Silver Bullet

di Fra_96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** 2. Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** 3.Capitolo Tre ***



Capitolo 1
*** 1. Capitolo Uno ***


1. Capitolo Uno

La notte era scesa su Tokyo come una coltre spessa e pesante. Piccoli fiocchi di neve candida, così simili a delicati petali di fiore, turbinavano pigramente nel cielo senza stelle, e si posavano in silenzio sulla città addormentata. Ovunque albergava una quiete quasi irreale, interrotta solo di rado dallo sfrecciare di un’auto solitaria o dal passaggio di qualche ubriaco appena uscito da un locale.
In quel momento, in uno degli appartamenti dei condomini di lusso del centro, una figura elegante e sottile sedette ad una poltrona di pelle accavallando le gambe con grazia; prese dal tavolino che aveva di fianco un bicchiere di cristallo e vi versò un po’ di sherry. Portò il bicchiere alla bocca e lasciò che il liquido rosato le lambisse appena le labbra perfettamente disegnate.
La donna sorrise, lasciando ondeggiare pigramente il liquido all’interno del bicchiere con la mano destra e accarezzando con lenta sensualità il raso della sottoveste blu notte che indossava con la sinistra.
Guardò attraverso le grandi vetrate del suo sontuoso attico la città addormentata e tuttavia sfavillante di luci.
La sua mente corse alla settimana che era passata: nessun compito da svolgere per i piani alti dell’organizzazione, nessun giornalista che sapeva troppo da mettere a tacere per sempre, nessun intrigo, nessun inganno. Niente di niente. 
Erano stati giorni tremendamente noiosi, e anche quella sera si prospettava tale, se non fosse stato per quella telefonata che aveva ricevuto da Gin intorno alle dieci.
Aveva sentito il cellulare vibrare sopra la sua massiccia scrivania di mogano, e leggendo il nome sul display un sorriso compiaciuto era affiorato spontaneo alle sue labbra. Oh, Gin era sempre un magnifico diversivo all’ozio inconcludente.
“Ciao, tesoro. Non riuscivi a dormire?” sussurrò con malizia.
“Vermouth…”  La voce gelida di Gin era traboccante di disgusto, che mal celava il suo desiderio.
“Gin” continuò lei, trasognata. “E’ da troppo tempo ormai che declini il mio invito. Questo sherry invecchiato l’avevo ordinato apposta per noi due…”
“Beh, forse tra non molto avremo di che festeggiare…”
“Davvero?” chiese Vermouth, cercando di non far trafelare della sua voce la sorpresa. Doveva sempre mostrarsi impeccabilmente controllata, era una sua prerogativa. “Beh, meno male. Le cose cominciavano a farsi un po’ troppo tranquille da queste parti…”
“Già. Odio ammetterlo, ma hai ragione. Il lavoretto che avevano commissionato a me e a Vodka tre mesi fa era una un giochino da bambocci…”
“Quale lavoretto?” chiese la donna, scuotendo leggermente la testa in modo che  i lunghi e flessuosi boccoli biondi le ricadessero con calcolata eleganza sulle spalle nude.
“Niente di che, te l’ho detto. Dovevamo assicurarci che un tale che aveva ficcato il naso nei nostri affari e che andava in giro vantandosene smettesse di cantare… Niente di speciale. Ma sarai felice di sapere che ciò che ho da dirti è invece molto speciale…” Gin lasciò in sospeso la frase, sperando di sentire una nota di impazienza nella voce della bionda..
Ma fu deluso quando senti un semplice: “Sentiamo…”
A dire la verità Vermouth era curiosa eccome, perché sapeva che se centrava Gin la novità doveva essere piuttosto succulenta, ma il suo tono rimase imperturbabile.
“Uno dei nostri informatori è riuscito a mettersi sulle tracce di Sherry. L’abbiamo trovata” scandì Gin.
Un lampo di stupore balenò per un attimo negli occhi grigi della donna, prima di trasformarsi in odio inesorabile. Sherry. La traditrice, l’impostora, la voltafaccia. Quella vigliacca era fuggita dall’organizzazione senza pensarci due volte, e adesso tremava nell’ombra aspettando con terrore quel momento, che finalmente era arrivato. Era stata una stupida: con la sua intelligenza e la sua astuzia sarebbe potuta arrivare ai massimi vertici di comando all’interno dell’organizzazione, e invece era fuggita, perché era una debole come sua sorella, che infatti era morta come un cane tra le braccia di Cool Guy. Ora anche a lei sarebbe toccata la stessa fine. Assaporò la ormai ben nota sensazione che si impossessava di lei quando si stava per compiere un omicidio. Sentiva l’adrenalina scorrerle potente nelle vene; la foga di complottare, di tendere trappole e di mettere con le spalle al muro la sua vittima, non lasciarle scampo.
Trattarla con falsa dolcezza, quasi con carità, per farle credere fino all’ultimo di avere una possibilità di salvarsi la pelle. E poi sentirsi supplicare, tra le lacrime a volte, di avere pietà. Vermouth adorava quel brivido terribile e meraviglioso che le percorreva la schiena al pensiero di quanto in quel momento la vita di una persona fosse così  inesorabilmente nelle sue mani.
Era allora che prendeva la vittima per il mento, costringendola a guardarla negli occhi. Un sorriso sadico le faceva arricciare le labbra, mentre osservava quegli occhi accendersi per l’ultima volta di puro terrore, prima che improvvisamente si spegnessero, restando per sempre vuoti e vitrei. Così lasciava la presa, ammirando la sublime lentezza con cui il corpo ormai senza vita si accasciava a terra, miseramente innocuo e patetico.
Sarebbe stato fantastico e divertente. Oh, sì.
“Siamo sicuri?” disse finalmente, agitandosi inquieta sulla poltrona, nonostante il suo tono restasse monocorde.
“Pare di sì. Sicuramente domani ci sarà una riunione per chiarire la cosa”
“Perfetto” disse Vermouth suadente.
“Domattina ti contatterò per i dettagli”
“I can’t wait, my dear”
Chiuse la telefonata abbandonandosi lentamente sulla poltrona.
Sorrise.
Yeah, I can’t wait, Sherry… Are you ready?   
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** 2. Capitolo Due ***


