Negli occhi degli uomini - Becoming Deatheaters

di PaleMagnolia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Libri di scuola ***
Capitolo 2: *** Al diavolo! ***
Capitolo 3: *** Casa ***
Capitolo 4: *** Amici per Altea ***
Capitolo 5: *** Politica ***
Capitolo 6: *** Magnifica pigrizia ***
Capitolo 7: *** Summertime and the livin' is easy ***
Capitolo 8: *** Tuttavia ***



Capitolo 1
*** Libri di scuola ***


Avvertenza: il titolo della storia è del tutto provvisorio, buono solo finchè non mi viene in mente qualcosa di semi-decente. Se avete qualsiasi tipo di suggerimento, fatevi avanti: tanto, peggio di così non potrebbe essere. No?


Quel giorno Altea Von Wasser, allieva undicenne nella rinomata scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, era infelice

11 maggio, 1978.


Quel giorno Altea Von Wasser, allieva undicenne nella rinomata scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, era infelice.

Questo perchè Altea Von Wasser, studentessa brillante e Purosangue, non aveva niente di quello di cui le ragazze della sua età hanno bisogno per essere felici.

Le altre ragazze erano carine; le altre ragazze erano vivaci; le altre ragazze erano dolci. Lei non era carina; non era vivace. E non era dolce.

 

Seduta sull’erba nuova e tenera davanti al castello, la schiena appoggiata ad un albero, fissava - di nascosto e con dolorosa intensità - un giovane dai capelli scuri, seduto come lei sul prato fra le grosse radici di un faggio, le esili spalle contro l’imponente tronco ruvido. Non era la prima volta che sorvegliava con lo sguardo quello studente in particolare – era anzi un’attività che la teneva impegnata più spesso di quanto lei stessa non volesse ammettere. C’era qualcosa in lui – qualcosa nei lineamenti duri e nell’atteggiamento guardingo, nel modo in cui i suoi occhi neri sembravano guardarsi sempre alle spalle anche nelle rare volte in cui rideva – che le ricordava se stessa, e al tempo stesso le appariva sfuggente, enigmatico.

Altea reggeva un libro scolastico fra le mani, e lo teneva saldamente davanti al viso per nascondere la direzione del suo sguardo, l’insistenza con cui i suoi occhi pallidi seguivano la linea severa del naso di lui, la piega precocemente indurita delle sue labbra, le ciglia corte e dritte sui fermi occhi neri; la giovane studentessa cercava disperatamente di mantenere un’aria impassibile: non sopportava l’idea che qualcuno potesse accorgersi del suo interessamento: la sua timidezza patologica la induceva alla diffidenza, e temeva sopra ogni altra cosa che gli altri potessero intuire ciò che provava e prendersene gioco.

Non si rendeva conto che - ben lungi da quel che lei temeva - , agli occhi degli altri studenti appariva, col libro sempre davanti al naso e quell’espressione indifferente, una ragazzina acida e scostante, tutta presa dagli studi e incurante della giornata soleggiata, degli altri ragazzi che parlavano e ridevano sul prato, della bellezza maestosa del lago sotto la luce intensa del sole di maggio.

Si rendeva conto, invece, e molto bene – una certezza dolorosa e irritante come una puntura di vespa – che, esattamente come lei, nel suo stesso, identico modo furtivo, il giovane uomo che lei osservava stava fissando a sua volta, con una strana espressione avida e tormentata insieme, un gruppetto di ragazze ridenti, che si erano tolte calze e scarpe per rinfrescarsi i piedi nel lago. Sentendo un grido, Altea si girò verso il lago: tre o quattro studenti dell’ultimo anno, le cravatte annodate con studiata negligenza, senza scarpe e immersi fino alle ginocchia, schizzavano d’acqua le ragazze, provocando strilli acuti fra l’indignato e il divertito; mentre Altea guardava, un giovane scuro di capelli e attraente sollevò di peso una graziosa rossina e, ignorando le sue grida (“James, no, no! – cosa stai... – no no NO!”) e i pugni scherzosi che si abbattevano sulle sue spalle, la gettò in acqua inzuppandole la divisa.

Altea sentì la voce della giovane donna alzarsi in una sequela di minacce (“Stavolta me la paghi, sissignore – oh, se me la paghi...”), la vide afferrare il ragazzo per l’orlo della camicia che lui teneva fuori dai pantaloni, tirare e sbilanciarlo, così che anche lui finì a sedere nell’acqua, ridendo. Altea provò una subitanea, dolorosa fitta d’invidia per quei giochi affettuosi e distolse lo sguardo, fissandolo di nuovo sul suo studente dal viso precocemente sciupato, che aveva stretto le labbra in una smorfia.

Altea vide il giovane - che, come lei, stava osservando la scena - sussultare e distogliere lo sguardo, quando il ragazzo attraente si alzò a metà dall’acqua, scattò di lato e riuscì a stampare un rapido bacio a tradimento sulle labbra della rossa... prima che lei, ridendo e gridando in tono di comica esasperazione, lo rimandasse, con uno spintone, a mollo fino a metà torace.

Lo studente si alzò in piedi con un movimento stanco, da vecchio, appoggiò per una frazione di secondo la fronte contro il tronco dell’albero, in un modo sconsolato che Altea trovò curiosamente toccante, poi si allontanò.

Gli occhi verde chiaro di Altea si riempirono inaspettatamente di lacrime rabbiose, e lei si alzò di scatto dall’erba e si allontanò in fretta, rigidamente, stringendo al petto il libro gualcito e inutile che aveva fatto da schermo al suo viso innamorato.

 

Altea entrò nel castello, imboccò un paio di corridoi alla cieca e si rifugiò, infine, in un’aula deserta e semibuia che odorava d’inchiostro e di polvere.

Senza preoccuparsi di richiudere la porta dietro di sé - tanto, non c’era nessuno: erano tutti fuori a godersi il sole, e il fatto di essere giovani e vivi e senza pensieri al mondo - , appoggiò la schiena contro al muro fresco;  la differenza fra la luce intensa e l’afa dell’esterno e l’umida oscurità delle aule di pietra le risultava stranamente confortante. Chiuse gli occhi, e si lasciò scivolare a terra con un singhiozzo amareggiato.

Lei non sarebbe mai stata – mai stata così: mai le sarebbe successo di ricevere baci di cui fingersi infastidita; nessuno le avrebbe rubato un bacio, perché la sua bocca pallida e seria non era fatta per queste cose.

Mai avrebbe riso e gridato mentre un ragazzo la gettava in acqua per scherzo, perchè nessun ragazzo avrebbe mai scherzato con lei; lei stessa era troppo schiva e selvatica per permetterglielo... Lei, con la treccia nero petrolio e il viso slavato; lei, con le gambe magre e il seno acerbo.

Persino il giovane uomo dal volto pallido e scarno che aveva riconosciuto come simile a lei – ombroso e taciturno, orgoglioso, solitario – , quel giovane uomo che Altea cercava con lo sguardo nei pomeriggi assolati, non l’avrebbe mai guardata come lei lo guardava: nei suoi occhi duri, sotto le ciocche di neri capelli lisci, sedeva ridendo la donna che lei non sarebbe mai stata - il viso inondato di sole, i capelli rossi mossi dal vento, pronta a qualsiasi scherzo o bacio o frase sussurrata il destino benevolo avesse in serbo per lei.

 

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Capitolo 2
*** Al diavolo! ***


“Al diavolo

“Al diavolo!”, sibilò con rabbia infantile, gli occhi di nuovo pieni di lacrime di frustrazione; afferrò la bacchetta, la puntò a caso verso una mensola e soffiò un “Confringo!” che mandò sonoramente in pezzi un’ampolla polverosa.

“Uh, oh!” disse una voce bassa, di gola. Altea sussultò per la sorpresa, e per poco non gridò quando si rese conto che la voce apparteneva a qualcuno che lei ben conosceva: lo studente che aveva spiato sul prato fino a un attimo prima la fissava con un’espressione beffarda sul volto affilato.

“Non si danneggiano i materiali della scuola: non lo sai?”.

Girò lo sguardo sui frammenti della boccetta. “Reparo” mormorò distrattamente con la sua voce stranamente adulta, e l’ampolla si ricompose con un tintinnio delicato e si riposizionò sullo scaffale.

Altea provava un bizzarro miscuglio di sensazioni: da una parte, l’essere così vicino all’oggetto dei suoi pensieri, essere per la prima volta la destinataria delle sue parole e dei suoi sguardi la elettrizzava; dall’altra, il suo lato cinico e disincantato le ricordava che lei aveva undici anni e un viso scialbo e infantile, mentre la giovane che lui così palesemente desiderava era una donna fatta, dai capelli rosso granato e dalla risata argentina.

Lui si appoggiò col fianco contro una colonna e abbassò lo sguardo su di lei. Il viso stanco - mesto anche sotto l’aria di lieve derisione che le stava rivolgendo - dimostrava più dei suoi diciotto anni.

Altea notò che i polsini della sua camicia erano lisi; i pantaloni color antracite e la camicia bianca, che sembravano quasi troppo larghi sul suo corpo ossuto, gli erano però un po’ corti... come se fossero stati acquistati di proposito di una misura in più, ma poi non fossero mai stati cambiati.

La cravatta a righe verde e argento era allacciata a nodo stretto, e il colletto abbottonato fin sotto al mento gli dava un’aria seria, austera.

