ghost

di hipster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo settimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Londra, 13 dicembre 1852.


Una luce schermata fece capolino dalla finestra del piano superiore dell’enorme villa dei Trevor.
Nulla di strano, pensò il cocchiere. Le signorine si stavano preparando per il grande ballo che si sarebbe tenuto dagli Stenford. 
Lo stesso ballo a cui - così si mormorava in città – il signor Harry Stenford avrebbe chiesto la mano della signorina Phoebe.
Tutti volevano quell’unione, tutti tranne Phoebe.
 
Alla luce della candela Phoebe piangeva.
Si era rinchiusa in camera con la scusa dei preparativi ma in realtà voleva solo sparire. Non voleva sposarsi; non con quell’Harry.
Aveva sempre immaginato il suo matrimonio come il coronamento del suo sogno d’amore, e anche se non aveva ancora trovato qualcuno da amare, sapeva che Harry non era l’uomo giusto per lei:
era più vecchio di lei di dieci anni, lo aveva visto si e no cinque volte in tutta la sua vita; gli era sempre sembrato un uomo scorbutico, cinico, razzista; il suo unico interesse era il denaro, l’avidità lo consumava ed era la stessa avidità a suggerirgli un matrimonio con Phoebe.
Nel buio della sua camera Phoebe pregò Dio e Satana di farla morire, sparire, rapire, qualsiasi cosa le impedisse di diventare la futura signora Stenford.
Forse uno di loro la ascoltò, perché quando sua sorella Cathy bussò alla porta Phoebe non c’era più.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


La leggerezza di non esistere era stranamente appagante per Phoebe.
Vide Cathy entrare nella sua stanza e trovare il suo corpo esanime mollemente poggiato sul tavolo. La candela si era spenta e un serpentello di fumo saliva al soffitto dallo stoppino.
«Phoebe! Non sei ancora pronta? Sai che papà non aspetterà in eterno…» cominciò a rimproverarla Cathy, ancora sulla porta.
Phoebe non riuscì a trattenere una risata: “io non ci sono più, Cathy, papà potrà aspettare anche in eterno, ma io non ci sono più”.
Quasi delirava per la felicità. «Phoebe?» chiese Cathy spaventata quando vide che la sorella non dava segni di vita.
«Phoebe?! Oh mio Dio, papà!» urlò Cathy spaventata scappando via. Phoebe si godette la scena di suo padre che saliva spaventato e che mandava a chiamare il medico.
Non riusciva a smettere di ridere. «Vedo che ti stai divertendo» disse una voce spettrale dietro di lei. Si voltò e vide un uomo incappucciato accanto alla finestra.
«Chi sei? Come riesci a vedermi?!» esclamò spaventata. Quella voce metteva i brividi: era come un ululato di un lupo alla luce della luna, uno spiffero gelido da una finestra socchiusa, il bagliore di una candela in una casa diroccata.
«Non riesci proprio a immaginare chi sono?» continuò la figura incappucciata. Se Phoebe avesse potuto vederlo in faccia, avrebbe giurato che stava sorridendo.
«Un’idea ce l’ho in realtà» mormorò spaventata. «Credo che sia giusta, Phoebe. Mi hai pregato di liberarti dal peso di un matrimonio sbagliato, ed è quello che ho fatto. Sei morta. – sospirò – purtroppo non posso portarti con me. A quanto pare il tuo è considerato suicidio lassù – alzò un dito ossuto al cielo – e quindi sei destinata a vivere come un fantasma per l’eternità: non potrai interagire con gli esseri viventi, nessuno si accorgerà di te, e tu non potrai fare nulla per cambiare la situazione. Sei destinata a restare in questo limbo tra la vita e la morte… sì, per sempre. Domande?» concluse la voce beffarda.
Phoebe si guardò intorno: il medico era arrivato, non sapeva spiegare la causa della sua morte.