2. Capitolo Due
 
Conan aprì faticosamente le palpebre, guardandosi intorno e osservando la stanza che da un bel po’ di tempo a questa parte condivideva con il famoso Kogoro il Dormiente. Era stato proprio il russare intenso di quest’ultimo a costringere Conan a sciogliersi bruscamente dall’abbraccio accogliente di Morfeo.
Il bambino pensò che fosse ormai inutile provare a riaddormentarsi e dopo aver rivolto un’ultima occhiata infastidita a Kogoro, uscì dalla camera.
Conan si diresse a passi lenti e strascicati verso il bagno.
Una volta entrato, trascinò davanti al lavandino un piccolo sgabello di legno e vi salì sopra, cercando di ignorare il forte senso di umiliazione che gli infondeva quel gesto, che ormai era diventato praticamente un’abitudine. Del resto sapere di non essere abbastanza alto da arrivare allo specchio sul lavandino, non era come guardarsi a quel dannato specchio, che tutte le volte rifletteva l’immagine di un bimbetto esile, dal viso delicato e dai grandi occhioni blu; lo stesso aspetto di quando aveva realmente sette anni.
Shinichi Kudo sbuffò attraverso la bocca di Conan Edogawa, socchiudendo gli occhi nella sua inconfondibile espressione scocciata: era mai possibile che ogni volta che riusciva ad avvicinarsi agli uomini in nero, per una ragione o per l’altra perdeva sempre le loro tracce, ritrovandosi puntualmente al punto di partenza? Che tutti i tentativi di catturarli e poter tornare così ad essere adolescente si rivelassero dei buchi nell’acqua?
Se continuo così, mi toccherà recitare la parte del moccioso a vita. Rabbrividì a quel pensiero. Era una cosa assolutamente impensabile: ritrovarsi per sempre al di fuori del mondo che lo aveva sempre circondato, non poter mai aprirsi davvero, fingere, fingere, fingere. Avrebbe osservato i suoi amici crescere, mentre lui all’apparenza rimaneva sempre dieci anni indietro.  
Ma c’era qualcosa che premeva ancora di più sul cuore di Shinichi, qualcosa che lui cercava di ignorare e che lo stava lentamente divorando, tra rimorso, dolore e finti sorrisi innocenti da bimbo delle elementari. Quel qualcosa era domanda. Una domanda che si presentava ricorrente nella sua mente.
Per quanto Ran sarà ancora disposta ad aspettarmi?
Già, per quanto tempo, si chiedeva, quella ragazza che cercava di apparire forte avrebbe aspettato il suo ritorno? Per quanto tempo avrebbe ricacciato indietro le lacrime, per tutte le volte che lui era tornato e poi improvvisamente sparito di nuovo, come un soffio di tramontana?
Era il terrore di perdere Ran Mouri – che gli aveva indirettamente rivelato il suo amore, senza sapere, tra l’altro, di essere ampiamente ricambiata – che lo spronava a continuare le sue indagini segrete sull’organizzazione, anche se sapeva di correre un rischio terribile.
In quel momento l’oggetto dei suoi pensieri bussò alla porta del bagno, facendolo trasalire.
“Conan-kun, che stai facendo? E’ mezz’ora che sei lì dentro!” esordì Ran, che aggiunse, la voce teneramente velata di preoccupazione: “Va tutto bene?”.
“Si si, Ran-neechan, sto benissimo!” disse Conan, esibendo il suo tono di voce più adorabile.
Finì di lavarsi in tutta fretta, si infilò i vestiti e si fiondò fuori dal bagno, trovando Ran sulla soglia.