“Che ci fai qui, ragazzina?” le chiese con la sua strana voce profonda. “Non dovresti essere fuori a prendere un po’ di sole, invece di fare incantesimi che non conosci?”

Altea arrossì. “Non sono l’unica a cui farebbe bene un po’ di sole”, disse con voce agra, salvo pentirsene un attimo dopo. L’ultima cosa che voleva era essere scortese con l’uomo che le faceva tremare i polsi e accelerare il respiro, ma la sua ritrosia, in casi come quello, si trasformava in aggressività.

Il giovane dai capelli neri emise un singulto ilare. “Vero”, disse, poi, chissà perché, il breve sorriso che gli aveva attraversato il viso svanì. “Vero”, ripeté, con una punta di amarezza.

“In ogni caso”, riprese “Il confringo è un incantesimo pericoloso. Non so chi te l’abbia insegnato o dove diavolo tu l’abbia sentito, ma non è certo roba da primo anno. Sul serio, potresti fare del male a qualcuno... Per inciso,” la fissò. “per inciso, non hai risposto alla mia domanda: che stai facendo, qui? E poi, si può sapere chi sei? Di quale Casa fai parte?”

“Mi chiamo Altea Von Wasser, e come puoi vedere da te” Altea afferrò la propria cravatta e gliela sventolò davanti agli occhi con aria di sfida. “sono in Corvonero.”

La miglior difesa è l’attacco.

“Ah, sì. Corvonero”, riconobbe lui, in un tono che non era di ammirazione né disprezzo: piuttosto, di un garbato disinteresse. Altea si sentì oltraggiata: il senso di appartenenza alla propria Casa era forte in lei come in qualunque altro studente.

“E poi” riprese lei in tono polemico, con un rapido passaggio degli occhi pallidi sul suo mantello privo di distintivi “perchè mi fai il terzo grado? Non sei mica un Prefetto.”

Altea si rese conto a malapena di quanto fosse stata scortese: era così offesa, tremava di rabbia... rabbia che non era altro se non l’umiliazione di avere undici anni, di essere piccola e insignificante, e di essere appena stata rimproverata come una mocciosa dall’uomo per cui aveva una cotta disperata.

“Anzi, dimmi un po’: tu, che ci fai qui? Tu chi sei?”, gli ritorse contro.

“Ehi, ehi, a cuccia”, le rispose lui, con un ghigno divertito. “Forse saresti stata meglio a Serpeverde”, aggiunse. "Qualche volta penso che lo Smistamento avvenga troppo presto..."

Altea lo guardò e aggrottò le sopracciglia, confusa. Cosa...?

“Comunque”, sospirò lo studente, staccandosi dal muro. “Quel che è giusto, è giusto. Io, come forse anche tu, avevo bisogno di starmene un po’ per i fatti miei. E, visto che l’hai chiesto, il mio nome è Severus. Severus Snape.” Scrollò le spalle e guardò lontano con quei suoi strani occhi neri senza età. “Non un granché, come nome” disse piano, e forse ricordava una casetta squallida in un brutto quartiere, e un uomo che portava quello stesso cognome...

“Ti si addice”, mormorò Altea, senza riflettere.

Snape alzò lo sguardo, incuriosito. “... Come, prego?”

“Niente” ritrattò lei, in fretta. “Devo... mi sa che devo andare”, disse in un sussurro impacciato, e fece un passo verso la porta.

“Quanta fretta hai tutt’a un tratto, Altea Von Wasser.” Il giovane Snape aveva allungato il braccio di traverso alla porta, per bloccarle il passaggio; e anche se avrebbe potuto agevolmente passarci sotto – lui lo teneva abbastanza alto perché non fosse un vero impiccio - Altea si fermò e si girò a guardarlo di sottecchi. Sul suo viso, improvvisamente serio, non c’era derisione, e la guardava con espressione strana, un po’ triste.

“Che cosa vuoi? Devo andare, ho –  ho dei compiti da fare.”

“Resta un po’ qui, dai. Solo un minuto.” Snape tolse il braccio dal vano della porta e si appoggiò allo stipite. Chiuse gli occhi, e il suo petto scarno si sollevò in un sospiro.

“Raccontami qualcosa.”

Cosa? Ma... cosa dovrei raccontarti...? Non ti conosco nemmeno.” Altea era confusa, e al tempo stesso intrigata. Le sarebbe piaciuto restare lì, in quella stanza deserta e silenziosa, con quello strano ragazzo serio e la polvere che danzava nella luce fioca – fuori dal tempo, fuori dal mondo, solo loro due.

“Non lo so”, mormorò il giovane con voce lontana, assente, senza aprire gli occhi.

“Qualsiasi cosa. Ho solo bisogno che qualcuno stia a parlare con me per cinque minuti, d’accordo? Poi giuro che ti lascio in pace.”

“Ma... Non avevi detto che volevi startene per i fatti tuoi?”

Altea si morse la lingua. Non era quello che voleva dire. L’idea di sedersi per terra e parlare con quel ragazzo tanto più grande di lei con quella sua bizzarra voce da adulto e il volto segnato, che aveva tanto osservato da lontano... L’idea di stare lì a chiacchierare senza scopo per ore, in quella stanzetta polverosa, seduti l’uno di fronte all’altro come due pari, era una fantasticheria talmente attraente...

“Sì, lo so... lo so. Ma tu sei una strana ragazzina - mi ricordi un po’ me (e qui il cuore di Altea ebbe un buffo piccolo sobbalzo). E vorrei dimenticare solo per un attimo quello che mi tormenta sempre.”

Altea restò qualche attimo a guardarlo. Con gli occhi chiusi e quell’espressione tirata sul viso, sembrava ancora più slavato e smunto del solito: sentì d’improvviso un moto di tenerezza e comprensione verso di lui.

“Che cosa vuoi che ti racconti?”, chiese infine. “Le fiabe di Beda il Bardo?”, aggiunse con un sogghigno; ma non era per prenderlo in giro, quanto per farlo sorridere, e lui se ne accorse.

Snape infatti aprì gli occhi e fece un mezzo sorriso storto.

“Raccontami una storia divertente”, le chiese.

Altea alzò le spalle. “Ma non mi viene in mente nulla di divertente.”

“Una cosa qualsiasi.”

“Il Mago e il Pentolone Salterino? Baba Raba e il Ceppo Ghignante?”

“Raccontami di qualcosa che ti è successo quando eri piccola.”

Altea fece una smorfia. “Perchè?”

“La mia infanzia non è stata molto interessante. Mi piace sentir parlare di quelle degli altri: sembra che tutti, a parte me, abbiano fatto cose fantastiche, quando erano piccoli... Campionati di Quidditch, campeggio coi genitori... e feste, balli in quelle loro grandi case...” E qui Snape pensava di certo a Malfoy Manor “... i dispetti agli elfi domestici – io non ho mai avuto un elfo domestico -, e le gite a Diagon Alley, i gelati di Florian Fortebraccio...” Si interruppe.

“Neanche la mia infanzia è stata un granchè interessante.” Altea riflettè un attimo. “Ma ti posso raccontare della mia casa, se vuoi”, disse.

Snape aggrottò le folte sopracciglia nere: pensava all’appartamento malandato in Spinner’s End. “Sì,” disse lentamente. “Raccontami di casa tua.”

E Altea raccontò.

 

 

 


Nel caso ve lo steste chiedendo... Sì, so quanto surreale e poco probabile sia il dialogo in questo capitolo. Ma, insomma, non sono che due ragazzini, uno più asociale e disadattato dell'altro - Altea ha undici anni, perdiana! Non potete pretendere coerenza da lei! XD

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Capitolo 3
*** Casa ***


Altea raccontò della sua vecchia casa di pietra spersa nelle moorlands, degli acquitrini neri di torba nei quali, qualche volt

Altea raccontò della sua vecchia casa di pietra spersa nelle moorlands, degli acquitrini neri di torba nei quali, qualche volta, un viandante perdeva la strada e scompariva; raccontò di come soffiava il vento nelle notti di novembre, facendo sbattere i rami nudi del grande olmo contro i vetri della sua finestra, come dita scheletriche; di come, d’estate, la brezza muovesse le lunghe tende come fantasmi, e le eriche e le ginestre riempissero l’aria di un profumo impresso in modo indelebile nella sua memoria.

Raccontò di come l’interno della grande casa sembrasse sempre in penombra per colpa dei troppi mobili, scuri e imponenti, delle tende polverose e degli arazzi sbiaditi alle pareti. Spiegò ad uno Snape dagli occhi socchiusi che gli unici abitanti della grande casa erano lei, Altea, e suo padre; le grandi stanze deserte non erano posto per una bambina, e quando lei si era stancata di sfogliare i vecchi libri e seguire col dito i minuscoli profili ricamati sulle tele, non aveva avuto altro passatempo se non vagare per la landa come una zingara.

La sua infanzia era stata tutta un camminare su e giù per le colline aride e sassose, da sola, uno scivolare sbucciandosi gambe e braccia sulla terra riarsa; aveva passato i suoi pomeriggi ad osservare, sotto le eriche, i nidi dei serpenti - con quei corpicini viscidi e lucenti che si contorcevano in modo ipnotico – e le buche delle volpi, dalle quali, se si aveva abbastanza pazienza, si poteva vedere emergere una guardinga testolina triangolare.