Suo padre ascoltava con le labbra strette, sua madre accanto a lui piangeva disperatamente, Cathy era accanto a lei, l’abbracciava e piangeva insieme a lei. Improvvisamente sentì il senso di colpa pervaderla: non era giusto lasciarli.
«Solo una: non posso tornare indietro?» chiese risoluta.
«Tornare indietro?! – la figura scoppiò a ridere – è impossibile, angelo. Sei destinata a restare così per sempre. E ora ti saluto. Goditi la tua vita da non morta.» e detto questo la figura sparì in un battito di ciglia.
Phoebe si girò verso la sua famiglia, angosciata. Non poteva tornare indietro, il suo destino era segnato.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Erano passati tanti anni, le stagioni si susseguivano monotone e Phoebe era solo una testimone della vita che portavano.
Vide i suoi genitori invecchiare e morire, sua sorella sposarsi, avere bambini, i suoi nipoti.
Che a loro volta crescevano, si sposavano e avevano figli… e lei non poteva far altro che guardare.
Finché un mattino non li trovò più: erano saliti su una di quelle carrozze magiche senza cavalli che chiamavano “automobili” ed erano spariti. Non riusciva a capire perché.
Li aveva osservati bene: la mattina i piccoli andavano a scuola, Carol restava a casa e Jack andava al lavoro; erano le loro abitudini perché stavolta avevano preso tutto ed erano andati via?
Non riusciva a capire. Poi vide arrivare un’altra auto nel vialetto; altre persone ne discesero: un uomo, un ragazzo e una bambina. Chi erano queste persone? Phoebe non riusciva a capire.
Li vide prendere delle valigie ed entrare con le chiavi di casa. Non poteva essere… Carol non avrebbe mai venduto la casa di famiglia, mai! O almeno così credeva.
«È proprio bello qui!» esclamò l’uomo. Era troppo, non poteva sopportarlo. Volò via e andò in cerca di Carol.
Girovagò per tutta la città fino a trovarla in un appartamento in centro. «Come hai potuto vendere casa nostra?! Non avresti dovuto Carol! Non senza dirmelo! È anche casa mia quella! Ehi! Sto parlando con te!» urlò contro la giovane donna che impassibile continuava a disfare i bagagli.
Mai come allora Phoebe si rammaricò della sua situazione: essere senza corpo, senza una vita da vivere, essere intrappolata in un’esistenza senza fine né scopo era troppo duro da sopportare. Rischiava di impazzire sul serio.
Cominciò a far lampeggiare le luci; poi le prese dell’elettricità cominciarono a mandare bagliori; una finestra si spalancò, anche se non c’era vento; una porta cominciò a cigolare sui cardini anche se era perfettamente oliata.
Carol, spaventatissima, uscì di corsa dall’appartamento urlando.
Phoebe improvvisamente si calmò.
«Ecco, è quello che ti meritavi.» mormorò con calma glaciale. «Ora è il momento di cacciare quegli intrusi da casa mia».

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Phoebe li spiava. Era già da qualche giorno che li spiava. Conducevano una vita molto normale, dopotutto. Jason, l’uomo adulto, è un manager; passava tutta la giornata fuori casa.
La bambina, Judith, aveva solo cinque anni. Frequentava un asilo e stava fuori tutto il giorno. L’unico di cui era ancora incerta era Edward, il ragazzo.
Lui conduceva una vita strana… rientrava all’ora che voleva, non sapeva se andasse ancora a scuola o se lavorasse già, non lo vedeva mai. Rientrava solo la sera – spesso a notte fonda – giusto in tempo per litigare con il padre e andare a dormire. E il giorno dopo era punto e daccapo.
Solo la domenica si concedevano il lusso di restare tutti insieme a casa. O almeno Jason e Judith stavano insieme. Edward non restava mai con loro, fuggiva sempre via con una scusa o un’altra. Phoebe questa volta decise di seguirlo.
