Age of the earth

di Iolyna92
(/viewuser.php?uid=101985)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Oltre al mio elemento ***
Capitolo 2: *** 1° Capitolo. Padron Hojo ***
Capitolo 3: *** 2° Capitolo. Si aspetta ***
Capitolo 4: *** 3° Capitolo. MIO ***
Capitolo 5: *** 4° Capitolo. Ormai sei al sicuro ***
Capitolo 6: *** 5° Capitolo. Wow! ***
Capitolo 7: *** 6° Capitolo. La Copperfield e il prof. Bicipiti ***
Capitolo 8: *** 7° Capitolo. Madame Cortes ***
Capitolo 9: *** 8°Capitolo. Chad. Chad Fitheberg. Chad Fred Fitheberg. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9°. Non lo ucciderò ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10°. Hai finito? Si. Bene, perchè io ho appena incominciato. ***



Capitolo 1
*** Prologo. Oltre al mio elemento ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*

Salve!!! Sono Iolanda ed ho 18 anni ma ho in mente questa storia da quando ne avevo 13(Na marmocchia và -.-“)! E’ ancora la mia prima storia a più capitoli, che non rispecchi qualcosa che sento dentro sottoforma di metafore (i racconti depressivi che scrive quando è depressa? O.o è questo che intende?), bensì racconta una vera e propria storia, frutto della mia fervida fantasia (u.u fervida, ma che ha mangiato un vocabolario oggi a pranzo?) . Quindi per favore, siate clementi!!! Spero che vi abbia incuriosito, e che iniziate a leggere con entusiasmo questa mia storia… (Ma chi vuoi che la legga, scimunita! -.-“).  Ringrazio in anticipo i lettori (a cui avrai fatto pena e che hanno letto per compassione… u.u) e i critici (gente veramente caritatevole u.u), di cui accetto i consigli e adoro ascoltare le loro opinioni, perche credo che mi aiutino a crescere (vi dice bugie, vuole solo sapere se è una fallita e deve smettere di scrivere XD). Dopo di ciò credo che aggiornerò o lunedì o martedì della prossima settimana con il primo capitolo!!! (Yuppy -.-“…)

 

 

Prologo

Oltre al mio elemento

 

La luna splendeva, brillante e pallida, in alto nel cielo sereno insieme alle amiche stelle che, numerose, squarciavano il nero di quella notte autunnale.

I loro candidi raggi illuminavano appena le chiome folte degli alberi fitti.

Insieme formavano un gigantesco bosco ai piedi dell’alta collina.

L’unica cosa a dividere la miriade di alberi, danzatori a ritmo del soffio lento e silenzioso della brezza fredda del nord, era un piccolo e sinuoso sentiero.

Quest’ultimo, serpeggiando, conduceva al grande cancello principale in resistente ferro battuto, impreziosito con pietre colorate.

Rialzando appena lo sguardo, l’orizzonte si mostrava vasto, quasi immenso e fin troppo quieto.

Miglia di valli e qualche catena montuosa lo rappresentavano assopite nella culla tranquilla dell’ultima notte calda di quella stagione.

Ma, alla torre sud, la più alta della roccaforte di Tulemont, posta immobile e indisturbata sulla cima della collina, vigile sulle valli enormi che si espandevano ai suoi piedi; l’imperatore non era così calmo come la natura che lo circondava.

Nella stanza completamente vuota, composta di grigie e fredde pietre, un uomo sui sessant’anni, camminava avanti e indietro percorrendo tutta la lunghezza della finestra che gli stava di fronte.

La vestaglia lunga, verde e oro, strisciando a terra seguiva il passo frenetico e nervoso dell’uomo.

Robusto e con la schiena un po’ curva, l’uomo alternava il suo sguardo color ghiaccio tra il rivolgerlo fuori, a scrutare ansiosamente l’orizzonte quieto, per poi riportarlo per terra, fissando le pietre consumate del pavimento.

Giocherellava freneticamente con le dita passando ogni tanto la rugosa mano, dalla pelle ambrata e un po’ ceduta, tra i pochi capelli bianchi-argento del capo.

-          Come fa? – disse ad alta voce a se stesso. - Come fa la gazzella a vivere la sua vita così quietamente quando sa che il giorno dopo il leone la potrebbe mangiare?-

Dirlo ad alta voce era uno sfogo.

Avrebbe voluto urlare, rompere qualcosa, picchiare qualcuno… ma non poteva disturbare il tranquillo scorrere della notte solo perchè le sue ansie e i suoi tormenti lo continuavano ad attanagliare durante il sonno.

Era uscito dalla sua camera in preda all’insonnia, provocata dai suoi mille pensieri, solo per salire fin lassù e assicurarsi che non ci fosse nulla pronto ad aggredirlo nel buio della notte.

Ma non si fidava più neanche dei suoi occhi.

Trovava un inganno la tranquillità dei suoi guerrieri, come quella di sua moglie e delle sue figlie, ormai lontane e al sicuro del disastro imminente.

Era un inganno anche la tranquillità di quella serena notte.

Portò ancora una volta la mano alla fronte e incominciò a massaggiarsi le tempie lentamente; mentre scese velocemente le scale deserte avviandosi alla sala del trono avvolto nei suoi pensieri.

Il grande castello era vuoto e silenzioso.

I passi del vecchio rimbombavano nella tromba della scala e nei lunghi e assopiti corridoi.

Ogni stanza, come quella in cima alla torre sud, era formata dalle umili e fredde pietre grigie anche se qualche quadro e qualche candelabro qui e lì ravvivava l’ambiente cupo.

I tempi della ricchezza e di tranquillità di quel maestoso monumento erano finiti da un pezzo.

La profezia si stava avverando lettera per lettera.

Ma la sua ansia lo portava a non far caso a ciò che lo circondava, bensì ad allontanare quei pensieri e ad arrivare il più velocemente possibile al suo trono.

Aveva bisogno di sedersi sopra, di sentire il suo potere e la sua forza sostenerlo, di stringerlo fino a farsi male nello sfogo della sua disperazione.

 

Erano passate due ore, se non addirittura tre.

Era ancora seduto sul trono e l’ansia finalmente lo abbandonava pian piano: il sonno stava iniziando a tornare.

Con gli occhi semi aperti continuava a scrutare la vasta sala spostando il suo sguardo lentamente.

Il tetto rettangolare era sostenuto da travi in legno pregiato di alberi secolari che avevano vissuto nel bosco.

Di fronte a sé stava socchiuso il grande portone da cui entravano giornalmente i suoi sudditi con relativi omaggi o lamentele.

Era stato costruito con lo stesso legno prezioso delle travi ma in oltre vi erano incastonati, creando magnifici motivi floreali, delle pietre colorate che lo impreziosivano e lo bellivano ulteriormente.

Nelle mura c’erano tantissimi quadri, di varie grandezze, messi sparpagliati in tutta la stanza.

Rappresentavano grandi occasioni, episodi di vita quotidiana o semplicemente vecchi antenati dell’imperatore.

Ognuno possedeva una cornice in oro con ripetitivi motivi floreali, sotto di cui vi era attaccata una lampada a olio con il compito di illuminarlo.

Ora che ci faceva caso, con quelle lampade, la sala in piena notte aveva un aspetto spettrale.

Per terra c’era il solito pavimento di pietre grigie molto consumate, e su di un’altura, sempre in pietra, se ne stava il trono su cui era seduto.

Questo era tutto in finissimo oro che riportava gli stessi motivi floreali della porta e delle cornici e anche qui c’erano incastonate le pietre colorate che lo rendevano più sobrio, forse esageratamente.

I cuscini su cui era seduto e quello dello schienale, erano di un rosso acceso, quasi porpora, in prezioso velluto.

Anche le tende che adornavano le due grandi finestre alle sue spalle erano in pesante ma elegante velluto rosso, il cui compito era di rappresentare il potere e la nobiltà di quella sala.

Si poggiò pesantemente sullo schienale del trono.

Quanto gli piaceva quella sala: gli ricordava tutti gli anni passati a governare nella buona e nella cattiva sorte.

Gli ricordava la sua incoronazione.

Il matrimonio con sua moglie, celebrato all’interno.

Il battesimo delle sue amatissime figlie.

Sempre più stanco e più rilassato, inebriato da quei piacevoli ricordi, l’imperatore chiuse le palpebre e cadde in un sonno leggero.

 

- Mio Sire, Mia Maestà!- urlava correndo un giovane ragazzo, entrando velocemente dal grande portone.

Anagor si svegliò di soprassalto e sgranò appena gli occhi appena lo vide.

Stava succedendo: i suoi incubi, le profezie e le visioni si stavano avverando.

- Ci stanno attaccando!- continuava a urlare il ragazzo.

- Chi ci sta attaccando?- chiese preso dall’ansia il sovrano.

Chissà perché ma ancora una scintilla di speranza brillava in sè.

Sperava che non fosse lui, di poter salvare ancora qualcosa del suo regno, di poter sopravvivere al massacro che ci sarebbe stato.

- Hojo, mio Sire, e le sue maestose truppe.- rispose ansioso.

Uno sguardo preoccupato apparve nel volto del giovane.

La scintilla che era rimasta accesa nel suo cuore si spense in un bicchiere d’acqua in meno di un millesimo di secondo.

- Raccogli tutte le truppe e fermate l’attacco anche se sembrerà impossibile. Non moriremo senza combattere…- disse Anagor, alzandosi lentamente.

- Ma Sire…- chiese con voce pietosa.

- Non voglio sentire ma!- lo interruppe. - So che provocherà tantissimi morti, so anche che probabilmente riuscirà a insinuarsi nel castello. Ma io, IO non permetterò che tutto ciò accada!- disse rabbioso voltando le spalle al ragazzo.

Poteva avere circa vent’anni.

Era normale che avesse qualcosa da ridire, perché si sentiva troppo giovane per morire per la sua patria, troppo giovane per abbandonare la sua vita, la fidanzata, gli amici, la famiglia.

Ma non voleva sentire la discussione di un ragazzino, aveva altri pensieri la testa.

-Agli ordini Sire…- aggiunse avviandosi all’uscita con una leggera corsa.

Anagor si massaggiò le tempie, passò la mano tra i capelli e si avviò a una delle grandi finestre.

Da lì si vedeva l’assalto.

Come non se n’era accorto prima: erano tantissimi, una marea di uomini che cercavano uno spiraglio d’entrata nelle possenti mura che circondavano il castello e la sua piccola cittadina.

Ogni secondo che passava li vedeva più rabbiosi e più frenetici passare le sue mura e buttarsi nella mischia della battaglia appena incominciata.

Le sue truppe arrivarono in soccorso qualche minuto dopo la loro invasione.

Dall’armatura scintillante li affrontavano con coraggio e grinta.

Come non era riuscito ad accorgersi, nel sonno, di ciò che stava accadendo?

Si sentivano urla di battaglia e di carica, ma anche strazianti di dolore.

Udiva lo guaire delle spade e i colpi di pistole, come il soccorso di animali, vegetali, metallo e altri mille elementi aiutare gli uni e gli altri.

Continuando a osservare la mischia portò una mano al cuore e non riuscì a far a meno di piangere per il dolore e per il destino che li attendeva.

 

Passate le prime due ore, lo scontro, era sempre più affiatato, anche se i suoi uomini erano già stanchi e si vedeva.

Soffriva con loro, provava pena per loro, ma riusciva ancora ad avere la forza di sperare e di immaginare un finale migliore di quello che aveva scritto il destino.

Voleva mandare l’ordine di ritirata ma… Avrebbe segnato la sua sconfitta definitiva.

Sarebbe stato come ritirarsi da una partita di scacchi avendo eseguito solatando la prima mossa.

All’improvviso qualcos’altro attirò la sua attenzione.

Le porte della sala si erano spalancate di botto e avevano fatto un gran tonfo sbattendo contro mura.

Si voltò di scatto ma, a primo impatto, non c’era nient’altro d’isolito.

O peggio sì, ma lo aveva notato semplicemente sforzando appena lo sguardo…

A spalancare le porte in quella maleducata ma eccentrica maniera erano state due pietre; di terra secca.

Neanche il tempo di stupirsi e di rendersi conto che quell’elemento apparteneva ad un’unica persona al mondo che, tendendo l’orecchio, sentì dei passi leggeri e veloci che si facevano sempre più forti con l’avvicinarsi dell’uomo alla sala.

“Eccolo” fu l’unico pensiero che gli passò per la mente in quell’istante.

Pochi attimi dopo gli si presentò davanti un ragazzo sui trent’anni: era alto ed esile, probabilmente anche molto agile.

Portava capelli corvini, non troppo lunghi e scompigliati; gli occhi erano dorati, un colore intenso che gli davano le strane somiglianze di un rettile.

La pelle bianca, quasi come quelle delle bambole di porcellana, spiccava avvolta nell’abito lungo, nero e oro, che indossava con eleganza, come se fosse già un re vissuto ed espediente.

Arrivato tra le due porte, si fermò e fissò severo il sovrano.

- Ti cercavo…- disse con voce glaciale in un sussurro, abbassando appena il volto in segno di saluto, ma mantenendo lo sguardo alto con onore – Ma non ti ho trovato in mezzo alla mischia…-.

Non aveva bisogno di presentarsi: già lo conosceva, già tutti lo sapevano chi era e lo temevano.

 

Hojo era un ragazzo di appena vent’anni a cui, la natura, aveva fatto il grosso errore di donargli uno dei quattro “elementi fondamentali”.

Ogni uomo, donna o bambino possiede un elemento: è una parte della natura che può controllare a suo piacimento e che rispecchia in parte il proprio carattere.

Ve ne sono vari e molto diffusi.

Ad esempio è frequente conoscere persone il cui elemento è di controllare i vegetali, o chi con uno schiocco delle dita gestisce gli agenti atmosferici.

E’ anche facile scovare che le persone fredde e un po’ aggressive possiedono la capacità di creare qualsiasi cosa con metalli e leghe, mentre la gente più estroversa e solare, che ha un po’ di ottimismo in più rispetto agli altri, probabilmente parla e si fa ascoltare dalla fauna con estrema facilità.

Insomma l’evoluzione dell’uomo lo aveva portato a sviluppare queste capacità e da quando era accaduto, tutto era migliorato: i rapporti tra persone, l’economia, l’agricultura, ecc.

Oltre agli elementi diffusi in tutta la popolazione con intensità diverse, non sono da trascurare quelli “fondamentali”: aria, terra, fuoco e acqua.

Sono distinti dagli altri perchè “elementi che tutto creano e tutto distruggono”.

Quale animale o uomo vive senz’aria? E senz’acqua?

Se la terra fosse arida, di cosa si ciberebbero gli esseri viventi?

E se il fuoco bruciasse tutto, come potrebbero sopravvivere?

Proprio per questo gli elementi fondamentali vengono donati dalla natura solo a quattro persone in tutta la popolazione terrestre, uno per ciascuno, e solo a chi possiede un cuore puro, coraggio, astuzia e buon senso.

Buon senso, proprio quello che manca a Hojo.

Inebriato dal potere questo ragazzino aveva eseguito conquiste e colpi di stato a tempo record.

Tanti erano i suoi seguaci e grazie a loro si era posto sul trono di molte nazioni.

Gliene mancava solo una per completare il suo bel puzzle e diventare imperatore supremo: Tulemont.

 

- Ti aspettavo…- rispose in un sussurro lui.

Con nervosismo si agghindò la veste verde smeraldo, poi, con passo lento e deciso, si pose davanti al trono quasi in senso di protezione.

- Mmm… Com’è carino qui…- disse il giovane entrando e osservandosi intorno.

Il suo passo era sempre deciso, forse più di prima, e la voce sempre più fredda e rauca: non si era lasciato intimorire di nulla.

-Anche se manca il personale tocco di Hojo, - proseguì- ma provvederemo subito…- aggiunse con un fare disinvolto piazzandosi al centro della grande sala.

- Hojo non toccherà neanche un granello di polvere di questo palazzo…- rispose alla sua provocazione, iniziando a scendere dall’altura su cui era posto il trono.

In quell’attimo di silenzio, il solo suono che rimbombò nella stanza vuota, furono i suoi passi pesanti che scesero lentamente le scale.

- Come non dovevo toccare le tue figlie?- buttò lì, di punto in bianco, prendendo ad osservare un quadro, mentre il sovrano si avvicinava a lui. - O tua moglie?- aggiunse spostando il suo sguardo ruvido sull’uomo.

Sul volto enigmatico riapparve il sorriso malvagio da viscida lucertola.

Gli fece disgusto.

- Che cosa le hai fatto?- chiese quasi urlando.

Lo raggiunse in fretta e lo prese con forza dalla veste nera di velluto pesante.

C’era il fuoco negli occhi azzurri di Anagor.

Lo avrebbe voluto uccidere lì, all’istante, nella maniera più dolorosa possibile.

Ma doveva sapere.

- Innanzi tutto, giù le mani, vecchio.- disse liberandosi in un istante dalla forte presa dell’uomo e allontanandolo di un bel po’.

Anche se sembrava esile e molto gracile, non lo era.

-E poi nessuno ti ha raccontato che, - proseguì- durante la loro improvvisa fuga dal palazzo, una truppa di Hojo le ha prese prigioniere? Ora sono dentro le mie celle, carissimo Anagor, tra mille torture e supplizi.- concluse come se nulla fosse.

Anagor era paralizzato dalla rabbia, dalla sorpresa, dal dolore e dall’odio.

Il suo autocontrollo stava crollando.

- E oserei aggiungere qualcosa…- proseguì avvicinandosi a un palmo dal naso al volto dell’imperatore. – Sai tua figlia… Come si chiama? Ah, ecco si… Satine… E’ davvero bella… Soprattutto quando piange e urla di dolore, di odio e di disgusto perché un uomo, lurido come me, gli ha messo le mani, e forse qualcos’altro, adosso…-

Un’immagine disgustosa apparve nella mente di Anagor: sua figlia Satine, la più giovane di solo sedici anni sodomizzata da quella lurida lucertola.

Le sue lacrime e la sua sofferenza, il piacere e la sadicità di quell’orrendo essere che considerava solo un mostro.

Un pugno in pieno stomaco arrivò a Hojo completamente alla sprovvista.

Fu così forte che scivolò a terra.

Poi rimase a guardare, fermo li, con i pugni stretti, gli occhi infuocati, il viso rosso e l’ira che stava prendendo il sopravvento.

Non riusciva a pensare che le mani, che fino a poco prima lo avevano spinto, avevano toccato impropriamente sua figlia, e la sua fantasia lo portò immaginare cos’altro aveva e avrebbe fatto su sua moglie e sulla primogenita.

Il cuore pulsava come impazzito, la mente stentava a ragionare, e il corpo si era irrigidito totalmente.

- Cre-credevo che avessi più autocontrollo Anagor- disse con voce spezzata il ragazzo, che tenendo il ventre incominciò ad alzarsi. – Un-un re deve avere autocontrollo, vecchio mio, se-se no rischia di andare fuori di testa e… farsi sottrarre il trono-

Di nuovo quel perfido sorriso tornò a raggelare il sangue al sovrano.

- Con certe persone, l’autocontrollo non serve affatto, soprattutto con quelle che non ne hanno verso di me e i miei cari…- disse glaciale anche lui trattenendo i suoi istinti d’attacco.

- Oh… Povero illuso. Le mie non sono debolezze. Caro Anagor, se ho ideato questi colpi di stato, se ho radunato questo enorme esercito, se sono riuscito ad ottenere ogni singolo territorio di questo stramaledettissimo mondo, e perché dietro ad ogni cosa ho un piano… Di conseguenza, se ho catturato la tua famiglia, gustandomi tua figlia e torturando tua moglie e la tua primogenita, ci sarà un perché no?-

Si ritrovava a un palmo di naso dal sovrano, ma non gli dette il tempo di esitare.

Gli si avvicinò all’orecchio, e in un sussurro gli riferirì: - Perché fanno parte del piano, caro mio… E, sapendo che loro sono il tuo punto debole… Le ho… Uccise.-

Anagor rimase di nuovo paralizzato.

Stavolta non dalla rabbia e tanto meno dall’odio.

Ma dal dolore.

Fu come una pugnalata.

Sentì il suo cuore spaccarsi in mille pezzi, mancargli l’aria, il corpo rammollirsi…

Gli passarono davanti agli occhi tutti i momenti belli che avevano realizzato nella sua vita: il matrimonio, le nascite e i battesimi.

I compleanni. I baci della buona notte, le ginocchia sbucciate e i pianti infiniti, ma anche i sorrisi di un regalo nuovo e le risate del loro divertimento.

L’amore con sua moglie. Le discussioni insieme e anche i piccoli litigi.

E adesso, non ci sarebbe stato più niente di tutto ciò… Mai più…

Loro erano andate, sparite…

Svanite come una bolla di sapone.

Non riusciva a respirare.

La sua mente era come vuota.

Eliminando loro, vedeva il buio nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro.

Non aveva più niente.

Non valeva più niente.

Il senso della sua vita era svanito e… ed era povero.

Povero di una famiglia… Di una famiglia che lo amava e lo curava…

Di una famiglia, che aveva messo su con fatica… Ma che si era sempre rilevata la cosa più importante che aveva…

Un enorme masso lo colpì in pieno stomaco e fu scaraventato per terra, ai piedi delle scale che portavano al trono.

Si fece male alla schiena.

La testa si era spaccata allo scontro con la scala e il sangue iniziò a bagnargli la nuca.

Doveva reagire lo sapeva, ma tutta la sofferenza fisica che stava subendo non era equiparabile al dolore che portava ancora dentro.

Così non reagì.

Si mise semplicemente seduto a fissare il pavimento.

Portò una mano alla testa, che gli vorticò all’improvviso.

Si stava sporcando tutto di sangue, ma ancora non riusciva a percepire cosa stava succedendo.

Non riusciva a non pensare a loro…

Sapeva già come sarebbe andata a finire, perciò non ne valeva la pena di alzarsi e combattere. Era tutto scritto.