Così, Altea era venuta su silenziosa e circospetta come gli abitanti delle sue terre: una bambina stravagante, curiosa e paziente, estremamente solitaria.

Standosene praticamente sempre per i fatti suoi, si era abituata a parlare poco e a fare quasi sempre quello che le pareva: l’unica persona che vedeva regolarmente – a parte qualche rara visita di parenti, o gli elfi domestici, che comunque non erano esseri umani – era suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione.

Aldous Von Wasser, naturalista di fama nel mondo magico, era un uomo massiccio dal viso squadrato e gentile, introverso quasi quanto la figlia e completamente assorbito dal suo lavoro - talmente assorbito che tutte le stranezze della figlia venivano tollerate, e lei era lasciata libera di fare ciò che più le piaceva.

Altea adorava suo padre e, per attirarne l’attenzione, non c’era giorno che non tornasse a casa portando nelle tasche del vestito una pianta dall’aspetto insolito, o qualche strana creaturina delle paludi chiusa in un vaso di vetro: con questo o quel campione in mano andava a sdraiarsi sul grande tappeto tarmato, rosso-cupo, della biblioteca – l’unica stanza davvero luminosa della casa – e confrontava l’esemplare con le figure sui grandi libri rilegati in pelle, con l’imponente figura del padre che la osservava, orgoglioso, alle spalle.

Era così che aveva imparato a riconoscere i demonietti acquatici dalle lunghe dita forti e sottili- Snape parve sul punto di dire qualcosa - e i viscidi Vermicoli, e a guardarsi dalle strane creature con la lanterna che sembrano fatte di nebbia, nella torbiera.

La sua frequentazione della biblioteca di famiglia era anche la ragione per cui conosceva, almeno di nome, incantesimi che venivano insegnati nelle classi più avanzate della sua: certo, non sarebbe stata in grado di riprodurre buona parte delle fatture di cui aveva letto, ma il semplice fatto di conoscerne la formula la faceva sentire importante, superiore ai suoi compagni.

Altea parlò (in un modo stranamente chiaro e nitido per una ragazzina) di quanto si sentisse, stranamente, molto più sola ad Hogwarts, dov’era circondata da centinaia di coetanei ma lontana dal suo mondo e da suo padre, di quanto non si fosse mai sentita nelle stanze in penombra o sulle colline spazzate dal vento. Parlò della somiglianza straniante che aveva Hogwarts – con le pareti di pietra che odoravano di muschio e gli alti soffitti, i vecchi mobili e i ritratti sui muri – con il suo cottage pieno di libri in mezzo alla brughiera.

Parlò di quanto fosse strano, qualche volta, svegliarsi nel letto a baldacchino del dormitorio di Corvonero e, per una frazione di secondo, pensare di essere nella sua camera, a casa – pensare, per un attimo, che un elfo domestico le avrebbe portato di lì a poco latte e pane scuro col miele.

Parlò di come talvolta, a colazione, mentre i suoi compagni si allungavano a prendere biscotti al rabarbaro e succo di zucca, e ridevano, si sfregavano gli occhi assonnati o chiacchieravano delle lezioni, lei fosse improvvisamente presa da una lancinante nostalgia di casa, e lo stomaco per un momento le si chiudesse.

Parlò di come, a volte, desiderasse intensamente di stare da sola - mai un minuto per se stessi, convenne Snape -, solo per un po’; le ragazze del suo dormitorio erano tutte più alte di lei, e dall'aria più adulta; ragazze che fuori dalla scuola usavano il lucidalabbra profumato e i jeans tagliati. Le loro conversazioni (i ragazzi più grandi, i vestiti) la infastidivano, l'annoiavano.

Altea parlò e parlò, come non aveva fatto con nessuno da quando era arrivata a Hogwarts; quando infine il flusso di parole si esaurì, e rimasero entrambi seduti qualche minuto sul pavimento senza dire nulla - ma senza imbarazzo, come vecchi amici - si accorsero che la luce era cambiata, e ora l’aula era illuminata solo da un tenue riverbero rossiccio.

“È sera, ormai”, disse infine Snape, alzandosi da terra e stirandosi. “Dovremmo andare a prepararci per la cena.”

La guardò, e abbozzò una specie di sorriso. “Be’, è stato un piacere conoscerti, Altea Von Wasser”, dichiarò; poi uscì dall’aula deserta.

Altea aspettò che fosse fuori portata d’orecchio e si alzò anche lei in piedi. Si appoggiò allo stipite della porta. “Piacere mio”, sussurrò alla stanza ormai buia.

 

Quella notte, Altea quasi non dormì per l’eccitazione. Le ragazze del suo dormitorio provarono a interrogarla, vedendola tornare in camera - per una volta - sorridente, col viso acceso e gli occhi che brillavano, ma lei si infilò a letto in fretta senza dire nulla a nessuno. Rimase a fissare il soffitto per ore - ore meravigliose - sorridendo, pensando e ripensando a cosa avrebbe potuto raccontare al suo nuovo amico il giorno successivo, e poi quello dopo, e quello dopo ancora... A cosa avrebbe potuto interessargli - doveva forse portargli un Avvincino? Lui era sembrato incuriosito, quando ne aveva parlato. Forse gli avrebbe fatto piacere averne uno. Poteva farsene mandare un esemplare da suo padre – ne aveva tanti, nei loro vasi rotondi pieni d'acqua verdastra - , oppure, se non avesse acconsentito, chiedere ad un elfo domestico di spedirgliene uno di nascosto: loro le obbedivano sempre...

 

La mattina dopo, Altea fu la prima ad alzarsi. Filò in bagno e si preparò con particolare cura, lisciando le pieghe della divisa, spazzolando i lunghi capelli neri fino a farli brillare, pizzicandosi le guance per farle diventare rosse. Entrando nella Sala Grande, quasi non riuscì a credere alla sua fortuna: proprio davanti a lei, fermi in capannello a lato della porta, stavano tre o quattro ragazzi dell’ultimo anno: uno di loro, impegnato a spiegare qualcosa che fece ridere gli altri in un modo sinistro, c’era lui, i capelli neri che gli ricadevano flosci davanti al viso.

Altea aspettò di essergli vicina e poi, col cuore che batteva all’impazzata, sollevò una mano in un timido gesto di saluto e gli sorrise.

Le sembrò che Snape l’avesse vista – ma doveva essersi sbagliata, perché invece di rispondere al suo saluto, lui sembrò leggermente a disagio e riprese a parlare ostentatamente col suo compagno.

Altea si avvicinò ancora, fece in modo di incontrare il suo sguardo – stranamente, sembrava che lui cercasse invece di evitarlo – e disse, a voce alta e cristallina: “Buongiorno”.

Il gruppetto di studenti si voltò verso di lei – un paio di loro, notò, aveva visi davvero cattivi – e la fissò con espressione insieme interrogativa e altezzosa. Altea si sentì sprofondare: si girò verso Snape - che, come tutti gli altri, la guardò con aria di superiorità (con una smorfia di scherno sul viso pallido che le spezzò il cuore), come a dire, e questa chi diavolo è?.

Altea sbiancò, scioccata. La Sala sembrò retrocedere e rimpicciolire davanti all'enormità della sua mortificazione, in un modo che le diede le vertigini. Le sembrò di cadere da una grande altezza, al rallentatore.

Perché questo? Perché perché, perché, perchè...?, chiedeva a ripetizione una piccola voce addolorata, da qualche parte in fondo alla sua mente.

La scacciò con forza. Stupida!

Impietrita dalla collera e dalla vergogna, sentendosi tradita e umiliata - lei, che - stupida, stupida, stupida! - aveva ingenuamente aperto il suo cuore ad uno sconosciuto, e ne aveva ricevuto in cambio indifferenza e derisione. Proprio lei, che aveva sempre nascosto ciò che pensava a tutti, si era fidata - sciocca, che sciocca! Povera, stupida, ridicola bambina - del peggiore di loro.

Ricacciando indietro lacrime che il suo orgoglio di undicenne le impediva di versare, si allontanò in fretta e si sedette rigidamente al tavolo della sua Casa, senza guardarsi mai alle spalle. Prese con gesto meccanico un bicchiere e lo riempì di tè freddo, poi lo poggiò sul tavolo senza prendere nemmeno un sorso.