Aveva già seguito Jason, ma i suoi affari la annoiavano: non faceva altro che incontrare clienti e fargli firmare un mucchio di fogli con uno strano oggetto che chiamava “penna”… che fine aveva fatto il caro vecchio inchiostro nel calamaio?
La vita di Judith era ancora più noiosa di quella di Jason, se possibile. Phoebe la vedeva entrare in quella scuola, con tanti, troppi ragazzini. Dov’era finito l’insegnante privato che faceva lezione a casa a lei e a sua sorella? Una bambina nobile non poteva entrare in una scuola pubblica, sarebbe stato un insulto! Ma a Judith non importava, non si sentiva insultata. A lei bastava avere i suoi compagni per giocare.
Ora era il turno di scoprire cosa faceva Edward.
Quella mattina lo seguì mentre con la macchina percorreva tutta la città verso una zona che non conosceva, fin quando non arrivò davanti a un enorme palazzo bianco, enorme. “Pronto soccorso” urlava un cartello sulla porta. Lo seguì dentro.
«Ciao, Ed!» esclamò una donna dietro un enorme bancone bianco. «Ciao, Rose» la salutò con calore Edward. «Come sta?» continuò, improvvisamente preoccupato. «Come ieri» rispose seccamente la donna. «Allora vado» disse Edward con un sorriso forzato e corse verso una porta che dava su un corridoio.
Lo percorse sempre correndo per poi fermarsi di colpo davanti a una specie di finestra che dava in una stanza. Phoebe si avvicinò, improvvisamente curiosa. Dentro c’erano tanti, tantissimi macchinari attaccati a una ragazza stesa su un letto.
Non sapeva cosa fossero quelle macchine, ma vedendo Edward con le lacrime agli occhi, capì che non era nulla di buono. Edward la attraversò per entrare nella stanza, in silenzio. Phoebe lo seguì. «Ciao, Mel… come stai oggi, tesoro?» cominciò. «Stamattina ho fatto prima, visto? Sono scappato via prima che papà mi vedesse… ieri ha persino detto che dovrei smetterla di venire a trovarti! Che assurdità, vero? Io non ti lascio qui da sola, non potrei mai…».
Phoebe lo ascoltò parlare per tutta la mattina: non si stancava mai di parlarle, le faceva domande, la sollecitava a rispondergli ma lei non rispondeva mai. Mel dormiva… ma era un sonno perpetuo.
Quando un uomo vestito di bianco gli disse che doveva andare, Edward si alzò e mentre le accarezzava il viso disse: «Tornerò domani, Mel. Aspettami» poi la baciò sulla fronte. Con quanta dolcezza, con quanta delicatezza… quello era l’amore.
Phoebe restò paralizzata.
Quel ragazzo che lei aveva catalogato come un ingrato, maleducato, egoista… era innamorato. Edward uscì dando un ultimo sguardo speranzoso alla ragazza.
Phoebe cercò di leggere da un foglio che spuntava da una cartellina cosa avesse quella ragazza. Riuscì a riconoscere solo le parole “commozione cerebrale”. Non sapeva cosa significassero, ma poteva immaginare cosa comportavano.
Quella Mel era molto malata e Edward la amava e andava a trovarla tutti i giorni anche se Mel non si svegliava. Tanto amore la commosse.
Si voltò di scatto e non lo vide più. Corse fuori alla ricerca del giovane e lo vide vicino alla sua auto. «Aspettami!» urlò. «Vuoi andare via senza di me?» esclamò Phoebe entrando nella sua auto. Si sentiva stranamente viva quella mattina.
Edward imboccò una strada a tutta velocità, una strada che Phoebe conosceva bene: stavano andando a prendere Judith. Appena arrivati, Edward spense la macchina e corse dentro la scuola. Dopo cinque minuti ne uscì con sua sorella tra le braccia.
