo collega, glielo spezzava come fosse un tronco marcio e infine lo colpiva alla nuca senza neppure dargli tempo di urlare.
Una sequenza che si scontrò con il controllo del saggio, la cui voce risuonò quanto bastava perché giungesse alle orecchie di Camiria e attirasse la sua attenzione.

“Signorina”, si fece avanti il suddetto “Non siamo soliti ricevere visite dall’esterno e mi scuso per i modi bruschi di queste due guardie, ma deve capire che la sicurezza della nostra città è una priorità sacra quanto la vita della gente che la abita e lei la sta compromettendo. Quindi, è pregata di dirci chi è e come ha fatto ad entrare.”
Davanti a tanta  compostezza, ridicola a detta sua, la donna sogghignò sommessamente “Oh, chi io sia e come sono arrivata qua non ha alcuna importanza”, rise con maliziosità, ancheggiando pericolosamente verso di loro “Quello che importa e per cui dovrebbe preoccuparsi, è ciò che sto per fare alla vostra bella isoletta.”




Gli spogliatoi dello stadio di San Lorein erano modesti  e mediamente ampi, illuminati da una luce fredda e di provenienza sconosciuta. Il vociare eccitato della gente li raggiungeva senza problemi, creando un sottofondo suggestivo e contrastante con la quiete circostante.

Ma a Lars non interessava.

Stava pazientando, avvolto nella più profonda delle concentrazioni e dai vapori ghiacciati che Saphira emanava senza sosta. C’era da rischiare l’assideramento a stare lì dentro, tanto la temperatura era bassa, ma l’albino ne era totalmente indifferente: i suoi muscoli erano bollenti e sudati, in perfetta contraddizione con lo strato di ghiaccio formatosi sulle pareti della stanza. Era seduto su una delle panche, col busto e la testa appena inclinati in avanti e le gambe leggermente aperte. Il gilè nero giaceva abbandonato a poca distanza da lui e la fredda nebbia creata dalla Regina dei Ghiacci continuava a crescere e a inspessirsi. Tra poco sarebbe toccato a lui e il pensiero di affrontare Eliah e Magdala intensificò la presa sull’elsa della propria spada. Non negò di essere teso, sebbene il suo viso e i battiti del suo cuore rasentassero quella calma che tanto faceva impazzire sua sorella: ogni fibra del suo corpo scolpito gli urlava di non prendere la situazione sottogamba qualunque cosa fosse successa e perfino Saphira, nella sua straordinaria quietudine, riuscì  a percepire la sua tensione.

Ti avverto, idiota: azzardati a perdere e ti faccio il culo a strisce, chiaro?!

Come sempre, gli amorevoli  “Buona fortuna” di Azu avevano il potere di prevalere su ogni altro suo pensiero e di essere tutt’altro che di aiuto. E dire che non si era andato a cercare niente di quanto stava per accadere! La colpa era di Eliah e della sua insana voglia di affettarlo davanti al pubblico che tanto lo idolatrava. Ok, a metterla su quel piano era stata sua sorella e non aveva tutti i torti, sicché il Master sembrava impaziente di combattere contro di lui, ma “Colpa” non era il termine che Lars avrebbe utilizzato per quella faccenda: il suono gli era troppo strano, stonato, per certi aspetti, e questo perché il conoscere Eliah meglio di chiunque altro lo esentava da porsi domande o dubbi inutili.
Aveva accettato di combattere per ovvie ragioni e avrebbe continuato per la sua strada qualunque fosse stato il risultato: non era il genere di persona che si guardava indietro. Lui credeva e basta, ma in cosa, solo lui lo sapeva.

E come udì il segnale d’entrata, sperò  che questo suo credere non lo ricambiasse con un altro squarcio sulla faccia.




“Dov’è? Dov’è?! Dove accidenti è, quello stramaledetto portone?!”