Non ne valeva proprio la pena…

Iniziò a piangere.

Pensava che non avrebbe mai pianto.

 Hojo, con passo deciso e trionfante si avvicinò a lui.

Rise. Aveva lo sguardo di chi già sapeva di aver vinto.

Dopo di ciò si abbassò e lo sollevò per la veste.

Si ritrovavano di nuovo vicinissimi.

- Non pensavi che lottare con me fosse così difficile?- chiese, sadico, godendo del dolore e delle lacrime del sovrano.

Anagor, umiliato dal mostrare la sua debolezza al nemico, continuò a fissare il pavimento.

Si ripeteva che fra poco tutto sarebbe finito e che presto avrebbe riabbracciato la sua famiglia, lassù.

- Io, non vinco solo perché madre natura mi ha dotato di un eccellente elemento, come te, e di una grande forza… Ma anche perché la mia intelligenza e furbizia, rendono imprevedibile l’avvenire del proprio destino…- gli disse come un maestro insegnerebbe ad un alunno.

Anagor trovò il coraggio di risollevare lo sguardo.

Incrociò lo sguardo dorato e perfido del nemico.

Una scintilla brillò nei suoi occhi.

 Subito dopo, un dolore.

Un dolore lancinante e atroce, più di quello che gli aveva provocato prima.

Un pugnale di fino argento gli trapassava con forza il cuore e un urlo di agonia uscì dalla sua gola, con la forza di pieni polmoni.

L’ultima cosa che vide, fu il riaffiorare del perfido sorriso da rettile sulle sottili labbra del nemico.

Poi il nulla.

Questo prodotto è garantito da Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1° Capitolo. Padron Hojo ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*

Salve a tutti di nuovo :)!!!Vorrei fare una precisazione (e ti pareva se non ne faceva -.-“)  a chi ha già letto il prologo prima di averlo modificato :)!!! Ho aggiunto una piccola parte dove spiego il significato di elemento!!! E’ subito dopo l’entrate di Hojo nella sala!!! Spero che vi piaccia e che continuate a seguirmi!!! :) aspetto tante vostre opinioni!!! Bye :)(E’ diventata pure inglese adesso... -.-“ Mha!)

 

 

Capitolo 1°

Padron Hojo

 

 

La pioggia cadeva pesante e fredda sul bosco quiete, provocando il ticchettio di mille orologi scoordinati.

Le foglie secche di quercia che coprivano il sottobosco non fermavano il diffondersi del penetrante odore di terra bagnata.

Le sarebbe piaciuto godersi ogni singolo attimo di quel magico momento.

Magari seduta ai piedi della quercia più grande, chiudendo gli occhi e lasciando fuggire tutti i tormenti che la vita le aveva gentilmente regalato.

Le gambe spingevano sempre più per aumentare il ritmo della corsa, anche se i muscoli bruciavano sotto lo sforzo di una fuga apparentemente infinita.

Anche i polmoni sembravano avessero preso fuoco: pompavano a tutta forza ossigeno, provocando un fiatone pesante.

I piedi scivolavano leggermente sulle foglie bagnate soprattutto quando, esile ed agile come un felino, si ritrovava a scansare alberi e massi che le sbucavano davanti all’improvviso.

I vestiti erano impregnati d’acqua piovana e si erano notevolmente appesantiti, mettendo in mostra ogni singola forma del suo corpo minuto.

I capelli di un acceso rosso, anch’essi bagnati, rimbalzavano sulle spalle al ritmo frenetico della corsa.

E mentre ogni singolo muscolo si sforzava per sfuggire dal “predatore”, la mente studiava mille e più modi per liberarsene.

 Le armi che portava con sé erano la sua piccola pistola, già carica, e un pugnale.

Quindi, in fin dei conti, in caso di combattimento se la sarebbe cavata.

E non era da sottovalutare come avrebbe facilitato, un eventuale scontro, il suo elemento.

 

Oh, quando disprezzava il suo elemento.

Lui era la causa di tutto: del mancato sostegno di una famiglia, di un’infanzia disastrata, di una terribile adolescenza, delle continue persecuzioni, dell’impossibilità di riuscirci a creare una vita normale… e di questa fuga.

 

Il fiatone era ancora più pesante quando decise di voltarsi appena ad osservare i suoi inseguitori.

Erano cinque uomini, tutti vestiti con una tuta aderente nera, coordinati a stivali e cintura di pelle.

I visi erano coperti con passamontagna che lasciavano intravedere solo gli occhi.

Al centro e al comando del gruppo vi era l’uomo più alto e muscoloso di tutti, affiancato da altri due tipi poco più bassi di lui.

A completare il quadretto, i tre gorilla venivano coperti alle spalle dai punti deboli della squadriglia: due ragazzi esili e apparentemente giovanissimi che probabilmente potevano avere poco più di quattro o cinque mesi di allenamento.

 

La pioggia continuava a cadere sempre più forte e più fredda.

Abbassò lo sguardo a terra continuando a rimuginare su come li avrebbe fermati.

Infilare un piede dentro una pozzanghera alquanto profonda le diede una brillante idea.

Si voltò nuovamente per un attimo.

Come si aspettava anche i suoi inseguitori non le scansavano.

Così si preparò al suo esperimento.

Si voltò un istante prima che gli ultimi due scagnozzi, i più giovani, passassero sopra la grande pozzanghera che lei aveva già superato.

Appena vi furono sopra, in un istante, con un gesto veloce della mano nella sua mente ordinò al suo elemento: “Acqua rediti vapore”.

Il risultato ottenuto fu un successo.

Gli scagnozzi che prima correvano veloci dietro ai tre superiori, ora erano rimasti con i piedi piantati sotto terra secca, che prima, mischiata con l’acqua, era la semplice pozzanghera.

Sentiva le loro urla per la sofferenza dell’impatto e per lo spavento.

 

Non riuscì a trattenere un sorriso.

Meno erano i seguaci di Hojo a seguirla, più possibilità aveva di arrivare sana e salva a Warmin.

 

Ora il problema si poneva per gli altri tre.

Non aveva ancora in mente come fermarli e oltretutto mentre eseguiva il suo esperimento, aveva rallentato la sua corsa.

Ciò spinse gli altri tre scagnozzi, che neanche si voltarono a prestare soccorso agli altri, ad accelerare il loro passo.

 

 - Corri, corri piccolina… - disse il più grosso messo al centro, sogghignando con una risata pesante, proprio come la voce – Avrai fermato i miei colleghi, ma appena ti acchiappo, ti farò pagare tutte queste sofferenze. –

Un brivido la scosse all’idea delle torture tremende che avrebbe potuto subire e si spronò a correre più velocemente.

-Se mai mi prenderai! – gridò poi in tutta risposta sorridendo.

Se davvero sarebbero arrivati allo scontro diretto, era meglio che iniziasse a gasarsi un pochetto.

 

Dopo tutto il successo che aveva ottenuto, fermando due dei cinque uomini che continuavano a seguirla, sentiva che poteva raggiungere il suo obiettivo.

Ormai era diventato un banalissimo gioco.

Avrebbe vinto, se lo sentiva, perché aveva trovato la carica per correre anche per il resto della vita.

Aveva trovato la carica per sconfiggere qualsiasi cosa.

Aveva trovato la carica per togliersi di torno per sempre le irritanti visite di Hojo, le cattive maniere dei suoi scagnozzi, e i mille omaggi e regali che a volte si costringeva ad offrirle pur di trascinarla dalla sua parte.

Ma come poteva, un sovrano così intelligente, famoso non solo per la sua crudeltà ma anche per l’astuzia con cui aveva sottratto il potere a molti imperatori, mostrarsi così banale nel tentativo di voler attirare una recluta importante come lei?

E come poteva aspettarsi che lei avrebbe accettato, dopo che le aveva rovinato la vita?

Restava un mistero.

 

-Guarda… - Sussurrò il comandante, strappandola ai suoi pensieri.

Ad un tratto, gli alberi in mezzo cui stava per passare Dorothy, si piegarono di fronte a lei bloccandole il passaggio.

I rami lunghi e secchi si erano intrecciati tra di loro, come tela per i ragni, e non le lasciavano via di fuga.

Si trovò in difficoltà.

Studiò velocemente vari modi per oltrepassare l’ostacolo, senza successo.

Era in trappola.

Costretta a fermarsi, si voltò: la stavano raggiungendo e lei era pronta ad affrontarli.

A sconfiggere il nemico.

A combattere fino all’ultimo sangue.

Così, brandì il pugnale dalla fodera di cuoio che stava appesa alla sua cintura, lo nascose per bene dietro la schiena e sospirò.

L’adrenalina era entrata in circolo e i riflessi erano allerta come non mai.

 

Appena la raggiunsero, l’accerchiarono.

 -Hai visto che ti sei fermata? – le chiese sogghignando il comandante.

Una scintilla brillò nei suoi grandi occhi nocciola.

-Ci vuole una pausa dopo circa venti minuti di corsa… - rispose seria e minacciosa.

Rigirava con la mano sudata il pugnale dietro la schiena, pronto a ferire.

E continuava ad osservarlo negli occhi, pronta a prevedere le sue azioni.

 

Era il decimo giorno di viaggio, ma le sembrava fossero passati anni dalla notte in cui era partita dalla propria città.

Bhuck era una città piccola e nascosta, costruita disordinatamente dai ribelli nella valle di Kino.

Lì aveva iniziato circa un anno fa il suo allenamento: era diventata una donna tra lo guaire di spade pesanti, giocando agile con tre pugnali contemporaneamente e mirando con armi da fuoco.

Non era diventata un’esperta, per quello ci volevano anni, ma aveva imparato abbastanza per difendersi da eventuali attacchi o improvvisi inseguimenti.

Poi Warmin, temendo che un attacco avrebbe distrutto completamente la città, sottomettendola al potere della “Grande Tirannia”, le aveva chiesto di mettersi in viaggio per raggiungere la città portante della ribellione.

Dieci giorni di lungo viaggio, passati a camminare nell’ombra, dormire all’aperto o in delle caverne, senza fuoco né cibo. Sola acqua.

La coscienza di essere seguita aveva comportato un rallentamento nel suo viaggio.

Ma non avrebbe mai permesso che tutta quella fatica le regalasse un viaggio di sola andata per la roccaforte di Tulemont, da anni abitazione e prigione di Hojo.

 

-Attaccate! – ordinò  a sorpresa e con rabbia il comandante.

I due scagnozzi rimasti obbedirono, o meglio ci provarono.

Dorothy, con i riflessi di un gatto, allungò la gamba desta colpendo e allontanando il primo scagnozzo con forza.

Cadde a terra, tenendosi lo stomaco.

Poi si voltò di scatto e non esitò a conficcare il pugnale scoperto nello stomaco del secondo.

Lo tirò verso di se con forza e l’uomo, piegato in due dal dolore, cadde a terra.

Il pugnale aveva lasciato nella tuta nera e nella carne sottostante un grande foro da cui iniziò a fuoriuscire sangue denso.

L’uomo si voltò di lato, e piegato in due dal dolore, strinse lì dove lo aveva ferito.

Urlava e si contorceva sotto la ferita che la lama, tagliente, gli aveva inflitto.

Dorothy aveva eseguito la sua difesa alla perfezione, e abbassò un attimo la guardia.

In quell’istante, il comandante si spostò dietro di lei di soppiatto.

- Siete inutili, non sapete fare nulla! – esclamò mentre di scatto si avvicinò a Dorothy e la prese da dietro.

Le sue braccia possenti e forzute l’avevano bloccata in un abbraccio tanto forte, da non permetterle di muoversi.

Le faceva male, le teneva le braccia completamente bloccate sul petto che a malapena riusciva a inspirare ed espirare.

Provava a muovere le spalle, sperando che mollasse o semplicemente allentasse la presa, ma l’unica cosa che ottenne furono i sogghigni dell’uomo, divertito a vedere la sua preda scuotersi e agitarsi senza successo.

Si sentiva un passerotto che tentava di spiccare il volo, anche se chiuso dentro il pugno di una forte mano che glielo impediva.

Con la voce pesante trasformata in un malefico sussurro, le disse all’orecchio:

- E’ inutile che continui a muoverti perché, così, peggiori la situazione… –

L’abbraccio che la bloccava si strinse ancora di più appena terminò la frase, diventando sempre più letale.

E ogni secondo che passava, la stringeva sempre di più.

Sempre di più.

- Lascia-mi… sta-re - provava a ribattere Dorothy, con voce spezzata.

Ma la stretta, facendosi sempre più forte, le bloccò il respiro.

Quasi in apnea provava a muoversi per liberarsi, ma era sempre peggio.

Presa dal panico di essere senz’aria, provò ancora una volta a strattonarsi, ma niente.

- Immagina - intanto le diceva il comandante sempre in un sussurro – come ci divertiremo nelle prigioni. Faremo tanti, tanti giochetti… Vorrei farti provare la frusta o le scariche elettriche sulla pelle…- rise- Dato che il tuo elemento è l’acqua dovresti “sentirle” di più… E poi quando arriva sera…-

 “E’ finita…” pensò intanto mentre iniziava a girarle la testa.

L’altro scagnozzo si era posto davanti ad osservare la scena, mentre il comandante, preso dall’enfasi di quello che le stava raccontando iniziò a stringerla di più a se, quasi a volerla possedere.

- E poi quando arriva sera mi divertirò io a godere del tuo favoloso corpo… Sicuramente il Padrone me lo concederà…-

Il suo respiro si era fatto pesante, e lo scagnozzo di fronte sogghignava divertito.

Una mano iniziò a scivolare sul suo ventre.

Quanta malvagità c’era, non solo nell’accurata descrizione che le aveva fatto, ma anche in quell’uomo…

Si scatenò l’inferno dentro Dorothy.

L’idea di finire tra le sue grinfie, il solo immaginare le torture che la aspettavano, le ridiede la carica e la speranza.

Piegò la gamba in modo da dare un calcio lì, dove non batte il sole, al comandante che la teneva bloccata e rimediò alla stretta che la stava soffocando.

Il comandante cadde in ginocchio tenendosi il pacco, quasi con le lacrime agli occhi.

A terra, Dorothy, fece un gran respiro per riempire i polmoni dell’aria che le era venuta a mancare, si alzò e si avvicinò all’alto scagnozzo.

Prese la mano con cui teneva il suo pugnale, la girò in modo innaturale e glielo conficcò nella coscia.

- Scusa – tirò a battutina al ferito, sorridendo a vedere la sofferenza nel suo volto proprio come aveva fatto lui un istante prima – ma questo è mio, vado di fretta, e – estraendo il pugnale, provocandogli così un’emorragia che le sporcò parte dei pantaloni - mi serve! Bye porci! Portate i miei saluti a Hojo! – concluse sorridendo e riposando il regalo nell’apposita custodia.

 

Ricominciò a correre più forte e carica di prima.

Entusiasta si avviò velocemente verso uno dei passaggi segreti di Warmin, che si trovava nei paraggi: ce l’aveva fatta.

Si era tolta tutti quegli stupidi scagnozzi di mezzo e stava per ottenere ciò che ormai desiderava da tanto.

Stava per entrare a far parte di uno stato indipendente dove avrebbe continuato il suo addestramento per affrontare La “Grande Tirannia” in battaglie frequenti.

 

E, all’apice dell’orgoglio, quando tutto sembrava finito, quando credeva di aver raggiunto la sua meta, uno sparo.

Un dolore atroce coinvolse la sua spalla sinistra.

Il comandante del gruppo aveva un asso nella manica e lo aveva appena utilizzato.

Dorothy, appena subì il colpo dello sparo, rallentò: dal foro che trafiggeva la spalla, proprio dove il proiettile l’aveva perforata, un fiume di sangue rosso e denso fuoriusciva senza sosta.

La stringeva ma inutilmente perchè all’improvviso si sentì debole, senza forze.

Avrebbe tanto voluto sdraiarsi a terra e morire lì, sotto la pioggia che le batteva sul viso.

Ma non poteva arrendersi, non poteva fermarsi.

Lasciando il braccio della spalla dolorante rilassato continuò a correre, sempre più piano, sempre più debole.

Era riuscita a fare solo lunghi passi, ma aveva raggiunto il pozzo che l’avrebbe condotta alla città nascosta.

Dalla sofferenza e dalla debolezza non riusciva neanche a pensare.

Le girava vorticosamente la testa e sentiva che a momenti sarebbe svenuta.

Ma forse ce l’aveva fatta.

Quando una mano la girò, così senza forza, poiché era fragile come una foglia secca; si trovò faccia a faccia col comandante degli scagnozzi, che ormai aveva messo tutti fuori uso.

- Ho vinto io piccola, – le disse con la felicità stampata negli occhi che s’intravedevano dal passamontagna – Padron Hojo mi tratterà come un re per la missione che sono riuscito a compiere senza di quei cretini là! –

Dorothy, raccogliendo le poche forze che aveva conservato, infilò, senza farsi notare, la mano destra nella custodia di cuoio appesa alla cintura, ed estrasse la pistola.

Con la vista appannata, una fatica immensa e un filo di voce impercettibile, si rivolse all’uomo di fronte a se, e con tutto l’odio che provava, gli riferì:

-Non hai vinto… Non ancora… -

Impugnò la pistola, la alzò appena e premette il grilletto.

Sparò dritto al cuore.

Il peso dell’uomo si abbatté su di lei e insieme caddero nel pozzo alla volta di Warmin.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2° Capitolo. Si aspetta ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Buondì!!! :) Sono tornata gente con il secondo capitolo!!!:) Qui incotramo il secondo protagonista... Sta a voi capire quale!!!! E Dorothy? Bhè starà in convalescenza per un po’! Cmq, voglio ringraziare tutti, e intendo TUTTI, coloro che si stanno rivelando così gentili e appassionati leggendo questa storia! Avverto che sarà più lunga e complicata di quando vi aspettate, ihihihih!!! Cmq, un grazie particolare al cucciolo Jo :), a M. (XD non mi ricordo come si scrive per intero il tuo nik, imparerò :)) e Skyla (spero che sia scritto giusto, se no che mala figura!!!). Vi prego non mi abbandonate!!! Ora, mi rendo conto che rompo troppo, perciò vi lascio leggere in santa pace adesso!!! Baci, al 3° capitolo!!!! 


Capitolo 2°
 
Si aspetta.

 
 

- Quando è arrivata?-
 

Per Nicolas, il tono assunto da Seifer era fin troppo timoroso, sopratutto se era rivolto a una persona che ancora non conosceva.
- Sta mattina sul presto si presume. Ma l’hanno trovata verso le quattro del mattino.-
- Condizioni?-
Se erano all’ospedale a scansare persone con passo veloce, era anche inutile porre quella domanda.
Nicolas sapeva bene che per Seifer conoscere un altro “prescelto” era qualcosa d’eccezionale: insomma, tutti li ritenevano come di un’altra specie e due di loro rappresentavano il male puro.
Sarebbe stato come incontrare uno di famiglia.
 
 
Era passato circa un mese da quando il Gran Consiglio aveva ordinato alla prescelta, legata all’elemento dell’acqua, di trasferirsi a Warmin.
Seifer lo sapeva bene perché, la notte stessa che inviarono l’ordine, fu convocato a una riunione.
Non sapeva cosa avesse fatto di preciso ma era tornato la mattina presto con praticamente stampato in faccia un sorriso a trentacinque denti e invece di andarsene a letto a riposare, come tutte le persone normali, si mise a cucinare pancetta e uova fritte.
Nicolas, goloso com’era, appena sentì pizzicare il suo naso sotto quel profumo meraviglioso non riuscì a stare a letto un altro minuto.
Così in pigiamoni soffici davanti a piatti così deliziosi aveva fatto finta di ascoltare il suo migliore amico per circa tre ore.
- Te ne rendi conto Nicolas! Verrà qua! Abiterà in questa casa! E si dovrà allenare ogni santa ora di ogni santo giorno con me! E’ una cosa fantastica!-
Lo ripeteva come se si fosse trasformato in un carillon.
Alla fine aveva solo aggiunto, con bocca piena e occhi a palla:-Savebbe fanfasfico se fosse bona!-
Ora invece faceva di tutto per far passare quel favoloso incontro, che attendeva con ansia da tanto, come una semplice questione di lavoro.
 
- Pessime...- rispose il ragazzo addetto agli schedari d’arruolamento che li accompagnava. - Rischiava seriamente di morire dissanguata a causa di una ferita d’arma da fuoco sulla spalla sinistra. Le hanno trasfuso due sacche di sangue, estratto il proiettile e dato cinque punti per chiudere al meglio la ferita, ma si è infettata. Adesso è fuori pericolo, ma la febbre non vuole scendere.-
Gli occhi azzurri-verdi di Seifer si abbassarono a guardare il pavimento.
Nicolas, da buon amico, lo circondò con un braccio.
 
L’ospedale brulicava di persone: molte erano sedute in attesa di una semplice visita.
Di tanto in tanto si vedeva passare un lettino con uno sfortunato privo di sensi al di sopra, forse diretto alla sala operatoria.
Arieggiava nell’aria un profumo di disinfettante e detersivo, mentre l’ambiente si rilevava più tranquillo e accogliente del solito.
Tutto procedeva con un certo ordine: le visite a pian terreno e i ricoveri di ogni genere disposti ordinatamente, ciascuno su un piano a se.
Tutta un’altra cosa era ciò che diventava l’ospedale durante una battaglia.
Urla, pianti e sangue da per tutto... Il suo odore insieme alla puzza di sudore che riempiva ogni angolo... Chi correva ad aiutare qualcuno chi invece chiedeva aiuto...
Nicolas scosse la testa per rimuovere quei brutti ricordi.
 
Presero l’ascensore e salirono al terzo piano.
Stranamente durante il tragitto Seifer non disse una parola.
Si guardò un po’ intorno in sovrappensiero nell’attesa che arrivassero a destinazione.
Arrivati sul pianerottolo deserto, il ragazzo che li accompagnava, con una carpetta in mano e passo veloce, fece strada fino alla stanza.
Sfogliava freneticamente tra i suoi documenti mentre con la coda dell’occhio controllava il numero delle camere, e Seifer e Nicolas lo seguivano senza fretta.
 