 

L’anno scolastico finì senza che loro due si fossero mai più rivolti la parola; Severus Snape uscì da Hogwarts senza avere risposto al suo saluto.



ninive : sono sicura che ad Altea piacerebbe da matti parlare giorni e giorni di scarabei (o di qualsiasi altra cosa) con Sev (e poi secondo me lei ne sa a pacchi, c'ha il padre naturalista, potrebbe stare per ore a chiacchierare delle abitudini sessual-gastronomiche degli stercorari!), ma temo che per questo capitolo il futuro Potion Master (che è nel suo periodo emo/mangiamorte post-delusione-d'ammoreh) non le abbia lasciato molte possibilità - e comunque, accidenti, non divulgare in questo modo ottime idee per una fanfiction (adesso mi viene davvero voglia di renderli tutti e due carini e coccolosi mentre scambiano figurine - aww!) - se la prossima Ff che scrivo si intitolerà "Harry Potter e il Digimon raro" puoi accusarmi di plagio con tutte le ragioni! XD
PS: Altea è anche la fidanzata storica di Ginko (nonchè, per essere un personaggio di carta, una gran gnocca - ma questo è il mio parere) come ci tiene a specificare il mio moroso che ha (quasi) tutti i numeri di Diabolik compreso copia del magggico n° 1!
sawadee: chissà come mai, ho questa idea che io e te andremmo mooolto d'accordo! :-)
Thiliol: chiedo umilissimamente (umilerrimamente?... no, fa schifo) perdonoH! Ho corretto, giurin giurello!
E dire che sono io la prima ad essere puntigliosa con gli errori degli altri... e poi li faccio io! Beccata in flagrante delitto! :-D


Messaggio ai lettori (solo a veri amanti della grammatica)
confesso che, sinceramente, non so se l'ultima frase sia scritta in lingua italiana. Avrò provato almeno sette o otto versioni diverse, e questa è quella che mi sembra più corretta - o almeno, a quelli a cui l'ho letta suonava meglio/più chiara delle altre.
Le altre comprendevano almeno un paio di righe di subordinate e ripetizioni a gogo, tipo
"l'anno scolastico giunse al termine",
+
congiunzione/punteggiatura
+
"Altea non parlò più con Snape per tutto il resto dell'anno scolastico"
+
congiunzione/punteggiatura
+
"Snape non parlò più con Altea per tutto il resto dell'anno scolastico".
Insomma... fate finta che vada bene, oppure suggeritemi un altro modo più corretto per esprimere il concetto "in tutti quei mesi non si parlarono mai più e l'anno finì senza che nessuno dei due avesse rivolto la parola all'altro un'altra volta", però, ecco... senza tutte queste parole.

...

... Ok, ok, lo so, sono fuori come un balcone, non c'è bisogno che me lo diciate voi...

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Capitolo 4
*** Amici per Altea ***


Per qualche giorno le compagne di classe di Altea seguitarono a chiederle cosa avesse, cosa le fosse successo

Per qualche giorno le compagne di classe di Altea seguitarono a chiederle cosa avesse, cosa le fosse successo. Lei non rispondeva mai, si allontanava con lo sguardo fisso in avanti: come potevano, loro - che vivevano in un mondo gioioso e colorato, coi loro poster dei Cercatori più carini e i rossetti profumati di lampone - come potevano comprendere la sua umiliazione, la sua solitudine?

Alla lunga, stanche dei suoi cupi silenzi, persero interesse per lei e la lasciarono in pace.

Ma Altea non aveva intenzione di restare sola: non più.

Aveva visto cosa la solitudine poteva fare, a quali errori grossolani poteva portare. Però non aveva intenzione di circondarsi di quelle sciocchine delle sue compagne di dormitorio; lei aveva bisogno di amici - no, di alleati – che fossero come lei... che fossero alla sua altezza.

Lei era brillante, era istruita; lei era una Purosangue; i suoi amici dovevano avere pari requisiti. Sarebbe stata attenta, d’ora in poi, a quali compagnie frequentare: mai più si sarebbe trovata nella condizione di poter essere umiliata – mai più avrebbe preso per simile a lei qualcuno che non era altro che feccia mezzosangue, come quel patetico ragazzo.

Una volta aveva pensato che quel giovane dagli occhi neri fosse intelligente, insoddisfatto come lei: ma non era altro che la variante depressa di uno di quei disadattati figli di Babbani: lui, con quei grotteschi abiti fuori misura e i capelli troppo lunghi, che lei aveva, una volta, trovato teneri... e che invece erano soltanto ridicoli.

Altea Von Wasser trasformò il suo dolore in odio e disprezzo, e trovò un bersaglio contro cui rivolgerlo: tutti coloro che riteneva essere inferiori a lei – le stupide ragazzine coi loro rossetti profumati (preoccupate delle scappatelle coi ragazzi e del taglio di capelli), gli studenti mediocri (che non riuscivano nella più semplice delle Pozioni, e sprofondavano in imbarazzati silenzi durante le interrogazioni), i nati Babbani con le loro ridicole domande (“Che cos’è il Quidditch?”) e le loro sciocche abitudini.

Non che i Babbani le dessero fastidio in quanto tali, per una questione di principio: non le interessavano le presunte questioni di purezza o di preservazione delle stirpi magiche, di cui in quei tempi si sentiva così spesso parlare. Era piuttosto il loro essere diversi da lei stessa, ignoranti nelle più banali questioni di magia, a irritarla.

Presto, comunque - questioni di principio o no - Altea si fece la fama di anti-Babbana. E se da un lato questo portò molti a prendere le distanze, fece anche in modo che lei trovasse i suoi primi amici.

Elessa Black, una graziosa biondina Serpeverde dal passo elastico, le si avvicinò un giorno alla fine delle lezioni del mattino, appena prima del pranzo, e le chiese con un sorriso se voleva mangiare con lei e le sue compagne. Altea l’aveva guardata, sorpresa e diffidente: Elessa discendeva da una famiglia molto in vista, Purosangue da generazioni; e, nonostante fosse solo una bambina (era anche lei al suo primo anno ad Hogwarts), aveva parecchie conoscenze all’interno della scuola, ed era a suo modo piuttosto popolare.

Elessa non le aveva mai rivolto la parola, prima, ed Altea sospettò dapprima che la stesse prendendo in giro; ma alla sua allegra insistenza (“Dai, vieni, ci farebbe piacere”, "Sono sicura che ti troverai bene fra noi") cedette, e si ritrovò per la prima volta a mangiare - invece che assieme agli altri della sua Casa - ad un tavolo misto, per buona parte Serpeverde.

Elessa la fece sedere all’estremità del tavolo, dove i suoi amici le avevano tenuto due posti liberi, e la presentò agli altri. “Questa”, disse con un sorriso, tenendole una mano amichevole (ma anche lievemente possessiva) sulla spalla “è Altea Von Wasser”.

Ci fu un coro generale di “ciao”, poi la ragazza alla destra di Altea (capelli fulvi, occhi grigi) le sorrise e le tese la mano. “Io sono Lena, io ed Elessa siamo cugine alla lontana. Tu devi essere la figlia di Aldous Von Wasser; mio padre dice che è uno scienziato di prim’ordine. Erano a scuola insieme, sai?”

Al nome del padre, Altea sorrise, inorgoglita. “Davvero? Chi...”

Ma un’altra delle amiche di Elessa la interruppe. “Oh, ma allora tua madre dev’essere Alia Selwyn!”, disse. “Dicono che fosse straordinariamente bella...”

“Oh, sicuro che lo era” riattaccò Lena che, come Altea avrebbe presto scoperto, era un po' logorroica. “Mio padre – Hesper Prewett, sono sicura che tuo papà se lo ricorda, Altea – era pazzo di lei, ai tempi della scuola. Come tutti, del resto; tua madre faceva girare la testa a mezza Hogwarts, quando era ragazza, sai?... E la gente dice che tu le somigli molto” La guardò sorridendo, maliziosa.

Davanti a quella sequela di chiacchiere Altea si sentiva in imbarazzo, ma anche vagamente compiaciuta, come se la bellezza di sua madre fosse, in parte, merito suo.

Intanto, le parole di Lena avevano attirato l’attenzione degli altri.

“Sono certo che, fra qualche anno, sarai tu a far girare le teste a Hogwarts”, le disse con gentilezza un ragazzo più grande, che si presentò come Lucien Macmillan. “Il fratello di Norma”, precisò, puntando uno scherzoso dito ammonitore verso la ragazza bruna che aveva nominato sua madre “che non ha avuto nemmeno la decenza di presentarsi! Guarda che lo dico alla mamma...”

Norma Macmillan a quelle parole rise e si girò verso Altea. “Luc ha ragione, sono un'autentica maleducata. Mi chiamo Norma, piacere - e scusa i miei modi!” disse cortesemente con un sorriso simpatico, stringendole la mano.

“Ehi, un momento” intervenne, con aria fintamente offesa, un altro studente con i colori di Serpeverde sulla cravatta. “si stava parlando di belle donne, o sbaglio? Signorina Von Wasser, visto che dicono somigli così tanto a tua madre, si consideri prenotata già da ora per il Ballo di Natale!”

Il gruppetto attorno ad Altea rise, ed Elessa rifilò al ragazzo uno spintone scherzoso. “Oh, Nathan!” disse, in tono fintamente indignato. “Sei sempre il solito. Non fare caso a lui, Altea”, fece poi nello stesso tono leggero, rivolgendosi a lei. “È solo Nathaniel Burke; e ti do il permesso di ignorarlo. Ci prova con tutte le ragazze carine - non è vero, Nat?” Altro coro di risate, mentre Nathan incrociava le braccia e assumeva un’aria di offesa tragicomica.

Altea era confusa da tutte quelle attenzioni, e la lusingava essere seduta fra di loro e ricevere i loro sorrisi, i loro complimenti. Si sforzò di rispondere con la stessa disinvoltura. E, anche se non sapeva il perché di quell’improvviso interesse di quel gruppo di ragazzi - raffinati, gentili, attraenti - per lei, decise che lo avrebbe sfruttato al meglio.