Era la sesta volta che Azu se lo chiedeva. Dalle sue labbra non usciva altro che quella domanda carica di tutta la sua esasperazione e più i suoi passi spediti picchiettavano furiosamente contro l’asfalto, più il nervosismo aumentava. Sapeva di aver fatto una scelta volontaria, che nessuno le aveva imposto quell’obbligo, ma a tutto c’era un limite e lei era stata fin troppo paziente nel sopportare quella ridicolaggine. Già la situazione non era delle migliori; per dirla tutta, era la più assurda e schifosa che avesse mai affrontato e il fatto che avesse deciso di farsi del male da sola, non diminuiva il numero dei suoi sbuffi.
Quel odioso abito rasentava ogni illogicità umana, tanto le stava segando i fianchi e qualsiasi altra parte del corpo. Neanche un pinguino imbalsamato camminava a quella maniera! Era ad un passo dall’esplosione, mancava tanto così perché perdesse le staffe e prendesse a pugni il primo muro disponibile, ma la sola cosa consentitale dal suo stesso ego, era quella di inveire come una pazza squinternata contro l’unico essere umano capace di farla uscire dai gangheri.

“Tutto perché sono una cretina, altro che amore fraterno!” sbottò ad alta voce “Invece di apprezzare la mia gentilezza , mi sfotte e decide di farsi affettare da quell’altro idiota! E ha anche il coraggio di dire che sono io quella che prende decisioni affrettate! Questa volta me la paga! Oh, se me la paga! Per questo supplizio, lo costringerò a farmi da facchino per il resto dei suoi….!”

SDONG!!

Nel suo imprecare, non si era minimamente accorta della direzione da lei presa. Solo lo spiaccicare la propria faccia contro un lampione la rese consapevole della sua distrazione.

“Odio questo posto…”, ringhiò tremante “Odio quest’abito… e adesso ci si mettono pure i lampioni?! ALLORA E’ UNA CONGIURA!!!!”

Con una forza che neppure dieci Master avrebbero potuto avere, l’albina afferrò con entrambe le mani il lampione, lo sradicò dall’asfalto e lo lanciò così lontano che non seppe neppure dire dove fosse caduto.

Basta, non ne posso più! Non ho intenzione di restare neppure per tutti i diamanti di questo mondo! Decretò ufficialmente, strappando la lunga gonna dell’abito e liberando così le sue povere gambe.

Nonostante l’incredibile astio nutrito nei confronti del vestito, non se l’era sentita di ridurlo a uno straccio buono solo per pulire i pavimenti. Questo prima di sbattere contro il lampione e perdere quell’unico grammo di lucidità razionale rimastole. Già che c’era, si disfò di quella sorta di copricapo rettangolare, liberando i capelli: tutti gli abitanti dell’isola erano riuniti allo stadio, nessuno avrebbe badato a lei e alla sua semi-nudità. Ricominciò a camminare con più slancio, assaporando pienamente il sollievo che i propri arti inferiori provavano a contatto con l’aria. Il portone d’entrata doveva essere pur da qualche parte e una volta trovato, si sarebbe immediatamente fiondata sulla Thousand Sunny. L’armadio di Nami e Nico Robin straripava di abiti che attendevano soltanto di essere messi e senz’altro le due avrebbero capito il perché si sarebbe presentata con qualcosa di loro addosso.

Avrebbe tirato diritto senza mai voltarsi indietro, se uno strano rantolio non l’avesse colta di sorpresa.

“Ma che  diav….?!”

La vide all’istante e ne rimase a dir poco che scioccata, perché mai avrebbe pensato che in un posto del genere potesse succedere qualcosa del genere.
Una guardia di San Lorein era accasciata a terra, rantolante e con un braccio piegato in una strana angolazione. Ve ne era una seconda, ma con la divisa tagliuzzata e sporca di sangue, completamente immobile e con gli occhi vitrei.

“Ehi, che ti è successo?!” Avvicinatasi alla prima guardia, l’albina la fece girare a pancia in su, cercando di fare il più piano possibile.
“Q-Quella….maled….,” boccheggiò l’uomo con voce roca e frammentata.
“Quella chi?”
“Il sign…Eliorath….santuario….” non riuscì a pronunciare nient’altro.

