Il mistero della rocca

di cabol
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

Capitolo 1: passeggiata in campagna

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Uno splendido sole illuminava la campagna, già sbocciata nei colori d’una brillante primavera. Profumi e suoni dolcemente sereni riempivano la fresca luce e la tranquillità delle colline verdeggianti. Un falco volteggiava, altissimo e maestoso, nell’azzurro limpido del cielo, dove vagavano rare, soffici, nuvole bianche. Pigre volute di fumo si alzavano dai pochi villaggi che sorgevano sui poggi circostanti e dal maestoso torrione che dominava la collina. Il mare splendeva placido in lontananza, ricevendo, oltre le possenti mura d’una città turrita, le acque argentee del fiume che scorreva giù, a valle.

La tranquilla regione circostante l’antico porto di Elosbrand[1] pareva una fanciulla vestita a festa, lieta e opulenta, appena affacciatasi allo splendore della gioventù.

Due giovani cavalieri percorrevano al piccolo trotto il dolce pendio che scendeva verso la strada serpeggiante in fondo alla valle, ammirando lo spettacolo che la natura offriva ai loro sensi, riempiendo di meravigliosa serenità i loro cuori. Procedevano affiancati, scambiandosi ogni tanto qualche parola, sorridenti e rilassati.

Alle loro selle erano appesi archi da caccia e carnieri scarsamente forniti. Evidentemente erano usciti dalla città col pretesto di una battuta di caccia ma non parevano essersi impegnati troppo. Il più basso dei due rallentò l’andatura, apparentemente assorto nella contemplazione della natura.

«Guarda che splendore, Robert! È un vero peccato tornare in città in una giornata così bella!».

Era un giovane sui vent’anni, dai lineamenti aristocratici e attraenti, con profondi occhi verdi e lunghi capelli neri che gli scendevano quasi fin sulle spalle. Emanava un’aura di gioventù gioiosa e spensierata, che contrastava stranamente con lo sguardo, maturo e consapevole come quello di chi aveva vissuto a lungo e a lungo sofferto.

Vestiva una camicia di seta bianca sulla quale portava un’elegante guarnacca[2] corta con maniche ampie, di velluto nero, chiusa sul davanti da splendidi bottoni d’argento, calzoni di lino nero, infilati in stivali in pelle dello stesso colore. Non portava speroni, come usavano quegli abitanti di Ainamar che avevano sviluppato abbastanza empatia con gli animali da non dover ricorrere a sistemi brutali per farsi obbedire. Il capo era coperto da un cappello elegante, a larghe tese, ornato da una splendida piuma rossa. Un mantello nero era arrotolato dietro la sella, per proteggersi dai rigori della notte ancora non abbastanza intiepidita dalla primavera incipiente. Dalla cintura pendevano uno stocco dall’elsa riccamente ornata e una scarsella di cuoio. Montava un palomino snello dalla criniera argentata, i cui colori chiari contrastavano gradevolmente con quelli scuri del cavaliere.

L’altro gli si avvicinò sorridendo. Era un giovane alto e magro, suppergiù della medesima età del suo compagno, dai lineamenti severi, con occhi scurissimi e vivaci, testimoni di un’intelligenza curiosa e brillante. Il naso aquilino conferiva al volto un aspetto aristocratico e volitivo. I capelli castani erano tagliati corti, a caschetto, come usava fra i paggi e i servitori delle case aristocratiche.

Portava una casacca marrone, chiusa sul davanti da lacci in cuoio e ornata da borchie metalliche, calze-brache[3] verdi e stivali di cuoio. Sul capo un elegante tocco[4] di velluto, con le falde alzate.

Si guardò intorno, mettendo al passo il cavallo, uno splendido stallone pezzato, in modo di adeguarlo all’andatura del giovane gentiluomo. Indicò il nastro argenteo del fiume.

«Se il signore lo desidera, invece di scendere verso il ponte, possiamo risalire l’Elos[5] per qualche miglio, guadarlo e tornare in città a sera».

«Non è una cattiva idea … oppure potremmo …».

Un grido disperato irruppe nell’incanto. Dal versante opposto del colle, una voce di donna, intrisa di terrore, invocava un soccorso che, forse, non credeva più di poter ricevere. Un rombo sordo di zoccoli al galoppo accompagnava le sue grida singhiozzanti.

«Qualcuno è in pericolo! Andiamo Robert!».

Il gentiluomo non esitò. Voltato il cavallo, salì verso il crinale. In pochi istanti vi giunse. Comprese subito cosa stava accadendo.

Una splendida giumenta nera correva nella sua direzione, una decina di metri più in basso, lanciata in un forsennato galoppo. Una donna si sorreggeva a stento in sella, abbracciando il collo poderoso della cavalcatura.

«Un cavallo imbizzarrito! Presto! Aiutiamo quella poveretta!».

Robert in un istante si rese conto della situazione, piantò gli sproni nei fianchi del suo cavallo, spingendolo al galoppo e raggiungendo il gentiluomo, dietro la giumenta imbizzarrita.

«Cercate di affiancarla, signore! Io farò lo stesso dall’altra parte!».

I due cavalli parevano volare sull’erba soffice. I cavalieri li incitavano a correre sempre di più. Intercettarono l’animale in fuga. Si allargarono per portarsi ai suoi fianchi. La giovane donna li guardava in preda al terrore. A un tratto perse la presa sul collo della giumenta e si piegò pericolosamente su un lato. Urlava, vedendosi ormai perduta.

«Io penso alla ragazza! Robert, cerca di afferrare le redini di quella bestia!».

Il giovane gentiluomo si sporse arditamente di sella. Fece appena in tempo ad afferrare la vita della donna. Ancora un istante e sarebbe caduta dalla giumenta. Contemporaneamente, il pezzato di Robert era riuscito a superare la cavalla. Il suo cavaliere riuscì a prendere le briglie dell’animale imbizzarrito e cominciò a corrergli accanto. Un attimo dopo, la ragazza era fra le braccia del giovane, fissandolo con ancora il terrore nello sguardo.

«State tranquilla, è tutto finito».

Gli occhi azzurri della donna si fissarono per un attimo in quelli del suo salvatore, guardandolo senza vederlo. Aprì la bocca, come per urlare, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Nel volto terreo, le pupille, ancora dilatate, rotearono e la ragazza si accasciò esanime.

Nel frattempo, Robert era riuscito a controllare la giumenta, costringendo il suo galoppo forsennato a descrivere cerchi sempre più stretti, fino a rallentarla.

«Portami del vino, Robert. Questa poverina è svenuta».

Il giovane lasciò andare le redini della giumenta ancora agitata, fermò il suo cavallo e scese di sella. Frugò nelle sacche finché trovò la fiasca del vino e una coppa. Nel frattempo, il gentiluomo aveva spiegato sul prato il mantello, sul quale aveva poi adagiato la ragazza, ancora svenuta. La osservò attentamente poi, tranquillizzato dal suo respiro regolare, si alzò, guardandosi intorno. La giumenta si era fermata poco lontano. La sua folle corsa l’aveva lasciata coperta di schiuma e, ogni tanto, si produceva in uno scarto nervoso ma sempre senza allontanarsi troppo. In quel momento Robert arrivò con la fiasca del vino.

«Puoi occuparti di questa ragazza? Vorrei esaminare da vicino quell’animale».

«Certo, signore! Cielo, che bella figliola!».

«Prenditene cura ma … non esagerare, d’accordo?».

Il gentiluomo sorrise ammiccando, poi si diresse verso la giumenta, che appariva ormai quieta e stanca. Aveva grande esperienza di animali per aver trascorso molto tempo nelle foreste e nelle terre selvagge di Ainamar[6], dunque si avvicinò lentamente ma senza esitazioni, cercando di tranquillizzarla. Giunto accanto alla cavalla, cominciò ad accarezzarle il collo con delicatezza e a sussurrarle parole dolci in una lingua musicale che la povera bestia ascoltava attentamente, sempre più tranquilla. Il giovane percepiva chiaramente lo spavento dell’animale, dunque continuò la sua dolce cantilena che, lentamente, sciolse il freddo terrore che ancora attanagliava la giumenta.

Slacciò il sottopancia e sollevò la sella, posandola sull’erba, lì vicino. Poi, cominciò a esaminare il dorso dell’animale, ormai tranquillo. Non tardò a notare una macchia scura al centro della gualdrappa, proprio sotto a dov’era la sella. Osservò da vicino la macchia e si rese conto che era costituita da sangue e frammenti vegetali. Delicatamente rimosse la coperta e, con un fazzoletto di seta, ripulì la lesione, sempre continuando ad accarezzare la cavalla e a parlarle con voce ipnotica. Dalla ferita estrasse alcuni filamenti, quasi certamente anche questi di origine vegetale. Li esaminò con cura, poi si occupò della sella e la voltò, controllandola accuratamente. Anche lì, trovò dei frammenti vegetali conficcati nel cuoio con aculei affilati. Un ramoscello spinoso, forse un rovo, posto fra sella e groppiera.

Guardò la cavalla, poi si voltò verso la giovane e vide che stava riprendendo i sensi sotto lo sguardo attento di Robert. Lentamente la raggiunse, rivolgendosi a lei con un sorriso tranquillizzante.

Era una fanciulla di insolita bellezza, dall’incarnato pallido, gli occhi azzurri e i capelli color del miele disposti in una lunga treccia. La sua struttura era esile ma le forme già evidenti e sinuose dimostravano come fosse ormai uscita dall’adolescenza. Vestiva una semplice gamurra[7] di fustagno azzurro, poco adatta a cavalcare, dalla quale spuntava un paio di stivali di taglia evidentemente esagerata per quella leggiadra creatura. Pareva che fosse partita in fretta, senza avere il tempo di equipaggiarsi adeguatamente.

«Tutto bene, madamigella?».

I grandi occhi azzurri si fissarono sul gentiluomo, un’ombra di sorriso aleggiò sulle labbra ancora livide della ragazza.

«Mi avete salvato la vita, signore». Per un attimo, l’enormità del rischio corso fece dilatare ancora le sue pupille, facendo temere ai due giovani un nuovo svenimento ma subito, la ragazza parve riprendersi.

«Non avremmo mai potuto lasciare tanto spavento in due occhi così belli. Abbiamo fatto solo il nostro dovere. Sono sir Raoul Velmont di Lumbar, in visita per qualche giorno a Elosbrand e questo giovane è Robert, il mio impareggiabile maggiordomo».

Robert guardò incuriosito il suo padrone. Pareva volergli chiedere qualcosa ma non aprì bocca e si dedicò ad apparecchiare sul prato e mescere del vino in un boccale.

«Bevete, madamigella, vi aiuterà a riprendervi».

La fanciulla sorrise a Robert e prese il boccale. Bevve educatamente un paio di sorsi e le sue gote cominciarono a riprendere colore. I suoi occhi azzurri scrutarono attentamente i due uomini che l’avevano salvata.

«Vi devo la vita, signore. È un giorno in cui sono protetta da Sergaries[8], evidentemente. Chissà cos’è accaduto a Morella. È sempre stata una cavalla tanto placida!».

Sir Raoul si sedette sorridendo di fronte alla fanciulla. Nei suoi occhi espressivi era comparsa una luce preoccupata.

«La vostra giumenta ha una piaga sul dorso, proprio sotto la sella. Il vostro peso, seppure lieve, l’ha lentamente riaperta provocandole dolore e facendola imbizzarrire».

I grandi occhi azzurri si spalancarono pieni di sorpresa.

«Ma l’ho montata anche ieri e non c’era alcuna piaga! L’ho dissellata personalmente!».

Robert si sedette accanto alla ragazza, con fare protettivo. Lanciò uno sguardo preoccupato a sir Raoul, che rispose con un cenno affermativo del capo, e si rivolse nuovamente alla giovane.

«L’avete sellata voi, oggi?».

«No … Dama Lavinia mi aveva inviata al villaggio per comprare della tela al mercato, aveva fretta perché dovevamo prepararle un vestito nuovo per la festa … il cavallo era già sellato … dovrebbe essere stato Jack, lo stalliere». La voce della ragazza era diventata più incerta, venata di ansia. Il giovane maggiordomo intervenne, cercando di dare alla propria voce il tono più tranquillo che poteva.

«E questo Jack che tipo è?».

«Oh, è un bonaccione, bravo e tranquillo ma … non proprio furbo, mi capite?». La ragazza guardava i due uomini cercando di sorridere ma avvertiva evidentemente la loro preoccupazione. Robert le si rivolse con forse un po’ troppa ansia nella voce.

«Siete in buoni rapporti con questo Jack?». La ragazza trattenne a stento un sorriso. Evidentemente i sospetti di Robert le dovevano parere assurdi.

«Ma certamente! Poverino, è quasi impossibile essere in cattivi rapporti con lui … Oh! Mi rendo conto di non essermi ancora presentata. Sono Lucy Thornbow, ancella di dama Lavinia Thibersmenil, della rocca di Luna Splendente».

Sir Raoul sorrise e chinò il capo. Trovava divertenti quelle maniere forbite in una ragazza che avrebbe dovuto essere una contadinotta.

«Onorato di conoscervi madamigella, siete di un’educazione impeccabile. La rocca di Luna Splendente è per caso quel magnifico torrione che domina questa vallata?»

«Sì, sir Velmont, ed il villaggio è quello che vedete laggiù, ai piedi della collina».

Il gentiluomo osservò il profilo della collina, seguendolo dalla vetta fino alle mura del piccolo villaggio situato presso le pendici. Notò che, a metà strada, quasi in perfetto allineamento fra la rocca e il villaggio, si ergeva un castelletto, circondato da un bosco di cipressi.

«E quel piccolo castello? Dipende dalla rocca?».

«Oh, no! È la villa dei cipressi neri, di proprietà di Sir Mordred Galehaut, il fratello di dama Lavinia».

« È dama Lavinia che governa la rocca e il villaggio?».

«Oh, no … è, o almeno dovrebbe essere, sir Ernest Thibersmenil, suo marito». Una nota di malinconia comparve nella voce della giovane ancella.

«Perché dite dovrebbe essere?».

«Purtroppo sir Ernest non sta molto bene in salute … si occupa di tutto sir Mordred. Sir Ernest si fida completamente di lui. Quanto al villaggio di Brightmoon, non è più sotto il controllo della rocca, come ai tempi delle sacerdotesse». Parlava con voce lontana, come seguendo un proprio pensiero.

«Scusate?». Sir Raoul pareva molto incuriosito. La ragazza si riscosse e arrossì.

«Perdonatemi, dimenticavo che non siete di questi paraggi. La rocca di Luna Splendente è stata governata per secoli da una stirpe di sacerdotesse di Sergaries, fino a poco meno di diciotto anni fa, quando morì l’ultima sacerdotessa, senza lasciare eredi, a parte sir Ernest, ovviamente».

«Ora che me lo dite, credo di averne sentito parlare a Elosbrand. Dunque, la vostra signora non è una sacerdotessa … ».

«Oh, no, no davvero». La fanciulla si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Non è assolutamente il tipo … e dubito anche che sia devota di Sergaries». Spalancò gli occhi con espressione allarmata. «Cioè … non fraintendetemi … la signora è una vera dama ma non una sacerdotessa, ecco tutto».

Il gentiluomo scoppiò a ridere.

«Non preoccupatevi, miss Lucy, sono certo che non ci fosse alcuna malizia nelle vostre parole. Piuttosto, se permettete, vi riporteremo alla rocca. La vostra giumenta non è affatto in grado di essere montata». Il giovane gentiluomo si alzò in piedi, pronto ad accompagnare la ragazza. Un’espressione preoccupata comparve nei grandi occhi di Lucy Thornbow.

«Oh, no, sir Raoul! Devo assolutamente andare al villaggio a comprare la stoffa o dama Lavinia s’infurierà».

«In questo caso, Robert ed io vi accompagneremo al villaggio e poi alla rocca. Non potreste mai compiere questa commissione a piedi e noi non potremmo perdonarci di avervi abbandonata in un simile frangente».

La ragazza arrossì, gli occhi le brillavano di gioia.

«Io … non so come ringraziarvi … due gentiluomini che si disturbano così tanto per me …».

«Il vostro sorriso è una ricompensa sufficiente per entrambi, non datevi pensiero. Piuttosto, se volete, possiamo avviarci al villaggio».

Rimontarono in sella, la ragazza dietro a Robert e la giumenta legata per le redini alla sella di Sir Raoul, e si diressero verso la direzione indicata dalla giovane che, ormai, aveva ripreso il suo colore naturale, apparendo ancora più graziosa. Per tutto il tempo, Lucy Thornbow illustrò ai suoi salvatori quei paraggi che dimostrò di conoscere assai bene.

La giovane ancella si esprimeva con una proprietà di linguaggio rara in una ragazza della sua condizione, stimolando la curiosità di Sir Raoul che non seppe trattenersi dal chiederle come avesse ricevuto un’educazione così raffinata.

«Oh, grazie sir Velmont. Vedete, alcuni anni or sono, una sacerdotessa di Sergaries è venuta a stare nel villaggio, per continuare l’ufficio delle sacerdotesse della Rocca. Si chiamava Keira Perthil. Chiese a sir Ernest di poter riaprire il tempio della fortezza, ma erano necessari dei lavori per la sicurezza e lei rimase al villaggio per ben quattro anni. In quel periodo, mio padre mi concesse di frequentarla per ottenere un’istruzione adeguata, lui è sempre stato convinto che le persone istruite hanno la possibilità di vivere meglio».

«Dunque c’è un tempio di Sergaries alla rocca?».

«Sì, signore, la rocca è stata edificata intorno al tempio … Si dice che, finché il tempio ci sarà, la rocca sarà inespugnabile. In effetti, pare che nessuno sia mai riuscito a invadere queste terre».

Sir Raoul lasciò vagare lo sguardo sulle colline, dopo qualche istante si rivolse nuovamente alla ragazza.

«Se non ricordo male, queste zone erano infestate da gnoll[9], secoli fa. Immagino che la rocca, il castello e il villaggio facessero parte di una linea difensiva contro le scorrerie di quei predoni».

«Lo ignoro, sinceramente. Non sono molto esperta di questioni militari e la storia mi annoia un po’ … ma mio padre lo saprà certamente … e anche sir Mordred, ovviamente».

«Bene, lo chiederò a vostro padre, allora. E … la sacerdotessa è sempre al villaggio?».

La ragazza guardò tristemente il gentiluomo.

«No, sir Velmont. Dama Keira non è più al villaggio, purtroppo. Una sera, circa un anno fa, è partita e nessuno l’ha più rivista». C’era molta preoccupazione nella sua voce. Sir Raoul fermò il cavallo per voltarsi verso la giovane ancella.

«Senza dire nulla a nessuno?». C’era stupore nel suo sguardo.

«Dicono che si fosse sdegnata per il prolungarsi dei lavori che rimandavano continuamente la riapertura del tempio, ma trovo strano che non mi abbia detto nulla. In fondo ero la sua discepola».

Il gentiluomo rimase un attimo in silenzio, meditando su quelle parole, poi riportò i suoi occhi profondi sulla giovane, non senza aver scambiato uno sguardo allarmato con gli occhi intelligenti di Robert.

«Sembra assai strano anche a me. Siete certa che non si sia confidata con nessuno, prima di partire?».

«No, signore. Ho paura che le sia capitato qualcosa di brutto, invece … c’è chi parla di lupi giganteschi che si aggirano di notte nei boschi qui vicino. Sono giorni tristi per queste terre». Una nota angosciosa si era insinuata nella voce della giovane ancella. Robert si guardò attorno con aria nervosa. La mano, involontariamente, si era stretta intorno all’elsa della corta spada che gli pendeva dal fianco.

«Lupi? Questa mi giunge davvero nuova!».

«Avete ragione ma … molti pastori si sono visti devastare le greggi da un lupo enorme. Un cacciatore giura di aver visto un lupo grande come un cavallo e, da allora, non vuole più tornare nei boschi».

«Credete che ci sia qualcosa di vero in queste dicerie?». Lo scetticismo traspariva evidente dalla voce del gentiluomo. I suoi occhi profondi vagavano sulla placida campagna circostante.

«Non so cosa dirvi … Mio padre dice che sono tutte sciocchezze, e così sir Mordred ma, di sicuro, avrei molta paura a trovarmi di notte fuori dalla rocca o dal villaggio». Involontariamente si strinse più forte alla vita di Robert che non seppe trattenere un sorriso. Il gentiluomo lanciò uno sguardo divertito al maggiordomo che arrossì violentemente. Dopo una breve pausa, sir Raoul si rivolse nuovamente all’ancella.

«Vi risulta sia scomparsa altra gente, negli ultimi tempi?».

«Purtroppo sì. Alcuni pastori e un paio di … stranieri … immigrati … povera gente che non aveva mai fatto male a nessuno».

«Profughi dal sud, immagino». Un’ombra di tristezza comparve negli occhi del gentiluomo. Da molti anni le popolazioni di alcuni paesi sconvolti da guerre civili ed interminabili faide avevano cercato rifugio nelle più tranquille terre di Jesdar[10] e della Repubblica di Elos.

«Sì. Credetemi è veramente brava gente. Qui tanti hanno dei pregiudizi ma quei poveretti chiedono solo di essere lasciati in pace».

Gli occhi profondi del giovane vagarono persi nella campagna circostante, così assurdamente tranquilla nonostante celasse tante storie drammatiche e misteri inquietanti.

«Strano … che strana storia, quella di questi luoghi …».

 

[1] Grande città portuale sulla costa orientale di Ainamar, capitale della Repubblica di Elos

[2] Sopravveste ampia adatta alle stagioni intermedie

[3] Tipico indumento maschile medievale, spesso in colori differenti nelle due gambe

[4] Cappello cilindrico con falde per coprire le orecchie

[5] Fiume che bagna Elosbrand sul quale si affaccia il grande porto della città

[6] La grande isola dove sono ambientate la maggior parte di questi racconti

[7] Veste femminile semplice, lunga fino alle caviglie, in genere chiusa con lacci

[8] Dea della salute e della guarigione, sempre in lotta contro Enghwir il dio delle malattie, spesso rappresentata come pioggia benefica e identificata col disco lunare.

[9] Razza di umanoidi, simili a iene antropomorfe. In media, gli gnoll sono alti oltre due metri e pesano più o meno un quintale e mezzo. La loro pelliccia è in genere grigio-rossastra o giallo sporco

[10] Antico stato teocratico, devoto a Mirpas, dio della Sapienza, ora un protettorato della Repubblica di Elos

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2: il villaggio

Il villaggio di Brightmoon

Dietro una curva del sentiero, come scaturite dalla roccia, apparvero le prime abitazioni di un borgo di case affastellate, le cui mura muscose e decadenti narravano un passato più opulento. Di quando, da mostri o da predoni, esisteva qualcosa da difendere oltre la vita degli abitanti, sempre a rischio in quelle terre ostili. Tra due torri diroccate, i merli delle quali parevano i denti di un anziano, un arco al quale erano appesi i battenti di una porta di remoto e perduto splendore, conduceva al villaggio di Brightmoon. Sulla chiave di volta, era incisa una quartina testimone del culto della salute.
 

Viandante benvenuto

chi in questo loco scende:

sulla sua chioma splende

la luce di Sergaries.


Attraverso il portone malridotto, si accedeva a una strada stretta, tortuosa e in salita, che sboccava in una piazza, realizzata proprio al centro del paese. Portici di eleganza antica la circondavano e un grande pozzo emergeva dai banchi del mercato che la riempiva di voci, suoni e odori. Da quello spazio più aperto si poteva facilmente notare la rocca posta in cima al colle, che dominava l’abitato e la vallata circostante. Poco sotto di essa, circondata da una macchia di cipressi, la possente villa fortificata spiccava sul fianco del colle, in linea retta fra la rocca e il villaggio.

La ragazza e Robert si diressero verso le bancarelle del mercato, mentre sir Raoul rimase a osservare la piazza e il massiccio torrione diroccato che si ergeva in fondo a questa. La loro attenzione fu poi attratta da un uomo alto, dal viso affilato incorniciato da una barba nera spruzzata di grigio, accuratamente curata, vestito con sfarzosa eleganza. Era appena uscito dal torrione, seguito da una coppia di servitori dall’aria avvilita, facendosi largo fra la folla con passo fermo, lanciando occhiate di fuoco ai popolani che non si scansavano in tempo.

La giovane ancella, nel vedere quella figura, impallidì e si affrettò a farsi da parte. Robert si avvicinò con fare protettivo, pur apparendo anch’egli turbato da quell’individuo. I due giovani seguirono ansiosamente i bruschi movimenti e l’incedere arrogante dell’uomo, finché questi sbucò dalla calca poco distante dal punto dove il giovane gentiluomo osservava, sorridendo, la scena. Gli occhi grigi, distanti e gelidi, si soffermarono sugli abiti eleganti e la figura snella di sir Raoul. La bocca, fino allora atteggiata a uno sprezzante sogghigno, si distese in un sorriso freddo ma cortese. Il giovane si esibì in un educato inchino, togliendosi il cappello con un ampio gesto.

«Lord Cardekon, buona giornata».

«E voi chi diamine siete? Mi conoscete?». La voce tagliente e sgarbata del nobiluomo echeggiò nel porticato. La mano di Lucy si strinse sul braccio del giovane maggiordomo.

«Sono sir Raoul Velmont, di Lumbar, sono di passaggio in questi luoghi ma è impossibile per chi abbia trascorso qualche giorno in queste campagne, non conoscere lord Philip Thersil Cardekon. La vostra fama vi precede, milord».

«Siete molto cortese, sir Velmont ma … non siete mai stato nel mio castello? Avete qualcosa di … familiare». Lo sguardo ferino del nobile esaminò minuziosamente l’elegante figura di sir Raoul. Robert osservava la scena con crescente tensione, amplificata dall’evidente turbamento di Lucy.

«Ahimè no, milord. Temo di non aver mai goduto della vostra ospitalità. Ma sono lieto di avervi potuto conoscere di persona, dopo i tanti racconti che celebrano le vostre gesta». Gli occhi del lord si fissarono in quelli del giovane gentiluomo che sorresse disinvoltamente quello sguardo indagatore. Poi lord Cardekon parve perdere interesse nel suo interlocutore.

«Vi ringrazio, sir Velmont ma due giorni or sono il mio castello è stato svaligiato, dunque non sono dell’umore per soffermarmi a chiacchierare».

Sul volto di sir Raoul comparve un’espressione di assoluto rincrescimento. Lucy si accorse che Robert si era rilassato e ora, addirittura, sorrideva.

«Oh, santi Numi! Mi dispiace davvero, milord. Chi può aver osato tanto?».

«Blackwind. Mi ha lasciato una sua lettera, quel farabutto! Ma avrò la sua testa, ve l’assicuro».

«Oh, non ne dubito affatto, milord». Il nobile lanciò uno sguardo perplesso al gentiluomo poi, con un cenno di saluto, proseguì la propria marcia rabbiosa fuori dall’abitato, sempre accompagnato a debita distanza dai suoi servi dal viso mogio. Sir Raoul lo seguì a lungo con lo sguardo. Nei suoi occhi meditabondi era comparsa una strana luce.

Lucy si voltò verso il giovane maggiordomo, sorridendo. Tutto sommato il lord si era davvero meritato di essere derubato. La fama di uomo tirannico e avaro che lo circondava, pareva veramente ben guadagnata. Sebbene avesse frequentato la rocca praticamente da sempre, Lucy si sentiva sempre intimorita dai modi di quel nobile. La collera della sua voce era intrisa della durezza di chi è uso a impiegare la forza per ottenere ragione. Nel vederlo allontanarsi con i suoi servi, l’ancella non seppe trattenere un sospiro di sollievo.

Sir Raoul si voltò verso i due giovani, lanciando loro un sorriso divertito insieme a un cenno di saluto, poi si voltò verso il porticato per entrare in quella che pareva un’osteria.

Era un locale basso e fumoso, dalla volta in laterizio, a botte, probabilmente ricavato dalla ristrutturazione di un precedente edificio che doveva aver conosciuto maggior gloria. Nelle pareti erano rimaste alcune formelle di terracotta che richiamavano alla mente il culto di Sergaries. Sir Raoul si accomodò a un tavolo e ordinò da bere.

L’oste era un tipo socievole, come molti di coloro che esercitavano il suo mestiere, e il giovane gentiluomo non ebbe difficoltà a raccogliere informazioni sugli avvenimenti degli anni passati e sui personaggi influenti di quelle parti. Gli bastò un breve accenno alla magnificenza delle terrecotte e a come il villaggio pareva aver vissuto tempi migliori. Subito l’oste gli raccontò come ai tempi delle sacerdotesse, quelle campagne fossero ricchissime e sicure, protette dalla benevolenza di Sergaries e dalla ricchezza dei signori della rocca. Purtroppo, però, quei tempi erano passati e l’oste dubitava assai che potessero tornare.

Qualcosa si era guastato alla rocca. Dopo la morte dell’ultima signora, la dolce dama Erika, la melanconia pareva aver colpito la terra stessa. I lupi malvagi erano tornati e si diceva che alcuni briganti arrivati dal sud avessero eletto il loro covo da quelle parti. Alcune persone erano misteriosamente scomparse, fra loro anche una sacerdotessa di Sergaries che aveva soggiornato alcuni anni nel villaggio, sperando di poter ripristinare il tempio, su alla rocca.

Pareva che anche il famigerato bandito Blackwind avesse portato le sue operazioni in quei paraggi, svuotando i forzieri di lord Philip Thersil Cardekon che abitava poco distante da Brightmoon.

«Non che non se lo fosse meritato, dal momento che viene definito vecchio avvoltoio anche dai più benevoli». Soggiunse sottovoce, ammiccando con aria complice e strappando un sorriso a sir Raoul.