 


ninive: le tue recensioni mi uccidono. In particolare:
le si sono scaricate le pile del Nintendo?
Non si scherza su certe cose. Perchè questi sono drammi VERI, c'è gente che soffre VERAMENTE, quando sta per fare il record a Tetris (e vedere il megarazzo suferfèscion che parte solo se superi i 10000 punti) e il malefico aggeggio si spegne di colpo.
Ah, l'ultima frase va bene, te lo dice un'analfa-beta che ride. (ingegnoso gioco di parole, eh? ma quante ne so?)
LOL.
Altea con il lipgloss fino alle sopracciglia e minigonna di gins giropassera
LOL2
Sei molto malvagia a scrivere certa roba, che poi succedono le seguenti cose:

1- io rido come una demente, e
2- mia madre entra, mi vede sogghignare con aria stolida, e parte a dire che
--- a, non faccio mai niente di utile,
--- b, sto tutto il tempo davanti al computer, e
--- c, perchè diavolo non mi cerco un nuovo lavoro?!

nihal93: non so se riuscirò a fare in modo che non diventi mai una MarySue: è dif-fiii-cile (detto in tono piagnucoloso), perchè poi, ai miei personaggi, mi ci affeziono e tendo a idealizzarli.
Però ci sto provando, sul serio!, mi impegno...
("Signora mia, la sua ragazza, qui, ecco... come posso dire... si vede che non è portata per la materia, però ci mette tanto impegno, e lo apprezzo!") XD

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Capitolo 5
*** Politica ***


Altea si trovò presto a condividere tutti i pasti con Elessa e i suoi amici

Altea si trovò presto a condividere tutti i pasti con Elessa e i suoi amici. Tutti loro sembravano beneducati e intelligenti, e spiccavano fra gli altri studenti perché condividevano un freddo fascino, una manierata cortesia, una raffinatezza da aristocrazia decaduta.

Si somigliavano molto, anche, con quei loro volti sereni e gli abiti di buon taglio, i loro gesti misurati e le voci basse e melodiose. I loro discorsi erano arguti, brillanti, spesso spiritosi, e infinitamente più interessanti di quelli delle sue compagne, e Altea si trovò sempre più spesso, il pomeriggio, a studiare con loro invece che coi ragazzi della sua Casa.

Avevano un metodo di studio che ammirava molto - rigoroso, strutturato ed estremamente efficiente: ognuno di loro aveva specifiche mansioni – Elessa, sveglia e pratica, faceva accurate liste delle domande (complete di risposta corretta) più probabili durante le interrogazioni; Lena era l’indiscussa esperta nel preparare tabelle, grafici e diagrammi ed era l’unica a ricordare le date di Storia della Magia; Norma faceva elaborate ricerche in biblioteca e scriveva splendide relazioni per tutti... mentre i ragazzi più grandi si prodigavano a informarle degli argomenti favoriti di ogni insegnante, delle domande che facevano più spesso, delle piccole manie di ognuno di loro.

Ne veniva fuori un meccanismo perfetto, scorrevole ed efficace, e nessuno di loro era mai stato colto impreparato. Mentre gli altri studenti sgobbavano tutto il pomeriggio memorizzando la metà delle informazioni utili, loro lavoravano come una ingegnosa catena di montaggio, e per l’ora del tè erano già ampiamente liberi dall’obbligo dei compiti.

Tutti loro avevano ottimi voti, e se qualcuno mostrava qualche difficoltà in una materia o trovava ostico un argomento – Norma, ad esempio, non aveva un buon rapporto con Trasfigurazione -, gli altri si attivavano in massa per aiutarlo, così da offrire all’esterno un’immagine compatta, senza falle: in questo modo tutti loro sembravano, ad un osservatore estraneo al gruppo, ugualmente brillanti, ugualmente preparati su tutto, inattaccabili da qualunque lato.

Altea li invidiava e li trovava incredibilmente attraenti: ammirava la loro aria di impenetrabile solidarietà, e li sentiva molto più vicini di quanto non avesse mai fatto coi suoi compagni di classe.

Desiderava molto essere come loro, e dato che le loro qualità non sembravano dovute ad una predisposizione naturale ma apparivano intensamente coltivate, decise che le avrebbe acquisite anche lei... e che il modo migliore per farlo era di passare in loro compagnia il più tempo possibile.

 

“... Con questo, naturalmente, non voglio dire che non debbano avere le stesse opportunità di istruzione di tutti gli altri”, stava dicendo Elessa. Altea si sedette accanto a Norma, che le rivolse un rapido sorriso, e posò i libri. Lena le sillabò un "ciao" senza voce, per non interrompere l'amica che parlava. Attorno al tavolo della biblioteca c'erano anche Nathan e il fratello di Norma, che le rivolsero cenni di saluto.

“Però non si può negare che le classi con un’alta percentuale di nati Babbani siano parecchio indietro col programma. Insomma, come si può parlare di Cura delle Creature Magiche, quando metà della classe non è nemmeno sicura che le Creature Magiche esistano davvero?

Risatine.

Elessa riflettè un attimo. “Voglio dire, è chiaro che c’è bisogno di un percorso di studi differenziato... non è molto logico che i figli dei maghi debbano aspettare che i loro compagni Babbani accettino l’esistenza dei Marciotti, per imparare a difendersene, no? Se volete la mia opinione, le classi miste non sono poi questa grande idea. Gli studenti partono con un livello troppo, troppo diverso di preparazione iniziale; e a parer mio serve un qualche tipo di test di valutazione iniziale, in modo da inserire gli alunni in classi differenziate in base al livello di conoscenza. Voi cosa ne pensate?” Girò intorno lo sguardo e vide Altea. “Ah, Tea, sei arrivata." Sorrise. "Tu che ne dici?”

“Sono d’accordo con te”, rispose Altea con decisione. “È impossibile insegnare Trasfigurazione, Pozioni, qualsiasi materia, se prima non si conosce e si accetta il mondo magico. Non si può dare una bacchetta in mano ad un Babbano che non ne ha mai vista una, e pretendere che la sappia usare... Non è certo colpa sua”, aggiunse in fretta “non voglio assolutamente dire che i nati Babbani non possano diventare ottimi maghi, tutt'altro... Però è chiaro che partono svantaggiati: se i tuoi fratelli sono maghi, i tuoi genitori sono maghi, persino i tuoi nonni erano maghi, e tutti i tuoi amici sono maghi, hai un approccio decisamente più naturale - come posso dire?, facilitato - alla magia, di quanto non possa avere qualcuno i cui genitori sono, che so io, fruttivendoli.”

Altre risatine.

Lena intervenne. “Prendete quella biondina, come si chiama? Amy Abbott. Secondo me, è brava quanto e più di molti Purosangue di mia conoscenza – vero, Nathan?” Gli altri risero. “Ma la fatica che ha fatto i primi mesi...!”, riprese. “La maggior parte delle volte, quella povera ragazza non riusciva nemmeno a capire di cosa diavolo stesse parlando l’insegnante!”

Si guardò intorno: molti annuivano.

“La presenza dei figli di Babbani in classe rallenta l’apprendimento degli altri, ma soprattutto è un disagio per loro stessi!” Altro giro di sguardi d’approvazione. Lucien Macmillan assentì energicamente. “Insomma, vi piacerebbe, da un momento all’altro, essere scaraventati in una classe Babbana e dovere improvvisamente imparare a usare tutti i loro strani concetti e quei buffi congegni – le penne a sfera e il sussidiario e il sistema metrico decimale, e quell’altra cosa, com’è che si dice...? Ah, sì, la calcolatrice - e a studiare la storia Babbana e la loro letteratura? Come pensate che vi sentireste? Spiazzati, ecco come. Personalmente, io non so se ce la farei.”

“Per non parlare del fatto che la quantità di magia che possiede un nato Babbano non può essere di certo pari a quella di un figlio di maghi!”, dichiarò Nathan, del tutto a sproposito.

“Nat!”, lo interruppero tutti gli altri a una voce sola, indignati.

“Questo non... Non ci sono prove...” balbettò Lucien. “...che essere un mago da generazioni porti ad avere magia quantitativamente o qualitativamente superiore a...”

“Ma dai, pensateci!” ribattè Nathan. “Pensate alle piante, pensate a... pensate all’allevamento...”

“Ma, Nat, non puoi certo paragonare...” tentò di interromperlo Norma, ma senza successo.

“Pensate, ecco, all’allevamento dei cavalli.” Il padre di Nathan possedeva una scuderia di grande valore, e Nat parlava con competenza. Elessa storse la bocca, ma lui non la vide.

“Per ottenere un purosangue da competizione serve che abbia un’ottima genealogia, pura da generazioni. Non si ottiene un  magnifico Thoroughbred incrociando una coppia di Clydesdale, no? Al massimo potrai avere un buon animale da tiro, ma non un cavallo da corsa.”

“Ma Nat...” Fece Lena, debolmente. Altea era sdegnata quanto gli altri da quel ragionamento da fanatico, ma tuttavia si sentiva anche, stranamente, confortata, sicura di sé e a proprio agio nella sua posizione di Purosangue.

“Basta, questo tipo di discorsi non mi piace”, tagliò corto Elessa, fissando Nathan coi penetranti occhi azzurri. “Qui si parlava soltanto di differenze a livello di conoscenza.” Si guardò intorno, come a sfidare qualcuno a contraddirla, ma Nat - che aveva una cotta neanche troppo segreta per lei - si era zittito sotto il suo sguardo ammonitore.

“Su, torniamo a Storia della Magia" Aprì il libro con gesto secco, come a troncare qualsiasi obiezione. "Dove eravamo rimasti?”

 

 


Thiliol: tu mi fai troppo onore! Guarda che non so se riuscirò a mantenere questa storia - e la sua protagonista - interessanti fino alla fine... Ma sto facendo violenza a me stessa per mantenere IC Snape, questo te lo garantisco!