Phoebe non poteva sentirli dall’auto ma vedeva che ridevano. «Sei arrivato tardi!» esclamò Judith proprio mentre suo fratello le apriva la portiera. «Mi spiace, principessa, ma non ho saputo far di meglio…»  disse Edward con un sorrisino e una finta aria colpevole.
«Oh, non importa. L’importante è che tu sia venuto, era da tanto che non venivi a prendermi» disse gaiamente la bambina. «Mi dispiace tanto, Judith…» disse Edward improvvisamente serio. «Per farti perdonare, potresti portarmi a fare un giro» disse sorridendo Judith. Il fratello le sorrise di rimando.
«E sia! Oggi passi una giornata con me!». Phoebe li seguì sulle giostre nel parco giochi, al ristorante a pranzo, poi di nuovo al parco giochi, poi in giro per i negozi dove Edward comprò a Judith un orsetto di peluche.
La sera tornarono a casa, stanchi ma felici. «Dove siete stati?!» esclamò il padre vedendoli rientrare. «Oh, papà! Edward mi ha portato al parco giochi e poi…» la bambina si lanciò in una descrizione dettagliata della loro giornata ma Jason non la ascoltava granché. I suoi occhi erano fissi su Edward.
«Sono contento che tu ti sia divertita tanto, piccola mia. Ora perché non vai a letto? Ti raggiungo tra un po’».
«Certo papà. Buonanotte Edward!» esclamò la bambina e quando baciò il fratello sulla guancia sussurrò un “grazie”. Solo Phoebe e Edward riuscirono a sentirlo.
«Che ti è saltato in mente?!» esclamò Jason quando furono soli. «Perché l’hai portata con te?!». Edward lo fissò con uno sguardo di ghiaccio.
«Ho solo portato Judith a fare un giro. Me lo ha chiesto e così ho fatto. Non credo di aver commesso un delitto.» disse con voce piatta.
Era tornato l’Edward che Phoebe aveva conosciuto nelle scorse settimane. Detto questo si avviò al piano di sopra, verso la sua camera.
Phoebe non lo seguì, era troppo confusa.
Chi era Edward?
Il ragazzo che aveva visto ora con il padre e che conosceva da quando era qui o il ragazzo che andava a trovare la sua innamorata all’ospedale e portava sua sorella al parco giochi?
Chi era?

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Phoebe passò altre due settimane seguendo Edward. Anche le sue giornate erano sempre le stesse: la mattina all’ospedale, a pranzo con gli amici in un fastfood, la sera di nuovo all’ospedale da Mel.
Non faceva che parlarle: di suo padre, di sua sorella, dei loro amici… non si stancava mai. Poi tornava a casa e affrontava suo padre che gli chiedeva di smetterla di fare quella vita, ma la sua risposta era sempre la stessa: “Non abbandonerò mai Mel”.
Tanta devozione in qualche modo la ferivano. Cominciò a desiderare che Edward provasse tanto amore per lei.
Quando cominciò a capire che si stava innamorando di lui smise di seguirlo. Lui era vivo! E lei… lei era un fantasma intrappolato da duecento anni in un limbo!
Era impossibile per lei amarlo, erano troppo diversi. Fu allora che capì che doveva liberarsi di loro.
Non poteva vedere Edward vivere, crescere, sposare la sua Mel! Quella domenica pomeriggio, stranamente erano tutti in casa, compreso Edward, e Phoebe capì che era il momento giusto per spaventarli.
Edward stava facendo un frullato. Phoebe si avvicinò a lui e fece letteralmente esplodere il frullatore sporcando completamente il ragazzo e la cucina di quella sostanza disgustosamente appiccicosa.
«Ma che diavolo succede?!» urlò Edward inebetito. Phoebe scoppiò a ridere davanti a quell’espressione scioccata, poi con un po’ di tosse smise.
«Cosa c’è, Ed? non te l’aspettavi, eh?» continuò ridendo come una bambina.