Inoltre, la dimostrazione della decadenza di quelle terre era nel fatto che l’unica guida spirituale rimasta era un vecchio pazzoide, seguace di Fenesbrand[11], che aveva fama di iettatore.

Per quanto riguardava sir Ernest, l’oste raccontò che era un affascinante cavaliere che riuscì a far breccia nel cuore di Dama Erika. Ma anche che, proprio da quel matrimonio, iniziò la decadenza di quei luoghi. La signora Erika Brightmoon era l’ultima discendente della dinastia di sacerdotesse di Sergaries che avevano retto per tre secoli la rocca di Luna Splendente, portando la parola della Luna Guaritrice fra la gente e facendo del bene ovunque fosse necessario. Si mormorava che tutto ciò avesse provocato l’ira di Engwhir, il Signore dei Disastri, e che fosse stato lui a colpirla. Circa due anni dopo il matrimonio, dama Erika cadde da cavallo battendo la testa contro una pietra. La trovarono morta, così. Pareva fosse stata la sua amica dama Lavinia a trovarla, ormai agonizzante.

Circa un anno dopo, dama Lavinia sposò sir Ernest. Era certamente una donna bellissima ma, a detta dell’oste, interessata solo alle feste e ai divertimenti, che non si occupava mai della gestione della rocca e tantomeno del villaggio. Secondo l’oste, dopo che Sir Ernest si era ammalato, solo suo cognato sir Mordred aveva la capacità e la forza necessarie per proteggere quelle terre. Eppure, nonostante avesse anche abbassato le tasse al villaggio, la gente era sempre più povera e solo i nobili e i mercanti più intraprendenti trovavano di che arricchirsi.

«Certo, se ritrovassero il tesoro della rocca, forse potremmo risollevarci, ma il segreto di quel tesoro si è spento con dama Erika». Anche questa frase fu accompagnata da una strizzata d’occhio ma sir Raoul osservò incuriosito il suo interlocutore. Non aveva mai sentito parlare di un tesoro nascosto e non sapeva cosa pensare delle ultime parole dell’oste.

«Scusate, di quale tesoro state parlando?».

«Ma di quello della rocca, naturalmente. Lo sanno tutti che le sacerdotesse custodivano un favoloso tesoro e si tramandavano il segreto del suo nascondiglio. Ma con la morte di dama Erika, il segreto è andato perduto. E così il benessere e la prosperità di queste terre. Abbiamo dovuto eleggere un borgomastro che si occupi della comunità. È il vecchio Clarence, una gran brava persona, credete a me, poi c’è lo sceriffo Bond, anche lui una gran brava persona e uomo di fiducia di sir Mordred».

«Non lo metto in dubbio … sapete, questi paraggi mi piacciono, non mi dispiacerebbe stabilirmi da queste parti … dove potrei incontrare l’anziano Clarence e lo sceriffo?».

L’oste parve molto contento della prospettiva che un simile gentiluomo venisse ad abitare nei dintorni e non si fece pregare per indirizzarlo dall’anziano Clarence Bellingham, un vecchio soldato ritiratosi più di vent’anni prima per le ferite riportate in guerra. Fino a poco prima aveva fatto il maniscalco ma ormai l’età lo aveva costretto ad assumere un lavorante e a limitarsi a controllare l’attività. I suoi compaesani l’avevano eletto loro rappresentante quasi all’unanimità, in considerazione della sua saggezza. Lo sceriffo aveva la sua sede nella torre del villaggio e, visto che non era a bere all’osteria, doveva essere ancora lì.

Sir Raoul pagò generosamente l’oste e uscì pensieroso dal locale. Giunto nella piazza, non ebbe difficoltà a farsi indicare la bottega di mastro Bellingham e si presentò cerimoniosamente al vecchio guerriero. Questi era un uomo di statura notevole, ancora robusto, dal volto severo, incorniciato da una folta barba grigia; gli occhi erano scuri e malinconici. Vestiva semplicemente, con una tunica e un grembiule da fabbro la cui pulizia lasciava alquanto a desiderare.

Ascoltò la presentazione del gentiluomo, lo squadrò da capo a piedi con aria malevola, sputò per terra e gli si rivolse sgarbatamente.

«Siete venuto a portare altra disgrazia su queste terre, signore? Questo non è luogo per gentiluomini, non più».

Sir Raoul non parve per niente turbato da quell’accoglienza così poco cordiale, sorrise e continuò a parlare.

«Mi giudicate male. Io sono qui per caso: ho salvato Lucy Thornbow cui si era imbizzarrito il cavallo e la sto riaccompagnando alla rocca».

«Lucy? Anche quella ragazza porta sfortuna. Non mi piaceva da bambina e non mi piace ora».

«Non capisco cosa vogliate dire». Gli occhi indagatori del gentiluomo si fissarono in quelli dell’anziano borgomastro. Si guardarono fissi, per un lungo istante, poi gli occhi scuri di Bellingham si abbassarono.

«Poco dopo che Lucy è nata, sono cominciate le nostre disgrazie. Er … la signora Erika è morta, quell’idiota di sir Ernest ha cominciato a bere, sir Mordred ha cominciato a spadroneggiare e quella … dama Lavinia ha cominciato a dare stupide feste immorali, con le quali si è comprata la benevolenza delle oche grasse del paese. Il tesoro della rocca è ormai perduto. Il tempio è andato in rovina. I lupi sono tornati. La gente onesta scompare nel nulla. I ladri svaligiano i castelli. Da quando quella ragazza è qui, un male oscuro si è risvegliato su queste terre … un male che ci porterà alla rovina».

Sir Raoul osservò con attenzione l’anziano soldato. Nella sua voce c’erano rancore e amarezza ma anche una nota falsa che lo mise immediatamente in guardia. Non riusciva a spiegarsi l’irrazionale avversione di quell’uomo nei confronti di una ragazza che non pareva aver avuto altro torto che quello di nascere in prossimità di eventi sventurati. Si chiese se fosse il caso di farglielo capire ma si rese conto che sarebbe stato inutile, finché non avesse compreso le vere ragioni del borgomastro. Allora il gentiluomo cercò di indagare in altre direzioni.

«Mi pare di capire che non vi piace come sir Mordred amministra queste terre».

«Capite quel che vi pare. Io, comunque, non l’ho detto». Ancora un muro.

«Siete la terza persona che mi parla dei lupi. Sono davvero diventati una minaccia?».

«Un lupo non è una minaccia, signore. E nemmeno un branco, in genere. Ma sono scomparse delle persone e qualcuno ha raccontato di aver visto belve demoniache aggirarsi nei boschi. Belve che popolano le leggende. E i ricordi dei vecchi guerrieri». Forse questo poteva essere un argomento di conversazione sul quale l’anziano Bellingham poteva concedere spazio. Sir Raoul cercò di subito di approfittarne.

«Anche di un vecchio guerriero che ha impugnato il martello, dopo aver lasciato la spada?».

«Di un guerriero che ha combattuto a lungo il male e ne ha visto le molteplici forme. E che le sa riconoscere». La voce dell’uomo era diventata cupa, con un fremito angosciato che attirò l’attenzione del gentiluomo.

«Parlate come se aveste una vostra teoria, su questa faccenda dei lupi».

«Ho l’impressione che questi … lupi non colpiscano a caso. Come se un male superiore li guidasse … come se sapessero dove e chi colpire». Parlava in un sussurro, quasi con se stesso.

«Cosa intendete dire?».

«Sono vaneggiamenti di un vecchio, sir Velmont. Lasciate perdere. È già scomparsa troppa gente, negli ultimi anni, potrebbe toccare a voi, se insistete a fare domande in giro».

Il gentiluomo ebbe l’impressione di sentire un’ombra di collera nella voce del borgomastro. Collera o minaccia? Non avrebbe saputo dirlo.

«La gente scomparsa … c’era anche una sacerdotessa, vero?».

«Keira. Una brava donna. Ma ha detto quel che pensava e la sua Dea non l’ha protetta abbastanza».

«E cosa pensava, quella brava donna?».

«Pensava … no, sir Velmont … sono troppo vecchio per queste cose … diciamo che insisteva troppo per parlare con sir Ernest e qualcuno non gradiva la sua insistenza».

«Non vi seguo … chi voleva impedirle di parlare con sir Ernest? Ma poi, mi avevano detto che sir Ernest era malato».

«La sua malattia è nell’anima. I neri umori della melanconia hanno invaso il suo cuore … e nel vino cerca la sua medicina».

«Per la morte di dama Erika?».

«Non credo proprio. Si è risposato dopo un anno appena e non pareva malato. Tutt’altro. È stato dopo. Qualche anno dopo. Ma non è mai stato in grado di governare la rocca. Fin da subito ha affidato tutto a sir Mordred. Che non credo abbia mai governato nulla di più complesso del suo cavallo. Ha ridotto le tasse … ma ci ha anche detto che, d’ora in poi, dovremo provvedere da soli alla manutenzione della strada e delle terre qui intorno. In pratica, o paghiamo molto più di prima o va tutto in malora … e qui sono in pochi a poter pagare».

«Non avete simpatia neppure per sir Ernest, mi pare».

«Ho simpatia per chi mi lascia in pace. Rendetevi simpatico anche voi e lasciatemi lavorare, ora. E, se volete un consiglio sincero, tornatevene a Lumbar o dove vi pare ma lontano da qui».

Il giovane gentiluomo sorrise e salutò il borgomastro. Non avrebbe certamente ricavato altro da lui. Uscì dalla bottega dell’anziano Clarence con molte domande che gli turbinavano nella mente. Il quadro che si era fatto della situazione si andava sempre più complicando. Una ragnatela di misteri si stava intrecciando intorno alla rocca di Luna Splendente. Decise che sarebbe stato opportuno rivolgere qualche altra domanda in giro.

Si aggirò per il mercato, comprando qualche cosa e rivolgendo domande distratte che gli portarono alcune informazioni, cui non sapeva proprio che peso dare. In particolare, un’anziana contadina gli aveva confidato nuovi particolari, con un pizzico di malignità.

Clarence, in gioventù, aveva servito dama Erika, diventando il suo braccio destro, finché lei non aveva perso la testa per sir Ernest. Nulla di strano che non l’avesse in simpatia. Ma, d’altra parte, sir Ernest era bello e forte come un dio ed aveva fatto girare la testa a tutte le donne di Brightmoon.

«E così dama Erika si innamorò del bel guerriero. Ma lui era davvero innamorato di lei?».

«Io credo di sì. Almeno all’inizio sembrava proprio innamorato. Poi si mise a frequentare quei due».

«Volete dire dama Lavinia e suo fratello?».

«Sì, certo. Avreste dovuto vedere come dama Lavinia gli faceva gli occhi dolci. Vivevano da alcuni anni nella villa dei Cipressi Neri, è quella bella villa fortificata che potete vedere anche dalle nostre mura, poco sotto la rocca, circondata da un boschetto di cipressi. L’hanno comprata senza quasi discutere sul prezzo. Devono essere assai ricchi, quei due. Ma dama Lavinia era quasi sempre alla fortezza. E ora passa il tempo fra feste scandalose e preghiere col vecchio Patrick. Secondo me ha da farsi perdonare qualcosa».

«Patrick? E chi sarebbe costui?».

«Un vecchio fanatico, seguace di Fenesbrand, sempre con la faccia scura, sempre a predire disgrazie. Secondo me, porta sfortuna. È arrivato da poco prima della morte di dama Erika e non se n’è più andato».

Tutt’altra versione sir Raoul aveva ricavato da un falegname che riteneva dama Lavinia un angelo disceso dal cielo per fare del bene a quella terra disgraziata. E una donna infelice. Gli raccontò che era molto amica di dama Erika e che era rimasta sconvolta dopo la sua morte. Da allora si era dedicata a far del bene alla povera gente e a sostenere l’amministrazione della rocca, con l’aiuto del fratello. Fu per quella sua frequentazione che finì per cedere alle lusinghe di Sir Ernest che, però, pareva essersi risposato solo per avere un erede. Ma dama Lavinia non seppe darglielo e, per questa ennesima disgrazia, il nobile si ammalò di malinconia. E ormai quella povera donna era prigioniera di quella casa, con un marito inesistente e sempre ubriaco. Per fortuna aveva trovato conforto nella fede, chiamando alla rocca un sacerdote in odore di santità. Inoltre c’era suo fratello, sir Mordred, veramente un uomo in gamba, che aveva preso in mano le redini della rocca, con l’aiuto dello sceriffo e del maggiordomo, il padre di Lucy. Anche lui un tipo in gamba che era stato un valente cacciatore, in gioventù. Una brava persona, a giudizio del falegname, intelligente ed umile. E, soprattutto, un padre esemplare.

Il gentiluomo si rendeva conto di come fosse complessa la situazione. In particolare era perplesso sulla castellana: era una vittima delle circostanze o una scaltra profittatrice? Eppure, a sentire la gente, era proprio la scaltrezza che pareva mancare a quella dama, al contrario di suo fratello. Ormai, era il caso di andare a parlare con lo sceriffo.


 

[11] Dio della guerra, della vittoria e della morte, giudice dell’aldilà

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3: lo sceriffo

L'ufficio dello sceriffo

Fra le bancarelle cariche di beni e le voci chiassose di mercanti e clienti, Lucy e Robert avevano finito gli acquisti commissionati dalla castellana e stavano tranquillamente chiacchierando, seduti su un ceppo vicino al portico. Intorno a loro turbinavano le vesti variopinte e i volti multiformi della gente che affollava il mercato, ma i due giovani non parevano farci caso. L’ancella raccontava della sua vita alla rocca al servizio della splendida e capricciosa dama Lavinia, del cupo e taciturno sir Ernest che, però, era stato sempre stranamente gentile con lei, dell’esuberante sir Mordred che la riempiva di complimenti per come si era fatta bella e raffinata, della sua dolce madre che la coccolava continuamente, di suo padre, severo e paziente. Robert si era perso nei racconti e negli occhi della ragazza, quando la vide impallidire improvvisamente.

«Signorina Lucy, vi sentite male?». Robert si protese per sorreggere la ragazza, con fare protettivo.

«Oh, non è nulla, signor Robert, vi ringrazio della sollecitudine … deve essere la folla … o lo spavento di prima … sareste così gentile da portarmi un po’ d’acqua? Vi aspetterò seduta qui». I begli occhi della giovane ancella parevano persi a guardare un punto qualsiasi dell’acciottolato, non si sollevarono a incontrare quelli ansiosi del maggiordomo.

«Ma naturalmente, signorina, torno immediatamente».

Robert si diresse rapidamente verso il pozzo, al centro della piazza ma non seppe trattenersi dallo sbirciare alle proprie spalle. Lucy stava parlando con un uomo avvolto in un mantello di colore verde scuro. Sentì una fitta al cuore. È sempre vissuta qui, cosa c’è di strano che abbia incontrato un conoscente? Eppure, Robert era certo che il malore era stato solo una scusa per poter parlare con quel misterioso individuo. Si rese conto che gli dispiaceva fortemente di quel comportamento. Ebbene, l’hai salvata, ma questo non ti dà alcun diritto su di lei. Perché dovrebbe confidarsi con te? Sei solo un estraneo. Eppure il constatare che lei gli nascondeva qualcosa lo affliggeva. Cominciò a preoccuparsi.

Arrivò al pozzo e, meccanicamente, prese l’acqua. Si voltò verso la ragazza che era nuovamente sola. Respinse il senso di amarezza che gli attanagliava il cuore e ritornò verso di lei, sforzandosi di sorridere. Lucy era ancora pallida, lo sguardo perso fra la folla, seguendo qualcuno che, evidentemente, le stava a cuore.

«Eccovi l’acqua, signorina Lucy». La ragazza si riscosse, voltandosi verso il giovane maggiordomo.

«Cosa? Oh, grazie signore. Siete veramente gentile». Le guance dell’ancella s’imporporarono violentemente. I suoi occhi sfuggirono nuovamente quelli di Robert. Rimase seduta, evidentemente in preda all’imbarazzo, senza toccare minimamente la caraffa d’acqua posata accanto a lei. Una collera irragionevole s’impadronì del giovane.

«Perdonatemi, signorina, vado a vedere alcune armi dal fabbro. Volete attendermi qui, per favore?».

«Ma certamente. Fate pure». La voce distratta della ragazza aumentò la rabbia di Robert che si allontanò a grandi passi. Appena fuori vista, si mescolò alla folla, cercando di non perdere di vista Lucy. A un tratto, scorse un sorriso sul viso grazioso della ragazza e si volse rapidamente per individuare a chi fosse rivolto. Immediatamente riconobbe il mantello che avvolgeva quell’uomo e cominciò a seguirlo con discrezione e il cuore in tumulto.

***

Sir Raoul Velmont si allontanò dal mercato, passando con fare distratto davanti alla porta dell’osteria. Verificato con noncuranza che lo sceriffo non si trovava lì dentro, si diresse rapidamente verso l’antica torre malandata, in fondo alla piazza, davanti alla quale un giovanotto in armatura montava una guardia svogliata. Sull’architrave della porta, si poteva ancora leggere, con un po’ di fatica, una quartina dedicata alla Dea patrona di quei luoghi.

 

Apre la via al mistero

il disco della fide,

nel core, ov’è merzide

la luce di Sergaries.



Venne fatto entrare nell’atrio dove bussò alla vecchia porta dell’ufficio dello sceriffo. Una voce gli disse sgarbatamente di entrare.

Sandy Bond era un uomo grassoccio, calvo, perennemente sudato. Vestiva una corazza di cuoio dalla quale spuntavano i suoi tozzi arti, simile in tutto a una grossa tartaruga. L’aveva accolto con fare arrogante, immaginando di avere a che fare con qualche contadino o con qualche pastore. Appena sir Raoul gli si fu presentato, il suo atteggiamento virò bruscamente al cerimonioso.

«Onoratissimo di conoscervi sir Velmont, sono a vostra completa disposizione».

«Vorrei chiedervi qualche informazione, sceriffo, poiché sto meditando di acquistare una tenuta da queste parti». Un sorriso avido comparve sul volto paffuto dello sceriffo.

«Ma certamente, sir Velmont. Sono vostro servitore». In effetti, un accenno d’inchino aveva accompagnato le sue parole. Sir Raoul fece fatica a trattenere un sorriso.

«Mi dicono che sir Mordred è quello che effettivamente si cura della regione, al posto di sir Ernest, che è malato, è vero?».

«Sì, signore, è proprio così. E devo dire che sir Mordred è veramente un ottimo signore per queste terre. La prima cosa che ha fatto è stata ridurre le tasse alla popolazione, poi ha concesso ampia autonomia al villaggio, nominando me come sceriffo».

Sandy Bond sorrideva soddisfatto. Pareva essere veramente orgoglioso della sua posizione. Sir Raoul notò che, quando parlava di sir Mordred, la sua voce assumeva un curioso tono adorante.

«Siete nativo di qui, sceriffo?».

«Oh, no … vengo da Gaerand[12] … ero il comandante della scorta di sir Mordred, quando venne a stare da queste parti, con dama Lavinia e rimase tanto soddisfatto dei miei servigi da concedermi questo incarico prestigioso. Sono felice di poter dire di godere appieno della sua fiducia». La nota adorante nella voce dello sceriffo si era arricchita di toni acuti, come se lo sceriffo provasse un piacere quasi fisico pensando alla fiducia del suo signore. Sir Raoul si sarebbe aspettato che cominciasse a uggiolare.

«Complimenti, sceriffo. Immagino che sir Mordred sia veramente contento di voi».

Lo sceriffo si esibì in un sorriso beato, scoprendo una dentatura non esattamente candida che ricordò al giovane gentiluomo quella di alcuni individui, incontrati in ambienti facoltosi ma non propriamente rispettabili, usi a masticare certe erbe aromatiche, dotate di effetti da loro definiti "rilassanti" ma che, non di rado, risultavano addirittura allucinogeni. Era chiaro, comunque, che da quell’individuo sarebbero emerse solo informazioni agiografiche sui maggiorenti del luogo. Sir Raoul decise, dunque di indirizzare le sue domande verso argomenti meno compromettenti.

«Scusate, sceriffo … sapete nulla della scomparsa misteriosa di alcune persone di qui, negli ultimi tempi? Immagino che avrete svolto indagini … pensate che ci sia ancora pericolo? Mi … seccherebbe rischiare di sparire». La voce del gentiluomo si era fatta più sommessa e tremante, come se avesse temuto veramente di essere in pericolo.

Sandy Bond si rabbuiò in volto.

«Purtroppo, qualcosa di vero c’è. Abbiamo svolto accuratissime indagini, ehm, sapete, c’è un mucchio di gentaglia che si è trasferita da queste parti … immigrati, capite … gente che dovrebbe starsene nel proprio paese, ehm, profughi di zone di guerra … vigliacchi che abbandonano la loro patria della quale dovrebbero proteggere i confini anche a prezzo del loro sangue e che, invece, fuggono per infestare le nostre terre feraci. Certamente sono stati loro a rapire le persone scomparse». Dalla sua voce, cupa e stridente, traspariva nitido il disprezzo che egli nutriva nei confronti di quella gente.

«Ma perché lo avrebbero fatto? E se sapete che sono stati loro, perché gli scomparsi non sono stati trovati?».

«Non è affatto facile, credetemi. Fosse per me, eliminerei tutta quella marmaglia ed anche sir Mordred la pensa come me, ehm, il problema è che hanno complici anche qui nel villaggio … idioti che si commuovono ascoltando i loro racconti di miseria. Sono tutte frottole, credete a me. Però qualcuno li avvisa ogni volta che proviamo a spazzarli via e non si fanno trovare ma, alla fine, li rimanderemo a casa loro, vedrete».

«Grazie, sceriffo. Mi sento più sollevato, anche perché c’è chi parla di lupi giganteschi che si aggirano per queste terre». Il gentiluomo manteneva un certo timore nella voce, cosa che parve suscitare l'irritazione dello sceriffo.

«Queste sono emerite stupidaggini, sir Velmont. La superstizione dei contadini, unita alle dicerie messe in giro ad arte da quei dannati immigrati, ha creato un clima di terrore che, credetemi, non ha per nulla ragione di esistere. Sentite anche sir Mordred, vedrete che confermerà quanto vi ho detto, parola per parola. Sono certo che vi riceverà con piacere, è raro che un vero gentiluomo come voi capiti da queste parti. Solo lord Cardekon si fa vedere, ogni tanto».

«Ne sono certo, sceriffo. Andrò al più presto a conoscere sir Mordred, sono certo che si tratti di un personaggio decisamente notevole … fra gli scomparsi c’era anche una sacerdotessa, vero?». Un’ombra di tristezza comparve negli occhi porcini dello sceriffo.

«Sì … povera donna … è stata l’ultima vera sacerdotessa che abbiamo avuto … una perdita terribile per la nostra comunità, sapete?».

«Ma non c’è un sacerdote alla rocca? Mi pareva di aver capito …».

«Per carità, sir Velmont! Patrick Gordaukon è pazzo da legare! Figuratevi che si rifiuta di usare i suoi poteri taumaturgici per non sottrarre morti al suo dio … solo dama Lavinia lo considera un sacerdote … perché, poi, non ho idea … credo sia stato il suo precettore. Per fortuna c’è un bravuomo che s’intende di erbe e cure e funge da cerusico, altrimenti saremmo davvero in difficoltà».

Il gentiluomo si alzo per congedarsi. Giunto sulla porta, si voltò verso il paffuto Sandy Bond. Una luce maliziosa gli brillava negli occhi.

«A proposito di lord Cardekon … E quel misterioso Blackwind? È vero che ha svaligiato la sua villa non lontano da qui?».

Lo sceriffo si accigliò.

«Sì, è venuto stamattina Lord Cardekon in persona a denunciare il furto, caso mai il ladro passasse da questi paraggi. Ma non credo che quel vigliacco possa farsi vedere a Brightmoon. Qui potrebbe essere interessato solo a sir Mordred ma, se s’illude di svaligiare i Cipressi Neri, finirà per sempre di tormentare le brave persone … sir Mordred sa come trattare quel genere di gentaglia, ehm, gente di bassa estrazione, invidiosa delle persone benvolute dagli dei». Aveva anche alzato la voce, per dare più enfasi alle sue parole. Il gentiluomo sorrise.

«Immagino che abbiate proprio ragione. Buona fortuna, sceriffo!».

«Arrivederci, sir Raoul».

***


Per una decina di minuti, Robert seguì il misterioso individuo fra le bancarelle del mercato, avendo cura di non farsi scoprire e di non perdere di vista il mantello verde scuro che avvolgeva la sua preda. Questi si muoveva circospetto, in mezzo alla folla. Il cappuccio tirato sul capo rendeva impossibile al giovane maggiordomo di scorgerne i lineamenti. Era di statura media e di spalle larghe, questo era tutto quel che Robert riusciva a capire di quel tipo, oltre al fatto che pareva fare di tutto per non essere riconosciuto.

A un tratto il giovane non vide più la sua preda. Aveva visto distintamente il mantello verde superare il banco di un contadino ma subito dopo era scomparso. Robert si guardò intorno perplesso. Ricordò di essere stato lì con Lucy, che aveva chiesto dei coltelli all’anziano mercante di stoviglie di rame il cui bancone si trovava subito dietro quello del contadino la cui moglie strillava per decantare la bontà di quanto vendeva, con voce acutissima. Osservò con attenzione il giovane garzone di un apicoltore che aveva il banco accanto al mercante di stoviglie, ma il ragazzo era troppo alto per poter essere il misterioso interlocutore della giovane ancella e l’apicoltore troppo curvo. Il mercante di stoviglie stava parlottando con una guardia e un tizio male in arnese, vestito con abiti logori. Era seccante, però Robert dovette accettare di essere stato beffato da quell’individuo.

Tornò indietro di malavoglia ma il sorriso con cui Lucy lo accolse gli fece immediatamente riacquistare il buonumore.

***

Sir Raoul Velmont era sempre più perplesso. L’incontro con lo sceriffo non gli aveva affatto chiarito la situazione di quei luoghi. L’unica cosa evidente era l’animo servile di Sandy Bond. E che quei profughi avrebbero passato giorni tristi, da quelle parti.

L’ultima persona con cui parlò fu Jacob Thorton, il cerusico del villaggio. Era un uomo semplice, dai modi franchi e gentili, esperto in erbe e nel curare le malattie più semplici. Non aveva i poteri guaritori dei sacerdoti ma faceva del suo meglio per aiutare i suoi compaesani. Il viso barbuto e affilato aveva un che di canino.

«Avete ragione. Clarence detesta sir Mordred perché più volte sono quasi venuti alle mani quando si è trattato di prendere decisioni importanti per il villaggio. Non la vedono assolutamente allo stesso modo e, d’altra parte, la decadenza di queste terre fa sospettare che Clarence non abbia tutti i torti».

«E cosa mi dite di Lucy?».

«Chi? La bimba di August Thornbow? Un tesoro di ragazza, credetemi. Tutta suo padre. Beninteso, come carattere eh? Perché fisicamente è tutta l’opposto, per sua fortuna. È brava, bella e buona. Per fortuna non ha ereditato il naso dei Thornbow … D’altra parte, Frida, la madre, è anche lei una gran brava persona e una cuoca fenomenale. Da giovane era davvero carina, sapete? Piccolina ma davvero graziosa».

«Avete sentito anche voi voci a proposito della scomparsa di alcune persone?».

Il cerusico abbassò gli occhi. Il suo volto parve allungarsi ancora di più, la voce scaturì sommessa e lugubre come un ululato.

«Sì ma preferirei non parlarne … sono tornati i lupi, signore. Meglio non aggirarsi di notte per queste terre».

«Davvero? Non vorrete farmi credere che la gente sia stata rapita dai lupi?».

Thorton guardò fuori dalla finestra, pallido in volto. Sir Raoul ebbe l’impressione che una lacrima tremasse sulle sue ciglia.

«Vi prego, signore, non vorrei parlare di questa cosa. Sono un uomo razionale ma, talvolta, la ragione non spiega tutto. E, se posso darvi un consiglio, evitate anche voi di parlare di queste faccende».

«Lo sceriffo dice che sono stati alcuni immigrati». Gli occhi del gentiluomo erano fissi sul cerusico che parve riscuotersi e l’ombra di un sorriso affiorò sulle sue labbra sottili.

«Bond non perde occasioni per prendersela con quei poveracci. Ogni tanto prende i suoi due bravacci e va in cerca di immigrati … finora lo hanno sempre beffato, grazie a Yavië[13]. È povera gente, che vive lavorando il rame, senza nuocere a nessuno».

«Vi ringrazio messer Thorton, siete stato gentilissimo».

Sir Raoul ritrovò Robert e Lucy che stavano chiacchierando mentre caricavano le stoffe sulla giumenta. Lo accolsero con un sorriso che dimostrava come la brutta avventura dell’ancella fosse ormai un trauma superato.

Avevano appena finito di caricare le merci che un giovane alto e robusto si parò davanti a Lucy. Indossava una rudimentale armatura di cuoio e brandiva una pesante spada in condizioni di manutenzione perlomeno dubbie. Era paonazzo in volto e guardava minacciosamente la ragazza. Altri due tipacci si erano piazzati dietro di lui, come per dargli man forte.

«Ehi! Che ci fai con questi bellimbusti? Tu sei la mia donna». Lucy arrossì violentemente e si volse bruscamente verso il giovane in armatura.

«Cosa? Hull, per tua norma e regola, io non sono di nessuno. Men che mai tua, hai capito, razza di caprone? Sparisci!».

«Sempre ribelle, eh? Lo sai che mi piaci per questo! Ora manda via questi buffoni».

Robert gli si pose a un palmo dal viso, con gli occhi fiammeggianti.