Arrivati alla stanza G421, il ragazzo si fermò, sistemò ordinatamente le sue carte ed aprì delicatamente la porta.
Seifer fu il primo ad entrare, seguito dagli altri due.
 
Nella stanza piccola dalle pareti celestine, arredata solo con un armadio, una poltrona e attrezzature mediche, e con una sola finestra che la riempiva di sole, una giovane ragazza stava immobile, ad occhi chiusi, riposando tra candide coperte.
Aveva capelli rosso mogano con graziose onde.
La pelle era chiara, bianchissima, ma non sapeva se era per via del malore o per natura.
Le labbra sottili erano disegnate alla perfezione, mentre il naso era piccolo e grazioso sul viso ovale.
Voleva vedere i suoi occhi.
Fremeva dalla curiosità di sapere qual era il loro colore, la loro intensità...
- Come si chiama?- chiese poi Seifer, ancora impegnato ad esaminarla.
Voleva conservare ogni suo singolo dettaglio nella sua memoria.
- Dorothy Wilson. Ha diciotto anni e, nella sua scheda quando si è registrata, ha esplicitamente scritto che non sa in che paese è nata. A quanto ho capito è rimasta orfana fin da piccola, ha vissuto tanto tempo in un orfanotrofio e poi l’ha adottata una certa Cortes. Anche se devo dire che ci è stata poco, solo tre anni, perchè poi si è subito arruolata.-
Aveva ricominciato a sfogliare tutti quei documenti e aveva mostrato a Seifer la scheda d’arruolamento e i documenti che provavano quando era stata portata in orfanotrofio e quando era stata adottata.
- Poverina... Credo sia stata una vita difficile...- disse quasi tra sé Nicolas.
Nessuno ci badò.
Pensava, comunque, che una ragazza che aveva subito un’infanzia così tremenda ed era cresciuta tra i lavori di un orfanotrofio e la casa di persone sconosciute, dovesse riportare segni di una vita dura sul viso.
Invece era limpida, serena; come se tutto ciò l’avesse aiutata a diventare forte come una roccia.
Lo straniva tanto...
- Ancora non mi avete spiegato come si sia procurata una ferita del genere.- disse poi Seifer.
- Non glielo so spiegare con certezza- iniziò il ragazzo- ma credo che abbia avuto un’imboscata o qualcosa del genere. L’unica cosa che so e che l’hanno trovata con un uomo.-
-Un uomo?- chiese Nicolas.
-Si. Non sappiamo chi sia, ma lo hanno trovato morto insieme a lei. Lo stanno esaminando al momento.- spiegò con gentilezza il giovane.
- Di, a chi ha ricevuto questo incarico, di controllare bene se ci sono tatuaggi sul corpo... Sopratutto se è una h maiuscola dentro un triangolo.- riferì Seifer al ragazzo.
-Sarà fatto- rispose.
Poi lo congedò.
 
Rimasti soli in quella stanza, Nicolas si avvicinò a Seifer.
Era di nuovo in sovrappensiero, e non aveva rimosso lo sguardo dalla ragazza.
- Te lo immagini, una creatura così esile cosa ha vissuto e cosa potrebbe farti?- chiese sollevando lo sguardo e osservando l’amico.
- Beh, amico- disse Nicolas dandogli una pacca sulle spalle – devi avere paura più tu che io. Al metallo l’acqua fa ben poco, rispetto a quello che fa al fuoco.-
Sorrisero.
- E adesso che si fa?- aggiunse Nicolas.
- Si aspetta.- rispose Seifer.
- Si aspetta?- chiese.
- Si. Si aspetta che si svegli.- 

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3° Capitolo. MIO ***


Capitolo 3°

 

MIO

 

 

Il vento batteva forte contro la visiera del casco nero che proteggeva il suo viso.

Lo sguardo rimaneva a fatica fisso sul sentiero fangoso da percorrere a causa della forte pioggia che continuava a battere, anche sopra il lungo cappotto di pelle nera che lo copriva dal freddo gelido che lo percuoteva.

La velocità della sua corsa sull’elegante moto nera faceva schizzare ovunque gocce di fango liquido: i suoi stivaloni neri, chiusi con decine di borchie, erano sporchi quanto le ruote del motociclo ormai e qualche goccia aveva intaccato anche gli scuri jeans che indossava.

Le mani erano protette dal freddo grazie a eleganti guanti neri in pelle: la sinistra accelerava sempre più, piegando leggermente il polso; la destra controllava con le dita il freno della ruota posteriore.

Mentre curvava e sgommava, inclinandosi a ritmo del sinuoso percorso, in cima all’alta montagna s’intravedeva l’enorme e tenebrosa meta da raggiungere.

Avvolta da nuvole grigie, stava immobile e secolare la reggia del temutissimo Hojo.

Il suo potere era enorme sulla terra che ormai controllava da anni, e non solo come elemento.

Nei trent’anni di dura tirannia che erano passati, pochi ebbero il coraggio di contrastarlo e persero la vita in lotte sanguinose, in terribili torture o ancora peggio.

La sua politica terroristica diffondeva paura tra la popolazione ormai sottomessa a lui come schiava.

Un enorme esercito era ai suoi ordini e ciò rendeva tutto più facile: alcuni soldati, sadici, trovavano piacere nel terrorizzare anche i bambini.

Abusavano del loro potere torturando coloro che non li ubbidivano nell’immediato, anche se questi erano ordini assurdi; stupravano donne, alcuni anche bambini, senza pietà.

E Hojo si compiaceva di coloro che si dimostravano così aggressivi e brutali.

 

Ma la mente e il centro di tutto ciò era lì, in quell’enorme reggia dalle mura di marmo grigio decorate rigidamente con particolari spigolosi e ripetitivi.

La facciata teneva lunghe e strette finestre dove, i vetri doppi, lasciavano intravedere quasi nulla dell’interno.

 

Nella sua bellezza gotica, quel maestoso palazzo metteva i brividi.

Arrivato con una lunga e brusca frenata, si fermò davanti al cancello, unica entrata della grande recinzione che circondava la proprietà.

Questo si aprì automaticamente e ripartendo con velocità, Victor, arrivò e posteggiò l’elegante mezzo davanti al grande portone nero, nonché l’entrata principale del palazzo.

Scese dalla moto, tolse il casco nero e lo posò accuratamente sul sedile della motocicletta.

I capelli corvini scombinati sulla testa facevano spiccare, sulla carnagione chiara e rosea, gli occhi ghiaccio che possedeva il ragazzo.

I tratti del viso erano morbidi, come le labbra, anche se sottili.

Il viso giovane e il fisico atletico facevano di lui un bell’uomo.

Scotolò un po’ il cappotto sporco, si sistemò appena i capelli e si avviò all’interno del palazzo affollato: tante persone, mentre passava, lo salutavano con entusiasmo, spesso stringendo la mano forte e possente.

Con decisione salì tutte le scale che si trovavano di fronte al portone d’ingresso: erano tantissime e hai lati portavano a tanti corridoi, dove vi erano vari uffici, stanze segrete e prigioni.

Solo in cima alla scala non vi erano presenti la moltitudine di corridoi, perché ad un'unica ed enorme stanza era dedicato quel piano: la sala del trono.

Salì le scale senza fretta.

Le gambe possenti e muscolose si stancavano sotto lo sforzo, ma il grande petto non dava segni di affaticamento.

Le larghe spalle stavano rilassate, le mani all’interno delle tasche del cappotto nero, il viso serio e preoccupato rivolto alla grande porta che lo separava dalla sala.

“Ci saranno guai” si disse mentre si avvicinava sempre più al grande portone nero.

Arrivato lì, lo aprì piano ed entrò all’interno della stanza: questa era maestosamente decorata con pregiatissimi marmi che variavano dal nero al bianco più candido.

Decoravano l’intero palazzo e assumevano decorazioni gotiche, spigolose e longilinee.

Ai lati della stanza, questi lasciavano spazio a enormi finestre, altissime e strettissime.

E lì, di fronde a sé, stava sopra un rialzo, di marmo anch’esso, seduto su un trono nero magnificamente ornato da particolari in argento puro, il capo. La mente di tutto.

Hojo, all’udire i passi del suo servo più fedele, alzò lo sguardo in segno d’interresse e iniziò a parlare:

- Ti aspettavo con ansia Victor - disse gelidamente.

La sua voce risultava distaccata e senza emozione, anche se un perfido sorriso apparve sulle sue labbra pallide e sottili appena concluse la frase.

Victor si fermò di fronte a lui, alzando la testa per mostrare il viso, che non possedeva alcuna traccia di paura, ma di sfida.

- Padrone… – disse dopo chinando appena la testa, in segno di saluto – purtroppo non vengo a portare delle belle notizie… -.

Hojo sgranò appena i piccoli occhi leggermente a mandorla, si sistemò il lungo vestito nero dalle rifiniture di oro e disse:

- Inizia a parlare. –.

Si mise in posizione di ascolto con le braccia rilassate sui braccioli, fissando il servo.

- Cosa le interessa sapere per prima?- incominciò sicuro della reazione del sovrano, Victor - Dell’armata di ribelli, che continua ad avanzare contro di noi, o della cattura di Dorothy Wilson, che non è avvenuta?-

- COSA?!?!- gridò Hojo alzandosi dal trono e tenendo con forza i braccioli su cui era completamente rilassato prima.

Gli occhi d’oro colato erano furiosi, e i lunghi capelli argento balzarono con lui.

Poi continuò:

- QUEGLI IMBECILLI!!! AVEVO SOTTOLINEATO CHE QUESTA VOLTA NON DOVEVANO FALLIRE!!! LA RAGAZZA VUOLE RAGGIUNGERE I RIBELLI, E LORO SI PERMETTONO DI FARE QUESTI SBAGLI!!-

- Le avevo proposto di mandare me a svolgere un compito così importante ed estremamente facile dopotutto, ma non mi avete dato retta.- punzecchiò Victor.

Ma il padrone non lo ascoltò neanche quella volta.

Lui si che avrebbe saputo come catturare la sua rivale in quattro e quattro otto.

Certo con il suo elemento, l’aria, sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Bastava privargliene per qualche minuto, proprio il tempo per farle perdere i sensi, poco di più se gli avesse ordinato di provocarle la morte.

E quello era solo uno dei metodi più semplici.

Sorrise all’idea di fare del male in altri e svariati modi.

- DOVE SONO?!?! DOVE SONO QUI MASCALZONI!?!?- continuò adirato Hojo.

- Due di loro sono riusciti a fuggire, non solo dalla brutta fine che ha fatto fare la ragazza agli altri compagni, ma anche da noi. Saranno nascosti sicuramente o nel bosco, o in un paesino nei dintorni a esso.- .

- Trovateli- disse Hojo fissando il servo, con gli occhi ancora iniettati di sangue.

Aveva l’affanno per le urla buttate poco prima, ma ora aveva fame di sapere, e voglia di agire.

- Voglio che li troviate al più presto – continuò – e che li catturiate. Li dovete torturare fino alla morte! Così impareranno a tradire il loro padrone… -.

Fece una pausa per riflettere e poi chiese:

- E gli altri tre del gruppo? Che fine hanno fatto?-

- Gliel’ho già detto, Sire, sono morti- rispose prontamente Victor – la ragazza ha fatto fuori i primi due estrema facilità. Sono morti dissanguati. Ma a quando ho capito solo il comandate è stato capace di rallentarla e quasi catturarla… Ma non è stato ritrovato il corpo.-

Hojo alzò lo sguardo al tetto. Il comandante l’aveva ferita e quasi catturata.

Da ciò si scaturiva qualcosa d’importante: evidentemente era astuta, agile e furba.

L’aveva sottovalutata.

E quanto poteva capire, dalla piccola strage che aveva procurato alla sua truppa, pensava velocemente e probabilmente l’unico modo di fermarla era l’attacco a sorpresa.

Ma la sorpresa sta nel trovarsi da sola, faccia a faccia, con qualcuno molto più forte e molto più agile e più furbo di lei.

Posò nuovamente lo sguardo sull’amato servo, sarebbe stato perfetto lui per quel ruolo. Poi domandò:

- Lei ora dove si trova?- chiese con un speranzoso.

Victor deglutì all’udire la domanda.

Se si adirato per la notizia precedente, questa gli avrebbe fatto buttare giù il palazzo.

- E qui che viene il peggio… Il gruppo  è riuscito a raggiungere la ragazza solo nel bosco di Malva… Li c’è il passaggio segreto per Warmin… Il pozzo. –

Hojo l’osservò, sgranò gli occhi e il viso prese lentamente fuoco. Urlò:

- No, no, NO!!!-

La sua furia aveva raggiunto l’apice.

Il pallido viso, ora era paonazzo; la voce possente gridava e le forti braccia presero il trono e lo lanciarono verso il servo.

La terra iniziò a tremare.

Victor alzò una mano fermando, in un blocco di aria solidificata, il trono lanciato dal padrone, ma rimase li fermo e immobile ad aspettare che la furia del padrone terminasse.

La terra continuò a tremare sempre più forte per altri cinque minuti, poi Hojo tirò un sospiro e si calmò.

Permise a Victor di posare con il suo elemento il trono al suo posto e si scaraventò sopra, esausto.

Riprese il fiato che aveva perso urlando, il viso si rilassò e tornò pallido, anche se più di quando lo fosse stato prima.

Alzò nuovamente lo sguardo verso il servo.

Gli occhi trasmettevano più malvagità del solito, anche se lasciavano intravedere la stanchezza  di mille fallimenti e vecchiaia.

- Mettiti in contatto con gli infiltrati che abbiamo e fai sapere loro che la devono tenere sottocchio. Voglio sapere tutto. Soprattutto con chi sta, se si allena, e se hanno dei progetti per lei.-

Si alzò, passò una mano tra i capelli argentei e si avvicinò alla grande finestra che stava alla sua destra, pensieroso. La lunga veste nera strisciava a terra, alzando appena la polvere che vi stava. Continuò:

- Dai ordine che qualcuno le deve diventare “amico”. E che devono tenere il più lontano possibile da lei Seifer… Anche se lo ritengo un po’ improbabile, dato che con il suo potere del fuoco, sarà l’unico che la potrà aiutare a potenziarsi.-

- Niente è impossibile Sire- rassicurò Victor mantenendo lo sguardo fisso sul superiore.

Hojo si voltò di scatto verso di lui, e ordinò:

- Intensifica il tuo allenamento, Victor. E dì di fare lo stesso a tutto l’esercito. –

-Perché, Sire? Sempre se mi è permesso saperlo…- aggiunse con sottomissione.

- Perché presto li attaccheremo. E io non scenderò in campo. Tu sarai l’unico che potrà comandare il mio esercito e distruggerli. E tu devi riuscire a sconfiggere Seifer, e a portarmi Dorothy. O sconfiggere pure lei.-

Già, nella sua mente, si era disegnato un piano perfetto e preciso per ottenere ciò che voleva.

Li avrebbero attaccati nelle tenebre oscure della notte.

Li avrebbero disorientati e fatti entrare nel panico.

Li avrebbero distrutti nel loro campo di battaglia.

E Victor, oh, lo avrebbe reso soddisfatto: il suo allievo che comandava il suo esercito con l’eccellente mente che lo aveva aiutato a formarsi.

E avrebbe distrutto la loro arma privilegiata, Seifer e quel suo stupido elemento, e avrebbe messo le mani sul nuovo gioiellino di famiglia.

Li avrebbero eliminati, terrorizzati e avrebbero mostrato chi ancora comandava davvero e come era capace di distruggere tutto con un solo ordine; perché la sua vecchiaia si faceva sentire, e non solo nei suoi “acciacchi”…

Anche da lontano avrebbe vinto e goduto delle sofferenze del nemico.

- Come volete, sire. Ma…- Hojo si era voltato di spalle guardando il pavimento. Quando si voltò verso al servo in ascolto e Victor continuò:

- Perché Sua Maestà non scende in campo questa volta?-

Si voltò completamente verso di lui, accennò un sorriso e rispose:

- Sto invecchiando Victor. Ormai ho sessant’anni e anche una semplice battaglia diventa faticosa per me. La mia amica terra diventa sempre più incontrollabile sotto la mia mente. E questo il nemico non lo deve sapere. Voglio conservare tutte le mie forze per la battaglia finale, se mai questa ci sarà, naturalmente.-

Accennando un altro perfido e letale sorriso.

Fece una breve pausa, e continuò:

-In oltre devo mettere alla prova le tue capacità di comando, se un giorno ti dovrò lasciare il mio trono.-

Victor sorrise appena all’idea delle vaste terre di Hojo tutte ai suoi piedi.

Poi si inchinò e concluse:

- Eseguirò tutti gli ordini a dovere, Padrone.-

Si voltò con decisione, e si avviò verso l’enorme portone.

Un pensiero attraversò la sua mente, mentre con passo veloce si avviava verso il portone:

“Non la deluderò, padrone. Vedrà, la renderò così soddisfatta, che già sento che tutto il vostro dominio sarà mio. MIO…”

 

 

*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*

Lo so, lo so… Ho pubblicato prima!!! Ma vorrei giustificarmi… Questo capitolo è diverso da tutti quelli precedenti!!! Cosa che, secondo me non vi aspettavate nessuno!!! Cmq, mi sono divertita così tanto a scriverlo che ho sentito subito il bisogno di pubblicarlo, perciò eccolo qui ;)!!! Fatemi sapere cosa ne pensate, al prossimo capphy!!!

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4° Capitolo. Ormai sei al sicuro ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Non uccidetemi, vi pregoooooo!!! Pietà!!! Lo so che vi avevo promesso di pubblicarlo prima, e invece non ho rispettato neanche il tempo di pubblicazione promesso dal primo capitolo!!! Perdonatemi vi pregooooooo!!! E che a dirla tutti tra il mio blocco dello scrittore, causato dalle graduatorie in arrivo dell’uni, e questo capitolo che si è rilevato il più difficile da completare, sistemare, correggere, leggere, rileggere e ri-rileggere ad alta voce ho perso un mare di tempo. Spero davvero che mi perdoniate, uno perché ci tengo alla puntualità e due perché a me questo capitolo fa proprio schifo!!! Ora non voglio condizionarvi ma spero che siate sincerissimi a recensire perché questo è il capitolo che odio di più!!! Dopo di ciò la finisco di rompere le scatole e vi lascio leggere in santa pace!!!! Buona lettura!!!^.^
 
P.S. Per favore se fa troppo schifo e smettete di leggere perché proprio non ne potete più, recensite comunque e scrivetelo che orrido!!! Grazie in anticipo^^
P.P.S. (non so se esiste, ma cmq XD) Ringrazio tutti coloro che mi stanno seguendo soprattutto M. e S. che mi correggono sempre!!! Per favore non vi sentiate mai in colpa per quello che fate, perché ribadisco per l’ennesima volta, io adoro la mano che mi state dando!!! Come diceva un filosofo (non ricordo quale XD) preferisco chi mi critica e chi ha idee diverse dalle mie!!!! Grazie, grazie ancora!!!!
P.P.S.S. (Ormai XD) Questo lo dedico al cucciolo Jo invece ;) perché è sempre il primo a recensire, perchè anche a lui piace Final Fantasy (io ne so poco, ma adoro i personaggi XD), e perché adoro i cuccioli, soprattutto di cane!!!!
Buona letturaaaaaaaaaaa!!!!



  

Capitolo 4°
 

 
 

Ormai sei al sicuro.
  

 
Riaprì gli occhi delicatamente e alla visione del sole abbagliante, che con i suoi raggi inondava la stanza, li richiuse immediatamente.
Ci riprovò, ma questa volta aspettò che la sua vista, un po’ appannata, mettesse a fuoco lentamente ciò che la circondava.
Si trovava in una piccola stanza, spoglia, dalle pareti azzurre e un pavimento lucido fatto di mattonelle in vernice bianca.
Alla sua sinistra stava la piccola finestra da cui entravano i raggi a illuminare la stanza.
 
Non riuscì a guardar altro: un fortissimo mal di testa continuava a tartassarla, oltre all’atroce dolore alla spalla.
Dove si trovava? E soprattutto come c’era arrivata?
Non faceva altro che chiederselo.
Rannicchiata sotto le candide e morbide lenzuola, provava un piacevole torpore oltre alla sensazione di protezione; ma se solo ne avesse avute le forze, sarebbe già scattata in piedi per sapere e capire qualcosa in più al riguardo.
 
Riaprì gli occhi e sollevò appena le lenzuola, curiosa di vedere la sua fasciatura.
Era grande, pulita e le bloccava tutta la spalla sinistra fasciandole anche il seno.
La ferita al di sotto, oltre a bruciare come faceva già da quando si era svegliata, iniziò a farle prurito.
Una sensazione orribile, soprattutto perché non poteva grattarsi.
Chiunque l’avesse soccorsa le aveva tolto la maglietta, ma non rimessa.
Infatti gli unici indumenti che indossava al di sotto delle coperte erano solo i suoi pantaloni, stranamente asciutti.
Ora che ci faceva caso era tutta asciutta: la pelle, i vestiti, anche i suoi vaporosi capelli rossi.
 
Si risistemò e, più lucida di prima, riprese a osservarsi intorno.
Accanto aveva svariate attrezzature mediche, molte spente.
Solo una flebo era collegata alla vena più evidente del polso e le iniettava chissà che cosa.
Ma non si soffermò ad osservarla più di tanto perché qualcos’altro, di molto insolito, attirò la sua attenzione.
 