Si sentì avvampare, osservando la splendida figura della ragazza, fasciata da una camicia da notte fin troppo corta e leggera, che gli lasciava osservare alcuni particolari a cui un semplice bambino delle elementari non avrebbe badato. Cerco di nascondere il rossore apparentemente ingiustificato e sorrise a mo’ di buongiorno a Ran.
Fecero colazione tutti insieme nel soggiorno. Conan spazzolò la sua ciotola di riso, benedicendo Ran e la sua buona cucina. Poi andarono nelle rispettive camere a recuperare le cartelle; mentre Conan si infilava le scarpe nell’ingresso, sentì la voce di Ran che faceva le varie raccomandazioni al padre: di non ignorare le chiamate dei clienti, di non giocare alle corse e di non passare la mattinata davanti alla tv a scolarsi birra. Ridacchiò, pensando che tecnicamente le parti dovessero essere invertite in una famiglia normale.
Ran lo raggiunse e finalmente uscirono.
Mentre lo accompagnava a scuola era insolitamente pensosa e taciturna. Conan aveva paura di vederla così: la sua bocca si contraeva sempre in un mesto sorriso rassicurante, come se volesse dire che andava tutto bene, e il celeste così stupefacente dei suoi occhi diventava scuro e insondabile, custode di chissà quali pensieri. Il suo sesto senso gli diceva a chi stava pensando, e la cosa faceva male.
A metà strada vennero raggiunti da Sonoko Suzuki, una delle migliori amiche di Ran. La ragazza ebbe appena il tempo di salutarla, che lei, con voce acuta e civettuola, attaccò a parlare del ragazzo carino di 5°C. Sia Ran che Conan alzarono gli occhi al cielo, mentre Sonoko partiva ad elogiare il fisico prestante del ragazzo. Shinichi pensò che avere libero accesso ai discorsi femminili fosse utilissimo per capire quelle creature complicate che erano le ragazze, ma a volte si rivelava incredibilmente noioso.
Erano ormai vicini alla sua scuola, quando Conan venne raggiunto dai Detective Boys. Salutò Ran e Sonoko, che proseguirono sulla strada per il Teitan, e si accodò ai bambini, di fianco ad Haibara.
Conan si sorbì la piccola Ayumi che, in una nuvola di tulle azzurro, faceva la giravolta per mostrargli il suo vestito nuovo, ansiosa del suo giudizio; finse entusiasmo quando Genta e Mizuhiko gli annunciarono l’uscita imminente del nuovo film di KamenYaibar.
“Certo che se bravo come attore, Kudo-kun…” lo apostrofò pungente la voce di Haibara.
“Già, a differenza di te che non ti sforzi neanche un po’!” ribatte lui, scocciato.
Ma c’era qualcosa di diverso quel giorno nella biondina, un balenio strano in quegli occhi solitamente gelidi e imperscrutabili.
Shinichi pensò che era semplicemente inutile farle delle domande, perché Ai si sarebbe buttata da un’auto in corsa piuttosto che aprire il proprio cuore a qualcuno e ammettere che qualcosa non andava, ma non riuscì comunque a trattenersi, e le chiese, con voce pacata e insolitamente tenera:
“Ai-kun… qualcosa non va?”
Come si era aspettato, Ai gli rivolse uno sguardo indifferente e rispose: “Cosa non dovrebbe andare, Kudo?”.
Ma lui era un detective, pensò con una punta di orgoglio, e non lo si poteva ingannare tanto facilmente. E poi, realizzò mentre un brivido freddo gli percorreva la schiena, quando la scienziata era così preoccupata voleva dire che c’entravano… loro.
No, la faccenda era seria, bisognava indagare.