«La signorina ti ha detto di sparire. Sei sordo, forse?».

Hull rispose con una violenta testata che avrebbe fatto sicuramente male a Robert, se questi non fosse stato in guardia. Il giovane schivò l’attacco del bullo e rispose con uno sgambetto che lo fece ruzzolare a faccia in giù, nel mezzo di una pozzanghera dal contenuto incerto e maleodorante.

Sir Raoul intervenne sorridendo.

«Ora basta. Robert, credo che possiamo andare, il signore dovrebbe aver capito il tuo messaggio».

«Ah no, per gli dei! Voi non ve ne andate da nessuna parte!».

Uno dei due bravacci si lanciò contro Robert ma si trovò fra le gambe lo stivale di sir Raoul e finì lungo disteso, accanto al suo compare. Il terzo fece per muoversi ma si fermò vedendo Hull alzarsi con la spada minacciosamente levata.

«Sei morto, straniero!».

Menò un violento fendente che, però, incontrò solo l’aria. Robert piroettò poco lontano e, quando si fermò, aveva la spada in pugno.

«Permettete, sir Raoul? Ora quest’animale sta esagerando».

«Non fargli male, per favore. Non voglio guai, in questo villaggio».

Robert sorrise e si dispose in guardia, attendendo l’avversario. Questi non si fece pregare e partì con una serie di fendenti che andarono tutti a vuoto, tranne l’ultimo che incontrò con la punta la lama dell’avversario vicino all’elsa. Il polso del bullo si torse per il contraccolpo e, un attimo dopo, un violento fendente gli strappò l’arma di mano.

«Ora basta, signor gradasso. Siamo in ritardo e non abbiamo altro tempo da perdere con voi».

«Hull non dimentica. Ci rivedremo, damerino».

«Sì che ci rivedremo. E saranno guai per voi, stranieri». Gli fece eco l’altro, mentre si rialzava dal fango.

«Esatto!». Soggiunse il terzo.

Sir Raoul si avvicinò sorridendo al bravaccio che sembrava sul punto di esplodere per la rabbia.

«Cercate di mettere giudizio, signor Bull. Siete stato fortunato, oggi. Non fate adirare Yavië sfidandola un’altra volta. Se Robert avesse voluto, ora avreste urgente bisogno del cerusico».

Detto questo, si allontanò, fingendo di non sentire le proteste del giovane bulletto.

«Hull! Mi chiamo Hull, non Bull!»


[12] Importante porto della regione settentrionale del regno di Kaardir
[13] Dea dell'Amore, della famiglia e della Fortuna, venerata anche come Telgëa, specie nelle campagne.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4: La rocca

La rocca di Luna Splendente


Partirono subito, sempre guidati dalla ragazza che appariva di ottimo umore e chiacchierava allegramente, illustrando quei paraggi come solo chi vi aveva trascorso tutta la vita avrebbe potuto fare. Robert la ascoltava affascinato, anche se, di tanto in tanto, lanciava a sir Raoul degli sguardi curiosi che il gentiluomo, immerso in chissà quali riflessioni, parve non notare per nulla. In meno di mezzora il gruppetto giunse in vista della rocca.

La rocca di Luna Splendente sorgeva su un colle verdeggiante e constava di un’ampia cerchia muraria che racchiudeva un massiccio torrione cilindrico sormontato da una terrazza merlata. Il sentiero che conduceva alla possente porta scea, difesa da due torrette, correva per oltre cento metri fra le mura a destra e una ripida scarpata a sinistra, costringendo eventuali assalitori ad avanzare sotto il tiro nemico senza neppure poter contare sulla protezione offerta dallo scudo che si sarebbe trovato dalla parte del dirupo.

Sull’arco che sovrastava il fornice, un’iscrizione scolpita recava una quartina, identica a quella sulla porta del villaggio, testimone del culto di Sergaries.

 

Viandante benvenuto

chi in questo loco scende:

sulla sua chioma splende

la luce di Sergaries.

L’ampio cortile della rocca era dominato dal possente cassero, evidentemente il nucleo iniziale dell’insediamento, davanti al quale si ergeva un elegante edificio più moderno, che costituiva il palazzo vero e proprio. Questo, di forma rettangolare, si elevava di due piani da terra, coperto da un tetto in ardesia che pareva aver bisogno di un po’ più di manutenzione, completamente circondato da un camminamento merlato, tranne sul lato addossato al massiccio torrione. Davanti alla scalinata che conduceva all’ingresso del palazzo, si ergeva un pozzo, identico a quello che si poteva vedere nella piazza del villaggio. In fondo al cortile, addossato alle mura, un edificio in pietra, alquanto male in arnese, pareva essere destinato ad alloggiare la guarnigione. A lato di questo si distinguevano le stalle, evidentemente tenute in maggior considerazione degli alloggi militari, giacché apparivano in discrete condizioni.

Nei pressi del pozzo, una donna elegantemente vestita osservava, evidentemente incuriosita, i viaggiatori che si stavano avvicinando. Un attimo dopo, un uomo robusto, anche se di bassa statura, comparve sulla soglia della casa. Nel riconoscere, l’ancella, la dama si avvicinò con passo deciso. Sul bel viso era dipinta un’espressione di contrariato stupore.

«Lucy! Ma quanto ci hai messo? Cominciavamo a preoccuparci sai? E chi sono questi signori?».

Nel vedere i due giovani che accompagnavano la ragazza, la dama esibì uno smagliante sorriso. Era alta e sinuosa, vestita con una cotta damascata grigia bordata di velluto blu decorato con splendide perle, che esaltava le sue forme generose. Portava, come si addiceva alle donne sposate, un copricapo a corona di velluto blu con velo e soggola di lino bianco, dal quale, tuttavia, sfuggivano abbondanti ciocche civettuole di capelli biondi. Il volto altero era addolcito dalla bocca vermiglia, atteggiata a un sensuale sorriso, mentre gli occhi glauchi dallo sguardo sbarazzino e seducente parevano studiare attentamente i due nuovi arrivati. Lucy, dal canto suo, osservava con attenzione il volto della castellana, quasi a indagarne le espressioni per prevenire una reazione temuta.

«Perdonatemi, signora. Purtroppo Morella si è imbizzarrita e, se non avessi incontrato questi gentiluomini, avrei rischiato di farmi molto male. Sono stati così gentili da accompagnarmi al villaggio e riportarmi qui. Ho comprato tutto quanto vi serviva».

La bella signora pareva molto incuriosita dall’aspetto elegante dei due cavalieri, in particolare da sir Raoul. Rispose con molta dolcezza, pur mantenendo gli occhi fissi sui nuovi arrivati.

«Va bene, Lucy. Ora vai a casa a preparare quel vestito. Penserò io a questi gentiluomini».

«Grazie signora. Vado subito».

Visibilmente sollevata, la ragazza corse verso l’ingresso, inchinandosi davanti all’uomo sulla soglia che, per tutto il tempo, era rimasto a guardare alternativamente le due donne, con aria pensierosa. Prima di sparire dentro la casa, si voltò un attimo per sorridere alla volta di Robert.

La dama fece per rivolgersi ai due giovani visitatori ma, prima che potesse aprire bocca, l’uomo si avvicinò al gruppetto prendendo la parola con fare disinvolto e affabile.

«Onorato di conoscervi, signori. Sono sir Mordred Galehaut e vi ringrazio di cuore per averci riportato la nostra Lucy, sana e salva».

Era di corporatura massiccia, basso e muscoloso, con mani evidentemente avvezze al lavoro o all’uso delle armi. La mandibola arrogante e il suo sguardo altero, uniti ai modi autoritari dimostravano come fosse uomo avvezzo a comandare, anche con la forza. Il capo, rotondo, era coperto da radi capelli neri, accuratamente riportati a coprire gli ampi spazi vuoti della sommità del cranio. La voce, perfettamente impostata, era suadente e ferma, una voce abituata a parlare alle folle, la voce di un comandante o di un attore.

Osservandolo meglio, sir Raoul si accorse di alcune cicatrici che occhieggiavano qua e là dagli abiti e che gli fecero supporre di trovarsi di fronte a un uomo d’arme. Vestiva con classica eleganza, con un’ampia veste di lunghezza talare dalla quale spuntava un paio di stivali di cuoio più adatti a un avventuriero che a un possidente e portava, appesa alla cintura, una frusta dall’aspetto minaccioso. Le mani erano adorne di grossi anelli di notevole valore e una grossa catena d’oro gli cadeva sul petto.

«Sono lieto di conoscervi, sir Mordred. Sono sir Raoul Velmont di Lumbar e questo è Robert, il mio maggiordomo. Siamo solo stati fortunati a poter salvare Lucy».

«Consentitemi di interpretare il desiderio di mio cognato, sir Ernest Thibersmenil, invitandovi a restare nostro ospite a cena e per qualche giorno. Ernest sarà felice di ringraziarvi personalmente ma le sue condizioni di salute non gli consentono di lasciare la sua camera».

Sir Raoul sorrise al castellano e accennò un inchino.

«Accettiamo volentieri, sir Mordred. Spero di poter rendere omaggio a sir Ernest appena possibile».

«Sarà mia sorella stessa, a condurvi da lui». Il nobiluomo indicò la bella dama con un gesto della mano, invitandola ad avvicinarsi.

«Sono veramente onorata e lieta che la nostra Lucy ci sia stata resa da un giovane del vostro fascino e lignaggio, sir Raoul. Sono dama Lavinia, la consorte di sir Ernest, il signore della rocca».

Le parole e i gesti della dama erano estremamente seducenti e quasi sfacciatamente rivolti a sir Raoul che, comunque, non diede il minimo segno di imbarazzo nell’elegante inchino con cui salutò la donna.

«Semmai, dama Lavinia, è mio l’onore di rendere omaggio alla vostra beltà».

«Di bene in meglio, un giovane tanto affascinante e galante porta una ventata di luce ed eleganza nella nostra dimora».

Il sorriso di sir Raoul non si smorzò affatto nel vedere l’occhiata di fuoco che il fratello aveva lanciato alla civettuola dama. Piuttosto, si trovò quasi involontariamente a studiare la bella gentildonna e il suo ombroso congiunto. In realtà, i due non si somigliavano per nulla. Lei alta, raffinata, sempre seducentemente sorridente, un po’ vacua ma decisamente affascinante, lui basso, piuttosto pacchiano nell’ostentazione della ricchezza, sempre assolutamente gentile anche se un po’ altezzoso.

«Venite, sir Raoul, mio marito sarà lieto di conoscervi».

L’elegante figura della giovane signora si diresse verso il portone d’ingresso della casa, adorno di un frontale che appariva notevolmente più antico della struttura, impreziosito da un bassorilievo con lo stemma della Luna circondata da stelle, il simbolo della dea Sergaries. Anche su questo frontale, come nella torre del villaggio, si poteva leggere chiaramente la stessa quartina.

 

Apre la via al mistero

il disco della fide,

nel core, ov’è merzide

la luce di Sergaries.

«Splendido, questo frontale … mi pare di capire che siate devoti di Sergaries». Sir Raoul si era fermato ad ammirare le raffinate decorazioni che circondavano l’iscrizione.

La dama lanciò un’occhiata svogliata al portone.

«Ehm, sì, certo. Questa rocca è appartenuta a un’importante stirpe di sacerdotesse». Il suo sguardo abbandonò l'iscrizione per fissarsi, assai più interessato, sul giovane.

«Oh, comprendo. Mi sembra che mi abbiano detto che c’è anche un tempio dedicato alla luna». Un lampo di delusione passò negli occhi della donna.

«Sì. È nel cortile interno del torrione. Ora non c’è nessuna sacerdotessa, però».

Detto questo, la dama si voltò ed entrò con passo rapido nella casa, seguita da sir Raoul e da Robert. Percorsero un ampio androne, alquanto spoglio e buio, dal quale una maestosa scalinata conduceva al piano superiore, mentre un arco elegantemente decorato con i simboli di Sergaries, introduceva a quella che pareva una grande sala.

Robert guardò sir Raoul con aria interrogativa. Il gentiluomo capì al volo la muta domanda del fedele maggiordomo e gli sorrise ammiccando. Un attimo dopo, il giovane sparì sotto l’arco, alla ricerca di Lucy.

Lungo la scalinata, una serie di ritratti di buona fattura parevano osservare quanto accadeva in quell’ambiente. Dama Lavinia cominciò a salire le scale, seguita da sir Raoul. Questi osservava con curiosità i quadri e a un tratto, si fermò davanti ad uno di essi. La dama si accorse della sosta del giovane e si voltò a guardarlo con aria interrogativa.

«Interessati, questi ritratti … sembrano della bottega di mastro Gilbert di Elosbrand … rappresentano i precedenti castellani?».

«Complimenti, sir Raoul, è proprio da quella bottega che vengono i mastri ritrattisti che hanno fatto quei dipinti». La dama pareva davvero stupita che il gentiluomo mostrasse interesse per quei dipinti. «Sì, sono i precedenti castellani… e le sacerdotesse. Sapete, è un’usanza che risale a oltre duecento anni».

Giunti al piano superiore, percorsero un breve corridoio scarsamente illuminato sul quale si aprivano due porte e giunsero in una grande stanza dalle pareti coperte da scaffalature ingombre di libri e pergamene. Un fuoco ardeva in un caminetto in fondo alla stanza e un uomo sedeva su una poltrona, con un bicchiere in mano, apparentemente assorto a scrutare le fiamme. L’aria era impregnata di un forte aroma di liquore.

«Sir Ernest, ho l’onore di presentarvi sir Raoul Velmont che ha soccorso la nostra Lucy alla quale si era imbizzarrito il cavallo e l’ha riportata da noi».

L’uomo parve riscuotersi e si girò lentamente verso i due nuovi arrivati. Era di corporatura robusta e doveva essere stato veramente attraente, con lineamenti delicati e le spalle possenti. Pure, il colorito giallognolo della pelle e gli occhi vacui, iniettati di sangue, trasmettevano immediatamente un’impressione di malattia. I capelli scarmigliati erano precocemente ingrigiti, conferendogli un aspetto senescente, quantunque non dovesse aver superato da molto la cinquantina. Era vestito semplicemente, con un pesante mantello di lana e non portava alcun ornamento, escluso un grosso anello d’oro alla mano destra, il cui castone nero racchiudeva la forma stilizzata di un'aquila d’ametista. La voce impastata suonò incerta e apatica.

«Siete voi, mia signora? Sono lieto che mi abbiate portato un ospite di rango. Sapete quanto ami circondarmi dai miei pari … Onorato di conoscervi sir …».

«Raoul Velmont, sir Ernest. L’onore è mio, credetemi. È un onore conoscere il signore di Brightmoon … e un Cavaliere dell’Aquila».

Gli occhi dell’uomo ebbero un guizzo. Il suo sguardo si fissò verso il giovane che gli stava davanti e che lo guardava sorridendo. Per un istante, i suoi occhi parvero riaccendersi d’interesse, poi un velo d’apatia tornò a coprirli.

«È stato tanto tempo fa. Quasi un’altra vita …».

Improvvisamente, la voce di sir Mordred giunse dal fondo del corridoio.

«Lavinia! Puoi raggiungermi, per favore?».

La giovane dama sbuffò e lanciò uno sguardo dubbioso ai due uomini. Poi parve decidersi.

«Perdonatemi mio signore. Vado a vedere cosa richiede la mia attenzione, sapete com’è Mordred … quando ha qualcosa da fare dimentica pure le leggi dell’ospitalità … sir Raoul, col vostro permesso».

«Andate, mia signora. Sir Raoul resterà con me, per quanto la mia compagnia sia certamente meno … piacevole».

La giovane donna non sentì neppure le ultime parole del marito, giacché si era immediatamente diretta verso le scale, a passo sostenuto e con un’espressione evidentemente seccata. Sir Raoul era rimasto in silenzio, contemplando l’uomo che aveva davanti. C’era sarcasmo, nella sua voce, misto a rabbia e dolore.

«Scusatemi, sir Raoul. Non sono un buon ospite … vi sono veramente grato, credetemi. Lucy è una brava ragazza, ho sempre avuto simpatia per lei. Non so perché … forse … mi ricorda Erika … ha gli stessi occhi. Forse non mi crederete ma ho amato davvero mia moglie. E lei amava me. Ma ormai tutto è finito».

«Non vedo perché non dovrei credervi, sir Ernest. C’è molto dolore nella vostra voce … e rimpianto. Dama Erika doveva essere una donna davvero notevole».

«Oh, sì. Era … straordinaria … Accomodatevi qui accanto, sir Raoul … volete favorire? È Acquavite di Mirlond … un’ottima acquavite».

Sir Raoul sorrise e prese il bicchiere che l’altro gli porgeva, sedendosi sulla poltrona accanto. Il suo sguardo cadde su due altre bottiglie di liquore ormai vuote e osservò con preoccupazione il gentiluomo seduto davanti al fuoco.

«Volentieri, sir Ernest. Ma continuate, vi prego».

«La conobbi quando lasciai il servizio nell’esercito. Ero stanco della vita militare e volevo crearmi una famiglia, prima di diventare troppo vecchio per farlo … ma vi sto annoiando, sir Raoul. Non siete certamente venuto qui per sentire i ricordi di … un … uno come me».

«Al contrario, sir Ernest. Vi ascolto con autentico interesse».

Lo sguardo febbricitante di sir Ernest si fissò un attimo sul giovane elegante seduto accanto a lui. Qualcosa inumidiva le sue ciglia. Tornò a volgere lo sguardo sul fuoco del camino e ricominciò a parlare, con voce incerta prima, sempre più sicura, poi.

«Giunsi in questi paraggi … diretto a Elosbrand e … mi fermai a Brightmoon per la notte. Udii i racconti degli avventori dell’osteria … parlavano di quanto era bella e affascinante la loro signora. Mi incuriosii e l’indomani cercai di vederla. Rimasi folgorato. Provai di tutto pur di entrare nelle sue grazie e, quando ci riuscii, pensai di aver toccato il cielo».

La voce del cavaliere si era fatta stranamente dolce e musicale, quasi una serenata sussurrata alla memoria di quella donna ormai scomparsa.

«Ci sposammo e, per due anni, fummo molto felici. Poi lei rimase incinta. Da allora tutto cominciò a cambiare. La gravidanza di Erika fu subito difficile. Passava intere giornate a letto, incapace di alzarsi e di mangiare. Finì con l’indebolirsi e non era più in grado di amministrare le terre. In quel periodo, Lavinia venne ad abitare poco distante. La incontravo quasi tutti i giorni, insieme a suo fratello, sulla strada per il villaggio. Amavo cavalcare e cacciare e Mordred si offrì di accompagnarmi. Diventammo amici. Io non avevo la più pallida idea di cosa fare per gestire la rocca e il villaggio ma Mordred mi aiutò tantissimo. In quel periodo, Lavinia frequentava quotidianamente la mia casa, per assistere Erika».

«Erano amiche?».

«Sì … forse … Erika non era facile all’amicizia ma, in quel frangente, forse aveva bisogno di un appoggio … migliore del mio».

Prese il bicchiere e lo svuotò d’un fiato.

«Quando fu il momento del parto, fu Lavinia ad assistere Erika. Purtroppo, la bambina nacque morta … Erika fu sconvolta … impiegò due mesi a riprendersi … era provata, nel corpo e nello spirito, capite? Tanta sofferenza per nulla. Sergaries l’aveva abbandonata … anche la sua fede ne soffrì … era una donna forte, la più forte che io abbia mai conosciuto … più forte di tanti uomini».

«Fu certamente un’esperienza terribile. Mi dispiace che tanta sofferenza abbia turbato la vostra vita, sir Ernest».

Il fuoco nel camino proiettava ombre angoscianti sulle pareti. Gli occhi del cavaliere erravano fra quelle ombre, forse cercandovi i nemici oscuri che lo tormentavano.

«Ma io lo meritavo! Io fui un inetto! Non seppi starle accanto in quei momenti … Maledissi Sergaries ma io … io avevo abbandonato Erika già da prima … o forse non l’avevo mai avuta. Poi, quando sembrava che si stesse riprendendo … quando cominciavo a sperare che l’incubo fosse finito … la Dea se la prese».

«Voi accusate Sergaries, al villaggio si mormora che a colpirla sia stato … Engwhir».

«Sergaries, Engwhir … cosa volete che cambi? Gli Dei si trastullano con i destini dei mortali … sono tutti uguali … promettono … illudono … poi ci danno tutti la stessa cosa … la morte … il nulla. Che fola infame!».

Si era alzato, pur malfermo, per gridare il suo sdegno. Aveva pronunciato le ultime parole con maggior enfasi, ad alta voce, come un’invettiva verso il cielo. Rimase fermo un attimo, con gli occhi sbarrati, poi cadde sulla poltrona, come stremato. Vuotò un altro bicchiere di acquavite, chiuse gli occhi e cominciò a russare.

Sir Raoul contemplò in silenzio l’uomo addormentato. Raccolse il bicchiere che era rotolato verso il camino e lo ripose sul tavolino, vicino alla poltrona. Si avvicinò alla mano inerte del cavaliere e, delicatamente, sfilò l’anello purpureo. Lo osservò attentamente alla luce del fuoco, poi lo rimise al dito di sir Ernest.

«Dormi, ora», mormorò, «con quello che mi hai raccontato, mi hai detto molto più di quanto volevi. Ma questa storia avrà un seguito, te lo prometto».

Si voltò e si diresse silenziosamente verso le scale, osservando attentamente i ritratti dei castellani e delle sacerdotesse. C’era qualcosa di familiare in quei volti ma non riusciva a capire esattamente cosa.

«Sir Raoul, mio marito vi ha lasciato libero?».

Dama Lavinia era comparsa sulla soglia. Era sorridente ma il volto acceso testimoniava un qualche turbamento. Probabilmente il colloquio con il fratello era stato piuttosto vivace. Sir Raoul si chiese quale ne fosse stato l’argomento.

«Dorme, mia signora. Non ho inteso disturbarlo e sono sceso giù. Mi ha raccontato la triste storia di dama Erika e il turbamento lo ha stancato oltremodo».

«Povera Erika. Se penso che sono stata io a suggerirle quella passeggiata a cavallo, non riesco a perdonarmi»..

«Sir Ernest mi ha detto che si è trattato di un tragico incidente».

«Sì … tragico, davvero. Erika aveva partorito una bambina morta … Dopo due mesi, lei aveva recuperato le forze ma era ancora terribilmente triste. Le chiesi se si sentiva di accompagnarmi in una passeggiata, sapevo che amava tantissimo cavalcare. Sulle prime non ne volle sapere, poi si convinse. Eravamo partite da poco, quando il suo cavallo s’imbizzarrì, cominciò a sgroppare e poi si lanciò a correre. Non riuscii a tenerle dietro e quando la raggiunsi … era troppo tardi. Il cavallo non c’era ma lei, poverina, era riversa al suolo, la testa fracassata contro una grossa pietra».

«Un incidente davvero drammatico. Immagino che vi abbia alquanto turbata, mia signora».

«Fu un trauma terribile … sapete, non avevo mai visto una scena tanto orrenda … tutto quel sangue … per fortuna mio fratello era nei paraggi, udì le mie grida e venne a soccorrermi».

«Mi dispiace, eravate molto amica di dama Erika, vero?».

«Eravamo amiche, sì. Ma lei era molto presa dal suo impegno con il tempio, forse anche troppo. Io … non dovrei dirlo ma … temo sia stato Engwhir a colpirla. Era una sacerdotessa importante e aveva più volte sfidato il Signore dei Disastri. Io … temo sia stata punita per questo».

Furono interrotti dall’ingresso di un uomo alto e robusto, dai capelli bianchi e il viso affilato, d’aspetto severo, vestito con una lisa livrea da maggiordomo. Doveva essere sulla sessantina, sebbene ancora vigoroso. Gli occhi scurissimi parevano quelli di un falco, dietro il naso grifagno. Dietro di lui, una donna piccola e rotondetta, dalla carnagione rosea e liscia nonostante l’età evidentemente non più verde, guardava con curiosità il gentiluomo.

«Perdonatemi, dama Lavinia. Mia moglie ed io avremmo bisogno delle vostre indicazioni per la cena».

«Potevate chiedere a sir Mordred, August. Non vedete che sono impegnata?». La voce della dama suonava alquanto stridula e gli occhi, prima sorridenti, erano diventati glaciali.

«Sir Mordred è uscito poco fa, signora. Poiché siamo quasi al tramonto, mi sono azzardato a disturbarvi».

«Va bene, August. Vengo subito». La dama, evidentemente seccata, si rivolse a sir Raoul con un sorriso sensuale. «Perdonatemi, sir Raoul, pare destino che non riesca ad approfondire la nostra conoscenza … rimedieremo più tardi, se non vi dispiace».

«Non preoccupatevi, mia signora. A più tardi».

Il giovane osservò le movenze feline della donna che si allontanava in direzione della cucina, poi si diresse verso l’uscita del palazzo. Sentiva il bisogno di rivedere la luce del sole.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5: Il tempio


Frontale del tempio

Il sole rosseggiava all’orizzonte, dipingendo il mare e le poche nuvole di fiamme dorate, mentre si avvicinava sempre di più alla culla dove avrebbe riposato fino all’alba successiva. La luce del giorno, per quanto al tramonto, riscaldò immediatamente l’animo di sir Raoul Velmont. Uscendo dal palazzo, gli venne spontaneo respirare profondamente l’aria primaverile. Attraversò il cortile con passo leggero, felice di poter godere ancora un po’ del tepore del sole.

Sulla soglia della stalla, un uomo basso e tarchiato stava finendo di scaricare un carretto di fieno. Si voltò lentamente verso il nuovo arrivato osservandolo con i suoi piccoli occhi immersi nel grasso delle palpebre. Il viso apatico non mostrava quali pensieri stessero attraversando la sua mente.

«Buonasera, messere, cosa desiderate?». Parlava con voce atona e strascicata, con un marcato accento locale.

«Sono passato a vedere i nostri cavalli. Sono sir Raoul Velmont. Voi dovreste essere Jack, il palafreniere».

«In persona, messere. Avete già sentito parlare di me?». Lo stalliere drizzò le spalle con orgoglio, nella voce comparve una nota giuliva.

«Ehm, sì… mi ha parlato di voi la signorina Lucy… a proposito, come sta la giumenta?».

L’uomo assunse un’aria pensosamente preoccupata che il gentiluomo trovò alquanto ridicola. Trattenne a stento un sorriso.

«Morella? Ha una brutta piaga… non capisco come se la, ehm, abbia… sia… insomma come se l’è procurata. Eppure, stamani stava benissimo».

«L’avete sellata voi, stamani?». Sir Raoul entrò nella stalla, dirigendosi a passo lento verso il proprio cavallo. Si guardò intorno con noncuranza mentre si avvicinava al placido animale e si rese conto che le selle erano conservate ognuna vicino al rispettivo cavallo.

«Fatemi pensare, ehm, no… anzi, s… sì, sono stato io… perché?». Una punta di tensione comparve nella voce di Jack. Sir Raoul si voltò verso di lui. Chiunque avrebbe potuto mettere un ramo spinoso sotto la sella della giumenta senza che questo venisse notato perché le stesse spine lo avrebbero mantenuto attaccato all’arcione. A meno che lo stalliere non controllasse ogni volta attentamente ciascun basto, prima di porlo sull’animale, non si sarebbe accorto di nulla. Eppure, Jack era certamente quello che avrebbe avuto le maggiori possibilità di farlo e il gentiluomo non intendeva trascurare nessuna ipotesi.

«Per capire come una cavalla sellata possa ferirsi sotto la sella… Non vi sembra strano?».

Un’ombra di confusione velò gli occhi dell’uomo. Guardò il suo interlocutore con aria interrogativa, il problema pareva troppo complesso, per lui. Il giovane aristocratico studiava con intensità il volto stolido dello stalliere.

«Co… come? Si è ferita sotto la sella?». Gli occhi porcini ruotarono nel grasso del volto e finirono per fissarsi sulla sella della giumenta. «Ma com’è possibile?».

«Non lo so, forse c’era qualcosa sotto la sella…». Sir Raoul cercò di catturare nuovamente lo sguardo di Jack, cercandovi un lampo qualsiasi.

«Ieri no. Controllo tutte le selle tutte le sere, messere. La sella di Morella, ieri, era a posto».. Lo sguardo dello stalliere si fissò in quello del gentiluomo. Curiosamente, in quegli occhi, era comparsa una luce nuova e la loro espressione apparve meno vacua.

«E… se qualcuno ci avesse messo qualcosa stamani?».. Il gentiluomo si avvicinò a Jack guardandolo fisso negli occhi.

«Beh… io le controllo alla sera… la mattina ho da fare a pulire e cambiare il fieno, poi devo portare il cavallo di Sir Mordred a fare un giro, se non ci va lui, poi devo…».

«Insomma, qualcuno avrebbe potuto?».

«Er… ehm… sì… immagino di sì…». Imbarazzo. Sir Raoul ebbe l’impressione che Jack sapesse più di quel che voleva far credere. Decise che sarebbe stato meglio non dargli il tempo di riflettere e organizzare una difesa.

«Da quanto lavorate qui?».

«Da cinque anni…».

«Davvero, Jack? E non avete mai notato nulla di strano? Nessuno poteva avere motivo di voler fare del male a Lucy?»..

«Non capisco… io…».

«Voi siete amico di Lucy, vero?».

«Sì, signore, certamente… Lucy è tanto buona con me».. Il volto rotondo e senza età si distese in un sorriso.

«Allora fidatevi di me. Voi sapete chi è venuto alla stalla stamani?».

«Sir Mordred… ma non è nemmeno entrato… dama Lavinia per dirmi di sellare la giumenta… il signor Thornbow, cioè il padre di Lucy…».

«Nessun altro?».