Il soldato era svenuto per la troppa fatica, lasciando Azu ancor più sconcertata e con gli occhi color perla completamente sgranati.  Alle sue spalle, le grida dei cittadini di San Lorein echeggiarono con più forza, levandosi in alto e rimbombando in ogni angolo dell’isola.

Merda! L’incontro!

A giudicare dalle grida, a breve suo fratello e quell’altro tizio sarebbero scesi in campo.  Azu si guardò in giro, prendendosi giusto qualche istante per pensare, ma non le venne in mente null’altro che quell’unica convinzione: chiunque fosse stato a sistemare quei due soldati a quella maniera non era di San Lorein. E considerando che Rufy e gli altri erano allo stadio…
Percepì una brutalità del tutto fuori luogo e fu proprio quella a farla alzare.
Rivolgendo un’ultima occhiata alla guardia priva di sensi, la ragazza si avvalse del Geppou per uno dei suoi spettacolari balzi, gettandosi in una corsa sull’aria verso l’edificio più grande di tutti.

Sta succedendo qualcosa.

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Capitolo 23
*** Annuncio importante. ***





Il titolo di questa specie di capitolo dice già tutto, ma per educazione mi sembra più che giusto spiegare perché abbia deciso di scrivere la parola “Incompleta” su questa fict. Dopo mesi e tentativi di proseguire, mi sono resa conto che il blocco dello scrittore altri non era che una completa mancanza di trama. Kaizoku to no ryoko è un progetto a cui ho sempre tenuto e a cui ho dedicato molto tempo, ma arrivata al punto in cui mi trovo, non riesco più a proseguire sulla linea di base prefissatami all’inizio. Con questo non voglio dire che lo abbandonerò, la mia intenzione è di provare a ristrutturarlo dall’inizio con una trama nuova e completa; in principio, la storia non avrebbe dovuto essere come l’avete letta fino ad ora e forse potrei provare a riscriverla in base al testo originale, sebbene anche questo sia incompleto, ma al momento, la sezione di One Piece subirà un arresto indeterminato.
Non posso fare altro che scusarmi con tutti coloro che mi hanno seguito fino ad esso anche semplicemente leggendo e rincuorarli sul fatto che non smetterò di scrivere. Ho molte idee che mi piacerebbe sviluppare, fra cui una fic che sto postando postando senza troppe interruzioni, per non parlare dei progetti a cui sto attualmente lavorando e che sono scritti qui sotto. A tutti i miei lettori, recensori e amici dico “Grazie di cuore!”; la sottoscritta rimarrà comunque qui su Efp per continuare a scrivere e recensire!

Progetti e Idee:

Hell’s Road (D. Gray Man/in corso): oltre a One Piece è il manga che più ispira la mia vena creative. I toni cupi e mistici infondo alla lotta fra il bene e il male una spinta in più che man mano che la storia prosegue, sposta la linea degli eventi su un piano più personali per il protagonista.
Giglio di Picche (One Piece/restaurazione): è stato il mio primo lavoro, il mio primo amore. Una storia lunga 76 capitoli che, rileggendola ora, non mi dispiacerebbe ristrutturare in alcune sue parti, togliendo eventuali errori, per pura soddisfazione personale.
Kaizoku to no ryoko (One Piece/restaurazione): come già spiegato qui sopra, vorrei poterlo riscrivere da capo, ma penso che lo farò quando saprò di avere una trama stabile e, soprattutto, tempo e ispirazione, elementi che sfortunatamente sono piuttosto traballanti.
RogerxRouge Series: ho già scritto due one-shot su questa coppia che, a mio dire, è tanto difficile descrivere quanto entusiasmante. Mi piacerebbe poter scrivere ancora su di loro, situazioni che nella loro semplicità si trasformano in casi esasperanti e rasentanti l’assurdità umana.
Queste sono solo alcuni dei
 miei progetti; Hell’s Road è sicuro, ma per gli altri chissà…Ci saranno sicuramente poi i colpi di fulmine che verranno stesi e pubblicati senza troppe pretese, ma per chiunque volesse leggere le altre mie storie, le troverà nelle mia galleria.
 
ANCORA UNA VOLTA, GRAZIE DI CUORE!

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