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Capitolo 6
*** Magnifica pigrizia ***


Altea prese l’abitudine di invitare i suoi amici nella sua grande casa di campagna, con sempre maggior frequenza

Altea prese l’abitudine di invitare i suoi amici nella sua grande casa di campagna, con sempre maggior frequenza.

Elessa e gli altri trovavano tutto (dai candelabri d’argento agli arazzi, dalle tende tarlate al più vecchio degli elfi domestici) “delizioso”, definivano suo padre “affascinante” e le moorlands “incantevoli”, e presto finirono per passare lì buona parte delle vacanze.

Il padre di Altea si soffermava talvolta a chiedere informazioni sui loro genitori – suoi vecchi compagni di scuola o lontani parenti (tutte le grandi famiglie magiche erano imparentate), e sembrava compiaciuto degli amici della figlia.

Nelle sere d’inverno, i sei ragazzi sedevano mollemente a chiacchierare fino a tardi attorno al grande camino della biblioteca: accaldati e assonnati, un bicchiere di idromele in mano, ridacchiavano nella stanza in penombra, illuminata solo dal riverbero delle fiamme.

Lucien Macmillan si metteva talvolta seduto al grande pianoforte a coda e - le maniche della camicia rimboccate, un bicchiere di whisky incendiario sul sedile accanto a lui  - suonava distrattamente brani di musica classica. Lena Prewett seguiva la melodia muovendo la mano a mezz’aria, a occhi chiusi, la testa abbandonata all’indietro sulla poltrona.

Erano tutti abbastanza inclini a bere, e spesso passavano le giornate immersi in un dolce torpore, con merende a base di succo di zucca e sandwich sotto le querce – Elessa, vestita di bianco, che si dondolava pigramente sulla vecchia altalena, Lucien e Nathan sdraiati sull’erba col braccio sugli occhi – e compiti di Incantesimi sulla veranda, con le tazze di tè accanto e gli elfi domestici che si avvicendavano – eccitati per l’inconsueta presenza di ospiti – per portare loro tartine e biscotti allo zenzero. Qualche volta, se il tempo era bello, facevano una passeggiata sulle colline o andavano fino alle torbiere per cercare di avvistare un Avvincino (senza troppa convinzione, di solito ridacchiando e spintonandosi); ma la maggior parte del tempo la passavano ciondolando sul patio, ridendo, oppure oziando nella biblioteca.

Elessa, Lena, Norma, Nathan e Lucien. E lei stessa. Altea si rendeva perfettamente conto, con una sensazione di calore e fierezza, che erano dei privilegiati, tutti loro, per poter indugiare in quella magnifica pigrizia: circondati da servitori pronti ad esaudire ogni loro richiesta, a portare il tè su vassoi d’argento, a versare loro Aquaviola in vecchi pesanti bicchieri di cristallo sfaccettato.

Sei giovani intelligenti e ricchi, dai modi raffinati, che abitavano in belle case e venivano invitati dalle famiglie più in vista.

Non tutti i maghi erano così fortunati; nemmeno i Purosangue erano tutti facoltosi e di buona famiglia come loro.

“Pensate un po’,” aveva detto Lena una volta. “Una mia cugina – si chiama Molly, è più vecchia di me - ha appena sposato un Weasley. È un Purosangue anche lui, ma è senza un soldo, povero diavolo, e adora tutte quelle cose Babbane... le auto-mobi-li, e la televisione e tutto il resto. Una vera passione.” C’era stato un coro di “ma dai” e “non ci credo”.

Lena aveva bevuto un sorso di Burrobirra e annuito. “Uh-hum. I miei zii l’hanno disconosciuta, povera Molly. Mi dispiace un po’ per lei; dover fare tutte le faccende di casa senza un solo elfo domestico, e non poter più presentarsi a nessuna festa... Sapete, dicono che suo marito è” e qui abbassò la voce “un traditore del proprio sangue”. Tutti parvero molto impressionati. “Anche se, a dirla tutta, non so che significhi”, aveva concluso Lena.

“Io sì”, aveva ribattuto acidamente Nathan, ma nessuno aveva fatto caso a lui.

 

Una sera in cui, durante le vacanze invernali, si trovavano tutti a casa di Altea, erano arrivati al cottage sei gufi arruffati e coperti di neve, portando altrettante inviti.

Al maniero dei Malfoy veniva data la tradizionale festa di Natale, e le ragazze – eccitate, con abiti da sera che lasciavano nude le belle, giovani schiene, avevano ballato coi rampolli dei casati più importanti sotto un enorme, luccicante candelabro di cristallo e a milioni di candele sospese a mezz’aria.

Altea aveva ballato un valzer anche con Lucius Malfoy che, pur essendo molto più vecchio di lei, era straordinariamente attraente; aveva anche scambiato qualche parola cortese con la sua bellissima moglie, Narcissa (nata Black), che mostrava, nei capelli biondi e nel viso bianco e delicato come porcellana, una vaga somiglianza con la lontana cugina Elessa.

Ad un certo punto, mentre Lucius (un bicchiere in mano) raccontava ad Elessa qualcosa che la faceva ridere, un uomo sui sessant’anni imponente e aristocratico, con freddi occhi grigi e lineamenti duri, si era avvicinato ad Altea, che si era seduta fra una danza e l’altra e si stava facendo aria con un piccolo ventaglio.

“Devi essere la giovane Von Wasser, la figlia di Aldous" le aveva detto. "Ho sentito che tuo padre è molto orgoglioso dei tuoi ottimi risultati a scuola. La cara Elessa... come già saprai, il nostro casato e quello dei Black sono molto legati... Elessa, dicevo, pensa sia un vero peccato che tu non sia una Serpeverde: la sua Casa ha perso un’eccellente strega, quando sei stata smistata in Corvonero. Spero che tu ti stia divertendo alla nostra piccola festa”, aveva concluso cortesemente, con voce bassa e profonda.

Altea aveva notato che si appoggiava ad un bastone col pomolo d’argento a forma di testa di serpente: doveva essere Abraxas Malfoy, il padre di Lucius.

Aveva annuito, e lo aveva ringraziato, non sapendo bene cosa dire.

“Conoscevo tua madre. Tu le somigli davvero molto, sai? Era una donna molto bella.”

Detto questo, l’uomo si era spostato conversare brevemente anche con Lena e Norma; poi aveva dato una paterna pacca sulla schiena a Nathaniel e una vigorosa stretta di mano a Lucien, ed era passato a intrattenere gli altri ospiti.

Altea era rimasta seduta, un po’ confusa.

Tutti le dicevano che somigliava moltissimo a sua madre; ma non era del tutto vero.

Alia, la madre di Altea, era dolce e riservata, ed aveva ereditato dai genitori - aristocratici del Sud – quella raffinatezza e quella grazia misurata che possono venire solo da una predisposizione naturale.

Era anche una donna di una bellezza non comune; attorno al viso delicato e regolare, un poco malinconico e chiaro come una magnolia, aveva lucidi capelli nero-inchiostro, sempre raccolti in un pesante chignon sulla nuca o avvolti in una grande treccia attorno alla testa, e sopracciglia dritte e sottili dello stesso colore; ciglia ugualmente nere ombreggiavano incantevoli occhi verde pallido - luminosi come berillo -, le iridi bordate di verde più scuro.

Altea aveva gli stessi capelli scuri e identici occhi chiari, ma quello che nella madre era una bellezza fiera, in lei era fierezza allo stato puro; quel che in Alia era riserbo, in lei era diffidenza. Vedendola così pensierosa, Lucien Macmillan le si era avvicinato e si era seduto accanto a lei. “Cosa c’è, Tea?”, le aveva chiesto gentilmente, sorridendo. “Uno Kneazle ti ha mangiato la lingua?”

Altea aveva risposto al suo sorriso. “No. È che tutti continuano a dire che assomiglio a mia madre.”

Aveva fatto una smorfia. “Ma non importa. Andiamo a ballare”

 

 


ninive: mi deludi molto *assume aria profondamente delusa* - insomma, allora non stai attenta quando parlo! Non sono capace di fare gli schemi e i grafici a grappolo e gli insiemi di Eulero-Venn, per quello devi chiedere alla Prewett! Io se vuoi faccio i bigliettini per i compiti in classe di Slughorn, per tutto il resto devi andare dagli altri.
Comunque.
Sì, in effetti ultimamente c'è un po' di affollamento nella vita di Altea "MiniDiGinsGiropassera" Von Wasser... ma è un po' come quando ho letto Deathly Hallows: ogni due o tre pagine zompava fuori qualcuno (Dean Thomas, Yaxley, Stanley Shunpike) e io non facevo altro che dire fra me e me (che fra l'altro c'è pochissimo spazio - oh, oh, come sono divertente)(no) "Hmmm, e adesso questo qui chi minchiacazzo era?" (e chiedo scusa per il francesismo)(e per le parentesi)(prometto che non le uso più).
Però, da brava fanghèrl, facevo finta di ricordarmelo beniSSimo e procedevo felice nella lettura.
E' questo il trucco.
Fare finta di niente, sorridere e avvicinarsi lentamente all'uscita più vicina.