«Il maniscalco… messer Bellingham... il cavallo di sir Mordred aveva un ferro consumato… ».

«Quanto si è trattenuto?».

«Non so… forse un’ora… forse più… non sono sempre stato qui… non avrei mai immaginato…».

Il gentiluomo scorse un autentico sconcerto negli occhi dello stalliere. Forse era giunto il momento di lasciarlo riflettere. Se non aveva nulla a che fare con l’attentato alla giovane ancella, quell’uomo sarebbe potuto diventare un’importante fonte d’informazioni.

« Va bene, Jack. Ma se vi tornasse in mente qualcosa, cercatemi ».

Uscì fuori nella pallida luce del tramonto. Le ombre allungate nel cortile gli parvero una beffarda rappresentazione dei suoi pensieri. Troppa gente era passata dalla stalla per poter fare delle ipotesi sensate, inoltre il giovane aveva la netta impressione che molte persone nascondessero qualcosa. Forse tutte. Si chiedeva quale mistero si celasse fra le possenti e tetre mura della rocca. Giunto davanti al palazzo, il suo sguardo si soffermò sul frontone decorato dai simboli di Sergaries. Possibile che non rimanesse nulla della benefica influenza della dea? Le ombre diventavano sempre più lunghe e opprimenti.

«Sir Raoul, la cena è pronta. Siete atteso in sala da pranzo». L’alta e spettrale figura di August Thornbow comparve sulla soglia della villa.

«Grazie, August. Vi seguo immediatamente».

Salì rapidamente la scalinata e raggiunse il maggiordomo, osservandone con attenzione il viso allungato, il naso grifagno e gli occhi castani. Aveva i modi semplici derivati da un’origine contadina, ma gli occhi vivi e intelligenti e l’appropriatezza del linguaggio dimostravano che la sua vita non doveva essersi svolta esclusivamente fra le campagne circostanti.

«Mi hanno detto che siete stato un valente cacciatore, vero?».

«Sì, signore. Ma è passato tanto tempo. Non so se saprei più tirare con l’arco. L’età avanza e quella vita non è adatta ai vecchi».. La voce dell’uomo era incrinata dalla malinconia ma il gentiluomo ebbe l’impressione che un peso ben più grave opprimesse il padre di Lucy.

In breve tempo, giunsero alla grande sala da pranzo. Ricavata da parte del piano terreno della grande e antica torre circolare che costituiva il nucleo più antico della rocca, alla sala si accedeva da un ampio arco a tutto sesto che richiamava continuamente il motivo del disco lunare.

Il grande salone era illuminato da numerose torce attaccate alle pareti. Quattro ampie finestre protette da inferriate massicce si aprivano sulle pareti laterali. Al centro della parete opposta all’arco troneggiava un enorme camino di pietra, sulla cui cappa spiccava il simbolo argenteo della luna circondato dalle sette stelle dette lacrime di Sergaries.

Sulla destra, un’ampia scalinata saliva fino a un vasto ballatoio, che si apriva sulla sala seguendo la curvatura della parete da dove il gentiluomo era entrato. Sul ballatoio si aprivano alcune porte che conducevano alle camere per gli ospiti.

La cena fu vivacizzata dagli aneddoti e racconti di sir Raoul che rallegrarono un ambiente altrimenti tetro e malinconico. Sir Ernest con gli occhi persi nel vuoto, raramente diceva qualche parola e sir Mordred teneva un contegno cortese ma alquanto distaccato. Si interessò alla conversazione solo quando sir Raoul chiese garbatamente informazioni sulla situazione locale.

«Consentitemi, sir Raoul, questa zona è stata amministrata in modo disastroso per anni. Le casse della rocca erano desolatamente vuote, quando giunsi da queste parti. La strada aveva urgenti necessità di riparazione, il villaggio era mal difeso e nessuno si occupava di mantenere l’ordine. La gente era povera e le imposte eccessive, soprattutto quelle che gravavano sui grandi proprietari terrieri e sui principali mercanti. Coloro che mantenevano viva l’economia di questi luoghi erano soffocati da tutte quelle tasse».

«E allora cosa faceste, sir Mordred?».

«Presi le decisioni più opportune, mi pare chiaro! Ridussi quei balzelli, soprattutto quelli sulle rendite, diedi piena autonomia e sicurezza al villaggio nominando uno sceriffo e invitando la popolazione a eleggere un proprio rappresentante. Da allora, la popolazione paga molte meno tasse e, in compenso, si occupa della manutenzione del villaggio e della strada».

«Cioè, le spese legate al villaggio e alla strada sono tutte a carico degli abitanti di Brightmoon?».

«Esatto. Purtroppo, mi illudevo che fossero capaci di gestire queste semplici cose ma mi sbagliavo. Consentitemi, sono solo una massa di idioti, limitati in tutto, incapaci di prendere il loro destino sulle proprie spalle, inadatti a vivere liberi. La strada è sempre più malridotta e il villaggio è tenuto malissimo. Poi hanno cominciato ad accogliere profughi e le cose sono precipitate».

«Che genere di profughi?».

«Gente del sud. Vigliacchi che scappano dal loro paese con la scusa della guerra e vengono qua a vivere alle nostre spalle e a rubarci le nostre terre. Dovrebbero tornarsene a casa loro. Se laggiù hanno dei problemi non capisco perché debbano portarli fin qui».

«Comprendo il vostro punto di vista, sir Mordred… ma avete fatto qualcosa per risolvere questo problema?».

«Due volte ho individuato il loro campo e ci sono andato con lo sceriffo ed un gruppo di armati ma, entrambe le volte, qualcuno li ha avvertiti ed hanno potuto sfuggirci. Cribbio, se trovo chi è stato, lo impicco alla torre del villaggio, così capiscono cosa succede a chi disubbidisce all’autorità».

«Ma avete qualche sospetto?».

«Sicuramente è qualcuno dei contadini più poveri. Oppure quel vecchio rimbecillito di Clarence, gli venisse un colpo! Non si rendono conto che sono proprio i più poveri a rimetterci».

«Ma non si parlava di un favoloso tesoro che avrebbe dovuto essere custodito dalle sacerdotesse?».

«Sono vent’anni che mi raccontano questa storia. Il tesoro, consentitemi, non esiste. Se ci fosse stato, l’avrei trovato. Abbiamo cercato dappertutto, ma senza risultato».

«E allora perché questa diceria?».

«Me lo sono chiesto anch’io e vi dirò come la penso: le sacerdotesse facevano credere di mettere da parte il tesoro che ricavavano dalle pesanti tasse che esigevano ma, probabilmente, hanno inviato buona parte di quelle ricchezze alla loro chiesa, lasciando che circolasse questa leggenda per tener buona la gente».

«È un’ipotesi interessante, sir Mordred. Molto interessante».

«Vedete? Basta un po’ di buon senso per svelare certi misteri».

La conversazione si spostò su argomenti più frivoli per l’intervento di dama Lavinia e sir Mordred si esibì a sua volta in una serie di aneddoti divertenti anche se spesso di dubbio gusto. A tratti pareva sovreccitato, in altri momenti cadeva in un tetro torpore.

Solo quando Lucy entrava nella sala, portando le pietanze, il suo sguardo, come quello di sir Ernest, seguiva ogni mossa della ragazza con sospettosa attenzione. Negli occhi di sir Ernest, invece, compariva una triste tenerezza e l’ombra di una lacrima.

Solo dama Lavinia pareva davvero interessata ai racconti di sir Raoul, al quale riservava attenzioni e sguardi al limite della decenza. Chiacchierava e interloquiva spesso, sottolineando con risolini e commenti il suo gradimento per la brillante conversazione del gentiluomo.

Al termine, la dama chiese a sir Raoul di trattenersi anche la sera successiva, quando avrebbe dato una festa alla quale avrebbero partecipato numerosi notabili della zona.

«Ma certamente, mia signora, ne sarò onorato».

«Mi raccomando… preparate una delle vostre storie così appassionanti, i miei ospiti saranno felici di ascoltarvi».

«Farò del mio meglio, dama Lavinia… ci penserò fin da stasera».

Sir Mordred intervenne, col tono di chi intende chiudere una discussione.

«Grazie, sir Raoul, saremo felici di ascoltarvi… mia cara sorella, purtroppo domani sarà una giornata impegnativa e faresti bene a far portare Ernest a letto. Visto come dorme, non credo sarà facile svegliarlo».

Sir Ernest, infatti, dormiva profondamente, completamente ubriaco, col capo poggiato sulla tavola.

«Bene, signori. La giornata di oggi è stata stancante per me e Robert, dunque vi chiedo il permesso di ritirarmi nella mia camera».

«Buonanotte, sir Raoul». Lo salutò sir Mordred, con distaccata gentilezza.

«Buonanotte, sir Raoul, vi auguro dolci e piacevoli sogni». Lo salutò, ammiccante, dama Lavinia.

Sir Raoul salì in camera pensieroso. Troppi misteri apparentemente slegati fra loro. Eppure si era convinto che tutto si potesse ricondurre a un unico problema: il favoleggiato tesoro. Forse sir Mordred aveva ragione ma era difficile pensare che una simile menzogna potesse essere sostenuta per oltre due secoli. Qualcuno avrebbe finito col far trapelare qualcosa. Invece, il tesoro poteva essere un movente sufficiente a giustificare la misteriosa catena di eventi che stava opprimendo quelle terre. Ma chi mai poteva essere dietro a tutto ciò? Il giovane non riusciva a capirlo, anche se qualcosa cominciava ad assumere un senso. Si voltò per osservare il salone, ormai deserto, sotto di lui. Anche la forma semilunare di quella stanza riportava al tema della dea Sergaries. Sospirò. Forse Yavië e Sergaries avrebbero dovuto unire le forze per aiutarlo a capire e risolvere quell'enigma. Si chiese se sarebbe stato in grado di farcela da solo.

Appena entrato nella stanza trovò Robert che aveva finito di sistemare i bagagli nella cassapanca. Il giovane maggiordomo, sentendolo entrare, si voltò per indirizzargli uno sguardo interrogativo.

«Ti stai chiedendo perché non ho detto il mio vero nome?». Il gentiluomo sorrideva divertito.

«Beh… in effetti… non capisco perché».

«Ti confesso che non lo so ancora bene neanche io. È stato un moto istintivo. Penso che Lucy corra un grave pericolo e ho voluto essere libero di agire come meglio mi aggrada». Robert spalancò gli occhi.

«Perché pensate così? Mi sembra che tutti le vogliano bene».

«Forse. Però qualcuno ha cercato di ucciderla, oggi». Sir Raoul si lasciò cadere sulla poltrona, incrociando le mani dietro la nuca.

«Perché pensate che abbiano tentato di ucciderla? Non è la prima volta che un cavallo s’imbizzarrisce…».

«La giumenta aveva un ramoscello spinoso sotto la sella, Robert. Per questo si è imbizzarrita. E quel ramo non è arrivato lì per caso. Qualcuno ce l’ha messo e vorrei capire chi».

«Oh Cielo! Allora, potrebbero cercare di ucciderla anche stanotte». Il giovane maggiordomo spalancò gli occhi, impallidendo notevolmente.

«Ne dubito, hanno cercato di farlo passare per un incidente, non credo arriverebbero a tentare una mossa diretta. Dovremo stare in guardia, però. Potrebbero verificarsi altri incidenti».

«Volete che sorvegli la stanza della ragazza?».

«Assolutamente no. Nessuno deve sapere dei nostri sospetti. D’altronde, se avessero voluto ucciderla nella sua camera, avrebbero potuto farlo già da un pezzo. No, provocheranno qualche altro evento che la metta in pericolo mortale, senza che si possa risalire ai colpevoli. Dobbiamo stare in guardia, certamente, ma quando siamo fuori di qui».

«Allora, volete andare a dormire? Io non so se ci riuscirei...».

«Veramente, avrei intenzione di dare un'occhiata a quel famoso tempio… senza farmi troppo notare». Sir Raoul ammiccò sorridendo al suo maggiordomo.

«E come intendete fare? Non sappiamo nemmeno dov'è, esattamente...».

«Potrei condurvici io, sir Raoul».

Lucy era comparsa sulla soglia della camera. Era pallida, i suoi occhi spalancati dimostravano come fosse spaventata, ma la sua voce era risoluta. I due giovani le corsero incontro e la fecero entrare. Robert controllò che nessuno fosse nei paraggi, poi chiuse la porta.

«Lucy…».

«Sir Velmont… purtroppo ho udito le vostre ultime parole… davvero sono in pericolo?».

«Temo di sì. Mi dispiace dovervi allarmare. Però avete la mia parola che faremo di tutto per proteggervi».

«Avete già fatto tanto per me… ma chi potrebbe desiderare la mia morte? Io sono solo una fantesca … ».

«Non so cosa dirvi, Lucy. Non c’è nulla che avete visto o udito di strano, insolito? Qualcosa che qualcuno potrebbe voler mantenere segreto?».

«Non saprei dirvi… no… davvero non mi viene in mente nulla…».

«Va bene, Lucy. Non preoccupatevi e andate pure a riposare. Qui siete al sicuro, ne sono certo».

La ragazza parve non aver neppure sentito le ultime parole del gentiluomo. Pareva assorta in chissà quali riflessioni. A un tratto parve riscuotersi e i suoi grandi occhi si fissarono risoluti sui due giovani.

«Ho sentito che volete visitare il tempio. Io vi ci posso condurre, è qui nel cortile ma è chiuso da anni… è pericolante… sir Mordred ha dato ordine che nessuno ci entri… dice che potrebbe crollare».

«Non preoccupatevi ragazza mia. Nessuno lo saprà, avete la mia parola».

Un’ora dopo, tre figure furtive si introdussero nella corte interna del torrione, mentre in cielo una splendida luna spandeva la sua luce argentea.

Racchiuso dalle massicce mura dell'antico cassero si trovava un delicato chiostro a pianta circolare, al quale si accedeva da un portico sostenuto da snelle colonne di marmo bianco. Cespugli di rose e piccoli alberi da frutto circondavano una struttura rotonda ed elegante, coperta da una bassa cupola, rivestita di marmo bianco e delicatamente ornata da bassorilievi che riportavano i simboli della luna e della dea Sergaries.

Sull’architrave dell’ingresso, lo stemma della dea era inciso in uno splendido disco argenteo, accompagnato da due quartine scolpite ai lati:

Viandante benvenuto
chi in questo loco scende:
sulla sua chioma splende
la luce di Sergaries.

Prega pio viaggiatore,
onora Luna madre,
nella sua luce il cuore
inebria di Sergaries.


«Lucy, restate qui fuori, avvertiteci se qualcuno dovesse avvicinarsi».

«Preferirei entrare, sir Velmont. È sempre stato il mio sogno poter visitare questo tempio. Keira ha atteso per anni senza potercisi avvicinare».

Il gentiluomo guardò pensieroso la ragazza, quasi a soppesarne la determinazione. Poi annuì.

«Bene. Allora sarai tu, Robert, a fare la guardia». Dopodiché si rivolse al portone del tempio, cominciando ad armeggiare con la serratura. Lucy spalancò gli occhi, quando il portone si aprì al secondo tentativo.

«Serratura un po’ arrugginita… nulla di complicato. Robert, mi raccomando a te. Venite Lucy».

La ragazza lanciò un’occhiata perplessa al giovane maggiordomo che le rispose con un sorriso e una strizzata d’occhio e si avviò verso il portone dentro il quale era già scomparso sir Raoul.

Una volta entrata, si trovò in un ambiente circolare, coperto da una cupola decorata con un immenso mosaico color cobalto, sul quale erano rappresentate le costellazioni della volta celeste. L’interno del tempio era arredato semplicemente, con sette file di panche convergenti verso l’altare, anch’esso rotondo, di marmo candido, illuminato dalla luce che irrompeva, vincendo la tenebra delle ombre, da un’apertura circolare al centro della cupola e si diffondeva in tutto il tempio. Intorno all’altare c’erano quattro colonne marmoree che si innalzavano fino alla cupola.

«Ma questa luce… è davvero la luna?».

«Sì, Lucy. D’altronde questo tempio è dedicato a Sergaries ed è naturale che sia stato costruito per esaltarla, soprattutto in notti come questa». Il gentiluomo si aggirava con passo leggero, quasi felino, in quell’ambiente fatato, osservando attentamente tutto quel che lo circondava.

La polvere era depositata un po’ dappertutto, testimone dell’incuria e dell’abbandono di quel luogo sacro, eppure, prendeva riflessi argentei, ricordando costantemente la presenza della dea. Mosaici e affreschi decoravano le pareti del tempio, illustrando episodi della perenne lotta fra la dea e il dio oscuro Engwhir. In numerose parti, erano danneggiati, come da colpi di martello picchiati contro il muro. Altri segni analoghi erano rilevabili su buona parte dei marmi che rivestivano il prezioso pavimento.

Su ogni colonna, un cartiglio argenteo riportava altre coppie di quartine.

 

Luna d’ariento pare
come la vita nasce,
di gioia etterna pasce
la luce di Sergaries.
Luce sia la tua guida,
unica fiamma vera.
Nella fede confida,
ama la gran Sergaries.
Benedicasi l’amore
in sulla fide nato,
ché esso ha consacrato
la luce di Sergaries.
Dove i tuoi passi poni,
ospite benvenuto,
vedi i sontuosi troni
ergersi per Sergaries.
Duca sia la tua fide,
volgi alla luna il core,
ti donerà calore
la luce di Sergaries.
Fiamma di vera fede,
ergiti sacra Luna,
donaci tua mercede,
emblema di Sergaries.
Vergine della Luna
alla preghiera arridi,
è forza de’tuoi fidi
la luce di Sergaries.
Vivi la tua preghiera
in ogni tuo momento,
vedi ogni dolce sera
empirsi di Sergaries.

Lucy lesse con curiosità quei cartigli e, alla fine, si volse verso sir Raoul.

«Questa preghiera… alcuni versi li conoscevo… altri invece mi vengono completamente nuovi».

«Davvero? Immagino ve l’abbia insegnata dama Keira, vero?».

«Sì… però era molto più breve».

«Nulla di strano mia cara, succede spesso che esistano versioni più brevi delle preghiere, per consentire ai fedeli di recitarle con maggiore facilità».

Avvicinatosi all’altare, il gentiluomo notò come fosse decorato da bassorilievi che richiamavano i simboli cari a Sergaries, che convergevano al centro, dove era inciso lo stemma della dea, circondato da caratteri che formavano un’ultima quartina:
 

Apre la via al mistero
il disco della fide,
nel core, ov’è merzide
la luce di Sergaries.


«Questo l’ho già visto al villaggio e sul portone della rocca… In effetti, c’è qualcosa di curioso in questa preghiera».

Rimase a lungo assorto, meditando su quegli strani versi. Dopo un po’, tornò a osservare i mosaici danneggiati, chiedendosi perché fossero stati colpiti da mani sacrileghe. Gli tornarono in mente le voci udite al villaggio, relative a un presunto tesoro che doveva essere nascosto nella rocca. Forse, quei segni sui muri erano le testimonianze di tentativi di trovare un possibile ripostiglio nascosto. Anche Lucy guardava con occhi atterriti quello sfacelo.

«Questi mosaici… ma chi può avere osato tanto?». Nella sua voce c’era timore misto a sdegno.

«Temo che questo sia solo il sacrilegio minore, Lucy… Cos’è quello?».

Stava indicando un’apertura nel pavimento, addossata alla parete, esattamente dalla parte opposta alla porta d’ingresso del tempio.

«…sembra l’ingresso alla cripta… c’è una scala. Scendo a vedere, attendetemi qui». La ragazza annuì, visibilmente scossa.

Mentre l’agile figura del gentiluomo scompariva nell’apertura, Lucy sentì l’aria del tempio farsi più fresca e quasi profumata. Senza quasi accorgersene, cominciò a camminare, irresistibilmente richiamata da quel misterioso, dolcissimo effluvio.

Sir Raoul scese prudentemente la scala, immergendosi in un buio fitto e umido, in un locale dove da molti anni non doveva essere sceso nessuno. Adattò rapidamente la vista all’oscurità e si rese conto di trovarsi in un ampio corridoio che pareva girare attorno al perimetro del tempio. Avanzò con prudenza, con tutti i sensi all’erta, con la fastidiosa sensazione di non essere solo. La mano si strinse intorno all’elsa della spada. Rassicurato da quel contatto, proseguì con maggior sicurezza. A intervalli regolari, sul lato che dava verso il centro del tempio, si aprivano delle cappelle di elegante semplicità, ognuna delle quali ospitava un sarcofago. Aguzzò la vista, individuando le linee aggraziate di rune antiche che riconobbe immediatamente come una forma un po’ arcaica della lingua comune e che interpretò con grande facilità.

Anika Silverhart. Quasi certamente una delle prime sacerdotesse.

Proseguì lungo il corridoio, con la sensazione sempre più inquietante che qualcun altro fosse là sotto, insieme a lui. Aveva superato otto cappelle, quando si arrestò improvvisamente.

La sua vista acutissima aveva scorto un movimento, nell’oscurità del corridoio, proprio di fronte a lui.

Sguainò la spada.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6: La cripta

 

In una piccola valle, nascosta fra i colli e coperta da boschi lussureggianti, sulle rive di un ruscello ingrossato dalle piogge primaverili e dal disgelo delle vette montuose, una radura era invasa da numerose tende malconce. Suoni d’incudini echeggiavano fra gli alberi che si stavano coprendo di tenere foglie e germogli. Uomini, donne e bambini, si industriavano attorno a piccoli fuochi, alimentandoli e ravvivandoli, mentre i martelli modellavano il rame creando piatti e stoviglie, mestoli e bracieri, manufatti che le donne avrebbero venduto prossimamente nei mercati dei paesi circostanti, procurando di che vivere alla piccola comunità.

 

Un uomo anziano sedeva sulla riva del torrente, guardando le acque limpide balzare fra le rocce nella rossa luce del tramonto. I suoi occhi scuri parevano persi dietro i suoi pensieri. Il volto grassoccio e olivastro era solcato da rughe di preoccupazione. La sua gente lo aveva da tempo eletto a propria guida e tutti si aspettavano da lui che garantisse loro tranquillità e benessere. Una responsabilità che accettava senza desiderarla, semplicemente, da quando, anni addietro, aveva deciso di lasciare le campagne devastate dalla guerra della sua patria, per portare la sua gente verso luoghi dove poter sopravvivere, lontano dalla violenza assurda e fratricida. E ora altre persecuzioni. Non si stupiva di essere guardato con sospetto dalle popolazioni di quelle terre. Dappertutto accadeva così. Ma ora la situazione si stava facendo insostenibile. Già due volte, era riuscito a sottrarre la sua gente agli armati dello sceriffo Bond. Non era più diffidenza o sospetto. Era odio. E non riusciva a farsene una ragione. Accuse assurde, di furti e violenze, che l’anziano capo della comunità dei profughi non comprendeva come mai potessero essere rivolte alla sua gente. Si strinse nel suo mantello di lana olivastra. L’aria cominciava a rinfrescarsi.
O il freddo era dentro di lui?

 

Un giovane atletico si avvicinò all’uomo anziano. Probabilmente non aveva nemmeno vent’anni ma era già ben sviluppato. Vestiva semplicemente, come gli altri uomini della comunità e, come loro, aveva la pelle abbronzata dal sole ma portava una spada al fianco e un elegante mantello color cinabro fermato da una spilla d’argento.

 

«Siete preoccupato, mastro Minaeo». Non era una domanda. Era una constatazione.

 

«Sì. Temo che dovremo abbandonare queste terre. Il nostro peregrinare non è finito». L’uomo fissò negli occhi il ragazzo di fronte a lui. C’era esasperazione in quegli occhi.

 

«Possiamo reagire. Siamo abbastanza da riuscire a farci rispettare».

 

La voce del giovane era tagliente, decisa, fremente di rabbia. Lo sguardo di mastro Minaeo si fece ancora più preoccupato. La sua voce suonò stanca.

 

«Abbiamo abbandonato la nostra terra per fuggire dalla violenza. Dovremo ricorrere alla violenza in terra altrui?».

 

«La terra è di tutti. Siamo stanchi di fuggire». Il giovane strinse con forza i pugni, fin quasi a farli diventare cianotici.

 

«Quando abbiamo lasciato le nostre campagne, tu eri un bambino. Ora sei un giovane uomo. Non diventare un violento. Non è per questo che sei stato istruito all’arte della spada». La voce di Minaeo era cambiata, calma ma ferma. La voce del capo.

 

«È questo mondo a essere violento. Dobbiamo adeguarci o perire. Il mio dovere è difendere la mia gente e ora la mia gente ha bisogno di essere difesa».

 

«La tua gente ha bisogno di non essere esposta a ritorsioni e rischi inutili».

 

«Ma dovremo sempre chinare la testa davanti ai prepotenti? Come potremo mai trovare una terra, una patria, se non avremo mai il coraggio di difenderci?». Il giovane alzò la voce. L’anziano abbassò la sua, cercando di cambiare approccio.

 

«Ian, ti prego. Sii ragionevole. Ci faremmo sterminare e cosa ci avremo guadagnato?». Gli occhi scuri del capo erano velati da profonda tristezza. La tristezza e la forza di chi sa accettare anche il sopruso pur di difendere chi gli è caro.

 

«Mastro Minaeo, ho rispetto per voi. Però non ho intenzione di lasciare queste terre. Mi ribellerò a chi ci opprime. Vi prometto che non ricorrerò alla violenza a meno che non vi sia assolutamente costretto».

 

«Ian, se sfiderai quella gente, ti troverai costretto a difenderti con le armi. E tutti noi ne pagheremo le conseguenze». Minaeo era esasperato. Non riusciva a far breccia nel muro di rabbia eretto dal giovane calderaio.

 

«Nessuno saprà collegare a voi le mie azioni. Avete la mia parola». Minaeo scosse tristemente il capo.

 

«Ian, non ti posso autorizzare a fare qualcosa di cui ti pentirai certamente».

 

«Mi dispiace, mastro Minaeo. Addio».

 

Il giovane si voltò e si allontanò a grandi passi.

 

«Dove vai?».

 

«A ritrovare la mia dignità».

 

Mastro Minaeo sospirò e lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava, finché non scomparve fra gli alberi. Scosse nuovamente la testa mentre un'oppressione feroce gli attanagliava il cuore.

 

«Dove ci porterai, piccolo Ian?».

 

Si strinse ancora di più nel suo mantello. Aveva tanto freddo.

 

***

 

Con la spada in pugno, sir Raoul avanzò silenziosamente nel buio, dove pareva muoversi agevolmente, gli occhi fissi sulla diafana forma che intravedeva a non più di dieci passi da lui. Doveva essere più o meno della sua stessa taglia, forse appena più piccola, ed era evidentemente uscita da una delle cappellette della cripta. Si addossò alla parete e riprese ad avanzare senza emettere il minimo rumore.

 

Con estrema prudenza si portò a meno di cinque passi. La figura non pareva essersi accorta di nulla. Girata quasi di spalle, aveva il capo chino in avanti e le mani giunte e sollevate davanti al volto. Pareva che, nonostante il buio, stesse osservando qualcosa che teneva in mano. L’aria, anziché stantia come nel resto della cripta, pareva delicatamente profumata. Il gentiluomo osservò attentamente la scena, cercando di capire con cosa aveva a che fare. Stranamente non avvertì alcun turbamento, anzi ebbe l'impressione che quella sagoma gli fosse in qualche modo familiare.

 

Fece per avvicinarsi ma la figura si raddrizzò e cominciò a voltarsi.

 

Sir Raoul sentì un tuffo al cuore nel vedere il volto bellissimo e assorto della donna davanti a lui. Teneva gli occhi chiusi e in mano reggeva un medaglione argenteo raffigurante il disco lunare.

 

«Lucy?». La figura trasalì e spalancò due occhi azzurrissimi mentre il volto assunse un'espressione spaventata.

 

«Chi siete? Non fatemi del male!». La voce era piena di terrore.

 

«Lucy, sono io, sir Raoul … cosa accade?».

 

La ragazza impallidì visibilmente.

 

«Dove sono? Perché è così buio qui? Perché avete quella spada in mano?».

 

Il gentiluomo abbassò l'arma, perplesso. Cercò di adoperare il tono più rassicurante che poteva ma anche nella sua voce si percepiva una nota di tensione.

 

«Lucy … mi state dicendo che non sapete dove siete? Siamo nella cripta e questa … a giudicare dal nome scolpito … è la tomba di dama Erika».

 

«Io … non so … ero nel tempio … poi ho sentito una specie di corrente d'aria … un profumo … e ora … ora sono qui con voi ma non so … non so davvero come ho fatto». C'era stupore misto a paura nella voce della ragazza.

 

«Evidentemente siete scesa qui sotto e avete percorso il corridoio nel senso opposto a quello che ho seguito io … altrimenti vi avrei vista … arrivando a questa cappella prima di me … siete certa di non essere mai stata qui?».

 

«Io sono scesa? Ma io non ricordo nulla». La voce si era fatta ancora più smarrita.

 

«Quindi il corridoio gira completamente intorno al tempio … bene … siete qui e qui siamo nella cripta … e cos'è quel medaglione?».

 

«Cosa? Quale meda … oh Sergaries misericordiosa!». La giovane ancella osservava con immenso stupore il disco argenteo che teneva in mano.

 

Sir Raul si grattò la nuca con espressione perplessa.

 

«Forse è meglio se usciamo di qui … abbiamo bisogno di un po' d'aria fresca».

 

Il gentiluomo prese per mano la ragazza e la trascinò quasi lungo il corridoio buio. Quando giunsero alle scale, si accorse che il cuore gli batteva all'impazzata e inspirò profondamente l'aria limpida che scendeva dall'alto. Risalirono in fretta nel tempio, trovando conforto nella luce argentea che ancora avvolgeva l'ambiente.