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Capitolo 3
*** 3.Capitolo Tre ***


3.Capitolo tre
 
Quel giorno di tarda primavera il sole inondava di luce Tokyo, e il cielo era di un azzurro puro e incontaminato. Mentre camminavano spediti verso la scuola elementare di Beika, i Detective Boys ridevano allegri; infondo, cosa può turbare la serenità di un bambino di sette anni? Un brutto voto, un sgridata? C’era bel tempo, la maestra Kobayashi aveva promesso alla classe che li avrebbe portati a prendersi cura dei coniglietti della scuola, e nel pomeriggio il professor Agasa li avrebbe accompagnati a mangiare un buon gelato. Era quanto bastava per rendere una semplice giornata una giornata perfetta. Ai Haibara guardava in silenzio i tre bambini e li invidiava. Loro sì che erano felici.
Lei non lo era mai stata. Mai. Neppure quando aveva avuto davvero sette anni, perché l’infanzia le era stata rubata. La sua vita era sempre stata un continuo nascondersi, fingere, ubbidire e piegarsi all’implacabile volontà altrui. In quella perenne rinuncia ai suoi desideri, in quella costante negazione di se stessa, non c’era spazio per i sentimenti. In quel mondo infernale in cui suo padre aveva obbligato a vivere lei e sua sorella Akemi, non ci si poteva concedere il lusso di essere vulnerabili; bisognava sempre mostrarsi freddi e razionali, diffidenti nei confronti di tutti. In una realtà dove non ci si poteva fidare neanche di se stessi, Shiho aveva imparato a piangere nel silenzio di una stanza buia, alla fine di una giornata trascorsa in un laboratorio freddo e vuoto, lontana dai suoi coetanei e dalla felicità. Col tempo, crescendo, aveva capito che era meglio non piangere proprio, perché piangere è da deboli, e i deboli sono destinati a perire. Piano piano era riuscita a rendersi completamente glaciale e imperturbabile di fronte a tutto; quel suo comportamento algido e distaccato aveva sempre suscitato lo stupore dei suoi piccoli amici e degli adulti che la vedevano al fianco del professor Agasa, mettendo così in pericolo la sua copertura di allieva delle elementari, ma le permetteva di estraniarsi da tutto, di rinchiudere i suoi sentimenti in un gabbia di vetro, solida e inaccessibile, anche se solo all’apparenza.
Era per questo non avrebbe parlato a nessuno, neanche a chi conosceva la verità su di lei, di quel terrore che ultimamente le stava opprimendo il petto. Neppure a Kudo, il cui sguardo in quel momento era puntato su di lei, ansioso e determinato a conoscere la verità.
Se c’era una cosa che le era rimasta dopo la sua esperienza nell’Organizzazione degli Uomini in Nero, oltre alla sua incapacità a mostrare cosa provasse, era il sesto senso che aveva nel percepire la loro presenza: come se avvelenasse l’aria che Ai respirava, si insinuava dentro di lei, soffocandola, le mozzava il respiro e le faceva gelare il sangue nelle vene. La loro anima sporca inquinava tutto ciò che la circondava, dandole l’assoluta certezza che fossero lì per lei.
Erano due settimane ormai che quell’angoscia si era impossessata di Shiho. L’avevano trovata, ne era sicura. Si sentiva costantemente braccata, osservata, e quando camminava per strada aveva la sensazione che qualcuno la seguisse. All’entrata e all’uscita da scuola aveva notato un uomo sconosciuto e sinistro, avvolto in un impermeabile nero come le piume di un corvo. La fissava per un interminabile attimo, mimetizzato tra i numerosi genitori, poi piegava il capo soddisfatto e spariva come un miraggio.