Poi passò a Jason. Era seduto sul divano a guardare la televisione e urlava a Edward chiedendo cosa fosse successo.
Si mise davanti al televisore, lo toccò con le palme delle mani e questo improvvisamente cominciò a fumare, poi si sentì un forte rumore di qualcosa che si spezzava all’interno, lo schermo si spaccò e cominciò a sprizzare scintille.
Jason si alzò in piedi spaventato e corse a prendere l’estintore. «È tutto ok, principessa! Papà aggiusterà tutto!» urlò correndo via.
Phoebe non si era accorta di Judith: la bambina era rannicchiata sulla poltrona, urlava e abbracciava l’orsetto di peluche le aveva regalato il fratello.
Phoebe glielo tolse e ammirò lo sguardo spaventato della bambina che vedeva il peluche volteggiare sulla sua testa. Poi la ragazzina urlò, più forte di prima.
Edward corse fuori dal bagno dove si stava sciacquando a torso nudo e con un asciugamano in testa giusto in tempo per vedere la sua performance con il peluche.
Vide il suo volto spaventato e sogghignò cattiva. «Cosa c’è, Edward? Hai paura di me? Oh, non averne. Io voglio solo che tu te ne vada il più lontano possibile da me.» disse Phoebe avvicinandosi a lui, sempre con l’orsetto in mano. Glielo lanciò in faccia, con rabbia.
«Mi hai sentito, sciocco essere umano?! VATTENE!» urlò con rabbia.
«Chi sei?» mormorò Edward.
«Oh, vuoi sapere chi sono? Te lo dirò…» sogghignò Phoebe.
Si avvicinò al tavolino e prese una penna e un foglio poggiati lì.
«GUARDA!» urlò Judith spaventata, correndo tra le braccia del fratello.
“ANDATE VIA!” scrisse sul foglio a caratteri cubitali e lo tenne sospeso davanti alla faccia di Edward.
«Voglio sapere chi sei.» disse il ragazzo con voce ferma. “Phoebe” scrisse la penna davanti ai suoi occhi.
«Ci conosciamo?» chiese Edward confuso. “Io conosco te” scrisse ancora la penna.
«Come puoi conoscermi? Io non ti conosco…» chiese Edward ancora più confuso.
“Vivo qui, Edward. Conosco ognuno di voi. E vi voglio fuori di qui. Questa è casa MIA”.
Edward la fissò con occhi di ghiaccio. «Ora è casa mia, Phoebe. Non me ne andrò.» disse con voce ferma.
Phoebe restò basita.
Era sicuramente il coraggio di quel piccolo umano a bloccarla, sicuramente.
O forse perché per la prima volta aveva pronunciato il suo nome? Si maledisse, maledisse lui, accartocciò il foglio e glielo gettò addosso, poi scappò via.
Voleva piangere, ma i fantasmi non possono. L’aveva scoperto tanto tempo prima. 

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Phoebe ormai si teneva alla larga dagli abitanti della casa. Non riusciva a sopportare la loro vicinanza.
La loro vita per lei era un insulto: perché loro potevano essere vivi e lei no?
Perché loro potevano avere una vita anche se noiosa e lei no?
Perché tutti sembravano prendersi gioco di lei in ogni singolo istante della loro vita?
Sentiva l’invidia e la rabbia montarle dentro ogni volta che li vedeva.
Poi un giorno un’idea le balzò in testa: non aveva mai provato, non sapeva se sarebbe stato possibile.
Una cosa era interagire con le cose inanimate, le costava anche un certo sforzo ma reagire con un essere umano, entrare in un essere umano… poteva farlo?
C’era un solo modo per scoprirlo. Volteggiò su per le scale e vide Judith: la ragazzina stava dormendo nel suo lettino, il peluche stretto a lei.
Phoebe le si avvicinò lentamente, come se temesse di svegliarla. Poi le accarezzò piano la testa e chiuse gli occhi.