 

«Bene, direi che ci siamo presi un bello spavento … forse è meglio se torniamo nelle nostre stanze». Il gentiluomo sorrideva ma c'era turbamento nella sua voce.

 

«Sir Raoul … ma cosa mi è accaduto?». La ragazza era pallidissima, le sue mani si erano strette attorno al braccio del giovane, quasi a trovare un appiglio.

 

«Credo nulla di grave, Lucy. Forse avete semplicemente risposto a un appello. Quel medaglione … posso vederlo?».

 

L'ancella glielo porse con mano tremante. Era un semplice medaglione d'argento con i simboli di Sergaries a rilievo. Eppure c'era qualcos'altro in quel disco di metallo. Era antico ma non recava segni d'ossidazione, anzi appariva splendente come appena forgiato. Sir Raoul lo soppesò pensieroso, poi lo restituì alla ragazza.

 

«Tenetelo con cura, bimba mia. Non so ancora come, ma sono certo che quest'oggetto sarà d'importanza fondamentale in questa storia. Usciamo ora, prima che Robert finisca per allarmarsi».

 

Nel vederli uscire dal portone del tempio, il giovane maggiordomo corse loro incontro.

 

«Qui fuori tutto tranquillo … Lucy, siete pallidissima! È successo qualcosa?».

 

«Ti racconteremo tutto dopo, torniamo in camera, prima che qualcuno ci scopra».

 

Tornarono silenziosamente al piano di sopra, assicurandosi che nessuno li avesse scorti e rientrarono nella camera di sir Raoul.

 

In poche parole ragguagliarono Robert di quanto accaduto nella cripta. Il giovane era sconcertato. Quel che aveva sentito gli pareva assurdo. Il gentiluomo si rivolse alla ragazza.

 

«Lucy, siete certa che non sia accaduto nulla di strano oggi, oltre all'incidente di stamani? Oppure ieri?».

 

«Oh no, signore, assolutamente nulla … a parte gli stivali ... ma è una faccenda più che altro assurda». La ragazza trattenne un sorriso.

 

«Gli … stivali? Cosa è successo?». Sir Raoul si era fatto improvvisamente attento, attirando lo sguardo meravigliato dei due giovani.

 

«Stamattina non c'erano più, tanto che ho dovuto usare un paio di stivali più grandi, di mio padre … poi, oggi pomeriggio, erano nuovamente al loro posto». I due uomini la guardarono perplessi.

 

«Bene, questo è un fatto strano ma non riesco assolutamente a dargli un senso … erano stati usati?».

 

«No. Erano esattamente come li avevo lasciati … sono un paio di vecchi stivali che mi ha regalato dama Lavinia per il mio compleanno, quasi un anno fa … non capisco davvero ...».

 

Rimasero in silenzio tutti e tre, incapaci di spiegare gli ultimi eventi. Alla fine, una Lucy insolitamente pensierosa si accomiatò con poche parole e scomparve nel corridoio, diretta agli alloggi della servitù.

 

«Cosa pensate di questa faccenda, signore? Mi sembra tutto così oscuro ...».

 

Gli occhi verdi del gentiluomo si fissarono sul giovane, pieni di preoccupazione.

 

«Oscuro! Esatto, Robert! L'oscurità protende i suoi tentacoli su questi luoghi. Un nemico misterioso trama nell'ombra …. e attenta alla vita di un'ancella! Ti sei chiesto perché, Robert?».

 

«Forse Lucy ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto ...».

 

«Certo è possibile. Ma lei non lo sa. E non sa perché la vogliono uccidere. Oh Numi!». Aveva parlato con voce concitata, seppur sommessa e si era improvvisamente interrotto.

 

«Signore?».

 

Sir Raoul pareva paralizzato. Gli occhi vivaci erano perduti nel vuoto, inseguendo tenui fili che lui solo scorgeva. Il maggiordomo si avvicinò ancora più preoccupato, cercando di intercettarne lo sguardo. Quando gli occhi ansiosi di Robert incrociarono i suoi, il gentiluomo parve rilassarsi.

 

«Comincio a capire … Robert, devo uscire senza che nessuno se ne accorga … vai a dormire. Lucy non corre alcun pericolo finché è qui dentro ma non permettere in nessun modo che esca da sola. E se dovete uscire, bada bene di essere armato. Porta anche l'arco».

 

«Non potete dirmi altro?».

 

Sir Raoul si era messo a frugare nei suoi bagagli, estraendone misteriosi pacchetti e vecchi panni che Robert non avrebbe mai immaginato che quell'azzimato gentiluomo potesse mai indossare.

 

«C'è un filo che lega questi eventi, Robert. Tenue, fragile. Ma arriva dal passato e non so ancora dove potrebbe condurci. Gli stivali, Robert! Questa cosa può avere una sola spiegazione logica. Ed è maledettamente angosciante. Devo sapere con cosa abbiamo a che fare.».

 

«Siate prudente, signore».

 

«Lo sarò certamente, Robert. Bada a Lucy e non preoccuparti d'altro».

 

Il giovane maggiordomo uscì dalla stanza e si diresse verso l’alloggiamento che gli era stato riservato. Fu contento di vedere che la finestra gli permetteva di controllare il cortile e che l’appartamento della servitù, nel sottotetto, si trovava proprio sopra la sua testa.

 

Quando si sdraiò sul letto, si rese conto di essere troppo eccitato per prendere sonno. E non riusciva a smettere di pensare ai begli occhi azzurri della ragazza.

 

***

 

Brightmoon era ormai quasi completamente addormentato. Solo dall’osteria provenivano suoni e luci, sempre più flebili, in quell’ora tarda. La piazza del villaggio era tuttavia illuminata dalla splendida luna piena che rifulgeva nel cielo sereno. I portici che circondavano la piazza scintillavano di argentee rune lunari, vestigia del culto di Sergaries, incise a protezione del borgo e dei suoi abitanti. Delicati profumi di alberi in fiore aleggiavano ancora sul piccolo paese, cullandone il sonno. Richiami di uccelli notturni provenivano da oltre le mura, ricordando ai pochi ancora svegli che un mondo intero esisteva aldilà dell’antica cinta del villaggio.

 

Hull era di guardia all’ingresso del borgo, quella sera, e guardava con invidia le luci provenienti dall’osteria. Era seduto su una botte, con la schiena appoggiata al pesante e malandato portone di legno che sbarrava il passo a chi avesse voluto entrare in paese. Ma chi mai poteva volere entrare in quello sputo di villaggio? E, poi, a quell’ora! Aveva sonno ma avrebbe dovuto aspettare che lo sceriffo fosse rientrato nella sua abitazione. Poi si sarebbe sistemato, come al solito, nel magazzino lì accanto. Tanto aveva il sonno leggero e, comunque, nessuno si era mai presentato al cancello di Brightmoon dopo il tramonto, almeno negli ultimi anni.

 

Così, quando qualcuno cominciò a tempestare di pugni il portone, Hull saltò in piedi così malamente da perdere l’equilibrio e ruzzolare in una pozzanghera, poco più avanti.

 

«Aiuto! Accorruomo!». Una voce stridula proveniva di là dal portone, mentre i pugni continuavano a martellare il legno scrostato e mezzo marcio. Hull si rialzò dal fango e si avvicinò allo spioncino. Una strana inquietudine lo colse. Cosa poteva essere accaduto? Poteva essere una cosa pericolosa? Forse dei banditi? Desiderò correre a chiamare lo sceriffo ma si trattenne pensando alla collera del corpulento Bond se la questione non fosse stata degna di staccarlo dalla sua birra. Aprì lo spioncino e guardò timidamente fuori. Vide un vecchietto curvo e macilento, coperto da abiti laceri e macchiati di sangue. Nulla di pericoloso. Però era meglio essere prudenti.

 

«Cosa vuoi, vecchio?».

 

«Fatemi parlare con lo sceriffo, per pietà! Ci sono i banditi, sulla strada!».

 

Banditi? Allora era una faccenda pericolosa! Hull sapeva bene cosa fare in quel momento. Beh … veramente, non sapeva se quella era proprio la cosa più giusta da fare … però era certamente la più sicura.

 

«Lo vado a chiamare. Aspetta lì, vecchio».

 

Ignorò le flebili proteste dell’uomo e corse verso la luce che filtrava dalle finestre del locale. Raggiunse la porta ed entrò, cercando con lo sguardo lo sceriffo. Lo individuò subito, seduto al banco, che guardava con aria pensosa un boccale di birra semivuoto. L’oste, che sonnecchiava seduto su uno sgabello, dietro al banco, si alzò di soprassalto, guardando allarmato il responsabile di quella improvvisa intrusione.

 

«Hull? Non eri di guardia? Che ci fai qui?».

 

«C’è un vecchio … portone … banditi … strada …». Bond sgranò gli occhietti porcini e cercò di snebbiarsi il cervello.

 

«Un vecchio portone? Cosa pretendi, che te lo ripari io? E a quest’ora?».

 

«N-no … un vecchio … banditi … vuole parlarvi».

 

«Un vecchio bandito? E vuole parlarmi?». Sandy Bond cominciava ad allarmarsi. Cosa poteva volere da lui un vecchio bandito? Ripensò alla sua carriera di uomo di legge ma non gli venne in mente un solo bandito che potesse avercela con lui. Era veramente interdetto. E un po’ spaventato.

 

Hull guardò con stupore lo sceriffo. Possibile che non capisse nulla dei suoi discorsi? La paura venne scacciata dalla rabbia che gli faceva quel trippone con lo sguardo vacuo che non riusciva a seguire un discorso così semplice.

 

«Venite sceriffo. Oste, vieni anche tu!». Meglio un rinforzo, non si sa mai, pensò.

 

«S-sì … arrivo subito».

 

L’oste prese un bastone da un angolo e si mise in coda, seguendo Hull e lo sceriffo con passo malfermo.

 

Giunsero esitanti al portone che continuava a essere malmenato dall’altra parte. Hull aprì lo spioncino e controllò la situazione. Il vecchio era sempre lì, un po’ più curvo e sfiatato di prima ma sostanzialmente come l’aveva lasciato. Ne fu contento. Non era del tutto sicuro di essersi comportato bene a lasciarlo lì fuori. D’altronde, la sicurezza della comunità veniva prima di quella di un individuo. Tanto più se vecchio.

 

«C’è lo sceriffo, vecchio».

 

Bond si affacciò prudentemente allo spioncino.

 

«Sceriffo! Ci sono dei banditi sulla strada. Fatemi entrare».

 

Bond esaminò attentamente quell’individuo. Guardò Hull e l’oste, poi si riaffacciò allo spioncino.

 

«D’accordo. Ma niente scherzi. Siamo molti e armati».

 

Hull aprì prudentemente il portone e lo richiuse precipitosamente appena il vecchio fu entrato. Bond puntò la spada verso l’omino che aveva di fronte, con fare minaccioso.

 

«Avanti. Cosa hai da dirmi? Cos’è questa storia dei banditi?».

 

«Sceriffo! I banditi non sono qui. Io sono un vecchio pastore!».

 

Bond esaminò attentamente quell’individuo. Era secco rifinito, curvo e tremante, infagottato in stracci macchiati qua e là di sangue. La voce stridula usciva da un petto ansante, e ciuffi di capelli bianchi piuttosto unti fuoriuscivano dal cappuccio dal quale spuntava un naso grifagno.

 

«E dove sarebbe il tuo gregge?».

 

«Se lo sono preso i banditi. Sennò io che chiedo aiuto a fare?».

 

«Le domande le faccio io, uomo. Tu rispondi e cerca di essere convincente».

 

Bond, eretto in tutta la sua altezza, con la spada in pugno minacciosamente ostentata, esibiva tutto il suo repertorio di impavido sceriffo e valente uomo d’armi. Hull lo guardò fiero. L’oste sputò per terra, buttò il bastone e se ne tornò in bottega scuotendo il capo.

 

«V-va bene, signore». Il vecchio ora appariva intimidito.

 

«Dove hai visto quei banditi?».

 

«A circa un paio di miglia da qui. Mi hanno minacciato e picchiato e si sono portati via il gregge».

 

«Un paio di miglia, eh? Cerca di essere più preciso, vecchio. Bada che so essere convincente, se osi nascondermi qualcosa, te la estorcerò con le cattive».

 

«M-ma no, signore. Ero col gregge in prossimità del vecchio mulino, quello a un miglio e mezzo dalla strada per la rocca. Questi sono sbucati proprio da lì e mi hanno minacciato e picchiato e si sono portati via il gregge».

 

«Quanti erano? Che aspetto avevano?».

 

«Erano quattro, signore. Erano terribili e minacciosi, tutti neri. Parlavano strano … forse meridionale … mi hanno minacciato e picchiato e si sono portati via il gregge».

 

Una luce di trionfo balenò negli occhi di Sandy Bond. Aveva trovato quei maledetti immigrati. Sir Mordred sarebbe stato fiero di lui. Anzi, sarebbe stato lui stesso a portargli la notizia.

 

«Hull, sellami il cavallo e sveglia una decina di uomini validi. Altrettanti ne ha sir Mordred ai Cipressi Neri. Stavolta non ci sfuggono quei maledetti. In venti contro quattro li prenderemo e scopriremo finalmente dove sono accampati. Questa è la volta buona che li rimandiamo alle loro terre a calci».

 

«Ma il mio gregge?». Al vecchio tremava la voce nell’interloquire.

 

«Il tuo gregge? Se le tue informazioni sono esatte, sir Mordred ti ricompenserà generosamente. Se sono false, ti caverò gli occhi, parola mia! Hull, chiudi in cella questo vecchio».

 

«Ma io non ho fatto nulla! Mi hanno minacciato e picchiato e si sono portati via il gregge!».

 

«Se le tue indicazioni sono veritiere non hai nulla da temere e tutto da guadagnarci, vecchio».

 

Hull acchiappò l’omino per un braccio e lo trascinò verso l’ufficio dello sceriffo, mentre Sandy Bond quasi scoppiava di soddisfazione. Giunti nell’ufficio di Bond, Hull aprì un portoncino e spinse il vecchio giù per le scale, sorreggendolo perché non cadesse. Scesero in un sotterraneo umido e buio, illuminato solo dalla torcia del giovane. Questi aprì una porta metallica e vi infilò dentro il vecchio. Poi la richiuse a chiave e risalì. Quando l’eco dei passi del giovane scomparve nel buio, il vecchio si lasciò cadere sulla tavola di legno che costituiva l’unico arredo della cella, si prese la testa fra le mani e scoppiò a ridere.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7: La villa

La villa dei Cipressi Neri


Blackwind rise a lungo, gioiosamente, poi si rialzò in piedi non più curvo e tremante, bensì agile e sicuro in ogni movimento. Si sbarazzò della parrucca bianca e si avvicinò alla porta. Ascoltò a lungo senza udire alcun rumore. Sorrise soddisfatto ed estrasse alcuni grimaldelli da una tasca ben nascosta nei suoi abiti cenciosi. Aiutato dalla sua vista notturna da elfo che gli permetteva di sfruttare la benché minima fonte di luce, in pochi istanti ebbe ragione della serratura.

Uscì nel corridoio buio e deserto, muovendosi in silenzio con agilità e precisione. Esplorò rapidamente la piccola prigione umida e gelida, finché si fu assicurato che le altre celle fossero vuote. Entrò nella stanza, dove avrebbero dovuto vegliare i carcerieri e che era ridotta a una disordinata cantina dove erano stati ammassati innumerevoli barilotti e fiaschi. Su un tavolaccio faceva bella mostra di sé un grosso mazzo di chiavi che il ladro esaminò con aria critica per poi scuotere la testa con un sorriso di commiserazione. Su una rastrelliera erano raccolte alcune armi il cui stato di manutenzione lasciava alquanto a desiderare.
Proprio uno sceriffo in gamba.
Lanciò un’occhiata disgustata al soffitto a volta che doveva, un tempo, essere decorato di affreschi dei quali erano rimaste solo alcune macchie scrostate. Sulla parete di fondo spiccavano le vestigia di un arco cieco che doveva essere stato di notevole valore artistico e che l’incuria e l’umidità avevano trasformato in un popoloso allevamento di ragni. La sua attenzione fu attratta da una lapide malconcia che recava incisi alcuni frammenti di parole:

A¤¤¤ ¤¤ v¤¤ ¤¤ ¤¤¤¤¤ro
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La studiò con curiosità, in assorto silenzio.

Un lieve gemito attirò la sua attenzione. Si mosse con cautela, cercando di capire da dove proveniva. Solo quando raggiunse il fondo del corridoio scorse una porticina blindata, simile a quelle che chiudevano le celle, solo più piccola. Si avvicinò con prudenza e aprì lo spioncino.

Impiegò un po’ ad adattare la sua vista all’oscurità quasi impenetrabile che regnava in quel piccolo ambiente. Una figura era rannicchiata in un angolo, coperta di stracci, tremante dal freddo. Il giovane non esitò e aprì rapidamente la serratura del portoncino, venendo investito da un tanfo orrendo. Si rese conto che quella cella era in pratica poco più di un buco, dal soffitto così basso che solo uno gnomo di bassa statura ci sarebbe potuto stare in piedi. Si piegò e si avvicinò carponi al fagotto di stracci. Questo si mosse bruscamente, schiacciandosi disperatamente contro il fondo della cella.

«Sono un amico. Non temete».

Due occhi vuoti si spalancarono nel buio, incapaci di vedere. Quella creatura doveva essere rimasta così tanto tempo in quella tana buia da aver quasi perduto la vista. Era tremante per il freddo e la paura e spaventosamente magra. Una capigliatura lunga e stopposa le ricadeva sulle spalle. Non aveva peluria sul viso, dunque il giovane elfo ipotizzò che si trattasse di una donna. Anelli metallici le cingevano i polsi e le caviglie martoriate. Una catena correva fra quegli anelli, permettendo alla sventurata solo pochi e penosi movimenti. Rapidamente il finto pastore individuò il lucchetto che serrava la catena, agganciandola a un grosso anello infisso nella parete di roccia. Cercò di aprirlo ma era tanto arrugginito da essere pressoché inservibile. Senza attrezzi adeguati sarebbe occorso parecchio tempo per aver ragione di quel blocco di ruggine, forse tutta la notte. Troppo, in quella situazione. Improvvisamente ebbe un’idea.

«Aspettatemi. Tornerò presto a liberarvi».

La sventurata creatura non osava emettere alcun suono. Continuava a fissarlo con gli occhi sbarrati, respirando affannosamente. Il giovane rabbrividì pensando agli orrori che quella povera donna doveva aver patito. Sospettava di sapere chi fosse e, in quel caso, doveva essere lì dentro da circa un anno. Abbastanza da perdere la ragione, in un ambiente simile.

Clarence Bellingham si era appena riaddormentato, dopo essere stato tirato giù dal letto da quell’esaltato di Hull che cercava volontari per aiutarlo a cacciare dei poveracci immigrati. Lo aveva ascoltato attentamente, poi lo aveva mandato a quel paese nel modo più diretto e volgare del suo repertorio, aveva richiuso la porta e se ne era tornato a letto. Ora qualcun altro bussava. Se fosse stato ancora quell’idiota, Clarence avrebbe svuotato il vaso da notte con qualche ora d’anticipo. Si affacciò alla finestra e vide un cesto di capelli bianchi sopra un mucchio di stracci. Si chiese chi diavolo potesse essere e scese di corsa. Quando aprì, si trovò davanti a un giovane snello, con una parrucca bianca scarmigliata, poggiata alla bell’e meglio sul cranio, vestito come uno straccione, che gli stava parlando con una voce limpida e sicura, una voce abituata al comando.

«Seguitemi mastro Bellingham, e portate qualcuno dei vostri attrezzi».

L'anziano guerriero non si mosse, guardando con un misto di diffidenza e curiosità quello strano personaggio.

«Temo vi siate sbagliato, signore. Il cerusico abita nella strada di sotto».

«Il cerusico non c 'è, vengo da casa sua. Comunque occorre soprattutto il fabbro, almeno per ora. Seguitemi, perché non c’è tempo da perdere».

La voce dello strampalato individuo pareva non ammettere repliche, sicché mastro Bellingham prese con sé un martello e un paio di leve e si accinse a seguirlo. Quando si accorse che erano diretti all’ufficio dello sceriffo, sgranò gli occhi.

«Ehi! Dove mi state portando? Bond è rimasto chiuso in cella, per caso?».

«Bond è partito in caccia di fantasmi. Invece noi ne incontreremo uno, fra poco».

«Siete pazzo?».

«Seguitemi e lo vedrete». La voce dello straniero suonò stranamente grave in contrasto con il suo buffo aspetto e un brivido corse lungo la schiena del borgomastro. Anche la scomparsa del cerusico lo innervosiva. Dove poteva essersi cacciato? Certamente non aveva seguito Bond nella sua spedizione. Scacciò quel pensiero. Forse è andato in cerca di piante medicinali … alcune si dice debbano essere colte durante il plenilunio.

Incuriosito da quello strano individuo, Clarence entrò nell’ufficio dello sceriffo, scacciando l’abituale senso di nausea che gli procurava quell’ambiente. Seguì il giovane fino alla cella, dove rimase a bocca aperta. Quello che vedeva gli sembrava incredibile. Furia e gioia si mescolarono nella sua mente, quando, alla tenue luce di una candela, riconobbe la creatura incatenata. La voce gli tremò mentre pronunciava il suo nome.

«Keira …».

***

Robert si era appena assopito quando un rumore di zoccoli nel cortile della rocca lo fece scattare alla finestra. Socchiuse prudentemente gli scuri. Un messaggero era giunto alla rocca e stava conferendo con sir Mordred. Questi rientrò nel palazzo per uscirne poco dopo avvolto nel mantello, dirigendosi a passo rapido verso le stalle. Robert continuò a osservare la scena, fin quando il gentiluomo non fu uscito dal portone della fortezza, seguito dal messaggero. Si chiese cosa potesse significare quell’evento ma non riuscì a trovare altra spiegazione che qualcosa di urgente richiedeva altrove la presenza dell’effettivo signore di quelle terre. Stava per sdraiarsi nuovamente sul suo giaciglio, quando avvertì un rumore di passi nel corridoio.

Cautamente, si avvicinò alla porta, schiudendola per quel poco necessario a sbirciare fuori. Una figuretta avvolta in un mantello, si muoveva furtivamente e si accingeva a scendere le scale. Il giovane sentì il cuore sobbalzare nel vedere quell'immagine. Era certo che quella cappa racchiudesse la sagoma dell’avvenente ancella. Rapidamente si rivestì, afferrò la spada e uscì nel buio del palazzo.

***

Un’ombra silenziosa si aggirava intorno all’alto muro di cinta che circondava la villa dei Cipressi Neri. Raggiunse una macchia di alberi i cui rami arrivavano sin sopra la recinzione. Agile come un gatto, si arrampicò su uno degli alberi, salì su un ramo robusto e sporgente e balzò sul muro. Ne percorse un tratto, camminando con la sicurezza di un acrobata esperto, finché non raggiunse un altro albero, all’interno del parco. Con estrema leggerezza balzò su un grosso ramo e vi si mise a cavalcioni. Un lugubre ululato echeggiò in lontananza.

Da lassù poteva controllare accuratamente buona parte del parco e il viale che, dalla villa, conduceva al grande cancello che interrompeva il muro di cinta. Dopo circa un quarto d’ora, vide un gruppo di armati uscire dal portone e dirigersi alle stalle. Poco dopo, cavalcarono verso il grande cancello che si spalancò per lasciarli uscire. Alla testa del drappello, alla luce delle torce, si riconoscevano chiaramente sir Mordred e lo sceriffo Bond.

L’ombra ridiscese al suolo e cominciò ad avvicinarsi, silenziosa e invisibile, alla macchia di cipressi che circondava la villa su tre lati e che le dava il nome. Si muoveva con prudenza, tenendosi accuratamente controvento, per evitare di attirare eventuali cani da guardia.

Raggiunto il boschetto, vi penetrò silenziosamente, scomparendo per alcuni minuti. Ricomparve nel punto in cui gli alberi si avvicinavano di più alle mura della villa fortificata. Con due balzi raggiunse la base delle mura, schiacciandosi contro la roccia, immobile nel buio, sotto una finestra protetta da inferriate, posta circa tre metri sopra la sua testa. Rimase così per alcuni minuti, poi sganciò la frusta che portava al fianco e fece un passo indietro, gli occhi fissi verso la finestra. Dopo qualche secondo, la frusta saettò nell’aria, avvolgendosi intorno ad una delle sbarre. Pochi istanti dopo, la figura ammantata di nero si trovava sul davanzale della finestra. Ancora più in alto, c’era un balconcino con una balaustra costituita da leggeri colonnini marmorei. Passarono alcuni minuti di assoluto silenzio, poi la frusta si stese nuovamente nell’aria, avvolgendosi intorno ad un colonnino e l’ombra si arrampicò velocemente sul terrazzo. Rimase nascosta fra le ombre per alcuni minuti, poi aprì la porta-finestra e si introdusse all’interno della villa.

Blackwind era abituato a pianificare attentamente le sue azioni ma, stavolta, era costretto a improvvisare. Non sapeva nulla di quella casa. D’altronde, quell’intrusione furtiva nella villa fortificata sarebbe stata soprattutto un’esplorazione, destinata a porre le basi per le sue mosse successive. Non stava cercando ricchezze ma informazioni.

La stanza dove era entrato doveva essere una specie di salottino, arredato con un gusto che faceva supporre decisamente l’intervento di una donna. Con calma esaminò il locale. C’erano due porte. Una doveva condurre verso l’interno della villa, forse in un corridoio, l’altra si apriva in una stanza accanto a quella dove si trovava, verosimilmente la camera da letto della misteriosa dama. Si pose in attento ascolto, silenzioso e con tutti i sensi all’erta. Non udì il minimo rumore, dunque provò ad aprire dolcemente la porta. Il letto appariva in ordine. Nessuno vi era ancora giaciuto, quella sera. A quanto si sapeva, sir Mordred non era sposato e sua sorella aveva lasciato la casa da tanti anni, dunque, chi era la donna che viveva lì? Esaminò la stanza con cura, senza trovare granché. La cassapanca era semivuota, con qualche abito femminile di gran pregio e un elegante paio di stivali di pelle. Una dama, dunque.

Riprese a interessarsi del salottino. Si avvicinò a una specchiera di pregevole fattura, esaminandola attentamente in cerca di indizi che gli permettessero di capire chi fosse colei che viveva nella casa di Sir Mordred. Aprì i cassetti delicatamente, trovando trucchi che parevano usati di recente e gioielli. Una boccetta di profumo lo incuriosì. Aprì il tappo e lo annusò prudentemente. Un’espressione perplessa si dipinse sul suo volto. Richiuse immediatamente la boccetta e riprese l’ispezione della toilette. Spesso, in quel genere di mobile, si trovavano scomparti segreti, dove le dame nascondevano oggetti di valore o compromettenti. Impiegò mezz’ora buona ma riuscì a scovarlo. Una nicchia si spalancò sotto lo specchio. Il giovane riconobbe subito il contenuto, sentendosi improvvisamente girare la testa.

Ora il mosaico era completo. Ora sapeva quale fosse il vero pericolo. Si chiese se sarebbe stato capace di affrontarlo. Richiuse lo scomparto segreto.

Esplorò rapidamente la stanza, senza trovare null'altro di veramente interessante. Si diresse verso la parete opposta, aprendo prudentemente la porta. Conduceva a un ballatoio sul quale si aprivano altre tre porte e che sboccava su un elegante scalone che scendeva al piano inferiore, in quello che sembrava l’atrio dell’abitazione.

Cominciò a esplorare le altre due stanze, oltre la camera della dama. Una era la camera di sir Mordred, l’altra uno studio. Esaminò accuratamente la camera, dove rinvenne poche cose degne d'interesse. Solo un mantello verde, sporco di fango destò la sua attenzione. Emanava un insolito odore selvatico, come se fosse stato a stretto contatto con qualche animale. Passò allo studio, dove poté esaminare alcune carte che dimostravano come sir Mordred amministrasse quelle terre. Rimase incuriosito da alcuni documenti. I possedimenti della villa dei cipressi neri erano notevolmente cresciuti, negli ultimi tempi. Nulla di particolarmente strano se non fosse per il fatto che sir Mordred amministratore della rocca aveva venduto quelle terre a sir Mordred proprietario della villa. E anche i possedimenti del vicino lord Cardekon si erano notevolmente accresciuti, con lo stesso sistema. Si intendono alla perfezione, sorrise fra sé l'avventuriero. Proseguì l’esplorazione dell’abitazione. Al terzo piano, come di norma, c’erano gli alloggi della servitù e un discreto assortimento di armi che dimostrava come il personale fungesse anche da guardia personale del signorotto. Evidentemente, tutti gli uomini lo avevano seguito nell'impresa di dare la caccia agli immigrati, giacché solo un'anziana donna e una bambina dormivano in quegli alloggi.

Scese silenziosamente le scale per raggiungere il piano terreno. Un ampio salone, riccamente arredato di arazzi pregiati e dal soffitto affrescato con immagini bucoliche, era adibito a sala da pranzo, con un enorme tavolo centrale e un immenso camino, la cappa del quale era completamente rivestita da pannelli di legno scuro. Osservò con attenzione le pareti e si avvicinò ad alcuni quadri, esaminandoli con occhio esperto. Passò al setaccio anche i soprammobili e gli oggetti di pregio sparsi qua e là. Poi esplorò un altro salone, evidentemente attrezzato per ricevimenti, e due salottini arredati con cura, adatti a trattare affari al riparo da sguardi indiscreti. Infine, esaminò con cura anche la cucina, senza trovare granché d'interessante.