Un ragazzo stava dormendo, in una posizione alquanto strana, su una minuscola poltrona blu, all’apparenza scomoda.
Con la testa buttata all’indietro e le braccia penzoloni, a completare il disgustoso quadretto c’era l’aggiunta di piccoli dettagli, come la saliva che colava un po’ dalla bocca aperta e il suo russare, che le ricordava vagamente il grugnito dei maiali.
Rimase schifata per circa un minuto.
Continuò ad osservarlo però e dopo un’attenta analisi lo aveva ammesso: certo, con le gambe sui braccioli e la saliva che gli stava inumidendo praticamente tutta la faccia non era chissà quale dio greco, ma tirando le somme era un bel ragazzo.
I capelli erano biondi, corti e arruffati.
Il viso aveva dei lineamenti forti e marcati anche se comunque, la pelle rosea, li rendeva più morbidi.
Le guancie erano arrossate, le labbra carnose ma non si soffermò tanto ad osservarle.
Scese con lo sguardo e dedusse che sicuramente andava in palestra per avere i muscoli delle braccia così sviluppati.
Forse anche le spalle erano larghe e muscolose, ma con l’assurda posizione che teneva, non si vedeva. 
Non aveva la minima idea di chi fosse e neanche del perché fosse qui; anche se in fondo apprezzava che qualcuno, senza che la conosceva, si prendeva cura di lei.
Gli fece tenerezza e non lo volle disturbarlo.
 
Si avventurò da sola, con le poche forze che possedeva, nell’ardua impresa di mettersi un po’ seduta.
Nella nuova posizione le vorticò per un istante la testa e la raggiunse un leggero senso di nausea.
La mano destra raggiunse subito la fronte nel tentativo di calmare il dolore e dopo qualche secondo con gli occhi chiusi in quella posizione, il malessere passò.
In seguito all’ennesima prova della sua debolezza, si accorse che aveva sete.
La bocca asciutta le era appiccicosa e stranamente calda.
Era una sensazione bruttissima, oltre al fatto che l’idea di essere disidratata le dava fastidio.
Fosse stata in condizioni normali, uno schiocco delle dita avrebbe soddisfatto il suo bisogno in un attimo; ma avendo pochissime forze, si sarebbe rilevato più difficile del previsto.
Riprese ad osservare attorno: non c’era l’ombra di una bottiglia d’acqua, neanche piccola, e proprio non poteva procurarsela con il suo elemento.
Intanto doveva pur bere.
Così, non avendo altra scelta, decise avventatamente: si doveva alzare e procurarsi un po’ d’acqua, magari dal rubinetto del bagno non molto distante.
Si prese di coraggio, tolse il lenzuolo e fece forza sulle gambe.
Un grosso passo falso.
Il mal di testa tornò, più forte e doloroso di prima e la nausea la sopraggiunse.
 
Seifer era ancora in dormiveglia quando vide la ragazza che tentava di alzarsi.
Così con i riflessi di un gatto, si lanciò dalla poltrona blu, dove un attimo prima dormiva profondamente, e la sostenne prendendola con forza per un braccio.
Pallida come le lenzuola dove l’aveva vista coricata per giorni, la fece sedere sul letto dove, poggiando i gomiti sulle gambe, usò le mani come sostegno per la testa.
-E’ tutto a posto?- chiese il ragazzo preoccupato.
Cercava di scorgere gli occhi tra le dita delle mani che sostenevano la testa, senza successo.
-Chiamo un’infermiera?- domandò poi.
-No, no. Non ce n’è il bisogno.- rispose quasi in un sussurro.
La sua voce era dolce anche se un po’ rauca. Forse per via del dolore.
-Ne sei sicura? Non hai un bel colore…-  insisté Seifer.
- Si, si, tranquillo. Sono solo un po’ di vertigini. Hai acqua?- disse lei, spostando le mani dal volto e alzando lo sguardo.
Rimase spiazzato.
Mai in vent’anni della sua vita aveva visto un colore degli occhi così intenso.
Erano blu; ma non blu come il cielo della notte subito dopo il tramonto e neanche il blu pastello dei colori per bambini.
Era il blu del profondo oceano, così vasto e sconosciuto, che conteneva chissà quanti e quali segreti.
Si poteva annegare in quegli occhi, naufragarci per ore.
Erano enigmatici, misteriosi e trasmettevano paura e dolcezza insieme.
I segni del suo tremendo passato erano tutti lì marchiati a fuoco, chiari come i raggi della luna che rompono la notte più buia.
Eppure quegli occhi, che dicevano tutto e niente, che nascondevano pensieri e raccontavano storie, lo avevano stregato come nessuno sguardo vi era mai riuscito.
 
Dorothy gemette sotto l’espressione che “lo sconosciuto” aveva assunto.
I suoi occhi erano di una bellissima sfumatura azzurro-verde di una tonalità mai osservata fino ad ora e le stavano facendo la radiografia del volto.
Era più di un minuto che la fissava con sguardo non indifferente, viso arrossato e bocca semiaperta.
-Scusa.- disse, quando finalmente si accorse che si era incantato come un bambino che osservava per la prima volta le vaste meraviglie del mondo. -E che hai degli occhi davvero bellissimi.- aggiunse.
Dorothy arrossì appena e abbassò lo sguardo.
Poi, il ragazzo, corse dietro la poltrona: sollevò un borsone nero che lei fino a quel momento non aveva scorto, lo aprì e ne tirò fuori una bottiglia d’acqua fresca.
Buttò il borsone a terra, senza dargli troppa importanza, gli porse la bottiglia e si accomodò accanto a lei, seduto sul letto.
Dorothy l’aprì e bevve avidamente.
L’acqua fresca abolì immediatamente la fastidiosa sensazione che le tormentava il palato e si sentì meglio.
Appena finì, chiuse la bottiglia, gliela porse e lo ringraziò.
La voce, grazie al refrigerio dell’acqua, si era schiarita e adesso si presentava chiara e dolce.
-Di niente, figurati.- rispose Seifer sorridendo.
Lei contraccambiò timidamente.
Si sentiva impacciata in quella strana situazione; dopotutto non poteva mai immaginare di ritrovarsi così in imbarazzo.
Seifer la trovava graziosa nel suo tenere lo sguardo basso per nascondere il colorito provocato dai suoi atteggiamenti; ma i suoi erano solo tentativi di metterla a suo agio.
Così il suo carattere esuberante, estroverso e solare ebbe la meglio sull’ipotesi d’aspettare che fosse lei a rompere il ghiaccio e si lanciò.
-Comunque ritengo giusto presentarmi.- disse il ragazzo sorridendo e porgendole la mano.
-Mi chiamo Seifer Haier, ho vent’anni e il mio elemento è il fuoco.- continuò in attesa di una risposta.
Dorothy perse il colorito rosso che fino ad un attimo prima le avvampava il viso e stringendo, con le minime forze che aveva, la mano forte di lui, si presentò.
-Piacere. Io mi chiamo Dorothy Wilson, ho diciotto anni e il mio elemento è l’acqua.-
-Oh, allora devo cominciare a tremare.- aggiunse in tutta risposta Seifer, scherzando.
Risero insieme per quella banale battuta che aveva finalmente rotto il ghiaccio.
Seifer scoprì di adorare la sua risata.
Era fresca ed elegante, proprio come tutti gli atteggiamenti che possedeva.
Infatti aveva notato come i suoi movimenti fossero morbidi e aggraziati, e lo sorprendeva osservare che erano un atteggiamenti semplici e naturali.
-Sai, non avevo mai incontrato un prescelto.- gli confidò Dorothy in tutta sincerità.
-Ah, io si invece!!! Non sono una bella visione, te lo assicuro; e devo ammettere che non è neanche carino conoscersi in un campo di battaglia.- ammise gesticolando completamente a suo agio.
Dorothy sogghignò appena.
Era simpatico vederlo parlare: faceva varie espressioni divertenti senza neanche volerlo.
Inoltre i movimenti che compiva erano sciolti, liberi e irrequieti. Proprio come quelli della fiammella di una candela.
-Non sapevo che l’ultimo prescelto avesse scelto di schierarsi con Hojo.- gli riferì la ragazza a malincuore.
Si sentiva colta impreparata e c’era rimasta male, come solitamente farebbe la secchiona della classe.
-Beh, a dirla tutta, sei stata tu ad esserti schierata per ultima.- puntualizzò Seifer.-Ma non è di questo che dobbiamo parlare adesso.- aggiunse interrompendo il discorso.
-Scommetto che devi riferirmi qualcosa.- disse Dorothy con tono timoroso.
-Allora hai vinto.- confermò Seifer con uno dei suoi splendidi sorrisi. Poi proseguì:- Credo che tu voglia combattere ancora giusto?-
Aveva assunto ad un tratto uno sguardo serio che la preoccupò maggiormente.
-Ovvio. Hojo deve pagare a caro prezzo tutto quello che mi ha causato.- rispose con una certa determinazione nello sguardo e nella voce.
Seifer s’accigliò a quella affermazione.
Quella frase aveva smosso in lui un po’ di curiosità: forse tutto quello che aveva scritto nella scheda d’arruolamento circa un anno fa, tutta la sua storia e le sue terribili vicende erano state procurate dal tiranno.
Ripensò a cosa avevano trasmesso i suoi occhi appena li vide.
Sì, c’era anche sofferenza e sicuramente voglia di una vendetta.
-Perciò, dopo la tua guarigione, devi riprendere gli allenamenti.- disse, anche se era scontato.
Provò a distogliere il pensiero della vita disagiata che aveva vissuto la ragazza e proseguì:
-Ora è giusto che ti spieghi un po’ di cose. Essendo solamente noi due i prescelti disposti a combattere per i ribelli, il Gran Consiglio ha ritenuto che debba essere io a seguirti durante i tuoi allenamenti.-
-Tu?- chiese la ragazza con sguardo interrogativo.
Era incredula: non poteva lui, un ragazzo di soli due anni in più di lei, farle da maestro. Era inaccettabile!
-Si, io. Beh a dirla tutta io e anche altre persone… Qui l’allenamento non è come quello che si fa a Bhuck.- disse, quasi per convincere se stesso.
Aveva abbassato lo sguardo riflettendo su chissà che cosa.
-Ma, aspetta. Io sono un po’ nei guai.- gli riferì Dorothy.
Lui alzò immediatamente lo sguardo, di scatto.
Era imbarazzante dover riferirgli la sua attuale situazione economica, ma doveva pur farlo.
-Guai? Che genere di guai, scusa?- si allarmò il ragazzo.
-Beh- incominciò la ragazza abbassando lo sguardo e diventando di nuovo rossa in volto. -Non ho soldi, perciò non posso né procurami da mangiare, né vestiti adeguati. Immaginati una casa poi…-.
Guardò nervosamente il tetto ed era irrequieta con le mani, che si stropicciavano tra di loro.
-Questi sono guai?- chiese Seifer con sguardo sorpreso. Poi aggiunse:-Non ti devi assolutamente preoccupare per queste “sciocchezze”! Vivrai in un appartamento di proprietà dell’accademia. In quello dove viviamo io, Lele e Mia abbiamo una camera libera e l’abbiamo conservata apposta per te! Per i soldi poi… anche quelli li passa l’accademia. Ci trattano abbastanza bene, sai. Sono consapevoli che rischiamo ogni giorno la vita per loro…-
Si era alzato dal posto che occupava accanto a lei e con passi grandi aveva preso a camminare avanti e indietro.
-Ah…- disse un po’ sbalordita la ragazza.
Non sapeva se credergli davvero o considerarla una grande bufala.
Era difficile per lei apprendere che sarebbe stato così facile vivere. Per lei mai nulla era stato semplice.
La vita da mantenuta non l’aveva mai provata però, neanche a Bhuck.
Li lavoravi oltre ad allenarti quotidianamente e con il denaro ricavato dovevi mantenere casa, luce, spazzatura ecc.
-Comunque- proseguì il biondo ricominciando a gesticolare freneticamente e bloccando di colpo il flusso dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni- per ripagare tutto ciò bisogna sostenere otto ore di allenamenti quotidiani dove solo un giorno alla settimana, a tua scelta ovviamente, è di riposo. Queste otto ore si svolgono quattro in classe con dei maestri esperti per ciascuna materia e quattro con un alunno esperto, nel tuo caso, io.- Concluse fermandosi di botto e incrociando il suo sguardo.
-Sono stato chiaro?- chiese poi in seguito, a causa del suo silenzio.
-Cristallino.- rispose la ragazza, massaggiandosi le tempie.
Il mal di testa era tornato, peggio di un trapano avvitatore la tormentava.
-Mmm…- fu il verso di Seifer, nuovamente preoccupato per le condizioni della ragazza.
Le si avvicinò e, scostando i capelli, poggiò una mano sulla sua fronte.
-Scotti- fu l’affermazione del biondo dopo averlo costatato.-E’ meglio che ti rimetti a letto e riposi.- concluse, osservandola con sguardo preoccupato.
Ubbidiente ascoltò il consiglio del ragazzo.
 
Nuovamente accoccolata tra le morbida lenzuola, dopo pochi minuti di silenzio e di riposo che, osservò, con occhio pigro, il biondo che prendeva il borsone e si avviava verso la porta.
-Dove vai?- chiese Dorothy con voce fragile, in un sussurro tenerissimo.
Le aveva dato l’impressione di una bambina piccolissima desiderosa di dormire e fare sogni tranquilli perchè consapevole che padre l’avrebbe vegliata.
-Tornerò tra una mezzoretta.- rispose lui, sorridendo all’immagine tenera che gli attraversò la mente per un attimo.
Poi la rassicurò:- Tranquilla Dorothy. Ormai sei al sicuro.- 
 

 

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5° Capitolo. Wow! ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Ri-eccomiiiiii!!!!! Sono sopravvissuta miracolosamente alle prime lezioni dell’uni, e tra un libro di algebra e uno di geometria, sono riuscita finalmente a completare questo capitolo!!!! Spero che la lunga attesa non vi abbia snervato a tal punto da non leggere più la mia storia… Cmq sia, chiedo umilmente scusa! Dopo di ciò vi informo che non posso più darmi un periodo ben preciso di quando pubblicare, causa studio, ma vi prometto che quando ho tempo farò il più possibile!!!! Dopo di ciò ringrazio tutti coloro che mi continuano a recensire, a quelli che sono stati capaci di aspettare e recensiranno, e anche a quelli che hanno recensito ma non mi seguiranno più. :) al prossimo cap!!!!

Capitolo 5°
Wow!

 
 

- Seifer!!! Seifer insomma svegliati!!!!-
Dorothy bussava con forza dietro l’elegante porta della sua camera, in fine legno di noce. Batteva con le nocche della mano destra, mentre con la sinistra teneva stretta la vita.
- Insomma dobbiamo arrivare tardi???- continuava a gridare da dietro la spessa porta, battendo il piede a terra- Ti ricordo che, prima che inizino i corsi, mi devi far vedere l’istituto!!!!-
Nessuna risposta.
Se ne stava lì, nel soggiorno luminoso, ad aspettare da almeno mezz’ora.
Aveva urlato, bussato, battuto i piedi e stava prendendo seriamente in considerazione l’ipotesi di un tentativo per sfondare la porta.
Era furiosa al tal punto che le guance stavano raggiungendo lo stesso colorito rosso delle morbide onde dei capelli.
 
Conosceva da appena tre settimane quel ragazzo ma non l’aveva mai fatta innervosire tanto, anzi.
Quotidianamente era venuto a trovarla nella clinica, si preoccupava della sua salute, se aveva bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa; certo poteva stare poco a farle compagnia a causa dei continui allenamenti, ma si era reso disponibile di farle la notte. Cosa che non gli permise.
E anche dopo la sua settimana di ricovero si era dimostrato tenero e pieno di attenzioni nei suoi riguardi, fin da subito: le aveva mostrato la casa, le fece visitare la città, l’aveva aiutata a fare shopping e a sistemarsi la camera, l’aveva sempre accompagnata puntualmente alle visite del fisioterapista e si sentiva in colpa se la mattina, quando lui era impegnato per allenarsi, doveva stare a casa da sola. 
Insomma fin’ora era andato tutto liscio come l’olio.
 “Dobbiamo iniziare proprio adesso ad avere problemi?” si chiese, sbuffando.
 
- Ok! Lo hai voluto tu!- disse, tornando all’attacco nell’ennesimo tentativo di svegliarlo.
-Conto fino a tre! Se non ti sarai alzato e avrai aperto la porta, ti arriverà una bella secchiata d’acqua gelata sulla testa!-.
Era davvero determinata a ottenere ciò che voleva: se per svegliare un pigrone di prima generazione, come Seifer, sarebbe servito un secchio d’acqua, un secchio d’acqua avrebbe utilizzato.
Inspirò e:- Uno… - iniziò a contare ad alta voce.
Intanto le sue dita compivano piccoli movimenti rotatori.
Era concentrata e attenta ad ogni minimo movimento che doveva effettuare per quanto silenzioso doveva essere.
- Due…- proseguì a dire ad alta voce, un po’ disattenta.
L’acqua uscì dal rubinetto del cucinino senza far rumore, proprio come desiderava.
La stava passando, gradualmente, dalla fessura al di sopra della porta per tuffarsi con un sonoro scroscio  sul capo del biondino.
Ma – Tre.- disse con uno sbadiglio un Seifer assonnato, aprendo la porta e strofinandosi gli occhi.
Era almeno dieci centimetri più alto di lei e, anche se decisamente più largo e grande di muscolatura, non le incuteva timore e riusciva perfettamente a fulminarlo con gli occhi, in segno di rimprovero, mentre le mani frettolosamente compirono un lieve gesto col polso per far sparire l’acqua fluttuante sulla sua testa.
- Mi spieghi perché devi fare tutto questo manicomio?- continuò il ragazzo un po’ messo a disagio dallo sguardo dei suoi occhi blu. 
Li affascinavano e attraevano come sempre, ma bastava che inclinasse appena le sopracciglia, proprio come in quel momento, per trasmettere saette fatali.
 
Il pigiama che indossava era una specie di polo abbottonata sul davanti e un paio di pantaloni elasticizzati larghi, tutti coordinati di un grazioso celeste pastello d’effetto sul raso lucido.
Con gli occhi a palla, i capelli biondi scombinati e le maniche del pigiama che nascondevano le mani, le dava l’impressione di un bambino di cinque anni formato gigante.
-Te l’ho detto circa quattro volte perché ti dovevi alzare.- rispose furiosa la rossa, tenendo ancora le mani strette alla vita a tal punto da farsi male.
 
Era carina vestita di tutto punto.
I capelli mossi sembravano più sistemati grazie al cerchietto che li tratteneva in parte.
Le arrivavano fin sopra il fondo schiena e rendevano elegante la sua minuta figura.
Indossava una graziosa canottiera tutta bianca, abbastanza semplice, insieme a una comoda tutina, forse un po’ larga, blu con felpa e pantalone in unica tinta.
Ma, per quando le potesse sembrare carina, in quel preciso istante era più irritante dell’ortica.
 
Più Seifer stava davanti alla porta a fissarla come un allocco, più l’ira funesta di Dorothy aumentava.
Dopo tutto lei si era svegliata apposta presto: voleva riuscire a fare tutto senza fretta.
Si era svegliata alle sei in punto, si era lavata, asciugata, cambiata, truccata e pettinata; ma solo appena finì si accorse che il suo “tutor” ancora non era tra i piedi.
Così aveva rimediato in fretta.
 
- Dov’è la colazione?- chiese il biondino, con gli occhi semi chiusi, grattandosi con una mano la testa e con l’altra il sedere ed entrando nel soggiorno luminoso. 
Questo era inondato dai raggi del primo sole che entravano grazie alle finestre che si affacciavano sul parco situato accanto alla casa.
La cucina era arredata tutta in fine legno di noce, come le porte delle camere, dando un clima particolarmente casareccio e antiquato alla stanza.
Le mura di questa erano color panna e al centro vi stava un tavolino rotondo, decorato con una graziosa tovaglia gialla che lo copriva da eventuale sporcizia, e un grazioso centro tavola, formato da un piccolo vaso in ceramica colorata contenente frutta finta di plastica morbida.
In quella settimana Dorothy aveva avuto il piacere di mangiare e cucinare, tra giochi e risate, insieme ai suoi coinquilini; come in una vera famiglia, che non aveva quasi mai avuto.
E stava bene, meglio di come si era mai sentita in tutta la sua tormentata vita.
 
- Oggi toccava a te prepararla- buttò lì. –Ma, dato che il signorino fa tutto con i suoi comodi, ha costretto Lele e Mia a farsela al bar!- lo punzecchiò la rossa, iniziando a gesticolare.
 
Lele e Mia erano loro coinquilini.
Insieme, tutti e quattro, condividevano quel grazioso appartamento di sei stanze.
Ognuno aveva una propria camera, accuratamente arredata, e tutte davano sul soggiorno luminoso.
Seifer e Dorothy avevano le stanze vicine alla sinistra dell’ingresso, mentre Lele e Mia quelle sulla destra.
Era grande e spazioso l’appartamento e di questo non si potevano lamentare.
Ma, se avessero potuto cambiare qualcosa, sicuramente avrebbero aggiunto un bagno.
Ne avevano uno solo e non molto spazioso che, grazie al disordine causato dai maschietti, era sempre caotico.
 
Il più disordinato di tutti era Lele: un ragazzo dai capelli castani e gli occhi scuri che, con le sue graziose guanciotte di ciccia, dava l’impressione di simpatico orsacchiotto formato gigante.
Era leggermente più basso di Seifer e sicuramente il doppio, non di muscoli però, bensì di grasso.  Peccava spesso di gola oltre ad essere un po’ pieno di sé, ma insieme a Mia faceva una bella coppia.
Mia era una ragazza formosa ed eccentrica, dai capelli corti tinti di un fucsia particolarmente acceso, ma che mettevano in risalto gli occhi neri come la notte. Aveva un bel fisico, anche se era difficile da notare sotto l’accozzaglia di colori sotto cui si vestiva, ma che rispecchiavano perfettamente il suo carattere.
In effetti, era solare, simpatica e ironica. Insomma, una pazza scatenata cui non si poteva tenere il muso lungo. 
Anche loro studiavano per essere capaci di difendere la città; solo che Mia era arrivata appena due mesi prima di Dorothy e con il suo elemento, l’elettricità, si era già contraddistinta più del suo ragazzo, che possedeva il suono. 
Erano una coppia formidabile: non facevano altro che battibeccare scherzosamente; una specie di amore-odio che risuonava in tutto l’appartamento ogni cinque minuti.
Dorothy semplicemente li adorava e non riusciva a non ridere di fronte alle loro discussioni.
 
