“Al diavolo!”, sibilò con rabbia infantile, gli occhi di
nuovo pieni di lacrime di frustrazione; afferrò la bacchetta, la puntò a caso
verso una mensola e soffiò un “Confringo!” che mandò sonoramente in
pezzi un’ampolla polverosa.
“Uh, oh!” disse una voce bassa, di gola. Altea sussultò per
la sorpresa, e per poco non gridò quando si rese conto che la voce apparteneva
a qualcuno che lei ben conosceva: lo studente che aveva spiato sul prato fino a
un attimo prima la fissava con un’espressione beffarda sul volto affilato.
“Non si danneggiano i materiali della scuola: non lo sai?”.
Girò lo sguardo sui frammenti della boccetta. “Reparo”
mormorò distrattamente con la sua voce stranamente adulta, e l’ampolla si
ricompose con un tintinnio delicato e si riposizionò sullo scaffale.
Altea provava un bizzarro miscuglio di sensazioni: da una
parte, l’essere così vicino all’oggetto dei suoi pensieri, essere per la prima
volta la destinataria delle sue parole e dei suoi sguardi la elettrizzava;
dall’altra, il suo lato cinico e disincantato le ricordava che lei aveva undici
anni e un viso scialbo e infantile, mentre la giovane che lui così
palesemente desiderava era una donna fatta, dai capelli rosso granato e dalla
risata argentina.
Lui si appoggiò col fianco contro una colonna e abbassò lo
sguardo su di lei. Il viso stanco - mesto anche sotto l’aria di lieve derisione
che le stava rivolgendo - dimostrava più dei suoi diciotto anni.
Altea notò che i polsini della sua camicia erano lisi; i
pantaloni color antracite e la camicia bianca, che sembravano quasi troppo
larghi sul suo corpo ossuto, gli erano però un po’ corti... come se fossero
stati acquistati di proposito di una misura in più, ma poi non fossero mai
stati cambiati.
La cravatta a righe verde e argento era allacciata a nodo
stretto, e il colletto abbottonato fin sotto al mento gli dava un’aria seria,
austera.
“Che ci fai qui, ragazzina?” le chiese con la sua strana
voce profonda. “Non dovresti essere fuori a prendere un po’ di sole, invece di
fare incantesimi che non conosci?”
Altea arrossì. “Non sono l’unica a cui farebbe bene un po’
di sole”, disse con voce agra, salvo pentirsene un attimo dopo. L’ultima cosa
che voleva era essere scortese con l’uomo che le faceva tremare i polsi e
accelerare il respiro, ma la sua ritrosia, in casi come quello, si trasformava
in aggressività.
Il giovane dai capelli neri emise un singulto ilare. “Vero”,
disse, poi, chissà perché, il breve sorriso che gli aveva attraversato il viso
svanì. “Vero”, ripeté, con una punta di amarezza.
“In ogni caso”, riprese “Il confringo è un
incantesimo pericoloso. Non so chi te l’abbia insegnato o dove diavolo tu
l’abbia sentito, ma non è certo roba da primo anno. Sul serio, potresti fare
del male a qualcuno... Per inciso,” la fissò. “per inciso, non hai risposto
alla mia domanda: che stai facendo, qui? E poi, si può sapere chi sei? Di quale
Casa fai parte?”
“Mi chiamo Altea Von Wasser, e come puoi vedere da te” Altea
afferrò la propria cravatta e gliela sventolò davanti agli occhi con aria di
sfida. “sono in Corvonero.”
La miglior difesa è l’attacco.
“Ah, sì. Corvonero”, riconobbe lui, in un tono che non era di
ammirazione né disprezzo: piuttosto, di un garbato disinteresse. Altea si sentì
oltraggiata: il senso di appartenenza alla propria Casa era forte in lei come
in qualunque altro studente.
“E poi” riprese lei in tono polemico, con un rapido
passaggio degli occhi pallidi sul suo mantello privo di distintivi “perchè mi
fai il terzo grado? Non sei mica un Prefetto.”
Altea si rese conto a malapena di quanto fosse stata
scortese: era così offesa, tremava di rabbia... rabbia che non era altro se non
l’umiliazione di avere undici anni, di essere piccola e insignificante, e di
essere appena stata rimproverata come una mocciosa dall’uomo per cui aveva una
cotta disperata.
“Anzi, dimmi un po’: tu, che ci fai qui? Tu
chi sei?”, gli ritorse contro.
“Ehi, ehi, a cuccia”, le rispose lui, con un ghigno
divertito. “Forse saresti stata meglio a Serpeverde”, aggiunse. "Qualche volta penso che lo Smistamento avvenga troppo presto..."
Altea lo guardò e aggrottò le sopracciglia, confusa. Cosa...?