Scese in cantina cercando qualcosa che confermasse le ipotesi che aveva formulato ma non trovò nulla. Era una cantina relativamente piccola, estremamente pulita e ben tenuta. Le pareti erano lisce e asciutte. Risalì nel salone da pranzo. Eppure deve esserci. Sedette su una poltrona con gli occhi fissi sul soffitto della stanza, perplesso. Mi sarei aspettato di trovarlo qui. Si rialzò di malavoglia. Il tempo stava passando e presto si sarebbe dovuto allontanare, sir Mordred non avrebbe passato tutta la notte a dar la caccia ai fantasmi. Si avvicinò al camino, studiandone la copertura di legno scuro. Poi gli sorse un dubbio. Sfilò il pugnale dal fodero e provò a inserirne la lama fra due assi di legno. Il camino era decorato dai simboli di Sergaries, coperti, ma ancora perfettamente riconoscibili. Tornò rapidamente in cantina.

***

Robert si muoveva silenzioso, seguendo la figura indistinta di Lucy, lungo un ripido sentiero che scendeva rapidamente, costeggiando i boschi, verso la vallata sottostante. La ragazza si muoveva con rapida e sicura agilità, dimostrando una volta di più la sua perfetta conoscenza di quei paraggi, aiutata dalla luce della splendida luna piena di quella notte. Un ululato lontano ruppe il silenzio di quei luoghi.

***

I passi del giovane Ian suonavano decisi nel bosco, attutiti dall’erba alta. Camminava rapidamente, senza curarsi del rumore che causava, scuro in volto, gli occhi fissi davanti a sé. Proseguì per un quarto d’ora, per sentieri che conosceva ormai a memoria, percorsi quotidianamente negli ultimi due anni, quando aveva coltivato la speranza di essere arrivato a casa.

«Ian?». Una voce esitante risuonò da dietro un cespuglio.

«Sì, Georg. Sta’ tranquillo».

In una piccola radura, un gruppo di cinque giovani, malamente armati e dall’aria spaurita, stava attendendo l’arrivo di colui che riconoscevano come loro capo. Appena Ian emerse dal sentiero, gli si fecero intorno.

«Allora?».

«Che ti ha detto?». Le voci dei giovani erano concitate, cariche di tensione.

«Il tiranno ci sta cercando dalle parti del vecchio mulino. Non so chi gli abbia messo in testa quest'idea ma gli Dei ci offrono un'occasione e noi non possiamo lasciarcela sfuggire».

«Cosa facciamo, allora?». Un tono di delusione era comparso nelle parole di quello che il giovane Ian aveva chiamato Georg.

«Quello che avevamo progettato. Avremo una patria solo quando ritroveremo la dignità che ci hanno sottratto. E potremo recuperare la nostra dignità solo abbattendo chi ci opprime».

«Noi siamo con te, Ian». La voce di Georg, però, tremava, nel pronunciare quelle parole.

«Fratelli, giuriamo di vivere e morire insieme, finché la nostra gente non otterrà la libertà che ci è negata». Ian alzò la spada verso la splendida luna. Le lame dei suoi compagni si affiancarono alla sua.

«Giuriamo!».

«Giuriamo!».

Un ululato proveniente da molto lontano parve commentare lugubremente il voto dei giovani cospiratori.

«La notte è propizia, con questa luce potremo muoverci rapidamente. Se ci muoveremo con decisione, il tiranno sarà in mano nostra mentre torna alla villa. È tanto sicuro di sé da prendere solo pochi uomini di scorta».

Ian si mise alla testa del gruppetto, inoltrandosi nei boschi con passo sicuro. Gli altri lo seguirono, meno baldanzosi, scambiandosi occhiate nervose.

***

Lucy camminava sicura, lungo i sentieri che conosceva benissimo, pur con un tremito in fondo al cuore che sobbalzava ogniqualvolta nella notte echeggiava un ululato. La splendida luce lunare le scendeva fino in fondo all’anima, riscaldandola e dandole il coraggio di affrontare la paura. Aveva la sensazione di non essere sola, che occhi misteriosi la stessero scrutando nell'ombra. Alcune volte le sembrava di avvertire un rumore, un fruscio, da qualche parte intorno a lei e il gelo le attanagliava il cuore. Tuttavia andava avanti. Aveva una missione da compiere, dalla quale dipendevano numerose vite. Non poteva fermarsi.

In certi momenti, riconosceva le sagome familiari di alberi e rocce che aveva visto numerose volte e che le davano una calda sensazione di sicurezza. In altri, non distingueva bene i luoghi intorno a lei e il terrore di aver smarrito la strada la pervadeva. Continuava a camminare speditamente verso la valle, sapendo che dalla sua rapidità dipendeva la riuscita del suo compito. Un altro ululato risuonò nella foresta.

***

Blackwind risalì dalla cantina soddisfatto. Aveva trovato tutto quel che cercava. Comunque, rifece il giro della casa, ricontrollando quanto aveva scoperto e riflettendo. Si stava formando un’ipotesi. Che si sposava perfettamente, pur rendendolo ancora più perverso, con l’intrigo che si stava svelando di fronte ai suoi occhi. Ora restava solo qualche dettaglio. Tornò nel salottino dal quale era entrato per fermarsi nuovamente davanti alla specchiera. Avrebbe voluto portarsi via il contenuto del cassetto segreto ma si trattenne. Meglio che non si sentissero minacciati. Si mise a scrivere su un foglio di carta.

***

Robert procedeva con enormi difficoltà, cercando di non perdere il contatto con Lucy e, contemporaneamente, di non far rumore per non farsi scoprire dalla ragazza. Quei luoghi gli erano sconosciuti e il sentiero ripido gli rendeva difficile quel pedinamento. A un tratto temette di averla persa. Non la distingueva in alcun modo e si chiese come potesse essere accaduto. Si fermò in ascolto. Dopo un attimo sentì un fruscio che pareva venire di sotto a lui. Si sporse prudentemente fra le fronde e si rese conto che il sentiero scendeva bruscamente, con una rudimentale scaletta di pietre, per un dislivello di circa tre metri. Si sentì rincuorato perché questo spiegava come la ragazza fosse sfuggita alla sua vista. Un attimo dopo, però, il cuore gli sussultò, nel vedere alcune figure ammantate sbucare dall’ombra e circondare la giovane.

Valutò la possibilità di saltare addosso a quegli sconosciuti ma si rese immediatamente conto che non sarebbe riuscito a sconfiggerli tutti. Rimase in attesa, cercando di capire cosa stesse accadendo.

Lucy non pareva allarmata da quell’incontro e si mise a parlare fittamente con quello che sembrava il capo del gruppo. Robert cercò di ascoltare cosa si stessero dicendo ma non riuscì ad afferrare che qualche pezzo di parola. Il tono della conversazione, però, lo rassicurò. Non c’era minaccia nella voce degli uomini, né timore in quella dell'ancella. Si rilassò. Forse Lucy aveva terminato la sua missione notturna.

Un fruscio.

Dalla boscaglia emerse un animale da incubo. Pareva un lupo ma di dimensioni triple rispetto alla norma, gli occhi iniettati di sangue che rosseggiavano fra l’ispido pelo nero, le fauci mostruose, spalancate mostravano zanne affilate simili a pugnali. Con un ruggito spaventoso piombò in mezzo al gruppo, disperdendolo e puntò sulla ragazza che lanciò un urlo di terrore disperato.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 

Capitolo 8: La foresta

Blackwind era soddisfatto della visita alla villa. Aveva trovato quel che cercava e anche di più. Inoltre, un piano stava cominciando a delinearsi nella sua mente. Si allontanò, nascosto fra le ombre disegnate dalla luce della luna, verso i cipressi che circondavano la casa, silenzioso e rapido come il vento. Superò gli alberi, allontanandosi verso la parte più meridionale e distante della proprietà. Scavalcò agilmente il muro di cinta e si diresse verso un fitto bosco di querce e castagni che distava pochi metri. Da lì avrebbe rapidamente raggiunto il sentiero che riuniva la villa alla strada. A un tratto, la sua attenzione fu catturata da una serie di impronte di stivali che parevano inoltrarsi nel bosco. Rimase un attimo perplesso, poi le seguì a ritroso, fino a raggiungere nuovamente il muro che aveva scavalcato poco prima. Impiegò pochissimo a scoprire una porticina celata dietro un fitto cespuglio rampicante.
Bene, c'è anche un'uscita di servizio. Ma chi l'ha usata?
Il ladro era perplesso. Si chinò per osservare meglio le impronte. Fosse stato giorno, avrebbe saputo ricavare molte più informazioni ma dovette accontentarsi di quello che la luna e la sua vista notturna gli consentivano di scorgere.
Passi brevi, non si capisce se uomo o donna. La dama misteriosa o sir Mordred?
Decise di seguirle nella boscaglia.

***

La ragazza, nel vedere quell’orrore, parve paralizzarsi. Cadde sulle ginocchia, incapace di qualsiasi azione. Gli uomini che la circondavano urlarono di terrore dandosi alla fuga. Solo due le rimasero accanto, con le armi in pugno. La belva rallentò il suo slancio, studiando gli avversari.

«Scappa, Lucy, pensiamo noi a questa bestiaccia». A parlare era stato quello che sembrava il capo del gruppetto, mentre il suo compagno gli si schierò accanto, pur con qualche esitazione. Lucy non si mosse.

«Scappa, ti dico!».

La belva scattò, avventandosi verso i due individui. Quello che aveva parlato schivò l'attacco e tentò di colpire con la spada ma il suo compagno non fu abbastanza rapido. Le fauci bramose della creatura si chiusero con un rumore orribile di carni e ossa lacerate, strappando il braccio dell'uomo. Un attimo dopo, l'enorme massa di zanne e artigli balzò contro l'altro avversario, scaraventandolo al suolo.

Nel vedere la scena, Robert lanciò un urlo disperato e si gettò in una corsa forsennata verso la ragazza. Armato solo di spada e pugnale, il giovane aveva ben poche possibilità di sconfiggere la mostruosa creatura, lo muoveva solo la disperata speranza di offrire alla fanciulla una possibilità di fuga, prima di soccombere.

L’animale si avvide subito dell’accorrere del nuovo avversario e abbandonò la sua vittima per intercettarlo. Sapeva che non era un rivale degno, ma l’esperienza gli aveva insegnato a diffidare degli uomini. Solo dopo morti non costituiscono più un pericolo. Si lanciò verso Robert, con le fauci protese. Sarebbe bastato un solo morso.

Una freccia colpì la belva sul dorso ma questa parve accorgersene appena, scartò di lato e riprese la carica, con un ruggito furioso.

Un’altra freccia, più precisa, centrò la gorgiera del mostro, interrompendone la corsa. Un’altra ancora, infine, terminò il suo volo fra le fauci insanguinate dell’animale che ebbe un sussulto e cadde esanime.

***

Il bosco s'infittiva sempre più, impedendo ai raggi argentei della luna di raggiungere il muschio che copriva il suolo. Le tracce seguivano un sentiero quasi impercettibile, sparendo per interminabili minuti per ricomparire qua e là, senza mai riuscire a sfuggire definitivamente all'occhio esperto dell'avventuriero.

Man mano che avanzava, un'inquietudine cominciava a impadronirsi del giovane. Un silenzio innaturale avvolgeva le immense querce, permeando i cespugli, ricoprendo di un'invisibile patina di angoscia tutto ciò che lo circondava. Con tutti i sensi all'erta, il ladro si impose di proseguire lungo quella misteriosa pista.

Giunse in una piccola radura, dove alcune rocce delimitavano una specie di recinto, parzialmente coperto da un lastrone di ardesia, simile a un rozzo ricovero per animali. Ossa accuratamente spolpate occhieggiavano qua e là fra l’erba alta. Rimase immobile, accovacciato sotto una quercia, perlustrando con la sua vista acutissima quel macabro luogo.

Tutto, intorno a lui, aveva odore di morte.

D’un tratto si alzò in piedi. L'odore aveva risvegliato antichi ricordi, di quando Blackwind non era ancora celebre e lui era semplicemente un cacciatore nelle terre selvagge della Repubblica di Elos. Un orrore sopito ma mai dimenticato. Riconobbe il nemico, prima ancora di vederlo.

Con un balzo afferrò un ramo abbastanza robusto e vi si issò sopra con un'elegante piroetta. I cespugli vicini si spalancarono improvvisamente e la massiccia e terribile figura di un enorme worg[1] piombò dove, appena un attimo prima, si trovava l'avventuriero.

Rapidamente, salì ancora più in alto, cercando nello sforzo e nella concentrazione del movimento di scacciare l’angoscia che gli faceva battere il cuore all’impazzata. Respirò profondamente, cercando di ignorare i latrati del mostro sotto di lui. Aveva già affrontato altre volte quelle creature e sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare. Però aveva la necessità di riprendere il perfetto controllo dei nervi. La belva si scagliava selvaggiamente contro il tronco, facendolo tremare sotto il suo peso. Ciò nondimeno Blackwind, ormai, era perfettamente calmo.

***

Robert rimase immobile, davanti al mostro agonizzante, guardando attonito le fauci gorgoglianti e gli occhi iniettati di sangue che si andavano velando sempre più. Gli pareva che quegli occhi e quelle mascelle bramassero ancora la sua carne e il terrore non voleva saperne di abbandonarlo. Avrebbe voluto muoversi o urlare ma nulla del suo corpo rispondeva più al suo spirito prigioniero dell'orrore. Un rumore di passi, alle sue spalle, lo riscosse dall'incubo. Si rese conto di essere in ginocchio. Cercò Lucy e la vide china accanto al ferito. Si voltò lentamente verso il misterioso arciere. Sgranò gli occhi nel riconoscere l’inconfondibile sagoma di August Thornbow.

«Complimenti, messere! Un colpo da maestro!». L'anziano maggiordomo lo superò senza dar segno di aver sentito, quasi correndo verso la figlia adorata.

«Lucy! Stai bene, bambina mia?».

La ragazza si rizzò in piedi e gli corse incontro piangendo, abbracciandolo di slancio.

«Padre! Mi avete salvata! Siete stato grandioso». Robert osservò l’anziano maggiordomo abbracciare teneramente la figlia. L'amore che traspariva dagli occhi severi dell'uomo era quasi commovente. Si avvicinò timidamente.

«Grazie, signore, ci avete salvato tutti. Avete ancora il braccio e l’occhio di un grande cacciatore».

«Gli Dei mi hanno voluto aiutare. Erano anni che non tendevo un arco».

«Gli Dei hanno voluto aiutare noi, mettendovi sulle nostre tracce».

«Quando mi sono accorto che Lucy stava uscendo mi sono precipitato a seguirla. Poi ho visto che anche voi eravate sulle sue tracce e mi sono un po’ tranquillizzato ma sono contento di avere continuato a seguirvi».

«Padre, perdonatemi … avrei dovuto avvertirvi».

«Dobbiamo andarcene al più presto, Lucy. Se sir Mordred ti scopre, saremo tutti nei guai. Come stanno quei due?».

«Uno è ferito gravemente, temo che possa morire …».

Una voce echeggiò fra le fronde.

«Sia gloria a Fenesbrand, allora». Tutti si voltarono verso il sentiero.

Un uomo anziano, dal viso benevolo, incorniciato da una candida barba che contrastava col capo calvo era improvvisamente comparso dalla boscaglia, seguito da due armati. Portava una tunica nera ornata dai simboli di Fenesbrand, il signore dei morti. La sua voce suonava stentorea ma rotta, forse dall’uso senza risparmio tipico dei predicatori appassionati.

August lo guardò pallido in volto. Il sacerdote si avvicinò al ferito, studiandolo con interesse.

«No. A meno che Engwhir[2] non intervenga, quest’uomo non si presenterà presto davanti al trono del Giudice dei Morti … Sia dunque risanato». Alzò la mano sinistra che racchiudeva il simbolo del suo dio, cantilenando una preghiera. Il braccio martoriato cessò rapidamente di sanguinare e il ferito di lamentarsi. Lucy si avvicinò al vecchio.

«Grazie, venerabile Patrick».

«La morte è benedetta e auspicabile ma la sofferenza è inutile. Mi dispiace che ti abbiano impedito di vedere la gloria di Fenesbrand, figliola». Gli occhi compassionevoli del vecchio si fissarono in quelli della ragazza, costringendola a distogliere lo sguardo.

«S-sì, capisco, ma non credo volessero offendere …». Un sorriso pieno d’indulgenza allargò il volto del sacerdote.

«Lo so, lo so. Le loro intenzioni erano buone, solo guidate dall’ignoranza». Sospirò. «Sottrarre un’anima alla gloria di Fenesbrand è atto di arroganza. Solo nella morte è il pieno compimento della vita! Pregate il Signore dei Morti e della Guerra perché vi perdoni del vostro atto sconsiderato e vi accolga presto davanti al suo trono!».

Un’onda di sconcerto riempì gli occhi di Robert e dei due giovani feriti. Nessuno, tuttavia, osò obiettare qualcosa. La luce folle nello sguardo di Patrick Gordaukon, sacerdote di Fenesbrand, indusse tutti a un silenzio meditabondo che l’anziano interpretò come un atto di contrizione e preghiera.

«Bravi figlioli. Fenesbrand è giusto e sarete certamente perdonati, se il vostro pentimento è sincero».

«Grazie, venerabile. Ora credo sia il momento di tornare tutti alle nostre abitazioni».

«Certamente, August. Ma questi due dove abitano? Non li ho mai visti … sapete che sir Mordred desidera conoscere tutti i forestieri … credo che questi signori debbano seguirci alla rocca».

«Ma, venerabile, hanno salvato Lucy!». Robert era stupefatto.

«Appunto, figliolo. Non c’è da fidarsi di gente simile». Il giovane maggiordomo avrebbe voluto protestare ancora ma la mano di Lucy si posò sul suo braccio, inducendolo a desistere. Evidentemente la ragazza sapeva bene che la follia del sacerdote non avrebbe consentito a nessun ragionamento di sortire alcun effetto sulle sue decisioni.

«Andiamo, dunque, sir Mordred avrà piacere di interrogare i prigionieri».

«Come prigionieri? Ma noi non abbiamo fatto nulla di male!». Il forestiero che pareva essere il capo del gruppo protestò vivacemente ma gli armati lo bloccarono bruscamente.

«Questo lo deciderà sir Mordred. Che non è Fenesbrand ma è un giudice saggio e giusto. Qual è il tuo nome, giovanotto?».

«Mi chiamo Ian». L’accento del giovane tradiva chiaramente la sua provenienza meridionale.

«Ian … e basta? Non hai un cognome?».

«Non avete il diritto di interrogarmi».

«Non ti alterare, giovane Ian. Sir Mordred ha tutti i diritti di interrogarti, solo che lo farà in modo molto più … persuasivo, stai tranquillo. Comunque, hai ragione, non tocca a me farlo. Guardie, portate via questi due».

***

Blackwind guardò il feroce animale ai piedi dell’albero. Nei suoi occhi brillava l’eccitazione per una sfida che sapeva benissimo essere estremamente impegnativa. Sorrise ai latrati ferini e agli occhi iniettati di sangue della belva.

«Ma che bel cagnolino! Dove hai lasciato il guinzaglio?».

I latrati crebbero d’intensità.

«Cosa c’è? Hai voglia di giocare? Ti senti solo, senza il bastone e il collare?».

«Worg. Io no cane». Parole stentate fuoriuscirono dalle fauci spalancate del mostro.

«Ma che bello! Allora, con te, non si può dire che ti manchi solo la parola! Ti hanno addestrato anche al riporto?».

La belva saltò verso l’avventuriero avvicinando le fauci al ramo dove questi si era rifugiato, senza riuscire a raggiungerlo. Atterrò e ritentò il balzo, ancora una volta invano.

«Vuoi giocare, ne sono contento. Prova a prendermi, cagnolino!». Il mostro prese lo slancio e avvicinò ancora di più le fauci alla preda.

«Forza, cucciolo, ti manca poco, ancora uno sforzo!». Blackwind pareva divertirsi un mondo. Impugnò la frusta e la fece saettare verso un grosso ramo nelle vicinanze, avvolgendovela saldamente.

«Tu … ora … muore!». La voce cavernosa del worg risuonò nella foresta, gravida di minaccia. L’animale prese uno slancio ancora maggiore e finalmente raggiunse il ramo dove il suo avversario l’attendeva. Le fauci si chiusero sull’aria mentre Blackwind, appeso alla frusta, balzava dietro al mostro ancora sbilanciato.

Il worg cercò disperatamente di mantenere l’equilibrio sul ramo, infiggendo gli artigli nella corteccia con tutte le sue forze. Il ramo scricchiolò pericolosamente. L’animale usò anche le fauci per sorreggersi più saldamente e si disinteressò dell’avversario.

Improvvisamente, un dolore atroce fra le scapole segnalò alla mostruosa creatura che il suo nemico era tornato.

Blackwind si era lanciato dal ramo appena si era reso conto che il worg lo avrebbe raggiunto. Sapeva perfettamente che una belva inferocita sottovaluta il pericolo e che quell’animale avrebbe faticato moltissimo per mantenere l’equilibrio sul ramo. Appeso alla frusta, il ladro aveva descritto un’ampia parabola che lo aveva riportato verso l’avversario mentre questi era ancora impegnato a sorreggersi. La spada, maneggiata con la letale esperienza del cacciatore e dello spadaccino era piombata sul dorso del mostro, infiggendosi profondamente e raggiungendo il cuore.

L’impatto sbilanciò il worg agonizzante che cadde al suolo. L’ultima immagine che vide fu quella di una figura vestita di nero che impugnava una spada sporca del suo sangue.

***

Robert camminò lungo la strada del ritorno come in sogno. Vedeva i prigionieri legati e malconci trascinati malamente dai soldati che scortavano il sacerdote. Vedeva August camminare scuro in volto, gli occhi fissi sul sentiero. Vedeva Lucy che cercava, invano, di parlare col folle predicatore. Il suo cervello rifiutava di accettare il pericolo che sovrastava la ragazza. Se l’ancella fosse risultata, come appariva evidente, un’informatrice degli immigrati, avrebbe corso il rischio di una condanna severa. Forse anche la morte.

Si chiedeva se sarebbe stato capace di sottrarla da quelle guardie ma si rendeva conto che avrebbe avuto ben poche possibilità contro tre guardie, senza considerare gli incantesimi che il folle Patrick Gordaukon avrebbe potuto usare contro di lui.

Cercava di catturare gli occhi di August senza riuscirci. Il maggiordomo avrebbe certamente appoggiato un suo tentativo disperato ma pareva schiacciato dagli eventi, incapace di sollevare lo sguardo dal suolo.

Desiderò di avere lì sir Raoul. Lui avrebbe certamente trovato un modo di risolvere la situazione. Ma il gentiluomo era certamente alla rocca e, una volta giunti laggiù, tutto si sarebbe fatto più difficile.

Proseguì rimuginando queste cose finché, improvvisamente, si vide davanti le possenti mura della fortezza e la porta scea ancora chiusa, a quell’ora di notte. Sentì stringersi il cuore. Un secco comando da parte di uno dei soldati fece scricchiolare la porta che cominciò ad aprirsi. Guardò Lucy pallidissima avanzare a testa alta verso le fauci spalancate della rocca. Udì il salmodiare del vecchio sacerdote. Un incubo. E l’alba sarebbe sorta solo dopo almeno tre ore.

***

Sir Raoul dormiva profondamente quando Robert si affacciò nella sua stanza eppure balzò a sedere sul letto, non appena il giovane maggiordomo ebbe mosso il primo passo dentro la camera. I suoi grandi occhi verdi si adattarono rapidamente al buio e un sospiro sfuggì dalle sue labbra.

«Robert, cos’è successo? Dove sei stato?».

Il maggiordomo cominciò ansiosamente a raccontare gli ultimi avvenimenti, desideroso di sfogarsi e di trovare finalmente qualcuno cui confidare la terribile angoscia che lo attanagliava. Le parole scaturivano tumultuose dalle sue labbra cianotiche e sir Raoul dovette più volte interrompere quel fiume di anacoluti.

«Il sacerdote? Calmati Robert, è terribile seguirti così… hanno arrestato due profughi?».

«Scusate signore, sono così confuso. Sì, li hanno arrestati e sir Mordred li interrogherà a breve. E Lucy… avrei dovuto cercare di liberare Lucy, di permetterle di fuggire…».

«Grazie agli Dei ti è rimasta abbastanza saggezza da non tentare una simile follia! Lucy non corre grossi pericoli, almeno per ora, e tu ti saresti fatto ammazzare inutilmente Cerchiamo di dormire un po’, amico mio. Domani sarà una giornata ancora più pesante. Rimpiangeremo i worg, immagino».

«Ma come possiamo dormire…».

«Robert, nessuno toccherà Lucy finché non saranno interrogati i due prigionieri, dunque, fino a domani non succederà nulla. Dobbiamo essere in grado di agire prontamente, se dovesse essere necessario e, quindi, dobbiamo riposarci un po’. Non possiamo aiutare Lucy dormendo in piedi».

«Avete ragione milord».

«Meglio se eviti di chiamarmi così», rise il gentiluomo «non vorrei finire ai ceppi anch’io… a proposito, sai dove sono stati rinchiusi quei due?».

«Lo ignoro, signore, ma posso informarmi».

«Vai a dormire. Fidati di me, tireremo Lucy fuori da questo pasticcio. Domani sir Mordred avrà ben altro cui pensare».

 

[1] Bestia magica simile ad un lupo ma di dimensioni maggiori, semi-intelligente, dal muso demoniaco e gli occhi fiammeggianti.

[2] Dio dei veleni e delle malattie

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9: in trappola

Un mattino radioso successe alla notte ma la sua calda luce non riuscì ad alleviare il senso di oppressione che incombeva sulla rocca. Le guardie si aggiravano nel cortile e sugli spalti con passo cadenzato e ossessivo. Solo il canto degli uccelli rompeva il silenzio ritmato dalla ronda ma senza poter dissipare la sensazione di attesa angosciosa. Con il crescere della luce, le quotidiane attività ripresero senza alcuna vivacità, quasi oppresse dai drammatici eventi delle ore precedenti.

Robert sgattaiolò fuori dalla stanza alle prime luci dell’alba, stremato dalla notte insonne e dai cupi pensieri che lo tormentavano riguardo alla sorte della soave ancella dagli occhi azzurri. Doveva sapere dov’era e come stava. Non riusciva a darsi pace.

Raggiunse la cucina, dove un’affranta Frida cercava di organizzare il primo pasto del mattino, fra sospiri e piagnucolii, aiutata da un August più cupo e taciturno del solito. Non vide Lucy in giro e, solo dopo molte insistenze, riuscì a sapere da Frida che la ragazza era chiusa nella sua stanza, davanti alla quale stazionava una guardia.

Uscì nel cortile, cercando conforto nella luce del mattino e levando, sommessamente, una preghiera a Sergaries perché proteggesse l'ancella. Nel suo vagare assorto, finì per trovarsi di fronte alle stalle, dalle quali stavano uscendo dama Lavinia e il sacerdote di Fenesbrand. Parlavano concitatamente e ignorarono il giovane servitore quando gli passarono accanto. A volte, la superbia dei potenti nei confronti dei sottoposti diventa una loro debolezza, sicché Robert poté raccogliere qualche frase.

«… tutto questo mi sembra incredibile. Dove ha trovato il coraggio, quella stupidella?».

«Figliola, quella ragazza ha beffato sir Mordred per almeno un anno. Non la definirei stupida. Piuttosto, spero che tuo fratello sia di parola, così che Fenesbrand riceva qualche anima nei prossimi giorni».

«Temo proprio di sì, venerabile. Forse stasera stessa … però ... mi rovinerà la festa!».

Robert avvampò nell'udire quelle parole. Confermavano le sue paure per la dolce Lucy e le aggravavano con la superficialità con la quale erano state pronunciate. Per il sacerdote, la morte dei prigionieri era solo gloria per il suo dio, per la dama, un noioso inconveniente. Sentì la rabbia pervadere le sue membra. La mano corse all'impugnatura della spada.

«Buongiorno signor Robert, volete controllare le vostre bestie?».

La voce monotona dello stalliere riscosse il giovane maggiordomo, evitandogli di compiere una follia.

***

Lucy non aveva chiuso occhio. La luce del mattino era stata solo un cambiamento che una parte remota della sua mente aveva registrato e immediatamente archiviato. Sdraiata sul letto, ancora vestita come nella sua spedizione notturna, guardava il soffitto della stanza, senza quasi battere le ciglia. L'angoscia l'aveva sopraffatta oltre misura. Non riusciva neppure a piangere. Forse le avrebbe fatto bene ma non ci riusciva.

Vedeva solamente i volti affranti dei suoi genitori, di Ian e Georg, di Robert. Si vedeva sulla terrazza della massiccia torre, con un cappio al collo, pronta a essere scaraventata giù, verso la morte. Avrebbe dovuto essere di monito agli altri. A tutti coloro che avevano osato disobbedire a sir Mordred.

Poi sarebbe toccato ai due profughi. Poi a tutti gli altri. Forse anche suo padre e sua madre sarebbero stati condannati, certamente cacciati dalla rocca. Avrebbe voluto… morire? Sorrise con amarezza. L'avrebbero accontentata presto, per la gioia di quel pazzo furioso del sacerdote. Si era sempre chiesta cosa diavolo ci facesse quel tipo alla rocca. Ufficialmente, si diceva che si occupasse dell'anima di sir Ernest. Ma Lucy dubitava che l'avesse visto per più di un paio di volte l'anno. Sir Ernest… strano… non riusciva a pensare a lui come facevano tutti, come a un ubriacone senza speranza. Le venivano in mente i suoi occhi che la guardavano sempre con simpatia, quasi con tenerezza. C'era altro, oltre all'alcool e all'amarezza, in quegli occhi. Si sentì in colpa anche verso di lui. Stranamente, era convinta che il gentiluomo avrebbe sofferto per la sua sorte. Un moto di sconforto. Quanti avrebbero sofferto per causa sua?