Immaginò se stessa come quella bambina, spesso funzionava immaginare una cosa per vederla poi realizzarsi sotto i suoi occhi.
Socchiuse piano gli occhi… ma era ancora lei stessa, Phoebe il fantasma.
Infastidita dall’insuccesso pensò di rinunciare, ma l’idea di vivere anche un solo giorno era troppo allettante per abbandonarla dopo un solo tentativo.
Con rinnovato vigore riprovò: cercò di incanalare tutto il desiderio che provava nella sua mano, se avesse potuto sudare sarebbe stata ricoperta di sudore; la testa le ribolliva e sentiva le sue membra inesistenti formicolare e poi più nulla.
“È inutile provare ancora – si disse – ormai non c’è più nulla da fare”.
Con un sospiro aprì gli occhi. E urlò. Ce l’aveva fatta: era dentro Judith.
Riusciva a sentire il cuore pomparle caldo sangue nelle vene, il respiro accelerato per la felicità, il dolore alla gola per l’urlo che aveva cacciato… riusciva a sentire tutto.
In tanti anni mai si era sentita così felice.
Si alzò in piedi e quasi pianse dalla gioia: poteva sentire il pavimento freddo sotto i suoi piedi nudi, la morbidezza dei vestiti sul corpo e riusciva a vedere il suo riflesso nello specchio appeso alla parete. Non era proprio il suo riflesso ma era meglio di niente.
«Che succede?!» sentì urlare dalla camera di Edward. «Judith? Stai male?!» ed eccolo.
Era sempre stato così alto? Judith era davvero piccola… «Sto bene Ed, scusa… era solo un incubo» disse con la vocina squittente di Judith.
«Va bene… allora posso andare?» chiese Edward titubante.
«Non preoccuparti» rispose Phoebe con un sorrisino.
Edward annuì e uscì dalla camera. «Se hai bisogno di qualcosa, urla!» le disse dal corridoio.
«Certo!» urlò in risposta Phoebe. Con un sorriso tornò nel lettino di Judith.
Si posò una mano sul petto e sentì con gioia il suo cuore – il cuore di Judith - che batteva: le era mancato quel suono, più di ogni altra cosa.
Poi pensò al suo vero cuore, muto e freddo… no, non lo voleva indietro. Non sarebbe più tornata indietro. 
Forse se fosse vissuta tutta la vita di Judith dentro di lei, al momento della sua morte sarebbe morta con lei.
Non desiderava altro: voleva finire quella non-esistenza a cui era stata condannata, era l’unica cosa che le premeva.
La speranza cominciò a crescere dentro di lei.
“Non me ne andrò mai più”.

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Capitolo 7
*** Capitolo settimo ***


La mattina dopo Phoebe si svegliò felice per la prima volta dopo secoli. Entusiasta si preparò in fretta poi scese giù per la colazione. J
ason la vide e cacciò un fischio.
«Siamo già pronte, principessa? Come mai, siamo di buon umore?».
«Si, papà» disse sedendosi su una sedia con un sorriso.
Jason la guardò strano. Poi Phoebe capì: doveva recitare meglio, Judith odiava la sveglia presto.Doveva stare più attenta…
«Buongiorno Judith! – la salutò il fratello entrando in cucina – oggi ti accompagno io a scuola, vero?».
Phoebe represse uno sbuffo. «Va bene, Ed!» disse con un sorriso entusiasta.
Judith adorava suo fratello ed era sempre entusiasta quando significava passare del tempo con lui. Forse non sarebbe andata così male.
«Allora andiamo!» esclamò il ragazzo prendendo una tazza di caffè in mano.
«Aspetta, Judith, non mangi niente?» disse Jason stupito, fermandoli sulla porta. Phoebe strabuzzò gli occhi: da quanto tempo non mangiava qualcosa?