Per quanto riguarda la mia magggica vena fanficciara - ho un segreto segretissimo e superfescion: per una volta nella mia grama vita, ebbene sì, siore e siori... *rullo di tamburelli* ho FINITO UNA STORIA.
Cioè, sì, ecco, non è proprio finita-finita, ci sono ancora alcune scene da scrivere e un paio da rivedere *coff coff*completamente*coff coff*, ma in generale so come comincia, come procede e anche - udite udite - come finisce, e una buona parte è già stesa e pronta per la sequenza di maturazione di ogni capitolo, che si compone di otto (8) fasi
- sedimentazione & fermentazione della storia (1 o 2 notti)
- rilettura & superamento della fase "Schifo Assoluto per Quanto si è Scritto in Precedenza/Tremenda Vergogna per La Propria Evidente Incapacità di Usare la Lingua Italiana/Rifiuto Totale Di Ogni Tipo di Paternità del Capitolo", fase che mi prende ogni volta che rileggo qualcosa di mio scritto il giorno prima
- revisione grammatical/logico/formale
- aggiunta/rimozione di parti varie ed eventuali
- pubblicazione
- commento di ninive
- LOL loudissimo da parte mia
Anzi, proprio questa novità di avere una storia quasi completa fra le mani fa sì che non veda l'ora di portarla a termine: sai, per una volta che (gente, adesso cantate tutti con me: ... Briii-gitte Bardot, Bardot! Braaa-ziiilll, na nanana na na nanaaaa...) SO COME FINISCE, mi sento fighissima... (ma quanto sono fèscion, eh? EH? QUANTO SONO FESCION!!!)(ok, no)(accidenti, ho usato di nuovo le parentesi)

Per concludere, per quanto riguarda:

"Elessa: allora, ti piace Nathaniel?
Altea: ehm, quello con i baffi?
E: no.
A: ha gli occhiali?
E:no
A: le lentiggini? Oh, scusa, non ti ho chiesto se è un maschio o una femmina..."

Ti odio. Davvero. Ti odio e ti detesto.

...

(lol)

PS: le tessere ce le ha Norma, chiedi a lei - ma temo che le abbia usate per accendere il fuoco sotto il calderone; dovresti pagare 10 zellini di iscrizione, ma te li abbuono perchè oggi sono fèscion.

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Capitolo 7
*** Summertime and the livin' is easy ***


Non posso dire che questo capitolo mi convinca del tutto (anzi), ma ormai l'ho maneggiato e riveduto e ritoccato e cincischiato talmente tante volte che, ormai, provando a migliorarlo faccio più danni che altro.
Quindi ho deciso che va bene così, e amen.
Lo so, potrebbe essere molto migliore di quel che è (cioè ridondante, e in certe parti un po' banale) ma, davvero, ormai ho la nausea a forza di rileggerlo.
Fra l'altro, è abbastanza probabile che ci sia qualche ripetizione/errore/incongruenza: scrivendo e ri-scrivendo le stesse parti troppe volte sono sicura che ci sarà rimasta qualche sfasatura, ma ormai ho riletto talmente tante volte che - non so come dire - *non vedo* più il testo, ma vado praticamente a memoria e quindi gli errori mi sfuggono... Capite cosa voglio dire, vero? (no, eh) (oh, be', fa lo stesso) (comunque, i suggerimenti/le segnalazioni di errori/le critiche sono benvenuti).

Negli anni, Altea cementò sempre di più il suo legame con gli altri componenti del gruppo

Negli anni, Altea cementò sempre di più il suo legame con gli altri componenti del gruppo.

Formavano una strana compagnia: chiusa, più simile ad una setta o una casta che ad un gruppo di amici; i suoi membri erano così strettamente dipendenti l’uno dall’altro, così forti del reciproco sostegno, che sembrava impossibile potessero esistere come individui separati.

All’osservatore casuale, i sei ragazzi potevano sembrare interscambiabili, tanto simili erano: attraenti e alteri, dai lineamenti regolari e dai movimenti fluidi, le voci egualmente basse e piacevoli.

Elessa, Serpeverde fino al midollo, cresceva in fretta, e la ragazzina bionda e graziosa che aveva la dote di aggregare gli altri attorno a sé lasciò gradualmente il posto ad un’adolescente ambiziosa, brillante, dalla notevole predisposizione al comando; coi soffici capelli biondo miele dalla riga laterale, gli occhi azzurro cupo e il carattere deciso e carismatico, Elessa Black era un’accentratrice, una delle studentesse più ammirate della scuola. Ciò che lei diceva, a Hogwarts era legge: lei lanciava le mode, lei decideva cosa era giusto e cosa sbagliato: anche chi la detestava temeva un suo sguardo di disapprovazione.

Nat Burke era pazzo di lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerla: scuro di capelli e di occhi, il viso stretto e scaltro, volpino, era attraente in un modo ambiguo, oscuro. Snello, sempre pronto a indossare qualcosa di elegante ogniqualvolta poteva evitare di portare l’uniforme della scuola; con le sue camicie col monogramma e i pantaloni su misura, era quasi troppo raffinato per essere solo un ragazzo: ma questo era il suo modo di distinguersi dai nati Babbani in jeans e maglietta - di ribadire costantemente la sua superiorità, la purezza delle sue origini.

Lena Prewett (o Lenny, come veniva chiamata) diventava alta e snella, fin troppo magra anzi, con un’aria quasi mascolina; vivace, dall’aria maliziosa, aveva gambe lunghe e capelli ramati, e col suo humour e incessante chiacchiericcio – parlava in continuazione, di qualsiasi cosa, con una voce acuta e sonora, inconfondibile anche da lontano - contribuiva a mantenere un tono leggero nel gruppo, a evitare che i suoi compagni si prendessero troppo sul serio. Era una delle poche persone che sapeva far ridere Altea.

Norma e Lucien Macmillan condividevano i capelli castano miele e i grandi, umidi occhi nocciola. Avevano entrambi una voce bassa e dolce, lo sguardo trasognato; Norma era graziosa, dalle forme morbide, con la grande bocca rossa e un neo tondo sulla guancia, e la sua ingenuità e la sua timidezza erano stranamente attraenti: i ragazzi della sua Casa la invitavano spesso ad uscire, ricevendo da lei cortesi ma fermi rifiuti.

Aveva una sua piccola andatura sognante, la tendenza a divagare e una passione (più unica che rara, date le caratteristiche soporifere dell’insegnante) per la Storia della Magia e, in generale, per tutto ciò che era nebuloso e impreciso: più confuso e indeterminato era l’argomento - più vaghi erano i suoi confini con la leggenda e le favole - più lei poteva perdersi ad infiorare le sue relazioni (straordinariamente lunghe e articolate, ricevevano sempre il massimo dei voti) con oscuri particolari e informazioni nebulose scovate in biblioteca.

Lucien, candido e timido come la sorella, era attraente in un suo modo femminile, delicato: le ragazze della sua classe erano tutte piuttosto infatuate di lui, che aveva un viso regolare, parole gentili per tutti, e fini capelli lisci che gli ricadevano sugli occhi.

Altea, eccezione fra i suoi attraenti compagni, continuava ad essere abbastanza insignificante. Dotata di uno straordinario talento in Incantesimi e anche (unica fra i suoi compagni, che la trovavano terribilmente noiosa e non frequentavano le lezioni) in Aritmanzia, era entrata presto – come tutti loro, del resto, Elessa in testa – nello Slug Club; ma mentre Elessa o Norma facevano strage di cuori durante le “festicciole” del professore, e incantavano l'insegnante (immancabilmente deliziato dalla personalità di Elessa, dalla vivace intelligenza di Lena, e perfino, in misura minore, dalla sognante dolcezza di Norma) Altea restava, verso chiunque a parte i suoi amici, la ragazzina solitaria e scostante che era ad undici anni.

Era una presenza lievemente inquietante, con i capelli nerissimi e pesanti raccolti in acconciature fuori moda, e gli occhi troppo chiari, cristallini: il viso affilato e regolare era forse piacevole, in un suo modo spigoloso, algido, ma così inespressivo e sprezzante da dare i brividi.

Arrogante nella sua intelligenza, caustica, con un senso dell’umorismo tagliente come un coltello, la giovane non aveva certo molti ammiratori; in compenso, per qualche strana ragione nota soltanto a lui, il dolce Lucien le era devoto in modo fanatico, la seguiva come un cucciolo di cane: le portava i libri, le teneva il posto accanto a lui a pranzo.

 

Quel giorno – una bella, luminosa domenica nel settembre 1980, appena prima dell’inizio della scuola (le foglie degli alberi colorate di gloriosi rossi e arancio contro il cielo puro e limpido come vetro) – Altea e gli altri sedevano, come al solito, sotto le querce del cottage dei Von Wasser.

Le ragazze erano tutte vestite di bianco, come figure di un quadro impressionista, gli uomini con bretelle e scarpe di tela; dalla finestra aperta della casa giungeva, affievolito, il suono di un vecchio vinile (il padre di Altea amava la musica, e spesso suonava i vecchi brani dolci e malinconici che la moglie aveva amato), che girava su un grammofono d’ottone malconcio.

Elessa, indolentemente sdraiata sull’erba, gli occhi socchiusi sotto il braccio e la bionda chioma lucente aperta a ventaglio sull’erba, stava parlando con voce monotona e piacevole, lievemente roca. Era una giornata bellissima, meravigliosa, e Altea era intenta a guardare i fili d’erba, che si stagliavano uno ad uno con opprimente chiarezza nell’aria trasparente; seduta sul prato con la testa di Lucien in grembo, la ascoltava distrattamente, cogliendo qualche frase qua e là.