Lucy realizzò con stupore che la sua angoscia era soprattutto dovuta all'idea del dolore altrui. Non aveva paura di quanto le sarebbe accaduto, solo tanto dolore per la sofferenza che avrebbe cagionato a chi la amava. Sentiva che Sergaries le era vicina e lo sarebbe stata fino alla fine.

***

Gli occhi verdi del gentiluomo vagavano lungo il cortile della rocca. Aveva dormito poco ma si sentiva pervaso da un'energia infinita. La battaglia si stava approssimando e lui sarebbe stato pronto. Da un momento all'altro, sarebbe arrivato lo squillo di tromba che avrebbe dato il via allo scontro. Si era già vestito di tutto punto, con impeccabile eleganza e, al suo fianco, aveva assicurato lo splendido stocco. Distrattamente, senza perdere mai di vista l'ampio cortile e il possente portone d'ingresso, ripose i suoi bagagli nelle sacche da viaggio. Intendeva essere pronto a qualsiasi evenienza.

Improvvisamente, si udì squillare una tromba e il portone si spalancò.

Sir Mordred irruppe nel cortile con il volto alterato, pallido, sconvolto. La barba incolta faceva supporre che non avesse chiuso occhio tutta la notte. Gli occhi fiammeggianti parevano voler incenerire tutto ciò su cui si posavano. Era seguito da un Sandy Bond particolarmente avvilito e un paio di armati evidentemente esausti. Il cavallo sudato e ansante testimoniava la furiosa galoppata che l'aveva condotto alla rocca. Nel vedere Lavinia col sacerdote, cercò di assumere un aspetto più tranquillo ma la sua voce tremava mentre si rivolgeva alla sorella.

«Lavinia, i ladri sono entrati nella villa. Ci hanno attirati fuori con l'inganno. E quest'idiota... ». Indicò il pallido e tremante sceriffo che lo guardava fra il terrorizzato e l'implorante.

Dama Lavinia impallidì.

«Come? Che cosa hanno rubato?».

«Non sembra che abbiano toccato nulla ma c’era questa lettera nel mio studio. Che razza d’impudenza!». Balzò giù da cavallo, estrasse un foglio dalla giacca e lo porse alla sorella.

La bella dama prese con mano incerta la lettera vergata con una calligrafia elegante e sicura. La scorse rapidamente e sgranò gli occhi. Il sacerdote s'impadronì del foglio e cominciò a leggerlo con la sua voce stentorea e gracchiante che attirò immediatamente l'attenzione di tutti. Perfino Robert e Jack uscirono dalla stalla.

La confusione nel cortile riuscì anche ad attirare Lucy alla finestra.

 

Egregio Signore,

durante il mio sopralluogo della scorsa notte, ho rilevato la presenza, nella vostra villa, di alcuni quadri di notevole pregio, di scuola Ardoriana. In particolare, un "Trionfo di Mirpas" che credo proprio sia stato realizzato dal maestro Leonard di Gaergond. Oltre a questo, sono decisamente di mio gusto gli arazzi del Formensiar che ornano il vostro studio. La vostra collezione di porcellane ariaken è, mi addolora molto dirvelo, decisamente falsa, dunque non mi interessa.

Dal momento che sono un uomo molto occupato, vi pregherei di avere la compiacenza di farmi trovare il tutto già imballato questo pomeriggio presso il vecchio mulino, quello dove siete stato a caccia d’immigrati. Se per il tramonto la merce non sarà stata recapitata, provvederò io stesso a prelevarla una di queste notti.

Cordialmente,

Blackwind


«Ma questa cosa è… è… di un'impudenza inaudita! Mordred… non permetterai che questo… pazzo delinquente… faccia quel che vuole in casa nostra?».

«Stai tranquilla, Lavinia. Quel bastardo ha perso la sua unica occasione. D'ora in poi la villa sarà impenetrabile. Ho anche mandato un messaggero a quell'id… ehm… a lord Cardekon, uniremo le nostre forze, una volta tanto, e cattureremo quel figlio di una lurida cagna. Ci ha fatto correre per una notte ma non ne sprecherò un'altra».

«Mio signore… però… questa notte abbiamo anche catturato due profughi e… scoperto chi era il loro informatore». Patrick Gordaukon, insolitamente untuoso, si avvicinò all'esasperato castellano.

«Cosa?». Il volto del gentiluomo si accigliò ancora di più. «Prete, non ho voglia di sentire stupidaggini».

«È vero, Mordred, il venerabile Patrick è stato molto abile».

«Sono rinchiusi nel vecchio tempio… qui non ci sono segrete… solo cantine. Culto di Sergaries, cosa vi aspettavate? E la ragazza è chiusa nella sua camera».

«Lo so bene che non ci sono segrete… ragazza? Quale ragazza?». Sir Mordred sembrava veramente sconcertato. La sorella gli si avvicinò sorridendo e gli pose una mano sul braccio, inducendolo a voltarsi verso di lei.

«Lucy, mio caro. L'angelica e innocente Lucy era la spia che informava i profughi… se la faceva con loro quando noi davamo da mangiare alla sua famiglia. Vieni, ti porto da lei».

***

Robert guardò preoccupato il volto tondo e inespressivo dello stalliere. C'era una strana luce in quegli occhi porcini, per un attimo, un brevissimo istante, il giovane maggiordomo intravide un lampo d'intelligenza.

«Jack, voi siete amico di Lucy, vero?».

«Jack è amico di tutti ma si occupa solo di cavalli… e voi non siete che un semplice maggiordomo… fareste meglio a occuparvi del vostro signore». Robert ebbe la sensazione di intravedere ancora quel lampo.

«Ma come possiamo lasciare che la ammazzino? Non avete sentito?».

«Jack sente benissimo… ma non capisce nulla… è solo un povero idiota che si occupa di governare cavalli».

«Jack, tu non sei affatto un idiota, ora lo vedo chiaramente! Chi sei, dunque?». Robert aveva sguainato la spada la cui punta si era fermata a pochi centimetri dalla gola dell’uomo. Gli occhi porcini si fissarono in quelli del giovane e un largo sorriso illuminò il volto dello stalliere.

«Nemmeno tu sei chi dici di essere. E tantomeno il tuo padrone. Riponi quell’arma e parliamo. Per un po’ nessuno si farà vedere ma è meglio essere prudenti». L’esterrefatto maggiordomo ringuainò la spada mentre lo stalliere chiudeva la porta e la finestra. Solo la pallida luce di una lampada a olio permetteva di vedere qualcosa.

«Io sono Jack Minaeo e mio padre è il capo dei profughi. Sono arrivato qua un paio d’anni prima dei miei parenti e mi sono reso subito conto del razzismo diffuso fra questa gente … per mia fortuna sono stato un attore, in gioventù, e ho imitato bene l’accento di questi luoghi. Pare che me la cavi ancora bene, visto che tutti mi credono un perfetto imbecille. Scrissi a mio fratello che questi luoghi erano tutt’altro che ospitali ma lui sperava che col tempo sarebbe riuscito a superare l’ostilità della gente. In realtà ci sarebbe riuscito ma chi ha in mano il potere non vede di buon occhio l’arrivo di altra gente povera. I poveri sono i loro nemici. E sanno che, se sono tanti, possono costituire una minaccia».

«Ma allora … sei tu che informavi i tuoi…».

«All’inizio sì. Poi Lucy mi scoprì… è una ragazza di straordinaria intelligenza e acume… e si offrì di aiutarmi… mi sento responsabile di quanto sta accadendo. Ma sono più ottimista, ora che ci sei anche tu… e il tuo padrone… a proposito, chi siete?».

«Posso solo dirti che lui è una persona straordinaria, capace di imprese eccezionali. Ma non è onnipotente».

«Solo gli dei lo sono. Ma sono certo che siete due validi spadaccini e potremo tentare un colpo di mano. Qui le guardie sono poche e male addestrate. E lo sceriffo è un buono a niente. Possiamo sopraffarle facilmente, se agiremo con sufficiente decisione. La mia ascia è un po’ arrugginita ma sono certo di poter spaccare un bel po’ di queste teste».

«E dopo un bel bagno di sangue, credi che questi saranno luoghi migliori?».

Sir Raoul Velmont comparve improvvisamente dietro lo stalliere.

***

«Parla sgualdrina! Dicci i nomi dei tuoi complici o stasera penzolerai dai merli della torre! Dove sono quei porci immigrati? Parla, maledizione!». Uno schiaffo violento scaraventò Lucy sul letto. Sir Mordred sganciò la frusta dalla cintura e la fece schioccare rumorosamente. La ragazza vide l’arma e gli occhi le si velarono di lacrime.

Uno, due, tre violente sferzate strapparono brandelli della semplice veste della giovane ancella, scoprendone le carni bianche e tornite. Dama Lavinia guardava con maligna soddisfazione la bellezza della giovane violata dalle ecchimosi del viso.

«Vuoi fare l’eroina? Allora faremo sul serio. Lavinia, esci. Non sarà uno spettacolo per dame, questo. Ora vedremo se non parlerai, puttana!».

«Mio adorato, sai che amo vederti così… fiero». La nobildonna si accomodò su una poltrona, come per gustarsi lo spettacolo. Il sacerdote, invece, si fece pallido e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

La frusta schioccò ancora, strappando altri lembi di stoffa e scoprendo il seno virginale. Lo sguardo del castellano si fece avido mentre, con un colpo preciso, avvolgeva la frusta a una gamba della ragazza facendola cadere all’indietro. Dama Lavinia sorrise e si passò voluttuosamente la lingua sulle labbra.

Lucy scoppiò a piangere, vedendo sir Mordred slacciarsi la cintura.

***

Sir Raoul entrò nel palazzo, raggiungendo silenziosamente la cucina. Aprì la porta senza far rumore e verificò che il maggiordomo e la cuoca fossero nella stanza. Entrò e salutò gravemente l’anziano servitore il cui volto severo appariva rigato di lacrime.

«Perdonatemi se entro così August, anche voi, Frida. Possiamo parlare da soli?».

«Siamo a vostra disposizione, sir. Non dimenticherò mai che voi e quel bravo ragazzo avete rischiato la vita per proteggere la mia Lucy … anche se ormai…». Un singhiozzo scosse il suo petto.

« C’è in voi qualcosa di più di quel che volete mostrare, August. So che soffrite ma ora dobbiamo lottare. Perdonatemi se sarò troppo diretto ma non abbiamo tempo da perdere, Lucy corre un gravissimo pericolo. Sono certo che non si lasceranno sfuggire l’occasione per ucciderla. Volete rispondere a qualche domanda?».

«Dite pure, signore». Gli occhi severi del vecchio si fissarono in quelli profondi del giovane. Gli occhi vivaci della moglie si fissarono in quelli di sir Raoul, pieni di speranza.

«Parlate signore. Siamo a vostra completa disposizione».

«Lucy non è vostra figlia, vero, August?».

Il maggiordomo spalancò gli occhi, colmo di stupore. Scrutò attentamente il volto del gentiluomo, cercando un segno che lo rassicurasse. Evidentemente dovette trovarlo, dal momento che, dopo qualche istante, annuì gravemente. Lanciò uno sguardo alla moglie che gli sorrideva con fiducia.

«Da giovane facevo il cacciatore. Una notte, stavo tornando al villaggio dopo una battuta che non aveva fruttato che tre tordi. Ricordo benissimo la meravigliosa luna che illuminava il sentiero, quella sera. A un tratto, vidi davanti a me un cervo meraviglioso. Prudentemente, senza far rumore, incoccai l’arco e mi preparai a tirare. Il cervo pareva guardarmi, non sembrava spaventato e io esitai. Tirai ma senza troppa convinzione e il cervo scappò fra i cespugli. Arrabbiato per l’errore, lo inseguii, sperando di portare a casa una preda degna di tal nome. Il cervo non si era allontanato troppo e io mi avvicinai con prudenza. Eppure, si accorse di me, perché scappò ancora, addentrandosi sempre più nella foresta. Lo seguii ancora, fino a una piccola radura immersa nell’oscurità, illuminata dalla luce della luna solo in un angolo. Immaginatevi la mia sorpresa quando, proprio in quell’angolo, in piena luce, vidi una neonata addormentata su una grossa pietra, come su un altare, in attesa di un sacrificio. Mi resi immediatamente conto che non avrei potuto lasciarla lì, sicché abbandonai la caccia e tornai al villaggio con quel fagottino che mi guardava con i suoi occhioni incantevoli. La chiamai Lucy, perché fu la luce della luna a farmela scoprire.

Passarono circa quindici anni, quando mi accorsi che i miei occhi e i miei riflessi non mi permettevano più di vivere di caccia. Mi giunse all’orecchio che la servitù della rocca aveva lasciato il servizio, così decidemmo di farci assumere dai signori di Luna Splendente. La paga non è eccellente ma è una professione onorevole e ci permette di vivere con dignità e sperare di raccogliere una dote per la nostra Lucy… ma ora… è stato tutto inutile».

«Libereremo Lucy. August, credetemi. Stanotte sarà tutto finito. Ma ho assolutamente bisogno del vostro aiuto».

***

«Porco schifoso non la toccare!».

Sir Mordred si voltò stupefatto nell’udire la porta spalancarsi violentemente e quella voce tuonare alle sue spalle. Sir Ernest, pallido in volto, era comparso sulla soglia. Nonostante l’abbrutimento degli ultimi anni, il cavaliere aveva mantenuto tutta la sua imponenza, forse addirittura accresciuta dal tragico colorito del volto e dai capelli grigi.

Il suo cognato era rimasto impietrito, con la frusta in mano e un’espressione confusa nel volto. Questa e i pantaloni calati alle ginocchia che lasciavano le parti intime scoperte lo rendevano più ridicolo che minaccioso.

«E-ernest? M-ma co-cosa ci fai qui?».

Il gentiluomo avanzò minacciosamente nella stanza.

«Questa è ancora casa mia. Tienilo a mente, Mordred». Si fermò davanti alla moglie, anch’essa sgomenta, immobile sulla poltrona. «Mi meraviglio di te, Lavinia. Sei la dama di Luna Splendente. Vattene nelle tue stanze, ora. Mi renderai conto di questo vergognoso contegno. E di molto altro». La possente spada del cavaliere fuoriuscì minacciosamente dal fodero. La dama avvampò in volto ma lo sguardo gelido del marito la fece volgere rapidamente in ritirata.

«Rivestiti, Mordred, mi fai schifo. Signorina Lucy, questo porco vi ha oltraggiata?».

«No, mio signore… siete giunto appena in tempo».

«Ma vi ha maltrattata ingiustamente. Siete stata processata? Qualcuno vi ha contestato qualcosa?».

«No».

«Allora, caro cognato, la signorina è libera».

«Non credo, sir Ernest. Io posso testimoniare che Lucy ha tradito la fiducia di tutti noi. Dunque, chiedo che venga giudicata e trattenuta al sicuro fino ad allora». La voce stonata ma suadente del sacerdote di Fenesbrand risuonò alle spalle del gentiluomo. Questi si voltò con uno sguardo terribile ma Patrick Gordaukon non abbassò gli occhi né parve impressionato. Alzò una mano e la sua voce assunse un tono di comando al quale non si poteva resistere.

«Lo chiedo! Sia giudicata».

Sir Ernest parve investito da un fulmine. Un tremito violento lo scosse, facendogli abbassare le braccia e costringendolo a chinare il capo.

«Sia giudicata». Sospirò con un filo di voce.

***

L’ingresso alla rocca di lord Philip Thersil Cardekon fu assai poco trionfale. La guardia alla porta si affrettò ad aprire i battenti ma nessuno giunse ad accogliere il gentiluomo con il suo seguito. Accigliato, il nobile percorse il cortile della rocca fino al portone del palazzo, senza incontrare anima viva. Attese qualche istante, poi, spazientito, smontò da cavallo e irruppe nella residenza, travolgendo un trafelato Sandy Bond che si era precipitato a ricevere l’illustre ospite, sperando di compiacere il suo signore.

«Chi diavolo siete? Ah, lo sceriffo! Ma dove sono capitato? Si accolgono così gli ospiti in questa casa?».

«S-sir Mordred è… è impegnato… sono corso io appena vi ho visto…».

«Impegnato? Mi convoca qui con la massima urgenza ed è impegnato? Sceriffo, trovatemi il vostro padrone e portatemelo qui o me ne vado immediatamente».

«S-sì, milord. Lo chi-chiamo subito». Bond sgattaiolò sullo scalone alla massima velocità consentitagli dalle sue corte gambe e dal suo peso.

Lord Cardekon dovette misurare parecchie volte il salone a grandi passi, sempre più nervosi, finché non vide comparire un sir Mordred pallido e dall’aria sconvolta.

«Ebbene?». Chiese squadrando con aria disgustata il padrone di casa. «Avevate fretta di vedermi e mi fate attendere? Senza nemmeno mandare qualcuno a ricevermi? Credo che, se foste un mio pari, dovrei prendermi la soddisfazione di insegnarvi un po’ di buone maniere, signore».

Il tono arrogante, l’espressione e la voce odiosa del nobiluomo ebbero l’effetto di una doccia ghiacciata su sir Mordred che recuperò d’un colpo tutto il suo autocontrollo.

«Abbiamo nemici comuni, milord. Se ci muoviamo in fretta, avrete ben altra soddisfazione, credetemi. Blackwind è ancora in questi paraggi e ho scoperto dove sono gli immigrati».

«Degli immigrati m’interessa ben poco, signore. Quanto a Blackwind… bene, potrei addirittura perdonarvi se quanto affermate corrispondesse a verità e se riuscissimo a mettergli le mani addosso».

«Guardate, dunque». Sir Mordred porse la lettera di Blackwind all’accigliato nobiluomo che la scorse prima svogliatamente, poi con interesse crescente.

«Divertente. Degno della sua impudenza. Posso dunque credere che quel bandito si aggiri ancora da queste parti. Ma come possiamo catturarlo?».

«Circondando il vecchio mulino, questo pomeriggio. Se uniamo le nostre forze abbiamo la possibilità di accerchiarlo senza possibilità di scampo».

Il nobiluomo lo guardò con aria di sufficienza.

«Voi pensate che Blackwind sia così stupido? Cosa vi fa credere che cadrebbe in un inganno tanto banale? Anche se portaste davvero quei beni laggiù, siete certo che lui non fiuterebbe la trappola? Ma davvero pensate che uno che ha menato per il naso la Guardia di Elos per anni caschi in una tagliola per volpi?».

Sir Mordred arrossì. Avrebbe volentieri strozzato quel presuntuoso arrogante.

«Davvero? Allora ditemi voi cosa fareste».

«Questa lettera è una sfida. Vi dice che vi svaligerà la casa. Dunque è chiaro che intende farlo per davvero. Potete essere certo che una di queste sere, forse stasera stessa, quel furfante s’introdurrà in casa vostra».

«E allora? Vuol dire che…». Il castellano si stava rapidamente esasperando.

«…che basterà fargli credere che stasera la villa sarà semideserta e mal sorvegliata e Blackwind tenterà il colpo».

I due maggiorenti si voltarono di scatto sentendo l’allegra voce di sir Raoul alle loro spalle.

«Perdonate se m’intrometto, Lord Cardekon, i miei rispetti».

L’aristocratico guardò con sospetto il giovane gentiluomo.

«Chi diavolo si… ah, sì, ora ricordo sir Vermont… o qualcosa del genere».

«Sir Raoul Velmont, milord, è un onore incontrarvi».

Sir Mordred, visibilmente imbarazzato, si affrettò a presentare il suo ospite.

«Sir Raoul è un gentiluomo di Lumbar, ha salvato una mia serva. Purtroppo una serva infedele… ma il suo gesto resta nobile ed è mio gradito ospite».

«Una serva infedele? Cosa mi dite, sir Mordred?». Il giovane gentiluomo pareva genuinamente sorpreso.

«Questa notte, Lucy è stata sorpresa con due immigrati. È colpevole di tradimento. Sarà giudicata questa sera stessa. Mi dispiace, sir Raoul, sarà una festa di genere diverso da quella cui vi aveva invitato mia moglie ma forse… più avvincente».

Lord Cardekon intervenne nervosamente.

«Bene, sir Mordred, vi allevate le vipere in casa? Comincio a dubitare di stare perdendo il mio tempo». Il nobile pareva sempre più disgustato. «Comunque, prendo atto che non avete uno straccio d’idea per catturare quel ladro».

«Ma milord, se è qui lo cattureremo… se tentasse d’introdursi alla villa».

«Si è già introdotto alla villa, signore. Si è pure divertito a sfidarvi. Però… sir Raoul, cosa stavate dicendo?».

«Stavo dicendo…». Sir Raoul pareva pensieroso. «Stavo dicendo che, se il ladro pensasse che tutte le vostre guardie fossero qui, per esempio, stasera, potrebbe tentare il colpo… ma se alla villa trovasse, invece, le guardie di lord Cardekon…».

«… potrebbe essere intrappolato… può essere un’idea… vale la pena di pensarci». Lord Cardekon osservava attentamente il giovane gentiluomo, assumendo un aspetto ancor più ferino del solito.

«Sono contento che Vostra Signoria apprezzi il mio spunto».

«Lo sto apprezzando davvero tanto… mi dite che provenite da Lumbar, vero? Come sta Lord Karnak? È tanto che non lo vedo».

«Sta benissimo, milord. Ho avuto l’onore di cenare a casa sua una settimana prima di partire per queste terre».

«Sì, immagino che stia benissimo. Sceriffo Bond!».

Il paffuto tutore della legge comparve immediatamente con la solita espressione servile stampata sul volto.

«Ai vostri ordini eccellenza».

«Caro sceriffo, vi si offre un’occasione irripetibile per diventare famoso. Arresterete Blackwind. Questo bravo giovane mi ha dato un’idea eccezionale».

«Ne sono veramente lieto, milord». Sir Raoul s’inchinò davanti all’arcigno aristocratico.

«Dubito che lo sarete ancora per molto, egregio Blackwind. Sceriffo, arrestatelo! Lord Karnak è morto un mese fa a Krünhand. Siete un impostore, signore».

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Capitolo 10
*** Capitolo10 ***


Il Processo

La Rocca di Luna Splendete


 

Il pesante portone del tempio si era appena richiuso e Lucy rivolse lo sguardo avvilito sui compagni di prigionia. I due profughi, pesti e laceri, sedevano su una panca, apparentemente troppo provati dalle percosse subite durante l'interrogatorio sostenuto poco prima, forse schiacciati dal timore per la propria sorte e quella dei loro cari dei quali non erano probabilmente stati capaci di proteggere il nascondiglio durante le torture inflitte loro dagli aguzzini di sir Mordred.

Sir Raoul era appena stato scaraventato dentro il santuario, legato mani e piedi. La ragazza aveva provato una fitta al cuore nel vederlo. Si chiedeva cosa mai avesse detto o fatto quel gentiluomo per condividere la sorte sua e dei due giovani ribelli. Era pesantemente caduto sul pavimento, forse privo di sensi. Per quanto la cosa potesse apparire inverosimile, appariva evidente che l'aristocratico giovane era ritenuto più pericoloso degli altri, cui era stato risparmiato di essere legati.

Fu sollevata nel constatare che Robert non era con loro. Quel coraggioso che aveva eroicamente tentato di difenderla dal worg era riuscito a sfuggire alla cattura. Sperava ardentemente che fosse ormai in salvo, lontano da quell’incubo che era diventata la casa dove lei aveva vissuto tanti anni che aveva creduto sereni. Riflettendo e rievocando il tempo passato, ebbe la netta sensazione che, dietro l'apparenza tranquilla, qualcosa di minaccioso e angosciante avesse sempre aleggiato su quei luoghi. Un’altra fitta al cuore: i suoi genitori? Dov’erano? Cosa stava accadendo loro? L’angoscia la opprimeva in modo terribile. Avrebbe voluto piangere, sentiva che questo l’avrebbe aiutata ma le lacrime non riuscivano a salire agli occhi. Semmai sentiva lo stomaco stretto da una morsa crudele. Le mani corsero al ventre per comprimerlo e cercare sollievo.

Poco sotto l’ombelico sentì la presenza di qualcosa che pareva un disco metallico. Immediatamente comprese di cosa si trattasse. Corse in un punto sufficientemente buio per cercare sotto le vesti. Frugò un poco, poi estrasse il simbolo di Sergaries. Un profondo senso di pace la pervase.

Si riscosse quando avvertì una presenza alle sue spalle. Rimase stupita nel vedere sir Raoul libero dalle corde, che le sorrideva amabilmente.

«Andiamo, Lucy, c’è molto da fare, prima di stasera».

***

Robert correva rapido, lungo il sentiero indicatogli dallo stalliere. Nella semioscurità della foresta, faceva fatica a riconoscere i punti di riferimento e temeva continuamente di perdere la direzione. Eppure non osava rallentare. Troppo dipendeva dalla sua capacità di raggiungere il villaggio velocemente e senza essere visto. Le istruzioni impartitegli con poche concise parole dal suo padrone erano molto chiare ed era di vitale importanza che tutto fosse pronto entro il pomeriggio. Il processo si sarebbe svolto quella sera stessa e la vita dei prigionieri dipendeva dalla sua abilità e dal suo tempismo. Doveva parlare con il cerusico e poi raggiungere i profughi. Tutto nel più breve tempo possibile.

***

Sir Mordred gongolava letteralmente. Sebbene gli seccasse dover ammettere il contributo di lord Cardekon nell'arresto di Blackwind, sentiva di aver piazzato un colpo risolutivo. Aveva catturato l'avventuriero che aveva fatto letteralmente impazzire la Guardia di Elos, la grande compagnia militare che manteneva l'ordine a Elosbrand. Adesso vantava un credito nei confronti del Senato ed era certo che questo avrebbe rafforzato in modo decisivo la sua posizione. Aveva ordinato a Bond di mandare immediatamente un messaggero in città ed era certo che qualche ufficiale cittadino avrebbe presenziato al processo, quella sera. Sarebbe stata un'apoteosi. Peccato che non avrebbe potuto impiccare quel bandito, perché lo avrebbero certamente voluto appendere in qualche piazza della città ma sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare in confronto alla gloria che ne avrebbe ricavato. Sì, sir Mordred Galehaut era veramente soddisfatto.

***

Dama Lavinia era decisamente perplessa. Seduta nella sua stanza, guardava distrattamente fuori dalla finestra, seguendo i suoi pensieri turbati. Le cose erano cambiate con troppa rapidità per i suoi gusti e non aveva avuto modo di analizzare adeguatamente gli eventi. C'era qualcosa, nell'arresto di sir Raoul che le pareva inverosimile. Se veramente quello era il leggendario ladro capace di sfuggire per anni alla caccia di gente esperta e potente, di beffare i migliori investigatori della Repubblica, allora aveva commesso una leggerezza incredibile. Acchiappato da un nobilastro di campagna, come un qualsiasi rubagalline, tradito dai suoi stessi inganni.

No, dama Lavinia continuava a non vederci chiaro e temeva che, nell'ansia di catturare l'inafferrabile Blackwind, fosse stato commesso un errore madornale. Aveva cercato di esternare a Mordred i suoi dubbi ma questi non l'aveva affatto considerata.

Detestava Mordred quando si comportava così. Era un uomo notevolmente in gamba nella maggior parte delle situazioni ma era troppo vanitoso e si era circondato di troppi ruffiani che avevano finito per peggiorare quel lato del suo carattere. Lavinia decise che avrebbe dovuto dare una sfoltita a quella corte di adulatori.

***

Sandy Bond era lo sceriffo più felice del mondo. Si prefigurava un trionfo per il suo signore. I traditori catturati, il più famoso bandito dei dintorni intrappolato, i profughi ben presto dispersi e ricacciati colà da dove erano arrivati. E una piccola parte di quella gloria si sarebbe riflessa su di lui. Aveva spedito Hull in città con l'ordine di tornare con qualche ufficiale della Guardia di Elos.

Come era ottuso quel giovane! Anziché partire immediatamente, aveva cercato ostinatamente di dirgli che mancava qualcosa. Qualcosa di ovviamente inutile. Possibile che quel ragazzo avesse voglia di chiacchierare davanti a eventi di quella portata?

Scosse la testa, con un sorriso di commiserazione. Hull non sarebbe mai diventato un bravo sceriffo.

***

Le ultime luci del giorno stavano morendo quando il portone del tempio si spalancò e le guardie irruppero nel silenzio di quel luogo sacro. I prigionieri, ordinatamente seduti sulle panche, apparivano assolutamente tranquilli e addirittura sorrisero agli armigeri arrivati per tradurli al processo. Lo sceriffo Bond osservò un po' sconcertato quegli individui. Sir Raoul sembrava assolutamente a suo agio e, sebbene avesse ancora le mani legate dietro la schiena, si alzò agilmente in piedi e fece un inchino al suo indirizzo.

«Buonasera sceriffo! Sono lieto di vedervi in gran forma. Siete pronto per il processo?».

Bond spalancò gli occhi davanti a tanta insolenza.

«Sappiate che ho sempre dubitato di voi, bandito!».

«Ma davvero? E pensare che io, invece, non ho mai nutrito alcun dubbio nei vostri confronti! Spero che troverete divertente la commedia che andrà in scena stasera».

«Commedia? Ne riparleremo quando penderete dalla forca, furfante!».

Sir Raoul rise allegramente.

«Via, come siete cupo, sceriffo! Addirittura la forca! Siete di un’ingenuità disarmante, mio caro Bond... ma davvero non avete ancora capito nulla?».