- E tu? Non hai mangiato?- chiese Seifer fermandosi davanti alla porta del bagno.
Voltandosi i suoi occhi azzurro-verdi cercarono quelli di Dorothy.
Non si era ancora spostata dal punto in cui si trovava e teneva ancora le mani strette alla vita, ma era voltata verso di lui.
- Ancora no. – rispose acutamente. – E se credi che debba cucinare io la colazione, ti sbagli di grosso! Oggi è il tuo turno!- nell’ultima frase accentuò e scandì le parole.
Dopo di ciò si avvicinò al tavolo, prese una delle pesanti sedie in legno massiccio che vi stavano ben sistemate e si ci accomodò sopra.
Poi incrociò prima le lunghe gambe, dopo le braccia davanti al petto assumendo una posizione da “sciopero”.
Continuava a guardarlo con il suo sguardo “castigatore” e arricciò appena il naso.
Seifer notò che lo faceva sempre quando era infastidita.
- Uffa, quando sei scorbutica!- disse, mentre si avvicinava alla cucina per prendere i primi utensili per preparare la colazione.
-Sarà, e vedi di sbrigarti che rischiamo di fare tardi.- aggiunse, mantenendo la sua posizione ma guardandosi le unghie.
- Sicura che non vuoi andartene a lavorare per Hojo? Vedi che sei ancora in tempo e, con il caratterino che ti ritrovi, farete scintille!- disse voltandosi appena per guardarla, mentre metteva una padella con un po’ di olio sul fuoco, accennando un sorriso.
Aveva spostato lo sguardo sulla padella quando una mela di plastica lo colpì in testa.
Non riuscì a non sogghignare per quella reazione.
 
- E’ quella!- esclamò entusiasta Seifer indicando un enorme palazzone beige che stava immobile in mezzo ad un elegante e curato prato inglese di fronte a loro.
Un flusso di persone già si avviava all’entrata, ma molte stavano o sedute sui gradini dinanzi o sparsi nel giardino in piedi a chiacchierare con amici e parenti.
Seifer l’acchiappò per un braccio e la trascinò dentro.
 
L’istituto dove si svolgevano i corsi di addestramento era gigantesco: aveva tre piani ciascuno dei quali aveva due ali; quella nord e quella sud.
Ognuna di questa poteva avere circa dieci enormi classi ciascuno e anche di più dove si praticavano i vari tipi di corsi.
Ogni aula era vasta, spaziosa, illuminata ma anche attrezzatissima.
Ovviamente quest’ultima variava secondo l’utilizzo della stanza.
 
Al centro dell’Accademia c’era un piccolo cortile interno chiamato anche “area relax”.
Questa brulicava di allievi ed era graziosamente sistemata.
In un angolo c’era un piccolo chiosco-bar con relativi posti a sedere all’aperto.
Anche qui vi era presente il curato prato inglese, ma al centro del cortile c’era un unico albero, secolare per giunta: quell’ulivo, maestoso e robusto in ogni sua parte, era il segno della speranza e della pace che volevano portare i ribelli nel mondo oscuro creato da Hojo.
Molti ragazzi vi stavano sotto a godere la fresca ombra che i possenti rami e le fragili foglie facevano, magari chiacchierando, studiando, o semplicemente in totale relax.
 
Alle spalle dell’Accademia vi erano presenti vasti cortili esterni, dove si trovavano i vari campi di allenamento per le lezioni di “Elemento”.
 
L’aula magna si trovava a piano terra ed era enorme.
La sua composizione era semplice ma molto elegante: vi era un semplice e piccolo palco tutto in legno massiccio e molte poltrone poste ordinatamente davanti ad esso, tutte di un bel rosso acceso.
-E qui che si svolgono tutte le riunioni importanti tra i superiori e l’esercito- le aveva riferito Seifer.
 
La biblioteca invece si trovava al terzo piano ed anche questa era veramente grandissima. La cupola vetrata che la sovrastava permetteva che in ogni corridoio ci fosse abbastanza luce da poter frugare tra le lunghissime e altissime librerie.
Fu l’unico luogo ad affascinare Dorothy completamente.
Adorava leggere e informarsi su ogni sorta di curiosità e si rammaricava tanto pensare che, le vicende che aveva in serbo per lei la vita, non le avessero permesso di istruirsi per bene.
Sapeva leggere e scrivere perché glielo avevano insegnato all’orfanotrofio, ma si era sempre chiesta, ad esempio, come si creavano le onde nel mare.
A dir la verità non aveva mai visto neanche il mare…
O meglio, si aveva idea di cos’era, aveva visto un’immagine nel suo libro di storia, ma chissà com’era… davvero.
E mille altre curiosità le giravano sempre per la testa ma mai aveva avuto l’opportunità di scoprirle.
   
Al primo piano stava la segreteria, che non ebbe l’opportunità di visitare, dato che era troppo trafficata da insegnanti e segretarie.
 
E infine, allo stesso piano, vi era anche la mensa.
Era la stanza più grande di tutte.
Tavoli lunghi e in legno massiccio erano disposti qua e la; e di fronte all’entrata, proprio all’altra estremità della stanza, stava il self service, chiuso al momento.
 
Girando per l’istituto, Seifer si era dimostrato il perfetto gentiluomo di sempre, ma Dorothy non riuscì a fare a meno di notare che era molto popolare, forse eccessivamente: quasi tutti i ragazzi e le ragazze dell’istituto lo salutavano, entusiaste.
 Chi con un accenno della testa, chi sventolando la mano, chi con un sonoro “Ciao” e chi addirittura si soffermava a baciarlo sulla guancia e voleva iniziare una piccola conversazione, cosa che impedì per il poco tempo che rimaneva per visitare l’enorme istituto.
 
- Wow!- esclamò Dorothy a conclusione del giro.
Aveva la netta sensazione che, se fosse stata senza Seifer, si sarebbe già persa da un pezzo. Poi chiese:
- Ma io come dovrei trovare la classe dove devo seguire il corso?-
Seifer aveva la soluzione pratica già pronta:
- Beh, tutte le classi sono numerate. Vedi in alto a sinistra,- continuò a spiegarle, indicando, nella porta accanto a cui stavano passando, la piccola targhetta numerata- quello è il numero che ha ciascuna classe e qui,- proseguì porgendole un piccolo foglietto bianco con disegnata sopra una tabella- ci sono scritti i numeri delle classi in cui devi andare, con i relativi allenatori e le materie che insegnano. Insomma, è praticamente il tuo orario.-
Era più confusa che persuasa.
Lei, da sola, se ne doveva andare in giro per l’istituto, enorme tra l’altro, con il rischio di perdesi, a cercare numerini sulle porte, rischiando di fare ritardo e contemporaneamente complessarsi su chi era l’allenatore e che materia ci sarebbe stata?
Le chiedeva davvero troppo.
- Capito. – disse giunta a una conclusione.
-Diciamo che per la prima settimana mi accompagnerai tu nelle classi, d’accordo?- facendo occhi da cucciolo e un tenero sorriso.
-Paura di perderti eh?- disse Seifer intuendo il pensiero della ragazza.
Era così tenera…
- Sì. - disse distrattamente lei, abbassando lo sguardo un po’ imbarazzata e osservando la tabella ricevuta poco prima attentamente.
Sorrise appena: adorava quando tentava di nascondere il suo imbarazzo.
- Perché Difesa, Resistenza ed Elemento sono evidenziati?- chiese di botto, per riempire il silenzio creatosi.
La tabella, che si ritrovava tra le sottili dita delle mani, mostrava sei diverse materie; ma soltanto quelle tre erano evidenziate da un giallo fosforescente che risaltava agli occhi.
- Sono gli unici tre corsi che seguiremo insieme. In Armi da fuoco, Armi da taglio e Corpo a corpo dovrai fare a meno di me, anche se relativamente: il pomeriggio avremo sempre le nostre belle quattro ore da passare insieme ad allenarci.- concluse con un sorriso a trentacinque denti.
 Poi continuò:- Queste sono le chiavi del tuo armadietto, che ti mostrerò dopo, – disse porgendo delle piccole chiavi acciaiate con un portachiavi di plastica blu – e quest’ultima tabella sono tutte le armi e i libri che ti servono.-.
Le porse un altro fogliettino scritto fittamente. Concluse:
- Non ti preoccupare per le armi, te le fornisce l’Accademia, ma sarà compito tuo tenerle consacrate.-
- Ok- esclamò Dorothy guardando con perplessità tutti gli oggetti che si ritrovavano per le mani. –E ora cosa si fa?- chiese con espressione interrogativa.
- Ti accompagno in classe dolcezza, tra pochi minuti suona la campana ed hai- sbirciò il fogliettino stropicciato tra le mani sue mani- due ore di Corpo a corpo! Con la Copperfield… Brutto! Meglio che ti fai trovare in sala subito!!!- disse piuttosto allarmato.
- Oh, iniziamo bene.- sbuffò Dorothy, seguendo l’accompagnatore.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6° Capitolo. La Copperfield e il prof. Bicipiti ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Esatto gente!!! Sono riuscita, miracolosamente, a finire il 6° capitolo! ^^
Ma prima di anticiparvi qualcosa, vi pregherei, almeno ai lettori che mi seguono sempre (con tantissima pazienza e grazia divina *.*) di rileggere la fine del cappy precedente…^^
Da quando sono entrati in Accademia ho dovuto aggiungere qualcosina…Ma proprio poco!!! Pardon!!!
Dopo di ciò vi anticipo che non è un granchè; neanche questo purtroppo è venuto bellissimo, il fatto e che sono nella parte noiosa della storia!!! Per fortuna tra non molto c'è un po' di attività!!! :D
Auguro a tutti una buona lettura e, dato che sono nelle vacanze, non solo vi auguro un Natale felice e sereno, ma vi prometto che aggiornerò presto^^ Ancora auguriiiiiii a tutti Kiss :*
P.S. Non mangiate troppi panettoni che fanno ingrassare :P


 Capitolo 6°
La Copperfield e il professor Bicipidi

 
 

Scendendo le scale, Dorothy si sentiva realmente esausta.
Si ritrovava a farsi sorpassare da chiunque, tutti in corsa per fare la fila a mensa.
 “Se non ingerisco subito un boccone, penso che sverrò!” si disse malinconicamente.
 
Le prime quattro ore di allenamenti vari non erano state semplicemente stancanti, ma anche particolarmente stressanti.
Oltretutto, era pienamente convita che il peggio doveva ancora arrivare.
 
Le prime due ore del suo primo giorno di addestramento erano dedicate al corso di Corpo a corpo della professoressa Copperfield: lo scopo era di insegnarle a combattere con arti marziali.
 
Era arrivata con circa dieci minuti di anticipo: la lezione si sarebbe svolta in un’enorme classe del terzo piano che era stata in grado di trovare solo grazie all’aiuto Seifer, che l’aveva gentilmente accompagnata.
Questa era illuminata dal sole, che entrava con caldi raggi dalle grandi finestre che riempivano le pareti. Per il resto, l’aula, era completamente spoglia da qualsiasi attrezzo: niente arredamento, ne strani armi; proprio nulla.
Dopo che si salutarono sulla soglia della porta, si trovò ad affrontare una classe di ben venti persone che chiacchieravano tra di loro, discutendo, in gruppetti divisi, su argomenti vari.
Nessuno inizialmente notò la sua presenza, ma, subito dopo che posò il borsone nero tra gli altri, si ritrovò a chiacchierare con due simpatiche gemelle.
 
Lara e Vera erano perfettamente identiche: avevano gli stessi capelli lunghi, sottili e liscissimi, color oro brillante. Entrambe avevano gli occhi grandi e verdi come smeraldi; ed entrambe possedevano un fisico longilineo, agile e sottile.
Si erano presentate all’unisono, confondendola.
-Scusaci.- le dissero subito dopo.-Purtroppo ci capita spesso. I nostri elementi sono così legati, che lo sono anche i nostri pensieri.- si giustificarono.
Dorothy non comprese subito, anzi le trovò alquanto strane.
-Comunque- proseguì Lara?- Tu dovresti essere Dorothy, giusto?-
-Leggete anche nel pensiero altrui?- chiese la rossa con sarcasmo.
All’unisono le gemelle risero.
-No- disse una.
-Decisamente no.- continuò l’altra.
-Chissà se esiste un elemento del genere però!- esclamarono di nuovo insieme.
Dorothy continuò ad osservarle, perplessa.
-Sappiamo chi sei e perché- incominciò Vera?
-perché hai già una certa fama qui!- la interruppe la sorella;
-Insomma alla fine sei una prescelta, - proseguì la gemella;
-una dei quattro, - la re-interruppe l’altra gemella;
-è una cosa rara!- continuò l’altra,
-Favolosa direi!- riprese quella precedente.
Dorothy rimase a guardarle, senza interromperle.
Appena terminarono, era spaventata.
-Beh, non sapevo di questa mia fama. E comunque non è favoloso avere il mio elemento… Piuttosto voi? Mi avete detto che sono collegati?-
-Si!- disse entusiasta quella che credeva fosse Vera.
- Lara ha l’elemento del buio!- disse quella che evidentemente pensava, erroneamente, fosse Lara.
-E Vera ha quella della luce!- disse la vera Lara.
Dorothy in quell’istante capì il perché di quella sintonia.
-Oh… Ma è bellissimo!!! Avete due elementi opposti!- esclamò entusiasta, dando il via a una discussione sul loro rapporto tra sorelle alquanto “strano”.
 
 Tutte e tre si trovarono subito simpatiche, ma purtroppo Dorothy non fece lo stesso effetto a tutta la classe.
Infatti, dopo che le gemelle erano venute ad accogliere la nuova arrivata, tutto il resto della classe non aveva esitato e presentarsi e qualcuno anche a scambiare due chiacchiere con lei.
 
Tutti erano interessati al nuovo “fenomeno da baraccone”, tranne che per un piccolo gruppo di tre ragazze che rimasero in disparte a sussurrare e schiamazzare tra di loro.
 Dorothy non vi fece molto caso all’inizio, ma il sentirsi continuamente osservata da loro aveva smosso in lei una certa curiosità.
Così non riuscì a far a meno di chiedere: -Chi sono quelle tre?-.
- Beatrice, – disse Lara, uno stupido accento francese, indicando la ragazza dai capelli lunghi, neri e mossi, dal fisico formoso e l’atteggiamento ostile.
- e le sue stupide ancelle.- proseguì Vera, indicando due ragazze messe di spalle.
Una portava capelli corti, color platino, ed era messa di spalle a coprire la sua amichetta. Aveva la muscolatura sviluppata (esageratamente!), che intimorì non poco la rossa.
L’altra invece aveva dei capelli castani lisci ed era bassa e formosa anche lei.
- Sono delle vipere, soprattutto Beatrice.- avevano aggiunto poi in coro le gemelle - Più lontano ci si sta, meglio ci si trova!-.
 
A chiudere il discorso “smorfiose” fu l’arrivo della professoressa.
Si presentò di fronte hai loro occhi una donna di mezza età, con i capelli brizzolati tra il nero e il grigio, legati in un tuppè.
Possedeva un portamento elegante, un fisico scheletrico e occhi grigi severissimi.
Neanche il tempo di arrivare si dette, che iniziò subito la lunga e tremenda lezione.
 
Questa iniziò con uno scontro a due, per vedere il livello di preparazione che avevano gli alunni.
Dorothy tremava al pensiero di doversi scontrare con qualcuno, principalmente per due motivi.
Non aveva uno scontro corpo a corpo con una persona da quando era  di corsa arrivata a Warmin. Da allora non si era più allenata.
Ma a intimorirla maggiormente era la reazione che avrebbe potuto avere la spalla a uno sforzo del genere. Rischiava di apparire più fragile di quando fosse per uno stupido incidente.
 
Non tutti i suoi colleghi conoscevano come muoversi in un attacco frontale, quantomeno come difendersi, perché dopotutto, quasi nessuno aveva avuto esperienza nel campo.
Dorothy, grazie a ciò che aveva imparato a Bhuck, si distinse dal resto della classe.
Il combattimento, contro Anthony, fu lungo e faticoso. Dopotutto era un ragazzone alto e muscoloso il doppio di quando lo fosse lei, però poco agile e poco veloce.
Quindi, anche se la spalla si lamentava di tanto in tanto, batterlo era stato facile.
Tornata a posto la professoressa la elogiò, e non riuscì a non notare uno sguardo di ammirazione nelle gemelle e uno d’invidia nelle “smorfiose”.
 
La lezione proseguì con degli esercizi in coppia.  
La Copperfield impiegò mezzoretta a spiegare il calcio che dovevano eseguire cinquanta volte alternando le gambe sul compagno; dopo di ciò incominciarono ad esercitarsi.
 
Uscita da quelle due ore di prendere ed essere presa a calci da Anthony, non si sentiva più le tibie: sulla pelle erano spuntati, gonfi e violacei, due enormi lividi che il solo toccarli provocava un fortissimo dolore.
“Unica cura, ghiaccio e riposo.” si disse.
 
Peccato che l’idea del riposo fosse abbastanza remota.
 
La lezione seguente fu due ore di Armi da fuoco con l’accattivante professor Christopher Mescal, detto anche “prof. bicipiti”.
Infatti, chissà come mai, le lezioni di armi da fuoco erano le preferite dalle ragazze: non solo perché l’unica fatica era di prendere di mira l’omino in plastica che si trovavano di fronte, a circa venti metri di distanza per incominciare, e sparargli a raffica con cinquanta mila tipi di pistole e mitra diversi; ma anche perché la vista del bel professore, era fonte di particolari pensieri per il sesso femminile.
Il fisico scolpito del professore lasciava particolarmente adirati i ragazzi, gelosi dell’effetto che faceva sulle donne, e affascinate le ragazze che si perdevano nella sua estrema bellezza.
 
Entrate in classe, anche Dorothy e le gemelle, che l’avevano accompagnata liquidando Seifer, caddero sotto l’effetto del professor “bicipiti”: il suo sguardo era di un nero intenso e profondo, che neanche l’inchiostro di milioni di libri poteva dar significati ad emozioni tanto belle che mostravano, i capelli corvini stavano scombinati e ricci in maniera cespugliosa sul capo.
La pelle del fisico scultorio era dorata, effetto di una vita vissuta sotto il sole cocente a eseguire lavori forzati nelle prigioni di Hojo, da cui era riuscito a scappare con le sue sole forze; o almeno così si diceva in giro.
 
-Veramente fantastico.- era l’unica cosa che le ragazze riuscivano a dirsi per tutte le due ore.
Durate la lezione, monotona dopotutto, il professore passò accanto a ciascun allievo per sistemare la postura e la mira: quante ragazze arrossirono al suo avvicinarsi, inclusa Dorothy, che notò sulla sua pelle un gradevole profumo di muschio bianco, uno dei suoi profumi preferiti.
 
Per il resto, Dorothy era fiera di essere riuscita a far saltare all’aria circa quindici volte la testa al suo omino e di averlo ucciso colpendolo dritto al cuore circa venti.
 
Di fronte alla porta spalancata della mensa, ora aperta, l’aspettava Seifer, che a braccia conserte e battendo un piede per terra, la guardava severo da lontano.
Accanto c’erano Lele e Mia che chiacchieravano rumorosamente con Nicolas.
 
Le gemelle accompagnarono Dorothy all’entrata della mensa, proprio come le aveva chiesto: continuava ad avere la tremenda paura di perdersi.
 
- Cos’ha Seifer?- chiese curiosa Lara notando la postura assunta dal ragazzo e dalle sopracciglia inarcate che rendevano severo quello sguardo sincero.
 
Le gemelle lo conoscevano per fama: infatti, Dorothy aveva scoperto che il suo coinquilino era molto popolare non solo per l’elemento che madre natura gli aveva donato, ma anche per quando donnaiolo fosse!
A primo impatto era rimasta disgustata. Certo aveva capito il perché di tanti saluti e tante chiacchiere al suo ingresso all’Accademia, ma non gli dava questa impressione, quindi la infastidiva.
Dopo un po’ se ne fece una ragione: quale donna non si sarebbe vantata di essere stata con uno dei prescelti dell’epoca? Tra l’altro famoso per battaglie epiche, forze fuori dal comune e cretinate varie?
Così lo aveva giustificato.
 
- Non lo so… Ma sembra arrabbiato…- rispose Dorothy incerta, scendendo gli ultimi gradini.
Tutte e tre le ragazze si avviarono con una camminata calma verso il gruppetto, che le aspettava sulla soglia della porta.
- Ora arrivate? E’ circa dieci minuti che vi aspettiamo!- disse Seifer appena le ragazze furono abbastanza vicine per sentire il suo rimprovero.
- Cosa vuoi?- rispose diretta la rossa- Il professore, come anche la Copperfield, mi ha trattenuto un minuto. E Lara e Vera gentilmente mi hanno aspettato!- giustificando il suo ritardo.
Seifer la osservò attentamente negli occhi.
Erano così blu, intensi, profondi… E sotto la sua indagine non esitava neanche un attimo.
-Per questa volta ti perdono,- rispose infine il biondo- ma guai a te se domani non arrivi in orario!- gli disse scherzando cingendola con un braccio le spalle e avviandosi a in mensa.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7° Capitolo. Madame Cortes ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Buenas Dias a todos!!! >.< E  già, come promesso, eccovi il 7° Capitolo!!! E un po’ lunghetto ma iniziamo a conoscere meglio la protagonista ^^!!! =) Dopo di ciò non mi resta che augurarvi un Felicissimo Anno Nuovo e vi consiglio di leggerlo in fretta perché non passerà molto tempo per pubblicare l’ottavo capitolo che è già pronto xP Sisi… Sono moooooolto legati tra loro!!!! In realtà lo volevo fare tutto unico… solo che poi sembrava non finisse mai! :D Quindi non vi preoccupate se il finale è un po’ sospeso!!! Dopo di che ringrazio Jo che è sempre il primo (e post’ora l’unico D: ) a recensire!!!!
Buona lettura Ioly :3:3

Capitolo 7°
Madame Cortes

 
 
“Ecco cosa ci voleva …” pensò Dorothy, sotto l’acqua calda che le batteva sulle membra stanche del corpo.
Era da ore sotto la doccia e il suo corpo si ribellava all’idea di abbandonare la piacevole sensazione che l’avvolgeva.
Il calore la aiutava a rilassare i muscoli tesi e indolenziti mentre, il profumo del bagno schiuma ai frutti di bosco, alleviava il mal di testa che continuava a tartassarla.
 