 “... insopportabilmente mediocri. Davvero, io proprio non capisco per quale motivo dobbiamo vivere in questo ambiente in decadenza, circondati da gente così limitata, ordinaria...

Le venature di ogni foglia nitide e perfette come in un sogno, il cielo talmente azzurro da fare male. Altea prese un sorso d’aria profumata di ginestra, acutamente, dolorosamente consapevole di essere viva e giovane in una giornata splendida come quella, di essere ricca e intelligente e circondata di persone pari a lei in capacità e condizione; una privilegiata in ogni frangente.

Poteva avere qualsiasi cosa, si disse; non aveva che da allungare la mano e prendere ciò che voleva. Successo, potere, felicità: tutto a portata delle sue dita, tanto vicini che poteva sfiorarli.

Qualsiasi cosa...

Altea si ritrovò a pensare, stranamente, ad un uomo che se n’era andato tanto tempo prima, e non aveva mai più rivisto. Non l’aveva mai dimenticato completamente, quel giovane oscuro e tormentato con cui aveva parlato soltanto una volta: ci pensava anzi spesso, chissà perché.

Il grammofono gracchiava con suono dolce e roco una vecchissima canzone. Altea chiuse gli occhi: le parole di quella canzone, la cadenza lenta e strascicata le sembravano, stranamente, riflettere il suo stato d’animo, contenere chissà come un messaggio per lei, una voce che le parlava attraverso la polvere del tempo.


Summertime and the livin' is easy
Fish are jumpin' and the cotton is high
Oh your Daddy's rich and your Ma is good lookin'
So hush little baby, don't you cry


“... chi viene da famiglie antiche e prestigiose come le nostre non dovrebbe essere costretto a condividere i suoi studi con persone così grossolane - senza la minima conoscenza della nostra storia, delle tradizioni del mondo magico, senza coscienza di...

L’aria tiepida e carezzevole, il dolce monotono frinire delle cicale sullo sfondo.

 “... e non intendo solo i nati Babbani, penso piuttosto a quelle famiglie che non si curano affatto delle usanze e dei modi che sono stati dei maghi per secoli, per generazioni e generazioni... come quegli Weasley, ad esempio – scusa, Lena, ma è così – o quegli altri Longbottom...

Altea giocherellava coi capelli di Lucien.


One of these mornings
You're goin' to rise up singing


“... nessun rispetto per la nobiltà, la bellezza, l’arte... tutto quello a cui pensano i maghi e le streghe di oggi è compiacere quegli sciocchi Babbani, dimostrare a tutti che non li considerano inferiori - oh, non sia mai, anzi: che i Babbani sono pari a noi, no, no, che dico: superiori... La virtù di oggi è l'umiltà: i maghi non devono sentirsi migliori dei Babbani, oh, non sia mai!, come se non avessimo dav-ve-ro" Elessa scandì la parola sferzando l'aria con la mano "qualcosa in più di loro." Elessa cominciava a scaldarsi. "No, perché invece non strisciamo ai loro piedi come se fossimo i loro servi, i loro giullari, come se l'antica magia dei nostri padri fosse un gioco, un trucchetto da prestigiatore per divertirli...?

La voce di Elessa si stava alzando, ma Altea – gli occhi chiusi, la testa gettata all’indietro sulle spalle, era invece (complice l'aria dolce e immobile e il profumo di ginestre, la bellezza languida di quel pomeriggio di fine estate) stranamente rapita dalla voce sottile che cantava per lei dal polveroso giradischi.


Yes, you'll spread your wings
And you'll take the sky


“... per questo io credo davvero che dovremmo pensare, e seriamente, all’opportunità di unirci a quel mago... sapete chi intendo... Lord Voldemort.”

Altea rialzò di scatto la testa, improvvisamente vigile.

Anche gli altri avevano alzato gli occhi di scatto, interrompendo qualsiasi cosa stessero facendo, ed erano rimasti congelati nella loro posizione, gli occhi sbarrati: muti e attoniti come animali notturni abbagliati dai fari di un’auto.

Tutti guardarono verso Elessa, che, un braccio a schermarsi gli occhi dal sole autunnale, rimase sdraiata come se niente fosse sull’erba verde smeraldo,


Per il gioco interattivo di oggi,

“Entra Nel Mondo Decadente, Dandy ed Elitario di Altea e Dei Suoi Ricchi Amici Pureblood”


potete ascoltare la canzone citata (preferibilmente circondati da affascinanti rampolli di famiglie Purosangue, e con un elfo domestico che vi porta limonata fresca), cliccando qui:

  http://www.youtube.com/watch?v=J8jRgPcO7JQ

 

E poi non dite che non penso a voi: io vi vizio, lettori miei adorati, io vi vizio...

Per quanto riguarda la musica, mi baso sull'assunto che - come succede per altre cose nel Potterverse: le figurine, i giornali, gli sport etc. - quella del mondo magico e quella Muggle si influenzino a vicenda; fate finta quindi che quello linkato sia un pezzo magggico, cantato da una bisnonna di Celestina Warbeck.
D'altronde, se non c'è qualcosa di magggico nel jazz, non so dove altro potrei trovarlo... XD

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Capitolo 8
*** Tuttavia ***


All’epoca Voldemort faceva molti proseliti; le sue idee (le grandi famiglie purosangue devono dominare, mettere in ginocchio i propri nemici - e prima di tutti i Babbani, responsabili della decadenza della magia... della contaminazione del sangue) trovavano sostenitori più o meno entusiasti in tutte le fasce sociali, fra maghi di età diverse, diversa formazione.

Fra i giovani, le sue parole raccoglievano i consensi degli esaltati, dei provocatori e degli irrequieti in generale; sia dei fanatici, influenzati dai mistici richiami al mito del sangue puro e della supremazia sui Babbani, che dei piantagrane, in cerca di una scusa qualsiasi per menare le mani.

Le idee di Lord Voldemort facevano leva sulle paure dell’aristocrazia magica, sul terrore di perdere la propria autorità – e con l’autorità il potere, il denaro, il rispetto.

Di perdere tutto.

Nelle grandi famiglie – i Black, i Greengrass e i Lestrange, i Burke, i Malfoy – che avevano basato tutta la propria condotta sull’orgoglio e sullo status di sangue, s’insinuava il timore di perdere la propria supremazia.

Dopo generazioni – decenni, secoli! - passati ad imprimere a fuoco nei figli e nei nipoti e nei pronipoti (anni passati a ripeterlo a se stessi, continuamente, per tutta la vita) quali erano gli onori e gli oneri legati indissolubilmente alla nobiltà – la lealtà sopra ogni cosa, il dovere, l’onore... il rischio era di ritrovarsi ad essere delle persone come le altre.

Di confondersi in mezzo agli altri.

Di non essere più nessuno.

E tutti quegli anni passati a costringere se stessi a mantenere un comportamento onorevole – tutto per niente...

 

Dopo quell’assolato pomeriggio sotto le querce (foglie rosse e gialle che turbinavano come coriandoli; cinque persone immobili come figure di un quadro, i visi congelati in espressioni di stupore, sgomento, confusione), non si era più parlato della proposta di Elessa.

Come se non fosse stato chiaro, fin da subito, che prima o poi si sarebbe arrivati a quello…  Quando ognuno di loro, ogni momento – con gli abiti che portava, le persone che frequentava, le abitudini che assumeva giorno dopo giorno – aveva contribuito a spingerli tutti verso quel passo.

Tutti giravano attorno all’argomento in punta di piedi, attenti a non toccarlo. Persino Nat, che fra tutti era stato l’unico a mostrare all’inizio un cauto entusiasmo rispetto all’idea, ora evitava accuratamente di farvi qualsiasi accenno, circospetto come un gatto che schivi una pozzanghera.

Altea, che come gli altri aveva espresso orrore e sconcerto (e in un qualche modo anche in buona fede, fermamente convinta di essere davvero inorridita, di essere davvero sconcertata) aveva però, in fondo in fondo – un’idea piccola piccola sepolta sotto molti strati di civiltà e di superiorità morale - l’inconscia sgradevole fastidiosissima sensazione che Elessa avesse ragione – che i diritti di quelli come loro fossero davvero in pericolo, necessitassero davvero di una protezione. E pensava anche – ma di questo non poteva essere certa – che sotto le esclamazioni sgomente e gli sguardi scandalizzati dei suoi amici ci fosse una consapevolezza simile, una simile paura.

Ad Altea ripugnava l’idea di Elessa.

Era logico che la ripugnasse (non era logico...?).

Unirsi a Lord Voldemort? Ma andiamo!, quello era un assassino, aveva ammazzato della gente, per l’amor del cielo!

Eppure...

Eppure le balenava di continuo questa immagine (fuggevole, davvero, non più di una frazione di secondo per volta) davanti agli occhi, della Sala Grande – ed era la sua Sala Grande, con le meravigliose candele a mezz’aria come le aveva viste il suo primo giorno di scuola,  coi tavoli di legno vetusto e i camini scoppiettanti dal fumo profumato di resina, bellissima e oscura e piena di magia – invasa da marmocchi in jeans che ridevano delle tradizioni magiche, perché erano troppo stupidi per capirle.

No, riconobbe Altea, non troppo stupidi. Troppo prevenuti. Troppo abituati alla loro vita di corn flakes e pattini a rotelle e gomma da masticare e... e tutte quelle altre cose assurde che facevano i Babbani.

 

 

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