Bond arrossì di rabbia.

«Non m’incanti con questa commedia, miserabile brigante!».

Il gentiluomo rispose con una risatina ma i suoi occhi divennero minacciosi.

«Ora diventate insolente, sceriffo, mi date addirittura del tu! Bene, dubito davvero che abbiamo mai militato sotto la stessa bandiera o condiviso un’impresa o... nemmeno una bevuta... dovrò insegnarvi un po’ di educazione, quando questa faccenda sarà finita».

Sir Raoul s’inchinò nuovamente, poi si voltò, dirigendosi verso l’uscita del tempio, dove i suoi compagni di prigionia erano già stati spinti con malagrazia dalle guardie.

***

La grande sala del castello era illuminata a giorno da innumerevoli torce e da due enormi lampadari che proiettavano ombre grottesche sul pavimento e sulle pareti. Un’autentica folla si era radunata nel cortile della rocca ma solo i personaggi più autorevoli e ricchi erano stati ammessi all’interno dell’imponente maschio del castello.

Un grande tavolo era stato sistemato in vicinanza del fondo della sala, su un palco alto circa un metro. Una grande gabbia metallica era appoggiata alla parete, nelle vicinanze del tribunale. A qualche metro di distanza erano state allineate alcune poltrone, destinate ad accogliere le autorità ammesse. Dietro di loro si sarebbero ammassati quanti fossero riusciti a entrare dei tanti curiosi che erano accorsi.

I notabili del paese presero posto sulle poltrone, vestiti con la massima eleganza, riconoscendo l’importanza e l’eccezionalità dell’evento. Lord Cardekon era accompagnato dall’austera consorte, una dama alta e robusta che riusciva nella non semplice impresa di apparire ancor più altezzosa del marito. Un paio di ricchi agricoltori fecero per sedersi accanto all’aristocratica coppia ma uno sguardo rovente della nobildonna li indusse a cercar posto nella fila retrostante.

Dama Lavinia, invece, splendida più che mai, si accomodò senza esitazione alcuna accanto all’arcigna ospite che, pur a disagio, dovette accettare quella presenza di lignaggio inferiore. Un giovane ufficiale della Guardia di Elos in alta uniforme giunse accompagnato da Hull e sedette, un po’ rigidamente, nell’ultima poltrona della fila, fingendo di non vedere gli sguardi insistenti di dama Lavinia che lo avrebbe voluto accanto.

Il borgomastro entrò con passo esitante, lanciando occhiate torve verso il palco. Rifiutò di sedersi sulla poltrona che gli era stata riservata e rimase in piedi in mezzo alla folla.

Sir Mordred, accompagnato dal sacerdote di Fenesbrand, fece il suo ingresso nella sala. Elegantemente e severamente vestito, manteneva un aspetto austero, degno di un signore del suo lignaggio. Ogni movimento, ogni espressione erano permeati della saggia gravità di chi adempie un compito che gli compete in virtù del suo ruolo ma che, in fondo al suo cuore generoso, non desidera. Solo gli sguardi soddisfatti che, di tanto in tanto, esploravano la platea di fronte a lui e quelli, quasi famelici, che lanciava verso la gabbia facevano dubitare della vera natura dei suoi sentimenti.

Patrick Gordaukon, avvolto nella sua veste talare, pre posto sullo scranno che per anni era stato occupato dalle sacerdotesse di Sergaries, apparentemente trovandosi a suo perfetto agio. Il suo volto appariva illuminato dalla gloria del suo dio, tanta era la gioia di potergli procurare un po’ di anime da giudicare.

Ultimo giunse sir Ernest, causando un mormorio nella sala. Indossava la sua armatura di Cavaliere dell’Aquila, perfettamente tirata a lucido, con la possente spada cinta al fianco. La testa eretta e gli occhi brillanti testimoniavano come la sua salute fosse tornata apparentemente quella di un tempo. Si diresse verso lo scranno centrale, occupato da sir Mordred, seguito dagli sguardi stupiti della gente e da quelli palesemente sconvolti di sua moglie e suo cognato.

«Il tuo posto è quello accanto, Mordred. Qui il signore sono ancora io».

L’intero arcobaleno dipinse il volto di sir Mordred, mentre la mandibola rimaneva ostinatamente calata, quasi a sfiorare il tavolo. Infine, prevalse una sfumatura grigia mentre, meccanicamente, lasciava il suo posto per sedersi accanto a quello che, inaspettatamente, era tornato a essere il suo signore.

I suoi occhi sgranati si fissarono in quelli altrettanto sbalorditi di dama Lavinia per correre poi a cercare quelli persi nel vuoto del sacerdote. Sir Ernest si voltò verso Patrick Gordaukon.

«Patrick, hai cambiato sesso e ti sei convertito alla fede di Sergaries, per caso?».

«Ma... cosa? No, certo che no... io sono un servitore di Fenesbrand... sono qui per celebrare la sua gloria...».

«Allora togliti di torno. Quello è il posto delle sacerdotesse».

Nessuno osava fiatare, nella sala.

«Ma non ci sono sacerdotesse!».

«Appunto. Quando ce ne sarà una, sederà lì. Tu vai accanto a mia moglie, invece».

La voce del cavaliere era tornata quella autoritaria di un tempo. La gente che era riuscita a entrare nella sala lo guardava con stupore misto a riverenza. Pareva di essere tornati ai tempi dello splendore della rocca. Negli occhi di lord e lady Cardekon brillava qualcosa che, forse, era solo maligna soddisfazione nel vedere lo scorno di Mordred e Lavinia ma che poteva, addirittura, essere scambiata per commozione. Commozione che, invece, scendeva copiosa dalle ciglia di August e Frida Thornbow, mescolati alla folla raccolta in fondo alla sala.

Una porta si spalancò improvvisamente e i prigionieri furono condotti nella sala. Li conduceva un impettito Sandy Bond che, nel vedere sir Ernest, si arrestò improvvisamente, rischiando di essere travolto dalle figure incatenate che lo seguivano.

Il capitano della Guardia di Elos, quando sir Raoul gli passò di fronte, balzò in piedi.

«Lord Windström? Che ci fate qui? Che farsa è mai questa?».

Il gentiluomo si voltò verso l’ufficiale, elargendogli un sorriso cordiale.

«Oh, capitano Tyron, che bella sorpresa! Perdonatemi se non vi do la mano ma queste catene mi impacciano alquanto».

«Catene? Signori, cosa significa questo? Sir Ernest, esigo una spiegazione».

Il capitano pareva una volta di più interdetto e indignato. Sir Ernest non perse la calma, pur apparendo anch’egli decisamente disorientato. La sala cominciava ad essere invasa da espressioni stupite e motti di sorpresa.

«Ne so quanto voi, capitano... ma come avete chiamato quel gentiluomo?».

«Questo è lord Bailey Windström, uno dei gentiluomini più ricchi e stimati di Elosbrand. E, mi dispiace dirlo, è di un lignaggio superiore a quello di chiunque in questa sala, dunque, nessuno ha il diritto di giudicarlo. Quali sono le accuse?». Il mormorio della sala aumentò bruscamente d'intensità.

Sir Mordred, scattò in piedi, paonazzo per l’ira.

«Questo è il famigerato Blackwind! Si è introdotto qui sotto falso nome... chiedete a lord Cardekon, potrà confermarlo!».

La sua voce sdegnata aveva immediatamente riportato un minimo di silenzio nell'uditorio che, sempre più incuriosito dalla piega presa dagli eventi, pareva ormai più interessato ad ascoltare che a commentare.

«Cosa? Blackwind? Ma state scherzando?».

Il capitano non sapeva più se indignarsi o mettersi a ridere.

«Si è spacciato per...». 

La voce calma e musicale del gentiluomo interruppe l’iracondo sir Mordred.

«Quando questi signori mi consentiranno di spiegarmi, credo che le cose appariranno in tutt’altra luce, capitano. Spero di poterlo fare, finalmente».

Sir Ernest si alzò in piedi, maestoso e autorevole come non era più stato da tanti anni.

«Allora cominceremo da voi, lord Windström. Conducete i prigionieri nella gabbia e liberate questo gentiluomo».

Immediatamente, una delle guardie aprì il lucchetto che chiudeva le manette del giovane che si inchinò verso il cavaliere.

«Perdonatemi, sir Ernest ma credo che dovrete liberare tutti, stasera. Sono altri che meritano di finire in quella gabbia».

«Voi siete libero, il vostro lignaggio ve lo concede, ma gli altri dovranno attendere la fine del processo. Comunque avete la mia parola che sarà un giudizio equo».

«La parola di un Cavaliere dell’Aquila è la massima garanzia. Non ho dubbi, sir Ernest. Vi prego solo di ascoltarmi».

«Non chiedo di meglio, milord».

La sala si era fatta assolutamente silenziosa.

«Bene. Giunsi in queste terre per caso, di ritorno da una battuta di caccia col mio maggiordomo. Ci imbattemmo in una ragazza cui si era imbizzarrito il cavallo e la salvammo. Quella fanciulla era Lucy, ora prigioniera come me e accusata di tradimento. Sulle prime, pareva un banale incidente ma, quando tolsi la sella all’animale imbizzarrito, scoprii che sotto di questa era stato nascosto un ramoscello spinoso che aveva lentamente piagato la giumenta. Era chiaramente un tentativo di omicidio. Decisi di indagare ma ritenni prudente presentarmi sotto falso nome. Ecco svelato l’arcano».

«Questo sarebbe plausibile ma potete provarlo?». Il paladino parlava con voce calma e autorevole, pienamente padrone del suo ruolo di Signore e giudice della Rocca.

«La giumenta è ancora nella stalla ed è ancora piagata. Potete chiedere allo stalliere».

«Molto bene. Si direbbe che la vostra posizione sia definitivamente chiarita. Lord Cardekon avete qualcosa da obiettare?».

«No, sir Ernest. Quanto ci racconta lord Windström è più che sufficiente a spiegare le sue azioni ma... credo ci sia dell’altro, non è vero?». L'anziano nobiluomo aveva ripreso la sua consueta espressione da faina e lanciava occhiate maligne intorno a sé.

Lord Windström intravide, fra la gente accalcata in fondo alla sala, lo sguardo allegro di Robert che gli strizzò l’occhio. Il bravo giovane aveva svolto adeguatamente la sua parte.

«Sì, milord. C’è molto altro. Permettetemi di andare avanti...».

Un clamore proveniente dall’esterno lo interruppe. Una guardia piombò nella sala, paonazza in volto per aver corso a lungo.

«Che diavolo accade? Come osate irrompere così?».

Sir Ernest si era alzato in piedi. L’armigero lo guardò interdetto, poi parlò, esitando.

«Ho notizie urgenti per sir Mordred».

«Parlate, dunque, e pregate che siano notizie davvero importanti da interrompere così un processo».

Il soldato guardò timidamente sir Mordred che, cupamente, gli fece cenno di proseguire.

«La villa dei Cipressi Neri è stata svaligiata».

La confusione che seguì fu indescrivibile. Un brusio che si trasformò rapidamente in un rombo sul quale la voce esasperata di sir Mordred faticò molto a farsi intendere.

La villa era stata svaligiata nonostante fosse stata aumentata la sorveglianza e nessuno aveva visto entrare o uscire chicchessia. Per di più, nessuna porta o finestra appariva forzata. Un classico colpo nello stile di Blackwind. Mentre sir Ernest tentava, con molta fatica, di far tornare il silenzio nella sala, dama Lavinia si alzò dalla poltrona. I suoi occhi lampeggiavano d'ira e la voce si era fatta leggermente stridula.

«Lord Bailey... ho molto sentito parlare di voi... spero che perdonerete mio, ehm, fratello... è stato indotto in quest’equivoco da...».

«Non dovete scusarvi, dama Lavinia».

Il gentiluomo si avvicinò per baciare galantemente la mano alla castellana, poi le pose le mani sulle spalle spingendola delicatamente sulla sua poltrona.

«Sedetevi, mia signora, credo che questa storia sia interessante anche per voi».

«Un momento! Questo può spiegare la posizione di lord Windström ma non giustifica affatto il tradimento degli altri».

Sir Mordred, esasperato dagli ultimi eventi pareva sul punto di scoppiare e non rendersi conto che l'ira della sorella era prevalentemente rivolta verso di lui. Lord Bailey sorrise.

«Permettetemi di proseguire, sir Ernest. Posso garantirvi che troverete quanto vi racconterò molto interessante e... istruttivo».

«Bene, proseguite, allora».

«Fra il villaggio e la rocca, ebbi modo di raccogliere numerose informazioni e ora posso tranquillamente dire di avere svelato la trama oscura che da anni avvolge questi luoghi».

«Cosa? Che scherzo è questo?».

Sir Mordred pareva indignato ma il castellano lo ignorò.

«Svelatelo anche a noi, dunque».

«C’era una volta un paese felice, retto da una saggia sacerdotessa di Sergaries. Ella, come coloro che l’avevano preceduta, amministrava saggiamente le terre circostanti e aveva accumulato un leggendario tesoro, destinato a sostenere il clero della loro dea e ad aiutare i bisognosi della regione, aumentando la diffusione del culto di Sergaries...».

Sir Mordred si era alzato in piedi, guardando minacciosamente il gentiluomo che si limitò a sorridergli e a continuare nel suo racconto.

«La chiesa di Engwhir decise di colpire quel pericoloso centro di culto e inviò un proprio emissario per contrastare la sacerdotessa. Questo emissario si rese conto di non poter agire frontalmente sicché decise di avvalersi dell’inganno e cominciò a tramare nell'ombra. Un giorno, un giovane e affascinante cavaliere, con l’emblema dell’Aquila di Mirpas, giunse al paese. Egli riuscì a far breccia nel cuore della sacerdotessa e la sposò...».

Sir Ernest taceva, respirando affannosamente e guardando con occhi sbarrati il gentiluomo che continuava a parlare. Non si accorse, o non si curò, del fatto che tutti lo stavano osservando.

«Poco dopo, l’emissario di Engwhir si stabilì nelle vicinanze e fece in modo di frequentare la coppia di sposi, guadagnandosene la fiducia. Intanto, la sacerdotessa iniziava una difficile gravidanza».

«Signore, dove intendete arrivare?».

Patrick Gordaukon pareva allibito e guardava sir Mordred e dama Lavinia come se attendesse un loro intervento che però tardava a venire. Lord Bailey gli lanciò un sorriso e proseguì.

«Durante il parto, in una notte di luna piena, l’emissario fece bere una pozione sedativa alla sacerdotessa, con la scusa di alleviarle le sofferenze. Mentre la sacerdotessa di Sergaries era incosciente, questa persona sottrasse la bambina appena nata e la consegnò a un complice, perché l’abbandonasse nella foresta, in modo da eliminarla senza sporcarsi le mani; quando la sacerdotessa si riprese, le dissero che la bambina era nata morta».

«Ma queste sono fantasie di una mente malata!».

Sir Mordred era pallidissimo e fremeva sotto lo sguardo infuocato del cognato. Lord Bailey lo ignorò e continuò a raccontare.

«In realtà, la luce della luna guidò un cacciatore, nel luogo dove era stata abbandonata la bambina e il cacciatore la allevò come se fosse stata sua figlia».

Un mormorio si levò dal fondo della sala, dove tutti si erano voltati verso August e Frida che ascoltavano abbracciati senza staccare gli occhi dal gentiluomo che procedeva imperterrito.

«Un mese dopo questi eventi, dama Erika era fortemente provata da quanto le era successo ma aveva recuperato le forze ed accettò il consiglio di andare a fare una passeggiata a cavallo. L’agente di Engwhir, però, aveva nascosto un ramoscello spinoso sotto la sella del cavallo di Erika. Questo finì con l’imbizzarrirsi provocandone la caduta da sella. Così dama Lavinia la trovò agonizzante per quello che a tutti parve un incidente».

«Il Cavaliere dell’Aquila fu gravemente provato dalla morte dell’adorata moglie. Eppure, trascorso un anno, si risposò per dare una discendenza alla rocca. Dopo il nuovo matrimonio, cominciò a distaccarsi dai suoi doveri di signore di quelle terre. Ma non per ignavia o stoltezza. Il suo cuore e la sua mente erano stati lentamente avvelenati... da questo».

Alzò la mano nella quale era comparso un piccolissimo oggetto scuro, di un’oscurità tragica e angosciante.

«Cosa? Milord, fatemi vedere!».

Sir Ernest era balzato in piedi e si era avvicinato al gentiluomo che gli porse l’oggetto. Gli occhi febbrili si fissarono su un piccolo disco nero simile a una moneta di ossidiana sulla quale spiccava la spirale di un serpente. Un minuscolo emblema di Engwhir, il dio delle malattie e dell’intrigo.

«Dove l’avete trovato?».

«Era nascosto all’interno del vostro anello, sotto il castone. L’ho scoperto per caso quando, perdonatemi, vi ho sottratto un attimo il sigillo, durante il nostro primo incontro, approfittando del vostro sonno... pesante. Fu un moto di curiosità che, forse, è stato ispirato da Sergaries».

«Sì... forse è proprio così ma... allora...».

«Allora... qualche anno fa, una sacerdotessa di Sergaries giunse in quei luoghi, determinata a riaprire il tempio della rocca. Sulle prime le fu semplicemente rifiutata udienza poi, visto che non demordeva, fu fatta sparire. Sceriffo Bond, avete deciso voi di non ucciderla e tenerla segregata? Una compassione che vi fa onore».

Bond divenne bianco come un cadavere. Crollò a sedere, con gli occhi bassi, non osando levarli a incrociare quelli del suo signore e di dama Lavinia che l’avrebbero potuto incenerire.

«Cosa? Una sacerdotessa? Ma di che state parlando?». Sir Ernest era sconvolto.

«Ovviamente siete stato tenuto all’oscuro di tutto, sir Ernest. Ma posso provare quanto affermo».

A quelle parole, il borgomastro Bellingham e il cerusico si spostarono, permettendo a una figura ammantata dietro di loro di avanzare. Keira Perthil, pallida ed emaciata ma con lo sguardo fiero e pieno di energia, si portò in prima fila.

«Confermo parola per parola quanto ha raccontato lord Windström. Posso aggiungere solo che l’ordine di uccidermi l’ha dato Lavinia Galehaut, sacerdotessa di Engwhir».

Dama Lavinia, pallidissima, si era alzata in piedi, mormorando alcune parole misteriose. La sua mano sinistra corse sul bel décolleté e un’esclamazione di stupore le sfuggì, interrompendo la cantilena.

«Cercate questo, mia signora? Spero perdonerete il mio piccolo gioco di prestigio». Nella mano del gentiluomo era comparso, come per magia, un medaglione a forma di disco, nero, con un serpente purpureo a formare il bordo. Il simbolo di Engwhir attraverso il quale la sacerdotessa avrebbe potuto invocare il potere del suo dio. Le dame ebbero un moto di orrore, mentre gli uomini impallidirono e alcuni si esibirono in gesti di scongiuro.

Sandy Bond uscì rapidamente dalla sala. Lord Cardekon balzò in piedi, pallido di furore. Clarence Bellingham si avvicinò cautamente all'uscita.

«Maledetta!».

Il cavaliere balzò in piedi, cercando di raggiungere la moglie, col volto stravolto dall’ira. Sir Mordred gli si parò dinnanzi mentre dama Lavinia indietreggiava verso la porta della sala, accompagnata dall’anziano sacerdote di Fenesbrand.

«Fermatevi, signori. La rocca è circondata dai profughi e nessuno potrà andarsene...».

La voce di lord Bailey fu soffocata da mille altre voci che si levarono, indignate contro la diabolica coppia.

«Fammi passare, Mordred. Levati!».

La voce tonante del Cavaliere dell'Aquila echeggiò nella sala, sovrastando il clamore della folla. Il suo avversario non si mosse, guardandolo con aria di sfida.

«Dove credi di andare? Vuoi vendicare il tuo onore? È troppo tardi, non credi, vecchio mio?».

Sir Ernest lo guardò senza capire, con gli occhi iniettati di sangue. Rimase un attimo immobile, lo sguardo perso, poi si riscosse e sguainò la spada.

«È troppo tardi, Ernest. Troppo tardi».

Sir Mordred fece un passo indietro, estrasse il pugnale e lo piantò nel ventre del suo rivale. L’anziano cavaliere guardò il suo avversario con un odio indicibile. Poi sollevò la sua arma, nonostante la tremenda ferita, e colpì con incredibile violenza il suo assassino, paralizzato dall’orrore. Un attimo dopo, i due guerrieri caddero uno sull’altro, senza più vita.

Lord Bailey, visto balenare il pugnale, era scattato sulla tavola per raggiungere i due contendenti ma non fece in tempo. Si fermò davanti ai due cadaveri, pallidissimo, senza parole. Urla provenienti da fuori lo riscossero.

«La strega è scappata!».

Qualcuno, nella folla, diede l’allarme riscuotendo i presenti, ancora sconvolti dalla scena cruenta che si era appena svolta davanti ai loro occhi. Il gentiluomo fu il più lesto a riprendersi e a lanciarsi fuori dalla porta. Gli altri lo seguirono lentamente, quasi camminando in un incubo. Lo trovarono impietrito, di fronte a Clarence Bellingham che brandiva una spada lorda di sangue.

Dama Lavinia giaceva al suolo, trafitta, in un lago di sangue. Patrick Gordaukon rantolava accanto a lei.

«Che tragedia! Che orribile, disgustosa tragedia». Lord Bailey non sorrideva più. Il suo piano, tanto accuratamente congegnato, si era risolto in un dramma.

«Ha ucciso lei Erika. Erano servitori del Dio Oscuro. Ora l’hanno raggiunto». 

Il borgomastro piangeva.

***

Sandy Bond raggiunse la massiccia porta della fortezza ma si arrestò nel vedere un gruppo di individui che la presidiavano. Le guardie erano state evidentemente sorprese e sopraffatte praticamente senza violenza. Un uomo anziano dal portamento fiero guidava quegli individui. Per nulla contento di aver finalmente trovato gli inafferrabili immigrati, lo sceriffo si voltò per cercare un'altra uscita. Lord Bailey lo intercettò, col solito amabile sorriso, stavolta velato da un'insolita tristezza negli occhi.

«Bene, sceriffo, quale migliore occasione per quella famosa lezione di educazione?». La spada del gentiluomo balenò minacciosa davanti al corpulento soldato. Bond si guardò intorno poi, non vedendo via d'uscita, sguainò l'arma e si avventò sul giovane, spinto dalla rabbia e dalla disperazione.

Lo scontro durò pochissimo. Sebbene lo sceriffo fosse decisamente più robusto e la sua arma più pesante, il gentiluomo non indietreggiò di un passo davanti al suo assalto, parando con disinvoltura le sue stoccate e contrattaccando in maniera micidiale. Al secondo assalto, la spada di Bond volò via dalle sue mani sudate e la lama dell'avversario piombò famelica sulla sua cintura, tranciandola di netto. Lo sceriffo balzò all'indietro, spaventato ma inciampò nei suoi stessi pantaloni, non più sorretti, cadendo goffamente all'indietro, fra le risate degli astanti.

***

«Davvero un piano diabolico... degno del Signore Oscuro... ma come avete capito?».

Robert sedeva accanto al suo padrone, cercando di riprendere l’abituale inappuntabilità, con scarso successo. Il giovane tremava visibilmente e la sua mano destra era stretta in quella di Lucy, pallida al punto di far temere uno svenimento improvviso. Davanti all'antico camino, decorato dai simboli argentei della luna, i tre giovani parlavano sommessamente, sebbene la Rocca fosse ormai deserta.

«Quando ho trovato il simbolo di Engwhir nell’anello di sir Ernest ho subito sospettato della moglie. Chi altri avrebbe avuto la possibilità di impadronirsi di quel sigillo?».

«Ma, davvero sono la figlia di dama Erika e sir Ernest? Era sempre... così gentile, quasi affettuoso... forse lo sospettava anche lui...».

«Non so, la sua mente era tormentata da Engwhir. Ma il suo cuore, forse, riusciva a parlargli ancora. Voi assomigliate molto a vostra madre e lui lo ripeteva sempre... chissà... A me il dubbio è sorto vedendo i ritratti delle antiche castellane. Non è difficile ravvisare la notevole somiglianza fra loro e voi. Immagino sia stato questo il motivo che ha indotto dama Lavinia a cercare di eliminarvi, prima col sistema che aveva impiegato con vostra madre, poi coi worg».

Il gentiluomo sorseggiava una coppa di vino, lo sguardo perso fra le braci rosseggianti nel camino.

«A questo serviva la scomparsa dei vostri stivali. Per farli annusare a quei mostri e sguinzargliarli sulle vostre tracce».


«Ma come avete svelato l’enigma del tempio? Quando avete aperto il passaggio credevo che foste uno stregone!».

«Oh, no, dama Lucy. Credetemi, la magia non c’entra affatto».

«Chiamatemi Lucy, signore... sono un’ancella».

«Siete la legittima signora di queste terre. Keira si prenderà cura della vostra formazione e diventerete una sacerdotessa della Luna, come vostra madre. E chi conquisterà il vostro cuore, sederà al vostro fianco».

Lo sguardo malizioso del nobile si posò sul volto paonazzo di Robert.

«Temo che perderò un valido maggiordomo... peccato. Sei stato bravissimo a raggiungere il signor Thorton».

«Come avete capito che era anche lui un informatore dei profughi?».

Il gentiluomo sorrise.

«Nulla di più facile, ieri sera non era in casa e, quando dama Lucy ha raggiunto i profughi, questi sapevano già delle mosse di Mordred e Bond. Collegare i due fatti è stato banale».

Lucy strinse più forte la mano di Robert, lanciandogli un sorriso tanto affascinante da fargli riacquistare di colpo il suo colore abituale.

«Spiegatemi l'enigma del tempio, milord, ve ne prego».

«L’enigma del tempio era racchiuso nelle quartine... ricordate che la preghiera che voi conoscevate era più breve?».

«Sì, certo».

«Bene, se leggete attentamente quelle quartine, noterete alcune peculiarità. Alcune sono scritte in un linguaggio decisamente più arcaico e hanno un ritmo regolarmente scandito. Le altre hanno un ritmo vario e sono scritte con termini ed espressioni più moderne. Era chiaro che queste erano state aggiunte».

Il gentiluomo fece una pausa, sorseggiando un altro po’ di vino, gli occhi persi nel fuoco che guizzava nel focolare.

«In realtà, anche i versi antichi facevano pensare che l’altare conducesse da qualche parte: apre la via al mistero il disco della fide, nel core ov’è merzide la luce di Sergaries... vedete, ho finito per impararla quasi a memoria... ma, se leggete le altre quartine, vi renderete conto che la soluzione è banale. Prendete le prime lettere di ogni quartina moderna. Viene fuori poni luna dove fede vive. Insomma, il disco della luna, il medaglione che avete trovato in circostanze tanto strane, è la chiave per aprire il passaggio che si trova sotto l’altare. Qualsiasi sacerdotessa di Sergaries avrebbe trovato l'enigma piuttosto semplice da risolvere, dama Keira me l'ha confermato. Per chiunque altro avrebbe rappresentato una notevole sfida».

Robert lo guardava con gli occhi spalancati. Faceva fatica ad articolare le parole. Conosceva le doti di intuizione e deduzione del gentiluomo ma stavolta aveva superato ogni sua aspettativa.

«Ma... come facevate a sapere... che il passaggio esisteva... e dove conduceva?».

«La rocca, la villa, che in realtà è un castelletto, e il villaggio sono quasi in linea retta e facevano parte di un unico antico sistema difensivo. Ovvio supporre che esistesse un collegamento per permettere ai difensori di raggiungere in sicurezza i punti nodali di questa linea. In superficie non c'è nulla, era chiaro che il passaggio andava cercato sottoterra. Ecco perché avevo assoluta necessità di entrare nel tempio e quando ho saputo che l’avevano trasformato in prigione, l’unica soluzione possibile era di farmi arrestare».

«Ma come facevate a sapere dove sbucava?».

«Facile. Arrivava dove erano incise le quartine... c’erano al villaggio, nella torre dello sceriffo e... ovviamente nella villa. Così, mentre qui preparavano il processo, noi abbiamo svuotato la villa, creandomi un alibi perfetto per fare cadere ogni accusa... devo dire che mi hanno aiutato anche loro, invitando proprio Tyron ad assistere al processo».

«Mi dispiace che sia finita così». Lucy pareva pensierosa, gli occhi persi fra le fiamme.

«Anche a me... sospetto che Lavinia e Mordred non fossero neppure fratelli, probabilmente erano amanti oltre che complici. Anzi, ne sono praticamente certo pur non disponendo di alcuna prova. L’unica cosa che mi consola è che quest’ennesima umiliazione sia stata risparmiata a vostro padre... era un cavaliere davvero valoroso».

La giovane si voltò e sedette davanti al gentiluomo.

«Allora il tesoro non esiste?».

«Esiste eccome, Lucy, ed è vostro. Potrete riportare Brightmoon all’antico splendore. È nella sala dove si apre il passaggio, subito sotto il tempio. Non ho perso tempo a controllare ma direi che sia più che sufficiente per i vostri scopi».

«Blackwind passa davanti a un tesoro e non si ferma neppure a guardarlo?».

Gli occhi della ragazza si erano fissati in quelli del gentiluomo che le rivolse un affascinante sorriso.

«Chi è passato davanti al tesoro era un improvvisato paladino di Sergaries... pensate che Blackwind sia solo un volgare ladro?».

«Non conosco Blackwind. Ma conosco un uomo il cui coraggio e valore sono degni dei paladini più celebri».

«Davvero? Qualche volta me lo presenterete, allora».

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