La mattinata che aveva trascorso era stata abbastanza pesante e le aveva richiesto un enorme sforzo fisico.
Era fuori forma: due mesi di fermo le avevano tolto davvero tanto. E Seifer se n’era accorto.
La vedeva più pallida del solito, tutta dolorante e a tratti stringeva forte la spalla.
Forse lo voleva nascondere, ma sapeva che quest’ultima risentiva dell’eccessivo sforzo: la ferita era stata più grave di quando lei stessa pensasse e ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi agli acciacchi di vecchi traumi come quello.
Così, un po’ leggendole nel pensiero, subito dopo pranzo avevano salutato tutti, e tirandola per un braccio, l’aveva trascinata a casa.
-Sei esausta…- le aveva detto strada facendo –Non te lo propongo nemmeno di fare l’allenamento pomeridiano. Quello lo inizieremo la settimana prossima.- aggiunse.
 
Si dette l’ultima sciacquata.
Passò le mani tra i capelli puliti ed eliminò gli ultimi residui di sapone; poi chiuse l’acqua e, a malincuore, uscì avvolgendosi nell’accappatoio.
 
Il piccolo bagno aveva la doccia nascosta in un angolino dietro la porta, con accanto il lavandino sovrastato da uno piccolo specchio a muro.
Era caotico e molto disordinato: asciugamani e scarpe erano sparsi per terra, le mensole straripavano di creme e prodotti per l’igiene personale, mentre il lavabo era spesso sporco di dentifricio e la carta igienica srotolata sul pavimento.
Dorothy odiava quel disordine, ma per quanto lei e Mia s’impegnassero a sistemarlo, il sesso maschile aveva la meglio.
 
Ignorando quel disastro che si ritrovava per bagno, si avvicinò allo specchio appannato, a causa dell’acqua calda con cui si era lavata.
Stese il braccio con il palmo rivolto verso specchio e le bastò un pensiero per asciugarlo.
 
Assorbire il suo elemento così per lei era solito. Lo faceva spesso e, quel poco che assorbiva, era capace di trasformarlo in un minimo di energia.
Le sembrava ieri quando la sua mamma la rimproverava perché assorbiva metà dell’acqua con cui aveva riempito la vasca.
Era un dispetto che le faceva spesso solo per vederla diventare rossa in viso mentre agitava il dito esortandola di finirla. Era bellissima …
Distolse il pensiero.
E con la rabbia nel cuore sapeva che invece c’erano persone che quando la osservavano rimanevano stupiti da questi semplici “trucchi”.
Odiava quella reazione.
 
Si osservò attentamente allo specchio: il riflesso mostrava la pelle rosea del suo viso, un po’ arrossata sugli zigomi a causa del caldo.
Gli occhi blu, invece, erano solo più socchiusi dalla stanchezza e leggermente arrossati.
Le labbra sottili erano di un rosa appena più scuro della sua pelle e i capelli mossi, sotto l’effetto dell’acqua, erano perfettamente lisci e di un rossopiù intenso del solito.
E mentre, a fatica, si pettinava, voltò la testa prima da un lato e poi dall’altro: sui lineamenti sottili ed eleganti notò che non aveva macchie sulla pelle, né nei. Era perfettamente liscia e morbida.
Pregio ereditato da mamma Adelaide.
 
Posò la spazzola e si allontanò.
 
Si trovava diversa, ecco cosa non andava.
Non si era ancora abituata alla sua visione ma era lì.
Una cicatrice appariva tra la spalla e il collo, di medie dimensioni e leggermente arrossata.
Per l’ennesima volta a guardarla le venne un brivido lungo la schiena.
Aveva paura perfino di toccarla.
Si morse appena l’angolo della bocca.
 
“Sei una stupida” si disse.
Come poteva credere che da un giorno all’altro quel segno sarebbe sparito nel nulla; come poteva credere che un giorno avrebbe dimenticato come se lo era procurato.
 
… Uno sparo.
Un dolore atroce coinvolse la sua spalla sinistra.
Il comandante del gruppo aveva un asso nella manica e lo aveva appena utilizzato.
Dorothy, appena subì il colpo, rallentò.
Dal foro che trafiggeva la spalla, proprio dove il proiettile l’aveva perforata, un fiume di sangue rosso e denso fuoriusciva senza sosta.
La stringeva ma inutilmente perchè all’improvviso si sentì debole, senza forze.
Avrebbe tanto voluto sdraiarsi a terra e morire lì, sotto la pioggia che le batteva sul viso.
Ma non poteva arrendersi, non poteva fermarsi ...
 
E non si era fermata.
Se era li, a guardarsi allo specchio, era grazie alla sua forza di volontà e alla lucidità con cui lottò fino alla fine.
Ma doveva comunque rassegnarsi: quella cicatrice era lì per ricordarle la vita che aveva scelto, o peggio, che era stata costretta a scegliere.
 
Abbassò lo sguardo, in preda ai ricordi.
 
Provava disgusto per se stessa: era un mostro per tutti quelli che aveva ucciso e avrebbe ucciso, un mostro per i segni che il corpo le avrebbe mostrato per farla sentire in colpa.
E già sapeva quante lacrime avrebbe versato ogni volta che ci avesse pensato.
 
La coprì, nel tentativo di allontanare i malvagi pensieri, e …
 
- Insomma hai finito!- disse spalancando la porta del bagno, Seifer.
Dorothy spaventata, si strinse addosso l’accappatoio, che le stava abbastanza largo: le lasciava le spalle di fuori ed era costretta a stringere con le mani le giunture davanti al petto onde evitare spiacevoli imbarazzi.
- Ti sembra normale entrare nel bagno così di botto mentre io mi sto facendo la doccia?- lo rimproverò severa.
-E a te sembra normale tirati due ore per lavarti?- rispose furioso – Insomma, anch’io vorrei lavarmi!!!!- aggiunse gesticolando vorticosamente.
-Scusa, ma avevo proprio bisogno di una bella doccia rilassante. - provò a giustificarsi colta da improvvisi sensi di colpa.
-Anche io ne ho bisogno!!!- le disse il ragazzo, premendo una mano sul petto.
Abbassò lo sguardo, imbronciata.
- Mi dai il tempo di asciugarmi?- gli chiese gentilmente Dorothy, mentre tentava con le mani di coprirsi le spalle con l’accappatoio.
Seifer la guardò prima furioso, poi scettico.
-Vedi che lo so, che se tu vuoi, ti puoi asciugare in cinque secondi. - la cantilenò, poggiando la spalla sulla soglia dalla porta e incrociando le braccia sul petto.
Era una posizione che Seifer assumeva spesso.
-E se io non volessi asciugarmi in cinque secondi?- lo provocò stringendo a sé ancor di più l’accappatoio.
- Ti asciugo io! Semplice no!- le rispose con fare un po’ malizioso, ricominciando a gesticolare, così perdendo la posizione iniziale.
- E magari ti bruciacchio un pochino!!!- aggiunse scherzosamente.
- E va bene!- cedette alla fine la rossa.
Sbuffò, alzò la mano all’altezza della spalla e roteò il polso, mettendo la mano a coppa verso l’alto.
I pochi secondi, tutta l’acqua che si ritrovava addosso al corpo e assorbita dai suoi capelli si ritrovò a forma di una piccola sfera sulla mano; mentre lei era completamente asciutta.
Roteava vorticosamente e non dava assolutamente l’impressione che fosse solida.
La osservò compiaciuta, la fece rimbalzare due volte e poi sparì.
-Contento?- chiese, sfottendolo.
-Si molto.- rispose secco il biondo. - E ora fuori!- aggiunse indicando severo il soggiorno.
Dorothy sbuffò ancora una volta e si avviò verso la porta.
Passandogli accanto, gli dedicò una graziosa linguaccia.
-Non mi disturbare per almeno due ore!- le riferì, chiudendo la porta del bagno in maniera alquanto brusca.
- Non ne avevo l’intenzione!- gli rispose immediatamente.
 
“Antipatico” fu l’unica parola che le venne per descriverlo prima di entrare nella sua camera.
 
“Antipatica” fu quella che pensò Seifer, iniziandosi a spogliare, per entrare nella doccia.
 
Aprì la porta di legno di noce, che conduceva alla sua stanza; a causa della stanchezza le sembrava pesantissima.
La sua camera era bellissima, soprattutto quando la inondavano i raggi focosi del sole di quel pieno pomeriggio estivo.
 
Le mura erano bianche; un bianco candido e puro che il primo sole, al suo risveglio, la faceva sentire in paradiso.
 
Adorava quella sensazione: rendeva quella stanza l’unico posto, al mondo, dove poteva rifugiarsi e sentirsi al sicuro.
Sapeva che, li dentro, poteva perdersi nei suoi pensieri senza che nessuno la venisse a cercare; poteva godere della solitudine che spesso la vita le aveva vietato.
 
Il pavimento, invece, era formato da mattonelle grandi in ceramica azzurra, che splendeva e profumava dalle pulizie, fatte fino al giorno primo.
Aveva scelto lei stessa come arredare la sua camera e l’aveva sistemata proprio come l’avrebbe sempre voluta.
E pensare che prima non possedeva neanche una casa …
 
Come si stava scomodi nell’appartamento della signora Cortes.
Era costituita solo da tre stanze, tra l’altro molto piccole e poco arredate.
La ricordava ancora alla perfezione: la porta di entrata era nel soggiorno, la stanza più grande dell’appartamento, ed era arredato solo con un tavolino rotondo e traballante con due sedie intorno, tutto di un legno così vecchio che era buono solo per bruciarlo.
Sempre nel soggiorno c’era una cucina malandata, per questo risiedeva anche una puzza di fritto e pesce che provocava la nausea.
E intanto la prima volta che lo aveva visto le era sembrata magnifica.
 
Era cresciuta in un orfanotrofio, dove l’unica sala da pranzo conteneva una cinquantina di ragazzi di età diverse e cibo disgustoso.
La scoperta di come si stava comodi a mangiare in due in un gigantesco tavolo, l’aveva entusiasmata.
 
In quel piccolo e buio soggiorno, aveva fatto i suoi primi esperimenti di cucina, riuscendo per la gran parte del tempo solo ad appiccare piccoli incendi o a far bruciacchiare qualche vivanda prima commestibile.
Ma si divertiva a impiastricciarsi le mani imparando qualcosa di nuovo.
E la signora Cortes l’appoggiava sempre, in qualsiasi “esperimento” si volesse cimentare.
 
Nadì, così era il suo nome, le era sempre sembrata una buona e cara persona: possedeva degli occhi grandi e verdi come due smeraldi rarissimi, i capelli lunghi e grigi sempre legati in una coda disordinatamente.
Aveva la gobba, le mancava qualche dente e la pelle le cadeva dal viso, dalle mani, e da qualsiasi altra parte del corpo molto rugosa; ma nei suoi tempi d’oro era davvero una ragazza bellissima.
Era stata sempre dolcissima, e da quando l’aveva adottata dall’orfanotrofio, non le aveva fatto mancare nulla.
Nel tempo che era stata con lei, aveva sempre sognato di passare tutta la vita con una così graziosa nonnetta.
Anche quella volta si sbagliava.
 
Alla destra del soggiorno c’era la stanza da letto: al centro della camera c’era un letto a due piazze senza rete, buttato per terra in mezzo alla polvere e abbastanza consumato, dove lei e Nadì dormivano insieme.
 
Agli inizi dormire insieme alla signora Cortes le era sembrato strano; oltretutto in orfanotrofio, anche se condivideva la stanza con tutte le ragazze, non aveva mai condiviso il letto con qualcuno, il che la imbarazzava.
Le servirono un paio di mesi per adeguarsi alla nuova situazione.
 
Di fronde al letto c’era situato una “specie di armadio” dove non aveva mai osato mettere naso.
Aveva sempre preferito tenere il suo guardaroba in un borsone e aveva sempre pensato di aver fatto la cosa giusta.
Solo una volta le era capitato di trovarlo semi-aperto e, sbirciando all’interno, aveva notato solo vestiti neri, quelli che usualmente indossava Madame Cortes, e una forte, fortissima puzza di ammuffito.
 
Infine, alla sinistra del soggiorno, c’era il bagno, che conteneva solo la tazza del water e una doccia senza tendina con un solo foro da scarico sul pavimento; tra l’altro quest’ultimo s’intasava spesso, provocando un allagamento nella stanza, che spesso coinvolgeva anche il soggiorno.
 
Col passare del tempo iniziò a odiare vivere in quell’appartamento ripugnate e, per quando provasse a pulirlo e a renderlo decente, non ci riusciva mai.
 
Ma, per fortuna, il destino aveva percorso la sua strada e nella sua nuova casa tutto era completamente diverso.
Non solo ogni stanza era molto grande, luminosa e ben arredata; ma anche il fatto stesso che aveva un luogo dove nascondersi dagli occhi e dalle orecchie di qualcun altro, la faceva sentire bene.
 
Aveva sistemato la sua stanza con i colori e lo stile che desiderava; e questo la faceva stare ancora meglio, dato che rispecchiavano le sue sensazioni e la forma del suo animo.
 
Il suo letto a due piazze, ricoperto da cuscini merlettati di raso, era sistemato di fronte alla porta d’ingresso.
Le lenzuola che lo ricoprivano, come i cuscini, erano azzurre e bianche, e s’intonavano perfettamente con tutto l’ambiente.
 
Dormire in quel letto, le era sembrato come dormire su una soffice nuvola gigantesca.
E, per la prima volta, forse in tutta la sua vita, il suo non era un sonno leggero e allerta, nell’attesa di un attacco, ma pesante e tranquillo, sicura che non le sarebbe successo nulla.
 
Accanto al letto c’erano due comodini azzurri, di color pastello.
Su di uno c’era una piccola lampada da tavolo; sull’altro invece c’era una graziosa sveglia, regalo gentilissimo di Seifer, per il suo arrivo.
 -Ti servirà, vedrai.- le aveva detto, anche se fino ad ora non l’aveva usata.
 
Alla sua destra gran parte della parete era occupata da un armadio intonato con i comodini, che Dorothy aveva trovato grande e spazioso.
Aveva portato solo con pochi vestiti che con sé e ancora doveva fare un po’ di shopping dato che ne era a corto.
Di fronte ad esso, nella parete sinistra, sotto la grande finestra che la occupava per metà e ornata da splendide tende azzurre, vi stava la graziosa e spaziosa scrivania azzurra, intonata anch’essa con il resto dell’arredo.
Ancora questa era completamente vuota, a parte una piccola lampada da lettura.
 
Un po’ ovunque c’erano delle mensole ancora vuote.
“Ben presto le riempirò” si promise quando osservò la stanza completata.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8°Capitolo. Chad. Chad Fitheberg. Chad Fred Fitheberg. ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
A “qualcuno” (Jo xP) avevo promesso di pubblicare presto l’ottavo capitolo e  *Rullo di tamburi* l’ottavo capitolo è qui!!!! Modestamente credo che sia un dei meglio riusciti (se così in itagliano si può dire xP); forse perché c’è la descrizione di Seifer… ^^
Ma non voglio anticiparvi nulla!!!! Dovete essere voi a dirmi se ho ragione o no :D
Dopo di ciò vi auguro, per l’ottava volta, buona lettura e vi prometto che presto pubblico il nono capitolo^^ (anche perché come sono “ispirata” in questo periodo mai in tutta la mia vita xP) Bye Bye
Ioly :3



Capitolo 8°
Chad. Chad Fitheberg. Chad Fred Fitheberg.

 
 

Dopo essere entrata nella sua adorata stanza, aprì la finestra per far circolare un po’ d’aria: l’afa estiva di quelle giornate le rendeva calde e “appiccicose”.
 
Odiava l’estate, l’aveva sempre disprezzata come stagione.
Il caldo umido, l’aria che manca, il doversi scoprire per stare freschi; lo trovava irritante.
Preferiva le raffiche di vento freddo, le precipitazioni abbondanti e la neve gelida dell’inverno.
Adorava i maglioni con cui si riparava dal gelo e le cioccolate calde che preparava per scaldarsi.
Amava restare alla finestra ad osservare la pioggia e la neve che danzavano, e spesso faceva la pazzia di uscire senza ombrello solo per sentirle sulla sua pelle mentre si coccolava col profumo della terra impregnata d’acqua.
 
Si tolse l’accappatoio, che poggiò accuratamente sul letto, e aprì uno dei cassetti del comodino.
All’interno, ordinata e colorata, c’era la sua biancheria intima.
Scrutò con attenzione e scelse di mettere un completino di pizzo, che indossò immediatamente.
 
Non riusciva a stare nuda più di un minuto solo per due motivi: primo, il più banale, perché non si poteva chiudere a chiave la porta, dato che la serratura era un po’ difettosa, e temeva che entrasse qualcuno all’improvviso.
 Secondo, non si apprezzava, fisicamente parlando.
 
Le spalle strette e leggermente curve erano il simbolo della sua timidezza iniziale e del suo non accettarsi.
Le braccia erano magre con pochi muscoli, i polsi stretti e le mani dalle dita lunghe e sottili, le unghie tutte mangiate e rovinate dal nervosismo.
Il seno, era piccolo e roseo, e malapena riempiva una terza misura.
La pancia completamente piatta, la vita stretta e i fianchi inesistenti.
Il suo sedere lo trovava minuscolo, anche se rotondo.
Il bacino piccolo, da cui partivano le lunghe gambe, magre e sottili anch’esse.
 
Odiava essere così esile, le dava un’aria fragile e non coraggiosa e forte come desiderava apparire.
Desiderava fianchi rotondi, un abbondante seno e forse un po’ più di sedere, per sembrare sexy o semplicemente sensuale.
Avrebbe accettato anche essere leggermente più robusta e non sembrare uno stecchino, come invece si considerava.
Che cosa avrebbe pensato, durante una battaglia, un guerriero che se la ritrovava ad affrontarla?
E quando si sarebbe messa in posizione per iniziare il combattimento?
Sarebbe scoppiato a ridere, forse.
 
Aveva provato a mettere su qualche chilo, ma senza successo.
L’anno precedente si era sforzata per quasi un mese di mangiare qualsiasi schifezza a quantità industriale, ma la bilancia non voleva sentirne di spostare la sua lancetta.
Restava solo la viva speranza che l’allenamento e gli esercizi fisici che avrebbe eseguito in futuro la aiutassero ad aumentare la sua muscolatura.
 
Dopo aver indossato con cura il completino si affrettò a prendere dall’armadio il prendisole azzurrino che indossava per restare in casa.
Era semplicissimo, nessuna decorazione, né fantasia.
Lo indossò in un attimo.
Poi si riavvicinò al letto per prendere l’accappatoio e si avviò verso il bagno per metterlo al suo posto.
Teneva a mantenere le sue cose e l’intera casa ordinata, anche se Seifer e Lele glielo impedivano spesso e volentieri.
 
Il loro disordine invadeva non solo il bagno ma metà della casa, mentre Dorothy e Mia erano le uniche a rassettare il tutto.
-Perché scombinate tutto?!?- le rimproveravano ogni qual volta che non riuscivano a trovare qualcosa che era fuori posto.
Peccato che vestiti sporchi a terra, magliette appese nelle maniglie della porta e calzini sporchi sul tavolo non fosse il massimo dell’ordine ed era spesso questione di battibecchi nel piccolo appartamento.
“Maniache dell’ordine!” le chiamavano.
“Puzzoni!” ribattevano.
 
Appena aprì la porta, gli sbucò davanti, così all’improvviso, l’essere che al momento lo trovava il più fastidioso del mondo.
Un Seifer mezzo nudo era lì che la aspettava.
-Ma sei pazzo?- esclamò la ragazza colta di sorpresa.
 
Il biondo era poggiato con la spalla destra sulla soglia della porta, come al solito.
La squadrò dalla testa ai piedi molto attentamente, prima di riposare lo sguardo sui suoi occhi blu e chiedere: -Perché scusa?-
-Ah, pensi che sia normale farsi trovare così davanti la porta della mia camera?- chiese bruscamente la ragazza.
Gesticolava in preda all’imbarazzo, mentre le guance prendevano colore gradualmente.
Seifer accennò un sorriso cambiando posizione.
 
I capelli biondi profumavano ai fiori di lavanda e stavano ancora bagnati e scompigliati sulla testa.
Il viso dai lineamenti eleganti era leggermente più roseo per l’ambiente caldo che aveva abbandonato e gli occhi leggermente lucidi e arrossati.
Le larghe spalle, nude e umide, insieme alle braccia possenti e il petto, dove scolpiti c’erano muscoli sviluppati dai frequenti allenamenti, brillavano invitanti sotto le luci del pomeriggio.
Sulla pelle calda e profumata, una brillante goccia d’acqua attirò il suo sguardo.
Questa era partita dalla giuntura dei capelli sopra la tempia e pian piano scivolava sul bel fisico di lui, seguendo i contorni perfetti fino all’addome, dove fu assorbita dalla tovaglia che copriva il resto del corpo fin sopra le ginocchia.
 