«Prenderemo un croissant lungo la strada» disse Edward, poi la condusse fuori. Dopo aver fatto colazione ad un bar vicino la scuola la accompagnò in classe.
«Verrò anche a prenderti, promesso» le disse sulla porta. Phoebe represse una smorfia di fastidio.
Gli occhi le si illuminarono di finta gioia «Perfetto!».
Edward le sorrise: non si era accorto di niente.
Poi le diede un leggero bacio sulla fronte. «Ti voglio tanto bene, Judith…» sussurrò.
Phoebe sentì calde lacrime riempirle gli occhi.
«Ti voglio bene anche io…» sussurrò a sua volta.
Poi Edward andò via e Phoebe diede sfogo al suo dolore; non poteva negarlo: lei amava Edward.
Lo amava come non aveva mai amato nessun altro.
Ma lui non la amava.
Lui amava Judith, non lei.
Lui amava la sua sorellina, non il fantasma che abitava nel suo corpo.
Si sentì sopraffatta dal dolore.
Per il resto della giornata non riuscì più a fingere di essere Judith, così che le maestre chiamarono suo fratello: temevano che stesse poco bene.
Mentì a tutti, dicendo che non si sentiva bene e tornò a casa con Edward.
Una volta messa a letto, Edward si sedette accanto a lei.
«Ehi, pulcina, cosa c’è che non va? Mi sembri molto giù…». “Lo sono, stupido idiota. Perché ti amo e sono morta.”
«Non mi sento tanto bene…» sussurrò con voce fievole.
«Va bene, ti lascio riposare, ok?» disse Edward e la baciò di nuovo sulla fronte.
Avrebbe voluto urlargli di smetterla, di andare all’inferno, di sparire dalla sua vita così come ci era entrato; ma sorrise solo dolcemente e lo vide andare via.
Poi si concentrò per uscire dal corpo di Judith. Doveva andarsene da lì, sparire per sempre in un modo o nell’altro. E poi… si sentiva in colpa.
Non voleva rubare la vita di Judith, sarebbe stato sbagliato. Se qualcuno l’avesse fatto a lei l’avrebbe odiato con tutte le sue forze.
Sentì quel calore familiare in tutto il corpo, sentì il suo respiro accelerare, il cuore battere all’impazzata e… era fuori.
Vedeva la bambina dormire tranquilla nel suo lettino, il respiro di nuovo lento.
Chissà se avrebbe ricordato quello che era successo… Phoebe non l’avrebbe mai dimenticato.
Vivere di nuovo era stata l’esperienza più bella… beh, della sua intera esistenza.
Prima non aveva mai apprezzato quanto fosse bello il solo ascoltare il battito del proprio cuore.
Si pentì di aver scelto quella non-esistenza, anche se inconsapevolmente.
«Finalmente l’hai capito» disse una voce spettrale dietro di lei. Anche se non la sentiva da tanti anni la riconobbe: era l’uomo incappucciato. 
«Sì, finalmente… ci ho messo un po’…» disse con un sorriso triste.
«Andiamo?» disse l’uomo, porgendole il braccio.
Con un sospiro, si avvicinò e prese il suo braccio.
«Dove andiamo?» mormorò.
«Oh, in un bel posto… ti piacerà».
Phoebe diede un ultimo sguardo alla bambina addormentata dietro di sé. «Addio, Judith… grazie.» 


Nota:
Questa è stata la prima storia originale che ho scritto e anche la prima che ho postato e...
volevo solo ringraziare chi l'ha letta, ma anche chi ha solo aperto questa storia per curiosità.
Chi ha letto un solo capitolo, chi due, o chi tutta, magari in silenzio.
Ma anche chi non l'ha letta. 
E soprattutto la mia migliore amica che mi ha convinta a scriverla, o meglio a trovare il coraggio di scriverla.
Scrivere è tutto quel che ho.
Grazie.

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