“Comunque”, sospirò lo studente, staccandosi dal muro. “Quel
che è giusto, è giusto. Io, come forse anche tu, avevo bisogno di starmene un
po’ per i fatti miei. E, visto che l’hai chiesto, il mio nome è Severus.
Severus Snape.” Scrollò le spalle e guardò lontano con quei suoi strani occhi
neri senza età. “Non un granché, come nome” disse piano, e forse ricordava una
casetta squallida in un brutto quartiere, e un uomo che portava quello stesso
cognome...
“Ti si addice”, mormorò Altea, senza riflettere.
Snape alzò lo sguardo, incuriosito. “... Come, prego?”
“Niente” ritrattò lei, in fretta. “Devo... mi sa che devo
andare”, disse in un sussurro impacciato, e fece un passo verso la porta.
“Quanta fretta hai tutt’a un tratto, Altea Von Wasser.” Il
giovane Snape aveva allungato il braccio di traverso alla porta, per bloccarle
il passaggio; e anche se avrebbe potuto agevolmente passarci sotto – lui lo
teneva abbastanza alto perché non fosse un vero impiccio - Altea si fermò e si
girò a guardarlo di sottecchi. Sul suo viso, improvvisamente serio, non c’era
derisione, e la guardava con espressione strana, un po’ triste.
“Che cosa vuoi? Devo andare, ho – ho dei compiti da fare.”
“Resta un po’ qui, dai. Solo un minuto.” Snape tolse il
braccio dal vano della porta e si appoggiò allo stipite. Chiuse gli occhi, e il
suo petto scarno si sollevò in un sospiro.
“Raccontami qualcosa.”
“Cosa? Ma... cosa dovrei raccontarti...? Non ti
conosco nemmeno.” Altea era confusa, e al tempo stesso intrigata. Le sarebbe
piaciuto restare lì, in quella stanza deserta e silenziosa, con quello strano
ragazzo serio e la polvere che danzava nella luce fioca – fuori dal tempo,
fuori dal mondo, solo loro due.
“Non lo so”, mormorò il giovane con voce lontana, assente,
senza aprire gli occhi.
“Qualsiasi cosa. Ho solo bisogno che qualcuno stia a parlare
con me per cinque minuti, d’accordo? Poi giuro che ti lascio in pace.”
“Ma... Non avevi detto che volevi startene per i fatti
tuoi?”
Altea si morse la lingua. Non era quello che voleva
dire. L’idea di sedersi per terra e parlare con quel ragazzo tanto più grande
di lei con quella sua bizzarra voce da adulto e il volto segnato, che aveva
tanto osservato da lontano... L’idea di stare lì a chiacchierare senza scopo
per ore, in quella stanzetta polverosa, seduti l’uno di fronte all’altro come
due pari, era una fantasticheria talmente attraente...
“Sì, lo so... lo so. Ma tu sei una strana ragazzina - mi
ricordi un po’ me (e qui il cuore di Altea ebbe un buffo piccolo sobbalzo). E vorrei
dimenticare solo per un attimo quello che mi tormenta sempre.”
Altea restò qualche attimo a guardarlo. Con gli occhi chiusi
e quell’espressione tirata sul viso, sembrava ancora più slavato e smunto del
solito: sentì d’improvviso un moto di tenerezza e comprensione verso di lui.
“Che cosa vuoi che ti racconti?”, chiese infine. “Le fiabe
di Beda il Bardo?”, aggiunse con un sogghigno; ma non era per prenderlo in
giro, quanto per farlo sorridere, e lui se ne accorse.
Snape infatti aprì gli occhi e
fece un mezzo sorriso storto.
“Raccontami una storia
divertente”, le chiese.
Altea alzò le spalle. “Ma non mi
viene in mente nulla di divertente.”
“Una cosa qualsiasi.”
“Il Mago e il Pentolone
Salterino? Baba Raba e il Ceppo Ghignante?”
“Raccontami di qualcosa che ti è
successo quando eri piccola.”
Altea fece una smorfia. “Perchè?”
“La mia infanzia non è stata molto interessante. Mi piace
sentir parlare di quelle degli altri: sembra che tutti, a parte me, abbiano
fatto cose fantastiche, quando erano piccoli... Campionati di Quidditch,
campeggio coi genitori... e feste, balli in quelle loro grandi case...” E qui
Snape pensava di certo a Malfoy Manor “... i dispetti agli elfi domestici – io
non ho mai avuto un elfo domestico -, e le gite a Diagon Alley, i gelati di
Florian Fortebraccio...” Si interruppe.
“Neanche la mia infanzia è stata un granchè interessante.”
Altea riflettè un attimo. “Ma ti posso raccontare della mia casa, se vuoi”,
disse.
Snape aggrottò le folte sopracciglia nere: pensava
all’appartamento malandato in Spinner’s End. “Sì,” disse lentamente.
“Raccontami di casa tua.”
E Altea raccontò.