Dorothy non si fermava spesso ad osservare la fisicità dei ragazzi e mai ad osservare quella di Seifer, almeno non fino ad adesso.
Nel mese trascorso insieme avevano passato il loro tempo a sistemare la sua camera e visitare la città.
E lei, un po’ costringendosi, aveva visto Seifer sempre come un amico che doveva rimanere tale o come un fratello maggiore, conoscendosi meglio in un prossimo futuro.
Ma quell’occasione non l’aiutava per niente.
Non era riuscita a “non guardare” il dio greco che si era presentato davanti e si era persa ad osservare i muscoli umidi, caldi e profumati che possedeva, perdendo il controllo e imbarazzandosi da morire.
Certo, era una provocazione bella e buona; ma, dopo tutto era da tempo che non toccava i forti muscoli di un uomo virile.
Era da tempo che morbide e calde labbra non toccavano le sue.
Era da tempo che non  passava una notte tra le coccole e i giochi di una tenera coppia.
 
Chad. Chad Fitheberg. Chad Fred Fitheberg.
Come avrebbe mai potuto scordare il suo nome.
La sua prima cotta.
Il suo primo amore.
Il suo primo ragazzo.
Il suo unico ragazzo.
Era inverno e fuori nevicava a fiotti.
Dorothy aveva appena sedici anni.
Non aveva amici, non andava a scuola, ma aiutava Madame Cortes nella sua lurida locanda.
L’aveva adottata da poco e un mestiere glielo doveva pur insegnare, così avvolta nel suo maglione preferito, nero dal collo così alto che le nascondeva il viso fin sotto gli occhi, stava dietro il bancone a lavare i bicchieri con l’acqua congelata e a servire quei pochi clienti che venivano al locale.
Non era solito per lei lavorare alla locanda: in primo luogo perché aveva poca esperienza, e le gaffe erano la sua specialità; inoltre lo trovava un luogo squallido, pieno di brutta gente e persone losche.
Purtroppo però, dopo la brutta esperienza con il barista precedente, che rubava dalla cassa i pochi soldi che la proprietaria riusciva a guadagnare, Nadì faceva fatica a fidarsi di qualcun altro.
Questione di tempo, lo sapeva bene.
Sapeva che tenendola a lavorare li, il suo locale avrebbe rischiato un attacco e le sarebbe costato troppo. Almeno così aveva sempre creduto, ma quella era un'altra storia.
Comunque le serviva solo per il tempo che avrebbe impiegato nel trovare un altro ragazzo e poi sarebbe ritornata alla sua “solitudine casalinga”.
Si godeva a pieno i giorni con cui poteva conversare con altre persone, anche se erano pazzi fuori di testa, ubriaconi impregnati d’alcol e donne dai facili gusti che le davano davvero cattivi consigli.
Passò circa una settimana a lavorare dietro il bancone della locanda e poi Nadì trovò un altro ragazzo.
Chad Fred Fitheberg era un ragazzo sui diciotto anni, dai capelli castani e gli occhi neri come il carbone, alto e pelle e robusto al punto giusto.
Il suo elemento era l’elettricità e le era impossibile dimenticare il colore ambrato della sua pelle oltre al profumo di caramello e cioccolata che la impregnava.
Aveva la reputazione di bravo ragazzo ed aveva già lavorato come muratore l’anno prima; perciò sapeva bene cosa significasse alzarsi presto, lavorare sodo e guadagnare una paga minima.
Aveva fatto breccia nel suo cuore già il primo giorno che aveva passato insieme con lui a spiegargli cosa doveva fare dietro il bancone e come.
Le aveva chiesto di uscire la stessa sera ma soltanto due giorni dopo Dorothy gli aveva concesso il primo appuntamento.
Era stato fantastico: erano stati tutto il giorno in giro per la piazza a guardare le vetrine, le aveva offerto una cioccolata calda al bar ed erano finiti a giocare, verso mezzanotte, in piazza a una battaglia a palle di neve.
Proprio durante quella battaglia, il suo solito essere maldestra, l’aveva portata ad inciampare nella grossa radice esterna di un albero.
Era caduta a terra con le ginocchia e quello destro le faceva davvero male.
Lui venne immediatamente a soccorrerla.
Lei era rimasta a terra a massaggiarsi il ginocchio che continuava a fargli male.
Lui si era seduto accanto e glielo aveva medicato con cura.
Poi fece una battutina ironica e presero a ridere, proprio come avevano fatto per tutta la serata, quando, quasi per caso, i loro visi si trovavano a pochissima distanza tra di loro.
Dorothy si era persa nei suoi profondi occhi neri, come lui in quelli suoi blu.
Stettero i cinque minuti più lunghi del mondo a guardarsi.
Sarebbe rimasta per sempre così, per sempre con lui.
E poi, all’improvviso, sentì le sue morbide labbra toccare le sue.
Le sue gelate ma morbide labbra carnose, che si schiudevano per rendere più intenso quel bacio.
Non lo avrebbe mai scordato.
Come non avrebbe mai scordato i mesi che passarono insieme a vedersi di nascosto, alle spalle di Nadì.
Come non avrebbe mai scordato quando le disse che i suoi genitori lo avevano costretto ad arruolarsi nell’esercito di Hojo e i pianti che aveva fatto perché lei lo voleva per sempre con se, anche nella lotta contro quel grande e forte nemico, che invece lui era stato costretto a diventare.
Come non avrebbe mai scordato la notte che avevano passato insieme nel suo letto a fare l’amore, prima che lui partisse.
Come non avrebbe mai scordato che Hojo, oltre i suoi genitori, gli aveva portato via anche lui …
 
 Scosse la testa per cacciare via la moltitudine di pensieri che vorticavano nella sua testa e tornò a posare il suo sguardo sullo splendido viso di lui.
- Cosa vuoi?- gli chiese mettendosi a braccia conserte e mantenendo lo sguardo fisso sui suoi occhi.
Com’era strano: si sentiva a disagio e in imbarazzo, ma non era lei quella che sostava con solamente una tovaglia sull’inguine; al contrario Seifer era completamente disinvolto e a suo agio, e quasi si divertiva a vedere la sua agitazione.
-Volevo semplicemente chiederti che facevi sta sera- buttò lì Seifer sogghignando appena.
Dorothy, se già era in agitazione per la situazione in cui si trovava, ora era totalmente nel panico.
-N-niente.Perchè?-
Stringeva forte a se l’accappatoio umido, mordicchiava furiosamente l’angolo della bocca mentre sulle guancie divampava un rosso sempre più acceso.
“Non sono pronta.” Pensava:“Non voglio un appuntamento. Non voglio uscire. Non voglio uscire con nessuno, soprattutto con Te!”
-Perché Lele e Mia vanno ad una festa e a me secca sinceramente imbucarmi. Quindi, a meno che tu non voglia andare con loro, puoi rimanere con me a casa a vederci un film!-
Aveva gesticolato minimamente mentre parlava e aveva terminato la frase con uno dei suoi splendidi sorrisi.
-Vedere un film? Con te, qui a casa?-
La proposta era allettante, ma le sembrava anche l’occasione perfetta per cadere in errore come sempre.
Insomma, Seifer aveva fama di uno sciupa femmine e una situazione, come quella che gli stava proponendo, non avrebbe fermato nessuna a cogliere un’occasione del genere.
Ma Dorothy non voleva, o forse non poteva, o forse entrambe.
Era confusa.
Seifer era un amico e doveva rimanere tale.
-Si. Cosa c’è di male?- chiese il biondo, tra il curioso e il divertito.
La sua nuova coinquilina si stava comportato in maniera alquanto strana, il che lo insospettiva.
-Niente, niente.- aveva risposto di getto.-E che sarebbe più carino se venisse anche qualcun altro a vedersi il film con noi-
“Brava Dorothy” si disse “ora sembrerai o la zoccola che cerca un pesciolino da adescare o quella che ha preso il suo coinquilino per maniaco!”
-Mmm… Non è male come idea! Allora vedo di chiamare Nicolas e un po’ di amici.- concluse mentre si voltò avviandosi verso la sua camera.
-Ottimo…- aveva esclamate Dorothy a denti stretti.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9°. Non lo ucciderò ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Buona sera a tutti^^!!!! Sono perfettamente cosciente che è quasi mezzanotte ma ho ritagliato del tempo per finire questo benedettissimo 9° cappy e non vedevo l’ora di postarlo xP!!!! Si cambia scenario gente quindi leggete famelici^^!!!!
Dopo di ciò vi annuncio a malincuore che sono ricominciate le mie stra maledettissime lezioni *ringhia*… Quindi a malincuore devo informarvi che probabilmente aggiornerò tra un mesetto (sempre col forse L)!!!
Insomma non è colpa mia se hanno messo 3 prove itinere e un esame nell’arco di 2 mesi!!!^^
Perciò vi auguro per la nona volta buona lettura e spero, dopo la pessima notizia, che mi continuiate a seguire!!! ^^ Ancora grazie a tutti
 
Ioly :3


Capitolo 9°
Non lo ucciderò

 
 

La solitudine durante i suoi lunghi e faticosi allenamenti era l’ideale per concentrarsi al cento per cento e dare il meglio di sé.
Nella grande palestra dalle pareti grigiastre in cui si trovava, non c’era anima viva e l’unico suono a rimbombare nella stanza, circondato solo da immobili attrezzi metallici di esercizio, erano i tonfi dei potenti colpi e i suoi gemiti di fatica.
Il resto del frastuono si ritrovava al piano di sopra, dove tutti gli uffici e i laboratori al servizio di Hojo brulicavano di sudditi al suo servizio.
Mentre il sacco di pelle nera, brillante ai neon della stanza, ondeggiava a ritmo dei suoi colpi; nella sua mente si susseguiva una varietà di nemici che avrebbe ben presto distrutto.
Quello che appariva sempre più spesso, quasi come un’ossessione, era il ricordo di un ragazzo alto, biondo, dagli occhi azzurro-verdi, che a solo osservarli gli scatenava l’inferno dentro.
“Perché è da così tanto tempo dai ribelli e io, IO non l’ho ancora distrutto?”
Il tuono che sentì nella sua testa si realizzò in un pugno andato a segno nel sacco di pelle, che proseguiva il suo movimento ondeggiante.
Il sudore dello sforzo che ormai eseguiva da ore crogiolava non solo dalla fronte, che rendeva i capelli corvini umidi, ma da qualsiasi altra parte del corpo.
A petto nudo e nei suoi soliti pantaloncini neri si ritrovava lì, a picchiare uno stupido sacco riempito di sabbia, in balia della sua rabbia.
Le mani fasciate, per attutire il dolore dei colpi che sferrava, gli permettevano di scatenare al massimo la sua forza; e scatenare la sua forza era un ottimo mezzo per sfogare la rabbia che in quell’istante lo opprimeva.
“Bastardo … Vedrai che prima o poi ti farò fare un brutta fine.” pensò mentre tirava altri colpi al sacco sostenuto da solo una catena d’acciaio attaccata saldamente al soffitto.
Proprio non lo accettava: grazie ad anni di allenamento e alla nomina di braccio destro di Hojo, qualsiasi uomo o donna che sia, a trovarselo di fronte entrava nel panico al solo pensiero di doverlo affrontare.
E faceva bene.
Dopo tutto era capace di prendere la mira a metri e metri di distanza piantando una pallottola proprio in mezzo al cuore, senza sbagliarsi di un millimetro.
Era anche capace di affrontare combattimenti con la spada, in cui era abbastanza forte e agile, senza farsi sfiorare dalla lama avversaria.
Era capace di combattere con arti marziali ore e ore senza incassare un colpo.
Volendo, era capace di uccidere chiunque con un colpo solo.
Ma solo una persona riusciva a tenere testa a tutto ciò, ed era proprio lui: Seifer.
“Perché!Perché!” continuavano a dimenarsi i suoi pensieri.
Gli faceva rabbia ed era molto frustante.
Il suo modo di combattere non si basava solo sulla sua forza, sulla sua tecnica e sul suo elemento ma anche sulla strategia che, evidentemente, con lui non funzionava.
 
Incrociò le gambe e si buttò a terra seduto, poggiando i gomiti sulle ginocchia e sprofondando la testa nelle mani.
Sapeva benissimo e ne aveva pure la documentazione che, come lui, Seifer era stato allenato fin da bambino.
I suoi genitori facevano parte dei ribelli e avevano provveduto subito a trasformarlo in un ottimo combattente.
E doveva ammetterlo: si notava abbastanza.
Era capace di evitare qualsiasi sua pallottola e inoltre aveva un ottima mira.
Era capace di schivare i suoi colpi e di colpirlo, il che di solito era quasi impossibile.
Anche fisicamente era forte: riusciva a incassare tutti i colpi senza emettere un gemito e un suo pugno gli costava tanto.
Con la spada se la cavava altrettanto bene ed era meglio non parlare del suo elemento.
Alzò la testa, quasi spazientito, e prese ad osservare il sacco che stava cessando il suo movimento.
Si abbracciò e, sempre più frustato che furioso, continuò a riflettere.
 
L’aria, il suo elemento, poteva solamente aiutare il fuoco.
E’ scienza: se una fiamma non ha aria, si spegne; ma se ne ha tanta, rimane accesa fino ad esaurirla.
E vedeva concretamente inutile trasformare la sua aria in vento, perché Seifer, controllando il suo elemento, o lo avrebbe attizzato o non gli avrebbe fatto causare assolutamente niente.
Una volta aveva anche provato a privare l’aria al fuoco che faceva apparire.
Fu un grande insuccesso.
Contro di lui si riteneva un vero e proprio fallimento: non aveva qualità in più, ma solo svantaggi che gli permettevano si di tenergli testa ma non di sconfiggerlo.
Desiderava ardentemente riuscirci, era diventato un obiettivo da raggiungere necessariamente.
Ma non trovava nessun punto debole fisico; aveva tentato anche con quelli affettivi o morali ma nulla.
Era come la pietra dura: intaccabile.
 
Si alzò e prese l’asciugamano che aveva buttato a terra poco prima.
 
“Il mio elemento è il mio punto debole” ammise asciugandosi il sudore dalle membra stanche delle braccia, delle spalle e del collo. “Perché non mi permette di neutralizzare il suo” si giustificò spazientito.
Ma all’attacco che avrebbero sferrato tra non molto ai ribelli, l’obiettivo principale non era Seifer.
Asciugandosi il sudore del viso, iniziò a passeggiare avanti e in dietro, cercando di far rilassare i muscoli ancora in tensione per lo sforzo precedente.
Buttando le braccia lungo i fianchi e la testa all’indietro, gli vennero in mente quel banale nome e la scheda allegata.
 
DorothyWilson.
Elemento: Acqua.
Allenamento: (secondo le previsioni del prossimo attacco) un anno e un paio di mesi.
 
Una risata sommessa uscì dal petto stanco e affaticato.
“Un anno e un paio di mesi.” Pensò sogghignando. “Come mi potrà mai tenere testa” si disse, rimanendo nella sua posizione rilassata.
Tra un mese lui e il suo esercito avrebbero attaccato quegli “sciocchi” e un anno e un paio di mesi d’allenamento, per lei, erano troppi pochi per essere in grado di affrontarlo.
Era un tempo troppo ristretto per imparare a tener testa a una macchina da guerra come lui.
L’unica cosa che poteva imparare era salvarsi dalla brutta fine che gli avrebbe fatto fare, ovvero scappare più veloce di una lepre inseguita dal suo cacciatore.
Riportò la testa al suo posto ed  iniziò ad osservarsi le mani.
“Significa che avrà le nozioni basi del combattimento a corpo a corpo e del gestire le armi da taglio. Se è dotata, potrebbe solo fare del male con una pistola o un mitra. E poi il suo elemento …”
Un sorriso maligno, ma di piena soddisfazione, apparve sulle sue labbra, rendendo perfida la sua espressione.
“L’aria non dipende per nulla dall’acqua e viceversa, per così dire. Siamo perfettamente alla pari su questo campo”.
Rise di nuovo.
Sarebbe stato un gioco da ragazzo soddisfare il desiderio del padrone: finalmente avrebbe avuto la sua preda preferita rinchiusa in una cella adeguata.
Magari poi sarebbe diventata la sua schiava e la sua amante, o semplicemente la vittima delle sue torture.
E lui sarebbe stato ancora una volta elogiato e adeguatamente ripagato da Hojo.
 
-Ti ho in pugno.- disse stringendo forte i pugni delle mani che ancora fissava, prima che una voce interrompesse lo scorrere veloce dei suoi viscidi pensieri.
 
-Victor?- lo chiamò una sensuale voce femminile.
 
Una mora dai capelli lunghi e riccissimi era sbucata dalla porta della palestra.
La sua pelle chiara a contrasto con la chioma scura metteva in risalto gli occhi color del ghiaccio, e il fisico formoso e sexy era incorniciato in un’adorabile tuta aderente in pelle nera traslucida.
I tacchi, anche se già alta di suo, la slanciavano molto oltre a renderla più sensuale nelle sue movenze morbide.
 
- Fabiole- disse Victor, in perfetta pronuncia francese, sorridendo alla visione della donna.
Era la sua fidatissima seguace, oltre che un’attraente schiava e ad una perfetta compagna nelle sere più fredde.
Con i suoi passi felini decorati da un adorabile sobbalzare delle micro molle che portava in testa ad ogni passo, entrò nella palestra desolata.
- E’ tutto il pomeriggio che ti cerco in giro per il palazzo- disse con la sua calda e profonda voce.
- E’ tutto il pomeriggio che sono qui ad allenarmi- disse, ancora ammaliato del fascino della fanciulla.
Era bella, profumava di cioccolato fondente e pino ed era “completamente” al suo servizio.
- Capisco che è un ordine del padrone intensificare i tuoi allenamenti, ma non credi che tu stia esagerando?-  chiese con un tono leggermente preoccupato.
Il suo elemento era quello di controllare il ghiaccio, un elemento poco diffuso tra gli uomini ma non era mai scesa in campo a combattere: era una donna, e una donna non poteva combattere al servizio di Hojo.
Erano buone solo a servirli in tutto e per tutto, così aveva stabilito il padrone.
Dovevano semplicemente servire l’uomo che le aveva acquistate e guai a chi disobbediva.
Andava in contro a torture stremanti se non alla morte.
 
Victor non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui l’aveva scelta: il padrone lo aveva posto davanti le dieci donne più belle del palazzo e gli aveva semplicemente ordinato di sceglierne una.
Non ci fu neanche bisogno di esaminarle una per una.
Con lo sguardo basso e le spalle ricurve, temeva di osservalo.
Aveva pensato subito a una specie di sottomissione che nei giorni seguenti non si era rilevata.
Si era sbagliato in quella supposizione, ma non nella scelta.
Perché era un osso duro, ma era riuscito a domarla comunque. E lei aveva imparato ad essergli fedele ed ubbidiente.
 
Fabiole, non avendo esperienza nel campo, era continuamente preoccupata per lui: per i faticosi allenamenti che praticava, per lo stress mentale che affrontava studiando strategie sempre nuove di combattimento, difesa e attacco, al suo benessere, non solo fisico, ma anche morale e, anche se non provavano assolutamente niente l’uno per l’altra, a lui non dispiacevano le sue affettuose attenzioni.
-Tranquilla, faccio attenzione. Perché mi cercavi?- chiese soffermandosi ora sui suoi occhi ghiaccio.
- Beh, per portarti alcune informazioni!- esclamò come se fosse ovvio.
La voce si trasformò da calda e premurosa a seria e scorrevole.
-Innanzi tutto credo che ti interessi sapere che si è appena conclusa la battaglia di Hairi, sai contro i ribelli di Guest-
Mentre Fabiola gli spiegava meglio com’era avvenuto lo scontro, chi lo controllava e chi ha avuto l a meglio, lui aveva accuratamente messo la maglietta, buttata fino a poco prima in un angolo della palestra, preso l’asciugamano e avviatosi verso la porta d’uscita.
 
- Si ne sono a conoscenza.- la interruppe.- il comandante in carica mi ha mantenuto costantemente aggiornato. Ma l’esito? Qual è?- disse ascoltando attentamente, salendo con calma le scale.
Ogni giorno inviavano varie truppe a combattere contro le diverse città di ribelli, createsi sostanzialmente ovunque.
Lui però partecipava solo alle battaglie più grandi, ovvero quelle che riguardavano Warmin, una sottospecie di capitale per i ribelli.
Era li che si riuniva il loro Gran Consiglio, il nemico reale della tirannia del Padron Hojo.
Comunque, anche se non c’era in campo, la maggior parte degli ordini impartiti erano suoi.
Era una delle mansioni principali che gli aveva assegnato il supremo e doveva dimostrare che possedeva capacità di controllo se mai un giorno avesse ereditato il suo impero.
Erano necessariamente importanti gli esiti, erano proprio quelli che facevano la differenza: più sopravvissuti vi erano, meno bisogno vi era di reclutare persone.
Dopotutto in quel periodo si dimostrava più difficile del solito trovare nuove reclute, dato che la maggior parte degli uomini sognava di far parte dell’esercito dei ribelli contro di loro.
-Li abbiamo battuti come sempre, padrone. Nel nostro esercito ci sono stati solo trecento morti e cinquecento feriti su duemila e cinquecento persone, rispetto ai loro cinquecento morti e circa ottocento feriti su duemila persone- annunciò con un accento di malinconia, sicuramente dedicato ai morti e ai feriti di quella battaglia.
- Straordinario!- rispose Victor con un pizzico di allegria che lo rendeva inumano, non avendo mai quel genere d’espressione sul suo viso gelido.
Era un ottimo bilancio a suo parere e in quel periodo non se ne sentivano tanti così.
I ribelli continuavano a reclutare sempre più persone e iniziavano seriamente a mettere a dura prova l’esercito di Hojo.
Ma sarebbero sopravvissuti ai continui attacchi che ricevevano perché rimanevano pur sempre i più armati, e con armi di ottima qualità, oltre al fatto che i loro soldati erano ben allenati.
Erano arrivati nel corridoio ove si trovava il suo appartamento, così provò ad allontanare la sua assistente: aveva bisogno di godersi la sua casa e una bella doccia tutto da solo.
- C’è altro?- disse arrivando davanti la porta e soffermandosi davanti ad essa.
- Si, la cosa più importante.- disse la mora intimorita.
Aveva cambiato atteggiamento e Victor, forse, aveva capito già il perché.
Fabiola era una donna sensibile e non sopportava comunicargli l’arrivo di qualche nuovo prigioniero, e la fine che avrebbe dovuto fargli fare.
Assumeva quell’espressione anche quando stava per arrivare una brutta notizia.
- Dimmi- disse preoccupato, credendo che qualcosa fosse andato storto.
- Ti ricordi i due uomini che sono scappati dalla squadra che, come obbiettivo, dovevano catturare quella ragazza? Mmm… Come si chiamava? Do-dorinta?- chiese incerta, soprattutto sul nome.
- Dorothy,- la corresse con una punta di fastidio - e si me li ricordo! Se quell’importantissima missione è fallita, è a causa loro.- disse più sicuro di sé.
- Poco fa hanno trovato uno di quei due fuggitivi. Lo hanno preso e lo stanno portando qua.- disse tristemente, abbassando lo sguardo e prendendo ad osservare il pavimento.
- Oh, bene! Fallo mettere nella cella piccola, che provvederò io a questo vigliacco! E dai ordine che nessuno lo tocchi se non sotto la mia supervisione- disse con una spruzzata d’aggressività.
“Così mi potrò divertire un pochino” pensò, immaginando già alla soddisfazione di torturare qualcuno.
- Agli ordini.- disse la ragazza, ancora giù di morale, sapendo quale sarebbe stata la fine del povero uomo.
Quando, la mano pallida del suo superiore, le prese mento e la costrinse a guardarlo nei suoi occhi, invece di continuare a tenere lo sguardo basso.
- Non ti preoccupare, Fabiole. Non lo ucciderò. Ma deve pagare il tradimento.- disse con voce fredda e distaccata.
Poi la mano dal mento, percorse la guancia, per immergersi nei suoi boccoli scuri.
Dopo essersi soffermato ad accarezzarli, scese sul collo, poi in mezzo alle scapole per fermarsi sulla schiena in una morbida carezza.
I loro visi, come i loro corpi, erano molto vicini, ma tra loro nessuna emozione, nessun sentimento.
I suoi occhi ghiaccio perforarono con uno sguardo quelli dolci e profondi di lei e in un sussurro le ordinò:
-Sta sera fatti trovare in casa- indicando, con un accenno della testa, la porta.
Poi la mollò e le voltò le spalle per aprirla.

Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10°. Hai finito? Si. Bene, perchè io ho appena incominciato. ***


*°*°*@Note della scrittrice@*°*°*
Buona sera ^^!!! Come avevo predetto, non ero sicura di aggiornare velocemente, infatti mi sono tirata un mesetto D: ma tranquilli ne è valsa la pena!!! Infatti vi presento il 10° cappy!!! XD E’ un po’ piccino rispetto agli altri, ma moooooooolto molto figo ^^ (Parere mio XD poi voi lo sapete che dovete essere sinceri e che se è una cacca me lo dovete dire)!!!
Cmq, tengo tantissimo ad avvertirvi che, essendo in periodo d’esami (-.-“ e ciò comporta che dovrei studiare e non scrivere) non posso aggiornare prestissimissimo!!! Però farò di tutto, promesso ^^!!!
Vi auguro una buona lettura, e vi avverto di nuovo… Non credo che sia crudissima come scena, ma ha il suo valore ^^
Ioly :3



Capitolo 10°
Hai finito? Si. Bene, perché io ho appena incominciato.


 

 

Con passo fermo e deciso percorreva in fretta il corridoio del secondo piano sotterraneo.
 
Insieme al terzo e al quarto costituivano le prigioni del palazzo, le più oscure e protette di tutto il dominio di Hojo.
In queste, rinchiusi, stavano solo i prigionieri “particolarmente importanti” per il Padrone: un esempio erano militari dei ribelli di alto grado o spie scovate all’interno del sistema.
Il destino della maggior parte di queste persone era la tortura che un essere umano, sano di mente, non poteva immaginare e probabilmente neanche sopravvivere.
 
I suoi passi rimbombavano nel corridoio, all’apparenza desolato.
Il pavimento, nero in ceramica lucida, rifletteva scintillante il suo aspetto tenebroso oltre alle luci delle lanterne accese che illuminavano l’intero corridoio, soffusamente.
In entrambe le mura, grigie, umide e macchiate di muffa, che diffondeva una terribile puzza nello stretto corridoio; a ritmo preciso e ripetitivo, si presentavano porte blindate in pesante titanio, dove solo una piccola finestrella, accuratamente sigillata e aperta solo per i pasti, permetteva agli addetti di vedere l’interno.
Regnava il silenzio in quel lugubre luogo, perché, chi vi risiedeva, sapeva che neanche il respiro si doveva udire se volevano rimanere vivi… Se vita si poteva ancora chiamare.
 
Con le mani rilassate dentro le tasche del lungo cappotto in pelle nera, che ondeggiava vicino alle caviglie protette con i soliti stivaloni neri chiusi con decine di borchie, si avviava verso alla cella numero duecento, usualmente chiamata “la stanza dei marchi”.
 
La mente serena e il viso serio lo rendevano stranamente umano quella sera, anche se le luci gli davano un’aria spettrale.
Per un attimo era sparito lo sguardo freddo e perfido, ed insieme ad esso anche il sorriso maligno di chi si diverte a vedere la sofferenza dei nemici.
Ma ben presto sarebbero riaffiorati. Lo sapeva.
Arrivato davanti alla porta della cella interessata, che si trovava proprio in fondo al lunghissimo corridoio, per aprirla la spinse con il minimo sforzo.
La porta era molto pesante, ma lui era abbastanza forte per compiere il gesto senza un minimo di fatica.
 
All’interno, si presentò una situazione a lui ormai troppo familiare: la stanza aveva mura quadrate e grigie, come il pavimento, in cemento armato e malconci entrambi.
Era completamente vuota, a parte una grande pentola nera, dove all’interno scoppiettava un piccolo fuoco ardente.
Accanto, posati ordinatamente, stavano i ferri, con cui più tardi si sarebbe divertito volentieri.
 
Quattro uomini, eleganti nella loro divisa nera e argento, stavano messi sugli attenti negli angoli della grande stanza, e altri due stavano al centro, accanto alla sedia di ferro su cui, imbavagliato e legato saldamente, stava il prigioniero.
 
Appena entrò nella cella, i sudditi al servizio del supremo, quasi istintivamente e coordinati tra loro, lo salutarono con un gesto comune e veloce, a cui rispose con un accenno della testa; mentre l’uomo, che prima si agitava freneticamente, sgranò appena gli occhi alla sua visione.
Riuscì solo a provare piacere per quella dolce visione.
Se aveva già paura di lui, il compito che avrebbe eseguito in seguito gli sarebbe risultato più facile del previsto.
 
Alzò lo sguardo verso l’alto: in una specie di balcone comodamente seduto su un trono meno elaborato di quello presente nella stanza del trono, ma sicuramente pregiato e prezioso quanto quello, stava, in attesa di godersi lo spettacolo, il Padrone scortato da due ottimi servitori.
Appena si chinò per salutarlo con devozione, Hojo accavallò la gamba destra, lisciò la veste in velluto nero e poggiò il braccio sinistro sul bracciolo del trono, portando sul pugno il peso del volto.
Lo osservò severo per un istante: quando gli era stato fedele nell’arco della sua vita quel ragazzo.
Lo aveva trattato sempre come se fosse stato suo figlio e gli era sempre stato devoto e in debito per come lo aveva graziato.
Mai gli era passato per la testa di avere un apprendista a cui lasciare il trono, ma quegli occhi, le suppliche, come lo crebbe… Sicuramente non aveva perso del tempo inutilmente, anzi, ora che la vecchiaia pesava sulle sue spalle, gradiva sempre di più la sua collaborazione.
-Procedi pure.- poi ordinò in un sussurro gelido che rimbombò nella stanza.
 
Al proferire di quelle parole, Victor si mise subito a lavoro.
Mentre sbottonava il cappotto di pelle lucida, per rimanere solo nella sua maglietta attillata nera a maniche corte, fece notare al prigioniero, perfidamente, la frusta attaccata accuratamente alla cinghia che sosteneva i suoi jeans scuri.
Era composta da un manico in pelle, intagliato e decorato manualmente e su misura per le sue forti mani. Dal suo interno partivano varie corde, lunghe e in cuoio scuro, che già di per sé, avrebbero fatto male anche alla pelle più dura e callosa. Ma a terminare l’arma perfetta, alla cima di ogni singola corda, dieci con l’esattezza, stavano piccole palline in puro titanio, che avevano il compito di lasciare dei bei segni sulla carne viva della sfortunata vittima.
Quante persone aveva portato a soffrire fino alla morte quell’arma e in quante altre occasioni lo avrebbe ancora aiutato.
Perché per lui non era solo un’arma, ma una fidata amica che non l’avrebbe mai tradito o deluso.
Con un’amorevole carezza sfiorò il rigido manico.
 
-Toglietegli il bavaglio- ordinò secco, mentre buttava a terra il cappotto e scrollando appena spalle e braccia.
La voce gelida e distaccata, ma allo stesso tempo severa, era sempre efficace in situazioni come quella.
 
I sudditi presenti obbedirono immediatamente: i due uomini sugli attenti accanto al prigioniero, rimediarono a togliere la grossa pezza sporca che obbligava al silenzio l’uomo, che appena fu libero, iniziò a supplicare piangendo e continuandosi ad agitare sulla sedia piantata nel pavimento.
“Tutti uguali” si disse Victor, innervosendosi.
-Silenzio!- impose, prendendo dalla cintura l’amata arma che aveva accuratamente portato con sé per l’occasione.
L’uomo, intimorito, ubbidì istantaneamente continuando a piangere silenziosamente.
Victor si voltò lentamente e notando le scintillanti gocce che rigavano il viso ruvido dell’uomo, non riuscì più a trattenersi:
-Sei una donna!- iniziò a gridargli, avvicinandosi sempre di più al suo viso.
-Lo eri quando hai scelto di tradire il tuo supremo padrone e lo sei ora che devi affrontare la tua punizione! Vergognati! Lurido vigliacco!-
Conclusa la frase, fece schioccare la frusta per terra e gli sputò in faccia con tutta la rabbia che continuava a trattenere.
Il corpo allo sforzo di non fargli immediatamente del male, tremava sotto la tensione dei muscoli tesi, che volevano attaccare immediatamente.
-Cane - aggiunse, pendendo un pugnale nascosto nello stivale destro, e avvicinandolo al collo.
Con uno sguardo ordino ai sudditi sugli attenti ai lati del prigioniero di allontanarsi, mentre la lama, argentea e affilata, brillò sotto la luce dei neon che illuminavano la stanza, soprattutto quando la punta appuntita si appoggiò sul collo roseo della vittima.
 
Victor, costringendolo con l’altra mano a tenere il viso alzato, era rimasto per un attimo incantato da quel luccichio.
Amava le armi, forse più di qualunque altra cosa al mondo, oltre al potere ovviamente.
 
Ma la sua attenzione fu attirata da l’ennesima pietosa supplica:
-Ti prego, non farmi del male. Ti prego.-
La voce dell’uomo era un sussurro, accompagnato pietosamente da gemiti di paura e gocce di rugiada che fuoriuscivano lente dagli occhi che teneva chiusi, nell’attesa di un dolore atroce o della visione del paradiso.
Ogni parola che emetteva provocava dei leggeri movimenti del pomo d’Adamo, mettendo a rischio la sua pelle. O la sua vita.
- Non credere che te la passerai con una semplice pugnalata al cuore- disse in tutta risposta Victor, abbassando di colpo la lama.
 
Un sospiro tirò l’uomo dopo essersi accorto che non era arrivato alcun dolore.
Aveva avvertito solo un brivido di freddo.
Trovando il coraggio di aprire gli occhi si accorse che l’unica cosa che era cambiata, era la sua maglietta tagliata perfettamente a metà, che penzolava nei suoi polsi, trattenuta dagli stessi bracciali e dalle stesse corde che lo bloccavano alla sedia.
 
Victor riposò il pugnale nello stivale da cui lo aveva preso, e si avviò verso la brace, che scoppiettava allegra.
Mentre con cura prendeva i ferri, iniziò a chiacchierare con il “giocattolo” di quella sera.
- Sai come si chiama questa stanza Denny?- chiese, non curante, al prigioniero, mentre con uno strofinaccio sporco puliva la cima dei ferri, quella che in seguito gli sarebbe servita.
-S-si – disse un po’ balbettante l’uomo legato alla sedia.
Continuava ad agitare le braccia nel tentativo di rompere o allargare le corde che gli segavano strette i polsi, ma senza alcun successo.
- E come si chiama?- chiese con voce suadente, alzando appena lo sguardo.
La pezza che gli avevano porto i sudditi, già lurida di suo, continuava ad annerirsi, raccogliendo la fuliggine presente sul ferro.
- L-la stanza dei m-marchi- disse ancora l’uomo, insicuro.
La voce rotta dalla fatica dei muscoli che impiegavano tutte le loro energie nel tentativo di liberarsi.
-E sai anche il perché viene chiamata così?-
La voce, ancora più sdolcinata di prima, metteva paura, perché è risaputo che il cobra, prima di attaccare, sibila dolcemente.
 
L’uomo azzardò a guardarlo negli occhi, sperando che si fossero addolciti, magari prendendo l’ipotesi del perdono.
Fu l’errore più grosso della sua vita: un freddo sguardo perforò il suo congelandolo.
- Te lo dico io- disse Victor, non avendo ricevuto una risposta.
Posò il ferro dentro la brace lasciando fuori solo il manico in legno, gettò la pezza per terra, agguantò la frusta e iniziò a passeggiare in torno a lui accarezzandola.
- All’inizio, il nostro supremo padrone, non aveva nemici. Era UNICO e SOLO, ONNIPOTENTE su tutta la terra e tutti, ogni singolo uomo o donna che sia, bambino o adulto, lo adorava, amava e venerava con tutto se stesso-
I cerchi che compiva intorno alla sedia erano laghi, vaghi, lenti e indecisi; mentre l’uomo continuò a tenere lo sguardo abbassato sulle ginocchia, ormai fermo, immobile, rassegnatosi alla fine che il perfido Victor aveva programmato per lui.
- E, il nostro eterno padrone, non aveva bisogno di prigioni e celle come queste. Quelli si che erano bei tempi.- continuò non curante, come se si ritrovasse a raccontare una favola.
- Ma purtroppo, arriva sempre qualcuno che deve rovinare le cose. Così, degli ignoranti incompetenti, che non comprendevano l’estrema grazia e il bene che compiva il supremo su queste terre che rese meravigliose, decisero di fondare quell’inutile e patetica organizzazione-
La voce andava sempre di più indurendosi mentre continuava il discorso.
I cerchi diventavano sempre più stretti in torno alla sedia.
- Fatto sta, che divennero dei nemici. Dei fastidiosi ed insignificanti nemici. Ma il nostro padrone doveva pur distinguere chi era con lui o contro di lui, così, per riconoscerli, almeno quelli che già erano passati per mano sua, gli venne una brillante idea. Sai quale?-
 
Ora era proprio alle sue spalle. Una fredda e tesa mano si poggiò sulla sua stanca spalla, mentre Victor si avvicinava avidamente all’orecchio dell’uomo:
- Quelli di marchiarli a fuoco sulla pelle viva, come animali. Perché dopotutto, è quello che sono. Anzi, neanche un animale è così privo d’intelligenza da mettersi contro il padrone.-
 
Un brivido di ferro percorse la sua schiena all’udire quelle parole; ed era impossibile non immaginare il seguito e la fine di quella giornata.
 
Con una risata, tolse la gelida mano dalle spalle curve e striminzite del suo prigioniero e lentamente si avvicinò al ferro, ancora riposto all’interno della brace.
Lo sollevò, curandosi di prenderlo dal manico in legno, e vide che la cima che aveva immerso nella brace poco prima era incandescente.
Il ferro era diventato rovente, di un colore rosso acceso e fumava sotto al calore a cui era stato sottoposto.
Un sorriso malvagio affiorò spontaneo sulle labbra sottili di Victor, che rivolse uno sguardo furtivo all’uomo legato sulla sedia.
“Ora iniziamo a giocare”.
 
-Ti prego!- riprese a supplicare l’uomo alla visione del ferro rovente.- Ho una moglie e due figli! Ti scongiuro! Non farmi del male! Ho imparato la lezione! Ho capito di aver sbagliato!-
-Taci!- gli urlò contro con foga. - Ormai è troppo tardi per rimediare. E lo sai che il supremo non perdona. Hai scelto tu di diventare un suo nemico, e ora devi affrontare ciò che ti aspetta!!!-
-Ma- era pronto a ribattere l’uomo ma fu interrotto.
-Imbavagliatelo!- disse Victor, secco e glaciale allo stesso tempo.
I servitori in un attimo sistemarono il bavaglio, tolto poco prima, per obbligare nuovamente al silenzio l’uomo.
Appena finirono, afferrarono le spalle curve e le braccia dell’uomo per immobilizzarlo al meglio, mentre Victor, con fare minaccioso si avvicinava sempre di più con passi lenti e decisi.
Appena fu abbastanza vicino, sussurrò:- Ora sentirai bruciare un pochino-.
E tra gemiti soffocati, Victor premette, con tutta la forza che il suo corpo possedeva, la cima rovente sulla pelle chiara e nuda dell’uomo che doveva punire.
Al dolore, il prigioniero, tentò di contorcersi, ma non solo era trattenuto dai sudditi che gli stavano accanto, ma il ferro bloccava il suo petto tra esso e lo schienale freddo della sedia su cui era legato.
I gemiti si acuirono e le lacrime scivolavano più velocemente sul volto, per poi essere assorbite dallo strofinaccio che lo zittiva.
Era tremendo il dolore che lo attanagliava.
Il bruciore era così intenso, paragonabile solamente a milioni di aghi che gli bucavano il petto penetrando tutti contemporaneamente.
I polmoni, sotto la sofferenza, espiravano ed ispiravano velocemente e con molta fatica, sperando che il ferro incandescente si allontanasse il più velocemente possibile da quella che era la sua pelle. 
Il continuo agitarsi nel disperato tentativo di liberarsi o almeno sottrarsi al dolore causò un’improvvisa sudorazione fredda.
Gli sembrò un’eternità quella che passò sotto il ferro rovente che lo ustionava dolorosamente, ma furono solamente pochi minuti. Lunghissimi, ma pochi minuti.
Quando Victor ne ebbe abbastanza, tolse il ferro rovente dal petto del suo prigioniero e lo buttò per terra, vicino alla pentola, dove la brace continuava a scoppiettare.
Sulla carne viva, fino a poco prima così chiara e intatta, era apparso, formato dalla pelle ustionata, uno stemma grande quando il pugno di una mano.
Era un cerchio con, all’interno, un’elegante h maiuscola, decorata con motivi simili a quelli floreali.
H di Hojo ovviamente.
-Ti piace il tuo nuovissimo tatuaggio Danny?- chiese perfido Victor, sogghignando e sciogliendogli bavaglio.
Si sentivano, dall’alto, le risate del Padrone, divertito dallo spettacolo entusiasmante a cui assisteva.
 
L’uomo non riusciva a parlare.
Ispirava ed espirava velocemente, senza riempire a pieno i polmoni, indolenziti dall’ustione.
Dopo qualche minuto, dove stranamente Victor pazientò aspettando una sua risposta, riuscì ad emettere qualche gemito e a smettere di piangere.
Poi sussurrò con il minimo coraggio e le poche forze rimaste:
- Un mostro ecco quello che sei. Tu e quello che chiami Padrone siete solo questo! DEI MOSTRI! HA FATTO BENE IL MIO COMPAGNO SOPRAVVISSUTO AD UNIRSI AI RIBELLI! ALMENO PUO’ AIUTARLI A MANDARE A PUTTANE TUTTO QUELLO CHE VOI AVETE COSTRUITO!-
Victor lo fissò per un attimo.
Le sue parole erano dure e franche, gli rimasero impresse a fuoco in mente.
- Hai finito?- chiese poi, freddo ed inespressivo.
- Si- sussurrò l’uomo, ora piegatosi di lato senza forze, mantenendo uno sguardo coraggioso e di sfida contro Victor.
- Bene, perché io ho appena iniziato-.
 
 
Gli era sempre riuscito facile torturare un uomo fino a farlo impazzire così riuscendo ad ottenere le informazioni di cui aveva bisogno.
Ma questa volta era stato diverso.
Questa volta non aveva torturato quell’uomo solo per lo scopo di ottenere quelle informazioni.
Affatto.
Questa volta lo aveva fatto con così tanta foga, rabbia e passione … Si fece paura da solo.
 
A terra, coricato in pancia in giù, che tentava ad alzarsi aggrappandosi alla sedia di freddo ferro, piantata nel pavimento al centro della stanza, stava l’uomo senza forze che ferito, tremante e terrorizzato, provava a raccogliere le gambe mettendosi in una posizione fetale.
Piangeva per ogni movimento che compiva.
Era quasi nudo, se non per qualche straccio rimasto dai vestiti indossati in precedenza, che poi furono strappati dalla furia delle frustate, delle mazzate, e dalla violenza generale che aveva subito durante quelle tremende ore.
Victor osservandolo, forse un po’ schifato, non dei suoi gesti, ma dell’immagine che si ritrovava di fronte, non riuscì a far a meno di paragonare quell’uomo, all’embrione che nasce e cresce dentro il grembo di una donna.
“ Cenere siamo e cenere ritorneremo” pensò.
 
Voltando le spalle al raccapricciante spettacolo, cercò con lo sguardo il Signore e Padrone.
 
Hojo, teneva un espressione compiaciuta e divertita, e all’incrocio con lo sguardo del servo preferito, poggiò completamente allo schienale battendo le mani, con lenta teatralità.
Poi ordinò:- Lo voglio per cena!- si alzò e sparì nella porta alle sue spalle.

  Licenza Creative Commons
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=800350