Shiho non ci aveva impiegato molto a fare due più due, e capire. Non ne aveva fatto parola con Kudo, e adesso si stava chiedendo se avesse fatto la scelta giusta. Dopotutto, se la faccenda riguardava gli uomini in nero, anche Shinichi c’era dentro fino al collo, glielo aveva detto lei stessa. Ma lo conosceva fin troppo bene, e forse era per questo che gli aveva taciuto la verità.
Dietro quella facciata da sbruffone, arrogante e pieno di sé, si nascondeva una persona leale, buona; Kudo era disposto a sacrificarsi e a rischiare la propria vita, se qualcuno aveva bisogno di lui. Lo avrebbe fatto anche per lei. Le aveva offerto la sua amicizia, il suo sostegno, nonostante il suo passato da criminale, e l’aveva sempre protetta e salvata dagli artigli famelici dell’organizzazione. E non si era aspettato mai nulla in cambio; e quando Ai, fingendosi indifferente, gliene aveva chiesto il motivo, lui semplicemente aveva incrociato le braccia dietro la testa e l’aveva fissata uno sguardo così intenso da scalfire le pareti della gabbia in cui aveva rinchiuso il suo cuore.
“Perché è giusto così, Haibara” aveva aggiunto, guardandola con uno sguardo dolce e sincero.
Forse era stato proprio questo episodio a rendere il detective liceale così speciale agli occhi di Ai: le aveva fatto capire che si fidava di lei, che era la prima persona, dopo sua sorella, capace di sondare le profondità del suo animo tormentato e capirla, dandole un’altra possibilità.
No, anche se faticava ad ammetterlo perfino a se stessa, Shinichi Kudo era troppo importante per lei, e non poteva permettersi di fargli correre un rischio così enorme.
Avrebbe affrontato tutto da sola, le persone a cui teneva non avrebbero più pagato per i suoi sbagli. Mai nella sua vita era stata tanto sicura di quel che faceva come in quel momento.
Sorrise risoluta, ignorando gli sguardi stupiti dei Detective Boys e di Kudo, e varcò il cancello della scuola.
 
Molte ore più tardi, in una zona periferica fatiscente e malsana, ombre spettrali strisciavano fuori da un vecchio edifico abbandonato, avvolte in un’oscurità così fitta che le rendeva ancora più inquietanti. Quasi tutte si dirigevano verso uno spiazzo dove erano state parcheggiate alcune auto di lusso, tutte rigorosamente nere. Solo tre figure rimasero ferme davanti all’ingresso del palazzo, i tiepidi bagliori delle sigarette che aleggiavano in quell’atmosfera tetra come lucciole funeree.
“Che serata interessante. Non è vero, Gin?” chiese suadente la voce di una donna.
“Già, non vedo l'ora di entrare in azione” rispose l’interpellato, masticando le parole in un grugnito minaccioso. “Voglio che quella sporca traditrice faccia la stessa fine di quella buona a nulla di sua sorella. Me ne occuperò io stesso” sputò con rabbia dopo qualche minuto.
“Non credo, mio caro” ribatté Vermouth in un sussurro tagliente, nascosto da una cortina di zuccherosa dolcezza. “Io e Sherry abbiamo tante cose da dirci…” aggiunse allontanandosi nel buio.
“I miss her so much.”
 
 
 

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